La dottrina dell’elezione divina, dalla "Dogmatica ecclesiastica" 9788841892947

Karl Barth (1886 – 1968) fu un teologo e pastore riformato svizzero. Il suo lavoro maggiore è la monumentale Dogmatica E

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La dottrina dell’elezione divina, dalla "Dogmatica ecclesiastica"
 9788841892947

Table of contents :
Frontespizio......Page 4
Colophon......Page 5
Indice Del Volume......Page 6
Introduzione......Page 7
Nota biografica......Page 65
Nota bibliografica......Page 90
Nota storica......Page 110
L’elezione gratuita da parte di Dio......Page 153
1. L’orientamento della dottrina dell’elezione......Page 154
2. Il fondamento della dottrina dell’elezione......Page 198
3. il posto della dottrina delpelezione nella dommatica......Page 265
1. Gesù Cristo, il soggetto e l’oggetto dell’elezione......Page 288
2. La volontà eterna di Dio nell’elezione di Gesù Cristo......Page 368
1. Israele e la chiesa......Page 436
2. Il giudizio e la misericordia di Dio......Page 448
3. La promessa divina percepita e ricevuta mediante la fede......Page 484
4. L’uomo del passato e l’uomo dell’avvenire......Page 523
1. Gesù Cristo, la promessa data e ricevuta......Page 587
2. L’eletto e il riprovato......Page 639
3. La destinazione dell’eletto......Page 744
4. La destinazione del riprovato......Page 805
Appendice prima......Page 892
Appendice seconda......Page 918
Indice dei passi biblici......Page 999
Indice degli autori......Page 1023
Indice delle tavole......Page 1026

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CLASSICI DELLE RELIGIONI Sezione prima, diretta da OSCAR BOTTO

Le religioni orientali Sezione seconda, diretta da PIERO ROSSANO

La religione ebraica Sezione terza, diretta da FRANCESCO GABRIELI

La religione islamica Sezione quarta, diretta da PIERO ROSSANO

La religione cattolica Sezione quinta, diretta da LUIGI FIRPO

Le altre confessioni cristiane

CLASSICI DELLE RELIGIONI SEZIONE QUINTA DIRETTA DA

LUIGI FIRPO

Le altre confessioni cristiane

LA DOTTRINA DELL’ELEZIONE DIVINA, dalla

DOGMATICA ECCLESIASTICA di

Karl Barth A CURA DI

ALDO MODA UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE TORINESE

© De Agostini Libri S.p.A. - Novara 2013 UTET www.utetlibri.it www.deagostini.it ISBN: 978-88-418-9294-7 Prima edizione eBook: Marzo 2013 © 1983 Unione Tipografico-Editrice Torinese nella collana Classici delle religioni Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa in alcuna forma e con alcun mezzo, elettronico, meccanico o in fotocopia, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta dall’Editore. Le riproduzioni per finalità di carattere professionale, economico o commerciale, o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org. La casa editrice resta a disposizione per ogni eventuale adempimento riguardante i diritti d’autore degli apparati critici, introduzione e traduzione del testo qui riprodotto.

INDICE DEL VOLUME Introduzione Nota biografica Nota bibliografica Nota storica L’elezione gratuita da parte di Dio § 32. L’elaborazione di una corretta dottrina dell’elezione 1. L’orientamento della dottrina dell’elezione 2. Il fondamento della dottrina dell’elezione 3. Il posto della dottrina dell’elezione nella dommatica § 33. L’elezione di Gesù Cristo 1. Gesù Cristo, il soggetto e l’oggetto dell’elezione 2. La volontà eterna di Dio nell’elezione di Gesù Cristo § 34. L’elezione della comunità 1. Israele e la chiesa 2. Il giudizio e la misericordia di Dio 3. La promessa divina percepita e ricevuta mediante la fede 4. L’uomo del passato e l’uomo dell’avvenire § 35. L’elezione dell’individuo 1. Gesù Cristo, la promessa data e ricevuta 2. L’eletto e il riprovato 3. La destinazione dell’eletto 4. La destinazione del riprovato Appendice prima Appendice seconda Indice dei passi biblici Indice degli autori Indice delle tavole

INTRODUZIONE

Una prospettiva teologica. I. «Allorché cominciava a redigere la Kirchliche Dogmatik ed a stabilire per sé i criteri di una teologia della parola di Dio, Barth indicava che essa doveva porre la dottrina della predestinazione al culmine di ogni suo sviluppo; l’idea dell’elezione divina, che animava già tutto il Roemerbrief, è dunque presente fin dalle prime pagine dei Prolegomeni; all’interno della Dottrina di Dio poi, le è consacrato un capitolo di quasi 600 pagine, indubbiamente il più unitario e curato di tutta quanta la Dommatica, quello che in ogni caso l’Autore ha scritto con più amore ed al quale annette la maggior importanza. La dottrina biblica dell’elezione costituisce infatti ai suoi occhi la chiave di volta di tutti i misteri dell’opera divina, non solamente di quelli della riconciliazione e della redenzione finale, ma pure di quello della creazione. Attestando che la grazia è all’origine di tutte le opere di Dio, Barth la pone come lo sfondo necessario di tutti gli altri enunciati riguardanti quanto intercorre fra Dio e l’uomo»1. Ripercorrere la lunga elaborazione della dottrina barthiana della predestinazione significa dunque imboccare un cammino privilegiato per la comprensione dall’interno della lunga fatica del teologo svizzero; notare, attraverso di essa, la progressiva concentrazione cristologica che a poco a poco si enuclea e si irrobustisce significa indubbiamente toccare il cuore della teologia barthiana; soffermarsi sulle splendide pagine dedicatele nella Kirchliche Dogmatik significa non solamente usufruire di una chiave di lettura quanto mai efficace per un’opera perseguita con rara tenacia ed energia durante mezzo secolo, ma anche, e soprattutto, consentire con una linea teologica fra le più nette e fruttuose del pensiero cristiano. Per questa ragione, richiesti di presentare in questa collana un testo significativo della Kirchliche Dogmatik, non abbiamo avuto molte esitazioni; il blocco sull’elezione divina si è qualificato subito come un momento privilegiato, suscettibile di assurgere al ruolo di classico sia all’interno della dogmatica barthiana e sia all’esterno per i riverberi finora già avuti; ci è parso però ancora più significativo proprio perché attraverso queste pagine ci è permesso cogliere appieno, profondamente, cristallinamente il senso ultimo della teologia barthiana ed, in un certo modo, l’eredità da essa lasciata, al di là delle questioni, delle domande, degli interrogativi irrisolti. Oggi infatti che si tentano i primi consuntivi e ci si interroga, seppure in maniera estremamente embrionale ancora, sul significato della teologia barthiana e soprattutto di quella espressa nella Kirchliche Dogmatik, sembra a noi utile richiamare

l’attenzione su un testo capace d’introdurre un dibattito più vasto su Barth e sulla sua opera, riproponendone in maniera non scheletrica le articolazioni essenziali ed offrendone, per così dire, il tono più alto e più giusto. 2. La prima ragione che ci ha indotti a questa scelta è dunque il desiderio di comprendere dall’interno l’unitarietà della teologia barthiana. In un saggio capitale Hans Urs von Balthasar ha scritto una pagina che giova meditare: «La teologia di Barth è bella, non solo nel senso esteriore che Barth scrive bene; egli scrive bene perché unisce due cose: la passione e il realismo. La passione per l’oggetto della teologia ed il realismo che conviene ad un oggetto così stimolante. Realismo significa massima concentrazione sul tema, significa oggettività; e il tema di Barth è Dio, quale si è rivelato al mondo in Gesù Cristo, secondo la testimonianza della Scrittura; Barth distoglie il suo sguardo dalla condizione soggettiva della fede per concentrarlo interamente sul suo contenuto e per questa ragione non c’è da temere che scivoli nel tono pastorale ed edificante. Il suo oggetto infatti è in grado di edificarsi da solo. Ma questo oggetto è così affascinante e rivendica a tal punto tutto l’uomo che la vera oggettività deve coincidere con un’intensa partecipazione affettiva, che non richiede però un’esplicitazione particolare, poiché penetra tutta la materia. Questa sintesi di passione e di oggettività è il motivo della bellezza della teologia di Barth. Escludendo tanto il modo arido e tecnico ed il letteralismo quanto le costruzioni tendenziose e la retorica edificante, egli ha saputo interpretare la Scrittura come nessun altro negli ultimi decenni, in una concentrazione così esclusiva sulla Parola che questa soltanto risplende nella sua pienezza e nella sua gloria. Chi è stato più infaticabile e più costante di lui? Chi ha saputo vedere più lontano? L’oggetto stesso si svolge davanti ai suoi occhi, presentandosi in tutta la sua grandezza. Bisogna risalire addirittura fino a Tommaso per ritrovare una simile libertà da ogni tensione e unilateralità, una superiorità così piena nel comprendere e una così grande generosità, che in Barth acquista non di rado la colorazione dello humor, ma soprattutto assume un senso spiccato del tempo giusto, un ritmo spirituale. Barth riesce convincente nel presentare il cristianesimo come la proclamazione di un trionfo. Non è tanto perché possiede il dono dello stile che Barth scrive bene, quanto perché rende testimonianza, una testimonianza ben precisa su un oggetto che, poiché Dio ne è l’autore, ha lo stile più bello, la scrittura migliore. Per Kierkegaard il cristianesimo non è di questo mondo, è ascetico, polemico. Per Barth è l’immensa rivelazione della luce eterna che risplende sopra ogni natura ed adempie ogni promessa, è l’eterno sì ed amen

di Dio a se stesso ed alla sua creazione»2. Parimenti scrive Henri Bouillard: «Malgrado le variazioni del pensiero barthiano, una medesima intenzione fondamentale lo anima, dalla teologia della crisi alla cristologia conseguente; la sorgente e la misura della teologia e della vita cristiane non risiedono nella religione, ma nella parola che Dio indirizza all’uomo per mezzo della Sacra Scrittura e che fonda la predicazione e la chiesa; non si tratta dunque del mistero dell’uomo nel suo rapporto con Dio, ma del mistero di Dio nel suo rapporto con l’uomo. La parola di Dio, la rivelazione, s’identifica con Gesù Cristo, la cui morte e resurrezione ci giustificano. In lui, noi siamo riconciliati con Dio. Diciamo meglio: in lui, il nostro essere si trova fondato in Dio. Però in lui solamente. La grazia, o la relazione con Dio, non è mai nostro possesso; ci è affidata, piuttosto che donata; pienamente acquisita in Gesù Cristo, ed a questo titolo realmente presente, resta per noi sempre futura, promessa piuttosto che compimento. L’attesa escatologica fa parte integrante del messaggio cristiano. In quella relazione che liberamente ha stabilito, Dio resta sempre il Signore che grazia la sua creatura peccatrice. Dio è Dio; l’uomo è peccatore; sebbene giustificato resta peccatore. Ma anche non si conosce come peccatore che nella misura in cui, mediante la fede, si sa giustificato. Simul peccator et iustus. Attorno a questo principio, interpretato però in funzione dell’opera di Cristo, ruota l’idea fondamentale e costante di Karl Barth; essa risuona in tutti gli sviluppi del suo pensiero; non è d’altronde necessaria una grande attenzione per scorgerla. Chi l’ha colta e si applica ad analizzarne la portata diversa nelle varie fasi successive potrà notare, malgrado i cambiamenti, curiose corrispondenze; il lettore della Dommatica riconoscerà retrospettivamente nel Roemerbrief uno schizzo velato di taluni temi che l’opera maggiore porterà alla luce; ed il lettore del Roemerbrief noterà nella Dommatica la persistenza di tematiche antiche, sfumate ed addolcite»3. E Vittorio Sibilia, in un saggio recente, fra i più lucidi di quelli consacrati al teologo di Basilea, ha insistito: «L’elemento che può essere designato come essenziale in Barth, non superabile per succedersi di cicli culturali, è il carattere fortemente confessante della sua teologia, cioè il suo riferimento costante a ciò, in concreto a Colui, che costituisce l’unico tema del suo discorso. Con questo non si vuole dire che teologie di altro tipo e di altro indirizzo non facciano il discorso di Dio: si vuole dire che troppo spesso fanno il discorso di Dio e fanno il discorso sui molti temi dell’uomo, prendendo lo spunto e assumendo l’impostazione dell’epoca e dei suoi problemi dominanti,

vedendo tutto, anche il problema di Dio, nella loro prospettiva. Barth in tutta la sua opera ha protestato contro questo abbinamento, in cui, accanto all’invocazione a Yahwè si affianca l’invocazione ai vari Baal dell’ora per riuscire ad ottenere l’attestato di modernità, la tessera di cittadinanza di questo mondo, cioè l’autorizzazione ad inserire il discorso cristiano nei molti discorsi della società dell’epoca. Pur nelle sue costruzioni dommatiche più elaborate si ha l’impressione di cogliere un’eco della voce del profeta Elia, che diceva ai profeti invocanti il nome di Baal: Gridate forte, poiché egli è Dio, ma sta meditando, o è andato in disparte, o è in viaggio; fors’anche dorme e si risveglierà! Tutto lo sforzo di Barth è stato inteso a capovolgere la prospettiva, cioè a partire da Cristo confessato come parola di Dio, per poter parlare a tutte le realtà dell’uomo e della storia. Ieri poteva trattarsi della religione, della coscienza, del sentimento, della natura, della civiltà, dell’evoluzione biologica e storica, della cultura umanistica, della filosofia kantiana o hegheliana, della scienza; oggi si tratta della politica, della sociologia, dell’economia. Certo tutte le realtà dell’uomo e della storia possono e devono essere prese in considerazione, ma secondo Barth, l’unico modo cristianamente legittimo di prenderle in considerazione è di prenderle in considerazione dal punto di vista dell’Evangelo, evitando di prendere in considerazione l’Evangelo dal punto di vista e secondo gli schemi di pensiero delle realtà dell’uomo e della società»4. Questa teologia oggettiva e confessante, intenzionalmente cristologica nella sua struttura fondamentale come in tutte le sue parti5, tutta straripante di gloria perché in essa la derelizione della croce non può mai essere disgiunta dall’esaltazione del Cristo alla destra del Padre6, tutta piena di una risposta umana di lode, radicata nella grazia e resa possibile dal mistero dell’incarnazione7, porta ormai un nome: concentrazione cristologica8 o cristologia conseguente9. Questa teologia che aveva debuttato come un impetuoso torrente «all’epoca della pubblicazione del Roemerbrief, è diventata un fiume largo, tranquillo, gioioso seppure sempre animato da vita intensa; certo non è mai stata scordata, anzi sempre e di nuovo è stata sottolineata la priorità dell’avvenimento, poiché tale avvenimento, perennemente all’origine di ogni verità e di ogni vita, è la parola che il Dio vivente pronuncia nella sua libertà e nel suo amore; partendo però da questo avvenimento e poiché la parola si è fatta carne, Barth ha riconosciuto sempre di più nella pienezza delle sue dimensioni la presenza del Signore nella sua continuità, cioè nella chiesa, che testimonia del suo Signore e che lo serve, che è il corpo di Cristo, che è la

forma cristica di esistenza nella storia e sulla terra»10. «Lo zelo di Barth per la divinità di Dio è rimasto intatto, ma questo zelo, assimilabile a quello di un profeta, si è mutato ora in quello di un evangelista; il fuoco dell’assoluto divino divampante nel Roemerbrief continua a bruciare, ma è il fuoco dell’amore assoluto di Dio; Barth ha riconosciuto che la libertà di Dio era la sua libertà d’amore ed ha scoperto così, per sé, il dovere nuovo di esprimere ancora una volta ciò che già aveva detto, dopo averlo ripensato, in modo del tutto differente, cioè ormai come una teologia della grazia in Gesù Cristo»11. Nella sua classica spiegazione di Barth, Hans Urs von Balthasar è ricorso ad un’immagine fortunata, paragonando la concentrazione cristologica barthiana ad una clessidra. In questa specie di orologio tutta la sabbia che vi è racchiusa deve filtrare per la stretta apertura di mezzo, onde defluire dalla parte superiore alla parte inferiore; parimenti in Barth tutta la realtà dell’universo è rapportata a quell’unico elemento centrale che è la rivelazione del Cristo; è la concentrazione cristologica di Barth e per lui non esiste altra relazione possibile fra l’uomo e Dio all’infuori di questa. Ugualmente si deve dire che nella clessidra il movimento della sabbia esiste solo dall’alto verso il basso: così anche in Barth il movimento della rivelazione divina va dall’alto verso il basso. Però subito si deve aggiungere: come nella clessidra il movimento dall’alto verso il basso provoca un movimento opposto, poiché la sabbia sale nel recipiente posto in basso, così anche la rivelazione divina suscita e mette in opera un movimento contrario: attira a sé ed in sé tutta quanta la realtà del mondo: è l’universalismo cristocentrico del Barth. Tutto comunque resta sospeso a quell’unico stretto passaggio mediano; è il luogo dell’avvenimento e tutto deve passare attraverso tale luogo; per mezzo suo però sorge una relazione, si produce un’analogia, scaturisce la possibilità di un’adorante dossologia umana12. Jean Bosc ha scritto giustamente: «Gesù Cristo che era precedentemente, all’epoca del Roemerbrief, l’irruzione verticale dell’eternità nel tempo, che non toccava il nostro mondo se non come la tangente tocca il cerchio, senza toccarlo, è ora entrato nella storia, vi ha manifestato la sua presenza ed ha assunto il tempo. L’incarnazione prende la sua dimensione più profonda ed il suo significato più totale. Il soggetto resta sempre Dio nella sua parola e l’azione divina resta sempre, e primariamente, un avvenimento. Tuttavia l’avvenimento crea e rinnova una continuità. Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo e la sua umanità prende tutta la sua estensione e profondità perché è precisamente l’umanità assunta da colui che è vero Dio; senza che il tema della sovrana libertà divina sia sminuito, la tematica dell’amore divino si

amplifica all’altezza della libertà; Dio è libero di amare, libero nel suo amore di dare il Figlio suo, affinché questi si abbassi fino alla morte di croce per la riconciliazione degli uomini»13. Ed in una pagina capitale Henri Bouillard gli fa eco: «Verbum caro factum non significa solamente la trascendenza del Verbo, ma anche l’assunzione della natura umana; il Verbo ha elevato l’umanità del Cristo alla dignità di segno divino, di sacramento; e questo atto costituisce una promessa per tutta quanta l’umanità. Ecco dunque che l’azione divina, senza perdere la sua trascendenza e la sua contingenza, s’incarna in una continuità umana: la chiesa riveste un significato più positivo; così pure i rapporti tra tempo ed eternità; il cristiano ha responsabilità nel mondo, definite secondo l’analogia della fede. La predestinazione non è solo più un’iniziativa, ma un disegno in cui si svela il senso ultimo della storia umana; Dio non è più inanzitutto colui che giudica, ma colui che grazia; ed il peccato, non potendo nulla contro Dio, non distrugge né il suo disegno, né la sua opera. La natura umana, anche se alterata dal peccato, permane buona, destinata sempre alla comunione con Dio, perenne immagine di Dio; per grazia certo, ma realmente; l’incarnazione le ha conferito una tale dignità che, nell’ordine temporale, l’uomo deve sempre considerare l’uomo come misura di ogni cosa. Così con la dottrina della predestinazione, esposta nella dommatica, e soprattutto con la dottrina della creazione, Barth si orienta verso una concezione risolutamente ottimista dell’esistenza umana. Ottimismo fondato non su una riflessione filosofica, ma sulla vittoria che, nella resurrezione di Gesù Cristo, la luce divina ha riportato sulla faccia d’ombra avvolgente la creazione»14. Queste prospettive danno un tono vittorioso ed un accento trionfale alla teologia di Barth; ammirato, Brunner ha parlato del suo collega come di un poeta teologico15; e solo chi sa lasciarsi affascinare e per così dire portare dall’esuberante eloquenza barthiana può dire di cogliere appieno i segreti di una teologia che proprio sui temi finora esposti impegna il suo positivo, come anche, indubbiamente, la sua parte di critica. Come Walter Kreck ha ben visto in uno studio veramente imprescindibile e capace di rinnovare con la sua metodologia, le sue aperture, la sua oculata chiarezza non poco la ricerca barthiana, la teologia del nostro vive infatti di due grandi decisioni fondamentali: «il fatto che Dio sia riconoscibile solo mediante Dio stesso, ma che egli in Gesù Cristo si renda realmente riconoscibile all’uomo, questa è la quintessenza della dottrina della rivelazione di K. Barth; e il fatto che questo Dio nell’elezione di Gesù Cristo dica all’uomo il proprio irrevocabile sì e che il no della sua ira vuole essere soltanto al servizio di

questo sì, questo è il nucleo centrale della sua dottrina della elezione per grazia»16. È tuttavia partendo da questa seconda decisione fondamentale che può essere compresa la prima17 e con essa l’intera costruzione teologica barthiana, almeno dal 1938 quando, con il secondo volume della Kirchliche Dogmatik, diventa evidente ed esplicito che il fondamento ed il criterio di ogni teologia non è tanto la rivelazione intesa in senso formale ed astratto, bensì il concreto evento di Cristo18. «L’intenzione teologica di Barth, l’ardore cristiano che anima e stimola il suo pensiero non permettendogli di fermarsi fin quando non ha raggiunto il fondo, fino all’infinito, fino al limite del consentito, non si esprimono in nessuna parte in maniera altrettanto forte che nella sua dottrina della predestinazione. Essa costituisce l’apice della sua teologia, se di apice si può parlare per ciò che è il coronamento di ogni altra cosa; la concentrazione cristologica e l’universalismo cristico di Barth hanno qui la loro comune origine; qui è il punto di partenza da cui tutto si rischiara; qui la luce diventa forte, quasi accecante. Barth stesso ha definito la sua dottrina dell’elezione denominatore comune di tutta la sua teologia. Tutto quanto dice di Dio e del mondo, della creazione e della redenzione, della provvidenza e della propiziazione, della chiesa e dell’escatologia ha qui il suo punto di partenza e di riferimento»19. In queste pagine assimilabili ad un canto trionfale (Balthasar ha parlato di «una specie di ditirambo») siamo veramente «nel cuore della teologia barthiana»20. E Hans Küng, dalla sua particolare prospettiva, conferma quest’analisi: «per Barth, la giustificazione è fondata, come tutte le altre opere di Dio, nell’eternità divina, precisamente nell’eterna scelta della grazia di Dio in Gesù Cristo; è solamente in conseguenza di questa libera ed eterna autodeterminazione in Gesù Cristo, nella quale Dio si determina in favore dell’uomo peccatore e contemporaneamente decide l’uomo peccatore in suo favore, che Dio è il creatore, il riconciliatore, il redentore; ed è solamente partendo di là che egli è il Dio che giustifica»21. «Poiché precisamente ci è stato concesso di vivere come cristiani nella verità di Gesù Cristo, alla luce della conoscenza di Dio che illumina la nostra ragione, possiamo conoscere con sicurezza il significato della nostra vita, come pure la ragion d’essere ed il fine di tutto ciò che esiste; di qui il prodigioso allargarsi del nostro orizzonte; cogliere in tutta la sua verità l’oggetto della fede significa, né più né meno, essere resi capaci di conoscere ogni cosa, cioè se stessi, l’uomo, il mondo e la totalità del cosmo. La verità di Gesù Cristo non è una verità fra tante altre. È

la verità universale, sorgente di ogni altra, poiché è la verità di Dio, la prima veritas. Non ha forse Dio creato tutte le cose in Gesù Cristo, noi compresi? Non esistiamo, se non in lui, lo si sappia oppure no e l’universo intero non esiste, se non in lui, sostenuto dalla Sua parola possente. Conoscere Cristo significa conoscere ogni cosa. Essere toccati ed assunti dal suo Spirito significa essere condotti nella verità tutta intera»22. Conoscere Gesù Cristo e vivere di lui. L’incarnazione è senz’altro il fatto fondamentale di questa teologia; più di chiunque altro Barth celebra il miracolo del Natale e la nascita verginale è per lui un articolo assolutamente imprescindibile del cristianesimo23; tuttavia «il vero punto di partenza non è l’avvenimento dell’incarnazione, bensì la preesistenza del Cristo, l’essere che possiede nell’eternità, prima di ogni durata temporale»24. Presentare la dottrina barthiana dell’elezione divina significa dunque imboccare un imprescindibile e sicuro cammino per comprendere non solo l’evoluzione del pensiero barthiano in maniera finalmente adeguata, ma pure, e soprattutto, la sua intenzione fondamentale; significa apprezzare appieno il senso della concentrazione teologica di Barth, la sua concretezza cristologica, la sua possanza; significa però anche (come ci sarà dato di vedere) segnare i limiti e le questioni irrisolte non solo di uno specifico punto di dottrina, bensì dell’intero edificio. 3. Una seconda ragione è stata all’origine della nostra scelta. Ci è parso che la dottrina dell’elezione divina aiuti a comprendere, meglio di qualsiasi altro testo barthiano, non solo la teologia, ma l’attività politica di Barth nei suoi vari momenti e nelle sue molteplici sfumature e, più in generale, l’atteggiamento aperto che il teologo di Basilea ha progressivamente assunto nei confronti del mondo, della storia, della cultura, atteggiamento riflettutosi proprio nell’attività teologica del nostro; introdurre quindi ad una comprensione del Barth storico (almeno di quello contemporaneo alla Kirchliche Dogmatik) e del genuino significato del barthismo (poiché anche di questo indubbiamente si tratta) meno inefficace e meno corriva; proporre così anche per questi aspetti (e per altri che in questa sede è superfluo accennare) una lettura teologica che nulla misconosce delle realtà penultime poiché le radica saldamente nella realtà ultima. Non si tratta per noi di misurare e vagliare le prese di posizione di Barth, sottolinearne il rigore, la generosità ed i limiti, notarne la portata storica, rilevarne la contemporaneità; non si tratta neppure di vedere quale ruolo Barth abbia effettivamente svolto in certi momenti della lotta contro il nazismo o all’interno della chiesa confessante

onde puntualizzare dati, correggere prospettive, dialogare con mai sopiti dibattiti; non si tratta nemmeno di vedere quale apporto Barth possa dare alle tante «teologie del genitivo», fiorite a partire dagli anni 1960 (con vistosi casi già precedenti) ed ancora nostro retaggio (nella loro positività come nel loro invalicabile limite). Per tutto questo servono altri testi, altri studi e la recente biografia di Eberhard Busch, così ricca di dati, puntualmente confermati dalla corrispondenza dell’ultimo Barth, già pubblicata. La nostra prospettiva è più semplice e più radicale nello stesso tempo. A noi preme rilevare da un lato che l’opera di Barth nelle sue molteplici aperture verso le realtà penultime si è voluta etica e più specificamente etica teologica strettamente dipendente dalla cristologia conseguente e dall’altro che tutta quanta l’esistenza barthiana si è voluta e compresa come esistenza teologica oggi (per riprendere il titolo del saggio capitale, fondamento della resistenza contro il nazismo e di quell’altro che negli anni del dopo guerra ha segnato una memorabile polemica con Emil Brunner) e come decisione (per ricordare il titolo di quell’altro saggio con cui, in piena chiesa confessante, Barth ha richiamato il protestantesimo alla sua origine), imprescindibile appunto dalla sua radice cristologica; preme rilevare come proprio l’approfondimento della dottrina dell’elezione divina sia l’elemento vitale in una teologia della rivelazione com’è quella di Barth, inscindibile dalla prassi che genera (giustamente W. Kreck ha parlato di «decisione fondamentale»); sebbene con ciò non si voglia negare l’interazione esistente fra prassi e teoresi, anche nell’altra direzione (quella cioè in cui l’ortoprassi aiuti la formulazione adeguata dell’ortodossia) come già aveva notato Hans Urs von Balthasar in una pagina spesso dimenticata25. Non si faccia troppo questione di date: se è vero infatti che il blocco sull’elezione divina è pubblicato nel 1942 (e contemporanea ad esso è quella Kurze Erklärung des Roemerbriefes edita poi solo nel 1956), è altrettanto vero che l’idea dell’elezione divina come elemento strutturante una dommatica che si vuole eminentemente teologia della rivelazione è già chiara in quello che è l’articolo-programma del 1929 (Schicksal und Idee in der Theologie), destinato a esplicitarsi da un lato nel libro capitale su Anselmo (Fides quaerens intellectum del 1931) per ciò che attiene alla teologia della rivelazione e dall’altro nell’opuscolo del 1936 (Gottes Gnadenwahl) già così netto per la prospettiva cristologica, prima di avere proprio nella nostra sezione della Kirchliche Dogmatik il suo punto culminante, per quanto attiene appunto alla dottrina dell’elezione. Sono questi, per Barth, anni estremamente fervidi:

l’epoca del Roemerbrief è decisamente alle spalle; il nostro teologo cerca nuove vie, un nuovo pensiero, una nuova organicità per dire «meglio» quanto era stata l’indubbia scoperta della seconda edizione del commentario citato e che oggi siamo soliti indicare come «teologia dialettica»; sono gli anni veramente «fra i tempi» (per parafrasare il titolo della nuova rivista, espressione certamente non monolitica del gruppo dei teologi dialettici). Gli anni cioè in cui Barth passa dalla Christliche Dogmatik (1927) alla Kirchliche Dogmatik (il primo volume esce nel 1932); gli anni in cui con decisione tutt’altro che scontata e tradizionale, inserisce nei Prolegomeni (non semplice «introduzione», bensì «quanto deve essere assolutamente detto prima di ogni altra cosa») la dottrina trinitaria, destinata a svolgersi in quel secondo volume del 1938 in cui già è esplicita una teologia della rivelazione informata cristologicamente, in cui già si sentono chiaramente i frutti di Gottes Gnadenwahl del 1936 ed in cui è ormai netta la vera svolta della teologia barthiana; gli anni in cui Barth professa prima a Münster (1928) e poi a Bonn (1930) un corso di etica (restituitoci ora nella sua freschezza a cura di D. Braun nella Gesamtausgabe), forte di una sua precisa strutturazione teologica e cristologica, nuova pur nella sua ancora affermata tradizionalità26. Sono parimenti gli anni della chiesa confessante; ed in particolar modo di quella confessione di Barmen (1934), che Barth commenterà nella sua Dommatica nel 1940 con rara potenza ed efficacia, a ribadirne in tempi calamitosi tutta la portata27 e che non rinnegherà mai, anzi sempre conserverà con cura28 ed è noto come la prima tesi di questo documento sia uno squillo cristologico che, dopo aver richiamato i testi scritturistici fondanti (Gv. XIV, 6; X, 1; X, 9), così recita: «Gesù Cristo, come ci è attestato dalla Sacra Scrittura è l’unica parola di Dio che dobbiamo ascoltare, in cui dobbiamo confidare, cui dobbiamo obbedire nella vita e nella morte. Rigettiamo dunque la falsa dottrina secondo cui, al di fuori di questa parola di Dio, la chiesa potrebbe e dovrebbe conoscere ugualmente come fonte della sua predicazione, altri avvenimenti ed altre potenze, altri fenomeni ed altre verità che la rivelazione divina». E tutti questi anni che registrano «un sensibile mutamento nel mio comportamento e nella mia attività: non riguardo al senso ed all’orientamento delle mie conoscenze, bensì riguardo alla loro applicazione; e questo mutamento lo devo al Führer!»29, questi anni in cui Barth non si stanca di gridare alla cristianità «di prendere e di osare prendere finalmente commiato da ogni sorta di teologia naturale, per aderire esclusivamente al Dio che si è rivelato in Gesù Cristo»30,

questi anni in cui Barth inculcava ai suoi studenti che «soltanto un lavoro teologico assolutamente serio può avere un significato reale»31 ed in cui la teologia, proprio in quanto tale, doveva diventare «prassi, decisione, azione»32 sono anni dominati dall’approfondimento cristologico che, già netto nel 1936, diventa culminante nel 1942. Presentare queste pagine del 1942 sembra a noi esemplare: perché in esse assurgono a vita nuova, a vera e propria esistenza teologica le angosciose questioni che il nazismo nichilista, antisemita e prevaricatore poneva alla chiesa ed alla teologia, mostrando così praticamente l’interazione ortodossia-ortoprassi che anima questa riflessione rigorosa, vigile e ricca di coraggio, che non scantona mai, ma che trae dal suo fondamento cristologico la parola giusta che sa dire pane al pane, anche là dove le parole sono massi e fuoco purificatore (si pensi solo, a titolo esemplificativo, a quanto si può leggere qui di seguito sul fondamento della dottrina dell’elezione, là dove Barth rifiuta come base legittima un fatto di esperienza o una concezione generale dell’uomo; all’appassionata difesa del popolo ebraico nell’esegesi di Rom. IX-XI così ricca di riferimenti puntuali, resi più acuti dalle tristi conseguenze del cosiddetto paragrafo ariano; al rifiuto di due concezioni succedanee dell’elezione e cioè del concetto di Führer da un lato e delle quantificazioni comuniste — la massa, il proletariato e nazifasciste — la razza, la lingua, la storia, espressioni dello stato totalitario dall’altro; e sono pagine che rivivono in Dietrich Bonhoeffer e che là forse sono più familiari a tanti di noi se non altro per la morte che le sigla, ma che qui non sono meno indomite); perché, appunto in questa loro contingenza, appare evidente la forza che anima il lavoro teologico di Barth; perché in questo trionfo cristocentrico che si spinge fin nell’eternità della preesistenza del Verbo Incarnato si radica tutta un’esistenza, sostenuta da un pensiero vigoroso strettamente unificatore; perché qui si informa un atteggiamento posteriore di apertura al mondo che le parti etiche della dommatica ribadiranno ed approfondiranno (come contenuto e come struttura esterna), l’ultima corrispondenza riempirà in mille modi, la conferenza sull’umanità di Dio (Die Menschlichkeit Gottes del 1956) illustrerà in maniera parzialmente nuova e le conversazioni su Mozart mostreranno mirabilmente33. Presentare il testo in cui il cristocentrismo raggiunge il suo culmine qualitativo ed un testo che fino all’ultimo è stato al centro delle preoccupazioni barthiane34 significa dunque sicuramente offrire una chiave per comprendere l’attività di un uomo che nelle ultime settimane di vita, accanto ad una testimonianza quanto mai

impressionante nella sua densità35, ha saputo scrivere: «L’ultima parola che ho da dire, in quanto teologo ed in quanto cristiano, è un nome: quello di Gesù Cristo; è lui la grazia ed è lui la realtà ultima al di là del mondo, della chiesa, della teologia; non possiamo certo impadronirci di lui, però abbiamo a che fare con lui. Nella mia lunga vita, mi sono sforzato di mettere il suo nome sempre maggiormente in evidenza e di dire: tutto è veramente là! Non vi è salvezza in nessun altro nome. Là è la grazia; là troviamo l’impulso a lavorare e a combattere, l’impulso che è all’origine delle nostre comunità e che ci rende solidali con i nostri simili; là vi è la radice di tutto quanto mi sono sforzato di fare durante la mia lunga vita, pur debole e maldestra; sì: proprio e solo là»36. 4. Una terza ragione è stata all’origine della scelta compiuta: nella storia del pensiero cristiano la dottrina della predestinazione ha avuto sovente un ruolo corposo, intrecciandosi con i problemi della prescienza divina e del libero arbitrio umano, quindi con la tematica della grazia e della libertà; vi furono momenti in cui la predestinazione divenne argomento discusso anche fra i profani e qui giova ricordare quello sconosciuto funzionario della Cancelleria segreta milanese che nel 1544, in data non ulteriormente precisabile, probabilmente sotto la forte impressione di un qualche evento, conversazione o lettura, imperiosamente ricondotto ai grossi problemi dell’uomo e di Dio, indugia ad un soliloquio sulla predestinazione e sul libero arbitrio, articolando, certo faragginosamente, ma pure austeramente, i «si dice» con Crisostomo e con Ambrogio Catarino, esempio di inquietudine e di fervore, fortunosamente conservato e restituito a noi dalla paziente fatica dello Chabod37; poi la decadenza, la crisi, il confino in una parte assai esigua dei trattati teologici (ora nel de Deo Uno ed ora nel de gratia Christi) contro il posto occupato in precedenza, non solo, ma pure contro il ruolo indubbiamente di primo piano che l’idea dell’elezione occupa nell’Antico come nel Nuovo Testamento (in specie qui negli scritti paolini e giovannei di cui costituisce uno dei motivi direttori). Ragioni di ordine filosofico, contingenze storiche, contesti culturali ed eresie hanno spesso limitato la discussione, orientando la riflessione teologica su problemi del tutto secondari; si aggiunga l’impoverimento della teologia essenzialista nella disputa de auxiliis, nelle sottigliezze della scolastica post-tridentina, nella disputa protestante fra infralapsari e sopralapsari; si rilevi lo schema cronomorfo adottato nell’indagine sulla predestinazione; si rammenti infine l’irrigidimento del trattato de Deo Uno su posizioni assai più wolfiane che tomiste: da tutto

ciò si comprende bene la pista quasi fatalmente imboccata da questo dogma. In questi ultimi anni si è cominciato a risalire la china (ad esempio con certe ultime intuizioni pannenberghiane) e la dottrina della predestinazione riacquista quella ricchezza che un’accurata indagine scritturistica ed un’impegnata revisione storica hanno saputo restituirle. Il cammino percorso è tuttavia ancora troppo monco, parziale e disorganico; la riflessione cristiana stenta la sintesi, malgrado opere di egregia fattura e studiosi di eccezionale personalità; talune proposte da noi formulate esattamente dieci anni fa (ci sia perdonato questo riferimento) consistenti a far entrare la dottrina della predestinazione in una visione organica della teologia cristiana, non sono state propriamente riprese38. Riproporre oggi la dottrina barthiana dell’elezione divina significa anche questo: con le sue luci e le sue ombre, con il suo deciso rifiuto della propria tradizione confessionale riformata per quanto attiene alla doppia predestinazione, con la revisione che impone alla tradizione luterana troppo incentrata sulla giustificazione intesa come articulus stantis aut cadentis ecclesiae, con le interrogazioni che pone alla tradizione cattolica troppo spesso scentrata rispetto al fuoco che tutto dovrebbe bruciare, la sintesi barthiana è un avvenimento che condensa in sé prospettive parzialmente simili che l’hanno preceduta od accompagnata nel suo formarsi (e sono rarissime e nessuna di tanta ampiezza e vigore) e che si impone nella storia del pensiero cristiano; non solo perché Barth è «un sistematico di razza» e non solo perché la sua opera dommatica è «una delle più grandi opere del pensiero moderno e forse la produzione sistematica più importante del secolo XX» o forse anche «il sistema più possente che la storia abbia mai conosciuto»39; ma soprattutto perché sa offrire un cammino che, in un attento dialogo di rispettosa contestazione, con una libertà scritta nell’irriducibile fedeltà alla Scrittura, sa ristrutturare dal di dentro una dottrina, sa restituirle la sua pienezza, sa riportarla al suo antico, sempre attuale splendore. Come non soffermarsi infatti su una teologia in cui la predestinazione si comprende unicamente partendo dalla cristologia, in cui non è più un atto arbitrario o un mistero nascosto e tremendo, bensì il riassunto del messaggio evangelico? «La predestinazione (dice Barth) non consiste, come la si immagina comunemente, in un atto divino dividente gli individui umani in due gruppi: gli eletti e i riprovati; in questo caso stabilirebbe solo dei rapporti privati fra Dio e ciascun individuo in particolare; secondo la Scrittura invece, la predestinazione è un’azione divina il cui oggetto proprio e diretto è Gesù Cristo, ed in lui solamente la comunità ecclesiastica, il popolo di Dio chiamato da lui, ed in

questa comunità solamente gli individui. L’elezione e la riprovazione non hanno senso per l’individuo se non in relazione con la dialettica della chiesa eletta e dell’Israele riprovato e questa non ha significato se non in rapporto a Gesù Cristo che assume su di sé la riprovazione umana ed elegge l’uomo affinché questi partecipi alla sua gloria»40. Sono vie nuove e feconde, riscoperte essenziali, la cui carica è lungi dall’essere esaurita. È ora giunto il momento di percorrere brevemente questi sentieri, non nel senso di riassumerne il pensiero sostituendoci alla lettura e neppure con la finalità diretta di agevolare quest’ultima (la rete di sottotitoli da noi aggiunta ai riferimenti scarni, ma già essenziali di Barth è sufficiente a consentire tale scopo), bensì con l’intenzione di enucleare i nodi centrali, suscettibili di adire al discorso critico. La dottrina dell’elezione divina. I. Elaborando l’esegesi di Gv. I, 1-2 e di qualche altro testo scritturistico particolarmente significativo (II Cor. IV, 4; Col. I, 17-19; II, 9; Ef. I, 3-11; II Tim. I, 9; Ebr. I, 3), Barth è portato a riconoscere che «precisamente nel nome e nella persona di Gesù Cristo si trovano la parola, la scelta, la decisione originaria di Dio, che sono al principio di tutte le cose e che costituiscono di conseguenza l’origine del nostro essere e del nostro pensiero, come pure il fondamento della nostra fede, concernente le vie e le opere divine»41. Ogni riflessione sulla predestinazione (come su tutto il lavoro teologico) dev’essere materialmente e formalmente cristologica: «infatti Gesù Cristo è Dio nella sua condiscendenza nei confronti dell’uomo; più esattamente, è Dio che si volge verso il popolo degli uomini rappresentato dall’individuo unico Gesù di Nazareth; Dio nella sua alleanza con questo popolo, nel suo essere e nella sua azione presso di lui»42. Il messaggio neotestamentario si riassume in questa proposizione: «Dio sceglie l’uomo Gesù di Nazareth per unirsi perfettamente a Lui nella persona del Figlio suo; sceglie in Lui e oer mezzo di Lui il popolo di coloro che gli appartengono; e così dà a tutte le sue opere il loro significato»43. Ed ancora: «Il Dio vero è colui che si trova unicamente in questo movimento di condiscendenza; rivolto verso l’uomo Gesù e, in Lui e per mezzo di Lui, verso l’insieme degli altri uomini riuniti per formare un solo popolo»44. Si delinea così chiaramente, secondo Barth, l’articolazione interna di una dottrina della predestinazione che si voglia corretta secondo l’insegnamento scritturistico: dapprima l’elezione di Gesù Cristo; in secondo luogo l’elezione mediatrice e necessaria della comunità da considerarsi all’interno di quella di

Gesù Cristo; in terzo luogo l’elezione dell’individuo. I singoli capitoli sono strettamente interdipendenti: «la predestinazione, intesa come elezione di Gesù Cristo, è contemporaneamente anche l’elezione eterna del popolo di Dio, la cui esistenza significa: Gesù Cristo è testimoniato al mondo intero ed il mondo intero è destinato a credere in lui»45. Possiamo dire così: «L’elezione dell’uomo è la sua elezione in Gesù Cristo. Poiché Gesù Cristo è l’origine eternamente vivente dell’uomo e della creazione tutta intera, eleggere significa: eleggere in lui; ed essere eletto significa: essere eletto in lui. Esiste tuttavia un’altra elezione oltre a quella di Gesù Cristo: essa non si situa a fianco o al di fuori, bensì all’interno di quella di Gesù Cristo. Non possiamo parlare dell’elezione di Gesù Cristo, senza menzionare costantemente quest’altra elezione»46. Così facendo, restiamo fedeli alla Sacra Scrittura che «non considera in primo luogo l’elezione di ogni credente in particolare. Essa considera come precedente un’elezione intermedia e mediatrice, il cui soggetto è sempre Dio in Gesù Cristo ed il cui oggetto è l’umanità. A questo secondo stadio gli uomini non sono considerati singolarmente, ma come comunità: la comunità scelta da Dio in Gesù Cristo per compiere un servizio determinato. Secondo la Scrittura, il destino di questa comunità forma in primo luogo l’oggetto di quest’altra elezione, compresa nell’elezione di Gesù Cristo. L’elezione individuale di ogni singolo credente non potrà essere considerata se non in funzione di questa elezione comunitaria»47. Tale maniera di procedere propone un’indispensabile correzione di rotta. «In tutte le sue tendenze e sfumature la dottrina tradizionale della predestinazione ha iniziato considerando questo problema dell’elezione individuale e per l’essenziale non è riuscita a liberarsene. Tutte le questioni studiate finora nella prospettiva dell’elezione di Gesù Cristo e della comunità non l’hanno interessata seriamente, se non in riferimento a ciò che costituiva, a suo modo di vedere, il nucleo stesso dell’elezione gratuita. Qual è dunque il disegno eterno, positivo e negativo, che determina i rapporti di ordine privato fra Dio e gli uomini presi individualmente? La fretta con cui si è affrontato questo problema e la facilità con cui si è ammesso che nella dottrina della predestinazione si trattasse veramente di questo quesito sono davvero sorprendenti»48. A colpo sicuro bisogna invece affermare: «Il problema dell’elezione divina non si riduce a quello dell’elezione dell’individuo, ma semplicemente, l’include; occorre perciò esaminare questo problema in stretta connessione con i precedenti, rilegandolo alla questione dell’elezione di Gesù Cristo e dell’elezione della comunità; il problema dell’elezione ingloba il tema su cui la discussione

tradizionale ha diretto così rapidamente e così esclusivamente la sua attenzione»49. Secondo Barth questa sua impostazione corrisponde all’insegnamento scritturistico, corregge quanto di unilaterale vi è nella concezione agostiniana da cui dipende in genere (in Occidente) il dogma della predestinazione, rende giustizia all’intenzione tradizionale sovente espressa in maniera aporetica in sistemazioni più o meno valide, consente soprattutto di considerare la dottrina dell’elezione come «evangelium in nuce, quintessenza del buon annuncio»50, ricapitolante appunto «il buon annuncio che ha nome Gesù Cristo»51. 2. «La rivelazione di Dio in Gesù Cristo è il mistero dell’elezione, della santificazione, dell’assunzione della natura e dell’esistenza umana da parte della Parola eterna di Dio che, in questa congiunzione della vera divinità e della vera umanità, diventa la Parola della riconciliazione che Dio indirizza all’uomo»52. «La scelta originaria e fondamentale di Dio, nella sua verità e nella sua efficacia specifiche per tutto il resto, coincide esattamente con il fatto che da tutta eternità Dio si è deciso a diventare colui che porta il nome di Gesù Cristo e ciò per propria libera iniziativa ed azione»53. «Fra Dio e l’uomo vi è la persona di Gesù Cristo. Vero Dio e vero uomo, egli è l’unico mediatore. In lui Dio si rivela all’uomo; in lui l’uomo riconosce Dio. In lui Dio si tiene davanti all’uomo e l’uomo davanti a Dio, conformemente alla volontà eterna di Dio e alla destinazione eterna dell’uomo corrispondente a questa volontà. In lui Dio indica il suo disegno nei confronti dell’uomo e pronuncia il suo giudizio su di lui; in lui Dio salva l’uomo e gli si manifesta in tutta la sua pienezza. In lui annuncia la sua esigenza e la sua promessa sull’uomo. In lui Dio si è legato all’uomo. È quindi a causa di lui che l’uomo esiste ed il mondo stesso, teatro in cui si snoda la storia fra Dio e l’uomo, è stato creato in modo conforme all’origine ed al fine assegnati all’uomo in Gesù Cristo. Gesù Cristo è l’essenza di Dio, così com’è originariamente l’essenza dell’uomo; nulla vi è nell’universo che non proceda da lui, che non esista per lui e per mezzo di lui; è la parola di Dio che contiene tutta la verità e che non può essere superata o limitata da alcun’altra parola. È la decisione di Dio, non preceduta né accompagnata né superata da alcun’altra decisione, perché tutte le decisioni esistenti non possono che concorrere al compimento di quella decisione iniziale. Egli è l’origine che esclude ogni altra origine al di fuori di quella che Dio possiede in se stesso, cosicché nulla vi è che non proceda da lui o possa trovare origine al di fuori di lui»54. Gesù Cristo dunque, nel suo mistero di

vero Dio e di vero uomo nell’unità della persona divina, è la prima parola che si incontra nella dottrina della predestinazione; ciò significa subito che nell’unica persona di Gesù Cristo sono riuniti il Dio-che-elegge e l’uomo eletto; cosicché la dottrina cristologica della predestinazione può essere enucleata in queste due affermazioni: Gesù Cristo è come Dio-che-elegge il soggetto attivo dell’elezione divina e come uomoeletto e rappresentante di tutti gli uomini è l’oggetto dell’elezione divina. Solo in Gesù Cristo si può trovare unita questa duplice funzione (attiva e passiva) perché solo lui è il Figlio di Dio (e quindi il Dio-che-elegge) eletto nella sua unità con l’uomo, per compiere l’alleanza di Dio con l’uomo. La tesi generale: «la predestinazione divina è l’elezione di Gesù Cristo»55 si precisa dunque così: «il fatto di eleggere (funzione attiva) è inanzitutto la determinazione divina dell’esistenza di Gesù Cristo ed il fatto di essere eletto (funzione passiva) ne costituisce la determinazione umana»56. È importante ritenere Gesù Cristo come soggetto dell’elezione divina: «Se Dio ci elegge, lo fa nella e con l’elezione compiuta da Gesù Cristo, nel e con l’atto di libera obbedienza del suo Figlio. È lui, Gesù Cristo, che è la forma concreta e visibile della decisione divina (quella del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo) in favore dell’alleanza che sarà stabilita fra Dio e noi. In lui, l’elezione eterna diventa immediatamente la promessa della nostra propria elezione (che si effettua nel tempo); in lui essa diventa vocazione, appello alla fede, certezza che Dio interviene in nostro favore, rivelazione della nostra qualità di figli di Dio»57. Né meno importante è riconoscere Gesù Cristo come oggetto della predestinazione divina. Infatti la «predestinazione dell’uomo Gesù definisce perfettamente ciò che è in ogni caso la nostra elezione: l’uomo è accolto e preso a carico dalla libera grazia di Dio»58. Queste due proposizioni costituiscono un’unità indissolubile; bisogna perciò considerarle sempre nella loro coappartenenza perfetta che nulla può mettere in questione; si deve sottolineare così da un lato l’eternità dell’elezione attiva e passiva di Gesù Cristo e dall’altro che questa elezione unica e singolare è anche la nostra elezione che è eterna, ma che si realizza nella storia e nella contingenza, proprio come la stessa elezione di Gesù Cristo che ha nella storia il suo sviluppo. L’elezione di Gesù Cristo significa anche elezione dell’uomo Gesù per la sofferenza e per una sofferenza vicaria, al nostro posto, affinché noi avessimo la vita. È a questo punto che Barth propone un’altra ardita tesi teologica: la doppia predestinazione deve essere considerata in una cristologia conseguente. Secondo Barth la seconda proposizione cristologica deve essere la seguente: Gesù Cristo è

contemporaneamente l’eletto ed il riprovato. «Il fatto che l’uomo Gesù sia eletto significa: una collera esplode, una sentenza è pronunciata, un castigo si attua, un rifiuto si compie; così è deciso da tutta eternità»59. Perché la riconciliazione dell’uomo e la serie delle alleanze di grazia possa essere reale, storica e pur sempre attuale, avvenimento e non formulazione astratta di un principio (e quindi facilmente sistema) occorre riportare alla persona di Gesù Cristo ed all’interno della sua elezione la tesi conosciuta in teologia con il nome di praedestinatio gemina. Concretamente ciò significa: «nell’elezione di Gesù Cristo (che è la volontà divina eterna) Dio ha destinato il sì all’uomo (e cioè l’elezione, la salvezza e la vita) ed ha riservato per sé il no (e cioè la riprovazione, la condanna e la morte)»60. Abbiamo così questa serie apparentemente sconcertante di proposizioni che, secondo Barth, sono imposte dalla stessa Scrittura: «la condanna meritata dall’uomo è caduta su Dio e Dio stesso subisce la prova del disonore e della distretta»61; «predestinazione significa: l’uomo conformemente alla decisione eterna di Dio è liberato dalla riprovazione e ciò a danno di Dio stesso. L’uomo è libero. Dio è in vece sua, il perdente, l’abbandonato, il riprovato, l’agnello immolato fin dall’inizio del mondo»62; «nel dono di Dio stesso in Gesù Cristo una cosa è divenuta evidente: la riprovazione non ci concerne più, perché Dio ha voluto concernesse lui e non noi; noi non dobbiamo più subirla, perché Dio se l’è completamente assunta per sé»63. È evidente che Barth opera in questa maniera una rivoluzione per quanto concerne la tesi calvinista, escludendo ogni simmetria fra riprovazione ed elezione: qui la predestinazione non si risolve in un decretum absolutum, in una decisione generale, in un decretum incognoscibile et tremendum. Siamo lontani da un sistema in cui le componenti sono parallele: «non abbiamo affatto la libertà di vedere nell’elezione eterna di Dio due decisioni simmetriche, l’una verso destra e l’altra verso sinistra»64. Così la predestinazione diventa semplicemente la «scelta gratuita di Dio»: «Prima di ogni altra cosa dobbiamo insistere sulla seguente affermazione: la dottrina della predestinazione è il riassunto dell’evangelo, cioè della buona novella: messaggio gioioso, tonico, consolatore, salutare, rallegrante, tutto ripieno di aiuto. Essa non può quindi essere considerata, in riferimento al complesso di paura e di timore, di disgrazia e di pericoli che segnala, come una verità neutra, come un qualche teorema astratto che in fin dei conti non contiene che un insegnamento rigido, una fredda spiegazione concernente un campo irrazionale, in cui s’ignora la

differenza fra il bene e il male, la felicità e l’infelicità. Certo la dottrina della predestinazione è anche spiegazione, insegnamento, ma solo nella misura in cui procura la gioia. Essa non è un messaggio in cui si mescolano gioia e terrore, salvezza e perdizione»65. Necessità di una precomprensione cristologica, Gesù Cristo inteso come soggetto ed oggetto dell’elezione eterna di Dio, Gesù Cristo come eletto e come riprovato: «ci separiamo da tutte le interpretazioni in cui il soggetto e l’oggetto della predestinazione sono definiti come grandezze che, in definitiva, ci restano sconosciute e che sono abbordate come sconosciute»66; «la predestinazione esige di essere interpretata partendo dalla cristologia, poiché Gesù Cristo è la sostanza di questa dottrina»67; dobbiamo evitare la tentazione di «considerare Dio e l’uomo o di pretendere di sapere qualcosa a loro riguardo al di fuori della contemplazione di Gesù Cristo»68. Siamo in presenza di un mistero rivelato: «da tutta eternità vi è in Dio il disegno di dare se stesso, nella persona del suo Figlio coeterno, al figlio dell’uomo ed al figlio dell’uomo perduto; più ancora: ci è fatto conoscere che da tutta eternità Dio ha deciso di essere lui stesso questo figlio dell’uomo perduto, nella persona del suo Figlio coeterno»69; «è la gloria di Dio che irradia in questo atto supremo della sua libertà»70; «se pensiamo di non sapere nient’altro sulla predestinazione all’infuori di quanto ci è detto in Gesù Cristo, allora dobbiamo opporci alla teoria dell’equivalenza simmetrica della doppia volontà di Dio, poiché non conosciamo la predestinazione dell’uomo al male ed alla morte se non nella forma in cui Dio l’ha voluta prendere su di sé, affinché ne fossimo liberati»71. Perciò «il pensiero della predestinazione non saprebbe suscitare in noi quei sentimenti mescolati di timore e di gioia, che dovremmo esperimentare se fossimo in presenza ora di una promessa ed ora di una minaccia; il pensiero della predestinazione non può che riempirci di gioia, proprio perché nell’elezione divina esiste un ordine e quest’ordine è irreversibile; tale ordine non è un sistema di cui dovremmo considerare parallelamente le componenti. È l’ordine della volontà di Dio che intende seguire una certa via per manifestare la sua gloria davanti a nai e tale gloria consiste nel fatto che Dio è diventato la nostra salvezza e ci ha liberati»72. 3. Ogni elezione che si compie in Gesù Cristo è condizionata e limitata dall’elezione della comunità, termine generico particolarmente adatto per indicare la globalità del popolo di Dio. La prima proposizione tende a caratterizzarla: «questa comunità è particolare in quanto è chiamata di fronte a tutto il mondo per rendere testimonianza a Gesù e per suscitare la fede in

lui»; «è provvisoria, poiché è indirizzata ad una comunità più larga, quella di tutti gli uomini, in mezzo ai quali svolge la funzione di testimone e di araldo»; «è intermedia perché si situa fra l’elezione di Gesù Cristo e quella di coloro che hanno creduto, che credono e che crederanno»; «è mediatrice perché rilega l’azione di Cristo a quella dei credenti e viceversa»73. La seconda mette in rilievo l’imprescindibilità di simile articolazione: «Extra ecclesiam nulla salus!: quest’affermazione appartiene già alla dottrina della predestinazione»74. La terza sottolinea il legame con Cristo. Dapprima la sua unità: «come il Dioche-elegge e l’uomo-eletto s’indentificano nella predestinazione in Gesù Cristo, così pure la comunità, oggetto primario di tale elezione, non può essere che una sola»75. Quindi la sua duplicità come Israele e come chiesa, riflesso della cristologica praedestinatio gemina: «la conoscenza dell’unità e della distinzione che legano Israele e la chiesa dipende essenzialmente dalla conoscenza che si ha di Gesù Cristo e della sua elezione»76. Infine la dialettica che unisce questi due aspetti: «come Israele essa attesta il giudizio divino, come chiesa la misericordia divina; come Israele essa è destinata ad ascoltare la promessa fatta agli uomini, come chiesa a credere a questa promessa; Israele è la figura passeggera, la chiesa la figura avvenire di questa comunità»77; «nella sua figura ecclesiastica la comunità del popolo eletto non è altro che Israele giunto finalmente alla sua destinazione»78; «allorché la chiesa chiama Israele alla fede, non gli domanda altro che di pentirsi e di obbedire alla sua vocazione, divenendo il popolo che riconosce il Figlio dell’uomo uscito dalla razza d’Israele»79. Non è certo possibile con ciò annegare le ombre80, tuttavia si deve precisare: «Non bisogna chiamare i Giudei popolo riprovato e la chiesa popolo eletto; l’oggetto dell’elezione non è né Israele, né la chiesa presi singolarmente, ma tutti e due insieme; la comunità eletta in Gesù Cristo (il suo corpo!) ha il duplice aspetto di Israele e della chiesa. L’onore dell’elezione, l’amore di Dio che ne è il fondamento, l’alleanza eterna di Dio restano le stesse da una parte e dall’altra. È vero che tutto assume un aspetto differente se ci si trova da un lato oppure dall’altro: la relazione fra elezione e riprovazione (che inevitabilmente l’accompagna) è differente di qua o di là. Ma questo dipende dalla doppia determinazione che si trova in Gesù Cristo. Infatti nella sua forma israelitica e veterotestamentaria, il popolo eletto è considerato in funzione dell’uomoeletto, mentre nella sua forma ecclesiastica e neotestamentaria è considerato in relazione al Dio-che-elegge. Questa differenza irriducibile si manifesta nel

fatto che il popolo giudaico resiste alla sua elezione abbandonando Gesù Cristo affinché sia crocifisso, mentre la comunità composta da giudei e pagani (che ha origine dal medesimo Gesù Cristo) è scelta in forza dell’elezione di Gesù Cristo. Nel primo caso ciò che è decisivo è: gli uomini rifiutano l’elezione divina; nel secondo: il Dio-che-elegge accoglie gli uomini. Questi sono i due aspetti della comunità eletta, i due poli fra cui si svolge la sua storia, in senso unico. La sola e medesima alleanza ingloba così Israele e la chiesa; bisogna perciò definire l’opposizione suaccennata in maniera smussata e per nulla esclusiva. Vi è certamente una riprovazione divina soggiacente alla forma israelita della comunità, caratterizzata dalla ribellione; ma vi si trova anche l’elezione in forza della quale Dio ha deciso di prendere su di sé questa riprovazione. Così pure dobbiamo dire: dietro alla vocazione divina caratterizzante la forma ecclesiale della comunità, vi è certamente il fatto dell’elezione; ma vi si trova anche la riprovazione che Dio ha preso su di sé. Bisogna fare ben attenzione alla distinzione irriducibile di questi due aspetti del popolo di Dio. Ma bisogna egualmente notarne l’indissolubile unità che ne deriva»81. Riassunta così dialetticamente la situazione riferendosi al testo capitale di Rom. IX, 1-5, Barth può precisare i diversi servizi resi dalla doppia figura della comunità. Inanzitutto (commentando Rom. IX, 6-24) manifestare il giudizio e la misericordia di Dio; quindi (commentando Rom. IX, 25-X, 20) rivelare al mondo i modi diversi di essere oggetto della promessa, attestando Israele il semplice ascolto della promessa e la chiesa l’obbedienza della fede; infine (commentando Rom. XI) manifestare che nella sua duplice forma la comunità testimonia l’uomo-del-passato e l’uomo-dell’avvenire. Non si tratta semplicemente di giustapporre le due figure; neppure di parlare «di una doppia volontà divina, bensì di un cammino differente su cui Dio conduce gli uomini ad un’unica destinazione»82; quanto è detto non vale solamente nella linea che va da Israele alla chiesa, ma pure nella linea che dalla chiesa raggiunge di nuovo Israele, poiché «la chiesa indirizza la sua lode a Dio che è il Dio di tutti e per questo motivo anche al di sopra di tutti: al Dio del popolo che comprende Israele e la chiesa, la chiesa e Israele»83. E la ragione di fondo è ancora nel Cristo: «Gesù è il figlio promesso ad Abramo e a Davide, il Messia d’Israele, ma contemporaneamente è il capo ed il Signore della chiesa composta da giudei e da pagani. Lo è in una sola persona e la sua persona unica è entrambe le realtà. In quanto Signore della chiesa è il Messia d’Israele, in quanto Messia d’Israele è il Signore della chiesa»84. Rilegata al Cristo, la

comunità manifesta così, proprio nell’unità e nella duplicità della sua figura, la libertà della giustizia divina: «nella sua misericordia, Dio si autogiustifica e nello stesso tempo giustifica l’uomo, come dimostra la rivelazione della sua collera»85; «all’ira segue la misericordia»86; «tutti sono prigionieri nella medesima prigione; ma la prigione si apre per tutti e tutti si trovano nella medesima situazione; come la disobbedienza si trova ovunque all’inizio nelle opere degli uomini, così la misericordia divina si trova dovunque alla fine; dovunque e per tutti, nel vasto campo dell’elezione di Dio, la cui maestà consiste nell’essere Colui-che-fa-misericordia»87. Israele e la chiesa sono indissolubilmente solidali; il piano di salvezza, visto nell’eternità di Dio, al di là delle contingenze storiche pur non irrilevanti, è rigorosamente unitario; oltre la dialettica storica si apre la prospettiva escatologica. Israele e la chiesa sono uniti per la manifestazione della gloria del Signore: «Israele è destinato a riflettere il giudizio cui Dio ha strappato l’uomo e che subisce egli stesso nella persona di Gesù di Nazareth:)88; «la forma israelita della comunità eletta mostra di che cosa è fatta l’umanità, quella del popolo di Dio e quella degli altri uomini e ciò che costa a Dio il voler essere il suo Dio, il far causa comune con essa ed esercitare la sua misericordia»89; «Israele personifica l’impotenza e la cattiva volontà umana; ma in Israele e di fronte a lui si erge da sempre la chiesa con la sua missione universale e definitiva; essa annuncia agli uomini la grande opera di Dio. Israele abbandona il suo Messia alla croce; in forza del suo capo risuscitato dai morti, la chiesa diventa il testimone della misericordia di Dio»90. Il destino d’Israele indica la libertà della grazia di Dio ed il grande mistero della responsabilità umana; invece «la chiesa è là dove la promessa incontra la fede che essa stessa ha suscitato»91; bisogna però tener conto che «la chiesa esercita il suo servizio nella misura in cui essa ascolta sempre e di nuovo la promessa che ha accolto un tempo, nella misura in cui lo stesso servizio d’Israele ha luogo e si attua per mezzo di essa ed in mezzo ad essa. Anche Israele compie questo servizio: nella misura in cui la chiesa vive anche in lui ed ha bisogno ancora di lui, nella misura in cui il destino d’Israele trova il suo compimento e la sua forma proprio nella chiesa, perché questo popolo compie il passo necessario dall’ascolto puro e semplice all’obbedienza della fede»92. «La chiesa preesistente in Israele e sorta da lui, la chiesa della fede nella promessa divina è la conferma positiva dell’elezione di questo popolo»93; il fondamento della chiesa passa attraverso Israele; per questo essa «attende la conversione d’Israele; però la deve anche precedere, confessando la fede che è

richiesta alla chiesa e ad Israele e ad entrambi offerta, riconoscendo così l’unità del popolo di Dio»94. La Sinagoga testimonia le tenebre che hanno coperto la terra alla morte del Signore; la chiesa attesta lo splendore della resurrezione; fra Israele e la chiesa si pone il risuscitato. «Il messaggio testimoniato dalla chiesa è l’annuncio esaustivo e decisivo affidato al popolo di Dio nel suo insieme; ciò che Israele deve dire serve come introduzione e premessa. La chiesa è così legata ad Israele, sua forma ausiliaria; essa dipende dall’esistenza continua di questo popolo in mezzo ad essa; ed inversamente si può dire che l’esistenza della comunità ecclesiale è il compimento del destino di Israele»95. L’arco di un’unica alleanza si stende su tutto; le due figure non si escludono a vicenda; la parabola del vasaio, la dottrina del resto santo, la partecipazione escatologica d’Israele ai beni della salvezza sono altrettanti elementi che mettono in luce l’unità esistente in questa dialettica96. 4. La prima proposizione concernente l’elezione dell’individuo suona così: «L’uomo predestinato è l’individuo che nella scelta di cui è oggetto da parte di Dio trova non la conferma del suo essere naturale, bensì il perdono, la giustificazione che procede dalla grazia; se l’individuo è oggetto della scelta divina non è perché la sua umanità sia gradita a Dio, ma perché questa umanità, di per sé indegna e ribelle, si trova assunta, trasformata e rinnovata da Dio»97; può accadere tuttavia che «invece di ricevere come un dono e nella riconoscenza l’identità e la dignità che intende conferirgli il Dio unico, l’individuo vuole considerare tutto ciò come suo bene proprio, come un diritto inerente alla sua esistenza»98; però «in questa scelta mostruosa quest’individuo isolatosi da Dio si trova fin dall’inizio contraddetto e superato da ciò che Dio ha deciso e compiuto per lui, da tutta eternità, procedendo all’elezione di Gesù Cristo», cosicché, «malgrado la vertigine del vuoto», egli «non può rendere caduca, né modificare la decisione eterna in virtù della quale Dio lo considera non isolatamente, ma nel Figlio suo; se egli si separa da Dio, Dio non si separa da lui»99. La seconda proposizione si articola così: «La comunità di Dio è là per attestare ad ogni individuo che una tale scelta (cioè quella contro Dio) è nulla e non avvenuta, perché ogni uomo appartiene da tutta eternità a Gesù Cristo, nel quale Dio l’ha scelto e non riprovato. Essa attesta perciò che la riprovazione meritata dall’uomo a causa di una scelta insensata, è subita ed assunta da Gesù Cristo»100; «essa non può fare a meno di annunciare all’uomo che è un eletto»101; «essa non è competente per distinguere fra chi è degno della promessa annunciata e chi ne è indegno; non

ha dunque il diritto di predicare o di tacere questa promessa secondo i casi»102. La terza proposizione è la seguente: «di conseguenza ogni uomo, in forza della giusta scelta divina, può entrare nella via della vita eterna con Dio; la promessa della sua elezione personale determinerà l’individuo a trasmettere al mondo intero la testimonianza della comunità di cui è membro; e la manifestazione della sua riprovazione non potrà che condurre l’uomo a credere in Gesù Cristo come in colui che ha preso sopra di sé ed abolito questo rigetto»103; «Dio ama i suoi nemici, ama i senza-Dio; non perché questi vogliono fare a meno di lui, ma perché egli non può fare a meno di loro e perché, conseguentemente, anch’essi non possono fare a meno di lui; l’uomo non ha che uno scopo: vivere eternamente in comunione con lui»104; «gli eletti lo sono nel quadro del valore e del decreto posto dal Dio Trinità; e cioè: al di là della loro vita, dell’ubbidienza della loro fede; al di là della comunità e della promessa che essa attesta; ciò che costituisce la loro origine è difatti la parola di Dio, che ha voluto diventare carne»105. Su questo sfondo si staglia il grosso problema dell’essere e della vita dell’eletto e del riprovato e della dialettica loro inerente. «Fra l’essere e la vita dell’eletto vengono ad inserirsi l’avvenimento e la decisione che suona accettazione della promessa. Non è infatti per essere eletto che l’uomo ha bisogno di ascoltare e di credere alla promessa, bensì per vivere come eletto. È chiaro infatti che non basta essere oggettivamente eletto per vivere effettivamente come eletto. Chi è effettivamente eletto, forse non vive ancora come eletto o forse ha cessato di vivere come tale o ancora vive solo in parte il suo destino. L’uomo può infatti vivere da riprovato, malgrado la sua elezione. Siamo in presenza delle differenti possibilità dell’uomo-senza-Dio. Ma ecco che precisamente lui, l’uomo-senza-Dio, nella sua azione insensata e riprovevole, è oggetto dell’elezione gratuita di Dio. Che egli abbia e realizzi le diverse possibilità cui abbiamo accennato, che egli viva la sua vita da riprovato (provvisoriamente, parzialmente o totalmente che sia) sotto la minaccia del suo effettivo rigetto, tutto ciò può certamente mettere in pericolo il suo essere eletto, ma non può annullarlo, poiché tale essere eletto è fondato e deve essere cercato in Gesù Cristo e non nell’esistenza isolata di ogni singolo individuo. La sua riprovazione non può essere annunciata in altro modo che come una minaccia che pesa sull’uomo, esattamente come la sua elezione non può essere attestata se non come una promessa che è stata fatta. Da una parte come dall’altra l’essere dell’uomo si trova unicamente nelle mani e sotto lo sguardo di Dio»106; «gli uni e gli altri si trovano infatti nel raggio dell’elezione gratuita,

nella medesima mano di Dio, sotto una sovranità la cui origine ed il cui principio si chiamano Gesù Cristo: i primi in quanto sono obbedienti, i secondi in quanto sono disobbedienti; i primi in quanto sono i figli della casa, i secondi in quanto schiavi recalcitranti; gli uni sotto la benedizione e gli altri sotto la maledizione. Se i primi indicano ciò che Dio vuole, mediante l’attestazione alla verità, i secondi mostrano non meno chiaramente ciò che Dio rinnega, con la loro testimonianza menzognera. Gli uni e gli altri servono la rivelazione della volontà divina, che è tutta intera luce, ma che non potrebbe essere riconosciuta ed esistere come rivelazione senza divenire contemporaneamente luce ed ombra. In questo servizio gli eletti rappresentano, riflettono e ripetono l’esistenza di Gesù Cristo, l’Uomo-eletto. Il senza-Dio invece è riprovato nella misura in cui rappresenta, ripete e significa la morte del riprovato per eccellenza, Gesù Cristo, mediante una falsa testimonianza sulla riprovazione dell’uomo. Un solo uomo è infatti, nello stesso tempo, eletto e riprovato. Si tratta di Gesù Cristo, signore e testa degli eletti e dei riprovati, attestato dagli uni e dagli altri, al loro posto ed in maniera differente»107; in questa linea «dovremmo porre al bando Gesù Cristo se pretendessimo di rifiutare ai riprovati la speranza cui gli eletti sono costantemente rinviati, se in una parola rifiutassimo di considerarli unicamente alla luce di questa speranza»108. Si apre cosi la via al secondo problema, concernente la destinazione dell’eletto e del riprovato. Tre proposizioni consentono di chiarificarlo: l’eletto deve «offrire, al posto che è il suo, una dimostrazione dello spirito e della potenza che deriva dal suo essere eletto e per conseguenza dalla elezione di Gesù Cristo e della comunità; deve confermare, nella situazione che gli compete, e rendere evidente l’origine di tutte le vie e di tutte le opere divine, come decisione del Signore che è al di sopra di tutto e come verità che non ha pari accanto a sé; è eletto per unire la sua voce, anche se debole, alla grande gioia che traversa l’intera creazione e accompagna tutte le vie e le azioni divine» partendo dall’elezione»109; «l’uomo che si è isolato da Dio opponendosi alla sua elezione compiuta in Gesù Cristo, è rigettato e riprovato; Dio è per lui, ma egli è contro Dio; Dio l’accoglie, ma egli cerca di sfuggirgli; Dio gli perdona i peccati, ma egli li ripete, come se Dio non glieli avesse perdonati; Dio lo libera dalla colpa e dal castigo, ma egli continua a vivere come un essere prigioniero di Satana; Dio gli dà come destino la felicità e il suo servizio, ma egli sceglie la tristezza di una vita determinata dall’arbitrio e dall’autoglorificazione»110; tuttavia «il riprovato non è che un’ombra, un fantasma; questo è il limite assegnatogli da Dio; esiste nella persona di Gesù Cristo, unicamente come

oggetto dell’elezione e dell’amore di Dio e cioè come un essere gradito a Dio. Deve la sua esistenza uricamente a Gesù Cristo che, con la sua vittoria lo pone in questione. Il riprovato non vive se non perché è stato messo a morte come riprovato e risuscitato come eletto, per aver parte alla vita santa, giusta e buona in Gesù Cristo»111. La sua esistenza è certo necessaria ed in nessun modo potrebbe essere sminuita, ma fin dall’inizio è contraddetta e convinta di menzogna112. 5. Ecco dunque «l’esigenza fondamentale cui deve misurarsi ogni trattazione sulla predestinazione, cui anche noi dobbiamo sottometterci. Per quanto concerne l’aspetto negativo del problema, non ci è permesso di parlare dell’elezione e della riprovazione come se non ci fosse tra queste due azioni divine una irriducibile relazione che va dall’elezione alla riprovazione (e non viceversa) cosicché quest’ultima ne resta subordinata. Quanto all’aspetto positivo del medesimo problema occorre mettere così radicalmente in evidenza questa relazione affinché sia veramente Pevangelo a dare il tono all’insieme, cosicché in un modo o nell’altro (nell’elezione o nella riprovazione) sia sempre il messaggio della libera grazia di Dio ad esprimersi e a diventare udibile come la dominante assoluta, come il senso reale e concreto di tutte le proposizioni enunciate. Tale è il criterio che permette di giudicare se la dottrina della predestinazione è conforme o meno alla Scrittura»113. E la Scrittura propone questa verità: «secondo rautorivelazione divina è il nome di Gesù Cristo che costituisce il luogo verso cui convergono, come due raggi luminosi, le due linee della verità che deve essere riconosciuta qui: Gesù Cristo è il Dio-che-elegge e l’uomo-eletto. È a questo centro unico che tutta la dottrina cristiana dell’elezione deve riferirsi, è da questo centro che essa deve procedere, è a questo centro che essa deve tendere. Come ogni insegnamento cristiano essa ha come compito di attestare in ogni momento il nome di Gesù Cristo. In nessun caso perciò questo nome dovrà diventare opaco e incerto nella trattazione; in nessun caso dovrà cedere il passo a dei presupposti astratti relativi a Dio o all’uomo o a conseguenze egualmente astratte derivate da simili presupposti»114. Si comprende così come l’elezione possa essere considerata «destinazione a partecipare alla salvezza dei tempi messianici»115 ed «attestazione del beneficio divino»116; «parlare della scelta di Dio significa essenzialmente e necessariamente parlare dell’evangelo»117; in essa Dio «è Dio per noi»118. L’elezione e la riprovazione non sono due azioni divine parallele, della medesima natura e del medesimo ordine, definibile mediante un

concetto generale comune; tutto nella dottrina dell’elezione deve essere luce irradiante dalla grazia di Dio manifestata in Gesù Cristo; se è vero che ogni dottrina della predestinazione intende essere una rivendicazione dell’assoluta libertà della grazia e dell’inaccessibile mistero di Dio, allora non è mai possibile parlare di un «mistero tremendo», di un «decreto eterno insondabile». «Dobbiamo appropriarci dell’intenzione della dottrina luterana della predestinazione, nella misura in cui tale dottrina ha voluto mettere in evidenza il fondamento cristologico dell’elezione. Ma anche dobbiamo evitare con cura d’identificare troppo sistematicamente questo fondamento con l’esistenza in Dio di una volontà generale, cioè astratta, di salvezza. Così pure dobbiamo evitare di considerare la volontà divina come semplice conferma di quanto Dio ha previsto da tutta eternità per i singoli individui, in funzione della salvezza che è donata in Gesù Cristo ed in ragione della loro fede in questa salvezza. Nel medesimo tempo però, conformemente alla dottrina calvinista del decreto assoluto bisogna riservare un posto alla volontà divina veramente libera ed elettiva; la motivazione cristologica dell’elezione non può in nessun caso giungere alla negazione dell’elezione stessa, cioè della libera grazia di Dio, al contrario, bisogna mostrare che Gesù Cristo è precisamente colui che occupa il posto riservato alla volontà divina e che in lui, vero uomo e vero Dio, ci possiamo incontrare con il vero Dio»119. Tale deve essere l’orientamento di una retta dottrina della predestinazione, perché tale è il suo fondamento, suscettibile di reggere la complessa articolazione interna. «Essere eletto significa essere eletto in Cristo ed in Cristo solamente; nessuno può cercare in se stesso il motivo della propria elezione; questo essere rinviati a Cristo è un appello che non è possibile non intendere per celebrare la grazia, così come si manifesta concretamente nella persona unica del solo mediatore fra Dio e l’uomo»120. Nella dottrina della elezione non sono consentite formule astratte (dalla voluntas maiestatis al gratuitum beneplacitum, dalla paterna miseratio alla benevolentia Dei universalis al decretum absolutum: tutti termini cari alla tradizione teologica ed ecclesiastica); non è permesso un ricorso ad un praescivit che comandi e regga l’elegit ed il decrevit; non è neppure accettabile un riferimento a Cristo come semplice executor et applicator salutis, ratione meriti ac redemptionis suae o come causa efficiens impulsiva (per usare termini cari all’ortodossia protestante). Gesù Cristo è speculum electionis nel senso che ne è il fundamentum, «il prototipo ed il riassunto di ogni atto di elezione che ha Dio per soggetto e l’uomo per

oggetto»121, «il soggetto e l’autore della stessa elezione»122. 6. Per conservare simile pienezza Barth inserisce la dottrina della predestinazione nella dottrina di Dio: «Non è cosa naturale che nell’insieme della ricerca dommatica la dottrina dell’elezione occupi precisamente il posto che noi le abbiamo assegnato, prima di tutti gli altri enunciati concernenti l’azione divina e in stretta relazione con la dottrina di Dio. Per quanto ne so questo modo di procedere non è ancora stato adottato finora. La dottrina dell’elezione fa veramente parte del nucleo di ogni insegnamento cristiano? Ci è permesso e comandato di abbordarla ancor prima di trattare della creazione del mondo e dell’uomo o prima di aver esposto la dottrina della riconciliazione e del suo scopo, la redenzione eterna? Noi rispondiamo di sì e per la ragione seguente. In se stesso, nella decisione prima e fondamentale in forza della quale egli vuole essere Dio ed effettivamente lo è, nel mistero di ciò che è accaduto da tutta eternità e per sempre nel suo essere più intimo, nella sua essenza trinitaria, Dio non è altro che il Dio-che-elegge nel suo Figlio o nella sua Parola, il Dio che si autoelegge e che, in e con se stesso, elegge il popolo dei suoi. Dio sceglie nell’atto del suo amore che determina fondamentalmente la sua essenza. E poiché tale atto è una scelta, è pure contemporaneamente e come tale, l’atto della sua libertà. Non vi è conoscenza di Dio derivante dalla rivelazione e dall’azione divina messa in luce da essa, senza essere anche conoscenza della scelta operata da Dio. Non vi è verità cristiana che non implichi per definizione il fatto che Dio è colui che elegge da tutta eternità e per sempre. Non esiste alcuna proposizione di dottrina cristiana che non debba riflettere, nella sua forma e nel suo contenuto, qualche cosa di questa scelta divina, se essa intende veramente essere e restare una proposizione cristiana. Obbligatoriamente sarà l’eco della scelta divina eterna che significa: Dio non vuole essere e di fatto non è senza i suoi, senza il popolo che gli appartiene. Poiché così stanno le cose, la dottrina dell’elezione costituisce il culmine della dottrina di Dio: Dio stesso infatti non vuole essere Dio (e di fatto non lo è), se non nell’avvenimento dell’elezione; non vi è altezza o profondità in cui possa manifestarsi un altro Dio; non si comprenderebbe il nucleo di ogni proposizione cristiana se si esponesse una dottrina di Dio in cui mancasse il tema che costituisce precisamente la sostanza della dottrina dell’elezione»123. «Come la dommatica potrebbe parlare di Dio, soggetto di tutta l’opera divina, come creatore, riconciliatore e redentore se intendesse informarsi sulla sua natura e sulle sue perfezioni altrove e non nel centro stesso in cui l’opera di Dio possiede la sua origine e la

sua finalità e che solo permette di riconoscerla?»124. «Al posto che le attribuiamo, la dottrina dell’elezione compie la sua necessaria funzione nell’insegnamento della chiesa: si tratta della funzione propria del concetto di elezione gratuita nell’insieme della testimonianza biblica concernente Dio, la sua opera e la sua rivelazione. Il fatto che Dio scelga l’uomo e che lo destini ad appartenergli, dopo essersi egli stesso determinato per primo in favore e dell’uomo, questo fatto mette in evidenza che la linea conducente da Israele alla chiesa passando per Gesù Cristo non è un semplice motivo scelto fra gli altri, della testimonianza profetico-apostolica. Al contrario, essa è parte integrante dell’attestazione di Dio stesso nella rivelazione e costituisce la sostanza ed il fondamento di tutti gli altri temi biblici. Dio si determina ad essere il Signore d’Israele e della chiesa; e come tale ad essere il Signore del mondo e dell’uomo in generale. Conseguentemente ha voluto la vocazione d’Israele e della chiesa ed in seguito la creazione del mondo e dell’uomo. È in questa autodeterminazione, e per conseguenza nell’ordine die essa crea e stabilisce, che Dio è attestato dalla Scrittura e che, sempre secondo la Scrittura, può essere riconosciuto come Dio. È in forza di questa autodeterminazione divina che tutte le opere di Dio esistono e sono quello che sono. È in essa, ed in essa solamente, che Dio intende essere riconosciuto, amato, temuto, creduto ed adorato come il creatore, il riconciliatore ed il redentore»125. «L’inno grandioso che sale dalla creazione, la gioia dei credenti visitati, illuminati e guidati dallo Spirito Santo, la gloria degli angeli e dei santi nel Regno di Dio, la lode che riempie il cielo e la terra, nulla potrebbe esistere senza la grazia; o meglio tutto ciò non ha realtà se non per essa, tutto ciò non è che un immenso canto di riconoscenza concernente la grazia divina. E poiché la dottrina insegnata dalla chiesa deve parlare non solamente di Dio in se stesso, ma anche delle sue opere, sottolineando che procedono da Lui, è indispensabile che essa rammenti fin dall’inizio, la qualificazione propria a tutte queste vie e a tutte queste opere e che la metta in evidenza su tutta la linea. La dottrina ecclesiastica non ha mai il diritto di esprimersi come se si trattasse di un altro Dio e non del Dio della grazia. Ma il Dio della grazia (a cui sempre e dovunque essa deve rendere testimonianza e gloria) si rivela fin dall’inizio così com’è, nell’autodeterminazione che costituisce l’oggetto della dottrina dell’elezione. La dottrina dell’elezione è dunque l’attestazione fondamentale del Dio della grazia, posta come origine e fondamento di tutte le opere divine. Essa sottolinea che la grazia è il punto di partenza di ogni riflessione e proporzione ulteriore. Essa la designa come il denominatore

comune da cui non possiamo più fare astrazione in seguito, ma che sempre si dovrà attestare in un modo o nell’altro in tutti gli enunciati che si formulano»126. Meglio di qualsiasi altro schema (e Barth ha a questo proposito pagine di rara ricchezza) quest’articolazione esterna pare a Barth preservare la pregnanza dell’evangelo di grazia che è la scelta gratuita di Dio, tutta luce anche nelle ineliminabili ombre. I risultati raggiunti. 1. Deve ascriversi a merito indiscusso dell’esposizione barthiana «di aver colto il problema alla sua radice biblica, di aver messo in evidenza la fonte degli errori e delle deficienze e di aver elaborato, su vasta scala, una concezione cristologica ed ecclesiale del disegno divino mediante un’analisi esaustiva dei testi scritturistici»127. Barth «ha rimesso in onore la dottrina biblica dell’elezione in maniera conforme alla rivelazione, superando quindi la dottrina speculativa della predestinazione la cui paternità risale ad Agostino e la cui conseguenza più rigorosa e più logica è l’espressione calvinista della doppia predestinazione»128. «Il merito essenziale (dell’esposizione barthiana) risiede precisamente nella sua intenzione fondamentale: sostituire alla nozione di un decreto nascosto quella del mistero rivelato in Gesù Cristo; così torna alla luce il senso biblico della predestinazione che gli esegeti hanno sovente saputo riconoscere, ma a cui i teologi non sempre si sono riferiti con rigorosità sufficiente; partendo da questi presupposti, Barth ha elaborato una confutazione radicale della dottrina calvinista ed ha messo in evidenza le aporie fondamentali della concezione agostiniana»129. Queste tre citazioni aiutano ad una prima prospettiva: per accedere al testo barthiano si deve consentire ad una severa revisione della dottrina speculativa della predestinazione; a quest’ascesi si è condotti mediante un ampio dialogo con la tradizione, che è nel contempo progressiva scoperta del dato scritturistico; solo allora è possibile un’enucleazione positiva. Bisogna anzitutto rilevare l’esattezza della lettura scritturistica di Barth. «È noto che l’elezione è una categoria fondamentale dell’Antico Testamento; essa ha per contenuto l’alleanza che Yahwè ha concluso con il suo popolo Israele e che è per quest’ultimo la fonte di ogni bene. La preferenza accordata ad Israele non significa però abbandono degli altri popoli: Dio benedice Ismaele come benedice Esaù. A partire dall’esilio poi, si udirà persino proclamare che Israele è stato scelto non solo per la sua salvezza, ma per la redenzione degli altri popoli. È in questa prospettiva che Paolo tratta della predestinazione. Essa è il disegno di salvezza che Dio, secondo la promessa fatta ad Israele, realizza e

manifesta nella sua chiesa mediante l’opera redentrice di Cristo, morto per tutti gli uomini:130. Per Paolo «la predestinazione divina non consiste in un decreto nascosto riguardante la sorte degli individui dopo la loro morte, destinante gli uni alla vita eterna ed abbandonante gli altri alla dannazione. Essa è il disegno di Dio rivelato dalla morte e dalla resurrezione del Cristo e che ha come fine l’adozione filiale dei credenti, promessa della loro glorificazione futura»131. «Il mistero della predestinazione in san Paolo non lia contenuto differente da quello della redenzione, la buona novella rivelate agli apostoli e da essi annunciata. In Gesù Cristo, Dio elegge inanzitutto il suo popolo ed in seguito gli individui, in tanto in quanto fanno parte di questo popolo. La predestinazione è cristologica ed ecclesiale. I cristiani sanno di essere eletti. Conoscono che la loro vocazione è motivo di speranza e che la loro salvezza è cosa fatta, se vi restano fedeli. Sanno che Dio mantiene le sue promesse e che nessuno è rifiutato, se non per colpa propria. Anche a coloro che sembrano riprovati occorre predicare l’Evangelo, affinché anch’essi credano e siano salvi. Conoscono la minaccia che pesa su colui che non crede e sul peccatore, ma non sanno nulla della sua sorte finale»132. Vi è un unico disegno di salvezza: Dio vuole salvi tutti gli uomini, perché è il Dio di tutti e perché Cristo, l’unico mediatore, è morto per tutti. «Senza dubbio l’uomo, il cristiano stesso può sottrarsi alla bontà divina e trovarsi così tagliato fuori dalla salvezza; ma precisamente, si sottrae all’unica volontà, all’unico disegno di Dio»133. Il risultato cui perveniamo per san Paolo «seguendo i più classici fra gli esegeti cattolici del xx secolo (d’Alès, Lagrange, Prat, Huby) corrisponde nelle grandi linee all’interpretazione data da Barth e posta al centro della sua dottrina. D’accordo con i medesimi commentatori e con diversi storici cattolici si può costatare anche che Agostino ha parzialmente frainteso il pensiero di Paolo e proprio nel senso indicatoci da Barth»134. Infatti mentre in san Paolo «la predestinazione divina ha per fine l’adozione presente di tutti i credenti nella loro appartenenza collettiva alla chiesa corpo di Cristo, Agostino l’intende in maniera differente». In lui «il fine diretto della predestinazione diventa la vita eterna, preparata per taluni credenti, quelli che avranno perseverato fino alla fine. Siamo in presenza di una duplice divergenza» Invece di riferire il disegno di Dio alla fede ed alla carità attuale dei cristiani, considerate come promessa della loro salvezza finale, Agostino lo riferisce alla perseveranza finale, mediante la quale saranno salvati definitivamente. Invece di concepire il disegno collettivo dei membri della chiesa, Agostino si occupa del destino degli individui, riprovati o eletti. Il

disegno di Dio che in Paolo concerne la vocazione del cristiano, riguarda in Agostino il giudizio finale»135. Per Agostino (soprattutto quello del de correptione et gratta, del de praedestinatione sanctorum, del de dono perseverantiae) «i cristiani cui Dio ha donato la fede, ma a cui non darà la perseveranza, non sono chiamati secondo il disegno divino (secundum propositum vocati) e non fanno parte del numero degli eletti». Paolo (ma si può dire semplicemente il Nuovo Testamento, in particolare due capitali testi di Matteo e le frequentissime allusioni del quarto evangelista) vede le cose diversamente: «non distingue due categorie di chiamati, gli eletti e gli altri, né due categorie di figli di Dio, quelli che sarebbero tali in apparenza e quelli che lo sono in realtà. Paolo non riferisce la predestinazione alla perseveranza finale, ma alla fede, mediante la quale i cristiani sono fin d’ora figli di Dio e possiedono le primizie della loro piena redenzione. Tutti appartengono a Cristo e tutti sono destinati, per principio, alla vita eterna. L’allegoria del vasaio, l’opposizione fra Esaù e Giacobbe e fra gli oggetti di collera e quelli di misericordia non concernono la predestinazione degli individui alla gloria celeste o alla dannazione, ma la vocazione ed i rapporti fra i due popoli: vocazione divina d’Israele, chiamata dei pagani nella chiesa, incredulità e riprovazione provvisoria d’Israele. Il grido O altitudo! non esprime la paura davanti ad un Dio che accceorderebbe agli uni la vita e rifiuterebbe agli altri la fede e la perseveranza, ma l’ammirazione di fronte alla sapienza misericordiosa che fa servire l’incredulità dei Giudei per la conversione dei pagani e la fede dei pagani per la conversione d’Israele. Non è un grido di angoscia, ma di speranza»136. Certo Agostino non ha completamente frainteso Paolo: «ha notato che la predestinazione è inanzitutto grazia, che il Cristo è il primo dei predestinati e che noi lo siamo in Lui; non ha ignorato l’aspetto sociale della predestinazione; non ha dimenticato che il fine della predestinazione non è solamente la vita eterna, ma anche la grazia presente; non ha scordato che la fede inaugura la salvezza di cui speriamo il compimento. Sebbene Paolo non abbia mai riferito direttamente la predestinazione alla sorte finale degli individui, era legittimo trattare la questione anche da questo punto di vista. A condizione tuttavia di non tradire mai le grandi affermazioni del pensiero paolino. Disgraziatamente Agostino ha creduto di dover leggere negli sviluppi sul rigetto provvisorio del popolo d’Israele una dottrina della riprovazione eterna di taluni individui. Così ha parlato, talora, di una predestinazione alla morte eterna, al castigo eterno,

all’inferno, anche se in generale preferisce parlare di una semplice previsione. Egli pensa che la grazia non sia data a tutti gli uomini. Non comprende come possa essere gratuita se è offerta a tutti gli uomini. Così viene meno la grande affermazione paolina secondo cui Dio ha chiuso tutti gli uomini nella disobbedienza per fare a tutti misericordia»137. Quest’analisi dovuta ad uno dei più fini conoscitori di Barth e della tradizione cattolica che appunto in questa veste abbiamo lasciato lungamente parlare, è difficilmente contestabile: se è vero infatti che Agostino ha operato un reale sforzo per salvaguardare la libertà e la responsabilità umane, è altrettanto vero che difficilmente ci si può sottrarre alla prospettiva sostanzialmente deterministica della sua dottrina; Agostino parte da un’esperienza di fede e di incredulità; la predestinazione scade così a relazione privata (positiva o negativa) fra Dio e gli individui, capace di rendere conto della differenza costatabile. E se anche si vuole essere più generosi con Agostino, limitando al massimo le carenze della sua esposizione soggetta a tante stressanti contingenze storiche, resta pur sempre vero almeno questo: che la dottrina agostiniana non offre basi sufficienti per reagire contro l’agostinismo di ogni specie, con il suo corollario sulla volontà salvifica restrittiva138. Circoscritta e colta l’aporia agostiniana, Barth la segue in tutta la tradizione medioevale, negli autori della riforma, nell’ortodossia protestante: ne scaturiscono pagine dense che in altra sede abbiamo cercato di seguire a livello di articolazione interna ed a livello di struttura esterna139, mostrando anche, a proposito di quest’ultima, la portata effettiva dell’assunto nei momenti essenziali della dommatica140; il lettore avrà modo di rendersene conto; nelle pagine che seguono avrà modo di assistere al lento ma inesorabile ricupero della luce proveniente dalla Scrittura su questi punti fondamentali con un’esposizione fra le più smaglianti tra quelle barthiane. In questa maniera si è confrontati concretamente con l’ermeneutica che regge lo sforzo teologico di Barth141 caratterizzabile essenzialmente come esegesi teologica142, dommatica ecclesiastica143, dialogo con la tradizione144; in questa maniera si incontra il Barth maestro che mira all’essenziale non disdegnando un lungo cammino e precise, talora accorate, messe in guardia; in questa maniera si può costatare il peso, la portata, il valore che Barth ascrive ad una «dommatica regolare» che, in tutta la sua ampiezza, sa evitare dovunque lo spirito asfittico del sistema, oer vivere della parola di Dio145. Questo quadro generale è oggi facilmente accettabile. Certo l’esegesi teologica di Barth non è sempre esente da critiche146, la lettura di questo o quell’altro autore potrebbe talora essere

più sfumata, taluni sviluppi possono parere ridondanti, tanto è il cammino percorso in questi anni fecondi; anche a questo proposito però lo spessore e la freschezza della Kirchliche Dogmatik permangono intatti; né questo stupisce ripercorrendo le opere pubblicate da Barth e ancor più quelle inedite che l’edizione della Gesamtausgabe ci ripropone o i semplici programmi accademici di Barth (che tanto spazio qualitativo occupano giustamente nella monografia di E. Busch) ove vivente è l’intreccio fra la lettura biblica e l’attento, rigoroso, generoso dialogo con i predecessori147. Difficile è parimenti dissentire dall’articolazione interna chiaramente sostenuta dal dato scritturistico e dalla struttura esterna, preservatrice effettiva di tanta pienezza. Eppure accostandosi al centro stesso della dottrina barthiana sulla predestinazione, cioè all’elezione di Gesù Cristo, si prova come un senso di vertigine. Barth stesso non ha esitato a scrivere: «questo fatto apre prospettive talmente insolite, in referenza a quanto si trova nella storia del dogma della predestinazione, che possiamo interrogarci a buon diritto: il nostro fondamento è solido ed esatto oppure abbiamo sollecitato alla fin fine la verità?»148. Un indizio, per quanto minimo, in quest’ultimo senso potrebbe essere rappresentato dall’interpretazione barthiana dei testi di Atanasio (chiaramente insostenibile) e di Polanus (molto discutibile e maggiorata), cosa che non è presente in nessun altro caso (tranne forse qualche sfumatura in Cocce] us) nella nostra sezione. È quindi su questo centro che deve spostarsi la nostra attenzione. 2. Consideriamo dapprima la proposizione concernente la preesistenza dell’Uomo-Dio. Emil Brunner ha scritto: «Non vi è bisogno di alcuna prova particolare per mostrare che una tale dottrina non si trova mai nella Bibbia e che non fu mai insegnata dai teologi. Supponendo che s’insegni la preesistenza eterna dell’Uomo-Dio, l’incarnazione non sarebbe più un avvenimento, non sarebbe più il grande miracolo di Natale. Mentre per il Nuovo Testamento l’elemento inedito risiede proprio nel fatto che il Figlio di Dio per natura è divenuto uomo e che mediante la sua risurrezione ed ascensione (come un novum benedetto), l’umanità può partecipare alla forma della sua gloria celeste, tutto questo è ora anticipato, strappato dalla storia e trasportato nella pretemporalità, nella preesistenza del Logos. Le conseguenze di una simile innovazione dovrebbero essere inaudite e per fortuna Barth non le sviluppa. L’idea di un’umanità preesistente di Dio è una costruzione specifica del teologo per poter stabilire la sua tesi e cioè che l’uomo Gesù è il solo eletto»149.

Vi è nella critica di Brunner una parte di vero: «Giocando così sull’identità personale del Verbo e di Gesù, Barth sembrerebbe strappare talora l’incarnazione alla storia per situarla nella pretemporalità; quest’apparenza è rafforzata dal fatto che Barth afferma nel medesimo contesto la preesistenza dell’Uomo-Dio e la preesistenza dell’uomo Gesù, coincidente con la predestinazione eterna»150. Tuttavia, pur ammettendo che Barth avrebbe dovuto essere più esplicito, crediamo sia possibile offrire una lettura positiva. Come ha segnalato Bouillard: «Barth non sopprime l’avvenimento storico di Gesù; ne sottolinea semplicemente il suo presupposto eterno; ciò che precede la storia e preesiste eternamente è il Verbum incarnandum, soggetto ed oggetto dell’elezione e non il Verbum incarnatum, che, nel decreto divino, è solo l’oggetto. Così Barth non tradisce il Nuovo Testamento affermando: nell’atto divino della predestinazione, preesiste Gesù Cristo, fondamento eterno dell’alleanza compiuta nel tempo per mezzo della sua opera riconciliatrice»151. La proposizione: «Nella persona di Gesù Cristo si trovano la Parola, la decisione, la scelta originarie di Dio» è esatta, perché Gesù Cristo è considerato solamente come presupposto eterno e fondamento dell’avvenimento storico che si compie nell’alleanza di grazia. Tale prospettiva è tradizionale152 e suscettibile di retta sistematizzazione teologica153. A noi sembra che Barth intenda dire proprio soltanto questo: «L’elezione gratuita ed eterna di Dio è una cosa; la creazione, la riconciliazione e la redenzione fondate su questa realtà dell’elezione gratuita sono un’altra; vi è l’alleanza che Dio nella sua eternità pretemporale ha concluso con se stesso in vista dell’uomo; ma essa non è senz’altro identica all’alleanza di grazia che egli ha stabilito fra sé e l’uomo, partendo di là, nel quadro temporale»154. La nozione di preesistenza, malgrado non sfugga a talune ambiguità, è in questo senso preziosa e se si vuole persino irrinunciabile155. Essa tuttavia, nella teologia barthiana, è strettamente collegata con l’affermazione secondo cui Gesù Cristo è non solo oggetto (dato comunemente ammesso) ma pure soggetto (cioè colui che compie l’atto) dell’elezione divina. Si tratta di una tesi teologica cui Barth attribuisce una particolare importanza, perché la ritiene mezzo indispensabile per restare fedeli alla pienezza scritturistica e per vivificare i dati tradizionali del tema dell’«immagine di Dio» applicata a Cristo auctor et executor electionis nostrae; siamo in presenza di una rilettura originale della mediazione del Figlio nell’atto di elezione, attribuito unanimamente dai testi neotestamentari al Padre; tutto sta a vedere se tale sviluppo sia teologicamente

possibile156. «Poiché nel vangelo di Giovanni, il Cristo, Verbo Incarnato, è uno con il Padre, non ne consegue forse che anch’egli, con il Padre e lo Spirito Santo, è il Dio-che-elegge? D’altronde come potrebbe essere il capo degli eletti, colui nel quale gli altri sono scelti (così come insegna san Paolo) se fosse soltanto una creatura eletta e non inanzitutto il creatore che elegge? Quest’argomentazione su cui Barth fonda la sua tesi è convincente? È incontestabile che secondo il Nuovo Testamento Cristo non è semplicemente un uomo, ma il Figlio di Dio, uno con il Padre, nel seno della Trinità. E Barth ha ragione di riprendere per conto proprio il ragionamento di Atanasio contro gli ariani: non avremmo ricevuto la filiazione adottiva, se Dio non l’avesse preparata nel Cristo, suo Verbo, prima ancora della fondazione del mondo. Questo significa però che si possa attribuire al Figlio e al Verbo l’atto di elezione che il Nuovo Testamento attribuisce al Padre? I teologi discuterebbero la legittimità e l’opportunità di tale attribuzione al Figlio, secondo la loro peculiare dottrina trinitaria e secondo la maniera propria ad ognuno di considerare la dottrina delle appropriazioni»157. Perché non puntare invece su una categoria teologica ben più certa, quella di mediazione, a patto naturalmente di conservarne ed esplicitarne la densa ricchezza? Queste due proposizioni sono ulteriormente reduplicate nella lettura della barthiana praedestinatio gemina: qui la nozione scritturistica di Stellvertreter (rappresentante) trapassa in quella di Platzwechsel (sostituto); Gesù Cristo è colui che si pone an unserer Stelle (al nostro posto) e che Stelle einnimmt (prende il posto) degli eletti e dei riprovati fin da questo momento; la chenosi di Gesù Cristo inizia nella doppia predestinazione. L’idea di uno scambio di situazione ribaltato nella dottrina dell’elezione, l’affermazione di una sostituzione vicaria nell’eternità corrispondente senza equivoco alcuno alla situazione neotestamentaria? I problemi sono molteplici. Iniziamo dal concetto stesso di sostituzione vicaria: «L’apostolo dice che Gesù Cristo è stato fatto peccato per noi (ύπέρ ἡμῶν); questo per noi ritorna assai spesso: Cristo è stato crocifisso per noi, per tutti gli uomini, per tutti i peccatori; è andato alla morte per noi; si è dato per i nostri peccati. La preposizione usata è ἡπέρ (eccezionalmente περί); queste espressioni significano dunque: in nostro favore, a nostro vantaggio; e non: al nostro posto. Paolo non dice mai che Cristo è morto al nostro posto (la preposizione sarebbe allora ἀντί). Barth al contrario si esprime sempre come se Paolo avesse parlato così. Un passaggio capitale della sua cristologia sviluppa questi quattro temi: Cristo ha preso il

nostro posto come giudice; ha preso il nostro posto di peccatori; ha sofferto la morte al nostro posto; ha compiuto al nostro posto ciò che è giusto agli occhi di Dio. Per quanto questi sviluppi siano suggestivi, non possiamo impedirci di pensare che non corrispondono esattamente al pensiero di Paolo (e del Nuovo Testamento in generale). Non è al nostro posto (nel senso stretto della proposizione), ma in nostro favore che il Cristo è stato fatto peccato e si è donato alla morte. L’admirabile commercium non è propriamente uno scambio di situazione, ma l’instaurazione di una solidarietà»158. È quindi opportuno optare decisamente per le categorie teologiche della solidarietà vicaria o dell’espiazione solidale, ugualmente valide, ma assai più consone con il dato scritturistico159. In secondo luogo, dato il concetto di sostituzione applicato fin dalla dottrina della predestinazione, la riprovazione, ombra inevitabile dell’elezione (ciò che è giusto, accettabile e liberatore perché appunto rinvia sempre anch’essa all’unico disegno divino) non acquista forse un carattere relativo e provvisorio (troppo relativo e troppo provvisorio!) sfiorando a livello cosmico la dottrina dell’apocatastasi160 e rischiando di vanificare, contro ogni intenzione, quel legame fra predestinazione divina e libertà umana, fra salvezza divina e decisione di fede, tanto perseguito da Barth, a livello personale e che la dottrina della fede semplicemente cognitiva non fa che peggiorare?161. E se la dottrina dell’apocatastasi ha riflessi inquietanti, non ne ha di meno una fede semplicemente attestativa; «se è vero che tutti gli uomini sono eletti in Cristo, indipendentemente dalla loro esistenza cristiana, se la fede si limita ad attestare ed a conoscere l’elezione universale, non si riesce a comprendere come la salvezza finale non sia già acquisita per tutti, indipendentemente dall’atteggiamento assunto da ciascuno»162; tutto ciò non collima certo con l’insegnamento scritturistico e senz’altro urta la profonda intenzione barthiana, in cui vibra un’ampiezza esistenziale estremamente acuta163. Barth ha certamente ragione nel voler lasciare aperta la situazione per ogni uomo e nell’eliminare i falsi problemi legati ad una concezione astratta del decretum absolutum e conosciuti nell’indagine teologica con il nome di scrupulus de prae destinatione hominis irregeniti e di syllogismus practicus; in queste questioni la risposta non spetta né alla teologia, né alla comunità ecclesiale, né al singolo credente, ma unicamente alla libera grazia divina che non soffre costrizioni o remore di sorta ed il cui mistero è per noi insondabile; ma se l’aspetto oggettivo deve essere sottolineato, quello soggettivo (subordinato e dipendente certo, ma non

meno richiesto dall’intima struttura dell’alleanza di grazia) non può essere sottaciuto e ridotto. Solo la concezione teologica della solidarietà vicaria può consentire tale interazione. In terzo luogo è possibile chiedersi se l’affermazione di una sostituzione vicaria nell’eternità non corra, ben contro l’intenzione barthiana, il pericolo di un’evacuazione della storia164, di uno svuotamento del peccato e della sua virulenza165, di una contrapposizione solamente materiale fra Israele e la chiesa (cioè fra le due alleanze), troppo riduttiva rispetto alla dialettica formale che anima gli scritti paolini166. Anche qui ci pare che la nozione teologica di espiazione solidale possa offrire frutti più rispettosi dell’intenzione barthiana, sottesa ai testi. Possiamo riassumerci cedendo ancora una volta la parola ad Henri Bouillard: «Quando si coglie l’interiorità della decisione eterna di Dio nella decisione temporale della fede, scompare l’idea calvinista della doppia predestinazione e svanisce pure l’ambiguità della dottrina che Barth ha sviluppato in senso inverso. La predestinazione non anticipa il giudizio finale indipendentemente dall’atto libero e personale della fede; così pure non anticipa la salvezza universale che la fede si limiterebbe a manifestare, senza cooperazione alcuna. Il mistero barthiano riveste, malgrado i suoi aspetti esistenziali, l’apparenza di un sistema in cui tutto è già dato in precedenza, proprio perché rallenta il legame che unisce la grazia divina e la decisione umana. Solo rafforzando questo legame si possono evitare le conseguenze che Barth rifiuta, senza peraltro riuscire a scartarle coerentemente: una nuova concezione dell’apocatastasi, in cui la riduzione del peccato ad un accidente in fin dei conti necessario e senza gravità, è cosa fatta. Solo rafforzando questo legame si può mettere in evidenza in tutta libertà il carattere di avvenimento della predestinazione ed il carattere esistenziale della fede nell’elezione, come Barth ha energicamente fatto in taluni passaggi»167. Tali osservazioni, ed altre ancora che possono essere rivolte alla sintesi barthiana168, non paiono inficiate neppure dalla lettura positiva cui W. Kreck ha sottoposto ultimamente il testo barthiano169 e, come più volte è stato rilevato, hanno una portata generale per l’insieme della teologia barthiana170; pongono cioè con urgenza la necessità d’interrogazioni più profonde; richiedono cioè di tornare sui tentativi di caratterizzare la lettura teologica data dal nostro autore. 3. In una preziosa esposizione della teologia barthiana Vittorio Subilia ha potuto scrivere: «il rigore del discorso cristologico è il fondamento della correttezza del discorso teologico»171; che la teologia barthiana sia cristologica

lo affermano tutti i testi citati finora e tanti altri che si potrebbero senza sforzo accumulare; le stesse interrogazioni poste hanno tutte indistintamente un aggancio essenzialmente cristologico, radicato nella dottrina trinitaria dei prolegomeni il cui ruolo è stato magistralmente rilevato da E. Jüngel172. Si è parlato in apertura di cristologia conseguente. Notiamo ora che «il cristocentrismo di Barth sembra sovente riassorbire nel Verbo le funzioni proprie al Padre ed allo Spirito Santo»173; rileviamo che «l’idea dominante della cristologia è la seguente: il soggetto dell’incarnazione (come della Riconciliazione) non è né la natura umana del Cristo, né la natura divina, né la loro unione, ma il Figlio di Dio, il soggetto divino che porta la natura divina ed assume la natura umana. È Dio stesso che parla, agisce, soffre e trionfa quando l’uomo Gesù parla, agisce, soffre e trionfa. Il Verbo si è fatto carne ed è là solamente, nell’atto di questo soggetto che si effettua l’unione della natura divina e della natura umana»174; sottolineiamo che tale insistenza sul soggetto divino conduce ad un almeno apparente assorbimento della realtà umana di Cristo nella sua realtà divina: «l’apparente esteriorità della prima considerata come semplice strumento o figura o dimora della seconda è, a nostro parere, in contesti differenti, il risultato di una medesima linea generale, quella che tende a ridurre la parte dell’umanità nella persona come nell’azione del Verbo Incarnato»175. Tutto ciò consente ad Henri Bouillard di scrivere: Barth pone nella cristologia «una specie di monoenergismo, che chiameremmo volentieri monoattualismo. Questo termine ha il vantaggio di precisare un rimprovero assai frequente rivolto alla teologia barthiana e riassunto nel termine generico di attualismo. Parlare il linguaggio dell’atto, piuttosto che quello dell’essenza o della sostanza, non è cosa necessariamente colpevole; a volte è cosa indispensabile. La vera aporia del pensiero barthiano consiste piuttosto nel non vedere, per così dire, che l’operazione divina, allorché si tratta di Cristo e della salvezza»176. A nostro avviso è questo il punto che non bisogna cessare di scandagliare; come è possibile costatare esso si pone a monte di ogni interrogazione confessionale che, pur estremamente legittima, ci pare esulare dall’approccio di questa collana177; ed è indubbiamente un’aporia che è possibile correggere con qualche aggiustamento non formale. Monoattualismo: è dunque questa la strettoia della concentrazione cristologica, il segno indelebile di questa programmatica cristologia conseguente178. È in questa luce che devono essere precisate altre formulazioni: da quella di cristomonismo179, a quella di riduzione del dato

cristologico180, a quella di «monologo divino nel cielo» o di «sogno cristologico proiettato su un cielo platonico»181, sebbene queste ultime critiche finiscano di essere sovente fraintese in seguito alla troppo disinvolta presentazione datane da H. Zahrnt182, ed altre ancora183. Subilia ha scritto giustamente: «L’insistenza massiccia sulla realtà di Dio, sulla efficacia oggettiva della sua azione, l’esclusione di ogni possibilità sinergistica, il tenace proposito di predicare un messaggio definitivo e radicale di gioia e di liberazione, che sia senza smentite e senza limitazioni un evangelo per l’uomo, portano Barth a delle affermazioni che forse non hanno precedenti nella storia della teologia e che sembrano intese a sminuire le dimensioni e al limite la realtà stessa del male, del peccato, dell’incredulità, della reiezione e della perdizione»184. Berkouwer aveva dato una valutazione consimile185. E Henri Bouillard aveva scritto a sua volta: «il ruolo (che il pensiero barthiano) fa svolgere alla sovranità o al primato di Cristo non lascia sufficiente spazio alla consistenza propria dell’ordine naturale e neppure alla parte del soggetto umano nell’ordine della salvezza»; «nella forma che Barth gli imprime, il cristocentrismo non ha solamente come effetto di portare ad un’affermazione incompleta della realtà umana: rischia anche di sminuire il riferimento di Cristo a Dio»; «reagendo contro l’idea del Gesù storico cui si limitava la teologia liberale, Barth si è spinto, a quanto ci pare, all’eccesso opposto, cioè ad una concezione dommatica che non mette sufficientemente in rilievo la portata e la storicità dell’uomo Cristo Gesù. Secondo l’attestazione biblica, questi è certo Parola di Dio, ma pronunciata all’interno di quella storia degli uomini che l’hanno intesa come tale. Quando Barth confessa che Gesù Cristo è Dio-con-noi, accentua così fortemente il termine Dio, che non s’intende in maniera bastante il con-noi. Tende a non vedere in lui che l’avvenimento dell’azione divina: Dio che si nasconde nel suo contrario per agire da solo, al posto dell’uomo. Il Cristo Gesù si mostra molto di più come il Dio unico che non come l’unico mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo che si è dato in riscatto per noi tutti, rendendo la sua bella testimonianza sotto Ponzio Pilato. Così impallidisce il riferimento di Gesù all’unico Sovrano, a colui che abita in una luce inaccessibile. Così impallidisce ugualmente il ruolo dell’uomo Gesù in seno alla storia degli uomini e di conseguenza il carattere umanamente storico della storia della salvezza»186. In questa maniera proprio là dove le tesi barthiane segnano un innegabile progresso rispetto alla teologia dei Riformatori, si ha una radicalizzazione delle prospettive riformate: «là dove Barth esclude ogni cooperazione umana (ivi compresa quella dell’umanità di

Cristo!) alla giustificazione del peccatore»; «quando Barth afferma così energicamente che Dio è atto puro all’interno stesso della sua rivelazione, che non è mai oggetto, ma sempre soggetto, soggetto persino nell’atto di fede, che cosa è mai questo se non l’espressione, in linguaggio moderno» di quanto offre di più radicale il pensiero dei Riformatori: nell’ordine della salvezza, Dio agisce tutto da solo?»; così «Barth non sembra aver realizzato fino in fondo la sua intenzione di subordinare l’tteggiamento confessionale all’atteggiamento biblico»187. Sopravvivenza della tradizione platonica188, ispirazione kantiana189, reviviscenza gnosticheggiante190, ascendenza hegheliana191, legami con la filosofia esistenzialista?192. Può darsi che ciascuna di queste strade abbia frammenti più o meno ampi e talora minimi di verità; tuttavia nella loro globalità non ci paiono né percorribili, né probanti, né risolutive; il monoattualismo barthiano si radica altrove, in una lettura della Scrittura e della tradizione teologica non riconducibile a questi dati e nell’esposizione barthiana svolge chiaramente una funzione al servizio di un programma teologico, che deve preservare, custodire, evidenziare: il «Deus dixit» al di là di ogni antropologia ed esperienza umana e l’«aseitas» di Dio (la sua libertà, il suo amore, la sua gloria) autodeterminantesi per l’uomo, in maniera definitiva, nella scelta di grazia. Se il monoattualismo crea problemi, è alla struttura generale del pensiero barthiano che rinvia, come spia di una realtà più vasta che supera l’aporia. 4. Per questa ragione bisogna reduplicare il discorso e riportarsi all’interpretazione generale del programma barthiano. Suscitando reazioni non sempre pertinenti, più di trent’anni or sono, Jean-Louis Leuba aveva proposto per l’intera opera di Barth la necessità di un’interpretazione profetica opposta ad un’asfittica e riduttivamente astratta interpretazione sistematica193, qualche anno più tardi, recensendo criticamente il volume di J. Hamer, Leuba ritornava sulla sua proposta194; nella sua monografia del 1951 Balthasar non esitava ad aderirvi195. Si possono sempre discutere i termini, si possono ritenere inadeguate talune espressioni; la tesi di fondo pare però solidamente radicata. Partiamo dalle affermazioni barthiane: la teologia è scienza, insegnamento e ricerca; deve tendere alla precisione, all’esaustività, alla coerenza; deve essere una dommatica regolare. In questo senso certo «la dommatica è qualche cosa come un sistema»196; come ha scritto Gollwitzer: Barth celebra «il carattere veramente razionale ed assolutamente non alogico della rivelazione, mostrando che il mistero di Dio e la sua razionalità non sono

contradditori fra loro»197; la teologia dev’essere un insieme dottrinale coerente. Ma, nonostante questo, anzi proprio perché sono presi sul serio questi fattori, non si dà un sistema dommatico, cioè un insieme di proposizioni rette da un principio fondamentale da cui tutto è dedotto di necessità logica198; la teologia narra una storia199; non definisce un’essenza200. Donde una tensione insopprimibile che anima i due poli: Barth parla continuamente il linguaggio dell’atto; nel contempo però nell’atto include l’essere; indicando come si srotola la storia fra Dio e l’uomo (riportando la testimonianza della Scrittura sulla Parola di Dio che la crea, la rinnovar la porta a compimento) svela anche contemporaneamente e per il fatto stesso, il che dell’oggetto di tale storia. La teologia è theologia viatorum (quindi sempre incompleta), ma «sotto lo humor divino, si può in fin dei conti avere anche un sistema teologico!»201. Appoggiandosi su questi elementi, Henri Bouillard ha potuto scrivere: «Se considerando il sistema così come esso si manifesta, riteniamo che l’autore non riesce a rendere conto esattamente degli oggetti di cui parla (il che) pur riuscendo ad enunciare con forza ciò per cui essi accedono alla loro autenticità (il come), diventa legittimo, a nostro avviso, distinguere fra le deficienze del sistema ed il valore della predicazione; si dirà quindi che è necessario evitare la interpretazione sistematica ed è necessario adottare l’interpretazione profetica; che occorre presupporre, in altri termini, ciò che Barth non dice (o aggiungiamo noi: dice male o meno bene) per situare (in maniera esatta) quanto dice effettivamente»202. Il disagio che coglie alla lettura di una dottrina come quella concernente la elezione divina su questo o quel punto particolare doveva essere rilevato ed era giusto cercarne le radici nel profondo; le interrogazioni sono legittime; ma tutto questo non deve nascondere il vigore e la positività dell’insieme come non deve celare che proprio qui un balzo enorme è stato compiuto per raggiungere le fonti scritturistiche e per aderire, in maniera che forse non ha precedenti, a quel concretissì mum che è il Cristo. Questa lettura in meliorem partem non è solo frutto della simpatia dovuta ad ogni autore; il superamento è imposto dallo stesso contenuto della dommatica che dà direzioni non equivoche, al di là di enunciazioni talora incomplete; è imposto dalla struttura stessa del pensiero barthiano che progredisce lentamente ed a spirale, tornando su temi più volte riproposti ed arricchendoli con sempre nuovi elementi, imprimendo all’insieme una prospettiva dialettica che talora ha fatto parlare di svolte all’interno della Kirchliche Dogmatik, ma che forse è proprio solo la logica

imposta a Barth dalla realtà del suo oggetto203. Non è possibile neppure accennarlo in questa sede204. È però un dato che non può essere sottaciuto e che anzi deve essere espressamente sottolineato quando ci si accinge ad una lettura parziale della dommatica barthiana. Lo deve essere tanto più quando la sezione presentata è quella dell’elezione divina. Qui siamo al centro della teologia barthiana: ed è un centro oggettivo; guardando lo svolgersi della Kirchliche Dogmatik è facile rilevare come sostenga la dottrina della creazione e la dottrina della riconciliazione, come fondi l’etica teologica generale e specifica, come si proietti anche verso quella parte mai scritta che è la dottrina della redenzione; ma pure non è difficile vedere come rinvìi a monte, a quanto precede, sia nella dottrina di Dio che nei prolegomeni. Per essere ben compreso quindi questo centro non va isolato. La dottrina dell’elezione è inscindibile da una forma di pensiero attualista capace di conservare e di manifestare la pregnante azione che rivela in essa e per essa, biblicamente, l’essere stesso di Dio205; da un pensiero oggettivo suscettibile di preservare la signoria e l’iniziativa divina nella sua ricca presenza evenemenziale, reduplicata da una prospettiva teologica non apofatica206; da una visione trinitaria in cui il cristocentrismo si snoda armoniosamente, anche se, proprio qui, si radica l’aporia teologica su cui ci siamo soffermati207. Se si tengono presenti questi elementi, ben difficilmente è possibile leggere la teologia barthiana come positivismo-della-rivelazione e come neo-ortodossia, senza contare, a dire il vero, che questi termini sono già in se stessi difficoltosi208. Quasi immediatamente invece, leggendo Barth, vengono alla mente le definizioni che di lui sono state date e che gli erano molto care: «cantore della grazia divina», «consolatore del nostro secolo», «lieto partigiano del buon Dio»; in quest’uomo che non ha esitato a scrivere un’opera monumentale si coglie che la teologia non è una teoria lontana dall’uomo e planante nei cieli, proprio perché sa parlare di un Dio che ad ogni momento resta il Signore della sua rivelazione e ad un uomo che vive la categoria della risposta; con il passare degli anni ha saputo chiarire sempre di più il mistero dell’umanità di Dio, formula audace che riporta Barth all’irruenza della sua giovinezza (i termini sono di Ragaz, il socialista religioso) e che coniuga, nella certezza del Regno (altro richiamo agli inizi, là dove si pongono le esperienze dei Blumhardt padre e figlio) l’essenza stessa del messaggio cristiano. Barth ha riscoperto un modo di fare teologia; ha riscoperto l’audacia dell’evangelo; ha osato un pensiero che si snoda in vigorosa obbedienza. Il lettore avrà modo di

costatarlo nelle pagine che seguono. Come ha scritto J. Fangmeier: «La comprensione dell’elezione che Barth ha acquisito in Gesù Cristo è chiaramente uno degli esempi più caratteristici del modo in cui Barth non solamente ha esposto la dottrina cristiana, non solamente l’ha ristrutturata, ma ha corso il rischio, pur nel totale rispetto verso i padri, di svilupparla in maniera nuova e differente. È partito dal centro e, come un pioniere, ha aperto nuovi orizzonti prendendolo molto sul serio»209. Per questa ragione Hans Kϋng nel discorso commemorativo ha potuto chiamare Barth doctor utriusque theologiae, della teologia protestante come della teologia cattolica210. Per questo Bouillard ha potuto scrivere: «Chiunque ha studiato l’opera di Barth in maniera approfondita non può più tralasciare talune esigenze che essa gli ha inculcato; ed anche dopo aver segnato i limiti della propria adesione, s’istruisce sempre ancora e di nuovo riprendendone la lettura; così la riconoscenza l’accompagna in tutto il cammino»211. Certo, a partire dagli anni ’60, l’influsso di Barth si è ridotto, talora in maniera notevole; è stato tutto sommato un bene dopo punte che hanno più volte rischiato di trasformarsi in barthismo ed in ortodossia di scuola, nonostante le ferme ed accorate proteste di Barth212; purificato pare riemerga di nuovo oggi, interiormente vigoroso non solo come interesse storico, ma come interesse teoretico. Come ha visto eloquentemente Fangmeier (ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi), vi è nella teologia barthiana un prodigioso ancoraggio di tensioni, di problemi, di possenti demistificazioni; nella teologia di Barth si respira libertà; e tutto perché Barth si è lasciato immergere nella libertà di Dio — libertà di amore, di grazia, di onnipotenza che genera la libertà dell’uomo, che fa vivere l’uomo, che suscita la risposta dell’uomo213. Per questo è vero che Barth è più davanti a noi che dietro di noi214; certo taluni aspetti sono carenti, ma l’insieme pone un’insopprimibile questione e fa germogliare una ferma speranza; comprendiamo meglio, oggi più di ieri e domani forse più di oggi, che Barth indica al nostro secolo i suoi compiti ed i suoi sentieri215. L’aver mostrato al di là di punti discussi e discutibili ed al di là di una sistematizzazione talora aporetica, che la teologia deve rimanere, umilmente e coraggiosamente, discorso di Dio sull’uomo, affinché possa sgorgare una risposta dell’uomo e l’averlo mostrato in una prassi cristiana di rara e smagliante coerenza è certo uno dei meriti storici di Barth. Trapassa pure in sprone nel momento in cui, risolti problemi divenuti cruciali negli ultimi vent’anni, si ritorna da più parti ad intravvedere la necessità di una dommatica regolare, l’utilità di una logica

della fede cristiana, l’imprescindibilità di uno strumento teologico adeguato216. Pubblicare Barth fra i «classici» significa per noi tutto questo. Con la sicurezza che le questioni di Barth sono ancora le nostre questioni, i suoi problemi i nostri problemi, le sue speranze, malgrado tutte le apparenze, le nostre vere, autentiche speranze217. Nel congedare questo lavoro ci sia consentito esprimere il più riconoscente ricordo alla memoria del p. Henri Bouillard, sempre prodigo con noi di affettuosa amicizia e di valido sostegno scientifico; il nostro ringraziamento va anche ad Hans Urs von Balthasar, Jean-Louis Leuba e André Dumas per tutto quanto ci hanno saputo trasmettere incoraggiando le nostre letture barthiane; parimenti ci sia permesso dire il nostro grazie al Cardinal Michele Pellegrino ed a Oscar Culmann che ci diressero come padri sulle vie dell’ecumenismo dottrinale. Senza la forza di Loretta e senza il sorriso di Luca questo lavoro tuttavia non sarebbe stato possibile: ad essi quindi è offerta questa fatica, pegno e promessa di giorni sereni. 1. H. BOUILLARD, Karl Barth, Paris, 1957, II, 125. 2. H. U. VON BALTHASAR, Karl Barth. Darstellung und Deutung seiner Theologie, Köln, 1951 (2a ediz.: 1962), 35-36 con tagli. 3. H. BOUILLARD, Karl Barth, I, 261. 4. V. SUBILIA, Il protestantesimo moderno fra Schleiermacher e Barth, Torino, 1981. 134 s. 5. «Una dommatica ecclesiastica deve essere cristologica nella sua struttura fondamentale come in tutte le sue parti, se è vero che il suo unico criterio è la Parola di Dio rivelata, attestata dalla Scrittura e predicata dalla chiesa e se è vero che questa parola di Dio rivelata è identica a Gesù Cristo» (KD 1/2, 135 = D 3, 114); la dommatica deve essere «fondamentalmente cristologia e unicamente cristologia» (KD I/2, 975 = D 5, 418); cfr. in particolare tutto il paragrafo 24, specialmente la parte consacrata alla metodologia ed all’organizzazione dei loci theologici in una dommatica regolare (KD I/2, 943-990; specialmente pp. 973 ss. e 984 ss. = D 5, 392-430; specialmente pp. 417 e 425 ss.). 6. «Colui che dice Gesù Cristo non può dire solamente abbassamento del Figlio di Dio; ha già detto anche, proprio pronunciando questa parola di chenosi, esaltazione del Figlio dell’uomo. Non ci si può dunque fermare ad un’astratta theologia crucis, poiché essa è già segretamente ripiena di una theologia gloriae» (KD IV/2, 29 = D 20, 30). Si cfr. i paragrafi 64 (l’ufficio regale di Gesù Cristo: il servitore come Signore: KD IV/2, 1-422 = D 20) e 69 (l’ufficio profetico di Gesù Cristo: il testimone veridico: KD IV/3, 1424 = D 23). 7. «Dio non ha voluto pronunciare la sua ultima parola, né lasciare compiere nella sua forma estrema la riconciliazione decisa, realizzata e proclamata senza aver ricevuto una risposta umana, un’adesione, un sì dell’uomo; senza che la sua grazia abbia trovato, salente dall’abisso del mondo riconciliato l’eco della gratitudine; senza avere percepito, già qui ed ora, prima dell’avvento del sabato eterno, la lode che gli è dovuta. Tale è la possente struttura della sua grazia e della sua condiscendenza. Tale è la profonda solidarietà di cui fa prova nei nostri riguardi dandoci il suo Figlio» (KD IV/I, 824 = D 19, 105). Si vedano i paragrafi 36 (l’etica come compito di una dottrina di Dio: KD II/2, 564-611 = D 9, 1-45), 52 (l’etica come compito di una dottrina della creazione: KD III/4, 1-50 = D 15, 1-47), 58 (schizzo della dottrina della riconciliazione: KD IV/1, 83-170 = D 17, 81-164), 61 (la giustificazione dell’uomo: KD IV/1, 573-717 = D

18, 170-300), 62 (l’effettiva chiamata della comunità cristiana: KD IV/1, 718-825 = D 19, 1-106), 63 (la fede cristiana: KD IV/1, 826 ss. = D 19, 107-152), 66 (la santificazione dell’uomo: KD IV/2, 565- 694 = D 21, 134264), 67 (l’edificazione della comunità cristiana: KD IV/2, 695-824 = D 22, 1-127), 68 (l’amore cristiano: KD IV/2, 825 ss. = D 22, 128-250), 71 (la vocazione dell’uomo: KD IV/3, 553-779 = D 24, 123-342), 73 (la speranza cristiana: KD IV/3, 1035 ss. = D 25, 252 ss.) ed il frammento postumo IV/4: Das Gebot Gottes der Versöhners (hrsg. H. A. DREWES und E. JUENGEL). 8. Così lo stesso K. BARTH, How my mind has changed, II (1949) cit. da K. KUPISCH hrsg., Der Götze wackelt. Zeitkritische Aufsätze, Reden und Briefe von 1930-1960, Berlin, 1961, 190-199; cfr. soprattutto H. U. VON BALTHASAR: Karl Barth, 124 ss., 186 ss., 210 ss., 335 ss. e Christlicher Universalismus, in Antwort. Festschrift zum 70. Geburtstag von Karl Barth, Zürich, 1956, 237 ss. (= Verbum Caro. Skizzen zur Theologie, I, Einsiedeln, 1960; tr. ital.: Brescia, 1968, 262 ss.); H. J. IWAND, Vom Primat der Christologie, in Antwort, 172 ss.; J. DE SENARCLENS, La concentration christologique, in Antwort, 190 ss. 9. Soprattutto H. BOUILLARD, Karl Barth, I, 221-243 e J. HAMER, Un programme de christologie conséquente, «Nouvelle Revue Théologique», 1962, 1009-1031. 10. J. BOSC, Karl Barth: existence et tradition, «Foi et Vie», 65, 1966/3, 34. 11. H. ZAHRNT, Aux prises avec Dieu. La théologie protestante au XX sièch, Paris, 1969, III s. (trad. di Die Sache mit Gott. Die protestantische Theologie im XX Jahrhundert, München, 1966; esiste pure la trad. ital, Brescia, 1970: Ia ed. e 1975: 2a ed.). 12. H. U. VON BALTHASAR, Karl Barth, 210. 13. J. BOSC, Karl Barth: existence et tradition, 29. 14. H. BOUILLARD, Karl Barth, I, 260 s. 15. E. BRUNNER, Der neue Barth, «Zeitschrift für Theologie und Kirche», 48, 1951,91 16. W. KRECK, Grundentscheidungen in K. Barths Dogmatik, Neukirchen, 1978, 5. 17. W. KRECK, Grundentscheidungen in K. Barths Dogmatik 176 ss. 18. J. BOSC, Karl Barth ou la liberté de Dieu pour l’homme, paris, 1957; P. EICHER, Offenbarung. Prinzip neuzeitlicher Theologie, München, 1977, 165-254; W. KRECK, Grundentscheidungen in K. Barths Dogmatik, 96 ss. 19. H. ZAHRNT, Aux prises avec Dieu, 139 s. 20. H. U. VON BALTHASAR, Karl Barth, 187. 21. H. KUENG, La justification. La doctrine de Karl Barth et une réflexion catholique, Paris, 1965, 33 (trad. di Rechtfertigung. Die Lehre Karl Barths und eine Katholische Besinnung» Einsiedeln, 1957; trad. ital.: Brescia, 1969). 22. Dogmatik im Grundriss, Zürich, 1947, 22 = Esquisse d’une dogmatique, Neuchatel-Paris, 1968, 33 s. (coll. «Foi vivante», 80; esiste anche la trad. ital.: Roma, 1970). 23. G. RABEAU, L’incarnation du Verhe dans la théologie de Karl Barth, «Bulletin de Littérature Ecclésiastique», 1946, 23 ss.; W. GUENTHER, Die Cristologie Karl Barths „ Mainz, 1954; H. WOLK, Die Christologie bei Karl Barth und Emil Brunner, in Das Konzil von Chalkedonk Würzburg, 1954, III, 613 ss.; R. PRENTER, Karl Barths Umbildung der traditionellen Zweinaturlehre in lutherischer Beleuchtung, «Studia Theologica», 11, 1957, 1-88; M. STORCH, Historie und Christologie, in Exegesm und Meditationen zu Karl Barths Kirchlicher Dogmatik, München, 1964, 143 ss.: B. GHERARBINI, La teologia del totalmente altro, in La seconda Riforma, Brescia, 1966, II, 158 ss. 24. H. ZAHRNT, Aux prises avec Dieu, 147. 25. H. U. VON BALTHASAR, Karl Barth, 54; cfr. pure pp. 70 s., 95 s., 104, 115, 117, 148, 204, 224, 228, 234.

