Politica barocca. Inquietudini, mutamento e prudenza 9788842094715

Il lungo periodo del dominio spagnolo è una fase della storia d'Italia che è stata oggetto delle più intense ricerc

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Politica barocca. Inquietudini, mutamento e prudenza
 9788842094715

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Storia e Società

Rosario Villari

Politica barocca

Inquietudini, mutamento e prudenza

Editori Laterza

© 2010, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2010 www.laterza.it

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’ottobre 2010 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9471-5

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

PREFAZIONE I termini del sottotitolo di questo volume erano comunemente usati tra la fine del XVI e la metà del XVII secolo per indicare le proteste sociali, la rivoluzione e l’arte di governo. Il loro uso, però, non andò oltre i limiti dell’età barocca. Già negli anni ’40 del XVII secolo, infatti, mentre la guerra dei trent’anni entrava nella fase conclusiva, il linguaggio politico barocco cominciò a trasformarsi sia con l’invenzione di nuovi termini, come quelli che sostituirono «inquietudini, mutamento e prudenza», sia con la tendenza ad attribuire, nel discorso comune e non solo nella dottrina, un nuovo significato a parole tradizionali come sovranità, patria, cittadinanza, popolo, fedeltà, libertà, egualità, repubblica. Torquato Accetto diede, per esempio, il segno del cambiamento di un principio della ragion di Stato universalmente considerato «la prima arte dei re» e la pratica politica di cui nessun governo poteva fare a meno: la dissimulazione. Il suo famoso e affascinante libretto, pubblicato nel 1641, indicò infatti ai governati, dissimulatamente, la necessità di impadronirsi della stessa pratica che le corti e i governanti usavano nella loro attività politica quotidiana. In un sistema fortemente repressivo, la dissimulazione era la via necessaria per conquistare una «onesta» maturità politica, passando dalla protesta immediata, rovinosa e fallimentare, alla ricerca del tempo, delle condizioni e dei modi più adatti per sostenere esigenze personali e collettive di libertà. Come ho ricordato anche nella prima parte di questo volume, la voce di Accetto non era isolata: l’evoluzione e l’ampliamento di quel principio della maniera politica barocca era già in atto nelle sorprendenti sfaccettature e nelle disarmanti contraddizioni dei tentativi di riforma e delle rivolte-rivoluzioni contemporanee (Geoffrey Parker ne ha elencate ventisette, in Europa, tra il 1635 e il 1662). Il secolo della dissimulazione, come fu poi definito il Seicento, presentava ormai, nel suo momento centrale,

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Prefazione

un volto in parte diverso da quello che le dottrine ufficiali avevano in precedenza delineato. L’oggetto degli scritti qui raccolti non è quindi un momento statico della storia europea e italiana. È invece il travagliato e contrastato avvio di nuovi fermenti ideali e politici nello Stato assolutistico e nella società di sudditi e di vassalli. Non escludo che questa semplice premessa possa suscitare dissensi. La coincidenza tra linguaggio e realtà è generalmente riconosciuta, ma non è altrettanto pacifico il giudizio sulla storia italiana dell’età barocca e sui suoi caratteri fondamentali. Quel periodo, in cui è collocata la materia del più grande romanzo italiano dell’Ottocento, è stato per lungo tempo oggetto delle più intense controversie tra gli studiosi. Anche nella memoria collettiva si sono accumulati giudizi e luoghi comuni resistenti al progresso degli studi e delle ricerche. Si è ritenuto perfino di poter leggere con più evidenza in quella fase i tratti negativi «naturali» del carattere italiano o di particolari comunità della penisola oppure, all’opposto, la prefigurazione del patriottismo risorgimentale. La cultura storica successiva alla seconda guerra mondiale ha aperto in questo campo nuovi orizzonti e ha prodotto una vasta letteratura sui cambiamenti e sugli squilibri che si sono formati allora in Europa e nel resto del mondo. La straordinaria longevità della discussione sulla crisi generale del Seicento e delle ricerche che da essa hanno preso l’avvio, recentemente rievocata in un Forum dell’«American Historical Review» (2008), ha avuto vari punti di approdo. Rispetto all’impostazione originaria, basata sulla formula della transizione dall’economia feudale al capitalismo, c’è oggi una più attenta considerazione delle differenze di condizioni e di prospettive tra le aree investite dalla crisi. Per l’Italia spagnola è forse comune il riconoscimento che sono particolarmente importanti i problemi dei rapporti tra il baronaggio e gli altri ceti sociali e quelli delle istituzioni e delle strutture di governo (rappresentanza, uso e distribuzione delle risorse demografiche e finanziarie, relazioni fra il centro e la periferia, autonomia, indipendenza). Ma, accanto a questa probabile convergenza, trova sempre autorevoli e a volte perfino furiosi sostenitori l’idea che nella storia italiana di quel periodo ci fu un vuoto di iniziativa politica e di tensione morale collettiva e che la reazione alla crisi e l’impulso al cambiamento, quando ci furono, vennero esclusivamente dall’alto del potere, dall’esterno o da pochi ed isolati eroi del pensiero e dell’azione.

Prefazione

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Un filo conduttore di questo volume è invece la convinzione che la società italiana, con la complessa diversità delle sue componenti e dei suoi settori, non rimase passiva nella fase di tensioni e di contrasti che ebbe inizio negli ultimi decenni del XVI secolo e continuò a svolgersi fino a metà del secolo successivo. Insieme alle aree di passività e alle grandi conquiste intellettuali di singole personalità, non sono mancati movimenti collettivi e socialmente compositi, progetti e tentativi di riforma politica e morale, a volte sostenuti dalla speranza di una sintonia con la potenza dominante oppure in contrasto con essa. La rivoluzione che si svolse a metà del secolo XVII in un punto chiave del sistema italiano della monarchia di Spagna, fu il momento estremo del tentativo di una provincia di collegarsi, nelle forme e nei modi imposti dalle particolari condizioni preesistenti, con il nuovo inizio europeo. La stessa cultura spagnola del secolo d’oro, con le sue critiche, i suoi «sogni» e le sue grandi passioni civili e religiose, contribuì in qualche misura alla formazione di quei progetti e di quelle speranze. La riconquista di una parte dei domini che si erano ribellati e la capacità di difendere la sostanza dell’integrità nazionale dimostrano che la Spagna restava una grande potenza militare e politica; ma gli stessi avvenimenti e il modo in cui si svolsero dimostrano anche che «la campana della decadenza» (B. Bennassar) suonava già da tempo per la monarchia e per la sua funzione storica di giustizia, di equilibrio sociale e di promozione civile ed economica. La sua eco fu profonda anche nell’animo e nella mente dei protagonisti del secolo d’oro. I risultati dei processi e dei tentativi di modernizzazione non furono uniformi; segnarono anzi una tappa nella storia, ancora attuale, degli squilibri del mondo moderno. Contemporaneamente alla formazione delle precondizioni per lo sviluppo di una parte dell’Europa occidentale e all’emergenza a livello mondiale di un modello come la Repubblica olandese prevalsero e divennero permanenti in alcune aree, come nell’Italia meridionale, i fattori di stagnazione e di arretratezza. L’omogeneità della materia mi ha indotto a presentare i saggi in ordine tematico, anziché seguire l’ordine cronologico della pubblicazione. Il lettore dovrà tenere presente che sono stati pubblicati nel corso di un lungo periodo e rispecchiano quindi momenti diversi di un lungo viaggio di lavoro. Ho mantenuto la stesura originaria, limitandomi a interventi formali e al chiarimento di qualche

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Prefazione

concetto e rinunciando a qualunque tentativo di aggiornamento. La ripubblicazione di questi scritti dovrebbe servire, oltre che a rendere più agevole la lettura agli interessati, anche a ripresentare un piccolo, personale frammento di una stagione e di un percorso della nostra cultura storica. La scoperta di qualche ruga nelle pagine qui raccolte non mi ha indotto nella tentazione di fare una discutibile operazione di chirurgia plastica. Le rughe della pagina, come quelle del volto, segnano un percorso di vita e di studio e lasciano intravedere, insieme a qualche certezza, anche i dubbi e gli interrogativi che hanno accompagnato e continuano ad accompagnare la ricerca storica dell’autore. Ringrazio vivamente Luca Addante che mi ha aiutato a mettere a punto questa raccolta per la nuova pubblicazione. Cetona, agosto 2010

R.V.

nota

Date della prima pubblicazione: La cultura politica italiana dell’eta barocca, 1998; Discussioni sulla crisi del Seicento, 1971; Storici americani e ribelli europei, 1980 (rimaneggiato nel 1983); Patriottismo e riforma politica, 1999; Il ribelle, 1991; C’era una volta il bandito sociale, 2003; Un delitto senza precedenti, 1985; Masaniello e Peter Burke, 1985; Rivoluzioni periferiche e declino della monarchia di Spagna, 1991; Il cardinale, la rivoluzione e la fortuna di Machiavelli, 2006; Visitando una mostra d’arte, 1983; La lunga crisi di uno «Stato» feudale, 1961; La Spagna, l’Italia e la politica assolutistica, 1979; Istruzioni ai viceré, 1993; Alloggiamenti: un caso di buoni rapporti tra militari e civili, 1990; Richelieu e Olivares, 1990; Le corti, centri di potere e di cultura, 1977; Una censura tardiva e impossibile, 2000. Alcuni titoli sono stati modificati per la presente edizione.

Politica barocca Inquietudini, mutamento e prudenza

Parte prima

Ragion di stato e ragioni dei sudditi

I

La cultura politica italiana dell’età barocca 1. Teoria e pratica La ricerca storica dei fattori di dinamismo e di modernizzazione dell’età barocca è andata, già da molto tempo, oltre la letteratura, l’arte, la religiosità, l’economia e si è estesa anche alla vita politica e morale, alla quale più a lungo era associata l’idea della decadenza italiana del tardo Cinquecento e della prima metà del secolo successivo. Malgrado la generale avversione contro le «novità», un termine allora equivalente a ribellione/eversione/disordine, i maggiori teorici della ragion di Stato e gli apparati di governo non furono esclusivamente fautori di una statica conservazione del potere monarchico. Una vasta letteratura, della quale la grande opera del «conservatore» Giovanni Botero è un esempio classico, rispecchia in qualche misura la dinamica del potere sovrano insieme ai suoi ben determinati confini. Ma neppure il corpo sociale (ed è questo il punto più controverso) rimase passivo di fronte alle esigenze di trasformazione politica e istituzionale. La progettualità e l’iniziativa politica non rimasero esclusivamente nelle mani dei sovrani o, sul versante dei sudditi, nelle anacronistiche congiure di gruppi privilegiati che auspicavano il ritorno a forme medievali di distribuzione e organizzazione del potere. Seppure in mezzo a larghe zone di passività e di conformismo, ci furono progetti e idee che, in qualche misura collegandosi o cercando di collegarsi con movimenti reali, mirarono ad ampliare l’area della partecipazione politica, a condizionare il potere assoluto, a riformare le istituzioni. L’uso di uno stesso linguaggio e di una stessa terminologia (libertà, indipendenza, patria) da parte di diversi e contrapposti protagonisti della lotta politica di quel periodo ha indotto in passato alcuni

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Parte prima. Ragion di Stato e ragioni dei sudditi

studiosi a non distinguere nettamente tra rivendicazioni retrograde e particolaristiche, mascherate da princìpi generali, e spirito autentico di riforma o di mutamento. A rappresentare questo spirito non furono soltanto le voci di isolati predicatori nel deserto. Sia sotto la forma della pressione riformatrice su temi particolari o generali all’interno dei regimi esistenti (monarchia di Spagna, principati, repubbliche), sia sotto quella dell’opposizione o anche della ribellione, segni di vitalità politica collettiva non mancarono nell’Italia dell’età barocca. Si può ancora aggiungere molto, dopo quello che finora è stato scritto, al quadro del travaglio ideale e politico che ha preceduto e accompagnato la sollevazione dell’Italia meridionale nel 1647. Un problema ancora aperto, per esempio, è l’approfondimento della riconsiderazione in chiave politica del Breve trattato di Antonio Serra (1613), inteso come tentativo di rivendicare una politica economica più autonoma e positiva per il Regno di Napoli nella monarchia di Spagna. Analogamente, il saggio di Torquato Accetto sulla Dissimulazione onesta, da qualche tempo divenuto oggetto di rinnovata attenzione, invece di essere considerato l’emblema di una nobile e rassegnata accettazione dell’esistente, può e, a mio avviso, deve essere anch’esso collocato nel quadro delle idee e dei movimenti di riforma. Pubblicato in un momento in cui in Europa si aprì una fase di estrema instabilità e di forti contrapposizioni, esso può essere inteso come un invito ad abbandonare le forme primitive di protesta o le grandi utopie, diffuse e fiorite lungo il XVI secolo, per creare posizioni e movimenti politicamente più efficaci1. La convinzione della necessità del dominio di sé si collega alla riflessione sulla ragion di Stato che esige il controllo politico delle passioni e degli affetti comuni2 ma è orientata in una direzione diversa. Per una coincidenza non casuale, la concreta esperienza delle rivoluzioni che conclusero la fase centrale dell’età barocca fu largamente pervasa dalla pratica e dal metodo della dissimulazione. Anche per questo le rivoluzioni degli anni Quaranta (Catalogna, Portogallo, Sicilia, Napoli, per limitarci all’ambito della monarchia di Spagna) furono politicamente più significative dei soulèvements populaires che le avevano precedute in varie zone dell’Eu1  Rimando, a questo proposito, al mio Elogio della dissimulazione. La lotta politica nel Seicento, Roma-Bari 1987. 2  F. Meinecke, L’idea della ragion di Stato nella storia moderna, trad. it., Firenze 1977, p. 124.

I. La cultura politica italiana dell’età barocca

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ropa. Senza tenere conto della larghezza e sistematicità che l’uso della dissimulazione ha avuto nell’età barocca è impossibile comprendere il senso dei movimenti che si sono svolti allora sulla scena politica. Le rivolte fatte in nome del re e le innovazioni promosse all’insegna della tradizione, che costellano la storia di quel periodo, esprimono a volte convinzioni contraddittorie; ma più spesso l’invocazione del sovrano e della tradizione nel corso di una rivolta appartiene ad un complesso gioco che tende a legittimare la rivolta stessa, attribuendo ad altri la responsabilità della crisi («il malgoverno»), e che non esclude le forme estreme di richiesta e di sostegno del cambiamento. Malgrado l’esempio olandese, la repubblica era ancora, tra la fine del Cinquecento e i primi decenni del Seicento, un’avventura straordinaria. Ma anche all’esperienza olandese ed al suo sbocco repubblicano non fu estranea la lunga pratica della dissimulazione. 2. Boccalini e l’antispagnolismo L’intenso lavoro che Luigi Firpo ha dedicato all’opera di Traiano Boccalini, alla sua fortuna e all’accoglienza che essa ebbe da parte della cultura europea3 suggerisce la necessità di dare maggiore rilievo al suo rapporto con il mutato atteggiamento di una parte della cultura politica italiana, all’inizio del Seicento, nei confronti della monarchia di Spagna. Il cambiamento si manifestò inizialmente soprattutto sul piano dell’iniziativa riformatrice (Napoli), della rivendicazione di maggiore autonomia (Genova, Toscana), della resistenza ai tentativi di condizionamento (Venezia), del sostegno alla guerra di Carlo Emanuele di Savoia contro la Spagna. L’appartenenza di Boccalini al filone dei trattatisti della ragion di Stato, di cui condivide pregi e limiti, è fuori discussione. Lo distingue, nell’ambito di quel filone, un maggiore 3  Ricordo qui, oltre l’edizione dei Ragguagli, anche i saggi sulla loro edizione e diffusione: Le edizioni italiane della «Pietra del paragone politico» di T. Boccalini, in «Atti dell’Accademia delle scienze di Torino», vol. 86, 1951-52, t. II, pp. 67-119; I «Ragguagli di Parnaso» di T. Boccalini. Bibliografia delle edizioni italiane, Firenze 1955; e soprattutto La satira politica in forma di ragguaglio di Parnaso. Dal 1614 al 1620, in «Atti dell’Accademia delle scienze di Torino», vol. 87, 1953. Cfr. anche H. Hendrix, Traiano Boccalini fra erudizione e polemica. Ricerche sulla fortuna e bibliografia critica, Firenze 1995.

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Parte prima. Ragion di Stato e ragioni dei sudditi

radicalismo nella considerazione dell’opera di Tacito come un insieme di insegnamenti, di precetti e di esperienze che consentono anche all’uomo moderno di conoscere fino in fondo le motivazioni e i fini dei sovrani e perciò di scoprirne le ingiustizie. Il suo radicalismo non sfocia, però, in un generico pessimismo e in una generica condanna della politica. Assertore dell’assolutismo (anche se ammiratore, nell’intimo, della repubblica), egli rivolge la sua critica a quei principi che non assolvono al loro compito e che approfittano della naturale inclinazione dei sudditi alla fedeltà e del loro ingenuo amor di patria per opprimerli e angariarli4. In alcuni brani che affrontano questo problema e che descrivono l’allarme dei principi per la «fuga della fedeltà», sembra evidente il riferimento alla rivolta dei Paesi Bassi5, ma in altri Ragguagli la denuncia di una crisi di fiducia tra sudditi e sovrani riguarda evidentemente gli Stati italiani. A lui in modo particolare appartiene l’interpretazione che attribuisce al Machiavelli l’esplicita volontà di insegnare ai popoli «la lezione delle istorie», rivelando «i veri fini che i principi hanno nelle azioni loro» e che fanno di tutto per nascondere. In realtà Machiavelli, disposto (per usare una sua formula) a «perdere l’anima» o a rischiare di perderla per la salvezza della patria6, aveva inteso affermare l’autonomia della politica più nettamente di quanto Boccalini potesse ammettere. Quella interpretazione era, dunque, un travisamento del significato più profondo del suo pensiero e non Meinecke, L’idea della ragion di Stato, cit., pp. 74 sgg.   Ragguagli di Parnaso, a cura di L. Firpo, vol. I, Bari 1948, Ragguaglio XXX: «...Ne’ tempi passati la fedeltà de’ sudditi sempre avendo servito per violentar i prencipi a contracambiar il buon servigio de’ popoli co’ piacevoli e cortesi trattamenti, ora chiaramente s’accorgevano che la virtù d’una proietta ubbidienza veniva riputata viltà d’animo abietto... per lo qual brutto modo di procedere... molti popoli erano stati forzati far la risoluzione che vedeva il mondo, solo affine che i capricciosi prencipi venissero in chiara cognizione che l’autorità del comandare facilmente si perdeva, quando gli strapazzi e le ingratitudini usate verso i sudditi, avendo superato ogni pazienza umana, conducevano le nazioni, per loro natura dispostissime all’ubbidire, alla disperazione di non voler più padroni, con animo ostinatissimo di più tosto pericolar in un governo libero, che esser vilipesi, scorticati e crudelmente trattati sotto i principati». 6  Era appunto la disposizione che Machiavelli ammirava in Cosimo Rucellai: «Non so quale cosa si fusse tanto sua (non eccettuando, non ch’altro, l’anima), che per gli amici volentieri da lui non fusse stata spesa; non so quale impresa lo avesse sbigottito, dove quello avesse conosciuto il bene della sua patria», in Arte della guerra, libro I). Vedi anche S. De Grazia, Machiavelli all’inferno, trad. it., RomaBari 1990, cap. 14. 4  5

I. La cultura politica italiana dell’età barocca

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contribuì all’approfondimento e avanzamento della teoria; ma ebbe fortuna e fu utile perché servì a riproporre l’opera machiavelliana in un’epoca di universale rifiuto e condanna e stimolò la presa di coscienza della divaricazione che si veniva creando tra governi e sudditi in alcune aree del paese. Il contributo più importante del Boccalini non è, comunque, di tipo dottrinario. Sul piano pubblicistico e nell’ambito della riflessione sulla ragion di Stato, egli sollevò con ampiezza ed energia un problema centrale della vita italiana del suo tempo: la presenza e il dominio della Spagna. La sua polemica introdusse nel dibattito politico, in gran parte sommerso, forti riserve sulla coincidenza degli interessi e degli ideali proclamati dalla corona spagnola con le esigenze degli Stati italiani. In generale, al di fuori dell’Italia, essa fu usata a sostegno di posizioni indipendentistiche (Olanda) o di radicale contrapposizione all’egemonismo spagnolo (Francia, Inghilterra, Boemia). In corrispondenza con lo schema della sua interpretazione di Machiavelli, la sua analisi e la sua denuncia miravano a svelare la realtà del potere e l’attitudine dei governanti, e quindi a creare premesse e condizioni di una più efficace difesa dei propri interessi da parte dei sudditi. Non mi sembra, perciò, che la categoria della «satira politica», comunemente usata per i Ragguagli del Boccalini, sia un’adeguata etichetta per un’opera che ispirò importanti correnti di pensiero e di iniziativa politica in Italia e in altri paesi europei nella prima metà del XVII secolo. Il valore oggettivo di quegli scritti, della loro concretezza politica e interna coerenza non è, inoltre, smentito o sminuito dal sospetto – avanzato da Gaetano Cozzi7 soltanto sulla base delle testimonianze di una spia – che Boccalini sia stato, nell’ultimo periodo della sua vita, un informatore dell’ambasciatore spagnolo a Venezia. 3. Repressione politica e censura Un’altra considerazione preliminare, a proposito della letteratura politica italiana dell’età barocca, riguarda la repressione sistematica a cui le idee e le iniziative di riforma furono soggette, le distruzioni

7  Traiano Boccalini, il cardinal Borghese e la Spagna, secondo le riferte di un confidente degli Inquisitori di Stato, in «Rivista storica italiana», LXVIII (1956), pp. 230-254.

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di libri e manoscritti, la convergenza o talvolta la coincidenza della repressione politica e della censura religiosa. Sono elementi da cui non si può prescindere nella valutazione del quadro politico di quel periodo; così come non si può prescindere dal vigile e spesso efficace impegno degli organi di governo di diffondere e imporre visioni deformate e riduttive dei movimenti di opposizione e di riforma, secondo un modello facilmente accettato dall’opinione comune: degradare (a salvaguardia della reputazione attuale e della memoria storica) a rancori personali e gretti interessi particolari le azioni ispirate dall’idea dell’interesse collettivo e del bene pubblico. Il metodo della denigrazione e del travisamento, largamente diffuso e sistematicamente usato anche in quel frangente storico, fu allora tanto più efficace in quanto i movimenti di opposizione erano spesso deboli e frammentari. La situazione ed il momento storico non permettevano che essi potessero raggiungere un’ampiezza e una forza tali da poter esercitare una efficace difesa dal punto di vista della pubblica immagine. Stando così le cose, il ricorso al materiale inedito e alla circolazione clandestina di manoscritti, per un giudizio sul clima politico dell’epoca, è indispensabile. Ho accennato agli scritti antispagnoli del Boccalini. Un gruppo importante di questi scritti fu pubblicato soltanto sessantacinque anni dopo la sua morte (La bilancia politica, 1678). L’edizione veneziana della più nota e brillante Pietra del paragone politico, promossa avventurosamente da un ignoto amico dell’autore, fu postuma e clandestina come le altre diciotto che ad essa seguirono nel giro di pochi anni. Ma intanto la fortuna e la circolazione di quell’opera, la cui stampa fu preceduta dalla diffusione di singoli brani manoscritti, fu assicurata da due circostanze: la coincidenza della sua pubblicazione clandestina con lo scoppio del conflitto tra il duca di Savoia Carlo Emanuele e la Spagna e l’immediata accoglienza che il libro ebbe all’estero, con la traduzione in francese, inglese, tedesco, fiammingo e latino, che la rese non più vulnerabile. Altre opere, come quelle di Fulgenzio Micanzio, di Andrea Spinola e di Nicolò Contarini o del non ancora identificato autore del trattato sulla ragion di Stato che si conserva nella Bibliothèque Mazarine di Parigi (insieme ad un altro suo trattatello sulla figura del «privato» o favorito del principe)8, sono rimaste inedite 8  Cfr. Scrittori politici dell’età barocca, a cura di L. Perini e R. Villari, Roma 1998, che contiene anche una prima stesura del presente saggio.

I. La cultura politica italiana dell’età barocca

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fino a poco tempo fa. Qualche altro esempio: di un opuscolo politico pubblicato nel 1647, Il Cittadino fedele9, ho trovato una sola copia a stampa, avendo fatto ricerche nelle più importanti biblioteche europee e in alcune grandi biblioteche degli Stati Uniti. Non si è mai trovata traccia, inoltre, degli scritti che, secondo alcune testimonianze, Giulio Genoino avrebbe dedicato alla storia di Napoli. Probabilmente è stata distrutta la prima versione del primo volume della Historia di Napoli di Giovanni Antonio Summonte: l’edizione che si conosce è quella che l’autore, incarcerato, fu costretto ad emendare. La conoscenza e la valorizzazione del Breve trattato del Serra, le cui vicende personali, compresi i motivi della condanna al carcere, rimangono tuttora misteriose, risalgono alla seconda metà del secolo XVIII. Un caso interessante è la soppressione, con la relativa dispersione dei materiali ivi prodotti e raccolti, di quella «Accademia vaticana» di Roma, la prima accademia dichiaratamente politica, in cui venne lanciato nel 1594 «un assalto deciso contro il predominio politico e culturale dell’aristotelismo, della Spagna e della parte più conservatrice della curia romana» ed alla cui brevissima fioritura collaborarono Goffredo Lomellini, ambasciatore genovese a Roma, e il filosofo Francesco Patrizi, considerato «machiavelliano» insieme al suo collaboratore10, censurato e condannato. L’elenco potrebbe continuare: ma è ovvio che per giudicare storicamente scrittori e movimenti politici italiani dell’età barocca occorre, come e più che di consueto, andare oltre ciò che è ufficiale e già conosciuto ed esercitare un’attenta vigilanza critica di fronte a giudizi e opinioni che in passato hanno avuto larga circolazione. Nella presentazione dell’apertura dell’Archivio del Santo Ufficio dell’Inquisizione, che si è svolta il 22 gennaio 1998 nella sede dell’Accademia dei Lincei, uno dei relatori ha sostenuto la possibilità di attenuare il giudizio che attribuisce all’Inquisizione la responsabilità del clima di paura e di sospetto, di censura e di repressione che regnò in Italia nel periodo della Controriforma e nella prima metà del Seicento. Lo studio del materiale di quell’Archivio potrà 9  Ripubblicato in R. Villari, Per il re o per la patria. La fedeltà nel Seicento, Roma-Bari 1994. 10  A.E. Baldini, Botero e la Francia, in Botero e la «Ragion di Stato». Atti del convegno in memoria di Luigi Firpo, Torino, 8-10 marzo 1990, a cura di A.E. Baldini, Firenze 1992, pp. 352-358.

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suggerire qualche mutamento della visione tradizionale, anche se la distruzione di una gran parte dei processi, effettuata durante la Restaurazione post-napoleonica, rende ormai impossibile un concreto riesame globale dell’attività dell’Inquisizione. Ma in ogni caso, per ricostruire quel clima, non basta considerare soltanto ed in se stessa la repressione religiosa, né soltanto esaminare i singoli casi degli eretici processati e condannati; bisogna tener conto anche della sua oggettiva convergenza e a volte della sua stretta connessione con la repressione politico-culturale11, che fu particolarmente pesante nei domini spagnoli, e delle conseguenze più generali di quella complessa e sistematica attività repressiva. Nel controllo della stampa, in particolare, e della circolazione delle idee ci fu tra i governi spagnoli, gli Stati indipendenti e l’Inquisizione un’attiva e organica collaborazione, estesa a tutta la penisola, con la parziale eccezione di Venezia. «In Italia – scrisse Paolo Sarpi – molti buoni dottori hanno insegnato la verità, ma per la patronìa che [gli ecclesiastici della Corte romana] hanno delle stampe li libri sono distrutti, sì come tentano di distruggere li nostri, e non permettono che li dottori di buona coscienza pubblichino le loro dottrine»12. Il potere che egli attribuiva alla Curia romana in questo campo era appunto il frutto di quella collaborazione. Sfogliando gli inventari e le carte della Congregazione dell’Indice dei libri proibiti, ciò che mi ha colpito particolarmente non è stato il numero elevato delle opere condannate o censurate. Mi ha colpito, invece, la pervasività generale dell’azione censoria e repressiva, la sua incidenza su tutta la cultura e su tutta la rete organizzativa culturale. Alle procedure di condanna delle singole opere si accompagnava di fatto una paralizzante oppressione di tutta l’attività produttiva nel campo culturale. Le attese e le incertezze degli autori e degli stampatori (di qualunque argomento si occupassero), le tortuosità 11  Il caso esemplare della censura di Machiavelli è stato riproposto nella suddetta occasione. Il prof. Peter Godman ha riportato nella sua relazione il testo delle censure dell’Inquisizione alle Istorie fiorentine, senza ricordare, però, che quel testo era stato già ritrovato e pubblicato integralmente da G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari 1995, pp. 433-453. 12  Della potestà coattiva, in Istoria dell’Interdetto, a cura di M.D. Busnelli e G. Gambarin, Bari 1940, vol. III, p. 219. Sulla censura della trattatistica politica vedi A. Rotondò, La censura ecclesiastica e la cultura, in Storia d’Italia Einaudi, vol. V, t. II, Torino 1973, pp. 1468 sgg.

I. La cultura politica italiana dell’età barocca

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e lentezze burocratiche della ricerca dell’imprimatur (ecclesiastico e civile), i rischi e il danno dei librai che dovevano tenere per mesi ed anni nei depositi i libri in attesa di giudizio, i ricatti e i sospetti nei luoghi di studio e di insegnamento (dai conventi alle scuole laiche), i timori dei lettori: era quello che allarmava Paolo Paruta, ambasciatore a Roma della Repubblica di Venezia, lo Stato che era allora in Italia il più attivo nel campo dell’editoria, e lo spingeva ad opporsi con tutte le forze alla pubblicazione di un Index librorum prohibitorum, preparato sotto gli auspici del papa Sisto V, particolarmente ricco di censure e di condanne. La constatazione di grandi difficoltà e ostacoli (di cui l’Inquisizione e la censura ecclesiastica furono soltanto un aspetto) alla manifestazione di idee e propositi di innovazione dovrebbe suggerire anche una certa discrezione nella valutazione morale delle cautele che riformatori e oppositori di quel tempo dovettero adottare, tra le quali anche la scelta dell’anonimato, che tanti problemi e difficoltà crea agli studiosi, da parte degli autori di molti scritti politici. Sono comprensibili, mi sembra, i timori e le esitazioni dei protagonisti di imprese che erano piene di incognite e al limite dell’impossibile, in un’epoca nella quale anche la decisione di sacrificarsi per la libertà e di dare al sacrificio un valore di esempio e di testimonianza era difficilmente realizzabile. La pesantezza della repressione e l’efferatezza delle torture comminate nei casi di condanne politiche giustificano, però, soltanto parzialmente limiti, carenze di idee e di iniziative, inerzie e insuccessi. I contemporanei di altri paesi hanno spesso rimproverato ai nostri antenati di quei secoli l’incostanza e la debolezza di carattere (attribuendole spesso al clima e all’ambiente naturale) e le hanno messe a confronto con la tenacia e la capacità di resistenza dimostrate dalle popolazioni dei Paesi Bassi nella lotta contro il dominio della Spagna. Non è possibile, in questa sede, cercare di illustrare la differenza tra le varie situazioni e le ragioni storiche (e non naturalistiche) dell’insuccesso che ebbero allora in Italia, nella maggior parte dei casi, i tentativi di riforma. Qui non si può andare oltre l’indicazione sommaria di tendenze e correnti che ebbero un valore ideale e politico, senza entrare nel merito delle vicende con le quali esse si intrecciarono e dei loro svolgimenti sul piano dell’azione.

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4. Popolarità dell’idea della ragion di Stato La riflessione sulla ragion di Stato ha avuto, tra i suoi meriti, anche quello di rendere in qualche misura popolare il discorso sulla natura della politica. Giovanni Botero, Traiano Boccalini, Ludovico Zuccolo (autore di un’opera sulla ragion di Stato, ma anche di un saggio sull’amor di patria al quale è stato dato scarso rilievo dagli studiosi e che, invece, è molto significativo ai fini della ricostruzione dello «spirito di riforma») e Giulio Cesare Capaccio, pubblicistaerudito autore della più conosciuta, al suo tempo, guida di Napoli (Il Forastiero, 1634) notarono con evidente disappunto che la ragion di Stato era divenuta uno dei più frequenti argomenti di conversazione a tutti i livelli. Se ne discuteva, dissero, nelle botteghe, nelle corti e nelle scuole, nei salotti dei nobili, nelle cucine, nei bordelli. Il disappunto per un successo che in qualche modo avrebbe dovuto invece riuscire gradito agli specialisti della materia sembra nascere dalla convinzione che di quella scienza potevano occuparsi soltanto uomini di grande cultura ed esperienza; ma può essere ricondotto anche alle differenze che ci furono all’interno della riflessione cattolica sulla materia politica. All’origine della popolarità di quei temi ci fu, molto probabilmente, non tanto la trattatistica dei maggiori teorici, quanto invece la predicazione religiosa più strettamente legata alle prime posizioni elaborate dalla Controriforma sulla politica e sul suo rapporto con la morale e la religione. Nella fase iniziale, infatti, la Chiesa cattolica tentò di respingere e negare ogni possibilità di considerazione autonoma della ragion di Stato: valanghe di maledizioni e di improperi furono riversate contro colui che di quella autonomia era considerato il «diabolico» inventore e assertore, Niccolò Machiavelli, da scrittori «integralisti» come Antonio Possevino, Tommaso Bozio, Ciro Spontone e dalla schiera dei loro seguaci e imitatori. L’offensiva, rivolta inizialmente ad affermare una visione della politica rigidamente subordinata ai canoni morali e religiosi, e quindi alla Chiesa e al suo programma di difesa e di riconquista, continuò ancora nel Seicento, sviluppandosi ed arricchendosi soprattutto con l’opera di Roberto Bellarmino. Atteggiamenti analoghi si ­diffusero anche, com’è noto, nel mondo protestante. Ai trattatisti che si collocano propriamente nella categoria dei teorici della ragion di ­Stato, a cominciare da Botero e da Scipione Ammirato, spettò invece il com-

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pito di superare almeno parzialmente quella impostazione e di svolgere una ricerca ed un’analisi più autonome sulle esigenze, i meccanismi e i problemi propri dello Stato, in corrispondenza, se non sempre in armonia, con l’azione dei principi che contemporaneamente erano impegnati a costruire e sviluppare le strutture e gli ordinamenti del regime assolutistico. La differenza è fondamentale, anche se in qualche misura mascherata dalla comune ispirazione etico-religiosa; ed è probabile che il disappunto degli scrittori più indipendenti la volesse in qualche modo segnalare. 5. La condanna della ribellione Almeno su un punto, tuttavia, la più matura trattatistica della ragion di Stato raggiunse una considerevole popolarità, incidendo sulla mentalità di quell’epoca e condizionandola profondamente. La sua campagna ideologica contro la ribellione capovolse gli entusiasmi che erano stati propri, su questo argomento, della cultura umanistica e rinascimentale e si scontrò vittoriosamente, almeno per qualche decennio, con l’esaltazione della ribellione che ebbe contemporaneamente sostenitori sia nel versante protestante-calvinista (François Hotman e Stefano Giunio Bruto fino a Johannes Althusius), sia in quello cattolico (Francisco Suarez e Juan de Mariana). In questa posizione apparentemente conservatrice consiste uno degli elementi di novità della teoria della ragion di Stato ed anche la ripresa, certamente attenuata e mascherata, di un aspetto centrale del pensiero di Machiavelli. Riferendosi all’esperienza fatta dalle precedenti generazioni (e considerando a parte il filone rivoluzionario religioso aperto dalla riforma luterana), il modello teorico della ribellione che allora fu elaborato si riferiva a due categorie di fenomeni che avevano dominato la scena dell’Occidente europeo dalla fine del Medioevo: le congiure dei grandi signori contro il potere crescente della monarchia (o del governo centrale, qualunque forma avesse) e i tumulti popolari, urbani o rurali, nati nella maggior parte dei casi dalla fame e privi di contenuto politico. Lo schema prevedeva qualche variante, come la strumentalizzazione politica del malcontento popolare o l’uso dei contrasti religiosi per motivi politici. Il nucleo essenziale della campagna contro la ribellione coincise, quindi, con l’esaltazione dell’assolutismo, con la volontà di modernizzazione,

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con l’affermazione dell’interesse pubblico e collettivo in antitesi con il particolarismo e con gli anacronistici progetti di restaurazione dei grandi potentati feudali che avevano ostacolato e reso travagliata, nel corso del XV e del XVI secolo, la riorganizzazione dello Stato e l’affermazione del potere centrale di principi e sovrani. Naturalmente non mancarono in quel periodo anche altri fattori di inquietudine e di instabilità. Le preoccupazioni dei teorici della ragion di Stato nascevano anche dagli squilibri provocati dall’espansione della popolazione urbana, dalla conflittualità sociale, dalle ricorrenti carestie, dalla crisi economica. La precettisti­ ca su queste materie è più che abbondante e investe anch’essa, seppure in modo subordinato, i grandi princìpi della gestione e della conservazione dello Stato. Il tumulto e la protesta popolare (dei contadini e degli strati inferiori della popolazione cittadina), erano in se stessi un problema importante: la frequenza e intensità di questi fenomeni e i danni devastanti che essi provocavano non potevano essere e non erano in nessun caso sottovalutati. Ma il malcontento popolare era considerato davvero pericoloso, come appare anche dalle pagine del libro di Ottavio Sammarco sulla «mutatione di Stato» (1628), soltanto nel caso in cui era o poteva essere usato e strumentalizzato dai grandi signori, poiché soltanto allora poteva portare a catastrofiche conseguenze politiche. Oltre che da motivi umanitari, la precettistica barocca relativa alle classi popolari fu animata da questa specifica preoccupazione. Collegato strettamente ad essa era lo sforzo, anch’esso tipico della teoria sulla ragion di Stato, di elaborare i mezzi più efficaci per «trattenere il popolo» per «ovviare a’ romori ed a’ sollevamenti». Per ottenere questo risultato, Botero pensava alla cultura-spettacolo, a «trattenimenti popolari» come le manifestazioni religiose (e qui evocava l’esempio del cardinale Borromeo) ma anche al teatro (con una preferenza per la tragedia piuttosto che per la commedia). Su questo piano la cultura barocca fu ricca di inventiva, e spesso l’intrattenimento assumeva forme atroci ed esemplari, con la spettacolarizzazione del castigo dei rei di ribellione o di attentato alla pubblica quiete. In spagnolo si chiamava escarmiento, lezione-punizione. E non mancava, a questo proposito, il consenso dell’opinione comune. L’idea che «i rubelli meritano ogni crudeltà» era piuttosto diffusa. Dalle punizioni crudeli e dalle torture punitive e inquisitorie, però, erano esclusi i nobili. Nel Fuggilozio (1596) di Tommaso

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Costo13, il «privilegio» di essere semplicemente decapitato, in caso di condanna a morte, è rivendicato da un barone tra i vantaggi della sua condizione sociale e giuridica: è l’estremo argomento che gli resta nel dialogo con un ricco borghese che lo mette alle strette esaltando le delizie della vita cittadina a confronto con la degradazione e rozzezza del mondo rurale e feudale. Ma non furono soltanto questi mezzi di «intrattenimento» a creare quell’orrore del cambiamento e delle novità che ha dato un’impronta a tutta l’epoca, condizionando il pensiero di persone la cui indipendenza di giudizio è fuori discussione, come Montaigne e Charron, e le idee o la psicologia degli stessi oppositori. Molte volte, la rivendicazione di giustizia e la volontà di cambiamento, anziché sul richiamo alle dottrine della resistenza al tiranno, si basarono, come ho già accennato, sulla proclamazione dell’obbedienza e della fedeltà al sovrano. I ribelli non volevano a nessun costo essere considerati tali: fu una delle conseguenze apparentemente paradossali del nuovo corso politico e ideale. Quei pochi che non seguirono, almeno formalmente, questa procedura e continuarono a opporsi frontalmente alla maestà e all’autorità del re ed a sostenere apertamente il dovere, il diritto di abbattere il tiranno apparvero, e in parte furono realmente, ombre e fantasmi del passato. Il modello di ribellione elaborato dalla cultura dell’età barocca e la relativa demonizzazione del ribelle nascevano, come ho già detto, dalla considerazione delle resistenze e opposizioni che avevano accompagnato l’affermazione del potere sovrano su un’area geografica che comprendeva gran parte dell’Europa occidentale. Ma l’ispirazione più diretta venne dalla Francia, dilaniata da un trentennio di guerre di religione14. La diffusione europea della condanna della ribellione ed il connesso rilancio assolutistico non si possono fare risalire esclusivamente all’impegno dei politiques francesi. Ma la convergenza dei teorici politici degli altri paesi dell’Europa occidentale ed anche italiani sulle linee fondamentali della loro analisi è evidente. Basti pensare ai frequenti richiami di Botero alla catastrofica esperienza della Fran13  Ripubblicato a cura di C. Calenda, Roma 1989. Il dialogo è intitolato Contesa graziosissima tra un nobile ed un Napoletano del popolo, pp. 519-523. 14  Il discorso è svolto più ampiamente nel saggio Il ribelle, in questo stesso volume.

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cia, dove egli soggiornò in un momento di particolare intensità della crisi e conobbe certamente le pagine dei politiques. La coincidenza non era soltanto su questo punto. Anche nella concezione generale della sovranità la riflessione dei teorici italiani della ragion di Stato richiama, per l’identificazione tra il «servizio del re» e l’interesse generale, la più aggiornata teoria politica europea, il cui campione più rilevante fu, alla fine del XVI secolo, Jean Bodin. Uno dei problemi su cui gli scrittori italiani mantennero però una posizione distinta rispetto ai politiques fu quello della tolleranza religiosa. Mentre l’esperienza delle guerre di religione produsse in Francia, sul piano culturale e in qualche misura anche su quello politico, un consistente orientamento favorevole alla convivenza di religioni diverse, in Italia la considerazione dei moti rivoluzionari provocati dalla riforma protestante nell’Europa del XVI secolo ebbe un risultato opposto: la quasi generale convergenza dei teorici politici sul principio dell’unità di religione come garanzia e fondamento della solidità dello Stato e dell’armonia sociale. È del tutto eccezionale la posizione di Scipione Chiaramonti (Della Ragion di Stato, 1635), il quale, in un momento in cui i disastri della guerra dei Trent’anni avevano creato una generale stanchezza anche nei confronti dei conflitti religiosi, affermò che la tolleranza, accompagnata dall’attivo sostegno della religione cattolica, era «il minor male», quando si mostrava impossibile estirpare l’eresia15. 6. L’invettiva contro la plebe Un altro pilastro della cultura barocca, che convive pacificamente con lo spirito di carità e con la comprensione per i miseri, è l’invettiva contro la plebe, la denuncia dei suoi vizi e delle sue nefandezze. La sua penetrazione e la sua diffusione nella coscienza collettiva furono altrettanto ampie e profonde della condanna della ribellione: con la differenza che, mentre il diritto a ribellarsi contro la tirannide e l’ingiustizia tornò faticosamente in onore a metà del XVII secolo, il disprezzo della plebe è rimasto una componente costante e diffusa della riflessione politica e sociale fino ai giorni nostri, raggiungendo   Meinecke, L’idea della ragion di Stato, cit., p. 128.

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le punte massime nei periodi di instabilità e di pericolo. Gabriel Naudé dedicò all’argomento una delle più vibranti pagine delle Considerazioni politiche sui colpi di Stato, scritte in Italia nel 163916. Non devo qui indicare le ragioni della lunga durata di questo atteggiamento ed il significato che ha avuto nei vari momenti della storia moderna e contemporanea: basta ricordare che l’area sociale che andava sotto il nome di plebe comprendeva spesso, per gli strati superiori della società, anche artigiani, piccoli imprenditori, professionisti, impiegati e addirittura, in casi estremi, tutti i non nobili. Nel periodo in questione l’invettiva antiplebea aveva essenzialmente due obiettivi. Il primo, e forse il più importante, voleva essere un avvertimento nei confronti dei potenziali artefici e protagonisti della ribellione: poiché, per attuare una rivolta, era indispensabile sollevare il popolo o servirsi del suo malcontento spingendolo e disponendolo ai propri disegni, spettava alla cultura politica rendere consapevoli i malintenzionati dei rischi che correvano. La volubilità e l’incostanza, insieme alla propensione per la violenza fine a se stessa e per il disordine permanente, furono, quindi, le qualità della plebe maggiormente messe in rilievo. Cercare l’appoggio della plebe era una operazione controproducente, una follia, significava votarsi al sicuro fallimento e, quel che era peggio di tutto, al disonore. Idee del genere penetrarono così profondamente nella coscienza comune da suscitare diffidenza nei confronti di quegli uomini politici o ministri che più si impegnavano ad ottenere il favore e l’applauso popolare. Avere «grande credito tra il popolo» fu molto spesso un motivo di sospetto o di accusa nei confronti di personaggi che avevano responsabilità di governo o di comando militare, specialmente in province lontane e periferiche. Anche Guglielmo d’Orange – per fare un esempio illustre – dovette difendersi, nella sua famosa Apologia, da un’accusa del genere. Il secondo obiettivo dell’invettiva antiplebea non era meno importante dal punto di vista della formazione e della diffusione dei 16  «...Approvare e disapprovare nello stesso tempo, correre da un estremo all’altro, credere con leggerezza, ribellarsi subitamente, ringhiare e mormorare sempre: in breve tutto ciò che [la plebe] pensa non è che vanità, tutto quello che dice è falso e assurdo, quel che condanna è buono, quel che approva cattivo, quel che loda infame e tutto quello che fa e intraprende non è che pura follia» (trad. it., Torino 1958).

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princìpi-guida del comportamento politico e dell’etica sociale. In questo caso, l’invettiva era in funzione della necessità di operare una distinzione all’interno di quella parte della società che genericamente era definita «popolo» (il «terzo stato») e che la cultura più tradizionalista e conservatrice concepiva come l’insieme indifferenziato dei «non nobili». Affermare, dopo le prime anticipazioni tardomedievali e umanistiche, l’idea dell’esistenza di una classe «mediana» distinta, per la sua cultura e per la ricchezza, dalla plebe e dalla stessa nobiltà per la vocazione alla quiete ed alla tranquillità politica, fu uno dei compiti principali del pensiero politico dell’età barocca. Si apriva così un terreno di riflessioni e di contrasti destinati ad avere uno svolgimento secolare. La valorizzazione della classe media fu intesa dai trattatisti della ragion di Stato non come la premessa ideale di un mutamento istituzionale o di una iniziativa politica di riforma ma come elemento di una visione della società da proporre ai sovrani, ai governanti ed alle élites che detenevano il potere. Contrasti e tensioni, che non mancarono neanche quando il dibattito e la ricerca rimasero dentro questi limiti, emersero nel momento in cui da questa visione ideale o accanto ad essa cominciarono a svilupparsi proposte di cambiamenti nell’indirizzo politico o nelle istituzioni e movimenti rivolti a realizzarli. Il confronto su questo terreno, tra le forze sociali e tra queste ed il sovrano, divenne allora un motivo fondamentale della lotta politica fino a quando, allo scoppio della Rivoluzione francese, il libro di Sieyès sul Terzo stato rivelò l’intenzione e la realtà dello sconvolgimento radicale di una gerarchia di valori che aveva mantenuto per molti secoli la sua discussa validità. 7. Politica e morale I temi dell’assolutismo e della modernizzazione, di cui ho indicato alcuni punti di riferimento, si configuravano in modo particolare nel caso dell’Italia, soprattutto perché gran parte del territorio della penisola era sotto il dominio di una monarchia «composita» (la definizione è di John Elliott) che aveva la sua sede centrale in un’altra nazione. Questa particolare condizione non costituì però un argomento importante per i maggiori teorici della ragion di Stato. Botero fu dichiaratamente filospagnolo e nessuno degli altri scrittori politici affrontò apertamente la questione o seguì le orme di Cam-

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panella, che dedicò un’opera ed altri scritti minori alla monarchia di Spagna ed all’analisi delle sue strutture e dei suoi problemi. Si ha l’impressione che, almeno fino a quando Traiano Boccalini operò una svolta con la sua radicale polemica antispagnola, essi abbiano accettato come un dato immutabile o come un positivo elemento di stabilità e di organizzazione degli Stati il diretto dominio della monarchia di Spagna su una parte dell’Italia (Stato di Milano, Regno di Napoli, Regno di Sicilia, Regno di Sardegna, Stato dei Presìdi) e la sua influenza più o meno condizionante su altri Stati della penisola. Tommaso Bozio e Scipione Ammirato trattarono soltanto un aspetto della questione17, limitandosi a contestare e respingere l’affermazione di Machiavelli che lo Stato della Chiesa non aveva avuto forza sufficiente per realizzare l’unificazione dell’Italia, ma era stato abbastanza forte da impedirla. Su un piano più generale, il problema Machiavelli era ineludibile non solo per la cultura più strettamente legata alla offensiva controriformistica ma anche, più ampiamente, per la cultura dell’età barocca, e fu affrontato in modo insistente e ossessivo, anzitutto sotto l’aspetto del rapporto tra politica e morale. «Il concetto attorno a cui si travaglia questa età antimachiavellica – ha scritto Luigi Firpo – non è altro che l’intuizione fondamentale di Machiavelli, l’esigenza intima dello Stato moderno proteso verso il suo fine e capace perciò di riconoscere solo una sua propria ed autonoma ragione governatrice del quotidiano agire»18. Al di là della condanna e del rifiuto, spesso soltanto formali, la riflessione su quel rapporto, anche se non arrivò ad una soddisfacente soluzione teorica del problema della connessione tra i due termini, fece allora un passo avanti che consistette in un primo e parziale riconoscimento della loro specificità. Bisogna aggiungere che la questione filosofica del rapporto tra politica e morale, considerata nella concretezza dei suoi contenuti, equivaleva a quella dei criteri che dovevano guidare il rapporto tra il 17  Lo scritto del Bozio, De antiquo et novo Italiae statu fu pubblicato a Roma nel 1596. Gli scritti di Scipione Ammirato dedicati a questo argomento furono pubblicati postumi (1637) nel II volume degli Opuscoli, curato da Cristoforo Del Bianco: Se è vero che la Sede Apostolica tenga l’Italia divisa; Onde proceda che l’Italia si mantenga tuttora divisa; Se vero è che l’Italia fosse in migliore condizione quando fosse governata da un solo Principe. 18  L. Firpo, Il pensiero politico del Rinascimento e della Controriforma, Milano 1966, p. 645.

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principe e i suoi sudditi; e quindi comportava l’analisi della struttura dello Stato e della società, con la propensione a considerare l’uno come emanazione diretta dell’iniziativa politica del sovrano e l’altra quasi esclusivamente come suo oggetto. Nell’analisi dei meccanismi dell’amministrazione regia e dei fenomeni sociali, così intesi, l’opera dei teorici della ragion di Stato andò ben oltre Machiavelli. L’oggetto dell’indagine era profondamente cambiato. Gli Stati nazionali dell’Europa occidentale si erano enormemente sviluppati (sul piano della fiscalità, dell’economia, della giustizia, della cultura, dell’assistenza pubblica) rispetto ai tempi di Machiavelli ed era diventato più evidente l’orizzonte mondiale dell’azione che alcuni di essi svolgevano sul piano economico e politico. L’opera di Giovanni Botero e quella degli altri teorici è rivolta ad assicurare stabilità ed efficienza ad un corpo politico con tali caratteristiche e dimensioni e va vista in questo quadro che supera di molto l’orizzonte delle città-Stato e il problema delle qualità soggettive dell’uomo di governo a cui si riferisce la geniale analisi del Principe. Il nodo centrale del discorso riguardava, però, sempre l’autorità, da un lato, e l’obbedienza, dall’altro; i problemi della rappresentanza e dell’equilibrio tra le varie forze sociali e politiche erano relegati sullo sfondo rispetto a quelli dell’apparato amministrativo, dei sistemi finanziari, dell’educazione, dell’organizzazione militare, anche se la loro importanza non fu sottovalutata. «Il concetto più utile nella pratica e storicamente più fecondo [elaborato dalla teoria della ragion di Stato]... fu che le esigenze e le necessità del ‘pubblico bene’ non debbono offendere il diritto divino e la legge naturale, ma possono intaccare il diritto positivo e le leggi emanate dallo Stato»19. Una nuova forza era attribuita così al sovrano, una libertà d’azione che doveva imprimere un moto più rapido allo sviluppo dell’assolutismo. Per questo la dottrina della ragion di Stato, malgrado le sue interne contraddizioni ed esitazioni e la sua incapacità di formulare una moderna teoria della politica, non fu statica. L’idea che la politica è di per sé nefasta e malefica e che per purificarsi ha bisogno di subordinarsi alla Chiesa ed alla religione non appartiene alla parte più importante e significativa di questo gruppo di scrittori. I limiti e i condizionamenti dell’azione del sovrano e della possibilità di deroga al diritto comune   Meinecke, L’idea della ragion di Stato, cit., p. 129.

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non vanno cercati, secondo loro, esclusivamente nella religione e nella morale, al di fuori o addirittura in antitesi alla politica, ma anche all’interno delle stesse regole dell’azione politica. La concezione assolutistica della sovranità non esclude, d’altra parte, aspettative e richieste da parte dei sudditi; ed anche se, nella teoria della ragion di Stato, non è prevista l’idea del rovesciamento del sovrano quando diventa tiranno, il problema dei princìpi e dei metodi del buon governo è largamente presente. Negare la legittimità della ribellione non significa, infatti, negare la possibilità che essa avvenga, con tutte le sue negative conseguenze, e che gli errori dei governanti possano esserne cause non secondarie. La «mutazione di Stato» è concepita dalla cultura barocca quasi come un fenomeno naturale della vita collettiva, di cui bisogna riconoscere cause e condizioni per cercare di prevenirla o ritardarla. Il compito fondamentale della politica e della scienza che ne studia leggi e problemi è appunto di garantire la continuità e la permanenza dello Stato. Da qui nasce la necessità della «prudenza», la virtù propria dell’uomo politico: la quale non è considerata soltanto una abilità tecnica, fatta di conoscenze specifiche, di capacità di manovra, di compromesso o anche di inganno, ma consiste anche nella volontà e capacità di esercitare la giustizia, di difendere e proteggere i sudditi dagli attacchi esterni, di organizzare la buona amministrazione, di colpire e punire i corrotti e gli sfruttatori, di impedire la sopraffazione dei deboli da parte dei «poderosi», di rispettare i diritti e l’onore dei sudditi, di moderare l’ambizione dei potenti o castigarne gli eccessi. Questo insieme di esigenze aveva come punti di riferimento esclusivi, da una parte, il compito storico assunto dal potere assoluto della monarchia e, dall’altra, il ruolo della nobiltà come classe dirigente e rappresentante politica della nazione. Non sfuggivano i problemi, le difficoltà e le contraddizioni che un sistema così inteso comportava: il panorama offerto dagli eventi del passato era, come abbiamo visto, tutt’altro che rassicurante. «Ne’ signori particolari di un Regno – scriveva ancora Botero – vi è del bene e vi è del male; il male è l’autorità e la potenza, in quanto ella è sospetta al prencipe sovrano: perché è un appoggio e un rifugio apparecchiato a chi volesse ammutinarsi e sollevarsi; o a chi tentasse di muover guerra e di assaltare lo Stato; come sono stati i Principi di Taranto e di Salerno, et i Duchi di Sessa e di Rossano nel Regno di Napoli». Il rimedio non stava, tuttavia, nell’escogitare un diverso sistema di Stato. Le elucubrazioni sui vari sistemi politici (la

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monarchia, l’oligarchia, la democrazia, i sistemi misti) furono, nella maggior parte dei casi, poco più di una esercitazione accademica, ricalcata sulle teorie di Aristotele. In realtà era invece universalmente riconosciuto il ruolo preminente e privilegiato che la nobiltà aveva e doveva conservare nell’esercizio del potere e nella rappresentanza politica della comunità. La soluzione dei contrasti e il superamento dei pericoli che potevano derivare da questa situazione dovevano venire dall’educazione della stessa classe dirigente, e quindi dall’accettazione del «servizio del Re» e dalla rinuncia all’ambizione, la «malefica divinità» che spingeva talvolta o anche spesso i potenti a tentare l’eversione, servendosi degli istinti della plebe naturalmente portata al tumulto ed alla violenza. La tradizione umanistica e rinascimentale offriva numerosi esempi di un ripensamento critico della funzione della nobiltà20, che era proseguito con opere come la Civil conversazione di Stefano Guazzo21, dedicata a Vespasiano Gonzaga, signore del piccolo ducato di Sabbioneta, le cui mani, si legge appunto nella dedica, usavano «esercitare non meno i libri che l’arme»: la misura del valore non doveva essere più soltanto la preminenza della spada, secondo la tradizione feudale e cavalleresca, ma la cultura, la civiltà, l’impegno pubblico. La differenza, rispetto alla tradizione umanistica, consisteva nel fatto che nell’età barocca la revisione dei costumi non era affidata esclusivamente allo spirito autocritico della stessa nobiltà, ma anche alla forza ed all’autorità del sovrano; e che l’opera di educazione della classe dirigente tradizionale si accompagnava anche alla promozione (che in Italia incontrò particolari resistenze) di elementi provenienti dal «popolo», dalle professioni, dalla ricchezza e dalla cultura della borghesia. La figura del sovrano fu esaltata in quanto coincidente con il bene generale e la deroga al diritto comune fu collegata alla pubblica utilità, creando un terreno fecondo, almeno in teoria, per il dialogo tra sudditi e sovrani. Pubblico interesse, diritto naturale, diritto delle genti, fedeltà alla patria: originariamente associati alla funzione della monarchia assoluta e alla persona stessa del sovrano, questi princìpi 20  Vedi il mio La Rivolta antispagnola a Napoli, Roma-Bari 19946, pp. 184 sgg. Cfr. anche C. Donati, L’idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Roma-Bari 1988. 21  Amedeo Quondam ne ha curato una nuova edizione (Modena 1993) con un’ampia introduzione e un ricchissimo apparato filologico. Nell’introduzione sono elencate anche numerose altre opere sullo stesso argomento, pubblicate intorno al 1574, anno della prima edizione della Civil conversazione.

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potevano diventare, come in effetti avvenne specialmente nella crisi degli anni Quaranta, anche i punti di riferimento ideale dei movimenti di riforma e di indipendenza nazionale. 8. L’Italia e il dominio spagnolo L’opera del Machiavelli non riguardava soltanto la filosofia della politica e la teoria dello Stato. Egli aveva anche affrontato un complesso di problemi che si riferivano all’esperienza della crisi che gli Stati italiani avevano attraversato tra la fine del ’400 e l’inizio del ’500, all’invasione della penisola da parte degli eserciti della Francia, della Spagna e dell’Impero, ed all’instaurazione di un dominio straniero. La riforma politica degli Stati italiani ed il recupero dell’indipendenza erano strettamente connessi nel pensiero di Machiavelli. Nell’ultimo capitolo del Principe, dedicato a questo tema, egli dimostrava fiducia nella capacità degli Italiani di realizzare la riforma e la liberazione. Sembrava a Machiavelli, all’inizio del Cinquecento, che l’Italia fosse «tutta disposta a seguire una bandiera», che non mancasse «materia da introdurvi ogni forma». «Qui la virtù è grande nelle membra – scriveva – quando non mancasse ne’ capi». Al centro dei suoi progetti di riforma era il concetto di «equalità» sul quale tornerò nel saggio Patriottismo e riforma politica. La fiducia di Machiavelli nella possibilità della ripresa, attraverso l’abbinamento tra riforma politica e liberazione, si dimostrò eccessiva. Le speranze e le illusioni sulle possibilità di recupero della «libertà italiana» erano già scomparse del tutto quando la pace di CateauCambrésis sancì formalmente, nel 1559, il cambiamento profondo e «definitivo» (una durata plurisecolare permette di usare questo termine) avvenuto nella storia e nell’assetto della penisola. Un quadro delle condizioni politiche e morali che si formarono nella società italiana di quel periodo e del ruolo subalterno che da allora svolsero i singoli Stati nei rapporti con la corona spagnola è stato tracciato in un pamphlet inserito nell’antologia Scrittori politici dell’età barocca, già citata, col titolo L’Italia e l’infievolita potenza della monarchia di Spagna. Il testo è stato scritto in una fase in cui, affacciatasi per un momento la speranza di un cambiamento con la ribellione di Napoli, la situazione si avviava apparentemente a tornare come prima: è perciò uno sguardo retrospettivo e pieno di

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amarezza, che mantiene però ancora un residuo di quella speranza e della volontà di credere che non tutto sia finito. Sorprende che questo testo, che è una violenta invettiva contro la monarchia spagnola, possa essere stato considerato una lettera autentica (e «compiaciuta»!) di Filippo IV. Esso mirava anzitutto a sgombrare il terreno dall’illusione che, una volta riconquistato il dominio della situazione, il governo spagnolo potesse e volesse davvero rispettare il compromesso e gli accordi in base ai quali i Napoletani avevano deposto le armi. In secondo luogo, riprendeva largamente il tema, ormai diffuso in tutta Europa, e quindi anche in Italia, della crisi della monarchia, esaminando le sue sconfitte e le sue debolezze nel quadro internazionale. Infine il pamphlet, mentre denunciava, sotto forma di rivelazione delle intenzioni del sovrano, procedure e metodi seguiti dagli Spagnoli per tenere sotto controllo gli Stati italiani22, metteva nello stesso tempo in rilievo l’incapacità degli Italiani di unirsi e di opporsi efficacemente al dominio della Spagna. Non trascurava però di indicare le spinte che nei vari Stati, oltre che nel Regno di Napoli, tendevano a superare le passività verso la potenza egemone: l’ambiguità del Granducato di Toscana di fronte alla spedizione francese contro lo Stato dei Presìdi; lo spirito di indipendenza di quella parte del popolo genovese che non era legata da interessi finanziari alla Spagna; i rapporti di amicizia del duca di Savoia con la Francia; l’insofferenza dei Milanesi. 9. Ragion di Stato e patriottismo Nell’età di Carlo V, e in parte anche in quella di Filippo II, la ricerca dei princìpi di stabilità, ordine e autorità indispensabili alla costruzione dello Stato moderno, significò, nelle aree della penisola che avevano perduto la loro indipendenza e nei principati minori, collaborazione con la monarchia di Spagna. Nello stesso tempo, non mancarono né le preoccupazioni per una ulteriore espansione del dominio spagnolo nella penisola, né la volontà di mantenere un certo

22  Sullo stesso argomento, relativamente alla Repubblica di Genova, cfr. le osservazioni di Andrea Spinola pubblicate nel volume di Scritti scelti curato da C. Bitossi, Genova 1981.

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grado di autonomia nei confronti di Madrid, sia da parte degli Stati indipendenti, sia da parte degli Stati che erano diventati province della grande monarchia di Spagna. All’interno di questo quadro ci fu qualche voce discordante o eccentrica: Girolamo Muzio, nel Discorso sopra il Concilio, che si ha da fare, et per la union di Italia inviato a Pio IV nel 1563, lanciò addirittura l’idea di una confederazione italiana, modello di una futura lega universale, sotto il patrocinio del pontefice, «capo d’Italia et capo di christianità». Più diffusa era invece la tendenza ad assegnare al papa la funzione di garante di quel tanto di equilibrio che si era realizzato dopo l’instaurazione del dominio spagnolo. In realtà, sia l’una, sia l’altra idea si rivelarono illusorie, poiché fu proprio il papato, con l’interdetto contro la Repubblica di Venezia e con le sue iniziative di espansione territoriale, ad alterare la «quiete italiana». Collocandosi nella fase culminante di questa ricerca di equilibrio e di stabilità, nel corso di una crisi sociale particolarmente acuta e drammatica e in un quadro religioso, politico e culturale profondamente mutato dalla Controriforma, la trattatistica della ragion di Stato contribuì, tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, alla conservazione del sistema politico italiano così come si era configurato con la pace di Cateau-Cambrésis. Se si esclude la cosiddetta congiura di Campanella e l’opera di Sarpi e di Venezia, la prima incerta e problematica e la seconda riguardante soprattutto l’uso politico del potere spirituale della Chiesa, gli scrittori politici di quella fase non si proposero l’obiettivo di modificare i rapporti tra gli Stati italiani esistenti, piccoli, medi e grandi; cercarono, anzi, di opporsi alle iniziative che potevano aggiungere anche un granello di forza e di potere ad una delle potenze in campo. Al conservatorismo della geografia politica interstatale non corrispose, però, un analogo atteggiamento nei confronti delle istituzioni e dei rapporti politici all’interno dei singoli Stati. L’idea della decadenza della monarchia di Spagna, che cominciò a delinearsi negli ultimi anni del regno di Filippo II, contribuì certamente, insieme a molti altri fattori, a fare emergere esigenze di cambiamento che, senza indirizzarsi inizialmente nel senso del distacco e dell’indipendenza, si indirizzarono verso la riforma istituzionale, il raggiungimento di un maggiore equilibrio tra le rappresentanze sociali e verso la conquista di un rapporto più articolato e di maggiore autonomia all’interno o ai margini dell’Impero spagnolo. Un segno e una premessa del ripensamento dei problemi interni e della tendenziale ripresa di uno spirito di autonomia può essere con-

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siderata, mi sembra, la fioritura, tra la fine del Cinquecento e la metà del Seicento, di studi e ricerche sulla storia delle entità statali della penisola, sulla loro identità «nazionale» e sulle singole città. L’esaltazione del carattere nazionale, dell’identità culturale e civile degli Stati regionali fu un tratto comune a tutta la cultura ed all’erudizione italiana: dalla precoce elaborazione del mito nazionale toscano al tempo di Cosimo de’ Medici e dal rilancio del mito della libertà repubblicana di Venezia il movimento si allargò fino ad investire, in diverse forme, il Regno di Napoli, le varie componenti dello Stato della Chiesa, la Lombardia, la Sicilia, e ad assumere connotati apertamente antispagnoli con le Filippiche del Tassoni. L’antispagnolismo boccaliniano e le aspirazioni di riforma furono contemporanei e probabilmente collegati alla rinascita di questo patriottismo che si manifestò a diversi livelli, dal semplice localismo cittadino alla ricostruzione della storia degli Stati esistenti e perfino alla ripresa dell’idea della nazione italiana nel suo complesso. La possibilità che questo indirizzo culturale si coagulasse in una proposta politica generale e comune era praticamente inesistente, così come era inevitabile che in essa confluissero le tendenze più disparate e antitetiche, dalle rivendicazioni particolaristiche di gruppi dell’aristocrazia all’espansionismo dinastico, dalle proposte di ampliamento e rafforzamento delle rappresentanze istituzionali popolari all’ulteriore sviluppo dell’accentramento del potere sovrano. «Iniziava l’età dei mutamenti», ha scritto Mario Rosa, che sarebbe stata ben presto seguita «da quella dei tumulti e delle rivoluzioni»23. In effetti, furono soprattutto tentativi di mutamento: la monarchia di Spagna era sì in decadenza ma non tanto da non conservare la capacità di impedire, nell’intiero scacchiere della penisola, che si realizzassero davvero e pacificamente dei mutamenti. Non è certo sorprendente che la rottura dell’antico sistema sia stata tentata nell’Italia meridionale, mentre nel resto della penisola il dissenso non riusciva a superare i confini dell’attività culturale più o meno clandestina e gli ostacoli della repressione e della censura. Il giudizio di uno dei maggiori esponenti della cultura riformatrice del secolo XVIII, Giuseppe Maria Galanti, può dare l’idea della pressione da cui nacquero nel Regno di Napoli il ripensamento e la rielabo23  M. Rosa, La cultura politica, in Storia degli antichi Stati italiani, a cura di G. Greco e M. Rosa, Roma-Bari 1997, p. 81.

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razione dell’identità nazionale, lo sviluppo di un movimento riformatore e infine la sollevazione popolare e la rivendicazione dell’indipendenza. «La nazione – scrisse appunto il Galanti nel capitolo della sua Descrizione intitolato Stato del Regno nel tempo che fu provincia della Spagna – divenne sospettosa e diffidente verso il governo, per cui mancò del principale vincolo, che consiste nell’affezione e nella pubblica fiducia. Da qui derivarono due mali. Il primo fu che non si ubbidì più alla voce dell’autorità, e le leggi furono senza osservanza. Il secondo, che il governo fu riguardato come una pubblica calamità, che ogni cittadino procurava scansare, e che in tutti gli atti della vita malediceva. Questo è lo stato il più deplorabile per una nazione»24. Nel corso della rivoluzione napoletana del 1647-48 una gran parte della comunità fu coinvolta nel movimento politico. Il lettore potrà vedere direttamente dai testi a cui ho fatto riferimento, se emersero allora idee proiettate verso il futuro: a me pare che affermare l’aspirazione all’indipendenza e sostenere insieme l’esigenza di una riforma politica e istituzionale che coinvolgesse tutta la comunità dei cittadini fosse il punto più alto a cui in quel momento potesse giungere un progetto di libertà. Ritengo anche che il trattato anonimo sulla ragion di Stato conservato nella Bibliothèque Mazarine di Parigi, studiato da Giuseppe Ferrari e da Benedetto Croce, sia in sintonia con quel clima ideale non tanto perché manifesta simpatia e adesione ai movimenti di indipendenza all’interno della corona spagnola (Catalogna, Portogallo, Napoli), quanto perché esprime una concezione della sovranità che supera i limiti del particolarismo, rifiuta l’immobilismo del privilegio e, facendo leva sul diritto naturale, propone un rapporto attivo e di scambio tra il sovrano e la comunità dei sudditi-cittadini25. Se non è possibile accettare il giudizio dato su questo testo da Giuseppe Ferrari, che lo considerò come un precorrimento della moderna democrazia, non si può neppure identificarlo, come ha fatto Benedetto Croce, con 24  G.M. Galanti, Descrizione geografica e politica delle Sicilie, t. I, Napoli 1793, pp. 213-214. 25  Il manoscritto è intitolato Trattato de la politica ove vengono esaminati i princìpi e le massime generali di questa scienza et altresì sono rappresentati tutti i generi de’ governi con le massime co’ quali i principi e Republiche debbano i loro Stati perfettamente governare. I capitoli 12, 14 e 17 sono stati pubblicati in Scrittori politici dell’età barocca, cit., pp. 1011-1043.

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l’antiassolutismo delle forze retrograde e privilegiate e con la difesa di «libertà» medievali26. L’analisi e il bilancio che l’anonimo autore italiano fa della crisi che investì l’Europa nell’ultima fase della guerra dei Trent’anni rappresenta il punto più alto di evoluzione e insieme l’iniziale superamento della tradizionale teoria della ragion di Stato. L’interesse della comunità viene posto al centro del discorso in modo più esplicito e diretto di quanto era avvenuto nella precedente produzione teorico-politica. Nello stesso tempo l’anonimo autore sostiene una idea della comunità o «nazione politica» che va oltre l’orizzonte della teoria classica della ragion di Stato. La prova è la soluzione, che egli indica e ribadisce con particolare e significativa insistenza, di un problema cruciale della teoria politica e del modo concreto in cui esso si era posto nei Paesi Bassi, nelle guerre di religione in Francia, nelle rivoluzioni della Catalogna, del Portogallo, della Sicilia, di Napoli e dell’Inghilterra. Il problema era, per usare le sue stesse parole, «se può con giusto titolo un popolo scuotere il giogo del suo principe, in caso che divenghi tiranno». La risposta data dall’anonimo autore del trattato non consiste nella semplice riaffermazione della legittimità della ribellione contro il sovrano divenuto tiranno: limitarsi a questo, sarebbe stato un ritorno a vecchie posizioni particolaristiche ed arcaiche o semplicemente intellettualistiche. La novità è invece nella decisa e ripetuta affermazione che nessuna parte della comunità può arrogarsi il diritto di dichiarare decaduto il re, ma «spetta a tutto il corpo del popolo e dello Stato il fare codesta dichiaratione contra il prencipe, perché in tal caso a tutto il corpo della Repubblica ritorna e reviene la potestà che il re haveva e non possono alcuni particolari usurparse l’autorità de dechiarare il prencipe decaduto de la sua potestà». Questa conclusione era estranea sia alla teoria dell’assolutismo che alla tradizione rivoluzionaria dei monarcomachi protestanti e cattolici. Richiamando un cruciale episodio delle guerre di religione in Francia, egli ripete che il fare cotesta dichiarazione non appartiene a pochi o a persone particolari, ma a tutto il corpo de la Republica. Onde istimo ch’illegittimamente

26  Mi riferisco alle pagine dedicate a questo manoscritto da G. Ferrari nel volume Gli scrittori politici italiani (nell’edizione del 1929, pp. 505-520) ed al saggio di B. Croce, Un difensore italiano delle libertà dei popoli nel Seicento, in Uomini e cose della vecchia Italia, Bari 1927, pp. 200-212.

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in Parigi alcuni pochi, che furono i 16 de la Liga, dopo che Henrico III fe’ morire a Blois con morte violenta il duca di Guisa col cardinale suo fratello, dichiararono il re tiranno, scaduto de la dignità regia. L’attione di fare morire quei signori hebbe questo di male, che non furono in essa osservate le leggi e termini di giustitia perché si poteva fare legittimamente con termini di diritto, formarli il processo e fare che la giustitia li castigasse. Ma che questa attione sola meritasse il titolo di tiranno e d’alcuni pochi fosse stato dichiarato scaduto de la corona di Francia, non veggo come possa legittimamente farsi.

«Questa dichiarazione de’ 16 e de la città di Parigi – egli precisa ancora – contra il re Henrico fu illegittima, temeraria, prosuntuosa et in iure nullius valoris». Il suo ragionamento è rafforzato e ulteriormente chiarito dal richiamo al movimento per l’indipendenza del Portogallo: Con più matura prudenza ha proceduto il Regno di Portogallo, perché nell’anno 1640, havendo i fidalghi preso le armi e fatto dechiarare legittimo re Giovanni duca di Berganza e dechiarato illegittimo re Filippo IV (ciò fu nel mese di dicembre), nel mese di gennaio, immediatamente appresso, tutti gli Stati Generali del Regno, vescovi, nobili, populi e comunità, confirmarono l’azione dei fidalghi, dechiarando legitima la possessione di Berganza e l’esclusione di re Filippo IV. Laonde questo punto è grandemente da marcare.

Risulta dall’insieme del discorso che lo stesso autore si rendeva conto sia dell’importanza, sia della «delicatezza» delle sue affermazioni; e che l’ipotesi della piena unanimità non era e non poteva essere intesa come una condizione rigida ed assoluta. Le sue pagine (che possono essere, a mio avviso, utilmente accostate al trattato di Zuccolo sull’amor di patria27) racchiudevano i germi di una più moderna ed ampia concezione della sovranità; ma egli temeva evidentemente, con qualche ragione, che la sua dottrina «male intesa» potesse incoraggiare la ripresa di forme di ribellismo arcaico e particolaristico che il sistema assolutistico aveva in parte respinto e sconfitto. 27  Il saggio di V. Frajese, La politica di Ludovico Zuccolo e l’ambiente sarpiano. Contributo all’interpretazione di testi pubblici dissimulati (in «Il Pensiero politico», XXVIII, 1995, 2, pp. 151-177) suggerisce, a sua volta, il collegamento tra Zuccolo e Sarpi.

II

Discussioni sulla crisi del Seicento Negli anni immediatamente precedenti la Seconda guerra mondiale, il XVII secolo era divenuto, per la storiografia inglese, «il teatro più importante sul quale si combatteva la battaglia per il marxismo»1. Successivamente è stato oggetto delle polemiche forse più vivaci tra quante si sono svolte nel campo, spesso apparentemente pacifico, della storiografia. Era lecito, quindi, attendersi che la pubblicazione, nel 1970, del quarto volume della New Cambridge Modern History, dedicato a The decline of Spain and the Thirty Years War2, mettesse un punto fermo (seppure, s’intende, non conclusivo) nel dibattito sul Seicento e cercasse di utilizzare, in qualche modo, suggerimenti metodologici e risultati delle numerose opere sui problemi, le vicende e le condizioni di quel periodo (da quelle di Goubert, Baerhel, Le Roy Ladurie, Vilar, Deyon, Poršnev, alle laboriose indagini di Ch. Hill e di L. Stone sulla società inglese, ai saggi sulle rivoluzioni dell’Europa continentale, agli studi sui movimenti contadini in Russia e sulla depressione economica della Polonia e dell’Est europeo). Quasi nulla di queste discussioni e ricerche si riflette invece nel volume della New Cambridge Modern History. L’impressione fondamentale è che sia stata messa da parte ogni novità e che gli sforzi fatti nel corso di un quindicennio per dare alla prima metà del secolo XVII una fisionomia propria non siano stati adeguatamente apprezzati. Lo stesso titolo del volume chiama in causa due ordini di fatti fondamentali ma insuffi1  Ch. Hill, introduzione a Saggi sulla rivoluzione inglese del 1640, trad. it., Milano 1957, p. 11. 2  Cambridge 1970 (trad. it., Milano 1971).

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cienti ad indicare movimenti e tendenze generali dei rapporti sociali, dell’economia, delle istituzioni statali, della cultura. I redattori hanno cercato la definizione generale del periodo soprattutto nella sfera delle relazioni tra le potenze e della lotta per l’egemonia sull’Europa. È appena il caso di dire che, pur non escludendo questi temi, la direzione in cui si muove attualmente la ricerca è ben diversa. Il risultato di questa scelta è un’opera di faticosa lettura, che non riesce a dare una visione unitaria del periodo, a restituire ai singoli momenti la loro ricchezza e drammaticità ed a metterne in luce l’importanza nella formazione del mondo moderno. La spiegazione di questa scelta non è soltanto in una resistenza tenace (che in questo caso è andata oltre i limiti di cautela e di conservatorismo propri dell’intera collana) alle nuove esperienze culturali, ma, in qualche misura, anche in altre circostanze. Il volume, che è uscito in ritardo rispetto agli altri della stessa opera, è stato concepito ed in gran parte scritto circa dieci anni prima della pubblicazione3. Soltanto nell’introduzione, quindi, scritta evidentemente quando il materiale del libro era già pronto, si è potuto tener conto dei nuovi studi. In queste condizioni, l’autore dell’introduzione, J.P. Cooper, non poteva che assumere una linea di difesa delle posizioni tradizionali e di rifiuto delle nuove indicazioni, dal momento che un diverso atteggiamento sarebbe stato in contrasto con tutto l’impianto dell’opera e ne avrebbe sottolineato l’arcaicità. Il suo scetticismo sulla possibilità di definire in modo unitario un periodo storico, in se stesso legittimo, appare sospetto in questo caso, anche perché, in definitiva, sia nel titolo, sia nell’organizzazione della materia, non manca il ricorso a categorie unificatrici, sulla cui inadeguatezza non mi sembra che ci possano essere molti dubbi. Una seconda «circostanza attenuante» può essere presa in considerazione. Gran parte dei tentativi di dare una nuova interpretazione del periodo e trovare i punti di collegamento tra tendenze e situazioni di diversi paesi europei hanno fatto riferimento all’idea di una «crisi del Seicento» o l’hanno assunta addirittura come punto di partenza. Ora, malgrado la fioritura di studi intorno a questo tema, alcuni degli obiettivi più generali della ricerca (quelli che sono più immediatamente utilizzabili in un’opera di sintesi) non sono stati 3  Un’indicazione specifica in questo senso ha dato J.H. Elliott, avvertendo in una nota (p. 435) di avere completato il suo saggio nel 1959.

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ancora raggiunti. Ipotesi suggestive, formulate nel corso dei più importanti dibattiti sull’argomento, non sono state confortate da adeguati svolgimenti sul piano dell’analisi e della documentazione, mentre permane una notevole riluttanza a generalizzare ed a mettere a confronto, sia pure con le dovute cautele, risultati indiscutibilmente validi raggiunti nello studio di determinati paesi. Vi è qui la tendenza opposta a quella che domina nel campo degli studi sui secoli XVI e XVIII, per i quali è pacifico il riconoscimento della dimensione universale dei fenomeni più importanti ed è ritenuta necessaria la conseguente ricerca di collegamenti e comparazioni; per il secolo XVII, la prudenza impone invece di diffidare di ogni generalizzazione, anche se si tratta di regioni che hanno sempre avuto stretti legami geografici, politici, economici, culturali. Indubbiamente, lo stesso temine di «crisi», usato largamente dagli studiosi, si presta male a dare concrete ed efficaci indicazioni di ricerca. Inevitabilmente ambiguo quando si riferisce a fasi di lunga durata, esso ha acquistato nel caso specifico significati diversi a seconda degli autori che se ne sono serviti e delle realtà alle quali lo hanno applicato. Roland Mousnier, per esempio, ha definito l’intero secolo, dalla fine del XVI ai primi del XVIII, come un periodo di crisi, dando al concetto un’ampiezza tale da fargli perdere ogni contorno ed ogni riferimento a contenuti determinati4. Il termine ha assunto, talvolta, il significato semplicemente negativo di disorientamento ideale, di esasperazione dei contrasti sociali, di depressione economica, talaltra quello, quasi opposto, di trasformazione delle strutture economiche, di nascita di nuove forze sociali che mettono in difficoltà il sistema vigente. Può darsi che sia perfettamente legittimo ognuno di questi significati e che si giustifichi anche il tentativo di combinarne insieme più d’uno. La confusione nasce quando, da diverse parti, vengono applicati tutti allo stesso periodo storico ed alla stessa realtà sociale. Qualche passo avanti è stato fatto quando il discorso si è concentrato sulla «crisi economica generale» (malgrado la permanente incertezza sia sul significato del termine, per il diverso accento posto sulla de4  Mi riferisco al contributo che il Mousnier ha dato alla «Storia generale delle civiltà», diretta da M. Crouzet, con il volume: Les XVIe et XVIIe siècles. Les progrès de la civilisation européenne et le déclin de l’Orient (1492-1715), Paris 1953 (trad. it., Firenze 1959). Cfr. le osservazioni di I. Schöffer, Did Holland’s golden age coincinde with a period of crisis?, in «Acta historiae nederlandica», I, 1966, pp. 84-87.

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pressione o sul cambiamento delle strutture, sia sui dati cronologici del fenomeno) e sulle rivolte degli anni 1640. Il campo di indagine è stato così circoscritto nel tempo e nello spazio e le controversie sulla cosiddetta crisi hanno trovato un più concreto terreno di svolgimento. Malgrado le perplessità che ha suscitato, il tentativo di elaborare una visione unitaria dei movimenti rivoluzionari che si svilupparono in diversi paesi europei intorno alla metà del secolo e di considerarli nel loro insieme «quasi una rivoluzione generale» ha sollecitato la riconsiderazione di molti problemi di storia del secolo XVII e lo sforzo di caratterizzare il periodo come una fase distinta della storia del mondo moderno. La «contemporaneità» delle rivolte è stata ad un certo momento assunta quasi come la prova della «crisi generale», e su questa base si confermava la necessità di approfondire l’analisi di quella fase storica (o di singoli momenti, ma con lo sguardo rivolto all’insieme) per giungere ad una migliore comprensione del secolo. La discussione ed il concetto di crisi generale sono però tornati nuovamente in alto mare non appena si è cercato di andare al di là della coincidenza cronologica e di individuare i punti comuni delle rivolte. Un cumulo di convinzioni acquisite si è levato allora a sbarrare la strada all’impresa, mentre il collegamento tra nuove ricerche su singoli episodi rivoluzionari e discorso generale si è rivelato tutt’altro che facile, malgrado la buona volontà degli studiosi. Il quadro sintetico tracciato dalla New Cambridge Modern History sembra escludere esplicitamente che si possa giungere ad una visione unitaria del movimento complessivo della società europea in quella particolare fase storica. In che misura questa conclusione corrisponde ad un reale fallimento dei tentativi che sono stati fatti in questa direzione? Malgrado i rischi e le difficoltà, ritengo che possa essere di qualche utilità cercare di esaminare brevemente alcuni aspetti del problema e di indicare alcuni punti che, a mio avviso, meriterebbero più approfondite indagini. I. Schöffer e J.H. Elliott hanno pubblicato notevoli saggi di bilancio che sono serviti ad illuminare tutto il quadro della ricerca e che costituiscono un punto di partenza per ogni ulteriore tentativo. Per conto mio, muovendomi da un diverso punto di vista, intendo fare qualche considerazione a margine, e spero ad integrazione della loro analisi. Pur essendo convinto che la verifica del concetto di «crisi generale» non abbia in se stessa importanza decisiva, credo che la discussione sollevata da quella ipotesi forse un po’ casuale abbia avuto una funzione di stimolo per il concreto approfondimento dell’indagine su momenti fondamenta-

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li della storia moderna, come la rivoluzione inglese, l’assolutismo, la formazione della coscienza borghese e lo sviluppo del sistema capitalistico. Mi pare, inoltre, che malgrado i vuoti, le deficienze della ricerca e le molte questioni insolute, proprio nello studio di questo periodo la storiografia sia stata più fortemente sollecitata ad operare un rinnovamento metodologico ed abbia cominciato ad attuarlo. Devo comunque avvertire che in questa breve nota non ho l’ambizione di suggerire la via per giungere a quella nuova visione d’insieme alla quale aspira, a mio avviso legittimamente, una parte della storiografia. H.R. Trevor-Roper è l’autore che più decisamente si è avventurato in questa direzione basandosi, appunto, sulla contemporaneità delle rivolte. In un saggio del 1959 egli ha svolto il concetto di una crisi rivoluzionaria generale a metà del secolo XVII, una crisi unitaria nei suoi moventi e nel suo andamento, che caratterizzerebbe tutto il periodo come una fase di reazione al cosiddetto «Stato rinascimentale»5. La formula unificatrice di Trevor-Roper rimane un esempio dei rischi di una eccessiva generalizzazione. L’elemento fondamentale e comune delle rivolte (da Parigi a Londra, a Napoli, a Barcellona, al Portogallo) sarebbe stata la lotta contro l’espansione burocratica e gli sprechi delle corti. La società si sarebbe unitariamente sollevata contro la moltiplicazione degli uffici che «superò di molto le esigenze dello Stato»6 e per scrollarsi di dosso il peso finanziario che l’inflazione della burocrazia aveva riversato sui sudditi. Per definire questa reazione il Trevor-Roper usa il termine «rivoluzione puritana», dando all’aggettivo un significato che non è né quello dottrinario-religioso della tradizione storiografica ottocentesca, né quello politico-sociale che è stato ampiamente ed in modo convincente illustrato da Ch. Hill. La riduzione del termine ad un significato genericamente moralistico gli permette di accomunare sotto quell’etichetta ogni atteggiamento di protesta contro gli sprechi e il burocratismo, provenga da presbiteriani o da cattolici controriformati, dagli uomini di governo (Laud e Strafford sono «puritani di destra») o da quelli dell’opposizione, dagli arbitristas o dai levellers, da baroni, borghesi o contadini. La 5  H.R. Trevor-Roper, La crisi generale del XVII secolo, in Protestantesimo e trasformazione sociale, trad. it., Bari 1969. 6  Ivi, p. 109.

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visione unitaria della crisi rivoluzionaria è quindi ottenuta a prezzo di un generale appiattimento del panorama, che annulla differenze e contrasti di natura sociale, politica, religiosa, economica. Del resto, l’ipotesi di uno squilibrio tra espansione burocratica ed esigenze dello Stato è troppo generica per essere plausibile ed è basata piuttosto sull’enfasi retorica, tipica di un certo conservatorismo politico, che su una analisi effettiva. Come si possono mettere sullo stesso piano, infatti, l’esercizio dell’attività amministrativa (attraverso uffici venali o a stipendio diretto), necessariamente in via di sviluppo, e certe forme di «rendita burocratica» di tipo feudale (possesso di uffici dati in affitto, mercedi, prebende laiche ed ecclesiastiche ecc.) che costituivano aspetti complementari del regime feudale e gravavano parassitariamente sulla stessa burocrazia come su tutta la parte non privilegiata della società? Lamentele e proteste dei contemporanei contro la burocrazia non sono necessariamente testimonianza di uno squilibrio reale; possono, anzi, essere interpretate come segni del rafforzamento dello Stato piuttosto che del suo squilibrio. Inoltre, esse possono esprimere tanto gli interessi e i risentimenti dei gruppi più riottosi dell’aristocrazia quanto atteggiamenti di critica delle insufficienze dell’azione dello Stato nei confronti dei particolarismi e delle sopravvivenze feudali. Si comprende, dunque, perché la formula di Trevor-Roper non abbia avuto fortuna e sia stata più o meno esplicitamente respinta ogni qualvolta è stata messa a confronto con la situazione specifica di questo o quel paese7. Probabilmente l’obiettivo principale del Trevor-Roper era l’ulteriore svalutazione, rispetto alla tradizionale e classica interpretazione del Gardiner e soprattutto in polemica con la storiografia marxista, della rivoluzione cromwelliana, «una inutile, tragica perdita di tempo»8 da collocare entro un moto complessivo i cui caratteri

7  Cfr. le osservazioni critiche di R. Mousnier e J.H. Elliott in Crisi in Europa. 1560-1660, a cura di T. Aston, trad. it., Napoli 1968, di I. Schöffer, Did Holland’s golden age coincinde with a period of crisis?, cit., p. 88, e, per l’Inghilterra, di P. Zagorin, The social interpretation of the English Revolution, in «The Journal of economic history», 1959, 3, p. 287. La tesi del Trevor-Roper sembra a P. Zagorin particolarmente infondata nel caso inglese: il risentimento per l’esclusione dagli uffici e dai benefici finanziari, come causa della rivolta, «may result in a Fronde; but it could not sow the dragon’s teeth of a New Model Army and bring a King to the block in the name of sovereign people». 8  V. Pearl, La rivoluzione puritana, trad. it., in Nuove questioni di storia moderna, Milano 1964, vol. I, p. 1074. Allo stesso modo il Trevor-Roper liquida la

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distruttivi e negativi furono prevalenti su quelli costruttivi. Una simile «rivoluzione puritana», così scarsa di motivazioni ideali e priva di radici nei movimenti profondi della struttura sociale, poteva essere facilmente fronteggiata e respinta: il Trevor-Roper può, quindi, attribuire un largo margine di casualità alla sconfitta della monarchia inglese e dare una spiegazione apparentemente plausibile dell’insuccesso a cui andarono incontro quasi tutte le rivolte, convulsioni sproporzionate rispetto all’entità delle rettifiche che sarebbero state sufficienti a normalizzare la situazione. «Se Giacomo I o Carlo I – conclude infatti il Trevor-Roper – avessero avuto l’intelligenza della regina Elisabetta o la docilità di Luigi XIII, nel XVII secolo l’ancien régime inglese avrebbe potuto adattarsi alla nuova situazione non meno tranquillamente di quanto poi fece nel XIX»9. Il rinnovato tentativo di Trevor-Roper di mettere tra parentesi la rivoluzione come un semplice e casuale accidente si ricollega evidentemente al grande mito tradizionale della evoluzione continua e senza fratture della società inglese ed alla burkiana antitesi tra progresso e rivoluzione. Il tema è senza dubbio di grande rilievo. L’osservazione di Trevor-Roper, riducendo la questione in termini così rigidamente legati alla personalità ed al carattere dei singoli sovrani, difficilmente avrebbe potuto essere accettata come base di discussione. Si può forse obiettare soltanto che egli anticipa di parecchi decenni e mitizza una stabilità politica inglese che, per dirla col Venturi, non fu «né rapida né facile»10. Anche Ch. Hill ha ripreso il concetto di una «crisi generale» della metà del Seicento, che «expressed itself in a series of breakdowns, revolts and civil wars»; «these phenomena – ha scritto – are related (both as effect and as cause) to the rise of capitalist relations within feudal society and a consequent regrouping of social classes»11. La politica estera di Cromwell come «futile» e «in ritardo di trent’anni»; cfr. Ch. Hill, God’s Englishman. Oliver Cromwell and the English Revolution, London 1970, p. 270 (trad. it., Roma-Bari 1974). 9  Trevor-Roper, La crisi generale del XVII secolo, cit., p. 128. 10  F. Venturi, Utopia e riforma nell’illuminismo, Torino 1970, p. 62. Riferendosi al saggio di J.H. Plumb, The origins of political stability. England 1675-1725, London 1967, il Venturi osserva che «ogni pagina di questo saggio ci fa capire quanto sia stato inaspettato, difficile il raggiungimento della stabilità politica in Inghilterra al passaggio tra i due secoli e ci mette chiaramente di fronte alle forze che questo compromesso crearono così come a quelle che ad esso si opposero» (p. 63). 11  Hill, God’s Englishman, cit., p. 3.

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sua presa di posizione ha un primo fondamento nell’opera che egli ha dedicato alla storia inglese del secolo XVII: la sua analisi delle origini intellettuali della rivoluzione inglese12, mentre costituisce un apporto fondamentale all’interpretazione di quell’avvenimento e dei profondi mutamenti della coscienza sociale che lo hanno preceduto, ne colloca anche le premesse ideali nel quadro del più generale svolgimento della storia europea. Ne risulta sottolineata anche la necessità – già sostenuta da E.J. Hobsbawm13 – di collegare l’indagine sulla «crisi rivoluzionaria» con quella sulla «crisi economica». Le suggestioni di Ch. Hill, sulle quali avremo occasione di tornare, non hanno però avuto finora [1971] sufficienti svolgimenti sul piano più generale; ed anche per ciò che riguarda più specificamente l’Inghilterra, il tradizionale disinteresse degli studiosi inglesi per le correnti rivoluzionarie della prima età moderna è tutt’altro che superato14. L’insistente polemica contro l’interpretazione «sociale» della rivoluzione, ripresa e rinnovata alla fine dagli anni Cinquanta da J.H. Hexter e P. Zagorin ostacola forse ancora oggi [1971] la piena utilizzazione delle nuove indicazioni di ricerca che vengono dalle opere di Hill e di L. Stone. L’argomento principale della critica è però tutt’altro che convincente. La negazione del carattere «borghese» della rivoluzione si basa, infatti, su un criterio di giudizio esasperatamente empirico e, nello stesso tempo, su una visione dei rapporti sociali e del loro evolversi storico più rigida e più schematica di quella che si voleva combattere: sulla considerazione, cioè, che durante la guerra civile, una parte della gentry, alcuni grandi centri mercantili e singoli imprenditori capitalisti si schierarono a favore del re. Non molti passi avanti, d’altra parte, ha fatto anche la ricerca sulle «capitalist relations» da quando Hobsbawm ha riproposto il tema della crisi economica in termini di transizione dal feudalesimo al capitalismo15. A proposito di quest’ultimo punto, un elemento 12  Id., Intellectual origins of the English Revolution, Oxford 1965 (trad. it., Bologna 1976). 13  E.J. Hobsbawm, La crisi del XVII secolo, 1954, trad. it., in Crisi in Europa, cit. 14  Venturi, Utopia e riforma nell’illuminismo, cit., p. 63. 15  Per ciò che si riferisce all’Inghilterra cfr., oltre le indicazioni di M. Dobb e di E.J. Hobsbawm, il saggio di E.L. Jones, Le origini dell’industria, trad. it., in Agricoltura e sviluppo del capitalismo, Roma 1970, e la relazione di R. Zangheri nello stesso volume, pp. 73-74, che davano conto della tendenza a collocare nel secolo XVII le radici della rivoluzione agronomica e delle trasformazioni agrarie

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caratteristico del periodo è venuto acquistando sempre maggiore rilievo nella ricerca e nella discussione storiografica: la dislocazione del centro di gravità dello sviluppo economico verso le regioni nordoccidentali, e quindi la differenziazione tra aree sviluppate e aree depresse all’interno del continente europeo16. In che misura questo spettacolare mutamento fu il risultato di un processo organico, basato su un rapporto di interdipendenza tra prosperità e decadenza e, soprattutto, in che misura esso corrisponde ad una svolta nello sviluppo del sistema capitalistico? La crisi si configura qui come un triplice ordine di fenomeni che, seppure possono apparire connessi, si svolgono in direzioni diverse o contrapposte: la depressione economica, di natura congiunturale, sui cui termini cronologici e sulle che furono elementi fondamentali dello sviluppo capitalistico. Sul piano generale dello studio dei rapporti sociali, questa tendenza veniva confermata dall’ampia e fondamentale indagine di L. Stone, The crisis of aristocracy, 1558-1641, Oxford 1965 (trad. it., Torino 1972): «anche se il cambiamento è un processo continuo – scriveva Stone – e se ogni modificazione ha avuto dei precedenti e avrà, in seguito, degli sviluppi, è vero tuttavia che tra il 1560 e il 1640, e più precisamente tra il 1580 e il 1620, si deve collocare l’effettivo spartiacque fra l’Inghilterra medievale e l’Inghilterra moderna» (p. 18). 16  Sulla genesi e i caratteri della depressione dell’Europa orientale cfr. J. Topolski, La régression économique en Pologne. XVIe-XVIIe siècles, in «Acta Poloniae Historica», 1962; M. Malowist, The economic and social development of the Baltic countries from the fifteenth to the seventeenth centuries, in «Economic history review», 1959; W. Kula, Un’economia agraria senza accumulazione. La Polonia nei secoli XVI-XVIII, trad. it., in Agricoltura e sviluppo del capitalismo, cit.; Id., Teoria economica del sistema feudale. Proposta di un modello, trad. it., Torino 1970 (l’edizione originale è del 1962), specialmente cap. IV. I. Schöffer, nell’articolo citato, dava molto rilievo a questo «enormous shift» avvenuto «within a process of general stabilization» (pp. 98-100); «Il fatto più spettacolare in questo cambiamento fu naturalmente il completo collasso dell’Italia come paese industriale e commerciale di primo piano e dell’impero spagnolo che soltanto un secolo prima era giunto a grande potenza e prosperità». Secondo la descrizione dello Schöffer, lo spostamento di ricchezza ed attività avvenne nel quadro di una stabilizzazione del sistema economico; i fattori dello spostamento sarebbero stati, sembra, indipendenti da eventuali trasformazioni nelle strutture economiche (crescente concentrazione di capitale, perfezionamento dell’economia monetaria, trasformazioni agrarie). Schöffer si poneva principalmente dal punto di vista della repubblica olandese, il cui sistema di rapporti commerciali era decisamente di tipo tradizionale (cfr. Hobsbawm, La crisi del XVII secolo, cit.) e la cui prosperità economica fu «to a certain degree (...) parasitical». I casi dell’Inghilterra e dell’Olanda, principali beneficiarie dello spostamento, non possono quindi essere accomunati. Nel settore della «decadenza», forse, la differenza più importante riguarda il sud e il nord dell’Italia. Sulla crisi italiana cfr. R. Romano, L’Italia nella crisi del secolo XVII, in Agricoltura e sviluppo del capitalismo, cit.

