Passibilità divina. La dottrina dell'anima in Clemente Alessandrino 8831164015, 9788831164016

Dainese analizza gli scritti clementini secondo rigorosi criteri storici e filologici evidenziando con chiarezza lo spec

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Passibilità divina. La dottrina dell'anima in Clemente Alessandrino
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Testatina 1



Testatina 1 FUNDAMENTIS NOVIS Studi di letteratura cristiana antica, mediolatina e bizantina

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Direzione della Collana Emanuela Prinzivalli (coordinamento generale e sezione cristianesimo antico) Paolo Chiesa e Rossana Guglielmetti (sezione letteratura mediolatina) Antonio Rigo (sezione bizantinistica) Comitato scientifico-editoriale / Editorial Board Paulo J.F. Alberto (Lisboa), Francesco D’Aiuto (Roma), Benedetto Clausi (Cosenza), Bernard Flusin (Paris), Michael Lapidge (Cambridge), Michel-Yves Perrin (Paris), Marco Petoletti (Milano), Peter Van Deun (Leuven), Martin Wallraff (Basel) Fundamentis Novis è una collana sottoposta a valutazione da parte di revisori anonimi. Il contenuto di ciascun volume è valutato e approvato da specialisti scelti dal Comitato scientifico-editoriale e periodicamente resi noti.

 Fundamentis Novis is a peer-reviewed series. The content of each volume is assessed by specialists who are chosen by the Editorial Board and whose names are periodically made known.

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Testatina

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Testatina 3

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Davide Dainese

Passibilità divina la dottrina dell’anima in Clemente Alessandrino prefazione di Marco Rizzi

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La realizzazione di questo volume è stata resa possibile da un contributo offerto dall’Associazione Marilena Amerise.

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Premio “Marilena Amerise”, 2010

Grafica di copertina di Rossana Quarta © 2012, Città Nuova Editrice - Via Pieve Torina, 55 - 00156 Roma tel. 063216212 - e-mail: [email protected] ISBN 978-88-311-6401-6 Finito di stampare nel mese di dicembre 2012 dalla tipografia Città Nuova della P.A.M.O.M. Via Pieve Torina, 55 00156 Roma - tel. 066530467 e-mail: [email protected]

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Premessa 5

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Wer will es schließlich selbst den allerfreiesten Geistern verübeln, wenn sie nicht mehr für eine immaginäre Nachwelt schreiben, sondern einzig für den toten Gott? Chi potrebbe avercela, infine, anche con gli spiriti più liberi, se non scrivono più per una posterità immaginaria, ma unicamente per il Dio morto? T. W. Adorno, Minima moralia, Af. 133, Contributo alla Storia dello Spirito

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PREFAZIONE

Clemente di Alessandria è scrittore tanto entusiasta, quanto difficile da decifrare appieno nelle linee profonde e strutturanti del suo pensiero; così, il lettore non particolarmente paziente o ben disposto nei suoi confronti ne può trarre un’impressione di superficialità e di approssimazione, se non di vera e propria confusione sul piano dei contenuti e della forma; è in genere fatto salvo a quest’ultimo riguardo il solo Protrettico, perché necessariamente si trovava a dover corrispondere ad un genere fortemente strutturato e dotato di una sua propria tradizione topica ed espressiva. Tuttavia, lo studio paziente e la ripetuta lettura dell’opera clementina permettono di portare alla luce alcuni nuclei concettuali solidi, non puramente compilatori o derivati da tradizioni precedenti, che fanno di Clemente una figura chiave non solo per misurare la portata dell’incontro tardoantico tra ellenismo e cristianesimo – così come lo si è a lungo considerato –, bensì anche per comprendere alcune curvature specifiche che il sistema dottrinale cristiano ha assunto grazie a lui e che ha consolidato sulla sua scia. Non deve quindi meravigliare che la lunga frequentazione degli scritti di Clemente, iniziatasi con la tesi di laurea specialistica e proseguita con quella dottorale, abbia condotto Davide Dainese a penetrarne le connessioni più riposte e decisive e, al tempo stesso, ad assumerne pure qualche movenza espositiva e di organizzazione del pensiero. Un primo tratto da rilevare nel suo saggio è la presenza, occultata ma avvertibile, di una enorme mole di letture, tanto delle fonti antiche, quanto della bibliografia moderna, a partire da quella prodotta dalla grande stagione della filologia e dell’ermeneutica clementina a cavallo tra otto e novecento; e se le note a piè di pagina rimandano prevalentemente alla più recente produzione scientifica, peraltro consapevolmente discussa e non solo superficialmente citata, chi ha un minimo di familiarità con le problematiche qui trattate avverte immediatamente la presenza, quasi una sorta di sottofondo, di un secolo e più di dibattito storiografico. In secondo luogo, il procedere argomentativo di Dainese ricorda a volte quello di Clemente laddove trascorre da un argomento all’altro,

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Prefazione

da un autore – Clemente – all’altro, senza che se ne colgano immediatamente le connessioni, salvo giungere a ricapitolazioni intermedie che rendono perspicuo non solo il percorso sin lì compiuto, bensì pure i guadagni cognitivi che si sono acquisiti. Guadagni che pertengono sia ad una migliore comprensione del pensiero clementino in sé considerato, sia, soprattutto, del contesto intellettuale e storico in cui esso poté svilupparsi: il ricorrere delle medesime tematiche in autori distinti e spesso distanti tra loro permette di individuare quali fossero le effettive linee di faglia del profondo processo di trasformazione della filosofia antica e tardoantica da cui nasce la teologia cristiana, che ha appunto in Clemente uno dei suoi protagonisti. Se quindi la lettura del saggio di Dainese risulta senza dubbio impegnativa, i risultati che se ne traggono sono tali da ripagare la fatica spesa. A questo proposito, va menzionato anzitutto come in queste pagine Clemente sia ricollocato saldamente nel contesto intellettuale suo proprio, quello della tradizione e della pratica scolastica della filosofia tardoantica; di fronte a questo dato, passano del tutto in secondo piano le problematiche di taglio ecclesiologico o ancor più ecclesiastico che a tutti i costi si sono volute ritenere rilevanti nell’opera del maestro Alessandrino, che maneggia le Scritture e la tradizione cristiana in un serrato e pressoché esclusivo confronto con le diverse scuole filosofiche, entro cui vanno ricomprese pure quelle gnostiche. In questo modo, assumono un significato peculiare e ancor più pregnante l’eclettismo metodologico e l’erudizione dispiegata da Clemente, che ne testimoniano lo sforzo di ricondurre – platonicamente! – ad unità il molteplice esperito dall’uomo sul piano intellettuale. Un eclettismo che verrà ridotto e funzionalizzato all’esegesi biblica da Origene, che però potrà giovarsi degli strumenti filosofici ed eruditi in quel modo approntati da Clemente. Naturalmente, l’acquisizione più rilevante del saggio concerne l’oggetto specifico della sua indagine, la dottrina dell’anima. Qui emerge con nettezza lo specifico cristiano di Clemente, che non esita a modificare uno dei capisaldi inviolabili della teologia platonica (e stoica), l’impassibilità del divino, in relazione alle dinamiche che sostanziano l’anima dell’uomo e la conducono alla salvezza. La passibilità di Dio è connessa alla manifestazione della sua attività salvifica, alla sua energeia, più che alla sua essenza, ousia, ma in questo corrisponde alla sostanza psicologica dell’uomo, che si caratterizza per essere soggetto libero nelle sue scelte, tra cui decisiva risulta quella di volere, o meno, corrispondere all’atto gratuito di Dio. Per Dainese, Clemente giungerebbe solo progressivamente alla piena definizione di questa idea, forgiata nel confronto e nella competizione

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Prefazione 9

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con lo gnosticismo dei valentiniani e dei basilidiani, in vista di una differenziazione efficace anche sul piano sociale rispetto all’elitarismo che caratterizzava questi ultimi. Sulla scorta di questa intuizione, Dainese compie un passo ulteriore e propone di leggere il cambiamento dell’attitudine di clemente verso il martirio e i martiri, a suo dire riscontrabile nel VII stromate, come conseguente all’ondata persecutoria del 202 e – soprattutto – alla sconfitta del modello sociale di cristianesimo da lui propugnato. Se così fosse, la coincidenza cronologica tra il suo allontanamento da Alessandria e il contemporaneo fervore martiriale del giovane Origene risulterebbe illuminante per comprendere appieno le dimensioni problematiche del loro rapporto e rivisitare il maldestro tentativo di Eusebio di stabilire un’improbabile diadoché tra i due. Marco Rizzi

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PREMESSA DELL’AUTORE

Il presente lavoro è l’esito della rielaborazione della mia tesi dottorale discussa nel 2009, una ricerca condotta presso l’università di Padova e la Julius-Maximilians-Universität di Würzburg sotto la guida e la tutela dei professori Marco Zambon, Paolo Bettiolo e Franz Dünzl che hanno indirizzato la mia ricerca. Tra gli autori d’epoca patristica ho scelto di occuparmi di Clemente di Alessandria, che più di altri avrebbe permesso di tornare sulla vexata quaestio dei rapporti tra filosofia greca e teologia cristiana alla luce delle più recenti prospettive d’indagine1. I suggerimenti del prof. Marco Rizzi e dei colleghi incontrati nei seminari organizzati dalla prof. Maria Grazia Crepaldi e dal prof. Lorenzo Perrone nel 2009 mi hanno permesso di capire come strutturare l’argomentazione di questa monografia. Così ho cercato di mostrare la centralità della passibilità divina nel pensiero del­l’Alessandrino con due tipi di prova, un primo che considerasse la filosofia di Clemente (capitoli II e III) e un secondo incentrato sulla sua teologia (capitolo IV). Sono necessarie alcune premesse tecniche. Per quanto concerne i testi greci o latini tradotti che compaiono in questo libro ho cercato di attenermi, in linea di massima, alle traduzioni italiane disponibili, facendo tuttavia ampi accomodamenti dove fossero necessari. Per le abbreviazioni, ho seguito i seguenti repertori: Thesaurus Linguae Latinae per gli autori latini, Lampe (A Patristic Greek Lexicon, ed. G.W.H. Lampe, Clarendon Press, Oxford-New York 1989) per gli autori cristiani di lingua greca, Liddell-Scott (A Greek-English Lexicon, edd. H.G. Liddell - R. Scott - H.S. Jones, Clarendon Press, Oxford 1996) per gli autori greci non cristiani. Ho indicato, invece, di seguito a ciascuna voce in bibliografia le abbreviazioni non reperibili all’interno di questi tre elenchi. Un’ultima nota di carattere editoriale concerne poi le 1 Un tema che suscita ancora perplessità, in relazione anche alla sola comprensione del profilo intellettuale di Clemente, cf. le osservazioni di Osborne 2010, p. 281. Per un approfondimento rimando al mio Dainese 2012a.

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Premessa dell’autore

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maiuscole e le minuscole dei nomina divina e, nello specifico, ho scelto di denominare lo Spirito Santo, mantenendo la minuscola per il sostantivo “spirito” e, per conseguenti ragioni estetiche, anche per l’aggettivo “santo”, per via della problematicità che il termine ha in Clemente. Giunge infine il momento dei ringraziamenti e non posso che cominciare dall’Associazione Marilena Amerise, nella figura dei genitori di Marilena, che mi ha onoratamente permesso di pubblicare la mia tesi, finanziandone le spese editoriali. Se questo libro è uscito, è poi merito anche del mio maestro, il prof. Bettiolo, che mi ha seguito sin dai primi esordi della mia formazione guidando, correggendo e sostenendo con paziente cura ogni passo, incluso il presente lavoro. Sono debitore nei confronti della prof. Emanuela Prinzivalli, che, oltre ad aver presieduto la commissione che mi ha conferito il premio Marilena Amerise, ha generosamente discusso con me ogni fase della stesura definitiva di questo testo. Per la fiducia dimostratami e per i preziosi insegnamenti, sono poi grato all’altro mio maestro, il prof. Alberto Melloni, segretario della Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII, presso cui ad oggi lavoro occupandomi di Eusebio di Cesarea e al prof. Giuseppe Ruggieri; il mio “grazie” giunga all’amico prof. Pier Cesare Bori per il dono delle sue riflessioni sul Deus patiens e a tutti i miei colleghi della Fondazione, il dr. Alberto Cadili in primis per il conforto infuso in questi anni di condiviso cammino di ricerca. Indirizzo un sentito ringraziamento anche ai colleghi, professori e amici che non ho ancora nominato e che con le loro proficue discussioni hanno contribuito, direttamente o meno, alla maturazione dei pensieri espressi in questo libro: prof. Piotr Ashwin-Siejkowski, prof. Silke-Petra Bergjan, prof. Philippe Blaudeau, dr. Mattia De Poli, prof. Alain Le Boulluec, prof. Bogdan Bucur, prof. Antonio Carlini, dr. Emanuele Castelli, dr. Veronika Černušková, prof. Francesca Cocchini, prof. Cristina D’Ancona, dr. Matyáš Havrda, prof. Annewies van den Hoek, dr. George Karamanolis, prof. Judith Kovacs, prof. Marc Leclerq, prof. Francesco Pieri, dr. Ilaria Ramelli, dr. Monika Recinová, dr. Fabio Ruggiero, dr. Jana Plátová, dr. Paolo Sartori, prof. Margareth Shatkin. Dedico questa mia fatica a Valentina, che in dodici anni m’ha appoggiato, incoraggiato e ha creduto in me come nessun altro avrebbe mai saputo fare, e ai miei genitori, preziose guide, amici fidati, sostegno incrollabile. Bologna, ricorrenza di san Giustino, filosofo e martire, 01.06.2012

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I. Introduzione 13

CAPITOLO PRIMO

INTRODUZIONE

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I.1. Premessa metodologica Gli unici studi di carattere monografico sulla dottrina dell’anima di Clemente di Alessandria sinora prodotti risalgono al decennio tra XIX e XX secolo. Da allora, però, i numerosi sviluppi della ricerca in ambito storico-filosofico hanno reso sempre più necessario riconsiderare in modo sistematico la questione. Il tessuto complicatissimo della Tarda Antichità si mostra materia ancora sfuggente e, di fatto, una zona rimasta per molti versi oscura all’indagine storica. Alle difficoltà legate alla carenza e alla trasmissione delle fonti, infatti, si aggiunge la fervida proliferazione in quei secoli di fenomeni culturali e religiosi ad oggi non del tutto chiari. Di conseguenza, la Tarda Antichità richiede l’adozione di approcci e forme di indagine diversificati. Ne deriva che, alle difficoltà oggettive, si affianchino quelle dovute alla diversità e alla reciproca irriducibilità di metodi e problemi, non solo di natura scientifica, ma anche confessionale. Con il Rinascimento e la Riforma protestante, lo studio storico ha cominciato a coagularsi attorno a modelli e oggetti di ricerca ben determinati, cui si sono accompagnati, in un rapporto osmotico, gli sviluppi paralleli della storia del pensiero scientifico e filosofico 1. A ciò andrebbe aggiunta soltanto la relativamente recente liberalizzazione degli studi sul cristianesimo antico anche nell’Europa Orientale. Alle consumate dispute tra approcci cattolici e protestanti si aggiungono infatti i contributi di studiosi cresciuti in un ambiente teologico differente, che cercano di ricostruire le radici storiche del loro patrimonio culturale e religioso.

1 Per una panoramica sul modo in cui i concetti della teologia dell’Età Moderna hanno condizionato gli indirizzi di indagine nei campi degli studi biblici e patristici si vedano: Smith 1990 (con le osservazioni di Alderink 1992, Kippenberg 1992, Mack 1992, Meyer 1992) e Merkt 2001. Per quanto concerne la filosofia di Clemente cf. Dainese 2012a.

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Passibilità divina

Questa cornice riguarda Clemente specificamente nello snodo tra la natura del suo cristianesimo e il peso della filosofia nel suo pensiero. Ultimamente, ci si sente abbastanza sicuri in merito all’apporto della filosofia nel pensiero di Clemente. Di recente, infatti, l’opera di Ulrich Schneider 2 sembra aver tracciato in modo chiaro i confini tra il ruolo della filosofia e quello delle Sacre Scritture nel pensiero clementino: la prima ne costituirebbe la struttura e le seconde i principali contenuti. Mentre il ruolo del platonismo in Clemente è stato oggetto di ampia indagine, quello dello gnosticismo non è stato sufficientemente esaminato. Ciò avrebbe dei risvolti significativi anche per la stessa ricostruzione della vita, della formazione e dell’attività di Clemente. Se, infatti, il nesso gnosticismo-Origene-grande Chiesa è un dato certo, ciò non vale per Clemente, che si presume formato fuori da Alessandria e testimone di un cristianesimo da convertito. Per queste ragioni uno studio sistematico della psicologia di Clemente di Alessandria è una sorta di sonda strategica, utile a ricostruire un contesto storico e religioso. La ricerca condotta nell’arco del XX secolo, del resto, ha messo a punto strumenti raffinati e dissodato un terreno che chiama a nuove sfide. L’importanza di una simile indagine poggia su almeno due fattori: – un autore vivace come Clemente di Alessandria, testimone egli stesso del pensiero gnostico e dei culti pagani, che fa sfoggio di una vasta cultura improntata alla filosofia e alla letteratura greche, è una finestra d’accesso privilegiata sul fenomeno intellettuale dell’ellenismo nel suo insieme. Già A.J. Festugière riconobbe e descrisse gli schemi fissi delle trattazioni psicologiche comuni ad autori cristiani e pagani e vide come ciò permettesse anche di riconoscere le più intime peculiarità delle trattazioni stesse, pagane e cristiane 3. Un’indagine in Schneider 1999. Nel terzo libro dedicato allo studio del Corpus Hermeticum, quello che si occupa della dottrina dell’anima, A.J. Festugière esamina le principali opere psicologiche cristiane e pagane e scopre una comune formazione scolastica (Festugière 1953, p. 14). La trattazione degli stessi temi dipende dalla diffusione dei dialoghi Timeo e Fedone che pongono l’uomo dell’Antichità di fronte ai problemi dell’origine e del destino dell’anima (Festugière 1953, pp. 28-29). Questi si concretizzano in una sorta di domanda fondamentale: se l’uomo ha un’origine divina, come mai si trova stabilito nella materia (Festugière 1953, p. 63)? Quest’interrogazione mostra in realtà due esigenze: da un lato, intellettuale, perché si sente il bisogno di spiegare la discesa dell’anima; dall’altro, morale, dato che ci si chiede il senso della sua permanenza nel mondo (cioè quale sia il destino per l’anima e da che cosa dipenda). Da ciò pertanto derivano, alla trattazione psicologica, almeno tre momenti nettamente distinti: la protologia (Festugière 1953, pp. 62-97), la scelta di vita (Festugière 1953, pp. 98-119) e l’escatologia (Festugière 1953, pp. 120-174). Uno dei primi esiti di questo contesto problematico è l’attenzione per lo 2 3

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I. Introduzione 15

Clemente su quello che si potrebbe definire un denominatore comune tra filosofia e cristianesimo può contribuire a illuminare i rapporti reciproci di realtà così difficilmente rapportabili; – dopo la pubblicazione dei due volumi sulla psicologia nella monumentale serie Der Platonismus in der Antike, iniziata da H. Dörrie e proseguita sotto la guida di M. Baltes (e ora di Christian Pietsch), il tema dell’anima risulta cruciale per comprendere il pensiero di un autore dell’età imperiale, in cui platonismo e stoicismo sono mescolati. Tutti i platonici hanno la consapevolezza della sua importanza 4; ed è pertanto inevitabile che Clemente vi abbia avuto a che fare, sia nel rapportarsi ai suoi interlocutori sia nell’ambito più generale della sua formazione culturale. Un’indagine sulla psicologia di Clemente permette di ricostruire le articolazioni tra fede e conoscenza, a partire dal suo peculiare punto di vista. Sarebbe limitativo studiare gli elementi che concernono un’ipotetica dottrina dell’anima in Clemente Alessandrino articolando l’indagine a partire dalle sue tre opere principali e prendendo ciascuna come qualcosa di a sé stante. Ciò che ci è pervenuto di Clemente, infatti, è in parte strutturato secondo i canoni di generi letterari ben determinati (Protrettico, Pedagogo, Stromati e probabilmente anche Quis dives salvetur) e in parte materiale frammentario di cui non si sa nemmeno fino a che punto possa dirsi assemblato da Clemente stesso. Sono comunque tutti contenuti stesi verosimilmente in tempi diversi e rimaneggiati successivamente da Clemente o da suoi allievi, come una sorta di “appunti” dalle sue lezioni. Tra le diverse opere, insomma, vi sono contaminazioni e discontinuità che richiedono di considerare i vari scritti clementini in modo parallelo. Ciò non toglie tuttavia che gli aspetti più rilevanti per ricostruire il pensiero complessivo di Clemente siano contenuti principalmente negli Stromati e soprattutto su quest’ampia e complessa opera verterà anche il presente studio. Del resto, un’analisi concentrata sulla dottrina dell’anima negli Stromati porterà necessariamente a tenere conto dei contenuti di carattere psicologico presenti nelle altre opere, soprattutto nel Pedagogo, nel Quis dives salvetur, negli Excerpta ex Theodoto e nelle Eclogae Propheticae. Una trattazione separata invece è ristudio dell’embriologia e le conseguenze sul piano antropologico: come si spiega la presenza dell’anima nel singolo corpo? A questa cornice e al conseguente repertorio concettuale o mitologico (quando la speculazione venga espressa ed esposta nella forma letteraria del mito) si farà riferimento ogni volta che, nella presente monografia, si menzionerà il “mito psicologico tradizionale” o il “mito psicologico classico”. 4 Cf. Dörrie 1987-, 6.2, p. 418.

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Passibilità divina

chiesta dal Protrettico ai Greci, opera la cui coerenza con le regole retoriche del genere letterario dei discorsi protrettici richiede una breve parentesi rispetto al discorso filosoficamente e teologicamente più rilevante. Di qui deriva la necessità di articolare i contenuti di questo capitolo introduttivo nel modo seguente: – un’ampia sezione – I.2.1. – si occuperà di studiare i tratti principali della psicologia del Protrettico ai Greci; – seguirà un paragrafo dedicato alla psicologia del Pedagogo – I.2.2. –, dove si metteranno in evidenza sia le caratteristiche più importanti del ruolo dell’anima all’interno di quest’opera sia le linee in cui si vedrà poi esplicato il rapporto tra Pedagogo e Stromati; – infine, un paragrafo relativo agli Stromati – I.2.3. – cercherà di illustrare quali problemi la dottrina dell’anima in quest’opera intende risolvere. Per quanto concerne la struttura della presente monografia, infine, la psicologia di Clemente sarà studiata sotto due punti di vista: quello filosofico (sia nel suo versante antropologico che in quello metafisico), nei capitoli II e III, e quello teologico nel capitolo IV. I.2.1. La psicologia del Protrettico In questa sezione si cercherà di fornire un resoconto del ruolo dell’anima all’interno del Protrettico ai Greci, nella convinzione che la dottrina dell’anima abbia un ruolo centrale per la struttura stessa di tale opera. Si mostrerà pertanto in che modo gli elementi che rientrano nella cornice delle dottrine dell’anima tardo-antiche si distribuiscono lungo il corso dell’argomentazione di Clemente, dapprima nell’introduzione e nella conclusione e poi nella parte centrale del testo. L’introduzione e la conclusione del Protrettico: Citerone e Sion L’incipit e la conclusione del Protrettico sono caratterizzati da un confronto particolarmente significativo tra cristianesimo e religione greca 5. Clemente, infatti, introduce la sua critica al paganesimo e conclude

5 Sull’introduzione del Protrettico, cf. Rizzi 1993, pp. 171-188 e Lechner 2010. Lechner, nello specifico, sostiene di potervi rintracciare una προλαλιά, una prefazione, la cui funzione sarebbe in linea con gli scopi di simili testi che si trovano negli autori della Seconda Sofistica.

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I. Introduzione 17

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l’esortazione al cristianesimo ricorrendo al confronto metaforico tra monti sacri ai culti, rispettivamente, pagano e giudaico-cristiano: da un lato Citerone ed Elicona, dall’altro Sion. Se ne considerino i momenti salienti: prot. 1, 2.1-3: sono poi stati da voi divinizzati e cantati il Citerone e l’Elicona, i monti degli Odrisi e dei Traci, santuari dell’errore. E io, sebbene siano mito, rimango sdegnato dal fatto che sciagure tanto grandi vengano messe in scena; e ancora, anche le descrizioni delle malvagità sono da voi divenute pezzi teatrali, i cui interpreti, a loro volta, sono divenuti spettacoli di gioia6. Ma chiudiamo, allora, negli ormai invecchiati Elicona e Citerone i drammi e i poeti che compongono per le feste lenee già completamente ubriachi, dopo averli cinti in qualche modo con l’edera, mentre delirano con intemperanza per l’iniziazione bacchica, assieme agli stessi satiri e il folle banchetto come pure con l’altro coro di demoni! Facciamo scendere, giù dai cieli al monte santo di Dio, la verità e il santo coro profetico per mezzo di una fede chiarissima! Che questa luce brillante, risplendente al massimo grado, illumini dappertutto coloro che si trovano avvolti nelle tenebre e distolga gli uomini dall’inganno, tendendo altissima

prot. 12, 119.1-2: questo è il monte amato da Dio, non riservato a tragiche storie come il Citerone, ma consacrato ai drammi della verità8, un monte di temperanza, ombreggiato da santi boschi. In esso si inebriano non le sorelle di Semele, «colpita dal fulmine», le menadi, le iniziate alla ripugnante spartizione di carni crude, ma le figlie di Dio, le belle agnelle che celebrano i venerabili riti del Logos e che formano un savio coro. Questo è il coro dei giusti e il loro è un inno di lode al re dell’universo. Suonano le fanciulle, gli angeli innalzano il loro canto di gloria, parlano i profeti, si eleva un suono di musica; coloro che sono stati chiamati, desiderosi di ricevere il Padre, seguono di corsa il tiaso, si affrettano9.

Lett. piacere dell’animo. Per l’espressione, cf. Lugaresi 2008, p. 498. 9 Ὄρος ἐστὶ τοῦτο θεῷ πεφιλημένον, οὐ τραγῳδίαις ὡς Κιθαιρὼν ὑποκείμενον, ἀλλὰ  τοῖς ἀληθείας ἀνακείμενον δράμασιν, ὄρος νηφάλιον, ἁγναῖς ὕλαις σύσκιον. Βακχεύουσι δὲ ἐν αὐτῷ οὐχ αἱ Σεμέλης «τῆς κεραυνίας» ἀδελφαί, αἱ μαινάδες, αἱ δύσαγνον κρεανομίαν μυούμεναι, ἀλλ’ αἱ τοῦ θεοῦ θυγατέρες, αἱ ἀμνάδες αἱ καλαί, τὰ σεμνὰ τοῦ Λόγου θεσπίζουσαι ὄργια, χορὸν ἀγείρουσαι σώφρονα. Ὁ χορὸς οἱ δίκαιοι, τὸ ᾆσμα ὕμνος ἐστὶ τοῦ πάντων βασιλέως. Ψάλλουσιν αἱ κόραι, δοξάζουσιν ἄγγελοι, προφῆται λαλοῦσιν, ἦχος στέλλεται μουσικῆς, δρόμῳ τὸν θίασον διώκουσιν, σπεύδουσιν οἱ κεκλημένοι πατέρα ποθοῦντες ἀπολαβεῖν. 6 8

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Passibilità divina

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la mano destra, la comprensione (σύνεσις), verso la salvezza! E costoro, alzando la testa ed emergendo, abbandonino Elicona e Citerone e dimorino in Sion: Infatti da Sion uscirà una legge e una parola del Signore da Gerusalemme (Is 2, 3), un Logos celeste, il legittimo lottatore, incoronato nel teatro dell’intero universo7.

Il brano di prot. 1 è costruito sull’argomento secondo cui il culto pagano è erroneo (πλάνη), in quanto fondato su una contraddizione. Questa contraddittorietà è espressa in due forme, nel corso del Protrettico: nella prima il paganesimo, pur riconoscendo perfezione alla realtà divina, la fa convivere assieme a forme di venerazione nei confronti di divinità ritenute tutt’altro che perfette; in secondo luogo, Clemente rimprovera l’impudicizia stessa di tali culti in sé, celebrati in una simile, vergognosa religiosità. Entrambi gli argomenti si fondano sulla riduzione alla natura umana delle divinità greche, come esplicitato dalla difesa delle posizioni evemeriste. La prima forma di contraddittorietà concerne la mitologia misterica (2, 13.1-2; 2, 18; 2, 19; 2, 23.1; 2, 24.2, in cui si introducono le posizioni evemeriste e, più generalmente, 2, 27.1-2; 2, 38.1), i templi (3, 44.4 – 45.5 e 4, 49.3) e le statue (4, 47.1 – 48.6; 4, 51.1-6). La seconda forma coinvolge soltanto la mitologia misterica (2, 14; 2, 15; 2, 16; 2, 20.1-21.1; 2, 22) e le statue (4, 59.1 – 61.4). Dunque, coerentemente con lo spi-

7 Κιθαιρὼν δὲ ἄρα καὶ Ἑλικὼν καὶ τὰ Ὀδρυσῶν ὄρη καὶ Θρᾳκῶν, τελεστήρια τῆς πλάνης, τεθείασται καὶ καθύμνηται. Ἐγὼ μέν, εἰ καὶ μῦθός εἰσι, δυσανασχετῶ τοσαύταις ἐκτραγῳδουμέναις συμφοραῖς· ὑμῖν δὲ καὶ τῶν κακῶν αἱ ἀναγραφαὶ γεγόνασι δράματα καὶ τῶν δραμάτων οἱ ὑποκριταὶ θυμηδίας θεάματα. Ἀλλὰ γὰρ τὰ μὲν δράματα καὶ τοὺς ληναΐζοντας ποιητάς, τέλεον ἤδη παροινοῦντας, κιττῷ που ἀναδήσαντες, ἀφραίνοντας ἐκτόπως τελετῇ βακχικῇ, αὐτοῖς Σατύροις καὶ θιάσῳ μαινόλῃ, σὺν καὶ τῷ ἄλλῳ δαιμόνων χορῷ, Ἑλικῶνι καὶ Κιθαιρῶνι κατακλείσωμεν γεγηρακόσιν, κατάγωμεν δὲ ἄνωθεν ἐξ οὐρανῶν ἀλήθειαν ἅμα φανοτάτῃ φρονήσει εἰς ὄρος ἅγιον θεοῦ καὶ χορὸν τὸν ἅγιον τὸν προφητικόν. ῾Η δὲ ὡς ὅτι μάλιστα τηλαυγὲς ἀποστίλβουσα φῶς καταυγαζέτω πάντῃ τοὺς ἐν σκότει κυλινδουμένους καὶ τῆς πλάνης τοὺς ἀνθρώπους ἀπαλλαττέτω, τὴν ὑπερτάτην ὀρέγουσα δεξιάν, τὴν σύνεσιν, εἰς σωτηρίαν. Οἱ δὲ ἀνανεύσαντες καὶ ἀνακύψαντες Ἑλικῶνα μὲν καὶ Κιθαιρῶνα καταλειπόντων, οἰκούντων δὲ Σιών· «ἐκ γὰρ Σιὼν ἐξελεύσεται νόμος καὶ Λόγος κυρίου ἐξ Ἱερουσαλήμ» (Is 2, 3), Λόγος οὐράνιος, ὁ γνήσιος ἀγωνιστὴς ἐπὶ τῷ παντὸς κόσμου θεάτρῳ στεφανούμενος. Su questo passo, in particolare, cf. Lugaresi 2008, pp. 491-496.

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I. Introduzione 19

rito complessivo della sua critica al paganesimo, Clemente in prot. 1, 2 definisce privo di senso il fatto che cose palesemente biasimevoli vengano rese oggetto di culto. È per introdurre tale concetto che egli si serve del confronto tra Elicona/Citerone e Sion. Poco oltre l’Alessandrino ribadisce lo stesso argomento, ma gli conferisce un tono nuovo, destinato poi a prevalere per tutto il primo capitolo. Lo si trova esplicitato in due momenti: prot. 1, 3 e prot. 1, 7. Nel primo testo Clemente critica i «poeti del culto pagano», i quali «sembrano esser stati ingannevoli, dal momento che hanno oltraggiato la vita e, con il pretesto della musica, invasati con un abile inganno per la rovina, celebrando insolenze con riti orgiastici, divinizzando eventi luttuosi, sono stati i primi a condurre gli uomini agli idoli, (ossia ad imbastire un ἔθος ottuso, ovviamente con pietre e legni, cioè con statue e immagini dipinte), aver soggiogato all’estrema schiavitù, con canti e incanti, quella davvero bella libertà di chi è vissuto da libero cittadino sotto il cielo»10. Nel secondo testo l’Alessandrino tratta sempre dell’inganno dei culti pagani, ma sotto un’altra prospettiva: l’inganno dei poeti ora è frutto demoniaco e ad esso corrisponde la conseguente azione salvifica del Logos: Clem. prot. 1, 7: 7.1. il Logos, il Cristo, è appunto causa sia del fatto che esistiamo da tempi antichi (era infatti in Dio) sia della esistenza retta. Οra dunque si è rivelato agli uomini… 7.4. Non ora, in realtà, per la prima volta egli ha compassione di noi a causa del errare, ma fin da prima, dal principio; e adesso egli ha salvato noi, che siamo già rovinati, manifestandosi… 7.5. Questo malvagio tiranno, questo serpente qui, appunto, dopo aver legato a pietre, legni, statue e ad altri simili idoli con la triste catena della superstizione coloro dei quali fosse riuscito ad impadronirsi dalla nascita, facendo offerta funebre dei vivi, li seppellisce assieme ai morti, fino a quando non periscano con loro. 7.6. E dunque è per questo motivo (giacché uno solo l’ingannatore che condusse alla morte in origine Eva, e ora anche gli altri uomini) che uno solo tale soccorritore e salvatore nostro: il Signore, che dapprinci-

10 Clem. prot. 1, 3: Ἐμοὶ μὲν οὖν δοκοῦσιν… ἀπατηλοὶ γεγονέναι, προσχήματι μουσικῆς λυμηνάμενοι τὸν βίον, ἐντέχνῳ τινὶ γοητείᾳ δαιμονῶντες εἰς διαφθοράς, ὕβρεις ὀργιάζοντες, πένθη ἐκθειάζοντες, τοὺς ἀνθρώπους ἐπὶ τὰ εἴδωλα χειραγωγῆσαι πρῶτοι (ναὶ μὴν λίθοις καὶ ξύλοις, τουτέστιν ἀγάλμασι καὶ σκιαγραφίαις, ἀνοικοδομῆσαι τὴν σκαιότητα τοῦ ἔθους), τὴν καλὴν ὄντως ἐκείνην ἐλευθερίαν τῶν ὑπ’οὐρανὸν πεπολιτευμένων ᾠδαῖς καὶ ἐπῳδαῖς ἐσχάτῃ δουλείᾳ καταζεύξαντες.

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pio preannunciava in profezia e ora ormai chiama alla salvezza in modo esplicito11.

Il ragionamento centrale di tutto il primo capitolo del Protrettico è proprio quello di prot. 1, 7: il termine λόγος si adatta a esprimere sia il pensiero e la facoltà di pensare sia il Cristo, verbo divino. Di conseguenza il culto pagano è oltraggio al λόγος in quanto è oltraggio alla “ragione”, per cui Clemente, in 1, 3, parla de «l’ottusità dell’ ἔθος» e, in 1, 3 e 1, 7.5, critica «l’adorazione di pietre e legni». In tal senso il λόγος è causa del «nostro esistere retto» (cf. 1, 7.1): costituisce il parametro cui adeguare la retta ragione e una condotta morale corrispondente. Ma il λόγος, dice Clemente, è anche «causa del fatto che esistiamo da tempi antichi»: allora il culto pagano che gli fa oltraggio in realtà riproduce, sul piano del quotidiano, quello stesso errore archetipico, commesso da Eva (cf. 1, 7.6), che fece perdere all’anima lo stato di beatitudine (1, 3). Così facendo, l’Alessandrino allegorizza il mito platonico della caduta dell’anima12: esso diviene l’allontanamento dalla retta ragione causato dal culto erroneo e superstizioso. L’allegoresi del mito in chiave etica è incarnata dalla metafora di Elicona/Citerone e Sion, il cui reciproco contrasto veicola l’appello di Clemente ad abbandonare la condizione decaduta. In modo analogo l’inizio del secondo capitolo riprende, per inciso, gli stessi elementi protologici che fungono da impalcatura al capitolo precedente. Ecco infatti che l’Alessandrino afferma: «Sono queste le ingannevoli e disastrose deviazioni della verità, che trascinano giù dal cielo l’uomo e lo spingono verso il baratro», e dichiara le sue intenzioni, dicendo: «Adesso voglio mostrarvi il destino degli stessi dèi, quali siano e se siano, affinché una buona volta poniate fine al vostro errore e accorriate nuovamente verso il cielo»13. Qui si noterà l’assenza di ogni elemento simbolico: il riferimento alla caduta diventa un 11 Οὗτος γοῦν ὁ Λόγος, ὁ Χριστός, καὶ τοῦ εἶναι πάλαι ἡμᾶς (ἦν γὰρ ἐν θεῷ), καὶ τοῦ εὖ εἶναι αἴτιος. Νῦν δὴ ἐπεφάνη ἀνθρώποις… Ὁ δὲ οὐ νῦν γε πρῶτον ᾤκτειρεν ἡμᾶς τῆς πλάνης, ἀλλ’ ἄνωθεν ἀρχῆθεν, νῦν δὲ ἤδη ἀπολλυμένους ἐπιφανεὶς περισέσωκεν... Ὁ γοῦν πονηρὸς οὑτοσὶ τύραννος καὶ δράκων, οὓς ἂν οἷός τε εἴη ἐκ γενετῆς σφετερίσασθαι, λίθοις καὶ ξύλοις καὶ ἀγάλμασιν καὶ τοιούτοις τισὶν εἰδώλοις προσσφίγξας τῷ δεισιδαιμονίας ἀθλίῳ δεσμῷ, τοῦτο δὴ τὸ λεγόμενον, ζῶντας ἐπιφέρων συνέθαψεν αὐτούς, ἔστ’ ἂν καὶ συμφθαρῶσιν. Οὗ δὴ χάριν (εἷς γὰρ ὁ ἀπατεὼν ἄνωθεν μὲν τὴν Εὔαν, νῦν δὲ ἤδη καὶ τοὺς ἄλλους ἀνθρώπους εἰς θάνατον ὑποφέρων) εἷς καὶ αὐτὸς ἐπίκουρος καὶ βοηθὸς ἡμῖν ὁ κύριος, προμηνύων ἀρχῆθεν προφητικῶς, νῦν δὲ ἤδη καὶ ἐναργῶς εἰς σωτηρίαν παρακαλῶν. 12 Cf. Festugière 1953, pp. 63-96. 13 Clem. prot. 2, 27.1: Αὗται μὲν αἱ ὀλισθηραί τε καὶ ἐπιβλαβεῖς παρεκβάσεις τῆς ἀληθείας, καθέλκουσαι οὐρανόθεν τὸν ἄνθρωπον καὶ εἰς βάραθρον περιτρέπουσαι· ἐθέλω δὲ

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I. Introduzione 21

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immediato appello a far cessare l’errore, ormai svuotato di quel significato mitologico che in 1, 7 conservava ancora in parte. «L’uomo rovesciato sulla terra» (2, 25.4) non è niente più che l’uomo sviato da «opinioni colpevoli e devianti dalla retta via». Se prot. 1, 2.1-3 introduce una situazione protologica, prot. 12, 119 (cf. supra, p. 17) è più prossimo a descrivere un’escatologia. In questo passo sono degni di nota almeno due particolari: il tema del canto14 e il richiamo ai «drammi15 della verità». Qui il coro del «monte amato da Dio» è descritto molto più dettagliatamente di quanto non lo fosse nel primo capitolo e, soprattutto, lo si sente intonare un inno di lode, cui si aggiungono gli angeli in un canto di gloria, mentre alcune fanciulle suonano e i profeti parlano. Il tema del canto era centrale anche per prot. 1, dove veniva impiegato per introdurre la figura del Cristo in modo antitetico rispetto ai cantori della mitologia greca, primo fra tutti Orfeo16. Cristo era stato presentato come autore di un «canto nuovo», nemmeno paragonabile a quello dei poeti greci, perché il canto di Cristo, sebbene «sembrasse» nuovo, in realtà era la verità che è dal principio (prot. 1, 6.5): « era il λόγος che è dapprincipio, dunque egli era ed è il principio divino di tutte le cose; e poiché ora ha preso il nome che è stato consacrato anticamente, degno di potenza, il Cristo, è stato da me chiamato canto nuovo». A ben vedere, dunque, anche la ricorrenza del tema del canto, nel primo capitolo, è funzionale all’allegoria della condizione protologica elaborata da Clemente. Il canto è la figura che gli serve per instaurare un confronto con i poeti della mitologia greca e, grazie all’espediente della novità, Clemente riesce a connetterlo – per contrasto – alla dimensione divina del principio, dando anche a lui un ruolo nella cornice protologica tracciata. L’uso del canto in prot. 12, 119 è differente, perché il contesto dell’ultimo capitolo è dominato da un altro elemento: l’appello alla conversione17. Lo si può vedere dalla conclusione dell’opera di Clemente, che affida a una dimensione escatologica le conseguenze dell’accoglimento o del rifiuto della chiamata al criὑμῖν ἐν χρῷ τοὺς θεοὺς αὐτοὺς ἐπιδεῖξαι ὁποῖοί τινες καὶ εἴ τινες, ἵν’ἤδη ποτὲ τῆς πλάνης λήξητε, αὖθις δὲ παλινδρομήσητε εἰς οὐρανόν. 14 Per una messa a punto sul tema cf. Lugaresi 2011. 15 Cioè gli spettacoli. 16 Per un approfondimento sulla fortuna del confronto (ma anche assimilazione) Logos-Orfeo, cf. Jourdan 2008. 17 Su questo punto e per una valutazione dell’importanza dell’appello finale del Protrettico, cf. Herrero 2005, pp. 72-74.

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stianesimo: «Infatti, a proposito della vita che non ha mai fine, neppure i discorsi vogliono mai cessare di rivelarne i misteri. Ma a voi, comunque, resta ancora quest’ultimo gesto, cioè di scegliere ciò che vi è utile: il giudizio o la grazia. Quanto a me, io credo che neppure sia il caso di dubitare quale delle due cose sia migliore: non è lecito, infatti, mettere a confronto vita e perdizione»18. La scelta a cui Clemente richiama i suoi interlocutori ha come prospettive possibili la «vita senza fine e la grazia», oppure la «perdizione e il giudizio». Questi sono i toni con cui, a partire da prot. 8, 77, l’Alessandrino inquadra gli elementi escatologici, allusivi di ciò che accadrà all’anima dopo la morte. Per quanto concerne eternità e grazia, infatti, va detto che sono elementi che si coniugano in prot. 10, 93.219 nella tensione alla «salvezza eterna»; il giudizio torna, invece, in prot. 11, 116.1, accostato alla colpa e, come colpa e castigo escatologico, anche in prot. 10, 90.1 e 90.3. Altre espressioni, utilizzate per designare la beatitudine, sono poi la figura dei cieli e della loro contemplazione (prot. 11, 111.3; 12, 118.4), mentre, appena prima di introdurre nuovamente il confronto CiteroneSion, Clemente contrappone contemplazione (118.4) e ignoranza (118.5). Fatte queste premesse, risulta legittimo vedere nel canto dei cori di Sion, così dettagliatamente descritto solo in prot. 12, i tratti del­­ l’escatologia apocalittica giudeo-cristiana20: il tema del canto dei beati21. Ma si può dire di più: ad argomentare in favore della predominanza di una cornice tematica escatologica in prot. 12 si deve pensare che l’invito all’opzione per la vita in Cristo rappresenta la fuoriuscita da una 18 Clem. prot. 12, 123.2: περὶ γάρ τοι τῆς παῦλαν οὐδαμῇ οὐδαμῶς ἐχούσης ζωῆς οὐκ ἐθέλουσιν οὐδ’οἱ λόγοι παύσασθαί ποτε ἱεροφαντοῦντες. Ὑμῖν δὲ ἔτι τοῦτο περιλείπεται πέρας, τὸ λυσιτελοῦν ἑλέσθαι, ἢ κρίσιν ἢ χάριν· ὡς ἔγωγε οὐδ’ ἀμφιβάλλειν ἀξιῶ, πότερον ἄμεινον αὐτοῖν· οὐδὲ μὴν συγκρίνεσθαι θέμις ζωὴν ἀπωλείᾳ. 19 Sul passo e le fonti di Clemente, cf. Dinan 2010b. 20 In questo lavoro ricorrerà più volte il termine “giudeo-cristianesimo” (nonché aggettivi da esso derivati). Si tratta di una categoria complessa e problematica (per la quale si rimanda alla messa a punto di Skarsaune 2007 e Paget 2007), fosse solo per il fatto che la denominazione “giudeo-cristiano”, al di là di qualche eccezione (cf. Skarsaune 2007, p. 6), è debitrice delle prospettive d’indagine degli ultimi due secoli di ricerca (cf. Paget 2007, pp. 48 e 51). Cionondimeno si tratta di una categoria usata ancora oggi da molti studiosi e, anche per i risultati raggiunti in passato (basti pensare a Daniélou 1958, su cui si veda Skarsaune 2007, p. 19), rimane imprescindibile. Con tale nozione, in questa sede, non si alluderà specificamente a giudei credenti in Gesù che continuavano a praticare uno stile di vita giudaico (ipotesi oggi variamente diffusa e discussa da Skarsaune 2007 a p. 9), bensì a figure di convertiti al cristianesimo dal giudaismo ben collocabili in quel contesto in cui platonismo, gnosticismo, giudaismo e diverse forme di vita cristiana sono intrinsecamente fusi assieme (secondo quanto stabilito da Skarsaune 2007, p. 11), come poteva essere il caso dell’Alessandria di II e III secolo. 21 Cf. Festugière 1953, pp. 135-137.

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I. Introduzione 23

condizione di mortale prigionia. La condizione umana ottenebrata dalle credenze e dalle consuetudini pagane, del resto, era stata descritta come prigionia già nel primo capitolo, tramite la metafora del cosiddetto supplizio tirreno22, un tema caro alla letteratura protrettica23. Questa figura serve ad esprimere quella stessa prigionia che, in prot. 10, 90.1, viene veicolata metaforicamente dalla «condizione terrena», la quale indica a sua volta l’adesione al paganesimo. Ma in cosa consiste esattamente la negatività di tale condizione? Come nel primo capitolo, essa è innanzitutto uno stato di mortalità: per la precisione, afferma Clemente, è peccato e «il peccato... è morte eterna» (prot. 11, 115.2). Questa, a sua volta, è connessa a una condizione di passibilità dell’anima. Ora, sembra interessante il fatto che in 115.2 il peccato-morte eterna sia accostato alle passioni dell’anima, perché tale metafora torna indirettamente anche nell’ultimo appello ad abbandonare il Citerone per Sion e permette di comprenderne ancor meglio la sua connotazione escatologica. Il confronto CiteroneSion di prot. 12 è in effetti immediatamente successivo a un lungo riferimento all’Odissea, nel quale l’Alessandrino descrive la συνήθεια come morte (prot. 12, 118.1-4): «consuetudine» (118.1) è infatti il luogo di provenienza di un canto «generatore di morte» (118.4). L’invito ad abbandonare la «consuetudine» è un altro topos della letteratura protrettica24 e ricorre anche in prot. 1, 3, dove l’ethos è ritenuto responsabile dell’irragionevolezza del culto pagano. D’altra parte, nello 22 L’espressione «supplizio tirreno» indica la tortura, attribuita alla pirateria etrusca per la prima volta dal fr. 10 del Protrettico di Aristotele, consistente nel legare cadaveri ai prigionieri, così da innestare nel corpo vivo un processo di decomposizione; la ricorrenza del motivo sia in quanto rimane del Protrettico aristotelico che nell’omonima opera clementina è un indizio a sostegno dell’idea di un’unitarietà interna al genere protrettico. Per uno studio su questo tema, cf. Piquemal 1963. Si trova in prot. 1, 7.4: «Non ora, in realtà, per la prima volta egli ha compassione di noi a causa del nostro errare, ma fin da prima, dal principio; e adesso egli ha salvato noi, che siamo già rovinati, manifestandosi. Infatti la malvagia e strisciante fiera, ammaliando, mette in schiavitù e tortura ancora adesso gli uomini, vendicandosi – mi sembra – come fanno i barbari, che si dice leghino i prigionieri di guerra ai corpi morti fino a mandarli in putrefazione assieme». 23 Questo tema, che ricorre anche nell’Ortensio di Cicerone, nel Protrettico di Giamblico e in quello di Aristotele, è noto già a Hartlich 1889, p. 333. L’assenza di grandi affinità contenutistiche con altre opere di analoga natura, tuttavia, portò Hartlich a concludere che il Protrettico di Clemente fosse soprattutto uno scritto refutativo e, di fatto, non diede credito ad esso come testimone della letteratura protrettica. Per un ragguaglio sulla sua ricezione cristiana (Aug. c. Iul. 4, 15-16) cf. Beatrice 2001, che ne evidenzia la rilevanza per la dottrina del peccato originale nel contesto platonico del­ l’equivalenza σῶμα-σῆμα. 24 Cf. Alfonsi 1964. Più in generale, sulla ricorrenza del tema nell’opera di Clemente cf. Lugaresi 2003.

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Passibilità divina

stesso incipit del Pedagogo, Clemente ribadisce che oggetto dell’attività del λόγος προτρεπτικός è la cura degli ἤθη25. Dire che l’ethos, termine con cui si indica anche la parte inferiore del composto umano26, è dimensione-condizione mortale e mortifera, significa innanzitutto, per Clemente, muoversi in accordo con la concezione – ribadita a più riprese negli Stromati – secondo cui la morte fisica è distacco dell’anima dal corpo e, in secondo luogo, ritenere assieme ad alcuni platonici come Attico e Alcinoo27 che dell’ethos nulla si salvi28. L’invito di Clemente ad abbandonare la consuetudine presuppone allora una ben precisa concezione psicologica. A questo punto, infatti, si sono raccolti sufficienti elementi per concludere che Clemente, in prot. 12, sta de-mitizzando un’escatologia. In primo luogo, motivi di tematica escatologica sono trasformati in concrete opzioni cui orientare una scelta di vita e Citerone e Sion vengono utilizzati proprio per esprimere tali opzioni. In secondo luogo, Clemente traspone la mortalità sul piano etico-morale. Dietro la sua argomentazione sembra esserci un simile ragionamento: attraversato uno stato di morte morale29, si apre la possibilità di rimanere nella morte o di godere della beatitudine della salvezza. Ritorniamo ora all’introduzione del Protrettico, richiamando l’attenzione sul fatto che anche la possibilità di godere della beatitudine emerge dalla contrapposizione tra i due monti. Ciò avviene in due momenti: innanzitutto nella definizione di Sion come monte «consacrato ai drammi della verità» e in secondo luogo nell’accostamento esplicito 25 Clem. paed. 1, 1, 1: Poiché in relazione all’uomo ci sono proprio queste tre – costumi, azioni e passioni –, il protrettico è preposto ai suoi costumi (ἤθη), è guida nella pietà. 26 Cf. Festugière 1953, pp. 125-127. 27 Stando a quanto afferma Procl. In Ti. 3, 234.8. Al contrario, le versioni di Porfirio (fr. 381 e cf. Procl. In Ti. 3, 234.18), Giamblico (De an. 384, 20-29) e gli Oracoli Caldaici (p. 47) ammettono una certa sopravvivenza anche dell’elemento irrazionale. 28 Allora, nonostante il tono stoico-crisippeo nel descrivere le passioni come malattie dell’anima, Clemente, definendo “morte” la συνήθεια in un procedimento di allegoresi etica, ragiona platonicamente e cioè segue il principio per cui la morte è sempre «separazione dell’anima dal corpo» (cf. ad esempio, Cic. Tusc. 1, 18: sunt enim qui discessum animi a corpore putent esse mortem; Plu. Fac. 28, 943 B: ὃν δ’ἀποθνήσκομεν θάνατον, ὁ μὲν ἐκ τριῶν δύο ποιεῖ τὸν ἄνθρωπον ὁ δ’ἓν ἐκ δυοῖν; Alcin. Didask. 25 2: ὡς οὖν ὁ θάνατος διάκρισις ψυχῆς ἀπὸ σώματος; Dam. In Pl. Phd. 1, 178.12 e 183.7: ἤ ἀχώριστος ἡ ψυχή… ἤ χωριστή). Tuttavia in Clemente, al posto del corpo, si trova la parte mortale dell’anima. Infatti, oltrepassata la συνήθεια come Ulisse aveva fatto con le sirene (prot. 12, 118.1-3), dice Clemente, si avrà come conseguenza la separazione della parte mortale dell’anima (l’ἦθος o il πάθος) da quella immortale. Chiaramente, se si vuole, ad ulteriore differenza rispetto al platonismo pagano, va aggiunto che l’immortalità dell’anima (o della sua parte razionale) non è prerogativa di natura, ma frutto di grazia e condotta di vita. 29 Simboleggiato dall’attraversamento del canto delle sirene di prot. 12, 118.1-3.

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I. Introduzione 25

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di accesso a Sion e visione della verità. Ora, se Clemente apre e chiude la sua opera demitizzando tematiche, rispettivamente, protologiche ed escatologiche e nel capitolo introduttivo l’allegoresi clementina si rivela, in ultima analisi, finalizzata ad esprimere contenuti epistemologici, tutto questo porta a pensare che i tratti escatologici del Protrettico concorrano a delineare una precisa dottrina della conoscenza. In ogni caso, adesso, il processo di allegoresi etica dell’escatologia sembra essersi completato. Lo si intuisce dall’interpretazione del carro alato di Phdr. 230 d, che segna l’avvio alla conclusione del discorso di Clemente. Qui etica e dottrina della conoscenza si intrecciano in modo tale che sembra difficile non scorgere la centralità dell’anima per l’argomentazione dell’Alessandrino: Clem. prot. 12, 121.1: egli pose sotto lo stesso giogo l’asino giovane insieme con il vecchio, e ora, dopo aver aggiogato assieme la coppia degli uomini, dirige il carro verso l’immortalità affrettandosi verso Dio per compiere chiaramente ciò a cui aveva alluso oscuramente, prima dirigendosi verso Gerusalemme, e ora verso i cieli30.

In questo passo si possono evidenziare tre aspetti significativi. I primi due concernono le ragioni che rendono la lettura clementina del brano del Fedro fedele al testo platonico. La prima è l’evidente richiamo ai cavalli del Fedro, anche se sostituiti dagli asini di Mt 21, 1-731, presumibilmente per immettere la dialettica vecchio-nuovo. La seconda è che, diversamente da come Clemente fa altrove, la lettura escatologica ora allude solo indirettamente alla vita oltre la morte – la quale ha piuttosto un valore simbolico – e si avvicina maggiormente alla versione originale platonica, identificando beatitudine e contemplazione32. In secondo luogo, se da un lato è vero che qui Clemente non sembra leggere il celebre passo del Fedro come allusivo all’anima o a una sua trattazione specifica, dall’altro tale riferimento resta comunque implicito. Infatti, se nell’appello ad abbandonare la “consuetudine”, cui sopra abbiamo accennato, l’Alessandrino segue una serie di presupposti psicologici della tradizione platonica, allora la coppia di «asi30 Τὸν πῶλον ὑποζύγιον ἤγαγε σὺν τῷ παλαιῷ, καὶ νῦν τῶν ἀνθρώπων τὴν συνωρίδα καταζεύξας, εἰς ἀθανασίαν κατιθύνει τὸ ἅρμα, σπεύδων πρὸς τὸν θεὸν πληρῶσαι ἐναργῶς ὃ ᾐνίξατο, πρότερον μὲν εἰς Ἱερουσαλήμ, νῦν δὲ εἰσελαύνων οὐρανούς. 31 Brano che oppone pace e mitezza all’immagine del re guerriero. 32 Cf. Wyrwa 1983, p. 212. Clemente di solito interpreta liberamente le ricorrenze del mito platonico dell’anima come carro alato. Anche nel Fedro sono connesse direttamente alla vita beata, all’aldilà e all’escatologia, ma in Platone significano essenzialmente il filosofare corretto.

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no vecchio» (che indica la consuetudine) e «giovane» non può non riferirsi chiaramente alla biga del mito platonico dell’anima, articolata nelle sue parti rispettivamente irrazionale e razionale. Il terzo aspetto, poi, contribuisce a connettere ancor più la conclusione all’introduzione del Protrettico e riguarda il rapporto tra Logos divino e anima. Si vede cioè che Clemente interpreta la mitologia tradizionale sul piano del regolare funzionamento delle facoltà dell’anima umana. La συνήθεια è morte nella misura in cui impedisce la visione del Logos e dei suoi misteri; l’esito escatologico è conoscenza corretta oppure mantenimento dell’errore. Clemente continua dunque a operare conformemente a come aveva fatto nel primo capitolo, nel quale la caduta era stata trasformata in allontanamento dalla retta ragione. Anche qui il Λόγος è la guida che fa uscire dall’errore. Questa terza osservazione, pertanto, denota lo scarso interesse clementino a ricercare qualcosa che medi il rapporto tra Logos divino e anima. È significativo che ciò accada, oltre che nel Pedagogo, come vedremo, proprio nel Protrettico, cioè in un’opera in cui – similmente al Pedagogo – non si discute di fisiologia o metafisica, ma si cerca di mostrare che il cristianesimo non contraddice le verità della filosofia. Tale affinità tra Pedagogo e Protrettico, infine, va evidenziata perché consente di scorgere la presenza concreta di una fitta rete di elementi inerenti ai diversi modi di concepire la psicologia in ambito platonico all’interno della struttura del Protrettico (o per lo meno dietro il legame tra il suo esordio e la sua conclusione) ed è proprio questa rete a dare efficacia agli scopi stessi che l’opera si prefigge. L’anima, di fatto, si riconferma tema essenziale a comprendere come sono strutturate almeno l’introduzione e la conclusione del Protrettico. Clemente costruisce queste due sezioni de-mitizzando la caduta protologica e la dottrina del destino dell’anima dopo la morte, caratteristiche entrambe delle teorie platoniche dell’anima. Ciò serve a porre l’interlocutore di fronte a una scelta di vita fondamentale tra due opzioni apparentemente equivalenti, delle quali l’una, però, è migliore dell’altra in virtù dell’azione del Logos divino sull’anima. Prot. 2-11: il protrettico tradizionale Passiamo ora all’analisi di prot. 2-11, cioè della parte centrale del Protrettico, la quale presenta due motivi d’interesse: da un lato il suo ruolo nella struttura complessiva dello scritto e dall’altro le indicazioni fornite sulla più specifica modalità d’operare da parte di Clemente, cioè l’intenzione di esplicitare la scelta di vita.

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I. Introduzione 27

La psicologia è fondamentale per comprendere l’inizio e la fine del Protrettico: questi luoghi sono espressione, rispettivamente, dei momenti protologico ed escatologico della psicologia tradizionale. La parte restante – cioè quella centrale – è invece tipica dei protrettici filosofici33. L’idea che il protrettico filosofico costituisca un genere letterario specifico non è per nulla scontata34. Il primo a metterla in discussione fu Michel Narcy nel commento all’Eutidemo35: egli, prendendo le mosse dalla scarsa efficacia attribuita alla prospettiva protrettica per la comprensione di questo dialogo di Platone36, giunse a negare l’origine del genere37, le sue forme e i suoi contenuti e, infine, il rapporto dei discorsi protrettici con la filosofia38. Il primo consistente contributo alla ricostruzione storica di un’identità letteraria del protrettico filosofico si deve a uno studioso olandese, Simon R. Slings39. Slings si attiene a un punto fermo: la natura delle 33 Per l’appartenenza del Protrettico clementino a tale categoria, cf. van der Meeren 2002, pp. 600-602. 34 L’idea – non problematica – di “genere”, per il protrettico filosofico risale con certezza a Festugière 1973, ma probabilmente era data per scontata anche precedentemente. 35 Narcy 1984. 36 Narcy 1984, p. 18. I dubbi di Narcy poggiano su due elementi oggettivi relativi alla nostra impossibilità di comprendere cosa effettivamente fosse, all’epoca, un discorso protrettico. Innanzitutto il fatto che gli unici protrettici pervenutici integralmente (si tratta delle opere di Clemente, Giamblico e – forse – Boezio) sono soltanto gli ultimi di una serie le cui testimonianze lasciano intravedere un’ampiezza molto maggiore. In secondo luogo il termine protrettico fu in effetti veicolo di un significato vasto e generico. Mark D. Jordan poi porta ulteriori perplessità. Annoverando l’Eutidemo tra i modelli più rappresentativi della letteratura protrettica, Jordan non fa riferimento alla allora pur recente monografia di Narcy, tuttavia ne condivide la prospettiva per via della sua familiarità con la problematicità di una definizione del genere (Jordan 1986, pp. 310-314). Il problema che solleva l’articolo di Jordan è legato alle fonti sulla letteratura protrettica: ci sono molte testimonianze di protrettici filosofici e molte testimonianze di scritti analoghi a protrettici, ma che non sono di tema filosofico; in questo quadro, le fonti retoriche sono insufficienti a definire le caratteristiche dei protrettici rimasti. Jordan, in conclusione, assume una posizione tendenzialemente scettica e cerca di salvaguardare un surrogato dell’unità di genere attraverso il concetto, coniato alcuni anni prima da Lloyd Bitzer, di «situazione retorica» (cf. Bitzer 1968, p. 7). Presupponendo cioè l’assenza di uniformità retorica, dalla quale consegue la necessità di tenere conto di una molteplicità non uniformabile di scritti protrettici tra loro profondamente diversi perché rivolti a destinatari diversi, la prima necessità di ogni scuola sarebbe comunque stata quella di procurarsi adepti. E, seguendo il ragionamento di Jordan, la sua preoccupazione primaria sarebbe sempre stata di agire nel momento in cui il destinatario doveva operare la scelta relativa al suo modo di vita. 37 Narcy 1984, p. 19 e p. 186, note 22 e 23. 38 Narcy 1984, p. 19. 39 Cf. Slings 1981.

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fonti che possediamo sulla letteratura protrettica, peculiari perché forniscono per lo più definizioni, divisioni40 e testimonianze sul genere e inoltre ne attestano il radicamento in un contesto etico41. Dopo Slings, Sophie van der Meeren cerca di colmare la lacuna relativa alla definizione dello schema letterario di queste opere, completo di forma, contenuto e finalità. Nel complesso van der Meeren attesta tre costanti, due formali e una contenutistica. La studiosa individua, per ogni discorso protrettico, una duplice funzione, che ne articola il contenuto in due parti42: confutazione ed esortazione. In secondo luogo, nota che nel protrettico filosofico c’è sempre un rimando ad altri discorsi che gli fanno seguito43; infine traccia il rapporto tra le linee generali del contenuto dei protrettici e lo scopo della filosofia, cioè la felicità44. Che il Protrettico ai Greci di Clemente rientri a pieno titolo nel panorama dei protrettici filosofici, lo attesta già l’intuizione di fondo di Nock: cioè il fatto che, con il cristianesimo, l’esortazione a optare per una determinata condotta di vita di tipo filosofico diventa centrale per l’idea di conversione religiosa, prima estranea alla religiosità pagana45. La stessa van der Meeren ha individuato anche per il Protrettico clementino la medesima struttura dei protrettici filosofici46. 40 Metodo di definizione, variamente diffuso nell’antichità, basato su Pl. Sph. 253-255. Cf. Movia 1994, pp. 335-351. 41 Punto su cui si gioca uno sviluppo e si decide, in Eudoro di Alessandria, anche l’abbandono della media accademia, cf. Slings 1995, p. 183. 42 Cf. van der Meeren 2002, pp. 600-602. 43 Cf. van der Meeren 2002, pp. 602-604. Questo per dire comunque che l’autore di un discorso protrettico è consapevole che tale scritto non può essere fine a se stesso. Nel Protrettico di Clemente non c’è alcun riferimento esplicito ad altri scritti; tuttavia l’incipit del Pedagogo colloca inequivocabilmente il Protrettico o l’azione esortativa del Logos a fianco di opere o azioni rispettivamente educatrici e didascaliche (cf. van der Meeren 2002, pp. 603-604). Questo corrisponde all’incrocio tra la struttura dell’azione protrettica e la sua più propria e intima natura: il protrettico rimanda a un aspetto particolare della filosofia antica, particolarmente esplicito nella concezione neoplatonica di un’organizzazione piramidale del sapere (p. 603) che si giustificava sulla base di certi dialoghi di Platone. 44 Cf. van der Meeren 2002, pp. 604-606. L’autrice individua così tre punti di contatto tra i contenuti dei protrettici e il fine della filosofia: 1. presentazione dello scopo ultimo della filosofia, cioè la somma finalità dell’uomo e, in proposito, tutti i protrettici si rifanno alla posizione espressa da Socrate nell’Eutidemo (pp. 604-605); 2. presentazione della filosofia come un dovere (p. 605); 3. ricerca dell’adesione del pubblico ad una presentazione molto generale della filosofia (p. 606). 45 È la tesi centrale dell’opera di Nock 1933. 46 Così anche Lechner 2007 (pp. 187-190), il quale, oltre che evidenziare una parte ἀπελεγκτική, critica, e una ἐνδεικτική, esortativa, fa una distinzione ulteriore e considera l’appello conclusivo di Clemente alla conversione (prot. 12, 118.1-119.3), una sezione a sé stante (peroratio). Cf. p. 188 per status quaestionis relativo al Protrettico di Clemente, pur accostato a prescindere del problema del “genere” protrettico.

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I. Introduzione 29

Fatta questa premessa, si può dire che la parte centrale (capitoli 2-11) del Protrettico si scompone nettamente nelle due sezioni in cui Sophie van der Meeren riconosce la forma del protrettico filosofico. È lo stesso Clemente che esplicita la loro articolazione, quando afferma: «Ora che abbiamo trattato tutti gli altri argomenti nell’ordine dovuto, è tempo ormai di passare alle scritture dei profeti. E, infatti, presentandoci nella maniera più chiara le basi da cui partire per arrivare alla vera religiosità, le loro profezie costituiscono il fondamento della verità»47. Con questa dichiarazione l’Alessandrino dà avvio alla pars construens del suo Protrettico, cioè quella in cui – dopo aver ridotto a contraddizione, da un lato, la religione pagana e ogni suo aspetto cultuale e, dall’altro, la filosofia e i poeti – prende in mano le Sacre Scritture e porta argomenti a sostegno della fede “nuova”. Ciononostante, nei capitoli successivi non scompaiono del tutto le invettive nei confronti dei suoi avversari. Al contrario, nel decimo capitolo in particolar modo, queste sembrano piuttosto frequenti. Tuttavia ciò può essere attribuito al tono acceso della discussione intrapresa48 e non indebolisce la netta strutturazione del discorso49. Del resto sarebbe impensabile che un discorso protrettico, che si propone di essere già momento di cura50, avesse poi la parte più propriamente esortativa così debole, pari quasi a una mera «esortazione riassuntiva argomentativa»51. Ciò vale soprattutto per il protrettico di Clemente, in cui la pars destruens, cercando di mostrare la contraddittorietà delle posizioni avversarie, costituisce già di per sé un argomento di esortazione vero e proprio e, visti i toni particolarmente accesi, è tutt’altro che debole retorica di genere. È peculiare dello spirito dell’opera che gli argomenti a sostegno dell’appello alla conversione siano inscindibili dal momento critico. 47 Clem. prot. 8, 77.1: Ὥρα τοίνυν τῶν ἄλλων ἡμῖν τῇ τάξει προδιηνυσμένων ἐπὶ τὰς προφητικὰς ἰέναι γραφάς· καὶ γὰρ οἱ χρησμοὶ, τὰς εἰς τὴν θεοσέβειαν ἡμῖν ἀφορμὰς ἐναργέστατα προτείνοντες, θεμελιοῦσι τὴν ἀλήθειαν. 48 Come testimonia peraltro Neymeyr 2001 che, muovendo contro l’ipotesi di Johannes Bernard (Bernard 1968) – secondo cui in Clemente si sarebbe ormai concluso pacificamente un dialogo tra il cristianesimo e il suo contesto filosofico e di cultura ellenistica – sostiene, confrontando il Protrettico di Clemente con quello di Galeno, che in Clemente rivivono gli echi di una polemica aspra e ancora accesa. Neymeyr argomenta sulla base di due osservazioni: 1. lo stile riservato di Galeno, 2. la presenza di toni accesi e forti attacchi polemici in Clemente (e cita tre esempi in cap. 51, cap. 56 e capp. 58-59, tra cui 51.6 e 59.2 contengono per l’appunto argomenti poi riutilizzati nella pars construens del Protrettico di Clemente). 49 Segnata anche dalla frequenza e dalla disposizione delle citazioni dalle Sacre Scritture: tra i capitoli 2 e 7, se ne contano soltanto 33. 50 Ciò sarà approfondito a pp. 31-38. 51 Cf. Rankin 2005, p. 9.

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La sezione centrale è in realtà pervasa dal continuo richiamo di Clemente alla conversione, sicché non può essere separata dall’appello conclusivo alla scelta di vita. Il paragone tra Citerone e Sion si mostra come la vera e propria ossatura dell’opera. Miguel Herrero de Jáuregui, in un recente lavoro sul Protrettico, ha provato ad attribuire all’esortazione tre componenti: un soggetto optans52, il dualismo simmetrico tra i due poli della scelta53 e l’attribuzione di superiorità all’uno piuttosto che all’altro54. Herrero fa emergere il tentativo da parte di Clemente di tracciare una simmetria tra paganesimo e cristianesimo, costruendo il concetto stesso di “paganesimo” sulla base della proiezione di quanto era proprio della religione cristiana55; si tratta di un’operazione che ha corrispettivi in Giustino56, Origene57 e Agostino58. Al di là della sua impostazione metaforica, tramite il ricorso allo schema Sion-Citerone, questa simmetria di matrice apologetica trova chiara realizzazione nel confronto tra pars destruens e pars construens59. Il succedersi di queste due sezioni, pertanto, non può che concludersi in modo del tutto naturale nell’appello finale di prot. 12, 123. Per riassumere, di questa parte centrale dell’opera di Clemente vanno messe in risalto tre caratteristiche. Innanzitutto la pars destruens non opera una mera dissuasione, ma, tentando di rendere contraddittoria la posizione avversa, costituisce un vero e proprio argomento esortativo – con punte talvolta violente – alla stregua dei contenuti della pars Herrero 2005, pp. 72-74. Herrero 2005, pp. 74-78. 54 Herrero 2005, pp. 78-84. Peraltro proprio qui si gioca la peculiarità della conversione al cristianesimo: la superiorità del cristianesimo sulle altre religioni consiste nella sua novità. 55 «El intento de unificar la religión griega en un único ente fuerza la diversidad de cultos griegos, nunca fusionados en una sola religión salvo en la mente de los apologistas y de los neoplatónicos tardíos que intentan crear un anticristianismo a partir de la religión tradicional. El efecto de esta unificación, sin embargo, ha durado hasta nuestros días» (Herrero 2005, pp. 76-77). 56 Iust. dial. 8, 1: διαλογιζόμενός τε πρὸς ἐμαυτὸν τοὺς λόγους αὐτοῦ ταύτην μόνην εὕρισκον φιλοσοφίαν ἀσφαλῆ τε καὶ σύμφορον. οὕτως δὴ καὶ διὰ ταῦτα φιλόσοφος ἐγώ. Cf. Herrero 2005, p. 76 per un commento. 57 Or. Cels. 1, 16-18: διαλογιζόμενός τε πρὸς ἐμαυτὸν τοὺς λόγους αὐτοῦ ταύτην μόνην εὕρισκον φιλοσοφίαν ἀσφαλῆ τε καὶ σύμφορον. οὕτως δὴ καὶ διὰ ταῦτα φιλόσοφος ἐγώ... Εἴποιμεν δ’ἂν προκαλούμενοι βίβλους βίβλοις παραβάλλεσθαι ὅτι φέρε, ὦ οὗτος, τὰ Λίνου καὶ Μουσαίου καὶ Ὀρφέως ποιήματα καὶ Φερεκύδου τὴν γραφὴν καὶ συνεξέταζε τοῖς Μωϋσέως νόμοις, ἱστορίας ἱστορίαις καὶ ἠθικοὺς λόγους νόμοις καὶ προστάγμασι παρατιθείς. Per un commento cf. Herrero 2005, pp. 77-78. 58 Quanto più evidentemente, con la contrapposizione tra civitas Dei-civitas impiorum. Cf. Herrero 2005, p. 78. 59 Herrero ne è perfettamente consapevole, ma è bene rimarcare il ruolo della benevolenza (cf. Herrero 2005, pp. 78-84). 52 53

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I. Introduzione 31

construens. Questa, a sua volta, è intessuta di aspri momenti di critica e invettiva, che contribuiscono a stemperare il freddo susseguirsi argomentativo e lo conducono a un vivace movimento dialettico. Infine, tutto ciò avviene sullo sfondo di un’opposizione metaforica tra Citerone e Sion che, a incipit e chiusura dello scritto, delinea il confronto tra paganesimo e cristianesimo in termini di simmetria. La parte centrale del Protrettico deve però essere letta in intima continuità con la struttura delle altre due parti. Nello specifico, se da un lato si ha una sezione protologica e dall’altro una escatologica – cioè due momenti della psicologia tradizionale, rispettivamente il primo e il terzo – la parte centrale ricopre esattamente il ruolo della seconda fase delle trattazioni psicologiche di scuola, dedicata alla scelta di vita60. La pars construens e la pars destruens rappresentano in realtà le due alternative della scelta. In conclusione, se da un lato la parte centrale del Protrettico rientra in uno schema argomentativo piuttosto tradizionale e che lascia pensare a un contesto di genere, Clemente, dall’altro lato, modifica fortemente la struttura dell’esortazione. La pars construens e la pars destruens sono funzionali a una scelta. In questo modo torna protagonista il ruolo della psicologia. Il confronto tra Citerone-Elicona e Sion serve a una radicale reinterpretazione della natura protrettica dei contenuti della parte centrale dell’opera e la rende funzionale alla scelta di vita. Questo è il nuovo impianto su cui vengono inseriti gli argomenti recati per dissuadere dalla religiosità pagana o per esortare alla fede cristiana. Alcune conseguenze del ruolo dell’anima per la struttura dei protrettici tradizionali L’aver ricollegato la struttura della sezione centrale del Protrettico al suo contesto di dottrina dell’anima permette di scorgere alcune caratteristiche importanti della critica di Clemente alla religiosità pagana. Nello specifico vedremo come in questa sezione dell’opera si elabori la superiorità del cristianesimo rispetto al paganesimo sulla base dell’azione diretta del Logos nell’anima. La critica dell’Alessandrino al paganesimo si compie nel confronto con un cristianesimo costruito attorno all’idea di Logos-medico espressa in prot. 1, 8.2-361. Questa concezione 60 Per la sua costante ricorrenza nei manuali psicologici di età ellenistica, cf. Festugière 1953, p. 98. 61 Clem. prot. 1, 8.2-3: καὶ ἔσθ’ ὅπῃ μὲν λοιδορεῖται, ἔστιν δ’ οὗ καὶ ἀπειλεῖ· τοὺς δὲ καὶ θρηνεῖ τῶν ἀνθρώπων· ᾄδει δὲ ἄλλοις· καθάπερ ἰατρὸς ἀγαθὸς τῶν νοσούντων σωμάτων τὰ μὲν καταπλάττων, τὰ δὲ καταλεαίνων, τὰ δὲ καταντλῶν, τὰ δὲ καὶ

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del Logos è radicata nella cristologia pedagogica di Clemente e ritorna anche nel Pedagogo (cf. ad esempio paed. 1, 12, 100.162). Il Logos-medico, con la sua semplice comparsa, non solo si differenzia dalle divinità passionali dei greci, ma è sufficiente a contraddire e a mostrare quanto sia assurdo il culto pagano. Si può dire che, per Clemente, la figura del Logos vale di per sé come argomento dell’assurdità della “religione” pagana e, in questo senso, è attiva curatrice. È il confronto con il Logos che rende l’adorazione di tali dèi passionali un “errore”63. Questo, a sua volta, è una malattia dell’anima, causata nuovamente dalle passioni. Ciò è particolarmente evidente in un ragionamento che conclude il capitolo 11 e, con esso, l’intera parte centrale dell’opera: Clem. prot. 11, 113.2: il Logos che ci illumina… ha illuminato la mente che era in precedenza sepolta nelle tenebre e ha reso acuti «gli occhi» dell’anima, per tal motivo «portatori di luce»64. Clem. prot. 11, 115.2: voi non volete mettervi addosso lo stesso amuleto che viene dal cielo, cioè il Logos Salvatore e, credendo nell’incantesimo di Dio, essere liberati dalle passioni (esse invero sono malattie dell’anima), ed essere strappati dal peccato?65. Clem. prot. 11, 117.2: l’amore celeste e veramente divino giunge agli uomini soltanto in questo modo, quando nell’anima stessa può σιδήρῳ διαιρῶν, ἐπικαίων δὲ ἄλλα, ἔστι δ’ οὗ καὶ ἀποπρίων, εἴ πως οἷόν τε κἂν παρὰ μέρος ἢ μέλος τὸν ἄνθρωπον ὑγιᾶναι. Πολύφωνός γε ὁ σωτὴρ καὶ πολύτροπος εἰς ἀνθρώπων σωτηρίαν ( a volte biasima, ma ci sono volte in cui anche minacci; o compiange qualche uomo, mentre per altri canta; e inoltre guarisce, proprio come un buon medico per i corpi malati, ora fa loro degli impacchi, ora li calma o li bagna, talora li apre anche con il ferro, altri li cauterizza, o può capitare che, se è mai possibile che l’uomo si risani anche così, senza una parte o un arto, egli lo amputi. Il Salvatore è polifonico e multiforme per la salvezza degli uomini). 62 Clem. paed. 1, 12, 100.1: ταύτῃ οὖν καὶ σωτὴρ ὁ λόγος κέκληται, ὁ τὰ λογικὰ ταῦτα ἐξευρὼν ἀνθρώποις εἰς εὐαισθησίαν καὶ σωτηρίαν φάρμακα, ἐπιτηρῶν μὲν τὴν εὐκαιρίαν, ἐλέγχων δὲ τὴν βλάβην καὶ τὰς αἰτίας τῶν παθῶν διηγούμενος καὶ τὰς ῥίζας τῶν ἀλόγων ἐκκόπτων ἐπιθυμιῶν, παραγγέλλων μὲν ὧν ἀπέχεσθαι δεῖ, τὰς ἀντιδότους δὲ ἁπάσας τῆς σωτηρίας τοῖς νοσοῦσι προσφέρων (Così dunque il λόγος è detto anche Salvatore: lui che, per dotare gli uomini di una corretta percezione e dare loro la salvezza, ha inventato per loro questi farmaci razionali, attendendo la buona sorte e rimproverando i torti, esponendo le cause delle passioni, estirpando le radici dei desideri irrazionali, prescrivendo le cose da cui bisogna tenersi lontani, somministrando ai malati tutti gli antidoti salutari). Per questa raffigurazione del Λόγος cf. Sanguineti 2003. 63 Cf. in particolare prot. 2, 26.1-2, 27.1 che descrive come lo stato di errore faccia produrre all’uomo delle degenerazioni della verità. 64 Ὁ Λόγος ὁ φωτίσας ἡμᾶς… ὁ τὸν ἐν σκότει κατορωρυγμένον νοῦν ἐναργῆ ποιησάμενος καὶ τὰ «φωσφόρα» τῆς ψυχῆς ἀποξύνας «ὄμματα» (Pl. Ti. 45). 65 Ὑμεῖς δὲ οὐ βούλεσθε τὸν οὐράνιον αὐτὸν περιάψασθαι, τὸν σωτῆρα Λόγον, καὶ τῇ ἐπῳδῇ τοῦ θεοῦ πιστεύσαντες ἀπαλλαγῆναι μὲν παθῶν (ἃ δὴ ψυχῆς νόσοι), ἀποσπασθῆναι δὲ ἁμαρτίας;

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I. Introduzione 33

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risplendere la vera bellezza accesa dall’alto dal Logos divino; e la cosa più grande è che al volere sinceramente tiene dietro di pari passo il salvarsi66.

Queste tre pericopi scandiscono tre momenti di un percorso che coincide con il passaggio dall’errore alla corretta conoscenza. Qui si può vedere come la condizione archetipica e la risoluzione escatologica del mito psicologico tradizionale67 forniscano soltanto il lessico, cioè le metafore e le immagini, per veicolare un contenuto che è soprattutto etico ed epistemologico e volto a essere efficace nell’immediato presente. Il mito è svuotato di ogni suο scopo esplicativo ed è reso funzionale a persuadere alla scelta per il λόγος. Ciò posto, ci si aspetterebbe una più evidente esplicitazione del momento della scelta (cioè l’aspetto della psicologia tradizionale platonica meno legato al vocabolario dei miti protologici ed escatologici), che qui può essere ravvisato nella seconda pericope. In realtà la scelta è presente nella forma della contrapposizione tra il Logos-medico da una parte e le passioni dall’altra. In ciò s’intravede una riflessione sul problema del male, che è affrontato da una prospettiva pratica, estranea ad ogni impostazione metafisica, a cui viene preferita una soluzione etica: il male è malattia morale68, male dell’anima69. Il male dell’anima è un fattore decisivo per distinguere la maturazione del tema della scelta in ambiente cristiano e la sua occorrenza nelle dottrine filosofiche pagane. Se fra i platonici dualisti il problema del male è spesso pensato nella relazione dell’anima con la materia, gli autori cristiani enfatizzano l’idea di peccato, rimarcando il ruolo che vi ha la responsabilità dell’anima stessa. Al contrario, da parte pagana si privilegia l’idea di illuminazione interiore. Quel che invece fa un pensatore cristiano, alla stregua di Tertulliano, è ricondurre all’anima la possibilità di peccare, trattando del corpo con nessun altro interesse 66 Ὅ γέ τοι οὐράνιος καὶ θεῖος ὄντως ἔρως ταύτῃ προσγίνεται τοῖς ἀνθρώποις, ὅταν ἐν αὐτῇ που τῇ ψυχῇ τὸ ὄντως καλὸν ὑπὸ τοῦ θείου λόγου ἀναζωπυρούμενον ἐκλάμπειν δυνηθῇ· καὶ τὸ μέγιστον ἅμα τῷ βουληθῆναι γνησίως τὸ σωθῆναι συντρέχει. 67 Per espressioni come “mito psicologico tradizionale” o “mito psicologico classico”, cf. supra, pp. 14-15, nota 3. 68 Con evidente riflesso della dottrina psicologica stoica, particolarmente attenta all’equivalenza di passione e malattia, come attesta Stob. Anth. 2, 7, 10 a. Allo stesso modo Galeno e Posidonio (cf. Gal. Plac. 5, 2.3-7). 69 Del “male” Clemente, nel Protrettico, fornisce soltanto due occorrenze significative. La prima è il già citato simbolismo di prot. 1, 7.4-6; la seconda si trova in 10, 104.4. Ma qui ὁ πονηρός non viene più definito τύραννος καὶ δράκων, come in 1, 7.5, bensì esercita due atti definiti «di prepotenza (πλεονεξίαι)»: la perdita della vista (ὀμμάτων πήρωσις) e la sordità (τῆς ἀκοῆς πήρωσις).

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se non quello di metterne in evidenza gli aspetti rilevanti per la vita etica del cristiano, cioè in che modo si relaziona alle scelte dell’anima, agevolandole o impedendole70. Tertulliano, peraltro, per dimostrare la non-negatività della dimensione corporea in quanto tale, usa come argomento l’idea secondo cui l’anima acquisisce un senso del peccato soltanto con l’adolescenza71. Alla stessa espressione ricorre anche Clemente per esprimere la trasposizione etica della caduta protologica del mito platonico: “il fanciullo” sostiene infatti l’Alessandrino in prot. 11, 111, è «diventato uomo a causa della disubbidienza». È quanto viene affermato nell’esordio dell’undicesimo capitolo del Protrettico, ossia in un testo che, in modo esemplare, interpreta appunto in chiave etica il mito psicologico tradizionale. Clem. prot. 11, 111.1-3: 111.1. esaminiamo un poco, fin da principio, se vuoi, il beneficio di Dio. Il primo uomo, quando giocava libero nel paradiso, era ancora il fanciullo di Dio; ma poi cedette al piacere (il serpente rappresenta allegoricamente il piacere che striscia sul ventre72, vizio terreno che tende alla materia), il fanciullo, diventato uomo a causa della sua disubbidienza fu preda dei desideri e, non avendo ascoltato il Padre, si vergognava di Dio. Ecco la forza che ha avuto il piacere! L’uomo, che per la sua innocenza era stato libero, si ritrovò avvinghiato dai peccati. 111.2. Ma il Signore volle scioglierlo nuovamente dalle catene; legatosi alla carne (questo è un mistero divino) sottomise il serpente e rese schiavo il tiranno, vale a dire la morte e (cosa più eccezionale di tutte), con le sue mani distese, rese di nuovo libero quell’uomo che era piombato nell’errore a causa del piacere e che era stato incatenato alla corruzione. 111.3. O misterioso miracolo! Il Signore si è chinato e l’uomo si è rialzato e colui che 70 Cf. Festugière 1953, pp. 102-104. È inevitabile accennare alla dottrina dell’anima di Tertulliano, cioè dell’unico autore cristiano contemporaneo a Clemente di cui ci sia pervenuta una trattazione sistematica sul tema dell’anima. A tal proposito, in merito al rapporto anima-corpo, va detto innanzitutto che Tertulliano sosteneva che l’anima avesse una propria materia, per quanto sottile (si tratta della nozione zenoniana di consitum spiritum, cf. Tert. anim., 5, 3). 71 Tert. anim., 38, 1-2; 41.1: pubertatem quoque animalem cum carnali dicimus convenire pariterque et illam suggestu sensuum et istam processu membrorum exsurgere a quarto decimo fere anno… Si enim Adam et Eva ex agnitione boni et mali pudenda tegere senserunt, ex quo id ipsum sentimus, agnitione boni et mali profitemur. Malum igitur animae…, ex originis vitio antecedit, naturale quodammodo. Nam, ut diximus, naturae corruptio alia natura est, habens suum deum et patrem, ipsum scilicet corruptionis auctorem, ut tamen insit et bonum animae, illud principale, illud divinum atque germanum et proprie naturale. 72 A proposito di questo brano, è da notare, incidentalmente, che Clemente identifica il peccato dei protoplasti con il piacere, nonostante sia un promotore del matrimonio (cf. Sfameni-Gasparro 1985a e Sfameni-Gasparro 1985b).

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I. Introduzione 35

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era caduto dal paradiso riceve un premio più grande dell’obbedienza, i cieli!73.

In questo brano, si scorgono tre elementi importanti del mito psicologico classico. Partendo dalla fine, si nota dapprima una sorta di allegoresi in chiave etica della fase escatologica della psicologia tradizionale. Già in precedenza Clemente aveva parlato dei possibili esiti della scelta di vita; la prospettiva adottata non nascondeva i suoi toni escatologici74 e sempre si era trattato dell’esortazione ad abbandonare la συνήθεια o l’ethos antichi, quali responsabili di una riduzione dell’uomo alla schiavitù di pietre e legni, sotto le catene della superstizione75. La sola differenza è che ora, per indicare la ricompensa, viene usato il termine «cielo». Clemente, nel corso dell’opera, vi ricorre soprattutto per due scopi76: alludere a un momento escatologico o protologico77 o designare l’oggetto di attività contemplativa78. Nell’ultimo capitolo, specificamente, il termine è davvero cruciale e serve per trasporre l’escatologia dal piano mitico e metaforico a quello etico-conoscitivo79. 73 Μικρὸν δέ, εἰ βούλει, ἄνωθεν ἄθρει τὴν θείαν εὐεργεσίαν. Ὁ πρῶτος ὅτε ἐν παραδείσῳ ἔπαιζε λελυμένος, ἔτι παιδίον ἦν τοῦ θεοῦ· ὅτε δὲ ὑπέπιπτεν ἡδονῇ (ὄφις ἀλληγορεῖται ἡδονὴ, ἐπὶ γαστέρα ἕρπουσα· κακία γηΐνη, εἰς ὕλας στρεφομένη) παρήγετο ἐπιθυμίαις, ὁ παῖς ἀνδριζόμενος ἀπειθείᾳ καὶ παρακούσας τοῦ πατρὸς ᾐσχύνετο τὸν θεόν. Οἷον ἴσχυσεν ἡδονή· ὁ δι’ ἁπλότητα λελυμένος ἄνθρωπος ἁμαρτίαις εὑρέθη δεδεμένος. Τῶν δεσμῶν λῦσαι τοῦτον ὁ κύριος αὖθις ἠθέλησεν, καὶ σαρκὶ ἐνδεθείς (μυστήριον θεῖον τοῦτο) τὸν ὄφιν ἐχειρώσατο καὶ τὸν τύραννον ἐδουλώσατο, τὸν θάνατον, καί (τὸ παραδοξότατον) ἐκεῖνον τὸν ἄνθρωπον τὸν ἡδονῇ πεπλανημένον, τὸν τῇ φθορᾷ δεδεμένον, χερσὶν ἡπλωμέναις ἔδειξε λελυμένον. Ὢ θαύματος μυστικοῦ· κέκλιται μὲν ὁ κύριος, ἀνέστη δὲ ἄνθρωπος, καὶ ὁ ἐκ τοῦ παραδείσου πεσὼν μεῖζον ὑπακοῆς ἆθλον, οὐρανούς, ἀπολαμβάνει. 74 Cf. soprattutto prot. 10, 90.1-3; 10, 101.1-3; 10, 109.1. 75 Cf. in particolare prot. 1, 3.1. 76 In entrambi i casi viene citata anche l’espressione, tratta dal Fedone, di uomo come pianta celeste (per quanto concerne gli elementi protologico ed escatologico, cf. prot. 2, 25.4; per quanto concerne l’allusione alla contemplazione, cf. 10, 100.1-3). Clemente fa tuttavia uso del termine anche per scopi meno “tecnici”, come per esempio la creazione (cf. Gen 1, 1 o Sal 8, 4, ad esempio, ma anche Gen 1, 28): prot. 4, 63.2; 5, 67.2; 6, 72.4; 7, 74.2; 8, 81.3; 10, 94.2. Altrove compare per esprimere l’amore divino (11, 117.2) o la grandezza divina (8, 78.2 in riferimento a Is 64, 1). 77 Prot. 1, 3.1; 2, 25.1-2, 27.1; 9, 82.6; 10, 92.3; 10, 106.2 (in questo caso peraltro l’immortalità traduce già una dimensione contemplativa, somministrata come farmaco, a sinonimo di «guardare il cielo»); 10, 108.3. 78 O comunque legato alla dimensione conoscitivo-contemplativa: prot. 4, 56.2; 4, 63.4; 10, 100.1-3; 10, 104.4; 10, 105.1; 10, 109.1; 11, 112.1; 11, 114.4. 79 Finora, nell’opera, ogni riferimento al tema dell’escatologia ha sempre riguardato l’immortalità o la morte eterna come premio o punizione per la condotta di vita intrapresa (per i momenti più significativi, cf. prot. 9, 82.4-6; 9, 85.1-2; 10, 90.1-3; 10, 93.2-3; 10, 99.2; 10, 104.2; 10, 106.3; 10, 107.1; 10, 108.3; 11, 116.1; sono tutti passi che si riferiscono generalmente al tema dall’immortalità). Nel capitolo 12 tornano temi come l’immortalità o l’eternità, ma sono corollari di un’incorruttibilità, la cui

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In secondo luogo, il male, da entità mitica e astratta qual era tradizionalmente inteso, diviene simbolo utile a spiegare una situazione morale80. Esso, cioè, entra realmente in gioco soltanto nel momento della scelta, dove è descritto, per lo più, come bruttezza o malattia81, oppure come assenza di un regolare funzionamento delle facoltà dell’anima82. Ciò che ad esso si oppone come alternativa nella scelta è una cura, somministrabile solo dal Logos. E il Logos – in terza istanza – risana “chinandosi” (11, 111.3), per amore dell’uomo (11, 117.2) e determinando così lo spazio entro cui l’uomo è invitato ad alzarsi. Pertanto, se da un lato è al «volere sinceramente» (11, 117.2) che consegue la salvezza ed è «la verità» che «ci innalza al cielo» (10, 109.1), d’altro canto questo avviene perché «dall’alto» il Logos divino accende la «vera bellezza» dell’anima, perché la “libera dalle passioni, la strappa dal peccato” (11, 115.2), “porta la luce” ai suoi occhi (11, 113.2). Un simile esplicito processo, che si potrebbe definire di “concretizzazione” non è un caso isolato, nell’opera clementina, ma è attestato, per lo meno, anche nella prima delle Adumbrationes83, in str. 384 e nel

radice è essenzialmente etica. L’immortalità dell’anima è un cardine per le diverse psicologie tradizionali di matrice platonica – nonché per molti luoghi della letteratura giudeo-cristiana e non solo – e ricorre declinato in vari modi, cf. Festugière 1953, pp. 137-144. Una delle varianti che sin d’ora conviene tenere ben presenti è il topos della divinizzazione dell’anima, che in Clemente ricorre in una veste affatto rilevante in prot. 1, 8.4: «E lo stesso Λόγος ti parla ormai chiaramente, confondendo la incredulità. Certo, lo affermo – il Logos di Dio divenuto uomo affinché anche tu finalmente apprenda da un uomo come un uomo diventi Dio». 80 Non solo qui, ma anche in prot. 1, 7 (cf. p. 20). 81 Ma anche tenebra, nel momento in cui la luce corrisponde alla salute degli occhi (11, 114.1). 82 Cf. anche prot. 10, 92.1-4. 83 Se ne veda la traduzione. Clem. Adumbrat. 1: risorge in noi se abbiamo fede, così come, al contrario, muore in noi se siamo infedeli… Custodito cioè nei cieli, che significa il luogo della sede degli angeli (“Custoditum” scilicet “in caelis”, locum significans sedis angelicae), in voi, dice, che dalla fede e dalla riflessione siete conservati nella potenza di Dio, per conseguire [= lett. ricevere] il fine della vostra fede, cioè la salvezza delle anime (1 Pt 4-9), poichè l’anima non è per natura incorruttibile, ma per dono [= lett. grazia] di Dio attraverso la fede, la giustizia e l’intelletto viene resa incorruttibile. 84 Clem. str. 3, 14, 94.1-3: Cassiano «Forza Paolo a sostenere che la generazione consiste in un inganno… In verità, il Signore venne, come tutti ammettono, “per risanare ciò che è perduto” (cf. Mt 18, 11; cf. Lc 19, 10); ma perduto non dall’alto fino alla nostra generazione qui giù sulla terra (la generazione è creata ed è creazione dell’Onnipotente, che non avrebbe mai fatto calare l’anima da una condizione migliore a una peggiore). Il Salvatore venne per quelli che sono perduti nei pensieri, venne per noi: i nostri pensieri si corruppero in seguito alla disobbedienza ai comandamenti, per la nostra avidità di piaceri». Su questo passo cf. Congourdeau 2007, p. 99 e 123.