26. E. BUSCH, Karl Barth: biografia, Brescia, 1977, 161 s. (trad. di Karl Barths Lebenslauf, München, 1976: 2a ediz. rived.); A. MODA, «Studia Patavina», 23, 1976, III s.; S. ROSTAGNO, «Protestantesimo», 35,

1980, 99 s. 27. KD II/1, 194-200 = D 6, 173-179. 28. Cfr. l’ampia documentazione raccolta da H. BOUILLARD, Karl Barth, I, 243- 252; K. KUPISCH, Begegnung mit Karl Barth, München, 1962; D. CORNU, Karl Barth et la politique, Genève, 1968 (trad. ital.: Torino, 1970); E. BUSCH, Karl Barth: biografia, 177 ss., 233 s., 296 ss. 29. How my mind has changed, I (1939) cit. da K. KUPISCH, Der Götze wackelt, 187 s. 30. Das erste Gebot als theologisches Axiom, (1933), in Theologische Fragen und Antworten, Zürich, 1957, 143. 31. Lettera di CH. VON KIRSCHBAUM a E. THURNEYSEN: 2-6-1933, cit. da E. BUSCH, Karl Barth: biografia, 200; cfr. pure la conferenza Des Evangelium in der Gegenwart, München, 1935, che costituisce l’addio di Barth ai «suoi» studenti tedeschi dopo la destituzione (cfr. E. BUSCH, Karl Barth: biografia, 228); si veda in particolare p. 17: «Accettate il mio ultimo consiglio: esegesi, esegesi ed ancora esegesi! Attenetevi alla Parola, alla Scrittura che ci è stata data». 32. How by mind has changed, I (1939) cit. da K. KUPISCH, Der Götze wackelt, 187. 33. Wolfgang Amadeus Mozart, Zürich, 1956 (trad. ital.: Brescia, 1980; si tratta di 3 testi del 1956 e del 1945); Letzte Zeugnissei Zürich, 1969 (= trad. fr.: Derniers témoignages, Genève, 1973, 20-37); KD III/3, 337-340 = D 14, 10-11. 34. Barth aveva programmato per l’autunno 1968 un seminario universitario privato sulla propria dottrina dell’elezione; non fu tenuto per ragioni di salute; Barth doveva morire serenamente il 10 dicembre 1968: cfr. E. BUSCH, Karl Barth: biografia, 448. 35. Derniers témoignages, 17-19. 36. Derniers témoignages, 36. 37. F. CHABOD, Per la storia religiosa dello Stato di Milano, in Lo Stato e la vita religiosa a Milano nell’epoca di Carlo V, Torino, 1971, 333-336 e 410. 38. A. MODA: La sintesi barthiana sulla predestinazione divina: originalità e appunti coitici, «Studia Patavina», 18, 1971, 691 s. e La dottrina dell’elezione dimna in Karl Barih, Bologna, 1972, 123-126; a nostra conoscenza, solo A. MARRANIIMI è statc attento a questo problema nella sua recensione («La Civiltà Cattolica». 21 settembre 1974, 533). 39. H. U. VON BALTHASAR, Karl Barth, 211; G. GLOEGE, Karl Barth, in Die Religion in Geschichte und Gegenwart, I, 895 (3a ediz.: 1957); R. PRENTER, Glauben und Erkennen bei Karl Barth, «Kerygma und Dogma», 1956, 178. 40. H. BOUILLARD, Karl Barth, I, 227. 41. KD II/2, 106 = D 8, 102. 42. KD II/2, 5 = D 8, 5. 43. KD II/2, 10 = D 8, 9 s. 44. KD II/2, 6 = D 8, 6. 45. KD II/2, 215 = D 8, 205. 46. KD II/2, 215 = D 8, 205. 47. KD/ 2, 216 = D 8, 205 s. 48. KD II/2, 336 — D 8, 304 s. 49. KD II/ 2, 339 = D 8, 307. 50. KD II/2, 13 = D 8, 13.

51. KD II/2, 9 = D 8, 9. 52. KD II/2, 134 = D 3, 113. 53. KD II/2, 108 = D 8, 104. 54. KD II/2, 101 = D 8, 97. 55. KD II/2, 110 = D 8, 106. 56. KD II/2, 111 = D 8, 106 s. 57. KD II/2, 113 = D 8, 109. 58. KD II/2, 126 = D 8, 122. 59. KD II/2, 131 = D 8, 126. 60. KD II/2, 177 = D 8, 171. 61. KD II/2, 180 = D 8, 173. 62. KD II/2, 183 = D 8, 175 s. 63. KD II/2, 184 = D 8, 176. 64. KD II/2, 188 = D 8, 181. 65. KD II/2, 11 s. = D 8, 11. 66. KD II/2, 157 = D 8, 151. 67. KD II/2, 161 = D 8, 155. 68. KD II/2, 163 = D 8, 157. 69. KD II/2, 171 = D 8, 164. 70. KD II/2, 171 = D 8, 165. 71. KD II/2, 187 s. = D 8, 180 s. 72. KD II/2, 190 s. = D 8, 183. 73. KD II/2, 216 = D 8, 206. 74. KD II/2, 217 = D 8, 207. 75. KD II/2, 217 = D 8, 207. 76. KD II/2, 222 = D 8, 211. 77. KD II/2, 217 = D 8, 207. 78. KD II/2, 224 = D 8, 212. 79. KD II/2, 225 = D 8, 213. 80. KD II/2, 218-222 = D 8, 208-210. 81. KD II/2, 219 s. = D 8, 209. 82. KD II/2, 248 = D 8, 230. 83. KD II/2, 226 = D 8, 213. 84. KD II/2, 218 = D 8, 207. 85. KD II/2, 250 = D 8, 232. 86. KD II/2, 250 = D 8, 232. 87. KD II/2, 335 s. = D 8, 304. 88. KD II/2, 227 = D 8, 214. 89. KD II/2, 227 = D 8, 215. 90. KD II/2, 247 = D 8, 230. 91. KD II/2, 261 = D 8, 241. 92. KD II/2, 261 = D 8, 242. 93. KD II/2, 263 = D 8, 243.

94. KD II/2, 264 = D 8, 244. 95. KD II/2, 291 s. = D 8, 268. 96. KD II/2, 248-253 e 294-336 = D 8, 230-234 e 270-304. 97. KD II/2, 346 = D 8, 313. 98. KD II/2, 347 = D 8, 314. 99. KD II/2, 347 = D 8, 314 s. 100. KD II/2, 336 = D 8, 304. 101. KD II/2, 351 = D 8, 318. 102. KD II/2, 351 = D 8, 318. 103. KD II/2, 336 = D 8, 304. 104. KD II/2, 351 = D 8, 317. 105. KD II/2, 352 = D 8, 319. 106. KD II/2, 353 = D 8, 319 s. 107. KD II/2, 382 = D 8, 345. 108. KD II/2, 386 = D 8, 349. 109. KD II/2, 458 = D 8, 411. 110. KD II/2, 498 = D 8, 445. 111. KD II/2, 502 = D 8, 449. 112. KD II/2, 502-504 = D 8, 449-450. 113. KD II/2, 18 = D 8, 17. 114. KD II/2, 63 s. = D 8, 61. 115. KD II/2, 15 = D 8, 15. 116. KD II/2, 15 = D 8, 14. 117. KD II/2, 27 = D 8, 26. 118. KD II/2, 26 = D 8, 25. 119. KD II/2, 81 = D 8, 77. 120. KD II/2, 67 = D 8, 64. 121. KD II/2, 66 = D 8, 63. 122. KD II/2, 71 = D 8, 68. 123. KD II/2, 82 = D 8, 78 s. 124. KD II/2, 95 = D 8, 91. 125. KD II/2, 97 s. = D 8, 93 s. 126. KD II/2, 100 = D 8, 96. 127. H. BOUILLARD, Karl Barth, II, 152. 128. E. BRUNNER, Dogmatique: I. La doctrine chrétienne de Dieu, Genève, 1964, 370 (trad. dal ted. sulla 3a ediz.: Zürich, 1960; 1a ediz.: Zürich, 1946). 129. H. BOUILLARD, Karl Barth, II, 142. 130. H. BOUILLARD, Karl Barth, II, 142. 131. H. BOUILLARD, Karl Barth, II, 144. 132. H. BOUILLARD, Karl Barth, II, 146 133. H. BOUILLARD, Karl Barth, II, 146. Ulteriori indicazioni nel nostro saggio: La dottrina della elezione divina in Karl Barth, 63 ss. 134. H. BOUILLARD, Karl Barth, II, 146.

135. H. BOUILLARD, Karl Barth, II, 147. 136. H. BOUILLARD, Karl Barth, II, 148 s. 137. H, BOUILLARD, Karl Barth, II, 149 s. Ulteriori indicazioni nel nostro saggio: La dottrina della elezione divina in Karl Barth, 66 ss. 138. Si vedano le preziose annotazioni di E. BRUNNER, Dogmatique, I, 364 ss. 139. La dottrina della elezione divina in Karl Barth, 73 ss. e L’originalité de la synthèse barthienne sur la prédestination: vis-à-vis d’une tradition théologique, di prossima pubblicazione in «Nicolaus», 11, 1983/1. 140. La dottrina della elezione divina in Karl Barth, 82 ss. e soprattutto Vérification du róle central de la doctrine de l’élection dans la Kirchliche Dogmatik de Karl Barth, «Nicolaus», 10, 1982, 3-45. 141. Cfr. soprattutto H. J. KRAUS: Das Problem der Heilsgeschichte in der Kirchlichen Dogmatik, in Antwort, 69 ss. e La teologia biblica: storia e problematica, Brescia, 1979, 324 ss. (originale tedesco: 1970); G. EICHOLZ, Der Ansatz Karl Barths in der Hermeneutik in Antwort, 52-69; H. GOLLWITZER, Introduzione a Dogmatica ecclesiale. Antologia, Bologna, 1968, 3-16 (trad, dal tedesco: Frankfurt, 1957); G. WIDMER, L’actualité de Karl Barth, «Choisir», 1969, février, 14-18. 142. Cfr. soprattutto K. H. MISKOTTE, Die Erbaubnis zu schriftgemaessen Denken, in Antwort, 29-51; F. W. MARQUARDT, Exegese und Dogmatik in Karl Barths Theologie, in Die Kirchliche Dogmatik Registerband, Zürich, 1970, 651-676; W. SCHLICHTING, Biblische Denkform in der Dogmatik. Die Vorbildlickeit des biblischen Denkens für die Methode der Kirchlichen Dogmatik Karl Barths, Zürich, 1971; J, A. WHARTON, Karl Barth as Exegete and his Influence on biblical Interpretation, «Union Seminary Quarterly Review», 28, 1972-1973, 5-13; utili elementi anche in W. OESCH, Von Bultmann zu Barth, von Barth zu Bultmann, «Lutherischer Rundblick», 15, 1967, 130 ss., 194 ss.; W. SCHMITHALS, Barth, Bultmann und wir. Zur Methodenproblem in der Theologie, «Evangelische Kommentare», 2, 1969, Heft 8, 447-452; W. KRECK, Zur Hermeneutik Karl Barths und Rudolf Bultmann, in Grundfragen der Dogmatik, München, 1970, 251 ss.; per offrire un esempio della sua esegesi teologica all’epoca della Dogmatik, Barth ha voluto pubblicare uniti come pars destruens e pars construens (Zürich, 1964) due opuscoli precedenti: Rudolf Bultmann. Ein Versuch, ihn zu verstehen, Zürich, 1952 (trad. ital. in Capire Bultmann, Torino, 1971, 137 ss.) e Christus und Adam nach Roem. 5, Zürich, 1952; si veda ora anche Karl Barth Rudolf Bultmann: Briefwechsel 1922-1966, hrsg. B. JASPERT, Zürich, 1971, in particolare le lettere 58-60 del 1930 (pp. 100 ss.) e 94-95 del 1952 (pp. 169 ss.: riferentesi al saggio barthiano su Bultmann). 143. Per comprendere esattamente il significato che Barth ascrive a questa prospettiva si può ricorrere alla lettura della prefazione generale, dei paragrafi 1-7, dei paragrafi 22-24 (KD I/1, IX ss, e 1310 = D 1; KD I/2 831 ss. = 5, 287 ss.). Tuttavia è il rifacimento della Dìe Christliche Dogmatik im Entwurf (München, 1927) divenuto appunto Die Kirchliche Dogmatik nel 1932 ad essere significativo): F. TRAUB, Die neue Fassung der Barthschen Dogmatik, «Zeitschrift für Theologie und Kirche», 14, 1933, 219-236; H. U. VON BALTHASAR, Karl Barth, 93 ss.; H. BOUILLARD, Karl Barth, I, 120 ss., 134 ss., 224 ss., 230 ss.; I. MANCINI, Il pensiero teologico di Barth nel suo sviluppo, introduzione a Dogmatica ecclesiale. Antologia, LXXXV ss.; E. BUSCH, Karl Barth, 153 s., 185 ss.; P. EICHER, Offenbarung, 183 ss.; W. KRECK, Grundentscheidungen, 96 ss. Capitale a questo proposito è l’articolo programmatico Schicksal und Idee in der Theologie, «Zwischen den Zeiten», 1929, 309 ss. (= Theologische Fragen und Antworten, 54 ss.) su cui H. BOUILLARD, Karl Barth, I, 143 s. 144. Si vedano, particolarmente importanti per le dichiarazioni teoretiche e metodologiche: Zum Geleit a H. HEPPE, Die Dogmatik der evangelisch-reformierten Kirche, nuova ediz. a cura di E. BIZER,

Neukirchen, 1958, VII ss. (testo del 1935; cfr. E. BUSCH, Karl Barth, 115 ss.); Die protestantische Theologie im 19. Jahrhundert. Ihre Vorgeschichte und ihre Geschichte, Zürich, 1947 (corso tenuto a Bonn nel 19321933; ma alcune parti risalgono al 1926-1927 anni in cui Barth professa a Münster; della trad. ital. notiamo l’illuminante, precisa introduzione di I. MANCINI); Evangelische Theologie im 19. Jahrhundert, Zürich, 1957 (trad. franc.: Genève, 1957, soprattutto p. 47) con le osservazioni di H. BOUILLARD, Karl Barth. I, 151 ss. e di H. GOLLWITZER, Introduzione a Dogmatica ecclesiale. Antologia, 9 ss. 145. Si considerino soprattutto la prefazione della Christliche Dogmatik del 1927 (cfr. E. BUSCH, Karl Barth, 154 s.); il saggio Schicksal und Idee del 1929; KD I/1,1 ss., 261 ss. = D 1,1 ss., 239 ss. (1932), KD I/2, 943 ss. = D 5, 392 ss. (1938); Die Menschlichkeit Gottes del 1956 (trad, ital.: Torino, 1975, 33 ss.); Philosophie und Theologie, in Philosophie und Christliche Existenz. Festschrift für Heinrich Barth, BaselStuttgart, 1960. Per l’insieme degli aspetti qui rilevati cfr. Einführung in die evangelische Theologie, Zürich, 1962 (trad, ital.: Milano, 1968) il cui carattere metodologico e autobiografico è essenziale (cfr. E. BUSCH, Karl Barth, 410 s.). 146. In generale G. WEIGEL, A Survey of Protestant Theology in our Day, Westminster, 1954, 30 ss.; O. CULLMANN, La necessité et la fonction de l’exégèse philologique et historique de la Bible, in J. BOISSET, Le problème biblique dans le protestantìsme, Paris, 1955, 131 ss.; R. SMEND, Nachkritische Schrifauslegung, in Parrhesia. Karl Barth zum 80. Geburtstag, Zürich, 1966, 215 ss.; W. LINDEMANN, Karl Barth und die Kritische Schriftauslegung, Hamburg, 1973. In particolare, tralasciando la lettura della dottrina dell’elezione di cui si dirà: J. J. STAMM, Die Imago-Lehre von Karl Barth und die altestamentliche Wissenschaft, in Antwort, 84 ss.; J. F. KONRAD, Abbild und Ziel der Schoepfung. Untersuchungen zur Exegese von Gen 1-2 in Barths Kirchlichen Dogmatik III/I, Tübingen, 1962; E. BRANDENBURGER, Adam und Christus. Exegetisch-religions-geschichtliche Untersuchung zu Roem 5, 12-21 (1 Kor 15), Neukirchen, 1962, 267 ss.; P. LENGSFELD, Adam und Christus, Münster, 1964 (trad. frane.: Paris, 1970, 169-241 e 263 s.; si vedano le critiche di CHR MAURER, «Kirchenblatt für die Reformierte Schweiz», 122. 1966, n. 17 e di J. FANGMEIER, «Theologische Literaturzeitung», 93, 1968, 561 s.). 147. Oltre l’ammirabile materiale offerto dalla biografia di E. BUSCH che consente un’indagine puntuale cfr. W. SCHNEEMELCHER, Theologische Arbeitstagung mit Karl Barth, «Evangelische Theologie», 10, 1950-1951, 570 ss.; H. E. TOEDT, Karl Barth als Lehrer seiner Studenten, in Antwort, 879 ss.; J. A. LOMBARD, Väterchen, in Antwort, 888 ss. 148. KD II/2, 160 = D 8, 153. 149. E. BRUNNER, Dogmatique, I, 370 s.; cfr. B. GHERARDINI, La parola di Dio nella teologia di Karl Barth, Roma, 1955, 107 ss., 177 ss. 150. H. BOUILLARD, Karl Barth, II, 154; cfr. P. EICHER, Offenbarung, 200 ss. 151. H. BOUILLARD, Karl Barth, II, 154. 152. Cfr. l’ampia documentazione offerta da H. KUENG, La justification, 347 ss. 153. Cfr. le osservazioni di H. KUENG, La justification, 337 s. 154. KD II/2, 111 = D 8, 107. 155. Cfr. soprattutto O. CULLMANN, Cristo e il tempo, Bologna, 1965, 85-94 (trad. ital. sulla 3a edfe. tedesca del 1962; 1a ediz.: 1947); P. BENOIT, Préexistence et Incarnation, «Revue Biblique», 77, 1970, 5 ss.; R. G. HAMERTON-KELLY, Preexistence, Wisdom and the Son of Man. A Study of the Idea of Pre-existence in the New Testament, Cambridge, 1973. Ulteriore documentazione nei nostri La sintesi barthiana, 675 s. e La dottrina della elezione divina, 96 ss. 156. Cfr. soprattutto in senso critico G. C. BERKOUWER, De Triomf der Genade in de Theologie can

Karl Barth, Kampen, 1954 (trad. ted.: Neukirchen, 1957, 80 ss.); E. BUESS, Zur Prädestinationslehre Karl Barths, Zürich, 1955, 48 ss.; B. GHERARDINI, La parola di Dio, 167 ss. 157. H. BOUILLARD, Karl Barth, II, 153 s.; cfr. E. BRUNNER, Dogmatique, I, 254.ss.; E. JUENGEL, Gottes Sein ist im Werden, Tübingen, 1966, 2a ediz., 37 ss.; P. EICHER, Offenbarung, 250 ss. Ulteriore documentazione nei nostri La sintesi barthiana, 676 ss. e La dottrina della elezione divina, 98 ss. 158. H. BOUILLARD, Karl Barth, II, 117. 159. Cfr. l’abbondante documentazione raccolta nei nostri La sìntesi barthiana, 679 ss., 690 s. e La dottrina della elezione divina, 103 ss., 123; S. LYONNET, De notione expiationis, «Verbum Domini», 1959, 336 ss.; G. BIFFI, Soddisfazione vicaria o espiazione solidale?, in Miscellanea Carlo Figini, Venegono, 1964, 643 ss.: L. M. ALONSO SCHOEKEL, La Rédemption oeuvre de solidarité, «Nouvelle Revue Théologique», 93, 1971, 449 ss.; M. D. HOOKER, Interchange in Christ, «Journal of Theological Studies», 22, 1971, 349 ss. 160. La dottrina dell’apocatastasi o riconciliazione universale ha una lunga storia dommatica (cfr. gli articoli del Reallexikon für Antike und Christentum, I, 1950, 510 ss.; del Lexikon für Theologie und Kirche, I, 1957, 708 ss.; del Die Religion in Geschichte und Gegenwart, VI, 1962, 3a ediz., 1963 ss.); per Barth tuttavia il cammino è profondamente diverso e risente piuttosto dell’ombra di Schleiermacher (cfr. J. HAMER, Karl Barth. l’occasionalisme théologique de Karl Barth, Paris, 1949, 127 ss. e E. RIVERSO, La teologia esistenzialistica di Karl Barth, Napoli, 1955, 380 s.) oltre che di una lettura biblica che Barth crede legittima (cfr. la documentazione raccolta nei nostri La sintesi barthiana, 682 ss. e La dottrina della elezione divina, 109 ss.); per la visione biblica: l’articolo del Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, I, 1933, 386 ss. (trad. ital.: Grande Lessico del Nuovo Testamento, I, 1033 ss.) e W. MICHAELIS, Versöhnung des Alles. Die frohe Botschaft von der Gnade Gottes, Bern, 1950 (con le recensioni critiche di J. SCHNEIDER, «Theologische Literaturzeitung», 77, 1951, 158 ss. e di P. BENOIT, «Revue Biblique», 1952, 100 ss. = Exégèse et théologie, Paris, 1961, II, 172 ss.); per l’impostazione teologica: K. ADAM, Zum Problem der Apokatastasis, «Theolog. Quartalschrift». 131, 1951, 129 ss. e soprattutto E. BRUNNER, Dogmatique, I, 371 ss.; per una rassegna: Apokatastasis Pantón: A Bibliography, Basel, 1969. 161. Cfr. E. BRUNNER: Dogmatique, I, 370 s. e Prédestination et liberté, «Revue d’Histoire et de Philosophie Religieuses», 32, 1952, 83 ss.; H. BOUILLARD, Karl Barth, II, 73 ss. e III, 21 ss.; H. KUENG, La justification, 97 ss., 294 ss. 162. H. BOUILLARD, Karl Barth, II, 158. 163. Cfr. i nostri La sintesi barthiana, 684 ss. e La dottrina della elezione divina, 113 ss., cui si aggiungano le belle pagine di V. SUBILIA, Presenza e assenza di Dio nella coscienza moderna, Torino, 1976, 92 ss., 96 ss., 105 ss. 164. Nel senso tuttavia spiegato e documentato nei nostri La sintesi barthiana, 687 ss. e La dottrina della elezione divina, 116 ss.; P. EICHER, Offenbarung, 203 ss.; V. SUBILIA, Presenza e assenza di Dio, 51 ss.; P. GISEL, La création. Essai sur la liberté et la nécessité, l’histoire et la loi, l’homme, le mal et Dieu, Genève, 1980, 262 ss. 165. Nel senso inteso da E. BUESS, Zur Prädestinationslehre, 56 ss.; H. BINTZ, Das Skandalon als Grundlagenproblem der Dogmatk. Eine Ausenandersetzung mit Karl Barth, Berlin, 1969; V. SUBILIA, Presenza e assenza di Dio, 105 ss. 166. G. C. BERKOUWER, Der Triumph der Gnade in der Theologie Karl Barths, 94 ss,; E. Buiss» Zur Prädestinationslehre, 52 ss.; CH. BÄUMLER, Die Lehre von der Kirche in der Theologie Karl Barths, München, 1964, 23 ss.; E. W. WENDEBOURG, Die Christusgemeinde und ihr Herr, Berlin-Hamburg, 1966, 187 ss.; C. O’GRADY, The Church in the Theology of Karl Barth, London, 1968, 112 ss.; A. MODA,

L’élection de la communauté dans la pensée de Karl Barth, in Communio Sanctorum. Mélanges afferts à Jean Jacques von Allmen, Genève, 1982, 104 s. 167. H. BOUILLARD, Karl Barth, II, 163. 168. Il saggio più minuzioso da questo punto di vista resta ancora quello di G. C. BERKOUWER, Der Triumph der Gnade, 76 ss., 109 ss., 177 ss., 195 ss., 242, 328 ss. 169. W. KRECK, Grundentscheidungen, 176 ss. con la recensione di A. IPPOLITI, «Protestantesimo», 35, 1980, 159 ss. 170. Soprattutto H. U. VON BALTHASAR, Karl Barth, 181 ss.; K. SCHWARZWAELLER, Das Gotteslob der angefochtenen Gemeinde. Dogmatische Grundlegung der Prädestinationslehre, Neukirchen, 1970; P. EICHER, Offenbarung, 195 ss.; J. L. LEUBA, Dios salvados según Karl Barth. Un modelo de soteriologia protestante, «Estudios Trinitarios», 11, 1977, 23 ss. (ripreso in francese: «Hokhma», 1979/11, 2 ss.). 171. V. SUBILIA, Presenza e assenza di Dio, 74. 172. E. JUENGEL, Gottes Sein ist im Werden, 12 ss.; cfr. J. M. YOUNG, Karl Barth’s Doctrine of the Trinity, Gran Rapids, 1962; W. KRECK, Zum Trinitätsproblem bei Hegel und Barth, in Grundfragen der Dogmatik, 282 s.; J. L. LEUBA, Zeit und Trinität. Versuch einer doktrinalen Hermeneutik, in Kerygma und Mythos, Hamburg-Bergstedt, 1976, VIII, 123 ss.; molto discutibile è invece l’approccio critico di W. PANNENBERG, Die Subjektivität Gottes und die Trinitätslehre, «Kerygma und Dogma», 23, 1977» 25 ss. (= Hegel et la théologie contemporaine, Neuchâtel-Paris, 1978, 171 ss.) e Der Gott der Geschichte. Der trinitarische Gott und die Wahrheit der Geschichte, «Kerygma und Dogma», 23, 1977, 76 ss. (ripresi entrambi in Grundfragen systematischer Theologie. Gesammelte Aufsätze II, Gӧttingen, 1980, 80 ss.) come mostra pure l’indipendente contributo di R. THEIS, Die Lehre von der Dreieinigkeit Gottes bei Karl Barth, «Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie», 24, 1977, 251 ss. 173. H. BOUILLARD, Karl Barth, II, 154. 174. H. BOUILLARD, Karl Barth, II, 120. 175. H. BOUILLARD, Karl Barth, II, 121 s. 176. H. BOUILLARD, Karl Barth, II, 122. 177. Sia consentito a questo proposito di notare l’apporto essenziale di B. GHERARDINI, l’autore cattolico che, in tempi difficili, ha preservato in Italia una netta comprensione della teologia barthiana, rappresentando anche una tipica forma di dialogo confessionale; a tale maniera di procedere s’ispira anche il saggio di J. HAMER (cfr. le riserve di Barth in E. BUSCH, Karl Barth, 331); mentre lavori come quelli di H. U. VON BALTHASAR (specialmente pp. 15 ss., 263 ss., 389 ss.), H. KUENG, H. BOUILLARD e P. EICHER imboccano, contenutisticamente e metodologicamente, sentieri nuovi. Citiamo ancora tre saggi esemplari: L. MALEVEZ, Een recente confrontatie van de theologie van Karl Barth met de Katolische Theologie, «Bijdragen», 9, 1948, 59 ss.; H. DE LUBAC, Zum Katholischen Dialogue mit Karl Barth, «Dokumente», 1958, 448 ss.; H. BOUILLARD, Karl Barth et le catholicisme, «Revue de Théologie et de Philosophie», 20, 1970, 353 ss. 178. Si vedano pure le pagine molto precise di H. U. VON BALTHASAR, Karl Barth, 255 ss., 335 ss.; come già aveva rilevato H. BOUILLARD, Karl Barth, I, 235, è assai criticabile invece la lettura della sintesi barthiana come «occasionalismo teologico» data da J. HAMER (specialmente pp. 167 ss.) sebbene vi si trovino buoni elementi per la dottrina dell’elezione (specialmente pp. 130 ss.): ci pare che Barth stesso abbia attirato l’attenzione su questo punto in Nachwort um Schleiermacher, in H. BOLLI hrsg., Schleiermacher Auswahl, München-Hamburg, 1968, 310-312 (= La théologie protestante au XIX siècle, Genève, 1969, 463-465; disgraziatamente l’editore italiano non ha creduto di dover seguire l’esempio dell’editore francese; cfr. E. BUSCH, Karl Barth, 447). La critica del Bouillard ci pare ancora più esemplare

dopo la pubblicazione del frammento sul battesimo (1967): E. JUENGEL, Karl Barths Lehre von der Taufe, Zürich, 1968 (trad. ital. con intr. di F. GIAMPICCOLI: Torino, 1971); A. DUMAS, Faut-il démythologiser les sacrements?, «Foi et vie», 67, 1968, n. 3, 14 ss.; L. MALEVEZ, Karl Barth. Existence chrétienne et vie éternelle, «Nouvelle Revue Théologique», 91, 1969, 225-242 (= Histoire du salut et philosophie, Paris, 1971, 51 ss.); A. MODA, Le baptême chrétien: sacrement ou action humaine?, «Revue d’Histoire et de Philosophie Religeuses», 1974, 219-248. 179. Cfr. soprattutto P. ALTHAUS, Die christiche Wahrheit, Guetersloh, 1949, 2a ed., I, 47 ss., 68 ss., II, 32 s.; R. NIEBUHR, Christian Realism and Political Problems, New York, 1953, 193 ss.; H. THIELICKE: Theologische Ethik, Tübingen, 1965, 3a ed., I, 192 s. e Der evangelische Glaube, Tübingen, 1978, III, 439. 180. Cfr. soprattutto R. PRENTER: Die Einheit von Schöpfung und Erlösung. Zur Schöpfungslehre Karl Barths, «Theologische Zeitschrift», 2, 1946, 161 s. e Karl Barths Umbildung der traditionellen Zweinaturlehre, 66 s.; E. H. AMBERG, Christologie und Dogmatik, Göttingen, 1966, 62 ss., 133 ss.; H. BINTZ, Das Skandalon als Grundlagenproblem der Dogmatik, 127 ss. 181. Così, ma da leggersi nel contesto, H. U. VON BALTHASAR, Karl Barth, 380 e H. BOUILLARD, Karl Barth, III, 291; nei nostri precedenti saggi (La sintesi barthiana, 684 ss. e La dottrina della elezione divina, 112 ss.) abbiamo cercato di inquadrare queste critiche che ora ci vedono molto più riservati. 182. H. ZAHRNT, Aux prises avec Dieu, 147 ss.; questo saggio scritto con stile eccellente e non esente da formule particolarmente efficaci (cfr. R. MARLÉ, «Recherches de Science Religieuse», 55, 1967, 282 ss.), merita tuttavia serie riserve per l’interpretazione barthiana (cfr. soprattutto E. HUEBNER, Monolog im Himmel? Zu Barth-Interpretation von Heinz Zahrnt, «Evangelische Theologie», 21, 1971, 63 ss. e V. SUBILIA, Presenza e assenza, 92); decisamente irricevibile ci pare inoltre la critica assai superficiale di K. BOCKMUEHL, Atheismus in der Christenheit, Wuppertal, 1969 (trad. ital.: Torino, 1981, 128 ss.) che data l’asserita non scientificità del libro (p. 246) non dovrebbe neppure essere menzionata se non riscuotesse tanto immeritato successo. 183. Se ne veda un elenco rapido ma significativo in V. SUBILIA: Presenza e assenza, 45 ss., 51 ss., 58 ss., 63 ss., 105 ss. e Il protestantesimo moderno, 131 ss.; in particolare si approfondiscono le critiche di G. GLOEGE, Zur Praedestinationslehre Karl Barth, «Kerygma und Dogma», 2, 1956, 193 ss., 233 ss. (= Heilsgeschehen und Welt, Goettingen, 1965, I, 77 ss.) e di CH. BÄUMLER, Der Mensch in der Gesellschaft. Zum Velhältnis der theologischen Anthropologie Karl Barths zur Soziologie, in Theologie zwischen Gestern und Morgen. Interpretationen und Anfragen zum Werk Karl Barths, München, 1968, 192 ss. 184. V. SUBILIA, Presenza e assenza, 109. 185. G. C. BERKOUWER, Der Triumph der Gnade, 229. 186. H. BOUILLARD, Karl Barth, III, 291 s. 187. H. BOUILLARD, Karl Barth, III, 293. 188. Buone osservazioni in P. TILLICH, Systematische Theologie, Stuttgart, 1955, I, 224; O. WEBER, Grundlagen der Dogmatik, Nekirchen, 1955, I, 543; V. SUBILIA, Presenza e assenza, 110. 189. Soprattutto D. BONHOEFFER, Akt und Sein. Transzendentalphilosophie und Ontologie in der systematischen Theologie, Gütersloh, 1931, 67 s., 76 s.; L. BOUYER: Du Dieu caché au Dieu révéle, «La vie Intellectuelle», 1950, 244 ss. e Du protestantisme à l’Eglise, Paris, 1954, 238 ss.; G. M. PIZZUTI, Teologia e metafisica: la radice kanthiana della posizione di Karl Barth nella Kirchliche Dogmatik, «Filosofia», 28, 1977, 569 ss. (ripreso in Ontologia trinitaria e antropologia teologica. Indagine critica sulle strutture speculative della teologia di Karl Barth, Torino, 1978.75 ss.). 190. Soprattutto P. COURTHIAL, Karl Barth et quelques points des Confessions de foi réformées, «La

revue Réformée», 10, 1959, n. 2, 23 ss.; cfr. anche W. PANNENBERG, in Offenbarung als Geschichte, Göttingen, 1961, 14 s. (trad. ital.: Bologna, 1969). 191. A ben vedere moltissimi elementi in Barth richiamano lo Hegel, a condizione tuttavia di tenere sempre presenti le osservazioni di Die Protestantische Theologie, 343 ss. (trad. francese separata: Hegel, Neuchâtel-Paris, 1955) ed ancora di più lo Schleiermacher (cfr. appendice seconda) come hanno rilevato H. U. VON BALTHASAR, Karl Barth, 201 ss. (specialmente pp. 210 ss.) e H. BOUILLARD, Karl Barth, III, 295 ss.; nel suo eccellente saggio (La Seconda Riforma, II, 93 ss.) B. GHERARDINI contesta vigorosamente la lettura balthasariana; le sue critiche non ci paiono però, su questo punto specifico, convincenti, mentre ci paiono valide nei confronti di talune espressioni meno felici di J. HAMER, L’occasionalisme théologique, 212 s. e di E. RIVERSO, La teologia esistenzialistica di Kerl Barth, 380 s. 192. Cfr. soprattutto i saggi di E. RIVERSO: La teologia esistenzialistica, 371 ss. e Introduzione a Antologia, Milano, 1964, 5 ss. ed il lavoro di J. RILLIET, Karl Barth théologien existentialiste?, Neuchâtel, 1952, 113 ss.; su punti specifici un simile discorso è possibile, anche se deve sempre essere valutato con estrema circospezione; ad ogni modo è discutibile offrire a S. KIERKEGAARD un posto di rilievo nella Kirchliche Dogmatik come fanno J. HAMER, L’occasionalisme théologique, 181 ss. e S. A. MATCZAK, Le problème de Dieu dans la pensée de Karl Barth, Louvain-Paris, 1968 (cfr. l’indice onomastico). 193. J. L. LEUBA, Le problème de l’Eglise chez M. Karl Barth, «Verbum Caro», 1, 1947, 4 ss. (= À la découverte de l’espace oecuménique, Neuchâtel-Paris, 1967, 87 ss.); cfr. già La position de Karl Barth à l’égard de la philosophie, «In Extremis», 9, 1943, 25 ss. ricco di spunti molto pertinenti. 194. J. L. LEUBA, Karl Barth systématisé, «Verbum Caro», 4, 1950, 182 ss. 195. H. U. VON BALTHASAR, Karl Barth, 70; cfr. pp. 67 ss. 196. KD I/2, 971 = D 5, 415. 197. H. GOLLWITZER, Introduzione, in Dogmatica ecclesiale, 13. 198. KD I/2, 963 s., 970 s. = D 5, 408 s., 415 s. 199. Cfr. le osservazioni di B. WACKER, Narrative Theologie?, München, 1977 (tutto l’excursus III; trad. ital.: Brescia, 1981) e D. FORD, Barth and God’s Story. Biblical Narrative and the Theological Method of Karl Barth in the Church Dogmatics, Berne-Frankfurt, 1981. 200. J. L. LEUBA, Le problème de l’Eglise, 17 s. 201. Parole di Barth riferite da W. SCHNEEMELCHER, Theologische Arbeitstagung, 570. 202. H. BOUILLARD, Karl Barth, III, 290. 203. H. U. VON BALTHASAR, Karl Barth, 93 ss., 124 ss., 263 ss., 278 ss., 335 ss., 372 ss.; H. BOUILLARD, Karl Barth, I, 230 ss. e III, 287 ss.; P. EICHER, Offenbarung, 250 ss. 204. Per lo studio della struttura di pensiero barthiana sono indispensabili H. U. VON BALTHASAR, Karl Barth, 201 ss.; I. MANCINI, Il pensiero teologico di Barth nel suo sviluppo, in Dogmatica ecclesiale, VII ss.; P. EICHER, Offenbarung, 195 ss., 242 ss., 250 ss. (quivi si troveranno altre utili indicazioni criticamente discusse); E. BUSCH, Un Magnificat perpétuel. Remarques sur la Dogmatique de Karl Barth, in Dogmatique. Index général et textes choisis, Genève, 1980, 9 ss.; C. SCILIRONI: Relazione, opposizione e dialettica in Karl Barth, «Studia Patavina», 27, 1980, 127 ss. e Possibilità e fondamento della fede: Karl Barth e E. Severino, «Sapienza», 34, 1981, fasc. 3-4. 205. È imprescindibile a questo proposito la monografia di W. SCHLICHTING, Biblische Denkform (1971); buone osservazioni anche in H. KUENG, Karl Barths Lehre vom Wort Gottes als Frage an die Katholische Theologie, in Einsicht und Glaube, Freiburg, 1962, 75 ss. (= La justification, 378 ss.). 206. La monografica essenziale resta quella di E. JUENGEL, Gottes Gein ist im werden (1966: 2a ediz.); buoni elementi in J. BROWN, Kierkegaard, Heidegger, Buber and Barth: Subject and Object in Modem

Theology, New York, 1962 (tutto il cap. 4); P. DEN OTTOLANDER, Deus immutabilis. Vijsgerige beschouwing over onveranderlijkleid en veranderlikleid volgens de theo-ontologie van Sint Thomas en Karl Barth, Assen, 1965; V. SUBILIA, Presenza e assenza, 51 ss.; ci siamo spiegati a lungo nel nostro Hans Urs von Balthasar: un’esposizione critica del suo pensiero, Bari, 1976, 457 ss., ove si troverà ampia bibliografia. 207. V. SUBILIA, Presenza ed assenza, 65 ss.; A. SCHILSON, in A. SCHILSON-W. KASPER, Théologiens du Christ aujourd’hui, Paris, 1978, 65 ss. (trad. dal ted.: Freiburg, 1977, 2a ediz., esiste anche la traduz. ital.: Brescia, 1982); G. M. PIZZUTI, La teonomia dell’essere. Lineamenti di ontologia trinitaria nella Kirchliche Dogmatik di Karl Barth, «Filosofia», 28, 1977, 51 ss. (= Ontologia trinitaria e antropologia teologica, 93 ss.). 208. Per la critica di «neo-ortodossia» cfr. P. TILLICH, Sistematische Theologie, I, 11 s., con la reazione di K. BARTH, Derniers témoignages, 38 ss. Per quella di «positivismo della rivelazione» cfr. D. BONHOEFFER, Widerstand und Ergebung, München, 1955, 6a ed. (trad. ital.: Milano, 1969, 214) con la reazione di K. BARTH, Hinweise, «Evangelische Theologie», 1968, 555 s. e con gli studi di R. PRENTER, D. Bonhoeffer und Karl Barths Offenbarungspositivismus, in Die Mündige Welt, München, 1950,III, 11 ss.; M. STORCH, Exegesen und Meditationen, 11 ss.; P. HEICHER, Offenbarung, 234 ss.; H. D. VAN HOOGSTRATEN, Openbaringspositivisme voor en na. Bonhoeffer en de politieke Interpretatie van Barth’s Theologie, «Tijdschrift voor Theologie», 20, 1980, 40 ss. 209. J. FANGMEIER, Der Theologe Karl Barth, Basel, 1969 (trad. franc.: Le théologien Karl Barth, Genève, 1974, 54). 210. H. KUENG, in Karl Barth 1886-1968. Gedenkfeier im Basler Münster, Zürich, 1969, 43 ss.; ripreso in H. HAERING - K. J. KUSCHEL, Hans Küng. Weg und Werk, München, 1978, 37 ss. (trad. ital.: Brescia, 1979). 211. H. BOUILLARD, Karl Barth, III, 299 s. 212. E. BUSCH, Karl Barth, 376 s., 408. 213. J. FANGMEIER, Le théologien Karl Barth, 59 ss.; cfr. anche P. BURGELIN, in G. CASALIS, Portrait de Karl Barth, Genève, 1960, 124 ss. (in occasione del conferimento della laurea honoris causa all’Università di Strasburgo: E. BUSCH, Karl Barth, 397). 214. H. BERKHOF, Die Bedeutung K. Barths für Theologie, Kirche und Welt, «Evangelische Theologie», 1948, 254 ss.; G. MERZ, Die Begegnung K. Barths mit der deutschen Theologie, «Kerygma und Dogma», 2, 1956, 157 ss.; B. WILLEMS, Quelle est la signification oecumènique de K. Barth?, «Concilium», 14, 1966, 45 ss.; W. DANTINE - K LUETHI hrsg., Theologie zwischen gestern und morgen. Interpretationen und Anfragen zum Werk Karl Barths, München, 1968; G. TOURN, Prolegomeni per uria lettura critica di Karl Barth, «Protestantesimo», 1968, 193 ss.; Porträt eines Theologen. Stimmt unser Bild von Karl Barth?, Stuttgart, 1970; P. HITZ, L’attualità, di Karl Barth, «Teologia del presente», 2, 1972, 175 ss.; T. RENDTORFF, Theorie des Christentums. Historisch-theologische Studien zu seiner neuzeitlichen Verfassung, Gütersloh, 1972, 161 ss.; K. G. STECK-D. Schellong, Karl Barth und die Neuzeit, München, 1973; Die Realisierung der Freiheit. Beiträge zur Kritik der Theologie K. Barths, Gütersloh, 1975; Das theologische Erbe Karl Barths und die Kirche von heute, Zürich, 1979; V. SUBILIA, Il protestantesimo moderno, III ss. 215. H. TRAUB, Karl Barth, in Tendenzen der Theologie im 20. Jahrhundert, Stuttgart-Berlin, 1966, 269 s. (trad. ital.: Lessico dei teologi del sec. XX, Brescia, 1978, 295 s.); E. HUEBNER, Fragen der Theologie Karl Barths an die gegenwärtige Situation in der evangelischen Theologie, in Theologische Strömungen der Gegenwart, Göttingen, 1966, 8 ss.; V. SUBILIA, Presenza e assenza, 45 ss.

216. Su quali basi e con quali strumenti ci siamo permessi d’indicare in una serie di contributi cui rinviamo il lettore: Per una critica della ragione teologica,, introduz. a H. BOUILLARD, Fede o paradosso?, Fossano, 1973, 7 ss.; Verso una critica della ragione teologica: tre saggi di W. Pannenberg, «Humanitas», 31, 1976, 822 ss. (= «Studia Patavina», 24, 1977, 130 ss.); La teologia e la sua archeologia: un saggio di A. Vergote, in Teologia, filosofia, scienze umane, Brescia, 1976, 98 ss.; Hans Urs von Balthasar, 464 ss.; Testimonianza, in Testimonia oecumenica in honorem O. Cullmann octogenarii in lucem edidit K. FROEHLICH, Tübingen, 1982, 136 s. 217. Durante la correzione delle seconde bozze (marzo 1983) siamo venuti a conoscenza di tre importanti contributi che meritano di essere segnalati a più di un titolo: il primo dovuto ad Italo MANCINI rileva il rapporto fra fede e dialettica nel pensiero di Karl Barth, offrendo importanti osservazioni sulla struttura della riflessione barthiana (in Dialettica e religione. Atti del Convegno di Filosofia della religione: 21-23 ottobre 1976, a cura di A. BABOLIN, Perugia, 1980, vol. 1, pp. 260 ss.); il secondo dovuto a W. LIENEMANN rielva la correlazione fra confessare, ascoltare e lottare nel pensiero di Barth, insistendo sull’aspetto confessante della teologia barthiana «Evangelische Theologie», 40, 1980, 537-558); il terzo dovuto a M. HONECKER, partendo dal problema della fondazione dell’etica nel pensiero barthiano, ripropone le critiche tipiche di neortodossia e di positivismo della rivelazione, pur in prospettiva parzialmente rinnovata (Das Problem des theologischen Konstruktivismus, «Zeitschrift für evangelische Ethik», 24, 1980, 97 ss.). Segnaliamo parimenti un articolo recentissimo, ugualmente utile per l’interpretazione generale di Barth: P. VIVARÈS, La validité de la prédication dans la Dogmatique de Karl Barth, «Recfierches de Science Religieuse» 71, 1983, 109-120. Rileviamo infine la pubblicazione della corrispondenza di Dietrich Bonhoeffer con Barth (o con Charlotte von Kirschbaum) durante anni cruciali per il combattimento ecclesiastico contro il nazismo; la si integrerà nella bibliografia (sebbene illumini più Bonhoeffer che Barth); la si terrà ugualmente presente nella nota biografica: D. BONHOEFFER, Schweizer Korrespondenz 1941-1942, hrsg. E. BETHGE, München, 1983.

NOTA BIOGRAFICA 1886

10 maggio: Karl Barth nasce a Basilea da Johann Friedrich (Fritz) e Anna Katharina Sartorius, in una famiglia con ascendenze pastorali ed accademiche (la madre è imparentata con il celebre storico Jacob Burckhardt), appartenente alla laboriosa borghesia della città svizzera; quando Karl (Karli per i genitori) nasce, il padre è stato nominato da poco docente della prestigiosa «Predigerschule» fondata da W. Arnold, istituzione chiaramente opposta alla cosiddetta «teologia liberale»; questo ambiente illuminatamente conservatore avrà un notevole influsso positivo sull’esistenza di Barth, che si sentirà sempre, malgrado talune polemiche contro le angustie di certi circoli, un tipico basilese, dotato di humor e saggezza.

1889

Trasferimento a Berna, dove il padre è stato nominato professore di storia della chiesa e di esegesi neotestamentaria nella locale università; Barth cresce in mezzo ad una nidiata di fratelli (due di essi destinati a notorietà: Peter come editore delle opere di Calvino ed Heinrich come filosofo e professore all’università di Basilea), rivelando un temperamento vivace ed un carattere forte e tenace; educazione scolastica dalle elementari alla maturità nel «Libero Ginnasio» («Lerberschule» dal nome del fondatore), istituzione chiaramente «biblico-positiva», decisamente opposta ai princìpi del libero pensiero, non tuttavia chiusa ed angusta, grazie anche proprio ai’insegnamento di Fritz Barth. Karl rivela un grande amore per la musica ed in particolare impara ad apprezzare Mozart. Si mostra grande divoratore di libri (specie storici). Soprattutto negli anni del ginnasio Karl estrinseca una natura socievole e gaia. Nel 1901-1902 frequenta l’istruzione per la confermazione che riceve il 23 marzo 1902. La sera stessa decide di diventare teologo e pastore.

1904

Inizio degli studi teologici a Berna. Segue i corsi di R. Steck, K. Marti e H. Luedemann (rappresentanti della radicale critica tubinghese), ma è attratto soprattutto dai corsi del padre, nei cui confronti tuttavia continua il dissidio scientifico, manifestatosi già negli ultimi anni del ginnasio. Karl si sente infatti attratto dalla «teologia liberale»; la sua convinzione essenziale è l’accordo della

religione e della vita; per lui il Cristo è la guida della nostra esistenza. In questi anni bernesi che rivelano tratti caratteristici del temperamento barthiano (poco incline alla ricerca pura; la parola di Dio è vista come azione e come avvenimento; preoccupazione per l’impatto sociale del messaggio cristiano) determinante si rivela la lettura della Critica della Ragion Pratica di O. KANT: l’etica sembra al giovane Barth una base sicura ed un metodo efficace per sfuggire al metodo storico tinteggiato di razionalismo; per di più Kant salva, a modo suo, l’autonomia della religione e della morale ed incentra l’attenzione sulla coscienza della persona; e la coscienza pare a Barth il mezzo sicuro per raggiungere il trascendente. Nell’associazione studentesca universitaria (Zofingia) Barth conosce personaggi destinati ad un notevole ruolo ecclesiastico, in particolare Ed. Thurneysen. Si pongono in questi anni i primi influssi su Barth di L. Ragaz e del cosiddetto «socialismo religioso» svizzero. 1906

Studi a Berlino per secondare il padre; l’università berlinese è sufficientemente aperta alle nuove correnti, pur restando nel suo fondo di tendenza conservatrice. Barth trascura i corsi di Karl Holl, l’artefice del rinnovamento luterano (e ne avrà sempre grande rammarico), segue le lezioni di H. Gunkel (di cui apprezza il metodo storico, pur provando nei suoi confronti freddezza) e di J. Kaftan (di cui apprezza il metodo teologico cristocentrico: Cristo come rivelatore del Padre), ma soprattutto si entusiasma per A. von Harnack, di cui segue con estrema attenzione ed operosità il seminario di storia ecclesiastica. È un nuovo passo verso la «teologia liberale». Si deve ricercare in questo profondo (anche se breve) contatto con Harnack, l’origine del culto professato da Barth per lo studio delle fonti e della tradizione ecclesiastica, A Berlino legge l’Ethik di W. HERRMANN, altro libro capitale nella formazione barthiana. Intanto accanto a Kant (ripreso e riletto ormai completamente), entra nell’orizzonte del giovane Barth Schleiermacher (lo Schleiermacher dei Reden) letto nell’ottica di Herrmann e di R. Otto (curatore dell’edizione posseduta da Barth). Nuovo semestre a Berna (solo Zofingia e poco studio). Il padre, scontento dell’indirizzo scientifico di Karl, lo invia nel 1907 per un

semestre a Tubinga a seguire i corsi dell’esegeta conservatore A. Schlatter («con la più violenta renitenza»): non vi trova alcun interesse e le riserve nei confronti della «teologia positiva» non fanno che aumentare il suo amore nei riguardi della teologia liberale. Durante il soggiorno tubinghese (il cui unico frutto fu una lunga dissertazione positiva di storia dei dogmi sulla discesa di Cristo agli inferi nei primi tre secoli, come tema per l’ammissione) incontra parecchie volte Christoph Blumhardt (figlio) a Bad Boll, «senza profonde intuizioni» o svolte, per il momento. 1908

Studi a Marburgo, santuario della «teologia liberale». Segue i corsi di W. Heitmueller e A. Juelicher (in esegesi), di P. Natorp (in filosofia: «qui conobbi una filosofia d’una serietà quasi sacerdotale») e soprattutto assorbe «da tutti i pori» W. Herrmann per tre interi semestri («il maestro teologico del periodo dei miei studi»). Stringe amicizia con R. Bultmann, E. Thurneysen e Martin Rade (di cui segue anche i corsi). Collabora all’organo della «teologia liberale»: «Christliche Welt». Nonostante qualche critica di dettaglio, le pubblicazioni di questo periodo risentono profondamente l’influsso della «teologia liberale» e di Herrmann in particolare. «Quello che uno incontrava in Herrmann era la possibilità che la teologia potesse avere una propria serietà scientifica». «Benché fosse ancora circondato così tanto da Kant e Schleiermacher, per Herrmann era decisivo l’impulso cristocentrico ed è proprio questo che io ho imparato da lui». Ad Herrmann, Barth deve la particolare lettura dello Schleiermacher dei Reden e la critica di E. Troeltsch, accusato di non salvare la specificità del cristianesimo e di ridurlo ad un fenomeno di cultura, interpretabile con i metodi della psicologia e della storia. Se in seguito Barth si staccherà da Schleiermacher, pur interrogandosi sempre su questo «padre della teologia del secolo XIX» ed allargandone la lettura ben oltre gli angusti limiti dello Herrmann, resterà la critica contro Troeltsch e lo storicismo, seppure affiorino altri nomi, come quello di Paul Tillich. Nei confronti della pretesa di comprendere la fede cristiana per mezzo del metodo storico, Barth resterà sempre di un’avversione congenita. Frattanto il 4 novembre 1908 è consacrato dal padre pastore nella cattedrale di Berna.

1909

Pastore suffraganeo nella comunità di lingua tedesca di Ginevra; Barth predica nello stesso luogo e persino dallo stesso pulpito caro a Calvino e a J. Knox; la sua predicazione è strettamente liberale. Poco prima del suo arrivo a Ginevra aveva pubblicato un articolo che dà il tono della sua teologia di allora: Moderne Theologie und Reichgottesarbeit (1909); durante il ministero ginevrino, accanto ad interventi minori, pronuncia una conferenza che sarà pubblicata solo più tardi: Der christliche Glaube und die Geschichte (1912); studia attentamente Calvino, pur senza grandi frutti. Il 16 maggio 1911 si fidanza con Nelly Hoffmann. Questo periodo è segnato dalla predicazione e dai catechismi; in una certa misura la ricerca scientifica gli rimane estranea e persino problematica. Legge ancora molto Schleiermacher (soprattutto le Prediche), Herrmann e a fondo Cohen (toccando per altra via la filosofia neokantiana già assaporata a Marburgo con Natorp).

1911

Il 3 luglio arriva a Safenwil, villaggio dell’Argovia, ove rimarrà pastore fino al 1921. La comunità agricola ed operaia di Safenwil pone Barth di fronte a nuove e difficili situazioni: 247 case, 1600 abitanti circa (di cui 1500 protestanti), incremento demografico continuo, notevole povertà, condizioni difficili (la luce elettrica giunge solo nel 1913), profonda trasformazione con il passaggio dall’agricoltura all’industria (tessile). Sono questi anni duri, contrastati che conducono Barth alle prese «con i reali problemi della vita» ed inducono un profondo ripensamento teologico. Tre momenti si rivelano decisivi. Innanzitutto un doloroso avvenimento personale: la morte del padre, per setticemia, all’età di soli 55 anni, il 25 febbraio 1912: Barth inizia allora una lettura dell’opera del padre in maniera attenta, ponendo le prime interrogazioni a quella teologia liberale di cui fino allora si era nutrito. In secondo luogo un fattore locale: pastore, Barth si occuperà di teologia per alcuni anni solo più per preparare catechismi e prediche (con cura minuziosa, scrivendo sempre tutto: una predica non è mai meno di sedici pagine, zeppe di correzioni, revisioni, aggiunte, rifacimenti e la stesura spesso occupava fino a quattro giorni), dedicando il resto del suo tempo allo studio dell’economia (legge Sombart acquistato già a Marburgo nel 1908), della legislazione industriale, della

condizione operaia, organizzando anche materialmente l’azione sindacale. Diventa così il «compagno parroco», suscitando reazioni aspre nella borghesia e nel padronato; le sue posizioni sono recise, mai però settarie; si tratta di «aprire e di far aprire gli occhi». Per questa ragione, pur non aderendo appieno alle idee di Ragaz e di Kutter (i due grandi rappresentanti del socialismo religioso svizzero, oggi particolare oggetto d’indagine scientifica, dopo un periodo di oblio e di lettura polemica), Barth s’iscrive nel 1915 al partito socialdemocratico; questo gesto vuole essere una testimonianza; Barth se ne confida a lungo con E. Thurneysen e la corrispondenza fra questi due uomini è uno dei saggi più indicativi dello spirito pastorale che li animava, a contatto non platonico con la dura realtà dell’ingiustizia, della povertà e del silenzio della chiesa su queste miserevoli condizioni. La «teologia liberale» si rivela a Barth profondamente Inadeguata, soprattutto dopo che da Marburgo giungono critiche non indifferenti alle prese di posizioni barthiane sulla questione operaia. In terzo luogo la guerra, sopraggiunta nel frattempo, provoca una grave crisi: la teologia dei maestri di un tempo pare a Barth del tutto compromessa in quanto impotente non solo a dire una parola chiara sul conflitto, ma anche in un certo qual senso implicata in esso; la corrispondenza con M. Rade, recentemente pubblicata, illustra molto bene tutte le riserve di Barth; d’altra parte la socialdemocrazia cui Barth aderisce non si sottrae certo ad analoghe accuse. È in questo momento di dubbio che con Thurneysen, parroco anch’egli poco lontano in una situazione analoga per molti aspetti, Barth ripercorre la strada che da Ragaz e Kutter lo porta ai due Blumhardt, i predicatori carismatici della speranza cristiana e del Regno di Dio, lontani dal pietismo incentrato sulla religiosità individuale, lontani dalla teologia liberale incentrata sulla coscienza religiosa. Per Barth e Thurneysen è la scoperta gioiosa dell’attesa biblica del Regno, del trionfo di Cristo («Gesù è vincitore»), della forza dell’escatologia cristiana. Influenza profonda quella dei due Blumhardt che si coniuga passo a passo con la questione sociale e la rinnova dall’inierno. A partire dal 1916 i due amici decidono di rivedere a fondo la loro teologia: «pastore, io dovevo parlare a degli uomini alle prese con le contraddizioni inaudite della vita; e dovevo parlare

loro del messaggio non meno inaudito della Bibbia, di questa Scrittura che si pone come un nuovo enigma davanti alle contraddizioni della vita». I due amici cominciano con un testo che da sempre ha segnato la riflessione cristiana: la lettera ai Romani. La contornano con lo studio di altri autori (Overbeck e Nietzsche, Dostoevskij e Kierkegaard, Platone e Kant) destinati a portare frutto ulteriormente. Per ora preponderanti restano Ragaz ed i due Blumhardt; ma attraverso questi ultimi si può rilevare l’influenza della scuola esegetica di Wittemberg (J. A. Bengel, F. Ch. Oetinger, J. T. Beck). Si rilevi ancora un fatto personale: il matrimonio con Nelly Hoffmann poco dopo l’arrivo a Safenwil. Numerose anche le amicizie: Thurneysen (i due diventano intimi solo in questo periodo), Rudolf Pestalozzi e sua moglie Gerty, il teologo basilese Paul Wernle, Emil Brunner, oltre a Kutter (cui Barth è vicino per la dottrina), Ragaz (cui Barth è vicino soprattutto per la pratica) e Christoph Blumhardt (figlio). Nel periodo di Safenwil si pongono alcune importanti conferenze (Jesus Christus und die soziale Bewegung, 1911; Der Glaube an den persoenlichen Gott, 1914; Die Gerechtigkeit Gottes, 1916; Das eine Notwendige, 1916; ora riunite nella raccolta Das Wort Gottes und die Theologie, 1924), la serie di prediche riunite in Suchet Gott, so werdet ihr leben del 1917 (in collaborazione talmente stretta con Thurneysen, da essere impossibile attribuire all’uno o all’altro i vari brani) e nella Gesamtausgabe la corrispondenza con Thurneysen e la prima predicazione di Safenwil (1913 e 1914). In queste pubblicazioni, frammentarie e spesso anguste, vi sono in germe non poche idee barthiane posteriori (H. von Balthasar). 1919

Prima edizione del Roemerbrief. Quest’edizione differisce profondamente da quella che diventerà celebre tre anni dopo: non solamente la redazione è differente al punto da ritrovarsi appena qua e là qualche frase identica, ma le idee caratteristiche della «teologia della crisi» vi sono assenti. I termini di dialettica, paradosso, linea verticale, miracolo che s’incontrano non devono trarre in inganno: non riflettono ancora quel movimento di pensiero che caratterizza la differenza qualitativa fra tempo ed

eternità, il Dio tutt’altro, il futuro eterno della salvezza, la negazione critica e l’incognito della fede. Tuttavia la differenza profonda che appare fra le due edizioni non deve far misconoscere ciò che nella prima annuncia la seconda e persino l’opera ulteriore di Barth. Al centro del primo Roemerbrief vi è la realtà del Regno di Dio intesa come avvenimento che cresce e si sviluppa organicamente: è il mondo nuovo inaugurato dalla resurrezione di Cristo e facente irruzione nel mondo vecchio del peccato, destinato a scomparire. Questa nuova realtà non è la crisi di ogni storia e di ogni grandezza umana: più semplicemente essa s’inserisce organicamente e si sviluppa nella storia umana; inizia un processo di vita nuova, ma nel mondo di quaggiù. Certo, il mondo del peccato scompare, l’antico eone tramonta. Non siamo più gli stessi. Siamo nuove creature, introdotte in questo processo che si sviluppa dall’al di là all’al di qua, sulla terra. Non è la crisi che è enunciata, ma la giustizia che ci salva, pur restando noi peccatori. Non siamo più sotto il giudizio, bensì sotto la grazia; non più nel peccato, bensì nella giustizia. Il primo Roemerbrief è dunque tutto animato dalla nozione di organismo, con le connesse idee di forza, sviluppo, processo vitale, germe e crescenza; questo concetto (che è tipico dell’ascendenza liberale di Barth ed è impiegato qui per sottolineare la trascendenza del Regno e la sua potenza) serve a Barth per rilevare la nostra partecipazione (per grazia!) all’evento del Regno; non stupisce che simile concezione organica del Regno non sia radicalmente negativa nei confronti della conoscenza naturale di Dio, della morale, della religione. Tuttavia nei confronti della teologia liberale molti sono già i punti di rottura: sebbene velato d’immanenza, risplende a tratti un pensiero escatologico; la trascendenza divina diventa un’esigenza sempre più impellente da salvaguardare; il metodo teologico si precisa nell’ascolto della Parola di Dio che si rivela all’uomo per forza propria. Anche nei riguardi del socialismo religioso (di Ragaz in particolare) le prese di posizione non mancano: il Regno di Dio ha un’origine trascendente e gratuita e per questo non può essere coartato in nessun tipo di società, neppure nella società socialista. Questo primo Roemerbrief, così ancipite ma così proficuo per la conoscenza dell’opera barthiana e che attende ancora una traduzione italiana, ha un

notevole successo e segnala Barth nel mondo accademico. Presto esaurito, deve essere ripubblicato. Barth però preferisce rifarlo completamente, essendo intervenuta nel frattempo una sua maturazione teologica radicale, destinata a seppellire definitivamente la «teologia liberale». 1919

Il primo passo verso la «teologia dialettica» è segnato specialmente da due conferenze: la celebre conferenza di Tambach (Der Christ in der Gesellschaft) del 1919 e la conferenza di Aarau (Biblische Fragen, Einsichten und Ausblicke) del 1920, ma importante è pure Vergangenheit und Zukunft. Friedrich Naumann und Christoph Blumhardt del 1919, ripubblicate significativamente da J. Moltmann nella sua preziosa silloge. I tre scritti aprono a Barth una serie di prospettive nuove: la conferenza di Tambach rese Barth famoso in Germania, introducendo la lettura del primo Roemerbrief che suscitò subito violente discussioni; la conferenza di Aarau portò ad uno scontro memorabile con il grande Harnack; il saggio su Naumann e Blumhardt chiarì in maniera esemplare le nuove «fonti» del pensiero barthiano e la nuova direzione. Al di là del cantiere teologico che si prepara in questi anni, è questo il momento in cui Barth stringe nuove significative amicizie, che rendono possibile l’enorme impatto di quella che sarà la congiunzione della «teologia dialettica», ove spiriti molto diversi fra loro (e appunto per questo destinati a separarsi dopo una breve stagione) troveranno la capacità d’imprimere alla teologia dell’epoca una «rivoluzione copernicana». Nel 1920 Barth si appresta al rifacimento del Roemerbrief: il rifiuto di Schleiermacher si fa nettissimo; Overbeck, Dostoevskij, Kierkegaard e Platone (mentore il fratello Heinrich che in questo momento svolge un ruolo capitale, come giustamente riconosciuto dalla silloge esempiare del Moltmann) si fanno più vivi; il suo pensiero si fa più indipendente e non s’infeuda a nessuno, traendo da tutti idee nuove, amalgamandole in una creazione originale (H. Bouillard).

1921

Chiamata professorale di Barth a Gottinga come professore onorario di teologia riformata (cattedra appositamente costituita grazie all’apporto della chiesa presbiteriana degli Stati Uniti). Tale

chiamata giunge quando Barth ha appena finito la seconda redazione del Roemerbrief; il commiato da Safenwil non è del tutto pacifico («ogni carne è come l’erba ed ogni magnificenza della carne è come il fiore dell’erba; l’erba inaridisce ed il fiore appassisce — è vero!, però — e ciò è ancora più vero!, la parola del Signore rimane in eterno»); ad ogni modo tale chiamata conclude un capitolo di vita e ne inizia uno nuovo. «Ci fu dato improvvisamente spazio perché dicessimo in teologia come la pensavamo e facessimo vedere nella chiesa che cosa propriamente volevamo e potevamo; in realtà eravamo tutt’altro che pronti; non avevamo cioè assunto delle posizioni che ora sarebbe stato sufficiente approfondire e assumere come base per le nostre costruzioni. Eravamo soltanto entrati in un cammino che ora, ognuno al suo posto, trovavamo abbastanza difficile proseguire. In particolare tutto doveva essere prima scoperto, chiarito e soprattutto accertato. Da vicino, molte cose ci apparivano totalmente diverse da come ci erano apparse a prima vista». «Ora ero felicemente deciso — Ragaz e Kutter non mi furono di nessun aiuto in questa decisione — a prendere furiosamente sul serio, secondo il mio modo ed il mio stile, sia la ricerca che l’insegnamento; naturalmente per tradurre in pratica questa decisione ero equipaggiato in maniera abbastanza sommaria». «I termini piuttosto vaghi del mio incarico fecero sì che io, un poco alla volta, potessi assimilare, per lo meno il materiale più indispensàbile che io, non prevedendo questo futuro, avevo trascurato in passato» Nel 1922 Barth è nominato dottore honoris causa della Facoltà di Teologia Evangelica dell’Università di Muenster, accedendo così al grado accademico fino allora non perseguito, «a motivo dei suoi molteplici contributi alla revisione della problematica religiosa e teologica». 1922

Esce il secondo Roemerbrief; nello stesso anno è fondata la rivista «Zwischen den Zeiten» (titolo di un omonimo articolo di Gogarten del 1920) che fino al 1933 sarà l’organo del movimento detto «teologia della crisi» o «teologia dialettica»; fra i collaboratori oltre a Barth si annoverano coloro che per un decennio saranno i corifei del movimento: Emil Brunner, Friedrich Gogarten, Eduard Thurneysen, Georg Merz (il redattore) e per un brevissimo tempo

Rudolf Bultmann. Il secondo Roemerbrief è un’appassionata rivendicazione della sovranità divina e della libertà della grazia. In Cristo Gesù, stabilito con potenza Figlio di Dio ed espressione della fedeltà indefettibile di Dio per gli uomini, luogo della riconciliazione e della rivelazione del Dio sconosciuto, uomo nuovo nella potenza della sua risurrezione, si attua la rivelazione della giustizia attiva di Dio che annuncia e compie la venuta del mondo nuovo, al limite della storia umana. La rivelazione della giustizia salvifica di Dio manifesta la condizione miserevole e senza possibilità di uscita in cui si trova l’uomo, immerso nella notte dell’ignoranza e del peccato, schiavo della Legge e delle proprie figure religiose con cui crede di avvicinarsi al Dio vivente. Tale rivelazione suona giudizio e crisi senza speranza su questa situazione di morte, come su ogni attività umana, segno della superbia dell’uomo, del suo desiderio di diventare Dio e di ottenere salvezza attraverso le opere; crisi non solo della Legge, ma anche della morale e della religione, che peraltro non devono essere considerate come grandezze del tutto negative. Ma la rivelazione della giustizia di Dio manifesta anche l’assoluta potenza del Signore: la sua alterità certo, nonostante il suo annichilimento in Gesù Cristo; ma anche la sua paternità e la sua buona disposizione nei confronti dell’uomo che vuole giustificato. È il dono della grazia che ci raggiunge in Gesù Cristo, come la tangente tocca il cerchio. Noi diventiamo così uomini nuovi: lo diventiamo sì, realmente, continuamente, ma sempre solo in modo incipiente; abbiamo il dono della fede e dello Spirito, questa vita di Cristo Signore che agisce in noi; siamo uomini nuovi che attendono il nuovo eone. Ma lo attendono ancora: non solo nella distretta della religione e dell’etica, ma anche nella crisi della chiesa, in questa solidarietà del peccato in cui Dio si rivela come il Dio di Giacobbe ed il Dio di Esaù, nel mistero della sua predestinazione che non ci è dato di penetrare. Il secondo Roemerbrief è tutto traversato dalla concezione di un’escatologia atemporale ed attualizzata (e vi si sente palpitare più che altrove Overbeck ed i Blumhardt: «Blumhardt: un Overbeck pieno di speranza; Overbeck: un Blumhardt critico»; «il sì del primo è il rovescio del no del secondo»: H. Bouillard), dall’infinita differenza qualitativa fra

tempo ed eternità, fra Dio e uomo, fra nuovo mondo ed antico eone, dalla critica a Schleiermacher e ad ogni tentativo di lettura «culturale» e «storica» del cristianesimo. La verità risiede nell’oggettività dell’evento di rivelazione, non nella religiosità del cuore umano. Il secondo Roemerbrief fu un avvenimento catalizzatore: «senza che me ne rendessi conto, mi era stato concesso di compiere un passo che molti avevano atteso ed erano anche disposti a compiere». Il mondo teologico si spaccò nettamente in due, preparato come era da molteplici avvenimenti (e fra questi rammentiamo: la rinascita della filosofia della religione con R. Otto ed il suo Das Heilige del 1917 e con M. Scheler ed il suo Vom Ewigen im Menschen del 1921; la Kierkegaard-Renaissance; la riscoperta dell’escatologia neotestamentaria grazie a J. Weiss e A. Schweitzer) al rifiuto della teologia liberale. Potè nascere così la «teologia dialettica»: non ci si riferisce naturalmente con questi termini alla situazione dell’uomo nel mondo (come da troppe parti, tinteggiandola di venature esistenzialiste, si è preteso), bensì alla situazione dell’uomo davanti a Dio, che è situazione di crisi, cioè di giudizio in cui l’uomo è assolto e condannato, giustificato e peccatore, simul peccator et iustus. Questo movimento voleva parlare finalmente in modo corretto di Dio, anche a costo di rovinare il bell’edificio della teologia; «in preda al male incurabile dell’Assoluto», questi uomini avevano veramente l’impressione di vivere «fra i tempi», fra due momenti storici; negli anni 1920-1925, prima che sorgano divergenze a mano a mano sempre maggiori, questo gruppo tocca, rivanga, rinnova con sconvolgenti antitesi i temi principali della ricerca teologica. Fin dall’inizio però un contrasto di fondo oppone Barth a Gogarten, Bultmann e Tillich proprio sul punto di partenza della metodologia teologica. Negli anni goettinghesi (fino al 1925) occorre notare per Barth le seguenti direzioni di ricerca. In primo luogo vi è un approfondimento delle scoperte del Roemerbrief: alcune importanti conferenze divenute articoli (Grundfragen der christlichen Sozialethik, 1922; Das Wort Gottes als Aufgabe der Theologie, 1922; Not und Verheissung der christlichen Verkuedigung, 1922; Das Problem der Ethik in der Gegenwart 1923; Von der Paradoxie des positive Paradoxes, 1923;

Menschenwort und Gotteswort in der christlichen Predigt, 1925); la raccolta Das Wort Gottes, 1924; la corrispondenza con Harnack nel 1923 (essenziale per la metodologia); la predicazione con Thurneysen (Komm, Schoepfer Geist!, 1924). In secondo luogo, prendendo estremamente sul serio il suo lavoro accademico, Barth inizia una proficua esplorazione della tradizione protestante. A Gottinga sono soprattutto il Catechismo di Heidelberg e la disputa protestante sulla Cena ad interessarlo; ma qui ha inizio il lungo studio della tradizione dell’ortodossia protestante sia luterana che riformata con l’aiuto illuminante del suo collega e di H. Heppe (per quest’ultimo, nel 1935, Barth scriverà un’importante prefazione); qui pure s’interessa ad un «avversario» molto perspicace, E. Hirsch, un’autorità nel campo della storia della teologia protestante e suo collega d’insegnamento, allargando le sue conoscenze anche alla tradizione cattolica medioevale (in particolare a Tommaso d’Aquino su cui segue un corso illuminante del suo collega E. Peterson). Fra le pubblicazioni di questo periodo troviamo saggi su Lutero (1923), Schleiermacher (1924, 1925), Herrmann (1925). In terzo luogo, anche per rispondere alla specificità della cattedra di cui è titolare Barth approfondisce la sua tradizione riformata: ne nascono alcuni saggi (Reformierte Lehre, ìhr Wesen und ihre Aufgabe, 1923; Das Schriftprinzip der reformierten Kirche, 1925; Moeglichkeit und Wuenschbarkeit eines allgemeìnen reformieten Glaubenbekenntnisses, 1925). Un’opera del 1924 (Die Auferstehung der Toten) segna però alcuni punti di differenziazione dal secondo Roemerbrief e dalla sua escatologia, mostrando come per Barth si debba sempre procedere a continue revisioni autocritiche delle posizioni raggiunte. Gottinga segna anche l’inizio di un corso sistematico di teologia dommatica (1924) ed il proseguimento della esegesi teologica (la Lettera agli Efesini: non pubblicata). La facoltà di Gottinga (con le eccezioni di Peterson e Hirsch) non era tuttavia stimolante per Barth; anzi i contrasti non facevano che aumentare di giorno in giorno; fu così che il nostro si rese disponibile per altre chiamate. Nel 1925, dopo aver rifiutato di ritornare al ministero pastorale quale successore di Kutter a Zurigo, accettò la chiamata a Muenster, «nel nido dei preti e degli anabattisti». Negli anni

goettinghesi è da notare ancora la conoscenza di Charlotte von Kirschbaum, che negli anni successivi diventerà il più valido aiuto di Barth nel lavoro teologico e l’indispensabile collaboratrice senza cui la Kirchliche Dogmatik non avrebbe potuto avere lo sviluppo che ha avuto. 1925

Professorato a Muenster. Barth rende sistematico quanto a Gottinga aveva professato sporadicamente: un nutrito corso di esegesi teologica (il Vangelo di Giovanni restituitoci nella Gesamtausgabe: la Lettera ai Filippesi nella forma edita nel 1927; Colossesi, Galati e Giacomo non pubblicati); corsi e seminari di storia dei dogmi (l’lnstitutio di Calvino; il Cur Deus homo? di Anselmo che già gli fa enorme impressione; la storia della teologia protestante a partire da Schleiermacher che diventerà poi, ripresa ed ampliata, il volume del 1947); l’esposizione sistematica della dommatica, che doveva avere come frutti l’abbozzo del 1927 ed il corso di Ethik restituitoci nella Gesamtausgabe (ed in cui Barth discute attentamente Tommaso d’Aquino). Il periodo di Muenster è fra i più fecondi nella formazione barthiana, grazie anche all’ambiente cordiale della facoltà evangelica ed agli scambi con la locale facoltà cattolica («nella chiesa romana, pur tra errori di fondo, la sostanza è in qualche modo conservata meglio che da noi, per cui i colloqui, in certo modo, diventano più classici di quanto tra noi non sia possibile ed abituale»). In un certo senso è anzi proprio l’incontro con la teologia cattolica (ed in particolare con Erich Przywara) a stimolare Barth nel suo deciso rifiuto della teologia naturale e, con la discussione sulla dottrina àdell’analogia entis (tema su cui Przywara stava per pubblicare uno scritto memorabile, anche se in seguito ampiamente discusso) ad una fondazione nuova e rigorosa della metodologia teologica. Charlotte von Kirschbaum diventa collaboratrice pressoché continua dal 1927. Da segnalare anche due viaggi in Olanda (dove il pensiero di Barth ha un notevole sviluppo). Fra le conferenze di questo periodo ricordiamo: Kirche und Theologie del 1926; Die Kirche und die Kultur del 1926; Das Halten des Gebote del 1927; Rechfertigung und Heiligung del 1927; Der Begriff der Kirche del 1927; Der roemische Katholizismus als

Frage an die protestantische Kirche del 1928; Die Lehre den Sakramenten del 1929. Fra i volumetti: Erklaerung des Philipperbriefes del 1927 (opera cerniera per molti aspetti che con la sua concezione del tempo della salvezza preannuncia le posizioni della Kirchliche Dogmatik); Vom christlichen Leben del 1926; Zur Lehre vom Heiligen Geist del 1930 (in collaborazione con il fratello Heinrich). Da segnalare anche la raccolta Die Theologie und die Kirche del 1928. Durante gli anni di Muenster il gruppo della «teologia dialettica» non è solo scosso da contrasti dottrinali via via crescenti; subisce pure il contraccolpo della situazione politica; le opposizioni fra Barth e Gogarten diventano sempre più irriducibili. «Ho seguito gli sforzi delle poche pensose persone, dei piccoli circoli animati da buona volontà che prendevano sul serio la Repubblica di Weimar e la sua costituzione e volevano edificare una democrazia sociale tedesca e assicurare al paese, in modo leale, un posto adeguato nel concerto dei popoli vicini ancora diffidenti nei suoi confronti. Ma ho anche visto ed udito i cosiddetti nazionaltedeschi, rimasti nei miei ricordi come le più infelici di tutte le creature di Dio ch’io abbia incontrato, che non avevano imparato e dimenticato niente, ma siluravano proprio ogni tentativo di raggiungere il meglio possibile su quella base e con i loro discorsi incendiari arrecavano il più grande contributo al riempimento dei vasi d’ira che, poi, per due decenni, si sarebbero riversati sulla nazione tedesca». Più tardi Barth penserà «spesso che io avrei dovuto mettere in guardia i tedeschi in maniera del tutto diversa dalle vie disastrose che, inarrestabilmente, essi avevano cominciato a percorrere proprio negli anni fra il 1920 e il 1930». «A quel tempo mi sono gravemente sbagliato a non considerare un pericolo il nazionalsocialismo, che già allora iniziava la sua ascesa e che, fin dal principio, mi era apparso un’assurdità sia nelle sue idee e nei suoi metodi che nei suoi esponenti». Barth è critico anche nei confronti della chiesa tedesca: la chiesa sazia e pomposa «parlava al vento con tutti i suoi Gesù Cristo, senza toccare la reale miseria dell’uomo reale, alla stessa maniera che essa non era stata toccata dalla parola di Dio». Barth segue anche con preoccupazione sempre maggiore non solo la via teologica e politica espressasi nel

luteranesimo di Gogarten, ma pure l’elaborarsi della teologia di Bultmann (in specie la fondazione ontologica-esistenziale della possibilità della fede e della risposta umana vista come un indebito infeudamento della teologia nella filosofia) e di Brunner (che nel 1929 ripropone la theologia naturalis nella forma di una teologia eristica, avente come compito la ricerca di un punto di contatto fra il trascendente e l’immanente, la grazia e la natura). Quando Barth lascia Muenster, confortato dall’amicizia di pochi (fra cui sempre Thurneysen), ormai celebre (una piccola biblioteca su di lui si sta formando), ha la sensazione che con il decennio che ormai si lasciava alle spalle fosse conclusa un’intera epoca: «Io ho visto e vissuto gli anni venti come un periodo fra i tempi. All’incirca nel segno delle oscure parole di Is. 21, 12: Sentinella, che ora è della notte? La sentinella risponde: Viene il mattino e quindi la notte; se volete domandare, domandate, ravvedetevi, venite». 1927

Pubblica Die Lehre vom Worte Gottes. Prolegomena zur Christlichen Dogmatik. Con quest’opera Barth si oppone alla teologia ufficiale, secondo cui oggetto della dommatica doveva essere la religione cristiana, la coscienza religiosa cristiana, la fede cristiana (e particolarmente la fede cristiana così come si manifesta nel tempo presente); il contenuto di tale fede non è oggetto della dommatica se non nella misura in cui ne è espressione propria; invece di «dommatica» si dice volentieri, seguendo Schleiermacher, «dottrina della fede». Barth intende ribaltare la concezione schleiermachiana cui rimprovera di trasformare la teologia in an tropologia, opponendole la convinzione di Lutero: Verbum Dei condat articulos fidei et praetera nemo, ne angelus quidem. L’oggetto della dommatica non è quindi la «fede cristiana», ma la «Parola di Dio». Infatti la Parola di Dio non si fonda, né è circoscritta dalla fede cristiana, bensì è la fede cristiana a fondarsi nella Parola di Dio; non si tratta naturalmente di distruggere o d’infirmare una relazione; però la fede non può essere compresa rettamente che come risposta alla parola di Dio e come effetto di tale Parola. Deus dixit: è il senso e la possibilità di una dommatica cristiana. Su questo fondamento l’opera si snoda esaminando

dapprima la parola rivelata (il Deus dixit che ci incontra nel mistero trinitario, inteso nel suo carattere dinamico, come atto), poi la parola scritta (la testimonianza della Scrittura), infine la parola predicata (con le sue relazioni con la parola scritta). Conclude esaminando le caratteristiche fondamentali della dommatica: biblica, confessionale, ecclesiastica. Con questo volume, cui in seguito Barth rivolgerà numerose critiche, fino a rifarlo completamente, siamo in presenza di una prima fondazione metodologica di rara perspicacia e forza. Esso non deve essere disgiunto dai contemporanei saggi su Schleiermacher (1927, 1928) e Feuerbach (1927) sullo sfondo dell’elaborazione della storia della teologia protestante. 1929

Pubblica Schichksal und Idee in der Theologie, importante articolo programma (non ancora completo). Vi si caratterizza la teologia come scienza di Dio che deve esprimersi in linguaggio umano; si notano i necessari rapporti fra filosofia e teologia; si indicano i limiti assolutamente imprescindibili per una teologia che voglia rimanere fedele a se stessa. Il criterio di un’autentica teologia della Parola di Dio è innanzitutto la realtà della libera elezione divina: è impossibile autodeterminarsi nei confronti di Dio, non vi può che essere chiamata; non sono io che ho cercato Dio, ma è Dio che cerca me e che ha trovato un cammino verso di me. Ed in secondo luogo, per fedeltà a questa scoperta, la dommatica dovrà porre il dogma della predestinazione al centro di tutti i suoi sviluppi. Non però in maniera astratta, poiché la vera teologia porta il nome di Gesù Cristo e comincia là dove inizia l’incarnazione. «La teologia è incontestabilmente teologia della Parola, dell’elezione, della fede, là dove essa è giustamente, tutta intera, cristologia».

1930

Professore a Bonn, successore di Otto Ritschl. Sono gli anni più importanti per Barth, spezzati in due dall’avvento di Adolf Hitler al potere (30 gennaio 1933). Innanzitutto da un punto di vista accademico: Barth continua l’esplorazione sistematica della tradizione protestante, precisa definitivamente il suo metodo teologico, inizia la monumentale Kirchliche Dogmatik, diventa punto di attrazione di innumerevoli studenti di modo che Bonn conosce una fioritura insuperata. In secondo luogo da un punto di

vista scientifico: si situano qui tre opere molto importanti della bibliografia barthiana: Fides quaerens intellectum. Anselms Beweis der Existenz Gottes del 1931 (segna l’acquisizione metodologica definitiva, al cui centro si pone l’oggettività di Dio e l’attualismo della sua rivelazione: Dio come soggetto e Dio come evento che sempre interpella); il primo volume della Kirchliche Dogmatik (1932) dai contorni ancora un po’ imprecisi; il Nein! Antwort an E. Brunner (1934), focosa (e persino ingiusta) presa di posizione contro ogni forma di teologia eristica. Accanto ad esse ricordiamo almeno i seguenti contributi: Die Theologie und der heutige Mensch del 1930 (sviluppa temi di Schichksal und Idee); Der Fall Dehn und die dialektische Theologie del 1932 (riferentesi all’indegna gazzarra degli studenti di Halle contro G. Dehn, rappresentante della teologia dialettica: Barth vi nota acutamente le implicanze politiche; e difende appassionatamente il metodo che aveva guidato l’ideale della teologia dialettica); Die Theologie und die Mission in der Gegenwart del 1932; Vorwort zur englischen Aufsgabe des Roemerbriefes del 1932 (importante sguardo sul passato nello stesso anno in cui inizia la Kirchliche Dogmatik) Das erste Gebot als, theologisches Axiom del 1933; Die Kirche Jesu Christ del 1933; Gottes Wille und unsere Wuensche del 1933; Offenbarung. Kirche, Theologie del 1934; Der Christ als Zeugne del 1934; Credo del 1935. In terzo luogo occorre registrare nel 1933 la fine della rivista «Zwischen den Zeiten» e con essa il dissolvimento del gruppo della «teologia dialettica»: ormai i contrasti dottrinali avevano raggiunto punte inquietanti; il gruppo appariva inoltre rotto anche da un punto di vista politico, soprattutto da parte di Gogarten e della sua infelice adesione alle idee nazionaliste e persino, seppure per un periodo molto breve, ai cristiano-tedeschi. L’ Abschied del 1933 conclude l’esistenza della rivista dopo undici anni di vita intensa e certo molto feconda. In quarto luogo bisogna rilevare l’apporto di Barth alla lotta contro il nazismo, lotta condotta dalla cattedra di teologia e con intento chiaramente teologico, siglata dalla fondazione della rivista «Theologische Existenz Heute» (che esce a fascicoli generalmente monografici). Tale combattimento si muove

in varie direzioni. Innanzitutto con alcuni scritti, veri squilli di tromba contro i «cristiano-tedeschi» che nelle elezioni ecclesiastiche del luglio 1933 avevano raccolto più del 75 % di suffragi (Theologische Existenz heute! del 1933; Fuer die Freiheit des Evangeliums del 1933; Reformation als Entscheidung del 1933; Kirche gestern, heute morgen del 1934). In secondo luogo suscitando una ampia campagna di opposizione «teologica» all’«eresia» del nazionalsocialismo, non disdegnando incontri, conferenze, sollecitazioni, pressioni, facendosi tutto per tutti, pur di salvare «la libertà dell’evangelo» e di portare «libertà per i prigionieri)). In terzo luogo suscitando e fondando la «chiesa confessante». La partecipazione di Barth è essenziale per la vera e propria fondazione a Barmen (primo sinodo della chiesa confessante: 29-31 maggio 1934); è già in secondo piano a BerlinoDahlem (19-20 ottobre 1934); decresce progressivamente fino alle opposizioni del novembre 1934, allorché la «chiesa confessante» imbocca ufficialmente una strada che avrebbe segnato la sua definitiva scomparsa, se clandestinamente non fosse risorta, chiamata a nuovi sviluppi. Ma allora Barth sarà già all’estero, ritornato nella sua Basilea. Nel dicembre 1934 un tribunale di Colonia confermava il licenziamento comminato a Barth in seguito al suo rifiuto di prestare giuramento (richiestogli il 7 novembre nella forma prescritta dal Fuehrer che il 9 agosto aveva unificato le due cariche di cancelliere e di presidente, assumendole) il 26 novembre; il 14 marzo 1935 Barth interpone appello; il 22 giugno Barth è dimesso d’autorità. La Facoltà di Bonn è smembrata. Il 24 giugno 1935 Barth accetta la chiamata dell’Università di Basilea. Da segnalare ancora in questi anni un proficuo nuovo viaggio in Olanda (è da questa serie di conferenze che nasce Credo nel 1935) ed un buon viaggio in Italia (a Roma scrive parte del Nein!). 1935

Professore a Basilea. Il decennio che si apre vede Barth impegnato in molteplici direzioni. Si possono notare tre momenti. Il primo periodo si chiude con lo scoppio della seconda guerra mondiale (i° settembre 1939). Esso comprende tutta una serie di viaggi e conferenze, un’indefessa attività accademica e pubblicistica, nuove

amicizie (In particolare con il professore cecoslovacco J. L. Hromadka che da allora diventerà un suo interlocutore privilegiato sui temi politici), un costante sostegno offerto alla rinata chiesa confessante tedesca. Segnaliamo che l’ambiente accademico di Basilea è fra i più proficui per Barth ed alcuni suoi colleghi (in particolare K. L. Schmidt, E. Thurneysen, O. Cullmann, W. Vischer) gli saranno sempre particolarmente cari e vicini«Fra le opere: innanzitutto Kirchliche Dogmatik 1/2 nel 1938. Quindi: Das Evangelium in der Gegenwart del 1935; Die Kirche und die Kirchen del 1935 (conferenze ginevrine preziose per l’apporto ecumenico e soprattutto per come Barth concepisce la grandezza e la distretta dell’ecumenismo dottrinale); Das Bekenntnis der Reformation und unser Bekennen del 1935 (uno scontro con i parroci svizzeri, rivelatore del nuovo ambiente ecclesiastico di lavoro); Evangelium und Gesetz del 1935 (l’addio alla chiesa confessante tedesca, che fece discutere molto negli anni seguenti e che Barth non poté pronunciare di persona a Barmen per divieto delle autorità tedesche); Samuel Werenfels del 1936 (lezione inaugurale all’Università di Basilea); Volkskirche, Freikirche, Bekenntniskirche del 1936; Die Grundformen der theologischen Denkens del 1936; Gottes Gnadenwahl del 1936 (ripensamento radicale della tradizionale dottrina della predestinazione, sulla spinta di alcune importanti riflessioni di P. Maury al Congresso Internazionale di Teologia Calvinista a Ginevra); Rechtfertigung und Recht del 1938; Gottes erkenntnis und Gottesdienst del 1938 (Gifford Lectures 19371938; appassionato e penetrante studio della Confessio Scotica); Evangelium und Bildung del 1938; Einfuehrung in den Heidelberger Katechismus del 1938; Die Kirche und die politische Frage von heute del 1939; Die Souveraenitaet des Wortes Gottes del 1939; David Friedrich Strauss als Theologe del 1939; oltre ad una nutrita e periodica serie di informazioni sui Kirchenkampf tedesco nello «Zwinglikalender». Ricordiamo che a Basilea Barth inaugura la forma d’insegnamento che diventerà caratteristica: corso magistrale; seminario; società (sedute aperte supplementari); serate libere a casa propria (o in appositi luoghi) come un tempo M. Rade

e come contemporaneamente a Marburgo R. Bultmann. 1939

Il secondo momento nel primo decennio di Basilea coincide con la seconda guerra mondiale: i viaggi si rarefanno come ben naturale, ma non l’influsso di Barth sia da un punto di vista teoretico che politico. Fedele a se stesso ed alle indicazioni date a Bonn, per Barth i due aspetti sono connessi. Barth sa di dover gettare le fondamenta di una ricostruzione dopo la tempesta e tale ricostruzione egli intende portarla avanti con la Kirchliche Dogmatik. Durante la guerra esce il volume II: II/I nel 1940 e II/2 nel 1942. La dottrina dell’elezione compresa nel II/2 è l’unico brano della Kirchliche Dogmatik ad essere stato riscritto completamente; alcune copie di questo voluminoso tomo raggiunsero clandestinamente la Germania (dove Barth era rigorosamente interdetto), non rilegate, dimesse e con l’innocuo e generale titolo: Studi su Calvino. Accanto alla dommatica si pongono altri contributi: Explication du catechisme de Calvin nel 1940 (stenogrammi di J. L. Leuba riconosciuti dall’A.); La Confession de foi de l’Eglise nel 1943 (a cura di J. L. Leuba); Die kirchliche Lehre von der Taufe del 1943 (importantissima per le ripercussioni ecclesiastiche; e tutta un’impressionante serie di predicazioni, dal contenuto teologico e politico. Barth è infatti in questi anni la voce ed il catalizzatore della resistenza al nazismo, lo stimolatore della chiesa confessante, il sostegno di quanti combattono e soffrono. In questi anni, si è potuto dire che «Barth è diventato la coscienza del mondo» (G. Casalis). Con il titolo: una voce svizzera Barth interviene per scritto e radiofonicamente: lettere alle chiese di Francia nella tormenta nazista (1939 e 1940), lettere alle chiese d’Inghilterra (1941), lettere alle chiese di Norvegia, Olanda e Stati Uniti (1942) e tutta una serie di altre pubblicazioni riunite in seguito nella raccolta Eine Sehweizer Stimme 1939-19459 edita nel 1945. In questi anni Barth si occupò anche parecchio delle sorti della Svizzera, da lui giudicata pernio per la futura ricostruzione europea; fu aiutato in questa sua idea da un nuovo amico, il cattolico Hans Urs von Balthasar, giunto a Basilea nel 1940 e che d’ora innanzi segnerà per Barth un importante punto di riferimento. Nel 1940 muore il fratello Peter

(vivissima emozione); nel 1941 muore ventenne il figlio Matthias (questa morte «mi ha colpito più profondamente di ogni altra», specialmente perché «il figlio, nonostante i suoi vent’anni non aveva ancora le penne per volare, ma andava ancora incontro alla vita reale con un passo pieno di sogni. Noi tutti però sentivamo che la sua vita, nella quale aveva sempre percorso vie proprie, era così completa che non potevamo osare lamentarci»); nel 1943-1944 svolge un’intensa attività seminariale con i parroci dei vari cantoni svizzeri. 1944

Finita la guerra Barth si pone subito come avvocato dei tedeschi vinti: «se oggi c’è un popolo che sta chiaramente davanti a Gesù Cristo come al cospetto di colui che è venuto per salvare i peccatori e non i giusti, questo, accanto al popolo ebraico ed in notevole analogia con esso, è il popolo tedesco». E più polemicamente, ma non meno efficacemente: «Venite a me voi, spregevoli creature, voi cattivi ragazzi e ragazze di Hitler, voi brutali soldati delle SS, voi orrendi farabutti della Gestapo, voi tristi collaborazionisti, gente disposta a tutti i compromessi, voi gregari tutti che così a lungo avete seguito, pazienti e stupidi il vostro condottiero. Venite a me, voi colpevoli e conniventi, che ora potete e dovete vedere di che cosa sono realmente degne le vostre gesta! Venite a me, io vi conosco bene, ma non vi chiedo chi siate e che cosa avete fatto, io vedo soltanto che siete alla fine e, bene o male, dovete incominciare di nuovo. Io vi voglio ristorare, proprio con voi io voglio partire daccapo dal punto zero. Se questi, gli svizzeri gonfi delle loro idee democratiche, sociali e cristiane, che hanno sempre tenuto alte, non sono interessati a voi, ebbene, io lo sono. Io sono per voi! Io sono vostro amico!» (si noterà la parafrasi di un testo evangelico: Mt. XI, 28). Questi due anni vedono la pubblicazione di Kirchliche Dogmatik III/I (1945); di Eine Schweizer Stimme (1945); e di due opuscoletti fondamentali: Die Deutschen und wir (1945) e Wie koennen die Deutschen gesund werden? (1945) che fu anche il primo scritto di Barth tradotto in italiano a cura di G. Miegge (1948). Ma vedono Barth impegnato soprattutto nel tessere una vasta rete d’incontri e di contatti: bisognava che gli uomini imparassero nuovamente a conoscersi; bisognava che i tedeschi si

assumessero coraggiosamente ed umilmente la responsabilità dei nefandi fatti del 1933, rileggendoli non come incidente di percorso, ma come vera e propria colpa da espiare; bisognava che l’Europa si aprisse di nuovo alla Germania in maniera partecipe e critica. Di passaggio occorre rilevare anche l’aspetto fondamentale di tutto questo lavoro per l’ecumenismo che troverà infatti, dopo il conflitto, una fioritura dottrinale per molti aspetti inattesa. 1946

Si apre il nuovo decennio basilese di Barth. Oltre che dalla prosecuzione della Kirchliche Dogmatik a ritmo notevole (III/2 nel 1948; III/3 nel 1950; III/4 nel 1951; IV/i nel 1953; IV/2 nel 1955) vedono la luce opere molto importanti: Christengemeinde und Buergergemeinde del 1946; Die Protestantische Theologie im 19. Jahrhundert del 1947 (ripresa dei corsi di Muenster e di Bonn curata dal figlio Christoph); Dogmatik im Grundriss del 1947 (fortunata opera, però a nostro avviso poco significativa per la conoscenza del pensiero barthiano nella sua ampiezza); Die Schrift und die Kirche del 1947; Das christliche Verstaendnis der Offenbarung del 1948; Die christliche Lehre nach dem Heidelberger Katechismus del 1948; Humanismus del 1949; Rudolf Bultmann del 1952 (nel bel mezzo della crisi che coinvolge Bultmann, Barth non sottoscrive a condanne autoritarie); Christus und Adam del 1952. Segnaliamo i seguenti avvenimenti: due semestri d’insegnamento a Bonn nel 1946-1947 come contributo alla ricostruzione della Germania (di cui escono la Dogmatik im Grundriss e lo studio sul Catechismo di Heidelberg); la partecipazione alla Conferenza Ecumenica di Amsterdam nel 1948 (con un ruolo fondatore di primissimo piano: Gespraeche nach Amsterdam e Amsterdamer Fragen und Antworten, dialogo fra Barth, R. Niebuhr e J. Daniélou); la preparazione della Conferenza Ecumenica di Evanston nel 1951; le varie prese di posizioni politiche positivamente critiche (ma non troppo, né sistematicamente) nei confronti dei regimi dell’Est e della collaborazione (estremamente critica) che la chiesa deve darvi: dal resoconto del suo viaggio ungherese (1948) alla susseguente polemica con E. Brunner (Theologische Existenz «heute» del 1948)

chiarita ulteriormente (Die Kirche zwischen Ost und West del 1949) alle polemiche del 1950-1951-1953 (in particolare con il consigliere federale M. Feldmann) chiarite soprattutto in Politische Entscheidung in der Einheit des Glaubens del 1952. Alcuni testi politici significativi escono in una raccolta inglese del 1954. Da segnalare ancora un numero notevole di viaggi, soprattutto in Germania («contro la gente di Adenauer»). Sono anche questi gli anni in cui Barth riceve molteplici onorificenze e dottorati honoris causa, che si aggiungono agli altri (per Barth più preziosi) attribuitigli nei tempi bui precedenti. È anche il tempo in cui il pensiero di Barth assurge ad oggetto di grosse, impegnative monografie scientifiche. 1956

Si aprono gli ultimi anni d’insegnamento a Basilea, concessogli su proposta di K. Jaspers dal Senato Accademico di Basilea «eccezionalmente e fino a nuovo ordine», praticamente fino al 75° anno di età. Continuano i numerosissimi viaggi con conferenze; continua indefessa l’attività scientifica; continuano le prese di posizioni politiche; continuano le onorificenze. Due fatti mostrano in particolare l’influsso barthiano: la celebrazione del suo 70° compleanno nel 1956 e l’onore riservatogli in Sorbona nel 1957, quando l’Università parigina accolse come tesi dottorale il laborioso lavoro di H. Bouillard su Karl Barth (onore mai prima riservato ai viventi e caso finora unico, sotto il patrocinio di J. Wahl, H. Gouhier e O. Cullmann). Fra le opere: Kirchliche Dogmatik IV/3 nel 1959; Die Menschlichkeit Gottes del 1956 (per molti aspetti una svolta nel pensiero barthiano); W. A. Mozart del 1956 (un capolavoro di finezza); Kurze Erklärung des Roemerbriefes del 1956 (ma si tratta di un corso del 1940-1941 circolato a lungo policopiato); Evangelische Theologie im 19. Jahrhundert del 1957; Philosophie und Theologie del 1960; le due raccolte Theologische Fragen und Antworten del 1957 e Der Goetze wackelt del 1961 (a cura di K. Kupisch). Fra le sue prese di posizioni politiche ricordiamo il silenzio sui fatti ungheresi del 1956 (Barth giudica tinteggiate di anticomunismo viscerale le richieste che gli giungono); la lotta contro l’atomo (in particolare nel 1956 e nel

1959); la lettera ad un pastore della Repubblica Democratica Tedesca sulla possibilità e sui limiti della collaborazione con lo Stato (1958). Nel 1961, su sua richiesta, Barth è dimissionario definitivamente. Al momento del congedo succede un fatto increscioso e del tutto imprevisto: il pro-rettore (l’economista E. Salin) nel suo discorso di commiato attaccò violentemente le posizioni teologico-politiche di Barth, suscitando la decisa reazione degli studenti. Anche più grave fu la scelta del successore: non si volle H. Gollwitzer (tanto caro a Barth fin dai tempi di Bonn) a causa delle sue idee politiche e si ripiegò sulla candidatura di H. Ott (sgradito a Barth per il suo bultmanesimo). Durante l’ultimo semestre, mentre le forze stanno declinando, Barth offre «il canto del cigno» con la sua mirabile Einfuehrung in die evangelische Theologie pubblicata nel 1962. 1962

Gli ultimi anni di Barth, inframmezzati dalla malattia (nel 1963; poi nel 1964 un attacco di emiplegia) sono fecondi. Nel 1962-1963 compie un viaggio negli Stati Uniti con conferenze e seminari. Nel 1963-64 riceve dal Segretariato per l’Unità dei Cristiani l’invito a partecipare al Vaticano II in qualità di «osservatore» e deve rifiutare per motivi di salute; però la realtà del Concilio lo interessa e Barth legge quanto può, ricevendo spesso informazioni di primissima mano (e giudizi pacati) dal collega O. Cullmann (che in quegli anni gioca un ruolo ecumenico grandissimo); cosicché ristabilitosi, nel 1966, finito il Concilio, può recarsi a Roma su invito di tale Segretariato, avere importanti contatti ecumenici, essere ricevuto da papa Paolo VI con grande cordialità, partecipare ad una seduta del Congresso Internazionale di Teologia. Barth dà il rendiconto di questo viaggio nel brillante Ad limina apostolorum del 1967. Intanto Barth prende congedo dai suoi lettori pubblicando un frammento della sua Kirchliche Dogmatik, dal IV/4 sul battesimo (1967), consente ad una raccolta di suoi testi sulla chiesa (1964), pubblica una postfazione ad un’antologia di H. Bolli su Schleiermacher (1968). Le sue ultime conferenze appaiono in Dialogue (1968) ed in Letze Zeugnisse (1969 a cura di E. Busch). Ma non si dice tutto se non si ricorda la sua voluminosa corrispondenza ed il ritorno al prediletto Mozart (trasmesso postumo). Il mattino

del 10 dicembre 1968 la moglie Nelly trova morto Barth, con le mani ancora incrociate, nel gesto abituale della preghiera della sera. Sul suo tavolo, con una parola interrotta a metà, la sua ultima conferenza che doveva tenere nel prossimo gennaio a Zurigo, in occasione della Settimana per l’Unità dei Cristiani. Il 13 dicembre Barth è sepolto nel cimitero basilese di Hoernli. Il 14 dicembre si ha la solenne commemorazione ufficiale. Vi intervengono, sotto la presidenza di O. Cullmann (rettore dell’Università per quell’anno), M. Geiger (decano), L. Burckhardt (presidente del Consiglio Cantonale), H. Gollwitzer, J. Hromadka, H. Kueng (che definisce Barth magister utriusque theologiae), E. Juengel, W. A. Visser’t Hooft (per il Consiglio Ecumenico delle Chiese). Nel 1969 si costituiscono gli «Archivi Karl Barth». Nel 1970 viene decisa la pubblicazione della Gesamtausgabe, iniziata nel 1971.