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cui manifestazioni si è concentrata in modo particolare la ricerca17; il ristagno di regioni come la Spagna, l’Italia meridionale, la Polonia; la prosperità o lo sviluppo economico dell’Inghilterra e dell’Olanda. Anche in questo caso, comunque, il tema della ricerca è relativamente limitato nel tempo e nello spazio e fa perno intorno alla rivoluzione inglese, restando nel quadro di problemi connessi con l’evoluzione dello Stato e della società del continente europeo. Roland Mousnier ha cercato invece di mettere insieme, sotto il titolo di «fureurs paysannes», le rivolte della Francia, della Russia e della Cina, per un periodo di tempo che copre oltre un cinquantennio. Concludendo la sua ricostruzione, egli ha fatto proprio il punto di vista di un osservatore della seconda metà del secolo XVII, affermando che «la causa profonda delle sedizioni e di quel che le provoca, è il peccato originale e il rifiuto di obbedire ai comandamenti di Dio»!18. Non si capisce perché egli abbia scelto proprio questa spiegazione, trascurandone altre, allora più diffuse e forse più significative come, per esempio, la cattiva influenza degli astri, la volontà divina di punire i peccati (attuali) e così via... Si può avere il dubbio che il Mousnier abbia voluto esercitare il suo humour a spese dell’accorato scrittore secentesco, ai cui occhi si presentava un allarmante panorama di sciagure e di malvagità. Comunque sia, il richiamo alla punizione dell’orgoglio e della superbia dell’uomo non gli impedisce di svolgere l’analisi su un piano meno metafisico e di riconoscere che se, chiamando in causa il peccato originale, possiamo comprendere «le pourquoi des phénomenes», non siamo tuttavia dispensati dal cercare «le comment». Il fatto preponderante e decisivo appare, a questo punto, la fiscalità dello Stato e il contenuto fondamentale e comune delle rivolte – con qualche sfumatura non molto importante tra i vari casi – è l’antifiscalismo. Il Mousnier esclude che tutta l’agitazione sociale della metà del secolo abbia avuto un apprezzabile contenuto di novità politica e ideale e di opposizione positiva ai progressi dell’assolutismo ed afferma, tenendo presente soprattutto l’esperienza francese, che l’insofferenza antifiscale fu promossa, incoraggiata e strumentalizzata dai ceti più reazionari, dall’aristo17  Cfr. R. Romano, Tra XVI e XVII secolo. Una crisi economica: 1619-1622, in «Rivista storica italiana», 1962, 3, e Id., Encore la crise de 1619-22, in «Annales E.S.C», 1964, 1. 18  R. Mousnier, Fureurs paysannes, Paris 1967, p. 308.

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crazia e dai detentori di privilegi amministrativi e nobiliari. L’antifiscalismo appare qui come il segno distintivo e caratteristico della mancanza di programmi politici concreti, la manifestazione di uno spirito agitatorio anacronistico e senza sbocco. Il Mousnier attribuisce grande importanza (negativa) al fatto che le rivolte non furono «spontanee» e afferma che la propaganda e l’eccitazione degli animi da parte di ristretti gruppi ne furono fattori primari e cause determinanti. Egli vorrebbe così ridurre il fenomeno, macroscopico e diffuso, a proporzioni ristrette, ad affare di «gruppetti», ed escludere, quindi, che le rivolte possano essere interpretate come il momento rivelatore di una larga crisi dei rapporti sociali. In realtà, malgrado la caratteristica tendenza a sopravvalutare la sobillazione come fattore determinante dei disordini sociali e l’arcaica visione della rivolta come «intrigo», il problema rimane aperto in tutta la sua portata. La questione del rapporto tra masse e gruppi dirigenti non può essere impostata in modo così meccanico e semplicistico neanche per il secolo XVII. La fame, secondo Mousnier, spingeva il «popolo» a dare credito alle sobillazioni, da qualunque parte provenissero, ed a mettersi al seguito ora dell’uno, ora dell’altro gruppo ribelle, indifferente alla loro collocazione sociale e politica. In una materia così complessa e difficilmente penetrabile dall’indagine storica, non posso che riferirmi al caso che conosco più da vicino, quello del Regno di Napoli. Tenendo conto di questa esperienza particolare mi pare di poter affermare: 1) che in un mondo in cui le strutture mentali erano così rigide ed i legami associativi, ­all’interno delle singole comunità, così stretti, gli spostamenti di fronte non ­erano operazioni semplici e casuali; 2) che gli anni dalla fine del Cinquecen­ to alla metà del secolo successivo appaiono come un periodo in cui l’egemonia ed il patronato dei feudatari sul mondo contadino subirono incrinature più profonde che non quelle provocate dagli occasionali e momentanei tumulti della fame che erano, come è stato notato19, quasi inevitabilmente appannaggio della vecchia struttura della società. Fatti che dimostrano accentuate tensioni all’interno del mondo feudale-contadino o un mutamento relativamente profondo e duraturo dell’atteggiamento di strati contadini verso i signori sono l’eccezionale esplosione di banditismo della fine del Cinquecento e   Schöffer, Did Holland’s golden age coincinde with a period of crisis?, cit., p. 91.

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l’appoggio che esso trovò largamente nel mondo contadino, gli episodi di rifiuto del pagamento di censi e prestazioni feudali (sia laici, sia ecclesiastici), la presa che alcune manifestazioni di magismo o profetismo rivoluzionario ebbero tra le popolazioni contadine, il carattere popolare del movimento «demanialista» (tendente a sottrarre legalmente i comuni al dominio feudale ed a rivendicarne il passaggio alla diretta dipendenza del sovrano) e probabilmente anche l’ampia diffusione di un «mito» antifeudale della regalità. Sembra, dunque, di poter individuare un lento distacco del mondo contadino dalla subordinazione psicologica e ideologica alle classi signorili, una tendenza che sfociò nella dominante partecipazione contadina alla rivolta antifeudale del 1647-48 e che incoraggiò i deboli gruppi di ceto medio ad assumere posizioni rivoluzionarie. Il processo poté anche non giungere fino in fondo, interrompersi, non avere ulteriori apprezzabili svolgimenti, nel caso napoletano, per oltre un secolo e mezzo; ma non fu casuale e non si verificò senza un qualche mutamento di idee e di modi di pensare. Ma la discussione sulla «spontaneità», per quanto, a certe condizioni, possa essere interessante, può anche fuorviare dal centro della discussione, che riguarda, oltre i movimenti delle masse e le cause del loro disagio, anche e soprattutto l’azione e l’orientamento dei ceti superiori di fronte a crisi più o meno profonde del sistema di potere. Le rivolte popolari (contadine o di «plebe urbana») non potevano infatti, in quanto tali, creare nessuna prospettiva di «mutazione di Stato»: il loro significato storico e la loro effettiva incidenza devono essere valutate necessariamente in rapporto ad un intreccio, ad un «gioco» politico-sociale che si svolgeva a livello dei ceti superiori della società20. L’atteggiamento di questi ceti nei confronti o nell’occasione delle rivolte è, quindi, il problema principale per lo storico. Come gli uomini di governo del tempo vedevano bene, il pericolo consisteva essenzialmente, al di là dei danni immediati che le rivolte popolari potevano provocare, nell’eventuale consenso, più o meno attivo e operante, di determinate élites sociali politicamente evolute. La preoccupazione dei governi riguardava soprattutto quegli strati dell’aristocrazia che si opponevano al rafforzamento dello Stato ed alla concentrazione 20  Cfr. J.H. Elliott, Revolution and continuity in early modern Europe, in «Past and Present», 1969, 42, p. 52 (trad. it., in Le origini dell’Europa moderna, a cura di M. Rosa, Bari 1977).

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del potere, e che erano in condizione di poter approfittare di qualunque momento di confusione e di indebolimento del potere centrale per affermare i propri interessi particolari o per assumere l’iniziativa politica. Sotto questo aspetto le insurrezioni popolari valevano quasi quanto una crisi dinastica o un qualunque contrasto in seno alla casa regnante o al governo. La lunga tradizione di congiure aristocratiche e di lotte civili promosse da gruppi nobiliari (le cui motivazioni sono state spesso idealizzate dalla storiografia, ma che furono anche legate, in parte, ai movimenti di idee del Rinascimento e della Riforma), nonché il peso che nella vita sociale conservavano gli apparati clientelari dei grandi signori, le complesse ramificazioni delle loro parentele ed i loro legami internazionali, spingevano i sovrani ed i loro ministri a ritenere che reali minacce alla stabilità degli Stati non potessero provenire che dall’iniziativa di queste forze. Dominanti nel secolo XVI, gli stessi princìpi e orientamenti trovarono largo campo di applicazione nel complicato intreccio di cospirazioni, congiure e sedizioni che accompagnarono lo svolgimento della guerra dei Trent’anni. Le esperienze secentesche introdussero, però, qualche elemento nuovo nella visione che le forze politiche avevano della «mutazione di Stato» e dimostrarono che la congiura aristocratica, come fattore di rivoluzione, tendeva a perdere la preminenza assoluta che aveva avuto nel passato e a diventare, anzi, un fatto anacronistico e relativamente marginale. Il numero delle testimonianze di una nuova e larga riflessione sull’idea di rivoluzione, nella prima metà del Seicento, è grandissimo e non ha riscontro in nessun’altra epoca precedente il 1789. L’interesse di scrittori e lettori si esprime soprattutto a livello del racconto storico degli episodi rivoluzionari (da quello fiammingo agli avvenimenti della metà del secolo), attraverso la frequenza e rapidità delle traduzioni, attraverso la forte curiosità per gli avvenimenti che si svolgono al di là dei confini nazionali. Ch. Hill ricorda l’influenza che ebbero su alcuni capi dell’opposizione inglese la Historia della guerre civili di Francia (1630, tradotta in inglese nel 1647) di Arrigo Caterino Davila ed altri testi storici sulla Francia e sulle Fiandre21; non minor fortuna ebbero alcune delle molte opere sulla sollevazione di Napoli (Giraffi, Assarino), quelle del Bentivoglio e dello Strada sulle Fiandre, del Bisaccioni sulla   Hill, Intellectual origins of the English Revolution, cit., pp. 278-283.

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Catalogna, del Birago Avogadro ecc. Questa intensa circolazione di informazioni (e di idee) – i cui documenti sono talvolta considerati ingombranti detriti della produzione letteraria22 – se spesso non fu in grado di dare il giusto rilievo ai grandi motivi ispiratori dei movimenti religiosi o politici, ci dà però la possibilità di constatare, pur attraverso deformazioni e tendenziosità, il mutamento della realtà e della visione politica del fenomeno rivoluzionario; ed è il loro valore di informazione e di formazione politica e ideologica, in un momento di inquietudine sociale e di diffusi presentimenti di «mutazione», che spiega la grande diffusione di quei testi. L’identificazione esclusivistica tra classi aristocratiche e coscienza politica delle comunità nazionali apparve allora sempre meno plausibile; fu un vero e proprio mutamento di clima storico, al quale la rivoluzione inglese diede certamente un contributo decisivo, ma che già aveva avuto un punto di riferimento politico-ideale di grande importanza nell’esperienza fiamminga. La stessa memorialistica aristocratica, pur con la sua ottica deformante, fornisce abbondanti indicazioni in questo senso, poiché da allora si vennero accentuando l’enfasi moralistica, il disprezzo degli «ignobili», la preoccupazione per le eventuali iniziative politiche dei ceti inferiori. La constatazione del mutamento di clima indusse in qualche caso anche i governi, nel corso della guerra dei Trent’anni, a rivedere i loro metodi di azione sul «fronte interno» degli avversari. Per esempio, molti agenti e diplomatici che operavano al servizio del governo francese e che avevano puntato principalmente sulle congiure aristocratiche per promuovere la lotta politica all’interno dei domini spagnoli, facendo largamente ricorso anche ad iniziative di tipo «terroristico» (altrettanto largamente praticate, del resto, anche dalla parte opposta) si trovarono spiazzati di fronte agli avvenimenti della metà del secolo. Dopo lo scoppio della rivolta antispagnola a Napoli, Mazzarino si rese chiaramente conto della necessità di un mutamento della linea di condotta della Francia verso il movimento napoletano di opposizione contro la Spagna, e in particolare dell’opportunità di rispettare e valorizzare la sua autonomia e, in qualche misura, anche il suo orientamento antifeudale. Il suo tentativo di revisione (che sarebbe 22  Cfr. S. Bertelli, Storiografi, eruditi, antiquari e politici, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, vol. V, Milano 1967, pp. 386-387.

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interessante mettere a confronto con i Mémoires del duca di Guisa) suscitò critiche e recriminazioni che ebbero poi larghi riflessi negli studi storici sull’opera e la figura del cardinale23. Non meno contrastanti con il modo tradizionale di considerare i pericoli di rivoluzione furono le esperienze della Catalogna e della Francia; e sembra che anche in Russia, nel corso delle insurrezioni contadine della prima metà del Seicento, il ruolo della piccola e media borghesia cittadina abbia avuto un qualche rilievo24. La scoperta, o la conferma su più larga scala, che la minaccia di «mutazione di Stato» poteva provenire da forze diverse da quelle della nobiltà, qualunque fosse il grado di omogeneità sociale e di capacità politica che esse avevano raggiunto, fu, dunque, uno dei motivi più importanti di novità della crisi rivoluzionaria della metà del secolo. È indubbio, d’altra parte, che la solidarietà sostanziale della nobiltà (solidarietà permanente o riacquistata a prezzo di determinate concessioni)25 consentì alle monarchie dell’Europa continentale di superare il burrascoso tornante della metà del secolo. Anche per la 23  Cfr. soprattutto A. Chéruel, Histoire de France pendant la minorité de Louis XIV, Paris 1879, e, per la tradizione antimazzariniana, G. Baguenault de Puchesse, Le marquis de Fontenay et son ambassade à Rome en 1647 et 1648, in «Revue des questions historiques», 1874; J. Loiseleur, G. Baguenault de Puchesse, L’expédition du duc de Guise à Naples. Lettres et instructions diplomatiques de la Cour de France (1647-48), Paris 1875; J. Loiseleur, Mazarin et le duc de Guise, in Ravaillac et ses complices, Paris 1873. Una relazione sull’azione politica francese a Napoli, di cui probabilmente è autore lo stesso Mazzarino, è stata pubblicata dallo Chéruel nell’appendice al secondo volume del Journal d’Olivier Lefèvre d’Ormesson et extraits des Mémoires d’André Lefèvre d’Ormesson, Paris 1861. 24  Cfr. N.E. Nosov, La città russa nel secolo XVI (politica e tendenze economiche), relazione al IV Convegno degli storici italiani e sovietici, Roma 25-26 ottobre 1969: «Le esigenze economiche di sviluppo del paese scalzavano gli ostacoli che ponevano loro lo Stato feudale della servitù della gleba e l’aristocrazia russa, fedele custode dei suoi interessi. Questi volevano costringere la Russia contadina ad essere soltanto ‘rurale’ e soltanto feudale, ma la Russia non lo voleva, come dimostrò la grande guerra contadina dell’inizio del secolo XVII, in cui i servi, i contadini e gli abitanti delle città combatterono fianco a fianco per il raggiungimento di obiettivi comuni: l’abolizione dell’ordinamento feudale della servitù della gleba sia nelle campagne che nelle città». 25  P. Deyon, À propos des rapports entre la noblesse française et la monarchie absolue pendant la première moitié du XVIIe siècle, in «Revue Historique», 1964, 2, ha notato che l’autorità di governo permise che si svolgesse in parecchie province «un effort de réorganisation seigneuriale gravement dommageable aux intérêts des paysans».

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Francia, dove si ebbero forse i casi più consistenti di opposizione aristocratica, il raccordo tra nobiltà e monarchia fu un fattore decisivo di superamento della crisi. Secondo il Deyon, alla «docilité nouvelle» della nobiltà contribuì la garanzia data dal sovrano di salvaguardia dei privilegi e di stabilizzazione del sistema26. La stessa solidarietà tra monarchia e nobiltà permise il soffocamento più o meno rapido delle ribellioni in Italia, Spagna, Russia. Di fronte a questo fatto sostanziale, gli episodi di ribellione anarchica di gruppi o di singoli rappresentanti dell’aristocrazia non possono non essere ridimensionati. La complessità delle spinte sociali e politiche e dei tentativi di strumentalizzare un diffuso stato di esasperazione è un carattere distintivo dei movimenti insurrezionali degli anni 1640. Il loro contenuto politico-ideologico è più confuso, sia nel confronto con le successive esperienze rivoluzionarie, nelle quali gli elementi progressivi sarebbero divenuti dominanti, sia rispetto alle rivolte del Cinquecento, alle quali le motivazioni religiose avevano dato spesso una parvenza di maggiore omogeneità e unità. Per diverse ragioni (diverse da paese a paese) una parte della storiografia è stata indotta in passato a sciogliere il groviglio in senso univoco: la presenza dell’aristocrazia nel complicato quadro dei ­movimenti di opposizione di quel momento storico è stata sopravvalutata a scapito dei motivi antifeudali che in parte li ispirarono o della partecipazione dei ceti medi. Un criterio non casuale per valutare il grado di importanza delle varie componenti delle rivolte secentesche presuppone una conoscenza più ampia e approfondita di quella che ancora oggi abbiamo dello sviluppo economico, dei rapporti sociali, della coscienza politica e degli orientamenti ideali del periodo. Tuttavia, la tendenza a sopravvalutare l’insubordinazione di circoscritte frange aristocratiche è già da qualche tempo meno rilevante che in passato. Si può forse dire che il relativo mutamento dell’angolo visuale è dovuto principalmente al fatto che le ricerche e le discussioni, pur lasciando molte questioni insolute, da una parte, hanno meglio illuminato il ruolo dominante che la nobiltà ha con26  Nel caso della Francia l’agitazione nobiliare ottenne «certains compensations et certains résultats (...). Derrière la façade de l’autorité absolue de Louis XIV, il convient d’imaginer des privilèges sauvegardés, cette société temporairement stabilisée» (Deyon, À propos des rapports entre la noblesse française et la monarchie absolue, cit., pp. 354-355).

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servato anche durante il periodo assolutistico, dall’altra, hanno dato il giusto rilievo al problema delle precondizioni del capitalismo nella società europea del tardo Cinquecento e del secolo successivo. Da qui è derivata l’esigenza di una più approfondita analisi dei tentativi, fatti durante quel periodo storico, di elaborare una visione nuova della gerarchia sociale e di svolgere su un terreno più ampio temi che già si erano affacciati in seno all’Umanesimo ed al movimento protestante. La revisione dei valori sociali cominciò allora ad essere fatta non più soltanto sul piano culturale e morale (distinzione o contrapposizione tra la «virtù», come complesso di qualità individuali, e la nobiltà di sangue) ma anche con un preciso riferimento a quella parte del Terzo stato (popolo, ceto civile) che era cresciuta in ricchezza, cultura, e «dignità». Impegnata a difendere lo spazio conquistato entro una società in cui il potere feudale era dominante, essa cominciava a «rivendicare una posizione di eguaglianza, se non di supremazia nei confronti del Secondo stato»27. Per un aspetto, l’affermazione di dignità era ancora indirizzata verso l’inserimento nelle file dell’aristocrazia; per un altro, coincideva con uno sforzo di elaborazione di nuove idee sociali e politiche, nelle quali si configurava l’aspirazione dell’«uomo comune», non nobile, a partecipare al potere come forza distinta e autonoma. Se il primo orientamento, attraverso il quale la parte più ricca e potente della borghesia contribuì nell’età moderna al mantenimento della ­gerarchia sociale, ebbe una funzione fondamentale nel secolo XVII28, il secondo non è storicamente meno importante, in quanto momento del processo di formazione di progetti di riforma o di una nuova coscienza rivoluzionaria. Il fatto nuovo fu, anzi, la tendenza di determinati strati del ceto medio ad affermare la propria autonomia, tendenza che spesso si manifestò sotto la forma tradizionale 27  C. Vivanti, Le rivolte popolari in Francia prima della Fronda e la crisi del secolo XVII, in «Rivista storica italiana», 1964, 4, p. 966. Secondo il Vivanti, questa tendenza, già anticipata da Etienne Pasquier, si rivela chiaramente alla fine delle guerre di religione ed è attestata, oltre che dal Rivault, dal Loyseau, dal Leschassier, dal Turquet, anche «all’interno di quelle correnti di ‘pacificatori’ religiosi – per lo più uomini di robe – che, nel tentativo di raggiungere una conciliazione ecclesiastica tra cattolici e riformati, fondata sui princìpi gallicani, non trascurarono di considerare l’eccezionale aumento di prestigio e di reale potere che sarebbe stato assicurato all’ordine parlamentare dal loro disegno» (cfr., a questo proposito, Id., Lotta politica e pace religiosa in Francia fra Cinque e Seicento, Torino 1963, pp. 132-186). 28  Schöffer, Did Holland’s golden age coincinde with a period of crisis?, cit., p. 102.

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della difesa corporativa e del consolidamento di posizioni locali, di «privilegi», di conquiste raggiunte all’interno della struttura feudale, ma che giunse anche ad una più generale rielaborazione di valori in funzione antinobiliare ed a tentativi di critica istituzionale che si orientarono sia nel senso di un antiassolutismo e di un costituzionalismo che si richiamavano spesso a modelli repubblicani (Province Unite, Venezia)29, sia nel senso più moderato della concezione riformistica della monarchia. «Fino a quando – dichiarava un pamphlet del 1646 – la nobiltà in Francia sarà potente, non ci sarà nulla da sperare per l’uomo comune»30. Un aspetto dell’impegno di autodefinizione dei ceti medi professionali, intellettuali ed economici fu il rifiuto, comune ad una parte della pubblicistica «popolare» tra la fine del Cinque e la metà del Seicento, della tradizionale visione del Terzo stato come entità giuridico-politica unica e indifferenziata, la parte non nobile della società. Analizzando i trattati di Ch. Loyseau, il Poršnev ha messo giustamente in rilievo l’insistenza sulle differenze all’interno del Terzo stato, sulla distinzione tra «popolo» e «plebe», interpretandola però in modo ideologico e negativo come la prova di una tendenza della borghesia a definire i suoi limiti soltanto «dal lato in cui si manifestava 29  J.H. Elliott ha notato giustamente che il costituzionalismo fu spesso, nell’età moderna, un’utile insegna per la difesa «of an exclusive cast» e che, tuttavia, in certe circostanze era possibile che la difesa delle «libertà» sfociasse nella difesa della libertà. Il caso delle Fiandre è forse il primo in cui strumenti ideologici elaborati dalle classi dirigenti tradizionali furono adoperati da forze più ampie e per obiettivi più generali: «La patrie, intuita da Guglielmo d’Orange, era qualcosa di più di una società in cui i diritti e le libertà dei privilegiati fossero al sicuro dall’esercizio di un potere arbitrario. Era anche una società che fra le sue libertà annoverava la libertà di coscienza; una società essenzialmente aperta, in cui gli uomini erano liberi di andare e venire e istruirsi senza restrizioni imposte dall’alto» (Revolution and continuity, cit., pp. 51-52). Anche in Inghilterra la rivendicazione del rafforzamento dei poteri del Parlamento di fronte alla corona, durante la prima metà del secolo XVII, ebbe come fondamento ideologico-giuridico il richiamo alle antiche costituzioni (cfr. Hill, Intellectual origins, cit., passim); «Coke donna aux Anglais un mythe de la constitution anglaise» (J. Gwynn Williams, L’Angleterre au XVIIe siècle, in «Revue Historique», 1971, 1). Per il Mousnier il tentativo francese di «ériger une assemblée distincte du Roi, avec le pouvoir législatif, le contrôle de l’exécutif» durante la Fronda, fu una «révolution rétrograde» (Comment les Français du XVIIe siècle voyaient la constitution, in «XVIIe siècle», 1955, 25-26, ripubblicato in La plume, la faucille et le marteau. Institutions et société en France du Moyen Age à la Révolution, Paris 1970). 30  Cit. in J.W. Smit, The Netherlands and Europe in the seventeenth and eighteenth centuries, in Britain and the Netherlands in Europe and Asia, Glasgow 1968.

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più chiaramente la sua natura di classe sfruttatrice, cioè dal lato del popolo»31. In realtà, il significato di quella posizione è più generale e sottintende o anticipa una complessiva revisione dei princìpi che regolavano i rapporti tra le classi; è la via obbligata che la borghesia doveva seguire per definirsi tout court come portatrice di determinati valori e qualità sociali. Pochi studiosi sarebbero disposti a riconoscere – facendo eccezione per la rivoluzione inglese – che la crisi rivoluzionaria degli anni 1640 ebbe un contenuto ideale ed una preparazione intellettuale lunga e profonda. Del resto, a lungo non diverso fu il giudizio sulla stessa rivoluzione inglese: «One fact on which there is a wide agreement among historians – scriveva Ch. Hill nel 1965 – is that English Revolution had no intellectual origins»32. Nel caso della Francia, apparve quasi come una scoperta il tentativo del Poršnev di definire attraverso le opere del Loyseau «i tratti essenziali della borghesia francese che hanno determinato il suo comportamento durante la Fronda»33 e sono rimaste quasi senza seguito le pagine dedicate dal Mousnier, nel 1955, a Louis Turquet de Mayerne34. Naturalmente il discorso non può essere limitato a determinati settori giuridico-politici della cultura, ma riguarda il complessivo movimento delle idee e soprattutto quel grande centro di irradiazione che fu la rivoluzione scientifica, le cui influenze sulla riflessione politica, sociale, economica, religiosa cominciano da qualche tempo ormai a venire più chiaramente in luce. La possibilità di trovare qui le premesse di un clima ideale che ha favorito i tentativi degli anni 1640 ed ha avuto in essi qualche riflesso, non è che un aspetto della questione. Si tratta invece della possibilità di non considerare il multiforme e spesso confuso movimento di opposizione della prima metà del secolo XVII (anche con le sue rivolte) come una soluzione di continuità nella linea che congiunge il Rinascimento alla fioritura illuministica. Certo, l’analisi microscopica delle singole rivolte locali e l’allargamento geo31  B. Poršnev, Les soulèvements populaires en France de 1623 à 1648, trad. fr., Paris 1963, p. 545. 32  Hill, Intellectual origins, cit., p. 1. 33  Poršnev, Les soulèvements populaires en France de 1623 à 1648, cit., pp. 538-545. 34  R. Mousnier, L’opposition bourgeoise à la fin du XVIe siècle et au début du XVIIe siècle: l’œuvre de Louis Turquet de Mayerne, in «Revue Historique», 1955, ripubblicato in La plume, la faucille, cit.

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grafico del campo di osservazione alla ricerca della «causa comune» continuano a non sembrarmi le vie migliori per chiarire questo punto. Le suggestioni più importanti vengono invece dalla considerazione sempre meno settoriale del movimento scientifico e dei suoi legami con specifiche istanze ideologico-politiche, oltre che con lo sviluppo generale della società; dalla riscoperta e valorizzazione delle correnti di pensiero «democratico», in parte legate all’influenza della rivoluzione fiamminga ed agli sviluppi del pensiero politico ugonotto, ma presenti anche nel mondo della Controriforma; dall’estensione della ricerca sul pensiero politico al di là del campo, spesso poco significativo, della teoria pura, alla storiografia, all’attività scientifica, alla riflessione religiosa, allo stesso comportamento pratico dei diversi gruppi sociali. Anche in questo caso, notiamo per inciso, il contributo della New Cambridge Modern History (con saggi di R. Mousnier su Exponents and critics of absolutism e di A.C. Crombie e M.A. Hoskin su The scientific movement and its influence) non esce dalle linee più convenzionali. Il Mousnier, pur consapevole che lo studio del pensiero politico non deve restringersi alle idee dei teorici e che dobbiamo cercare di comprendere «che cosa pensavano dell’assolutismo uomini politici, funzionari e membri dei diversi gruppi sociali, quali idee e quali slogan spingevano gli uomini ad agire e quali rapporti essi avevano con l’ambiente»35, assumeva poi come motivo dominante del suo saggio il discorso sulla «ragion di Stato» e sulle formule giuridiche dell’assolutismo e manteneva come criterio fondamentale di distinzione tra correnti e tendenze il richiamo all’uno o all’altro dei grandi classici del pensiero politico dell’antichità e del Medioevo. A proposito della polemica che si è svolta tra Mousnier e Poršnev sui soulèvements che hanno preceduto la Fronda, è stato osservato che uno dei limiti di quella discussione è stato il continuo riferirsi, implicitamente o esplicitamente, agli eventi del 178936. L’osservazione mi sembra giusta, in quanto si riferisce alla tendenza dei due autori ad assumere come modello la rivoluzione dell’89 ed a guardare alla luce di essa le ribellioni del secolo precedente. Anche J.H. Elliott37 si è posto il   Id., The decline of Spain, cit., p. 104.   Vivanti, Le rivolte popolari, cit., p. 973. 37  Elliott, Revolution and continuity, cit. 35 36

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problema dell’influenza deformante che l’assunzione più o meno consapevole di quel modello ha avuto nella ricostruzione storica dei movimenti rivoluzionari della prima età moderna. Lo stesso si sarebbe potuto dire per i movimenti di riforma politica e sociale: il modello dell’Illuminismo veniva assunto in questo caso in modo anche più rigido, fino a rendere difficile una giusta valutazione e comprensione di tendenze e tentativi di riforma del secolo precedente, dalla fine dell’Umanesimo all’inizio del deismo. Sebbene gli storici, divenuti più sensibili ai suggerimenti metodologici dell’etnologia e dell’antropologia culturale, siano più cauti e meno liquidatori nei confronti di atteggiamenti e modi di espressione «arretrati», lo schema di rivoluzione che si è formato dopo il 1789 ha continuato ad ostacolare la comprensione dei movimenti rivoluzionari del secolo XVII. Nel periodo che stiamo esaminando, le rivendicazioni e le esigenze di mutamento tendono ad iscriversi entro formule di ritorno al passato e di difesa della tradizione. Nel linguaggio politico secentesco parole come «novità» o «innovazione» hanno un significato generalmente negativo, e la «mutazione di Stato» può essere invocata soltanto a condizione che venga formulata come un ritorno all’origine, ad un originario e più giusto modo di essere che si è via via corrotto e deformato. Se quello è lo schema mentale, se la società è dominata «dall’idea non di progresso ma di un ritorno a un’età dell’oro esistita nel passato»38, non è però affatto da escludere che dentro la cornice del richiamo al passato vi siano reali contenuti innovatori e di riforma. Si tratta, infatti, pur sempre di un tradizionalismo che aveva un carattere del tutto particolare: la sua componente essenziale era la deformazione e la mitizzazione del passato, intricata selva di punti di riferimento, miniera di ideali che non aveva allora né rigidi confini né ritmi obbligati, quali la scienza storica sette-ottocentesca le ha poi conferito. Coerente con un dato della mentalità comune potentemente condizionata dal dominio sociale della nobiltà e dall’egemonia culturale della Chiesa, il riferimento al passato ebbe in molti casi, più o meno consapevolmente, la funzione di aggiungere forza ed efficacia pratica a proposte e idee nuove. La contraddittorietà di aspirazioni al rinnovamento che si presentano sotto l’aspetto del ritorno al passato è senza dubbio un segno dei tempi, ma non un ostacolo insuperabile al movimento e all’azione di riforma.   Ivi, p. 43.

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Vi è qui un’evidente continuità rispetto al secolo precedente, che giustifica e impone, nella ricerca di caratteri peculiari delle rivolte del Seicento, il confronto tra questi due momenti storici. J.H. Elliott ha affermato che la convulsione rivoluzionaria degli anni 1640 non è, in quanto tale, senza precedenti e che una convulsione altrettanto diffusa e quasi generale si può riscontrare nella decade che comincia col 1560: sette «rivoluzioni contemporanee», il cui numero aumenterebbe sensibilmente se si estendessero di qualche anno i limiti cronologici e se si aggiungessero alla lista di Elliott (che comprende le rivolte della Scozia, del Vaudois, delle Fiandre, della Corsica, dei moriscos di Granada, del nord dell’Inghilterra e l’inizio delle guerre di religione in Francia) altri episodi, limitati ma forse non meno significativi. Domandarsi perché gli studiosi non hanno cercato di mettere insieme questi episodi sotto il titolo di una «rivoluzione generale degli anni 1560», come hanno tentato di fare per gli anni 1640 significa senza dubbio porre un problema interessante. Può darsi che si debba arrivare ad una conclusione di questo genere: la prima fu una convulsione anche più ampia nel tempo e nello spazio, che attraversò gran parte della seconda metà del Cinquecento e le cui ultime propaggini giunsero fino alla cosiddetta «congiura» calabrese del Campanella. È certo però che tra i due momenti, cinquecentesco e secentesco, vi sono dei nessi da mettere in luce e che la prima esperienza può servire a spiegare alcuni aspetti e caratteri della seconda. Basta pensare alla vasta e duratura influenza della rivoluzione dei Paesi Bassi, i cui moduli tattici (professione di lealtà al sovrano, mentre si attaccano i suoi ministri, uso del costituzionalismo e dell’autonomismo, che erano propri della tradizione politica dei ceti privilegiati, per più ampie e non corporative rivendicazioni di libertà, richiamo alle leggi di natura, resistenza sul terreno fiscale) si ritrovano nella maggior parte degli episodi di ribellione del secolo successivo39. In generale si può avere l’impressione che certi elementi di tradizionalismo formale siano anche più accentuati nel Seicento. Nel valutare la loro permanenza bisogna tener conto delle repressioni (e che tipo di repressioni erano quelle della prima età moderna!) che accompagnarono e seguirono le insurrezioni e i tentativi degli ultimi decenni del secolo XVI. Sconfitte e repressioni spesso costringono ad attenuare la fiducia nella possibilità di un rovesciamento rapido e   Hill, Intellectual origins, cit.

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radicale dell’ordine esistente, a condurre una più attenta e prudente valutazione di circostanze e possibilità ed una ricerca apparentemente più ancorata alle tradizioni e meno esclusivista. Forse, però, la questione sollevata da J.H. Elliott (perché non si riconosce carattere di movimento generale alle rivolte degli anni 1560?) potrebbe essere prospettata anche in modo diverso: perché, in generale, si tende ad attribuire maggiore contenuto ideale e politico alle rivolte della seconda metà del Cinquecento rispetto ai movimenti del secolo successivo? Prendiamo come esempio il confronto proposto da E. Le Roy Ladurie, che si riferiva specificamente al Languedoc, ma con lo sguardo a tutto l’insieme dei soulèvements: L’azione popolare si modifica dopo i grandi movimenti del 1560-1580. Allora – oltre l’imposta – la decima, talvolta la rendita fondiaria, spesso il sistema signorile nel suo complesso erano chiamati in causa e oggetto di un lungo attacco frontale. Illuminismo a parte, certi episodi prefiguravano l’89... Dopo il 1600, più niente di tutto questo. La società degli ordini, nobili e clero, la supremazia dei proprietari e dei creditori, le diverse rendite, decime e censi sono rispettati; in effetti, la riforma cattolica è portatrice di saggezza sociale. Dei quattro prelievi sui contadini soltanto uno è seriamente contestato: è quello del fisco, taglia e gabella. Questo orientamento unilaterale della lotta popolare si spiega anzitutto, dal tempo di Richelieu, con l’aumento, anch’esso unilaterale, delle imposte, con la loro sconvolgente progressività, quanto al prodotto complessivo. Aggiungiamo che da Gaston d’Orléans a Pierre Poujade certe costanti permangono: la lotta contro il fisco permette, allora come oggi, di realizzare, senza eccessivi sforzi di riflessione politica, l’unità, talvolta nella confusione, dei gruppi sociali, dalla nobiltà alla plebe. La crescita dell’ossessione fiscale va di pari passo, nelle rivolte che precedono la Fronda, con l’impoverimento strategico40.

Il giudizio sulle rivolte secentesche non si discosta qui sostanzialmente da quello che pone al centro del discorso, con un segno negativo, l’antifiscalismo; ma con alcune particolarità che conviene sottolineare. La prima, che l’antifiscalismo viene considerato non già semplicemente come il segno di una «mancanza», bensì di una «per40  E. Le Roy Ladurie, Les paysans de Languedoc, Paris 1966, vol. I, p. 495 (trad. it., Bari 1970).

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dita» di contenuto politico e ideale, come un appauvrissement stratégique rispetto alle agitazioni ed alle lotte della fine del Cinquecento. «Dobbiamo parlare di regressione, di oscuramento della coscienza politica?»41. La risposta è esplicita in tutta l’analisi, nella quale il grido ingenuo «vive le roi sans gabelle» veniva assunto a simbolo della povertà ideologica e politica della protesta e degli equivoci di una falsa solidarietà di ceti diversi. Nella ricostruzione del Le Roy Ladurie non campeggia, tuttavia, come motivo centrale, l’istigazione aristocratica ed è meglio illuminata la varietà di elementi che si intrecciano nelle rivolte. Tra l’altro, emergono alcuni dati di cui si deve tener conto nello studio della vita sociale della prima età moderna, come la funzione di centri di aggregazione e di terreno di scontro che hanno gli organismi municipali, o alcuni fenomeni non privi di interesse come la partecipazione delle donne, tigresses excitées (p. 497), alla direzione dei moti popolari. Ma che importanza ha che i promotori fossero nobili o artigiani, professionisti o religiosi, dal momento che i loro moventi erano immediati e particolaristici, contraddittori e troppo limitati per assumere un qualche valore storico? La varietà di forma e di promozioni non è che il segno della povertà di contenuti; l’interesse maggiore era dato dal materiale che alcuni di questi casi offrivano allo psicologo ed al sociologo: tutto un complesso rituale che rivelava frustrazioni profonde, conflitti istintuali, motivazioni torbide e segrete alle quali corrispondevano simboli antichi. Qui siamo fuori dagli elementi tipici del secolo, siamo di fronte a conflitti ed atteggiamenti psicologici ancestrali, permanenti, che si ritrovano largamente nella storia precedente e che sono testimoniati fin nei poemi omerici. Simili ad altri episodi cinquecenteschi (come quello di Romans del 1580, del quale il Le Roy Ladurie ha dato una splendida interpretazione) queste manifestazioni si collocano, tuttavia, in un contesto generale in cui manca una reale tensione costruttiva, una reale opposizione indirizzata, più o meno efficacemente, contro vecchie istituzioni e vecchie ingiustizie o aperta verso il futuro. Il confronto con la contemporanea esperienza inglese non faceva che confermare, secondo il Le Roy Ladurie, l’appauvrissement stratégique dell’opposizione francese: «Le aree culturali francesi e inglesi sono contrastanti. Parlare a un ribelle francese dell’epoca,   Ibidem.

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di prima o dopo la Fronda, di effettiva abolizione dei privilegi e di assemblea nazionale eletta è, mutatis mutandis, un po’ come se nel 1850 o nel 1900 si fosse proposto il socialismo agli africani»42. Il giudizio è troppo drastico e fa pensare a quella assunzione di modelli a cui prima si è fatto cenno. Lo stesso Le Roy Ladurie ricorda, a proposito della rivolta di Bordeaux nel periodo della Fronda, che il programma dell’Ormée rivendicava l’eguaglianza dei diritti e la rappresentanza popolare e che fu elaborato per diretta ispirazione di emigrati inglesi. B.F. Poršnev ha poi esaminato un largo materiale pubblicistico e di propaganda che dimostra l’interesse dell’opinione pubblica francese per gli avvenimenti inglesi: Le reazioni alla rivoluzione inglese – egli scrive – sono state particolarmente abbondanti in Francia, almeno a partire dalla fine del 1648 e durante tutto il 1649 (in una certa misura anche nei successivi anni 1650-1652). Ciò è connesso con la notevole attenuazione della censura e del controllo sulla stampa nel periodo della Fronda; le pubblicazioni che parlavano degli avvenimenti rivoluzionari in Inghilterra e che comunque ne portavano traccia divennero molto numerose. L’aspra lotta politica di classe, che si sviluppava in Francia, stimolava tutte le correnti sociali in lotta a guardare con attenzione agli avvenimenti d’oltre Manica e a manifestare la propria posizione di fronte ad essi43.

Gran parte del materiale illustrato dal Poršnev appartiene, tuttavia, ad un tipo di pubblicistica e di propaganda che restava al di qua del dibattito politico che si svolgeva allora in Inghilterra. In un certo senso, esso conferma che l’Inghilterra non ebbe allora la funzione di centro motore della crisi rivoluzionaria, e che questa fu invece il risultato di una serie di movimenti autonomi, non collegati, nessuno dei quali costituì un punto di riferimento universale. Soltanto più tardi, infatti, quando la fase rivoluzionaria fu superata, il patrimonio di idee che si era formato in Inghilterra durante la guerra civile e la dittatura di Cromwell, cominciò a diffondersi ed a preparare il terreno allo sviluppo del movimento illuministico nel continente.   Ivi, p. 643.   B.F. Poršnev, Otliki frantsuskogo obšcˇestvennogo mneija na anglihskuju bur­ žuasunju revoljutsiu [«Gli echi della rivoluzione inglese nell’opinione pubblica francese»], in Frantsija, Anglijskaja i evropeiskaja politika, Moskva 1970, p. 106. 42 43

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Le idee nate nell’Inghilterra della Commonwealth – osserva il Venturi – erano destinate a passare sul continente soltanto nella forma filosofica che diedero loro John Toland e Anthony Collins, quando si presentarono come deismo, come panteismo, come libero pensiero, come esaltazione della libertà inglese, magari come frammassoneria44.

Ma se è vero che la «rivoluzione inglese non suscitò quell’ondata ideologica che accompagna altre e posteriori rivoluzioni europee»45, è anche vero che il bagaglio ideale e politico dell’opposizione parlamentare e del repubblicanesimo inglese – pur così avanzato rispetto ad altri movimenti politici contemporanei – è maturato su un terreno largamente comune alla cultura e all’esperienza politica dell’Europa occidentale. Si possono fare precisi riferimenti ad almeno tre momenti della formazione di una moderna «coscienza rivoluzionaria europea»: l’esperienza dei Paesi Bassi (alla quale molti si richiamavano anche dopo la metà del secolo XVII: William Petty, per esempio, nella sua Political Arithmetic, sottolineava, a proposito delle Province Unite, lo stretto rapporto tra libertà di coscienza e sviluppo economico), le teorie politiche degli ugonotti francesi, la rivoluzione scientifica (con particolare riguardo al contributo che era venuto dai centri italiani della cultura scientifica)46. Livelli diversi di elaborazione politica, quindi, e iniziative rivoluzionarie non collegate, sulla base di situazioni che rimanevano vicine, confrontabili; e non estraneità e incomunicabilità. Ma l’antifiscalismo fu, dopotutto, il Leitmotiv delle rivolte. Il significato della lotta contro la fiscalità rimane così un problema centrale. La sua sbrigativa riduzione ad un fenomeno di poujadisme47, ad una pura e semplice manifestazione di arretratezza politica e di vuoto ideologico, non impedisce di cogliere, all’interno di esso, una realtà più complessa che non la semplice protesta fiscale? Mi sembra, intanto, che non vi siano motivi sufficienti, in linea di principio, per dare alla lotta contro le decime ecclesiastiche un valore ideale ed un

  Venturi, Utopia e riforma nell’illuminismo, cit., p. 64.   Ibidem. 46  Come lo Hill ha affermato (Intellectual origins, cit., p. 278), ci sarebbe un buon libro da scrivere a proposito dell’influenza di Venezia e di Padova sull’Inghilterra prerivoluzionaria. 47  Le Roy Ladurie, Les paysans de Languedoc, cit., pp. 404, 495. 44 45

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significato programmatico che la distinguono nettamente dall’opposizione al fisco regio. Come quella antifiscale, la lotta contro le decime e contro certi privilegi della Chiesa è stata spesso motivo e presupposto di equivoci politici, di confusione e di falsa unità di gruppi sociali diversi. L’aspetto più importante del problema è però un altro: l’ondata di lotta antifiscale corrisponde non ad un puro e semplice aggravamento del peso fiscale (fenomeno universale nella prima metà del Seicento), ma ad una nuova fase di riadattamento del sistema, collegata strettamente con la effrayante progressivité del carico tributario. La prima metà del Seicento non è solo il periodo di uno sconvolgente aumento della fiscalità, ma è anche il periodo d’oro delle speculazioni sulla finanza pubblica e, per questa via, di una trasformazione decisiva e di un ampliamento dell’aristocrazia feudale con l’immissione di operatori finanziari più o meno grandi, il cui significato, ai fini della sopravvivenza e del consolidamento del sistema, non può essere sottovalutato. È un movimento di rias­ setto della società e dello Stato, col quale una parte della nobiltà tradizionale stenta a collegarsi, e che ha come protagonisti principali i trafficanti sulla finanza pubblica, creditori dello Stato, grandi appaltatori di gabelle. Considerato alla luce di questa tendenza generale, che nel corso della guerra dei Trent’anni raggiunse la sua punta più alta, l’antifiscalismo di quel periodo può apparire meno povero di significato «sociale» e politico, e tutt’altro che in contrasto con una presa di posizione di carattere antifeudale. In ogni caso, si tratta di un momento storico determinato, in cui la questione della fiscalità ha un significato ben definito in rapporto con la complessiva evoluzione dei rapporti sociali. Nella maggior parte dei casi, i movimenti insurrezionali prendono di mira anche, o soprattutto, quei trafficanti, come distinto e ben individuato gruppo sociale. La sottovalutazione preconcetta dell’antifiscalismo secentesco non ha certo agevolato le indagini sulla grande influenza che l’in­ debitamento pubblico, l’aumento della fiscalità e le connesse speculazioni finanziarie hanno avuto nella struttura della società e dello Stato, ed ha impedito che anche lo studio delle rivolte venisse utilizzato per mettere in evidenza il peso che hanno avuto, nella pri­ma metà del Seicento, il rapporto tra Stato e grande finanza e l’espansione di una nuova aristocrazia finanziaria. Ancora una volta il Trevor-Roper non contribuiva all’approfondimento del problema,

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e riproponeva anzi un vecchio equivoco, quando definiva i massimi protagonisti della grande ondata secentesca di speculazioni finanziarie (dei quali indagava finemente l’atteggiamento etico-religioso nel quadro di un riesame della tesi weberiana sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo) come «i promettenti iniziatori del capitalismo moderno»48. I casi che egli indicava rientrano in un tipo di aristocrazia finanziaria la cui grande fioritura nell’epoca della guerra dei Trent’anni difficilmente si potrà collocare nella linea dello sviluppo capitalistico moderno. I Marcelis, che anticipavano denaro a Cristiano IV sugli incassi dei pedaggi del Sund e dei tributi del rame, gli Spiering, appaltatori delle dogane baltiche, Hans de Witte, che finanziò gli eserciti del Wallenstein (in pratica fornendo anticipi sui frutti dei saccheggi), il famoso Barthélemy d’Herwart, che finanziò la politica tedesca del Mazzarino, non ebbero una funzione diversa da quella che svolse Bartolomeo d’Aquino49 nell’ambito della monarchia spagnola e della società napoletana. Non c’è bisogno, in questo caso, di riprendere la disputa sul «capitalismo mercantile» per dimostrare che quel tipo di attività fu estraneo alla formazione del sistema capitalistico moderno. Personalmente, ritengo che l’indagine su questo aspetto sia assolutamente indispensabile per dare alle straordinarie tensioni degli anni 1640 l’inquadramento di cui abbisognano. Ovviamente non è nemmeno il caso di avvertire che non ho la pretesa di indicare, richiamandomi ad una linea di ricerca da me concretamente sperimentata nella ricostruzione delle origini della rivolta napoletana del 1647-49, il comune denominatore delle rivolte secentesche. Ritengo piuttosto che per questa via si possa ritrovare il contenuto più specifico e storicamente determinato di quella grande agitazione antifiscale, ricollegarla al più ampio discorso che contemporaneamente si svolgeva sulla gerarchia degli ordini, sul sistema di potere, sul rapporto tra azione di governo e sviluppo dell’economia, sulla funzione della monarchia; ricollegarla, insomma, al discorso, ancora frammentario ma ininterrotto e forse ormai più concreto del messianismo e dell’utopismo cinquecentesco, sulla riforma di istituzioni politiche e rapporti sociali.

48  H.R. Trevor-Roper, Religione, Riforma e trasformazione sociale, in Protestantesimo e trasformazione sociale, cit., p. 61. 49  Sul d’Aquino cfr. Villari, La rivolta antispagnola a Napoli, cit., pp. 119-194.

III

Storici americani e ribelli europei Malgrado la dichiarata tendenza ad affrontare la storia europea della prima età moderna in termini generali e comparativi1, gli studiosi americani non si sono dimostrati particolarmente interessati al dibattito sulla crisi del Seicento e, in particolare, alla comparazione tra le rivoluzioni di quel secolo. Gran parte degli studi sono stati dedicati a singoli episodi e soprattutto, ovviamente, all’Inghilterra2. Gli studi sul tema generale della rivoluzione, tradizionalmente e prevalentemente di natura sociologica e politica, hanno rivolto l’attenzione soprattutto al mondo contemporaneo. Un testo classico della sociologia, quello di Crane Brinton, The anatomy of revolution, pubblicato nel 1938, includeva tuttavia nell’analisi comparativa del fenomeno

1  W.J. Bouwsma, Early modern Europe, in The past before us. Contemporary historical writing in United States, a cura di M. Kammen, Ithaca-London 1980, p. 78. Vedi anche, nello stesso volume, il saggio di G.M. Friedrickson, Comparative history, pp. 457-473. L’introduzione di O. Ranum al volume National consciousness history, and political culture in early modern Europe, Baltimore 1975, contiene anche interessanti osservazioni sugli studi comparativi di storia politica ed istituzionale. 2  Tra gli studi particolari su singole rivolte sono da ricordare: A. Lloyd Moote, The revolt of the judges: the Parlement of Paris and the Fronde, 1643-1652, Princeton 1971; Sh. Kettering, Judicial politics and urban revolt in seventeenth-century France: the Parliament of Aix, 1629-1659, Princeton 1978; S.A. Westrich, The Ormeé of Bordeaux: a revolution during the Fronde, Baltimore 1972. Naturalmente è continuo l’interesse degli studiosi americani per la rivoluzione inglese, specialmente per gli aspetti religiosi e del pensiero politico: per questo si veda R.C. Richardson, The debate on the English Revolution, New York 1977, aggiungendo le opere di G.R. Cragg, Freedom and authority: a study of English thought in the early seventeenth century, Philadelphia 1975, e di J.O. Appleby, Economic thought and ideology in seventeenth-century England, Princeton 1978. Alcuni studi specifici sono presi in considerazione in questa breve rassegna per osservazioni generali e di metodo.

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anche le vicende dell’Inghilterra di Cromwell, ed altri sociologi, che hanno affrontato successivamente lo stesso tema, hanno fatto riferimento ai principali episodi del XVII secolo3. Forse non è un caso, quindi, che uno dei primi tentativi di definire in termini generali la natura e i caratteri della rivoluzione nell’Europa della prima età moderna sia influenzato, almeno nella introduzione, da una metodologia sociologica e da una certa inclinazione agli schemi tipologici. Mi riferisco al volume, curato da R. Forster e J.P. Greene, Preconditions of Revolution in early modern Europe (Baltimore-London 1970). Nato da un symposium tenuto nel 1968-69 nel Dipartimento di storia della Johns Hopkins University, il libro contiene saggi che riguardano le rivolte più importanti esplose tra il 1560 (Fiandre) e il 1775 (Pugacˇëv). I termini cronologici, anche se non esplicitamente giustificati, dimostrano evidentemente l’intenzione dei curatori del volume di caratterizzare un tipo di rivolta propria non di un particolare momento (il decennio 1640-50 su cui si è concentrato il dibattito europeo sulla crisi del XVII secolo) ma di una determinata struttura sociale di lungo periodo, di una grande fase storica, quella «premoderna» o preindustriale. Dopo una preliminare distinzione tra rivoluzioni vere e proprie (o potenzialmente tali) ed episodi minori, Forster e Greene hanno cercato di mettere in luce i caratteri comuni delle prime. Credo che sia sufficiente considerare qui il giudizio di fondo, senza entrare nel merito della discussione tipologica delle condizioni necessarie 3  Cfr., per esempio, G.S. Pettee, The Process of Revolution, New York 1938; L. Gottschalk, Causes of Revolution, in «American Journal of Sociology», 1944, 50; S.S. Wolin, Violence and the Western political tradition, in «American Journal of Orthopsychiatry», 1963, 33. Particolare influenza sulla storiografia, dal punto di vista metodologico, hanno avuto le opere di C. Johnson, Revolution and the social system, Stanford 1964; Id., Revolutionary Change, London 1968; J.C. Davies, Toward a theory of revolution, in «American Sociological Review», XXVII, 1962; Id., When men rebel and why: a reader in political violence, New York 1971; H. Eckstein, On the etiology of internal war, in «History and Theory», IV, 1965. Cfr., a questo proposito, L. Stone, Theories of Revolution, in «World Politics», XVIII, 1966 (successivamente rifuso in The causes of the English Revolution 1529-1642, London 1972). Ovviamente l’influenza delle ricerche sociologiche non è limitata esclusivamente alla storiografia americana: per il caso di Roland Mousnier, che ha assunto integralmente alcuni concetti fondamentali di Barber nella sua visione della società di antico regime, vedi A. Arriaza, Mousnier and Barber: the theoretical underpinning of the «society of orders» in Early Modern Europe, in «Past and Present», 1980, 69.

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perché una rivoluzione potesse allora verificarsi e possa oggi essere definita tale. L’affermazione principale è che gli antagonismi sociali di quel periodo storico non furono conflitti di classe, ma derivarono «from status inconsistencies arising not only out of changing economic conditions and frustrated material expectations but also, and even more important, from government actions which directly threatened the situations acquises and the local power of traditional élite groups ranging from municipal councilmen to high nobles»4. In corrispondenza con questo tipo di conflitti, i movimenti rivolu­ zionari della prima età moderna non ebbero una vera e propria ideo­ logia: legati agli interessi ed alle aspirazioni di gruppi ristretti, essi erano indirizzati soprattutto alla conservazione di privilegi particolari, non ad una «comprehensive and fundamental social and political reform»5. Il loro successo – quando lo ottennero, come nel caso delle Fiandre e dell’Inghilterra – fu dovuto soprattutto alla debolezza dei governi esistenti ed alla loro incapacità di affrontare efficacemente i problemi del periodo. Forster e Greene non escludevano che movimenti tendenti a restaurare e preservare privilegi attraverso mutamenti di governo e di regime potessero sfociare in «demands for basic alterations in the political system or constitutional structure»6. Ma essi non specificavano in che modo ciò potesse avvenire e in che direzione fossero orientati gli eventuali mutamenti di fondo. In questo senso, e in questi limiti, essi riconoscevano l’esistenza di «preconditions» nella prima età moderna. Altri successivi interventi si mossero nella stessa linea di interpretazione, ma avanzando il dubbio che l’insieme di «ingredients» indicati da Forster e Greene potessero veramente essere definiti «preconditions of revolution». In un saggio pubblicato nel 1973, A. Lloyd Moote è giunto nettamente alla conclusione che «full-blown revolution was not really possible before the late eighteenth century, that is not until people looked to the future rather than to the past for hope, to earth and not to heaven, to written constitutions, no to eternal, God-given natural law»7. La mancanza dell’ideologia rivo  Forster - Greene, Preconditions, cit., p. 13.   Ivi, p. 15. 6  Ivi, p. 16. 7  A. Lloyd Moote, The preconditions of Revolution in early modern Europe: did 4 5

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luzionaria, che secondo Moote fu creata soltanto dall’Illuminismo, è dunque un elemento decisivo: essa non poteva essere sostituita da «any concept of patria, any charismatic leader, or even a millenial futuristic or idealized traditional goal». Più complessa, più ambiziosa, e immune dalla tendenza alla tipologia sociologica, è l’interpretazione proposta da Th. Rabb. Nel volume The struggle for stability in early modern Europe (Princeton 1975) il problema delle rivolte è visto nel quadro più ampio di una secolare crisi di instabilità che va dagli anni immediatamente successivi al 1520 fino all’ultimo quarto del secolo XVII. L’ambizione di Rabb consiste nel tentativo, indubbiamente brillante e notevolmente controcorrente, di spostare l’attenzione degli storici dalla crisi alla stabilità. Egli sostiene che lo studio del periodo di insicurezza, di paura e di turbolenza è meno produttivo, meno utile per la compren­ sione dell’Europa moderna di quanto non lo sia lo studio del periodo in cui l’ordine e la stabilità furono ritrovati e mantenuti, il periodo, cioè, compreso all’incirca tra il 1660 e la metà del Settecento8. Mi sembra di poter vedere qui la proposta di un ritorno ad uno schema interpretativo tipico della storiografia liberale europea che ha sempre visto nel Rinascimento e nell’Illuminismo i grandi ed esclusivi punti di riferimento per comprendere lo sviluppo della moderna società europea9. In questo quadro, che contiene interessanti spunti e suggerimenti di indagine soprattutto per la storia culturale, il giudizio sulle rivolte non è diverso da quello che ho cercato di riassumere precedentemente. Diversa è la spiegazione delle cause. Il cambiamento del modo di fare la guerra e la crescente violenza delle sue manifestazioni sarebbero state, secondo Rabb, le cause principali dello stato di insithey really exist? in «Canadian Journal of History», VIII, 1973, ora in The general crisis of the seventeenth century, ed. by G. Parker and L.M. Smith, London 1978. 8  Opposta è l’opinione di P. Zagorin: «In the case of societies, nations, and communities that have experienced revolution, we cannot claim to understand them adequately without understanding their revolutions» (Prolegomena to the comparative history of revolution in early modern Europe, in «Comparative studies in society and history», XVIII, 1976. Ma cfr. anche il successivo Rebels and rulers, 2 voll., Cambridge 1982). 9  «The seventeenth century remains, for American historiography, a relatively underdeveloped borderland between two overdeveloped areas, a century of flux without clear identity, intelligible if at all as a period of desperate but indecisive ‘struggle’» (Bouwsma, Early modern Europe, cit., p. 88).

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curezza e di crisi durato per oltre un secolo. La guerra stessa, però, raggiungendo il culmine dell’atrocità nel 1618-48, avrebbe provocato un opposto desiderio di tranquillità e di ordine, e quindi il ritorno alla stabilità10. È difficile accettare come una chiave che apre tutte le porte l’ipotesi che la guerra sia stata il fattore determinante di fenomeni di così lungo periodo e che abbia provocato reazioni così diverse e contrastanti come le rivolte (anche in paesi che dalla guerra non furono direttamente toccati) e la restaurazione dell’ordine. Indubbiamente essa ha accentuato ed esasperato, in alcuni momenti, tensioni sociali ed orientamenti politici in una certa misura preesistenti alle varie vicende belliche. Comunque, l’ipotesi è avanzata da Rabb in modo prudente e problematico, e sarebbe certamente di grande interesse uno studio più approfondito del rapporto guerra-società nella prima età moderna. Per il resto, anche la sua interpretazione converge con la tesi che nega il rapporto tra le rivolte e la complessiva trasformazione del sistema sociale. La posizione di Rabb è anche più perentoria rispetto a quelle esaminate precedentemente, perché egli sostiene che nel periodo in questione non vi furono sostanziali cambiamenti sociali ed economici. Anche Martha Ellis François, in un saggio pubblicato nel 197411, respinge il collegamento, sostenuto da E. Hobsbawm e da altri storici, tra la crisi del Seicento e la transizione dall’economia feudale al capitalismo12. Più problematico e più ricco di sfumature è il quadro offerto da Perez Zagorin nel 197513. Il suo studio è in parte una rassegna critica di opere sociologiche, politiche e storiche sul tema generale della rivoluzione. Ma le pagine dedicate alla prima età moderna danno l’idea della difficoltà di accettare gli schemi, i modelli e le definizioni che sembrano attualmente più diffusi tra gli studiosi. L’obiezione

10  «It was war, above all, that encouraged such beliefs – the mounting disruptions that led even the members of Establishment, whose commitment was to the heroism and profits of fighting, to think of calm and relaxation as preferable to restlessness and ambition. And without this reversal among the upper classes, nothing else would have altered, because they were the linchpin of the ancien régime». (Rabb, The struggle for stability in early modern Europe, cit., p. 145). 11  Revolt in late medieval and early modern Europe: a spiral model, in «The Journal of Interdisciplinary History», V, 1974. 12  Cfr. anche il suo discorso di apertura della discussione nella Conference on Seventeenth Century Revolution, in «Past and Present», 1958, 13. 13  Zagorin, Prolegomena, cit.

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principale di Zagorin riguarda la convinzione della mancanza di una ideologia rivoluzionaria come fatto tipico del periodo e la distinzione, su questa base, tra «mere rebellion» e «true revolution». È stato già altre volte osservato – e l’ho fatto io stesso esaminando nel 1971 un noto ed importante saggio di J.H. Elliott14 – che il riferimento al passato non esclude affatto, nel periodo che stiamo esaminando, l’aspirazione al rinnovamento politico, istituzionale e sociale: una aspirazione non solo latente e involontaria ma anche, forse più spesso, volontaria e cosciente. È forse opportuno ricordare qui che la compatibilità tra richiamo al passato e propositi di mutamento fu chiaramente indicata da Machiavelli nel XXV capitolo del primo libro dei Discorsi. La forma di azione politica descritta in quella pagina – che indubbiamente rappresenta una testimonianza decisiva per la corretta interpretazione storica del problema – mantenne la sua validità generale fino al Settecento e non è completamente tramontata neppure dopo la Rivoluzione francese: «Colui che desidera o che vuole riformare uno stato d’una città, a volere che sia accetto e poterlo con satisfazione di ciascuno mantenere, è necessitato a ritenere l’ombra almanco de’ modi antichi, acciò che a’ popoli non paia avere mutato ordine, ancorché in fatto gli ordini nuovi fussero del tutto alieni dai passati...». Il passo successivo dimostra che Machiavelli non intendeva riferirsi a mutamenti superficiali e secondari: «E questo si debbe osservare da tutti coloro che vogliono scancellare uno antico vivere in una città, e ridurla a uno vivere nuovo e libero...». Ma Zagorin osserva che il richiamo al passato non fu «the only sort of ideology to be found in pre-modern revolutions. The conception of a future new order as the goal and justification of revolution also appears, both in the religious form of millenarianism and in the secularized form of rationalism and natural rights doctrines». Credo che si possa fare qualche riserva sul termine «new order», che mi sembra più adatto alle manifestazioni di utopismo del CinqueSeicento che non alle correnti riformatrici o effettivamente rivoluzionarie, le quali tendevano di solito, soprattutto nel Seicento, a mettere a fuoco problemi particolari, seppure di ampia portata e destinati a coinvolgere l’assetto generale della società, piuttosto che proporre   Cfr., in questo stesso volume, Discussioni sulla crisi del Seicento.

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un «new order». Così ancora, mi sembra che possa generare qualche equivoco l’accostamento tra il «millenarianism» e le forme razionalistiche di critica dell’ordinamento politico e sociale: a mio avviso, i due atteggiamenti si riferiscono a fasi e movimenti ben diversi e ben distinti, anche se talvolta coesistenti. Ancora: non mi sembra esatta l’affermazione, fatta nello stesso saggio, che la terminologia corrente dell’Europa della prima età moderna non fornisce una guida per distinguere tra rivoluzione e ribellione. Il problema si è posto anche allora. L’autore del trattato Delle mutationi dei Regni, Ottavio Sammarco (Venezia, Giacomo Scaglia, 1629), stabilisce una precisa differenza tra «mutatione» e «alteratione» (cap. VII) per indicare due fenomeni di diverso peso e significato; Tommaso Campanella parla di «rivolutioni di Stati» dando all’espressione il significato moderno, per indicare soltanto i maggiori rivolgimenti della sua epoca; ed erano universalmente accettati i termini «inquietudini» e «mutamento di Stato» per indicare la differenza tra tumulti e rivoluzione. I contemporanei ebbero piena consapevolezza, com’è noto, del carattere eccezionale e diffuso delle tensioni del periodo. «Secolo di ferro» non è un termine inventato da Kamen15; e «Mundus furiosus», titolo di una cronaca della fine del Cinquecento dell’abate tedesco Michael Isselt (Jansonius)16, mi sembra appropriato al clima di quegli anni. A parte queste obiezioni particolari, credo che l’osservazione di Zagorin sulla questione della ideologia debba essere riferita non solo alle ribellioni in senso stretto, ma a tutto l’insieme dei cambiamenti intervenuti nel Cinquecento e nel Seicento nel modo di pensare, nei sentimenti, nella concezione dei valori individuali e sociali. «Ideologia rivoluzionaria» è certamente un’espressione troppo rigida per definire la complessa e faticosa ricerca di novità della prima età moderna17. Si può aggiungere che il nesso ideologia rivoluzionaria-rivo15  Tra gli altri, vedi anche J.N. De Parival, Abregé de l’histoire de ce siècle de fer, contenant les misères et calamitez des derniers temps, avec leurs causes et pretextes, jusques au couronnement du Roy des Romains Ferdinand IV, Leyde 1654. 16  Mundus furiosus: sive Narratio rerum a mense aprili anni MDXCVI usque ad autumnum anni MDXCVII tota Europa gestarum, libris tribus comprehensa, auctore P.A. Jansonio, Coloniae, apud Gerardum Greuenbauch, 1597. La cronaca dà particolare rilievo alle insurrezioni contadine in Austria. 17  Un contributo all’analisi di questa trasformazione di idee e valori è venuto anche dalle opere che studiosi americani hanno dedicato alla religiosità ed alla cultura dei paesi europei, ai comportamenti sociali, alla storia della famiglia (vedi

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luzione concepito alla maniera di Lloyd Moote non è intieramente valido nemmeno per il caso specifico a cui si riferisce. Neanche la Rivoluzione francese, con tutta la sua carica di razionalità, può essere ridotta negli schemi di una ideologia precostituita. Il problema è grosso e non posso evidentemente affrontarlo qui. Mi limito a citare una nota di Giacomo Leopardi che forse è meno eccentrica di quel che potrebbe sembrare, almeno dal punto di vista metodologico, rispetto al nostro tema: «È veramente compassionevole il vedere come quei legislatori francesi repubblicani credevano di conservare, e assicurar la durata, e seguir l’andamento e lo scopo della rivoluzione, col ridurre tutto alla pura ragione, e pretendere per la prima volta ab orbe condito di geometrizzare tutta la vita. Cosa non solamente lagrimevole in tutti i casi se riuscisse, e perciò stolta a desiderare, ma impossibile anche a riuscire anche in questi tempi matematici, perché direttamente contraria alla natura dell’uomo e del mondo» (Zibaldone, 8 luglio 1820). La definizione su base comparativa dei caratteri tipici delle rivoluzioni della prima età moderna, è resa difficile dalle differenze, a volte molto profonde, tra i diversi episodi, tra paese e paese, tra un periodo e l’altro. Bisogna fare i conti anche con l’eterogeneità o la contraddittorietà degli elementi che sono presenti in ognuno di quegli episodi. Zagorin ritiene che sia possibile superare queste difficoltà mediante l’elaborazione di una «adequate tipology», di categorie strutturali più strettamente collegate con le caratteristiche storiche fondamentali delle diverse società e situazioni a cui l’analisi dovrebbe essere applicata, rinunciando, almeno in un primo stadio, alla pretesa di creare «structural ideal-types» di valore universale. Egli parla di «agrarian or colonial or separatist or eliteled Kingdoms wide revolutions», proponendo una articolazione tipologica che corrisponderebbe alla varietà delle situazioni del mondo preindustriale. Ma neanche l’uso di queste categorie basta a definire storicamente i fenomeni rivoluzionari e le loro radici. Cosa significa, per esempio, il termine «agrarian» per il periodo tra la metà del ’500 e la metà del ’600? L’agricoltura è dominante in tutta o quasi tutta l’economia europea prima della rivoluzione industriale, e ovviamente non posBouwsma, Early modern Europe, cit., pp. 90-93). Per gli aspetti che riguardano la consapevolezza dei nuovi problemi economici e il cambiamento delle idee sulla produzione e la distribuzione dei beni, vedi Appleby, Economic thought, cit.

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siamo mettere nella stessa categoria di «agrarian structure» la Francia e la Spagna, l’Inghilterra e la Polonia. Lo stesso si può dire delle «élite», che presentano caratteri diversi o anche contrastanti nei vari paesi. Gli «ideal-types» di Zagorin non ci forniscono elementi sufficienti per definire le «strutture» delle rivolte e delle società in cui esse si verificarono. Essi non sono applicabili nemmeno alle zone «periferiche», che proprio allora stavano diventando tali ed erano, quindi, anch’esse in una fase contraddittoriamente dinamica. Non posso fare a meno di affrontare un problema particolare (ma significativo dal punto di vista metodologico) che si riferisce al mio lavoro sulle origini della rivolta napoletana del 1647, perché è un caso specifico a cui Zagorin fa riferimento nella parte del suo saggio che riguarda direttamente il nostro problema. Egli ritiene che io abbia esagerato l’importanza di una sommossa popolare scoppiata a Napoli nel 1585, da me collocata nella preistoria degli avvenimenti del 164718. Le sommosse di quel tipo, «exceedingly common in preindustrial Europe», non sono altro, secondo Zagorin, che i «tumulti della fame» resi celebri, nei loro tratti fondamentali, dalle pagine del romanzo di Manzoni. A mio avviso, invece, la sua critica rivela l’inadeguatezza del suo criterio tipologico. L’occasione mi spinge a cercare di chiarire brevemente il mio punto di vista e a suggerire qualche indicazione più ampia. La sommossa napoletana del 1585 fu provocata da un rialzo del prezzo del pane dovuto all’esportazione di un grande quantitativo di grano in Spagna, ma non ebbe l’andamento caratteristico del tumulto della fame (che comprendeva, per esempio, come nel caso manzoniano, il saccheggio di forni e magazzini di viveri). Il personaggio che fu linciato non era semplicemente un ricco mercante, ma l’Eletto del popolo, cioè uno dei sei componenti del massimo organismo rappresentativo della città che contribuiva col viceré alla politica commerciale del governo. La ragione principale della diversità consiste nel fatto che gruppi di cittadini di ceto medio parteciparono al movimento e contribuirono ad organizzarlo: uno dei capi era fratello di un noto professore di medicina dell’Università di Napoli, che era stato maestro di Giambattista della Porta. La sua casa fu rasa al suolo ed al suo posto fu eretto un macabro monumento con le teste e le mani di trentatré   Villari, La rivolta antispagnola a Napoli, cit.

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giustiziati e con una iscrizione che lo indicava come promotore del moto. Fu la partecipazione di cittadini del ceto civile a destare l’interesse degli osservatori e ad allarmare il governo. Ad organizzare la repressione fu invitato, dopo l’arrivo di una grande flotta dalla Spagna, lo stesso magistrato che aveva diretto, nelle Fiandre, i processi contro i conti di Egmont e di Hornes. E non a caso i due viceré che governarono Napoli nel periodo immediatamente successivo al 1585 cercarono, sia pure senza successo, di affrontare il problema della riforma dell’ordinamento amministrativo e politico della capitale del regno. Ad uno di essi, che era il padre del futuro ministro conte duca di Olivares, fu revocato il mandato proprio per questo tentativo e per l’opposizione che esso suscitò nella nobiltà locale. Il caso non rientra quindi in nessun modello prestabilito. Indubbiamente esso ha anche alcune caratteristiche del riot (per esempio, la breve durata); ma le vicende di quelle giornate e della repressione che ne seguì fanno intravedere la presenza, ancora confusa e potenziale, di un nuovo ed autonomo protagonista della lotta politica, che fino allora si era svolta esclusivamente tra nobiltà e monarchia: migliaia di abitanti furono spinti a fuggire dalla città e furono istruiti circa mille processi che si conclusero con trenta condanne a morte, eseguite in modo estremamente crudele e spettacolare, esilî e condanne alla galera. In quel periodo cominciò a formarsi una corrente di opposizione politica popolare che, dopo una fase di ribellismo, si sviluppò in un movimento di riforma sul quale ebbero una certa influenza anche le idee di Campanella e che ebbe una precisa funzione organizzativa e di direzione mezzo secolo dopo, nella rivoluzione del 1647-48. In quel momento, dunque, si cominciava a creare una maggiore articolazione della vita politica di quella regione. Il fatto – che trascende evidentemente la particolare vicenda della sommossa – appare più significativo se si allarga lo sguardo da Napoli ad altre più dinamiche zone della scena europea. Fino a quel momento, ed anche oltre, la maggior parte degli osservatori politici riteneva che il più grave pericolo di «sedizioni», «colpi di Stato» e «mutationi di regni» potesse provenire soltanto da elementi dell’aristocrazia, i soli capaci di esercitare una funzione di direzione e di organizzazione politica e di sfruttare politicamente le situazioni di crisi e di instabilità. Secondo Francis Bacon, solo l’intervento di esponenti della «greatest sort» e il loro inserimento nella protesta del «common people» po-

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teva rendere pericolosi i tentativi di ribellione19. In una analisi meno lineare delle rivolte, ma ricca di spunti e considerazioni importanti, Campanella aggiungeva un altro fattore, la predicazione religiosa e profetica: «La religione armata – si legge nel XVIII capitolo della Monarchia di Spagna – predicata da uomini da bene, non ha possanza che li possa resistere». Ma già in un’opera di poco successiva, le Considerations politiques sur les coups d’Estat di Gabriel Naudé (1639), il pericolo di una «vera rivoluzione» che avesse come protagonista il Terzo stato era preso in seria considerazione, nel quadro di una ipotesi che fa venire in mente addirittura la meccanica degli avvenimenti del 1789. Naudé si riferisce ai contrasti tra nobiltà e Terzo stato scoppiati durante l’Assemblea degli Stati generali del 1614-15, contrasti che il febbrile intervento della corte riuscì a sedare. La sua ipotesi è che la reazione dei deputati del Terzo stato alle minacce e alle azioni della nobiltà avrebbe potuto sollevare la capitale e tutte le altre città del regno e avrebbe potuto «rovinare la Francia e cambiare la forma di governo»20. Un punto cruciale del nostro problema riguarda il rapporto tra le rivoluzioni e le trasformazioni della struttura economica e sociale che si sono verificate nei secoli XVI e XVII. Nella letteratura che abbiamo esaminato, era dominante la negazione di questo rapporto; semmai, un qualche collegamento si è istituito in forma indiretta e contro le 19  F. Bacon, Of Seditions and Troubles, in Works, ed. by J. Spedding, R.L. Ellis and D.D. Heath, vol. IV (Literary and professional works), London 1881, p. 411: «There is in every state (as we know) two portions of subjects: the nobless and the commonalty. When one of these is discontent, the danger is not great; for common people are of slow motion, if they be not excited by the greater sort; and the greater sort are of small strength, except the multitude be apt and ready to move of themselves. Then is the danger, when the greater sort do but wait for the troubling of waters amongst the meaner, that then they may declare themselves». 20  «...Il me souvient d’un accident peu remarqué, qui se passa aux Estats tenus à Paris l’an 1615, lequel neantmoins estoit capable de ruiner la France, et de luy faire changer sa façon de Gouvernement, si l’on n’y eust promptement remedié [...]: car si les deputez de la Noblesse eussent passé des paroles aux effets, ceux du Tiers Estat se fussent peut-estre rencontrez si violents, obstinez, et vindicatifs, et le peuple de Paris en telle verve et disposition, que toute la Noblesse qui y estoit, eust couru grand risque d’estre sacagée, et peut-estre qu’en suite, on eust fait le mesme par toutes les autres villes du Royaume, qui suivent d’ordinaire l’exemple de la capitale» (G. Naudé, Considérations politiques sur les coups d’Estat, Rome 1639, pp. 150-152).

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intenzioni dei rivoluzionari-passatisti. Sebbene siano rari i casi in cui si nega che in quell’epoca vi furono importanti trasformazioni sociali o in cui si accetta che le rivolte furono esclusivamente movimenti reazionari, in genere ciò che viene messo in evidenza è il loro carattere arcaico e la loro scarsa o nessuna incidenza sullo sviluppo della società. Tra i saggi pubblicati nel volume curato da Forster e Greene, quello di J.W. Smit costituisce l’esempio di un giudizio opposto. Infatti, pur mettendo in grande rilievo il particolarismo dei Paesi Bassi e partendo dalla critica di alcuni aspetti della teoria marxista, Smit giunge alla conclusione che la nuova repubblica olandese nata dalla lotta contro la Spagna fu «the first real capitalist and bourgeois nation with a strongly marked, very mercantile national identity»21. La posizione di Smit non ha avuto molta influenza sugli orientamenti della ricerca più generale sul problema della rivoluzione nella prima età moderna, probabilmente perché nel suo saggio non c’era nessun tentativo di comparazione o di generalizzazione. In un modo o nell’altro, sia in rapporto al metodo che al contenuto del giudizio storico, l’analisi si è concentrata finora prevalentemente sulle rivolte in quanto tali, sui loro meccanismi, sulla loro frequenza, contemporaneità, violenza ecc., trascurando la questione del mutamento sociale. Tuttavia una parte degli studi e delle discussioni sulla trasformazione economica dell’Europa preindustriale ha posto fortemente l’accento sulle condizioni socio-politiche, come elementi determinanti dello sviluppo o del ristagno economico. La critica del «modello demografico» e del «modello della commercializzazione» fatta da Robert Brenner pone al centro dell’attenzione la dinamica dei rapporti di classe nelle campagne22. L’opera di Jan de Vries sull’economia europea del periodo 1600-1750 ha come motivo dominante il 21  J.W. Smit, The Netherlands Revolution, in Preconditions, cit., p. 52. Geoffrey Parker dedica uno dei più interessanti capitoli del suo volume The Dutch Revolt (Norwick 1977) al nuovo ordinamento politico oligarchico dell’Olanda ed alla funzione che ebbe Johan van Oldenbarnevelt nella sua creazione (pp. 240-253). Nell’introduzione, a proposito del problema della eterogeneità dei fattori e delle diverse fasi della rivolta, egli scrive: «The great problem is to find a credible framework which is flexible enough to fit the experience of all the seventeen provinces of the Low Countries where, in the sixteenth century at least, particularism was more potent than patriotism» (p. 13). 22  R. Brenner, Agrarian class structures and economic development in pre-industrial Europe, in «Past and Present», 1976, 70.

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problema del rapporto tra città e campagna, le cui implicazioni politico-sociali sono fin troppo evidenti23. La questione è stata affrontata in modo più organico nel dibattito sulla «protoindustrializzazione». Nella relazione preparata per l’VIII congresso internazionale di storia economica, Franklin Mendels ha osservato che l’organizzazione sociale generale e la struttura agraria sono state indicate come circostanze rilevanti per spiegare la localizzazione della cottage industry ed il suo sviluppo e ha sostenuto che per l’ulteriore transizione dalla protoindustrializzazione all’industria moderna furono fattori determinanti la disponibilità di risorse naturali, la localizzazione delle materie prime e, soprattutto, le condizioni politico-sociali24. Anche se i riferimenti agli episodi rivoluzionari sono piuttosto rari in queste ricerche, mi sembra che tali indicazioni costituiscano almeno un forte stimolo al ripensamento del problema. Nel suo panorama del «modern world system» Immanuel Wallerstein include invece anche le discussioni sulle rivoluzioni, riferendosi specialmente all’Inghilterra ed alla Francia; ma non è chiaro il nesso che egli istituisce tra i due ordini di fatti. Secondo la sua tesi, messa a punto più esplicitamente nel secondo volume dell’opera, la lotta si svolse tra i gruppi sociali che tendevano a mantenere «the surviving juridical structures of feudal times» e coloro che erano diventati o tendevano a diventare capitalisti25. Nello stesso tempo, però, uno dei motivi centrali della sua opera è la spontanea trasformazione su larga scala dell’aristocrazia in una classe di imprenditori capitalisti. Nella sua visione, in cui le diverse economie e situazioni diventano generalmente funzionali allo sviluppo capitalistico, mi sembra che non vi sia posto per una adeguata considerazione dei contrasti sociali e politici. Osservo qui di passaggio che il metodo comparativo non deve necessariamente condurre all’affermazione esclusiva o di analogie o di diversità e antitesi. La constatazione della diversità di strutture, di condizioni e di livelli di sviluppo non esclude la ricerca di nessi e 23  J. de Vries, Economy of Europe in an age of crisis, 1600-1750, Cambridge 1976. 24  Mi riferisco al testo ciclostilato della relazione: F. Mendels, Proto-industrialization: Theory and Reality. 25  I. Wallerstein, The Modern World-System, II, Mercantilism and the Consolidation of the European World-Economy, 1600-1750, New York-London-TorontoSydney-San Francisco 1980, pp. 119-120.

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interazioni e di tendenze convergenti. Hobsbawm ha proposto l’ipotesi che i nuclei di sviluppo capitalistico, localizzati in alcune zone, abbiano influenzato e condizionato, in diverso modo, anche le altre regioni europee con strutture economiche differenti26. La tendenza a separare troppo nettamente una situazione dall’altra contrasta, tra l’altro, anche con la realtà dell’interesse che i vari episodi rivoluzionari suscitarono negli altri paesi e che già di per sé costituisce un problema degno di essere approfondito27. Indirettamente, anche lo studio di Lawrence Stone sulle cause della rivoluzione inglese gettava acqua sul fuoco dell’entusiasmo per l’idea della rivoluzione generale e per il modo in cui il metodo comparativo era stato usato in quella fase della ricerca sull’argomento. In questo caso, come in quello di Smit, i risultati più interessanti e più utili anche dal punto di vista generale provenivano dall’appro­ fondimento di una situazione specifica. Interessato soprattutto allo studio della «interconnession of forces and events», più che a stabilire una graduatoria di importanza dei diversi fattori, Stone si è servito delle categorie di «preconditions, precipitans and triggers» come strumenti per evitare di collocare arbitrariamente «all the causes in a single rank order»28. Egli ha ritenuto di poter prendere il «grain of truth» contenuto in ognuna delle varie interpretazioni classiche e nuove dell’avvenimento, avendo come base, s’intende, i risultati della sua straordinaria esperienza di ricerca sulla società del CinqueSeicento. Stone ha posto in primo piano, tra le cause fondamentali e di lungo termine, «the failure of the Crown to acquire two key instruments of power, a standing army and a paid, reliable local bureaucracy». Accanto a questo, egli ha indicato come fattori determinanti e profondi il declino dell’aristocrazia e la corrispondente ascesa della gentry, il contemporaneo sviluppo di una ideologia riformatrice e, quarto punto, la crisi di fiducia nell’integrità morale e politica dei governanti. Non devo qui entrare nel merito della discussione estre  Cfr. E.J. Hobsbawm, La rivoluzione, in «Studi storici», XVIII, 1977.   G. Parker, The Dutch Revolt, cit., ricorda, per esempio, che trentaquattro storie contemporanee della rivolta delle Fiandre, pubblicate prima del 1648, sono elencate nella bibliografia di H. de Buck e che gli archivi di molti paesi dell’Europa occidentale conservano una grande quantità di manoscritti e documenti in gran parte inediti sulla rivolta (p. 277). 28  Stone, The causes of the English Revolution, cit., p. 58. 26 27

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mamente complessa e arroventata sulla rivoluzione inglese: ci stiamo occupando ora soltanto di problemi generali e metodologici. Ritengo che sia giusta l’esigenza di Stone di tenere distinti i diversi fattori, non solo per non fare una impossibile graduatoria ma anche perché ognuno di essi ha un proprio significato e propri caratteri. Ma se il fallimento della monarchia non deve essere inteso nel senso di una generica debolezza di governo (e Stone non lo intende come tale), e deve essere inteso, invece, come il mancato adempimento di un compito storico, esso è organicamente connesso con l’emergere di nuove forze sociali e, perché no, anche con il tema della corruzione dei governanti. Il quadro che viene fuori a questo punto è quello di un profondo squilibrio fra la trasformazione sociale e l’evoluzione istituzionale, di un cambiamento (sia pure ancora in una fase non di piena maturità) dei rapporti sociali e dei valori che contrasta con l’assetto delle istituzioni e che la monarchia non è in grado di comporre. Siamo quindi di fronte ad una realtà nuova, specifica della prima età moderna, non ad un generico contrasto tra governo e paese, non ad una generica crisi di moralità delle classi dirigenti, non a scontri per la difesa di privilegi, ma ad un movimento complessivo (con tutte le incertezze e le oscurità del periodo) di trasformazione dell’economia, dei rapporti sociali, dei valori ideali. Non intendo forzare il pensiero di Stone: la conclusione a cui egli giunge non è forse così esplicita, ma il lettore è autorizzato ad intendere in questo modo l’invito a non perdere di vista la connessione tra le cause fondamentali della rivoluzione inglese. Ciò che mi sembra discutibile, nella tesi di Stone, è la distinzione tra la rivoluzione inglese e quella francese sulla base del concetto che quest’ultima ebbe conseguenze sociali, mentre la prima fu soltanto politica29. La mia perplessità nasce da motivi generali, si riferisce ad un certo modo di concepire l’autonomia della politica: più che la differenza tra politico e sociale, il discorso dovrebbe riguardare, senza trascurare i nessi tra l’una e l’altra, il diverso grado di incisività dei due avvenimenti, la misura della loro influenza sulla realtà complessiva, nazionale e mondiale. Il legame tra processo di trasformazione sociale e rivoluzione non può essere stabilito a priori; deve essere dimostrato attraverso una   Ibidem.

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concreta analisi storica che metta in evidenza la complessità delle situazioni e la loro irriducibilità a schemi prestabiliti. Neppure può essere dato per scontato il rapporto tra sviluppo capitalistico e «long-range processes» (alla cui analisi la storiografia marxista ha dato un contributo decisivo)30 e la genesi e la natura degli specifici avvenimenti rivoluzionari. Stone e Smit sostengono che non si può applicare ad una realtà sociale così complessa come quella della prima età moderna uno schema rigido e semplificato di contrapposizione tra borghesia e nobiltà31. Una netta separazione di classe non ci fu né nei gruppi dirigenti delle rivoluzioni della prima età moderna, né negli sbocchi istituzionali e sociali che esse ebbero quando raggiunsero il successo. Ma durante quel periodo vi furono conflitti sui rapporti tra città e campagna, sulla funzione dello Stato, sulla rappresentanza dei gruppi sociali nelle istituzioni politiche, sull’amministrazione della giustizia, sui privilegi feudali, sulla politica fiscale, sul mercato, sulle manifatture, sui valori sociali e intellettuali: grandi questioni che, almeno oggettivamente, riguardavano l’ordinamento generale della società. Tra i protagonisti di quei conflitti vi furono borghesi «ambigui» piuttosto che una classe di moderni capitalisti, nobili evoluti piuttosto che una feudalità medievale; ma le tensioni non derivarono soltanto dalla resistenza nobiliare all’ascesa del capitalismo mercantile e finanziario ed alla sua tendenza a sistemarsi «nei pori della società precapitalistica», né furono limitate all’antagonismo tra ceti privilegiati e monarchie, né furono irrilevanti per la permanenza del «sistema». Tutte le classi ed i gruppi sociali vi furono coinvolti, dai contadini ai nobili, dai borghesi agli artigiani ed alle «plebi» cittadine, anche quei settori del Terzo stato che, come ha scritto de Vries32, «stavano cambiando la faccia dell’economia europea». Il modo in 30  «It is fair to say, I think, that the marxist model has been more successful in explaining long-range processes than in analyzing the specific dynamics of early modern societies» (Smit, The Netherlands Revolution, cit., p. 24). «The great contribution of marxism in the interpretation of the period has been to stress the extent and significance of early capitalist growth in trade, industry and agriculture in the century before the revolution» (Stone, The causes of the English Revolution, cit., p. 54). 31  Smit, The Netherlands Revolution, cit., pp. 22-24; Stone, The causes of the English Revolution, cit., p. 54. 32  De Vries, Economy of Europe in an age of crisis, cit., p. 234.

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cui furono affrontati quei problemi, le tendenze ed i caratteri delle classi e dei gruppi sociali che parteciparono alle lotte intorno ad essi, la prevalenza di una soluzione rispetto ad un’altra, furono fondamentali per il successivo sviluppo economico e politico europeo. Era in questione, su questo terreno, la fisionomia che avrebbero assunto le strutture sociali dell’Europa moderna, dall’Inghilterra alla Polonia, dall’Olanda all’Italia meridionale. Un elemento centrale di quei conflitti e della dinamica sociale della prima età moderna fu la spinta al superamento di strutture sociali e ideologiche che davano alla nobiltà feudale una eccessiva o esclusiva influenza nell’indirizzo della politica generale degli Stati e nel governo della società: una spinta che fu molteplice e differenziata, ma riconducibile ad un processo relativamente omogeneo non solo per i suoi obiettivi negativi ma anche perché tendeva a sostenere e valorizzare gli strati più ricchi e colti del Terzo stato. Grandi eventi come la decadenza dell’economia coloniale della Spagna, la crisi del commercio nel Baltico, l’emergere di un nuovo sistema coloniale, lo sconvolgimento finanziario provocato dalla guerra dei Trent’anni ebbero effetti e influenza su tutta la società europea33: alcuni di questi fattori contribuirono ad esasperare i conflitti preesistenti ed a trasformarli in aperte ribellioni. Nella loro aggrovigliata matassa, il modo migliore per distinguere i diversi filoni e orientamenti non è la ricerca di un motivo unico e generale che accomuni tutti gli episodi, né l’elaborazione di modelli e di «structural ideal-types», che forse funzionano meglio per società relativamente statiche anziché per l’agitata Europa dei secoli XVI e XVII. Mi sembra, piuttosto, che sia necessario intensificare le ricerche e le discussioni sui singoli episodi e l’accurato confronto dei risultati particolari.

33  E.J. Hobsbawm, The seventeenth century in the development of Capitalism, in «Science and Society», 1960, 24.

IV

Patriottismo e riforma politica 1. Un difficile cammino L’idea di nazione e il patriottismo della prima età moderna non hanno avuto molta fortuna tra gli studiosi. La stessa esistenza di un diffuso sentimento di nazionalità nel XVI e XVII secolo è ritenuta incerta e problematica. Come riconoscere una personalità morale, una coscienza collettiva, sia pure soltanto vagamente unitaria, a quegli agglomerati eterogenei, pieni di contrasti e solcati da profonde fratture interne che erano le società di antico regime? L’impossibilità degli strati inferiori della società di assimilare idee e concetti che comportavano una certa capacità culturale e un senso della storia fu un grande ostacolo al patriottismo. Per questo Etienne Pasquier, che si sentiva un buon patriota e più moderno di un Lorenzo Valla e di un Erasmo, sosteneva con grande impegno, per il prestigio e la forza politica del suo paese, la diffusione della cultura e, a differenza degli umanisti più ortodossi, era un deciso fautore della lingua volgare1. Ma il problema non era soltanto culturale. I ceti alti e nobiliari, a loro volta, avevano in questa materia un atteggiamento contraddittorio: da una parte, si ritenevano i rappresentanti esclusivi di comunità che potevano più o meno vagamente essere considerate «nazioni», e dall’altra, avevano una notevole propensione all’incostanza e all’infedeltà politica. Non fu infrequente il caso di esponenti delle classi dominanti, e specialmente grandi signori, che fecero scelte politiche decisive in base a princìpi che a noi appaiono contrastanti con quello 1  C. Vivanti, Les Recherches de la France d’Etienne Pasquier. L’invention des Gaulois, in Les Lieux de mémoire, a cura di P. Nora, vol. II, La Nation, Paris 1986.

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dell’appartenenza ad una nazione o col dovere verso la patria. Ancora nel XVI e nel XVII secolo era quasi normale per i nemici di un paese cercare appoggi al suo interno tra i grandi feudatari, i quali ritenevano talvolta del tutto legittimo rivolgersi a un re straniero per realizzare col suo sostegno le loro aspirazioni ideali o per ottenere i riconoscimenti e le mercedi che non avevano ottenuto in patria. I nobili tendevano ad essere indulgenti verso i membri del loro stesso ceto che si macchiavano di questo tipo di colpe: un esempio, a questo proposito, è la protesta della nobiltà veneziana per le pene troppo severe inflitte dai giudici ai nobili ribelli dopo la sconfitta di Agnadello2. Malgrado la frequenza di termini e concetti che ad esso si riferiscono, bisogna riconoscere che, a confronto con la marcia trionfale iniziata alla fine del Settecento, nell’epoca precedente il sentimento nazionale ebbe un cammino assai difficile e contrastato. Certe idee relative alla nazionalità ebbero tuttavia anche allora largo corso. Nella parte dedicata alle nazioni europee dal volume di John Hale3 sulla civiltà del Rinascimento, l’autore traccia un panorama di luoghi comuni e di ritratti psicologici di gruppo che, una volta acquisiti, si sono fissati stabilmente, in alcuni casi fino ad oggi, nell’opinione pubblica. In questo patrimonio culturale la xenofobia, l’ignoranza reciproca, e l’intolleranza sono i tratti dominanti4. Anche nel famoso dialogo dell’Aretino (pubblicato a Venezia nel 1536) in cui la madre insegna alla figlia l’arte puttanesca non manca un campionario di qualità e caratteri di popoli europei e italiani; ed anche in questo caso si tratta per lo più di difetti e qualità negative. Chiusura verso il mondo esterno, rozzezza, aggressività, intolleranza, demagogia hanno accompagnato la formazione e lo sviluppo della coscienza nazionale, anche nella fase del cosiddetto protonazionalismo. L’ostilità di Erasmo verso le manifestazioni dello spirito nazionale del suo tempo potrebbe apparire, quindi, più che giustificata. Nella risposta alla Defensio pro Italia di Pietro Corsi, egli riconosceva che il patriottismo, come forma

2  Vedi G. Del Torre, Venezia e la Terraferma dopo la pace di Cambrai. Fiscalità e amministrazione, 1515-1530, Milano 1994, p. 160. 3  J. Hale, La civiltà del Rinascimento in Europa, trad. it., Milano 1994, pp. 55-97. 4  Sulla diffusione di sentimenti anti-italiani con venature xenofobe in Francia cfr. Henri Heller, Anti-Italianism in Sixteenth-Century France, Toronto-Buffalo-London 2003.