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I. Introduzione 37

Quis dives salvetur85. In questi testi, termini come “caduta”, “capovolgimento verso il basso”, “morte”, “generazione”, elementi protologici ed escatologici (i cieli, gli angeli) hanno tutti quanti un significato di matrice etica, sono chiaramente finalizzati a correggere determinati atteggiamenti della vita quotidiana. Ora, appurato che l’intero Protrettico è la concretizzazione etica di un modello psicologico – metafisico – tradizionale ben sedimentato nel bagaglio culturale dell’Alessandrino, bisogna chiedersi per quale motivo Clemente l’abbia applicato a situazioni pratiche e concrete. La ragione sta nel fatto che questo schema gli consente di concepire il paganesimo come una forma di passionalità, tramite il ricorso all’idea – fondamentalmente crisippea – di passioni come malattie dell’anima. I pagani, cioè, non riuscirebbero a comprendere correttamente in quanto non liberi da passioni, a causa di un insano rapporto anima-corpo. Ciononostante, nella sua critica Clemente sembra fare un passo oltre la mera posizione stoica. Se, infatti, la consuetudine (συνήθεια) contro cui muove l’Alessandrino è vista come condizione mortale da superare, allora la passionalità che egli attribuisce ai pagani permette di classificare la sua posizione nell’ambito di alcune versioni dell’escatologia platonica. Di fatto, Clemente sostiene che una retta percezione dei culti pagani sia sufficiente per riconoscerli come πάθη; ma questa capacità di comprendere la religiosità pagana come passionale, egli la concepisce esito di una scelta a cui invita i suoi interlocutori: o λόγος o πάθος (passione). Tuttavia, la conseguenza della scelta risulta l’interpretazione etica di un’escatologia mitica i cui esiti discendono da una condizione di συνήθεια, a sua volta mortalità metaforica. Pertanto il significato dell’operazione clementina non è altro che la realizzazione pratica (concretizzazione) di ben precisi modelli escatologici, come quelli di certi autori platonici86 che suppongono, nel momento della morte, la scomposizione dell’ἔθος/ ἦθος (termine con cui – ribadiamolo – si è soliti designare anche la parte inferiore dell’anima umana) in una molteplicità di πάθη87. Del resto certe 85 Clem. q.d.s. 1.3: Altri sconvolgono i pensieri dei ricchi eccitandoli con i piaceri di lodi smisurate e preparandoli a disprezzare assolutamente tutti i beni tranne la ricchezza per cui vengono ammirati, cioè, secondo il proverbio, versando fuoco su fuoco, accumulando orgoglio a orgoglio e aggiungendo volume alla ricchezza, un peso più pesante su una natura pesante, da cui piuttosto bisognerebbe togliere e tagliare, come da un male pericoloso e letale; infatti per chi s’innalza e si fa grande è preparato, in risposta, il capovolgimento verso il basso e la caduta (ἡ πρὸς τὸ ταπεινὸν μεταβολὴ καὶ πτῶσις). 86 Ne è testimone, ad esempio, Corp.Herm. 1, 24. Cf. Festugière 1953, pp. 124-127. 87 Un accostamento interessante di ἦθος/ἔθος e πάθος ritorna in una citazione di Ario Didimo in Stobeo (Cf. Stob. Anth. 2, 7.1). La peculiarità del resoconto di Ario Didimo poggia sul fatto che viene attribuita ai «filosofi platonici» una relazione tra

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interpretazioni platoniche dell’escatologia ammettono la distruzione completa dell’ἄλογον dopo la morte88, attenuandone in qualche modo lo statuto di “parte propria” dell’anima. Come interpretare, dunque, il ruolo della psicologia per la sezione centrale del Protrettico ai Greci? Si può riassumere con due osservazioni. La prima è che le opzioni della scelta fondamentale cui mette di fronte il protrettico tradizionale – e la cui struttura è incarnata dalla sezione centrale dell’opera di Clemente – vengono a essere azione diretta del Logos nell’anima (modello psicologico del Pedagogo) o dominio delle passioni. La seconda è che Clemente costruisce le due opzioni della scelta utilizzando, sì, fonti e materiali tipici negli schemi dei protrettici tradizionali89, ma condensando in essi tutto un apparato mitologico che è bagaglio culturale delle dottrine dell’anima d’ambito platonico, il cui contenuto metafisico è reso funzionale alla scelta etica. Da quanto si è visto, lo studio degli elementi di una dottrina dell’anima presenti nel Protrettico ai Greci mette a nudo la struttura letteraria dell’opera, permettendo di riconoscervi tre sezioni e di vedere come Clemente rimanga coerente rispetto ai canoni stilistici e contenutistici dei protrettici filosofici90. Le forme e i momenti della psicologia tradizionale, infatti, sono estremamente familiari all’Alessandrino e sembrano risultare da un processo di trasmissione e innesto culturale che ne ha favorito il transito attraverso ambienti culturali in parte eterogenei, nonché l’assunzione e l’impiego ad opera del nostro autore. I.2.2. L’occhio dell’anima. La psicologia del Pedagogo Il primo contesto per il quale, nel Pedagogo, Clemente fa un uso notevole della dottrina dell’anima è quello in cui ricorre il motivo della pulizia del “suo” occhio. Sebbene esso sia attestato anche negli Stromati (cf. ad esempio str. 1, 1, 7-10; str. 2, 14, 61.4; 7, 16, 98-99), è ἦθος/ἔθος, πάθος e πράξεις, simile ma alternativa all’incipit della Poetica di Aristotele. La rilevanza di ciò, per Clemente, sta nel fatto che il Pedagogo prende le mosse dal presupposto per cui «in relazione all’uomo ci sono proprio queste tre caratteristiche: costumi, azioni e passioni». Su ciò cf. Slings 1995, pp. 191-192. 88 Cf. ad esempio la discussione in Dörrie 1987-, 6.1, p. 395; 6.2, pp. 277-289. 89 Si pensi al confronto tra ciò che si invita abbandonare e ciò che si esorta a scegliere, che nel testo del Protrettico corrisponde alla coppia Sion-Citerone. 90 Anche Thomas Lechner, pur partendo dalla prospettiva di Riedweg 1987 e studiando l’apporto della conoscenza clementina dei culti misterici alla retorica dell’Alessandrino, riconosce nel Protrettico ai Greci una struttura tripartita cf. Lechner 2007, pp. 205-221.

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I. Introduzione 39

questo il tratto caratteristico della psicologia del Pedagogo. Uno dei punti distintivi della psicologia del Pedagogo è infatti la congiunzione della dottrina dell’«occhio dell’anima» con quella del corretto rapporto dell’anima con il corpo. Il tema della pulizia dell’occhio dell’anima è originariamente platonico (R. 533 d e Sph. 254 a)91, ma in epoca ellenistica riceve un’amplissima diffusione sia in ambito pagano che cristiano92. Quanto alla necessità di stabilire il corretto rapporto dell’anima con le attività corporee, va detto che è un motivo ricorrente sia nella letteratura moralistica cristiana sia in quella pagana contemporanea a Clemente; un esempio fra tutti è Plutarco (Tu. San. 132 a, 18), le cui esigenze sono talvolta curiosamente affini a quelle dell’Alessandrino93. Ciò che connota tuttavia la confluenza di queste due sensibilità nel Pedagogo è che, tramite la loro combinazione, Clemente è in grado di individuare nella corporeità il mezzo per giungere a Dio94. Nel Pedagogo Clemente menziona l’anima non appena ha dichiarato gli intenti dell’opera. L’Alessandrino, infatti, dopo aver distinto λόγος protrettico, pedagogico e didascalico (paed. 1, 1), si concentra brevemente sull’anima, tratteggiandola come l’elemento che consente l’efficacia sia dell’azione pedagogica che di quella didascalica del Logos (il cui esito è detto “epoptica” in paed. 1, 3, 8-9): ciò che permette all’azione del Logos di avere continuità è proprio l’anima che vi corrisponde passando dall’immagine (risposta alla pedagogia) alla somiglianza (conseguen-

Ma espressioni analoghe sono attestate in Pl. Smp. 219 a, Tht. 164 b e R. 527 d 7. Cf. Wyrwa 1983, p. 66, nota 42, fornisce un’ampia panoramica delle sue ricorrenze retoriche e filosofiche sia di matriche platonica che cristiana. A completamento, è bene ricordare anche l’uso fattone da Epitteto in Diss. 3, 22, 18-19 e 3, 10, 16. Wyrwa, tuttavia, tratta del tema dell’“occhio dell’anima” soltanto marginalmente (pp. 65-67), senza distinguere tra l’occorrenza in str. 1, 1, 10.1 e quelle nel Pedagogo, che cita soltanto in nota. Nonostante la mancata messa a fuoco del raffronto tra Pedagogo e Stromati, Wyrwa connette la “luce” presente in str. 1 automaticamente allo “spirito” della scena battesimale evocata nel Pedagogo. In realtà la nozione di spirito del Pedagogo è forse troppo vaga per essere riferita, senza le dovute cautele, al Logos incarnato. Diverso è comunque il discorso per paed. 1, libro che, probabilmente, è maggiormente oggetto di una rielaborazione successiva. Del resto, a proposito dell’incipit del primo libro del Pedagogo si è a lungo discusso potesse essere espressione del progetto clementino di articolare il corpus delle sue opere in forma di trilogia (tesi di De Faye 19062, appoggiata da Lazzati 1939 e, in parte, da Munck 1933; di contro Bousset 19152 e, infine, Méhat 1966, cf. p. 55, nota 2). 93 Cf. Monaci 2003, pp. 34-35. 94 È questa la tesi di Martin Pujiula (Pujiula 2006, pp. 119-120), che in tal modo è anche in grado di rivalutare l’elenco delle referenze del sostantivo σῶμα nel Pedagogo compilato da Otto Stählin negli indici di GCS 39 (cf. Pujiula 2006, p. 120, nota 16). 91

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za dell’epoptica), secondo Gen 1, 26-2795. Nel momento in cui pone il Logos epoptico accanto al Logos pedagogo, Clemente affida all’anima un duplice compito. Essa deve, in primo luogo, corrispondere alla pedagogia del Logos nell’«assimilazione all’immagine senza macchia» (1, 2, 4.2) e, in seconda istanza, rendere pura la sua visione, pronta per la contemplazione epoptica, che spetta allo gnostico e per la quale, dirà poi in paed. 1, 6, è necessario che l’occhio dell’anima sia stato ripulito. La pedagogia del Logos s’inserisce così nella cornice di quella Heilsgeschichte che, per Ulrich Schneider, è il contesto unitario della teologia clementina96. Ciò avviene proprio grazie all’anima che ne unifica i momenti. Nel Pedagogo il Logos interviene in due modi sull’anima: direttamente, oppure per mezzo della sua attività educatrice. La mediazione della pedagogia divina riguarda la seconda ricorrenza della tematica dell’occhio dell’anima, che si trova ad incipit del secondo libro del Pedagogo: Clem. paed. 2, 1, 1.2-3: bisogna dire come ciascuno di noi dovrà mai rapportarsi al proprio corpo, o, meglio, come debba governarlo; non appena, infatti, a partire dalle cose esteriori e specialmente dalla condotta del corpo, ci si sarà fatti guidare dal λόγος alla riflessione e si sarà appreso a contemplare correttamente ciò che accade nell’uomo per natura, si sarà capaci di non preoccuparsi delle cose esterne e di purificare il proprio dell’uomo (τὸ ἴδιον τοῦ ἀνθρώπου), l’occhio dell’anima, ripulendo però anche questa carne. Se infatti ci si è liberati con purezza di quelle cose a causa delle quali siamo ancora polvere, cos’altro potremmo avere di più efficace di noi stessi per camminare sul sentiero che porta alla conoscenza di Dio?97.

In merito a questo testo vanno fatte due osservazioni. La prima concerne la collocazione del brano: benché si trovi all’inizio del se95 Di solito Clemente medita l’idea dell’uomo che perfeziona il suo connaturato statuto di immagine di Dio in quello della somiglianza a Dio secondo l’archetipoCristo, accostando Gen 1, 26 a Plato, Tht. 176B. Si veda Hägg 2006, p. 171-172. 96 Schneider non presta un’attenzione esclusiva alla dottrina dell’anima in Clemente (cf. Schneider 1999, pp. 193-204; accanto a questa decina di pagine, Schneider accenna più volte all’anima tangenzialmente, trattando della nozione di ἀπάθεια, pp. 204-230). Il risultato è una combinazione, che nel dettaglio rimane un po’ indefinita, di elementi filosofico-teologici, mitologici e biblici (p. 204). La valutazione di influenze gnostiche, inoltre, è piuttosto marginale (cf. p. 209, nota 51). Tuttavia Schneider è persuaso che storia della salvezza e ideale di perfezione (pp. 205-207) siano trattati, da un punto di vista antropologico e psicologico, in termini antidualistici (pp. 207210). E questo è un risultato comunque accettabile. 97 Ὁποῖόν τινα τῷ ἑαυτοῦ σώματι ἕκαστον ἡμῶν προσφέρεσθαι, μᾶλλον δὲ ὅπως αὐτὸ κατευθύνειν χρή, λεκτέον· ὁπόταν γάρ τις, ἀπὸ τῶν ἐκτὸς καὶ αὐτῆς ἔτι τῆς τοῦ σώματος

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I. Introduzione 41

condo libro, Clemente lo considera in stretta continuità con la fine del libro precedente. È sufficiente confrontare i testi che segnano il passaggio tra i due libri in questione per rendersene conto:

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paed. 1, 13, 103.2: dunque quanto ci viene annunciato per la vita tra gli altri è noto ai più: le cose che invece convengono alla vita beata, da cui deriva proprio la vita eterna, ci sia dunque possibile analizzarle, in forma di trattato generale, raccogliendole da queste Scritture 98.

paed. 2, 1, 1.1: attenendoci dunque al scopo e scegliendo le Scritture secondo ciò che, della pedagogia, è utile alla vita, bisogna spiegare a grandi linee, sommariamente, come debba essere colui che in ogni circostanza della vita è chiamato cristiano. Dobbiamo cominciare dunque da noi stessi e dal modo in cui bisogna regolarsi 99.

re98. si99.

Ora, non stupisce il fatto che l’incipit di un libro del Pedagogo e la fine del precedente siano tra loro in qualche modo connessi. Del resto, il Pedagogo è un’opera senz’altro composta accuratamente, ed è Clemente stesso ad affermarlo in str. 6, 1, 1 (menzionandone l’articolazione in tre libri). Nulla di più semplice, dunque, che pensare che Clemente possa aver insistito, nel rielaborare il materiale raccolto e steso, nella ricerca di una continuità tra i due libri. La conferma viene dalla frase successiva all’ultima pericope riportata, in paed. 2, 1, 1.2, dove Clemente aggiunge: «Cercando la simmetria del trattato». In questo modo l’Alessandrino si mostra intenzionato a dare coerenza argomentativa a un materiale verosimilmente già raccolto per discutere o approfondire determinati argomenti. D’altra parte, se il Pedagogo è l’esito della composizione di trattazioni distinte, è naturale che la prima e l’ultima parte di ciascuna trattazione servano quanto meno a rafforzare una consequenzialità argomentativa100 che dovrebbe rendere unitario uno scritto ἀγωγῆς ἐπὶ τὴν διάνοιαν ἀχθεὶς ὑπὸ τοῦ λόγου, τὴν θεωρίαν τῶν κατὰ τὸν ἄνθρωπον συμβαινόντων κατὰ φύσιν ἀκριβῶς ἐκμάθῃ, εἴσεται μὴ σπουδάζειν μὲν περὶ τὰ ἐκτός, τό τε ἴδιον τοῦ ἀνθρώπου, τὸ ὄμμα τῆς ψυχῆς, ἐκκαθαίρειν, ἁγνίζειν δὲ καὶ τὴν σάρκα αὐτήν. Ὁ γὰρ ἐκείνων καθαρῶς ἀπολυθείς, δι’ ὧν ἔτι χοῦς ἐστιν, τί ἂν ἄλλο προὐργιαίτερον ἑαυτοῦ ἔχοι πρὸς τὸ ὁδῷ ἐλθεῖν ἐπὶ τὴν κατάληψιν τοῦ θεοῦ; 98 Ὅσα μὲν οὖν πρὸς τὸ ἐθνικὸν ζῆν παραγγέλλεται, ταῦτα καὶ παρὰ τοῖς πολλοῖς δεδήμευται· ἃ δὲ πρὸς τὸ εὖ ζῆν ἁρμόττει, ἐξ ὧν τὸ ἀίδιον ἐκεῖνο περιγίνεται ζῆν, ταῦτα δὲ ἐν ὑπογραφῆς μέρει ἐξ αὐτῶν ἀναλεγομένοις τῶν γραφῶν ἐξέστω σκοπεῖν. 99 Ἐχομένοις τοίνυν τοῦ σκοποῦ καὶ τὰς γραφὰς πρὸς τὸ βιωφελὲς τῆς παιδαγωγίας ἐκλεγομένοις, ὁποῖόν τινα εἶναι χρὴ παρ’ ὅλον τὸν βίον τὸν Χριστιανὸν καλούμενον, κεφαλαιωδῶς ὑπογραπτέον. Ἀρκτέον οὖν ἡμῖν ἀφ’ ἡμῶν αὐτῶν καὶ ὅπως ἁρμόττειν γε χρή. 100 È il concetto di ἀκολουθία testuale su cui Clemente ritorna ripetutamente.

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presentato come opera completa e articolata101. In questi termini, dunque, è legittimo connettere il riferimento all’anima di paed. 2, 1, 1.2 al contesto psicologico di paed. 1, 13, 103.2, rispetto a cui è ipotizzabile che Clemente veda una continuità. Se pertanto il contesto in cui si trova inserito questo primo accenno alla dottrina dell’occhio dell’anima ha anche un valore redazionale e questo si lega ai contenuti di str. 6, in quanto la redazione del Pedagogo è enunciata ad apertura del sesto stromate, allora questo riferimento all’anima deve avere a che fare con l’anima di str. 6. Ora, come vedremo, in str. 6 Clemente sviluppa un concetto di mediazione tra corpo e anima utilizzando terminologie e fonti tecniche. Di qui pertanto si può intuire che l’impiego clementino dell’immagine della pulizia dell’occhio dell’anima abbia a che fare con una qualche idea di “mediazione”. Veniamo ora alla seconda osservazione in merito a questo testo: come sia intesa la mediazione della pedagogia del Logos sull’anima. La nostra pericope parla di «farsi condurre dal Logos», un tema che ritorna con toni analoghi anche in Epitteto (Diss. 1, 4, 18) e richiama i tratti fortemente stoici con i quali Clemente, in paed. 1, 13, 101.1-2, aveva trattato delle passioni come peccato in quanto contrarie al Logos e vi aveva opposto la fede – detta «ubbidienza al Logos» – e la «virtù», definita in 101.2 «sintonia col Logos». Qui il contesto stoico era stato modificato da due fattori: la definizione del timore e il ruolo della pietà religiosa. Entrambi costituiscono contributi specifici del cristianesimo clementino, che in tal modo reinterpreta in diversa prospettiva una sensibilità tipica del platonismo d’età imperiale, consistente nell’accostare elementi stoici a dottrine platoniche102. La non totale riduzione del timore a passione è un argomento che ha impegnato Clemente in str. 2, 7, 32. Il φόβος in ogni caso è un fattore fondamentale del cristianesimo clementino nella sua tensione antignostica. È questo l’esito del recente studio di Piotr Ashwin-Siejkowski, che lo riconduce a un debito nei confronti della letteratura giudaico-sapienziale103. La θεοσέβεια invece, permette di trarre qualche dato in più. La Cf. str. 6, 1, 1.3. Elaborare la dottrina cristiana, per Clemente, significa fare vera filosofia. Si tratta del modo di procedere di Clemente riportato alla luce anche da Ulrich Schneider. Sia nella sua interpretazione della Bibbia che nella confutazione degli “eretici”, pertanto, l’Alessandrino opera facendo interagire contenuti scritturistici a dottrine di tradizione platonica e a fonti dell’etica stoica (cf. Schneider 1999, p. 300 e pp. 265-298). 103 Ashwin-Siejkowski sostiene che, per quanto concerne il recupero della figura del timore come caratteristica della relazione del cristiano a Dio, la fonte di Clemente sia la letteratura sapienziale (cf. Ashwin-Siejkowski 2008, pp. 68-78). La sua analisi del timore approda a tre esiti: a) il primo riguarda appunto l’influenza della letteratu101 102

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I. Introduzione 43

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descrizione clementina del fine della pietà religiosa mediante il lessico e le immagini del riposo escatologico, riconduce la θεοσέβεια a un contesto comune anche a Origene e allo gnosticismo valentiniano. Così ricomposta, la cornice tematica presenta un cristianesimo con vari tratti comuni anche allo gnosticismo, ma che vuole mantenere un legame con un giudaismo non necessariamente filoniano: è questo il quadro in cui deve essere collocato il rapporto dell’anima, per mezzo dell’immagine dell’occhio dell’anima, con il corpo (e, per la precisione, come Clemente afferma in paed. 1, 13, 102.2, dell’anima razionale)104. L’altra ricorrenza del tema della pulizia dell’occhio dell’anima non coinvolge in realtà l’anima, ma lo spirito, dal momento che l’Alessandrino parla di «occhio dello spirito». Clemente vi accenna a proposito degli effetti del troppo cibo: l’eccesso di cibo, afferma, trascina l’uomo irrimediabilmente nell’«insensibilità» (paed. 2, 9, 81.1-2). In tal caso, l’occhio è propriamente il λογιστικόν (paed. 2, 9, 81.2) e la medesima situazione era stata espressa, in precedenza, dallo spostamento del λογιστικόν dalla testa agli «intestini» (paed. 2, 2, 34.1). Così facendo, Clemente si inserisce tra quegli autori, come Alcinoo105 e il suo discepolo Galeno106, per cui è fondamentale la corrispondenza tra tripartizione dell’anima e organi del corpo107, in accordo con Ti. 69 c – 71 c. La sola, grande differenza è che la trasformazione (operata da ra sapienziale giudaica (p. 70) e non di Filone; b) a partire da questo contesto giudaico, il timore diventa mezzo che guida alle virtù più alte: senza timore non è possibile raggiungere la gnosi o l’agape; c) da un’analisi del resoconto clementino nel Pedagogo si ottiene che, per Clemente, riverenza e timore sono due lati dello stesso fenomeno (p. 72): cioè tutto dipende da Dio ed è sotto l’autorità del Signore buono. Da ciò segue che Clemente non considera il timore in termini stoici, cioè come passione dell’anima (p. 77), perché la letteratura sapienziale lo caratterizza come atteggiamento razionale (p. 77). Clemente attingerebbe alla letteratura sapienziale per cercare un’alternativa alla concezione basilidiana e valentiniana del timore: Basilide e Valentino, infatti, si atterrebbero a un orizzonte stoico. 104 Combinando l’attenzione di Clemente al tema dell’intervento del divino nel percorso personale delle scelte dell’uomo con i richiami all’ἀνάπαυσις escatologica, sembra che il φόβος e, più in generale, la psicologia di questa sezione del Pedagogo, risenta della sensibilità dimostrata da Clemente soprattutto negli ultimi due libri degli Stromati, come vedremo (per «ultimi due libri» si intende sempre str. 6 e 7: str. 8, infatti, è da considerarsi parallelo alla stesura degli altri libri). Ciò è tanto più probabile quanto più vera è l’ipotesi di una redazione dei tre libri del Pedagogo in prossimità della stesura o della redazione di str. 6 (cf. p. 41). 105 Cf. Dörrie 1987-, 6.1, pp. 349-351. 106 Cf. Dörrie 1987-, 6.1, pp. 358-359. 107 In generale cervello, cuore, fegato. Con la debita differenza che la parte irrazionale o insensibile dell’anima, per Clemente, non si trova nel fegato, bensì negli intestini.

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Alcinoo) del termine λογιστικόν in ἡγεμονικόν108, tranne alcune eccezioni, non sembra particolarmente recepita dal Pedagogo. La massiccia presenza negli Stromati, al contrario, dell’ἡγεμονικόν, lascia pertanto supporre che questi elementi psicologici confluiscano in un approccio forse poco tecnico nel Pedagogo ai temi dell’etica e della morale. È difficile pensare che l’assenza di certe “messe a fuoco” sia dovuta a interessi tematici differenti, dal momento che l’etica è al centro della riflessione del Pedagogo. È più facile ritenere, invece, che gli interlocutori di Clemente non siano gli gnostici poiché, come si vedrà nel corso dell’analisi, sarà proprio il confronto con gli gnostici a suscitare in Clemente la necessità di una trattazione specifica sul tema dell’anima. Ma si può dire di più. L’equivalenza tra gli «intestini» di paed. 2, 2, 34.1 e l’«insensibilità» di paed. 2, 9, 81.2 non è casuale. Essa si adatta a un contesto in cui i sensi non si oppongono come nemici alla dimensione psichica e immateriale, ma ne costituiscono una sorta di protezione. Questa dottrina trova una chiara formulazione soprattutto nell’opera di Filone. Ciò accade nella metafora dei sensi come δορυφόροι, espressa tra l’altro in un celebre passo di Leg. alleg.: «Dove è il re, là ci sono anche i guardiani (δορυφόροι), ma poiché i sensi (αἱ αἰσθήσεις), guardiani dell’intelletto (δορυφόροι τοῦ νοῦ), sono nella testa, allora qui ci sarà anche il re, come si trovasse ad abitare la rocca in una città»109. Ora, nonostante l’affinità di massima, l’espressione δορυφόροι αἰσθήσεις non compare mai nell’opera clementina, per cui è da escludersi che Clemente, in proposito, abbia attinto direttamente a Filone. Piuttosto, il testo di Clemente si presenta in accordo con un’altra tradizione. Vediamolo: Clem. paed. 2, 2, 34.1-2: a costoro la facoltà razionale (τὸ λογιστικόν) è installata non nella testa, bensì negli intestini, schiava di passioni, del desiderio e dell’ira. Come Elpenore «si ruppe gli astragali» (Od. 10, 560) cadendo per l’ubriachezza, così la loro testa, che era confusa per l’ubriachezza, precipitò, da sopra, nel fegato e nel cuore, cioè nella ricerca dei piaceri e nell’ira – fu una caduta più grande di quella che i poeti dicono che Zeus fece fare ad Efesto, precipitandolo giù dal cielo110.

Cf. Dörrie 1987-, 6.1, pp. 354-355. Ph. Leg. alleg. 3, 115: ὅπου ὁ βασιλεύς, ἐκεῖ καὶ οἱ δορυφόροι, δορυφόροι δὲ αἱ αἰσθήσεις τοῦ νοῦ περὶ κεφαλὴν οὖσαι, ὥστε καὶ ὁ βασιλεὺς εἴη ἂν ἐκεῖ, ὥσπερ ἄκραν ἐν πόλει λαχὼν οἰκεῖν. Su ciò, cf. Dörrie 1987-, 6.1, pp. 354-355. 110 Κἀν τούτοις τὸ λογιστικὸν ἵδρυται οὐκ ἐν τῇ κεφαλῇ, ἀλλ’ ἐν τοῖς ἐντοσθιδίοις, πάθεσιν ἐπιθυμίᾳ τε καὶ θυμῷ δεδουλωμένον. Ὥστε ὅτῳ τρόπῳ Ἐλπήνωρ ἀστραγάλων 108 109

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I. Introduzione 45

Innanzitutto bisogna escludere che su Clemente influisca il testo di Ti. 70 d (relativo al fegato e alla sua funzione divinatoria); di conseguenza vanno escluse anche le interpretazioni di tutti gli autori – come Alcinoo e Galeno – che se ne sono occupati: gli «intestini» non sono infatti la “regione intermedia” platonica «fra il diaframma e il confine dell’ombelico». Clemente stesso ne è consapevole nel momento in cui, elencando l’intestino tra gli organi di evacuazione, lo suppone in prossimità dei rispettivi canali (in paed. 2, 10, 87.1). D’altra parte le viscere – definite peraltro diversamente, come τὸ γεῖτον ἡπάτῳ – hanno tutt’altra funzione nel testo platonico di Ti. 72 c, dove sono descritte come una sorta di «spugna preparata e messa sempre pronta presso a uno specchio». In Clemente, da questo punto di vista, l’uso del termine «intestini» è decisamente meno tecnico, perché denota la sede non solo del desiderio, come ci si aspetterebbe dal momento che il fegato era generalmente inteso come organo in cui si trova la parte concupiscibile dell’anima, ma anche della “rabbia” e delle “passioni”. Il fegato, comunque, come si può vedere dalla pericope citata, compare finalmente anche nel Pedagogo, ma dopo la citazione omerica tratta da Od. 10, 560. Sembra di poter dunque concludere che l’accostamento non tecnico di «intestini» e «fegato» in paed. 2, 2, 34.1-2 possa essere così ricondotto a una ricezione, probabilmente, se non ingenua, comunque non tecnica, da parte di Clemente, di quegli ambienti intellettuali pagani presso cui si praticava già l’esegesi allegorica di Omero. Non è infatti un caso che anche autori come il mitografo Eraclito, alla stregua di posizioni di filosofi medioplatonici come Alcinoo o Filone di Alessandria, sostengano che i sensi abbiano una funzione protettiva nei confronti del λογικόν dell’anima. Ricercare la fonte di Clemente in questo tipo di ambienti filosofico-religiosi è un’operazione giustificata proprio dal fatto che egli utilizza elementi tratti dai racconti omerici per spiegare la dottrina platonica dell’anima nel Timeo, al fine di dimostrare il plagio di Platone da dottrine omeriche111. Ciò denota l’atteggiamento libero di Clemente nel maneggiare materiali psicologici ampiamente diffusi negli ambienti filosofici pagani e attesta quanto il

ἐάγη καταπεσὼν ὑπὸ μέθης, οὕτω τούτων ὁ ἐγκέφαλος ἄνωθεν ἰλιγγιάσας ὑπὸ μέθης ἐπὶ τὸ ἧπαρ καὶ τὴν καρδίαν, τουτέστιν ἐπὶ τὴν φιληδονίαν καὶ τὸν θυμόν, καταπίπτει πτῶμα μεῖζον ἤ φασι ποιητῶν παῖδες πρὸς τοῦ Διὸς τὸν Ἥφαιστον οὐρανόθεν ἐρρίφθαι χαμαί. 111 Sul tema cf. Buffière 1956, pp. 33-36, 45-48; in particolare, sullo ps. Eraclito cf. pp. 67-70 (con particolare riferimento a Clemente) e Pépin 1976, pp. 159-167; per quanto concerne Clemente, cf. pp. 265-275. Nello specifico, rimando a Dörrie 1987-, 2, § 54.4 e p. 387.

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milieu alessandrino, come spiega Osborn112, fosse intessuto dall’allegorismo filoniano, che fungeva un po’ da collante per la molteplicità dei pensieri di tutta la χώρα113. Passiamo dunque a un primo bilancio relativo al ruolo della dottrina dell’anima nel Pedagogo, posto comunque che, sui suoi contenuti, si tornerà a più riprese. Sin d’ora possiamo registrare che, similmente a quanto visto a proposito del Protrettico, i tratti caratteristici di tale dottrina permettono di conoscere qualcosa di più in merito alla struttura dell’opera. L’altra considerazione di ciò che lo studio della psicologia clementina permette di scorgere nel Pedagogo concerne invece il tipo di materiali che l’Alessandrino utilizza. Ciò deriva dalla centralità del tema dell’anima per gli autori della Tarda Antichità e apre pertanto nuove possibilità di riconoscere, con maggiore precisione, gli interlocutori di Clemente. I.2.3. L’anima negli Stromati Se lo studio della dottrina dell’anima per le altre due opere principali dell’Alessandrino permetteva di chiarire struttura e interlocutori di Clemente, lo stesso vale anche per gli Stromati. Il problema principale, a proposito del tema dell’anima, consiste nel chiarire se Clemente abbia progettato di scrivere un’opera che mettesse a tema la psicologia – una sorta di De anima/Περὶ ψυχῆς – oppure se abbia voluto rimandare a un secondo momento le delucidazioni relative all’anima senza pensare di organizzarle in modo sistematico114. Il punto è che negli Stromati Clemente di fatto accenna alla dottrina dell’anima incidentalmente, mentre sta trattando altre questioni e interagisce con i suoi oppositori, gli gnostici. L’Alessandrino, insomma, pressato dalla Cf. Osborn 2005, pp. 101-102. Il termine è sempre debitore della definizione di Jähne 1981. 114 Il caso dell’anima non è isolato. Tra le promesse contenute negli Stromati, infatti, v’è quella di un ipotetico scritto Sui principi (str. 3, 13.1; 3, 21.2; 4, 2.1; 4, 16.3; 5, 140.3; 6, 4.2) o, come riporta il Quis dives salvetur, «Spiegazione intorno a principi e teologia» (q.d.s. 26, 8), di uno scritto Sulla profezia (str. 1, 158.1; 4, 2.2; 4, 93.1; 5, 88.4), di uno Sugli Angeli (str. 6, 32.1). Nel Pedagogo, invece, Clemente sembra promettere uno scritto Sulla resurrezione (paed. 1, 47.1; 2, 104.3. Stählin colloca questo De resurrectione nel progetto di prosecuzione degli Stromati, cf. Stählin 1936, pp. 4041), un γαμικὸς λόγος (paed. 3, 41.3) e un περὶ ἐγκρατείας (paed. 2, 94.1). Tutti questi titoli sono attribuiti a Clemente anche da altri autori (in testimonianze, comunque, che vanno sempre ponderate), mentre le menzioni di un probabile Περὶ ψυχῆς riguardano uno scritto non altrimenti attestato. Per approfondire, cf. Heussi 1902 e Pujiula 2006, pp. 56-69. 112 113

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I. Introduzione 47

polemica con i suoi avversari di sempre rimanda ripetutamente la discussione della psicologia a una futura ed eventuale occasione. Uno degli scopi della presente monografia è sciogliere questo nodo, cercando di capire se Clemente possa davvero aver ritenuto necessario scrivere una simile opera. Complessivamente la promessa di ritornare più avanti sulla dottrina dell’anima ricorre con costanza quattro volte nel corso degli Stromati, dal secondo libro al quinto. Nella prima occorrenza, in str. 2, 20, 112-113, Clemente polemizza con la psicologia basilidiana115 e, nello specifico, non accetta che le passioni siano «per essenza degli spiriti (πνεύματα) attaccatisi all’anima razionale per una sorta di confusa perturbazione archetipica (κατά τινα τάραχον καὶ σύγχυσιν ἀρχικήν)» (str. 2, 20, 112.1, per un’analisi di questa sezione cf. pp. 70-72). Si tratta della cosiddetta dottrina dell’«anima avventizia», che in realtà non è una prerogativa esclusivamente basilidiana, bensì una concezione più ampiamente diffusa nel giudeo-cristianesimo116. A tal proposito, afferma Clemente, i basilidiani «sostengono che le peculiarità (ἰδιώματα)» bestiali «ottengono rappresentazione nell’anima» e rendono i suoi «desideri del tutto simili agli animali» (str. 2, 20, 112.2)117. Vedremo (pp. 61-69) quanto importante sarà anche per Clemente il legame πνεῦμαἰδίωμα: non solo egli non lo metterà mai in discussione, ma, riprendendolo, farà semplicemente in modo che questo nesso poggi sulla responsabilità umana invece che su una «perturbazione archetipica». Per fare ciò l’idea della caduta protologica deve passare in secondo piano di fronte al tema della scelta e alla libertà dell’arbitrio. Se si considera la seconda promessa di un futuro approfondimento relativo all’anima (str. 3, 3, 13), interlocutrice di Clemente è la concezione marcionita della generazione118. Nel resoconto fornito dall’Alessandrino questa sembra implicare, di nuovo, il mito della caduta (καταγωγή, in questo caso) protologica dell’anima119 e quello della metemsomato115 Per un’introduzione a Basilide cf. DPAC, coll. 721-722. Sui problemi relativi alla comprensione clementina della psicologia basilidiana si veda, da ultimo, la messa a punto di Congourdeau 2007, p. 89 (cf. anche p. 247). 116 La diffusione della dottrina dell’anima avventizia in primissimi testi cristiani e in testi giudeo-cristiani fu sostenuta da Daniélou 1958, p. 88 e confermata più recentemente da Vigne 1992, pp. 300-308. 117 Nel Fedone Platone parla in modo simile per esprimere il legame delle anime ai corpi animali a seconda dei meriti ottenuti nelle vite precedenti (cf. Pl. Phd. 81 e – 82 b). 118 Per un’introduzione a Marcione e ai marcioniti, cf. DPAC coll. 3020-3024. 119 Clem. str. 3, 3, 13.2: κατάγουσι... ἐνταῦθα τὴν ψυχὴν. È bene precisare che è Clemente a legare la concezione marcionita della generazione all’idea della caduta sostenendo che i marcioniti ne sarebbero stati influenzati in quanto con-

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si, ossia l’idea che, dopo la morte, l’anima trasmigri in un altro corpo120. La metemsomatosi ritorna poi anche nella terza promessa (str. 4, 12, 85.3121), con la sola differenza, rispetto alla precedente, che ora gli interlocutori di Clemente sono gli stessi del primo passo, cioè i basilidiani. Se a questo punto passiamo all’analisi della quarta promessa, siamo in grado di scorgervi un’allusione alla maggior parte dei problemi comparsi, in ordine sparso, nelle tre precedenti. E ciò conferisce a questo testo un’importanza cruciale per il tema in esame. Clem. str. 5, 13, 88.2-3: ma mentre noi affermiamo che a chi ha fede si aggiunge l’ispirazione (προσεπιπνεῖσθαι) dello spirito santo, i platonici collocano l’intelletto nell’anima, in quanto effluvio (ἀπόρροια) di porzione divina (θεῖα μοῖρα), e l’anima nel corpo… Ma lo spirito non è in ciascuno di noi come parte (μέρος) di Dio. Come poi questa distribuzione (διανομή) avvenga, e anzi che cosa sia lo spirito santo, lo mostreremo negli scritti Sulla profezia e Sull’anima (ἐν τοῖς Περὶ προφητείας κἀν τοῖς Περὶ ψυχῆς)122.

Come prima cosa si possono notare i nodi tematici delle precedenti promesse. Clemente, in questo passo, esige innanzitutto che si rifletta sul concetto di spirito. Lo spirito è proprio il tema della prima promessa di una trattazione riguardante l’anima, esplicitata in str. 2, 20, 112-113. Qui l’Alessandrino aveva scorto la difficoltà della psicologia basilidiana, secondo la quale le passioni erano dette appendici e propriamente πνεύματα. A tal proposito si può ora vedere come la sua presa di posizione, in str. 5, 13, 88, sia netta: lo spirito santo si distribuisce (il termine greco utilizzato è διανομή) non per natura, in base a una superiorità ontologica – tale da supporre un’eventuale caduta per

dizionati da certi «filosofi». Cf. Héring 1923, pp. 28-34. Per la protologia marcionita cf. in generale Orbe 1987, pp. 158-160 e pp. 325-326. 120 Cf. str. 3, 3, 13.1-2: «Quanto ai filosofi citati, dai quali i marcioniti hanno appreso l’empia teoria secondo cui la generazione è male... 2. fanno cadere l’anima, che è divina, quaggiù nel mondo, come in un luogo di supplizio e, a parer loro, le anime introdotte nei corpi si devono purificare... Contro questi ci sarà da parlare in altra occasione, quando tratteremo dell’anima». Sulla matrice platonica di questa tesi, che Clemente attribuisce ai marcioniti, si veda Congourdeau 2007, p. 43, nota 33 (cf. anche p. 98). 121 «Quanto poi alla credenza della trasmigrazione dell’anima e sul diavolo se ne dirà a suo luogo». Cf. Congourdeau 2007, p. 99. 122 Ἀλλ’ ἡμεῖς μὲν τῷ πεπιστευκότι προσεπιπνεῖσθαι τὸ ἅγιον πνεῦμά φαμεν, οἳ δὲ ἀμφὶ τὸν Πλάτωνα νοῦν μὲν ἐν ψυχῇ θείας μοίρας ἀπόρροιαν ὑπάρχοντα, ψυχὴν δὲ ἐν σώματι κατοικίζουσιν… ἀλλ’ οὐχ ὡς μέρος θεοῦ ἐν ἑκάστῳ ἡμῶν τὸ πνεῦμα. ὅπως δὲ ἡ διανομὴ αὕτη καὶ ὅ τί ποτέ ἐστι τὸ ἅγιον πνεῦμα, ἐν τοῖς Περὶ προφητείας κἀν τοῖς Περὶ ψυχῆς ἐπιδειχθήσεται ἡμῖν.

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I. Introduzione 49

rendere ragione di chi è ontologicamente inferiore –, ma «a chi ha fede» e così l’Alessandrino sostituisce l’idea gnostica della caduta – da cui scaturiscono differenze di carattere ontologico tra gli uomini – con l’arbitrio e la libera accettazione della fede. Ma in secondo luogo c’è un interessante richiamo ad alcuni «platonici»123, che intenderebbero la presenza dell’intelletto nell’anima come «effluvio (ἀπόρροια)» divino. Ciò consente di connettere questo passo alla seconda e alla terza promessa, entrambe relative al problema del rapporto anima-corpo, un tema in merito al quale, secondo l’Alessandrino, i suoi avversari marcioniti o basilidiani avrebbero ereditato dottrine platoniche (str. 3, 3, 13.1). Quando Clemente utilizza il termine ἀπόρροια lo fa sempre con grande circospezione; di fatto se ne contano in tutto sette ricorrenze, delle quali solo 4 sono da intendersi in senso tecnico: cioè in prot. 6, 68.3, in exc. Thdot. 2.1-2, nel fr. 23 del De Providentia e in questo brano degli Stromati. In realtà il frammento 23 deve essere trattato con molta cautela, dal momento che non è semplice stabilire fino a che punto esso testimoni il pensiero di Clemente. È infatti Fozio a tramandarlo, attribuendo all’Alessandrino una forma di subordinazione intradivina tale per cui il Figlio è detto ἀπόρροια del Logos del Padre (cf. Sap 7, 25-26). Il punto è che una simile definizione rimane priva di ulteriore riscontro e probabilmente è frutto della mancata comprensione del passo da parte di Fozio o di un suo uso strumentale124. Infine, se anche si trattasse di un testo genuinamente clementino, in ogni caso bisognerebbe considerare che il termine ἀπόρροια del fr. 23 si inserisce in un contesto di argomento trinitario e non nella trattazione del tema della partecipazione dell’uomo a Dio, come è invece il caso di str. 5, 13, 88. Ciò detto, rimangono dunque il brano del Protrettico e quello degli Stromati ad attribuire il concetto di ἀπόρροια ora direttamente a Platone (nel Protrettico) e ora, negli Stromati, a certi «platonici». In questa cornice è decisiva la ricorrenza dell’ἀπόρροια negli Excerpta, i quali attestano come, per i valentiniani, il termine definisca la presenza del seme spirituale nell’anima, instillato nell’uomo psichico al momento della creazione: 123 Cf. in proposito le suggestioni offerte da Edwards 2000, pp. 171-177. Al contrario, cf. le ipotesi di Ziegert 1894, pp. 18-41. 124 Il testo del frammento (trasmesso da Phot. cod. 109, 89, su cui si veda, da ultimo, Ashwin-Siejkowski 2010, pp. 16-18) presenta molti problemi interpretativi. Cf. dapprima Casey 1924, pp. 46-47 e Knauber 1970. Per posizioni critiche sulla sua autenticità cf. Makschies 1993 p. 217 ed Edwards 2000 pp. 168-171; il frammento è invece genuinamente clementino per Jourdan 2010 pp. 142-152 e Plátová 2010 (per la quale è decisiva la scoperta di Di Benedetto 1983).

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Clem. exc. Thdot. 2.1: i valentiniani dicono che, dopo che è stato plasmato il corpo... è stato deposto dal Logos un seme maschile nell’anima eletta che era addormentata; questo seme, appunto, è effluvio (ἀπόρροια) dell’elemento angelico125.

La rilevanza della dottrina valentiniana rispetto a quella dei «platonici» di str. 5, 13, 88 è evidente: come per gli gnostici quella dell’effluvio è la modalità con cui l’elemento spirituale è presente nell’anima, così per i «platonici» clementini essa è la modalità con cui l’intelletto (νοῦς) è nell’anima. Intelletto che, secondo l’Alessandrino, tradurrebbe nel lessico dei filosofi la nozione di spirito santo. Da questo punto di vista, nemmeno il «Platone e i pitagorici» che in str. 3, 3, 13.1 (seconda promessa) avrebbero ispirato i marcioniti si discosterebbero dai valentiniani degli Excerpta: in entrambi i casi la psicologia che Clemente esige deve poter fare a meno tanto della caduta dei marcioniti quanto della protologia valentiniana, che in ultima analisi concepirebbe la partecipazione allo spirito santo nella modalità dell’ἀπόρροια. Di conseguenza, la dottrina della trasmigrazione delle anime che, in occasione della sua terza promessa di approfondimento relativo all’anima, Clemente attribuisce alla protologia marcionita e, nella quarta promessa, ai basilidiani, dovrebbe essere scalzata da una nuova versione della partecipazione allo spirito. In conclusione, dunque, proprio nell’accusa a questi indeterminati «platonici», la quarta promessa richiama le tre precedenti e consente di rileggerle tutte quante alla luce di un concetto che prima era – se non assente – soltanto implicito: la nozione di πνεῦμα. Inoltre si possono scorgere i possibili interlocutori della psicologia clementina: come preannunciato si tratta delle scuole valentiniane, marcionite e basilidiane, cristianesimi126 ampiamente diffusi in Alessandria127, riconducibili a quel contesto che Michel Tardieu ama definire «filosofia religiosa»128 e che altro non sono se non declinazioni del platonismo tradizionale, come tratteggiato molto prima da Festugière129. Ora, per finire, è opportuno capire che cosa il testo citato ci dica dello spirito o, in altri termini, bisogna chiedersi come una corretta 125 Οἱ δ’ἀπὸ Οὐαλεντίνου, πλασθέντος φασὶ τοῦ... σώματος... τῇ ψυχῇ οὔσῃ ἐν ὕπνῳ ἐντεθῆναι ὑπὸ τοῦ Λόγου σπέρμα ἀρρενικόν, ὅπερ ἐστὶν ἀπόρροια τοῦ ἀγγελικοῦ. 126 Per uno status quaestionis sul tema del carattere plurale del cristianesimo delle origini, cf. da ultimo Prinzivalli 2012. 127 Cf. Jakab 1998, pp. 139-143 e pp. 147-153; Jakab 2001, pp. 69-76 e pp. 86-89. 128 Cf. i saggi del volume Tardieu 1987. 129 Ιl riferimento è alla prospettiva di Festugière 1953, pp. 9-12.

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I. Introduzione 51

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interpretazione della presenza dello spirito nell’anima possa permettere a Clemente di superare le posizioni dei suoi interlocutori, che, come visto, finiscono tutte con l’arrestarsi all’idea di caduta. A Clemente interessano due cose: – lo πνεῦμα ἐν ἐκάστῳ: ciò significa che gli preme chiarire in che modo lo spirito santo si trovi in ciascun uomo; – evitare che tale presenza sia ottenuta utilizzando i concetti di «porzione» – μοῖρα – e di «parte» – μέρος –, cioè inducendo a pensare che lo «spirito» sia nell’uomo come una parte di Dio o una parte dell’uomo. Vedremo che questi due elementi diventeranno i quesiti fondamentali per la sua formulazione più completa del tema dell’anima.

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Passibilità divina. La dottrina dell’anima in clemente Alessandrino

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II. Anima e antropologia 53

CAPITOLO SECONDO

ANIMA E ANTROPOLOGIA

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Introduzione Iniziamo con lo studio dei contenuti specifici della dottrina clementina dell’anima. Dal momento che, come si è premesso, la psicologia è il criterio di verifica per il platonismo di un pensatore tardo-antico, lo scopo primario di uno studio sull’anima in Clemente Alessandrino non potrà che consistere in una riconsiderazione della sua filosofia. Per ora ci si occuperà della rilevanza della dottrina dell’anima per l’antropologia di Clemente, poi, nel prossimo capitolo cercheremo di chiarirne i nessi con la dottrina dei principi. Da ultimo, sempre nel terzo capitolo, si proverà a ricostruire il percorso entro cui il pensiero filosofico dell’Alessandrino matura, individuandone i principali interlocutori. Finora si è visto che, nella menzione più completa (ultima tra le promesse che si trovano dal secondo al quinto libro degli Stromati) di un futuro approfondimento relativo all’anima (str. 5, 13, 88), Clemente richiedeva una psicologia in grado di consentire una partecipazione del fedele allo spirito santo che avesse due caratteristiche fondamentali: 1. la presenza dello spirito santo «in ciascuno»; 2. ottenuta senza ricorrere all’idea di “parti”, cioè senza utilizzare i concetti di μοίραι, μόρια e μέρη. Soddisfare queste due esigenze, secondo Clemente, sarebbe bastato per fondare un modello di etica alternativo alle ontologie dei suoi interlocutori gnostici, per i quali le differenze reciproche tra individui dipendevano da fattori ontologici, di natura, e non da libero arbitrio e responsabilità umana. Secondo l’antropologia gnostica, esistono uomini migliori o peggiori in virtù della loro sola nascita, destinati da sempre a un determinato grado di beatitudine escatologica o di dannazione; nessun merito o demerito, dunque, ma solo conformazione ontologica. Questo Clemente non lo poteva accettare. Nel presente capitolo si vedrà come entrambe le esigenze di str. 5, 13, 88 siano pienamente soddisfatte dal sesto stromate e dall’idea di

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Passibilità divina

anima e di uomo ivi elaborata. Si cercherà inoltre di comprendere in che modo e misura l’antropologia dell’Alessandrino si collochi nel contesto filosofico a lui contemporaneo: quali siano le sue possibili fonti e quali i problemi discussi nel milieu alessandrino ad avere echi in Clemente. Infine, verrà fatto cenno alle premesse teologiche e metafisiche che sono sottese alla concezione clementina dell’anima, in precedenza affrontata sul piano antropologico.

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II.1. Tὸ πνευ�μα ε�ν ε�κάστῳ Una delle due esigenze manifestate da Clemente in str. 5, 13, 88 riguarda la formulazione di un concetto di partecipazione allo spirito santo che tenga conto delle peculiarità di ciascuno: τὸ πνεῦμα ἐν ἐκάστῳ ἡμῶν. Si tratta di un problema importante per il suo pensiero e che, più in generale, rientra nell’attenzione della filosofia tardo-antica al tema dell’anima. Clemente formula due proposte: la prima è ottenuta mediante l’esegesi di Rm 11, 17-24, ossia la metafora dell’innesto in Cristo-ulivo buono; la seconda mediante la metafora del mordente. Entrambe le soluzioni richiamano un’antropologia che si costruisce su un’idea ben precisa di anima. Per comprenderla è bene partire innanzitutto dalle due forme con cui Clemente cerca di rendere ragione del τὸ πνεῦμα ἐν ἐκάστῳ ἡμῶν (II.1.1. e II.1.2.); poi vedremo come entrambe rientrino nel suo modo d’intendere il principium individuationis (II.1.3.) e soltanto alla fine sarà possibile scorgere il contesto antropologico in cui si inserisce la riflessione di Clemente (II.2.). II.1.1. Rm 11, 17-24: l’innesto nell’ulivo buono L’esegesi clementina di Rm 11, 17-24 è importante per rilevare la specificità della sua argomentazione e dei suoi possibili interlocutori. Il passo è notevole innanzitutto perché citato sin dall’inizio di str. 6, e dunque occupa un posto di rilievo. Per comprenderlo è utile aprire una piccola parentesi sullo stile di composizione degli Stromati, perché ciò costituisce un ambito di ricerca ancora aperto: in merito alla struttura logica e argomentativa degli Stromati, infatti, dopo lo sforzo di André Méhat non si è proposto nulla di altrettanto sistematico e completo. In ogni caso da più parti tende ormai ad affermarsi l’idea che gli scritti di Clemente abbiano una struttura letteraria riconoscibi-

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II. Anima e antropologia 55

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le1. Di fatto, allo stato attuale, non si può negare nemmeno a quest’opera, pure così rapsodica, una certa strutturazione argomentativa2. Se è vero infatti che dal punto di vista letterario gli Stromati rientrano in un genere piuttosto diffuso all’epoca3, le linee più recenti della ricerca attribuiscono loro un tratto peculiare: un’impalcatura logica sottostante. Gli Stromati per Clemente veicolerebbero un’argomentazione strutturata, dotata di proprie premesse e conclusioni4. Da ciò emerge 1 Cf. dapprima Méhat 1966. Dopo Méhat è Roberts a scorgere la necessità di non allontanarsi mai dalla struttura letteraria della singola opera clementina in analisi (cf. Roberts 1981; per l’importanza del contributo di Roberts, cf. Rizzi 1998); infine Marco Rizzi individua una logica argomentativa coerente che sorregge tutti gli Stromati, cf. Rizzi 2006a. 2 L’opera di Clemente presenta difficoltà che ancora non hanno trovato soluzione. Tutto si riconduce al cosiddetto «problema letterario degli Stromati», sollevato da Eugène de Faye nel 1898 – de Faye 1906 – che propose la struttura tripartita della produzione letteraria di Clemente. Analogamente Lazzati (Lazzati 1939), il quale applicò a Clemente la stessa categorizzazione delle opere ritenuta valida per Aristotele e pensò che gli Stromati fossero stati un’opera rivolta a un pubblico piuttosto allargato (essoterica), supponendo che vi fosse alle spalle un’altra opera, il cosiddetto Didascalo, di natura “esoterica” e di carattere dottrinale (per una nuova proposta sull’esoterismo clementino cf. Itter 2009). Tra le interpretazioni alternative alla trilogia, è opportuno rimandare alla lettura di Bousset 19152, sulla base di un importante articolo di Collomp (Collomp 1913). Per un’interpretazione solo parzialmente “trilogistica”, cf. Johannes Munck (Munck 1933), smentito in modo definitivo più recentemente da Laura Rizzerio (Rizzerio 1996). Infine André Méhat (Méhat 1966) sostenne che si potesse leggere negli Stromati un percorso unitario, che egli definì «metafisica della carità», scandito attraverso ciascuna sottosezione di cui l’opera è composta. Probabilmente la visione di Méhat ha tuttavia un limite: ritenere che sia sempre possibile categorizzare i pensatori della Tarda Antichità (cioè distinguere nettamente filosofi di scuola puramente e genuinamente stoica, platonica o aristotelica). Accanto a tutti questi autori vale la pena di citare i contributi di Christian Oeyen (Oeyen 1963 e Oeyen1966), che, nel riadattamento di Bogdan Bucur (cf. Bucur 2006), tendono a confermare la natura non strutturata in forma letteraria di scritti trasmessici dalla tradizione manoscritta con i nomi di Excerpta ex Theodoto, Adumbrationes, Eclogae Propheticae. 3 È per esempio il caso delle Noctes Atticae di Aulo Gellio. 4 Così Rizzi 2006a, pp. 21-22. Questa proposta, che conferma quanto soltanto ipotizzato da Henry Chadwick – Chadwick 1954, p. 17 – e da Johannes Quasten – Quasten 1953, p. 14 – ha il merito di recuperare l’intuizione di Wilhelm Ernst (cf. Ernst 1910), che aveva intravisto alcune possibili continuità tra str. 8 e porzioni testuali contenute nei libri precedenti (per il cui commento si veda Nautin 1976, pp. 273-282 – cf. in particolare, pp. 281-282), senza basarsi su affinità meramente testuali, come invece fu il caso di Ernst. La tesi della continuità tematica tra str. 8 e altre parti dell’opera di Clemente è anche proposta, in una diversa direzione rispetto a quella della linea Chadwick-Rizzi, da Pierre Nautin che rintraccia delle affinità con altri scritti attribuiti all’Alessandrino. La posizione di Nautin è stata di recente ribadita da Marcelo Merino, il quale, sulla base delle testimonianze di Eusebio e Acacio di Cesarea, sostiene che quanto il codice Laurentianus tramanda sotto la denominazione di “ottavo stromate”, più gli exc. Thdot. e le ecl., costituisce materiale appartenuto

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il profilo di un intellettuale complesso, che raccoglie materiali eterogenei a seconda dei problemi contingenti da risolvere e che è in grado poi di rimodellarli e riplasmarli in una forma speculativa5. Alla luce di ciò, gli incipit dell’opera intera o dei suoi singoli libri forniscono indicazioni preziose sulle modalità con cui Clemente intende impostare i contenuti che poi articolerà. Ad esempio, l’esordio degli Stromati, in cui utilizza la formula retorica delle annotazioni per la vecchiaia (str. 1, 1, 11), fornisce un’idea della natura rapsodica dello svolgimento delle discussioni e lascia tuttavia intravedere un’organizzazione logica dei contenuti, sebbene non del tutto inquadrabile nei canoni retorici6. Nel nostro caso, allora, la citazione di un passo scritturistico nel momento in cui Clemente sta spiegando i contenuti generali del libro, conferisce alla pericope riportata una posizione davvero di rilievo attribuendole una funzione programmatica. Ma Rm 11, 17-24 non è importante soltanto per quanto concerne il piano generale del sesto stromate; oltre ad avere un ruolo nella struttura dell’argomentazione clementina, infatti, ci consente anche di coglierne gli interlocutori. La metafora dell’innesto in Cristo-«ulivo buono», cui si riferisce la pericope paolina, è usata anche dai valentiniani noti a Clemente, come egli stesso attesta in exc. Thdot. 56. Di più, si può dire che l’interpretazione dell’Alessandrino si costruisce in un implicito richiamo alla corrispettiva dottrina valentiniana, nel senoriginariamente all’ultimo libro degli Stromati. L’indagine di Merino, pur partendo da presupposti interessanti, necessita però di essere approfondita sul piano della strutturazione dei temi degli Stromati (cf. Merino 2005, p. 24). Più convincente, invece, è il resoconto di Rizzi 2000, da cui dipende poi la sua tesi in merito a str. 8. Per un ragguaglio completo di tutte le posizioni, cf. Merino 2005, pp. 17-22. Ad esse si aggiunga soltanto l’articolo di Servino 2001 e Havrda 2011. 5 In questa prospettiva, forse anche l’idea della trilogia può essere parzialmente ripresa. In fondo, scritti come il Protrettico e il Pedagogo sono in perfetto accordo col progetto letterario di paed. 1, 1 e supporre che Clemente avesse avuto in mente una trilogia non significa poi ritenere che tale fosse il progetto da cui la sua intera attività si sarebbe fatta guidare. Anzi, l’idea di un duplice interesse lascia immaginare, per l’Alessandrino, aspirazioni intellettuali che lo portano a risistemare il materiale raccolto, di volta in volta, a seconda dei fini che si propone. Non si tratta di proiettare su Clemente un dualismo di scritti esoterici ed essoterici, ma di pensare, per tutta la sua opera, a un’unica matrice, da cui poi l’Alessandrino avrebbe preso e rimaneggiato. Scritti come il Protrettico e il Pedagogo, o come il Quis dives salvetur, conterranno un nucleo dottrinale ridotto, mentre gli Stromati saranno più prossimi a questo ipotetico “prototipo”, alternando momenti speculativi ad ampi spazi polemici, educativi o “didascalici”. In una simile cornice allora, il tema dell’anima risulta importante per un’altra ragione ancora: perché permette di mediare tra intenti educativi o etici e speculazione. 6 Clemente, nello specifico, afferma di volere fornire «un’immagine e un chiaroscuro» delle parole «luminose e vive» di chi appartenne alla tradizione apostolica (cf. Clem. str. 1, 1, 11.1-3).

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so che Clemente si oppone ai valentiniani sviluppando alcune loro posizioni e ridimensionandone altre. Confrontiamo i due brani in questione partendo da quello del sesto stromate: Clem. str. 6, 15, 119-120: ora, l’innesto, a quanto dicono, si pratica in quattro modi. Uno è quello per cui ciò che è innestato va inserito fra il legno del tronco e la corteccia – come ricevono il catechismo i pagani ignoranti accogliendo superficialmente la parola. Un altro modo è quello per cui s’inserisce in una spaccatura praticata nel tronco la marza fruttifera – e questo è il caso dei filosofi: quando in essi sono stati separati con un taglio i loro principi, si ingenera bisogno di conoscere la verità. Così pure nei giudei, dischiuso l’Antico Testamento, viene innestata la nuova e generosa pianta dell’ulivo. Il terzo tipo d’innesto riguarda le piante selvatiche, cioè gli eretici, che vanno trascinati con forza alla verità. Infatti raschiano entrambe le marze in forma di cuneo con un temperino affilato fino a mettere a nudo, senza però ulcerare, il midollo, poi le legano insieme. Quarto modo d’innesto, la così detta inoculazione. Si ritaglia da un ramo fecondo un occhio, circoncidendo con esso anche la corteccia per l’ampiezza di un palmo, poi si erade il selvatico di una uguale porzione attorno a un occhio e lì si applica l’occhio , lo si lega con spago e lo si spalma di argilla, avendo cura che non resti ferito o imbrattato. Questo rappresenta il tipo dell’insegnamento gnostico, capace di distinguere la realtà. Utilissimo per altro questo tipo anche per gli alberi coltivati. L’innesto di cui parla l’apostolo può dunque farsi sull’ulivo buono (Rm 11, 17-24), cioè sul Cristo stesso: la natura selvaggia e incredula è trapiantata in Cristo, cioè nella natura di quelli che in Cristo credono7.

Clemente classifica gli uomini in quattro categorie: lo gnostico (“vero”), l’eretico, il giudeo e il filosofo – posti sul medesimo piano – e 7 Φασὶ δ’οὖν γίνεσθαι τὸν ἐγκεντρισμὸν κατὰ τρόπους τέσσαρας. Ἕνα μὲν καθ’ ὃν μεταξὺ τοῦ ξύλου καὶ τοῦ φλοιοῦ ἐναρμόζειν δεῖ τὸ ἐγκεντριζόμενον, ὡς κατηχοῦνται οἱ ἐξ ἐθνῶν ἰδιῶται ἐξ ἐπιπολῆς δεχόμενοι τὸν λόγον. Θάτερον δὲ ὅταν τὸ ξύλον σχίσαντες εἰς αὐτὸ ἐμβάλωσι τὸ εὐγενὲς φυτόν, ὃ συμβαίνει ἐπὶ τῶν φιλοσοφησάντων· διατμηθέντων γὰρ αὐτοῖς τῶν δογμάτων ἡ ἐπίγνωσις τῆς ἀληθείας ἐγγίνεται· ὣς δὲ καὶ Ἰουδαίοις διοιχθείσης τῆς παλαιᾶς γραφῆς τὸ νέον καὶ εὐγενὲς ἐγκεντρίζεται τῆς ἐλαίας φυτόν. Ὁ τρίτος δὲ ἐγκεντρισμὸς τῶν ἀγριάδων καὶ τῶν αἱρετικῶν ἅπτεται τῶν μετὰ βίας εἰς τὴν ἀλήθειαν μεταγομένων· ἀποξύσαντες γὰρ ἑκάτερον ἐπίσφηνον ὀξεῖ δρεπάνῳ μέχρι τοῦ τὴν ἐντεριώνην γυμνῶσαι μέν, μὴ ἑλκῶσαι δέ, δεσμεύουσι πρὸς ἄλληλα. Τέταρτος δέ ἐστιν ἐγκεντρισμοῦ τρόπος ὁ λεγόμενος ἐνοφθαλμισμός· περιαιρεῖται γὰρ ἀπὸ εὐγενοῦς στελέχους ὀφθαλμός, συμπεριγραφομένου αὐτῷ καὶ τοῦ φλοιοῦ κύκλῳ ὅσον παλαιστιαῖον μῆκος, εἶτα ἐναποξύεται τὸ στέλεχος κατ’ ὀφθαλμὸν ἴσον τῇ περιγραφῇ. καὶ οὕτως ἐντίθεται περισχοινιζόμενον καὶ περιχριόμενον πηλῷ, τηρουμένου τοῦ ὀφθαλμοῦ ἀπαθοῦς καὶ ἀμολύντου. Εἶδος τοῦτο γνωστικῆς διδασκαλίας, διαθρεῖν τὰ πράγματα δυναμένης, ἀμέλει καὶ ἐπὶ ἡμέρων δένδρων τοῦτο

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Passibilità divina

«i pagani ignoranti». Il tratto distintivo della lettura clementina sta però nel fatto che ciascuna di queste quattro tipologie di uomini è rappresentata da un tipo di innesto. Ciò significa che Clemente, per quanto mostri maggiore propensione per la quarta modalità d’innesto, cioè la gnosi, in realtà non intende porre le quattro tipologie d’innesto su una vera e propria scala gerarchica. Anzi, conclude il ragionamento constatando che, in tutti e quattro i casi, il risultato è sempre lo stesso, come si legge alla fine della pericope, perché «la natura selvaggia e incredula è trapiantata in Cristo, cioè nella natura di quelli che in Cristo credono». La differenza tra le quattro categorie di uomini perciò non riguarda i modi dell’innesto, ma il passaggio dalla condizione di increduli o non-credenti (ἄπιστοι) a quella di credenti (πιστοί): sono soltanto la πίστις e la libera scelta a determinare un mutamento nella φύσις. Se ora si confronta la spiegazione di Clemente con l’esegesi valentiniana del medesimo passo paolino ci si rende conto che proprio questo è il tratto originale dell’Alessandrino rispetto ai valentiniani degli Excerpta: Clem. exc. Thdot. 56.2-57.1: molti sono gli ilici, non molti gli psichici, rari i pneumatici. 3. Ciò che è pneumatico è salvato per natura; lo psichico, invece, avendo libero arbitrio, ha idoneità sia alla fede e all’incorruttibilità che all’infedeltà e alla corruzione, secondo la propria scelta; l’ilico è per natura perduto. 4. Quando dunque gli elementi psichici siano stati innestati nell’ulivo buono (Rm 11, 24) per la fede e l’incorruttibilità e partecipano della grassezza dell’oliva (Rm 11, 17) e quando «siano entrate le nazioni» (cf. Rm 11, 25), allora appunto in questo modo l’intero Israele sarà salvato (Rm 11, 26). 5. Israele significa allegoricamente l’uomo pneumatico, colui che ha visto Dio, vero figlio del fedele Abramo, colui che viene dalla libera (Gal 4, 23), non quello secondo la carne, che proviene dalla schiava egizia (cf. Gen 16, 1). 57.1 Si produce dunque, da questi tre generi, dall’uno la formazione (μόρφωσις) dello spirituale dall’altro il passaggio dello psichico dalla schiavitù alla libertà8.

Ai valentiniani, come si può notare, Rm 11, 17-24 serve per giustificare due ordini di salvezza, subordinati l’uno all’altro e corrispondenμάλιστα χρησιμεύει τὸ εἶδος. Δύναται δὲ ὁ ὑπὸ τοῦ ἀποστόλου λεγόμενος ἐγκεντρισμὸς «εἰς τὴν καλλιέλαιον» (Rm 11, 17-24) γίγνεσθαι, , τῆς ἀνημέρου καὶ ἀπίστου φύσεως καταφυτευομένης εἰς Χριστόν, τουτέστι τῶν εἰς Χριστὸν πιστευόντων. 8 Πολλοὶ μὲν οἱ ὑλικοί, οὐ πολλοὶ δὲ οἱ ψυχικοί· σπάνιοι δὲ οἱ πνευματικοί. 3. Τὸ μὲν οὖν πνευματικὸν φύσει σῳζόμενον· τὸ δὲ ψυχικόν, αὐτεξούσιον ὄν, ἐπιτηδειότητα ἔχει πρός τε πίστιν καὶ ἀφθαρσίαν, καὶ πρὸς ἀπιστίαν καὶ φθοράν, κατὰ τὴν οἰκείαν αἵρεσιν· τὸ δὲ

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II. Anima e antropologia 59

ti a due nature ontologicamente differenti: la formazione dello spirituale, cioè della natura pneumatica – che è già parte dell’«ulivo buono» – e l’«innesto» degli psichici, i quali vengono a far parte dell’ulivo in seguito a libera scelta e ai quali spetta una condizione di «libertà dalla schiavitù». Se considerata da una prospettiva squisitamente esegetica, allora, l’interpretazione clementina di Rm 11, 17-24, che serve all’Alessandrino per distinguere gnostici “veri” da “filosofi”-“giudei”, “eretici” e «pagani ignoranti» si colloca sulla stessa linea della differenza valentiniana tra “pneumatici”, “psichici” e “ilici”. Tanto per Clemente quanto per i valentiniani, infatti, la pericope paolina è la base testuale che serve a distinguere tra diverse categorie di uomini. Vanno tuttavia notate due prese di distanza. La prima, è che nemmeno la condizione dello “gnostico” è esente da libera scelta – corrispondente alla metafora, che è anche valentiniana, dell’innesto. Una diretta conseguenza di ciò è che Clemente non rigetta tutta l’esegesi valentiniana, ma sposta semplicemente l’attenzione dallo spirito alla centralità dell’arbitrio. Se cioè i valentiniani spiegano le differenze tra gli uomini sulla base della connaturalità con la sostanza spirituale o con quella ilica, Clemente lo fa sulla base della sola libera scelta. La specificità di ciascun individuo, per l’Alessandrino, non è un fatto di ontologia, ma di etica. Per i valentiniani al contrario l’etica era subordinata all’ontologia. Anche loro, come si vede dal testo riportato, contemplavano la possibilità della libera scelta, tuttavia non ne facevano una prerogativa universale di ciascuno, ma la vincolavano alla natura di uno solo dei tre generi umani da essi supposti, cioè quello psichico, libero di decidere se assimilare la propria natura alla sostanza spirituale o a quella materiale. Clemente dunque non fa che mutuare una riflessione valentiniana, che nell’orizzonte del pensiero gnostico era soltanto marginale e che lui rende invece centrale. La seconda presa di distanza consiste in questo, che, mentre per i valentiniani dalla differenza tra gli uomini consegue una differenza anche per quanto concerne il grado di fruizione della beatitudine escatologica, per Clemente la differenza tra uomini è utile soltanto per indicare ὑλικὸν φύσει ἀπόλλυται 4. Ὅταν οὖν τὰ ψυχικὰ «ἐγκεντρισθῇ τῇ καλλιελαίῳ» (Rm 11, 24) εἰς πίστιν καὶ ἀφθαρσίαν, καὶ μετάσχῃ «τῆς πιότητος τῆς ἐλαίας» (Rm 11, 17), καὶ ὅταν «εἰσέλθῃ τὰ ἔθνη» (cf. Rm 11, 25), τότε 5. «οὕτω πᾶς Ἰσραὴλ σωθήσεται» (Rm 11, 26). Ἰσραὴλ δὲ ἀλληγορεῖται ὁ πνευματικός, ὁ ὀψόμενος τὸν Θεόν, ὁ τοῦ πιστοῦ Ἀβραὰμ υἱὸς γνήσιος ὁ «ἐκ τῆς ἐλευθέρας» (Gal 4, 23), οὐχ ὁ «κατὰ σάρκα», ὁ ἐκ τῆς δούλης τῆς Αἰγυπτίας (cf. Gen 16, 1). 57.1. Γίνεται οὖν, ἐκ τῶν γενῶν τῶν τριῶν, τοῦ μὲν μόρφωσις τοῦ πνευματικοῦ, τοῦ δὲ μετάθεσις τοῦ ψυχικοῦ ἐκ δουλείας εἰς ἐλευθερίαν.

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la provenienza della propria fede. All’Alessandrino, in altri termini, preme mostrare che la conversione reca sempre la traccia di una storia personale e, una volta espressa la propria scelta di vita, non c’è nulla di ontologico che distingue gli individui tra loro. La rigidità della differenza valentiniana tra le nature viene sciolta da Clemente in una libera scelta, che lascia tracce della propria provenienza, ma senza supporre diversi gradi, nella condizione di fedeli, se non quelli dettati dalla necessità di un progresso che deve essere continuo. A partire di qui, appunto, lo gnostico è colui che è capace di «distinguere la realtà», ma non perché la distinzione della realtà sia preclusa agli altri. E ciò viene espresso con due sfumature. Innanzitutto nel senso che l’atto dell’innesto, di qualunque tipo esso sia, corrisponde a un trapianto della fede nell’anima. E il trapianto della fede nell’anima, afferma Clemente, in qualsiasi modo avvenga, è comunque la cosa migliore9. In secondo luogo perché, come si vede dalla pericope riportata, essere trapiantati nell’ulivo significa che la propria natura è trapiantata «nella natura di coloro che credono in Cristo». Ciò lascia immaginare che sia necessario non arrestare il percorso progressivo: un processo ininterrotto di conversione continua, che richiede a chi è più avanti di fungere da esempio per chi è più indietro in una sorta di correctio fraterna, piuttosto che la fissazione di diversi gradi di beatitudine ontologicamente distinti. Questo è il senso dello πνεῦμα ἐν ἑκάστῳ, che, benché non citato nella formula di str. 5, 13, 88, Clemente recupera negli Excerpta indirettamente, verso la fine della sua esegesi del passo paolino di Rm 11, 17-24: «Infatti lo spirito santo si trapianta (nell’anima) così e si diffonde in essa senza rimanere circoscritto all’individualità [= lett. alla “circoscrizione”, περιγραφή] di ciascuno»10. Clemente sembra dunque proporre una modalità di partecipazione allo spirito santo alternativa alla μόρφωσις valentiniana degli Excerpta ex Theodoto. I prossimi due paragrafi (II.1.2. e II.1.3.), approfondiranno questa dinamica, tuttavia è bene fissare fin d’ora che Clemente ha, come costante interlocutrice, la dottrina valentiniana delle nature. Nei suoi 9 Il testo di Clemente lo chiarifica subito dopo, cf. Clem. str. 6, 15, 120.1: ἄμεινον δὲ τὴν ἑκάστου πίστιν ἐν αὐτῇ ἐγκεντρίζεσθαι τῇ ψυχῇ (La cosa migliore è comunque che la fede di ciascuno sia trapiantata nell’anima stessa). 10 Si tratta dell’immediata prosecuzione del discorso, cf. Clem. str. 6, 15, 120.2: καὶ γὰρ τὸ ἅγιον πνεῦμα ταύτῃ πως μεταφυτεύεται διανενεμημένως κατὰ τὴν ἑκάστου περιγραφὴν ἀπεριγράφως. Per quanto implicito, il richiamo allo πνεῦμα ἐν ἑκάστῳ non può comunque essere negato. La conclusione della pericope sopra riportata, infatti, è: ἄμεινον δὲ τὴν ἑκάστου πίστιν ἐν αὐτῇ ἐγκεντρίζεσθαι τῇ ψυχῇ. καὶ γὰρ τὸ ἅγιον πνεῦμα ταύτῃ πως μεταφυτεύεται διανενεμημένον κατὰ τὴν ἑ κ ά σ τ ο υ περιγραφὴν ἀπεριγράφως. Di qui si può vedere che l’attenzione di Clemente non si discosta mai dal nesso ἕκαστος-ψυχή-πνεῦμα.

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confronti opera in due direzioni: centralizzazione del ruolo dello psichico e della sua caratteristica di libera scelta invece che di connaturalità ontologica con una certa sostanza; de-escatologizzazione dello spirito il cui statuto, da espressione del compimento dell’eschaton, diventa (oltre che la condizione) la traccia del percorso personale di ciascun individuo e delle sue scelte11. Alla luce di ciò, già l’esegesi di Rm 11, 17-24 permette di cogliere un possibile sviluppo del pensiero clementino: – Clemente prende le mosse da quei testi (cioè Rm 11, 17-24, ad esempio) che sono le fonti su cui si basa la dottrina avversaria; – ne recupera in parte l’esegesi e soprattutto la figura dello psichico; – sviluppa il suo pensiero rendendo centrale la libera scelta (già caratteristica dello psichico valentiniano), modificando la struttura dell’«uomo pneumatico» valentiniano con l’attenzione allo πνεῦμα ἐν ἑκάστῳ, per cui «spirito» non è tanto il sommo grado della beatitudine escatologica (che per i valentiniani era appunto prerogativa dei soli “spirituali”), ma ciò che attesta l’individualità di ciascuno; – dedica una parte significativa del sesto stromate all’elaborazione di questa alternativa alla dottrina etico-ontologica valentiniana. II.1.2. Il mordente e il colore Nel paragrafo precedente si è messa in luce una delle due strutture attraverso le quali Clemente, nel corso di str. 6, cerca di spiegare lo πνεῦμα ἐν ἑκάστῳ, espressione usata in str. 5, 13, 88 per indicare una modalità di partecipazione allo spirito santo. Clemente, si è detto, ne fornisce una prima esemplificazione interpretando Rm 11, 17-24, cioè la metafora dell’innesto in Cristo-ulivo buono. Se ora prendiamo in esame la seconda struttura emerge subito che se l’Alessandrino, in questo caso, non parla propriamente di spirito, di πνεῦμα, tuttavia, nel definire la giustizia come «proprietà caratteristica» dell’anima gnostica, mostra la medesima sensibilità impiegata nell’esegesi del passo paolino. E vedremo come ciò abbia a che fare, seppur indirettamente, con il concetto di spirito. Il brano che ci interessa si trova all’interno di un’ampia sezione del sesto stromate che mette a tema la figura dello gnostico e che possiamo circoscrivere tra str. 6, 9, 71 e 6, 16, 148, uno di quei luoghi in 11 Su ciò cf. Brontesi 1972, pp. 271-443, che intuì come operi la soteriologia clementina, dottrina di una salvezza che si adatta ai percorsi di ciascuno.

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cui Clemente cerca di definire una condizione di beatitudine escatologica realizzata già nel secolo presente, concetto su cui si farà ritorno tra breve.

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Clem. str. 6, 12, 103.5-6: il nostro ambidestro gnostico si rivela nella sua giustizia glorificato già da quando è quaggiù, come Mosè nel volto [dell’anima12], il che, abbiamo detto già prima, è particolarità (ἰδίωμα χαρακτηριστικόν) dell’anima giusta. Come infatti per la lana, la tintura preparata con un mordente, fissandosi, trasmette la proprietà e il mutamento di colore rispetto a dell’altra lana, così anche per l’anima il travaglio passa, ma resta il bello e, viceversa, il piacere va dileguandosi, ma l’aspetto vergognoso rimane impresso13.

Per cogliere una prima affinità di questo testo con quello in cui Clemente interpreta Rm 11, 17-24, di più esplicito interesse pneumatologico, se ne deve scorgere innanzitutto l’originalità rispetto alle fonti utilizzate. Clemente si sta richiamando a un’immagine nota alla retorica dell’epoca. La sua formulazione teorica più completa ci è tramandata dal testo dello ps. Aristotele Sui colori14, mentre una variante del tema in senso etico si trova in Quintiliano e in Musonio Rufo15. Il fatto che Clemente stia attingendo a un repertorio comune ci permette fin d’ora di collocare il nostro Alessandrino in un contesto tradizionale e di ipotizzarlo alla ricerca di soluzioni a problemi condivisi anche da altri suoi contemporanei. Ora, ciò che, nel rifarsi alla metafora del mordente, distingue l’interesse di Clemente rispetto a quello di Musonio o di Quintiliano, è il tentativo di individuare nella struttura dell’anima un ἰδίωμα χαρακτηριστικόν. A Musonio infatti importa per lo più il tema del permanere del bello dopo la fatica e della vergogna dopo il piacere16. Quintiliano invece recupera l’immagine della tintura della lana per esprimere l’impressione delle qualità morali dei genitori nell’animo vergine del loro bambino17. Ma nell’ἰδίωμα χαρακτηριστικόν c’è qualcoSecondo gli editori, possibile interpolazione. Τότε ὁ περιδέξιος ἡμῖν καὶ γνωστικὸς ἐν δικαιοσύνῃ ἀποκαλύπτεται, δεδοξασμένος ἤδη κἀνθένδε καθάπερ ὁ Μωυσῆς τὸ πρόσωπον [τῆς ψυχῆς], ὅπερ ἐν τοῖς πρόσθεν ἰδίωμα χαρακτηριστικὸν τῆς δικαίας εἰρήκαμεν ψυχῆς. Καθάπερ γὰρ τοῖς ἐρίοις ἡ στῦψις τῆς βαφῆς ἐμμείνασα τὴν ἰδιότητα καὶ παραλλαγὴν πρὸς τὰ λοιπὰ παρέχει ἔρια οὕτως κἀπὶ τῆς ψυχῆς ὁ μὲν πόνος παρῆλθεν, μένει δὲ τὸ καλόν, καὶ τὸ μὲν ἡδὺ καταλείπεται, ἀναμάσσεται δὲ τὸ αἰσχρόν. 14 Cf. ps. Arist. Col. 794 a 29-30. 15 Cf. Quint. inst. 1, 1.5 e per Musonio, cf. Gell. 16, 1.2. 16 Muson. fr. 51: Ἄν τι πράξῃς καλὸν μετὰ πόνου, ὁ μὲν πόνος οἴχεται, τὸ δὲ καλὸν μένει· ἄν τι ποιήσῃς αἰσχρὸν μετὰ ἡδονῆς, τὸ μὲν ἡδὺ οἴχεται, τὸ δὲ αἰσχρὸν μένει. 17 Quint. inst. 1, 1.5: ut sapor quo nova inbuas durat, nec lanarum colores quibus simplex ille candor mutuatus est elui possunt. 12 13

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sa di più di tutto questo, cioè il tentativo di rendere l’idea di un proprium, di un’unicità entro uno spettro di molte possibilità. Del resto ciò è implicito anche nel testo dello ps. Aristotele, il quale afferma: «I mordenti, nelle immersioni, creano una molteplicità di differenze e di combinazioni»18, mentre senza mordente la tinta può scorrere fuori dai pori della lana, con il rischio che il colore venga dilavato19. In altri termini, nella versione dello ps. Aristotele si può riconoscere lo stesso leitmotiv del colore che rimane dopo l’immersione della lana come nelle declinazioni moraleggianti di Clemente, Quintiliano e Musonio. Ma ci sono due elementi che avvicinano il testo pseudoaristotelico più alla versione clementina che a quella degli altri due autori che lo riprendono. Il primo è che solo lo ps. Aristotele e Clemente confrontano la lana colorata con mordente da quella colorata senza mordente. Il secondo è che, come lo ps. Aristotele è consapevole del fatto che il mordente, a seconda dello stringimento delle fibre di lana20, può causare «una molteplicità di differenze e di combinazioni», Clemente punta all’eccezionalità della lana dopo la colorazione. Componendo queste due differenze, allora, sembra che Clemente sia consapevole del fatto che l’immersione della lana nel colore possa avere come esiti un’ampia gamma di casi possibili che dipendono tutti dai caratteri specifici del singolo tipo di lana. Di conseguenza l’ἰδίωμα χαρακτηριστικόν, nel parallelismo con il testo pseudo-aristotelico, tende a identificare proprio una di queste – potenzialmente infinite – possibilità. Sembra di poter così concludere che dal testo di Clemente emerge il bisogno di qualcosa che definisca la specificità di ciascuna singola anima, acquisita nel corso di ogni sua scelta. L’anima, di fronte alla scelta, per l’Alessandrino si trova posta innanzi a un mutamento imminente. Il mutamento è uno stato transitorio, ma il comportamento dell’anima di fronte ad esso la contraddistingue, caratterizzandola in modo sempre più unico e irripetibile. Quest’anima e non un’altra, si trova in una condizione ben determinata, distinta da un altro altrettanto determinato stato, perché dinnanzi alla prova ha scelto tale atteggiamento, distinto da tal altro. La stessa prova, in conseguenza del comportamento dell’anima, si caratterizza in un determinato modo piuttosto che in un altro a seconda di come l’hanno vissuta le singole anime. Nel caso in esame, pertanto, avremo un’anima d’aspetto vergognoso distinta da un’anima dai tratti

18 Ps. Arist. Col. 794 a 29-30: πολλὰς δὲ καὶ αἱ στύψεις ἐν τῇ βαφῇ ποιοῦσι διαφορὰς καὶ μίξεις. 19 Cf. ps. Arist. Col. 794 a 27-29. 20 Cf. ps. Arist. Col. 794 a 31-35.

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belli: per la prima, la prova ha dato come esito – fallimentare – l’abbandono al piacere, per la seconda invece essa è stata un travaglio verso il bello. Tuttavia Clemente non vuole soltanto distinguere le varie anime l’una dall’altra sulla base delle scelte di ciascuna. Questo è quanto cercherà di fare poco oltre, nel brano di str. 6, 15, in cui interpreterà la metafora dell’innesto in Cristo e di cui abbiamo trattato per mostrare l’intento di Clemente di distinguersi dall’interlocutore valentiniano cercando una soluzione originale. Ma ora egli si muove più “a monte”, utilizzando materiali di circolazione ben più vasta di quelli diffusi nei soli ambienti gnostici. Ed è con un simile linguaggio, universalmente comprensibile, che intende mettere a fuoco temi e problemi da immaginare fin d’ora come ampiamente diffusi (cf. II.1.3. e II.1.3.1.). Quello che il brano riportato ci permette di riconoscere è il tentativo, da parte dell’Alessandrino, di trovare un concetto che renda conto proprio delle differenze specifiche di ciascuna anima. È a questo proposito che Clemente parla di ἰδίωμα χαρακτηριστικόν. Ricostruendo il ragionamento di Clemente, pertanto, constatiamo innanzitutto che egli è preoccupato di rendere conto dell’individuazione e, sulla base di ciò, fonda il libero arbitrio come alternativa all’ontologia e all’antropologia gnostiche. Nel momento in cui sviluppa il libero arbitrio in chiave antivalentiniana, si è visto, il discorso sull’individuazione diventa un ragionamento sul concetto di spirito. Per il momento non troviamo alcun riferimento diretto alla pneumatologia, perché la sensibilità di Clemente per l’ἐν ἑκάστῳ sembra soddisfatta dall’impiego di un’immagine metaforica, cioè quella del mordente della tintura. L’interesse che l’Alessandrino mostra qui è collocabile comunque sulla stessa linea di quello manifestato a proposito dell’esegesi di Rm 11, 17-24 (str. 6, 15, 119-120), cioè intende rendere conto delle specificità di ciascuna anima. La sola differenza tra i due brani è che quando si avvale dell’esempio del mordente (in str. 6, 12, 103) Clemente non sembra avere un interlocutore specifico, utilizza fonti di ampia circolazione ed è meno tecnico, nel senso che invece di riflettere sul concetto di πνεῦμα si accontenta di una metafora. Ci sono tuttavia due elementi ulteriori che permettono di riportare la riflessione di Clemente sull’ἰδίωμα χαρακτηριστικόν al cuore stesso della sua pneumatologia e, conseguentemente, alla sua psicologia. Il primo è l’accenno alla possibilità di realizzare la beatitudine escatologica già su questa terra; il secondo consiste nel fatto che il suo ragionamento proseguirà in str. 6, 16 connettendo esplicitamente πνεῦμα e ἰδίωμα

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χαρακτηριστικόν. Ora, dato che Clemente, quando parla di ἰδίωμα χαρακτηριστικόν, intende spiegare la differenza specifica di ciascun individuo, se l’ἰδίωμα χαρακτηριστικόν si lega allo πνεῦμα, si riconosce un modello interpretativo analogo a quello dell’esegesi di Rm 11, 17-24. Infatti in str. 6, 15, 120 (cf. p. 60), l’Alessandrino aveva chiarito che «lo spirito santo si trapianta e in certo modo si diffonde» nell’anima «senza circoscriversi all’individualità di ciascuno». In altri termini, si può scorgere nell’ἰδίωμα χαρακτηριστικόν un’ulteriore modalità con cui il tema dello spirito serve a Clemente per spiegare l’individuazione. Per comprenderlo basti pensare alla collocazione della pericope citata tra i testi più caratteristici della pneumatologia del sesto stromate. Intendiamo parlare della svolta pneumatologica che assume la beatitudine di cui gode lo gnostico già qui e già ora. L’anticipazione dei tratti escatologici nello gnostico, infatti, è uno dei caratteri salienti delle riflessioni di str. 6 e 7 e, in precedenza, soltanto il martire (o lo gnostico in quanto descritto come martire) era stato connotato da simili elementi escatologici, in str. 4, 21, 130.5; 4, 25, 155.4 e, volendo, anche 4, 26, 169.121. A partire da str. 6, tuttavia, l’anticipazione presente della beatitudine escatologica ricorre con una frequenza molto maggiore (per la precisione in: 6, 9, 77.1; 6, 12, 103.5-6; 7, 10, 56-57; 7, 12, 74.9; 7, 12, 79.3; 7, 14, 86.7; 7, 16, 101.422). A ciò si accompagna una teorizzazione, 21 Ne riepiloghiamo per cenni i punti-chiave. str. 4, 21, 130.5 lascia intendere che al martire soltanto – e non allo gnostico – può essere attribuita perfezione già in questa vita: « se anche si comporterà rettamente... e perciò, con perfetta confessione diventerà martire per il suo amore..., ebbene neanche così giungerà ad essere chiamato perfetto, finché è ancora nella carne». str. 4, 25, 155 sembra attribuire indirettamente allo gnostico la possibilità di essere divinizzato già in questa vita, poiché qui Clemente sviluppa, contrapponendola ai «morti che seppelliscono i loro morti» di Mt 8, 22, una concezione di “vero gnostico” inteso platonicamente come uomo «divino» che «contempla il Dio invisibile» (analogamente e proseguendo questa sfumatura escatologica con cui viene tratteggiato lo gnostico, in str. 4, 26, 169.1 l’Alessandrino ne accosta l’anima al termine «cielo» di Is 1, 2). In realtà ciò avviene in un contesto di critica alla dottrina con la quale i basilidiani giustificavano il martirio, cioè come occasione per l’anima di espiare le colpe commesse in una vita precedente (cf. str. 4, 11-13). Su str. 4, 26, 169.1 cf. Hägg 2010, p. 172. 22 Str. 6, 9, 77.1: «Per l’amore già gli [= allo gnostico] è presente il futuro»; str. 6, 12, 103.5: lo gnostico «si rivela nella sua giustizia, glorificato già da questa terra»; str. 7, 10, 56-57: «La gnosi conduce a un fine che è senza limiti e perfetto, insegnandoci in anticipo lo stile di vita secondo Dio, che sarà nostro quando saremo tra dèi... Rapida via di purificazione è dunque la gnosi, e atta a provocare il ben gradito trapasso al grado superiore. Essa dunque traspone facilmente l’uomo in quella condizione divina e santa che è congenita all’anima e gli fa via via percorrere i gradi della mistica ascesa attraverso una luce sua propria, fino a instaurarlo nel luogo supremo del riposo» (si noti peraltro come qui Clemente si serva del modello escatologico delle purificazioni post mortem solo per dare un’idea concreta della beatitudine di cui gode lo gnostico già in questa

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coerente dal punto di vista argomentativo e di una certa consistenza in termini quantitativi, della nozione di “spiritualizzazione”, che in parte abbiamo già cominciato a vedere. Una delle sue peculiarità consiste proprio nel rimpiazzare quella che, fino a str. 4, era stata la figura escatologica predominante, cioè appunto quella del martire23. Il concetto di πνεῦμα, dunque, si colloca al centro della nuova escatologia24. Ciò non è un caso, e va anzi annoverato tra quegli esempi di “ellenismo cristiano” per i quali è bene aver sempre a mente il forte ruolo di Filone25. Ad ogni buon conto Clemente lega lo sviluppo di una vita); str. 7, 12, 76.7: «L’operaio gnostico... colui che soggioga “i desideri mondani” (Tt 2, 12) fin quando è ancora nella carne, delle cose future e tuttora impossibili a vedersi, di cui ha raggiunto la gnosi, è perfettamente persuaso, tanto da ritenerle presenti più di quelle che ha attualmente davanti a sé»; str. 7, 12, 79.3: « chiede di vivere la sua vita circoscritta nella carne, come gnostico, come se fosse senza carne e di ottenere il bene sommo»; str. 7, 14, 86.7: «A colui che è giunto a questo stato [= gnosi] avviene d’essere santo perché non cade più in nessun modo in alcuna passione, ma è diventato come senza carne ed è al di sopra di questa terra»; str. 7, 16, 101.4: «Colui che ubbidisce al Signore e segue fedelmente la profezia da Lui data, alla fine riesce a diventare, a immagine del maestro, un dio che s’aggira in un corpo». 23 L’importanza e la problematicità del carattere “anticipatorio” della dimensione gnostica e spirituale nei confronti dell’escatologia sono così rilevanti per il pensiero di Clemente che Schmöle, non particolarmente attento ai temi della psicologia di tradizione platonica, per spiegarlo fu costretto a impiegare una struttura concettuale che potremmo definire ad hoc, se considerata alla luce del contesto filosofico di cui comunque la dottrina escatologica fa parte (e che per primo avrebbe dovuto essere preso in esame trattando di escatologia), cioè lo schema morte-resurrezione, supponendo che Clemente avesse elaborato un valore spirituale della resurrezione (cf. Schmöle 1974). Al contrario, cf. Fernández-Ardanaz, 1990, pp. 129-135 e pp. 201-211. 24 Talvolta (ad esempio str. 6, 8, 68 e 6, 12, 103) Clemente pone lo gnostico all’apice di un progresso spirituale in cui la dimensione “pneumatica” è sinonimo di “intelligibile” (cf. 6, 8, 68.1 e 6, 12, 100.2) ed è esito di un graduale distacco da quella sensibile e carnale. I passi del settimo stromate sono invece da intendere come subordinati alla descrizione del progresso come processo di spiritualizzazione dell’anima (cf. 7, 11, 68), che si compie con l’ottenimento dello statuto di quanto Clemente definisce «Chiesa spirituale» (concetto tematizzato, proprio in termini di beatitudine dello gnostico, in 7, 11, 87-88). A margine di questo ragionamento è bene tenere presente fin d’ora che il fatto che la condizione escatologica si traduce nell’acquisizione di uno stato pneumatico che trasforma il modo stesso di intendere l’anticipazione della beatitudine finale di cui godrebbe lo gnostico già in questa vita. Nella misura in cui, infatti, l’anima è πνεῦμα già qui (come Clemente sembra affermare – vedremo – in str. 6, 16, 134-136) la sua perfezione ha meno bisogno di un compimento (altrettanto pneumatico) futuro. Si tornerà in ogni caso su questi temi più avanti, nel § III. 4. 1. 25 L’autore di riferimento per l’idea di “ellenismo cristiano” è Francis Dvornik (Dvornik 1966, pp. 279-284, 580-584) che, sviluppando le posizioni di Robertson 1901, sostenne che il favore dei cristiani nei confronti del potere imperiale consolidasse il sentimento dell’impero cristiano come realizzazione e presenza del regno di Dio nel secolo presente. Sulla scia di Dvornik si collocano anche le conclusioni di Brown 1995 (cf. pp. 222-227, per quanto concerne l’operato dell’imperatore) ed è utile anche un riferimento ad Agamben 2000 – cf. p. 72 –, interessato soprattutto alla percezione

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sua riflessione sulla pneumatologia proprio alla nozione di ἰδίωμα χαρακτηριστικόν. E questa mossa, nella sua argomentazione, diventa cruciale per mostrare il forte nesso ἰδίωμα χαρακτηριστικόν-πνεῦμα. Il testo di riferimento è quello di str. 6, 16, 134-136 ed è una sezione particolarmente importante sia per il pensiero di Clemente in generale sia in particolare per il nostro ragionamento. Per questo sarà oggetto di dettagliata analisi in un paragrafo successivo (cf. pp. 79-84); per il momento ci concentreremo soltanto su alcune affermazioni. Per contestualizzare la pericope va detto che Clemente sta cercando un’interpretazione allegorica dei dieci comandamenti e delle due tavole della legge e fornisce due possibili varianti, entrambe con una chiara connotazione antropologica. La decade, nello specifico, si può intendere in due modi, a seconda di come si ritenga essere il rapporto dell’anima con la generazione carnale26. A Clemente tuttavia non interessa trattare qui il problema dell’animazione dell’embrione e si accontenta di fornire due possibili spiegazioni, ciascuna delle quali possa chiarire il modo in cui «l’attività dell’uomo si compie» (6, 16, 135.1): Clem. str. 6, 16, 134.2; 135.2: c’è poi una decade in rapporto all’uomo stesso, costituita dai cinque sensi, la capacità di fonazione, la capacità generativa, quindi appunto come ottavo l’elemento spirituale infuso nella creazione, nono l’ἡγεμονικὸν dell’anima, decima la proprietà caratterizzante (χαρακτηριστικὸν ἰδίωμα) dello spirito santo che sopravviene mediante la fede… Ora noi affermiamo che ciò che è λογιστικὸν e ἡγεμονικὸν è, per l’essere vivente, la causa della sua costituzione, ma anche del fatto che la parte (μέρος) irrazionale è animata ed è porzione (μόριον) di quella costituzione27.

dei teologi cristiani del tempo. Lo sviluppo di questi temi che esamina più nel dettaglio le complesse dinamiche della Chiesa antica è offerto da Faivre 1992, pp. 295-327. Il patrologo di Strasburgo mostra: 1. che per comprendere il rapporto tra cristianesimo e potere è decisivo lo snodo II-III secolo e 2. che le affinità/divergenze tra teologia cristiana e ideologia politica imperiale in merito alla presenza del divino nella storia passano per lo sviluppo della pneumatologia, nella quale si riflette la tensione tra potere e carisma da una prospettiva concettuale e dottrinale. 26 Sia ora sia quando torneremo su quest’ampia pericope (nel paragrafo II.2.), non verrà commentato str. 6, 16, 135.1. Si rimanda a Rizzerio 1988, pp. 129-130 e Fernández 1990, pp. 129-149. 27 Clem. str. 6, 16, 134.2; 135.1-2: Ἔστι δὲ καὶ δεκάς τις περὶ τὸν ἄνθρωπον αὐτόν, τά τε αἰσθητήρια πέντε καὶ τὸ φωνητικὸν καὶ τὸ σπερματικὸν καὶ τοῦτο δὴ ὄγδοον τὸ κατὰ τὴν πλάσιν πνευματικόν, ἔνατον δὲ τὸ ἡγεμονικὸν τῆς ψυχῆς καὶ δέκατον τὸ διὰ τῆς πίστεως προσγινόμενον ἁγίου πνεύματος χαρακτηριστικὸν ἰδίωμα… τὸ λογιστικὸν τοίνυν καὶ

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La seconda parte della pericope riportata è rilevante perché consente di leggere l’intero brano in diretta continuità con str. 5, 13, 8828. A conclusione di str. 5, 13 (cf. p. 48) Clemente si era mostrato alla ricerca di una modalità di partecipazione allo spirito santo tale da non ridursi a esserne “parte” (μέρος) o “porzione” (μόριον o μοῖρα). A ben vedere, allora, il principio egemonico dell’anima, definito nei termini di str. 6, 16, 134-136, sembra soddisfare proprio quest’esigenza. Esso ha infatti un ruolo causante nei confronti dell’esser-parte o dell’esser-porzione dell’anima. Di conseguenza si colloca al di sopra della parte-μέρος o della porzione-μόριον. Se quindi è il principio-guida dell’anima ciò che entra in rapporto con lo spirito santo, noi sappiamo già che tale relazione non avverrà nella modalità dell’esser “parte” o della “porzione”, perché Clemente relega la dimensione della frazione (“parte” o “porzione”) al ruolo di componente inferiore dell’anima. Non c’era infatti bisogno di specificare che il τὸ ἄλογον era in realtà un τὸ ἄλογον μέρος, anzi, solitamente l’Alessandrino tende ad evitare il termine μέρος o sinonimi per esprimere la ripartizione dell’anima, prediligendo un aggettivo in funzione sostantivata29. Ma non ora, per l’appunto, mentre cioè, sostantivando soltanto τὸ λογιστικὸν καὶ ἡγεμονικόν, oppone un elemento razionale e di guida – vagamente definito – a una “parte” irrazionale. E che sia proprio il principio-guida o razionale a entrare in stretto rapporto con lo spirito santo, lo si deduce dalla prosecuzione del brano, quando Clemente afferma (str. 6, 16, 135.4): «L’ἡγεμονικόν possiede la libera facoltà di scelta... Tutte le facoltà sono coordinate da quest’unico principio ἡγεμονικόν e per esso l’uomo vive e vive in questo o quel modo». Ora, si è detto che il concetto di ἰδίωμα χαρακτηριστικόν rappresenta ἡγεμονικὸν αἴτιον εἶναί φαμεν τῆς συστάσεως τῷ ζῴῳ, ἀλλὰ καὶ τοῦ τὸ ἄλογον μέρος ἐψυχῶσθαί τε καὶ μόριον αὐτῆς εἶναι. A margine e per anticipare quanto si dirà in IV.4., può essere utile notare in questa sede come Clemente, distinguendo tra un elemento πνευματικόν che è τὸ κατὰ τὴν πλάσιν ed uno che si ottiene mediante la fede, τὸ διὰ τῆς πίστεως προσγινόμενον ἁγίου πνεύματος χαρακτηριστικὸν ἰδίωμα, sembri alludere alle due creazioni, quella secondo l’immagine di Dio e quella secondo la somiglianza, di cui parla anche Gen 1, 26-27. Se anche così fosse, in ogni caso, si noti come di fatto non compaia né il termine εἰκών né ὁμοίωσις, bensì sia preponderante l’elemento dell’insufflazione dello spirito divino secondo il racconto di Gen 2, 7. 28 Analogamente, anche Congourdeau 2007, p. 263. 29 Si pensi a tutte le ricorrenze di τὸ ἡγεμονικόν, o ancora, in merito alla “parte” irrazionale dell’anima, a str. 2, 14, 61.2 (πάθος ἐστὶ ψυχῆς ἄλογον); oppure, per altre funzioni dell’anima, cf. ad esempio str. 5, 1, 11.4 (τὸ μὲν διορατικὸν τῆς ψυχῆς). Caso limite è forse quello di Paid. 3, 1, 1.2, dove Clemente si sta riferendo a un’anima τριγενής e dunque con impliciti rimandi al sostantivo γένος. Tuttavia è significativo che, anche in questo caso, l’Alessandrino parli semplicemente di τὸ νοερόν, τὸ θυμικόν e di τὸ ἐπιθυμητικόν non permettendo di capire con certezza se, di volta in volta, si tratti di μέρη o di γένη.