NOTA BIBLIOGRAFICA Nell’impossibilità di offrire una bibliografia completa o anche solo di ampiezza confacente alla notevole produzione che dovebbe essere registrata ed inventariata, abbiamo deciso di presentare una scelta che consenta un’ulteriore indagine, pur conservando limiti rigorosi; nell’introduzione, nella nota biografica e nella nota storica, sono state date altre indicazioni puntuali e maggiormente elaborate; per aiutare il lettore che non avesse dimestichezza con il tedesco, indichiamo pure sempre le traduzioni francesi ed inglesi esistenti, laddove non esiste traduzione italiana. Opere A. REPERTORI BIBLIOGRAFICI 1. CH. VON KIRSCHBAUM, Bibliographie, in E. WOLF-CH. VON KIRSCHBAUM - R. FREY hrsg., Antwort. Festschrift zum 70. Geburtstag von Karl Barth, Zuerich, 1956, 945-960 (406 titoli). 2. E. BUSCH, Bibliographie, in E. BUSCH-J. FANGMEIER-M. GEIGER hrsg., Parrhesia. Karl Barth zum 80. Geburtstag, Zuerich, 1966, 709-723 (157 titoli; continuazione della precedente). 3. A. MODA, Karl Barth: una selezione bibliografica, «La Scuola Cattolica», 104, 1976, 374 (12 titoli; continuazione della precedente). B. TESTI AUTOBIOGRAFICI 1. How my Mind has changed 1928-1938, «The Christian Century» 13 e 20 settembre 1939; How my Mind has changed 1938-1948, «The Christian Century» 9 marzo 1949; How my Mind has changed 1948-1958, «The Christian Century» 20 gennaio 1960; i primi due riprodotti in Parergon, «Evangelische Theologie», 1948, 268-282; tutti e tre ripresi in Der Goetze wackelt. Zeitkritische Aufsaetze, Reden und Briefe 1930-1960, hrsg. K. Kupisch, 181-189, 190-199, 200-209. 2. Autobiographie, in Schweizerkoepfe der Gegenwart, Zuerich, 1945, I, 117-121. 3. Elementi particolarmente importanti si trovano nelle prefazioni del primo e del secondo Roemerbrief e della KD (soprattutto I/1 = D 1; II/2 = D 8; III/1 = D 10; III/2 = D 11; III/3 = D 13; IV/2 = D 20; IV/4 Fragment = D 26); in Rudolf Bultmann. Ein Versuch, ihn zu verstehen, Zuerich, 1952 (trad. ital. nel dossier Capire Bultmann: una testimonianza ecumenica, Torino, 1971, 137-196); in Die Menschlichkeit Gottes, Zuerich, 1956 (trad,

ital., Torino, 1975); in Dank und Reverenz, «Evangelische Theologie», 23, 1963, 337 ss.; in Kierkegaard und die Theologen, «Kirchenblatt fuer die reformierte Schweiz», 119, 1963, 150 s. (ripreso in «Réforme», 11 maggio 1963); in Ad limina apostolorum, Zuerich, 1967 (trad, ital., Torino, 1967); in Nachwort um Schleiermacher, in Schleiermacher Auswahl, hrsg. H. BOLLI, Muenchen-Hamburg, 1968, 290-312 (integrato come appendice in La Théologie protestante au XIX siècle, Genève, 1969, 445-465); in Hinweise, «Evangelische Theologie», 1968, 555 s. C. CORRISPONDENZA Oltre quanto sarà indicato nella Gesamtausgabe: 1. Ein Briefwechsel mit Adolf von Harnack (1923), in Theologische Fragen und Antworten, 7-31; ripreso in J. MOLTMANN hrsg., Die Anfaenge der dialektischen Theologie, vol. 1. 2. Ein theologischer Briefwechsel (K. Barth und G. Kittel), Stuttgart, 1934 (importante per il Kirchenkampf). 3. Dietrich Bonhoeffer und Karl Barth. Ein Briefwechsel aus den Jahren 1933-34, «Evangelische Theologie», 1955, 234 ss. 4. Karl Barth-Eduard Thurneysen: Ein Briefwechsel aus der Fruehzeit der dialektischen Theologie, hrsg. E. THURNEYSEN, Muenchen-Hamburg, 1966 (parzialmente già in Antwort, 831 ss.; integrato nell’edizione della Gesamtausgabe). 5. Karl Barth - Martin Rade: Ein Briefwechsel, hrsg. CH. SCHWOEBEL, Guetersloh, 1981 (importante soprattutto per la crisi del 1914 e per la lotta contro il nazismo nella chiesa confessante). D. LE OPERE TEOLOGICHE 1. Der Roemerbrief, Bern, 1919; ristampa invariata con presentazione dello stesso Barth: Zuerich, 1963 (è il primo Roemerbrief). 2. Der Roemerbrief, zweite Auflage, Muenchen, 1922; ristampa invariata: Zuerich, 1954; sono importanti le prefazioni alle varie ristampe e la prefazione alla traduzione inglese (1932); è il secondo Roemerbrief che ha dato origine alla «teologia dialettica». 3. Die Auferstehung der Toten, Muenchen, 1924; quarta edizione: Zuerich, 1953 (commento a I Cor. XV); trad. ingl.: London, 1933. 4. Das Wort Gottes und die Theologie. Gesammelte Vortraege,

Muenchen, 1924 (raccolta d’importanti saggi dal 1916 al 1923); trad, francese: Paris, 1933; 2a ediz.: 1966; trad, inglese: London-New York, 1928. 5. Erklaerung des Philipperbriefes, Muenchen, 1927; quinta edizione: Zuerich, 1947. 6. Die christliche Dogmatik im Entwurf: I: Die Lehre vom Worte Gottes. Prolegomena zur chrislichen Dogmatik, Muenchen, 1927. 7. Die Theologie uni die Kirche. Gesammelte Vortraege, Muenchen, 1928 (raccolta d’importanti saggi dal 1920 al 1927; i saggi Unerledigte Anfragen an die heutige Theologie del 1920, Ddr Begriff der Kirche del 1927 e L. Feuerbach del 1927 sono tradotti in Antologia, 57-64; 85-134) 8. Fides quaerens intellectum. Anselms Beweis der Existenz Gottes, Muenchen, 1931; 2a ediz.: Zuerich, 1958. 9. Theologische Existenz heute!, Muenchen, 1933; trad. inglese: London, 1933. 10. Nein! Antwort an Emil Brunner, Muenchen, 1934. 11. Credo. Die Hauptprobleme der Dogmatik dar gestellt im Anschluss an das Apostolische Glaubensbekenntnis, Muenchen, 1935; 2a ediz.: Zuerich, 1946; trad franc,: Genève, 1936; 2a ediz.: 1969; trad. ingl.: London, 1936. 12. Evangelium und Gesetz, Muendhen, 1935; 3a ediz.: Muenchen, 1961. 13. Rechfertigung und Recht, Zuerich, 1938; trad, ingl.: London, 1939. 14. Gotteserkenntnis und Gottesdienst nach reformatorischer Lehre, Zuerich, 1938 (Gifford Lectures 1937-1938); trad, franc.: Neuchâtel-Paris, 1945; ediz. inglese contemporanea alla tedesca: London, 1938. 15. Die Souveraenitaet der Wortes Gottes und die Entscheidung des Glaubens, Zuerich, 1939. 16. Die Kirchliche Lehre von der Taufe, Zuerich, 1943; trad, franc.: Cahiers Bibliques de Foi et Vie, Paris, 1949; trad. ingl.: London, 1948. 17. Eine Schweizer Stimme 1938-1945, Zuerich, 1945; 2a ediz.: 1953; l’edizione francese è parziale: Genève, 1945. 18. Christengemeinde und Buergergemeinde, Zuerich, 1946; trad, franc.: Genève, 1947. 19. Dogmatik im Grundriss, Zuerich, 1947. 20. Die Protestantische Theologie im 19. Jahrhundert. Ihre

Vorgeschichte und ihre Geschichte, Zuerich, 1947; 3a ediz.: 1960; trad, franc, da cui citiamo: Genève, 1969 da integrare con Images du XVIII siècle, Neuchâtel-Paris, 1949 e Hegel, Neuchâtel-Paris, 1955. 21. Christliche Gemeinde im Wechsel der Staatsordnungen, Zuerich, 1948. 22. Die Kirche zwischen Ost und West, Zuerich, 1949. 23. Karl Barth zum Kirchenkampf, Muenchen, 1949. 24. Humanismus, Zuerich, 1950. 25. Rudolf Bultmann. Ein Versuch, ihn zu verstehen, Zuerich, 1952; terza ediz.: 1964; trad. ital. nel dossier: Capire Bultmann. Una testimonianza ecumenica, Torino, 1971, 137-196 (cfr. lo scambio epistolare ora edito in Karl Barth-Rudolf Bultmann: Briefwechsel 1922-1966, hrsg. B. JASPERT, Zuerich, 1971, lettere 94-95, pp. 169 ss.). La terza edizione del 1964 compare unita a Christus und Adam (n. 26) intenzionalmente, ponendosi come esempio dell’ermeneutica teorica e pratica del Barth. 26. Christus und Adam nach Roem. 5, Zuerich, 1952; 2a ediz.: 1964 (unitamente a Rudolf Bultmann: cfr. sopra n. 25). 27. Politische Entscheidung in der Einheit des Glaubens, Muenchen, 1952. 28. Against the Stream. Short Postwar-writings 1946-1952, London, 1954. 29. Die Menschlichkeit Gottes, Zuerich, 1956. 30. Kurze Erklaerung des Roemerbriefes, Muenchen, 1956 (si tratta però di un corso del 1940-1941 circolato a lungo policopiato); molto importante per la dottrina della predestinazione che risente dell’elaborazione della Kirchliche Dogmatik e di Gottes Gnadenwahl del 1936; trad, franc.: Genève, 1956. 31. Theologische Fragen und Antworten. Gesammelte Vortraege, Zuerich, 1957 (raccolta indispensabile che riunisce saggi dal 1927 al 1942 con la corrispondenza del 1923; fra essi i principali contributi metodologici, fra cui occorre segnalare: Das Halten der Gebote del 1927, Schicksal und Idee in der Theologie del 1929, Fragen an das Christentum del 1931, Die Theologie und die Mission in der Gegenwart del 1932, Das erste Gebot del 1933, Offenbarung, Kirche und Theologie del 1934, Die

Grundformen theologischen Denkens del 1936). 32. Evangelische Theologie im 19. Jahrhundert, Zuerich, 1957; trad. franc.: Genève, 1957. 33. Brief an einem Pfarrer in der Deutschen Demokratischen Republik, Zuerich, 1958. 34. Philosophie und Theologie, in Philosophie und Christliche Existenz. Festschrift H. Barth, Basel, 1960; ediz. frane, indipendente: Genève, 1960. 35. Der Goetze wackelt. Zeitkritische Aufsaetze, Reden und Briefe von 1930-1960, hrsg. K. KUPISCH, Berlin, 1961. 36. Einfuehrung in die evangelische Theologie, Zuerich, 1962; 2a ediz.: 1963 37. L’Eglise. Textes 1932-1957, Genève, 1964. 38. Nachwort um Schleiermacher, in H. BOLLI hrsg., Schleiermacher Auswahl, Muenchen-Hamburg, 1968, 290-312; integrato come appendice nella trad. frane, di Die protestantische, pp. 445-465. E. LA KIRCHLICHE DOGMATIK 1. I/1: Die Lehre vom Wort Gottes. Prolegomena zur Kirchlichen Dogmatik, Muenchen, 1932; 8a ediz.: Zuerich, 1964. 2. I/2: Die Lehre vom Wort Gottes. Prolegomena zur Kirchlichen Dogmatik, Zuerich, 1938; 5a ediz.: 1960. 3. II/1: Die Lehre von Gott, Zuerich, 1940; 4a ediz.: 1958. 4. II/2: Die Lehre von Gott, Zuerich, 1942; 4a ediz.: 1959. 5. III/1: Die Lehre von der Schoepfung, Zuerich, 1945; 3a ediz.: 1957. 6. III/2: Die Lehre von der Schoepfung, Zuerich, 1950; 2a ediz.: 1959. 7. III/3: Die Lehre von der Schoepfung, Zuerich, 1950; 2a ediz.: 1961. 8. III/4: Die Lehre von der Schoepfung, Zuerich, 1951; 2a ediz.: 1957. 9. IV/1: Die Lehre von der Versoehnung, Zuerich, 1953; 2a ediz.: 1960. 10. IV/2: Die Lehre von der Versoehnung, Zuerich, 1955; 2a ediz.: 1964. 11. IV/3: Die Lehre von der Versoehnung, Zuerich, 1959. 12. IV/4: Fragment: Die Taufe als Begruendung der christlichen Lebens, Zuerich, 1967. 13. Registerband, unter Mitarbeit von W. ERK und M. PFAENDLER, hrsg. von H. KRAUSE, Zuerich, 1970 (con un’appendice di F. W. MARQUARDT:

Exegese und Dogmatik in Karl Barths Theologie, pp. 651-676): presentazione dei singoli riassunti dei paragrafi della KD (analogamente alla nostra appendice prima); indici scritturistico, onomastico e dei concetti; raccolta di brani esegetici tratti dalla KD suscettibili di fornire predicazione per l’anno liturgico con appositi indici. 14. Della KD sono particolarmente pregevoli le traduzioni inglesi (sotto la direzione di G. W. BROMILEY e T. F. TORRANCE, per i tipi di T. & T. Clark a Edinburgh) e francesi (eseguita totalmente da F. RYSER sotto la direzione di J. DE SENARCLENS per i tipi della Labor et Fides di Ginevra); quest’ultima è ormai la edizione più diffusa e consta di 26 tomi cui si è unita la traduzione del Registerband (1980) con un’introduzione assai pregevole di E. BUSCH (pp. 9-38); cfr. la concordanza posta nella nostra appendice prima. F. LA GESAUMTAUSGABE La Gesamtausgabe si propone di presentare l’opera inedita di Barth, custodita negli appositi Archivi costituitisi a Basilea dopo la morte del nostro teologo (ed attualmente diretti da H. STOEVESANDT) in circa 70 volumi, con numerazione progressiva, ma suddivisi in cinque sezioni: Predigten (I), Akademische Werke (II), Theologische Werke (III), Biblische Werke (IV), Briefe (V). Ecco quanto pubblicato finora: I. Predigten: 1. Predigten 1914, hrsg. U. und J. FAEHLER, Zuerich, 1974. 2. Predigten 1913, hrsg. U. und J. FAEHLER, Zuerich, 1976. 3. Predigten 1954-1967, hrsg. H. STOEVESANDT, Zuerich, 1979. II. Akademische Werke: 1. Ethik I. Vorlesung 1928, hrsg. D. BRAUN. Zuerich, 1973. 2. Das christliche heben. Die Kirchliche Dogmatik IV/4 Fragmente aus dem Nachlass. Vorlesungen 1959-1961, hrsg. H. A. DREWES und Eb. JUENGEL, Zuerich, 1976. 3. Ethik II. Vorlesung 1928, hrsg. D. BRAUN, Zuerich, 1978. 4. Die Theologie Schleiermachers. Vorlesungen Goettingen Wintersemester 1923-1924, hrsg. D. RITSCHL, Zuerich, 1978. IV. Biblische Werke: 1. Erklaerung des Johannesevangelium Kapp. 1-8. Vorlesungen 19231924, hrsg. W. FUERST, Zuerich, 1976.

V. Briefe: 1. Karl Barth-Rudolf Bultmann: Briefwechsel 1922-1966, hrsg. B. JASPERT, Zuerich, 1971. 2. Karl Barth-Eduard Thurneysen: Briefwechsel 1913-1921, hrsg. E. THURNEYSEN, Zuerich, 1973. 3. Karl Barth-Eduard Thurneysen: Briefwechsel 1921-1930, hrsg. E. THURNEYSEN, Zuerich, 1974. 4. Karl Barth: Briefe 1961-1968, hrsg. J. FANGMEIER und H. STOEVESANDT, Zuerich, 1975 (alcune di queste lettere sono state tradotte in francese a cura di A. DUMAS: «Etudes Théologiques et Religieuses», 51, 1976, 165-187: Pannenberg, Moltmann e Hromadka). G. ANTOLOGIE DI KARL BARTH 1. Kirchliche Dogmatik. Auswahl und Einleitung von H. GOLLWITZER, Frankfurt a. M., 1957; trad. ital.: Dogmatica ecclesiale, a cura di I. MANCINI, Bologna, 1968 (da sfruttare nei precisi limiti indicati da Gollwitzer; a nostro avviso non riesce a fornire un’idea adeguata dello sforzo barthiano; può servire solo come illustrazione parziale di punti particolari; ottima la introduzione di I. Mancini). 2. Die Anfaenge der dialektischen Theologie, 2 voll., hrsg. J. MOLTMANN, Muenchen, 1962-1963; trad. ital.: Le origini della teologia dialettica, a cura di M. C. LAURENZI, Brescia, 1976. 3. Antologia, a cura di E. RIVERSO, Milano, 1964; cfr. la recensione di G. RICONDA, Mondolfo e Barth, Torino, 1965, 7-13 (estratto da «Filosofia»). 4. Filosofia e rivelazione, a cura di V. VINAY, Milano, 1965. 5. Barth - Brevier, hrsg. R. GRUNOW, Muenchen, 1966. 6. Karl Barth: introduzione e scelta antologica, a cura di A. MELA, in F. ARDUSSO-G. FERRETTI-A. M. e U. PERONE, Introduzione alla teologia contemporanea, Torino, 1972, 33-59; nuova edizione completamente rifatta: Torino, 1980, 37-59 (non muta però la scelta antologica). 7. Può essere usata come antologia anche la parte del Registerband riportante parti esegetiche della KD ad uso omelitico: pp. 285-647 (Predigthilfen), ugualmente in trad. francese. H. TRADUZIONI La lista completa delle traduzioni italiane, francesi, inglesi, olandesi,

spagnole, danesi, norvegesi, svedesi, cecoslovacche, ungheresi, coreane, giapponesi è reperibile nei repertori della VON KIRSCHBAUM e di E. BUSCH sopra citati; si può dire che la quasi totalità dell’opera barthiana è accessibile nelle traduzioni inglese e francese (tuttavia con qualche eccezione); restituirne la lista significherebbe esulare dal nostro compito, anche se tale lavoro potrebbe essere molto utile per lo studio della diffusione dell’opera barthiana. La traduzione olandese del Credo merita di essere segnalata per l’eccellente commento di K. H. MISKOTTE (Nijkerk, 1935). 1. Der Roemerbrief (1922): L’Epistola ai Romani, a cura di G. MIEGGE, Milano, 1962; con intr. di G. MIEGGE (risalente al 1949); la edizione italiana manca delle prefazioni posteriori alla prima; fra esse è importante soprattutto la seconda che discute il problema delle fonti e dell’esistenzialismo barthiano (la si può leggere ora in Le origini della teologia dialettica, 183-188); manca pure l’indice analitico; presente invece l’indice dei passi biblici citati. Per osservazioni di dettaglio cfr. F. BOLGIANI, «Rivista di Storia e di Letteratura Religiosa», 1965, 346 ss. 2. Erklaerung des Philipperbriefs (1927): L’Epistola ai Filippesi, a cura di E. RANDONE, Torino, 1974. 3. Fides quaerens intellectum. Anselms Beweis der Existenz Gottes (1931): La prova dell’esistenza di Dio, in Filosofia e rivelazione, a cura di V. VINAY, pp. 1-255. 4. Reformation als Entscheidung (1933): La Riforma è una decisione, a cura di G. CONTE, Torino, 1967. 5. Weihnacht (1934): Il Natale, con intr. di B. GHERARDINI, Brescia, 1967 (sull’ediz. di Goettingen: 1957). 6. Vier Predigten (1935): L’Avvento: meditazioni: Luca I, Brescia, 1968. 7. Evangelium und Gesetz (1935): Vangelo e Legge, a cura di G. MORRA, Forlì, 1964 (sull’ediz. del 1961). 8. Einfuehrung in den Heidelberger Katechismus (1938): Il Catechismo di Heidelberg, a cura di F. LO BUE, Milano, 1957. 9. How my Mind has changed (1939, 1949, 1960): Autobiografia critica, a cura di P. G. GRASSI, Vicenza, 1978. 10. Wie koennen die Deutschen gesund werden? (1945): Come guariranno i tedeschi?, a cura di G. MIEGGE, Milano, 1946. 11. Die protestantische Theologie (1947): La teologia protestante nel sec.

XIX, 2 voll., con intr. di I. MANCINI, Milano, 1980; i saggi su Rousseau, Hegel e Schleiermacher sono tradotti anche in Filosofia e rivelazione (1965), pp. 257-518. 12. Dogmatik im Grundriss (1947): Dogmatica in sintesi, a cura di B. GHERARDINI, Roma, 1970. 13. Die Kirche zwischen Ost und West (1949): in Antologia, 291-319. 14. Le prière d’aprés les catéchismes de la Réformation (1950): La prephiera, a cura di G. MORRA, Fossano, 1974. 15. Mann und Frau (aus KD III/4) (1966; originale: 1951): Uomo e donna, a cura di C. BENINCASA, Torino, 1969. 16. Rudolf Bultmann. Ein Versuch, ihn zu verstehen (1952): nel dossier Capire Bultmann: una testimonianza ecumenica, Torino, 1971, 137-196. 17. Wolfang-Amadeus Mozart (1956): Mozart, Brescia, 1980. 18. Die Menschlichkelt Gottes (1956): L’umanità di Dio, a cura di S. ROSTAGNO, Torino, 1975. 19. Unsterblichkeit (mit N. M. LUYTBN, A. PORTMANN, K. JASPERS) (1958): Immortalità, a cura di G. CONTE, Torino, 1961, 41-46. 20. Brief an einem Pfarrer in der DDR (1958): Lettera ad un pastore della Germania Orientale, Brescia, 1964. 21. Andachten fuer Advent, Weinachten, Passion und Ostern (mit E. THURNEYSEN) (1959): Meditazioni per il Natale e la Pasqua, con intr. di V. JOANNES, Brescia, 1967. 22. Den Gefangenen Befreiung. Predigten aus den Jahren 1954-1959 (1960): Liberazione per i prigionieri. Prediche dal penitenziario di Basilea, Brescia, 1968. 23. La proclamation de l’Evangile (1961): La proclamazione del Vangelo, con intr. di M. L. TRUCCATO ed una nota di R. SPIAZZI, Torino, 1964. 24. Einfuehrung in die evangelische Theologie (1962): Introduzione alla teologia evangelica, a cura di E. RIVERSO, Milano, 1968. 25. Thoughts on the Second Vatican Council (1963): Riflessioni sul Concilio Vaticano II, «Humanitas», 1965/1, 54-61. 26. L’Eglise: textes 1932-1957 (1964): La Chiesa, con intr. di B. GHERARDINI, Roma, 1970.

27. Rufe mich an! Predigten 1959-1964 (1965): Invocarmi! Prediche dal penitenziario di Basilea, Brescia. 1970. 28. Ad limina apostolorum (1967): Domande a Roma, a cura di G. Tourn e G. CONTE, Torino, 1967. 29. Die Kirchliche Dogmatik. IV/4 Fragment: Die Taufe als Begründung der christlichen Lebens (1967): Il fondamento della vita cristiana, Roma, 1976. 30. Dialogue (mit H. U. VON BALTHASAR) (1968): Dialogo (a cura di F. ARDUSSO), Torino, 1970; Dialogo, Milano, 1970 (in commercio solo più la prima edizione). 31. È tradotta l’antologia della KD di H. GOLLWITZER: Dogmatica ecclesiale, a cura di I. MANCINI, Bologna, 1968. 32. È tradotta l’antologia curata da J. MOLTMANN: Die Anfaenge der dialektischen Theologie: Le origini della teologia dialettica, a cura di M. C. LAURENZI, Brescia, 1976. Contiene i seguenti scritti barthiani: Der Christ in der Gessellschaft del 1919; Vergangenheit und Zukunft del 1919; Biblische Fragen, Einsichten und Ausblicke del 1920; prefazione alla prima edizione del Roemerbrief del 1919; prefazione alla seconda edizione del Roemerbrief del 1922; prefazione alla terza edizione del Roemerbrief del 1922; Grundfragen der christlichen Sozialethik del 1922; Von der Paradoxie des «positiven Paradoxes» del 1923; Das Wort Gottes als Aufgabe der Theologie del 1922; la corrispondenza Barth-Harnack del 1923 ed il commiato da «Zwischen den Zeiten» del 1933. 33. Nell’Antologia del Riverso, oltre a Die Kirche zwischen Ost und West, si hanno brani da Die Theologie und Kirche; Die Auferstehung der Toten; Wechsel der Staatsordnungen; Mozart; Die KD (I/1; II/1; III/3; III/4; IV/3). 34. In Filosofia e rivelazione a cura di V. VINAY sono tradotti Fides quaerens intellectum (1931) ed i saggi su Rousseau, Hegel e Schleiermacher di Die protestantische Theologie (1947) come già citati (nn. 3 e 11). 35. Nella breve rassegna di A. MELA vi sono brani del Roemerbrief del 1922, della KD e dell’Einfuehrung in der evangelische Theologie (1962).

36. Nell’opera Costruire la pace oggi. Relazioni, interventi e documenti del Campo Invernale di Agape (Prali), Torino, 1982, è tradotto un brano da KD III/4 sulla guerra e sulla pace (originale del 1951). La critica A. REPERTORI BIBLIOGRAFICI 1. A. MODA, Karl Barth: una selezione bibliografica, «La Scuola Cattolica», 104, 1976, 370-405 (comprende oltre 700 titoli ordinati tematicamente e cronologicamente; sono presentate tutte le opere e gli articoli che consentono un discorso critico su Karl Barth; sono lasciati cadere saggi minori; tale selezione è integrata per quanto concerne i grossi lavori nella nota storica della presente edizione). 2. M. KWIRAN, Index to Literature on Barth, Bonhoeffer and Bultmann, Basel, 1977 (quasi 3000 titoli, ivi comprese dissertazioni e tesi inedite; le riviste schedate sono enumerate cosicché è subito possibile valutare il ventaglio della ricerca; l’ordine è alfabetico; esiste un importante indice per argomenti che consente un’abbondante utilizzazione; deve però essere usato con le cautele necessarie in siffatte pubblicazioni). B. STRUMENTI DI LAVORO 1. Fra le antologie citate nella sezione precedente solo la raccolta curata da J. MOLTMANN consente uno studio coerente e completo limitatamente al periodo preso in esame. Per la KD bisogna invece ricorrere agli studi elencati qui appresso, tenendo conto dei loro precisi limiti intenzionali e del loro genere letterario. 2. J. L. LEUBA, Résumé analytique de la Dogmatique Ecclesiastique de Karl Barth: I. La doctrine de la Parole de Dieu, Neuchâtel, 1945 (riassunto di KD I/1, §§ 1-7; non proseguito). 3. O. WEBER, Karl Barths Kirchliche Dogmatilk. Ein Emfuehrunder Bericht, Neukirchen, 1952, con pref. di K. BARTH; trad. franc.: Genève, 1954 (§§ 1-63; non proseguito). C. MISCELLANEE 1. Theologische Aufsaetze. Karl Barth zum 50. Geburtstag, Muenchen, 1936. 2. Hommage et reconnaissance à Karl Barth, Neuchâtel-Paris, 1946. 3. Reformation Old and New. A Tribute to Karl Barth, London, 1947. 4. Antwort. Karl Barth zum 70. Geburtstag, Zuerich, 1956.

5. Remèdes de cheval. Pour les 70. ans de K. Barth, Genève, 1956. 6. Parrhesia. Karl Barth zum 80. Geburtstag, Zuerich, 1966. 7. Service in Christ. Essays presented to Karl Barth on his 80. Birthday, Grand Rapids, 1967. D. PRESENTAZIONI GENERALI a. Articoli di enciclopedia 1. Die Religion in Geschichte und Gegenwart: G. GLOEGE: I, 894 ss. (3a ediz.: 1957). 2. Lexikon fuer Theologie und Kirche: H. BOUILLARD: II, 6 ss. (2a ediz.: 1958). 3. Encyclopedia Universalis: A. DUMAS: III, 14 ss, (1968). 4. Theologische Realenzyklopaedie: E. JUENGEL: V, 266 ss. (1979). b. Esposizioni biografiche 5. A. J. BRONKHORST, Karl Barth, een levensbeeld, Den Haag, 1953. 6. J. BOSC, Karl Barth ou la liberté de Dieu pour l’homme, Paris, 1958. 7. G. CASALIS, Portrait de Karl Barth, Genève, 1960; ripreso in Les grands courants de la pensée mondiale contemporaine. Portraits, MilanoParis, 1964; I, 49-100; trad. ital.: Ritratto di Karl Barth, Torino, 1968. 8. K. KUPISCH, Begegnung mit Karl Barth, Muenchen, 1962. 9. H. TREBS, Karl Barth, Berlin, 1966. 10. E. BUSCH, Humane Theologie. Texte und Erlaueterungen zur Theologie des alten Karl Barth, Zuerich, 1967. 11. D. CORNU, Karl Barth et la politique, Genève, 1968; trad. ital.: Karl Barth e la politica, Torino, 1970. 12. J. FANGMEIER, Der Theologe Karl Barth, Zeugnis vom freien Gott und freien Menschen, Basel, 1969 (semplice, ma penetrante); trad, franc.: Genève, 1974. 13. K. KUPISCH, Karl Barth in Selbstzeugnissen und Bilddokumenten, Hamburg, 1971 (molto importante). 14. D. L. MUELLER, Karl Barth, Waco, 1972. 15. E. BUSCH, Karl Barths Lebenslauf nach seinen Briefen und autobiographischen Texten, Muenchen, 1975; 2a ediz. rivista: 1976; trad. ital.: Karl Barth. Biografia, Brescia, 1977 (opera indispensabile e molto

completa). c. Le grandi monografie 16. B. E. BENKTSON, Den naturliga teologiens problem hos Karl Barth, Lund, 1948 (con eccellente bibliografia, specie nordica). 17. G. C. VAN NIFTRIK, Een Beroeder Israels. Enk eie Hoof gedachten in der Theologie van Karl Barth, Nijkerk, 1948. 18. J. HAMER, Karl Barth. L’occasionalisme théologique de Karl Barth. Etude sur sa méthode dogmatique, Paris, 1949. 19. H. U. VON BALTHASAR, Karl Barth. Darstellung und Deutung seiner Theologie, Koeln, 1951; 2a ediz. con nuova prefazione: 1962. Si tratta di un saggio capitale su cui cfr. il giudizio di Barth in KD IV/1, 736 e 858 s.; W. PANNENBERG, Zur Bedeutung des Analogiegedankens bei Karl Barth. Eine Auseinandersetzung mit Urs von Balthasar, «Theologische Literaturzeitung», 87, 1953, 17-24; E. GUTWENGER, Natur und Uebernatur. Gedanken zu Balthasars Werk ueber die barthsche Theologie, «Zeitschrift fuer Katholische Theologie», 75, 1953, 452 ss.; A. MODA, Hans Urs von Balthasar: un’esposizione critica del suo pensiero, Bari, 1976. 130 ss.; M. JOHRI, Descensus Dei. Teologia della croce nell’opera di Hans Urs von Balthasar, Roma, 1981, 198 ss. 20. G. C. BERKOUWER, De Triomf der Genade in de Theologie van Karl Barth, Kampen, 1954; trad, tedesca: Neukirchen, 1956; trad, inglese: Grand Rapids (Mich.), 1956. 21. E. RIVERSO, La teologia esistenzialistica di Karl Barth. Analisi, interprelazione e discussione del sistema, Napoli, 1955 (uno degli studi più discutibili per la sua sistematicità). 22. H. KUENG, Rechtfertigung. Die Lehre Karl Barths und eine katholische Besinnung, Einsiedeln, 1957; trad, franc.: Paris, 1965; trad. ital.: Brescia, 1969. L’opera comporta un’elogiativa prefazione di Barth ed ha suscitato numerosissime reazioni; una lista delle principali nella nostra selezione: p. 377. 23. H. BOUILLARD, Karl Barth: I: Genèse et évolution de la théologie dialectique; II-III: Parole de Dieu et existence humaine, Paris, 1957 (con le importanti reazioni di cui nella nostra selezione: p. 377). 24. G. WINGREN, Theology in Conflict: Nygren, Barth, Bultmann,

Philadelphia, 1958. 25. K. U. MISKOTTE, Ueber Karl Barths Kirchliche Dogmatik. Kleine Praeludien und Phantasien, Muenchen, 1961 (malgrado la brevità, si tratta di un saggio molto penetrante). 26. E. JUENGEL, Gottes Sein ist im Werden. Verantwortliche Rede vom Sein Gottes bei Karl Barth. Eine Paraphrase, Tuebingen, 1964; 2a ediz. riveduta: 1966 (che citiamo) su cui anche P. EICHER, Offenbarung (v. sotto), 255-258. 27. M. STORCH, Exegesen und Meditationen zu Karl Barths Kirchlicher Dogmatik, Muenchen, 1964. 28. H. FRIES, Barth, Bultmann und katholischen Theologie, Stuttgart, 1965; trad. ingl.: Pittsburgh-Leuven, 1968. 29. H. MEYNELL, Grace versus Nature. Studies in Karl Barth’s Church Dogmatics, London, 1965. 30. B. GHERARDINI, La teologia del totalmente altro, in La Seconda Riforma, Brescia, 1966, II, 80-196 (ottima sintesi, malgrado un titolo troppo restrittivo). 31. I. MANCINI, Il pensiero teologico di Barth nel suo sviluppo, intr. a Dogmatica ecclesiale, Bologna, 1968, VII-CXIII; ripreso in Novecento teologico, Firenze, 1977. 32. W. SCHLICHTING, Biblische Denkform in der Dogmatik-Die Vorbildlichkeit des biblischen Denkens fuer die Methode der Kirchlichen Dogmatik Karl Barths, Zuerich, 1971. 33. E. H. FRIEDMANN, Christologie und Anthropologie. Methode und Bedeutung der hehrer vom Menschen in der Theologie Karl Barths, Muensterschwarzach, 1972 (abbondante bibliografia). 34. F. W. MARQUARDT, Theologie und Sozialismus, Muenchen-Mainz, 1972 (con pref. di H. GOLLWITZER); trad. ital.: Milano, 1974 (con prefazione di G. RUGGIERI); cfr. la nota storica. 35. H. GOLLWITZER, Reich Gottes und Sozialismus bei Karl Barth, Muenchen, 1972; trad. ital.: Torino, 1975; cfr. la nota storica. 36. T. RENDTORFF, Theorie des Christentums. Historisch-theologische Studien zu seiner neuzeitlichen Verfassung, Guetersloh, 1972, 161 ss. 37. D. SCHELLONG, Karl Barth als Theologe der Neuzeit, in Karl Barth

und die Neuzeit, Muenchen, 1973, 34 ss. 38. V. SUBILIA, Presenza e assenza di Dio nella coscienza moderna, Torino, 1976, 45 ss. 39. U. DANNEMANN, Theologie und Politik in Denken Karl Barths, Muenchen, 1977; cfr. la nota storica. 40. P. EICHER, Offenbarung. Prinzip neuzeitlicher Theologie, Muenchen, 1977, 165-258. 41. W. KRECK, Grundentscheidungen in Karl Barths Dogmatik, Neukirchen, 1978. 42. K. STOCK, Anthropologie der Verheissung. Karl Barths hehre vom Menschen als dogmatisches Problem, Muenchen, 1980. d. Alcuni saggi importanti per una valutazione generale 43. J. L. LEUBA, La position de K. Barth à légard de la philosophie, «In Extremis», 9, 1943, 25-36. 44. J. L. LEUBA, Le problème de l’Eglise chez M. Karl Barth, «Verbum Caro», 1, 1947, 4-24; ripreso in A la découverte de l’espace oecuménique, Neuchâtel-Paris, 1967, 87 ss. 45. H. BERKHOF, Die Bedeutung Karl Barths fuer Theologie, Kirche und Welt, «Evangelische Theologie», 1948, 254-268. 46. J. L. LEUBA, Karl Barth systématisé, «Verbum Caro», 4, 1950, 182187 (recensione critica del volume di J. Hamer). 47. B. GHERARDINI, La parola di Dio nella teologia di Karl Barth, Roma, 1955. 48. G. MERZ, Die Begegnung K. Barths mit der deutschen Theologie, «Kerygma und Dogma», 2, 1956, 157-175. 49. H. OTT, Der Gedanke der Souveraenitaet Gottes in der Theologie Karl Barths, «Theologische Zeitschrift», 1956, 409-424. 50. A. WALKENBACH, Der Glaube bei Karl Barth dargestellt im Lichte seiner Kirchlichen Dogmatik, Limburg, 1956. 51. B. WILLEMS, Karl Barth: een inleiding in zijn denken, Tielt, 1963; trad. ital.: Brescia, 1966. 52. H. HARTWELL, The Theology of Karl Barth, London, 1964. 53. V. VINAY. Saggio introduttivo, in Filosofia e rivelazione, IX-LXIX. 54. H. ZAHRNT, Die Sache mit Gott, Muenchen, 1966; trad, franc.: Paris,

1969, 11-74, 82-80, 105-160, 233-245 che citiamo; trad. ital.: Brescia, 1969, 2a ediz.: 1975; con le osservazioni critiche di R. MARLÉ, «Recherches de Science Religieuse», 55, 1967, 282 ss.; E. Huebner, «Evangelische Theologie», 21, 1971, 63 ss.; V. SUBILIA, Presenza e assenza, 92. 55. Theologie zwischen gestern und morgen. Interpretationen und Anfragen zum Werk Kad Barths, hrsg. W. DANTINE und K. LUETHI, Muenchen, 1968. 56. G. TOURN, Prolegomeni per una lettura critica dell’opera di Karl Barth, «Protestantesimo», 1968, 193-208. 57. E. BINTZ, Das Skandalon als Grundlagenproblem der Dogmatik. Eine Ausenandersetzung mit Karl Barth, Berlin, 1969. 58. G. WIDMER, L’actualité de Karl Barth, «Choisir», 1969, février, 14-18 (estremamente ricco). 59. Portraet eines Theologen. Stimmt unser Bild von Karl Barth?, Stuttgart, 1969. 60. H. BOUILLARD, Karl Barth et le catholicisme, «Revue de Théologie et de Philosophie», 20, 1970, 353-367. 61. Karl Barth und die Neuzeit, Muenchen, 1973. 62. Die Realisierung der Freiheit. Beitrage zur Kritik der Theologie K. Barths, hrsg. T. RENDTORFF, Guetersloh, 1975. 63. G. M. PIZZUTI, Ontologia trinitaria e antropologia teologica. Indagine critica sulle strutture speculative della teologia di Karl Barth, Torino, 1978. 64. J. L. LEUBA, Dios saīvados segùn Kurl Barth. Un modélo de soteriologia protestante, «E studios Trinitarios», 11, 197 7, 23 ss.; ripreso in francese: «Hokhma», 1979/11, 2 ss. 65. Die theologische Erbe Karl Barths und die Kirche von heute, Zuerich, 1979. 66. E. BUSCH, Un Magnificat, at perpétuel. Remarques sur la Dogmatique de Karl Barth, in Dogmatique. Index général, Genève, 1980, 9 ss. 67. C. SCILERONI, Relazione, opposizione e dialettica in Karl Barth, «Studia Patavina», 27, 1980, 127 ss. 68. V. SUBILIA, Il protestantesimo moderno tra Schleiermacher e Barth,

Torino, 1981, III ss. 69. D. FORD. Barth and God’s Story. Biblical Narrative and the theological Method of Karl Barth in the Church Dogmatics. BerneFrankfurt, 1981. E. LA DOTTRINA DELL’ELEZIONE DIVINA NELLA KD I titoli che seguono sono elencati in ordine alfabetico, a. Esposizioni generali 1. Fra le opere finora citate sono particolarmente da rilevare: H. U. VON BALTHASAR, Karl Barth, 181 ss.; G. C. BERKOUWER, Der Triumph der Gnade, 76 ss.; H. BOUILLARD, Karl Barth, II, 125 ss.; P. EICHER, Offenbarung, 195 ss.; J. HAMER, Karl Barth, 130 ss.; H. HASTWELL, The Theology, 96 ss.; W. KRECK, Grundentscheidungen, 96 ss. 2. Die Predigt von der Gnadenwahl, Muenchen, 1951 (tre interventi di O. WEBER, W. KRECK, E. WOLF). 3. E. H. AMBERG, Christologie und Dogmatik. Untersuchung ihres Verhältnisses in der evangelischen Theologie der Gegenwart, Berlin, 1966, 60 ss., 133 ss. e passim. 4. R. M. BROWN, Karl Barth on Election, «The Christian Century», 1969, 405 ss. 5. E. BRUNNER, Dogmatik: I, Zuerich, 1946; 3a ediz.: 1960; trad, franc.: Dogmatique, Genève, 1964, I, 364 ss. (molto importante). 6. E. BUESS. Zur Praedestinationslehre Karl Barths, Zuerich, 1955. 7. W. S. CAMPBELL, A Study of the Doctrine of Predestination of Calvin and Barth in the Light of the Scriptural Statements on the Subiect, B. D. Dissertation Trinity College, Dublin, 1964. 8. G. GLOEGE, Zur Praedestinationslehre Karl Barths, «Kerygnna und Dogma», 2, 1956, 193 ss., 233 ss.; ripreso in Hilsgeschehen und Welt, Goettingen, 1965, I, 77 ss. 9. W. J. HAUSMANN, Karl Barth’s Doctrine on Election, M. A. Diss. Drew Univ., 1968. 10. A. C. YU, Karl Barth’s Doctrine of Election, «Foundations», 13, 1970, 248 ss. 11. A. MODA, La sintesi barthiana sulla predestinazione divina: originalità e appunti critici, «Studia Patavina», 18, 1971, 668 ss.; La

dottrina dell’elezione divina in Karl Barth, Bologna, 1972 (articoli pre cedentemente pubblicati in «Ethica», 11, 1972, 107 ss.; 11, 1972, 199 ss.; 12, 1973, 23 ss.); Vérification du rôle central de la doctrine de l’élection dans la Kirchliche Dogmatik de Karl Barth, «Nicolaus», 10, 1982, 3-46; L’originalité de la synthèse barthienne sur la prédestination: vis-à-vis d’une tradition théologique, «Nicolaus», 11, 1983/1 (prossima pubblicazione). 12. W. SPARN, Die christologische Revision der Praedestinationslehre, in Die Realisierung der Freiheit, 44 ss. b. La dottrina dell’elezione divina come parte della dottrina di Dio nella sistematizzazione teologica 13. C. GUNTON, Karl Barth’s Doctrine of Election as Part of his Doctrine of God, «Journal of Theological Studies», 25, 1974, 381 ss. 14. R. TORRA LLANAS, Déu en la doctrina de l’elecció gratuita segons Karl Barth, «Estudios Franciscanos», 72, 1971, 275 ss. c. L’elezione di Gesù Cristo Al saggio di W. Sparn (cit. n. 12) aggiungere: 15. G. RABEAU, L’élection de Jésus-Christ d’après Karl Barth, «Recherches de Science Religieuse», 23, 1949, 97 ss. 16. J. K. S. REID, The Office of Christ in Predestination, «Scottish Journal of Theology», 1, 1948, nn. 1-2. d. L’elezione della comunità All’importante opera di G. C. VAN NIFTRIK aggiungere: 17. B. BUUNK, L’élection d’Israël. Analyse critique de la position de Karl Barth sur le rôle d’Israël dans l’histoire du salut, th. Fac. Th. Eglise Evang. L. C. Vaud, Lausanne, 1966. 18. F. W. MARQUARDT, Die Entdeckung des Judentums fuer die christliche Theologie. Israel im Denken Karl Barths, Muenchen, 1967 (eccellente ed imprescindibile). 19. A. MODA, L’élection de la communauté dans la pensée de Karl Barth, in Communio Sanctorum. Mélanges offerts à Jean-Jacques von Allmen, Genève, 1982, 98 ss. 20. G. RABEAU, L’élection de l’Eglise dans la théologie de Karl Barth, «Revue des Sciences Religieuses», 1949, 343 ss.

21. Si vedano anche le opere consacrate all’ecclesiologia, in particolare: CH. BAUEMLER, Die Lehre von der Kirche in der Theologie Karl Barths, Muenchen, 1964, 23 ss.; P. EDER, Das Sein der Kirche nach Karl Barth, «Theologisch-Praktische Quartalschrift», 115, 1967, 51 ss.; C. O’GRADY, The Church in the Theology of Karl Barth, London, 1968, 100 ss.; E. W. WENDEBOURG, Die Christus gemeinde und ihr Herr. Eine kritische Studie zur Ekklesiologie Karl Barths, Berlin-Hamburg, 19 67, 187 ss. e. L’elezione dell’individuo 22. G. MIEGGE, Eletti e reprobi nel pensiero di Karl Barth, «Protestantesimo», 2, 1947, 51 ss. 23. G. MURY, L’Evangile de Judas. ìw l’élection dans le tome II de la dogmatique de Karl Barth, «Christianisme social», 74, 1966, 217 ss. (esempio d’interpretazione marxista). 24. S. K. PARK, Man in Karl Barth’s Doctrine of Election, Ph. D. Diss. Drew University, 1966. 25. G. RABEAU, L’élection de l’homme individuel d’après Karl Barth, «Mélanges de Science Religieuse», 8, 1951, 169 ss. 26. R. SOEDERLUND, Läran om den universelle rättfärdiggorelsen i teologihistorisk Belysning, «Svensk Theologisk Kvartalskrift», 1979, 114 ss. La presente edizione Si segue il testo originale di Die Kirchliche Dogmatik: II: Die Lehre von Gott: 2: Gottes Gnadenwahl, Evangelischer Verlag, Zollikon-Zuerich, 1942, 1563. Data la loro eccezionale qualità sono state tenute costantemente presenti le traduzioni inglese (Edinburgh, 1957) e francese (Genève, 1958). Tutti i titoli dei paragrafi e dei sottoparagrafi sono di Barth; quelli interni ai sottoparagrafi (o eventuali numerazioni) sono invece del curatore; si è voluto così rendere più scorrevole la lettura, più facile l’orientamento, più reperibile il contenuto. Tutte le note a piè di pagina sono di Barth; il curatore si è limitato ad aggiungere sporadicamente qualche integrazione (e per le opere moderne le indicazioni topografiche, assenti in Barth, secondo l’usanza tedesca); segno ne è la parentesi. Si è conservata rigorosamente la tipografia originale, che prevede l’uso di un corpo minore per ampie parti del testo, precisamente per gli excursus biblici e storici o, talora seppure raramente, per specifiche interrogazioni; non tuttavia per semplice imitazione; tale disposizione tipografica ha infatti un preciso significato. Come ha scritto Helmut

Gollwitzer: «Barth elabora di solito gli excursus della KD, stampati a caratteri più piccoli, prima di stendere l’esposizione delle sue tesi; poi però, nel testo stampato, li pospone alla propria trattazione. Ciò ha un significato: la priorità dell’esegesi nel tempo indica l’eteronomia, la dipendenza del pensiero teologico; il fatto invece che l’esegesi venga dopo nel testo stampato ne mette in luce l’autonomia, la libertà, la responsabilità personale» (Introduzione a Dogmatica ecclesiale, 8). Nella traduzione si è rinunciato a conservare i passi latini o a porli in nota; si sono invece conservati i termini greci ed ebraici, però solo dove ciò è parso assolutamente richiesto dal discorso barthiano; così pure è stato aggiunto sporadicamente qualche termine interpretativo (ad uso del lettore medio). Alla traduzione hanno cooperato le dott. Oriana Bert e Marina Merz; il curatore vi ha apportato però tutti quei ritocchi necessari per conferite unità sostanziale e stilistica all’intera opera1. Le abbreviazioni, ridotte al minimo, sono quelle consuete. Per quanto riguarda la documentazione iconografica dei manoscritti barthiani, il lettore non troverà brani che si riferiscono alla sezione tradotta; di tale sezione infatti, negli Archivi Karl Barth non è conservato nessun frammento manoscritto. 1. Ad Oriana Bert è dovuta la traduzione dei paragrafi 34, 4B e 35, 2; a Marina Merz la traduzione dei paragrafi 35, 1; 35, 3 e 35, 4; tutto il resto è dovuto al curatore.

NOTA STORICA Il piano generale della Kirchliche Dogmatik 1. Nel suo schema generale la Kirchliche Dogmatik propone l’elaborazione dei loci theologici della tradizione sistematica in cinque parti (dottrina della Parola di Dio, dottrina di Dio, dottrina della creazione, dottrina della riconciliazione, dottrina della redenzione o escatologia) in una prospettiva sempre più marcatamente cristologica (cfr. soprattutto KD I/2, 954 ss. = D 5, 401 ss.); l’opera immensa (35 anni di lavoro, 13 volumi, più di 9000 pagine) è rimasta incompiuta; manca tutta la dottrina della redenzione e buona parte dell’etica della dottrina della riconciliazione. «Bisogna riconoscere che quest’opera contiene numerose lungaggini e ripetizioni; abituato ad esposizioni più concise, ad un procedere più analitico e più lineare, il lettore si trova particolarmente sconcertato; anche lo stile è più pesante che negli altri scritti; malgrado questi difetti però la Dommatica è l’opera essenziale di Barth ed essa sola permette di cogliere la ricchezza e le sfumature del suo pensiero» (H. BOUILLARD, Karl Barth, I, 221). Per coglierne l’articolazione generale tracciamo qui qualche linea tesa a scandire talune coordinate che altri contributi (in particolar modo H. KUENG, La justification, 28 ss.; H. BOUILLARD, Karl Barth, I. 224 ss.; G. CASALIS, Portrait de Karl Barth, 96 ss.) e l’appendice prima con il materiale che offre, aiutano a rimpolpare. 2. La Lehre von Wort Gottes porta come sottotitolo Prolegomena zur Kirchliche Dogmatik; si pone cioè come il capitolo iniziale ed imprescindibile in cui si tratta del modo di conoscenza specifico della dommatica; suo centro è l’elaborazione della dottrina trinitaria, dato in cui la rivelazione trova la sua manifestazione più completa. Il contenuto della predicazione della chiesa che si vuole conforme alla sua missione e di conseguenza il criterio della dommatica in quanto esame critico di tale predicazione è la Parola di Dio. Questa si realizza in tre figure differenti: nella rivelazione, nella Scrittura e nella predicazione; queste tre forme però devono essere comprese sempre nella loro unità, come discorso, atto e mistero di Dio. In quest’unità siamo posti di fronte alla Parola di Dio nella sua essenza: in quanto discorso, si manifesta come comunicazione potente ed efficace della verità, come rivelazione concreta, come decisione di comunicazione e di dialogo con l’uomo. In quanto atto, si presenta come la rivelazione, l’elezione, la vocazione, la nuova nascita che supera l’immanenza della storia, pur inserendosi in essa, come la potenza ed il giudizio di Dio sull’uomo, come la libera decisione di Dio in favore

dell’uomo. In quanto mistero, si prospetta nel suo carattere di rivelazione sempre indiretta e mediata, nella sua assoluta gratuità, nella sua caratteristica di opera divina. Se tale è l’essenza della Parola di Dio, la conoscenza che possiamo averne non può consistere se non nella sua autorivelazione. Conseguentemente anche la dommatica non può essere che l’interrogazione critica sul dogma e sulla predicazione della chiesa, confrontati con la rivelazione attestata nella Scrittura. Tuttavia se si intende mostrare la struttura interna della rivelazione, della Bibbia e della predicazione (e di conseguenza la necessità di considerare unitariamente la Parola di Dio come discorso, atto e mistero di Dio; e tutto ciò in favore degli uomini, in una manifestazione derivante dal beneplacito e dalla libertà divini) si deve analizzare l’evento in cui la rivelazione si fa reale ed oggettiva, cioè l’avvenimento in cui il Signore si manifesta come il Creatore, il Riconciliatore e il Redentore. E questo il compito della dottrina trinitaria, concretizzata in proposizioni di base concernenti ciascuna delle persone della Trinità, secondo la dottrina classica delle attribuzioni. È da questo studio della rivelazione concreta che Barth parte per trovare gli elementi strutturanti la dottrina riguardante la Sacra Scrittura, descritta come Parola di Dio per la chiesa, come autorità e come libertà nella chiesa. È ugualmente su questi dati che Barth fonda la dottrina concernente la predicazione vista come missione della chiesa nel suo servizio di ascolto e di insegnamento. Alla bibliografia della nostra selezione (pp. 389-393) aggiungere: a) in generale: W. KRECK, Grundentscheidungen, 96 ss.; b) sulla dottrina trinitaria: W. PANNENBERG: Die Subjektivität Gottes und die Trinitätslehre, «Kerygma und Dogma» 23, 1977, 25 ss. (= Hegel et la théologie contemporaine, Neuchâtel-Paris 1978, 171 ss.) e Der Gott der Geschichte. Der trinitarische Gott und die Wahrheit der Geschichte, «Kerygma und Dogma» 23, 1977, 76 ss. (ora entrambi in: Grundfragen systematischer Theologie. Gesammelte Aufsätze II, Göttingen 1980, 80 ss.); R. THEIS, Die lehre von der Dreieinigkeit Gottes bei Karl Barth, «Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie» 24, 1977, 251 ss.; G. M. PIZZUTI, La teonomia dell’essere. Lineamenti di ontologia trinitaria nella Kirchliche Dogmatik di K. Barth, «Filosofia» 28, 1977, 51 ss. (ora in Ontologia trinitaria e antropologia teologica, 93 ss.); c) sul concetto di religione: C. LINK, Das menschliche Gesicht der Offenbarung. Bemerkungen zum Religionsverständnis K. Barths, «Kerygma und Dogma» 26, 1980, 277 ss.; C. SCILIRONI, Tommaso d’Aquino e la critica della religione. Un confronto con Barth e Bonhoeffer, «Asprenas» 27, 1980, 331 ss.; W. KROETKE, Der Mensch und die Religion nach Karl Barth, Zürich, 1981.

3. La Lehre von Gottes, interamente costruita sulla base cristologica di Calcedonia sviluppata nei Prolegomeni, apre la dommatica propriamente detta. Il primo capitolo tratta della conoscenza di Dio, reclamandosi direttamente all’interpretazione della prova anselmiana: il suo compimento nella rivelazione di Cristo mediante la fede; la sua possibilità grazie alla

comunicazione della verità di Dio nel Cristo; i suoi limiti nel mistero di Dio. Ma qual è la realtà di colui che si fa conoscere e che si conosce veramente? È il secondo capitolo che risponde a tale interrogativo, trattando del Dio che vive di forza propria e che, nella sua autonomia, nel suo amore e nella sua libertà cerca e realizza una comunione con gli uomini. La realtà di questo Dio è la sua libertà ed è con questa categoria che deve essere espressa la dottrina tradizionale concernente l’aseitas Dei. Conseguentemente ciascuna delle perfezioni divine (in se stesse identiche all’unica e semplice essenza divina, già considerata come unica nella triplicità delle sue manifestazioni) è una forma dell’amore con cui il Signore glorioso esprime la sua libertà. O se si considera in altra prospettiva la manifestazione di questa realtà, si può parlare di un dispiegamento della libertà divina, in cui Dio ama gli uomini senza sminuire in alcun modo il suo amore. L’essere di Dio non è dunque un essere-per-sestesso: Dio, rivelandosi come Dio, si manifesta nel suo essere-per-noi. È questo aspetto particolare che forma l’oggetto del terzo capitolo: Dio si apre all’uomo liberamente e definitivamente nell’elezione eterna di Gesù Cristo; questa però è come tale, e contemporaneamente, l’elezione d’Israele e della chiesa, l’unica comunità di Dio in duplice figura; e la testimonianza di tale comunità riafferma la riprovazione dell’uomo isolato che non è nulla senza Gesù Cristo ed annuncia l’elezione eterna alla vita, per ogni uomo, in Gesù Cristo. Pervenuti a tale apice tuttavia, la dottrina di Dio non è ancora conclusa. L’elezione apre all’etica, che (capitolo quarto) si trova così fondata teologicamente e cristologicamente: il comandamento è visto allora come rivendicazione, decisione e giudizio divino sull’uomo, cui è offerta la categoria della risposta. Alla bibliografia della nostra selezione (pp. 393-396) aggiungere: C. SCILIRONI: Relazione, opposizione e dialettica in Karl Barth, «Studia Patavina» 27, 1980, 127 ss. e Possibilità e fondamento della fede: Karl Barth e E. Severino. Per una teoria del fondamento della fede, «Sapienza», 3, 1981, fasc. 3-4.

4. Considerato Dio in se stesso e nelle sue perfezioni, si pone la questione: quali sono le opere di Dio? Negli altri volumi della Kirchliche Dogmatik Barth parla delle tre grandi opere che contengono in sé tutte le altre e che costituiscono, in vari momenti, l’unica grande opera di Dio: la creazione, la riconciliazione, la redenzione (o dottrina del compimento). Quest’ultima (die Lehre der Erloesung) non è stata iniziata, ma parecchi elementi si possono trovare nel corso della Dommatica (in particolare KD I/2, § 14 = D 3, 43-113; I/2, § 24, 2 = D 5, 401-430; III/1, § 41 = D 10, 43-100; III/2, § 47 = D 12, 120-338; IV/1, § 59, 3 = D 17, 340 ss.; IV/1, § 62, 3 = D 19, 91 ss.) mostrando

concretamente il cammino percorso da Barth dalle prime opere riecheggianti un monismo escatologico legato alla resurrezione di Cristo (così nel Roemerbrief del 1922: trad. ital.: pp. 66, 80, 86, 127, 147, 157 ss., 161, 166, 170, 176, 192, 202 ed ancora in Die Auferstehung der Toten del 1924: pp. 54 ss. della riedizione del 1953, tradotte in Antologia, 65 ss.) attraverso l’Erklärung des Philipperbriefes (trad. ital.: pp. 191 ss.) e la Die Christliche Dogmatik (pp. 230 ss. in particolare) del 1927. Taluni dati sono reperibili anche in Credo - Die Hautprobleme der Dogmatik dargestellt in Anschluss an das Apostolische Glaubenbekenntnis del 1935 (trad. franc.: pp. 125 ss., 204 ss.) e nella Dogmatik im Grundriss del 1947 (trad. franc. nell’ediz. trascabile del 1968: pp. 193 ss., 249 ss.). 5. La Lehre von der Schoepfung è una dottrina di salvezza nell’accezione più profonda del termine e non può essere sviluppata se non nella fede: ogni pretesa di teologia naturale deve essere esclusa nel modo più netto e radicale. Certo la creazione, in quanto prima opera del Dio trinitario secondo la dottrina delle attribuzioni, non è già come tale, riconciliazione e redenzione; tuttavia queste ultime hanno il loro presupposto proprio nella creazione e dunque, per così dire, hanno già inizio con essa; la decisione originaria e fondante spetta però alla dottrina dell’elezione divina, di cui creazione, riconciliazione e redenzione sono realizzazione esterna e temporale. La prima parte tratta dell’opera della creazione in quanto tale. Esamina dapprima la fede in Dio il Creatore e presenta l’opera della creazione come autorivelazione divina, rilegandosi alla dottrina trinitaria. Segue il paragrafo centrale che unisce creazione ed alleanza: la creazione è vista come il fondamento esteriore dell’alleanza, mentre quest’ultima è definita come fondamento interiore della creazione; il fine e dunque anche il significato della creazione è di rendere possibile la storia dell’alleanza di Dio con l’uomo in Gesù Cristo. Infine l’opera del Creatore è benefica nella misura in cui fonda il creato e ne permette l’esistenza giustificandolo. Il concetto di creazione non implica solamente l’azione creatrice di Dio, ma pure il risultato di questo atto; così la seconda parte della dottrina tratta della creatura o, più concretamente, dell’uomo in quanto creatura di Dio; è l’antropologia teologica fondata sulla cristologia. Partendo da Gesù Cristo, l’uomo è affermato come creatura di Dio e come destinato all’alleanza, cioè come un essere-per-Dio ed un essere-con-ilprossimo. Di che cosa è fatto questo essere? In una diversità irrevocabile, in una unità inseparabile ed in un ordine inalterabile, l’uomo è l’anima del suo

corpo (che ha come principio lo Spirito di Dio); è cioè anima e corpo completamente ed integralmente; come tale è un essere circoscritto nel tempo dal Dio eterno e conseguentemente un essere limitato da Dio, fondamento e speranza della sua esistenza. La terza parte può allora mettere a confronto Creatore e creatura: descrive dapprima la provvidenza rivelatasi nella sovranità paterna del Dio creatore in Gesù Cristo, sovranità grazie a cui Dio mantiene il corso dell’esistenza di ogni creatura in particolare, assistendola e reggendola. Quindi è prospettata l’attitudine del cristiano che si riconosce creatura sottomessa a questo governo sovrano, paterno, provvidenziale, atteggiamento concretizzato nella fede, nell’obbedienza e nella preghiera. Dopo la dottrina della provvidenza nei suoi due aspetti, è la volta della dottrina che si occupa dell’elemento oppositore di tale provvidenza, cioè il nulla come potenza nientificata, eppure ancora vigorosa, del male. Infine ecco la dottrina sui messaggeri di Dio (gli angeli) ed i loro avversari (i demoni) nel regno che Dio esercita sul mondo. La quarta parte contiene la prima parte dell’etica speciale: il comandamento del Dio creatore: l’ordine della creazione in Gesù Cristo concerne la libertà in cui Dio vuole vedere l’uomo nei suoi rapporti con sé medesimo e con il suo prossimo. Alla bibliografia della nostra selezione (pp. 396-397) aggiungere: a) in generale: M. PLATHOW, Das Problem des concursus. Das Zusammenwirken von göttlichem Schöpferwirken und geschcöflichem Eigenwirken in Karl Barths Kirchlicher Dograatk, Gottingen 1976 (studio capitale); P. DEMANGE, Anthropologie et théologie, «Etudes Philosophiques» 32, 1977, 191 ss.; C. FREY, Zur theologischen Antropologie Karl Barths, «Neue Zeitschrift für Systematische Theologie», 19, 1977, 199 ss.; H. STICKELBERGER, Ipsa assumptione creatur. Karl Barths Rückgriff auf die Klassische Christologie und die Frage nach der Selbständigkeit des Menschen, Berne - Frankfurt, 1979; A. PETERS, Der Mensch, Gütersloh 1979 (pagine molto importanti); K. STOCK, Anthropologie der Verheissung. Karl Barths Lehre vom Menschen als dogmatisches Problem, München 1980 (studio capitale e notevolmente rinnovatore); b) su punti specifici: M. HONECKER, Lc peine de mort dans la perspective de la théologie évangelique, «Concilium», n. 140, 1978, 69 ss. (buona illustrazione della posizione barthiana).

6. La Lehre von der Versöhnung (rimasta incompiuta nella sua parte etica, restituitaci ora parzialmente nell’edizione della Gesamtausgabe) costituisce il compimento dell’alleanza di cui la creazione è il quadro esterno e l’elezione divina la decisione originaria e fondatrice. Si trovano solidamente intrecciate quattro prospettive orizzontali e tre dimensioni verticali; nessuna può essere considerata come autonoma; si compenetrano profondamente e si raggiungono nel centro cui tendono e da cui sono sostenute, cioè la cristologia. Le quattro prospettive orizzontali sono: cristologia propriamente detta, dottrina del peccato, soteriologia e dottrina delle opere dello Spirito Santo.

Quanto alla struttura verticale si esprime nelle tre forme della dottrina della riconciliazione ordinanti le prospettive orizzontali e queste tre forme derivano dalla cristologia. Così abbiamo la presentazione sistematica seguente: a. Le tre prospettive verticali formano la cristologia in senso stretto mostrando che: 1) Gesù Cristo è il vero Dio, cioè il Dio che si è abbassato e che in questa maniera ha riconciliato il mondo con sé; è il Signore come Servitore; il Signore come sommo sacerdote; la tradizione teologica ha parlato dell’ufficio sacerdotale; 2) Gesù Cristo è il vero uomo, cioè l’uomo esaltato da Dio ed in questa maniera riconciliato; è il Servitore in quanto Signore; il Servitore in quanto re; la tradizione teologica ha parlato di ufficio regale; 3) Gesù Cristo è, nell’unità dei due elementi, uomo-Dio, cioè il garante ed il testimone veridico della nostra riconciliazione; è il profeta che attesta il vero; la tradizione ha parlato di ufficio profetico. b. La cristologia consente di esporre, negativamente, la dottrina del peccato: 1) contro Gesù Cristo il Signore che diventa Servitore, l’uomo commette il peccato di orgoglio e nello studio di questa situazione umana Barth tratta del peccato originale; 2) contro Gesù Cristo il Servitore che è Signore, l’uomo commette il peccato di indolenza; 3) contro Gesù Cristo il testimone ed il garante della riconciliazione, l’uomo commette il peccato di menzogna. c. Di fronte al peccato, positivamente si snoda la dottrina della riconciliazione di Gesù Cristo: 1) all’orgoglio dell’uomo, corrispondono il giudizio di Dio e la sentenza con cui l’uomo è assolto: è la dottrina della giustificazione; 2) all’indolenza dell’uomo corrisponde l’ordine che Dio stesso instaura: è la dottrina della santificazione; 3) alla menzogna dell’uomo, corrisponde la promessa di Dio: è la dottrina della vocazione dell’uomo. d. La riconciliazione è realizzata in forza dell’opera dello Spirito Santo: 1) innanzitutto nella comunità: per mezzo dello Spirito Santo, potenza suscitata dalla parola del Signore divenuto Servitore e dunque potenza che suscita il giudizio divino che giustifica l’uomo, si opera la riunione della comunità; per mezzo dello Spirito Santo, potenza animata dalla parola del Servitore divenuto Signore e dunque forza che anima il comandamento divino che santifica l’uomo, si opera l’edificazione della comunità; per mezzo dello Spirito Santo, potenza che illumina la Parola come garante della riconciliazione e la promessa divina che chiama l’uomo, si opera l’invio della comunità; 2) in seguito in ciascun credente: mediante la giustificazione lo Spirito risveglia la fede; mediante la santificazione lo Spirito fa vivere nell’amore; mediante la

vocazione lo Spirito infonde la luce della speranza. Seguono ad illustrazione della parte etica il frammento sul fondamento della vita cristiana (il battesimo: pubblicato da Barth) ed altri frammenti utilizzati da Barth nell’attività accademica (editi nella Gesamtausgabe). Alla bibliografia della nostra selezione (pp. 397-400) aggiungere: a) per la cristologia: J. L. LEUBA, Dios salvados segùn Karl Barth. Un modélo de soteriologia protestante, «Estudios Trinitarios» II, 1977, 23 ss. ripreso in francese: «Hokhma» 1979/11, 2 ss.; J. REILLY, Athonement in the Church Dogmatics of Karl Barth, «Irish Theological Quarterly» 45, 1978, 28 ss.; H. STICKELBERG, Ipsa assumptione creatur. Karl Barths Rückgriff auf die Klassische Christologie und die Frage nach der Selbständigkeit des Menschen, Berne-Frankfurt, 1979; b) per la pneumatologia: Ph. J. ROSATO, The Spirit as Lord. The Pneumatology of Karl Barth, Edinburgh, 1981; c) per l’ecclesiologia: K. A. BAIER, Unitas ex auditu - Die Einheit der Kirche im Rahmen der Theologie K. Barths, Berne-Frankfurt, 1978 e J. HERBERG, Kirchliche Heilsvermittlung Ein Gespräch zwischen K. Barth and K. Rahner, Bern-Frankfurt, 1978; per la dottrina della giustificazione: Ch. HEMPEL, Rechtfertigung als Wirklichkeit - Ein Katholisches Gespräch: Karl Barth, H. Küng, R. Bultmann und seine Schule, Bern-Frankfurt, 1975; W. JOEST, Karl Barth und das lutherische Vestaendnis von Gesetz und Evangelium, «Kerygma und Dogma», 24, 1978, 86 ss.; R. SOEDERLUND, Läran om den universelle rättfärdiggörelsen i teologihistorisk belysning, «Svensk Theoiogisk Kvartalskrift» 55, 1979, 114 ss. (critica serrata del rapporto giustificazione-fede), e) cenni per una valutazione mariologica: E. J. LACELLE, Marie dans l’évènement de la réconciliation en Jésus-Christ: un rendez-vous oecuménique proposé par Karl Barth, «Science et Esprit», 32, 1980, 5 ss.; f) parte etica: H. BERKHOF - H. J. KRAUS, Karl Barths Lichterlehre, Zuerich 1978 (saggio importante per le prospettive d’interpretazione generale che apre: cfr. S. ROSTAGNO. «Protestantesimo» 35, 1980, 101 s.); g) parte etica della Gesamtausgabe: S. ROSTAGNO, Karl Barth nella sua ultima etica, ciclostilato Facoltà Valdese di Teologia, Rama: anno accademico 1977-1978 (pp. 32: abbondante materiale con buone annotazioni sulla struttura del pensiero etico barthiano nelle pagine conclusive); K. BLASER, L’éthique en tant qu’invocation de Dieu: à propos des derniers cours de Karl Barth, «Revue de Théologie et de Philosophie» 28, 1978, 149 ss.

Considerazioni sulla Kirchliche Dogmatik 1. È ora utile soffermarci brevemente per comprendere la struttura del pensiero barthiano nella Kirchliche Dogmatik, coordinando ed integrando quanto è stato detto nell’introduzione. I princìpi formali che sorreggono la teologia barthiana sono riconducibili all’oggettività ed all’attualismo; due proposizioni li esprimono adeguatamente: «si conosce Dio per mezzo di Dio e solamente per mezzo di Dio» (KD 11/1, 47 = D 6, 38) e «Dio parla» assunto nella sua portata di avvenimento; nella loro complementarietà tali proposizioni sono relazionali e strutturano un pensiero «dall’alto» con riferimento costante a quel concretissìmum che è Dio (il Dio trinitario) nella sua rivelazione in Gesù Cristo, a quel concretissimum che è la storia dell’alleanza la cui origine si pone nell’elezicne eterna di Gesù Cristo, a quel concretissimum che è la riconciliazione, la cui comprensione rinvia alla

creazione da un lato ed alla redenzione dall’altro, radicandosi anch’essa nel mistero di Dio, manifestatosi nell’eletto-riprovato e nel riprovato-eletto. Si comprendono così le affermazioni metodologiche che reggono e traversano ad ogni livello la Kirchliche Dogmatik: l’oggetto della dommatica non è né un dogma fondamentale, né un principio, né la ricerca dell’essenza del cristianesimo e neppure una certa nozione della Parola di Dio; è invece la Parola di Dio in se stessa, fondamento e centro gravitazionale di cui la teologia non dispone, ma da cui è portata; perciò la dommatica si riconosce «autonoma» nella misura in cui si pone come «teonoma», nella misura cioè in cui si sottomette liberamente e gioiosamente alla Parola di Dio e questo in maniera esclusiva, onorando, temendo ed amando sopra ogni cosa l’opera e l’azione divina nella sua Parola; perciò ancora si presenta come «dogmatica regolare» (mai come «sistema», cioè come un insieme di princìpi e di conclusioni rilegati causalmente ad un’intuizione fondamentale), articolata secondo il metodo classico dei loci theologici, così caro a Melantone ed a Calvino, al di là della metodologia analitica espressasi nell’ortodossia protestante, sfociante nella pericolosa dottrina degli articoli fondamentali, riduttiva del messaggio cristiano (KD I/2, 954-973 = D 5, 401-417). Si comprendono così soprattutto le strutture contenutistiche portanti della Kirchliche Dogmatik. Innanzitutto l’articolazione interna dei loci theologici. Occorre partire da un dato fondamentale: al centro del messaggio cristiano vi è indubbiamente la rivelazione della riconciliazione, vittoria sulla tenebra umana, superamento della contraddizione dell’uomo, filigrana che consente di traversare il buon annuncio evangelico in tutti i suoi aspetti; questo fatto tuttavia non consente di considerarla come intuizione fondamentale, elaborando di conseguenza una dommatica come sistema della riconciliazione; si ridurrebbe indebitamente la ricchezza sinfonica e plurale dell’azione divina e soprattutto resterebbe al di fuori proprio il soggetto dell’azione riconciliatrice, Dio che, appunto, in tale sistema non potrebbe essere presentato come il Signore. Accanto alla dottrina della riconciliazione si deve dunque porre una dottrina di Dio ad essa irriducibile, seppure coordinata; nemmeno questa però deve assurgere a principio strutturante, altrimenti finirebbe dominata dalla concezione tradizionale della predestinazione, da un’idea di decretum absolutumche onnubila la sovranità di Dio, oscurandola proprio quando crede di metterla in rilievo; per essere autentica, la dottrina di Dio dev’essere già pregnante di

riconciliazione, sotto pena di cadere altrimenti nell’astrazione. Accanto alla dottrina della riconciliazione non si deve perciò porre semplicemente la dottrina di Dio; essa suppone infatti la creazione, poiché l’uomo è creatura, prima di essere peccatore e peccatore redento; la riconciliazione rinvia quindi alla creazione e non può comprendersi senza di essa. Non è tuttavia un semplice sviluppo della creazione; non si conosce Dio e la sua creatura se non concretamente nella riconciliazione; a sua volta quindi la conoscenza del Dio creatore rinvia alla conoscenza del Dio riconciliatore e questa nuovamente rinvia ad una corretta dottrina di Dio. La riconciliazione non è perciò l’ultima parola, poiché la redenzione finale, l’escatologia, non è riconducibile semplicemente ad essa; il Cristo della fede cristiana è il Signore che viene; la nostra salvezza è escatologica ed attende il suo compimento. Nondimeno, anche qui, una dommatica esclusivamente escatologica rischierebbe di dissolvere la riconciliazione nella redenzione finale, la chiesa nel Regno, la fede nella speranza; la creazione impallidirebbe lontana e tenderebbe a mettere in primo piano la caduta; la dottrina di Dio diverrebbe appena un postulato. Per essere corretta, una dommatica regolare dovrà dunque presentare successivamente la dottrina di Dio, la dottrina della creazione, la dottrina della riconciliazione, la dottrina della redenzione finale; ciascuna deve rimanere autonoma, seppure correlata, poiché ognuna ha la medesima sorgente: l’opera e l’azione di Dio nella sua rivelazione; è l’oggetto stesso della dommatica, e non l’imperfezione della nostra conoscenza, a disporre questo susseguirsi in sezioni irriducibili, sebbene strettamente correlate (KD I/2, 973990 = D 5, 417-430). In secondo luogo si comprende la funzione capitale della concentrazione trinitaria e la sua trattazione nei prolegomeni, intesi ad offrire una dottrina completa della Parola di Dio, in quanto criterio della dommatica; predicazione ecclesiastica e Scrittura si rapportano alla rivelazione divina; e poiché in quest’ultima è impossibile isolare la forma dal contenuto, la rivelazione divina si presenta necessariamente ed ineludibilmente come rivelazione del Dio trinitario. La dottrina di Dio non è quindi neutra; vive già in questa premessa che è anche promessa e realtà del Dio vivente; e così si dica delle altre parti corrispondenti alle opere tipiche del Dio trinitario. La dommatica regolare, qualunque forma assuma, riflette sempre la struttura trinitaria degli antichi simboli di fede. I prolegomeni precedono tutta l’esposizione, poiché in un certo senso la compendiano, la coordinano, la strutturano, la sostengono; la fede cristiana non può che parlare del Dio creatore, riconciliatore, redentore poiché

solo questo Dio le è dato conoscere; si conosce Dio per mezzo di Dio e solo così, nell’evento di quella rivelazione trinitaria che ci è stata data, nella realtà divina che ci è permesso e comandato di cogliere. In terzo luogo si comprende come tutto il discorso barthiano si muova verso un centro ed una prospettiva ben determinata: la cristologia conseguente. A ciascuna tappa dell’articolazione dei loci theologicì (KD I/2, 985-988 = D 5, 427-429) appare chiaro che proprio la dottrina della riconciliazione è il «centro oggettivo, sebbene non sistematico» (nell’accezione indicata sopra) di tutta la dommatica (KD I/2, 896 = D 5, 427); nei prolegomeni è subito evidente che il polo centrale dell’esposizione trinitaria è il Verbo incarnato; nella dottrina di Dio il culmine è l’elezione divina interpretata cristologicamente. La concentrazione trinitaria si reduplica in concentrazione cristologica; il Dio trinitario offre qui la sua autodefinizione plù completa, più plena, più definitiva; né può essere diversamente perché la Parola di Dio per eccellenza è proprio il Verbo Incarnato. Dall’interazione di questi princìpi formali, di queste strutture metodologiche, di questi elementi contenutistici nasce la potenza di un discorso articolato. Esso è traversato in tutta la sua lunghezza dalla tensione che snoda la storia dell’alleanza ed è una tensione che ripropone l’interpretazione generale dell’opera nell’approfondimento dei termini che rilegano Dio e l’uomo, nella linea della relazione, dell’opposizione, della dialettica; è in questa prospettiva che acquista forza il discorso barthiano sull’analogia; è in questa linea che diventa emblematica la logica del discorso barthiano che certo si esprime in una dualità, ma in una dualità tutta tesa a conservane il senso del kerigma. Tuttavia proprio una tensione di questo tipo. In cui oggettivamente il rapporto fra Dio e l’uomo avviene attualisticamente per sola grazia, in cui quindi tale relazione conserva sempre una ineludibile dimensione verticale, per essere autentica deve reduplicarsi in una reale dimensione orizzontale; questo non può avvenire se non in Gesù Cristo; e precisamente deve avvenire non solo a livello della dottrina della riconciliazione, ma pure a livello della dottrina della creazione e più a monte della dottrina di Dio, proprio là dove, nella dottrina dell’elezione divina, la rivelazione coniuga il suo sforzo più grandė, nel mistero della praedestinatio gemina cristologica. L’elezione divina, cristologicamente intesa, non è certo un principio da cui dedurre il «sistema»; è piuttosto il fondamento che struttura la dommatica regolare; la base in cui quanto precede giunge a compimento e quanto segue trova il suo ancoraggio. Come gli antichi simboli di fede, anche la dommatica barthiana, a struttura

rigorosamente trinitaria (e la mancanza della dottrina della redenzione non deve trarre in inganno) si propone come rigorosamente cristologica. Introducendo la dottrina dell’elezione nella dottrina di Dio (come culmine di quanto precede e fondamento di quanto segue; come premessa fondante l’etica, risposta ed invocazione), Barth sottolinea positivamente (nei confronti del messaggio cristiano e dei suoi contenuti) e negativamente (nei confronti delle sistemazioni teologiche) l’origine di tutte le vie e di tutte le opere di Dio; spiegandola cristologicamente dà un nome a tale origine; e nel contempo offre una prospettiva globale, continuamente presente ed operante. 2. Per comprendere appieno i princìpi formali della Kirchliche Dogmatik occorre rifarsi a due grandi figure, interlocutrici privilegiate di Barth nel suo lungo cammino. La prima è Anselmo d’Aosta, il cui metodo teologico e la cui prova ontologica sono capitali per la fondazione dell’oggettivismo barthiano: presente già nella Christliche Dogmatik del 1927 (pp. 97 ss., 226 s.), essenziale nella Kirchliche Dogmatik (soprattutto KD II/1, § 25, 2 = D 6, 30 ss.; § 26, 1=D 6, 62 ss.; § 27, 2 = D 6, 206 ss.), l’apporto di Anselmo si rivela determinante nell’opera del 1931: Fides quaerens intellectum. Anselms Beweis der Existenz Gottes (che citiamo nella traduz. italiana: Milano, 1965). «Dio si è dato all’uomo come oggetto di conoscenza ed ha illuminato l’uomo sì che lo potesse conoscere come oggetto. Senza questo avvenimento non vi è prova dell’esistenza di Dio, cioè dell’oggettività di Dio. Ma in virtù di questo avvenimento si ha una prova per cui si può rendere grazie. Ha parlato la verità, non l’uomo che vuole credere. L’uomo potrebbe anche non voler credere. L’uomo potrebbe anche essere sempre uno stolto. Se come abbiamo udito non lo è, ciò avviene per grazia. Ma anche se lo fosse, la verità ha parlato in modo che la si debba udire, irrefutabile, inobliabile, cosicché all’uomo è vietato, ed è pertanto impossibile, non conoscerla» (p. 264 s.). Barth rovescia lo schema cartesiano; non più cogito ergo sum, ma cogitor ergo sum; nella rivelazione della realtà oggettiva di Dio, l’uomo è implicato in quanto soggetto sottomesso dal Dio che gli si pone di fronte (e che per questo è obiectum), un Dio che non resta al di fuori della conoscenza dell’uomo, poiché l’uomo già vive nella conoscenza di Dio. La conoscenza di Dio è possibile perché è reale; Dio infatti si pone veramente davanti all’uomo, rivelandosi all’uomo, suscitando la risposta adorante, dossologica, invocante dell’uomo; per pronunciare il nome di Dio (e «nome» significa biblicamente la realtà stessa di Dio), l’uomo dev’essere toccato dalla grazia (p. 158 s.). Di

conseguenza non si deve provare che Dio esiste: se una fides quaerens intellectum ha le sue ragioni, non è mai nella linea di una conoscenza filosofica, ma sempre e solamente nella prospettiva di un conoscere che si radica nel beneplacito divino e che è tutto teso a verificare il come della verità dell’esistenza divina (pp. 32 ss., 90); la colpa del filosofo consiste nel voler procedere con l’aiuto di una ragione solitaria, dimenticando che Dio è lui stesso la sua attestazione, che può esserlo e che effettivamente lo è (p. 68). Dio si rivela autorivelandosi e un Dio diverso non è che un fantasma (pp. 104 ss.). Dio non è dunque un Dio «sconosciuto», ma un Dio «nascosto» che si rivela nella sua grazia, nella sua gloria, nel suo essere che è libertà. Ogni parola umana che non riconosca questo punto di partenza è tentativo prometeico destinato al fallimento. Ciò vale anche e soprattutto per la teologia: «come scienza della fede che muove dalla fede, la teologia ha una luce che non è la luce della fede del teologo» (p. 255). Lo studio della prova ontologica anselmiana apre al nucleo della teologia barthiana e nel contempo al programma teologico, al radicarsi di un metodo: d’ora innanzi la dommatica sarà sempre vista come dipendente completamente dall’atto libero della fede, come inquadrata nel campo della chiesa, come sottomessa all’atto libero e sempre nuovo della predestinazione divina che ha nome Gesù Cristo (KD I/1, 20 s. = D 1, 19 s); la dommatica richiamerà sempre la sua norma strutturante: credo ut intelligam, occorre credere per comprendere (KD I/1, 289 = D 1, 261); la dommatica vivrà sempre propter auctoritatem ipsius Dei revelantis (KD I/1, 289 = D 1, 261). La seconda figura che bisogna richiamare è Schleiermacher. Se Anselmo funge da punto di riferimento capitale in senso positivo, comportando per Barth «la revisione metodologica e la meditazione teologica necessaria prima di affrontare l’opera fondamentale della sua vita» (V. VINAY, Introduzione a Filosofia e rivelazione, XXXI), Schleiermacher ne costituisce il polo dialettico. I rapporti fra Barth e Schleiermacher sono lunghi, sinuosi, mobili, differenziati (basti riferirsi alla documentazione rapportata nell’appendice seconda) eppure estremamente unitari. Per rendersene conto si parla da uno degli ultimi scritti barthiani: Nachwort um Schleiermacher del 1968 (che citiamo dalla traduzione francese: La Théologie protestante au XIX siècle, 445 ss.). «Cercherò di formulare per quattro volte due questioni e di esaminarle per caratterizzare il mio imbarazzo. Con una risposta dialettica i miei rapporti con Schleiermacher potrebbero forse continuare anche oggi. In primo luogo: nell’impresa di

Schleiermacher 1) si tratta in maniera costringente, chiara e caratteristica di una teologia cristiana, orientata verso il culto, la predicazione, l’insegnamento e la pastorale?; questa teologia porta il rivestimento di una filosofia adattata all’uomo del suo tempo solo per caso, estrinsecamente, in modo non peculiare? Se si dovesse andare in questa linea dovrei pormi il problema di un’eventuale reazione positiva, con riserva sui dettagli; avrei però compreso bene l’impresa di Schleiermacher?; finora non sono riuscito a comprenderla così e per questa ragione non posso andare d’accordo, finora, con Schleiermacher. Oppure si tratta 2) innanzitutto e nettamente di una filosofia indifferente alla teologia, che si allontana da Aristotele, Kant e Fichte solo per essere più vicina a Platone, Spinoza e Schelling, una filosofia che sa conciliare il logos e l’ethos superandoli entrambi, una filosofia che ha rivestito il mantello della teologia cristiana solo per caso, in maniera estranea e non caratteristica? In questo caso dovrò prendere le mie distanze nei confronti di Schleiermacher; tale comprensione è però giusta?; e se così non fosse, quale diritto avrei di prendere le mie distanze nei confronti di Schleiermacher? In secondo luogo: l’uomo nella teologia e nella filosofia di Schleiermacher 1) sente, pensa e parla riferendosi costantemente ad un altro impossibile da annullare, ad un oggetto superiore al suo essere, ai suoi sentimenti, alla sua conoscenza, alla sua volontà, alla sua azione, nei confronti del quale l’adorazione, la gratitudine, l’invocazione sono concretamente possibili, anzi raccomandabili? Se così fosse, mi metterei attento e sarei gioiosamente disposto ad accogliere un’informazione più ampia su questi altri punti, nella speranza di trovarmi d’accordo con Schleiermacher nel profondo. L’avrei però ben compreso, credendo di trovare in lui un simile pensiero, ad esempio in un passaggio oscuro dei suoi Discorsi sulla religione là dove esprime il presentimento di un qualche cosa al di fuori e al di sopra dell’umanità o nella celebre definizione di Dio, data in seguito, come fonte del sentimento di assoluta dipendenza? Finora ho creduto di doverlo interpretare diversamente e di non poter camminare con lui. Ho però agito saggiamente? Oppure l’uomo di Schleiermacher sente, pensa e parla 2) con sovrana coscienza della sua somiglianza, anzi coincidenza, con tutto ciò di cui potrebbe trattarsi come oggetto, cosa o persona diversa da sé? Se così fosse, la porta fra me e Schleiermacher sarebbe proprio chiusa ed una comunicazione oggettivamente impossibile. L’ho però compreso bene, vedendolo ingaggiato su quel cammino? Non dovrei comprenderlo diversamente, il che mi permetterebbe di

non escludere l’eventualità di una comunicazione oggettiva fra noi? In terzo luogo: secondo Schleiermacher l’uomo sente, pensa e parla 1) innanzitutto riferendosi ad una realtà particolare, concreta e dunque definita e definibile e partendo da essa solamente e cioè in un secondo momento, in maniera generale ed astratta, osservando la natura ed il senso della realtà con cui entra in relazione? Se così fosse, Schleiermacher ed io saremmo d’accordo in profondità. Però non gli avrei forse prestato qualcosa non corrispondente affatto al suo modo di vedere ed alla sua intenzione, impossibile da accordare con la mia concezione, a farla cioè coincidere con essa? Oppure il sentimento, il pensiero e la parola dell’uomo sarebbero secondo Schleiermacher 2) innanzitutto in rapporto con una natura ed un senso generale della realtà, considerate a priori, tenendo conto solo in un secondo momento dell’aspetto particolare, concreto, definito e definibile di tale realtà? Allora dovrei protestare. Schleiermacher e la mia modesta persona sarebbero ben lontani l’uno dall’altra. L’ho però compreso bene leggendolo in questa maniera finora? Se si potesse comprenderlo diversamente, la mia protesta nei suoi confronti sarebbe senza oggetto. Dovrei allora andargli incontro dicendo un pater peccavi e ricevere modestamente la lezione che ben vorrebbe darmi. Ah, se solamente fossi in questa situazione! In quarto luogo: se tutto avviene secondo le regole, lo spirito che mette in movimento l’uomo che sente, parla e pensa 1) è uno spirito assolutamente particolare, specifico, che si distingue nettamente e sempre dagli altri spiriti, uno spirito che deve essere qualificato solennemente come “santo”? Se avessi ben compreso Schleiermacher, se lo avessi cioè compreso secondo le regole del suo pensiero e se fosse come ho detto or ora, potrei forse contestare il suo pensiero o non dovrei piuttosto mettermi al suo tavolo di lavoro e continuare per sapere a che punto siamo e quali sono le conseguenze di un simile modo di procedere? Tutto è qui: l’ho capito bene? Come interprete coscienzioso, potrei assumere la responsabilità di spiegare così la posizione schleiermachiana? Oppure, secondo Schleiermacher, lo spirito 2) che mette in movimento l’uomo che sente, che pensa, che parla è certo individualmente differenziato, ma universalmente operante?; è un dinamismo spirituale e diffuso? Allora vi sarebbe un irreparabile divorzio fra il grande uomo e me, sempre tenendo conto delle proporzioni. Ma così lo comprendo bene, in modo cioè conforme al suo genio o lo carico di un pensiero che gli è estraneo? Lasciando cadere questi elementi, non dovrei forse ammettere che non c’è divorzio assoluto fra noi due? Il

lettore che ha seguito attentamente la spiegazione di questi quattro gruppi di due questioni avrà visto subito chiaro: nella prima questione ho sempre detto come avrei voluto comprendere Schleiermacher e nella seconda, con altrettanto amore, come avrei voluto ingannarmi sul suo conto. Desidero infatti ardentemente vivere in pace con Schleiermacher. Ho però dovuto concludere ogni gruppo con un nuovo interrogativo. Ciò significa che non ho affatto concluso con l’opera di Schleiermacher, che non vedo ancora chiaro nei suoi riguardi né positivamente, né negativamente. Eppure non vi è equivoco possibile: la mia strada non è la sua. Nei confronti della sua teologia mi trovo in un grande e doloroso imbarazzo. Per mettere in luce questa situazione in una maniera ben precisa, ecco un ultimo gruppo di questioni. In quinto luogo dunque le due questioni di questi quattro gruppi sono giudiziose, cioè 1) poste conformemente all’intenzione di Schleiermacher? Un’eventuale risposta sarà sufficiente per permettere una presa di posizione massiccia (positiva, negativa o critica) nei confronti della causa rappresentata da Schleiermacher? Tali questioni possono dar luogo ad una discussione oggettiva fondamentale dello sviluppo del suo principio? Oppure tutte le questioni sollevate sono false, cioè 2) poste in modo non conforme al pensiero di Schleiermacher? Un’eventuale risposta sarà sufficiente per permettere una presa di posizione messiccia a riguardo della causa di Schleiermacher? Queste questioni non possono dunque suscitare una discussione oggettiva sostanziale delle diverse affermazioni e dei differenti passaggi attraverso cui Schleiermacher ha sviluppato il suo principio?» (La Théologie protestante, 460463). Schleiermacher ha attirato l’attenzione storica di Barth, al punto che si è potuto scrivere che proprio i saggi di Barth a proposito dello Schleiermacher hanno segnato una svolta (e Barth lo rammenta non senza humor: La Théologie protestante, 451 s.), ma soprattutto la sua attenzione teologica. Barth ricorda che con il secondo Roemerbrief è segnata una svolta di non ritorno: «oggettivamente non potevo ritornare a Schleiermacher» (La Théologie protestante, 452). Tuttavia con lui avrà sempre a che fare, perché Schleiermacher è non solo una figura eccezionale, ma l’antenato di molti epigoni con cui Barth non può non entrare polemicamente (talvolta amaramente, sempre decisamente) in contatto (La Théologie protestante, 452, 457, 460, 463). Schleiermacher significa infatti per Barth innanzitutto «la distretta di un’orizzonte antropologico» (p. 456): «con riserva di

un’informazione più adeguata, non vedo il cammino che conduce da Schleiermacher e dai suoi epigoni attuali agli storiografi, ai profeti e ai saggi d’Israele, che conduce alla vita, alla morte e alla resurrezione di Gesù Cristo, alla parola degli apostoli; non vedo un cammino che porta al Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe, al Padre di Gesù Cristo, un cammino che conduce verso la grande tradizione cristiana» (p. 457). Gli anni dell’entusiasmo per Schleiermacher sono lontani (pp. 445-447); «l’orribile manifesto» degli intellettuali tedeschi all’epoca della prima guerra mondiale aveva chiuso definitivamente tutto con la «teologia liberale» derivata da Schleiermacher (p. 448); «una voce interiore risuonava però sempre in favore di Schleiermacher» (p. 452), in favore di quel suo desiderio di comprendere l’uomo nella sua integralità e di rapportarlo a Dio (p. 451). Torniamo ora indietro. Troviamo un blocco notevole di scritti all’inizio dell’insegnamento universitario: i tre saggi ora riuniti in Die Teologie und Die Kirche (pp. 106 ss., 136 ss., 190 ss.; rispettivamente del 1925, 1927, 1928); la preziosa recensione al volume di Emil Brunner su Schleiermacher (1924); il corso accademico 1923-1924 restituitoci nella Gesamtausgabe (1978). Li si legga in riferimento a delle conferenze del primissimo Barth (Moderne Theologie und Reichgottesarbeit del 1909; Die christliche Glaube und die Geschichte del 1912; Der Glaube an den persönlichen Gott del 1914) e si comprenderà il senso di una dialettica, di un’opposizione che è sì superamento, ma pure conservazione delle posizioni precedenti (cfr. soprattutto le acute analisi di H. U. VON BALTHASAR, Karl Barth, 210 ss. in particolare). Anselmo e Schleiermacher sono due figure che guidano Barth. È importante verificarlo in un’opera capitale, la Die protestantische Theologie im 79. Jahrhundert, che sebbene pubblicata solo nel 1947, risale agli anni 19321933 e per talune parti anche prima, frutto dell’insegnamento a Muenster e a Bonn. È un’opera sui generis come mostra immediatamente il primo capitolo (La Théologie protestante, 9-22) e la lunga disamina della «preistoria», cioè della teologia del sec. XVIII (La Théologie protestante, 23-105 e Images du XVIII siècle, 15-76). A noi interessa qui per la struttura che, ci pare, la sottenda. Essa ruota, a nostro avviso, attorno a tre nomi: Schleiermacher, Hegel e Blumhardt. Di Schleiermacher si dà la lettura cui già abbiamo avuto modo di riferirci, segno di una costante interpretazione (La Théologie protestante ’, 233-273): apre la storia teologica che è il nostro destino, l’epoca nuova che è ancora la

nostra; è una soglia oltre cui non è consentito recedere; è il padre della chiesa del secolo xix, secolo ricco di epigoni ancora nel nostro. «È impossibile studiare Schleiermacher senza essere fortemente impressionati, e sempre di più a misura che si penetra nel suo pensiero, dalla ricchezza e dall’estensione dei compiti che quest’uomo si è imposto, dal bagaglio morale ed intellettuale di cui disponeva per intraprenderli, dalla perseveranza virile con cui è andato fino in fondo al cammino proposto senza curarsi se le circostanze gli fossero favorevoli o meno e dall’arte messa in opera in ciascuno dei suoi lavori» (p. 234). Bisogna dare atto a Schleiermacher del fatto di aver voluto essere un teologo ed un teologo cristiano, senza infingimenti, con rara intensità, con fedele serietà. Parimenti bisogna cogliere la sua intenzione: «ha voluto essere ad ogni costo un uomo moderno, così come ha voluto essere un teologo cristiano» (p. 239); «poiché è teologo, anzi proprio in forza della sua interpretazione del cristianesimo, Schleiermacher si sente obbligato ad essere con tutto il cuore e con tutte le sue forze un uomo moderno» (p. 240); «come teologo cristiano, Schleiermacher si sa responsabile delle basi intellettuali ed etiche del mondo spirituale dell’uomo della fine del XVIII secolo» (p. 239). È qui la chiave di volta: «la sua teologia è fin dall’origine, in quanto ha di più intimo e di più sacro, una teologia della cultura» (p. 241); «come teologo, Schleiermacher ci tiene con grande serietà e con notevole inflessibilità a pensare e a parlare sempre, fin nei minimi dettagli, partendo dalle ipotesi elaborate dalla filosofia, la storia e le scienze naturali del suo tempo» (p. 241); «checché capiti in simili casi, la sua volontà di promuovere la modernità è mantenuta, sempre» (p, 241). Schleiermacher «identifica il Regno di Dio, assolutamente e senza equivoci, con il progresso della cultura» (p. 241). Barth non ignora l’aspetto positivo di tali preoccupazioni, poiché vi è in esse indubbiamente una pregnanza concreta e sociale chiamata a grossi frutti, se solo fosse stata percepita dai suoi ammiratori ed epigoni. Tuttavia l’atteggiamento di Schleiermacher, per quanto notevole sia la sua grandezza umana, è foriero di tempesta: «in quanto uomo moderno, pensatore, moralista, filosofo della religione, teologo-filosofo, apologeta e dommatico, Schleiermacher è deciso a ricusare ogni interpretazione del cristianesimo contraddicente princìpi e metodi della filosofia e della ricerca storica e scientifica del suo tempo» (p. 249); «Schleiermacher non parla come servitore responsabile, ma come un virtuoso artista, padrone delle sue cose» (p. 250); con Schleiermacher «si può interpretare questo mistero cristiano come un qualsiasi altro mistero della vita, senza minimamente preoccuparsi di sapere

se non occorra per caso lasciarlo autointerpretarsi e se la Bibbia ed i dogmi non offrano proprio indicazioni in questo senso» (p. 251). Si annida qui la riduzione cui Schleiermacher sottomette la rivelazione divina; la sua proposta di «una teologia del sentimento e della coscienza» (p, 260) finisce per rovesciare dovunque l’impostazione dei Riformatori e travalicare il senso della fede cristiana; «la Parola, nella sua autonomia nei confronti della fede, non è più garantita come dovrebbe essere, affinché questa teologia della fede, questa Glaubenslehre sia garantita come autentica teologia dello Spirito Santo» (p. 272). Come non vedere in pericolo la rivelazione del Dio cristiano nei Discorsi sulla religione, là dove non è tanto la religione cristiana ad interessare quanto piuttosto la religione in generale, la religione colta nella sua essenza e coincidente con quell’intuizione dell’universo, in cui pure si compie la cultura nella sua forma suprema, coincidente perciò con la religione in assoluto, di cui il cristianesimo costituisce l’espressione superiore (p. 252)? Come non leggere ad ogni passo della Glaubenslehre in quella svalutazione del dogma ed in quella sopravvalutazione della pietà e del sentimento (divenuto «sentimento di dipendenza») una pericolosa trappola, tanto più equivoca in quanto evocante le profondità di una verità che non si lascia mai oggettivare ed esprimere, bensì solo intuire (p. 258)? Come non vedere nell’esaltazione del «sentimento di dipendenza» come norma di ogni credenza, la proclamazione di una teologia della coscienza (foss’anche della coscienza religiosa o coscienza della redenzione) che si sottrae alla sua norma oggettiva e teonoma, per immergersi in un soggettivismo, al cui centro vi ė la coscienza umana (pp. 260 ss.)? Come non essere inquieti di fronte ad una cristologia che ha evacuato il dogma tradizionale delle due nature, la nozione di espiazione, la fede nei miracoli per presentare un Cristo modello, ideale e uomo perfetto, in cui il sentimento religioso alberga in tutta la sua forza (pp. 265 ss.)? Che ne è di una dottrina della redenzione in cui la nozione di esperienza ha un ruolo così determinante (pp. 272 s.)? Bisogna rilevarlo: non è l’aspetto antropocentrico della teologia di Schleiermacher a porre problemi, quanto appunto una nozione di rivelazione divenuta insipida, poiché in tale teologia i due centri (antropologico e cristologico) non sono adeguatamente mediati (p. 265). E a Barth di concludere: «La questione di sapere come sia stato possibile che Schleiermacher non fosse spaventato da questo risultato, come potesse credere — e lo credeva senza infingimenti — che lungi dal distruggere la teologia della Riforma la continuasse adattandola al suo tempo, come non realizzasse che il risultato raggiunto metteva in questione le premesse stesse di ogni teologia

cristiana, come nulla di simile si fosse prodotto dai giorni dell’antica gnosi, ebbene tale questione ci pone davanti a un mistero insolubile» (p. 273). Da Schleiermacher a Hegel, cui è consacrato il lungo capitolo decimo dell’opera (citiamo dalla trad. franc, separata: Neuchâtel-Paris, 1955). «La grandezza singolare di Hegel sfugge solo a chi non la comprende; bisogna ben riflettere prima di contraddirlo; potrebbe infatti darsi il caso che tutto quanto si vuole allegare contro di essa, sia già stato da essa espresso ed eccellentemente refutato» (p. 21). Bisogna certo prendere talune distanze: Hegel presenta una concezione della verità fondata sulla coerenza interna di un pensiero staccato dalla prassi dell’uomo e di conseguenza include il peccato e la riconciliazione nella dialettica che forma l’unità e la necessità dello spirito assoluto; identifica il movimento proprio della verità con il movimento proprio del pensiero del soggetto umano, rendendo così problematica l’attribuzione del primo a Dio; propone Dio tutto imbricato nelle maglie della necessità logica, sopprimendo la libertà divina nel suo atto di rivelazione (pp. 48-52). Queste forti riserve non devono però nascondere che Hegel sa ristabilire l’unità del divino e dell’umano (p. 40); che ha saputo indicare alla teologia il suo oggetto, distogliendola dalla vita riduttiva ed impraticabile della descrizione dei fenomeni storici e dei fatti psicologici (p. 45); che ha ricordato con vigore alla teologia il suo oggetto nella persona vivente e concreta del Dio della Bibbia, quel Dio che si fa conoscere e che si fa conoscere come il Dio vivente (p. 46); che ha dato, e può ancora dare, indicazioni fruttuose sul metodo teologico e sul suo ideale di completezza, proprio con la sua nozione di sintesi dialettica (p. 47). Di Hegel, come di Schleiermacher, colpisce il fatto che ha voluto essere cristiano e moderno (p. 40); a differenza di Schleiermacher, Hegel offre tuttavia al teologo una migliore possibilità quando sottolinea il primato della verità che risiede nella totalità concreta, il movimento della conoscenza come identico al movimento dell’essere; con Hegel oggettività ed attualismo sono più facilmente preservabili. Hans Urs von Balthasar ha giustamente rilevato che Barth utilizza lo schema hegheliano del principio che si autopone e si autopresuppone, parlando di una certa congenialità del pensiero hegheliano con quello di Barth (Karl Barth, 218 s.); Henri Bouillard ha parlato di un incontro spontaneo (Karl Barth, III, 297); E. Busch si è più volte soffermato sui caratteri propri dell’oggettività di Barth rilevandone la movenza hegheliana (Un Magnificat perpétuel, in Dogmatique Index général, 9-38). Tuttavia non vanno taciute le riserve (cfr. specialmente H. BOUILLARD, Karl Barth, III, 298)

che Barth eleva nei confronti di Hegel; Barth sa che di Hegel si può parlare considerandolo «una grande questione, una grande disillusione e forse, nonostante tutto, una grande promessa» (p. 53); Barth sa di dover rinunciare all’ontologia hegheliana per sostituirla con una dommatica cristologica, «Così — ha scritto giustamente Bouillard — anche quando il pensiero barthiano assume un aspetto hegheliano, il contenuto è completamente differente» (Karl Barth, III, 298). Occorre quindi cercare altrove. Se scegliamo la figura di Blumhardt padre è perché questo autore ha giocato un ruolo particolarmente rilevante nella formazione di Barth (attraverso Thurneysen e Blumhardt figlio: H. BOUILLARD, Karl Barth, I, 87 s.; B. GHERARDINI, La seconda Riforma, II, 86 ss.; E. BUSCH, Karl Barth, 78 ss.; G. SAUTER, Die Theologie des Reich Gottes beim älteren und jüngeren Blumhardt, Zuerich, 1962, 235-267), perché a Blumhardt Barth ritorna significativamente nell’ultimo corso accademico (Das christlische Leben, 443-450), perché infine il capitolo che gli è dedicato in Die protestantische Theologie conclude così: «il merito di Blumhardt consiste nell’aver sollevato nuovamente, pur in un linguaggio balbuziente seppure percepibile a molti suoi contemporanei provvisti di udito, tutta una serie di questioni che dovevano far scoppiare i limiti della teologia liberale e del pietismo — la questione della teodicea, quella dell’universalità della rivelazione e della fede, la questione del significato pratico dei miracoli neotestamentari, quella dell’unità dell’anima e del corpo, la questione della forza reale della riconciliazione, quella della natura e della presenza dello Spirito Santo ed infine la questione della realtà della speranza cristiana. La teologia si è facilitata eccessivamente il compito ignorando tali questioni, tenendo conto di Blumhardt solo sul piano della pastorale e rispondendogli in questa linea e non scientificamente. Il tempo doveva venire, ed è venuto, di riconoscere che Blumhardt aveva da dire cose decisive e precisamente decisive per la teologia accademica» (La théologie protestante, 437). Al centro della teologia di Blumhardt vi è la esperienza oggettiva di Gesù che trionfa; «Blumhardt diventa il teologo della speranza (cristiana)» (p. 430); «se il Cristo ritorna, ed è impossibile che non sia vicino allora una nuova effusione di grazia, una nuova effusione di Spirito Santo lo deve precedere» (p. 430). Si tratta certo di un’esperienza e di un’esperienza tutta particolare, non priva di limiti e di ingenuità teologiche, soprattutto nell’escatologia a tinteggiatura millenarista; quanto però colpisce Barth è che la scoperta fondamentale di Blumhardt è apietista in pieno pietismo e nulla cede al

romanticismo del numinoso. «Le forze che si affrontano nella lotta che Blumhardt conduce e che vede Gesù vincitore, sono Gesù e il potere reale delle tenebre, non Gesù ed il cuore non convertito dell’uomo» (429); «il punto di partenza del suo pensiero non è, malgrado tutto, la distretta umana, bensì la promessa divina» (p. 433); «la salvezza del singolo è legata al contenuto più intimo di tutta quanta la storia dell’umanità, alla perfezione della vittoria fondata sulla morte redentrice e sulla risurrezione di Cristo» (p. 435). Così Blumhardt con tutte le sue ingenuità, diventa l’assertore di una teologia che si oppone efficacemente al protestantesimo liberale come al pietismo, alla mistica ed alla ricerca di punti di partenza teologici nel cuore umano; chiude il secolo ed è l’antidoto più efficace allo Schleiermacher che lo apre; attualismo ed oggettività, balenanti in Hegel, sono qui reduplicati cristologicamente. Per questo a Blumhardt Barth non può che guardare con affettuoso rispetto (cfr. KD I/1, 296; II/1, 713 s.; III/4, 421 s.; IV/2, 950; IV/3, 193 ss., 200 s., 653 s. fra i testi principali), mentre ancipite resterà per Hegel (cfr. KD I/1, 341, 357; I/2, 350, 413 s., II/1, 302, 505 s.; III/1, 466; III/2, 286; III/3, 126, 385; IV/1, 414, 417 s., 420 s.; IV/2, 90; IV/3, 805) e polemico per Schleiermacher (cfr. appendice seconda). A conclusioni consimili potrebbe pervenire la lettura di altre figure di quest’opera possente che è Die protestantische Theologie: la costellazione di Schleiermacher non comprende forse anche un Lessing (La Théologie protestante, 107-134), un Rousseau (Images du XVIII siècle, 79 ss.), uno Schweizer (La Théologie protestante, 358-365), un Ritschl (La Théologie protestante, 438-444); la costellazione di Hegel non richiama forse Kant (La Théologie protestante, 135-173) e a modo suo Feuerbach (La Théologie protestante, 328-333; cfr. Ludwig Feuerbach, «Zwischen den Zeiten», 5, 1927, 10-40 = Die Théologie und die Kirche, 212 ss. = Antologia, 105 ss.); la costellazione di Blumhardt non si apparenta infine con Kohlbrügge, altro autore poco valutato, ma secondo Barth assolutamente essenziale (La Théologie protestante, 419-427)? Lo ha mostrato, con rara finezza, Italo Mancini tracciando perspicacemente il destino di questa teologia nella lettura barthiana, nell’introduzione preposta alla traduzione italiana; non è necessario andare oltre; quanto detto consente infatti qualche conclusione nella nostra linea. 3. La Kirchliche Dogmatik si è imposta poco a poco al suo autore come

compito di un’esistenza (cfr. E. BUSCH, Karl Barth, 296), assorbendone le forze ed ingrossandosi come fiume maestoso; dopo la guerra e la fine del nazismo Barth è la Kirchliche Dogmatik sebbene vi siano opere molto importanti (ricordiamo in particolare: Christengemeinde und Bürgergemeinde del 1946; Humanismus del 1950; Rudolf Bultmann e Christus und Adam del 1952 ripresi uniti nel 1964 come illustrazione dell’approccio esegetico barthiano; Die Menschlichkeit Gottes del 1956; Evangelische Theologie del 1957; Philosophie und Theologie del 1960; Einführung in die evangelische Theologie del 1962; Nachwort um Schleiermacher del 1968); né può essere diversamente poiché il respiro di Barth è tutto nell’opera maggiore. Questo non deve essere dimenticato, sotto pena di falsare i termini di un’interpretazione; il ricorso alle opere collaterali deve quindi essere sempre finalizzato; anche quando in esse brilla in vivida luce qualche intuizione che l’elaborazione talora massiccia della dommatica tende a velare. Diverso è invece il discorso per gli inizi: accanto ad opere come Fides quaerens intellectum del 1931 e Die protestantische Theologie del 1932-33 (sebbene pubblicata solo nel 1947) giova ricordare la preziosa miscellanea Theologische Fragen und Antworten che, pubblicata nel 1957, riunisce i saggi fondamentali degli anni 1927-1942 (specialmente Schicksal und Idee in der Theologie del 1929; Das erste Gebot als theologische Axiom del 1933; Offenbarung, Kirche und Theologie del 1934; Die Grundformen theologischen Denkens del 1936). È qui che si vede il progressivo emergere di quei caratteri su cui ci siamo soffermati e che accompagnano, giova ripeterlo, tutta quanta la Kirchliche Dogmatik. Certo, ed è ben naturale, gli accenti possono variare. Così i primi due volumi consacrati ai Prolegomeni (1932-1938) risentono di una durezza tutta particolare contro la teologia liberale, il cattolicesimo romano, la teologia eristica che proprio in quegli anni Brunner presentava vigorosamente con la proposta dell’Anknüpfungspunkt; Barth teme ogni riduzione antropologica o storicista o esperienziale; vuole che Dio brilli nel suo splendore senza contaminazioni. Sono gli anni del durissimo Nein! Antwort an Emil Brunner del 1934, in cui vi è ancora tanta forza della teologia espressasi nel secondo Roemerbrief del 1922 e tutto il significato dell’antica opposizione Harnack-Barth del 1923 (Theologische Fragen, 7-31; Le origini della teologia dialettica, 376 ss.; cfr. D. BRAUN, Der Ort der Theologie, in

Parrhesia, 11-49; H. M. RUMSCHEIDT, Revelation and Theology: An Analysis the Barth-Harnack Correspondence of 1923, Cambridge, 1972; P. HENKE, Erwählung- und Entwicklung. Zur Auseinandersetzung zwischen Harnack und Barth, «Neue Zeitschrift für Systematische Theologie und Religionsgeschichte», 18, 1976, 194-208). Ma già nel volume del 1938 si può rilevare una serenità maggiore, corrispondente ad una maggior attenzione all’aspetto cristologico (cfr. H. BOUILLARD, Karl Barth, I, 230 ss. e W. KRECK, Grundentscheidungen, 9 ss.). In seguito poi le cose mutano a tal punto che è giusto chiedere di leggere anche i primi due volumi in una luce almeno parzialmente nuova (H. BOUILLARD, Karl Barth, I, 235). Questi spostamenti però, ed altri ancora che sono stati più volte segnalati dall’indagine critica, non devono tuttavia imporre interpretazioni unilaterali. Al di là di mutamenti talora anche vistosi, Barth resta fedele al suo programma: la dommatica deve fondarsi espressamente sulla Parola di Dio, non su un’esperienza religiosa, non su una filosofia dell’esistenza, non su un’apologetica mirante a giustificare la teologia; la relazione di Dio con l’uomo (rivelazione, grazia o chiesa) deve essere intesa sempre come l’avvenimento della libera iniziativa divina, non mai come proprietà dell’uomo; l’azione divina della salvezza non può essere assorbita nella condotta dell’uomo. Per Barth è essenziale il rifiuto della nozione di cooperazione dell’uomo alla libera grazia divina; in questo campo è possibile parlare solo di risposta usando la nozione d’invocazione e non quella di cooperazione; ogni teologia dell’et deve essere radiata e considerata inammissibile. È facile verificare quest’assunto. Fra i molti possibili, scegliamo di ricordare appena due esempi fra i più netti e più significativi. Il primo è il costante dialogo che Barth intrattiene lungo tutta la dommatica (ma con vigore insolito appunto nei prolegomeni e nella dottrina della riconciliazione) con il cattolicesimo romano e con il protestantesimo liberale, accomunati nella loro caratterizzazione, nella critica, nella lettura positiva; nei vari passaggi della dommatica vive una gamma impressionante di posizioni ora più marcate e dure, ora più misurate; tuttavia permane un’unica interpretazione di fondo, quel deciso rifiuto della nozione di cooperazione, tanto aporetico per la teologia barthiana e forse troppo sommario ed unilaterale, che è peraltro coefficiente di unità, chiave di lettura, impronta di un pensiero: lo si può vedere in un calibrato quanto sintetico contributo di H. BOUILLARD (Karl Barth et le catholicisme, «Revue de Théologie et de Philosophie», 20, 1970, 353-367).