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particolare di amor proprio di ogni nazione e di ogni città, è un dato naturale; ma lo giudicava assurdo sul piano della razionalità: «Non è proprio di uno spirito filosofico – diceva – essere incondizionatamente favorevole a qualsiasi nazione perché non vi è popolo che non sia misto di buoni e di cattivi»5. Egli forse non si poneva il problema di comprendere perché anche al tempo suo c’era chi accettava o riteneva doveroso addirittura «morire per la patria» o proclamava di amare la patria più della propria anima6. Un paio di secoli dopo, il dottor Johnson inserì nel suo dizionario (ed. 1775) la famosa battuta: «il patriottismo è l’ultimo rifugio dei mascalzoni»7. Allora il sentimento nazionale, senza perdere la sua originaria ambiguità e le sue contraddizioni, stava diventando materia di grandi scontri politici e di straordinaria mobilitazione popolare. In quel particolare momento i più zelanti patrioti britannici non esitavano ad accusare di tradimento quei radicali come John Wilkes che, sempre in nome del patriottismo, sostenevano l’indipendenza americana8. Neppure prima, però, erano mancati, sullo stesso terreno, contrasti politici e moti di passione collettiva. Rispetto alle formulazioni naturalistiche e psicologiche alle quali ho fatto cenno, ed anche in contrasto con esse, c’era anche nel Cinquecento un’altra faccia della medaglia. Il basso Medioevo aveva consegnato all’età moderna una idea di patria che, per la congiunzione con la difesa della religione e della Chiesa e per la sua equivalenza ideale con il bene comune, con la solidarietà e con la libertà, aveva acquistato un valore sacro e tendenzialmente universale. Nella prima età moderna i ceti aristocratici e nobiliari proclamavano di servire la patria anche quando difendevano, a torto o a ragione, i loro privilegi. Il loro esclusivismo non impedì però che i valori del patriottismo fossero apprezzati anche 5  Responsio ad Petri Cursii defensionem, in Opus epistolarum Desiderii Erasmi Roterodami, a cura di P.S. Allen, H.M. Allen e H.W. Garrod, Oxford 1906-52, vol. XI, ep. 3032. 6  E. Kantorowicz, Mourir pour la patrie, Paris 1984 (trad. it., in Id., I misteri dello Stato, Genova-Milano 2005); vedi anche G. Tognetti, Amare la patria più che l’anima. Contributo circa la genesi di un atteggiamento religioso, in Studi sul Medioevo cristiano offerti a Raffaello Morghen, Roma 1974. 7  Cit. in D. Healey, Not a very solid State, in «The Sunday Times», 5 marzo 1995. 8  Vedi l’illustrazione del «Westminster Magazine» del 1776 intitolata A Sketch of Modern Patriotism, riportata in L. Colley, Britons. Forging the Nation, New Haven and London 1992, p. 142.

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dagli altri strati sociali. Forse non è del tutto accettabile l’affermazione di José Antonio Maravall che «la nascita delle nazioni si può considerare opera della borghesia»9. Ma certamente, insieme ed in antitesi con l’aspetto conservatore, ci fu anche un legame dinamico e creativo fra l’amor di patria e l’aspirazione a quelle forme di «equalità» (ovviamente diverse da quelle che si affermarono dalla Rivoluzione francese in poi) che furono concepite e sostenute nella prima età moderna dalle correnti politiche popolari e in parte anche dall’assolutismo. Il «patriottismo democratico» allignò e mise radici in altre nazioni europee più che in Italia. Ma all’elaborazione del rapporto tra sentimento nazionale e modernizzazione dello Stato venne anche dal Rinascimento italiano un contributo importante, che fu prevalentemente culturale e teorico e culminò nell’opera di Machiavelli. La preminente importanza dell’aspetto culturale non deve tuttavia far dimenticare le tensioni e i tentativi pratici e politici di riforma, che si basarono anche su un senso patriottico di appartenenza alle singole comunità statali (cittàStato, repubbliche, principati, regni) esistenti nella penisola italiana, non senza qualche riferimento alla nazione italiana nel suo complesso. Una volta instaurato il dominio spagnolo e scomparsa dall’orizzonte la prospettiva di riconquista della «libertà d’Italia», alle precedenti aspettative si sovrappose la speranza che un potere forte, qual era la monarchia di Carlo V e di Filippo II, potesse introdurre dall’esterno l’equilibrio politico e sociale che i singoli Stati italiani non avevano potuto raggiungere in modo autonomo. Il nucleo delle riflessioni ed esperienze che avevano trovato nel pensiero di Machiavelli la più alta espressione non fu tuttavia disperso. In una situazione molto diversa da quella sperimentata durante le guerre d’Italia, il rapporto fra patriottismo e riforma politica riemerse faticosamente ed in modo assai travagliato tra la fine del XVI e la metà del XVII secolo. Ad una prima fase di accentuazione della pressione riformatrice sulla monarchia seguì la ripresa di aspirazioni e movimenti di indipendenza sulla base di due condizioni: la constatazione della inconciliabilità tra riforma (o modernizzazione dello Stato) e dominio straniero e la percezione, accompagnata da generose illusioni, della decadenza della potenza dominante.

9  J.A. Maravall, Stato moderno e mentalità sociale, trad. it., Bologna 1991, vol. I, p. 556.

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2. Patriottismo di Machiavelli Nell’appassionata esortazione dell’ultimo capitolo del Principe, scritta nel momento in cui l’Italia era invasa da eserciti stranieri e già in parte caduta sotto il dominio della Spagna, Machiavelli affidava la speranza della difesa e riconquista dell’indipendenza italiana non soltanto all’avvento di un «principe nuovo». Egli aveva anche, o mostrava di avere, grande fiducia della disponibilità delle popolazioni italiane verso l’impresa nella liberazione e verso la riforma degli ordinamenti politici che ne era indispensabile premessa e condizione. «Veruna cosa – egli scriveva, rivolgendosi all’auspicato promotore della rinascita – fa tanto onore a un uomo che di nuovo surga quanto fa le nuove leggi e li nuovi ordini trovati da lui». In Italia, aggiungeva, «non manca materia da introdurvi ogni forma. Qui la virtù è grande nelle membra quando la non mancassi ne’ capi». Le province che avevano sofferto delle «alluvioni esterne» avrebbero accolto con amore il nuovo principe: la loro sete di vendetta per le violenze subite nel corso delle invasioni, la loro ostinata fede, la loro pietà lo avrebbero sostenuto. Quali porte – scriveva – gli si chiuderebbero? Quali popoli gli negherebbero l’ubbidienza? Quale Italiano gli negherebbe l’ossequio? Quale invidia gli si opporrebbe? «A ognuno puzza questo barbaro dominio...». La fiducia in una così ampia e fervida disponibilità non corrisponde al quadro tracciato poi dagli storici. È stata sempre prevalente l’opinione che gli Italiani rimasero passivi di fronte all’invasione straniera e che, in definitiva, si adattarono e vennero a compromesso con gli invasori. La «eroica chiusa» (Dionisotti) del Principe, a parte i dubbi e le discussioni sulla data della stesura, è comunemente considerata soltanto una «visione poetica», come l’ha definita Benedetto Croce, una esortazione retorica del tutto irrealistica in quelle circostanze e per lo scopo che si proponeva. Vi è in questo giudizio, insieme alla convinzione ­dell’impossibilità di opporsi alle invasioni, anche una reazione alle interpretazioni risorgimentali (quella di Pasquale Villari, per esempio) che hanno attribuito a Machiavelli, con una evidente forzatura, l’intenzione di indicare in quelle pagine una prospettiva di unificazione nazionale. L’uso dell’espressione «la libertà dell’Italia», molto frequente nella pubblicistica politica e negli atti dei governi di quel periodo, non comportava l’abbandono del particolarismo degli Stati e tanto meno propositi di

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unificazione nazionale. Libertà d’Italia, nel rapporto con il mondo esterno, era l’indipendenza dei singoli Stati, ognuno con la sua autonomia: un sistema che aveva come punto di riferimento anche un’idea e un sentimento della nazione, ma con ben definite articolazioni particolari, il cui turbamento era considerato il pericolo maggiore per la comune sicurezza e per la pace. Anche la «unione de Italia» – la formula usata da Giovanni Pontano alla vigilia della discesa di Carlo VIII – altro non voleva essere che una proposta di alleanza o accordo tra gli Stati della penisola. Machiavelli era aperto, più di molti suoi contemporanei, alla considerazione d’insieme dei problemi italiani, ma certo non trascurava la complessità della situazione politica e verosimilmente non pensava alla possibilità di superare, in un programma di rinascita, le realtà statuali esistenti. Anche la sua visione della riforma politica restava centrata sull’area toscana e romana; e non a caso, qualche anno dopo, il suo progetto prese corpo nel discorso sullo Stato di Firenze indirizzato al papa Leone X (Discorso per rassettare le chose di Firenze doppo la morte del ducha Lorenzo). L’Esortazione fu scritta quando non si era ancora diffusa e affermata la convinzione che l’invasione francese del 1494 aveva segnato una svolta definitiva e aperto una nuova età della storia italiana ed europea. La seconda discesa francese e l’impianto del dominio spagnolo nel Regno di Napoli avevano fatto risorgere le preoccupazioni che il successo della Lega italiana contro Carlo VIII aveva attenuato; tuttavia, soltanto le esperienze della seconda metà degli anni Venti e l’affermazione in Italia del potere di Carlo V eliminarono completamente incertezze e illusioni: la dipendenza delle sorti del paese dalle potenze straniere e dai loro conflitti era ormai un fatto consolidato e duraturo. A parte la precisazione del quadro politico e ideale e del momento storico in cui l’Esortazione deve essere inserita, vi è comunque il problema degli elementi concreti su cui Machiavelli si basava quando parlava di un’Italia «tutta pronta e disposta a seguire una bandiera». La sua fiducia non poteva nascere soltanto dal riferimen­to alle reazioni immediate ed elementari provocate dalla guerra e dalle invasioni nelle varie parti del paese. Alla sua mente erano certamente presenti le reazioni antifrancesi che si erano manifesta­te a Napoli e in Lombardia dopo le prime fasi di incertezza, la mobi­litazione popolare che aveva riportato sul trono il re di Napoli Ferrante II, la resistenza militare in Toscana, la sollevazione antifrancese di Genova, l’accanimen-

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to con cui i contadini veneti si erano opposti alle ­truppe imperiali e che egli stesso aveva descritto con ammirazione e sbalordimento nella famosa lettera inviata dal campo imperiale al governo fiorentino il 26 novembre del 1509. Episodi notissimi nel loro insieme, ai quali forse non si è attribuito tutto il significato che ebbero dal punto di vista dei contenuti di riforma politica. Secondo il suo giudizio, tuttavia, soltanto la riforma delle istituzioni politiche, degli ordinamenti militari e dello spirito pubblico, poteva creare le condizioni per superare la crisi che aveva aperto la strada alle invasioni e per suscitare un’efficace resistenza e una valida reazione nazionale. Anch’egli forse subì, come Guicciardini, la suggestione retorica della cosiddetta disfida di Barletta (1503), il piccolo torneo tra Francesi e Italiani passato poi a rappresentare per le scolaresche dell’Italia unita la permanenza delle virtù italiche attraverso la catastrofe nazionale. Di fatto, l’assunzione di questo simbolo era quasi una involontaria e implicita conferma del giudizio sulla mancanza di iniziativa politica e di una rilevante «reazione nazionale» all’attacco esterno. Anche Machiavelli fu attratto dalla suggestione retorica della disfida. Ma l’accenno che egli fa nel XXVI capitolo del Principe ai «duelli» e ai «congressi [combattimenti] de’ pochi», ed alla superiorità dimostrata dagli Italiani in questi casi, mira in sostanza a ridimensionare il significato e l’importanza degli eroismi individuali ed è invece l’occasione per considerazioni di ben più grande rilievo sull’organizzazione militare e politica dei popoli e degli Stati, cioè sui grandi temi che gli stavano veramente a cuore. Parlare di eroismi personali è una cosa, ma «come si viene agli eserciti», egli scriveva, (cioè all’organizzazione collettiva, agli ordinamenti politici, al governo, allo Stato) gli Italiani «non compariscono». Egli puntava soprattutto sulla corrispondenza tra il «principe nuovo» e un movimento complessivo della società italiana. Negli episodi di resistenza antifrancese, antispagnola e antimperiale che si verificarono in varie parti della penisola e nelle iniziative che furono prese in quegli anni non mancarono, insieme a un qualche senso dell’identità nazionale e della comunanza di interessi delle popolazioni italiane, tendenze, aspirazioni e tentativi di riforma. Il fatto che non ebbero un peso decisivo e non riuscirono a salvaguardare l’indipendenza della penisola non significa che, anche a prescindere dai problemi di interpretazione del pensiero di Machiavelli, essi siano privi di importanza per il giudizio sulla coscienza civile e sui caratteri della società italiana in uno dei periodi più travagliati e

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tragici della sua storia. Le generose illusioni, specie se pagate a caro prezzo, non equivalgono alla semplice passività. Al di là delle ovvie differenze, una caratteristica comune dei vari movimenti fu l’aspirazione all’ampliamento delle forme di partecipazione politica, ad un maggiore equilibrio tra privato e pubblico nel governo degli Stati (cioè tra il potere personale del principe e gli organismi rappresentativi della società) e tra la rappresentanza nobiliare e quella popolare nei diversi livelli dell’ordinamento politico e dell’amministrazione pubblica. Firenze fu il centro in cui la tensione sostenuta dall’idea del rinnovamento e dal repubblicanesimo «democratico» fu più intensa e durò più a lungo, dalla formulazione religiosa del Savonarola all’ultima repubblica. Le vicende sono note e non è necessario tornare a parlarne in questa occasione10. Nel Veneto il movimento si manifestò a livello locale e periferico, nei centri e nelle città della Terraferma. Il tentativo di ridurre il potere nobiliare nei Consigli cittadini non fu sostenuto dalle magistrature della Repubblica, ma la repressione e l’epurazione degli esponenti locali, in maggioranza nobili padovani e vicentini, che nel corso della guerra erano passati nel campo avverso, e la loro sostituzione con elementi fedeli produsse anche importanti mutamenti nei rapporti tra Dominante e dominati11. Nel Regno di Napoli, dove fino allora il dibattito politico era stato di gran lunga inferiore ai livelli di intensità e di qualità che aveva raggiunto a Firenze, protagonista principale fu invece il popolo della capitale. Lo scontro tra nobiltà e popolo si svolse qui dal 1494 al 1506, avendo come punto di riferimento i cinque sovrani che si avvicendarono sul trono in quel breve periodo. I risultati furono modesti, se vengono considerati in rapporto alla rivendicazione della parità di rappresentanza tra nobili e popolo nell’amministrazione della capitale, che fu allora per la prima volta avanzata e nettamente respinta. Ma il valore di quello e degli altri movimenti contemporanei di analoga ispirazione non può essere valutato soltanto alla luce della sconfitta che tutti subirono. La filosofia politica che sostenne l’azione dei popolari affiora, nel caso di Napoli, oltre che nei documenti ufficiali delle capitolazioni del 1495, 1496, 10  Cfr. R. von Albertini, Firenze dalla repubblica al principato. Storia e coscienza politica, trad. it., Torino 1970. 11  Del Torre, Venezia e la Terraferma dopo la pace di Cambrai, cit., passim.

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1498 e 150612, anche nelle parole di commento che un cronista dedicò, all’inizio di questa fase, all’esito dei contrasti. L’insoddisfazione per i risultati delle concessioni ottenute dai popolari spinse il cronista ad una riflessione significativa: «Quando lo regno tiene bono superiore, che non osserva a qualità [cioè, che non fa dipendere le sue decisioni dal rango sociale dei sudditi] ma alla Giustizia, ognuno si contenta perché s’have a stare all’ubbidienza; li Popoli sono allegri perché sono Vassalli tutti ad uno Re, uno Signore; e lo popolano è vassallo come li Signori e Baroni e qualsivoglia Gentilhuomo, ché tutti son Compagni...»13. Il «bono superiore» che il cronista auspicava non era una magistratura repubblicana ma un principe: le idee di riforma non avevano qui una impronta repubblicana come a Firenze14. Era comune ai protagonisti della riflessione politica italiana di quegli anni l’idea che per il Regno di Napoli solo un governo monarchico fosse conveniente. L’eguaglianza, che è il nocciolo della riflessione del cronista e di cui cercherò di esporre avanti il significato, non era associata soltanto al repubblicanesimo. Lo stesso Machiavelli, del resto, riteneva che una fase di transizione principesca e assolutistica fosse necessaria anche per Firenze. È in nome dell’appartenenza alla patria comune che i sudditi emarginati ed esclusi fino a questo momento dalla rappresentanza politica possono chiedere una modifica istituzionale a loro favore e rivendicare nel governo dello Stato (sia esso monarchico o repubblicano) la prevalenza della giustizia sull’arbitrio e sulla parzialità. L’idea della riforma, insieme ad una reazione patriottica e indipendentistica, ebbe ancora a Napoli una manifestazione concreta nel 1510, quando si creò un movimento, basato sull’unione tra nobiltà e popolo, contro il tentativo di introdurre a Napoli l’Inquisizione di Spagna. Una volta respinto il progetto, fu fatto il tentativo di dare una forma permanente e più ampia all’accordo; episodio del quale il Croce dice addirittura che fu «quasi un avviamento a quel che più tardi doveva, con miglior fortuna, accadere nelle Fiandre»15. A parte 12  Cfr. M. Schipa, Il popolo di Napoli dal 1495 al 1522, in «Archivio storico per le province napoletane», 1909. 13  Id., Contese sociali napoletane nel Medioevo, Napoli 1908. 14  Su questo argomento cfr. J.H. Bentley, Politics and Culture in Reinassance Naples, Princeton 1987. 15  B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari 1925, p. 113 e, per maggiori ragguagli, L. Amabile, Il Santo Officio della Inquisizione in Napoli, Città di Castello 1892, pp. 101-120.

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le potenzialità indipendentistiche, che erano in realtà inesistenti, il fatto nuovo fu l’opposizione al potere in nome degli interessi di tutta la collettività e non soltanto dei ceti privilegiati. Le idee e volontà di riforma politica che attraversarono i decenni della crisi e delle guerre d’Italia emersero certo con maggiore evidenza sul terreno del repubblicanesimo; ma anche all’interno del principato si manifestarono esigenze e propositi di reagire con la riforma alla crisi italiana; ed io credo che non debbano essere sottovalutate neppure le aspirazioni alla riforma e a forme di autonomia che cercarono di affermarsi nel forzato adattamento al dominio straniero o almeno nella fase in cui esso non si era ancora instaurato in tutta la sua pienezza. Il caso di Napoli appena citato non è il solo. Anche a Milano, l’atteggiamento dei gruppi dirigenti e delle forze politiche non fu passivo. Una volta constatata l’impossibilità di mantenere una piena sovranità, i Milanesi si proposero di conservare spazio e condizioni di autonomia dentro il dominio di un potere esterno. Anche qui, non fu un momento e un aspetto della tradizionale resistenza dei privilegiati alla centralizzazione del potere ed allo sviluppo dello Stato. Non fu, cioè, l’aspirazione ad una conservazione statica, ad una pura e semplice difesa dell’esistente e alla possibilità di approfittare della lontananza del sovrano e della sua impossibilità di esercitare un governo diretto. Gli anni della crisi furono anche anni di progetti e di iniziative: fu la stessa incertezza e mutevolezza dei tempi che stimolò l’impegno riformatore se non sul piano generale dello Stato almeno in quello delle istituzioni locali e cittadine. I risultati concreti prodotti da questo impegno e dalle reazioni alla pressione straniera non furono certo sufficienti ad impedire l’assoggettamento, e quindi la caduta delle aspirazioni o delle illusioni di indipendenza; ma crearono, insieme ad una forte coscienza di sé della comunità milanese e lombarda, la possibilità di rivendicare, sotto il governo spagnolo, aree di autogoverno, tradizioni di capacità amministrativa, il senso di una collettività in qualche misura omogenea e animata da spirito civico16. Altri esempi, come quello della rivolta degli Straccioni di Lucca, esprimono la coincidenza della volontà di riforma e della crisi ed il 16  G. Chittolini, Milan in the face of the italian wars (1494-1535): between the crisis of the State and the affirmation of urban autonomy, in The French Descent into Reinassance Italy, a cura di D. Abulafia, Aldershot 1995.

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protrarsi dei tentativi di azione fin dentro la fase più avanzata e definitiva di impianto del dominio straniero. Oltre sessant’anni fa, Carlo Dionisotti ha ripubblicato, con un’ampia introduzione, l’Orazione ai nobili di Lucca di Giovanni Guidiccioni (1533)17. Dionisotti ha tracciato allora una linea di interpretazione che tendeva a valorizzare, con riferimento al particolare contesto politico e culturale di Lucca, le idee di rinnovamento e le reazioni patriottiche che circolarono in quella fase della storia italiana. L’analisi era tanto più significativa in quanto riguardava non la rivolta in se stessa – della quale si dava comunque una breve e precisa narrazione – ma una successiva riflessione che, a sconfitta avvenuta, coglieva il valore profondo del movimento e lo indicava alla sensibilità politica e morale dei vincitori. Nel suo discorso Guidiccioni prendeva le distanze dall’insurrezione per poter affermare con maggiore forza la validità delle esigenze da cui essa era nata e per trasferire la sua affermazione ideale, al di là del singolo episodio, al complesso della realtà italiana di quel momento. 3. Patria e ambizione Pur con tutti i loro limiti, le contraddizioni, le illusioni e il comune destino della sconfitta, mi sembra che i movimenti e tentativi a cui ho fatto cenno andassero nel senso della riforma politica e civile che Machiavelli auspicava. L’importanza del concetto di «equalità», uno dei temi centrali della sua riflessione politica, è stata di recente sottolineata18, ma non sempre il suo rapporto con il patriottismo è apparso con la necessaria evidenza. Anche se nell’opera di Machiavelli non manca qualche accenno vagamente pauperistico, la sua idea di eguaglianza non era né l’egualitarismo sociale e cristiano diffuso nel tardo Medioevo e ancora vivo nella prima età moderna e contemporanea, e neppure una anticipazione dell’eguaglianza giuridica e della universalità dei diritti politici dei cittadini. Era invece un principio di solidarietà basato sull’appartenenza alla comunità e sull’interesse comune: in questo senso essa è strettamente con  Una nuova edizione è stata pubblicata a Milano nel 1994.   De Grazia, Machiavelli all’inferno, cit.; M. Viroli, Per amore della patria, RomaBari 1995. 17 18

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nessa con il patriottismo. La «equalità dei cittadini» non escludeva la disparità giuridica e un certo grado di diseguaglianza dei diritti politici. Ma non equivaleva al puro e semplice rispetto della legge. Il principio comportava, infatti, anche la rivendicazione di un «governo largo» come condizione per affermare stabilmente l’autorità della legge e per evitare l’arbitrio, l’anarchia e la tirannide. L’obiettivo essenziale (che allora non riuscì a superare lo scontro delle fazioni ed a porsi come obiettivo generale delle comunità sociali e statali che componevano il mosaico italiano) era il consolidamento del legame civile tra tutti i membri della comunità, la subordinazione di tutti, grandi e piccoli, ognuno con il suo livello di potere sociale e politico, all’interesse generale. Era, nel linguaggio di Machiavelli, l’opposto dell’Ambizione, alla quale egli attribuiva quelle violenze e oppressioni interne che erano state causa della rovina degli Stati italiani. Patriottismo contro ambizione, dunque. Quest’ultimo termine è il titolo del capitolo in terzine nel quale Machiavelli, nel modo sintetico e denso suggerito dalla forma poetica, pone uno dei grandi problemi dell’Europa e dell’Italia del suo tempo: perché accade che un popolo domini e l’altro sia soggetto e, più particolarmente, perché la Francia sia in quel momento vincitrice e, dall’altra parte, «Italia tutta/un mar d’affanni tempestoso franga»: «Ma se volessi saper la cagione / perché una gente imperi e l’altra pianga, / regnando in ogni loco l’Ambizione; e perché Francia vittrice rimanga; / dall’altra parte, perché Italia tutta/un mar d’affanni tempestoso franga; e perché in questa parte sia ridutta / la penitenza di quel tristo seme / che Ambizione ed Avarizia frutta; se con Ambizion congiunto è insieme / un cuor feroce, una virtute armata, / quivi del proprio mal raro si teme. Quando una region vive efferata / per sua natura, e poi per Accidente / di buone leggi è instrutta ed ordinata, l’Ambizion contra l’esterna gente / usa il furor, ch’usarlo infra se stessa / né la legge né il re glielo consente; onde il mal proprio quasi sempre cessa, / ma suol ben disturbar l’altrui ovile, / dove quel suo furor l’insegna ha messa. Fia per avverso quel loco servile, / ad ogni danno, ad ogni ingiuria esposto, / dove fia gente ambiziosa e vile. Se viltà e trist’ordin siede accosto / a questa Ambizione, ogni sciagura, / ogni rovina, ogni altro mal vien tosto...»

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Il termine «ambizione» non figura negli studi di Fredi Chiappelli sul linguaggio di Machiavelli e l’analisi del suo significato ha suscitato scarso interesse tra gli studiosi. Ma credo che valga la pena fermarsi un momento a riconsiderarlo. Esso ricorre 60 volte nei Discorsi e 57 nelle Istorie fiorentine, ed è presente in quasi tutte le altre opere. Quando non è usato in modo generico, indica il ribellismo dei grandi signori e la loro insofferenza verso ogni superiore autorità e verso la legge comune. Con questo significato ed in riferimento allo stesso fenomeno il termine si è diffuso largamente nella cultura politica della seconda metà del Cinquecento e dell’età barocca: Lipsio e Botero, gli autori della famosa Satire Menippée, i «politiques» e i sostenitori di Enrico IV, i teorici della ragion di Stato e i costruttori del sistema assolutistico come Richelieu, Olivares e Mazzarino, hanno considerato l’ambizione, «malefica divinità» ispiratrice del ribellismo nobiliare, una chiave essenziale per l’interpretazione della conflittualità politica del XVI e del XVII secolo. Non sono in grado di affermare che fu proprio Machiavelli ad introdurre questa novità nel linguaggio politico; ma certamente la visione della realtà politica e della storia contemporanea che essa esprime e la contrapposizione machiavelliana tra ambizione e civile «equalità» ebbero un’influenza forte e di lunga durata e contribuirono a stimolare, in una situazione assai diversa da quella in cui Machiavelli visse, la ripresa del pensiero e dell’iniziativa politica. Paradossalmente, inoltre, una volta definito e stabilizzato il nuovo quadro politico e prima che la ripresa potesse verificarsi, la speranza o l’illusione che la lotta contro l’esclusivismo e il ribellismo dei ceti privilegiati potesse avere successo con l’instaurazione di un forte potere esterno favorì il processo di adattamento all’irresistibile impianto del dominio spagnolo. 4. Cultura e azione politica In uno scritto sulla coscienza nazionale italiana, Felix Gilbert, riferendosi a questo periodo, si è domandato perché non ci fu allora in Italia «la reazione che di solito si verifica di fronte al dominio straniero, un sussulto di sentimento nazionale»19. La domanda avrebbe

19  F. Gilbert, Italy, in National consciousness, history and political culture in early modern Europe, a cura di O. Ranum, Baltimore and London 1975.

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dovuto forse essere più correttamente formulata in modo da non escludere un apprezzamento dei tentativi e delle iniziative a cui ho sommariamente accennato. È vero, però, che il movimento suscitato dalla crisi e dall’impatto esterno fu sopito e scomparve dopo il 1540: silenzio dell’alta pubblicistica politica, chiusura nel privato, cortigianeria, conformismo, velleitaria nostalgia di posizioni e speranze che avevano perduto concretezza e attualità, pessimismo e senso di impotenza. Non credo, tuttavia, che questo quadro possa essere esteso a tutto il periodo del dominio spagnolo. Il riformismo politico rinacque, dapprima, come tentativo interno al regime assolutistico ed alla monarchia, e infine, nella forma di un repubblicanesimo ispirato non tanto, o non più soltanto, alla tradizione delle città-Stato italiane, quanto invece, o soprattutto, ai movimenti di indipendenza e di liberazione sorti nei domini della corona spagnola e dell’Impero. E rinacque con caratteri nuovi e diversi, non solo sul piano teorico, ma come movimento politico reale. Il rapporto dinamico fra patriottismo e riforma cominciò a riemergere tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, sullo sfondo di una crisi sociale tempestosa e sconvolgente che ho cercato a suo tempo di descrivere, per la parte che si riferisce al Regno di Napoli, nel secondo capitolo della mia Rivolta antispagnola. Lo sconvolgimento del quadro religioso, politico e culturale provocato dalla Controriforma e la coincidenza con i primi segni di difficoltà e di decadenza della potenza dominante contribuirono ad esasperare ulteriormente le tensioni e ad aggravare il senso di instabilità generale. Fu il clima che alimentò l’iniziale riflessione politica di Tommaso Campanella e le speranze dei suoi amici, ascoltatori e seguaci. Ma, una volta naufragati nel sangue e nei tormenti i progetti di rivolgimenti messianici e le proteste estreme, il bisogno e l’idea della riforma rimasero e i suoi contenuti si delinearono, quando poterono esprimersi, con maggiore chiarezza. L’orizzonte entro il quale si svolsero inizialmente idee e movimenti fu ancora quello delle realtà statuali esistenti e della tradizionale struttura politica; ancora più caratteristico fu il fatto che inizialmente i progetti di riforma furono ritenuti compatibili con il dominio straniero. Soltanto più tardi, le conseguenze del coinvolgimento italiano nella guerra dei Trent’anni e l’accentuata crisi della monarchia spagnola portarono in primo piano la volontà e i propositi di indipendenza.

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Nello Stato di Milano, il potere della monarchia, proprio per i mutamenti avvenuti nella fase della grande crisi, era effettivamente «moderato dalla rappresentanza e dalle diverse espressioni degli interessi locali»20 e lo fu ancora di più dalla forza che il movimento della Controriforma diede alla Chiesa ambrosiana. La vicinanza della minaccia francese e un imponente flusso di aiuti finanziari e militari da Napoli e dalla Sicilia contribuirono poi a mantenere solidarietà ed equilibri interni, e ad attenuare i contrasti col governo spagnolo. A Genova inve­ce – punto di snodo del trasferimento di risorse dall’Italia meridionale allo Stato di Milano – non mancarono, in relazione con progetti di riforma degli ordinamenti della Repubblica e con ­rinnovate tensioni politiche e sociali interne, le manifestazioni di insofferenza verso il tra­dizionale e consolidato rapporto con la Spagna. Nelle altre parti d’Italia, accanto alle forme di opposizione più appariscenti ma prive di contenuto innovatore che venivano dalle resistenze e dalle congiure di esponenti del baronaggio meridionale e dagli intrighi o dalle iniziative di principi laici e signori della Chiesa, ci furono, se non profondi mutamenti, almeno prodromi e segnali di una svolta. L’antispagnolismo di Traiano Boccalini e di altri letterati e scrittori, a cui si è già fatto cenno nelle pagine precedenti, non riuscì a far coagulare forze e movimenti politici, ma non deve essere sottovalutato né come elemento di collegamento ideale e culturale con altri paesi dell’Europa centrale e nord-occidentale, né per i suoi contenuti nuovi di critica politica. Scrittori politici come Ludovico Zuccolo, Anton Giulio Brignole Sale, Andrea Spinola, Alessandro Tassoni, Fulvio Testi, Antonio Serra, Torquato Accetto, cronisti come Bisaccioni, Bentivoglio, Siri non possono essere considerati sostenitori dello status quo. La traduzione degli scritti di Bartolomeo de Las Casas sullo sterminio degli Indiani d’America, pubblicata a Venezia negli anni fra il 1626 e il 1636 (con notevole ritardo rispetto a quelle fatte in altri paesi europei) introdusse anche in Italia uno dei motivi più forti della propaganda e della polemica contro l’imperialismo spagnolo; ma non è senza significato che queste traduzioni siano state precedute già nel 1613 da una biografia di Las Casas, pubblicata a Pavia dall’oscuro frate domenicano Giovanni Michele Pio, quasi contemporaneamente alla Pietra del paragone politico di Traiano Boccalini.   Rosa, La cultura politica, cit.

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Parte prima. Ragion di Stato e ragioni dei sudditi

Gran parte di questo travaglio non riuscì a superare i confini del­ l’attività culturale e gli ostacoli della repressione e della censura. Il trapasso dalla elaborazione culturale all’iniziativa politica avvenne, questa volta, soprattutto nell’Italia meridionale, dove l’impresa era più difficile e l’apparato repressivo più pesante; ma forse anche per questo. Se si vuole personalizzare l’inizio del movimento esso non va riferito soltanto al nome di Tommaso Campanella, alle potenti suggestioni ideali della sua opera ed alla funzione di simbolo dell’oppressione che ebbe la sua carcerazione. La sua influenza contribuì certamente ad alimentare la richiesta di riforme all’interno della monarchia di Spagna e successivamente a diffondere l’ondata di risentimento antispagnolo. A dare avvio alla rinascita fu soprattutto un gruppo più vicino a idee e sentimenti diffusi nel ceto medio della capitale e in qualche modo idealmente collegati alle ormai lontane esperienze della crisi provocata dalle invasioni. La ripresa del binomio patriottismo-riforma fu giustificata questa volta con la ricostruzione storica. La Historia del Regno di Napoli, che costò il carcere al suo autore, Giovanni Antonio Summonte, fu uno dei testi che diedero origine al movimento. «L’amor della Patria – egli scrisse – che suol naturalmente infiammare i petti degli Huomini, have operato in me, che dopo lunghe fatiche habbia a dar fuori l’historia dei Re di Napoli, lettione di gran pregio per i varij successi delle cose humane, la quale, oltre che contiene tutto ciò che negli altri libri si legge, tratta anco di molte cose che non mai da altri furono scritte o date in luce...». Apparentemente una convenzionale storia dei re, ma la novità era la scoperta o l’invenzione di una presenza politica del popolo nella storia del Regno o piuttosto la manifestazione di una nuova aspirazione politica legittimata e rivestita di panni storici: la Historia di Summonte divenne per questo una delle opere più popolari e diffuse della cultura italiana del Seicento. Il movimento riformatore fece la prima, difficilissima prova, mentre la monarchia di Spagna faceva le prime operazioni politico-militari – intervento in Boemia e in Germania e preparazione della ripresa del conflitto con l’Olanda –, che dovevano sfociare nella guerra dei Trent’anni. Erano gli anni tra il 1618 e il 1620: il momento peggiore per sostenere le «bone riforme» (secondo l’espressione usata in un documento che si può attribuire a Giulio Genoino)21 che avrebbero dovuto dare finalmente a Napoli ed   Il documento è ora pubblicato nel volume Scrittori politici dell’età barocca, cit.

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IV. Patriottismo e riforma politica

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al regno equilibrio interno e porre le premesse di una reale anche se limitata autonomia nei confronti della corona. Il rapporto di fedeltà che si era instaurato con la monarchia di Spagna e la convinzione che solo un sovrano e un potere assolutistico forte potevano realizzare le riforme istituzionali di cui la società aveva bisogno furono gli illusori fondamenti del tentativo fatto da Giulio Genoino e dai suoi sostenitori. In quel momento, del resto, non vi era altra scelta che seguire quella strada o rinunciare al progetto. Le conclusioni dimostrarono l’inconciliabilità tra riforme e dominio straniero. La difficoltà e la lentezza con cui i riformatori napoletani ne presero atto e cominciarono a rivendicare indipendenza e ­libertà confermano la complessità dei rapporti con la monarchia e la profondità delle fratture all’interno della società. Essi riuscirono, tuttavia, districandosi dalle pastoie di un lealismo monarchico che aveva ormai una lunga e consolidata tradizione, a creare una nuova Repubblica, che durò dalla metà di ottobre del 1647 all’aprile del 1648, e ad elaborare, tra le tempeste e le contraddizioni della rivoluzione, un’idea di fedeltà che aveva come punto di riferimento e di forza, in alternativa al re e al chiuso esclusivismo nobiliare, il richiamo al bene comune, alla libertà e alla patria22. In un contesto assai diverso e insieme a contenuti politici e ideali nuovi, erano gli stessi elementi dell’antica Esortazione di Niccolò Machiavelli. Una grande parte della comunità fu coinvolta nel movimento politico e le sue ripercussioni in Italia e negli altri paesi furono ampie, tanto da far pensare che la monarchia di Spagna avesse perduto in Italia le basi del consenso. Alla fine, il proposito della liberazione subì una sconfitta. Ma esso ha consegnato agli storici qualche elemento per correggere l’idea di una decadenza uniforme e secolare dell’Italia del Cinque e del Seicento e per dare un po’ di soddisfazione all’amor di patria dei posteri.

22  Rinvio, per una parziale documentazione, al mio volume Per il re o per la patria, cit.

Parte seconda

Politica e no: Le inquietudini

I

Il ribelle La condanna e il discredito della ribellione penetrarono così profondamente nella cultura e nella coscienza collettiva dell’età barocca da oscurare per lungo tempo il valore ideale della resistenza all’oppressione e alla tirannide, che in altri periodi storici era stato accettato ed esaltato. Una vastissima letteratura che va dalle Vindiciae contra tyrannos (1579) di Stephanus Junius Brutus1 al Behemot (1679) di Thomas Hobbes, fu prodotta nel corso di un secolo sul tema della ribellione, per sostenere o negare la sua legittimità, propugnarla o combatterla, analizzarne cause e aspetti, fare il resoconto o la storia di singoli avvenimenti. Nell’arco del secolo e nell’insieme di questo materiale – che per il semplice inventario richiederebbe più di un volume – si può distinguere circa un cinquantennio (1590-1640) in cui la negazione e il rifiuto furono nettamente dominanti rispetto alla giustificazione ed al confronto delle idee e dei punti di vista. Prevalente nello spirito dell’epoca oltre che nella dottrina e nella pratica di governo, questo orientamento fu particolarmente rigido, ma non senza apparenti incoerenze e ambiguità. Contraddittori non furono i tentativi, fatti da tutti i governi, di suscitare la ribellione (movimenti insurrezionali, congiure e imprese terroristiche) in casa del nemico. E non è sorprendente che l’Inghilterra e la Francia abbiano aiutato la Repubblica delle Province Unite o che il papa 1  L’autore di questa opera largamente conosciuta e discussa fu il pubblicista e diplomatico francese Hubert Languet che sostenne la causa degli ugonotti durante il regno di Carlo IX. Dopo la strage di San Bartolomeo si trasferì a Vienna come incaricato di affari dell’Elettore di Sassonia. Morì ad Anversa nel 1581. I dati bibliografici completi delle opere citate in questo capitolo sono indicati in appendice.

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Parte seconda. Politica e no: le inquietudini

Urbano VIII, all’indomani della rivoluzione portoghese del 1640, non abbia respinto con la prontezza e la decisione che il governo spagnolo avrebbe desiderato il vescovo di Lamego, inviato e messaggero del ribelle Braganza. Una fase ideologicamente così conservatrice, nella quale sembrava che lo spazio per la preparazione ideale del mutamento e per la lotta contro il potere formalmente legittimo fosse inesistente, si concluse tuttavia, nel decennio 1640-50, con una crisi rivoluzionaria quasi generale. Il periodo barocco, inoltre, è racchiuso, approssimativamente, tra la sollevazione dei Paesi Bassi e l’indipendenza del Portogallo. Per molti anni Guglielmo d’Orange e il duca di Braganza, i capi dei due nuovi Stati indipendenti, furono regolarmente qualificati ribelli, insieme alle rispettive nazioni, negli atti della diplomazia e del governo spagnoli; ma, al di fuori dei domini asburgici, i due episodi apparvero tutt’altro che negativi ai contemporanei. Ad alcuni non sfuggiva che definire ribelli intiere comunità nazionali equivaleva a riconoscere la legittimità della loro ribellione, sostenuta dal consenso generale. Eppure è vero che, alla fine del Cinquecento e nei primi decenni del Seicento, la condanna della ribellione fu un tratto dominante della cultura e della mentalità. Per José Antonio Maravall la cultura del Barocco fu nel suo insieme una risposta, promossa dalle classi dirigenti e dai governi, alla minaccia della ribellione e della protesta sociale. Il grande incremento delle manifestazioni culturali indirizzate ai ceti popolari si spiegherebbe con la necessità di svolgere un’azione preventiva a largo raggio e di condizionare la mentalità comune. Cultura barocca come cultura di governo, funzionale alla stabilità politica ed alla quiete pubblica e capace di imporsi e di diventare senso comune, relegando drasticamente ai margini, più di quanto era accaduto in epoche precedenti, le idee di opposizione e di protesta e i propositi eversivi più o meno mascherati. Una tesi così radicale, riferita ad un grande movimento culturale unitario ma non univoco, non può non suscitare dubbi e riserve. La forte pressione dall’alto e la diffusa convinzione di vivere in un periodo eccezionale di inquietudine e di turbolenza, provocate dall’espansione della popolazione urbana, dalla crisi economica, dalla conflittualità sociale e da un senso generale di instabilità possono spiegare soltanto in parte, o in modo molto generico, la tendenza ad una rigida uniformità culturale e l’accettazione quasi universale di princìpi che esclude-

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vano l’ipotesi o l’idea della resistenza al potere. Tipica del periodo e fortemente sentita fu allora l’esigenza di escogitare «le maniere di trattenere il Popolo» col fine specifico di «ovviare a’ romori e a’ sollevamenti». Giovanni Botero, punto di riferimento obbligatorio della cultura politica barocca, l’ha affermata esplicitamente nel 1589: Perché il Popolo è di natura sua instabile e desideroso di novità, ne avviene che s’egli non è trattenuto con varij mezzi dal suo Prencipe, la cerca da se stesso anco con la mutatione di Stato e di governo; perciò tutti i Prencipi savij hanno introdotto alcuni trattenimenti popolari, ne’ quali, quanto più si ecciterà la virtù dell’animo e del corpo, tanto saranno più a proposito...

Botero ricordava come esempio particolarmente significativo le cerimonie, feste e celebrazioni con le quali il cardinale Borromeo aveva «trattenuto l’infinito popolo di Milano... di tal maniera che le Chiese erano dalla mattina alla sera sempre piene, né fu mai popolo, o più allegro, o più contento, o più quieto di quel che erano i Milanesi, in quei tempi». Le preferenze di Botero, nella mobilitazione della cultura spettacolo, andavano al teatro oltre che alle manifestazioni religiose, ed alla gravità della tragedia piuttosto che alla frivolezza della commedia. Non sempre, comunque, l’intrattenimento popolare a scopo educativo e di prevenzione era basato sul divertimento e sulle piacevoli fantasie. Un certo potere di convinzione fu affidato, oltre che alla ripetizione ossessiva di giudizi, immagini e formule che miravano a creare una visione funesta della ribellione, soprattutto all’atrocità ed alla spettacolare pubblicità del castigo e della repressione. La collaborazione tra cultura giuridica, amministrazione giudiziaria e potere politico ebbe una parte non secondaria nello studio e nella invenzione delle «maniere di trattenere il Popolo»; né mancarono l’incoraggiamento e il consenso dell’opinione comune sulla necessità di castigare i ribelli nei modi più crudeli e di incutere terrore con l’esempio. La volontà di conservazione di governi e classi dirigenti non basta tuttavia a spiegare un orrore del cambiamento e della novità che ha dato una impronta così forte a tutta l’epoca, condizionando il pensiero di persone la cui indipendenza di giudizio è fuori discussione e le idee o la psicologia degli stessi oppositori. Il diritto di difendere armata manu posizioni, interessi, libertà e privilegi di gruppi sociali o di comunità fu rivendicato, talvolta, anche nell’età barocca: ma,

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anziché sul richiamo alle dottrine della resistenza al tiranno, come frequentemente avveniva prima, esso si basò sulla proclamazione dell’obbedienza e della fedeltà al sovrano. Fu una delle conseguenze paradossali del nuovo corso politico barocco. Coloro che non seguirono questa procedura e continuarono a opporsi frontalmente alla maestà e all’autorità del re apparvero, e in parte furono realmente, ombre e fantasmi del passato. Il termine «ribelle» ha una certa ambiguità: pur indicando specificamente, nel XVI e XVII secolo, il fautore del cambiamento politico (e per immediata assimilazione l’eretico), fu attribuito ad ogni forma di protesta e di insubordinazione ed anche a criminali, banditi, devianti di ogni sorta che con la sovversione politica e con l’eresia avevano poco o niente a che fare. Tuttavia, malgrado la deliberata volontà di confondere le acque e negare al ribelle la dignità politica, la cultura e i governi dell’età barocca tennero ben presenti le differenze nella ricca casistica della ribellione. La protesta puramente sociale, dal tumulto urbano alla jacquerie contadina ed al brigantaggio più o meno colorato di motivi sociali, ebbe un posto rilevantissimo, dal punto di vista quantitativo, nella storia europea alla fine del Cinquecento e durante la prima metà del Seicento, ma non comportò di per se stessa, per giudizio comune, il rischio del «mutamento di Stato». Malgrado l’interesse e l’attenzione per le forme più elementari di protesta, di anticonformismo e di eversione e l’endemica frequenza delle loro manifestazioni, la figura centrale, negata e temuta nello stesso tempo, fu allora quella del ribelle politico: ad essa si riferisce il diffuso timore del cambiamento e della novità che appartiene alla cultura ed alla mentalità comune dell’età barocca. Nel lungo periodo la monarchia spagnola fu la compagine statale più colpita dalle inquietudini e lacerazioni interne. Ma non fu la cultura spagnola a promuovere la nuova fase di demonizzazione del ribelle. L’epicentro fu invece la Francia, alla fine del Cinquecento. E con buona ragione, perché la Francia aveva fatto un’esperienza catastrofica del tutto singolare rispetto alle altre grandi monarchie europee: trent’anni di rivolte e di guerre civili avevano colpito il cuore della nazione, spingendola sull’orlo della rovina e del disfacimento e creando profonde lacerazioni nel suo tessuto politico. «I segni delle nostre disgrazie resteranno per sempre in Francia», scrisse nel 1595 il futuro precettore di Luigi XIII, David Rivault. Nel

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rinnovamento di idee politiche e religiose che seguirono l’assassinio di Enrico III (1589) e accompagnarono i primi tempi del regno di Enrico IV, la condanna della ribellione ebbe un posto centrale. La sua irradiazione nel resto dell’Europa è stata poco studiata; ma non è difficile rendersi conto che, quando il problema venne affrontato in quegli anni nella letteratura politica degli altri paesi europei (a cominciare da Giusto Lipsio e da Botero), fu costante il riferimento esplicito o implicito all’esperienza rivoluzionaria della Francia ed alla interpretazione che ne diedero allora i sostenitori della ripresa e del rinnovamento della monarchia francese. Chiudere il periodo delle guerre di religione, aprire la via alla ricostruzione politica e morale della nazione, proporre nuove forme di convivenza tra Chiese diverse e nuovi rapporti tra sovrano e sudditi: il grande impegno ideale e politico verso questi obiettivi presupponeva la critica radicale e possibilmente la liquidazione delle dottrine che avevano dato una copertura ideale alla violenza ed ai movimenti rivoluzionari che nel corso di un trentennio avevano scardinato il potere e l’autorità del sovrano. La teoria della legittimità della ribellione contro il tiranno, elaborata nel corso del Cinquecento sulla scia di un’ampia tradizione medievale e umanistica, ebbe, nelle sue varie versioni, una ispirazione prevalentemente teocratica. In Francia fu largamente accolta dagli ugonotti dopo la strage di San Bartolomeo e portata al punto di massima intensità e vigore dalle Vindiciae. Ma la sua ispirazione era in sintonia anche con l’estremismo cattolico. Jean Boucher, Guillaume Rose ed altri teologi-politici cattolici non incontrarono difficoltà, infatti, a trasferirla nel campo dei leghisti e degli avversari ad oltranza di Enrico IV. Opportunamente rielaborata, essa divenne poi la dottrina quasi ufficiale dei gesuiti con la pubblicazione del De Rege et Regis Institutione di Juan de Mariana (1599). Dopo che Enrico di Navarra divenne erede al trono, i più autorevoli monarcomachi ugonotti si fecero sostenitori del diritto ereditario e si convertirono alla concezione assolutistica della sovranità. Ma le loro dottrine avevano scavato un solco che non era facile colmare. Sia l’autore delle Vindiciae, sia François Hotman nel FrancoGallia avevano cercato di accostare alla giustificazione religiosa un autonomo fondamento giuridico e politico della ribellione, con la tesi dell’origine elettiva della monarchia e della preminenza degli Stati Generali sul sovrano. A loro volta, i teorici cattolici avevano

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attenuato l’impostazione rigidamente nobiliare che aveva avuto la teoria nella sua formulazione originaria. Il campo della sua potenziale influenza si era allargato così anche al di fuori del terreno sul quale e per il quale essa era nata. La grande campagna antirivoluzionaria che si sviluppò in Francia come reazione al disastro provocato dalle guerre di religione fu condotta soprattutto dai cosiddetti politiques, il partito dei cattolici tolleranti che si formò, dopo la strage di San Bartolomeo, in opposizione agli intransigenti della Lega cattolica e del protestantesimo. Fu un caso interessante di collaborazione tra potere politico e cultura e di convergenza di esperienze e posizioni ideali diverse intorno ad un obiettivo comune. L’elenco dei protagonisti comprende, tra gli altri, Pierre Charron, l’amico di Montaigne e autore di un celebre trattato sulla saggezza; Daniel Drouyn, il cui Miroir des Rebelles può essere forse considerato il primo testo specifico e sistematico della letteratura barocca sulla rivoluzione; i politiques parigini autori, sotto la guida del canonico Pierre Le Roy, della Satire Ménippée; il già ricordato Rivault; Gabriel Chappuys, segretario e interprete di Enrico IV per la lingua spagnola e italiana, traduttore di Boccaccio e di Ariosto, di Castiglione e di Niccolò Franco; il dottore in teologia e canonico della Chiesa metropolitana di Tolosa Jean de Baricave, che pubblicò un trattato antirivoluzionario di mille pagine. Michel Roussel, portavoce della Sorbona, e lo scozzese William Barclay, emigrato in Francia, professore di diritto nell’Università di Angers e inventore del termine «monarcomachi», diedero alla campagna una dimensione più ampia allargando il discorso, oltre i confini della cultura politica francese, a George Buchanan e Juan de Mariana. La dimostrazione che i testi dei monarcomachi si basavano su una interpretazione errata e arbitraria delle Sacre Scritture ebbe ovviamente una parte importante nella campagna. Ma il vero punto di forza fu l’evidenza dei guasti che la ribellione aveva provocato in Francia e la corrispondenza, a diversi livelli di intensità, tra l’esperienza francese e i fenomeni di ribellismo che anche gli altri paesi europei avevano sperimentato nel corso del secolo XVI. L’assassinio di Enrico III nel 1589 e quello di Enrico IV nel 1610 segnarono due momenti di particolare intensità della polemica. I motivi principali dell’offensiva antirivoluzionaria furono elaborati e si affermarono già intorno al 1590. A differenza di quello del suo

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successore, l’assassinio di Enrico III non fu un episodio isolato; avvenne invece nel momento culminante dell’agitazione rivoluzionaria, subito dopo l’insurrezione e le barricate di Parigi, promosse dalla Lega cattolica nel maggio del 1588, e dopo che il prestigio e l’autorità del sovrano, costretto a fuggire dalla capitale, erano caduti al punto più basso. Un campionario dei più autorevoli ribelli, esponenti della nobiltà e della gerarchia ecclesiastica e protagonisti della fase finale delle guerre civili, fu presentato dalla Satire Ménippée nel 1594. Il duca di Mayenne, l’arcivescovo di Lione, il rettore della Sorbona, il famigerato governatore di Pierrefront, mezzo nobile e mezzo brigante, il legato pontificio formano, nella galleria della Satire, una serie impressionante di ritratti di brutale egoismo, spirito di sopraffazione, ingiustizia, demagogia, slealtà nei confronti della nazione. Il quadro ebbe un grande successo non solo per l’abilità letteraria degli autori di quel «roi des pamphlets» (come fu definito nell’Ottocento), ma per la credibilità e la forza che gli davano le condizioni in cui versava il paese e gli esiti della ribellione, l’evidente offuscamento dei valori ideali e religiosi, l’anarchia, la barbarie, il terrore, la presenza delle milizie spagnole nella capitale: «O Parigi che non sei più Parigi, ma una spelonca di bestie feroci, una cittadella di Spagnuoli, Valloni e Napoletani, un rifugio e asilo sicuro di ladri, omicidi e assassini, non vorrai mai riprendere la tua dignità e ricordarti di quello che sei stata?». Lo sdegno patriottico e la passione civile che hanno fatto della Satire un classico della letteratura politica e un punto di riferimento della coscienza nazionale francese sono rivolti, più che a condannare il principio della ribellione, a smascherare i singoli ribelli, a denunciare l’antitesi tra i princìpi che essi proclamavano ed i loro comportamenti reali, tra i fini dichiarati e i risultati della loro azione. Diversa è l’impostazione del Miroir des Rebelles di Daniel Drouyn2, la cui forza di convinzione si basa sul proposito di trarre conclusioni generali dall’esperienza particolare della Francia; o meglio, di stabilire una stretta connessione tra il giudizio sull’esperienza francese e la condanna generale e teorica della ribellione. Il fenomeno è considerato in un panorama che va dalla storia ebraica all’Europa cristiana medievale e moderna, attraversando il mondo greco e gli imperi 2  Signore di Belendroit, Daniel Drouyn partecipò ai conflitti religiosi del suo tempo e scrisse un libro sulle vendette divine contro i peccatori.

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persiano, romano, turco; è in questa dimensione di storia universale che si può cogliere pienamente il significato delle vicende trentennali della Francia, con le quali il panorama si conclude: È a voi, mia nazione francese – scrive Drouyn – che ho voluto parlare in questo libro... perché non c’è oggi al mondo un popolo più di voi dedito alla sedizione... Ascoltatemi, miserabili ribelli e persecutori della vostra propria nazione... Con quale argomento, con quale pretesto continuate a resistere a mano armata contro la Corona? In verità non ne avete alcuno e non ci fu mai al mondo una ribellione più immotivata della vostra.

Il giudizio che domina il panorama storico generale e la ricostruzione delle vicende più recenti e vicine è il destino fallimentare della ribellione e la ineluttabilità del castigo. Secondo Drouyn è qui, in questa inevitabile e costante conclusione, il segno della volontà divina di sostenere il potere legittimo, anche quando appartiene a re pagani e idolatri: «se i ribelli infedeli che ignoravano la via della salvezza non sono stati risparmiati dalla mano vendicatrice dell’Onnipotente che ha voluto mantenere nei loro regni sovrani pagani e idolatri, che sarà dei cristiani che sfrontatamente si sollevano contro i loro signori?». «Dio sta sempre dalla parte della legittimità»: il libro vuole dare, attraverso il tema del fallimento, un supporto storico alla teoria sull’origine divina del potere regio, che è il punto di riferimento comune e il fondamento teorico positivo di tutta la campagna controrivoluzionaria. L’argomento appariva agli uomini del XVI secolo meno astratto e aprioristico di quanto potrebbe sembrare a noi: quel che di tragico ha la figura del ribelle barocco, la sua volontà di respingere dalla propria persona quel marchio, anche in contrasto con i propri gesti ed i propri fini, lo sforzo di collegarsi ad ogni costo ad una legalità costituzionale e ad una tradizione consolidata, dipendono in buona parte dalla convinzione che difficilmente la ribellione poteva sfuggire alla sorte del fallimento. Se la Riforma protestante poteva suggerire l’idea di una rivoluzione vittoriosa, sul piano più strettamente politico e sociale l’insuccesso della ribellione era considerata la regola. Drouyn attribuiva il destino fallimentare alla volontà divina, ma non mancava di indicare i dati di fatto che davano all’esito fallimentare ed al castigo un’altissima probabilità e quasi una meccanica necessità. Nella complessa tipologia delineata dal Drouyn, che non trascura né i grandi movimenti contadini «senza altri capi che ladri

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e briganti», né le sollevazioni popolari delle città e particolarmente di Parigi, emerge con grande evidenza che il vero pericolo viene dai Grandi. Le sollevazioni popolari, rurali e urbane, proteste puramente sociali o rivolte della fame, sono destinate a non avere, in quanto tali, nessuna influenza sulla stabilità dello Stato. Esse diventano pericolose soltanto se i Grandi se ne servono strumentalmente ai loro fini. È quello che è avvenuto, infatti, nel corso delle guerre di religione: «I più Grandi hanno la colpa più grande». È necessario, dunque, che i popolari siano puniti nel modo più severo, per evitare che si lascino trascinare a diventare strumento e massa di manovra di disegni politici che appartengono alle alte sfere («se si facesse oggi una punizione così esemplare dei ribelli – suggerisce Drouyn dopo avere rievocato una serie di atroci supplizi seguiti a tentativi di ribellione – indubbiamente non ce ne sarebbe un numero così grande: perché il timore di tali supplizi li spingerebbe ad abbandonare il partito dei sediziosi»); ma la vera e giusta indignazione del principe «deve cadere sui Grandi, che comunemente sono la causa di tanti tumulti e sedizioni... considerando anche il fatto che la punizione dei grandi personaggi fatta pubblicamente incute maggiore paura ai piccoli e serve, come esempio, più che se si facessero impiccare mille del popolo minuto. Il supplizio di un Grande spaventa una infinita moltitudine di piccoli». In quanto azione promossa e ispirata dalla nobiltà e soprattutto dai grandi signori (il cui disprezzo per il resto del mondo e per il suddito «ignobile» irritava fortemente la sensibilità del borghese, intellettuale, magistrato o uomo d’affari, come risulta anche dal discorso attribuito nella Satire Ménippée al rappresentante del Terzo stato), la ribellione appariva, dunque, come violenza particolaristica, ingiusta difesa di arcaici privilegi contro l’interesse generale della nazione e contro l’equilibrio politico e sociale garantito dalla monarchia, tradimento. Era qui, nel suo contenuto retrogrado, il fondamento principale della sua debolezza. Qualunque azione rivoluzionaria, inoltre, poteva raggiungere una certa efficacia soltanto a condizione di basarsi sul sostegno popolare, che, in effetti, i Grandi ribelli avevano sfrenatamente sollecitato e organizzato nel corso delle guerre civili. Questa operazione demagogica era considerata il più nefando attentato contro il vivere civile e contro la società, perché significava dare spazio allo scatenamento di istinti brutali ed alla barbarie, e, nello stesso tempo, era segno di velleitarismo e insensatezza perché

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nulla poteva essere più fragile e illusorio del sostegno popolare, inevitabilmente destinato a venir meno nel breve periodo. Ci sono qui tutti gli elementi del modello di interpretazione che la cultura barocca avrebbe fatto proprio. Nel complesso rapporto tra movimenti religiosi, opposizione aristocratica e agitazione popo­ lare, l’isolamento delle tendenze eversive della nobiltà e la ­denuncia dell’uso strumentale della religione non erano certamente una novità. Questa chiave di interpretazione era, anzi, usata frequentemente. Se ne era servito, per esempio, anche l’ambasciatore della repubblica di Venezia a Parigi, quando aveva affermato che le guerre civili erano nate dalla volontà del cardinale di Lorena di non avere eguali e dell’ammiraglio Coligny e della casa di Montmorency di non riconoscere superiore. La campagna dei politiques inserì i diversi dati dell’esperienza rivoluzionaria in una analisi sistematica che suggeriva anche un giudizio generale sul fenomeno della ribellione nella società contemporanea, la possibilità di cogliere analogie e trovare conferme in altri casi storici. La considerazione delle cose di Francia influì certamente, come si è già accennato, sulla riflessione teorico-politica di Botero e di Giusto Lipsio. Il richiamo del primo alla Francia è frequente nella sua opera principale: «i gran romori ch’habbiamo fin di qua sentito»; il «Regno, altre volte floridissimo, ridotto in estrema miseria»; «il paese si deserta e rovina». Non è da escludere che i suoi giudizi sulle tendenze eversive della nobiltà e sulle esperienze italiane di ribellismo nobiliare abbiano una diretta connessione anche con le posizioni che i politiques francesi venivano delineando. Anche Lipsio considera «le fattioni de’ nobili», «le discordie tra gli huomini chiari e potenti» e la loro inclinazione a «mettere sotto sopra il mondo, e sanare le proprie piaghe co’l male della Repubblica» come l’origine della «ruina universale» e dei peggiori mali dello Stato. Il suo traduttore italiano, il gentiluomo ferrarese Ercole Cati, commenta nel 1618: Senza ricercare altri esempi della natura e degli effetti delle fattioni basta assai il considerare in questo luogo gli strani avvenimenti succeduti in Francia e in Fiandra per la cospirazione insieme e per l’avversione degli animi di que’ popoli da’ loro veri e legittimi Prencipi sotto pretesto di libertà di coscientia e di religione, ma in effetti nelli più maggiori, e più potenti Signori per astio, odio e invidia particolare l’una casa per iscacciare l’altra dell’autorità e della possanza... e finalmente quando s’è creduto

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esservi interregno gli uni per occupare uno squarcio per sé del regno... gli altri un altro, e alcuni ancora per impodestarsi della corona intieramente.

La posizione di Lipsio sulla questione della tirannide era perfettamente in linea con la campagna dei politiques francesi: pur riconoscendo che insorgere contro la tirannide e levarla dal mondo «è da huomo di più alto cuore» e che «i Greci hanno attribuito divini honori a quelli che hanno uccisi i tiranni», sosteneva che la risoluzione migliore e più conforme alla prudenza è tollerarla. Il potere viene da Dio, la guerra civile è peggiore della tirannide, la sottomissione mitiga la natura di chi comanda, il cambiamento può produrre anche inconvenienti peggiori: «conchiudo adunque doversi sopportare la natura de’ Prencipi». La ripresa della campagna controrivoluzionaria nel 1610 fu prevalentemente dottrinaria e aggiunse poco di nuovo al patrimonio di idee già acquisite. Nel clima di grande emozione collettiva creato dall’uccisione di Enrico IV, l’associazione tra parricidio e ribellione servì a suggellare una condanna che aveva già trovato un largo consenso nell’opinione pubblica e nella coscienza nazionale e che era diventata ormai un paradigma della cultura politica europea. Il De Rege et Regis Institutione di Juan de Mariana fu condannato e bruciato pubblicamente per iniziativa del Parlamento di Parigi e della Sorbona; nell’occasione anche le Vindiciae furono di nuovo tirate in ballo a conferma della pluralità di voci e di orientamenti convergenti nelle tesi del tirannicidio. Jean de Baricave, autore della citata Defence de la monarchie françoise (1614), era convinto che i buoni Francesi non avevano fatto ancora tutto quello che era necessario per strappare le radici della pianta velenosa. Egli intendeva dire che soltanto la radicale confutazione dei princìpi sui quali si fondava la teoria poteva essere efficace. Le mille pagine del suo trattato sono perciò un estenuante confronto tra tutte le affermazioni contenute nelle Vindiciae e i testi sacri, con qualche incursione nella letteratura classica. In effetti, de Baricave esagerava, oltre che nella prolissità delle sue argomentazioni, anche nella rivendicazione della novità della sua opera. Era vero, però, che nella polemica degli anni precedenti la discussione dei princìpi e il richiamo ai fatti si erano intrecciati più strettamente che nei decreti e nei pronunciamenti emanati dal Parlamento di Parigi e dalla Sorbona all’indomani del regicidio di Ravaillac. Nelle sue brevi ­considerazioni, scritte nel 1589 e pubblicate nel 1606, lo stesso Char-

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ron aveva ­fatto riferimento a concrete esperienze di partecipazione alle vicende poli­tiche. Aveva ricordato, infatti, di essere stato tentato dalla Lega e di avervi messo un piede dentro (come aveva fatto, del resto, anche il grande teorico dell’assolutismo, Jean Bodin) e aveva rievocato il suo stato d’animo di ribelle, contrapponendolo alla disposizione della mente necessaria alla comprensione della realtà ed alla saggezza: «Ero sempre come in collera – aveva scritto –, in uno stato febbrile e di emozione continua, e così ho appreso a mie spese che è impossibile essere nello stesso tempo agitato e saggio». Anche nella difesa della monarchia fatta da Gabriel Chappuys nel 1602 – quando Enrico IV aveva ormai consolidato il suo potere ed i due partiti della ribellione erano stati sconfitti – il riflesso dell’esperienza concreta appare evidente. La sua analisi suggeriva un criterio di interpretazione, mutuato dalla cultura umanistica e ripreso dalla Satire Ménippée, che avrebbe avuto grande fortuna nell’età barocca e che mirava a svalutare sia i motivi religiosi, sia quelli politici della rivolta. La «divinità malefica» della rivolta è l’Ambizione, il cui strumento naturale sono gli istinti della plebe e la sua disposizione al tumulto ed alla violenza. La stessa teoria della sovranità popolare è strumentale, perché è l’ambizione che spinge «ad adulare il popolo ed a persuaderlo, contro ogni ragione, che spetta a lui reprimere i re, metterli in riga e far loro la legge». Proprio sul punto della sovranità popolare Chappuys coglieva contraddizioni e incertezze delle Vindiciae. A chi, secondo il famoso trattato, spetta il compito – si domandava – di liberare lo Stato dalla tirannide, al popolo o ai Grandi? «Al principio, nelle pagine 103 e 106 del suo libro, Brutus dà al popolo tutto il potere tanto sui re che sui Grandi; ma poi, nelle pagine 210, 212 e 213 glielo toglie e lo trasferisce ai Grandi, sostenendo che il popolo non deve prendere nessuna iniziativa, anche in caso di manifesta tirannide, se i Grandi non sono d’accordo col Re». La questione era scottante, perché la rielaborazione cattolica delle teorie dei monarcomachi prestava particolare attenzione a questo punto e tendeva a superare l’ambiguità in senso favorevole all’iniziativa della comunità politico-religiosa e addirittura del singolo suddito. Uno dei testi più noti del ribellismo cattolico era, infatti, l’Apologie pour Jean Chastel, lo studente che nel 1594 aveva fatto il tentativo di uccidere Enrico IV. Su un altro punto Chappuys introdusse, con molta circospezione, una formula che si richiamava al diritto naturale e che era già presente nel Discours di Charron. Il popolo non può offendere il sovrano, ma può difendersi

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da un suo atto iniquo; non può «sottrarsi alla soggezione e riverenza che deve al re», ma può resistere all’offesa. È «contro natura» che l’inferiore si vendichi del superiore e lo faccia punire, ma difendersi appartiene all’ordine naturale. Parecchi decenni dopo, Thomas Hobbes avrebbe dimostrato con grande efficacia l’inconsistenza della tesi favorevole alla resistenza passiva, sostenendo che simili ambiguità e concessioni, accolte nella cultura «ufficiale» e nelle opere degli stessi fautori dell’assolutismo, avevano contribuito a riaprire in Inghilterra il varco alla ribellione. Chappuys non aveva certamente questa intenzione e non riteneva di fare concessioni teoriche agli avversari. Le sue distinzioni riflettevano piuttosto le difficoltà che incontrava il tentativo di dare alla condanna la dimensione universale necessaria a garantirne la validità. Per quanto fossero numerosi i punti di contatto con le guerre di religione in Francia, e particolarmente con il ruolo che svolse qui l’estremismo religioso e politico e con le spinte centrifughe e particolaristiche che operavano all’interno del paese, il caso della contemporanea rivoluzione dei Paesi Bassi era diverso. I politiques francesi potevano negare in ogni caso l’opportunità di servirsi di mezzi rivoluzionari, non cogliere l’affinità tra le loro posizioni ideali e quelle di Guglielmo d’Orange, ma non potevano mettere completamente sullo stesso piano le due esperienze. Drouyn giudica la rivoluzione delle Fiandre come una guerra di religione, descrive le sciagure ed i massacri che ne sono seguiti e, scrivendo nel 1592, avanza l’ipotesi dell’inevitabile fallimento che avrebbe colpito anche questo tentativo. Secondo lui, i Paesi Bassi avevano subito «a buon diritto», con la repressione del duca d’Alba, la punizione più grave, perché avrebbero dovuto trarre insegnamento dai loro vicini e «principalmente dalla nostra sventurata Francia». Ma intanto l’antispagnolismo incrina la coerenza del suo discorso. Drouyn riconosce, infatti, che il malcontento è stato provocato dall’orgoglio e dalla tirannide degli Spagnoli «che per la verità – scrive – sono molto rudi e insolenti nei confronti di coloro che hanno assoggettato». In secondo luogo, la descrizione delle sciagure mette anche in risalto l’inumanità della repressione del duca d’Alba; e l’autore arriva infine a concedere che «anche Dio si è corrucciato con gli Spagnoli» permettendo ai confederati di ottenere alcune importanti vittorie. Da parte sua Chappuys, dopo il trattato del 1602, scrisse una Histoire generale de la guerre de Flandres in due volumi, che testimonia un particolare interesse

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per la questione e, soprattutto, prende atto del successo ottenuto dai «ribelli» con la tregua di Anversa e del contributo che alla sua conclusione aveva dato il compianto ed amatissimo Enrico IV. I politiques francesi si limitarono a manifestare incertezze ed esitazioni nel giudizio sulla rivoluzione fiamminga; una piena comprensione dei suoi aspetti più nuovi (che del resto non ci fu inizialmente neppure in altri settori della cultura europea) avrebbe comportato un indebolimento della loro campagna controrivoluzionaria. Anche più tardi, del resto, ancora alla vigilia delle rivoluzioni dell’Inghilterra e del Portogallo, il caso di Guglielmo d’Orange doveva apparire come l’eccezione che conferma la regola. Nel suo panorama politico europeo del 1638, Henri de Rohan, considerato allora il capo dei calvinisti francesi, avrebbe notato, in modo significativo, che Guglielmo era stato «il solo in un secolo ad avere avuto l’onore di fondare uno Stato». Guglielmo d’Orange pubblicò la sua Apologia in risposta al bando con cui Filippo II lo dichiarava ribelle, «perturbatore della quiete della Cristianità e specialmente dei Paesi Bassi» e prometteva un premio cospicuo e addirittura un titolo di nobiltà a chi lo avesse, come «peste pubblica», levato dal mondo. Anche Guglielmo, nel respingere l’accusa, faceva appello alle tradizioni costituzionali (all’originario contratto tra sovrano e sudditi) di territori che formavano i Paesi Bassi, senza giungere, quindi, all’affermazione di un concetto universale di indipendenza e di nazionalità. Ma mentre negli altri testi rivoluzionari cinquecenteschi le tradizioni costituzionali si identificavano con privilegi e poteri della nobiltà, considerata interprete e rappresentante esclusiva della nazione politica, egli le concepiva in modo più ampio, come diritti e libertà di tutto l’insieme della comunità. Anche nel campo religioso, la sua rivendicazione di libertà non significava il sostegno della esclusiva pratica confessionale dei suoi correligionari. In nome di questo patriottismo Guglielmo rifiutava la «servitù assoluta» che la Spagna voleva imporre ai Paesi Bassi; sulla stessa base respingeva il tentativo, fatto nel bando di Filippo II, di attribuire la sua ascesa politica all’uso demagogico e strumentale del tumulto popolare e di collocare la sua azione nel quadro della tradizione anarchica e particolaristica del ribellismo nobiliare. La Spagna – diceva Guglielmo agli Stati Generali delle Province Unite – vuol privarvi intieramente dei vostri antichi privilegi e delle vostre

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libertà, per disporre di voi, delle vostre donne e dei vostri figli, come fanno i suoi ministri dei poveri Indiani o per lo meno dei Calabresi, Siciliani, Napoletani e Milanesi, senza ricordare che i nostri paesi non sono paesi di conquista, ma per la maggior parte sono patrimoniali o si sono dati volontariamente, e sotto buone condizioni, ai predecessori di Filippo II. Ribelli, infedeli e spergiuri – continuava Guglielmo, attaccando una parte della nobiltà dei Paesi Bassi – sono quindi quei signori che avendo la preminenza politica e la funzione di comando militare non si oppongono a chi calpesta i diritti e le costituzioni del loro paese. Mi si rimprovera il grande credito che ho tra il popolo... Confesso che sono e sarò per tutta la vita popolare, cioè a dire che sosterrò e difenderò le vostre libertà e i vostri diritti... È vero che ci sono cinque o sei teste malaccorte, nemici della libertà... la cui tirannide sarebbe ancora peggiore di quella degli Spagnoli... Ma che altro è il bene pubblico se non il bene del popolo?

La concezione della comunità politica nazionale sostenuta da Guglielmo era, dunque, diversa e più ampia di quella che apparteneva alla tradizione cinquecentesca, sia nella versione umanisticopatriottica, sia in quella politico-religiosa. Il suo progetto di coinvolgimento politico popolare anticipava una linea che sarebbe emersa, non senza difficoltà e contraddizioni, nella crisi rivoluzionaria della metà del XVII secolo. La novità risulta più evidente dal confronto con un’altra e ben nota Apologia, inserita nel filone laico-umanistico del tirannicidio: quella scritta da Lorenzino dei Medici, uccisore del duca di Firenze nel 1537. Giacomo Leopardi, che l’ha parzialmente inserita nella Crestomazia della prosa italiana come rilevante testimonianza dell’eloquenza politica del XVI secolo, ha accomunato Lorenzino e Guglielmo nella vocazione alla lotta per liberare i popoli dalla tirannide: Meraviglia è colà che s’appresenti Maurizio di Sassonia alla tua vista, Che con mille vergogne e tradimenti Gran parte a’ suoi di libertade acquista, Egmont, Orange a lor grandezza intenti Lor patria liberando oppressa e trista, E quel miglior che invia con braccio forte Il primo duca di Firenze a morte. (Paralipomeni della Batracomiomachia, canto III, st. 27)

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In realtà, la convergenza tra i due è solo esteriore. L’esasperato individualismo, la concezione letteraria e intellettualistica della patria, l’esclusivismo aristocratico e lo spirito di congiura danno allo scritto di Lorenzino una impronta ideale e politica più vicina al ribellismo feudale (in versione aristocratico-cittadina) che alla concezione di Guglielmo. Per Lorenzino conta essenzialmente la nobiltà del gesto individuale. Egli non esita ad attribuire all’ignavia del popolo di Firenze la mancanza di risultati e di sviluppi politici della sua impresa: in una circostanza così straordinaria, afferma, quale fu l’uccisione del duca Alessandro, non vi fu a Firenze «chi si portasse, non dico da buon cittadino, ma da uomo, fuori che due o tre». Per molte ragioni, tuttavia, il nuovo patriottismo dell’Apologia di Guglielmo non ebbe sul momento grande diffusione. Esso fu accolto piuttosto nel senso della polemica contro l’«imperialismo» spagnolo che non in quello di un tendenziale ampliamento dell’idea di patria, che non riguardava soltanto i paesi soggetti al dominio straniero. Il disegno ideale della sua Apologia corrispondeva alla concreta esperienza della rivoluzione fiamminga, ma non all’estremismo religioso ed al particolarismo politico che pure ebbero tanta parte nell’azione rivoluzionaria. Inoltre, la molteplicità dei territori che facevano parte dei Paesi Bassi, le tradizioni particolari e lo spirito autonomistico delle varie città e province difficilmente potevano conciliarsi, nella seconda metà del Cinquecento, con l’idea di una vera e solida comunità nazionale. Il formalismo giuridico-politico impediva, infine, come si è detto, all’indipendentismo di Guglielmo di diventare un valore universale: ciò che valeva per le Fiandre, in virtù di un patto originario, poteva non essere valido per Napoli, per il Portogallo, per le Indie occidentali. Il «mito» e il modello della rivoluzione fiamminga si sarebbero formati più tardi, con la sua continuità politica e militare, con il consolidamento della fisionomia economica e politica e del ruolo internazionale dell’Olanda e con il rafforzamento della identità collettiva promossa soprattutto dalle opere storiche di Ugo Grozio sulle originarie popolazioni batave e dal giusnaturalismo di Giovanni Altusio. Il momento della sua affermazione coincide forse con l’inizio della guerra dei Trent’anni e con la ripresa della guerra tra Spagna e Olanda: analogie con le idee di Guglielmo si possono trovare, infatti, nella nuova Apologia, dedicata a Maurizio di Nassau, figlio e successore di Guglielmo, che i ribelli boemi pubblicarono all’indomani della defenestrazione di Praga.

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Il «modello» francese di ribellione aveva invece, alla fine del Cinquecento, una più larga corrispondenza con le esperienze degli altri paesi dell’Europa occidentale, sia pure a diversi livelli di intensità. L’Inghilterra e la Scozia, la Spagna e i suoi domini italiani avevano attraversato momenti di tensione politica in cui lo spirito anarchico e medievaleggiante di grandi signori, con o senza contorno di proteste popolari, aveva avuto una parte di primo piano nelle difficoltà di affermazione del potere monarchico. L’offensiva ideologica controrivoluzionaria raggiunse perciò largamente lo scopo, diventando un punto di riferimento essenziale per la cultura europea dell’età barocca. La figura di Bruto perdette la suggestione che aveva acquistato, quasi senza contrasto, nella cultura umanistica. Anziché espressione di libertà, l’esaltazione del tirannicidio fu intesa come un attentato ai valori fondamentali della comunità politica e civile. Orgoglio, torbida ambizione, disprezzo della collettività, inaffidabilità e negazione delle regole dell’onore anche nei rapporti personali: era quello che concretamente, sulla base dell’esperienza, la figura del ribelle suggeriva e che la propaganda ostile tendeva ad amplificare oltre i dati reali e ad estendere anche ai casi che non si prestavano a questi giudizi ed a queste definizioni. A volte l’immoralità e la sfrenatezza sessuale, così come allora erano concepite (libertinaggio, omosessualità), e l’indifferenza religiosa servirono a completare il quadro. Ogni volta che se ne presentava l’occasione, l’opinione pubblica era sollecitata ad attribuire al ribelle il massimo possibile di un ventaglio di accuse spesso estranee alla politica. L’obiettivo era soverchiare o fare scomparire le motivazioni politiche dell’opposizione e del contrasto, e assimilare l’immagine del ribelle a quelle del bandito comune, degli emarginati per motivi del tutto individuali, dei devianti dalle norme di comportamento universalmente riconosciute ed accettate. Questi elementi, già contenuti in nuce nel bando di proscrizione emanato da Filippo II contro Guglielmo, si ritrovano in varie combinazioni e in modo più aperto e dispiegato nelle accuse e nei sospetti di ribellione del secolo successivo. Una sfumatura di comprensione (quasi senza conseguenze sul piano dell’applicazione dei metodi «rigorosi» di repressione) è riservata soltanto alla protesta dei miserabili e degli affamati, quando c’è la certezza della mancanza di intenzioni nascoste e di possibilità di sfruttamento politico. «È un povero affamato»: il cronista napoletano Scipione Guerra racconta che con questa frase un cortigiano liberò dalle mani degli sbirri un uomo che

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aveva insolentemente insultato il viceré. Non c’è manuale di buon governo del Seicento in cui non sia considerato un obbligo morale dei governanti provvedere alla «grassa», al rifornimento dei generi alimentari essenziali ed alla lotta contro la speculazione e il carovita, per prevenire il «risentimento» e la «disperazione» delle plebi. «Il nome di fellonia e di ribellione porta seco infamia e odio»: fu Tommaso Campanella a fare questa constatazione, che proveniva evidentemente anche dalla sua diretta esperienza. Nella sua opera precedente la lunga prigionia non c’è nessuna affermazione di principio che possa far pensare ad una giustificazione del tirannicidio, anche se egli considerava strumentale l’affermazione dell’origine divina del potere regio («dicendo loro che l’ubbidire al re è volontà di Dio e lo patire affanni aspetta premi da Dio, e predicando l’umiltà, minacciando con la giustizia divina e umana male agli omicidi e ladri, e fornicatori, e sediziosi, e ribelli e bene a’ contrarj, sempre trovano credito nelli più»). Abbondano invece le riflessioni sui modi per prevenire o reprimere la ribellione, incitamenti alla repressione dell’eresia, consigli al re di Spagna sul modo di recuperare le Fiandre. Tuttavia, le sue contraddizioni sulla questione delle Fiandre sono più evidenti di quelle dei politiques francesi. I consigli e le esortazioni al re di Spagna si accompagnano a constatazioni che equivalgono ad aspri giudizi sul comportamento dei suoi ministri e dei suoi generali: «Li spagnoli da tutte le nazioni sono odiati»; «il sangue spagnolo... è odioso a quasi tutte le nazioni»; «i Fiandresi odiano più la servitù spagnola che amano la propria vita»; «capitani spagnoli nemicissimi, li quali usano il bastone, e non la lingua nel comandare». Infine, nel capitolo sulla «Fiandra o Germania bassa» della Monarchia di Spagna, una dichiarazione che riecheggia l’Apologia di Guglielmo e che va oltre il caso particolare: «Chi combatte in suo paese per la religione e per la patria e figli e moglie, sempre è più forte di colui che combatte per dominio in casa strana». Sostenendo nella Camera dei Comuni l’opportunità di concedere la naturalizzazione (l’eguaglianza dei diritti politici e civili) agli Scozzesi e la necessità di rispettare le loro leggi e le loro tradizioni dopo l’unione dinastica dei regni di Scozia e d’Inghilterra, anche Bacone dimostrò di essere particolarmente sensibile al tema dei diritti e delle tradizioni delle comunità locali o nazionali. Egli ricordò, per sottolineare la facilità con cui il popolo si poteva aggregare attorno

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a rivendicazioni autonomistiche, l’episodio della rivolta aragonese di Antonio Pérez: «...È bastata la voce di un condannato che attraverso la grata della prigione gridava verso la strada Fueros (equivalente a libertà o privilegi) per fare scoppiare una pericolosa ribellione, che fu repressa con difficoltà dall’esercito del re...». Né Campanella né Bacone (che con Antonio Pérez ebbe rapporti di amicizia e di collaborazione) contribuirono a ricostruire su nuove basi teoriche un principio di legittimità della ribellione; entrambi mostrano, tuttavia, agli inizi del secolo, particolare attenzione per la forza aggregante di un patriottismo che oscilla fra spirito particolaristico e moderna difesa dell’identità e degli interessi nazionali ma che tende già a non identificarsi rigidamente con il costituzionalismo conservatore ed esclusivo della nobiltà. Nell’istruzione segreta data al re nel 1624, il conte duca di Olivares parlava del ribellismo dei Grandi come di un fenomeno che aveva perduto gran parte della sua attualità. I predecessori di Filippo IV avevano provveduto ad abbassare i Grandi ed a metterli in condizione di non potere più «alzare la testa». Dei gravi inconvenienti sperimentati nel passato restava qualche segno in quelle province in cui i grandi signori erano ancora poderosos. Il problema non si poneva più nei termini tradizionali. Olivares temeva soprattutto che esponenti della nobiltà o del ceto medio «si facessero popolari», dando una direzione politica e organizzativa alla resistenza di città e province contro le direttive del governo centrale e promuovendo la convergenza di forze sociali diverse intorno ad interessi e obiettivi comuni. I danni che potrebbero causare, diceva, sarebbero irreparabili. Perciò, «sarebbe sommamente conveniente nelle città castigare severamente quelli che lo tentano con grave danno del servizio di Vostra Maestà... Non saprei dire come costoro hanno dissimulato e dissimulano oggi i loro procedimenti; quel che è certo è che danno pubblicamente ad intendere di essere difensori del popolo di Vostra Maestà». Il conte duca aveva in mente episodi e figure reali di una opposizione con la quale doveva fare i conti nella sua azione di governo. Pensava probabilmente, tra gli altri, ad un personaggio che era stato un attivo ispiratore dell’opposizione nelle Cortes del 1621 e del 1623 e che continuò a dargli filo da torcere anche negli anni seguenti: il procuratore della città di Granada, Mateo de Lisón y Viedma. Uno studioso del pensiero politico spagnolo del Seicento,

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Jean de Vilar, ha pubblicato qualche anno fa il resoconto, redatto dallo stesso Lisón, di un colloquio che egli ebbe nel 1627 con Olivares. Nel brano che riportiamo si può riconoscere, al di là del caso particolare, la via lungo la quale si svolgeva, in piena età barocca, il tentativo di ricostruire la dignità della resistenza e dell’opposizione: ... E così [Olivares] si rivolse a me e mi disse: «Vostra Grazia deve credere di sapere tutto e di avere grande intendimento. Invece non sa nulla e non capisce nulla. Un uomo che si mette contro le risoluzioni prese da Sua Maestà col parere di consiglieri e ministri tanto prudenti, deve essere di umili origini». Io gli dissi: «Supplico Vostra Eccellenza di trattarmi bene. Nessun’altra persona al mondo oserebbe dirmi questo. Traggo le mie origini da progenitori che hanno conquistato città e terre per i nostri Re, che hanno difeso i loro regni, hanno versato il sangue e sacrificato la vita al loro servizio. E in quello che faccio, penso di servire soltanto Sua Maestà». Riprese a parlare dicendo che non era servizio del Re quello che io facevo, né difesa di nulla ma distruzione di tutto, e che i nemici della monarchia non avrebbero potuto fare tanto danno invadendo con un esercito questi regni quanto ne facevo io perturbando e ostacolando il servizio del Re, e che per questo andavo molto oltre i limiti delle mie funzioni scrivendo e parlando licenziosamente delle cose del governo e di Ministri così grandi come quelli di Sua Maestà, che avrei avuto la punizione che meritavo e che Sua Maestà aveva già ordinato di raccogliere il materiale contro di me e le consulte che il Consiglio di Stato e il presidente Francisco de Contreras avevano fatto per cacciarmi dalla Corte. Gli risposi che per una formica come me non era il caso di preoccuparsi tanto, né di raccogliere tante carte, perché per castigarmi bastava l’ultimo portiere della Corte. Mi disse che non ero nemmeno una formica o una mezza formica, ma potevo capire che mi si doveva castigare perché il mio castigo fosse di esempio e timore per molti. Gli dissi che qualunque castigo mi si infliggesse, sarebbe stato un gran premio per me perché mi si dava per aver difeso la mia patria e fatto il mio dovere. Disse che era mio dovere essere un uomo dabbene. Replicai che conoscevo i miei doveri da quando avevo uso di ragione e li assolvevo come era necessario. Sua Eccellenza poteva dire quello che voleva, ma non era giusto trattare in questo modo coloro che difendevano i regni e le città e che questo significava impedire loro di difendersi, perché nessuno, trattato in questo modo, avrebbe osato parlare...

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Formule e linguaggio di Lisón y Viedma furono comuni ai gruppi e movimenti di opposizione, dalla Spagna alla Boemia, dalla Catalogna al Portogallo, all’Italia, alla Francia, all’Inghilterra. Egli difendeva i diritti «costituzionali», denunciava la violazione del rapporto contrattuale tra sudditi e corona, sosteneva che il governo non aveva il diritto di imporre tasse senza il consenso dei sudditi e l’approvazione delle istituzioni che li rappresentavano; difendeva la dignità e l’utilità generale di una opposizione ispirata all’interesse collettivo. Apparentemente il cambiamento, rispetto al secolo precedente, riguardava soltanto il fatto che – con la vistosa eccezione dell’Inghilterra – la giustificazione religiosa dell’opposizione aveva perduto mordente e diffusione e si era affermata la tendenza ad enfatizzare l’ossequio alla legge, il rispetto dei princìpi di giustizia e di «eguaglianza» la cui attuazione spettava alla monarchia. In realtà, l’inclinazione di Lisón y Viedma e di molti altri oppositori a «farsi popolari», ad avere una concezione più unitaria e «democratica» delle comunità alle quali appartenevano segnava una sostanziale diversità rispetto alla tradizionale opposizione aristocratica. Il loro limite fu, in molti casi, l’incapacità di uscire dall’orizzonte del localismo e di confrontarsi a fondo con le grandi scelte e i disegni del sovrano; ma il loro richiamo all’utilità pubblica e all’interesse generale, pur discutibile da questo punto di vista, non era strumentale, e perciò costituì la base di una reale e nuova aggregazione politica nella crisi rivoluzionaria degli anni Quaranta. Il vecchio e anacronistico ribellismo nobiliare non scomparve dalla scena politica durante l’età barocca: in Francia fu una delle «disgrazie» che, come Rivault aveva previsto, le guerre civili del Cinquecento lasciarono in eredità al secolo successivo e che riemersero con particolare virulenza nella Fronda. E così anche l’estremismo religioso, che tanta importanza aveva avuto in Francia e nelle Fiandre, e l’egualitarismo sociale, con le sue profonde e potenti radici medievali, furono presenti e attivi, seppure in modo relativamente marginale, nell’area continentale. A restituire dignità alla ribellione, trasferendola dalla logica preassolutistica alla dialettica interna dell’assolutismo, fu però una nuova figura. Lisón y Viedma ne rappresenta, in piccolo formato ed in versione locale e localistica, un prototipo. Nella nuova categoria si collocano illustri ribelli come il catalano Pau Claris, lo scozzese conte

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di Argyll, il boemo Mathias Thurn, lo stesso duca di Braganza3. Rievocando un ventennio di «civil wars» in Inghilterra, Thomas Hobbes trovò per questa figura una definizione appropriata (anche se, nelle sue intenzioni, negativa) e, con le dovute differenze valida anche per altri paesi: «democratic gentleman». Hobbes era convinto che la ribellione era stata provocata in Inghilterra dalla ripresa delle dottrine dei monarcomachi e che il centro di irradiazione erano state le Università. Egli non trascurava l’influenza della letteratura greca e romana, nella quale era assai diffusa «l’esaltazione del governo popolare e il disprezzo della monarchia col nome di tirannide», né la diffusione di correnti di pensiero favorevoli alla libertà religiosa, né l’ammirazione per la prosperità che aveva raggiunto, dopo la rivolta contro la Spagna, la repubblica olandese. Secondo un canone classico, considerava che l’ambizione era stata la forza motrice di tutto il processo: «certamente i capi principali erano ambiziosi ministri del culto e ambiziosi gentiluomini; i ministri, per invidia nei confronti dell’autorità dei vescovi, che ritenevano meno istruiti di loro; ed i gentiluomini, per invidia del consiglio privato della Corona e dei principali cortigiani, che ritenevano meno saggi di loro stessi». Anche sotto l’aspetto psicologico, le Università erano responsabili della crisi, «perché è difficile, per uomini che hanno un’alta opinione di sé e che hanno studiato all’Università, convincersi di non avere i requisiti necessari per il governo dello Stato, specialmente dopo aver letto le gloriose storie e le sentenziose imprese politiche degli antichi governi popolari dei Greci e dei Romani». Le Università, «core of rebellion», erano state per l’Inghilterra «quel che il cavallo di legno era stato per i Troiani». Non potendo sopprimerle, bisognava riformarle profondamente; e per riforma Hobbes intendeva essenzialmente l’insegnamento che è dovere degli uomini obbedire alle leggi emanate dal re e che «le leggi civili sono leggi di Dio, perché coloro che le fanno sono chiamati da Dio a farle». La connessione tra cultura e ribellione, che Hobbes indicava, era un aspetto importante della crisi politica e ideale della metà del 3  Pau Claris, presidente della Diputació di Barcellona, fu uno dei principali promotori della sollevazione catalana del 1640; Annibald Campbell, conte di Argyll, si schierò a sostegno di Cromwell e fu membro del parlamento repubblicano; il conte Mathias Thurn ebbe un ruolo importante nella defenestrazione di Praga e nella sollevazione della Boemia contro l’autorità imperiale; Giovanni di Braganza fu il capo del movimento di indipendenza del Portogallo.

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Seicento; ma non si poneva negli stessi termini, rigidamente dottrinari e religiosi, in cui si era posta nel secolo precedente. Il «democratic gentleman», con la sua fervida religiosità ed il suo richiamo al contrattualismo tradizionale, non aspirava a realizzare una teocrazia o un regime aristocratico di tipo preassolutistico; era diverso dai grandi capi delle guerre di religione in Francia e dai signori delle congiure antimonarchiche del resto d’Europa. La convergenza politica e ideale sulla quale si era basata la ribellione non trova una spiegazione adeguata nell’analisi e nel ragionamento di Hobbes. Egli tocca comunque un punto fondamentale, il rapporto tra monarchia e coscienza nazionale e lo squilibrio che su questo terreno si era creato: «il popolo – afferma – era generalmente corrotto ed i ribelli si ritenevano i migliori patrioti». Il filosofo si meravigliava che la Camera dei Comuni e poi, sotto la pressione del tumulto popolare, anche la Camera dei Lords, potessero avere accusato di alto tradimento e condannato il conte di Strafford. Come poteva esserci tradimento contro il re, quando lo stesso re, in grado di intendere e di volere, non pensava che ci fosse tradimento? «Questo non era che un tratto di quell’artificio del Parlamento, che consisteva nel mettere la parola traditore nell’atto di accusa contro ogni persona che si voleva eliminare». In realtà, ancora prima che il ribelle rivendicasse a se stesso il titolo di «difensore della patria» (ed ogni paese ebbe allora il suo eroe sotto questa denominazione: segno dei tempi spesso sottovalutato), la polemica politica fu occupata dal suo opposto, il traditore della patria. Quando l’accusa cominciò a risuonare con insistenza, in questo o in quel paese, la rivoluzione era ormai alle porte. Alla vigilia della crisi rivoluzionaria, la più ampia e nuova dimensione del rapporto tra cultura e rivoluzione fu colta da Gabriel Naudé, collaboratore di Mazzarino e ammiratore di Campanella. I motivi di tensione che si erano accumulati nella società gli facevano prevedere la catastrofe. Certo – egli scrisse nel 1639 – se si considera bene lo stato attuale dell’Europa, non sarà difficile prevedere che a breve scadenza essa sarà teatro di simili tragedie [mutamenti di Stato]. Tante guerre, lunghe e devastanti, hanno contribuito a rovinare la giustizia; l’eccessivo numero di collegi, seminari e studenti, insieme alla facilità di stampare e diffondere libri hanno già scosso le sette e la religione. ...Si sono creati più sistemi

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nuovi nell’Astronomia, più novità si sono introdotte nella filosofia, nella medicina e nella teologia, un più gran numero di atei è venuto allo scoperto... di quanto non sia avvenuto nei mille anni precedenti... Il rovesciamento dei più grandi imperi sopraggiunge molto spesso senza che ci si pensi o almeno senza che si facciano grandi preparativi...