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una delle due formulazioni clementine dell’idea di individuazione; qui si dice che l’ἡγεμονικόν decide del peculiare modo di vita di ciascuno; lo spirito santo viene espresso in str. 6, 16, 134.2 – e proprio in rapporto all’uomo – nella forma di ἰδίωμα χαρακτηριστικόν, per cui si può concludere che l’ἡγεμονικόν dell’anima sia l’elemento principale che le consente di relazionarsi allo spirito santo. Questo testo pertanto conferma l’esistenza di una seconda metafora, accanto a quella paolina dell’innesto nell’ulivo buono, con la quale Clemente esprime il concetto di individuazione: è l’immagine del mordente, che si concretizza nella nozione di ἰδίωμα χαρακτηριστικόν. Un concetto nuovo e un’immagine tratta dal repertorio dei moralisti tardo-antichi servono per introdurre all’interno di un dibattito tradizionale platonico la nozione di spirito, assolutamente marginale negli ambienti platonici e, nel caso di Clemente, almeno in parte di chiara matrice scritturistica. II.1.3. πνεῦμα e principium individuationis Finora si è visto come, sia in str. 6, 15, 119-120 che in 6, 16, 134-136, Clemente si dimostri in cerca di un concetto che possa rendere ragione della modalità con cui si caratterizza un individuo attraverso tutte le sue scelte. Si è anche visto il ruolo centrale che lo πνεῦμα ha nel coniugare libera scelta e individualità personale. Quest’ultimo concetto è reso dalla nozione di ἰδίωμα χαρακτηριστικόν e dalla metafora dell’innesto, che rivelano due tipi di interlocutori. Da un lato c’è il tentativo antivalentiniano di sviluppare una pneumatologia e un’ontologia fondate sul libero arbitrio, e in tal caso Clemente utilizza fonti scritturistiche (Rm 11, 17-24); dall’altro egli sembra avere aspirazioni più ampie del confronto con i soli valentiniani: si appropria di tematiche della retorica classica e interpreta le Scritture ricorrendo a conoscenze comunemente condivise. Ma ci sono poi due ulteriori elementi su cui è necessario riflettere e che concorrono a definire la natura “anfibia” dell’anima clementina30: il nesso tra la parte migliore dell’anima e il corpo; il rapporto tra unitarietà dell’anima razionale – nel senso di anima-idea e anima generale –31 e 30 Espressione plotiniana su cui si ritornerà tra breve, cf. Plot. 4, 8 7, 31-32; 7, 6-7. Per uno status quaestionis, cf. Zambon 2005, pp. 316-318, in particolare la nota 18, p. 317. 31 Con il termine anima razionale si intende non solo e non tanto la componente razionale dell’anima umana, intesa come parte di una singola anima. Si pensi piuttosto alla concezione dell’anima come μέση οὐσία, sostanza mediana. Dottrina elaborata dalla lettura medio-platonica di Ti. 35 a e 37 a (distinzione tra sostanza indivisibile e divisibi-

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molteplicità delle anime individuali. Per comprendere il problema del legame tra l’unitarietà dell’anima razionale e la molteplicità delle anime individuali in Clemente, è necessario riflettere prima di tutto sulla relazione dell’anima con la dimensione corporea. Il brano, appena visto, di str. 6, 16, 134-136 dice qualcosa di più su questo tema, rispetto alla metafora dell’innesto, in quanto, nel momento in cui lega l’ἡγεμονικόν – responsabile della scelta – alla «facoltà generativa» e ai «cinque sensi», connette arbitrio e dimensione individuale dell’uomo alla corporeità. D’altra parte questa era un’esigenza fondamentale per la psicologia clementina, che doveva competere con quella basilidiana dell’«anima avventizia». Già precedentemente (p. 47), infatti, si è accennato a come Clemente non potesse accettare la dottrina basilidiana dell’assunzione degli ἰδιώματα bestiali da parte dell’anima. Per «Basilide e seguaci», attesta Clemente, le passioni sono «appendici» (προσαρτήματα), cioè «spiriti attaccatisi all’anima razionale per una sorta di confusa perturbazione archetipica»32. A queste appendici se ne attaccherebbero in seguito altre, sempre di natura spirituale33, «come quelle del lupo, della scimmia, del leone, del caprone». Queste infonderebbero i loro ἰδιώματα nell’anima per mezzo di φαντασίαι, facendo sì che le proprietà di quegli animali sembrino desideri psichici (ἐπιθυμίαι τῆς ψυχῆς). Di conseguenza gli animali sarebbero, per questo tipo di anima, oggetto di imitazione «poiché si imitano le azioni degli esseri di cui ci si portano in sé le pele, quest’ultima posta in relazione con i corpi), essa consiste nello sviluppo della nozione di anima ivi espressa, dotata di due οὐσίαι, due sostanze: una ἀμέριστος, cioè indivisibile, e una μεριστή, cioè divisibile. La formulazione più netta si può reperire in Plutarco (in De an. 1012 e, 1014 d, 1022-1025 o in Sap. 163 d-e e in Fac. 943 a-b; 944 f-945 a, c-d), ma anche, prima, in Filone (Opif. 137) e poi in Porfirio (Sent. 5): per approfondire si rimanda a Dörrie 1987-, 6.1, pp. 201-217. Da questa dottrina verranno poi sviluppati alcuni elementi cruciali per la concezione plotiniana dell’anima, concorrendo all’elaborazione della risposta di Plotino alla teoria della discesa dell’anima nei corpi, formulata da alcuni suoi precursori platonici. Secondo Plotino (che, come vedremo, richiama in modo esplicito la concezione dell’anima come μέση οὐσία), se la parte razionale dell’anima rimane sempre nella trascendenza (cf. Plot. 4, 8, 8.2-3: οὐ πᾶσα οὐδ’ ἡ ἡμητέρα ψυχὴ ἔδυ, ἀλλ’ ἔστι τι αὐτῆς ἐν τῷ νοητῷ ἀεί cf. p. 75), allora si può supporre che soltanto la sua componente “irrazionale” discenda propriamente nei corpi. Tale opinione, in Plotino, presuppone che l’anima razionale sia atto di quella individuale, dottrina peraltro implicita nella psicologia di Clemente. Questa struttura concettuale è utilizzata da Clemente in senso ecclesiologico, cioè per parlare anche di una «Chiesa spirituale» in str. 7, 11, 68 (cf. p. 157). Con questa nozione va verosimilmente inteso sempre il modello cui ogni singola anima si conforma e che porta a compimento la sua funzione archetipica in una prospettiva escatologica: la Chiesa perfetta in cui troverà riposo ogni anima che si sia sforzata di accedervi (cf. p. 157 e, in generale, pp. 155-162). 32 Cf. Clem. str. 2, 20, 112.1: πνεύματά τινα ταῦτα... ὑπάρχειν προσηρτημένα τῇ λογικῇ ψυχῇ κατά τινα τάραχον καὶ σύγχυσιν ἀρχικὴν. 33 Cf. Clem. str. 2, 20, 112.1: ἄλλας τε αὖ πνευμάτων νόθους καὶ ἑτερογενεῖς φύσεις.

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culiarità (ἰδιώματα)»34. Pertanto, il tipo di anima che non avesse subito la perturbazione originaria, sarebbe stato assolutamente immune da ogni passione e viceversa soltanto l’anima dotata di appendici sarebbe stata passibile. Ora, già nella pericope di str. 6, 16 sopra riportata si può vedere come lo spirito santo, «sopravvenuto mediante la fede» (διὰ τῆς πίστεως προσγινόμενον), tenda a distinguersi dalle altre componenti dell’uomo, benché sia – in un certo senso – una di esse: è “parte” dell’uomo per Clemente nella misura in cui è esito di un percorso di scelte. Fondamento dell’uomo di Clemente è la facoltà di scelta, poiché, come si è visto, è in virtù dell’ἡγεμονικόν, cui spetta ogni scelta, che si vive «in questo o in quel modo»35. Pertanto si potrebbe ipotizzare per Clemente un ἡγεμονικόν chiamato a optare tra «spirito santo» e gli «spiriti malvagi», cioè si potrebbe supporre che Clemente stesse interloquendo con le posizioni basilidiane che egli stesso aveva citato. In realtà, anche se una contrapposizione esplicita in questo passo non c’è, si cercherà di mostrare che Clemente interagisce proprio con i basilidiani. Scorgere un Clemente in dialogo con i basilidiani significa sciogliere un nodo importante per l’argomento messo a tema da questo paragrafo. Secondo i basilidiani la natura dello spirito era centrale per il problema della percezione. Stando a str. 2, 20, 112.1, erano gli spiriti-appendice, infatti, a far sì che gli ἰδιώματα degli animali «fossero raffigurati»36 dall’anima umana come suoi desideri. Bisogna pertanto ritenere che la natura dello spirito operasse a livello di φαντασία, cioè della facoltà della rappresentazione, posta in una posizione intermedia tra i sensi e l’anima. Se quindi si potesse dimostrare un implicito confronto tra Clemente e i basilidiani su questi temi, emergerebbe anche la possibilità di attribuire allo πνεῦμα una posizione mediana tra anima e corpo. Partiamo dunque da questo dato: Clemente, pur concependo lo spirito santo come l’esito di un percorso costituito di scelte, di fatto non contrappone in modo esplicito uno spirito santo a degli «spiriti malvagi». Questa è indubbiamente una diversità irriducibile tra Clemente e i 34 Cf. Clem. str. 2, 20, 112.1: τὰ ἰδιώματα περὶ τὴν ψυχὴν φανταζόμενα τὰς ἐπιθυμίας τῆς ψυχῆς τοῖς ζῴοις ἐμφερῶς ἐξομοιοῦν· ὧν γὰρ ἰδιώματα φέρουσι, τούτων τὰ ἔργα μιμοῦνται. 35 La centralità dell’ἡγεμονικόν non si riduce soltanto a ciò. Si pensi per esempio alla sinonimia delle espressioni clementine «operato dell’ἡγεμονικόν» e «azione divina nell’anima» tra str. 4, 8, 63.5 e 4, 20, 127.2. 36 Clemente usa il verbo tecnico φαντάζω. Su ciò cf. Di Pasquale-Barbanti 1998; Rizzerio 2003; indicazioni interessanti anche in Tasinato 2004.

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basilidiani. Si può però fare anche un’altra considerazione che meglio aiuta a capire gli intenti dell’Alessandrino. Infatti, sebbene egli stia parlando soltanto dello spirito santo senza menzionare «spiriti malvagi», non bisogna intendere ciò come prova del fatto che Clemente non contemplasse l’ipotesi di un’alternativa di scelta rispetto all’opzionefede. Sarebbe inconcepibile per Clemente37. Bisogna invece ritenere che l’idea delle passioni-spiriti fosse un’immagine troppo legata alla psicologia basilidiana, un’inutile aggiunta rispetto al concetto di πάθος e priva di riscontro scritturistico, diversamente dalla nozione di spirito santo. Per Clemente il concetto basilidiano di φαντασία – l’Alessandrino parla specificamente di «immagine della passione» (εἰκών τοῦ πάθους, str. 2, 20, 111.4) – può essere definito senza bisogno che le si attribuisca una natura pneumatica. Non solo: gli spiriti-appendice archetipici non sono più la causa dell’assimilazione dell’uomo passionale a una bestia, perché l’unica “causa” (αἰτία) di ciò è la nozione – stoica – dell’assenso (συγκατάθεσις) dato dall’anima all’immagine ingannevole (str. 2, 20, 111.4). Di fatto, la sua idea di spirito santo sembra porsi volutamente in contrasto proprio con lo “spirito” basilidiano e la simmetria tra le due nozioni poggia su quattro fattori, due di somiglianza e due di differenza: – primo fattore di somiglianza: tanto lo spirito santo quanto gli “spiriti” basilidiani si legano a ἰδιώματα; – secondo fattore di somiglianza: nel ragionamento che Clemente sta portando avanti in str. 6, 16, la dimensione dello πνεῦμα non è a tal punto svincolata dal rapporto col corpo da servire solo a identificare una determinata scelta di vita. Si è infatti visto che Clemente nomina anche un ἄλογον μέρος dell’anima, nei confronti della quale l’ἡγεμονικόν καὶ λογιστικόν ha una certa funzione causale, cioè è causa del fatto che quella parte «è animata ed entra a far parte della costituzione» dell’uomo (str. 6, 16, 135.2). Il punto è che subito dopo Clemente, recuperando la psicologia stoica, definirà tale parte irrazionale dell’anima «spirito carnale», relativo ai sensi (135.3). In quanto «spirito carnale», lo vedremo meglio in seguito (cf. pp. 80-81), l’anima coordina le attività di nutrizione, sviluppo e movimento. Tutto ciò, in Clemente, permette di intendere la dimensione pneumatica come qualcosa di articolato e complesso, sicuramente non limitata al solo spirito santo. Per il momento basti notare che, come quello basilidiano (cf. p. 71), lo πνεῦμα clementino rimane un ponte tra l’anima e i sensi, un nesso tra l’incorporeo e la corporeità. Si può così ritenere che Clemente non rifiuti l’idea di uno 37

Cf. str. 1, 5, 32.4-1, 6, 35.2; 2, 4, 15.3-5.

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spirito negativo che medi il rapporto tra anima e corpo. Piuttosto egli sembra assumerne la funzione di mediatore, toglierne ogni significato eticamente negativo (gli spiriti basilidiani, invece, erano certamente mediatori tra anima e corpo, ma anche passioni) e attribuire tutto ciò che è etico alla responsabilità umana; – primo fattore di differenza: mentre gli spiriti basilidiani sono ontologizzati, appartengono cioè alla composizione strutturale di alcune anime, lo spirito santo connota l’opzione per la πίστις e cioè la centralità dell’arbitrio e della responsabilità umana; – secondo fattore di differenza: l’ἰδίωμα relativo allo spirito santo è l’ἰδίωμα χαρακτηριστικόν, concetto che ha alle spalle una complessa riflessione sul tema dell’individuazione e che connota la scelta della fede come qualcosa di distinto e peculiare per ciascun individuo. Questi quattro elementi provano a un tempo il confronto di Clemente con la psicologia basilidiana e anche che l’Alessandrino, nell’ambito delle posizioni avversarie, accetta di riconoscere nello πνεῦμα un mediatore tra anima e corpo. In più Clemente unisce la necessità di una mediazione tra anima e corpo alla sensibilità per l’individuazione. Attraverso tale confronto con i basilidiani, infine, Clemente fornisce un resoconto della dottrina dell’anima di Basilide che evidenzia tre affinità con la psicologia elaborata all’epoca nelle scuole di filosofia: l’impressione che anche per i basilidiani si potesse parlare di due οὐσίαι, una razionale unitaria e una partita, divisa (smembrata in molte appendici che tuttavia sono estranee all’anima e pertanto costituiscono una ἑτερουσία, per così dire, piuttosto che una vera e propria μεριστὴ οὐσία); la supposizione che nella μεριστὴ οὐσία siano incluse le facoltà percettivo-immaginative – φαντασίαι – e le parti meno nobili dell’anima (desiderativa/irascibile etc.); un’ipotesi di spiegazione relativa al rapporto alle due “sostanze” dell’anima (caduta-perturbazione originaria che fa sì che l’anima scambi delle rappresentazioni per desideri, non riuscendo più a distinguere ciò che non è da ciò che è). Rispetto a questi tre punti Clemente sembra condividere l’impostazione che prevede due componenti dell’anima, ma – come vedremo tra breve – pare preferire il lessico della potenza e dell’atto piuttosto che quello delle due οὐσίαι, quasi per far sì che alla creatura sia trasferibile l’ἴδιον di Dio senza che vi sia trasferita anche la sostanza38. La conseguenza, per Clemente, è che così si stabilisce una tensione entro una medesima οὐσία che prevede una molteplicità di varianti o declinazioni determinate dalle scelte di 38 Per i concetti di δύναμις ed ἐνέργεια in ambito platonico è utile riferirsi a Romano-Cardullo 1996 e Aubry 2006.

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ciascun individuo. In questo modo l’Alessandrino non ha bisogno di parlare della caduta e nemmeno di spiegare che il destino della parte meno nobile dell’anima è in relazione alla sua sorte dopo la morte del corpo e all’eschaton. Detto altrimenti, la protologia e l’escatologia – intendendo quest’ultima in senso proprio, cioè come ipotesi sul destino dell’anima dopo la separazione dal corpo – sembrano avere un ruolo secondario nell’attenzione che Clemente presta al tema dell’anima sotto il profilo antropologico e, come vedremo, l’Alessandrino si rivela maggiormente sensibile alle conoscenze sull’anima raggiunte soprattutto dal sapere medico (problema della percezione, embriologia) e dall’etica stoica. Talvolta, vedremo, Clemente sembra quasi sbarazzarsi del mitologema della caduta e delle ipotesi sull’escatologia ricorrendo a spiegazioni di carattere fisiologico. Nelle prossime pagine (II.1.3.1. e II.2.) si proseguirà il tentativo di inserire la risposta di Clemente alla psicologia basilidiana nella cornice filosofica dell’epoca. Dapprima si mostrerà a quale contesto di problemi la riflessione clementina appartenga e in seguito (II.2.), con un’analisi dettagliata dell’antropologia di Clemente, si chiariranno le peculiarità della sua impostazione rispetto alle spiegazioni ad essa contemporanee. II.1.3.1. Il contesto filosofico Cercando di marcare i punti su cui l’attenzione di Clemente si sofferma, dobbiamo registrare tre dati: 1. la funzione causale che ha la parte migliore dell’anima nei confronti di quella inferiore (cf. II.1.2. e II.1.3.); 2. l’imprescindibile questione del modo in cui l’anima si relaziona al corpo (cf. II.1.3.); 3. il tentativo di conciliare natura anfibia dell’anima e carattere unitario e individuale del vivente (cf. II.1.1. e II.1.2.). Questi stessi aspetti della dottrina dell’anima, che si sono potuti scorgere in Clemente e nei suoi interlocutori basilidiani, troveranno poi una formulazione anche nel neoplatonismo (per esempio in Plotino o in Porfirio), in parte più completa, perché più matura di circa mezzo secolo, in parte con esiti diversi dalle soluzioni proposte da Clemente, anche per via delle fonti da lui utilizzate maggiormente (le Sacre Scritture, per esempio39) e guardate invece con sospetto dai filosofi neoplatonici pagani40. Il caso di Clemente e dei basilidiani, pertanChe Clemente riteneva più capaci, rispetto ad altri scritti, di penetrare la verità. Se questa può essere definita la tendenza generale, bisogna tuttavia evitare generalizzazioni a tal proposito. Si consideri ad esempio il caso di Numenio di Apamea 39

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to, va considerato come esempio di un insieme di questioni variamente diffuse, anche se ancora prive di una formulazione tecnica precisa. Le unifica, come detto, il motivo del carattere “anfibio” dell’anima, tema espresso a chiare lettere da Plotino in Enn. 4, 8, 7 e 4, 8, 841. I testi plotiniani affrontano la questione proprio a partire dal fatto che l’Anima è un intelligibile cui corrisponde una molteplicità di anime individuali, le quali sono in qualche modo legate al sensibile e al corporeo42. Ora, non solo e non tanto per Plotino, ma per i platonici in generale, in merito alla corporeità bisogna tener conto del fatto che all’anima spetta il coordinamento di quelle attività (nutrimento, movimento, crescita e sensibilità), attraverso cui ciascuno si percepisce come un tutto unitario, dotato di individualità e di unicità. Premesso ciò, torniamo al problema della struttura mediana dell’anima clementina, sottolineando la centralità, per l’Alessandrino, dell’idea di anima come μέση οὐσία. Ottenere questo risultato è un tassello fondamentale per completare il quadro dell’inserimento di Clemente all’interno del milieu filosofico a lui contemporaneo. Si è visto che una delle esigenze dell’ultima promessa di approfondimento del tema dell’anima è quella di spiegare una partecipazione allo spirito santo tale da escludere l’idea di “parte” o di “porzione”. che considerava Platone un Mosè che parlava attico, come ricorda Clemente stesso in str. 1, 22, 150.4. Va comunque detto che, con Numenio, siamo ancora in un ambito “medio-platonico” per quanto il suo pensiero sia fonte imprescindibile per autori successivi come Porfirio (cf. Zambon 2002, pp. 171-250). 41 In merito alla condivisione, da parte dell’anima, della duplice natura (sensibile e intelligibile) della realtà, cf. il passo di Plot. 4, 8, 7, di cui si fornisce anche traduzione: διττῆς δὲ φύσεως ταύτης οὔσης, νοητῆς, τῆς δὲ αἰσθητῆς, ἄμεινον μὲν ψυχῇ ἐν τῷ νοητῷ εἶναι, ἀνάγκη γε μὴν ἔχειν καὶ τοῦ αἰσθητοῦ μεταλαμβάνειν τοιαύτην φύσιν ἐχούσῃ… μέσην τάξιν ἐν τοῖς οὖσιν ἐπισχοῦσαν, θείας μὲν μοίρας οὖσαν, ἐν ἐσχάτῳ δὲ τοῦ νοητοῦ οὖσαν, ὡς ὅμορον οὖσαν τῇ αἰσθητῇ φύσει διδόναι (Se la natura della realtà è duplice, intelligibile e sensibile, non c’è dubbio che per l’anima è meglio essere nel mondo intelligibile; eppure essa è tenuta anche a condividere la natura sensibile per via di quella sua caratteristica costituzione… perché il suo ruolo è proprio quello di avere una posizione intermedia fra gli enti, partecipe certo di una porzione divina, ma come ultimo degli intelligibili, al confine con la natura sensibile per trasmetterle qualcosa di sé). Cf. anche Plot. 4, 8, 8: οὐ πᾶσα οὐδ’ ἡ ἡμετέρα ψυχὴ ἔδυ, ἀλλ’ ἔστι τι αὐτῆς ἐν τῷ νοητῷ ἀεί (Non tutta la nostra anima è immersa , ma c’è una parte di lei che continua a essere nell’intelligibile). È utile tener conto del fatto che l’anima, per Plotino, è ad un tempo corpo (dottrina stoica) e forma (dottrina aristotelica) cf. Plot. 4, 7, 2: πρῶτον δὲ σκεπτέον, εἰς ὅ τι δεῖ τοῦτο τὸ σῶμα, ὃ λέγουσι ψυχήν, ἀναλύειν / οὐδαμόθεν δ’ ἂν προσέλθοι λόγος ἢ παρὰ ψυχῆς (bisogna vedere in quali elementi si compone questo corpo che va sotto il nome di anima, la ragione non procede da nient’altro se non dall’anima). 42 Per Plotino la molteplicità delle anime individuali non dipende dalla corporeità, ma per Proclo, ad esempio, sì. Su questo tema cf. Zambon 2005.

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A tal proposito, in quell’occasione Clemente si era riproposto di spiegare come avvenisse tale «distribuzione» (διανομή) dello spirito santo nel momento in cui avrebbe parlato dell’anima. Ora, il testo che segue alla pericope di str. 6, 16, 134-136 (cf. pp. 80-81) che proponeva un’interpretazione allegorica dei dieci comandamenti nel loro complesso, di ciascuno tratta singolarmente fornendo una o più possibili spiegazioni. A proposito del terzo (relativo alla santificazione del sabato), Clemente specula su ebdomade ed ogdoade affermando che il settimo giorno di Gen 2, 2 si lega all’ogdoade escatologica che è anche la condizione archetipica (6, 16, 138.1 e 138.5). A questa condizione corrisponderebbe uno stato di «gnosi» come all’«ebdomade» ne corrisponde uno di «sapienza» (138.2). L’Alessandrino afferma anche che Dio avrebbe creato il settimo giorno per noi che, «avendo la carne» (ἡμεῖς οἱ σαρκοφοροῦντες), abbiamo bisogno di riposo; sostiene poi, in relazione all’ottavo giorno, che da questo, primo e al contempo ultimo, «si irradia» (ἐλλάμπεται) la prima sapienza come anche la gnosi. Fin qui Clemente segue schemi esegetici che furono dapprima di Aristobulo, di Filone, di Giustino43, poi aggiunge la sua spiegazione: «Poiché la luce della verità è vera luce, senza ombre, ripartita in modo indivisibile come spirito del Signore tra coloro che si sono santificati per fede (ἀμερῶς μεριζόμενον πνεῦμα κυρίου εἰς τοὺς διὰ πίστεως ἡγιασμένους)» (str. 6, 16, 138.2). Il rapporto tra spirito e fede pone in diretta connessione questa breve pericope con il ragionamento fatto poco sopra a proposito della “sopravvenuta” dello spirito santo per mezzo della fede. Di più: ora Clemente si sta appellando proprio al nesso πνεῦμα-πίστις come esplicativo del nuovo contenuto che intende veicolare e cioè la diffusione della luce in modo ἀμερῶς μεριζόμενον. Detto altrimenti, Clemente considera assodata la chiarezza del contenuto del χαρακτηριστικὸν ἰδίωμα dello spirito santo che sopravviene mediante la fede» perché ne ha appena trattato e ora lo richiama per spiegare questa partecipazione per ἀμερῶς μεριζόμενον, che del resto è apparentemente contraddittoria44. Qui siamo dunque di fronte a una terza modalità secondo cui Clemente cerca di rendere l’idea di individuazione, dopo l’esegesi di Rm 11, 17-24 e l’insistenza sull’ἰδίωμα χαρακτηριστικόν, solo che, a differenza delle due formulazioni precedenti, adesso l’Alessandrino recupera la stessa termi-

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12, 3.

Per Aristobulo, cf. Eus. p.e. 13, 12, 9-12; Ph. Quaes. in Gen. 3, 4, 3; Iust. dial.

44 Si precisa, a titolo di completezza, che Clemente ne aveva già dato rapido cenno in str. 3, 10, 69.1.

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nologia (“parte”, μέρος) con cui si era espresso in str. 5, 13, 88. Clemente prosegue affermando (138.4): «La partecipazione (μέθεξις) a essa [= alla sapienza esistita ad opera dell’Onnipotente] insegna ad avere scienza per una comprensione profonda (κατάληψις) delle cose divine e umane»45. Dunque l’obiettivo di Clemente è quello di trattare di una partecipazione, a volte definita con la formula ἀμερῶς μεριζόμενον, altre volte con il sostantivo μέθεξις, in grado comunque di consentire κατάληψις. Ma la κατάληψις è, come vedremo (cf. p. 81 e p. 185), lo scopo e la conclusione di tutta l’esegesi allegorica delle tavole della Legge, giacché Clemente aveva detto: «La comprensione (κατάληψις) deriva da ambedue [= attività di corpo e pensiero]». Di conseguenza si può concludere affermando innanzitutto con maggior certezza che termini come ἀμερῶς μεριζόμενον, μέθεξις, ἰδίωμα χαρακτηριστικόν e la metafora dell’innesto siano espressioni che descrivono o hanno attinenza a un medesimo problema. Ma in secondo luogo ciò che risulta è che la partecipazione allo spirito come ἀμερῶς μεριζόμενον, direttamente conseguente alle esigenze espresse nei termini della quarta promessa clementina di un futuro approfondimento relativo all’anima (cf. p. 48), implica il ripensamento del rapporto tra anima e corpo. Questo esito è ancor più significativo per la presente argomentazione. La definizione di ἀμερῶς μεριζόμενον, infatti, non è soltanto importante perché riprende la medesima terminologia di str. 5, 13, 88, ma anche perché questo lessico è lo stesso che utilizza Plutarco quando, commentando Ti. 35 a definisce l’anima μέση οὐσία, cioè sintesi di un’ἀμέριστος οὐσία e di una μεριστὴ οὐσία46. In terzo luogo tutto ciò è importante perché riportare l’ἀμερῶς μεριζόμενον e il bagaglio terminologico plutarcheo a str. 6, 16, 134-136 vuol dire essere in grado di determinare con certezza ciò che Clemente intende quando parla di «spirito santo» e di «spirito carnale». Se infatti l’argomentazione di Clemente segue la strada del ragionamento di Plutarco, allora nel concetto di «spirito santo» si può ravvisare l’ἀμέριστος οὐσία, mentre in quello carnale o somatico la μεριστὴ οὐσία. E che Clemente si stia muovendo conformemente alla psicologia plutarchea dell’anima come «sostanza intermedia» lo dimostra il ruolo centrale attribuito dall’Alessandrino all’ἡγεμονικόν καὶ λογιστικόν cui spetta la libertà di conformare la vita dell’individuo allo 45 Cf. Clem. str. 6, 16, 138.4: ἧς ἡ μέθεξις... θείων καὶ ἀνθρωπίνων καταληπτικῶς ἐπιστήμονα εἶναι διδάσκει. 46 Cf. Plu. De an. 25. Su questo testo cf. Baltes 1976, pp. 40ss. e Dörrie 1987-, 4, p. 367.

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spirito santo oppure allo spirito carnale47. Ciò permette di notare come gli stessi concetti che poi verranno fissati, anche da un punto di vista terminologico, con il neoplatonismo – cioè quelli di “anima razionale” e “anima individuale” – sono presenti già nel II secolo con differenti denominazioni. Questo fenomeno si spiega col fatto che già nel II secolo le opere di Platone hanno generato problemi filosofici che circolano in varie forme, non più vincolate ai testi originali del filosofo ateniese. Di conseguenza, appaiono vari trattati, nuovi, sull’anima, che riprendono e variano sensibilmente i testi platonici, pur richiamandosi ad essi48. Sono pertanto tre le conclusioni cui si giunge. La prima consiste nell’aver scorto un’ampia e differenziata diffusione di problemi discussi in contesti apparentemente lontani tra loro: Clemente, Plutarco, Basilide. Si tratta di argomenti di fatto svincolati dalla loro matrice platonica, con la quale tuttavia conservano un legame per rinvio a luoghi e testi da cui però ormai si trovano a essere indipendenti. La seconda conclusione servirà soprattutto alla prosecuzione di questo ragionamento e consiste nell’aver ricondotto la natura dell’anima secondo Clemente alla struttura di μέση οὐσία. A queste due si aggiunge una terza osservazione, oggetto di approfondimento tra breve e concernente il rapporto tra la risposta di Clemente a Basilide e il neoplatonismo. Come si vedrà, infatti, nel richiamare la concezione della μεσότης dell’anima, Clemente modifica i concetti tradizionali di atto (al posto di sostanza intelligibile e una) e potenza (al posto di sostanza sensibile e molteplice) e li concentra sovrapponendoli in un’unica concezione di spirito nella quale si realizza la congiunzione di creatore e creatura con esiti – come vedremo – paradossali e verosimilmente inaccettabili al platonismo, ad esempio, plotiniano. Ciò avviene perché in Clemente teologia e filosofia sono esito dell’interpretazione di un unico grande corpo sapienziale che concerne non solo e non tanto le dottrine dei filosofi, ma soprattutto testi sacri e di altre tradizioni cui si richiama nel momento in cui parla dei maestri alla cui sequela si Su ciò sembra ragionevole la spiegazione di Rizzerio 1988, p. 136. Da questo punto di vista, in Clemente vanno individuate entrambe le tendenze: da un lato quella di rendere il cristianesimo una “vera filosofia” e dall’altro quella di de-contestualizzare problemi rispetto al testo platonico originario, traendoli da piccole pericopi. L’insegnamento di Clemente deve allora essere inteso come pienamente in linea con le modalità tradizionali di intendere la filosofia nella Tarda Antichità, cioè sia prassi che teoria. Su questi temi cf. da ultimo la recente messa a punto di Löhr 2010 (cf. in particolare pp. 186-187). 47 48

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mise prima di giungere «in Egitto» (str. 1, 1, 11). In altri termini, Clemente non differisce in modo sostanziale da Plotino perché non è realmente Plotino il parametro cui confrontarlo49, né propriamente ogni altro autore che rifiuti di considerare il corpus di scritture a cui Clemente si era formato e su cui impostava i propri insegnamenti50. Si tratta di individuare quali fossero, nel dettaglio, i passi scritturistici o i testi che fungevano da riferimento per l’Alessandrino e si cercherà di farlo soprattutto nel cap. IV.

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II.2. L’antropologia di Clemente In questo paragrafo si tornerà a ragionare sul problema appena discusso, espresso più tardi in termini tecnici da Plotino (4, 7 e 4, 8) e relativo alla natura anfibia dell’anima, cercando però di mettere a tema il rapporto tra l’anima individuale e la dimensione corporea in Clemente e chiedendosi se la molteplicità delle anime individuali dipenda o meno dal corpo. Procediamo per gradi, cominciando con l’analisi delle dottrine platoniche affini alla posizione clementina. La tradizione platonica ha sviluppato due teorie in merito all’individuazione. Entrambe sono attestate da Porfirio51 e sono rappresentate dalle due posizioni estreme di Proclo e Plotino. Nel primo caso, si pensa di poter risolvere il problema della relazione dell’anima individuale all’intelletto tramite il ricorso alla dottrina del «veicolo dell’anima» (ὄχημα). Proclo ritiene infatti che l’anima vivifichi il singolo corpo per natura e pertanto pensa a una sorta di mezzo, un organo etereo che la possa connettere al corpo52. Per fare ciò, egli recupera la nozione del “veicolo” astrale dell’anima53. Questa soluzione presuppone la frattura tra mondo intelligibile e mondo sensibile, proponendo un avvicinamento progres-

49 È comunque utile fare riferimento ad altri autori platonici – come, nella fattispecie, Plotino – per avere un’idea più completa dei temi e dei problemi con cui Clemente aveva a che fare. 50 Si tenga comunque conto della cautela richiamata sopra, a proposito di Numenio, p. 75, nota 40. 51 Cf. Porph. Gaur. 11, 3, 49, 16-19. Su questo testo, cf. Zambon 2005, pp. 311313 e Dorandi 2008. Profirio sceglierà una posizione intermedia tra le due (cf. Zambon 2005, pp. 322-333). 52 Cf. Procl. El. Theol. prop. 196 e In Ti. 3, 299.1-9. 53 Cf. pp. 80 e 84-92. Cf. Dörrie 1987-, 6.1, pp. 383-384.

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sivo di due dimensioni tra loro eterogenee54. Plotino invece non ricorre all’ὄχημα, poiché sostiene che la dimensione corporea non è responsabile della molteplicità individuale e suppone pertanto che l’anima – riprendendo il lessico aristotelico55 – sia atto (ἐντελέχεια) del corpo organico e che ciascun corpo, di conseguenza, abbia di essa un riflesso o un εἴδωλον. Α tale “condizione intermedia”, non è necessario attribuire alcuna sostanzialità pneumatica o eterea, venendo meno la necessità di una vera e propria mediazione. Il punto è che, per Plotino, la molteplicità prescinde dalla dimensione corporale, perciò anche la presenza dell’anima individuale non dipende dalla presenza del singolo corpo; per gli altri autori, invece, la dimensione corporale è causa della molteplicità e il veicolo serve pertanto a mediare non solo un’entità intelligibile e una corporea, ma anche tra unità e molteplicità. La soluzione di Clemente, come vedremo, utilizza lo stesso bagaglio concettuale che poi servirà pure ai neoplatonici per formulare le loro soluzioni al medesimo problema. L’esito della sua riflessione sarà però diverso, come già preannuciato, configurando una sorta di posizione intermedia tra quella di Proclo e quella di Plotino. Torniamo al testo di str. 6, 16, 134-136, che finora abbiamo letto per singole sezioni, e consideriamolo integralmente, cercando di comprendere la posizione di Clemente all’interno del quadro tracciato: Clem. str. 6, 16, 134.2; 135.1-4; 136.4: 134.2. c’è poi una decade in rapporto all’uomo stesso, costituita dai cinque sensi, la capacità di fonazione, la capacità generativa, quindi appunto come ottavo l’elemento spirituale infuso nella creazione, nono l’ἡγεμονικόν del­ l’anima, decima la proprietà caratterizzante (χαρακτηριστικόν ἰδίωμα) dello spirito santo che sopravviene mediante la fede… 135.1. Subentra poi l’anima e si aggiunge, a priori distinto, l’ἡγεμονικόν con il quale ragioniamo, non generato con l’eiezione del seme (οὐ κατὰ τὴν τοῦ σπέρματος καταβολήν)... Mediante tutte queste facoltà l’attività dell’uomo si esplica in modo completo. Appena creato l’uomo assume il principio della vita cominciando per ordine dalle esperienze sensibili. 135.2. Ora noi affermiamo che ciò che è λογιστικόν ed ἡγεμονικόν è, per l’essere vivente, la causa della sua costituzione, ma anche del fatto che la parte (μέρος) irrazionale è animata ed è porzione (μόριον) di quella costituzione. 135.3. Insomma la potenza vitale, che comprende la facoltà di nutrizione, sviluppo e, in genere,

54

10, 17). 55

Così attesta la Chiave, decimo trattato del Corpus Hermeticum (Corp. Herm. Cf. Arist. De an. 412 a 28 – b 6.

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movimento, è appannaggio dello spirito carnale, mobilissimo e dovunque penetrante attraverso le sensazioni e le altre parti del corpo e che attraverso il corpo riceve i primi impulsi sensibili; 135.4. ma l’ἡγεμονικόν possiede la libera facoltà di scelta (προαιρετικὴ δύναμις), in cui la ricerca, l’apprendimento, la gnosi. Invero tutte le facoltà sono coordinate a quest’unico ἡγεμονικόν e per esso l’uomo vive e vive in questo o quel modo... 136.4 Diciamo che le due tavole significano i comandamenti tramandati prima della Legge e dati ai due spiriti (τοῖς δισσοῖς πνεύμασι), quello infuso nella creazione (τὸ πλασθέν) e quello ἡγεμονικόν…: la κατάληψις deriva da ambedue56.

Soffermiamoci sui tratti principali di questo testo. La citazione del passo permette innanzitutto di comprendere lo scopo del ragionamento di Clemente. Si è infatti detto che l’Alessandrino sta intraprendendo un’esegesi allegorica dei dieci comandamenti e che in una prima fase si interroga sul senso generale delle tavole della Legge, poi dà seguito all’interpretazione dettagliata di ciascuno di essi. È proprio mentre Clemente enuncia i possibili significati delle due tavole della legge che tratta anche dell’antropologia. E la ragione viene chiarita dalle ultime parole, cioè, come si è detto, dalla definizione di ciò che nell’uomo consente la κατάληψις della Legge. A tal proposito Clemente in str. 6, 16, 136.4 parla appunto di «due spiriti» (πλασθέν ed ἡγεμονικόν), i quali fungono da premessa imprescindibile alla comprensione della Legge perché associati alle tavole, che, dice Clemente, sono le condizioni su cui poggia la Legge stessa. Lo «spirito ἡγεμονικόν» ha un ruolo fondamentale, perché, già si è visto, da esso dipende il 56 Ἔστι δὲ καὶ δεκάς τις περὶ τὸν ἄνθρωπον αὐτόν, τά τε αἰσθητήρια πέντε καὶ τὸ φωνητικὸν καὶ τὸ σπερματικὸν καὶ τοῦτο δὴ ὄγδοον τὸ κατὰ τὴν πλάσιν πνευματικόν, ἔνατον δὲ τὸ ἡγεμονικὸν τῆς ψυχῆς αὶ δέκατον τὸ διὰ τῆς πίστεως προσγινόμενον ἁγίου πνεύματος χαρακτηριστικὸν ἰδίωμα... Ἐπεισκρίνεται δὲ ἡ ψυχὴ. Καὶ προσεισκρίνεται τὸ ἡγεμονικόν, ᾧ διαλογιζόμεθα, οὐ κατὰ τὴν τοῦ σπέρματος καταβολὴν γεννώμενον… δι’ ὧν ἡ πᾶσα ἐνέργεια τοῦ ἀνθρώπου ἐπιτελεῖται. Τῇ τάξει γὰρ εὐθέως γενόμενος ὁ ἄνθρωπος ἀπὸ τῶν παθητικῶν τὴν ἀρχὴν τοῦ ζῆν λαμβάνει. τὸ λογιστικὸν τοίνυν καὶ ἡγεμονικὸν αἴτιον εἶναί φαμεν τῆς συστάσεως τῷ ζῴῳ, ἀλλὰ καὶ τοῦ τὸ ἄλογον μέρος ἐψυχῶσθαί τε καὶ μόριον αὐτῆς εἶναι. Αὐτίκα τὴν μὲν ζωτικὴν δύναμιν, ᾗ ἐμπεριέχεται τὸ θρεπτικόν τε καὶ αὐξητικὸν καὶ καθ’ ὅλου κινητικόν, τὸ πνεῦμα εἴληχεν τὸ σαρκικόν, ὀξυκίνητον ὂν καὶ πάντῃ διά τε τῶν αἰσθήσεων καὶ τοῦ λοιποῦ σώματος πορευόμενόν τε καὶ πρωτοπαθοῦν διὰ σώματος. Τὴν προαιρετικὴν δὲ τὸ ἡγεμονικὸν ἔχει δύναμιν, περὶ ἣν ἡ ζήτησις καὶ ἡ μάθησις καὶ ἡ γνῶσις. ἀλλὰ γὰρ ἡ πάντων ἀναφορὰ εἰς ἓν συντέτακται τὸ ἡγεμονικὸν καὶ δι’ ἐκεῖνο ζῇ τε ὁ ἄνθρωπος καί πως ζῇ... Αἱ δύο πλάκες τοῖς δισσοῖς πνεύμασι τὰς δεδομένας ἐντολὰς τῷ τε πλασθέντι τῷ τε ἡγεμονικῷ τὰς πρὸ τοῦ νόμου παραδεδομένας ἀλλαχῇ εἴρηνται μηνύειν...· ἐξ ἀμφοῖν γὰρ ἡ κατάληψις.

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modo di vita di ciascun individuo. Opera cioè direttamente sulla fede, fondamentale per l’acquisizione dell’ἰδίωμα χαρακτεριστικόν dello spirito santo. Detto con le parole di Clemente, l’operato dello spirito ἡγεμονικόν decide della «proprietà caratterizzante (χαρακτηριστικὸν ἰδίωμα) dello spirito Santo che sopravviene mediante la fede» (134.2). L’intero testo di str. 6, 16, 134-136, pertanto, mostra che nella κατάληψις della Legge da parte dell’anima s’incontrano complessivamente non due, ma tre «spiriti»: i primi sono esplicitati dal testo di 136.4 e sono lo «spirito ἡγεμονικόν» e lo «spirito πλασθέν», il terzo è invece lo «spirito santo». Cosa significano questi tre πνεύματα per Clemente, alla luce del fatto che uno di essi, lo spirito santo, «sopravviene» alla creazione materiale dell’uomo come sua componente ulteriore? L’Alessandrino lo spiega in 135.1: le dieci componenti dell’uomo con l’anima e l’ἡγεμονικόν fanno sì che «tutta l’ἐνέργεια dell’uomo si esplichi in modo completo». Cioè, dopo aver fornito un’ulteriore possibile interpretazione della decade antropologica, Clemente specifica che l’anima (la quale era elencata tra le componenti dell’uomo), e il suo ἡγεμονικόν sono elementi infusi al composto organico preordinato. L’ἡγεμονικόν, infatti, è essenzialmente facoltà di scegliere (135.4), tra una vita conforme alla fede (ottenimento dello spirito santo) e una accondiscendente alle pulsioni corporee afferenti alla sfera dello spirito carnale. Quando pertanto Clemente parla di ἡγεμονικόν, in merito alla generazione, bisogna intenderlo come una condizione potenziale. Lo stesso vale per quando parla di spirito santo: relativamente alla generazione bisogna pensare ad una condizione di potenza. E infatti l’Alessandrino afferma, sì «decima la proprietà caratterizzante (χαρακτηριστικὸν ἰδίωμα) dello spirito Santo», ma precisa subito dopo: «che sopravviene mediante la fede». Ora veniamo a spirito santo ed ἡγεμονικόν. Entrambi sono introdotti nel testo greco da un composto di προσ- (προσεισκρίνεται, dice Clemente per l’ἡγεμονικόν, προσγινόμενον è definito invece lo spirito santo), che, rispettivamente, toglie l’ἡγεμονικόν dall’elenco degli elementi connaturati e condiziona la ricezione dello spirito santo. Entrambi, inoltre, sono in qualche modo in potenza nell’uomo; il binomio δύναμις-ἐνέργεια, con cui vengono espressi e che intercorre tra str. 6, 16, 135.1 e 135.4, non è casuale. Ciò ha due rilevanze per il presente ragionamento. La prima è che Clemente, come si era supposto, definisce la facoltà di scelta esplicitamente una δύναμις in 135.4 (προαιρετικὴ δύναμις). Ciò conferma appunto la supposizione della natura tecnicamente potenziale dell’ἡγεμονικόν. La seconda è che questa προαιρετικὴ δύναμις si associa ad una ζωτικὴ δύναμις in 135.3, contrapponendosi allo stato di ἐνέργεια dell’uomo di 135.1. Sebbene lo stato di ἐνέργεια dell’uomo possa essere

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II. Anima e antropologia 83

realizzazione di altre facoltà – dal momento che il testo di 135.1 non le specifica (dice infatti δι’ ὧν) e lascia pensare a tutte quelle della decade – la ζωτικὴ δύναμις e la προαιρετικὴ δύναμις all’interno della decade antropologica hanno un ruolo di rilievo. Innanzitutto perché l’unica condizione di attualità (ἐνέργεια) ricavabile esplicitamente dall’esposizione della decade è quella della ricezione dello spirito santo. Clemente infatti parla dello stato in cui si gode dello spirito santo come di qualcosa raggiunto dopo un percorso di fede. Diverso è invece il caso dell’altra componente potenziale enunciata nell’esposizione della decade, cioè lo statuto dell’ἡγεμονικόν, perché è chiarita soltanto in un secondo momento (135.1)57 ed è esplicitata come δύναμις più avanti, in 135.4. Questo significa che Clemente intende mostrare come l’atto di ricezione dello spirito santo esprima il coronamento di un’attività (ἐνέργεια) che coinvolge tutte le componenti dell’uomo – non solo l’ἡγεμονικόν – e che si realizza nel percorso di fede. Ciò spiega perché l’ἐνέργεια di 135.1 possa essere realizzazione δι’ ὧν, cioè «per mezzo» di tutte le componenti della decade, in generale, e spiega anche perché lo sia di due componenti in particolare, dal momento che ne vengono esplicitate come δυνάμεις soltanto due su dieci. Queste due permettono infatti di comprendere la struttura antropologica supposta da Clemente. Tutte le componenti dell’uomo che non siano spirito santo o «spirito egemonico» rientrano infatti nella «potenza vitale» (ζωτικὴ δύναμις), che «comprende la facoltà di nutrizione, sviluppo e, in genere, movimento» (135.3). Essa è relativa allo «spirito carnale» (135.3) il quale corrisponde, stando a 134.2, all’«elemento spirituale infuso nella creazione». Si noti come secondo Clemente, a proposito delle facoltà vitali dell’uomo, ciò che è potenza sia anche spirito. Tutto ciò che non è ζωτικὴ δύναμις fa capo invece alla «potenza relativa alla scelta» (προαιρετικὴ δύναμις), termine con cui Clemente sembra riferirsi sia alla facoltà stessa della scelta (cioè l’ἡγεμονικόν) sia allo spirito santo, il quale si ottiene comunque solo dopo un processo di scelte. Analogamente, che anche tale προαιρετικὴ δύναμις sia «spirito», lo conferma la pericope di 136.4: qui, come si è visto, la προαιρετικὴ δύναμις viene attribuita all’ἡγεμονικὸν πνεῦμα. Sempre in questa sezione 136.4, terminate le definizioni, Clemente pone lo spirito plasmato (πλασθὲν πνεῦμα) e l’ἡγεμονικὸν πνεῦμα l’uno accanto all’altro: ora δυνάμεις e πνεύματα sono davvero sinonimi. Non solo. Siamo infatti posti di fronte a una situazione tale che la condizione di ricezione del57 Clem. str. 6, 16, 135.1: si aggiunge, a priori distinto, l’ἡγεμονικόν con il quale ragioniamo, non generato con l’eiezione del seme.

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lo spirito santo è – oltre che δύναμις esso stesso – uno stato di ἐνέργεια che si contrappone a uno di δύναμις, il quale però non è meno spirituale. Questa circolarità si può probabilmente spiegare col fatto che, nell’uso clementino del termine πνεῦμα, si sovrappongono due significati, uno propriamente filosofico e uno teologico. Di qui deriva che lo spirito ha una sorta di duplice dimensione, cioè sta a metà via tra la potenza e l’atto. Si elencano ora alcune conclusioni provvisorie e le loro conseguenze: – una prima, relativa al problema dell’individuazione in relazione alla nozione di natura anfibia dell’anima (cf. pp. 69-70). Il nodo cioè concerne la modalità con cui l’unitarietà dell’anima-idea (la componente intelligibile partecipata da ogni singola anima) si rapporta sia al molteplice (e alla dimensione dell’individualità) che al regno del corporeo e del sensibile. In proposito si è visto quanto Clemente si mostri attento sia al concetto di individuo, caratterizzato da una propria storia personale, fatta di scelte, errori, pentimenti e conversioni, sia al nesso individuo-corporeità, perché parlare di scelte significa parlare di assenso o meno dell’anima agli impulsi del corpo (cf. p. 72); – una seconda, che riguarda le caratteristiche delle descrizioni tripartite dell’anima di Clemente (II.2.2.: confronto delle affermazioni clementine sulla tripartizione dell’anima e analoghe psicologie tripartite contemporanee a Clemente; II.2.2.1.: esposizione del fondamento filosofico e antropologico di implicazioni teologiche in qualche modo legate all’anima tripartita); – un’ultima concernente la funzione a un tempo potenziale e attuale del termine spirito, πνεῦμα, in cui Clemente fonde un concetto teologico e uno filosofico che mostreremo caratteristica fondamentale della sua idea di incarnazione e della sua teologia. II.2.1. Atto, potenza e individuazione Vediamo ora in che modo il fatto che il binomio potenza-atto sia articolato da un rapporto corpo-anima che pone in correlazione tre πνεύματα si collochi nell’ambito della discussione relativa all’idea di un “veicolo pneumatico” per l’anima razionale e in quello in cui si attribuisce una funzione attualizzante all’anima nei confronti del corpo. All’interno di questa costellazione di concetti e problemi vorremmo poi porci uno scopo preciso, convinti che, nell’espressione clementina ἡγεμονικὸν πνεῦμα, possano essere trasferiti tutti i tratti dell’ὄχημα. La dottrina del veicolo (ὄχημα) pneumatico viene elaborata probabil-

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mente prima del II secolo, anche se la prima attestazione si ha con Galeno58. Nemmeno a Clemente, del resto, essa è sconosciuta, infatti l’Alessandrino vi accenna rapidamente in str. 6, 18, 163.2, mentre spiega che, anche qualora le anime avessero degli ὀχήματα, ciò non basterebbe a compromettere la natura incorporea dell’anima umana o animale. Vedremo che egli assumerà, seppur parzialmente e con le dovute cautele, questa concezione. La prima motivazione che porta a identificare il “veicolo” dell’anima con l’ἡγεμονικόν clementino è la natura pneumatica di quest’ultimo. Si è detto (cf. pp. 79-80) che la tradizione platonica matura gradatamente la necessità di attribuire all’anima che si trova nel cosmo un corpo astrale, che in qualche modo ne protegga la natura intelligibile garantendone al contempo l’operatività nelle funzioni conoscitive. La tendenza è quella di concepire la sostanza di questo involucro come qualcosa di leggero, generalmente etere o un altro elemento più sottile rispetto a quelli che compongono il corpo terrestre, come appunto lo πνεῦμα. Non è un caso che Clemente definisca la funzione-guida dell’anima in termini di πνεῦμα e parli appunto di πνεῦμα ἡγεμονικόν proprio nel momento in cui mette a tema il rapporto anima-corpo. La seconda e più significativa ragione dell’identificazione tra il veicolo dell’anima e l’ἡγεμονικόν è la funzione mediatrice attribuita a quest’ultimo nei confronti dello spirito santo. La parte o funzione-guida dell’anima, si è visto, media tra «spirito santo» e «spirito carnale» nella misura in cui lo spirito santo è una condizione in cui ci si può trovare (raggiunta, per Clemente, mediante la fede) e l’ἡγεμονικόν decide se orientare l’individuo a una vita secondo la carne oppure a una secondo la fede. Ma mediare lo spirito santo significa per Clemente mediare l’anima razionale. Il passo in analisi si inserisce infatti all’interno di un percorso argomentativo coerente, che porta l’Alessandrino a identificare la totalità degli intelligibili con l’anima razionale (cf. pp. 69-70) nel corso di un processo di «spiritualizzazione dell’anima»59. Il pensiero di Cf. Gal. Plac. (p. 474.22-27). H. Ziebritzki 1994, pp. 93-129, propose invece l’identificazione tra mondo intelligibile e Logos. Tuttavia già Bucur ha notato la necessità di superare queste posizioni alla luce della quarta promessa clementina di una trattazione sull’anima (str. 5, 13, 88), cf. Bucur 2009, p. 5. Prestando attenzione all’anima, si può notare come il Figlio operi in qualità di secondo principio su una terza entità che è unità del mondo intelligibile. Per l’irriducibilità del Figlio alla monade-anima razionale cf. str. 5, 11, 70-71. La «grandezza del Figlio» è collocata chiaramente, in 5, 11, 71.3, oltre la «monade», la quale, in qualche modo, contiene tutte le «realtà incorporee». Per il significato di queste «realtà incorporee», cf. Havrda 2010, p. 20: possono essere ritenute o qualità dei corpi, oppure 58 59

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Clemente, invero, fin da str. 5 (cioè dall’ultima promessa di un approfondimento relativo al tema dell’anima) permette di riconoscere le tracce di uno sviluppo unitario: ciò che, ancora in str. 5, 11, 74.2-3 era definito in termini di κόσμος intelligibile60, acquista sempre più la connotazione di Chiesa grazie a una rivalutazione del ruolo dello spirito. Dapprima, in str. 5, 13, 88.2 viene infatti riconosciuta l’indivisibilità dello spirito (santo) e, in str. 6, 1, 2.4, la condizione di gnosi è detta apertamente «giardino spirituale»61. Cruciale sarà poi str. 6, 17, 151-6, 18, 165. Qui dapprima, giocando sul motivo della forza (δύναμις) di Sansone, Clemente denomina δύναμις sia la dimensione divina provvidenziale (6, 17, 153.3-4)62, precedentemente espressa in termini di incarnazione (str. 5, 6, 34.1 e 39.2-3)63, sia quella dell’anima (str. 6, 17, 154.4)64. Nell’assimilare reciprocamente la dimensione provvidenziale e l’attività dell’anima, in realtà Clemente tende a far coincidere l’azione del “principiante” (Figlio) con quella del “principiato” (le anime), nel senso che il Figlio è provvidente in quanto ἡγεμονικόν della creazione (str. 6, 17, 152.3) e, come si è visto, la condizione – intelligibile – dell’ἡγεμονικόν è ottenuta dall’anima stessa, all’apice del suo progresso, nella forma di spirito santo (str. 6, 17, 155.4)65. Ιn che modo l’anima, che è una realtà sottoposta a un principio, ottiene lo statuto del suo principio stesso? Attraverso un i δεύτερα νοητά di Alcinoo (Didask. 155, 39-42), cioè forme materiali, o, ancora, i «principati, potestà, potenze, signorie» di Ef 1, 21 e in probabile contrasto con l’esegesi valentiniana di exc. Thdot. 11.3 che li definiva «corporei». Considerato l’interesse soteriologico di Clemente, il quale usa la similitudine sensibile-idea non per spiegare il rapporto tra i corpi materiali e le loro forme intelligibili, bensì per rendere ragione della salvezza della Chiesa di quaggiù che ha come modello la Chiesa spirituale, probabilmente il parallelismo con Alcinoo offerto da Havrda si traduce, come si è detto (cf. pp. 69-70, nota 31), nel rapporto tra le anime individuali e l’anima razionale o Chiesa spirituale. 60 Clemente – sulla scia peraltro di Basilide, come afferma lui stesso – in str. 5, 11, 74.2-3 parla della sfera intelligibile (il νοετόν di R. 7, 532) come di μονογενὴς κόσμος. 61 Peraltro in connessione con la metafora dell’innesto (Rm 11, 17-24) che ricorrerà più avanti, in str. 6, 120. Si tenga presente che questa occorrenza all’inizio di str. 6 è significativa perché Clemente dichiara che la sua esegesi di Rm sarà uno dei tratti fondamentali dell’intero libro. 62 Se ne veda la traduzione: «Anche a Sansone fu data la potenza (δύναμις) nei capelli perché riflettesse che neanche le attitudini poco considerate in questo mondo, che giacciono e restano giù a terra dopo l’uscita dell’anima, sono state date senza la divina potenza (μὴ ἄνευ τῆς θείας δυνάμεως ἐννοήσῃ δίδοσθαι). Dunque la Provvidenza (πρόνοια) si diffonde su tutti partendo dall’alto, da ciò che è più importante, come da una testa». 63 Cf. infra p. 189. 64 Clem. str. 6, 17, 154.4: Per questo dice la Scrittura che «uno spirito di conoscenza (πνεῦμα αἰσθήσεως)» (cf. Es 28, 3) è stato dato ai suoi artefici da Dio: e ciò non è altro che la prudenza (φρόνησις), potenza contemplativa (δύναμις θεωρητική) dell’anima nei confronti degli esseri. 65 Clem. str. 6, 17, 155.4: Le è proprio e realmente Signore e guida (ἡγεμονικόν), quello spirito santo che il credente si conquista dopo aver consolidato la fede, per di-

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processo di assimilazione (ὁμοίωσις), che già in str. 2, 19, 100.466 era stato definito propriamente sequela (ἀκολουθία) e che proprio come sequela e assimilazione ritorna poco più avanti nel testo di str. 6, 17, 154.467. Essere ἡγεμονικόν della sua creazione, dice infatti Clemente, richiede al Figlio di farsi buon pastore secondo il precetto di Gv 10, 11 e di operare accompagnando le sue pecore una ad una (str. 6, 17, 158.1), il che si traduce nel rivolgere l’invito a emularlo ad alcuni, i quali si facciano carico di farsi imitare a loro volta in un processo, rivolto potenzialmente a chiunque, di discesa e risalita68. L’apertura dell’azione archetipica del vina Provvidenza, alla fine di tutta la ricerca (ὃ ἐπὶ πᾶσι προσλαμβάνει μετὰ τὴν βεβαίαν πίστιν ἅγιον κατ’ ἐπισκοπὴν ὁ πιστεύσας πνεῦμα). 66 Cf. str. 2, 19, 100.4: La Legge [= Clemente si riferisce a Dt 13, 4] chiama l’assimilazione (ὁμοίωσις) un seguirlo (ἀκολουθεῖν) e un siffatto seguirlo rende simili per quanto si può. 67 Passo in cui l’Alessandrino definisce la φρόνησις come la «δύναμις ψυχῆς θεωρητικὴ τῶν ὄντων καὶ τοῦ ἀκολούθου ὁμοίου τε καὶ ἀνομοίου διακριτικὴ τε αὖ καὶ συνθετική (potenza dell’anima di distinguere e quindi di confrontare ciò che è conforme [ἀκόλουθος], simile e dissimile)». 68 Cf. il legame tra funzione d’accompagnamento da parte del buon pastore e invito all’imitazione in str. 6, 17, 158.1-4. Se ne veda la traduzione: «Pertanto il pastore si cura delle sue pecore, anche una per una (Gv 10, 11) e la sorveglianza accompagna tanto più attentamente coloro che emergono per qualità naurali e possono contribuire al bene dei popoli (ὅσοι διαπρεπεῖς τὰς φύσεις τε καὶ δυνατοὶ τὰ πλήθη συνωφελεῖν ὑπάρχουσιν). E questi sono coloro che sanno essere guide (ἡγεμονικoί) ed educatori (παιδευτικοί) e tramite loro si mostra chiarissima l’attività (ἐνέργεια) della Provvidenza… Perciò suscita le persone adatte alla proficua esplicazione delle attività che contribuiscono alla virtù, alla pace, al far bene. Tutto ciò che è nella virtù nasce sempre dalla virtù e ad essa ritorna, ed è dato o affinché si diventi virtuosi o, se lo si è, perché si sfruttino i privilegi naturali: e ciò con cooperazione sia in via generale che nei casi particolari». Per il moto di imitazione-sequela, discensionale e ascensionale, cf. invece str. 6, 17, 161.1-6: «Ebbene lo gnostico che ha ricevuto da Dio la capacità di aiutare, giova agli uni dando una formazione con lo stare loro a fianco (παρακολουθήσει), agli altri incitandoli con l’emulazione (ἐξομοιώσει), gli altri ancora educando e ammaestrando mediante precetto (προστάξει): naturalmente egli stesso ha ricevuto questi stessi aiuti dal Signore. Così dunque anche l’aiuto che promana da Dio agli uomini si rende noto con il concorso degli angeli che esortano: poiché la divina potenza offre i suoi beni anche attraverso gli angeli, visibili o non. Nella manifestazione del Signore si è attuato quel modo. Talvolta poi la potenza soffia dentro i pensieri e i ragionamenti umani in modo adatto e instilla nei cuori forza e coscienza più acuta, procurando “vigore e ardimento” (Il. 10, 482) d’animo sia per la ricerca sia per l’azione. Sono poi a nostra disposizione veramente meravigliosi e santi, gli esempi di virtù attraverso le gesta riportate nelle Scritture, proposte a emulazione e assimilazione. In particolare chiarissimo è anche ciò che è offerto per precetto, tramite i Testamenti del Signore, nonché le leggi dei Greci e così pure i dettami della filosofia. Per dirla in breve, ogni aiuto utile alla nostra vita, se si risale alla causa più remota, si attua provenendo da Dio onnipotente, Padre che a tutto presiede mediante il Figlio, proprio per questo Egli è, dice l’Apostolo, Salvatore di tutti gli uomini e soprattutto dei fedeli (1 Tm 4, 10); da un punto di vista contingente invece ci è fornito dalle persone vicine a ciascuno, secondo suggerimento e prescrizione del Signore, che è vicino alla Causa prima».

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Figlio all’imitazione reciproca tra i fedeli implica che il Figlio agisca, di fatto, sul piano ecclesiale. Così il ragionamento di Clemente intorno alle modalità d’operazione della Provvidenza divina e alla conseguente risposta di sequela da parte degli uomini si chiuderà in str. 6, 18, 165.1 con l’esegesi di 2 Cor 10, 15-1669. Tale passo, secondo l’Alessandrino, stabilisce che la «perfezione della fede» – che corrisponde ad assumere, nello spirito santo, la condizione del Figlio (str. 6, 17, 155.4)70 – per imitazione, si compie in realtà nella Chiesa, specificamente nella sua predicazione («canone ecclesiastico», recita il testo di str. 6, 18, 164.3–165.1)71. Chiesa, potenza, perfezione dell’anima e «spirito santo», tra str. 6, 17 e 18, si rivelano essere, per Clemente, la stessa cosa: ossia un moto, discensionale e ascensionale, che unisce la κένωσις dell’incarnazione di str. 5, 6, 34 e 39 (cf. p. 189) al progresso spirituale, dove il termine spirituale deve essere inteso in senso forte, come allusivo allo spirito santo (nominato espicitamente in str. 6, 16, 155.4 in cui si dice che per la φρόνησις è κύριος ed ἡγεμονικόν quello spirito santo (ἅγιον πνεῦμα) che il credente si conquista con la fede). E non meno tecnico deve essere inteso il senso di potenza ivi espresso, perché è il corrispettivo umano dell’atto (ἐνέργεια) con cui la Provvidenza (6, 17, 161) sembra operare nel farsi a sua volta potenza fino a rendere atto la potenza stessa. 69 2 Cor 10, 15-16 (così anche nel testo di Clemente): «Speriamo che, aumentando la vostra fede, noi diventiamo sempre più grandi fra voi, entro i limiti a noi segnati, per evangelizzare le regioni che sono oltre la vostra». 70 Se ne consideri la traduzione: «Le [= alla φρόνησις] è proprio e realmente Signore (τῷ ὄντι κύριος [= titolo cristologico]) e guida (ἡγεμονικός) quello spirito santo (ἅγιον πνεῦμα) che il credente si conquista dopo aver consolidato la fede». 71 Οὕτως τις κατὰ τὸ ἡγεμονοῦν τοῦ οἰκείου σώματος, τὴν κεφαλήν, ταγείς, ἐπὶ τὴν ἀκρότητα τῆς πίστεως χωρήσας, τὴν γνῶσιν αὐτήν, περὶ ἣν πάντα ἐστὶ τὰ αἰοθητήρια, ἀκροτάτης ὁμοίως τεύξεται τῆς κληρονομίας. Τὸ δὲ ἡγεμονικὸν τῆς γνώσεως σαφῶς ὁ ἀπόστολος τοῖς διαθρεῖν δυναμένοις ἐνδείκνυται, τοῖς Ἑλλαδικοῖς ἐκείνοις γράφων Κορινθίοις ὧδέ πως· «Ἐλπίδα δὲ ἔχοντες αὐξανομένης τῆς πίστεως ὑμῶν ἐν ὑμῖν μεγαλυνθῆναι κατὰ τὸν κανόνα ἡμῶν εἰς περισσείαν, εἰς τὰ ὑπερέκεινα ὑμῶν εὐαγγελίσασθα» (2 Cor 10, 15-16), οὐ τὴν ἐπέκτασιν τοῦ κηρύγματος τὴν κατὰ τὸν τόπον λέγων… ἀλλὰ τὴν γνῶσιν διδάσκει, τελείωσιν οὖσαν τῆς πίστεως, ἐπέκεινα περισσεύειν τῆς κατηχήσεως κατὰ τὸ μεγαλεῖον τῆς τοῦ κυρίου διδασκαλίας καὶ τὸν ἐκκλησιαστικὸν κανόνα (Così, quando uno si sarà collocato in quella posizione dominante che ha la testa nel corpo, giungerà alla sommità della fede, alla gnosi stessa, attorno a cui tutte le nostre facoltà sensibili gravitavano; allo stesso modo otterrà l’eredità suprema. L’apostolo mostra chiaramente, a quelli che sanno ben distinguere, la funzione di guida della gnosi quando scrive ai famosi Greci di Corinto, se non erro, così: Speriamo che, aumentando la vostra fede, noi sempre più diventiamo grandi fra voi, entro i limiti a noi segnati, per evangelizzare le regioni che sono oltre la vostra [2 Cor 10, 15-16], non intendendo una dilatazione del messaggio in senso spaziale… Ma vuole insegnare che la gnosi, come perfezione della fede, esorbita oltre la catechesi secondo la maestà dell’insegnamento del Signore e il canone ecclesiastico [= predicazione della Chiesa]).

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Non a caso, dunque, Clemente definirà la potenza di Dio nei termini di una spiritualizzazione dell’anima gnostica (str. 7, 7, 44.5-6)72, mentre al contempo le realtà intelligibili verranno affiancate – o sostituite – da entità spirituali (str. 7, 7, 45.1)73. Questo ragionamento ha alle spalle quanto posto in str. 6, 17-18, cioè la graduale identificazione del mondo intelligibile platonico con l’anima razionale e con il concetto teologico di spirito santo74. Questa identificazione costituisce un’entità metafisica che esprime il moto di avvicinamento reciproco tra il Figlio e le anime dei fedeli che progrediscono fino al punto massimo dell’ascesa: l’anima gnostica. Questo percorso approda infine – vedremo – alla spiritualizzazione contemporanea dell’anima e della Chiesa in 7, 11, 68.5. Ma quel che conta è che proprio il concetto di δύναμις, così importante per str. 6, 16, 134-136, diviene chiave di volta per far coincidere mondo intelligibile, anima-idea e spirito santo. In questa cornice lo spirito santo risulta propriamente l’anima razionale nella sua dimensione unitaria. L’anima razionale75 è l’anima gnostica, modello per tutti coloro che aspirano alla perfezione, una perfezione destinata a sua volta a compiersi verosimilmente in prospettiva escatologica. L’anima razionale-spirito santo tuttavia ha un rapporto non immediato con la dimensione corporea: Clemente si dimostra alla ricerca di un elemento che funga da mediatore e lo individua nella libertà di scelta che ha l’ἡγεμονικόν. E che il tentativo di individuare una mediazione tra dimensione corporea e dimensione della purezza unitaria e intelligibile sia voluto e non casuale lo dimostra proprio il piano su cui Clemente colloca la mediazione. Si tratta cioè della nozione di potenza, con la quale l’Alessandrino tende a descrivere il carattere unitario dell’anima razionale e che ora, in str. 6, 16, 134-136, si contrappone alla condizione di acquisizione dello spirito santo, la quale è detta appunto atto76. Ora, nonostante la posizione di Clemente, per l’abbondante uso in senso tecnico che fa del binomio potenza-atto, sia generalmente più prossima alla soluzione aristotelico72 Lo gnostico, dice Clemente, «prega e già insieme possiede, prossimo com’è alla potenza (δύναμις) che tutto può. Si adopera per raggiungere uno stato spirituale, anzi attraverso l’amore (ἀγάπη) che non conosce limiti è tutt’uno con lo spirito… Gli è facile applicarsi alla contemplazione e d’altro lato ha costante, nell’anima, la facoltà di dominare gli oggetti della sua contemplazione, cioè l’acutezza perspicace della scienza». 73 «Con l’elevazione ispirata della preghiera egli familiarizza quanto più possibile in modo gnostico con le realtà intelligibili e spirituali». 74 Dal momento che si tornerà a discutere più approfonditamente di questa operazione clementina nel prossimo capitolo, si rimanda alla nota 1 p. 116 per distinguerla da quanto sostiene Origene in merito. 75 Per la cui definizione si veda pp. 69-70. 76 Cf. Rutherford 2010, p. 40 sul concetto di «“training” role of the Spirit».

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Passibilità divina

plotiniana (anima come atto del corpo) che a quella formulata da Proclo (dottrina del veicolo dell’anima), in tale ricerca della mediazione tra anima e corpo la sensibilità dell’Alessandrino pare più affine a quella di Proclo, puntando a una realtà che ponga in rapporto la dimensione corporea con l’anima razionale intelligibile senza comprometterne la purezza. È tuttavia interessante notare come in Clemente due modelli concettuali, elaborati per rendere conto del rapporto tra anima e corpo e che si verranno a fissare nei secoli successivi, si trovino mescolati assieme, attestando l’appartenenza dell’Alessandrino a un contesto culturale di matrice platonica. Un ulteriore argomento, infine, a favore della tesi dell’adozione, da parte di Clemente, del modello concettuale del «veicolo pneumatico» sta nel fatto che tanto la dottrina platonica dell’ὄχημα quanto quella clementina del χαρακτηριστικόν ἰδίωμα servono a rendere ragione della singolarità di ciascun individuo. L’idea del veicolo pneumatico, nel medio e neoplatonismo, dovrebbe rendere conto del fatto che l’anima, pur essendo il luogo in cui le impressioni sensibili divengono coscienza, porta anche le tracce del percorso personale di ciascuno, fatto di scelte che sono atti di assenso o dissenso dati alle passioni carnali. Le passioni implicano un appesantimento del corpo etereo o pneumatico dell’anima, come se si aggiungessero strati ulteriori al veicolo, i quali sono destinati ad abbandonare gradatamente l’anima lasciandola nella sua originaria purezza e unitarietà, una volta avvenuto, con la morte, il distacco di questa dal corpo e a seguito di complessi processi di purificazione77. Il veicolo pneumatico, quindi, è stato escogitato per salvaguardare la perfezione dell’intelligibile (cioè l’anima-idea) e al contempo la possibilità di infinite sue declinazioni a seconda di ciascuna storia personale, fatta di scelte, errori, ignoranza e che può meritare premi o ricevere castighi nell’oltretomba. La stessa attenzione si trova anche in Clemente. A ben vedere, l’immagine delle appendici basilidiane (cf. p. 70) non è che una variante del modello dell’ ὄχημα nella misura in cui si articola in uno schema che implica due momenti: a) le prime appendici, che costituiscono una sorta di involucro protologico legato alla caduta, che i basilidiani definiscono «confusa perturbazione archetipica». Questo primo rivestimento corrisponde al veicolo dell’anima nel sensibile che, in quanto tale, comporta già una degradazione ontologica rispetto alla natura puramente intelligibile dell’anima razionale;

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Cf. Festugière 1953, pp. 119-174.

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II. Anima e antropologia 91

b) una serie di appendici successive, resa possibile dalla presenza delle prime, che permette una certa distinzione tra gli individui a seconda del tipo e della quantità delle seconde appendici aggiuntesi alle loro anime. Se tuttavia Clemente conosce questo modello è anche vero che lo accetta solo parzialmente e vi apporta, per di più, modifiche sostanziali. Come si è visto, infatti, egli ritiene necessario dare una maggiore evidenza al libero arbitrio dell’uomo e a tal fine, appunto, preferisce parlare di ἰδίωμα χαρακτηριστικόν. Il concetto è utilizzato dall’Alessandrino sempre per esprimere l’individuazione, come vale per ogni variante del modello del veicolo dell’anima. Inoltre, esattamente come tende a fare tale modello, anche la soluzione clementina sfocia in una pneumatologia, dal momento che l’ἰδίωμα χαρακτηριστικόν è «ἰδίωμα χαρακτηριστικόν dello spirito santo». Ma come spiegare il fatto che, al di là dell’attenzione per la storia individuale e per un’entità mediatrice tra anima e corpo, nonché dell’uso del termine πνεῦμα, l’Alessandrino non giunge a postulare un vero e proprio “veicolo pneumatico”? Globalmente, infatti, come si è detto, Clemente è vicino alla sensibilità che sarà anche di Plotino e che porta ad accostarsi al tema della relazione tra anima e corpo mediante l’utilizzo del lessico aristotelico dell’atto e della potenza. Questo vocabolario, abbiamo visto, fornisce gli strumenti per dare una risposta etica all’ontologia gnostica (dei basilidiani, ma anche dei valentiniani). Tuttavia il pensiero dell’Alessandrino non va appiattito su quello di Plotino e anzi, di fatto, lo si può concepire come coerente rispetto alla necessità, che sarà poi anche di Proclo, di pensare a un “veicolo” che medi la corporeità e l’intelligibilità dell’anima razionale. Del resto, come si è già detto, non possiamo prendere dei filosofi pagani successivi come riferimento a cui adeguare i contenuti della riflessione clementina. Non è soltanto la distanza temporale a separare tra loro questi autori, ma anche le fonti da loro utilizzate: nello specifico, si è detto che per Clemente giocano un ruolo di primaria importanza le Sacre Scritture e la loro tradizione esegetica. Clemente, insomma, si muove con coerenza terminologica e con originalità di soluzioni rispetto al suo contesto. Di esso assume soltanto le dottrine funzionali alla sua argomentazione, tralasciando gli aspetti meno rilevanti ai suoi scopi esegetici, teologici o polemici. Il concetto centrale che emerge è comunque quello di πνεῦμα come, al contempo, atto e potenza. Esso opera, nella sua ambiguità, a livello antropologico, ma se ne è anche potuta scorgere una risonanza sul piano metafisico, nel momento in cui, proseguendo il ragionamento intrapreso in str. 6, 16,

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Passibilità divina

134-136, Clemente afferma che la potenza prima contrapposta all’atto coincide con l’azione archetipica del Figlio. Le Sacre Scritture e la loro tradizione esegetica richiamata da Clemente sembrano marcare uno scarto incolmabile tra l’Alessandrino e qualsiasi autore pagano che non ne abbia fatto oggetto di analisi. La principale conseguenza della differenza di fonti utilizzate sembra agire soprattutto sulla funzione dell’anima razionale di Clemente rispetto all’anima-ipostasi di Plotino e, più in generale, sull’idea di azione archetipica dei primi principi elaborata dalle varie dottrine di scuola platonica.

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II.2.2. Tripartizione dell’anima e passibilità divina Indaghiamo ora il senso della psicologia tripartita di str. 6, 16: che rapporto c’è tra questa impostazione e altre definizioni di suddivisione dell’anima che Clemente fornisce? Collocata nel contesto dell’intera opera, la pericope di str. 6, 16, 134-136 (cf. pp. 80-81) presenta certamente un’elaborazione tecnica maggiore. Altra netta formulazione della dottrina dell’anima tripartita con cui però è necessario confrontarsi è quella di paed. 3, che permetterà di confermare come non sia necessariamente la tripartizione il tratto più caratteristico e peculiare della psicologia di str. 6, 16. L’analisi di paed. 3, 1, infine, ci aiuterà a trarre alcune conclusioni sul ruolo della filosofia per la dottrina dell’anima di Clemente e sul suo fungere da appoggio per importanti formulazioni teologiche (cf. pp. 110-113). La descrizione della composizione dell’uomo offerta dall’Alessandrino nella sezione degli Stromati presa in esame finora, alla luce della centralità del binomio potenza-atto, ci pone di fronte a una psicologia chiaramente tripartita: spirito carnale o corporeo, spirito egemonico o deliberativo e spirito santo. In ciò ha ragione Laura Rizzerio, che, per prima, ha interpretato nel senso di una psicologia tripartita i tre pneumata78. Tuttavia, senza scorgere la centralità del nesso potenza-atto, è impossibile stabilire se i tre «spiriti» siano propriamente “parti” dell’anima o “stati” in cui, più in generale, l’uomo si può trovare. Ricondurre la denominazione delle parti dell’anima come πνεύματα a momenti della dialettica potenza-atto permette di ampliare lo spettro delle possibili consonanze di Clemente con il suo contesto. Rizzerio infatti si riferisce unicamente ad Alcinoo come possibile interlocutore di Clemente e, in 78

Rizzerio 1988, p. 127.

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effetti, Alcinoo pensa a un’anima tripartita, la cui parte superiore è detta λογιστικόν79. Se si confronta la psicologia clementina con quella di Alcinoo, la sua proposta di un’anima tripartita in tre «spiriti» risulta però alquanto inusuale. Verrebbe piuttosto da pensare che l’Alessandrino si stesse riferendo a componenti dell’uomo e non a parti dell’anima. In realtà la posizione di Clemente in rapporto alla psicologia tripartita di Alcinoo risulta più nitida considerandola alla luce della disputa tra la dottrina dell’anima di Galeno e quella – mediostoica – di Posidonio. Vediamone l’attestazione in Galeno. Gal. In Pl. Ti. 2, 9: restano da citare coloro che sostengono che esisterebbe un’unica sostanza della nostra anima, dotata di tre potenze, quella razionale, l’irascibile e la desiderativa… Platone diceva che la desiderativa era una forma (εἶδος) dell’anima, non tale da avere una natura nelle piante e un’altra in noi, ma la stessa natura e che si trova nel fegato, cioè non nello stesso luogo in cui si trovano anche quella irascibile e quella razionale… Platone chiama questi principi forme dell’anima non soltanto potenze di un’unica sostanza80.

Il brano di Galeno permette di collocare la psicologia di Clemente in un contesto di autori a lui contemporanei, di orientamenti differenti. In tal modo la stessa terminologia adottata dall’Alessandrino per definire una posizione intermedia tra la psicologia mediostoica di Posidonio e quella medioplatonica di Galeno appare giustificata. Il medico di Pergamo sta contestando agli stoici l’idea per cui tutte le anime dei viventi avrebbero le stesse funzioni, ma con un diverso grado di sviluppo nelle piante, negli animali e nell’uomo. Al contrario egli sostiene che l’anima sia composta da una sorta di “parti”, le quali sono definite “forme”, e afferma che ciò che per gli stoici era la funzione dell’anima nei vegetali, sia la forma inferiore di quella umana e vada collocata nel fegato. Il quesito che sta a monte di queste discussioni e che distingue i diversi orientamenti è se l’anima sia o meno composta di parti81. Anche Clemente è consapevole di analoghe differenze di orientamento e ce ne dà prova nel Cf. Rizzerio 1988, pp. 136-139. Ἀπολείπεται δὲ ἀναμνῆσαι τοὺς μίαν οὐσίαν λέγοντας εἶναι τῆς ψυχῆς ἡμῶν δυνάμεις ἔχουσαν τρεῖς, λογιστικήν τε καὶ θυμοειδῆ καὶ τρίτην τὴν ἐπιθυμητικήν… ὁ Πλάτων εἶδος ἔφη ψυχῆς εἶναι τὸ ἐπιθυμητικόν, οὐχ ἑτέραν μὲν ἔχον ἐν φυτοῖς, ἑτέραν δὲ ἐν ἡμῖν φύσιν, ἀλλὰ τὴν αὐτήν, ᾠκίσθαι τε κατὰ τὸ ἧπαρ, οὐ κατὰ τὸν αὐτὸν δηλονότι τόπον, ἐν ᾧ τό τε θυμοειδὲς καὶ τὸ λογιστικόν… Πλάτων δὲ ὀνομάζει τὰς ἀρχὰς ταύτας εἴδη ψυχῶν, οὐ μιᾶς οὐσίας δυνάμεις μόνον. 81 Problema aperto anche nello stoicismo classico, cf. la soluzione attestata da Aezio della metafora della piovra per descrivere l’anima in Aëti. Plac. 4, 21.2. Per un commento cf. Long-Sedley 1987, 1, p. 321. 79 80

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cosiddetto ottavo stromate. In str. 8, 10, infatti, egli afferma che la peculiarità della psicologia platonica consiste nel ritenere che anche i vegetali siano dotati di anima, e ciò in virtù del fatto che quanto per gli stoici è soltanto «potenza vegetativa» (str. 8, 10.4), e cioè quello che Filone aveva definito τόνος82, diventa la «specie concupiscibile» dell’anima sia animale che umana (str. 8, 10.3). L’impostazione antropologica di str. 6, 16, 134-136 è del tutto conforme alla psicologia platonica, la quale, a una componente dell’anima che è concupiscibile, ne accosta altre superiori; Clemente a sua volta affianca l’elemento che coordina le funzioni basilari del vivente (πνεῦμα σαρκικόν) ad altri due πνεύματα: quello responsabile delle scelte etiche e delle attività intellettive (πνεῦμα ἡγεμονικόν) e lo spirito santo (ἅγιον πνεῦμα). Ma nel concepire tra le singole parti così definite un rapporto di potenza-atto – dal momento che nel contesto centrale che anche lui conosce la parte che egli chiama carnale o corporea altro non è se non ciò che garantisce la vita già in piante e animali – finisce col pensare a una gerarchia di sviluppo tra vegetali e uomo, avvicinandosi ai modelli psicologici stoici. Pertanto, mentre Galeno presenta una psicologia di tre εἴδη e una ψυχή, e Posidonio parla di tre δυνάμεις e una οὐσία, Clemente opta per tre spiriti. Questi a loro volta sono concettualmente affini a tre potenze, ma lo sono come potenze di un’unica ἐνέργεια, la quale è ancora spirito, lo spirito santo appunto. Si può così assistere all’elaborazione di una psicologia nettamente tripartita, dotata di originalità sia terminologica – nella misura in cui le parti dell’anima sono definite πνεύματα – che concettuale, in quanto allo πνεῦμα viene attribuito uno statuto intermedio tra quello della potenza e quello dell’atto. Nonostante la forte propensione per un modello tripartito, va detto anche che, in linea di massima e soprattutto in prossimità delle sezioni in cui promette futuri approfondimenti relativi all’anima, Clemente oscilla tra una psicologia bipartita e una tripartita, senza mostrare particolare interesse per precisazioni specifiche. Infatti, ora l’ἡγεμονικόν è parte dell’anima con la funzione di bilanciare qualcosa di superiore e qualcosa di inferiore come in str. 6, 16, 134-136 (è il caso, anche e per esempio, di str. 4, 22, 139.2-3 in cui la parte-guida dell’anima articola virtù e immagini derivanti da emozioni83), ora invece l’anima è in forte Cf. Ph. Leg. alleg. 2, 22-23. Per un commento cf. Long-Sedley 1987, 1, p. 289. Se ne veda la traduzione: «Chi ha imparato ad amare Dio non possederà mai la virtù in modo da poterla perdere, né da sveglio né nel sonno né per un’immaginazione (φαντασία) qualsiasi… E ciò perché, non insinuandosi mai pensieri diversi, l’ἡγεμονικόν resta sempre inalterato e non assume nessuna varietà di rappresentazioni, 82 83

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tensione tra una parte superiore e una inferiore (str. 2, 13, 59.684; 4, 6, 28.1-285; 4, 3, 9.486). Più in generale, si può dire che l’Alessandrino fornisce due diverse versioni – non tecniche – dell’anima tripartita: una prima pone al sommo grado l’anima razionale (str. 1, 24, 158-159), la seconda vi vede l’intervento diretto del Logos (per esempio str. 1, 5-6; 2, 13, 59.6). Di più: per essere precisi, vagliando il numero di riferimenti clementini a suddivisioni dell’anima nel corso degli Stromati, si può dire che la natura della psicologia clementina è fortemente duale. Clemente, di tutta la psicologia tradizionale platonica, privilegia il momento della scelta/conversione (str. 4, 6, 28.1-2) oppure semplifica le attività dell’anima riducibili all’impulso della διάνοια (str. 2, 13, 59.6) dal quale consegue il predominio di una delle sue parti sull’altra, cioè della parte irrazionale su quella razionale e viceversa. Richiama così un orizzonte che è platonico per due ragioni: per l’importanza della scelta di vita e per il dissidio interno alle parti dell’anima. Ma è l’esigenza stoica della responsabilità, che gli giunge verosimilmente dal milieu alessandrino87, nemmeno riproducendo in sogno le immagini (φαντασίαι) derivanti dalle emozioni della giornata». Va tenuto comunque conto della debita diversità tra il caso di str. 4, 139.3 e quello di str. 6, 134-136: nel brano di str. 6, infatti, l’ἡγεμονικόν era uno πνεῦμα collocato in una posizione intermedia, tra due ulteriori πνεύματα (quello ἅγιον e quello σαρκικόν), nella pericope di str. 4, invece, si ha l’ἡγεμονικόν che sceglie tra virtù e immagini provenienti dal corpo. 84 L’anima come entità soggetta a un moto d’assenso, definito «impulso», verso un determinato oggetto è descritta in str. 2, 13, 59.6: «Un impulso (ὁρμή) è un moto del pensiero (διάνοια) verso qualcosa o da qualcosa; una passione (πάθος) è un impulso eccessivo o che si estende oltre i limiti segnati dalla ragione (ὑπερτείνουσα τὰ κατὰ τὸν λόγον μέτρα), ossia un impulso scatenato e disubbidiente alla ragione. Dunque le passioni sono un movimento dell’anima (κίνησις ψυχῆς) contro natura, per la sua disubbidienza alla ragione – e questo ritrarsi e allontanarsi e disubbidire dipende da noi, come anche dipende da noi l’ubbidienza: ed è per questo che gli atti volontari sono soggetti a giudizio –. Insomma, se uno studia le passioni una per una, le trova tendenze irrazionali». 85 str. 4, 6, 28.1-2 assume la posizione di Crisippo (cf. Chrysipp. Stoic. fr. mor. 221) e di Platone (R. 7, 521 c; 525 c; 531 b) per definire l’anima come moto di conversione: «Gli stoici affermano che la conversione (μεταστροφή) al divino avviene per un mutamento (μεταβολή) che l’anima attua in sé passando alla sapienza, Platone invece, perché “l’anima” accoglie una evoluzione verso il meglio, “una conversione (μεταστροφή) dopo una giornata tenebrosa”». Qui la μεταβολή interna all’anima e la giornata tenebrosa richiamano l’immagine del travaglio, del dissidio nell’intimo dell’anima. 86 str. 4, 3, 9.4-5: assomiglia, purtroppo, al centauro della mitologia tessalica, composto com’è di elemento razionale ed elemento irrazionale… L’anima è protesa verso Dio, almeno in quanto è istruita mediante la vera filosofia; aspira ai suoi congiunti di lassù, distolta che sia dai desideri del corpo, dalle pene e dal timore. 87 Gli argomenti a sostegno di libero arbitrio e responsabilità che Clemente espone in str. 2, 20, 110-111 sono gli stessi che si trovano sia in quella sezione del De Principiis origeniano comunemente nota come “trattato sul libero arbitrio” (cf. princ. 3, 1, 2-3), sia in Filone (cf. Leg. alleg. 2, 22-23; 1, 30). Ciò permette dunque di collo-

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a servire a due scopi. Da un lato essa concilia, nell’educazione dell’anima, l’elemento cristiano della benevolenza di Dio con il libero arbitrio (cf. str. 1, 27, 171.1-4), dall’altro rende le parti stesse dell’anima metafore per alludere a possibili scelte alternative. Si tratta di scelte che conservano sempre la natura della μετάνοια e dell’ἐπιστροφή e le cui alternative sono una passionalità – di cui la caduta e la morte assumono valore simbolico e metaforico – e un progresso connotato dai tratti di un continuo martirio (cf. str. 2, 7, 34-35). Questo accade perché i contesti in cui Clemente si trova a trattare di temi psicologici sono o quello dell’assenso dell’anima alle passioni, che rientra nella cornice della «prima promessa» di una futura trattazione sull’anima (cf. p. 47), oppure quello dell’esortazione al martirio, che fa da sfondo alla seconda e alla terza promessa (cf. pp. 47-48). In entrambi i casi ciò che più gli preme è fronteggiare il pressante confronto con gli gnostici. Per quanto concerne la prima promessa, Clemente cerca e ipotizza una dottrina in grado di sostituire libero arbitrio e responsabilità all’immagine basilidiana della caduta. Per le due successive l’Alessandrino usa il martirio come metafora di un progresso88. Il contesto in cui sono inserite, infatti, è dominato da una valutazione globalmente positiva del confessore o del martire (str. 4, 9, 70-75) volta ad assumere poi un valore simbolico. La condizione del «vero gnostico» di str. 4 è essenzialmente “martirio” (cf. p. 158); è il compimento di una corretta interpretazione delle Scritture ed è μελέτη, esercizio platonico della morte. Come nel caso della confutazione dei basilidiani in str. 2, ad essa si oppone l’interpretazione errata dei «falsi gnostici», che è frutto dell’asservimento dell’anima alla passionalità. Αl riguardo Clemente giunge addirittura a teorizzare che la loro anima possa morire (str. 2, 7, care Filone Clemente e Origene in un contesto particolarmente sensibile all’utilizzo di materiali stoici, tra cui spicca la centralità di Chrysipp. Stoic. fr. phys. 368; 716 e Chrysipp. Stoic. fr. phys. 499. Ciò rende difficile pensare che Clemente acceda in modo diretto (cioè senza il filtro costituito da fonti stoiche o mediche) ad Aristotele, come al contrario aveva supposto Lössl 2002, a sostegno invece delle posizioni di Clark 1977, p. 59 e Osborn 1994. 88 Pur nei limiti tracciati da Rizzi 2003a, il resoconto offerto da van den Hoek relativo alla presenza anche in Clemente di un’idea spiritualizzata del martirio (van den Hoek 1993) conserva comunque la sua validità, come riconosciuto dallo stesso Rizzi 2000, pp. 109-115. Del resto il martire incarna virtù proprie dello gnostico. Il martire infatti è colui che è davvero virile e l’alternativa al martirio è effeminatezza (str. 2, 18, 81.3-4); il martire domina il piacere (str. 2, 20, 125.4), perché il piacere, platonicamente, inchioda l’anima al corpo rammollendola (cf. Pl. Phd. 83 d e Lg. 1, 633 d) e pertanto il martirio viene a essere innanzitutto distacco dalle passioni (str. 2, 20, 108.2). Il corpo, mortale, rapportato al martire diviene metafora delle passioni: (str. 2, 19, 102.6 – 2, 20, 103.1). La fortezza del martire, infatti, si traduce nell’esercizio teso a vincere le passioni (str. 7, 11, 67.3) e corrisponde all’apporto umano all’assimilazione a Dio. Sul rapporto tra la seconda e la terza promessa e il martirio cf. Dainese 2012b, pp. 224-228.

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32-35). Si delineano così due accezioni (positiva o negativa) del termine “morte” le quali diventano due opzioni tra cui scegliere e di cui assumersi la responsabilità. Queste due accezioni devono essere lette alla luce della metafora dell’anima che si adegua alla Provvidenza del Dio libero e filantropo, imparando a discernere l’aiuto divino che, nelle Sacre Scritture, si rivolge all’uomo (2, 19, 102.6). Dio, che è libero, dona all’uomo la Scrittura per la sua salvezza; all’uomo, altrettanto libero, spetta la possibilità di interpretarla correttamente (morte gnostica, che equivale all’anticipazione della beatitudine escatologica) o in modo sbagliato (morte dell’anima, eresia). L’idea della morte dell’anima ci restituisce un Clemente che esce dai canoni del platonismo tradizionale e conferma pertanto la sua scarsa attenzione per il tecnicismo, almeno in queste sezioni dell’opera89. L’Alessandrino sembra preoccupato piuttosto dalla necessità di dare una prima risposta allo gnosticismo e, da questo punto di vista, la differenza rispetto al passo di str. 6, 16, 134-136 è notevole. Quanto esposto in str. 6, 16, infatti, mostra di avere alle spalle una certa riflessione in merito ai temi dell’anima e dell’individuazione, che ha già fatto i conti con il contesto filosofico dell’epoca, di cui viene ripresa e sviluppata la terminologia. Insomma si può dire che, in un primo confronto con i suoi interlocutori gnostici, Clemente tende ad abbracciare una soluzione dualista, puntando poi, in sede di più completa riflessione sulle dottrine psicologiche dei filosofi suoi contemporanei, a una più complessa tripartizione dell’anima. Ciò in ogni caso non esclude che, nei limiti di tale “dualismo”, si possano avere anche presentazioni tripartite della psicologia, soprattutto per quei testi in cui sembra lontano il confronto con lo gnosticismo. È il caso, ad esempio, del succitato terzo libro del Pedagogo. Qui infatti la tripartizione dell’anima espressa da Clemente (in paed. 3, 1) si accorda del tutto con la psicologia bipartita di Stromati, uscendo come questa dallo schema della psicologia platonica tradizionale. Il terzo libro del Pedagogo si apre con l’interessante esposizione di una psicologia tripartita. Il Pedagogo accenna soltanto qui a una partizione dell’anima, ma ciò avviene per esprimere uno dei concetti-chiave dell’intera opera, cioè l’azione della pedagogia del Logos nell’anima. A tal fine, appunto, Clemente parla di «tre generi»: Clem. paed. 3, 1, 1.2: ora... l’anima è in tre generi: quello intellettivo – che dunque è detto λογιστικόν – è l’uomo interiore, cioè colui che governa (ἄρχων) questo uomo sensibile mentre un altro – Dio – lo 89 Una delle proposte del presente lavoro, infatti è che str. 6 e 7 provino una maturazione nella dottrina clementina dell’anima. Vide infra pp. 162-179.

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guida (ἄγει); il genere irascibile, che è bestiale, dimora vicino alla pazzia; e il terzo e concupiscibile è polimorfico, più vario del demone marino Proteo, cambia ora l’una ora l’altra forma, ed è propizio all’adulterio, alla lascivia e alla corruzione90.