Il secondo è il problema dell’analogia. Qui i testi abbondano: dal duro rifiuto dell’analogia entis (soprattutto KD I/1, VIII-IX, 40, 123, 175, 180, 252, 255 ss., 353 s., 459; I/2, 41, 48 s., 158 s.; II/1, 88 s., 216 s., 271 s.; III/2, 262, 291), dell’Anknüpfungspunkt brunneriano (soprattutto KD I/1, 26, 249 ss, 257; I/2, 196 s., 287 ss., 305; II/1, 96 s., 145 s.) e di ogni forma di teologia naturale (soprattutto KD I/2, 287 ss.; II/1, 93 ss., 142 ss.; III/4, 48 ss.) e di teologia eristica (soprattutto KD I/1, 25 ss.) al più equilibrato rapporto dell’analogia fidei (soprattutto KD I/1, 257 s.; II/1, 89 s.) e dell’analogia relationis (soprattutto KD III/2, 262 s., 390 s.; III/3, 57 ss., 490 s., 615 s.; IV/1, 222 s., 709 ss., 859 ss.; IV./2, 46 s., 185 ss., 235 s., 268 s., 325 s., 386 s., 670 s., 853 s., 885 s.; IV/3, 612 s., 829 ss., 878 ss,). I momenti cruciali sono noti; li abbiamo d’altronde menzionati sia in H. BOUILLARD, Fede o paradosso? Per una critica della ragione teologica, Fossano, 1973, 168 s. e sia nella nostra selezione bibliografica, 394 s.; apporti non indifferenti vi aggiungono ora i saggi di I. MANCINI, Il pensiero teologico di Barth nel suo sviluppo, in Dogmatica ecclesiale. Antologia, VII ss.; di H. BERKHOF-H. J. KRAUS, Karl Barths Lichterlehre, Zürich, 1978; di C. SCILIRONI, Relazione, opposizione e dialettica in Karl Barth, «Studia Patavina», 27, 1980, 127 ss. Barth resta fedele alle sue esigenze, anche se legge spesso in meliorem partem quanto talora aveva precedentemente letto in chiave polemica; lo può fare perché in lui la polemica tagliente resta uno strumento assolutamente umano, contingente, transitorio e transeunte (cfr. KD IV/2, VIII e 644 ss.; Evangelische Theologie im 19. Jahrhundert, Zürich, 1957 = trad, franc.: Genève, 1957, 6 s., 15 ss., 46 s.); lo può fare soprattutto perché per Barth la critica è eminentemente autocritica. La Kirchliche Dogmatik deve essere considerata dunque come un blocco unitario; l’evoluzione esistente ed indubbia non può certo essere negata sminuita o ridotta, ma anche non va maggiorata; i vari momenti segnati dalle opere parallele (si pensi soprattutto a Die Menschlichkeit Gottes del 1956 e a Ad limina apoitolorum del 1967) devono piuttosto essere integrati all’insieme che essere considerati autonomamente. Simili conclusioni sono corroborate dalla lettura di Einführung in die evangelische Theologie del 1962. la cui rilevanza teoretica e biografica non sarà mai sufficientemente segnalata e che non per nulla riprende temi cari all’opera su Anselmo, rilegando armoniosamente il termine del cammino teologico barthiano ai suoi inizi.

Sono corroborate anche dalla già citata Nachwort um Schleiermacker del 1968, laddove Barth getta uno sguardo d’insieme alla sua opera dommatica e scrive pagine che forse hanno destato troppo inquietudini e sollevato troppi interrogativi (dimenticando la finale, quasi che fossero assimilabili alle enigmatiche lettere bonhoefferiane dal carcere di Tegel), ma che certamente sono importanti (cfr. H. BOUILLARD, Karl Barth et le catholicisme, 363 s. e la recente monografia di Ph. J. ROSATO, The Spirit as Lord- The Pneumatology of Karl Barth, Edinburgh, 1981). «Per chiarificare le mie relazioni con Schleiermacher, ecco quanto ho pensato talora, parlandone anche allusivamente a qualche intimo: sarebbe hic et nunc la possibilità di una teologia del terzo articolo, cioè in maniera determinante e decisiva dello Spirito Santo. Tutto quanto si deve credere, considerare e dire riguardo a Dio Padre e a Dio Figlio in funzione dei primi due articoli sarebbe mostrato e messo in luce come istituito da Dio Spirito Santo, vinculum pacis inter Patrem et Filium. Tutta l’opera divina per la creazione, per l’uomo, nell’uomo e con l’uomo sarebbe messa in evidenza in una finalità unica escludente ogni contingenza» (La Théologie protestante, 463 s.). Se Barth prospetta un superamento del cammino che fu il suo e lo prospetta in maniera unitaria, è perché la sua opera è sostanzialmente ed eminentemente unitaria, precisamente una teologia incentrata sul secondo articolo; se superamento ci deve essere, ci sia tuttavia mantenendo i risultati acquisiti; che la pneumatologia non si riduca ad antropologia, che non si parta dall’uomo, che non si ripetano Schleiermacher, i suoi predecessori, i suoi epigoni (La Théologie protestante, 465). In breve, che non si passi oltre la Kirchliche Dogmatik, ma la si ristrutturi, preservandone l’intenzione più profonda, più viva, più esigente, più impellente. 4. Per i problemi qui accennati (concernenti la Kirchliche Dogmatik e le opere apparentate) sono sufficienti le indicazioni fornite nell’introduzione o dettagliate nelle varie sezioni della nostra selezione bibliografica (pp. 387-401). Per l’opera su Anselmo alle indicazioni della selezione (p. 387) aggiungere: le monografie generali (specie H. BOUILLARD e W. KRECK); S. U. ZUIDEMA, Konfrontatie met Karl Barth, Amsterdam, 1963, 53 ss.; H. ENSLIN, Der ontologische Gottesbeweis bei Anselm von Canterbury und bei Karl Barth, «Neue Zeitschrift für Systematische Theologie», 11, 1969, 154 ss.; H. DELHOUGNE, L’argument ontologique est-il philosophique ou théólogiqùe? Karl

Barth, «Revue de Sciences Religieuses», 53, 1979, 43 ss.; H. J. OESTERLE, Karl Barths These über den Gottesbeweis des Anselm von Canterbury, «Neue Zeitschrift für syst. Theologie», 23, 1981, 91 ss. Per Die protestantische Theologie: cfr. l’introduzione di I. MANCINI alla traduzione italiana (1980) e la preziosa recensione di B. GHERARDINI, «Divinitas», 24, 1980, 352-357. Molti elementi, nella direzione da noi accennata, in punti nevralgici della Kirchliche Dogmatici così la valutazione critica di Platone (soprattutto KD III/4, 177 s. e IV/2, 836 ss.), di Descartes (soprattutto I/1, 203 ss., 223 ss.; III/1, 401 ss.; H. BOUILLARD, Karl Barth, II, 208 ss. e III, 170 ss.), di Leibniz (soprattutto III/1, 446 ss. e III/3, 360 ss.), di Jaspers (soprattutto III/2, 133 ss.; G. MILEGGE, Introduzione alla trad. ital. del Roemerbrief, 18-25), di Heidegger (soprattutto I/2, 50 s. e III/3, 383 ss.), di Sartre (soprattutto III/3, 389 ss.). Problemi d’interpretazione 1. Da quanto fin qui detto appare chiaro che l’anno di svolta della teologia barthiana è il 1931; con l’opera su Anselmo infatti sono posti quei caratteri fondamentali che guideranno senza sosta il nostro fin negli ultimi interventi (cfr. E. BUSCH, Humane Theologie. Texte und Erlaüterungen zur Theologie des alten Karl Barth, Zürich, 1967) e che racchiudono in maniera estremamente unitaria il senso di un’esistenza, teologica come poche altre; e questo malgrado momenti di ripensamento autocritico non indifferenti com’è ben naturale per un pensiero che si snoda vivace in un’opera monumentale, con innumerevoli costellazioni minori, in quasi un quarantennio. Il primo problema che sorge è ovviamente quello di rilegare questi anni con il venticinquennio precedente; la questione non si pone tanto per il lasso di tempo che si conclude con la prima edizione del Roemerbrief del 1919 e che era iniziato con un resoconto teologico nel 1906, vivificata ora dall’edizione nella Gesamtausgabe con la corrispondenza Barth-Thurneysen e con la predicazione safenwiliana del 1913 e del 1914, tanto esso è ancipite e tutto teso a quanto lo segue (si vedano le indicazioni nella nostra selezione bibliografica, 380 e J. FÄHLER, Der Ausbruch des I. Weltkrieges in Karl Barths Predigten 1913-1915, Bern-Frankfurt, 1979); né si pone in maniera cruciale per gli anni di Münster e Bonn, vero crogiuolo che conduce alle acquisizioni della Fides quaerens intéllectum (1931) e del corso che poi diventerà la Die protestantische Theologie, attraverso Erklärung des Philipperbriefes (1927), Die Christliche Dogmatik im Entwurf (1927), Schicksal und Idee in der Theologie

(1929), la corrispondenza con Thurneysen e Bultmann, il corso di etica ed il commento giovanneo restituitici nella Gesamtausgabe (si vedano le indicazioni nella nostra selezione bibliografica., 387-388). Si pone invece in maniera cruciale con il periodo comunemente conosciuto come «teologia dialettica» o «teologia della crisi», sebbene tale denominazione sia fra le più difficoltose ed equivoche (alle indicazioni della nostra selezione bibliografica, 380-387 aggiungere G. M. PIZZUTI: Ontologia trinitaria e antropologia teologica: la genesi del problema speculativo in K Barth, «Filosofia», 28, 1977, 213 ss.; Rivelazione e storia nel Roemerbrief, «Filosofia», 28, 1977, 226 ss.; La flessione immanentista della teologia dialettica di Karl Barth, «Filosofia», 28, 1977, 419 ss., ora in Ontologia trinitaria e antropologia teologica, 6 ss., 16 ss., 49 ss.; J. D. KRAEGE, Théologie analytique et théologie dialectique, «Revue de Théologie et de Philosophie», 1979, 13 ss.; G. VALLÉ, Foi et religion dans le commentane de l’Epître aux Romains de K. Barth, «Science et Esprit», 32, 1980, 331-346). Precisati i rapporti fra i tre momenti citati (restano esemplari F. HOLMSTRøM, Das eschatologische Denken der Gegenwart, Gütersloh, 1936, 212 ss., 325 ss.; T. F. TORRANCE, Karl Barth. An Introduction of his early Theology 1910-1931, London, 1962; T. STADTLAND, Eschatologie und Geschichte in der Theologie des jungen Karl Barth, Neukirchen, 1966; R. CRIMMANN, Karl Barths Frühe Publikationen und ihre Rezeption, Bern - Frankfurt, 1981; J. ZENGEL, Erfahrung und Erlebnis - Studien zur Genese der Theologie Karl Barths, BernFrankfurt, 1981) resta da porli in rapporto con l’elaborazione della dommatica. Chiarito l’aspetto eminentemente teologico dell’opera barthiana nella sua onnicomprensività cronologica e qualitativa (contro un persistente ed anomalo infeudamento filosofico, troppe volte operato, soprattutto in Italia, specialmente riguardo al Roemerbrief, da Martinetti a Pareyson, da Morando a Sciacca, da Battaglia a Stefanini a Riverso per non citare che qualche saggio capitale, malgrado le resistenze di Miegge, Vinay, Gherardini per molti anni solitari preservatori di una lettura retta), la ricerca si è mossa, sia analiticamente che sinteticamente, nel senso di una evoluzione in cui la continuità è decisamente maggiore della dissomiglianza. Analiticamente ci si è occupati di due fronti. Da un lato si è cercato di ricostruire l’orizzonte culturale barthiano evitando le riduzioni che avevano accompagnato il tentativo, con rarissime eccezioni, fino agli anni 1950 (e fra le eccezioni, seppure molto discutibili nei risultati, conviene menzionare: T. BOHLIN, Luther,

Kierkegaard und die dialektische Theologie, «Zeitschrift für Theologie und Kirche», 7, 1926, 162 ss., 268 ss. ripreso in Glaube und Offenbarung. Eine ’kritische Studie zur dialektischen Theologie, Berlin, 1928; H. SCHINDLER, Barth und Overbeck. Ein Beitrag zur Genesis der dialektischen Theologie, Gotha, 1936; B. J. ENGELRECHT, Die tydsstruktur in die gedakte-Komplex: Hegel, Kierkegaard, Barth, Groningen, 1949); ne sono derivate finissime ricostruzioni sia su singoli punti (e qui conviene notare un prezioso contributo di G. RICONDA, L’eredità di Kierkegaard e la teologia dialettica nel suo significato speculativo, «Filosofia», 25, 1974, 215 ss.) sia nel complesso (sulla scia di monografie come quelle di Balthasar, Bouillard e Torrance cfr. soprattutto C. E. VIOLA, L’itinerario teologico di Karl Barth, «Doctor Communis», 24, 1971, 98 ss., P. GERADIN, La génèse de l’option théologique de Karl Barth, «Nouvelle Revue Théologique», 96, 1974, 389 ss.; W. KRECK, Grundentscheidungen, 9 ss.); ed altri elementi già li abbiamo toccati nell’introduzione. D’altro lato si sono indagate le strutture di pensiero barthiane percorrendo un cammino a nostro modo di vedere più ricco, meno insidioso, più consono all’oggetto, come abbiamo accennato nell’introduzione; qui basti accentuare l’apporto dato da taluni contributi specifici sia in generale (H. U. VON BALTHASAR, Karl Barth, 201 ss., 263 ss., 389 ss.; H. BOUILLARD, Karl Barth, I, 95 ss., 221 ss., 259 ss.; G. WINGREN, Theology in Conflict: Nygren, Barth, Bultmann, Philadelphia, 1958; E. JUENGEL, Gottes Sein ist im Werden, Tübingen, 1964; H. FRIES, Barth, Bultmann und Katholische Theologie, Stuttgart, 1965; I. MANCINI, Il pensiero teologico di Barth, in Dogmatica ecclesiale. Antologia, VII ss.; V. SUBILIA, Presenza e assenza di Dio, 45 ss.; P. EICHER, Offenbarung, 165 ss.; J. L. LEUBA, Dios salvados segun Karl Barth. Un modélo de soteriologia protestante, «Estudios Trinitarios», 11, 1977, 23 ss. ripreso in francese: «Hokhma», 1979/11, 2 ss.; W. KRECK, Grundentscheidungen, 9 ss.; E. BUSCH, Un Magnificat perpétuel. Remarques sur la Dogmatique de Karl Barth, in Dogmatique. Index général, 9 ss.; C. SCILIRONI, Relazione, opposizione e dialettica in Karl Barth, «Studia Patavina», 27, 1980, 127 ss.; D. FORD, Barth and God’s Story. Biblical Narrative and the theological Method of Karl Barth in the Church Dogmatik, Bern-Frankfurt, 1981) e sia in particolare (e si pensi soprattutto ai contributi di W. PANNENBERG: Zur Bedeutung des Analogie-gendankens bei Karl Barth. Eine Auseinandersetzung mit Urs von Balthasar, «Theologische Literaturzeitung»,

87, 1953, 17-24; Die Subjektivität Gottes und die Trinitätslehre, «Kerygma und Dogma», 23, 1977, 25 ss.; Der Gott der Geschichte. Der trinitarische Gott und die Wahrheit der Geschichte, «Kerygma und Dogma», 23, 1977, 76 ss.; G. M. PIZZUTI, Teologia e metafisica. La radice kanthiana della posizione di Karl Barth nella Kirchliche Dogmatik, «Filosofia», 28, 1977, 569 ss., ora in Ontologia trinitaria e antropologia teologica, 75 ss.; H. J. OESTERLE, Karl Barths These über den Gottesbeweis des Anselms von Canterbury, «Neue Zeitschrift für system. Theol. und Religionsphilosophie», 23, 1981, 91 ss); basti anche sottolineare la verifica di talune conclusioni di H. BOUILLARD sul carattere eminentemente biblico e riformato della teologia barthiana (Karl Barth, I, 114 ss.) condivise anche da B. GHERARDINI (La parola di Dio nella teologia di Karl Barth, Roma, 1955 e La Seconda Riforma, II, 80 ss.) nei saggi di K. U. MISKOTTE (Die Erlaubnis zu Schriftgemaessen Denken, in Antwort, 29 ss. e Über Karl Barths Kirchliche Dogmatik. Kleine Präludien und Phantasien, München, 1961), di W. SCHILICHTING (Biblische Denkform in der Dogmatik. Die Vorbildlickeit des biblischen Denkens für die Methode der Kirchlichen Dogmatik Karl Barths, Zürich, 1971), di D. FORD (Barth and God’s Story, cit.), di F. SCROETER (Bemerkungen über den Reformienten Charakter des theologischen Ansatzes K. BARTHS, in Antwort, 148 ss.). Sinteticamente si sono reduplicati questi vari risultati in un progressivo cammino, dalla dialettica all’ analogia, con chiarificazione di questi termini sovente in modo assai denso. Si devono notare tre momenti. Nel primo, sollecitati precipuamente dai risultati conseguiti nelle monografie di H. U. VON BALTHASAR (1951), G. C. BERKOUWER (1954), H. BOUILLARD (1957) e H. MEYNELL (1965), il giudizio sull’evoluzione è nettamente positivo e la Kirchliche Dogmatik è vista come completamento ideale ed inveramento delle posizioni precedenti. Un secondo momento si apre con il saggio di F. W. MARQUARDT, Theologie und Sozialismus, Muenchen, 1972 (presto tradotto in italiano) cui fanno eco, a difesa, illustrazione e completamento i contributi di H. GOLLWITZER che già aveva prefazionato il volume di Marquardt (Reich Gottes und Sozialismus bei Karl Barth, Muenchen, 1972, anch’esso celermente tradotto in italiano) e di G. CASALIS (Théologie et socialisme: l’exemple de Karl Barth, «Études Théologiques et Religieuses», 49, 1974, 155 ss.). Triplice è la portata della tesi: Barth è stato socialista e non solo socialdemocratico; le sue

posizioni politiche non furono prevalentemente guidate da prospettive teologiche, ma vissero di una loro autonoma concretezza (donde l’importanza della prima affermazione, non riducibile ad una scelta tutto sommato contingente); la Kirchliche Dogmatik (di cui pure si riconosce la portata insostituibile nella storia della teologia del nostro tempo) inizia un momento di ristagno e di ripiegamento, che ha come quasi naturale conseguenza un declino dell’influsso di Barth. La proposta di lettura fece scalpore e non mancarono momenti passionali che velarono non poco la discussione; i contenuti d’altronde erano molto importanti; inoltre i personaggi coinvolti erano (e sono) tutt’altro che secondari sia per i contributi arrecati alla conoscenza di Barth e sia per la loro posizione personale, vicinissima al maestro di Basilea. Le risposte sono state numerose ed autorevoli. Fra esse ricordiamo: W. SCHLICHTUNG, Sozialismus und biblische Denkform. Fragen zu F. W. Marquardts Untersuchung über «Theologie und Sozialismus» bei Karl Barth, «Evangelische Theologie», 32, 1972, 595 ss.; V. SUBILIA, Barth in chiave di socialismo, «Protestantesimo», 28, 1973, 152 ss.; H. DIEM, Die Christologie Karl Barths in der Sicht von F. W. Marquardt, «Kerygma und Dogma», 20, 1974, 138 ss.; H. D. VAN HOOGSTRATEN, Openbaringspositivisme voor en na. Bonhoeffer en de politiche Interpretatie van Barth’s Theologie, «Tijdschrift voor Theologie», 20, 1980, 40 ss.; e specialmente E. THURNEYSEN, Karl Barth «Theologie und Sozialismus» in den Briefen seiner Frühzeit, Zuerich, 1973 (senza scordare le preziose annotazioni nella corrispondenza della Gesamtausgabe). A questi contributi si aggiunga qualche preziosa precensione (H. HARTWELL, «Scottisch Journal of Theology», 28, 1975, 63 ss.; L. SARTORI, «Studia Patavina», 22, 1975, 619 ss.; G. M. PIZZUTI, «Filosofia», 27, 1976, 636 ss.). Tuttavia la discussione non si placò, attizzata anche da altri due grossi contributi alla revisione storiografica della formazione e dell’evoluzione barthiane (T. RENDTORFF, Theorie des Christentums. Historisch-theologische Studien zu seiner neuzeitlichen Verfassung, Guetersloh, 1972, 161 ss. e D. SCHELLONG, Karl Barth als Theologe der Neuzeit, in Karl Barth und die Neuzeit, Muenchen, 1973, 34 ss.). Si apre così una terza fase, attualmente in corso, su varie direzioni. Innanzitutto si deve rilevare l’apporto di U. DANNEMANN (Theologie und Politik im Denken Karl Barths, Muenchen-Mainz, 1977): l’autore riprende la tesi di Marquardt, la precisa in ciascuno dei suoi punti, la sviluppa togliendole l’angustia farragginosa che la caratterizza,

considerando soprattutto tre momenti: il Roemerbrief del 1919 (notevolmente ridotto nella sua portata), il secondo Roemerbrief (anche qui buone osservazioni contro gli schematismi con cui si è talora soliti presentare la struttura del pensiero dialettico), la dottrina della riconciliazione nella quarta parte della Kirchliche Dogmatik proprio qui tuttavia un aspetto importante della tesi di Marquardt è messo in discussione ed infine ribaltato; è infatti nell’affermazione, centrale nella dottrina della riconciliazione, del carattere inclusivo ed universale della persona e dell’opera di Gesù Cristo che si verifica la connessione cristologica fra Gesù Cristo ed ogni uomo, connessione che, essenziale già nella dottrina della elezione, apre qui prospettive nuove alla storia della salvezza. Secondo Dannemann la dommatica del vecchio Barth richiama armoniosamente le intuizioni del giovane Barth: vivendo fra i tempi (fra la riconciliazione compiuta e la redenzione ancora compientesi), siamo chiamati a partecipare attivamente alla storia della lotta legata alla riconciliazione liberatrice; l’attesa del Regno di Dio come fine della storia di questo mondo transeunte e la lotta per una società di uomini liberi non sono contraddittorie, ma strettamente collegate; l’invito a partecipare all’iniziativa di Dio rende possibile la coesistenza dell’azione divina e dell’azione umana. Barth non ha rinnegato se stesso; la sua dommatica non ha ridotto il messaggio; l’ha piuttosto rafforzato, precisato, reso più complesso anche, come d’altronde richiesto dalla poliedricità dell’argomento. In secondo luogo bisogna sottolineare come questi apporti siano nella loro globalità correttivi della discussione precedente, tutta ruotante attorno allanalisi offerta da H. U. von Balthasar per quanto concerne i rapporti barthiani con una struttura di pensiero idealista; correttivi, non sostitutivi; ciò vale soprattutto per Rendtorff e Schellong, come ha rilevato esattamente P. EICHER, Offenbarung, 242 ss. In terzo luogo è ribadita la tesi consueta prima di Marquardt in saggi autorevoli di rara lucidità: da V. SUBILIA (Presenza e assenza, 47 ss.) a P. EICHER (Offenbarung, 165 ss.), da W. KRECK (Grundentscheidungen) a EB. BUSCH (Un Magnificat perpétuel) e per quanto ci concerne crediamo di dover sottoscrivere a queste analisi, pur rilevando gli elementi stimolanti delle ricerche di Marquardt e di Gollwitzer (cfr. «Studia Patavina», 24, 1977, 441 ss. e «Nicolaus:», 5, 1977, 242 ss.). Questi i grandi problemi ermeneutici che coinvolgono la Kirchliche Dogmatik nel suo complesso. Soffermarci su altri aspetti ci è parso in questa sede meno rilevante, a meno di non allargare oltre i limiti di questa collana il discorso e stilare per i singoli punti una sia pur

sommaria storia delle interpretazioni. Ci pare più utile procedere invece ad alcune altre problematiche di base. 2. Le ricerche di Marquardt, Gollwitzer, Casalis e Dannemann invitano a riprendere in luce diversa non pochi elementi della biografia personale e teologica di Barth; la ripresa è necessaria in quanto indagini parallele apportano ulteriori elementi; il tutto deve essere inquadrato tenendo conto dei dati forniti con cura particolare nelle biografie di K. KUPISCH, Karl Barth in Selbstzeugnissen und Bilddokumenien. Hamburg, 1971, e di E. BUSCH, Karl Barths Lebenslauf, soprattutto nella 2a edizione (Muenchen, 1976; si noterà che questa biografia è essenziale proprio perché si appoggia su inediti, con una metodologia corretta, diversamente da quanto pensa una delle rare voci critiche: J. L. WITTE, «Gregorianum», 58, 1977, 347 ss.) come anche nel prezio» repertorio di D. CORNU, Karl Barth et la politique, Genève, 1968 (trad, ital.: Torino, 1970). Riconduciamo la problematica a due momenti. Il primo si può riassumere così: Barth è socialista; la teologia di Barth ha le sue radici nell’azione socialista di Barth; la ricerca teologica di Barth è la messa in luce della relazione organica esistente fra la Bibbia ed il giornale, fra la nuova creazione di Dio e la società borghese che affonda; il contenuto oggettivo di tale cammino teologico è l’elaborazione di una corretta e coerente nozione di Dio; in altre parole: la metodologia di Barth è la sua biografia teologica; tra il socialismo di Barth e la sua teologia vi è una relazione intrinsecamente portante; la teologia barthiana è stata elaborata nell’ancoramento organico con una situazione personale e sociale, proprio là dove essa sembra astrarre assolutamente da tale situazione sociologica e politica. Questa visione («un invito a leggere Barth da sinistra e non da destra», come ha scritto felicemente G. Ruggieri introducendo la traduzione italiana del Marquardt) che in Marquardt concerne soprattutto il giovane Barth e che in Gollwitzer, Casalis, Dannemann si apre alla totalità dell’esistenza barthiana, non è priva di intuizioni felici sia metodologicamente che contenutisticamente: al di là della valutazione data del cammino barthiano (soprattutto in Gollwitzer e Casalis) verso la Kirchliche Dogmatik in maniera fortemente riduttiva (come detto precedentemente), è indubbiamente sottolineata la continuità, una profonda continuità, laddove critici frettolosi hanno individuato rotture; viene valutata in maniera sorprendente la conferenza di Tambach del 1919 con eccenti che tendono a sminuire in Marquardt in maniera persino eccessiva; cfr. il prezioso

contributo di A. LINDT, Karl Barth und die Sozialismus, «Reformatio», 24, 1975, 394 ss.) la radicalità del secondo Roemerbrief, rendendo così impossibile iniziare il discorso su Barth dalla teologia dialettica, immergendo la ricerca più a monte, in un momento finora considerato troppo semplicemente preparatorio (tuttavia con qualche buona eccezione); si rileva la situazionalità della teologia barthiana; si sottolinea (con particolare efficacia in Dannemann) il carattere del socialismo barthiano con le sue utopie e le sue concretezze ed anche (soprattutto in Marquardt) con il suo humus e con le sue fonti; e si potrebbe continuare nella lista perché si tratta di lavori stimolanti. È però una lettura che apre il fianco a contestazioni. In primo luogo allorché si interpreta il socialismo barthiano non come socialdemocratico, ma come fortemente influenzato dai princìpi del marxismo e conseguentemente la sua teologia (o almeno quella giovanile) strutturalmente determinata da tali princìpi; certo l’accezione partitica della socialdemocrazia non può contenere né tantomeno esaurire l’ardita comprensione del socialismo barthiano e a dire il vero non lo può neppure lo stesso ideale socialdemocratico; ma comunque la lettura marxista dell’apporto barthiano costituisce una specie di «superinterprelazione» (ben evidente in Marquardt e Gollwitzer) in cui i concettichiave del marxismo non sono mai sufficientemente chiariti (ad esempio, fra tutti, il concetto di prassi, edulcorato in sottolineatura del concreto e dell’azione), in cui è prospettata una certa lettura del marxismo più come ideale umanitario che altro, scindibile in ogni caso dal materialismo dialettico, in cui si procede più per accostamenti, talora nominali e sfuggenti, ed approcci che per sistematici, rigorosi confronti. È necessario protestare contro ogni infeudamento del Barth, a sinistra, non meno che a destra. Si esaminino gli anni di Safenwil (seguendo passo a passo la monografia del Busch); si rammentino le grosse questioni che ha sollevato l’atteggiamento del Barth nei riguardi del comunismo nel dopoguerra e via via fino alla morte (Die christliche Versündigung im heutigen Europa, «Neue Schweizer Rundschau», ottobre 1946 = «Foi et Vie», juillet-août 1947, 421 ss.; Die christliche Gemeinde im Wandel der Staatordnungen, «Evangelische Theologie», 1548-49, ss.; Reformierte Kirche hinter dem «eisernen Vorhang», «Kirchenblatt fuer die reformierte Schweiz», 24 giugno 1948 = «Evangelische Theologie», 1948-49, 41 ss.; Die Kirche zwischen Ost und West, ZollikonZuerich, 1949; Brief an Bischof A. Bereczky, «Junge Kirche», 15 marzo 1952, 141 s., che Barth non avrebbe voluto pubblicata; Brief an einen Pfarrer in der

DDR, Zollikon-Zuerich, 1958 = trad. ital.: Brescia, 1964; cui si aggiungano Humanismus, Zollikon-Zuerich, 1949 e le lettere a Hromadka nell’ultima corrispondenza della Gesamtausgabe) con le polemiche di Emil Brunner e di Markus Feldmann (H. BOUILLARD, Karl Barth, I, 254 ss. e D. CORNU, Karl Barth et la politique, 150 ss.); si ricordi la lunga lotta per la pace contro il riarmo in Germania e contro il pericolo dell’atomo (D. CORNU, Karl Barth et la politique, 135 ss., 188 ss.); si scorra anche solo la raccolta degli scritti politici barthiani editi da K. Kupisch (Der Götze wackelt, Berlin 1961); si confrontino le pagine consacrate nella Kirchliche Dogmatik all’etica della riconciliazione (restituiteci nella Gesamtausgabe) con il celebre testo Christengemeinde und Buergergemeinde del 1946 che Bouiliard ha giustamente valorizzato (Karl Barth, I, 252 ss.) e che indubbiamente costituisce per Barth un momento dirimente (D. CORNU, Karl Barth et la politique, 118 ss.). Opere come quelle di A. FREY (Kirchenkampf?, Zollikonzuerich, 1951, tutta consacrata alla questione comunista e, purtroppo, molto sconosciuta e disattesa) e di D. CORNU (malgrado dissensi di dettaglio, come risulta da X. CHARPE, «Istina», 1970, 482 ss.) avrebbero da tempo dovuto chiarire la questione. Che Barth vada a sinistra, veda da sinistra, privilegi il dialogo con il «fratello rosso» non è da dimostrare; tuttavia «se attento fin dai suoi anni di pastorato, al problema della giustizia sociale, rifiuta di compromettere la voce della chiesa con quella, troppo interessata, dei difensori dei privilegi ingiusti, se critica vivacemente il sistema politico ed economico dell’Occidente, se si astiene dal lottare contro l’Est, se si oppone all’anticomunismo, non si pronuncia però in favore del sistema comunista» (H. BOUILLARD, Karl Barth, I, 257): «malgrado il suo rifiuto di una crociata anticomunista, Barth non è un cristiano-progressista come non era stato un cristiano-tedesco» (H. BOUILLARD, Karl Barth, I, 257). È bene non fraintendere nella loro intenzione profonda inequivocabile («sempre la medesima preoccupazione di salvaguardare la purezza dell’evangelo, fin nel bel mezzo delle opzioni più concrete»: H. BOUILLARD, Karl Barth, I, 258) atteggiamenti che possono certo essere discutibili (oltre ai contributi di Frey e di Cornu ed alla sintesi di Bouillard si vedano A. BÉGUIN, Karl Barth est-il con muniste?, «Esprit», 1951, 818 s.; F. KARRENBERG, Gessellschaftspolitische Probleme bei Karl Barth, in Antwort, 357 ss.; J. H. YODER, Karl Barth and thè Problem of War, Nashville, 1970; H. ROSER,

Karl Barth e il pacifismo, in Le Chiese e la guerra, Roma, 1972, 99 ss.). A nostro avviso, e fino a migliore informazione che Marquardt promette per gli anni di Safenwil nella Gesamtausgabe, nulla sostiene un’affermazione diversa dal «socialismo» barthiano nella linea di una «socialdemocrazia»; a condizione di aggiungerne subito la caratterizzazione (nel senso in cui va Dannemann) e di rilevare l’apporto essenziale, non solo di Kutter e di Ragaz, ma soprattutto dei Blumhardt (assai più di quanto non faccia Dannemann); un «socialismo» quindi tutto sui generis che se non si riduce alla socialdemocrazia (come partito e come ideale), ancor meno può ricondursi ad altre forme. Il Regno di Dio non può essere incapsulato. Leggono quindi male Barth coloro che lo tacciano di comunismo, identificando troppo semplicisticamente il «pericolo rosso» con l’Anticristo, demonizzandolo ad oltranza (si vedano soprattutto le prese di posizione di M. Feldmann, importanti proprio per la carica ufficiale del loro autore: Kirche und Staat im Kanton Bern, Bern, 1951; ma anche M. SCHOCH, Karl Barth: Theologie in Aktion, Frauenfeld, 1967, che merita le riserve di J. FANGMEIER, «Theologische Literaturzeitung», 93, 1968, 863 ss.) o di criptocomunismo, mossi come sono da un anticomunismo viscerale (e solo la lettura di Busch e di Cornu può rendere bene tutto questo ampio dibattito); leggono male Barth coloro che vedono una rilevanza marxista nel suo pensiero (e simile sorte è toccata anche ad un Bonhoeffer con non maggior fondamento); leggono male Barth coloro che vedono in lui un possibile precursore dell’estrema sinistra (G. CASALIS, Théologie et socialisme, 163; J. W. DESCHNER, Karl Barth as Political Activist, «Union Seminary Quarterly Review», 28, 1972-73, 55 ss.; P. LEHMANN, Karl Barth theologian of permanent Revolution, «Union Seminary Quarterly Review», 28, 1972-73, 287 ss.). E. Juengel ha parlato di rovesciamento dell’opera barthiana (Barth Karl, in Theologische Realenzyklopaedte, V, 267). Il dibattito è importante perché, al di là degli aspetti biografici, è appunto un’interpretazione ad essere sottesa e talora esplicita e tale lettura investe tutta l’opera barthiana. Se è bene chiarire il senso del socialismo barthiano (oltre ai saggi già citati: K. KUPISCH, Begegnung mit Karl Barth, Muenchen, 1962; J. BETTIS, Political Theology and Social Ethics: The Socialist Humanismus of Karl Barth, «Scottish Journal of Theology», 27, 1974, 287 ss.; E. BUSCH, Karl Barth, 315 ss., 342 ss., 352 ss., 409 s.), è ancora meglio rilevare che esso è eminentemente teologico e che è proprio tale carattere confessante a renderlo

valido ed irrinunciabile nelle sue grandi linee, se non nei dettagli (O. BLEIBTREU, Von den Zwecken des Staats und der Rechtsordnung, in Antwort, 336 ss.; M. STORCH, Exegesen und Meditationen, 177 ss.; W. D. MARSCH, Gerechtigkeit im Tal des Todes. Christlicher Glaube und politische Vernunft im Denken Karl Barths, in Theologie zwischen gestern und morgen, 167 ss.; J. J. BUSKES, Karl Barth und die Politik, «Evangelische Theologie», 30, 1970, 45 ss.; E. LESSING, Das Problem der Gesellschaft in der Theologie K. Barths und F. Gogarten, Guetersloh, 1972, con le osservazioni di H. GOLLWITZER, «Evangelische Theologie», 33, 1973, 622 ss.; G. A. BUTLER, Karl Barth and Political Theology, ccscottish Journal of Theology», 27, 1974, 441 ss.) come già aveva mostrato H. BOUILLARD (Karl Barth, I, 252 ss.). Barth non svolge nessuna «teologia del genitivo» e non ammette commistioni; la sua presa di posizione politica rileva dalla logica dell’incarnazione ed è il serrato (per quanto umano e fallibile) confronto del teologo con la realtà umana; è una visione critica, libera, liberatrice che si radica nell’evangelo e che vuole essere al servizio del Regno, senza minimamente pensare ad identificarsi con esso. La fede cristiana impone il lavoro politico, ma lo conserva nella sua aporeticità.

Karl Barth nel 1944. L’altro momento biografico di Barth oggi particolarmente studiato è indubbiamente quello della sua partecipazione alla chiesa confessante. È indubbiamente giusto affiancare alla documentazione (M. GEIGER, Der deutsche Kirchenkampf 1935-1945, Zuerich, 1965; K. D. SCHMIDT-H. BRUNOTTE E. WOLF hrsg., Zur Geschichte des Kinrchenkampfes, 2 voll., Goettingen, 1965 ss.; A. BOYENS, Kirchenkampf und Oekumene 1939-1945. Drstellung und Dokumentation, Muenchen, 1969) tentativi d’interpretazione sempre più ampi, sfumati ed onnicomprensivi (F. ZIPFEL, Kirchenkampf in Deutschland 19331945. Religionsverfolgung und Selbstbehauptung der Kirchen in der nationalsozialistischen Zeit, Berlin, 1965; S. BOLOGNA, La chiesa confessante sotto il nazismo: 1933-1936, Milano, 1966; J. NEUHÄUSLER, Amboss und Hammer

- Erlebnisse im Kirchenkampf des dritten Reiches, München, 1967; J. SCHMIDT, Die Erforschung des Kirchenkampfes, Muenchen, 1968; K. SCHOLDER: Die evangelische Kirche in der Sicht der national-sozialistischen Fuehrung bis zum Kriegsausbruch, «Vierteljahrshefte fuer Zeitgeschichte», 16, 1968, 15 ss. e Zur gegenwärtigen Situation der Erforschung des Kirchenkampfes, «Verkündigung und Forschung», 1, 1968, 110 ss.; M. BENDISCIOLI, Germania religiosa nel terzo Reich. Conflitti religiosi e culturali nella Germania nazista. Dalla testimonianza alla storiografia, Brescia, 1979: 2a ediz. riveduta; Kirchen in der Nachkriegszeit. Vier Zeitgeschichtliche Beiträge, Goettingen, 1979; Kirche im Krieg. Der deutsche Protestantismus am Beginn des II. Weltkrieges, Muenchen, 1979; B. REYMOND, «Etudes Théologiques et Religieuses», 54, 1979, 325 ss.; H. CLAVIER, Une résistance allemande à l’hitlerisme, «Revue d’Histoire et de Philosophie Religieuses», 62, 1982, 261-268). È sicuramente giusto riaprire il dossier sui cristiano-tedeschi (K. H. GOETTE: Die Propaganda der Glaubensbewegung «Deutsche Christen» und ihre Beurteilung in der deutschen Tagespresse. Ein Beitrag zur Publizistik im dritten Reich, Phil. Diss., Muenster, 1957 e Die Glaubensbewegung «Deutsche Christen» in der publizistischen Auseinandersetzung, «Publizistik», 6, 1961, 12 ss.; K. BUCHHEIM, Geschichte der christlichen Parteien in Deutschland, Muenchen, 1966, 2a ediz.; K. MEIER, Die Deutschen Christen. Das Bild einer Bewegung im Kirchenkampf des Dritten Reiches, Goettingen, 1967: 3a ediz.; R. E. HEINONEN, Anpassung und Identität. Theologie und Kirchenpolitik der Bremer Deutschen Christen 19331945, Goettingen, 1978; B. REYMOND, Une Eglise à croix gammée? Le protestantisme allemand au début du régime nazi, Lausanne, 1980; M. BENDISCIOLI, La problematica teologica dei tedesco-cristiani tra adeguamento al nazismo e identità di chiesa, «Humanitas», 35, 1980, 452 ss.). È giusto ugualmente mettere in evidenza l’apporto di altre personalità (soprattutto di un Bonhoefifer e di un Niemoeller). A condizione tuttavia di non perdere in un’asettica oggettività, la profondità (e con essa la pregnanza, il significato e la portata) della chiesa confessante, ed in essa proprio di Karl Barth. A noi pare di dover conservare l’immagine tradizionale e la lettura unanime fino a questi ultimi tempi. Che Barth abbia sostenuto la chiesa confessante, malgrado alterne vicende, che abbia mostrato con lungimiranza cammini che avrebbero dovuto essere seguiti con maggior cura e maggior

fedeltà, che sia stato la voce per eccellenza nell’incoraggiare la resistenza al nazismo (K. BALLMER, Ein schweizericher Staatsrechtslehrer: Karl Barth, Zuerich, 1941; W. NIEMOELLER, Karl Barths Mitwirkung im deutschen Kirchenkampf, «Evangelische Theologie», 14, 1954, 50 ss.; H. BOUILLARD, Karl Barth, I, 243 ss.; M. STORCH, Exegesen und Meditation, 177 ss.; D. CORNU, Karl Barth et la politique, 11 ss.) ci pare sia confermato da studi recenti sia globali (E. BUSCH, Karl Barth, 177 ss., 233; H. PROLINGHEUER, Der Fall Karl Barth. Chronologie einer Vertreibung 1934-35, Neukirchen, 1977; in quest’ultimo tuttavia si hanno punte apologetiche disturbanti) che parziali sulla reazione del 1933 (H. STOEVESANDT, Von der Kirchenpolitik zur Kirche. Zur Entstehungsgeschichte von K. Barths Schrift «Theologische Existenz heute» im Juin 1933, «Zeitschrift für Theologie und Kirche», 76, 1979, 118 ss.) e sulla confessione di Barmen (M. HONECKER, Weltliches Handeln unter Herrschaft Christi. Zur Interpretation von Barmen II, «Zeitschrift für Theologie und Kirche», 69, 1972, 72 ss.; Ch. BARTH. Bekenntnis im Werden. Neue Quellen zur Entstehung der Barmen Erklärung, Neukirchen, 1979; oltre ai sempre utili H. BRUNOTTE, Die theologische Erklärung vom Barmen 1934 und ihr Verhältnis zum lutherischen Bekenntnis, Berlin, 1955; E. WOLF, Barmen. Kirche zwischen Versuchung und Gnade, München, 1957; G. NIEMOELLER, Die erste Bekenntnissynode der deutschen Evangelischen Kirche zu Barmen, Göttingen, 1959; M. KARNETZKI hrsg., Ein Ruf nach vorwärts. Eine Auslegung der theologischen Erklärung vom Barmen 30 Jahre darnach, München, 1964; K. SCHOLDER, Die Bedeutung des Barmer Bekenntnisses für die evangelische Theologie und Kirche, «Evangelische Theologie», 27, 1967, 435 ss.; H. VALL, Iglesiasy Ideologia nazi. El Sinodo de Barmen, Salamanca, 1976). Ed inequivocabile ci sembra la lettura «teologica» di questa esistenza: non vi sono solamente esplicite prese di posizione nei testi autobiografici (che potrebbero essere interpretazioni e riletture posteriori, tuttavia imprescindibili almeno a livello intenzionale), quanto piuttosto la dinamica dei fatti e degli scritti «a caldo» di questo travagliato periodo a confermarla e ad esplicitarla. In tutta la sua esistenza Barth è stato una coscienza ed in taluni momenti un indispensabile sostegno; non lo è stato però per il suo coraggio, il suo impegno, la sua chiaroveggenza (tutti doni avuti in grande misura) e neppure per il suo esigente spirito critico (sovente incompreso o mal compreso); lo è

stato «per fedeltà all’evangelo» e tale posizione, si condivida o meno, ci sembra debba essere preservata e difesa nella lettura di Barth, lettura quindi chiaramente «confessante» e perciò «libera» ed estremamente «nuova». 3. Ci si deve chiedere ora che cosa significhi Barth nella storia della teologia del nostro secolo o meglio che cosa rappresenti il Barth della Kirchliche Dogmatik in questo contesto; più volte infatti è stato notato l’apporto di Barth all’epoca della teologia dialettica e la novità di questo strappo, radicata nelle riflessioni precedenti; con non minor frequenza ci si è interrogati sulla fecondità della teologia barthiana espressasi nell’opera maggiore sia nelle ancora forzatamente embrionali storie della teologia nel nostro secolo, sia nelle grandi monografie che hanno segnato il cammino dell’interpretazione barthiana; sia nelle brevi sintesi di articoli che, a vari livelli, pur nella loro frammentarietà, hanno tentato un consultivo. Quanto abbiamo detto nell’introduzione ed in questa nota storica, quanto abbiamo schizzato nella nostra selezione bibliografica del 1976 e nella bibliografia annessa a questo studio, quanto infine abbiamo tentato di suggerire nei riferimenti puntuali disseminati qua e là per guidare ulteriormente il discorso costituisce, a modo suo, anch’esso una risposta. In questa sede, a conclusione, basti aggiungere qualche complemento. Innanzitutto il pensiero di Barth colpisce per la sua modernità. Non si tratta evidentemente di una modernità a buon mercato, né di una patina superficiale, neppure di un amenicolo stereotipo buono per ogni occasione; si tratta invece di una radicale presa di coscienza delle potenzialità e dei limiti del pensiero moderno da Descartes in poi, di un pensiero che, lo si voglia o no, lo si riconosca o meno, lo si giudichi una grazia o una tentazione mortale, è inequivocabilmente la nostra situazione; sentiero della notte o sentiero di Dio, è il cammino che a noi, situati cronologicamente e spazialmente in esso, è dato percorrere senza infingimenti. Siamo in presenza di un’interazione nel pensiero barthiano, raramente notata: il pensiero di Barth, eminentemente confessante, trae proprio da questa sua caratterizzazione la libertà di un confronto corposo, tenace ed esigente con la modernità come con la tradizione tutt’intera, ma tale confronto vieta al pensiero teologico ogni angustia, ponendolo, come dev’essere, nel tempo specifico che gli è comandato di vivere. La teologia s’invera nel dialogo e nel confronto senza commistioni. S’invera non certo nel senso di una teologia naturale, di un’apologetica, di un’antropologizzazione del dato: Barth non si preoccupa né di precomprensioni esistenziali, né di nascosti desideri del cuore umano, né di

ricerche del punto d’aggancio fra naturale e soprannaturale; tale cammino gli è precluso in maniera decisa perché su esso aleggia la figura di Schleiermacher e quindi la possibile riduzione del messaggio; quanto invece si apre a Barth è l’abbattimento dei falsi bastioni, delle questioni irrisolte e talora solo male impostate, ma anche lo stimolo che il pensiero teologico può derivare per una sua retta sistematizzazione nella dommatica regolare. Il dialogo che Barth intrattiene con movimenti (e basti citare l’idealismo, l’esistenzialismo, il marxismo) e pensatori (e basti ricordare fra i tanti Descartes e Leibniz, Rousseau ed Hegel, Feuerbach e Nietzsche, Jaspers ed Heidegger e Sartre, senza dimenticare Kierkegaard anche se nel Barth dell’opera maggiore le citazioni si sono rarefatte per motivi più volte spiegati) s’intreccia armoniosamente con il confronto ingaggiato da Barth, sulla metodologia teologica, con la teologia liberale ed in particolare con Schleiermacher (senza dimenticare Harnack), mentori, fin dai tempi giovanili, Overbeck ed i due Blumhardt. A Barth preme indicare come solo il cammino aperto dalla riflessione anselmiana, così come gli si è imposta nella rilettura del 1931, può dare frutti duraturi e permettere un annuncio retto. Se un esempio in questa sede si può accennare (fra i tanti indicati nella nostra selezione bibliografica, 403 s.) basti pensare al dialogo di Barth con Feuerbach (dall’antico testo del 1927 ripreso in Die Theologie und Kirche, 212 ss. e tradotto in italiano nell’Antologia del Riverso, 105 ss. alle numerose citazioni della Kirchliche Dogmaticik 1/2, 46 s., 316 s.; II/1, 328 s., 505, 525, 690; III/2, 22 s., 287 s., 333 s., 461; IV/2, 90; IV/3, 79 ss.) che ha avuto commenti adeguati (M. H. VOGEL, The Barth-Feuerbach Confrontation, «Harvard Theological Review», 59, 1966, 27 ss.; J. WEBER, Feuerbach, Barth and theological Methodology, «Journal of Religion», 46, 1966, 24 ss.; J. GLASSE, Barth zu Feuerbach, «Evangelische Theologie», 28, 1968, 459 ss.; H. DELHOUGNE, Karl Barth et la critique feuerbachienne de l’idée de Dieu, «Mélanges de Science Religieuse», 28, 1971, 121 ss.) cui già abbiamo accennato parlando di Die protestantische Theologie e delle sue decise costellazioni (La théologie protestante, 328 ss.). Quanto questo cammino sia prezioso per la preservazione del discorso barthiano sui basilari temi che lo caratterizzano, quanto questa strada sia caratterizzante nell’attuale panorama teologico, quanto possa essere proficua in vista dell’estensione di una dommatica regolare non è ancora stato verificato esaurientemente e neppure era possibile farlo, tanto siamo immersi tutti in questo processo che ci coinvolge ed

interpella; tuttavia vari elementi indicano che proprio attraverso la rimeditazione dell’opera di Barth (tornata sorprendentemente alla ribalta in poderosi studi o in agili articoli) s’intravvede una nuova possibilità per la sistematica; dopo l’epoca dei saggi e dei tentativi più o meno farraginosi (a volte necessari, altre volte assai più discutibili) vari autori ritrovano la capacità di esposizioni poderose in cui si dispiega il disegno ampio di una dommatica regolare, in cui la discussione confessante si fa più marcata nei confronti del mondo moderno e del suo pensiero sovente frastagliato, in cui il dialogo è robusto e senza compiacenze. Il rinnovamento sistematico cui oggi assistiamo sia in campo cattolico (e basti fra tutti il grande nome di un autore tanto legato a Barth come Hans Urs von Balthasar) e sia in campo protestante (e qui si pensi a Pannenberg e a Moltmann, a Ebeling e a Juengel per fare solo qualche grosso nome) sarebbe impensabile senza la lezione barthiana nella linea suesposta. In questo certo il pensiero di Barth è tutto davanti a noi e non cessa d’interrogarci. Se ne ha un esempio proprio nella corrispondenza del vecchio Barth restituitaci nella Gesamtausgabe, una delle pagine più fresche, più esigenti, più stimolanti scritte dal teologo di Basilea. In secondo luogo il significato di Barth ci sembra consista nel dialogo che si è intrecciato con il suo pensiero e specialmente proprio con il suo pensiero dommatico. Besta scorrere la nostra selezione bibliografica per ritrovare assai spesso, nelle varie sezioni, i nomi più prestigiosi dei teologi che meritano una menzione particolare nella storia della teologia del nostro secolo. Anche quest’aspetto deve ancora essere studiato o almeno sistematizzato. Il significato di questo confronto è capitale, perché si può misurare subito l’impatto della teologia barthiana; lo è ancora di più se si pensa che taluni autori hanno inserito questo dialogo nelle loro opere sistematiche (si pensi ai grossi nomi di Brunner, Prenter, Vogel e Kreck); né si può dimenticare che la referenza a Barth, almeno occasionale, è il lotto di ogni teologo sia cattolico che protestante. In terzo luogo il significato di Barth consiste indubbiamente nel suo apporto ecumenico. Non intendiamo parlare del suo apporto personale (che in taluni casi è stato determinante: si pensi alla conferenza di Amsterdam nel 1948: E. BUSCH, Karl Barth, 318 ss.: o comunque molto significativo: si pensi alla visita a Roma dopo il Concilio Vaticano II ed all’incontro con Paolo VI nel 1966: E. BUSCH, Karl Barth, 433 ss.), quanto piuttosto della sua metodologia teologica che confessante sempre, gioiosa e libera nei confronti della propria tradizione, sa evitare sempre più le angustie del

confessionalismo. Barth ha insegnato un buon uso della propria tradizione di fede: si pensi, fra tutte, alle pagine dedicate in KD I/2, 693 ss. a questo argomento. Proprio per questo ha saputo suscitare un fermento non ancora spento sia in campo luterano (si pensi agli interventi di P. Althaus, R. Prenter e Oscar Cullmann, cui Barth è sempre stato molto legato e prima ancora di D. Bonhoeffer), sia in campo riformato (dove il riferimento a Barth è costante, sebbene talora critico come in Brunner), sia in campo cattolico (si pensi solo a Balthasar, Kueng, Bouillard, Fries fra i più intelligenti commentatori del nostro). Ed è un fermento penetrato anche in ambiente italiano, dove ormai la valutazione di Barth ruota essenzialmente sulla Kirchliche Dogmatik, quasi a premiare una lettura tenacemente perseguita da un gruppo di solitari pionieri (i protestanti V. Vinay e G. Miegge ed il cattolico B. Gherardini; e ad essi si aggiunga, malgrado tutto il lavoro stimolante di E. Riverso), in pieno fiore ora nelle sintesi brillanti che assurgono a livello internazionale (e si pensi qui ai protestanti V. Vinay e V. Subilia ed al cattolico I. Mancini) come in saggi precisi che testimoniano un rinnovato interesse (si pensi solo ai protestanti G. Tourn, R. Bertalot, S. Rostagno ed ai cattolici G. Martenzini, G. M. Pizzuti, C. Scilironi). Al di là degli apporti singoli, che restano imprescindibili, è proprio questo nuovo modo di fare teologia sistematica che ci pare possa essere ritenuto il retaggio di Barth per i compiti di oggi.

L’ELEZIONE GRATUITA DA PARTE DI DIO

PARAGRAFO 32 L’ELABORAZIONE DI UNA CORRETTA DOTTRINA DELL’ELEZIONE 1. La dottrina dell’elezione divina è la somma dell’evangelo, perché la miglior cosa che mai possa essere detta ed intesa è che Dio scelga l’uomo e che egli sia, in questa maniera, per lui, quegli che ama nella libertà. 2. Questa dottrina trova il suo fondamento e la sua pace nella conoscenza di Gesù Cristo, poiché questi è contemporaneamente il Dio che elegge e l’uomo eletto. 3. Essa fa parte della dottrina di Dio perché Dio, scegliendo l’uomo, certamente lo determina, ma nello stesso tempo determina ugualmente se stesso per una libera sua scelta. Essa ha come compito di attestare, fin dal principio, che il punto di partenza di tutte le vie e di tutte le opere di Dio è la sua grazia eterna, libera e costante.

I. L’ORIENTAMENTO DELLA DOTTRINA DELL’ELEZIONE A. QUESTIONI DI METODO TEOLOGICO 1. Abbiamo trattato della conoscenza e della realtà di Dio. Ci siamo sforzati di discernere e di apprendere questa verità profonda e nel contempo semplice: Dio è conosciuto perché si fa conoscere ed è il Dio vivente perché ama nella libertà, all’interno dell’unità e della ricchezza delle sue perfezioni. In tutta questa prima parte della dottrina di Dio, il nostro punto di partenza non è stato un assioma della ragione, né un fatto di esperienza. Infatti una dottrina di Dio che attingesse a tali fonti, rivelerebbe immediatamente che in realtà il suo oggetto non è certamente Dio, ma solo l’immagine ipostatizzata dell’uomo. È contro la tentazione di elaborare una dottrina di tal fatta che abbiamo dovuto costantemente difenderci, il che ci ha obbligato, più di una volta, ad entrare in conflitto con simile tendenza, più o meno antica nella storia dei dogmi. Nostro punto di partenza è stato invece quanto Dio stesso ha enunciato ed ancora enuncia su se stesso, sulla sua conoscenza e sulla sua realtà, conformemente all’autotestimonianza che ci è umanamente attestata nella Sacra Scrittura, documento dell’essere e del permanere della chiesa e per questo fatto divenutaci accessibile e comprensibile. Ci siamo limitati, nella misura del possibile, a ricevere esattamente ed a ripetere tal quale questa autotestimonianza divina. Con il medesimo rigore, ci siamo sforzati di lasciare dettare le nostre stesse questioni, proprio ascoltando le risposte che la rivelazione divina attestata nella Scrittura, già aveva fornito. Questo tuttavia

non ci ha impedito di ascoltare con gratitudine anche la voce della chiesa, antica o moderna; solo che l’abbiamo senza sosta confrontata e misurata con l’unica voce che nella chiesa è sovrana; che abbiamo ritenuto o meno possibile di seguirla, non le abbiamo riconosciuto altro ruolo se non quello di insegnarci ad ascoltare meglio ed a meglio comprendere quella voce sola sovrana nella chiesa, sovrana perché sorgente e norma di ogni verità. Tale è il metodo che ci ha permesso di percepire la grandezza e la contemporanea semplicità dell’oggetto di cui si tratta nella conoscenza e nella realtà di Dio, insegnandoci a discernere in che cosa consista una dottrina sana e corretta in simile ambito. Ora, la voce sovrana che abbiamo ascoltato per permettere che Dio stesso ci istruisca su di lui, è quella di Gesù Cristo. Lungo tutto il cammino finora percorso, non abbiamo fatto un solo passo senza imbatterci in questo nome. Non come se si trattasse di un semplice titolo o come si avesse a che fare con una forma qualunque usata da Dio per farsi conoscere, forma sotto cui esisterebbe per noi, mentre in se stesso Dio possederebbe un’altra essenza diversa da questo nome, che, ridotto allora ad un semplice strumento di comunicazione, potrebbe alla fin fine essere lasciato da parte, in quanto non designante Dio stesso, ma solamente qualche manifestazione divina, in ultima analisi differente dalla divinità stessa, dalla divinità autentica. Ben al contrario. Ogni passo del nostro cammino, in ogni suo momento, si è imbattuto, materialmente e sostanzialmente, per la forza stessa delle cose, nel nome di Gesù Cristo. È lui che, passo dopo passo, si è rivelato essere l’oggetto stesso del nostro studio. Tutti gli errori fondamentali che abbiamo dovuto evitare hanno la loro radice comune nella leggerezza o nell’arbitrio con cui, nella chiesa stessa, si pretende regolarmente di contemplare e di comprendere Dio, di descriverlo e di parlare di lui, senza Gesù Cristo e a fianco di lui o procedendo oltre lui. Dio infatti si trova regolarmente soppiantato dall’immagine ipostatizzata dell’uomo ogni qualvolta che la teologia, e non importa qui con quale pretesto, accetta di allontanarsi da questo nome, sia che essa non intenda cominciare da lui, preferendogli ogni sorta di presupposti generali sedicenti migliori, più semplici, più convincenti (come se Gesù Cristo non fosse che qualcosa che viene dopo, come se non fosse invece la radice e l’origine di ogni conoscenza e di ogni parola di Dio, come se non fosse anzi, proprio lui, la stessa Parola di Dio!) e sia che non voglia finire con lui, preferendo un’esposizione generale di risultati supposti validi in sé, risultati che deriverebbero dalla verità particolare che Gesù Cristo rappresenta (come se si potessero separare i frutti dall’albero, come se nel campo di Dio

esistessero verità generali riconoscibili e suscettibili di esposizione, indipendentemente dalla verità particolare!). Tutte le oscurità e tutte le ambiguità si sono dissipate nella nostra esposizione nella misura in cui ci siamo fermati a questo nome, ce ne siamo ancorati, l’abbiamo lasciato essere il primo e l’ultimo, conformemente alla testimonianza della Scrittura. Dio si afferma e si difende sempre da se stesso, di fronte a tutte le illusioni e gli errori senza possibilità di uscita in cui ci rinchiudiamo, ogniqualvolta vogliamo parlare di lui, ad una condizione: lasciare che il nome di Gesù Cristo s’imponga nel nostro pensiero come l’inizio ed il termine di tutte le nostre riflessioni. Ricordiamoci come ogni volta, durante l’esame delle perfezioni divine dell’amore e della libertà, tutto è diventato chiaro e logico per il semplice fatto che lui, Gesù Cristo, si è manifestato come l’essere perfetto, come la pienezza dell’amore e della libertà, come l’amore e la libertà di Dio, in cui tutte le perfezioni divine sono precisamente Dio stesso, né più né meno. Nella misura in cui siamo rimasti fedeli alla testimonianza della Scrittura, dovevamo inevitabilmente essere condotti ad incontrare Gesù Cristo e a restare con lui in maniera decisa. Infatti la Sacra Scrittura dell’Antico e del Nuovo Testamento è essa pure, in quanto testimonianza di Dio, testimonianza di questo nome: essa attesta la pienezza divina che è, tutt’intera, contenuta in Gesù Cristo ed inseparabile da lui; lungi dal presentare tale pienezza come una realtà che lo precede o che lo segue, essa mostra di possedere in lui il suo inizio, la sua continuità ed il suo termine. 2. Se tale è il risultato decisivo del nostro studio o, per dirla diversamente, se questa è la quintessenza della dottrina della conoscenza e della realtà di Dio, ne consegue che non abbiamo ancora messo punto alla dottrina di Dio. Infatti la dottrina cristiana di Dio si applica a descrivere e a spiegare il soggetto di tutto quanto deve essere ricevuto ed enunciato nella chiesa cristiana. Ora se è vero che tale soggetto ci è completamente rivelato e presentato nel nome di Gesù Cristo, è impossibile che noi ci limitiamo semplicemente a descriverlo ed a spiegarlo per se stesso e come tale. È quanto abbiamo fatto finora. Commetteremmo però un grave errore e la nostra meditazione della Parola di Dio come norma della predicazione cristiana soffrirebbe di una disgraziata lacuna se, fin d’ora, pensassimo di poter passare senz’altro all’esposizione della materia che la chiesa deve ricevere e predicare come l’opera di questo soggetto, come l’azione del Dio creatore, riconciliatore e redentore. Non avremmo ancora imparato a pronunciare correttamente la parola Dio (correttamente come si addice farlo nella chiesa cristiana, sulla

base della Sacra Scrittura) se credessimo sufficiente a questo punto di pronunciare semplicemente questo nome e se, dopo aver risolto i problemi fondamentali e risposto a tutte le critiche, credessimo che il nostro compito consistesse ormai nel parlare di Dio, in forza di qualche esclusivismo logico, puramente e semplicemente. Se è vero che la pienezza della divinità abita corporalmente in Gesù Cristo come afferma la Scrittura (Col. II, 9), è chiaro che il soggetto Dio, nell’assoluta perfezione che lo distingue da quanto non è lui, non potrebbe essere per così direconsiderato, definito e descritto per se stesso. L’oggettività suprema non potrebbe che trapassare nel suo contrario e tutto quanto abbiamo detto finora di questo soggetto assumerebbe una tinta oscura che si stenderebbe parimenti su tutte le nostre susseguenti affermazioni a proposito dell’opera divina, se la dottrina di Dio pretendesse di essere troppo correttamente, troppo prudentemente, troppo letteralmente una dottrina di Dio solamente, se il suo carattere cristiano non significasse subito la rinuncia ad una tale astrazione, se, in una sola parola, in forza della sua verità sostanziale più specifica, essa non fosse chiamata a superare il quadro che apparentemente (ma solo apparentemente!) è il suo. Proprio perché dottrina cristiana su Dio, essa deve proseguire e condurre a giusto termine la descrizione e la spiegazione del soggetto Dio, andando al di là di quanto è possibile affermare a proposito della sua conoscenza e della sua realtà, considerate in se stesse; in altri termini, essa si sforzerà di mostrare che in virtù della sua natura, del suo volere, del suo essere più intimo, questo soggetto non esiste in sé, solamente, ma che, al contrario, possiede all’esterno una precisa relazione con un altro oggetto. Non che tale oggetto esterno sia una parte di Dio o in qualche maniera un suo uguale. Non che eserciti su di lui una specie di costrizione, obbligandolo a porre simile relazione. Abbiamo avuto finora sufficienti occasioni per apprendere che non si può certo concepire Dio come un essere legato a qualsivoglia azione che gli sia esteriore. Dio è amore. Ma è anche perfetta libertà, cosicché non sarebbe certo meno amore, se non avesse una relazione con un altro oggetto. E tuttavia, conformemente alla libera decisione del suo amore, gli appartiene di fatto di essere Dio nel quadro di una precisa relazione con un altro. Non ci è consentito ritornare al di qua di tale decisione, se vogliamo conoscere Dio e parlare correttamente di lui. Una dottrina di Dio che pretendesse di parlare di Dio solamente e semplicemente, che non volesse riconoscere che, parlando di lui, dobbiamo subito parlare, conformemente alla libertà divina ed alla sua libera decisione, della relazione che egli stesso ha istituito, una tale dottrina

cadrebbe in una falsa astrazione. Questa relazione rileva a pieno diritto dal soggetto Dio ed il suo studio fa parte di una dottrina di Dio nel senso stretto del termine, perché essa riposa su un comportamento preciso di Dio, di cui non possiamo, in alcun momento, rinunciare a tenere conto, quando parliamo di Dio. Già nel corso delle nostre tappe precedenti, vi abbiamo dovuto fare riferimento. Come avremmo potuto infatti enunciare una qualsiasi verità sulla conoscenza e sulla realtà di Dio, se non avessimo diretto la nostra attenzione sul suo comportamento effettuale, per comprendere da esso come Dio deve essere conosciuto e quale egli sia in se stesso ed in tutte le sue opere? Ma giustamente questo fatto (cioè che Dio è lui stesso solo in un certo comportamento) deve ancora essere esplicitato. Abbiamo lavorato su un terreno solido quando abbiamo cercato di comprendere dal comportamento di Dio quanto deve essere detto della sua conoscenza e della sua realtà, quando cioè abbiamo cercato senza soste di contemplarlo e di comprenderlo in funzione della sua rivelazione e della globalità dell’opera sua. Questo comportamento infatti non è accidentale, revocabile, provvisorio; costituisce al contrario il modo con cui Dio intende afferrarci, affinché, a nostra volta, possiamo comprenderlo pienamente; ci pone di fronte alla libera, eppure definitiva, decisione divina, da cui non possiamo fare astrazione senza cadere nella speculazione arbitraria e che, conseguentemente, non ci è consentito passare sotto silenzio, poiché tale decisione, una volta presa, fa parte dell’essenza stessa di Dio, sebbene si rapporti non al suo essere considerato in se stesso, ma alla sua relazione con l’esterno. Questa decisione rileva dalla realtà divina, che non esiste senza di essa, ma solamente in essa e le è così strettamente collegata che nessuna oggettività logica potrebbe impedirci di lasciarla affermare come un nuovo elemento della nostra conoscenza di Dio. Già finora non abbiamo potuto parlare correttamente di Dio nel suo essere in se stesso senza considerarlo continuamente nel suo comportamento, senza lasciarci dettare le nostre questioni e le nostre risposte dal suo modo di essere; possiamo adesso comprendere ben più facilmente che, per parlare della sua opera con pertinenza, l’atteggiamento che egli adotta e che quest’opera definisce, gli è essenziale e non potrebbe essere separato da lui. Per tale ragione tutto questo problema del comportamento di Dio deve essere ripreso in particolare ed in se stesso nel quadro di una dottrina di Dio. Il soggetto sovrano e da cui tutto qui dipende non può essere descritto ed esposto in maniera esaustiva in una dottrina cristiana di Dio se non a condizione che tale dottrina non tema di spingersi al di là del significato logico ed immediato dei

concetti, per trattare ugualmente della relazione che Dio ha stabilito di fatto ed al di fuori della quale, una volta stabilita, non ha voluto più essere Dio e non è più Dio, cosicché tale relazione costituisce il solo quadro in cui possa essere onorato come Dio. Se è esatto che è secondo i piani divini che tutta la pienezza di Dio inabiti in Gesù Cristo (Col. I, 19), allora questo nuovo cammino sarà inevitabile. Non solo. Ma si comprende anche subito per quale sentiero ci si deve incamminare. 3. In effetti Gesù Cristo è Dio nella sua condiscendenza nei confronti dell’uomo; più esattamente è il Dio che si volge verso il popolo degli uomini rappresentato dall’individuo unico Gesù di Nazareth, Dio nella sua alleanza con questo popolo, nel suo essere e nella sua azione presso di lui. Gesù Cristo è la decisione di Dio in favore di questa azione. È lui stesso questo comportamento di Dio chiaramente diretto verso l’esterno, poiché l’uomo, oggetto della decisione divina ed il popolo che egli rappresenta non sono Dio, ma delle creature. Tuttavia, sebbene esterno, si tratta di un comportamento irrevocabile, senza cui, una volta voluta ed effettuata la scelta, Dio non sarebbe più Dio, un comportamento per mezzo del quale Dio si è autodeterminato, cosicché tale determinazione appartiene alla sua essenza, così come alla sua essenza appartengono tutti gli attribuiti intrinseci. Dio non potrebbe essere Dio senza il Figlio che siede alla destra del Padre. Ma il Figlio non è solamente vero Dio: si chiama Gesù di Nazareth; è dunque anche vero uomo e, per questa ragione, rappresenta il popolo degli uomini che, in lui e per mezzo di lui, si trovano, come lui, uniti a Dio e sono, come lui, l’oggetto della condiscendenza divina. Che noi non possiamo conoscere e possedere Dio se non in Gesù Cristo significa anche, conseguentemente, che non possiamo conoscerlo e possederlo senza conoscere e possedere l’uomo Gesù di Nazareth ed il popolo degli uomini che egli rappresenta. Senza questo uomo e senza questo popolo, Dio sarebbe un altro Dio, un Dio estraneo; secondo la conoscenza cristiana anzi, semplicemente, non sarebbe Dio. Il Dio reale è ciò che è unicamente nel suo dinamismo di condiscendenza: rivolto verso l’uomo Gesù e, in lui e per mezzo di lui, verso l’insieme degli altri uomini, riuniti per formare un popolo. L’oggetto con cui Dio è in relazione in forza della sua decisione effettiva (che non può essere né sospesa né modificata) non è dunque semplicemente e direttamente il mondo creato considerato in se stesso. Beninteso, Dio è anche in relazione con il mondo, vi agisce, vi inscrive una storia. Ma questa storia non ha nessun valore indipendente. Esiste in virtù di una preistoria che si svolge fra Dio da un lato e l’uomo particolare ed il

popolo che rappresenta dall’altro; è il luogo in cui si srotola questa preistoria; si compie in funzione di quest’altro compimento. La medesima cosa deve essere detta per l’uomo in se stesso e per l’umanità nel suo insieme. Il partner di Dio, da cui non è più possibile fare astrazione, non è l’idea di uomo, o l’umanità in generale, o una somma ristretta di individui, o un insieme considerevole di soggetti; è l’uomo Gesù ed il popolo che egli rappresenta; e per questa ragione questo partner è ugualmente l’uomo come tale, l’umanità intera e tutto il resto del cosmo. La natura umana, così come la storia, non hanno un senso generale in se stesse: sono orientate verso la preistoria che si svolge, al centro più intimo della realtà, fra Dio da una parte e l’uomo unico ed il popolo degli altri uomini che egli rappresenta dall’altra. È a causa di questa realtà particolare che esiste una realtà generale: il mondo e l’uomo che noi vediamo. È nella prima che la seconda possiede il suo significato ed il suo compimento. La prima costituisce precisamente il partner di Dio da cui non è più possibile fare astrazione, l’oggetto esterno verso cui Dio si è volto, in forza del suo comportamento che così è a tal punto legato alla sua natura che non possiamo più pronunciare il termine Dio, senza subito evocarlo. Parlando di Dio quindi dobbiamo ugualmente pensare subito a Gesù Cristo ed al popolo che egli rappresenta. È qui infatti che vediamo quale comportamento Dio ha deciso di adottare una volta per tutte per raggiungerci e perché noi, a nostra volta, potessimo raggiungerlo: nella persona del suo Figlio eterno, si è unito lui stesso all’uomo Gesù di Nazareth e, in lui e per mezzo di lui, al popolo che egli rappresenta. È il Padre di Gesù Cristo e non solamente il Padre eterno del suo Figlio eterno; di conseguenza è il Padre eterno di questo uomocircoscritto dal tempo e, per questa via, il Padre eterno, il possessore, il signore ed il salvatore del popolo che esiste in quest’uomo, destinato ad essere il re e la testa dell’umanità che egli rappresenta. Questa è la determinazione, frutto di una libera autodecisione, nella quale Dio è il soggetto di tutto quanto deve essere ricevuto ed enunciato nella chiesa cristiana. È a questo livello e sotto questo segno che tutto precede che si compie l’insieme dell’opera di Dio, estesa al vasto campo della creazione. L’oggetto verso cui Dio si volge è certamente il mondo creato nella sua totalità, l’uomo e l’umanità; ma tutto quanto Dio suscita nell’universo si compie al livello e sotto il segno precedente della decisione fondamentale da noi menzionata; tutto si regola sul modello e sul prototipo posti una volta per tutte, tutto procede dall’origine e tutto tende verso la fine che essi presuppongono, per svolgersi secondo l’ordine ed il senso che essi indicano. Tutti gli avvenimenti che vengono da Dio si producono in

Gesù Cristo, cioè conformemente all’alleanza che Dio, nell’unità del Figlio suo con l’uomo Gesù di Nazareth, ha stabilito e mantiene sovranamente fra lui ed il suo popolo, il popolo di quelli che sono divenuti suoi in Gesù Cristo. La preistoria che soggiace alla storia della relazione di Dio con la creatura e l’uomo in generale, e che per conseguenza ne costituisce anche il termine, è questa alleanza. Questa preistoria, cioè quest’alleanza, è il comportamento mediante il quale Dio vuole essere ed è Dio, in virtù della decisione del suo libero amore, comportamento che non potrebbe quindi essere separato dalla nozione cristiana di Dio e di cui dobbiamo tenere conto se vogliamo rispettare tale nozione. Donde la necessità di trattare la questione in una seconda parte della dottrina di Dio. B. CHIARIFICAZIONE DEI TERMINI 1. La verità particolare che desideriamo analizzare si presenta a noi subito sotto due aspetti, ponendoci due serie di problemi. È evidente che nella decisione per mezzo della quale Dio stabilisce, mantiene e regge l’alleanza di cui abbiamo parlato (questa decisione in Gesù Cristo), si compie un’azione precisa. La condiscendenza verso l’uomo, verso l’individuo particolare Gesù di Nazareth ed il popolo che egli rappresenta, frutto ditale decisione, è un atto della sovranità divina. Possiamo caretterizzare simile atto con l’aiuto di qualcuno degli attributi dell’essenza divina, dicendo che esso è la dimostrazione della sua misericordia e della sua giustizia, della sua costanza e della sua onnipotenza. È in quanto Signore vivente nella pienezza delle sue perfezioni che Dio inizia e regge l’alleanza; si pone lui stesso quale Signore di quest’alleanza; le offre contenuto, le fissa un ordine, la mantiene, la salvaguarda, la conduce a termine, la sostiene in tutti i modi. Ed è in virtù della sua decisione che esiste un partner con il quale Dio conclude questa alleanza ed è ancora e sempre quella decisione che definisce questo partner e lo determina nelle sue obbligazioni. Se un’alleanza esiste, è perché Dio lo vuole e lui solo abilita a farne parte e presiede agli avvenimenti che in essa si svolgono. Riassumiamo tutto quanto è utile dire della condiscendenza divina a questo proposito con l’espressione elezione gratuita, designante la scelta di grazia, quella scelta che Dio compie nella sua grazia e che concretizza nell’atto di condiscendenza cui consente per stabilire la alleanza che regge e mantiene, conformemente a questa stessa alleanza. Questo concetto, traduzione del greco ἐϰλoγὴ χάριτος (Rom. XI, 5), utilizzato soprattutto dalla chiesa protestante di cultura tedesca, riflette assai bene l’essenza di Dio così come abbiamo cercato di definirla finora. Vi è questione della grazia e

conseguentemente dell’amore di Dio; e vi è questione della scelta e conseguentemente della libertà di Dio. 2. Cominciamo mettendo in rilievo il primo dei termini: la grazia. L’atto di condiscendenza divina, la fondazione dell’alleanza, in una sola parola la decisione previa che Dio assume in Gesù Cristo e che costituisce l’origine ed il termine di tutte le sue opere, tutto questo significa innanzitutto grazia. Se vogliamo dirlo in termini generali: siamo posti di fronte alla manifestazione dell’amore sovrabbondante che definisce l’essenza divina. Dio infatti, sebbene basti a se stesso e non possa soffrire solitudine alcuna, intende partecipare la sua gloria con un altro essere e farne suo testimone. Questo amore sovrabbondante, per dirla con precisione, è la sua grazia. La grazia è l’amore nella prospettiva del supremo abbassamento; esiste senza essere motivata dal diritto o dal merito del suo oggetto; è realmente un dinamismo d’amore sovrabbondante, libero, senza costrizioni. E subito si deve aggiungere: è un amore misericordioso, capace, abbassandosi, di assumere i bisogni del suo oggetto, di affrontarne la miseria, facendosela propria. Ed infine: è un amore paziente, che non divora il proprio oggetto, ma gli lascia libero campo, perché lo ama in se stesso, in funzione del fine che gli è peculiare. In tutto questo è però giusto che la nozione di grazia resti preminente: la decisione di Dio in Gesù Cristo è una decisione di grazia: gratuita. Prendendo questa decisione, Dio si abbassa, compie un atto non necessario, di cui non aveva bisogno e che non lo obbliga; fa una cosa che non è tenuto a fare, che non lo lega, ma a cui si può legare e che, di fatto lo ha visto legato ad essa. Dio si è autodeterminato come colui che liberamente compie il beneficio, concludendo la sua alleanza. Come si vede la sovranità stessa di quest’atto risiede già, tutt’intera, nella nozione di grazia. Per il semplice fatto che la sua grazia è qui l’alpha e l’omega, deriva che Dio è necessariamente, in Gesù Cristo, il Signore nella maniera completa che fin qui abbiamo indicato. Ma anche l’altro elemento deve essere in primo piano e rimanervi: in Gesù Cristo, incontriamo un beneficio di Dio. Si tratta infatti del suo amore. Che, dal seno della sua maestà, Dio crei una comunione con un oggetto differente da lui, che non partecipa della sua natura, ma che si trova nell’abisso, tutto ciò significa beneficio. Manifestandosi come grazia, Dio dimostra che salva e soccorre; agisce come Signore libero; ma la sua signoria non è semplicemente buona, perché è benefica, in quanto porta e comunica il bene. La dottrina dell’elezione divina nella sua gratuità è la somma dell’evangelo. Ricapitola infatti il buon annuncio che ha nome Gesù Cristo.

3. L’altro elemento dell’espressione elezione gratuita non è suscettibile di modificare quanto finora abbiamo visto. Il termine elezione, scelta, non può che sottolineare e spiegare tutto quanto esprime la parola grazia: Dio sceglie nel suo libero amore un altro essere, per introdurlo nella sua comunione; si determina a non essere sufficiente a se stesso, sebbene possa esserlo; vuole che il suo amore sovrabbondi, vuole essere condiscendenza ed abbassamento. Dio si fa beneficio. Conseguentemente sceglie un essere differente da sé, come oggetto del proprio amore, lo attrae e lo prende con sé, onde non essere più Dio senza di lui, ma con lui, in comunione con lui. Tuttavia è chiaro che il termine di scelta o di elezione riflette più nettamente l’altro aspetto della essenza divina: la libertà nella quale Dio è eternamente colui che ama. Esso sottolinea che la grazia è sempre grazia, che Dio non deve nulla a nessuno e che nessuno può meritare alcunché, che essa non potrebbe essere oggetto di un’esigenza o di un diritto da parte di colui che incontra, ma che resta sempre nel campo del decreto e della decisione della volontà divina. Occorre ripeterlo: Dio sceglie autonomamente come il Dio dell’alleanza. Sceglie di non essere solo nella sua gloria, ma di erigere il cielo e la terra e fra essi l’uomo e di chiamarli tutti a testimoni della sua gloria; sceglie ugualmente lo strumento in cui si inscriverà il suo amore e che costituirà la testimonianza della sua gloria; sceglie la creazione, l’uomo ed il genere umano come il campo in cui intende esercitare la sua grazia. Ma l’esistenza dell’universo e della specie umana non potrebbe legarlo; Dio sceglie in questo campo; sceglie l’uomo di Nazareth per unirsi perfettamente a lui nel Figlio suo. Sceglie in lui e per mezzo di lui il popolo di coloro che gli appartengono. Così dà a tutte le sue opere il loro fondamento ed il loro significato. Dio sceglie: resta cioè libero nel suo fare e nel suo lasciar fare. Fa ciò che fa, ma nulla può obbligarlo, né forzarlo a compierlo in questo o quell’altro modo. Non obbedisce a nessuna esigenza. La sua grazia non è sottomessa a nessun presupposto di natura eterna o temporale, sostanziale o accidentale. In ciascuna delle sue manifestazioni, come nell’insieme della sua azione, la grazia è sempre una libera grazia. Il primo termine dell’espressione elezione gratuita sottolinea precisamente che il Dio che salva ed accorda il suo soccorso è il Signore, colui che agisce con sovranità piena ed assoluta, quando si rivolge ad un altro oggetto per accoglierlo. Come sarebbe possibile limitare il carattere evangelico di simile espressione? Essa richiama espressamente il buon annuncio, che è tale perché proclama la salvezza identica alla volontà del Signore della nostra vita e di ogni vita. La verità racchiusa in questa espressione, nel suo duplice elemento

di grazia e di scelta, è l’oggetto specifico verso cui dovremo indirizzarci fra poco. 4. Tuttavia l’esposizione del modo con cui Dio si comporta nel quadro dell’alleanza con il popolo rappresentato dall’uomo Gesù (complemento necessario della dottrina di Dio nel senso stretto del termine) non può avere come unico tema l’elezione gratuita. Agendo secondo la sua libera grazia Dio vuole, attende ed esige qualche cosa dal suo partner nell’alleanza. Alla maestà della sua azione senza condizioni, corrisponde l’esigenza che da parte di Dio è fatta valere. Nel momento in cui, nel suo libero amore, Dio incontra l’uomo, nel momento in cui diventa l’alleato dell’uomo; come ha stabilito in Gesù Cristo, in maniera che tale avvenimento si trova alla base di tutte le sue opere e ne costituisce il prototipo, necessariamente si presenta anche come il giudice del suo partner, di quel partner che ha scelto, e questo proprio in forza della sua superiorità assoluta, del diritto che ha di pronunciare la prima e l’ultima parola su di lui nel quadro di tale relazione. Utilizziamo il termine di giudice nell’accezione più vasta: Dio diventa per il suo partner colui che lo giudica e colui che lo dirige, diventa per lui, per il suo essere e per il suo agire, il criterio del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto. Lo ha determinato e creato come partner dell’alleanza; lo ha eletto e chiamato a giocare questo ruolo; di conseguenza gli ha dato una responsabilità. Altrimenti, come attirarlo realmente a lui? Fa della responsabilità che gli dona, il senso stesso della sua esistenza; gli mostra che la sua via è ugualmente praticabile da lui; lo chiama all’ordine e lo mantiene nell’ordine, rivelandogli il suo ordine e vegliando affinché egli lo esegua. Agisce così per amore e per grazia. Anche qui dunque noi incontriamo l’evangelo, un vangelo tuttavia che è sempre pure la forma della legge. Ecco infatti qual è la portata pratica della libera e sovrana azione che caratterizza l’elezione gratuita; colui che ne è oggetto, trova, per questo medesimo fatto, un Signore. La grazia non vuole solo essere ricevuta e sperimentata; nel momento stesso in cui essa è ricevuta e sperimentata, in quel momento si manifesta come il beneficio che essa è; allora vuole regnare e può regnare, perché Dio, il Signore dell’alleanza, dona ordini al partner di tale alleanza. È questo l’altro elemento che si deve mettere in evidenza non appena si abborda la questione della vita di Dio in Gesù Cristo, in e con il suo popolo; dovremo tenerne conto durante tutto il nostro lungo studio dell’opera divina fondata sulla grazia e sull’elezione gratuita. Non si dà grazia senza dominio ed esigenza di grazia. Non esiste una dommatica che non debba trasformarsi immediatamente in etica. Ma prima di affrontare quest’altra tematica, bisogna

parlare dell’elezione gratuita di Dio. C. L’APPORTO DELLA TRADIZIONE TEOLOGICA 1. Una dottrina senza ambiguità. Il campo teologico in cui adesso ci avventuriamo è conosciuto, nella storia dei dogmi, con il nome di dottrina della predestinazione. Prima di tutto dobbiamo insistere sull’affermazione che apre la tesi data come filo conduttore all’inizio di questo paragrafo: la verità che riterrà la nostra attenzione e che giustamente è espressa nella dottrina della predestinazione è in prima ed ultima analisi, senza alcuna restrizione ed in ogni caso, la somma dell’evangelo, qualunque sia il modo in cui essa debba essere compresa nei dettagli e malgrado aspetti e temi, apparentemente contradditori, che talora potrà presentare. Tale verità è evangelo, cioè buon annuncio, messaggio gioioso, capace di rallegrare, di tonificare, di consolare, di ridare forza, carico di soccorso. Non è dunque una verità neutra, un qualche teorema astratto che, sostanzialmente, non conterrebbe che un insegnamento rigido, una fredda spiegazione coinvolgente un campo irrazionale, ove è ignorata la differenza fra il bene ed il male, fra la felicità e la disgrazia e tutto ciò malgrado il complesso di timore e di spavento, di distretta e di pericolo che essa tradizionalmente comporta. Certo questa verità è anche spiegazione ed insegnamento, ma nella misura in cui proclama la gioia. Non è un messaggio in cui sono combinate gioia e paura, salvezza e perdizione; non ha nulla di dialettico, anzi è completamente priva di dialettica; non predica contemporaneamente il bene ed il male, la salvezza e la rovina, la vita e la morte. Certo essa proietta anche un’ombra e non avremo certo il diritto di trascurare questo problema; ma in se stessa è luce e non oscurità; dovremo quindi evitare ogni parallelismo fra salvezza e perdizione. Infatti anche nel suo aspetto negativo ed oscuro, l’ultima parola di questa verità non è certo minaccia, condanna, punizione, indicazione di un limite o descrizione di un abisso. È vero: essa non potrà essere studiata senza questi elementi; il suo sì non potrà essere percepito senza il no che lo accompagna; tuttavia essa non dice no per dire no, ma a causa del sì che annuncia. Nella sua sostanza, nelle sue premesse, nelle sue conclusioni essa è positiva e non negativa. È necessario insistere su questo fin dall’inizio, perché nel corso della sua storia, la dottrina dell’elezione gratuita, come teoria della predestinazione, si è sovraccaricata di una certa ambiguità. E questo a tal punto che basta pronunciare il termine di predestinazione per provocare automaticamente nell’uditore o nel lettore un certo numero di idee che generano una gran confusione ed impediscono di vedere chiaramente la verità di cui si tratta.

Non ci si sbaglierà dicendo che chiunque prova immediatamente un’avversione istintiva contro «il carattere profondamente inumano» di questa dottrina come sosteneva Max Weber1 o contro il pericoloso equivoco della sua dialetticità. Molti anzi considerano questa tematica come un teorema astratto e neutro. E vedendo come la nostra dottrina è stata esposta nel corso della storia dai suoi migliori rappresentanti, non si può certo dire che simili associazioni siano del tutto arbitrarie. In verità vi è una certa fluttuazione. Numerose sono le affermazioni che, nel campo che ci occupa, sono state tali da suscitare il più grande timore e la più grande avversione o ancora da condurre gente ben intenzionata a deformare gravemente la verità che era loro proposta, provocando inoltre, talora, un oceano d’incomprensione e di indifferenza. «Che vada all’inferno, va bene; ma nessuno potrà mai obbligarmi a credere in un simile Dio» (cioè quello della predestinazione calvinista): quante persone potrebbero unirsi, apertamente o meno, a questa indignata protesta di John Milton2. Il nostro compito non consisterà dunque nel riprendere questo o quell’altro testo classico della dottrina tradizionale della predestinazione, come ha fatto per esempio recentemente Loraine Boettner per l’esposizione calviniana, sforzan dosi di riformularla3; piuttosto dovremo mantenere una riserva critica anche nei confronti delle migliori formulazioni tradizionali. Tale atteggiamento deriva dall’oggetto stesso della nostra indagine, secondo una metodologia che ci ha guidati fin qui nella prima parte della dottrina di Dio; perché questa dottrina possa proiettare tutta la sua luce, bisogna che scompaia ogni ambiguità; tale è anche il senso delle discussioni polemiche che ci occuperanno in tutto questo capitolo. Dovremo necessariamente partire proprio dall’obiezione che si deve formulare contro la dottrina tradizionale; o meglio dovremo sforzarci di rendere giustizia all’intenzione iniziale, reale, legittima e necessaria che si trova alla base di tale dottrina. Lo abbiamo già fatto enunciando la tesi secondo la quale la dottrina dell’elezione divina nella sua libera grazia deve essere compresa in principio e senza equivoco possibile come evangelo; ricordiamo anche che essa non è un teorema neutro al di là del sì e del no che sono pronunciati; sottolineiamo che essa non dice no, ma sì e che essa non è contemporaneamente sì e no, bensì che essa è per il suo contenuto, la sua origine, la sua intenzione, essenzialmente positiva. 2. L’elezione gratuita come somma dell’evangelo. L’elezione gratuita è la somma dell’evangelo. Per parlarne come si deve, è necessario attenersi rigorosamente a questa breve ed esaustiva definizione. In altri termini: essa

costituisce l’evangelo nella sua interezza, nel suo nocciolo più profondo, nella sua quintessenza. Così essa vuole essere compresa ed apprezzata nella chiesa cristiana. Dio è Dio perché è essenzialmente colui che ama nella libertà: questa è la verità che si manifesta come buon annuncio per noi in virtù del fatto che le è congiunto: Dio nella sua libera grazia procede ad una scelta, si volge verso l’uomo, nel quadro dell’alleanza che stringe con Gesù di Nazareth e con il popolo che questi rappresenta. Tuttta la gioia, tutto il beneficio che significa la sua opera di creatore, di riconciliatore, di redentore, tutti i beni divini (e quindi reali), la somma delle promesse contenute e proclamate nell’evangelo, tutto questo esiste perché Dio ha deciso così, perché è il Dio dell’elezione eterna e gratuita. Alla luce di questa scelta divina, l’evangelo deve essere luce nella sua globalità ed in ognuna delle sue parti. A causa del sì che risuona in questa scelta, tutte le promesse di Dio diventano sì e amen (II Cor. I, 20). Poiché proprio qui sono annunciati, il nuovo ordine, la consolazione, il soccorso esistono su tutta la linea. Tutti gli enigmi e tutte le contraddizioni che possiamo incontrare si dissipano o si mutano nel loro contrario, non appena li consideriamo nel loro rapporto con la realtà che ci è finalmente chiesto di riconoscere. Inversamente, se l’ambiguità dovesse continuare a sussistere su questo punto, se dovessimo continuare a temere o a rallegrarci solo a metà o ancora se tutto quanto dovessimo apprendere sull’elezione gratuita altro non fosse che una qualche verità neutra o astratta, allora bisognerebbe arrendersi all’evidenza: non saremmo stati capaci di ascoltare e di comprendere la buona novella in ciò che essa ha di maggiormente esplicito. E la semioscurità che permarrebbe in questo campo essenziale, si stenderebbe a poco a poco, ugualmente, a tutti gli altri. In verità i più eminenti esponenti della dottrina della predestinazione nel corso della storia hanno messo chiaramente in evidenza il carattere fondamentalmente positivo dell’elezione gratuita. Citiamo Agostino: «questa è la predestinazione dei santi e null’altro: la prescienza e la preparazione dei benefici divini, per mezzo dei quali sono liberati coloro che sono liberati»4. E Lutero precisa che la predestinazione è «la volontà di Dio che nel suo consiglio dispone chi e quali vuole siano capaci e partecipi della misericordia annunciata e donata»5. Per parte sua Calvino assicura che non si tratta qui «di una arguta o spinosa speculazione che affatica l’intelligenza senza portare frutti», bensì «di una solida disputa quanto mai suscettibile di rinfocolare la pietà; infatti edifica rettamente la fede, ci istruisce nei sentieri dell’umiltà, ci innalza ammirati verso la grande bontà divina nei nostri confronti e ci spinge

efficacemente a celebrarla. Nessun motivo è più adatto ad edificare la fede che ascoltare un simile annuncio: questa elezione, che lo spirito di Dio segna nei nostri cuori, consiste in un decreto divino di benevolenza, eterno ed inflessibile, cosicché nessuna tempesta del mondo, nessun insulto di Satana, nessun tentennamento della carne può scalfirla. La nostra salvezza è quindi sicura; ne reperiamo la causa nel cuore stesso di Dio. Così infatti conosciamo per fede la vita che ci è manifestata in Cristo, affinché, sotto la guida di questa stessa fede, ci sia consentito vedere il più lontano possibile da quale fonte derivi la vita»6. Per taluni aspetti certamente «un simile decreto deve spaventarci», tuttavia «in questa oscurità che suscita timore potremo vedere quanto tale dottrina sia utile, non solo, ma pure dolce e saporosa per il frutto che ne deriva. Mai saremo persuasi come si deve che la sorgente della nostra salvezza è la misericordia gratuita di Dio, finché la sua eterna elezione non ci sia completamente chiara»7. Intenzionalmente abbiamo citato solo la parte positiva di questo brano sull’elezione, come degli altri che lo hanno preceduto; tutti infatti menzionano anche la non-elezione, cioè il rifiuto che accompagna l’elezione. Ma nonostante questo secondo elemento, gli autori citati non attribuiscono meno alla dottrina della predestinazione nella sua globalità un carattere eminentemente salvifico ed evangelico. Anche gli Articoli Irlandesi di Religione del 1615 sottolineano «il chiaro, gratuito, inesplicabile conforto» che deriva dalla dottrina della predestinazione e dalla nostra elezione in Cristo8. Qualunque interpretazione debba essere offerta del rigetto, resta sempre che la predestinazione, in ogni senso, deve essere osservata come un elemento positivo. La luterana Formula di concordia ha certamente ragione nel definire così il criterio di un corretto insegnamento in questa materia: «Questo non potrà mai essere una vera e corretta esposizione o un uso legittimo della dottrina riguardante la predestinazione divina, quello cioè che desti o confermi nell’animo umano impenitenza o disperazione; la Scrittura infatti ci propone questa dottrina in una maniera ben differente, cosicché siamo invitati ad abbracciare la parola divina rivelata mediante la fede, esortati a fare penitenza, chiamati a vivere piamente»9. E poco oltre: «questa dottrina ci fornisce materia molto ampia di autentica consolazione»10. Là dove la dottrina della predestinazione suscita disperazione o falsa sicurezza, e non consolazione, si può essere certi che «questo articolo della elezione non è stato insegnato secondo la norma e la volontà divina, ma secondo il giudizio della

ragione umana ben cieca e per impulso ed istinto del diavolo, in maniera cattiva e perversa»11. «Se noi infatti snerviamo o togliamo questa consolazione che ci è data tramite la Scrittura, allora è più certo di una cosa certa che la Scrittura è spiegata e compresa contro la parola e l’intenzione dello Spirito Santo»12. Solo perché vi è stato un malinteso o a causa di qualche conseguenza pericolosa, queste formule hanno potuto essere enunciate contro Calvino e contro i calvinisti; in verità anche questi ultimi avrebbero potuto esprimersi in questo modo ed anzi lo hanno anche fatto; solo si vorrebbe che essi l’avessero fatto ancora più nettamente, se possibile, onde togliere ogni equivoco. Che l’evangelo, nell’accezione larga e per così dire esaustiva del termine debba essere in questa questione l’origine ed il fine di ogni definizione, è quanto mostra immediatamente un semplice esame del ruolo giocato dal concetto di elezione nella testimonianza della Sacra Scrittura. Questo concetto è, nell’Antico Testamento, la categoria fondamentale che serve a designare la relazione istituita fra Yahwè ed il suo popolo, Israele; è dall’elezione di questo popolo e dalla serie di elezioni che costellano la sua storia che derivano tutti i benefici di cui Israele è oggetto da parte di Dio; per così dire, l’elezione è il beneficio che è alla radice della sua esistenza e che si rinnova sempre nelle circostanze particolari della sua storia. Ed ecco che la conferma di questo beneficio costituisce, tenendo conto da un lato dell’elezione d’Israele e dall’altro del rifiuto di cui Israele è oggetto in un primo momento, a causa della sua ostinazione nel non accettare l’evangelo, il punto di partenza e lo scopo soggiacente l’esposizione più completa del Nuovo Testamento a questo riguardo: Rom. IX-XI. Certo, in questi tre capitoli vi sono elementi apparentemente sconcertanti e contradditori; ma non si ha il diritto di dimenticare che questi elementi sono là anch’essi, anzi proprio essi, per attestare il sì divino ad Israele, a quest’Israele che ha crocifisso Gesù Cristo! Solo interpretandoli in vista di questo significato ultimo, li si comprende bene, poiché tale è il senso decisivo. Per queste ragioni la sostanza e l’intenzione di tutte le altre affermazioni neotestamentarie relative all’elezione sono di fatto, regolarmente, attestazione del beneficio di Dio, o meglio di quanto costituisce l’ABC stesso di tutte le sue grazie. Il fatto di essere eletti deve fare comprendere ai cristiani che essi sono l’Israele nuovo, autentico, il popolo che partecipa a tutte le promesse di Dio (I Pt. II, 9); che sono destinati alla salvezza per mezzo della santificazione (II Tess. II, 13); che sono chiamati, giustificati e già glorificati (Rom. VIII, 30); che il mistero del Regno di Dio è loro rivelato

(Mc. IV, 11) e che sono benedetti da Dio, il Padre di Gesù Cristo (Ef. I, 3-4). Se sono oggetto della grazia di Dio, è in forza della elezione gratuita ed è dunque per grazia che essi accedono alla grazia. Nel Nuovo Testamento, essere eletto significa sempre la degnazione ad essere discepolo, apostolo, ad entrare nella comunità, poiché l’apostolato è l’elemento edificatore della comunità e questa si costituisce su tale base; in altri termini: elezione significa: destinazione a partecipare alla salvezza dei tempi messianici. Il «libro» scritto da Dio (Es. XXXII, 32) che è stato giustamente posto in relazione con l’elezione gratuita è, secondo Sal, LXIX, 29, «il libro dei viventi» ed il Nuovo Testamento lo denomina «il libro della vita» (Fil. IV, 3; Apoc. III, 5; XVII, 8; XX, 12.15): non si merita di essere inscritti in tale libro; si può esserne cancellati; tuttavia esso non ha due colonne, ma una sola. Parimenti il termine greco πρόϑεσις che utilizzano continuamente passi come Rom. VIII, 28; IX, 11; Ef. I, 11 ed altri ancora, e che noi rendiamo con libera scelta, significa sicuramente la scelta che Dio opera in vista della salvezza; designa perciò l’elezione in quanto tale e non la nozione contraria, che peraltro lo accompagna, quella di non-elezione e di rigetto. Tutta quanta la questione si è oscurata immediatamente perché ci si è messi a parlare del «libro della vita» come se esso contenesse anche una «colonna della morte», al punto che si è ritenuto opportuno parlare dell’elezione e del rigetto come se si trattasse di due azioni divine parallele, di medesima natura, di uguale ordine, definibili grazie ad un comune concetto generale. Su questo punto si può notare già in Agostino una deviazione, rispetto alla testimonianza scritturistica. Questo autore si domanda perché gli uni credono e sono salvi, mentre gli altri non credono e sono in perdizione. Trova la risposta, riferendosi a quanto pare a taluni passi di Rom. IX, proponendo una duplice predeterminazione divina, nel fatto cioè che la decisione previa di Dio comporta due aspetti esattamente paralleli. «Molti ascoltano la parola della verità; taluni vi credono, altri la contraddicono; dunque costoro vogliono credere, ma altri non vogliono. Chi mai può ignorarlo o negarlo? Mentre agli uni è preparata da Dio la volontà, agli altri non è preparata. Bisogna quindi discernere quanto proviene dalla sua misericordia e quanto proviene dal suo giudizio»13. «Perché dunque mai (Dio) non insegna a tutti, affinché tutti vengano a Cristo, se non perché coloro cui insegna, insegna nella misericordia, mentre coloro cui non insegna, non insegna nel giudizio?»14. «Sappiamo che a coloro cui è data, la misericordia divina è data gratuitamente; a coloro cui non

è data, non è data per retto giudizio»15. È senz’altro esatto affermare che la misericordia e la giustizia di Dio si esercitano entrambe, all’interno dell’azione divina, sui credenti e su coloro che non credono; data però l’unità dell’essenza divina, ci si può chiedere subito se è possibile vedere due azioni distinte là, dove si tratta semplicemente di due perfezioni di Dio, come se da un lato fosse all’opera la sola misericordia e dall’altro la sola giustizia; e soprattutto con quale diritto, dal punto di vista biblico ed intrinseco, Agostino mette in parallelo queste due azioni, come se fosse possibile classificare, per principio, nella medesima categoria concettuale il comportamento divino, a seconda del fatto che elegge o che rifiuta? In ogni caso non è certo in funzione di un simile parallelismo che la Scrittura concepisce e proclama l’elezione e la riprovazione divine. Tuttavia Agostino ha sempre rinunciato a ricondurre la duplice azione divina sotto un comune denominatore concettuale e questa è la prova che ha percepito un disagio salutare. Usando il termine «predestinazione» ha sempre inteso la «predestinazione alla grazia» cioè «alla vita» e simile definizione è stata ripresa in seguito da Pier Lombardo: la «predestinazione» consiste positivamente nell’«elezione» ed in se stessa, giustamente, non include la «riprovazione»16. Si ritrova la medesima prudenza terminologica in Tommaso d’Aquino: la predestinazione è «il motivo della trasmissione della vita eterna, motivo che preesiste in Dio»; è «una certa preordinazione eterna di quanto, per mezzo della grazia divina, deve avvenire nel tempo»17. Certo, anche in lui si ritrova il parallelismo agostiniano: «fra gli uomini, Dio ha voluto rappresentare la sua bontà sotto forma di misericordia per quanto concerne quelli che ha predestinato, perdonando, mentre ha voluto manifestare la sua bontà sotto forma di giudizio per quanto riguarda quelli che ha riprovato, punendo»18. Più nettamente di Agostino però, Tommaso considera la riprovazione come una realtà in se stessa, senza comune misura con la predestinazione, manifestantesi, per così dire, all’ombra di quest’ultima. E nel secolo XIV ancora, dei predestinaziani così rigorosi come Gregario da Rimini e John Wyclif non pensavano diversamente. Però già Isidoro di Siviglia nel secolo VII e Gottescalco nel secolo IX hanno abbandonato la prospettiva di Agostino. «Duplice è la predestinazione, cioè degli eletti alla pace e dei reprobi alla morte»19. «Come Dio ha predestinato alla vita tutti gli eletti mediante un gratuito beneficio esclusivo della sua grazia, così parimenti predestinò i reprobi al supplizio della morte eterna mediante un giustissimo giudizio della sua giustizia»20. Il termine di

«predestinazione» diventa quivi un concetto maggiore, inglobante sia l’idea di elezione che quella di riprovazione. I riformatori hanno accettato senza discussione questa terminologia. Così sia nel de servo arbitrio di Lutero che nel de providentia di Zwingli che negli scritti di Calvino, «predestinazione» significa indubbiamente «doppia predestinazione». In altri termini: l’elezione ed il rigetto costituiscono ormai due specie del genere designato con la nozione di predestinazione. È certo vero che in Lutero ed anche in Calvino si trovano testi in cui l’aspetto positivo, evangelico è nettamente prevalente, conformemente alla concezione di Tommaso d’Aquino. Ma è soprattutto per Calvino che si deve affermare che, almeno nelle sue esposizioni specificamente dottrinali, non ha saputo o creduto necessario sciogliersi dal parallelismo fatale dei concetti di elezione e di riprovazione. «È necessario confessare che Dio, mediante un suo beneplacito eterno, la cui causa non deriva da altra origine, ha destinato alla salvezza coloro che gli è sembrato opportuno, lasciando da parte gli altri e quanti si è degnato gratuitamente adottare, li ha illuminati con il suo spirito, affinché ricevano la vita offerta in Cristo, mentre gli altri li ha lasciati spontaneamente increduli, affinché, privati della luce della fede, restino nelle tenebre»21. Ed ecco la celebre definizione dell’Institution: «Chiamiamo predestinazione l’eterno consiglio divino, mediante cui Dio ha determinato quanto intende fare di ogni uomo; non ha infatti creato tutti gli uomini in condizione similare; ma ha ordinato gli uni alla vita eterna e gli altri alla dannazione eterna. Così, a seconda del fine per cui è creato, noi diciamo che l’uomo è predestinato alla vite o alla morte»22. Era quindi perfettamente conforme allo spirito di Calvino, ma pure assolutamente fatale, che in seguito numerosi teologi calvinisti della seconda generazione parlassero della «scelta della collera divina», parallelamente alla «elezione di grazia». Lo si trova persino fra gli arminiani che pure si sono sforzati in tutti i modi, con tanto zelo, di correggere la concezione calviniana della predestinazione; neppure essi sono riusciti a scuotersi di dosso il carcame della doppia predestinazione; ne fa fede questa citazione: «La predestinazione divina è il decreto di Dio mediante il quale, in virtù del beneplacito della sua volontà, Dio ha stabilito di eleggere in Gesù Cristo Figlio suo i fedeli, prima dello svolgersi dei tempi storici, di adottarli come figli, di giustificarli e di glorificarli eternamente, se perseverano nella fede ed ha parimenti stabilito di riprovare gli infedeli ed i contumaci, di accecarli, di indurire il loro cuore e di dannarli in eterno, se perseverano nella loro testardaggine»23.