Egli riteneva, però, di dover dare un avvertimento, riprendendo ed esasperando uno dei grandi motivi che la cultura barocca aveva elaborato sulla base del ripensamento delle esperienze cinquecentesche. Le pagine più vibranti delle Considerazioni politiche sui colpi di Stato sono dedicate, infatti, come già ho ricordato nel primo saggio di questo volume, ad una violenta invettiva contro la plebe. Coloro che si preparavano a calcare la scena del teatro politico europeo come protagonisti e artefici della ribellione erano avvertiti: poiché, per assumere davvero questo ruolo, era indispensabile sollevare il popolo, volgendolo e disponendolo ai propri disegni, bisognava sapere quali erano i rischi che ciò comportava. La qualità della plebe che Naudé, sulle orme di Charron, mette in evidenza sono soprattutto, insieme alla violenza ed alla credulità, la volubilità e l’incostanza. Senza giungere agli eccessi di Naudé, i «democratic gentlemen» erano anch’essi convinti dei pericoli che comportava la sollevazione popolare e degli sbocchi nefasti di anarchia e di barbarie che poteva avere. Conoscevano i fenomeni di suggestione collettiva, la facilità con cui impostori e demagoghi potevano suscitare emozioni collettive, l’incostanza e provvisorietà degli entusiasmi plebei. Ne traevano, tuttavia, a differenza di quel che suggeriva Naudé, la conclusione che il cittadino politicamente consapevole e interessato al bene pubblico ha l’obbligo civile e morale di non restare in disparte di fronte al sommovimento popolare. Nelle istruzioni al figlio, scritte dopo la Restaurazione, uno dei capi della ribellione scozzese del 1638, il conte di Argyll riconosceva che le «popular furies» non avrebbero mai fine senza l’intervento dei «superiori»; il popolo apprenderebbe ben presto a valutare la sua forza e ne dedurrebbe – con tutte le inevitabili conseguenze di sconvolgimento dell’ordine sociale – che è maggiore di quella della nobiltà. Da qui la necessità di non rimanere neutrali in una «general commotion» e il giudizio di infamia per chi si sottrae ad essa (Argyll ricorda solennemente, a questo proposito, un decreto di Solone). Era un invito ad usare la propria autorità, secondo una consolidata tradizione, per sedare

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e reprimere, ma anche un modo un po’ contorto e dissimulato per assumere, nel caso di una giusta sollevazione popolare, un impegno di guida e direzione politica della protesta. Nel caso di Argyll non possono esserci dubbi, per il ruolo che egli svolse nelle vicende della Scozia e per la riconferma delle sue posizioni alla vigilia dell’esecuzione capitale: I Principi cominciano a perdere i loro domini quando cominciano a infrangere le antiche leggi, le tradizioni e i costumi sotto i quali i loro soggetti sono vissuti per lungo tempo... Il nostro programma di riforma... era sostenuto dal consenso universale dell’intiera nazione... Niente è impossibile o inattuabile per un popolo schiavo contro i tiranni e gli usurpatori.

Con analoghi atteggiamenti e giustificazioni i dirigenti politici catalani, portoghesi, napoletani si collegarono ai moti popolari esplosi nei rispettivi paesi, cercando di moderarli e indirizzarli politicamente, per raggiungere i loro obiettivi di riforma politica e di indipendenza. La preoccupazione per la cieca furia e per l’incapacità politica popolare apparteneva, dunque, anche ai «democratic gentlemen» o ai borghesi che svolsero analoghe funzioni; tuttavia, rispetto al passato, essi ritenevano di poter contare sulle aspettative di giustizia e di equilibrio politico e sociale che le stesse monarchie avevano suscitato e alimentato, sulla maggiore diffusione della cultura e dell’informazione politica (con la connessa e crescente insofferenza, che lo stesso Naudé segnalava, verso «gli intrighi delle Corti, le cabale delle fazioni, le mascherature degli interessi particolari»), e quindi sulla possibilità di stabilire più facilmente la comunicazione tra i loro propositi di riforma e le speranze popolari. Gli eventi del decennio 1640-50 dovevano dare parzialmente ragione a questa esitante e contrastata fiducia e confermare il tendenziale mutamento dell’atteggiamento generale verso la ribellione. Anziché l’odio e l’obbrobrio, crescevano il consenso e la sollecitazione: non più necessariamente sinonimo di ingiustizia, di sopraffazione, di anarchia, di sacrilegio, la ribellione poteva essere concepita come un atto liberatorio. I protagonisti della nuova fase, da Masaniello a Cromwell, pur così diversi nel ruolo e nella ispirazione politica e ideale, avrebbero trovato comprensione e perfino suscitato entusiasmo.

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Appendice bibliografica Indico qui i testi del Cinque e del Seicento a cui ho fatto riferimento: Apologie ou defense de... Prince Guillaume... contre le Ban et Edict publié par le Roi d’Espagne, par lequel il proscript ledict Seigneur Prince... Presentée à Messieurs les Estats Generauls des Païs Bas, Charles Sylvius, Leyden 1581. Francis Bacon, On Seditions and Troubles, in The Essayes or counsels, civill and morall, John Haviland for Hanna Barret, London 1625, poi in The Works, ed. by James Spedding, vol. VI, p. II, London 1858. Id., A Speech..., in the Lower House of Parliament, concerning the article of Naturalization (1607), in The Works, cit., vol. X, London 1868. Guillaume Barclay, De regno et regali potestate adversus Bucananum, Brutum (i.e. H. Languet), Bucherium et reliquos Monarchomacos libri sex, G. Claudiere, Parisiis 1610. Giovanni Botero, Della ragion di Stato libri dieci. Con Tre libri delle Cause della Grandezza e Magnificenza delle Città, Gioliti, Venezia 1589. Id., Le relazioni universali, Niccolò Polo, Venezia 1602. Stephanus Junius Brutus, Vindiciae contra tyrannos: sive de princibus in populum, populique in principem legitima potestate, Edimburgh [Basel] 1579. Tommaso Campanella, De Monarchia Hispanica discursus, L. Elzevirius, Amstelodami 1640. Gabriel Chappuys, Citadelle de la royauté. Contre les efforts d’aucuns de ce temps, qui par escrits captieux ont voulu l’oppugner, Guillaume le Noir, Paris 1603. Id., Histoire générale de la guerre de Flandre..., R. Foüet, Paris 1611. Pierre Charron, Discours chrestien: qu’il n’est permis ni loisible à un suject, pour quelque cause et raison que se soit, de se liguer, bander et rebeller contre son Roy, David Le Clerc, Paris 1606. Jean de Baricave, La Defence de la monarchie françoise et autres monarchies..., Bosc, Toulouse 1614. Juan de Mariana, De Rege et Regis Institutione libri III, apud P. Rodericum, Toleti 1599. Lorenzino de’ Medici, Apologia (1537-48), in Aridosia. Apologia. Rime e lettere, a cura di Federico Ravello, Torino 1926. Conde Duque de Olivares, Instrucción secreta dada al rey en 1624, in Memoriales y cartas, t. I: Política interior: 1621 a 1627, a cura di John H. Elliott e José F. De la Peña, Madrid 1978. Henri de Rohan, De l’interest des Princes et Estats de la Chrestienté, Pierre Margat, Paris 1638.

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Discours très-veritable touchant les droicts de la Couronne de Boheme, Sylvestre Moreau, Paris 1620. Daniel Drouyn, Le miroir des rebelles..., Claude de Monstr’oeil et Jean Richer, Tours 1592. Hugo Grotius, Liber de antiquitate reipublicae Batavicae..., Ex Officina Plantiniana Raphelengii, Lugduni Batavorum 1610. Thomas Hobbes, Behemoth: or an Epitome of the Civil Wars of England from 1640 to 1660, London 1679 (ed. by Ferdinand Tönnies, PlymouthLondon 1969; trad. it. a cura di Onofrio Nicastro, Roma-Bari 1978). François Hotman, La Gaule Françoise, Hierome Berthulphe, Cologne 1574. Instructions to a son by Archibald late Marquis of Argyle, written in the time of his confinement, D. Trench, London 1661. Justus Lipsius, Politicorum sive Civilis Doctrinae libri sex, Lugduni Batavorum 1589 (trad. it., Angelo Righettini, Venezia 1618). Gabriel Naudé, Considérations politiques sur les coups d’Estat, s.e., Roma 1639. Antonio Pérez, Relaciones, s.e., Paris 1598. David Rivault, sieur de Flurence, Les Estats esquels il est discouru du Prince, du Noble et du tiers Estat, conformement à notre temps, Benoist Ricaud, Lyon 1595. Michel Roussel, L’Antimariana, ou refutation des propositions de Mariana..., Jean Petit, Rouen 1610. Satire Ménippée. De la vertu du Catholicon d’Espagne..., 1595 (éd. par Charles Read, Paris 1876). Dalle opere seguenti ho tratto dati ed elementi di discussione: Yves-Marie Bercé, Révoltes et Révolutions dans l’Europe moderne (XVIeXVIIIe siècles), Paris 1980. Vittorio De Caprariis, Propaganda e pensiero politico in Francia durante le guerre di religione, vol. I, Napoli 1959. Eugenio Di Rienzo, Saggezza, prudenza, politica: stabilità e crisi nel pensiero politico francese del Seicento, in La saggezza moderna. Temi e problemi dell’opera di Pierre Charron, Napoli-Roma 1987. John H. Elliott, Revolution and continuity in Early Modern Europe, in «Past and Present», n. 42, 1968 (trad. it., in Le origini dell’Europa moderna, a cura di Mario Rosa, Bari 1977). Robert Forster e Jack P. Greene (a cura di), Preconditions of Revolution in early modern Europe, Baltimore-London 1970. Helli Koenigsberger, The organization of revolutionary parties in France

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and Netherlands during the sixteenth century, in «Journal of modern history», XXVII (dic. 1955), n. 4. José Antonio Maravall, La cultura del Barroco. Análisis de una estructura histórica, Madrid 1975 (trad. it., Bologna 1985). Roland Mousnier, L’Assassinat d’Henri IV. Le problème du tyrannicide et l’affermissement de la monarchie absolue, Paris 1964. J.H.M. Salmon, Renaissance and Revolt. Essays in the intellectual and social history of early modern France, Cambridge 1987. Testi cinquecenteschi sulla ribellione politica, a cura di Gian Paolo Marchi, Verona 1978. Jean Vilar, Formes et tendances de l’opposition sous Olivares: Lisón y Viedma, «defensor de la patria», in «Melanges de la Casa de Velázquez», VII (1971). Corrado Vivanti, Lotta politica e pace religiosa in Francia fra Cinque e Seicento, Torino 1963. Perez Zagorin, Rebels and rulers 1500-1660, Cambridge 1982.

II

C’era una volta il bandito sociale Mi pare che la via migliore per affrontare il tema del banditismo, come fenomeno più o meno endemico di alcune aree o di particolari fasi della storia europea, non sia la ricerca dei suoi caratteri generali e costanti, ma l’analisi di episodi e momenti storicamente ben determinati. Anche se il brigantaggio appare per la sua stessa natura statico, estraneo all’evoluzione della lotta politica e della cultura, in realtà esso acquista il suo vero significato soltanto se è messo in relazione con determinate circostanze e condizioni storiche. L’alternativa al criterio storico è l’analisi sociologica, l’elaborazione di «modelli» che dovrebbero distinguere il brigantaggio «sociale» o «politico» dalla casistica della delinquenza comune e che hanno comunque fornito elementi utili per comprendere il meccanismo dei rapporti tra i banditi e l’ambiente in cui essi operano. Il rovescio della medaglia è però la tendenza di questo tipo di analisi a ridurre ad uniformità fenomeni che hanno una genesi diversa, ad appiattire una realtà storica multiforme e differenziata e infine a confondere la realtà e il mito del banditismo. Spesso, infatti, l’analisi delle imprese e delle gesta delle bande non è sufficiente a dare la misura del carattere «sociale» del fenomeno: da qui la tendenza a trovare conferma di questo carattere nella leggenda che attorno al bandito «sociale» si crea, nelle qualità che l’ambiente gli attribuisce, nel consenso popolare che egli ottiene. Ma talvolta la creazione di una leggenda, piuttosto che la conferma della qualità «sociale» del bandito, è semplicemente la proiezione di elementari sentimenti di giustizia o di vendetta diffusi nell’ambiente popolare, il condensato di frustrazioni collettive; e può quindi accadere che il simbolo che il bandito rappresenta nella coscienza popolare e la sua reale attività siano due cose diverse o addirittura opposte.

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Indubbiamente il problema di una preliminare distinzione tra brigantaggio «sociale» o «politico» e delinquenza comune esiste. Credo però che esso debba essere affrontato nella concreta analisi dei singoli episodi, non isolando le manifestazioni del banditismo, ma mettendole in rapporto con tutte le altre manifestazioni della vita sociale, politica, culturale. È vero che in certi casi l’uso del termine banditismo o brigantaggio si mantiene soltanto per forza d’inerzia, come eredità di un giudizio immediatamente politico, o per una sorta di compiacimento subalterno. La tendenza a definire banditi e delinquenti comuni, senza andare per il sottile, tutti quelli che operano violentemente contro la legge è frequente e persino naturale sul terreno politico: la storia si incarica di rendere giustizia, di distinguere, di recuperare. Esistono certo difficoltà reali per questa operazione di giustizia storica, che tende sempre ad essere più generosa e magnanima del giudizio immediato e politico, perché l’analisi storica vuole penetrare più a fondo, tenere conto di tutte le circostanze, sollevarsi al di sopra delle parti. Ma, in generale, le vecchie etichette devono essere sottoposte a verifica, quando sono troppo generiche o possono dar luogo ad equivoci o ostacolano una ricerca spassionata; e credo che l’esigenza di una verifica terminologica si ponga anche per vari casi di brigantaggio (e forse anche per quello postunitario: guerriglia legittimistica, rivolta contadina...), per i quali, appunto, il giudizio storico è più condizionato dalla forza d’inerzia, dal compiacimento subalterno, dal gusto del folclore o dalla conflittualità politica. Comunque, anche dopo una poco probabile operazione riduttiva, il problema storico del brigantaggio continuerebbe ad esistere e ad avere grandi dimensioni. Per gli studiosi di storia dell’Italia meridionale, la tentazione di cercare formule generali deriva anche dal fatto che il brigantaggio appare nel Mezzogiorno come un fenomeno permanente. Ma questa tentazione può indurci a mettere sullo stesso piano cose diverse, che hanno in comune soltanto certi aspetti formali. Fenomeno endemico e permanente, senza dubbio; ma certamente non sempre uguale. La prima osservazione che si può fare, considerando un ampio e secolare panorama, è che ci sono dei momenti in cui il brigantaggio assume proporzioni straordinarie e di massa e un grande rilievo. In questi momenti esso si distingue dal pullulare di casi che cadono sotto l’ordinaria amministrazione. È un mutamento quantitativo che, entro certi limiti, può suggerire l’idea di un mutamento di qualità.

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Uno di questi momenti è appunto l’ultimo ventennio del Cinquecento. Il moto è talmente ampio da superare ogni altro precedente e da non trovare riscontro se non nel brigantaggio postunitario. Alla fine del Cinquecento il banditismo aumenta in modo impressionante, com’è noto, in tutto il bacino del Mediterraneo: se le cifre mancano o sono poco attendibili, gli avvenimenti parlano tanto chiaramente da non consentire dubbi sulla sua eccezionalità. Nel Regno di Napoli per alcuni anni esso è il più importante avvenimento interno, quello sul quale si appuntano i maggiori sforzi del governo. Ma se per le proporzioni questa fase del brigantaggio deve essere accomunata alle altre fasi più acute e importanti, essa se ne differenzia perché non è provocata da un avvenimento politico-militare eccezionale o dall’urto di una forza esterna. Non è un’invasione straniera, come nel periodo francese, o il crollo di una dinastia e di un regime, come nel 1860, che rompe l’equilibrio e scatena le forze della ribellione elementare, della protesta violenta e del brigantaggio. Alla fine del Cinquecento non vi sono mutamenti di regime, né invasioni o urti dall’esterno. I soli stranieri armati che frequentano l’Italia meridionale sono, oltre gli Spagnoli che ormai sono di casa da un secolo, i pirati turchi. La loro attività è intensissima, ma non tale da provocare sconvolgimenti di ordine generale e tanto meno crisi politiche. La rottura dell’equilibrio, che consente alla marea del banditismo di sollevarsi fino a quell’altezza, nasce, dunque, dall’interno. L’autonomia del processo, il fatto che esso non è legato ad una crisi politico-istituzionale o ad un intervento dall’esterno e che si verifica, anzi, quando l’organizzazione dello Stato ha da gran tempo superato la fase di adattamento al nuovo dominio e si è consolidata, ha senza dubbio un suo significato. È necessaria una spinta dirompente particolarmente forte e diffusa in diversi strati sociali per creare uno stato di guerra che dura per circa un quindicennio tra bande numerose e organizzate che si formano in quasi tutte le province e le truppe regolari che dovrebbero sterminarle; per consentire alle bande di raggiungere una consistenza numerica assolutamente inconsueta rispetto alla «normale» pratica del brigantaggio, di mettersi in grado di assediare ed assaltare anche dei centri cittadini, e di resistere per così lungo tempo ai colpi della repressione. È stato scritto che «l’aumento imponente del brigantaggio nel Mediterraneo alla fine del secolo XVI rifletteva il declino impressionante delle condizioni di vita dei contadini dell’epoca» (Hob-

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sbawm). Non si può mettere in dubbio che la miseria dei contadini e degli strati più poveri della città è una realtà particolarmente evidente in questo periodo, nel quale cade la punta più alta della cosiddetta rivoluzione dei prezzi, dell’inflazione monetaria e dei casi di bancarotta pubblica e privata; e che essi costituiscono lo sfondo di tutta la vicenda della grande ondata del banditismo, come pure di altri avvenimenti e delle stesse tensioni sociali e politiche che si avvertono nelle campagne e nelle città. In astratto, l’immiserimento, la fame di grandi masse, potrebbe spiegare ogni fenomeno di questo tipo; ma in questo caso, se il forte declino del livello di vita delle popolazioni è una delle condizioni che rendono possibile l’esplosione del banditismo, questo motivo non è sufficiente a spiegarne le origini e lo svolgimento. Si tratta di movimenti che, entro certi limiti, sono organizzati, diretti e duraturi e non sono soltanto episodici e spontanei assalti di affamati; a quei movimenti partecipano elementi che non provengono dagli strati più poveri della popolazione, che non sono spinti dalla fame; fatto eccezionalissimo, esso riscuote perfino qualche simpatia che potremmo dire «politica» nelle città, sempre tradizionalmente ostile ad ogni forma di banditismo. Parecchi elementi dimostrano quindi, come vedremo, che non solo la campagna è, in quel periodo, la matrice dell’ondata di banditismo. Ma, volendo considerare per un momento soltanto il mondo rurale, anche la sua crisi non è soltanto e semplicemente un aumento della miseria, non colpisce soltanto i contadini poveri; essa investe invece tutto l’insieme dell’organizzazione sociale delle campagne. La sua manifestazione più importante e più ricca di conseguenze è, anzi, il conflitto tra i piccoli e medi imprenditori agricoli e i possessori laici ed ecclesiastici della rendita fondiaria e feudale. Se si vuole cercare una analogia, la situazione è simile a quella, descritta da E. Le Roy Ladurie, che si verifica, per influenza del movimento protestante, nelle campagne francesi, dove i contadini rifiutano di pagare le decime ecclesiastiche. Nella parte mediterranea del mondo spagnolo non vi sono le stesse motivazioni ideali: ma il movimento è della stessa natura, e investe anche la proprietà laica. Si tratta del tentativo dei contadini (e in particolare dei contadini agiati) di riversare sui proprietari terrieri il peso delle difficoltà economiche e di salvarsi così dalla minaccia della degradazione sociale e del fallimento. Ho già indicato nella mia Rivolta antispagnola a Napoli, i casi e i dati che mi sembrano giustificare e rendere plausibile questa tesi.

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Nell’Italia meridionale il conflitto fu ampio e profondo, la resistenza dei contadini al pagamento delle rendite feudali ed ecclesiastiche fu diffusa. Ciò significa che in quel momento non vi fu soltanto un più accentuato disagio delle masse contadine, ma una vera e propria crisi della società rurale, del sistema di rapporti tra proprietari, piccoli e medi imprenditori e contadini poveri; e probabilmente anche, attraverso questa vicenda, si giunse ad una trasformazione stabile di quel sistema ed al declino delle funzioni e dell’importanza degli strati contadini intermedi, con una più accentuata polarizzazione della società rurale tra grandi proprietari e contadini poveri. Le campagne meridionali, non toccate dall’ondata di rivolte contadine che ha accompagnato la diffusione della Riforma protestante, reagirono allora alla ripresa della rendita fondiaria e feudale ed al contemporaneo sforzo di riorganizzazione economica e finanziaria della Chiesa. Il fatto importante è che al movimento parteciparono, prima dei contadini poveri, gruppi che avevano un ruolo di direzione e di aggregazione sociale nelle campagne. Erano gli imprenditori semicapitalisti della coltura granaria (i cosiddetti «massari»): forze contadine che avevano potuto approfittare della fase secolare di congiuntura favorevole lungo il secolo XVI, raccogliendo in parte i frutti della depressione salariale e avvantaggiandosi, indirettamente, della crisi finanziaria e dello sviluppo del mercato cittadino. Esposti alla pressione di una nobiltà largamente indebitata ed impegnata a risollevarsi attraverso una restaurazione o un allargamento dei suoi diritti feudali (rifeudalizzazione), di una borghesia terriera di usurai e di redditieri e dei mercanti di grano, essi furono seriamente minacciati dalla fine della congiuntura favorevole e si trovarono di fronte al rischio di essere ricacciati nella massa indifferenziata dei contadini dipendenti e sottomessi. La loro reazione si rivolse allora contro la rendita feudale ed ecclesiastica. L’intervento del governo, con concessioni e atti di forza nello stesso tempo, in pratica esasperò il conflitto. Le conseguenze furono gravissime. Venne meno un fattore essenziale di ordine e di equilibrio che, in condizioni normali, contribuiva a tenere a freno le forze selvagge e «demoniache» che il mondo rurale nascondeva nel suo seno. Mi pare che non sia difficile stabilire un rapporto diretto tra questa crisi della struttura agraria (i cui effetti probabilmente non furono momentanei ma a lungo andare introdussero, come già si è detto, mutamenti di lungo periodo nella composizione sociale del

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mondo agricolo) e l’esplosione del banditismo. S’intende, però, che i due fenomeni sono diversi e che la rivolta contro la rendita non si identifica con il banditismo; la prima contribuisce a creare, attraverso una incrinatura dell’ordine sociale, le condizioni per il secondo, e questo, a sua volta, risente della spinta genericamente antifeudale che la rivolta contro la rendita esprime e diffonde nelle campagne. Vi è anzitutto una precisa coincidenza cronologica, poiché entrambi i fenomeni si verificano nel decennio tra il 1585 ed il 1595, con la punta massima nel mezzo del periodo. In secondo luogo, vi è una proiezione di quel conflitto nella stessa attività dei banditi, che è generalmente orientata contro baroni, vescovi e grossi mercanti e che ricerca ed ottiene la solidarietà attiva delle popolazioni contadine, al punto che in molti casi la repressione si abbatte indiscriminatamente contro intieri villaggi e comunità rurali. Questa proiezione diventa esplicita nel caso della banda più importante e meglio organizzata, quella di Marco Sciarra, che sia pure senza riuscirci cercò di sollevarsi al di sopra della pratica brigantesca. Marco Sciarra si definiva con una formula il cui significato si può comprendere, mi pare, soltanto in relazione alla rivolta contro la rendita e contro l’oppressione mercantile sui produttori agricoli: «commissarius missus a Deo contra usurarios et detinentes pecunias otiosas». Questa era, secondo diverse testimonianze, la sua elaborata e significativa insegna. Mi rendo conto che l’indicazione di questo nesso può apparire insufficiente e generica; ma il confronto con altri periodi può servire a rendere più chiaro il carattere eccezionale ed il contenuto particolare del banditismo di fine Cinquecento. Infatti, perfino il suo aspetto più ovvio e scontato, cioè l’attacco univoco contro la ricchezza, il ricatto e la violenza esclusivamente esercitati contro i ricchi, non sono poi, almeno nelle forme di massa in cui si manifestano allora, così normali e connaturati ad ogni momento e ad ogni manifestazione del brigantaggio come potrebbe sembrare. In altri periodi o contemporaneamente e in diverse aree geografiche (lo Stato della Chiesa, per esempio, o la Catalogna) l’attività del banditismo poteva avere, come vedremo, un segno addirittura opposto. In ogni caso, credo che si debba uscire dall’ancora più generica indicazione del rapporto tra l’aumento del banditismo e l’aggravamento della miseria. L’ipotesi del venir meno di alcuni importanti elementi di stabilità dei rapporti sociali e produttivi nelle campagne è più adatta a rendere ragione della vastità e complessità del fenomeno.

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Tuttavia, neanche questo fattore «sociale» è sufficiente a spiegare la grande ondata di banditismo della fine del XVI secolo; alcuni suoi aspetti sollecitano a spingere lo sguardo in altre direzioni. Colpisce in modo particolare la larghissima partecipazione del clero, che solo in parte si potrebbe spiegare con lo stretto intreccio esistente tra la vita delle campagne e la Chiesa. Furono centinaia di casi, che resero necessaria una costante collaborazione tra il governo e la Chiesa nell’opera di repressione. In ogni provincia, accanto ai commissari governativi operarono regolarmente anche commissari invitati dalle autorità ecclesiastiche. Una spiegazione esplicita di questo fatto (che è specifico di questo periodo, anche se accade di trovare in altri momenti elementi del clero tra le fila dei banditi) non è stata finora tentata. Incidentalmente, questa presenza è spiegata di solito come una estrema manifestazione di insofferenza alla disciplina morale e organizzativa che le gerarchie si sforzarono di introdurre nell’organismo ecclesiastico e come un prodotto del basso livello generale del clero meridionale, dal punto di vista del costume e della preparazione culturale. All’interno della Chiesa esistevano forti tensioni ideali, contrasti profondi di natura religiosa e culturale che non si possono ridurre alla semplice questione della insubordinazione disciplinare e della rilassatezza morale. La affermazione della Controriforma, nella misura in cui c’è stata nel Mezzogiorno, non è stata soltanto un processo di moralizzazione e di riorganizzazione, né ha portato con sé soltanto la fine dei gruppi eterodossi, valdesiani o di altre correnti, che esistevano a Napoli intorno alla metà del secolo; ma ha portato con sé anche l’eliminazione di tradizioni e tendenze culturali e religiose all’interno della Chiesa, e particolarmente la dispersione finale dei residui di erasmianesimo, di razionalismo umanistico, di aspirazioni al confronto dottrinario con gli eretici, di critiche nei confronti degli elementi di superstizione che si mantenevano nel culto, e così via. L’episodio dei due conventi napoletani di San Domenico Maggiore e San Pietro Martire, che ho raccontato nella Rivolta antispagnola, sembra molto significativo da questo punto di vista e difficilmente può essere fatto rientrare nel conflitto tra esigenze di disciplina, di ordine, di rigore morale, da un lato, e rilassatezza dei costumi, indisciplina e generiche insofferenze, dall’altro. San Domenico era uno dei grandi centri tradizionali della vita religiosa e della cultura del Regno: era il convento di Giordano Bruno, di Campanella, di frate

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Serafino Rinaldi, il convento col quale Caravaggio fu in contatto nel suo soggiorno napoletano. I suoi monaci respinsero con le armi, nel 1594, il tentativo di imporre la riforma dell’ordine; e furono sostenuti energicamente dai cittadini. Tutto ciò avveniva a Napoli, dove le possibilità di espressione politica e culturale erano assai maggiori che nelle province, e dove ogni avvenimento di rilievo veniva immediatamente percepito dalla popolazione, dai suoi rappresentanti e dalle sue organizzazioni politiche. Nelle province, invece, la frattura all’interno della Chiesa e del mondo conventuale, nei modi violenti in cui si manifestava, provocò reazioni più elementari, corrispondenti ad un più oscuro viluppo di interessi e di passioni, al livello culturale inferiore, alla debolezza dei motivi ideali, all’influenza di un ambiente più arretrato; vi era minore spazio per la resistenza e minore fiducia nella giustizia. Lo sbocco nel banditismo era quindi più facile; ed in effetti, non solo preti e monaci si unirono in gran numero alle bande e ne divennero gregari e capi, ma alcuni conventi diventarono allora importanti nodi della rete organizzativa del banditismo e punti di appoggio della sua «strategia». Sembra, dunque, che qui si possano cogliere nel momento della degradazione e del corrompimento ma anche dell’estrema ed elementare protesta, accanto ad altri motivi, anche aspirazioni ideali e tendenze già sconfitte dal Concilio di Trento. È il contraccolpo della sconfitta che raggiunge gli strati periferici e più profondi della Chiesa e solleva un’ondata limacciosa, che non è composta soltanto del risentimento dei corrotti e degli ignoranti. Certe reazioni estreme non meravigliano: sono, anzi, perfettamente corrispondenti alle forme violente assunte dalla lotta religiosa contro gli eretici e dalla riorganizzazione disciplinare. Se i colti domenicani di Napoli impugnano le armi, perché il povero prete di campagna, minacciato e disorientato, non dovrebbe compiere il passo estremo verso la montagna? Naturalmente in quel momento la sua resistenza è finita come resistenza ideale: si tratta, quindi, di una definitiva e tragica rinuncia. La frattura all’interno della Chiesa è, dunque, un’altra delle condizioni che favoriscono e provocano l’insorgere del banditismo: la massiccia presenza del clero tra le file dei banditi, chiaramente individuabile e documentato, ne è una prova. Le considerazioni precedenti tendono però a suggerire che quell’interno conflitto è stato provocato anche da motivi di natura ideale, religiosa, e intellettuale; la fine del Cinquecento è stata, inoltre, un periodo di disagio e di

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difficoltà nei rapporti tra Chiesa e popolo, come potrebbe dimostrare la ripresa del profetismo, della stregoneria e dell’astrologia a diversi livelli. Anche da qui è venuto un alimento alla grande ondata del banditismo, sia per il momentaneo indebolimento di un tradizionale fattore di stabilità sociale, sia per il diretto apporto di una massa di religiosi perseguitati che non avevano più la possibilità di sostenere posizioni fino a poco tempo prima ritenute compatibili con l’appartenenza alla Chiesa. Certo, se è facile documentare che il clero è uno dei protagonisti del banditismo di fine Cinquecento, è tutt’altro che facile stabilire un nesso diretto tra il banditismo e la crisi religiosa e intellettuale. Tuttavia esistono dei casi in cui questo rapporto è indicato esplicitamente, di preti e monaci che si danno alla macchia perché accusati di eresia; ed anche nell’accordo stipulato nel 1585 tra il papa e il governo napoletano per lo svolgimento di un’azione contemporanea nei due Stati contro il banditismo, al primo posto nell’elenco dei criminali che formano le bande figurano «heretici, rebelli, sacrileghi». Il quadro delle matrici del banditismo della fine del Cinquecento dovrebbe essere infine completato dall’indicazione di altre sorgenti: le frange del ribellismo nobiliare contro lo Stato e la monarchia, le vittime dei primi tentativi di creare movimenti popolari di opposizione, i gruppi compromessi in agitazioni e rivolte cittadine. Da Napoli fuggirono oltre diecimila persone dopo la rivolta del 1585: ancora un’altra coincidenza cronologica non casuale. Esiste, dunque, dietro l’ondata del banditismo della fine del Cinquecento, una complessa realtà che non è soltanto di generico malcontento, ma anche di contrasti sociali, politici, religiosi. Braudel ha potuto parlar di «révolution larvée» nell’età di Filippo II. Ma anche a questo proposito occorre, a mio avviso, un chiarimento. Anzitutto, si tratta di fermenti che si richiamano a matrici diverse e che nessun programma riesce ad amalgamare e unificare. In secondo luogo, essi non hanno nessuna possibilità di sbocco politico o di affermazione ideale. La fioritura eversiva è invece il segno del fallimento della ribellione: è uno sbocco negativo delle pulsioni di cui ribolle l’ultimo ventennio del secolo. Una volta giunta a questo approdo la rivolta (con le sue eventuali potenzialità ideali) è finita, tutt’al più mantiene soltanto una traccia della sua origine. Ma qualunque sia l’ispirazione originaria e i metodi scelti per l’azione, la scelta del banditismo non è l’instaurazione di una «legge nuova» alla quale più o meno confu-

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samente aspira l’autentico ribelle; è semplicemente, come osservava Jean Bodin, «l’eversione e la rovina della giustizia». Anche Tommaso Campanella condannò il banditismo e prese le distanze dal suo più famoso rappresentante: «Chi segue la giusta causa – disse al momento in cui fu arrestato – non si deve curare di patire, ch’alla fine sarà esaltato come David, et l’ingiusto rovinato come Marco Sciarra e altri simili». Ingiusto Marco Sciarra, il bandito intorno al quale si creò subito, per durare a lungo, la leggenda del giustiziere, del vendicatore di torti contro i potenti, e perfino contro l’oppressore spagnolo? Campanella aveva fiducia nella possibilità del mutamento, credeva anzi nella sua necessità, imposta dal cielo e dalla terra; e perciò Sciarra gli appare non come un ribelle ma come un dissipatore e distruttore, come colui che aveva contribuito a deviare il potenziale mutamento dal suo corso politico; tanto più ampia era stata la sua azione, tanto più egli aveva nuociuto alla giusta causa. Per Campanella, la giusta causa doveva essere sostenuta sul terreno politico e ideale, con le sue difficoltà di impostazione e di organizzazione, con la sua impossibilità di affidarsi ad atti disperati e senza domani. Campanella mantenne fino in fondo la sua carica ideale e politica e continuò a svolgerla anche dopo la sconfitta e il riconoscimento della sconfitta; e credo che ormai gli studi del dopo Firpo, il ripensamento della prima e seconda stesura della Monarchia di Spagna e le relative precisazioni cronologiche rendano necessaria una profonda revisione storica della sua cosiddetta congiura, di quella che egli definì, dopo il suo arresto, «la favola della ribellione». Indubbiamente, nel suo tentativo Campanella si incontrò anche con la realtà del banditismo e con fenomeni ed episodi di rivolta. Nel fermento multiforme della società calabrese ci fu anche un bandito, un gentiluomo, Maurizio de Rinaldi; ci furono contatti con gruppi di banditi, con i pirati turchi. Il rapporto tra Campanella ed i resti dell’ondata del banditismo è un problema secondario nella storia del suo grande impegno politico e culturale anteriore all’arresto. La fase del grande banditismo, della quale abbiamo parlato, tra il 1580 e la fine del secolo, rappresenta il fallimento dei tentativi di affrontare quella grave crisi sociale, economica e politica che dopo Braudel molti altri studiosi hanno riconosciuto e descritto. La riprova di tale singolarità è nel fatto che questa fase appare chiusa in se stessa. Il brigantaggio continua nel secolo successivo (è endemico e permanente, infatti!), ma con caratteristiche diverse ed

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anzi nettamente opposte a quelle dell’ultimo ventennio del Cinquecento. Infatti, il banditismo che costituisce la piaga di diverse aree del Mediterraneo e soprattutto del Regno di Napoli durante la prima metà del Seicento è costituito dalle masnade al servizio dei signori, dagli eserciti privati dei baroni, è lo strumento della reazione feudale che precede la rivoluzione del 1647. È un completo capovolgimento. Il suo terrore si esercita ora nei villaggi e nei centri cittadini, sotto la protezione e per istigazione dei grandi, contro tutti gli strati inferiori della popolazione, ma specialmente contro i rappresentanti dei comuni e contro i funzionari dell’amministrazione finanziaria e giudiziaria. Una piaga insanabile, perché i banditi hanno protettori importanti e autorevoli. Quel che all’inizio era un nucleo relativamente ristretto diventa poi l’aspetto largamente dominante del fenomeno. A conclusione di un convegno sul banditismo, che si è tenuto a Venezia nel 1983, presso la Fondazione Cini, Maurice Aymard, nel suo intervento conclusivo, ha invitato alla prudenza nel giudizio, motivando il suo invito con la convinzione che il banditismo non ha una sua propria collocazione nel contesto della storia dell’Europa medievale e moderna. Credo che la sua osservazione si possa interpretare nel senso che non è possibile un giudizio generale unitario, perché la varietà e la diversità dei casi prevalgono sugli elementi comuni. Non so se è stata la prudenza di Aymard ad ispirare il tema e il titolo di un convegno che si è tenuto successivamente, nell’ottobre del 2002, in Sardegna e che forse per la prima volta nella storia di questi incontri ha invitato a discutere sulla varietà e sulla diversità dei fenomeni che possono essere collocati nell’area storica banditesca. Ritengo che fosse una decisione giusta. Ma, invitato a dire qualche parola introduttiva, dopo avere avvertito che non ero particolarmente competente nella materia, mi sono limitato ad esporre argomenti a cui ho accennato nelle pagine precedenti. Forse perché mi sentivo un po’ a disagio ho cominciato con una premessa sentenziosa che in questa occasione mi permetto di ripetere come conclusione. Durante il convegno di Venezia era stata esaminata con particolare impegno la formula del «banditismo sociale». «A me sembra – ho detto con una certa imprudenza ad apertura del convegno sardo – che questa formula sia una sorta di rudere concettuale». Il convegno è stato molto interessante e ricco di temi nuovi, come risulta dal volume in cui sono raccolte le relazioni: Banditismi mediterranei. Secoli XVI-XVII, a cura di Francesco Manconi, Roma 2003.

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Avevo seguito con molta attenzione lo svolgimento del convegno ma non ero in grado di trarre conclusioni e fare bilanci. I miei implacabili amici sardi, approfittando del mio affetto e della mia riconoscenza per l’isola, mi hanno imposto di intervenire ancora con qualche parola conclusiva. La conclusione non rispecchia la complessità dei temi affrontati durante il convegno, ma i frammenti di pensiero che mi sono venuti in mente nel seguire i lavori. Eccoli. Mentre nel Medioevo la figura del sovrano era associata all’idea di sacralità, nell’epoca che stiamo considerando era associata fondamentalmente all’idea della giustizia. È vero che una parte della società, specialmente i grandi privilegiati, i signori, aveva una certa diffidenza, proprio per questo, nei confronti del sovrano, ma il resto delle popolazioni, la grande massa, dalla borghesia in giù, degli uomini della prima età moderna, dai cittadini ai contadini, associava l’idea del sovrano all’idea della giustizia. Considerando questo grande parametro storico e vedendo nello stesso tempo l’intensità e la ricchezza dei fenomeni di banditismo durante tutto questo periodo e la contraddizione tra ideale e realtà nell’amministrazione della giustizia, potremmo dire che questa è stata l’epoca della grande illusione della coincidenza tra sovranità del re ed esercizio della giustizia. In moltissimi casi esaminati nel corso del convegno quello che si vede come fattore non certo unico ma importante dello sviluppo e della permanenza del banditismo, della sua durata ed efferatezza, del disordine e dei danni provocati nella società, è il cattivo funzionamento della giustizia. Un certo grado di discrepanza tra aspirazioni e realtà di fatto si può considerare un dato inevitabile e normale. Il problema sta nel misurare il divario, nel valutare fino a che punto si può parlare di una grande illusione e di divario così profondo da oscurare gran parte del ruolo di giustizia appartenente al sovrano, allo Stato. Indubbiamente c’è uno slancio utopistico nelle aspettative dei sudditi, nel loro modo di attribuire al sovrano poteri e possibilità di decisione nel campo vastissimo dell’esercizio della giustizia. Ma, a parte le utopie dei sudditi, la sfasatura tra le esigenze reali ed obiettive di giustizia e di equilibrio sociale, da una parte, e la realtà dei poteri, della forza politica necessaria per esercitarli e della volontà del sovrano, dall’altra, è molto forte nella prima età moderna, specialmente in alcune aree dell’Europa mediterranea.

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Nel convegno si è molto parlato anche, e mi è sembrato un discorso molto interessante, della genesi del banditismo nell’ambito dei rapporti familiari e dei rapporti tra famiglie. È un dato di fatto rilevante, ma non ci riconduce anche questo a spazi e movimenti più ampi degli «interni» familiari? Le faide non nascono dal puro e semplice odio tra le famiglie. Nascono da una concezione della vita, dei valori della convivenza. A questo punto il campo di osservazione si allarga alla cultura, alla pratica religiosa, alla scuola, a tutto quello che nel passato può avere avuto una influenza sulla formazione della coscienza civile e dello spirito collettivo. Per la prima età moderna ed anche oltre, uno dei problemi da risolvere è quello di valutare il peso che l’eredità dei valori feudali ha continuato a mantenere nella società. Valori che sono stati elaborati nell’epoca in cui si è sviluppato il sistema feudale e che hanno creato dei costumi, delle regole, delle leggi che si sono imposti soprattutto tra i nobili e poi si sono trasferiti al resto della società. Il concetto di onore e l’importanza che esso ha avuto per la nobiltà sono stati ampiamente studiati: ricordiamo per tutti il libro di Maravall su questo tema. Onore significa tutto un insieme di rapporti e di comportamenti, che riguardano anche, per esempio, la concezione della fedeltà e del rispetto tra i singoli e non soltanto la fedeltà verso il sovrano. La società di antico regime è molto gerarchizzata, ma anche in una società cosiffatta certi valori che appartengono ai livelli superiori si diffondono anche, in forme a volte distorte, negli strati inferiori, in contrasto con le leggi. Il processo di estraniazione dalla società, il diventare banditi, a volte nasce dalla necessità di rispetto di regole appartenenti al costume ed alla mentalità. Ma quanta parte del costume feudale rimane anche nella giurisdizione e nel complesso del diritto moderno? È stato estremamente difficile ammodernare il diritto. Pensiamo anche a cose recenti, al delitto d’onore per esempio, che contemplava fino a una trentina d’anni fa una forte attenuante per i colpevoli. Ricordo ancora che nel 1968-69 ci fu un processo a Catania in cui l’assassino della moglie fu condannato a due anni di carcere o forse meno. La sentenza fu accolta da un applauso della folla che assisteva. Nella prima età moderna grande parte del diritto feudale restava ancora tra le maglie del nuovo diritto che sorgeva dalla rinascita del diritto romano, dall’affermazione di una nuova giurisdizione ispirata al diritto naturale e dalla prima formazione di uno nuovo sistema di rapporti economici e sociali.

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Il problema della cultura e della mentalità non riguarda soltanto il diritto e la sua evoluzione, ma anche le forme di educazione all’interno e fuori della famiglia, tutto l’insieme delle istituzioni sociali e la reciproca influenza tra le varie componenti della società stessa. Un altro punto messo in rilievo dagli interventi al convegno è la corruzione della pubblica amministrazione – non soltanto dell’amministrazione della giustizia – come fattore della genesi, della prosperità del banditismo. Anche nella prima età moderna c’era una specie di corruzione ufficializzata. La venalità delle cariche pubbliche non può essere senz’altro associata alla corruzione, ma dava certamente un largo spazio all’interesse privato nella vita pubblica. Persino la formazione e organizzazione delle milizie era spesso affidata a imprenditori privati, ciò che comportava una serie di problemi che è facile intuire. Nel corso del convegno è anche emersa l’idea del banditismo come scelta professionale. Qualche battuta in questo senso c’è stata. Forse pure questo aspetto dovrebbe essere studiato di più, insieme all’uso strumentale dei banditi da parte dei poteri pubblici che non erano abbastanza forti da affermare l’autorità dello Stato. Un altro protagonista importante della storia del banditismo, e con questo concludo, è stato il confine. Se guardiamo una ideale carta geografico-politico-istituzionale che consideri le divisioni effettive della società europea della prima età moderna, la rete dei confini appare molto più fitta di quella dell’Europa contemporanea. Se si dà un senso lato al termine, il senso di ostacolo e difficoltà di transito e di intervento (pensiamo al diritto di asilo ecclesiastico, ai privilegi dei signori feudali, alle molteplici possibilità di protezione che si offrivano a determinate categorie di delinquenti), il confine è presente ad ogni passo, è un reticolo molto fitto ed è condizione importante anche della prosperità del banditismo. Pensando a quella Europa così ricca di confini e separazioni possiamo concludere facendo un salto acrobatico ed auspicando che il cammino dell’Unione europea di oggi superi anche i residui aspetti negativi di quell’intrico di separazioni, conservando e valorizzando nello stesso tempo gli aspetti positivi della diversità e della multiforme capacità creativa che hanno costituito l’essenza della civiltà europea nel millennio del suo svolgimento.

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Appendice bibliografica Il problema del «banditismo sociale» è stato affrontato da E.J. Hobsbawm in Bandits, London 1969 (trad. it., Torino 1971; nuova versione riveduta e ampliata, Torino 2002); Primitive Rebels. Studies in Archaic Forms of Social Movement in the 19th and 20th Centuries, Manchester 1959 (trad. it., Torino 20022); Introduzione a Bande armate, banditi, banditismo e repressione di giustizia negli stati europei di antico regime, a cura di G. Ortalli (Atti del convegno, Venezia 3-5 novembre 1983), Roma 1986. Un diverso punto di vista ha manifestato, tra gli altri, A. Blok, The peasant and the brigand: Social Banditry reconsidered, in «Comparative Studies in Society and History», XIV, 1972, pp. 494-503. Per una più ampia analisi della situazione napoletana, delle citazioni di Campanella, della eterodossia, del valdesianesimo e del mondo religioso post-tridentino nell’Italia meridionale rinvio, oltre che alle pagine della mia Rivolta antispagnola, a L. Amabile, Fra Tommaso Campanella. La sua congiura, i suoi processi e la sua pazzia, 3 voll., Napoli 1882; V. Spampanato, Vita di Giordano Bruno con documenti editi ed inediti, rist. anastatica, prefazione di N. Ordine, Paris-Torino 2000 (1921); M. Miele, La Riforma Domenicana a Napoli nel periodo post-Tridentino, Roma 1963; M. Rosa, La Chiesa meridionale nell’età della Controriforma, in Storia d’Italia, Annali, 9, Torino 1986; G. Romeo, Aspettando il boia. Condannati a morte, confortatori e inquisitori nella Napoli della Controriforma, Firenze 1993; M. Firpo, Tra alumbrados e «spirituali». Studi su Juan de Valdés e il valdesianesimo nella crisi religiosa del ’500 italiano, Firenze 1990. Per le permanenze di magismo ed esperienze di stregoneria, oltre il classico Sud e magia di E. De Martino, il volume di P. Lopez, Clero, eresia e magia nella Napoli del viceregno, presentazione di G. Coniglio, Napoli 1984. L’intervento conclusivo di Maurice Aymard al convegno di Venezia del 1983, organizzato presso la Fondazione Cini, è in Bande armate, banditi, banditismo, cit. (Proposte per una conclusione, pp. 505-511).

III

Un delitto senza precedenti Don Giuseppe Carafa, fratello del duca di Maddaloni Diomede, fu ucciso il 10 luglio 1647, nella quarta giornata della rivoluzione napoletana. Fu raggiunto in un vicolo dai popolari, mentre fuggiva dal convento di Santa Maria la Nova, dove si era rifugiato dopo il fallimento di una grande impresa organizzata per stroncare la sollevazione. Un quadro di Micco Spadaro rappresenta il momento in cui la sua testa, infilata in cima ad una picca, viene portata alla piazza del Mercato, davanti a Masaniello. Il suo corpo, decapitato e mutilato di un piede, è raffigurato in un altro quadro dello stesso pittore: appeso ad un’alta pertica, è al centro della vasta composizione in cui sono descritti, sulla scena della piazza del Mercato, alcuni episodi della prima fase della rivoluzione. Micco Spadaro voleva dare il massimo rilievo all’avvenimento, rispecchiando un’opinione ed una sorpresa largamente diffuse in tutti gli strati della società. Non era mai succeso che un personaggio di così alto livello fosse ucciso da un gruppo di plebei e che il suo corpo fosse ostentatamente trattato come quello di un volgare criminale giustiziato. Nei primissimi giorni della rivolta, il viceré aveva affidato a Diomede Carafa ed a suo fratello il compito di trattare con i ribelli per cercare di sedare la protesta. Diomede era allora imprigionato in Castelnuovo sotto processo criminale; Giuseppe era evaso sei mesi prima dal carcere e, dopo essere fuggito a Benevento e a Roma, era tornato a Napoli e si era rifugiato in un convento. La scelta del viceré era dettata dalla convinzione che la potenza della grande famiglia dei Carafa avrebbe intimorito il popolo e che il loro noto atteggiamento di indipendenza nei confronti del governo avrebbe dato credibilità alla loro missione. Ma fu una scelta sbagliata: il duca d’Arcos non

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aveva compreso, all’inizio, il senso di quel che stava avvenendo nella città e nel Regno. La ribellione era diretta contro il governo che aveva rinunciato all’autorità propria ed alla funzione dello Stato a vantaggio di baroni e speculatori; e contro quei signori (tra i quali, i Carafa di Maddaloni erano particolarmente insofferenti della giustizia e della sovranità dello Stato) che avevano contribuito a far tornare nel Regno un sistema di violenza e di illegalità che sembrava ormai tramontato nel resto dell’Europa occidentale. Il risorto indipendentismo nobiliare, fondato su questi presupposti, era esattamente l’opposto delle tendenze indipendentistiche popolari che venivano allora maturando nel pensiero politico napoletano e che sarebbero emerse nella seconda fase della rivoluzione. Si spiega così il deciso rifiuto, da parte dei popolari, dell’iniziativa apparentemente conciliante del viceré e dei suoi emissari. Quando Diomede Carafa portò alla piazza del Mercato un bando del viceré, invece del documento storico che i sollevati reclamavano, Masaniello lo affrontò violentemente e lo trasse giù da cavallo: «Questo ad un pari mio?», protestò il duca; «Questo e peggio ti si conviene – fu la replica – come traditore della patria». Erano parole inconsuete per un giovane popolano e probabilmente si riferivano non solo al documento falso, ma anche al sospetto che il Carafa fosse l’organizzatore di un clamoroso attentato che pochi giorni prima aveva fatto saltare in aria nel porto della città la nave ammiraglia della flotta. A stento il duca fuggì al linciaggio, con l’aiuto di un suo abile protetto che era tra i capi dell’organizzazione popolare dei quartieri. Il viceré e il duca affrontarono lo scontro in modo diverso: mentre il primo continuò a mostrarsi disponibile all’accordo, in attesa dell’armata navale che contemporaneamente invocava dal governo di Madrid, l’altro decise di seguire immediatamente una linea più radicale. Probabilmente d’accordo con altri nobili, egli organizzò un attentato che avrebbe dovuto seminare il panico tra la popolazione della città e stroncare sul nascere il movimento. I termini reali dell’episodio risultano con evidenza dalle cronache e dai documenti contemporanei. Essendo stato fissato l’accordo tra il viceré e gli insorti nella notte tra il 9 e il 10 luglio, i capitani del popolo ed i capi della milizia furono convocati per il pomeriggio del 10 nella chiesa del Carmine per la pubblica lettura e l’approvazione dei capitoli concordati. Ad essi si unì, «per sentire con indicibile ansietà li stabiliti capitoli e approvarli», una massa di decine di migliaia di persone che si assiepò all’interno della chiesa e nella grande piazza

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del Mercato. Il piano del Carafa prevedeva l’uccisione di Masaniello, anche come vendetta personale; ma prevedeva soprattutto una strage di enormi proporzioni nel convento e nella piazza. Per condurre in porto l’operazione, il duca di Maddaloni mobilitò il suo esercito privato di banditi e fuorilegge e alcuni suoi fedeli che erano tra i rappresentanti dei quartieri popolari. Centinaia di banditi furono fatti entrare clandestinamente nella città. L’attentato avrebbe dovuto svolgersi in due tempi, cominciando con l’uccisione di Masaniello nel corso dell’assemblea per la lettura e l’approvazione dei capitoli e proseguendo, subito dopo, con la strage dei popolani raccolti nel convento e nella piazza. Ma, andate a vuoto le archibugiate contro Masaniello, la reazione popolare fece fallire tutto il complotto. Alcuni attentatori furono uccisi immediatamente. Due «capi del tradimento», Domenico Perrone e Antimo Grasso (il primo era l’uomo di fiducia dei Carafa che aveva salvato il duca dal linciaggio, l’altro un veterano dell’esercito, manutengolo e capobandito della stessa famiglia) confessarono, prima di essere uccisi, che sotto la piazza e le case circostanti erano state poste delle mine. I banditi avrebbero dovuto dar fuoco ad esse «nel più bel tempo che fusse stata quella [piazza del Mercato] piena e calcata a martello d’infinito Popolo armato che per l’ordinario, con l’esperienza avuta nell’altre sere precedenti, soleva più che mai essere pieno e numeroso verso le tre hore della notte». Secondo alcuni cronisti (Alessandro Giraffi, Giuseppe Donzelli, Camillo Tutini e Marino Verde), i barili di polvere furono effettivamente ritrovati; altri invece (Gabriele Tontoli, Francesco Capecelatro, Tommaso De Santis) manifestano dubbi e incertezze, senza escludere, tuttavia, né l’attentato né l’infiltrazione dei banditi nei quartieri popolari. È decisiva, tuttavia, la testimonianza dell’arcivescovo, il cardinale Filomarino, che partecipò all’assemblea e fu direttamente coinvolto in tutto il corso degli avvenimenti di quella giornata: in una lettera al papa egli scrisse che furono ritrovati sei barili di polvere in una cloaca sotto il convento, aggiungendo che questo accidente «fece totalmente mutare la faccia a tutte le cose». Il primo cronista della rivoluzione, Alessandro Giraffi, dà la descrizione più minuziosa dell’attentato e delle sue possibili conseguenze; «Per essere la mina carica di 50 cantara e più di polvere, ascendenti al numero di 15 mila libre in circa, e sparsa universalmente sotto le viscere di detta Piazza, sarebbe andato per l’aria tutto quel Popolo insieme con tutti i Palazzi esposti alla detta Piazza, e anche col con-

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vento e Chiesa stessa del Carmine, che almeno sarebbero morte, oltre la destruttione di tanti edifici sacri e profani, da 150 mila persone...». Francesco Capecelatro è meno catastrofico: a suo giudizio «sarebbe stata fatta cotal trappola con poca speranza di riuscita, perché le mine non possono farsi entro le cloache, ove per li continui spiragli che vi sono, agevolmente svaporano, mentre sogliono farsi entro il terreno duro, perché resistendo alla forza del fuoco, si rompa poi tutto insieme con impeto e fracasso rovinando ciò che incontra». L’episodio è passato alla storia come «attentato contro Masaniello» ed anche sul momento, sembra, fu inteso come tale dall’opinione cittadina, costituendo forse il primo elemento di quel mito che doveva poi acquistare così grande rilievo. In effetti, se l’obiettivo degli organizzatori dell’attentato era di assestare un colpo di qualche efficacia alla rivolta – come si può dedurre dal gran numero di banditi fatti affluire nella città – l’operazione non poteva avere come scopo unico o principale l’uccisione del giovane pescivendolo. Pur avendo avuto fin dal primo momento una funzione di una certa importanza, egli non aveva raggiunto, tra il 9 e il 10 di luglio, un’autorità tale da far pensare che la sua eliminazione potesse creare uno sbandamento ed una crisi nel movimento popolare. Per quanto rapido fosse il corso degli avvenimenti, soltanto dopo l’attentato egli acquistò una grande autorità e il «pieno potere su tutto e su tutti». L’attentato fa venire in mente, per la sua meccanica, la ben più famosa congiura delle polveri, ma per la sua sostanza e per lo strumento di cui si servì (il banditismo al servizio dei baroni) si collega alla specifica situazione napoletana ed al terrorismo che negli anni precedenti si era diffuso in modo capillare specie nelle province, contro amministratori e rappresentanti delle comunità locali. Subito dopo l’attentato, i popolari diedero la caccia, oltre che ai Carafa, ai banditi che si erano introdotti clandestinamente a Napoli e si erano nascosti in diversi luoghi. Con la collaborazione della popolazione e grazie al divieto delle autorità ecclesiastiche di dar loro asilo nelle chiese e nei conventi, molti furono scoperti e decapitati. La carneficina ottenne il plauso universale: «Fu questo spargimento di sangue – scrisse Tommaso De Santis, cronista di parte governativa – uno de’ benefici ch’abbia apportato il presente tumulto, perché nettava la città d’un tanto mostro, che col tempo l’avrebbe potuta infettar tutta». Lo stesso viceré approvò e confermò l’operazione, emanando, il 12 luglio, un editto col quale si comminava la pena di

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morte contro i banditi che venivano trovati nella città e nei borghi e contro coloro che li proteggevano e davano loro asilo. Per la prima volta, dopo molti anni, si ottenne un concreto successo nella repressione del banditismo al servizio della nobiltà: i precedenti tentativi del governo erano caduti nel vuoto, o erano stati accantonati dagli stessi viceré in seguito alle proteste del baronaggio. Dei due Carafa, il duca riuscì a fuggire e rimase poi tra i protagonisti principali della lotta contro la rivoluzione; Giuseppe, come s’è detto, fu preso e decapitato. «Visse malamente – si legge nella cronaca di Camillo Tutini e Marino Verde – e sin dalla gioventù havea fatti infiniti homicidi et fatte assassinare molte persone... perloché veniva odiato da’ nobili e da’ popolari, protegendo anch’esso infiniti banniti et huomini di malavita». Rimane un mistero il motivo per cui, pare per ordine di Masaniello, gli fu tagliato un piede, che fu esposto per qualche giorno insieme alla testa in una gabbia di ferro. S’è detto, ma senza vero fondamento, che avesse dato un calcio all’arcivescovo nel corso di una processione l’anno precedente, mentre era in corso un contrasto tra i Seggi nobili e la curia. Vorrei fare un’altra ipotesi, che si riferisce ad un avvenimento di parecchi anni prima, precisamente del 29 agosto 1633. Protagonista non fu Giuseppe, ma un altro gentiluomo dello stesso cognome, Fabrizio Carafa, insieme al cavaliere di Malta Vincenzo della Marra. Il fatto riguarda la più importante istituzione di assistenza popolare esistente nel Regno, che si chiamava Casa dell’Annunziata. Era retta da quattro governatori popolari e da uno nobile. In breve: essendo sorto un contrasto tra le due parti perché i primi avevano preso delle decisioni in assenza del secondo, Fabrizio Carafa e Vincenzo della Marra, con un gruppo di spadaccini, andarono alla ricerca dei governatori popolari («maestri legali») che, a loro avviso, erano responsabili di un insulto nei confronti del «maestro nobile», per infliggere loro una adeguata punizione. Cercavano soprattutto Francesco Antonio Scacciavento, il più autorevole tra i governatori popolari; ma incontrarono il legista Camillo Soprano e contro di lui si rivolsero, obbligandolo a scendere dalla carrozza ed imponendogli di baciare loro i piedi. «A quest’atto sì umiliante si rifiutava il Soprano, ma ai colpi di bastone dové cedere e praticarlo, senza alcun pro, poiché dopo fu sì aspramente battuto da cadere immerso nel proprio sangue, esalando lo spirito in mezzo la strada, e propriamente sotto il palazzo del principe della Rocca a Santa Chiara». Il delitto provocò un forte risentimento nel

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popolo, tanto che il viceré, «per ovviare al temuto tumulto», fece imprigionare un fratello del Marra e porre agli arresti domiciliari il governatore nobile dell’Annunziata. È assai probabile che l’episodio sia rimasto fortemente impresso nella memoria cittadina, non solo per il modo dell’assassinio e per la notorietà della vittima, ma anche per la grandissima importanza che quella istituzione aveva nella vita economica, sociale e culturale di Napoli e nell’organizzazione collettiva della parte popolare. La mutilazione del cadavere di Giuseppe Carafa, puntualmente registrata nel quadro di Spadaro, fu forse il simbolo e l’espressione di quel ricordo e di una condanna estesa al ceto sociale a cui gli autori del delitto appartenevano o almeno ai suoi esponenti più violenti e riottosi. Tra i capi e gli ispiratori della rivoluzione del 1647, del resto, vi fu fin dall’inizio, come consultore segreto nelle trattative col viceré, anche Francesco Antonio Scacciavento che insieme a Camillo Soprano aveva partecipato al governo dell’Annunziata e solo per caso era scampato alla sua stessa sorte. L’assassinio di don Beppe Carafa rimase per la nobiltà in tutto il corso della sollevazione il simbolo di un rovesciamento di valori che non aveva riscontro nella comune esperienza. Lo sdegno ed il risentimento erano ancora vivissimi quando, parecchi mesi dopo, l’avventuriero francese Enrico di Guisa cercò di ottenere il consenso dei nobili al suo insensato progetto di essere incoronato re di Napoli. Secondo il racconto del cronista Camillo Tutini, una delle prime iniziative prese dal Guisa «per compiacere alla nobiltà e al duca di Maddaloni» fu la cattura del capitano Michele de Santis, che aveva ucciso don Beppe, e il suo invio ad Aversa, piazzaforte dell’esercito baronale, dove «quei nobili lo fecero cacciar vivo dentro d’un forno ardente». In più, nel corso delle trattative, il fratello Diomede propose, come prima delle quindici condizioni presentate all’aspirante sovrano, che gli altri popolani che avevano partecipato alla ricerca ed alla cattura del fratello fossero esiliati dal Regno fino alla quinta generazione.

IV

Masaniello e Peter Burke 1. Valore e inganni del simbolo La questione del giudizio dato dai contemporanei sulla rivoluzione napoletana del 1647 è distinta da quella, più nota ma finora poco studiata, del mito di Masaniello1, ma non può esserne separata soprattutto perché, nella cultura storica e nell’opinione comune, è stata a lungo dominante l’identificazione tra la rivoluzione e la figura del giovane capo popolare. Formazione di miti e creazione di simboli comportano inevitabilmente un certo grado di semplificazione. In questo caso la semplificazione è stata eccessiva e, relegando nell’ombra gli altri protagonisti e gli episodi a cui Masaniello fu estraneo, ha deformato profondamente il significato dell’intiera vicenda. Proprio quando sembrava definitivamente superata, questa forzatura, che all’origine non fu certamente casuale, ha influenzato anche il tentativo fatto da Peter Burke di dare una nuova e originale interpretazione dell’avvenimento2. È sempre un’impresa difficile cercare di mettere in discussione una tradizione secolare, e lo è particolarmente in un caso in cui essa si inserisce perfettamente nella visione più diffusa della storia generale del periodo e concorda con opinioni largamente condivise sulle 1  Il volume di S. D’Alessio, Masaniello. La sua vita e il mito in Europa, Roma 2007, è stato pubblicato dopo la stesura di questo saggio. Non ho potuto perciò prenderlo in considerazione nella discussione che si è svolta nel 1983-85 su «Past and Present». 2  P. Burke, The Virgin of the Carmine and the Revolt of Masaniello, in «Past and Present», 1983, 99. L’intervento è stato tradotto in italiano (con alcune integrazioni) in Id., Scene di vita quotidiana nell’Italia moderna, Roma-Bari 1988. In questa successiva veste Burke sembra avere accolto alcune delle mie osservazioni.

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caratteristiche antropologiche di un popolo3. Ma non è quello che intendo fare o che sarebbe ragionevolmente possibile tentare in questa occasione. Mi propongo, invece, di esprimere qualche riserva sull’interpretazione di Burke, che, in definitiva, si limita semplicemente a giustapporre una analisi di simboli, certamente utile o in questo caso anche necessaria, al giudizio più tradizionale e più riduttivo su quell’avvenimento. La grande risonanza europea della rivoluzione napoletana del 1647 si è fin dall’inizio strettamente intrecciata alla glorificazione di Masaniello; ma alla cultura, alle forze politiche e anche all’opinione popolare del tempo non è sfuggito il valore simbolico di questo modo di rappresentare gli avvenimenti napoletani. Ci fu la consapevolezza – come dimostrano la circolazione delle informazioni e delle idee, i commenti, le traduzioni, le reazioni che ho parzialmente ricostruito nel mio Elogio della dissimulazione4 – che, al di là dell’immagine del pescivendolo scalzo e analfabeta, c’erano svolgimenti politici e tensioni ideali, che strati diversi e importanti della popolazione del Regno erano stati coinvolti e che la rivoluzione aveva creato rilevanti problemi di ordine politico, diplomatico e militare. Essa contribuì, forse più degli altri episodi rivoluzionari contemporanei, a modificare i criteri correnti di giudizio sulle rivolte popolari; e soltanto tardi, nel Sette e nell’Ottocento, e mai del resto in modo completo, riuscì ad imporsi la visione, elaborata fin dall’inizio dalla cultura di governo (ma non da essa soltanto), di quell’avvenimento come protesta senza contenuto politico o come moto plebeo. Masaniello partecipò soltanto per dieci giorni (dal 7 al 16 luglio) a una rivoluzione che durò circa nove mesi. Burke sostiene che soltanto in quei primi dieci giorni l’azione popolare ebbe un carattere genuinamente collettivo e unitario e che, nel periodo immediatamente seguente l’uccisione di Masaniello, la rivolta si frammentò e si disintegrò5. Ma questa non fu l’opinione dei protagonisti e degli osservatori. Considerando soltanto uno dei versanti dello scontro, non vi è dubbio che le preoccupazioni del governo locale e del Consiglio 3  «I Napoletani del Seicento, che vivevano, come i loro vicini Siciliani, in una società in cui era – ed è – necessario fare bella figura, in altre parole svolgere bene in pubblico il proprio ruolo», in Burke, The Virgin of the Carmine, cit., p. 7. 4  Roma-Bari 1987. 5  «(...) A questo punto si disintegrò», ivi, p. 18; «La frammentazione della rivolta dopo la morte di Masaniello», ivi, p. 19.

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d’Italia per l’andamento delle cose di Napoli e per la difficoltà di riportare la quiete aumentarono anziché diminuire dopo la morte di Masaniello e allora caddero le illusioni sulle possibilità di liquidare sbrigativamente la partita. Il 16 luglio il viceré duca d’Arcos inviò al re una lettera in cui esprimeva la convinzione che, con l’uccisione di Masaniello, la linea che egli aveva adottato per sedare la rivolta si era dimostrata efficace e aveva quasi raggiunto lo scopo: Queste inquietudini hanno preso un andamento migliore [...] È stato opportuno governare questo rumore non con la forza ma valendomi dei suoi stessi disordini per giungere al risultato senza far correre rischi alle armi ed al servizio di Vostra Maestà6.

Nella stessa lettera si chiarisce un punto che ha lasciato sempre gli storici nell’incertezza di fronte alle molte supposizioni e dicerie che circolarono sul momento e alla mancanza di prove certe: l’uccisione di Masaniello fu organizzata, d’accordo col viceré, dai capi moderati della rivolta, e quindi anche dal Genoino. Già allora, del resto, la responsabilità dell’operazione fu da molte parti attribuita a lui. La decisione fu presa perché Masaniello, contrariamente agli accordi e alle promesse, esitò a rinunciare alla funzione che gli era stata affidata e a invitare le milizie popolari a deporre le armi. Conoscendo il rischio – scriveva il viceré – che avrebbe corso il servizio di Vostra Maestà se si fosse voluto domare con la forza una violenza così sfrenata, è parso conveniente procedere con astuzia e così ho disposto con i capitani delle strade di Napoli e con gli uomini di maggiore autorità che essi si opponessero al tumulto e Dio ha voluto che lo scopo fosse raggiunto perché essi stessi tagliarono la testa a Masaniello e la misero su una picca con grande soddisfazione di tutto il popolo.

A questo episodio è legato un altro tema, al quale accenna anche Burke, la pazzia di Masaniello, che ha colpito fortemente l’immaginazione dei contemporanei e ha avuto un rilievo particolare nelle opere, specie letterarie, dei secoli successivi. L’idea dello sconvolgimento 6  Duca d’Arcos al Re, 23 luglio 1647 (Archivo General de Simancas, Secretarías Provinciales, leg. 218).

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creato dal potere nella mente di chi non è stato educato a esercitarlo era troppo facile da accogliere di fronte alla straordinaria singolarità degli avvenimenti. Ma credo che, una volta stabilito inequivocabilmente come e da chi fu presa la decisione di eliminare Masaniello, non sia difficile dimostrare che la creazione e la diffusione della voce della sua pazzia fu un espediente intenzionalmente adottato per facilitare la decisione, presa in una riunione tra i capitani popolari e i dirigenti politici della rivolta, di metterlo sotto sorveglianza per poterlo poi definitivamente eliminare. L’espediente creò, in effetti, un momento di disorientamento tra i popolari. Non riuscì, invece – a differenza di quel che si legge nella lettera del viceré –, il tentativo di provocare manifestazioni popolari di giubilo e di consenso. Vi fu anzi una reazione opposta, che diede inizio con straordinaria rapidità alla ripresa del movimento popolare. Appena qualche giorno dopo, infatti, lo stato d’animo del duca d’Arcos era completamente mutato. Egli aveva dovuto constatare, come appare da una successiva lettera al re, che la compattezza della protesta non era affatto diminuita e che i suoi contenuti politici si erano ulteriormente chiariti: Si sperava che, mancando il capo del popolo, fosse assicurata la quiete, ma ogni giorno gli animi dei sediziosi si mostrano inclini alla ribellione per la convenienza che hanno dei furti e altri delitti che commettono continuamente, prendendo pretesto da nuove pretese di eguaglianza nel governo della città con la posizione in cui stava la Nobiltà [...]. [La situazione] richiede rimedi urgenti come sarebbe la venuta dell’Armata Reale7.

La svolta politica ebbe come espressione immediata i grandiosi onori funebri che furono tributati a Masaniello e di fronte ai quali cronisti e osservatori non hanno mancato di manifestare stupore e ammirazione. In quella circostanza fu seguito, ma con una partecipazione cittadina più grande e molto meno formale e con uno schieramento militare più imponente, il modello dei funerali fatti qualche mese prima per uno dei maggiori capi militari del Regno, il marchese di Torrecuso, già comandante delle truppe inviate a reprimere la rivolta della Catalogna8.   Ibidem.   Relación del entierro de Tomás Aniello (Biblioteca Nacional de Madrid, ms. 2738, f. 325). 7 8

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Sono giunti a tanta insolenza – commentò il viceré – che lo hanno portato a seppellire la stessa notte con quelle cerimonie che si fanno per i generali defunti, portandolo anche davanti alle finestre del palazzo9.

A parte l’irritazione provocata dall’abuso di un simbolismo riservato a personaggi di ben diverso rango e dalla sfilata davanti al palazzo reale (dove le guardie inchinarono le insegne e le armi davanti al feretro), la manifestazione aveva altri aspetti assai più inquietanti per il viceré. Essa non avrebbe potuto essere realizzata, per la complessità del rituale e dei simboli e per la mobilitazione dei diversi organismi che formavano la città e in primo luogo del clero, senza una autorevole direzione politica e organizzativa e senza un larghissimo consenso popolare. L’una e l’altro ebbero, in quella circostanza, il valore di un grande pronunciamento rivoluzionario: fu uno dei momenti di più intensa vita collettiva e di più forte spirito unitario di tutta la storia della città, un momento che ebbe l’impronta dell’organizzazione e della compatta volontà politica, non del tumulto e della reazione emotiva. Proprio allora, dunque, si cominciò a comprendere la gravità della crisi e furono definitivamente confermate la permanenza e la validità del consenso e la presenza di un capace gruppo dirigente popolare che il disaccordo tra Masaniello e il vecchio riformatore Giulio Genoino non aveva indebolito. L’immediata ripresa dell’iniziativa fu, dunque, sostenuta da una adesione popolare certamente non meno ampia e organizzata che nelle prime giornate, e così anche la seconda e la terza rivoluzione, le capitolazioni con il viceré, che continuarono per tutto il mese di agosto, la resistenza contro l’armata navale di don Giovanni d’Austria, le trattative con i consiglieri dello stesso don Giovanni, la creazione della repubblica e gli altri episodi rilevanti dell’estate e dell’autunno del 1647; né si può pensare, considerata la rilevanza di ognuna di quelle iniziative, che esse avrebbero potuto svolgersi, come ritiene Burke, in un clima di disfacimento e di disgregazione del movimento. Le agitazioni dei lavoratori della seta diedero il via non alla frammentazione ma a una nuova fase della rivolta, all’ampliamento non alla restrizione dei suoi contenuti, perché il divieto di esportazione della seta grezza, che essi chiedevano, comportava un mutamento importante nella   Duca d’Arcos al Re, 23 luglio 1647, cit.

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politica economica fino allora seguita dalla monarchia e corrispondeva a esigenze generali di riforma economica che avevano cominciato a manifestarsi fin dall’epoca del Breve trattato di Antonio Serra. Anche le rivendicazioni particolari di studenti, monache e cittadini dipendenti dalle associazioni assistenziali, confluendo nell’insurrezione, allargarono le sue basi e il consenso popolare. Infine, le rivolte che contemporaneamente esplosero nelle province – comunque si vogliano giudicare i loro caratteri e i loro legami con la capitale – furono certamente un segno non di declino ma di espansione della sollevazione popolare. In ognuno degli episodi che seguirono il 16 luglio vi furono contrasti e scontri all’interno del movimento popolare, ma essi non mancarono neppure nella fase iniziale: proprio allora, anzi, si delineò il contrasto fondamentale fra la corrente monarchico-riformista e le tendenze indipendentistiche e repubblicane e sorsero discussioni e controversie perfino su quello che sembrava il motivo più comune e unificante, l’opportunità di procedere alla radicale soppressione di tutte le nuove imposte. L’identificazione tra Masaniello e la rivoluzione appare, però, come una forzatura anche se si trascurano gli sviluppi successivi e si prendono in considerazione soltanto i primi giorni, perché allora ebbero parte essenziale programmi e contenuti politici che trascendono la figura e il mito di Masaniello e, in un certo senso, anche l’opera di colui che fu la sua principale guida e il suo ispiratore. Indubbiamente occorre spiegare perché fu affidato a Masaniello il comando generale «nonostante che in tanta gran moltitudine di migliaia e migliaia di persone, vi fossero tanti Dottori e Mercanti, Notari, Scrivani, Mastri d’Atti, Procuratori, Medici, Soldati, Artigiani honorati ed altri huomini infiniti d’ingegno, di valore ed esperienze, e tutti a lui di condition superiori»10; perché egli ricevette il potere non dalla plebe soltanto ma da «tutt’il popolo più civile». Per chiarire il mistero, che è stato motivo di grande meraviglia per i contemporanei ma non ha suscitato l’interesse degli storici, non sarebbe sufficiente ricordare che egli svolse la sua opera con l’assistenza di diversi consultori ufficiali o segreti, tra i quali Giulio Genoino e Francesco Antonio Arpaia, di sette segretari, tra i quali ebbe una particolare funzione il dottor Marco Vitale, e di dieci ministri di giustizia. L’uso delle   A. Giraffi, Le rivolutioni di Napoli, Paolo Monti, Parma 1714, p. 111.

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tecniche di dissimulazione contribuisce certamente a spiegare questa scelta: è un altro caso in cui la dissimulazione fu applicata in grande e nei modi più vari, dalla semplice mascheratura alle forme più complesse e raffinate di ambiguità nel comportamento politico; e dove uno degli elementi più sorprendenti è il tacito accordo e consenso di massa nei confronti della dissimulazione dei dirigenti. Ma qualunque sia stato il motivo della scelta e il quadro politico e di mentalità entro il quale essa fu presa, la funzione che Masaniello svolse realmente, e che non fu meramente esecutiva, consistette nel collegamento tra direzione politica e movimento popolare e di protesta. La ricostruzione fatta da Burke in chiave antropologica e di «dramma sociale», come altre precedenti rappresentazioni letterarie11, mettendo l’accento sui rituali e sui simboli, trascura e minimizza i contenuti politici, la loro diffusione, la forza di mobilitazione e di aggregazione che essi ebbero. La conseguenza è inevitabilmente quella di fare rinascere, sia pure in forme parzialmente nuove, l’amplificazione mitica e poetica della figura di Masaniello, di riproporre una visione molto riduttiva della rivolta e di dare per scontati, senza una reale verifica e col conforto di una storiografia un po’ troppo propensa ad accettarli, i luoghi comuni e gli stereotipi sulla mancanza di struttura, di organizzazione cittadina e di dignità collettiva nella Napoli del XVII secolo. 2. Direzione politica, religiosità, cultura Burke sottolinea la funzione che ebbe, durante la rivoluzione, il culto della Madonna del Carmine e dei santi protettori della città come punto di raccordo e fattore di legittimazione dei sentimenti popolari e dell’azione collettiva ma ne dilata eccessivamente il significato specialmente rispetto ai fattori della direzione e della volontà 11  L’idea di Napoli come teatro e della storia di Masaniello come dramma recitato nelle sue strade è frequente nella letteratura europea. Una tragedia in cinque atti, la prima, tra quelle pubblicate, che si è ispirata a questa idea, fu stampata a Londra già nel 1649: The Rebellion of Naples, or the Tragedy of Massenello commonly so called, but rightly Tomaso Aniello di Malfa Generall of the Neapolitans. Written by a Gentleman who was an eye-witness, where it was really acted upon the bloudy stage, the Streets of Naples. Anno domini 1647, J.G. and G.B., London 1649.

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politica. Nella sua analisi manca qualche particolare non privo di importanza. Le processioni e le manifestazioni religiose organizzate dalle autorità ecclesiastiche e civili (come accadeva in occasione di grandi calamità e pericoli) con lo scopo di interrompere le crescenti violenze, esorcizzare lo spirito «demoniaco» che si era impadronito della popolazione e restaurare l’ordine, «non s’hebbero per bene da buona parte del popolo»12 e furono respinte, come ricorda Burke. Il rifiuto e il capovolgimento di quel tentativo non avvennero, però, per la semplice convinzione del popolo che Dio, i santi e la Madonna del Carmine fossero dalla sua parte (alla quale corrispondeva, del resto, l’opposta convinzione degli avversari). Una esplicita presa di posizione, motivata politicamente, riuscì ad impedire infatti che la grande forza di suggestione del rituale religioso potesse essere usata, secondo la tradizione, come un mezzo per disorientare i ribelli e sedare il tumulto. Incontrandosi sulla piazza del Mercato con gli inviati del cardinale, che volevano rendersi conto dei motivi che avevano provocato le resistenze e l’ostilità contro le manifestazioni religiose ufficiali, i rappresentanti popolari replicarono chiedendo perché «si facessero con tanto zelo le processioni allora che si procurava di sgravar la città» mentre non si erano fatte quando si decideva, malgrado tutte le proteste, di caricarla di «eccessive imposizioni»13. La protesta ebbe successo. Essi chiesero e ottennero che invece il cardinale ordinasse di fare «orazioni pubbliche e private per raccomandare a sua Divina Maestà i correnti bisogni della città e del Regno, com’appunto eseguissi per tutti quei giorni fino alla morte di Masaniello»14. Questa iniziativa – che in qualche misura influì anche sul comportamento di quella parte del clero che simpatizzava con le rivendicazioni popolari – non fu priva di conseguenze per lo sviluppo degli avvenimenti: da allora si realizzò in modo più aperto e più efficace il collegamento tra religiosità e protesta politica, che fu anche in seguito un filo conduttore e un motivo importante dell’azione popolare. Tuttavia, malgrado l’importanza del culto della Madonna nel mondo cattolico mediterraneo, e in specie di quella del Carmine nella religiosità napoletana, mi sembra, a dir poco, esagerata l’affermazione che, nel passaggio dall’iniziale tumulto alla fase   Giraffi, Le rivolutioni di Napoli, cit., p. 83.   Ibidem. 14  Ivi, p. 86. 12 13

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organizzata del movimento, «la necessaria continuità fu assicurata dalla Vergine»15. La formazione di una milizia popolare di decine di migliaia di uomini, che fu un elemento decisivo della rivoluzione e che si mantenne unita e disciplinata per alcuni mesi, non può essere spiegata senza una analisi approfondita della storia sociale e politica della città e del Regno in tutto il periodo spagnolo. Un altro aspetto interessante della direzione politica del movimento fu l’impegno di collegarsi alle tradizioni culturali e di mobilitare intellettuali, scienziati e artisti per legittimare e diffondere i contenuti ideali e gli indirizzi politici della rivolta. La Partenope liberata di Giuseppe Donzelli, infatti, fu scritta e pubblicata per diretta sollecitazione dei capi popolari: Per ubbidir poi a chi havea l’autorità di espressamente comandarlo, ho posto insieme questo volume; miserabile non meno per le oppressioni popolari in esso contenute, che per la tenuità dello stile medesimo, tanto più debole del solito, quantoché la strettezza del tempo, e gl’incomodi della Guerra mi hanno necessitato a rimettermi formalmente alla discrezione del copista, e dei Stampatori [...] perché, essendomi convenuto di star sempre con l’armi nelle mani, non mi rimaneva altro tempo, per dettar l’opera, che quel solo che io toglieva alle brevi hore che assegnatamente mi si concedevano per ristorare co’l vitto e co’l sonno li continuati patimenti dell’Individuo16.

Lo stesso libro, insieme ad altri scritti occasionali, fu un tramite con il repubblicanesimo erudito degli anni precedenti e uno degli strumenti della sua valorizzazione nel dibattito istituzionale e a sostegno della scelta indipendentistica e repubblicana17. Soltanto vecchi   Burke, The Virgin of the Carmine, cit., p. 14.   G. Donzelli, Partenope liberata overo Racconto dell’heroica risolutione fatta dal Popolo di Napoli per sottrarsi con tutto il Regno all’insopportabil Giogo delli Spagnuoli, Napoli 1647, introduzione. La licenza di pubblicazione fu data da Gennaro Annese e dai suoi consultori. 17  Ivi, pp. 205-206: «Tra tanto lo specioso e dolce suono della voce di republica haveva penetrato gli orecchi, ma molto più vivamente i cuori dei veri amatori della Libertà, che perciò non potevano contenersi di mostrare in publico, con giubilanti voci l’applauso, con che dentro gli animi loro l’havevano ricevuto. Ed in vero è la libertà una delle più nobili prerogative dell’uomo ed un cibo tanto soave e di così perfetta sostanza che col solamente odorarlo ha facoltà di nutrire, onde non è meraviglia se viene avidamente desiderato [...]; e tanto più da quei Popoli che, essen15 16

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preconcetti possono fare ritenere che la «fervida simpatia» di Salvator Rosa per le imprese masanelliane fu un caso «isolatissimo»18. Ma limitandoci qui alla questione del raccordo diretto tra intellettuali e capi rivoluzionari, mi sembra assai probabile che (a differenza dei ritratti fatti spontaneamente da diversi artisti, tra i quali il più significativo è il disegno di Aniello Falcone conservato nella Morgan Library di New York, e delle stampe che circolarono in Europa) i quadri di Micco Spadaro sulla rivoluzione siano stati commissionati o comunque ispirati dai dirigenti politici della rivolta. Mi pare che ciò risulti anche dal confronto con il quadro che il pittore romano filospagnolo Michelangelo Cerquozzi ha dedicato allo stesso tema. L’idea di fare di un avvenimento del genere il soggetto di una serie di dipinti è un fatto nuovo nella storia della pittura italiana, che avrebbe meritato anche in passato maggiore attenzione. Il grande e compianto amico Francis Haskell ha segnalato la novità a proposito dell’opera di Michelangelo Cerquozzi: un fatto «avvolto nel mistero, [...] dato che simili rappresentazioni di avvenimenti contemporanei erano pressoché sconosciute nell’arte italiana del Seicento»19. La descrizione d’insieme di Micco Spadaro si riferisce alla prima fase della rivoluzione; ad essa si devono aggiungere, per avere una visione completa del suo contributo, anche i dipinti minori su episodi particolari, e soprattutto quello sull’uccisione di Giuseppe Carafa20.

dosene per migliaia di anni quietamente pasciuti, ne sono poi stati per molti secoli amarissimamente digiuni. Contrariavano apertamente a questo nobile concetto di Libertà molti mal’affetti al Popolo, velando però la invidiosa loro inventione con discorsi fondati sopra una artificiosa Politica [...] già che, per detto loro, Napoli non poteva farsi in niun modo republica; assertione non meno falsa che totalmente maligna; poiché qual persona può trovarsi così temerariamente ignorante che, volendo mettere in campo discorsi politici, non sappia che la città di Napoli è stata Republica libera per lo spazio di tremila anni, tutto che dominassero nel Regno gl’Imperatori Romani e Greci, li Goti, Longobardi e Normandi; anzi di più non è stata forse Città al Mondo che più di Napoli per lunghezza di tempo e di continuata tranquillità si sia mantenuta in republica [...]» 18  G. Benzoni, Gli affanni della cultura. Intellettuali e potere nell’Italia della Controriforma e barocca, Milano 1978. 19  F. Haskell, Mecenati e pittori. Studio sui rapporti tra arte e società italiana nell’età barocca, trad. it., Firenze 1966, p. 223. 20  Per la ricostruzione dell’episodio cfr., in questo stesso volume, Un delitto senza precedenti.

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La pittura napoletana della prima metà del Seicento era in qualche modo preparata nel suo insieme, già prima del 1647, a una esperienza particolarmente intensa di impegno civile e di tensione ideale: i dipinti messi insieme per la prima volta nella mostra londinese del 1982 e nella successiva e più ampia mostra sulla civiltà del Seicento a Napoli (1984-85) offrono parecchie testimonianze di un sentimento drammatico della vita collettiva che per qualcuno è stato certamente sorprendente. Il confronto tra Spadaro e Cerquozzi mette ulteriormente in risalto il diverso grado di partecipazione dei due artisti e di interesse documentario delle loro opere. Mi sembra evidente, in quella del Cerquozzi, il carattere approssimativo e generico della descrizione, la povertà di contenuto politico e ideale e di informazione. E ho l’impressione che qui non si tratti di un distacco derivante dalla superiore comprensione umana della situazione descritta ma, più semplicemente, di disinteresse ed estraneità, di indifferenza e distacco (che non escludono, s’intende, l’apprezzamento del valore artistico dell’opera). Non oso contraddire il giudizio di Francis Haskell che il quadro del bambocciante Cerquozzi, «uno dei suoi capolavori», costituisca «un notevole esempio di obbiettività esercitata su un soggetto che viceversa eccitava le passioni dell’Europa intera»; non riesco però a condividere la convinzione che il quadro rappresenti i fatti del 7 luglio 1647 «con la più scrupolosa accuratezza»21. 3. Mito e storia Lo studio del mito di Masaniello, che Burke sollecita, dovrebbe dunque contribuire a spiegare le ragioni per cui il simbolo si è sovrapposto alla realtà storica, anziché costituirne soltanto una parte più o meno rilevante. La consapevole scelta del governo, della classe dirigente napoletana e di una parte degli stessi capi popolari di mettere in ombra la partecipazione di gruppi borghesi e intellettuali, sia nel corso degli avvenimenti, sia dopo la loro conclusione, l’idea di Napoli come città di plebe numerosa e turbolenta, che allora cominciava a diffondersi, l’idealizzazione poetica, l’insufficiente informazione, il ruolo straordinario che il giovane pescivendolo ebbe nella   Haskell, Mecenati e pittori, cit., pp. 223-224.

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prima fase della rivoluzione, la sua notevole personalità, la grandiosità dei successi ottenuti, la risonanza internazionale contribuirono a produrre questo risultato. Resta ancora da vedere concretamente in che modo la combinazione di questi e di altri fattori finì col produrlo non solo nell’opinione comune e nella rievocazione letteraria, ma anche sul piano storiografico. L’identificazione tra Masaniello e la rivoluzione fu la fondamentale questione che Michelangelo Schipa dovette affrontare e risolvere criticamente quando si propose di riesaminare quel momento della storia napoletana. Fu lui ad usare per la prima volta, se non vado errato, l’espressione «la cosiddetta rivoluzione di Masaniello», ripudiando il termine usato fino allora correntemente per designarla (e ripreso ora nel titolo dell’articolo di Burke). Il nodo era così strettamente intrecciato che non era possibile scioglierlo del tutto senza fare, insieme alla nuova ricostruzione dei fatti e dei loro precedenti, che richiese allo Schipa un enorme lavoro di scavo, anche una indagine specifica sulle ragioni politiche e culturali per cui il simbolo, ridotto e parziale, aveva finito col soverchiare la complessità e la sostanza della vicenda. In mancanza di quell’indagine, dunque, il groviglio e l’equivoco sono in parte rimasti; ma fu una vera novità, e una dissacrazione ancora più grande di quella che aveva fatto Bartolomeo Capasso indagando negli angoli bui della famiglia e della vita del pescivendolo, la scoperta di Schipa che, all’origine della rivoluzione, c’erano una mente politica e una tradizione storica22. I contemporanei conoscevano benissimo l’una e l’altra: il mito di Masaniello le mise poi in secondo piano fino a cancellarne quasi la memoria. Questa singolare deformazione del passato – un caso veramente interessante per lo studio dei ­processi di formazione del giudizio storico – non ha suscitato curiosità e interesse tra gli studiosi nemmeno quando ne sono venuti in luce i termini essenziali23. La «revisione» fatta da Schipa, anziché essere un punto 22  Ai conflitti per la riforma dell’ordinamento politico di Napoli e ai precedenti della rivoluzione lo Schipa ha dedicato, oltre lo scritto citato da Burke su La mente di Masaniello, rimasto incompiuto, altri tre importanti saggi pubblicati nell’«Archivio storico per le province napoletane» tra il 1906 e il 1912. Una sintesi di questi saggi è nei primi due capitoli del volume Masaniello, Bari 1925. Sulla posizione di Schipa cfr. A. Musi, La rivolta di Masaniello tra mito, ideologia e scienza storica, in «Prospettive Settanta», 1983, 2-3, pp. 271-275. 23  Mi limito ad aggiungere qui che sono una eccezione le belle pagine che Francesco Benigno ha dedicato al «mistero di Masaniello» nel suo innovativo ripensa-

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di partenza per nuove ricerche, è stata sottovalutata o sminuita anzitutto dal Croce. D’altra parte, lo stesso Schipa cercò di combinare la sua scoperta, che di fatto suggeriva un cambiamento di tutta la prospettiva della ricerca sulla storia moderna del Regno di Napoli, con la conferma del giudizio tradizionale, ricomponendo così, non senza contraddizioni e penosi artifici retorici, uno scenario che il suo rigore filologico aveva cominciato a modificare. Anche Burke, coerentemente con la sua conclusione che «Masaniello fu un leader sanculotto senza sostegno aristocratico o borghese», non attribuisce alle indicazioni nuove, sia pure parziali e contraddittorie, di Schipa, una importanza adeguata. Accennando al ruolo che ebbe Giulio Genoino, egli si limita infatti a dire che la sua importanza fu «enfatizzata» da Schipa e a citare, come un giudizio isolato, il «verdetto» del residente toscano a Napoli: «è tutto guidato con grande giudizio da un Don Giulio Genoino». Il residente toscano continua richiamando gli avvenimenti che si erano svolti oltre un quarto di secolo prima, durante il viceregno del duca di Osuna, quando il Genoino, «uomo di molto sapere», era stato Eletto del popolo, e che costituiscono una parte dei precedenti del 1647. In realtà in tutte le cronache, nelle relazioni contemporanee e negli atti ufficiali la figura di Genoino è al centro del discorso. Egli ebbe una funzione di primo piano fino a quando entrò in conflitto con le correnti repubblicane, fu sottoposto a una campagna di discredito tra gli stessi popolari, minacciato da gruppi che protestavano contro il suo proposito di mettere fine alla sollevazione in attesa della conferma regia delle riforme acquisite e, con l’inganno della protezione del viceré, esiliato dal Regno. Anche allora, mentre lo inviava in Sardegna chiedendo al viceré dell’isola di farlo tacitamente scomparire nel viaggio verso la Spagna, il duca d’Arcos temeva la forza delle idee e del programma del vecchio riformatore. «[Egli è] l’artefice delle sollevazioni [...]. Importa alla salvezza di questo Regno che non si sappia dov’è quest’uomo né morto né vivo [...]. Quest’uomo lascia distrutta [la Nobiltà di questa Città], Sua Maestà senza Regno, e il Regno in perpetua sedizione»24. Ancora in quelle condizioni estreme il vecchio capo politico scrisse una lettera al re in cui chiedeva di essere ascolmento della rivoluzione nell’Europa dell’età moderna (Specchi della rivoluzione. Conflitto e identità politica nell’Europa moderna, Roma 1999). 24  Il duca d’Arcos al duca di Montalto, viceré di Sardegna, 3 settembre 1647 (Archivio General de Simancas, Secretarías Provinciales, leg. 218).

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tato per poter spiegare «con quanta lealtà [...] come fedele vassallo» aveva servito il suo sovrano «nel pacificare la bassa e sollevata plebe di Napoli che con tanto disordine ha tentato lo sterminio dei Ministri e la distruzione del patrimonio reale senza lasciare [a Sua Maestà] altro che il nome di Re». Dichiarava inoltre di essere stato espulso dal Regno perché si era opposto alle violenze della plebe e, nell’attesa di potere esporre direttamente le misure per far tornare la quiete, chiedeva al re di sospendere la conferma dei capitoli concordati tra i Napoletani e il viceré25. Nell’interesse dei contemporanei per il caso di Napoli vi furono, fin dall’inizio, ingenuità e gusto del pittoresco, ma solo più tardi, e in modo definitivo nel Sette e nell’Ottocento (sia pure con qualche eccezione), si consolidò il giudizio su di esso come tumulto plebeo «senza capo né coda» (B. Croce). La figura pittoresca del popolano ribelle servì perfettamente a esprimere l’idea di una protesta generosa ma sterile, priva di contenuti politici; e divenne un simbolo universale, in positivo e in negativo, di ogni impresa del genere. Il riferimento al capo-popolo napoletano è entrato così, con una precisa connotazione, nel linguaggio politico, anche in circostanze molto diverse dalla vicenda originaria. Mi sembra esemplare in questo senso – e non è difficile trovare altri casi dello stesso tipo – l’accusa rivolta dal direttore di «Révolution de Paris», L. Prudhomme, ai montagnardi del 1793, durante il dibattito per la nuova costituzione: Voi non volete la costituzione, voi, abitanti della Montagna, che vi credete tutti dei Bruto ma non siete nemmeno dei Masaniello o dei Rienzi; voi che, ubriacandovi con il grossolano incenso delle tribune, perdete di vista la causa della libertà che non sapete difendere e di cui vi contentate di essere i figli perduti26.

I capi della repubblica napoletana del 1799 cercarono ripetutamente, invece, di utilizzare il mito di Masaniello (al quale fu intitolato, durante il breve periodo repubblicano, un quartiere della capitale) per 25  Genoino al Re, 17 settembre 1647 (ibidem). Ho riprodotto sia questa lettera sia quelle citate nella nota precedente e nelle note 5, 6 e 8 in Villari, Per il re o per la patria, cit. 26  L. Prudhomme, De l’urgence d’une constitution, in «Révolution de Paris», 13-20 aprile 1793, 197, p. 140.

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stabilire un rapporto con gli strati popolari di Napoli e delle province. In questo caso fu messa in evidenza la faccia positiva del mito. La situazione eccezionale e le circostanze drammatiche in cui vennero a trovarsi i repubblicani li spinsero a rovesciare, in modo almeno in parte strumentale e demagogico, i termini tradizionali e ormai consolidati del giudizio sulla rivoluzione del 1647. «La presente rivoluzione – disse allora il presidente della repubblica Carlo Lauberg in un discorso pronunciato sulla piazza del Mercato – altro non è che quello istesso che volle fare e per il tradimento della tirannia non poté eseguire Masaniello»27. In un appello indirizzato più tardi agli insorgenti del movimento della Santa Fede, che si sviluppava minacciosamente nelle province, questa linea di interpretazione è ancora più esplicita: Qual biasimevole contrasto opponete voi ai vostri avoli de’ tempi del gran Masaniello! Senza tanto lume di dottrine e di esempi quanti ora ne avete diè Napoli le mosse, proseguirono i vostri avoli, insorsero da per tutto contro il dispotismo, gridando la repubblica, tentarono di stabilir la democrazia, e per solo ragionevole istinto reclamarono i diritti dell’Uomo. Ora proclamano l’eguaglianza e la democrazia i nobili, la sdegnano le popolazioni28.