Di questo passo possiamo sottolineare due aspetti: un primo, relativo alla natura filosofica del pensiero clementino qui esposto, e uno riguardante il suo contenuto teologico. Il primo è di ordine terminologico e consiste nella collocazione della tripartizione dell’anima al di fuori di un contesto tecnico come quello di str. 6, 16 e soprattutto al di fuori del serrato confronto con lo gnosticismo. Il secondo aspetto, di interesse teologico, sarà oggetto di analisi e approfondimento più avanti. In questa sede ci limiteremo ad anticipare soltanto che Clemente, poco oltre, legherà la tripartizione dell’anima alla “passibilità” divina. Due elementi permettono di ipotizzare che il ragionamento dell’Alessandrino qui non sia particolarmente tecnico. Innanzitutto Clemente definisce l’anima come τριγενής e non c’è nulla che permetta di decidere se egli stia prendendo una posizione più favorevole a intendere il γένος come potenza ovvero come parte dell’anima. Ciò indica la sua estraneità al contesto polemico testimoniato da Galeno (cf. p. 93), in cui la definizione delle parti dell’anima oscillava tra εἴδη e δυνάμεις. Ora, se la specificità di str. 6, 16, 134-136 era l’applicazione al piano antropologico di una matura riflessione sul rapporto tra anima generale e anima individuale, mancando qui, in paed. 3, 1, ogni riferimento critico al contesto filosofico dell’epoca, risulta che Clemente è poco interessato a mettere a fuoco il problema dell’individuazione. E se la sensibilità al tema dell’individuazione è sviluppata in un serrato confronto con lo gnosticismo, ciò significa che è proprio questo dialogo con gli gnostici a mancare nel Pedagogo. In effetti, nel corso dell’intera opera è assolutamente assente ogni polemica antignostica e gli gnostici in quanto tali vengono nominati solo due volte (paed. 1, 6, 31.1; 1, 6, 52.2). Il secondo elemento consiste nel fatto che Clemente, in generale, qui sembra aderire maggiormente al testo di Platone e, per la precisione, data la ricorrenza nella pericope di paed. 3, 1, 1.2 del verbo ἄρχω, pare richiamarsi alla metafora che Platone utilizza in R. 4, 440 e 10. Ivi Platone, per argomentare la tesi dei tre εἴδη dell’anima, ricorre al pa90 Τριγενοῦς... ὑπαρχούσης τῆς ψυχῆς τὸ νοερόν, ὃ δὴ λογιστικὸν καλεῖται, ὁ ἄνθρωπός ἐστιν ὁ ἔνδον, ὁ τοῦ φαινομένου τοῦδε ἄρχων ἀνθρώπου, αὐτὸν δὲ ἐκεῖνον ἄλλος ἄγει, θεός· τὸ δὲ θυμικόν, θηριῶδες ὄν, πλησίον μανίας οἰκεῖ· πολύμορφον δὲ τὸ ἐπιθυμητικὸν καὶ τρίτον, ὑπὲρ τὸν Πρωτέα τὸν θαλάττιον δαίμονα ποικίλον, ἄλλοτε ἄλλως μετασχηματιζόμενον, εἰς μοιχείας καὶ λαγνείας καὶ εἰς φθορὰς ἐξαρεσκευόμενον.

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II. Anima e antropologia 99

ragone con la polis, della quale, afferma, esisterebbero tre γένη91: χρηματιστικόν, ἐπικουρητικόν, βουλευτικόν. Ora, se da un lato Clemente non pare qui sensibile ai temi caratteristici della riflessione psicologica di scuola, dall’altro lato, nell’unico riferimento dell’intera opera al tema della tripartizione nell’anima, usa un termine estraneo a quelli attestati dalle varie tradizioni platoniche, ma prossimo al senso del testo platonico originario. Ciò permette di correggere la tesi di Dietmar Wyrwa, il quale aveva mostrato che Clemente si era riferito a Platone con interpretazioni originali di fronte a problemi aperti dagli gnostici dualisti in merito al rapporto anima-corpo e, per la precisione, in relazione alla protologia92. Se infatti a essere assente nel resoconto clementino del Pedagogo è proprio il confronto con posizioni gnostiche, almeno per questo specifico caso la visione generale di Wyrwa non regge più. Ne consegue che la psicologia tripartita ha comunque una base genuinamente platonica, non è solo il frutto di un’influenza stoica, e prescinde dal confronto con lo gnosticismo. Dunque, da quanto visto a proposito di paed. 3, pare si debba riconoscere una sorta di propensione originaria, da parte di Clemente, alla psicologia tripartita. Ciò parrebbe contraddire quanto abbiamo affermato relativamente a str. 2-4, cioè al ruolo basilare di una tendenza antropologica dualistica. In realtà anche la tripartizione dell’anima di paed. 3, 1 rientra in questo schema e ciò è molto importante perché costituisce il nesso tra la dottrina dell’anima di Clemente Alessandrino e il cuore stesso della sua teologia: la passibilità divina. Nel presente capitolo non verrà approfondita la questione sul piano teologico, ma ci si limiterà a toccarne le basi filosofiche e antropologiche. Sicché, per trarre un bilancio relativo alla tripartizione dell’anima, va rilevato che non è tanto la psicologia bipartita o tripartita a decidere del ruolo del platonismo in Clemente. Ciò è ancor più notevole anche per via del fatto che, come si è detto e si vedrà, la psicologia tripartita – per lo meno nella versione del Pedagogo – risente di un approccio non tradizionale ai testi di Platone. Al contrario, se la scelta della tripartizione avesse una ragione soltanto antignostica, potrebbe sembrare che tutto lo spessore filosofico della riflessione clementina abbia avuto un’origine polemica. Ma questo va escluso, perché il platonismo è comunque la base della formazione di qualsiasi intellettuale della tarda antichità. Risulta significativo il fatto che, quando Clemente si trova con certezza a dover dare almeno una prima risposta ai suoi interlocutori gnostici, utilizzi un certo modello di 91 92

Dörrie 1987-, 6.1, p. 345. Cf. Wyrwa 1983, in part. pp. 190-224.

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anima, non interessato ai problemi dell’individuazione e della mediazione tra anima razionale e individuale, ma piuttosto alla facoltà di scelta, e che questo sia poi oggetto di modifica ed elaborazione in sede di riflessione dottrinale.

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II.2.2.1. Teologia e antropologia Il contesto teologico del passo di paed. 3, 1, 1 è imprescindibile, se si vogliono comprendere i contenuti strettamente filosofici della dottrina dell’anima in esso esposta e la loro centralità per la psicologia clementina nel suo complesso. Questo paragrafo, conclusivo del capitolo, sarà pertanto una digressione sulla dottrina dell’anima nel Pedagogo e va inteso come anticipazione della discussione sui risvolti teologici della psicologia dell’Alessandrino. Una tale anticipazione è necessaria per via del fatto che le categorie di anima, ragione, intelletto, non sono appannaggio esclusivo dell’antropologia, bensì sono intimamente legate alla dimensione intelligibile, cioè alla sfera del divino93. Sicché parlare di ψυχή, λόγος e νοῦς significa per Clemente fare un discorso che è necessariamente anche teologico. Se si prosegue con la lettura del passo del Pedagogo in cui Clemente menziona l’anima tripartita, si scorgono infatti, implicati in esso, due soggetti, cioè Dio (Padre e Figlio) e l’uomo94. E questo è esattamente il tema letterario dell’intero Pedagogo: la relazione tra Λόγος divino e anima umana. Lo scritto, probabilmente indirizzato da Clemente a una gioventù benestante nel tentativo di formare la futura élite culturale cristiana in grado di competere con quella pagana di allora95, è un’opera dotata di una struttura letteraria coerente, non una raccolta di tesi come sono, ad esempio, gli Excerpta ex Theodoto o le Ecloghe Profetiche, e di ciò si è già discusso in introduzione96. Di con-

93 Come chiarito soprattutto da Festugière 1953, p. 14 e, in seguito, almeno dal già citato Tardieu 1987. 94 Clem. paed. 3, 1, 2.1: μυστήριον ἐμφανές· θεὸς ἐν ἀνθρώπῳ, καὶ ὁ ἄνθρωπος θεός, καὶ τὸ θέλημα τοῦ πατρὸς ὁ μεσίτης ἐκτελεῖ· μεσίτης γὰρ ὁ λόγος ὁ κοινὸς ἀμφοῖν, θεοῦ μὲν υἱός, σωτὴρ δὲ ἀνθρώπων, καὶ τοῦ μὲν διάκονος, ἡμῶν δὲ παιδαγωγός (Mistero manifesto! Dio è nell’uomo e l’uomo è Dio, e il mediatore compie la volontà del padre; infatti il Λόγος comune ad entrambi è mediatore: figlio di Dio, ma salvatore degli uomini; del primo servo e di noi pedagogo). 95 Cf. Monaci 2003, p. 37. 96 Questa struttura coerente potrebbe essere il frutto non di una stesura unica, bensì di un lavoro di collazione e redazione di materiale eterogeneo. È un’ipotesi che per primo ha formulato Martin Pujiula. Cf. Pujiula 2006, p. 93. In questo modo viene abbandonato il paradigma di Sclafert 1923, 532-556 (secondo cui, più che la redazione

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II. Anima e antropologia 101

seguenza l’incipit diviene uno strumento essenziale per orientarsi nell’intera opera97 e proprio nell’apertura del Pedagogo incontriamo i due soggetti in questione: il Λόγος da una parte e l’anima dall’altra. Clemente è attento a distinguere tre modi d’essere del Λόγος sulla base di «tre caratteristiche dell’uomo». Cioè a fronte di «costumi, azioni e passioni», ci sarà un Λόγος protrettico (προτρεπτικός), un Λόγος esortativo (ὑποθετικός), nonché un Λόγος consolatore (παραμυθητικός) – oppure, nella versione di paed. 1, 1.4, un Λόγος protrettico (προτρεπτικός) curativo (θεραπευτικός) ed esortativo (ὑποθετικός) –. Ma il dato più interessante consiste nel fatto che la descrizione dell’attività del Pedagogo non è più solo la dichiarazione della sua identità, bensì avviene in funzione dell’anima umana: il Pedagogo, afferma Clemente, «procede promuovendo... così anche il suo [= del Logos] fine è di migliorare l’anima»98. Il Pedagogo, insomma, dalle sue prime righe ci è presentato come l’opera che mette a tema l’azione del Logos divino sull’anima dell’uomo. Ciò detto, se ci si vuole concentrare sul ruolo dell’anima in rapporto al Logos non si può non tenere conto almeno in una minima parte di quanto avvenga al Logos e, più in generale, al piano del divino nel corso dell’attività pedagogica. In proposito abbiamo individuato due modalità secondo cui Clemente esprime, nel Pedagogo, il coinvolgimento del divino nell’educazione dell’anima umana: l’una fa perno sulla metafora del medico99, l’altra insiste sulla passibilità divina. La metafora del medico è dichiarata già all’inizio dell’opera, in 1, 1, 3.3, per esprimere la terapia contro le passioni. Quest’immagine è particolarmente efficace se si vuole spiegare come un soggetto che è impassibile possa agire in modo passibile. Per comprendere ciò, partiamo dall’analisi dei due modi in cui si esplica l’attività pedagogica del Logos in quanto medico: il Pedadi un’esposizione di Clemente, il Pedagogo sarebbe un manuale, scritto praticamente sotto dettatura e consegnato in blocco a neofiti e catecumeni) e sostenuto in seguito da Stählin 1936 e Knauber 1972. 97 Analogamente tattico, come si è visto nel primo capitolo, è il richiamo alla struttura dell’opera a inizio del secondo libro, quindi sempre in una sezione introduttiva. Qui Clemente dichiara di voler preservare «la simmetria dell’opera» (paed. 2, 1, 1.2). Del resto si tratta del concetto di ἀκολουθία testuale su cui l’Alessandrino ritorna ripetutamente. 98 Accanto a ciò, stando a quanto l’Alessandrino afferma in paed. 1, 3, 8.3-9, l’anima è anche l’elemento di giuntura tra le diverse parti del progetto letterario di Clemente (cf. pp. 39-40). 99 Sul confronto tra l’interpretazione del tema del Logos-medico da parte di Clemente Alessandrino e la corrispettiva concezione in autori pagani come Filone di Larissa ed Epitteto, si può vedere, in generale, Slings 1995 e, specificamente interessata a Clemente, van den Hoek 2005, in part. pp. 89-90.

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Passibilità divina

gogo, dice Clemente, «invita a mettere in atto i doveri, suggerendo consigli puri e mostrando a coloro che vengono dopo le immagini dei peccatori precedenti». Lasciamo ora da parte l’«invito a compiere i doveri» e il «suggerimento dei consigli puri», e concentriamoci sulla manifestazione della peccaminosità. Già in paed. 1, 9, 85.2-4100 l’Alessandrino aveva parlato di una rinuncia pedagogica alla rettitudine: utilizzando Lv 26, 21-27 (cf. in particolare paed. 1, 9, 85.3), Clemente spiega che il Pedagogo rinuncia per il bene degli uomini alla bontà «retta, secondo natura, immutabile ed incrollabile» (1, 9, 85.4). Questa bontà rimane tale soltanto per chi, paolinamente (cf. Rm 1, 5 in paed. 1, 9, 85.4), «ha avuto fede a opera dell’obbedienza», e ciò significa, per Clemente, essere buon pastore (citazione di Gv 10, 11 in paed. 1, 9, 85.2): il Cristo fa quanto più possibile per l’uomo, rinuncia alla propria condizione divina, si fa fratello degli uomini fino alla morte. Tale è, appunto, la sua filantropia. L’intervento pedagogico del Logos sull’umanità consiste allora nel mostrarle, come in uno specchio, la sua precedente peccaminosità (2, 8, 74.3): «Come infatti lo specchio non è cattivo nei confronti di chi è brutto perché lo mostra quale egli è, e come il medico non è cattivo verso il malato se gli annuncia la febbre (infatti il medico non è causa della febbre, bensì ne è denuncia), allo stesso modo nemmeno colui che accusa l’anima sofferente è malevolo nei suoi confronti; infatti non immette i vizi, bensì pone in risalto le colpe già presenti per allontanare simili abitudini». Come si può vedere, l’applicazione della metafora del

100 Τοῦτον γὰρ μόνον ὁμολογεῖ «ἀγαθὸν» εἶναι «ποιμένα» (cf. Gv 10, 11)· μεγαλόδωρος οὖν ὁ τὸ μέγιστον ὑπὲρ ἡμῶν, τὴν ψυχὴν αὐτοῦ, ἐπιδιδούς, καὶ μεγαλωφελὴς καὶ φιλάνθρωπος, ὅτι καὶ ἀνθρώπων, ἐξὸν εἶναι κύριον, ἀδελφὸς εἶναι βεβούληται· ὃ δὲ καὶ εἰς τοσοῦτον ἀγαθὸς ὥστε ἡμῶν καὶ ὑπεραποθανεῖν. Ἀλλὰ καὶ ἡ δικαιοσύνη κέκραγεν αὐτοῦ· «ἐὰν ὀρθοὶ πρός με ἥκητε, κἀγὼ ὀρθὸς πρὸς ὑμᾶς· ἐὰν πλάγιοι πορεύησθε, κἀγὼ πλάγιος, λέγει κύριος τῶν δυνάμεων» (cf. Lv 26, 21), τὰς ἐπιπλήξεις τῶν ἁμαρτωλῶν «πλαγίας» αἰνιττόμενος «ὁδούς». Ἡ γὰρ εὐθεῖα καὶ κατὰ φύσιν, ἣν αἰνίττεται τὸ ἰῶτα τοῦ Ἰησοῦ, ἡ ἀγαθωσύνη αὐτοῦ, ἡ «πρὸς τοὺς ἐξ ὑπακοῆς πεπιστευκότας» (cf. Rm 1, 5) ἀμετακίνητoς ( riconosce che egli soltanto è il «Buon Pastore» (cf. Gv 10, 11): perché, munifico, offre per noi la cosa più grande – la sua stessa anima – ed è di grandissimo aiuto e filantropo, perché ha voluto anche essere fratello degli uomini, pur potendo esserne signore; inoltre la sua bontà è così grande da farlo morire per noi nel modo peggiore. 85.3. Ma la sua giustizia ha anche ammonito: «Se giungerete giusti davanti a me, anch’io sarò giusto davanti a voi: se sarete avanzati non rettamente, nemmeno io sarò retto, dice il signore delle potenze» (cf. Lv 26, 21, 23.27), alludendo, con cammini non retti, alle correzioni dei peccatori. 85.4. E infatti retta e secondo natura – cui allude la “ι” di Ιησοῦ – è la sua bontà, immutabile ed incrollabile per chi «ha avuto fede ad opera del­l’obbedienza» (cf. Rm 1, 5). Per l’uso del verbo αἰνίττομαι (che in questo brano ricorre ben due volte) in Clemente, cf. Dinan 2010a.

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II. Anima e antropologia 103

medico a Cristo consente di riaffermarne l’impassibilità e nello stesso tempo la mette in relazione alla passibilità peccaminosa dell’uomo101. Il secondo modello articola invece la peculiare forma della “passibilità” divina con la conformazione antropologica dell’anima umana. Già si è detto che la psicologia del Pedagogo non è particolarmente tecnica, nella misura in cui non tiene conto della mediazione dell’anima razionale – l’anima-idea, unitaria – (cf. pp. 69-70) tra la dimensione divina e quella umana. Di conseguenza, non stupisce di trovare, come vedremo più dettagliatamente, che una delle premesse fondamentali dell’antropologia di Clemente è quella della passibilità divina, inaccettabile, se presa alla lettera, a qualsiasi filosofo pagano a lui contemporaneo102. Per l’Alessandrino, infatti, il Logos divino in quanto pedagogo compie in questo caso la funzione di ἡγεμονικόν dell’anima umana. Quest’idea era implicita nell’ipotesi (cf. pp. 38-46) secondo cui l’occhio dell’anima era la pedagogia divina, si accorda con la metafora del Logos come medico e, come vedremo, sarà ancor più esplicita nella figura del συμπαθὴς θεός di paed. 3, 1, 2.1. Procediamo tuttavia con ordine, cominciando a notare come Clemente sviluppi il tema della pedagogia divina ricorrendo a un lessico e a immagini caratteristici della psicologia platonica tradizionale: Clem. paed. 1, 9, 87.1-2: duplice è la forma del timore. Di queste [= queste due forme] l’una è legata al rispetto; è quel che i cittadini portano nei confronti dei buoni governanti (ἡγεμόνες) e noi nei confronti di Dio, come i bambini saggi nei confronti dei padri: Un 101 La metafora del medico permette a vari autori cristiani (cf. per esempio Gr. Nyss. Eun. 3, 4, 31) di conciliare l’interazione tra l’impassibilità divina e la passibilità del paziente-peccatore. Per una spiegazione, cf. Gavrilyuk 2004, p. 9. 102 Il punto è che, in certa misura, Plotino e il platonismo post-plotiniano (Proclo cf. in Alc. 52) matura l’idea di una “discesa” del divino. In Plotino, nello specifico, questa concezione si esplicita nell’intendere la dottrina dell’emanazione come ἔρως creativo (come mostrò John Rist in Rist 1964, pp. 56-112 e p. 214) che discende dall’ipostasi superiore in quella inferiore. Si tratta di un’idea implicita, secondo Rist, nel concetto platonico di ἔρως (per Platone cf. Rist 1964, pp. 16-56 e, in particolare, p. 215), ma, come vedremo più avanti, anche nell’idea che si ritrova in Numenio di una sorta di “fuoriuscita” del Primo-dio dal piano dell’intelligibile nel sensibile (cf. infra, pp. 142143). Per quanto concerne la religione, inoltre, è Clemente stesso che, nel Protrettico, attesta la credenza pagana in divinità più che “passibili”, le cui peculiarità saranno poi oggetto d’interpretazione allegorica da parte di filosofi pagani (cf. Kobusch-Erler 2002). Tuttavia una tale radicalità nel fondare un sistema teologico sull’incarnazione e, come si vedrà nel corso della presente monografia, sull’interpretazione letterale e non solo allegorica o metaforica del Deus patiens, non ha precedenti nel platonismo contemporaneo a Clemente. Nessun filosofo pagano avrebbe potuto concepire in modo letterale il punto più ineffabile della perfezione divina come passione d’amore, fino all’incarnazione, del primo principio nei confronti della sua creatura.

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cavallo, infatti, dice, non domato diventa ribelle e un figlio lasciato libero, diventa sfrontato (Sir 30, 8). L’altra forma di timore è legata all’odio; è quella che nutrono i servi nei confronti dei padroni (δεσπόται)… Ma se si parla di pietà, è molto diverso, credo, e sotto ogni aspetto, ciò che è volontario e che avviene con una scelta da ciò che avviene per costrizione. Egli, infatti, è misericordioso: curerà anche i loro peccati e non li manderà in rovina; continuerà a richiamare indietro la sua collera e non darà sfogo a tutta la sua ira (Sal 77, 38)103.

La distinzione tra ἡγεμόνες e δεσπόται, che appare in paed. 1, 9, 87.1, è troppo esplicita per non tenere conto dell’affinità tra il cavallo domato di Sir 30, 8, che si rapporta all’azione di ἡγεμονεῖν, e la psicologia del Fedro, che torna ripetutamente negli scritti clementini. Siamo così di fronte allo stesso schema di dottrina dell’anima in cui CristoPedagogo è principio-guida del corpo in quanto l’occhio dell’anima umana, per il Clemente di quest’opera, è fondamentalmente la pedagogia del Logos (cf. pp. 38-46). Il rapporto tra Dio e uomo è così concepito da Clemente in termini psicologici, cioè come rapporto tra un principio-guida (la pedagogia divina) e un’anima. La psicologia espressa nel brano in analisi, tuttavia, si discosta in modo rilevante dalle caratteristiche principali del tema della pulizia dell’occhio dell’anima, leitmotiv della psicologia del Pedagogo. Uno dei presupposti dell’invito a tenere pulito l’occhio dell’anima era che l’attività di quest’ultima fosse mediata da un rapporto più o meno corretto con il corpo. Ma ad eccezione del principio-guida (al plurale, ἡγεμόνες, in questo caso), l’anima di cui si parla in paed. 1, 9, 87 non è un’entità libera di assentire o resistere agli impulsi corporei o carnali. Per quanto infatti Clemente ribadisca la libertà dell’uomo, sostiene in realtà che questa sia il prodotto dell’attività di un Dio che è principio-guida di un popolo descritto come cavallo irrazionale. Detto altrimenti, il concetto di anima impiegato in questo testo non è quello attento a salvaguardare la purezza dell’anima razionale unitaria nel suo relazionarsi al molteplice e nel suo contatto con le componenti concupiscibili e irrazionali. Piuttosto, il modello 103 Διττὸν δὲ τὸ εἶδος τοῦ φόβου, ὧν τὸ μὲν ἕτερον γίνεται μετὰ αἰδοῦς, ᾧ χρῶνται πολῖται μὲν πρὸς ἡγεμόνας ἀγαθοὺς καὶ ἡμεῖς πρὸς τὸν θεόν, καθάπερ οἱ παῖδες οἱ σώφρονες πρὸς τοὺς πατέρας· «Ἵππος γάρ», φησίν, «ἀδάμαστος ἐκβαίνει σκληρός, καὶ υἱὸς ἀνειμένος ἐκβαίνει προαλής» (Sir 30, 8)· τὸ δὲ ἕτερον εἶδος τοῦ φόβου μετὰ μίσους γίνεται, ᾧ δοῦλοι πρὸς δεσπότας κέχρηνται… Πολλῷ δέ, οἶμαι, καὶ τῷ παντὶ τὸ ἑκούσιον καὶ κατὰ προαίρεσιν τοῦ κατὰ ἀνάγκην εἰς εὐσέβειαν διαφέρει. «Αὐτὸς γάρ», φησίν, «οἰκτίρμων ἐστίν, ἰάσεται τὰς ἁμαρτίας αὐτῶν καὶ οὐ διαφθερεῖ· καὶ πληθυνεῖ τοῦ ἀποστρέψαι τὸν θυμὸν αὐτοῦ καὶ οὐκ ἐκκαύσει πᾶσαν τὴν ὀργὴν αὐτοῦ» (Sal 77, 38).

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II. Anima e antropologia 105

d’anima qui usato prevede l’interazione tra un Dio-ἡγεμονικόν da un lato, e dall’altro un popolo descritto nei termini di componente concupiscibile e passibile dell’anima. Qui cioè viene descritto il rapporto tra Dio e uomo, concepito secondo i motivi della psicologia del Pedagogo e inteso come l’attività di un’anima nella quale la pedagogia divina agisce direttamente sull’elemento patetico, senza mediazione alcuna, senza cioè porsi il problema (= mediazione tra anima razionale intelligibile e corporeità) per cui certi filosofi platonici si erano sforzati di elaborare la dottrina di un veicolo somatico adatto all’anima piuttosto che definirla atto del corpo. E poiché qui si parla di trasformare in timore di Dio l’odio della ribellione e della sfrontatezza, di conseguenza, il rapporto tra Dio e l’umanità sembra essere la vicenda di un’anima che patisce e converte la sua parte irrazionale dall’odio al timore104. Questo schema è confermato da due elementi: innanzitutto il riferimento – unico nell’opera clementina – all’anima “di Dio” e, in secondo luogo, l’intreccio di timore e amore sopra menzionato105. Clemente tratta dell’anima “di Dio” in paed. 1, 9, 85.2, a proposito dell’immagine evangelica del buon pastore che dà la vita per le sue pecore (il significato del termine ψυχή, ribadiamolo, in greco è sia “vita” che “anima”)106. In realtà, subi104 Così facendo Clemente qui si discosta dalla metafora di Alcinoo del re che ἄρχει o βασιλεύει (cf. Dörrie 1987-, 6.1, p. 350), ma ne adotta la terminologia del «principio-guida». Ciò potrebbe essere frutto di un’elaborazione successiva, data l’esigua ricorrenza del termine ἡγεμονικόν (e delle sue varianti) nel Pedagogo. In ogni caso è bene evitare l’ossessione dell’esattezza terminologica, per due ragioni: 1. se anche il termine ἡγεμονικόν non è più di tanto attestato nel Pedagogo e questo, a confronto con la situazione degli Stromati, potrebbe essere inteso come una più immatura fase di riflessione psicologica, ciò non significa che il suo uso a tale scopo dovesse necessariamente essere sconosciuto a Clemente (anche perché quella di Alcinoo non è certo un’innovazione straordinaria, ma solo di carattere terminologico e una messa a punto linguistica del vocabolario platonico); 2. coerentemente alle ricorrenze del termine λογιστικόν nel Pedagogo, la funzione di ἡγεμονικόν spetta anche ora comunque soltanto al Logos e ciò rende i termini ἡγεμονικόν e λογιστικόν praticamente sinonimi. 105 L’espressione “anima di Dio” è apparentemente impropria innanzitutto perché si riferisce alla figura evangelica del buon pastore che dà la propria vita (in greco ψυχή) per il suo gregge. Dunque l’“anima/vita di Dio” sembrerebbe essere una caratteristica del Figlio, non del Padre. Inoltre, il termine ψυχή – come si è appena visto – parrebbe significare più “vita” che “anima”. In realtà, come cercheremo di mostrare, il ragionamento che qui Clemente fa è in primo luogo coerente con la teoria psicologica del Pedagogo, cioè quella che relaziona in modo immediato i piani rispettivamente divino e umano; quindi il termine ψυχή è coerente con un contesto di dottrina dell’anima. In secondo luogo, subito dopo aver riferito l’anima/vita al Pedagogo, Clemente prosegue il discorso parlando, inspiegabilmente, di Dio Padre e pertanto non è sbagliato trattare di anima/vita come peculiarità di Dio stesso. 106 Clem. paed. 1, 9, 85.2: μεγαλόδωρος… ὁ τὸ μέγιστον ὑπὲρ ἡμῶν, τὴν ψυχὴν αὐτοῦ, ἐπιδιδούς, καὶ μεγαλωφελὴς καὶ φιλάνθρωπος, ὅτι καὶ ἀνθρώπων, ἐξὸν εἶναι κύριον,

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to dopo (1, 9, 86.1), Clemente prosegue il ragionamento passando dal Pedagogo-buon pastore al «Dio giudice», sicché sembra che mentre da un lato il Figlio dà la propria vita, dall’altro in qualche modo lo stesso Padre non possa rimanerne indifferente107. E Clemente vi vede una ragione ben precisa: il gregge del buon pastore evangelico di paed. 1, 9, 85.2, in 1, 86.3 è detto insieme di coloro che a Lui (Dio giudice) «si rivolgono per la paura, ma... sottovalutano il suo amore». Dunque in rapporto all’amore, sembra dire Clemente, «giudice» e «pastore» non sono diversi tra loro; Padre e Figlio, cioè, amano allo stesso modo108. ἀδελφὸς εἶναι βεβούληται ( munifico, offre per noi la cosa più grande – la sua stessa anima – ed è utilissimo e filantropo, perché ha voluto anche – benché potesse essere signore – essere fratello degli uomini). 107 Non è il solo caso in cui Clemente, nel Pedagogo, sembra rompere con lo schema di tradizione platonica, che vuole il Primo principio perfetto e impassibile. È noto infatti che in paed. 1, 8, 74.4 l’Alessandrino affermi a chiare lettere: «E anche l’ardore dell’ira – se vogliamo chiamare ira il suo [= del Pedagogo] rimprovero – è segno del suo amore per l’uomo: è Dio [= il Padre] che scende ad assumere sentimenti umani, per amore dell’uomo, per il quale il Logos di Dio si è anche fatto uomo» (su questo passo cf. Frohnhofen 1987, p. 188). A questo proposito si apre il problema dell’immutabilità di Dio. Per una panoramica relativa alla sua rilevanza per i filosofi medioplatonici, cf. Dörrie 1987-, 7.1, § 188 e pp. 320-351. Gli studi principali su questo argomento sono quelli di Maas 1974 e Frohnhofen 1987, oltre al già citato Gavrilyuk 2004 (che sviluppa soprattutto la sua rilevanza teologica e non sembra conoscere Frohnhofen 1987), ma cenni di rilievo sono reperibili in Runia 1993, p. 176, che rimarca l’importanza di Filone per lo sviluppo del tema presso gli autori cristiani dell’epoca patristica. Sia Maas che Frohnhofen s’interrogano sulla presenza del motivo dell’immutabilià divina negli scritti di Clemente (Maas 1974, pp. 125-128 e Frohnhofen 1987, pp. 180-191). Tuttavia l’assenza, all’epoca, di una revisione sistematica delle dottrine platoniche a partire dalla prospettiva offerta dalla psicologia, soprattutto nel caso di Clemente, ha spinto per molto tempo a configurare quest’ultimo come l’autore alessandrino più avvezzo alla filosofia e alla cultura pagane e dunque più difficilmente influenzabile da concezioni antropomorfe o comunque bibliche della divinità. Il risultato, per esempio, è, nel caso di Maas 1974, che il primo alessandrino che pare riflettere su un modo di concepire la passibilità di Dio Padre è Origene (pp. 136-138). Per quanto riguarda Frohnhofen, invece, bisogna dire che lo studioso è consapevole di una certa propensione clementina a ritenere Dio passibile (nello specifico, come si è detto, prende in esame paed. 1, 8, 74.4), ma la tratta isolandola dalle ricorrenze di questo tema nell’ambito della dottrina dell’anima e ritenendola pertanto una «singuläre Äußerung» (quando invece il brano di paed. 1, 74.4 andrebbe letto almeno assieme a 3, 1, 2.1), da comprendere soltanto «in seiner eher pädagogisch ausgerichteten Schrift Paidagogos», affermazione che cercheremo di confutare soprattutto nel cap. IV. 108 Per questa ragione il testo di Clemente di paed. 1, 9, 85.2 differisce dall’espressione, ad esempio di Mc 10, 45: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e per dare la propria vita (τὴν ψυχήν αὐτοῦ) in riscatto per molti». L’Alessandrino spiega l’atto del dono della propria anima/vita da parte del «Buon Pastore», con le parole di Sal 77, 8-10: «Anche Davide discute di queste cose: generazione che non dirige rettamente il suo cuore, e lo spirito suo non è rimasto vincolato nella fede in Dio. Non ha mantenuto l’alleanza con Dio e nella sua Legge non ha voluto camminare. Queste sono le cause dell’esasperazione, per cui è venuto il giudice a in-

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II. Anima e antropologia 107

Se ora si prova a contestualizzare tale sensazione all’interno della cornice di dottrina dell’anima che sembra essere impiegata nel Pedagogo e cioè se si coniuga questa riflessione sull’uguaglianza, rispetto al comune amore per la creatura, di Padre e Figlio con il carattere diretto, immediato, dell’attività della pedagogia divina nell’anima umana (ossia con il fatto che il Logos, con la sua pedagogia, compie la funzione che è propria dell’ἡγεμονικόν dell’anima), sembra che l’oscillazione semantica del termine ψυχή tra il significato di “vita” e di “anima” sia accolta da Clemente in tutta la sua ricchezza. Nel venire meno della necessità di una mediazione tra la sfera dei principi e quella della creatura che è oggetto della pedagogia divina, Clemente accorcia in un certo senso le distanze tra uomo e Dio. E analogamente, supponendo che Padre e Figlio siano uguali nell’amore per la creatura, l’Alessandrino pare ritenere che anche il Padre possa provare amore (pur sempre una passione umana) e non resti statico e indifferente di fronte alla κένωσις del Figlio implicitamente richiamata. Insomma, se davvero queste due riflessioni procedono parallelamente, l’atto in cui il Figlio-buon pastore dona la propria vita implica una considerazione non marginale sull’anima “di Dio” e, sebbene Clemente non lo affermi ancora esplicitamente, già qui si può notare come egli tenda a supporre che quest’anima “di Dio”, di fatto, abbia realmente patito, in quanto possiederebbe una vera e propria parte passibile, cioè l’umanità stessa che deve redimere. E si è in grado anche di circoscrivere piuttosto nettamente la natura della passione subita. Essa infatti ha un volto duplice: da un lato – divino – è amore, e dall’altro – umano – è timore. Per cui il processo di trasformazione del timore umano nell’amore per Dio esplica al contempo la passione d’amore di Dio per l’uomo. È possibile inoltre affermare che il Dio di Clemente è un Dio certamente buono, dal momento che la bontà di Dio, qui, in paed. 1, 9, 85, viene ribadita più volte. In quanto buono, Dio è al contempo anche inseparabile dal suo amore. Si può scorgere l’intreccio tra amore e timore all’opera in 1, 7, 59.1109. Clemente si chiede retoricamente se ci possa essere un’educafliggere la pena a coloro che non hanno voluto scegliere la vita buona» (paed. 1, 9, 86.1); costoro, dirà poi Clemente in 86.3, «si rivolgono per la paura, ma... sottovalutano il suo amore». Parlare di “Dio-giudice” e di “buon pastore”, pertanto, per l’Alessandrino è indifferente, in relazione alla donazione dell’anima. Inoltre si noterà come sia Dio stesso a provare ἀγάπη. 109 Τίς ἂν οὖν τούτου μᾶλλον ἡμᾶς φιλανθρωπότερον παιδεύσαι; Τὸ μὲν οὖν πρότερον τῷ πρεσβυτέρῳ λαῷ πρεσβυτέρα διαθήκη ἦν καὶ νόμος ἐπαιδαγώγει τὸν λαὸν μετὰ φόβου καὶ λόγος ἄγγελος ἦν, καινῷ δὲ καὶ νέῳ λαῷ καινὴ καὶ νέα διαθήκη δεδώρηται καὶ ὁ λόγος γεγένηται καὶ ὁ φόβος εἰς ἀγάπην μετατέτραπται καὶ ὁ μυστικὸς ἐκεῖνος ἄγγελος Ἰησοῦς τίκτεται (Chi dunque ci può educare in modo più benevolo [= lett. filantropi-

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zione più filantropica di quella che, anticamente, quando «il Logos era un angelo», operava «con il timore» e che ora, «al popolo nuovo e giovane», è data nella forma di «una nuova e giovane alleanza». Tale alleanza prevede: il divenir Logos della legge, la trasformazione del timore in amore e la generazione (cf. Gv 1, 14) di «quell’angelo mistico... Gesù». Questo passo offre due elementi di interesse: da un lato il nesso filantropia-incarnazione e, dall’altro, la cristologia cosiddetta angelomorfica. Tuttavia il massimo grado della filantropia non è ancora espresso nei termini di paed. 1, 9, 85.2, cioè come rinuncia all’immortalità, ma viene caratterizzato dall’incarnazione. L’incarnazione però, esattamente come la successiva rinuncia alla natura divina, esprime ugualmente il punto di congiunzione tra timore e amore (e che tramuta il timore in amore), qui definito come rinnovamento dell’alleanza. All’abbassamento del divino corrisponde, di nuovo, l’incontro dell’anima umana con l’immediata presenza di Dio nelle vesti della sua amorevole pedagogia. Tale modello di interazione tra pedagogia divina e dimensione umana, dunque, mette in campo una più o meno esplicita idea di passibilità divina e la connette al nesso filantropia-incarnazione. Il punto è che ciò ha conseguenze importanti per l’antropologia di Clemente. In che senso, dunque, la cristologia ha ripercussioni sull’antropologia tali da implicare il Deus patiens? Facciamo un passo alla volta constatando dapprima che Clemente si pone il problema dell’incarnazione, e lo si vedrà anche nel cap. IV, in termini di elementi di cristologia angelomorfica. Clemente insiste sulla forma angelica del Cristo non tanto perché la carne sia qualcosa di negativo, dal momento che anche paed. 3, 1, 2.2 la definisce «ancella», ma perché la sua antropologia è intimamente legata all’idea (duale) di Cristo che è da un lato forma divina e dall’altro carne. La tripartizione dell’anima umana, infatti, ha alle spalle la contrapposizione tra «uomo interiore» e «uomo esteriore». Ora, l’uomo esteriore, sulla base di Fil 2, 7, è pur sempre κένωσις del divino. In questo senso allora il Logos, incarnandosi, diviene a sua volta schiavo, poiché, afferma Clemente, la «forma di schiavo» della Lettera ai Filippesi è in realtà certamente la carne, ma intesa come «uomo esteriore» fino a che «il Signore si è fatto schiavo e si è incarnato». La duplice forma del Logos, in questo quadro, indica il contatto diretto tra un divino (che il

co] di così? All’inizio, il popolo antico aveva un’alleanza antica e la legge educava il popolo con il timore (φόβος) e il Logos era un angelo, poi al popolo nuovo e giovane è stata data un’alleanza nuova e giovane: la legge è divenuta Logos, il timore è stato trasformato in amore (ἀγάπη) e quell’angelo mistico – Gesù – è stato generato).

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II. Anima e antropologia 109

Figlio conserva nella forma dell’angelo) e un’umanità che è κένωσις del divino stesso. Ora, a questo punto il ragionamento clementino subisce una svolta:

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Clem. paed. 3, 1, 2.2-3: che infatti la carne sia in forma di schiavo, lo dice l’apostolo, a riguardo del Signore… E Dio stesso, che ha sofferto assieme (ὁ δὲ συμπαθὴς θεὸς), ha liberato la carne…, sottrattala dalla corruzione e dalla schiavitù… rivestendo di questo santo ornamento d’eternità – l’immortalità – la carne110.

L’Alessandrino, in questo testo, passa dal riportare quanto «testimonia anche Paolo» (3, 1, 2.2) – che, come si vede, si riferisce al κύριος – all’esprimersi in merito a «Dio stesso» (ὁ θεός αὐτός). Due fattori impediscono di pensare che qui (in particolare 3, 1, 2.3) ci si stia riferendo ancora al Figlio: innanzitutto la forma dell’espressione ὁ θεός αὐτός e, in secondo luogo, il fatto che, in caso di confronto tra Logos-Cristo-Figlio e Padre, Clemente generalmente attribuisca il titolo di θεός al Padre. Se ne può dunque concludere che, al centro dell’incarnazione, finalizzata alla redenzione dell’uomo esteriore, vada collocata la passione dello stesso Dio Padre assieme al Figlio. La definizione del Padre come συμπαθὴς θεός111 conferma allora quanto precedentemente scoperto in merito alla passibilità, nell’incarnazione, della stessa “anima di Dio”; e la passione subita è, proprio come espresso dai passi corrispondenti di paed. 1, ancora una volta, ἀγάπη. La redenzione dell’uomo esteriore, infatti, conferisce alla carne un ben determinato ornamento, il quale, proprio in questa sezione introduttiva del libro III dedicata alla «vera bellezza»112, viene tematizzato in termini di ἀγάπη. «C’è infatti anche un’altra bellezza degli uomini, l’ἀγάπη», chiosa l’Alessandrino in paed. 3, 1, 3.1. In tal genere di bellezza si esprime quel giusto rapporto di anima e corpo, l’uomo interiore nell’uomo esteriore113. Tale è la bellezza del Dio incarnato, che appunto «mostra non la bellezza illusoria della carne, bensì la bellezza vera dell’anima e del corpo». Più volte, del resto, Clemente, nel corso del Pedagogo, aveva accostato la bontà di Dio alla sua giustizia (paed. 1, 8, 67.1-2; 1, 8, 72.3; 1, 8, 110 Ὅτι γὰρ δούλου μορφὴ τὸ σαρκικόν, ἐπὶ τοῦ κυρίου φησὶν ὁ ἀπόστολος…· Ὁ δὲ συμπαθὴς θεὸς αὐτὸς ἠλευθέρωσεν… τὴν σάρκα τῆς φθορᾶς καὶ δουλείας… ἅγιον τοῦτο τῇ σαρκὶ [καὶ] ἀιδιότητος καλλώπισμα περιθείς, τὴν ἀθανασίαν. 111 L’espressione ricorre analogamente in Origene (hom. 6 in Ezech. 6), diversamente da Clemente, con tono provocatorio. Su questo passo, cf. Zorzi 2007, pp. 310-319. 112 Cf. il titolo attribuito alla sezione di paed. 3, 1: περὶ τοῦ κάλλους τοῦ ἀληθινοῦ. Sui titoli nelle opere antiche cf. Castelli 2012, pp. 26-29. 113 Analogamente ecl. 62.

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Passibilità divina

73.2; 1, 9, 88.2; 2, 1, 16.4) e, inoltre, le uniche due ricorrenze del concetto platonico di καλοκαγαθία sono strettamente legate all’ἀγάπη. La prima, infatti (paed. 2, 8, 65-67), oppone al profumo di unguenti e oli l’unguento spirituale che profuma di ἀγάπη. La seconda è appunto quella di 3, 3-4 in cui l’ἀγάπη funge da ornamento per l’anima. Si può così assistere, in Clemente, a una trasformazione dell’ideale platonico del bene e della perfezione. Clemente testimonia infatti la forte prossimità della bontà e dell’amore nel concetto di giustizia divina, cuore della sua pedagogia (cioè nei detti termini di giusto rapporto tra anima e corpo). Tale osservazione, infine, ci fornisce un argomento in più a favore dell’ipotesi dell’intimo legame tra piano antropologico e piano metafisico-teologico che porta Clemente a sovrapporre due dimensioni concettuali, quella teologica e quella filosofica (come si è visto a proposito del concetto di spirito)114. Questa digressione sul rapporto tra teologia e antropologia nel Pedagogo, infatti, non esce dall’analisi della filosofia dell’Alessandrino. Ciò perché, in primo luogo e come si era visto, essa ci permette di vedere come la psicologia tripartita di paed. 3 venga elaborata all’interno di uno schema antropologico duale, esattamente come quello per lo più dominante nei primi cinque libri degli Stromati. In secondo luogo si è anche potuto constatare che ciò rientra nell’interpretazione clementina della nozione platonica della kalokagathia. Conclusione Riassumiamo in sei punti i risultati di questo capitolo: a) il sesto stromate risulta un libro di particolare interesse per tre ragioni: 1. vi è traccia dello sviluppo di una riflessione metafisica coerente, che parte da str. 5 giunge a str. 7 e serve a Clemente per mettere a fuoco la natura dell’anima razionale (intesa come anima generale, cf. pp. 69-70, nota 31); 2. l’Alessandrino mostra maggiore tecnicità in merito ai temi legati al rapporto tra anima razionale e anima individuale; 3. nel sesto stromate, per la prima volta nel corso dell’opera – ad eccezione di str. 1 –, non compare alcuna promessa di un futuro approfondimento relativo all’anima; b) la nozione di πνεῦμα, il concetto della psicologia clementina più complesso sotto il profilo tecnico e culturale, gioca un ruolo cruciale: 1. in essa si ritrovano gli echi del contesto platonico di scuola; 114

mente.

Che, a questo punto, emerge come vero tratto originale della psicologia di Cle-

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II. Anima e antropologia 111

2. è fondamentale per comprendere il contributo di Clemente al tema dell’individuazione; 3. Clemente dimostra una certa originalità nell’attribuire al termine πνεῦμα uno statuto intermedio tra quello della potenza e quello dell’atto. Qui si colloca la prima novità acquisita con la presente analisi: Laura Rizzerio per prima si era resa conto del fatto che Clemente aveva supposto un’anima tripartita definendo πνεῦμα ciascuna parte; Fernández-Ardanaz ha colto la centralità del binomio potenza-atto, ma senza conoscere il contributo di Rizzerio; il presente lavoro connette i tre πνεύματα alla dinamica potenza-atto, mostrando la paradossale condizione della nozione clementina di atto, consistente nel ripiegarsi nuovamente sulla potenza; c) si sono evidenziate alcune caratteristiche della filosofia di Clemente: 1. l’affinamento della sua sensibilità in merito a problemi che sono attestati nel platonismo successivo; 2. la maggiore tecnicità relativa ai temi della psicologia tradizionale mostra che sia Clemente sia i suoi interlocutori (per lo meno i basilidiani) condividono lo stesso approccio al testo di Platone caratteristico del cosiddetto medioplatonismo (le opere di Platone sono interpretate e affrontate alla luce dei problemi filosofici circolanti all’epoca); d) il ruolo della corporeità: in generale si può dire che la dimensione corporea, laddove è espressa tecnicamente come potenza (sensibile e molteplice), si differenzia dalla dimensione dello spirito santo, descritta come atto (intelligibile e unitario). I due diversi piani sono connessi dal ruolo dell’ἡγεμονικόν che sceglie se optare nella direzione del corpo e degli impulsi che da esso provengono, o in quella dello spirito. L’ἡγεμονικόν dunque permette la partecipazione individuale dell’anima allo spirito santo. Inoltre, intendere la corporeità come una condizione di potenza permette di escludere che per Clemente essa abbia un valore negativo. Ciò per tre ragioni: 1. essa è in ogni caso un principio vitale, 2. Clemente come Plotino non considera la corporeità fattore responsabile della molteplicità delle anime individuali, 3. comunque la dimensione corporea è imprescindibile per definire l’individualità in termini soteriologici (Clemente attribuisce all’individualità un valore positivo perché essa è segno della grandezza dell’amore divino che salva ciascuno secondo la propria specificità). Tutto questo si spiega col fatto che lo scopo di Clemente non è prendere una posizione sulla condanna o meno del corpo, ma è innanzitutto esegetico e teologico e, in ultima analisi, polemico; e) seconda novità dell’analisi sin qui condotta: attraverso la disamina della tripartizione dell’anima (discussa a proposito di str. 6, 16, 134-136) dapprima all’interno dell’opera e poi nel contesto di tutta la

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produzione letteraria dell’Alessandrino si sono aggiornate le conclusioni cui giunse Wyrwa che ipotizzò una lettura originale, da parte di Clemente, del testo di Platone soltanto per rispondere a problemi posti dagli gnostici. La trattazione sull’anima tripartita offerta da Clemente in paed. 3, 1, infatti, permette di fare tre considerazioni: 1. essa mostra uno dei contenuti teologici a cui fa da sfondo l’interesse di Clemente per lo studio della dimensione corporale, cioè l’incarnazione; 2. mostra altresì che la tripartizione non è né un elemento indispensabile per la teologia di Clemente, né decisivo per lo sviluppo della sua riflessione relativa al tema dell’individuazione. Non è determinante per la teologia clementina perché un contenuto teologico come quello della passibilità divina viene formulato certamente in stretto contatto con l’esposizione di una psicologia tripartita, ma all’interno di un contesto antropologico dualistico. Non è nemmeno il fulcro della dottrina clementina dell’individuazione perché, come si è detto più volte, in tal caso bisogna guardare piuttosto alla nozione di πνεῦμα. Tuttavia va distinta una psicologia tripartita inserita in un’antropologia dualistica da un modello analogo ma svincolato da un orizzonte dualistico come è quello di str. 6, 16, 134-136, che si dimostra decisamente più tecnico e più complesso; 3. Clemente legge con originalità Platone indipendentemente dal confronto con lo gnosticismo; f) l’antropologia di Clemente si pone gli stessi problemi per risolvere i quali non solo i suoi interlocutori gnostici, ma anche molti filosofi a lui contemporanei avevano elaborato una dottrina della caduta dell’anima e avevano speculato ampiamente sulle ipotesi relative al suo destino dopo la morte. Peraltro l’unico tipo di escatologia che pare messa a tema da Clemente in relazione alla sua antropologia è quella della possibilità di godere già in questa vita di una qualche forma di anticipazione della beatitudine finale. Ciò si concilia con l’idea che la parte meno nobile dell’anima sia da intendere come una situazione di mera potenza, votata a divenire, tecnicamente, atto. La possibilità di congiungere anticipazione escatologica e potenzialità della componente inferiore dell’anima sta tutta nel fatto che, in virtù del cambiamento che Clemente pratica in merito ai concetti di atto e potenza, l’atto, che in ultima analisi è il divino, esplica la sua perfezione nel farsi a sua volta potenza – condizione carnale – e pertanto il compimento dell’escatologia non ha bisogno di sbarazzarsi della carne, ma piuttosto sembra presupporla: è incarnazione di Cristo nel progresso di ogni singola anima verso la perfezione. L’antropologia di Clemente è dunque, a un tempo, cristologia e mistica e lo è con esiti radicali. Una partecipazione della creatura al divino come quella proposta da Clemente, che avviene con anima (atto) e

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II. Anima e antropologia 113

corpo (potenza), nel capovolgere le nozioni di atto e di potenza sembra – in linea di principio – coinvolgere in qualche modo anche il Dio creatore (sommo atto, se si segue questo ragionamento), e si avrà modo di approfondirlo nel corso del cap. IV. Il fatto che Clemente si mostri particolarmente sensibile ai temi della fisiologia e della medicina a lui contemporanee non significa che egli non abbia anche riflettuto su problemi di carattere metafisico, come il reintegro delle creature in Dio alla fine dei tempi, dottrina di cui si trovano accenni nella sua opera e che, anzi, sembra essere un presupposto della sua riflessione (come vedremo nel prossimo capitolo). Soltanto bisogna riconoscere che tali speculazioni non ci sono giunte in maniera del tutto organica o sistematica. Con certezza, invece, ciò che rimane della sua antropologia, nello specifico il cap. 16 del sesto stromate, sembra un blocco completo e internamente coerente.

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 115

CAPITOLO TERZO

DOTTRINA DEI PRINCIPI ED ESCATOLOGIA

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Introduzione In questo capitolo si cercherà di mettere a fuoco sia la rilevanza dell’anima per la dottrina dei principi sia la componente escatologica della psicologia di Clemente. Le indicazioni dell’Alessandrino sulla dottrina dell’anima non si limitano a spiegare l’antropologia, ma lasciano intuire l’elaborazione di un sistema filosofico completo, che implica anche una riflessione metafisica sulla fine dei tempi, sebbene non ci sia giunto nulla di veramente sistematico. Trattare dell’escatologia di un autore tardo-antico significa infatti considerare pure la sua dottrina dei principi e la rilevanza dell’anima a livello cosmologico. Il destino dell’anima dopo il distacco dal corpo – cui Clemente indubbiamente accenna – presuppone la valenza metafisica della psicologia. Sia che si pensi all’anima individuale come atto del singolo corpo sia che invece la si ritenga presente nel corpo, protetta da una sorta di “involucro” per preservarla dal contatto con la materia, il suo studio come principio cosmologico-metafisico permette di comprendere come essa ritorni alla (e rimanga nella) sua condizione più propria. Capire il valore metafisico dell’anima, infine, è d’utilità più per conoscere l’escatologia che la protologia, perché soltanto nel primo caso gli autori della Tarda Antichità avevano elaborato sistemi, talvolta complessi, di cicli di purificazione e di trasmigrazione che comportavano la successione di epoche e mondi. Si proverà nello specifico a indicare come quello statuto intermedio tra la potenza e l’atto, in cui Clemente inquadra il termine “spirito” a proposito dell’antropologia, abbia rilevanze sul piano del rapporto tra mondo sensibile e mondo intelligibile. Ci concentreremo soprattutto su alcuni testi del quinto stromate, confrontandoci con due recenti prospettive d’indagine, cioè quelle di Arkadi Choufrine e Bogdan Bucur. Il pregio dell’analisi di Bucur sta nell’aver ricostruito, per i contenuti di str. 5, 6, una cornice che collega la riflessione teologica clemen-

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tina ai materiali giovannei e paolini. Si tratta del contesto che presuppone una diversificazione netta tra le funzioni del Padre e quelle del Figlio, accompagnata dalla sovrapposizione delle funzioni di quella che, nello sviluppo della dottrina trinitaria, diverrà la “seconda persona” alle funzioni della terza, lo spirito santo (un contesto, cioè, definito come “binitario”)1. Bucur riconduce a questa forma di riflessione sui rapporti intradivini tutte le difficoltà delle prime comunità cristiane nel distinguere tra un modo legittimo e uno illegittimo di intendere la profezia che si rifletterebbero, oltre che nel corpus paolino, anche nel quarto vangelo e soprattutto nel libro dell’Apocalisse. Tutto ciò corrisponderebbe alla ripresa da parte di Clemente, per il tramite anche di Filone2, di elementi teologici e liturgici giudeo-cristiani3, come la teologia del Nome4. Arkadi Choufrine, da parte sua, aveva scorto l’assunzione clementina del substrato filoniano nel formulare un’escatologia che poneva il

1 In Clemente la formulazione della dottrina trinitaria è a uno stadio di elaborazione meno avanzato rispetto a quello origeniano (si pensi per esempio al fatto che Clemente nomina la “Trinità” – ἡ ἅγια τριάς nel testo di Clemente – una sola volta, in str. 5, 14, 103.1, mentre in Origene il termine compare ben 36 volte; per la pneumatologia origeniana si veda Markschies 2007b, pp. 107-126) e pertanto non stupisce se ciò che Clemente intende per «spirito santo», oltre che a mostrare l’impiego di elementi teologici, sia concettualizzato anche con categorie forgiate dalla filosofia medioplatonica. Lo spirito santo clementino va compreso alla luce del concetto medioplatonico di anima razionale, cioè la componente ἀμέριστος dell’anima (con la quale propriamente coincide in str. 6, 16, 138.2 e 3, 10, 69.2 – brani in cui lo spirito santo viene definito ἀμερῶς μεριζόμενον) – e contrassegna la condizione di cui si gode quando ci si trova nell’ultimo stadio del progresso. Un altro esempio di quanto Bucur definisce binitarian può essere individuato in str. 7, 6, 31-32, passo in cui Clemente parla, come vedremo, di συμ-πνοια delle Chiese come di λόγος che esala dalle anime sante e, così facendo, accosta Logos e Pneuma. Questo intreccio è a sua volta combinazione di un orizzonte teologico e di uno filosofico, perché il luogo in cui la σύμπνοια delle Chiese (dunque concetto teologico) si realizza è detto avere un’unica voce e un’unica intenzione, richiamando così la contrapposizione stoica tra un λόγος προφορικός e uno ἐνδιάθετος. 2 Annewies van den Hoek evidenzia i debiti di Clemente verso la cosmologia filoniana (cf. van den Hoek 1988, pp. 145-146 e, su ciò, cf. Osborn 2005, p. 95, che ne condivide l’opinione per cui cristologia, gnosi ed escatologia si rimodellano sulla cosmologia filoniana). Nello specifico, str. 5, 6, 39.3 – 40.4 corrisponde a Ph. Vita Mos. 2, 95-135 e Leg. alleg. 2, 56. Su ciò rimando a Kovacs 1997, p. 418. La suddivisione del tempio è, infine, un tema valentiniano che ricorre almeno nel Vangelo di Filippo (69, 14-25; 84, 21-23 e 85, 19-20), nell’Esposizione Valentiniana (25) e negli exc. Thdot. (27). Su ciò, cf. Lettieri 2001, p. 151. 3 Che Bucur individua nell’Apocalisse di Giovanni, cf. Bucur 2009, p. 100. 4 Cf. la sua diffusione in formule liturgiche e nei testi giudeo-cristiani in Daniélou 1958, pp. 199-216. È poi Clemente stesso il primo ad attestarne l’importanza nella teologia valentiniana in exc. Thdot. 22-23.

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 117

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suo compimento ultimo nel concetto di ogdoade5. Choufrine non ha torto, del resto, nella misura in cui considera paed. 1, 28.4 e ne ricerca le fonti6. Il punto è che questo non è l’unico modello escatologico cui Clemente si riferisce. L’Alessandrino infatti conosce la tradizione giudeo-ellenistica e giudeo-cristiana dell’ogdoade, ma la considera alternativa a un’altra concezione, espressa in str. 5, 6, 36.37, a proposito dell’interpretazione allegorica della parte superiore dell’arca dell’alleanza (Es 25, 18-20; Is 6, 2; Ap 4, 8). Su questo passo, prima di lui, aveva meditato Filone in Vita Mos. 2, 20, 97-98, Quaes. in Gen. 62 e Cher. 8, 25. Qui, dopo aver elencato diverse spiegazioni possibili, Clemente afferma: Clem. str. 5, 6, 36.3: rimandiamo per ora la discussione se [= l’arca, in ragione delle statuette d’oro sulla sua parte superiore] debba significare l’ogdoade e il mondo intelligibile o anche il Dio senza forma e invisibile che abbraccia tutte le cose. Essa comunque indica il riposo insieme con gli spiriti glorificanti simboleggiati dai cherubim. 5 Cf. Choufrine 2002, pp. 138-148. Choufrine individua due tendenze escatologiche nel giudaismo (cf. p. 146): nella prima – che secondo Choufrine è quella con cui Filone ha più familiarità – il momento archetipico, quello della creazione, coincide con l’ultimo, la fine dei tempi; nella seconda, di matrice apocalittica (ma implicita anche nelle modifiche filoniane all’escatologia di Aristobulo – ibid., cf. pp. 126-127), si prevede un’era futura nettamente distinta dall’istante archetipico. Entrambe sono presenti nella concezione clementina della coincidenza del «Giorno Uno» con il «Giorno Ottavo» – giorno della resurrezione –, anche se il modello filoniano è prevalente (ibid., cf. p. 147). La differenza principale di Clemente rispetto a Filone sta nel ritenere che la fine dei tempi avvenga nel cosiddetto giorno ottavo (cioè la successione delle epoche, tecnicamente eoni, allegorizzata dalla Sacra Scrittura, costituirebbe un’ogdoade), mentre per Filone il compimento dell’escatologia si sarebbe realizzato in un tempo simbolico corrispondente al «Settimo Giorno» della creazione (e di qui il corso storico per Filone si sarebbe limitato all’ebdomade, cioè letteralmente alla “settimana”). 6 Cf. Choufrine 2002, p. 139. 7 Riportiamo la pericope di str. 5, 6, 36.3 all’interno del contesto in cui si trova inserita. Clem. str. 5, 6, 35.5; 36.3-37.1: τά τε ἐπὶ τῆς ἁγίας κιβωτοῦ ἱστορούμενα μηνύει τὰ τοῦ νοητοῦ κόσμου τοῦ ἀποκεκρυμμένου καὶ ἀποκεκλεισμένου τοῖς πολλοῖς... Εἴτ’ οὖν ὀγδοὰς καὶ ὁ νοητὸς κόσμος εἴτε καὶ ὁ [περὶ] πάντων περιεκτικὸς ἀσχημάτιστός τε καὶ ἀόρατος δηλοῦται θεός, τὰ νῦν ὑπερκείσθω λέγειν· πλὴν ἀνάπαυσιν μηνύει τὴν μετὰ τῶν δοξολόγων πνευμάτων, ἃ αἰνίσσεται Χερουβίμ... σύμβολον δ’ ἐστὶ λογικῆς μὲν τὸ πρόσωπον ψυχῆς, πτέρυγες δὲ λειτουργίαι τε καὶ ἐνέργειαι αἱ μετάρσιοι «δεξιῶν τε ἅμα καὶ λαιῶν δυνάμεων» (cf. 1 Re 22, 19)... Ἀπόχρη μέχρι τοῦδε προχωρῆσαι τὴν μυστικὴν ἑρμηνείαν (Quanto si racconta sull’arca santa rappresenta ciò che si riferisce al mondo intelligibile, nascosto ed escluso ai più... Se debba significare l’ogdoade e il mondo intelligibile o anche il Dio senza forma e invisibile che abbraccia tutte le cose, rimandiamone per ora la discussione; essa comunque indica il riposo insieme con gli spiriti glorificanti simboleggiati dai cherubim...; il volto è simbolo di anima razionale; le ali sono servizi e insieme attività celesti di «potenze tanto di destra quanto di sinistra» (cf. 1 Re 22, 19)... Basti procedere fin qui con la nostra interpretazione mistica).

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Qui Clemente non costruisce una concezione escatologica sulla base della nozione di ogdoade, che Choufrine invece vede correttamente in atto in paed. 1, associata alla «teofania della Luce»8. Al contrario, ritenendo inadeguato il modello esegetico riferito all’ogdoade, adesso l’Alessandrino cerca di fornire un’interpretazione alternativa dei cherubini circa il coperchio dell’arca, che vengono definiti «spiriti glorificanti». Ora, l’associazione di teologia della luce ed entità spirituali è attestata da Clemente, in exc. Thdot. 10.1-59, presso i valentiniani ed è pertanto possibile pensare che qui l’Alessandrino abbia di mira un bersaglio polemico. Le analisi di Choufrine e di Bucur forniscono una descrizione esaustiva del contesto in cui si colloca la riflessione di Clemente: da una parte emerge la componente giudaico-ellenistica e giudeo-cristiana, dall’altra quella valentiniana. In questa sede si vorrebbe fare un passo ulteriore e cercare di capire come Clemente formuli la sua escatologia nello stretto rapporto con tali interlocutori. Egli infatti assumerà, com’è ovvio, qualche contenuto anche da essi, ma cercherà innanzitutto di dar loro un senso alternativo. La prima cosa da capire dunque è con quale disposizione Clemente si rapporti ai suoi interlocutori. In secondo luogo studieremo l’escatologia di Clemente indagandola alla luce della filosofia tardo-antica, cioè confrontandola con il lessico con cui ogni intellettuale dell’epoca avrebbe impostato una simile riflessione. Solo a partire da queste acquisizioni sarà possibile capire quale ruolo effettivo abbiano le dottrine contro cui Clemente polemizza o con cui interagisce. Per scendere ancor più nel dettaglio, dovremo innanzitutto chiederci se la risposta antropologica di str. 6, 16 (cf. pp. 80-81) alle promesse di un approfondimento sull’anima si inserisca anche in un contesto di dottrina dei principi.

Cf. Choufrine 2002, p. 143. Ἀλλ’ οὐδὲ τὰ πνευματικὰ καὶ νοερά, οὐδὲ οἱ Ἀρχάγγελοι, οἱ Πρωτόκτιστοι, οὐδὲ μὴν οὐδ’ αὐτός, ἄμορφος καὶ ἀνείδεος καὶ ἀσχημάτιστος καὶ ἀσώματός ἐστιν, ἀλλὰ καὶ μορφὴν ἔχει ἰδίαν καὶ σῶμα ἀνὰ λόγον τῆς ὑπεροχῆς τῶν πνευματικῶν ἁπάντων· ὡς δὲ καὶ οἱ Πρωτόκτιστοι ἀνὰ λόγον τῆς ὑπεροχῆς τῶν ὑπ’ αὐτοὺς οὐσιῶν... Καὶ ὃ μὲν Φῶς ἀπρόσιτον εἴρηται, ὡς Μονογενὴς καὶ Πρωτότοκος, ἃ ὀφθαλμὸς οὐκ εἶδε καὶ οὖς οὐκ ἤκουσεν οὐδὲ ἐπὶ καρδίαν ἀνθρώπου ἀνέβη, οὐδὲ ἔσται τις τοιοῦτος, οὔτε τῶν Πρωτοκτίστων οὔτε ἀνθρώπων (Ma né gli esseri pneumatici e intelligibili, né gli Arcangeli, né i Protoctisti e nemmeno egli stesso è informe, privo di figura, di contorno e di corpo, bensì ha una propria forma e un corpo a seconda della preminenza di tutti quanti gli esseri spirituali; e come anche i Protoctisti in proporzione alla loro preminenza sulle sostanze che sono loro inferiori... E colui che è detto “Luce inaccessibile”, in quanto “Monogenito” e “Primogenito”, “cose che occhio non vide, né orecchio udì, né giunse a cuore d’uomo”, non si troverà né tra i Protoctisti, né tra gli uomini). 8 9

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 119

I testi di riferimento si trovano per lo più nel quinto stromate e nel discuterli utilizzeremo le riflessioni di Choufrine in proposito, riguardanti certi richiami aristotelici relativi alla concezione clementina di Dio-padre (III.3.1.). Infine, per anticipare le conclusioni cui giungeremo, si vedrà come, in questi testi, l’Alessandrino polemizzi essenzialmente con i valentiniani. Se è così – per inciso –, l’atteggiamento di Clemente risulterebbe analogo a quello, più tardo, di Origene che, interpretando il Cantico dei Cantici, intraprenderà un serrato confronto con l’antropologia valentiniana superata in prospettiva escatologica10. A margine degli intenti principali di questo capitolo, si vuole anche tentare di ricostruire il percorso in cui matura la filosofia di Clemente, posto che la dottrina dell’anima ne funga da criterio di verifica. La tesi della maturazione del pensiero filosofico clementino, infatti, regge in parte su contenuti di argomento escatologico. Così, con il presente capitolo si spera di poter “chiudere il cerchio” in merito al rapporto tra la psicologia e la filosofia di Clemente di Alessandria. III.1. Le fonti dell’escatologia clementina. Platonismo tra giudeo-cristianesimo e teologie valentiniane I primi possibili interlocutori di Clemente in str. 5, 6 a emergere sembrano essere di matrice giudeo-cristiana. L’Alessandrino, infatti, poco prima aveva interpretato allegoricamente la descrizione di parti dell’arca dell’alleanza (Es 25-27) individuando in esse l’immagine della “co-spirazione” delle Chiese in una forma di unità11. Al di là della

10 Cf. Lettieri 2001. A margine, annotiamo anche che una delle caratteristiche salienti della letteratura apocalittica sta proprio nel tentativo di sbarazzarsi delle posizioni teologiche avversarie mediante l’uso di un vocabolario e un repertorio di immagini e concetti escatologici (cf. Bucur 2009, p. 108). 11 Clem. str. 5, 6. 35.4: εἶεν δ’ἂν μοναί τινες εἰς ἓν σῶμα καί σύνοδον μίαν συμπνεουσῶν ( potrebbero pure essere le varie sedi di Chiese che tutte co-spirano ad un corpo solo e ad un solo σύνοδος). Lo stesso concetto sembra ribadito anche in str. 7, 6, 32.4: Ἡ σύμπνοια δὲ ἐπὶ τῆς ἐκκλησίας λέγεται κυρίως. Καὶ γάρ ἐστιν ἡ θυσία τῆς ἐκκλησίας λόγος ἀπὸ τῶν ἁγίων ψυχῶν ἀναθυμιώμενος, ἐκκαλυπτομένης ἅμα τῇ θυσίᾳ καὶ τῆς διανοίας ἁπάσης τῷ θεῷ (La “co-spirazione” è caratteristica propria della Chiesa. Il sacrificio della Chiesa è infatti il Logos che esala dalle anime sante e insieme al sacrificio si manifesta completamente a Dio anche la διάνοια). In questo passo verosimilmente Clemente invita a interpretare allegoricamente la concezione veterotestamentaria del sacrificio; di qui si spiega il motivo per cui, con il sacrificio, si svela a Dio pure la διάνοια. Forse si riferisce a pratiche liturgiche giudeo-cristiane da intendere in termini di esegesi delle Sacre Scritture.

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matrice paolina di quest’idea12, il carattere unitario della “co-spirazione” associa alla nozione di ἐκκλησία un elemento pneumatologico. Ora, dal momento che già Erma nel Pastore, prima di Clemente, aveva accostato le simbologie dello πνεῦμα e della ἐκκλησία, bisogna pensare al medesimo contesto giudeo-cristiano. Si tratta per Erma della nona Similitudine, in cui racconta di aver visto la Chiesa nelle sembianze di una torre. Nello specifico, egli vede una torre con, all’interno, sei vergini e chiede delucidazione all’angelo. Questi gli risponde che la torre rappresenta la Chiesa, mentre le vergini sono «spiriti santi», rifacendosi così all’idea che la natura dello spirito santo fosse plurale e composita, come era caratteristica delle pneumatologie angelomorfiche13. “La torre e le vergini”, quindi, sono simboli di altre realtà. Tuttavia lo schema del testo e dei rimandi simbolici è più complesso, perché, proprio a inizio del lungo brano della nona Similitudine si specifica che tra torre, Chiesa e spirito c’è una relazione gerarchica: la Chiesa è infatti indicata dalla torre, ma a sua volta essa è anche ciò attraverso cui parla lo spirito santo14. Bucur ha spiegato questo sistema di simboli come una narrazione a due livelli che si ripercuote sia sul piano realtà/simbolo sia su quello della rivelazione. Nel primo caso, infatti, «the real entity is τὸ πνεῦμα τὸ ἅγιον» mentre la Chiesa è «the symbolic identity». Qui la Chiesa è, in qualche modo, sempre un “penultimo” (simbolo o agente rivelatore), mentre “ultimo” è lo spirito. Ma nella rivelazione la Chiesa è “agente” e condivide il proprio dello spirito. Anche nella rivelazione, infatti, si distinguono un significante e un significato; ossia più precisamente «“the church” can be spoken of as a revealing agent», afferma Bucur, in quanto essa è ciò che consente

12 Cioè dell’essere membra dell’unico corpo e della partecipazione all’unico spirito. Cf. Ef 4, 4; Rm 12, 5; Col 3, 15. 13 Herm. sim. 9, 13.1-2/4-5: gli domandai: «Signore, la torre cosa rappresenta?». Mi rispose: «La torre è la Chiesa». «E le vergini chi sono, signore?». Rispose: «Sono spiriti santi». Dunque tutte le pietre che, come hai visto, sono state portate nella costruzione della torre per mano delle vergini e sono rimaste nell’edificio, sono rivestite della loro potenza. Perciò vedi che la torre è divenuta un monolito con la roccia. Allo stesso modo anche coloro i quali hanno creduto nel Signore attraverso suo Figlio, una volta rivestiti di questi spiriti, formeranno un solo spirito e un solo corpo, e uno solo sarà il colore delle loro vesti». 14 Herm. sim. 9, 1-2: quando ebbi scritto i Precetti e le Similitudini del pastore, angelo della penitenza, egli venne da me e mi disse: «Voglio mostrarti quello che già ti ha mostrato lo Spirito Santo, che ti ha parlato sotto le spoglie della Chiesa; tale Spirito infatti è il Figlio di Dio… Dopo che, invece, sei stato rafforzato dallo Spirito e sei divenuto più forte, tanto da poter vedere un angelo, allora ti è stata mostrata dalla Chiesa la costruzione di una torre».

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 121

di percepire l’oggetto della visione15. La conseguenza è che lo «spirito santo» è comunicato attraverso la Chiesa. Ora, a ben vedere, il rapporto Chiesa-spirito in Clemente non è molto diverso. La ἐκκλησία in str. 7, 6, 32.4 (passo parallelo di str. 5, 6, 35.4), infatti, indica il «Logos che esala dalle anime sante» (λόγος ἀπὸ τῶν ἁγίων ψυχῶν ἀναθυμιώμενος) che a loro volta sono dette «spiriti glorificanti» (str. 5, 6, 36.3). Questa descrizione del rapporto Chiesa-spirito richiama il contesto di Herm. sim. 9, 13 in cui, a definire lo stesso nesso, concorrevano tre elementi: lo spirito santo di sim. 9, 1 come modalità d’operazione del Figlio (e qui, in Clemente, si ha «Logos che esala»), spirito che aveva carattere plurale (come in Clemente ci sono gli «spiriti glorificanti») ed era partecipato dai giusti (che corrispondono alle «anime sante» del testo di Clemente). Questo tipo di relazione tra Chiesa e spirito, in str. 7, 6, 32.4, è detta σύμπνοια (“co-spirazione”) della Chiesa. E che questo tipo di definizione alluda proprio a una concezione giudeo-cristiana dello spirito santo lo indica anche str. 5, 6, 35.1, in cui Clemente spiega che i sette bracci del candelabro giudaico, oltre che a poter significare «le varie sedi di Chiese che tutte “co-spirano” a un corpo e a una comunità sola» (str. 5, 6, 35.4), possono rappresentare i sette Protoctisti, figura dello «spirito santo» in contesti di pneumatologia angelomorfica comune anche al Pastore di Erma (cf. Herm. vis. 3, 2, 4; 3, 4, 1; sim. 5, 5, 3; 9, 3, 1)16. L’immagine della Chiesa costituita dal «Logos che esala» (str. 7, 6, 32.4) dagli «spiriti glorificanti» (str. 5, 6, 36.3), insomma, avvicina molto l’ecclesiologia clementina allo spirito santo espresso per mezzo della Chiesa nel testo del Pastore di Erma (sim. 9, 1), consentendo di ipotizzare che ancora per Clemente il lessico ecclesiologico potesse servire ad esprimere l’ἅγιον πνεῦμα nei termini giudeocristiani di una pneumatologia plurale. Ma il parallelismo tra Erma e Clemente prosegue oltre il piano dell’allegoria e concerne anche i contenuti, cioè la rivelazione. Per Erma la Chiesa, in virtù del suo rapporto con lo πνεῦμα, è mediatrice della rivelazione e, analogamente, anche per Clemente la Chiesa media il Logos alle anime per mezzo dello spirito. Sono infatti le «anime giuste» che “co-spirano” e «da» (ἀπὸ) esse, appunto, risulta il Logos nell’immagine dell’esalazione. Il brano della nona Similitudine, dunque, grazie all’analisi di Bucur può essere letto parallelamente a str. 5, 6. Siamo così in grado di scorgere, oltre al richiamo implicito ai temi paolini, anche una matrice giudeo-cristiana che, coerentemente con quanto 15 16

Bucur 2009, p. 120. Cf. Dünzl 2000, pp. 44-49.

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previsto da Bucur per sim. 9, permette di collocare sullo stesso piano πνεῦμα ed ἐκκλησία17. Ora, se da quanto visto si deve riconoscere il ruolo che il substrato giudeo-cristiano gioca in Clemente, bisogna anche dire che esso riceve nella riflessione dell’Alessandrino, una precisa rielaborazione sulla base del pensiero della tradizione platonica. Il rapporto tra significante e significato, cioè tra “lettera” e “spirito”, in Clemente, oltre che una valenza teologica, rispetto al Pastore di Erma ha due chiare implicazioni filosofiche. La rilevanza teologica si concretizza nel fatto che dal sacrificio della chiesa deriva la coincidenza tra Logos e διάνοια, come afferma str. 7, 6, 32.4: «Il sacrificio della chiesa è il Logos che esala dalle anime sante e insieme al sacrificio si manifesta completamente a Dio anche la διάνοια». Di conseguenza la chiesa (significante, piano della lettera) rimanda al Logos (significato, piano dello spirito), ma nella misura in cui essa è propriamente “spirito”, σύμ-πνοια dice il testo, cioè unitarietà pneumatica delle anime razionali (λόγος-διάνοια)18. In ciò, dunque, Clemente non si discosta dal Pastore. Ma l’Alessandrino, come si è detto, aggiunge altre due clausole che accentuano in senso filosofico la duplicità caratteristica dell’espressione allegorica (lettera-allegoria). La prima concerne l’antropologia e richiama quel legame anima-spirito cruciale per str. 5, 13, 88 e che trova adeguato sviluppo in str. 6, 16, 134-136 (cf. pp. 80-81). La seconda riguarda la dottrina dei principi e nello specifico l’emergere di una strutturazione tripartita della realtà: Dio-Logos-chiesa (la quale a sua volta è unitarietà di molte «anime sante» o «spiriti glorificanti»). Si può dunque notare come Clemente collochi speculazioni giudeo-cristiane all’interno di un ragionamento a due livelli, e dunque platonico, con valenza sia antropologica sia metafisica. Questi sono anche i due piani su cui, come abbiamo visto e vedremo, Clemente mette in gioco l’uso “atto-potenziale” della nozione di πνεῦμα, e su quello antropologico si trova almeno parte delle risposte alle promesse clementine di approfondimento del tema dell’anima. Tale presenza di temi giudeo-cristiani Bucur 2009, p. 120. Si riprenderà parzialmente questo tema in IV.2.2, dove tratteremo del valore simbolico che ha, per Clemente, l’ostensione (παράθεσις) dell’offerta nel tempio giudaico in str. 5, 6, 35.3. Ciò può essere messo in relazione con la “co-spirazione” delle chiese di str. 5, 6, 35.3 e 7, 6, 32.4 per via dell’evidente parallelismo di quest’immagine con i fumi sacrificali di cui Clemente sembra fornire un’interpretazione allegorica. In questa sede si ricordi soltanto che Hauschild riconobbe, come caratteristica principale della pneumatologia clementina degli Stromati, che il livello più alto del progresso dell’anima – l’anima spirituale – è in grado di riassumere la totalità del percorso e ricondusse tale aspetto ad una matrice giudeo-cristiana. Cf. Hauschild 1972, pp. 69-72. Hauschild abbraccia la prospettiva di Collomp 1913. 17 18

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 123

all’interno della cornice platonica che è base del discorso di Clemente, permette di collocare in primo piano il concetto di πνεῦμα. La dottrina dell’anima di Clemente risente di tutti questi elementi e sembra così che la sezione di str. 6, 16, 134-136 elabori risposte a problemi posti dagli gnostici all’interno di un comune denominatore platonico proprio a partire da una base giudeo-cristiana.

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*** L’escatologia clementina è profondamente antignostica e lo è nella misura in cui è antipagana, perché Clemente cerca di fronteggiare nello stesso modo le critiche mossegli dai pagani più colti e dagli eretici. Ciò accade essenzialmente per due motivi. Il primo è che l’Alessandrino risolve i problemi posti dallo gnosticismo ridefinendo il senso dell’αἵρεσις filosofica; il secondo è che colloca tanto la verità acquisita dai filosofi pagani quanto quella degli gnostici – che altrove erano poste su livelli diversi – lungo una medesima linea di sviluppo. E proprio quest’ultima mossa, vedremo, ha alle spalle chiari contenuti escatologici che Clemente cerca di approfondire. Per comprendere come Clemente dia un’unica soluzione ai problemi posti dai cosiddetti “eretici” e dai “pagani” è necessario innanzitutto ritornare al passo in cui formula la cosiddetta quarta promessa di una trattazione dei temi psicologici. L’Alessandrino, infatti, in str. 5, 13, 88 (cf. p. 48) si dichiarava alla ricerca di una modalità di partecipazione allo spirito santo che non si desse né nelle forme del μόριον/μοῖρα né del μέρος. Nel passo di str. 6, 16, 134-136 (cf. pp. 80-81) egli sembrava aver trovato la soluzione in una partecipazione universale allo spirito santo fondata sul libero arbitrio. Aggiungiamo ora che i concetti che Clemente cercava di sostituire identificavano l’appartenenza a una αἵρεσις, intesa essenzialmente come “scuola”19. Clemente cioè andava definendo la “Chiesa” a partire dalla modifica dell’idea di “scuola” comunemente diffusa e di cui rifiutava il carattere particolaristico. Se la “scuola” non fosse uscita dalla dimensione “particolare” per sfociare nella Chiesa universale essa si sarebbe resa “condannabile” (str. 7, 15, 91.8) oppure ricettacolo di anime passionali (str. 7, 16, 99.1). Da termine puramente tecnico, dunque, il termine αἵρεσις comincia ad assumere una chiara coloritura etica20. 19 È quanto mostra Runia a proposito delle αἱρέσεις giudaiche (cf. Runia 1999, p. 136). Su ciò si veda Dainese 2010, pp. 279-282. 20 Come previsto da Le Boulluec 1986.

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Ora, tutto ciò è evidente anche nella sezione conclusiva di str. 7. David Runia, mettendo a fuoco le peculiarità delle αἱρέσεις giudaiche di epoca ellenistica (con particolare riferimento a Filone e lungo un arco cronologico che va dal II secolo a.C. a Giamblico), ne evidenzia sette caratteristiche: 1. incircoscrivibilità a un luogo specifico21; 2. determinazione dell’identità a partire dalla figura di un padre-fondatore22; 3. attestazione di un corpus di dottrine23; 4. diffusione in ogni αἵρεσις di esegesi creative degli scritti circolanti24, 5. trasmissione trans-generazionale del sapere – διαδοχή –25; 6. lealtà come criterio di appartenenza a un’αἵρεσις26; 7. diretta proporzionalità tra venerazione nei confronti del fondatore e distanza cronologica che lo separa dall’allievo27. Ora, bisogna constatare che i sette punti rilevati da Runia a proposito delle αἱρέσεις servono anche a Clemente per costruire un’ecclesiologia unitaria, volta, come vedremo, alla salvaguardia dell’unità della verità28. La parte dell’opera che ci interessa concerne gli ultimi tre capitoli di str. 7 (str. 7, 15-18)29. Questa sezione s’inserisce 21 Runia 1999, p. 120: «We must recognize that hairesis is not a philosophical school in the sense of an institution located in a single place or several successive places with a continuous institutional history. With a little charity such a description might be taken to apply for a time to the great Hellenistic schools of the Academy, the Lyceum, the Garden and the Stoa. But… by Philo’s time that situation belonged to the past». 22 Runia 1999, p. 120. 23 Runia 1999, p. 121. 24 Runia 1999, p. 122. 25 Runia 1999, pp. 122-123. 26 Runia 1999, p. 123. 27 Runia 1999, pp. 123-124. Va tuttavia escluso che l’idea di scuola, per Clemente, costituisse un θίασος, se non metaforicamente (124). 28 Anche nel Protrettico Clemente cerca di proporre ai suoi interlocutori “pagani” l’idea di una chiesa-scuola universale, un progetto concettuale in cui sono ravvisabili le principali caratteristiche fatte emergere da Runia a proposito delle scuole di filosofia tardo-antiche. Cf. Dainese 2010, pp. 276-279. 29 Per la prima caratteristica di Runia si veda str. 7, 17,106.3: ὅτι γὰρ μεταγενεστέρας τῆς καθολικῆς ἐκκλησίας τὰς ἀνθρωπίνας συνηλύσεις πεποιήκασιν, οὐ πολλῶν δεῖ λόγων (Che infatti abbiano tenuto i loro conciliaboli umani posteriormente al sorgere della chiesa cattolica, non servono molte parole ). Per la seconda, la terza e la settima caratteristica si rimanda a str. 7, 17, 107.3-5; per la quarta e la settima, è di riferimento str. 7, 17, 106.1-106.2: «οἱ τοίνυν τῶν ἀσεβῶν ἁπτόμενοι λόγων ἄλλοις τε ἐξάρχοντες μηδὲ εὖ τοῖς λόγοις τοῖς θείοις, ἀλλὰ ἐξημαρτημένως συγχρώμενοι» (Plato Leg. 10, 891 d)... ἀλλ’οὐδὲ τὴν κλεῖν ἔχοντες αὐτοὶ τῆς εἰσόδου... ὥσπερ ἡμεῖς διὰ τῆς τοῦ κυρίου παραδόσεως εἴσιμεν («Coloro che aderiscono alle empie teorie e se ne fanno iniziatori presso altri, senza nemmeno saper usare a dovere i discorsi divini ma commettendo errori» [Plato Leg. 10, 891 d] 106.2. Nemmeno possiedono la chiave del­l’entrata... come noi entriamo attraverso la tradizione del Signore); per la quinta caratteristica di Runia cf. invece str. 7, 17, 108.1: μία γὰρ ἡ πάντων γέγονε τῶν ἀποστόλων ὥσπερ διδασκαλία, οὕτως δὲ καὶ ἡ παράδοσις (Come è stato uno l’insegnamento degli apostoli, così pure una è la tradizione).

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 125

in un contesto apologetico, in cui Clemente difende il cristianesimo dall’accusa, mossa da «greci e giudei»30, d’essere inaffidabile perché diviso in molte sette31. Il cristianesimo non sarebbe credibile, secondo gli avversari di Clemente, «per la διαφωνία delle αἱρέσεις» (str. 7, 15, 89.2). Che fa allora l’Alessandrino? Dapprima afferma che ciò non può inficiare la veridicità del cristianesimo perché anche nella medicina, ad esempio, esistono diverse scuole eppure l’arte medica non viene ritenuta inaffidabile. Poi l’Alessandrino recupera e reinterpreta un topos classico della letteratura medio-platonica, il mito di Penteo sbranato dalle baccanti, ritenendo che la molteplicità in seno al cristianesimo non sia qualcosa di assolutamente negativo, ma rappresenti piuttosto lo stadio intermedio di un processo progressivo finalizzato all’unità della fede32. La διαφωνία era un concetto-chiave sia nella polemica tra le scuole filosofiche sia in quella tra cristiani e pagani: il “dissenso” tra i membri dello stesso gruppo o della stessa scuola serviva per screditarne la veridicità agli occhi di gruppi o scuole rivali33. Medioplatonici come Attico e Numenio, riprendendo l’immagine euripidea del Penteo lacerato, criticano la frantumazione della filosofia di Platone, ad opera dei successori, che soltanto loro sarebbero stati in grado di ricomporre nuovamente in un unico ben strutturato corpo34. Eusebio recupera indirettamente questo motivo per esprimere l’azione delle eresie nei confronti della dottrina della Chiesa35. Clemente, invece, utilizza l’immagine di Penteo sbranato per definire la natura 30 Cf. str. 7, 15, 89.1. In realtà l’uditorio di Clemente non è dissimile da quello del Protrettico, per via del fatto che il giudaismo alessandrino fornisce lo sfondo a tutto il milieu intellettuale della χώρα, cf. Pujiula 2006, pp. 62-84. Inoltre si tenga presente l’appello a temi biblici (la creazione dell’uomo e l’inganno di Eva da parte del serpente) con cui Clemente si rivolge ai suoi interlocutori “greci” in prot. 1, 7.6. Per l’indirizzo ai “greci” del Protrettico, si veda Dainese 2010, p. 256, nota 2. 31 Cf. str. 7, 15, 89.2. Le stesse accuse sono attestate anche nel Contra Celsum, cf. Cels. 2, 27; 3, 12; 5, 61. 32 Il mito euripideo era utilizzato nella tarda antichità come immagine con cui formulare il motivo della discordia tra i membri di un gruppo a danno degli appartenenti a un gruppo avversario. Tra gli autori cristiani lo si trova in Iust. dial. 2, 1-2, in Or. Cels. 3, 12 e 5, 63 (nonché indirettamente in princ. 1, praef., 10 e in Io. 13, 46: per ciò si rimanda a Zambon 2007, nota 36). In Clemente ricorre anche in str. 1, 1, 57.1-6. 33 Cf. Dörrie 1987-, 3, §§ 99-100 e Mansfeld 1988. 34 Cf. Attic. fr. 1, 20-32 e Numen. fr. 24, 71. 35 Nello specifico, Eusebio parla di una Chiesa καθαρά καὶ ἀδιάφθορος guastata dagli eretici e Clemente adotta toni simili per parlare della καθολική ἐκκλησία in str. 7, 17, 106.3. Cf. Eus. h.e. 3, 32.7: «Fino a quel momento [= fino al regno di Traiano] la Chiesa rimase pura e casta come una vergine (παρθένος καθαρὰ καὶ ἀδιάφθορος ἔμεινεν ἡ ἐκκλησία), poiché coloro che tentarono di distruggere la salutare regola dell’annuncio della salvezza… rimasero nascosti fino ad allora nella tenebra più oscura».

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parziale (μερική) della verità raggiunta dalla filosofia36. Questa è la posizione dell’Alessandrino: «La verità è una... e le scuole filosofiche barbare e greche, come le baccanti sbranarono le membra di Penteo, pretendono ciascuna che la parte della verità che hanno ricevuto sia l’intera verità» (str. 1, 13, 57.1). Il punto è che, sebbene la critica di parzialità sia qui avanzata soltanto nei confronti delle scuole filosofiche pagane o giudaiche, in realtà essa è analoga a quella rivolta ai cosiddetti “eretici”, cioè agli gnostici. Clemente infatti non rigetta del tutto le dottrine gnostiche e sembra considerarle, piuttosto, come verità parziali, che necessitano di essere fatte progredire, esattamente come gli insegnamenti della filosofia. Basti osservare le indicazioni indirizzate, rispettivamente, alla filosofia e alla cosiddetta eresia: 37 38 Clem. str. 7, 15, 91.3-8: bisogna dunque indagare con una certa cura la verità autentica, che sola ha per oggetto il vero Dio... non ci si deve assolutamente ritirare... 91.8. Perciò ci si condanna, e giustamente, se non diamo il nostro assenso a coloro in cui dobbiamo confidare, se non sceveriamo ciò che è contraddittorio, sconveniente, contro natura e falso dal vero, da ciò che è coerente, conveniente e secondo natura. Di questi incentivi bisogna avvalersi per approfondire la conoscenza della verità autentica37.

Clem. str. 7, 16, 96.4: ma la verità non si rintraccia nel trasporre i significati (perché così si rovescerà ogni vera dottrina), ma nell’esaminare che cosa sia perfettamente proprio e conveniente al Signore e Dio onnipotente e nel confermare ciascuna delle prove delle Scritture sulla base dei passi paralleli delle Scritture stesse38.

Clemente suggerisce ai filosofi una maggiore accuratezza nell’indagine della verità: è necessario crescere in tale pratica, sceverare il vero dall’inautentico, approfondire la conoscenza della verità considerando come punto di partenza il rifiuto di ciò che è «contradditto36 Propriamente μερική in str. 1, 16, 80.5; 1, 17, 87.2; 1, 20, 100.5; 5, 5, 29.4; 6, 7, 55.4-56.1; 6, 8, 68.1; 6, 10, 83.2; 6, 17, 160.1; 7, 15, 91.2. 37 Διὰ πλείονος τοίνυν φροντίδος ἐρευνητέον τὴν τῷ ὄντι ἀλήθειαν, ἣ μόνη περὶ 38 τὸν ὄντως ὄντα θεὸν καταγίνεται… οὐ τέλεον ἀποστατέον… 91.8 διὸ καὶ εἰκότως κρινόμεθα, οἷς δέον πείθεσθαι μὴ συγκατατιθέμενοι, μὴ διαστέλλοντες τὸ μαχόμενον καὶ ἀπρεπὲς καὶ παρὰ φύσιν καὶ ψεῦδος ἀπὸ [τε] τἀληθοῦς καὶ τοῦ ἀκολούθου καὶ τοῦ πρέποντος καὶ τοῦ κατὰ φύσιν, αἷς ἀφορμαῖς καταχρηστέον εἰς ἐπίγνωσιν τῆς ὄντως οὔσης ἀληθείας. 38 Ἡ ἀλήθεια δὲ οὐκ ἐν τῷ μετατιθέναι τὰ σημαινόμενα εὑρίσκεται (οὕτω μὲν γὰρ ἀνατρέψουσι πᾶσαν ἀληθῆ διδασκαλίαν), ἀλλ’ ἐν τῷ διασκέψασθαι τί τῷ κυρίῳ καὶ τῷ παντοκράτορι θεῷ τελέως οἰκεῖόν τε καὶ πρέπον, κἀν τῷ βεβαιοῦν ἕκαστον τῶν ἀποδεικνυμένων κατὰ τὰς γραφὰς ἐξ αὐτῶν πάλιν τῶν ὁμοίων γραφῶν.

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 127

rio, sconveniente, contro natura e falso». Gli gnostici, a differenza e in più rispetto ai filosofi, hanno le Sacre Scritture per cui, nel loro caso, si tratta soltanto di correggerne l’esegesi. Di conseguenza, tanto gli gnostici quanto i filosofi sono coinvolti nello stesso moto progressivo verso l’unica verità. Perciò, se «la verità è una» (str. 1, 13, 57.1), essa lo è come esito di un progresso potenzialmente universale. Una verità, allora, ma – e solo – apparentemente molteplice perché le sue parti devono essere fatte crescere finché si integrino nell’unità, l’unità della «Chiesa universale» (7, 17, 106.3). Ciò che ora dobbiamo chiederci è quale sia il retroscena di questo genere di operazione. Si è visto come la soluzione sviluppata da Clemente rispetto a determinati problemi posti sia dagli gnostici sia dalle critiche dei filosofi pagani lo conduca a insistere sul carattere unitario e universale della verità. Si è anche notato che questo è un tema profondamente radicato nel pensiero clementino in quanto compare sia in str. 5 che in str. 7. Vale ora la pena chiedersi se le fonti che l’Alessandrino utilizza per elaborare la sua proposta siano meri motivi retorici, circolanti nella letteratura polemica e apologetica, o se piuttosto non sia Clemente a piegare a fini polemici un preciso apparato concettuale. La risposta giunge considerando un passo particolarmente significativo, sempre della sezione conclusiva di str. 7. Clem. str. 7, 17, 107.3-5: da quanto s’è detto, dunque, credo risulti chiaro che una è stata la vera chiesa, quella in realtà originaria (ἀρχαία), cui sono stati ascritti i giusti secondo il 39 proposito. 107.4. «Poiché uno è Dio e uno il Signore» (cf. 1 Cor 8, 6), per questo motivo anche ciò che è sommamente venerabile acquisisce pregio in ragione della sua monadicità, essendo imitazione dell’unico principio. L’unica Chiesa è resa coerede della natura dell’Uno, mentre c’è chi s’adopera a smembrarla in una molteplicità di eresie. 107.5. Per essenza (ὑπόστασις) e per contenuto dell’intelligenza, per principio (ἀρχή) e preminenza insieme, noi diciamo una la Chiesa originaria e universale, costruita nell’unità della fede (Ef 4, 13) unica: quella fede che è secondo i suoi propri Testamenti, o meglio secondo il Testamento unico suddiviso nei due tempi diversi, e che per volontà dell’unico Dio, tramite l’unico Signore, raduna coloro

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Aggiunta della traduzione di Giovanni Pini, sulla base di Méhat 1966, p. 484.

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che vi sono già stati ordinati: coloro che Dio aveva preordinati (cf. Rm 8, 28 ed Ef 1, 5)40.

Questo brano è importante almeno per due ragioni: innanzitutto perché integra tre caratteristiche rilevate da Runia come peculiarità delle αἱρέσεις alessandrine e, in secondo luogo, perché vi si trova un implicito richiamo al topos di Penteo smembrato41. Ora, si noti come Clemente insista pressantemente sull’unità della Chiesa originaria42, del suo – unico – maestro e del suo – unico – corpus dottrinale. Ma questo forte senso di unità si costruisce attorno a due poli: l’arché e il télos. La Chiesa che «è resa coerede della natura dell’Uno», infatti, è quella archetipica composta dai «giusti», che le sono ascritti fin dall’origine e che fungono da modello – destinato a realizzarsi sul piano escatologico – per tutti coloro che aspirano alla medesima perfezione. Dietro tutto ciò, in altri termini, vanno ricostruite le tracce di una profonda meditazione sull’apocatastasi, cioè sulla dottrina del ristabilimento escatologico della perfezione originaria43.

40 Ἐκ τῶν εἰρημένων ἄρα φανερὸν οἶμαι γεγενῆσθαι μίαν εἶναι τὴν ἀληθῆ ἐκκλησίαν τὴν τῷ ὄντι ἀρχαίαν, εἰς ἣν οἱ κατὰ πρόθεσιν δίκαιοι ἐγκαταλέγονται. «Ἑνὸς γὰρ ὄντος τοῦ θεοῦ καὶ ἑνὸς τοῦ κυρίου» (cf. 1 Cor 8, 6), διὰ τοῦτο καὶ τὸ ἄκρως τίμιον κατὰ τὴν μόνωσιν ἐπαινεῖται, μίμημα ὂν ἀρχῆς τῆς μιᾶς. Τῇ γοῦν τοῦ ἑνὸς φύσει συγκληροῦται ἐκκλησία ἡ μία, ἣν εἰς πολλὰς κατατέμνειν βιάζονται αἱρέσεις. Κατά τε οὖν ὑπόστασιν κατά τε ἐπίνοιαν κατά τε ἀρχὴν κατά τε ἐξοχὴν μόνην εἶναί φαμεν τὴν ἀρχαίαν καὶ καθολικὴν ἐκκλησίαν, «εἰς ἑνότητα πίστεως» (Ef 4, 13) μιᾶς, τῆς κατὰ τὰς οἰκείας διαθήκας, μᾶλλον δὲ κατὰ τὴν διαθήκην τὴν μίαν διαφόροις τοῖς χρόνοις, ἑνὸς τοῦ θεοῦ τῷ βουλήματι δι’ ἑνὸς τοῦ κυρίου συνάγουσαν τοὺς ἤδη κατατεταγμένους· «οὓς προώρισεν ὁ θεός» (cf. Rm 8, 28; Ef 1, 5). 41 Qui Clemente usa il verbo κατατέμνω; altrove, per esprimere il medesimo concetto, impiega altri termini, come ad esempio il verbo διαφορέω in str. 1, 13, 57.1; in str. 1, 13, 57.6, nello specifico, compare il sostantivo euripideo (Bacch. 735) σπαραγμός (in entrambi i casi di str. 1, l’Alessandrino si riferisce alla filosofia e alla sua capacità di raggiungere la verità soltanto in modo incompleto, parziale, cf. Osborn 1957, pp. 122-124). Sulla ricorrenza di questo tema in Clemente si veda Dainese 2010, p. 271. Un’immagine simile, benché non si tratti propriamente di “lacerazione”, ma piuttosto di “deterioramento” e il riferimento alla figura di Penteo sia più vago, è reperibile negli apologisti e in Eusebio, su cui si veda Dainese 2011. 42 Va chiarito che, in generale, Clemente non mette mai a fuoco il problema della coincidenza di arché e télos come ristabilimento di una condizione di perfezione originaria, andata perduta a seguito di una caduta. Ciononostante quest’idea non è estranea all’Alessandrino, fosse solo perché gli giunge come eredità intellettuale di un contesto culturale fortemente influenzato da Filone: cf. Choufrine 2002, pp. 138-148 e Ramelli 2012 (vide infra, pp. 123-130; si tenga poi conto del fatto che l’idea della caduta protologica era anche propria di alcune declinazioni del platonismo, non necessariamente di matrice gnostica: cf. Festugière 1953, pp. 62-97). Con certezza si può invece dire che il problema della caduta e del ristabilimento della perfezione originaria non appartiene ai contenuti specifici della dottrina dell’anima clementina. 43 Per una ricognizione sull’origine del termine, cf. Méhat 1956, pp. 196-197. Di particolare interesse sono gli spunti offerti da Itter 2006, che connette la nozione di

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 129

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Già Panteno in verità aveva approntato, come soluzione alla frammentazione dell’antropologia valentiniana, una dottrina unitaria dell’apocatastasi. Clemente lo sa bene, perché è lui stesso a riportarne le parole nell’unico testo in cui, con certezza, si riferisce a colui che Eusebio definisce suo predecessore. Il passo in questione è contenuto nelle Ecloghe Profetiche dove Clemente elogia l’escatologia di Panteno a commento dello stesso passo paolino (Ef 4, 13) comparso in str. 7, 17, 107.5. Vediamo dunque il testo: Clem. ecl. 56.2-3: il nostro Panteno diceva che «la profezia il più delle volte si esprime in modo indefinito e usa il tempo presente invece del futuro e ancora il presente invece del passato»… Saranno un solo corpo tutti (1 Cor 12, 12) coloro che, della stessa stirpe, hanno scelto la stessa fede e la stessa giustizia, reintegrandosi (ἀποκαταστησόμενοι) nella stessa unità (εἰς τὴν αὐτὴν ἑνότητα; Ef 4, 13)44.