È invece una delle qualità dei Canoni del Sinodo di Dordrecht del 1619 quella di aver saputo dare della predestinazione una definizione che non esclude certo la riprovazione divina, ma che non l’include neppure come verità indipendente e parallela, poiché essa si limita a descrivere l’«elezione» come «l’immutabile proposito di Dio mediante il quale egli ha decretato di eleggere a salvezza in Cristo, prima ancora che fossero gettate le fondamenta del mondo, traendola dal genere umano, caduto per sua colpa in peccato ed in rovina dalla sua primitiva integrità, secondo il beneplacito assolutamente libero della sua volontà, per pura grazia, una certa moltitudine di taluni uomini, non migliori, né più degni degli altri, ma con gli altri giacenti nella comune miseria; e di eleggerla in Cristo costituito fin dall’eternità come mediatore e capo di tutti gli eletti e fondamento della salvezza, cosicché a lui sono dati coloro che devono essere salvati; e di chiamarla efficacemente per mezzo della parola e dello spirito del Figlio suo alla comunione con sé e di trascinarvela attraendola dandole così la vera fede in lui e di giustificarla e di santificarla e di glorificare potentemente coloro che sono custoditi nella comunione con il Figlio suo, a dimostrazione della sua misericordia ed a lode della gloriosa ricchezza della sua grazia»24. Checché per altri aspetti si possa pensare di simile definizione, è sicuro che essa ha saputo rendere alla dottrina della predestinazione il suo carattere di predicazione evangelica. Ora è precisamente su questo punto che peccano tutte le definizioni in cui si tratta, nel medesimo tempo e nello stesso contesto, della grazia e della riprovazione, della salvezza e della perdizione. È ben conosciuta la risposta impietosa di Calvino ad alcuni suoi contemporanei che, pur non negando che la dottrina della predestinazione era oggettivamente capitale, restavano timorosi a causa dei numerosi malintesi che essa rischiava di provocare e di conseguenza pensavano che non dovesse essere predicata al popolo. Secondo costoro, facendo prova di umiltà e di senso della misura, i teologi avrebbero dovuto tenerla per se stessi, come una specie di salvezza esoterica. La vera umiltà, quella autentica, ha detto Calvino, non potrebbe consistere nel nascondere una verità attestata da tutti i veri servitori di Dio; essa consiste invece nel confessare semplicemente e con rispetto, ma anche in piena luce, quanto si è appreso alla scuola del Maestro celeste25. Non è tipico della semplicità cristiana «fuggire quelle cose di cui Dio ha mostrato una conoscenza negativa»26. Tutto quanto ci è rivelato nella Scrittura è per definizione necessario, utile, valido per ciascuno. Per questo la dottrina della predestinazione non deve essere dissimulata ai fedeli27. «Come infatti deve

essere predicata la pietà affinché si veneri Dio in maniera retta, così si deve predicare la predestinazione, affinché coloro che hanno orecchi odano e si glorino della grazia di Dio in Dio e non in se stessi»28. Calvino aveva ragione. Ma il suo ragionamento avrebbe avuto maggior peso se si fosse appoggiato su una comprensione menosistematica della predestinazione, più conforme all’insegnamento biblico e quindi decisamente più evangelica. La concezione calviniana è a questo riguardo mutila, perché si rinchiude nel parallelismo del duplice decreto, volendo equilibrare sistematicamente le due azioni divine. Ne consegue che subito la dottrina della predestinazione appare come una specie di insegnamento neutro, rilevante maggiormente dalle scienze naturali che dalla teologia; non distingue più fra il sì ed il no divini; non si pronuncia più in favore del sì. Si limita a registrare, al medesimo livello del sì, un no ugualmente definitivo contro l’uomo. Come può tale dottrina in queste condizioni impedire che il no divino sia percepito in maniera assai più distinta che il sì e diventi, finalmente, la sola verità che si ascolta? Come può evitare di diventare un δυσαϒϒέλιον, cioè un «cattivo annuncio» e di conseguenza essere rifiutata (non senza ragione!) con orrore? Non ci si deve stupire dunque se la pietosa consegna del silenzio, così vigorosamente rifiutata da Calvino, sia ricomparsa centocinquant’anni più tardi con Samuel Werenfels e sia stata presentata come l’ultimo grido della sapienza, come se nulla fosse accaduto e sia divenuta da allora in poi l’autorità di una opinione comune e tutti gli indecisi! Ecco dunque l’esigenza fondamentale cui ogni esposizione della dottrina della predestinazione deve essere misurata ed a cui anche noi dobbiamo sottometterci: per quanto concerne l’aspetto negativo del problema, non è consentito parlare dell’elezione e del rigetto come se Dio non scegliesse in una maniera del tutto differente da quella con cui riprova, come se non ci fosse fra queste due azioni divine un irriducibile rapporto di sopra-ordinazione e di subordinazione; per quanto riguarda l’aspetto positivo del medesimo problema, è necessario porre così radicalmente in evidenza questa relazione, di modo che sia veramente il buon annuncio che dia il tono all’insieme (poiché l’evangelo è precisamente la sostanza della dottrina in causa), affinché in un modo o nell’altro, anche qui, anzi soprattutto qui, sia il messaggio della libera grazia di Dio ad esprimersi ed a farsi ascoltare come la dominante assoluta, come il senso reale e concreto di tutte le proposizioni enunciate. Simile è il criterio che permette di giudicare se la dottrina della predestinazione è concepita in funzione della Scrittrura, cioè della rivelazione; solo allora si avrà il diritto di chiedere, così come ha fatto Calvino, che tale dottrina sia

apertamente proclamata nella chiesa; se per disgrazia la si dovesse concepire diversamente, non potrebbe avere più alcun valore, nemmeno come sapienza esoterica ad uso dei teologi, anzi in questo caso, essa diventerebbe veramente pericolosa. Per provare l’esattezza di questa tesi, la si deve esaminare in riferimento alla dottrina della predestinazione, di cui è l’intima ragione di essere. Per ora ci basta dimostrare con quale diritto ed in virtù di quale necessità noi l’adottiamo come ipotesi di lavoro. 3. L’elezione gratuita come espressione della libertà di Dio. Si può cominciare sottolineando che tutte le interpretazioni serie s’accordano nel riconoscere che il nerbo della dottrina della predestinazione, il motivo profondo che l’ispira e che la rende indispensabile, è che essa intende sottolineare l’assoluta libertà della grazia di Dio e rendere così giustizia alla sua divinità. Per il fatto che Dio elegge, si determina secondo il suo beneplacito, che è come tale santo e giusto; perché è lui, il Dio costante, onnipotente ed eterno che procede a simile scelta, il beneplacito che presiede alla sua decisione, e di conseguenza anche questa decisione, sono indipendenti da qualunque altra decisione di ordine creaturale; la decisione divina precede qualsiasi altra decisione della creatura, esiste in opposizione a qualunque autodeterminazione già esistente. È appunto pre-determinazione, predestinazione. La grazia, cioè la condiscendenza e l’abbassamento in forza dei quali gli uomini appartengono a Dio e Dio a questi uomini, in quanto grazia offerta e ricevuta, rivelatrice e riconciliatrice, compresa nella fede ed efficace, è azione di Dio, volontà e opera di Dio, signoria di Dio, anzi Dio stesso nella sua completa sovranità. Nessuna pretesa, nessun merito, nessuna condizione previa o futura potrebbe invocarla, né renderla necessaria, da parte della creatura. Nessuna opposizione, nessuna resistenza della creatura, parimenti, potrebbe arrestarla, renderla impossibile ed inefficace. Nei suoi ccnfronti, ogni esaltazione, come ogni diminuzione arbitraria della creatura, resta esclusa. È un miracolo assoluto. Ma veicola anche una forza ed una certezza ugualmente assoluti: per riceverla, la creatura deve riconoscersi totalmente impotente ed indegna. Proprio per questo, essa metterà tutta la sua confidenza nella potenza e nella dignità proprie della grazia e rinuncerà dunque ugualmente, senza riserve, a disperare arbitrariamente di se stessa. Quanto la creatura è incapace di attribuirsi o di acquistarsi da se stessa, non deve rifiutarlo allorché lo riceve, né volere privarsene in seguito. Poiché la decisione mediante la quale essa accoglie ed approva la grazia si attua nel quadro della predestinazione divina, la decisione della creatura, considerata in

se stessa, è già una lode della libertà di grazia, dell’indipendenza in forza della quale la grazia è così poco legata alla grandezza del nostro volere e del nostro agire che alla loro miseria costitutiva. Essa celebra la sovranità con cui la grazia precede il nostro volere ed il nostro fare, per disporne in maniera diversa e totale. Tutte le interpretazioni serie della dottrina della predestinazione tendono in ogni caso (con esattezza o successo più o meno grandi o in maniera più o meno conseguente nei dettagli) a mettere in evidenza la libertà della grazia di Dio. Possiamo dire più semplicemente: tendono a mostrare che la grazia è proprio la grazia ed a farla riconoscere come tale; che sarebbe infatti una grazia determinata e legata, incapace di scegliere e di eleggere? E forse vi è ancora una formula più semplice: tutte le interpretazioni di cui parliamo si propongono di confessare la divinità del Dio della grazia; poiché che sarebbe mai un Dio che, in un senso o nell’altro, dovesse essere grazia, un Dio la cui grazia non si identificasse con il suo libero beneplacito nel senso più specifico del termine? Tommaso d’Aquino ha scritto efficacemente: «Tutto quanto nell’uomo lo dirige verso la salvezza, deve essere compreso sotto l’effetto della predestinazione, anche la stessa preparazione alla grazia: questo infatti non accade se non per mezzo dell’aiuto divino»29 Resta assodato, ribadisce Calvino «che Dio ci ha eletti non solamente prima che noi ne avessimo conoscenza, ma prima che fossimo nati e prima che il mondo fosse creato; che ci ha eletti per sua bontà gratuita e che non ne ha affatto ricercato la causa altrove, se non appunto nella sua bontà; che ha deliberato questo proposito in se stesso e che è necessario che noi conosciamo questo, affinché egli sia glorificato come si addice. La gloria così come gli è dovuta, non può essergli resa senza queste cose»30. Dobbiamo rendere a Dio «quanto gli spetta»; noi siamo così poco ordinati alla comunione con Dio «nell’intimo del nostro cuore» che il mondo non s’è creatoda solo; «è necessario, affinché Dio prediliga i suoi adoratori, che, mentre sono ancora privati di ogni bene, con un atto di gratuito amore egli prevenga gli indegni e dia loro quell’amore con il quale poi essi proseguono; e questa prima grazia, da cui tutto procede, Dio la dà a chi vuole»31. «Dio ha deliberato in se stesso questo proposito: non è cioè uscito da sé, non ha affatto rivolto gli occhi qua e là per dire: sarò spinto a fare questo o quello»32. Certo «il Signore pronuncia chiaramente che in noi non trova alcuna ragione che lo spinga a farci del bene; ma che prende tutto dalla sua misericordia, cosicché la salvezza dei suoi è proprio la sua opera. Poiché Dio stabilisce la tua salvezza solamente in sé, perché mai tu te l’arroghi? E poiché

ti rivela che la sua sola misericordia è l’unica causa, perché mai tu la unisci ai tuoi meriti? Poiché vuole concentrare tutti i tuoi pensieri nella sua sola bontà, perché mai tu ti metteresti, almeno in parte, a considerare le tue opere?»33. Si ritrovano i medesimi accenti nella antica dommatica calvinista: «Dio è dotato di potere assolutamente libero ed è il solo veramente ἀνυπεύϑυνος, non determinato; fece quindi da sé quello che volle e conseguentemente predestinò le sue creature come volle. Non vi è nulla in una creatura razionale che le concili la grazia, davanti a Dio; ma Dio stesso nel Figlio suo rese graditi ed accetti a sé coloro che volle. Né Dio è tenuto, come se fosse obbligato, a dare qualcosa a chiunque»34. Parimenti la Formula di concordia insegna che è falso affermare: «non nella sola misericordia di Dio e nel santissimo merito di Cristo, ma pure in noi stessi, esiste una qualche causa dell’elezione divina, in forza della quale Dio ci avrebbe eletti alla vita eterna»35. E più esplicitamente: «la nostra elezione alla vita eterna non può porsi nelle nostre virtù o nella nostra giustizia, ma unicamente nel merito di Cristo e nella benevola volontà del Padre celeste, che non può rinnegare se stesso»36. A sua volta ecco come Quenstedt definisce la causa attiva dell’elezione: «la libera volontà del Dio uno e trino che decerne» e la causa efficiente interna: «la grazia divina del tutto gratuita, escludente nel modo più assoluto ogni merito di opere umane, cioè tutto quanto, con il nome di opera o di azione, proviene sia dalla grazia di Dio e sia dalle forze della natura creata. Infatti Dio ci elegge non secondo le opere, ma unicamente per pura sua grazia. La stessa fede non può essere ritenuta a questo punto, se la si considera come condizione più o meno degna sia considerata in se stessa e sia considerata come un qualche cosa che si aggiunge alla fede per volontà stessa di Dio; nulla infatti può essere aggiunto al decreto dell’elezione come causa che muova o spinga Dio ad effettuare tale decreto; esso deve essere ascritto unicamente alla semplice grazia divina»37. 4. L’elezione gratuita come espressione del mistero di Dio. In secondo luogo vediamo che tutte le interpretazioni serie della dottrina della predestinazione si accordano per riconoscere che, nella libera decisione divina, incontriamo il mistero di Dio, cioè il suo disegno, la cui intima ragione ci permane nascosta ed inaccessibile. Dio non ci ha consultato, per determinarsi e non ci è quindi consentito chiedergli di giustificare davanti a noi la sua elezione. La volontà di Dio non conosce nessun perché di interrogazione; è continuamente un perché di spiegazione, anzi il perché di spiegazione per antonomasia; come tale si rivela a noi e si compie, ed intende essere

riconosciuta, onorata ed obbedita. Andremmo contro l’elezione gratuita, contro la decisione intervenuta secondo il beneplacito di Dio, santo, giusto, costante, onnipotente ed eterno e cioè contro la stessa natura di Dio, se pretendessimo chiedergli ragione del suo disegno, rifiutando di ammettere che questa questione è ormai già risolta, per il semplice fatto che è Dio a decidere e ad eleggere, se lo vuole. Come ha scritto giustamente Tommaso d’Aquino: «così deve essere ricercato il motivo della predestinazione, come si ricerca il motivo della volontà divina»38. È per aver riconosciuto questa verità che Lutero non ha potuto contenersi di fronte alle affermazioni di Erasmo: «Di che cosa ti lagni? Chi mai potrà resistere alla sua volontà? Questa è proprio quella cosa che la ragione non può né comprendere né sopportare e questa è proprio quella cosa che sfida tanti uomini eccellenti per ingegno, riveriti nel corso di tanti secoli. Costoro richiedono con insistenza che Dio agisca in maniera conforme al diritto umano e faccia quanto essi giudicano giusto, oppure cessi di essere Dio. Che cosa importa loro dei recessi segreti della maestà divina?; renda ragione del fatto che è Dio, di quello che vuole, di quello che fa, del perché compie certe cose che non sembrano giuste; esattamente come se si citasse in tribunale un calzolaio o un fabbricante di cinture. La carne non considera Dio degno di essere chiamato giusto e buono se dice cose che vanno oltre quanto ha definito il codice giustinianeo o il quinto libro dell’Etica di Aristotele. Ceda la maestà creatrice di tutto all’estremo nulla di una sua sola creatura e quella caverna di Coricio tema i suoi anfratti sacri, invece che li temano i suoi visitatori. È assurdo, del tutto assurdo che condanni Dio colui che non può evitare, e meritatamente, la condanna. E seguendo la logica di una tale assurdità diventa necessariamente falso che Dio non dà misericordia a chi vuole e non indurisce il cuore a chi vuole. Si pretende quindi d’imbrigliare Dio e gli si prescrive di non condannare alcuno, se non colui che, a giudizio nostro, lo meriti»39. Ed ecco come Calvino rinvia al mistero dell’elezione divina gratuita: «Si tratta di adorare i segreti di Dio, che ci sono incomprensibili; senza ciò, non gusteremo mai i princìpi della fede; noi sappiamo infatti che la nostra saggezza deve iniziare sempre dall’umiltà e tale umiltà comporta che non ci avviciniamo affatto con la nostra bilancia per soppesare i giudizi di Dio, che non vogliamo in nessun modo essere giudici ed arbitri, ma che siamo sobrii, consci della ristrettezza del nostro spirito, vedendo come siamo grossolani e pesanti e che magnifichiamo Dio e che diciamo, come ci ha insegnato la Santa

Scrittura: Signore, il tuo consiglio è un abisso troppo profondo e nessuno può raccontarlo»40. «Non ci giova nessun’altra conoscenza, se non quella che si racchiude in ammirazione; ci derida pure chi vuole; al nostro stupore Dio annuisce dal cielo e gli angeli applaudono»41. E da ultimo è utile citare qui, perché costituisce una illustrazione indiretta della nostra tesi, l’opinione di Emmanuele Kant sulla questione: «Che una grazia celeste debba agire nell’uomo e che accordi il soccorso non seguendo i meriti di ciascuno, guardando le sue opere, ma in forza di un decreto assoluto e che lo conceda agli uni e lo rifiuti agli altri e che una parte della nostra specie sia predestinata alla felicità e l’altra alla dannazione eterna, ecco quanto non dà ancora un’idea di una giustizia divina e deve essere riferito, a rigore, ad una saggezza la cui regola, ad ogni buon conto, resta per noi un mistero. Ora riguardo a questi misteri, per quanto concernono la storia della vita morale di ogni uomo (e cioè: come è possibile che un bene o un male morale si incontrino nel mondo, se il male esiste in tutti ed in ogni tempo; come il bene può tuttavia sorgere dal male e ristabilirsi in un individuo qualsiasi; o ancora perché una tale sorte capita a qualcuno, mentre altri ne restano sempre esclusi?) Dio non ci ha rivelato nulla e nulla può rivelarci, perché noi non lo comprenderemmo«.42. Ed in un altro brano Kant si mostra ancora più brutale: «Supponendo anche che questa fede fosse presentata come possedente una forza particolare ed un’influenza mistica (o magica) tale che (anche se dobbiamo considerarla, per quanto ci è dato sapere, semplicemente storica) sia capace (a condizione che ci si abbandoni ai sentimenti che le sono collegati) di migliorare fondamentalmente l’uomo (facendone l’uomo nuovo), bisognerebbe allora considerarla come venuta e ispirata direttamente dal cielo (pur rimanendo sempre fede storica). In questo caso tutto si ricondurrebbe finalmente, ivi compresa la costituzione morale dell’uomo, ad un decreto assoluto di Dio: ha pietà di chi vuole ed indurisce chi vuole, proposizione che, assunta alla lettera, costituisce il salto mortale della ragione umana»43. 5. L’elezione gratuita come espressione della giustizia di Dio. Menzioniamo infine un terzo punto di convergenza nello insieme delle interpretazioni serie concernenti la dottrina della predestinazione: esse intendono tutte giustificare il loro riconoscimento del mistero della libertà divina in seno all’elezione, attestando, in un modo o nell’altro, che in questo mistero Dio compie quanto è conforme alla propria dignità, da tutti i punti di vista; esse intendono rendere testimonianza alla giustizia divina. Tutto diventa chiaro. In presenza dell’elezione divina, dobbiamo continuamente

rammentarci la parola di Rom. IX, 20: «O uomo, chi sei tu per entrare in tenzone con Dio?». In una sola parola, dobbiamo riconoscere pienamente la sovranità di Dio e rispettare il mistero della sua decisione che non lascia posto a nessun perché interrogativo; così facendo, a condizione di avere compreso realmente che Dio è il soggetto di questa azione, noi onoriamo l’origine e la sede di ogni equità e di ogni giustizia, cioè la saggezza davanti alla quale le obiezioni dei nostri sensi e della nostra intelligenza non devono semplicemente cessare di esistere, come se ci trovassimo di fronte ad un fatto bruto, come se ci fosse vietato discuterne, spinti da una costrizione, superiore certo, ma infine reale. No. Ciò che è vero è questo: ci è permesso di tacere. Non siamo di fronte al capriccio di un tiranno, davanti a cui altro non ci resterebbe da fare che piegare la schiena; la sottomissione che ci è richiesta non è di quelle che consentono recriminazioni o ribellioni segrete; al contrario, se accettiamo di tacere, è perché lo vogliamo noi stessi, in virtù di una conoscenza più sicura. Non perché ci hanno chiuso la bocca, poiché in questo caso il nostro silenzio non sarebbe frutto di un volere, non sarebbe un atto di obbedienza, ma il risultato di una costrizione. No. Se ci è consentito tacere su questo punto è perché abbiamo percepito la spiegazione, perfettamente sufficiente e convincente di Dio, è perché siamo stati introdotti in tutta quanta la verità, è perché non abbiamo più questioni da porre, è perché, in una sola parola, Dio in persona, e con lui la giustizia e la saggezza stesse, si è comunicato a noi e costituisce la risposta che ci è stata data. Ciò che Dio compie, è giusto e s’inscrive nell’ordine delle cose; non ci resta che conoscerlo, senza con ciò doverlo commisurare alle nostre proprie concezioni di ordine. È Dio che deve insegnarci quello che è l’ordine; il nostro compito è quello di rapportare le nostre idee sull’ordine alla sua decisione e ad apprendere così da lui quello che è l’ordine; così facendo non compiamo una specie di sacrificio delle nostre capacità intellettive, ma diventiamo e siamo veramente saggi. Il timore del Signore è l’inizio di ogni sapienza. «O uomo, chi sei tu per entrare in tenzone con Dio?». Risposta: sei folle!; è tempo che tu divenga saggio e che rinunci a simile pretesa; ti è permesso precisamente di contemplare e di adorare, nel mistero della libertà di Dio e della sua elezione, l’unica ed autentica giustizia e di essere così realmente ed effettivamente sapiente. Il desiderio legittimo di mettere in luce questo aspetto del problema ha suscitato numerosi lavori che, disgraziatamente, non rispettano però il metodo che ci siamo sforzati di definire come il solo suscettibile di permettere la descrizione della verità, di cui qui si tratta. Non si è voluto limitarsi a

constatare che Dio stesso, proprio lui, nella libertà della sua decisione, è precisamente la giustizia e, conseguentemente, il solo che possa insegnarla; non si è voluto comprendere che la sapienza per antonomasia consiste nell’ascoltare questo maestro autorizzato; si è preteso essere saggi nelle cose di Dio, senza aver accettato di apprendere la sapienza alla sua scuola. Non ci si deve quindi stupire che la dottrina della predestinazione abbia ispirato numerose teorie che, alla fin fine, non potevano che contraddire o limitare la libertà di Dio, con la loro mania di attribuire all’azione divina delle cause esterne, cosicché il diritto e la giustificazione dell’elezione si trovavano commisurati alle nostre concezioni dell’ordine e diventavano suscettibili di essere definite ugualmente con un metodo diverso da quello che consiste di cessare di parlare, per porsi all’ascolto di Dio stesso. È evidente che tutte queste teorie sono più o meno responsabili di aver favorito, fino ad un certo punto, la messa in questione del mistero di Dio, che sembrava cosa talmente straordinaria e scandalosa a Kant e la cui negazione poteva invece esasperare in maniera grandissima un uomo come Lutero. Ecco perché dobbiamo ascoltare Calvino su questo punto in maniera tutta particolare. Questo autore ha sempre pienamente rispettato la libertà dell’elezione gratuita ed ha sempre voluto salvaguardare, da tutti i punti di vista il mistero di Dio; ciò che non gli ha impedito di rinviare, contemporaneamente, con rara pertinenza, anche alla giustizia che presiede alla elezione divina, come pure alla necessità, per noi, di riconoscere questa elezione come un atto, o meglio come l’atto pereccellenza della sola sapienza che possa dirsi veramente reale. È vero che bisogna iniziare liquidando la questione concernente il fondamento della decisione divina con un semplice riferimento al testo di Rom. IX, 20. Giustamente Calvino era solito farlo: «Vi sono taluni che trovano strano che non si dia loro un punto facile di soluzione; vorrebbero che si dicessero loro le cose sempre più chiaramente; che comprendessero perché questo o quello si fa. Amico mio, bisogna che tu vada ad un’altra scuola, poiché tu sei così presuntuoso da non volere affatto dare gloria a Dio, se non ne vedi le tracce sicure. Va dunque a cercare una scuola diversa da quella dello Spirito Santo»44«Sappiamo bene quale è l’audacia degli uomini; non vi è nessuno che non abbia esperimentato in se stesso quanto sia difficile domare i nostri spiriti, ’ in maniera da poter ricevere in pace ed umiltà tutto quanto ci è dichiarato; bisogna che un uomo sia ben domato da Dio prima che arrivi là. Queste obiezioni che solitamente si fanno devono essere rifiutate con questa sola parola dell’autorità divina: conoscere quale sovranità e quale preminenza Dio

deve avere sopra di noi»45. «È infatti cosa troppo irragionevole chiamare i profondi giudizi divini ad un rendimento di conti, perché essi inghiottono tutti i nostri sensi»46. «Solo nella sua volontà possiamo trovare la nostra pace: solo qui comprendiamo quanto piace a lui e questo ci è sufficiente, sebbene ce ne sfugga la causa per una serie infinita di motivi»47. «Poiché la volontà di Dio è a tal punto la regola suprema della giustizia, e lo è in modo sovrano, tutto ciò che vuole, occorre tenerlo per giusto, proprio perché lo vuole. Perciò quando domandano: perché Dio ha fatto così, si deve rispondere: perché così ha voluto. Se poi domandano ancora: e perché ha voluto così, è questa un’interrogazione che è più grande e più alta della volontà divina e ad essa non si può dare risposta»48. Ma Calvino non si è fermato qui; è andato fino in fondo alla linea indicata da Rom. IX, 20: «Come risuona per te il nome di Dio?», chiede a colui che stima insopportabile ed odioso che Dio possa e debba fare di più di quanto la ragione umana è incapace di concepire49. Il nome di Dio ci dà giustamente la garanzia che su questo punto è saggio tacere: «quale sapienza infatti è più valida della sobrietà, la quale, sottomessa al timore di Dio, si trattiene all’interno della maniera di conoscere che le è stata determinata?»50. Tuttavia subito si deve precisare, con la medesima forte chiarezza che Dio non è un tiranno o una divinità capricciosa: «Non immaginiamo affatto un Dio senza legge, poiché egli è legge a se stesso; la volontà di Dio, pura da tutti i vizi, è la stessa regola sovrana della perfezione ed è la legge di ogni legge»51. «Noi affermiamo che questa volontà di Dio è ordinata e talmente ordinata da essere la sorgente di ogni equità e di ogni giustizia»52. «Se un uomo mortale afterma che egli vuole e comanda, di modo che la sua volontà tenga il posto della motivazione, io dirò che questa è una voce di tiranno; ma trasferire a Dio un simile modo di pensare è furore sacrilego. Infatti non è possibile ascrivere a Dio un qualche cosa di immoderato, come se in lui esistesse, al pari degli uomini, la libidine; con ragione quindi si deve riferire questo onore alla sua volontà, cosicché essa valga come motivazione profonda; essa è infatti fonte e regola di ogni giustizia». La distinzione fra una «volontà divina ordinata» ed una «volontà divina assoluta» è una bestemmia da cui occorre rifuggire tremando. «Io contesto che in Dio vi sia qualcosa di inordinato, da cui derivi tuttavia quanto vi è di ordine in cielo e sulla terra; quando infatti innalziamo in grado sommo la volontà di Dio, cosicché essa sia superiore a qualsiasi ragione umana, non può

che conseguirne questo: non possiamo immaginare che egli voglia qualche cosa se non con somma ragione; semplicemente comprendiamo come a buon diritto egli abbia tanto potere che noi, ad un solo suo cenno, possiamo essere contenti. Se a me questo appare una cosa straordinaria, è forse meno vero che nessuna ragione può chiedere a Dio il perché della sua decisione? Mentre stabilisco che Dio è il reggitore di tutto il mondo, che lo governa con un incomprensibile e meraviglioso consiglio e che modera ogni cosa, forse che qualcuno potrebbe scoprire nelle mie parole che egli lo fa per caso oppure con cieca temerarietà compie quello che compie? Il Signore espone le motivazioni della sua gloria in tutte le sue azioni. Infatti egli è il fine di ogni cosa»53. Per questa ragione, in conclusione «la predestinazione non è altro che l’ordine e l’elargizione della giustizia divina, che non cessa di essere irreprensibile, sebbene sia occulta»54. D. VERIFICA TEOLOGICA DELL’APPORTO TRADIZIONALE 1. Significato della dottrina dell’elezione gratuita. Libertà, mistero, giustizia di Dio: se abbiamo messo in risalto questi tre punti comuni nell’interpretazione della dottrina tradizionale della predestinazione (ed avremmo potuto metterne in rilievo anche altri), è perché a proposito di ciascuno di essi abbiamo una domanda da rivolgere ai difensori del dogma dell’elezione gratuita (qualunque sia la maniera con cui l’hanno esposto nei dettagli), un’interrogazione che avremo ancora occasione d’incontrare e che ora poniamo in questi termini: possiamo riferirci ai rappresentanti del nostro dogma con la certezza che essi hanno parlato della libertà, del mistero e della giustizia divina come teologi cristiani, riferendoli cioè al Dio trinitario, al Padre rivelato in Gesù Cristo per mezzo dello Spirito Santo, così come lo attesta la Sacra Scrittura? Di conseguenza, si può riconoscere che non ne hanno trattato in forma astratta, come se avessero a che fare con attributi proprii di qualche essenza suprema scaturita dal loro cervello e riflettente l’immagine dell’uomo ridotta ad assoluta e cioè di una pretesa libertà, di un sedicente mistero, di una pretesa giustizia di Dio? Diciamo subito che, per quanto concerne i rappresentanti seri della dottrina, soprattutto guardando la loro esplicita intenzionalità, possiamo rispondere affermativamente. I teologi in questione hanno voluto essere dei teologi cristiani ed il loro insegnamento, nella specifica forma di esposizione adottata da ciascuno di essi, ha inteso essere un commentario della Scrittura e cioè una testimonianza della rivelazione del Dio trinitario. Non hanno cercato dunque di speculare arbitrariamente su un qualche essere supremo di loro scelta, ma si sono

sforzati, nell’obbedienza, di assumere le loro responsabilità di fronte a Dio, quel Dio che Gesù Cristo ha chiamato Padre suo e che, a sua volta, ha chiamato Gesù Cristo suo Figlio. Questa è stata la loro intenzione. Noi crediamo di rimanere in tale linea se subito aggiungiamo: se la libertà, il mistero e la giustizia divini devono essere compresi, nell’elezione gratuita, secondo i dati della teologia cristiana, se in questa direzione solamente essi costituiscono la verità che la Chiesa è chiamata ad insegnare e ad ascoltare, allora è subito chiaro, in maniera definitiva che la dottrina della predestinazione è la somma dell’evangelo. È quanto dobbiamo spiegare ora. Non abbiamo scelto liberamente la nozione di elezione gratuita. Ci siamo limitati a descrivere con questo concetto la scelta divina, precedente ogni altra opzione di Dio, che, nel suo volere eterno, ha per oggetto l’esistenza dell’uomo Gesù e del popolo che questi rappresenta. Per comprendere la natura di quest’atto originale e fondamentale e per renderne conto, non si ha quindi il diritto di restare all’aspetto formale e costatare semplicemente che si tratta di una «scelta». Si deve resistere alla tentazione di fare, per così dire, un assoluto della nozione di «scelta» e quindi di vedere nella libertà, nel mistero, nella giustizia dell’elezione gratuita degli attributi e delle determinazioni di un essere supremo la cui specificità sia quella di scegliere, cosicché proprio in tale specificità si debba cercare la realtà stessa di Dio. Così facendo, agiremmo proprio nella direzione che ci è proibita: avremmo immaginato e costruito punto dopo punto un’entità assoluta partendo da una sua particolarità e non si vedrebbe affatto come simile entità possa essere descritta mediante il termine di «evangelo». Se la libertà assoluta di scegliere costituisse in sé la verità specifica ed ultima su Dio, allora sarebbe disagevole distinguere questa libertà dall’arbitrio, il mistero di Dio dalle tenebre, la giustizia divina da una qualunque altra esigenza; si sarebbe allora in difficoltà nel dimostrare che Dio non è un tiranno capriccioso, un fato cieco, nient’altro che l’insieme degli enigmi dell’esistenza. Non si può certo negare che nella dottrina tradizionale della predestinazione compaia regolarmente questa tendenza ad innalzare la nozione di «scelta» al rango di un criterio assoluto e che di conseguenza il carattere evangelico delle affermazioni sia stato se non oscurato, almeno fortemente intorbidito a causa della presenza di una nozione non cristiana di Dio. Dobbiamo quindi essere attenti a sottolineare ben nettamente fin dall’inizio che la scelta di cui si tratta qui è, sotto tutti gli aspetti, la decisione della volontà divina che si è compiuta in Gesù Cristo e che ha come finalità la missione del Figlio di Dio; è quindi l’azione intima di Dio rivolta verso

l’esterno, in maniera spontanea, l’opera del Dio trinitario; essa possiede quindi, originariamente e specificamente, il carattere della grazia. La libertà di questa scelta è dunque divina e, in questo senso, assoluta; essa non è tuttavia una libertà astratta; rileva infatti da colui che ama nella libertà. Il soggetto dell’elezione che si attua qui è proprio lui, il Dio che ama, e non una qualche divinità arbitraria, rappresentante la somma di tutto quanto noi chiamiamo la libertà di scegliere. Non incontreremmo la scelta divina e, ben lungi dall’applicarci a conoscere la decisione della volontà di Dio compiutasi in Gesù Cristo, dirigeremmo il nostro sguardo verso una pretesa profondità divina, ritenuta più vasta ancora (cioè nel vuoto o meglio nell’abisso stesso di Satana!), se cercassimo la causa dell’elezione altrove che nell’amore di Dio, nel suo amore libero certo, perché altrimenti non sarebbe divino, ma infine proprio nel suo amore! L’avvenimento che si compie nell’elezione è che Dio si schiera per noi, in ogni caso e sotto ogni aspetto. Per noi; e quindi anche per il mondo che ha creato, per il mondo differente da lui e che mantiene nella sua condizione creaturale. Che Dio compia l’elezione unicamente per inviare il suo Figlio nel mondo, questo significa, senza restrizione alcuna, che nel suo Figlio e per mezzo di lui egli si volge verso il mondo; in altri termini: superando (miracolo dei miracoli!) l’atto per mezzo del quale crea e mantiene il mondo, egli dona se stesso al mondo, confermando così in modo imprevisto e definitivo la volontà di comunione che costituisce la sua natura ed a cui l’universo deve la propria esistenza. Chiamando questa condiscendenza una scelta, un’elezione, non possiamo non sottolineare fino a che punto essa sia una manifestazione del suo amore. La condiscendenza divina sarebbe forse amore (l’amore del Dio personale e di conseguenza l’amore autentico), se non fosse una scelta? Proprio in quanto atto di scelta, tale condiscendenza è per ogni aspetto amore, non odio e non indifferenza. «Ecco come Dio ha amato il mondo: ha dato il suo Figlio unico affinché chiunque creda in lui non perisca, ma abbia la vita eterna» (Gv. III, 16). Comunque si congiungano, all’interno dell’elezione divina, il dono del Figlio unico e la fede dell’uomo, nella quale si realizza la salvezza voluta da Dio, una cosa è chiara: determinandosi ad agire come lo fa, scegliendo cioè l’uomo Gesù ed in lui, l’insieme degli uomini, Dio ha amato il mondo; in altri termini, la sua elezione costituisce un atto che significa chiaramente che egli non è contro il mondo, né indifferente alla sua sorte, ma in favore del mondo, perché egli è fin dal principio e senza restrizione alcuna (lo dimostra il dono del suo Figlio unico!) per l’uomo Gesù ed in lui, per l’insieme degli uomini. Che Dio non voglia essere senza il

mondo, né contro di esso, nulla potrebbe esprimerlo più chiaramente che la nozione di elezione. Parlare della scelta di Dio significa quindi parlare essenzialmente e necessariamente dell’evangelo. La dottrina dell’elezione deve insegnare prima di ogni altra cosa (si tratta infatti del senso e della sostanza di tutte le sue proposizioni) che Dio ha scelto spontaneamente di volgersi, nella totalità del suo essere, verso l’uomo, sua creatura, decidendo di essere suo amico e suo benefattore. Tale è la forma definitiva che riveste l’elezione. Di conseguenza, l’annuncio della decisione divina è un «buon annuncio». Non si può quindi proclamare simile «buon annuncio» velando il fatto che Dio elegge, come se su questo punto esistesse qualche ragione di essere reticente o presentando l’amore con cui Dio ama il mondo come una specie di fenomeno generale che non implica nessuna opzione e che quindi, in definitiva, finisce di non avere più nulla da spartire con l’amore. In breve: volendo tacere o semplicemente oscurare il fatto che Dio ha amato il mondo a seguito di un atto di elezione, significa porre intenzionalmente la lampada sotto il moggio. Infatti è unicamente perché essa è un atto di elezione che la decisione divina intervenuta in Gesù Cristo è un buon annuncio che si rivolge a tutti e che interessa realmente il mondo intero. Esiste certo nel mondo una resistenza a questo amore divino che si manifesta così ed anzi si deve dire che tale resistenza è nell’ordine delle cose. Il testo giovanneo lo segnala indirettamente, ma significativamente, precisando: «affinché chiunque creda, non perisca!». E proprio perché la volontà e la potenza di Dio spezzano questa resistenza, perché il suo amore diventa precisamente un’occasione di caduta dovunque tale resistenza non è spazzata da un atto di fede avente per oggetto il Figlio unigenito dato per la nostra salvezza, perché, di fronte al mondo ribelle, l’elezione diventa necessariamente ed al medesimo livello, nonelezione, rigetto, proprio per questo esiste anche, di conseguenza, tutto l’inquietante campo del rifiuto, della riprovazione, della dannazione, campo che è ordinato e determinato da Dio nella misura stessa in cui costituisce la negazione dell’atteggiamento di Dio, l’opera del suo non-volere onnipotente, inseparabile dal suo volere. Ma deve essere chiaro che l’atteggiamento di Dio, come tale, significa, come il suo volere, salvezza e non rovina. L’elezione divina non ha come scopo la negazione, bensì l’approvazione della creatura. Intendere il messaggio dell’elezione significa, in ogni caso, ascoltare il sì che Dio ha definitivamente pronunciato. Si può certo intendere parlare anche di altre scelte: si pensi in particolare ai capricci della sorte o ancora alle opzioni, giudicate eccellenti, che rilevano dal nostro giudizio; ma in tutto questo non si

tratta mai del sì divino. In compenso non si può intendere parlare della scelta divina, senza subito intendere il suo sì. Che noi possiamo non voler ascoltare questo sì e non obbedirgli, rifiutando di essere coloro che Dio approva, è questa l’impossibilità stessa e non certo una possibilità, se si riguarda al carattere dell’elezione divina e se veramente ne abbiamo sentito parlare come si deve; in questo caso infatti muteremmo l’elezione nel suo contrario, faremmo del suo significato dichiarato un non-senso, cadremmo nell’abisso del non-volere e della non-elezione. Anche in questo caso d’altronde la creatura non può sfuggire a Dio; anche in tale abisso essa resta nella sua mano ed oggetto della sua decisione; da ciò tuttavia non si deve dedurre che Dio sia l’autore o lo spettatore passivo della sua caduta. No. Dio è e resta colui che si è deciso in favore della creatura, mai contro di essa, anche quando il suo amore diventa per la creatura confusione. Di conseguenza, in qualunque posto si trovi, foss’anche all’inferno, quando evoca Dio e la sua elezione, la creatura non può che pensare alla grazia ed all’amore divini. Se è vero che nessun limite può essere assegnato alla volontà ed alla potenza di Dio da parte della nostra volontà e della nostra capacità di resistenza e se è vero che, nella nostra stessa resistenza, non può capitare nulla che non sia stato predeterminato da Dio, quanto ci tocca non può modificare la natura ed il carattere della nostra elezione fondamentale: non troveremo mai in Dio se non la sua decisione d’amore e, conseguentemente, nella dottrina e nella predicazione dell’elezione non sentiremo mai parlare di altro che dell’evangelo. È in questa prospettiva che vogliamo riprendere ora ciascuno dei tre punti precedentemente menzionati, punti sui quali, come abbiamo costatato, i diversi rappresentanti della dottrina della predestinazione si trovano concordi. 2. L’elezione gratuita come espressione della libertà divina. Che significa, allorché si esamina l’elezione gratuita nella prospettiva del buon annuncio, la libertà di cui Dio usa per compiere questa azione? Che Dio preceda assolutamente la sua creatura facendole grazia e che l’uomo, in forza della decisione divina, non possa che seguire senza sosta Dio, senza mai dettargli le proprie esigenze o condizionarlo ad agire in questo o quel modo, ecco un fatto che mette innegabilmente in risalto l’umiliazione totale, ultima e durissima della creatura. In effetti, se Dio agisce come agisce, è perché la creatura non possiede in se stessa nessun valore autonomo davanti a lui, è perché essa è incapace di presentargli una qualche traccia di bene che si troverebbe in lei. Essa non si manifesta solo come un essere che deve unicamente a Dio il beneficio della sua esistenza e che, per questa ragione, non può far valere

nessuna pretesa all’elezione. In ogni caso, la sua esistenza di fronte a Dio non è più un bene; è divenuta vanità; essa l’ha sperperata e perduta. Come creatura, fa ormai figura di accusata davanti a Dio, perché ha abusato del beneficio ricevuto, perché non è stata riconoscente; d’altronde anche se lo fosse stata, la sua riconoscenza non potrebbe essere il motivo dell’elezione divina. La libertà dell’elezione significa che di fronte a Dio la creatura si trova non solamente circoscritta dalla sua condizione creaturale, ma ancora stretta dai limiti del suo peccato; davanti a lui, essa finisce di essere non solo povera e debole, ma anche condannabile; essa è colpevole di quella resistenza che vuole che l’amore di Dio si volga a sua confusione e rovina e che la comunione con Dio assuma per lei l’aspetto del giudizio e della perdizione. Ecco che cosa significa per la creatura la grazia di Dio rivolta verso di lei; è questa la verità che essa deve apprendere su se medesima, imparando a conoscere la libertà divina; è nel più profondo della sua miseria che si riflette la predeterminazione di cui è oggetto, dal momento che Dio le si mostra favorevole in virtù della sua libera elezione. È in simile radicale messa in questione che la creatura deve rinunciare a tutto quanto pretenderebbe di poter meritare la sua elezione o acquisirla. Non abbiamo però ancora detto tutto: poiché la libertà di Dio è quella di questo atto di elezione, poiché essa è la libertà della grazia divina, significa ancora un’altra cosa. La grazia è il «malgrado tutto» dell’amore con cui Dio ama la sua creatura; è in questo «malgrado tutto» che consiste l’elezione; infatti l’amore di Dio è elezione, grazia, libertà. Come sarebbe amore divino avente per oggetto la creatura, sì, come sarebbe divino, se non fosse libero? Esso è grazia, benevolenza, favore; in lui, Dio non dice no alla sua creatura, dice sì; dice questo sì spontaneamente, senza che la creatura abbia il benché minimo diritto a pretenderlo. Lo pronuncia quindi liberamente. Dio ama nella libertà; dice sì e non dice no; enuncia il suo «malgrado tutto» al di sopra di tutto e di tutti i no che gli opponiamo. È libero anche nel senso che la resistenza della creatura al suo amore non erge per lui alcun ostacolo; è libero anche nel senso di non essere obbligato a contentarsi di infrangere tale resistenza e di volgerla a confusione della sua creatura; potrebbe certo accontentarsene, ma non vi può essere costretto e nella sua libera grazia, difatti, non lo vuole e non lo fa. Non è solamente libero di compiere la sua volontà di comunione con la sua creatura lasciandola perire sotto la sua mano, che essa ha rifiutato, senza tuttavia potergli sfuggire. Dio è talmente libero e la sua mano è così potente che può strappare la creatura alla rovina in cui l’ha precipitata la sua resistenza e significarle, qualunque cosa

essa faccia, la salvezza e la vita che costituiscono il significato positivo, il senso specifico ed il fine proprio del suo amore. Tutto questo, precisamente in forza della sua elezione gratuita. Sceglie il sì, sebbene il no si manifesti come l’unica risposta possibile al comportamento della creatura; sceglie la grazia e non il giudizio che sembra inevitabile, dato simile comportamento; sceglie di andare fino in fondo al suo amore, sebbene, apparentemente, ciò possa volgere a confusione e rovina della creatura, benché apparentemente la sua volontà non possa compiersi se non mediantela condanna, la perdizione, l’annientamento della creatura. Non vi è fatalità contro la quale possa infrangersi l’amore divino. Dio si determina dunque in maniera tale che non solo non punisce la sua creatura, ma le offre il salario che essa non ha meritato; opta non per la sua morte, ma per la sua vita mancata, non per il suo non-essere, ma per il suo essere diventato impossibilità; Dio sceglie. Non deve rendere conto né alla creatura, né a se stesso, ma questa è la scelta che egli fa. Ecco quanto significa la libertà di Dio di fronte alla sua creatura. Umiliandola fin nei più bassi recessi, non la conduce a disperazione; le vieta anzi la disperazione che pure sembra la sola uscita possibile; anzi, la rende assolutamente impossibile, mostrandola inutile ed arbitraria. La creatura non può disperare, poiché Dio non l’ha fatto. La grazia, la libertà dell’elezione gratuita significa giustamente questo: Dio non dispera della sua creatura; ben al contrario; nell’infinita ricchezza della sua gloria, si volge verso di essa e l’accoglie. La sovranità di Dio non si manifesta solamente nel fatto che la creatura non gli può sfuggire e che, persino nella condanna, non può che compiere la sua volontà. Al di là di questo aspetto, essa si rivela nel fatto che l’ultima parola di Dio, la finalità positiva della sua volontà, è e resta la salvezza della creatura, in maniera che nulla può sradicare. Essa è completamente nel «malgrado tutto», mediante il quale Dio strappa la sua creatura alla rovina e la destina alla felicità e questo indipendentemente dalla decisione della creatura e contro di essa, in forza della decisione antecedente che trasforma e determina completamente questa decisione mancata. Poiché la sovranità divina riveste questo aspetto decisivo nella libertà dell’elezione gratuita, tale libertà non può significare unicamente l’umiliazione della creatura; al contrario; l’umiliazione che si produce qui è di fatto e contemporaneamente un’elevazione. L’uomo che Dio non ha lasciato cadere, non potrebbe in nessun caso cadere ed ancor meno non può lasciarsi cadere da se stesso. In virtù della decisione divina assolutamente libera, tutto è già regolato per lui: non è destinato a perdersi ma ad essere salvato, non è là per

morire ma per vivere. Se l’uomo non possiede nessuna libertà per Dio, una libertà che possa far valere contro Dio e sulla quale possa appoggiarsi, resta che Dio, nella sua propria libertà, interviene in favore dell’uomo; allora tutto è cambiato; quest’uomo riceve precisamente quella libertà per Dio che prima non possedeva, la libertà di scegliere quello che Dio vuole, di obbedirgli, di vivere per lui e per mezzo di lui. L’elezione gratuita di cui è oggetto significa dunque che l’uomo, a sua volta, è libero: libero dall’accusa che pesa su di lui, libero dalla maledizione che ha provocato e dalla prigionia che le è conseguente, libero dalla morte che ne è il salario, libero anche, dopo tanta ingratitudine, di testimoniare a Dio la propria riconoscenza, libero di servirlo senza averlo meritato, libero di aprirsi ad una gioia che finalmente può manifestarsi apertamente e che ora più nulla potrebbe limitare. Ecco che cosa significa la libertà della grazia per l’uomo giustamente umiliato, per colui cioè che non conosce nessun soccorso al di fuori di Dio e che non può dipendere se non da lui. Tale è l’incomparabile beneficio, senza limiti, che gli deriva in forza dell’elezione divina. Tale è il buon annuncio, valido per ogni uomo, che deve essere proclamato in ogni caso ed imporsi come l’ultima parola in una esposizione sull’elezione gratuita. 3. L’elezione gratuita come espressione del mistero di Dio. Che significa, nel quadro di un’interpretazione evangelica della elezione, il mistero della libertà che caratterizza questa azione divina? Se la volontà di Dio non conosce nessun perché di interrogazione, essendo grazia, se la sua decisione riposa sul suo beneplacito e permane insondabile, se, di conseguenza, noi metteremmo Dio stesso in questione e lo rinnegheremmo pretendendo di chiedergli spiegazioni, allora subito vediamo quanto implica il mistero di cui parliamo: l’obbligo, da parte della creatura, di sottomettersi al Dio della grazia. Davanti al mistero di Dio, la creatura deve tacere; non certo perché il silenzio abbia un valore in sé, ma perché è il solo atteggiamento che permette di fare quanto è necessario fare qui: ascoltare; ed anche in questo caso non si tratta di ascoltare tanto per ascoltare, ma di ascoltare in vista dell’obbedienza che costituisce lo scopo ed il senso di ogni ascolto. La libera grazia mira infatti essenzialmente a convertirci all’obbedienza. È con questa precisa intenzione che essa ci rende liberi e che ci incontra come un mistero, come un’istanza senza appello, come una giusta esigenza che non lascia spazio ad alcun ricorso, come una decisione il cui fondamento non può essere misurato sul fondamento di qualche cosa d’altro, poiché, dato il suo autore, essa è intrinsecamente, la sola decisione buona. L’elezione di Dio ha un carattere insondabile e come tale, essa richiede

la nostra obbedienza. Non ci sarebbe stata predicata, non ci avrebbe assolutamente toccati, ci sarebbe anzi servita da pretesto per sviluppare pensieri che sono nostri, se essa non avesse significato immediatamente per noi una chiamata all’obbedienza: indipendentemente dall’accusa che sussiste contro di noi, indipendentemente dalla maledizione che pesa su di noi, indipendentemente dalla morte che proietta la sua ombra sulla nostra vita. L’elezione della grazia ci ha infatti liberati da tutto questo. Ma proprio per questo, nessuna scusa e nessun pretesto ci è consentito: non abbiamo più il diritto di pensare che ci sia possibile non obbedire, che l’esigenza che Dio fa valere su di noi sia troppo grande per noi. Dio, quando esige, non richiede il nostro parere: domanda unicamente di riconoscere ciò che nella sua grazia ha deciso a nostro riguardo, per il nostro bene. Non siamo chiamati a mostrare le nostre forze, piuttosto a vivere nella forza della sua grazia. Tale esigenza ci è significata nel momento stesso in cui il perché esplicativo di Dio, onnipotente ed insondabile, incontra tutti i nostri perché interrogativi, togliendoci così ogni possibilità di ritirata e spingendoci in avanti. Sì, in avanti: perché ormai non possiamo più volere nutrirci di altro che della volontà di Dio, il cui significato è positivo perché ci promette la salvezza e la vita, costituente la predeterminazione a cui si trova subordinata ogni nostra autodeterminazione. Tutto il resto fa parte delle cose antiche che sono trascorse ed alle quali non ci è possibile ritornare; il mistero della grazia stabilisce infatti questa linea di demarcazione nel centro stesso della nostra esistenza e per questa ragione la questione è definitivamente risolta: quanto Dio vuole, è la nostra santificazione; ecco quello che significa questo mistero per la creatura. Ma non è tutto. Abbiamo dovuto sottolineare che il mistero dell’elezione gratuita postula l’obbedienza umana, perché è il mistero del Dio vivente che dona la vita, non il mistero di una qualche divinità immobile nella sua maestà, reclamante, da parte nostra, un atteggiamento altrettanto rigido di timoreo di confidenza. È venuto il momento di sottolineare in maniera ancora più decisa, se possibile, quest’altra verità: il fatto che il mistero divino, nell’elezione, si presenti alla creatura come un’esigenza che le infonde movimento, è veramente una grazia, un atto di favore e di benevolenza. Dio dice veramente sì, senza restrizione. La predeterminazione cui la creatura si trova sottomessa e che le permette di vivere ha un carattere definitivamente positivo; implica infatti un’approvazione assoluta, che precede ogni autodeterminazione della creatura e che sussiste al di là di tutte le trasformazioni che possono imbrigliare questa autodeterminazione. Quanto ci mette in movimento, non ci

spinge nell’agitazione e nell’inquietudine; il campo dell’inquietudine si situa al di là dell’elezione gratuita; è infatti il dominio della creatura che resiste all’amore divino. La creatura come tale è votata all’inquietudine a causa di quella resistenza che l’ha condotta a rovina; in questa situazione, non avendo voluto afferrare il solo soccorso possibile e reale, sospira invano ricercando un altro appoggio; è inquieta, perché votata all’incertezza a causa della sua resistenza, pretende sempre e malgrado tutto, di confidare in se stessa. Tutto questo campo dell’incertezza inquieta però è stato definitivamente spezzato dall’elezione gratuita di Dio. Questo significa precisamente il mistero dell’elezione per la creatura: la creatura si trova strappata alla sua inquietudine, conosce la calma e la pace, calma e pace della decisione e dell’obbedienza conformi al mistero del Dio vivente e vivificante. Si tratta di una pace reale, quella che è caratterizzata dal mistero del Dio costante, del Dio che, accogliendo la creatura, le dà ugualmente la possibilità di partecipare alla sua costanza. Dal momento in cui dice sì, questo sì è detto: senza condizioni, senza reticenze, senza riserve, senza pensieri nascosti; non provvisoriamente ma definitivamente; in forza di una fedeltà non parziale o circoscritta nel tempo, ma totale ed eterna. La questione di sapere se questo sì sia valido oppure no, la preoccupazione che si prova a proposito della maniera secondo cui bisognerebbe determinarlo o comprenderlo, la disperazione che risulta dall’impossibilità totale e sempre evidente di vivere in modo autosufficiente, tutto questo, non appena l’elezione esiste, non si trova più davanti, ma alle spalle della creatura, tutto appartiene a quelle cose antiche che sono passate. La creatura è approvata e non ha più altra vita, se non quella che le proviene da questo sì; così sicuramente Dio l’ha pronunciato; così certamente che Dio è Dio. Che cos’è l’obbedienza esigita dalla creatura nell’elezione gratuita, se non il permesso divino accordato senza riserve all’essere che Dio ha scelto e proprio per questo approvato? Da questo momento la decisione che, in forza dell’elezione determina la creatura, non può certo significare che quest’ultima sia posta sotto il giogo di ferro di uno spietato destino, legge dura che essa dovrebbe penosamente sforzarsi di compiere, schiacciata dal sentimento della sua insufficienza di fronte a simile esigenza. Che cosa infatti le resta da compiere, dal momento che in virtù del sì divino, la legge della sua esistenza è stata non solamente promulgata, ma anche pienamente compiuta? Non le resta che vivere la vita che le è stata data in questa maniera e viverla senza preoccupazioni. Non vi è più posto se non per lo stupore, per la meraviglia rispettosa davanti al mistero della vita che le è consentito vivere.

Questo stupore non significa certo pigrizia e passività, come anche non potrebbe riaprire la porta all’inquietudine. Esso ha infatti per oggetto quel Dio che ha preventivamente risposto a tutte le nostre domande, ha liquidato tutte le nostre preoccupazioni, ha reso senza oggetto tutte le nostre disperazioni, intervenendo lui stesso in nostro favore. Prima di noi, questo Dio ha misurato la nostra insufficienza, ma solo per rimediarvi perfettamente. Non autorizzando la creatura a chiedergli ragione della sua elezione, le permette e le comanda di lasciare lui, Dio, assumersi la responsabilità della sua condizione creaturale. Se Dio dispone di noi nell’elezione, senza accettare di lasciarsi interrogare sui motivi della sua azione, ciò significa che noi dobbiamo e possiamo riconoscere con semplicità che tutte le misure relative alle nostre proprie azioni e permissioni sono già state prese e che, di conseguenza, non ci resta che seguire la strada che ci è stata aperta, senza voler rifare quello che è stato fatto una volta per tutte. E se è vero che procedendo all’elezione Dio ha voluto diventare lui stesso l’oggetto della nostra adorazione, ne consegue che tutte le sue esigenze si riducono ad una sola e medesima esigenza: che noi offriamo realmente la nostra adorazione. Questa è la pace che significa l’elezione gratuita per la creatura che, in forza di questa opzione divina, si trova inesorabilmente presa a parte e spinta all’obbedienza. Per il fatto stesso di essere requisita, la creatura può cessare di cercare di giustificarsi, di difendersi, di salvarsi da sola; le è permesso di tacere e di diventare perfettamente calma davanti a questo mistero grande; le è consentito di attenderne la gioiosa manifestazione, pur sforzandosi in ogni modo di perseguirla. Anche così l’elezione gratuita si manifesta come un beneficio incomparabile e senza fondo per la creatura; essa è e permane un mistero di Dio; in essa Dio dispone di noi, senza che noi possiamo, per parte nostra, procedere alla verifica del fondamento della sua volontà, restando nostra unica possibilità quella di costatare semplicemente quanto avviene. Ed è questa verità, benefica per ogni uomo capace di intenderla, che deve in ogni caso manifestarsi come ultima parola in un’esposizione concernente l’elezione gratuita. 4. L’elezione gratuita come espressione della giustizia di Dio. Che significa, dal punto di vista del buon annuncio, la nozione di giustizia di Dio applicata al campo dell’elezione gratuita? Essa significa innanzitutto che Dio esercita un giudizio sulla sua creatura, conformemente al diritto ed alla chiaroveggenza che possiede e che possiede lui solo. Ciò significa che, procedendo all’elezione, Dio crea dell’ordine: lui, la sorgente e la misura di ogni ordine esistente, lui,

l’ordine per eccellenza, davanti al quale ogni ordine esistente appare come un disordine. Ciò significa che Dio afferma la propria dignità davanti alla creatura: lui che nella sua saggezza solo sa ed è solo a sapere quello che è degno di lui. Per questa ragione il riconoscimento della giustizia inerente all’elezione divina implica il riconoscimento dei limiti che sono i nostri; chi mai può pensare di presentarsi davanti al tribunale di Dio ritenendo buona la propria causa, senza avere nulla da temere?; chi può pretendere di discutere con Dio che cosa sia l’ordine o chi mai può con i suoi consigli prevenire la sua sapienza o anche solo confermarla posteriormente? Nel momento stesso in cui abbiamo capito che, davanti al mistero della libertà divina, non solo ci è comandato, ma anche permesso di tacere e nella misura in cui noi vogliamo ben tacere, tale comportamento volontario si manifesterà come una confessione: la confessione di persone che riconoscono il loro torto, che in esse non trovano nulla che possa giustificarle o anche solo scusarle, nulla che possa condurre ad un’assoluzione, nulla che possa indurre Dio ad eleggerle. Non potrebbe d’altronde essere diversamente: la giustizia inerente all’elezione, nel momento stesso in cui la scorgiamo, ci ricorda che noi dovremmo restare fuori, nel campo della non-elezione e cioè della riprovazione; non può non condurci a riconoscere senza sosta che noi siamo in opposizione con l’amore che Dio ci ha testimoniato e, di conseguenza, indegni di tale amore; in una sola parola, una volta riconosciuta, questa giustizia obbliga la creatura a scoprire l’abisso in cui si è precipitata e dal quale resta assolutamente incapace di uscire con le sue sole forze. Anche qui tuttavia non è ancora detta l’ultima parola. Anche umiliandoci in maniera assoluta, pur permettendo a Dio di affermare e di fare valere la sua dignità nei confronti della creatura, la giustizia che l’elezione mette in evidenza si rivela anch’essa come una grazia, un favore, un atto di benevolenza. E l’oggetto di questa grazia è la creatura scelta da Dio. Dio non trascura, né attenua minimamente la sua giustizia, anzi la esercita e la manifesta senza riserva allorché, nell’elezione, si mostra misericordioso nei confronti della creatura, accogliendola, accordando ad essa, che manca di tutto, quanto le spetta, facendole diritto ed assicurandole la sua parte. Ed ecco quanto, secondo il consiglio della saggezza divina, spetta alla creatura, ciò che costituisce la sua parte ed il suo diritto: essa è conservata all’interno stesso della caduta da essa provocata, è strappata dall’abisso che essa stessa ha aperto, affinché possa, senza alcun suo merito e nei limiti che le sono stati assegnati, vivere in forza della volontà e della potenza di Dio. Questo è anche

precisamente quanto Dio stima degno di lui e quanto, di conseguenza, lo è veramente. Questa è la maniera secondo cui intende imporsi alla creatura, affermandosi davanti ad essa. Questo è l’ordine giusto che egli crea e stabilisce. Interrompe la strada della sua creatura, perché è buono; castiga il suo peccato non tollerandolo, ma perdonandolo; combatte la follia della nostra opposizione e ne trionfa mediante la sua pace che supera ogni intelligenza e che, proprio per questo, è la sola saggezza autentica, la sapienza divina. La giustizia di Dio nel mistero dell’elezione significa dunque che egli come giusto giudice esamina ed onora la causa perduta della sua creatura, per darle ragione e farle diritto contro se stessa, malgrado la sua opposizione. Essa significa che Dio non ammette che la creatura rovini se stessa, facendo di lui un suo nemico; Dio veglia perché il diritto che ha fatto valere all’origine sulla sua creatura non resti parola vana; di conseguenza difende l’autentico diritto alla vita di questa creatura. Prende cura della sua creatura, come di se stesso e volendo per lei il meglio, irradia la propria gloria. È in funzione di questa giustizia regale, inseparabile dalla sua misericordia, e che certo non deve rinnegare a causa della sua misericordia, che Dio, nel mistero della sua libertà, dice sì alla creatura. Ecco perché questo sì costituisce un appello così potente e così efficace all’obbedienza e, contemporaneamente, un fondamento così solido alla confidenza, nella quale una creatura può vivere. Egli sopprime l’atto di accusa elevato contro di noi, senza per questo poter essere accusato di ingiustizia; mette in evidenza il giusto fondamento e la pertinenza dell’azione divina, permettendoci di riconoscere e di accettare questa azione come un beneficio, un beneficio di cui siamo oggetto. Ripetiamolo ancora: è di questo beneficio incomparabile e senza fondo, che concerne ogni uomo, purché abbia orecchi per intendere, che si tratta nella predestinazione. Consequentemente, è importante in quest’ultima prospettiva che una corretta dottrina dell’elezione, una dottrina conforme all’evangelo, sia in ultima analisi un’esposizione di tale beneficio. Abbiamo mostrato, parlando della libertà, del mistero e della giustizia di Dio, quali siano le condizioni che consentono una giusta comprensione della dottrina della predestinazione; dovremo costantemente ritornare su queste nozioni nel seguito del discorso; basti affermare per ora che la dottrina dell’elezione è la somma del buon annuncio. 1. M. WEBER, Gesammelte Aufsaetze zur Religionssoziologie, vol. 1 (Tuebingen), 1922 (3 a ediz.), p. 93 (= Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, «Archiv für Sozialwiss. und Zozialpolit.» XX-XXI, 1904-1905; tr. ital.: L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, intr. di E. SESTAN, Roma 1945;

2 a ediz.: Firenze 1965; ripresa in Sociologia delle religioni, a cura di C. SEBASTIANI, intr. di F. FERRAROTTI, Torino 1976, vol. 1, p. 196). 2. Cit. da M. WEBER, Gesammelte Aufsaetze zur Religionssoziologie, vol. 1, p. 91 (= Sociologia delle religioni, vol. 1, p. 193). 3. L. BOETTNER, The Reformed Doctrine of Predestination, (Grand Rapids), 1932. 4. AGOSTINO, De dono perseverantiae 12, 35. 5. LUTERO, De servo arbitrio: 1525 = W. 18, 684, 35. 6. CALVINO, De aeterna Dei praedestinatione: 1552 = C. R. 8, 260. 7. CALVINO, Institution III, 23, 7 e III, 21, 1. 8. Articoli Irlandesi di Religione: 1615, in E. F. K. MUELLER (hrsg., Die Behenntnisschriften der reformierten Kirche, Leipzig 1903), p. 528. 9. Form. Concordiae: Sol. Declar. XI, 12. 10. Ivi: Sol. Declar. XI, 43. 11. Ivi: Sol. Declar. XI, 91. 12. Ivi: Sol. Declar. XI, 92. 13. AGOSTINO, De praedestinatione sanctorum 6, 11. 14. Ivi, 8, 14. 15. AGOSTINO, Epist. 217, 5, 16. 16. PIER LOMBARDO, Sent. I, dist. 40 A. 17. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol. I, q. 23, art. 1 corpus e q. 24, art. 1 corpus. 18. Ivi, I, q.23, art. 5 ad 3. 19. ISIDORO, Sent. 2, 6, 1. 20. GOTTESCALCO (meglio sarebbe GODESCALCO) secondo INCMARO, De praedestinatione 5. 21. CALVINO, De aeterna Dei praedestinatione: 1552 = C. R. 8, 261 s. 22. CALVINO, Institution III, 21, 5. 23. PH. A LIMBACH, Theol. christ.: 1686: IV, 1, 5. 24. Sinodo di Dordrecht: 1619: Canones I, 7. 25. CALVINO, De aeterna Dei praedestinatione: 1552 = C. R. 8, 347. 26. Ivi = C. R. 8, 264. 27. CALVINO, Institution III, 21, 3. 28. CALVINO, De aeterna Dei praedestinatione: 1552 = C. R. 8, 327. 29. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol. I, q. 23, art. 5 corpus. 30. CALVINO, Congrégation sur l’Election éternelle: 1562 = C. R. 8, 103. 31. CALVINO, De aeterna Dei praedestinatione: 1552 = C. R. 8, 261, 299, 306. 32. CALVINO, Congrégattoni 1562 = C. R. 8, 95. 33. CALVINO, Institution III. 22, 6. 34. A. POLANUS, Synt. Theol. Christ.: 1609: col. 1561 s. 35. Form. Concordiae: Epit. XI, 20; cfr. Sol. Dectar. XI, 88. 36. Form. Concordiae: Sol. Declar. XI, 75. 37. A. QUENSTEDT, Theol. did. pol.: 1685: III, cap. 2, sect. 1, th. 9 e 10. 38. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol. I, q. 23, art. 5 corpus. 39. LUTERO, De servo arbitrio: 1525 = W. 18, 729, 13 (Erasmo aveva accennato in questi termini nel de libero arbitrio A 7 alla grotta di Coricio situata sulle pendici del Parnaso vicino a Delfi: «Ci sono infatti

nelle Sacre Scritture santuari reconditi dove Dio non ha voluto che cercassimo di entrare e nei quali, seppure tentassimo di penetrare saremmo avvolti da caligine sempre più spessa. Ciò affinché riconoscessimo da un lato l’imperscrutabile maestà della divina sapienza e dall’altro la debolezza dello spirito umano, come è di quella grotta di Coricio di cui parla Pomponio Mela, deliziosa per il suo aspetto esteriore sì da attirare il visitatore, ma che via via si faceva più orribile agli occhi dello stesso che, avventurandosi dentro, veniva a scoprire la terribile maestà della divinità ivi abitante»: trad. R. JOUVENAL, Torino 1969, pp. 42 s. con lievi ritocchi). 40. CALVINO, Sermone su Eph. I, 3 s. = C. R. 51, 260 s. 41. CALVINO, De aeterna Dei praedestinatione: 1552 = C. R. 8, 292. 42. I. KANT, Die Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft: 1793: (Berlin, VI, 1915), p. 166. 43. Ivi, p. 139. 44. CALVINO, Congrégation: 1562 = C. R. 8, 108. 45. Ivi = C. R. 8, 104. 46. CALVINO, Institution III, 23, 1. 47. CALVINO, De aeterna Dei praedestinatione: 1552 = C, R. 8, 312. 48. CALVINO, Institution III, 23, 2. 49. CALVINO, De aeterna Dei praedestinatione: 1552 = C. R. 8, 262. 50. Ivi = C. R. 8, 263. 51. CALVINO, Institution III, 23, 2. 52. CALVINO, Congrégation: 1562 = C. R. 8, 115. 53. CALVINO, De aeterna Dei praedestinatione: 1552 = C. R. 8, 310 s. 54. CALVINO, Institution III, 23, 8.

2. IL FONDAMENTO DELLA DOTTRINA DELL’ELEZIONE A. PRELIMINARI DI METODO TEOLOGICO Donde viene la dottrina della predestinazione? È questa la seconda domanda previa che ora abbordiamo: quali sono, ci chiediamo, le verità e le realtà che fissano la nostra attenzione in questa materia?; quale conoscenza comanda qui le nostre riflessioni e le nostre parole, imponendo loro una prospettiva ben precisa?; quale la natura della scoperta che intende esprimersi in un’esposizione sulla predestinazione?; quale la preoccupazione particolare capace di metterci in movimento e d’infonderci la forza, propria di una permissione e di un ordine ricevuti, di presentare questa dottrina come verità possibile e necessaria, sotto questa o quell’altra forma determinata? Vi sono buone ragioni perché si esamini questa questione in maniera particolare ed in tutta franchezza; ogni dottrina della predestinazione possiede infatti, nella sua spiegazione, un certo numero di punti di riferimento, ne sia cosciente oppure no; ora queste linee di demarcazione possono essere molto differenti, imprimendo alla dottrina stessa una caratterizzazione molto diversa e, conseguentemente, anche alla dommatica ed alla predicazione della chiesa che la dommatica deve informare. Ora, e speriamo di averlo fatto intravvedere con quanto precede, con la dottrina della predestinazione abbordiamo un tema di importanza vitale per l’insegnamento cristiano; ma, contemporaneamente, penetriamo su un pericoloso e vulnerabile terreno. Troppo sovente è accaduto precisamente questo: abbordando il tema si è trascurato di esaminare con tutta l’attenzione possibile e richiesta la questione del principio stesso, partendo dal quale ci si può mettere al lavoro; quasi sempre si è creduto di poter continuare accontentandosi di una risposta stereotipata; tutto ciò ha finito per esercitare una grande influenza su punti decisivi e sull’insieme della dottrina che si voleva esporre. È in queste condizioni che si è stati condotti a prendere decisioni e ad enunciare proposizioni gravide di conseguenze che, considerate in se stesse, potevano più o meno caratterizzare e persino dominare tutto il resto dell’insegnamento cristiano, ma che, contemporaneamente, dato il loro punto di partenza dubbioso o anche semplicemente erroneo, potevano naturalmente ed in taluni casi persino dovevano essere poco sicure e diventare pericolose, malgrado le buone intenzioni e tutti gli elementi di verità che pure vi si trovavano mescolati. È indispensabile ricordare a questo punto la regola fondamentale cui ci si deve attenere ed a cui si deve sottomettere una dommatica

ecclesiastica: per avere un giusto fondamento e per essere correttamente esposta, ciascuno degli elementi particolari della dottrina cristiana esige di essere concepito come una tematica che rileva dalla responsabilità che è stata affidata alla chiesa insegnante ed insegnata, nei confronti dell’autorivelazione divina attestata nella Sacra Scrittura. Ne consegue che anche la dottrina dell’elezione divina deve essere compresa ed esposta, se intende essere legittima, come commentario di quanto Dio stesso ha detto e dice di se stesso. Essa non può, e non deve, volgere il suo sguardo altrove, ma solo alla Parola di Dio ed è la verità reale di questa Parola che deve costantemente ritenere la sua attenzione. Essa non può pretendere di trovare il suo fondamento e la sua necessità se non nel riconoscimento del Dio che si rivela nella sua parola; non può volere esprimere se non la scoperta che risulta dall’incontro con questa parola; non può riposare se non su una sola ed unica preoccupazione, da cui trarrà la propria forza, il proprio dinamismo e la propria forma. In ogni caso infatti la Parola di Dio deve essere intesa e messa in valore nella chiesa cristiana, poiché tale Parola è diventata il luogo su cui la chiesa appoggia e da cui trae la propria vita. B. TALUNE PRECISAZIONI Prima di mostrare quello che significa l’applicazione generale di questa regola fondamentale nel campo teologico che è il nostro è indispensabile, allo stato attuale della ricerca, di procedere ad un certo numero di precisazioni. 1. Il ruolo della tradizione ecclesiastica. Affermiamo subito una cosa che dovrebbe essere pacifica e che pure non è ancora completamente ammessa, nemmeno oggi: non è possibile abbordare la dottrina della predestinazione lasciandoci dettare, aprioristicamente, il tema ed il piano del discorso dalla tradizione ecclesiastica. Certo, nel campo che trattiamo, come altrove, la tradizione ecclesiastica può essere un ottimo ausiliario per il lavoro teologico, almeno nella parte migliore di essa; in nessun caso tuttavia può costituirne l’oggetto e la norma; anche ad essa infatti è necessario chiedere donde venga, quale sia il suo autentico punto di partenza ed in quale misura sia suscettibile di porsi come aiuto. È assai curioso che in questa materia una simile questione debba essere posta precisamente ad una tendenza particolare della teologia calvinista. È un fatto incontestabile da un punto di vista storico che, più di ogni altro elemento, la dottrina della predestinazione abbia marcato la chiesa calvinista o almeno la teologia riformata nel suo insegnamento, perlomeno nei secoli XVI e XVII, imprimendo una fisionomia specifica; ciò può certamente incitare la

teologia calvinista a portare un’attenzione particolare a tale dottrina; in nessun caso tuttavia questo potrebbe essere un punto di partenza. Non si potrebbe concepire o voler provare che una dottrina della predestinazione è riformata (ed ancor meno che è cristiana), mettendo semplicemente in evidenza le sue caratteristiche storiche e cercando, se possibile, di risuscitarla, per così dire, nella sua forma primitiva, cioè nella forma di una riproduzione assai fedele, anzi la più fedele possibile, della antica dottrina calvinista della predestinazione. Il volume precedentemente citato di Loraine Boettner si apre con questa dichiarazione: «Scopo di questo libro è di offrire una riesposizione di quel grande sistema conosciuto come fede riformata o calvinismo e di mostrare che, attraverso di esso, senza dubbio si esprime l’insegnamento della Bibbia e della ragione». E poco oltre L. Boettner crede di doversiraccomandare alla benevolenza del lettore presentandosi come «calvinista senza riserve». Così facendo, Boettner si è assegnato un compito puramente scolastico, nel senso peggiorativo del termine, compito assolutamente incompatibile con il principio fondamentale della dommatica riformata. L’esposizione del sistema calvinista è compito necessario, utile e istruttivo della storia ecclesiastica o della storia dei dogmi; questo compito non può però essere confuso con quello che consiste nell’esporre la dottrina cristiana, foss’anche in una prospettiva riformata; in altri termini non è possibile presentare la dottrina riformata nella forma di una riedizione del calvinismo. Il ricorso alla Bibbia in questo campo non può significare che ci si sforza a posteriori di provare, consultando anche la ragione, che la dottrina biblica è identica a quella di Calvino. Il calvinismo considerato su un piano differente da quello storico può essere cosa utile e rispettabile su un piano umano; ma dal punto di vista della teologia cristiana, nell’accezione precisa del termine, non esiste calvinismo, come d’altronde non esiste un luteranesimo; non si dà calvinismo che possa essere oggetto e norma dell’insegnamento cristiano. Calvino e l’antica chiesa riformata hanno esposto la dottrina della predestinazione in maniera molto seria ed in una forma precisa. Dovremo continuamente tenerne conto a titolo indicativo, non dimenticando mai di possedere così un esempio prezioso ed estremamente degno di interesse di come si è cercato di trattare il problema. Ma proprio per rendere a Calvino l’onore che gli è dovuto, andremo con lui là dove egli è andato e partiremo con lui di là donde è partito. Ora secondo le sue più solenni dichiarazioni, questo luogo non era lui o il suo sistema, ma la Sacra Scrittura di cui è stato l’interprete: è davanti a questa autorità ultima che, a nostra volta, dovremo porci pure noi ed assumere così le nostre

responsabilità. Facendo in questo modo, ci lasceremo certo istruire dall’interpretazione calviniana, ma in nessun caso dovremo diventare «calvinisti senza riserva». Dal semplice punto di vista formale (già da esso!), il neo-calvinismo moderno significa precisamente una ripresa del principio di tradizione, di cui Calvino è stato, fra i riformatori, l’avversario più intrattabile ed irriducibile. Per fedeltà a Calvino dunque, rifiutiamo decisamente di partire dall’idea che la dottrina della predestinazione sia stata in qualche modo il palladio dell’antica chiesa riformata, soprattutto nella forma in cui è stata insegnata allora. 2. Una rigorosa impostazione dommatica. Per comprendere correttamente la dottrina dell’elezione non la si dovrà motivare a partire dal valore didattico e dall’utilità pedagogica che si crede doverle riconoscere nel campo della cura d’anime. Non si ha il diritto di cominciare l’esame da questo punto di vista, onde interpretarla ed esporla in seguito inevitabilmente in funzione della portata pratica che le si attribuisce. Il cammino da seguire sarà esattamente l’inverso: senza alcuna precomprensione di ordine utilitaristico, si dovrà innanzitutto ricercare il fondamento della dottrina nella rivelazione divina; partendo di là, la si interpreterà e presenterà in tutta oggettività; la questione del suo valore didattico e della sua utilità si risolverà in seguito da sé. All’inizio dell’esposizione che ne dà nell’Institution, Calvino sottolinea in tre maniere «come questa dottrina sia utile, ma anche dolce e saporita per i frutti che ne derivano»: essa ci insegna a mettere tutta la nostra confidenza nella libera misericordia divina; ci mostra la vera dimensione della gloria di Dio; ci conduce all’autentica umiltà1. Sull’essenza, non possiamo non essere d’accordo. Occorre tuttavia una certa prudenza. Heinz Otten ha scritto: «parlare di questi tre stimoli all’edificazione, significa subito mettere in evidenza quale fosse la preoccupazione vera di Calvino, allorché ha trattato della predestinazione»2. Ora dobbiamo costatare che, in dommatica, le preoccupazioni dette «autentiche» rischiano di essere sempre fonti di errore; è nella loro natura di alterarsi in maniera sorprendente con il tempo, di cambiare orientamento ed accento; è stato sufficiente che con il passare degli anni sia diminuito a poco a poco l’autentico rispetto della Parola di Dio considerata nella sua forza e che abbia predominato insensibilmente lo spirito di sistema e l’arbitrario, perché le tre «utilità» menzionate da Calvino si siano trasformate in assiomi didattici e pedagogici puramente formali, dotati di valore intrinseco, miranti a giocare il ruolo di motivi fondamentali, cosicché tutta la dottrina ne ha ricevuto carattere e forma. È così che in Beza e

Gomarus, la gloria di Dio ha potuto essere compresa come la somma della sua attività universale e sola esistente; è così che nella Confessione di Westminster la confidenza assoluta nella misericordia di Dio si è potuta trasformare nella certezza assoluta della salvezza accordata agli eletti; è così che per l’insieme della tradizione riformata l’umiltà di cui parla Calvino ha potuto essere confusa con il sentimento religioso particolare (assolutamente pratico; troppo pratico, anzi, a nostro avviso) che esperimenta un certo tipo di uomo, quel borghese cristiano mondanizzato, emozionato di sentirsi una cosa così piccola di fronte a Dio e capace di muoversi, pur tuttavia, in maniera assolutamente sicura quaggiù. È noto che, soprattutto per Max Weber, questo tipo di uomo è il frutto diretto della dottrina riformata della predestinazione. Che pensare di un insegnamento della predestinazione motivato in simile maniera? Dal momento che esistono, si potrebbe dire, dei cristiani e dei teologi che nutrono una simpatia naturale per dottrine difficili, avviluppate di mistero, audaci, paradossali, al limite del senso comune è normale che portino interesse per la dottrina della predestinazione. E come si può contestare d’altronde, che in questa prospettiva estetizzante, la dottrina in questione sia molto seducente? Che dire però quando il piacere che essa suscita in questa maniera assurge a motivo direttore dell’intera esposizione? L. Boettner in ogni caso, si mostra assai incline all’utilizzazione di tale registro, in una prospettiva a quanto pare apologetica: «fra le religioni non cristiane, l’Islam enumera milioni di adepti che credono ad una specie (!) di predestinazione e numerosi sono i paesi pagani dove, sotto l’una o l’altra forma, si pratica il fatalismo, senza tener conto inoltre delle dottrine filosofiche meccaniciste e deterministe che esercitano un influsso così marcato in Inghilterra, in Germania e negli Stati Uniti»3. Diciamolo subito: che un teologo possa abbordare la questione della predestinazione arroccandosi ad una simile chimera costituisce in ogni caso una buona ragione per essere diffidenti; in tutti questi casi ci si pone sul terreno dove il sì può facilmente mutarsi in no e la dimostrazione aprire la porta alla contestazione; i giudizi sul valore e sull’utilità della dottrina della predestinazione possono essere estremamente differenti e la storia è là per provarlo. Dove Calvino ed i suoi discepoli parlavano di «una dottrina dolce e saporita per i frutti che ne derivano», i luterani dei secoli XVI e XVII, con molti altri, non hanno visto che un insegnamento pericoloso, capace di distruggere la certezza della salvezza, la coscienza della responsabilità ed altre cose ancora

e persino un’eresia esplicita la cui naturale conclusione sarebbero stoicismo, manicheismo, quietismo e libertinismo. La pretesa parentela della dottrina calvinista sulla predestinazione con l’Islam, che pare rallegrare così notevolmente Boettner, è divenuta, per gli antichi luterani, la ragione stessa che è servita per discreditare i calvinisti, accusati di partigianeria e collusione con l’Anticristo orientale! E mentre l’uno non potrà mai dilettarsi a sufficienza, su un piano estetico, gustando il paradosso della dottrina in causa, l’altro trarrà pretesto da questo medesimo paradosso per metterla da parte, con orrore. Non si può costruire alcunché di solido su giudizi di valore o di simpatia; in questa materia, fin dall’inizio e fino in fondo, bisognerà dunque mostrare la più grande riservatezza; sarà necessario lasciare che la dottrina fondata sulla Parola di Dio dimostri da se stessa la propria utilità ed il proprio valore. 3. Il fondamento della dottrina della predestinazione non può riposare su nessun fatto di esperienza. Più grave che le possibilità finora enunciate è quest’altra, che consiste a voler fondare la dottrina della predestinazione su un fatto di esperienza, realmente accaduto o ritenuto tale. Per questo bisognerà scartarla ancora più recisamente. Si parte generalmente da questa costatazione: vi è una differenza evidente fra gli uomini che intendono l’evangelo grazie alla predicazione della chiesa e coloro che non hanno mai occasione di ascoltarlo; come pure vi è differenza fra quanti l’ascoltano nell’obbedienza, con profitto e per la loro salvezza e coloro che non lo intendono se non per contraddirlo o senza il minimo profitto, cioè in definitiva per la loro rovina. E ci si domanda: che cosa significano queste cose?; come è possibile spiegare, in particolare, che apparentemente vi è gente che, esteriormente o interiormente, non può assolutamente ascoltare l’evangelo?; e se tale fatto è manifesto, come interpretare l’altra costatazione parallela e cioè l’esistenza di uomini che sembrano intendere effettivamente l’evangelo? Per trovare risposta a queste questioni si apre la Bibbia (ma solo a posteriori!) e si dice: questo libro afferma che esistono, per divina volontà, eletti e riprovati. Da parte nostra, subito domandiamo: si ha il diritto di abbordare la Bibbia con una questione dettata dall’esperienza, cioè conun’ipotesi di natura puramente sperimentale, per considerare in seguito ciò che la Scrittura dice come risposta a tale questione e cioè, in definitiva, come conferma delle ipotesi soggiacenti a tale questione? Forse che la nostra osservazione ed il nostro giudizio relativi alla relazione esterna, o interna, degli uomini con l’evangelo sono di una perspicacia tale da permetterci di

riconoscere nella separazione da noi costatata il riflesso della decisione divina attestata dalla Scrittura per quanto concerne l’elezione gratuita? Sebbene le nostre costatazioni possano sembrarci indiscutibili ed i criteri da noi utilizzati perfettamente giusti e validi, resta che il giudizio da noi formulato su questa base è pur sempre il «nostro» giudizio e non il giudizio «di Dio». Non abbiamo assolutamente il diritto d’interpretare il giudizio divino attestato nella Scrittura e conforme all’elezione gratuita, partendo, senza nessuna mediazione, dal nostro personale giudizio; né abbiamo il diritto di vedervi una conferma, per così dire, del nostro punto di vista. Se quanto deve essere percepito qui è il giudizio «di Dio» (e tale deve essere la nostra preoccupazione, allorché affrontiamo la dottrina dell’elezione), allora non siamo autorizzati ad utilizzare la Scrittura per spiegare questo o quell’altro fatto di esperienza, precedentemente stabilito secondo le nostre capacità di appercezione; dobbiamo cercare i fatti che ci riguardano non nella nostra esperienza; li dobbiamo ricercare nella Sacra Scrittura o meglio nell’autorivelazione divina attestata nella Sacra Scrittura. Abbiamo già visto che proprio questa questione ha condotto Agostino ad assumere il suo punto di partenza nell’esperienza o almeno in quanto egli chiama tale. Per quanto concerne Calvino, bisogna essere enormemente circospetti. Non pretendo certo che il riformatore abbia fondato la sua dottrina della predestinazione sull’esperienza; ma, alla fin fine, ha talmente posto l’accento sull’esperienza che si è pur obbligati a riconoscere che, perlomeno in certa misura, il pathos che accompagna la sua esposizione e l’orientamento che vi è impresso rilevano da un’ottica soggettiva; e tutto ciò nuoce non poco alla purezza della sua esposizione. Il trattato de aeterna Dei praedestinatione del 1552, in particolare, utilizza costantemente espressioni come: convincere, insegnare, dimostrare mediante l’esperienza, subito si manista, è apertamente evidente per attirare l’attenzione sulla diversità dicomportamento degli uomini davanti all’evangelo, diversità che non può essere spiegata se non in riferimento a quella esistente nel decreto divino4. Ma anche nell’Institution possiamo leggere: «Vi saranno cento uomini che ascoltano il medesimo sermone: venti lo riceveranno con fede nell’obbedienza, gli altri non ne terranno conto o lo dileggeranno o lo rifiuteranno e condanneranno»5. «L’esperienza mostra in che maniera Dio vuole che parecchi da lui chiamati si pentano: in una maniera, tuttavia, che non tocca il loro cuore»6. In questo medesimo libro, l’esposizione propriamente detta della

predestinazione si apre con queste righe assai esplicite sul metodo che Calvino ha seguito: «L’alleanza di vita non è predicata ugualmente a tutti; ed anche là dove essa è predicata, non è ugualmente da tutti ricevuta; in tale diversità si manifesta un segreto ammirabile del giudizio divino: non vi è infatti nessun dubbio che tale varietà non serva al suo beneplacito. Ora se è cosa evidente che tutto questo avviene in virtù del volere divino, che la salvezza è offerta agli uni, mentre gli altri ne sono esclusi, ne derivano grandi ed alte questioni, impossibili da risolvere, se non insegnando ai fedeli che devono ricevere tutto dall’elezione e dalla predestinazione divina»7. È a siffatte questioni che la seguente definizione intende rispondere in maniera perentoria: Dio «non crea (tutti gli uomini) in condizione uguale, ma ordina gli uni alla vita eterna, gli altri alla dannazione eterna»8. Il fatto decisivo per Calvino e per l’insieme della sua dottrina non è certo il contrasto fra la chiesa ed il mondo pagano che non è stato toccato dall’evangelo: non si può dire che tale aspetto abbia trattenuto la sua attenzione; il riformatore non si è fermato d’altronde neppure a quell’altra costatazione, questa volta positiva, secondo la quale l’evangelo è riuscito a raggiungere esteriormente una folla di gente, che sembra essere stata convinta anche interiormente. Certo, non manca di segnalare il riconoscimento della chiesa che ascolta la Parola divina e diventa credente; anzi questa costatazione è in primo piano ed orienta tutta la sua riflessione; ma per il fatto stesso che tale elemento positivo riposa per lui su un fatto d’esperienza, è inevitabile che Calvino si trovi limitato, nella sua esposizione, dall’altro dato, anch’esso esperienziale, provocante in lui tristezza ed indignazione, dalla costatazione cioè che tanti uomini (egli pensa all’80 %) non ricevano la Parola divina se non per resisterle, o per perseverare nell’differenza, l’ipocrisia e le illusioni. È proprio questo dato sperimentale di ordine negativo, concorrente nei confronti del suo parallelo, ad accapparrare tutta l’attenzione di Calvino: esso costituirà, con rigore assiomatico, l’origine di quelle «grandi ed alte questioni» di cui parla il Riformatore, questioni che gli sembrano risolte da quanto insegna la Sacra Scrittura a proposito dell’elezione ed a cui crede di poter rispondere con la sua dottrina della predestinazione, che ritiene fondata sulla Scrittura stessa. Vede nella chiesa degli uomini la cui maniera d’essere, le cui parole, le cui azioni sembrano tali, dopo che è stato predicato loro l’evangelo, che non vi può non riconoscere l’atteggiamento corrispondente a quanto la Scrittura chiama riprovazione divina, cioè l’indurimento di cuore che accompagna in parallelo l’elezione divina. Naturalmente, paragonandolo agli

effetti positivi dell’elezione che crede discernere con gratitudine sull’altro versante, nella fede vivente della chiesa e nella sua propria fede, questo atteggiamento gli pare derivare da pura follia. Sa anche, e giustamente, che né lui stesso né alcun altro credente deve ai suoi meriti personali il privilegio di non appartenere alla categoria di coloro che Dio ha rigettato e conseguentemente indurito nel loro cuore: «Se qualcuno allega che questa diversità deriva dalla loro personale malizia e perversità, quest’allegazione non potrà essere considerata sufficiente; una medesima malizia occuperebbe infatti il volere di tutti, se il Signore non ne correggesse qualcuno mediante la sua grazia; e noi resteremmo tutti avviluppati, se non potessimo ricorrere a questa frase di san Paolo: chi è che ti opera discernimento? (Cor. IV, 7), volendo dire con ciò che se uno è più eccellente dell’altro, non è certo in forza della sua virtù personale, ma unicamente per la grazia di Dio»9. Sa pure che non esistono indizi indubitabili, almeno assolutamente, del rifiuto da parte di Dio di taluni uomini e che, conseguentemente, non possiamo discernere in maniera sicura chi è riprovato. Parimenti sa che nessun fatto di esperienza permette di stabilire con assoluta certezza che tale o talaltro individuo è eletto. Confessa con Agostino10: «non sappiamo coloro che appartengono al numero ed alla compagnia dei predestinati oppure no»11. Sa e confessa senza sosta che il Signore solo conosce i suoi. Ma in tutte queste dichiarazioni, una cosa è certa: questo medesimo Calvino crede tuttavia di conoscere straordinariamente bene, se non i riprovati da Dio, almeno una certa categoria di gente che sembra formare disgraziatamente la gran maggioranza di questo nostro mondo (la categoria degli stupidi, dei bugiardi, degli empi, dei pazzi, dei miscredenti, dei peccatori grossolani o raffinati, in una sola parola tutta la «canaglia» che sembra per lo meno fortemente sospetta di essere un effetto diretto della riprovazione e dell’indurimento divini); in ogni caso, con una sicurezza che confina con la certezza assoluta, Calvino pone in questa categoria maledetta un buon numero di suoi avversari e li tratta conseguentemente. Sarebbe tuttavia meschino voler attaccare il Riformatore per questa sola ragione e colui che, per qualsiasi motivo, non ha avuto la visione che fu la sua, non può certo, per questo, attaccarlo. Calvino possiede infatti una lucidità ed una sensibilità che gli fanno percepire in maniera eccezionalmente intensa tutti gli errori e tutti i disordini che la predicazione dell’evangelo mette a nudo impietosamente nell’esistenza dell’uomo e quando il male si estende alla chiesa ed alla teologia, soprattutto a quest’ultima, diventa assolutamente

intrattabile; una tale lucidità e siffatta sensibilità al di sopra della norma sono uno dei tratti peculiari del carattere del Riformatore; fanno parte (forse determinati almeno fino ad un certo punto dalla sua bile!) delle sue qualità dominanti. Si pensi anche ad un altro fatto: il secolo di Calvino è stato quello della Contro-Riforma; appena schizzato, il rinnovamento della chiesa ed il movimento che lo patrocinava si sono urtati all’opposizione scatenata di tutte le potenze spirituali e temporali; ed anche nella chiesa che si diceva rinnovata, quante debolezze, inconseguenze, deviazioni. In questa situazione bisognava inoltre opporsi ad altre correnti spontanee che rischiavano di compromettere ogni cosa. Ci voleva forse qualcosa di più perché un uomo risoluto ed attentamente perspicace volesse preservarsi e persino separarsi con tristezza ed orrore dalla maggioranza dei suoi contemporanei? E quanto al fatto che Calvino aveva sperimentato, o credeva di avere sperimentato, dove mai gli si potevaimporre, se non precisamente nel quadro della chiesa? Non era forse nella chiesa che diventava concreto il famoso contrasto ed il tremendo malinteso numerico fra l’immensa maggioranza degli «inutilizzabili» ossia l’80 % che occorre rifiutare in blocco ed il piccolo gregge di coloro «che sono schierati dalla parte giusta»? Calvino era ancora relativamente moderato, ritenendo che questo «piccolo gregge» rappresentasse il 20 % dell’insieme! Ma se gli si accorda tutto questo, cioè se gli si deve volentieri concedere che l’esperienza cui si reclama non è illusoria di per sé ed in un modo o nell’altro è pur vero che si impone, bisognerà tuttavia domandargli: una simile esperienza può forse pretendere di avere altro valore ed altra autorità, se non umani? Qualunque siano le conseguenze teoriche o pratiche che ne possono derivare, secondo i principi stessi di Calvino, non si ha il diritto di conferire ad una simile esperienza il carattere di una rivelazione, né di erigerla ad assioma da cui si parte per interrogare la Scrittura e che, in seguito, serve ulteriormente a spiegarla. Bisogna subito mettere in dubbio e rifiutare il presupposto secondo il quale la dottrina dell’elezione divina fondata sulla Scrittura debba rispondere, senza altra transizione, alle questioni poste dall’opposizione esistente fra chiesa e mondo o fra vera chiesa e falsa chiesa, anche se tali questioni sembrano a noi molto urgenti. E soprattutto è necessario interrogarsi se, conformemente all’insegnamento scritturistico, esista il medesimo rapporto fra elezione e riprovazione che fra cristianità e mondo pagano, visto nella nostra ottica oppure fra il piccolo gregge dei giusti e l’immensa armata della «canaglia» che Calvino crede di poter discernere, con così grande sicurezza, all’interno stesso

della chiesa. Là dove il carattere statico di una simile visione puramente sperimentale, rafforzato ancora dalla passione che vi introduce un uomo così intelligente e risoluto come Calvino, diventa il punto di partenza della riflessione sull’elezione gratuita, è evidente che la Scrittura non perviene più ad esporre liberamente quanto intende dirci e non può che rispondere alle interrogazioni che l’uomo le pone. Ora le risposte della Scrittura hanno un carattere tale che intendono fornirci esse stesse, prima di ogni altra cosa, la materia stessa delle nostre proprie interrogazioni. Calvino sembra ignorare proprio questo. Come ha scritto Heinz Otten: «Subito, prima ancora di aprire la Bibbia, Calvino ha preso una decisione che lo porta a legare la sua concezione della predestinazione alla questione posta dall’esperienza, indipendentemente dalla risposta della Scrittura»12. È proprio quello che bisogna evitare, altrimenti l’elezione divina che si deve studiare ed esporre rischia di assomigliare troppo (proprio come in Calvino) all’opzione, forse molto giustificata e rispettabile, ma infine sempre umana, del soggetto pensante ed il Dio-che-elegge rischia lui stesso di assomigliare troppo al teologo subito preoccupato di designare in gran fretta gli eletti, ma soprattutto i riprovati. Quanto al sapere se ed in quale misura quanto Dio fa ed è, ha relazione con concezioni della nostra esperienza, è una questione che, come quella dell’utilità della dottrina della predestinazione, può essere rischiarata solo nel momento in cui tale dottrina è elaborata e prende forma a partire dalla stessa Parola divina, indipendentemente dai nostri punti di vista, solo quando cioè mettiamo da parte le nostre idee preconcette e mai prima! È necessario imprimere ora a questa prospettiva un carattere più preciso e più sostanziale, Fondare la dottrina dell’elezione su fatti d’esperienza, supposti o reali, significa chiaramente, in sostanza, definirla in funzione dell’uomo in generale. In un modo o nell’altro si considera che l’elezione designi un comportamento di Dio diverso e differenziatore nei confronti dell’insieme degli individui come tali, in questo senso che Dio (agendo più o meno in forza del suo solo beneplacito nascosto secondo gli uni o tenendo in qualche modo conto dell’atteggiamento dell’uomo secondo gli altri) divide la massa umana in due parti, oggetto l’una della sua elezione e l’altra della sua reiezione. La finalità ed il risultato di un simile comportamento divino sarebbero, conseguentemente, da un lato la salvezza e la felicità degli individui appartenenti al primo gruppo e d’altro lato la perdizione e la dannazione di coloro che fanno parte del secondo. In questa prospettiva l’azione di eleggere

ed il fatto di essere eletti (come il loro contrario) sono inglobati in un ordine regolante, per così dire, il rapporto privato esistente fra Dio e ciascun individuo particolare; si considera dunque Dio in funzione della sua relazione privata con ciascun individuo, ma pure ogni individuo in funzione della sua relazione privata con Dio; se permane infatti sempre l’impossibilità dipercepire sperimentalmente l’azione divina nella sua pienezza, nei confronti della creatura, resta pur sempre vero che in siffatta relazione privata si ha la possibilità di un ricorso ad individui particolari: per lo meno il loro stato di eletti o di noneletti può entrare in considerazione come oggetto di esperienza. Le differenze che si manifestano fra gli individui a seconda del loro comportamento davanti all’evangelo e le caratteristiche che distinguono i pagani dai cristiani ed i cattivi cristiani dai buoni non sono certo elementi indifferenti; possono infatti permettere di determinare la relazione personale di ogni uomo con Dio o almeno di costatare l’esistenza di questo rapporto (la cui natura precisa non è tuttavia facile da definirsi) ed è così che si è condotti a parlare di un atto di elezione compiuto da Dio e, da parte dell’uomo, di un essere eletto (come anche dei loro paralleli negativi); là dove non ci riferisce con estrema prudenza ai dati esperienziali nella motivazione della dottrina dell’elezione, si pone come principio normale che una tale dottrina si rapporti in ogni caso al campo delle relazioni private esistenti fra Dio ed ogni individuo particolare, come pure al carattere positivo o negativo della decisione che presiede a tali relazioni. In questo contesto la dottrina dell’elezione avrebbe come compito quello di definire e di descrivere come effetto di un favore o di un non-favore il rapporto in cui, a parità di condizioni, ogni individuo esistente si trova personalmente con Dio; in qualche modo essa sarebbe la prima e l’ultima parola di un insegnamento il cui oggetto sarebbe l’uomo, in quanto sottomesso, come creatura, alla decisione divina; essa avrebbe come campo d’investigazione la salvezza o la rovina, la vita o la morte riservate all’uomo, conformemente a questa decisione divina, manifestantesi chiaramente in tutto il comportamento umano. Consequentemente essa sarebbe l’ABC di un’antropologia rettamente intesa, capace di tenere conto, come si deve, del rapporto personale dell’uomo con Dio. Non è certo possibile contestare l’esigenza di relazioni personali e private fra Dio ed ogni individuo, in cui s’inscrive di fatto la decisione divina di cui abbiamo parlato. Come Dio potrebbe essere Dio, come potrebbe essere in tutti i risvolti il Signore della sua creatura, se non fosse ugualmente il Dio ed il

Signore di ogni uomo in particolare e se non pronunciasse laprima e l’ultima parola nel quadro di quelle relazioni che stabilisce con ogni individuo? Né potrebbe negarsi che se vi è un campo in cui l’elezione divina gioca un ruolo capitale, è ben questo. Come potrebbe essere altrimenti? Abbiamo già detto infatti che l’elezione è una decisione divina presa in Gesù Cristo in favore dell’uomo, creatura di Dio; tale decisione significa che Dio non vuole essere senza la sua creatura, ma, a guisa di alleato, proprio con essa, conformemente al suo libero amore; ora questa creatura, cioè l’uomo, esiste concretamente in una quantità di individui particolari. Di conseguenza l’elezione fissa ed ordina effettivamente l’insieme delle relazioni personali fra Dio ed ogni individuo ed è in essa che si decide quanto risulterà (o meno) di tali relazioni. Tutto questo non significa tuttavia che l’elezione divina sia identica ad una qualificazione già definita di queste relazioni. Questo è un presupposto che troppe volte è stato dato come scontato ed invece non è così. Si può in effetti pretendere, senza alcuna transizione, che il Dio-che-elegge, così come si autorivela e come è attestato dalla Scrittura, sia, in una maniera o in un’altra, automaticamente, in forza della sua decisione, una specie di partner statico per ogni individuo particolare? È possibile riguardarlo semplicemente come se il suo ruolo consistesse a eleggere gli uni e a riprovare gli altri ed inversamente è possibile vedere solo eletti o riprovati fra gli uomini? Una tale concezione si giustifica se la si riferisce al Dio-che-elegge così come si è rivelato e come la Bibbia lo attesta? Certo non è possibile contestare che l’elezione concerne di fatto tutti gli uomini e che in essa Dio ha voluto prendere una decisione su tutti quanti. È però consentito affermare che essa fissi antecedentemente la sorte di ogni individuo? In altre parole è ragionevolmente possibile considerare ogni individuo preso isolatamente partendo da simile qualifica, come se fosse cioè già eletto o già riprovato? Non lo si dovrà piuttosto considerare proprio in vista di tale qualifica? La caratterizzazione determinata dall’elezione costituisce il mistero ultimo di ogni esistenza umana; che ogni vita umana proceda dalla predeterminazione divina non significa dunque ancora che abbia ricevuto la sua qualificazione corrispondente; se l’elezione divina è decisiva per ogni individuo, non ne consegue che essa sia, per così dire, legata alla sua esistenza, conferendole antecedentemente una qualità intrinseca ed immanente. Non è forse essa l’azione del libero amore divino che concerne certo, è diretto e determina ogni uomo, ma che precisamente non potrebbe fare di quest’uomo, antecedentemente ed immediatamente un eletto o un riprovato? L’elezione

gratuita di Dio è, secondo la Scrittura, un’azione con finalità precisa e ben determinata: non sono gli individui nel loro insieme ad esserne l’oggetto diretto e specifico, bensì un individuo tutto particolare, ed in lui solamente il popolo di coloro che questi ha chiamato e riunito, e mediante questo popolo, infine, l’insieme degli uomini nelle loro relazioni personali con Dio. È esclusivamente in questo individuo unico che una qualificazione umana corrisponde alla determinazione divina. In maniera precisa, solo lui può essere inteso e designato come eletto e come riprovato. Tutti gli altri uomini, sono eletti (o riprovati) in lui, non in loro stessi. Non si è certamente bene ispirati allorché si presenta e si concepisce la dottrina della predestinazione presupponendo, senza transizioni, come si è fatto sovente, che essa costituisca la prima e l’ultima parola dell’antropologia generale. A questo riguardo sarà bene lasciare da parte tutte le pretese evidenze per ritornare alle fonti e cioè all’autorivelazione divina ed alla testimonianza che di essa offre la Scrittura, onde discernere chiaramente sotto quale forma precisa il Dio-che-elegge si manifesta come il partner dell’umanità nel suo insieme e sotto quale forma quest’ultima è chiamata ad incontrarlo a sua volta. Quando, senza tener conto delle precise condizioni che regolano la relazione dei due partners in presenza, si prende in considerazione l’uomo tal quale e in generale, nel suo rapporto personale con Dio, si brucia una tappa. Il rischio è di restare completamente ciechi nei confronti dell’elezione e di quello che essa significa per tutti gli uomini, come pure per tutte le forme delle loro relazioni personali con Dio. Se abbiamo dovuto sollevare fin d’ora questa questione, che ci fa penetrare nel centro stesso del problema, è perché la tendenza erronea a fondare la dottrina della predestinazione su ogni sorta di dati sperimentali riposa precisamente sull’assioma, ritenuto indiscutibile, secondo cui l’elezione divina significherebbe una determinazione diretta dell’esistenza umana. Lasciando da parte nettamente simili preconcetti, si eviterà anche, di conseguenza, di spiegare l’esistenza di pagani e di cristiani, di buoni e di cattivi, ricorrendo all’elezione gratuita di Dio; in altri termini non si cercherà più di concepire la dottrina dell’elezione come una risposta alla questione sollevata dai dati dell’esperienza. 4. Elezione, onnipotenza, provvidenza. Dobbiamo prendere molto sul serio e scartare con altrettanta fermezza anche una altra maniera di voler fondare la dottrina dell’elezione, quella che consiste nel partire dall’onnipotente volontà divina, in forza della quale Dio domina e dirige, secondo la propria legge e senza incontrare resistenze, tutte le creature in generale ed in particolare; da

questo modo di vedere consegue infatti che Dio dispone ugualmente della salvezza e della rovina degli uomini. Il termine latino praedestinatio (predeterminazione, decisione antecedente) non è univoco ed i suoi paralleli biblici (πρόϑεδις, πρόγνωσις, προορισμός), non appena li si separa dal loro contesto, non lo sono certo di più. Di quale realtà si può dire che è sovranamente, temporalmente e logicamente prima di ogni altra cosa e quindi anche prima di ogni decisione umana, in un senso o nell’altro? Non si potrà certo negare che Dio risponde a simile definizione e che, di conseguenza, è lui, proprio lui, quello che in assoluto è prima di tutto; lo è quindi anche nel suo atto di elezione, altrimenti come sarebbe Dio?; è l’onnipotente e, nella sua onnipotenza, è l’essere libero. Non si devono certo sminuire queste verità. Qui tuttavia vi è il rischio di un errore: si potrebbe pensare che Dio è astrattamente l’onnipotenza che agisce irresistibilmente, identificata con una libertà ed una sovranità senza limiti; l’elezione sarebbe dunque una manifestazione puramente formale della libera onnipotenza divina, concepita in questa maniera; nella dottrina dell’elezione si tratterebbe semplicemente di mostrare che l’insieme del mondo, con tutto quanto vi accade, è governato da un essere supremo, traendone naturalmente le conseguenze logiche a proposito del destino finale, positivo o negativo, di ogni uomo. In altri termini si tratterebbe di rapportare la salvezza e la perdizione eterne dell’uomo, immediatamente, alla giusta volontà propria di questo essere supremo e necessario, così come a questa volontà si rapporta tutto quanto accade nel mondo creato. Allora la predestinazione è ridotta a semplice operazione all’interno diun ordine universale, stabilito e garantito dal principio della libertà e necessità insito nel nome stesso di Dio. E la dottrina della predestinazione diventa un tema particolare di una filosofia determinista. Tuttavia di fronte a questa concezione, ci guarderemo bene di cercare una soluzione in ambito indeterminista. Dovremo invece dimostrare che non si è certo detto tutto dell’essere di Dio allorché lo si identifica con l’onnipotenza assoluta; parimenti dovremo far intendere che non si parla più di Dio quando si procede astrattamente, come se l’onnipotenza assoluta ed irresistibile fosse il primo e l’ultimo verbo dell’essenza divina; ed anche a coloro che non cadono in simile astrazione o che in ogni caso non lo pensano, dovremo ugualmente chiedere se è giusto situare l’elezione, immediatamente, nel quadro della realtà pretesa superiore ed identificata, senza transizioni, con il governo universale di Dio, come se essa non fosse che un effetto particolare di questa attività divina generale. Certo, logicamente, questa è una soluzione facile. È però

oggettivamente corretta? Non è forse meglio rovesciare la prospettiva e considerare il governo universale di Dio partendo dalla elezione gratuita? Che Dio, e non una potenza cieca, governi il mondo, che il mondo sia realmente nelle mani onnipotenti di Dio è, con l’elezione stessa, una verità che forse non s’impone a noi e che non diventa luminosa se non nel momento in cui comprendiamo e vediamo chiaramente che l’autore di ogni cosa è il Dio-cheelegge, il Signore! Infatti, non è forse giustamente perché è il Dio-che-elegge che Dio è l’onnipotente, e non viceversa? Un esempio classico dell’interpretazione che bisogna combattere a questo punto è fornito dalla dottrina della predestinazione di Tommaso d’Aquino. Sostanzialmente, non ha nessun carattere determinista; la sua debolezza metodologica (che sola interessa qui) non è che più evidente. Per questo autore infatti, la dottrina della predestinazione è compresa, per definizione, nella dottrina della provvidenza divina. La provvidenza è l’ordine secondo cui, nella sua sapienza e nella sua volontà, Dio dirige ogni cosa verso il fine assegnato; ogni cosa è sottomessa al sapere ed al volere divino, cioè alla sua provvidenza, «non (soltanto) in generale, ma anche in particolare»13; quindi anche l’uomo con la sua libera volontà e con la sua prescienza, nel bene come nel male14. La predestinazione è «una parte della provvidenza» e concerne in particolare il destino soprannaturale dell’uomo, cioè la vita eterna cui l’uomo è destinato e che non può raggiungere con i proprii mezzi. Bisogna che l’uomo comprenda di essere ordinato a tale destino (transmittitur dice in maniera evocatrice il testo latino), come la freccia al suo bersaglio. Questo destino particolare, come d’altronde quello generale del mondo intero, possiede in Dio la sua giustificazione (ratio) antecedente. E questa «motivazione che ordina la creatura razionale verso la vita eterna, come a suo fine» (in altre parole: questo caso particolare della provvidenza generale) è la predestinazione15. Questa è la prospettiva in cui Tommaso d’Aquino ha cercato di trattare e di risolvere fin nei dettagli tutti i problemi della divina predestinazione: per lui si tratta innanzitutto di mostrare come il Creatore ne faccia uso con ognuna delle sue creature particolari, nel quadro della sua provvidenza generale; si spinge talmente avanti con questa prospettiva da non esitare ad affermare, presentandogli l’occasione, che la nozione di grazia non entra in conto nella definizione della predestinazione; sarebbe da prendere in considerazione solo nella misura in cui la grazia rappresenta semplicemente qui l’effetto ed il senso particolare dell’azione divina16.

Anche Bonaventura si pone nella medesima linea; anch’egli ha trattato della predestinazione unicamente dal punto di vista dell’onnipotente e libera volontà divina: «la volontà di Dio è infatti la causa prima e somma di tutte le speci e di tutte le mozioni; nulla di visibile o di invisibile avviene in codesta amplissima repubblica (per così dire) di tutte le creature che non sia comandato o permesso in quell’aula imperiale del somma reggitore»; il governo di Dio nella sua universalità è il quadro principale in cui s’inserisce, in seguito, la predestinazione: «la volontà divina ha infatti somma efficacia: nessuno, in nessun modo, può compiere qualche cosa se essa non vi coopera e non si pone come causa efficiente; nessuno può mancare o peccare, se essa, secondo giustizia, non lo abbandona»17. Anche Zwingli formula il medesimo ragionamento: «dalla provvidenza della predestinazione deriva l’intera azione concernente il libero arbitrio ed il merito»; «la provvidenza della predestinazione è come un genitore»; «la predestinazione (che altro non è se non una preordinazione, come tu dici) nasce dalla provvidenza, anzi è essa stessa provvidenza»18. Calvino invece, siamo giusti con lui, ha nettamente rotto con questa tradizione, almeno su un piano metodologico; ha infatti trattato della provvidenza in relazione diretta con la dottrina della creazione19 ed ha abbordato il problema della predestinazione come punto culminante della comunicazione di grazia divina, rivelata e manifestatasi efficace in Gesù Cristo20. Certo le sue argomentazioni e gli sviluppi dettagliati che offre su questo punto ci obbligano costantemente a chiederci se egli applichi veramente il metodo indicato da questa separazione o se talune idee capitali che dominano la sua esposizione non provengano, ancora una volta, da una concezione preconcetta e generale del modo con cui Dio esercita la sua volontà e la sua onnipotenza in seno all’universo. Ed inversamente bisogna ugualmente domandarci se, nella prima parte dell’Institution, dove si tratta della creazione e della provvidenza, la dottrina della predestinazione, in senso stretto, non si trovi già messa in risalto, sebbene in maniera tutta differente. In ogni caso, Calvino stesso non pare aver pensato che la predestinazione debba essere non subordinata, bensì sopraordinata alla provvidenza, anche se, ed è elemento che deve essere rilevato, non ha esitato a parlare della predestinazione prima di quest’ultima, nella seconda edizione dell’Institution21, come ha ben notato Heinz Otten22. Non ci si deve quindi stupire se l’ortodossia protestante, anche là dove

pretendeva seguire Calvino in maniera assolutamente fedele, sia pervenuta a subordinare di nuovo in maniera molto netta la dottrina della predestinazione a quella della provvidenza. È vero che per molti autori la dottrina della predestinazione si pone ormai immediatamente subito dopo quella di Dio e costituisce, fino ad un certo punto, il punto culminante di tutto il sistema dommatico. Maguardando più da vicino (ad esempio in Polanus e Wolleb23) si vede subito che la provvidenza generale, sebbene debba essere esposta e menzionata come tale solo più tardi, è già presupposta concretamente dall’espressione «decreto generale», fornendo così lo schema necessario alla comprensione della predestinazione. Polanus ha anche, quasi testualmente, la famosa tesi tomista: «la predestinazione è parte della provvidenza»; d’altronde questo autore mostra chiaramente l’intenzione di voler sviluppare la nozione di predestinazione in maniera che la dottrina da essa derivante sia quella del governo universale di Dio nel suo insieme, ivi compresa l’azione particolare mediante la quale Dio fissa la sorte degli eletti e dei riprovati24. Anche il sopralapsario Fr. Gomarus spiega che esiste una «predestinazione universale, che riguarda ogni cosa e che si riassume nella globalità del decreto divino» ed una «predestinazione particolare, che concerne solo alcune cose ed esiste come parte di quel decreto eterno ed universale»; per lui, il termine praedestinare (il προορίζειν di Rom. VIII, 29 ed Ef. I, 5) non ha il senso particolare di eligere, ma solo l’accezione tutta astratta di decernere25. È in questa maniera che nella dottrina della predestinazione è stato introdotto il concetto generale dell’assoluta, libera ed universale sovranità divina e che tale concetto vi ha preso un posto dominante. E bisogna dire che non ci si allontana, almeno in principio, da quest’ottica anche là dove si adotta la prospettiva infralapsaria, come nella Sinossi di Leiden del 1624, trattando la dottrina della predestinazione relativamente assai più tardi, con l’unica intenzione, a quanto sembra, di mostrare che essa è il fondamento dell’opera riconciliatrice di Gesù Cristo. Prova ne sia questa affermazione esemplare: «questo termine di predestinazione si assume o in generale, riferito alle azioni della divina provvidenza, nel bene come nel male oppure (in particolare), riferito alla destinazione degli uomini verso un preciso e soprannaturale fine»26. Questo punto di vista caratterizza pure l’esposizione ed il metodo usati da L. Boettner, ultimo in data fra i difensori dell’antica dottrina calvinista della predestinazione: senza neppure chiedersi se potrebbe essere altrimenti, quest’autore inizia la sua esposizione affermando che la dottrina in questione

è semplicemente l’esposizione del disegno assoluto ed incondizionabile della volontà divina, completamente indipendente dalla creazione ed unicamente motivato dal decreto eterno di Dio; tutto quanto è al di fuori dì Dio è motivato da tale decreto; tutti gli esseri devono la loro esistenza e la loro sussistenza alla sola volontà ed alla sola potenza divina27 Esistono unicamente per permettere a Dio di manifestare la sua gloria, in un modo o in un altro e la dottrina della predestinazione non è che l’applicazione di questa verità al problema della salvezza dell’uomo»28. Creando il mondo, Dio aveva un suo piano, come «ogni uomo ragionevole ed intelligente», come Napoleone prima della campagna di Russia (!); mette in esecuzione tale piano; ammettere questo significa ammettere la predestinazione e riconoscere che Dio crea ogni cosa, dalla più piccola alla più grande conformemente a simile piano, significa aderire alla corretta dottrina della predestinazione, cioè alla dottrina calvinista. La predestinazione, per parlare più esattamente, è la scelta del piano che Dio eseguirà in maniera totale ed irrevocabile e la storia universale nella sua globalità altro non è che l’esecuzione di questo piano»29. «Vi è forse conforto più grande e gioia più perfetta per il credente che sapere, di scienza certa, che il corso delle cose è completamente orientato verso l’avvento del regno dei cieli e verso la rivelazione della gloria di Dio e che egli stesso è uno degli oggetti dell’amore infinito e della grazia sovrabbondante?»30. Concordiamo con tutti quelli che pensano che la nostra vita sia diretta, afferma ancora Boettner; infatti non ci è stato chiesto se volevamo nascere oppure no, non siamo stati consultati per fissare luogo ed epoca della nostra nascita, né per decidere quello che un giorno siamo diventati, non è mai dipeso da noi insomma di vivere nel secolo xx oppure prima del diluvio, in America oppure in Cina, come bianchi o come neri; riconoscendo questa evidenza, riconosciamo, come cristiani, che Dio regge e determina il nostro destino, così come governa ogni altra cosa e perseverando in tale certezza, accettiamo precisamente il punto di vista calvinista31. È conforme alla sovranità divina che Dio possa fare tutto quanto corrisponde alla sua natura; di conseguenza può trattare e di fatto tratta la sua creatura come bene suo e l’uomo stesso, secondo il suo beneplacito; tutto quanto siamo o non siamo, possediamo o non possediamo, diventeremo o non diventeremo dipende esclusivamente da Dio32. Tutto quanto ci capita, come tutto quanto capita nel mondo intero, è orientato precisamente verso quel fine che Dio si è autoproposto e che, di conseguenza, ha fissato per tutte le cose:

«ogni goccia di pioggia ed ogni boccolo di neve che cadono dalle nubi, ogni insetto che muove ed ogni albero che nasce, come anche ogni più piccolo granello di polvere che flotta nell’aria hanno la loro causa ed il loro effetto ben precisi; sono tutti, ciascuno al proprio posto, anelli della catena degli avvenimenti universali. Non sono forse le cose apparentemente più insignificanti ad aver sovente deciso nel corso della storia?»33. Resta inteso che Dio tratta ogni essere conformemente alla sua natura e, così facendo, lo tratta sempre secondo la sua più autentica volontà34. E se si pensa che Dio sa anche infallibilmente, prima di ogni altra cosa, quanto ha predeterminato e che di conseguenza, inevitabilmente, sarà compiuto in seguito, la conclusione che si impone inequivocabilmente è: tutto quanto accade, accade esattamente come Dio lo ha prescritto35. Su questa base Boettner espone la dottrina della predestinazione! Che su questo punto fosse discepolo di Calvino, ecco quanto non aveva certo il diritto di credere, poiché almeno il contesto in cui si pone la dottrina calviniana della predestinazione indica chiaramente una ben diversa direzione. Tutto quanto si può dire è che L. Boettner, disgraziatamente, ha restaurato, con grande fedeltà, la metodologia riformata classica, così come la espone un Gomarus, rimettendo così parimenti in onore la metodologia di un Tommaso d’Aquino. Beninteso: non si deve certo revocare in dubbio tutta la serie di affermazioni relative alla libertà ed all’onnipotenza di Dio, come anche quelle inerenti alla sovranità della sua azione ed alla sua volontà. Sebbene superficiali, le proposizioni di Boettner restano oggettivamente corrette e buone, nel senso almeno di esprimere quanto deve in ogni caso ugualmente essere detto, a proposito della maniera sovrana ed irresistibile con cui Dio governa l’universo. Tuttavia in lui si cercherà invano una risposta a queste due questioni, 1) Innanzitutto in forza di che cosa ed in rapporto a che può parlare come parla?; in che cosa le sue tesi si possono distinguere da quelle che un ebreo, un maomettano, uno stoico potrebbe ben enunciare?; è consentito vedere nella grazia di Dio soltanto una nozione che permette di definire il governo divino universale, attribuendole, come fa Boettner, il ruolo provvisorio e subordinato di una attività divina fra le altre?; e se questo è il caso, siamo ancora sul terreno della fede cristiana? 2) In secondo luogo quale relazione vi è fra tutte queste affermazioni e la predestinazione?; si può considerare la predestinazione semplicemente come un campo di applicazione particolare della volontà sovrana e generale di Dio?; è sufficiente quindi far derivare, come se si trattasse di un caso di una specie, la dottrina della

predestinazione da una dottrina generale della provvidenza, ancora mal definita da un punto di vista cristiano e cioè verosimilmente ancora incompleta?; nel momento in cui Dio elegge (azione che Dio ci autoattesta e che la Scrittura testimonia) aggiunge forse qualcosa a quanto vuole ed a quanto opera?; nella dottrina della predestinazione non ci troviamo invece forse all’origine di tutte le vie e di tutte le opere di Dio, cosicché necessariamente dobbiamo comprendere l’elezione come il punto di partenza che solo permetterà di riconoscere la provvidenza divina in tutta la sua realtà? Dobbiamo costatarlo ancora una volta: nel quadro della dottrina riformata classica si è adottata un’ipotesi di lavoro che è lungi dall’essere così sicura come si pensa; si è passato dal generale al particolare senza transizione, come sembrano esigere le regole della logica formale; non ci si è chiesti se la logica che ci si lasciava così dettare corrispondeva realmente alla logica particolare della materia in questione. Ci ricordiamo che per definire l’oggetto dell’elezione si era creduto opportuno seguire le regole dell’esperienza; anche qui, per definire il nostro argomento si crede necessario adottare un modo di pensare ordinato secondo una certa necessità logica; queste due metodologie sono arbitrarie ed inadeguate. Ed è per questa ragione che dovremo riprendere qui di seguito alcune verità che, troppo facilmente, sono state classificate come evidenti. Anche in questo campo dovremo cominciare da un punto particolare. Abbiamo già visto che fondare la dottrina della predestinazione su fatti di esperienza significa definirla astrattamente, in funzione dell’uomo eletto; dobbiamo costatare adesso un errore parallelo; infatti voler fondare la dottrina della predestinazione su una necessità logica (cioè sull’idea che le cose particolari, peculiarmente la salvezza o la perdizione dell’uomo, altro non sono che il campo di applicazione speciale della volontà divina onnipotente e libera, che agisce in generale e nell’universo intero) significa definirla ugualmente in maniera astratta, sebbene, questa volta, in funzione del Dioche-elegge. Nel primo caso si considera l’uomo in generale e si cerca in seguito di spiegare la diversità fenomenologica degli individui per il fatto che questi ultimi sono eletti o riprovati; inversamente, nel secondo caso, è Dio ad essere considerato in generale; lo si definisce infatti come l’essere unico, il «sommo imperatore» che dirige ogni cosa, senza eccezione e se ne traggono le conseguenze: poiché tutto dipende dalla libera potenza divina, spetta parimenti a Dio di eleggere l’uomo e di condurlo a salvezza oppure di riprovarlo e di provocarne la perdizione.

«Nelle definizioni generali vi è sempre pericolo»: abbiamo dovuto rammentare questa massima a proposito della prima deviazione e dobbiamo ricordarla anche per la seconda; dopo aver messo in questione il carattere generale della nozione di umanità presupposta dai teologi dell’esperienza, dobbiamo contestare ora a quanti ragionano con l’idea di onnipotenza, il diritto di partire da una nozione generale di Dio stesso. La nostra prima interrogazione è la seguente: chi mai ci autorizza ad orientarci sull’elezione, immediatamente, conformemente al significato dell’autorivelazione divina e dell’attestazione scritturistica, fondandoci su una pretesa qualità delle relazioni private intercorrenti fra Dio e l’uomo? E la seconda: chi mai ci autorizza ad interpretare, senza transizione, questa elezione come l’atto di un Dio definito con la sola nozione della sua sovranità? Avanzando in queste due direzioni non ci si inganna forse, fin dall’inizio e nel medesimo modo sull’idea che è necessario farsi sull’uomo-eletto da un lato e sul concetto con cui si deve definire il Dioche-elegge dall’altro, nel quadro di una dottrina cristiana dell’elezione, che sia valida per una dommatica ecclesiastica? E che dire se, come si è visto sovente nella storia, questi due errori entrano, per così dire, in concorrenza, se in altri termini, diventa impossibile, nei due casi, utilizzare l’idea giusta per correggere il concetto erroneo oppure il concetto giusto per correggere l’idea erronea? Che dire cioè se i due errori in questione si rincorrono vicendevolmente, perché in definitiva, nascono entrambi da un unico e medesimo errore di base? È così sorprendente che la dottrina della predestinazione sia diventata (lo testimonia lo stesso Calvino36) una specie di «labirinto», in cui solamente qualche privilegiato può eventualmente ritrovarsi fino ad un certo punto, mentre un gran numero di spiriti, persino quelli più intelligenti ed eminenti, ha sempre preferito restarsene lontano, tralasciando inoltre la grande maggioranza degli uomini, sia quelli del mondo che quelli di chiesa? Come stupirsi, in queste condizioni, che questa dottrina non sia più stata capace di rischiarare, come pure può e deve fare, quando è fondata su una giusta concezione dell’uomo e su una corretta nozione di Dio? Abbiamo veramente bisogno di esercitare a questo riguardo tutto il nostro senso critico.