Ma veniamo ora all’altro problema: uomini politici e studiosi furono spinti a occuparsi della rivoluzione napoletana, sul momento o poco dopo, non esclusivamente dal gusto del pittoresco, da entusiasmi ingenui e da altri simili ingredienti che contribuirono alla creazione del mito di Masaniello; vi fu anche chi ebbe una visione più corrispondente alla realtà e alla complessità dei fatti e su questa basò il suo interesse e la sua attenzione. A Londra fu pubblicata la prima traduzione di una cronaca italiana della rivoluzione, pubblicazione che fu poi seguita, a breve distanza di tempo, da un altro volume in cui lo stesso autore della traduzione, James Howell, ricostruì, sulla base di materiale che gli fu inviato dall’Italia, le vicende posteriori fino alla caduta della Repubblica. La prima edizione delle due opere è rispettivamente del 1650 e del 165229. 27  E. de Fonseca Pimentel, Il monitore repubblicano del 1799, a cura di B. Croce, Bari 1943, p. 44. 28  Ivi, p. 64. 29  J. Howell, An exact Historie of the late Revolutions in Naples; and of Their

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Intorno a quegli anni un segno di attenzione parallela alla rivoluzione inglese e a quella napoletana fu la diffusione di medaglie che portavano in un verso l’immagine di Cromwell e nell’altro quella di Masaniello. Per un non esperto di numismatica è difficile giudicare il significato che aveva allora l’accostamento dei due personaggi. Secondo i testi che ho potuto consultare, senza avere fatto una esauriente ricerca particolare, quelle medaglie furono coniate in Olanda con lo scopo di screditare Cromwell, gentiluomo di media condizione, mettendolo sullo stesso piano del plebeo napoletano. Così scrisse, appunto, nel 1877, Henry William Henfrey nella sua raccolta di Numismata cromwelliana30. Edward Hawkins, autore del catalogo di Medallic illustrations of the history of Great Britain and Ireland, si limita a dire che i due personaggi furono innalzati dalle circostanze ai vertici dei loro rispettivi paesi e che, tolto questo, non ebbero nient’altro in comune31. Le due medaglie a cui si riferiscono Henfrey e Hawkins, una del 1658, attribuita a O. Muller, l’altra posteriore, opera di F. Saint Urban, sono piuttosto convenzionali e non contengono esplicite indicazioni di una intenzione satirica nei confronti del lord protettore. Ma non è da escludere che il semplice accostamento dei due personaggi (anche in relazione alla politica cromwelliana verso la Spagna) fosse una precisa manifestazione della volontà di gettare discredito sulla figura di Cromwell. Più esplicita e interessante (forse non soltanto dal punto di vista contenutistico e documentario) è un’altra medaglia non registrata nei cataloghi pubblicati, ma conservata nel Department of medals and coins del British Museum, attribuita in una scheda manoscritta a Pietro Aquila e datata 1658. Due sono gli elementi che rendono monstruous Successes, not to be parallel’d by Any Ancient or Modern History. Published by the Lord Alexander Giraffi in Italian and (for the rarenesse of the subject) rendered to English by J. H. [John Howell] Esq., Lowndes, London 1650; The Second Part of Masaniello, His Body taken out of the Town-Ditch, and solemnely buried, with Epitaph upon him. A Continuation of the Tumult; the Duke of Guise made Generalissimo; Taken Prisoner by young Don John of Austria. The end of the Commotions, A. Roper and T. Dring, London 1652. Cfr. Villari, Elogio della dissimulazione, cit. 30  H.W. Henfrey, Numismata Cromwelliana: or, The Medallic History of Oliver Cromwell Illustrated by his Coins, Medals and Seals, London 1877, pp. 158-159. 31  E. Hawkins, Medallic Illustrations of the History of Great Britain and Ireland to the death of George II, Cosham 1885, p. 432.

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obiettivamente più interessante questa testimonianza: il primo è l’accuratezza dei riferimenti storici contenuti nell’incisione e la volontà di caratterizzare in modo preciso l’opera dei personaggi; il secondo è l’intenzione di basare il raffronto su un giudizio politico, sia pure estremamente sintetico. Attorno alla figura di Masaniello sono rappresentati, infatti, alcuni elementi essenziali dei primi giorni della rivolta: una casa in fiamme, che rappresenta un episodio centrale e particolarmente significativo della prima fase rivoluzionaria; una scena di violenza popolare che probabilmente si riferisce anch’essa agli incendi delle case di nobili e speculatori, e una ordinata schiera di soldati spagnoli. Sull’altro verso, attorno al busto di Cromwell coronato di alloro, ci sono le insegne del protettorato e altri simboli. Le due iscrizioni definiscono Masaniello «vanus rebellis» e Cromwell «victor perduellis»: l’incisore voleva, quindi, mettere in evidenza il successo e la positività della rivoluzione inglese rispetto a quella di Napoli. L’opera di James Howell offre, ovviamente, più ampia materia di riflessione. La cronaca di Alessandro Giraffi fu scelta per la traduzione probabilmente perché fu la prima a essere pubblicata sugli avvenimenti napoletani. Due edizioni apparvero, infatti, a Venezia e a Napoli alla fine del 1647; altre quattro seguirono, nel 1648, a Padova32, Ferrara, Gaeta e Ginevra. La narrazione si interrompe il 16 di luglio, ma in appendice è aggiunto il testo del manifesto che fu indirizzato il 17 ottobre 1647 dal popolo napoletano ai principi cristiani. Come appare dalla dedica alla Compagnia del Levante, ciò che giustifica la traduzione dell’opera è, secondo Howell, la straordinarietà degli avvenimenti e in particolare il fatto che un moto popolare avesse messo in gravi difficoltà l’apparato politico e militare del governo, come era appunto avvenuto a Napoli. L’organizzazione di una forza militare, che il Giraffi stimava intorno a 150.000 uomini armati, l’ordinata esecuzione del piano di incendi dei palazzi e dei beni di coloro che erano ritenuti responsabili della crisi finanziaria, l’efficacia dei bandi e delle condanne contro esponenti del baronaggio, della magistratura e della grande finanza, il disorientamento e la fuga della maggior parte della nobiltà apparivano come fatti inconsueti e quasi incompatibili col carattere popolare del movimento. Vi era una contraddizione tra questi   Nell’edizione padovana è usato lo pseudonimo Nescipio Liponari.

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fatti e la tradizione del pensiero politico che attribuiva soltanto ai ceti elevati e, anzi, esclusivamente alla nobiltà la capacità di direzione politica e organizzazione militare. Nessun monarca – scriveva Howell riecheggiando il giudizio del Giraffi – aveva avuto mai l’autorità e la forza di comando raggiunte dal giovane pescivendolo. Da qui la considerazione che un caso del genere non era mai accaduto «da quando la discordia era entrata nel mondo». La cecità e l’instabilità di «quella cosa che noi chiamiamo Fortuna» non era perciò sufficiente a spiegare l’episodio, tanto più che esso si era svolto nell’ambito della potente monarchia spagnola, in una «policed City as Naples» e non si era esaurito nella straordinaria ascesa e nella rapida caduta di Masaniello33. Vi era qui l’intuizione della vastità del consenso che si era creato a Napoli nella lotta contro la monarchia e del ruolo che aveva avuto in quegli avvenimenti la capacità politica di un nuovo gruppo dirigente. Nella breve lettera dedicatoria della traduzione, come nelle pagine del Giraffi, vi erano sia le premesse per l’esaltazione di Masaniello, sia l’indicazione di un più vasto problema che solo l’approfondimento dell’analisi avrebbe potuto risolvere. Tutt’e due gli elementi si ritrovano, ma in diversa misura, nella seconda parte dell’opera di Howell. Rimane, infatti, il giudizio sull’eccezionalità degli avvenimenti napoletani, ma nello stesso tempo, ci sono suggerimenti per una risposta, almeno parziale, agli interrogativi che sorgevano dalla cronaca del Giraffi. La ricostruzione dei primi giorni della rivolta, che precede il racconto dei successivi svolgimenti, non è un semplice riassunto del volume precedente. Howell aggiunge, innanzitutto, un documento che il Giraffi (come altre cronache che conosco) non aveva riportato e che chiarisce le rivendicazioni e lo spirito della prima fase della rivolta e conferma l’adesione di forze intellettuali della città. È il testo latino dell’epitaffio che avrebbe dovuto essere posto sul progettato mausoleo di Masaniello e che, pur non essendo stato utilizzato in questa forma, ebbe una grande diffusione clandestina in Italia. L’umanista e diplomatico olandese Nicolaas Heinsius, che si trovava a Napoli in quel momento, considerò il progetto di iscrizione come una «atrocità» che, se si fosse realizzata, avrebbe distrutto completamente il Regno34. Il suo allarme e le sue perplessità, che non erano   Giraffi, An Exact Historie, cit., dedica di James Howell.   Lettera di Nicolaas Heinsius a Paganino Gaudenzi, da Napoli, 20 luglio 1647 (Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Urb. Lat. 1628): «La plebe provvede ora a far 33 34

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un semplice rifiuto della sollevazione, toccavano un punto critico e un condizionamento negativo della sollevazione napoletana. Howell giustifica inoltre, in modo più conforme alla dottrina politica vigente, la ribellione popolare, ricordando non solo la «molteplicità delle gabelle che furono imposte su ogni cosa», ma anche «le frequenti leve forzate di sudditi costretti a rischiare la vita in altri paesi» e la rapina delle risorse dei domini italiani; ma nello stesso tempo, sposta l’analisi e la ricerca di spiegazioni su un piano molto più ampio. Non più soltanto, quindi, «monstruous successes not to be paralleled by an ancient or modern history», come aveva scritto nel titolo della traduzione, ma eventi che potevano essere spiegati nel quadro della crisi della monarchia spagnola. Howell trovava «much analogy» tra la rivoluzione di Napoli e quelle dell’Olanda, della Catalogna e del Portogallo che avevano scosso la compagine dell’impero spagnolo. Il Regno di Napoli era stato, secondo Howell, sul punto di distaccarsi dalla monarchia spagnola e di trasformarsi in un «commonwealth» indipendente. Se l’obiettivo non era stato raggiunto ciò non era dipeso né dalla solidità del governo, né dalla mancanza di contenuti politici e di valide ragioni della ribellione, ma

erigere nel mezzo della piazza un monumento di marmo per commemorare la totale sconfitta della nobiltà. Non vi potrebbe essere nulla di più virulento dell’iscrizione, nella quale [i nobili] sono chiamati tiranni e nemici della patria. Spero tuttavia che per intercessione del viceré la plebe desista da questa atrocità. Se questo non accade, il regno perirà, e dalle fondamenta». Il testo dell’iscrizione a cui Heinsius si riferisce è il seguente: Nobilium tyrannide Confirmatis, renovatis, auctis Inusitatis oppressionibus et angariis Privilegiis, In Regnum, Cives et Exteros, Philippo Quarto Rege Catholico Praeter rerum et naturae ordinem D. Roderico Pons de Leone Violenter extortis, Duce d’Arcos Repressa; Regis vicem gerente Virgini Dei Matri Carmeli Thoma Aniello de Amalfi Die 7° Iulij 1647 Gabellis Invicti populi Publicis, Facinorosis secretis Patriae Duce, Hostibus Pristina libertate redemptus Incensis, fugatis, profligatis, Fidelissimus Populus Neapolitanus Sublatis, Mausoleum Inconcussa fide servata, In reportatae victoriae memoriam Ferdinandi primi et Frederici posteris excitamentum Aragonensium Regum, posuit Caroli Quinti Imperatoris Caesaris

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dal fatto che «il molle Napoletano non fu, sembra, così costante nei suoi fini come l’Olandese o il Catalano ed altri popoli più tenaci»35. Howell tornò ancora sull’argomento, secondo la stessa linea di interpretazione, in un’opera successiva, una storia di Napoli pubblicata nel 1654 in aggiunta alla traduzione inglese della descrizione del Regno di Napoli di Scipione Mazzella36. Le ragioni della sua particolare attenzione verso la storia e le condizioni politiche e sociali di Napoli si possono comprendere, senza bisogno di ricorrere a incerte congetture37, se si tengono presenti alcuni dati essenziali della sua biografia che sono ben noti agli studiosi della sua opera: i suoi rapporti con la Compagnia del Levante, che amministrava anche il versante italiano dell’attività commerciale inglese38, e con mercanti inglesi residenti nei centri commerciali italiani39, i viaggi fatti precedentemente in Italia e in Spagna, i molti brani delle Familiar Letters sulla situazione politica della monarchia spagnola. Il mondo spagnolo fu costantemente oggetto della sua riflessione politica, specialmente quando, dopo la rivolta catalana, si moltiplicarono le manifestazioni della sua instabilità. Nel giudizio di Howell l’Italia non

35  Anche la parte illustrativa non è più centrata sulla figura di Masaniello, che appariva isolata all’inizio del primo volume e probabilmente fu ricavata da una stampa pubblicata a Parigi nel 1647, che costituì il prototipo di stampe, disegni e quadri che furono prodotti successivamente in Olanda, in Germania e altrove. Nel secondo volume al ritratto di Masaniello si accompagnano quelli del Genoino e del terzo capitano generale, Gennaro Annese. 36  Parthenopoeia, or the History of the Most Noble and Renowned Kingdom of Naples, With the Dominions thereunto annexed, and the Lives of their Kings. The First Part by the famous Antiquary Scipione Mazzella, made English by Mr Samson Lennard, Herald of armes. The Second Part Compil’d by James Howell Esq. Who, besides som supplements to the First Part, drawes on the Threed of the Story to these present Times, 1654, H. Moseley, London 1654. 37  W.H. Vann, Notes on the writings of James Howell, Waco (Texas) 1924, suggerisce che Howell «probabilmente fece la traduzione per un parallelo con l’Inghilterra, con lo scopo di fare la morale ai ribelli» (p. 131). Non trovo, però, nessun elemento che autorizzi questa ipotesi. 38  Cfr. H.G. Koenigsberger, English Merchants in Naples and Sicily in the Seventeenth Century, in Id., Estates and Revolutions: Essays in Early Modern European History, Ithaca (N.Y.) 1971, pp. 94-124. 39  Manoscritti sulla rivoluzione napoletana gli furono inviati da Samuel Bon[el], un ricco commerciante vissuto per un certo tempo a Livorno e a Genova: cfr. Epistolae Ho-Elianae. The Familiar Letters of James Howell, a cura di J. Jacobs, London 1892, p. 637 (libro IV, lettera XLVI).

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era estranea a questo processo: secondo lui, la Spagna teneva ormai i suoi domini italiani «come si terrebbe un lupo per l’orecchio»40. Il giudizio fu confermato dalla rivoluzione, dal suo svolgimento e, in definitiva, dalla sua stessa conclusione. Parecchi lo condivisero in Olanda, in Francia, in Catalogna e negli altri Stati italiani e continuarono anche dopo il 1648 a considerare l’esperienza repubblicana con interesse e con la convinzione che essa aveva segnato una svolta nei rapporti tra Napoli e la Spagna. La rivoluzione si era conclusa non con una sconfitta ma con un accordo tra i popolari e uno degli ultimi uomini politici di alto livello che operarono al servizio degli Asburgo di Spagna, il conte di Oñate. Insieme all’estrema durezza della repressione, le esigenze di riforma emerse nei mesi precedenti o almeno la necessità di attenuare le cause della catastrofe furono tenute presenti. Un fatto veramente eccezionale fu il rifiuto del viceré di procedere alla riorganizzazione del sistema fiscale senza la partecipazione e l’accordo delle istituzioni popolari41. Era un segno di novità che toccarono anche altri e non secondari aspetti della società e dello Stato. Rimasero aperte, inoltre, o si aggravarono, le difficoltà dei rapporti tra Stato e nobiltà.

40  «Temo che le scintille di questo incendio [Catalogna] voleranno più lontano, sia al Portogallo che alla Sicilia ed all’Italia, tutti paesi, ho osservato, che gli Spagnoli tengono come si terrebbe un lupo per l’orecchio» (ivi, p. 420, libro II, lettera XXVIII). 41  Per discutere il ripristino della metà delle imposte soppresse durante la rivoluzione furono convocate le assemblee dei quartieri della capitale. La decisione fu affidata al loro voto, avendo posto il viceré come condizione che ci fosse «approbación universal» (Archives du Royaume de Belgique, Ambassade d’Espagne à La Haye, cart. 431, Lettera del Conte d’Oñate ad Antoine Brun, 17 novembre 1649).

Parte terza

Il mutamento di stato: Esperienze e tentativi

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Rivoluzioni periferiche e declino della monarchia di spagna 1. I modelli culturali Più che le sconfitte militari, furono le rivolte del decennio 164050 a creare nell’opinione pubblica europea, per la loro ampiezza e simultaneità e per il loro contenuto politico, la convinzione che un grande ciclo storico della monarchia di Spagna si era concluso. Cominciò nel 1640 la Catalogna, seguita a distanza di pochi mesi dal Portogallo. Nell’ondata successiva, iniziata nel 1647, si ribellarono la Sicilia e il Regno di Napoli. La periferia fu, quindi, la protagonista di questa fase storica della monarchia. Anche in aree politicamente e geograficamente più vicine al cuore dell’Impero non mancarono, nella stessa epoca, fermenti di protesta e tentativi di ribellione. Poco dopo la secessione portoghese ci fu il complotto di Medina Sidonia in Andalusia; negli anni successivi fu un nobile aragonese, il duca di Híjar, a prendere l’iniziativa di una congiura contro la corona; ancora tra il 1647 e il 1652 la costellazione delle città andaluse fu attraversata dalla febbre della protesta. Ma i tentativi di Medina Sidonia e di Híjar ebbero una rilevanza molto modesta e le «alteraciones andaluzas»1, pur essendosi verificate in molte città della regione, rimasero isolate l’una dall’altra, senza superare l’orizzonte locale. La Castiglia rimase impermeabile alla multiforme tensione che si diffuse nel corpo della monarchia. Qui i conflitti creati dalla situazione catastrofica che ebbe inizio con le sconfitte militari del 1639 furono risolti senza lacerazioni profonde ed ebbero come   Vedi A. Domínguez Ortiz, Alteraciones andaluzas, Madrid 1973.

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momento più drammatico, dal punto di vista dello scontro politico, la caduta del Primo ministro Olivares. Ad essa, del resto, non seguì un rapido e spettacolare mutamento, né nella politica interna né in quella estera. Le fiamme che si levarono nelle zone periferiche furono, quindi, il principale segnale del ridimensionamento della Spagna sulla scena mondiale, che avvenne in quegli anni, e di una accentuata instabilità del sistema di rapporti all’interno della monarchia. Nell’agitazione rivoluzionaria confluirono spinte diverse e spesso contraddittorie. Anche i programmi e i tentativi di riforma interna misero in questione o minacciarono di fatto la stabilità e l’integrità dell’impero spagnolo. Il motivo che, dopo la fase iniziale, divenne dominante – a diversi livelli di intensità e di maturità politica e ideale – fu il distacco dalla corona, e quindi un radicale cambiamento della struttura e delle dimensioni dello Stato. Una eccezione fu la Sicilia, dove l’ispanizzazione di una larga parte della nobiltà e il radicato particolarismo dei centri cittadini impedirono che emergessero orientamenti politici generali. Neanche qui mancarono tendenze e propositi indipendentistici, ma il movimento non si sviluppò fino al punto da raggiungere una rilevante dimensione politica nell’ambito di una ribellione in cui prevalsero i motivi di conflitto interno e di scontro sociale2. Il precedente – insieme storico e attuale – a cui le altre province ribelli esplicitamente si richiamarono fu l’esperienza dei Paesi Bassi3. Insieme ad una relativa convergenza degli orientamenti di fondo, la causa immediata fu comune. Ma le proteste e le reazioni contro la pressione finanziaria e militare a cui Madrid sottopose i domini periferici durante la guerra dei Trent’anni non avrebbero raggiunto la portata e i risultati, in alcuni casi soltanto parziali e provvisori, che 2  Vedi G. Giarrizzo, La Sicilia dal Viceregno al Regno, in Storia della Sicilia, vol. VI, Napoli 1978, pp. 98-124; H.G. Koenigsberger, The Revolt of Palermo in 1647, in «The Cambridge Historical Journal», 1946, 8, pp. 129-144; L. Ribot García, Las revueltas sicilianas de 1647-1648, in 1640: La Monarquía Hispánica en crisis, a cura di J.H. Elliott et al., Barcelona 1992, pp. 183-199; F. Benigno, La Sicilia in rivolta, in Storia della Sicilia, a cura di F. Benigno e G. Giarrizzo, vol. I, Roma-Bari 2003. 3  S. Mastellone, Il modello politico olandese e la storiografia italiana nella prima metà del Seicento, in G. Bentivoglio, Relatione delle Provincie Unite, a cura di S. Mastellone e E.O.G. Haitsma Mulier, Firenze 1983, pp. 5-31; V. Conti, Il modello politico olandese in Italia durante la prima metà del Seicento, in Modelli nella storia del pensiero politico, a cura di V.I. Comparato, vol. I, Firenze 1987, pp. 145-163.

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raggiunsero se ad esse non si fosse accompagnata una particolare evoluzione politica e culturale. Il centro dell’impero, la Castiglia, che fu sottoposta allo stesso trattamento, non reagì in modo rivoluzionario. Nelle province ci furono altri fattori di tensione insieme all’eccessivo prelievo di risorse umane e finanziarie. I paesi che si ribellarono avevano una tradizione di autonomia all’interno del sistema monarchico; nello stesso tempo, avevano scarsa, o in certi casi addirittura nessuna influenza sulle decisioni del governo centrale e sulla elaborazione della strategia generale dell’Impero. A determinare la rottura contribuì anche la convinzione che la politica generale in cui le province erano coinvolte era in contrasto con i loro interessi e ne minacciava la identità storica e politica e le possibilità di sviluppo economico e sociale. La coscienza della divaricazione all’interno della monarchia non ebbe nelle quattro province che si ribellarono né lo stesso rilievo né gli stessi contenuti, così come fu almeno parzialmente diversa l’elaborazione culturale e ideale che la sostenne. La ricerca e la considerazione delle cause più profonde rendono più evidenti, insieme ai motivi comuni, anche la diversità delle situazioni e le differenze nei presupposti e nei successivi svolgimenti delle rivolte. La ricostruzione del processo storico attraverso il quale si giunse all’esasperazione del contrasto ed alla rottura fra il centro e i domini periferici è certamente necessaria per la comprensione dello stato generale della monarchia. Per la Catalogna l’analisi è stata fatta in modo esauriente da John Elliott, io stesso ho esaminato la crisi sociale e politica che ha preceduto la rivolta napoletana del 1647 ed anche nell’opera di Rafael Valladares, per fare solo qualche esempio, non mancano le riflessioni sui grandi problemi interni e internazionali che si posero nel sessantennio tra la conquista spagnola del Portogallo (1580) e l’inizio della ribellione4. Ma, a questo punto, soprattutto la considerazione degli avvenimenti rivoluzionari, dei rapporti che allora si instaurarono tra i diversi gruppi sociali e politici e fra il centro e la periferia può dare una verifica di fondo sul modo in cui si configura la crisi dell’Impero e sui suoi limiti. Non intendo fare qui una rassegna degli studi né anticipare i risultati del proseguimento 4  J.H. Elliott, The Revolt of the Catalans. A Study in the Decline of Spain (15981640), Cambridge 1963; Villari, La rivolta antispagnola a Napoli, cit.; R. Valladares, La rebelión de Portugal 1640-1680. Guerra, conflicto y poderes en la monarquía hispánica, Valladolid 1998.

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della ricerca sul caso specifico di cui mi sono occupato, ma proporre soltanto alcune idee preliminari o strumenti di analisi. 2. Gli eventi In genere, le rivolte degli anni Quaranta non corrispondono al «modello» prevalente nella cultura politica e nella mentalità del XVI e del XVII secolo. L’Europa della prima età moderna tendeva a concepire la ribellione soltanto nelle forme della congiura aristocratica – più o meno rafforzata attraverso la strumentalizzazione dell’endemico malcontento popolare – e della protesta della fame. I resoconti, le cronache e i documenti pubblici contemporanei agli avvenimenti risentono fortemente di questo modello bipolare, della tendenza a ridurre i fenomeni nell’ambito dello schema interpretativo dominante e ufficiale. Ciò non ha mancato di influenzare anche la storiografia, che a fatica si è poi liberata – quando si è liberata – di questa eredità. È necessario, quindi, riconoscere lo spessore e le caratteristiche di questa lente deformante e tenere presente il condizionamento che essa esercitò sul giudizio degli osservatori e sul comportamento degli stessi protagonisti di quelle vicende. Ho accennato a questo problema in un saggio sulla lotta politica nel Seicento in cui ho esaminato il tema della dissimulazione e della sua importanza teorica e pratica nella prima metà del secolo, e particolarmente nel periodo che precedette e preparò le rivoluzioni5. Una più attenta considerazione delle forme specifiche della lotta politica nel XVII secolo mi sembra necessaria, in particolare, per valutare pienamente l’apporto che diedero ai movimenti di opposizione all’interno del sistema spagnolo forze sociali e culturali che non rientravano nelle categorie considerate naturalmente inclini alla ribellione. La novità stessa del ruolo politico che gruppi sociali intermedi (intellettuali, magistrati, mercanti, religiosi) furono chiamati a svolgere in questa fase storica impose atteggiamenti di cautela, di ambiguità e di mascheramento, la cui legittimità fu anche teorizzata con insistenza. Il sistema costituzionale ed il rapporto contrattuale tra sudditi e sovrano in vigore nei regni che facevano parte della monarchia di   Villari, Elogio della dissimulazione, cit.

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Spagna erano basati su istituzioni che garantivano in sostanza i privilegi di ristretti gruppi dirigenti. «Ci sono prove evidenti – ha scritto John Elliott – che molti Catalani si sentivano esclusi dalla società contrattuale... e consideravano la diputació (l’organismo rappresentativo permanente del Principato di Catalogna) come un’istituzione destinata a perpetuare gli interessi di una oligarchia chiusa ed egoista». Il discorso vale anche, e a maggior ragione, per la tradizione costituzionale delle altre province, che su questo punto coincideva con quella della Catalogna. Tuttavia la formula della resistenza particolaristica e provinciale allo sviluppo dell’accentramento monarchico e dell’assolutismo non può spiegare la crisi rivoluzionaria degli anni Quaranta. Le aree sociali e politiche che allora si mobilitarono furono assai più ampie dei gruppi privilegiati e delle oligarchie che tradizionalmente si opponevano all’assolutismo ed al centralismo monarchico. Finché l’opposizione rimase entro i limiti del sistema costituzionale tradizionale non ebbe la forza di creare un movimento generale e di contrapporsi efficacemente alla monarchia. I gruppi che sostenevano una rigida difesa di privilegi oligarchici e che erano attestati su posizioni di oltranzismo feudale continuarono a premere e ad agire nel periodo di indebolimento della monarchia, ma non riuscirono a raccogliere sotto le loro vecchie insegne ed i loro arcaici progetti il diffuso malcontento. Le loro congiure – sulle quali contavano i governi dei paesi che erano in guerra con la Spagna – fallirono sistematicamente, malgrado gli appoggi e gli incoraggiamenti che ricevettero dall’esterno e specialmente dalla Francia: è il caso dei complotti di Medina Sidonia e del duca di Híjar e dei numerosi tentativi di congiure nobiliari nel Regno di Napoli. D’altra parte, la politica centralistica di Olivares, se aveva come obiettivo l’incremento del contributo delle province a sostegno della politica generale della corona, non mirava nello stesso tempo né a realizzare un maggiore equilibrio interno tra le forze sociali dei singoli regni, né ad allargare in modo sostanziale la partecipazione delle province al governo generale dell’Impero. Le affermazioni fatte in questo senso da Olivares nel Gran Memorial del 1624 rimasero in gran parte lettera morta, malgrado la sua dichiarata convinzione che su questo terreno si giocavano le sorti della monarchia. In determinati casi l’aumento del contributo di mezzi finanziari e militari fu ottenuto grazie all’abbandono delle funzioni dello Stato, alla concessione di ulteriori spazi di potere e di arbitrio alle aristocrazie locali ed alla più drastica esclusione delle rappresentanze e

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dei governi periferici dalla discussione sulle grandi scelte politiche della monarchia; esclusione appena attenuata da espedienti di scarso rilievo e da singole e circoscritte iniziative. Nel sistema della monarchia spagnola c’era una condizione originaria e permanente di disagio della periferia. I singoli regni avevano mantenuto le loro istituzioni ma avevano perduto, nello stesso tempo, il fattore di equilibrio interno che era rappresentato dalla presenza di un proprio sovrano. La sostituzione di una grande e forte monarchia esterna a sovrani deboli ed incapaci di far fronte alle forze disgregatrici e particolaristiche aveva costituito originariamente, in Italia e nella penisola iberica, un fattore positivo, ma i limiti dei poteri dei viceré e la complicatezza dei meccanismi che permettevano l’appello diretto dei sudditi al re lontano si facevano sentire più fortemente proprio quando l’equilibrio diventava più incerto e precario. L’assenza del sovrano, inoltre, era sentita più negativamente dagli strati sociali che avevano più bisogno di protezione; i gruppi privilegiati potevano, in effetti, trarre dall’assenza del re il vantaggio di una maggiore autonomia ed autorità sul piano locale. Spesso il loro ricorso al sovrano fu una operazione rivolta ad ostacolare iniziative di giustizia e di equilibrio politico e sociale messe in atto dai ministri, dall’apparato statale, dalle comunità locali e da semplici sudditi. Da parte popolare, l’appello al re contro il mal governo ed i cattivi ministri fu tanto più diffuso ed insistente quanto più incerte furono le basi della convivenza pubblica e della giustizia. Ma specialmente in queste condizioni era uno strumento politico complicato, difficile da maneggiare e, soprattutto, contraddittorio. Era una speranza vaga, o a volte addirittura un inganno, più che una possibilità concreta. Generalmente alimentato, il mito popolare della separazione di responsabilità tra il sovrano e i suoi ministri ebbe, nella prima metà del Seicento, la duplice funzione di ammortizzare i conflitti politici e di rendere più facile e nello stesso tempo circoscrivere la protesta e la violenza insurrezionale dei sudditi. L’aumento delle tensioni interne, le disfunzioni dell’apparato amministrativo e di governo e il senso di estraneità alle grandi scelte internazionali della monarchia provocarono il suo lungo logoramento e la contemporanea tendenza delle province periferiche a cercare in se stesse i princìpi regolatori della loro vita collettiva e ad accentuare il senso della propria identità storica e politica. A Napoli, nel 1640, di fronte alla minaccia di un attacco francese ed alla debolezza dell’apparato militare statale, smantellato per soddisfare esigenze di

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altri settori del teatro di guerra, le organizzazioni popolari assunsero il compito di organizzare una milizia cittadina, ponendo come condizione il diritto di scegliere (tra i nobili, ovviamente) il capo supremo. Erano casi, ormai frequenti, in cui la febbre politica e la solidarietà dei nobili, che escludevano intromissioni in questa materia, raggiungevano il culmine, come avvenne anche allora. Una manifestazione di responsabilità collettiva di questo tipo poteva essere interpretata come un atto di sostegno della corona che si trovava in difficoltà; era invece, nella sostanza, come le vicende successive avrebbero clamorosamente confermato, una manifestazione di autonomia e di rifiuto dell’esclusivismo politico della nobiltà, alla quale si rimproverava di aver tradito gli interessi del regno per non avere opposto resistenza alle richieste di Madrid. È stato detto che la concezione della specifica identità delle co­ munità «nazionali» era basata su una visione mitica del passato che ne esagerava la capacità di autogoverno e di esistenza politica indipendente e sulla esaltazione di una tradizione autonomistica che coincideva con la difesa di gruppi particolaristici e privilegiati. In realtà, ci furono in questo campo precedenti di diversa qualità: l’esaltazione fatta da Ugo Grozio, nel 16106, dello spirito di indipendenza e di libertà delle antiche popolazioni batave, residenti al tempo dei Romani nel territorio olandese, aveva una forza politico-culturale diversa dal patriottismo repubblicano dell’Accademia napoletana degli Oziosi e di Francesco De Pietri7. Proprio su questo punto avvenne qualcosa di nuovo nel decennio delle rivoluzioni. L’idealizzazione del passato ed il tradizionalismo non impedirono la ricerca e l’affermazione di un nuovo indipendentismo, diverso e anche opposto rispetto all’indipendentismo tradizionale. La rottura fra il centro e la periferia avvenne quando l’aspirazione all’indipendenza, diffondendosi fra le diverse componenti del ceto civile, cambiò in parte i suoi contenuti. Indubbiamente, le basi dell’alternativa non furono così solide da unificare senza residui le spinte che provenivano da strati diversi della società, ma la convergenza e la mobilitazione di massa intorno ad esse fu il fatto nuovo e specifico delle rivoluzioni degli anni Quaranta. Esse rappresentarono una fase di progresso della 6  Liber de antiquitate reipublicae Batavicae, ex Officina Platiniana, Lugduni 1610. 7  Dell’historia napoletana, Montanaro, Napoli 1634.

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coscienza collettiva e di rafforzamento della coesione e dell’unità interna delle singole comunità. In Catalogna e nel Portogallo una parte della classe dominante accettò il cambiamento, aderendo alla nuova tendenza o rinunciando ad opporsi ad essa; a Napoli – e in modo più marcato in Sicilia – la nobiltà continuò a mantenere le sue vecchie posizioni schierandosi, nel momento decisivo della rottura, dalla parte della corona. È questo il primo elemento di differenza fra le quattro rivoluzioni degli anni Quaranta all’interno della monarchia spagnola; un elemento non occasionale, determinato dalla diversità delle condizioni generali dei singoli paesi e del loro rapporto con il centro, ma che non autorizza, di per sé, una separazione così netta da collocare la rivolta napoletana al di fuori delle tendenze fondamentali che allora si affermarono. Dal punto di vista delle forze politiche e sociali che le promossero e le guidarono le rivolte sono state classificate secondo tre modelli ben distinti: in Portogallo un colpo di Stato, promosso da una ristretta cerchia dell’aristocrazia attorno al duca di Braganza; in Catalogna una sollevazione popolare, provocata dal comportamento delle truppe regie, ed una rivoluzione politica parallela se non antitetica rispetto alla prima; a Napoli e in Sicilia sollevazioni popolari che «superarono appena la categoria classica dei tumulti provocati dalla fame». Il punto che, a mio avviso, appare sottovalutato in questo schema è il grado di convergenza politica tra nazione politica e protesta popolare che si realizzò, in diversa misura e con diverse caratteristiche, sia in Portogallo, sia in Catalogna e a Napoli. L’iniziativa del duca di Braganza nel dicembre del 1640 fu determinante, tanto che, in questo caso, si è potuto parlare di colpo di Stato piuttosto che di rivoluzione. Gli stessi sostenitori dell’indipendenza usarono il termine di «restaurazione» per definire l’operazione che portò alla separazione del Portogallo dalla corona spagnola8, intendendo con questo non negare la novità rivoluzionaria dell’evento, ma sottolineare la legittimità, il fondamento storico e lo spessore culturale dell’indipendenza. Il colpo di Stato non si svolse nel vuoto politico. Al contrario, ciò che garantì il suo successo e la difesa dell’indipendenza nel difficile periodo successivo fu l’eccezionale convergenza di 8  Cfr. il voluminoso catalogo pubblicato dalla Biblioteca Nazio­nale di Lisbona, Exposição Bibliográfica da Restauração, Lisboa 1940-41, passim.

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strati diversi della società portoghese. Il gruppo che prese l’iniziativa della proclamazione del re Giovanni IV diede una direzione politica ad un movimento o ad una serie di movimenti che si erano già manifestati nel paese in modi diversi e con motivazioni particolari. Le rivolte di Evora e dell’Algarve rivelarono, al di là della protesta antifiscale, qualcosa che si avvicinava ad un sentimento nazionale che si veniva diffondendo a livello popolare. È significativo, d’altra parte, anche l’impegno di allargamento del consenso e dell’adesione popolare nel periodo immediatamente successivo al dicembre 1640. Uno studio di Fernando Bouza Álvarez9 dimostra che, insieme alla mobilitazione di scrittori politici come Francisco de Melo, António Sousa de Macedo, Francisco Velasco de Gouveia, Pinto Ribeiro, Pais Viegas, una larga parte del clero ebbe una funzione essenziale di orientamento anche nei confronti degli strati più bassi della popolazione. La predicazione dai pulpiti e nelle chiese a sostegno del nuovo Stato «fu un eccellente mezzo per dirigersi ad una popolazione in maggioranza analfabeta e quindi incapace di leggere i manifesti scritti». Esempi di un così ampio allargamento della partecipazione si trovano, in una forma che non fu soltanto passiva e in periodi anche precedenti il momento rivoluzionario, anche nella Catalogna ed a Napoli, a conferma che il movimento di opposizione penetrò profondamente nel tessuto sociale delle province ribelli. Ed anche qui le motivazioni religiose sostenute dal clero ebbero una importante funzione di supporto nelle fasi iniziali e nel successivo svolgimento della ribellione. La giustificazione religiosa dell’indipendenza ebbe naturalmente un peso rilevante nell’iniziativa del clero portoghese: il duca di Braganza fu rappresentato come un nuovo Giosuè biblico e il diritto del Portogallo a ribellarsi al dominio spagnolo fu giustificato dall’idea di una sorta di investitura che il paese aveva ricevuto da Dio ad esercitare una particolare e specifica missione di civiltà nel mondo. Ma la propaganda e l’elaborazione politica del clero indipendentista non si limitarono ad un tipo di argomentazioni che restavano sul terreno della mitizzazione e di una idea irreale della nazione e che, appunto per questo, potevano avere effetti vistosi dal punto di vista della mobilitazione popolare (come il mito del ritorno del re 9  Entre dos reinos, una patria rebelde. Fidalgos portugueses en la monarquía hispánica después de 1640, in «Estudis», 1994, 23, pp. 83-103.

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Sebastiano I, morto in battaglia in Africa, nel 1578, o le suggestioni millenariste che non mancarono in quella circostanza). Anche dalla parte del clero venne un contributo particolarmente significativo alla tematica laica dell’indipendenza: l’identità del Portogallo rispetto al resto della penisola iberica ed alla Spagna fu sostenuta con argomenti linguistici, storici e politici, in cui non mancavano certo gli elementi di mitizzazione e idealizzazione, ma che si avvicinavano anche ad una visione moderna della nazione alla quale la propaganda filospagnola opponeva esclusivamente il principio dell’eredità e della legittimità dinastica, dell’obbedienza dei sudditi al principe legittimo. Indubbiamente, in tutte le province e nei gruppi rivoluzionari era radicata la coscienza della difficoltà di condurre la lotta contro la corona e di poter affermare la propria indipendenza senza un appoggio esterno; e questo fu all’origine di incertezze e di comportamenti contraddittori, del resto inevitabili, che in alcuni casi contribuirono, insieme ai fattori interni di debolezza, all’esaurimento delle spinte rivoluzionarie. Tra mito e attualità politica, il richiamo degli indipendentisti alla costituzione originaria del Portogallo postulava comunque, nel rapporto tra sudditi e sovrano, un profondo mutamento, attribuendo all’insieme della comunità nazionale, al popolo, nel momento della fondazione del nuovo Stato, il diritto, in mancanza di eredi legittimi, di «acclamare ed eleggere il re secondo la sua volontà». La mancanza di importanti e stabili mutamenti nella struttura istituzionale interna e nei rapporti tra le forze sociali ha creato tra gli storici ampie zone di incertezza sulla portata rinnovatrice delle rivoluzioni del 1640. Ma, a parte le questioni terminologiche, credo che i loro effetti non debbano essere valutati soltanto sul piano strettamente istituzionale e contingente. L’indipendenza nel caso del Portogallo e i tentativi di indipendenza negli altri casi (del resto accompagnati anche da progetti e volontà di riforma istituzionale) furono la premessa di trasformazioni e sviluppi che si realizzarono nel lungo periodo, almeno dal punto di vista della coscienza della identità collettiva delle singole province. Il problema che si pone per la rivolta della Catalogna riguarda lo svolgimento parallelo della sollevazione popolare e della rivoluzione politica. La classe politica catalana sostenne di essere stata costretta ad assumere un ruolo di governo dopo che l’urto della ribellione popolare aveva determinato il crollo dell’apparato politico e amministrativo ufficiale, gettando il paese nell’anarchia. È questo forse il punto che

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rimane più problematico degli avvenimenti catalani della primavera del 1640. Uno dei principali cronisti della rivolta, Luca Assarino10, suggerisce una interpretazione diversa da quella che diedero i protagonisti e che poi è stata accolta, sia pure non senza perplessità, dalla storiografia successiva. Secondo la sua ricostruzione, i rappresentanti politici catalani che avevano sostenuto negli anni precedenti la protesta legale contro Olivares, continuarono a proclamare la loro fedeltà alla corona alimentando, nello stesso tempo, la rivolta popolare e dandole un indirizzo politico. Assarino sostiene, insomma, che fin dal primo momento ci fu una convergenza tra sollevazione popolare e movimento politico e che la dissimulazione dei Deputati e Consiglieri di Barcellona riuscì a mettere in difficoltà, se non proprio ad ingannare, il governo di Madrid. La loro «apertissima finzione» proseguì per tutta la prima fase della rivolta, fino alla giornata cruciale del Corpus Christi, quando il successo del movimento li mise apertamente nella condizione di assumerne la direzione o esserne travolti. La loro dissimulazione accreditò nel governo di Madrid, secondo Assarino, la convinzione che i moti, essendo «opera dei villani e della plebe vile [...] fossero per acchetarsi da se stessi, o per venir frenati da un solo torcer di ciglio della Maestà cattolica» ed il ritardo nell’adozione del rimedi. L’altro obiettivo – importante in un’epoca in cui la qualifica di ribelle era ostacolo quasi insormontabile alla conquista del consenso – fu di dimostrare che «il Re era stato il primo a venire alle rotture, e che perciò non haveano potuto [fare] a meno di difendersi e di opporsi alle oppressioni». In realtà, il ritardo delle misure repressive non fu dovuto ad errori di interpretazione, ma alla temporanea mancanza di mezzi del governo di Madrid. La Giunta per la Catalogna, che si riunì a Madrid il 12 giugno 1640, non ebbe dubbi sulla natura degli eventi e sulla portata del pericolo. I suoi quindici membri, tra i quali Olivares, il conte di Oñate, l’Inquisitore generale, il cardinale Borgia, presidente del Consiglio d’Aragona, e il cardinale Spinola, compresero subito che, a differenza di altri episodi precedenti, si trattava di «un affare terribile e senza precedenti»11.Come risulta dalla discussione della Giunta, 10  Le Rivolutioni di Catalogna, Giacomo Monti, Bologna 1648. Riprendo la citazione di Assarino e le osservazioni successive dal mio Elogio della dissimulazione, cit., pp. 45-48. 11  Elliott, The Revolt of Catalans, cit., p. 454.

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dissimulazione ci fu da tutt’e due le parti12, ma mentre per il governo fu una necessità imposta dall’impotenza, per i dirigenti catalani fu un mezzo per favorire l’espansione della rivolta e per darle fin dall’inizio un indirizzo politico. I sospetti del cronista italiano suggeriscono la soluzione di un problema particolare, ma di non secondaria importanza, relativo ai rapporti tra gruppi dirigenti e movimento popolare nella Catalogna degli anni Quaranta. Considerando tutto l’insieme della vicenda, è indubbio che non mancarono contrasti e conflitti di varia natura; ma anche in questo caso il distacco da Madrid coincise con l’affermazione di un più marcato senso della propria identità collettiva e di uno spirito più unitario politicamente e culturalmente. A differenza di ciò che avvenne in Catalogna e nel Portogallo, la nobiltà napoletana rimase in gran parte e con la massima decisione ostile sia alle riforme, sia al movimento di indipendenza quando esso cominciò ad acquistare consistenza e carattere generale. Malgrado una certa analogia nelle forme di ribellismo, nella difesa oltranzistica dei privilegi e nei fenomeni di crisi dello Stato e del potere centrale, il livello della coesione sociale e nazionale era più alto in Catalogna e Portogallo che a Napoli. Qui l’iniziale affermazione spagnola della sovranità dello Stato contro le punte estreme e più anacronistiche del baronaggio aveva ceduto, a partire dagli ultimi decenni del Cinquecento, alla rifeudalizzazione ed al dilagare di una eccezionale anarchia. Il monopolio della rappresentanza politica, che il baronaggio aveva conservato, non corrispondeva più all’esercizio di una funzione generale e nazionale. Secondo il racconto di Alessandro Giraffi, come ho già ricordato nelle pagine precedenti, Masaniello replicò al duca di Maddaloni, che era stato inviato dal viceré per sedare i primi moti, chiamandolo «traditore della patria». L’uso di questa formula (che ebbe una grande diffusione in tutta l’area della sollevazione) da parte di un popolano fa pensare, da una parte, all’influenza del ceto civile sul popolo minuto, e dall’altra, per la frequenza con cui l’accusa è rivolta ai nobili, ad una frattura interna che preannuncia, fin dall’inizio, la debolezza del tentativo repubblicano e indipendentistico. Uno degli aspetti più interessanti dell’esperienza napoletana del   Ivi, pp. 454-456.

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1647-48, che contribuisce a spiegarne anche la vastissima risonanza, fu la tempestosa e difficile formazione di un nuovo gruppo dirigente politico che cercò di riempire il vuoto lasciato dall’antagonismo della nobiltà tradizionale. Grazie alla parziale realizzazione di questo ricambio anche a Napoli, sia pure in diversa misura che in Catalogna e nel Portogallo, l’esperienza della ribellione contro la monarchia di Spagna fu un momento di intensificazione del sentimento comunitario e di più chiaro riconoscimento dell’identità storica, politica e culturale del Regno. Madrid ebbe il timore di perdere quella provincia, insieme alla preoccupazione che il contributo decisivo della nobiltà alla sua conservazione avesse come prezzo un ulteriore indebolimento del potere centrale. La storia della rivoluzione dimostrò che la Spagna aveva la forza di riportare all’ordine una provincia ribelle e continuare una grande guerra europea, ma aggiunse nello stesso tempo un tassello al quadro del declino della monarchia. L’immobilismo ed il rifiuto di affrontare positivamente una crisi periferica ed i problemi di civiltà e di governo che essa poneva corrispondevano, infatti, alla più ampia difficoltà di rispondere alle esigenze di riforma interna e internazionale che venivano dalla grande cultura del siglo de oro, da Quevedo a Cervantes, da Lope de Vega a Calderón de la Barca, dagli arbitristas ad una parte della classe politica del centro dell’impero. 3. Per una comparazione tra Catalogna e Napoli Credo che John Elliott sia stato il primo studioso, nel 1970, a fare un tentativo di confronto tra le rivoluzioni europee della prima età moderna nell’ambito della monarchia di Spagna13, quando per la parte italiana mancava ancora uno studio «adeguato al tipo di domande che tende a porre la storiografia contemporanea». Elliott ha dovuto perciò mantenersi sulle linee generali, considerando so13  J.H. Elliott, Revolts in the Spanish Monarchy, in Preconditions of Revolution in Early Modern Europe, cit., pp. 109-130. Cfr. anche, dello stesso autore, El programa de Olivares y los movimientos de 1640, in La España de Felipe IV, tomo XXV de la Historia de España Menéndez Pidal dirigida por J.M. Jover Zamora, Madrid 1982, pp. 335-522.

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prattutto le precondizioni degli episodi e limitandosi per il resto ad una classificazione tipologica. Egli è giunto alla conclusione che le precondizioni della rivolta in Italia e nella penisola iberica furono fondamentalmente simili: assenza del sovrano, lontananza del governo centrale, pressione fiscale e militare, sfruttamento indiscriminato, da parte di Madrid, di tutte le fonti di ricchezza. La differenza consiste nel modo in cui i paesi italiani e quelli iberici reagirono all’intenso sfruttamento: la Catalogna e il Portogallo riuscirono ad impedire che esso diventasse eccessivo, mentre la Sicilia e Napoli non riuscirono a fare altrettanto. Da qui derivano anche le differenze nello svolgimento delle singole vicende. La sollevazione di Napoli nacque dal malcontento e dall’impoverimento e si indirizzò contro una classe dominante che aveva scelto la via di cooperare con Madrid nell’opera di sfruttamento indiscriminato delle risorse del Regno; nel caso della Catalogna, ci fu all’origine una relativa prosperità ed il timore di perderla. Credo che l’interpretazione di Elliott suggerisca due punti sui quali si potrebbe discutere: il primo è il contenuto politico della rivoluzione napoletana; l’altro è il problema del rapporto tra direzione politica e movimenti popolari nella rivoluzione catalana. Non ho la possibilità e l’intenzione di affrontare qui i termini generali delle questioni poste da Elliott e di andare oltre le rapide osservazioni già fatte sulla Catalogna in rivolta. Mi limiterò invece a qualche osservazione marginale sul modo di svolgimento delle due rivoluzioni e ad aggiungere qualche indicazione sulla risonanza che esse ebbero in Europa (già i contemporanei, infatti, le accomunarono e le misero in rapporto l’una con l’altra). Sono temi che certamente rientrano, allo stesso titolo delle precondizioni, nell’analisi comparativa, ma che non sono stati finora presi in considerazione; così come vi rientrano i rapporti diretti tra le due esperienze e la reciproca informazione sugli avvenimenti. Ritengo però che sia necessario fare precedere i pochi dati di informazione comparativa da qualche considerazione sul caso napoletano, per il quale manca uno studio moderno. Il manifesto del 17 ottobre 1647, col quale i ribelli napoletani dichiararono il distacco dalla monarchia spagnola, fu tradotto e stampato a Barcellona. Ad esso seguirono altri testi e pamphlets. Quelli che ho potuto rintracciare contengono bandi di Toraldo e di Gennaro Annese ed una relazione da Roma che porta la data del 4 novembre e

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dà conto della resistenza napoletana contro la flotta di don Giovanni d’Austria, del tradimento e dell’uccisione di Toraldo, della nomina di Gennaro Annese a generalissimo del popolo e dell’avvio di trattative con la Francia14. Altro materiale fu pubblicato anche dopo la fine della rivoluzione napoletana e mentre quella catalana era ancora in corso, come un opuscolo intitolato Discurs de un Ciutada Napolita als Elets del Poble de la Ciutat de Napols, che è una violenta invettiva contro la «barbara nació castellana»15. Sull’altro versante, il riferimento alla Catalogna è presente in diversi testi della pubblicistica politica napoletana: un motivo ricorrente fu la constatazione dell’incapacità di Madrid di reprimere la rivolta catalana, malgrado l’apporto delle stesse truppe napoletane. A Napoli fu pubblicato, nel 1646, il volume di Alejandro de Ros, Cataluña desengañada, filocastigliano, che conteneva notizie sugli avvenimenti in Catalogna. Nel 1644 fu pubblicato a Genova il libro di Luca Assarino che ebbe negli anni successivi altre edizioni a Bologna; e certamente fu conosciuta anche a Napoli l’opera di Francisco Manuel de Melo16, che ebbe grande diffusione in tutta Europa. Non è da escludere inoltre che uno dei canali di informazione siano stati gli stessi soldati napoletani reduci dalla Catalogna. Il tercio napoletano comandato da Leonardo Moles fu coinvolto, infatti, nei primi scontri del maggio 1640, e particolarmente nell’incendio del villaggio e della chiesa di Riudarenes, dal quale prese le mosse la campagna degli insorti contro i sacrilegi commessi dalle truppe regie. L’intero tercio fu scomunicato dal vescovo di Girona; gli insorti si servirono di questo per dare una piena giustificazione alla loro azione e per darle il carattere di una guerra santa17. A Napoli si svolsero poi le solenni onoranze funebri di un generale napoletano, il marchese di Torrecuso, che ebbe un ruolo importante nelle operazioni svolte dall’esercito regio in Catalogna contro i ribelli ed i Francesi. Considerati, dunque, questi canali di informazione, le analogie che si possono rilevare tra i due episodi nel comportamento e nei metodi rivoluzionari non sembrano casuali. La prontezza e l’impegno con cui i Napoletani cercarono fin dal primo momento di dare alla loro azio  Cfr. Elogio della dissimulazione, cit., p. 119.   Archivio storico municipale di Barcellona, 8 op. 898. 16  F.M. de Melo, Historia de los Movimientos, Separación y Guerra de Cataluña en Tiempo de Felipe IV, Lisboa 1645. 17  Elliott, The Revolt of Catalans, cit., p. 427. 14 15

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ne una legittimazione religiosa hanno un precedente nell’esperienza catalana, in cui il motivo religioso costituì un importante fattore di mobilitazione popolare. Un altro esempio riguarda la pratica degli incendi delle case e dei beni di coloro che erano ritenuti responsabili del malgoverno ed accusati di essere traditori della patria. Essa fu seguita a Napoli nelle primissime giornate della rivolta ed ebbe tanta efficacia da essere considerata, da cronisti e diplomatici, l’aspetto centrale e più clamoroso della rivolta. Il fatto nuovo che colpì gli osservatori non fu la pratica degli incendi in quanto tale (che riproduceva una misura punitiva applicata dalle autorità di governo alle abitazioni dei ribelli) ma la sistematicità dell’operazione, la disciplina ed il metodo con cui gli incendi furono eseguiti, la cura nell’evitare saccheggi e furti. Ciò era in contrasto con l’idea di tumulto plebeo radicata nella mentalità comune e nei criteri dominanti di giudizio politico. L’identico comportamento avevano tenuto i ribelli in Catalogna, sia a Vic ed in altri centri minori, sia a Barcellona nella famosa giornata del Corpus Christi, in cui era stato ucciso il viceré Santa Coloma. L’analogia più importante riguarda, tuttavia, il rapporto tra direzione politica e movimenti insurrezionali popolari: sia nell’uno, sia nell’altro caso, l’atteggiamento dei dirigenti politici fu profondamente ambiguo tanto che su questo aspetto del problema si crearono, sia al momento, sia nella successiva ricostruzione storiografica, molte zone d’ombra, alcune delle quali non sono state fino ad ora dissipate. Per il caso napoletano, è noto il modo in cui è stata ricollocata da Schipa nel suo vero ruolo la figura di Genoino. Per la Catalogna, oltre il già ricordato Assarino, anche il giudice del tribunale di Barcellona Ramon Rubí de Marimón ed altri cronisti sostennero che autorevoli deputati e consiglieri, come il sacerdote Pau Claris e il giurista Joan Pere Fontanella, furono i veri ispiratori e dirigenti delle due incursioni dei contadini insorti nella capitale del Principato: la prima, del 22 maggio, per liberare il deputato Tamarit, arrestato nei giorni precedenti, e la seconda, il 7 giugno del 1640, per dare il colpo di grazia al governo con l’uccisione del viceré e con l’incendio delle case dei ministri dell’Audiència, il vertice dell’ammnistrazione giudiziaria regia. Simili ipotesi circolarono prima che i dirigenti catalani prendessero apertamente posizione per la ribellione ed il distacco dalla Spagna. Elliott afferma giustamente che non ci sono prove se, e fino a che punto, ci fu una convergenza, in quella fase iniziale, tra dirigenti politici e movimenti popolari.

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Un problema analogo si pone, come si è detto, anche per Napoli e riguarda la natura e la sostanza delle rivoluzioni del ’600, di quelle almeno che si svolsero nell’ambito della monarchia spagnola. A parte l’attitudine alla semplice ripetizione dei luoghi comuni e le interessanti novità che cominciano a venire in luce, la mia convinzione è che il problema non è destinato a rimanere insoluto: le incertezze che ancora rimangono significano, forse, che i metodi finora adottati non hanno completamente superato gli schemi e le formule che impediscono di penetrare più a fondo nei complicati meccanismi della politica e delle rivoluzioni del Seicento. Nelle righe finali del suo saggio Elliott esprime il desiderio che l’autore della Rivolta antispagnola continui il suo racconto fino a comprendere gli avvenimenti del 1647-48. Posso dire che il lungo lavoro di ricerca e di preparazione non ha escluso l’aspetto metodologico e la concezione barocca della politica e del «mutamento di Stato».

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Il cardinale, la rivoluzione e la fortuna di Machiavelli Il cardinale è Ascanio Filomarino, arcivescovo di Napoli dal 1644 al 1665; la rivoluzione è quella che «molto impropriamente» (come scrisse Giuliano Procacci recensendo la mia Rivolta antispagnola), ma non per caso, prese nome da uno dei suoi protagonisti, Tommaso Aniello D’Amalfi, detto Masaniello. Nel brevissimo periodo in cui il giovane pescivendolo ebbe una funzione (dal 7 al 16 luglio del 1647), la sua «mente», come tutti allora sapevano e come, qualche secolo dopo, «scoprì» Michelangelo Schipa, fu Giulio Genoino. Anche Genoino rimase sulla scena soltanto per un breve periodo, dal 7 luglio al 21 agosto, svolgendo il ruolo ben definito, anche se in qualche misura e per i primi giorni dissimulato, di guida politica del popolo insorto. Egli riprese allora ed ampliò le idee già enunciate nel 1620, nel primo tentativo di riforma che mirava alla parificazione dei rappresentanti della nobiltà e del popolo nel governo della capitale. Sebbene il suo progetto fosse stato formulato e sostenuto apertamente nel pieno rispetto delle regole e delle istituzioni e prevedesse lealmente, tra l’altro, il rafforzamento del potere regio, gli era stato attribuito, già allora, il proposito di volere promuovere una rivoluzione. La Historia de los primeros años del reinado de Felipe IV dello storico di corte Virgilio Malvezzi, scritta «per mandato e ordine» del conte duca di Olivares ma non resa pubblica, contiene un incendiario discorso che Genoino non pronunciò mai e che corrisponde, invece, ai resoconti degli avvenimenti napoletani del 1620 che gli avversari suoi e del duca di Osuna presentarono alla corte di Madrid1. Ma il processo intentato contro   Parzialmente stampata intorno al 1640 in edizione privata per la lettura

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di lui e contro il viceré duca di Osuna che lo aveva sostenuto ed era stato a sua volta sospettato di volersi impadronire della corona di Napoli, non aveva confermato le accuse e non si era concluso con una esplicita e motivata condanna. Malgrado ciò, Genoino era stato deportato nella fortezza spagnola del Peñon, nell’Africa settentrionale, e il duca di Osuna era rimasto in carcere in Spagna dal 1621 fino alla morte, avvenuta nel 1624. Tornato a Napoli, dopo dodici anni di prigionia, Genoino riprese ancora una volta il suo programma di riforma, come risulta da un discorso pronunciato nel 1644 nel Collegio dei dottori2, e divenne il principale uomo politico di parte popolare quando ebbe inizio la rivoluzione del 1647. Le capitolazioni accettate e giurate dal viceré, in una solenne cerimonia nel duomo di Napoli, non si limitarono a stabilire la soppressione delle gabelle imposte in modo indiscriminato nel precedente cinquantennio. Insieme alle iniziative ed ai provvedimenti imposti dal movimento popolare della capitale e dalle contemporanee sollevazioni delle province, le capitolazioni prospettarono il ridimensionamento del potere della nobiltà, il rafforzamento dell’autorità dello Stato e la più ampia ed effettiva partecipazione del «popolo civile» al governo generale ed alle amministrazioni locali. Genoino era consapevole, anche per l’esperienza precedente, che l’opposizione alla riforma sarebbe stata fortissima sia nel Regno, sia nel governo di Madrid, ma riteneva che, per l’ampiezza della sollevazione popolare e per le difficoltà generali che stava attraversando, la monarchia non potesse più opporre un rifiuto alla richiesta di riforme accompagnata dall’assicurazione della fedeltà. Era convinto, d’altra parte, che non ci fosse altro mezzo per mettere fine alle violenze e alle vendette popolari; e che l’inderogabile riforma non potesse essere attuata se non sotto l’egida e con l’appoggio della monarchia. La presenza e la collaborazione del cardinale Filomarino all’impresa della riforma sono ampiamente documentate dalle fonti, ecclesiastiche e non, che si riferiscono a quell’episodio. Ma il giudizio storico è rimasto incerto3 fino a quando Massimo Bray ha dato un del re, l’opera è stata pubblicata a cura di D.L. Shaw nel 1968 (Tamesis Books, London). 2  Vedi, in questo volume, pp. 279-280. 3  Cfr. E. Visco, La politica della S. Sede nella rivoluzione di Masaniello, Napoli 1923, p. 21.

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contributo sostanziale all’analisi della sua partecipazione, prendendo attentamente in esame una relazione scritta dallo stesso cardinale nel 1652 e rimasta inedita4. Tra i molti episodi rievocati dal Filomarino nel suo racconto, uno è particolarmente clamoroso: la stampa di «infinite copie» e la diffusione, ad opera dei capi popolari, di un brano dei Discorsi di Machiavelli, probabilmente nella forma di un volantino. È un caso raro, ritengo, di circolazione delle idee machiavelliane non tra studiosi e scienziati ma tra la gente comune. La sua singolarità è sottolineata anche dal fatto che fu proprio il Filomarino ad esaltare le virtù di grande statista del Machiavelli, ad indicare il brano che gli sembrava adatto alla circostanza ed a fornirne il testo ai capi del popolo che decisero di dargli una larga diffusione in un momento di intenso e drammatico dibattito tra le diverse correnti della rivoluzione. L’interesse del Filomarino per Machiavelli risaliva probabilmente al periodo in cui frequentava a Roma la famiglia di Francesco Barberini e l’ambiente in cui svolgeva la sua attività di studioso e segretario Gabriel Naudé, il «machiavellico» autore delle Considerazioni politiche sul colpo di Stato. Filomarino scrisse allora un trattato non proprio sulla figura del principe ma su quella del favorito o, in termini attuali, primo ministro: un’opera rimasta manoscritta che il Naudé segnalò nella sua Bibliographia politica del 16335. Non fu il solo, tra i prelati del suo rango, ad esprimere ammirazione per il segretario fiorentino. Anche un altro cardinale, il grande Richelieu, manifestò il suo entusiasmo per «le massime indispensabili e ragionevoli di questo scrittore solido e veritiero» e la meraviglia che gli studiosi di politica non avessero «il cuore ed il coraggio» di difenderle apertamente6. Nelle varie collezioni di fogli volanti, manifesti, bandi e testi vari stampati nel corso della rivoluzione che ho avuto la possibilità di consultare non ho trovato mai una copia di quel testo. Ma questo non è motivo per dubitare della verità di quel che afferma il Filoma4  L’arcivescovo, il viceré, il fedelissimo popolo. Rapporti politici tra autorità civile e autorità ecclesiastica a Napoli dopo la rivolta del 1647-48, in «Nuova Rivista Storica», LXXIV, maggio-agosto 1990, III-IV, pp. 311-332. 5  Cfr. la voce Filomarino scritta da M. Bray per il Dizionario Biografico degli Italiani. Il manoscritto L’Idea del favorito è conservato nella Biblioteca de Cataluña a Barcellona. 6  G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari 1995, p. 466.

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rino nella sua relazione. La distruzione del materiale politico prodotto durante la rivoluzione fu condotta sistematicamente, dopo la fine di quel grande tentativo, dal governo spagnolo, con pene severissime contro chi lo occultava, e riuscì particolarmente efficace per il materiale stampato, di cui era possibile conoscere la tiratura e in qualche misura anche la destinazione da parte degli stessi stampatori. L’archivio del primo «governo» popolare, creato da numerosi segretari e collaboratori, fu distrutto per ordine del viceré subito dopo l’uccisione di Masaniello: conteneva, insieme ad altro materiale, più di settecento memoriali consegnati da Napoletani e da rappresentanti delle province nella prima settimana della rivolta. Delle centinaia di ordini mandati da Masaniello nella sua qualità di «preposto e prefetto generale della fedelissima Piazza del popolo» (era questo il suo titolo, inventato forse da Genoino, non quello di generalissimo) e firmati con una stampiglia recante nome e titolo, solo uno, a quel che mi risulta, è sopravvissuto. Fu donato alla fine del XVIII secolo, come una straordinaria rarità, all’ambasciatore inglese William Hamilton da un falegname discendente dal capitano a cui l’ordine era indirizzato. Si trovano diverse copie manoscritte dell’opuscolo Il Cittadino fedele, da me pubblicato nel volume Per il re o per la patria (Roma-Bari 1994) ma ho trovato soltanto una copia a stampa, nella Bibliothèque Mazarine. Il farmacologo Giuseppe Donzelli, autore di Partenope liberata, fu costretto a cercare e ricomprare, perché fossero date alle fiamme, le copie del suo volume7, la cui circolazione aveva però già superato i confini del Regno. Invece il libro del «gran feudista» Orazio Montano, De iuxta expulsione Hispanorum, ricordato da Innocenzo Fuidoro8, è introvabile. Il quadro delle tendenze politiche che si formarono o si svilupparono nel corso della rivoluzione è piuttosto complesso e in qualche caso non privo di apparenti contraddizioni: una delle quali, forse la più importante e significativa, è il fatto che, tra tutti i capi popolari, il personaggio più odiato dai ministri spagnoli e dai loro sostenitori napoletani fu Giulio Genoino. Artefice principale del progetto e del7  La notizia risulta da una nota manoscritta nella copia della Partenope conservata nella Biblioteca della Camera dei Deputati. 8  I. Fuidoro, Successi historici raccolti dalla sollevatione di Napoli dell’anno 1647, a cura di A.M. Giraldi e M. Raffaeli, Milano 1994, p. 287.

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le prime iniziative di riforma, egli fu, nello stesso tempo, colui che col più grande impegno e fino alla fine dei suoi giorni proclamò la sua fedeltà al sovrano e si oppose, mettendo a rischio il credito che aveva guadagnato tra il popolo e la propria vita, alle correnti popolari che propugnavano la ribellione contro la Spagna e l’indipendenza del Regno. Carattere analogo ebbe anche il ruolo svolto dal cardinale. Il saggio di Bray prende le mosse dalla richiesta della corte di Madrid alla Curia romana, dopo la fine della rivoluzione, di sollevare il Filomarino dall’incarico di arcivescovo della città. Per più di un anno questa clamorosa richiesta, giustificata dall’accusa che egli aveva appoggiato i ribelli, rimase al centro delle relazioni tra le corti di Roma, Napoli e Madrid. All’inizio, l’opposizione della Curia romana alle pretese di Madrid si mantenne sul terreno generale dei rapporti tra Stato e Chiesa, basandosi sul richiamo al rispetto dell’immunità ecclesiastica ed evitando di entrare nel merito delle responsabilità attribuite al cardinale. Il rilevante appoggio che il clero in generale aveva dato alla ribellione indusse il viceré della restaurazione, il conte di Oñate, a seguire negli anni del suo governo una politica di riduzione delle immunità e dei privilegi ecclesiastici ed a cercare di tenere lontani i religiosi dagli affari pubblici. Questa operazione politica offrì abbondante materia alla ripresa di contese giurisdizionali che rientravano nella tradizione dei rapporti tra Chiesa e Stato ed alle quali sembrava si potesse aggiungere anche la pretesa riguardante il cardinale arcivescovo. Ma l’insistenza di Oñate e della corte spagnola sulla clamorosa richiesta di trasferimento diede, in effetti, una diversa impronta ed una più ampia dimensione alla questione. Il riesame del comportamento che il cardinale aveva tenuto nel corso della rivoluzione comportava, infatti, inevitabilmente anche un giudizio sulla politica che allora aveva seguito la Santa Sede. Oltre ad avergli ripetutamente manifestato il suo consenso nel corso degli eventi, il papa aveva altamente elogiato, in un breve del 13 maggio 1648, appena un mese dopo la fine della rivoluzione, il «singolare valore» che il cardinale arcivescovo aveva dimostrato nel far fronte ad una così grande tempesta9. Il Filomarino fornì allora alla Curia romana il resoconto dell’opera che egli aveva svolto durante la rivoluzione, perché fosse utilizzato   Visco, La politica della S. Sede nella rivoluzione di Masaniello, cit., p. 22.

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nella controversia con il governo spagnolo. La sua relazione10 non si può definire un documento di difesa. Il cardinale non si limitò a respingere l’accusa di ribellione e ad affermare di aver operato per «il servizio del re» e per «ottenere la quiete», né ad accusare il viceré di essere venuto meno alle promesse ed ai giuramenti solennemente fatti «sopra i santi Evangeli». Rammaricandosi senza mezzi termini che «un affare di sì gran rilievo», riguardante la conservazione di un regno, fosse stato «così malamente governato da chi più di ogni altro teneva obligazione di premervi», il cardinale attribuì al duca d’Arcos il colpevole errore di avere rifiutato un accordo che i capi popolari ritenevano giusto e conforme agli interessi della monarchia; e lo accusò di averlo commesso per vendicarsi delle offese private piuttosto che per punire quelle fatte al sovrano. È questo il punto più importante della relazione, che conferma, anche dopo la sconfitta, l’adesione del Filomarino alla linea politica seguita dal Genoino e dai riformatori monarchici. La fiducia nella possibilità di realizzare la riforma attraverso l’accordo ed un rinnovato impegno di fedeltà alla monarchia di Spagna non venne mai meno nella mente del Genoino. Come era possibile – dobbiamo domandarci – conciliare questa fiducia con l’esperienza delle implacabili persecuzioni e degli irremovibili rifiuti che avevano fatto seguito al primo tentativo di riforma del 1620 e con le reazioni suscitate nella corte di Madrid dal nuovo movimento? Tralasciando ora il discorso sulle altre e più generali differenze tra i due momenti, un punto fondamentale fu, nel 1647, la maggiore ampiezza del consenso della stessa società napoletana all’idea della riforma. Insieme a molti altri elementi, anche l’atteggiamento positivo delle maggiori autorità ecclesiastiche contribuì a dare ai riformatori monarchici la fiducia nella possibilità di fare accettare alla corona il progetto di riforma. Nel 1620 gli arcivescovi di Napoli e di Capua, seguiti dalla maggior parte del clero, avevano avuto una parte di primo piano nella controffensiva nobiliare contro Genoino. Nel 1647 ci fu un vero e proprio rovesciamento di fronte: l’adesione di Ascanio Filomarino e la sua collaborazione con Genoino diedero un importante contribu10  Biblioteca Apostolica Vaticana, Fondo Chigi, ms. N.III.75, Variorum Romae 1653, ff. 370r-377r.

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to alla ripresa dell’organizzazione civile della città, all’elaborazione del programma popolare, alla sua approvazione ufficiale e solenne del 13 luglio, con il giuramento del viceré nel duomo, ed alla legittimazione degli atti rivoluzionari, compresi la clamorosa punizione dei maggiori speculatori sulle imposte con gli incendi dei loro beni e lo sterminio dei banditi che, protetti dalla nobiltà, opprimevano la vita cittadina. Fu l’arcivescovo, nelle primissime ore della rivolta, a «ordinare alla presenza di tutti che si andasse a demolire tutte le casette dove stavano gli ufficiali ad esigere le gabelle». Nel giorno successivo, fu lui in prima persona, dopo avere preso contatto con Genoino, ad imporre «a denti stretti» al viceré ed al Consiglio Collaterale, che erano assai riluttanti a questa concessione, la consegna dei diplomi che contenevano le capitolazioni fatte con i sovrani nei secoli precedenti11: rivendicazione che, indipendentemente dalla corrispondenza del contenuto di quei diplomi alle aspettative del Genoino, fu un momento decisivo della trasformazione della protesta in un movimento politico. Un parente del cardinale, il principe di Rocca d’Aspide, designato dal popolo nel periodo di Masaniello, accettò ed esercitò poi con impegno l’incarico di grassiere, una sorta di sovrintendenza sull’amministrazione della capitale. Due fratelli del cardinale, rispettivamente vescovo di Calvi e monaco cappuccino, mostrarono in alcune occasioni di essere vicini al movimento popolare. Genoino fu ritenuto dal viceré, dal governo spagnolo e dalla pubblica opinione il responsabile principale della sollevazione non nel senso che la suscitò o la promosse, ma perché operò efficacemente, più di ogni altro, per trasformare la protesta popolare ed il generale malcontento in un movimento politico, con le sue forme ed i suoi obiettivi. Contro di lui si indirizzò, quindi, sotto la copertura di una apparente collaborazione, il tenace ed abile impegno del viceré di eliminarlo dalla scena politica e di mandarlo a morire. Ma non mancarono quelli che considerarono il Filomarino «il principale motore e fomentatore» della sollevazione. Senza condividere le esagerazioni dei «malevoli», il cronista Capecelatro era convinto che egli fosse «di animo popolare e poco amico degli Spagnoli». Il suo parere era condiviso anche dal viceré, che tuttavia dovette procedere 11  Cfr. le sue lettere al papa dell’8 e del 12 luglio 1647, in «Archivio storico italiano», IX, 1846, pp. 379-386.

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con molta cautela nei suoi confronti. Malgrado lo scambio di lettere, i frequenti incontri e l’apparente collaborazione, tra il viceré ed il cardinale si creò fin dal primo momento uno stato di tensione che l’uno e l’altro cercarono accuratamente di mascherare: l’aperta resa dei conti fu rimandata alla fine della rivoluzione. Il duca d’Arcos, comunque, non mancò di mettere ben presto sull’avviso il governo di Madrid sul comportamento ostile del cardinale e di dare l’avvio alla vertenza che si sarebbe sviluppata negli anni successivi. Quando i dubbi sulla politica di Genoino e sulla prospettiva di accordo sulla riforma cominciarono a diffondersi tra il popolo, il Filomarino ricevette un memoriale anonimo che poneva in maniera particolarmente aspra l’alternativa tra la conferma delle capitolazioni e la ribellione e chiedeva una ulteriore e più decisa pressione da parte sua sul viceré per garantire l’osservanza delle promesse. Era il 25 luglio, nove giorni dopo che l’uccisione di Masaniello era stata salutata come la premessa del superamento della crisi. Scritti, libelli e manifesti clandestini che incitavano il popolo a fare la scelta della liberazione dal dominio spagnolo non mancarono in quei giorni. Il memoriale inviato al cardinale dichiarava che, in mancanza della conferma dell’accordo, il popolo avrebbe deciso «di dar piuttosto obedienza a’ Maomettani che a’ Cattolici... se Cattolici chiamar si possono quelli che cercano di dominare un Regno per solo fine d’assassinarlo e distruggerlo, non conoscendo altro Dio che il loro interesse». Il Filomarino lo trasmise al viceré non perché condivideva il contenuto, ma perché voleva segnalare il pericolo della sfiducia che stava crescendo tra i popolari. Senza entrare nel merito della questione il viceré comunicò al cardinale che intendeva affidare all’Eletto del popolo il compito di ricercare «da dove era uscito questo veleno». Ritenne però opportuno inviare subito il documento a Madrid non tanto per informare la corte sugli umori popolari, quanto, invece, per richiamare l’attenzione sul comportamento del cardinale e sull’appoggio che egli dava alle richieste del popolo, giungendo fino a farsi tramite delle posizioni più provocatorie ed aggressive. Dopo che, per le abili manovre del viceré e per la debolezza politica dei capi popolari, Genoino fu costretto all’esilio, il ruolo di «mediatore» del cardinale acquistò ancora maggiore importanza. Egli sembrava la persona più adatta, da una parte, a garantire l’osservanza degli impegni presi dal governo, e, dall’altra, a moderare le violenze popolari (era riuscito, per esempio, a fare ridurre la lista

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degli «incendiati», ad impedire che venissero sequestrati beni nascosti nei monasteri, ad evitare alcune esecuzioni capitali) e contrastare le tendenze politiche alla rottura con la monarchia. Ma anche quello che si potrebbe, sia pure con una certa forzatura, chiamare il periodo di Filomarino ebbe breve durata. Il 1° ottobre giunse nel porto di Napoli la flotta spagnola, sotto il comando (simbolico) del giovanissimo figlio naturale di Filippo IV, don Giovanni d’Austria. La ritirata dall’assedio di Lerida dell’esercito francese, comandato dal duca di Condé, aveva dato la possibilità al governo di Madrid di esaudire le incalzanti richieste di aiuto del duca d’Arcos. Non era un’armata potentissima: una ventina di vascelli, ai quali i comandanti avevano fatto aggregare un certo numero di navi mercantili incontrate lungo il percorso, per fare maggiore impressione sui Napoletani all’ingresso nel porto. Finiti i tempi in cui la monarchia poteva cavare da Napoli «montagne d’oro e fiumi di sangue» per far fronte alla sue esigenze, con la Catalogna, il Portogallo e la Sicilia in ribellione e le altre province, Sardegna compresa, piuttosto inquiete, bisognava contare esclusivamente sui bravi e fedeli soldati della Castiglia, esausta ed esasperata, e su pochi mercenari valloni e tedeschi. Il duca d’Arcos ritenne tuttavia, «con precipitoso consiglio» (Filomarino), che la flotta, i quattromila soldati spagnoli che essa trasportava e le misure che egli aveva preso precedentemente per rafforzare l’apparato militare del palazzo e dei castelli fossero sufficienti per dare una svolta alla situazione. Tra i preparativi dell’operazione ci fu l’ordine mandato «alla nobiltà e baroni che armati tutti ne venissero per castigo del popolo napoletano»12. Doveva esserci anche l’arresto del cardinale e il suo invio in Spagna, se fosse andato a rendere omaggio a don Giovanni, come si prevedeva; ma avendo egli mandato il suo maestro di camera a rappresentarlo, il viceré dovette limitarsi a continuare il braccio di ferro appena dissimulato e a chiedergli, attraverso un messaggero inviato all’Arcivescovado, di fare una solenne cerimonia pubblica a sostegno dell’impresa che si accingeva a realizzare. Il cardinale rifiutò «dicendoli che era pastore e non lupo, et non voleva invocar Dio, che è Dio di pace, ad assistere alla vendetta et alle rovine che erano per fare»13. Nel pomeriggio del 12  C. Tutini - M. Verde, Racconto della sollevatione di Napoli nell’anno MDCXLVII, a cura di P. Messina, Roma 1997, p. 174. 13  Ibidem.

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5 ottobre, malgrado le vibranti proteste di una parte degli esponenti del governo, ebbe inizio, dalla flotta e dai castelli, il bombardamento della città contemporaneamente all’attacco delle truppe sbarcate dalla flotta e uscite da Castelnuovo e dal palazzo reale. Qui è sufficiente, per dare un’idea della vasta risonanza dell’episodio, riportare la dura condanna pronunciata dalla stesso pontefice Innocenzo X e comunicata il 27 ottobre dal segretario di Stato al nunzio apostolico a Napoli: «Restar Sua Santità molto meravigliata che i Ministri di Sua Maestà di Napoli si siano incamminati alla distruttione di tutto quel popolo, senza pensar ad altro ripiego che a quello delle artiglierie, delle moschettate e della fame, e quello che è peggio tutto ciò eseguiscono per mano dei Ministri e Baroni offesi, che ad altro non pensano che alla crudeltà per vendicare i proprii danni senza guardare alla quiete e al bene pubblico e a tante conseguenze»14. La relazione del Filomarino, dopo un brevissimo accenno ai precedenti, comincia appunto da qui. Mentre il popolo si preparava alla difesa, migliaia di popolari armati si presentarono al Palazzo dell’Arcivescovo. Abbattuto e ridotto in mille pezzi lo stemma del re che era sulla porta d’ingresso, entrarono nel palazzo per chiedere al cardinale di «non volersi più ingerire in trattato alcuno di accomodamento», per non costringere il popolo a perdergli «il rispetto e la riverenza che gli haveva sempre portata». Gli rimproveravano di aver messo il popolo in una situazione estremamente difficile e pericolosa per averli indotti alla fiducia nel viceré. Il cardinale, dopo avere dichiarato che «con molta ragione si dolevano, sì come se ne doleva anche lui unitamente con loro», assicurò che si sarebbe astenuto da ogni intervento. La sorpresa del viceré non ebbe l’effetto che egli sperava. Le milizie popolari e la popolazione reagirono efficacemente all’attacco delle truppe spagnole, riuscendo a contenere l’offensiva. Dopo sei giorni di combattimento e migliaia di morti e di feriti, dall’una e dall’altra parte, gli Spagnoli non riuscirono a mantenere le posizioni conquistate oltre le zone adiacenti a Castelnuovo, al palazzo reale ed a Castel Sant’Elmo. Il furioso bombardamento, continuato per parecchi giorni, si rivelò meno efficace di quel che gli Spagnoli spe  In Visco, La politica della S. Sede nella rivoluzione di Masaniello, cit., p. 138.

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ravano: dopo l’iniziale spavento, il popolo si rese conto che i buchi nelle mura facevano poco danno. L’artiglieria popolare, specialmente quella che operava dal Torrione del Carmine al comando di Gennaro Annese, costrinse invece la flotta ad uscire dal porto, dopo aver subito perdite e danni, aggravati dall’ammutinamento di una galera e dal suo passaggio ai popolari. Una funzione importante ebbe, per l’organizzazione della resistenza popolare, l’apporto dei casali vicini, mentre l’appello del viceré ai baroni ebbe per il momento risultati parziali e insufficienti. La città era praticamente divisa in due, ma con una disposizione delle forze tale che, malgrado il possesso delle principali fortezze, la parte spagnola restava assediata dalle milizie popolari. La cintura dei casali e dei centri cittadini attorno alla capitale svolse il duplice compito di soccorrere i popolari napoletani con aiuti militari e rifornimenti alimentari e di ostacolare nello stesso tempo i tentativi di penetrazione dalle province delle genti mobilitate dai baroni. Dal punto di vista politico, le correnti favorevoli alla rottura con la monarchia ed all’indipendenza presero il sopravvento tra i capi popolari e nella popolazione. Il viceré fu, quindi, costretto a fare nuovamente ricorso al cardinale, con una serie di ambasciate segrete, per la sospensione della guerra e la ripresa delle trattative. La risposta di Filomarino fu che il popolo non intendeva più servirsi della sua mediazione e gli aveva proibito ulteriori trattative. «Riferita al Duca questa risposta [...] et escluso dalla speranza di poter di nuovo col suo mezzo riconciliarsi il Popolo et fargli deporre le Armi fatte a sé formidabili, fece fare nuova istanza a sua Eminenza che, già che il Popolo ricusava di venire ad accomodamento ed egli non poteva a ciò interporsi, interdicesse la Città da quella parte dove erano li sollevati, et anco li scomunicasse» (Filomarino). Con la sua richiesta il viceré voleva costringerlo a uscire dall’ambiguità, convinto che non avrebbe potuto manifestare apertamente posizioni filopopolari. Il rifiuto del cardinale di lanciare l’interdetto e di scomunicare gli insorti fu motivato con una affermazione che non lascia dubbi sul fatto che egli ritenesse giustificate le richieste e le aspirazioni che erano emerse dalla sollevazione popolare: «le Armi spirituali sono ausiliari in sussidio e difesa della giustizia, non altrimenti a quella contrarie». Un atto di solenne legittimazione dell’impresa di distruzione e sterminio della città non sarebbe stato – continuava il Filomarino – «di profitto agli interessi di Sua Maestà», né poteva egli risarcire gli errori del viceré. La risposta, che il duca d’Arcos

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non si aspettava, diede all’arcivescovo anche la possibilità di rendere chiaro alla città che egli non aveva avuto parte «ne’ mancamenti del Duca e nella risolutione di cannonare la città». Soprattutto servì ad eliminare nel popolo il sospetto che egli fosse «parziale e adherente del Re» per la sua appartenenza alla nobiltà e per gli interessi della sua casata e dei suoi parenti. Nella sua relazione Filomarino accenna alla violenza dello sdegno e dell’ira che la sua risposta «eccitò et accese nel duca», limitandosi a dire che furono maggiori «di quello possa ciascuno immaginare». I dettagli li fornisce un cronista che come segretario del cardinale Trivulzio seguì gli avvenimenti dall’interno del Castelnuovo e del palazzo reale: il viceré diede addirittura l’ordine di bombardare la casa del cardinale, che si trovava a San Giovanni Maggiore. Dopo aver tentato invano di farlo recedere dalla sua decisione, il console genovese Cornelio Spinola convinse gli artiglieri, con un largo compenso, a puntare il cannone in modo da non investire in pieno l’obiettivo15. La rottura col viceré diede al cardinale la possibilità di riprendere il dialogo politico con il popolo. In quei giorni, mentre si svolgevano i combattimenti nelle strade della città e continuava il bombardamento dai castelli, i popolari pubblicarono un appello in cui, dopo la descrizione delle cause e dei momenti principali della rivoluzione fino all’assalto della città, si invocava l’aiuto e la protezione degli Stati e dei popoli cristiani. Il Manifesto del 17 ottobre riprendeva il titolo del documento che Genoino aveva scritto e cercato di rendere pubblico nel 1620, ma, insieme alla diversità degli avvenimenti e delle situazioni, c’era nel contenuto dei due testi una differenza radicale: mentre il primo era indirizzato al legittimo sovrano, ed esclusivamente basato sulla fiducia nel suo intervento di giustizia e di equilibrio politico, il secondo, con la sua richiesta di aiuto al mondo esterno, era la prima espressione politica collettiva, nella storia del Viceregno, della decisione e volontà di rottura con la monarchia di Spagna. Da quel momento, come lo stesso cardinale mise in rilievo nella sua relazione, si pose pubblicamente ai popolari il problema di dare allo Stato un nuovo ordinamento. Contemporaneamente alla risoluzione di «esimersi totalmente dall’ubidienza reale et di voler vivere liberi», l’idea della Repubblica cominciò ad acquistare rilievo e perfino ad   T. De Santis, Istoria del tumulto di Napoli, Napoli 1770, pp. 221-222.

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essere tradotta in concrete iniziative, con la pubblicazione di ordini e editti sotto questo titolo. Ma, nella nuova situazione, anche altre correnti ed orientamenti non repubblicani continuavano a mantenere peso e influenza nel movimento popolare16. Fu il momento in cui il Filomarino intervenne nuovamente non più come mediatore tra popolo e governo, ma per sostenere, tra le correnti popolari, la linea politica ostile alla soluzione repubblicana. Due furono gli argomenti fondamentali che egli adoperò in quella circostanza. Uno, il più generale, era la convinzione che un popolo avvezzo a vivere sotto un principe difficilmente può mantenere la libertà con un ordinamento repubblicano e «corre pericolo di restar preso sotto un giogo il più delle volte più grave di quello che poco inanzi s’havea d’insù il collo levato». L’altro, più specifico e particolare, era «l’opinione di un grande statista», secondo la quale nessun accidente, per quanto grave e violento, avrebbe potuto rendere libere due città come Milano e Napoli, «per essere le [loro] membra tutte corrotte». Sia il primo, sia il secondo argomento appartenevano ai Discorsi di Machiavelli, rispettivamente, ai capitoli 55 e 17 del libro primo17. I riformatori non repubblicani non erano solo i continuatori della linea di Genoino, favorevoli al mantenimento della fedeltà alla corona spagnola. Altre ipotesi di distacco, oltre quella della creazione di una Repubblica, si erano affacciate, tra cui l’aggregazione allo Stato della Chiesa e la chiamata di un principe italiano (Tommaso di Carignano) o francese. È impossibile dire a quale di queste correnti appartenevano quei capi popolari («i migliori e i più intendenti», secondo Filomarino) che chiesero al cardinale il testo del Machiavelli e lo diffusero largamente e con un certo successo, se è vero, come si 16  G. Donzelli, Partenope liberata, cit., p. 205: «Tra tanto lo specioso e dolce suono della voce Republica haveva penetrato gli orecchi, ma molto più vivamente i cuori dei veri amatori della Libertà [...] Contrariavano apertamente a questo nobile concetto di Libertà molti mal’affetti al Popolo; velando però la invidiosa loro intenzione con discorsi fondati sopra una artificiosa Politica, la quale quei tali imprudentemente procuravano di stiracchiare a beneficio del Popolo, ingegnandosi di persuaderlo ad appigliarsi ad altro pensiero, già che, per detto loro, Napoli non poteva farsi, in niun modo, Repubblica». 17  In generale, sull’atteggiamento di Machiavelli verso il Regno di Napoli, oltre le osservazioni di C. Dionisotti, Machiavellerie, Torino 1980, cfr. il saggio di C. De Frede, Machiavelli e il Regno di Napoli, in Id., La crisi del Regno di Napoli nella riflessione politica di Machiavelli e Guicciardini, Napoli 2006.

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legge ancora nella relazione, che esso fece «impressione così alta che dall’hora in poi [i popolari] incominciarono a intiepidirsi nel fervore della Repubblica e pensare ad altro per rimediare a’ fatti loro». I capi a cui accenna il cardinale erano certamente tra i protagonisti del movimento popolare, tra coloro che cercavano di dare lo sbocco più sicuro e conveniente alle esigenze di riforma dello Stato emerse nel turbine della sollevazione, e non tra i suoi avversari. Anche Campanella, per il quale l’idea dell’indipendenza dell’Italia dal dominio spagnolo fu il punto d’arrivo di una lunga e tormentata esperienza non solo culturale18, aveva manifestato alla vigilia della rivoluzione, in varie occasioni, forti dubbi sulla possibilità del Regno di Napoli di liberarsi in modo autonomo dalla soggezione alla monarchia. Il suo giudizio era più particolare e, ovviamente, più attuale rispetto a quello del Machiavelli, ma non diverso nella sostanza. Il continuo aumento delle imposte e le frequentissime leve, forzate o volontarie, di soldati napoletani mandati a morire lontano dalla patria per acquistare nuovi domini, avevano talmente diminuito le forze delle popolazioni soggette «da renderle incapaci di alzare la testa contro i loro oppressori»19. L’impoverimento demografico (alle cui cause avrebbe potuto aggiungere l’imponente emorragia provocata dalla pirateria, che già nel Cinquecento costava la perdita di 400.000 abitanti in un solo ventennio)20 era stato solo un punto del discorso campanelliano. Sulla base della propria e diretta esperienza, e forse anche con un implicito riferimento al tentativo di Genoino ed alla sua condanna, il filosofo calabrese aveva sostenuto che la repressione culturale e politica aveva aggravato la situazione, non lasciando spazio sufficiente alla formazione di una cultura politica 18  La «summa» delle sue considerazioni a questo proposito è La Monarchia delle Nationi, pubblicata per la prima volta in L. Amabile, Fra Tommaso Campanella ne’ castelli di Napoli, in Roma ed in Parigi, vol. II, pp. 299-347, e ora, con diverso titolo, in Campanella, Monarchie d’Espagne et Monarchie de France, cit., pp. 372605. Per una analisi aggiornata e suggestiva del rapporto Campanella-Machiavelli, con interessanti accenni ai problemi di interpretazione della Monarchia di Spagna rinvio a L. Addante, Campanella e Machiavelli: indagine su un caso di dissimulazione, in «Studi Storici», 2004, 3, pp. 727-750. 19  T. Campanella, Documenta ad Gallorum Nationem, in Opuscoli inediti, a cura di L. Firpo, Firenze 1951. 20  M.P. Iovino, L’incubo turco, in AA.VV., Napoli e Filippo II. La nascita della società moderna nel secondo Cinquecento, Napoli 1998, p. 64.

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adeguata alle esigenze del paese. Proposte di riforme e di parziali miglioramenti erano considerate alla stessa stregua della ribellione: «Ogni colpa è tirata ad crimen lesae majestatis [...] Se qualcuno mormora, rischia la testa, come reo di lesa maestà [...] Ed anche quelli che hanno scritto libri meravigliosi sulla monarchia di Spagna sono stati tormentati, e non una sola volta condannati alla pena capitale, tanto da essere costretti a cercare rifugio in Francia». Campanella aveva frequentato a Roma ambienti a cui Filomarino non era stato estraneo e le posizioni da lui assunte dopo la liberazione dal carcere napoletano ebbero certamente qualche risonanza nel Regno: il viceré conte di Monterey attribuiva a lui la diffusione a Napoli dell’odio per la Spagna. Il suo giudizio era, comunque, un po’ troppo drastico e pessimistico. La censura e la repressione, che ebbero senza dubbio un grande peso negativo sullo sviluppo culturale e civile del Regno, non avevano impedito la formazione, in moltissimi centri delle province, di un gran numero di «difensori della patria» e dei diritti delle comunità che sarebbero poi diventati capi e dirigenti delle sollevazioni popolari. Il loro collegamento con il movimento riformatore della capitale fu uno dei fenomeni nuovi e più interessanti della rivoluzione. La sproporzione di forze tra l’impero, sia pure in decadenza, ed una provincia povera e stremata fu, tuttavia, un problema costante nelle discussioni e nella ricerca politica che si svolse durante la rivoluzione del 1647 e soprattutto quando la guerra tra l’uno e l’altra divenne inevitabile e senza quartiere. Postilla Nella recensione che ho ricordato all’inizio, Giuliano Procacci mi ha rivolto, «a titolo semplificatorio suggestivo e non scientifico», una domanda: è legittimo avanzare l’ipotesi che la sconfitta della rivoluzione del 1647 abbia pesato nella storia dell’Italia meridionale come la sconfitta dei contadini tedeschi pesò su quella della Germania? Con molto ritardo, e prendendo la domanda un po’ alla larga, ho pensato di stare al gioco. Forse sotto l’influenza della globalizzazione nella quale siamo immersi con molti stimoli e qualche preoccupazione, le mie fantasie si sono indirizzate verso il quadro internazionale piuttosto che verso la situazione italiana o il confronto tra due esperienze nazionali. Approfittando della libertà «controfattuale» che mi sono

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concessa, ho cominciato a immaginare che cosa sarebbe accaduto se, invece di essere sconfitta, la rivoluzione napoletana avesse vinto, conquistando l’indipendenza dell’Italia meridionale dalla monarchia di Spagna ed inserendo nel quadro dell’Europa tormentata da una guerra trentennale alle sue ultime battute, la giovane bellezza di una nuova e libera Repubblica. Si è presentata nella mia mente l’idea di una reazione a catena all’interno dell’Impero spagnolo e nei domini che ne facevano parte, con il disfacimento rapido e catastrofico della compagine dinastico-politica che aveva governato il mondo nel secolo precedente e con le conseguenti ripercussioni, in varie forme, in tutta l’Europa centro-occidentale, nelle colonie del Nuovo Mondo e nelle aree adiacenti all’una e alle altre. A questo punto, l’eccessivo affollamento di immagini, di problemi e di dubbi ha creato nella mia mente un ingorgo inestricabile. Ho perduto poi definitivamente il filo di fronte al problema dell’impatto, negativo o positivo, che una catastrofe del genere, invece di un lento processo di trasformazione, avrebbe potuto avere in quel momento sullo sviluppo dell’Europa moderna. Una risposta ben ragionata, sia pure restando sempre sul piano «non scientifico», avrebbe forse potuto mettermi in condizione di affrontare la questione posta da Procacci. Ma a quel punto avevo già fatto naufragio. Ho, quindi, abbandonato l’impresa e sono tornato alla realtà (storica). In effetti, una delle ragioni dell’intransigenza assoluta della corte di Madrid nei confronti dei tentativi di riforme che a molti benpensanti, anche di parte governativa, sembravano assolutamente necessarie per quella desolata provincia, fu proprio il timore della reazione a catena. Campanella prevedeva un processo del genere, promosso e sostenuto dalla Francia: «Il vero modo di gettare a terra la monarchia di Spagna – scrisse – è alienare i principi d’Italia dalla loro devozione»; ed aggiunse che Napoli, «capo del valore di tal monarchia», era il punto su cui si doveva far leva21. Il tema si potrebbe riprendere, avendo cura di tenere un po’ a freno l’immaginazione. 21  Aforismi politici per le presenti necessità di Francia, in Tommaso Campanella, a cura di G. Ernst, Roma 1999, pp. 999-1007.