Panteno, afferma Clemente, ebbe il merito di porre l’ἑνότης di Ef 4, 13 come esito di una scelta. L’ἑνότης della Lettera agli Efesini, infatti, viene prima interpretata con la categoria dell’ἀποκατάστασις escatologica (εἰς τὴν αὐτὴν ἑνότητα ἀποκαταστησόμενοι) e poi si dice che essa – in quanto condizione escatologica di perfetta unità e quindi il migliore dei destini dell’anima dopo la morte – dipende dal modo in cui si è deciso di impiegare il proprio libero arbitrio. Infatti, chi è membro della «stirpe» eletta, destinata a ricomporsi nell’unità finale? «Coloro – afferma Panteno – che hanno scelto la stessa fede e la stessa giustizia». Ora, questo è quanto Clemente approva di colui che è conosciuto come suo maestro. Tuttavia il testo ci dice di più, perché permette di constatare che la posizione di Panteno al riguardo non era l’unica nota a Clemente. La dottrina del maestro, infatti, compare come esito della sua esegesi di Sal 18, 5 («Nel sole pose la sua tenda»), che, a sua volta, sembra alternativa a interpretazioni che prediligevano la lettura – pur sempre paolina45 – del passo, secondo cui la “tenda” del versetto non era l’ἑνότης di Ef 4,

apocatastasi alla condizione dello gnostico su questa terra (p. 173). Questa posizione è poi sviluppata in Itter 2009, pp. 175-216. 44 Ὁ Πάνταινος δὲ ἡμῶν ἔλεγεν “ἀορίστως τὴν προφητείαν ἐκφέρειν τὰς λέξεις ὡς ἐπὶ τὸ πλεῖστον καὶ τῷ ἐνεστῶτι ἀντὶ τοῦ μέλλοντος χρῆσθαι χρόνῳ καὶ πάλιν τῷ ἐνεστῶτι ἀντὶ τοῦ παρῳχηκότος”… «ἓν γὰρ σῶμα οἱ πάντες» (1 Cor 12, 12) ἐκ τοῦ αὐτοῦ γένους τὴν αὐτὴν πίστιν καὶ δικαιοσύνην ἑλόμενοι, «εἰς τὴν αὐτὴν ἑνότητα» (Ef 4, 13) ἀποκαταστησόμενοι. 45 Cf. 1 Cor 12, 27-28 ed Col 1, 18-24. Clemente utilizza l’espressione μία ἐκκλησία in str. 3, 10, 70.1. Per gli altri autori che interpretavano in senso paolino Sal 18, 5 rimando al commento di Carlo Nardi in Nardi 1985, p. 136.

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13, bensì la “Chiesa”46. In fondo, echi di queste tradizioni sono ravvisabili anche nei brani sopra menzionati di str. 5, 6, 35.4 e 7, 6, 32.4, cioè nella figura della “co-spirazione” delle chiese all’unità. Cosa fa dunque Clemente? L’Alessandrino riprende la tradizione esegetica – di cui Panteno è o il fautore o uno dei tanti prosecutori – che vuole la «Chiesa» come figura escatologica, la integra con la concezione escatologica di Panteno e, in str. 7, la accosta, con finalità antignostiche, al carattere unitario della verità47. Clemente, nel sostituire il concetto di apocatastasi unitaria con la Chiesa (spirituale) modifica con consapevolezza e una certa originalità un modello escatologico elaborato prima della sua attività di maestro in Alessandria. Clemente non fa che sviluppare questo modello teorico e ne ricava la base concettuale per la sua polemica antipagana e antignostica. Sostenendo che gli gnostici rappresentano solamente stadi di avanzamento verso l’unità della verità (che si realizzerà alla fine dei tempi) arrestatisi nel loro progresso, Clemente offre ai cosiddetti eretici la possibilità di conversione48 e difende la verità cristiana dalle accuse di frammentarietà, in quanto quest’ultima risulta soltanto apparente, destinata a risolversi nell’unità. Nel corso del presente capitolo ci si concentrerà tuttavia soprattutto sul versante antignostico delle riflessioni dell’Alessandrino, più che sulla sua apologetica antipagana: come si è visto, infatti, è soprattutto agli gnostici che Clemente si rivolge. Ora, tenendo bene a mente che essi – per certi versi – rappresentano una delle declinazioni del platonismo, partiamo dal risultato appena raggiunto: l’escatologia concerne tanto la risposta di Clemente ai filosofi pagani, quanto quella fornita allo gnosticismo. All’universo dei miti e dei riti pagani l’Alessandrino aveva replicato nel suo Protrettico ai Greci49, sfruttando il 46 Ecl. 56.2: ἔνιοι μὲν οὖν φασι τὸ σῶμα τοῦ κυρίου «ἐν τῷ ἡλίῳ» αὐτὸν «ἀποτίθεσθαι», ὡς Ἑρμογένης, «σῶμα» δὲ λέγουσιν οἳ μὲν «τὸ σκῆνος» αὐτοῦ, οἳ δὲ «τὴν τῶν πιστῶν ‘ἐκκλησίαν’» (Alcuni, come Ermogene, affermano che il Signore «depose» il suo corpo «nel sole» e altri chiamano «corpo» il suo «tendaggio», altri «la “Chiesa” dei credenti»). 47 All’unità della verità si lega immediatamente l’«unica vera Chiesa» originaria (7, 17, 107.3), archetipica come il Logos presentato ai greci in prot. 1, 6. La Chiesa προτότοκος è una designazione che appare nel Protrettico, cioè nel confronto con i pagani (prot. 8, 82.6). Sono molte le ricorrenze, nel Protrettico, della Chiesa-madre, così in paed. 1 e nella conclusione di paed. 3; mai nel resto del Pedagogo o degli Stromati prima di str. 6-7. Per le implicazioni di questa disposizione tematica, si veda Dainese 2010. 48 Secondo le modalità prescritte dalla metafora dell’innesto in str. 6, 15, 119.3 (cf. p. 57). 49 A riprova dell’affinità tra il Protrettico e i contenuti di str. 7 si consideri che la redazione dei due scritti è avvenuta in parallelo dal momento che il Protrettico è nominato esplicitamente in str. 7, 4, 22.3.

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 131

tema della pulizia dell’occhio dell’anima50. Lo stesso tema è al cuore della sua strategia antignostica in str. 7, 16, 99.1. Qui, infatti, Clemente afferma: «Come l’occhio turbato, così pure l’anima intorbidata dalle passioni contro natura non è capace di discernere perfettamente la luce della verità, ma addirittura travisa (παρορᾷ) anche ciò che le è presso». Proseguendo la critica ai pagani «incapaci di discernere perfettamente la luce della verità», per Clemente gli gnostici traviserebbero ciò che è loro vicino. Il tema della pulizia dell’occhio dell’anima, a sua volta caratteristica della letteratura protrettica, pone al centro il rapporto anima-corpo e cioè, detto altrimenti, la relazione intelligibile-sensibile. Ed è interessante notare come il rapporto sensibile/intelligibile – cruciale nel platonismo tradizionale – sia fondamentale proprio per permettere a Clemente di negare agli gnostici lo statuto ecclesiale. È possibile scorgere il nesso tra ecclesiologia antignostica e rapporto sensibile/intelligibile già in str. 1, 19, 96, un brano che può essere confrontato con la sezione finale di str. 7, perché attesta presso i cosiddetti eretici la diffusione di pratiche eucaristiche – presenti anche in altri ambienti cristiani51 – erronee, come fa str. 7, 16, 98.2. str. 1, 19, 96, nello specifico, nega agli gnostici la dimensione ecclesiale: Clemente, infatti, vi sostituisce l’ἐκκλησία con un comune τόπος, luogo di semplici συναγωγαί. Ora, anche qui gli gnostici sarebbero stati indotti a queste errate pratiche liturgiche perché lasciatisi ingannare dalla loTema-chiave della psicologia del Pedagogo, cf. quanto espresso in I.2.2. Str. 1, 19, 96: «Parlo per esortare i poveri di mente (καὶ τοῖς ἐνδεέσι φρενῶν παρακελεύομαι λέγουσα) dice la Sapienza, evidentemente alludendo alle eresie: Prendete gioiosamente i pani nascosti, la dolce acqua furtiva; ed è chiaro che la Scrittura pone qui i termini “pane” e “acqua” all’indirizzo soltanto degli eretici, che durante l’oblazione usano pane e acqua, contrariamente al canone della Chiesa. E c’è anche chi celebra l’eucaristia con la sola acqua. Ma alzati, non indugiare nel luogo di lei; e dice “luogo”, cioè i loro raduni, non “Chiesa”, che sarebbe equivoco. Poi soggiunge: Così attraverserai acqua straniera, considerando il battesimo degli eretici acqua non propria, non genuina, e varcherai un fiume straniero (Pr 1, 10; 9, 12; 16-18), che devia e trascina giù al mare, dove va a finire colui che sì è lasciato fuorviare dalla saldezza della verità e torna a confluire fra i disordinati marosi della vita pagana» (in relazione a pratiche eucaristiche con pane ed acqua, cf. Epiph. haer. 42, 3.3; 46, 2.3; 47, 1.7 e Cypr. epist. 63, 2). L’ecclesiologia antignostica, in questo passo, è connessa alla critica a quella “povertà di mente” che fa «fuorviare dalla saldezza della verità». Nel brano di str. 3, 17, 103.3 l’ecclesiologia antignostica si legherà invece alla discussione sulla bruttezza sensibile di Gesù (a confronto con la natura incorporea e invisibile della causa prima). La dottrina della conoscenza e il tema del rapporto tra la dimensione sensibile o terrestre e la realtà invisibile e incorporea dei primi principi sono due varianti della speculazione tradizionale sul rapporto intelligibile/sensibile che, in Clemente, si trovano rapportate all’ecclesiologia. 50 51

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ro percezione malata che li avrebbe spinti a «cercare acqua dove acqua non c’è» (str. 1, 19, 95.7). Tra i passi in cui ritorna la critica allo gnosticismo nella cornice del rapporto sensibile/intelligibile, può essere ricordato anche str. 3, 17, 103.352. Più in generale va detto che tutto il terzo stromate è imperniato su un’accusa di tipo etico rivolta agli gnostici. Ogni forma di eresia, afferma ripetutamente Clemente nel corso del libro, ha origine da un rapporto non corretto dell’anima con il corpo e ciò avrebbe due esiti possibili: libertinismo ed encratismo53. Si tratta dunque di un’interpretazione approssimativa e schematica, il cui unico scopo è la polemica antignostica. Il messaggio che Clemente cerca di trasmettere ai suoi interlocutori gnostici è che se l’occhio della loro anima è offuscato a motivo delle passioni, non potranno avere che una percezione distorta della verità e pertanto non avranno accesso ad alcuna “gnosi”54. Ora, nel brano in questione Clemente sta attaccando i cosiddetti encratiti, che in questo caso sono i marcioniti, a cui associa anche i valentiniani. Qui i cosiddetti eretici vengono attaccati per via della loro idea del rapporto tra realtà sensibile e realtà intelligibile, che si rifletterebbe immediatamente sulla loro concezione della corporeità. Ecco dunque come e perché, dovendo ora occuparci della dottrina clementina dei principi, dobbiamo tenere conto dell’antignosticismo di Clemente, che ne imposta sia l’orientamento escatologico sia la sensibilità al tema del rapporto tra intelligibile e sensibile. Connettendo, tramite la metafora – tradizionale nel platonismo – della pulizia dell’occhio dell’anima, l’ecclesiologia di Clemente alla sensibilità platonica nei confronti del rapporto tra intelligibile e sensibile si può intuire quanto il platonismo di Clemente si sia forgiato in un serrato confronto-scontro con il platonismo delle dottrine gnostiche.

52 Brano che tematizza la “bruttezza di Gesù”: «E del resto l’economia che si attua per noi nella Chiesa, come poteva raggiungere il suo fine senza il corpo? Mentre Egli stesso, il “capo della Chiesa” (Ef 1, 22 e 5, 23), venne sulla terra nella carne, benché “brutto e malforme nell’aspetto” (Is 53, 2-3) insegnandoci così a volgere lo sguardo alla natura invisibile e incorporea della Causa divina». Sull’argomento, cf. Zorzi 2007, pp. 314-315. 53 Accusa cui la critica a prestato molta attenzione, cf. in particolare studi di Bolgiani 1962 e Bolgiani 1967. 54 Clemente, infatti, per giustificare la sua classificazione degli gnostici in libertini ed encratiti, premesso che «gnosi» è «scienza divina… che s’accende nell’anima per l’obbedienza ai comandamenti», afferma: «quel che è l’occhio nel corpo, questo nella mente è la gnosi» (str. 3, 6, 44.3).

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 133

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III.2. L’ingresso nel tempio Nel paragrafo precedente si è visto come il legame tra la psicologia di str. 5-7 e il superamento dello gnosticismo nella prospettiva escatologica fosse rilevante per la relazione dell’intelligibile al sensibile. Ciò riguarda gli Stromati sia dal punto di vista più ampio della loro argomentazione complessiva sia nella prospettiva più specifica della dottrina dell’anima elaborata in quest’opera. Quanto al primo aspetto, si consideri che Clemente medita sul rapporto intelligibile-sensibile in senso antignostico tematizzando il motivo della pulizia dell’occhio dell’anima, immagine il cui uso negli Stromati è diverso rispetto a quanto avviene nel Protrettico o nel Pedagogo: contesti di polemica antignostica, infatti, sono pressoché nulli o soltanto impliciti in queste due opere. Per quanto concerne, invece, la dottrina dell’anima negli Stromati, la riflessione sulla relazione tra intelligibile e sensibile orienta gli accenni clementini all’escatologia in senso antignostico come una sorta di risvolto pratico della quarta promessa di approfondimento psicologico55. Ora, Clemente tornerà a fornire indicazioni sull’escatologia coerenti con queste premesse trattando del mondo intelligibile in quanto tale. La descrizione più ampia, negli Stromati, del mondo intelligibile si può ricostruire attraverso alcune sezioni di str. 5, 6. Si tratta di un’ampia esegesi della struttura del tempio giudaico di cui parla il libro dell’Esodo. Prendiamo in esame due brani che costituiscono un blocco argomentativo autonomo. Con 5, 6, 37, infatti, comincia l’«esegesi mistica delle realtà ineffabili»: Clemente si concentra cioè esclusivamente sul mondo intelligibile in sé, mentre in precedenza (str. 5, 6, 34) aveva descritto, sì, il mondo intelligibile, ma in modo funzionale al suo rapporto alla sfera del sensibile56. Clem. str. 5, 6, 34.3-4; 34.7: ora, dentro la tenda si cela il ministero sacerdotale ed essa tiene lontani dagli estranei quelli che vi sono impegnati. A sua volta il velo preserva dall’entrata nel Santo dei santi... Ma nel mondo intelligibile entra solo colui che è divenuto dominatore delle passioni57, penetrando nella 55 Quella di str. 5, 13, 88, relativa ad un concetto di anima tale da consentire una forma di partecipazione allo Spirito santo che facesse a meno dei concetti di parte o di porzione. Cf. p. 48. 56 In realtà, parlando della veste talare del sommo sacerdote, in str. 5, 6, 38 l’Alessandrino tornerà nuovamente a parlare del rapporto tra intelligibile e sensibile, ma in un quadro ormai mutato. Si cercherà di chiarirlo in IV. 2. 57 Gli editori Mayor e Stählin tendono a identificarlo con il «sommo scerdote (ἀρχιερεύς)» di Lv 16, 4, nominato esplicitamente in str. 5, 6, 39.3; Le Boulluec non accoglie questa proposta.

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gnosi dell’ineffabile, trascendendo ogni nome (Fil 2, 9) conoscibile con la voce58.

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Clem. str. 5, 6, 35.5; 36.3-37.1: quanto si racconta sull’arca santa rappresenta ciò che si riferisce al mondo intelligibile, nascosto ed escluso ai più... Se debba significare l’ogdoade e il mondo intelligibile o anche il Dio senza forma e invisibile che abbraccia tutte le cose, rimandiamone per ora la discussione; essa comunque indica il riposo insieme con gli spiriti glorificanti simboleggiati dai cherubim...; il volto è simbolo dell’anima razionale; le ali sono servizi e insieme attività celesti di «potenze tanto di destra quanto di sinistra» (cf. 1 Re 22, 19). Basti procedere fin qui con la nostra interpretazione mistica59.

Nel primo testo Clemente illustra la struttura del tempio di Gerusalemme dal punto di vista di colui che vi entra. Il tempio corrisponde all’universo (come aveva appena spiegato in str. 5, 6, 32-33)60, alla realtà nel suo complesso, e dunque viene messa a tema la cosmologia. Ma tutto ciò è funzionale a caratterizzare la prospettiva di colui che entra nel mondo intelligibile. L’Alessandrino poco prima aveva dichiarato di non essere interessato al contenuto della dimensione intelligibile e si limita a fornire solo qualche cenno utile a caratterizzare la visione di chi vi abbia accesso. Qual è, dunque, la prospettiva di colui che 58 ῎Ενδον μὲν οὖν τοῦ καλύμματος ἱερατικὴ κέκρυπται διακονία καὶ τοὺς ἐν αὐτῇ πονουμένους πολὺ τῶν ἔξω εἴργει. πάλιν τὸ παραπέτασμα τῆς εἰς τὰ ἅγια τῶν ἁγίων παρόδου... εἰς δὲ τὸν νοητὸν κόσμον μόνος ὁ κύριος γενόμενος εἴσεισι, [διὰ (espunto da Le Boulluec)] τῶν παθῶν εἰς τὴν τοῦ ἀρρήτου γνῶσιν παρεισδυόμενος, ὑπὲρ «πᾶν ὄνομα» (Fil 2, 9) ἐξαναχωρῶν, ὃ φωνῇ γνωρίζεται. 59 Cf. già p. 117. Per comodità di lettura lo si riproduce di seguito: Τά τε ἐπὶ τῆς ἁγίας κιβωτοῦ ἱστορούμενα μηνύει τὰ τοῦ νοητοῦ κόσμου τοῦ ἀποκεκρυμμένου καὶ ἀποκεκλεισμένου τοῖς πολλοῖς... εἴτ’ οὖν ὀγδοὰς καὶ ὁ νοητὸς κόσμος εἴτε καὶ ὁ [περὶ] πάντων περιεκτικὸς ἀσχημάτιστός τε καὶ ἀόρατος δηλοῦται θεός, τὰ νῦν ὑπερκείσθω λέγειν· πλὴν ἀνάπαυσιν μηνύει τὴν μετὰ τῶν δοξολόγων πνευμάτων, ἃ αἰνίσσεται Χερουβίμ... σύμβολον δ’ ἐστὶ λογικῆς μὲν τὸ πρόσωπον ψυχῆς, πτέρυγες δὲ λειτουργίαι τε καὶ ἐνέργειαι αἱ μετάρσιοι «δεξιῶν τε ἅμα καὶ λαιῶν δυνάμεων» (cf. 1 Re 22, 19)... Ἀπόχρη μέχρι τοῦδε προχωρῆσαι τὴν μυστικὴν ἑρμηνείαν. 60 Riportiamo in traduzione il testo di str. 5, 6, 32.2-33.2: «La composizione della veste talare… attraverso i vari simboli in rapporto ai fenomeni naturali, allude figuratamente alla composizione cosmica dal cielo alla terra. 32.3. “La tenda” e il velo erano intessuti di giacinto, porpora, cocco, bisso (cf. Es 26, 1 e 36, 8): e tutto ciò alludeva alla rivelazione di Dio, nel modo in cui la natura degli elementi la esplica… 33.1. “Nel mezzo”, tra la tenda e il velo, dove era permesso entrare ai sacerdoti, giaceva “il turibolo” (cf. Es 30, 1-10 e 37, 25-29), simbolo della terra posta al centro di questo universo e da cui emanano le esalazioni. 33.2. Quel punto era pure al centro tra il luogo limitato dal velo interno… e l’atrio esterno… perciò lo definiscono il punto centralissimo del cielo e della terra».

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 135

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entra? Il primo brano è chiaro in proposito: quella del progresso. Ma si tratta di un progresso destinato a compiersi nell’ἀνάπαυσις, come mostra il secondo testo, cioè a livello escatologico. Ciò significa che il mondo intelligibile che interessa a Clemente è una realtà in divenire che si realizza nell’eschaton. Colui che entra nel Santo dei santi (il sommo sacerdote61), indica pertanto il processo di perfezione dell’anima gnostica, processo che si compirà soltanto alla fine dei tempi. In tal senso, allora, l’interpretazione clementina del tempio è del tutto analoga a quella fornita da Origene nella sua esegesi del Cantico dei Cantici, altro testo in cui l’ontologia valentiniana della divisione delle nature viene superata a livello escatologico62. Si consideri l’incipit della prima omelia: Or. hom. 1 in Cant. 1: non ci sono solo alcuni luoghi santi, ma anche il Santo dei santi e non solo gli altri sabati, ma anche il Sabato dei sabati, così… non ci sono solo alcuni cantici, ma anche il Cantico dei Cantici. È certo beato chi entrà in un luogo santo, ma molto più beato colui che entra nel Santo dei santi; è beato chi celebra il sabato, ma molto più beato colui che celebra il Sabato dei sabati: similmente è beato chi comprende i cantici e li canta…, ma è molto più beato colui che canta il Cantico dei Cantici. E… colui che entra in un luogo santo ha bisogno di progredire ancora di più per poter entrare nel Santo dei santi63.

La peculiarità della lettura origeniana del Cantico consiste nel condurre l’interpretazione allegorica della sposa a due livelli, a significare l’anima e la Chiesa. Infatti Ippolito, l’unico interprete cristiano del Cantico a lui precedente, intende la sposa unicamente come allegoria della Chiesa, muovendosi sulla scia dell’identificazione giudaica Come peraltro suppongono gli editori Mayor e Stählin (cf. nota 270). Cf. Lettieri 2001, p. 52: a proposito del brano qui riportato, Lettieri riconosce che Origene «avverte immediatamente e velatamente che il tema-chiave del libro biblico è lo stesso progresso dalla lettera allo spirito, dall’immagine alla Verità, dai segni biblici ed economici all’Archetipo celeste, dal divenire storico alla salvezza pleromatica, cioè al ricongiungimento delle anime decadute nell’unico fuoco originario del Logos, ove cantare il Cantico dei cantici significa realizzare la stessa unione con Dio, entrare nella camera nuziale del Santo dei Santi, attingere il Sabato dei Sabati, l’eterna ἀνάπαυσις». 63 Esse quaedam non solum sancta sed et sancta sanctorum et alia non tantum sabbata sed et sabbata sabbatorum, sic nunc quoque docemur…, esse quaedam non solum cantica sed et Cantica canticorum. Beatus quidam et is qui ingreditur in sancta, sed multo ille beatior qui ingreditur in sancta sanctorum. Beatus qui sabbata sabbatizat, sed multo beatior qui sabbatizat sabbata sabbatorum. Beatus similiter et is qui intellegit cantica et canit ea…, sed multo beatior qui canit Cantica canticorum. Et… is qui ingreditur in sancta pluribus adhuc indiget ut valeat introire in sancta sanctorum. 61 62

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degli sposi come Israele e Dio64. A livello allegorico, sembra che Ippolito e Origene si muovano all’unisono. C’è una differenza però: per Origene la Chiesa è sposa di Cristo nella misura in cui in essa opera e progredisce ciascuna singola anima. A questa novità concorrono due elementi: progresso cristologico ed escatologia spirituale. L’incarnazione è il fondamento del progresso65, ricuce la frattura tra Dio e uomo, costituendo per quest’ultimo la possibilità di progredire poiché Dio è «divenuto molte cose» per amore66. L’amore divino associa creatore e creatura nella misura in cui al progresso ascensionale della creatura verso la perfezione corrisponde la κένωσις del Creatore, perché progredire significa essenzialmente far progredire67, accompagnando i progredienti passo dopo passo. Ora, se si vogliono confrontare Origene e Clemente su questi temi, il primo punto da rimarcare è la differenza in merito all’elaborazione della nozione di spirito santo. Come detto in precedenza (cf. p. 116, nota 1), c’è un sensibile scarto tra le loro rispettive dottrine trinitarie. Nel caso di Origene, per via del fatto che la separazione tra piano teologico e filosofico è più netta di quanto non lo fosse in Clemente, si può escludere che l’apice del progresso dell’anima di cui si parla nelle Omelie al Cantico dei cantici sia lo spirito santo. Nonostante questo, la struttura del progresso spirituale è la stessa per entrambi gli alessandrini e il suo compimento avviene sempre sul piano escatologico. In Clemente esso si realizza pienamente nell’incontro escatologico tra il Logos – che in una cornice di cristologia pneumatica, agisce in quanto spirito santo – e l’anima divenuta spirito santo a sua volta68 e Chiesa spirituale (str. 7, 11, 64 Conservataci da un Targum del VII-VIII secolo (disponibile in due edizioni), edito in due versioni, cf. Melamed 1919-1922. 65 Cf. Or. Cant. 4, 2, 11. 66 Cf. Io. 1, 119; 1, 219; 2, 128. Il legame tra incarnazione e progresso è stato descritto da Origene con la metafora del nutrimento cf. Lettieri 2011, pp. 255-256, nota 76. Clemente analogamente descrive il nesso incarnazione-progresso in termini di nutrimento dell’anima: «Egli fa partecipi di se stesso quanti, spiritualmente, prendono in comune questo cibo, quando cioè l’anima da sola ormai nutre se stessa, come dice Platone, amico della verità (cf. Pl. Ep. 7, 341 c-d)» (str. 5, 10, 66.2, similmente anche in 5, 11, 77.1). L’anima, progredita per mezzo dell’essersi nutrita del Logos incarnato (str. 5, 10, 66) ne ha acquisito il medesimo statuto ontologico per cui l’assimilazione è legata strettamente all’incarnazione. 67 Cf. princ. 4, 3, 10-12; Cels. 1, 4, 4-10. 68 L’azione salvifica del Logos in quanto principio (str. 7, 2, 8.4) per mezzo dell’incarnazione (str. 7, 2, 8.1) è espressa come spirito santo (in str. 7, 2, 9.4). Ma lo statuto ontologico dello spirito santo è anche quello dell’anima razionale (str. 6, 16, 138.2 e 3, 10, 69.2), condizione della perfezione escatologica dell’uomo. Per la nozione di anima razionale cf. sempre p. 69, nota 31; per l’equiparazione dello statuto ontologico dell’anima razionale a quello che Clemente ritiene essere dello spirito

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 137

68.3-569). Per Origene la condizione escatologica è analoga, soltanto che la nozione teologica dello spirito santo non è chiamata in causa. L’apice del progresso, secondo Origene, è ancora condizione spirituale, potenzialmente universale, espressa in termini di Chiesa e destinata a realizzarsi sul piano escatologico, ma in più, per effetto dell’imitazione di Cristo, consiste nel raggiungimento della sua condizione, cioè dello statuto del paradiso intellettuale archetipico70, senza che ciò porti alla conseguenza per cui l’anima e il Logos si confondono assieme nello spirito santo. La spiritualizzazione, in ogni caso, rinvia ancora a un’escatologia, perché escatologica è la prospettiva di un progresso infinito e altrimenti inappagato71. Alla luce del paragone con l’antignostica prospettiva origeniana, dunque, anche il ragionamento di Clemente risulta più comprensibile. Qualunque cosa infatti significhi per lui il mondo intelligibile, si può dire che esso funge da modello cui ogni singola anima in progresso cerca di conformarsi, essendone sia il fine sia il compimento in senso cronologico. Passiamo ora all’analisi del mondo intelligibile in sé. III.3. Nel Santo dei santi Nei due paragrafi precedenti si è focalizzato, rispettivamente, l’obiettivo della riflessione clementina sul rapporto tra realtà sensibile e intelligibile e la linea di separazione tra le due sfere dell’essere. Ora si metterà a tema il contenuto della descrizione fornita dall’Alessandrino del mondo intelligibile. Il testo-chiave, in tal caso, è quello di str. 5, 6, 38, cioè l’interpretazione allegorica di quanto è contenuto nel Santo dei santi, ossia l’arca che «rappresenta ciò che si riferisce al

santo, si veda invece la seconda sezione del prossimo paragrafo (pp. 144-148, in particolare pp. 145-146). 69 Cf. p. 157. Testi che menzionano un processo che conferisce all’anima uno statuto spirituale si trovano anche in Origene, ad esempio in Orat. 9, 2 (cf. Perrone 2011, pp. 192-193), ma «anche se permane un’ambiguità voluta sull’esatta nozione di spirito (se cioè si debba intendere dello spirito santo o dello spirito dell’uomo), pare qui preferibile l’accezione che rinvia al composto umano, descritto con chiarezza nella sua tripartizione di corpo, anima e spirito» (Perrone 2011, p. 193). In Clemente, invece, espressioni che alludono alla spiritualizzazione dell’anima devono tenere conto almeno della relazione tra spirito santo e anima razionale elaborata in str. 6, 16, 134-136 (cioè della riflessione sul χαρακτηριστικόν ἰδίωμα). 70 Cf. princ. 3, 6, 3. 71 Cf. princ. 2, 11, 4.

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mondo intelligibile» (5, 6, 35.5). Vediamo dunque il testo, cercando di evidenziarne la terminologia tecnica: Clem. str. 5, 6, 38.5-7: alla testa, cioè al Signore, dovevano soggiacere la Legge e i Profeti, attraverso cui sono designati i giusti nell’uno e nel­l’altro Testamento: se diciamo che gli apostoli sono profeti e insieme giusti, diciamo bene, perché «un solo e il medesimo spirito santo agisce» (cf. 1 Cor 12, 11) in tutti. E come il Signore è al di sopra di tutto il mondo, anzi trascende l’intelligibile, così il nome iscritto sulla lamina è ritenuto degno di essere al di sopra di ogni principato e potestà (Ef 1, 21; cf. Fil 2, 9), e vi è iscritto sia a motivo dei comandamenti che sono scritti sia a causa della presenza sensibile (διά τὴν αἰσθητὴν παρουσίαν) . È poi detto Nome di Dio, perché il Figlio agisce quando guarda la bontà del Padre, Lui, chiamato Dio Salvatore, principio dell’universo (ἡ τῶν ὅλων ἀρχή) che, primo e prima dei secoli, fu fatto «immagine del Dio invisibile» (cf. Gv 5, 19) e ha informato di sé tutte le cose venute a essere dopo di lui72.

Come prima cosa va evidenziata la continuità tra questa pericope e i due passi, precedentemente analizzati, di str. 5, 6, 34 e 5, 6, 35-37. Questo testo, infatti, richiama innanzitutto il primo per il comune rifarsi a Fil 2, 9, il secondo, perché mette a fuoco – a differenza del passo precedente che rimandava la discussione – ciò che “soggiace”73 al Signore, il quale a sua volta è sottoposto, di nuovo, al «Dio invisibile» di Gv 5, 19. Ciò detto, si può ora riconoscere almeno una dualità di principi, Padre e Figlio. In merito a quest’ultimo, viene esplicitata proprio la natura di ἀρχή (τῶν ὅλων ἀρχή, afferma Clemente). Si noti poi come a ciascuno dei due principi venga ascritta una funzione archetipica ben precisa e distinta: il Figlio, infatti, ἀπεικόνισται dal «Dio invisibile» – ne è fatto a immagine – e, a sua volta, «ha improntato di sé tutte le cose venute a essere dopo di sé» (τετύπωκεν δὲ τὰ μεθ’ ἑαυτὴν ἅπαντα γενόμενα). Riguardo all’attività archetipica del Figlio, inoltre, Clemente in 5, 6,

72 Τῇ κεφαλῇ τῇ κυριακῇ νόμον μὲν καὶ προφήτας ὑποκεῖσθαι, δι’ ὧν οἱ δίκαιοι μηνύονται καθ’ ἑκατέρας τὰς διαθήκας· προφήτας γὰρ ἅμα καὶ δικαίους εἶναι τοὺς ἀποστόλους λέγοντες εὖ ἂν εἴποιμεν, «ἑνὸς καὶ τοῦ αὐτοῦ ἐνεργοῦντος» διὰ πάντων «ἁγίου πνεύματος» (cf. 1 Cor 12, 11). ὥσπερ δὲ ὁ κύριος ὑπεράνω τοῦ κόσμου παντός, μᾶλλον δὲ ἐπέκεινα τοῦ νοητοῦ, οὕτως καὶ τὸ ἐν τῷ πετάλῳ ἔγγραπτον ὄνομα «ὑπεράνω πάσης ἀρχῆς καὶ ἐξουσίας» (Ef 1, 21; cf. Fil 2, 9) εἶναι ἠξίωται, ἔγγραπτον δὲ διά τε τὰς ἐντολὰς τὰς ἐγγράφους διά τε τὴν αἰσθητὴν παρουσίαν. ὄνομα δὲ εἴρηται θεοῦ. ἐπεί, ὡς βλέπει τοῦ πατρὸς τὴν ἀγαθότητα, ὁ υἱὸς ἐνεργεῖ, θεὸς σωτὴρ κεκλημένος, ἡ τῶν ὅλων ἀρχή, ἥτις ἀπεικόνισται μὲν ἐκ «τοῦ θεοῦ τοῦ ἀοράτου» (cf. Gv 5, 19) πρώτη καὶ πρὸ αἰώνων, τετύπωκεν δὲ τὰ μεθ’ ἑαυτὴν ἅπαντα γενόμενα. 73 Ora una sorta di «coro dei giusti», ora propriamente l’arca santa.

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38.6 ne specifica la natura di «presenza sensibile» (αἰσθητὴ παρουσία)74 e la definisce per ben due volte un “agire” (ἐνεργεῖν). La cornice è dunque la seguente: un implicito ποιεῖν del Padre, mediato da quella sua immagine che è il Figlio, il quale «agisce» (ἐνεργεῖ) come «figura» (τύπος) nei confronti di ciò che gli è sottoposto nella misura in cui è αἰσθητὴ παρουσία. Si tratta ora di ricostruire il background di questo scenario. Tutti questi elementi sono temi di dottrina dei principi e rientrano in due sensi all’interno della tradizione platonica: da un lato, per la configurazione generale e, dall’altro, per la partecipazione del sensibile all’intelligibile. In relazione alla configurazione generale è necessario rifarsi a str. 5, 6, 35-37 (cf. p. 134). È opportuno richiamare questo brano perché esso indica a cosa mirasse Clemente citando il «Dio invisibile» di Gv 5, 19. L’Alessandrino aveva alluso alla possibilità che l’arca potesse significare «il Dio senza forma e invisibile» (5, 6, 36.3), ma in quel momento si era dichiarato interessato a fornire, in primo luogo, una descrizione allegorica delle parti dell’arca, rimandando dunque la discussione su questo aspetto. Discussione che, appunto, riprende in mano nella pericope sopracitata di 5, 6, 38. Ora a Dio-padre venivano attribuite due caratteristiche (5, 6, 36.3): «abbracciare tutte le cose» (ὁ [περὶ] πάντων περιεκτικός) ed essere «senza forma e invisibile» (ἀσχημάτιστός καὶ ἀόρατος). In tale coppia di attributi si riconoscono tratti e problemi classici del medio-platonismo, da Attico fino a Origene, come vedremo. Ma, soprattutto, questo testo ci permette di leggere in modo tecnico anche la realtà che è immediatamente subordinata al Figlio, cioè «la Legge e i Profeti, attraverso cui sono designati i giusti». Il testo precedente (5, 6, 36.3) infatti identificava il mondo intelligibile come realizzato nel riposo escatologico di cui specificava poi il soggetto: l’anima razionale, la cui condizione di pura intelligibilità è ottenuta con il compimento del progresso spirituale (il testo di 5, 6, 36.4, del resto, recita: «il volto è simbolo dell’anima razionale» cf. p. 134). È dunque all’anima razionale – intesa sì come colui che, progredito, entra nel Santo dei santi, ma anche come anima-idea unitaria – cioè alla prima realtà sottoposta all’azione archetipica del secondo principio (il Figlio)75, che, in 5, 6, 37.1, venivano attribuite ἐνεργείαι καὶ δυνάμεις, con citazione di 1 Re 22, 19. Per quanto concerne, invece, gli aspetti più di dettaglio della cornice platonica tradizionale, registriamo la centralità della «παρουσία sensibile» (cf. str. 5, 6, 38; p. 138). La nozione di παρουσία è, nella Tarda Antichità, lo sviluppo della critica aristotelica alla dottrina platonica 74 75

Su questo concetto sono rilevanti le osservazioni di Itter 2009, p. 196. Cf. p. 134.

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delle idee. Aristotele, infatti, in Metaph. 8, 6, 1045 e 12, 7, 1075, aveva criticato la teoria di Platone, trovando difficile che il sensibile potesse avere partecipazione (μέθεξις) all’intelligibile. Invece per Aristotele la presenza (παρουσία) dell’intelligibile nel sensibile va spiegata mediante il ricorso all’idea-atto (nel lessico aristotelico tecnicamente forma) di una materia-potenza. Al contrario, la tradizione platonica successiva riprenderà l’idea di partecipazione. Si noti come, nel testo di Clemente, non sia tanto l’intelligibile vagamente inteso a manifestarsi come παρουσία nel sensibile, ma direttamente il secondo principio nell’esercizio della sua funzione di archetipo. I due elementi, dunque, che fanno rientrare la descrizione del mondo intelligibile fornita da Clemente nel contesto della tradizione platonica sono: una cornice in cui spicca il ruolo dell’anima razionale e una nota di dettaglio che concerne la definizione tecnica della παρουσία (del Figlio) nel sensibile. Si tornerà tra breve (p. 146) su questa nozione e sulle sue implicazioni, già qui si può tuttavia notare come Clemente non assuma passivamente concetti già elaborati da filosofi. Si è percepita, ad esempio, la fitta rete di interpretazioni di passi biblici che filtra i contenuti più strettamente filosofici e porta l’Alessandrino ad attribuire δυνάμεις ed ἐνεργείαι all’anima razionale, e ciò potrebbe giustificare l’ipotesi, un po’ inusuale se si vuole, di un’azione diretta del secondo principio nel sensibile. III.3.1. Paradosso platonico, infinito potenziale energheia che si fa potenza Vediamo ora di approfondire alcuni tratti generali del platonismo di str. 5, 6, 38. L’idea paradossale di un primo principio che comprende ogni forma, pur restandone privo, si spiega alla luce del fatto che è un altro il principio unificatore di tutte le forme: ad esso viene attribuito un aspetto unitario ed è subordinato al primo. Il medioplatonismo lo definisce Secondo-dio, mentre in ambito cristiano è identificato con il Figlio. La necessità di pensare a un secondo principio, distinto dal primo e sommo, che abbia la funzione di unificare il molteplice, è constatabile già in un’interpretazione anonima di Ti. 29 d – 30 a, attestata e approvata da Diogene Laerzio: D.L. 3, 69: ha mostrato che ci sono due principi dell’universo: dio, che chiama intelletto e causa, e la materia: la materia, da cui proverrebbero i composti, è senza forma e indeterminata. Afferma quindi che essa, benché si muova disordinatamen-

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te, viene convogliata a un certo momento in un unico luogo dal dio, che ha disposto un ordine migliore del disordine76.

Questo schema implica un processo di formazione del mondo scandito in due momenti, come due sono i principi: la formazione del mondo sensibile, a sua volta preceduta dal tentativo di sbarazzarsi del disordine della materia per mezzo della sua raccolta in un τόπος77. Nel testo di Diogene Laerzio i due principi sono la materia e il Demiurgointelletto. La materia è disordinata ed è principio soltanto nel momento in cui riceve una connotazione unitaria. Pertanto, sebbene sia detta essa stessa propriamente «principio», di fatto la sua funzione archetipica sembra affidata a un’altra entità in grado di radunarla in un unico luogo. Di qui prenderà avvio la speculazione sui due principi subordinati l’uno all’altro, di cui ci dà testimonianza Clemente stesso trattando del rapporto tra Dio e il Figlio in str. 5, 6, 38 (cf. p. 138)78. Qual è il problema che sta dietro a questo tipo di interpretazione del Timeo? Diogene Laerzio mostra che il primo principio non può operare sul disordine. Esso ha un limite fondamentale: per operare deve rapportarsi a qualcosa che già sia dotato di unitarietà. In altri autori il medesimo problema ritorna declinato diversamente. Infatti l’interprete anonimo cui Diogene Laerzio si riferisce identifica, nel primo principio, Demiurgo e intelletto e chiama il secondo “mondo”. Filosofi come Attico e Numenio invece distinguono il Demiurgo (primo principio o Primo-dio) dall’intelletto (secondo principio, Secondo-dio o αὐτοζῷον), ma il problema rimane. Si percepisce infatti che, ponendo il Demiurgo oltre l’intelletto, viene meno la capacità del Demiurgo di fungere da principio unificante. Di conseguenza diventano problematici sia il carattere unitario del mondo intelligibile che il rapporto del principio unificatore nei confronti del principio creatore. Ciò è evidente dapprima in Attico il quale, a proposito di Ti. 30 c-d, tocca la questione se il Demiurgo sia o meno compreso dall’αὐτοζῷον: «[Attico si è interrogato su queste parole (Ti. 30 d – 31 a)]: se anche il Demiurgo sia compreso dal vivente 76 δύο δὲ τῶν πάντων ἀπέφηνεν ἀρχάς, θεὸν καὶ ὕλην, ὃν καὶ νοῦν προσαγορεύει καὶ αἴτιον. εἶναι δὲ τὴν ὕλην ἀσχημάτιστον καὶ ἄπειρον, ἐξ ἧς γίνεσθαι τὰ συγκρίματα. ἀτάκτως δέ ποτε αὐτὴν κινουμένην ὑπὸ τοῦ θεοῦ φησιν εἰς ἕνα συναχθῆναι τόπον τάξιν ἀταξίας κρείττονα ἡγησαμένου. A margine segnaliamo che anche Gen 1, 9 si dice che le acque inferiori συναχθῆναι in una συναγωγή. 77 Dörrie 1987-, 4, p. 443. 78 È opportuno precisare quest’affermazione ricordando che tale dottrina dei principi nell’Alessandrino si trova connessa all’idea secondo cui anche il mondo intelligibile nel suo complesso esercita a sua volta una funzione archetipica nei confronti di quello sensibile.

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intelligibile; sembra infatti che, se il demiurgo fosse compreso, non sarebbe perfetto; perché dice che i viventi parziali sono imperfetti… Ma se il demiurgo non è compreso, l’αὐτοζῷον non è in grado di comprendere più della totalità degli intelligibili; allora, trovatosi in aporia, ha posto con leggerezza il Demiurgo al di sopra dell’αὐτοζῷον»79. Anche Numenio tenta di risolvere l’empasse dell’unitarietà del mondo intelligibile distinguendo il νοῦς dal Primo-dio. Questo viene così posto oltre l’intelletto, mentre il νοῦς è identificato con il Secondo-dio, ma ciò non riesce ad evitare la “fuoriuscita” – seppur mediata – del Primo-dio dalla propria perfezione di primo principio verso il sensibile: «Numenio fa corrispondere il Primo-dio al vivente e dice che comprende (ha intellezione) avvalendosi del Secondo e che il Secondo crea secondo l’intelletto e che questo (l’intelletto) lo fa avvalendosi a sua volta del Terzo e il Terzo crea secondo ciò che viene inteso»80. Da parte sua, anche Origene colloca Dio oltre l’intelletto dei platonici: insiste sulla semplicità del Primo-dio e colloca gli intelligibili in un Secondo-dio che è sapienza81. Per quanto concerne Clemente, va rilevato come pure lui condivida il problema sollevato da Attico nel momento in cui, non solo nei testi in analisi, ma anche in str. 2, 2, 5-6, str. 5, 11, 73 e str. 7, 2, 5.4, suppone un Dio invisibile e incircoscrivibile che ciononostante contiene o governa 79 Attic. fr. 34: [ὁ μὲν Ἀττικὸς ἐν τούτοις ἠπόρησεν] εἰ καὶ ὁ δημιουργὸς ὑπὸ τοῦ νοητοῦ ζῴου περιέχεται· δοκεῖ γάρ, εἰ μὲν περιέχοιτο, μὴ εἶναι τέλειος· τὰ γὰρ μερικὰ ζῷα, φησίν, ἀτελῆ… εἰ δὲ μὴ περιέχοιτο, οὐ πάντων τῶν νοητῶν εἶναι τὸ αὐτοζῷον περιληπτικώτερον, καὶ ἀπορήσας ἔθετο ῥᾳδίως ὑπὲρ τὸ αὐτοζῷον εἶναι τὸν δημιουργόν. 80 Numen. fr. 22: Νουμήνιος δὲ τὸν μὲν πρῶτον κατὰ τὸ ‘ὅ ἐστι ζῷον’ τάττει καί φησιν ἐν προσχρήσει τοῦ δευτέρου νοεῖν, τὸν δὲ δεύτερον κατὰ τὸν νοῦν καὶ τοῦτον αὖ ἐν προσχρήσει τοῦ τρίτου δημιουργεῖν, τὸν δὲ τρίτον κατὰ τὸν διανοούμενον. 81 Ne riportiamo i testi integralmente Or. Cels. 7, 38: νοῦν τοίνυν ἢ ἐπέκεινα νοῦ καὶ οὐσίας λέγοντες εἶναι ἁπλοῦν καὶ ἀόρατον καὶ ἀσώματον τὸν τῶν ὅλων θεόν, οὐκ ἂν ἄλλῳ τινὶ ἢ τῷ κατὰ τὴν ἐκείνου τοῦ νοῦ εἰκόνα γενομένῳ φήσομεν καταλαμβάνεσθαι τὸν θεόν (Quindi, dicendo che il Dio dell’universo è intelletto, oppure che è al di là dell’intelletto e dell’essenza, semplice, invisibile e privo di corpo, noi affermiamo che Dio è compreso solo da chi è stato creato a immagine di quell’intelletto). Or. Io. 1, 19.114 – 20.119: ὥσπερ κατὰ τοὺς ἀρχιτεκτονικοὺς τύπους οἰκοδομεῖται ἢ τεκταίνεται οἰκία καὶ ναῦς, ἀρχὴν τῆς οἰκίας καὶ τῆς νεὼς ἐχόντων τοὺς ἐν τῷ τεχνίτῃ τύπους καὶ λόγους, οὕτω τὰ σύμπαντα γεγονέναι κατὰ τοὺς ἐν τῇ σοφίᾳ προτρανωθέντας ὑπὸ θεοῦ τῶν ἐσομένων λόγους·... Ὁ θεὸς μὲν οὖν πάντη ἕν ἐστι καὶ ἁπλοῦν· ὁ δὲ σωτὴρ ἡμῶν διὰ τὰ πολλά, ἐπεὶ “προέθετο” αὐτὸν “ὁ θεὸς ἱλαστήριον” καὶ ἀπαρχὴν πάσης τῆς κτίσεως, πολλὰ γίνεται ἢ καὶ τάχα πάντα ταῦτα, καθὰ χρῄζει αὐτοῦ ἡ ἐλευθεροῦσθαι δυναμένη πᾶσα κτίσις (Infatti, come una casa e una nave sono fabbricate secondo i tipi architettonici, sicché si può dire che principio della casa e della nave sono i tipi e le ragioni che sono nell’artefice, così, penso, le cose sono state fatte secondo le ragioni delle cose future che Dio aveva già da prima manifestato nella Sapienza… Dio quindi è assolutamente uno e semplice; il Salvatore nostro, invece, siccome Dio l’ha posto come propiziazione e primizia di ogni creatura, a causa di queste molte cose diventa molte cose e forse tutte le cose).

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 143

tutto82. In questi testi, infatti, Dio da un lato è descritto come non appartenente ad alcun luogo, separato da un κόσμος che invece è luogo (5, 11, 73.3), mentre dall’altro, come si è visto, contiene l’universo83. A completare il quadro, a proposito di Clemente, in questa sede è opportuno ricordare il recente contributo di Arkadi Choufrine. Choufrine ha scoperto che l’Alessandrino attribuisce all’Uno i caratteri dell’infinito84, più precisamente si tratterebbe di un infinito non κατὰ τὸ ἀδιεξίτητον (per estensione), bensì κατὰ τὸ ἀδιάστατον. Il primo sarebbe prossimo alla nozione aristotelica di infinito potenziale (Ph. 2, 4, 7) e cioè «inexhaustible in magnitude»85, afferma Choufrine, il secondo invece avrebbe il significato di istantaneità, un infinito monadico, discreto, una sorta di “infinitamente piccolo”, cioè un’infinità in atto. Questa, secondo Choufrine, è l’idea che Clemente sviluppa a proposito dell’ingresso del sommo sacerdote nel Santo dei santi in str. 5, 12, 81.6 e che corrisponde allo statuto del Figlio in rapporto al Padre a esegesi di Gv 1, 18. Ora, si sono appena evidenziate le tracce di una discussione classica in relazione alla dottrina dei principi di tradizione platonica, ricordando come, in Numenio, i problemi impliciti nel rapporto tra il primo e il secondo principio comportino una momentanea “fuoriuscita” dell’intelligibile nel sensibile. Tutto ciò corrisponde a qualcosa in Clemente, recuperando e sviluppando quanto intuito da Choufrine? La descrizione del Figlio come infinito attuale, del resto, sembrerebbe lasciarlo supporre, perché Clemente parrebbe intenzionato a 82 Riportiamo questi brani in traduzione. Str. 2, 2, 6.2, sottolinea la natura non locativa di Dio: «Dio non è in un luogo». Analogamente str. 5, 11, 73, in cui si menziona anche la capacità di Dio di contenere l’universo: «La regione di Dio è difficile da conquistarsi. Platone... da Mosè ha desunto che [sott. la regione delle idee] fosse un luogo, in quanto capace di contenere (περιεκτικόν) l’universo tutto». Str. 7, 2, 5.4 evidenzia il rapporto di Dio al tutto: la natura del Figlio, in quanto è la più prossima a quella dell’Onnipotente – aveva appena detto Clemente – «governa tutto». 83 Talvolta chiama anche φρόνησις (5, 11, 72.2) il rapporto tra il mondo e Dio, similmente Numenio in fr. 19. Solitamente la nozione di φρόνησις si accorda al contesto filoniano tracciato da Lilla 1971, pp. 73-76 e 97-98. Qui però si può provare a inserire l’accordo φρόνησις-κυβερνήτης già notato da Lilla, all’interno di una cornice mutata rispetto a quella meramente filoniana. L’ipotesi di Choufrine invita infatti a immettere nel divino un elemento potenziale difficilmente pensabile per Filone. Il resoconto di Lilla sulla nozione clementina di φρόνησις è stato di recente corretto da Becker 2000, p. 53. Lo studioso italiano si era spinto oltre l’accostamento di φρόνησις e κυβερνήτης, arrivando a sostenere la totale identità di φρόνησις teoretica e pratica (cf. Lilla 1971, p. 73). Becker sostiene invece una distinzione tra la φρόνησις nell’accezione teoretica e quella di valenza pratica, evidenziando come, soprattutto per quanto concerne str. 6, rispetto a str. 1 e 2, nel primo caso risulti centrale il ruolo dello spirito santo (Becker 2000, pp. 52-53). 84 Cf. Choufrine 2002, pp. 195-197. 85 Choufrine 2002, p. 195.

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chiudere all’interno di una monade il rapporto tra Padre e Figlio che altrimenti rimarrebbe vago e indeterminato. Il fatto che il Figlio si rapporti al Padre, a ben vedere, gli conferisce un carattere unitario, monadico, e la monade garantisce a Clemente un margine di sicurezza sul rischio che una relazione indeterminata tra i due primi principi, quale poteva essere l’infinito potenziale (cioè per estensione) aristotelico, potesse far venire meno il carattere unitario del Figlio, potenza che opera raccogliendo il sensibile. Si può dunque pensare a una sorta di “fuoriuscita” dei principi dal piano della natura puramente intelligibile, dal momento che la definizione del Padre come “contenitore” ultimo di tutto l’universo lascia intendere una relazione stretta tra l’intero piano dei principi e mondo sensibile? *** Cerchiamo innanzitutto di capire cosa Clemente ritenga esserci nel mondo intelligibile alla luce della cornice platonica che abbiamo ricostruito. L’Alessandrino, nel corso di str. 5, 6 sopra analizzato (cf. p. 134), descrive l’anima razionale come terza realtà, sottoposta cioè a una dualità di principi, resi secondo i canoni dell’immaginario platonico dell’epoca. Ora, se scorriamo la gerarchia dei principi pensata da Clemente in senso discendente, notiamo che, dopo l’anima razionale, c’è solo il mondo sensibile. Infatti, subito dopo aver introdotto l’entità su cui agiscono Padre e Figlio (anima razionale), come abbiamo detto, il discorso di Clemente s’interrompe bruscamente, con una lunga digressione sulla veste talare del sommo sacerdote, «simbolo del mondo sensibile» (5, 6, 37.1). In altri termini, il quadro offerto da Clemente risulta più complesso di quanto non apparisse a un primo approccio e presenta: il Padre che agisce direttamente sul Figlio; quest’ultimo a sua volta opera sul sensibile e lo fa, sì direttamente, ma anche tramite l’anima razionale. Riflettiamo ora sul rapporto tra Figlio e anima razionale, soffermandoci sulla natura della mediazione da essa svolta. Clemente in 5, 6, 36.3 attribuisce all’anima razionale, citando 1 Re 22, 19, δύναμις ed ἐνέργεια (cf. p. 134). Si potrebbe pensare che l’Alessandrino usi questa coppia di termini in modo non tecnico, proprio per il fatto che gli provengono da una citazione scritturistica. Tuttavia l’Alessandrino sta ragionando in modo troppo coerente con il linguaggio dei sistemi filosofici del tempo per poter ritenere che la potenza e l’atto che ora ricorrono esulino dall’accuratezza lessicale mantenuta sin qui86. Lo stesso 86

Si pensi al τυποῦν e alla παρουσία, cf. p. 138.

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 145

valga per la terza definizione dell’attività archetipica del Figlio, cioè l’ἐνέργεια, descritta tramite ricorso a 1 Cor 12, 11 in 5, 6, 38.5 e per mezzo dell’azione dello spirito santo. Se Clemente sta ragionando da filosofo platonico, allora tanto il Figlio quanto l’anima razionale vanno concepiti come entità intelligibili il che, tradotto nel lessico di attopotenza che l’Alessandrino comunque adotta, significa che anima e Figlio si trovano in uno stato di ἐνέργεια, cioè sono propriamente atto di qualcosa che è potenza. Del resto, se l’anima non condividesse qualcosa della condizione del Figlio, non si spiegherebbe come potrebbe mediarne l’azione archetipica alla sfera del sensibile. E poiché all’anima è attribuita δύναμις (potenza) oltre che ἐνέργεια (atto), allora la mediazione sarà passaggio dalla potenza all’atto. Prendiamo ora in esame l’azione dello spirito santo. In un certo senso si può dire che il riferimento allo spirito santo di str. 5, 6, 38 (cf. p. 138) trasformi questa nozione teologica nell’attività mediatrice svolta dall’anima razionale nei confronti dell’azione dei primi principi sulla sfera sensibile. Dice Clemente che i «giusti» (che noi sappiamo essere le anime che hanno raggiunto la perfezione), per quanto molteplici, sono una realtà unitaria perché, per citazione di 1 Cor 12, 11, «un solo e il medesimo spirito santo agisce in tutti» (str. 5, 6, 38). Ora, questi «giusti», caratterizzati da Clemente come manifestazione molteplice dello «spirito santo», soggiacciono al Figlio (Clemente usa il verbo ὑπόκειμαι, cf. p. 138) e pertanto, nella gerarchia clementina dei principi, si trovano sullo stesso piano che i medioplatonici assegnano all’anima razionale. Conseguentemente, la posizione dello spirito santo si trova allo stesso livello di quella occupata dall’anima razionale nella trattazione di str. 5, 6. Del resto, anche in str. 5, 15, 103.2 è menzionata una gerarchia composta di tre realtà archetipiche, del tutto analoga a quella che fa da cornice a str. 5, 6, solo che, sottoposto a «Padre» e «Figlio», non compare l’anima razionale, bensì, afferma Clemente, «terzo, lo spirito santo»: «Io non posso intendere (il brano di Pl. Ep. 2, 31287) se non come un’indicazione della santa Trinità (τὴν ἁγίαν τριάδα): terzo è lo spirito santo, secondo il Figlio, per il quale «tutto fu fatto» (Gv 1, 3) secondo la volontà (κατὰ βούλησιν) del Padre»88. Se dunque l’anima razionale e lo spirito santo (come attesta quest’ultimo brano) occupano entrambi una terza posizione nella gerarchia ontologica dei principi, si

87 Brano che Clemente commenta anche in str. 7, 2, 9.3. Qui recita: «Intorno al re di tutto sta tutto e per causa sua è il tutto ed egli è causa di tutte le cose belle; secondo per le cose del secondo ordine, terzo per le terze». 88 Per la citazione completa del brano, cf. infra, p. 192.

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può concludere che davvero lo statuto ontologico dell’«anima razionale», concetto filosofico e tecnico, per Clemente coincide con quello dello «spirito santo», nozione assolutamente estranea al platonismo dell’epoca e, a quel tempo, non del tutto problematizzata nemmeno in ambito teologico. Come si spiega tale peculiarità nell’argomentazione clementina? In realtà questo non è il solo punto in cui l’Alessandrino esce dal tracciato dei filosofi. Infatti, sebbene Clemente stia muovendosi con coerenza all’interno di parametri dettati da un lessico tecnico, bisogna ricordare che all’ἐνέργεια del Figlio vengono attribuiti dei tratti paradossali. Si ripensi infatti alla «παρουσία sensibile» e a ciò che essa significa. Per comprendere il significato di questa espressione è necessario ripartire dalla distinzione intelligibile-sensibile. Dal momento che Clemente ragiona in una prospetiva soteriologica, l’intelligibile non è tanto l’idea o la forma di una molteplicità di entità sensibili, ma è piuttosto il prototipo cui ogni anima in progresso deve tendere. Il modello intelligibile funge però da atto, mentre il sensibile, ontologicamente – seppure momentaneamente, perché si trova in una condizione di progresso – inferiore e segnato dalla molteplicità è potenza. Il punto è che, per una probabile meditazione di determinati passi delle Sacre Sritture, i concetti aristotelici di potenza e atto in Clemente interagiscono in modo paradossale. La perfezione dell’atto sembra consistere nel farsi potenza, quasi per accompagnare quest’ultima a divenire atto a sua volta. In più sembra che Clemente articoli il passaggio dalla potenza all’atto per gradi. Ripartiamo infatti dal quadro cui si è già accennato e che adesso possiamo raffigurarci in modo completo: a) Padre e Figlio, che sembrano godere di maggiore “attualità”, b) spirito santo-anima razionale, subordinata al Figlio che è sia atto (perché in parte l’anima è anche ἐνέργεια) sia potenza, c) una potenzialità assoluta, cioè il mondo sensibile, che corrisponderà al piano delle creature. In questa raffigurazione, la potenzialità propria di ciò che è sensibile va intesa come totale e pertanto, se c’è «παρουσία sensibile», l’ἐνέργεια del Figlio si traduce nel riversarsi in un grado di potenzialità che va ben oltre quello di ciò che gli è immediatamente sottoposto – cioè l’anima razionale – e di fatto si spinge fino al sensibile. Ora, è vero che anche Numenio aveva pensato a una “fuoriuscita” momentanea del Secondo-dio dalla sfera intelligibile, ma il suo caso rimane un’eccezione nell’ambito dei filosofi platonici. Per quanto concerne Clemente, bisogna evitare di irrigidirne il pensiero sugli schemi della filosofia a lui contemporanea. È vero che il platonismo gli fornisce il linguaggio tecnico per articolare i suoi con-

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 147

tenuti speculativi, ma l’Alessandrino, come abbiamo detto, è teologo, nel senso che gli sono famigliari anche fonti diverse da quelle circolanti nelle scuole di filosofia89: lo si è visto a proposito delle nozioni di δύναμις ed ἐνέργεια, introdotte tramite ricorso a citazioni delle Sacre Scritture. La superiorità ontologica del Figlio, pertanto, ha una matrice scritturistica, anche se è espressa con un lessico platonico e aristotelico. Si tratta della superiorità (ὑπεράνω... μᾶλλον δὲ ἐπέκεινα, afferma Clemente in str. 5, 6, 38.6) di un essere che eccede «ogni principato e potestà», descritto con le parole di Fil 2, 9, cioè quel tipo di grandezza che proviene dalla κένωσις di Fil 2, 6-7. Da simili premesse consegue che la natura della mediazione in direzione del sensibile esercitata, nei confronti del Figlio, dall’anima razionale eccede il platonismo strettamente filosofico. Ed ecco per quale motivo Clemente le dà esplicitamente un nome che proviene ancora una volta dalle Sacre Scritture: «spirito santo». Lo spirito santo conferisce all’intelligibile clementino una natura paradossale, è cioè atto del sensibile/creatura in progresso, ma tale da agire come potenza, nozione espressa secondo i parametri della κένωσις di Fil 2, 6-9 (brano che compare sia in str. 5, 6, 34 sia in 5, 6, 38), che consente al Logos (sovrapposto allo spirito santo, come vedremo, secondo il modello della cristologia pneumatica) di divenire potenza per accompagnarla a progredire fino all’atto. Approfondire gli aspetti cristologici e teologici di questa rappresentazione sarà compito del prossimo capitolo. Per ora basti fissare il modo in cui i contenuti scritturistici si trovano intrecciati a un pensiero intessuto di platonismo di scuola, che connette cioè tra loro e con naturalezza materiali platonici, stoici e aristotelici. Tutto questo mostra la complessità del pensiero di Clemente, per il quale il tema dell’anima ha rilevanza anche sul piano metafisico, cioè di dottrina dei principi. Così si è chiarita la forma singolare di quel platonismo che, in str. 5, 6, all’inizio del capitolo (cf. p. 117 e poi pp. 115-123) era stato visto strutturare certi contenuti pneumatologici giudeo-cristiani già attestati nel Pastore. Un platonismo, cioè, che finisce per essere costruito attorno al concetto di spirito come atto e potenza a un tempo, idea centrale anche per comprendere il modo con cui l’Alessandrino aveva risposto ai problemi posti dallo gnosticismo sul versante antropologico. Ma la dottrina dei principi, si è detto e si vedrà anche in seguito (cf. pp. 148-150), è una premessa fondamentale per le varie propo89

ta 40.

Con le dovute cautele relative a Numenio, come si è detto, cf. supra, p. 75, no-

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ste escatologiche delle tradizioni platoniche90, perché giustifica la riacquisizione da parte dell’anima della natura che le è propria. Aver riportato alla luce la rilevanza della psicologia per la dottrina dei principi, pertanto, potrebbe permettere di intendere i riferimenti escatologici clementini come risposta a uno gnosticismo che in rapporto a quella dottrina si era costituito, perché, come abbiamo visto, l’escatologia del­l’Alessandrino è intimamente antignostica. La riflessione sulla κένωσις consente d’immaginare anche il campo in cui un simile confronto può aver avuto luogo. In più, l’elevato tecnicismo con cui Clemente affronta la questione metafisica rende difficile pensare che egli abbia potuto liquidare la psicologia gnostica con una risposta riguardante soltanto l’antropologia, senza cioè toccare l’escatologia, in quanto – come si è visto in più punti – non era interessato al linguaggio della mitopoiesi platonica e gnostica. Anzi, ci si aspetta una risposta che non esuli dall’orizzonte platonico, di cui lo gnosticismo, probabilmente, non è che una declinazione particolare91. III.4. Il silenzio di Clemente sull’escatologia III.4.1. Destino dell’anima dopo la morte corporea e anima-μέση οὐσία Se si vuole studiare l’escatologia di Clemente Alessandrino alla luce del lessico e delle conoscenze comuni anche ad altri autori platonici contemporanei, è necessario partire dalla concezione del­l’anima

90 Per un riepilogo delle varie dottrine escatologiche elaborate dalla tradizione platonica cf. Dörrie 1987-, pp. 412-418. 91 Così è secondo una linea interpretativa formulata dapprima da Hans Jonas – il quale concepì lo gnosticismo come filosofia (cf. Jonas 2010) che si trova perfettamente contestualizzata nel platonismo ellenistico (cf. Jonas 2002). In seguito questa concezione fu oggetto di precisazioni da parte di Ugo Bianchi e della sua scuola – con la distinzione tra gnosticismo e gnosi e il riconoscimento di una differenza irriducibile tra il Deus patiens gnostico, che ammetterebbe un degradamento sostanziale nella natura del divino, e quello cristiano (cf. per esempio il Documento finale del colloquio di Messina del 1966, Bianchi 19702, pp. XX-XXXII su cui cf. Wilson 1994) – e si trova concretizzata soprattutto negli studi di Michel Tardieu e Pierre Hadot (cf. Tardieu 1980 e Hadot 1987), cui in ogni caso Festugière 1953 ha aperto la strada (cf. Dainese 2012a). Per una panoramica sui diversi modi di intendere il fenomeno gnostico, cf. Lettieri 1998. Per quanto concerne lo specifico caso dello gnosticismo valentiniano, vale la pena segnalare i risultati dello studio di Chiapparini 2012, il quale ritiene che il valentinianesimo non possa essere concepito come versione sminuita dello gnosticismo, sfumata dal contatto con la Grande Chiesa e preferisce pensarlo piuttosto come un’eresia cristiana (Chiapparini 2012, p. 5).

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 149

come μέση οὐσία92. Clemente tratta dell’anima in questi termini in modo perfettamente conforme alla sensibilità del suo tempo. Lo si è visto sia sul piano terminologico anche nel caso dello spirito, nel momento in cui abbiamo parlato del concetto clementino dello spirito santo come ἀμερῶς μεριζόμενον93 (in str. 3, 10, 69.2 e in 6, 16, 138.2), sia sul piano concettuale. E ciò accade non solo a proposito dell’antropologia, ma anche per tutte le altre aree della riflessione clementina che incrociano il problema del rapporto tra intelligibile e sensibile. Ragione per cui non può esserne esclusa l’escatologia, dottrina che, oltre a spiegare il distacco del­l’anima dal corpo, cerca di capire come essa ritorni al (o mantenga il) suo statuto intelligibile. Il medioplatonismo ha espresso in vari modi la natura anfibia dell’anima: finora si è avuto a che fare con la concezione di ψυχή come partecipe di un’ἀμέριστος οὐσία e di una μεριστή οὐσία94, ma ne esistevano altre varianti, come l’ipotesi per cui la sostanza dell’anima sarebbe di natura «lunare»95, immersa in un mondo materiale, o quella per cui l’anima sarebbe una realtà a metà strada tra la sfera propriamente divina e quella non divina96. Il problema di fondo, tuttavia, era sempre il medesimo: cercare di capire in che modo l’anima conservi il proprio legame col grado ontologico superiore, dato che la realtà corporea o materiale è destinata a mutare e a perire. L’anima, per un platonico dell’epoca, una volta venuto meno il legame con la dimensione corporea, non poteva non tornare pienamente in possesso della purezza intelligibile o divina che le era propria. Ed ecco dunque che, proprio sotto la pressione di quest’istanza, sopravviveva uno dei temi caratteristici della filosofia di Platone, cioè quello della purificazione dell’anima, che si accompagnava – più o meno esplicitamente – a una visione negativa della corporeità97. Globalmente si riconoscono in Platone nove proposte relative al modo di intendere il rapporto sensibile-intelligibile in relazione all’ani92 Se invece si vogliono prendere in esame i tratti più propriamente alessandrini dell’escatologia clementina, si veda quanto detto a proposito della dottrina clementina dell’apocatastasi a pp. 129-130. 93 Cf. pp. 76-77. 94 Cf. Porph. Sent. 5: ἡ μὲν ψυχὴ τῆς ἀμερίστου καὶ τῆς περὶ τὰ σώματα μεριστῆς οὐσίας μέσον τι. (analogamente anche Plot. 4, 2, 1.41-42). Similmente Plot. 4, 8, 7.5-6: μέσην τάξιν ἐν τοῖς οὖσιν ἐπισχοῦσαν (per una traduzione cf. p. 75, nota 41) e Procl. El. Theol. 190, 166.1-2: πᾶσα ψυχὴ μέση τῶν ἀμερίστων ἐστὶ καὶ τῶν περὶ τοῖς σώμασι μεριστῶν, cf. anche 195, 170.6-7. Per questi passi si veda in ogni caso Dörrie 1987-, 6.1, pp. 201-202. 95 Cf. Plu. Fac. 28.13-17: τριῶν δὲ τούτων συμπαγέντων τὸ μὲν σῶμα ἡ γῆ, τὴν δὲ ψυχὴν ἡ σελήνη, τὸν δὲ νοῦν ὁ ἥλιος. Cf. Dörrie 1987-, 6.1, pp. 204-206. 96 Cf. Ph. Opif., 137, su ciò cf. Dörrie 1987-, 6.1, pp. 214-217. 97 Cf. specialmente Pl. Phd. 66 b.

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ma98 e quella della purificazione dell’anima ne è soltanto una. La tradizione cosiddetta medioplatonica predilige proprio quest’ultima, sviluppandone peraltro sette possibili declinazioni, le più frequenti delle quali intendono la morte come necessaria alla purificazione99. Tale imprescindibile valore attribuito alla morte ha, in generale, due esiti: alcuni autori le danno un significato simbolico e sviluppano la concezione della μελέτη platonica (la meditazione intesa come «esercizio della morte», cf. Pl. Phd. 64 a-b), altri – i più – preferiscono pensare a una trasmigrazione dell’anima100. Ora, come sappiamo, anche Clemente conosce questo tipo di discussioni, dato che proprio ad esse dichiara di voler contribuire quando promette una futura trattazione sull’anima (cf. p. 48), da cui emerge la specifica volontà dell’Alessandrino di prendere posizione in merito alla dottrina della trasmigrazione post mortem dell’anima. In realtà, come vedremo, i testi pervenutici non consentono di decidere quale dei due modelli escatologici l’Alessandrino ritenesse migliore. Ma partiamo dal concetto di anima come sostanza intermedia. Se si vuole capire come escatologia e anima-μέση οὐσία siano sviluppate assieme nei suoi scritti, uno dei testi più rilevanti è quello di str. 5, 10.6611, 67, in cui la natura anfibia dell’anima si lega all’idea platonica della sua purificazione: Clem. str. 5, 10, 66.2-4; 11, 67.1-2: latte dovrà intendersi la catechesi, quale primo nutrimento dell’anima, e cibo solido (Eb 5, 13-14) la ἐποπτικὴ θεωρία. Queste due cose sono «carne» e «sangue» del Logos, cioè comprensione della divina δύναμις e οὐσία. 66.3... Egli rende così partecipi di se stesso quanti più spiritualmente prendono in comune questo cibo, quando cioè l’anima ormai nutre da sola se stessa, come dice Platone, amico della verità (Pl. Ep. 7, 341 c-d): «mangiare» e «bere» del divino Logos è la «gnosi» della divina οὐσία. 66.4. Perciò dice ancora Platone, nel secondo libro della Repubblica, che bisogna indagare su Dio «dopo aver immolato non un porcellino, ma una vittima grande e rara a trovarsi» (Pl. R. 2, 378 a). 11, 67.1 Ora, il sacrificio accetto a Dio (Fil 4, 18) è un distacco senza pentimenti dal corpo e dalle sue passioni. Il vero e reale culto di

Per un resoconto complessivo, cf. Dörrie 1987-, 6.2, pp. 271-274. Le altre possono essere riassunte in tre gruppi: purificazione nel senso di tenere lontana l’anima da azioni malvage, cf. Plu. Tranq. an. 19; purificazione per mezzo delle virtù, cf. Iust. dial. 4, 3; purificazione come allontanamento dell’anima dalle opinioni errate, cf. Ti. Locr. fr. 83 e Dörrie 1987-, 6.2, pp. 274-275. 100 Cf. Dörrie 1987-, 6.2, §§ 178-180 e pp. 344-387. Per la cornice problematica di riferimento cf. § 177 e pp. 334-343. 98

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Dio è questo. 67.2. E forse per questo la filosofia è detta giustamente da Socrate «meditazione della morte»101.

La collocazione mediana dell’anima emerge prestando attenzione all’espressione «sostanza divina», che Clemente nomina ben due volte. La ψυχή infatti è descritta come posizionata tra il suo alimento liquido, il «latte» e cioè la catechesi, e il cibo solido, ἐποπτικὴ θεωρία102, carne e sangue del Logos, affermando e ribadendo per l’appunto che, almeno questi ultimi, sono a tutti gli effetti οὐσία. Così facendo, oltre che descrivere l’anima come μέση οὐσία, Clemente mette in campo anche la concezione propriamente platonica della purificazione dell’anima, poiché Platone in Ti. 43 a spiega che una delle cause della contaminazione dell’anima con la corporeità è il nutrimento fluido dei primi mesi di vita. Si allude alla purificazione anche quando si parla della necessità di distaccarsi dalle passioni corporee prima di poter legittimamente indagare su Dio. Dato il nesso che intercorre tra il concetto di anima come sostanza intermedia e la necessità della purificazione, pertanto, ci si aspetterebbe che Clemente avesse concepito un’escatologia tale da prevedere, dopo il distacco dal corpo, una o più serie di cicli di purificazione e invece chiude parlando di μελέτη che definisce esplicitamente come «meditazione della morte». In altri termini, secondo gli standard interpretativi attestati nel medioplatonismo, Clemente, legando il tema della natura anfibia dell’anima a quello della necessità della sua purificazione, avrebbe dovuto concepire un’escatologia tale da consentire alla ψυχή di recuperare pienamente la sua purezza intelligibile. Al contrario, parlando di morte in senso metaforico, cioè come “esercizio meditativo” da praticare in questa vita, l’Alessandrino sembra indicare che la materia non è il vero problema della sua psicologia. In realtà la posizione clementina è tutt’altro che lineare. Parlando di «latte» e «cibo solido», in questo brano accosta Eb 5, 13-14 («chi prende il latte non ha esperienza della dottrina della giustizia, perché 101 «Γάλα» μὲν ἡ κατήχησις οἱονεὶ πρώτη ψυχῆς τροφὴ νοηθήσεται, «βρῶμα» (cf. Eb 5, 13-14) δὲ ἡ ἐποπτικὴ θεωρία· «σάρκες» αὗται καὶ «αἷμα» τοῦ λόγου, τουτέστι κατάληψις τῆς θείας δυνάμεως καὶ οὐσίας. οὕτως γὰρ ἑαυτοῦ μεταδίδωσι τοῖς πνευματικώτερον τῆς τοιαύτης μεταλαμβάνουσι βρώσεως, ὅτε δὴ ἡ ψυχὴ αὐτὴ ἑαυτὴν ἤδη τρέφει κατὰ τὸν φιλαλήθη Πλάτωνα· (Pl. Ep. 7, 341 c-d) «βρῶσις» γὰρ καὶ «πόσις» τοῦ θείου λόγου ἡ «γνῶσίς» ἐστι τῆς θείας οὐσίας. διὸ καί φησιν ἐν δευτέρῳ Πολιτείας ὁ Πλάτων· «θυσαμένους οὐ χοῖρον, ἀλλά τι μέγα καὶ ἄπορον θῦμα» (Pl. R. 2, 378 a) οὕτω χρῆναι ζητεῖν περὶ θεοῦ. «Θυσία δὲ ἡ τῷ θεῷ δεκτὴ» (Fil 4, 18) σώματός τε καὶ τῶν τούτου παθῶν ἀμετανόητος χωρισμός. ἡ ἀληθὴς τῷ ὄντι θεοσέβεια αὕτη καὶ μή τι εἰκότως μελέτη θανάτου διὰ τοῦτο εἴρηται τῷ Σωκράτει ἡ φιλοσοφία. 102 Su questo concetto, da ultimo, si veda Itter 2009, pp. 108-109.

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è un bambino; invece il cibo solido è dei perfetti, i quali, per consuetudine, hanno i sensi allenati al discernimento del bene e del male») Pl. R. 2, 378 a. Lo stesso brano di Repubblica verrà impiegato poco oltre (5, 11, 70.3) per definire il sacrificio di Cristo in funzione della rivelazione alle anime nell’Ade (argomento che poi Clemente riprenderà e svilupperà in str. 6, 44-51) e sempre nella cornice metaforica del cibo spirituale103. La discesa di Cristo negli inferi dopo la morte e l’illuminazione delle anime ivi racchiuse è un tema che, se non propriamente escatologico – perché riguarda solo alcune anime, cioè quelle di coloro che sono vissuti prima di Cristo –, ha comunque a che fare col destino dell’anima dopo la morte. Se dunque la lettura clementina di Platone ha tratti d’originalità, questi riguardano in qualche modo l’escatologia. Non è pertanto un caso che compaia il riferimento alla morte come μελέτη all’inizio di str. 5, 11, 67. In breve, bisogna riconoscere che il ragionamento di Clemente, di fatto, si discosta dai modelli tradizionali: ora parla della morte fisica, condizione in cui l’anima si purifica (nel caso di Clemente, per via dell’illuminazione ricevuta da Cristo); ora invece parla metaforicamente della morte come peccato, cui si contrappone, nel caso di vittoria sulle passioni, un’anticipazione della beatitudine escatologica. Clemente, detto altrimenti, fonde assieme due escatologie. Da un lato abbiamo lo schema della purificazione post mortem, menzionata, ad esempio, in str. 7, 10, 56104, o comunque di dimore successive 103 Se ne veda la traduzione Str. 5, 10, 70: «70.1. se la gnosi è il nostro cibo razionale, come abbiamo convenuto [cioè in str. 5, 10, 66, discorso che Clemente sta proseguendo qui], sono davvero beati secondo la Scrittura, quelli che hanno fame e sete (Mt 5, 6) della verità, perché saranno saziati di un alimento eterno. 70.2. Mirabilmente concorda con quanto sopra abbiamo detto Euripide, il filosofo della scena: lo riscontriamo nel seguente passo, ove anche, misteriosamente, allude al Padre e al Figlio. 70.3. “A te che a tutto provvedi io offro libagione sacrificale, che ti piaccia essere chiamato Zeus o Ade. E tu accetta il mio sacrificio raro a trovarsi (ἄπορον), abbondandte profusione d’ogni frutto”. 70.4. Poiché olocausto per noi, vitima rara, è il Cristo. E che parli dello stesso Salvatore senza saperlo, lo chiarisce in seguito soggiungendo: 70.5. “Tu maneggi fra gli dèi celesti lo scettro di Zeus e partecipi con Ade al potere sui sotterranei”. 70.6. Quindi dice apertamente: “Manda alla luce anime di defunti per coloro che vogliono sapere donde germinano i loro travagli, quale è la radice dei loro mali, che fra i beati dèi devono placare con sacrifici per trovare riposo dagli affanni”». In realtà viene citato un frammento euripideo di tematica affine (fr. 912 N2). Tuttavia un termine (ἄπορον al posto di un più probabile ἄπυρον) tradisce la confusione di Clemente con il passo di Repubblica in questione che aveva citato poco sopra. Secondo Früchtel si tratterebbe di una confusione involontaria, di opposto parere è invece Le Boulluec. Si vedano le considerazioni di Le Boulluec 1981, p. 241. 104 Passo in cui Clemente contrappone (anche se all’unico scopo di far comprendere la condizione dello gnostico) l’escatologia anticipata – o probabilmente realizzata – di cui lo gnostico gode in questa vita e quella degli altri (un generico “noi”)

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 153

dell’anima come in str. 4, 6, 37-39105. È a questo proposito che vanno menzionate le promesse di rilevanza escatologica, che si pongono il problema del destino dell’anima (str. 3, 3, 13 e 4, 12, 85, cf. pp. 47-48), e anche la conoscenza della teoria – ermetica, afferma Clemente – della trasmigrazione delle anime (str. 6, 4, 35.1). L’aver ipotizzato un mondo intelligibile organizzato in una gerarchia di principi (cf. pp. 137-148) fa pensare che lo stesso rapporto tra sensibile e intelligibile, per Clemente, sia impostato come una gradazione, e ciò, a sua volta, lascia immaginare che lo stesso distacco dell’anima dal corpo avvenga per gradi106. Il platonismo dell’epoca, tuttavia, aveva elaborato altre proposte sul rapporto tra natura anfibia dell’anima ed escatologia, proposte volte a valorizzare la nozione platonica della meditazione – μελέτη – della morte. Questa è, ad esempio, l’idea di Filone che, in Opif. 137, parla della natura anfibia dell’uomo, a esegesi di Gen 1, 26 e Gen 2, 7. L’uomo, cioè, come imago Dei composta di anima e corpo, si trova in una condizione ontologica superiore a quella della mera corporeità (superiorità che, in Filone, si spiega col fatto che l’uomo è dotato di anima, la cui natura media tra quella divina e quella corporea)107. Il punto è che il suo essere creato a immagine avvicina l’uomo alla natura divina, tanto da renderlo quasi un secondo Dio sulla terra, custodito dal suo corpo come da un tempio (cf. pp. 65-66). Quest’impostazione, chiaramente, legittima la possibilità di godere già sulla terra di una qualche anticipazione della beatitudine escatologica. Ciò in Clemente si concretizza ad esempio nello sviluppo della pneumatologia a partire da str. 6, come si è visto (cf. pp. 66-67), dove sempre più frequentemente si parla di una condizione spirituale, propria dello gnostico, e tale da consentire una sorta di realizzazione già ora e già qui della che saranno (“saremo”, se si segue il testo clementino) «tra dèi» soltanto una volta «liberati da ogni castigo e pena che in conseguenza dei nostri peccati sopportiamo per una correzione salutare» (str. 7, 10, 56.3). 105 Cf. la traduzione di Clem. str. 4, 6, 37.1: «Lavoreranno dunque [gli operai] secondo le dimore corrispondenti ai premi di cui furono reputati degni, collaboratori dell’ineffabile economia e del santo servigio». 106 Similmente, infatti, ragiona Plutarco con la concezione della sostanza dell’anima come sostanza lunare. Plutarco esplicita questa sua dottrina in Fac. 30 e fa emergere una cosmologia tripartita in sole-luna-terra, trilogia che corrisponde a νοῦςψυχή-σῶμα. Cf. l’analisi di Dörrie 1987-, 6.1, p. 210. 107 Cf. Dörrie 1987-, 6.1, p. 215. Cf. Opif. 69, Mut. 21 e Vita Mos. 1, 27, cf. Runia 1993, pp. 333-334. Sebbene questa’idea sia particolarmente di rilievo in Filone, in realtà essa è attestata anche in autori pagani come Plotino (1, 6, 9, 5) e Ierocle (In CA 1, 18) ed è una declinazione della dottrina dell’elemento divino dell’anima che si ritrova non solo in altri filosofi platonici, ma anche in Platone stesso (cf. Dörrie 1987-, 6.1, pp. 216-217).

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perfezione finale. Ma è anche il caso di quei contenuti del Protrettico ai Greci che possono essere fatti rientrare nella cornice tematica dell’escatologia tardo-antica e la cui lettura, alla luce della dottrina dell’anima, in un capitolo precedente (I.2.1.) ci ha permesso di scorgere come l’opera sia non solo strutturata secondo i canoni dei protrettici tradizionali, ma anche composta a partire da una prospettiva più che consapevole di cosa significasse essere platonici nella Tarda Antichità. Clemente infatti, nel rivolgersi al suo interlocutore, in quel discorso mostra di aver interiorizzato a tal punto le discussioni di scuola sull’anima che, per porre i “pagani” di fronte alla scelta se optare-per o rifiutare la fede in Cristo, dà attuazione e rende concreti i contenuti e le ipotesi delle psicologie platoniche. Cioè, dal momento che l’opera si costruisce attorno alla scelta che Clemente propone tra la religione cristiana e l’universo pagano e poiché la scelta di vita è uno dei tre momenti principali delle psicologie di scuola platoniche, l’Alessandrino suppone anche una fase che faccia eco al mito della caduta protologica e una in cui tornano i temi escatologici. Clemente non scende nel merito della discussione dottrinale, e perciò non difende né smentisce il mito della caduta e nemmeno discute limiti e pregi delle teorie sui possibili destini dell’anima dopo la morte. Clemente (e lo si vedrà meglio nel prossimo paragrafo), tra i due modelli di escatologia presentati, quello del destino dell’anima dopo la morte e quello che potremmo definire di escatologia attuale o realizzata, predilige il secondo, fosse solo per il fatto che esso, valorizzando la condizione spirituale, dà attuazione allo sforzo concettuale della sua antropologia, in cui lo πνεῦμα ha un ruolo di primaria importanza108. In realtà, sulla base dei testi pervenutici, ciò non può essere del tutto provato e rimane pur sempre ragionevole la possibilità 108 Il termine «escatologia realizzata (originariamente realized eschatology)» è di per sé un’espressione che nell’esegesi neotestamentaria ha assunto una valenza tecnica a partire dai lavori di Dodd su Giovanni (cf. Dodd 1953, pp. 156-157), contrapposto agli altri evangelisti in quanto per lui non si darebbe attesa dell’avvento del regno, dal momento che esso è già presente nel credente. In Clemente non si può parlare di una vera e propria realizzazione nel presente: quanto visto a proposito della sua dottrina dei principi attesta la credenza – ottimistica – in un compimento nel­l’eschaton della storia della salvezza. Tuttavia la sua antropologia è coerente con i presupposti di un’escatologia che si compie già ora sia per via del fatto che alla morte viene attribuito un valore per lo più simbolico sia perché l’interesse di Clemente sembra essere soprattutto di tipo fisiologico (cioè “naturalistico” e “medico”, per così dire). Se si compongono i due tipi di escatologia si ha, come risultante, il modello che prevede un’anticipazione possibile ora congiunta all’idea di una piena realizzazione finale, ma è opportuno tenere conto del fatto che, probabilmente, Clemente sovrappone due concezioni eterogenee.

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 155

che l’Alessandrino abbia sviluppato una dottrina escatologica coerente e completa anche sull’altro versante, quello cioè che spiega come l’anima, liberatasi dal corpo con la morte, giunga a riacquisire la sua natura più propriamente unitaria e razionale109. Più semplicemente si può pensare che in Clemente convivano sovrapposti due modelli escatologici, come avviene per le nozioni di spirito e spirito santo. Certo è che il Clemente che considera le dottrine dei cicli di purificazione post mortem dell’anima metafore cui ricorrere per spiegare la condizione beata di cui gode lo gnostico su questa terra (come in str. 7, 10, 56) è molto simile a quello di str. 6, 16, 134-136, che, con una discussione per così dire “scientifica”, di ordine fisiologico ed embriologico, era riuscito a spiegare ciò per cui gli gnostici basilidiani citati in str. 2, 20, 112-113 (cf. pp. 70-72) erano dovuti ricorrere al mito della caduta110. III.4.2. Escatologia e pneumatologia Preso atto dell’impossibilità di dire l’ultima parola sull’escatologia dell’Alessandrino, proviamo adesso a chiederci se e in che misura i tasselli di cui disponiamo di una sua teoria escatologica forniscano una risposta a quei problemi posti dagli gnostici che emergono nel corso delle “quattro promesse” di un approfondimento che riguardi l’anima. Il nodo da sciogliere, infatti, è chiaro: a Clemente l’escatologia serve come metafora per descrivere la condizione dello gnostico su questa terra e tuttavia i marcioniti e i basilidiani, in str. 3 e 4, lo costringono a porsi quesiti molto chiari riguardanti il destino dell’anima dopo la morte del corpo, in quanto autori di una dottrina che concerne il “trapasso” dell’anima (str. 3, 3, 13.3) e la “trasmigrazione” della stessa dal corpo con la morte (str. 4, 12, 85.3). Di fronte a questo panorama le soluzioni possibili sono due: o si ritiene che, nel caso Clemente abbia mai sciolto tutti gli interrogativi giuntigli dalle psicologie gnostiche, la sua risposta non ci sia pervenuta, oppure si riesce a rav-

Su ciò rimando a Dörrie 1987-, 6.2, pp. 334-343. Se da un lato è vero che il brano di str. 7, 10, 56 contrappone la possibilità dello gnostico di godere in questa vita della beatitudine escatologica alla condizione di coloro che ne potranno usufruire soltanto alla fine dei tempi, è altrettanto vero che Clemente utilizza il modello escatologico della purificazione post mortem solo per dare un’idea concreta della condizione beata in cui si trova lo gnostico già su questa terra, argomento principale di quella sezione degli Stromati. 109 110

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visare una soluzione da quel che effettivamente si conosce della sua dottrina dell’anima. Di fatto pare strano che l’“escatologia realizzata”, così vicina, per approccio, alla sezione in cui l’Alessandrino si mostra maggiormente attento all’anima, non permetta di dire nulla relativamente ai dubbi lasciati aperti dall’escatologia gnostica, se gran parte dei problemi posti dallo gnosticismo (per esempio il legame tra lo statuto ontologico dell’uomo e il mito della caduta o la partecipazione allo spirito santo) vengono risolti in quella parte degli Stromati. Ora, la prima cosa da fare è approfondire il legame tra quelli che sono i contenuti più propri della dottrina clementina dell’anima (cioè l’ampia sezione di str. 6, 16, 134-136) e quanto si sa dell’escatologia di Clemente. Ciò si riduce, di fatto, alla seguente domanda: cosa ha a che vedere quello spirito che nell’uomo è atto e potenza allo stesso tempo, con ciò che abbiamo chiamato “escatologia realizzata”, cioè l’anticipazione su questa terra della beatitudine escatologica? In secondo luogo ci si potrà chiedere se l’escatologia realizzata, eventualmente legata alla psicologia di str. 6, potrà mai fornire una risposta utile al quesito fondamentale di fronte a cui ci pone ogni dottrina escatologica: che ne è dell’anima dopo la morte? Infine si potrà indagare se Clemente, nell’elaborare la sua “escatologia relizzata”, interagisca con gli stessi interlocutori delle sue quattro promesse di approfondimento relativo all’anima. Alla prima domanda si può rispondere facilmente se si considera che l’affinità tra str. 6 e quanto abbiamo definito in termini di “escatologia realizzata” va ben oltre il livello dell’approccio di Clemente ai contenuti figurativi del pensiero tradizionale. Si è infatti visto che, contemporaneamente allo sviluppo della pneumatologia (categoria estranea alla filosofia platonica) al fine di fondare una ben determinata antropologia (quella espressa in str. 6, 16, 134-136), l’anticipazione della beatitudine escatologica da prerogativa del martire diviene gradatamente prerogativa dello gnostico. A ciò si può aggiungere un’evidenza ulteriore proveniente dal confronto tra due testi in grado di mostrare come sia proprio la categoria dello spirito (al cui sviluppo è essenziale la riflessione antropologica di str. 6) a garantire allo gnostico la stessa beatitudine altrove concessa al martire:

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 157

Clem. str. 2, 7, 34.2; 2, 7, 35.4-5: ma a noi la Legge che ci è data dispone di rifuggire i veri mali, adulterio, dissolutezza, pederastia, ignoranza, ingiustizia, malattia dell’anima – non quella che separa l’anima dal corpo, ma quella che separa l’anima dalla verità… 35.4. La «morte», credo, vuol dire l’ignoranza; e Colui che è vicino al Signore è pieno di frustate (Gdt 8, 27), cioè colui che si avvicina alla gnosi sperimenta pericoli, timori, dolori, percosse per il desiderio della verità… 35.5. «per quanto sta a noi (ἐφ’ ὅσον ἐστὶν ἐφ’ ἡμῖν) esercitiamoci al timore di Dio e lottiamo per osservare i suoi comandamenti…» (Is 5, 21 in Barn. 4, 11)111.

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Clem. str. 7, 11, 68.3-5: ora, lo gnostico che ama il Dio veramente uno, diventa «l’uomo davvero perfetto e amico di Dio» (cf. Ef 4, 13), annoverato nella condizione di figlio. 4. Sono questi infatti gli attributi di nobiltà, gnosi, perfezione secondo la contemplazione epoptica di Dio che l’anima gnostica acquisisce come sommo grado del progresso, divenuta perfettamente pura, degna di vedere eternamente Dio onnipotente faccia a faccia (1 Cor 13, 12), come si dice. 5. Infatti divenuta completamente spirituale (πνευματικὴ γὰρ ὅλη γενομένη) si ritrae in ciò che le è affine (πρὸς τὸ συγγενὲς) e rimane nella Chiesa spirituale (ἐν πνευματικῇ τῇ ἐκκλησίᾳ), in ordine al riposo di Dio (εἰς τὴν ἀνάπαυσιν τοῦ θεοῦ) (cf. Mt 11, 29)112.

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Dal confronto tra questi due brani emergono innanzitutto due modi diversi di considerare l’escatologia come metafora di una condizione presente. Prendiamo ad esempio il brano di str. 2, 7, 34-35, nella colonna di sinistra, richiamando uno dei meriti universalmente riconosciuti allo studio di Festugière sulla dottrina ermetica dell’anima. Il domenicano francese riuscì a ricondurre i mitologemi e le figure dei trattati ermetici a un contesto di scuola platonica ampiamente diffuso nella Tarda Antichità. A proposito dell’escatologia, l’esito principale della sua ricer Ἡμῖν δὲ ὁ δοθεὶς νόμος τὰ τῷ ὄντι κακὰ ἀποφεύγειν προστάττει, μοιχείαν, ἀσέλγειαν, παιδεραστίαν, ἄγνοιαν, ἀδικίαν, νόσον ψυχῆς, θάνατον, οὐ τὸν διαλύοντα ψυχὴν ἀπὸ σώματος, ἀλλὰ τὸν διαλύοντα ψυχὴν ἀπὸ ἀληθείας... θάνατον, οἶμαι, τὴν ἄγνοιαν λέγει· καὶ «ὁ ἐγγὺς κυρίου πλήρης μαστίγων·» (Gdt 8, 27) ὁ συνεγγίζων δηλονότι τῇ γνώσει κινδύνων, φόβων, ἀνιῶν, θλίψεων διὰ τὸν πόθον τῆς ἀληθείας ἀπολαύει… «... ἐφ’ὅσον ἐστὶν ἐφ’ ἡμῖν, μελετῶμεν τὸν φόβον τοῦ θεοῦ καὶ φυλάσσειν ἀγωνιζώμεθα τὰς ἐντολὰς αὐτοῦ…». (Is 5, 21 in Barn. 4, 11) 112 Ὁ ἄρα γνωστικός, τοῦ ἑνὸς ὄντως θεοῦ ἀγαπητικὸς ὑπάρχων, «τέλειος ὄντως ἀνὴρ καὶ φίλος τοῦ θεοῦ» (cf. Ef 4, 13), ἐν υἱοῦ καταλεγεὶς τάξει. ταυτὶ γὰρ ὀνόματα εὐγενείας καὶ γνώσεως καὶ τελειότητος κατὰ τὴν τοῦ θεοῦ ἐποπτείαν, ἣν κορυφαιοτάτην προκοπὴν ἡ γνωστικὴ ψυχὴ λαμβάνει, καθαρὰ τέλεον γενομένη, «πρόσωπον», φησί, «πρὸς πρόσωπον» (1 Cor 13, 12) ὁρᾶν ἀιδίως καταξιουμένη τὸν παντοκράτορα θεόν. πνευματικὴ γὰρ ὅλη γενομένη πρὸς τὸ συγγενὲς χωρήσασα ἐν πνευματικῇ τῇ ἐκκλησίᾳ μένει εἰς τὴν ἀνάπαυσιν τοῦ θεοῦ. 111 111 112

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ca, quello che tocca più da vicino l’argomento che stiamo affrontando ora, consiste nell’aver spiegato le varie dottrine riguardanti il destino dell’anima dopo la morte come conseguenza di una «scelta di vita»113. Come abbiamo già visto, infatti, a seconda delle scelte compiute l’anima al termine della vita si troverà ad essere più o meno legata alla materia e pertanto necessiterà, dopo la morte, di una purificazione corrispondente alla propria condotta, al fine di riacquisire la sua condizione intelligibile nella purezza originaria. Ora, se si considera la pericope in esame alla luce dell’impostazione di Festugière, si può scorgere la centralità dell’ἐφ’ ἡμῖν per il discorso di Clemente: «Per quanto sta a noi (ἐφ’ ὅσον ἐστὶν ἐφ’ ἡμῖν)», afferma l’Alessandrino citando lo ps. Barnaba, «esercitiamoci al timore di Dio e lottiamo per osservare i suoi comandamenti». Si potrebbe pensare che Clemente qui stia cercando di limitare la possibilità dell’uomo nell’esercitarsi a osservare i comandamenti divini, quasi l’espressione ἐφ’ ὅσον ἐστὶν ἐφ’ ἡμῖν stesse a significare «quanto più possibile». In realtà, questa citazione dall’Epistola di Barnaba deve essere letta all’interno della cornice in cui Clemente la pone. L’Alessandrino sta descrivendo la condizione dello gnostico e lo fa utilizzando il gergo della tortura e della passione, il quale rimanda inevitabilmente alla figura del martire, tanto che, quando in str. 4, 9, 73-75 affronterà i temi della confessione e del martirio, affermerà esplicitamente che «anche gli gnostici… sopporteranno senza scandalizzarsi le loro tribolazioni per la chiesa e berranno il calice» (str. 4, 9, 75.2), perché «la confessione di fede è necessaria assolutamente, poiché sta a noi (ἐφ’ ἡμῖν)». Inequivocabilmente, dunque, Clemente considera l’occasione di confessare la propria fede di fronte alle autorità, una responsabilità del cristiano, in quanto l’espressione ἐφ’ ἡμῖν era tecnica nel contesto tardo-antico e significava la nozione di responsabilità nell’etica stoico-aristotelica. Di conseguenza, l’ἐφ’ ὅσον ἐστὶν ἐφ’ ἡμῖν di str. 2, 7, 35 non può non indicare un richiamo alla responsabilità. Cioè, sembra affermare Clemente, come colui che si trova di fronte al martirio è responsabile della propria fede, così lo gnostico è responsabile nei confronti dell’interpretazione della legge. Ecco dunque che il brano della colonna di sinistra nella ta113 Cf. Festugière 1953, pp. 113-118. Quest’idea è fortemente presente presso molti altri autori platonici. Gli studiosi la fanno risalire a Platone, Phdr. 249 a-b (cf. Dörrie 1987-, 6.1, pp. 306-308); esempi classici possono essere rinvenuti in Tertulliano (cf. anim. 54, per il cui commento si rimanda a Dörrie 1987-, 6.1, pp. 308-312), Porfirio (cf. Sent. 29, per un commento si rimanda a Deuse 1983, pp. 219-221 e p. 224; Lang 1926, pp. 60-65; Sodano 1979, pp. 30-32; cf. anche il fr. 383 e l’analisi di Deuse 1983, pp. 138-140), Giamblico (cf. Iamb. de An. in Stob. Anth. 1, 457, 8-548, 21, commentato in Festugière 1953, pp. 245-248). Per una panoramica generale su tutti questi testi cf. Dörrie 1987-, 6.1, pp. 306-334.