Il soggetto dell’elezione, il Dio-che-elegge, non è affatto il reggitore assoluto dell’universo (è quanto apprendiamo allorquando accettiamo che la nostra nozione di Dio sia dettata dalla autorivelazione divina attestata nella Bibbia); conseguentemente non abbiamo affatto il diritto di considerare l’elezione semplicemente come una delle funzioni del governo universale di Dio, come una delle conseguenze e come uno dei campi di applicazione di qualche principio fondamentale; il soggetto dell’elezione, di questa elezione (cioè il soggetto cui deve confrontarsi la dottrina cristiana dell’elezione) non è assolutamente un Dio-in-generale, così come è possibile immaginarlo e costruirlo sistematicamente partendo dalle idee di sovranità e di onnipotenza, di causa prima e di necessità suprema o altre simili. Cercare di costruire un Dio simile, un Dio-in-generale, è sempre frutto di un pensiero non impegnato e su questa strada, malgrado tutte le proteste teoriche contro la «potenza assoluta» di Dio, si perviene regolarmente a considerare Dio come un esserenon-impegnato, astrattamente libero. Ci si può ben sforzare di completare la nozione di libertà con quella di amore; non cambierà nulla, se non si è capito, fin dall’inizio, che la libertà e l’amore peculiari al vero Dio sono totalmente estranei a quanto si chiama assoluto in senso astratto o nuda sovranità; se in una parola non si è compreso che Dio si è determinato e legato nel suo amore

e nella sua libertà in maniera da esserelui stesso particolare e non generale, e ad essere così il Dio sovrano ed onnipotente, detentore di tutte le altre sue perfezioni. Il Dio reale (reale nel senso della sua autorivelazione attestata nella Bibbia) che è l’oggetto di una riflessione impegnata, cioè correttamente legata all’autorivelazione divina, è senza dubbio il Signore ed il Padrone di ogni cosa e di tutti gli avvenimenti, a qualunque livello. Nulla agisce, né ha senso al di fuori di lui e senza la sua volontà. Anzi nulla esiste se prima non è stato deciso da lui. Non ne consegue però che sia sufficiente aver pensato un essere supremo di simile natura, per essersi messi in rapporto con lui; una tale nozione, assunta in se stessa, potrebbe riferirsi benissimo ad un non-dio, ad un idolo, opposto a Dio; anzi è proprio così. Non possiamo infatti pensare il vero Dio, il Dio reale, se non lo percepiamo nella sua sovranità, nel suo essere di Signore e di Sovrano, così come si è determinato e legato lui stesso, liberamente ed antecedentemente e non posteriormente, come se si fosse dovuto accomodare al mondo. Se infatti è presente ed agisce nel mondo, è in funzione di una determinazione e di un legame che appartengono alla sua stessa essenza eterna, derivando dal suo consiglio e dalla sua volontà. Dio regna; non è tuttavia questo che lo qualifica come sovrano divino; poiché anche gli dei e gli idoli possono regnare. Non è il Dio sovrano perché detentore di un potere infinito e reggitore di un dominio infinito; il suo regno non ha questo carattere, poiché il potere infinito esteso ad un dominio infinito specifica il regno di tutte le forze non divine ed antidivine; Dio regna invece esercitando un potere determinato in un campo ugualmente determinato. Ciò che lo qualifica come sovrano divino è precisamente il fatto che il suo regno è determinato e legato: determinato da lui e legato a lui, il Signore, veramente determinato e legato. Non certo perché l’arbitrio costituisca alla fin fine la sua natura divina ed il principio della sua regalità, ma perché si è concretamente legato e determinato da se stesso, in maniera veramente legale e non a guisa di tiranno. Non ci si attenderà quindi da lui una qualsiasi decisione ma, unicamente ed in ogni caso, le decisioni che riposano su questa determinazione e su questa relazione, ambedue concrete, cioè sulla decisione originaria, intervenuta nel seno stesso dell’essenza divina. È sempre nellalinea di questa decisione originaria, non a destra, non a sinistra o in qualche campo indefinito che dovremo cercare le decisioni divine nei nostri confronti. Quando invece si crede di poter partire senz’altro da una qualche potenza divina che s’esercita su ogni cosa, subordinandole direttamente l’elezione, considerata come caso particolare di una regola

generale, ci si espone ad un duplice pericolo che è difficile evitare: 1) si rischia di perdere completamente di vista la decisione originale, identica al fondamento dell’elezione e conseguentemente di non considerare più l’essenza di Dio in funzione della determinazione e della relazione che la definiscono; 2) si rischia in seguito di cercare le altre decisioni divine al di fuori della linea indicata da questa decisione originaria. Conseguentemente non si riuscirà più a parlare del governo universale di Dio e degli effetti della sua provvidenza, se non presentandoli finalmente e concretamente come una conseguenza ed un complesso di azioni rilevanti da qualche arbitrio assoluto ed alcuni non tarderanno a catalogare la stessa predestinazione in quest’oscura categoria dell’arbitrarietà. Tutto indica invece che occorre cominciare a concepire la divinità e a contemplarla come autodeterminatasi ed autolegatasi, proprio partendo dalla nozione di predestinazione (si percepisce così la divinità reale di Dio), per cercare in seguito, partendo da tale conoscenza e contemplazione, in quale misura questo Dio reale è anche, in quanto tale, il Padrone reale dell’universo, il Sovrano onnipotente che regna sulle grandi e sulle piccole cose e conseguentemente, in quale misura è anche realmente il Dio-ingenerale. È precisamente perché Dio è tutto questo, ed intende essere riconosciuto ed onorato come tale ed è precisamente perché sia tutto questo veramente, che non ci è permesso, allorché tentiamo di definire il soggetto dell’elezione, di partire dall’idea che esiste un sovrano universale. Per prima cosa dobbiamo infatti sapere chi è questo reggitore, ciò che vuole, ciò che fa regnando. Queste indicazioni concrete, le troviamo solo nella nozione di elezione; è infatti nell’elezione che Dio è e si rivela come è; è nell’elezione che ci dice ciò che è, in opposizione a tutti gli dei e agli idoli tutti. Dovremo quindi cercare il fondamento dell’elezione là dove effettivamente si trova e non, per via deduttiva, trarlo da un qualche principio superiore; dobbiamo fissarci su questa azione specifica di Dio e non su un qualsivoglia fenomeno che, in una maniera o in un’altra, rileva anch’esso dall’attività divina; è in questa prospettiva che diventeranno manifeste e comprensibili anche tutte le altre forme dell’azione divina: la provvidenza ed il governo universale certo, ma anche la stessa creazione. Questa indispensabile messa a punto è inseparabile da quanto si è detto antecedentemente (al numero 3). La dottrina della predestinazione si rapporta a Dio e all’uomo preso nella sua specificità; tratta infatti di quelle relazioni peculiari in cui Dio è il vero Dio e l’uomo il vero uomo; ma precisamente, in essa il peculiare si riferisce al generale e lo include. L’elezione infatti concerne,

alla fin fine, tutta l’umanità e conseguentemente ogni uomo, preso singolarmente; tuttavia è perché, concretamente parlando, essa riguarda in primo luogo ed in maniera esclusiva un solo individuo (e solo dopo membri precisi del popolo che gli appartiene, che ha chiamato e che ha riunito, popolo che, intrinsecamente, non si identifica semplicemente con l’umanità, né con una semplice pluralità di individui). Parimenti l’elezione implica certo la sovranità divina su ogni cosa, l’onnipotenza universale; tuttavia perché, concretamente parlando, in essa si ha a che fare innanzitutto con l’essere e l’agire di Dio nei confronti di questo individuo determinato e del popolo che egli rappresenta. L’elezione mette in evidenza il comportamento particolare in cui Dio prende la decisione originaria che, in seguito, costituisce essa stessa la legge fondamentale della sua signoria e della sua sovranità. La dottrina dell’elezione è dunque correttamente fondata e motivata a condizione di non essere incentrata su una generalità, sia per quanto concerne l’uomo-eletto che per quanto riguarda il Dio-che-elegge; di non far pernio cioè su un’astrazione umana o divina; bensì su una particolarità, sul fatto concreto del vero Dio e del vero uomo, in modo che, partendo da questo punto, sia possibile comprendere ciò che si deve comprendere di Dio e dell’uomo in generale. Partendo da questo punto. Mai deve essere il contrario! C. L’ORIGINE DELLA DOTTRINA DELLA PREDESTINAZIONE 1. Dio soggetto e l’uomo oggetto dell’elezione. A questo punto possiamo cercare di dare una risposta positiva alla questione relativa all’origine della dottrina dell’elezione. Le risposte menzionate finora e scartate devono essere prese sul serio, perché contengono importanti elementi di verità; incontestabilmente parlare dell’elezione significa parlare, in un modo o nell’altro, del motivo che è alla base di ogni relazione fra Dio e l’uomo, fra Dio che si volge dal suo interno verso l’uomo e quest’uomo determinato, prima di ogni altra cosa, proprio da questo avvenimento; Dio è Dio precisamente perché decide di creare questa relazione, determinando innanzitutto se stesso ed in seguito determinando ugualmente l’essere dell’uomo. In una sola parola: Dio è Dio nel quadro di questa relazione primaria ed originaria, decisa e stabilita in se medesimo e che, per questa ragione, appartiene essenzialmente alla dottrina di Dio. La dottrina di Dio sarebbe incompleta se non ne tenesse conto e non si allargasse di conseguenza; se, in altri termini, non inglobasse la decisione divina che precede ogni azione divina estrinseca, che caratterizza questa azione, da cui questa azione divina procede; decisione questa, mediante la quale Dio si è consegnato ad un altro, all’uomo, sua creatura ed in forza

della quale è Dio, precisamente. Le due soluzioni che abbiamo esaminato da ultimo, a proposito del fondamento della dottrina della elezione, se si fa astrazione dalla strada erronea da esse imboccata, hanno una qualità: rendono infatti attenti al problema stesso che pone questa dottrina. Questo problema è quello di Dio, in quanto soggetto e dell’uomo, in quanto oggetto dell’elezione. In questo esse tradiscono un fatto essenziale, quello cioè di procedere anch’esse, sia pure a modo loro, dalla verità che si manifesta qui fondamentale e determinante e di essere state date, a loro maniera, nel quadro della chiesa cristiana. Se abbiamo dovuto scartarle, tenendo conto della forma scorretta che esse hanno come risposta fondamentale alla dottrina in questione, possiamo tuttavia affidarci al loro contenuto, nella misura in cui esso rinvia ai due poli del problema dell’elezione, cioè Dio da un lato e l’uomo dall’altro. Sono erronee perché pretendono definire questi due poli non secondo la loro specificità propria ma, in modo prematuro, minaccioso per la purezza della dottrina cristiana, secondo una concezione generale dell’uomo ed una nozione astratta di Dio. È a questo punto che dobbiamo entrare in lizza, cercando di lasciarci istruire dall’autorivelazione divina attestata nella Scrittura. 2. Dio soggetto dell’elezione. Quando la Sacra Scrittura parla di Dio, non ci autorizza certo a lasciar vagabondare il nostro sguardo ed i nostri pensieri a casaccio, come se fosse sufficiente salire molto in alto o scavare molto in profondità per costatare, non importa dove e non importa come, l’esistenza di un essere supremo, che si suppone possegga la sovranità perfetta come pure tutte le altre perfezioni e come se tale essere supremo fosse senz’altro il Signore, il Legislatore, il Giudice, il Salvatore dell’uomo e degli uomini in generale. No. Quando la Bibbia ci parla di Dio, concentra i nostri sguardi ed i nostri pensieri su un solo punto e su quanto deve essere riconosciuto proprio là. Ciò che deve essere riconosciuto in questo punto preciso è semplicemente qualcuno: colui che ha interpellato i patriarchi e Mosè, i profeti e gli apostoli, alla prima persona del singolare e che, in questo «io» che non appartiene se non a lui, esiste e possiede la sovranità e tutte le altre perfezioni: tale egli è, tale si è rivelato, tale intende essere riconosciuto, adorato e rispettato. Egli crea con la sua parola il popolo d’Israele che separa da tutti gli altri popoli e poi la chiesa, formata da giudei e da pagani. Il suo regno è il volere e l’azione che dispiega in seno a questo popolo che prima chiama Israele e poi chiesa. Signore e Pastore di questo popolo, Dio è certamente anche il Reggitore del mondo ed il Signore di tutti gli avvenimenti, grandi o piccoli che siano; tuttavia la sua sovranità universale altro non è se non il prolungamento, la

conseguenza, l’applicazione e lo svolgimento di questa sovranità particolare in un quadro ben specifico; l’attività generale che sviluppa è in funzione di questa attività particolare, e inversamente ed è attraverso questa attività particolare, in essa e con essa, che si manifesta la sua attività universale. Tale è l’essere di Dio, secondo la sua autorivelazione. Vediamo ora le cose più da vicino e domandiamoci: chi è dunque colui che si tratta di riconoscere come Dio in questo punto unico, su cui la Scrittura concentra i nostri sguardi ed i nostri pensieri?; qual è il suo nome?; chi è dunque il Dio di cui ci è detto che governa e dirige il suo popolo come un pastore, per creare, mantenere e condurre il mondo intero, a causa di questo popolo, secondo il beneplacito della sua volontà, beneplacito rivolto verso di esso? In altre parole: se ci sforziamodi sapere qual è esattamente il punto che l’occhio può e deve fissare ed a cui il pensiero può e deve attaccarsi secondo la Bibbia, la risposta non può essere equivoca: dall’inizio alla fine, la Scrittura ci rinvia al nome di Gesù Cristo. In Gesù Cristo infatti la decisione divina in favore d’Israele, l’atto per mezzo del quale Dio si autodetermina per essere il Signore ed il Pastore di questo popolo, che diventa così «il popolo dei suoi pascoli ed il gregge che la sua mano conduce», questo atto è diventato un avvenimento della storia umana. È per questo che in esso si può riconoscere la sostanza di tutta quanta la storia d’Israele e nel contempo la speranza di tutta quanta la storia della chiesa. Un avvenimento che accade qui ed ora: Dio stesso, con il nome di Gesù Cristo, è divenuto uomo, quest’uomo, il rappresentante del popolo di coloro che avanzano verso di lui, poiché procedono da lui. Con questo nome, Dio ha realizzato nel tempo (in modo che ci fosse permesso conoscerlo) il suo disegno di alleanza stabilito da tutta l’eternità. È diventato vero che Dio stesso, sotto il nome di Gesù Cristo, possiede un popolo come possiede se medesimo, vero che Dio resta fedele a questo popolo come a se stesso, vero che non l’ama meno di quanto non ami se medesimo nel suo Figlio, compiendo così sulla terra, come già è compiuta nei cieli, la sua volontà, conformemente al suo disegno eterno, che ingloba tutti gli avvenimenti temporali. È accaduto che Dio, in Gesù Cristo, ha stabilito e mobilitato il popolo legato a questo nome, per farlo luce delle nazioni, speranza, promessa, invito ed appello per tutti i popoli ed anche, naturalmente, una questione, un’esigenza, un giudizio che concerne tutta l’umanità ed ogni individuo in particolare. In questo avvenimento, è la volontà di Dio ad essersi compiuta; è quindi in questo avvenimento specifico che dobbiamo riconoscere concretamente, secondo l’autorivelazione divina

attestata nella Scrittura, il beneplacito della volontà di Dio e, di conseguenza, l’essenza stessa di Dio, come pure il significato della sua opera di Creatore e di Signore sovrano dell’universo; non esiste nessuna profondità dell’essenza e dell’azione divina al di là di ciò che è divenuto manifesto in questo avvenimento, cioè nel nome di Gesù Cristo, poiché qui, e solo qui, Dio si è rivelato. In effetti, colui che porta questo nome, secondo la Scrittura, è colui che nel suo «io» riuniscee definisce ogni sovranità ed ogni perfezione; i nostri occhi vedono Dio ed i nostri pensieri si fissano su di lui nel momento in cui il loro oggetto diventa il portatore di questo nome; nel momento in cui si fissano su Gesù Cristo. Parlare di Gesù Cristo significa parlare del Dio-che-elegge. L’elezione infatti è, senza possibile contesto, la prima cosa, la cosa fondamentale e decisiva che conviene affermare a proposito dell’essere rivelato di Dio, della sua azione, della sua presenza nel mondo e, di conseguenza, del suo disegno eterno così come si manifesta quaggiù, in una sola parola, della sua autodeterminazione. Quest’ultima, in quanto conferma il libero amore identico a Dio stesso, è già anch’essa una scelta divina. Dio sceglie, allorché intende essere un Dio in questa maniera e non in un’altra; è in forza della sua scelta che si volge verso l’uomo per essere e diventare il suo alleato; opera una scelta dando, sotto il nome di Gesù Cristo, una sostanza alla storia del suo popolo che così chiama alla vita, diventando Signore e Pastore proprio di questo popolo. Lo stesso accade quando opera una volta per tutte, in tale maniera, nella storia d’Israele, per essere ed offrire il senso ed il contenuto all’insieme del tempo creato. Lo stesso avviene infine, quando stabilisce e mobilita questo popolo, corpo particolare di quella testa che è il Cristo, affinché sia segno di benedizione e di giudizio, strumento di amore, sacramento della sua condiscendenza verso l’umanità in generale e verso ogni essere umano in particolare, di modo che tutto quanto Dio compie in ogni tempo, in Israele, rileva da questo disegno. È nella semplicità stessa della sua azione (e quindi della sua volontà e dunque alla fin fine della sua essenza autodeterminata) che Dio è il Dio-che-elegge; lo è in quel punto unico verso cui la Bibbia dirige i nostri sguardi ed i nostri pensieri; lo è perché è il Signore ed il Pastore del suo popolo; lo è in Gesù Cristo, suo unico Figlio, cioè in se stesso da tutta eternità. Se vogliamo sapere chi è Dio ed in che cosa consiste la sua elezione o in quale misura egli sia il Dio-che-elegge, dobbiamo, tralasciando ogni altra preoccupazione, guardare e pensare esclusivamente il nome di Gesù Cristo e la esistenza storica del popolo determinato da questo

nome. Il mistero di Dio, che deve ritenere tutta la nostra attenzione, è proprio questonome e la storia che determina: Gesù Cristo il capo, ed Israele, corpo terrestre di questa testa celeste. 3. L’uomo oggetto dell’elezione. Al modo con cui la Scrittura parla di Dio corrisponde esattamente quello con cui parla dell’uomo. Anche qui non ci è consentito lasciar vagare il nostro sguardo o il nostro pensiero in una qualsiasi direzione, poiché mai troviamo nella Bibbia una nozione astratta di uomo; d’altronde non vi si parla mai neppure del genere umano nella sua globalità; né d’altra parte dell’esistenza e del destino dell’individuo in se stesso. Certo, la Bibbia si apre parlandoci di Adamo, l’antenato ed il rappresentante dell’umanità tutta intera; ma il seguito della narrazione mostra subito che gli autori biblici non hanno affatto l’intenzione di redigere una storia universale e neppure di abbordare i problemi che quest’ultima pone; partendo da Adamo, pur gettando un breve colpo d’occhio sulla moltiplicazione e sull’estensione del resto dell’umanità, subito giunge a Noè, poi ad Abramo ed infine a Giacobbe-Israele. In maniera estremamente netta, il cammino si restringe ed ancora una volta è in un quadro particolare che si svolgono i fatti che la Bibbia ci riferisce a proposito dell’uomo ed a causa dei quali essa si interessa all’uomo, intendendo interessarvi anche noi; gli individui che essa menziona sono importanti non in quanto esempi della molteplicità e dell’estensione del genere umano, non in quanto per loro mezzo l’umanità continuerà il suo cammino, ma proprio perché, all’interno di questa storia, essi costituiscono ciascuno, in quanto figlio o discendente del padre rispettivo, un caso esemplare e perché sarà ugualmente così per la loro discendenza; tutto il dinamismo della propagazione dell’umanità ha alla fine un solo significato, deve cioè servire concretamente a permettere, per ogni epoca, l’esistenza di un caso esemplare. Così la storia di Adamo tende nella sua globalità verso un fine ben preciso: l’esistenza dell’uomo particolare Giacobbe-Israele, l’antenato delle dodici tribù del popolo eletto; è in funzione di questo avvenire specifico e ben definito che essa possiede il suo senso e la sua necessità, di modo che, quando la si considera retrospettivamente, Adamo è importante in definitiva non perché è l’antenato dell’umanità, ma perché è il primo individuo esemplare nella serie di individui particolari di cui parla la Bibbia e perché la sua esistenza deve singolarmente permettere l’esistenza di Giacobbe-Israele. Ecco perché per la Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, Adamo è precisamente l’uomo. Si deve costatare che l’esemplarità non si forma a Giacobbe-Israele ed alla

sua discendenza. Sarebbe falso pensare che, partendo da questo momento, esistesse ormai, sotto la forma del popolo che porta il nome d’Israele, una specie di umanità in piccolo, all’interno della grande massa, una razza speciale che, in se stessa ed in tutti i suoi membri presi isolatamente, costituisse in un qualche modo la particolarità verso cui tende l’esistenza dell’umanità. Che succede dunque partendo da Giacobbe-Israele (o meglio dalla linea AbramoIsacco-giacobbe) o meglio qual è il risultato visibile di questa esemplarità? Risposta: l’esistenza di un popolo particolare come tale. È ormai chiaro che ciascuno dei casi esemplari di cui si tratta non ha senso, se non riferito ad un tutto; in altri termini: la discriminazione operata fin dall’inizio concerne non questo o quell’altro individuo come tale, ma, in ciascuno di essi, una pluralità ben determinata; è manifesto che in questa scelta si tratta e si tratterà sempre di un legame interno e necessario, di una parentela evidente, di un’unità esistente fra un grande numero di uomini e tutto questo, sempre in seno ad un popolo. Occorre però subito precisare: in se stesso, in quanto comunità legata dal sangue, dalla lingua e dalla storia, il popolo d’Israele è sempre e solo il segno di questa pluralità particolare, esistente all’interno della specie umana; è ben lungi, come popolo, dal rappresentare simile manifestazione; poiché, ancora una volta, la linea discriminante passa nel suo mezzo. Generazioni intere e grandi frazioni di questo popolo sono messe in disparte (come prefigura l’eliminazione d’Ismaele e di Esaù o come indica così chiaramente l’istituzione del segno della circoncisione). Il resto promesso agli antenati diventa ogni giorno più piccolo: sembra anzi che proprio quivi sia operante un formidabile annullamento della discriminazione operata in altri tempi ed iniziata già con Adamo. Certo questo popolo continua a vivere, ma unicamente e sempre come segno del popolo che è chiamato ad essere; il senso specifico della sua storia assomiglia sempre di più a quello che caratterizzava la storia della moltiplicazione e dell’estensione umana da Adamo ai patriarchi: Israele esiste come popolo innanzitutto perché, come l’umanità di allora, deve preparare e permettere l’esistenza di un caso esemplare; vive cioè in funzione di un individuo determinato che deve venire. Chi è questo individuo? Fermandoci semplicemente all’Antico Testamento come documento storico, si dovrà incontestabilmente rispondere: si tratta del re Davide, poiché sotto il suo regno prestigioso e giusto la promessa secondo cui i discendenti di Giacobbe avrebbero posseduto il paese di Canaan, sembra essersi realizzata in maniera perfetta, insuperabile nel seguito, se si comprendono le cose letteralmente.

Israele si trova al termine della sua lunga storia per il fatto di aver prodotto questo individuo unico e averlo ricevuto come re. È in funzione di questo re, per diventare il suo popolo ed essergli sottomesso, che ha vissuto tutto questo secondo periodo di cui parla l’Antico Testamento. È in vista di questo re che questo popolo è stato formato, come testimonia la prima parte della sua storia, o meglio in vista del popolo che, in Davide, avrebbe trovato il suo re prestigioso e giusto. Ma ecco aprirsi subito un terzo periodo. Va da Davide all’esilio e lo caratterizza la messa in questione dell’esistenza storica d’Israele come tale; già sufficientemente annunciata nelle peripezie dell’esodo e nella conquista di Canaan, prefigurata come a suo punto culminante nel rigetto di Saul, tale messa in questione diventa il tema stesso della storia di questo popolo e di quanto ci è raccontato a questo proposito; diventa ora manifesto che il compimento in Davide della promessa fatta ad Israele non è alla fin fine che una ripetizione di tale promessa e che lo stesso regno davidico altro non è che un segno. In effetti è in suo figlio che Davide pone tutta la sua speranza, come se non fosse stato lui stesso il compimento delle vie divine in Israele; e allorché questo figlio, il re Salomone, succede al padre suo, per inaugurare un regno la cui saggezza e la cui magnificenza relegano nell’ombra la persona e l’opera dello stesso Davide, quando, fra le altre cose, può finalmente questo re, condurre a termine ciò che era stato rifiutato al suo predecessore, la costruzione del Tempio di Dio, allora sembra di assistere veramente al compimento della promessa. Ma è proprio così? Certo, il fatto che questo «regno della gloria» succeda così rapidamente al «regno della grazia» mostra chiaramente che Davide aveva rappresentato il significato della storia d’Israele proprio a causa di suo figlio, che non era quindi stato un punto di arrivo; bensì solo un nuovo punto di partenza. Eppure la fine altrettanto rapida del nuovo regno indica che lo stesso Salomone, pur rappresentando la saggezza e la gloria del figlio di Davide, non poteva essere l’autentico discendente di Davide promesso ed atteso. Allora comincia infatti l’irresistibile dinamismo di decadenza, annunciato senza sosta dai profeti ed il cui compimento è, ancora una volta, l’avvento di un figlio di Davide, nella persona di Joakim o Jeconia, il penultimo re di Gerusalemme, deposto dopo tre mesi di regno da Nabuccodonosor e condotto a Babilonia. Questo personaggio è esattamente il parallelo di Davide e si veda a questo riguardo il passaggio significativo di Ger. XXII, 24-30; con lui sembra proprio che la storia d’Israele raggiunga il suo annichilimento e che la messa a parte del popolo eletto significhi in verità il

suo rifiuto; eppure nella sua funzione, questo monarca impotente, privato dei suoi domini e deportato non è meno un discendente della regalità di Davide, sebbene ne sia solo l’ombra ed a suo modo non è meno rappresentativo di Salomone stesso, il figlio di Davide promesso ed atteso. Cosicché, secondo l’interpretazione più verosimile, il servitore di Yahwé di Is. XLIX non è solamente Israele come tale, o ancora Geremia, o qualche altro profeta sconosciuto del tempo dell’esilio, o l’insieme di tutte le figure profetiche dell’Antico Testamento, ma anche, senza cessare di essere tutto quanto abbiamo detto, e nel medesimo modo, proprio questo miserabile re deposto, questo re fantasma chiamato Jeconia, di cui II Re XXV, 27 s., non tralascia di affermare che Evil-Merodac, il signore di Babilonia, lo grazia e gli parla con bontà e giunge fino a porre il suo seggio al di sopra dei seggi di tutti gli altri re che erano con lui in Babilonia, fatto questo molto significativo. Ma il figlio di Davide che, all’inizio dell’esilio, appare come il segno del popolo castigato e perduto a causa del suo peccato, non è manifestamente ancora colui che deve venire e che si attende. Comincia infatti ora un quarto periodo nella storia dell’Antico Testamento: castigato e perduto, Israele non è però abbandonato da Dio; anzi la promessa di cui è vissuto gli è rinnovata; e nella seconda parte del libro di Isaia, apre davanti a lui prospettive più vaste ancora che per l’innanzi. Il popolo esiliato può rientrare dall’esilio. Ed ancora una volta, un figlio di Davide è alla sua testa: Zorobabele, nipote di Jeconia. Certo, non ha più il titolo di re, poiché Israele cessa di essere un regno (i segni che sono stati donati non ritornano!). Tutti gli avvenimenti della storia di questo popolo si rassomigliano, ma non si ripetono. Ecco, secondo i profeti Aggeo e Zaccaria, il compito di questo nuovo Davide: dovrà ricostruire il Tempio, tuttavia «non con la forza delle armi, né con la potenza, bensì per mezzo del mio spirito, dice l’Eterno, Signore degli eserciti» (Zacc. IV, 6). D’altra parte non potrà indicare la regalità se non tenendosi a fianco del sommo sacerdote Giosuè, come significa l’immagine dei due ulivi a destra ed a sinistra del candeliere dalle sette braccia (Zacc. IV). Israele sembra essere diventato un popolo senza re. In queste condizioni è ancora un popolo? Tutto quanto gli è stato promesso, è forse diventato caduco? La questione deve porsi in realtà in maniera del tutto differente. Zorobabele, il figlio di Davide, non è forse, fra tutti quelli che sono stati dati finora nella storia di questo popolo, il segno più chiaro, essendo ormai solo più un semplice rappresentante della regalità senza potere ufficiale e stando ormai vicino al sommo sacerdote con l’unica missione, assai poco

politica, di ricostruire il Tempio?; così facendo non svolge forse una missione veramente politica nell’accezione migliore del termine?; non attesta forse giustamente ciò che Davide e Salomone dovevano attestare, ma che hanno attestato in modo assai meno chiaro, perché detentori ancora di un potere politico?; non mette forse in evidenza la verità secondo la quale gli eredi politici della dinastia davidica sono stati senza sosta rinnegati, poiché Dio stesso è (alla lettera e realmente!) il re d’Israele e poiché l’uomo, per parte sua, è chiamato semplicemente a riedificare le rovine del santuario terrestre di questo Dio? Precisamente perché non è più altro che i giudei residenti in Palestina, Israele non è forse divenuto, sotto un tale re, l’autentico popolo di Dio? Che abbia il permesso di essere questo popolo, tale è il fatto che, simile a grande promessa, segna l’inizio di questo quarto periodo della storia d’Israele che termina con la nascita del figlio promesso di Davide: colui che nella sua persona riunisce Davide e Salomone, Jeconia e Zorobabele e che è maggiore di tutti questi! Dopo tutto quanto è accaduto, è necessario che sia veramente Dio stesso ad occupare infine il trono del figlio di Davide, onde compiere, pienamente, tutte le promesse. La Parola (questa Parola che ha creato Israele, che l’ha accompagnato e diretto come un giudice e come un consolatore profetico) si è fatta carne ed è diventata, proprio essa, il figlio di Davide. Si produce qui nel caso esemplare preparato da tutti quelli che si sono succeduti da Adamo a Zorobabele e che ha obbligato Israele a staccarsi dall’umanità e Giuda dallo stesso Israele. L’avvenimento di cui è questione avviene contro Israele, perché questi non può che consegnare ai pagani, che lo crocifiggono, il suo Messia, il Figlio di Davide, il Figlio di Dio: questo popolo confermacosì che Dio ha agito con giustizia nei suoi confronti, allorché, fin dall’inizio, gli ha inferto tante amputazioni e tante riduzioni; eppure, poiché di fronte all’ingiustizia umana la giustizia divina è come le alte montagne, quest’avvenimento ha luogo anche in favore d’Israele, ed in esso pure in favore dei pagani, in favore del mondo intero che, crocifiggendo Gesù Cristo, si è mostrato complice d’Israele certamente, ma anche partecipe di quella promessa che più nulla può annullare, essendo stata interamente compiuta e realizzata mediante la resurrezione di questo stesso Gesù Cristo. Colpevoli della medesima disobbedienza, giudei e pagani possono ormai ascoltare il buon annuncio: «Voi siete il mio popolo! Io, il Signore, nella persona del Figlio di Davide, sono il vostro re!». Coloro che, fra i giudei ed i pagani, questo re chiama e che intendono la sua voce sono, in quanto tali, il popolo di Dio verso la cui

esistenza tende la lunga storia raccontata dalla Bibbia. L’uomo entra in scena nella persona di questo re, così come Adamo, che l’annunciava, era già l’uomo; Adamo però è l’uomo in quanto creatura di Dio subito incatenata dal peccato; in Cristo invece è l’uomo in quanto Figlio di Dio a rivelarsi, più potente e più giusto di Davide, più saggio e più glorioso di Salomone. Certo, egli subisce un oltraggio senza misura rispetto a quello patito da Jeconia, ma è anche colui che viene a ricostruire il Tempio in una maniera del tutto differente da quella di Zorobabele; è il Santo che, nella sua sofferenza e nel suo trionfo, prende i peccatori su di sé, li mette al riparo, li copre e li salva; compimento della promessa e della speranza del suo popolo, senso della sua esistenza e della sua storia, Re e Salvatore dapprima nascosto ed ora finalmente rivelato, è autenticamente «l’uomo». Quest’uomo che, come Figlio di Dio, è il re del popolo, è l’uomoeletto; in lui e per mezzo di lui sono eletti coloro che gli sono soggetti, i membri di questo popolo; anche in questa prospettiva è subito chiaro che, qui nuovamente, si tratta di una scelta operata da Dio. Nessuna delle figure fin qui menzionate si determina da sola: qualunque funzione rivestano, costituiscono tutte una figura esemplare che, contemporaneamente annuncia e prepara un’altra figura esemplare. Da un punto di vista generale è sempre possibile porre una questione: perché proprio quel personaggio e non un altro è stato scelto come figura esemplare? La risposta ci è data, di volta in volta, dall’avvenimento stesso, dall’esistenza di un caso esemplare di cui la Bibbia parla, dall’esistenza di una scelta di cui coloro che nesono oggetto non sono responsabili e che, di conseguenza, su questo terreno, resta inspiegabile. È in forza di una scelta, di cui gli uomini non possono in nessun caso essere responsabili, che gli avvenimenti specifici ed i casi esemplari che ci sono presentati si verificano precisamente all’interno dell’umanità e non in un qualsiasi altro posto. E quanto al popolo, il cui destino è di essere contemporaneamente termine e punto di partenza di questa serie di avvenimenti, è chiaro che non si è autoattribuito questo ruolo e questa funzione speciale. Li aveva anzi già perduti, ogni volta che li aveva considerati come rilevanti dalla propria scelta, agendo di conseguenza. È Dio che in tutto questo opera una scelta discriminante, come mostra l’incessante processo di riduzione di cui Israele è oggetto ed attraverso cui la promessa, data all’insieme del popolo, non diventa caduca, ma si trova, al contrario, indirettamente confermata: bisogna che ad ogni costo il popolo scelto da Dio resti un tutto e che, come tale, resti il portatore ed il destinatario della

promessa. Pensiamo parimenti al modo in cui tale promessa si realizza: in forme sempre nuove, essa tende ad un compimento che, una volta prodottosi, conferma che essa è proprio una promessa; ne deriva che il compimento (cioè il senso stesso della storia che si srotola nella Bibbia) non può che essere e restare l’oggetto di una scelta divina. Ed infine è in virtù della scelta di Dio che la serie di casi esemplari la cui specificità è di segnalare un avvenimento futuro che ne segnerà la fine, non è infinita, ma si trova limitata appunto da un caso esemplare che, nella sua unicità, segna chiaramente un termine. Certo anche quest’ultimo caso esemplare è un segno; in quanto compimento specifico conferma infatti la verità della promessa; ma nel contempo è segno e realtà significata. D. LA FORMA DELLA DOTTRINA DELLA PREDESTINAZIONE 1. Rigoroso cristocentrismo. Sì, è proprio un eletto, anzi l’eletto per eccellenza e, riunito e rappresentato da lui un popolo di eletti, che si manifestano là dove la Scrittura intende dirigere finalmente i nostri sguardi ed i nostri pensieri, quando vogliamo correttamente ascoltare quello che pensa a proposito dell’uomo. Anche qui la nostra attenzione è richiamata sul Dio-cheelegge! L’eletto di cui si tratta è l’uomo così come ce lo definisce l’autorivelazione divina: poiché qui è Dio che si rivela, è pronunciata la parola decisiva sull’uomo; ma occorreguardare le cose anche dall’altra direzione e dire: per sapere che cosa sia l’elezione ed in che cosa consista lo stato di eletto, dobbiamo innanzitutto, senza sbirciare a destra o a sinistra, dirigere la nostra attenzione sul nome di Gesù Cristo, sull’esistenza e sulla storia del popolo divenute realtà in lui, e la cui origine e la cui fine sono contenute e determinate nel mistero di questo nome. Lo vediamo chiaramente: tutte le affermazioni della Scrittura su Dio e sull’uomo coincidono in un solo e medesimo punto; anche le proposizioni relative all’elezione dell’uomo da parte di Dio devono essere concepite ed elaborate in funzione di quanto accade in questo punto unico; in effetti è qui che vi è elezione. Se tutto ciò corrisponde a realtà e se, di conseguenza, consideriamo che siamo tenuti a fondare la dottrina della predestinazione unicamente sull’autorivelazione divina attestata nella Scrittura, allora non dobbiamo cercare oltre: la risposta al problema del fondamento della dottrina è ormai dato. In altre parole: se la problematica provvisoria fin qui elaborata è corretta, la questione relativa alla necessità della dottrina dell’elezione è risolta; non abbiamo la possibilità di dare o di non dare seguito; non siamo liberi di prendere o di non prendere sul serio il tema della predestinazione divina. L’avvenimento che si produce al centro

stesso dell’autorivelazione divina è in effetti un atto di elezione. Questo basta per farci comprendere come mai tutti i grandi dottori della chiesa hanno insegnato e difeso con tanto vigore la dottrina della predestinazione. Non dobbiamo dunque vergognarci della testimonianza della chiesa riformata in cui questa dottrina, fin dall’inizio, ha giocato un ruolo così grande; dobbiamo dare ragione ai nostri padri; stimiamo di avere il dovere di seguire le loro tracce, non sotto la pressione di una tradizione o per istinto di imitazione, bensì in forza di una necessità intrinseca. Ora, se il nostro primo approccio del problema è giusto, occorre ammettere che, almeno in principio, si trova risolta ugualmente la questione della forma che deve rivestire l’esposizione della dottrina dell’elezione. Terremo conto del correttivo, del criterio che si è imposto a noi, nelle precedenti considerazioni; ne terremo conto nei confronti della dottrina della predestinazione, così come è stata insegnata nel corso della storia ed in particolare nella chiesa riformata. È il nome di Gesù Cristo ad essere, secondol’autorivelazione divina, il centro verso cui convergono, come due raggi luminosi, le due linee della verità che deve essere riconosciuta a questo punto: il Dio-che-elegge e l’uomo-eletto; è dunque a questo focolare unico che deve riferirsi ogni dottrina cristiana dell’elezione; è da questo centro che essa deve procedere ed è ad esso che deve tendere. Come ogni insegnamento cristiano, la dottrina dell’elezione ha come compito di attestare, sotto tutti gli aspetti, il nome di Gesù Cristo; di conseguenza, in nessun caso questo nome dovrà sbiadirsi e diventare incerto nell’esposizione che dovremo dare; in nessun caso dovrà cedere il posto a presupposti astratti concernenti Dio o l’uomo, come pure alle conseguenze altrettanto arbitrarie, tratte da simili presupposti. Noi dovremo unicamente formulare, conformemente a quanto finora detto, quei presupposti che, a proposito dell’elezione dell’uomo da parte di Dio, si trovano racchiusi nel nome di Gesù Cristo e dovremo trarne le conseguenze, ricordandoci che anch’esse sono contenute in questo nome. Nella misura in cui ci atterremo a questa regola, saremo qui, come in ogni altro campo della elaborazione dommatica, su un terreno solido, un terreno che non è quello della speculazione arbitraria, ma quello della responsabilità della chiesa (ed in special modo della teologia) nei confronti dell’oggetto della sua predicazione. Quest’oggetto, di cui deve rendere conto, è, in effetti, il fondamento della sua esistenza e la misura della sua verità. 2. L’apporto della tradizione. Dicendo che il nome di Gesù Cristo è il fondamento della dottrina dell’elezione non affermiamo certo niente di nuovo. Nonostante tutte le deviazioni verso le astrazioni che si sono sempre

verificate, la chiesa e la teologia hanno costantemente sotto gli occhi certe dichiarazioni delle testimonianze neotestamentarie, richiamanti assai chiaramente e talora non senza effetto, che la conoscenza dell’elezione altro non è che una forma determinata della conoscenza di Gesù Cristo. Si può infatti leggere in Ef. I, 4 s.: Dio ci (la comunità) ha eletti in lui (ἐν αὐτῷ) perché noi potessimo essere santi ed irreprensibili davanti a lui e tutto ciò ancora prima della fondazione del mondo; ci ha predestinati, secondo il beneplacito della sua volontà (ϰατὰ τὴν εὐδοϰίαν τοῦ ϑελήματος αὐτοῦ), ma in (ἐν) lui, permezzo di (διά) lui e per (εἰς) lui, ad essere suoi figli adottivi. Ed in Ef. I, 11 s.: in lui siamo anche diventati eredi, essendo stati predestinati secondo la risoluzione di colui che opera ogni cosa secondo il consiglio della sua volontà, affinché noi, che fin dall’inizio abbiamo sperato in Cristo, possiamo esistere a lode della sua gloria. Ed in Ef. III, 10 s.: bisogna che le dominazioni e le autorità celesti conoscano, per mezzo dell’esistenza della comunità riunita (εϰϰλησία), la saggezza infinitamente varia di Dio, secondo il disegno eterno (ϰατὰ πρóϑεσιν τῶν αἰώνων) che Dio stesso ha messo in esecuzione in Cristo nostro Signore, nel quale noi abbiamo (dunque!) la libertà di avvicinarci a Dio con confidenza, mediante la fede in lui. Ugualmente in Rom. VIII, 28 ss.: coloro che ha conosciuto fin dal principio (cioè quelli che sono stati chiamati secondo il suo disegno), Dio li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo (cfr. Col. I, 15), affinché questi fosse il primogenito fra molti fratelli; in questa espressione «conoscere fin dal principio» (προέγνω) e «predestinare fin dall’inizio» (προωρίζω) non designano due azioni successive differenti, ma, secondo il modo con cui Paolo usa la congiunzione «e», una sola e medesima azione divina, descritta con precisione sempre maggiore; si deve quindi dire: coloro che Dio ha così predestinato, li ha anche chiamati, giustificati e glorificati. I brani che abbiamo citato affermano chiaramente che accedendo alla realtà designata dai termini di «elezione» e di «predestinazione», non siamo affatto all’esterno, bensì all’interno del campo delimitato dal nome di Gesù Cristo, cioè nel quadro dell’unità del vero Dio e del vero uomo descritta da questo nome. Per questa ragione i grandi difensori della dottrina della predestinazione non hanno mancato di rinviare senza sosta e molto vigorosamente a Gesù Cristo, ogni qualvolta hanno parlato della conoscenza dell’elezione. Fa eccezione solamente Tommaso d’Aquino che, pur citando Ef. I, 4, propone un’interpretazione che a prima vista non tiene conto dell’«in lui»

(in ipso)37; solo più tardi ed in un contesto del tutto differente, tratterà ugualmente questo aspetto della questione con il titolo: «sulla predestinazione del Cristo»38. Accade ben diversamente in Agostino cui dobbiamo una spiegazione cristologica della predestinazione che dovremo riprendere in seguito. Anche il Lutero del secondo periodo è in questa linea. Non cessa di spiegare il testo: «molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti», proprio in una direzione cristologica! «Si lasci tranquillo Dio, evitando d’interrogarsi sulla sua maestà e sulla sua provvidenza; Dio è infatti incomprensibile; l’uomo che ad ogni costo si sforza di penetrare questo mistero non può che indurirsi: o sarà condotto alla disperazione, oppure all’ateismo, oppure all’orgoglio. Per ben comprendere Dio e la sua volontà, bisogna prendere il retto sentiero, su cui non ci si indurisce, ma si diventa migliori. Questo cammino è il Signore Cristo, poiché egli dice di se stesso: nessuno viene al Padre, se non per me. Chiunque desideri conoscere con sicurezza il Padre ed andare a lui, deve cominciare con l’andare al Cristo ed imparare a conoscerlo. Il Cristo infatti è il Figlio di Dio, il Dio onnipotente ed eterno. E che cosa diventa il Figlio di Dio? Diventa uomo, a causa nostra; si pone sotto la Legge per liberarci dalla Legge; accetta di essere crocifisso e muore sulla croce, per pagare il riscatto del nostro peccato; risorge quindi di fra i morti per aprirci l’accesso alla vita eterna e liberarci così dalla morte eterna; infine siede alla destra di Dio per rappresentarci e per inviare di là lo Spirito Santo, che regge e guida i fedeli, preservandoli da tutti i tranelli del diavolo. Ecco quanto si deve sapere per ben conoscere Cristo. Se una simile conoscenza è ben radicata nel tuo cuore, allora puoi alzarti e cominciare la tua salita verso il cielo. Penserai ancora che il cuore di Dio è contro di noi, se il Figlio di Dio agisce come fa a causa di noi, gli uomini, e per obbedire alla volontà ed all’ordine del Padre? Sei costretto a dire: poiché Dio ha dato il suo Figlio unico a causa nostra, non può certo avere cattivi disegni nei nostri confronti non può volere che qualcuno si perda, ricorrendo infatti ai mezzi più impressionanti per aiutarli a vivere»39. È opportuno sentire anche Melantone: «Trattandosi dell’elezione, non si deve giudicare né secondo la ragione umana, né secondo la legge, ma secondo l’evangelo; tutto quanto il numero di coloro che devono essere salvati è eletto a causa del Cristo; ragion per cui, se non approfondiamo l’autentica conoscenza del Cristo, non possiamo parlare dell’elezione. Non cerchiamo per l’elezione una causa differente da quella della giustificazione. Ricerchiamo dunque la promessa, nella quale Dio ha espresso la sua volontà e stiamo certi

di non dover cercare un’altra volontà concernente la grazia al di fuori della parola (divina). Il comando di Dio è infatti immutabile e ci dirige all’ascolto del Figlio»40. Seguendo Melantone, la Formula di Concordia erige in verità dommatica la seguente proposizione: «la predestinazione non deve essere scrutata nel consiglio nascosto di Dio, ma nella parola di Dio»41, che ci conduce al Cristo, libro della vita42; l’autentica sentenza concernente la predestinazione deve essere appresa dall’evangelo del Cristo43; «la predestinazione eterna di Dio deve essere considerata sempre in Cristo e mai al di fuori della mediazione di Cristo»44. È contro Calvino ed i calvinisti che i luterani pensavano di dover dirigere queste solenni affermazioni. Eppure essi avrebbero potuto trovare in Calvino le dichiarazioni seguenti: «Non rinvio gli uomini ad un’arcana elezione di Dio, cosicché essi aspettino la salvezza senza sapere; comando piuttosto che ci si incammini verso Cristo, per il retto sentiero, in cui ci è stata proposta la salvezza, che diversamente sarebbe rimasta nascosta in Dio. Infatti colui che non si incammina lungo la via pianeggiante della fede, troverà sempre che l’elezione altro non è che un labirinto esiziale. Che possiamo essere certi della remissione dei peccati, che la nostra coscienza possa acquetarsi con piena fiducia della vita eterna, che intrepidamente possiamo invocare Dio come padre: di tutto questo non ci si deve rapportare ad un decreto stabilito da Dio a nostro riguardo, prima della creazione del mondo, bensì a quanto si è manifestato appieno, a proposito del suo amore paterno, in Cristo ed a quanto quotidianamente lo stesso Cristo predica per mezzo dell’evangelo. Confesso che Cristo è l’unica porta, attraverso la quale è necessario che passino tutti coloro che entrano nel regno dei cieli. Quanti invece se ne scartano anche solo di poco, errano per strade sinuose ed inconcludenti e quanti poi tentano, troppo confidentemente, d’irrompere e di penetrare nei meandri nascosti del consiglio ineffabile di Dio, tanto maggiormente si allontanano da lui»45. «Poiché in Cristo ci è stata proposta la certezza della salvezza, credo che invano si sforzino di dedurre la vita dai reconditi abissi divini coloro che si allontanano da questo fonte dellavita, pronto a gorgogliare e non penso lo facciano senza ingiuria dello stesso Cristo. Nessuno quindi richieda la fiducia della sua elezione da un’altra parte, se non dal Cristo, se non intende cancellare il libro della vita, in cui è scritto. Cristo è per noi ora un ricco specchio dell’eterna e nascosta elezione divina ed ora ne è arra e pegno. Con la fede contempliamo la vita che Dio ci presenta in questo specchio; mediante la

fede ne abbracciamo arra e pegno»46. «Perciò si dice che Cristo ci rivela il nome del Padre, in quanto consegna nei nostri cuori, mediante il suo spirito, la conoscenza della nostra elezione, attestata dalla voce del suo evangelo»47. «Se siamo eletti in Cristo, non troveremo certo la certezza della nostra elezione in noi stessi e neppure in Dio Padre, se lo consideriamo astrattamente senza il suo Figlio. Cristo è dunque come uno specchio in cui conviene contemplare la nostra elezione ed in cui possiamo contemplarla senza inganni»48. Le spiegazioni assai esplicite di Bullinger vanno nella medesima direzione: «Sconfessiamo coloro che chiedono, al di fuori di Cristo: ci sono eletti?; e che cosa, a loro riguardo, ha stabilito Dio prima di tutta l’eternità? Si deve infatti ascoltare la predicazione dell’evangelo e le si deve credere e la si deve osservare come indubitabile: se credi e se sei in Cristo, sei eletto. Il Padre infatti ci ha manifestato l’eterna sentenza della sua predestinazione in Cristo. Si deve dunque insegnare e considerare prima di ogni altra cosa quanto grande sia l’amore che il Padre ci ha rivelato in Cristo. Cristo è specchio, cosicché in lui possiamo contemplare la nostra predestinazione. Sarà sufficientemente perspicua e sicura l’attestazione che noi siamo scritti nel libro della vita, se avremo comunione con il Cristo ed egli nella fede sia nostro, come noi suoi»49. Guardando questi testi non si può certamente dire che i teologi riformati avessero particolarmente bisogno di essere richiamati all’ordine da Lutero e dai luterani. Presso i calvinisti, come presso i luterani, si comprendeva assai bene quale fosse nella Bibbia il punto centrale, attorno a cui doveva gravitare la scienza teologica, allorché si disponeva a rendere conto della dottrina della predestinazione. D’altronde Calvino non si è accontentato di affermare la necessità di un orientamento cristologico della dottrina della predestinazione; sottol’impulso di Agostino, in maniera tutta speciale, si è sforzato di mostrare che il Cristo è «lo specchio dell’elezione» in questo senso, che nell’incarnazione della parola divina in Gesù Cristo, incontriamo in qualche modo il prototipo e la somma di ogni atto di elezione avente Dio per soggetto e l’uomo per oggetto. E la Confessione Scozzese del 1561 si è spinta talmente avanti in questa direzione che inizia, rispondendo alla questione: perché Dio si è fatto uomo, con il rinviare «al decreto eterno ed invariabile di Dio», cioè alla predestinazione; poi, cosa che desta stupore, sotto il titolo de electione, non teme di esporre semplicemente la dottrina della vera divinità e della vera umanità di Gesù Cristo, insistendo sulla necessità e sulla realtà delle due

nature che si trovano unite nella persona del Mediatore. Sebbene i luterani abbiano affermato con tanta convinzione che la predestinazione può essere riconosciuta solamente in Cristo, bisogna forse dire che essi hanno impiegato meno zelo dei riformati (che attaccavano nelle loro tesi) per promuovere una intelligenza cristologica di questa dottrina. Checché ne sia, una cosa appare subito evidente attraverso la dottrina agostiniana ripresa dai Riformatori e non si può sottolinearne in maniera sufficiente la grande importanza: rinviando al Cristo come allo «specchio dell’elezione», questa dotttrina ha messo ancora una volta vigorosamente in evidenza la specificità della scelta divina, cioè della libertà che caratterizza la posizione del Dio-che-elegge nei confronti degli eletti. Se questi ultimi devono guardare a Cristo perché essere eletti significa, in ogni caso, essere eletti in Cristo ed in lui solamente, ne consegue che nessuno può ricercare in se stesso la ragione della sua elezione; questo per il buon motivo che nessuno è mai eletto in se stesso a partire da quello che è, e che non esiste nell’uomo come tale nessun fattore che possa motivare la sua elezione da parte di Dio. Rinviandoci alla nostra elezione in Cristo, Agostino ed i Riformatori sono stati incontestabilmente fedeli all’ispirazione biblica; questo rinvio è un appello che non è possibile non ascoltare e che porta alla celebrazione della grazia, così come si è manifestata concretamente nella persona urica dell’unico Mediatore fra Dio e gli uomini. Non è quindi nell’uomo, né nell’opera dell’uomo che dobbiamo cercare e discernere il fondamento della nostra elezione, bensì in quest’altra persona, che è Dio stesso rivestito della nostra carne, come pure nell’opera che si compie per noi ed in noi estrinsecamente, indipendentemente da quanto noi siamo o da quanto facciamo. Con lasua decisione, l’uomo non fa che seguire la decisione presa senza di lui e contro di lui, in tutt’altro contesto che il suo; cioè in questa persona assolutamente differente da lui. Riconoscendo che tale è la verità, l’uomo riconosce, contemporaneamente, il fatto dell’elezione divina, il senso e la natura di questa predestinazione; confessa che l’elezione è la somma di tutti i benefici divini; conseguentemente riconosce il senso e l’intenzione della dottrina che insegna tutto questo, cioè che l’elezione è la somma dell’evangelo. È d’altronde in questa maniera che Agostino e Calvino volevano si intendesse il loro insegnamento su questo punto: è bene (ed è quanto si deduce dalla dottrina dell’elezione) che l’uomo si rapporti interamente, con tutte le sue decisioni, sotto l’avvenimento della predestinazione divina.

Il rinvio a questa predecisione in Cristo permette precisamente di mettere in risalto tutto ciò che abbiamo costatato a proposito del fondamento biblico della dottrina dell’elezione. Calvino ha scritto giustamente: «Coloro che (Dio) ha scelto come suoi figli, non è detto che li abbia scelti in se stessi, ma nel Cristo (Ef. I, 4): non poteva infatti amarli se non in lui e non poteva onorarli con la sua eredità, se non li avesse fatti precedentemente partecipi di lui. Ora se noi siamo eletti in Cristo, allora non troviamo affatto in noi stessi la certezza della nostra salvezza»50 «In noi stessi siamo odiabili e degni che Dio ci abbia in abominazione; ma egli ci guarda nel Figlio suo; ed allora ci ama»51. «Sappiamo dunque che la nostra salvezza è sicura. Perché? Perché essa è nelle mani di Dio. E come ne siamo sicuri? Perché Dio l’ha posta nelle mani del nostro Signore Gesù, il quale ci rivela che il Padre, che ci ha eletti, intende condurre il suo disegno ad effettiva perfezione»52. «Apprendiamo di non poter essere sicuri della nostra salvezza, se non mediante la fede. Infatti se un uomo dice: so forse di essere salvo o dannato?, dimostra con questa interrogazione di non aver mai conosciuto la fede e l’assicurazione che dobbiamo avere in Dio, per mezzo di Gesù Cristo. Vuoi forse sapere se sei eletto? Specchiati in Gesù Cristo. Coloro infatti che, mediante la fede, sono in autentica comunione con Gesù Cristo, possono ben essere sicuri di appartenere all’elezione eterna di Dio ed essere suoi figli. Chiunque dunque si trova in Gesù Cristo ed è membro del suo corpo mediante la fede, costui è assicurato della sua salvezza e quando vogliamo saperlo, non è necessario che saliamo in alto per interrogarci su quanto, in questo tempo nostro, deve essere nascosto. Ecco che Dio si abbassa fino a noi: ci rivela tutto ciò nel suo Figlio. Come se dicesse: eccomi; contemplatemi; conoscete in che maniera vi ho adottato come miei figli. Quando dunque riceviamo questa testimonianza di salvezza che ci è resa mediante l’evangelo, da ciò conosciamo e siamo assicurati che Dio ci ha eletto. Non bisogna affatto che i fedeli dubitino della loro elezione; devono avere tutto ciò come risolto; dopo che essi sono stati chiamati alla fede mediante la predicazione dell’evangelo, partecipano di questa grazia del nostro Signore Gesù Cristo e della promessa, che è loro fatta nel suo nome. Nostro Signore Gesù Cristo è infatti il fondamento di entrambe le realtà: cioè delle promesse di salvezza e della nostra elezione gratuita, fatta dalla creazione del mondo»53. 3. Dialogo con la tradizione. Ma in tutti i testi che abbiamo citato (ivi compresi quelli di Lutero e dei luterani) il rinvio oggettivamente così importante all’evangelo, ci lascia, malgrado tutto insoddisfatti, perché in

mezzo a tante affermazioni veementi, una questione finisce per restare senza risposta. La tesi secondo cui occorre riconoscere la nostra elezione in Gesù Cristo deve realmente essere presa sul serio da un punto di vista teologico, nell’intenzione di coloro che la formulano?; racchiude veramente la prima e l’ultima parola in questa materia, cosicché dobbiamo asserirla, senza cercare altrove le nostre risposte?; è proprio vero che non esiste altro fondamento dell’elezione, se non in Gesù Cristo?; si crede veramente in maniera ferma e tenace a questa verità?; ci si riferisce ad essa in modo esclusivo, nell’elaborazione della dottrina della predestinazione?; è evidente che noi dobbiamo legarci a Cristo ed a Cristo solamente, sul piano della conoscenza, perché, sul piano ontologico, non esiste elezione, né un Dio-che-elegge, se non in Cristo precisamente? Oppure la tesi enunciata deve essere interpretata unicamente come una regola molto preziosa nel campo della pastorale, come indicazione puramente pratica sull’atteggiamento che si deve adottare, stando così le cose, nei riguardi del problema dell’elezione, per non cadere nella disperazione?; dietro la verità di ordine pastorale (ed in un certo senso storicopsicologica) secondo cui l’elezione gratuita di Dio si offre alla nostra contemplazione in Gesù Cristo, vi è un’altra verità, una verità più alta, che è opportuno nascondere alla chiesa, per ragioni spettanti alla prudenza ed alla carità, una verità che non viene certo rinnegata e che non deve essere completamente taciuta, ma che resta pericolosa e che, di conseguenza, si deve temperare e persino sottrarre alla curiosità umana come una specie di veleno?; bisogna forse ammettere (in forza di questa verità nascosta superiore, ma pericolosa e di conseguenza da tenere velata) che il Cristo sia sì lo strumento dell’azione divina fondata sull’elezione e di conseguenza il mediatore della rivelazione, cui dobbiamo aderire su questo punto, ma che il Dio-che-elegge non sarebbe lui, il Cristo, bensì il Padre o ancora il Dio trinitario, la cui decisione precederebbe, per così dire, il suo essere, il suo volere ed il suo fare? In altri termini: bisognerebbe forse pensare che l’elezione è oggettivamente l’opera di un Dio nascosto, il quale decreta di salvare taluni individui determinati fin dal principio, confermando in seguito la sua scelta precedente con la decisione, in qualche maniera puramente formale o tecnica, di chiamare questi eletti e di condurli a salvezza per mezzo del Figlio suo, della Parola sua, dello Spirito suo?; in questo caso l’elezione propriamente detta non sarebbe forse in definitiva una decisione divina indipendente da Gesù Cristo, decisione di cui Cristo sarebbe certo lo strumento, ma che non coinciderebbe con lui?; quanto alla decisione presa in Gesù Cristo stesso ed a

cui dobbiamo legarci, bisognerebbe forse vedervi, alla fin fine, una decisione differente, subordinata e susseguente? In tutte queste interrogazioni, noi dovremmo cercare (o meglio non cercare affatto, secondo quanto ci raccomandano gli specialisti della pastorale!) la decisione determinante l’elezione propriamente detta nel mistero dell’essenza divina, nell’oscuro decreto derivante dall’assoluta libertà divina. Se questa interpretazione trovasse in un qualsiasi senso la nostra approvazione, si produrrebbe una tensione fra la verità teologica e la regola della pastorale, secondo cui la nostra sola risorsa è di restare ancorati al Cristo; tale tensione sarebbe inevitabile; e l’efficacità della regola pastorale sarebbe compromessa nel modo più radicale. Solo colui che ignora tutto dell’«altra» verità potrà dichiararsi soddisfatto della raccomandazione con la quale lo si invita ad attenersi al Figlio di Dio incarnato, alla sua Parola ed al suo Spirito e a rinunciare, conseguentemente, a porsi questioni sulla volontà nascosta del Padre o della divinità eterna. Ma a dire il vero, perché non dovrebbe porsi queste questioni se esiste, e se ne rende conto, una duplice verità e che la parola che decide della sua salvezza è stata pronunciata precisamente in condizioni che gli restano impenetrabili?; se vi è davvero un decreto divino «assoluto», indipendente cioè dalla decisione intervenuta in Gesù Cristo e ad essa precedente, e se almeno in teoria bisogna tenerne conto (ed un tale decreto concerne la salvezza e la beatitudine finale di taluni individui ben determinati), è lecito domandare: con quale diritto si impedirà di porre questioni su questo punto, poiché questo sarebbe alla fin fine il fondamento stesso dell’elezione?; in virtù di quale autorità e di quale volontà si potranno tacitare tali questioni?; non sono anzi pertinenti e necessarie in maniera eminente, malgrado tutte le buone intenzioni cui ci si reclama, sul piano della pastorale, per non lasciarle emergere?; non devono invece forse essere ascoltate ed in una maniera o in un’altra risolte? Tuttavia, pur lasciando formulare queste domande, pur lasciando che ci si interroghi veramente e che si interroghi sul decreto assoluto nel senso in cui lo si intende qui, su quale abisso non si apre subito la porta! La riflessione relativa all’elezione assume immediatamente l’aspetto di una riflessione relativa al volere ed alla decisione divina, stabilita in qualche sfera superiore od inferiore, al di là di Gesù Cristo, cioè al di là della rivelazione; ciò non mancherà certo di avere ripercussioni sulla nostra maniera di concepire la relazione fra Dio e l’uomo; saremo fatalmente condotti ad occuparci di un Dio situato al di sopra ed al di fuori di Gesù Cristo e a considerare noi stessi

indipendentemente dalla relazione a Gesù Cristo. Come potrebbe derivare, in queste condizioni, una conoscenza certa di Dio e di noi stessi, del senso e della natura della nostra relazione con lui? Sì; come in queste condizioni, potremmo sapere che è bene per l’uomo essere nelle mani di Dio, totalmente, come lo lascia intendere la tesi dell’elezione? È precisamente per sbarrare la strada a tale incertezza (cui dà adito quasi inevitabilmente un’esposizione come quella di Tommaso d’Aquino, solo per fare un esempio) che la teologia dei Riformatori ha affermato che Gesù Cristo è lo specchio dell’elezione. Rinviando alla persona del Mediatore, alla Parola di Dio ed alla sua autorivelazione, questa teologia intendeva liberare la riflessione relativa alla dottrina della predestinazione dal vicolo cieco inevitabile, in cui essasi pone, allorquando si propone di esplorare un campo, per definizione, inaccessibile all’uomo; è evidente infatti che, dirigendosi da quella parte, non si può che giungere ad affermare delle verità, senza sosta messe in questione da altre che rigorosamente le contraddicono, e di cui l’uomo non potrebbe vivere, poiché emanano dalla sua ragione e tradiscono inesorabilmente l’impotenza della sua dialettica. Ciò che permette all’uomo di vivere è di sapere che Dio, il Creatore, il Signore che decide della sua vita e della sua morte, gli è favorevole in Gesù Cristo. Non può respirare se non nell’istante in cui acquisisce la certezza di essere oggetto dell’elezione divina, comprendendo anche che nulla vi è di migliore per lui che tale certezza. E per acquistare simile sicurezza che gli consente di accettare Dio e di accettare se stesso con gioia, gli è sufficiente contemplare l’elezione là dove essa ha luogo: nella Parola fatta carne, dove Dio l’ha resa manifesta; in altri termini: la sola possibilità dell’uomo è di lasciarsi istruire da questa Parola, appoggiandosi completamente sullo Spirito Santo. Aggiungiamo che rinviando, a questo punto, a Gesù Cristo, la teologia della Riforma ha ugualmente messo in valore e difeso l’onore e la dignità dell’autorivelazione divina, di fronte all’uomo che pretende, senza transizione, di conoscere Dio e di conoscere se stesso; si comprenderà facilmente, di conseguenza, che su questo punto una teologia come quella di Tommaso d’Aquino, per esempio, accusa una grave lacuna, con conclusioni disgraziate per la purezza e l’efficacità dell’insegnamento cristiano. In conclusione possiamo dire che i Riformatori hanno dato prova di una grande apertura di spirito nei confronti dei dati specificamente biblici che, in ogni caso, devono dirigere ogni riflessione sull’elezione. Come potremmo volere dire che i Riformatori hanno saputo trarre le

giuste conseguenze dalle loro intuizioni, in modo da non combattere solamente, ma da rendere assolutamente impossibile ogni incertezza, cioè ogni messa in questione dell’onore e della dignità dell’autorivelazione divina in Gesù Cristo! Precisamente, è proprio questo che non si può affermare, pur riconoscendo le loro buone intenzioni; il loro riferimento a Gesù Cristo, per quanto netto e vigoroso, resta campato in aria e senza autentica portata teologica; esso infatti, pur vietandosi la possibilità di tenere in conto un decreto assoluto (cioè differente dalla decisione divina presa in Gesù Cristo da tutta eternità per la nostra salvezza), non esclude, anzi lascia teoricamente aperta una tale possibilità. In un documento come la Confessione Elvetica Posteriore questa debolezza è appena intravvista. Bullinger, con la sua sobrietà abituale si limita ad affermare che, nel quadro della chiesa, Gesù Cristo deve restare la nostra sola preoccupazione e che non dobbiamo cercare altrove il fondamento della nostra elezione: «non è compito vostro ricercare curiosamente intorno a queste cose, ma esserne attratti, onde essere introdotti in cielo per il retto cammino»54. Tuttavia la tesi preliminare e principale ha il tenore seguente: «Dio predestinò ed elesse liberamente, per sua grazia esclusiva, senza nessun riguardo al pensiero degli uomini, i santi, che volle rendere salvi in Cristo»55. Si costata dunque anche in Bullinger che il «predestinare ed eleggere» precede il «volere rendere salvi in Cristo»; in altri termini l’elezione in se stessa precede il Cristo; lungi dall’essere il Dio-che-elegge, Gesù Cristo è solo lo strumento di cui la volontà divina si serve per condurre gli eletti al loro destino finale. Che l’elezione del Padre e del Figlio sia una sola e medesima cosa, come attesta il vangelo di Giovanni e che, secondo Ef. I, 4, noi siamo non solamente chiamati e salvati, ma anche eletti in Cristo, è un elemento che Bullinger non dice; anzi: la formula da lui utilizzata esclude questa verità di cui non parla neppure. A che cosa può dunque servire lo zelo molto lodevole da lui dispiegato, sul piano ecclesiastico e pratico, per persuaderci che il Cristo è «lo specchio dell’elezione»? Dato l’a priori di Bullinger, il Cristo non può essere evidentemente «lo specchio dell’elezione», qualunque altra cosa possa essere in altra prospettiva Vogliamo cercare di conoscere la nostra elezione, cioè il fondamento della nostra vocazione, della nostra salvezza, della nostra felicità, seguendo le indicazioni di questo Riformatore? Non ci resta che una possibilità: precisamente quella di lanciarci in una «speculazione», malgrado tutti gli avvertimenti e le direttive in contrario. Tuttavia il dualismo che in

Bullinger si manifesta appena, attutito da una grande prudenza pastorale, è subito evidente non appena ci si volge verso gli altri Riformatori. E poiché i luterani della seconda generazione hanno creduto di dover attaccare in maniera tutta speciale Calvino ed i calvinisti su questo punto, è bene ricordare qui che Lutero stesso, ben prima di Calvino, ha esposto una concezione dell’elezione in cui il riferimento al Cristo è accompagnato da una referenza alla volontà divina indipendente dal Cristo, nascosta ed insondabile, ma non per questo meno reale; e si può anzi costatare che è proprio in tale referenza che il monaco di Wittenberg ha creduto discernere la realtà peculiare dell’elezione. Certo con il passare degli anni, Lutero ha cessato quasi completamente questo errore; in effetti, nei frammenti di sermone che ci sono pervenuti a questo riguardo, non se ne ha, per così dire, più traccia e sembra bene che il riferimento al Cristo occupi ormai un posto determinante; non bisogna però scordare che anche nella sua vecchiaia, Lutero ha sempre cooptato il trattato de servo arbitrio del 1525 fra le sue opere migliori, non rinnegandolo mai. Ora in questo trattato si trova l’ordine seguente: «non si deve disputare a proposito di quella segreta volontà della maestà (divina) e si deve avocare e riprovare la temerarietà degli uomini che con perversità continua, lasciate da parte le cose necessarie, ruota sempre attorno a queste cose e si sforza di comprenderle; non ci si deve occupare nello scrutare quei segreti della maestà (divina); è infatti impossibile raggiungerla, perché abita in una luce inaccessibile»56. È certo vero che in questo medesimo trattato l’uomo che riflette è ugualmente esortato, molto positivamente ed assai chiaramente, ad interessarsi in modo eminente «al Dio incarnato, al Gesù crocifisso»; è infatti questo Dio incarnato che vediamo piangere su Gerusalemme ed è lui che intendiamo dire: non avete voluto!; è ancora lui che noi vediamo offrire agli uomini tutto quanto è necessario alla loro salvezza, «allorché la volontà divina della maestà, con suo decreto intenzionale (propositum) alcuni abbandona e riprova, affinché periscano». Lutero intende rifiutare puramente e semplicemente la questione relativa alla natura ed al contenuto di quanto chiama la voluntas maiestatis: «non dobbiamo infatti ricercare queste cose, cioè perché (Dio) faccia in questo modo; si deve invece riverire Dio, che può e vuole simili cose». È però possibile, dal momento che continua ad affermare l’esistenza di questa voluntas maiestatis, nascosta dietro la volontà divina e da essa differente? Nei

fatti anzi, in questo famoso trattato contro Erasmo, Lutero si applica proprio ad esporre le modalità di questa voluntas maiestatis onnipotente. D’altronde il semplice fatto di affermare la sua esistenza, non significa forse, in definitiva, lasciar intendere (malgrado tutti gli avvertimenti e tutte le indicazioni proibitive di cui è disseminata l’esposizione) che la rivelazione divina non è che la sua verità relativa? Il problema del Dio nascosto non finirà per diventare forse la questione del Dio autentico? Il punto interrogativo che pone la scelta operata da quel Dio non creerà fatalmente una zona d’incertezza, anche là dove, conformemente agli avvertimenti ed ai divieti che si pronunciano, si continuerà a parlare del Dio incarnato? Ed il ricorso a Gesù Cristo non apparirà forse come un procedimento disperato ed artificiale, accompagnato com’è dal fatto che esiste una voluntas maiestatis orientata diversamente? Tutte queste interrogazioni devono essere rivolte anche a Calvino, in cui troviamo, fra le altre, la seguente espressione: «vediamo come Dio si sia degnato di eleggerci, prendendo in se stesso il suo punto di partenza; quanto a noi, vuole che iniziamo (la nostra considerazione) partendo dal Cristo, affinché possiamo sapere di essere annoverati in quella sacra ricchezza»57. Si vede chiaramente che cosa il Riformatore intende dire nella seconda parte: il Cristo «è ordinato alla salvezza del mondo in questa maniera: deve conservare quelli che gli sono stati dati dal Padre; deve essere la vita di coloro di cui è la testa, deve ricevere nella società dei suoi beni quelli che Dio, conformemente al suo gratuito beneplacito, gli ha ascritto come eredi»58. Dobbiamo riconoscere il Dio-che-elegge nell’essere e nell’azione del Cristo, in cui si concretizzano l’origine ed il fine dell’elezione; Cristo possiede infatti una funzione di cui beneficiano taluni uomini, è la loro vita, li fa partecipi dei suoi benefici; per questa ragione Dio vuole che noi prendiamo in Cristo il nostro punto di partenza. Ma come deve essere interpretato il fatto che Dio stesso, per parte sua, quando ci elegge (cioè allorché ci dona al Figlio suo, predestinandoci ad essere membra del suo corpo e suoi eredi) prenda il punto di partenza in se stesso e non appunto nel Cristo? Che cosa significa dunque quel «gratuito beneplacito» di cui è detto nettamente precedere e comandare l’essere e l’azione del Cristo? La questione dell’elezione si gioca infatti proprio su questo «beneplacito gratuito». Non basta che ci si dica che il Cristo è lo strumento di esecuzione dell’azione che Dio ha gratuitamente deciso in favore dell’uomo; bisogna che Cristo appaia chiaramente come il soggetto e l’autore dell’elezione stessa. Questo non è il pensiero di Calvino. Certo si può dire che il Riformatore non è

lontano da questo punto di vista, quando spiega passi come Gv. XIII, 8 e XV, 19 in cui si parla del Cristo che sceglie i suoi discepoli. Si può infatti leggere testualmente nel suo commentario: «Cristo rivendica per sé, in perfetta comunione con il Padre, il diritto di eleggere»; «Cristo pone se stesso come autore della elezione». Tuttavia Calvino non ne trae alcuna conseguenza. Sono altri testi giovannei (che in apparenza indicano un’altra direzione) ad attirare l’attenzione del Riformatore, quando scrive: «È detto che gli eletti appartenevano al Padre celeste, prima che questi li desse al suo unico Figlio»59. Calvino è quindi assai lontano dal pensare che l’elezione, precedente la «donazione», debba essere interpretata come compiuta in Cristo, secondo quanto nota Ef. I, 4. Anzi, egli afferma espressamente il contrario: «coloro che accedono a Cristo, già erano figli di Dio nel cuore di questo ultimo e poiché erano preordinati alla vita, sono stati dati a Cristo»60. Era inevitabile che, malgrado il riferimento al Cristo, la dottrina calviniana giunga anch’essa a porre l’accento sulla «nascosta elezione del Padre». In siffatte condizioni, che valore poteva avere questa pia referenza a Cristo?; come, pur tenendone conto, impedirsi di mettersi in cerca, con una segreta inquietudine, di quell’elemento di verità che si affermava esistere al di là del Cristo, «nel Dio che prende il punto di partenza in se stesso», «nel cuore di Dio», in quel famoso «beneplacito gratuito»?; come riuscire ad evitare una discreta svalutazione della rivelazione, poiché non si ritiene quest’ultima la verità autentica e specifica di Dio stesso, ma solo la sua verità relativa? Si sa che la dottrina calvinista del «decreto assoluto» è stata violentemente combattuta in seguito, sia verso la fine del secolo XVI e sia agli inizi del secolo XVII. Da un lato, in seno alla stessa chiesa riformata, si è avuta l’opposizione dei rimostranti olandesi, il cui porta-parola è il celebre teologo Giacomo Arminio. Nei cinque articoli presentati da questa frazione al Sinodo di Dordrecht del 1619 sull’insieme dei problemi relativi alla predestinazione e rifiutati dopo ampio dibattito, si può leggere con estrema chiarezza e non senza stupore la tesi seguente:«Cristo mediatore non è solo l’esecutore della elezione, ma il fondamento dello stesso decreto di elezione»61. Ma, a causa del contesto in cui è inserita e dell’intenzione che evidentemente l’ispira, non ci si può rallegrare; si può semplicemente dire che sarebbe stato bene che la maggioranza ortodossa di Dordrecht accettasse almeno di lasciarsi richiamare, ascoltando questa tesi degna di attenzione ad ogni riguardo, il problema cui la dottrina

calvinista ed in generale l’insegnamento della Riforma aveva offerto una soluzione così poco soddisfacente. A dire il vero la teologia dei rimostranti, quale si è espressa nei cinque articoli proposti, ha precisamente neutralizzato l’impulso che avrebbe dovuto suscitare normalmente; in altri termini ha semplicemente provocato un irrigidimento increscioso dell’interpretazione ereditata dalla Riforma. In effetti i rimostranti olandesi erano senza dubbio gli ultimi rappresentanti della concezione di una Riforma che Erasmo e Castellione avevano un tempo difeso contro Lutero e contro Calvino, concezione in cui deve essere riconosciuta la sopravvivenza del semipelagianesimo medioevale e ad un tempo l’irruzione del nuovo umanesimo rinascimentale; presi in se stessi, sono anche i primi rappresentanti di un cristianesimo moderno caratterizzato da una duplice eredità, quella precedentemente detta; in breve sono i primi neoprotestanti di obbedienza ecclesiastica ed è alla loro opzione fondamentale che si ricollega tutto quanto si è svolto in seguito (cioè a partire dalla fine del secolo XVI) nel quadro della nuova tendenza. Secondo questa opzione fondamentale, l’uomo è sotto ogni aspetto il criterio e la misura di tutte le cose; è a lui che ci si deve riferire per definire la propria relazione con Dio e conseguentemente per elaborare la stessa dottrina cristiana; a lui; cioè al suo modo di concepire ciò che è giusto e ragionevole e quindi degno sia di Dio che dell’uomo. Quésto è l’a priori da cui i rimostranti sono partiti per attaccare il «decreto assoluto» della predestinazione calvinista. Il loro ragionamento è stato questo: non è possibile e non è permesso sostenere che Dio elegga (e quindi rigetti anche) chi vuole, unicamente secondo il suo libero beneplacito, senza tener conto del comportamento dell’uomo ed in particolare della sua fede o della sua incredulità, della sua obbedienza o della sua disobbedienza; procedendo all’elezione, Dio si riferisce come si deve all’atteggiamento che, da tutta eternità, haprevisto dovesse essere quello dell’uomo; in altri termini tiene conto dell’uso che, secondo questa previsione, l’uomo farà della sua libertà, diventando credente o incredulo, obbediente o disobbediente. È disgraziatamente in questo contesto che si trova l’affermazione, in se stessa così valida, secondo cui il Cristo è il «fondamento dell’elezione», tesi mediante la quale essi intendevano correggere la dottrina calvinista, insegnante che il Cristo è «lo specchio dell’elezione». La loro affermazione non vuol significare purtroppo, che Gesù Cristo, soggetto del decreto salutare di Dio, è anche l’autore della libera scelta che presiede a questo decreto, indipendentemente da tutte le decisioni di ordine creaturale,

poiché precede e predetermina assolutamente tutto questo. È solo un’affermazione polemica diretta contro il «servo arbitrio», mirante cioè a difendere e propugnare il «libero arbitrio». Non significa dunque, ed è un gran peccato, ciò che pure potrebbe indicare se la si prendesse letteralmente, cioè che la glorificazione calvinista e specifica della Riforma, concernente la libertà dell’elezione gratuita deve consistere concretamente nella glorificazione della sovranità di Gesù Cristo, il quale è, in persona, il Dio-che-elegge liberamente e che, in seguito, agisce liberamente sulla sua creatura, cosicché non vi è altro Dio né altro atto di elezione al di là o al di sopra di lui. Attaccando il decreto assoluto, la tesi dei rimostranti arminiani non combatte per la dignità di Gesù Cristo, ma per quella dell’uomo che, dirimpetto a Gesù Cristo, rivendica un’intera libertà decisionale. Nel quadro dei cinque articoli difesi a Dordrecht, essa significa semplicemente che il Cristo è la somma dell’ordine della salvezza: in lui la grazia divina è offerta agli uomini ed è in funzione della fede o dell’incredulità di questi ultimi, nei confronti di Cristo, che si decide, conformemente alla predecisione divina, ma tenendo conto anche della libertà umana, se tale grazia è accordata o meno. Che il Cristo sia il Dio-che-elegge: esso quanto gli arminiani non hanno detto. D’altronde essi non volevano dire ciò; tutto quanto intendevano dire e tutto quanto hanno in effetti detto attraverso la loro formula è che non esiste elezione divina nel senso proprio del termine, ma solo un ordine di salvezza, giusto e ragionevole, di cui il Cristo deve essere considerato somma perfetta e strumento decisivo; per il resto, bisogna tener conto di una prescienza divina, la cui peculiarità è quella di discernere quanto accadrà ad ogni individuo in particolare, dato quest’ordine di salvezza e dato l’uso che ciascuno ècapace di fare della propria libertà creaturale. Era così fatale che la tesi dei rimostranti, pur così interessante in se stessa, non attirasse l’attenzione dell’ortodossia calvinista ed in particolare del Sinodo di Dordrecht; essa era infatti l’espressione di un errore fondamentale; dato il modo con cui è stata presentata, essa è apparsa come una descrizione non più esatta e non più cristiana del mistero dell’elezione gratuita; è sembrata piuttosto un tentativo di negare questo mistero, poiché essa tendeva a fare della predestinazione divina una specie di giustificazione religiosa dell’ordine universale. È però falso credere che il Sinodo di Dordrecht abbia misconosciuto a tal punto la portata di questa tesi, da non tenerne conto nelle sue discussioni. Come mostra il verbale della 65 sessione (22 gennaio 1619) il punto di vista dei rimostranti ha provocato un conflitto che avrebbe potuto avere conseguenze

disastrose, fra Franz Gomarus, intrattabile difensore dell’ortodossia calvinista e Matthias Martini, capo della delegazione di Brema. Con l’intenzione di correggere la tesi dell’ortodossia calvinista relativa alla decisione di salvezza rilevante dal decreto di elezione e concretizzantesi in Cristo, gli inglesi spiegavano Ef. I, 4 in questa maniera: secondo la sua natura umana, Gesù Cristo è il primo degli eletti; per parte loro gli svizzeri interpretavano il medesimo testo dicendo che il Cristo era il fondamento di tutte le benedizioni cui gli eletti hanno parte; Matthias Martini intendeva andare oltre, affermando che il Cristo è il fondamento stesso dell’elezione, perché ne è l’autore principale, la «causa meritoria della stessa possibilità di eleggere», la causa cioè che permette l’esistenza del fatto stesso dell’elezione in generale; quanto poi alla «causa dell’elezione», cioè al fatto che taluni uomini determinati sono eletti ed alle motivazione di tale fatto, anche Martini pensava di doverla cercare altrove che in Cristo. È per questo che si legge nella risoluzione finale della delegazione di Brema: «Questo decreto è del tutto libero, in quanto Dio accorda misericordia a chi vuole; è del tutto giusto, in quanto fatto in Cristo mediatore, placatore dell’ira di Dio e riconciliatore degli uomini; è del tutto benigno, in quanto è diretto ad offrire contemporaneamente grazia di salvezza e gloria». È stato molto meschino da parte dei delegati del Palatinato rigettare questo punto di vista con indignazione, con il semplice pretesto che in nessun caso bisogna toccare la dottrina calvinista. E non è meno evidente che accusando i rappresentanti di Brema di arminianesimo, i loro avversari olandesi mostravano di non aver capito o di non voler comprendere il problema che di fatto si poneva. Bisogna purtroppo riconoscere che i delegati di Brema non erano giunti ad un grado di chiarezza tale da poter portare effettivamente un serio correttivo alla dottrina calvinista della predestinazione, pur evitando l’errore degli arminiani. È naturale allora che il Sinodo non abbia accolto la loro proposta. I canoni di Dordrecht tuttavia hanno indubbiamente inteso tenere conto di questa interpretazione62 spiegando che alla base dell’elezione divina vi è «la decisione con cui Dio elegge una determinata moltitudine di uomini alla salvezza in Cristo, costituito dall’eternità come mediatore». Ma le risoluzioni delle altre delegazioni straniere e dei sinodi provinciali dei Paesi Bassi mostrano che insomma si preferiva ammettere che il citato passaggio del canone volesse dire che il decreto di elezione non è subordinato al Cristo, poiché lo precede e ne resta indipendente e che, di conseguenza, il Cristo deve essere considerato semplicemente come il contenuto della decisione divina

relativa alla salvezza. Affermando che Cristo è «il fondamento dell’elezione», i delegati inglesi volevano dire alla fin fine che il beneficio dell’elezione ci è accordato «esclusivamente a causa di Cristo, per mezzo di Cristo ed in Cristo»63; quelli di Hesse limitavano ulteriormente: «in quanto l’elezione è assunta come retta disposizione dei mezzi tendenti alla vita eterna»64; quelli di Nassau precisavano: «fra questi mezzi (tendenti alla vita eterna) ottiene il primo posto e di conseguenza si pone come fondamento di tutti gli altri, il Cristo mediatore, cui Dio diede gli eletti»65; quelli di Emden riconoscevano che il canone si esprime bene nella misura in cui il Cristo è il cammino «fra il decreto di elezione ed il termine finale del decreto stesso»66 e così via; quanto agli svizzeri (rappresentati da J. J. Breitinger di Zurigo, Markus Rütimeyer di Berna, Seb. Beck e Wolfang Meyer di Basilea, J. Conr. Koch di Schaffhouse) hanno, disgraziatamente, optato per una formula negativa: «sebbene l’elezione abbia riferimento a Cristo mediatore, in cui tutti siamo eletti alla salvezza ed alla grazia, tuttavia Dio ci ha eletto non come esistenti in lui, prima del decreto di elezione, ma ci ha eletto affinché fossimo in lui e che per mezzo di lui fossimo preservati»67. Era inevitabile che in tutte queste spiegazioni di Ef. I, 4 o se si preferisce in tutte queste interpretazioni del «fondamento», si raggiungesse per l’essenziale il punto di vista dei rimostranti arminiani; infatti invece di rapportare lo «in lui» all’elezione propriamente detta, ci si serve di tale espressione semplicemente per affermare che esiste un ordine di salvezza fissato da tutta eternità. Per raggiungere simile finalità, contro i rimostranti arminiani, si tirava in ballo un decreto di elezione differente da quello che determina l’ordine della salvezza. Ma, così facendo, si svuotava quest’ultimo di tutta la sua sostanza, condannandosi a cercare la vera decisione divina nei confronti dell’uomo altrove che nel Signore Gesù Cristo; e quanto al decreto di elezione, gli si toglieva ugualmente tutta la sua realtà, poiché lo si relega in quella zona divina al di là del Cristo, dove, cessando di essere conoscibile come verità cristiana, assurge necessariamente ad assioma di carattere speculativo. A partire da questo momento, più nulla poteva impedire al neoprotestantesimo di lasciare completamente da parte il decreto di elezione, considerato un elemento d’inquietudine e di incertezza e di ripiegarsi sul decreto di salvezza che, tolto dal suo contesto irrazionale, doveva necessariamente essere concepito nella prospettiva sempelagiana degli oppositori arminiani. In conclusione: il bilancio delle discussioni fra l’ortodossia calvinista da un lato e i rimostranti arminiani dall’altro, a proposito del «fondamento dell’elezione»

in Cristo, è veramente pietoso; esso ci rivela infatti che l’antica ortodossia protestante si è posta su un terreno che, contro la sua intenzione e volontà, è stato la sua tomba. Dal punto di vista che ci interessa qui, l’opposizione della teologia luterana del secolo XVII alla dottrina del «decreto assoluto» è molto più significativa. In effetti questa opposizione non è motivata dall’assioma medioevale ed umanista secondo cui l’uomo è misura di ogni cosa, sebbene non sembra inutile chiedersi se non si sia manifestata poi proprio nella direzione di un simile assioma. Checché ne sia, bisogna riconoscere che, almeno nel suo punto di partenza, essa è spinta da una preoccupazione legittima e necessaria: intende infatti prendere sul serio la tesi della Riforma (confermata così nettamente da Lutero nel secondo periodo della sua attività), secondocui il fondamento dell’elezione divina deve essere riconosciuto in Gesù Cristo; essa ritiene che tale tesi non sia un semplice ordine pastorale concernente la cura d’anime, ma possieda un valore teologico; di conseguenza essa deve escludere la tendenza nefasta che concepisce l’elezione come una decisione presa al di fuori del Cristo, in una qualche zona divina inaccessibile. In breve: essa parte dall’idea che la preoccupazione pastorale cui si faceva tanto caso deve essere concepita non come una proibizione a saperne di più, ma come un’indicazione relativa alla verità ultima, specifica ed insuperabile che qui si tratta di scoprire. È vero che il luteranesimo della Formula di concordia (per assumere un caso esemplare) non ha enunciato altro che semplici affermazioni tendenti in questa direzione, pur rigettando fermamente il «decreto assoluto» calviniano (ed il Lutero del 1525!). La tesi principale di questo documento suona così: «Dio con quel suo consiglio, proposito e disposizione, in maniera clemente preconobbe, elesse e predestinò tutti e singoli gli eletti, che per mezzo di Cristo dovevano essere salvati»68. Ponendo l’accento sul «preconoscere», con l’evidente intenzione di sottolineare che tale termine comanda sia «l’eleggere» che il «predestinare», gli autori di questo testo mostrano assai bene la direzione in cui intendevano proseguire la loro riflessione (seguendo in ciò le tracce di quei teologi che nel secolo IX avevano tentato una conciliazione fra predestinazione e prescienza). È tuttavia sufficiente dire che gli eletti sono coloro che sono destinati ad essere salvati per mezzo di Cristo? Non si vede infatti come questa formula possa superare la concezione calvinista secondo cui il Cristo è «lo strumento di salvezza», il semplice «esecutore» del decreto divino. I teologi riuniti nel convento di Bergen nel 1577 vanno veramente oltre quelli che si riuniscono a Dordrecht

nel 1619? Concepivano veramente l’elezione divina come un’azione avente il suo fondamento in Gesù Cristo? Indubbiamente è stata questa l’interrogazione che, giustamente, ha preoccupato la teologia luterana, anche dopo l’importante codificazione confessionale rappresentata dalla Formula di concordia ed è proprio per risolvere questa questione che ha dedicato buona parte dei suoi sforzi. In che misura vi sia riuscita: è questo il criterio cui conviene misurarla. Nel corso della nostra esposizione si riferiamo essenzialmente a J. Gerhard ea A. Quenstedt, situati il primo all’inizio ed il secondo al termine del periodo «ortodosso» della teologia luterana. La dottrina luterana ortodossa presenta una particolarità degna di ritenere l’attenzione: fin dall’inizio, essa pone completamente da parte il concetto di elezione o di predestinazione, rimpiazzandolo con una definizione generale, sotto cui porlo in seguito. L’impianto generale in cui trova il suo posto è infatti un insegnamento intitolato: «dell’universale misericordia divina e della volontà divina benefica nei confronti di tutti»69 oppure più brevemente: «sulla benevolenza universale di Dio»70. Seguiamo Quenstedt. Esiste un’«universalità della misericordia paterna»71; suo soggetto è Dio Padre, «tuttavia senza esclusione del Figlio e dello Spirito, poiché di questi Tre unico è l’amore nei nostri confronti»72; suo oggetto è l’umanità nel suo insieme, caduta nel peccato: «gli uomini resi miserabili dalla colpa, tutti gli uomini, nessuno escluso, nessuno eccettuato»73; il suo fondamento intradivino è «l’intervento del Figlio di Dio, il quale, da tutta eternità, nell’arcano consiglio della Trinità Santissima, in sostituzione ed al posto degli uomini, per una perfettissima soddisfazione si diede e si offrì»74. La compassione divina s’identifica con la sua volontà che antecede ogni cosa75; deve essere presa del tutto sul serio, avendo come oggetto la salvezza degli uomini, non apparentemente, ma in verità76; non è un pio desiderio o una semplice velleità; non rappresenta una volontà inefficace, bensì una «volontà efficace, mediante la quale Dio compie la salvezza degli uomini ardentemente desiderata, portandola efficacemente al suo fine con mezzi sufficienti, intendendola procurare seriamente: per quanto gli compete, infatti, Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi»77. Essa non è certo una «volontà assoluta» ma «ordinata»: «è infatti fondata in Cristo e si determina al fine ed ai mezzi, mediante i quali viene, per così dire, accesa»78. «Questa benignissima volontà divina è il principio primo dell’umana salvezza»79. Per elaborare questa dottrina fondamentale, Quenstedt si appoggia su passaggi biblici come I Tim. II, 4 («Dio vuole che tutti gli uomini

siano salvi e pervengano alla conoscenza della verità»), Rom. XI, 32 («Dio ha rinchiuso tutti gli uomini nella disobbedienza, per fare a tutti misericordia») e II Pt. III, 9 («Non vuole (Dio) che alcuno perisca, ma che tutti raggiungano il pentimento»). Quanto a Gerhard vale il ragionamento che tutti gli uomini sono stati creati ad immagine di Dio. È su questo terreno che i luterani abbordano la questione della predestinazione propriamente detta. Un primo punto resta così acquisito: la motivazione e la natura dell’elezione divina non devono essere ricercati in un qualche «proposito assoluto di Dio»; fin dal principio la volontà divina è una volontà finalizzata in Gesù Cristo verso la salvezza di tutti gli uomini; Dio elegge in forza di un duplice fatto che nella prescienza divina già esiste, cioè in virtù dell’opera del Cristo e della fede che deriva da tale opera: «conoscendo la soddisfazione che sarà attuata in Cristo e che sarà accettata per mezzo della fede»80. L’elezione eterna corrisponde nella maniera più rigorosa allo sviluppo temporale, nel cui quadro la salvezza è accordata agli uomini che se la appropriano: «quelle cose infatti che Dio compie nel tempo, sono manifestazione di quelle altre che da tutta eternità decretò dovesse compiere; il che ed il come Dio compie nel tempo, corrisponde a quello e non ad altro, a quel modo e non a quell’altro modo che decretò dovesse essere fin dall’eternità»81. Che Dio prenda in considerazione il compimento temporale dell’opera di Cristo è già parte dello stesso decreto di elezione: questo decreto infatti altro non è che il disegno eterno della volontà divina di accordare agli uomini la salvezza in Cristo. Tuttavia il decreto di elezione implica pure, in maniera altrettanto rigorosa, che Dio prenda in considerazione la fede, che permette all’uomo di comprendere l’opera del Cristo e di farne buon uso: infatti «il merito di Cristo non giova a nessuno senza la fede»82. È tenendo conto di questa duplice realtà che si concretizza nel tempo, che Dio elegge da tutta eternità. Difatti, come abbiamo visto, la sua benevolenza è sì universale, seria ed efficace, ma nonassoluta; in quanto attributo divino, non cessa di essere finalizzata. Ed il fine cui la benevolenza tende, realmente ed efficacemente nei confronti di tutti gli uomini, è ugualmente indicato a chiare lettere: onde dare una risposta alla questione di sapere per quali uomini la sua benevolenza si volge a profitto, Dio si attiene rigorosamente alla via che egli stesso ha scelto, cioè all’opera del Cristo ed alla fede che essa suscita ed incontra; la fede infatti è il terreno su cui quest’opera porta i suoi frutti presso questo o quell’altro individuo; tutti coloro che, secondo la previsione divina, faranno nella fede un buon uso, un uso fecondo, dell’opera del Cristo, sono eletti da Dio da tutta eternità, a

condizione naturalmente che la loro fede sia seria e che perseverino fino alla fine83. Tale è la dottrina luterana su questo punto. Come Quenstedt afferma espressamente, esiste «un cerchio dell’elezione»84 La volontà eterna di Dio, che è una volontà di salvezza per tutti gli uomini, s’indirizza concretamente a tutti quelli che saranno chiamati alla fede per mezzo di Gesù Cristo e risponderanno a tale appello nell’obbedienza. In questo senso la volontà divina è una volontà elettiva. Più precisamente, la volontà secondo cui Dio intende fare grazia a tutti gli uomini è praticamente determinata dal merito di Cristo e dalla sua appropriazione mediante la fede85. Come tale è volontà elettiva, perché opera una distinzione ed una separazione all’interno dell’umanità86. Tuttavia occorre aggiungere subito che la preconoscenza divina (πρóγνωσις), cioè la «previsione degli individui che alla fin fine crederanno» determina la scelta (πρóϑεσις) divina87. Quanto agli individui, oggetto di tale scelta divina e di tale previsione, ecco come sono definiti: «coloro che alla fine crederanno in Cristo redentore del mondo, costoro sono gli eletti alla vita eterna»88. La volontà divina diventa quindi conforme alla sua conoscenza ed in questa misura anche ad un oggetto differente da Dio, cioè il Cristo da un lato e la fede suscitata dallo Spirito Santo dall’altro. Un punto deve rimanere acquisito: secondo Rom. IX, 16, l’elezione non dipende dalla volontà o dall’azione dell’uomo, ma daDio che fa misericordia89; conseguentemente questa elezione è veramente gratuita, eterna, particolare ed invariabile90. Non vi è dunque posto per un «decreto assoluto». Dio infatti, autore dell’elezione, si compiace «nel merito di Cristo previsto e predefinito», così come lui stesso lo ha motivato: è in funzione di questa economia salvifica che Dio sceglie chi vuole91; inoltre la scelta divina si trova ugualmente determinata dal fatto che Dio prende in considerazione la fede che accorda all’uomo e mediante la quale l’uomo si appropria il merito di Cristo92. Così Quenstedt spera evitare il pelagianesimo da un lato e l’assolutismo teologico dall’altro93. È opportuno cominciare a riconoscere senza riserve la serietà di un simile tentativo di comprendere la dottrina dell’elezione, tenendo conto veramente dell’«in lui» di Ef. I, 4. La dottrina luterana ortodossa rappresenta, senza contraddizioni possibili, uno sforzo estremamente spinto di sopprimere il difetto dell’insegnamento della Riforma su questo punto (in particolare dell’insegnamento troppo conservatore dell’ortodossia calvinista, in cui si parla di una libertà divina assoluta e senza alcun contenuto); si è applicata

infatti a dimostrare che la decisione divina originaria cui questo insegnamento rinvia non è differente da Cristo stesso; senza fare concessioni, si è sforzata di comprendere l’elezione come una grazia. Questo significa che la dottrina luterana ortodossa non ha lasciato da parte i problemi posti dalla Formula di concordia; li ha anzi chiaramente affrontati; e la soluzione offerta è effettivamente un passo in avanti verso una conclusione. Parimenti bisogna riconoscere che rispetto al Sinodo di Dordrecht, essa si sforza di dare, fin dall’inizio, un contenuto cristiano all’articolo sulla predestinazione; c’è da rammaricarsi che i teologi riformati non siano almeno stati incitati da questo saggio a fare posto, sebbene in maniera del tutto differente, a simili preoccupazioni; invece i teologi della chiesa riformata hanno rifiutato ostinatamente di seguire la strada aperta dai luterani: piuttosto di accettare la revisione che questi ultimi avevano operato con tanto zelo e con tanta sollecitudine, hanno preferito restare fermi alla formulazione, così poco soddisfacente e così pericolosa, che della dottrina della predestinazione era stata data nella prima metà del secolo XVI. Non ci si può che meravigliare. E parimenti ci si deve stupire e deplorare il fatto che i riformati da parte loro non abbiano trovato qualcosa di meglio da proporre, se possibile. Ammesse chiaramente queste cose, occorre tuttavia dire che la soluzione luterana non era così soddisfacente da doversi imporre senza contraddizioni; esistono infatti taluni motivi che spiegano perché, da parte riformata, si è potuto pensare che la dottrina del «decreto assoluto» rimanesse ancora, relativamente parlando, la miglior salvaguardia dell’esigenza posta dalla Riforma e dalla fede cristiana in questo campo. In effetti, lo stesso punto di partenza della dottrina luterana finisce di essere contestabile È certo vero che anche noi abbiamo dovuto ammettere fin dall’inizio che la dottrina dell’elezione è la somma dell’evangelo e che fa parte della dottrina di Dio perché esprime il riconoscimento della «benevolenza divina nei confronti di tutti gli uomini». Ma vi è una grande differenza fra il fatto di volere interpretare immediatamente la nozione di elezione in questo senso ed il fatto di pretendere di dedurla senza transizione dalla «benevolenza divina». Ora è proprio questo cammino che caratterizza la metodologia degli antichi luterani: la grandiosa «benevolenza divina universale» ed il generoso «universalismo della misericordia paterna» non costituiscono alla fin fine, presso di loro, una verità generale, un principio sistematico che si tratta di sviluppare e di far trionfare ad ogni costo nella dottrina della predestinazione? Non si può contestare che l’antica nozione di «decreto assoluto», così come la

si ritrova nei primi testi della Riforma ed in Calvino, possiede almeno un merito: in ogni caso, essa impedisce di affermare troppo in fretta di sapere quello che Dio vuole, in quanto essa rinvia, al di là della «paterna misericordia», alla maestà di Dio stesso ed alla libertà della sua misericordia. Essa contiene cioè, almeno implicitamente, un avvertimento ai teologi: perdete un poco della vostra sicurezza, poiché Dio non è un oggetto di cui ci si può impadronire! Certo, non bisogna dimenticare che i luterani hanno cercato e trovato in Cristo il «fondamento» della volontà salvifica di Dio: in Gesù Cristo, cioè nell’azione (decisa e compiuta da tutta eternità nel seno della Trinità) mediante la quale il Figlio di Dio ha offerto se stesso per la salvezza degli uomini. Ma li si può veramente prendere sul serio?; è veramente Gesù Cristo ad interessarli o non piuttosto la «benevolenza divina» in se stessa, assunta come un principio sistematico?; se questi princìpi fondamentali si riferiscono veramente a Gesù Cristo (cioè alla realtà eterna e temporale del dono del Figlio di Dio per la salvezza di tutti), dove si può vedere nell’insegnamento luterano che tale dono del Figlio di Dio possiede il carattere di un giudizio, eterno e temporale anch’esso? Se è esatto infatti che Gesù Cristo è venuto e che da tutta eternità ha il disegno ed il potere di cercare e di salvare quanto è perso, è altrettanto esatto che, in quest’azione, risolta prima di ogni tempo e compiuta quaggiù, egli è colui a partire dal quale gli spiriti si separano e che, in questa funzione, non è meno l’esecutore della volontà divina, anzi la stessa «benevolenza divina». Qual è dunque questa «benevolenza divina» e qual è questo amore divino per tutti gli uomini? La risposta a simile interrogazione la si trova certo nella realtà di Gesù Cristo; essa però non ne deve essere separata; non è cioè permesso ergerla a principio. Non sarebbe consentito farla dipendere da un’affermazione anticipata della «benevolenza universale di Dio», affermazione che ci permetterebbe di disporre segretamente di Gesù Cristo e di legare Dio alle nostre concezioni; l’evangelo non si presta affatto a tale operazione; non potrebbe infatti essere tradotto e trasformato in un qualsiasi principio. «Per quanto gli compete, Dio vuole equamente salvi tutti gli uomini» ecco una proposizione nella quale l’evangelo è proprio diventato un principio astratto. Ora l’evangelo non può mai essere ridotto ad un principio, per quanto bello esso sia! È infatti «buon annuncio» esclusivamente nella persona divino-umana di Gesù-Cristo; questa persona non si lascia tramutare in formula; non abbiamo il diritto di concepirla partendo da un vangelo formulato e posto astrattamente, poiché è partendo da essa che noi dobbiamo comprendere concretamente l’evangelo. Ci

è richiesto di lasciare al «buon annuncio» la sua libertà: la libertà dell’amore di Dio che in esso si rivela ed in esso agisce. Se le cose stanno così, è chiaro che già nella definizione principale dei luterani ortodossi (ammesso che una tale definizione sia necessaria) la nozione di elezione (in cui l’evangelo si presenta come una persona) dovrebbe essere presa in considerazione, preparata e motivata in tutt’altra maniera; allorché si è presa visione della dottrina luterana nel suo insieme, non ci si immagina affatto che essa possa precisare, nel quadro della «universalità della paterna misericordia», l’esistenza di una scelta operata da Dio; la volontà salvifica di Dio, della quale si afferma aprioristicamente il carattere generale, non è forse una «volontà universale, seria ed efficace»?; come può quindi essere «elettiva»?; non è forse immediatamente legata intrinsecamente al suo oggetto e cioè all’insieme degli uomini?; che ne è del suo carattere di libera grazia e della sua libertà? I luterani rispondono: si tratta non di una «volontà assoluta», ma di una «volontà ordinata». È giusto; tuttavia il fatto che essa istituisca un ordine e lo rispetti, il fatto che agisca sull’umanità in un quadro così definito, non significa ancora che esista una scelta divina, una distinzione operata liberamente da Dio in seno alla massa umana; a meno che tutto ciò non voglia significare che la scelta è già avvenuta! Ed è proprio così che intendono i luterani: la nozione di scelta è completamente svuotata per il fatto che Dio ha istituito questo ordine. È questa la grande contraddizione soggiacente alla dottrina luterana della predestinazione. Questa dottrina, se si osserva più attentamente, non insegna affatto che Dio elegge; afferma semplicemente che ha deciso di compiere e che effettivamente compie il suo disegno generale di salvezza in modo tale che, necessariamente, si produce una distinzione fra gli uomini; Dio conosce naturalmente da tutta eternità siffatta distinzione e, data la forma impressa al suo disegno, parimenti l’approva. Tuttavia non l’approva che dopo, di modo che, ad essere rigorosi, non si può affatto vedervi la sua opera specifica. In altri termini: la concezione luterana sopprime l’esistenza di una libera opzione divina. È questo l’elemento comune che la lega alla dottrina arminiana rifiutata a Dordrecht (e questo malgrado tutte le differenze particolari, specialmente dell’antipelagianesimo cui essa esplicitamente si richiama). Si comprende allora che sia stata giudicata inaccettabile dai calvinisti. Che la salvezza rivelata in Gesù Cristo sia il luogo ove conviene riconoscere il fondamento dell’elezione significa, nella costruzione luterana, che il disegno di elezione coincide con l’intenzione salvifica di Dio, in cui scompare; ciò che

apparentemente sussiste dell’elezione, rileva dalla previsione divina: Dio prevede che tutti gli avvenimenti temporali saranno conformi al suo disegno eterno, presentantesi sotto la forma di una volontà salvifica universale; una scelta sarà senza alcun dubbio operata, ma, ad essere precisi, Dio stesso non ne avrà l’iniziativa. Il Dio onnisciente possiede da tutta eternità la «conoscenza del merito di Cristo» e la «conoscenza della fede»; partendo da questa duplice conoscenza, vuole dasempre la salvezza di quegli uomini la cui fede dimostra che il merito di Cristo si volge a loro profitto e che essi ne sono beneficiari; questa volontà divina è precisamente l’elezione divina. Cercheremmo invano di discernere l’articolazione fra benevolenza generale di Dio nei confronti di tutti gli uomini e finalizzazione in forza della quale tale benevolenza si trova legata all’opera di Cristo ed alla fede. Non ci è mai detto il senso specifico della volontà divina che presiede alla salvezza di questo o quell’altro individuo; ad ogni modo questa volontà non può più essere una volontà elettiva, libera e differenziatrice nei confronti degli individui; non si può più attribuire a Dio un simile volere, dal momento che si è rifiutato il «decreto assoluto» e gli si è sostituita la nozione di una «universalità della paterna misericordia». Affermando che Dio sceglie, la dottrina luterana non afferma altro che questo: Dio vuole ed approva precedentemente quanto precedentemente sa doversi produrre nel quadro della sua volontà, finalizzata verso la salvezza. Evidentemente, non si tratta di una libera scelta. I luterani hanno indubbiamente insistito molto sulla necessità di riferire alla libera decisione ed all’opera specifica di Dio non solamente l’opera del Cristo così come Dio l’ha prevista, ma anche la «fede prevista», in cui tale opera diventa accessibile agli uomini, che ne traggono profitto. È proprio qui, a proposito di questa «fede prevista», che doveva sorgere un dilemma pericoloso. O si considera che si debba rapportare anche la «fede prevista» alla grazia dello Spirito Santo, cioè alla volontà divina, mettendo in evidenza come tutto sia comandato da una libera scelta di Dio. In questo caso il problema è risolto: se, mediante la fede, questo o quell’individuo beneficiano dell’opera di Cristo, accettando che sia loro giovevole, tutto ciò proviene da Dio; questi individui sono dunque realmente gli eletti di Dio e non individui che hanno scelto da se stessi questa situazione; ma si sfugge in questa maniera a quell’«assolutismo» calvinista che si vorrebbe per l’appunto evitare? Oppure si esita a riconoscere pienamente la libertà propria alla grazia dello Spirito Santo, ritenendo che, da parte dell’uomo, il dono della fede si trovi per lo meno condizionato e limitato da una non-resistenza. In questo caso si evita

senz’altro l’«assolutismo», ma si sfugge al pelagianesimo, ad una valutazione eccessiva dell’apporto umano, a scapito della grazia? I teologi luterani non hanno certo mai affermato che la fede sitrova limitata e condizionata dall’atteggiamento umano; hanno decisamente rifiutato simili affermazioni, bollandole come «eresia scolastica» e «papista»94; ma non potevano fare altro che affermare il carattere non condizionato della loro fede. Come potevano infatti difenderlo realmente, dal momento che, con il pretesto di evitare lo assolutismo, non volevano pronunciarsi sull’altro punto, cioè sul carattere incondizionato della volontà divina nei confronti dell’uomo? Non doveva forse imporsi una conclusione, inespressa ed involontaria certo, ma non meno reale e cioè: Dio sa da tutta eternità che questo o quell’individuo non gli resisterà ed è a questo titolo che lo elegge? È a causa di tale conclusione, inespressa e persino contestata dai luterani, ma non per questo meno inevitabile, che i calvinisti hanno rifiutato la tesi della «fede prevista» e, con essa, tutta quanta la dottrina luterana della predestinazione; a loro modo di vedere, proprio per quanto concerne la questione capitale dei rapporti fra Dio e l’uomo, bisognava sottolineare esclusivamente la libera grazia divina; preferivano restare al «decreto assoluto» piuttosto che seguire, per evitarlo, un cammino che sembrava condurre, almeno per loro, in definitiva, alla messa in questione della tesi più importante della Riforma. Per quale ragione i luterani accettano che, nel momento decisivo, la volontà divina sia limitata da un sapere, da una previsione di Dio?; perché, nel caso specifico, ritengono di fare intervenire una nozione come la «fede prevista»?; questo non compromette forse la loro intenzione fondamentale di difendere la libera grazia di Dio contro tutti gli attacchi del pelagianesimo, cioè in definitiva dell’uomo? Poiché i luterani non sono riusciti a chiarificare questi punti, i riformati si sono decisi a non scegliere Cariddi invece di Scilla e si sono attenuti alla loro dottrina del «decreto assoluto»; è d’altronde proprio per questo motivo che la dottrina luterana della predestinazione non ha provocato quell’impulso profondamente fecondo che pure avrebbe dovuto avere, data la sua intenzione. Non si può dire che i riformati siano rimasti diffidenti nei confronti dell’insegnamento luterano senza nessuna buona ragione e che siano rimasti fermi all’antica soluzione ereditata dalla Riforma con accanimento illogico; la dottrina luterana nasconde infatti un equivoco; si può, almeno questo, elevare qualche dubbio sulla purezza della sua intenzione, avendo la teologia luterana ortodossa scelto diappropriarsi della dottrina della «scienza mediana» così

cara ai gesuiti. Certo essa giustificava tale scelta dicendo che la teoria in questione forniva buoni argomenti contro il «decreto assoluto» calvinista e che, in maniera positiva, permetteva di rendere conto del concetto di «fede prevista», cavallo di battaglia della dottrina luterana della predestinazione. Ora la teoria gesuita della «scienza mediana» presta alla prescienza divina una forma particolare: insegna che tale prescienza ha per oggetto le libere azioni della creatura, nella misura in cui queste ultime precedono virtualmente la decisione della volontà di Dio; in altri termini: lascia intendere che la volontà divina è limitata e determinata da quanto l’uomo fa. Concepire in questo modo la prescienza divina ed il suo oggetto specifico (la «fede prevista») significa ripudiare nei fatti la tesi maggiore della Riforma; la dottrina luterana può aprire le strade ad un nuovo pelagianesimo; e non si può certo negare che la debolezza caratterizzante in certa misura il luteranesimo a partire da Melantone, a questo riguardo, non sia poi sfociata in seguito nel senso del pelagianesimo. Ma d’altro lato non abbiamo il diritto di dissimulare che qualche cosa dovesse pure farsi per migliorare la soluzione classica della Riforma; dovremo quindi appropriarci dell’intenzione della dottrina luterana della predestinazione, nella misura in cui tale dottrina si è applicata a mettere in risalto il fondamento cristologico della dottrina della predestinazione. Certo: dovremo fare ben attenzione a non identificare troppo in fretta e troppo sistematicamente questo fondamento con l’esistenza, in Dio, di una volontà generale di salvezza; non dovremo vedere nella volontà divina una semplice conferma di ciò che Dio prevede da tutta eternità come lotto degli individui, in forza della salvezza loro accordata in Cristo e della loro fede in questa salvezza. Parimenti non mancheremo di riservare, conformemente alla dottrina calvinista del «decreto assoluto», un posto ad una volontà divina veramente elettiva e libera. In nessun modo la motivazione cristologica dell’elezione dovrà finire per negare l’elezione, rifiutarsi cioè a prendere in considerazione la libera grazia di Dio; si tratterà di mostrare invece che Gesù Cristo è precisamente colui che occupa il posto riservato alla volontà divina e che in lui, il vero uomo, entriamo in relazione con il vero Dio; in altri termini noi dovremo sforzarci di comprendere e di fare comprendere che Gesù Cristo, proprio perché è l’uomo eletto, è parimenti il Dio-che-elegge liberamente. Questa è la dottrina che occorre rendere trasparente se, conformemente all’esatta intenzione della dottrina luterana, si deve riconoscere il decreto di elezione stesso nell’interno del disegno di salvezza rivelato da Dio.

Ora su questo punto la dottrina luterana è poco chiara, così come lo è la dottrina riformata ed è indubbiamente questo il suo difetto principale. Ha semplicemente dedotto l’elezione dalla «paterna misericordia» concepita come un principio; ha certo affermato che l’azione del Figlio di Dio, che si offre da tutta eternità per noi, è la grande ragione del comportamento misericordioso del Padre; ma non ha saputo vedere che proprio questo dono del Figlio di Dio è l’avvenimento dell’elezione eterna, mostrandosi incapace di additare Gesù Cristo come soggetto di tale azione. Se lo avesse fatto, avrebbe superato le difficoltà sollevate dalla dottrina calvinista del «decreto assoluto» ed avrebbe contribuito ad una valida revisione della soluzione classica della Riforma; sarebbe riuscita allora a presentare la benevolenza divina unicamente come un atto di elezione, come una libera scelta divina, come la scelta incomparabile di Gesù Cristo, il giudice misericordioso e giusto; di conseguenza non sarebbe stata così vicina allo Scilla del pelagianesimo. Se mettersi di fronte al Dio-cheelegge significa chiaramente e definitivamente porsi davanti a Gesù Cristo, è subito evidente che non è più possibile sbirciare, anche solo un pochino, verso la soluzione pelagiana. Porremo dunque un punto finale a questo dialogo storico costatando quanto segue: la conclusione cui precedentemente siamo pervenuti (di non dover partire da una nozione astratta di un Dio-cheelegge nella dottrina dell’elezione, né dalla nozione parimenti astratta di un uomo eletto, ma dalla concreta conoscenza di Gesù Cristo, il Dio-che-elegge e l’uomo-eletto) non è del tutto nuova (almeno da un punto di vista generale). Non fa che confermare e riprendere semplicemente ciò che la teologia della Riforma ha sempre affermato con grande nettezza. Disgraziatamente i Riformatori non hanno saputo esprimersi, su questo punto, in modo che fosse subito manifesto che la loro proposizione era teologicamente seria, distinta da una pura preoccupazione pastorale; la dottrina di un Dio-che-elegge in maniera astratta sussiste come sfondo ed allorché gli arminiani si accorsero di questo, intesero porvi rimedio; lo fecero tuttavia in modo tale che la nozione di elezione divina ne uscì compromessa (per non dire scartata furtivamente), al punto che si ripresentò (in maniera chiara negli arminiani e velata nei luterani) la teoria secondo cuil’uomo è eletto astrattamente o, se si vuole, capace di scegliere lui stesso Dio. Alla luce di questi dati storici, il nostro compito si trova ulteriormente chiarificato: dobbiamo indubbiamente adottare la tesi della Riforma; dobbiamo però motivarla e formularla in modo che, nei suoi due aspetti, possa essere compresa ed esposta con la serietà dovuta; il che significa:

in maniera che, sia per quanto concerne il Dio-che-elegge e sia per quanto riguarda l’uomo-eletto, il nome di Gesù Cristo costituisca la prima e l’ultima parola della sapienza. 1. CALVINO, Institution III, 21, 1. 2. H. OTTEN, Calvins theologische Anschauung von der Praedestination, (Muenchen) 1938, p. 34. 3. L. BOETTNER, The Reformed Doctrine, p. 2. 4. CALVINO, De aeterna Dei praedestinatione: 1552 = C. R. 8, 261. 275. 292. 298. 317. 5. CALVINO, Institution III, 24, 12. 6. Ivi, III, 24, 15. 7. Ivi, III, 21, 1. 8. Ivi, III, 21, 5. 9. Ivi, III, 24, 12. 10. AGOSTINO, De correptione et gratia 14, 45. 11. CALVINO, Institution III, 23, 14. 12. H. OTTEN, Calvins theologische Anschauung, p. 29. 13. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol. I, q. 22, art. 2 corpus. 14. Ivi, I, q. 22, art. 2 ad 4. 15. Ivi, I, q. 23, art, 1 corpus. 16. Ivi, I, q. 23, art, 3 ad 4. 17. BONAVENTURA, Breviloquium I, 9. 18. ZWINGLI, Comm. de vera et falsa religione: 1525: ed. (M.) SCHULER e (J.) SCHULTHESS, vol. III (Zuerich 1830), pp. 163. 282. 283. 19. CALVINO, Institution I, 16-18. 20. Ivi, III, 21-24. 21. CALVINO, Institution. 1539 s.: cap. 14, 1. 22. H. OTTEN, Calvins theologische Anschauung, pp. 99 s. 23. A. POLANUS, Synt. Theol. Christ.: 1609: col. 1559 e J. WOLLEB, Christ. Theol. Compendiam: 1626: I, cap. 4. 24. A. POLANUS, Synt. Theol. Christ.: 1609: col. 1560. 25. F. GOMARUS, Disputatio de div. hominum praedestinatione: th. 15 corpus e coroll. 1. 26. Sinossi di Leiden: 1624: disp. 24, 4. 27. L. BOETTNER, The Reformed Doctrine, p. 13. 28. Ivi, p. 14. 29. Ivi, p. 20 s. 30. Ivi, p. 25. 31. Ivi, p. 30. 32. Ivi, p, 36. 33. Ivi, p, 37. 34. Ivi, p. 38. 35. Ivi, p. 42 s. 36. CALVINO, Comm. della lettera ai Romani IX, 14 = C. R. 49, 180. 37. TOMMASO D’AQUINO, Summa Teol. I, q. 23, art. 4 sed contra. 38. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol. III, q. 24.