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Visitando una mostra d’arte Tra la fine del XVI e la metà del XVII secolo Napoli reagì alla crisi della sua economia, dei suoi ordinamenti politici e dei suoi rapporti con la monarchia di Spagna non soltanto con esplosioni di furore o isolate proteste, ma anche con idee, programmi di riforma e con una singolare convergenza tra scienza, arte e impegno civile. Una visita alla mostra della pittura napoletana del Seicento, organizzata a Londra dalla Royal Academy of Arts (1982), ha dato ulteriore materia al mio interesse per le correnti culturali e artistiche che si svilupparono nella città. In quei quadri, per la prima volta raccolti insieme in una esposizione, si potevano vedere, nella stessa intensità espressiva e qualità artistica, i segni di una tensione ideale corrispondente ad un nuovo clima di ricerca intellettuale e artistica del Regno. La ricchezza dell’arte napoletana di quel periodo è stata spesso considerata frutto di influenze esterne (Caravaggio, Ribera) piuttosto che di autonoma capacità creativa, oppure è stata vista come un fatto isolato in un ambiente che per il resto – cioè per l’iniziativa politica, per la capacità di analisi della realtà, per lo spirito pubblico ecc. – era statico e depresso. Ma la venuta del Caravaggio, la presenza del Ribera e dell’architetto Cosimo Fanzago, la conoscenza di opere del Rubens non avrebbero potuto avere effetti se l’ambiente culturale nel suo insieme, e non solo la ristretta cerchia degli artisti, non fosse stato in qualche modo disposto ad accogliere e rielaborare autonomamente, in consonanza con idee e sentimenti propri, le esperienze altrui. All’apertura verso il mondo esterno contribuirono molti fattori che erano legati anche al fatto che quella provincia era inserita in un organismo «composito» come la monarchia di Spagna. Per restare nell’ambito delle arti figurative, un centro permanente di informazione la

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cui importanza era universalmente riconosciuta fu la galleria d’arte creata dal ricco mercante e armatore Gaspar Romer, che da Anversa si era trasferito a Napoli. Essa comprendeva, tra l’altro, una raccolta di pittori fiamminghi, forse la più ricca che esistesse in Italia: «i più bei tesori che potreste immaginarvi di pitture», scrisse il contemporaneo Giulio Cesare Capaccio1. Le immagini e le notizie della vita sociale e della ricchezza delle Fiandre, offerte dalle iniziative culturali e artistiche dell’imprenditore finanziario, erano certamente riservate a pochi privilegiati ed esperti, ma non furono la sola fonte di informazione su una realtà che nel suo insieme avrebbe avuto una certa incidenza sulla coscienza collettiva della popolazione. Molti altri cittadini, a vari livelli di cultura e di responsabilità, avevano conosciuto quella parte del mondo militando negli eserciti spagnoli e sperimentando, come soldati o marinai delle flotte oceaniche, l’espansione coloniale e il grande sviluppo della marineria delle Province Unite. Un carattere particolare dell’attività intellettuale e creativa di quel periodo mi sembra l’impegno civile e politico, o meglio le novità che sotto questo aspetto cominciarono ad emergere alla fine del XVI secolo, protraendosi e arricchendosi nel secolo successivo. A spiegare l’attenzione dedicata allora ai problemi della città contribuisce il fatto che essa era in quel momento, a metà del secolo, la più popolosa città d’Europa. «Se está en manos de un pueblo de 500.000 hombres», scrisse il segretario del duca d’Arcos nel luglio del 16472; «este pueblo de Nápoles, que creo es el mas numeroso que hay en quantas ciudades tiene el mundo». Il numero è probabilmente esagerato, ma non doveva essere lontanissimo dalla realtà. L’eccezionale concentrazione demografica nella capitale, dovuta soprattutto all’immigrazione dalle province, era la manifestazione di uno squilibrio della struttura sociale del Regno. In altri paesi europei, ed anche in altre parti d’Italia, le difficoltà seguite alla fase di sviluppo del XVI secolo provocarono una tendenza opposta: manifatture e capitali furono trasferiti dalle città, dove l’attività economica era ostacolata dagli ordinamenti corporativi e dal controllo pubblico, nelle campagne e nei villaggi. 1   G.C. Capaccio, Il Forastiero, Gio. Domenico Roncagliolo, Napoli 1634, pp. 383-385. 2  Memorial histórico español: colleción de documentos, opúsculos y antigüedades. Cartas de algunos PP. de la Compañía de Jesús, t. VII, Madrid 1865, pp. 25 e 28.

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Gli studi sulla «protoindustrializzazione» sembrano dimostrare che, dove questa tendenza riuscì a sfociare in una vera e propria dislocazione dell’attività manifatturiera, essa divenne un importante fattore di difesa dalla crisi economica, di continuità produttiva ed a volte anche la premessa di futuri e importanti sviluppi. L’importanza di una struttura sociale elastica, capace di consentire una certa mobilità dei fattori produttivi, ed il relativo equilibrio tra le diverse forze sociali sarebbero stati, quindi, decisivi per la continuità o la ripresa dello sviluppo economico in quel periodo storico. Indirettamente, questa ipotesi suggerisce anche una spiegazione dello squilibrio nel rapporto demografico tra capitale e province nel Regno di Napoli. Qui, infatti, la rigidità del dominio baronale non lasciava margini all’iniziativa nelle campagne. L’accrescimento naturale della popolazione continuò così ad alimentare la corrente di emigrazione verso la capitale ed a creare quindi nuovi problemi per l’amministrazione pubblica e per il controllo sociale. Ma la straordinaria espansione demografica di Napoli non fu causata soltanto dall’emigrazione di contadini o di cittadini impoveriti delle comunità provinciali. La funzione della città come centro mercantile e finanziario si era grandemente accresciuta dopo l’inserimento del Regno nell’impero spagnolo. Uomini d’affari genovesi, toscani, lombardi, fiamminghi, portoghesi, spagnoli furono attratti a Napoli soprattutto dalla possibilità di ottenere rendite fiscali, appalti, concessioni commerciali e feudali in cambio dei prestiti fatti alla corona. Lo sviluppo dell’apparato amministrativo e politico, con una cospicua presenza di Spagnoli soprattutto negli alti livelli, diede un altro apporto all’ingrandimento della città. La corrente di immigrazione dalle province non era formata esclusivamente e, forse, neppure prevalentemente da una turba di miserabili, di contadini poveri e di vagabondi affamati. «Sono li facoltosi che vengono ad abitare in Napoli», si legge in un documento della seconda metà del Cinquecento3; e che ciò fosse almeno in parte vero è dimostrato dal fatto che i sette borghi che si svilupparono oltre la cinta delle mura non formarono una periferia degradata ma nuovi quartieri simili a quelli preesistenti, sedi di abitazioni civili e di una intensa attività commerciale e artigianale. La città aveva, e continuò a mantenere   Cit. in C. De Seta, Le città nella storia d’Italia. Napoli, Roma-Bari 1981, p. 131.

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allora, una struttura produttiva relativamente ampia, il cui nucleo principale era la manifattura della seta e che per il resto era basata sull’intensa attività del porto e dell’arsenale e su una diffusa rete di artigianato e di imprese commerciali. L’insediamento di una parte della nobiltà contribuì all’incremento di alcuni settori dell’attività produttiva, ma diede anche origine o diffusione ad uno dei fenomeni più negativi della storia cittadina: la presenza di gruppi di banditi al servizio di alcuni baroni introdusse nella capitale tratti che erano propri di alcune aree feudali. Malgrado il superaffollamento ed i problemi che ne derivarono, Napoli riuscì a conservare nel primo Seicento il tradizionale assetto della sua vita urbana. La popolazione continuò ad essere organizzata nelle istituzioni pubbliche (corporazioni, ottine o sezioni della città, con le loro sedi ed i loro capitani del popolo, Seggi dell’aristocrazia, istituti di solidarietà, di assistenza, di controllo ecc.); la sua attività politica, l’amministrazione, la vita religiosa, le importanti strutture culturali si ampliarono costantemente. Naturalmente, anche se non si trasformò in un agglomerato urbano privo di ordine e disarticolato e se mostrò soltanto i primi segni di fenomeni che si sarebbero pienamente sviluppati qualche tempo dopo, Napoli avvertì, fin dall’ultimo ventennio del Cinquecento, i segni della crisi. Essa rispose alle nuove difficoltà anche con un notevole arricchimento della sua vita intellettuale ed una intensificazione della lotta politica. Si può osservare una sorta di parallelismo tra la storia napoletana e quella spagnola del periodo tra la fine del XVI secolo e la metà del XVII secolo: nell’uno e nell’altro caso, alla minaccia ed alla realtà del declino sociale e politico corrispose un fermento di idee, di proposte e di tentativi, oltre che una nuova fioritura letteraria ed artistica ed un nuovo impegno sul piano dell’indagine scientifica. In questo senso anche Napoli ebbe il suo piccolo siglo de oro. Il gruppo dei naturalisti che faceva capo al Museo naturale di Ferrante Imperato, a Giambattista della Porta, a Fabio Colonna ed a Nicola Antonio Stigliola fu il centro del collegamento con l’Accademia dei Lincei e dell’apertura verso la nuova scienza italiana ed europea4. 4  B. De Giovanni, Magia e scienza nella Napoli seicentesca, in AA.VV., Civiltà del Seicento a Napoli, catalogo della mostra, Napoli 1984.

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Nel convento di San Domenico Giordano Bruno trascorse tutto il periodo della sua formazione e Tommaso Campa­nella soggiornò a più riprese nel decennio precedente l’arresto. Furono i monaci di quel convento a commissionare al Caravaggio due dei quadri che egli dipinse nel suo primo soggiorno napoletano, la Flagellazione di Cristo e la Madonna del Rosario. Questi due centri di cultura e di religiosità furono anche i luoghi di promozione dei più importanti movimenti di riforma delle istituzioni politiche. All’ambiente dei naturalisti era legato lo «spetiale di medicina» Gio. Leonardo Pisano, che fu considerato il «principale autore» della sommossa del 1585 in cui per la prima volta si affacciarono le idee popolari di riforma dell’amministrazione della capitale. Il Pisano riuscì a salvarsi abbandonando per sempre la sua città. Nello stesso periodo il convento di San Domenico fu a sua volta protagonista, insieme a quello di San Pietro Martire, di un episodio di resistenza armata al tentativo di riforma e di dispersione delle due comunità promosso dalla Curia romana. Il piccolo siglo de oro napoletano non ebbe facili condizioni di vita. Ma gli stessi rappresentanti del sovrano a Napoli non furono del tutto insensibili ed estranei allo spirito riformatore che allora cominciò a circolare in una parte della società e della cultura napoletana. Una prima prova di disponibilità fu data da Enrique de Guzmán, conte di Olivares (padre del futuro primo ministro), viceré a Napoli dal 1595 al 1599, dopo essere stato ambasciatore a Roma durante il pontificato di Sisto V e governatore in Sicilia. Il suo predecessore, il conte di Miranda, gli aveva fatto un quadro negativo della situazione napoletana, mettendo in rilievo la mancanza di autorità dello Stato e lo strapotere dei baroni e dei nobili. Olivares cercò di affrontare questi problemi, ma la reazione della nobiltà provocò la sua rimozione dalla carica ed il suo richiamo a Madrid. Giulio Cesare Capaccio notò più tardi: «se non moriva Filippo II, si giudica che l’Olivares non sarebbe stato così presto ammosso dal governo, perché mi pare che avesse accertato il governo di un vero viceré». Questa osservazione, fatta quando sul trono di Spagna sedeva Filippo IV, esprime probabilmente non tanto l’intenzione di esaltare la figura di Filippo II quanto piuttosto l’idea di un declino, di una perdita di forza e di prestigio della monarchia spagnola. Ma, nei primi due decenni del secolo, la corrente principale del movimento riformatore napoletano, alla quale lo stesso Capaccio apparteneva e che esprimeva idee e orientamenti diffusi nella borghesia cittadina, cercava ancora di

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collegarsi col potere regio, in antitesi con il tradizionale autonomismo della nobiltà. Ad uno dei successori dell’Olivares, Pedro Fernández de Castro, conte di Lemos, fu invece consentito di realizzare una parziale ed importante opera di riforma5. Un anno prima della venuta di Jusepe de Ribera, destinato a divenire un caposcuola dei caravaggeschi napoletani, il conte di Lemos emanò le disposizioni per la riorganizzazione dell’Università, prendendo come modello lo Statuto di Salamanca, e per la costruzione di una nuova sede (fino allora lo Studium era stato nel convento di San Domenico). L’iniziativa del conte di Lemos rientrava in un complesso disegno politico che mirava, nello stesso tempo, alla promozione ed al controllo della vita culturale, al risanamento dell’amministrazione ma anche all’accentuazione dell’egemonia spagnola sul Regno. Ma l’intensificazione degli scambi con la Spagna e la presenza a Napoli in quel periodo di esponenti della cultura spagnola non furono soltanto il frutto di quel disegno politico. A parte il fascino tradizionalmente esercitato dall’Italia rinascimentale e post-rinascimentale, in alcuni casi anche la vivacità del dibattito politico che si svolgeva a Napoli e la stessa asprezza dei contrasti, in un momento di ripensamento dei problemi generali della monarchia, furono elementi di attrazione. Forse l’esempio di Francisco Quevedo è significativo in questo senso, dal momento che egli partecipò, come consigliere del duca di Osuna, all’ultimo drammatico tentativo fatto da un viceré e dai riformatori napoletani di svolgere un’azione convergente e comune. I due maggiori intellettuali del Regno, il filosofo Tommaso Campanella e l’economista Antonio Serra erano allora in carcere; da qualche anno era morto, anch’egli imprigionato, uno dei primi e più importanti ispiratori del movimento di riforma, lo storico Giovanni Antonio Summonte. Il primo volume della sua Historia del Regno di Napoli era stato dato alle fiamme ed egli era stato costretto a pubblicarne un’edizione emendata secondo le indicazioni della censura. Tuttavia, le loro idee e quelle dell’ambiente dei «naturalisti» circolarono nella capitale e la volontà di riforma non si arenò di fronte alla spinta censoria e repressiva. Il movimento per la riforma continuò a 5  G. Galasso, Le riforme del conte di Lemos e le finanze napoletane nella prima metà del Seicento, in Mezzogiorno medievale e moderno, Torino 1965, pp. 199-229.

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svolgersi in seno all’organizzazione politico-amministrativa del popolo (che aveva la sua sede centrale nel convento di Sant’Agostino ed era articolata in 29 sezioni). Esso trovò continuatori, oltre che in personalità come Francesco Imperato, Camillo Tutini e Giulio Genoino, anche tra i fondatori ed i membri dell’Accademia degli Oziosi, una istituzione culturale sorta durante il viceregno del conte di Lemos e con il suo aiuto6. L’obiettivo principale del movimento era la parità di rappresentanza della nobiltà e del popolo nel governo della città. Programma apparentemente limitato che sembrava riecheggiare antiche contese cittadine di stampo medievale; ma in realtà, i termini della situazione politica e sociale erano così profondamente mutati rispetto all’età comunale che il raggiungimento dell’obiettivo avrebbe avuto ripercussioni profonde sull’ordinamento politico di tutto il Regno e sull’insieme dei suoi rapporti con la monarchia. Del resto, erano motivi non diversi da quelli che agitavano allora la vita politica dei grandi Stati e della stessa Spagna e che avevano creato, per esempio, un lungo e violento conflitto tra nobiltà e Terzo stato in Francia nell’assemblea degli Stati Generali del 1614. Il duca di Osuna, viceré dal 1616 al 1620, accolse in parte e tentò di realizzare le proposte del movimento popolare, guidato allora da Giulio Genoino. Il fallimento del tentativo, che si concluse con la condanna al carcere dei due protagonisti, e il nuovo clima che si creò nella monarchia con la ripresa della guerra nelle Fiandre e i successivi impegni militari ebbero gravissime ripercussioni nella società, ma non eliminarono alcuni caratteri di fondo della nuova cultura. L’opera che forse meglio esprime l’estremo disagio della situazione e la continuità dell’impegno di riforma è La dissimulazione onesta di Torquato Accetto, pubblicata a Napoli nel 1641. A distanza di molti anni dalla ripubblicazione del Croce (1928), quel testo è ora collocato in un contesto di ricerca e di riflessione in cui si ritrovano i nomi di alcuni tra i maggiori pensatori politici e filosofi del suo tempo, da Bacone a Balthasar Gracián, a Campanella. Molti ministri e osservatori napoletani previdero quel 6  Sugli Oziosi cfr. la valida ricostruzione di V.I. Comparato, Società civile e società letteraria nel primo Seicento: l’Accademia degli Oziosi, in «Quaderni storici», 1973, 2, pp. 359-388. A parte il contributo di idee dato da accademici Oziosi come De Pietri e Torquato Accetto, altri come Antonio Basso, avrebbero svolto un ruolo importante nella rivoluzione del 1647-48.

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che stava per avvenire nel Regno e non è improbabile che, tra quei molti, ci fosse anche l’autore di quel prezioso trattatello. Con l’esperienza della serie di insuccessi a cui erano andati incontro i tentativi precedenti di riforma e delle violenze e condanne che avevano subito i loro autori, Accetto sembra suggerire un comportamento politico più prudente e insieme più efficace: il dominio della ragione sull’impulso, l’attenta ricerca del momento opportuno, la conoscenza del passato, il calcolo dei rapporti di forza. Più o meno ispirato ai princìpi di Accetto, l’impegno politico della cultura e dell’arte ebbe la sua ripresa alla vigilia e all’inizio della crisi rivoluzionaria. Giulio Genoino era da poco tempo tornato da dodici anni di prigionia quando, nel 1644, in un discorso pronunciato davati al Collegio dei dottori, riprese esplicitamente i temi della riforma del governo della capitale. Tre anni dopo, nel mese di luglio, il pittore Micco Spadaro descrisse in due suoi quadri i protagonisti e i principali episodi della rivoluzione. L’idea di prendere a soggetto quegli avvenimenti rappresenta di per se stessa un fatto nuovo nella storia della pittura. Vi è, comunque, da considerare qualcosa di più specifico e interessante, specialmente se si mette a confronto l’opera di Spadaro con quella analoga e quasi contemporanea del bambocciante Cerquozzi. I quadri di Spadaro corrispondono ai contenuti, ai gesti ed ai simboli della rivoluzione, contribuiscono a fissarne gli orientamenti ideali e politici, dimostrano una consapevolezza dei problemi che erano sul tappeto. Il pittore attinse al comune patrimonio di idee e di sentimenti popolari che si formò e si diffuse in quel periodo; e non è improbabile che siano stati gli stessi capi popolari ad ispirarlo e dirigerlo, secondo un disegno di informazione e di diffusione delle idee che ebbe anche altre manifestazioni. Anche la Partenope liberata di Giuseppe Donzelli, infatti, fu scritta e pubblicata per diretta sollecitazione dei capi popolari; ed entrambe le opere documentano e sottolineano il contenuto ideale del movimento7.

7  Il foglio di presentazione della mostra londinese dà una indicazione scorretta del significato della parte centrale del quadro di Micco Spadaro: le teste poste sul piedistallo non sono «the severed heads of the leaders of the revolt» ma di persone giustiziate dai ribelli, tra le quali fu anche il fratello del duca di Maddaloni, don Giuseppe Carafa. Il cui corpo appeso ad una pertica è raffigurato accanto al piedistallo, al centro del quadro.

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La lunga crisi di uno «stato» feudale La zona oggetto di questa indagine si estende a nord-est del Vallo di Diano, al confine tra la Basilicata e la provincia di Salerno. Fino ai primi anni del secolo XIX, due dei quattro Comuni che ne fanno parte, Atena Lucana e Brienza, appartenevano al Principato Citeriore, mentre Pietrafesa e Sasso erano compresi nella provincia di Basilicata. Ma sia sotto l’aspetto amministrativo locale, sia per le condizioni generali della vita economica e sociale, la zona aveva caratteristiche unitarie: i quattro Comuni costituivano, infatti, fin dai primi anni del secolo XVI, il feudo di una delle più importanti famiglie nobili del Regno di Napoli, il ramo dei Caracciolo, marchesi di Brienza e principi di Atena. Relativamente lontana dai grandi mercati (ma non tanto da non avere rapporti con quello di Salerno, specialmente per il commercio del bestiame), la sua economia non subì trasformazioni fino alle soglie del ’700, né i mutamenti che vi si verificarono in seguito furono rapidi e vistosi. Ma anche in quella zona ci fu un lento processo di trasformazione delle forme feudali di economia e di amministrazione pubblica e delle connesse strutture comunitarie. Il problema che mi sono proposto di affrontare impone di andare oltre i momenti di emergenza del Seicento e di seguire l’evoluzione del feudo anche nel secolo successivo. Nei contrasti tra baroni e vassalli che ricorrono frequenti nella storia di questo feudo, è difficile trovare, dalla metà del Seicento alla metà del secolo successivo, i segni del maturarsi di una coscienza che superi l’ambito dei problemi locali e li inquadri in una visione più generale; essi sono piuttosto le reazioni immediate, dall’una e dall’altra

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parte, ad un disagio ed a difficoltà a volte drammatiche da cui non scaturisce un’azione continua ed organica, ma movimenti occasionali che hanno quasi sempre carattere limitato e momentaneo. Una linea di sviluppo, tuttavia, è possibile cogliere nelle reazioni dei vassalli e nel contenuto delle rivendicazioni che ad esse erano legate, a partire dai profondi sommovimenti della metà del Seicento; una linea che dà, per alcuni aspetti, la testimonianza dei mutamenti avvenuti nel corso di un secolo nel regime feudale. La scossa rivoluzionaria del 1647-48 raggiunse le province più lontane. Molti Comuni rurali furono teatro di moti popolari, che si esaurirono spontaneamente subito dopo la caduta della Repubblica napoletana, o furono stroncati con sanguinose repressioni dai feudatari tornati nei loro feudi e dalle truppe spagnole. Sorti su basi locali, come episodi della tradizionale lotta tra le Università ed i baroni, questi movimenti raggiunsero però, quasi dovunque, una ampiezza ed una unità tali da riuscire a travolgere la resistenza baronale e, sia pure momentaneamente, a sottrarre intere province all’autorità del governo. Così avvenne in provincia di Salerno, dove fin dal mese di luglio si diffuse il movimento insurrezionale1 e dove Ippolito da Pastena, che ne prese la guida, riuscì presto ad organizzarlo su vasta scala. Anche in Basilicata, molti comuni insorsero subito dopo l’annun­ cio degli avvenimenti napoletani. A Miglionico la popolazione, sollevatasi in armi poco dopo la metà di luglio, assediò nella chiesa il duca di Salandra, respingendo l’ordine di pagare le tasse. «In tutte le città convicine – scrisse da Matera il 26 luglio il preside della provincia don Luigi Gamboa – vi è stato rumore grande et in particolare a Montescaglioso»2. Inviato nella provincia a sostituire un inetto predecessore, il Gamboa, membro del supremo ordine di governo (Consiglio Collaterale), assunse i poteri di giustizia ed intervenne con energia per stroncare le prime rivolte. Repressa violentemente la rivolta di Montescaglioso ed emanato a Miglionico, il 24 luglio, un bando con l’intimazione di deporre le armi3, egli riteneva, come 1  «Questa provincia [...] sta talmente alborotata che sin hora non sono bastati gli ordini che V.E. ha mandati né altre diligenze che si son fatte per quietarla». Archivio di Stato di Napoli (d’ora in poi ASN), Carte diverse del governo dei viceré, fascio 127, Lettera del preside di Salerno al duca d’Arcos, 22 luglio 1647. 2  ASN, Affari diversi del Collaterale, fascio V. 3  «Per lo presente bando emanando per li luochi soliti et consueti di questa

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sembra dalla citata lettera del 26 luglio, di avere atterrito le popolazioni con la «giustizia rigorosa» che aveva fatto: «Se non fosse stato per me tre o quattro terre della Provincia si sarebbero distrutte et io per gratia di Dio parte per timore e parte con amore le ho quietate». Nell’opposto versante, intanto, verso il confine con la Calabria, si verificavano episodi ancora più gravi: circa 200 popolani di Lagonegro si sollevarono «con tambor y bandera», dando l’assalto ad alcune case di nobili. Respinti, si dispersero nelle campagne circostanti; ma il 28 luglio, uniti (secondo una relazione inviata in quei giorni al viceré) con «otros doscientos de Napoles armados» venuti per sostenerli, diedero l’assalto alla città. I preti ed alcuni frati cappuccini inviati per fermarli e dissuaderli dall’impresa, furono accolti a colpi di archibugio e dovettero ritirarsi. Dopo una breve resistenza da parte di alcuni cittadini, i popolari entrarono nella città ed elessero subito un capitano del popolo, al quale fu affidata «toda la jurisdicción»4. Poco dopo, altri paesi insorsero, in diverse zone della regione: Grottole, per iniziativa di un notaio, Evangelista Morello; Bernalda, dove i contadini occuparono una «difesa» appartenente al monastero di San Lorenzo di Padula; Carbone, feudo di monaci basiliani, dove fu assaltato il convento ed ucciso un frate; Latronico, il cui feudatario, conte Ravaschieri, fu ucciso insieme al fratello. Anche il barone di Balvano fu ucciso dal popolo insorto5. A Vaglio lucano, un tentativo dell’avvocato fiscale dell’Udienza di Montepeloso di ridurre all’obbedienza la popolazione non ebbe successo «poiché li vassalli stavano armati e non permisero che fusse entrato dentro l’abitato»6. Ai primi di settembre ritornò, liberato dalle terra di Miglionico si ordina a tutti e qualsivoglia persona di qualsivoglia stato grado et conditione se sia, che subito dopo la pubblicatione del presente nostro ordine se debbiano retirare nelle loro case et reponere l’armi, et debbiano eligere quattro deputati quali in nome di tutta detta terra debbiano personalmente conferire avanti di noi ad intendere la provista da noi facienda in che modo se hanno da esigere le Gabelle in detta terra altrimenti non obidendo subito detto nostro ordine li trasgressori di quello saranno da noi in nome di S.E. reputati per ribelli di S.M. ... et se procederà alla confiscatione di tutti loro beni. Matera lì 24 luglio 1647. Gamboa». 4  ASN, Affari diversi del Collaterale, fascio VI, Don Pedro de Penalber al duca d’Arcos, 2 agosto 1647. 5  R. Sarra, Le rivoluzioni degli anni 1647 e 1648 in Basilicata, Trani 1926, pp. 9-10. 6  ASN, Affari diversi del Collaterale, fascio VI, Il barone di Vaglio al duca d’Arcos, 14 settembre 1647. Vedi anche G. Pepe, La rivolta popolare di Vaglio, in Pane e terra nel Sud, Firenze, 1954, pp. 96-101.

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prigioni della Vicaria di Napoli, dove era stato rinchiuso per motivi politici, don Francesco Salazar (che aveva il titolo di conte di Vaglio), che avrebbe poi avuto una parte di primo piano nelle vicende successive della rivoluzione in Basilicata. Il 9 settembre vennero uccisi nel paese tre sacerdoti e due laici: il feudatario attuale della comunità, Giovan Battista Massa, affermò che la sommossa era avvenuta per ispirazione di Francesco Salazar «ingiustamente escarcerato». Nel mese di novembre, le rivolte locali si trasformarono in una generale insurrezione, mentre Matteo Cristiano e Francesco Salazar cominciavano a costituire, con gli uomini che affluivano spontaneamente da diversi paesi, due grossi concentramenti di forze popolari. Il governatore delle armi di Terra d’Otranto e di Bari, don Francesco Boccapianola, il duca di Santo Mango, preside della provincia di Bari, Ippolito di Costanzo, preside della provincia di Lecce, il conte di Celano, che era fuggito da Potenza, don Bartolomeo d’Aro, il marchese d’Oyra ed altri baroni, si riunirono a Canosa e decisero di ritardare la partenza delle truppe che dovevano essere inviate ad Aversa (dove i nobili, per ordine del viceré, si stavano concentrando sotto il comando di Vincenzo Tuttavilla) e di marciare, con 300 fanti ed altrettanti cavalli, verso Gravina, per fermare lo sconfinamento dei ribelli lucani in Puglia7. Da Minervino, il 27 novembre 1647, un gruppo di baroni (tra cui il duca di Gravina, il conte di Celano, il duca di Cutrufiano) scrissero al viceré, illustrando la grave situazione in cui si trovava la Basilicata «por haverse juntado en ella un gran numero de pueblo solevado» e manifestando anch’essi il timore che le forze popolari entrassero in Puglia8. Il Consiglio Collaterale, in una consulta inviata al viceré il 2 dicembre, riconobbe che, benché la Basilicata avesse bisogno «más que ninguna otra provincia» che vi venisse restaurata l’autorità regia, perché era diventata un focolaio da cui l’incendio minacciava di espandersi verso le Calabrie e le Puglie, in quel momento era impossibile nominare ed inviare un nuovo preside; bisognava «suspender por ahora la provisión de preside de Basilicata» e concentrare le 7  Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria (d’ora in poi BSNSP), ms XXI C i, Revolutioni successe in Lecce nell’anno 1647; ASN, Carte diverse del governo dei viceré, fascio 131, Lettera del duca di Maddaloni al duca d’Arcos, 29 novembre 1647. 8  ASN, Carte diverse del governo dei viceré, fascio 131.

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forze delle tre province confinanti (Calabria Citra, Terra d’Otranto e Terra di Bari) in cui si manteneva ancora l’organizzazione civile e militare del governo e della nobiltà, per dare aiuto di uomini e di denaro al duca di Martina, nominato governatore delle armi delle province di Salerno e di Basilicata9. Ma un tentativo del duca di Martina di creare un centro controrivoluzionario al confine tra queste due province, proprio attorno al feudo dei Caracciolo di Brienza, nel territorio di Marsicovetere, fallì completamente. Ippolito da Pastena lo aveva preceduto, inviando in quella zona il fratello Vincenzo, col compito di prendere la direzione del movimento insurrezionale nel Vallo di Diano e di spingersi verso Potenza. «Vincenzo in questa impresa si mostrò non meno valoroso ed audace del fratello. Ribellato Contursi, Colliano, e i paesi lungo il Tanagro, tranne Buccino, entra nel Vallo di Teggiano. Polla, Auletta, Sant’Arsenio, Sala sono in armi»10. Successivamente le forze popolari si diressero verso Marsiconuovo – che, già insorta ai primi di agosto11, accolse festosamente Vincenzo – e qui si divisero in due colonne: la prima si rivolse contro Marsicovenere, dove un gruppo di gente del principe Salvatore Caracciolo tentò per breve tempo la difesa; la seconda si spinse verso Tito e Picerno, mentre tutti gli altri paesi della zona, fino a Potenza ed a Muro lucano, si ribellavano ai loro signori. Muovendo con 100 uomini da Buccino alla volta di Marsicovetere, il 23 dicembre, il duca di Martina sperava di riorganizzare la resistenza dei baroni – ai quali aveva fatto pervenire l’ordine «che si unissero per opporsi ai popolari»12 – e quindi, probabilmente, interrompere il   Ibidem.   G. Carucci, Il Masaniello salernitano nella rivoluzione di Salerno e del Salernitano del 1647-48, Salerno 1908, pp. 77-78. 11  Secondo un manoscritto conservato nella Biblioteca del Seminario di Potenza (Racconto delle sollevazioni di Napoli accadute nell’anno 1647), «un capopopolo di quella gente con tutta la plebe assediarono il palazzo di D. Francesco Pignatelli Signore di quella città, e doppo molti rumori rotta la porta ed entrati dentro presero 14 uomini, che dal Pignatelli furono introdotti per custodia del palazzo, essendosi esso partito la notte per la volta di Ruggiano, e condotti nella Piazza fu a quei tagliata la testa, e poscia con un barile di polvere fecero rovinar tutto il palazzo poi diedero fuoco a diverse case di Gabelloti, et Affittatori de Dazj». 12  F. Capecelatro, Diario contenente la storia delle cose avvenute nel Reame di Napoli negli anni 1647-1650, a cura di A. Granito, Napoli 1850-54, parte III, p. 100. 9

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collegamento tra i ribelli di Basilicata e quelli di Principato Citra. Ma il rapido precipitare della situazione gli impedì di realizzare il suo piano; la rivoluzione, allargandosi e crescendo di violenza, aveva disperso le forze baronali, cosicché il duca, nei pressi di Marsicovetere, di cui già i popolari si erano impadroniti, non trovò «né barone, né soldato alcuno in suo soccorso, come stabilito si era»13. Attaccato dai popolari dovette ritirarsi e, con una avventurosa fuga, raggiungere nuovamente il suo castello di Buccino. Da qui, poco dopo, gli fu ordinato dal consigliere don Luigi Gamboa (che intanto era stato costretto a fuggire da Matera e si era accampato a Ferrandina al comando di truppe spagnole) di raggiungerlo nell’opposto versante della provincia di Basilicata. Proprio in quei giorni, però, le forze di Matteo Cristiano e di Francesco Salazar, cacciate le truppe spagnole da Ferrandina dopo essere entrate in Pisticci e Matera, investivano Gravina ed Altamura, nella provincia di Terra di Bari, al confine tra Puglia e Basilicata, da dove contavano di dirigersi verso Taranto. Qui finalmente il duca di Martina, dopo avere attraversato «lungo spazio di paese nemico quasi solo [...] camminando solo la notte, con stare il giorno ascosto nei boschi»14 poté raggiungere il consigliere Gamboa ed insieme al preside di Lecce decidere di fare piazza d’armi a Francavilla, con i 700 soldati e 300 cavalli che erano riusciti a mettere insieme. Nel gennaio del 1648, tutta la provincia di Basilicata aveva quindi aderito alla Repubblica ed i poteri effettivi erano passati a Matteo Cristiano, che ufficialmente rappresentava, con la carica di governatore delle armi, il governo repubblicano di Napoli15. Il primo febbraio, il preside di Bari comunicò al viceré di avere chiamato in soccorso in Puglia il conte di Conversano (famoso per la sua prepotenza e la sua ferocia e, tra tutti i baroni, quello che più aveva conservato lo spirito dell’anarchia feudale)16 «viendo de quanto daño y perdición puede ser el encaminarse estos rebeldes [di Basilicata] a la buelta de las tierras y ciudades marittimas, por ser las que defienden esta marina». Erano falliti i tentativi di ottenere aiuti   Ivi, p. 102.   Ivi, p. 103. 15  Vedi R. Cianci di Sanseverino, Matteo Cristiano Governatore generale delle armi della Serenissima Repubblica di Napoli (1647-48) e difensore della libertà del Regno fino al 1663, Napoli 1914. 16  Vedi L. Pepe, Nardò e Terra d’Otranto nei moti del 1647 e ’48, Trani 1895. 13 14

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di uomini e di denaro sia dalle Università che si erano mantenute fedeli, sia dagli stessi baroni rimasti nella regione e non restava che contare sulle forze e sulla violenza del conte, che era riuscito a tenere insieme alcune centinaia di uomini al suo servizio, con i quali si era ritirato da Aversa: «Aunque [...] se hayan hecho todas las diligencias necessarias [...] como son llamar el batallon tanto de apié come de acaballo y escribir a las Universidades cartas de sumo amor, para que en estas ocasiones que tanto importan al serbicio de Su Majestad (que Dios guarde) acudisen con gente, haviendose assí mismo hecha la misma diligencia con los Varones, en los unos y en los otros han sido infructuosas. En las Universidades que por haver quitado las gabelas no tenian el modo, y en algunos Varones otras aparentes escusas con que claramente denotan la poca voluntad que tienen de asistir al serbicio de Su Majestad»17. Era questo, senza dubbio, nel quadro generale della situazione del Regno, uno dei momenti più difficili per il governo: si disperdeva l’esercito baronale che si era concentrato ad Aversa (esercito raccogliticcio e formato in buona parte da banditi e da delinquenti, ai quali il viceré aveva assicurato il perdono e che gli stessi baroni, non potendo pagare, autorizzavano a fare saccheggi e ruberie)18; era venuta meno, sia pure entro certi limiti, la stessa autorità del viceré sui baroni, che nella maggior parte non condividevano né la sua politica di accomodamento e di trattative con i ribelli, né la sua opinione che si dovessero concentrare tutte le forze disponibili attorno alla capitale19; e le forze popolari cercavano di organizzarsi su scala sempre   ASN, Carte diverse del governo dei viceré, fascio 133.   Ecco una delle tante «patenti» date dal viceré per la leva di truppe: «Por quanto don Francisco Ricca ba de orden nuestra a las Provincias de Calabria a levantar un tercio de Infanteria Napolitana, y siendo previso formarle con toda brevedad, para que con la misma se pueda acudir al serbicio de Su Majestad en las ocasiones presentes, hemos resuelto que se puedan recibir, y assentar en el referido tercio todas, y qualesquiera personas inquisidas de qualesquier delitos, a las quales prometemos, y concedemos en virtud de la presente en nombre de Su Majestad indulto y perdon general de todos ellos, y ordenamos y mandamos a los Ministros y officiales de justicia y guerra desta Ciudad y Reyno no les den, ni hayan dar molestia alguna a los referidos delinquentes que assentaren en el, con que sirvan a Su Majestad en las ocasiones que se ofrezieren de su Real serbicio» (ASN, Affari diversi del Collaterale, vol. II, 1648-1653). 19  Il 6 gennaio, infatti, in una riunione tenuta ad Aversa nella casa del generale Tuttavilla, i baroni decidevano a maggioranza di abbandonare la piazzaforte, 17 18

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più vasta, ancora fiduciose nell’intervento dell’armata francese. «Yo estoy desesperado – scrisse il conte di Conversano nel gennaio del 1648 – estamos perdidos»20. Le popolazioni del feudo dei Caracciolo di Brienza avevano partecipato a queste vicende e avevano dato il loro contributo all’insurrezione, passando da una accesa opposizione legalitaria alla ribellione aperta. Da Atena, una delegazione di undici persone era stata inviata alla fine di luglio a Napoli per presentare 43 «capi di gravami» contro il barone: con questo memoriale si chiedeva, tra l’altro, l’autorizzazione a difendere «armata manu» e «con chiamare in aiuto anco persone forestiere» le decisioni del viceré in merito alle richieste dell’Università21. Ma la delegazione non poté entrare in Napoli per le misure precauzionali adottate dal governo, che temeva l’afflusso di forze popolari dalle province alla capitale e l’estensione nelle campagne dell’organizzazione rivoluzionaria. Fin dall’inizio, Masaniello aveva lanciato un appello non solo alle «città, castelli e ville circonvicine» ma anche alle «remote parti del regno» «che ciascheduno dovesse venire con armi al Mercato per difesa della pubblica libertà»22. Proprio per opporsi a questi tentativi, che avevano qualche successo23, e seguendo la linea adottata nei confronti dello stesso popolo di Napoli, il viceré, in un primo tempo, aveva sollecitato l’invio a Napoli di rappresentanze dei Comuni che intendevano avanzare proteste e lagnanze contro i feudatari. In qualche caso (quello di Chieti, per esempio, che si era ribellata contro il duca di Castel di mentre pochi giorni prima il duca d’Arcos aveva ingiunto al Tuttavilla «di non abbandonare la piazza se non quando i regi se ne fossero a viva forza dal nemico scacciati» (vedi G.B. Piacente, Le rivoluzioni del Regno di Napoli negli anni 16471648 e l’assedio di Piombino e Portolongone, edito da Giuseppe Dentice Accadia, Napoli 1861, pp. 268-270). 20  ASN, Carte diverse del governo dei viceré, fascio 131. 21  Archivio Caracciolo di Brienza (d’ora in poi ACB), 75.VII.4, Copia estratta dalla regia Cancelleria di quarantatre capi di gravami della terra d’Atena contro il Signor Marchese di Brienza padrone di essa, colla provvista sopra ciascun capo data dal Viceré Duca d’Arcos. 22  Capecelatro, parte I, pp. 41 e 59. 23  L’appello fu raccolto, scrive il Capecelatro (I, 59) «non solo dagli uomini, ma anche dalle donne, delle quali, contro l’ordine di natura e del sesso, molte in squadre armate accudirono Maso Anello».

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Sangro, cacciandone gli ufficiali)24 era stata accolta la richiesta di sottrarsi al dominio baronale e passare sotto la giurisdizione regia. I «gravami (rimostranze) delle Università erano discussi sempre, in quei giorni, con benevolenza e con sollecitudine. Questo atteggiamento conciliante aveva suscitato forti reazioni sia tra i nobili, sia tra gli stessi funzionari regi: essi temevano non già il mantenimento di queste concessioni – di cui era fin troppo evidente la provvisorietà ed il carattere strumentale – quanto piuttosto il fatto che esse sembravano legittimare le forme violente e radicali di opposizione antibaronale e costituire, quindi, obiettivamente, un incoraggiamento alle insurrezioni locali. Più tardi, quando la lotta divampava feroce in tutto il Regno, i baroni si lamentavano «de la mucha mano se dió a los Pueblos en las primeras revoluciones»25, facendo risalire a quelle concessioni ed a quell’atteggiamento (di cui si attribuiva la responsabilità soprattutto al Consiglio Collaterale) la causa del dilagare della rivoluzione. Alcuni di essi, del resto, avevano tentato di reagire a questa linea impedendo la pubblicazione del bando per l’abolizione delle gabelle (spesso, però, con risultati esattamente opposti a quelli previsti e provocando stragi e violenze); il governatore delle armi in Abruzzo, don Michele Pignatelli, contro le disposizioni che il viceré gli aveva inviato a questo proposito26, soffocò con le armi un movimento di protesta sorto a Lanciano contro il marchese del Vasto, rifiutando di porre in discussione il dominio del marchese sulla città.

24  F. d’Andrea, Relazione de’ servizi fatti dal Signor F. Di A. nel tempo ch’esercitò il posto di Avvocato Fiscale nella Provincia di Abruzzo Citra. E particolarmente di tutto ciò, che da lui si operò in servizio di S.M. mentre durarono le rivoluzioni popolari cominciate in Napoli nel dì 7 di Luglio 1647 e estinte nel dì 6 aprile 1648 sotto il Presidato del Sig. Michele Pignatelli, Preside, e Governatore delle armi, in quel tempo, di ambedue le Provincie di Abbruzzo, s.d. e s.l. 25  ASN, Carte diverse del governo dei viceré, fascio 131, Lettera di Vincenzo Tuttavilla al duca d’Arcos, 1 dicembre 1647. «Continuando S.E. con la sua solita benignità – scrive il 4 settembre da Gaeta il duca di Caivano – continuano maggiormente li eccessi» (ASN, Affari diversi del Collaterale, fascio V). 26  In una lettera del 28 luglio (ASN, Affari diversi del Collaterale, fascio V), il duca d’Arcos raccomandò al Pignatelli di procedere, nel caso di Lanciano, «con toda suabidad y amor» e gli diede incarico di disporre «el quieto y sossego de aquella ciudad dando orden que se quiten todas las Gavelas y que por lo que deven de atrasado a su baron non sea molestada por termino de quatro o cinco meses dandole a un mismo tiempo a intender que embie aquí persona para tratar del demanio que sera oyda con toda satisfación y se procurará, oydas sus raçones, de consolarla».

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Spinto da queste reazioni, nonché dal moltiplicarsi delle richieste dei Comuni, il 30 luglio, il viceré – oltre a prendere misure restrittive di fatto – emanò un bando col quale si faceva divieto alle singole Università di mandare a Napoli più di due deputati per esporre le loro richieste; ed il giorno dopo, poiché da qualche parte erano state inviate deputazioni composte di donne (fatto veramente singolare e significativo dell’ondata di passione e di entusiasmo che aveva suscitato nelle province la rivoluzione di Napoli), venne emanato un altro ordine agli amministratori delle Università di non mandare donne «le quali come non capaci delli negotii di giustizia non se gli può dare l’espeditione che conviene»27. In seguito a questi divieti, il 12 agosto si riunì nuovamente il parlamento comunale di Atena, per la designazione dei due rappresentanti, i notai Fabio Pessolano e Lelio Conte; ma ora, analogamente a quanto avveniva o era già avvenuto in quasi tutte le terre feudali del Regno, l’opposizione dei vassalli si faceva più radicale e «tutto il popolo unito pari voce» chiedeva che l’Università fosse liberata dal governo baronale e restasse «immediatamente soggetta a Sua Maestà»: «Con questo principe e con i suoi antenati – dichiaravano i cittadini – mai havemo possuto vivere quieti, come tutti sapemo; quando havemo voluto defendere le cose universali, ci ha fatto abruggiare massarie, fatte imposizioni, et altri infiniti maltrattamenti»28. I contadini rifiutavano intanto di pagare i consueti canoni agli amministratori del barone, il cui palazzo venne saccheggiato nel mese di settembre29. Episodi di ribellione si verificarono anche negli altri Comuni del feudo (Brienza, Pietrafesa e Sasso), che furono tra quelli che «durarono ostinatamente [...] nella loro perfidia», come scrisse il Capecelatro, anche dopo che si era «racchettato il tutto»30. Tornato nel feudo alla fine del maggio 1648, alla testa di 400 soldati che gli erano stati affidati per autorizzazione del viceré per ridurre all’obbedienza le sue terre31, Giuseppe Caracciolo (che pur aveva   Capecelatro, parte I, Annotazioni e documenti, pp. 78-79.   ACB, 75.VII.5, Parlamento in tempo di rivoluzione fatto dall’Università di Atena contro il Signor Principe di detta terra. 29  G.I. Cassandro, Storia di una terra del Mezzogiorno. Atena Lucana e i suoi statuti, Roma 1946, p. 88. 30  Capecelatro, III, p. 269. 31  Il biglietto di autorizzazione, in risposta ad una richiesta dello stesso Caracciolo, è in ASN, Carte diverse del governo del viceré, fascio 135. «Il Principe di 27 28

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sottoscritto il manifesto con il quale la nobiltà si impegnava a non abbandonarsi a vendette e rappresaglie) tenne i suoi vassalli sotto il terrore per 18 giorni: «Lasciali morire et disshonorare a questi ribelli cani», disse ad un capitano preoccupato per gli eccessi dei soldati contro la popolazione32. La resa di Napoli di fronte all’armata spagnola di don Giovanni d’Austria (6 aprile 1648) rivelò, con le sue rapide ripercussioni nelle province, come i tentativi dei popolari di creare in tutto il Regno quasi una nuova organizzazione statale non avessero avuto risultati profondi e durevoli. A partire dalla fine di novembre 1647 erano stati inviati nelle province rappresentanti del governo repubblicano (non più come all’inizio dell’insurrezione, per chiedere rinforzi per la capitale, ma per organizzare la ribellione e per indirizzarla contro il governo spagnolo), nominati governatori con patenti della Repubblica napoletana, sostituiti, in qualche caso, i funzionari delle Udienze, riconosciuti ufficialmente ed investiti di poteri determinanti i «capipopolo» dei singoli comuni, tentata la riscossione di tasse in nome della Repubblica ecc. Ma questa struttura non aveva avuto il tempo di consolidarsi (in parte anche perché il terreno sul quale essa avrebbe dovuto svilupparsi era ben lontano dall’essere preparato) e di superare la frammentarietà, lo spirito municipalistico, la disordinata spontaneità che avevano caratterizzato la prima fase della rivoluzione nelle province. La resa di Napoli (pubblicata in tutto Atena ne gio con buon numero degli Spagnoli datili dal Viceré ed altra gente da lui raccolta a porre in obbedienza Atena ed il Sasso, e Brienza e Pietrafesa del Marchese suo fratello, siccome rigorosamente fece, con dare aspro castigamento a coloro che avevano fallato» (Capecelatro, III, p. 270). Insieme al fratello Carlo, Giuseppe Caracciolo aveva attivamente partecipato a Napoli alla direzione dell’azione controrivoluzionaria ed alla riorganizzazione delle forze baronali (ACB, II.27, Lettera di Filippo IV a Giuseppe Caracciolo, 12 giugno 1648; ACB, II.7, Relazione di don Giovanni d’Austria a Filippo IV sui meriti di Carlo Caracciolo nelle vicende della rivoluzione di Masaniello, 31 luglio 1648; Capecelatro, I, p. 233 e III, p. 236); «don Joseph Caracciolo principe de Atena – scrisse nel luglio del ’48 il viceré – es uno de los Barones principales deste Reyno, y des los que con mayor fineza han asistido en estas ocasiones de tumulto al servicio de V. Majestad [...] por esta causa el pueblo rebelde desta Ciudad le ha saqueado todo el omenag de su casa [...] y se han rebelado todos sus vassalos» (ACB, II.24). 32  Capecelatro, vol. III, p. 89.

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il Regno con grande rapidità e clamore degli organi di governo) provocò quasi subito la disgregazione di questo debole apparato, l’abbandono dei capi, lo sgomento e la sfiducia in mezzo alle popolazioni, facendo precipitare gli stati d’animo di incertezza già diffusi in mezzo alle forze popolari. I due capi delle forze popolari lucane, Matteo Cristiano e Francesco Salazar, si trovavano, rispettivamente, il 6 aprile, ad Altamura ed a Gravina. Matteo Cristiano, che poco tempo prima aveva vittoriosamente respinto i tentativi del conte di Conversano di impadronirsi della città, entrò in trattative col duca di Noci, figlio del conte, ed accettò la pace cercando di porre condizioni alla sua resa (quella, per esempio, di restare governatore e capitano di guerra della città); «ma sin dal primo giorno si accorse dei pericoli e delle insidie di morte che lo circondavano, e mentre gli scherani del duca di Noci [...] tripudiavano nella vecchia rocca egli fuggì»33. Fu poi preso nell’agosto del 1653 in Abruzzo e decapitato a Napoli il 23 dello stesso mese. Francesco Salazar «pertinace nella sua ostinazione – narra un cronista contemporaneo – haveva fatto buttar bandi, che sotto pena della vita nessuno trattasse né parlasse di pace, però ingannato fu preso e carcerato; ma come li era avviso del perdono generale concesso da S.A. parve al detto mastro di campo [don Francesco Boccapianola] di chiamare un Auditore, et il fiscale di Trani per vedere se godeva indul33  Cianci di Sanseverino, Matteo Cristiano Governatore generale delle armi della Serenissima Repubblica di Napoli, cit., pp. 25-26. Qualche giorno prima, il 2 aprile, aveva tentato di salvarsi scrivendo direttamente a don Giovanni d’Austria e mettendosi a disposizione del governo per ridurre all’obbedienza la Basilicata (ASN, Carte diverse del governo dei viceré, fascio 134): «Illustrissimo et Eccellentissimo Signore e padrone colendissimo, inviai Scipione di Martino mio cugino a posta da V.E. per basciarli li piedi in mio nome, e significarli il desiderio tengo di servire Sua Maestà, e benché esteriormente appaia il contrario, ad ogni modo la causa è stata rappresentata a V.E. dal sopradetto; la supplico intanto a gradire la mia devotione, assecurando V.E. fra quattro giorni fare riuscire l’intento, mentre vado disponendo diverse persone al servitio, e penso che, ridotta detta Provincia di Basilicata a devotione di Sua Maestà, ridurre anchora l’altre, conforme subito che tornò da V.E. detto mio cugino, ne feci parte al Signor Duca di Martina, e che supplico V.E. scrivere che tenga bona intelligentia con me, rimettendomi alla magnanimità di Sua Maestà e di V.E., seguito che sarà il servitio, non avendo altra ambitione che di servire la Maestà Sua conforme a pieno dirà a bocca detto Scipione a V.E., a chi per fine facendo profondissima reverenza, bascio humilmente li piedi. Altamura li 2 aprile 1648. Di V.E. humilissimo e devotissimo oratore e servitore, Matteo Cristiano».

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to, e presa da detti ministri informatione fu concluso di condannarlo a morte»34. Poco dopo fu decapitato nel castello di Barletta. La disgregazione delle forze rivoluzionarie, la fuga e la morte dei maggiori capi e le violente azioni repressive del genere di quella condotta dal principe di Atena, non spensero però del tutto i numerosi focolai di ribellione. In molti luoghi, per parecchio tempo dopo la fine della rivoluzione, si verificarono insurrezioni, disordini e violenze. A Montescaglioso, il 24 giugno, «armatasi tutta la terra a suono di campane all’arme», la popolazione si sollevò contro gli agenti della baronessa Ottavia de Mari, uccidendone uno: Antonio Barisano, sobillatore di questa sommossa, venne catturato e torturato «tamquam cadaver» nei primi mesi del 164935. A Lauria furono ammazzati dentro la Chiesa dei Cappuccini «dui poveri gentilhuomini solo per dire: sia benedetto Idio che s’è fatta la pace et semo tornati al servitio di Sua Maestà». Uccisi poi due dei tre fratelli che avevano capeggiato la sommossa e cinque loro compagni, il terzo, Gio. Biase Gazzaro, che era riuscito a fuggire, si preparava ad assalire nuovamente la terra di Lauria, con 40 uomini, verso la fine dell’anno36. A Castelsaraceno, Scipione Parisi, già mastro di campo del popolo, con suo fratello Ottaviano, nell’estate del 1648, acclamava pubblicamente «il nome del Re di Francia [...] tenendo anco intelligenza con Tittariello di S. Arsiero e sollicitandolo ad unirsi con loro per struggere la terra di Moliterno, la quale sempre era stata fedele a S.M.»37. Nel dicembre del 1648, l’uditore di Salerno Carlo Longobardo inviò a Napoli «diez y seis cabezas de bandidos [...] y entre ellas la del caporal Domingo Bisacha alias Sorsilo de la tierra del Vallo, que infestaban la campaña [...] procurando levantar nuebos tumultos en la Provincia»38. Nell’agosto del ’48, un gruppo di ribelli di Brienza, capeggiati dal notaio Fabio Pessolano di Atena, che aveva avuto una parte di 34  Revolutioni successe in Lecce nel 1647, ms. cit.; nella Relazione di don Francesco Boccapianola al viceré sulla riconquista di Gravina, del 22 aprile 1648 (ASN, Affari diversi del Collaterale, fascio XV), si nota che i bandi furono trasmessi dal Salazar anche «a algunas universidades desta provincia». 35  ASN, Archivio dei viceré, vol. 37, Lettera del Conte di Oñate all’uditore di Salerno Longobardo, 11 luglio 1648. 36  Ivi, Lettera del Conte di Oñate all’Udienza di Basilicata, 11 dicembre 1648. 37  Ivi, Memoriale di Silvestro Patrolella al viceré. 38  Ivi, Lettera del Conte di Oñate all’Udienza di Salerno, 14 dicembre 1648.

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primo piano nella rivolta del feudo, si unì alle bande del famoso Tittariello, partecipando ad azioni antispagnole nel Vallo di Diano, ed in particolare ad un assalto contro la città di Sala, nel corso del quale furono uccisi dodici cittadini «fedeli a parte di Spagna»39. Le bande ebbero il sopravvento per qualche tempo, intimorendo «tutti i circostanti Baroni, e dove non erano loro, i loro fattori, in guisa tale, che non osavano chiedere cosa alcuna, né riscuotere le loro rendite da’ vassalli»40; ed in uno scontro avvenuto ad Atena, nella tenuta di Cannitomezzano, il 15 agosto, misero in rotta le truppe inviate dal viceré, sotto il comando di Scipione Monforte e dell’uditore di Salerno Giovenco, per stroncare l’attività delle bande del Vallo41. Appare chiaro in tutta la vicenda l’orientamento decisamente antifeudale della rivolta: ma, quel che più interessa notare, essa non fu soltanto uno sfogo violento di collera, ed ebbe, anzi, pur manifestandosi inevitabilmente in forme primitive, obiettivi specifici, oltre che un contenuto politico generale determinatosi nell’orientamento antispagnolo. Nel corso di essa, infatti, emersero alcune rivendicazioni attorno alle quali si creò, per l’ultima volta in un movimento di tanta ampiezza, un fronte antifeudale in cui confluirono sia i contadini poveri, sia il medio ceto di professionisti e proprietari. Quasi dappertutto, anzi, la rivolta fu diretta da elementi «borghesi» (e lo stesso Matteo Cristiano era un «legista»), molti dei quali, scampati momentaneamente alle condanne ed alle persecuzioni, andarono ad ingrossare le file dei banditi che scorazzarono nelle province, e particolarmente in Basilicata, nei mesi o negli anni successivi alla rivoluzione; la quale non ebbe nelle campagne il carattere di guerra sociale tra contadini e proprietari, ma essenzialmente quello, più complesso e più lar­go, di lotta contro i poteri amministrativi, politici ed economici del baronaggio. Non mancava, accanto a questo fondamentale motivo di contrasto (che emerge sempre e dà un significato a quella rivoluzione, pur in mezzo ai non pochi episodi di violenza puramente brigantesca), 39  Capecelatro, III, p. 445. Vedi anche Sarra, Le rivoluzioni degli anni 1647 e 1648, cit. 40  Capecelatro, III, p. 450. 41  Ivi, pp. 445-446.

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la rivendicazione delle terre pubbliche usurpate. Tra le tante voci popolari che si fanno sentire in questo senso nei mesi della rivoluzione, questa di un anonimo, in un breve memoriale inviato al viceré il 29 settembre, esprime in un linguaggio confuso ma fortemente drammatico il rancore dei vassalli contro le usurpazioni baronali: «Il sangue dei poveri sappia Vostra Eccellenza che grida al cospetto d’Iddio et di V.E. et esclama et si protesta provvedimento del loro sangue che si vede caso di pietà, dicendo che li Signori Baronali restituiscano tutti li foresti et pascoli che si hanno pigliato dalli poveri Università et Vassalli, quali se li appropriano sotto titoli di donativi et con li loro modi et potentia hanno spogliato li poveri Vassalli di tutti li loro pascoli et in ciò non si eccettua nessun Signore Baronale perché quasi tutti, tutti se li appropriano come sitibondi del sangue dei poveri»42.

Tuttavia, l’enorme carica di odio e di risentimento dalla quale tutti gli strati del popolo erano stati spinti ad insorgere e che dà un senso più tragico alla loro invocazione di libertà, era rivolta soprattutto contro l’esercizio dei poteri pubblici da parte del barone, indiscriminatamente adoperati (con l’aiuto di masnade di «bravi») come strumenti di coercizione e di oppressione per fini privati: Tutti li populi in ciò gridano – continua l’anonimo citato – et conforme fu l’ordine di V.E. che vengano per giustizia [...] quasi tutti veniriano a supplicare ma timino la morte, che li bisogneria perire a quel che venesse. Supplicano li poveri Vassalli che li Signori Baroni non possano far composti et transationi et proventi perché il sangue dei poveri vassalli grida che detti signori Baroni con li loro tormenti, carcerationi, lunghi carceri inhumani et potenti transigino et compostano per ogni minima colpa et difetto desiderosi del sangue del povero a loro posta con li offitiali fatti da essi a loro volontà che il mondo pare che andasse presto ad esser giudicato da quel grande Iddio; adomandano li poveri Vassalli et sangue di poveri che li transitioni et proventi per le colpe et difetti intrassero alla reggia Corte, perché intrandone alla reggia Corte et andando alla reggia Corte come che sono offitiali liberi et non vi è la potenza Baronale il povero Vassallo si po’ difendere et po’ esclamare et po’ vedere la sua ragione del castigo debito, et ponderato, et non esser assorbito dalla potenza di Signori Baroni con li quali il povero Vassallo non po’ litigare né appellare ché li bisogneria perire.   ASN, Carte diverse del governo dei Viceré, fascio 129.

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Il memoriale inviato da Atena nel luglio al viceré esprime chiaramente la confluenza degli interessi e delle aspirazioni dei vari ceti nella lotta contro il barone; in esso è possibile cogliere una riaffermazione del carattere largamente rappresentativo, «universale», del Comune, che appare ancora, nella fase iniziale della rivoluzione, lo strumento più efficace di difesa degli interessi e dei diritti della popolazione. La denuncia dei cittadini di Atena riguardava essenzialmente tre ordini di fatti: 1) l’usurpazione, da parte del barone, delle funzioni amministrative dell’Università, e quindi delle entrate pubbliche; 2) l’imposizione di servitù personali e di tributi a vantaggio diretto del feudatario ed il monopolio di determinate attività (jus prohibendi), specialmente commerciali; 3) l’esercizio violento ed arbitrario del potere giudiziario. La denuncia restava limitata nel ristretto orizzonte municipale ed impigliata nella casistica: così, per esempio, per quel che riguarda il primo punto, senza giungere all’affermazione di princìpi generali, essa si limitava alla elencazione dei singoli casi in cui il feudatario estendeva con la forza e «contro le consuetudini» i suoi poteri, usurpando determinate funzioni amministrative di cui si affermava l’appartenenza di fatto e ab antiquo all’Università (portolania, bagliva, diritti sulle acque e sui pascoli ecc.). Quanto fosse importante questa lotta amministrativa, sia pure chiusa dentro i limiti di un legalitarismo che sempre accompagnava le lotte tra Comuni e baroni, si comprende meglio se si pensa che i «diritti feudali» rappresentavano ancora nei primi del ’600, per i baroni, la fonte a volte più importante di rendita. Oltre che nei quattro Comuni del feudo, i Caracciolo possedevano, infatti, ancora ai primi del ’600, diritti feudali (mastrodattia, portolania, bagliva, plateatico, fida, zecca di pesi e misure ecc.) a Diano, Sassano, San Giacomo, Sant’Arsenio, San Rufo, Taranto e Sala43. La maggiore importanza che in quest’epoca va acquistando per il barone, all’interno dell’amministrazione feudale, la proprietà fondiaria (tra la fine del ’500 ed i primi anni del secolo successivo si forma, attraverso molti acquisti, il patrimonio burgensatico dei Caracciolo) dev’essere posta in relazione anche col fatto che le conquiste realizzate dalle Univer43  ACB, 45.VII.2, Instrumento dell’affitto fatto a Pompilio d’Aragone delle terre di Brienza, Atena, Diano, Pietrafesa e Sasso, e mastrodattia di Taranto e Sala, per anni sette, a ragione di annui ducati 13 mila, settembre 1600.

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sità nel campo amministrativo e la loro resistenza ad una ulteriore estensione dei poteri baronali hanno già in parte bloccato le rendite amministrative feudali, e ne hanno anche determinato la diminuzione relativa o assoluta. È questo uno dei fattori (segno, d’altra parte, dello sviluppo di nuove forze sociali nelle campagne) della crisi economica che colpisce la nobiltà negli ultimi decenni del secolo XVI. Già alla fine del ’500 le Università riuscivano ad ottenere l’affitto perpetuo di alcuni «corpi feudali»: così, per esempio, a Brienza, nel 1591, in pubblico parlamento si stabiliva di chiedere al feudatario la concessione dell’affitto di bagliva, portolania, diritto proibitivo dei forni, diritti di piazza, zecca, colta del castello, censi sulle case e «terraggi» della tenuta feudale del Monte. L’affitto veniva concesso l’anno seguente per il canone annuo di 1.200 ducati, 1.200 tomoli di grano e 600 di orzo. Ma anche se questa concessione dava al Comune la possibilità di allargare le sue funzioni amministrative e di sottrarsi agli inconvenienti ed alle vessazioni derivanti dall’esercizio privato di esse, il peso del canone annuo era tale da rendere assai precaria, ed in parte puramente formale, l’autonomia amministrativa che l’Università era riuscita a raggiungere. Infatti, appena pochi anni dopo la stipulazione del contratto, nel 1608, gli arretrati dovuti dal Comune al feudatario ammontavano a 8.600 ducati. Si creava così la condizione di una ulteriore espansione della proprietà baronale ai danni del Comune che, oltre ad assegnare per otto anni al barone la gabella della farina, era costretto a cedergli un territorio demaniale44. Era questa una delle vie attraverso le quali più comunemente si realizzava l’appropriazione di beni comunali da parte dei grandi possessori di terre e di uffici. Analogo procedimento si verificava, infatti, ad Atena, dove, per il mancato pagamento degli interessi «attrassati» di un debito di 10.300 ducati, l’Università dovette cedere due «difese» (terre recintate) demaniali che sarebbero state poi al centro di secolari controversie45.   ACB, 45.I.i.   Il credito contratto dal Comune con Fabrizio Caracciolo nel 1594 fu da questi trasmesso alla duchessa di Gravina, da cui Giuseppe Caracciolo lo acquistò nel 1645: «Litigando essa supplicante Università colla Duchessa di Gravina, detto Principe si ha fatto cedere il credito di detta Duchessa, per annichilare essa supplicante di tutte le difese e comodità tanto per seminare, quanto per pascolare et industriarsi con animali» (ACB, fascio 147). Una minuta esposizione della questione 44 45

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La questione dell’affitto dei corpi feudali di Brienza, d’altra parte, restò aperta anche dopo la transazione del 1608: l’Università tentò di ottenere, ricorrendo al Sacro Regio Consiglio, una forte riduzione del canone, e vi riuscì nel 1624 (800 ducati, 500 tomoli di grano e 200 di orzo), nonché la restituzione delle terre demaniali acquistate dal feudatario; ma questi riuscì, a sua volta, a scindere il contratto ed a riprendere la bagliva, i «terraggi» del Monte, il diritto proibitivo dei forni e la zecca di pesi e misure. Soltanto molto tempo dopo l’Università poté riavere l’affitto perpetuo dei forni (1728), della zecca di pesi e misure (1737) e della bagliva (1764) per il canone complessivo (compresa la portolania, che era stata tenuta dall’Università fin dal primo acquisto, e l’affitto di un pozzo) di 675 ducati46. Durante la prima metà del Seicento l’esercizio dei «diritti feudali» era ancora uno degli elementi della ripresa economica della nobiltà, sia per il valore finanziario che essi avevano, sia come efficace strumento per la conquista di nuove posizioni di monopolio terriero; esso fu riaffermato nello stesso momento in cui i baroni, costretti dall’indebitamento e dalla perdita di valore delle rendite provenienti da antichi affitti e concessioni, si orientarono anche verso tentativi di valorizzazione e un più diretto sfruttamento della proprietà fondiaria. L’antico possessore di diritti, di uffici, di censi, qual era il è nella sentenza della Commissione feudale del 3 agosto 1808, in Bollettino delle sentenze della Commissione feudale, vol. 8, n. 9. 46  Per il jus prohibendi dei forni «era tenuto ciascun cittadino forzosamente andare a cuocere il pane nella forna di esso Ecc. Marchese, con pagare per ogni rotolo di pane un’oncia per la cocitura, oltre la legna, ed altro che dovevano pagare alla fornara» (ACB, 45.I.13). La giurisdizione della zecca «non solo consiste nel zeccare, adequare, ed aggiustare i pesi e misure [...] ma conoscere la frauda in tutte le mercanzie, e robbe, di maniera che non si possi vendere una cosa per un’altra, e sopra l’oro, l’argento, e qualsiasi altro metallo, pietra, panni tirati etc.» (ACB, 45.I.20). Alla bagliva «non solo va annessa la giurisdizione minima di cause civili infra la summa di carlini trenta, e cause di danno dato alle colture senza violenza, dolo o data opera del custode, e dove non può cadere criminalità [...] ma alla detta bagliva è soluto e suole andare annesso il deritto di fidare li forestieri a pascere, legnare, ed acquare nelli luoghi demaniali del feudo» (ACB, 45.I.24). I portolani di terra «avevano il compito d’invigilare sulla manutenzione delle vie pubbliche nel senso più ampio: non soltanto, cioè, in quanto aveva riguardo alla loro viabilità, ma, anche e soprattutto, in ciò che aveva rapporto con i diritti e i doveri dei privati proprietari confinanti e, in conseguenza, erano giudici in tutte le controversie relative» (G.I. Cassandro, Storia di una terra del Mezzogiorno. Atena Lucana e i suoi statuti, pref. di B. Croce, Roma 1946, p. 50).

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grande feudatario che la crisi del ’500 aveva prostrato, cercò ora di trasformarsi in grande latifondista «moderno», mantenendo però, nello stesso tempo, prerogative e privilegi della feudalità – che in parte sarebbero rimasti in vigore fino all’epoca delle riforme francesi – che costituivano ancora una componente essenziale della figura, relativamente nuova, del feudatario «latifondista», ed una delle basi indispensabili della sua forza economica. La rivolta del ’47 cadde nel periodo in cui questo nuovo orientamento (che si sarebbe affermato decisamente nel secolo XVIII, creando la figura del nobile «proprietario assenteista», che noi conosciamo attraverso la letteratura del riformismo settecentesco) si venne consolidando; nella fase, cioè, caratterizzata dal fatto che il barone, per valorizzare il suo patrimonio fondiario, mobilitò tutte le risorse che gli erano date dai suoi poteri più tipicamente feudali, sia per ampliare questo patrimonio (non solo attraverso le usurpazioni di terre pubbliche, ma anche obbligando i singoli proprietari a vendergli le loro terre)47, sia per costringere i suoi vassalli a servigi personali gratuiti, ed in particolare a prendere in affitto le sue terre a determinate condizioni o a gestire gratuitamente i suoi affari. Evidentemente tutto ciò non si poteva ottenere senza esercitare sulla popolazione un vero e proprio terrore, di cui la giurisdizione doveva essere lo strumento principale: da qui le proteste degli Atenesi contro le «carcerationi de fatto», i maltrattamenti, le violenze messe in atto all’ombra delle corti baronali; proteste che furono generali in tutto il Regno e che contribuiscono a far comprendere perché moltissimi Comuni, durante tutto il periodo del viceregno spagnolo, si sottoponessero volentieri a gravi sacrifici finanziari per sottrarsi all’amministrazione baronale, sacrifici quasi sempre, com’è noto, 47  In una convenzione stipulata tra il marchese e l’Università di Brienza, nel 1624, per «lo bassamento dell’annuo estaglio per l’affitto de’ corpi feudali» (ACB, 45.I.8) sono contenute le seguenti richieste dell’Università: «Item si supplica che facesse grazia di restituire tutte le terre redditizie demaniali e redditizie al R. Capitolo di detta Terra alli padroni et in futurum non tornarsele a pigliare conforme sta promesso in detto istrumento, et che se li paghino il prezzo di quelle tantum che forse ha comprato. Item si supplica esso Illustrissimo che restituisse tutte le terre burgensatiche alli stessi padroni dalli quali l’Illustrissimo Padrone le comprò per lo stesso prezzo con dar loro dilazione di quello pagare per tre anni, ed elassi detti tre anni, e non si trovasse fatto detto pagamento, restasse servito lasciarle a censo a ragione del sette per cento alli detti padroni».

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resi inutili dal governo, che spesso rivendeva, per esigenze fiscali, le terre che si erano riscattate. La prima metà del Seicento appare, dunque, un periodo di recrudescenza dello spirito feudale e quasi di rinvigorimento delle vecchie forme di dominio, che avevano appunto come elementi centrali i diritti feudali e signorili ed il monopolio baronale dei locali poteri amministrativi e politici48. Anche per questo la rivoluzione del 1647-48 presenta nelle campagne, a differenza di ciò che avviene in altri paesi europei dove si verificano contemporanei rivolgimenti, alcuni aspetti delle rivolte medievali, malgrado la maggiore importanza che vanno assumendo per il feudatario le forme moderne e libere del possesso fondiario: ne è prova, per esempio, la tendenza a far coincidere la difesa degli interessi e, potremmo dire, delle libertà popolari, con la difesa ed il rafforzamento dell’amministrazione comunale e della sua autonomia ed il significativo richiamo alle vecchie norme statutarie fissate dalle comunità rurali, liberamente o attraverso accordi con gli antichi signori. Ma a questo elemento difensivo e conservatore – che pure ha un suo valore ed una sua efficacia – si aggiunge un elemento più moderno e positivo, anch’esso non nuovo, ma che durante la rivoluzione diventa un’arma ideale di lotta contro il baronaggio in generale e, dentro certi limiti, contro le stesse istituzioni feudali: l’invocazione, cioè, di una autorità dello Stato che dovrebbe garantire la libertà dei cittadini. Anche questa aspirazione si manifesta nella sua forma più grezza e tradizionale, quella della richiesta di essere «immediatamente soggetti al Re», ma in essa non manca un barlume di una nuova concezione dello Stato, e non si può non riconoscervi una opposizione esplicita, anche se rimasta embrionale, al particolarismo feudale. Non c’è dubbio che proprio il fallimento delle speranze riposte a questo proposito nel governo (malgrado le parziali ed occasionali concessioni fatte dal viceré nei primi giorni della rivoluzione) contribuì a determinare l’orientamento antispagnolo che si diffuse nelle popolazioni del Regno, quando, in ottobre, si riprese a Napoli la lotta rivoluzionaria, e favorì la diffusione di sentimenti favorevoli alla Francia anche in 48  Le caratteristiche di questo processo sono indicate dai documenti già noti di questo periodo: vedi i Capitoli concessi dal feudatario di Camerota nel luglio del 1647, pubblicati da O. Pasanisi, in «Rassegna Storica Salernitana», XII, 1951, pp. 93-108 e, soprattutto, il già citato volume di L. Pepe sulle rivolte di Nardò e Terra d’Otranto.

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mezzo alle ignoranti masse campagnole; orientamento antispagnolo che era il logico ed estremo svolgimento della lotta antibaronale. Nel corso del secolo XVIII, alcune di quelle caratteristiche tradizionali che erano state riprese nel corso del ’47, ivi compreso lo statalismo a cui s’è fatto cenno, perdurarono come motivi ispiratori dell’opposizione antifeudale. Tuttavia, alcuni mutamenti intervennero nel governo baronale: il vassallaggio, nella sua forma classica di assoggettamento diretto delle popolazioni, e le servitù personali nella seconda metà del secolo XVII subirono una notevole riduzione; le vecchie forme del dominio feudale, pur sopravvivendo in parte e conservando una notevole importanza, tendevano a diventare complementari rispetto al monopolio terriero. Ciò non esclude, naturalmente, che, forti del loro potere politico ed economico, i baroni continuassero ad esercitare violenze ai danni delle popolazioni: si trattava spesso di delitti che nessun potere o preteso «diritto» valeva ormai a «legalizzare». Tra le tante testimonianze, citiamo un memoriale dell’Università di Picerno, del 1696, che denuncia il feudatario Fabrizio Spinelli di Scalea, per «havere da tanti assassini, forasciti, inquisiti, forgiudicati e citati a forgiudica et altre genti di mala vita [...] fatto ammazzare, arrappare, sfrisare, mazziare, spogliare, dare sfratti a sessanta fuochi (famiglie) in circa delli migliori, con fare fare molti insulti, violenze, matrimonj forzosi, devastazione de seminati, dissertazione de vigne, violazione di immunità ecclesiastica, nuove tasse, nuovi catasti, nuovi pedaggi, taglie, et insuffribili estursioni, et delitti atrocissimi». Lo stesso governatore regio dell’Università presiedette al parlamento che decise di chiedere al viceré «che si restrinesse esso don Fabrizio in un castello da dove non potesse fuggirsene in Roma, o altrove dopo fatti altri homicidij»49. È, dunque, in rapporto ai mutamenti a cui si è accennato, ma anche alla contemporanea permanenza di non pochi residui delle forme medievali di dominio dell’aristocrazia, che si debbono valutare le caratteristiche delle lotte antifeudali che si sono svolte nel secolo XVIII e la loro efficacia nel determinare un effettivo indebolimento della potenza baronale.   ASN, Affari diversi del Collaterale, vol. 13.

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L’opposizione dei vassalli di Brienza e Pietrafesa al «giuramento di omaggio» nel 170950 non ha più il significato e l’importanza che poteva avere ancora nella prima metà del secolo precedente: e però essa non fu una protesta generica, ma ancora l’opposizione contro un complesso di fatti determinati, in cui l’ombra delle antiche servitù era ben presente. Ancora nel 1736, infatti, un ricorso dell’Università di Brienza51 denunciò che il signore, «servendosi della baronal violenza intende forzare li cittadini ad esercitar in suo beneficio li pesi ogni anno di erario [amministratore] di tutte le rendite e di conservatore de’ grani e di ogni sorte di vettovaglie [...] mica pagando a’ medesimi mercede, seu il giusto e competente salario, ma in augumento dell’angarii e perangarii»; pretende che i cittadini «abbiano a servirlo gratis per chechisia necessità e specialmente a coltivar suoi territorii, a chiuder neve e far neviere, portar macine a soi molini e simili» (mentre, commenta l’estensore del ricorso, «qui altari servit, de altare vivere debet»): e li costringe «a prender in affitto le sue rendite ed uffici, come della mastrodattia, bagliva, terraggio, al prezzo pur anche del suo volere»52. Ma già, insieme alle vecchie rivendicazioni, tendevano ad acquistare rilievo anche quelle che si riferivano al problema del monopolio della proprietà fondiaria, anzitutto nelle forme tradizionali di opposizione alle usurpazioni di beni demaniali da parte del feudatario e di difesa degli usi civici sulle terre feudali. Per quanto anch’esse appartenessero al bagaglio tradizionale della lotta antifeudale, tali rivendicazioni, diventando a poco a poco i motivi prevalenti di questa lotta nel secolo XVIII, cominciarono ad acquistare un nuovo significato. Appunto attorno ad esse si frantumò il fronte antibaronale che abbiamo visto compatto durante la rivoluzione del 1647-48: da queste prese le mosse, da un lato, la lotta del medio ceto, la quale giunse a superare sia pure lentamente ed in modo incerto i termini tradizionali della questione per rivolgersi contro tutto l’ordinamento dei rapporti di proprietà e contro i residui dell’ordinamento comu  ACB, 43.III.37.   Ivi, 48.I.12. 52  Ibidem. È interessante il richiamo al diritto naturale, eco delle polemiche suscitate dalla scuola giuridica napoletana, per affermare la libertà dei cittadini contro queste imposizioni: «...chiediamo perciò ordinarsi a detto Marchese se abstineat etc. [...] acciò resti sempre salvo et libero arbitrio quod est de jure naturae». 50 51

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nitario dell’economia rurale, e dall’altro, la lotta dei contadini poveri, la quale rimase ancorata ai vecchi schemi rivendicativi al punto da costituire poi, nel ’99, la base della grande campagna reazionaria dei Borbone. Prima di giungere al definitivo approfondimento di questa divergenza (che si manifestò in tutta la sua evidenza verso la fine del secolo, quando il processo di privatizzazione della terra prese un ritmo rapido a vantaggio di gruppi di borghesia locale ed in coincidenza con una fase acuta di crisi della piccola proprietà contadina), la lotta per la terra fu condotta esclusivamente in nome deil rispetto degli usi civici tradizionali e della difesa del demanio. Così, nel 1718, il Comune di Pietrafesa presentò un ricorso in cui, mentre chiedeva che fosse restituito all’Università il bosco della Ralle53, insieme ad altri territori usurpati dal barone, nello stesso tempo, chiese che questi dovesse astenersi dal dare a censo i territori sui quali erano in vigore diritti comunitari e dai quali il barone poteva riscuotere solo la decima quando venivano seminati, «e detti luoghi censuati [dovessero] ridursi ad pristinum». Con tali concessioni – dicevano i sostenitori degli usi comunitari – li censuari se li chiudono e privano detta Università, e suoi cittadini del pascolo»54. Nel 1736, alcuni territori feudali di Brienza (Pezzafarina, feudo del Monte e Croce dell’Ausino) furono occupati da un gruppo di contadini capeggiati dagli amministratori dell’Università: furono cacciati i coloni già insediati, che gli amministratori avevano fatto venire da paesi confinanti, e divise le terre tra gli occupanti che dichiarano volervisi mantenere «coll’armi alla mano contro chi che sia»55. La giustificazione di questa occupazione era ancora che si trattava di terre già appartenenti all’Università, soggette solamente al pagamento della decima alla corte del marchese: Il giorno otto del passato mese di settembre dell’anno cadente, Rocco Spolzino, Notar Francesco Sabbatella, Angelo Menafra, Cosimo Pagano, Mattia Petrone e Giovanni Nigro amministratori dell’Università insinuarono pubblicamente a molti cittadini di questa Terra, che volendo coltivare terreni siti a Pezzafarina, che è uno dei tre luoghi espressati   ACB, fascio 161.   Ivi, 48.IV.4, Supplica al Re di D. Teresa Pinto, tutrice di Letterio Caracciolo. 55  Ivi, 48.IV.5, Relazione del Preside alla Regia Udienza di Salerno. 53 54

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nel cennato ricorso, fossero andati a disegnarseli, poiché erano territori dell’Università, ed in fatti molti persuasi di tali insinuazioni, e del vantaggio che loro ne risultava colla coltura delli enunciati territori, che sono delli più fertili del Paese l’indussero ad andare nel luogo suddetto al numero di circa cinquanta persone, parte unite nell’abitato, e parte raccolte strada strada, quasi tutti con zappe, accette, ed altri istrumenti rusticali, ed ivi si distribuirono tra loro quei terreni che attualmente si tenevano a coltura, ed in affitto da cittadini della vicina Terra di S. Angiolo le Fratte, discacciandone i medesimi, colla pretensione che fossero demaniali dell’Università56.

Più che esprimere un accentuarsi della «fame di terra» («li stessi collitiganti – sosteneva la parte baronale, ed almeno in una certa misura questa affermazione corrispondeva alla realtà – ben sanno che il territorio della loro Patria è pur tanto vasto, ed ampio, che lor medesimi chiamando li faticatori dalle vicine terre della Polla, Atena, Sasso e Pietrafesa, anche ne resta buona parte inutile e senza semina»)57 l’iniziativa mirava ad affermare il diritto della comunità su quelle terre che i cittadini avevano «da boscose a proprie spese di tempo in tempo [...] ridotte a coltura [...] senza minimo impedimento»58. Queste manifestazioni anticipavano, comunque, una pressione delle masse povere sulla grande proprietà fondiaria, che sarebbe diventata più aperta, minacciosa e generale con lo sviluppo del processo di privatizzazione della terra e di concentrazione della proprietà, e che, già alla fine del secolo, si sarebbe indirizzata anche contro i nuovi proprietari borghesi. Ancora in questo quadro si può collocare un episodio analogo avvenuto ad Atena, nel 1728: anche qui gruppi di contadini, capeggiati dagli amministratori comunali, devastarono ed occuparono alcuni terreni al confine con Brienza, intendendo con questa azione affermare l’appartenenza di questi terreni all’Università e sottrarli al feudatario59. Ma anche se questi sono gli episodi più significativi, proprio perché anticipano un orientamento che prenderà sempre maggiore consistenza tra i contadini poveri, sfociando poi in una   Ivi, 25.I.13.   Ibidem. 58  ACB, 48.VI.15. 59  Ivi, 45.I.23 e 48.VI.12. 56 57

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serie di occupazioni di terre tra il 1799 ed il 1810, altri motivi arricchiscono la storia dell’opposizione contro il signore: difesa degli usi di pascolo e di legnatico nelle terre feudali (lite per la fida degli Atenesi a Brienza; controversie sugli usi civici nel bosco del Perillo) che vede i contadini non solo contro il barone, ma anche contro gli altri grossi proprietari di bestiame60; difesa del patrimonio delle cappelle e dei monti di pietà contro il barone e l’ingerenza ecclesiastica; resistenza alla imposizione di antiquati tributi feudali (Pietrafesa contro il pagamento dell’«auditorio», nel 1720, ed ancora nel 1766)61. Più tardi, fatto indicativo dello spirito di indipendenza acquistato dai proprietari borghesi, furono questi che presero lo spunto dalla legge che aboliva le «decime sacramentali» per attaccare tutto il pesante fardello di tributi e di limiti comunitari e feudali che gravavano sulla terra coltivata62. In quest’ultima occasione, il clero ed il barone si ritrovarono uniti per fronteggiare il pericolo, ed il notaio Antonio Menafra, che a Brienza aveva capeggiato il movimento, accusato di «fomentare la sollevazione di molti scellerati suoi aderenti che minacciavano incendio e strage», fu imprigionato dalla corte locale63.   Ivi, fascio 142.   Ivi, 25.II.2, Sequestro dei beni del sindaco ed eletti di Pietrafesa per il mancato pagamento dell’adjutorio da parte dell’Università, in occasione del matrimonio di D. Giulia Caracciolo con il principe di Ischitella (1720); ACB, 25.II.3, Ordine della Summaria per il pagamento dell’adjutorio per il matrimonio di Teresa Caracciolo con il duca Gaetano Cesarini Sforza. «A similitudine de’ sovrani i baroni possono domandare dagli abitanti del feudo un sussidio o sia l’adjutorio di cinque carlini a fuoco se si tratta di redimere il barone fatto prigioniero in servizio del Re, o se si tratta di maritare o monacare una figlia o sorella di lui; ma oggi si richiede il permesso del Re» (Galanti, Descrizione geografica e politica delle Sicilie, cit., I, p. 355). 62  ACB, fascio 102, Processi criminali di Pietrafesa. Processo contro D. Gerardo Cavallo; ACB, fascio 106, Processi criminali di Sasso. Processo contro D. Donato Coronato. 63  ACB, fascio 142, Processo contro il notaio Antonio Menafra. Riportiamo il memoriale inviato subito dopo l’arresto del Menafra al consigliere Capece Zurlo: «Il procuratore de’ cittadini della terra di Brienza supplicando espone a V.S. come per esentarsi tuttavia quella cittadinanza dalle violenze che in detta terra commette il clero per l’esazione delle decime, e far uso de’ reali ordini del 1783 come si sta pratticando da tutte le Università convicine, ricorsero nel S.R.C. e domandarono l’osservanza di detti reali ordini, avendo di già fatto il deposito in partibus della congrua conciliare spettante a detto Clero, e della mercede per l’economo a tenore de’ reali ordini. Fu commessa tal causa alla degnissima persona di V.S. la quale si compiacque spedire la cautela ed inibizione di più procedere a quella local Corte, la quale è tutta aderente al Clero, ma fatto fu che portatesi dette provisioni a no60 61

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Durante tutta la prima metà del Settecento, la «lotta per la terra» restò prevalentemente legata alle interne caratteristiche e tendenze del latifondo baronale, la cui gestione comportava un continuo rinnovarsi ed inasprirsi dei contrasti all’interno del feudo. Nel corso di più di un secolo, dal 1625 al 1740, la proprietà fondiaria baronale subì significative frammentazioni, intimamente connesse con il modo feudale di amministrazione: migliaia di tomoli di terra furono concessi in enfiteusi ed a colonìa perpetua. Erano rari i cittadini dei quattro Comuni che, a metà del Settecento, non pagassero un censo al barone per uno o più lotti di terreno. Una parte della grande proprietà era così polverizzata, per l’incapacità del signore di intervenire direttamente nell’opera di dissodamento e di trasformazione, sollecitata dall’esigenza di mettere a profitto in modo permanente le terre acquistate tra la fine del Cinque e i primi del Seicento. Ma accanto al fenomeno del frazionamento – che si arrestò e scomparve nella seconda metà del Settecento – si manifestava l’opposta tendenza all’espansione, anch’essa legata in modo evidente al carattere latifondistico della proprietà terriera, il cui ampliamento rappresentava per il barone il modo più naturale per mantenere o rafforzare il dominio economico, specialmente quando si era formata e tendeva a svilupparsi attorno al latifondo, com’era inevitabile, una frangia di piccola proprietà. L’equilibrio veniva così mantenuto, e la piccola proprietà contadina conservava il suo carattere complementare rispetto al latifondo. Una piccola e tenace guerra era perciò permanentemente accesa ai confini del latifondo, tra il feudatario, da una parte, e le Università, il clero, i proprietari privati, dall’altra, fonte principale delle agitazioni, degli odi, delle violenze che scuotevano i centri rurali. Abbiamo accennato ad episodi relativi all’appropriazione di territori comunali a Brienza e ad Atena: questi, ed altri episodi analoghi verificatisi tra tificarle al governatore di quella D. Domenico Sarda il medesimo di fatti carcerò Notar Domenico Antonio Menafra che andiede a presentarli dette provisioni e lo tiene tuttavia carcerato; e come per detta causa necessita pubblico parlamento, egli per favorire detto Clero lo va disturbando, e differendo. Ricorre perciò da V.S. e la supplica dare l’ordini opportuni, che il sindaco ed eletti convochino il pubblico parlamento perché possa l’Università manifestare la sua intenzione, ed intanto ordini l’informazione del grave attentato commesso da detto governatore locale coll’aderenza di detto Clero, e di lui fautori, e tra di tanto che più non ardischi procedere in detta causa».

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il XVI e il XVII secolo, appartengono al momento in cui, attraverso una impetuosa lotta frontale tra Università e baroni, si costituivano i fondamenti stessi della struttura moderna del feudo; sono, si può dire, i primi atti di quella «guerra di confini» che poi durò fino all’eversione della feudalità. Il peso che avevano allora sulle Università i diritti feudali (che, insieme alla forte pressione fiscale dello Stato, determinarono un larghissimo indebitamento dei Comuni) offriva una base permanente alla conquista di terre demaniali da parte del barone. Più tardi, questa base venne in gran parte a mancare e la tendenza espansionistica acquistò un carattere più molecolare e «normale», che mantenne durante tutto il secolo XVIII. Nel 1752, il clero di Brienza riprese una causa contro la famiglia Caracciolo per 205 tomoli di terre usurpate «metu et violentiis» molti anni prima. In un altro caso si erano «confusi li termini seu limiti» tra le terre del clero e quelle del barone ed altre centinaia di tomoli erano passate al feudatario. Più drammatica è la vicenda dei beni di una congregazione laica, la cappella del Rosario, che svolgeva a Brienza attività creditizia ed assistenziale ed era il più importante dei numerosi organismi di questo genere esistenti nei quattro Comuni (le sue rendite provenivano sia da piccoli capitali prestati con l’interesse dell’otto per cento, sia da terreni ed animali). Intorno al 1718, la cappella fu invasa da pretensioni dell’Illustre Marchese di Brienza, il quale, non sapendo che motivo addurre, comparve nella Corte vescovile [...] ed ivi dedusse che detta Cappella e Confraternita era padronato di sua casa; una tal pretensione non potendo aver luogo alcuno senza giustificazione di scritture, ebbe però uno scandaloso effetto, e fu quello, che portò la divisione e dissipazione di quei beni, poiché il Vescovo di quel tempo sopra docati duecento cinquanta [di rendita] ne formò beneficio, che conferì a suo nipote, il quale è l’odierno monsignor Anzani Vescovo di Campagna e Satriano, e sopra annui docati trecento dichiarò beneficio del possessore Marchese di Brienza; la rimanente reliquia restò per la povera Cappella, e non vi fu chi ostato avesse alli concerti del Vescovo con quel Marchese [...] Così furono dissipati i capitali, e l’annue rendite, e tutto il restante che era in cassa.

La questione fu ripresa quando fu eletto procuratore della Cappella, per quei pochi beni che le erano rimasti, il chirurgo Antonio Casella. Costui, invocando la real protezione e dichiarando di non

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aver potuto fino allora promuovere «tutte quelle ragioni ed azioni che alla Confraternita competevano, secondando l’unanime consiglio de’ Confratelli [...] perché avrebbe portato pericolo della vita, come cose odiose al detto Marchese», inviò a Napoli, il 28 luglio 1747, una denuncia in cui si raccontavano dettagliatamente le vicende dei beni della cappella. Era appena iniziata l’inchiesta ordinata dal Sacro Regio Consiglio quando il Casella venne arrestato dai bargelli della corte baronale, insieme a due testimoni che avevano deposto davanti ad un funzionario regio, ed i suoi beni vennero sequestrati. Scarcerato per ordine dell’Udienza provinciale, alla quale aveva fatto ricorso, fu di nuovo, subito dopo, imprigionato nelle carceri baronali. Le vicende posteriori risultano con drammatica evidenza da successivi memoriali inviati al re, testimonianza di uno spirito di lotta e di una capacità di resistenza che il lungo regime feudale non aveva fiaccato nelle popolazioni del Mezzogiorno: «...Non solo carcerato de fatto, bastonato, e posto in un orribile criminale per morirvi, da cui ne fu escarcerato per ordine della Regia Udienza; ma indi di nuovo carcerato e poi fattoli tirare colpo di scoppettata [...] supplica Vostra Maestà di provvederlo di cautele, acciò fosse sicuro da altre insidie della vita e lontano da altre carcerazioni ingiuste». «Ora ha fatto di nuovo carcerare esso povero supplicante nelle orribili carceri criminali dalla Maestà Vostra espressamente proibite, il 28 novembre, ove corre pericolo di morirvi anche per le battiture che sono per carricarseli». «Ecco, Maestà, che li giusti ricorsi fatti al suo maestoso trono in vece di frenare li suddetti han cagionato sempre maggiore ardimento [...] Veda Sua Maestà come coloro trattano li vassalli che sono li fedelissimi schiavi di Vostra Maestà, e come la Vostra Maestà è tenuta [...] Su l’avvanzamento e pennenza di tanti ricorsi, chi non avrebbe creduto che sotto l’ombra della Maestà Vostra ogni ricorrente sarebbe stato più sicuro!». Quando, ai primi del ’48, giunse a Brienza l’uditore provinciale per proseguire l’indagine sui diritti relativi alla cappella del Rosario, il Casella, già stremato e morente per le torture che gli erano state inflitte, venne liberato: ancora sul letto di morte trovò la forza di inviare una nuova breve protesta: «La prepotenza de’ baroni – vi si legge – è sempre tale da far vedere il bianco per negro ed il negro per bianco». Un racconto della «morte disperata» di Antonio Casella (con la quale la questione del recupero dei beni usurpati fu definitivamente messa a tacere) è in un memoriale della moglie: «...In atto spirava li posero guardie a

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vista [...] Subito spirato uno de’ barricelli sparò colpo d’archibugiata per aviso del trionfo chiamando gente al nuovo spoglio delli beni per industria e sudore ed a costo della vita mantenuti ed acquistati alla povera Cappella, siccome de fatto accorse il governatore Negrone con numero di gente armata barricelli del detto Marchese [...] i quali unitamente fingendo un inventario spogliarono essa supplicante così de’ propri beni come di quelli della stessa Cappella [...] e ciò con scaliazioni di finestre e scassazione di porte, senza che la supplicante avesse potuto vedere i suoi interessi, tenendo il cadavere di suo marito in casa»64. L’impegno diretto del barone nella lotta per la terra e per il predominio economico rivela pienamente, in questo caso, la faccia non paternalistica del regime feudale. Più spesso, i tentativi di usurpazione si svolgevano in modo complesso e indiretto: in particolare, attraverso l’eccitazione dello spirito municipalistico e delle rivalità di interessi tra Comuni confinanti. La storia dei piccoli Comuni meridionali è intessuta di mille episodi di rivalità municipalistica, nati attorno a motivi che appaiono futili, ma che sono il rivestimento esteriore di concreti contrasti di interessi, di cui talvolta i grandi proprietari erano gli animatori consapevoli. Nel 1732 un atto pubblico di alcuni cittadini di Sant’Angelo le Fratte denunciò occupazioni di terre da parte dei Brienzesi; nel 1741 il Convento di Polla fece un ricorso contro alcuni Brienzesi che «per forza e con violenza» si erano impadroniti di alcuni territori seminativi. In entrambi i casi, il barone sostenne la lite, nel corso della quale si rivelava che gli occupanti pagavano al barone stesso l’affitto di quei terreni. Più rilevante, anche perché vi erano direttamente interessate le Università, fu una lite per i confini tra Atena e Brienza. Nel 1727, l’Università di Atena fece ricorso al governo centrale per essere reintegrata nel possesso di alcuni territori demaniali ai confini con Brienza; pochi mesi più tardi, il 4 febbraio 1728, un gruppo di cittadini capeggiati dal sindaco Agostino Pepe devastò in quella zona «così quattordici tomolate di seminato d’orzo, come altre undici di grano esistente in erba con zappe, ed altri istromenti di campagna». L’Università di Brienza querelò, quindi, nell’Udienza provinciale il sindaco e gli eletti di Atena che furono arrestati, mentre tutta la cittadinanza era   I documenti citati sono in ACB, 137.XVIII.