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 159

bella sopra riportata descrive la condizione della gnosi e quella dell’ignoranza come due possibili esiti di una scelta di vita e, in quanto tali, entrambe vengono percepite secondo i canoni dell’escatologia tardoantica, cioè con il lessico di due escatologie alternative, l’una positiva e l’altra negativa. Non meno relativo all’escatologia è pure l’argomento di str. 7, 11, 68. Possiamo infatti individuarvi almeno tre elementi riconducibili alla cornice delle tematiche escatologiche: il ricorrere dell’aggettivo συγγενές, in sé non decisivo, ma usato per descrivere l’escatologia già in 4, 21, 132.1114; il concetto del più alto grado del progresso, rimarcato dalla «visione epoptica», e soprattutto il tema del riposo (ἀνάπαυσις) escatologico. Insomma, si può dire che entrambi i testi riportati hanno in qualche modo a che fare con quella forma di escatologia che noi abbiamo definito come “realizzata”, cioè una sorta di anticipazione della beatitudine escatologica (o di annichilimento, come nel caso dell’ignoranza di str. 2, 7, 34-35) che potrà darsi in modo definitivo soltanto alla fine dei tempi. In secondo luogo si consideri propriamente quanto entrambi i testi siano affini a str. 6, 16, 134-136, in cui si risolve il problema posto dalla parte antropologica e protologica delle quattro promesse clementine. Per quel che concerne str. 7, 11, 68 va notato che l’Alessandrino parla dell’anima in quanto spiritualizzata (anima, afferma Clemente, «divenuta completamente spirituale») coerentemente a quanto aveva espresso in str. 6, 16, 134-136, dove aveva descritto le parti dell’anima come tre πνεύματα (e cioè πνεῦμα ἡγεμονικόν, πνεῦμα σαρκικόν e, come suggerisce Rizzerio, anche ἅγιον πνεῦμα115), mentre qui chiama πνεῦμα, seppure indirettamente (perché dice letteralmente «divenuta completamente spirituale – πνευματικὴ ὅλη γενομένη –»), l’anima in sé. L’affinità tra str. 2, 7, 34-35 e str. 6, 16, 134-136, invece, si gioca sul piano della prospettiva adottata, perché entrambi i passi cercano di interpretare in senso meramente metaforico tratti più figurativi, mitologici, delle dottrine o escatologiche (str. 2, 7, 34-35 dell’escatologia tradizionale tiene solo la valorizzazione della responsabilità, tralasciando inve114 Si tratta del tema della reintegrazione (ἀποκατάστασις) escatologica nel πλήρωμα delle creature «perfette e affini». Vediamone il testo in traduzione. Clem. str. 4, 21, 132.1: «Bisogna sforzarsi di divenire uomini adulti in modo gnostico (γνωστικῶς) e perfetti quanto più possibile mentre si resta ancora nella carne. Già quaggiù, dal perfetto consenso di qui, bisogna aspirare, esercitandosi (μελετήσαντας) alla volontà di Dio, alla reintegrazione (εἰς τὴν ἀποκατάστασιν) dei nobili e degli affini veramente perfetti (τῆς τῷ ὄντι τελείας εὐγενείας τε καὶ συγγενείας) nella “pienezza di Cristo” (εἰς τὸ “πλήρωμα τοῦ Χριστοῦ”), perfettamente adempiutasi nella riconciliazione». 115 Rizzerio 1987-1988, p. 126 e pp. 136-139.

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ce tutti i racconti sui cicli di purificazione post mortem) o protologiche (str. 6, 16, 134-136 spiega, riferendosi alle comuni conoscenze mediche e filosofiche, ciò che gli gnostici avevano concepito mediante il mito della caduta116). Ora, sebbene sia str. 7, 68 che str. 2, 34-35 indichino lo stesso oggetto, cioè la realizzazione qui e ora della condizione escatologica, ciò che li distingue è il fatto che in str. 2, 7, 34-35 l’escatologia si compie nel martire, dato il lessico del martirio e della tortura impiegato, mentre in str. 7, 11, 68 essa si realizza nello gnostico, la cui anima – afferma Clemente – è divenuta completamente spirituale. Insomma, dalla prospettiva di quella che abbiamo definito “escatologia realizzata” e del rapporto alle dottrina platoniche tradizionali, la figura del martire e quella dello gnostico sono sinonimiche, e ciò pone in risalto, sotto il profilo concettuale, la centralità della pneumatologia. Si può allora dire che spirito e martirio sono tra loro paralleli ed equivalenti. Il concetto di spirito interviene su una struttura – quella dell’escatologia realizzata – che non è affatto un’invenzione di Clemente, e che in Clemente, prima di str. 6, era prerogativa dello gnostico. Ma questo impiego della nozione di spirito in relazione all’anima (“anima spiritualizzata”, composta di πνεύματα invece che di parti) è il tratto caratteristico di una riflessione che non comincia prima di str. 6117 e pertanto se l’escatologia che abbiamo definito “attuale” o “realizzata” transita dalla figura del martire a quella dello gnostico, ciò non può non avvenire assieme allo sviluppo di una concezione antropologica fondata sul concetto di πνεῦμα. Ora, da un lato il legame tra questa “anticipazione” della beatitudine escatologica – descritta in str. 7, 11, 68 come processo di spiritualizzazione dell’anima – e la tematizzazione del concetto di spirito in str. 6, 16, 134-136 e, dall’altro, l’equivalenza tra le rispettive figure del martire di str. 2, 7, 34-35 e dello gnostico di str. 7, 11, 68 la cui anima è spiritualizzata, fanno pensare a una consapevole sostituzione del martire con lo spirituale, sostituzione in cui la pneumatologia elaborata in str. 6 sembra aver giocato un ruolo decisivo. E dal momento che la sezione di str. 6, 116 Si ricordi poi (cf. p. 82) che lo scopo di tutta la sezione di str. 6, 16, 134-136 era definire l’uomo in modo tale da spiegare come comprenda i comandamenti. È proprio a tal fine che l’Alessandrino ha riconosciuto due spiriti, quello corporeo e lo spirito-guida, con i quali è possibile comprendere la Legge, cf. Clem. str. 6, 16, 136.5: ἐξ ἀμφοῖν γὰρ ἡ κατάληψις. 117 Una riflessione, cioè che sembra adempiere alle promesse formulate nei libri precedenti degli Stromati di un approfondimento relativo al tema dell’anima e tale da corrispondere a una delle principali riflessioni del sesto stromate.

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 161

16, 134-136 adempie a parte delle promesse di approfondimento relativo al tema dell’anima, così dovrebbe accadere anche per il brano di str. 7, 11, 68. Cioè, se quanto abbiamo supposto coglie nel segno – ossia che il concetto di spirito sia cruciale per veicolare il contenuto escatologico del testo di str. 7, 11, 68 – allora è vero anche che la portata escatologica di str. 7, 11, 68 dovrà in qualche modo fornire spiegazioni finalizzate a risolvere gli stessi problemi cui le dottrine gnostiche che Clemente rifiuta proponevano una propria soluzione. Ma com’è possibile, se tali problemi concernevano il destino effettivo dell’anima oltre la morte del corpo, mentre l’escatologia (realizzata) di Clemente presuppone la morte come qualcosa di meramente metaforico? Nella cornice dell’esemplarismo platonico in cui Clemente ragiona, il fatto che, nello πνεῦμα, Chiesa (in quanto spirituale) e anima dello gnostico (altrettanto spirituale) coincidano significa che quest’ultima rappresenta sulla terra il modello cui l’anima di ogni fedele deve conformarsi. L’anima dello gnostico, per usare il lessico filosofico, è la παρουσία dell’intelligibile nella sfera sensibile. Il modello intelligibile, nel discorso di Clemente, è la Chiesa spirituale ed esercita la sua funzione archetipica nei termini di un percorso destinato a compiersi sul piano escatologico. Da questo punto di vista, si è detto, Clemente è esplicito: parla infatti di ἀποκατάστασις (cf. p. 159, nota 114). Dunque l’anticipazione della beatitudine escatologica di cui gode lo gnostico in quanto progredito non è solo l’esito di un impiego metaforico del tema della morte e dei racconti e cicli di purificazione post mortem dell’anima, ma ha effetti concreti non tanto sui dettagli relativi al destino dell’anima dopo il distacco dal corpo, quanto sul fine ultimo per cui ogni teoria escatologica è stata elaborata, cioè la spiegazione di come l’anima torni o resti legata alla sua pura condizione intelligibile. Si deve pertanto ritenere che lo sviluppo della pneumatologia in str. 6, 16, 134-136 abbia implicazioni anche di carattere escatologico tali da risolvere gli stessi problemi per cui le dottrine gnostiche avevano ipotizzato delle soluzioni rifiutate da Clemente nel momento in cui prometteva un futuro approfondimento sul tema dell’anima. Per avere conferma del fatto che l’escatologia di str. 7, 11, 68 ha davvero a che fare con queste promesse, è necessario che anche gli interlocutori clementini di ora siano i medesimi che l’Alessandrino aveva di fronte nel momento in cui le formulava: gli gnostici. Torniamo allora sul ruolo esemplare della Chiesa spirituale: l’esemplarità cui fa riferimento Clemente è tale che l’archetipo viene messo in contatto con la molteplicità (dei fedeli) grazie a un’entità intermedia, per così dire, cioè l’anima razionale, il cui statuto – pneumatico – corrisponde alla condizione in

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cui si trova l’anima dello gnostico. Clemente, nel corso degli Stromati, aveva già trattato di un’analoga funzione esemplare. Si tratta di str. 4, 9, 75.1-2, in cui, ancora una volta in modo simile a str. 2, 7, 34-35, lo gnostico è descritto come un martire. Nello specifico, i martiri-gnostici sono inseriti in una catena di imitazioni che, a partire da Cristo e per tramite apostolico, è potenzialmente infinita. Afferma infatti Clemente: «Il Signore bevve il calice…; ad imitazione di lui gli apostoli [etc.]; così dunque anche gli gnostici… possono bere il calice»118. A ben vedere la coincidenza, in str. 7, 11, 68, di anima perfetta e Chiesa escatologica serve a esprimere qualcosa di molto affine a quest’idea. Mentre in str. 4, 9, 75 veniva descritta l’azione mediatrice (gnostico) a partire dal modello (Cristo), in str. 7, 11, 68 viene descritta la natura del modello (in questo caso la Chiesa pneumatica) a partire da quella dell’ente mediatore (anima – pneumatica – dello gnostico). Ancora una volta, lo πνεῦμα prende il posto del martirio. E in più ora si può ipotizzare che, proprio come nella sezione finale del settimo stromate la coloritura escatologica dell’ecclesiologia clementina aveva una funzione antignostica (cf. p. 123), così anche qui Clemente si trova a interloquire con oppositori gnostici. In questo specifico caso essi sono probabilmente i valentiniani, in quanto l’ampia sezione di str. 4, 9, interamente dedicata al martirio, utilizza le persecuzioni come strumento per contrastare l’egemonia di sette valentiniane, come quella di Eracleone, nel tentativo di creare nuove leadership119. Considerando tuttavia il ragionamento di Clemente in termini più generali, avremo modo di constatare che la polemica dell’Alessandrino può ritenersi sensatamente rivolta anche contro i basilidiani. Questo sarà comunque il tema dei prossimi paragrafi, per ora è importante notare che, anche per questo aspetto della pneumatologia degli ultimi due libri degli Stromati, cioè la loro escatologia, si conferma l’impressione che gli interlocutori siano quegli “gnostici” per i quali Clemente aveva immaginata la necessità di una trattazione sull’anima. III.5. Il martirio e le diverse fasi della composizione degli Stromati Di qui sino alla fine del capitolo cercheremo di chiudere la panoramica sui contenuti speculativi della filosofia clementina formulando 118 Clem. str. 4, 9, 75.1-2: ὁ κύριος… ἔπιεν τὸ ποτήριον· ὃν μιμούμενοι οἱ ἀπόστολοι ὡς ἂν τῷ ὄντι γνωστικοὶ… τὸ ποτήριον πίωσιν. 119 Del resto questa è la tesi di Rizzi 2003a.

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 163

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un’ipotesi sul percorso attraverso il quale l’Alessandrino è giunto a maturare le riflessioni emerse fino ad ora. Vedremo nello specifico quanto utili saranno le considerazioni appena espresse (cf. III.4.2.) sull’equivalenza tra escatologia spirituale e martirio. Sebbene sia forse impossibile ricostruire con certezza il percorso di maturazione del pensiero dell’Alessandrino, la dottrina dell’anima aiuta a riconoscere, tra Stromati e Pedagogo, alcune linee di sviluppo delle sue conoscenze filosofiche, iscritte nel solco della tradizione platonica. Se da un lato la forma rapsodica degli Stromati rappresenta un ostacolo oggettivo a questo fine, dall’altro molti dei loro contenuti sono ad oggi inesplorati, se è vero che il tema dell’anima funge concretamente da criterio di verifica per il platonismo di un autore tardo-antico e che si tratta di una dottrina piuttosto trascurata dagli studiosi di Clemente. Del resto Marco Rizzi ha ripetutamente proposto di leggere gli Stromati come un’opera organica, riconoscendovi la struttura di un’argomentazione dotata di proprie premesse e conclusioni120. Ma esattamente l’idea di una struttura argomentativa unitaria che organizza una mole tanto ampia di materiali fa pensare che l’opera riordini una serie di spunti raccolti ed elaborati nell’arco di un’intera vita. Dal momento che i contenuti degli Stromati sono di carattere fortemente speculativo, abbiamo ritenuto che, per ricostruire il processo di elaborazione del pensiero di Clemente, bisognasse puntare, sì, a un concetto, ma tale da intersecare elementi rilevanti della biografia dell’autore. Ora, l’idea del martirio e la figura del martire sembrano prestarsi a questo fine. Che il martirio sia oggetto di riflessione da parte di Clemente e che pertanto sia un tema dotato di un proprio spessore concettuale è cosa nota. Annewies van den Hoek mostra come nella riflessione dell’Alessandrino sia già in atto un processo di allegorizzazione della figura del martire, che viene elaborata per definire quella dell’asceta. Ciò tuttavia non deve far pensare che Clemente cerchi di fondare una “teologia della croce”121 né, più in generale, le affermazioni dell’Alessandrino in merito al martirio vanno separate dalla cornice storica reale delle persecuzioni ad Alessandria nei primi anni del III secolo122. Da parte sua, Rizzi ritiene che, per comprendere la nozione di martirio in Clemente, sia necessario considerare tre elementi: spiritualizza-

120 Cf. Rizzi 2006a e Rizzi, The End of Stromata VII and Clement’s Literary Project, 2012. 121 Cf. Schneider 1999, p. 82. 122 Si veda Rizzi 2003a.

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zione, condotta di vita esemplare, universalità del cristianesimo. Ne emerge che, rispetto a Origene, per cui il martirio ha un significato più marcatamente (seppure non esclusivamente) spirituale, in Clemente esso ha un’accezione a un tempo spirituale e concreta, cioè pratica e finalizzata alla costituzione di una comunità ecclesiale123. L’interpretazione del martirio in Clemente fornita da Marco Rizzi restituisce alla figura del martire il suo lato “pratico”, riconducendola a momenti salienti della vita del maestro alessandrino. In fondo, la concezione clementina del martirio – lo abbiamo accennato – viene costruita esplicitamente come alternativa all’interpretazione, che Clemente riteneva eccessivamente allegorica, di Eracleone. Il valentiniano, infatti, lamentava fosse da «ipocriti» la «confessione a voce», in quanto meramente «parziale» (come Clemente stesso attesta in str. 4, 9, 72.2-4): «al contrario, quella che si fa nelle opere e nelle azioni corrispondenti alla fede in Lui [= nel Signore]» è universale. Il merito di Rizzi sta nell’aver restituito al concetto clementino di martirio ciò che lo distingue da quello eracleoniano: Clemente, soprattutto in str. 4, 9, 73-75, esorta realmente al martirio prima ancora di fare della confessione di fede una metafora. Da un bilancio degli studi critici, il concetto clementino di martirio sembra rispondere alle esigenze di una nozione teoretica (e dunque facilmente confrontabile con quella di anima) dotata anche di un significativo risvolto pratico. Ora, prima di scendere nel dettaglio, passando alle possibili rilevanze del tema del martirio per la psicologia di Clemente, bisogna fare due premesse, la prima di carattere generale sui martiri alessandrini tra secondo e terzo secolo124 e la seconda, più specifica, riguardante le affermazioni clementine sul martirio. Le fonti sulla persecuzione nella metropoli egiziana ci parlano di un evento databile tra il 202 e il 206125 o forse di due o più casi persecutori distinti126; la loro problematicità è stata discussa recentemente da Martin Pujiula, il quale conferma la tendenza degli ultimi studi sul tema, sostenendo si fosse trattato di una repressione di carattere locale127. Eusebio in Cf. Rizzi 2003a, p. 64. Si tratta della probabile datazione tra 202 e 206 di quello che, per mezzo della testimonianza dell’Historia Augusta, Sept. Sever., 17, 1, viene ricordato problematicamente come “editto di Settimio Severo” e datato nel 199. Anche Eusebio sembra accennarvi in h.e. 6, 1. Se ne discuterà in queste pagine. 125 Come pensa Pujiula, ritenendo che il racconto di Eusebio confonda la persecuzione del 202 con quella del 206 (cf. Pujiula 2006, p. 17). 126 Come è più incline a pensare dal Covolo 2004. 127 Ciò è vero nel caso la persecuzione sia databile nel 202-203, per analogia con la persecuzione della Passio Perpetuae et Felicitatis (cf. Puijula 2006, p. 20), e anche in quello in cui sia databile nel 206 (cf. Pujiula 2006, p. 17). Sul ruolo dei governatori 123 124

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 165

h.e. 6, 1-5 menziona alcune delle possibili pene inflitte ai cristiani in queste circostanze e, nonostante si rimanga incerti sulla datazione degli eventi da lui riportati, può essere dato credito ad altri dettagli contenutistici del suo resoconto128. Richiamiamo adesso gli esiti delle indagini di Rizzi sul risvolto pratico della concezione clementina del martirio, cui abbiamo accennato poco sopra. Rizzi ha recuperato l’idea di Bowersock129 – secondo cui i topoi del protagonismo classico sono stati assunti dalla figura del martire cristiano – e ne ha esteso la valenza sociale all’Alessandria clementina130: per Rizzi le persecuzioni sono servite a proporre, sia ad altri ambienti cristiani che ai pagani, una determinata forma non-elitaria di cristianesimo131. E gli scoppi persecutori alessandrini del 202-206 avrebbero dato la paradossale opportunità ad alcuni di servirsi del martirio per sancire una leadership interna ai “cristianesimi”, tramite il recupero dell’idea epicurea di una filosofia per tutti132. Questa ricostruzione presuppone la sinonimia tra i termini ὁμολογία e μαρτύριον133, perché il più delle volte martirio e pena di morte non erano necessariamente legati134. Ora, stando a quanto riferito da Eusebio, benché la persecuzione alessandrina che interseca la biografia di Clemente, sia essa intesa come esito del problematico “editto di Settimio Severo”135 o piuttosto di una persecuzione locale databile nel locali nell’applicazione delle leggi imperiali, cf. in generale Rinaldi 2009, in part. pp. 136-137 e pp. 146-148. Nello specifico, in merito a queste persecuzioni, cf. Pujiula 2006, p. 19. 128 Così per esempio dal Covolo 2004, p. 288. 129 Bowersock sostenne che l’immagine del martire cristiano avesse i tratti delle figure del protagonismo tardo-antico e ne fece una questione di leadership tra le varie correnti (cf. pp. 41-57), individuando come terminus ante quem l’antidonatismo agostiniano. Cf. Bowersock 1995. Quest’impostazione, chiaramente, presuppone che il martirio cristiano, all’epoca, non fosse sinonimo di morte (pp. 59-74). Cf. Rizzi 2003b, il quale formula anche l’ipotesi per cui il martirio può consentire il guadagno di una leadership, non solo tra gruppi cristiani eterogenei, ma anche all’interno del medesimo. 130 Tesi sostenuta in Rizzi 2003a. 131 Per molti aspetti, si tratta di una forma propriamente “filosofica” di cristianesimo; un cristianesimo, cioè, che Clemente insiste nel definire “vera filosofia”. In generale, sul ruolo delle persecuzioni per la costruzione del parallelismo martirio-filosofia, cf. Rizzi 2003b, pp. 335-338; per la componente antipagana, novità rispetto a Bowersock 1995, cf. p. 335. 132 Cf. Rizzi 2003a, pp. 62-64. 133 Cf. Rizzi 2003a, pp. 61-62. 134 Cf. Rizzi 2003a, p. 63 e supra, p. 162. 135 Questo editto, come detto pocanzi, ci è noto grazie alla problematica testimonianza della Historia Augusta: Iudaeos fieri sub gravi poena vetuit, idem de christianis sanxit (sulla datazione cui questo documento, composto tra IV e V secolo, si riferisce, cf. Barnes 1968 p. 41 e Pujiula 2006 p. 18 che propongono il 199 d.C., mentre per Frend 1974, p. 340 esso allude al 202). Ad esso vengono connessi la notizia della Passio Perpetuae et Felicitatis 7, 9, in cui si parla dell’esecuzione di Perpetua come cristiana e

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202-203 o nel 206136, prescrivesse la pena di morte e si rivolgesse esclusivamente ai cittadini romani137, nulla vieta di pensare che «una parte della popolazione d’Egitto, in specie le classi non dotate di cittadinanza romana o di ascendenza greca, ma anche esponenti della piccola borghesia, non… di fatto minacciata dalla persecuzione»138 potesse avere cercato il supplizio volontariamente per ragioni di protagonismo, come sostiene Marco Rizzi139. Dunque “martire” e “testimone”, in questa prospettiva, era chiunque confessasse la propria fede innanzi alle autorità così che, se torturato ma sopravvissuto, una volta tornato in libertà poteva vedere in questo modo legittimata una propria leadership personale. Passiamo ora al ruolo del martirio negli Stromati. La prima cosa da rilevare è che il pensiero di Clemente in proposito è complesso. L’Alessandrino, infatti, è sia entusiasta che critico nei confronti del martirio o della confessione. In str. 4, 9 egli esorta al martirio, mentre in str. 4, 10 e soprattutto in str. 7, 11, 66-67 lo scoraggia fortemente. Tra le due posizioni di Clemente non c’è una vera e propria soluzione di continuità. Infatti l’Alessandrino, poco dopo aver detto che «la confessione della fede è necessaria» perché «sta a noi» (str. 4, 9, 74.1), espressione con cui criticava la riserva espressa da Eracleone nei confronti dei martiri140, di fatto ritorna sui suoi passi, invitando a non offrirsi in modo temerario ai propri aguzzini (str. 4, 10, 76-77) e recuperando in pratica la posizione di Eracleone che aveva appena cercato di confutare (str. 4, 9, non come proselita o convertita, e il passo di Eusebio in h.e. 6, 1-2. In favore dell’autenticità dell’editto cf. Schwarte 1963, p. 185-208; Rousselle 1974, p. 225 le cui tesi sono assunte da Rizzi 2003a, p. 62-63. Di contro cf. invece Frend 1965, p. 286 e p. 341, Barzanò 1996, pp. 38-41 e dal Covolo 2004, che però non nega ci siano stati eventi persecutori dei quali Settimio Severo fosse probabilmente consapevole (cf. p. 288). Similmente a dal Covolo 2004, anche Pujiula 2006 mette in dubbio la storicità dell’“editto” soltanto per quanto concerne il carattere centrale della persecuzione ivi allusa, preferendo piuttosto intenderlo come testimonianza di persecuzioni di carattere locale (cf. Pujiula 2006, p. 19). 136 Sappiamo che Settimio Severo visitò e soggiornò ad Alessandria nel 199-200 (ottavo anno del regno), ma la persecuzione, secondo Eusebio, risalirebbe soltanto al decimo anno del suo regno (cf. Eus. h.e. 6, 2.2). Pujiula 2006 sostiene che qui il vescovo di Cesarea abbia datato al 202-203 la persecuzione voluta dal praefectus Aegypti (206-211) Claudio Subaziano Aquila soltanto nel 206, della quale Eusebio sembra parlare in h.e. 6, 3-5. 137 Per i quali soltanto, secondo quanto analizzato da Aline Rousselle, si sarebbe potuto pensare a un’eventuale pena di morte (cf. Rousselle 1974, pp. 229-233, anche per l’analisi del resoconto eusebiano). 138 Rizzi 2003a, p. 63. 139 Ibid. 140 Eracleone, infatti, aveva definito da «ipocriti» confessare di fronte alle autorità (str. 4, 9, 71.2).

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 167

73-75). Insomma, se considerato nel suo insieme, il resoconto fornito da Clemente in str. 4 delinea una posizione simile a quella dell’origeniana Esortazione al martirio: cioè un’opinione globalmente favorevole nei confronti del martirio, ma attenta ad evitare gli eccessi141. Il punto è che ciò rende ambigua la sua posizione nei confronti della corrispettiva dottrina eracleoniana. Del resto, mentre Origene sviluppa notevolmente il valore simbolico del martirio ponendolo a base di una nuova spiritualità142, Clemente fonda, opponendosi a Eracleone, la sua idea di cristianesimo sul recupero della concezione epicurea di filosofia (str. 4, 67-68) e smonta l’opinione del valentiniano sostenendo che il martirio è la sola testimonianza di fede alternativa alla visione elitaria degli gnostici. E anche dove Eracleone sosteneva la parzialità della confessione «con le labbra» rispetto a quella espressa con la condotta di vita (str. 4, 9, 71.4)143, str. 4, 9, 73 afferma che il martirio è «vera confessione di fede in Cristo, che ha in più l’attestazione della parola»144.

141 Ricordiamo a tal proposito le caratteristiche dell’atteggiamento “cattolico” (per il quale si veda per esempio Delehaye 1927, pp. 166-169) già attestato – e riferito a un contesto storico contemporaneo a quello in cui vive Clemente – da Eusebio nei confronti della tendenza montanista all’auto-oblazione (h.e. 5, 16, 20-21, ma accanto a ciò si veda la critica ai “martiri eretici” in: Cypr. unit. eccl. 14, Aug. c. Cresc. 3, 47). Come ricorda Marco Rizzi, uno dei passi scritturistici cui ci si poteva riferire per sostenere questo tipo di critica era Mt 10, 23 («se vi perseguiteranno in questa città, fuggite in un’altra»), brano citato da Eracleone stesso – come attesta la notizia di str. 4, 9, 76 – proprio a sostegno di questa medesima tesi (cf. Rizzi 2003a, p. 63). Vi è pertanto ragione di ritenere che la critica nei confronti della temerarietà di certi martiri possa essere percepita da Clemente come argomento debole e addirittura come bersaglio polemico nel momento in cui esso incarna la posizione avversaria. 142 Con ciò non si deve intendere che quello di martirio, per Origene, sia un concetto dal valore esclusivamente simbolico: come infatti fa notare dal Covolo 2000 coll. 266-267: «Origene non si è limitato a disquisire teoricamente del martirio, ma… ne ha fatto esperienza diretta durante la sua vita». Tuttavia è innegabile che Origene abbia «elaborato nei suoi scritti una vera e propria teologia del martirio» e che il martirio sia «un tema ricorrente in modo più o meno esplicito in molte opere dell’Alessandrino» (dal Covolo 2000, p. 266). 143 Καὶ ἔστιν ἡ διὰ τῆς φωνῆς ὁμολογία οὐ καθολική, ἀλλὰ μερική. καθολικὴ δὲ ἣν νῦν λέγει, τὴν ἐν ἔργοις καὶ πράξεσι καταλλήλοις τῆς εἰς αὐτὸν πίστεως. Ἕπεται δὲ ταύτῃ τῇ ὁμολογίᾳ καὶ ἡ μερικὴ ἡ ἐπὶ τῶν ἐξουσιῶν, ἐὰν δέῃ καὶ ὁ λόγος αἱρῇ (Insomma, la confessione a voce non è universale, ma parziale. Universale è invece quella di cui parla ora [il Signore/ l’Evangelista], quella che si fa nelle opere e nelle azioni corrispondenti alla fede in Lui. A questa confessione segue anche quella parziale di fronte alle autorità, se è necessario e la ragione lo suggerisce). 144 Cf. Clem. str. 4, 9, 73.3: ἔστι γὰρ ὡς ἔπος εἰπεῖν ἐπὶ τέλει τοῦ βίου ἀθρόα κατὰ τὴν πρᾶξιν μετάνοια καὶ ἀληθὴς εἰς Χριστὸν ὁμολογία ἐπιμαρτυρούσης τῆς φωνῆς.

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Se invece si prende in esame str. 7, 11145 e lo si confronta con l’esortazione al martirio di str. 4, 9, 73-75 si ha l’impressione di trovarsi di fronte a due autori distinti. In str. 7, 11, infatti, in primo luogo l’unico valore positivo attribuito al martirio è metaforico, cioè il vero martire è colui che resiste alle passioni (str. 7, 11, 67.3). In secondo luogo, l’Alessandrino riprende la sua critica ai cosiddetti temerari «che si gettano in mezzo ai rischi procurandosene da sé l’occasione» (7, 11, 66.4), con toni più accesi sia per forma che per contenuto. Clemente costruisce infatti il suo argomento in modo tecnico: «Nessuno che sia coraggioso in modo irrazionale è “gnostico”; perché allora si devono dire coraggiosi pure i bambini... e le bestie selvagge... e anche i saltimbanchi». E questo è da intendersi come climax: dapprima si parla di bambini, nei confronti dei quali Clemente ha notoriamente un’opinione positiva (si pensi all’ampia digressione sui fedeli come «piccoli del Signore» in paed. 1, 5); poi vengono gli animali, fondamentalmente giustificati nel loro «coraggio irrazionale» (str. 7, 11, 66.3), in quanto privi di ragione per natura; infine è il turno dei «saltimbanchi» per i quali l’Alessandrino usa parole addirittura sprezzanti («fanno cattiva arte per una miserabile paga»). La climax culmina poi nelle parole quasi esasperate di str. 7, 11, 66.4, relative ai «cosid145 Clem. str. 7, 11, 66.3-66.4; 7, 11, 67.3: οὐδεὶς οὖν ἀλόγως ἀνδρεῖος γνωστικός· ἐπεὶ καὶ τοὺς παῖδας λεγέτω τις ἀνδρείους ἀγνοίᾳ τῶν δεινῶν ὑφισταμένους τὰ φοβερά (ἅπτονται γοῦν οὗτοι καὶ πυρός), καὶ τὰ θηρία τὰ ὁμόσε ταῖς λόγχαις πορευόμενα ἀλόγως ὄντα ἀνδρεῖα ἐνάρετα λεγόντων. Τάχα δ’ οὕτως καὶ τοὺς θαυματοποιοὺς ἀνδρείους φήσουσιν εἰς τὰς μαχαίρας κυβιστῶντας ἐξ ἐμπειρίας τινὸς κακοτεχνοῦντας ἐπὶ λυπρῷ τῷ μισθῷ. Ὁ δὲ τῷ ὄντι ἀνδρεῖος, προφανῆ τὸν κίνδυνον διὰ τὸν τῶν πολλῶν ζῆλον ἔχων, εὐθαρσῶς πᾶν τὸ προσιὸν ἀναδέχεται, ταύτῃ τῶν ἄλλων λεγομένων μαρτύρων χωριζόμενος, ᾗ οἳ μὲν ἀφορμὰς παρέχοντες σφίσιν αὐτοῖς ἐπιρριπτοῦσιν ἑαυτοὺς τοῖς κινδύνοις οὐκ οἶδ’ ὅπως (εὐστομεῖν γὰρ δίκαιον), οἳ δὲ περιστελλόμενοι κατὰ λόγον τὸν ὀρθόν... ἐν τῇ κατὰ ἀλήθειαν λογικῇ ἀνδρείᾳ ἐξετάζεσθαι παρέχονται... Σχεδὸν οὖν τῷ γνωστικῷ μετὰ γνώσεως ἡ τελειότης τῆς ἀνδρείας ἐκ τῆς τοῦ βίου συνασκήσεως αὔξεται, μελετήσαντος ἀεὶ τῶν παθῶν κρατεῖν (Dunque nessuno che sia coraggioso in modo irrazionale è gnostico; poiché allora si devono dire coraggiosi pure i bambini, che affrontano i pericoli non conoscendo la loro pericolosità [tant’è che toccano anche il fuoco], e diciamo pure coraggiose le bestie selvagge, che corrono in gruppo contro le lance con coraggio irrazionale. E così si dovranno definire coraggiosi anche i saltimbanchi, che fanno capriole sulle spade e di una certa esperienza fanno cattiva arte per una miserabile paga. 66.4. Al contrario colui che è davvero coraggioso ha chiaro davanti agli occhi il rischio, per esempio del furore della folla, ma affronta intrepido tutto quello che gli si presenta. E in ciò si distingue dagli altri così detti martiri, perché questi si gettano in mezzo ai rischi procurandosene da sé l’occasione [non so come: meglio usare parole buone], mentre essi restano disponibili secondo la retta ragione..., si offrono a essere provati in relazione al coraggio razionale, secondo verità... 67.3. Ebbene, nello gnostico si sviluppa, perfetta, la gnosi, il coraggio che deriva dall’esercizio [συνάσκησις] della sua vita, poiché egli si esercita [v. μελετάω] a dominare sempre le passioni). Su ciò, cf. Rizzi 2000, pp. 109-115; van den Hoek 1993.

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 169

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detti martiri», nei confronti dei quali Clemente si lascia sfuggire l’inciso: «meglio usare parole buone». In breve, con Str. 4 e str. 7, ci troviamo di fronte a due distinti momenti di riflessione: uno prevalentemente entusiasta (in str. 4) e uno critico (in str. 7). La ragione di questo cambio di opinione a proposito del martirio risiede nella parallela maturazione della sua dottrina sull’anima, dovuta al serrato confronto con le dottrine gnostiche146. Trattando del tema del martirio in Clemente come nozione a due livelli, sul piano concettuale e pratico, si può constatare come, tra str. 2-5 e str. 6-7, sia avvenuto qualcosa di importante. Per quanto concerne il piano concettuale, osserviamo che tra str. 2 e str. 4 Clemente usa la figura del martire come metafora dello gnostico; lo gnostico viene messo a tema anche in str. 7, con la differenza che qui gioca un ruolo ben determinato la categoria concettuale dello spirito. L’elemento di continuità tra le due versioni (quella del martire di str. 2-4 e quella dell’anima spirituale di str. 7) è che per riflettere sul martire-gnostico Clemente si esprime in termini escatologici, cioè presenta una dottrina del destino dell’anima conseguente alla scelta di vita. Sembra che Clemente, da uomo della tarda antichità, avendo a che fare con la figura del martire, ovvero di qualcuno che mette a repentaglio la propria vita rischiando di morire, non possa ragionare che secondo i temi e i problemi che il suo milieu intellettuale gli mette a disposizione: scelta di vita ed escatologia (conseguenza della scelta di vita), ossia due nozioni-chiave della dottrina dell’anima di scuola platonica.

146 È utile ribadire che si tratta di un confronto non solo teorico, di un’astratta polemica tra dottrine ritenute più o meno valide. La dimensione teoretica sembra infatti intervenire in un secondo momento, quasi a sigillare risposte e soluzioni date a problemi pratici, concreti, relativi alla convivenza di esperienze distinte e concorrenti di vita cristiana. Inoltre, per quanto concerne il cambio di posizione in merito al martirio tra str. 4 e str. 7 si badi bene: non significa che tutti i contenuti del quarto stromate debbano intendersi coerenti con un’opinione positiva del martirio e che, al contrario, l’elaborazione del settimo stromate coincida con una visione negativa. Anzi in str. 4, si è visto, è ravvisabile sia un incoraggiamento che una critica nei confronti del martirio. Ciononostante alcuni elementi di ciascuno dei due libri in questione sono riferibili a tali due accezioni del martirio/confessione e può essere che siano stati collocati ora nel quarto e ora nel settimo stromate soltanto in un secondo momento da Clemente in sede di stesura formale dell’opera o dai suoi allievi che potrebbero aver cercato di dare agli Stromati una struttura letteraria. Similmente sembra possibile ipotizzare che, tra i due resoconti del martirio, ci sia un percorso cronologico in grado di collocare l’uno prima o dopo l’altro. Del resto, ogni qualvolta si è posti di fronte a una contraddizione interna al pensiero di Clemente, due sono le alternative possibili: o l’Alessandrino ha mutato la sua opinione o è mutato il suo uditorio.

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Per quanto concerne invece la valenza pratica della figura del martire, cioè la sua efficacia sul piano sociale, la posizione di Clemente si mantiene globalmente positiva da str. 2 fino a str. 4. In str. 4, inoltre, Clemente pare invitare al martirio in termini reali, concreti. Poi l’Alessandrino non affronterà più il tema del martirio e, quando vi tornerà, nel settimo stromate, si esprimerà con toni pesantemente negativi a proposito dell’atteggiamento folle e sconsiderato di alcuni martiri. Quel che ci chiediamo è se ci sia una relazione tra il mutamento di atteggiamento di Clemente sulla valenza pratica del martirio e lo sviluppo della nozione di spirito che determina per lo gnostico una beatitudine già in questa vita e per la quale il sesto stromate gioca un ruolo decisivo. Se si riuscisse a provare la maturazione intercorsa nei contenuti della psicologia clementina espressi in str. 6 e 7 rispetto a quelli esposti fino a str. 5, il mutamento di opinione da parte di Clemente nei confronti del martirio andrebbe collocato in questo segmento temporale. In più saremmo in grado di datare cronologicamente tale frazione di tempo, in quanto riferibile alla “persecuzione” alessandrina, proprio a cavallo dei primi anni del terzo secolo147. III.5.1 Lo sviluppo della psicologia di Clemente La nozione di spirito è centrale sia per str. 7, 11, 68 (che parla della pneumatologia in termini escatologici ed è immediatamente successivo a quello in cui Clemente critica il martirio)148 sia per il precedente brano di str. 6, 16, 134-136 (concernente la pneumatologia in un contesto antropologico)149. Quest’ultimo, nello specifico, mostra un uso della categoria di πνεῦμα particolarmente tecnico dal punto di vista filosofico, nel senso che la impiega per affrontare uno dei temi forti delle dottrine dell’anima elaborate dalla tradizione platonica: l’animazione dell’embrione150. In questo paragrafo, che conclude l’analisi del profilo filosofico della dottrina clementina dell’anima, si cercherà di mostrare

147 In tal modo, pertanto, nel prossimo paragrafo si proseguirà il parallelismo tra lo sviluppo del pensiero di Clemente e la sua opposizione pratica, concreta, a determinati gruppi gnostici, che incide sull’elaborazione teorica clementina della figura del martire e della pneumatologia. 148 Cf. p. 157. 149 Cf. pp. 80-81. 150 In relazione a questo tema la riflessione dell’Alessandrino si colloca tutta nel solco della tradizione medico-filosofica e dei problemi che si pongono i suoi contemporanei, come mostra Congourdeau 2007, p. 180.

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 171

che, proprio per l’embriologia di str. 6, 16, siamo in grado di ricostruire uno dei percorsi della psicologia clementina.

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I testi in cui Clemente, nel corso della sua intera opera, si esprime in merito all’embriologia sono un numero ridotto: paed. 1, 6, 48.1 (oltre il già studiato str. 6, 16, 134-136)151 str. 8, 4, 13.3-7152, ecl. 50153. La prima differenza tra questi testi è che soltanto paed. 1, 6, 48 e str. 6, 16, 151 Ἀλλὰ καὶ ἡ σὰρξ αὐτὴ καὶ τὸ ἐν αὐτῇ αἷμα τῷ γάλακτι, οἷον ἀντιπελαργούμενον, ἄρδεταί τε καὶ αὔξεται. Καὶ δὴ καὶ ἡ διαμόρφωσις τοῦ συλληφθέντος τῷ τῆς ἐπὶ μῆνα καθάρσεως ὑπολελειμμένῳ καθαρῷ περιττώματι κιρναμένου τοῦ σπέρματος γίνεται· ἡ γὰρ ἐν τούτῳ δύναμις, θρομβοῦσα τοῦ αἵματος τὴν φύσιν, ὃν τρόπον ἡ πυτία συνίστησι τὸ γάλα, οὐσίαν ἐργάζεται μορφώσεως· εὐθαλεῖ γὰρ ἡ κρᾶσις, σφαλερὰ δὲ ἡ ἀκρότης εἰς ἀτεκνίαν (Ma anche la stessa carne e il sangue in essa – come un ricambio d’affetto – sono irrigati e cresciuti dal latte. È allora che avviene la formazione di ciò che è stato concepito, dopo che lo sperma si è mescolato al residuo lasciato puro dalla purificazione del flusso mestruale; la potenza in esso, infatti, addensando la natura del sangue, provoca, di forma, sostanza. Infatti la κρᾶσις fiorisce, mentre l’estremità rischia la sterilità). 152 Ἐζήτητο δὲ πότερον ζῷόν ἐστιν ἤδη τὸ ἔμβρυον ἢ φυτὸν ἔτι, κἄπειτα μετελήφθη τοῦ ζῴου τοὔνομα εἰς λόγον, ἵν’ ᾖ σαφές. αἰσθήσει δὴ καὶ κινήσει τῇ καθ’ὁρμὴν εὑρόντες αὐτὸ διαφέρον τοῦ μὴ ζῴου, πάλιν τοῦτο διωρισάμεθα τῶν παρακειμένων αὐτῷ πραγμάτων ἕτερον μὲν εἶναι φάμενοι τὸ δυνάμει τοιοῦτον, ὃ μήπω μέν ἐστιν αἰσθανόμενόν τε καὶ κινούμενον, ἔσται δέ ποτε τοιοῦτον, ἕτερον δὲ τὸ κατ’ἐνέργειαν ὑπάρχον ἤδη τοιοῦτον, τούτου δὲ τὸ μὲν ἤδη ἐνεργοῦν, τὸ δὲ ἐνεργεῖν μὲν δυνάμενον, ἡσυχάζον δὲ ἢ κοιμώμενον (La questione era se l’embrione fosse un animale oppure una pianta, e poi si è messa in discussione la definizione di animale, per fare chiarezza. E si è giunti alla conclusione che questo si differenzia dal non animale per la sensibilità e il movimento generato da un impulso; di nuovo, lo distinguiamo dalle cose simili, dicendo che una cosa è in potenza quando non è ancora dotata di sensibilità né di movimento, ma un giorno lo sarà, mentre altra cosa è quando esiste in atto; e l’essere in atto o lo è già effettivamente, o può essere in atto ma essere in quiete, oppure stare dormendo). 153 Ἔλεγεν πρεσβύτης ζῷον εἶναι τὸ κατὰ γαστρός. εἰσιοῦσαν γὰρ τὴν ψυχὴν εἰς τὴν μήτραν ἀπὸ τῆς καθάρσεως ηὐτρεπισμένην εἰς σύλληψιν καὶ εἰσκριθεῖσαν ὑπό τινος τῶν τῇ γενέσει ἐφεστώτων ἀγγέλων προγινώσκοντος τὸν καιρὸν τῆς συλλήψεως κινεῖν πρὸς συνουσίαν τὴν γυναῖκα, καταβληθέντος δὲ τοῦ σπέρματος ὡς εἰπεῖν ἐξοικειοῦσθαι τὸ ἐν τῷ σπέρματι πνεῦμα καὶ οὕτως συλλαμβάνεσθαι τῇ πλάσει. † μαρτύριον ὠνόμασεν πᾶσιν. καὶ ὁπηνίκα ἂν εὐαγγελίζωνται οἱ ἄγγελοι τὰς στείρας, οἷον προεισκρίνουσι τῆς συλλήψεως τὰς ψυχάς· καὶ ἐν αγγελίῳ «τὸ βρέφος ἐσκίρτησεν» (Lc 1, 41) ὡς ἔμψυχον. καὶ αἱ στεῖραι διὰ τοῦτό εἰσι στεῖραι, ὡς ἂν μὴ εἰσκρινομένης τῆς ψυχῆς τὴν τοῦ σπέρματος καταβολὴν συναγούσης εἰς κατοχὴν συλλήψεως καὶ γεννήσεως) (Un πρεσβύτης diceva che ciò che sta nel grembo è un essere vivente. L’anima entrerebbe nella matrice, quando questa, in seguito alla purificazione mestruale, sarebbe pronta per il concepimento: allora, infusa da uno degli angeli preposti alla nascita che conoscerebbe prima il momento del concepimento, muoverebbe la donna all’accoppiamento e, dopo l’immissione del seme, assimilerebbe a sé in qualche modo lo spirito presente nel seme e collaborerebbe così alla plasmazione. E disse che questa ne era la prova per tutti. Ogni volta che gli angeli annunciano alle sterili, in qualche modo infondono le anime prima del concepimento; anche nel Vangelo il bambino fece un balzo [Lc 1, 41] in quanto inanimato. Ma anche le sterili sono sterili perché non viene infusa l’anima che raccoglie l’eiezione del seme finalizzata a concepimento e generazione).

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134-136 sono esito di una riflessione autonoma e momenti di un discorso argomentativo più ampio; str. 8, 4, 13, invece, sembra la riproposizione delle dottrine embriologiche correnti senza che vi sia una presa di posizione per alcuna di loro154; ecl. 50, infine, è il resoconto presumibilmente letterale delle dottrine di un πρεσβύτης. Proseguendo la comparazione tra questi testi sul piano dei contenuti, emerge che solo due di loro, oltre a str. 6, 16, 134-136 (che definisce δυνάμεις le attività corporee dell’uomo ed ἐνέργεια quella etica, cf. pp. 80-81), usano i concetti di δύναμις ed ἐνέργεια: str. 8, 4, 13 impiega – stoicamente  – le nozioni di potenza e atto per differenziare la condizione delle piante da quella animale e quest’ultima a sua volta da quella umana; paed. 1, 6, 48 usa il binomio potenza/atto per distinguere la condizione del seme da quella dell’embrione. La ricorrenza di questi due termini in testi riguardanti l’antropologia o l’embriologia è significativa, perché si tratta di concetti tecnici che all’epoca costituivano il lessico di base con cui le scuole filosofiche e mediche della tarda antichità erano solite trattare tali argomenti155. Ciò significa che, tra tutti i testi clementini in cui compare una forma di riflessione sul tema dell’embriologia, alcuni sono tecnicamente costruiti, nel senso che esprimono contenuti di elevata specificità scientifica, altri invece (ecl. 50) richiamano forme diverse di razionalità speculativa (il mitologema del­l’angelo, per esempio). Poi, tra quelli del primo gruppo, due (str. 6, 16, 134-136 e paed. 1, 6, 48) sono frutto di un’elaborazione personale da parte di Clemente e uno (str. 8, 4, 13) riporta le dottrine elaborate al riguardo dalle scuole di filosofia più note156. I tre testi delle Eclogae Propheticae riportati qui di seguito permettono di gettare luce sul modus operandi dell’Alessandrino e di ipotizzare almeno due fasi di elaborazione dell’embriologia. Essi forniscono indicazioni sul metodo di lavoro di Clemente; più precisamente consentono di formulare un’ipotesi sull’ordine in cui egli può aver scritto i brani in cui tratta di temi embriologici:

Sulla natura “propedeutica” di questo scritto cf. anche Havrda 2011, p. 351. Cf. Dörrie 1987-, 6.1, pp. 321-342 e pp. 343-373. 156 Probabilmente di Galeno stesso, stando a Havrda 2011. 154 155

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 173

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Clem. ecl. 28.1-2: l’atleta [= lo gnostico], invece, presa conoscenza dello stadio olimpico (γνωρίσας τὸ στάδιον τὸ Ὀλυμπιακόν), si spoglia per ricevere l’istruzione, lotta e diviene vincitore per aver respinto e sgominato gli avversari e oppositori della via gnostica157.

Clem. ecl. 32.2: è necessario, scrutando le scritture accuratamente (ἀκριβῶς διερευνωμένους)..., a partire dai termini, ricercare le dottrine (ἀπὸ τῶν ὀνομάτων θηρᾶσθαι τὰς δόξας) che lo spirito santo, che le possiede a proposito degli esseri, insegna, avendo impresso il suo pensiero nelle espressioni, affinché ci siano spiegati i termini che hanno molti significati, con un esame accurato (ἀκριβῶς ἐξεταζόμενα) e il senso nascosto in molti veli si manifesti e riluca chiaramente, maneggiato ed esaminato analiticamente158.

Clem. ecl. 36.1-2: bisogna dunque che chi vuole che il discepolo sia persuaso (τὸ πειθόμενον ἔχειν τὸν μαθητήν) alleni ed eserciti (γυμνάζειν καὶ μελετᾶν) la fede e la fatica, unendole insieme, esaminando (ἐξετάζοντα) ogni volta in se stesso la verità delle argomentazioni; quando gli parrà di essere ben preparato (εὖ ἔχειν), allora dovrà anche scendere ai problemi dei vicini (εἰς τὰς τῶν πέλας ζητήσεις καθιέναι): infatti anche gli uccellini fanno dei tentativi preparatori al volo, allenando le ali nel nido159.

Tutti e tre i brani insistono sulla necessità di una fase analitica preliminare al­l’apprendimento. Il primo (ecl. 28.1-2) è quello più generico e, al­l’interno di un contesto metaforico polemico, antignostico, parla del­l’importanza di «conoscere lo stadio olimpico (γνωρίζειν τὸ στάδιον Ὀλυμπιακόν)» prima di combattere. Il secondo e il terzo sono più specifici e, complessivamente, consentono di distinguere due momenti, al­l’interno di tale fase propedeutica. Entrambi insistono, innanzitutto, 157158159

157 Ὁ δὲ ἀθλητής, γνωρίσας τὸ στάδιον τὸ Ὀλυμπιακόν, ἐπαποδύεται τῇ διδασκαλίᾳ καὶ ἀγωνίζεται καὶ νικηφόρος γίνεται, τοὺς ἀντιπάλους καὶ κατατρέχοντας τῆς γνωστικῆς ὁδοῦ παρακρουσάμενος καὶ καταγωνισάμενος. 158 Δεῖ τοίνυν τὰς γραφὰς ἀκριβῶς διερευνωμένους... ἀπὸ τῶν ὀνομάτων θηρᾶσθαι τὰς δόξας, ἃς τὸ ἅγιον πνεῦμα περὶ τῶν πραγμάτων ἔχον, εἰς τὰς λέξεις ὡς εἰπεῖν τὴν αὑτοῦ διάνοιαν ἐκτυπωσάμενον, διδάσκει, ἵνα ἡμῖν ἀκριβῶς ἐξεταζόμενα διαπτύσσηται μὲν τὰ ὀνόματα πολυσήμως εἰρημένα, τὸ δ’ ἐγκεκρυμμένον ἐν πολλοῖς τοῖς σκέπουσι ψηλαφώμενον καὶ καταμανθανόμενον ἐκφαίνηται καὶ ἀναλάμψῃ. 159 Δεῖ τοίνυν ἐπ’ ἴσης τῷ βουλομένῳ τὸ πειθόμενον ἔχειν τὸν μαθητὴν καὶ τῷ πόθῳ τὴν πίστιν ἐγκαταμίξαντα γυμνάζειν καὶ μελετᾶν, ἑκάστοτε πρὸς ἑαυτὸν τὴν τῶν θεωρημάτων ἀλήθειαν ἐξετάζοντα· ἐπειδὰν δὲ εὖ ἔχειν αὐτῷ δοκῇ, τότε δὴ καὶ εἰς τὰς τῶν πέλας ζητήσεις καθιέναι· ἐπεὶ καὶ οἱ νεοττοὶ προαποπειρῶνται τοῦ πετάσαι ἐπὶ τῆς καλιᾶς γυμνάσαντες τὰ πτερά.

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sull’ἐξέτασις. ecl. 32 parla infatti di «esame accurato (ἀκριβῶς ἐξεταζόμενα)», caratterizzando l’ἐξέτασις con lo stesso avverbio, ἀκριβῶς, con cui aveva appena descritto l’atto di «scrutare le Scritture (ἀκριβῶς διερευνωμένους)». Così – sostiene Clemente –, cioè esaminando, procede la ricerca (θηρᾶσθαι, letteralmente “caccia”) delle dottrine. L’Alessandrino dunque parla di una fase di recupero delle fonti, la quale è accompagnata da un esame scrupoloso delle Sacre Scritture. Di un analogo esame tratta anche il brano di ecl. 36 dove Clemente accenna al ruolo dell’ἐξέτασις nel mescolare assieme esercizio (μελετᾶν) e allenamento (γυμνάζειν), da cui consegue la condizione del sentirsi «ben preparati» (εὖ ἔχειν). Dev’essere in questo stato che «il senso nascosto in molti veli si manifesta e riluce chiaramente, maneggiato ed esaminato analiticamente» (ecl. 32. 2). Sempre nell’ambito della fase propedeutica (dato il paragone con i tentativi di volo preparatori che fanno i volatili neonati) Clemente aggiunge che «proprio nel momento in cui (ἐπειδὰν)» si è ben preparati, è necessario «scendere ai problemi dei vicini (εἰς τὰς τῶν πέλας ζητήσεις καθιέναι)». Soltanto dopo questa tappa ulteriore, è possibile «persuadere il discepolo (τὸ πειθόμενον ἔχειν τὸν μαθητήν)». Alla luce del procedimento appena esplicitato, i quattro brani sull’embriologia (ecl. 50, str. 8, 4, 13, paed. 1, 6, 48 e str. 6, 16, 134-136) possono essere intesi come diverse fasi di questo lavoro. ecl. 50 recupera le dottrine della tradizione presbiterale. La tradizione è una fonte importante per l’Alessandrino e questi vi fa riferimento svariate volte nel corso degli Stromati, ma più in generale lo è per tutta la Chiesa antica160. La sua collocazione a fianco delle Scritture sarà ribadita anche al concilio di Efeso (431)161. Possiamo dunque considerare che, per l’embriologia, Clemente ritenga autorevoli al pari delle Scritture (anche se queste non sono citate esplicitamente) le parole del πρεσβύτης di ecl. 50, in quanto traditio. Il brano di str. 8, 4, 13, essendo la rassegna di come i contemporanei trattavano temi di carattere embriologico, ben s’addice alla peculiarità della fase dello «scendere ai problemi dei vicini» (εἰς τὰς τῶν πέλας ζητήσεις καθιέναι). Certo, la prova non è decisiva, tuttavia, nel momento in cui Clemente esporrà o impiegherà l’idea che s’è fatto a proposito dell’embriologia (in str. 6, 16, 134-136

160 Per il tema della tradizione nella patristica cf. Reynders 1933; Holstein 1949; Smulders 1952; Congar 1960, p. 57. In merito al ruolo della παράδωσις in Clemente si rimanda a: Lilla 1971, pp. 161-163 e p. 229 – che ne ha indagato i legami con gli ambienti valentiniani – e, più in generale, a Mondésert 1944; Lébreton 1923/1924, pp. 496-497; Daniélou 1958, pp. 66-67; Daniélou 1961, pp. 183-190; Daniélou 1962; Daniélou 1972. 161 Riguardo a ciò si veda Person 1978, pp. 218-219.

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 175

e paed. 1, 6, 48) ritroveremo soprattutto in str. 6, 16, 134-136, il tema generale di ecl. 50 (ossia l’insufflazione dell’anima razionale) e il linguaggio tecnico di str. 8, 4, 13 (vale a dire il binomio atto/potenza che compare sia in str. 6, 16, 134-136 che in paed. 1, 6). Sembra insomma che la differenza tra i testi in cui l’Alessandrino accenna a tematiche legate all’embriologia mostri un processo che implica: a) raccolta e studio di fonti, b) allenamento concettuale o retorico per familiarizzarsi con il modo in cui gli intellettuali del tempo usavano impostare simili discussioni. È proprio questo processo che caratterizza la ricchezza contenutistica della psicologia di str. 6 (e str. 7 in cui si ritrovano impiegate le speculazioni pneumatologiche che probabilmente suppongono le riflessioni di str. 6, 16, 134-136 sul ruolo dello spirito santo in rapporto allo «spirito corporeo») rispetto ai momenti in cui, nei libri precedenti, Clemente si era trovato a dover promettere una futura trattazione del tema dell’anima. Possiamo supporre che l’Alessandrino sia stato spinto a elaborare i contenuti d’argomento psicologico di str. 6 e 7 dopo essersi scontrato con i suoi oppositori gnostici, i quali avevano posizioni precise sul tema dell’anima. Di qui sarebbe provenuta la necessità di rivolgersi alla tradizione dei presbiteri (ecl. 50) e alle dottrine dei filosofi (str. 8, 4, 13)162. Il confronto polemico con lo gnosticismo è in ogni caso un momento imprescindibile per la dottrina clementina dell’anima: ne marca i mutamenti e gli sviluppi e richiede a Clemente degli sforzi intellettuali. Ciò permette di riaprire anche la questione sulla natura degli Stromati, che si è sfiorata tangenzialmente, trattando del martirio. La loro grande varietà interna, infatti, non è solo questione del cambio d’uditorio, come supposto da André Méhat163, ma riflette anche la personale maturazione dell’Alessandrino, almeno su certi contenuti; una maturazione di cui possiamo riconoscere alcune tracce. La varietà degli Stromati, del resto, può ben essere una scelta stilistica164 e ciò tuttavia non esclude che Clemente abbia concepito e composto

162 Stando all’analisi di Havrda 2011, le fonti di questa sezione di str. 8 non possono essere ricercate in un vago contesto scolastico, bensì, probabilmente, nello scritto galenico Sulla dimostrazione (cf. Havrda 2011, pp. 368-371). Ciò fa pensare all’estraneità di certi aspetti tecnici della psicologia tardo-antica alla formazione di base di Clemente e, come corollario, ne discenderebbe, per l’Alessandrino, l’occasione o la necessità di accedervi soltanto a un certo punto della sua attività. 163 Cf. Méhat 1966, p. 293. 164 Cf. Quasten 1980, p. 293; Simonetti 1969, p. 107; Moreschini-Norelli 1995, pp. 369-377. In ogni caso, il problema è chiaro a Clemente non solo in str. 6, 1, 2.1-3 e in str. 1, 1, 11, ma anche in str. 7, 18, 111.1-3.

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il materiale degli “otto” libri degli Stromati nell’arco di un lungo periodo di tempo.

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*** Cerchiamo adesso di raccogliere e interpretare i risultati finora ottenuti, mettendoli in relazione all’ipotesi di sviluppo della filosofia di Clemente. Abbiamo mostrato che l’Alessandrino, in str. 6-7, dà adempimento alle promesse formulate tra str. 2 e str. 5, sviluppando una pneumatologia coerente. In questo capitolo, nello specifico, si è scorto che la pneumatologia impiegata per la concezione antropologica espressa in str. 6, 16, 134-136 (cf. pp. 134-136) ha anche una valenza metafisica che funge da base concettuale per l’escatologia. I tratti più marcati dell’escatologia clementina convergono su una delle varie proposte della tradizione medioplatonica, un modello particolarmente esplicito in Filone e sviluppato da Clemente (soprattutto in str. 7) nel concetto di uomo gnostico, “anima spirituale” (cf. p. 157)165. Con esso Clemente esprime l’idea che allo gnostico è consentita già in questa vita una forma di anticipazione della beatitudine escatologica. Analogamente era stato detto anche del martire, è vero, ma solo tra str. 2 e str. 4, perché, a partire da str. 6, è l’anima spirituale dello gnostico l’unica beneficiaria di una simile condizione (che abbiamo definito, con le debite riserve, “escatologia realizzata”). Questa escatologia dev’essere intesa come complementare all’antropologia di str. 6, 16,

165 Questa conclusione deve essere tuttavia accolta con due attenuanti. La prima è che certi contenuti, caratteristici della psicologia di str. 6, sono reperibili anche in str. 5. Il tratto maggiormente originale dell’antropologia di str. 6, 16, 134-136, cioè la funzione atto-potenziale che ricopre il termine spirito, era stato prima adoperato per definire l’anima nel suo rapporto con i primi principi. Ciò rende più duttile l’ipotesi della divisione degli Stromati in due rigidi blocchi, ci ricorda di tenere presente che le riflessioni clementine sono state mescolate in sede di strutturazione letteraria dell’opera e che Clemente segue e sviluppa comunque tradizioni di pensiero ampiamente diffuse. La seconda è che, è vero, si è mostrato che l’escatologia di Clemente consegue a un aspro confronto con gli gnostici, ma ciò dev’essere ritenuto valido soltanto per quanto la tradizione manoscritta ci ha lasciato. Clemente, nello specifico, si mostra sensibile anche a un’escatologia attenta alle dottrine della purificazione dell’anima dopo la morte e al loro compimento nell’apocatastasi. Della dottrina dell’apocatastasi tuttavia ci è pervenuto soltanto il risvolto polemico-apologetico, ma non si può escludere che Clemente abbia scritto o esposto altre dottrine, eventualmente fatte poi proprie da Origene. L’importante è fissare che, nella coincidenza tra «anima spirituale» e «Chiesa spirituale», Clemente ha visto un nesso tra l’anticipazione escatologica (o una sorta di “escatologia realizzata”), di cui godrebbe l’uomo gnostico in questa vita, e l’unitarietà escatologica nella Chiesa spirituale.

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 177

134-136 (cf. pp. 80-81) e pertanto va vista come un uguale tentativo di adempiere alle promesse di str. 2-5 (cf. pp. 47-48). Ora, come secondo obiettivo di questo capitolo ci siamo prefissati di mostrare lo sforzo di analisi richiesto a Clemente sul piano concettuale. Uno sforzo che implica un lasso di tempo che intercorre tra il momento in cui Clemente si scontra con la psicologia gnostica e quello in cui le contrappone proprie soluzioni. Ed è appunto questo che distingue lo sviluppo della psicologia di str. 6-7 dalle prime risposte date da Clemente agli gnostici promettendo un futuro approfondimento sull’anima. In tale segmento cronologico l’Alessandrino sembra aver mutato anche opinione nei confronti del martirio, il che spiegherebbe per quale motivo in str. 7, 11, 66-68 egli attribuisca l’anticipazione della beatitudine escatologica allo gnostico e non più al martire, come invece aveva fatto tra str. 2 e str. 4. Probabilmente questo cambio d’opinione può essere spiegato alla luce delle prospettive aperte da Marco Rizzi sul concetto di martirio in Clemente166. Se è vero che il martire è colui che attraverso la confessione di fede di fronte alle autorità acquisisce nuova leadership167, allora le persecuzioni possono aver rappresentato l’occasione decisiva per rovesciare i rapporti di predominanza vigenti tra i vari gruppi cristiani alessandrini. Per il nostro discorso, ciò significa che se la psicologia di Clemente nasce dallo scontro con gli gnostici e il momento più intenso di questo scontro è quello delle persecuzioni, allora la dottrina clementina dell’anima è successiva ad esse. È dopo le persecuzioni che Clemente ha sviluppato in modo organico il tema dell’anima: di conseguenza, la critica nei confronti del martirio e la connessa presentazione in str. 7 di una figura alternativa a quella del martire, vanno intese come successive al periodo delle persecuzioni. Sulla base di quanto afferma Eusebio – pur nei limiti della datazione di quanto egli riporta – in h.e. 6, 3.1-3 (relativamente all’inizio dell’insegnamento alessandrino di Origene a causa del fatto che erano stati «allontanati tutti dalla minaccia della persecuzione»), si può evincere che Clemente abbia abbandonato Alessandria a causa della persecuzione168. Viene facile congetturare che la sua partenza consegua alla battaglia persa contro altri modelli ecclesiali, tra cui vanno senz’altro presi in considerazione quelli gnostici, anche se – coCf. Rizzi 2003, in riferimento a Bowersock 1995. Cf. Rizzi 2003a, p. 64. 168 Questo è il senso di quanto dice Eusebio secondo Puijula 2006, p. 15, il quale a p. 19 ipotizza alcune possibili conseguenze sulla base dei dubbi lasciati aperti per via della problematicità delle fonti. 166 167

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me si dirà tra breve – è più probabile ritenere che non siano i gruppi gnostici quelli uscenti come trionfatori da un simile contrasto tra “cristianesimi”. Lo studio della dottrina dell’anima di Clemente non permette di confermare tale ipotesi, cioè non ci mette in grado di comprendere quale idea di Chiesa, dopo l’ondata persecutoria, fosse risultata dominante. Tuttavia possiamo dire qualcosa di più. Sebbene il recupero della concezione epicurea di filosofia avvenga in esplicito contrasto con l’opinione espressa dai valentiniani (Eracleone) in merito al martirio e con la relativa visione elitaria della Chiesa e della salvezza, va ricordato che una critica analoga a quella mossa dall’Alessandrino nei confronti dei valentiniani vale anche per Basilide, altro autore di riferimento per il brano antropologico di str. 6, 16, 134-136 (cf. pp. 80-81). Anzi, poco oltre Clemente parla della soteriologia elitaria valentiniana quasi come fosse una variante di quella basilidiana: «anch’egli [= Valentino] infatti, come Basilide, suppone una stirpe che si salva per natura» (str. 4, 13, 89.4). Ora, la terza promessa di approfondimento sul tema dell’anima (str. 4, 12, 85.3; cf. p. 48), concernente la sua «trasmigrazione (μετενσωμάτωσις)», viene fatta nella sezione in cui Clemente critica l’idea basilidiana del martirio. I basilidiani, nello specifico, ritenevano che «il martire è punito per le colpe commesse prima della presente incarnazione» (str. 4, 12, 88.1)169, motivo per cui l’Alessandrino aveva promesso, poco sopra, di riprendere il discorso in una successiva trattazione sull’anima e sul diavolo. Se ne deduce che, a differenza dei valentiniani di Eracleone, i quali si astenevano in modo assoluto dal martirio, Basilide di fatto non lo condannava, ritenendolo anzi giusto, se non per tutti, almeno per una determinata categoria di uomini. Quella che per Basilide è una categoria antropologica diventa per Clemente una tipologia sociale: nella sua obiezione ai basilidiani in str. 4, 9, 73 egli ribadisce la potenziale universalità del martire negli stessi termini in cui aveva formulato la proposta di una “democratizzazione” della filosofia nel cristianesimo, ripetendo che «sta in noi (ἐφ’ἡμῖν) confessare la fede e subirne il supplizio o no» (str. 4, 12, 83.2). Ora, l’aver ravvisato i basilidiani tra i probabili principali interlocutori di Clemente al momento dello scoppio delle persecuzioni del 202 non significa che sia stato loro anche il modello vincente di anima o di Chiesa. È più ragionevole pensare, invece, come si è accennato poco sopra, che sia risultata vincitrice una proposta ecclesiale facilmente incanalabile nella Chiesa episcopale in via di affermazione an169

Cf. Congourdeau 2007, p. 99.

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 179

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che ad Alessandria170. Tuttavia ciò non toglie che gli gnostici siano i principali rivali di Clemente in sede di elaborazione della sua psicologia e che si debba pensare a loro come primario obiettivo polemico della sua speculazione in temi soprattutto antropologici, ma anche escatologici.

170 Con modalità simili a quelle spiegate da Rizzi 2002 sulla base di Nautin 1977, p. 44. Da ciò si ricava che Clemente, come gli esponenti della Chiesa episcopale in via d’affermazione, è altrettanto oppositore delle sette o scuole gnostiche e tuttavia si trova ad essere marginalizzato, o forse sospettato.

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III. Dottrina dei principi ed escatologia 181

CAPITOLO QUARTO

PSICOLOGIA E PASSIBILITÀ DIVINA

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Introduzione In questo capitolo ci si soffermerà sulla cornice teologica in cui si inserisce la dottrina dell’anima di Clemente, attraverso l’esegesi di alcuni passi biblici fondamentali. Una prima sezione, nello specifico, sarà dedicata agli elementi teologici che si ritrovano nelle parti dell’opera clementina in cui emerge il lato metafisico della dottrina dell’anima. Successivamente si passerà in rassegna l’antropologia di Clemente, indagando – con particolare attenzione alla pneumatologia di str. 6, 16, 134-136 – quali siano i modelli teologici cui egli ha apportato contributi significativi rispondendo alle sue promesse di approfondimento del tema dell’anima. IV.1. La componente teologica della metafisica La parte degli Stromati in cui Clemente affronta più esplicitamente gli avversari gnostici sul campo della metafisica è l’ampia sezione di str. 5, 6. Qui l’Alessandrino impiega in modo significativo due brani paolini, 1 Cor 12, 11 («Ma tutte queste cose è l’unico e il medesimo spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole»)1 ed Ef 1, 21 («al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si possa nominare non solo nel secolo presente, ma anche in quello futuro»)2, che nel contesto giudeo-cristiano evocano una pneumatologia tendente a concepire la nozione di spirito santo 1 Cf. Clem., str. 5, 6, 38.5: «Alla testa, cioè al Signore, dovevano soggiacere la legge e i profeti, attraverso cui sono designati i giusti nell’uno e nell’altro Testamento: se diciamo che gli apostoli sono profeti e insieme giusti, diciamo bene, perché “un solo e il medesimo spirito santo agisce” in tutti» (cf. p. 138). 2 Cf. Clem. str. 5, 6, 38.6: «E come il Signore è al di sopra di tutto il mondo, anzi trascende l’intelligibile, così il nome iscritto nella lamina è ritenuto degno di essere al di sopra di ogni principato e potestà; e vi è iscritto sia a motivo dei comandamenti

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quale realtà molteplice, strutturata gerarchicamente come venivano abitualmente concepite le gerarchie angeliche, per cui si è parlato in proposito di pneumatologia angelomorfica3. Accanto a questi passi di Paolo, bisogna poi prestare attenzione a 1 Re 22, 19 («ho visto il Signore seduto sul trono; tutto l’esercito del cielo gli stava intorno a destra e a sinistra»)4. Ora, a proposito della pneumatologia angelomorfica, si è visto che Clemente e i valentiniani degli Excerpta si distinguono per l’impostazione dualistica del discorso, che risente così di una matrice platonica. Analogamente si può dire che, nel loro uso di 1 Re 22, 19, i valentiniani e Clemente sembrano prendere uguali distanze da una serie di elementi di teologia giudeo-cristiana attestati anche in Filone. Tra questi, in particolare, spicca la teologia del Nome. Essa si fonda a sua volta su almeno due esegesi. La prima riguarda Es 3, 14 («Dio disse a Mosè: “Io sono colui che è”»), cioè un versetto cui Clemente dedica una spiegazione sia in str. 6, 16, 137.35 sia in str. 5, 6, 34.56 e che dunque accomuna la sezione in cui l’Alessandrino tratta della rilevanza della sua psicologia per la conformazione dell’uomo e quella di interesse metafisico. La seconda esegesi concerne la ricezione di Fil 2, 9 (Dio «gli ha conferito un Nome al di sopra di ogni altro nome»), passo che ricorre per ben due volte in che sono scritti sia a causa della presenza sensibile (αἰσθητὴ παρουσία) [del Signore]». (cf. p. 138). 3 Si è già trattato, seppure tangenzialmente, della cosiddetta pneumatologia angelomorfica (p. 121). Nel presente lavoro ci si è rifatti per lo più al contributo offerto da Bogdan Bucur sulla presenza di questo concetto teologico anche negli scritti di Clemente Alessandrino ed è pertanto alla sua recente monografia (Bucur 2009) che si rimanda per approfondimenti sul tema. Per quanto concerne la definizione del termine “pneumatologia angelomorfica”, cf. Bucur 2009, p. XXI: «The use of angelic imagery in early Christian discourse about the Holy Spirit». Per 1 Cor 12, 11 cf. Bucur 2009, p. 76; per Ef 1, 23, cf. Gieschen 1998, pp. 119-123. 4 Questo brano non è stato preso in considerazione dagli esegeti precedenti Origene, ad eccezione – ovviamente – di Clemente e di coloro di cui egli stesso preserva l’interpretazione. Il versetto di 1 Re permetterà a Origene di superare un tipo di pneumatologia angelomorfica (intuita dapprima da Kretschmar 1956, pp. 7-8, contestata da Hauschild 1972, p. 13, nota 10, p. 136 e p. 138 e riconfermata da Markschies 2007b, pp. 107-206, che egli stesso sembra conoscere) – e i cui echi giungono sino a Eusebio (cf. e. th. 3, 4.7-8) – con la formulazione tecnica di una dottrina trinitaria (cf. Bucur 2009, p. 81). 5 Cf. la traduzione: «Tra queste [= tra le cose generate e vane] non trova posto “Colui che è”. “Colui che è” è esso solo nell’identità ingenerata». 6 Clem. str. 5, 6, 34.4-5: «Le quattro colonne... significano anche il tetragramma o nome mistico, che portavano i sacerdoti cui solo era accessibile la cella. Si pronuncia “Iahvé”, che si interpreta “Colui che è e Colui che sarà» (cf. pp. 133-134 e infra p. 183). Oltre a questi due passi, cf. anche str. 1, 25, 166.4 e paed. 1, 8, 71.2, benché di minore rilevanza.

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IV. Psicologia e passibilità divina 183

quella sezione che si è detta trattare dell’anima dal punto di vista metafisico: rispettivamente in str. 5, 6, 34.7 e 5, 6, 38.6. Se prendiamo in considerazione quest’ultimo passo, notiamo che Clemente lega Fil 2, 9 direttamente ai «comandamenti che sono scritti» e «alla presenza sensibile (αἰσθητὴ παρουσία) del Signore»:

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Clem. str. 5, 6, 38.6: e come il Signore è al di sopra di tutto il mondo, anzi trascende l’intelligibile, così il nome iscritto sulla lamina è ritenuto degno di essere al di sopra di ogni principato e potestà (Ef 1, 21; cf. Fil 2, 9); e vi è iscritto sia a motivo dei comandamenti che sono scritti sia a causa della presenza sensibile del Signore7.

In questo modo l’Alessandrino si pone in continuità con l’impiego dello stesso brano della Lettera ai Filippesi che aveva fatto in str. 5, 6, 34. (cf. pp. 133-134), a proposito della descrizione del tempio di Es 26, 32 e 27, 16. Anche qui, infatti, Fil 2, 9 era stato usato per descrivere la natura trascendente del mondo intelligibile: «Nel mondo intelligibile entra solo colui che è divenuto [sommo sacerdote] dominatore delle passioni, penetrando nella gnosi dell’ineffabile, trascendendo ogni nome»8. Ora, a tal proposito Clemente aveva appena affermato che: «Le quattro colonne sono emblema della sacra tetrade degli “antichi patti”» (espressione che ritorna in 38.6 come «comandamenti scritti») e «significano anche il tetragramma o nome mistico che portavano soltanto coloro cui era accessibile la cella»9. Come si può notare, dunque, tra str. 5, 6, 34.7 – esegesi di Es 26 e 27 – e str. 5, 6, 38.6, viene mantenuta sia la riflessione sulla trascendenza del mondo intelligibile sia la valorizzazione del ruolo dei comandamenti. Ciò che muta è l’accesso al tabernacolo del tempio, che in 5, 6, 38.6 è sostituito dall’incarnazione, cui si allude per mezzo della παρουσία sensibile del Salvatore. L’interpretazione allegorica dei comandamenti come simbolo della tetrade del nome YHWH ha a sua volta una base filoniana. Essa si trova infatti nell’interpretazione della tetrade che Filone fornisce in Vita Mos. 2, 115 e che richiama in 2, 132. Filone però in questi due momenti non parla della tetrade allo stesso modo. Dapprincipio in7 Ὥσπερ δὲ ὁ κύριος ὑπεράνω τοῦ κόσμου παντός, μᾶλλον δὲ ἐπέκεινα τοῦ νοητοῦ, οὕτως καὶ τὸ ἐν τῷ πετάλῳ ἔγγραπτον ὄνομα «ὑπεράνω πάσης ἀρχῆς καὶ ἐξουσίας» (Ef 1, 21; cf. Fil 2, 9) εἶναι ἠξίωται, ἔγγραπτον δὲ διά τε τὰς ἐντολὰς τὰς ἐγγράφους διά τε τὴν αἰσθητὴν παρουσίαν. Per il contesto di questo brano, cf. p. 138. 8 Cf. p. 182. 9 Cf. Clem. str. 5, 6, 34.4: κίονες τέτταρες αὐτόθι, ἁγίας μήνυμα τετράδος διαθηκῶν παλαιῶν, ἀτὰρ καὶ τὸ τετράγραμμον ὄνομα τὸ μυστικόν, ὃ περιέκειντο οἷς μόνοις τὸ ἄδυτον βάσιμον ἦν.

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fatti (in 2, 115) le attribuisce un valore numerologico10, e poi (in 2, 132) la rende simbolo della «potenza (δύναμις) di Dio» e della Sua «bontà»11. A questa δύναμις divina corrisponde una controparte umana, la quale è, da un lato, verità e concerne il pensiero (così in 2, 129), e dall’altro è realizzazione (letteralmente ἐνέργεια e πράξις, come in 2, 130), cioè – spiega Filone – propriamente «rivelazione» (Vita Mos. 2, 129). È importante rimarcare come Filone, nel trattare di ciò, sia attento alla dimensione antropologica12. All’uomo, afferma infatti, fanno capo due principi, da un lato τὸ ἡγεμονικόν, principio ἑνδιάθετος, e dall’altro il principio προφορικός, che presiede alla «lingua, alla bocca e a tutti gli organi di fonazione» (γλῶττα καὶ στόμα καὶ ἡ ἄλλη πᾶσα φωνῆς ὀργανοποιία). A ben vedere, in questo passo filoniano, parallelo al sesto capitolo del quinto stromate per quanto concerne l’interpretazione allegorica dei tratti con cui le Scritture descrivono il tempio giudaico e le vesti del sommo sacerdote, è possibile ravvisare alcune somiglianze con str. 6, 16, 134-136. Anche qui compaiono i comandamenti, come del resto in str. 5, 6, 34 e 38. Anzi, si può dire che i comandamenti e la spiegazione della loro ricezione da parte dell’uomo sono lo scopo della lunga digressione di Clemente, dal momento che le due descrizioni della composizione antropologica che l’Alessandrino offre in str. 6, 16, 134-136 sono due possibili interpretazioni della decade. Inoltre, il brano si chiude soltanto quando Clemente è riuscito a definire i due spiriti per mezzo dei quali avviene la κατάληψις dei 10 Ph. Vita Mos. 2, 115: Il teologo dice che il Nome è il tetragramma (τετραγράμματον δὲ τοὔνομά φησιν ὁ θεολόγος εἶναι): può infatti corrispondere alle prime cifre – uno, due, tre, quattro – poiché tutto (il punto, la linea, la superficie, il volume) è nella tetrade misura di ogni cosa, così come per gli accordi (συμφωνίαι) migliori in musica (la quarta, la quinta, l’ottava e la doppia ottava, i cui rapporti sono rispettivamente di quattro a tre, di tre a due, di due a uno e di quattro a uno) e poi la tetrade ha anche altre innumerevoli virtù. 11 Ph. Vita Mos. 2, 132: Sul copricapo si trova la placca d’oro, su cui sono impresse le incisioni di quattro lettere che si dice formino il nome di Colui che è…: infatti l’armonia universale (ἁρμονία πάντων) è la Sua bontà e la potenza (δύναμις) della Sua misericordia. 12 Cui corrisponde, proprio come all’antropologia di str. 6, 16, una controparte cosmica, cf. Ph. Vita Mos. 2, 127: «E non per nulla il pettorale è doppio. La ragione (λόγος) infatti è duplice: nell’universo (ἔν τε τῷ παντί) e nella natura umana (ἐν ἀνθρώπου φύσει). Nell’universo c’è quella delle idee incorporee ed esemplari (ὁ τε περὶ τῶν ἀσωμάτων καὶ παραδειγματικῶν ἰδεῶν), su cui poggia il mondo intelligibile e quella delle cose visibili (ὁ περὶ τῶν ὁρατῶν) che sono imitazioni e copie di quelle idee… In relazione all’uomo c’è interiore (ἐνδιάθετος) e quello esteriore (προφορικός)…: il primo è come una fonte, il secondo fluisce dal primo. La sede dell’uno è l’ἡγεμονικόν, mentre quella del λόγος che si occupa della produzione verso l’esterno è la lingua, la bocca e tutti gli altri organi di fonazione (ἡ ἄλλη πᾶσα φωνῆς ὀργανοποιία)».

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IV. Psicologia e passibilità divina 185

comandamenti: «Le due tavole significano i comandamenti tramandati prima della Legge e dati ai due spiriti..., la comprensione deriva da ambedue» (str. 6, 16, 136.4-5). Ora, si ricorderà come, in str. 6, 16, 135.1 (cf. pp. 80-81), Clemente avesse definito la cooperazione tra questi due spiriti (136.4-5) una condizione di ἐνέργεια («mediante tutte queste δυνάμεις l’ἐνέργεια dell’uomo si esplica in modo completo»). Di qui la prima analogia con il brano di Filone in Vita Mos. 2, 130 che usa un lessico analogo: i due “spiriti” in questione, per Clemente, sono, rispettivamente, quello ἡγεμονικόν e quello σωματικόν e in quest’ultimo rientrano tutte le funzioni corporee. Anche ciò si avvicina molto a quanto Filone aveva detto in Vita Mos. 2, 127, individuando un principio προφορικός, distinto dall’ἡγεμονικόν, cui spetta la competenza su parti del corpo, cioè «lingua, bocca e organi di fonazione». Si può pertanto immaginare che Clemente, in str. 6, 16, 134-136, tenga conto di questa dottrina filoniana. Invece in str. 5, 6, 34 (cf. pp. 182-183) egli prende le distanze da Filone. Il tetragramma per Filone è simbolo della bontà e potenza di Dio, mentre per Clemente il Nome di Dio serve a sancire la superiorità di chi entra nel mondo intelligibile avendo vinto le passioni e poi si concretizza nella discesa del Figlio (38.6 il nome: «vi è iscritto sia a motivo dei comandamenti..., che a causa [διά] della presenza sensibile [αἰσθητὴ παρουσία]» del Signore). Ma la vera differenza tra Clemente e Filone riguarda in realtà le fonti citate. Quando infatti Filone parla dell’ingresso di Mosè negli ἄδυτα del tempio, in Vita Mos. 2, 152-154, offre sostanzialmente una lettura di Lv 9 (infatti in Vita Mos. 2, 153 Filone ricorda l’episodio di Lv 9, 23-24 in cui Mosè fa entrare il fratello nel tabernacolo e in 154 il fatto straordinario delle fiamme uscite improvvisamente dagli ἄδυτα). Clemente invece cita la Lettera ai Filippesi. Inoltre, dalla lettura clementina di Fil 2, 9, si può riconoscere una riflessione sul tema della κένωσις: ciò che nel testo di Filippesi corrisponde allo “svuotamento” divino (Fil 2, 6-7), in quello di str. 5 compare sotto altre spoglie, cioè è sostituito dalla nozione di παρουσία. Mostriamolo graficamente:

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Fil 2, 6-9: , pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, 7. ma svuotò sé stesso (ἑαυτὸν ἐκένωσεν), prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; e, trovato come un uomo nell’aspetto [= apparso in forma umana], 8. abbassò se stesso, divenendo ubbidiente fino alla morte e alla morte di croce. 9. Perciò Dio lo ha sovraesaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome13.

str. 5, 6, 34.7; 38.6: Ma nel mondo intelligibile entra solo colui che è divenuto [sommo sacerdote] dominatore delle passioni, penetrando nella gnosi dell’ineffabile, trascendendo ogni nome (Fil 2, 9) conoscibile con la parola14. Il nome iscritto sulla lamina è ritenuto degno di essere al di sopra di ogni principato e potestà (Ef 1, 21; cf. Fil 2, 9); e vi è iscritto sia a motivo dei comandamenti che sono scritti sia a causa della presenza sensibile (αἰσθητὴ παρουσία) . Ed è detto Nome di Dio15.

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La prima – evidente – differenza da rimarcare, a proposito di questi due testi, è che il brano di Fil 2, 6-9 tratta unicamente del Figlio, mentre quello di str. 5, 6 tratta sia dello gnostico che del Cristo. Ciò detto, e posto che il concetto paolino di κένωσις corrisponde a quanto Clemente definisce αἰσθητὴ παρουσία, perché entrambe le espressioni si riferiscono all’incarnazione, la parte che, nel testo di Filippesi è dedicata alla κένωσις, compare invertita rispetto a quella in cui Clemente tratta della αἰσθητὴ παρουσία. L’Alessandrino nomina infatti prima l’innalzamento ὑπὲρ πᾶν ὄνομα e ὑπεράνω πάσης ἀρχῆς καὶ ἐξουσίας (con riferimento a Fil 2, 9 ed Ef 1, 21), rispettivamente in str. 5, 6, 34.7 e str. 5, 6, 38.6, e soltanto in un secondo momento menziona la αἰσθητὴ παρουσία. Filippesi, invece tratta prima dello “svuotamento” e in secondo luogo dell’“innalzamento” del Cristo. La sostanza del discorso, tuttavia, per lo meno a livello strutturale, non cambia: l’innalzamento ontologico dell’uomo che ascende all’intelligibile, nel testo di str. 5, 6 è giustificato («a causa [διά]», dice infatti Clemente) della «presenza sensibile» del Figlio. Il vero mutamento tra Filippesi e Clemente è la sostituzione della κένωσις con la no ἐν μορφῇ θεοῦ ὑπάρχων οὐχ ἁρπαγμὸν ἡγήσατο τὸ εἶναι ἴσα θεῷ 14 7. ἀλλὰ ἑαυτὸν ἐκένωσεν μορφὴν δούλου λαβών, ἐν ὁμοιώματι ἀνθρώπων γενόμενος· καὶ 15 εὑρεθεὶς ὡς ἄνθρωπος 8. ἐταπείνωσεν ἑαυτὸν γενόμενος ὑπήκοος μέχρι θανάτου, σχήματι θανάτου δὲ σταυροῦ. 9. διὸ καὶ ὁ θεὸς αὐτὸν ὑπερύψωσεν καὶ ἐχαρίσατο αὐτῷ τὸ ὄνομα τὸ ὑπὲρ πᾶν ὄνομα. 14 Per il testo greco cf. p. 134. 15 Per il testo greco cf. p. 138. 13

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IV. Psicologia e passibilità divina 187

zione filosofica dell’αἰσθητὴ παρουσία, che segna un cambio di scenario. Per Clemente non si tratta di introdurre il concetto di incarnazione, quanto piuttosto di esprimere la centralità dell’incarnazione nel regolare il rapporto tra mondo sensibile e intelligibile. Questa cornice, a sua volta, fa eco all’esegesi filoniana che, nel vestimento del sommo sacerdote in Vita Mos. 2, 115-132, vede rappresentata la dualità nell’ordine cosmico e nella composizione dell’uomo (διττὸς γὰρ ὁ λόγος ἔν τε τῷ παντὶ καὶ ἐν ἀνθρώπου φύσει – «duplice è il Logos sia nell’Universo che nella natura umana» – Vita Mos. 2, 127). Si deve pertanto concludere che il testo di Clemente fonde una cornice di matrice filoniana e un contenuto neotestamentario, incentrato sull’incarnazione. La cornice filoniana, a sua volta, risente in parte della filosofia platonica e in parte di tradizioni esegetico-liturgiche fondate sulla teologia del Nome. L’importanza attribuita al tetragramma, che ricorre a inizio e fine della digressione filoniana sulla veste del sommo sacerdote (Vita Mos. 2, 115 e 2, 132), chiaramente non è appannaggio esclusivo della riflessione di Filone. Infatti, riferimenti simili possono essere reperiti nell’Apocalisse di Giovanni (Apoc. 13, 6), presso i valentiniani degli Excerpta (exc. Thdot. 25.1) e in Ireneo (Iren. haer. 3, 6, 2). Dove dunque finisce l’apporto di Filone per lo sviluppo del discorso clementino? Per rispondere a questa domanda riepiloghiamo gli elementi in nostro possesso. Filone e Clemente muovono entrambi dalla teologia del Nome, che funge da cornice per una serie di riflessioni fondamentalmente comuni nell’ambito del platonismo. Per entrambi, infatti, la speculazione teologica sul Nome di Dio è pretesto per trattare della trascendenza dell’intelligibile rispetto al sensibile. Filone contribuisce alla riflessione clementina anche dal punto di vista dei contenuti. Si è infatti visto che, in relazione a Es 3, 14, egli rende la cornice platonica funzionale a esprimere un rapporto uomo-Dio che coinvolge l’uomo, rispettivamente, nel discernimento e nella pratica della verità. Questa congiunzione tra dualismo platonico e teologia del nome divino non è estranea a Clemente, il quale la riprende per ben due volte tra str. 5, 6, 34 e 5, 6, 38 e fondamentalmente la concilia con la specificità della sezione antropologica della sua psicologia in str. 6, 16, 134-136, nel senso che sia in str. 5, 6 che in str. 6, 16 si assiste a un’osmosi tra gradi ontologici differenti: in str. 6, 16 per via della natura ambigua che assume il termine πνεῦμα in ragione della sovrapposizione attuata da Clemente tra un’accezione teologica e una filosofica, e in str. 5, 6 in virtù della centralità del concetto cristiano dell’incarnazione. Ci sono però altri brani scritturistici cui è bene prestare attenzione. In entrambi i passi di str. 5, 6 analizzati (5, 6, 34 e 5, 6, 38), Clemente infatti affianca elementi che richiamano la teologia del Nome

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di Dio a una riflessione incentrata su Fil 2, 9. A quale tradizione, tra le varie che attestano la lettura di Es 3, 14, bisogna rivolgersi per ricostruire la matrice della riflessione clementina relativa a Fil 2, 9? Tra i tanti testi in cui si può trovare traccia della teologia del Nome, uno soltanto si muove coerentemente rispetto a Clemente, cioè quello degli Excerpta ex Theodoto16. Il motivo del Nome menzionato dalla Lettera ai Filippesi compare in exc. Thdot. 25.1 con la stessa terminologia adottata da Clemente a proposito di 1 Re 22, 19 (in str. 5, 6, 36.4), relativa cioè alle potenze di destra e di sinistra, quindi legata al contesto angelologico di exc. Thdot. 43.4 in cui si parlava di «angeli maschi» (o «di destra», appunto, come si dice in exc. Thdot. 23.1). In exc. Thdot. 25.1, peraltro, il «Nome» in questione è propriamente il «tetragramma», come pure in str. 5, 6, 38 e nel De Vita Mosis di Filone (2, 115 e 132). Sembra allora che l’allontanamento di Clemente dal precursore ebreo avvenga lungo un percorso già avviato dai valentiniani che, ben prima di Clemente, avevano meditato su Fil 2, 9, fondamentalmente per la nozione di κένωσις17. Alla luce di ciò emerge che Clemente, all’interno del contesto platonico filoniano, modifica in str. 5, 6 il significato dell’ingresso nella parte segreta del tempio, quella inaccessibile ai più. Per Filone l’ascesa all’intelligibile è possibile all’uomo a condizione della retta percezione della verità e della sua messa in pratica (Vita Mos. 2, 119-130) – per Clemente invece è Dio che fa spazio all’uomo nella sua perfezione. Detto altrimenti, la parte più intima e perfetta della divinità viene resa accessibile all’uomo. L’impassibilità divina è resa umana. Va infine rimarcato, tuttavia, che, sebbene la teologia del Nome funga da denominatore comune tra Filone, i valentiniani degli Excerpta e Clemente, di fatto, nella seconda riproposizione di Es 3, 14, in str. 6, 16, 137.3 l’Alessandrino non farà alcuna menzione né della κένωσις, né di Fil 2, 9. Vedremo lo stesso atteggiamento anche a proposito di altri passi scritturistici e si cercherà di fornirne una spiegazione (cf. pp. 205-224). 16 Gli Excerpta ex Theodoto riprendono Fil 2, 9 in exc. Thdot. 43.4 per esprimere la redenzione di Sophia, pentitasi alla vista degli «angeli maschi». 17 A tal proposito è utile richiamare gli esiti dell’indagine condotta da Matteo Monfrinotti sulla ricezione clementina di Es 3, 14 in str. 5, 6, 34. Sulla base delle ricerche di Daniélou 1958 (riguardante la teologia “giudeo-cristiana”) e Daniélou 1961, lo studioso scorge che l’esegesi di Clemente si distingue da quella di Filone perché è incentrata sul ruolo del Figlio-Verbo nella rivelazione. Di qui conclude: «Egli [cioè Clemente] sembra sottolineare come il Nome indica l’unità di natura e di operazione [corsivo mio] del Padre e del Figlio» e sottolinea che «va tenuto presente che gli gnostici utilizzarono le medesime speculazioni teologiche legando insieme il Nome con la persona del Verbo» (Monfrinotti 2010, p. 104 e nota 53).

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IV. Psicologia e passibilità divina 189

IV.2. La trasformazione dell’orizzonte concettuale platonico Abbiamo visto finora come il nucleo teologico del pensiero clementino si fondi su tre cardini: la reciprocità tra il Figlio-Secondo principio e l’anima razionale (cf. pp. 69-70); la paradossalità dell’azione archetipica del Figlio che consiste nel trapasso di quest’ultimo dall’intelligibile al sensibile; la ricezione del concetto di κένωσις di Fil 2, 6-7. Questi tre elementi esprimono la dinamica dell’incarnazione, come emerge dai due testi che riportiamo di seguito:

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Clem. str. 5, 6, 34.1: Egli [= il Figlio] rivestì la carne rendendosi percepibile ai cinque sensi, Lui, il Logos, rivelatore dei caratteri propri del Padre (τοῦ πατρῴου ἰδιώματος)18. Clem. str. 5, 6, 39.2-3: si dice che l’indumento, la veste talare, alluda (προφητεύειν) all’economia secondo la carne, per la quale è stato reso visibile più da vicino nel mondo. 39.3. Per questo il sommo sacerdote, spogliatosi della tunica santificata... si lava e indossa l’altra tunica, la tunica santa del luogo santo, per così dire, che entra assieme a lui nel santuario19.