39. LUTERO, Sermone su Mth. XX, 1-16 = W. 52, 140, 28. 40. MELANTONE, Loci: 1559 = C, R. 21, 914. 41. Form. Concordine: Epit. XI, 6. 42. Ivi, Epit. XI, 7. 43. Ivi, Epit. XI, 10. 44. Ivi, Sol. declaratio XI, 65. 45. CALVINO, De aeterna Dei praedestinatione: 1552 = C. R. 8, 306 s. 46. Ivi = C. R. 8, 318. 47. Ivi = C. R. 8, 319. 48. CALVINO, Institution III, 24, 5. 49. Confessio Helvetica Posteriori: art. 10. 50. CALVINO, Institution III, 24, 5. 51. CALVINO, Congrégation: 1562 = C. R. 8, 95. 52. Ivi = C. R. 8, 100. 53. Ivi = C. R. 8, 114. 54. Confessio Helvetica Posteriori: art. 10. 55. Ivi, art. 10. 56. LUTERO, De servo arbitrio: 1525 = W. 18, 689, 18. 57. CALVINO, De aeterna Dei praedestinatione: 1552 = C. R. 8, 319. 58. Ivi = C. R. 8, 298. 59. CALVINO, Institution III, 22, 7. 60. CALVINO, De aeterna Dei praedestinatione: 1552 = C. R. 8, 292. 61. Sinodo di Dordrecht: 1619: Canones 1, 3. 62. Ivi, Canones l, 7. 63. Ivi, Canones 1, 3. 64. Ivi, Canones 1, 3. 65. Ivi, Canones 1, 2. 66. Ivi, Canones 1, 11. 67. Ivi, Canones 1, 4. 68. Form. Concordiae: Solida Declaratio XI, 23. 69. J. GERHARD, Loci Theolog.: 1610: VII, 4. 70. A. QUENSTEDT, Theol. did. pol.: 1685: III, cap. 1. 71. Ivi, III, cap. 1, sect. 1, th. 9. 72. Ivi, III, cap. 1, sect. 1, th. 8. 73. Ivi, III, cap. 1, sect. 1, th. 9. 74. Ivi, III, cap. 1, sect. 1, th. 10. 75. Ivi, III, cap. 1, sect. 1, th. 5. 76. Ivi, III, cap. 1, sect. 1, th. 12. 77. Ivi, III, cap. 1, sect. 1, th. 6. 78. Ivi, III, cap. 1, sect. 1, th. 12. 79. Ivi, III, cap. 1, sect. 1, th. 13. 80. J. GERHARD, Loci Theolog.: VII, cap. 8, 148. 81. Ivi, VII, cap. 8, 151.

82. Ivi, VII, cap. 9, 161. 83. Ivi, VII, cap. 9, 176. 84. A. QUENSTEDT, Theol. did. pol.: III, cap. 2, sect. 2, quaestio 2, th. 4. 85. Ivi, III, cap. 2, sect. 1. 86. Ivi, III, cap. 2, sect. 1, th. 9-11. 87. Ivi, III, cap. 2, sect. 1, th. 12. 88. Ivi, III, cap. 2, sect. 1, th. 13. 89. Ivi, III, cap. 2, sect. 1, th. 10. 90. Ivi, III, cap. 2, sect. 1, th. 20. 91. Ivi, III, cap. 2, sect. 2, quaestio 3. 92. Ivi, III, cap. 2, sect. 2, quaestio 4. 93. Ivi, III, cap. 2, sect. 2, quaestio 4, ekthesis 5. 94. A. QUENSTEDT, Theol. did. pol.: III, cap, 2, sect. 2, quaestio 4, antithesis 2.

3. IL POSTO DELLA DOTTRINA DELL’ELEZIONE NELLA DOMMATICA A. PRELIMINARI Non è cosa del tutto naturale che la dottrina dell’elezione occupi nell’insieme della ricerca dommatica precisamente il posto che le abbiamo assegnato: prima di tutte le altre proposizioni relative all’azione divina ed in relazione stretta con la dottrina di Dio. Per quanto ne so, questo modo di procedere non è ancora mai stato adottato. La dottrina dell’elezione è veramente parte integrante della descrizione del soggetto di ogni insegnamento cristiano? È permesso e comandato di abbordarla prima di aver trattato almeno della creazione del mondo e dell’uomo, o prima di aver esposto la dottrina della riconciliazione e del suo scopo, cioè la redenzione eterna? Abbiamo risposto di sì. Infatti, in se stesso, nella decisione prima e fondamentale in forza della quale vuole essere Dio e lo è effettivamente, nel mistero di quanto è accaduto da tutta eternità e per sempre nel suo essere più recondito, nella sua essenza trinitaria, Dio non è altro che il Dio-che-elegge nel suo Figlio o nella sua Parola, il Dio che sceglie se stesso e che, in lui e con lui, sceglie il popolo dei suoi. Poiché non è solamente l’amore, bensì ama, Dio sceglie. Sceglie nell’atto del suo amore che determina strutturalmente la sua essenza. E poiché tale atto è una scelta, è nel medesimo tempo e come tale, l’atto della sua libertà. Non si dà conoscenza di Dio rilevante dalla sua rivelazione e dall’opera messa in evidenza da quest’ultima, che non sia essa stessa conoscenza della scelta operata da Dio; non si dà verità cristiana che non implichi per definizione, poiché ne dipende, il fatto che Dio è colui che elegge da tutta eternità e per sempre; non si dà infine alcuna proposizione di dottrina cristiana che non debba, nella sua forma e nel suo contenuto, riflettere qualche cosa di questa scelta divina, se intende essere realmente una proposizione cristiana. Obbligatoriamente essa sarà eco della scelta eterna che significa: Dio non vuole essere ed effettivamente non è senza i suoi, senza il popolo degli uomini che gli appartiene. È per questi motivi che la dottrina dell’elezione costituisce il punto culminante di tutte le altre proposizioni cristiane. Ed essa fa parte della dottrina di Dio, poiché Dio stesso non vuole essere Dio ed in realtà non è Dio, se non rivelandosi nel fatto che elegge. Non vi è né altezza, né profondità in cui possa manifestarsi ancora o di nuovo come un Dio differente. Se si esponesse una dottrina di Dio in cui viene a mancare il tema che costituisce la sostanza della dottrina della elezione, non si comprenderebbe e discernerebbe certamente il soggetto che presiede ad ogni

proposizione cristiana. Sono stati questi i motivi che ci hanno spinto ad abbordare la questione della predestinazione già a questo punto, anzi, precisamente a questo punto. È subito evidente che il nostro modo di procedere costituisce un’innovazione che occorre giustificare di fronte alla tradizione teologica. È certo vero che, per il nostro problema, non si ha in questa tradizione quell’unanimità che invece si trova quasi costantemente a proposito del posto che si deve accordare, ad esempio alla dottrina trinitaria nell’insegnamento cristiano. Ma si può notare subito un’altra specie di unanimità: le classificazioni in essa presenti sono tutte diverse da quella che proponiamo e ci sforziamo di applicare qui. È dunque utile e necessario menzionarle e, onde evitare di essere accusati di arbitrarietà, indicare anche brevemente ciò che ne pensiamo, riferendoci alle nostre precedenti considerazioni. B. LE POSIZIONI TRADIZIONALI 1. La dottrina della predestinazione segue quella di Dio e precede quella della creazione. A prima vista può sembrare che, ad un di presso, la nostra classificazione segua quella divenuta per così dire classica nell’ortodossia riformata del secolo XVI, in cui la dottrina della predestinazione segue direttamente quella di Dio e precede immediatamente quella della creazione, cioè l’insieme degli altri temi della confessione di fede e della dommatica. Questa è la classificazione che si trova negli Articoli Irlandesi di Religione del 1615, nella Confessione di Westminster del 1647, in Polanus, Wolleb, Wendelin, H. Alting, A. Heidanus, Fr. Burmann, Fr. Turrettini, P. van Mastricht, Sal. van Til ed altri ancora. Poiché, soprattutto presso i dogmatici, questa disposizione tradizionale è la prima cosa che balza agli occhi, i teologi moderni hanno visto soventissimo nella dottrina della predestinazione il dogma centrale della teologia riformata ed è giusto ricordare che anche gli antichi riformati hanno talora pensato in questa maniera. È bene notare tuttavia che la classificazione di cui si tratta non è stata adottata né da Zwingli, né da Bullinger, né da Calvino; quanto ai testi confessionali, la maggior parte non ne tiene conto; infine è lungi dall’essere stata seguita da tutti i dommatici del secolo XVI in ambito riformato. È comunque in ogni caso storicamente insostenibile il qualificare la dottrina della predestinazione come dogma centrale del pensiero riformato, se con questo si vuole intendere che, per gli antichi riformati, questa dottrina costituiva una specie di chiave, una specie di proposizione principale a partire dalla quale si potesse dedurre in qualche modo tutta la serie degli altri dogmi. Anche il famoso schema di

Teodoro di Beza1 non può essere letto in questa linea: l’autore si proponeva solamente (a giusto titolo o meno) di dimostrare, utilizzandc il metodo grafico caro all’epoca, come tutti i dogmi esistenti siano sistematicamente legati al dogma della predestinazione, senza fare di questo dogma un principio di deduzione. Così pure la Confessione di Westminster ed i dogmatici precedentemente menzionati non pretendevano dedurre tutta la dommatica dalla predestinazione; ponendola immediatamente dopo la dottrina di Dio e prima degli altri dogmi intendevano senza dubbio mostrare che l’insegnamento della predestinazione costituisce il tema primordiale e decisivo, cui bisogna ritornare senza sosta, abbordando lo studio della volontà divina nel suo rapporto con la creatura; ma era questa l’unica loro intenzione. Ed a leggere i loro testi, si ha piuttosto l’impressione che essi non hanno preso abbastanza sul serio le conseguenze sistematiche di questo tema principale. Il nostro proposito non s’identifica con questa linea della tradizione riformata; questo già per la semplice ragione che, guardando più da vicino, il motivo che dirige l’esposizione della fede e della dommatica di detta tradizione non è la dottrina dell’elezione, bensì, contro questa stessa dottrina, l’affermazione concernente i decreti di Dio in generale. «Il decreto di Dio è l’azione intrinseca della divina volontà, mediante la quale (Dio) stabilì liberissimamente e certissimamente da tutta eternità su quelle cose che sarebbero dovute attuarsi nel tempo»2. È con questa menzione di un decreto divino generale che si apre il capitolo che segue l’esposizione della dottrina di Dio; per mezzo di tale decreto Dio intende manifestare la gloria della sua potenza, della sua saggezza e della sua bontà; ed è in questo cuadro generale che si inserisce in seguito il «decreto speciale», il cui fine è questa stessa autoglorificazione divina, manifestantesi «nell’eleggere o nel riprovare le creature razionali», precedendo anche qui, la predestinazione degli angeli, quella degli uomini3. Seguendo Tommaso d’Aquino si vede la dottrina della elezione come una «parte della provvidenza». Certo, i teologi riformati non hanno tratto le conseguenze sistematiche di tale concezione; logicamente avrebbero dovuto esporre già a questo punto la dottrina della provvidenza che Invece non abbordano se non in seguito, nella dottrina della creazione; tuttavia la dottrina della provvidenza si trova contenuta, almeno embrionalmente, in quella «sui decreti (divini) in generale». Conseguentemente, la dottrina della predestinazione, trattando delle intenzioni divine relative alla salvezza dell’uomo, è stata fatalmente accostata nella prospettiva particolare secondo cui Dio sarebbe il reggente assoluto

del’universo. Abbiamo già detto per quale ragione non possiamo adottare un simile modo di vedere, tutto incentrato su Dio nella sua relazione con il mondo ed in cui l’elezione divina è vista in funzione di tale relazione generale, come parte di essa. La Bibbia e la fede cristiana impongono un cammino esattamente opposto; insegnano a cercare il Dio vivente dapprima ed innanzitutto nel suo atto di elezione, cioè nella relazione particolare che stabilisce con l’uomo in Gesù Cristo; ed invitano a contemplare in seguito, partendo da questo dato, il rapporto generale che Dio instaura con l’universo ed ad interpretare su questa base il famoso «decreto generale». Non è certo simile l’intenzione della tradizione, cui sembriamo avvicinarci. Inoltre ci separiamo da essa anche su un altro punto: per quanto ne so, nessun rappresentante di questa tradizione non ha mai pensato a concepire e ad esporre la dottrina dell’elezione come parte integrante della dottrina di Dio. Questo si spiega ricordando una concezione cui ci siamo più volte riferiti nella prima parte della nostra dottrina di Dio: la concezione di Dio propria dei Padri della chiesa e degli scolastici, adottata dalla vecchia ortodossia protestante. Secondo tale concezione, Dio è in se stesso pura aseità, semplicità, invariabilità, infinità e quindi può essere tutto ciò che vuole, tranne un Dio vivente, affermantesi cioè tramite decisioni concrete; in questo senso possiede la vita solo in modo improprio e non essenziale, nella sua relazione con il mondo e perché noi gliela attribuiamo; la sua essenza e la sua divinità devono invece essere ricercate nell’immobilità che gli è peculiare, al di sopra ed al di là della sua azione vivente nell’insieme dell’universo. Si è stati felicemente inconsequenti, allorché si è parlato di «azioni divine esterne ed estrinseche» (opera Dei ad extra externa) ed anche di «azioni divine interne ed estrinseche» (opera Dei ad extra interna), in relazione con i decreti divini e cioè delle manifestazioni, direzioni ed obiettivi concreti propri alla volontà e dunque all’essenza stessa di Dio. È sempre in forza di questa felice inconsequenzialità che in questo contesto si è definita la nozione di decreto con questa espressione: «azione interna della volontà divina», mentre Dio, in quanto «essere semplice ed infinito», non poteva certo, per definizione, essere autore di «azioni interne estrinseche», cioè di un’«azione interna» qualsiasi. È già infatti assai sorprendente che un essere di questa natura fosse capace di una qualsivoglia «azione estrinseca»; come ammettere allora che potesse essere l’autore di una decisione concreta in se stesso?; evidentemente si era costretti dalla Bibbia all’una ed all’altra concessione. Riconoscendo l’esistenza della

vita esterna ed interna di Dio, manifestantesi e confermantesi per mezzo di un atto concreto di decisione, una conclusione diventava inevitabile, ma non si è osato trarla; la conclusione cioè secondo cui Dio stesso non esiste e non vuole esistere altrimenti che in questa vita concreta, in questa qualificazione concreta della sua essenza. La dottrina della Trinità avrebbe dovuto spingere in questa direzione. Non è stato così. Si discorre delle tre persone divine, delle loro relazioni interne, della loro azione comune all’esterno senza rendersi ben conto di che cosa potesse significare il fatto che tale essere trinitario non esiste, né è conoscibile come un’entità in se stessa, immobile o mobile che sia; non si vede abbastanza che Dio è il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo e che questi tre modi di essere sono il Dio unico, non in astratto, ma nel quadro di una relazione e di una decisione: in forza cioè dell’amore e della libertà, in cui Dio ha disposto di se stesso, da tutta eternità e per sempre, all’interno della sua essenza trinitaria. È precisamente di questa determinazione della volontà di Dio (che è anche quella della sua essenza e ci tutte le sue perfezioni) che si tratta nella dottrina dell’elezione. Come poter parlare dell’essenza divina senza parlare anche immediatamente dell’«azione interna» della sua essenza, cioè dell’elezione?; come parlare dell’elezione, senza parlare anche immediatamente della vita concreta della stessa essenza divina?; è questa unità che intendiamo rispettare comprendendo ed esponendo la dottrina dell’elezione come parte integrante della dottrina di Dio. I rappresentanti della tradizione riformata cui ci siamo riferiti, hanno diviso proprio quanto doveva rimanere unito, a totale scapito della dottrina di Dio e della dottrina dell’elezione; quanto alla prima, questa separazione ha avuto come conseguenza di rafforzare la concezione funesta di una divinità che, in se stessa, sarebbe senza vita; quanto alla seconda ha avuto come conseguenza di far perdere di vista che questa dottrina ha come compito di parlare della scelta, il cui soggetto è giustamente la persona di Dio stesso. Stimiamo dunque necessario appropriarci della preoccupazione che ha ispirato questa corrente della teologia riformata. Riconosciamo che la dottrina dell’elezione è di essenziale importanza; tuttavia non ne facciamo un principio di deduzione o una proposizione principale che sarebbe sufficiente sfruttare in seguito, come se la creazione, la riconciliazione, la redenzione siano semplicemente degli sviluppi dell’idea di elezione. Riteniamo semplicemente che questa dottrina sia la parola che deve essere ascoltata contemporaneamente ed unitamente a quel la concernente l’essenza rivelata ed eterna di Dio, poiché essa definisce la decisione in forza della quale Dio è

Dio. Appropriandoci di simile preoccupazione, dobbiamo però avanzare nella duplice direzione che abbiamo ricordato con un rigore e con una perseveranza ben maggiori di quelli messi in opera in questa prima corrente della teologia riformata. Imbocchiamo cioè una strada che, malgrado ogni similitudine, differirà parecchio dalla sua. 2. Dottrina di Dio, cristologia, creazione, elezione. Tutte le altre classificazioni che dovremo menzionare hanno in comune un punto che le differenzia da quello che abbiamo or ora esaminato; trattano dapprima la dottrina della creazione e della provvidenza ed in seguito solamente, in un capitolo più o meno vicino, dell’elezione divina. È chiaro che ci allontaniamo in maniera sempre maggiore dall’ordine che abbiamo dovuto riconoscere come solo corretto. Tuttavia è bene analizzare dettagliatamente la genesi di un simile modo di procedere. Bisogna citare innanzitutto il piccolo, interessante gruppo di teologi che hanno adottato il seguente piano: subito dopo la dottrina di Dio passano allo studio della cristologia, quindi a quello della creazione, infine alla dottrina della predestinazione. A questo gruppo si collega Zwingli nella sua Fidei Ratio del 1530: la dottrina dell’elezione si manifesta come la conclusione ed il coronamento della dottrina della provvidenza, a sua volta preceduta dalla cristologia, ricapitolata nella dottrina di Dio e della Trinità. Fra gli antichi luterani occorre segnalare L. Hutterus con il suo Compendium Locorum Theolgicorum del 1610 e J. Gerhard con i suoi Loci Theologici ugualmente del 1610. Quest’ultimo in particolare ha saputo mettere egregiamente in rilievo l’interdipendenza fra Dio, Cristo, la creazione e l’elezione; quanto a Hutterus la sua classificazione tradisce l’influsso di un’altra tradizione che dovremo segnalare in seguito, nella misura in cui intercala fra la dottrina della creazione e la predestinazione, la dottrina del peccato, della Legge e dell’Evangdo, della giustificazione. Infine fra i testi confessionali riformati occorre segnalare il Consensus Bremensis del 1595, i cui articoli, diretti contro i luterani, hanno il seguente ordine: il Cristo, la provvidenza, l’elezione, i sacramenti. C’è forse una ragione oggettiva che presiede a simile classificazione? Se si deve rispondere positivamente, la si deve ricercare (come per la classificazione che ha determinato l’ordine classico) nella giusta intuizione secondo cui non è la creazione ad essere l’opera divina per antonomasia, bensì la Parola di Dio incarnata, il Cristo stesso, precedente la creazione nell’ordine dell’eternità e, virtualmente, anche nell’ordine temporale. Per parte nostra abbiamo tenuto

conto di questa verità esponendo la dottrina dell’incarnazione fin dall’inizio del nostro lavoro: tale dottrina costituisce infatti il momento culminante della dottrina della Parola di Dio, che introduce, a guisa di prolegomeno, all’insieme della dommatica. È certo vero che la cristologia non si risolve nella dottrina dell’incarnazione, cioè nella dottrina attinente la persona del Cristo; in quanto tratta dell’opera di Cristo, del suo abbassamento e della sua glorificazione, dei suoi tre uffici, costituisce il presupposto e la sostanza di tutta la dottrina della riconciliazione, della fede, della giustificazione e della santificazione, della chiesa e dei sacramenti; coloro che ne hanno voluto tenere conto fin dall’inizio hanno avuto le loro ragioni. È giusto affermare che la cristologia deve svolgere un ruolo proprio nel posto che le è stato così solennemente attribuito da questa seconda corrente; deve infatti essere legata direttamente alla dottrina di Dio ed è quindi normale che preceda la dottrina della creazione; tuttavia occorre che ciò si verifichi nella forma di una dottrina dell’elezione, radicata nella cristologia e che, per essere ben compresa, richiede appunto uno sviluppo cristologico. Invece i promotori della classificazione che ci occupa hanno spinto la dottrina dell’elezione in un altro capitolo, mentre avrebbero dovuto comprenderla ed esporla partendo dalla cristologia. Forse la preminenza da loro accordata alla cristologia avrebbe potuto rivelarsi feconda, se avessero avuto l’idea di fondare in essa la dottrina dell’elezione, trattando in seguito della creazione e della provvidenza, tenendo ben fisso questo punto di partenza. È quanto non si è verificato; in essi la dottrina dell’elezione appare subordinata a quella della provvidenza, conformemente al famoso schema di Tommaso d’Aquino; non hanno quindi saputo trarre le conseguenze che s’imponevano dall’importanza accordata alla cristologia. Per questo il loro metodo di classificazione non può essere considerato esemplare. Se tale classificazione si è mostrata praticamente sterile, è verosimilmente perché la si è scelta non per ragioni oggettive, ma riferendosi al dogma dell’antica chiesa, cioè allo schema niceno-calcedonese, mirando con ciò a mettere in risalto l’ortodossia ecumenica dell’ insegnamento protestante. Esistono però altre maniere di farlo, senza adottare una classificazione oggettivamente poco soddisfacente, che neppure i suoi promotori hanno saputo motivare adeguatamente ed applicare conseguentemente. 3. Predestinazione ed ecclesiologia. Punto comune di altre classificazioni è che la dottrina dell’elezione gratuita è nettamente separate da quella di Dio ed abbordata dopo la dottrina della creazione e del peccato, dunque indipendentemente dalla dottrina della provvidenza, nel contesto specifico

dell’insegnamento sulla riconciliazione, di cui viene considerata per ogni aspetto la chiave esclusiva. L’archetipo di una simile classificazione si ha in quei teologi che hanno parlato della dottrina della predestinazione ponendola in stretto collegamento con la dottrina della chiesa. Bisogna citare nuovamente la Fidei Ratio di Zwingli: egli menziona infatti l’elezione anche nel capitolo VI in cui tratta della chiesa, cioè della comunità dei credenti autentici, nascosta nella chiesa visibile; questi credenti autentici non sono conosciuti se non da Dio e da se stessi; in cuest’accezione intima la chiesa si identifica con l’insieme degli «eletti che sono destinati alla vita eterna dalla volontà di Dio». Tuttavia questa classificazione segna profondamente perché è stata quella adottata dal giovane Calvino. Infatti nella prima edizione dell’Institution del 1536, redatta sul modello del Piccolo Catechismo di Lutero, l’elezione gratuita forma uno dei temi del cap. II («Sulla fede»), in cui si spiega il quarto (secondo il modo di contare di Calvino) articolo della confessione di fede: «credo la chiesa». Secondo Calvino, questa «chiesa santa e cattolica» della fede è identica all’«universale numero degli eletti, siano angeli, siano uomini; e fra gli uomini, siano morti, siano ancora viventi; e fra i viventi sia quelli che fanno qualche cosa sulla terra abitata e sia quelli che sono dispersi un po’ dovunque», come pure è identica all’«economia della misericordia» attestata da Paolo: «quanti ha predestinato, ha anche chiamato; quanti ha chiamato, ha anche giustificato; quanti ha giustificato, ha anche glorificato» (Rom. VIII, 30). Dovunque si trovato uomini chiamati, giustificati e glorificati in questo modo (ed il loro posto è precisamente la chiesa), Dio dichiara l’elezione eterna in forza della quale ha determinato costoro, prima ancora del loro nascere. Calvino afferma esplicitamente che non si tratta qui di «quell’unica ed immutabile provvidenza divina», bensì della determinazione fondamentale dell’esistenza di coloro di cui è possibile discernere essere figli di Dio, perché lo Spirito divino li fa camminare sul sentiero che li conduce dalla chiamata (vocatio) alla glorificazione (e questo almeno tramite alcuni segni). Se è necessario tenere presente che all’interno della chiesa, così come noi la vediamo, esistono dei non-eletti (gente cioè che solo apparentemente si trova nel quadro della chiesa) e se per questa ragione è necessario essere prudenti, tuttavia nulla può impedire di sperare per tutti la salvezza, né, soprattutto, di sottolineare fermamente ed in ogni caso l’unità reale e valida esistente fra elezione» fede e chiesa autentica. Il Calvino di quest’epoca ha espresso in formule indimenticabili la certezza cristiana

fondata su questa unità: «Poiché la chiesa è il popolo degli eletti di Dio non può accadere che coloro che ne sono autenticamente membri alla fin fine periscano, oppure si perdano con sorte finale cattiva; la loro salvezza rifulge infatti appesa a fulcri talmente sicuri e solidi che, seppure l’intera macchina del mondo andasse in frantumi, non potrà essere colpita e corrosa. In primo luogo: la salvezza sta in piedi grazie all’elezione divina, né può variare, né venire a mancare ancorata com’è a quell’eterna sapienza; si può quindi essere titubanti e fluttuanti, si può anche cadere, ma non andare a fondo, poiché il Signore sottende la sua mano; ed è quanto dice Paolo: i doni e la vocazione di Dio sono senza pentimento (Rom. XI, 29). In secondo luogo: coloro che il Signore elesse, li consegnò a Cristo figlio suo in sicura e fiduciosa custodia, affinché nessuno fra essi perisca, ma tutti risuscitino nell’estremo giorno (Gv. VI, 39). Sotto la guida di un così eccellente pastore, si può errare e peccare, non certo perdersi». Nell’Istruzione e Confessione di fede del 1537 (la prima forma del suo catechismo) e nelle successive edizioni dell’Institution, Calvino ha lasciato cadere tale classificazione, preferendone altre che incontreremo ancora. Ma l’ha ripresa nella redazione ultima del suo Catechismo nel 1542. Ormai la classificazione luterana della materia ha assunto toni che corrispondono meglio alla concezione calvinista: la fede si trova al primo posto e la legge al secondo. Ma anche qui la predestinazione è trattata nel quadro della spiegazione del quarto (sempre secondo il modo di contare di Calvino; per noi il terzo) articolo. «Che cos’è la chiesa cattolica? È la compagnia dei fedeli, che Dio ha ordinato ed eletto alla vita eterna». Dopo aver citato e spiegato ancora una volta Rom. VIII, 30, Calvino costata nuovamente che esiste sì una chiesa visibile, riconoscibile attraverso qualche segno, ma che la chiesa «propriamente detta», cui noi crediamo, è «la compagnia di coloro che Dio ha eletto, onde salvarli e questa compagnia non è visibile all’occhio». L’eco di questa dottrina si ha pure nella questione 54 del Catechismo di Heidelberg (il solo passo con la questione 52, in cui la dottrina dell’elezione sia esplicitamente menzionata in questo documento): «Che cosa credi a proposito della santa chiesa cristiana universale? Credo che il Figlio di Dio riunisca attorno a sé, fra tutto il genere umano, una comunità di eletti per la vita eterna, che la formi mediante il suo Spirito e la sua Parola nell’unità della vera fede, dalla creazione del mondo fino al suo termine, che la protegga e la mantenga, e che io ne sono un membro vivente e lo rimarrò eternamente». Per

quanto possa stupire, sembra che tale concezione abbia ritenuto, almeno fino ad un certo punto, l’attenzione del vecchio Melantone, imponendosi a lui. Nell’ultima edizione dei Loci Theologici del 1559 in ogni caso, allontanandosi dal piano originario del 1521, presenta l’articolo sulla predestinazione immediatamente dopo quello in cui si tratta della chiesa. E se, a modo suo, percorre un cammino speciale, se ad esempio nell’articolo sulla predestinazione parla in verità quasi esclusivamente della vocazione cui è permesso ed ordinato riferirsi, trattando dell’elezione, non ne consegue meno che, presso di lui, vi sia la preoccupazione di fondare in definitiva la fede nella chiesa ed all’interno della chiesa proprio sul fatto che la chiesa è in verità «la comunità degli eletti che sempre rimane, che Dio in maniera mirabile conserva, difende e governa anche in questa vita». Tutto ciò dimostra che nessuno mai è riuscito a sviluppare seriamente la nozione di chiesa, senza riferirsi, con precisione più o meno grande, alla nozione di elezione. Si può e si deve riconoscere che questo terzo tentativo di classificazione presenta un vantaggio sicuro rispetto agli altri: si riferisce direttamente alla Scrittura. Da quanto abbiamo detto in effetti, la nozione di elezione è intimamente collegata, nella Bibbia, a quella di popolo di Dio, che si chiama Israele nell’ Antico Testamento e Chiesa nel Nuovo; questo popolo è l’oggetto dell’elezione divina e quanto accade al suo interno non fa che riflettere la maniera con cui Dio si comporta nei confronti dell’uomo. Ma poiché la relazione fra l’elezione e la chiesa è così stretta e vasta, cioè così essenziale per l’insieme della dottrina cristiana, non si dovrebbe, allorché si cerca di comprendere tale dottrina, rinviare all’elezione solamente nel momento in cui ci si occupa direttamente della chiesa come tale; pare più appropriato riferirsi già a proposito del Dio creatore stesso, Signore e Reggente di questo popolo; prima del popolo eletto vi è infatti evidentemente il Dio-che-elegge e prima della certezza dell’elezione (così magnificamente descritta da Calvino e caratterizzante la chiesa autentica, cioè l’umanità autentica riunita per formare il corpo del Cristo) vi è la misericordia e la giustizia del vero Dio. È lui infatti ad avere creato ed a fare sussistere questa umanità autentica ed è in lui che la certezza umana possiede il suo fondamento ed il suo oggetto. Non si acquisisce la certezza della fede riferendosi solo in un secondo momento all’elezione; solo la conoscenza del Dio-che-elegge la rende possibile; ed è questa una verità che corre il rischio di essere oscurata nella concezione che abbiamo appena analizzato. Certo, la teologia di Calvino non può subire questa critica. Però

l’esposizione tutto sommato assai sciatta di Melantone suggerisce, per lo meno, l’idea che la nozione di elezione è, alla fin fine, solo il riflesso di quella consolazione cui possiamo avere accesso mediante la fede; in altri termini, sembra che la nozione di elezione sia messa lì per rassicurare una «chiesa che invecchia», condannata a vivere nel clima deprimente degli utlimi tempi; ricorda a questa chiesa che in definitiva è Dio stesso a sostenerla ed a mantenerla. Ma che Dio stesso nella sua libera grazia, l’abbia predestinata da tutta eternità e che di conseguenza possegga un diritto su di lei ed in lei, con la supremazia conferitagli dal suo atto di elezione, è una verità che resta singolarmente sullo sfondo nell’insegnamento di Melantone. Si comprende assai bene che, data la debolezza di un tale insegnamento concernente il rapporto fra predestinazione e chiesa, Calvino si sia visto costretto ad elaborare una dottrina più consistente, radicalizzata in seguito dai teologi riformati della seconda generazione, come abbiamo visto nella prima classificazione. Volendo in seguito abbordare la dottrina della chiesa su un terreno solido (precisamente quello dell’elezione) e desiderando tenere conto su una scala più vasta dell’intenzione che ispira questa terza classificazione, bisogna riferirci subito all’elezione divina, subito, cioè nel quadro della dottrina di Dio, il Signore ed il fondamento della chiesa. 4. Cristologia, predestinazione, opera dello Spirito Santo. Le tre classificazioni che menzioneremo ora sono apparentate perché sottintendono tutte questo elemento: la predestinazione deve essere esposta, in un modo od in un altro, come il principio o la chiave di tutta la soteriologia o dottrina della riconciliazione. È anche questo, beninteso, il pensiero dei teologi che hanno trattato la predestinazione in funzione della chiesa, considerata come il luogo in cui la riconciliazione fra Dio e l’uomo diventa avvenimento. Ma si può mettere in evidenza il legame in maniere differenti. Ecco la prima possibilità: la dottrina dell’elezione ha il suo posto immediatamente dopo la cristologia ed immediatamente prima di abbordare l’opera dello Spirito Santo nei credenti e nella chiesa. È la strada imboccata da Calvino nella prima redazione del suo Catechismo del 1537, seguito tosto da Pietro Martire Vermigli nei suoi Loci communes del 1576: la fede nell’elezione ci rinvia al centro della storia che procede da Dio misericordioso e si compie presso l’uomo peccatore; partendo dalla scelta di Dio e dall’essere scelto dell’uomo, i nostri sguardi si volgono all’indietro, verso il Cristo, fondamento della salvezza ed in avanti, verso

l’essere cristiani e verso la chiesa, in cui tale salvezza ci è offerta e si volge a nostro profitto. Per quanto ne so, esiste un solo insegnamento in cui si ritrova questa concezione: la dommatica di un tardivo discepolo di Coccejus, Hermann Witsius (De oeconomia foederum del 1693), il cui secondo libro sviluppa la dottrina dell’origine divina del Cristo, della sua persona e della sua opera, mentre il terzo (con il titolo: de foedere Dei cum electis) tratta dell’ordine della salvezza personale, in funzione di una spiegazione allargata delle nozioni di Rom. VIII, 30, cioè a partire dall’elezione. 5. Peccato, elezione, cristologia. La seconda possibilità che si presenta nel quadro di questa concezione particolare consiste nel porre la dottrina dell’elezione prima della cristologia e della soteriologia, rilegandola, direttamente o meno, con la dottrina del peccato; rispetto alla dottrina della riconciliazione, occupa dunque una posizione assai simile a quella che, secondo quanto abbiamo visto, le spetta in riferimento alla dommatica nel suo insieme. Anche qui dobbiamo ricordare Calvino, ma questa volta in quanto autore del testo base della Confessio Gallicana del 1559. Il piano di questa confessione di fede è diventato determinante ed esemplare per tutta una serie di documenti confessionali della chiesa riformata, fra cui la Confessio Scotica del 1560 (composta essenzialmente da John Knox, collega in maniera originale elezione e cristologia), la Confessio Belgica del 1561, la Confessio Helvetica Posterior del 1562, la confessione conosciuta come Libro di Staffort (redatta dal margravio Ernst Friedrich von Baden-Durlach nel 1599) ed infine la Confessione Valdese del 1655. Fra i dommatici riformati che si ricollegano a questa tradizione troviamo la Sinossi di Leiden del 1642 (in cui tuttavia la dottrina dell’elezione segue non solamente quella del peccato, ma anche la trattazione sulla Legge e l’Evangelo e sul rapporto fra Antico e Nuovo Testamento), i Loci Communes di Anton Waläus del 1640 (senza offrire spiegazioni e senza riuscire minimamente a convincere, traendone qualche frutto, quest’autore passa senz’altro dalla dottrina del peccato a quella della provvidenza e, cosa incredibile, rinviando il più lontano possibile la dottrina di Dio e della Trinità, abborda in seguito la dottrina dell’elezione, punto di partenza per la cristologia e la soteriologia) e soprattutto la Summa Theologiae di Johannes Coccejus del 1662 (quivi il locus 14: de consilio gratiae et irae segna il passaggio dalla dottrina del peccato a quella della grazia; la cristologia

e l’elezione ci sembrano strettamente collegate). Questa classificazione della tematica dommatica è stata adottata anche da un gruppo di luterani, fra cui J. F. König nella sua Theologia positiva del 1664, testo che, su questo come sugli altri punti, ha fornito esattamente lo schema al Quenstedt nel 1685 e, sul finire dell’ortodossia luterana, a D. Hollaz nel 1707. Se questi teologi luterani, seguendo l’esempio di J. Gerhard, fanno precedere la dottrina della predestinazione da un insegnamento particolare sulla «benevolenza divina universale», ciò non significa (come mostra bene la loro posizione sull’insieme del problema e senza dubbio tramite la teologia delle alleanze di Coccejus che ha esercitato una grandissima influenza su di loro) che non abbiano adottato il piano della Confessio Gallicana, cioè uno schema di quel Calvino che generalmente avevano abitudine di combattere vigorosamente. 6. L’elezione come punto culminante di quanto precede. Si ha una terza possibilità nel quadro della dottrina dell’elezione assunta come chiave della riconciliazione: consiste nel cumulare, per così dire, le due dottrine, cioè nel parlare dell’elezione non più al centro, o all’inizio, ma al termine dell’esposizione, considerandola come un’ultima parola, una parola decisiva, capace di rischiarare di colpo tutto quanto precede. È quanto intendeva fare Melantone, a giudicare almeno dallo schema preposto alla prima edizione dei suoi Loci del 1521 (d’altronde non rispettato nell’esposizione). Tuttavia, è nelle edizioni dela Institution calviniana, pubblicate fra il 1539 ed il 1554, e finalmente nella redazione finale di questo testo, che la dottrina dell’elezione ha preso il posto e riempito la funzione che abbiamo indicata. La cristologia costituisce ormai il punto culminante e la conclusione del secondo libro («Del Dio Redentore»), il quale tratta innanzitutto del peccato e della Legge, come pure della differenza e dell’unità dei due Testamenti. Quanto al terzo libro («Della maniera di partecipare alla grazia di Gesù Cristo») comincia per trattare dell’opera dello Spirito Santo, di cui la fede è il risultato; passa poi alla questione del pentimento, quindi a quella della vita cristiana, il cui termine è l’eternità ed il cui quadro è il tempo; mostra infine che questa vita cristiana procede dalla giustificazione divina, sboccia nella libertà, è sostenuta dalla preghiera; solo da ultimo richiama che essa si radica nell’elezione gratuita di Dio e la confronta con il suo fine eterno che è la resurrezione dai morti. La dottrina della chiesa (che forma il contenuto del libro quarto) costituisce un tutto indipendente, proprio come l’inizio dell’opera, consacrato al Dio creatore. È subito evidente che queste

interruzioni rendono solo più manifesta la relazione intercorrente fra la fine e l’inizio dell’ Institution da un lato ed i temi del secondo e terzo libro, culminanti nella dottrina dell’elezione, cioè la relazione con questa stessa dottrina. La costatazione seguente permette una più esatta valutazione della posizione di Calvino: è un dato di fatto che il riformatore ha ripreso ed inaugurato lui stesso quattro concezioni differenti del posto e della funzione della dottrina della predestinazione, ma, fra esse, non si trova la concezione considerata come classica all’interno della dommatica riformata. In altri termini, Calvino non ha mai collegato, in un qualsiasi modo, la dottrina della predestinazione con quella di Dio. Certo, secondo un’opinione molto diffusa e sostenuta da storici di cui non si può certamente negare la competenza, la dottrina della predestinazione costituirebbe, in Calvino, un postulato fondamentale da cui tutto il resto sarebbe deducibile; ma questo è un punto di vista superficiale e del tutto assurdo. D’altronde nessuno dei discepoli di Calvino ha mai attribuito questo ruolo alla predestinazione. W. Niesel ha ragione quando afferma che quanti vedono nella predestinazione la base del sistema calviniano «attribuiscono, qui come altrove, al Riformatore la teologia che, per una ragione o per l’altra, è innanzitutto la loro propria»4. Ci si può tuttavia chiedere se cercando di combattere questo errore della tradizione, non si sia minimizzato il ruolo della dottrina della predestinazione nella teologia di Calvino5. È giusto affermare che Calvino ha certamente parlato dell’elezione ad un certo momento, senza tuttavia accordarle un peso maggiore rispetto alle altre questioni?; forse che il luogo ove ne parla e quanto ne dice non significa che questa dottrina, nell’intenzione di Calvino, debba proiettare una luce decisiva su tutto il resto?; fra l’atteggiamento che consiste nel vedere la dottrina dell’elezione come assioma fondamentale e quella che consiste nel considerarla una dottrina fra le altre, non esiste forse una terza possibilità? Sembra che Calvino lo abbia compreso considerando l’elezione come la prima e l’ultima parola della vita cristiana nel suo insieme, nel senso che quest’ultima non esiste e non sussiste se non per la libera grazia divina. Ora se l’insegnamento cristiano, pur trattando innanzitutto di Dio ed in conclusione della chiesa, concerne essenzialmente la vita cristiana (cioè l’esistenza dell’uomo che Dio ha accolto in Gesù Cristo), come poter evitare di considerare la dottrina dell’elezione come la prima e l’ultima parola di tale insegnamento? La struttura stessa dell’Institution nelle sue ultime edizioni, e soprattutto nella sua redazione finale, mi sembra indichi, dato il posto

occupato dalla dottrina dell’elezione, che Calvino si sia proposto di mettere in rilievo una verità singolarmente precisa e gravida di conseguenze. Non si può non costatare con sorpresa che il piano dell’Institution, soprattutto quello della redazione finale, sia stato così poco seguito. Certo, è evidentemente sotto l’influenza della redazione definitiva o delle edizioni posteriori al 1539 che questo piano è stato adottato nei 59 articoli (originariamente 42) che dal 1552 costituiscono la base dottrinale della Chiesa d’Inghilterra, come pure nella Confessio Rhaetica del 1562. Tuttavia fra i dommatici riformati solo W. Bucanus, l’autore delle Institutiones Theologicae del 1602, si ricollega su questo punto a Calvino, in particolare per il suo modo di rilegare la dottrina della predestinazione all’escatologia. In compenso bisogna menzionare qui un certo numero di luterani eminenti. Così, ad esempio, nell’imponente Systema locorum theologicorum degli anni 1655, di Abr. Calov, la dottrina dell’elezione forma la conclusione (secondo Rom. VIII, 30) della grande sezione: Cristo - Chiesa - sacramenti - salvezza personale (si noti la sostanza e la logica della classificazione adottata!); ed è proprio all’inizio di questa grande parte che Calov espone la dottrina luterana della «misericordia divina generale» che, sebbene si trovi apparentemente separata dalla dottrina della predestinazione, si presenta come un parallelo assai significativo, da un punto di vista di struttura, proprio di questa dottrina. Parimenti nel suo Compendium Theologiae Positivae del 1686, J. W. Baier adotta l’ordine seguente: Cristo salvezza personale - sacramenti predestinazione, differenziandosi da Calov, in quanto tratta la dottrina della chiesa in un capitolo fuori da questo contesto. Quanto a J. F. Buddeus, nelle sue Institutiones Theologicae del 1723, s’inserisce anch’egli in questa tradizione, pur ritenendo le modifiche operate dal Baier. È impressionante vedere come in queste somme diverse del luteranesimo tardivo, la dottrina dell’elezione sembri essere spinta sempre più verso la fine dell’insieme dell’esposizione dommatica; nella geniale esposizione del Calov, non è più seguita che da un insegnamento particolare sul ruolo della croce nella vita cristiana e dalle dottrine generali della legge e dell’escatologia; in Buddeus e Baier si trova ancora più oltre, proprio prima della dottrina della chiesa e dello stato. Leggendo questi teologi ci si può chiedere dunque, anche in forza della loro intenzione finale, se non avrebbero fatto meglio a porre la dottrina della predestinazione all’inizio e non alla fine dei loro sistemi. 7. Critica delle tre ultime classificazioni. L’intenzione che presiede alle tre

forme di classificazione che abbiamo appena esaminato è evidentemente la medesima; in un modo o nell’altro si intende considerare l’elezione come la realtà divina che domina la storia particolare della salvezza, svolgentesi fra Dio e l’uomo; in altri termini non si fa altro che sviluppare l’idea secondo la quale l’elezione deve essere rapportata alla chiesa. Il fatto che si siano usate queste tre possibilità, trattando dell’elezione sia al centro, sia all’inizio e sia alla fine della dottrina della riconciliazione e che Calvino stesso si trovi su ciascuna di queste tre linee (anzi già al loro punto di partenza, allorché l’elezione è considerata in collegamento diretto con la chiesa), questo fatto ci pare più importante della questione di sapere quale dei tre metodi abbia dato i migliori risultati, rendendo conto il meglio possibile, dell’intenzione ispiratrice. Si potrebbero far valere infatti ragioni eccellenti per scegliere (o rifiutare) l’una o l’altra. La dottrina dell’elezione è «l’espressione finale e necessaria della dottrina evangelica della grazia»6: ecco un’affermazione che sembra militare in favore del terzo metodo di classificazione. Voltandosi indietro si fa ricorso alla dottrina dell’elezione per descrivere ancora una volta il mistero (ed il senso del mistero) che caratterizza tutto quanto avviene fra Cristo ed i cristiani. Non si può tuttavia essere esclusivi come fa Buddeus quando dichiara: «non ci è lecito giudicare dei decreti divini in maniera diversa che appoggiandoci alla loro realizzazione»7; là dove la dottrina della predestinazione è concepita come ultima parola, è quasi inevitabile sia considerata anche come prima parola in modo non giusto, finendo anche di essere considerata astrattamente in se stessa; invece il testo così sovente citato di Rom. VIII, 30 pone veramente l’elezione come prima parola di tutto! Sebbene questa ne sia una conseguenza, la dottrina dell’elezione non ha solamente come funzione di mettere in evidenza i differenti aspetti della dottrina della grazia, né di rafforzare semplicemente la convinzione che la grazia è libera, eterna e divina; in nessun caso deve sembrare una conseguenza della nostra conoscenza ed esperienza della grazia, come un postulato risultante dall’una e dall’altra; la nozione di un «giudizio dalla realizzazione» dovrebbe essere qui almeno sospetta. È pur vero che, a questo riguardo, potrebbe essere dichiarata sospetta anche la metodologia seguita da Calvino nell’Institution del 1559; ma nel medesimo anno, nella Confessio Gallicana, il Riformatore ha utilizzato ugualmente il secondo metodo, quello cioè in cui la dottrina della predestinazione forma il punto di partenza dell’esposizione; per Calvino è assolutamente chiaro: l’ultima parola costituisce anche la prima parola. Ci si può certo chiedere se

non è forse la prima soluzione adottata da Calvino nel 1537 (quella esaminata nel nostro punto 4) a dovere essere preferita alle altre, mettendo più chiaramente in evidenza il legame fra l’elezione ed il Cristo, conformemente alla logica di Rom. VIII, 30, intercalando la dottrina della predestinazione fra la cristologia e l’appropriazione soggettiva della salvezza. Ma dobbiamo ugualmente sforzarci di comprendere la soluzione proposta dalla Confessio Gallicana (qui al nostro punto 5), come pure tutte quelle che, nello spirito di Ef. I, 4, situano decisamente l’insegnamento sull’elezione per preparare, motivare e sviluppare correttamente la cristologia e mettere in evidenza la dottrina della riconciliazione in relazione con quelle del peccato, della colpa originale e del servo arbitrio, prima di tutti questi temi, compresa la cristologia. Checché ne sia, le tre classificazioni mettono ciascuna in evidenza il carattere primordiale della dottrina dell’elezione nell’insieme della dottrina della riconciliazione; se proprio dovessimo scegliere, la nostra preferenza andrebbe alla soluzione adottata da Calvino nel 1537; essa infatti ci pare corrispondere meglio all’intenzione che presiede tutte queste soluzioni, mostrare cioè che la decisione di cui si tratta nell’elezione divina è l’avvenimento che si produce fra Cristo e l’uomo cristiano. C. LA NOSTRA SOLUZIONE Vorremmo tuttavia evitare di dovere scegliere fra queste tre possibilità. Come abbiamo visto, la dottrina dell’elezione è giustamente da considerarsi come la prima e l’ultima parola, o ancora come la parola centrale della dottrina della riconciliazione. Ma la dottrina della riconciliazione è essa stessa la prima e l’ultima parola, o ancora la parola centrale, della confessione e del dogma cristiani nel loro insieme. La dommatica tutta quanta non ha nulla di più grande da dire, né di più profondo ed essenziale da insegnare di questo: «Dio è in Gesù Cristo, riconciliatore del mondo con se stesso»: (II Cor. V, 19); in quanto dottrina della Parola di Dio non può descrivere l’essenza della conoscenza cristiana scaturita dalla rivelazione divina, senza’ rinviare costantemente e pienamente a questo avvenimento che, in se stesso, è la fonte della verità, anzi la verità stessa; non potrebbe comprendere ed esporre l’origine ed il termine dell’opera di Dio che ci è rivelata nella Parola divina (la creazione e la redenzione) senza prendere le mosse da questo avvenimento; da tempo infatti, anzi fin dai suoi primi passi, è del mistero della riconciliazione che deve aver parlato e di esso solamente dovrà trattare quando sarà condotta ad esporre tale dottrina direttamente e nei dettagli, là dove si pone

obiettivamente il centro del suo insegnamento, nel contesto particolare della dottrina della grazia; come potrebbe la dommatica parlare di Dio, il soggetto operatore di tutta l’azione divina, il Creatore, il Riconciliatore ed il Redentore, se pretendesse informarsi sulla natura e sulle perfezioni divine attingendo altrove che al centro stesso, in cui tale opera possiede la sua origine ed il suo termine e che solo permette di riconoscerla? Una domanda decisiva si pone dunque a questo punto: si tratta di passare dalla conoscenza di Dio alla conoscenza dell’opera sua. Ma come rispondere se non vediamo immediatamente quale è il centro ed in esso quale è l’origine ed il termine dell’opera divina, in una sola parola se non sappiamo chi è il Dio la cui azione ha per oggetto la creatura, se non discerniamo che egli è realmente definito da quanto costituisce realmente ed evidentemente il punto decisivo, cioè l’opera della riconciliazione? Come sarebbe possibile tenerne conto solo in un secondo momento? Questa parola decisiva, questo mistero che è necessario prendere in considerazione fin dall’inizio, è la dottrina della riconciliazione, secondo la giusta intuizione dei teologi che hanno proposto le tre ultime soluzioni. Ma tutti i tentativi di classificazione che ci sono parsi interessanti hanno un difetto comune: la dottrina dell’elezione sembra necessariamente un semplice insegnamento dato come conseguenza. Da un lato si ha l’impressione, seguendo questa ottica, che solo quando si tratta del Cristo e dell’uomo cristiano (o della chiesa) sia necessario richiamare una verità che è stata dimenti cata o dissimulata (non si sa bene per quali ragioni) fino ad allora: il Dio che, in tutta la sua opera, riconcilia il mondo con se stesso è il medesimo che agisce in Gesù Cristo, perché così vuole, perché da tutta eternità si è determinato ad essere proprio questo Dio. Nel pensiero che abbiamo esposto, la menzione dell’eternità, della libertà, della costanza di Dio arriva troppo tardi (se così possiamo esprimerci) per motivare e caratterizzare l’incontro del Cristo con i suoi, del Cristo con la chiesa. Conseguentemente, questa menzione come potrà essere ancora del tutto pertinente? Non si ha infatti il diritto di riferirsi troppo tardi all’eternità di Dio; non si dirà mai abbastanza presto che l’avvenimento costitutivo del significato di tutta l’opera divina, riposa sulla scelta e sulla decisione divina e che, appunto per questo, supera assolutamente tutti e quanti gli altri avvenimenti, per quanto grandiosi essi siano; non si riconoscerà e non si affermerà mai abbastanza presto, né abbastanza rigorosamente, che tale avvenimento è il presupposto dell’opera divina nella sua intierezza e perfezione, nel senso che è la realtà perfetta all’interno delle perfezioni divine.

Ecco perché poniamo la dottrina dell’elezione all’inizio, prima ancora di esporre l’azione di Dio, di cui è oggetto la creatura. Essa infatti è la parola decisiva, il mistero stesso della dottrina della riconciliazione, poiché tratta della scelta divina compiuta in Gesù Cristo. Ed ecco perché, essendo l’elezione la definizione stessa di Dio, la sua autodeterminazione, consideriamo l’insegnamento che vi si riferisce, come parte integrante della dottrina di Dio. D’altro lato, trattando della dottrina dell’elezione come se fosse una conseguenza, i sostenitori delle ultime tre classificazioni esaminate inducono a pensare che sia possibile parlare della creazione e del peccato, senza alcun riferimento antecedente alla parola decisiva ed al mistero designati dalla dottrina della riconciliazione. Allora la creazione assume l’aspetto di una realtà relativamente indipendente dalla riconciliazione e dalla redenzione, di una realtà per così dire autonoma, che può essere considerata isolatamente. In queste condizioni non ci si può impedire di pensare che il mondo e l’uomo siano stati creati e sussistano senza possedere un legame interno e necessario con la continuità ed il compimento dell’opera divina rappresentati dalla riconciliazione e dalla redenzione; sembrano così esistere immediatamente al di fuori della scelta e della decisione divina, al di fuori del regno del Cristo; sorge in questa maniera uno spazio autonomo partendo dal quale si potrà sempre mettere in causa il carattere illimitato (e quindi divino) di tale regno, in favore di un regno parallelo della natura. Quanto al peccato che disgraziatamente viene a scombussolare il campo così circoscritto, assumerà ben presto il carattere di un accidente imprevisto, che problematizza la bontà della creazione divina, rovinandola quasi totalmente e provocando in tale modo l’apparizione di un mondo, in qualche misura, tutto differente. Dio stesso pare allora bloccato e senza possibilità; pare messo in difficoltà; pare relegato in una qualche «zona divina» e la riconciliazione dà l’impressione di essere il mezzo utilizzato per uscire da un vicolo cieco, facendo pensare ad una lotta misteriosa, poco degna dell’onnipotenza divina, contro una sorta di divinità parallela, una reazione diretta contro un’altra reazione. L’opera di Dio è invece, nella sua totalità, un solo e medesimo atto di sovranità. Certo, essa è molto differenziata e piena di dinamismo, però non mai distrutta, bloccata o interrotta: di tappa in tappa, a tutti i livelli, si compie senza il minimo arresto. Ci è consentito ed ordinato di riconoscere che, nella sua grazia e verità inalterabili, il Dio unico ed onnipotente veglia su ogni cosa e vigila su tutto quanto accade, per compiere la sua volontà benefica, senza commettere errori o colpe, senza la minima debolezza o neutralità; è permesso e comandato di

vedere nel regno di Cristo non un regno qualunque, accanto ad un altro che potrebbe essere semplicemente ed alla fin fine solo la tirannia di un’idea, ma il dominio che regge tutti gli altri domini; è permesso ed ordinato di considerare l’uomo sempre e solo in un’unica prospettiva, qualunque aspetto si consideri (creatura, peccatore, cristiano, poco importa), poiché resta sempre l’uomo che dipende unicamente da Dio e si trova nella sua mano. Non si potrà dunque considerare l’uomo come esistente in qualche sommità o in qualche abisso situati al di fuori del campo della decisione divina stessa, cioè al di fuori dell’elezione gratuita nella quale dobbiamo riconoscere tale decisione; non si potrà mai situarlo in una zona neutra in riferimento alla volontà divina, quale si è determinata e qualificata in forza della decisione eterna intercorsa fra il Padre ed il Figlio; e questo spiega perché, ancora una volta, dobbiamo riconoscere che tutte le vie di Dio hanno origine nell’elezione e perché dobbiamo trattare di questa dottrina in primo luogo. Facendo così crediamo di rimanere fedeli all’intenzione che, su questo punto particolare, ha ispirato i diversi schizzi teologici di Calvino. Crediamo infatti di riprendere e di sviluppare semplicemente le indicazioni del Riformatore. Al posto da noi assegnatole, la dottrina dell’elezione adempie la sua funzione necessaria in seno all’insegnamento della chiesa: si tratta del ruolo specifico del concetto di elezione, all’interno della testimonianza biblica concernente Dio, la sua opera, la sua rivelazione. Il fatto che Dio scelga l’uomo e che lo destini ad appartenergli, dopo essersi precedentemente autodeterminato in favore della sua creatura, mette in evidenza che la storia biblica (che da Israele raggiunge la chiesa passando attraverso Gesù Cristo) non è un semplice motivo, accanto a tanti altri, della testimonianza profeticoapostolica, ma, parte integrante dell’autoattestazione divina stessa, costituisce la sostanza ed il fondamento di tutti gli altri temi biblici. Dio si determina ad essere il Signore d’Israele e della chiesa e, come tale, il Signore del mondo e dell’umanità tutta intera; di conseguenza ha voluto la vocazione d’Israele e della chiesa e poi la creazione del mondo e dell’uomo. Ecco quanto ci dice la Bibbia. È in questa autodeterminazione e, conseguentemente, nell’ordine da essa creato e stabilito, che Dio è attestato dalla Scrittura e che, sempre secondo la Bibbia, deve essere e può essere riconosciuto come Dio; è in forza di questa autodeterminazione divina che tutte le opere di Dio esistono e sono quello che sono; è in essa solamente che Dio intende essere riconosciuto, amato, temuto, creduto ed adorato come il Creatore, il Riconciliatore ed il Redentore. Non esiste alcun elemento particolare della testimonianza biblica che non debba

essere interpretato partendo di qui o che possa essere spiegato da un altro punto di vista, religioso o filosofico che sia. La dottrina dell’elezione si riferisce precisamente all’autodeterminazione, alla predecisione di Dio di cui si tratta nella Bibbia ed in forza della quale Dio vuole essere Dio, esclusivamente in Gesù Cristo; essa sottolinea che è in quel modo che egli intende essere il Signore d’Israele e della chiesa e perciò il Creatore, il Riconciliatore ed il Redentore del mondo e dell’uomo. Nella prima parte di questo paragrafo abbiamo stabilito che, rapportandosi a questo fatto, la dottrina dell’elezione contiene ed esprime la somma dell’evangelo: ecco infatti il buon annuncio, la notizia meravigliosa e pienamente salutare: da tutta eternità, Dio ha deciso di essere Dio come abbiamo visto ed in nessun altro modo: si è volto verso l’uomo e questa è la sua maniera di essere Dio. Nella seconda parte di questo medesimo paragrafo abbiamo mostrato che il fondamento noetico di questa dottrina non può essere differente dal suo fondamento ontologico, Gesù Cristo che, essendo il capo d’Israele e della chiesa, è il contenuto della decisione originaria di Dio e, perciò, dell’autentica rivelazione divina. Unendo la dottrina dell’elezione con quella di Dio che ricapitola e ponendola, poiché ne costituisce una parte integrante, in apertura di tutti gli altri capitoli della dommatica, sottolineiamo che, in riferimento a tutto quanto segue, essa attesta che le vie e le opere di Dio procedono esclusivamente dalla sua grazia. In forza della sua autodeterminazione, Dio è infatti essenzialmente e per definizione, il Dio della grazia: così come questa autodeterminazione è identica alla sua condiscendenza verso l’uomo e che questa è, Sotto ogni aspetto, il più grande beneficio che possa capitare all’uomo; così come Gesù Cristo stesso è contemporaneamente la realtà e la rivelazione di tale condiscendenza eterna (poiché avvolge l’uomo all’interno stesso della sua condizione temporale), libera (poiché riposa esclusivamente sul beneplacito e sulla volontà divina) e costante (poiché non può dare luogo a nessun pentimento, non può ingannare, non può rimanere senza effetto). È perché è grazia che, in forza dell’autodeterminazione attestata dalla dottrina dell’elezione, Dio si pone continuamente come il soggetto che esige da parte nostra uno sforzo sempre rinnovato di contemplazione e di riflessione, come il «Dio in persona» all’origine di tutte le sue vie e di tutte le sue opere. Queste sono per essenza e per definizione, sotto ogni aspetto, sotto tutte le forme, a tutti i livelli, vie ed opere della grazia; nessun’altra decisione potrebbe oltrepassare, abolire, indebolire od alterare la decisione divina originaria da cui procedono e che si

identifica con la stessa autodeterminazione divina; esse rilevano esclusivamente dal fatto che Dio, da tutta eternità e per sempre, si è volto verso l’uomo liberamente ed una volta per tutte; non hanno ragione d’essere differente da Gesù Cristo che, secondo la volontà divina, doveva essere, è stato, è e sarà il vero Dio ed il vero uomo; sempre e da ogni punto di vista esse sono quanto devono essere in forza di questo fatto. Ciò è vero per tutte le vie e per tutte le opere divine, senza nessuna eccezione: non esiste natura creata che non derivi dalla grazia la sua esistenza, la sua essenza, la sua sussistenza e che in esse possa essere riconosciuta altrimenti, se non partendo dalla grazia. Il peccato stesso, la morte, il diavolo, l’inferno non fanno eccezione: non sono infatti realtà permesse dalla sapienza e dalla volontà divine per il semplice fatto di essere rifiutate ed energicamente rinnegate proprio da questa sapienza e da questa volontà? Infatti la sapienza e la volontà di Dio non cessano di essere grazia anche quando si manifestano come negazione (ed in questo senso come permissione); i nemici di Dio sono anche suoi servitori, servitori della sua grazia; non si può conoscere Dio senza riconoscere che i suoi nemici, con tutto quanto fanno di nocivo e di vano, sono strumenti della sua grazia eterna, libera ed invariabile. Dio è e resta grazia, anche nella sua disgrazia e quest’ultima può essere conosciuta solo attraverso la sua grazia; poiché fin dall’inizio, nella sua decisione originaria, in Gesù Cristo, il solo punto in cui lo si possa riconoscere ed in cui lo si debba riconoscere veramente come Dio, come il «Dio in persona» che non cessa di essere se stesso, anche quando permette l’esistenza del peccato e del diavolo, anche nel bel mezzo dei terrori della morte e dell’inferno, è il seguente: Dio è grazia e non disgrazia; riconoscere tutto ciò significa riconoscere il Dio della grazia, anche nel peccato e nella morte, anche sotto il dominio del diavolo e nell’abisso dell’inferno. Del resto, chi mai ha potuto avere una conoscenza reale del peccato e del diavolo, della morte e dell’inferno, al di fuori della conoscenza del Dio della grazia? A maggior ragione simile conoscenza è necessaria per comprendere i benefici e le vittorie che caratterizzano l’opera del Creatore, del Riconciliatore e del Redentore. L’inno grandioso che sale dalla creazione, la gioia dei credenti visitati, illuminati e diretti dallo Spirito Santo, la gloria degli angeli e dei beati nel regno di Dio, la lode che riempie il cielo e la terra: nulla di tutto ciò potrebbe esistere senza la grazia; o meglio: tutto ciò ha realtà solo in forza della grazia e si snoda come un immenso canto di riconoscenza, avente la grazia come oggetto. Poiché la dottrina insegnata dalla chiesa deve parlare non solamente

di Dio, ma anche di tutte le vie e di tutte le opere divine, sottolineando che procedono da lui, è indispensabile che essa richiami fin dall’inizio la qualifica specifica di tutte queste vie e di tutte queste opere e che la metta in evidenza in ogni caso e su tutta la linea; non ha mai il diritto di parlare come se si esprimesse riguardo ad un Dio diverso da quello della grazia; sempre e dovunque, deve rendere gloria a quel Dio e rendergli testimonianza. Ma il Dio della grazia è Dio così come lo è fin dall’inizio, nell’autodeterminazione cui si rapporta precisamente la dottrina dell’elezione. Questa è dunque l’attestazione fondamentale del Dio della grazia in quanto origine di tutte le vie e di tutte le opere divine; sottolinea che la grazia è il punto di partenza di ogni riflessione ed enunciato ulteriore; la designa come il denominatore comune da cui non è permesso fare astrazione, ma di cui si dovrà sempre tenere conto, in un modo o nell’altro, in tutte le proposizioni che saranno formulate. Attestare questa verità fondamentale, questa è la funzione particolare della dottrina dell’elezione; è perché questo ruolo sia adempiuto il meglio possibile che le conferiamo il posto di cui abbiamo detto nella dommatica, alla fine della dottrina di Dio e all’inizio di tutti gli altri temi teologici; così facendo ci allontaniamo più o meno nettamente dalla tradizione, pur riprendendo l’intenzione che l’ha ispirata e che essa ha fatto valere in maniere così diverse. 1. Cfr. H. HEPPE, Die Dogmatik der evangelisch-reformierten Kirche, (Neukirchen) 1935 (nuova edizione), p. 119 (= nuova edizione a cura di E. BIZER: Neukirchen 1958, 119). 2. J. WCLLEB, Christ. Theol. Compendium: 1626: 1, 3, 3. 3. lvi, I, 4, 1 s. 4. W. NIESEL, Die Theologie Calvins, (München) 1938, p. 159. 5. Oltre al volume di Niesel, cfr. P. BARTH, Die Erwaehlungslehre in Calvins Institutio, in Theologische Aufsaetze (Karl Barth zum 50. Geburtstag, München), 1936, pp. 432 s. e H. OTTEN, Calvins theologische Anschauung, p. 26. 6. W. NIESEL, Die Theologie Calvins, p. 161. 7. J. F. BUDDEUS, Inst. Theol.: 1723: V, 2, 1.

PARAGRAFO 33 L’ELEZIONE DI GESÙ CRISTO 1. L’elezione gratuita è l’origine eterna di tutte le vie e di tutte le opere di Dio in Gesù Cristo, in questo senso che, nella sua libera grazia, Dio si autodetermina in favore dell’uomo peccatore, onde destinarlo alla sua appartenenza. 2. Dio prende dunque su di sé la riprovazione che pesa sull’uomo, con tutte le sue conseguenze ed elegge quest’uomo, onde dargli partecipazione a quella gloria che è la sua.

1. GESÙ CRISTO, IL SOGGETTO E L’OGGETTO DELL’ELEZIONE A. CARATTERE CRISTOCENTRICO DELLA PREDESTINAZIONE 1. Una scelta in Gesù Cristo. Fra Dio e l’uomo vi è la persona di Gesù Cristo: vero Dio e vero uomo egli è infatti il Mediatore fra l’uno e l’altro. In lui, Dio si rivela all’uomo; in lui, l’uomo riconosce Dio; in lui, Dio si pone di fronte all’uomo e l’uomo davanti a Dio, conformemente alla volontà eterna di Dio ed al destino eterno dell’uomo, corrispondente a tale volontà. In lui, Dio indica il suo disegno nei confronti dell’uomo e pronuncia su di lui il giudizio; in lui, salva l’uomo e gli si fa presente in tutta la sua pienezza; in lui, enuncia contemporaneamente la sua esigenza e la sua promessa sull’uomo. In lui, Dio si è legato all’uomo. È dunque a causa di lui che l’uomo esiste. Anche il mondo, teatro della storia intercorrente fra Dio e l’uomo, è stato creato conformemente all’origine ed in previsione del destino assegnati all’uomo in Gesù Cristo. Questi è l’essenza di Dio, come è originariamente l’essenza dell’uomo; nulla vi è nell’universo che non proceda da lui, che non esista per mezzo di lui e non sia finalizzato a lui; è infatti la Parola di Dio che contiene ogni verità e che non potrebbe essere superata, né limitata da nessun’altra parola; è la decisione di Dio che nessun’altra decisione può precedere, né superare, né accompagnare, perché tutte le decisioni che possono esistere non possono che concorrere al compimento di tale decisione iniziale; è l’origine che esclude ogni altra origine al di fuori di quella che Dio possiede in se medesimo, cosicché nulla vi è che non proceda da lui o per cui si possa cercare l’inizio al di fuori di lui; è la scelta che esclude ogni altra scelta da parte di Dio, in modo che nulla e nessuno al mondo è stato scelto e voluto da Dio prima di lui, senza di lui ed accanto a lui. In una sola parola: è la scelta (quindi anche l’origine, la decisione, la parola) della libera grazia di Dio. È infatti in

forza della sua libera grazia che Dio sceglie di diventare uomo in Gesù Cristo, legandosi così all’uomo, onde legarlo a sé. Gesù Cristo è la libera grazia di Dio, se è vero che questa libera grazia non resta confinata nell’essenza intima ed eterna del Padre, ma si manifesta al di fuori, nell’insieme delle vie e delle opere divine; ecco perché non esiste scelta, inizio, origine, decisione o parola divina che lo preceda, che sia al di sopra, di fianco o al di fuori di lui; la libera grazia è infatti l’unico motivo che sostiene tutte le vie e tutte le opere di Dio, manifestantesi all’esterno. Quale realtà esteriore potrebbe mai rendere necessarie e provocare l’esistenza di queste vie ed opere divine?; non vi è realtà esterna che non sia precedentemente voluta, così com’è, e presupposta da Dio stesso, cioè che non possegga la sua ragione d’essere ed il suo significato nell’elezione gratuita; Gesù Cristo è lui stesso questa elezione gratuita di Dio e di conseguenza, la Parola e la decisione divine, l’origine e l’inizio inglobanti in maniera assolutamente esaustiva tutte le altre parole, decisioni, inizi particolari. Un’esegesi succinta di Gv. I, 1-2 ci permetterà di comprendere tutta la portata di quanto abbiamo detto. «All’inizio era la Parola»: è la prima affermazione da sottolineare. Il testo indica immediatamente quanto si trova all’inizio, cioè la Parola, e niente altro. Ma lo fa con una proposizione che è tutta relativa a questa Parola: essa si trova all’inizio; non è venuta più tardi, come un elemento fra gli altri all’interno dell’universo creato da Dio e differente da lui; non si manifesta come il primo anello dell’evoluzione; non potrebbe essere definita (come il Logos di Filone) con l’espressione: la più antica fra le realtà che hanno avuto origine. Non deve essere interpretato in questo senso limitativo il celebre testo di Prov. VIII, 22 riguardante la saggezza divina («L’Eterno mi ha creata come prima delle sue opere, prima ancora delle sue opere più antiche»), poiché il seguito (v. 23) precisa in maniera esplicita: «Sono stata stabilita da tutta eternità, fin dall’inizio, prima dell’origine della terra». Così pure bisogna rifiutare un significato limitativo a Col. I, 15 («primogenito della creazione»), poiché subito si può leggere: «in lui tutte le cose sono state create», il che significa evidentemente che quel «primogenito» di cui si è parlato resta sottratto alla serie delle realtà create. Questi due passaggi biblici (come pure I Gv. I, 1) e l’inizio del prologo giovanneo significano esplicitamente che la Parola (che precede ogni realtà creata ed ogni divenire temporale, che è assimilata a Dio, che è tale «che non vi è mai stato tempo in cui essa non era»

come giustamente è stato compreso nel secolo IV a Nicea) è all’origine ed all’inizio di tutto quanto Dio ha creato, distinguendolo da se stesso. In altri termini: nel mondo del creato non esiste nessuna grandezza temporale che non sia contenuta nell’eternità della Parola di Dio, nessuna specie che non abbia origine in questa Parola, non sia cioè da essa limitata, cosicché, dovunque si guardi, è rigorosamente impossibile passare a fianco della Parola divina o sfuggirle. Ma dove situare un essere che si trova «all’inizio» nel senso ora spiegato, al di fuori ed a fianco dell’essere di Dio? A questa domanda risponde precisamente la seconda affermazione di Gv. I, 1: «E la Parola era con Dio». Indubbiamente l’accento porta sui due ultimi termini; la frase è anche qui un enunciato relativo alla Parola; sottolinea che nessuno è «all’inizio» al di fuori ed a fianco di Dio, se non la Parola. Il «con Dio» (πρὸς τὸν ϑεόν) non vuole affatto significare «orientato verso Dio», nel senso della celebre espressione di Agostino: ad te me creasti («mi hai creato orientato verso di te»); e non significa neppure, come voleva Th. Zahn: «in relazione con Dio». L’una e l’altra cosa potrebbero infatti essere affermate di un essere che non fosse all’inizio ed in effetti non potrebbero rapportarsi che ad un essere di tale natura. Se la seconda affermazione di Gv. I, 1 non contraddice la prima, ma al contrario la esplicita, è perché il πρός deve essere interpretato in accezione letterale e stretta, senza nessuna sfumatura; l’essere suscettibile di esistere «all’inizio» è con Dio, parte integrante di Dio, esistente nella maniera stessa di Dio, posto al di là di ogni realtà creata. Perché la Parola è con Dio in questo senso, può essere «all’inizio». Ma come può essere «con Dio» nel significato che abbiamo detto? Che significa «parte integrante di Dio» od «esistere nella maniera stessa di Dio»? La risposta è data dalla terza affermazione di Gv. I, 1, il cui soggetto deve nuovamente essere riconosciuto nella Parola; «E la Parola è Dio». La Parola è Dio stesso, partecipando interamente alla maniera d’essere ed alla natura divine; la soppressione dell’articolo davanti a ϑεός non può significare in nessun caso che si debba attribuire alla Parola un’esistenza divina di secondo rango; il testo indica semplicemente che vi è identità fra la Parola e Dio, in altri termini che la divinità dell’ὁ ϑεός è identica a quella dell’ὁ Λόγος. Ammettiamo dunque immediatamente che «la Parola» e «Dio» siano designati dal medesimo articolo determinativo: il seguito del passo lo mostra senza esitazioni; si comprende come l’esegesi del secolo IV fosse realmente nella giusta direzione quando ha affermato «l’homousia», cioè l’unità essenziale

delle persone o ipostasi divine. La terza proposizione di Gv. I, 1 significa infatti: la Parola può essere «con Dio», può essere come lui «all’inizio» proprio perché in quanto persona (e persona del Figlio!) ha ugualmente parte (nel modo suo proprio e congiuntamente con la persona del Padre) all’unica essenza divina. Interpretato così, il primo versetto del vangelo di Giovanni assume un significato fecondo e ciascuno dei suoi termini diventa comprensibile, là dove si trova. Ma a che cosa o a chi si riferisce dunque la Parola i cui predicati si trovano descritti in Gv. I, 1? Com’è noto, questo concetto non ritorna se non un’altra sola volta nel prologo e nel vangelo giovanneo non è più menzionato, almeno nel senso qui utilizzato; nel vangelo di Giovanni gioca evidentemente un ruolo suppletivo; designa cioè provvisoriamente il luogo che sarà occupato da qualcos’altro o meglio da qualcun altro. Bisogna dire la medesima cosa anche per quell’altro unico passaggio del Nuovo Testamento in cui tale concetto è impiegato nel senso assoluto di Gv. I, 1 e cioè Apoc. XIX, 13: si tratta del cavaliere salito su un cavallo bianco, la cui testa è ornata da parecchi diademi; su uno di questi è scritto un nome che nessuno può leggere (cioè comprendere) se non lui stesso; e questo nome segreto che solo il cavaliere dell’Apocalisse è capace di decifrare è: «la Parola di Dio». Anche qui la nozione occupa un posto provvisorio, sostitutivo di un altro concetto specifico, in relazione diretta con l’esistenza del cavaliere salito su un cavallo bianco ed in un certo senso espresso dalla sua esistenza. Nello scritto giovanneo che è il prologo (Gv. I, 1) la relazione è assai chiara: il termine λόγος sostituisce incontestabilmente il nome di Gesù; i predicati ascritti al Logos devono servire a delimitare, a preparare, ad assicurare il posto che spetta a questo nome; è lui, Gesù, ad essere «all’inizio», «con Dio», della stessa natura di Dio. Questo vuole rendere assolutamente incontestabile Gv. I, 1. Perché utilizza, per raggiungere questo scopo, il concetto di Logos-Parola? Se ci si sforza di rispondere sul piano della storia o della genetica religiosa, ci si trova subito in presenza di una vera massa di possibilità che vanno dall’idea del Logos in Filone alle dottrine del mandeismo relative alle essenze personali, semipersonali o impersonali della divinità. Voler ritrovare all’intero di queste teorie la fonte del IV vangelo è come cercare una goccia d’acqua nell’oceano, poiché non sappiamo in che senso l’evangelista ha ripreso un concetto così diffuso e così ambiguo, né quali trasformazioni gli ha fatto subire, anzi non sappiamo neppure con certezza se l’ha veramente ripreso; una

cosa comunque è indiscutibile: non ha voluto onorare Gesù decernendogli il titolo di Logos-Parola, ma, inversamente, è il Logos-Parola ad essere onorato con l’applicazione a Gesù; la sola esegesi che l’evangelista dà di questa nozione è precisamente simile applicazione. Che cosa concludere se non che non è affatto il caso di prendere in considerazione tutte le interpretazioni, in se stesse possibili della nozione di Logos-Parola, interpretazioni secondo cui il Logos designerebbe essenzialmente e primariamente il principio di una teoria della conoscenza o di una spiegazione metafisica dell’universo? È vero che l’evangelista attribuisce al Logos-Parola una funzione cosmogonica (Gv. I, 3.10); è però altrettanto vero che non ha adottato il termine a causa di questo significato; vi si riferisce infatti in questi versetti esclusivamente per sottolineare e spiegare quanto detto nei versetti 1-2, senza edificare nessun sistema. Non fa che sfiorare questa accezione del termine, per raggiungere lo scopo che è il suo: la Parola è portatrice di vita (v. 4), della vita che, nella sua lotta permanente contro le tenebre, è la luce degli uomini (vv. 5 e 9); questa Parola si è fatta carne (v. 14); è il Dio unigenito che è nel seno del Padre e che, proprio per questa ragione, ha fatto conoscere il Dio sconosciuto altrimenti (v. 18). Questo è il Logos giovanneo, per quanto lo si possa definire facendo astrazione dal fatto che è identico a Gesù: è il principio ed il fondamento intradivino della rivelazione, dell’autocomunicazione divina agli uomini. È quanto l’autore del quarto vangelo ha trovato in Gesù: ha visto in lui la vita che è luce, la rivelazione stessa per mezzo della quale Dio si fa conoscere a noi, questa rivelazione che non è un elemento secondario, accanto o al di fuori di Dio, ma che s’identifica con Dio; ha percepito nell’uomo Gesù non solamente la rivelazione, ma anche il suo principio ed il suo fondamento intradivini, cioè la rivelazione perfetta ed assoluta; per descrivere questo avvenimento ha parlato del Logos-Parola e poco importa cercare quale risonanza potesse avere in lui questo concetto. Si può continuare a tradurre Logos con «parola» o «verbo»; noi preferiremmo «il verdetto», anche a causa del maschile che, nel greco, annuncia il contenuto del v. 2. È noto che il Faust di Goethe era del parere che non si potesse apprezzare a tal punto la parola e che fosse necessario trovare un’altra traduzione; «improvvisamente — dice questo personaggio — tutto diventò chiaro e scrisse subito: al principio vi è l’Azione»; ricordiamoci però che subito dopo questa bella trovata, entra in scena il diavolo! La Parola è la forma insignificante senza dubbio, ma autentica, per mezzo

della quale una persona si comunica ad un’altra persona; è ugualmente mediante la Parola che Dio si comunica all’uomo; e poiché qui si tratta della Parola di Dio, l’evangelista non dice: «una parola», ma «la Parola» in senso assoluto, di modo che non è necessario attribuirle posteriormente quanto noi chiamiamo ragione, volontà, efficacia, essendo essa tutto ciò per definizione, identica com’è all’autocomunicazione divina che lega Dio e l’uomo, da persona a persona. Lo si noti: l’evangelista presuppone che la Parola sia là, data, enunciata, pronunciata; non è necessario dimostrarlo posteriormente né dedurlo da altri princìpi. Il triplice «è» (ἧν) di Gv. I, 1 non ha solamente una portata assiomatica; indica un avvenimento che è ad un tempo eterno e temporale; eterno, quest’avvenimento riveste la forma del tempo, temporale, riveste la forma dell’eternità. Il testo non mette in alcun modo l’accento sul triplice «la Parola» e non è affatto il caso di studiare il significato che tale concetto può avere nell’ambito religionista; svolge il medesimo ruolo dell’iscrizione incomprensibile che si può leggere sul diadema del cavaliere dell’Apocalisse; o ancora svolge la funzione dell’incognita che nell’equazione è designata con la x: solo la soluzione di tale equazione può permettere di trovare il valore di questa x. La soluzione si manifesta partendo da Gv. I, 19. Il prologo dell’evangelo pone i termini dell’equazione; indica il posto dell’incognita per rapporto alle grandezze conosciute: Dio, il mondo, l’uomo, il testimone (Giovanni Battista), i credenti; Gv. I, 1 è l’inizio dell’enunciato del problema: là dove si trova Dio (cioè all’inizio) vi è la Parola, parte integrante di Dio, partecipe della stessa natura divina. Perché la Parola sia là, occorre, né più né meno, che sia uguale a Dio. Questo è il senso del v, 1. Leggiamo in seguito: «Questi è all’inizio con Dio». La tesi secondo cui questa espressione non è che un riassunto del v. 1 non è assolutamente convincente; il v. 1 non abbisogna di tale riassunto e proprio non si vede come il v. 2 adempia simile ruolo; e poiché la terza proposizione del v. 1 è una spiegazione delle due prime, non si vede proprio come ammettere (con Th. Zahn) che la ripetizione delle due prime proposizioni nel v. 2 debba servire a spiegare la terza. Conviene ascoltare quanto dice Ad. Schlatter: il «questi» del v. 2 deve essere interpretato come riferentesi non a quanto precede, bensì a quanto segue; nel prologo infatti la formula «questi è» si trova ancora una volta, là dove s’introduce il testo capitale in cui Giovanni riproduce la testimonianza del Battista (v. 15 s.): «È questi quegli di cui ho detto: colui che viene dopo di me mi ha preceduto, perché era davanti a me. E noi tutti dalla sua pienezza abbiamo ricevuto e grazia su grazia»; il resto del prologo mostra

chiaramente che l’evangelista ha fatto suo l’atteggiamento di Giovanni Battista e che anzi si è identificato, per così dire, con la testimonianza di quest’uomo. È quanto il v. 2 lascia intravvedere una prima volta, anticipando sul seguito in maniera molto significativa; anche lui, l’evangelista (un altro Giovanni!) intende designare ed infatti designa il «questi è»; l’indicazione del v. 2 caratterizza il v. 1 in questo senso, che rinvia a colui che occupa in realtà il posto delimitato dal concetto di Logos-Parola. Il testo intende dunque dirci: colui che, in quanto persona, non ha maggior bisogno di essere identificato di quanto non ne abbia il Dio del v. 1, colui che noi conosciamo tutti, perché la Parola ci è stata rivolta, è lui che è all’inizio con Dio e si chiama Gesù. Ecco perché la menzione della Parola che è all’inizio e che rileva da Dio stesso esprime di più di una certezza assiomatica; ecco perché nulla, in questo testo, si trova proiettato nell’eternità; l’eternità è infatti il tempo, il nome eterno è diventato un nome temporale, il nome di Dio è trapassato in nome di uomo ed è di questo nome che si tratta. Il v. 2 fa dunque parte della terza proposizione del v. 1, che, quindi, proprio per questo, non si trova ripetuta; il legame con il v. 1 afferma retrospettivamente: è lui, Gesù, che è la Parola partecipe della natura divina, è lui che è all’inizio, poiché essendo questa Parola divina, appartiene legittimamente a Dio; dirigendo il nostro sguardo in avanti questo versetto afferma: la Parola partecipe della natura divina è questo Gesù, che è all’inizio, perché appartiene legittimamente a Dio. Con queste indicazioni, con questo «questi è», l’evangelista risponde alle due questioni seguenti: chi è dunque l’essere di natura divina che è all’inizio con Dio? e: è giusto che qualcuno, di natura divina, sia all’inizio con Dio? La risposta unica a queste due interrogazioni è: Gesù. La menzione di questo nome (che qui è solo suggerita) è contemporaneamente una tesi ed una prova relative a quanto si trova realmente all’inizio con Dio. Riassumiamoci: poiché il v. 2 deve essere interpretato come allusione al nome ed alla persona di Gesù Cristo, non vi è che un solo metodo per comprendere la terza proposizione del v. 1 in cui due persone distinte sono identificate, tenendo conto della loro natura divina: accanto all’essere indicato dal termine «Dio», nel testo si trova, partecipante della medesima «divinità», la Parola che, precisamente, è quegli cui Giovanni rinvia, utilizzando il pronome «questi». È a lui che ci riferisce ugualmente lo «αὐτοῦ» dei vv. 3 e 10, in cui è detto che tutte le cose (cioè il mondo) sono state fatte per mezzo di lui e che nulla di quanto è stato fatto, è stato fatto senza di lui. L’esposizione assai originale di Gv. I, 1-2 si ricollega qui con una tematica assai corrente nel Nuovo

Testamento. In Col. I, 17 leggiamo che il Figlio di Dio (non in astratto, ma in concreto, cioè Gesù Cristo che è la testa del suo corpo, cioè la comunità) è «prima di tutte le cose» e che «ogni cosa sussiste in lui». In Col. I, 19 e II, 9 si dice che è piaciuto a Dio (la nozione di elezione appare qui molto chiaramente!) che tutta quanta la pienezza della divinità prendesse forma ed abitasse in lui. Passi come II Cor. IV, 4 o Col. I, 15 o Ebr. I, 3 hanno una portata esclusiva: Gesù Cristo è l’immagine di Dio, il riflesso della sua gloria, l’impronta della sua persona e, conseguentemente, è prima di ogni cosa; è il mistero di Dio in cui sono nascosti tutti i tesori della saggezza e della scienza, come si esprime Col. II, 2 S.; è il mistero nascosto da ogni tempo in Dio creatore di ogni cosa, come afferma Ef. III, 9. Ecco perché è, in senso esclusivo, il primogenito della creazione (Col. I, 15) e, «per essere il primo in tutto», «la primizia di coloro che sono morti» (I Cor. XV, 20 e Col. I, 18); è la testa, il capo di ogni origine (ἀρχή!) e di ogni autorità (Col. II, 10), cosicché la rivelazione e la riconciliazione che si sono effettuate per mezzo di lui significano necessariamente una ricapitolazione di ogni cosa, del cielo e della terra nella loro totalità (Ef. I, 10); è colui «che riempie tutto in tutti» (Ef. I, 23), di modo che la sua venuta e la sua azione nel tempo, costituiscono per definizione «il compimento dei tempi» (Gal. IV, 4; Ef. I, 10). Richiamiamo ancora altri passi che vogliono trarre le conseguenze del fatto che Gesù Cristo partecipa all’essenza di quel Dio che fin dall’inizio si è volto verso l’uomo: Ebr. I, 2 ove, analogicamente con Gv. I, 3.10, è detto che è per mezzo del Figlio stabilito erede di ogni cosa, che Dio ha creato il mondo; Ebr. I, 3 ove è detto del Figlio che porta ogni cosa con la sua parola possente; Col. I, 15 in cui leggiamo: «in lui sono state create tutte le cose che sono in cielo ed in terra, le visibili e le invisibili; tutto è stato creato per mezzo di lui». Se tutto questo ha un significato, siamo invitati a riconoscere proprio nel nome e nella persona di Gesù Cristo, la Parola, la decisione, la scelta di Dio che sono all’origine di tutte le cose e che, di conseguenza, costituiscono anche l’origine del nostro essere e del nostro pensiero, come pure il fondamento della nostra fede, concernente le vie e le opere divine. Nella persona di Gesù Cristo si trovano la Parola, la decisione, la scelta originaria di Dio, ovverossia l’istanza suprema cui dobbiamo definitivamente ed assolutamente aggrapparci, per lasciarci istruire sulla fine e sull’origine di ogni cosa. Dobbiamo quindi legarci a Gesù Cristo non come se egli fosse Dio, ma come a

Dio stesso, poiché Dio stesso in tutte le sue vie ed in tutte le sue opere ha voluto portare proprio questo nome, ad esclusione di ogni altro e lo porta effettivamente: è infatti il Padre del nostro Signore Gesù Cristo, è il Figlio di questo Padre, è lo Spirito Santo che procede da questo Padre e da questo Figlio. Poiché sotto il cielo non è stato dato nessun altro nome agli uomini, nel quale sia possibile trovare salvezza (At. IV, 12), è necessario che davanti al nome di Gesù Cristo si pieghi ogni ginocchio in cielo, in terra e sotto terra (Fil. II, 10). Se è così, il punto di partenza di tutte le nostre riflessioni e di tutti i nostri enunciati concernenti le opere di Dio è subito indicato: non potrà situarsi ad un livello più eccellente di quello manifestato e dato dal nome di Gesù Cristo. Non sapremo parlare bene di Dio, se ci rifiuteremo di partire dall’avvenimento primo ed ultimo che richiede la nostra attenzione: da tutta eternità, Dio ha deciso di portare questo nome. Gesù Cristo è la Parola, la decisione, il disegno eterni di Dio. È l’inizio e l’origine che irriducibilmente si oppongono a tutto quanto esiste al di fuori di Dio. 2. Una scelta di grazia. La scelta di Dio significa la Parola, il decreto e l’origine proprii a Dio, in opposizione a qualsiasi altra realtà differente da Dio; ogni attività divina, all’interno o all’esterno, riposa sulla sua libertà e, nella misura in cui si svolge nel tempo, sulla sua decisione eterna che determina e domina il tempo; Dio sceglie: ecco il fatto che precede assolutamente ogni essere ed ogni divenire. Il soggetto ed il predicato che si presentano a noi rinviano chiaramente al di là del tempo, del complesso del mondo creato, della sua storia; indicando il luogo in cui Dio esiste in se stesso, il luogo del suo beneplacito e del suo libero volere, cioè l’eternità divina a partire dalla quale il mondo, il tempo e tutti i loro contenuti sono stati creati, sono diretti e ricevono la loro determinazione. A questo punto possiamo essere tentati d’incorrere in un errore che, come abbiamo visto, ha svolto un grande ruolo nella storia della dottrina della predestinazione. Questo errore consiste nel vedere nell’eternità di Dio un campo vuoto ed indeterminato, nel credere che Dio (il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo) assomigli, benché dotato di attributi supremi, ad un qualsiasi soggetto capace di scegliere e che effettivamente sceglie, con quest’unica differenza, che non deve rendere conto a nessuno del modo con cui sceglie, poiché la sua scelta è per definizione sempre giusta. Ne consegue che tale scelta è sempre un atto assolutamente incondizionato; o un atto che non può essere condizionato se non dal suo stesso autore; cioè un atto che deve essere compreso come un «decreto assoluto». Questo modo erroneo di vedere, che ha

avuto tanto influsso nella storia della dottrina di cui parliamo, rappresenta una tentazione che dobbiamo riconoscere ed evitare. Per prima cosa chiediamo ai suoi rappresentanti: tenendo conto della maniera con cui Dio si comporta esternamente, nella sua rivelazione, con la creatura da lui creata, è possibile pretendere che esista in lui qualche cosa di più alto e di più specifico che il fatto di scegliere?; non dobbiamo forse affermare che, nel suo essere di fronte alla creatura e conseguentemente nel suo rapporto con tutto quanto esiste al di fuori di lui, Dio è precisamente Dio proprio perché sceglie da tutta eternità, perché si pronuncia in un modo o nell’altro in favore dell’esistenza e della condizione creaturale (con tutto quello che ne consegue)?; come allora distinguere il fatto che Dio sceglie dalla sua Parola e dal suo decreto originari?; non dobbiamo forse dire, al contrario, che la scelta di Dio consiste giustamente nella sua Parola e nel suo decreto originali ed inversamente che la sua Parola ed il suo decreto originali costituiscono la sua scelta, la sua libera autodeterminazione soggettiva, l’atto più autentico della sua sovranità su tutte le cose, compiuto indipendentemente da ogni costrizione, da ogni necessità, da ogni determinazione esteriore? Se su questo punto collimiano con i rappresentanti della tesi del «decreto assoluto», dobbiamo porre loro un’ulteriore serie di domande: ammettono con noi che la Parola ed il decreto originari di Dio consistono nel fatto che Dio ha preso e porta il nome di Gesù Cristo o, se si vuole, che questo nome è precisamente questa Parola e questo decreto?; e se questo è il caso, come evitare di trarre la conclusione seguente, gravida di conseguenze, cioè che la scelta primigenia di Dio, nella sua verità e nella sua efficacia specifiche e decisive per tutto il resto, coincide rigorosamente con il fatto che, da tutta eternità, Dio si è deciso a divenire, per sua propria iniziativa, colui che porta il nome di Gesù Cristo?; quale potrebbe essere la scelta di Dio se non questa?; quale opzione potrebbe precedere quella in forza della quale Dio stesso ha deciso di avere con sé, all’inizio di tutte le cose, la Parola che ha nome Gesù Cristo?; da quale «decreto assoluto» mai questo «decreto particolare», questo «decreto concreto» potrebbe essere superato e messo in causa, segretamente o apertamente?; che cosa resta insomma di un’idea riguardante un «decreto assoluto»?; come pretendere di comprendere il tutto in se stesso, mettendo da parte il fatto che Dio si è pronunciato in favore dell’esistenza e della condizione della creatura?; come non comprendere che questa scelta è inclusa in quell’altra scelta di Dio, quella scelta intima, personale e primaria che ci mostra come Dio abbia deciso di legare se stesso al nome di Gesù Cristo, ha

voluto esistere sotto questo nome, ha voluto essere Gesù Cristo? La scelta di Dio è in primo luogo ed autenticamente una decisione il cui risultato è lo stato di fatto descritto da Gv. I, 1-2: la Parola (cioè Gesù) è all’inizio, è con lui, della sua medesima natura, quanto alla divinità fa un tutt’uno con lui. Ed è per questa ragione che questa scelta è intrinsecamente una scelta di grazia, un’elezione gratuita. Non è scontato che sia così; Dio non sarebbe Dio, non sarebbe libero se fosse obbligato ad essere come noi apprendiamo che è; «che cos’è mai l’uomo perché ti ricordi di lui ed il figlio dell’uomo perché tu ne tenga conto?» (Sal. VIII, 5). Il Dio eterno non deve infatti rendere conto all’uomo di essere in se medesimo il Dio la cui natura è di portare il nome di Gesù Cristo; che sia questo Dio è una grazia che l’uomo non ha meritato e che non può che ricevere; e che Dio sia grazia, che assumendo il nome di Gesù Cristo si consegni all’uomo che non lo ha meritato, questo è precisamente la sua scelta, la sua libera decisione. Tale scelta è scelta di grazia, elezione gratuita. Di sua propria iniziativa Dio ha disposto liberamente di se medesimo, sottomettendosi ad una determinazione; senza nulla dovere all’uomo, si è fatto suo debitore volendo che le cose siano come ce le presenta Gv. I, 1-2. Che tale testo ci dica la verità, è una grazia. Ed è anche grazia che Dio abbia voluto che la verità possegga precisamente tale contenuto. All’inizio, prima che esistessero il tempo e lo spazio che noi conosciamo, prima della creazione, prima che nessuna realtà differente da Dio abbia potuto essere l’oggetto del suo amore e fungere da cornice agli atti della sua libertà, Dio (nella forza del suo amore e della sua libertà, del suo sapere e del suo volere) ha premeditato e fissato il fine ed il senso di tutta la sua opera nel mondo ancora inesistente, decidendo di fare grazia all’uomo nel Figlio suo e di legarsi così alla sua creatura. È fin dall’inizio che il Padre ha scelto di realizzare quest’alleanza con l’uomo, consegnando in suo favore il Figlio suo, che, diventato uomo, incarnerà la gloria divina; è fin dall’inizio che il Figlio ha deciso di obbedire alla grazia, abbassandosi al livello dell’umanità per dare corpo all’alleanza conclusa da tutta eternità; è fin dall’inizio che lo Spirito Santo ha voluto che l’unità divina (l’unità del Padre e del Figlio) non fosse onnubilata e meno ancora rotta da quest’alleanza con l’uomo, ma che diventasse tanto più gloriosa in quanto la divinità di Dio (la divinità della sua libertà e del suo amore) deve manifestarsi e confermarsi precisamente nel dono del Padre e nell’abbassamento volontario del Figlio. Il soggetto e l’oggetto di questa scelta sono fin dall’inizio, Gesù Cristo. Questi non è certo all’origine di Dio, poiché Dio non ha inizio; è però all’origine di ogni cosa,

all’origine di tutta l’attività divina in seno alla realtà differente da Dio; è la scelta di Dio in relazione a questa realtà, la scelta della grazia divina volta verso l’uomo, la scelta dell’alleanza di Dio con l’uomo. Riprendiamo un’importante scoperta di Joh. Coccejus1, quando rapportiamo la nozione di predestinazione al concetto biblico di alleanza o di testamento, che designa l’impegno personale che Dio ha liberamente voluto assumere nei confronti delle sue creature. Questo impegno Dio lo ha fatto conoscere a Noè come la sua alleanza «con tutti gli esseri viventi che sono sulla terra» (Gen. IX, 14); ne parla poi come dell’alleanza conclusa con Abramo e la sua posterità (Gen. XVII, 7 s.); finalmente come dell’alleanza conclusa con Israele stesso (Is. LV, 3; Ger. XXXII, 40 e L, V; Ez. XVI, 60 e XXXVII, 26). Definita dall’espressione berith olam, l’alleanza di cui parla la Bibbia è caratterizzata (qualunque siano le nozioni temporali che le sono soggiacenti) come una relazione che non ha nulla di accidentale o di passeggero, ma che rileva da una necessità propriamente divina. È più solida delle montagne (Is. LIV, 10). Dio si è impegnato a rispettarla giurando su se stesso (Gen. XXII, 16; Es. XXXII, 13; Is. XLV, 23; LIV, 9; LXII, 8; Sal. CX, 4; Ebr. VI, 13). Michea può dire del Messia: «la sua origine risale ai tempi antichi, ai giorni dell’eternità» (V, 1; cfr. pure Is. IX, 7; Dan. VII, 13 s); permane da tutta eternità come i Giudei ben sanno (Gv. XII, 34); è sacerdote da tutta eternità, secondo la potenza di una vita che non perisce (Ebr. VII, 16 s.; Sal. CX, 4). «È mediante lo Spirito eterno che si è offerto senza macchia a Dio» (Ebr. IX, 14); prima che Abramo fosse, egli era ed Abramo si è rallegrato nel vederne il giorno (Gv. VIII, 56 s.); ed è proprio a questo passato divino che rinviano le decisioni rapportate da testi come Mt. III, 17, Col. I, 19, Le. XXII, 29 ed Ef. I, 9. Non è possibile scindere tutto questo dai passaggi neotestamentari in cui è questione esplicitamente dell’elezione riferita al nome ed alla persona di Gesù. In Ef. I, 3-5 i due temi si succedono immediatamente; vi si trova dapprima un’indicazione generale concernente il beneficio che ci è stato accordato in Cristo nei luoghi celesti; quindi un’applicazione particolare: «ci ha scelti in lui prima della creazione del mondo, avendo deciso di farci diventare suoi figli in lui per mezzo di Gesù Cristo, secondo il suo buon volere e secondo la sua volontà». Parimenti Ef. I, 9-11 inizia con una costatazione generale: ci ha fatto conoscere il segreto del suo buon volere, di ricapitolare ogni cosa nel Cristo; segue quindi un’affermazione particolare: è in lui che noi siamo stati chiamati

all’eredità, essendo stati predestinati, secondo la decisione di colui che fa ogni cosa secondo il suo beneplacito. Secondo questi passi (cui si può aggiungere Ef. III, 11) la forma concreta della benedizione divina e della benevolenza che presiede al disegno di salvezza eterna è precisamente questa predestinazione, la cui rivelazione sarà l’esistenza della chiesa (Ef. III, 10), predestinazione sicura, «poiché Dio ha posto in esecuzione il suo disegno eterno per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore. Parimenti bisogna dire che la nostra salvezza e la nostra vocazione divengono avvenimento, perché ci sono accordati sotto l’aspetto del disegno salvifico di Dio e della grazia «in Gesù Cristo prima di tutti i secoli» (II Tim. I, 9), poiché il Cristo, l’agnello senza difetto e senza macchia, è «stabilito prima della fondazione del mondo» (l Pt. I, 20; Apoc. II, 23) e poiché la sua sofferenza mediatrice è necessaria «fin dalla fondazione del mondo» (Ebr. IX, 26). «Quest’uomo, consegnato secondo il disegno stabilito e secondo la prescienza di Dio, voi l’avete crocifisso, voi l’avete fatto morire per mezzo della mano degli empi» (At. II, 23). È perché «fosse realizzato tutto quanto la tua mano ed il tuo consiglio avevano precedentemente stabilito», che Erode e Pilato si sono federati con i pagani e la folla d’Israele contro Gesù, il santo servitore di Dio (At. IV, 27 s.). Parimenti la gloria di cui Gesù richiede in Gv. XVII, 5 non è differente da quella che possedeva presso il Padre, prima che il mondo fosse. Poco importa che la menzione della volontà e del disegno di Dio che precedono la nostra storia si rapportino all’eternità divina come tale o semplicemente all’origine della creazione, cioè del mondo e del tempo che sono i nostri. Una cosa è certa: tutti questi passi rinviano all’inizio di tutte le vie e di tutte le opere di Dio che sono esterne a lui; e tutti designano questo inizio con il nome di Gesù Cristo, la cui persona costituisce, all’interno del nostro mondo e del nostro tempo, il compimento della decisione divina originaria e gratuita, dopo essere stato evidentemente già pure la sostanza di tale decisione. B. FORMA CRISTOCENTRICA DELLA PREDESTINAZIONE La predestinazione divina è l’elezione di Gesù Cristo: questa proposizione formula nella maniera più semplice e più completa il contenuto del dogma della predestinazione. Il termine di «elezione» significa due cose: «eleggere» ed «essere eletto». Anche il nome di Gesù Cristo significa due realtà: colui che porta questo nome è contemporaneamente vero uomo e vero Dio. Di conseguenza, nella sua forma più semplice, il dogma della predestinazione

deve essere definito mediante queste due tesi: Gesù Cristo è il Dio-che-elegge e Gesù Cristo è l’uomo-eletto. In quanto Gesù Cristo è Dio, possiede naturalmente (ed in primo luogo!) una funzione attiva, quella che consiste nell’eleggere; non che nella sua qualità di uomo non possa scegliere, cioè optare per Dio nella fede; ma ciò deriva dal suo essere-eletto, cioè dall’elezione divina, che costituisce la qualifica primaria e fondamentale della sua esistenza di uomo. In quanto Gesù Cristo è uomo, possiede senz’altro una funzione passiva: quella di essere-eletto; certo, anche come Dio è eletto, poiché è l’eletto del Padre suo; ma subito dobbiamo aggiungere, poiché essendo il Figlio del Padre non abbisogna di una elezione particolare: è il Figlio di Dio eletto nella sua unità con l’uomo, onde compiere l’alleanza di Dio con l’uomo. Il fatto di eleggere è dunque primariamente la determinazione divina dell’esistenza di Gesù Cristo, mentre il fatto di essere eletto è la sua determinazione umana. C. GESÙ CRISTO È IL DIO-CHE-ELEGGE 1. Esposizione della tesi. Gesù Cristo è il Dio-che-elegge: è questa la tesi che deve ritenere innanzitutto la nostra attenzione perché, dato il suo contenuto, possiede il carattere ed il valore di una proposizione principale e perché la seconda tesi, cioè che Gesù Cristo è l’uomo-eletto, non può essere compresa e spiegata se non su questa base. Si noterà immediatamente la portata critica di questa prima tesi in rapporto all’interpretazione tradizionale della dottrina della predestinazione; in particolare essa mette in causa e sostituisce la famosa nozione di «decreto assoluto», con cui i seguaci della tradizione argomentano per esporre la questione del soggetto dell’elezione; tale nozione si riferisce ad un beneplacito divino, il cui motivo ed il cui significato restano impermeabili all’uomo ed alle altre creature, le cui decisioni sono indiscutìbili ed infallibili, e di cui si può dire solo questo, che è di natura divina e che, per tale ragione, s’impone in maniera assoluta. È precisamente questo posto lasciato vuoto che viene ad occupare il nome di Gesù Cristo. Secondo la testimonianza biblica non abbiamo il diritto di rispondere con un’enigmatica alzata di spalle proprio là, dove ci è chiesto giustamente di parlare chiaramente della decisione divina primaria e specifica, che domina ogni altra decisione e che è autosufficiente. Come può la dottrina della predestinazione non diventare oscura se, nella prima proposizione che è enunciata a suo riguardo e da cui tutto il resto dipende, si resta incapaci di parlare di nient’altro, se non appunto di un «decreto assoluto»? Noi ci ancoriamo fermamente a Gv. I, 1-2 e di conseguenza ci allontaniamo da questa tradizione, cercando di comprendere

che Gesù Cristo è il Dio-che-elegge. Gesù Cristo è all’inizio con Dio; non lo è nel modo di cui si può dire che, relativamente al sapere ed al volere divini, tutte le cose si trovano all’inizio presso Dio, nel suo piano e nel suo decreto; non vi è alcuna comune misura tra la situazione del Figlio di Dio unito con il Figlio dell’uomo da tutta eternità e quella del mondo creato e della storia che, in forza di questa unione antecedente, esistono da tutta eternità nel disegno divino. Una cosa è la Parola di Dio per mezzo della quale tutto è stato fatto ed altra cosa sono gli oggetti chiamati all’esistenza da questa Parola; l’elezione gratuita ed eterna di Dio è una cosa, la creazione, la riconciliazione, la redenzione fondate su tale elezione gratuita ed avvenute in funzione di tale realtà sono un’altra cosa; vi è l’alleanza che nella sua eternità pretemporale Dio ha concluso con se stesso in vista dell’uomo ed essa non è semplicemente identica all’alleanza di grazia che Dio, partendo di là, ha voluto stabilire fra lui e l’uomo, nel quadro del tempo. Si può e si deve dire certamente che Gesù Cristo è all’inizio con Dio anche nella misura con cui lo sono le creature e la loro storia, nel piano e nel decreto divini; ma non lo è solamente in questa maniera; lo è anche come primogenito di tutta la creazione (Col. I, 15), costituente lui stesso il piano ed il decreto di Dio, la decisione divina intrinseca in rapporto all’insieme degli esseri creati e della loro storia. Tutto quanto l’elezione gratuita contiene e significa come dinamismo di Dio nei confronti dell’uomo, tutto quanto ne consegue e tutto quanto essa implica, si trova completamente definito e condizionato dall’esistenza della decisione divina intrinseca, di cui parliamo, dal fatto assolutamente determinante secondo cui Gesù Cristo è l’elezione gratuita di Dio.

L’esordio autografo del paragrafo 13 della Dogmatica ecclesiastica (vol. 1, 2) (Basilea, Karl Barth-Archiv).