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in tumulto. L’intervento di Brienza era dovuto evidentemente alle pressioni del barone: gli stessi Atenesi se ne rendevano conto (l’Università di Brienza «ha il solo nome della causa [...] L’illustre Casa di Brienza fa detta lite per nostro trapazzo e dispendio col nome di detta Università») e le ragioni erano chiarite nella relazione del «tavolario» Vinaccia, incaricato di fare un sopralluogo: «Vivono le suddette terre – egli scrisse – in vario costituivo e corresponsione al mentuato Barone, esigendo il medesimo da’ terreni di Brienza molta più rendita e frutto che non da quei di Atena, essendo quei esenti da ogni prestazione al Barone per la decima de’ seminati, e vigesima quinta al Capitolo. Onde li converrebbe molto più espandere i terreni in giurisdizione di Brienza, che non in Atena»65. La funzione unitaria del Comune nella lotta contro l’espansionismo e gli abusi feudali era destinata ad esaurirsi a mano a mano che si accentuava, con lo sviluppo della proprietà fondiaria del medio ceto, la differenziazione delle forze sociali. La lotta antifeudale doveva entrare allora in una nuova fase e svolgersi secondo la linea ideale tracciata dagli illuministi, che praticamente investiva l’ordinamento economico-sociale nel suo insieme. In questa fase, il contrasto tra borghesia e contadini doveva assumere importanza assai maggiore di quello tra l’Università e il barone. Già all’inizio del regno borbonico, pur se in parte la lotta antifeudale continuava a svolgersi secondo le forme tradizionali (e così sarebbe continuata fino ai primi dell’Ottocento), come contrasto cioè tra barone e Comuni, è possibile notare che il Comune non rappresentava più gli interessi dei «vassalli» nel loro insieme: a volte, esso diveniva strumento di rivendicazioni contadine, limitato nella sua azione dal controllo finanziario della Camera della Sommaria e politico del governatore locale, sia contro il barone, sia contro i proprietari borghesi; a volte, erano questi ultimi che, conquistando l’amministrazione comunale, le davano un indirizzo contrario al mantenimento dei limiti comunitari e pubblici all’esercizio della proprietà. Anche di fronte ai tentativi del barone di ingerirsi nell’amministrazione del Comune, ed in particolare nelle elezioni (tentativi contro i quali, in altri tempi, tutta la popolazione o almeno tutti i 65  ACB, 48.VI.8; Archivio Comunale di Atena Lucana (d’ora in poi ACA), Deliberazione parlamentari, 30 marzo 1729.

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cittadini non legati da vincoli di dipendenza diretta al feudatario si sarebbero uniti), già intorno alla metà del secolo, l’orientamento dei vari gruppi era determinato dai motivi immediati che erano in causa in quel momento, piuttosto che dal desiderio di difendere comunque l’indipendenza dell’Università. Unanime è ancora ad Atena, nel 1728, la reazione contro gli armigeri ed agenti del barone che «vanno seducendo i cittadini, acciò diano la voce nelle elezioni a persone sue dipendenti, minacciando varie carcerazioni e maltrattamenti a tutti quei che non obbediranno alla sua volontà, e particolarmente a’ debitori suoi per causa d’affitti de’ territorij, o per altre cause»66. Ben diversamente vanno le cose a Brienza nel 1739: qui all’origine della vicenda è la decisione del parlamento di imporre «un nuovo e non mai pratticato dazio sugli animali». Un gruppo di 120 cittadini ricorre al Sacro Regio Consiglio contro questa decisione, ma nello stesso tempo, prevedendo l’insuccesso del ricorso, si adopera per «far sortire l’elezione sopra soggetti, da’ quali non più si possa proseguire la causa suddetta», ed il barone, d’accordo con il gruppo dei benestanti, interviene con tutto il peso della sua forza (anche dopo che il Regio Consiglio ha proibito ai dipendenti ed ufficiali del feudatario ed a coloro che hanno promosso la lite di partecipare alle elezioni) per minacciare ed intimidire gli elettori e gli amministratori uscenti, che dovevano proporre i nuovi nomi, provocando tumulti nel paese e violenze nell’assemblea67. Diventando più omogeneo e differenziandosi sempre più sul terreno economico, un nuovo gruppo sociale si distacca definitivamente dal fronte dell’opposizione antifeudale: esso avrebbe aderito poi, nel ’99, alla rivoluzione repubblicana. In questo ambiente nacque a Brienza, ma per formarsi e svilupparsi a Napoli (dove fu anche per un certo periodo «avvocato criminale» stipendiato dai Caracciolo), il maggiore rappresentante della Repubblica, Mario Pagano. Qual è la posizione di questo gruppo, il suo orientamento politico-sociale? Esso si trova di fronte a due aspetti del regime feudale, aspetti che, pur essendo l’uno e l’altro espressione della stessa realtà e dello stesso tipo di organizzazione sociale, sono tuttavia fortemente ed immediatamente in contrasto tra loro: il primo, rappresentato   ACB, fascio 138, Ricorso dell’Università di Atena alla Regia Udienza.   Ivi, fascio 142, Processus electionis Universitatis Burgentie.

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dalla «prepotenza» baronale, dai poteri di fatto e di diritto del barone (e dagli analoghi poteri economici e politici della Chiesa), il secondo, dai «diritti» comunitari più o meno riconosciuti dei contadini che limitavano la libertà di esercizio della proprietà terriera. È contro questi ultimi che, almeno fino al 1806, l’azione del medio ceto riesce in definitiva più efficace; ed anche se ciò non è esclusivamente in rapporto con questa azione, ma è soprattutto conseguenza dell’interno cedimento di quel precario equilibrio che, attraverso le concessioni enfiteutiche, gli usi civici, il controllo sui prezzi e sul commercio dei generi alimentari, gli istituti di assistenza ecc., si era creato nel sistema feudale, la massa dei contadini appare, negli ultimi anni del secolo, soggetta all’usura più spietata. Un giudizio sulle caratteristiche delle lotte sociali della fine del secolo e sulle ripercussioni che ebbero nella nostra zona e nella maggior parte delle campagne del Regno gli avvenimenti politici del periodo rivoluzionario non è possibile senza tener conto anche del fatto che uno degli aspetti della disgregazione del regime feudale, che da decenni si stava verificando, era la decadenza degli strumenti di difesa dei contadini poveri e l’eliminazione della influenza che essi avevano sugli organismi amministrativi, e che già prima del 1806 si veniva concretamente preparando l’affermazione «di quegli ordinamenti politici e sociali, che avrebbero lasciato priva di tutela e di rappresentanza una intera classe di cittadini»68; una classe, o meglio, un insieme di strati sociali contadini, che conservava ancora nella società meridionale una grande forza d’urto, tanto più grande quanto più deboli erano le strutture capitalistiche che si creavano nelle campagne, e quindi storicamente meno giustificata la concentrazione dei poteri amministrativi e politici locali nelle mani del ceto medio. La stessa debolezza economica della borghesia stimolò, specialmente dopo l’eversione della feudalità, l’uso più oppressivo e violento di questi poteri, e fu, quindi, uno degli elementi determinanti di quel sistema di odio e di paura che caratterizzò i rapporti sociali nelle campagne nel secolo successivo. Il fatto che l’azione antifeudale del medio ceto si differenzia, ad un certo punto, da quella dei contadini (nel senso che si è detto) 68  G. Fortunato, Corrispondenza da Salerno. L’emigrazione, in «Rassegna Settimanale», V, 1880, fasc. 115, pp. 190-192.

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va, tuttavia, messo in rapporto con il maturarsi, in seno a quel ceto, di una coscienza politica, con il suo farsi, in certo modo, borghesia: l’orizzonte della lotta antifeudale si allarga, superando i limiti tradizionali dentro i quali essa si svolgeva e la forma del contrasto immediato col signore feudale, e rivolgendosi, se non proprio contro l’ordinamento dello Stato, almeno contro alcuni aspetti di esso; al contrario, le lotte contadine mantengono ancora i caratteri arcaici e tradizionali, restano lotte immediate contro il barone, chiuse nell’ambito del Comune. Alcune rivendicazioni sostenute dai gruppi di benestanti dei nostri Comuni – a proposito dell’annona e del parlamento – si ricollegano a nuove posizioni ideali raggiunte dal pensiero illuministico napoletano e diffuse dalla scuola genovesiana. Atteggiamenti più radicali ed espressioni più aperte del maturarsi di una opposizione al regime feudale nel suo complesso è assai difficile coglierne sul piano locale, anche perché i documenti che abbiamo a disposizione – in modo particolare gli atti dei processi delle corti locali e delle Udienze provinciali – non lasciano trapelare indizi sufficienti: alla formulazione di accuse specifiche in senso politico, gli ufficiali baronali e le corti locali preferivano accuse più generiche o veri e propri pretesti, «eresia», «sedizione», «falso» ecc. Così, per esempio, un dottore Gaetano Taurisano di Sasso, che nel 1767 denuncia «tredici capi di delitti contro il Marchese», è accusato un anno dopo «de prava consuetudine blasphemandi nomen Christi, Virginitatem Mariae SS. aliorumque Sanctorum», «de levitate vitae cum nonnullis excessibus commissis, et signanter cum perturbatione pacis Terrae Saxi»69. D’altronde, il maturarsi di una coscienza politica nella borghesia non esclude la permanenza di contrasti diretti di tipo tradizionale, anche se questi tendono a diminuire tra la metà del secolo ed il 1799. Una ripresa dello spirito antibaronale nelle forme tradizionali, dopo il 1790, è legata anche alle iniziative della monarchia, che proprio dopo la Rivoluzione francese accentua la sua attività riformistica in direzione della feudalità laica, cercando di limitare i poteri giurisdizionali, costringendo i baroni a dimostrare la legittimità dei diritti proibitivi, abolendo i «pedaggi», autorizzando la divisione dei demani ecc. Sono riforme che non colpiscono i princìpi, ma sono   ACB, fascio 163, Allegazione per l’illustre Marchese di Brienza.

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rivolte piuttosto a contenere dentro i limiti della legalità (feudale) il dominio del baronaggio: riforme insufficienti, quindi, anche di fronte alle esigenze ideali e politiche che si sono venute affermando in quegli anni in seno al ceto medio dei centri rurali, e che cadono in un momento in cui più che mai anacronistici appaiono certi privilegi della nobiltà e logori i poteri politici ed amministrativi che essa esercita localmente. Gli orientamenti che si erano formati nel corso di un secolo, e la profonda divisione che si era creata tra gli strati fondamentali della popolazione, si manifestarono nel modo più drammatico quando, crollata nel 1799 l’impalcatura dello Stato borbonico, si aprì la strada all’affermazione rivoluzionaria delle rivendicazioni antifeudali. Sono note le vicende della rivoluzione del 1799 in Basilicata70: riesaminarle, sia pure brevemente, ci condurrebbe oltre i limiti che ci siamo proposti, per la ricchezza e complessità dei problemi politici che quelle vicende ripropongono. Ci limiteremo perciò a qualche accenno. Numerose municipalità repubblicane furono costituite, quasi sempre ad iniziativa di benestanti, nella prima metà di febbraio, spesso ottenendo l’adesione e l’appoggio dei ceti popolari, specialmente là dove gli elementi più radicali della borghesia repubblicana ebbero il sopravvento. La speranza di riconquistare le terre demaniali privatizzate o di ottenere nuove terre sottraendole alle proprietà feudali o borghesi, fu quasi dappertutto l’elemento fondamentale della partecipazione popolare, che assunse subito nettamente il carattere di assalto alla terra; ma ciò fu causa, nello stesso tempo, dell’immediato irrigidimento di una gran parte della borghesia. In questa frattura, di cui si ebbero subito tragiche manifestazioni, si inserì l’azione dei sanfedisti. Già nei primi di marzo, in seguito a spontanee rivolte popolari, gli alberi della libertà furono abbattuti quasi dovunque, le municipalità sciolte, molte case di benestanti saccheggiate. Le insurrezioni 70  Vedi G. Fortunato, Il 1799 in Basilicata, in Pagine storiche, a cura di U. Zanotti Bianco, Firenze 1951; R. Sarra, La rivoluzione repubblicana del 1799 in Basilicata. Frammenti di cronache inedite, Matera 1901; T. Pedio, Radicali, moderati e conservatori durante la Repubblica partenopea (note ed appunti sul 1799 in Basilicata), Potenza 1958; Id., Uomini, aspirazioni e contrasti nella Basilicata del 1799. I rei di Stato, Matera 1961.

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contadine, punteggiate qua e là da occupazioni di terre demaniali, e talvolta, anzi, provocate dalla resistenza delle municipalità repubblicane alle occupazioni di terre71, spesso non ebbero, all’inizio, un indirizzo politico, anche se quasi subito gli insorti si organizzarono in grosse bande; lo acquistarono qualche tempo dopo, quando le colonne del cardinale Ruffo, avanzando nel versante jonico (le avanguardie calabresi raggiunsero Matera il 16 aprile, mentre il cardinale vi entrò il 4 maggio), e le bande borboniche del Principato Citra, penetrando in Basilicata in due direzioni, verso i confini con la Calabria e verso Potenza, diedero una bandiera alle masse degli insorti. Centro di resistenza repubblicana restò per qualche tempo un gruppo di Comuni del potentino, che unirono le proprie forze in un «patto di concordia» per la comune difesa: Muro Lucano, Avigliano, Picerno, Tito, Tolve, San Fele, Potenza72. Il feudo dei Caracciolo si trovava ancora una volta al centro di un incendio che investiva, da un lato, il Vallo di Diano, e dall’altro, i Comuni dell’alta valle del Basento. A Napoli alcuni membri della famiglia Caracciolo si schierarono a favore della Repubblica73. Il famoso ammiraglio Francesco, che morì impiccato sulla nave di Nelson, era nipote del marchese di Brienza ed aveva una rendita annua di 500 ducati sul feudo di Atena74; l’agente generale del mar71  «In Forenza, ‘luogo democratico’, furono vittime del furore popolare i fratelli Cancellara. Giuseppe Cancellara, sindaco, aveva fatto tradurre in arresto molti contadini, che abusivamente avevano dissodato parte del bosco Piro» (Sarra, La rivoluzione repubblicana del 1799 in Basilicata, cit., p. 42). 72  Fortunato, Il 1799 in Basilicata, cit., p. 170. 73  Tra i nobili favorevoli alla Repubblica il cronista De Nicola annovera un Antonio Caracciolo dei marchesi di Brienza (vedi V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, con introduzione, note ed appendici di N. Cortese, Firenze 1926, p. 328). 74  Sequestrati durante la reazione, i beni furono poi restituiti nel 1801. Ecco la lettera con cui viene comunicata al marchese di Brienza la restituzione: «Avendomi il marchese di Montagna generale amministratore de’ beni de’ rei di Stato con sua di ufficio de’ 28 passato mese di settembre corrente anno comunicato Real Dispaccio de’ 26 detto mese, col quale la Maestà del Re N.S. restituisce, e rilascia gli effetti confiscati, pubblicati e sequestrati per passarsi a confisca, alli proprietarj e padroni diretti con accordar loro la libera percezione de’ frutti pervenuti da’ di loro effetti, e beni dal giorno del detto Real Fisco, per detta Generale Amministrazione, direttamente, o per mezzo de’ legittimi incaricati, ed esattori, inculcandone l’esatta esecuzione; quindi mi dò l’onore partecipargli questa Sovrana determinazione, acciò le somme dovute a causa della Terra di Atena, di pertinenza del fu Cavaliere D. Francesco Caraccio-

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chese, Domenico Fanelli di Brienza, fu uno «fra i più attivi democratizzatori» della zona, e con lui Sebastiano Pessolano, Vincenzo Giacchetti, Gaetano Sambuco e Silverio Barile di Atena promossero la costituzione di municipalità repubblicane anche nei paesi vicini75. Incerta e contraddittoria fu, tuttavia, la loro azione: basti pensare che già il 27 febbraio alcuni di essi (Barile, Giacchetti e Pessolano, quest’ultimo probabilmente un discendente di quel notar Fabio che abbiamo visto, ben altrimenti e disperatamente audace, alla testa del movimento antifeudale nel Vallo di Diano durante la rivoluzione del 1647-48) furono eletti revisori dei conti dell’amministrazione comunale da un parlamento che decise, contemporaneamente, di levar truppe per resistere «alla baldanza dei tiranni francesi e di tenerle pronte a semplice richiesta del comandante Gerardo Curcio»76. Già in quei giorni aveva inizio la terribile ondata controrivoluzionaria, che trovava il suo capo, in quella zona, nel «generale» Curcio; ma, prima ancora che questi avesse potuto raccogliere forze sufficienti per iniziare la sua marcia, le municipalità repubblicane avevano cominciato a sciogliersi sotto la pressione delle agitazioni e dei tumulti contadini che si verificavano dappertutto. Resistevano soltanto quei paesi in cui il movimento repubblicano aveva potuto creare una più vasta e salda organizzazione civile e militare, anche perché aveva conservato l’appoggio popolare mediante concessioni di terre (ad Avigliano, per esempio, i contadini «non furon domi se non dopo che la municipalità permise loro la occupazione del bosco di Montemarcone e del castello di Lagopesole»)77. Da Pietralo da oggi avanti per quella parte che spetta alla detta Generale Amministrazione, riconoscerà per vero, legittimo ed assoluto Padrone l’odierno Duca D. Pasquale Caracciolo, e per esso la sua madre tutrice D. Rachela Di Gennaro, unitamente al di lui tutore avvocato Signor D. Gaetano Greco, ed alli stessi pagherete le tanne maturate e non pagate al Regio Fisco, per la detta Generale Amministrazione, non che quelle maturande, e con sentimenti della più perfetta stima sono di V.E. devotissimo servo Gaetano Notarangeli. Napoli 4 novembre 1801» (ACB, 2.XV). 75  L. Cassese, Giacobini e realisti nel Vallo di Diano, in «Rassegna storica salernitana», X, 1949. Uno dei paesi «democratizzati» dei repubblicani atenesi fu Polla, patria del famoso Gerardo Curcio, detto Sciarpa, che ebbe una parte di primo piano nell’organizzazione delle bande controrivoluzionarie nel Vallo di Diano e nella provincia di Potenza. Il Curcio prima di diventare capobanda sanfedista, fu nominato dai repubblicani capo della truppa civica di Polla. 76  ACA, Deliberazione parlamentare, 23 febbraio 1799. 77  Fortunato, Il 1799 in Basilicata, cit., pp. 171-172.

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Parte terza. Il mutamento di Stato: esperienze e tentativi

fesa i «giacobini», minacciati di sterminio, fuggirono e si rifugiarono a Tito, rimasta repubblicana; questa fu attaccata e devastata dalle bande di Curcio, ma di nuovo ripresa dai repubblicani di Avigliano, Picerno e Muro, i quali, nell’intento di fermare l’ondata controrivoluzionaria, attaccarono poi, il 19 aprile, Pietrafesa: una settantina di popolani, tra uomini e donne, restarono uccisi ed il paese fu devastato. «Pietrafesa rammenta ancora – scrisse Giustino Fortunato – la terribile ‘settimana di San Marco’»78. I repubblicani del «patto di concordia» resistevano ancora nella prima metà di maggio: ma uno dopo l’altro i Comuni repubblicani cedettero agli assalti delle bande di Curcio, che il 18 maggio, dopo avere travolto la resistenza di Picerno e Muro, entrò a Potenza. Quale fosse, sul terreno più strettamente economico, l’orientamento di questi contadini che prendevano le armi contro i «giacobini», si può comprendere facilmente se si pensa al gran numero di invasioni di terre che si verificarono durante i mesi della rivoluzione79. Una delle prime ordinanze emanate dal luogotenente regio eletto ad Atena dalla popolazione esprime, appunto, la preoccupazione che destava questo «assalto alla terra»: Le robbe del fu Principe, decadute al Regio Fisco [in effetti fu poi sequestrata soltanto la rendita spettante all’ammiraglio Francesco Caracciolo] siano stimate e riguardate dalla custodia civica, e chi ardisce dannificarle, come altresì le Robbe decadute al Regio Fisco quelle erano dei Signori Sabini, sia sottoposto alle pene, ed anche si possa carcerare da qualsiasi persona ed anche fucilare80.

Ma la gestione comunitaria del demanio non era ormai più per i contadini, come nel passato, una garanzia di stabile legame con la terra. L’assalto alla terra si manifestò, quindi, nel ’99, in modo anarchico e furioso. Al miraggio di estendere e rafforzare il demanio attraverso la reintegrazione delle terre usurpate dal barone o dai grossi proprietari si accompagnò anche la prospettiva di un consolidamento della piccola proprietà individuale. L’affermazione del carattere demaniale delle terre a cui i contadini aspiravano, il richiamo   Ivi, p. 175.   Vedi specialmente, a questo proposito, Pedio, Radicali, moderati, cit. 80  ACA, Deliberazione parlamentare, 7 aprile 1799. 78 79

IV. La lunga crisi di uno «Stato» feudale

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a recenti ed antiche usurpazioni, diventò anzi principalmente – e tale sarebbe rimasto anche in seguito – un modo primitivo per legittimare la richiesta di una redistribuzione della proprietà fondiaria o, meglio, di partecipazione dei contadini ai vantaggi della disgregazione dell’economia feudale e per unire le forze attorno a tale richiesta, essendo ormai divenuta secondaria l’aspirazione al mantenimento della «proprietà comune». Ma, respinta decisamente dal medio ceto, questa richiesta non poteva assumere un valore politico; e, restando sempre avviluppata e soffocata nel vecchio schema demanialistico, non poteva diventare la base di un’organica azione rivendicativa per la terra, in un’epoca che segnava ormai dappertutto il definitivo ed assoluto trionfo della libera proprietà privata.

Parte quarta

Arte della prudenza: L’assolutismo nel guado

I

La Spagna, l’Italia e la politica assolutistica La discussione e la ricerca sull’Italia spagnola hanno trovato già da tempo il terreno loro proprio, comune alla storiografia degli altri paesi europei, dopo essere state per lungo tempo dominate da vecchie e anacronistiche polemiche. Il chiarimento è il risultato di progressi realizzati non solo sullo specifico terreno della storia italiana, ma anche su quello più generale della storia europea. La confusione tra monarchia assoluta e Stato nazionale – che Vicens Vives segnalava nel 1960 come uno dei maggiori ostacoli alla comprensione della struttura del potere nei secoli XVI e XVII1 – è in gran parte superata. Immanuel Wallerstein, ribadendo la distinzione tra Stato assoluto e nazione, ha riaffermato il concetto che, in una determinata fase storica, fu il rafforzamento dello Stato, e non il nazionalismo, il punto di riferimento dello sviluppo sociale e il supporto della formazione del «modern worldsystem»2. Non credo tuttavia che, fatta quella necessaria distinzione, si possa non tener conto delle varie e complesse forme di «consapevolezza comunitaria» e nazionale presenti nella realtà storica del Cinquecento e del Seicento o che, nel caso della monarchia spagnola, possa essere accantonato il problema degli squilibri tra centro e domini periferici. Mi sembra, anzi, che sia necessario precisare ulteriormente il meccanismo di questi rapporti per comprendere la politica generale della monarchia e le condizioni in cui vennero a 1  J. Vicens Vives, Estructura administrativa estatal en los siglos XVI y XVII, in XIe Congrès des sciences historiques, Stockholm, 21-28 août 1960, Rapports, IV, Histoire moderne, Göteborg-Stockholm-Uppsala 1960. 2  Wallerstein, The Modern World-System, cit., I, p. 145.

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Parte quarta. Arte della prudenza: l’assolutismo nel guado

trovarsi i singoli domini. Credo anche che sia necessario un riesame di ciò che ha significato il periodo spagnolo per la formazione di una coscienza politica nazionale in Italia. L’accenno che ha fatto Corrado Vivanti ad una «certa unità di direzione politica» che il paese conobbe nell’età spagnola3 ed all’inserimento dell’Italia in una dimensione mondiale ha avuto approfondimenti e sviluppi. Si dovrebbero, forse, prendere in maggiore considerazione i rapporti economici, finanziari, politici e culturali tra le varie parti del paese (Milano, Napoli, Genova), direttamente o indirettamente inserite nell’orbita di interessi e di influenza della Spagna, e tra queste e gli Stati indipendenti. Rimane, comunque, il problema del modo in cui il sentimento di una propria specifica identità collettiva – sia che coincidesse con il costituzionalismo delle classi privilegiate, sia che esprimesse esigenze delle classi popolari – e l’evoluzione della società e delle istituzioni poterono conciliarsi con la sudditanza ad una monarchia straniera. Il rafforzamento dello Stato contribuì, in generale, al superamento delle forme localistiche, municipalistiche e corporative di patriottismo e al raggiungimento di un più alto livello di equilibrio sociale. Nel caso dell’Italia, il particolarismo, la debolezza e la disgregazione interna dei singoli Stati favorirono, o resero inevitabile l’instaurazione di una monarchia straniera, ma la fine della libertà italiana creò anche la prospettiva, l’unica possibile in quella situazione storica, di una ripresa del processo di sviluppo delle istituzioni politiche e delle strutture sociali. Per mettere nella giusta luce questa realtà è stata necessaria una clamorosa revisione storica che ha dovuto respingere nettamente alcuni fondamentali presupposti della storiografia ottocentesca, che tendeva a mettere sotto un segno positivo qualunque movimento di opposizione alla monarchia straniera e ad assumere come un dato assoluto la coscienza nazionale. Esagerando il tema del nazionalismo, la storiografia ottocentesca aveva finito con l’avallare una sorta di giudizio moralistico sull’Italia spagnola. Quello che Alessandro D’Ancona scriveva nel 1854 rifletteva un’opinione allora dominante sull’atteggiamento degli Italiani di fronte al dominio spagnolo: «Un poco per difetto di ardimento, un poco perché ad ognuno piace, essendo servo, servire un potente davvero, gli italiani a Spagna 3  C. Vivanti, La storia politica e sociale. Dall’avvento delle signorie all’Italia spagnola, in Storia d’Italia, vol. II, Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVII, t. I, Torino 1974, p. 392.

I. La Spagna, l’Italia e la politica assolutistica

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si piegavano»4. La storia «grigia e uniforme, contessuta solitamente di rassegnazione al servire», descritta dallo studioso che più di ogni altro ha contribuito a illuminare contrasti e travagli della vita politica, religiosa, amministrativa della Lombardia del secolo XVI, sembra una conferma del giudizio tradizionale. Ma l’intreccio di tentativi, reazioni e posizioni diverse, ricostruito dallo stesso Chabod nelle memorabili pagine dell’ultimo suo libro incompiuto su Milano nell’epoca di Carlo V, in realtà lo modifica e lo contraddice. Ma ai contemporanei non sfuggirono le prospettive politiche nuove che, insieme alle nuove difficoltà, si erano aperte nelle regioni cadute sotto il domino straniero. Non so dove e quando sia nata l’idea che, una volta constatata l’impossibilità di evitare la perdita dell’indipendenza, gli Italiani del XVI secolo furono indifferenti alla nazionalità ed ai caratteri dei dominatori; non so in quale occasione fu coniato il motto «Francia o Spagna purché si magna». In realtà, anche sulla scelta di campo tra Francia e Spagna vi fu una vera e propria lotta politica, che ebbe precisi punti di riferimento nella realtà interna dei singoli Stati italiani e si prolungò molto al di là del momento della guerra e della conquista. L’intreccio tra fattori interni ed esterni nelle guerre della prima età moderna è stato assai largo, con fluttuazioni di forze politiche e possibilità di iniziative più ampie che nelle epoche successive: «Queste guerre – ha notato Vicens Vives – non furono una successione di urti militari tra Stati consolidati [...] ma profonde aggressioni nelle quali ebbero una parte importante le dissidenze e le opposizioni intestine di ogni incipiente formazione politica»5. A Napoli le correnti filofrancesi e indipendentistiche furono costituite, fino a metà del XVII secolo, dagli esponenti più tradizionalisti e anarchici del baronaggio. Meno netta fu la dislocazione delle forze politiche in Lombardia di fronte all’alternativa tra Francia e Spagna. La convinzione che «un dominio francese o imperiale sarebbe stato più pericoloso di quello spagnolo per la contiguità di quegli Stati»6 fu uno dei temi del dibattito politico sia in Lombardia, sia negli Stati vicini, a Venezia e a Genova. Ma anche a Milano determinati settori dell’alto clero e della nobiltà ma4  Della vita e delle dottrine di Tommaso Campanella, in Opere di Tommaso Campanella scelte, ordinate ed annotate da Alessandro D’Ancona, Torino 1854. 5  Vicens Vives, Estructura administrativa estatal en los siglos XVI y XVII, cit. 6  Vivanti, La storia politica e sociale, cit., p. 395.

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nifestarono tendenze francofile che «si alimentavano soprattutto di legami personali e tradizioni familiari, di desiderio d’avventura e di orgogli offesi e di speranze deluse»7, cioè degli stessi ingredienti, più o meno, che costituirono la base dell’orientamento politico del baronaggio filofrancese napoletano. A Milano il problema principale fu costituito dai tradizionali collegamenti economici con la Francia, che riguardavano soprattutto i gruppi mercantili e manifatturieri: fu soprattutto di questo problema che Carlo V dovette tener conto nell’elaborazione della sua politica verso lo Stato di Milano, come risulta dalla relazione fatta dal Granvelle, primo consigliere dell’imperatore, dopo la morte di Francesco II Sforza e l’instaurazione del dominio asburgico sul Ducato. Il panorama delle reazioni politiche della penisola al dominio straniero fu, dunque, relativamente vario; e soprattutto, al di là delle considerazioni diplomatiche o strettamente utilitaristiche, la questione fu affrontata anche dal punto di vista dei problemi interni, delle esigenze e degli interessi delle diverse forze sociali, delle loro tradizioni e delle loro prospettive. La riflessione continuò anche dopo la fase delle guerre; ed è significativo che proprio Tommaso Campanella, arrestato e processato per ribellione contro il dominio spagnolo, sia stato, prima della lunga carcerazione, tra coloro che non considerarono una sfortuna che all’Italia fosse toccato in sorte di subire, rispetto ad altre soluzioni possibili, il dominio della Spagna. Nell’ottavo discorso ai principi d’Italia, egli ha elencato una serie di ragioni per le quali, una volta che l’Italia per forza di cose doveva «star soggetta a’ forestieri», la soggezione alla Spagna doveva essere considerata il minor male. «Mala cosa – egli scriveva – è ad ogni nazione, se non è bestiale come quelli che stanno sotto i Tropici, lo esser soggetta, e più alli italiani; ma di molti mali si deve eleggere il minore». Due punti mi sembrano importanti del ragionamento campanelliano, poiché ci riportano ai problemi di fondo e al rapporto tra l’impianto della monarchia e lo sviluppo della società: il primo è quello in cui egli stabilisce una correlazione tra l’esigenza di razionalità, che sarebbe propria degli Italiani, e il rispetto degli Spagnoli per l’autorità e la legge; l’altro è il punto in cui indica i motivi 7  F. Chabod, Lo Stato e la vita religiosa a Milano nell’epoca di Carlo V, Torino 1961. Cfr. anche D. Sella, Sotto il dominio della Spagna, in D. Sella e C. Capra, Il Ducato di Milano dal 1535 al 1796, Torino 1984.

I. La Spagna, l’Italia e la politica assolutistica

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che hanno reso possibile il mantenimento di un impero così vasto ed eterogeneo in termini che appaiono psicologici e naturalistici, ma che corrispondono anche alla realtà politica: «Io ho notato che la timidità tiene gli spagnoli uniti, che sendo pochissimi mantengono due mondi, e questa [timidità] li fa essere cortesi e cautelati, guardinghi, obedienti e sagaci»8. È difficile dare di questi brani una interpretazione che non sollevi dubbi ed eviti il rischio di forzature; ma mi sembra che, nei modi che gli sono propri, Campanella tenda ad indicare, con un’intuizione di grande respiro, problemi fondamentali del rapporto tra Spagna e domini italiani. Ragione, legge, autorità: sono i termini del rafforzamento dello Stato e del potere regio, considerati secondo quello spirito razionalistico rinascimentale che Maravall ha indicato come uno dei grandi presupposti dell’assolutismo e dello Stato moderno9. Il secondo punto riguarda l’equilibrio interno del sistema imperiale e mi sembra che vi si possa cogliere un’allusione sia alla forte unità del nucleo dirigente casigliano, sia al carattere autonomistico del rapporto con i diversi domini esterni. L’interpretazione dei brani campanelliani può essere discutibile, ma anche altri testi dello stesso filosofo, come le note Sopra l’aumento dell’entrate del Regno di Napoli e alcune pagine della Monarchia di Spagna la confermano. I temi che mi sembra possibile individuare nella sua analisi corrispondono, più che ad una situazione di fatto statica e consolidata, ai termini in cui si svolse una secolare lotta politica all’interno dei domini italiani. Il rafforzamento dello Stato e il mantenimento di un certo grado di autonomia furono problemi di fondamentale importanza. La storiografia italiana ha recuperato questa tematica, soprattutto attraverso la riconsiderazione della struttura autonomistica della monarchia e l’approfondimento della ricerca sulle basi sociali dello Stato moderno. Tuttavia, non tutte le conseguenze sono state tratte da queste premesse: rimangono ancora esitazioni ad assimilare la tematica della storia italiana a quella della storia europea dello stesso 8  T. Campanella, Discorsi a’ principi d’Italia che per bene loro e del cristianesimo, non debbono contradire alla Monarchia di Spagna, ma favorirla; e come dal sospetto di quella si possono guardare nel papato e per quella contra infedeli con modi veri e mirabili. Discorso ottavo, in Opere, cit., vol. I, pp. 68-70. 9  J.A. Maravall, The origins of modern State, in «Cahiers d’Histoire mondiale», 1961; Id., Stato moderno e mentalità sociale, Bologna 1991.

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periodo, esitazioni in parte giustificate dalla particolarità della situazione italiana e in parte residuo di una deformazione moralistica e nazionalistica della storia passata. Cercherò di chiarire in seguito il senso di questa osservazione. Intanto bisogna dire che un altro problema è rimasto ai margini della discussione e della ricerca sulla storia italiana di quel periodo e sulle stesse vicende della politica generale della monarchia: il problema del ruolo che le componenti italiane hanno avuto nella compagine «imperiale». Perry Anderson ha osservato che «una soddisfacente visione del sistema imperiale nel suo complesso non sarà possibile fino a quando questa lacuna non sarà colmata»10. Senza sopravvalutare il peso della presenza napoletana e lombarda nella storia della monarchia spagnola dei secoli XVI e XVII, credo che l’osservazione di Anderson sia giustificata. Evidentemente non è soltanto questione di dare maggiore rilievo al contributo di iniziativa e di civiltà che venne dall’Italia, né di completare il panorama delle strutture di governo o di precisare ulteriormente la funzione che, nella concezione imperiale e dinastica di Carlo V e dei suoi successori, ebbero Milano e Napoli. Si tratta, invece, di esaminare un particolare sistema di ­rapporti, che fu certamente diverso da quello che la corona ebbe con le Fiandre e con le colonie americane, e di valutare la funzione che svolsero effettivamente i domini italiani nei diversi momenti della politica generale dei sovrani spagnoli. Probabilmente i problemi sollevati dagli studi di Hamilton sulla storia finanziaria della Spagna hanno fatto sì che la ricerca si concentrasse soprattutto sul rapporto tra le colonie americane (che fu del resto una base fondamentale dello svolgimento storico della società spagnola e di tutto l’Occidente europeo), trascurando lo studio non solo delle condizioni economi­che interne della Spagna11, ma anche delle sue relazioni con i domini europei. Il giudizio sull’influenza che l’afflusso di risorse materiali del Nuovo Mondo ebbe sull’economia e sulla società spagnola è stato sempre fondamentale per la valutazione delle grandi fasi della sua storia moderna e della stessa politica generale della monarchia. Anche Pierre Vilar ha elaborato soprattutto su questa ba10  P. Anderson, Lineages of the absolutist State, London 1975, p. 79 (trad. it., Milano 1980). 11  J.H. Elliott, La decadenza della Spagna, in Crisi in Europa, cit., p. 233.

I. La Spagna, l’Italia e la politica assolutistica

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se la definizione dell’imperialismo spagnolo come «ultima fase del feudalesimo»12. Ma se il modo in cui furono riorganizzate le colonie americane e utilizzate le loro risorse esprime tendenze e caratteri della società spagnola e ci permette di cogliere aspetti fondamenta­ li della sua struttura economica e di individuare, quindi, alcuni tra i più importanti fattori della politica mondiale della monarchia, è anche vero che gli obiettivi e l’ispirazione di questa politica si manifestarono più direttamente nei rapporti con i domini europei, nel modo in cui essi furono, di volta in volta, inseriti nella strategia generale della corona. Geoffrey Parker ha dimostrato con chiarezza che l’atteggiamento e le decisioni del governo spagnolo di fronte alle vicende interne dei Paesi Bassi furono condizionati più dai problemi delle altre aree europee e della politica nel Mediterraneo che non dai ritmi dell’afflusso dei metalli preziosi dalle colonie americane e che tra gli stessi risultati dell’azione militare condotta nelle Fiandre, i suoi successi e i suoi insuccessi, e le vicende del commercio con le colonie non si può istituire una relazione meccanica13. Anche l’atteggiamento verso l’Italia si può comprendere solo tenendo conto dei problemi generali della politica spagnola, e quindi anche del suo aspetto fiammingo. D’altra parte, ci furono sempre dei contrasti sui criteri di priorità da adottare nello spostamento dell’impegno da un settore all’altro. Chabod ha riesaminato la discussione sull’alternativa tra Milano e Paesi Bassi nel 154414, questione che si ripresentò durante la guerra dei Trent’anni e che fu risolta nel senso del riconoscimento del posto centrale che la difesa della Lombardia aveva acquistato nel quadro complessivo degli interessi spagnoli. Le conseguenze di tali scelte furono ampie e profonde, e talvolta arrivarono fino a mettere in forse l’equilibrio dell’intero sistema. È vero che, per il versante italiano, il problema resta largamente inesplorato; non mi pare, tuttavia, che l’esigenza indicata da Anderson sia rimasta completamente insoddisfatta. L’idea che l’interesse principale della corona per il Regno di Napoli e per la Sicilia consistesse essenzialmente nella possibilità di   P. Vilar, Le temps du Quichotte, in «Europe», 1956.   G. Parker, La Spagna, i suoi nemici e la rivolta dei Paesi Bassi 1559-1648, trad. it., in Le origini dell’Europa moderna, cit. 14  F. Chabod, Milano o i Paesi Bassi? Le discussioni in Spagna sulla «alternativa» del 1544, in «Rivista storica italiana», 1958, 70. 12 13

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disporre delle loro risorse finanziarie è stata il motivo dominante di una lunga tradizione di studi e di giudizi che risale al secolo XVIII. Per un lungo periodo questa è rimasta una constatazione generica. Il ruolo effettivamente svolto in tal modo da quei domini nei vari periodi e momenti della storia europea, l’intreccio tra il contributo finanziario e la situazione interna, il prezzo politico che la corona dovette pagare per ottenerlo e l’impegno organizzativo e politico che esso richiese cominciano ora ad essere studiati al di là di quelle che furono le polemiche denunce e gli astratti elenchi di cifre degli storici del Sette e dell’Ottocento. Il giudizio sul fiscalismo non può prescindere, infatti, da una analisi che collochi la specifica azione finanziaria nel più largo contesto della funzione svolta dalla monarchia all’interno dei suoi domini e che tenda a valutare il modo in cui la pressione finanziaria fu esercitata, le sue conseguenze, i mutamenti che essa subì nelle varie fasi storiche, il rapporto che, in ognuna di queste fasi, ebbe con le capacità economiche dei singoli domini e con la politica generale della corona. Va precisato, comunque, che nella politica italiana la classe dirigente spagnola fu coinvolta al di là dell’interesse per le risorse finanziarie e che motivi ideali e politici di natura diversa influirono sul suo atteggiamento e sulle sue iniziative. Inoltre, Napoli e Sicilia furono direttamente impegnate, non senza contrasti e tensioni, nella politica spagnola verso l’impero turco, gli altri Stati italiani e il resto dell’Europa e del mondo. Riconsiderando il problema della misura e dei modi della partecipazione napoletana alla grande politica internazionale della monarchia, un fatto deve essere considerato. L’entità del contributo finanziario e la sua stessa destinazione furono sempre oggetto di discussione tra il sovrano e le forze politiche locali, a cominciare dal primo donativo veramente cospicuo di un milione e mezzo di ducati che il parlamento napoletano votò nel 1535 per la guerra di Lombardia. Fu questa una delle vie attraverso le quali i gruppi locali furono chiamati a partecipare in qualche modo alla politica internazionale. Credo che allora sia stata messa definitivamente a punto la tesi – che rimase un motivo costante delle scelte politiche riguardanti i domini italiani – secondo la quale Milano costituiva «l’antemurale» del Regno di Napoli. Ma per tutto il Cinquecento non si crearono gravi fratture sulla questione del contributo finanziario. Né la rivolta del 1510, né quella del 1547, né quella del 1585, né il movimento cam-

I. La Spagna, l’Italia e la politica assolutistica

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panelliano e neanche le trame aristocratiche intessute con l’appoggio francese misero allora in questione l’uso delle risorse finanziarie o cercarono di far leva sul malcontento fiscale. Ciò significa che, fino ad un certo momento, la politica della corona, fosse la difesa di Milano o la vasta azione svolta nel Mediterraneo contro i Turchi o la repressione della rivolta fiamminga, ottenne il consenso delle forze dirigenti locali. Il contributo finanziario fu messo in discussione più tardi, in una situazione profondamente mutata, insieme all’ordinamento politico interno del Regno e ad alcuni orientamenti della politica mediterranea, riguardanti in particolare i rapporti con i Turchi e con la pirateria degli Stati barbareschi. Anche l’esperienza fiamminga cominciò ad essere considerata in Italia e a diventare un punto di riferimento ideale delle correnti riformatrici soltanto durante la prima metà del Seicento. Dipendenza e autonomia, coscienza nazionale e rafforzamento dello Stato, ruolo dei domini italiani e livello di integrazione nella politica internazionale: grandi problemi sui quali occorre più che un supplemento di analisi e di ricerca. In un modo o nell’altro, essi sono strettamente legati al problema delle condizioni interne dei domini italiani. La maggior parte del lavoro e la parte più accesa del dibattito si è concentrata, in effetti, sulla funzione complessiva che la Spagna ha avuto nella società italiana e più particolarmente, poiché questo era il terreno in cui più direttamente la sua funzione doveva e poteva esercitarsi, sul contributo che essa ha dato alla costruzione dello Stato moderno nel nostro paese. La stessa scelta del tema in questi termini è stata, come ho già detto, il risultato di un mutamento di prospettive e di criteri di interpretazione. Le ricerche sull’Italia spagnola si sono a lungo adeguate alla linea di interpretazione proposta dal Croce, continuando a sottolineare la funzione positiva svolta dalla monarchia spagnola in Italia sul terreno della costruzione dello Stato moderno15. Ma non tutte le conseguenze sono state tratte da quel rovesciamento di giudizio che a suo tempo si è contrapposto alle chiusure storiografiche di matrice ottocentesca e nazionalista ma poi è diventato, nella maggior parte dei casi, una formula rigida e senza svolgimenti.

15  G. Galasso, Dal comune medievale all’Unità. Lineamenti di storia meridionale, Bari 1969.

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Le mie osservazioni riguarderanno principalmente la parte meridionale del paese non solo per motivi di maggiore competenza, ma anche perché la discussione ha avuto per lungo tempo prevalentemente, o quasi esclusivamente come oggetto il Regno di Napoli. La questione è questa: mi pare che ci sia una evidente contraddizione tra il riconoscimento che il dominio spagnolo ebbe, pur nei limiti che le condizioni di dipendenza rendevano inevitabili, la funzione fondamentale di contribuire alla creazione dello Stato moderno e la visione, più o meno aperta e dichiarata, dei domini italiani come una sorta di appendice passiva della monarchia, la cui scarsa vitalità sarebbe in definitiva confermata dall’incapacità di reagire al dominio esterno quando la situazione originaria subì un cambiamento o un rovesciamento. L’esistenza di forze politiche, riconoscibili come tali, all’interno delle province italiane, è stata più o meno radicalmente negata. Non è superfluo ricordare il giudizio del Croce, in cui la visione della realtà si polarizza in due aspetti estremi. Da un lato la monarchia, che svolse anche in Italia la funzione propria delle grandi dinastie della prima età moderna e che fu spinta dal suo stesso espansionismo a dare impulso all’organizzazione moderna dello Stato, a svolgere una politica tendente a contrastare le spinte particolaristiche e disgreganti. Di contro a questa azione sta, nell’analisi del Croce, la «riottosità e immaturità complessiva delle varie classi sociali a indirizzare le sorti del paese», la sostanziale passività rispetto al disegno della monarchia. Il giudizio si precisa nei confronti delle varie componenti: dalla «tradizionale incapacità del baronaggio a uscire dalla cerchia dei propri interessi particolaristici» alla mancanza di «vera efficacia politica» degli sforzi fatti dagli esponenti e rappresentanti del ceto medio, al sostanziale difetto di vera cultura, intesa come quell’«accordo di mente e d’animo» da cui solo può nascere l’impulso al rinnovamento civile e politico16. La discussione e le polemiche suscitate dalla revisione crociana si sono concentrate soprattutto sul primo punto, sull’azione della monarchia, nel tentativo di caratterizzarla in modo più preciso e articolato, di sottolineare le sue insufficienze e contraddizioni interne e il peso che in essa ebbero gli interessi dinastici e spagnoli.   B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari 1925, pp. 125, 133, 153.

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È rimasto invece sostanzialmente immutato il giudizio sul secondo aspetto. Riferendosi a Milano, Chabod ha parlato del desiderio «non più di svolgere una grande politica, bensì, possibilmente, di non far più politica»17. Corrado Vivanti ha sottolineato gli aspetti di stasi politica e quasi di scissione tra vita politica e società, che certamente ci furono; ma, a suo avviso, non mancarono neppure i tentativi di «una partecipazione non passiva della società» e la ricerca di «una rispondenza fra i suoi interessi profondi e l’azione che venne in vario modo sviluppata dai governanti»18. Anche se il giudizio prevalente non può essere condiviso, come cercherò di chiarire avanti, bisogna comunque riconoscere che esso contiene parziali elementi di verità. L’instaurazione del dominio spagnolo rappresentò l’esito di una crisi profonda e della incapacità complessiva della società italiana di dare una soluzione ai suoi problemi; in particolare, nel Mezzogiorno il grande baronaggio aveva ancora, alla fine del Quattrocento, una forza assai considerevole. La soluzione di continuità venne inizialmente dall’esterno, con tutto quello che ciò comportava di condizionamento e di passività; ed il momento iniziale ebbe un’influenza non trascurabile anche sui tempi e sui modi della successiva evoluzione. L’equilibrio di lunga durata fu raggiunto attraverso un rapporto effettivo con la società, con le sue diverse componenti, stabilendo anche una linea di continuità con la tradizione aragonese a Napoli e con la tradizione visconteo-sforzesca nel caso di Milano. Per raggiungere l’obiettivo di inserire i suoi domini nell’ambito della sua politica mondiale, la corona dovette svolgere un’azione complessa di condizionamento e di sollecitazione, creare un sistema di rapporti che non consistette nell’imposizione unilaterale e nella pura e semplice subordinazione degli interessi dei paesi soggetti a quelli della dinastia e del suo principale centro motore. La condizione di dipendenza non esclude, dunque, una dinamica relativamente autonoma delle forze politiche, economiche e culturali ed un continuo confronto con gli orientamenti e gli indirizzi generali delle forze dirigenti spagnole. I caratteri dello Stato che si sviluppò durante l’età spagnola furono il risultato della combinazione tra le sollecitazioni provenienti dalla società e le scelte ed esigenze della dinastia.   F. Chabod, Storia di Milano nell’epoca di Carlo V, Torino 1971.   Vivanti, La storia politica e sociale, cit., pp. 423-424.

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Vi sono due momenti distinti e contrastanti nella storia del Viceregno napoletano, ai quali corrispondono – seppure non mecca­ nicamente – due fasi della storia complessiva della monarchia e della lotta politica interna. L’equilibrio politico-sociale fu raggiunto nel corso del secolo XVI, ma non in modo tale da assicurare una linearità e continuità di sviluppo dello Stato. Il giudizio non può prescindere, infatti, dal periodo che culminò nella rivolta del 1647 e che vide un sostanziale arretramento delle basi su cui l’edificio era stato costruito nel secolo precedente. Indubbiamente, il punto di partenza del giudizio deve essere il fatto che la lotta politica si svolse, fino alla metà del Seicento, all’interno del lealismo monarchico, nel quale i diversi protagonisti furono accomunati. La monarchia fu costantemente il punto di riferimento di tutte le forze politiche, conservatrici o riformatrici che fossero; più ancora, l’idea della sovranità, del potere regio come fonte di giustizia e di libertà penetrò e si diffuse a livello della coscienza popolare, com’è testimoniato dalla frequenza dell’appello al potere ed alla giustizia del sovrano che accompagnò le lotte e le resistenze dei Comuni. Cosicché l’abbandono del lealismo monarchico, nel 1647, è prima di tutto una testimonianza dell’ampiezza e profondità della crisi sociale e politica che allora colpì il Regno. L’ideale della monarchia riformatrice aveva dominato le correnti popolari, sopravvivendo anche alle violente persecuzioni e repressioni con cui il governo aveva reagito ai primi tentativi di elaborare un programma di riforma, ma trovando talvolta alimento e motivo di speranza in singoli atti di governo o anche negli orientamenti di alcuni esponenti della classe dirigente spagnola, come i viceré conte di Olivares e duca di Osuna. L’abbandono del lealismo monarchico, inoltre, non fu una scelta originaria del movimento rivoluzionario, ma il risultato e il contraccolpo drammatico della convergenza definitiva e senza riserve tra la maggioranza della nobiltà (compresa la sua parte più notoriamente anarchica e violenta, che, anzi, in quella occasione assunse un ruolo politico e militare di primo piano) e il governo. All’origine del rapporto di fiducia e di fedeltà tra il Regno nel suo complesso – e non una sola parte della società – e la corona vi fu il grande successo che la monarchia riuscì a conseguire, non senza difficoltà, nel primo mezzo secolo successivo alla conquista. L’indipendentismo del grande baronaggio – che aveva resistito alla monarchia aragonese e agli aspri conflitti degli ultimi anni del secolo XV e la cui

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espressione politica fu il cosiddetto partito angioino – fu definitivamente sconfitto. Da allora rimase nella realtà politica del Regno come un’ombra minacciosa del passato, a cui si collegarono nel corso di un secolo e mezzo tentativi velleitari e speranze infondate che nessun incoraggiamento e aiuto esterno, venissero dalla Curia romana o dalla Francia, riuscirono mai a rendere meno arcaici e marginali. L’importanza di questa premessa, ai fini del rafforzamento dello Stato e dello sviluppo sociale, politico e culturale, è evidente. Al di là delle premesse create dalla sconfitta delle posizioni estreme del baronaggio e delle sue più larghe ripercussioni, la monarchia si trovò tuttavia di fronte al problema di istituire un nuovo rapporto con la classe dominante napoletana, il cui coinvolgimento nella politica imperiale non poteva essere e non fu la semplice e automatica conseguenza della sconfitta dell’indipendentismo baronale. La convergenza ideale e politica che si creò sui temi dei rapporti ispanonapoletani e dell’ordinamento del Regno ebbe come motivo centrale l’autonomia, intesa come rispetto delle prerogative e libertà tradizionali della nobiltà nel quadro di un sostanziale riconoscimento della legittimità della monarchia spagnola. Questo, appunto, fu il terreno in cui la nobiltà poté esercitare ed effettivamente esercitò lungo il secolo XVI un ruolo attivo, politico, e in una certa misura anche culturale e ideale. Alla elaborazione della nuova piattaforma istituzionale autonomistica ed alla costante verifica della sua corrispondenza con le concrete iniziative politiche la nobiltà contribuì attivamente e con successo. Se in alcuni settori della cultura rimase, ancora alla fine del Cinquecento, qualche segno di nostalgia dei vecchi tempi, come quelli che si possono cogliere nella Historia del Regno di Napoli del gentiluomo e cavaliere Angelo di Costanzo, in genere la cultura ufficiale accolse il costituzionalismo nobiliare, che propugnava la compartecipazione delle forze locali alla direzione dello Stato anche se, in pratica, tendeva ad affermarla sotto la forma di un rigido esclusivismo aristocratico. La stessa cultura giuridica regalistica, i cui rappresentanti furono prevalentemente magistrati e grandi funzionari dello Stato, aderì in genere al costituzionalismo così inteso, sostenne una politica di mantenimento dell’equilibrio tra nobiltà e corona piuttosto che appoggiare senza riserve i diritti del sovrano e l’azione autonoma dello Stato. L’adeguamento alle nuove condizioni create dalla conquista, e quindi la rinuncia alla tradizione indipendentistica permise, dunque,

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alla nobiltà di riproporsi come classe dirigente e sostenitrice degli interessi collettivi, non in contrapposizione ma in accordo con la corona; in posizione subordinata, ma con uno spazio di iniziativa e di lotta politica. Da parte sua, sulla base di questo rapporto, la corona conquistò uno spazio di azione sufficiente a garantire, attraverso il rafforzamento dello Stato, la stabilità politica e sociale e i punti di appoggio necessari allo svolgimento della sua politica generale. Essa ottenne così la possibilità di utilizzare una parte delle risorse del Regno (non soltanto i proventi delle imposte, ma anche concessioni di varia natura, feudi, prebende, uffici, licenze di attività commerciali e finanziarie) sia direttamente sia, soprattutto, come garanzia per i suoi rapporti con mercanti e affaristi stranieri, specialmente genovesi; ed ottenne anche la possibilità di utilizzare il contributo, non meno rilevante e significativo di quello finanziario, della nobiltà alle guerre in cui la Spagna fu impegnata. La funzione che mercanti e affaristi stranieri svolsero nella vita economica e finanziaria del Regno non è stata finora (1979) oggetto di una indagine sistematica. Ma alcuni studiosi hanno fornito dati sufficienti a testimoniare l’ampiezza della loro presenza, che costituì uno dei principali problemi della vita economica napoletana19. È appunto attorno ad esso che si svolge l’analisi del Breve trattato di Antonio Serra e il suo tentativo di delineare una nuova politica economica a carattere nazionale. Gran parte dell’attività degli operatori genovesi nel Regno di Napoli fu collegata alle esigenze della corona, e quindi agli appalti di tasse e dogane, agli acquisti di rendite pubbliche, alla concessione di tratte e licenze di esportazione; cosicché il Serra poté vedere nella loro presenza e attività l’origine e la causa di un cospicuo trasferimento di capitali che annullava i vantaggi della pur rilevante esportazione di prodotti napoletani. Serra si poneva il problema di un incremento dell’attività produttiva del Regno e sottolineava, quindi, carenze, difficoltà e ostacoli che essa incontrava negli orientamenti politico-finanziari del governo. Ma forse bisogna anche considerare con maggiore attenzione il fatto che l’allargamento dei rapporti col mondo economico-finanziario delle altre parti 19  G. Coniglio, Il Viceregno di Napoli nel sec. XVII, Roma 1955; L. De Rosa, I cambi esteri del Regno di Napoli dal 1591 al 1707, Napoli 1955; R. Colapietra, Dal Magnanimo a Masaniello. Studi di storia meridionale nell’età moderna, vol. II, Salerno 1973.

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d’Italia, nel Cinquecento, facilitò l’inserimento stabile nelle province meridionali di imprenditori stranieri che stimolarono l’attività produttiva, assicurando ad alcuni prodotti, come per esempio la seta e la lana, più ampi sbocchi commerciali, rafforzando, a sostegno dell’attività produttiva, le strutture finanziarie e creditizie e probabilmente sollecitando anche uno sviluppo mercantile dell’agricoltura. Quanto alla notevole e importante partecipazione napoletana alle imprese militari della Spagna, essa è stata vista, fin dal XVII secolo, come una manifestazione del «genio bellicoso» e dello spirito di fedeltà della nobiltà napoletana; nelle pagine che ad essa ha dedicato, il Croce ha dimostrato senza possibilità di dubbio l’importanza del contributo che, anche sotto questo aspetto, il Regno fornì alla monarchia. La collaborazione sul piano militare (ed il corrispettivo mantenimento del monopolio del comando delle milizie all’interno, al quale non furono mai consentite deroghe, malgrado i tentativi fatti, in occasioni particolarmente gravi, dal governo e dalle organizzazioni popolari di creare organismi militari relativamente autonomi) fu per la nobiltà una importante base di partecipazione all’esercizio del potere politico e di difesa di tutto quel complesso di prerogative che garantivano il suo potere sociale. Non condivido l’affermazione che il processo politico allora avviato trasformò la nobiltà in una semplice classe di grandi proprietari terrieri. Contrastano con una così radicale interpretazione la sua costante e irriducibile ostilità nei confronti dei nuclei di borghesia e dei ceti produttivi che si svilupparono nelle città e nelle campagne e la sua posizione prevalente nei confronti dell’attività mercantile e produttiva. Nella maggior parte dei casi, i nobili continuarono ad essere interessati prevalentemente all’esercizio di diritti e poteri propriamente feudali sulle terre, sulle persone, nella pubblica amministrazione, a riscuotere dogane, pedaggi e balzelli di ogni genere: la stessa molteplicità, varietà e permanenza di quelli che nel Settecento vennero chiamati gli abusi feudali è un indice significativo della direzione in cui continuarono a muoversi i loro interessi. Lo stesso commercio del grano con la capitale fornì ai nobili numerose occasioni di speculazione ma fu, se non vado errato, nelle mani di gruppi sociali diversi dalla nobiltà. L’ipotesi più verosimile è che il sistema feudale subì una trasformazione e una crisi, che nella seconda metà del Cinquecento si manifestò anche sotto la forma di un diffuso indebitamento nobiliare e dell’esasperazione dei conflitti sociali nelle campagne; una crisi che

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l’influenza della nobiltà sul governo dello Stato riuscì a contenere ed a non fare diventare irreversibile. Nel suo tentativo di resistenza e di ripresa, l’aristocrazia non si indirizzò ad operare sul terreno della competizione economica, a servirsi più a fondo e con maggiore energia dei fattori di superiorità economica di cui poteva disporre. L’intensificarsi del diretto sfruttamento economico del lavoro all’interno del feudo, attraverso la modifica dei rapporti consuetudinari o degli indirizzi della produzione, fu assai meno rilevante dello sforzo di aumentare il rendimento e l’estensione dei diritti, compresa l’amministrazione giudiziaria, nei confronti dei vassalli. Le circostanze che determinarono la rottura dell’equilibrio poli­ tico-sociale raggiunto nel primo periodo del dominio spagnolo so­no assai complesse e non possono essere indicate che in modo som­ mario. Sullo sfondo è la grave incrinatura creata dalla rivolta delle Fiandre. Più direttamente influirono i mutamenti che si erano verificati nel corso del secolo nei rapporti sociali, l’aggravarsi delle tensioni sociali negli ultimi decenni del Cinquecento, la crisi economica e patrimoniale che colpì l’aristocrazia, malgrado il ruolo che essa aveva mantenuto nella direzione dello Stato. A partire dalla fine del Cinquecento, nuove contraddizioni si aprirono, oltre che all’interno della società, anche nei rapporti tra la società e lo Stato; e da esse credo che si debba partire per l’esame di quella che si potrebbe chiamare la seconda fase della storia del Viceregno. Una di queste contraddizioni fu determinata dallo sforzo dell’aristocrazia di ampliare, durante la prima metà del secolo XVII e in particolare dopo i fenomeni di ribellismo e di insofferenza dell’ultimo decennio del Cinquecento, la sfera del suo potere politico e sociale, e quindi modificare a suo vantaggio il tradizionale equilibrio autonomistico e l’assetto complessivo dello Stato. Altrove ho cercato di descrivere il modo in cui si dispiegò, specialmente nel periodo della guerra dei Trent’anni, l’offensiva feudale, i cui obiettivi furono contemporaneamente l’espansione del potere sociale del baronaggio e la subordinazione politica del potere pubblico, dello Stato. Il sostanziale cedimento dello Stato, nella prima metà del secolo XVII, fu il risultato di situazioni ed esigenze che si crearono in quel particolare periodo, ma fu anche in parte la conseguenza della scarsa elasticità del sistema che si era venuto sviluppando nel secolo precedente e dei condizionamenti che aveva subito. La crisi esplose in tutta la sua pienezza durante la guerra dei Trent’anni, e fu crisi dello Stato.

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Il gigantesco contributo finanziario che fu allora imposto al Regno, assai superiore alle sue forze e possibilità economiche, poté essere realizzato a condizione di lasciare al baronaggio la possibilità di estendere e rafforzare il dominio sulla società, col duplice risultato di una catastrofica riduzione dell’autorità e della forza dello Stato e del venir meno della funzione dirigente e rappresentativa della comunità «nazionale» che la nobiltà aveva esercitato, nel corso del Cinquecento, dopo la sconfitta dell’indipendentismo. Per il viceré Medina il problema fondamentale che egli dovette affrontare nel corso del suo governo (1639-44) fu il declino etico-politico del baronaggio, al quale del resto egli stesso apparteneva dopo il matrimonio con la principessa di Stigliano, erede unica di una delle maggiori casate italiane: «Si contentano – scrisse al conte duca di Olivares – di trafficare sul sangue dei loro vassalli, turbando così l’attività produttiva delle province e riducendosi in uno stato in cui nella nostra Castiglia non si riduce neanche il più misero lavoratore»20. I fenomeni che il viceré indicava non erano limitati ad un ristretto settore della società: rispecchiavano invece una condizione generale dello Stato e della società, divenuta ormai permanente. Le positive premesse di modernizzazione create e in parte realizzate nel secolo precedente dall’instaurazione di una grande monarchia erano venute meno: la parziale e contraddittoria esperienza della politica assolutistica si era conclusa con l’arresto dell’evoluzione istituzionale. Il termine «rifeudalizzazione», che mi è sembrato, pur nella sua sommarietà, il più appropriato per indicare i dati fondamentali del processo storico che ho cercato di riassumere in queste pagine, è stato accolto anche da Fernand Braudel21 e Corrado Vivanti, ed ha avuto fortuna, malgrado qualche contestazione22, nella cultura storica. In alternativa si potrebbe prendere a prestito da Wallerstein la «periferializzazione»,   Villari, La Rivolta antispagnola a Napoli, cit., p. 240.   F. Braudel, Il secondo Rinascimento. Due secoli e tre Italie, Torino 1974: «che Napoli presenti nell’Occidente europeo il caso più netto di rifeudalizzazione è innegabile». 22  L’uso del termine (in origine adottato da me nel saggio Note sulla rifeudalizzazione del Regno di Napoli alla vigilia della rivoluzione di Masaniello, in «Studi Storici», 1963, 4, pp. 637-668) è stato rifiutato, in generale, da Matvei Gukovskij e da Victor Rutenburg (Problemy sovetsko-italianskoi istoriografii, Moskva 1966) e poi, con particolare riferimento a Napoli, da Giuseppe Galasso (Economia e società nella Calabria del Cinquecento, Napoli 1967, pp. 53-54). 20 21

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l’idea della collocazione ai margini, o al di fuori dello sviluppo moderno, se il termine suonasse meglio dell’altro e, soprattutto, se non fosse più generico rispetto ai contenuti della mia analisi. Il tentativo di reagire all’involuzione della società e dello Stato ed il travaglio politico e ideale che ha comportato sono stati a lungo, e in parte continuano ad essere sottovalutati e fraintesi. Le ragioni sono diverse: la considerazione dei rigurgiti di arcaiche congiure nobiliari come precorrimenti del patriottismo ottocentesco; i residui localistici di un cordone ombelicale tra sentimenti attuali e passioni politiche degli antenati; l’insufficiente approfondimento del linguaggio e dei metodi specifici della politica barocca. La rivoluzione fu anzitutto la conseguenza estrema di una crisi dell’intero sistema politico-sociale. Un multiforme e nuovo movimento politico cercò, prima della catastrofe, di riempire il vuoto creato dal venir meno della funzione «nazionale» della nobiltà e dalla crisi dello Stato e di collegarsi, a tratti e senza successo, con tendenze e propositi presenti all’interno dell’apparato di governo della monarchia. Non si può dire che questa linea fu proposta esplicitamente come un programma complessivo e organico di riforma e di rinnovamento del Regno: si presentò invece come un complesso di aspirazioni e di resistenze particolari convergenti verso la richiesta di un più efficace intervento del sovrano, dello Stato, per la difesa dell’autonomia e della libertà dei Comuni e verso il loro coordinamento «politico» con il potere centrale. Nella letteratura giuridica e politica della prima metà del XVII secolo non mancò l’impegno di unificare e sollevare ad una visione generale l’autonomismo dei Comuni. La diffusione e la frequenza delle lotte che si svolsero su questo terreno dimostrano che un’idea della funzione di giustizia dello Stato era penetrata largamente nella coscienza dei sudditi e che lo spirito da cui esse erano animate non si esauriva nelle controversie strettamente giuridiche e nell’impostazione strettamente locale. Alcune delle questioni che furono affrontate, come l’eguaglianza tra i rappresentanti della nobiltà e del popolo nell’ordinamento politico-amministrativo della capitale, l’opposizione alla vendita delle città regie, il movimento per il ritorno di molte comunità infeudate sotto l’autorità del sovrano, la richiesta del Seggio popolare della capitale di partecipare alla scelta del comando delle milizie cittadine, riguardavano, in effetti, l’intera realtà politica e istituzionale del Regno e comunque portavano il segno di

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una riflessione politica e di carattere generale sull’ordinamento della società e dello Stato. La discussione di questi problemi non rimase chiusa nell’ambito degli esperti e tecnici dell’amministrazione e del diritto, ma fu sostenuta in varie occasioni da una più larga iniziativa e partecipazione di gruppi e strati della popolazione. Ai movimenti popolari ed alla cultura del ceto civile, pur nella frammentarietà delle loro manifestazioni, non mancò, dunque, la volontà o la capacità di confrontarsi con i nodi principali della situazione politica; non mancò neppure un respiro ideale, riscontrabile fin dall’inizio nel gruppo dei naturalisti napoletani, a cui fece capo anche Tommaso Campanella, e presente in personalità come Antonio Serra, in storici e giuristi come Giovanni Antonio Summonte, Francesco Imperato, Giulio Genoino, Camillo Tutini, in molti «cittadini onorati» e «patrioti» provinciali che furono ispiratori di iniziative e movimenti di libertà, e nei gruppi dirigenti della rivoluzione. La stessa collocazione e funzione del Regno nel quadro politico internazionale fu messa in questione, nella fase estrema della rivoluzione, con il progetto di creazione della Repubblica. Vi è una significativa testimonianza, finora non presa in considerazione, che apre uno spiraglio per la comprensione di questo sforzo unitario e anche del significato che ebbe, al di là dell’immediato bisogno di aiuto e appoggio esterno, l’appello alla Francia e il tentativo di inserirsi nella dinamica della guerra europea. Si tratta di brani e frammenti del progetto politico che fu discusso dopo l’instaurazione della Repubblica. Il programma prevedeva la parità nella rappresentanza e nelle funzioni di governo tra nobili e popolari, un rapporto nuovo e più equilibrato tra capitale e province, la confisca dei beni dei nobili ribelli e la soppressione dell’amministrazione giudiziaria baronale, l’incameramento dei beni dei gesuiti e la loro espulsione dal Regno. Vi è anche il suggerimento di una svolta rispetto alla tradizionale funzione che al Regno era assegnata nella politica generale della monarchia, laddove il progetto propone l’apertura del porto di Napoli a tutte le nazioni, compresi gli Ebrei e i Turchi. Quasi tutti coloro che parteciparono alla elaborazione del programma – il gruppo dirigente repubblicano nella sua fase più matura – furono sterminati dal duca di Guisa, l’avventuriero che essi avevano chiamato come difensore della Repubblica, o caddero vittime della repressione seguita alla restaurazione spagnola. Di quel tentativo programmatico-costituzionale ho trovato notizia precisa

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soltanto nelle memorie del confessore del duca di Guisa, Innocenzo Capece23. Una fondamentale debolezza del movimento riformatore, nel suo svolgimento precedente la rivoluzione, fu l’impossibilità di collegamento anche parziale con una classe dirigente spagnola che, con un misto di debolezza e di rigidità, viveva ormai l’inizio della decadenza e non poteva accettare nessuna modifica delle strutture e degli equilibri tradizionali che non fosse un ulteriore aggravamento delle condizioni di inferiorità delle province soggette. Ma quel fermento di idee e iniziative corrispondeva, nel suo complesso, a problemi e interessi reali e insopprimibili del paese e in qualche modo riusciva ad esprimerli, in quanto mirava al rafforzamento assolutistico dello Stato, al ridimensionamento del potere politico e 23  L’état de la République de Naples sous le gouvernement de Monsieur le Duc de Guise, F. Leonard, Paris 1679. I brani seguenti si riferiscono al progetto di riordinamento del Regno: «Ils envoyèrent donc au Duc un Projet contenant la manière d’y procéder, qui étoit que le Senateurs fussent au nombre de trente, quinze Nobles et quinze Populaires, afin que les suffrages du peuple fussent égaux à ceux de la Noblesse. Que l’on en changeât vingt tous les ans, laissant toujours dix des anciens avec les nouveaux; qu’il y en eût quinze de la Ville de Naples, et les quinze autres fussent tirés des principales Villes du Royaume. Qu’il en eût toujours dix, qui demeurassent au Palaix, et se changeassent tous les mois, deux desquels eussent la surintendance des Gabelles établies par Charles-Quint, et de toutes les autres impositions, qui se méttroient à l’avenir, suivant les besoins des affaires. Que l’on en destinât deux pour les causes criminelles, et deux autres pour les civiles; desquels l’un fût toujours Populaire, et l’autre Noble. Quant au Patrimoine Ducal, il prétendoient le former de tout ce que le Roi d’Espagne, et les Nobles qui refusoient d’embrasser le parti du peuple, possédoient dans le Royaume. Il voulaient encore apliquer à ce Patrimoine tous les biens tenus par les Jésuites, qu’ils voulaient chasser de toutes les Villes de l’Etat. Il demandoient la franchise du Port de Naples pour toutes les Nations, et même pour les Juifs, et pour les Turcs, afin qu’ils pussent négotier librement, comme ils font en tant d’autres villes d’Europe». Nella discussione sulla questione dei beni dei gesuiti e dei diritti di vassallaggio dei nobili seguirono alcune precisazioni: «A quoi [incameramento dei beni dei gesuiti] quelques Docteurs repondirent de la part du peuple, que l’on en pouroit obtenir la permission du Pape, en apliquant une partie des leurs revenus à d’autres Eglises; et que si le Pape, refusoit cette grâce, l’on pouroit passer outre sans lui [...] Jules Capone, professeur en droit, et le Docteur Vincent d’Andrea dirent que l’on y remédieroit [all’opposizione dei nobili alla soppressione dei loro diritti] en relâchant aux Titulaires les Droits qu’ils prenoient sur leur Vassaux, et en leur ôtant l’administration de la Justice et les Titres: Et que ceux des Nobles qui refuseroient de consentir à ce Réglement, seroient bannis du Royaume et leur Patrimoine apliqué au Domaine de la République avec la permission à leur Vassaux de les tuer, s’ils ne se retiroient [...]».

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sociale del baronaggio ed alla trasformazione del suo rapporto con il ceto civile. Quelle esigenze restarono permanenti nella vita politica e sociale del Mezzogiorno e, in modi diversi e in una più solida e ampia dimensione politico-culturale, furono riprese nel secolo successivo. Non è impossibile trovare nel secolo XVIII anche la consapevolezza di una tale continuità. Ne possono essere esempi, tra l’altro, la ripubblicazione, a metà Settecento, dell’opera storica del Summonte, con una prefazione che ne mette in rilievo, più che il valore storiografico, l’ispirazione politica e ideale; nonché la scoperta e la valorizzazione, nell’ambito del movimento illuministico e riformatore, del Breve trattato di Antonio Serra. La resistenza all’emarginazione e lo sforzo di contrastare gli effetti negativi del cedimento dello Stato cominciarono nello stesso periodo in cui l’emarginazione e il cedimento si verificarono. Nel processo di formazione di un ceto colto e capace di sentire ed esprimere l’esigenza del rinnovamento civile e politico, il periodo spagnolo rappresenta una tappa contrastata e drammatica, non il vuoto e l’inerzia.

II

Istruzioni ai viceré La mia esposizione si riferisce ad una ricerca appena iniziata, della quale potrò illustrare qui soltanto i presupposti. Le istruzioni e gli avvertimenti indirizzati dai sovrani ai viceré di Napoli e di Sicilia, o dagli stessi viceré ai loro successori, sono stati frequentemente utilizzati dagli studiosi della prima età moderna, ma non sono stati oggetto di una ricerca specifica e complessiva1. A me pare che un’analisi sistematica e comparata possa aiutarci ad arricchire e precisare il giudizio, a volte ancora troppo generale e generico, sul dominio spagnolo in Italia. A differenza di quel che avvenne per altri territori dell’Impero, una vera e propria teoria sul governo dei domini italiani non fu elaborata dalla corona di Spagna. Dalle stesse istruzioni, ed in modo esplicito da quelle indirizzate nel 1628 al duca di Alcalá, risulta, anzi, che ci fu una certa diffidenza verso le teorizzazioni di metodi e criteri di 1  Avevo terminato di scrivere queste note quando ho potuto leggere il saggio di M. Rivero Rodríguez dedicato allo stesso argomento: Doctrina y practica política de la monarquía hispana; las instrucciones dadas a los virreyes y gobernadores de Italia en los siglos XVI y XVII, in «Investigaciones Históricas» (pubblicazione dell’Università di Valladolid), 1989, 39. L’analisi di Rivero Rodríguez è, pur nella sua brevità, più sistematica ed organica delle sparse osservazioni contenute nel mio scritto. I punti di vista sono, però, un po’ diversi: il saggio di Rivero Rodríguez è dedicato prevalentemente, o esclusivamente, agli aspetti istituzionali ed alla ricerca degli indirizzi permanenti su cui si è basata l’azione della monarchia di Spagna in Italia; io sono invece più interessato alle differenze tra enunciazioni generali ed azione concreta, ai cambiamenti di situazioni e di orientamenti che si sono verificati nel corso del secolare dominio spagnolo e, soprattutto, alla lotta politica all’interno della classe dirigente spagnola e negli stessi Stati italiani affidati al suo governo. In qualche modo, perciò, i nostri lavori sono complementari.

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governo: «Según las occurrencias y lo que experimentará en Nápoles sobre el mismo gobierno conocerá si algunas destas theóricas se pueden poner en práctica»2. È possibile, tuttavia, individuare direttive di lungo periodo e registrarne via via il mutamento. In secondo luogo, un esame comparativo delle istruzioni e degli avvertimenti può mettere in rilievo le eventuali differenze di orientamento tra viceré e corte e tra un viceré e l’altro ed ampliare, quindi, il quadro delle correnti, dei gruppi politici e delle tematiche che essi affrontarono; infine, se ne possono trarre indicazioni su eventuali collegamenti tra azione del governo e movimenti ed iniziative politiche dei governati. La cultura storica italiana ha avvertito fin dall’inizio – anche nelle opere apologetiche come il Teatro eroico e politico de’ governi de’ viceré di Domenico Antonio Parrino – differenze più o meno rilevanti tra gli indirizzi di governo praticati nel corso del secolare dominio spagnolo in Italia. Ma in genere ne ha sottovalutato il significato politico; il giudizio sulla loro natura e sulla loro incidenza politica nel quadro generale della monarchia e nella realtà delle province è rimasto spesso incerto ed approssimativo. Nella fase dell’impianto del dominio spagnolo, la stessa forza della monarchia rappresentò una sconvolgente novità rispetto alla tradizione ed al tipo di rapporto tra sovrani e sudditi che per secoli le province avevano sperimentato. Furono gettate allora le basi di un sistema di rapporti amministrativi e politici e di un equilibrio tra la corona e le forze sociali di cui sia la Sicilia, sia Napoli avevano conosciuto soltanto vaghe anticipazioni. Il nuovo sistema richiedeva, però, ulteriori svolgimenti verso la creazione di uno Stato moderno: in primo luogo, una riduzione del potere sociale, oltre che politico, del baronaggio e la costruzione di un apparato amministrativo pubblico autonomo ed efficiente. Sul complesso di problemi legati a queste fondamentali esigenze si crearono, relativamente al modo di governare Napoli e la Sicilia, differenze e contrasti tra i governanti spagnoli; ed anche i sudditi, ovviamente, manifestarono la loro approvazione o la loro condanna nei confronti dell’uno o dell’altro viceré per motivi che, in molti casi, non furono soltanto personali o di fazione. Alcuni viceré subirono critiche e condanne da parte della 2  Al Ex.mo S.or Duque de Alcalá del Consejo de Estado de su Mag. Virrey, Lungarteniente y Capitan general del Reyno de Nápoles, British Library, ms. Egerton, 535, f. 59v.

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corte di Spagna per l’azione svolta nelle province. Di questi episodi si è data in genere una interpretazione riduttiva, facendo emergere i motivi personali e lasciando nell’ombra i contenuti politici ed il rapporto con la vita politica in Spagna e nelle stesse province. Il caso del duca di Osuna, richiamato da Napoli, sottoposto a processo, imprigionato nel 1620 e morto in carcere quattro anni dopo, è forse il più clamoroso ma non l’unico caso di un conflitto che si svolse parallelamente a Madrid e nelle province. Vi è, anzi, un problema di ordine generale: tra gli uomini politici che ebbero l’incarico di governare la Sicilia e Napoli nel corso di due secoli, molti caddero in disgrazia per l’opera svolta durante il loro governo. In non pochi casi la loro carriera e la loro reputazione furono rovinate. All’inizio dei suoi famosi Avvertimenti a Marcantonio Colonna, Scipione de Castro osservò, nel 1577, che il governo della Sicilia era stato fino allora fatale a tutti i suoi governatori. «La maggior parte di essi – scrisse – ha lasciata in quel Regno sepolta in modo la sua reputazione che neancho nella posterità loro ha potuto risorgere più»3. La questione non riguarda, però, soltanto la Sicilia ed il periodo indicato da Scipione de Castro. Il fenomeno investe tutta la storia dei viceregni italiani e sarebbe difficile attribuirgli un carattere accidentale. Nella maggior parte dei casi, le motivazioni politiche rimangono oscure, come ho già detto; ma ovviamente il richiamo o la caduta in disgrazia di un viceré fu sempre il risultato di un collegamento tra le tensioni che si crearono all’interno delle province e la lotta di gruppi e correnti della corte di Madrid. Le proteste delle province, che in genere provennero dalla nobiltà (i cui rappresentanti erano i soli ad avere accesso, sia pure non sempre facile, alla corte di Madrid) riuscirono spesso a collegarsi con gruppi e settori influenti della classe politica spagnola e questa combinazione ebbe quasi sempre effetti micidiali. Anche ministri protetti dal sovrano, sue «creature», ne furono vittime: si ha, anzi, l’impressione che proprio su questi si riversasse con maggiore accanimento l’azione distruttiva degli avversari, e che corrispondesse alla realtà una osservazione del marchese di Los Vélez sulle condizioni politiche della corte spagnola: «Credetemi, è una cosa che nessuna 3  A. Saitta, Avvertimenti di don Scipio di Castro a Marcantonio Colonna quando andò viceré in Sicilia, Roma 1950, p. 43.

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persona dignitosa può sopportare. Se non avete il favore del re, tutti vi calpesteranno, se lo avete vi toglieranno la vita e l’onore»4. La constatazione di tensioni e conflitti nel governo politico delle province non ha modificato, in genere, il giudizio di una sostanziale continuità. Il Croce, per fare l’esempio maggiore, non ha trascurato le differenze di attitudini tra i vari viceré e neppure gli episodi più importanti di protesta da parte dei sudditi; ma li ha considerati come oscillazioni non rilevanti all’interno di una linea che la «natura» e le inclinazioni proprie dei governanti, l’inerzia e l’incapacità dei governati e il condizionamento di una situazione internazionale non modificabile resero sostanzialmente statica. Dopo avere ricordato che il governo spagnolo fu inflessibilmente severo nei confronti dei baroni, pur aiutandoli a sostenersi contro i vassalli ed a «rovesciare i pesi finanziari sul popolo e sui Comuni», Croce afferma che «qualche viceré lasciava scorgere di essersi accorto dell’importanza delle forze popolari e di voler provare una politica alquanto diversa»5. Gli episodi a cui si riferisce riguardano Pietro di Toledo, il conte di Olivares, il duca di Osuna e il conte di Monterrey. A parte quest’ultimo, citato soltanto per il riconoscimento, ovvio e rituale per un viceré, della necessità di non far mancare il pane al popolo della città, gli altri dimostrarono in varie occasioni, e non furono i soli, di rendersi conto della necessità di riforme interne e di mutamento nei rapporti con Madrid. Né questa consapevolezza, né la sua eventuale corrispondenza con aspirazioni dei regnicoli ebbero tuttavia conseguenze di rilievo. Croce osserva che, a parte la perenne inquietudine e turbolenza della plebe e le anacronistiche velleità di qualche barone, motivi di scontento non mancavano tra i nobili e nel ceto civile. Ma conclude che «per cangiar dominazione straniera, non francava la spesa di compiere un atto così grave come quello di rompere la fedeltà giurata; e, del resto, il carattere spagnolo si confaceva assai meglio al napoletano che non quello francese, troppo vivace e galante per gente seria e gelosa come gli italiani» (p. 120). Questa spiegazione, che prende in considerazione soltanto l’ipotesi di un cambiamento di dominazione straniera non solo impossibile ma, tutto sommato, neppure conveniente, fu un luogo comune della propaganda filospagnola. 4  Cit. in H.G. Koenigsberger, The Government of Sicily under Philip II of Spain, London 1951, pp. 190-191. 5  Croce, Storia del Regno di Napoli, cit., p. 126.

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Il quadro della storia siciliana del XVI e del XVII secolo delineato da Giuseppe Giarrizzo6 è dominato dall’incapacità o dalla rinuncia del baronaggio ad esercitare una funzione nazionale e dalla inesistenza di una alternativa popolare o di un’autentica volontà di riforma e di cambiamento. L’azione del governo si è adagiata su questa realtà, piuttosto che cercare di modificarla: «Su questa disarticolazione e impoverimento della struttura politica – ha scritto appunto il Giarrizzo – che non poteva avere conseguenze nel processo di formazione di gruppi dirigenti ‘nazionali’ in Sicilia, si è insediata a livello basso l’autorità viceregia». «La sottomissione del baronaggio politico e semisovrano alla sovranità dello Stato» (come suona la celebre formula crociana di giustificazione storica del dominio spagnolo nell’Italia meridionale) avvenne, si è già detto, nell’atto stesso dell’instaurazione o della conquista; ma il problema dell’equilibrio tra le diverse componenti della società (baronaggio, nobiltà cittadina, popolo, plebe, contadini) non fu e non poteva essere risolto una volta per sempre. Rimase, anzi, come problema fondamentale del governo e dello sviluppo sociale e politico dei regni meridionali, provocando contraddizioni e conflitti anche nella classe dirigente spagnola, oltre che tra i sudditi italiani, specialmente nella fase del declino della monarchia. Nella Storia del Croce non è nominato il Conte Duca di Olivares e non vi è nessun accenno al suo tentativo di modificare i rapporti fra il centro e i domini periferici della monarchia. È ricordato, invece, come si è già detto, per uno specifico episodio, il padre del Conte Duca, Enrico di Guzmán, conte di Olivares. La sua figura meriterebbe una particolare attenzione nello studio dei rapporti tra Spagna e Italia non solo perché la prima educazione del celebre figlio si svolse in Italia, ma soprattutto perché il conte svolse in Italia per molti anni, in diversi ruoli e con particolare impegno, la funzione di rappresentante della Spagna. Farò in seguito qualche osservazione sul resoconto che egli ha lasciato della sua esperienza di governo in Sicilia. Qui accennerò soltanto all’episodio a cui allude il Croce, perché fu una delle occasioni alle quali sono legate le testimonianze del particolare rilievo che ebbe nell’opinione pubblica napoletana, o in una parte di essa, la figura di Filippo II. Protagonista di un grave scontro con   Giarrizzo, La Sicilia dal Viceregno al Regno, cit.

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la nobiltà napoletana, il conte di Olivares fu richiamato a Madrid per le accuse e le insistenze dei nobili. Domenico Antonio Parrino racconta che, al momento di partire, egli disse all’Eletto del popolo che era andato a salutarlo: para defender vuestra jurisdición men voy. È appunto la battuta ricordata dal Croce. Non è possibile e non è utile per il fine che mi propongo cercare di ricostruire qui le ragioni e l’andamento dello scontro politico che condussero al richiamo di un personaggio pur così importante e di grande prestigio nel mondo diplomatico e nella stessa corte di Madrid. Interessa invece il commento dello storico: «Fu creduto che se non succedeva la morte di Filippo Secondo, non sarebbe stato così presto rimosso, perché non può negarsi che fu un signore assai giusto» (I, 424). Il giudizio del Parrino riproduce letteralmente quel che aveva già scritto, nel 1634, uno dei più noti scrittori napoletani, Giulio Cesare Capaccio. Dichiarando che Olivares «si mostrava molto favorevole al Popolo», Capaccio racconta che la nobiltà inviò a Madrid come ambasciatore Ottavio Tuttavilla, il quale, «ritrovato Filippo Secondo morto, accapò tutto quel che volle dal suo successore [...] con mutatione di nuovo viceré. Se non moriva Filippo Secondo, si giudica che non sarebbe stato così presto ammosso dal governo, perché mi pare che havesse accertato il governo di un vero viceré»7. Parecchi anni prima, anche lo storico Tommaso Costo aveva associato la politica di Olivares all’elogio di Filippo II, il sovrano che aveva particolarmente a cuore il «buon trattamento dei sudditi»8. Questo tipo di apprezzamento non sembra discostarsi dai motivi prevalenti nella corrente apologia di Filippo II. Anche in Italia, infatti, con rare eccezioni (ed in particolare, con l’eccezione di Tommaso Campanella), egli era esaltato soprattutto come campione della difesa della Chiesa cattolica e della lotta contro l’eresia e per il grande ed efficace impegno nell’esercizio dell’autorità regia. Evidentemente, l’esaltazione ed il rafforzamento del potere reale comportavano anche l’esigenza di tenere a freno le ambizioni dei grandi e di reprimerne gli eccessi sul terreno politico e nei rapporti 7  G.C. Capaccio, Il Forastiero. Dialogi di G.C.C. accademico otioso, Napoli, Gio. Domenico Roncagliolo, 1634, p. 500. 8  T. Costo, La Apologia istorica del Regno di Napoli contra la falsa opinione di coloro che biasimarono i Regnicoli d’incostanza e d’infedeltà, Napoli, Gio. Domenico Roncagliolo, 1613, pp. 159-161.

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sociali. In questo senso appariva esemplare agli apologeti di Filippo anche la lotta ingaggiata dalla Spagna nei Paesi Bassi. Allo stesso modo delle guerre civili in Francia, anche l’analisi della guerra dei Paesi Bassi servì inizialmente alla pubblicistica barocca italiana per diffondere e sostenere la condanna della ribellione come frutto del particolarismo e dello spirito anarchico dei grandi signori e per esaltare la funzione «progressiva» della monarchia di Spagna. Storici e pubblicisti preferirono, perciò, nei limiti del possibile, mettere in ombra le cause e le origini religiose e «politico-nazionali» della rivolta e mettere, invece, l’accento sul ribellismo e sull’ambizione dei grandi signori. La cagion di questa guerra – scrisse per esempio lo storico abruzzese Cesare Campana – nata [...] dalla Religione, fu poi nondimeno, per quant’è fama, vivamente aiutata dall’ambitione di alcuni principali del Paese; i quali entra[rono] in opinione per la loro potenza e ricchezza e per quella grand’autorità che ritenevano appresso a quelle genti di poter valersi del braccio popolare ad accrescimento della propria grandezza9.

Nella stessa chiave, questi scrittori manifestarono la loro soddisfazione per l’uccisione di Guglielmo d’Orange ed esaltarono il suo assassino «che con meravigliosa costanza stette sempre fermo in confessar d’haver levato la vita all’Oranges per solo benefitio della religione e del Re suo Signore»10. La difesa dell’autorità regia significava anche, come ha ricordato John Elliott11, la valorizzazione del gruppo dei «letrados profesionales» che agivano come ministri e funzionari del sovrano e, in generale, la salvaguardia delle basi su cui poggiava la reputazione della Spagna ed il suo potere mondiale. 9  C. Campana, Della guerra di Fiandra fatta per difesa di religione da catholici re di Spagna Filippo secondo, e Filippo terzo di tal nome... Descritta fedele, e diligentemente da Cesare Campana, gentilhuomo aquilano, Vicenza, Giorgio Greco, 1602, pp. 122-123; vedi anche Id., La vita del catholico et invittissimo don Filippo d’Austria re della Spagna, con le guerre de’ suoi tempi, Vicenza, Giorgio Greco, 1605; Francesco Lanaro, Le guerre di Fiandra brevemente narrate, Anversa 1615. Traggo queste indicazioni dalla tesi di dottorato di Silvia Moretti, sostenuta nella Scuola di perfezionamenteo di San Marino, nell’ottobre del 1993, e intitolata Guerra e pace nella storiografia italiana tra la seconda metà del Cinquecento e l’inizio del Seicento. 10  F. Lanaro, Le guerre di Fiandra, cit., p. 91. 11  J.H. Elliott, El Conde Duque de Olivares y la herencia de Felipe II, Valladolid 1977.

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Era questo, dunque, l’ampio ventaglio dei motivi più comuni e per così dire ufficiali sui quali si costruì l’immagine trionfale di Filippo II. In essa non rientra, evidentemente, l’idea del sovrano sostenitore della riforma dei rapporti istituzionali tra nobiltà e popolo; fu questo, invece, il punto sul quale si concentrò il contributo del movimento popolare napoletano al mito di Filippo II. L’accenno del Capaccio va approssimativamente in questa direzione; ma fu proprio il capo più autorevole del riformismo popolare, Giulio Genoino, ad elaborare e presentare in questa chiave la figura del sovrano ed a basare sul richiamo a questa immagine del sovrano una parte della sua azione ­politica. Nel discorso pronunciato nel collegio dei dottori, a cui già ho fatto cenno, Giulio Genoino non si limitò a difendersi dall’accusa di essere stato inquisito e condannato per ragioni di Stato. La maggior parte delle sue argomentazioni ebbero come oggetto il modo in cui era stato condotto il processo – che non si era concluso con una vera e propria sentenza giudiziaria – e la natura delle accuse che gli erano state rivolte. Ma in quella occasione egli sostenne anche che nelle istruzioni date al viceré marchese di Mondéjar «il savio re Filippo II» si era dichiarato favorevole all’eguaglianza dei voti tra la nobiltà e il popolo nel Consiglio rappresentativo della capitale ed aveva addirittura sollecitato il viceré a mettere in pratica una riforma istituzionale per raggiungere quell’obiettivo. È un’affermazione forse storicamente infondata, ma importante: conferma, infatti, la permanenza a Napoli di un movimento riformatore dopo la repressione durissima dell’inizio degli anni Venti e lascia anche intravedere una qualche corrispondenza o piuttosto la speranza di una corrispondenza con analoghe tendenze all’interno della classe dirigente spagnola. C’era in Genoino anche la volontà di denunciare nel presente un allontanamento dalla tradizione, l’abbandono di una linea politica che era stata gloriosa per la Spagna e per i suoi domini. L’orazione nel Collegio dei dottori si svolse nel 164412. Pochi anni più tardi, nel corso della ribellione di cui Genoino fu il primo leader, il confronto tra un passato positivo, nella 12  Il discorso è stato pubblicato, sulla base di un manoscritto scorretto e in certi punti incomprensibile, da M. Schipa, in appendice al saggio La pretesa fellonia del duca d’Ossuna (1619-1620), ora in Studi masanielliani, a cura di G. Galasso, Napoli 1997, pp. 255-263. Ho ritenuto di pubblicare un manoscritto più corretto e di correggere anche l’indicazione della data in cui fu pronunciato: L’Apologia di Giulio Genoino, in Tra res e imago. In memoria di Augusto Placanica, a cura di M. Mafrici e M.R. Pellizzari, I, Soveria Mannelli 2007, pp. 21-29.

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realtà e nelle intenzioni di sovrani come Carlo V e Filippo II, ed un presente di abuso e di sopraffazione sarebbe stato un motivo dominante della prima fase del conflitto. Su che cosa si basava, dunque, questa particolare forma di idealizzazione popolare della figura di Filippo II? Ci furono in realtà fasi profondamente diverse nella lunga storia dei rapporti tra Madrid e i due regni meridionali? Non pretendo di dare una risposta a questo interrogativo, ma di indicare su questo tema una linea di ricerca che può trovare qualche punto di appoggio anche nei documenti in questione. Non sono riuscito finora a trovare le istruzioni di Filippo II al marchese di Mondéjar Iñigo de Mendoza. Non mi sembra azzardato dire che molto probabilmente esse non contengono l’esplicito invito alla riforma di cui parla Genoino. Ma anche se non sarà possibile trovare quel preciso riferimento, non mancano nelle istruzioni e negli avvertimenti che già conosciamo indicazioni che hanno a che fare con quel problema cruciale. Le prime istruzioni di Filippo II furono inviate da Bruxelles, nel 1557, al duca di Medinaceli, destinato a ricoprire l’incarico di viceré di Sicilia. Lungi dall’essere generiche e convenzionali, le istruzioni affrontano, sulla base di una reale conoscenza della situazione, alcuni problemi fondamentali del governo dell’isola: l’organizzazione della difesa e l’esercizio del potere dei baroni all’interno dei loro feudi e dei distretti. Su questi problemi il precedente viceré Juan de Vega aveva concentrato la sua azione di governo, suscitando forti reazioni nel baronaggio soprattutto per la nuova organizzazione delle milizie popolari, improntata alla volontà di «coinvolgere intere popolazioni nella responsabilità della difesa». Il progetto del viceré superava, su un terreno così importante, sia il rapporto privilegiato con la nobiltà feudale, sia il modello machiavelliano della fortezza in terra di conquista13. Il baronaggio non aveva mancato di far pervenire la sua protesta direttamente a Filippo II, travisando profondamente il significato dell’iniziativa e del programma del viceré: «Simili milizie – avevano sostenuto i suoi rappresentanti – si introducono in quelle province dove si può dubitar della fede dei popoli, et che sono inhabili a trattar dell’armi; non dovendo in nessuna di queste cose dubi  Giarrizzo, La Sicilia dal Viceregno al Regno, cit., pp. 41-42.

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tarsi dei siciliani»14. Due nobili siciliani avevano raggiunto Filippo, che si trovava allora a Londra, per denunciare la politica del viceré e chiederne la rimozione. Al seguito di Filippo c’era a Londra anche Scipione de Castro, il futuro autore degli Avvertimenti a Marcantonio Colonna, dove appunto si legge che «Vega faceva professione di battere la nobiltà e di favorire la plebe». Molti hanno sostenuto, sulla scorta di Scipione de Castro, che anche de Vega fu rimosso dal suo incarico e cadde in disgrazia. Le istruzioni confermano invece in modo puntuale e perentorio l’iniziativa e la politica che egli aveva messo in pratica anzitutto sul terreno dell’organizzazione militare e che avevano sollevato le proteste e l’indignazione del baronaggio: La milicia quel el dicho Juan de Vega ha introducido en el dicho reyno – si legge appunto nelle istruzioni – o por mejor dezir renovado porque tuvo pincipio del rey cathólico para que los naturales del se exerciten en las armas y ofreciéndose la necessidad haya numero cierto de infantería [...] entendemos que a sido muy provechosa y no será sino bien que se lleve adelante [...] informando os de las ordenanças que por el uso y conservación de la dicha milicia se hizieron agora ultimamente [...] las hagais observar y guardar inviolablemente [...] porque de otra manera se resolvería en humo y habrían aprovechado poco las muchas diligencias15.