Come si vede, entrambi i passi menzionano l’assunzione della carne: dapprima in termini di «economia» (ἡ κατὰ σάρκα οἰκονομία), poi propriamente come «rivestimento» (τὸ ἔνδυμα – simbolizzato dalla veste talare in 5, 6, 39 – in virtù del quale il Logos era stato detto σαρκοφόρος in 5, 6, 34). La differenza principale tra i due testi è che, mentre nel secondo a Clemente interessa descrivere la progressione dal sensibile all’intelligibile, nel primo l’oggetto è la discesa del Figlio, che, a sua volta, rende possibile l’ingresso nell’intelligibile (5, 6, 39)20. Di qui emerge una relazione di reciprocità non soltanto tra Figlio e anima razionale (cf. pp. 69-70), ma più radicalmente tra i concetti di «mondo sensibile» e di «mondo intelligibile». Chi è, infatti, il sacerdote, colui che entra nel tempio? Clemente lo aveva appena chiarito: chi, per mezzo del dominio delle passioni (5, 6, 34.7), ha raggiunto la stessa condizione di cui gode anche l’anima razionale (5, 6, 36.4), cioè chi, da passionale e sensibile, è Αἰσθήσεων πεντάδι σαρκοφόρος γενόμενος, ὁ λόγος ὁ τοῦ πατρῴου μηνυτὴς ἰδιώματος. Φασὶ δὲ καὶ τὸ ἔνδυμα, τὸν ποδήρη, τὴν κατὰ σάρκα προφητεύειν οἰκονομίαν, δι’ ἣν προσεχέστερον εἰς κόσμον ὤφθη. ταύτῃ τοι ἀποδὺς τὸν ἡγιασμένον χιτῶνα ὁ ἀρχιερεὺς... λούεται καὶ τὸν ἄλλον ἐνδύεται ἅγιον ἁγίου ὡς εἰπεῖν χιτῶνα, τὸν συνεισιόντα εἰς τὰ ἄδυτα αὐτῷ. 20 A margine di questi testi, si consideri quanto annota Itter 2009 (sebbene a commento di str. 7, 16, 101 e str. 6, 9, 72), p. 198: «The deification of the human and the incarnation of Christ differ only in the point from which they began, since Christ descended from above, and the gnostic ascended from below». 18 19

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giunto a trovarsi puro come ciò che è intelligibile (5, 6, 36). A questo moto ascensionale dal sensibile all’intelligibile corrisponde l’incarnazione, come si può vedere in 5, 6, 34.1, per mezzo della quale avviene non soltanto il trapasso della dimensione dell’anima razionale nel sensibile, ma propriamente del Figlio stesso in quanto intelligibile nel mondo della percepibilità sensoriale (cf. pp. 137-148). Questa reciprocità tra orizzonte sensibile e intelligibile è ancora più esplicita in 5, 6, 40.2-3, dove Clemente afferma, a proposito di Lv 16, 23-24: Clem. str. 5, 6, 40.2-3 E si toglierà la veste di lino, che aveva indossato entrando nel santuario e la deporrà là. Laverà il suo corpo con acqua in luogo santo, e indosserà la sua veste (Lv 16, 23-24). Secondo un primo significato, sembra, il Signore si spoglia e si riveste scendendo nel mondo sensibile; in un altro senso, colui che crede per Lui si spoglia e si riveste, come rivelò anche l’Apostolo, della veste santificata21.

Bisogna allora concludere che il processo salvifico fondato sulla logica dell’incarnazione implica una trasformazione radicale del modo di intendere il rapporto intelligibile-sensibile. L’orizzonte concettuale viene radicalmente trasfigurato: la perfezione dell’ἐνέργεια – per riprendere il vocabolario tecnico di str. 5, 6 – consiste nel farsi δύναμις affinché la δύναμις divenga ἐνέργεια a sua volta. La stessa idea si trova dichiarata anche in prot. 1, 8.4: «Il Dio compassionevole che desidera salvare l’uomo!... Certo, lo affermo – il Logos di Dio divenuto uomo affinché anche tu finalmente apprenda da un uomo come un uomo diventi Dio»22. E Clemente sembra spingere quest’elaborazione concettuale a conseguenze radicali, perché non c’è nulla che, in linea teorica, impedisca al Primo principio stesso, a Dio Padre, di venire coinvolto in questa dinamica. Lo si può intuire già dalla pericope di prot. 1, 8, ma nel quinto stromate è ancora più chiaro, dal momento che l’Alessandrino afferma esplicitamente che il Logos, in quanto incarnato, rivela i «caratteri propri del Padre» (5, 6, 34.1). Ecco come, infine, Clemente supera l’orizzonte ereditato da Filone: l’ascesa all’intelligibile è per Clemente innanzitutto dono, il dono della parte più intima e perfet21 «Καὶ ἐκδύσεται τὴν στολὴν τὴν λινῆν, ἣν ἐνδεδύκει εἰσπορευόμενος εἰς τὰ ἅγια, καὶ ἀποθήσει αὐτὴν ἐκεῖ. καὶ λούσεται τὸ σῶμα αὐτοῦ ὕδατι ἐν τόπῳ ἁγίῳ καὶ ἐνδύσεται τὴν στολὴν αὐτοῦ» (Lv 16, 23-24) ἄλλως δ’, οἶμαι, ὁ κύριος ἀποδύεταί τε καὶ ἐνδύεται κατιὼν εἰς αἴσθησιν, ἄλλως ὁ δι’ αὐτοῦ πιστεύσας ἀποδύεταί τε καὶ ἐπενδύεται, ὡς καὶ ὁ ἀπόστολος ἐμήνυσεν, τὴν ἡγιασμένην στολήν. 22 Ὁ φιλοικτίρμων θεός, σῶσαι τὸν ἄνθρωπον γλιχόμενος·... ναί φημι, ὁ Λόγος ὁ τοῦ θεοῦ ἄνθρωπος γενόμενος, ἵνα δὴ καὶ σὺ παρὰ ἀνθρώπου μάθῃς, πῇ ποτε ἄρα ἄνθρωπος γένηται θεός.

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IV. Psicologia e passibilità divina 191

ta dell’intelligibile stesso, che, nella figura del suo Primo principio, si apre all’imperfezione sensibile per poterla redimere e farla progredire sino alla sua propria condizione.

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IV.2.1. Cristologia pneumatica L’incarnazione per Clemente scardina un’impalcatura concettuale ereditata da Filone, consistente nella distinzione platonica tra l’intelligibile e il sensibile. Nella trattazione clementina tutto l’intelligibile è coinvolto nel processo di trapasso al sensibile e nemmeno il Primo principio sembra esserne esente. Detto altrimenti, l’incarnazione non concernerebbe esclusivamente il Figlio, ma in qualche modo avrebbe effetti direttamente sul Padre. Del resto già Choufrine, come si è visto (cf. p. 143), definendo il Figlio in rapporto al Padre in termini di infinito in atto, infinito κατὰ τὸ ἀδιάστατον, nota come il rapporto PadreFiglio implichi per Clemente una certa apertura del primo nei confronti del secondo (di qui il concetto di infinito, per quanto si tratti di un’infinità determinata e discreta)23. Quest’impressione è sostenuta anche dal fatto che uno dei concetti fondamentali della dottrina clementina dell’incarnazione, cioè lo spirito del progresso spirituale, dalle Sacre Scritture viene riferito anche al Padre. Procediamo con ordine. Nell’accostare la cristologia di str. 5, 6, Bogdan Bucur recupera il modello della cristologia pneumatica: There seems to be a perfect parallel between the reference to the Spirit and the reference to the Logos: both are introduced as the agent of prophetic inspirations...; both use ἐνεργέω; both designate “what is one”, and each at the same time becomes “what is many”24.

Vi è un’identità funzionale, afferma Bucur, tra Cristo e lo spirito santo25. Il contesto ricevuto da tradizioni liturgiche, come formule di fede etc., diviene oggetto di riflessione teologica da parte di Clemente 23 E, sebbene ciò avvenga in appoggio alla presa di distanza di Whittaker da Osborn (cf. Whittaker 1976, p. 156; cf. Choufrine 2002, p. 195, in particolare nota 169), sarà Osborn stesso tre anni più tardi ad avicinarsi alle posizioni di Choufrine nella sua ultima monografia su Clemente, nel momento in cui riconoscerà presso l’Alessandrino una ricezione di Giovanni che lo porta a supporre che tra il Padre e il Figlio vi sia una reciproca dinamicità (cf. Osborn 2005, p. 150). Similmente Itter 2009 definisce l’approccio di Clemente al tema del rapporto Padre-Figlio «paradoxical or contradictory» (cf. pp. 98-104, in particolare p. 100). 24 Cf. Bucur 2009, p. 76. Cf. anche pp. 79-80. 25 Cf. Bucur 2009, p. 81.

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con esiti simili a quelli che Bucur riconosce nell’Apocalisse di Giovanni, in Giustino e in Afraate26. Nel momento in cui si ha a disposizione il dato di fede (in questo caso la distinzione tra Padre Figlio e spirito santo e la presenza di una gerarchia angelica) e si deve spiegare qualcosa che ne esula, sostiene Bucur, la riflessione di tutti questi autori tende a far convergere Λόγος e Πνεῦμα. Nello specifico Bucur studia il contesto profetico-visionario e nota come tanto l’ispirazione profetica quanto la presenza angelica siano opera del Logos e, indifferentemente, dello Pneuma. Per questo lo studioso parla di binitarismo in termini funzionali: vuol dire che, per quanto distinti, i tre elementi della Trinità, nella loro azione, si comportano come due, cioè da un lato il Padre e dall’altro il Figlio-spirito. Tale è il caso della raffigurazione che Clemente fornisce del mondo intelligibile in 5, 6, in cui si è riconosciuta la cornice della dualità di principi e, ciononostante, la difficile spiegazione di un terzo elemento legato alla condizione pneumatica, che abbiamo riconosciuto essere l’anima razionale platonica (cf. pp. 69-70). Ciò è ancor più evidente in str. 5, 14, 103.1, l’unico passo di tutta l’opera clementina in cui si faccia menzione della «santa Trinità»: Clem. str. 5, 14, 103.1: e perciò, quando dice «Intorno al re di tutto sta tutto e per causa di lui è il tutto ed egli è causa di tutte le cose belle; secondo per le cose del secondo ordine, terzo per le terze» (Pl. Ep. 2, 312 e), io non posso intendere altrimenti che un’indicazione della santa Trinità: terzo è lo spirito santo, secondo il Figlio, per (διὰ) il quale tutto fu fatto (Gv 1, 3) secondo la volontà del Padre27.

Da questo testo si noterà come Clemente distingua nettamente Padre, Figlio e spirito santo e tuttavia sia in grado di riconoscere soltanto due azioni archetipiche, ricavabili da Gv 1, 3 e dalla Seconda Epistola di Platone, cioè il “fare” e il “volere”. Ma come si concilia questa prossimità al platonismo con i problemi derivanti dall’incarnazione? I dati di fede da cui gli autori cristiani partivano erano il principio monoteistico e l’assunzione della carne da parte del Cristo con la conseguenza che bisognava preservarne la divinità. Testi come la 2 Clem. e il Pastore testimoniano lo sforzo dei primi teologi cristiani di mantenere salda la Cf. Bucur 2009, p. 191. Ὥστε καὶ ἐπὰν εἴπῃ «περὶ τὸν πάντων βασιλέα πάντα ἐστὶ κἀκείνου ἕνεκεν τὰ πάντα κἀκεῖνο αἴτιον ἁπάντων καλῶν, δεύτερον δὲ περὶ τὰ δεύτερα καὶ τρίτον περὶ τὰ τρίτα» (Pl. Ep. 2, 312 e), οὐκ ἄλλως ἔγωγε ἐξακούω ἢ τὴν ἁγίαν τριάδα μηνύεσθαι· τρίτον μὲν γὰρ εἶναι τὸ ἅγιον πνεῦμα, τὸν υἱὸν δὲ δεύτερον, δι’ οὗ «πάντα ἐγένετο» (Gv 1, 3)κατὰ βούλησιν τοῦ πατρός. Cf. p. 145. 26 27

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IV. Psicologia e passibilità divina 193

divinità di Cristo supponendo che egli fosse originariamente Πνεῦμα, nella certezza che, secondo Gv 4, 24, «Dio è spirito»28. In Clemente la medesima tendenza binitaria29 si manifesta nel concepire Dio e Πνεῦμα come entità divine originarie, cioè che precedono l’assunzione della carne da parte di Gesù. Può accadere che, in simili contesti, tratti specifici del Figlio coincidano con quelli dello spirito santo30 e potrebbe anche succedere che tratti specifici dell’attività (salvifica) del Figlio coincidano con caratteristiche dello spirito santo31. Di conseguenza, ci si può trovare davanti al paradosso32 per cui, laddove l’attività salvifica del Figlio viene concepita come fondata sull’incarnazione (anche intesa in senso lato, come fa Clemente in str. 5, 6, 34 e 39, cf. p. 189), essa può, in linea di principio, coincidere con l’azione dello spirito santo. Sicché, in tal caso, proprio la natura (pneumatica, se si ritiene che anche in Clemente sia possibile riconoscere questo schema33 – una natura che è anche quella dello spirito santo) della persona divina di Cristo verrebbe a operare nello stesso modo in cui opera il Cristo incarnato34. Certi autori, a partire da queste premesse, sono giunti a intendere in termini cristologici la concezione clementina dell’esperienza profetica35. Altri, invece, estendendo l’idea dell’incarnazione al concetto del progresso, ritengono che lo spirito sia una delle modalità attraverso cui si esplica l’incarnazione, perché progresso dell’uomo è progresso spirituale36. Cf. Simonetti 1972, p. 204 e Dünzl 2007, pp. 21-23. Che, si badi bene, Simonetti è disposto a intendere come dottrina trinitaria, seppure in senso lato e in termini problematici, cf. Simonetti 1972, pp. 230-231. 30 Simonetti, ad esempio, lo mette in evidenza per quei casi in cui il binitarismo è più marcato ed evidente (cf. Simonetti 1972, pp. 227-228, cioè quelli in cui si abbia «abbastanza precisa coscienza del Cristo preesistente come persona divina», non intendendo «affatto in questo modo lo spirito santo»). In tali contesti lo spirito santo è «carisma, dono divino», ma ha anche i tratti tradizionali del «Cristo preesistente». 31 Bucur, ricordiamo, parla di «identità funzionale», cf. Bucur 2009, p. 192. 32 Paradosso che è tale solo dopo che, a partire dalla controversia ariana, ha cominciato a imporsi una riflessione più sistematica sullo spirito santo. 33 Come le recenti ricerche di Bucur sulle cosiddette Ipotiposi clementine hanno mostrato. Cf. Bucur 2006 e Bucur 2007. 34 Si tratta dunque di un’identità d’operazione, non di persona. 35 La cornice è quella delineata da Oeyen 1966, lo studio a cui ci stiamo riferendo è invece quello di Bucur 2009, pp. 142-144. Cf. anche Bucur 2007 e Bucur 2008. 36 Cf. Choufrine 2002, pp. 112-122 (in part. pp. 113-114). La dottrina clementina dell’incarnazione, nella ricostruzione offerta da Choufrine, permette di ravvisare nei padri le radici del concetto di deificazione, quale sarà sviluppato in seguito dalla teologia ortodossa, cf. Choufrine 2002, pp. 7-8. Si potrebbe pensare che parlare di progresso spirituale in Clemente, coinvolga la nozione di spirito-πνεῦμα soltanto in senso lato, cioè in termini così vaghi da non permettere di parlare di Geisteschristologie, come pensa Simonetti 1972, p. 226. In realtà, studi recenti sulla pneumatologia clementina mostra28 29

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Ora, per quanto riguarda il lavoro svolto in questo studio, si è potuto constatare qualcosa di simile a proposito dell’esegesi di Rm 11, 17-24, in cui il concetto di progresso spirituale, introdotto anche per preservare il senso dell’individualità di ciascuno, si traduce nell’immagine dell’innesto in Cristo: con l’innesto, Cristo diviene, per così dire, progresso del singolo: Clemente afferma a tal proposito in str. 6, 15, 120 (cf. p. 60), «lo spirito santo si trapianta e in certo modo si diffonde». L’uso dei termini «Cristo» e «spirito» in tal caso non è finalizzato a descrivere i rapporti intradivini, per cui non si può dire che lo spirito santo si identifica con la persona di Cristo37. Probabilmente, tuttavia, si può intendere questo contesto come una forma, clementina, di cristologia pneumatica: la natura divina del Cristo è spirituale e di tale natura viene in qualche modo reso partecipe anche l’uomo. C’è dunque una cornice cristologica, che consente di comprendere il motivo per cui Clemente definisce ciò che nella sua riflessione corrisponde all’attenzione prestata dai platonici all’individualità «ἰδίωμα χαρακτηριστικόν dello spirito santo», concetto che, per l’Alessandrino, vorrebbe esprimere lo stesso contenuto della sua esegesi di Rm 11, 1724: il progresso dell’uomo come forma dell’incarnazione (un’incarnazione, però, non definita tecnicamente, ma da intendere in senso lato, secondo le modalità dichiarate in str. 5, 6, 34 e 39, cf. p. 189). È inoltre probabile che il concetto di spirito cui Clemente si riferisce in questo tipo di contesti, cioè una riflessione sullo spirito portata avanti assieme a quella sul progresso, nasca da un’allegorizzazione di formule liturgiche battesimali38. Di conseguenza si può vedere come Clemente innesta formule di professione di fede all’interno di una cornice speculativa in cui si riconoscono sviluppi concettuali e teologici. Questa cornice è centrata sull’idea di incarnazione, esplicitata sia in 5, 6, 34 che in 5, 6, 39 (cf. p. 189), che rende possibile il progresso dell’uomo fino alla conno che la nozione del progresso elaborata dall’Alessandrino si sviluppa come allegorizzazione di usi liturgici (formule battesimali) del termine πνεῦμα tali da implicare l’idea di un percorso di purificazione (cf. Dünzl 2000, pp. 117-142) e la testimonianza clementina di una probabile ricezione di passi scritturistici relativi a questo tipo di contesti (Mt 28, 19), del resto, si ha in ecl. 12, 9 (Dünzl 2000, p. 122, cf. anche pp. 127, 138-139). Dünzl 2000 sostiene che per comprendere la concezione clementina delle relazioni intradivine sia necessario tenere conto anche di questi testi, cf. pp. 143-144; 156; 159. Similmente a quanto accade per le formule battesimali, tra II e III secolo tendono a fissarsi anche quelle eucaristiche (e, per la precisione, secondo canoni differenti di regione in regione); su ciò cf. Markschies 2007a, pp. 184-185. 37 Schema che Simonetti faticherebbe a definire “cristologia spirituale” in senso proprio, cf. Simonetti 1972, p. 226. 38 Cf. Dünzl 2000, pp. 117-142; è utile tenere conto anche di Markschies 2007a, pp. 184-185.

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IV. Psicologia e passibilità divina 195

dizione intelligibile e che Clemente intende come azione archetipica del Figlio. Tale azione, che nel testo di Clemente viene espressa con le parole di 1 Cor 12, 11, è letteralmente «spirito santo che agisce» (5, 6, 38.6). Proprio l’identità d’azione tra Figlio e spirito fa della cristologia pneumatica il fattore di continuità tra str. 5 e str. 6, tra la metafisica e l’antropologia di Clemente. È in questo senso che lo πνεῦμα funge da “chiave di volta” dell’idea clementina di incarnazione. In tale prospettiva deve essere considerata anche l’idea clementina del progresso che ricorre nella sezione di str. 5, 11, citata di seguito39. Qui si può riconoscere il nesso πνεῦμα-progresso-incarnazione e il corrispettivo legame con liturgie o pratiche battesimali. È particolarmente significativo il brano di str. 5, 11, 71, dove Clemente recupera quei tre livelli di purificazione che, in str. 5, 6, aveva ricavato dall’interpretazione definita “mistica” della disposizione del tempio giudaico (sezione esterna alla tenda, parte compresa tra la tenda e il velo, tabernacolo). Riportiamo il brano in questione qui di seguito: Clem., str. 5, 11, 70.7 – 71.5: non a torto danno inizio anche ai misteri greci le cerimonie purificatrici (τὰ καθάρσια), come per i barbari l’abluzione. 71.1. Dopo di che seguono i piccoli misteri, che contengono per così dire il fondamento della dottrina e della preparazione ai futuri; poi, appunto, i grandi misteri, riguardanti tutta la vita: e qui non c’è più da imparare, ma da contemplare (ἐποπτεύειν) e meditare (περινοεῖν) profondamente sulla natura e sulla realtà. 71.2. Noi possiamo raggiungere la fase della purificazione tramite la confessione (λάβοιμεν δ’ ἂν τὸν μὲν καθαρτικὸν τρόπον ὁμολογίᾳ)40, quella della contemplazione epoptica ascendendo, mediante l’analisi, verso l’intelligenza prima (τὸν δὲ ἐποπτικὸν ἀναλύσει ἐπὶ τὴν πρώτην νόησιν προχωροῦντες). Si comincia con l’analisi degli esseri che le sono soggetti, astraendone le qualità fisiche, spogliandone la dimensione in profondità, poi quella in larghezza, da ultimo quella in lunghezza. Il segno che resta è la monade che ha ancora, per così dire, una collocabilità (θέσις). Se la spogliamo di tale collocabilità, si ha la monade intelligibile (νοεῖται μονάς). 71.3. Se allora, astraendo da tutte le qualità corporee e dalle cosiddette realtà incorporee, slanciamo noi stessi nella grandezza del Cristo e di qui procediamo in santità verso l’ἀχανές, allora potremo in qualche mo39 Per cui si rimanda a Choufrine 2002, pp. 168-171, il quale la pone in continuità con str. 5, 14. 40 A questo proposito si noti come qui l’ὁμολογία ricorra senza i tratti semantici dell’“escatologia” (intesa sia nel senso di anticipazione in questa vita della beatitudine dell’eschaton sia come conseguenza della scelta di vita), predominante invece nella sua relazione all’anima in str. 4.

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do giungere all’intelligenza (τῇ νοήσει) dell’Onnipotente: conoscendo (γνωρίσαντες) però non ciò che è, ma ciò che non è… 71.5. la grazia della gnosi proviene da Lui attraverso il Figlio41.

Due elementi sembrano avvicinare questo discorso ai contenuti principali dell’intero str. 5, 6. Il primo, si è detto, è il tema messo a fuoco dal brano, che richiama la triplice suddivisione del tempio giudaico. Per Clemente le tre parti del tempio da un lato indicavano tre gradi di purezza e dall’altro congiungevano assieme mondo sensibile e intelligibile42. Ora, appunto, il processo (di purificazione), che in str. 5, 6 era posto tra intelligibile e sensibile, ritorna anche in 5, 11, sebbene qui esso sia deducibile non dalle tre tappe come avveniva nel sesto capitolo, ma dalla menzione di due passaggi: la κάθαρσις e l’ἀνάλυσις. L’ἀνάλυσις implica un’intrinseca “processualità” e allo stesso modo la κάθαρσις – introdotta da Clemente tramite il parallelismo con l’abluzione in uso nei culti misterici greci – allude a qualcosa che si deve ottenere, prendere (λαμβάνειν è il verbo usato in str. 5, 11, 71.2). Uno sviluppo processuale implica il progresso, cioè uno dei cardini dell’antropologia alessandrina che si oppone alla distinzione dei gradi ontologici previsti da quella più propriamente “gnostica”, e il fatto che Clemente insista su questo tema fa pensare che egli stia confutando determinate dottrine gnostiche43. Il secondo elemento per cui è possibile effettuare il paragone tra le sezioni di str. 5, 6 e str. 5, 11-14 è il fatto che i due processi progressivi di κάθαρσις e ἀνάλυσις implicano una dualità di principi. Poco oltre, infatti, essa compare con le rispettive denominazioni di «causa prima» (5, 11, 71.5), «immenso» (ἀχανές, cf. 71.3), e, seppur indirettamente, di «Cristo» (5, 11, 71.3), «Figlio» (5, 11, 71.5). Anche quest’ultimo ha una 41 Οὐκ ἀπεικότως ἄρα καὶ τῶν μυστηρίων τῶν παρ’ Ἕλλησιν ἄρχει μὲν τὰ καθάρσια, καθάπερ καὶ τοῖς βαρβάροις τὸ λουτρόν. μετὰ ταῦτα δ’ ἐστὶ τὰ μικρὰ μυστήρια διδασκαλίας τινὰ ὑπόθεσιν ἔχοντα καὶ προπαρασκευῆς τῶν μελλόντων, τὰ δὲ μεγάλα περὶ τῶν συμπάντων, οὗ μανθάνειν έτι ὑπολείπεται, ἐποπτεύειν δὲ καὶ περινοεῖν τήν τε φύσιν καὶ τὰ πράγματα. λάβοιμεν δ’ ἂν τὸν μὲν καθαρτικὸν τρόπον ὁμολογίᾳ, τὸν δὲ ἐποπτικὸν ἀναλύσει ἐπὶ τὴν πρώτην νόησιν προχωροῦντες, δι’ ἀναλύσεως ἐκ τῶν ὑποκειμένων αὐτῷ τὴν ἀρχὴν ποιούμενοι, ἀφελόντες μὲν τοῦ σώματος τὰς φυσικὰς ποιότητας, περιελόντες δὲ τὴν εἰς τὸ βάθος διάστασιν, εἶτα τὴν εἰς τὸ πλάτος, καὶ ἐπὶ τούτοις τὴν εἰς τὸ μῆκος· τὸ γὰρ ὑπολειφθὲν σημεῖόν ἐστι μονὰς ὡς εἰπεῖν θέσιν ἔχουσα, ἧς ἐὰν περιέλωμεν τὴν θέσιν, νοεῖται μονάς. Εἰ τοίνυν, ἀφελόντες πάντα ὅσα πρόσεστι τοῖς σώμασιν καὶ τοῖς λεγομένοις ἀσωμάτοις, ἐπιρρίψαιμεν ἑαυτοὺς εἰς τὸ μέγεθος τοῦ Χριστοῦ κἀκεῖθεν εἰς τὸ ἀχανὲς ἁγιότητι προΐοιμεν, τῇ νοήσει τοῦ παντοκράτορος ἀμῇ γέ πῃ προσάγοιμεν , οὐχ ὅ ἐστιν, ὃ δὲ μή ἐστι γνωρίσαντες· … ἡ χάρις δὲ τῆς γνώσεως παρ’αὐτοῦ διὰ τοῦ υἱοῦ. 42 Lo stesso motivo viene ripreso anche in 6, 90.4: la separazione di intelligibile e sensibile viene allenata dalla geometria che aiuta a separare il vero dal falso. 43 Analogamente anche Choufrine 2002.

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IV. Psicologia e passibilità divina 197

funzione archetipica dal momento che, afferma Clemente, «la grazia della gnosi proviene da Lui attraverso il Figlio» (5, 11, 71.5). Va infine notata, nel progresso dell’anima, una soglia ulteriore che, come l’entrata nel Santo dei santi di str. 5, 6 (preclusa ai più e prevista solo per chi abbia ottenuto lo statuto del sommo sacerdote, cioè la natura intelligibile, caratteristica dell’anima razionale), richiede il raggiungimento dello statuto di monade intelligibile (lett. lo stato in cui la monade è oggetto di intellezione – 5, 11, 71.3 –). A tal proposito ora Clemente parla di «slancio nella grandezza di Cristo», in direzione dell’immenso, dell’ἀχανές: «Se allora, astraendo da tutte le qualità corporee e dalle cosiddette realtà incorporee, slanciamo noi stessi nella grandezza del Cristo e di qui procediamo in santità verso l’ἀχανές, allora potremo in qualche modo giungere all’intelligenza dell’Onnipotente». Accanto ai due principi (Padre e Figlio), qui si può riconoscere anche la terza realtà, che adesso è detta «monade», mentre poco oltre sarà definita totalità unitaria del mondo intelligibile44, con uno statuto ontologico analogo a quello dell’anima razionale45. Il testo sopracitato, dunque, non solo è coerente con quello di str. 5, 6, ma ne è in qualche modo complementare: racconta come, in un contesto segnato da due azioni archetipiche, si possa ascendere dal sensibile all’intelligibile. Posta la continuità tra str. 5, 6 e str. 5, 11, prendiamo ora in esame la funzione che, in tutto ciò, ricoprono l’incarnazione e lo πνεῦμα. Partiamo dal Figlio: in che cosa consiste la sua azione in quanto principio? Bisogna guardare a ciò che separa l’adempimento della κάθαρσις dal raggiungimento dello stadio successivo e cioè bisogna guardare all’ἀνάλυσις. A tal proposito, infatti, il testo di str. 5, 11, 71.2 è esplicito: se l’azione del Figlio si esplica in tale processo, si può dire che il Figlio consente l’ascensione «mediante l’analisi (ἀνάλυσις) verso l’intelligenza prima». In altri termini l’attività archetipica del Figlio rende possibili conoscenza (gnosi) e intellezione46. Ora, il concetto di 44 Ciò avviene in str. 5, 14, cioè in un capitolo che Arkadi Choufrine legge in diretta continuità con l’undicesimo (cf. Choufrine 2002, pp. 167-170). Qui Clemente afferma (Clem. str. 5, 14, 93.4): «La filosofia barbara poi conosce un mondo intelligibile e un mondo sensibile, l’uno come archetipo, l’altro immagine del così detto esemplare (παράδειγμα); e attribuisce il primo alla monade, in quanto intelligibile». Su questo passo, cf. Congourdeau 2007, p. 97. 45 Clemente fa dipendere dall’accostamento di Gen 1, 1-3 e dottrina della monade come mondo intelligibile l’insufflazione dell’anima razionale nell’uomo. Cf. Clem. str. 5, 14, 94.3: «È quindi logico che Mosè affermi che il corpo fu plasmato di terra... mentre l’anima razionale (λογικὴ ψυχή), dall’alto, fu da Dio soffiata in viso (Gen 2, 7)». 46 Il testo di str. 5, 11, 71.3 si chiude infatti così: «Se allora, astraendo da tutte le qualità corporee e dalle cosiddette realtà incorporee, slanciamo noi stessi nella grandezza del Cristo e di qui procediamo in santità verso l’ἀχανές, allora potremo in qualche

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gnosi cui Clemente sta pensando era stato poco sopra reso esplicito nella definizione di «cibo razionale» (in str. 5, 11, 70.1), che richiamava la riflessione appena conclusa (in str. 5, 10, 66.347) sul concetto di ἐποπτεία (lett. ἐποπτικὴ θεωρία)48, termine centrale per la riflessione clementina anche nel passo di str. 5, 11 che stiamo considerando. Nel definire la contemplazione epoptica, Clemente l’aveva chiamata «sangue del Logos», accostandola alla catechesi, propriamente «carne» del Logos. Ora, in questo passo di str. 5, 10, 66 la gnosi era stata detta «“mangiare” e “bere” dal divino Logos» e dunque l’incarnazione49, ancora una volta, veniva ad essere cardine per l’attività dell’anima che aveva raggiunto lo stadio del massimo progresso. Ma l’incarnazione nell’anima progredita fino alla condizione perfetta era stata descritta come evento spirituale: «Egli fa partecipi di se stesso», afferma Clemente, «quanti, in modo più spirituale (πνευματικώτερον), prendono in comune questo cibo». Se il contesto è quello del progresso come luogo dell’incarnazione – sia pure intesa in senso lato –, bisogna prestare attenzione all’uso del termine πνεῦμα. Questo concetto, di fatto, qui viene impiegato nello stesso momento in cui Clemente descrive una delle possibili modalità in cui avviene l’incarnazione. E sebbene l’espressione «in modo più spirituale» sembri fare un uso vago e non tecnico del termine spirito50, in realtà la riflessione sul progresso spirituale, come si è visto (cf. pp. 54-61 e poco sopra, p. 194), ne ha alle spalle una su precisi passi scritturistici, quali per esempio Rm 11, 1724, che implica in certa misura una determinata pneumatologia. A una simile espressione, pertanto, può essere attribuita una valenza teologica, ravvisabile all’interno di una cornice di cristologia pneumatica.

modo giungere all’intelligenza (νόησις) dell’Onnipotente: conoscendo (γνωρίζειν) però non ciò che è, ma ciò che non è». 47 Un altro passo in cui Clemente si era posto il problema della κατάληψις dell’anima, proprio come in str. 6, 16, 134-136. 48 Richiamiamo qui il testo di str. 5, 10, 66.2-3 (cf. p. 150): «Se dunque il latte è detto dall’apostolo nutrimento dei piccoli e il cibo solido degli adulti, latte dovrà intendersi la catechesi, quale primo nutrimento dell’anima, e cibo solido la contemplazione epoptica (ἐποπτικὴ θεωρία). Queste due cose sono “carne” e “sangue” del Logos, cioè comprensione (κατάληψις) della divina potenza e sostanza (οὐσία) 66.3. Egli fa partecipi di se stesso a quanti, in modo più spirituale (πνευματικώτερον), partecipano di tale cibo, quando cioè l’anima ormai nutre da sola se stessa... “mangiare” e “bere” dal divino Logos è la “gnosi” della divina sostanza (οὐσία)». 49 Intendendo questo termine sempre in senso lato, secondo str. 5, 6, 34 e 39 (cf. p. 189), brani collocati in un contesto di riflessione sul progresso spirituale come passaggio dalla dimensione sensibile a quella intelligibile. 50 E pertanto, secondo Simonetti, non possa essere configurato a pieno titolo in un contesto di “cristologia pneumatica” cf. Simonetti 1972, p. 226.

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Di qui si può dire che il brano di str. 5, 11, 70-71 è rilievante per due ragioni. Innanzitutto perché evidenzia il ruolo centrale di quest’idea complessa di incarnazione anche nel descrivere le azioni archetipiche di Padre e Figlio come precedenti, distinti momenti del progresso stesso dell’anima verso lo statuto intelligibile. Si riconferma l’idea che essere principio, per Clemente, significa fondamentalmente condividere la propria superiorità ontologica con ciò che è sottoposto. L’incarnazione, allora, fa sì che la dimensione della divinità sia resa accessibile all’uomo e non più prerogativa esclusiva di Dio. La seconda motivazione è il fatto che il progresso dell’uomo come modalità in cui si realizza una certa accezione (pur non tecnica) dell’incarnazione è un evento innanzitutto pneumatologico, e ciò emerge da contesti liturgici legati a pratiche eucaristiche (str. 5, 10, 66) o battesimali (str. 5, 11, 70-71). Pertanto l’orizzonte platonico, che regola la percezione di qualsiasi intellettuale della Tarda Antichità, in Clemente non si scinde da quello della prassi. Una prassi che porta in seno gli elementi che condurranno oltre le speculazioni filoniane e scardineranno di fatto i canoni del platonismo tradizionale. L’immediata conseguenza di tale legame di liturgia e filosofia è che, per Clemente, la conoscenza mistica (contemplazione epoptica) non confligge con quella filosofica (sia essa da collocarsi nella fase che l’Alessandrino chiama della “purificazione” o in quella della cosiddetta “analisi”, se si segue la terminologia di str. 5, 11, 71), ma anzi vi si affianca e la porta a compimento. Similmente accade per la nozione di spirito, in merito alla quale si sono viste mescolate assieme una concezione filosofica e una teologica, o per l’escatologia, in cui un’idea religiosa e filosofica (affrancamento dell’anima dalla compromissione con la materia) è accostata al modello giovanneo della realizzazione in questa vita della beatitudine finale. IV.2.2. Dio è spirito. La kenosis del Padre Da quanto si è visto nel paragrafo precedente pneumatologia e incarnazione, in Clemente, sembrano intimamente connesse tra loro. Ciò pare costituire un assunto fondamentale per l’Alessandrino, tale da sovvertire la percezione del rapporto tra intelligibile e sensibile. Clemente concepisce il nesso intelligibile-sensibile secondo categorie teologiche che mettono al centro la nozione di πνεῦμα e l’evento dell’incarnazione. Quest’impressione deve essere corroborata o smentita da un’operazione di verifica; si deve provare a vedere se e in che

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modo lo spirito, cardine della concezione clementina di incarnazione, concerne anche il Primo principio, ossia, nell’orizzonte teologico clementino, Dio Padre. In che misura, pertanto, «Dio è spirito»? Per cominciare è bene innanzitutto valutare l’esegesi clementina di Gv 4, 24, ossia l’idea per cui «Dio è spirito». In tutta l’opera di Clemente, due sono le occorrenze rilevanti di Gv 4, 24: si tratta di exc. Thdot. 17.3 e del frammento nr. 39, appartenente al cosiddetto De Providentia51. Il primo testo è importante perché permette di restringere ulteriormente la cerchia dei possibili interlocutori di Clemente in str. 5, 6 e str. 5, 10-11 e il secondo perché consente di cogliere come la pericope giovannea compaia nella cornice della ricezione – tutto sommato aderente a quella tradizionalmente diffusa nelle scuole platoniche dell’epoca – di Ti. 30 a, brano “canonico” per spiegare i rapporti tra intelligibile e sensibile. Prendiamo dunque in esame dapprima il passo degli Excerpta ex Theodoto, cercando di evidenziarne gli aspetti rilevanti per gli argomenti trattati negli Stromati: Clem. exc. Thdot. 17: secondo i valentiniani Gesù, la Chiesa e Sophia sono una κρᾶσις δι’ ὅλων52, in potenza (δυνατή), dei corpi. 17.2. La μίξις53 umana del matrimonio porta a compimento la genesi di un bambino da due semi mescolati, e il corpo si mescola (κέκραται), disciolto nella terra, alla terra e l’acqua al vino; ma i corpi migliori e più forti possiedono una facile κρᾶσις: infatti lo spirito si mescola (μίγνυται) allo spirito. 17.3. Ma mi sembra che ciò avvenga secondo παράθεσις e non secondo κρᾶσις. La potenza divina che pervade l’anima non la santifica in vista del progresso perfetto? Perché Dio è spirito, soffia dove vuole (Gv 4, 24; 3, 8). La potenza infatti non pervade secondo sostanza, ma secondo potenza e forza; e lo spirito [inteso come spirito santo o divino] si affianca (παράκειται) allo spirito, come lo spirito all’anima54.

Il primo elemento a emergere è il fatto che la partecipazione al divino (in tal caso partecipazione della Chiesa alla Sapienza di Cristo) 51 Accanto a esse, se si vuole, si può poi ricordare il vago e indiretto riferimento a Gv 4, 23-24 di str. 1, 6, 34.1 («E se tu preghi nella tua stanza, come ha insegnato il Signore, in adorazione di spirito»), in cui tuttavia non compare alcuna menzione della definizione di Dio come spirito. 52 Concetto tecnico anche stoico. 53 Concetto aristotelico. 54 Ἔστιν Ἰησοῦς καὶ ἡ Ἐκκλησία καὶ ἡ Σοφία δι’ὅλων κρᾶσις τῶν σωμάτων δυνατὴ κατὰ τοὺς Οὐαλεντινιανούς. Ἡ γοῦν ἀνθρωπίνη μίξις ἡ κατὰ γάμον ἐκ δυεῖν μεμιγμένων σπερμάτων ἑνὸς γένεσιν παιδίου ἀποτελεῖ, καὶ τὸ σῶμα εἰς γῆν ἀναλυθὲν κέκραται τῇ γῇ καὶ τὸ ὕδωρ τῷ οἴνῳ· τὰ δὲ κρείττω καὶ διαφορώτερα σώματα ῥᾳδίαν ἴσχει τὴν κρᾶσιν· πνεῦμα γοῦν πνεύματι μίγνυται. Ἐμοὶ δὲ δοκεῖ κατὰ παράθεσιν τοῦτο γενέσθαι, ἀλλ’ οὐ

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viene concettualizzata con il vocabolario della δύναμις e dell’οὐσία, nel senso che Clemente qui rifiuta si possa avere una partecipazione di carattere sostanziale/essenziale al divino, preferendo una di tipo potenziale. Allo stesso modo era stata presentata l’incarnazione in str. 5, 10, 66, dove Clemente aveva descritto il progresso dell’anima in termini appunto di incarnazione55, e aveva parlato di «comprensione della divina δύναμις e οὐσία»56. In secondo luogo, la coppia Figlio-anima razionale di str. 5, 6, proprio per il fatto che la relazione tra Figlio e anima era regolata da un rapporto di atto-potenza (cf. III.3.1.), ricorda la critica che Clemente muove alla sizigia Sophia-Chiesa in exc.Th. 17.3. Qui, infatti, Clemente afferma a chiare lettere l’impossibilità di avere un legame sostanziale con lo spirito santo perché quest’ultimo aiuta e sostiene, ma non si sostituisce al libero arbitrio e pertanto l’unione con lo spirito sarà sempre un processo da portare a compimento o, detto tecnicamente, una potenza da attualizzare. A ciò si aggiunga la natura paradossale del rapporto δύναμις-ἐνέργεια che l’Alessandrino propone sempre nel sesto capitolo del quinto stromate, tale cioè che lo statuto dell’ἐνέργεια si traduce in un farsi a sua volta δύναμις, richiamando così il moto kenotico implicito nel mito gnostico della redenzione di Sophia decaduta. L’idea che Clemente cerca di veicolare in str. 5, 6, infatti, è quella secondo cui essere perfetto significa farsi imperfetto al fine di poter accompagnare l’imperfetto alla perfezione. E sempre di “accompagnamento” tratta Clemente in exc. Thdot. 17. Soffermiamoci infatti sulla soluzione proposta dall’Alessandrino, alternativa al concetto valentiniano di incarnazione come κρᾶσις. Clemente parla di παράθεσις, affiancamento, che, nel contesto di quell’ἐνέργεια paradossale di cui si è parlato, ben si addice all’idea di qualcosa di perfetto che accompagna ciò che è imperfetto al raggiungimento del suo κατὰ κρᾶσιν. Μή τι οὖν ἡ θεία δύναμις διήκουσα τὴν ψυχὴν ἁγιάζει αὐτὴν κατὰ τὴν τελευταίαν προκοπήν; «Ὁ γὰρ Θεὸς πνεῦμα, ὅπου θέλει πνεῖ» (Gv 4, 24; 3, 8)· ἡ γὰρ δύναμις οὐ κατ’οὐσίαν διήκει, ἀλλὰ κατὰ δύναμιν καὶ ἰσχύν· παράκειται δὲ τὸ Πνεῦμα τῷ πνεύματι, ὡς τὸ πνεῦμα τῇ ψυχῇ. 55 Affermando che la catechesi è carne del Logos, mentre la contemplazione epoptica ne è sangue, e dunque allegorizzando in termini di incarnazione la pratica liturgica dell’eucaristia. 56 Su questa coppia di concetti cf. Hägg 2006, in particolare pp. 232-237 e 260-268. L’autore è tornato a insistere su questo punto scoprendo, in Clemente, la medesima dinamica potenza-sostanza; questo risultato è importante, perché si aggiunge alle precedenti posizioni di Bos (Bos 1998), il quale, in un articolo sulle potenze del­ l’anima in Filone, le aveva dimostrate opposte alla dimensione dell’οὐσία. Il binomio potenza-atto, in altri termini, si trova espresso da una terminologia non univoca: ora δύναμις-ἐνέργεια e ora δύναμις-οὐσία.

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medesimo stato. Questo termine è raro nell’opera di Clemente: se ne contano in tutto quattro occorrenze ed è significativo che una di queste sia in str. 5, 6, 35.3 (per esprimere l’ostensione delle offerte al tempio), all’interno di una cornice concettuale marcata sì dal platonismo delle esegesi filoniane, ma anche da elementi provenienti da contesti liturgici e interiorizzati con le categorie della cristologia pneumatica che in qualche modo ne modificano i contenuti. Dunque sviluppo della cristologia pneumatica e modifica delle nozioni di atto e potenza sembrano procedere parallelamente, costituendo il materiale con cui Clemente formula una risposta a dottrine valentiniane. E Gv 4, 24, che negli exc. Thdot. è il punto di partenza per tutte queste riflessioni di Clemente, diventa allora il perno su cui tale risposta fa leva, permettendo di vedere come l’idea di un coinvolgimento di tutto l’intelligibile – Primo principio incluso – nel moto di «farsi potenza» sia in realtà fondata sulla lettura e la meditazione del testo sacro. Se infatti l’elemento pneumatologico sembra cruciale per comprendere a pieno le accezioni, se si vuole meno tecniche ma comunque non secondarie per il pensiero di Clemente, della sua idea di incarnazione, allora, poiché Dio Padre stesso è Π/πνεῦμα, l’incarnazione non può lasciarlo indifferente. Ora, Clemente non giunge mai a coinvolgere anche il Padre nell’incarnazione – la sua non è una teologia “sabelliana” –, tuttavia nella συμπάθεια di cui si è parlato in II.2.2.1 si è potuto immaginare quanto “dinamica” sia la perfezione attribuita dall’Alessandrino a Dio, Primo principio. Passiamo adesso al fr. 39, del cosiddetto De Providentia, importante perché lega il passo giovanneo sia al contesto metafisico sia a quello antropologico: Clem. De Prov. fr. 39: che cos’è Dio? Dio è, come dice il Signore, spirito (Gv 4, 24). Propriamente, spirito è una sostanza incorporea e incircoscrivibile (non circoscritta). Incorporeo è ciò che non è riducibile al corpo, o la cui essenza non si misura in larghezza, lunghezza e profondità. Incircoscrivibile (non circoscritto) è ciò che non occupa nessun luogo, l’intero dovunque in tutto e in ciascuno e, il medesimo, in sé stesso57.

Come premesso, in questo frammento sono veicolate due nozioni, entrambe di rilievo per gli argomenti trattati negli Stromati. La prima è il concetto di ἀπερίγραπτος θεός, cioè del paradossale “luogo di 57 Τί θεός; θεός ἐστιν, ὡς καὶ ὁ κύριος λέγει, πνεῦμα. πνεῦμα δέ ἐστι κυρίως οὐσία ἀσώματος καὶ ἀπερίγραπτος. ἀσώματον δέ ἐστιν ὃ μὴ συμπληροῦται σώματι, ἢ οὗ τὸ εἶναι οὐκ ἔστι κατὰ τὸ πλάτος, μῆκος καὶ βάθος. ἀπερίγραπτον δέ ἐστιν, οὗ τόπος οὐδείς , τὸ κατὰ πάντα ἐν πᾶσιν καὶ ἐν ἑκάστῳ ὅλον καὶ ἐφ’ ἑαυτοῦ τὸ αὐτό.

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tutto, che non occupa alcun luogo”; esso richiama la definizione di Dio data in str. 5, 6, 36.3 cioè del Dio «senza forma e invisibile, che abbraccia tutte le cose». Ciò corrisponde, a sua volta, alla declinazione clementina del problema medioplatonico, relativo al testo di Ti. 30, dell’unitarietà del mondo intelligibile (cf. pp. 141-142), che torna nuovamente in str. 7, 5, 28-2958. Il secondo concetto qui espresso è quello di un intero ἐν πᾶσιν καὶ ἐν ἑκάστῳ, e cioè il tratto caratteristico dello πνεῦμα in str. 5, 13, 88, vale a dire nella quarta e ultima promessa di un futuro approfondimento relativo al tema dell’anima, che Clemente sviluppa, nel corso di str. 6, riferendosi all’individuazione. Anche la ricorrenza di Gv 4, 24 in fr. 39 De Prov., pertanto, è tutt’altro che marginale nell’ambito del pensiero di Clemente. Posta l’importanza per Clemente dell’idea giovannea secondo cui «Dio è spirito», ricavabile da queste due sezioni della sua opera e dal ricorrere dei temi ivi trattati nei passi degli Stromati decisivi sotto il profilo della dottrina dell’anima59, ne traiamo tre considerazioni. In primo luogo, nei due contesti principali in cui Clemente tematizza la psicologia, str. 5, 6 e str. 6, 16, 134-136, l’Alessandrino sembra presupporre che «Dio è spirito». In secondo luogo quest’idea sembra emergere dal confronto con lo gnosticismo valentiniano e ha una matrice cristologica (perché exc. Thdot. 17 concerne il rapporto Cristo-Chiesa) implicante, per elaborare le idee di sfera sensibile (Cristo) e sfera intellegibile (umanità in progresso nella Chiesa), l’adozione delle nozioni aristoteliche di «potenza» e «atto»60 in modo tale che la superiorità ontologica dell’atto consista in un adeguamento alla potenza, in un suo affiancamento ad es58 Cf. Clem. str. 7, 5, 28.1 – 29.2: Non siamo forse davvero nel giusto se diciamo di non poter circoscrivere in alcun luogo l’Inafferrabile né rinchiudere in templi costruiti da mano d’uomo (At 17, 24) Colui che tutto è capace di contenere?... E che cos’è che può essere collocato, se niente è senza collocazione poiché ogni cosa è in un luogo? Invero ciò che è posto è collocato da qualcuno, essendo prima senza collocazione. Ora, se Dio è posto da uomini, prima era senza collocazione, cioè non era affatto... Resta quindi che sia posto da se stesso. E come può una cosa in sé generare se stessa? Ossia come ciò che è in sé porrà se stesso nell’essere? Forse si pose essendo prima senza collocazione? Ma allora nemmeno sarebbe poiché ‹solo› ciò che non è, è senza collocazione. E come potrà in seguito creare in sé la condizione che si definisce esser posto, se già a priori la possedeva perché è? E Colui al quale appartiene ciò che è, come potrebbe aver bisogno di qualcosa? 59 Il rapporto tra primi principi, tema del De Prov. fr. 17, viene infatti messo a fuoco nel corso di tutto str. 5, 6 (qui spiegato nel corso del cap. III) e quello della partecipazione al divino è affrontato, oltre che nella quarta promessa di approfondimento sull’anima – cf. p. 48 –, nella sezione antropologica di str. 6, 16, 134-136 (di cui abbiamo trattato nel cap. II). 60 Si consideri che già per i valentininani degli exc. Thdot. il rapporto CristoChiesa risulta una «κρᾶσις... in potenza (δυνατή)». Clemente non contesta il fatto che

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sa finalizzato a guidarla a divenir atto a sua volta. Infine la peculiariatà di questa sezione della teologia clementina, nel contesto del platonismo dell’epoca, consiste nel fatto che tutta la sfera intelligibile, Primo principio incluso, in quanto intelligibile, è coinvolta in questo moto e l’esegesi di Gv 4, 24 conferma quanto ciò sia saldamente ancorato nella riflessione giovannea. Che conseguenze ne derivano? In parte esse riguardano l’antropologia tripartita del Pedagogo, in cui la dottrina clementina dell’anima presupponeva l’idea di un Deus patiens, o meglio di un συμπαθὴς θεός, un concetto che l’Alessandrino stesso riconosce come gnostico e che, in exc. Thdot. 30.1, condanna. In realtà quest’idea è tutt’altro che accidentale per Clemente e ritorna anche in un importante passo del Quis dives salvetur, che conviene ora analizzare. Il Quis dives salvetur è un’operetta completa, destinata a cristiani “progrediti”. Clemente vi chiarisce come costoro siano «seme eletto»61 (q.d.s. 36), con intento antivalentiniano, ad esegesi di Gen 1, 26-27: sono eletti, cioè, in quanto giunti alla perfezione e non in senso ontologico. A questo tipo di uditorio l’Alessandrino indirizza l’invito a procedere verso lo stadio più elevato della contemplazione, a passare dalla θεωρία alla «contemplazione epoptica». Ora, si noti innanzitutto come questo accenno polemico antivalentiniano sia coerente con i presupposti antropologici e metafisici della dottrina clementina dell’anima. Se la psicologia di str. 6, infatti, serviva a elaborare un accesso al divino potenzialmente universale, qui Clemente si rivolge a coloro, che, tra i tanti potenzialmente perfetti, sono i più progrediti. Essi infatti sono l’uomo creato a immagine, progredito fino alla condizione della somiglianza. Ma alla condizione di somiglianza con Dio, esattamente come a colui che, giunto all’apice del progresso, veniva reso possibile l’ingresso nel Santo dei santi, spetta la «visione epoptica»: «Contempla (θεῶ) i misteri dell’amore», invita Clemente, «e vedrai [lett. avrai contemplazione epoptica – ἐποπτεύσεις] il seno del Padre (cf. Gv 1, 18), verso cui solo il Dio unigenito ha mostrato la strada (ἐξηγήσατο). Dio stesso è amore (cf. 1 Gv 4, 8) ed è stato contemplato (ἐθεάθη) da noi grazie all’amore»62. L’Alessandrino ora sta esplicitando la partecipazione a Cristo sia potenziale, ma semplicemente che, se la si deve intendere come tale, è necessario non parlare di κρᾶσις. 61 Così interpreta anche Nardi 1985, in particolare pp. 273-274. Qui Clemente parla degli “eletti” in termini cristologici: ciò va inteso soltanto in senso lato e nel serrato confronto con lo gnosticismo valentiniano. 62 L’espressione di Gv 1, 18, ricorre anche in str. 5, 12, 81.3 (ma per una panoramica generale sull’uso clementino di quest’immagine si veda Itter 2009, pp. 166-172).

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il contenuto di ciò che vede colui che, progredito alla maniera di str. 6, 16, secondo i canoni della sua antropologia, entra nel Santo tabernacolo del tempio, nel mondo intelligibile, descritto in modo coerente rispetto a quanto teorizzato in str. 5, 6. Qual è dunque il contenuto della visione epoptica? Clemente afferma esplicitamente: «La parte ineffabile di lui è Padre, l’altra, che ha provato com-passione verso di noi, divenne Madre. Il Padre, poiché ha amato, è diventato femmina ed è un grande segno di ciò, colui che egli stesso ha generato da sé; e il frutto, generato dall’amore, è amore»63. In un contesto che si propone come alternativo a quello valentiniano, l’Alessandrino adotta un lessico che negli Excerpta è egli stesso a riconoscere come valentiniano. Questa forma mentis appartiene pertanto ai contenuti più propri del suo pensiero in quanto formatosi nel milieu alessandrino: è il cardine attorno a cui si costruisce la sua dottrina dell’anima, che ha alle spalle una meditazione sull’incarnazione e una precisa ricezione di Giovanni, nello specifico dell’idea per cui «Dio è amore» (1 Gv 4, 8) e «Dio è spirito» (Gv 4, 24). IV.3. Spirito vs. angelo Torniamo ora a str. 6, 16, 134-136, in cui si trovano i contenuti più originali della psicologia di Clemente, al fine di indagarne le rilevanze teologiche e ricostruire, anche per l’antropologia clementina, la cornice dottrinale retrostante. Per apprezzare le peculiarità dell’antropologia di questo passo lo si può confrontare con altri dell’opera dell’Alessandrino concernenti lo stesso tema. È la presa di distanza da un contesto angelologico e il mutamento di interpretazione di Gen 1, 26-27. Qui Clemente menziona «alcuni (τινές)» che «lo [= il seno del Padre, componente invisibile e ineffabile (τὸ ἀόρατον καὶ ἄρρητον) di Dio] hanno chiamato abisso». Gli studiosi, a partire dall’editore Stählin, vi hanno riconosciuto una fonte filoniana (De confusione linguarum, 137; si veda in proposito Orbe 1966, p. 84). Recentemente è stato proposto che Clemente potesse aver alluso agli gnostici (cf. García-Bazán 2010, pp. 150-151). Quest’ultima ipotesi è più probabile alla luce della ricorrenza del tema del seno ineffabile (termine che, secondo García-Bazán 2010 p. 150, contraddistingue la trattazione clementina di quest’immagine rispetto a quella dello Ps. Dionigi) del seno Padre anche nel Quis dives salvetur, peraltro con un verbo (θηλύνω) attestato ai valentiniani da Epifanio in haer. 31, 5.5: ἡ ἄφθαρτος αἰώνια βουληθεῖσα δεσμὰ ῥῆξαι ἐθήλυνε τὸ Μέγεθος ἐπ’ὀρέξει ἀναπαύσεως αὐτοῦ (per un commento si veda Simonetti 1993, p. 456). 63 Clem. q.d.s. 37.2-3: τὸ μὲν ἄρρητον αὐτοῦ πατήρ, τὸ δὲ εἰς ἡμᾶς συμπαθὲς γέγονε μήτηρ. ἀγαπήσας ὁ πατὴρ ἐθηλύνθη, καὶ τούτου μέγα σημεῖον ὃν αὐτὸς ἐγέννησεν ἐξ αὑτοῦ· καὶ ὁ τεχθεὶς ἐξ ἀγάπης καρπὸς ἀγάπη.

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Il dato scritturistico che fa da sfondo è l’interpretazione di Gen 2, 7 relativa alla “sopravvenuta” dell’anima razionale. La sezione (cf. pp. 80-81) in cui Clemente discuteva di anima, ἡγεμονικόν e spirito santo apparteneva a un discorso più vasto della sola psicologia e relativo appunto alle parti dell’uomo. Clemente vedeva simbolizzate, nei dieci comandamenti, dieci parti di cui l’uomo sarebbe composto e, per indicare quali esse fossero, aveva formulato due proposte. La prima consisteva nell’intendere come parti i cinque sensi, il linguaggio, la capacità generativa, «l’elemento spirituale infuso nella creazione», l’ἡγεμονικόν e l’«ἰδίωμα χαρακτηριστικόν dello spirito santo che sovraggiunge mediante la fede» (str. 6, 16, 134.2). La seconda proposta, invece, serviva a Clemente per assicurarsi che, anche qualora anima ed ἡγεμονικόν non fossero intesi come parti dell’uomo64, la decade risultasse ugualmente dalla somma dei cinque sensi e dei rispettivi organi. Perché questa seconda ipotesi? Quale la ragione di specificare una decade senza anima e principio ἡγεμονικόν? La necessità viene da Gen 2, 7, che affronta il tema dell’ingresso dell’anima nel corpo dopo che quest’ultimo è stato plasmato ed è un passo biblico su cui Clemente deve aver riflettuto in sede di raccolta di fonti. Infatti se, come abbiamo supposto, str. 6, 16, 134-136 rappresenta uno stadio successivo rispetto a ecl. 50 (cf. pp. 170-179), è vero anche che le parole del πρεσβύτης di cui questo passo era testimonianza, come vedremo meglio tra breve, riguardavano proprio una possibile interpretazione di Gen 2, 7. Ora, è in virtù di una ragione strettamente teologica che anima ed ἡγεμονικόν potrebbero non essere considerate a pieno titolo “parti dell’uomo”? Clemente si accontenta del dettato di Gen 2, 7 oppure cerca di appoggiarsi anche a una base scientifica che tenga conto delle conoscenze filosofiche e mediche del suo tempo, come lo abbiamo visto già fare spesso? In realtà, l’ipotesi che l’anima non sia propriamente una “parte” dell’uomo non è affatto estranea al “Clemente-filosofo”. Si tratta infatti, come sappiamo, di uno dei requisiti che la sua stessa dottrina dell’anima suppone in risposta agli gnostici con cui interagisce in str. 5, 13, 8865. Inoltre altre tradizioni hanno inteso l’anima come entità in qualche modo materiale, mettendola in relazione alla sostanza-sangue: in paed. 1, 6, 39.2 l’Alessandrino riporta l’opinione di “alcuni” che, afferma, «sono giunti persino a chiamare il sangue sostanza dell’a-

64 Il testo di str. 6, 16, 135.1, infatti, recita: «Subentra (ἐπεισκρίνειται) poi l’anima e si aggiunge, a priori distinto, l’ἡγεμονικόν, con cui quale ragioniamo, non generato con l’eiezione del seme». 65 La cosiddetta quarta promessa, cf. p. 48.

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nima». Qui Clemente allude verosimilmente a dottrine medico-stoiche66, da cui prende debita distanza chiosando: «Alcuni sono giunti67 persino a dire (εἰπεῖν τετολμήκασιν)». In altri termini Clemente, in questo brano del Pedagogo, non accetta che l’anima e, si può dire, soprattutto il suo ἡγεμονικόν abbiano sostanza materiale, perché ciò significherebbe ammetterne la consustanzialità al sangue. Ma davvero Clemente muove contro dottrine stoiche? Vi è ragione di credere che il vero bersaglio clementino, in realtà, siano i valentiniani di exc. Thdot. 17 (cf. p. 200). Costoro, infatti, abbiamo visto, si erano appropriati di un lessico stoico, concependo l’unione di Cristo e Chiesa come κρᾶσις δι’ ὅλων. Contro di loro l’Alessandrino già in exc. Thdot. 17.3 aveva proposto di fare perno, in relazione al concetto di unione, sulla nozione di δύναμις, perché lo spirito, sosteneva Clemente sulla base di Gv 4, 24, non opera κατ’οὐσίαν, bensì appunto κατὰ δύναμιν καὶ ἰσχύν. Ancora, in str. 5, 10, 66.2 egli aveva parlato di catechesi ed epoptica come di «carne e sangue del Logos», «comprensione delle divine δύναμις e οὐσία», nutrimenti per l’anima. Accettare, in str. 6, 16, 134, che l’anima potesse essere parte per così dire “fisiologica” dell’uomo creato, oltre che tradire gli intenti dichiarati in str. 5, 13, 88, avrebbe comportato la possibilità di fare dell’anima una οὐσία marteriale e, di qui, il conseguente scivolamento nella κρᾶσις δι’ ὅλων, cosa ritenuta inaccettabile già in exc. Thdot. 17. La stessa ragione per cui Clemente in exc. Thdot. 17 rifiuta la κρᾶσις sembra allora rappresentare un motivo ulteriore per respingere, in str. 6, 16, 134-136, la logica della parte e della porzione nel trattare dei rapporti tra anima e spirito. Si può dunque intendere exc. Thdot. 17 come ulteriore premessa implicita dell’antropologia teorizzata in str. 6, 16. Ma se un obiettivo polemico di Clemente in str. 6, 16, 134-136 sono i valentiniani degli exc. Thdot. 17, allora ciò significa che l’unione di Cristo e Chiesa, tema di questo brano, è uno dei problemi 66 Rizzerio 1988, p. 123. Per una panoramica sulla diffusione di questa dottrina nella filosofia greca si veda Congourdeau 2007, pp. 151-152. A ciò andrebbe aggiunto che l’identificazione dell’anima con il sangue è praticata anche in ambito giudaico (si pensi all’Apocalisse – Ap 6, 9 –, ad esempio, in cui si parla della visione, sotto l’altare sacrificale, delle vite/anime – ψυχαί – degli immolati). Origene attesterà, nel suo Dialogo con Eraclide, una forte preoccupazione da parte della sua Chiesa e di chiese vicine per il significato di quei passi della Scrittura in cui si afferma che l’anima è il sangue (cf. dial. 10-12, nonché le pp. 20 e 37-43 dell’edizione francese). Al contrario, in ambito antiocheno – più prossimo al sostrato semitico rispetto a quanto lo siano gli alessandrini – l’accostamento di anima e sangue sarà meno problematico, come mostra Congourdeau 2007, pp. 169-170. 67 Propriamente «hanno osato».

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che la soluzione approntata dall’antropologia dell’Alessandrino cerca di risolvere. Clemente cerca, sì, di esprimere una versione della partecipazione a Cristo alternativa a quella valentiniana, ma ciò non può prescindere dal moto kenotico della sizigia, cioè dell’abbassamento a scopi redentivi da parte dell’elemento ontologicamente superiore o maschile (Cristo) nei confronti dell’inferiore o femminile. In altri termini e fuori dal vocabolario gnostico della sizigia, il discorso antropologico di Clemente non può prescindere dalla logica dell’incarnazione. E del resto quest’ultima non solo non è oggetto di critica nel corso di str. 6, 16, 134-136, ma è un caposaldo sia della componente metafisica della psicologia di Clemente che dell’intero sesto stromate, il quale, richiamando in apertura Rm 11, 17-24 (innesto nell’ulivo buono) come uno dei suoi riferimenti scritturistici salienti, dichiara che progredire a Cristo significa che Cristo in qualche modo diviene in noi (cf. pp. 54-61). Così la sizigia valentiniana, nel momento in cui viene applicata all’antropologia clementina, si traduce con l’incarnazione di Cristo nel progresso spirituale dell’uomo, di ciascun uomo. Va rilevato un contesto di cristologia pneumatica dietro l’antropologia di Clemente, il cui sforzo consiste nel tentare di conciliare questa cornice teologica con l’idea filosofica dell’individuazione. Una volta ricostruita la cornice teologica in cui il Clemente-filosofo si muove, proviamo a confrontarla con la ricorrenza di Gen 2, 7 in ecl. 50: «Un πρεσβύτης diceva che ciò che sta nel grembo è un essere vivente. L’anima entrerebbe nella matrice quando questa, in seguito alla purificazione mestruale, sarebbe pronta per il concepimento: allora, infusa (εἰσιοῦσαν) da uno degli angeli preposti alla nascita che conoscerebbe prima il momento del concepimento, muoverebbe la donna all’accoppiamento e, dopo l’eiezione del seme (καταβληθέντος τοῦ σπέρματος), assimilerebbe a sé in qualche modo lo spirito presente nel seme e collaborerebbe così alla plasmazione». Possiamo notare due elementi di affinità tra questa Ecloga e il brano di str. 6, 16, 134136. Il primo è che la concezione clementina dell’anima come estranea alla creazione materiale dell’uomo sembrerebbe provenire dal tipo di pensiero trasmesso dalle parole del πρεσβύτης. Nella “seconda ipotesi” di articolazione antropologica (str. 6, 16, 135.1) cui si è accennato sopra, infatti, l’Alessandrino parla dell’aggiunta «a priori distinta» (προσεισκρίνεται, afferma Clemente) dell’ἡγεμονικόν, «non generato con l’eiezione del seme». Come anticipato, non è soltanto Gen 2, 7 a permettere di teorizzare l’ingresso della componente spirituale dell’uomo come separata dalla plasmazione del suo corpo perché, a ben vedere, anche la dottrina del πρεσβύτης prevede che l’insufflazio-

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ne angelica dell’anima preceda «l’eiezione68 del seme» nella matrice femminile e dunque la generazione corporea. Il secondo fattore di prossimità tra str. 6, 16, 134-136 e ecl. 50 è il fatto che in ecl. 50 l’anima, principio razionale, conferisce ordine allo «spirito presente nel seme», assimilandolo a sé. Allo stesso modo, in str. 6, 16, 135.2, il λογιστικόν καὶ ἡγεμονικόν rende la parte irrazionale “animata” e «partecipe della costituzione» dell’embrione. Se si considera questo accordo tematico tra ecl. 50 e str. 6, 16, 134-136 alla luce del fatto che l’Ecloga apparterrebbe alla fase del procedere clementino che si è definita di “raccolta e analisi delle fonti” (cf. p. 175), rimane da chiedersi che contributo fornisca il πρεσβύτης di ecl. 50 alla posizione espressa in str. 6, 16, 134-136. Egli parla di infusione angelica, con un implicito riferimento all’ἐνφύσημα del πνοὴ ζωῆς di Gen 2, 769, letto chiaramente in chiave angelologica. Se Clemente considera le parole del πρεσβύτης come fonte cui attingere, allora si può dire che l’articolazione dell’anima in tre πνεύματα o quanto meno il suo πνεῦμα ἡγεμονικόν (visto che in str. 6, 16, 134-136 viene detto «non generato con l’eiezione del seme» in modo esplicito soltanto l’ἡγεμονικόν) dipendono da questa concezione. C’è però una differenza fondamentale tra l’antropologia clementina e quanto dice il πρεσβύτης di ecl. 50. Come l’anima in ecl. 50 esercita un’azione formante nei confronti dell’embrione nel momento in cui favorisce l’amplesso, similmente anche l’anima di str. 6, 16, 135.1 ha ancora azione costituente (135.2)70, ma questa volta nei confronti del «divenire gnostico» da parte dell’uomo (136.3). Rispetto all’Ecloga, è dunque la messa a fuoco di str. 6 a differire radicalmente. Non è più in gioco la generazione, ma l’opera salvifica71: a questa cooperano sia l’arbitrio dell’uomo nell’ἡγεμονικόν sia l’anima razionale (135.2). In realtà, come sappiamo, qui vengono propriamente accostati due usi differenti del termine spirito, perché, da un lato, spirito è «principio fisico» e, dall’altro, con lo stesso termine si designa l’elemento divino che concorre al progresso dell’uomo. In ogni caso, il risultato è che sia lo «spi68 Il verbo καταβάλλω di ecl. 50 (καταβληθέντος τοῦ σπέρματος) è lo stesso con cui, in str. 6, 16, 135.1, Clemente parla di emissione del seme (τοῦ σπέρματος καταβολὴ). 69 Gen 2, 7: «Dio il plasmò l’ uomo dalla polvere della terra, gli soffiò (ἐνεφύσησεν) nelle narici un alito vitale (πνοὴ ζωῆς) e l’uomo divenne un essere vivente». 70 Nella misura in cui la sua parte razionale e di guida (τὸ λογιστικόν καὶ ἡγεμονικόν) è «causa della sua [= del vivente] costituzione (σύστασις)» e «del fatto che la parte irrazionale è animata ed entra a far parte di quella costituzione». 71 Il testo di str. 6, 16, 134-136 permette dunque di correggere la supposizione di Runia, per cui «God’s goodness is affirmed first in creation, then in salvation» (Runia 2004, p. 270).

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rito divino» che il «principio fisico» (lett. ὑποκείμενον πνεῦμα in 134.1, πνεῦμα σαρκικόν in 135.4, o πνεῦμα πλασθέν in 136.5) concorrono, in str. 6, a coprire il ruolo che il concetto di πνεῦμα in ecl. 50 comunque giocava: mediare il rapporto dell’anima al corpo. Lo spirito naturale di fatto preserva lo spirito santo e l’ἡγεμονικόν da un contatto diretto con il corpo, mentre lo spirito santo si affianca all’ἡγεμονικόν per mezzo della fede72 al fine di raggiungere la piena condizione intelligibile ossia lo statuto che i platonici attribuivano all’anima razionale73. L’elemento contenutistico che davvero muta tra la versione del πρεσβύτης e quella di str. 6, 16, 134-136, è la sostituzione dell’angelo con un’elaborata pneumatologia filosofica74, che implica le nozioni di potenza e atto. Come diretta conseguenza il ruolo giocato dall’angelo è rimpiazzato, in parte, con lo «spirito substrato» «spirito carnale» o «spirito della creazione» – e in parte con il passaggio dalla potenza all’atto75. Gen 2, 7 rimane invece il riferimento costante sia per il πρεσβύτης che per Clemente, il quale si sforza di dare una risposta quanto più attinente possibile alle conoscenze filosofiche a lui contemporanee senza comunque tradire il contesto teologico (Scritture e traditio) da cui muove e a cui ritorna. IV.4. La creazione a immagine Il fatto che Clemente in str. 6, 16 rimpiazzi l’angelologia con una struttura concettuale più complessa spinge innanzitutto a chiedersi se, come modello della generazione dell’uomo, egli non si discosti volutamente da Gen 1, 26-27. Si può anche ritenere prevedibile una simile presa di distanza, dal momento che il testo di ecl. 50, probabile fonte per l’Alessandrino, sembrava non prendere in esame quei versetti riferendosi piuttosto a Gen 2, 7. In realtà affidare a un angelo l’incarico di 72 Nella modalità dell’ἰδίωμα χαρακτηριστικόν. Sarà in virtù di tale legame spirito santo-principio ἡγεμονικόν che, in str. 6, 16, 136.5, Clemente potrà legittimamente parlare di πνεῦμα ἡγεμονικόν (come in Sal 50). 73 Ed ecco che, in str. 6, 16, 135.2, Clemente parla di τὸ λογιστικόν καὶ ἡγεμονικόν, indicando una qualche forma di legame tra il principio ἡγεμονικόν e la λογικὴ ψυχή platonica. 74 Pneumatologia che articola, accostandole tra loro (cf. p. 78) all’interno di un passaggio processuale dalla potenza all’atto, nozioni che sono in parte filosofiche e in parte teologiche (πνεῦμα ὑποκείμενον/σαρκικόν/πλασθέν, πνεῦμα ἡγεμονικόν, ἅγιον πνεῦμα). 75 Dove l’atto-ἐνέργεια è la condizione dello spirito santo, a sua volta interpretazione paradossale del concetto platonico di dimensione intelligibile poiché la sua superiorità ontologica consiste nel farsi inferiore, sensibile, δύναμις.

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insufflare l’anima razionale nell’uomo al momento della sua generazione ha alle spalle la tendenza a tenere assieme i due racconti della creazione dell’uomo. Il problema esegetico riguardava il plurale della prima persona del verbo ποιέω di Gen 1, 26 («facciamo – ποιήσωμεν – l’uomo a nostra immagine e a somiglianza»), cui si diedero diverse spiegazioni, e quella di Filone, nello specifico, consistette nel concepire la creazione dell’uomo come esito della cooperazione di Dio Padre e degli angeli76. Clemente, pertanto, prenderebbe le distanze dal precursore alessandrino e anche da altri autori dello stesso milieu, come i valentiniani degli Excerpta che, in exc. Thdot. 21.1, invece, fanno proprio il motivo filoniano77. Un ulteriore elemento porta a pensare che, in str. 6, 16, 134-136, Clemente abbia preso volutamente a modello il racconto cosiddetto jahvista della creazione dell’uomo: la denominazione dello spirito corporeo. Nel testo clementino, in effetti, si legge che lo πνεῦμα ἡγεμονικόν agisce su uno πνεῦμα πλασθέν (str. 6, 16, 136.4). L’uso patristico del verbo πλάσσω indica inequivocabilmente il riferimento, diretto o indiretto, a Gen 2, 7. Esso è attestato accanto a ποιεῖν già in vari testi biblici, come Gb 10, 8 e Sal 118, 7378, la cui ricezione, nelle esegesi di Filone e dei Padri, lo rende funzionale a esprimere, come ricorda Monique Alexandre, «le privilège de l’homme, par rapport aux autres créatures»79. Nessuno di questi passi però fa al caso nostro, dal momento che il participio πλασθέν del testo clementino compare svincolato dai relativi contesti esegetici. All’accostamento di Gen 2, 7 e 1, 26-27 si legano due tipi diversi di esegesi. Da un lato si collocano quegli autori che prediligono questo modello interpretativo sostenendo che la superiorità dell’uomo poggi sulla sua dimensione celeste, la quale è l’immagine divina che risiede nel corpo carnale80. 76 Per i passi di Filone e la loro esegesi cf. Alexandre 1988, p. 171 e più in generale, pp. 179-180. 77 Clem. exc. Thdot. 21.1: I valentiniani sostengono che l’emanazione migliore della Sapienza – da cui i maschi sono l’elezione, mentre le femmine la chiamata – è detta nella frase: Ad immagine di Dio li creò, maschio e femmina li creò (Gen 1, 26-27). E gli elementi maschili li chiamano angelici. Mentre loro stessi sono i femminili, il seme superiore. 78 Mentre, in riferimento ad Adamo, ricorre per lo più ποιεῖν o anche con κτίζειν (in Sir 17, 1/33, 10 e di Sap 10, 1; cf. Alexandre 1988, pp. 234-235). 79 Cf. Alexandre 1988, p. 235. 80 Filone definisce l’uomo terrestre come opposto al celeste; similmente anche per Origene il corpo modellato non conterrà l’immagine di Dio e, indirettamente, pure in Basilio ritornerà il motivo nella formula per cui la carne è stata modellata, mentre l’anima è stata creata. Per l’influenza filoniana cf. Alexandre 1988 pp. 179-180. Monique Alexandre segnala una variante di questa linea interpretativa in Ireneo (ma anche nell’A Diogneto e in Giuseppe Flavio) che accosta Gen 1, 26-27 a Gen 2, 7 per dimo-

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Dall’altro lato va ricordata la particolare risonanza che la combinazione dei due racconti biblici ha avuto presso gli gnostici, i quali basavano la gradazione ontologica della natura umana su tre diversi verbi a significare tre atti creativi distinti, quello dei pneumatici, quello degli psichici e quello degli ilici, come attestano l’autore dell’Elenchos (chiamato alquanto impropriamente “Ippolito di Roma”)81 e Clemente stesso negli Excerpta (cf. exc. Thdot. 50-5182 e str. 4, 13, 90.3-483). In breve, si noterà come la lettura congiunta dei due brani venisse usata o per giustificare l’idea di una separazione ontologica tra tipologie umane o – e ciò presso autori che generalmente si oppongono a questa visione – per definire una componente antropologica non riducibile al corpo, cioè l’anima o la sua parte razionale. Per questi autori, la creazione del corpo terrestre è condizione provvisoria che ospita la creazione a immagine84 o quella a somiglianza di Dio (a seconda che si rifiuti o meno l’idea per cui la carne sia creazione a immagine). Le interpretazioni date a questi due concetti di creazione determinano l’insieme delle varianti del modello cosmologico-antropologico della caduta e del conseguente ristabilmento della condizione archetipica. Spesso il criterio per distinguere tra le possibili declinazioni è proprio l’interazione di Gen 1, 26-27 con la lettura di Gen 2, 7. Ora, se nel testo di str. 6, 16, 134-136 l’unica fonte biblica sulla creazione fosse Gen 2, 7, ciò confermerebbe la presa di distanza di Clemente da Gen 1, 26-27 e conseguentemente un suo allontanamento, peraltro improbabile, dal contesto dell’esegesi alessandrina. Nel caso contrario bisognerebbe invece trovare la posizione occupata da Clemente tra gli autori che usavano combinare assieme le letture di entrambi i racconti biblici della creazione. strare che anche la carne è a immagine di Dio, soltanto non può avere la “somiglianza” (cf. p. 235). 81 Cf. Alexandre 1988, p. 235. 82 Se ne veda la traduzione: «Presa della polvere dalla terra (Gen 2, 7), – non una parte di terra secca, ma di materia formata da parti diverse e varia, – creò un’anima terrestre e ilica, irrazionale e ὁμοούσιον alla materia delle bestie: questi è l’uomo a immagine (Gen 1, 26). Quello a somiglianza (Gen 1, 26) del suo Demiurgo, invece, è ciò che è insufflato (Gen 2, 7). Ιn questo vi è inseminato qualcosa di ὀμοούσιον che lui ha immesso tramite gli angeli». 83 «In genere, quel che riguarda il Demiurgo, che è fatto (γενόμενος) a immagine (Gen 1, 26) affermano che nella Genesi è stato detto a mo’ di rivelazione in forma di immagine sensibile, a proposito dell’origine dell’uomo. Anzi essi trasferiscono la somiglianza (Gen 1, 26) anche a se stessi, quando insegnano che l’introduzione (ἐπένθεσις) dello spirito privilegiato è avvenuta senza che il demiurgo lo sapesse». 84 Cf. soprattutto Origene in Alexandre 1988, p. 235. Similmente, per Clemente, Nardi 1984, p. 207.

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In realtà l’ipotesi più probabile è questa seconda, perché il riferimento esplicito alla creazione a immagine e somiglianza c’è anche nel nostro testo, sebbene con interessanti peculiarità che permettono di comprendere meglio la posizione di Clemente in merito alle esegesi del racconto cosiddetto sacerdotale e il suo atteggiamento verso la teologia valentiniana della creazione. Il carattere dell’immagine divina nell’uomo è dovuto alla capacità di dominio che l’uomo esercita nei confronti dei desideri carnali. Afferma infatti Clemente: «Perciò è detto forse a buon diritto che l’uomo è nato a immagine di Dio, non per la forma della sua struttura, ma perché se Dio crea tutto con il Logos, l’uomo che diventa gnostico compie il bene con quel che è logico» (str. 6, 16, 136.3). Diverso sarebbe stato dire che l’elemento logico dell’uomo è a immagine divina, espressione cui si avvicina invece str. 5, 14, 94.5, in cui Clemente aveva affermato: «Immagine di Dio è il Logos divino e sovrano..., immagine dell’immagine è il logos umano». La lettura del racconto “sacerdotale” della creazione in str. 5, 14, 94 è conforme a quella tradizionale alessandrina. Qui Clemente non parla di λογιστικόν, ma piuttosto di «mente (νοῦς) umana» che definisce «immagine dell’immagine», riferendosi a Col 1, 15, come del resto più tardi farà anche Origene in hom. 1 in Gen. 1385 e, lo vedremo tra breve, come avevano fatto i valentiniani degli Excerpta. L’interpretazione di Gen 1, 26-27 tuttavia non cambia in modo sostanziale: ci si riferisce sempre a una parte/porzione dell’uomo o dell’anima, che ha lo statuto dell’immagine. Il caso di str. 6, 16, 136 è diverso perché in questo passo la relazione dell’essere a immagine è resa dal verbo ἄρχω, giacché «quando ha dominato le passioni, allora l’ἡγεμονικόν regna (136.1)», tanto che «il comandamento non desiderare significa: non essere schiavo dello spirito carnale, ma comandalo» (136.2). In altri termini è nel “comandare” che si esplica la natura umana in quanto creazione a immagine. Il comando sulle passioni sarà certo possibile per mezzo del λογιστικόν dell’anima, ma il punto è che non è questa componente dell’uomo o dell’anima a costituire o a conservare, in quanto tale, lo statuto dell’immagine, semmai il suo esercizio. Il carattere dell’immagine come «capacità di dominare» non è affatto accidentale o marginale e anzi sarà un tema sviluppato più tardi in ambienti antiocheni polemici nei confronti delle dottrine antropomorfite86. Tuttavia sembra proprio che Clemente, in str. 6, 16, 134-136, non 85 Se ne veda la traduzione, Or. hom. 1 in Gen. 13: «Qual è dunque quest’altra immagine di Dio, a somiglianza della quale l’uomo è stato fatto se non il nostro Salvatore? “Primogenito di tutte le creature” (Col 1, 15) Egli...» etc. 86 Cf. Alexandre 1988, p. 184. La prossimità di Clemente alle esegesi antiochene di Gen 2, 7 va comunque intesa in senso meramente formale. Si tenga sempre presen-

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guardi a Gen 1, 26-27 per spiegare il ruolo e la funzione della parte nobile dell’anima: gli interessa soltanto insistere sull’insufflazione e sviluppare quanto può essere ricavabile da Gen 2, 7. Ciò permette di trarre una prima conclusione: Clemente conosce le esegesi correnti di Gen 1, 26-27 e in altri luoghi ne parla (cf. il sopracitato passo di str. 5, 14, 94), ma in sede di elaborazione di una propria concezione dell’anima preferisce coscientemente subordinare Gen 1, 26-27 a Gen 2, 7 (per spiegare il ruolo sulla parte superiore dell’anima), diversamente da quanto aveva fatto in str. 5, 14, 94. Piuttosto, nel definire l’anima razionale come πνεῦμα ἡγεμονικόν va probabilmente ravvisata un’eco di Sal 50 (51), 12 («rinnova in me uno spirito saldo [πνεῦμα ἡγεμονικόν]»). Si tenga infatti presente che Clemente si sta ponendo, da una prospettiva squisitamente epistemologica, gli stessi problemi per cui le psicologie gnostiche elaborarono la dottrina-mito della caduta. Se davvero i contenuti psicologici espressi in str. 6, 16, 134-136 sono la risposta di Clemente ai problemi posti dall’antropologia gnostica, uno dei cui presupposti è la differenza ontologica fra le nature, allora la psicologia clementina va intesa come tentativo di sostituire questo schema con un’antropologia che mette al centro la libertà del principio-guida dell’anima. Ora, il passo del Miserere esprime una condizione di pentimento e di contrizione per colpe commesse; ha cioè alle spalle almeno l’idea di una caduta, in tal caso etica, nell’errore, e di fatto offre l’occasione per parlare della caduta da un punto di vista morale, il cui rimedio sta tutto nel dominio della parte passibile dell’anima. Ma perché proprio questo salmo? In fondo, Clemente avrebbe potuto rifarsi ad altri passi delle Scritture, relativi, nello specifico, alla teologia dell’imago Dei (elaborata principalmente a partire da Gen 1, 26 o Col 1, 15) e parlare ad esempio di una condizione a immagine di Cristo che redime uno stato peccaminoso precedente, come, secondo Carlo Nardi, Clemente farebbe indirettamente in ecl. 2487. Ora, l’unico autore che, più o meno contemporaneamente a Clemente, attesta un’esegesi di Sal 50 (51) è Ireneo. In un passo in cui Ireneo contesta la stessa dottrina che Clete che la valorizzazione dell’ἄρχειν da parte dell’Alessandrino è finalizzata non tanto al dominio dell’uomo sulle altre creature, bensì a quello sulle passioni e si traduce, pertanto, in libertà di bene, buona scelta. 87 Cf. Nardi 1984, p. 207. Nardi afferma addirittura che Clemente, in ecl. 24 (applicando la sua teologia dell’immagine a passi paolini quali 1 Cor 15, 4-6), «sembra ammettere, come Paolo... la priorità cronologica dello stato di peccato in cui l’uomo si trova fin dalla nascita, rispetto alla seconda condizione di redento a immagine di Cristo».

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IV. Psicologia e passibilità divina 215

mente testimonia in exc. Thdot. 1, 1, relativa all’“incarnazione”88 come evento che implica in certa misura una pneumatologia89, il vescovo di Lione riporta Sal 50 (51). Lo spirito del salmo, afferma Ireneo, «riconduceva all’unità le tribù separate» (haer. 3, 17.2)90 – come le Chiese di str. 5, 6, 35.4 e 7, 6, 32.4 (vide supra p. 119) che «repiravano assieme» (verbo συμπνέω o sostantivo σύμπνοια) nell’unità – e, prosegue, conferiva unitarietà alle anime (Gv 3, 5). Il salmo, pertanto, serviva a Ireneo per risolvere il problema della partecipazione allo spirito santo, che è l’obiettivo anche della quarta promessa di Clemente di un approfondimento relativo al tema dell’anima, in str. 5, 13, 88 (cf. p. 48). Dunque lo stesso problema che Clemente affronta sul piano antropologico presenta affinità con discussioni di tema pneumatologico che ritornano anche in altri padri, aventi come obiettivo polemico la cristologia gnostica (valentiniana). Se ne deve concludere che non è solo l’antropologia gnostica a far problema a Clemente, ma anche la cornice cristologica e pneumatologica retrostante, di cui l’antropologia sembra uno degli aspetti derivati. Che anche la cristologia valentiniana rientri tra gli obiettivi polemici di Clemente è provato dal fatto che l’antropologia proposta in str. 6, 16, 134-136 opera una scelta consapevole tra i modelli cristologici circolanti nel II secolo. L’Alessandrino non fa che sostituire il ruolo 88 Si intenda l’accezione di incarnazione qui impiegata, in senso lato, dal momento che in exc. Thdot. 1, 1 Clemente sta riportando una dottrina valentiniana. A tal proposito cf. infra pp. 216-217. 89 Clem. exc. Thdot. 1.1: Padre, dice rimetto nelle tue mani il mio spirito. Il Salvatore scese rivestito di ciò – il seme spirituale – che Sophia emise per il Logos, dice, come carnale. 90 «Questo spirito domandò David per il genere umano dicendo: E con lo spirito che governa sostienimi (Sal 50 [51], 14). Di lui Luca dice che… discese sui discepoli nella Pentecoste (cf. At 2, 1-4)… Perciò in tutte le lingue, mossi da uno stesso spirito, inneggiavano a Dio, mentre lo spirito riconduceva all’unità le tribù separate… Come dalla farina asciutta non si può fare, senza acqua, una sola massa e un solo pane, così noi che siamo molti non potevamo divenire uno in Cristo Gesù (cf. Rm 12, 5; 1 Cor 10, 17; Gal 3, 28 – su Gal 3, 28, cf. Uzukwu 2010) senza l’acqua che viene dal cielo… I nostri corpi, infatti, hanno ricevuto, mediante il lavacro, l’unione all’incorruttibilità (cf. Ef 5, 26; Tt 3, 5), mentre le nostre anime l’hanno ricevuta mediante lo spirito (cf. Gv 3, 5)». Questo brano è collocato all’interno di un’argomentazione rivolta contro la cristologia valentiniana, che Ireneo riporta (e volutamente semplifica) in haer. 3, 16.1. A tal proposito può essere utile citare in questa sede le considerazioni espresse da A. Rousseau nel suo commento al testo di Ireneo in «Sources Chrétiennes» 210, pp. 311: «Irénée simplifie quelque peu la Christologie des Valentiniens qu’il a exposée dans le Livre I. Il veut ici mettre en lumière ce qui est, à ses yeux, le vice le plus radical de cette Christologie… à savoir la distinction de deux êtres unis d’une façon purement accidentelle et transitoire: d’un côté, “Jésus”, qui aurait souffert et serait mort…; de l’autre, le “Sauveur” (portant en lui le “Christ” et, de quelque manière, tout le “Plêrome”), qui serait descendu en “Jésus” au baptême du Jourdain pour l’abandonner au moment de la Passion [abbandono che è messo a tema, per mediazione di Clemente Alessandrino, in exc. Thdot. 1]».

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Passibilità divina

giocato dalla figura dell’angelo in certe dottrine antropologiche da lui assunte come fonte con lo sviluppo di una pneumatologia, laddove angelo e spirito sono gli elementi costitutivi di due differenti declinazioni della medesima cristologia: la cristologia angelomorfica e quella pneumatica91. Quindi Clemente sposta l’accento da una variante all’altra di una delle teologie che abbiamo definito “binitarie”. La rilevanza sul piano cristologico dell’antropologia di Clemente può essere spiegata avvalendosi proprio del rifiuto di utilizzare Gen 1, 26-27 per definire la parte nobile dell’anima, tenendo conto dei già attestati intenti antivalentiniani dell’antropologia di Clemente. La dottrina valentiniana dell’“incarnazione”, infatti, presuppone una nozione di immagine tale da comportare la passibilità divina. In tutta l’opera di Clemente del resto si contano due luoghi in cui la teologia dell’imago Dei si lega alla passibilità divina: il passo, già visto, di q.d.s. 36-37 e in più la sezione di exc. Thdot. 30-3392. Il brano degli Excerpta, oltre che della passibilità del divino, tratta del tema dell’immagine e prende a riferimento Col 1, 15, dove l’immagine di Dio è innanzitutto il Logos. Questa concezione si inserisce in un contesto in cui si ritrovano elementi di cristologie angelomorfiche e pneumatiche. Negli Excerpta sono reperibili due varianti della visione valentiniana dell’“incarnazione” che vanno intesi come paralleli. Il primo è in exc. Thdot. 1-293 e lega alla creazione dell’uomo l’elemento che, nella teologia va91 Bucur studia la cristologia nella teologia battesimale delle Ecloghe Profetiche (ecl. 27) e la descrive come cristologia pneumatica. Bucur 2007, pp. 388-389. 92 Quindi, dimentichi della gloria di Dio, dicono empiamente che questi patì. Il fatto che il Padre abbia compatito (συνεπάθησεν), «pur essendo rigido (στερός) per natura», dice Teodoto, «non cedevole» (ἀνέδοτος), rendendo se stesso cedevole, affinché Silenzio si impadronisse di ciò, è una passione: infatti il com-patire è la passione di qualcuno a motivo della passione di un altro. Sì: dal momento che è esistita la passione, l’Intero stesso patì, per il raddrizzamento di ciò che aveva patito… Ma anche se colui che discese era il beneplacito (εὐδοκία) dell’Intero... anche lui patì, è chiaro che anche i semi che erano dentro di lui patirono assieme a lui, e per tramite di questi troviamo che l’Intero e il Tutto è passibile… Ora, dal momento che nel Pleroma c’è unità, ciascun Eone ha un proprio «pleroma», la sizigia (συζυγία). Quanto infatti proviene, dicono, dalla sizigia è «pleroma», quanto invece deriva da uno solo è «immagine» (εἰκών). Εcco allora perché Teodoto ha chiamato il Cristo, che proviene da un’ἔννοια della Sapienza (Σοφία), «immagine» del Pleroma. Questi abbandona sua Madre per risalire al Pleroma… Il Cristo è dunque divenuto Figlio adottivo (Rm 8, 15 e 8, 23) come è divenuto Eletto in rapporto ai «pleromi» [= agli Eoni] e Primogenito delle cose di quaggiù (Col 1, 15). 93 Clem. exc. Thdot. 1-2: «1.1. Padre, dice rimetto nelle tue mani il mio spirito (Lc 23, 46). Il Salvatore scese rivestito di ciò – il seme spirituale – che Sophia emise per il Logos, dice, come carnale. 1.2. Perciò nella passione rimette Sophia al Padre». Qui si potrà notare come lo spirito coincida con la sapienza, poi il testo prosegue: «Così, per mezzo della suddetta frase, è tutto il seme spirituale, tutti gli eletti, ciò che egli

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IV. Psicologia e passibilità divina 217

lentiniana, corrisponde al concetto di incarnazione elaborato in ambito “cattolico” (cioè fondamentalmente la discesa del Logos)94. Esso è centrato sulla passione di Cristo e concepisce l’incarnazione come discesa del Salvatore rivestito del seme spirituale, emanazione di Sophia (1.1) che condivide la medesima natura degli eletti (1.2) ed è ἀπόρροια divina (2). La cornice teologica di riferimento va ricercata nel repertorio delle cristologie pneumatiche, perché lo spirito è l’elemento divino dell’incarnazione (il quale si trova in uno stato di assopimento ed è destinato a risvegliarsi). Esso è però al contempo anche quello insufflato nell’anima di Adamo (che in exc. Thdot. 50.2 verrà detto uomo creato «secondo la somiglianza») nel momento della creazione intesa secondo i canoni di Gen 2, 795 (l’uomo creato secondo Gen 2, 7, cioè come formato con fango preso dalla terra, in exc. Thdot. 50.1 sarà poi identificato con l’uomo creato «a immagine» del racconto di Gen 1, 26). Clemente, nel formulare la sua dottrina antropologica in str. 6, 16, 134-136, non può dunque non tenere conto di queste tesi di rilevanza cristologica, innanzitutto per la loro riflessione sull’ἀπόρροια che è uno dei concetti ritenuti problematici nella sua quarta promessa di approfondimento sul tema dell’anima (cf. p. 48), in secondo luogo perché, per i valentiniani, il seme spirituale, fermentato, unifica «le cose che sembravano essere divise, cioè l’anima e la carne» (exc. Thdot. 2.1), e il rapporto tra anima e carne è anche il tema di str. 6, 16, 136, in cui Clemente tratta proprio del rapporto tra lo spirito ἡγεμονικόν e lo spirito carnale. A questo proposito è interessante notare un’ulteriore affinità tra il tema discusso da Clemente e quello trattato dagli Excerpta, e cioè che anche i valentiniani (come Clemente) subordinano Gen 1, rimette. 1.3. Chiamiamo il seme eletto sia “scintilla ravvivata dal Logos” sia “pupilla del­l’occhio”, “granello di senape”, “fermento” che unisce nella fede le stirpi che sembrano essere divise. 2.1. I valentiniani dicono che, dopo che è stato plasmato il corpo psichico, è stato deposto dal Logos un seme maschile nell’anima eletta che era addormentata; questo seme, appunto, è effluvio (ἀπόρροια) dell’elemento angelico, affinché non vi fosse alcuna mancanza (ὑστέρημα). 2.2. E questo seme opera come fermento, unificando ciò che sembrava essere diviso, l’anima e la carne, le quali sono state emesse da Sophia. E il sonno (cf. Gen 2, 21), per Adamo, era l’oblio dell’anima, che il seme spirituale teneva affinché non si dissolvesse, seme deposto nell’anima dal Salvatore. Il seme era effluvio (ἀπόρροια) dell’elemento maschile e angelico. Perciò disse il Salvatore: “Salva te e la tua anima”». 94 Cf. in proposito Lettieri 2001, p. 142: «Interpreto… l’intero dramma valentiniano della passione peccaminosa del divino (di Sophia) e della passione soteriologica del divino (di Cristo Redentore) come una cristologia sdoppiata, generata dalla tensione paradossale inscritta nella fede cristiana nel Dio incarnato». Per spiegare questo concetto Lettieri si rifà proprio, tra gli altri passi, a exc. Thdot. 1.1 (cf. pp. 142-143, nota 7). 95 Cf. exc. Thdot. 2.

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Passibilità divina

26-27 a Gen 2, 7, perché il modello di creazione che hanno presente nel momento in cui trattano della superiorità ontologica dell’anima sulla carne è l’insufflazione dello spirito di Gen 2, 796. Il secondo testo degli Excerpta relativo all’“incarnazione” è quello di exc. Thdot. 30-35. Qui l’incarnazione si lega alla nozione di «immagine», riferita, per mezzo di Col 1, 15, a Cristo e non all’uomo creato. Il testo degli Excerpta recita97: «Certo il Cristo è divenuto Figlio adottivo98, come è divenuto “Eletto” in rapporto ai “pleromi” (πρὸς τὰ πληρώματα, intendendo per “pleromi” gli eoni) e Primogenito delle cose di quaggiù (Col 1, 15)». Sia questa pericope che il dramma valentiniano della passione-redenzione di Sophia (corrispettivo gnostico del­l’incarnazione “cattolica”) alluso in exc. Thdot. 1.2 definiscono la natura del Cristo incarnato come “eletta”, lasciando intendere che la stirpe degli uomini pneumatici, già salvi per natura, condivide lo stesso statuto ontologico del Cristo. Tra i due brani c’è continuità anche teologica, nel senso che entrambi presuppongono una dottrina trinitaria attenta unicamente alle entità del Padre e del Figlio. La sola differenza è che exc. Thdot. 1-2 presentava una cristologia pneumatica, mentre ora si tratta cristologia angelomorfica. Lo si vede infatti già dalla definizione di Cristo come “Protoctista” ed essa sarà esplicitata anche in 35.1 con la definizione di Cristo propriamente come “angelo”. A Clemente tuttavia non sembra piacere l’esegesi gnostica del «Cristo come Protoctista». L’editore Sagnard, infatti, attribuisce al­l’Alessandrino le parole seguenti: «Dunque questa dottrina è un’interpretazione sbagliata della nostra, che parla del Salvatore “Protoctista” in quanto sottoposto (ἐκ τοῦ ὑποκειμένου)»99. La variante valentiniana della dottrina del Cristo-Protoctista non è accettabile agli occhi del­l’Alessandrino e tuttavia questa concezione non gli è del tutto estranea, perché la si trova in str. 5, 14, 89.5100. Clemente dunque 96 Va comunque tenuto conto del fatto che, mentre Clemente in str. 6, 16, 134136 sembra spostarsi su un versante esegetico attestato in seguito – con le dovute cautele – soltanto in ambito antiocheno (l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio esercita il comando), i valentiniani degli Excerpta continuano a interpretare Gen 1, 26-27 in modo conforme alla tradizione alessandrina, insistendo sulla distinzione tra la creazione a immagine e quella a somiglianza. 97 Clem. exc. Thdot. 33.1. 98 Rm 8, 15; 8, 23. 99 Clem. exc. Thdot. 33.2. 100 A proposito della ricezione della definizione di Sap 7, 24 (La sapienza... pervade e penetra tutte le cose per la sua purezza), in relazione a cui afferma che gli stoici «non intesero ciò che è detto della sapienza, protoctista di Dio (μὴ συνῆκαν λέγεσθαι ταῦτα ἐπὶ τῆς σοφίας τῆς πρωτοκτίστου τῷ θεῷ)». Analogamente in exc. Thdot. 20. Il contesto generale di questa concezione (l’idea Logos-Sophia-Protoctista) risale, al-

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IV. Psicologia e passibilità divina 219

non rifiuta la cristologia angelomorfica. Quello che non sembra accettare è la concezione di immagine che sta dietro a questa definizione101. Preferisce infatti interpretare il Cristo di Col 1, 15 come «Radice e Testa», e tale che «la Chiesa sono i suoi frutti»102, piuttosto che ritenere il Cristo-immagine come espressione della variante valentiniana della κένωσις paolina, nel senso che, in quanto Protoctista, «Gesù, la nostra Luce103, come dice l’Apostolo, ha vuotato se stesso..., poiché era “un Angelo” del Pleroma, ha condotto fuori con sé gli Angeli del seme superiore»104. Il testo di exc. Thdot. 30-35, insomma, presenta quello stesso tipo di dottrina trinitaria espresso nei primi due estratti assieme alla nozione di Cristo-Protoctista, esito dell’esegesi valentiniana di Col 1, 15, che gli gnostici interpretano servendosi dell’idea di κένωσις di Fil 2, 6-7. Ma cosa esattamente rifiuta Clemente in questo accostamento di Col 1, 15 e Fil 2, 6-7105? Quale pericolo intravede? In realtà il tema paolino dell’asservimento del Figlio, nell’esegesi valentiniana, risulta diretta conseguenza della passibilità di Dio Padre, dal momento che la κένωσις, discesa-svuotamento del Figlio, dipende dal coinvolgimento di tutto il Pleroma in una passione. Lo gnostico afferma infatti: Clem. exc. Thdot. 31.1: se colui che discese era il beneplacito (εὐδοκία) dell’Intero… e anche lui patì, è chiaro che anche i semi che erano dentro di lui patirono assieme a lui, e per tramite di questi troviamo che l’Intero e il Tutto è passibile106.

La passibilità dell’intero Pleroma, dell’intera dimensione intelligibile è la premessa necessaria alla ricezione valentiniana del concetto meno, a Filone ed è richiamato anche in Giustino (cf. Lilla 1971, pp. 208-209). Più specificamente, la dottrina del Cristo-Protoctista è attestata anche in Giustino (dial. 45, 4; 63, 3; 76, 7; 83, 4) e Ireneo (Dem. 43) e che risulta dall’esegesi di Sal 109 (110), 3 (cf. Parente 1973, Parente 1975, Basevi 1982, Otranto 1979, pp. 43-51 – specificamente per Giustino –). 101 Oltre che l’idea valentiniana di un assorbimento escatologico della natura umana in quella angelica, come espresso dai motivi di cristologia angelomorfica presenti nelle Eclogae Propheticae, cf. Cambe 2009, p. 46. 102 Clem. exc. Thdot. 33.2. 103 Gv 1, 4; 8, 12 104 Si può menzionare un altro fattore di somiglianza tra exc. Thdot. 1 e 35: la figura dello «spirituale» di exc. 1.1, in exc. Thdot. 35 è rimpiazzata con quella dell’«angelo», coerentemente con la declinazione angelomorfica della dottrina trinitaria a due termini (o “binitaria”) in exc. Thdot. 35. 105 Soprattutto alla luce del fatto che, come abbiamo appena visto, quest’idea non è del tutto estranea allo stesso Clemente (cf. p. 318). 106 Cf. p. 216, nota 92.

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Passibilità divina

“cattolico” di incarnazione107. E del resto, poco sopra, l’Alessandrino aveva riportato:

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Clem. exc. Thdot. 30.1-2: quindi, dimentichi della gloria di Dio, dicono empiamente che questi patì. Il fatto che il Padre abbia compatito, «pur essendo rigido per natura», dice Teodoto, «e non cedevole», rendendo se stesso cedevole, affinché Silenzio si impadronisse di ciò, è una passione: infatti il com-patire è la passione di qualcuno a motivo della passione di un altro. Sì: dal momento che è esistita la passione, l’Intero stesso patì, per il raddrizzamento di ciò che aveva patito108.

Si può dunque concludere che i valentiniani legavano la teologia dell’immagine sia all’incarnazione che alla generazione dell’uomo, in un contesto di cristologia pneumatica o angelomorfica. Se pertanto, come mostrato poco sopra, il medesimo contesto cristologico (cioè di cristologia pneumatica o angelomorfica) è quello di str. 6, 16, 134-136, le cui dottrine sono risposta a tesi valentiniane, è legittimo ritenere che l’Alessandrino stia tenendo conto anche della cristologia valentiniana. Ciò che Clemente negli Excerpta ex Theodoto non sembra ritenere accettabile è che la nozione di «immagine» presupponga la passibilità di Dio Padre109. Del resto, alla concezione dell’immagine divina si lega quella della partecipazione a Dio e, come si è visto, uno degli obiettivi principali della risposta che la psicologia di Clemente dà ai problemi posti da quella gnostica mira a cambiare proprio la nozione di partecipazione sostanziale al divino110. Legare un’attività passibile, come quella che anche per Clemente è di Dio, a una partecipazione sostanziale a Lui, avrebbe comportato l’ammissione di una passibilità divina altrettanto sostanziale, conclusione che probabilmente nemmeno l’Alessandrino avrebbe potuto accettare111. Cf. p. 214 e nota 88. Cf. p. 216, nota 92. 109 A ben vedere questa critica è radicata nella concezione clementina del CristoProtoctista – del Cristo, cioè, che anche in exc. Thdot. 19.4 è detto «immagine del Dio invisibile» secondo Col 1, 15 eppure è generato «senza che intervenga la passione (ἀπαθῶς)». Clemente pare consapevole del fatto che l’incarnazione implichi l’asservimento «non solo della carne», ma anche della οὐσία stessa del Figlio (exc. Thdot. 19.5) e, di conseguenza, si mostra attento a postulare che tale passibilità nell’essenza divina non venga attribuita anche al Padre, benché non approfondisca l’argomento oltre la semplice ma inequivocabile definizione del Figlio γεννηθεὶς ἀπαθῶς (Εxc. Th. 19.4). 110 Si veda soprattutto la quarta promessa clementina di una futura trattazione sul tema dell’anima (cf. p. 48). 111 E viceversa: ammettere un Dio passibile per attività salvifica e per sostanza avrebbe richiesto una partecipazione sostanziale dell’uomo alla sfera del divino. Sarebbe comunque saltata una delle premesse della psicologia clementina. 107 108

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IV. Psicologia e passibilità divina 221

La psicologia di Clemente afferma qualcosa solo dell’attività salvifica di Dio, non entra nel merito della sua natura, e così facendo ci mostra come Dio operi per la salvezza dell’uomo rivelandone la modalità del “farsi potenza”. Ciò non toglie che criticare la passibilità divina possa essere stato un motivo d’imbarazzo per lo stesso Clemente perché, come si è visto in precedenza, questa nozione è uno dei – più o meno taciti, in quanto facilmente fraintendibile o forse anche difficilmente esprimibile – presupposti sia della cosmologia che dell’antropologia clementine nonché, in q.d.s. 36-37, della sua stessa teologia dell’immagine (seppure intesa diversamente dalla teologia valentiniana dell’imago Dei; cf. pp. 216-217). L’unica – significativa – differenza tra la passibilità divina valentiniana e quella presupposta da Clemente è che per i valentiniani essa era passibilità dell’οὐσία divina, mentre per Clemente è relativa all’azione salvifica. In ogni caso, condannare la dottrina valentiniana della passibilità di Dio per Clemente avrebbe significato, in qualche modo, dover rinunciare a una delle premesse della sua riflessione sull’anima e sull’uomo. Di fatto, ad ogni buon conto, la dottrina della passibilità divina non viene mai esplicitata negli Stromati e, nell’ambito di un discorso antropologico, è dichiarata soltanto nel Pedagogo. Per cercare di capire come e secondo quali fini Clemente abbia operato negli Stromati, facciamo allora un passo indietro e riprendiamo in esame il brano del Quis dives salvetur. Già là, per quanto avesse mostrato il suo favore nei confronti della dottrina della passibilità divina, Clemente si era impegnato a estendere in termini universalistici la nozione, che era stata attribuita ai valentiniani in exc. Thdot. 1.1, di σπέρμα πνευματικόν: chiunque e non solo una stirpe di eletti può divenire spirituale. Così facendo si era mosso sulle stesse tracce di quanto testimoniato già in Ireneo (cf. pp. 214-215), che però aveva usato Sal 50 (51). Il punto è che il Clemente del Quis dives salvetur non parla come in str. 6, 16, e in Excerpta, perché ha di fronte interlocutori differenti. Nello specifico, da posizioni simili a quelle gnostiche, tra exc. Thdot. e str. 6, 16, 134-136 Clemente si concentra su diversi brani scritturistici – probabilmente tratti da florilegi di cui Ireneo è testimone –, prende le distanze dai motivi dell’esegesi alessandrina di Gen 1, 26-27 e sembra competere con i valentiniani sul campo del concetto di immagine (diversamente da quanto fa Ireneo). Esigenze di uditorio inducono Clemente a rielaborare un concetto di immagine che permetta di ottenere lo stesso vantaggio che in q.d.s. aveva comportato l’estensione universalistica del concetto di «seme spirituale» (cioè un accesso potenzialmente universale alla dimensione spirituale) e che era risultato a Ireneo grazie all’adozione di Sal 50 (51) – cioè lo «spirito che governa» come fattore che conferisce

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Passibilità divina

unità sia alla totalità delle anime112 sia, in ultima analisi, alla Chiesa113 – senza passare per la passibilità divina. Potendo fare a meno della passibilità divina, Clemente è in grado così di forgiare una psicologia “scientifica” (nel senso di dottrina formulata su base filosofica e medica), svincolata da premesse cristologiche (che pur si vedono in controluce) e pertanto accettabile anche da parte dei filosofi pagani114. L’impressione che tra il vaglio delle posizioni valentiniane attestate negli Excerpta ex Theodoto e str. 6, 16, 134-136 ciò che di fatto muta siano gli interlocutori di Clemente è corroborata anche da un’ulteriore considerazione sul rapporto tra esegesi di Gen 1, 26-27 e cristologia, che nel brano di Stromati sembra del tutto assente. Partiamo dall’analisi di exc. Thdot. 51, passo in cui si può notare che il lessico costruito sui concetti di μέρος, δύναμις ed ἐνέργεια è comune anche ai valentiniani a proposito di Gen 1, 26-27 (a proposito dell’uomo a somiglianza, citato in 50.1, lo gnostico afferma: «C’è infatti un uomo nell’uomo, uno psichico nel terrestre, che non si aggiunge come parte a una parte, ma come un intero a un intero, per potenza segreta di Dio»115). È proprio Gen 1, 26-27 a fornire l’appiglio per l’argomentazione clementina di str. 6, 16, 134-136 che cerca di definire una partecipazione allo spirito santo senza ricorrere al concetto di effluvio (ἀπόρροια). Si è infatti detto che, in 112 Il testo dice (cf. supra p. 215, nota 90): «le nostre anime l’hanno ricevuta [cioè l’unione all’incorruttibilità lett. ad incorruptionem unitatem acceperunt] mediante lo spirito». Il senso di un’unità di tutte le anime, così vicino al carattere unitario dell’anima razionale intesa come anima generale, non è dato solo dalla suggestiva espressione «unione all’incorruttibilità» (espressione che, presa di per sé, si riferisce più all’unione delle anime con l’incorruttibilità che a quella delle anime tra loro). Ireneo, infatti, aveva appena chiarito questo concetto ricorrendo all’immagine della farina che, assieme all’acqua, diventa nel pane «una sola massa»: «Come dalla farina asciutta non si può fare, senza acqua, una sola massa e un solo pane, così noi che siamo molti non potevamo divenire uno in Cristo Gesù (cf. Rm 12, 5; 1 Cor 10, 17; Gal 3, 28) senza l’acqua che viene dal cielo». 113 Il brano di Ireneo, è vero, non parla esplicitamente di «Chiesa». Tuttavia si deve tenere presente che il discorso valido per le anime in rapporto allo spirito, vale anche per quelle «tribù separate» (cf. supra, p. 215, nota 90) unificate dallo spirito disceso sui discepoli nella Pentecoste – cui Ireneo aveva fatto riferimento poco sopra –, le quali è ragionevole pensare si riferiscano alla Chiesa. 114 Il riferimento clementino a passi di Genesi non permetta di inficiare la tesi dell’interesse medico-filosofico di Clemente in str. 6, 16 per ragioni di propaganda apologetica. Anche in prot. 1, 7, infatti, Clemente sembra appellarsi a conoscenze pagane del racconto di Genesi, cf. Dainese 2010, pp. 257-258. Probabilmente ciò deve essere spiegato sulla base del peso delle riflessioni filoniane, come da previsioni di Osborn 2005, a partire dagli studi di Runia e di van den Hoek, cf. Osborn 2005, p. 85. 115 Clem. exc. Thdot. 51: ἄνθρωπος γοῦν ἐστιν ἐν ἀνθρώπῳ, ψυχικὸς ἐν χοϊκῷ, οὐ μέρει μέρος, ἀλλὰ ὅλῳ ὅλος συνών, ἀρρήτῳ δυνάμει Θεοῦ. In questo caso il μέρος di cui parla lo gnostico è usato per negare che lo psichico sia una parte del terrestre.

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IV. Psicologia e passibilità divina 223

exc. Thdot. 2, 1, la stessa antropologia gnostica che nell’interpretazione offerta da Clemente in str. 5, 13, 88 (cf. p. 48) veniva espressa dalla logica del μέρος era stata elaborata attraverso il ricorso alla duplice creazione di Adamo, ossia la sua plasmazione (Adamo è detto πλασθείς) e l’insufflazione successiva del «seme maschile», definita appunto ἀπόρροια. Che poi ciò sia propriamente lo spirito, lo proverebbe, oltre all’identificazione stabilita in exc. Thdot. 1 del seme maschile di exc. Thdot. 2 con il seme pneumatico, la ragione – tutta cristologica – del rifiuto clementino del μέρος in favore della δύναμις. Come si è visto sopra, infatti, exc. Thdot. 17.3 aveva stabilito un parallelismo tra la cristologia (rapporto Cristo-Chiesa, per la precisione) e la genesi dell’essere umano. A tal fine, nel proporre, come soluzione, la παράθεσις (affiancamento), Clemente aveva giustificato la sua posizione affermando che «la potenza infatti non pervade secondo sostanza, ma secondo potenza e forza; e lo spirito [inteso come spirito santo o spirito divino] si affianca allo spirito, come lo spirito all’anima». Ma exc. Thdot. 17 permetteva di intravvedere il contesto cristologico dei valentiniani con cui la componente metafisica della psicologia di Clemente costantemente si confronta. Per cui, data la coerenza della cristologia e dell’antropologia valentiniane espresse negli Excerpta, è chiaro che l’Alessandrino, avendo di mira la nozione antropologica di μέρος, non può ritenere la sua psicologia priva di valenza cristologica. Ciononostante la sezione che Clemente dedica alla componente antropologica della sua dottrina dell’anima sembra ignorare del tutto la cristologia e questo porta a pensare all’elaborazione di una concezione dell’anima su base filosofica o medica, che possa fare a meno di alcuni presupposti teologici. La conclusione che si può trarre, pertanto, è quella che l’occorrenza di Gen 1, 26-27 nel passo di str. 6, 16, 134-136 testimoni un’elaborazione in due tempi. In un primo tempo Clemente avrebbe formulato una dottrina a base fortemente filosofica e “secolarizzata”, partendo anche da elementi scritturistici, ma svuotandoli di parte del loro contenuto figurato (mitologemi teologici, come la figura dell’angelo), o evitandone interpretazioni facilmente assimibilabili, per fraintendimento, a teologie gnostiche. In un secondo momento l’Alessandrino avrebbe impiegato tale teoria a fini più propriamente teologici (esegesi a scopo polemico dei racconti biblici sulla creazione dell’uomo). Come corollario di questa sorta di doppia redazione, dunque, potrebbe anche darsi che Clemente, in un’eventuale sezione non pervenutaci degli Stromati, abbia elaborato qualcosa di simile a un trattato filosofico Περὶ ψυχῆς, sebbene non sia necessario ritenere che abbia composto un’opera sistematica. In ogni caso, la psicologia dell’Alessan-

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Passibilità divina

drino presuppone fortemente la passibilità divina, esattamente come è per gli gnostici e a differenza di qualsiasi filosofo pagano dell’epoca. La distanza di Clemente rispetto alla gnosi valentiniana si misura nel diverso modo di intendere la passibilità divina (per Clemente non sostanziale, ma di attività) e nel tentativo clementino di nascondere tale passibilità davanti a un pubblico colto formatosi filosoficamente116, affermandola invece di fronte ai suoi discepoli, siano essi “progredienti” (come l’uditorio di paed. 3), o già “progrediti” (come quelli del q.d.s.).

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Conclusione Da questo capitolo, dedicato al contesto teologico dei contenuti antropologici e metafisici della psicologia di Clemente, sono emersi due dati: la coerenza della dottrina clementina dell’anima con il presupposto della passibilità divina e il ruolo imprescindibile, per il pensiero filosofico dell’Alessandrino, della cristologia e della pneumatologia. Rispetto a questi due ambiti teologici, si possono distinguere due trattazioni relative all’anima all’interno dell’opera di Clemente: quella del terzo libro del Pedagogo, che dichiara la passibilità divina, e quella di str. 6, 16 che fa il possibile per tacerla, pur sembrando presupporla. Non disponiamo di elementi tali da permettere di affermare che queste due impostazioni rappresentano due stadi differenti della riflessione clementina, e pertanto bisogna probabilmente pensare a varianti della medesima dottrina, declinata diversamente a seconda degli interessi e della sensibilità degli interlocutori. Nello specifico, il fatto che entrambi i modelli mostrino dimestichezza con i temi e gli strumenti concettuali approntati dall’embriologia medica e filosofica porta a escludere che la psicologia del Pedagogo sia “ingenua”. E quando la passibilità divina viene taciuta (paed. 1, 6) o nascosta (str. 6), si può pensare che, prima di esporre una propria dottrina, Clemente ritenga necessario avvalersi del linguaggio messo a punto dai filosofi, come sembra dire in ecl. 36 affermando che, quando si è «ben preparati», bisogna cercare il confronto con i «problemi dei vicini», prima di esporsi, laddove tali «vicini» sono probabilmente aristotelici, platonici e stoici. Clemente, insomma, non è né un “puro filosofo” né un “puro teologo”, secondo la percezione che si ha oggi di questi termini, perché nel suo pensiero si intrecciano fini teologico-polemici e strumenti 116 E dunque incapace di concepire la passibilità a proposito del primo principio (secondo quanto già detto a pp. 221-224) e conseguentemente scandalizzabile.

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filosofici e talvolta – come nel caso del concetto di spirito, dell’escatologia o ancora dell’epistemologia – si fondono sotto i medesimi termini significati eterogenei senza che Clemente ravvisi alcun problema. L’Alessandrino in ogni caso non disdegna in alcun modo di esprimersi mediante l’interpretazione delle Scritture, ma è semplicemente attento sia al contesto culturale degli interlocutori cui si rivolge in sede di elaborazione dottrinale sia a quello di coloro ai quali indirizza il proprio discorso. Clemente, così, tramite l’impiego di fonti appartenenti al repertorio filosofico si mostra anche fine teologo, contribuendo a sviluppare determinati aspetti, nello specifico, di una cristologia e di una dottrina trinitaria che all’epoca erano variamente discussi. L’esito complessivo dell’analisi del pensiero di Clemente alla luce del contesto teologico in cui si trova inserito, in ogni caso, è chiaro, e ha conseguenze radicali. Sia pure sul piano dell’attività salvifica, la parte più intima e pura della divinità, l’anima di Dio – pare voler dire Clemente – è “umana”; essa è l’espressione di un impulso d’amore totale che stravolge le categorie tradizionali della potenza (uomo) e dell’atto (Dio). La perfezione dell’atto rispetto alla potenza è paradossale, perché consiste nel farsi potenza, accompagnando quest’ultima nel suo progresso affiché possa divenire atto a sua volta. Così Gv 4, 24 («Dio è spirito») diviene espressione della filantropia del «Dio compassionevole che desidera salvare l’uomo». E per Clemente ciò è fonte di meraviglia: Dio è «divenuto uomo affinché anche tu apprenda da un uomo come alla fine anche un uomo diventi Dio» (prot. 1, 8.4).

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Conclusione generale 227

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CONCLUSIONE GENERALE

La scelta metodologica in base alla quale è stato costruito il primo capitolo, quella di analizzare ogni singola opera di Clemente, limitatamente al problema dell’anima, ha consentito di apprezzare gli scopi specifici che l’Alessandrino si era di volta in volta prefissato e d’altro canto di osservare come la dottrina dell’anima, pur studiata lungo l’arco dell’intera produzione letteraria di Clemente, sta pressoché tutta nelle quattro promesse di un futuro approfondimento o di una futura trattazione in proposito; promesse, che, appunto, compaiono in una soltanto delle opere dell’Alessandrino, gli Stromati. Sono peraltro proprio queste quattro promesse a porre il problema se Clemente abbia effettivamente scritto un’opera De Anima/Περὶ ψυχῆς: sul punto la letteratura ha variamente discusso1. L’ipotesi di un trattato non va scartata a priori. La quarta promessa infatti rimanda la discussione del problema di come avvenga la partecipazione allo «spirito santo» a un generico τοῖς Περὶ ψυχῆς, che non esclude l’Alessandrino alludesse a una trattazione sistematica. Del resto una simile produzione letteraria era frequente nella tarda antichità ed è Festugière il primo a rendersene conto, nel mettere a tema la dottrina dell’anima nel Corpus Hermeticum2. Il fatto che tale opera non ci sia pervenuta può voler significare o che Clemente non ha effettivamente concretizzato un trattato monografico, non ritenendolo necessario, oppure che esso non ci è stato restituito dalla tradizione manoscritta. Una delle ipotesi formulate al riguardo è quella per cui le Ecloghe Profetiche conterrebbero frammenti del De Anima di Clemente3, ma è debole perché la psicologia degli Stromati riflette uno stadio di elaborazione più avanzato rispetto agli spunti contenuti nelle Ecloghe. Del resto, scritti come le Ecloghe Profetiche o anche gli Excerpta ex TheodoCf. Heussi 1902 e Pujiula 2006, pp. 56-59. Cf. Festugière 1953, pp. 1-15. 3 Cf. Le Boulluec 1981, pp. 287-288. 1 2

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Passibilità divina

to sono collezioni di materiale non strutturato in termini letterari, forse raccolte di fonti preparatorie alla stesura di opere compiute, come Protrettico, Pedagogo e Stromati e, per quanto importanti testimoni di riflessioni più ampie e complessive, non possono essere considerati i luoghi principali in cui cercare le risposte ai problemi relativi alla dottrina dell’anima di Clemente. Certo, tra i temi toccati nelle Eclogae o negli Excerpta c’è anche quello dell’anima, ed è importante tenerne conto perché la psicologia è una di quelle aree in cui Clemente si confronta con lo gnosticismo valentiniano o con altri ambiti del milieu alessandrino, verosimilmente giudeo-cristiano; soltanto non è possibile prendere le mosse da qui. In conclusione l’Alessandrino ha certo trattato approfonditamente dell’anima assieme ai suoi allievi, senza che tali discussioni siano state necessariamente tutte messe per iscritto. È inoltre legittimo affermare che l’Alessandrino ha ragionato con profonda consapevolezza dei dibattiti filosofici a lui contemporanei: quanto ci è pervenuto sull’anima, ad esempio in str. 6, non è che l’adattamento, in vista del confronto con lo gnosticismo, di contenuti elaborati, sì, alla luce delle Sacre Scritture e della traditio cristiana, ma anche di tutto ciò che veniva teorizzato e formulato nelle scuole di filosofia. Veniamo ora ai risultati specifici dei particolari argomenti emersi a proposito della psicologia clementina. Dapprima si è sondato il ruolo dell’anima come parte dell’uomo, notando come Clemente tenda a proporre un concetto di anima tripartita nelle occasioni in cui riflette sul tema in modo consapevole, mentre si avvicina più a modelli bipartiti quando il tema dell’anima è secondario e posto a margine di discussioni su altri argomenti. Nel secondo capitolo si è esaminata la ricezione clementina di almeno tre delle quattro dottrine già studiate da Festugière4 come tradizionali per il platonismo nell’ambito del tema dell’anima: embriologia, protologia ed etica. Successivamente si è visto che ruolo occupi l’anima a livello di dottrina dei principi e soprattutto in che modo i contenuti più propri dell’antropologia di Clemente si inseriscano nella struttura metafisica che funge da premessa del pensiero filosofico dell’Alessandrino. Globalmente, come si ribadirà tra breve, è emersa la sovrapposizione di due usi, teologico e filosofico, del termine πνεῦμα: si tratta di una sovrapposizione consapevole, che sviluppa le nozioni aristoteliche di atto e potenza. In questa fase dell’indagine si è vista anche la relazione del pensiero di Clemente con l’escatologia tradizionale. Infatti, parlare dell’anima come principio o come entità me4

Cf. Festugière 1953, p. 3.

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Conclusione generale 229

tafisica, cioè del suo rapporto con le entità incorporee e intelligibili e dunque, in ultima analisi, con i primi principi, si lega immediatamente alle discussioni sul destino dell’anima dopo la separazione dal corpo che si ha al momento della morte. In realtà l’attenzione nei confronti del problema della separazione dal corpo come pure quella per il modo in cui l’anima entra nel corpo pare piuttosto marginale nella risposta che Clemente dà ai suoi oppositori gnostici. Questo perché la corporeità non ha per lui una valenza negativa, ma è anzi palestra dell’anima per le scelte etiche. Più in generale, si può dire che la morte ha un valore per lo più metaforico e simbolico nell’ambito della psicologia di Clemente, tutta volta a definire il libero volere e a capire e spiegare come esso interagisca con l’azione salvifica di Dio. Da ciò deriva la presenza, nella riflessione di Clemente, di due modelli escatologici, non del tutto integrati tra loro. Il primo si identifica con il destino dell’anima dopo il distacco dal corpo. Il secondo assicura al cosiddetto vero gnostico un’anticipazione della beatitudine finale già in questa vita, anche se, talvolta, più che un’anticipazione sembra una realizzazione compiuta; di qui provengono le incoerenze tra i due modelli di escatologia. Legata proprio a questa seconda proposta escatologica poi si è avanzata un’ipotesi di ricostruzione del percorso in cui matura la filosofia di Clemente. Infine abbiamo studiato i contenuti più propriamente teologici della psicologia clementina, notando come essi fungano da ponte tra il versante antropologico e la dottrina dei principi. La prima conclusione che l’analisi della dottrina clementina dell’anima permette di trarre concerne la figura del Clemente intellettuale e maestro. Egli almeno in tre occasioni mostra mentalità sincretistica mescolando assieme materiali filosofici e teologici per fini polemici: all’interno di precise strutture concettuali egli articola ora fonti scritturistiche e materiali elaborati in contesti liturgici giudeo-cristiani5 ora, invece, contenuti forgiati dalla tradizione filosofica e altre volte ancora – se ne è appena accennato – sovrappone concetti religiosi e concetti filosofici. Str. 6, 16, 134-136, ad esempio, il testo che presenta in forma più completa la psicologia clementina, fonde un’accezione filosoficomedica6 del termine πνεῦμα con una di matrice scritturistica e mostra tracce dell’elaborazione di elementi giudeo-cristiani – come le parole di un πρεσβύτης – all’interno di una cornice fortemente sensibile ai problemi e ai temi delle dottrine dell’anima proposte dalla filosofia pla5 6

Cf. Schneider 1999. In cui troverebbe conferma l’ipotesi di Havrda 2011.

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tonica tardo-antica. Similmente – e lo si è scorto sviluppando le analisi di Bucur – anche l’ampia e complessa sezione di str. 5, 6 articola concetti familiari più al giudeo-cristianesimo che alla tradizione filosofica (come quello di πνεῦμα) in un rapporto di tipo dualistico tra lettera e spirito (cf. p. 120-123). Dualismo che, in quanto tale, è caratteristico dell’ambito del platonismo di età imperiale ma che, coinvolgendo l’esegesi delle Scritture ed essendo finalizzato a costruire concetti teologici (è pur sempre un dualismo lettera-spirito), si presta particolarmente al confronto con quella sua peculiare declinazione che era lo gnosticismo valentiniano. Analogamente Clemente opera con i motivi della moralistica dell’epoca, rendendoli funzionali a esprimere un tipo di psicologia classica per i discorsi protrettici e, più in generale, per i discorsi di propaganda7, cioè la pulizia dell’occhio dell’anima. Nel fare ciò, l’Alessandrino mostra di seguire procedure argomentative che avevano un’ampia diffusione a quell’epoca e si comporta da intellettuale tardo-antico, che cerca nelle sue fonti la soluzione a problemi che vi vede implicati, ma che ne sono in realtà ormai emancipati. A proposito dell’inculturazione nel cristianesimo di elementi filosofici, bisogna ancora aggiungere che dall’indagine svolta emerge un quadro del contesto alessandrino come sistema di tradizioni di pensiero tra loro molto simili, sotto il profilo dei problemi trattati e delle fonti utilizzate. Si afferma il quadro di un’Alessandria in cui prolifera una molteplicità di scuole di carattere ora più filosofico e ora più religioso, ciascuna dotata di proprie pretese di universalità (e pertanto di un proprio potenziale di conflittualità, nel caso venisse meno l’equilibrio sociale garante di una pacifica convivenza), ma di fatto non troppo diverse tra loro8. Inoltre se, come si è detto, la riflessione filosofica di Clemente fa intravedere un processo di maturazione dovuto al confronto con gli gnostici e se Clemente si era precedentemente formato nel contesto di una «comunità plurale»9, differenziata certo al suo interno, ma tenuta assieme da forti propensioni spirituali10 che contribuiscono, entro certi limiti, a mitigare le distanze dottrinali tra le varie scuole, allora non può aver elaborato tutte le peculiarità del suo “sistema filosofico” – risposta agli gnostici – soltanto dopo lo scontro con i suoi oppositori. Bisogna piuttosto pensare che alcune dottrine cle-

Cf. van der Meeren 2002, pp. 609-612. È un po’ il quadro offerto da Jakab 20042. 9 Cf. Jakab 20042, pp. 63-89. 10 Cf. Jakab 20042, p. 88. 7 8

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mentine (l’antropologia) risentiranno maggiormente di altre (la dottrina dei principi) di questo confronto. La seconda conclusione concerne invece il carattere principale dei contenuti teologici della psicologia clementina. Si può dire infatti che il caposaldo della dottrina clementina dell’anima è la relazione tra l’anima umana e un Dio Padre-Primo principio passibile proprio come espressione più alta della sua perfezione. Si tratta di una passibilità che concerne soprattutto l’attività (ἐνέργεια) di Dio, più che la sua sostanza (οὐσία) e probabilmente questa è la differenza principale tra la metafisica clementina e quella gnostica. Tuttavia è anche vero che Clemente non si esprime mai in merito all’essenza di Dio in modo chiaro e sistematico, lasciando intendere che l’idea della passibilità divina potesse essere o difficilmente comprensibile o (più probabilmente) facilmente fraintendibile da parte di un uditorio familiare alla filosofia platonica, per il quale ammettere una passione e dunque una forma di defezione nel Primo principio sarebbe risultato inaccettabile. In ogni caso la passibilità di Dio Padre è un cardine del pensiero di Clemente ed è una tesi fondata sulla combinazione di almeno due brani della Sacra Scrittura, Gen 1, 26-27 e Gv 4, 24, e che egli stesso attesta presso la gnosi valentiniana negli Excerpta ex Theodoto. Questa nozione, che Clemente esplicita in paed. 3, 1 e in q.d.s. 37, da un lato è essenziale all’antropologia del Pedagogo, consentendo la coerenza della psicologia ivi espressa, e dall’altro permette di stabilire l’accordo tra la concezione metafisica dell’anima e quella antropologica. Inoltre la differenza rispetto alla concezione valentiniana di un Deus patiens non è estranea alle sopra menzionate ragioni di carattere sociale, legate alla necessità di far sì che la propria proposta di cristianesimo si distinguesse e prevalesse sulle altre. I valentiniani, nello specifico, ammettevano un Dio passibile per sostanza e una partecipazione altrettanto sostanziale a Dio da parte di alcuni uomini (loro stessi), salvi e beati per natura. Nel momento in cui, come nel caso di Clemente, la partecipazione a Dio non viene più concepita come partecipazione sostanziale, ma come atto di fede e di libera scelta, si rende necessario pensare al rapporto creatore-creatura nei termini di una dinamica di reciproco avvicinamento tra due soggetti ugualmente liberi, uomo e Dio. Di qui deriva che la passibilità divina per Clemente concerne l’attività salvifica di Dio e non la sua sostanza. La passibilità divina, pertanto, non è solo tratto distintivo della riflessione clementina in quanto legata allo stesso milieu culturale dello gnosticismo, ma probabilmente segna anche il percorso in cui la filosofia di Clemente matura i suoi tratti specifici, nel confronto serrato con i suoi oppositori.

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Bibliografia 233

BIBLIOGRAFIA

1. Fonti primarie

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Bibliografia

Stromata VI: Les Stromates. Stromate VI, ed. P. Descourtieux, «Sources Chrétiennes» 446, Cerf, Paris 1999. Stromata VII: Les Stromates. Stromate VII, ed. A. Le Boulluec, «Sources Chrétiennes» 428, Cerf, Paris 1997. Stromata VIII: Clemens Alexandrinus, III, edd. L. Früchtel - O. Stählin U. Treu, «Die griechischen christlichen Schriftsteller» 42, Hinrichs, Leipzig 19702, pp. 80-102.

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Indice dei nomi 285

INDICE DEI NOMI

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Nomi antichi Acacio: 55 Adriano (imperatore): 276 Aezio: 93, 234 Afraate: 192 Agostino: 23, 30, 167, 250, 269, 281 Alcinoo: 24, 43, 45, 86, 92, 93, 105, 234, 279 Alessandro di Afrodisia: 247 Ammonio: 253 Ario Didimo: 37 Aristobulo: 76, 117 Aristotele: 23, 38, 55, 80, 96, 140, 235, 244, 246, 247, 250, 253, 255, 256, 262, 280 ps. Aristotele: 62, 63, 235 Attico: 24, 125, 139, 141, 142, 235 Aulo Gellio: 55, 62, 235 Autore dell’Elenchos: 212 ps. Barnaba: 157, 158, 235 Basilide: 43, 47, 70, 73, 78, 86, 178, 270, 273, 282 Basilio di Cesarea: 211, 264 Boezio: 27 Cassiano: 36 Celso: 30, 125, 136, 142, 239 Cicerone: 23, 24, 235 Cipriano: 131, 167, 235 Claudio Subaziano Aquila: 166 Clemente Romano: 235 Crisippo: 95, 96, 236, 274 Damascio: 24, 236

ps. Demetrio: 249 Diogene Laerzio: 140, 141, 236 Diogneto: 211 ps. Dionigi Areopagita: 205, 255 Epifanio: 131, 205, 236 Eracleone: 162, 164, 166, 167, 178 Erma: 37, 80, 120-122, 237, 276, 283 Epitteto: 39, 42, 101, 236, 278 Eraclito: 45 Ermogene: 130 Eudoro di Alessandria: 28 Eunomio: 103, 238 Euripide: 152 Eusebio di Cesarea: 9, 12, 55, 76, 125, 128, 129, 164-167, 177, 182, 236 Felicita: 164, 166, 234 Filippo: 116, 238 Filone: 43-45, 66, 70, 76, 94-96, 101, 106, 116, 117, 124, 128, 143, 149, 153, 176, 182-185, 187, 188, 190, 191, 201, 211, 218, 237, 246, 247, 250-252, 258, 263-265, 274, 277, 279 Fortunato: 235 Fozio: 49, 237 Galeno: 29, 33, 43, 45, 58, 85, 93, 94, 98, 172, 215, 222, 237, 245, 247, 251, 253-255, 257, 262, 265, 273, 278, 281, 282 Gauro: 79, 241, 253 Giamblico: 23, 24, 27, 124, 158, 237 Giovanni Evangelista: 87, 102, 108,

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Indice dei nomi

116, 138, 139, 143, 145, 154, 187, 191-193, 200, 202-205, 207, 215, 219, 225, 231, 263, 270

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Giuliano l’Apostata: 234 Giuseppe Flavio: 211 Giustino: 8, 30, 76, 125, 150, 192, 219, 238, 246, 270, 271, 276 Gregorio di Nazianzo: 264 Gregorio di Nissa: 103, 238, 274, 284 Gregorio Taumaturgo: 255 ps. Gregorio Taumaturgo: 276 Ierocle: 153, 238, 256 Ippocrate: 237, 265 Ippolito: 135, 136, 212, 249 Ireneo: 187, 211, 214, 215, 219, 221, 222, 238, 245, 246, 248, 250, 257, 258, 270, 272-274, 277 Luca Evangelista: 36, 171, 215, 216 Marcione: 47, 274 Marco Evangelista: 249, 261, 259, 266, 282 Matteo Evangelista: 25, 36, 65, 152, 157, 167, 194, 264 Minucio Felice: 250 Musonio: 62, 63, 238 Numenio: 74, 75, 79, 103, 125, 141143, 146, 147, 238, 253 Omero: 45, 238 Origene: 8, 9, 14, 30, 43, 89, 96, 106, 109, 116, 119, 125, 135-137, 139, 142, 164, 167, 176, 177, 182, 207, 211-213, 239, 242-244, 249, 251, 259, 263-266, 268, 269, 271, 272, 275-277, 280, 284 Paolo di Tarso: 36, 109, 182, 214, 244 Panteno: 129, 130 Perpetua: 164, 166, 234 Platone: 24, 25, 27, 28, 32, 39, 40, 45, 47, 49, 50, 75, 78, 93, 95, 96, 98, 99, 103, 111, 112, 124, 125, 136, 140, 143, 145, 149-153, 158, 192,

234, 236, 237, 239-241, 245, 248, 254-256, 266, 268, 272-275, 277, 281, 282, 284 Plotino: 69, 70, 74, 75, 79, 80, 91, 92, 103, 111, 149, 153, 240, 245, 252, 275, 282, 284 Plutarco: 24, 39, 70, 77, 78, 149, 150, 153, 240, 241 Porfirio: 24, 70, 74, 75, 79, 149, 158, 241, 280 Posidonio: 33, 93, 94, 255 Proclo: 24, 75, 79, 80, 90, 91, 103, 149, 241 Quintiliano: 62, 63, 241 Quirino: 235 Settimio Severo (imperatore): 164166, 251 Silvano: 284 Simplicio: 256 Socrate: 28, 151, 238, 256 Stobeo: 33, 37, 158, 241 Teodoto: 15, 49, 50, 55, 56, 58, 60, 86, 100, 116, 118, 187, 188, 200204, 207, 211, 212, 215-223, 231, 233, 260 Tertulliano: 33, 34, 158, 241, 247, 280 Timeo da Locri: 150, 241 Tolomeo: 279 Trifone: 30, 76, 125, 150 Valentino: 43, 178, 244, 250, 253, 258, 281 Nomi moderni Abbenes J.G.J.: 279 Abramowski L.: 265 Agamben G.: 66, 244 Aland B.: 244 Alderink L.J.: 13, 244 Alexandre M.: 211, 212, 213, 244, 273 Alfonsi L.: 23, 244

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Indice dei nomi 287

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Allen T.W.: 238 Amat J.: 234 Amerise M.: 4, 12 Andresen C.: 244 Annas J.: 244 Apostolopoulou G.: 245 Arnason J.P.: 280 von Arnim J.: 236 Aróytegui M.: 245 Ashwin-Siejkowski P.: 12, 42, 49, 245 Aubry G.: 73, 245 Auden W.H.: 248 Ballester L.G.: 255 Baltes M.: 15, 242, 245 Bardy G.: 236, 245 Barnes T.D.: 165, 246 Barzanò A.: 166, 246 Basevi C.: 219, 246 Baumeister T.: 246 Baur F.C.: 246 Beatrice P.F.: 23, 246 Becker M.: 143, 246 Beghin N.: 273 Behr J.: 246 Bekker I.: 235 Bergjan S.-P.: 12, 246 Bernard J.: 1, 29, 246 Bettiolo P.: 11, 12 Bévenot M.: 235 Bianchi U.: 148, 243, 279 Bianco M.G.: 234 Bignone E.: 247 Bihlmeyer K.: 235 Bitzer L.R.: 27, 247 Blaudeau P.: 12 Blowers P.M.: 247 Blume H.D.: 266 Blumenthal H.J.: 282 van den Boer W.: 244 Boeri M.: 247 Böhlig A.: 247 Bolgiani F.: 132, 247 Bori P.C.: 12 Bos A.P.: 201, 247

Boudon Millot V.: 247 Bousset W.: 39, 55, 247 Bovon F.: 247 Bowersock G.W.: 165, 177, 247, 276 Boys-Stones G.R.: 247 de Brabander K.: 248 Bracht Brancham R.: 264 Bradley D.J.M.: 248 Brennecke H.C.: 265 Briggmann A.: 248 Brigham F.H.: 248 Brisson L.: 253, 256 Brontesi A.: 61, 248 Broudehoux J.P.: 248 Brown P.: 66, 248 Brown S.G.: 248 Bruschi R.: 283 Bucur B.G.: 12, 55, 85, 115, 116, 118122, 182, 191-193, 216, 230, 248 Buffière F.: 45, 248 Butterworth G.W.: 249 Buri F.: 249 Burini de Lorenzi C.: 249 Cacitti R.: 249 Cadili A.: 12 Cadiou R.: 249 Cairus A.E.: 249 Cambe M.: 219, 249 Camelot P.T.: 249 von Campenhausen H.: 249 Capitaine W.: 249 Cardullo R.L.: 73, 243 Carlini A.: 12, 249 Carlson S.C.: 248, 249 Casey R.P.: 49, 249 Caspar P.: 249 Castelli E.: 12, 109, 250 Cataudella Q.: 250 cˇernušková V.: 12 Chadwick H.: 55, 250, 270 Chiapparini G.: 148, 250 Chiaradonna R.: 283 Choufrine A.: 115-119, 128, 143, 191, 193, 195-197, 250

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Indice dei nomi

Christiansen I.: 250 Clark E.A.: 96, 245, 250 Clemen C.: 250 Cohn L.: 237 Collomp P.: 55, 122, 251 Cocchini F.: 12, 251 Congar Y.: 174, 251 Congourdeau M.-H.: 36, 47, 48, 68, 170, 178, 197, 207, 251, 253 Cook J.C.: 251 Cosans E.C.: 251 dal Covolo E.: 164-167, 251, 268 Cramer W.: 281 Crepaldi M.G.: 11 Crouzel H.: 239, 242, 282 Dainese D.: 3, 8, 9, 13, 123-125, 128, 130, 148, 222, 251 Daly R.J.: 243, 251 Daniélou J.: 22, 47, 116, 174, 188, 252, 272 Davis S.J.: 252 De Poli M.: 12 Des Places É.: 235, 238, 239 Delehaye R.P.: 167, 252 Delruelle E.: 246 Descortieux P.: 233 Deuse W.: 158, 252 Di Benedetto F.: 49, 252 Diels H.: 234 Diercks G.F.: 235 Di Pasquale-Barbanti M.: 71, 252 Dillon J.M.: 237, 252 Dinan A.: 22, 102, 124, 166, 217, 252 Dodd C.H.: 154, 252 Dodds E.R.: 241, 253 Dönermann M.: 253 Donini P.: 253 Dorandi T.: 79, 253 Dörrie H.: 15, 38, 43-45, 70, 77, 79, 99, 105, 106, 125, 141, 148-150, 153, 155, 158, 172, 242, 253, 266 Dörries H.: 262 Doutreleau L.: 238 Drobner H.R.: 260

Dubois M.J.: 253 Dubois J.D.: 263 Dunderberg I.: 253 Dünzl F.: 11, 121, 193, 194, 253 Dupleix A.: 282 Düring I.: 235, 253 Dvornik F.: 66, 253 Edwards M.J.: 49, 253 Eisenstadt S.N.: 280 Emmett L.: 254 Erler M.: 103, 243 Ernst W.: 55, 254 Faivre A.: 67, 254 de Faye E.: 39, 55, 254 Fédou M.: 254 Ferguson E.: 282 Ferguson J.: 254 Fernández Ardanaz S.: 66, 111, 254 Ferrari F.: 254 Festugière A.J.: 14, 20, 22, 24, 27, 31, 34, 36, 37, 50, 90, 100, 128, 148, 157, 158, 227, 228, 236, 254 Feulner R.: 254 Filoramo G.: 254 Finamore J.F.: 237 Firpo G.: 275 Floyd W.E.G.: 254 Fontaine J.: 272 Frangoulis J.D.: 254 Frend W.H.C.: 165, 166, 255 Frey J.: 243 Fröbe O.: 273 Frohnhofen H.: 106, 255 Früchtel L.: 152, 233, 234, 255 Fürst A.: 255 Funk F.X.: 235 Gaiser K.: 255 Galloni M.: 255 García Ballester L.: 255 García Bazán J.B.: 205, 255 Gavrilyuk P.L.: 103, 106, 255 Gemeinhardt P.: 256 Gemmiti D.: 256

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Indice dei nomi 289

Gerhäußer W.: 255 Gerson L.P.: 270 Gieschen C.A.: 182, 256 Gibbon E.: 248 Gill C.: 256 Giovanni XXIII (papa): 8 Gleason M.W.: 256 Gnilka C.: 256 Goodspeed E.J.: 238 Gonzalez F.J.: 256 Goulet-Cazè M.O.: 264 Granfield P.: 259 Grasmück E.L.: 265 Griffo S.: 256 Gussen P.J.G.: 255 Haas C.: 256 Hadot I.: 256 Hadot P.: 148, 256 Hägg H.F.: 40, 65, 201, 256 Hall J.M.: 257 Han-Young Yoo P.: 257 Hankinson R.J.: 257 von Harnack A.: 257 Harris R.B.: 283 Hartlich P.: 23, 257 Hartog F.: 257 Hauschild W.D.: 122, 182, 257 Havrda M.: 12, 56, 85, 86, 172, 175, 229, 251, 257 Hengel M.: 257 Henry P.: 240 Henry R.: 237 Héring J.: 48, 257 Herrero Jaúregui M.: 257 Heussi C.: 46, 227, 258 van den Hoek A.: 12, 96, 101, 116, 163, 168, 222, 233, 258, 261 Hoheisel K.: 258 Holl K.: 236 Holsinger-Friesen T.: 258 Holstein H.: 174, 258 Holzhausen J.: 258 Horn H.J.: 258 van der Horst P.W.: 267

van Houdt T.: 271 Huby P.: 279 Hunter D.G.: 258 Hušek V.: 251 Hvalvik R.: 271, 279 Kaestli J.D.: 244, 259 Kalvesmaki J.: 259 Kannengiesser C.: 272 Karamanolis G.: 12 Karavites P.: 259, 275 Kerferd G.: 279 Kimber Buell D.: 259 Kippenberg H.G.: 13, 259 Klibengajtis T.I.: 259 Knauber A.: 49, 101, 259 Kobusch T.: 103, 244 Koch K.: 259. Köhler F.G.: 238 Köhler H.: 260 König H.: 238, 260 Körtner U.H.I.: 237 Koffas A.K.: 260 Kollesch J.: 265, 269 Kovacs J.L.: 12, 116, 260 Kovelman A.: 260 Kraft R.A.: 235 Kraut R.: 266 Kretschmar G.: 182, 260, 261 Impara P.: 261 Irwin T.: 244 Itter A.C.: 55, 128, 129, 139, 151, 189, 191, 204, 261 Jähne A.: 46, 261 Jaeger W.: 238 Jakab A.: 50, 230, 261 Jay J.: 261 Jeffery P.: 261 Jonas H.: 148, 261 Jones H.S.: 11, 242 Jordan M.D.: 27, 261 Jourdan F.: 261 Jungmann J.A.: 259 Junod E.: 244

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Indice dei nomi

de Lacy P.: 237, 262 Ladaria F.L.: 262 Lamberden S.N.: 262 Lampe G.W.H.: 11, 242 Lang W.: 158, 245, 250, 254, 255, 260262 Langerbeck H.: 262 Layton B.: 244, 281 Lamberton R.: 262 Lazzati G.: 39, 55, 262 Le Boulluec A.: 12, 123, 133, 134, 152, 227, 233, 234, 243, 263 Lébreton J.: 174, 262 Lechner T.: 16, 28, 38, 263 Leclerq M.: 12 Ledegang F.: 263 Lettieri G.: 116, 119, 135, 136, 148, 217, 263, 264 Leutzsch M.: 237 Liddell H.G.: 11, 242 Liebeschuetz W.: 264 Lies L.: 242, 250, 282 Lilla S.R.C.: 143, 174, 219, 264 Lössl J.: 96, 264 Löhr W.: 78, 264 Lona H.E.: 263 Long A.A.: 93, 94, 242, 264 Loofs F.: 264 Lories D.: 275 Louis P.: 234 Lugaresi L.: 17, 18, 21, 23, 264, 265 Lutz C.E.: 238 Maas W.: 106, 265 Mack B.: 13, 265 Magris A.: 249 Maniaci M.: 248 Mann F.: 266 Mansfeld J.: 125, 265 Manuli P.: 253, 255, 262, 265, 272 Marcovich M.: 233, 236 Marguerat D.: 259 Maritano M.: 265 Markschies C.: 116, 182, 194, 265 Markus R.A.: 282

Maróth M.: 265, 266 Marrou H.I.: 266, 271 Marshall P.K.: 235 May G.: 266 Mayer A.: 266 Mayor J.B.: 133, 135 Mazzanti A.M.: 273 van der Meeren S.: 27-29, 230, 267 Méhat A.: 39, 54, 55, 127, 128, 175, 266 Meinwald C.C.: 266 Melamed H.: 136, 266 Melloni A.: 12 Ménard J.É.: 238 Menken M.J.J.: 267 Merki H: 267 Merkt A.: 13, 267 Mees M.: 267 Merino M.: 55, 56, 267 Meyer-Zwiffelhoffer E.: 267 Meyer M.W.: 13, 267 Migliore F.: 234 Möhler J.A.: 267 Molland E.: 267 Monaci Castagno A.: 242, 251, 267, 269, 272 Mondésert C.: 174, 233, 267 Monfrinotti M.: 188, 267 Moreschini C.: 175, 244 Morris P.: 262 Mortley R.: 267, 268 Motte A.: 246 Movia G.: 28, 268 Mras K.: 236 Müller G.: 268 Munck J.: 39, 55, 268 Narcy M.: 27, 268 Nardi C.: 129, 204, 212, 214, 233, 234, 268 Nasrallah L.S.: 268 van der Nat P.G.: 244 Nautin P.: 55, 179, 268 Neal G.: 279 Neri V.: 269, 276

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Indice dei nomi 291

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Neschke-Hentschke A.: 275 Neymeyr U.: 29, 268 Nickel D.: 265, 269 Nigro G.A.: 269 Nock A.D.: 28, 236, 269 Norelli E.: 175, 244, 269 Nowack W.: 245 Nussbaum M.C.: 244 Nutton V.: 269 Oeyen C.A.M.: 55, 193, 248, 269 Ohme H.: 269 Orbe A.: 48, 205, 269, 270 Osborn E.: 46, 96, 116, 128, 191, 222, 270 Osborne C.: 11, 270 von Ostheim M.R.: 270 Otranto G.: 219, 270 Overbeck F.: 270 van Oyen G.: 267 Paczowski M.C.: 270 Pade P.B.: 270 Paget J.C.: 22, 271 Papy J.: 271 Parel K.: 271 Parente F.: 219, 271 Partoens G.: 271 Pasquato O.: 271 Patrick J.: 271 Patterson L.G.: 271, 272 De Pauley W.C.: 271 Pearson B.A.: 271 Pelikan J.: 271 Pépin J.: 45, 272 Perilli L.: 272 Peroli E.: 282 Perrone L.: 11, 137, 243, 272 Person R.E.: 174, 272 Petit F.: 237 Pieri F.: 12 Pietsch C.: 15 Pigeaud J.: 272 Pini G.: 127, 234, 276 Piquemal J.: 23, 272 Pirenne-Delforge V.: 246

Piscitelli T.: 264 Pizzolato L.F.: 249, 263 Pohlenz M.: 240, 272 Plátová J.: 12, 49, 251, 272 Polacchi C.: 273 Poncet C.: 273 Pozzi P.: 276 Prandi C.: 252 Pujiula M.: 39, 46, 100, 125, 164, 165, 166, 177, 227, 273 Prinzivalli E.: 1, 12, 50, 264, 273 Prostmeier F.R.: 263 Prunet O.: 273 Quasten J.: 55, 175, 259, 273 Quispel G.: 273 Radice R.: 219, 265 Ramelli I.: 12, 273, 274 Rankin D.: 29, 274 Reale G.: 268 Recinová M.: 12 Reynders B.: 174, 274 Richardson W.: 274 Ridings D.: 274 Riedweg C.: 38, 268, 274 Rinaldi G.: 165, 274 Rist J.: 103 Ritter A.M.: 274 Rizzerio L.: 55, 67, 71, 78, 92, 93, 111, 159, 207, 274, 275 Rizzi M.: 9, 11, 16, 55, 56, 96, 162-167, 177, 179, 234, 249, 263, 275, 276 Roberts L: 55, 276 Robertson A.: 66, 276 Robinson M.: 256 Rokay Z.: 276 Romano F.: 73, 243 Rondet H.: 276 Ross W.D.: 235 Rossetti C.L.: 276 Rostagni A.: 278 Rousseau A.: 215, 238 Roussel B.: 263 Rousselle A.C.J.: 166, 276 Ruggieri G.: 12

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292

Indice dei nomi

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Ruggiero F.: 8, 277 Runia D.T.: 106, 123, 124, 125, 128, 153, 209, 222, 277 Rüsche F.: 277 Russell N: 277 Rüther T.: 277 Rutherford J.E.: 89, 277 Sagnard F.: 218, 233 Sanders E.P.: 268 Sanguineti J.J.: 32, 277 Sarton G.: 277 Sartori P.: 12 Sawyer D.F.: 262 Scarborough J.: 277 Schenkeveld D.M.: 279 Schenkl H.: 236 Scherer J.: 239 Scherer W.: 277 Schlange-Schöningen H.: 277 Schmid K.: 268 Schmidt E.G.: 278 Schmöle K.: 66, 278 Schneemelcher W.: 235 Schneider U.: 14, 40, 42, 163, 229, 278 Schröder H.O.: 237 Schröter J.: 243 Schwanz P.: 278 Schwarte K.-H.: 166, 278 Sclafert C.: 100, 278 Scopello M: 278 Scott G.A.: 256 Scott R.: 11, 242 Seddon K.: 278 Seesemann H.: 278 Sedley D.N.: 93, 94, 242 Segal A.F.: 278 Servino A.: 56, 278 Sfameni Gasparro G.: 34, 278, 283 Sharples R.W: 279 Shatkin M.: 12 Shoemaker S.J.: 279 Skarsaune O.: 22, 271, 279 Sicking J.C.M.: 244

Simonetti M.: 175, 193, 194, 198, 205, 239, 279 Siniscalco P.: 279 Slings S.R.: 27, 28, 38, 101, 279 Sluiter I.: 279 Smit G.D.S.: 279 Smit J.F.M.: 267 Smith J.Z.: 13, 244, 249, 279 Smith M.: 266 Smulders P.: 174, 280 Sodano A.R.: 158, 280 Soffritti O.: 249 Solère J.L.: 253 Solmsen F.: 280 Sordi M.: 265 Spanneut M.: 280 Stählin O.: 39, 46, 101, 133, 135, 205, 233, 234, 280 Steenberg M.C.: 280 Stelzenberger J.: 280 Steneker H.: 280 Striker G.: 280 Stritzky M.B.: 281 Stroumsa G.G: 280 Strutwolf H.: 280 Tardieu M.: 50, 100, 148, 256, 280 Tarrant H.: 281 Tasinato M.: 71, 281 Temkin O.: 281 Tessore D.: 234 Tollinton R.B.: 281 Torjesen K.J.: 281 Trelenberg J: 281 Treu U.: 233, 234 Trisoglio F.: 281 Turner H.E.W.: 281 Twoney D.V.: 277 Uhrig C.: 281, 282 Uzukwu G.N.: 215, 281 Valvo A.: 265 Vegetti M.: 253, 255, 262, 265, 272, 281 Verbeke G.: 281

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Verkuyl G.: 282 Vigne D.: 47, 282 Virginio A.: 235 Vlastos G.: 244 de Vogel C.J.: 282 Völker W.: 282 Wagner W.H.: 282 Walzer R.: 282 Waszink I.H.: 241, 244 Watson F.: 282 Weber R.: 235 Wendland P.: 237 Westernik L.G.: 236 Whittaker J.: 191, 234, 283 Widok N.: 282 Wiese H.: 283 Williams R.D.: 281, 282

Indice dei nomi 293

Wilson R.McL.: 148, 283 van Winden J.C.M.: 233, 244 Winter F.J.: 283 Witt R.E.: 282 Wittrock B.: 280 Wlosok A.: 258, 283 Wolfson’s H.A.: 251 Wyrwa D.: 25, 39, 99, 112, 283 Wytzes J.: 283 Ysebaert J.: 283 Zambon M.: 11, 69, 75, 79, 125, 283 Zahn T.: 283 Zandee J.: 284 Zecchini G.: 275 Ziebritzki H.: 85, 284 Ziegert P: 49, 284 Zorzi S.M.B.: 109, 132, 284

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Indice dei nomi

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294

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Indice analitico 295

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INDICE ANALITICO

allegoria e raffigurazione allegorica: 20, 21, 34, 58, 103, 117, 1175, 119, 11911, 121, 12218, 135, 136, 137, 139, 163, 164, 184, 194 allegorismo filoniano: 46 dei dieci comandamenti: 67, 76, 77, 81, 183 esegesi di Omero e dei miti pagani: 35, 103 amore: 32, 3576, 36, 6522, 8972, 103102, 105, 136, 204, 205, 225 anima avventizia: 47, 70 anfibia (natura dell’anima): 69, 74, 79, 84, 149-151, 153 angelologia: 17, 21, 3683, 37, 46, 50, 8768, 108, 120, 12014, 171153, 172, 182, 188, 18816, 192, 205-21282, 216-219104, 223, cf. anche cristologia arcangeli: 1189; cherubini: 117, 118, 134, 139; cristologia angelomorfica: 108, 109, 121, 216, 218, 220; pneumatologia angelomorfica: 120, 182; potenze: 8659, 102100, 1177, 134, 188 animali: 47, 47117, 70-72, 93, 94, 168, 168145, 21282 antropologia (gen.): 15, 16, 18, 24, 26, 37, 40, 47, 53-113, 115, 118, 119, 122, 12419, 129, 13769, 147149, 154, 156, 159, 160, 170, 172, 176, 178, 179, 181, 184, 18412,

186-18920, 195, 196, 200, 202, 203, 204, 205, 207-209, 212-217, 219101, 219, 221, 223-225, 228, 229, 231; uomo: 10, 143, 20, 21, 2425, 2844, 3261, 3263, 34, 35, 3679, 3887, 40, 4095, 43, 43104, 49-51, 54, 58, 61, 6521, 6522, 67, 69-72, 80-83, 91-94, 9586, 97, 100, 10094-106107, 106108109, 1189, 12530, 136, 13678, 13769, 153, 156-158, 160116, 169, 172, 176165, 182, 184, 18412-188, 190, 193, 194, 19745, 199, 20358, 204, 206-21487, 216-218, 21896, 220, 220111-223, 225, 228, 231 apocalittica: 22, 1175, 11910 apologetica: 30, 125, 127, 130, 176165, 222114 appendici: 48, 70-73, 90, 91, cf. anche passioni archetipica (condizione): 20, 33, 47, 70, 7031, 72, 76, 90, 1175, 128, 13047, 137, 212, cf. anche protologia; azione del Padre: 199; azione del Figlio: 87, 92, 138, 139, 141, 145, 189, 195, 197, 199; caratteristica della dimensione intelligibile (gen.): 14178, 145, 161, 192, 197 aristotelismo: 2322, 3887, 55, 552, 62, 63, 75, 80, 91, 96, 119, 139, 140, 143, 144, 146, 147, 158, 20053, 203, 224, 228

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296

Indice analitico

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assenso: 72, 84, 90, 95, 96, 126. assimilazione: 40, 59, 72, 87, 8766, 8768, 9688, 13666, 171153, 208, 209, cf. anche somiglianza. atto: 7031, 78, 80, 84-92, 94, 105, 111113, 115, 122, 140, 143, 145-147, 154, 156, 160, 171, 172, 174-176, 191, 201-204, 210, 225, 228 Basilide/basilidiani: 11, 43103, 47-50, 6521, 70-75, 78, 8660, 90, 91, 96, 111, 155, 162, 178, cf. anche confutazione battesimo: 3992, 13151, 194, 195, 199, 21691 beatitudine: 20, 22, 24, 25, 41, 53, 59-62, 64, 65, 6624, 97, 112, 135, 13563, 152, 152103, 153, 155, 156, 159-161, 170, 176, 177, 19540, 199, 229, 231, cf. anche escatologia bellezza: 17, 19, 33, 36, 62, 64, 109, 14587, 192 caduta: 20, 26, 34, 37, 3785, 44, 4751, 73, 74, 90, 96, 112, 12842, 154156, 160, 201, 212, 214, cf. anche protologia; condizione decaduta: 20 carro: 25, 2532 castigo: 22, 153104; cf. anche escatologia catechesi: 8871, 150, 151, 198, 19848, 20155, 207 cielo: 19, 20, 32, 35, 36, 44, 6521, 134, 182, 21590, 222112; cf. anche escatologia cibo: critica all’eccesso di cibo 43; nutrimento “spirituale”: 13666, 150, 152, 152103 (cibo razionale), 198 (cibo razionale), 19848 (per l’anima), 207 (per l’anima); solido (Eb 5, 12-14; 1 Cor 3, 1-3): 150-152; gen.: 75, 151 circoscrivibile: 65; incircoscrivibile: 124, 142, 202, 203.

Citerone: 16-20, 22-24, 30, 31, 3889, cf. anche Elicona compassione: 19, 2322, 190, 21692, 220, 225 conoscenza: 15, 25, 26, 33, 3890, 40, 77, 8664, 89, 90, 126, 131, 132, 153, 173, 197, 199, cf. anche contemplazione ed epoptica coscienza: 8768, 19330 consuetudine: 23-26, 37, 152 contemplazione: 22, 25, 35, 3576-78, 40, 59, 6521, 72, 8664, 8972, 157, 195, 198, 199, 20155, 204, cf. anche conoscenza ed epoptica coro: 17, 21, 138, cf. anche demoni, escatologia, profezia. corpo: 15, 23, 24, 33, 34, 37, 39, 40, 42, 43, 48-50, 66, 69, 70-75, 77, 79, 80-82, 84-86, 88-92, 95, 96, 99, 104, 105, 109-113, 115, 118121, 125, 129-132, 13769, 14281, 148-151, 153, 155, 157, 160, 161, 172, 175, 184, 185, 190, 195, 197, 19745-46, 200, 202, 206, 208-212, 21793, 229; corpo astrale: 85 concupiscibile: 45 (parte dell’anima), 94 (specie dell’anima), 98 (genere dell’anima), 105 (componente dell’anima) confutazione: 28 (gen.), 42102 (degli eretici), 96 (dei basilidiani), 166 (di Eracleone), 196 (di dottrine gnostiche), cf. anche basilidiani e valentiniani conversione: 14, 21, 2220, 28, 2846, 29, 30, 3054, 60, 84, 95, 9585, 105, 130, 166 creatore/creatura: 78, 80, 113, 136, 141, 142, 153, 204, 207, 217, 218, 231 cristologia (gen.): 32, 8870, 108, 112, 1162, 136, 147, 191-199, 202-204, 208, 215-220, 222-225, cf. anche

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Indice analitico 297

angelologia e protoctisti, didascalia, medico; Cristo: 19-22, 32, 4095, 54, 56-58, 60, 61, 64, 8870, 102-104, 108, 109, 112, 1162, 136, 137, 147, 152, 152103, 154, 159, 162, 167, 186, 191-198, 200, 202-204, 207, 208, 214-220, 222-225; Figlio: 49, 85-89, 92, 100, 10094,105-107, 109, 116, 120, 121, 138-141, 143-147, 152103, 157, 185, 186, 188-193, 195-197, 199, 201, 216, 218-220; Logos: 17-19, 2116, 26, 2843, 3133, 36, 3679, 38-40, 42, 49, 50, 8559, 95, 97, 101-105, 107-109, 1161, 11911, 121, 122, 13047, 150, 151, 187, 189-192, 198, 19848, 20155, 207, 213, 21589, 216-218; Salvatore: 19, 32, 3261-62, 3684, 8768, 10094, 138, 14281, 152103, 183, 21385, 215-218, cf. anche soteriologia cura: 24 (degli ἤθη), 29, 32, 36, 57, 101 (λόγος curativo), cf. anche medico decade: 67, 80, 82, 83, 184, 206 Demiurgo: 141, 142; 21282, 83 demoni: 17, 19, cf. anche coro desideri: 3262, 34, 44, 45, 47, 6622, 70, 71, 73, 9586, 213, cf. anche dominio; desiderio di ricevere il Padre: 17; desiderio di verità: 157, cf. anche verità; desiderio divino di salvare l’uomo: 190, 225, cf. anche soteriologia; forma e potenza desiderativa del­ l’anima: 93; parte desiderativa dell’anima: 73 dialettica: 31 diavolo: 48121, 178 didascalia: 2843 (azioni didascaliche), 39 (λόγος), 55 (Didascalo, presunta opera di Clemente), 56 (gen.), cf. anche cristologia. dimostrazione: 175162

Dio: 10, 17, 19, 21, 25, 32, 34, 3679, , 40, 4095, 42, 43, 48, 49, 51, 58, 83 65, 66, 6827, 73, 76, 8664, 8768, 89, 94-97, 100, 10094, 103, 104-109, 113, 117, 1177, 119, 120, 122, 126-128, 134, 136, 138, 139, 141143,150, 151, 153, 157-159, 182, 184-188, 190, 193, 19745, 199, 200, 202-205, 20969, 211-213, 215-222, 225, 229, 231 dissenso: 90 (dell’anima), 125 (tra membri di uno stesso gruppo) dominio: (di passioni, desideri) 38, 189, 213, 214, cf. anche passioni, desideri; della parte passibile dell’anima: 214, 21486 dualismo: 30, 33, 4096, 565, 97, 99, 112, 182, 187, 230 ebdomade: 76, 1175 ecclesiologia (gen.): 10, 7031, 88, 121, 124, 131, 132, 162, 164, 177, 178; canone ecclesiastico: 88, 8871; Chiesa: 14, 66, 67, 7031, 86, 8659, 88, 89, 119-125, 127-132, 135-137, 14891, 157, 158, 161, 162, 174, 176165, 178, 179, 200, 201, 203, 20360, 207, 20766, 219, 222, 223 eletti: 50, 129, 204, 20416, 21177, 216218, 221 Elicona: 17-20, 31, cf. anche Citerone ellenismo: 9, 14, 2948, 31, 39, 66, 6625, 117, 118, 124 encratismo/encratiti: 132, 13254. emanazione: 103102, 13460, 21177, 217 embriologia: 153, 74, 155, 170-172, 174, 175, 224, 228; embrione: 67 (animazione dell’e.), 209 (parti dell’e.; azione formante sull’e.) Epicuro/epicureismo: 165, 167, 178 epoptica: 39, 40, 157, 159, 195, 198, 199, 20155, 204, 205, 207, cf. anche conoscenza e contemplazione

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errore/errare: 17, 19, 20, 21, 2322, 26, 32-34, 214. escatologia: 143, 21-27, 31, 33, 35, 3576, 79, 37, 38, 43, 43104, 53, 59, 61, 62, 64-66, 7031, 74, 76, 89, 97, 112, 115-179, 19520, 199, 219101, 225, 228, 229, cf. anche coro, beatitudine, cielo, purificazione; destino: 143, 26, 53, 74, 89, 90, 112, 115, 128-130, 135, 137, 148, 149, 152-155, 158, 161, 169, 217, 229 riposo: 43, 6522, 7031, 117, 1174, 134, 139, 152103, 157, 159; telos: 128, 12842; trapasso: 6522, 155, 189-191; trasmigrazione: 48121, 50, 115, 150, 153, 155, 178; inferi: 152 esempio: 161, 162, 18412, 197 esortare/esortazione: 17, 28-31, 35, 3889, 8768, 96, 101, 13151, 164, 166, 168; protrettico (discorso/azioni/genere): 16, 23, 24, 27-29, 31, 38, 39, 101 (Logos p.), 131, 154, 231. etica: 143, 20, 24, 25, 28, 33-38, 42, 44, 53, 56, 59, 61, 62, 63, 73, 74, 91, 94, 123, 132, 158, 172, 214, 228230; letteratura moralistica tardo-antica: 39, 69, 230. ethos: 23, 24, 35 eucaristia: 131, 131151, 194136, 199, 20155 elezione/eletti: 50, 129, 204, 20461, 21177, 216-218, 221 esame: 34, 126, 173, 174 evemerismo: 18 facoltà: 26, 36, 44, 68, 70, 71, 73, 8083, 8871, 100 fede: 15, 17, 2220, 29, 31, 3679, 83, 42, 48, 49, 53, 57-60, 66-68, 71-73, 76, 80, 82, 83, 85-89, 102, 102100, 106108, 12013, 125, 127, 129, 13046,

154, 154108, 158, 161, 164, 166168, 173, 177, 178, 190-192, 194, 206, 210, 21793, 94, 231 fegato: 43-45, 93 filantropia: 97, 102100, 106106, 108, 225 filosofia: 7, 10, 13-16, 26, 27-29, 33, 37-40, 42, 45, 48119, 120, 50, 53-55, 57, 59, 6623, 73-79, 84, 8768, 91, 92, 9586, 97-100, 103, 103102, 105, 106, 110-112, 115, 116, 118, 119, 122-12841, 130, 136, 140, 141, 144-149, 151-153, 156, 160-163, 165, 165131, 167, 170, 170150, 172, 175, 176, 178, 186, 197, 199, 206208, 210, 222-225, 228-231 formazione: 53 (ontologica), 58, 59 (dello spirituale), 86, 87, 103 (dell’anima), 140, 141 (del mondo), 171151 (dell’embrione), 182 (dell’uomo) forme dell’anima: 93 generazione: 3684, 37, 47, 48, 67, 82, 106108, 108, 124, 171153, 209-211, 220, cf. anche protologia genere letterario: 9, 16, 23, 27-29, 31, 55, 100 giudeo-cristianesimo: 22, 2220, 47, 47116, 116-132, 147, 181, 182, 188, 228, 229, 230 giudaismo: 22, 2220, 42, 43, 57, 59, 117, 118, 121-126, 133, 135, 184, 195, 196, 20766 giustizia: 17, 3683, 61, 62, 6522, 102100, 109, 110, 121, 127-129, 138, 139, 145, 151, 157 (ingiustizia), 168, 1811 grandezza: 3576, 85, 111, 147, 195, 197, 19746 grazia: 22, 2428, 36, 196, 197 gnosticismo (gen.): 10, 11, 14, 2220, 4044, 46, 50, 53, 59, 64, 96-99, 112, 123, 126, 127, 130-133, 147, 148, 14891, 155, 156, 160-162, 167, 169, 170147, 173, 175-179, 181, 18817,

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Indice analitico 299

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196, 201, 203-206, 208, 212, 214, 218, 219, 221-224, 228-231 ilici: 58-79, 212 illuminazione: 33, 152 incarnazione: 3992, 84, 86, 88, 103102, 108, 109, 112, 136, 13666, 68, 183, 186, 187, 189-195, 197-202, 205, 208, 215-218, 220 individualità: 53, 59-61, 64, 65, 69, 74-80, 82, 84-92, 97, 98, 100, 101, 110-112, 115 194, 203, 208; principium individuationis: 54, 6974 infinito: 63, 90, 137, 140, 143, 144, 162, 191 infusione: 8, 67, 80-83, 171153, 206, 208, 209 innesto: 38, 54-61, 64, 69, 70, 77, 8660, 13048, 194, 208 intestini: 43-45 immagine: 2531, 40, 56, 6622, 72, 73, 94, 95, 102, 13562, 138, 139, 14281, 153, 197, 210-224; immagini dipinte: 19; contrapposto a somiglianza: 39, 4095, 6827, 204, 211-213, 217-219, 222 immortalità: 24, 25, 35, 36, 108, 109 ineffabile: 103102, 133, 134, 153105, 183, 186, 205, 20562 intelletto: 3683, 44, 45, 48-50, 56, 79, 94, 97, 100, 140-142 ira: 106107 (gen.); irascibile (parte dell’anima): 73, 93; irascibile (genere dell’anima): 98 Legge: 18, 3684, 67, 76, 77, 81, 82, 8766, 106108, 108109, 13254, 138, 139, 157, 158, 160116, 1811, 183-186, 206 libertà: 19, 47, 58, 59, 78, 89, 104, 166, 214, 21486. arbitrio: 47, 49, 53, 58, 59, 64, 69, 70, 73, 91, 95, 96, 123, 129, 201, 209 libertini: 132

linguaggio: 184, 185, 206, 21590 luce: 17, 32, 36, 3681, 39 42, 6522, 76, 118, 1189, 131, 152103, 174, 219 Marcione/marcioniti: 47-50, 132, 155 martirio: 11, 6521, 96, 9688, 158, 160, 162-179; confessione: 6421, 96, 158, 164, 166, 167, 169, 177, 178, 195 malattia (gen.): 32, 33, 36, 102; dei corpi: 3261; dell’anima: 32, 33, 37, 157; percezione malata: 132 male: 33, 3339, 36, 37, 48120, 102 (malevolenza), 152 materia: 143, 33, 34, 44 (immateriale), 59, 7541, 82, 8659, 115, 140, 141, 149, 151, 158, 199, 206-208, 21282 medico (gen.): 74, 154108, 170150, 207, 222114, cf. anche cura; Logos-medico: 31-33, 101-103 cf. anche cristologia; riferito a Galeno: 93 mediazione: 40, 42, 565, 73, 80, 85, 89, 90, 100, 103, 105, 107, 121, 144, 145, 147, 153, 210 mito: 153, 17, 18, 20, 21, 25, 26, 3335, 38, 4096, 45, 47, 74, 9586, 125, 12532, 148, 154-157, 159, 160, 172, 201, 214, 223 monade: 8559, 127, 143, 144, 195, 197 mondo: 14, 4812, 7541, 79, 80, 85, 86, 89, 115, 117, 1177, 133-135, 137144, 146, 149, 153, 1812, 183-187, 189, 190, 192, 196, 197, 203, 205 mordente: : 54, 61-64, 69 morte: 19, 22-26, 34, 35, 37, 38, 48, 65, 66, 74, 90, 96, 97, 102, 112, 129, 148, 150-158, 160, 161, 165, 166, 176165, 186, 215, 229 Nome: 116, 138, 182, 184-188 occhio (gen.): 57, 118, 217; dell’anima: 38-46, 103, 104, 131133, 230;

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della mente: 13254 ogdoade: 76, 117, 118, 134 ontologia: 48, 49, 53, 59-61, 64, 69, 73, 90, 91, 135, 136, 145-147, 149, 153, 156, 186, 187, 196, 197, 199, 203, 204, 208, 21075, 212, 214, 218 passibilità: 7, 10 71, 92-110, 112, 181-231; compassione: 19, 2322, 190, 225 passioni: 23, 24, 32, 33, 36-38, 42-45, 47, 48, 6622, 70-73, 90, 9584, 96, 9688, 101, 103102, 107, 109, 123, 131-133, 150-152, 158, 168, 16845, 183, 185, 186, 189, 190, 205, 213, 214, 126-220, 231, cf. anche dominio, appendici, irrazionalità paganesimo: 14, 143, 16-20, 23, 24, 28-33, 37, 39, 45, 57-59, 74, 91, 92, 100, 101, 103102, 106107, 123127, 130, 131, 153107, 154, 165, 165131, 222, 222114, 224, 230 parte del corpo: 3261, 81, 185; del cosmo: 153106; dell’anima: 2428, 26, 37, 38, 43, 45, 552, 68-70, 72-75, 80, 82, 84, 85, 92-112, 122, 148, 159, 160, 212-214, 216, 228; componenti: 68-70, 73, 84, 94, 104, 105, 112, 115, 116, 118; dell’uomo: 24, 51, 67, 71, 72, 80, 13769, 204, 206, 207, 209, 20970, 213, 222 (in riferimento all’uomo nel suo complesso), 222115 (terrestre), 228; componenti: 71, 82, 83, 93; della materia: 21282; della verità: 126-127; dello spirito santo: 53, 68, 76, 77, 13355, 207; di Cristo (ulivo buono): 59; di Dio: 48, 51, 188, 190, 225; componenti: 205

peccato: 23, 2323, 32-34, 36, 42, 102104, 152, 153, 21487 pedagogia/educazione: 2943, 32, 3942, 565, 8768, 96, 97, 100-105, 107, 108, 110 pentimento: 84, 150, 214 percezione: 3262, 37, 71, 74, 75, 121, 132, 188-190 perfezione: 18, 4095, 6521, 6624, 88-90, 103102, 110, 112, 128, 12842, 135, 136, 142, 145, 146, 157, 188, 190, 191 (imperfezione), 201, 202, 204, 225, 231 persecuzioni: 11, 162-166, 170, 177178 pitagorismo: 50 Platone/platonismo: 10, 14, 15, 22, 26, 2843, 3055, 33, 34, 3679, 37-39, 42, 42102, 45, 48-51, 53, 552, 65, 66, 69, 70, 73-75, 78-80, 85, 89, 90, 92-97, 99, 103, 103102, 105, 106, 110, 111, 1161, 119-132, 139, 140, 142-151, 153, 154, 156-158, 160, 161, 163, 169, 170, 176, 182, 187-189, 191, 192, 194, 199, 200, 202-204, 210, 224, 228, 230, 231 pneumatici: 58, 59, 61, 1189, 212, 218, cf. anche pneumatologia e spirito pneumatologia: 54-79, 91, 1161, 120122, 147, 153, 155, 156, 160-162, 170, 170147, 175, 176, 181, 182, 1823,4, 19336, 198, 199, 202, 210, 21074, 215, 216, 224, cf. anche angelologia, pneumatici e spirito poeti: 17, 19, 21, 29, 44 porzione divina: 48, 51, 68, 75, 76, 80, 133; dell’anima: 67, 207; dell’uomo: 67, 207 potenza: 73, 78, 80, 82-94, 98, 111113, 115, 122, 140-148, 156, 171, 172, 175, 176, 178, 184, 185, 19848, 200-204, 210, 21074, 221223, 225, 228, 230

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Indice analitico 301

preghiera: 8973, 20051 profezia/profeti: 17, 20, 21, 29, 46114, 48, 66, 116, 129, 138, 139, 181, 192, 193 progresso: 60, 6624, 80, 86, 88, 89, 96, 112, 1161, 12218, 125-127, 130, 134-137, 139, 146, 147, 157, 159, 161, 189, 191, 193-201, 203-205, 208, 209, 224, 225 promesse: 46-50, 53, 76, 77, 85, 86, 94, 96, 110, 118, 122, 123, 133, 150, 153, 155, 156, 159-161, 175178, 181, 203, 20359, 20665, 215, 217, 220110, 227 protoctisti: 1189, 121, 218100; Cristo-protoctista: 218-220 protologia: 143, 19-21, 25-27, 31, 33-35, 37, 47, 48, 50, 70, 71, 73, 74, 90, 99, 115, 127, 128, 13047, 13562, 154, 158-160, 193, 21283, 228, cf. anche archetipica (condizione), caduta e generazione provvidenza: 86-88, 97 psichici: 49, 58, 59, 70, 212 purificazione: 40 48120, 6522, 90, 115, 149-152, 155, 155110, 158, 160, 161, 171151, 153, 176165, 194-196, 199, 208, cf. anche escatologia ragione: 20, 23, 24, 26, 3262, 43, 44, 47, 67-70, 72, 73, 7541, 80, 93, 95, 9584, 86, 100, 104, 105, 143, 147103, 155, 167, 168, 172, 18412, 198, 209, 20970, 212, 21282; anima razionale: 43, 6931, 70, 7031, 78, 84-86, 89-92, 95, 100, 103, 105, 110, 116, 117, 122, 134, 136, 137, 139, 140, 144147, 161, 175, 189, 190, 192, 197, 19745, 201, 206, 209, 210, 211, 214, 222112; irrazionale (gen.): 104, 168, 168145; anima irrazionale: 21282; desideri: 3262; elemento irrazionale: 24, 9585;

parte irrazionale dell’anima: 26, 43107, 67, 68, 7031, 72, 80, 95, 104, 105, 209, 20970; riferito alle passioni: 9584 religione: 16, 29, 30, 32, 103102, 154 responsabilità: 33, 35, 47, 53, 73, 9597, 158, 159 ricchezza: 3785, 107, 175 retorica: 16, 2736, 29, 38, 39, 56, 62, 69, 107, 127, 175 sapienza: 76, 77, 9585, 13151, 142, 14281, 200, 21177, 21692, 93, 218100 santificazione: 6622, 76200, 135, 136, 146, 189-191, 203, 225 scelta di vita: 143, 24, 26, 30, 31, 35, 60, 72, 95, 154, 158, 159, 169, 19540 Scritture: 10, 14, 29, 2949, 41, 57, 69, 74, 79, 8768, 91, 92, 96, 97, 116, 11911, 126, 127, 138, 147, 154108, 173, 174, 181, 184, 187, 191, 210, 214, 225, 228, 230 scuola (gen.): 31, 99, 14891, 154; filosofica: 36, 552, 92, 110, 147, 154, 157, 169; gruppo: 125; riferito al concetto di αἵρεσις e a contesti affini: 123, 12427, 28 sensi e dimensione sensibile: 43-45, 6624, 67, 70-73, 75, 7541, 78-81, 84, 8659, 8871, 90, 97, 103, 111, 115, 131-133, 137-147, 149, 152, 153, 161, 171152, 182, 183, 185-187, 189191, 196-200, 203, 206, 21075, 21283 sequela: 78, 87, 8768, 88 Sion: 16-26, 30, 31, 3889 silenzio: 21692, 220 sizigia: 201, 208, 21692 somiglianza: 39, 4095, 6827, 204, 211213, 217, 218, 222, cf. anche immagine sommo sacerdote: 133, 13356, 135, 143, 144, 183, 184, 186, 187, 189, 197 Sophia: 18816, 200, 201, 215-218

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302

Indice analitico

sostanza: 10, 59, 61, 7031, 73, 78-80, 85, 93, 1189, 14891, 153106, 171151, 19848, 200-202, 206, 207, 220, 220111, 223, 224, 231 soteriologia (gen.): 10, 18-20, 22-24, 3261, 3262, 33, 36, 3683, 4096, 58, 6111, 8659, 97, 121, 12535, 13562, 13668, 154108, 178, 190, 193, 209, 10971, 21793, 218, 220111, 221, 225, 229, 231, cf. anche Salvatore e desideri; passione soteriologica del divino: 21794; prospettiva soteriologica di Clemente: 111; soteriologia elitaria valentiniana: 146 sopravvenire (riferito allo Spirito Santo): 67, 71, 76, 80, 82, 206 spirito (gen.): 3992, 43, 48-51, 58, 59, 61, 64-67, 68 (spirito divino), 6973, 76 (spirito del Signore), 76-78, 80-86, 88, 89, 92, 9273, 73, 94, 9688, 106108, 110, 111, 115, 118, 1189, 120-122, 130, 135-137, 139, 147, 149, 150, 152-154, 156, 157, 159161, 163, 164, 169 169-171, 176, 176165, 181 (1 Cor 12, 11), 191, 192 (Figlio-spirito), 193 (Gv 4, 24), 193-195, 198, 199, 199-205 (Gv 4, 24), 205-218, 221-223, 225 (Gv 4, 24), 230, cf. anche pneumatici; co-spirazione: 119-122, 130, 215 (respirare assieme); rapporto anima-spirito: 122, 12218, 160, 169, 176, 176165; spiriti: 47, 70-73, 81, 82, 92-94, 117-122, 134, 160116, 184, 185; Spirito Santo: 8, 48-51, 53, 54, 60, 61, 65, 67-69, 71-73, 75-78, 80, 82-86, 88, 89, 91, 92, 94, 111, 1161, 120, 121, 123, 13355, 136138, 14383, 145-147, 149, 155, 156, 173, 175, 181, 1811, 191-195,

200, 201, 206, 210, 21072, 75, 215, 222, 223, 227 stoicismo: 10, 15, 2428, 3368, 37, 42, 43, 55, 72, 74, 75, 93-96, 99, 1161, 147, 158, 172, 200, 207, 218100, 224 superstizione: 19, 20, 35 teatro: 168 temerarietà: 166-168 tempio: 1162, 12218, 133-148, 153, 183-185, 188, 189, 195, 196, 202, 205 tenebre: 17, 23, 32, 3681, 9585, 12535 teofania: 118 teologia (gen.): 7, 10, 13, 131, 16, 40, 4096, 46114, 54, 67, 78, 84, 89, 91, 92, 98-112, 115, 116, 118, 119, 122,136, 137, 145-147, 163, 167142, 181, 182, 187-189, 191, 193, 194, 198-200, 202, 204-206, 208, 210, 213, 214, 216-218, 220, 221, 223-225, 229-231; Padre: 17, 34, 49, 8768, 100, 10094, 105-107, 109, 116, 119, 124, 138, 139, 143-146, 152, 188-192, 197, 199, 200, 202, 204, 205, 2011, 215, 216, 218-220, 231 tetragramma: 182-185, 187-189 timore: 42, 43, 9586, 103-105, 107, 108, 157, 158 tradizione: 9, 10, 153, 23-38, 42102, 44, 51, 552, 562, 62, 6623, 69, 78, 79, 85, 91, 92, 95, 97, 99, 103, 106107, 111, 117, 122, 12429, 130132, 139, 140, 143, 148, 14890, 150, 152, 156, 159, 160, 163, 170, 170150, 174-176, 187, 188, 191, 19330, 199, 200, 206, 213, 21896, 225, 227-230 Trinità: 49, 116, 1161, 136, 145, 182, 192, 193, 218, 219, 225; relazione intradivina binitria: 116, 1162, 192, 193, 216, 219104 unità/unitarietà: 10, 2322, 2736, 40, 41, 552, 69, 70, 73-75, 80, 84-86,

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Indice analitico 303

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89, 90, 103, 104, 111, 119, 120, 122, 124, 125, 127-130, 139-142, 142-145, 155, 163, 176165, 18817, 197, 203, 215, 216, 222, 222112 universo: 10, 18, 130, 134, 13460, 138, 140, 142, 144, 154, 18412, 187 Valentino/valentiniani: 11, 43, 43103, 49, 50, 56-61, 64, 69, 8659, 91, 1162,4, 118, 119, 129, 132, 135, 14891, 162, 164, 174160, 178, 182, 187, 188, 200-205, 207, 208, 211, 21177, 213, 215-224, 228, 230, 231, cf. anche confutazione veicolo: 2736, 79, 80, 84, 85, 90, 91, 105 verità: 17, 20, 21, 24-26, 29, 3263, 36, 57, 76, 123-128, 130-132, 13562, 136, 150, 152103, 157, 168145, 173, 184, 187, 188, cf. anche desideri virtù: 42, 43, 8768, 94-96, 15099, 184 vizio: 34, 102 vita: 14, 19, 2220, 24, 25, 27, 28, 34, 3579, 37, 41, 6521, 6622,24, 69, 78, 80, 83, 8568, 94, 105-107, 111, 112, 13151, 151, 152, 155110, 158, 163, 164, 167-170, 176, 176165, 195, 19540, 199, 20969, 229 Indice espressioni e parole greche più significative ἀγάπη: 8972, 107-110, 157112, 20563 ἀδιάστατον (κατὰ τὸ): 143, 191 ἀδιεξίτητον (κατὰ τὸ): 143 αἵρεσις: 588, 123-125, 128, 12840 αἴσθησις: 3262, 44, 44109, 6727, 7541, 8156, 8664, 138, 139, 171, 182, 183, 185-187, 18918, 19021 ἀμέριστος οὐσία: 7031, 77, 149 ἀμερῶς μεριζόμενον: 76, 77, 1161, 149 ἀνάπαυσις: 43104, 1177, 134, 135, 157, 157112, 159, 20562 ἀπάθεια: 4096, 577, 220109

ἀπερίγραπτος: 202, 20257 ἀποκατάστασις: 129, 12944, 159114, 161 ἀπόρροια: 48-50, 217, 222, 223 ἀρχή: 2011, 8156, 127, 128, 138, 13872, 14281, 1837, 186, 19641 αὐτοζῷον: 141, 142 ἀχανές: 195-197 διαδοχή: 124 διάνοια: 4197, 95, 9584, 11911, 122, 14280, 173158 διανομή: 48, 49, 76 δύναμις: 577, 7338, 82-84, 86-89, 93, 94, 98, 102100, 1177, 13459, 139, 140, 14281, 14281, 144, 145, 147, 150, 151, 171, 172, 184, 185, 190, 201, 20154, 56, 20563, 207, 21075, 222-225 προαιρετική: 82-84; ζωτική: 81-83 ἔθος / ἤθος: 19, 20, 24, 2425, 28, 3366, 37, 38, 8768, 12638, 12840, 151101, 167144, 19641, 20562 εἶδος: 57, 58, 93, 94, 98, 104103 εἴδωλον: 80 εἰκών: 6827, 72, 138, 13872, 14281, 21692 ἐκκλησία: 8871, 119-122, 124, 125, 128, 129, 131, 157, 157112, 20054 ἐνέργεια: 7338, 81-84, 87, 88, 94, 1177, 13459, 138-140, 144-147, 171, 172, 184, 185, 190, 191, 201, 21056, 21075, 222, 231 ἑνότης: 128, 129 ἐντελέχεια: 80 ἐπιθυμία: 3262, 3573, 44110, 6829, 70, 71, 9380, 9890 ἐποπτεία: 150, 151, 157, 195, 196, 198, 19848, 204 ἡγεμονικόν: 44, 67-72, 77, 80-83, 8589, 94, 95, 103, 105, 105104, 107, 111, 184, 185, 206-210, 213, cf. anche πνεῦμα ἐξέτασις: 3057, 168145, 173, 174 ἐφ’ ἡμῖν: 157, 158, 178, 20257 Θεοσέβεια: 2947, 42, 43, 151101

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304

Indice analitico

ιδίωμα: 47, 62-65, 67-73, 76, 77, 8082, 90, 91, 13769, 189, 18918, 194, 206, 210 κάθαρσις: 171151, 153, 195-197 καλοκαγαθία: 110 κατάληψις: 4197, 77, 81, 82, 14281, 151101, 160116, 184, 19847, 48. κένωσις: 88, 107-109, 136, 147, 148, 185, 186, 188, 189, 219 κρᾶσις: 171151, 200, 201, 20360, 207 λογικόν/λογιστικόν: 43-45, 67, 68, 72, 77, 80, 81, 93, 97, 98, 105104, 209, 210, 213 λόγος: 187, 20, 21, 24, 26, 32, 33, 36, 37, 39, 40, 46114, 7541, 100, 101, 106, 107, 1161, 11911, 121, 122, 167, 18412, 187, 189, 190, 192 μέρος: 3261, 48, 48122, 51, 67, 68, 72, 77, 80, 8156, 123, 222, 223 μοῖρα/μόρια: 48, 48122, 51, 53, 67, 68, 7541, 80, 81, 123 μέθεξις: 77, 7745, 140 μελέτη: 96, 150-153, 157111, 159114, 168145, 173 μετενσωμάτωσις: 178 μεταβολή: 3785, 9585 μεριστὴ οὐσία: 7031, 73, 77, 1161, 149, 14994 μέση οὐσία: 7031, 75, 7541, 77, 78, 148151 νοῦς: 50, 100, 142, 153106 ὁμοίωσις: 6827, 87, 88 οὐσία: 7031, 73, 75, 77, 78, 93, 94, 142, 148-151, 171151, 19848, 201, 202, 207 220109, 221, 231 ὄχημα: 79, 80, 84, 85, 90 πάθος: 2428, 32, 3265, 37, 38, 44110, 6829, 72, 8156, 95, 13458, 151101,168145, 20563 παράθεσις: 12218, 200, 200-20, 223. παρουσία: 138-140, 14486, 146, 161, 182, 183, 185-187 πληρώματα: 159114, 218

πνεῦμα (gen.): 47-51, 54-79, 81-86, 8870, 91, 92, 94, 95, 110-112, 117123, 13459, 13872, 151101, 154, 157, 157112, 159-162, 170-171, 187, 192195, 197-203, 209-211, 221, 228230; ἅγιον πνεῦμα: 48112, 6010, 8665, 88, 94, 95, 120, 121, 159, 173158, 19227, 21074; ἡγεμονικὸν πνεῦμα: 83-85, 94, 159, 209-211, 214, 217, cf. anche ἡγεμονικόν e σάρξ; πλασθὲν πνεῦμα: 81-83, 210-211; σαρκικὸν πνεῦμα: 8156, 94, 95, 159, 210, 21074 πράξις: 3887, 167143, 144, 184 πρεσβύτης: 171, 172, 174, 206, 208210, 229 προφητεία: 179, 2011, 2947, 48, 48122, 12944, 13872, 189, 18919 πτῶσις: 34, 3785, 45110 σάρξ: 3573, 4197, 598, 76, 109110, 151101, 171151, 189, 18918, 19, cf. anche πνεῦμα συγγένεια: 157, 157112, 159, 159114 σύγχυσις: 47, 7032 συμπάθεια: 21692, 103, 109, 109, 109110, 149, 202, 204, 205 σύμπνοια: 1161, 11911, 121, 215 συνήθεια: 23, 24, 26, 35, 37 σῶμα: 23, 24, 3161, 39, 40, 48122, 50125, 7541, 8156, 8871, 118, 119, 12944, 46, 14281, 14994, 95, 151101, 153106, 157111, 18412, 185 (σωματιὸν πνεῦμα), 19021, 19641, 20054, 20257 τριάς: 1161, 145, 19227 τύπος: 138, 138, 139, 14281, 14486, 173158 φαντασία: 70, 73, 94, 95 φόβος: 42, 43, 104103, 107, 108, 157111, 168145 φρόνησις: 187, 8664, 87, 88, 104103, 143183

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Indice generale 305

INDICE generale

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prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 7 Premessa dell’Autore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 9 I. Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 13

I.1. Premessa metodologica . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 13 I.2.1. La psicologia del Protrettico . . . . . . . . . . . . . » 16 L’introduzione e la conclusione del Protrettico: Citerone e Sion . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 16 Prot. 2-11: il protrettico tradizionale . . . . . . . . . » 26 Alcune conseguenze del ruolo dell’anima per la struttura dei protrettici tradizionali . . . . . . . . . . » 31 I.2.2. L’occhio dell’anima. La psicologia del Peda gogo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 38 I.2.3. L’anima negli Stromati . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 46 II. Anima e antropologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 53 Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 53 II.1. Tὸ πνεῦμα ἐν ἐκάστῳ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 54 II.1.1. Rm 11, 17-24: l’innesto nell’ulivo buono » 54 II.1.2. Il mordente e il colore . . . . . . . . . . . . . . . » 61 II.1.3. πνεῦμα e principium individuationis . . . . » 69 II.1.3.1. Il contesto filosofico . . . . . . . . . . . . » 74 II.2. L’antropologia di Clemente . . . . . . . . . . . . . . . » 79 II.2.1. Atto, potenza e individuazione . . . . . . . . » 84 II.2.2. Tripartizione dell’anima e passibilità di vina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 92 II.2.2.1. Teologia e antropologia . . . . . . . . . . » 100 Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 110 III. Dottrina dei principi ed escatologia . . . . . . . . » 115 Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 115 III.1. Le fonti dell’escatologia clementina. Platoni smo tra giudeo-cristianesimo e teologie valentiniane » 119 III.2. L’ingresso nel tempio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 133

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306

Indice generale

III.3. Nel Santo dei santi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 137 III.3.1. Paradosso platonico, infinito potenziale energheia che si fa potenza . . . . . . . . . . . . . . . . » 140 III.4. Il silenzio di Clemente sull’escatologia . . . . . » 148 III.4.1. Destino dell’anima dopo la morte corpo rea e anima-μέση οὐσία . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 148 III.4.2. Escatologia e pneumatologia . . . . . . . . . » 155 III.5 Il martirio e le diverse fasi della composizione degli Stromati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 162 III.5.1 Lo sviluppo della psicologia di Clemente » 170 IV. Psicologia e passibilità divina . . . . . . . . . . . . . . » 181 Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 181 IV.1. La componente teologica della metafisica . . . » 181 IV.2. La trasformazione dell’orizzonte concettuale platonico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 189 IV.2.1. Cristologia pneumatica . . . . . . . . . . . . . » 191 IV.2.2. Dio è spirito. La kenosis del Padre . . . . » 199 IV.3. Spirito vs. angelo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 205 IV.4. La creazione a immagine . . . . . . . . . . . . . . . . » 210 Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 224 Conclusione generale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 227 Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 233 Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 285 Indice analitico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 295

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