Già da queste parole appare evidente che le istruzioni riflettono l’esperienza del Vega; si può, anzi, facilmente supporre che il Vega stesso collaborò alla redazione del documento. Ma questo aspetto rimanda alla ispirazione più generale delle istruzioni che si può riassumere nei termini seguenti. Avviando la creazione di un nuovo apparato statale direttamente dipendente dal sovrano, Ferdinando il Cattolico e Carlo V avevano ridotto il potere politico della nobiltà feudale. Filippo II si assumeva ora il compito di mantenere e completare la costruzione, ma anche di andare oltre, intervenendo sulle basi sociali del potere baronale. È indubbiamente generica, da questo punto di vista, l’esortazione al viceré a provvedere affinché «los mayores no opriman ni tiranizen los menores biviendo todos en   Ivi, nota a p. 160.   Instrucción de lo que Vos el Ill.mo don Juan de la Cerda Duque de Medinaceli..., British Library, ms. Add., ff. 18r-47v. 14 15

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la ygualidad que la caridad y policia pública requiere»16. Ma le istruzioni vanno oltre l’enunciazione di un principio. Esse presentano al viceré un vero e proprio programma di impegno e di intervento in questo campo. Dopo avere indicato gli inconvenienti che dall’eccessivo potere baronale derivano all’amministrazione della giustizia, ed invitato il viceré a fare rispettare con «severidad» gli obblighi di servizio militare dei baroni, Filippo gli ordina di visitare direttamente e regolarmente le province del Regno con lo scopo di informarsi sul modo in cui i baroni trattano i vassalli, di raccogliere e sostenere le lagnanze e di prendere anche, quando è necessario, l’iniziativa di denunciare abusi e maltrattamenti: Si los mismos vasallos diesen quexa contra ellos oyrlos y ampararlos mientras siguieren su justicia de manera que ni en las personas ni en los bienes las pueda ser echo agravio por los tales barones directa o indirectamente; y aun que no aya quexa de parte vos de vuestro officio y en virtud de esta nuestra comisión si allaredes en alguno o algunos cosa notable y importante que sin offensa de la justicia no se pueda disimular antes convenga remediarla por evitar la opresión de nuestros vasallos, hareys que nuestro avogado y procurador fiscal procedan contra ellos y que se haga justicia [...] Deseamos hazer tal provisión que de aquí adelante los dichos barones no tengan tanta licencia para maltratar sus vasallos os encargamos y mandamos que hazeis luego ver todas las leyes pragmáticas y constituciones que sobre esto hay, les hagays de nuevo publicar o si no pareciere bastante nos abisareys.

Era un punto centrale dell’impegno di costruzione di uno Stato moderno; ma era un programma in contraddizione con altri e sostanziali aspetti dell’azione che la monarchia doveva svolgere nei suoi domini italiani. Una prima contraddizione, del resto, emergeva dallo stesso documento in cui il programma era enunciato: pur essendo ampi, i poteri del viceré avevano dei forti limiti, di cui spesso baroni e nobiltà si servirono, a Napoli ed in Sicilia, per bloccarne le iniziative, specialmente quando queste erano dirette a colpire abusi e violenze esercitate contro i vassalli. La frequenza con cui i viceré furono richiamati prima della scadenza del loro mandato, quasi sempre su   Ivi, f. 36.

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richiesta dei baroni e della nobiltà, è un segno della loro debolezza. La lontananza del re e la lentezza dei suoi interventi aggravavano ulteriormente la situazione. Il problema principale restava, però, la necessità di avere il consenso della nobiltà per ottenere il contributo finanziario e militare di cui la monarchia aveva bisogno: in queste condizioni, la parte del programma relativa alla «normalizzazione» del potere baronale restò ovviamente inattuata, anche se alimentò per lungo tempo il mito della monarchia riformatrice, le speranze e le illusioni di siciliani o napoletani riformatori e perfino di uomini di governo e di viceré. Le istruzioni quasi contemporanee al duca di Alcalá viceré di Napoli («un Reyno puesto en la plaza del mundo que es Italia») confermano l’orientamento generale delle istruzioni a Medinaceli, ma con un puntuale e interessante adattamento alla situazione napoletana17. Raccomandazioni generali, anzitutto, che corrispondono allo scrupolo ed alla religiosità del sovrano, a cominciare dalla concezione del potere come servizio alla comunità e dalla preoccupazione per il rischio morale che comporta l’esercizio del comando: una caratteristica ben nota della personalità di Filippo, in cui si esprime l’influenza che lo spirito della Controriforma esercitò almeno sulla sua visione teorica della politica. Alla fine del suo Testamento politico, il cardinale Richelieu, parlando della particolare responsabilità morale dei principi e dei ministri, fa un esplicito riferimento al sovrano spagnolo: «Molti che si salverebbero come persone private – osserva – si dannano come principi [...] Uno dei più grandi Re di una nazione vicina, conoscendo questa verità, gridò morendo che non temeva i peccati di Filippo, ma quelli del Re»18. Richelieu riconosce che si tratta di un pensiero pio, ma non rinuncia alla polemica: «Sarebbe stato molto meglio, per i suoi sudditi e per lui stesso, se lo avesse avuto davanti agli occhi quando era al culmine della sua grandezza e della sua opera, piuttosto che quando, riconosciutane l’importanza, non poté più trarne utilità per la sua azione, anche se lo poté per la sua salvezza». In realtà, la volontà di Filippo II di usare il potere e la 17  Instruçión de lo que Vos. el Ill. Duque de Alcalá primo mio haveis de hazer en la administración del cargo de Visorey lugarteniente y capitan general en el Reyno de Nápoles, 1558, British Library, ms. Add. 28701, ff. 49-84. 18  Testamento politico e massime di Stato, a cura di A. Piazzi, Milano 1988, pp. 382-383.

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potenza in modo non giusto («cosa tan delicada y peligrosa come es el mandar») era sincera e non si manifestò soltanto al momento della morte, ma fin dall’inizio del suo regno. La prima cosa che dovete capire – scriveva, infatti, al duca di Alcalá – è che «la comunità non è fatta per il principe ma il principe per il bene della comunità». Il viceré doveva, quindi, sentire come suo compito fondamentale l’impegno ad operare per la comunità a lui affidata; egli doveva mettersi in mente di avere assunto quell’incarico non per starsene ozioso e per vivere a suo piacere, né per suo proprio beneficio, ma per la pace, la quiete e il bene comuni19. Le istruzioni al duca di Alcalá continuano su questo punto con indicazioni precise e insistenti: Seays muy bien instruido e informado [...] Los Reyes y príncipes son principalmente instituidos para que goviernen y administren justicia a sus súbditos y los defendan de sus enemigos, y pues yo como Rey y señor natural de aquel Reyno devo estas dos cossas a los súbditos y naturales de el y vos deveis estar allí en nuestro lugar, conviene que a estos dos fines endereçeis todas vuestras obras [...] Magistrados y ministros: no consintays que de obras ni de palabras sean injuriados ni maltratados, antes la injuria o mal tratamiento que en qualquiera manera al menor de ellos se hiziese, haveis de castigarlo con toda diligencia y rigor.

L’aspetto specificamente napoletano delle istruzioni al duca d’Alcalá riguarda soprattutto l’importanza attribuita al Consiglio Collaterale, e quindi la collegialità del governo del Regno (art. 9): Conviene que principalmente tengais vigilancia y cuydado de nuestro Collateral Consejo [...] por que quanto es mayor la autoridad que tiene en aquel Reyno y quanto más cerca de vuestra persona ha de estar, tanto más limpio conviene que sea [...] Es necesario que los votos del Consejo sean libres y que libremente y sin respecto diga cada uno su parecer en las causas y negocios de que se trataré.

Anche qui si manifesta poi la tendenza ad intervenire sul piano dei rapporti sociali: i vassalli non devono essere forzati a far donativi ai baroni e devono ricevere un giusto salario per il lavoro svolto nei feudi: 19  British Library, ms. Add. 28701, ff. 49-84 (una parte del documento è in italiano).

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Appare nelle prammatiche, spetialmente del re Ferrante, la tassa di quel che si deve pagare alli vassalli per giornata così di loro persone come degli animali et per quello tempo era soffribile quel salario adesso son venute le cose ad esser tanto care che li poveri vassalli non possono intertenersi con quello [...] Gran bisogno di remedio...

A proposito del Collaterale, sono aggiunti altri suggerimenti nelle istruzioni segrete20 riguardanti soprattutto il controllo sulla moralità e sulla correttezza dei ministri. Non pare che il duca di Medinaceli abbia seguito, nelle questioni più importanti, il modello del suo predecessore. E sarebbe interessante confrontare le istruzioni del 1557 con le Advertencias che lo stesso duca di Medinaceli lasciò al suo successore, Garcia di Toledo, nel gennaio del 156521. Ma dovendo qui procedere sommariamente e a grandi linee, è preferibile assumere come elementi di confronto documenti scritti parecchi anni più tardi e prima di tutto la relazione che il conte di Olivares scrisse nel 1594 per il suo successore quando era in procinto di lasciare la Sicilia per assumere il governo di Napoli22. Il contenuto della relazione di Olivares è mutato rispetto alle istruzioni del ’57. Il problema della milizia del Regno ha perduto l’importanza centrale che aveva a metà del secolo. Olivares dice esplicitamente che «el tercio de infantería española es la principal fuerça del Reyno», pur riconoscendo che è una forza assai limitata (e per giunta irregolarmente pagata) rispetto alle necessità. In effetti, il problema del contributo siciliano alle imprese spagnole in altre aree europee aveva preso il sopravvento su quello della difesa diretta del Regno. Ciò risulta anche dalla preminenza che il tribunale del Patrimonio (l’amministrazione finanziaria) aveva ormai acquistato sugli altri settori dell’amministrazione pubblica. Lo stesso Olivares osservava infatti che, a parte il suo 20  Lo que vos el Ill.re Duque de Alcalá haveis de hazer demás de lo que con la instruçión pública se os advierte, British Library, ms. Add. 28701, ff. 86-91. 21  Colección de documentos inéditos para la historia de España, vol. XXVIII, pp. 304 sgg. 22  Cosas del gobierno y estado universal del Reyno de Sicilia: questa relazione, di cui esistono varie copie manoscritte, tra le quali ho consultato quella della British Library, ms. Add. 14009, ff. 364-397, fu anche pubblicata (Palermo, Cillenio Esperio, 1685) con i commenti a margine del conte di Castro, viceré di Sicilia dal 1616 al 1622. L’amico John Marino mi ha cortesemente segnalato la copia a stampa conservata nell’Archivio di Stato di Napoli.

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compito principale di amministrazione delle finanze e di controllo del governo locale, il tribunale del Patrimonio trattava ormai materie di giustizia, di Stato, di guerra e di governo e che negli ultimi anni soltanto i ministri del Patrimonio avevano esercitato il compito di consiglieri in materia di guerra. Koenigsberger attribuisce questa dilatazione dei compiti del tribunale del Patrimonio al fatto che i suoi ministri (maestri razionali) esercitavano la carica in modo permanente, mentre i ministri degli altri tribunali (Gran Corte e Sacra Coscienza) duravano in carica per periodi limitati. Probabilmente a questo motivo si unisce anche la caratteristica che veniva assumendo la funzione di governo in Sicilia e a Napoli: la sua limitazione e concentrazione nel solo, o assolutamente preminente obiettivo del prelievo delle risorse finanziarie e umane necessarie alla politica ed alla strategia dell’impero. Il quadro tracciato da Olivares comincia con l’assicurazione de «la Gran Fidelidad y amor que a Su Magestad y a su Corona tienen los Naturales de este Reyno»: espressione non rituale, verificata attraverso il periodo tempestoso di difficoltà che l’isola aveva attraversato negli anni immediatamente precedenti, soprattutto per una serie di carestie. Insieme alla sicurezza del dominio, era stato assicurato l’uso delle sue risorse per la politica imperiale. La condizione per il raggiungimento di questi obiettivi era stata l’attenuazione del progetto originario di rafforzare ulteriormente l’autorità dello Stato e di assicurare un maggiore equilibrio tra le forze sociali. Ma il vecchio sovrano non aveva rinunciato ancora alla speranza della riforma. Olivares riferisce che Filippo avrebbe voluto togliere ai baroni il mero e misto imperio, cardine del sistema di oppressione che essi esercitavano sui vassalli (perché i titolari avevano, insieme alla facoltà di emanare la condanna capitale, anche la facoltà di procedere ex abrupto, cioè di sottoporre a procedimento giudiziario, e quindi anche a tortura, i vassalli senza comunicare i capi d’accusa). Lo stesso Olivares, avendo evidentemente una più diretta consapevolezza dei limiti dentro i quali si poteva svolgere in Sicilia l’azione riformatrice, si era opposto alle intenzioni del sovrano, facendogli presente che il cattivo uso del mero e misto imperio non era universale e che conveniva intervenire soltanto nei casi di abuso. Tutto il tema della giustizia ha, comunque, un rilievo particolare nella relazione di Olivares: Aunque en todas las partes es tan necessaria, como se sabe, la Iusticia, es lo mucho más en Sicilia, donde por lo más ordinario conviene usar

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de rigor, y el hacerlo es la mejor misericordia que se puede usar, por lo que con esto se escusan los delitos y se multiplican de lo contrario: y assí mismo conviene ir muy despacio en la indulgencia, y que no sea en cosas de mal exemplo y consequencia [...] El proceder ex abrupto, aunque también es odioso en este Reyno, y en el penúltimo Parlamento se hizo gran fuerza porque se quitasse o moderasse, y también en el último se tentó; no conviene hacerlo, porque sería dar en el suelo con la Iusticia, respecto de la facilidad con que se hallan testigos falsos, y es tan recibido que para disculparse lo puedan hacer con buena conciencia, y esto de manera que la gente principal que en estos Parlamentos ha hecho instancia de ser quitada confiessan que si el Virrey no le participasse esta misma facultad de poder proceder, no podrían vivir ni hacer Iusticia en sus Vasallos, y tras esto hacen instancia para ser ellos exemptos y exceptuados, deviendolo ser menos respecto de la mayor facilidad con que podrían aver los testigos falsos: todavía con Señores y gente principal si los delitos no fuessen muy graves, y de mal exemplo, se deve usar sobriamente de esta manera de proceder. A los Señores y a los Capitanes Ordinarios de Iusticia se dá por el Virrey facultad de proceder ex abrupto contra sus Súbditos por quatro meses, quando los tales Señores y Barones tienen mero y mixto imperio, y de mano en mano se les próroga: a sus Governadores no se dá esta facultad, ni tampoco a Arrendadores, pero bien enviando relación de las causas que tienen reconocidas por la Gran Corte, se les dá quanto a aquellos presos: y parece que sea bien proseguir en este modo.

La copia a stampa della relazione del conte di Olivares presenta un interesse particolare perché vi sono aggiunte a margine le osservazioni del conte di Castro, che fu viceré di Sicilia dal 1616 al 1622, e che talvolta non nasconde la sua perplessità su posizioni particolari e giudizi contenuti nella relazione. È il caso del procedimento ex abrupto, a proposito del quale egli commenta: «Lo peor es que aya Religiosos que lo digan y lo aconsegen...». Ma vorrei sorvolare su questo punto ed accennare piuttosto al confronto fra i temi trattati nelle istruzioni del periodo di Filippo II e le direttive che si affermarono quando si manifestarono pienamente le conseguenze della svolta impressa dal Conte Duca alla politica imperiale. Procederò anche in questo caso per rapidissimi accenni. Come termini di confronto si possono assumere le istruzioni date nel 1628 a Fernando de Ribera, duca di Alcalá, che fu viceré di Napoli dal 1629 al 1631, e la relazione indirizzata nel 1637 dal conte di Monterrey, per ordine di Filippo IV, al suo successore, duca di Medina. I dati essenziali della

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nuova situazione, ovviamente legata all’impegno della monarchia nella guerra dei Trent’anni, ma anche ad un mutamento non soltanto occasionale dei rapporti tra Madrid ed i regni del Mezzogiorno d’Italia, appaiono sostanzialmente diversi rispetto alle istruzioni e relazioni del secolo XVI. Vi è anzitutto la preoccupazione per i fermenti antispagnoli e per il pericolo di una sollevazione popolare. La imprudencia o mal ánimo de algunos predicadores – si legge nelle istruzioni per il duca di Alcalá – ha llegado a término que tal vez en los púlpitos de las iglesias y otras en lugares públicos y menos decentes, a guisa de los que salen en Banco se atreven a decir cosas endereçadas a seduçión o commoción de pueblo contra la nación española o otros modos; quando suscediere V.E. por medio del Capellan mayor o algun ministro se informará y resultando cosa de sustancia se interpona con su autoridad para que el superior de tal predicador le castigue con rigor y aun haga salir del Reyno23.

Molto più ampia è la parte dedicata da Monterrey a questo problema ed alle trame antispagnole che si venivano svolgendo a Napoli ed in Italia; ed altrettanto evidente (anche per l’ampiezza dello spazio dedicato al capitolo sulla Hacienda) è la quasi completa riduzione dei compiti del governo all’obiettivo di imporre il massimo contributo alla guerra. È necessario – scrive il Monterrey – che la Città ed il Regno di Napoli sopportino i pesi della guerra e ne sentano le molestie: le quali sono tutte lievissime se paragonate a quelle che tutte le altre provincie patiscono. E così si è fatto loro intendere in molte occasioni che per assicurar loro la libertà, l’onore, la vita e le facoltà fa mestieri che aiutino e soccorrano facendo sforzi continui. Questo Sua Maestà vuole, come si è degnata con parecchie lettere mandarmelo a dire con espressioni efficacissime quale è, a modo di esempio, che non può vedere che questi vassalli abbiano a lasciar d’aiutarla sino a che loro resti un reale ed una gocciola di sangue dentro le vene, costringendo le presenti necessità a non arrestarsi a veruna considerazione24.

  British Library, ms. Egerton 535, f. 32.   Relazione diretta al sig. Duca di Medina de las Torres, a cura di S. Volpicella, in «Archivio storico per le province napoletane», IV, 1879, pp. 233-248; 468-494. 23 24

II. Istruzioni ai viceré

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Non è qui il luogo per riesaminare le reazioni che le pressioni e la politica della corte di Madrid suscitarono allora nel Regno e che coinvolsero anche il duca di Medina al quale le istruzioni erano indirizzate. L’esigenza di opporre una maggior resistenza alle richieste di Madrid ed ai loro effetti devastanti e di contrastare la passività e la complicità di una larga parte dei nobili napoletani riportò all’ordine del giorno il problema della riforma istituzionale. In questo quadro si colloca, appunto, come segno di un più ampio disagio, il già citato discorso di Genoino. Si può facilmente comprendere, in quella drammatica situazione, l’idealizzazione di un passato in cui anche il sovrano si proponeva, sia pure in modo contraddittorio, di introdurre nella società la «ygualidad» richiesta dallo spirito di «caridad» e dal bene pubblico e di dare allo Stato una più grande autorità contro gli abusi ed il particolarismo dei privilegiati.

III

Alloggiamenti: un caso di buoni rapporti tra militari e civili Nel 1553 il capitano Fernando de Vetta fu mandato dal viceré di Sicilia, Juan de Vega, già ricordato nelle pagine precedenti, a Termini Imerese per una missione di emergenza, ma che apparteneva anche all’ordinaria amministrazione del Regno. La corte di Palermo aveva avuto dai suoi informatori la notizia che «il raisi con l’armata turchisca determinava veniri ad invadiri ditta citati»: bisognava, quindi, organizzare la difesa, facendo perno sul forte castello che sovrastava la città (e che nel 1338 aveva egregiamente resistito all’assedio di Roberto d’Angiò), per impedire ai Turchi di penetrare nel porto e nel territorio circostante. Terminata la missione, al momento di abbandonare la città con la sua compagnia di cavalli e con i soldati della milizia che sotto il suo comando erano venuti da Palermo, il capitano de Vetta emanò un’ordinanza ritrovata tra gli atti dell’anno 1553-54 del notaio Sebastiano Bertolo di Termini Imerese, la quale, per le notizie e i dati che contiene, si presta a qualche considerazione su aspetti non secondari della storia della Sicilia e del Mezzogiorno. L’episodio si svolse circa diciotto anni prima della battaglia di Lepanto, quando ancora i Turchi non avevano subito la clamorosa sconfitta che ne avrebbe attenuato la minacciosa pressione nel Mediterraneo e mentre era ancora in atto la guerra tra Francia e Spagna. L’iniziativa turca contro la Spagna e i suoi domini del Mediterraneo, sollecitata e sostenuta dalla Francia, era quindi in pieno svolgimento. Da parte sua Carlo V, che ancora per qualche anno avrebbe conservato la corona di Spagna e la corona imperiale, perseguiva la lotta contro l’impero turco come un aspetto decisivo della sua politica universale.

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Si spiega, quindi, anzitutto perché la posta in gioco in quel momento fosse una città come Termini, particolarmente importante nel sistema difensivo dell’isola: quella che la flotta turca minacciava di effettuare era una rilevante operazione militare, che avrebbe creato molte difficoltà se si fosse realizzata e avesse avuto successo. Si spiega così anche la prontezza e la consistenza dell’intervento ordinato dal viceré: «Sua excellencia – scrive il capitano nella sua ordinanza – mi mandao in questa citati con nostra compagnia di cavalli et altri soldati da pede e de cavallo de la milicia per la defensione et guardia di quella», aggiungendo che il corpo di spedizione era stato provvisto di artiglieria e munizioni da aggiungere a quelle che erano in dotazione ordinaria del castello. Tempestività e impegno del governo, dunque, di fronte ad un problema di grande portata per la tranquillità e la vita delle popolazioni dell’isola. Si rispecchia anche in questo piccolo episodio la funzione storica di «protezione del territorio» che Benedetto Croce, nella sua Storia del Regno di Napoli, riconobbe al dominio spagnolo: «La minaccia turca – scrisse appunto il Croce – fu fronteggiata dalle operazioni militari eseguite nel Mediterraneo, come la presa di Tripoli nel 1510 e quella di Tunisi nel 1535, dalla successiva ripresa di Tripoli nel 1560 e di Tunisi nel 1573 e dalla difesa di Malta, e definitivamente superata dalla vittoria di Lepanto; e, sebbene nel 1574 si riperdesse Tunisi e con essa il frutto della politica africana di Carlo V, ai turchi, o piuttosto ai barbareschi, non rimase altro vigore offensivo verso l’Italia meridionale che d’incursioni, saccheggi e prede da corsari». Ma anche in questa forma il fenomeno fu tutt’altro che trascurabile, per l’intensità e la costanza con cui l’offensiva si manifestò prima, durante e soprattutto dopo la metà del XVI secolo, e per la scarsa resistenza che incontrò nel sistema difensivo della Sicilia e del Mezzogiorno continentale. È vero che l’aggressività dei Turchi perdette il suo respiro strategico in quell’area del Mediterraneo e decadde ad azioni di pirateria, incursioni, saccheggi e razzie di gente; ma queste furono così insistenti e frequenti e così male e insufficientemente fronteggiate e respinte da creare un permanente stato di insicurezza e un travaglio secolare per le popolazioni dell’isola e del Regno napoletano; né mancarono casi in cui i Turchi si impadronirono di città e le tennero a lungo senza che l’organizzazione militare locale avesse la possibilità di ricacciarli.

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Il quadro che ne ha dato Gustavo Valente per la Calabria1 è suf­ ficiente a dare un’idea di come andarono le cose, sotto questo aspetto, in tutto il Mezzogiorno: per un paio di secoli non passò anno che non vedesse questa o quella parte del territorio messa a soqquadro dai barbareschi e, di tanto in tanto, l’intero paese gettato nel panico per la notizia di grandi preparativi della flotta turca e per la consapevolezza di non avere i mezzi per opporsi ad un eventuale attacco in grande stile. D’altra parte, sul piano generale, non fu fatto per secoli alcun tentativo di modificare o attenuare la rigida politica di scontro frontale con l’impero ottomano. Il capitano de Vetta, nel delineare il piano di difesa di Termini, si preoccupò, come risulta dalla sua ordinanza, oltre che della parte strettamente militare, anche di predisporre le cose in modo che, nel caso di attacco della flotta turca, «li personi inutili poviri mischini et malati che non potiano nexiri [uscire] ni andare fora de ditta citati per salvare loro vita per loro indispusitioni et miseria» potessero essere accolte nel castello ed avere qui il vitto, l’alloggio e la protezione di cui avevano bisogno. Immagine rassicurante, che contrasta con le descrizioni di popolazioni allo sbando, fughe, massacri e violenze senza riparo che si riferiscono a centinaia o migliaia di altri casi, in diversi tempi e circostanze. La missione del nostro capitano è, dunque, un esempio di ordine, di efficienza e di capacità di prevenzione, e proprio per questo non può essere considerata un caso tipico nella storia della protezione del territorio e delle popolazioni siciliane dalle pressioni e dalle minacce esterne. Il documento è interessante, inoltre, anche per un altro aspetto del rapporto tra le milizie e la popolazione. Si tratta del problema dei cosiddetti «alloggiamenti», che ha afflitto tutti i paesi europei nei secoli della prima età moderna. L’ordinanza del capitano ci dà un quadro confortante di disciplina e di impegni reciproci tra Università (Comune) e soldati: tutto ciò che questi ultimi prendono per il loro vettovagliamento e per le loro esigenze viene regolarmente acquistato e registrato (biscotti, formaggi, olio, aceto, candele, materassi, munizioni ecc.), e gli oggetti che per disposizione del Comune 1  Calabria, Calabresi e Turcheschi nei secoli della pirateria, 1400-1800, Chiaravalle C.le 1973.

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sono stati dati in uso ai soldati devono essere restituiti all’atto della loro partenza; e «se li mancasse alcuna cosa di quelle che hanno dato per dormiri et servizio di ditti soldati [...] me lo fariti intendiri per farli pagare lo pretio de ditta roba con verificatione per lo patrone de quello, ché lo jorno che partizimo de questa citati inanzi de nexiri de quella degiati [l’ordinanza è rivolta ai ‘giurati’ della città] fari restituiri ad omniuno de le citatini quello che per vostro ordine et conto hanno dato, altramente essendo partiti et alcuno pritindissi alcuna cosa contra ditti soldati le pagheranno le excellentie vostre...». Un idillio, insomma, che fa intravvedere un comportamento corretto da parte dei militari per tutto l’insieme dei rapporti con la popolazione. Se l’ordinanza corrisponde alla realtà ed ai comportamenti di fatto dei militari, dei civili e delle autorità locali, il capitano dev’esserne andato via da Termini, alla testa della sua compagnia di cavalieri, tra le benedizioni dei cittadini. Tanto più che il temuto attacco turchesco non ci fu e Termini non subì, quella volta, i travagli e le angustie della guerra: «l’armata [...] como sapiti si è partita per levante et non c’è dubio de quella che per quest’anno digia veniri in questa cità et ancora la persona nostra et la nostra compagnia non è più necessaria per la defensione ne guardia de ditta citati immo [abbiamo] convenuto al servizio de Dio et de sua Maestà che si parti da quella e vada in altra parte a complir li supraditti servizi». Propendo a credere che il documento rispecchi fedelmente la realtà, perché mi pare di poter capire che in questo caso non si trattò di mercenari e soldati di mestiere, che usavano comportarsi in modo assai diverso con le popolazioni e le comunità che avevano la sventura di doverli alloggiare. Qualche anno prima del 1553, infatti, il viceré de Vega aveva avuto l’idea di dare un nuovo assetto al sistema militare dell’isola, proprio in funzione della difesa dagli attacchi e dalle incursioni di Turchi e barbareschi. Dopo aver ordinato, nel 1548, un nuovo censimento della popolazione, egli aveva creato una «nuova milizia», che aveva una funzione esclusivamente difensiva. Essa doveva operare soltanto nel territorio del Regno ed essere formata dagli stessi sudditi, artigiani, contadini, borghesi che normalmente svolgevano le loro attività civili ma venivano addestrati alle armi e mobilitati in caso di necessità. «Una novità – ha scritto Giuseppe Giarrizzo nella sua storia della Sicilia dal Cinquecento all’Unità d’Italia – nel senso che essa finì per coinvolgere intere popolazioni nella responsabilità della difesa, e parve per un momento tendere – fuori dal modello

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machiavelliano della fortezza in terra di conquista – ad un rapporto di fiducia tra governo e governati». Molto probabilmente, dunque, il capitano de Vetta comandava una schiera della nuova milizia popolare, le cui origini e funzioni erano diverse da quelle degli eserciti professionali e di conquista e che aveva legami di identità nazionale e sociale con la popolazione civile. Secondo la testimonianza di Scipione de Castro, che fu uno dei suoi successori nella carica di viceré, il Vega era ritenuto un ministro di sentimenti e orientamenti popolari («faceva professione di battere la nobiltà e di favorire la plebe»). Sta di fatto che la sua opera politica, compresa la riforma militare, incontrò la più forte ostilità dei nobili isolani, che mandarono una ambasceria a Filippo II per chiedere la rimozione del Vega dal suo incarico di governo. Le ragioni dell’ostilità non sono difficili da comprendere, anche se si considera soltanto l’aspetto militare della sua politica: i nobili preferivano un sistema di difesa che non fosse basato su una larga e relativamente autonoma mobilitazione di forze popolari che potevano sfuggire al loro controllo e insidiare la loro tradizionale e assoluta preminenza in un settore così importante dell’organizzazione sociale e politica dello Stato.

IV

Richelieu e Olivares Attraverso la comparazione tra Richelieu e Olivares, J.H. Elliott ripropone1 il problema generale dell’antagonismo tra Francia e Spagna e del ruolo che le due nazioni ebbero in una fase cruciale della storia europea. Il presupposto del libro è che i due personaggi siano stati interpreti autentici dello spirito e delle capacità delle rispettive nazioni: un presupposto scontato per il versante Richelieu ma finora da dimostrare nel caso di Olivares. Anche per questo, oltre che per il precedente lungo impegno di ricerca sulla storia spagnola (che va dal libro sulla rivolta catalana alla grande biografia di Olivares), l’interesse dell’autore non è distribuito ugualmente tra i due termini della comparazione; egli non si propone di affrontare in egual misura e con la stessa intensità i problemi storici dei due paesi. È la storia della Spagna che gli interessa in modo preminente. Il confronto tra Richelieu e Olivares è un momento, una tappa obbligatoria dell’analisi e del giudizio sulla Spagna del XVII secolo. Il confronto fu fatto già all’indomani della caduta di Olivares, come Elliott ricorda. E servì allora a sottolineare il fallimento di Olivares, contribuendo a creare le premesse per l’oblio storiografico o per un giudizio storico fortemente riduttivo sulla sua opera. Secondo Elliott, gli avversari interni di Olivares, promuovendo e avallando questo giudizio, non hanno reso un buon servigio alla «reputazione» (politica e storica) del loro paese. Sottovalutando l’opera di Olivares, non solo non si è messa a fuoco la sua personalità, ma si è anche sottovalutata la riserva di energie politiche, ideali e morali che la   J.H. Elliott, Richelieu e Olivares, trad. it., Torino 1990, p. 170.

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monarchia spagnola mantenne anche durante la sua decadenza. Ne è nata una visione in parte schematica, o deformata, di tutta la storia europea del ventennio 1620-40. Elliott si è dunque proposto una impresa di revisione storiografica. Non nel senso della rivalutazione delle ragioni e della capacità politica di Olivares: «non intendo affatto patrocinare – scrive – la causa di Olivares, i cui fallimenti sono sotto gli occhi di tutti»; ma nel senso di suggerire una visione più equilibrata della storia europea del periodo; di riconoscere il ruolo di grande potenza che la Spagna ha continuato a svolgere nel periodo di Olivares; di non fare apparire sconfitta ed emarginata la monarchia spagnola prima ancora che essa lo sia stata veramente. «È illusorio – scrive ancora Elliott: e non si può non dargli ragione – pensare di poter raggiungere una visione completa di quest’epoca sino a quando non porremo Francia e Spagna sullo stesso piano». Credo che questo libro abbia raggiunto lo scopo, che era non già di dare una visione più completa dell’epoca ma di suggerire concretamente una delle premesse necessarie per operare qualche importante rettifica della interpretazione tradizionale. Elliott non ha ragione di temere che il lettore, costretto a volgere lo sguardo ora all’uno e ora all’altro dei due personaggi, come in una specie di «Wimbledon storiografica», corra il rischio di buscarsi il torcicollo. Per parte mia, ho avuto l’impressione opposta. Mi sembra, cioè, che il segreto dell’operazione condotta da Elliott sia il progressivo accostarsi e, ad un certo punto, quasi sovrapporsi delle due figure. Ferma restando la diversità dei temperamenti personali e delle condizioni in cui l’uno e l’altro dovettero operare, i programmi che elaborarono, le aspirazioni di riforma che nutrirono, i metodi che praticarono, gli ostacoli ed i rischi a cui andarono incontro coincidono largamente nella ricostruzione di Elliott. Li unì il loro stesso antagonismo, al quale furono legati non solo i limiti ma anche le possibilità di successo dell’azione politica di entrambi. È un dramma in cui soltanto l’atto finale, cioè la sconfitta dell’uno e la vittoria dell’altro, segna una netta distinzione, o meglio, scava un abisso tra i due. Un abisso sul piano politico, che poi, secondo Elliott, si è riversato in modo meccanico o arbitrario anche nella storiografia. Gli storici di una volta tendevano forse ad essere teneri con i vincitori e spesso non erano in condizione di comprendere o di sostenere che il contributo dei vinti al processo storico può essere non meno importante di quello dei vincitori. Un’ipotesi attuale può

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rendere più chiaro il concetto: sarebbe giusto, da parte degli storici futuri, trascurare o mettere in ombra il significato di innovazione e la portata liberatoria dell’opera di Gorbacˇëv, dopo che egli è stato travolto dalle spinte centrifughe delle nazionalità, dai conservatorismi e dai radicalismi di vario tipo prima di poter dare consistenza e stabilità alla riforma del sistema politico e della società sovietica? L’accostamento non sembri arbitrario, anche se le situazioni sono enormemente diverse. Olivares fu travolto dalle resistenze e dalle spinte centrifughe che si sollevarono impetuosamente all’interno della monarchia. Detto questo, bisogna riconoscere che il naufragio – il termine è stato usato da Elliott nell’ultimo capitolo della biografia di Olivares – si può spiegare, restando nella metafora, con l’improvviso e incontrollabile scatenamento degli elementi naturali, con le condizioni preesistenti della nave, oppure, talvolta, con la condotta della navigazione e con le cattive qualità del comando. Su due punti essenziali è basata, mi pare, la valutazione di Elliott. Il primo è il riconoscimento della validità del programma riformatore di Olivares, dei suoi contenuti ideali, del suo accordo con le esigenze dei tempi: e qui credo che il problema principale sia la corrispondenza tra le intenzioni e la concreta azione politica, insieme a quello dell’interna coerenza del progetto. È indubbio, d’altra parte, che Olivares aveva una completa e incrollabile dedizione al servizio del sovrano, come allora si diceva, cioè al bene ed agli interessi generali della Spagna, e cercò di trasmetterla o imporla a tutto l’apparato di direzione dello Stato. Su questo punto (che è notevole in un’epoca in cui lo spirito di impegno collettivo era piuttosto debole e non del tutto chiara era l’idea delle responsabilità generali delle classi dirigenti) la somiglianza con Richelieu è veramente profonda. Il secondo aspetto riguarda le condizioni generali dei due paesi: Elliott tende a mitigare, per quel tanto che basta a sollevare una serie di interrogativi ed a suggerire una visione più dinamica ed aperta delle vicende europee della prima metà del Seicento, la crudezza e il semplicismo dell’immagine tradizionale di un inarrestabile declino, da una parte, e di una irresistibile ascesa, dall’altra. Nel 1595, uno dei numerosi sostenitori della ripresa della monarchia francese, David Rivault, come si è già ricordato, fece un’osservazione piena di verità: «I segni delle nostre disgrazie resteranno per sempre in Francia». Si riferiva alle guerre civili che nei trent’anni precedenti avevano travagliato e sconvolto il paese. Non saprei dire se questi segni siano riconoscibili nella

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Francia di oggi; ma certamente erano evidenti e molto gravi nella Francia di Richelieu. Nel confronto tra i due paesi, il nucleo centrale (castigliano) della classe dirigente spagnola appare più omogeneo e più saldamente legato al destino della monarchia. La Francia aveva, da questo punto di vista, una profonda debolezza. Ed è vero che oggi, alla luce delle nuove ricerche, «le differenze tra i due paesi si vanno facendo più sottili di quanto apparissero una ventina d’anni fa». A proposito della coesione nazionale, tuttavia, e della presenza politica e culturale dei due paesi nell’Europa e nel mondo del XVII secolo, il discorso deve necessariamente andare oltre gli orientamenti degli strati superiori e più ristretti delle classi dirigenti. Sia in Francia, sia in Spagna si creò, tra XVI e XVII secolo, un movimento politico-intellettuale a sostegno della monarchia, dello Stato, per il rafforzamento del tessuto unitario nazionale. La mia impressione è che in Francia la collaborazione tra potere e cultura suscitò, in certi periodi decisivi, una diffusa e nuova mobilitazione di forze interne e proiettò all’esterno un’immagine relativamente dinamica e positiva del paese. Qualcosa di analogo avvenne anche in Spagna? Elliott sostiene che prima del biennio 1639-40 la Spagna conservava quasi intatto il suo prestigio come grande potenza. Mi sembra che, fino ad un certo momento, ciò sia vero sul piano militare. Più in generale, invece, la «reputazione» della Spagna aveva subìto colpi pesanti già nei decenni precedenti. Al tempo di Olivares, al timore per il suo espansionismo, per la tendenza ad esportare la sua decadenza e le sue contraddizioni e per il suo rigido tradizionalismo ed all’idea della sua crisi economica e sociale non corrispondeva più la convinzione che i suoi dirigenti fossero sicuri di sé e onnipotenti (il credito che l’antispagnolismo di Traiano Boccalini o, più tardi della Gazette de France trovò in tutta Europa non è casuale). Il personaggio dei Promessi Sposi al quale Manzoni attribuisce, con una ironia che non sembra dettata soltanto dal senno del poi, una illimitata fiducia nella potenza del conte duca era, alla fine degli anni Venti (al tempo della guerra di successione di Mantova), già un po’ anacronistico. Gli avversari spagnoli contemporanei di Olivares sostennero che la sua opera aggravò i mali e la debolezza della Spagna, le sue fratture interne (etniche e sociali), e danneggiò irreparabilmente la sua «reputazione» politica. È probabile che essi proiettassero sul conte duca i loro propri difetti, i loro aspetti negativi, e che le loro resistenze ai progetti di riforma fossero uno dei fattori principali di

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accelerazione del declino. Il problema, tuttavia, non è di prender partito in quella antica controversia, ma di superare la sua influenza sul giudizio storico relativo all’apporto che la Spagna ha dato alla vita politica europea e mondiale di quel periodo. Rimuovere l’ostacolo di un giudizio su Olivares troppo unilaterale e troppo influenzato dalle polemiche e dai contrasti del momento favorisce il riconoscimento di questo apporto, con i suoi aspetti positivi e con le sue contraddizioni e i suoi limiti. Alla fine della sua vita Olivares disse che la gratitudine non è di questo mondo. Forse non si può parlare propriamente di gratitudine, ma mi pare che la cultura storica e politica spagnola (come tutti gli studiosi che hanno interesse per il XVII secolo) riconosca il valore che hanno, per l’aspetto che ho indicato, l’opera complessiva di John Elliott e questo volume in particolare.

V

Le corti, centri di potere e di cultura Volendo definire la natura e il significato storico delle residenze reali e delle sedi di corti dell’età moderna, nel periodo di costruzione e consolidamento della sovranità assoluta (sec. XV-XVIII), è inevitabile muovere da una contrapposizione: da una parte, la reggia, residenza del sovrano e sede del governo centrale; dall’altra, il castello feudale. Sono due realtà non solo diverse, ma spesso contrastanti, e il fiorire dell’una comporta la decadenza dell’altra. Ma questa contrapposizione, valida in generale e in linea di principio, si presenta nella storia italiana in modo complesso e ricco di sfumature. Altrove, in Francia, in Inghilterra, in Spagna, l’immagine della reggia si identifica con quella di un centro (città o regione) la cui influenza si estende, attraverso un processo storico più o meno lungo e travagliato, sul territorio nazionale, superando resistenze e particolarismi, svuotando di importanza politica e culturale i castelli dei signori e cercando, nello stesso tempo, di conquistare la loro solidarietà. La stessa sede del potere centrale, dove in origine è concentrato tutto l’apparato di governo, si articola poi via via in una rete di centri amministrativi che ad essa fanno capo: le sedi dei grandi settori dell’amministrazione pubblica, soprattutto finanze e giustizia, che sono emanazione e segno della potenza del sovrano, si sviluppano anche al di fuori della corte e formano il tessuto politico della sovranità e la base di un crescente accentramento delle funzioni statali. In Italia, nella prima fase dell’età moderna, e particolarmente nel corso del Quattrocento, la corte principesca è l’espressione di questa stessa tendenza, in lotta contro il particolarismo feudale e municipale. Ma, nello stesso tempo, è il luogo in cui nascono fenomeni e orientamenti diversi, che in un certo modo si contrappongono a

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quella tendenza e la negano. A Ferrara, Urbino, Mantova, Venezia, Milano, Firenze, Napoli, l’accentramento del potere si accompagna ad una più accentuata separazione tra città e campagna e, all’interno della città, alla chiusura delle oligarchie e ad una maggiore antitesi tra queste e gli altri strati della popolazione. L’affermarsi del potere politico dinastico riuscì anche in Italia a tagliare le punte estreme dell’anarchia feudale, a sostenere e portare avanti lo sviluppo culturale avviato nell’età dei Comuni, ad affermare una maggiore autonomia della vita civile nei confronti della Chiesa, ma favorì nello stesso tempo la cristallizzazione delle strutture sociali della campagna e della stessa città. L’iniziativa economica continuò anch’essa a svilupparsi, ma dentro un quadro sociale rigido, privo di elasticità: i nuovi protagonisti dell’attività produttiva, mercanti, imprenditori, dovettero operare in un contesto sociale che continuava a favorire il dominio dei vecchi e dei nuovi possessori di rendite feudali e fondiarie. Si dilatò, anzi, col progredire dell’influenza dei nuovi centri di potere, «la protezione politica che il governo della città garantiva ai cittadini in possesso di fondi nel contado, si trattasse di nuove acquisizioni fondiarie [...] o della vecchia base terriera di cittadini cospicui, spesso inurbatisi in tempi non lontani» (G. Tabacco). Veniva meno così, o si svolgeva in modo contraddittorio, una funzione che doveva esser propria delle forme moderne di sovranità: quella di dare ulteriore spazio e respiro più largo alle forze economiche e sociali che si erano formate ed erano cresciute nei Comuni, in un momento di intensa trasformazione della società. Del resto, il periodo in cui vennero sorgendo le nuove sedi dei sovrani, le nuove «regge» o corti principesche, fu anche quello dell’inurbamento delle più grandi famiglie feudali. Accanto ai palazzi dei signori assoluti, specialmente in alcune città del Centro e del Sud (Roma, Napoli, Palermo) sorsero i palazzi di grandi baroni e signori feudali, che gareggiarono in magnificenza e grandiosità con le stesse corti. Certo, anche in questo modo si manifestava la crisi lenta e secolare del castello feudale che con le sue torri merlate e i suoi bastioni, spesso costruiti sulla sommità di colline e montagne, inutilmente (almeno dal punto di vista politico e militare) sorvegliava ormai il territorio circostante. Inoltre, all’interno della città la gara non si esauriva tra sovrani e baroni, poiché con questi ultimi gareggiavano a loro volta grandi mercanti, speculatori finanziari, grossi appaltatori di imposte, ai quali l’espansione dello Stato creava nuove occasioni di ascesa e

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che venivano formando uno strato, esiguo ma forte, di nuova nobiltà. Gran parte dell’azione politica dei sovrani consistette nel favorire il consolidamento di questo gruppo senza rompere irrimediabilmente con la vecchia aristocrazia; e fu quindi, in qualche modo, un’azione rivolta ad allargare le basi dello Stato, come oggi si direbbe, sia pure con limiti ben segnati ed attraverso molti compromessi. Nella maggior parte dei casi, quindi, le belle regge italiane della prima età moderna, pur nel loro splendore e nella loro imponenza, non sono costruzioni dominanti in un contesto urbano «borghese», ma sono circondate e quasi assediate da palazzi signorili, quasi a testimonianza di un equilibrio di forze, di un compromesso tra il vecchio e il nuovo. A Napoli, lungo il XVI e XVII secolo, si creò una situazione in apparenza paradossale: le nuove costruzioni furono opera delle grandi famiglie baronali (Sanseverino, Pignatelli, Caracciolo ecc.), mentre le sedi della corte viceregia rimasero nei castelli, come quell’imponente baluardo militare che è il Mastio Angioino. In realtà, anche a Napoli il potere centrale si rafforzò nel periodo aragonese e in quello spagnolo e, se la reggia conservò l’aspetto di un maniero dei vecchi tempi svevi e angioini, ciò non vuol dire che i rapporti tra sovrano e baroni rimasero quelli che erano nel tardo Medioevo. Alla fine del ’400 la congiura dei baroni fu l’ultimo grande tentativo di invertire il corso della storia. Dopo la sua sconfitta ad opera di Ferrante d’Aragona, vi furono altri tentativi ed altri insuccessi (come quello del principe di Salerno a metà del XVI secolo); ma se la feudalità continuò ad avere un vasto dominio nella società rurale e nella stessa amministrazione della capitale, perdette tuttavia quell’autonomia e quella grande forza politica che aveva mantenuto lungo il Medioevo. Anche qui, dunque, la reggia acquistò importanza, diventò il centro e il punto di raccordo non di un complesso di piccoli potentati, ma di un potere unitario, statale, e quindi più moderno. Per converso i castelli feudali disseminati nelle province decaddero, pur senza avviarsi ancora a diventare ruderi: all’interno di essi non si potevano più prendere decisioni determinanti per l’orientamento generale dello Stato, delle finanze, della politica estera, dell’esercito, della legislazione. Essi costituivano ancora, tuttavia, la base di un potere quasi assoluto sulle comunità circostanti. Su questo punto, i baroni non erano disposti a cedere, e il potere centrale dovette venire a compromesso. La potenza della corte, e specialmente la sua funzione di garanzia

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della giustizia e del rispetto delle leggi che salvaguardavano i «diritti naturali» dei vassalli (diritto alla vita, ai beni, all’onore), si faceva sentire debolmente nel raggio di influenza del castello. Lo scontro diventava più aspro quando erano in gioco direttamente gli interessi del sovrano piuttosto che quando si trattava di mobilitare lo Stato a difesa dei vassalli. Nell’urto venivano alla luce atteggiamenti anacronistici, velleitarismi, illusioni, debolezze dell’una e dell’altra parte. Se ci si addentra nei particolari, è difficile tirare le somme e stabilire se la reggia prevalse sul castello o viceversa. Alfonso Piccolomini, duca di Montemarciano, illustre bandito della fine del Cinquecento, finì sul patibolo quando il papa e il granduca di Toscana riuscirono a mettersi d’accordo per stroncare le sue prepotenze e farla finita con le sue scorrerie. Girolamo Acquaviva, conte di Conversano, riuscì invece a mettersi d’accordo con un sovrano potente come Filippo IV di Spagna, dopo aver per lunghi anni maltrattato e terrorizzato i suoi vassalli pugliesi e dopo avere anche tentato una congiura politica. Anche da questa specie di compromesso col potere feudale e da questa separazione dal mondo produttivo deriva l’immagine delle corti italiane come sedi di complicatissimi e raffinatissimi intrighi. Dove l’autorità è troppo contrastata e condizionata, o non riesce ad ottenere direttamente i fini per i quali è sorta, l’intrigo, il raggiro, l’astuzia diventano inevitabili. Il famoso brano di Machiavelli, che descrive i vizi della classe dirigente italiana rinascimentale, coglie certamente un aspetto della realtà: «Credevano i nostri principi, prima che assaggiassero i colpi delle oltramontane guerre, che a uno principe bastasse saper pensare una acuta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare nei detti e nelle parole arguzia e prontezza, sapere tessere una fraude, ornarsi di gemme e d’oro, dormire e mangiare con maggiore splendore che gli altri, tenere assai lascivie intorno, governarsi co’ sudditi avaramente e superbamente, marcirsi nel­ l’ozio [...] né si accorgevano i meschini che si preparavano ad essere preda di chiunque gli assaltava». Si potrebbero aggiungere, a queste parole, le invettive contro la tirannide lanciate da Girolamo Savonarola nel Trattato del reggimento degli Stati; o, più tardi, le filippiche antispagnole di una serie di trattatisti e scrittori del Seicento. Ma Savonarola, Machiavelli, i trattatisti del Seicento erano protagonisti, erano coinvolti nella decadenza degli Stati e del paese nel suo complesso. Il loro giudizio non può essere assunto, sic et simpliciter, come giudizio storico. I vizi che essi addebitavano ai governanti erano

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il frutto di condizioni che andavano al di là della volontà dei singoli e dei gruppi dirigenti, erano anche eredità di un passato più lontano. Una lotta contro questa realtà ci fu, ed ottenne anche parziali successi, che non vanno sottovalutati. La grande storia della cultura italiana della fine del Medioevo e dell’inizio dell’età moderna non può essere separata né dall’insieme della vita sociale e politica, né dagli stessi luoghi in cui si concentrò l’autorità dei principi. Le corti italiane non solo costituirono il punto di raccordo e di sostegno del movimento culturale dell’Umanesimo, ma offrirono anche ad una schiera di umanisti la possibilità di operare direttamente sul terreno politico. I principali esponenti della nuova cultura – da Leonardo Bruni a Leon Battista Alberti, da Poggio Bracciolini a Lorenzo Valla, da Enea Silvio Piccolomini a Giovanni Pontano – ebbero funzioni pubbliche di prima importanza e in una certa misura riuscirono a trasferire nell’opera politica e civile il patrimonio di idee e di valori nuovi che venivano elaborando. Siamo qui di fronte ad un aspetto più noto e più positivo della storia delle corti italiane, che talvolta viene considerato separatamente dal resto, come il rovescio della medaglia, e che invece è un aspetto di una realtà complessiva e sostanzialmente unitaria. La valutazione dell’apporto della cultura allo sviluppo dello Stato e della società non è tuttavia semplice. Se da una parte si mette in rilievo la novità dell’impegno «civile» della cultura umanistica, dall’altra pesa su di essa il giudizio di aristocraticismo (di cui sarebbe espressione anche l’uso prevalente della lingua latina), di mancato incontro tra intellettuali e popoli, di separazione tra Rinascimento (inteso come movimento di élites) e Riforma (come movimento «nazional-popolare»). Tenuto conto di queste caratteristiche, che contribuiscono a spiegare la crisi generale della società italiana del Cinque e Seicento, vanno sottolineati tuttavia gli elementi di novità, che non riguardano soltanto momenti e settori particolari della cultura, ma approdano ad una generale visione dell’uomo, e quindi anche della società e della stessa politica. Il concetto di virtù e di dignità umana elaborato dagli umanisti prelude, in definitiva, ad una concezione della gerarchia sociale diversa o addirittura opposta rispetto a quella che era dominante nel sistema feudale, ad un vero e proprio capovolgimento di valori. Mentre nel mondo feudale l’esercizio e il monopolio del potere erano giustificati dalla nascita nobile e dal distacco dall’attività produttiva, gli umanisti, riprendendo e sviluppando tendenze già delineatesi nel periodo comunale,

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esaltarono l’impegno, la vita attiva, la produttività culturale ed economica, la capacità di creare ricchezza, il farsi da se stessi. Dal Pontano ad Antonio de Ferraris, a Giovanni Battista Nenna, a Francesco Elio Marchese, gli umanisti condussero un’ampia discussione sull’idea di nobiltà, giungendo fino a mettere in secondo piano l’elemento genealogico ed a concludere che la nobiltà dell’animo è più vera e più perfetta della «nobiltà del sangue congiunta con le ricchezze». È un fatto che la tensione di rinnovamento civile e politico, sottesa a questa critica dei valori tradizionali che per quel tempo può considerarsi rivoluzionaria, non riuscì a diventare operante al di là di ristrette cerchie di intellettuali. Il contributo alla più generale riforma morale e intellettuale, non realizzato sul piano nazionale, l’umanesimo lo diede a livello europeo, innestandosi dialetticamente sul processo aperto dalla Riforma protestante. Una tradizione interpretativa, che fa capo alla fondamentale opera di Jacob Burckhardt sulla civiltà del Rinascimento italiano, sottolinea, come elemento della cultura legata alle corti italiane dei secoli XV e XVI, l’esaltazione della libera espressione della personalità, senza riguardi a vincoli morali, una sorta di amoralità liberatoria e paganeggiante. È una interpretazione che collega cultura e vita politica, ricompone in una visione unitaria Machiavelli e Cesare Borgia, l’Aretino e Sigismondo Malatesta e pone questo patrimonio di esperienze, di riflessioni e di spirito creativo alla radice della moderna civiltà europea, libera e spregiudicata. Grandiosa ed eccessiva semplificazione, che prescinde non solo dagli elementi di tradizionalismo e dai fermenti religiosi presenti nelle correnti culturali del Rinascimento ma anche dallo sforzo di superamento dell’individualismo e di elaborazione di una nuova e più aperta visione della società che fu proprio della cultura umanistica. Anche su questo punto l’azione politica e la ricerca intellettuale si mossero parallelamente. Ma la prima si arrestò ad un certo punto, non riuscì a superare il particolarismo e la resistenza baronale, e questo insuccesso condizionò e limitò anche il movimento culturale fino alla rottura del legame che si era creato o alla trasformazione degli umanisti in «cortegiani». «Inseritisi negli organismi di potere, era inevitabile che gli umanisti – con il venir meno delle tensioni scatenatesi nel periodo più acuto dell’espansionismo degli Stati italiani – vedessero svanire il loro ruolo di sostegno dei vari governi e scadessero al rango di cortigiani e di panegiristi, tanto più che la funzione di equilibrio sociale che ancora nella prima metà

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del Quattrocento i nuovi signori si propongono – Francesco Sforza a Milano, Cosimo de’ Medici a Firenze, gli Aragonesi a Napoli – si esaurisce rapidamente con il ridursi della permeabilità sociale, con il cristallizzarsi dei gruppi dirigenti in un blocco formato dalla nobiltà e dalla grande borghesia... La carriera dell’umanista è prossima a concludersi in quella del cortigiano, per il quale Baldassarre Castiglione detterà il suo capolavoro» (C. Vivanti). A lungo si potrebbe discutere sul carattere più o meno esemplare del Libro del Cortegiano, sulla maggiore o minore corrispondenza alla sostanza della vita di corte di quel periodo, sulla possibilità di interpretarlo come «il tentativo di organizzare una aristocrazia intorno al principe e di differenziarla dalla morale borghese trionfante» (A. Gramsci). Colpisce, comunque, il fatto che, mentre l’Italia attraversava uno dei momenti peggiori della sua storia e nella Chiesa maturavano lacerazioni e contrasti di grandissima portata, il Castiglione, che pure fu diplomatico e uomo d’armi, concentrasse la sua attenzione sulle belle costumanze di una ristretta aristocrazia, avendo come punto di riferimento ciò che avveniva tra le mura del castello di Urbino, idealizzato come un mondo di perfetta serenità e cortesia. Eppure, da lì a poco, il duca avrebbe dovuto prendere la via dell’esilio e le dame di corte, anch’esse, in esilio, sarebbero state costrette, per vivere, a fare fondere oggetti preziosi disegnati per loro da Raffaello. La grande tensione morale e ideale dell’epoca precedente avrebbe trovato la sua ultima espressione nel Principe di Machiavelli, opera teorica, ma i cui punti di riferimento positivi erano ormai fuori d’Italia. Il rapporto tra corti e movimento intellettuale di riforma tornò a ricostituirsi in un altro momento decisivo della nostra storia, in cui la «reggia» assunse una funzione più complessa e più ampia, di vero e proprio centro motore di un’azione riformatrice che andava molto al di là di gruppi ed élites e tendeva ad investire tutta la società e lo Stato. I cambiamenti avvenuti con la fine del dominio spagnolo, con la creazione di un regno indipendente nell’Italia meridionale, con l’instaurazione di un diverso sistema di rapporti internazionali, crearono a metà del Settecento una situazione nuova, più favorevole al contatto tra l’Italia e le correnti politiche e culturali più vive dei grandi Stati europei. Per la prima volta dopo oltre due secoli si creò una coincidenza, sia pure in mezzo a difficoltà e incomprensioni, tra l’azione dei sovrani e i programmi elaborati da gruppi di studiosi che, abbandonato il terreno delle dispute teologiche e delle contro-

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versie letterarie, si impegnarono nell’analisi dei problemi dello Stato e della società. Obiettivi comuni furono il potenziamento delle istituzioni statali, nei confronti della Chiesa e delle forze feudali, e lo sviluppo economico. L’intreccio tra l’assolutismo e il movimento illuministico, la fiducia reciproca tra sovrani e intellettuali riformatori divennero la base fondamentale dei successi che furono ottenuti nel ventennio tra il 1760 e il 1780 nell’opera di rafforzamento dello Stato e di rinnovamento delle strutture economiche. Pur nella diversità delle condizioni e delle esperienze, a Napoli come a Milano, a Firenze come a Modena, il «modello» adottato per affrontare i problemi del paese fu sostanzialmente unico e consistette nel rafforzamento del potere regio e nel contemporaneo collegamento con i nuclei e le scuole della nuova cultura. Certo, soltanto una parte dei programmi elaborati dagli illuministi fu accolta dai principi e le vicende della collaborazione furono diverse da luogo a luogo. A Napoli, l’accento fu messo soprattutto sulla lotta contro i privilegi ecclesiastici, anche se i maggiori riformatori, dal Genovesi al Filangieri al Galanti, insistevano sulla necessità di affrontare energicamente la questione feudale e di aprire la via ad un più equilibrato riassetto della distribuzione fondiaria. Qui, dove la costruzione di nuove residenze regie si ispirò a criteri architettonici conformi al più armonioso razionalismo settecentesco, la «ragione riformatrice» incontrò le più accanite resistenze e le maggiori difficoltà; si può dire che il fervore di ricerca e l’impegno politico degli illuministi giunsero soltanto a lambire la corte, senza riuscire a permeare profondamente le linee fondamentali della sua azione. Fu una storia di tentativi, di contraddizioni, di speranze in gran parte deluse, che si concluse con la grande tragedia del 1799 e con l’irrimediabile, definitiva e sanguinosa frattura tra la cultura napoletana e la monarchia borbonica. Assai diversa fu invece la vicenda a Milano e a Firenze, dove la crisi della collaborazione tra intellettuali e principi intervenne dopo un periodo in cui l’intesa fu feconda e ricca di risultati e dopo momenti in cui l’azione dei sovrani sembrò addirittura precorrere e superare le spinte che venivano dal mondo della cultura. Esemplare fu il raccordo che si creò in Toscana tra la corte del Granduca e l’Università di Pisa, mentre nella Lombardia di Maria Teresa e di Giuseppe II i «filosofi» milanesi, i fratelli Verri, Beccaria, poterono concretamente operare all’interno dell’amministrazione per la realizzazione di riforme fondamentali, specialmente nel campo finanziario. In

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questo quadro di esperienze complesse e contraddittorie le corti italiane assunsero, dunque, un ruolo centrale e progressivo, anche in quelle parti del paese in cui la loro azione rimase settoriale e non affrontò i problemi di fondo. Dopo la fine del secolo XVIII, la loro posizione fu sostanzialmente di resistenza e di antitesi di fronte all’emergere delle correnti liberali e delle rivendicazioni costituzionali, con l’eccezione della monarchia sabauda, che assunse invece un ruolo positivo nel Risorgimento nazionale. Ma ormai la monarchia non poteva più essere la forza di punta della riforma e del progresso: col progredire della rivoluzione liberale, l’epicentro della vita politica doveva inevitabilmente spostarsi dalla corte al Parlamento.

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Una censura tardiva e contrastata Senza voler togliere merito alla decisione della Santa Sede di aprire l’archivio del Santo Ufficio agli studiosi, credo che questa decisione sia stata in qualche misura resa necessaria dai progressi che hanno fatto gli studi sull’Inquisizione e dalla nuova impostazione che ad essi è stata data. Una delle conseguenze più evidenti della nuova fase di studi è stato l’accrescimento della domanda e delle domande degli storici. I custodi del materiale archivistico, che nel passato avevano fatto eccezioni e dato permessi straordinari, probabilmente non potevano più restare insensibili ad esigenze e curiosità divenute più pressanti, più larghe e puntuali. D’altra parte, anche gli studiosi dei secoli XVI e XVII che non sono specialisti di questa materia hanno sentito sempre più intollerabile il peso dei limiti posti alla conoscenza documentaria di un settore così importante. La conferma di queste esigenze è venuta, mi sembra, anche dal modo in cui, una volta reso libero l’accesso ai documenti, gli studiosi hanno cominciato ad utilizzarli. Avendo avuto l’occasione di frequentare l’archivio per pochi giorni ed avendo in qualche misura seguito l’orientamento delle ricerche in questo campo, ho avuto l’impressione che l’interesse per la storia della censura dei libri abbia preso il sopravvento sul tradizionale interesse per i singoli casi dei processi del tribunale dell’Inquisizione. Mi sono domandato da che cosa deriva, se esiste realmente, questa sorta di dérapage dai processi inquisitoriali alle vicende dell’Indice dei libri proibiti. Si può fare l’ipotesi che all’attenzione verso i singoli casi si vada aggiungendo, o sostituendo, l’interesse per la ricostruzione del clima generale che la repressione religiosa (e politica) ha creato in Italia dalla metà del XVI alla fine del XVII secolo; e che da questo punto di vista l’analisi

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della censura, dei metodi con cui si esercitava, delle sue conseguenze nella vita culturale e politica e la ricerca sui documenti della Congregazione dell’Indice possano offrire qualcosa di nuovo e di più rispetto alla ricerca sui singoli processi dell’Inquisizione (limitata, del resto, dalle gravissime perdite che l’archivio ha subito). Lo studio della censura dei libri sembra un modo per andare oltre il problema, che indubbiamente rimane importantissimo, delle coscienze individuali e delle controversie teologiche. Intorno alla censura dei libri, inoltre, c’è stata, in diversi casi, una mobilitazione di comunità, istituzioni civili, rappresentanze cittadine, ambienti universitari: resistenze, sollecitazioni, richieste, proteste, insomma minore passività che di fronte ai processi per eresia, che lasciavano spesso interdette o ammutolite comunità e istituzioni, anche quando non erano consenzienti. Nelle mie brevissime incursioni nell’archivio del Sant’Ufficio mi è capitato di cogliere qualche elemento significativo a questo proposito. A Cosenza, i rappresentanti del Comune intervennero, nel 1609, per sollecitare la soluzione del procedimento di censura dell’opera di Bernardino Telesio, affidata dall’arcivescovo a «più huomini di varie scientie per la revisione dei libri sospesi secondo le regole del nuovo Indice pubblicato dalla felice memoria di Clemente VIII». A Firenze, il prolungarsi della sospensione di una serie di pubblicazioni del libraio editore Modesto Giunti suscitò, nel 1606, proteste da parte dello stesso inquisitore della città. Si trattava, tra l’altro, di un’opera di Sant’Agostino annotata da Luis Vives, di un Atlante dei mercanti, di opere di Telesio, Cardano, Boccaccio, Pontano, Francesco Patrizi, di una traduzione latina della Storia d’Italia di Francesco Guicciardini... «Sono più anni – scriveva l’inquisitore fiorentino a sostegno di una supplica indirizzata dal Giunti al cardinale Arrigoni – che tengono ad istanza del Santo Officio i libri». A Napoli nacque quasi una «commotione» generale quando fu proibita, nel 1693, la Historia di Giovanni Antonio Summonte. A giudizio dello stesso consultore del Sant’Ufficio, Gennaro D’Auria, l’autore era «stimatissimo e accreditatissimo»; della sua opera si conservavano innumerevoli copie nelle biblioteche pubbliche e private. La permanenza della sua fama e della reale conoscenza della sua opera testimoniavano la continuità di uno spirito civile che si era formato alla fine del secolo precedente e che era sopravvissuto alle tragedie politiche successive. Anche il teologo incaricato di formu-

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lare le accuse cominciò la sua relazione facendo l’elogio dello storico napoletano e ponendolo «supra alios eiusdem rei scriptores». Il caso, che si inserisce nella fase della moderna rinascita della cultura napoletana e di un notissimo e più ampio scontro tra accademie cittadine e autorità ecclesiastiche, è singolare sia per il momento in cui si svolse, sia per il contenuto: a distanza di un secolo dalla prima pubblicazione e dopo che la Historia del Summonte era diventata una delle opere più lette, diffuse ed apprezzate dal pubblico della città, la Congregazione dell’Indice scopriva, insieme ad una serie di errori secondari, un errore capitale. Summonte aveva attribuito a Tommaso d’Aquino la tesi che quando il sovrano diventa «empio tiranno e crudel barbaro» è lecito al suddito «abbandonarlo e mancargli fede» o addirittura ucciderlo. Pareva, commentò un ministro, che in un secolo questo libro «havesse quasi prescritto il jus di essere esente» dalle correzioni; ma probabilmente, nell’ambito dei domini italiani della Spagna, le teorie cinquecentesche dei monarcomachi restavano ancora in qualche misura pericolose. La Congregazione diede al consultore locale la facoltà di correggere il libro «purché nella stampa nuova non si facesse mentione di questa prohibitione». Ma sorsero divergenze sia sulla ristampa dell’opera che sul modo di correggere i volumi delle precedenti edizioni. Il consultore proponeva di comunicare egli stesso privatamente «il sentimento della Congregatione stessa col dire: si cassi nel foglio tale questo, e questo nel tal altro [...] o col dare ad essi [i possessori dell’opera] un foglietto a penna di corretione privata [...] e questo affinché chi me l’ha esibito possa privatamente tenersi detto libro così corretto. Il che giudico condurrebbe a tenere un po’ più racchetata questa nostra città». Il segretario della Congregazione riteneva invece che si dovessero sostituire le pagine da emendare con altre pagine a stampa. In definitiva, gli editori rinunciarono al progetto di ristampa; ma finì nel nulla, a quel che pare, anche il tentativo di correggere le copie in circolazione. La questione era ancora in discussione, quando si divulgò la notizia che la Congregazione aveva proibito anche un libro di un altro studioso napoletano, Lionardo Di Capua. «Per amor di Dio – scrisse allora il D’Auria al suo corrispondente del Sacro Palazzo – V.S. veda parlare col Padre Segretario e vedere se può trattenersi la stampa del Decreto perché io ho inteso qua assai mormorarsene, e qualche persona di suprema autorità mi ha significato che non stima opportuno il proibirsi tal libro nelle congiunture presenti».

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Nei due convegni che l’Accademia dei Lincei ha promosso sul tema dell’Inquisizione dopo l’apertura degli archivi si è posto il problema della comparazione tra i metodi processuali usati nei tribunali civili e quelli usati nei processi dell’Inquisizione. Una opinione emersa in queste occasioni è che questi ultimi furono più rispettosi della persona dell’accusato, meno brutali, più attenti alle regole. È un confronto interessante, e si dovrebbe cercare di saperne molto di più su questo terreno; ma, nello stesso tempo, non si può fare a meno di valutare il peso e l’importanza che ebbe la convergenza della repressione religiosa e della repressione politica. L’accusa di ribellione e quella di eresia procedettero a volte di pari passo nei confronti di determinati personaggi. Tommaso Campanella è un esempio illustre a questo proposito. Anche alcuni personaggi con cui egli fu a contatto, come Nicola Antonio Stigliola ed altri del gruppo dei naturalisti napoletani, furono nello stesso tempo soggetti alla repressione religiosa per le loro idee sulla natura, sulla scienza e sulla religione ed a quelle delle autorità civili per le idee di riforma delle istituzioni della città e del Regno. Lo stesso Summonte fu imprigionato nel 1599 dal governo e costretto a correggere un volume della sua Historia, prima che questa fosse inserita nell’Index librorum prohibitorum. Anche nel gravissimo conflitto che si svolse a Napoli, nel 1620, tra i rappresentanti della nobiltà e il Seggio del popolo guidato da Giulio Genoino e sostenuto dal duca di Osuna, l’intervento della censura e delle autorità ecclesiastiche contro i tentativi di riforma fu tutt’altro che irrilevante. Più importante e più significativa delle differenze di procedure, che certamente devono essere tenute presenti, mi sembra dunque la convergenza o coincidenza della repressione religiosa e della repressione politica: congiunzione che creò quel sovraccarico di cui soffrirono terribilmente, più di quanto avvenne in altri paesi cattolici come la Francia o la stessa Spagna, la cultura, l’azione politica e la vita morale dell’Italia durante il dominio spagnolo. Un’osservazione, infine, su una questione centrale: che cosa succede oggi che la cultura storica si sta liberando o si è già liberata dagli schemi e dalle contrapposizioni pregiudiziali con cui per molti decenni è stata trattata questa materia? Il problema della ricostruzione storica dell’Inquisizione e della censura religiosa e del significato che esse hanno avuto nella società in cui hanno operato rimane ormai affidato esclusivamente al giudizio storico ed al suo approfondimento.

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Non possiamo dire che questo sia avvenuto in pieno e che sia facile, specialmente in questo caso, sgombrare il campo da preconcetti, princìpi astratti e anacronismi che hanno accompagnato per lungo tempo la ricerca. Ma nei casi in cui esiste davvero la volontà di operare in questa direzione, la ricostruzione storica non può avere altri punti di riferimento che quelli di ogni altro soggetto di studio. È essenziale, a mio avviso, che il giudizio sull’Inquisizione e sulla censura abbia come punto di riferimento la valutazione delle esigenze e degli elementi concreti di dinamismo e di sviluppo della società nella quale quelle istituzioni hanno operato. C’è una contraddizione apparente in questa affermazione: da una parte, gli studi sull’Inquisizione e sulla censura dovrebbero contribuire alla conoscenza delle linee di svolgimento complessivo della società a cui si riferiscono; dall’altra, dovrebbero avere come supporto e punto di riferimento proprio la conoscenza di quelle stesse linee e tendenze generali di sviluppo della società, della cultura, delle istituzioni politiche, della religiosità, dei rapporti economici ecc. In effetti, questa è la difficoltà che comporta in genere ogni ricostruzione storica. Anche la storia dell’Inquisizione e della censura, se abbandona schemi e pregiudizi, se non resta settoriale e chiusa in se stessa, è destinata a confrontarsi con le difficoltà che sono proprie della ricostruzione storica.

Indici

Indice dei nomi Abulafia, Davide, 86. Accetto, Torquato, v, 6, 91, 208-209. Addante, Luca, viii, 199. Agostino, santo, 310. Alba, Fernando Álvarez de Toledo, duca di, 109. Alberti, Leon Battista, 304. Albertini, Rudolf von, 84. Alcalá, Fernando Afán de Ribera y Rodríguez, duca di, 272, 283-284, 287288. Alessandro de’ Medici, duca di Firenze, 112. Allen, Helen Mary, 79. Allen, Percy Stafford, 79. Althusius, Johannes, 15, 112. Álvarez de Toledo, Pedro, 275. Amabile, Luigi, 85, 199. Ammirato, Scipione, 14, 21. Anderson, Perry, 256-257. Annese, Gennaro, 154, 165, 182-183, 196. Anzani, Giovanni Angelo, 236. Appleby, Joyce Oldhan, 60, 67. Aquila, Pietro, 161. Aragonesi, dinastia, 306. Arcos, Rodrigo Ponce de León, duca di, 140, 148-150, 158, 164, 191, 193-194, 196, 203, 217-218. Aretino, Pietro, 78, 305. Argyll, Archibald Campbell, conte di, 118, 120-121. Ariosto, Ludovico, 102. Aristotele, 24. Arpaia, Francesco Antonio, 151. Arriaza, Armand, 61. Arrigoni, Pompeo, 310.

Asburgo, dinastia, 166. Assarino, Luca, 44, 179, 183-184. Aston, Trevor, 37. Aymard, Maurice, 135. Bacon, Francis, 69-70, 115, 208. Baerhel, René, 32. Baguenault de Puchesse, Gustave, 46. Baldini, A. Enzo, 11. Barber, Bernard, 61. Barberini, Francesco, 188. Barclay, William, 102. Baricave, Jean de, 102, 107. Barile, Silverio, 245. Barisano, Antonio, 222. Basso, Antonio, 208. Beccaria, Cesare, 307. Bellarmino, Roberto, 14. Benigno, Francesco, 170. Bennassar, Bartolomé, vii. Bentivoglio, Guido, 44, 91, 170. Bentley, J.H., 85. Benzoni, Gino, 155. Bertelli, Sergio, 45. Bertolo, Sebastiano, 290. Biase Gazzaro, Gio., 222. Birago Avogadro, Giovanni Battista, 45. Bisaccioni, Maiolino, 44, 91. Bitossi, Carlo, 26. Boccaccio, Giovanni, 102, 310. Boccalini, Traiano, 7-10, 14, 21, 91, 298. Boccapianola, Francesco, 213, 221. Bodin, Jean, 18, 108, 134. Bonel, Samuel, 165. Borbone, dinastia, 232. Borgia, Cesare, 305. Borromeo, Carlo, 16, 99.

­318 Botero, Giovanni, 5, 14, 16-17, 20, 2223, 89, 99, 101, 106. Boucher, Jean, 101. Bouwsma, William J., 60, 63, 67. Bouza Álvarez, Fernando, 177. Bozio, Tommaso, 14, 21. Bracciolini, Poggio, 304. Braganza, duca di, Giovanni IV re di Portogallo, 31, 98, 118, 176-177. Braudel, Fernand, 133-134, 267. Bray, Massimo, 187-188, 190. Brenner, Robert, 71. Brignole Sale, Anton Giulio, 91. Brinton, Crane, 60. Brun, Antoine, 166. Bruni, Leonardo, 304. Bruno, Giordano, 131, 206. Bruto, Giunio, 15, 113. Brutus, Stephanus Junius, 15, 97, 108. Buchanan, George, 102. Burckhardt, Jacob, 305. Burke, Peter, 146-148, 150, 152-154, 156-158. Busnelli, Manlio Duilio, 12. Calderón de la Barca, Pedro, 181. Calenda, Corrado, 17. Campana, Cesare, 278. Campanella, Tommaso, 21, 27, 53, 66, 69-70, 90, 92, 114-115, 119, 131, 134, 199-201, 206-208, 254-255, 269, 277, 312. Cancellara, fratelli, 244. Cancellara, Giuseppe, 244. Capaccio, Giulio Cesare, 14, 203, 206, 277, 279. Capasso, Bartolomeo, 157. Capece, Innocenzo, 270. Capecelatro, Francesco, 142-143, 192, 214, 217, 219-220, 223. Capece Zurlo, 234. Capra, Carlo, 254. Caracciolo, famiglia, 210, 214, 217, 225, 236, 240, 244, 302. Caracciolo, Antonio, 244. Caracciolo, Carlo, 220. Caracciolo, Fabrizio, 226, 230. Caracciolo, Francesco, 244-245. Caracciolo, Giuseppe, 219-220, 226.

Indice dei nomi Caracciolo, Pasquale, 245. Caracciolo, Salvatore, 214. Carafa, fratelli, 141-144. Carafa, Fabrizio, 144. Carafa, Giuseppe, 140, 144-145, 155, 209. Caravaggio (Michelangelo Merisi), 132, 202, 206. Cardano, Gerolamo, 310. Carlo Emanuele I di Savoia, 7, 10. Carlo I Stuart, re d’Inghilterra, 38. Carlo V d’Asburgo, 26, 80, 82, 254, 256, 280-281, 290-291. Carlo VIII, re di Francia, 82. Carucci, Giovanni, 214. Casella, Antonio, 236-237. Cassandro, Giovanni Italo, 219, 227. Cassese, Leopoldo, 245. Castiglione, Baldassarre, 102, 306. Castro, Francisco de Lemos, conte di, 285, 287. Cati, Ercole, 106. Cecchi, Emilio, 45. Cerquozzi, Michelangelo, 155-156, 209. Cervantes, Miguel de, 181. Chabod, Federico, 253-254, 257, 261. Chappuys, Gabriel, 102, 108-109. Charron, Pierre, 17, 102, 108, 120. Chéruel, Adolphe, 46. Chiappelli, Fredi, 89. Chiaramonti, Scipione, 18. Chittolini, Giorgio, 86. Cianci di Sanseverino, Ruggiero, 215, 221. Claris, Pau, 117, 184. Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini), papa, 310. Colapietra, Raffaele, 264. Coligny, Gaspard de, 106. Colley, Linda, 79. Collins, Anthony, 57. Colonna, Fabio, 205. Colonna, Marcantonio, 274. Comparato, Vittor I., 170, 208. Condé, Luigi II di Borbone, duca di, 194. Coniglio, Giuseppe, 264. Contarini, Nicolò, 10. Conte, Lelio, 219.

Indice dei nomi Conti, Vittorio, 170. Contreras, Francisco de, 116. Conversano, Gian Girolamo Acquaviva, conte di, 303. Cooper, John P., 33. Corsi, Pietro, 78. Cortese, Nino, 244. Cosimo de’ Medici, 28, 306. Costo, Tommaso, 17, 277. Cozzi, Gaetano, 9. Cragg, Gerald R., 60. Cristiano IV, re di Danimarca e Norvegia, 59. Cristiano, Matteo, 213, 215, 221, 223. Croce, Benedetto, 29-30, 81, 85, 158160, 208, 227, 260, 265, 275-277, 291. Crombie, A.C., 51. Cromwell, Oliver, 38, 56, 61, 121, 161162. Crouzet, Michel, 34. Cuoco, Vincenzo, 244. Curcio, Gerardo, 245-246. D’Alessio, Silvana, 146. D’Ancona, Alessandro, 252. d’Andrea, Francesco, 218. d’Aquino, Bartolomeo, 59. d’Aro, Bartolomeo, 213. D’Auria, Gennaro, 310-311. Davies, Johnny C., 61. Davila, Arrigo Caterino, 44. de Buck, H., 73. de Castro, Scipione, 207, 274, 281, 294. de Ferraris, Antonio, 305. de Fonseca Pimentel, Eleonora, 160. De Frede, Carlo, 198. De Giovanni, Biagio, 205. De Grazia, Sebastian, 8, 87. Del Bianco, Cristoforo, 21. della Porta, Giambattista, 68, 205. Del Torre, Giuseppe, 78, 84. de Mari, Ottavia, 222. De Nicola, Carlo, 244. De Parival, J.N., 66. De Pietri, Francesco, 175, 208. De Rosa, Luigi, 264. de Santis, Michele, 145. De Santis, Tommaso, 142-143, 197. De Seta, Carlo, 204.

319 de Vetta, Fernando, 290, 292, 294. de Vries, Jan, 71-72, 75. de Witte, Hans, 59. Deyon, Paul, 32, 46-47. d’Herwart, Barthélemy, 59. Di Capua, Lionardo, 311. di Costanzo, Angelo, 263. Di Gennaro, Rachela, 245. Dionisotti, Carlo, 81, 87, 198. Dobb, Maurice, 39. Domínguez Ortiz, Antonio, 169. Donati, Claudio, 24. Donzelli, Giuseppe, 142, 154, 189, 198, 209. Drouyn, Daniel, 102-105, 109. Eckstein, Harry, 61. Elisabetta I, regina d’Inghilterra, 38. Elliott, John H., 33, 35, 37, 43, 49, 51, 53-54, 65, 170-171, 173, 179, 181185, 256, 278, 295-299. Ellis François, Martha, 64. Ellis, Robert L., 70. Enrico III, re di Francia, 31, 101-103. Enrico IV, re di Francia, 89, 101-102, 107-108, 110. Erasmo da Rotterdam, 77-78. Falcone, Aniello, 155. Fanelli, Domenico, 245. Fanzago, Cosimo, 202. Ferdinando il Cattolico, re di Spagna, 281. Ferrante I d’Aragona, re di Napoli, 302. Ferrante II d’Aragona, re di Napoli, 82. Ferrari, Giuseppe, 29-30. Filangieri, Gaetano, 307. Filippo II d’Asburgo, 26-27, 80, 110111, 113, 133, 206, 276-283, 286-287, 294. Filippo IV d’Asburgo, 26, 31, 115, 194, 206, 287, 303. Filomarino, Ascanio, 142, 186-198, 200. Firpo, Luigi, 7-8, 21, 134, 199. Fontanella, Joan Pere, 184. Forster, Robert, 61-62, 71. Fortunato, Giustino, 241, 243-246. Frajese, Vittorio, 31.

­320 Francesco II Sforza, 254. Franco, Niccolò, 102. Friedrickson, George M., 60. Fuidoro, Innocenzo, 189. Galanti, Giuseppe Maria, 28-29, 234, 307. Galasso, Giuseppe, 207, 259, 279. Gambarin, Giovanni, 12. Gamboa, Luigi, 211-212, 215. Garcia di Toledo, 285. Gardiner, Samuel, 37. Garrod, Heathcote W., 79. Gaston d’Orléans, 54. Gaudenzi, Paganino, 163. Genoino, Giulio, 11, 92-93, 148, 150151, 158-159, 165, 184, 186-187, 189, 191-193, 197-199, 208-209, 269, 279280, 289, 312. Genovesi, Antonio, 307. Giacchetti, Vincenzo, 245. Giacomo I, re d’Inghilterra, 38. Giarrizzo, Giuseppe, 170, 276, 280, 293. Gilbert, Felix, 89. Giovanni d’Austria, 150, 183, 194, 220221. Giovanni IV, 177. Giovenco, 223. Giraffi, Alessandro, 44, 142, 151, 153, 162-163, 180. Giraldi, Anna Maria, 189. Giunti, Modesto, 310. Giuseppe II, imperatore, 307. Godman, Peter, 12. Gonzaga, Vespasiano, 24. Gorbacˇëv, Michail, 297. Gottschalk, Louis, 61. Goubert, Pierre, 32. Gracián, Balthasar, 208. Gramsci, Antonio, 306. Granito, Angelo, 214. Granvelle, Antoine Perrenot de, 254. Grasso, Antimo, 142. Greco, Gaetano, 28. Greco, Gaetano, avvocato, 245. Greene, Jack P., 61-62, 71. Grozio, Ugo, 112, 175. Guazzo, Stefano, 24.

Indice dei nomi Guerra, Scipione, 113. Guglielmo d’Orange, 19, 49, 98, 109114, 278. Guicciardini, Francesco, 83, 310. Guidiccioni, Giovanni, 87. Guisa, Enrico, duca di, 31, 46, 145, 269270. Gukovskij, Matvei, 267. Gwynn Williams, J., 49. Haitsma Mulier, Eco O.G., 170. Hale, John, 78. Hamilton, William, 189, 256. Haskell, Francis, 155-156. Hawkins, Edward, 161. Healey, Denis, 79. Heath, Douglas D., 70. Heinsius, Nicolaas, 163-164. Hendrix, Harald, 7. Henfrey, Henry William, 161. Hexter, Jack H., 39. Híjar, duca di, 169, 173. Hill, Christopher, 32, 36, 38-39, 44, 4950, 53, 57. Hobbes, Thomas, 97, 109, 118-119. Hobsbawm, Eric J., 39-40, 64, 73, 76, 128. Hoskin, Michael A., 51. Hotman, François, 15, 101. Howell, James, 160, 162-165. Imperato, Francesco, 208, 269. Innocenzo X (Giovanni Battista Pamphilj), papa, 195. Iovino, Maria Pia, 199. Ippolito da Pastena, 214. Isselt, Michael (Jansonius), 66. Jacobs, Joseph, 165. Johnson, Chalmers, 61. Johnson, Samuel, 79. Jones, E.L., 39. Juan de Vega, 280-281, 290, 293-294. Kamen, Henry, 66. Kammen, Michael, 60. Kantorowicz, Ernst H., 79. Kettering, Sharon, 60.

Indice dei nomi Koenigsberger, Helli G., 165, 170, 275, 286. Kula, Witold, 40. Lanaro, Francesco, 278. Las Casas, Bartolomeo de, 91. Lauberg, Carlo, 160. Laud, William, 36. Lemos, Pedro Fernández de Castro, conte di, 207-208. Leone X (Giovanni de’ Medici), papa, 82. Leopardi, Giacomo, 67, 111. Le Roy, Pierre, 102. Le Roy Ladurie, Emmanuel, 32, 54-57, 128. Leschassier, Jacques, 48. Lipsio, Giusto, 89, 101, 106-107. Lisón y Viedma, Mateo de, 115-117. Lloyd Moote, A., 60, 62-63, 67. Loiseleur, Jules, 46. Lomellini, Goffredo, 11. Longobardo, Carlo, 222. Lorenzino dei Medici, 111-112. Loyseau, Charles, 48-50. Luigi XIII, re di Francia, 38, 100. Luigi XIV, re di Francia, 47. Machiavelli, Niccolò, 8-9, 12, 14-15, 2122, 25, 65, 80-83, 85, 87-89, 93, 186, 188, 198-199, 303, 305-306. Maddaloni, Diomede Carafa, duca di, 140-142, 145, 180, 209. Mafrici, Mirella, 279. Malatesta, Sigismondo, 305. Malowist, Marian, 40. Malvezzi, Virgilio, 186. Manconi, Francesco, 135. Manzoni, Alessandro, 68, 298. Maravall, José Antonio, 80, 98, 137, 255. Marcelis, famiglia, 59. Marchese, Francesco Elio, 305. Mariana, Juan de, 15, 101-102, 107. Maria Teresa, imperatrice, 307. Marino, John, 285. Marra, Vincenzo della, 144-145. Masaniello (Tommaso Aniello D’Amalfi), 121, 140-144, 146-153, 156-163, 165, 180, 186, 189, 192-193, 217.

321 Massa, Giovan Battista, 213. Mastellone, Salvo, 170. Maurizio di Nassau, 112. Mayenne, duca di, 103. Mazzarino, Giulio, 45-46, 59, 89, 119. Mazzella, Scipione, 165. Medinaceli, Juan Luis de la Cerda, duca di, 280, 283, 285. Medina de las Torres, Ramiro Pérez de Guzmán, duca di, 169, 173, 267, 287, 289. Meinecke, Friedrick, 6, 8, 18, 22. Melo, Francisco Manuel de, 177, 183. Menafra, Angelo, 232. Menafra, Antonio, 234-235. Mendels, Franklin, 72. Messina, Pietro, 194. Micanzio, Fulgenzio, 10. Miranda, Juan de Zúñiga, conte di, 206. Moles, Leonardo, 183. Mondéjar, Iñigo de Mendoza, marchese di, 279-280. Monforte, Scipione, 223. Montaigne, Michel de, 17, 102. Montalto, duca di, 158. Montano, Orazio, 189. Monterrey, Manuel Acevedo y Zúñiga, conte di, 200, 275, 287-288. Morello, Evangelista, 212. Moretti, Silvia, 278. Mousnier, Roland, 34, 37, 41-42, 49-51, 61. Muller, Outer, 161. Musi, Aurelio, 157. Muzio, Girolamo, 27. Naudé, Gabriel, 19, 70, 119-121, 188. Negrone, governatore locale a Brienza, 238. Nelson, Horatio, 244. Nenna, Giovanni Battista, 305. Nigro, Giovanni, 232. Nora, Pierre, 77. Nosov, Nikolaj E., 46. Notarangeli, Gaetano, 245. Olivares, Enrique de Guzmán, conte duca di, 69, 89, 115-116, 170, 173,

­322 179, 186, 206-207, 262, 267, 275-277, 285-287, 295-299. Oñate, Iñigo Vélez de Guevara, conte di, 166, 179, 190. Osuna, Pedro Téllez Girón, duca di, 158, 186-187, 207-208, 262, 274-275, 312. Pagano, Cosimo, 232. Pagano, Mario, 240. Parisi, Scipione, 222. Parker, Geoffrey, V, 63, 71, 73, 257. Parrino, Domenico Antonio, 273, 277. Paruta, Paolo, 13. Pasanisi, Onofrio, 229. Pasquier, Etienne, 48, 77. Patrizi, Francesco, 11, 310. Pearl, Valerie L., 37. Pedio, Tommaso, 243, 246. Pellizzari, Maria Rosaria, 279. Pepe, Agostino, 238. Pepe, Gabriele, 212. Pepe, Ludovico, 215, 229. Pérez, Antonio, 115. Perini, Leandro, 10. Perrone, Domenico, 142. Pessolano, Fabio, 219, 222, 245. Pessolano, Sebastiano, 245. Petrone, Mattia, 232. Pettee, George S., 61. Petty, William, 57. Piacente, Giambattista, 217. Piazzi, Alessandro, 283. Piccolomini, Alfonso, 303. Piccolomini, Enea Silvio, 304. Pignatelli, famiglia, 302. Pignatelli, Francesco, 214. Pignatelli, Michele, 218. Pio, Giovanni Michele, 91. Pisano, Gio. Leonardo, 206. Plumb, John H., 38. Pontano, Giovanni, 82, 304-305, 310. Poršnev, Boris F., 32, 49-51, 56. Possevino, Antonio, 14. Poujade, Pierre, 54. Procacci, Giuliano, 12, 186, 188, 200201. Prudhomme, Louis M., 159. Pugacˇëv, Emel’jan Ivanovicˇ, 61.

Indice dei nomi Quevedo, Francisco, 181, 207. Quondam, Amedeo, 24. Rabb, Theodore, 63-64. Raffaeli, Marina, 189. Raffaello Sanzio, 306. Ranum, Oreste, 60, 89. Ravaschieri, Orazio Giovan Battista, conte, 212. Ribeiro, Pinto, 177. Ribera, Jusepe de, 202. Ribot García, Luis, 170. Ricca, Francisco, 216. Richardson, Roger C., 60. Richelieu, Armand-Jean du Plessis, 54, 89, 188, 283, 295, 297-298. Rinaldi, Maurizio de, 134. Rinaldi, Serafino, 132. Rivault, David, 48, 100, 102, 117, 297. Rivero Rodríguez, M., 272. Roberto d’Angiò, 290. Rohan, Henri de, 110. Romano, Ruggiero, 40-41. Romer, Gaspar, 203. Ros, Alejandro de, 183. Rosa, Mario, 28, 43, 91. Rosa, Salvator, 155. Rose, Guillaume, 101. Rotondò, Antonio, 12. Roussel, Michel, 102. Rubens, Pieter Paul, 202. Rubí de Marimón, Ramon, 184. Rucellai, Cosimo, 8. Ruffo, Fabrizio, 244. Rutenburg, Victor, 267. Sabbatella, Francesco, 232. Saint Urban, Ferdinand de, 161. Saitta, Armando, 274. Salandra, G.B. Revertera, duca di, 211. Salazar, Francesco, 213, 215, 221-222. Sambuco, Gaetano, 245. Sammarco, Ottavio, 16, 66. Sanseverino, famiglia, 302. Sant’Arsiero, Giovanni Battista, detto Tittariello, 222, 233. Santa Coloma, Dalmau de Queralt, conte di, 184. Sapegno, Natalino, 45.

Indice dei nomi Sarpi, Paolo, 12, 27, 31. Sarra, Raffaele, 212, 223, 243-244. Savonarola, Girolamo, 84, 303. Scacciavento, Francesco Antonio, 144145. Schipa, Michelangelo, 85, 157-158, 184, 186, 279. Schöffer, Ivo, 34-35, 37, 40, 42, 48. Sciarra, Marco, 130, 134. Scipione di Martino, 221. Sebastiano I, 178. Sella, Domenico, 254. Serra, Antonio, 6, 11, 91, 151, 207, 264, 269, 271. Sforza, Francesco, 306. Shaw, Donald L., 187. Sieyès, Emmanuel-Joseph, 20. Siri, Vittorio, 91. Sisto V (Felice Peretti), papa, 13, 206. Smith, Lesley M., 63. Smit, Jacobus W., 49, 71, 73, 75. Solone, 120. Soprano, Camillo, 144-145. Sousa de Macedo, António de, 177. Spadaro, Micco, 140, 145, 155-156, 209. Spedding, James, 70. Spiering, famiglia, 59. Spinola, Andrea, 10, 26, 91. Spinola, Cornelio, 197. Spinola, Giambattista, 179. Spolzino, Rocco, 232. Spontone, Ciro, 14. Stigliola, Nicola Antonio, 205, 312. Stone, Lawrence, 32, 39-40, 61, 73-75. Strada, Famiano, 44. Strafford, Thomas Wentworth, 36, 119. Suarez, Francisco, 15. Summonte, Giovanni Antonio, 11, 92, 207, 269, 271, 310-312. Tabacco, Giovanni, 301. Tacito, 8. Tamarit, Francesc, 184. Tassoni, Alessandro, 28, 91. Taurisano, Gaetano, 242. Telesio, Bernardino, 310. Testi, Fulvio, 91. Thurn, Mathias, 118. Tittariello, vedi Sant’Arsiero.

323 Tognetti, Giampaolo, 79. Toland, John, 57. Toledo, vedi Álvarez de Toledo. Tommaso d’Aquino, 311. Tommaso di Carignano, 198. Tontoli, Gabriele, 142. Topolski, Jerzy, 40. Toraldo d’Aragona, Francesco, 182183. Torrecuso, Carlo Andrea Caracciolo, marchese di, 149, 183. Trevor-Roper, Hugh R., 36-38, 58-59. Turquet de Mayerne, Louis, 48, 50. Tutini, Camillo, 142, 144-145, 194, 208, 269. Tuttavilla, Ottavio, 277. Tuttavilla, Vincenzo, 213, 216-217. Urbano VIII (Maffeo Barberini), papa, 98. Valente, Gustavo, 292. Valla, Lorenzo, 77, 304. Valladares, Rafael, 171. Vann, William H., 165. van Oldenbarnevelt, Johan, 71. Vega Carpio, Lope Felix de, 181. Velasco de Gouveia, Francisco, 177. Vélez, Pedro Fajardo Zúñiga y Requecens, marchese di Los, 274. Venturi, Franco, 38-39, 57. Verde, Marino, 142, 144, 194. Vicens Vives, Juan, 251, 253. Viegas, Pais, 177. Vilar, Jean de, 116. Vilar, Pierre, 32, 256-257. Villari, Pasquale, 81. Villari, Rosario, 10-11, 59, 68, 147, 159, 161, 171-172, 267. Vinaccia, 239. Vincenzo da Pastena, 214. Viroli, Maurizio, 87. Visco, Ester, 187, 190, 195. Vitale, Marco, 151. Vivanti, Corrado, 48, 51, 77, 252-253, 261, 267, 306. Vives, Luis, 310. Volpicella, Scipione, 288.

­324 Wallerstein, Immanuel, 72, 251, 267. Westrich, Sal A., 60. Wilkes, John, 79. Wolin, Sheldon S., 61.

Indice dei nomi Zagorin, Perez, 37, 39, 63-68. Zangheri, Renato, 39. Zanotti Bianco, Umberto, 243. Zuccolo, Ludovico, 14, 31, 91.

Indice del volume Prefazione Parte prima  Ragion di stato e ragioni dei sudditi I. La cultura politica italiana dell’età barocca II. Discussioni sulla crisi del Seicento III. Storici americani e ribelli europei IV. Patriottismo e riforma politica

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5 32 60 77

Parte seconda  Politica e no: le inquietudini I. Il ribelle II. C’era una volta il bandito sociale III. Un delitto senza precedenti IV. Masaniello e Peter Burke

97 125 140 146

Parte terza  Il mutamento di Stato: esperienze e tentativi I. Rivoluzioni periferiche e declino della monarchia di Spagna II. Il cardinale, la rivoluzione e la fortuna di Machiavelli III. Visitando una mostra d’arte IV. La lunga crisi di uno «Stato» feudale

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Parte quarta  Arte della prudenza: l’assolutismo nel guado I. La Spagna, l’Italia e la politica assolutistica II. Istruzioni ai viceré III. Alloggiamenti: un caso di buoni rapporti tra militari e civili IV. Richelieu e Olivares V. Le corti, centri di potere e di cultura VI. Una censura tardiva e contrastata

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Indice dei nomi

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