Gesù Cristo non è dunque solo oggetto del beneplacito divino, uno accanto ad altri possibili; è l’oggetto, perché è innanzitutto lui stesso tale beneplacito, cioè la volontà attiva di Dio. Non è solamente una risorsa o uno strumento della libertà divina, è innanzitutto ed autenticamente la libertà divina stessa, nella misura in cui essa agisce all’esterno; non è solamente la rivelazione del mistero di Dio, è il mistero di questo mistero e rivelandolo, è se stesso e non un altro che egli svela; non è solamente il riconciliatore fra Dio e l’uomo, è innanzitutto lui stesso la pace fra i due partners. Di conseguenza, non è solamente scelto, ma è anche colui che sceglie, cosicché la sua elezione deve essere intesa innanzitutto in senso attivo. Certo, è anche scelto, perché è il Figlio di Dio che si abbassa fino a divenire simile agli uomini; e, parimenti, non è solo quando sceglie, poiché lo fa in costante legame con la scelta del Padre e dello Spirito Santo. Però sceglie! L’obbedienza di cui fa prova in quanto figlio di Dio è una obbedienza reale e personale: è la conseguenza della sua libera decisione divina, della sua libera scelta, conformemente alla libera

scelta del Padre e dello Spirito Santo. Al fatto di essere scelto corrisponde in maniera rigorosa il fatto che sceglie. Nella pace che regna all’interno del Dio trinitario, non è meno originariamente il soggetto di questa scelta, di quanto originariamente non ne sia l’oggetto; è solamente in questa pace che può essere in un secondo momento l’oggetto di questa scelta, compiere cioè non la sua volontà propria, ma quella del Padre, cosicché, in quanto uomo chiamato a scegliere, confermerà l’opzione divina ed in un certo qual senso la ripeterà; tutto ciò riposa sul fatto che egli partecipa fin dall’inizio alla scelta di Dio e che la scelta di Dio è anche la propria scelta; tutto ciò è possibile perché è anche quegli che pone il principio di ogni cosa e prende la decisione che perviene a stabilire l’alleanza con l’uomo, perché (in una sola parola) è ugualmente il Dio-che-sceglie-ed-elegge, congiuntamente con il Padre e con lo Spirito Santo. Se così non fosse, se, per quanto concerne l’elezione (cioè la decisione originaria e fondamentale della volontà divina) dovessimo passare a fianco di Gesù Cristo per interrogare Dio il Padre o forse Dio lo Spirito Santo, come tale decisione potrebbe alla fin fine esserci conosciuta? Dove infatti può diventarci manifesta se non in questo luogo? Saremmo condannati a speculare su un «decreto assoluto», invece di essere condotti a comprendere e ad approvare la grazia manifestatasi nella elezione divina e non sapremmo più in quali mani ci rifugiamo, allorché trattiamo della predestinazione divina. È quindi estremamente importante che riconosciamo (anche e soprattutto!) il Figlio come il soggetto della predestinazione; infatti solo in lui la predestinazione ci è manifesta in quanto azione di Dio, in quanto opera del Padre e dello Spirito; ed è unicamente credendo al Figlio, che noi potremo ugualmente credere al Padre ed allo Spirito, cioè all’elezione divina che è unica. Se Gesù Cristo fosse semplicemente l’eletto, e non anche ed in primo luogo colui-che-elegge, che cosa mai sapremmo della scelta di Dio e della nostra propria elezione? Noi sappiamo invece del Cristo una cosa precisa, anzi la cosa più precisa possibile: mediante un atto di libera obbedienza nei confronti del Padre, ha scelto di essere un uomo e di compiere in questa maniera la volontà divina. Se Dio ci elegge, è nella e con l’elezione di Gesù Cristo, nel e con l’atto di libera obbedienza del Figlio suo. È lui, Gesù Cristo, ad essere chiaramente la forma concreta e visibile della decisione divina (del Padre, del Figlio e dello Spirito) in favore dell’alleanza che sarà stabilita fra Dio e noi. In lui, l’elezione eterna diventa immediatamente la promessa della nostra propria elezione che s’inscrive nel tempo; in lui diventa vocazione, appello a credere, sicurezza

dell’intervento divino in nostro favore, rivelazione della nostra qualità di figli di Dio (cioè del fatto che Dio è nostro Padre), comunicazione ed illuminazione dello Spirito Santo (che altro non è se non lo Spirito che ispira questo atto d’obbedienza, lo Spirito di Gesù Cristo e, per noi, lo spirito di adozione). Cercando di comprendere l’elezione divina in tutta la sua realtà, come esitare ancora a discernere immediatamente il soggetto di questa elezione in colui stesso che compie l’atto di obbedienza di cui abbiamo parlato e che è lui stesso quest’atto di obbedienza nella sua totalità? 2. Riflessione scritturistica. È necessario dunque prendere alla lettera testi come Gv. XIII, 18; XV, 16; XV, 19 in cui Gesù si designa come colui che sceglie i suoi discepoli. Il quarto vangelo (è di tutta evidenza) ignora tutto di una concorrenza che dovrebbe o potrebbe essere abolita mediante l’introduzione, a questo punto, di un concetto di subordinazione. Se Gesù non fa nulla da se stesso (Gv. V, 19.30), dichiara anche: «fuori di me, non potete fare nulla» (Gv. XV, 5). Le due cose vanno rigorosamente appaiate. La dichiarazione: «ciò che è mio è tuo» è l’esatto parallelo di quell’altra: «ciò che è tuo è mio» (Gv. XVII, 10); è stato inviato ed è venuto; come è nel Padre, il Padre è in lui (Gv. XIV, 10). Come il Padre ha in sé la vita, così ha dato al Figlio di avere in sé la vita (Gv. V, 26); come il Padre lo glorifica, lui glorifica il Padre (Gv. XVII, 1-5); il nutrimento di Gesù è fare la volontà di colui che l’ha inviato (Gv. IV, 34) e le sue opere sono l’opera del Padre che dimora in lui (Gv. XIV, 10). Se il Padre è più grande di lui (Gv. XIV, 28), tuttavia ha posto tutte le cose nelle mani del Figlio suo (Gv. III, 35) e gli ha dato potere su ogni uomo (Gv. XVII, 2). «Credete in Dio e crederete in me» (Gv. XIV, 1). Nessuno può venire a Gesù, se questo non gli è dato dal Padre (Gv. VI, 65); colui che ha inteso il Padre e ricevuto il suo insegnamento, viene al Cristo (Gv. VI, 45); vanno al Cristo solo quanti sono attirati dal Padre (Gv. VI, 44) e che gli sono stati dati dal Padre (Gv. VI, 37; XVII, 6.9.24). E parimenti, Gesù è la via, la verità e la vita e nessuno viene al Padre se non per mezzo suo (Gv. XIV, 6); se il Padre è il vignaiolo, Gesù è la vera vite (Gv. XV, 1 s.); per questo prega così: «Padre, io voglio che là dove io sono, coloro che tu mi hai dato siano anch’essi con me, affinché siano la mia gloria, la gloria che tu mi hai donato» (Gv. XVII, 24). Considerato in questo contesto, la scelta dei discepoli da parte di Gesù non può essere considerata come una semplice funzione vicaria, ma come l’atto di sovranità divina in cui traspare nettamente la decisione originaria e

fondamentale di Dio, che è identica a quella di Gesù Cristo. Parimenti, l’appello all’imitazione, così frequente nei sinottici, sottintende la parola di Mt. XI, 27: solo conoscono il Padre coloro ai quali il Figlio ha voluto rivelarlo; questa affermazione si trova significativamente illuminata (e non limitata) dal testo in cui è detto che il Figlio non può essere conosciuto se non in forza di una rivelazione del Padre (Mt. XVI, 17); e non si dimentichino i passaggi in cui è detto che il Cristo si è spogliato ed abbassato (Fil. II, 7 s.), si è donato (Gal. I, 4: 1 Tim. II, 6), consegnato (Gal. II, 20; Ef. V, 2) ed offerto da se stesso (Ebr. VII, 27; IX, 14) come quelli in cui si tratta dell’obbedienza (Fil. II, 8; Ebr. V, 8): essi costituiscono il riflesso della spontaneità e dell’attività divine che sono il fondamento dell’esistenza concreta di Gesù e, di conseguenza, la base dell’alleanza fra Dio e l’uomo. 3. Dialogo con la tradizione: Tommaso d’Aquino. Non basta quindi dire con Tommaso d’Aquino: «la stessa unione delle nature nella persona del Cristo cade sotto l’eterna predestinazione divina e per questo motivo Cristo è detto essere predestinato»2. Certo questa tesi è giusta: nella sua divinità, come nella sua umanità, Gesù Cristo è infatti anche un predestinato, anzi il primo degli eletti. Ma Tommaso d’Aquino intende ridurre l’elezione del Cristo a questa relazione puramente passiva e cioè limitarla alla natura umana di Gesù: «la predestinazione si attribuisce alla persona del Cristo non certamente in sé o in quanto sussistente nella natura divina, sebbene in quanto sussistente nella natura umana»3; «la predestinazione compete al Cristo solo in forza della natura umana»4; «è detto luce della predestinazione e della grazia, in quanto mediante la sua predestinazione e la sua grazia viene manifestata la nostra predestinazione»5. Se ci ricordiamo della testimonianza del quarto vangelo concernente le relazioni fra il Padre ed il Figlio, dobbiamo rifiutarci di ammettere le limitazioni che implicano queste tesi. Certo, la filialità divina di Gesù Cristo non trova il fondamento nell’elezione; ciò che in essa trova fondamento è il fatto che Gesù Cristo è anche un uomo, il fatto che è stato inviato, per usare un’espressione giovannea e che porta nel mondo il nome stesso di Dio, cioè del Padre; ma vi è un terzo elemento, dimenticato da Tommaso, fra la divinità di Cristo (che non rileva dall’elezione) e la sua umanità eletta ed è il fatto che Gesù è all’inizio con Dio o, se si vuole, la decisione del beneplacito divino di far abitare in lui la pienezza della divinità, l’alleanza che Dio ha concluso con se stesso, il giuramento che ha pronunciato sulla sua autorevolezza, in favore dell’uomo. Questo terzo elemento non ha

solamente un carattere passivo e non è un semplice oggetto dell’«eterna predestinazione divina». Certo, è anche tutto questo, poiché l’uomo Gesù non può che subire, ricevere ed accettare l’elezione divina e poiché, nell’atto del beneplacito divino, nell’alleanza che Dio conclude con se stesso, il Figlio eterno è scelto, designato ed inviato dal Padre per compiere la sua volontà. Ma se lui ed il Padre sono una cosa sola, se sono, al medesimo titolo e senza concorrenza, portatori del nome divino e della gloria divina, è chiaro che il Figlio è ugualmente il soggetto attivo dell’«eterna predestinazione divina» il cui oggetto è il Figlio dell’uomo, cioè è lui stesso il Dio-che-elegge; ed è in questa maniera solamente (cioè in forza di una sovranità illimitata) che è anche l’eletto, l’oggetto docile della predestinazione, il Figlio che obbedisce liberamente al Padre, per essere parimenti in seguito il Figlio dell’uomo che esegue pienamente la volontà di Dio nel mondo. Limitandoci a riprendere semplicemente quanto dice Tommaso d’Aquino (parlando cioè semplicemente dell’elezione dell’uomo Gesù nel senso passivo e non della scelta del Figlio di Dio che precede e condiziona tale elezione) si cade nell’errore che abbiamo avuto occasione di denunciare: ancora una volta si fa dell’elezione gratuita un mistero divino separato dalla persona del Cristo Gesù, mistero di cui noi non possiamo sapere nulla, che siamo persino incapaci di credere e che ci forza a ricorrere proprio per questo alla nozione confusa del «decreto assoluto». In queste condizioni, la predestinazione non si mostra solamente come una verità superiore, situata al di là dell’alleanza concretizzatasi e rivelatasi nella persona di Gesù Cristo; appare come un qualcosa di essenzialmente differente da tale persona; non è più altro che un’economia misteriosa il cui carattere divino ci sfugge ed in cui non abbiamo nessuna seria ragione di porre la nostra confidenza. Infatti, per suscitare la confidenza, la libera decisione di Dio deve potere essere presentata con chiarezza come una decisione di Dio, cioè come la decisione di Gesù Cristo stesso. Come può essere possibile tutto questo se, stando ai termini stessi dell’insegnamento di Tommaso d’Aquino e di molti altri, essa non è, in fine, una decisione di Gesù Cristo? Se in altri termini, noi siamo ridotti a pensare che la realtà della persona divino-umana di Gesù Cristo non è che una delle opere divine suscitate dalla predestinazione e non l’opera per eccellenza, la Parola ed il decreto di Dio situati all’origine di tutte le cose, cioè il mistero rivelato della predestinazione stessa? Che la nostra elezione ci sia rivelata, per mezzo della grazia divina rivolta verso di noi, nell’elezione dell’uomo Gesù, che questa elezione di Gesù sia dunque per noi «la luce della predestinazione»,

non possiamo certo crederlo se non ci è consentito riconoscere nell’elezione di Gesù l’elezione eterna (nel senso attivo e nel senso passivo!) del Figlio di Dio stesso, se cioè non siamo assolutamente sicuri che in Gesù Cristo entriamo direttamente in contatto con il Dio-che-elegge. In caso contrario, non finiremmo mai di domandarci se nell’elezione non siamo forse di fronte alla volontà di un Dio estraneo, non legato a noi, senza grazia e senza misericordia; se l’elezione dell’uomo Gesù ci rivela veramente la nostra elezione (ed è quanto intende dirci il Nuovo Testamento affermando che quest’uomo è stato scelto per essere il nostro mediatore, il nostro capo ed il nostro sacerdote e che le sue sofferenze e la sua morte erano predestinate) è perché in Gesù non incontriamo solamente un eletto, ma il Dio-che-elegge, la Parola ed il decreto che sono all’inizio con Dio; sì, se l’uomo Gesù è lo specchio della nostra elezione, ciò significa che non è un semplice messaggero, un angelo di Dio (Is. LXIII, 9), ma Dio stesso, nostro Salvatore e nostro Liberatore, cioè il testimone autentico e solo degno di fede, proprio per la nostra elezione. 4. Dialogo con la tradizione: Agostino ed Atanasio. Come Tommaso d’Aquino e tanti altri, anche Agostino ha parlato dell’elezione di Gesù Cristo in accezione passiva, cioè in funzione dell’umanità di Gesù ed anche noi non mancheremo di farlo. Tuttavia (e dovremo seguire il suo esempio su questo punto) quest’autore ha cominciato puntando il suo sguardo molto in alto: ha osato contemplare l’incarnazione (cioè la persona divino-umana di Gesù Cristo) nel suo quadro reale, là dove essa costituisce il disegno eterno del beneplacito divino, prima della fondazione del mondo, prima di ogni realtà creata; fin dall’inizio fissa la sua attenzione su questo luogo altissimo in cui questo disegno eterno, che precede ogni altra realtà, è identico a questa persona divino-umana, in cui il Dio eterno non solo prevede e predestina, ma è lui stesso questa persona, colta come presupposto della sua rivelazione nel tempo. Agostino, davanti al testo di Tit. I, 2, si chiede: come può Dio aver dato una promessa anteriore al tempo ed indirizzata agli uomini, quando essi ancora non c’erano? E risponde: «nell’eternità dello stesso Dio e nel suo Verbo coeterno è già fisso per predestinazione quanto si manifesterà nel tempo»6. Non può aver pensato all’essere della Parola eterna in se stessa e come tale, quando designa questa Parola come l’istanza suprema nel cui seno già esisteva quello che poi si sarebbe prodotto nel tempo; altrimenti bisognerebbe ammettere che Agostino avrebbe attribuito allo stesso essere del tempo una preesistenza eterna in Dio, cosa cui neppure pensa e che anzi espressamente

combatte in questo passaggio; la frase che abbiamo citato è comprensibile, giusta ed importante se Agostino intende designare, con l’espressione «Verbo coeterno», la Parola ed il decreto originali identici a Gesù, secondo Gv. I, 1-2, se in altre parole l’espressione «Verbo coeterno» significa: «nel suo Verbo che doveva incarnarsi». È in forza di questa Parola che la vita eterna ha potuto essere promessa ed è statadi fatto promessa prima di tutti i tempi agli uomini che non avevano ancora esistenza. Ma Agostino non è né il solo, né il più antico testimone dell’antichità cristiana che dobbiamo ascoltare ed evocare qui. Prima di lui ed in maniera molto più esplicita aveva già parlato Atanasio. Eccone il lungo passaggio: «La grazia che ci è stata accordata per mezzo del Redentore è stata manifestata, come afferma l’apostolo (Tit. II, II) e noi vi partecipiamo poiché il Redentore è venuto; essa però è stata preparata prima di noi, o piuttosto, prima della fondazione del mondo. Ammirevole è la ragione per cui le cose stanno così: non era infatti conveniente che Dio s’interessasse a noi solo in un secondo momento, dando l’impressione di non conoscere la nostra situazione. L’autore di ogni cosa, che ci ha creati per mezzo della sua Parola, conosce la nostra situazione meglio ancora di quanto la conosciamo noi; sapeva fin dall’inizio che noi avremmo abbandonato la nostra giustizia originaria, avremmo trasgredito il suo comandamento, saremmo stati cacciati dal paradiso a causa della nostra disobbedienza. Così, per amore e per pura bontà, ha preparato la nostra salvezza nella sua Parola creatrice, in modo che persino nella nostra colpa, provocata dal serpente, non fossimo condannati a rimanere morti, ma fossimo resi alla vita e promessi all’immortalità; ci ha dato infatti la possibilità di conoscere per mezzo della sua Parola la salvezza e la redenzione che ci ha riservato fin dall’inizio, lui che, nella sua creazione, consente ad essere il primogenito fra più fratelli ed a risuscitare come primizia di coloro che sono morti. Come ci ha eletti prima che esistessimo, a meno che non fossimo stati prefigurati in lui, come è scritto? E come ha potuto predestinarci, prima ancora della creazione, ad essere suoi figli, se il Figlio stesso non è là, fin dall’origine, per assumere in nostro favore l’ordine della salvezza? Come siamo stati predestinati ad avere parte dell’eredità, secondo quanto dice l’apostolo (Ef. I, II), se il Signore stesso non è stato stabilito prima di ogni tempo onde mettere in esecuzione il suo disegno, di prendere su di lui, incarnandosi, la sorte da noi giustamente meritata, per farci partecipare in lui all’adozione? Come abbiamo potuto ricevere qualcosa già nell’eternità, noi che siamo nati nel tempo, se la grazia che ci è destinata, non è stata depositata in

Cristo stesso? È per questo motivo che, al momento del giudizio finale quando ciascuno riceverà secondo le proprie opere, il Figlio dell’uomo dichiarerà: «Venite, benedetti dal Padre mio, prendete possesso del regno che vi è stato preparato prima della fondazione del mondo» (Mt. XXV, 34). Come tale regno ha potuto essere preparato prima della nostra nascita, se non è stato stabilito, nel Signore, prima ancora della creazione, affinché, simili a pietre vive poste su quest’unico fondamento, fossimo partecipi della sua vita e della sua grazia? Tutto ciò è accaduto perché, come abbiamo già detto, potessimo vivere eternamente, dopo essere usciti dal breve sonno della morte. Per noi che siamo della terra, questo sarebbe impossibile, se la speranza della vita e della salvezza non ci fosse stata preparata in Cristo prima di tutti i tempi. È chiaro: la Parola che ha rivestito la nostra carne e che costituisce l’origine di tutte le opere divine, deve essere fondata nel medesimo modo in cui lo è la volontà del Padre che essa porta ad esecuzione, cioè prima del tempo, prima che la terra fosse, prima che le montagne fossero nate e prima che le fonti sgorgassero; affinché, alla fine dei tempi, quando la terra, le montagne e tutti i fenomeni di questo mondo di apparenza passeranno, possiamo continuare a vivere, possedendo per mezzo di questa Parola, conformemente all’elezione, la vita e la benedizione che ci sono state preparate e riservate. Così non ci sarà accordata un’esistenza passeggera ma durevole in Cristo, poiché tale vita ci è stata preparata e fondata per noi nel Cristo Gesù, prima di tutti i tempi. Non bisogna cercare il fondamento della nostra esistenza altrove che nel Signore che è prima di tutti i secoli e da cui tutti i secoli procedono, nel quale noi ereditiamo l’eternità che gli è propria. Dio infatti è buono. È così buono che ha voluto fosse così, lui che ha visto subito a che punto la nostra natura vulnerabile ed impotente avesse bisogno del suo aiuto e della sua salvezza. Come un buon architetto si domanda come la casa che ha deciso di costruire possa essere ricostruita se crollerà, assumendo le decisioni conseguenti, fornendo alla sua impresa il materiale necessario, così Dio ha stabilito fin dall’inizio in Cristo le disposizioni necessarie per ristabilire la nostra salvezza, affinché potessimo essere ricreati in lui. Il disegno di questa seconda creazione è stato concepito prima di tutti i tempi; quanto all’opera stessa, si è compiuta quando ciò è stato necessario, per mezzo della venuta del Salvatore. Poiché se il Signore ci fa accedere alla vita eterna, ciò significa che lui stesso è colui che ci rappresenta tutti nel cielo»7. Atanasio ha chiaramente compreso che esiste un terzo elemento fra l’essere della Parola eterna o del Figlio come tale e la realtà di Gesù, l’uomo

eletto, la cui elezione include quella di tutti coloro che credono in lui. Come ripete senza stancarsi: l’elezione dell’uomo Gesù e la nostra elezione, con tutte le grazie che comporta, hanno la loro radice nell’eternità della Parola o del Figlio, che non differisce dall’eternità del Padre. Senza nuocere alla loro eternità, Atanasio ha attribuito alla Parola ed al Figlio di Dio che le è identificato un carattere determinato, rispetto a Gesù, l’uomo eletto ed all’elezione dei credenti, inclusa in lui. Non si è limitato, come Tommaso d’Aquino, a considerare da un lato l’essenza pura del Dio trinitario e d’altro lato la storia di salvezza voluta e compiuta da Dio nel quadro del tempo; ha visto nel disegno concreto di salvezza una realtà esistente in seno alla divinità trinitaria; ha reso giustizia alla nozione giovannea della Parola che, identica a Gesù, è all’inizio con Dio; ha saputo concepire il decreto divino nella sua autentica prospettiva cristiana. Per Atanasio il decreto divino, cioè la predestinazione o l’elezione, è la decisione intervenuta all’inizio di ogni cosa, prima di ogni altra relazione fra Dio e la realtà che gli è differente; il soggetto di tale decisione è il Dio trinitario (cioè anche il Figlio, e non solo il Padre e lo Spirito); il suo oggetto è, in particolare, chiamato a diventare il Figlio dell’uomo, cioè Gesù Cristo, il Dio-uomo preesistente, che come tale costituisce il fondamento eterno di ogni elezione divina. 5. Dialogo con la tradizione: la Riforma. Bisogna costatare che tale verità così eccezionalmente feconda non ha avuto influsso nella storia della dottrina della predestinazione; è riprovevole, perché avrebbe potuto imprimerle un tutt’altro carattere; è completamente sfuggita non solo a Tommaso d’Aquino, ma agli stessi Riformatori. Questi ultimi hanno certo notato senza infingimenti che Gesù Cristo è «la luce» e «lo specchio dell’elezione»; ma hanno motivato il fatto affermando che in forza della sua natura umana il Cristo è il primo degli eletti; così facendo hanno semplicemente sposato la tesi di Tommaso d’Aquino. Non hanno sospettato neppure un istante che il loro punto di vista avrebbe potuto non rendere sufficientemente conto dell’«in lui» di Ef. I, 4; non hanno compreso che, neppure in un’ottica pastorale, non è sufficiente dire alla gente: per giungere alla certezza di essere eletti, credete in Gesù Cristo, legatevi a lui perché è il primo degli eletti e perché potete discernere in lui il mezzo con cui Dio esegue i suoi disegni di elezione nei confronti di tutti; anche tenendo conto di questo, possiamo veramente evitare di porre la seguente questione, che non può certo essere confinata nel mondo degli scrupoli, ma che ha un’importanza vitale: facciamo veramente parte di coloro cui profitta il beneficio di cui Cristo, in quanto primo degli eletti, è lo

strumento?; siamo degli eletti?; a che servono tutte le assicurazioni del mondo se sul punto decisivo, cioè per quanto concerne l’elezione, non possiamo guardare a Gesù Cristo, perché il Dio-che-elegge non è identico a lui, ma si pone al di là, in qualche sfera inaccessibile? Che cosa valgono tutte le garanzie che ci sono proposte, se alla fin fine ci si lascia intendere che una realtà differente da Gesù Cristo (il «questi» di Gv. I, 2) si trova all’inizio presso Dio, se, in una sola parola, la decisione del beneplacito divino non è legata a questo nome, né determinata da lui?; quale vantaggio possiamo trarre allorché, come accade nei Riformatori ed al loro seguito nel protestantesimo ortodosso sia luterano che riformato, siamo esortati, di fronte alla decisione nascosta dell’istanza suprema di Dio, a piegarci semplicemente davanti al mistero?; quale vantaggio possiamo derivarne quando i calvinisti ci assicurano che la decisione divina, benché incomprensibile, ha le sue ragioni che la nostra ragione non conosce o quando i luterani aggiungono che tale decisione deve esserci senz’altro favorevole perché, in ogni modo, Dio è la bontà stessa? Se non è vero che Gesù Cristo è il Dio-che-elegge, è chiaro che i confortevoli consigli di sicurezza che ci sono dati ci rinviano ad un’istanza differente dalla Parola di Dio, ad un mistero diverso da quello della mangiatoia e della croce, ad una rivelazione diversa da quella della resurrezione. Tutte le belle dichiarazioni sulla maestà di Dio, sul suo mistero e sulla sua bontà non possono affatto cambiare l’incertezza in cui restiamo per quanto concerne la nostra elezione. Ma vi è qualcosa da aggiungere: in nessun caso dobbiamo lasciarci consolare in questo modo! Infatti solo la Parola di Dio può rassicurarci qui. Come potrebbe farlo però se Gesù Cristo non è veramente il Dio-che-elegge, se non costituisce lui stesso l’elezione e di conseguenza anche la nostra elezione, se non è altro che un semplice strumento di cui il Dio-cheelegge (altrove ed in un’altra maniera!) si serve per eseguire il suo disegno nei confronti di quanti ha eletto (altrove ed in un’altra maniera!)? Il fatto che Calvino, in particolare, non abbia risposto a questa domanda e che evidentemente non abbia neppure avuto l’idea di porsela, costituisce l’obiezione decisiva che si deve formulare contro la sua dottrina della predestinazione. Per lui il Dio-che-elegge è un «Dio nudo nascosto» (Deus nudus absconditus) e non il «Dio rivelato» (Deus revelatus) che, come tale è anche il «Dio nascosto» (Deus absconditus), il Dio eterno. Tutti gli altri difetti della dottrina calviniana della predestinazione sono riconducibili a questa deficienza capitale. Il Riformatore (contro le sue intenzioni) ha finito per separare Dio da Gesù Cristo; ha creduto di poter

cercare altrove che in Gesù Cristo ciò che è all’inizio con Dio; in una sola parola, pur proclamando con la veemenza di cui si sa l’elezione gratuita, alla fin fine è passato accanto alla grazia di Dio manifestata in Gesù Cristo. Abbiamo già visto come anche il Sinodo di Dordrecht non abbia risposto alla questione che si pone qui o meglio, abbia ripreso semplicemente, irrigidendola, la risposta insufficiente data da Calvino. Parimenti abbiamo visto che i rimostranti olandesi da un lato ed i luterani dall’altro hanno certo capito il problema, risolvendolo però in maniera disgraziata: la nozione della scelta divina, della libera decisione eterna di Dio, è stata profondamente alterata o meglio rimpiazzata semplicemente dall’idea di un ordine religioso universale istituito da Dio, idea che rappresenta la negazione stessa dell’elezione gratuita in quanto scelta operata da Dio; nei rimostranti olandesi la trasformazione si è prodotta innegabilmente in forza dell’introduzione di un nuovo pelagianesimo, di tipo umanista, che doveva essere all’origine del neoprotestantesimo. Bisogna ben dire che, eccettuato l’insegnamento di Coccejus, la teologia protestante del secolo XVII non è riuscita, nel suo insieme, a sfuggire il dilemma appena ricordato. 6. Dialogo con la tradizione: l’ortodossia protestante. Fra i dommatici ortodossi da me conosciuti, ve n’è uno solo in cui si trovano tesi adatte al superamento di questo dilemma: Polanus. Per lui, dato il testo di Ef. I, 4, è subito tutto chiaro: «Il Padre ci ha eletti non in quanto Padre, poiché l’elezione non è azione specifica del Padre, ma in quanto Dio, poiché l’elezione è opera comune di tutta quanta la sacrosanta Trinità e di quest’opera comune il Padre è principio»8. In collegamento con questa affermazione scrive in seguito: «Il soggetto dell’elezione nel quale, ἐν ᾧ, siamo eletti è il Cristo, non in quanto Dio, né in quanto semplicemente uomo (nudus homo), ma in quanto uomo divino (ϑεάνϑρωπος) e mediatore nostro; era infatti necessario uno strumento in cui essere eletti, poiché senza di esso non si sarebbe potuta fare l’unione fra il Dio-cheelegge e gli uomini eletti; così Cristo è il legame (vinculum) mediante il quale Dio e gli eletti sono congiunti»9. Per questo la tesi, in parte combattuta ed in parte modificata al Sinodo di Dordrecht è ancora indiscutibile: «l’elezione del Cristo è il fondamento e la solida conferma (fundamentum et firmamentum) dell’elezione degli angeli e degli uomini»10. Per queste ragioni in Polanus la tesi principale ha il seguente tenore: l’elezione eterna del Cristo è la predestinazione mediante la quale Dio designò fin dall’eternità il Figlio suo unigenito ad essere Figlio di Dio anche secondo la

sua natura umana, capo degli angeli e degli uomini, mediatore fra Dio, gli angeli e gli uomini»11. Non si può certo dire che tali tesi raggiungano la profondità di un Atanasio; sono troppo generali e troppo poco precise; ma, dato che Polanus ha conosciuto e riprodotto minuziosamente il passo di Atanasio che abbiamo citato12 e che ha visto in Gesù Cristo il Mediatore, nettamente distinto dal Redentore13, l’oggetto autentico e primario dell’elezione divina (caratterizzata espressamente come opera della Trinità tutta intera), non si può misconoscere che si è almeno sforzato di pensare in funzione delle grandi intuizioni di Atanasio. Ora, eccezion fatta per i luterani i cui tentativi si sono conclusi con uno scacco e per Coccejus e la sua scuola, non si può certo affermare che gli altri dommatici ortodossi del secolo XVII abbiano seguito questa linea. Nella loro dottrina della predestinazione i teologi riformati hanno sostenuto con ragione, contro i luterani e gli arminiani, che la «causa efficiente impulsiva dell’elezione» (cioè il motivo della volontà divina) non deve essere ricercato al di fuori di Dio, ma unicamente all’interno del beneplacito divino; in altri termini, hanno difeso la tesi secondo cui questa «causa efficiente» non si trova in una realtà creata prevista da Dio (cioè nella buona volontà umana, nell’uso che gli uomini fanno della libera grazia divina, nelle opere ispirate dalla fede, nella fede come tale, nella preghiera, nella perseveranza del credente, in una qualsivoglia dignità della specie umana, neppure nel merito di Cristo, nella misura in cui rappresenta l’obbedienza dell’uomo Gesù); tutto ciò è infatti effetto e conseguenza dell’elezione divina e non sua causa; l’elezione è una grazia, una libera grazia, la cui origine e la cui giustificazione sono esclusivamente in Dio ed in nessun’altra parte. Come dice Polanus: «è necessario che la causa della nostra elezione e di tutti i benefici che le sono connessi risieda esclusivamente in Dio fin dall’eternità»14. Quanto però non vedono è che, per avere il diritto di formulare questa tesi polemica (e cioè per poter proclamare coscientemente la libera grazia), occorre riconoscere che tale libera grazia si trova concretamente definita e compiuta in Dio medesimo; non comprendono, in altri termini, che per parlare esattamente della causa efficiente della grazia (cioè dell’origine di ogni cosa) occorre riferirsi a Gesù Cristo precisamente e non ad un beneplacito divino di natura generale e privo di sostanza o ancora ad una bontà universale di Dio altrettanto vuota; per mostrare che l’elezione è una libera grazia, non basta affermare ancora e sempre che essa è esclusivamente l’opera di Dio! Ecco invece come si esprime l’ortodossia riformata quando, nel quadro

della dottrina della predestinazione, abborda la questione del motivo che determina la volontà del Dio-che-elegge: «nel Padre è stata antecedente la volontà di eleggere taluni, prima ancora di eleggere il Figlio»15; è unicamente perché «questa volontà antecedente era impedita (!) dalla sua giustizia di destinare ad essi con azione completa la salvezza eterna, che egli destinò per loro un mediatore, che sodisfacesse alla giustizia divina» e unicamente nella misura in cui la nostra elezione è di fatto condizionata dalla scelta di questo mediatore, che questa elezione (cioè la nostra) viene dopo la sua, cioè siamo eletti «in Cristo». Certo anche qui si menziona «una certa qual relazione», una «reciproca relazione fra Cristo come testa ed i suoi eletti»16; ma è solo per fare immediatamente la distinzione seguente: «il decreto che riguarda la nostra preservazione è predestillazione per quanto concerne il fine, mentre il decreto concernente Cristo che deve esserci dato come testa è predestinazione per quanto concerne i mezzi»17. Si giunge persino ad affermare: «Cristo è il sostrato dell’elezione come fondamento per la salvezza che deve essere conferita in futuro, in cui saremo eletti, cosicché Cristo può essere considerato come eletto in un certo senso dopo la nostra elezione»18 e «gli eletti del Padre sono eletti prima del Cristo»19. A che cosa mai poteva servire il precisare, ponendosi su un terreno filosofico, che in tutto ciò si tratta di una «priorità di ordine e non di tempo: infatti gli eletti sono dati al Cristo ed il Cristo è dato come testa agli eletti nel medesimo atto di elezione»?20. Se infatti l’istanza superiore in questa gerarchia è la scelta del Padre (che ha un carattere generale), mentre l’elezione di Gesù Cristo non è altro che l’organo esecutivo del disegno divino; in altre parole, se la scelta del Padre non è, nell’accezione attiva e passiva del termine, identica a quella di Gesù Cristo, il Figlio di Dio che si vuole Figlio dell’uomo ed alleanza per coloro che credono in lui, è chiaro che la questione relativa alla decisione dell’istanza superiore cui siamo rinviati, resta interamente posta: nel migliore dei casi siamo eletti «per il Cristo», non certamente «nel Cristo». Allora il Cristo non è più «il fondamento dell’elezione». Questa verità, lo si ricorda, è stata rifiutata anche dal Sinodo di Dordrecht, in cui la tesi timidamente avanzata dalla delegazione di Brema è stata rapidamente messa da parte. Nel migliore dei casi è «il fondamento della salvezza». Quanto a sapere se questo «migliore dei casi» gioca a nostro vantaggio, cioè se il Cristo è per noi il fondamento della salvezza, perché noi apparteniamo a coloro che gli sono stati dati dal Padre e di cui è stato fatto

testa, onde eseguire il decreto di elezione, questa questione (assolutamente capitale per l’insieme delle relazioni fra Dio e l’uomo) resta qui senza risposta; anzi, data la maniera in cui è stata posta, suscita malessere e disagio, poiché, almeno apparentemente, per risolverla, non resta altra soluzione che ricorrere sia ad una pretesa conoscenza del decreto nascosto di Dio, sia alla nostra propria convinzione (fondata su un’esperienza spirituale tutta interiore oppure, grazie al famoso «sillogismo pratico» malinteso, su tutta una serie di opere di cui pensiamo provino la nostra qualità di credenti ed indirettamente la nostra elezione). I seguaci del dogma classico della predestinazione non possono infatti ricorrere a Gesù Cristo per definire l’elezione ed il Dio-cheelegge, poiché si limitano ad affermare che Gesù Cristo è semplicemente «il primo strumento dell’elezione». L’elezione, e con essa il Dio-che-elegge, scompaiono per così dire dietro lo schermo che rifiuta di definire maggiormente il beneplacito divino, con il pretesto di difendere la libera divinità della «causa efficiente impulsiva dell’elezione»; il solo modo di rispettare il beneplacito divino è di non parlarne; e si assumono facce gravi e misteriose ogni qualvolta si pronuncia il termine Dio. Ma più ci si avanza su questo cammino, più si rischia di dire «l’uomo» là dove si dice con tanta enfasi «Dio»; e più si rischia di portare acqua al mulino dell’avversario che pure si vuole combattere: il semipelagianesimo antico e moderno, cioè la sopravalutazione dell’uomo. Rifiutandosi di parlare del Cristo, onde poter parlare rettamente della grazia, non si poteva vedere chiaramente che il complemento dell’elezione è la fede e si è obbligati ad introdurre altri complementi, come sempre accade quando si pensa di poter incontrare Dio passando accanto a Gesù Cristo e quando, per questo motivo, non si riesce più ad intendere la voce che chiama alla fede. Si comprende che una tale dottrina della predestinazione, che alla fin fine tratta superficialmente il Cristo favorendone una svalutazione, abbia potuto fare nascere un misticismo riformato di cui G. Tersteegen è il classico rappresentante; un misticismo che non teme di celebrare Dio come «essere presente» e «sufficiente per ogni cosa», senza la minima allusione al Cristo. E si comprende pure come una simile dottrina abbia potuto condurre ad una morale riformata caratterizzata dall’introspezione, l’ascesi e l’attivismo, morale che, incarnata soprattutto da un Benjamin Franklin, ha permesso al calvinismo di svolgere per un certo tempo nella storia un ruolo grandemente prestigioso. I valori cristiani autentici e notevoli che questi sviluppi contengono non derivano in nessun caso dalla dottrina riformata della

predestinazione come tale; provengono invece da elementi che proprio questa dottrina ha più o meno soffocato; e sono elementi cristiani e biblici che hanno continuato la loro esistenza, malgrado tutto, sotto questa forma. È certo infatti che l’«in lui» paolino ha potuto essere praticamente insegnato anche nella forma tronca di una dottrina del Mediatore eletto, di modo che l’inquietante sfondo del «decreto assoluto» ha potuto essere praticamente lasciato da parte. E la gente ha capito, malgrado tutto, che per quanto concerne l’elezione e la salvezza, doveva riguardare esclusivamente a Cristo e che questa era la sola strada che permetteva di lasciare il vicolo cieco del «decreto assoluto». Lo capirono in tanti, se non in tutti e molti furono così impediti di rifugiarsi nel misticismo e nel moralismo. Che cosa sarebbe accaduto della chiesa riformata senza questa felice inconsequenza? Resta il fatto che si dovrebbe rinunciare a fondare con predilezione il prestigio di questa chiesa su fenomeni che in fin dei conti sono semplicemente il risultato di un cattivo punto di partenza, in questo caso, la dottrina del decreto assoluto; e resta che, a causa di queste felici inconsequenze, non si dovrebbe essere impediti di riconoscere senza reticenze questo cattivo punto di partenza, che non si tratta di perpetuare, ma di correggere, sostituendo la dottrina del decreto assoluto con quella della Parola che è all’inizio con Dio! Merita tuttavia di ricordare il notevole sforzo di chiarificazione che, in pieno secolo XVII, è stato fatto nel quadro della dommatica riformata da Joh. Coccejus e dai suoi discepoli. Non è certo per caso che Coccejus è uscito dalla scuola teologica di Brema, quella medesima che a Dordrecht ha elevato una protesta, rimasta, è vero, provvisoriamente inascoltata. Il merito di questo autore, lo abbiamo già ricordato, è di avere saputo considerare e legare assieme dei dati che secondo la Bibbia non dovrebbero mai essere separati; da un lato l’elezione gratuita ed eterna di Dio e dall’altro il suo disegno eterno di salvezza, espresso per mezzo del testamento o del decreto dell’alleanza divina che è «la volontà ultima di Dio, mediante la quale (Dio) designò presso di sé gli eredi della giustizia e della salvezza, mediante la fede, non senza il mediatore del patto»21. Nella medesima linea F. Burmann scrive: «Il piano di esercizio della grazia è stato disposto da Dio a guisa di testamento (patto); ma il testamento concernente gli eredi di Dio non è stato fatto senza mediatore e garante del testamento, per il quale primariamente è stato disposto il regno»22. Certo, a prima vista ci si può chiedere se, anche qui, gli eletti destinati ad essere gli eredi della giustizia e della salvezza non sono senz’altro considerati come oggetto diretto dell’elezione divina e se l’elezione stessa di Gesù Cristo

non è considerata come una realtà che, fino ad un certo punto almeno, non appartiene a questo contesto: «contemporaneamente (Dio) ha costituito Cristo capo e primogenito ed essi (gli eletti) membra e fratelli del Cristo»23. Più tardi teologi come F. Burmann e P. van Mastricht hanno insegnato che oggetto dell’elezione è «il Cristo totale mistico, cioè il Cristo con tutti i suoi»24. In verità il pensiero di Coccejus e dei suoi discepoli è estremamente chiaro: «per primo è stato eletto Cristo come capo, quindi noi, come membra in lui»25. Coccejus ha sviluppato la dottrina del testamento (patto o alleanza) in tre momenti: «La prima parte del testamento è costituita dal fatto che Dio ha decretato di dare il Figlio suo unigenito, di inviarlo nella carne affinché fosse carne, seme di Abramo e di una donna, fratello di coloro che dovranno essere salvati e che in tale maniera fosse santificatore, cosicché tutti coloro che saranno santificati lo siano da lui solo (Gv. III, 16; Ebr. II, II)». La seconda parte del testamento è la divina «volontà di giustificare per mezzo della fede nel garante», secondo l’ordine indicato in Gv. III, 16: coloro che credono nel Figlio non periranno, ma avranno la vita eterna; essi formano la comunione del peccatore e del garante «mediante lo spirito del garante, che unisce il peccatore al garante stesso», la cui opera primigenia è precisamente la fede. La terza parte del testamento è «la designazione degli eredi della giustizia», cioè la separazione fin dall’eternità di coloro che, secondo Gv. III, 17, sono salvati dal Figlio di Dio che viene nel mondo o che, secondo Rom. VIII, 29 sono chiamati ad essere fratelli del primogenito o, secondo Gal. III, 9, sono chiamati a fare parte dei pagani giustificati per mezzo della fede in lui26. Così sul punto decisivo, Coccejus può scrivere: «È manifesto che mediante questa decisione si è rivelata pienamente quell’economia di gloria, di consolazione e di amabilità, mediante la quale il Padre si è costituito vindice della santità e del nome divino, ha dato il regno ed il giudizio al Figlio e lo stesso Figlio, come Sapienza (cioè come la sapienza del Dio creatore, nella sua volontà di essere glorificato nell’uomo) è stato unto e designato principe della salvezza, sacerdote del popolo suo, re e signore del medesimo e nel medesimo tempo angelo rivendicatore di Yahwé, restauratore della gloria del Padre, rivelatore della medesima»27. L’ «in lui» di Ef. I, 4 deve dunque essere compreso in duplice senso: «con Cristo in quanto previsto e con Cristo e per mezzo di Cristo in quanto eleggente, cioè garante»28. La stessa cosa si può dire di Ef. III, II, dei testi giovannei in cui è questione dell’elezione di Gesù, del Sal. II, 8 e di Gv. V, 21. Infine, cosa notevole, Coccejus interpreta in questa direzione anche la

parabola di Mt. XI, 17. Riassumiamoci: Coccejus ha compreso: 1) che il decreto di elezione è identico al decreto di salvezza; 2) che il decreto di salvezza ha per oggetto primario la missione ed il popolo del Figlio di Dio stesso; 3) che il Figlio di Dio partecipa, come il Padre e lo Spirito, in qualità di soggetto divino, a tale decreto, essendo quindi contemporaneamente eletto ed elettore (electus et eligens). Queste tre proposizioni consentivano e permettono di superare e di scartare il celebre «decreto assoluto» calvinista, cioè l’idea che la causa propriamente detta dell’elezione risiede in un qualche beneplacito divino indeterminato e senza contenuto concreto. Aprivano ed aprono la strada verso una concezione cristiana della elezione. Beninteso, perché ciò accada, occorre che la prima delle tre proposizioni sia presa estremamente sul serio ed applicata in maniera rigorosa. Quanto al difetto specifico di Coccejus e dei suoi discepoli, si deve dire che essi, pur affermando l’identità del decreto di elezione e del decreto di salvezza, non hanno saputo applicare tale verità, come pure era possibile fare, all’elezione stessa. Certo, la loro scoperta proietta una certa qual luce sulla dottrina della predestinazione che è la loro, ma non la penetra fino a distinguerla nettamente dalla posizione calvinista classica, adottata dalla restante ortodossia riformata. Per questa ragione si deve dire che se Coccejus si è fatto un nome ed ha esercitato un’influenza nella storia della teologia è stato per aver spiegato per primo l’alleanza di grazia inscritta nel tempo nella prospettiva detta «della storia della salvezza» e non per aver intravvisto la correzione sostanziale che deve essere apportata all’insegnamento dei Riformatori sulla predestinazione. È quindi abbastanza comprensibile che uno specialista di Coccejus come G. Schrenk abbia appena notato l’importanza dell’intuizione di questo teologo per la dottrina della predestinazione29; e che uno specialista di questa dottrina come Alex. Schweizer abbia potuto completamente trascurare un riferimento a Coccejus ed ai suoi discepoli; infatti costoro non sono riusciti a modificare il carattere della teologia del secolo XVII su questo punto, anche se avrebbero ben potuto farlo. 7. Conclusione. L’elezione di Gesù Cristo è la scelta e la decisione eterne di Dio. La nostra prima proposizione dice: Gesù è il Dio-che-elegge. Non dobbiamo metterci alla ricerca di un altro Dio; non esiste una profondità del divino in cui possiamo incontrare un Dio che gli è differente; la divinità in se stessa non esiste. La divinità è sempre e solo la divinità del Padre, del Figlio e

dello Spirito Santo; ma il Padre è il Padre di Gesù Cristo e lo Spirito è lo Spirito di questo Padre e lo Spirito di Gesù Cristo; non vi è quindi un «decreto assoluto», una volontà di Gesù Cristo differente da quella di Dio. Gesù Cristo non è dunque solamente la «rivelazione» o «lo specchio» della nostra elezione; non è come se la nostra elezione (risultante, o non risultante, da una volontà divina differente e nascosta) ci fosse semplicemente conosciuta e rappresentata dalla sua; Gesù Cristo ci rivela che la nostra elezione è compiuta per mezzo di lui, in forza della sua volontà identica a quella di Dio. Ci dice: sono io stesso quegli che eleggo. Ci è comandato e permesso di riguardare a lui con assoluta sicurezza, qui ed ora, nella nostra esistenza storica, perché anche nell’eternità, prima di ogni storia, all’inizio, non vi è mai stata altra decisione in Dio che quella compiuta per mezzo di lui, Gesù Cristo. Credendo in lui, ascoltandolo, seguendo la sua decisione possiamo sapere di essere eletti da Dio, con una sicurezza che assolutamente nulla può mettere in dubbio. D. GESÙ CRISTO È L’UOMO ELETTO 1. Esposizione della tesi. Gesù Cristo è l’uomo eletto. Con questa seconda proposizione ci ricolleghiamo con la dottrina tradizionale della predestinazione, la quale insegna semplicemente, da un punto di vista cristologico, che Gesù Cristo è un eletto quanto alla sua umanità, mentre, quanto alla sua divinità, è il Signore e il capo di tutti, l’organo e lo strumento di ogni opzione divina, la rivelazione e lo specchio dell’elezione per l’insieme degli altri eletti. Ora, senza la nostra prima proposizione, queste verità sarebbero insostenibili. Donde infatti Gesù Cristo deriverebbe l’autorità ed il potere di essere il Signore ed il capo di tutti gli altri eletti, se fosse semplicemente l’oggetto e non anche il soggetto dell’elezione?; come gli eletti potrebbero essere eletti in lui, contemplare in lui, il primo eletto, la loro propria elezione, rallegrarsene e fortificarsi, se Cristo non fosse altro che una creatura eletta e non anche, ed innanzitutto, il Creatore-che-elegge? Non è concepibile che si possa affermare seriamente e rigorosamente di una semplice creatura che essa è il Signore ed il capo di tutte le altre creature, a tal punto che queste ultime dovrebbero rallegrarsi dell’elezione di questa creatura come della loro propria elezione. Non si può assolutamente dire, a proposito di nessun essere creato, che noi siamo eletti «in lui». Come potrebbe una semplice creatura dominare a tal punto le altre da osar pretendere di assumere il loro posto davanti a Dio? Se è vero che un uomo assurge a questo ruolo, come la Scrittura attesta a proposito di Gesù Cristo, è chiaro che questi non è solamente una creatura, ma anche il Creatore e che, se è stato eletto in quanto

creatura, deve innanzitutto aver scelto lui stesso, in qualità di Creatore. In altri termini: l’uomo eletto ed il Dio-che-elegge sono necessariamente una sola e medesima persona. La nostra seconda proposizione si fonda quindi sulla prima, che, proprio per questo, non avrebbe mai dovuto essere ricusata o passata in silenzio. Data l’esistenza di un simile legame, la seconda proposizione che abbiamo enunciata deve essere precisata ulteriormente. Essa afferma che la decisione divina eterna (cioè tale quale è nell’eternità pretemporale di Dio, prima di ogni realtà creata, prima di ogni essere e di ogni divenire temporale, prima del tempo così come ci è conosciuto) ha per oggetto e per contenuto l’esistenza della creatura unica che si chiama l’uomo Gesù di Nazareth, l’opera che questo uomo ha compiuto durante e per mezzo della sua vita e della sua morte, nel suo abbassamento come nella sua elevazione, nella sua obbedienza e nei suoi meriti. Essa afferma che l’alleanza stabilita da Dio con gli uomini e che riguarda la loro salvezza è stata eseguita nella e per mezzo dell’esistenza di questa creatura. L’uomo che ha questa funzione è l’oggetto dell’elezione e della predestinazione eterne di Dio. Gesù Cristo non è dunque solamente un eletto. È l’eletto di Dio. Eletto fin dall’inizio (da tutta eternità!), non coesiste con gli altri eletti: come eletto di Dio, li precede e li domina in maniera assoluta; non esistono altri eletti fin dall’inizio (cioè da tutta eternità!) accanto o al di fuori di Gesù Cristo; secondo Ef. I, 4 non vi è predestinazione se non «in lui». «In lui» non significa solamente «con lui», «in comunione con lui», «in sua compagnia»; non significa neppure semplicemente «per mezzo di lui» (tenendo conto di quanto, nella sua qualità di eletto, può effettivamente fare per noi o essere per noi); «in lui» vuol dire: nella sua persona, nella sua volontà, nel suo atto di elezione divina, nella decisione fondamentale di Dio che egli esegue nei riguardi di ogni uomo. Il fatto che lo distingue dall’insieme degli altri eletti e che (alla fin fine) lo rilega ad essi è questo: è lui, Gesù, come eletto, il Dio che, nella sua propria umanità, elegge tutti. Poiché come Dio vuole se stesso, come uomo vuole anche gli uomini; questi sono dunque eletti «in lui», cioè nel e con il suo essere eletto; conseguentemente l’essere eletto di Dio si distingue dalla elezione degli altri eletti non semplicemente perché è esemplare o perché è la rivelazione o lo specchio della loro elezione. Certo, l’essere-eletto di Gesù Cristo ha anche tale carattere, ma solo perché tutto il resto ne procede e ne dipende, cioè perché costituisce, in modo assolutamente incomparabile (donde il suo valore universale!) l’essere-eletto di Colui che è lui stesso l’autore dell’elezione. Di nessun eletto si può dire che «in

lui» e «con lui» tutti gli altri sono eletti. Può essere detto solo di Gesù Cristo. Comprendiamo allora in quale maniera Gesù Cristo, come eletto, è il Signore ed il capo di tutti gli altri eletti, la rivelazione e lo specchio della loro elezione, l’organo e lo strumento di ogni azione divina in questo campo. Bisognava dare queste precisioni per far comprendere veramente che il suo «essere-eletto» è senza possibili reticenze, archetipale in ogni direzione. È partendo di qui che dobbiamo imparare a riconoscere effettivamente in lui non solamente il Dioche-elegge, ma anche l’uomo-eletto. Dal momento che il passaggio fondamentale di Gv. I, 1-2 parla già dell’uomo Gesù, è chiaro che esso sottintende ugualmente, secondo la nostra seconda proposizione, che Gesù Cristo è l’uomo eletto. Ed è a quest’aspetto di verità che ci rinviano tutti i testi giovannei che affermano Gesù inviato per compiere la volontà e le opere del Padre o che il Padre dispone di Gesù e di coloro che gli appartengono. Fra tutti i testi del Nuovo Testamento che abbiamo citato se ne trova forse uno che, descrivendo Gesù Cristo come creatura differente da Dio e rappresentante il decreto divino iniziale, non sottolinei anche la sua elezione in accezione passiva? Il senso passivo dell’elezione si trova esplicitato in testi come Gv. XVII, 24 («Mi hai amato prima ancora della fondazione del mondo»), Lc. IX, 35 e Lc. XXIII, 35. Questi due ultimi passaggi hanno questo in comune:«il Cristo vi è designato in un primo momento, nella trasfigurazione (cioè prima del suo calvario) come figlio mio diletto, ed in un secondo momento, nella crocifissione, come il Cristo di Dio, l’eletto. È l’eletto di Dio non solamente nella sofferenza o malgrado la sofferenza, ma proprio per la sofferenza»30. D’altronde anche il testo di Gv. XVII, 24 si rapporta indubitabilmente alla storia della passione. E non terremo mai abbastanza conto di simile indicazione leggendo passi come At. II, 23; IV, 27 s.; I Pt. I, 20; Ebr. IX, 14; Apoc. XIII, 8. Ed il secondo Isaia afferma del servitore che Yahwé riveste della sua forza, dell’eletto in cui la sua anima trova compiacimento, sul quale ha fatto posare il suo Spirito, che ha incaricato di annunciare la verità alle nazioni (Is. XLII, 1), del mediatore dell’alleanza con gli uomini destinato ad essere luce dei popoli (Is. XLII, 6; XLIX, 8): «Hanno posto il suo sepolcro fra gli empi, la sua tomba con il ricco, sebbene non abbia commesso violenza e non si sia trovata frode sulla sua bocca. È piaciuto a Dio spezzarlo per mezzo della sofferenza. Dopo aver consegnato la sua vita in sacrificio per il peccato, vedrà una posterità e prolungherà i suoi giorni e l’opera dell’Eterno prospererà nelle sue mani» (Is. LIII, 9 s.). «Eletto per la

sofferenza»: è l’apice della profezia del secondo Isaia; ed è alla luce di questo fatto che bisogna interpretare il passaggio di Ebr. II, II s.; citiamolo per disteso: «Colui che santifica e coloro che sono santificati hanno tutti la medesima origine. Per questo non si vergogna di chiamarli fratelli, quando dice: Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli; ti celebrerò in mezzo all’assemblea. Ed ancora: Quanto a me, avrò confidenza in lui. Ed ancora: eccomi, me ed i figli che Dio mi ha donato. Poiché dunque i figli hanno in comune sangue e carne, anche lui vi prese parte, per ridurre ad impotenza, mediante la sua morte, colui che ha la potenza della morte, cioè il diavolo». Ecco l’uomo! (Gv. XIX, 5). 2. Dialogo con la tradizione. Per quanto concerne l’elezione di Gesù Cristo in accezione passiva, i grandi sostenitori della dottrina tradizionale della predestinazione hanno enunciato e sviluppato un certo numero di verità, delle quali dobbiamo tenere conto, perché, interpretate correttamente, ricapitolano sostanzialmente tutto quanto è necessario comprendere ed affermare su questo punto. Con essi, riconosciamo che la predestinazione dell’uomo Gesù definisce perfettamente ciò che è la predestinazione, sempre ed in ogni caso: la libera grazia divina che accoglie e prende a carico l’uomo. Non vi è nell’uomo Gesù nessun merito che preceda la sua designazione alla qualità di Figlio di Dio, nessuna virtù preesistente, nessuna vita di pietà e di preghiera determinante o condizionante la sua elezione. È mediante l’azione della Parola di Dio, mediante lo Spirito Santo, che è stato concepito e che è nato senza peccato: è dunque quanto è, il Figlio di Dio, esclusivamente per grazia. E noi diventiamo cristiani nel medesimo modo in cui egli è diventato il Cristo; diventiamo suo corpo e sue membra come egli è divenuto la nostra testa; come è diventato oggetto della nostra fede noi diventiamo uomini che credono in lui. È dunque a lui, Gesù, l’uomo eletto, che dobbiamo guardare per imparare che cos’è la natura umana, ciò che significa la sua elevazione alla comunione con Dio, come, per mezzo della libera grazia divina, può prendere parte a questa promozione. Diciamo ancora meglio: solo lui ci rivela e ci annuncia tutte queste realtà. Poiché la decisione che Dio ha preso nei confronti dell’uomo Gesù implica immediatamente che Dio ha deciso che quest’uomo sia la causa e lo strumento della nostra propria elezione. In questa prospettiva Agostino ha presentato il secondo elemento della sua importante comprensione cristologica della predestinazione. «L’insigne luce della predestinazione e della grazia» è «lo stesso salvatore, lo stesso mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Gesù Cristo». In forza di quali opere personali ed anteriori alla fede quest’uomo avrebbe meritato, in quanto tale, di essere il

Figlio di Dio e conseguentemente il nostro Mediatore e Salvatore? «Si risponda per favore a questa mia interrogazione: come quest’uomo ha potuto meritare di essere assunto in unità di persona dal Verbo coeterno al Padre e diventare così Figlio di Dio? Quale bene, di qualsivoglia natura lo si concepisca, ha preceduto in lui tale unione? Per mezzo di quale opera antecedente, di quale atto di fede, di quale preghiera ha raggiunto simile grandezza? Non è forse per la potenza del Verbo che lo crea ed in pari tempo lo assume che quest’uomo ha cominciato ad essere il Figlio di Dio unico fin dal momento in cui ha cominciato ad esistere?». È a questo punto che dovremmo accettare che ci si chieda molto seriamente: O uomo, chi sei tu per poter tener testa a Dio? (Rom. IX, 20) ed ascoltare come risposta: tu sei un uomo, come lui, Gesù, è un uomo. «È per grazia che quegli è tale e tanto grande. Che si manifesti dunque la fonte della grazia nel nostro capo, donde essa è diffusa in tutte le membra secondo la misura stabilita per ciascuna. Infatti è la medesima grazia che ha fatto di quest’uomo, il Cristo, dall’istante in cui ha cominciato ad esistere e che fa di ogni uomo un cristiano, dall’istante in cui ha cominciato a credere. Ed è un unico e medesimo Spirito quello in cui noi siamo rinati e quello da cui egli è nato. Un unico e medesimo Spirito che opera in noi la remissione dei peccati e che ha reso Cristo puro da ogni peccato». «Ed ecco la predestinazione dei santi che risplende in maniera eminente nel Santo dei santi: chi può negare tale predestinazione, se ascolta le parole della verità? Non ci apprendono forse infatti che il Signore della gloria, lui in persona, in quanto è stato fatto Figlio di Dio secondo la sua natura umana, è stato predestinato?». Agostino si riferisce impropriamente a Rom. I, 4 o meglio alla traduzione (latina) della Volgata, che rende ὁρισϑέντος υἱοῦ ϑεοῦ di Rom. I, 4 con l’espressione qui praedestìnatus est Filius Dei, dissimile dal testo greco (che deve essere tradotto stabilito Figlio di Dio). Ma scrive giustamente allorché, tenendo conto di brani biblici, afferma: «Gesù dunque è stato predestinato; colui che in futuro do veva diventare il Figlio di Davide secondo la carne, è tuttavia, nella sua forza, il Figlio di Dio secondo lo Spirito di santificazione». E ancora: «Questa così alta e perfetta assunzione della natura umana è stata oggetto di una predestinazione che l’ha innalzata al più sublime grado di perfezione che potesse attingere, mentre la divinità scendeva fino a noi, per noi, al più basso grado di abbassamento possibile, assumendo questa natura di uomo con tutte le infermità della carne, ivi compresa la morte su una croce».

E come, tenendo conto di Gesù, la grazia che è fatta pure a noi, può essere compresa come grazia, cioè come predestinazione? «Come il Cristo è stato predestinato (e lui solamente) ad essere il nostro capo, così noi siamo stati predestinati (ed in grande numero) a diventare sue membra»; «Colui che ha creato per noi il Cristo nel quale noi abbiamo la fede, ha anche creato in noi la fede che diamo al Cristo; Colui che ha creato per noi l’uomo Gesù, autore ed archetipo della nostra fede (Ebr. XII, 2), crea anche in tutti gli uomini l’inizio ed il compimento della loro fede in Gesù»31. Nella medesima linea leggiamo ancora: «Non vi è caso più luminoso di predestinazione che lo stesso Gesù, lo stesso mediatore. Ogni fedele che desidera comprendere rettamente la predestinazione deve contemplarlo e scoprirvi quanto è ormai lui stesso; parlo evidentemente del fedele che crede e confessa che vi è nel Cristo una vera natura umana, identica alla nostra, ma innalzata dall’unione incomparabile con il Dio Verbo che la assume con la dignità del Figlio unico di Dio». «Dio ha predestinato sia lui che noi (e di predestinazione tutta gratuita) poiché la previsione che Dio ha avuto, secondo la quale Cristo sarebbe nostro capo e noi suoi membri, è la previsione di una cosa che lui stesso compirà e che non sarà preceduta, né nel Cristo né in noi, da nessun merito»32. È contro Pelagio ed i pelagiani che il vescovo di Ippona si esprime così. Si comprende allora che se la predestinazione di Gesù Cristo gli pare così importante per noi, è perché in essa dobbiamo innanzitutto vedere la libertà della grazia, in opposizione ad una qualsiasi pretesa di merito umano. Tommaso d’Aquino non ha deformato il pensiero di Agostino; lo ha anzi esplicitato; e gli ha conferito una prospettiva positiva. «Cristo è detto luce della predestinazione e della grazia in quanto per mezzo della sua predestinazione e della sua grazia è manifestata la nostra predestinazione»33. Abbiamo già avuto modo di rilevare che la restrizione implicata da questa proposizione è inaccettabile; tuttavia la proposizione è corretta nel contesto limitato che è il suo; e poiché completa quanto Agostino ha scritto in forma polemica, è importante. L’elezione di Gesù Cristo è effettivamente la rivelazione della nostra propria elezione ed è in essa che possiamo e dobbiamo riconoscere di essere eletti. «La predestinazione di Cristo è esempio della nostra predestinazione secondo il fine cui siamo predestinati: egli infatti è predestinato ad essere Figlio di Dio per natura, noi invece siamo destinati ad essere figli di adozione, assimilabile ad una certa partecipazione alla filiazione naturale»34. Forse i termini di «exemplum» e di «manifestatio» possono sembrarci insufficienti a questo proposito; ma Tommaso precisa che la

predestinazione di Cristo è la causa stessa della nostra predestinazione, nel senso che Dio ha decretato la nostra salvezza da tutta eternità per mezzo di Gesù Cristo, cioè nell’incarnazione di Gesù Cristo35. Poiché Dio ha deciso l’incarnazione del Cristo, ha deciso contemporaneamente (simul) che il Cristo fosse causa della nostra salvezza (ut esset nostrae salutis causa). Certo, queste precisazioni lasciano ancora insoddisfatti; Tommaso d’Aquino resta disgraziatamente senza reticenze e senza dubbi sul terreno della seguente definizione: «la nostra predestinazione deriva dalla semplice volontà di Dio»36; come Calvino resta dominato dal postulato del decreto assoluto. Ha persino osato scrivere questa enormità: «Se Cristo non avesse dovuto incarnarsi, Dio avrebbe deciso di salvare gli uomini per mezzo di un’altra causa»37. Si comprende quanto la nostra prima proposizione sia necessaria e quanto dobbiamo sottolinearla: unicamente perché Gesù Cristo è il fondamento reale della nostra elezione che nulla può mettere in discussione, può anche essere, come diciamo nella seconda proposizione, il fondamento della conoscenza che ne abbiamo, cosicché in questo campo può esistere certezza. Ma, ancora una volta, posti questi limiti, Tommaso ha visto giusto: l’elezione di Gesù Cristo, in tanto in quanto è quella dell’uomo Gesù, possiede per noi un significato positivo: mediante essa (o meglio: in essa!) la nostra propria elezione è da tutta eternità una realtà ed una verità conoscibili. Anche Calvino si pone nella linea di Agostino e di Tommaso d’Aquino: «Gesù Cristo è lo specchio ed il signore in cui Dio ha dichiarato i tesori infiniti della sua bontà. È infatti il capo della chiesa. Dovremo perciò cominciare con lui, volendo conoscere Dio rettamente nelle membra del suo corpo. Ecco Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo. Questa natura umana è stata esaltata da una dignità meravigliosa; Gesù Cristo infatti essendo Dio e uomo, è tuttavia Figlio di Dio; dico: Figlio unico, Figlio per natura. Che cosa mai ha meritato la natura umana che è in Gesù Cristo? Essa difatti procede dalla razza d’Adamo ed era necessario che Cristo fosse del seme di Davide, altrimenti non avrebbe potuto porsi come nostro Salvatore. È stato concepito dalla madre sua in maniera miracolosa, ma è venuto dalla razza di Davide, di Abramo e di Adamo. In quanto è stato santificato e non soggetto alla nostra corruzione, ciò proviene dalla grazia ammirabile ed eccellente di Dio. Se però consideriamo la natura umana di Cristo, dobbiamo dire che essa non ha affatto meritato di essere esaltata a tale grado di onore da poter dire: Ecco colui che dominerà sopra gli angeli, davanti al quale ogni ginocchio si piegherà. Quando consideriamo una simile grazia di Dio nel nostro capo, non è forse necessario

che ciascuno di noi, in se stesso, riconosca: Dio mi ha eletto, io che ero bandito e rifiutato dal Regno; non vi è alcuna cosa in me che possa essergli gradita; nonostante questo, mi ha scelto per essere dei suoi. Non è forse necessario che noi conosciamo questa grazia, per magnificarla?»38. 3. Una triplice precisazione. Questa verità è giusta ed importante. Tuttavia, nella forma in cui è stata presentata dai sostenitori della dottrina tradizionale della predestinazione, non si può certo dire che esaurisca ed inglobi tutto quanto è doveroso discernere ed esaminare qui. Dobbiamo infatti comprendere che: 1) Gesù Cristo, l’oggetto della predestinazione, cioè l’uomo eletto, è anche come tale l’origine di tutte le opere e di tutte le vie di Dio. Questo punto deve essere messo in chiaro con assoluta evidenza. Ed in secondo luogo si deve dire: 2) l’elezione dell’uomo Gesù è, nel caso specifico, elezione per la sofferenza ed è da questo punto di vista che essa costituisce l’atto fondamentale della predestinazione divina e gratuita. Ed infine: 3) bisogna che noi contempliamo la nostra propria elezione in quella dell’uomo Gesù, perché l’elezione dell’uomo Gesù include e fonda la nostra, essendo noi eletti «con lui» nella misura in cui siamo eletti «in lui» e dunque «per mezzo di lui»; in altri termini, dobbiamo comprendere chiaramente che Gesù non è solamente l’oggetto, ma anche ed innanzitutto il soggetto dell’elezione divina. È necessario applicarci a rendere conto dell’elezione di Gesù Cristo in accezione passiva, in quanto oggetto della predestinazione divina, in modo tale che la verità riconosciuta e trasmessa dalla tradizione diventi feconda in questa triplice prospettiva. 1) Agostino ed i suoi successori hanno giustamente sottolineato che in se stesso l’uomo Gesù non ha nulla da presentare a Dio che possa renderlo degno di essere eletto o di necessitare la sua elezione: è esclusivamente mediante la libera grazia di Dio che è il Figlio di Dio; il carattere assoluto della riconoscenza e dell’obbedienza di cui fa prova quest’uomo nei confronti di Dio ne è la dimostrazione; abbiamo qui un’illustrazione perfetta del modo in cui la creatura vive davanti a Dio, se è vero che la libertà di questa creatura consiste nel riconoscersi e nell’affermarsi totalmente dipendente da lui, nel quadro della propria autonomia. Ora l’uomo Gesù, in quanto oggetto del decreto eterno di Dio è precisamente l’inizio di tutte le vie e di tutte le opere di Dio, il primogenito della creazione ed è in lui che si manifesta innanzitutto il fatto che Dio vuole e suscita, come creatura, un oggetto differente da se stesso. Si noti che anche questa determinazione della volontà divina, identica al contenuto della predestinazione, costituisce già una grazia, poiché Dio non

ha affatto bisogno di manifestarsi all’esterno mediante la creazione, essendo benissimo autosufiìciente nello splendore interno al suo essere trinitario, alla sua libertà, al suo amore; che non lo faccia, cosicché la sua gloria interna rifulga con splendore all’esterno, che voglia la creazione ed in quanto primizia e primogenito della creazione l’uomo Gesù, si tratta di una grazia, della manifestazione di una bontà sovrana, di un atto inconcepibile di benevolenza e di condiscendenza; ed è nell’uomo Gesù, primogenito della creazione, che lo si vede in primo luogo. Ma la determinazione della volontà divina in questa direzione è grazia in una maniera eminente, poiché il primo pensiero e la decisione iniziale di Dio, per quanto concerne l’oggetto differente da lui che è la sua creatura, si volgono sul Figlio suo: in lui, sceglie di fare suo proprio essere, l’essere di questa creatura, di modo tale che Gesù, il Figlio dell’uomo, si chiamerà e sarà il Figlio di Dio. Nella e per mezzo della sovranità che esercita su quest’altro oggetto, come anche nella e per mezzo dell’autonomia creaturale che gli è conferita (già come una grazia!) Dio vuole, decide e pone all’inizio la sua propria paternità, implicante la filialità della creatura. Non usa semplicemente benevolenza e condiscendenza: dona se stesso. È in questa maniera che la sua gloria si manifesta all’esterno: da tutta eternità intende comunicarsi alla creatura e legarsi con essa nella maniera più stretta possibile. In tutto ciò non è Dio che ci guadagna, ma la creatura. Precisamente essendo misericordioso in questo modo, Dio afferma il proprio onore. Che lo sia, lo stabilisce in maniera definitiva proprio l’elezione dell’uomo Gesù: «Ecco come Dio ha amato il mondo: ha dato il suo Figlio unigenito» (Gv. III, 16). Fin d’ora, in una prospettiva che è capitale, vediamo come, a proposito dell’elezione dell’uomo Gesù, ogni essere eletto debba essere in realtà descritto unicamente come libera grazia. L’uomo Gesù è l’eletto di Dio. Quando Dio elegge qualcuno, è «in lui» che lo fa: non certo come lui, ma «nella sua persona», «attraverso la sua volontà e la sua scelta»; l’individuo che Dio elegge è dunque eletto mediante l’uomo cui egli ha fatto grazia; la sua elezione potrebbe essere altro che grazia, che partecipazione alla grazia di Colui che elegge, partecipazione alla sua natura creata (che è già grazia) ed alla sua filialità (che è grazia in accezione eminente)? Nella sua stessa radice, l’elezione di ognuno procede dall’uomo Gesù e, attraverso lui, è indirettamente identica all’origine voluta e posta dalla condiscendenza e dal dono di Dio stesso. L’elezione di ognuno è la grazia di nostro Signore Gesù Cristo. 2) Ma Gesù, l’uomo eletto, è destinato a soffrire e a morire; così il Nuovo

Testamento comprende la sua separazione e la sua missione, come anche la sua elezione; la libera grazia di Dio che in lui si volge verso la creatura ha quest’aspetto. Il Figlio di Dio che si stacca dalla sua condizione divina, sceglie, secondo Fil. 2, 6 s., l’obbedienza fino alla morte di croce. Ora, questa decisione è la sostanza del decreto divino che è all’origine di tutte le cose. La Parola è diventata carne (Gv. I, 14); questa formulazione del messaggio di Natale contiene già il messaggio del Venerdì Santo; ogni carne infatti è come l’erba. Che l’uomo Gesù sia eletto significa dunque: una collera esplode, una sentenza è pronunciata, un castigo si compie, una riprovazione avviene. Così è deciso da tutta eternità. Da tutta eternità infatti è previsto un giudizio, per il fatto che Dio stesso vuole che la sua gloria trabocchi all’esterno e che, nella sua incomprensibile condiscendenza, intende non solamente essere favorevole alla sua creatura, ma ancora divenire lui stesso creatura al prezzo del dono totale della sua persona. Poiché l’elezione dell’uomo Gesù implica certo teologicamente l’elezione della creatura buona (cioè conforme alla volontà positiva di Dio) e conseguentemente porta sull’’uomo creato a sua immagine e destinato ad essere sua immagine (suo riverbero!); ma essendo così le cose, essa implica anche necessariamente la riprovazione di Satana, l’angelo che si è innalzato contro Dio, rappresentante supremo della possibilità che Dio non ha scelto (e che non esiste, se non in forza proprio di tale negazione), immagine della creatura che, non volendo più sapere chi essa è ed a che cosa è destinata, cerca di diventare essa stessa un dio, onde essere come Dio. È lui, Satana (e con lui tutto il campo del male cioè del demoniaco), ad essere l’ombra necessariamente proiettata dalla luce fatta sprizzare dall’elezione dell’uomo Gesù (ed in lui, l’elezione della creatura buona, l’elezione dell’uomo creato ad immagine di Dio e destinato a riflettere questa immagine!); come tale, non può che essere l’oggetto di un rifiuto in seno al consiglio di Dio; è dalla sua esistenza, dalla sua potenza, dalla sua efficienza (derivanti unicamente dalla negazione di Dio, ma proprio per questo fondate nel consiglio e nella volontà divini) che deriva la caduta originale, in cui l’uomo s’appropria del tentativo satanico. Confrontato con Satana ed il suo dominio, l’uomo in sé e come tale, la cui libertà è di ordine creaturale, non ha il potere di rifiutare quanto Dio rifiuta in nome della libertà divina ed è incapace di resistere alla tentazione facendo valere il fatto di essere creato ad immagine di Dio e per essere immagine di Dio; solo Gesù, l’uomo eletto, si comporta in modo retto (Mt. IV, 1-11); l’uomo in sé e come tale, non può che ripetere il gesto di Adamo (Gen. III). Per queste

ragioni, secondo il consiglio e la volontà di Dio, merita di essere rifiutato a pari titolo di colui che lo tenta e lo seduce; si trova posto sotto la collera divina, sola risposta che Dio possa dare alla creatura che viola ed oltraggia la sua condizione; esposto alla potenza della negazione divina, è passibile di morte. Ma ecco il buon annuncio: nella e per mezzo dell’elezione dell’uomo Gesù, è quest’uomo in se stesso e come tale che Dio ha amato da tutta eternità ed innalzato al rango di partner della sua alleanza, proprio quest’uomo che resta incapace di resistere alle insinuazioni del tentatore e del seduttore, proprio lui che lasciandosi tentare e sedurre è diventato il nemico del suo Creatore e che quindi merita la riprovazione e la morte. Grazie al decreto divino, Gesù ha preso la testa ed il posto di tutti gli altri uomini; come Dio stesso, anch’egli ha il potere di rifiutare Satana, cioè di difendere e non di disperdere il beneficio costituito dalla creazione e dalla finalizzazione dell’uomo; e secondo Mt. IV, usa di questo potere in favore di tutti coloro che Dio elegge «in lui», cioè in favore dell’uomo in sé e come tale che, di per se medesimo, resta incapace di difendersi. Poiché ama gli uomini, da tutta eternità Dio ha fatto portare il peso del rigetto, della collera e della morte che si sono attirati proprio a quegli nel quale li ama e che ha eletto affinché fosse non solamente la testa degli uomini, ma stesse anche al loro posto; da tutta eternità, Dio destina il solo essere obbediente che esista a subire tutto ciò che gli altri hanno meritato mediante la loro disobbedienza, cioè il castigo reclamato dalla giustizia divina oltraggiata; l’obbedienza richiesta a Gesù, obbedienza di cui fa prova, non è infatti altro che l’espressione della sua premura ad assumere su di sé il rifiuto che pesa sugli altri uomini ed a soffrire quanto essi dovrebbero soffrire. Gesù infatti non è stato eletto per sé, ma per noi tutti; non è in favore di se medesimo ma dell’uomo in sé e come tale che egli interviene per salvaguardare il beneficio costituito dalla creazione e dalla finalizzazione dell’uómo. La vittoria su Satana, che è chiamato a riportare a vantaggio di tutti coloro che sono eletti in lui (cioè i figli ed i compagni di Adamo, oggetto dell’amore divino) deve consistere in questo: lasciare che la giustizia divina faccia il suo corso e subirla al loro posto. Per questa ragione è l’agnello immolato fin dalla creazione del mondo. Per questo motivo il Crocifisso è l’immagine del Dio invisibile. Se esistono eletti a causa dell’elezione dell’uomo Gesù, comprendiamo ormai bene, in questa prospettiva, perché anche qui si debba parlare di libera grazia e di null’altro; quanti sono eletti «in lui» (cioè per mezzo di lui) ed hanno così parte alla sua grazia, non possono che

riconoscere di essere peccatori perduti, gente che vive sotto l’impero del demonio (At. X, 38); fuori di colui che si è messo al loro posto, sarebbero e resterebbero dei riprovati, obbligati a riconoscere che in se stessi altro non sono che trasgressori. Proprio questa gente, proprio questi trasgressori concerne l’amore eterno di Dio per Gesù Cristo; non saprebbero nulla dell’amore di Dio se pretendessero di essere altra cosa; l’uomo eletto che si trova alla testa ed al posto dei riprovati è venuto per eleggere lui stesso unicamente dei riprovati! Il Vangelo è estremamente esplicito a questo riguardo: afferma che il Figlio dell’uomo è venuto per cercare e salvare ciò che era perduto (Lc. XIX, 10); precisa che non sono i sani, bensì i malati ad avere bisogno del medico, il Cristo (Mc. II, 17); sostiene che vi è maggior gioia in cielo per un solo peccatore che si pente che per novantanove giusti che non abbisognano di penitenza (Lc. XV, 7). Chi è un eletto? In ogni caso è «un uomo che era morto e che è ritornato in vita, che era perduto e che è stato ritrovato» (Lc. XV, 32); che l’uomo Gesù debba soffrire e morire significa che Dio, diventando quest’uomo, si è reso responsabile dell’uomo che si è dichiarato suo nemico e che ha preso interamente su di sé le conseguenze di tale atto d’inimicizia, cioè la maledizione e la morte; questo è implicato dal fatto che Dio si è dato alla creatura. Ecco fin dove discende la sua grazia! Dio deve e vuole manifestare la sua giustizia: intende difendere l’onore della sua creazione, l’onore dell’uomo creato per la sua gloria, il suo proprio onore divino contro le pretese di Satana, contro il regno delle tenebre che ha rifiutato e che esiste solo in virtù di questo rifiuto. Non costata semplicemente che, in occasione della caduta dell’uomo, il regno delle tenebre ha fatto irruzione nel campo della sua volontà positiva; deve rigettare Satana con tutto quanto procede e dipende da lui; conseguentemente deve e vuole rigettare l’uomo in sé e come tale. Ed è quanto fa. Ma lo compie nella persona di Gesù, l’uomo eletto: in lui infatti ama l’uomo in sé e come tale; è lui che sceglie onde essere alla testa ed al posto di tutti gli altri; conseguentemente è lui che colpiscono la sua collera, il suo giudizio ed il suo castigo, lui, cioè il suo proprio Figlio e di conseguenza se stesso, Dio! Sì, proprio lui e non coloro che egli ama e che elegge «nel suo Figlio», non la massa dei disobbedienti e dei ribelli. Perché dunque? Perché quest’intervento del Dio giusto in favore degli uomini ingiusti, perché questa sostituzione in cui si vede (cosa inconcepibile) il giudice divenire l’accusato ed il condannato? Perché la giustizia divina è una giustizia misericordiosa e,

proprio in questa maniera, perfetta; perché il peccato delle sue creature ribelli non offende solo Dio, ma suscita anche la sua compassione; perché tale peccato è anche la distretta della creatura. Ed ancora: perché, data la forza della negazione inerente al suo decreto ed alla sua volontà, Dio sa esattamente donde vengono l’esistenza, il potere e la forza di Satana, di cui sono prigionieri gli uomini; perché egli vede non solamente la colpevolezza, ma anche l’impotenza delle sue creature; perché sa che queste ultime non hanno il potere di rigettare Satana ed ancor meno sono capaci di sopportare il rigetto meritato, prestando orecchio alle lusinghe di Satana; perché infine, da tutta eternità, sa «di che cosa siamo fatti» (Sal. CIII, 14). Ecco perché interviene lui stesso in nostro favore «nel suo Figlio». Comprendiamo esattamente che cosa significa tutto ciò? Non era tenuto a farlo; non doveva niente a nessuno; non è stato lui infatti a consegnarci a Satana, onde farci diventare passibili della sua collera e della sua riprovazione, ma siamo stati noi stessi, nella nostra colpevole impotenza, ad essere responsabili di tale caduta. Se dunque interviene lui medesimo in nostro favore nel Figlio suo, è perché «in lui» ci ha amati ed eletti da tutta eternità e perché «in lui» noi siamo, agli occhi suoi, da tutta eternità, dei peccatori cui fa misericordia. Riassumiamoci: ecco in che cosa consiste la libera grazia per tutti coloro che Dio ha eletto nell’uomo Gesù: poiché in lui Dio, il giudice, prende ed occupa il loro posto, il posto del condannato, essi sono completamente assolti, liberati dal loro peccato, dalla loro colpa, dal loro castigo; la collera divina ed il rifiuto di Satana non li riguardano più; anzi questa collera e questo rifiuto significano la loro liberazione, perché altro non sono che il libero dinamismo della giustizia divina, cui Dio stesso si è sottomesso in loro favore. «In lui», l’autore della loro elezione e dunque nella morte subita «al loro posto» dal Figlio di Dio, sono essi stessi morti in quanto peccatori, cioè radicalmente santificati, messi a parte, purificati in modo da accedere all’autonomia creaturale e, più ancora, alla filialità divina della creatura, grazia in vista della quale sono stati eletti, da tutta eternità, in Gesù, l’uomo eletto. 3) Ed ecco l’ultima precisazione che dobbiamo enunciare riguardo a Gesù, l’uomo eletto (che è quanto è per grazia e la cui grazia consiste nel liberare gli altri). Dio resta fedele nella sua misericordia a quest’uomo, come questi resta fedele a Dio eseguendo premurosamente la sua volontà; dalle due parti vi è perseveranza; da un lato vediamo che Dio mantiene fermamente la sua grazia all’interno del giudizio cui sottomette il suo eletto, continuando ad amare

colui che il fuoco della sua collera ed il suo rifiuto colpiscono e dall’altro vediamo l’uomo perseverare nell’obbedienza verso Dio, invocando lui solo nella sua distretta e confidando senza riserve nella sua giusta volontà. È nell’unità di questa duplice perseveranza che siamo chiamati a discernere il mistero dell’elezione di cui è oggetto l’uomo Gesù; in essa risiedono la glorificazione di Dio e la salvezza degli uomini, costituenti il fine ed il senso dell’alleanza voluta da Dio e, conseguentemente, dell’elezione dell’uomo Gesù; in essa, Satana si trova completamente irreggimentato e disfatto da Dio contro cui si è ribellato e dall’uomo che ha soggiogato. La Parola che Dio pronuncia e la risposta che l’uomo offre qui costituiscono la decisione voluta nel quadro di tutte le vie e di tutte le opere divine; conseguentemente sono già il contenuto del decreto e della volontà di Dio, all’inizio di tutte le cose. L’espressione della perseveranza divina è racchiusa tutt’intera nella resurrezione di Gesù di fra i morti, nella sua esaltazione alla destra del Padre; per mezzo di essa Dio conferma che Gesù, l’uomo che ha eletto, è il suo proprio Figlio, che certo può subire la morte, ma che la morte non può ritenere nei suoi lacci, poiché per mezzo della sua morte, ha distrutto la morte; per mezzo di essa Dio rivela ai nostri occhi ciò che si è prodotto nel sacrificio del suo eletto: la giustificazione della sua volontà positiva di creatore contro tutte le contestazioni sataniche. La resurrezione di Gesù è l’atto decisivo della storia nel seno della quale la sovrabbondanza della gloria divina intrinseca diventa avvenimento; segna l’instaurazione del regno verso cui convergono tutte le vie e tutte le opere di Dio. L’espressione della perseveranza umana è, in risposta, la preghiera nella quale Gesù dona ragione alla dura volontà di Dio, contro la propria volontà, la preghiera per mezzo della quale intercede davanti a Dio in favore dei suoi, che pronuncia per essi e che nel contempo pone sulle proprie labbra; così facendo dimostra di essere lui stesso il Figlio di Dio, che non è rigettato se non a causa loro e che, anche se rifiutato, resta l’eletto di Dio. Accettando di essere contemporaneamente sacerdote e vittima, riconosce che la santa collera di Dio è salutare; adempie così la sua funzione di creatura all’interno della storia che Dio ha deciso ed inaugurato nel quadro della creazione; conferma di essere il Re costituito da Dio per essere la testa ed occupare il posto di tutti gli eletti; si rivela come loro capo e loro Signore, incarnando nella sua persona il Regno stesso. Poiché la resurrezione e la perseveranza di Gesù costituiscono rispettivamente tutto il segreto della perseveranza divina ed umana, esse sono il senso e lo scopo dell’elezione di Gesù, che è il contenuto del decreto divino che precede non solamente la

creazione, ma anche tutta la problematica che accompagna e minaccia la creazione. La resurrezione e la preghiera dell’uomo Gesù significano precisamente che tale problematica è superata, che Dio trionfa di Satana, che la sua volontà positiva di Creatore è giustificata e si impone. In simile prospettiva non potremo mai comprendere in maniera sufficientemente estesa il fatto che l’elezione di Gesù è veramente l’origine di tutte le cose. Se quest’uomo è l’eletto di Dio, e se, conseguentemente, la libera grazia, fondamento della sua elezione, costituisce la realtà della perseveranza divina ed umana che esiste in lui (cioè la realtà della resurrezione e della preghiera di Gesù), si vede subito quale conseguenza bisogna trarre per tutti coloro che sono eletti «in lui»: il loro essere-eletto consiste concretamente nella loro fede in lui. La perseveranza divina ed umana, che è lo scopo di tutte le vie e di tutte le opere di Dio e che appunto per questo costituisce già l’oggetto e la sostanza della predestinazione, è il mistero di Gesù, l’uomo eletto. Poiché in lui tutto è già stato deciso in loro favore, quelli che sono eletti conoscono la loro situazione; il mistero di Gesù è l’oggetto della loro confidenza, della loro consolazione e della loro gioia; sempre e di nuovo, da tutti i punti di vista, è la fonte della loro forza e della loro saggezza. Essendo eletti «in lui», sono destinati a fare una cosa sola: semplicemente a credere in lui. E questo significa: a amare in lui il Figlio di Dio, morto e risorto per essi; ad onorare in lui il sacerdote e la vittima, autore della loro riconciliazione con Dio; a riconoscere in lui la giustificazione di Dio (che è anche la loro giustificazione); a rispettare in lui (che è alla loro testa ed al loro posto, che è il loro capo ed il loro Signore) il Regno di Dio situato al di sopra di tutti i regni. Essi vivranno dunque la loro vita in questo amore, in questo timore, in questa riconoscenza ed in questa riverenza dell’uomo Gesù, riguardando il loro rigetto come qualcosa che si trova contemporaneamente dietro di loro e fra loro, sapendosi rigettati nel e con il suo rigetto. Credere in Gesù significa: avere la sua risurrezione e la sua preghiera sotto gli occhi e nel cuore. Questo significa precisamente essere eletti. Sì, l’uomo che agisce in questa maniera è precisamente «in lui» l’oggetto dell’elezione gratuita di Dio. 4. Sopralapsarismo ed infralapsarismo. Ci sembra utile menzionare a questo punto la celebre disputa relativa al sopralapsarismo e all’infralapsarismo, disputa di cui la teologia riformata ortodossa è stata il teatro nel secolo XVII e prendere posizione a suo riguardo. Generalmente all’epoca si è pensato, non senza ragione, che non si trattasse di una

controversia fondamentale, cioè suscettibile (come il conflitto fra calvinisti ed arminiani) d’indurre una divisione all’interno della chiesa. Si è visto in questa disputa un semplice conflitto di scuola, su cui era possibile intrattenersi «senza nessuna mancanza alla reciproca carità e fraternità»39. Ad ogni modo, la questione è stata lasciata in sospeso al Sinodo di Dordrecht (d’altronde nettamente incline all’infralapsarismo) ed in seguito, grazie a differenti compromessi, non ha più preoccupato gli spiriti; a prima vista non sembra che essa abbia qualche raccordo con il problema specifico dell’elezione di Gesù Cristo; eppure è bene evocarla qui perché contribuisce a chiarificare il tema che ci interessa e può essere ripresa in modo corretto, grazie alle precisazioni che derivano dalla nostra esposizione. 1) Il problema dell’oggetto della predestinazione (obiectum praedestinationis) gioca un ruolo molto grande nella disputa che oppone sopralapsari ed infralapsari nel secolo XVII40. Il problema si può così formulare: quale è l’uomo di cui si afferma che è stato eletto o rifiutato da Dio da tutta eternità (ricordiamo che secondo i presupposti teologici dell’epoca la questione del rifiuto ha la medesima importanza di quella dell’elezione)?; la scelta eterna di Dio porta sull’uomo in sé e come tale, che non è ancora stato creato ma che sta per esserlo, che non è ancora caduto ma che sta per cadere (la sua caduta essendo il risultato contemporaneo di un permesso divino e di un’azione umana)?; oppure porta al contrario sull’uomo già creato e già caduto, sull’uomo che, usando del permesso divino, ha già consumato la sua perdita?; in altri termini l’uomo eletto o riprovato è l’homo creabilis et labilis oppure l’homo creatus et lapsus? Questa è la formula su cui finalmente si è concretizzato il conflitto. 2) Analizziamo innanzitutto la posizione sopralapsaria, i cui rappresentanti più conosciuti e più citati sono Teodoro di Beza, Bucanus, Gomarus, Maccovius, Heidanus e Burmann, cui si deve aggiungere, alla fine del secolo XVII ed all’inizio del XVIII il matematico Filippo Naudaeus, strenuo difensore della tesi. Quanto a sapere se Calvino fosse o meno sopralapsario, è difficile contestare la seconda risposta41; lo si può infatti dedurre dalla definizione principale della predestinazione data nella sua Institution («non li crea tutti nella medesima condizione, ma destina gli uni alla vita eterna e gli altri alla dannazione eterna; così secondo la finalità cui l’uomo è creato, noi diciamo che è predestinato alla morte o alla vita») o in un altro passaggio non meno esplicito («non si può negare che Dio, prima ancora di creare l’uomo avesse

previsto il fine cui doveva pervenire l’uomo; e lo ha previsto, perché così aveva stabilito nel suo consiglio»)42, tuttavia è difficile, per non dire impossibile, stabilire se conosceva già la questione nella forma del dilemma discusso nel secolo XVII. Così pure si deve dire di Zwingli che si continua a citare a causa delle posizioni del suo de providentia43. È però logico pensare che Calvino, Zwingli e Lutero (almeno il Lutero del de servo arbitrio) avrebbero optato, verosimilmente, per la tesi sopralapsaria, se avessero dovuto pronunciarsi. La tesi sopralapsaria del secolo XVII ha la seguente formulazione in Bucanus: «Che cos’è il decreto della predestinazione? Quello con cui Dio ha decretato, secondo il suo diritto e la sua esclusiva volontà, che gli uomini, che doveva creare, prima ancora di formarli, ma quando già aveva stabilito di crearli, servissero alla sua gloria, cosicché fra essi gli uni fossero vasi ed esempi di misericordia e di bontà divine, mentre gli altri fossero vasi e soggetti della sua ira, giusta vendetta e giusta potenza contro i crimini. E questo decreto è di tale fatta che coinvolge anche le stesse cause di esecuzione, sebbene non dipenda da esse». La sola ed unica causa del decreto della predestinazione è così definita: «così il Signore sommamente misericordioso e sommamente giusto ha voluto essere glorificato»44. Secondo i teologi sopralapsari, Dio possedeva e possiede un’intenzione originaria e fondamentale che si deve innanzitutto considerare e mettere in valore, senza tener conto delle altre intenzioni specifiche (ad esempio l’intenzione di creare il mondo e l’uomo o di permettere la caduta dell’uomo); ciò a cui Dio mira in primo luogo è di rivelare la sua gloria ed in particolare la sua misericordia e la sua giustizia fra gli uomini, salvando gli uni e condannando gli altri; tutte le altre cose che Dio vuole, sono subordinate a questo disegno e costituiscono tutte insieme lo strumento unico e perfettamente omogeneo destinato a realizzare l’intenzione divina originaria. Poiché Dio ha deciso di rivelarsi in questa maniera, ne consegue che l’uomo deve essere creato per servire come mezzo per il fine che Dio si è proposto; deve dunque essere creato in maniera tale che, per colpa sua, ma immancabilmente, cada nel peccato e si ponga così in una condizione che serva anch’essa a manifestare la misericordia di Dio mediante la salvezza degli uni e la giustizia di Dio mediante la dannazione degli altri; occorre che il disegno di Dio si compia, per questo è necessario che Adamo (ed in lui tutti gli uomini) si metta in questa situazione, cioè cada nel peccato. Ed è per questo che individualmente gli uomini debbono essere destinati sia alla salvezza e sia alla dannazione, cioè all’una o all’altra delle due possibilità che postula

l’autorivelazione divina; e questo destino è assegnato loro prima ancora che Dio abbia deciso di permettere la caduta di tutti in Adamo, prima ancora di aver creato il primo uomo e, con lui, il mondo intero e tutti i suoi abitanti. «Ciò che si situa come prima cosa nell’intenzione, si pone come ultimo nella esecuzione». E viceversa: «Ciò che si situa ultimo nell’esecuzione, si pone come prima cosa nell’intenzione». La manifestazione della misericordia di Dio nella felicità degli eletti e della giustizia di Dio nella maledizione dei riprovati è infatti un avvenimento che si situa in ultima posizione; ed è precisamente questa la ragione per cui deve essere esistita innanzitutto ed in primo luogo nel disegno e nell’intenzione divina. Il teologo sopralapsario non afferma dunque solamente che la colpa doveva inevitabilmente prodursi, conformemente alla volontà divina (questo lo affermavano anche gli infralapsari), ma sa per quale ragione la caduta, e prima di essa la creazione, sono necessarie; insegna che la caduta e la creazione esistono già nel piano e nell’intenzione di Dio e che devono trapassare in avvenimenti perché Dio intende fare conoscere la sua misericordia e la sua giustizia tramite esse; sa che, per raggiungere questa finalità, la volontà originale e fondamentale di Dio implica già l’elezione degli uni ed il rifiuto degli altri e quindi la creazione e la caduta. Sa infatti che per far brillare la propria gloria, Dio ha destinato l’uomo come tale, e di conseguenza ogni individuo particolare, all’elezione o alla reiezione; Dio ha dunque creato l’uomo e, nella persona di Adamo, lo ha lasciato decadere, affinché divenga, come eletto o come riprovato, uno strumento della rivelazione della gloria sua, vista ora come misericordia ed ora come giustizia. Si stia ben attenti: anche nella concezione sopralapsaria il male resta male, il peccato resta peccato, la colpa dell’uomo resta veramente colpa dell’ uomo. Solo che il teologo di questa scuola sa perché Dio li ha permessi e quindi voluti; secondo il suo modo di vedere, il potere dì Dio sul male non può essere paragonabile ad una misura presa solo in un secondo momento, contro una novità che è intervenuta inopinatamente a disorganizzare il piano originale; bisogna che tale potere sia reso evidente e comprensibile come parte integrante dell’ordine divino iniziale. In altri termini, gli avvenimenti specifici che segnano la realizzazione del piano divino o che scandiscono il corso della storia che Dio dirige, come pure gli avvenimenti specifici comportati dall’intenzione divina assunta globalmente, non devono essere considerati in sé o nelle loro relazioni considerate come tali; esigono di essere interpretati partendo dal piano

originale divino, che deve essere riconosciuto e rispettato. Non si può quindi dire che, secondo questa concezione, Dio ha creato l’uomo per precipitarlo nel peccato; non si può dire neppure che Dio ha lasciato che l’uomo cada con intenzione di dannarlo o di salvare solamente qualche individuo, usando della sua misericordia; no, perché tutti questi momenti particolari costituiscono un solo ed unico momento che si tratta di riconoscere partendo dal suo fine, quel fine in cui dobbiamo cercare ugualmente la causa ed il senso dei momenti particolari: se Dio ha creato l’uomo ed il mondo, se ha permesso la caduta, se ha pronunciato in seguito una sentenza di condanna su tutti gli uomini e se, per misericordia, ha deciso di salvarne una parte, è per far sgorgare vivida la propria gloria, per rivelarsi ccme Dio misericordioso e giusto. Nessuno di questi avvenimenti specifici ha in sé il proprio fine, neppure o meglio, soprattutto non l’ultimo fatto, la salvezza eterna o la dannazione eterna di individui particolari. Ma «ha fatto tutte le cose per se stesso». Questa è la interpretazione che è data del celebre passo di Prov. XVI, 4, cui ci si riferisce volentieri: da tutta eternità, Dio ha fatto e voluto ogni cosa per se stesso. «Infatti è Dio stesso il sommo ed amabile bene, verso cui ci si dirige per necessità di natura; così Dio è diretto solo da se stesso e dalla sua gloria; e quando ha voluto far rifulgere la sua misericordia e la sua giustizia, non ha potuto raggiungere questo effetto, se non mediante la salvezza o la dannazione del peccatore»45. La salvezza eterna o la dannazione eterna dell’uomo hanno nel disegno divino unicamente questa funzione; e poiché hanno questa funzione necessaria (e nessun’altra!), l’uomo ha dovuto essere peccatore e, proprio per questo, uomo; l’obiectum praedestinationis è dunque l’uomo, così come Dio lo vede nel suo atto di elezióne eterna; l’homo creabilis et labilis. Ecco quanto insegna, nelle grandi linee, il sopralapsarismo. Provvisoriamente possiamo riconoscere che tale sistema non manca di grandezza; rappresenta infatti perfettamente il monismo teista con tutte le sue conseguenze; data la sua logica e la sua chiarezza sarebbe ingeneroso rifiutargli la nostra ammirazione. 3) A questo sistema si oppone l’infralapsarismo che è sempre stata la posizione predominante fra i calvinisti di stretta osservanza, che pure non intendevano fare nessuna concessione agli arminiani e ai luterani. Ripetiamo che al Sinodo di Dordrecht (di tendenza infralapsaria) non ha rifiutato il sopralapsarismo, che è stato anzi riconosciuto nel suo valore come semplice opinione rappresentante una variante dottrinale. Il teologo infralapsario sa pure lui che esiste un disegno divino originario e fondamentale: si tratta della

decisione eterna in forza della quale Dio vuole rivelarsi ed autoglorificarsi; anche per lui il male e la creazione non sono realtà fortuite, ma precisamente effetti della volontà divina che suscita la seconda e permette il primo; anche per lui di conseguenza la caduta è un avvenimento inevitabile, in quanto deciso da Dio. Tuttavia non pretende (a differenza del suo avversario, il teologo sopralapsario) di conoscere il piano originale e fondamentale nel suo contenuto, né il perché della decisione divina relativa alla creazione ed alla caduta; concede anzi che le ragioni motivanti la decisione divina sono finalmente insondabili e sconosciute; in ogni caso si guarda bene dall’affermare che la caduta si sia dovuta produrre per permettere la rivelazione della misericordia e della giustizia divina. Ritiene anzi che neppure la creazione del mondo e dell’uomo potrebbe essere spiegata partendo dalla necessità di simile rivelazione; vi vede semplicemente «come una comunicazione o una produzione estrinseca (ἔϰστασις) della potenza, della sapienza, della bontà del creatore»46. Secondo il teologo infralapsario, il decreto della predestinazione si trova subordinato al decreto della creazione e della caduta, la cui origine deve essere ricercata al di fuori del piano di salvezza iniziale; è solo nel decreto della predestinazione che si manifesta l’intenzione divina di rivelare in particolare la misericordia e la giustizia, graziando gli uni e condannando gli altri. Certo, Dio non poteva veramente far conoscere la sua misericordia al di fuori dell’esistenza del peccato e, conseguentemente, in maniera indipendente dal peccatore; ma non si ha il diritto di spiegare il tutto partendo dall’esistenza del peccato, o dell’uomo peccatore, o dell’uomo semplicemente; non si deve dire: è perché Dio voleva rivelare la sua misericordia e la sua giustizia mediante un’elezione o un rigetto che ha voluto ugualmente la caduta e la creazione. La sola cosa che possa affermarsi è che Dio, che ha voluto gli uomini destinati a peccare e che, come creatore, ha già precedentemente voluto la loro esistenza, intende salvare gli uni con la misericordia e lasciare che gli altri subiscano la punizione che tutti hanno meritato. Beninteso: Dio resta assolutamente libero di determinare la sua scelta. Non è possibile cercare delle motivazioni per questa scelta nei peccati più o meno importanti degli uni o degli altri e neppure, inversamente, nei meriti che gli uni o gli altri avrebbero accuistato o meno con le loro opere, poiché tutti sono peccatori in uguale maniera, secondo il consiglio e la volontà di Dio; ma che siano divenuti e che siano peccatori, come già che siano stati creati, non deve essere collegato con il decreto della predestinazione in quanto tale, né deve esserne dedotto; non si ha il diritto di

affermare che, nel momento della creazione e della caduta, era già previsto, a causa della gloria di Dio e della sua rivelazione, che l’umanità sarebbe stata divisa in due parti: gli eletti ed i rifiutati. È opportuno considerare il decreto della predestinazione come una realtà a sé, senza rapporto con il decreto della creazione e della caduta, se non nella misura in cui costituisce con esso, in un’unità incomprensibile, il decreto eterno di Dio; si tratta di comprendere che tale decreto segue quello della creazione e della caduta (non temporalmente, ma logicamente!) e che, conseguentemente, a quest’ultimo si rapporta e quest’ultimo presuppone; in effetti la rivelazione della misericordia (misericordia) presuppone un essere che ne ha bisogno (miser), come la rivelazione della giustizia (iustitia) implica l’esistenza del suo contrario (iniustitia), Questa duplice rivelazione presuppone cioè la presenza di una creatura di Dio cui possa riferirsi, in altri termini presuppone la creazione di una creatura. Si può anche dire: la duplice rivelazione di Dio si effettua grazie a taluni mezzi, precisamente attraverso Cristo con i mezzi della vocazione, della giustificazione, della santificazione che producono la vita o la morte, tali mezzi però presuppongono tutti la realtà del peccato, resistenza di uomini peccatori, colpevoli, empi; la creazione ed il peccato sono «condizioni prerequisite dall’oggetto stesso». «Se infatti l’uomo non fosse stato creato e non fosse caduto, la predestinazione non avrebbe potuto effettuarsi»47. Contro l’applicazione sopralapsaria del principio: «Quanto è ultimo nell’esecuzione deve essere primo nell’intenzione», si fa valere che «la messa in evidenza della misericordia e della giustizia nella salvezza e nella dannazione degli uomini» non costituisce il fine ultimo per quanto concerne il governo (divino) degli uomini in generale», non è che «un elemento parziale e relativo, riguardante il governo (divino) dell’uomo caduto»; «il fine ultimo infatti è la manifestazione della gloria di Dio su ogni cosa per mezzo dell’uomo creato e caduto». Il decreto di predestinazione occupa certo il primo posto fra quelli concernenti il destino dell’uomo peccatore, ma nell’insieme dei decreti divini si trova in seconda posizione; non si ha «una necessaria connessione e subordinazione» fra la creazione e la caduta da un lato e la redenzione dall’altro; «nessuno infatti è così cieco da non vedere lo iato ed il grande abisso procurato dal peccato che ha infranto l’ordine della creazione ed ha dato adito all’economia della redenzione; il peccato è contro natura; e se diventa mezzo o correlato per la salvezza, lo fa solo accidentalmente»48. Dio ha inteso mostrare in un primo momento «che cosa potesse produrre il libero arbitrio nell’uomo», onde

mostrare in seguito «che cosa potesse il beneficio della sua grazia»: ecco quanto è possibile dire a proposito dell’unità d’intenzione che presiede alla doppia economia divina49. O, se si vuole: Dio rivela la sua gloria in due maniere: innanzitutto secondo la legge ed in un secondo momento secondo l’evangelo50. La polemica contro il sopralapsarismo ha toccato i seguenti punti: 1) l’homo creabilis et labilis è ancora inesistente da un punto di vista concreto; ora la predestinazione concerne un essere già esistente, tratto dal nulla e si applica ad una modalità precisa della sua esistenza; 2) nella nozione di homo creabilis et labilis bisogna comprendere anche tutti gli uomini che non sono mai esistiti e non esisteranno mai, quindi tutti gli uomini che non sono mai caduti e che non cadranno mai, tutti coloro cioè la cui esistenza resta una semplice possibilità; ora la predestinazione concerne l’uomo reale, l’uomo che è stato creato e che è caduto; il suo oggetto non può quindi essere l’homo creabilis et labilis; 3) l’homo creabilis et labilis non è passibile né di elezione né di riprovazione, poiché la possibilità di essere eletti o riprovati presuppone, conformemente alla misericordia di Dio che salva ed alla sua giustizia che condanna, degli attributi che solo l’homo creatus et lapsus può possedere; di conseguenza l’homo creabilis et labilis non può essere oggetto della predestinazione; 4) se l’homo creabilis et labilis fosse oggetto della predestinazione, bisognerebbe ammettere che la creazione e la caduta sono strumenti di essa, ciò che non è vero secondo la Scrittura; l’uomo ha potuto essere creato e cadere nel peccato senza che questo pregiudichi la sua elezione o il suo rigetto; la creazione e la caduta fanno parte dell’«ordine naturale della provvidenza», mentre la salvezza dell’uomo e la sua perdizione costituiscono la sostanza dell’«ordine soprannaturale della predestinazione»; è assurdo ammettere che Dio abbia potuto decretare la salvezza eterna o la perdizione eterna degli uomini, prima di aver decretato la loro esistenza in Adamo e nel medesimo modo la loro caduta; considerate partendo dalla predestinazione, la creazione e la caduta si manifestano chiaramente non come un mezzo (medium per quod), ma come una condizione indispensabile (conditio sine qua non): il malato non può certo essere guarito, se non esiste in quanto uomo e se non è malato, ma la sua esistenza e la sua malattia non sono evidentemente i mezzi per la sua guarigione; 5) la concezione sopralassaria dell’homo creabilis et labilis è ἐνδιάβλητος, cioè porta pregiudizio a Dio, perché implica (cosa

intollerabile) l’idea che Dio avrebbe rigettato alcuni uomini prima ancora che essi fossero passibili di riprovazione, ai suoi occhi; in altri termini, secondo questa concezione, Dio avrebbe lasciato taluni uomini divenire riprovevoli, onde poterli condannare come tali51. Contro tale punto di vista, gli infralapsari intendono far valere le ragioni seguenti: 1) l’uomo è oggetto della predestinazione divina esattamente così come Dio lo conosce incontrandolo nella dimensione temporale; è detto infatti in Gv. XV, 19: «Vi ho scelti di mezzo al mondo»; è dunque l’homo peccator oggetto della vocazione temporale, ad essere ugualmente oggetto della predestinazione eterna; 2) l’elezione dell’uomo ha luogo «in Cristo»; quelli che sono eletti in Cristo da tutta eternità si trovano ad essere come uomini «da redimere e da santificare per mezzo di lui»; dunque l’uomo eletto da tutta eternità è proprio l’homo lapsus come tale; 3) in Rom. IX, 21 Paolo parla di un φύραμα, cioè di una medesima massa che il vasaio utilizza a suo piacimento per fare dei vasi di uso nobile o dei vasi di uso vile; Isacco ed Ismaele, Giacobbe ed Esaù appartengono al medesimo titolo a questa massa; e siccome l’azione di Dio a loro riguardo, sebbene differente, è determinata dalla sua misericordia e dalla sua collera, ne consegue che questi due tipi di uomini costituiscono insieme una massa di peccato e di miseria, una massa corrupta, cosicché oggetto della doppia predestinazione divina (all’elezione o alla riprovazione) è proprio l’homo lapsus. Rom. IX, 22 s. non afferma infatti che Dio ha creato gli uni per la salvezza e gli altri per la perdizione, bensì che li ha preparati per questa duplice finalità; ciò significa che la scelta operata fra loro rileva da un giudizio etico (peraltro incomprensibile) e nient’affatto da una determinazione fisica; tale scelta è stata compiuta da tutta eternità, riferendosi però all’uomo creato e decaduto; 4) la misericordia e la giustizia di Dio che, secondo l’interpretazione usuale di Rom. IX, 22 s., sono i motivi determinanti della duplice predestinazione, devono necessariamente avere per oggetto l’uomo decaduto e ciò non solo nel loro compimento temporale, ma già nella loro intenzione eterna; altrimenti la misericordia non potrebbe essere misericordia, ma solo «una certa quale immensa bontà» e la giustizia non potrebbe essere giustizia, ma solo un’«assoluta potestà»; in quanto atto della misericordia e della giustizia eterne di Dio, la predestinazione concerne necessariamente l’homo creatus et lapsus52. Tale è la concezione infralapsasia. È incontestabile che anch’essa presenta, a prima vista, taluni vantaggi; in particolare, seppure a detrimento dell’unità e

della chiarezza dell’insieme, riesce, meglio della concezione sopralapsaria, a tenere conto delle difficoltà logiche e morali, riscontrabili nei dettagli della dottrina comunemente insegnata e ricevuta; per questo, già dal semplice punto di vista dell’utilità pratica che questa dottrina può avere per la chiesa, si capisce facilmente perché la concezione infralapsaria sia diventata e sia rimasta l’interpretazione ufficiale del dogma calvinista. Parimenti si comprende come gli avversari luterani, cattolici, arminiani ed altri ancora abbiano combattuto più nettamente la posizione sopralapsaria che non quella infralapsaria: il sopralapsarismo sembrava loro talmente detestabile che non hanno esitato ad usare contro di esso, talora, le stesse argomentazioni degli infralapsari; naturalmente non si deve pensare che gli infralapsari si siano avvicinati oggettivamente, anche solo un poco, a questi avversari comuni; la loro concezione non ammette alcunché a questo proposito, presentandosi semplicemente come una variante in seno alla medesima confessione di fede. Conviene menzionare a questo punto, accanto alle dichiarazioni ireniche e benevole del sopralapsario A. Heidanus che abbiamo citato precedentemente, quelle altrettanto amichevoli dell’infralapsario Turrettini: «Qualunque sia la diversità dei telogi su questo punto, resta sempre salvo il fondamento della fede per entrambe le parti, che giustamente si oppongono agli esiziali errori del pelagianesimo e del sempelagianesimo; in questo invero convengono; pongono gli uomini nella medesima condizione davanti a Dio e non in condizioni differenti; la loro scelta dipende esclusivamente da Dio; da questo fondamento recedono tutti i settari»53. A noi spetta tuttavia, disgraziatamente, di notare come, nel contesto studiato, i teologi sopralapsari e quelli infralapsari accusino una grave comune lacuna; non sono riusciti ad andare a fondo della questione che li preoccupava e che giustamente ci preoccupa; questa questione è quella dell’oggetto della predestinazione. 4) È il caso di esaminare ancora una teoria detta «di compromesso», in cui la controversia ha raggiunto un punto morto, verso la fine del secolo XVII. Seguiamo per questo l’insegnamento di P. Van Mastricht54. Secondo questo autore si devono distinguere concettualmente quattro atti differenti nell’unico decreto divino concernente l’uomo. A questa condizione si può avere una visione generale e ci si può pronunciare sul conflitto che oppone sopralapsari ed infralapsari. I quattro atti divini sono: 1) il proposito di manifestare la gloria della misericordia e della giustizia vendicativa (propositum manifestandi gloriam misericordiae et iustitiae vindicantis); considerando questo primo atto divino, l’oggetto della predestinazione deve essere

incontestabilmente ricercato, come fanno i sopralapsari, nell’homo creabilis et labilis; il disegno divino così concepito non implica ancora il decreto della creazione e della caduta e quindi il suo oggetto non può essere l’homo creatus et lapsus; 2) la decisione di creare gli uomini e di permetterne la caduta (statutum creandi et in lapsum permittendi homines), decisione concernente tutti gli uomini al medesimo titolo; rispetto a questo secondo atto divino, l’oggetto della predestinazione deve essere descritto come l’uomo che deve essere creato e che cadrà in peccato (homo creandus et lapsurus), conformemente ad una posizione sopralapsaria; infatti se questo secondo atto è identico al decreto della creazione e della caduta, l’homo creatus et lapsus non può ancora essere il suo oggetto, essendo proponibile unicamente come realtà futura nel quadro del tempo; 3) il decreto dell’elezione propriamente detto, in forza del quale gli uni sono destinati e messi da parte per glorificare la misericordia di Dio e gli altri per glorificare la sua giustizia; riguardo a questo terzo atto, sono gli infralapsari ad avere ragione; l’uomo che nel decreto di elezione propriamente detto è come tale oggetto della intenzione e della decisione divine, non può essere se non l’homo creatus et lapsus; 4) l’intenzione divina riguardante le vie ed i mezzi conformi all’elezione degli uni ed alla riprovazione degli altri; nella misura in cui tali vie e tali mezzi sono attribuiti all’uomo, l’uomo deve essere designato, riguardo a questo quarto atto divino, come homo electus et reprobus, che come tale è homo creatus et lapsus; in questa prospettiva gli infralapsari trovano vari argomenti per la loro posizione. P. van Mastricht ritiene che, accettando il suo arbitrato, le due parti in presenza potrebbero accedere ad una discussione feconda, suscettibile di accordo. Quando gli infralapsari, richiamandosi a Gv. XV, 19 e a Rom. IX, 21, sostengono che l’uomo eletto o riprovato è l’homo creatus et lapsus, hanno certamente ragione per quanto concerne il terzo ed il quarto atto divino precedentemente menzionati, cui si riferiscono i passi biblici citati, tenendo anche conto dell’accezione stretta dei concetti di elezione e di riprovazione; ma subito bisogna rilevare che il loro concetto di predestinazione è troppo angusto se ci si rapporta al primo ed al secondo atto divino; su questo punto devono riconoscere il loro errore. Inversamente quando il sopralapsario obietta al suo oppositore di svuotare delle loro sostanza i concetti di creazione e di caduta, data l’intenzione divina che è quella che è, dovrà accettare che gli si dica che ha ragione, certamente, nel parlare già a questo proposito di una

«manifestazione della grazia e della giustizia» che, in quanto intenzione divina, costituisce la predestinazione in accezione ampia e completa (l’oggetto di tale intenzione è infatti l’homo creabilis et labilis), ma anche dovrà riconoscere che l’oggetto della scelta divina propriamente detta (l’elezione e la riprovazione) è l’homo creatus et lapsus e non l’homo creabilis et labilis, riconoscendo il ben fondato della visione infralapsaria. Siamo in presenza di un tentativo di conciliazione che fa onore al suo autore per l’ingegnosità. Ci si può certo chiedere se i rappresentanti autentici delle due tendenze riconciliate in questa maniera e per così dire riaggiustate sarebbero stati soddisfatti di questa sentenza ci arbitrato, che dà torto ai sopralapsari sulla questione decisiva delle nozioni di elezione e di riprovazione ed agli infralapsari sulla questione, non meno decisiva, della distinzione delle due economie, cosicché alla fin fine si giunge a dare ragione alle due parti in presenza dicendo loro che si ingannano proprio in quello che per ciascuna è l’essenziale. Tuttavia proprio questo fatto ci permette di vedere in van Mastricht un sincero operatore di conciliazione: per se stesso, come per le due parti in causa, ha saputo evitare soluzioni di facilità; il suo tentativo ha il merito di avere messo sistematicamente in evidenza l’interdipendenza e (diciamolo!) l’unità interna (d‘altronde mai contestata) delle due tendenze rivali; così facendo ha mostrato che fra esse non si dà certo differenza nella confessione di fede e che, di conseguenza, tutta questa controversia non poteva essere concretamente un fattore di separazione all’interno della chiesa. 5) Se cerchiamo di formulare un giudizio su questo ingarbugliato momento teologico, facciamo senz’altro bene a richiamare in primo luogo chiaramente i presupposti comuni delle due posizioni in presenza, seguendo anche in questo van Mastricht e tenendo conto che essi hanno ispirato tutti i tentativi di conciliazione fatti allora. Non vi è dubbio che tutte le tendenze riformate ortodosse di questo periodo si sono sforzate, con uguale serietà, di difendere il dogma calviniano, la cui specificità era stata quella di mettere in evidenza la libera grazia divina e la sovranità di Dio nella sua libera grazia, come origine di ogni verità cristiana e di ogni conoscenza della verità cristiana; si noterà inoltre che i sopralapsari non sono stati i soli a porre la dottrina della predestinazione all’inizio di tutta la trattazione teologica, subito dopo la dottrina di Dio; teologi infralapsari così netti, come Polanus e Wolleb o alla fine del secolo Turrettini, hanno adottato la medesima disposizione, sebbene, secondo la loro dottrina, l’insegnamento sulla predestinazione avrebbe dovuto essere esposto, al più presto, dopo la dottrina del peccato.

Anch’essi infatti sentivano prorompente la necessità, abbordando questo dogma prima degli altri, di subordinare l’insieme della dottrina cristiana alla sovranità della grazia divina. Ma, indipendentemente dal fatto che si ispirano in maniera indiscutibile al dogma calvinista, tutte le tendenze dell’epoca partecipano ancora a taluni altri presupposti comuni, meno indiscutibili, che è opportuno richiamare. In primo luogo sopralapsari ed infralapsari, come pure gli esponenti delle teorie di compromesso, concordano nel riconoscere che l’oggetto della predestinazione (l’uomo eletto o riprovato di cui è questione nella loro controversia) è direttamente identico alla pluralità ed alla singolarità degli individui, sia eletti che riprovati, procedenti dalla linea di Adamo; è a questi individui come tali che le due tendenze della teologia riformata (e con esse tutta questa teologia ed in genere tutta la teologia antica) si interessano in maniera esclusiva; l’uomo Gesù Cristo, in quanto primo degli eletti, gioca un ruolo preciso ed indispensabile nell’elezione degli uni, ma non entra assolutamente in conto nel rigetto degli altri, cosicché nella questione relativa all’oggetto della predestinazione ci si sofferma un solo istante sulla persona di Gesù Cristo; molto rapidamente si giunge, in un modo o nell’altro, a fissare la propria attenzione su quanto si pensa essere il vero oggetto da prendere in considerazione su questo punto; l’uomo, individuo X o individuo Y. Creabilis o creatus, labilis o lapsus è quest’uomo X o Y che costituisce l’oggetto della predestinazione. In secondo luogo tutte le tendenze s’accordano nel dire che la predestinazione (cioè l’elezione o la riprovazione degli individui, secondo il decreto eterno di Dio) si traduce in un sistema immutabile, che non può che essere ratificato e confermato in qualche modo, nel quadro del tempo, dalla vita di ciascuno: la dottrina della predestinazione non proclama la libera grazia di Dio come buon annuncio, bensì come una comunicazione di carattere neutro, relativa al fatto che Dio, da tutta eternità, si mostra misericordioso per chi vuole, fissando così i limiti all’interno dei quali ogni individuo particolare deve muoversi. I sopralapsari pretendono che il sistema che regola l’elezione e la riprovazione di ciascuno sia l’ultima parola di tutto, essendo identico al piano divino originale e fondamentale, che esclude l’esistenza di un qualsiasi altro piano; per parte loro gli infralapsari postulano l’esistenza di un altro piano e di un altro sistema, anteriore o parallelo, presentato sotto l’aspetto di decreti relativi alla creazione ed alla caduta; ma le due tendenze presuppongono ed affermano entrambe che, in ogni caso, il

sistema che fissa la sorte degli individui esiste da tutta eternità in maniera perfettamente stabile ed inalterabile, cosicché non si deve solamente dire che gli individui sono legati nella dimensione temporale che è la loro, ma che anche Dio è legato, avendolo istituito nel quadro dell’eternità, in maniera che (data l’esistenza di tale schema antecedente e fisso da cui tutto dipende) nulla di nuovo vi può essere sotto il sole, né per l’uomo, né per Dio. In terzo luogo tutte le tendenza concordano nel ritenere che, istituendo il sistema immutabile che regola in maniera previa la vita di ogni individuo e decide della sua fine, Dio dice sì da un lato e no dall’altro nel medesimo modo, nel medesimo senso, con la medesima intensità, cosicché il suo sì ed il suo no si equilibrano perfettamente, con la logica conseguenza che è giusto che gradisca gli uni e respinga gli altri. Se, tenendo conto del decreto della creazione, gli infralapsari prestano a Dio, quando questi intende rivelare la sua gloria, un’intenzione generale che è difficile precisare, allorché abbordano il decreto della predestinazione in maniera propria, cadono pure essi in una mania di simmetria; riferendosi all’uomo creato e decaduto affermano che è nell’intenzione divina di manifestare misericordia verso gli uni e giustizia verso gli altri; la misericordia inclina Dio ad eleggere e la giustizia a riprovare definitivamente, secondo il suo beneplacito, un certo numero di individui appartenenti alla massa dell’universale perdizione. In nessun caso l’equilibrio fra le due tendenze, esistente in Dio, può essere rotto, così come sarebbe impossibile immaginare un mutamento posteriore in seno al sistema istituito una volta per tutte dalla duplice volontà divina; queste due tendenze si equilibrano in maniera assoluta, costituendo insieme la volontà divina che intende glorificare se stessa in questo modo; conseguentemente la gloria di Dio si rivela potentemente e rigorosamente sia nella dannazione estrema dei riprovati e sia nella salvezza finale degli eletti. Infine e soprattutto, in quarto luogo, tutte le tendenze si ricollegano (e questo condiziona segretamente tutto il resto) nella loro concezione del beneplacito divino, che decide dell’elezione e della riprovazione degli uni e degli altri e che determina la struttura concreta del sistema stabilito da tutta eternità e svolgentesi nel tempo; secondo questa concezione il beneplacito divino rileva da un atto assolutamente libero, da un decreto assoluto, di cui ci sfuggono completamente il senso ed il motivo e che dobbiamo ritenere come santo, adorandolo di conseguenza; questo decreto assoluto è la decisione divina sull’homo creatus et lapsus (da un punto di vista infralapsario) e la decisione divina sull’homo creabilis et labilis (da un punto di vista

sopralapsario). Le due tendenze sono dominate entrambe (in maniera differente certo, ma il risultato pratico è il medesimo) dall’idea di un Dio assoluto, un Dio in sé, che non si lega e che non è legato; non dall’immagine del Figlio di Dio che, nella sua unità con il Figlio do Davide, lega se stesso ed esiste in questa relazione; in una sola parola non è il Dio che si rivela in Gesù Cristo a determinare qui la riflessione. 6) Queste sono le posizioni comuni al sopralapsarismo ed all’infralapsarismo e se ci rammentiamo quanto abbiamo cercato di stabilire fin qui, comprendiamo subito che, da un punto di vista cristiano, esse sono tutt’altro che naturali, anzi che restano estremamente problematiche; per rendere giustizia alle posizioni analizzate, dovremo tenere conto proprio del fatto che esse partono da presupposti grandemente problematici; l’interrogazione iniziale non potrà dunque che essere questa: in quale misura esse hanno servito (o non hanno servito) la causa incontestabilmente cristiana difesa dal dogma calvinista, sul terreno e nei limiti di tali presupposti? Si dovrà subito concedere che la concezione sopralapsaria gode di un notevole vantaggio: con grande logica e senza nessuna riserva non teme infatti di affermare che il campo della conoscenza cristiana è completamente dominato dalla decisione divina che stabilisce la separazione fra la misericordia da un lato e la giustizia dall’altro, cioè dalla libera grazia divina; l’opera divina nella sua globalità e, indirettamente, la stessa natura divina si rischiarano ammirevolmente, se si interpreta la volontà divina tesa a rivelare la gloria di Dio come volontà di manifestare la sua giustizia e la sua misericordia, se cioè si spiega partendo da questa verità il celebre assioma «ha fatto ogni cosa a causa di se stesso» (omnia fecit propter seipsum), se cioè si vede conseguentemente il Deus ipse come il Dio della misericordia e della giustizia; prendendo questo punto di partenza, il sopralapsarismo non è affatto una concezione così speculativa, come potrebbe parere a prima vista. Non dimentichiamo infatti che, adottando e cercando di mettere in valore senza la minima riserva tale punto di partenza, il sopralapsarismo intende riferirsi inequivocabilmente al Dio della Sacra Scrittura; il fatto di definire l’autore dell’elezione e della riprovazione partendo dalle perfezioni maggiori del Dio biblico, il fatto di sforzarsi di comprendere che la volontà presiedente la creazione e (poiché la domina) permettente la caduta, è la volontà del Signore misericordioso e giusto, questo fatto non rileva assolutamente da una teologia speculativa; costituisce invece (se ci si rapporta all’idea di Dio che regnava sovrana nell’ortodossia dell’epoca) una specie di attacco contro ogni teologia

speculativa. Se poi si ritiene che il sopralapsarismo sia caduto in un monismo teista, è opportuno in ogni caso riconoscere che il monismo che ha tentato di difendere è di essenza biblica e cristiana. E poiché questi teologi pretendono incontestabilmente di partire dalla nozione biblica di Dio, bisognerebbe piuttosto chiedere loro se, in questa direzione, non avrebbero dovuto trovare maggiore luce di quanto pure hanno trovato. Certo i sopralapsari sono caduti nella speculazione, nel senso corrente del termine, ma solo in un secondo momento: a causa dell’applicazione astratta che si sono permessi di fare di nozioni bibliche come misericordia e giustizia; a causa della loro ostinazione nel ricercare Dio ed il suo atto di elezione in una qualche zona oscura, conseguentemente alla sbagliata interpretazione astratta delle nozioni precedenti; a causa del loro rifiuto di partire dalla misericordia e dalla giustizia, cioè da Dio stesso, sotto l’aspetto concreto che queste due perfezioni rivestono nella Bibbia. Ma, rendiamo loro giustiziai!, la direzione che essi seguono è incontestabilmente suscettibile di condurre ad una intelligenza cristiana della dottrina della predestinazione, dal momento che hanno assunto il punto di partenza che conosciamo e che la loro preoccupazione essenziale è di affermare che «l’economia soprannaturale della predestinazione» (cioè l’ordine della misericordia e della giustizia di Dio) costituisce la verità prima e suprema, il disegno decisivo e determinante cui si trovano subordinate tutte le altre disposizioni divine, come pure le loro ripercussioni nel tempo. Rispetto a questa concezione, il punto di vista infralapsario, che distingue o pone in primo piano «un’economia naturale della provvidenza», si mostra indubitabilmente come posizione più debole, contribuendo in misura minore alla lode della libera grazia divina, che relativizza e limita spiacevolmente. Quando con il Catechismo di Heidelberg si crede che la fede in Dio, creatore del cielo e della terra, si trova riassunta nella seguente dichiarazione: «Credo che il Padre eterno di nostro Signore Gesù Cristo è, a causa del suo Figlio Gesù Cristo, mio Dio e mio Padre»55, non si può affatto fare dell’economia della provvidenza e della creazione un primo elemento, separato dalla dispensazione della grazia e della predestinazione; ed in ogni caso non si può relegare questa prima economia nello spazio oscuro in cui la confina la dottrina infralapsaria. Certo, le obiezioni di natura logica ed impirica degli infralapsari paiono molto sensate: prima di potersi pronunciare secondo misericordia e giustizia, Dio deve aver messo a punto per lo meno la costituzione corrispondente degli esseri umani e, soprattutto, deve aver dato realtà alla loro esistenza; parimenti, quando questi teologi protestano contro

l’assurdità esistente nel caso si ammetta che Dio avrebbe deciso della salvezza e della perdizione degli uomini ancora prima di aver deciso la loro esistenza e la loro caduta, la loro indignazione pare del tutto plausibile. Tuttavia non si ha il diritto di dimenticare che simili obiezioni non sono giustamente di ordine spirituale e che la fede non ragiona così; ricorrere troppo facilmente ai criteri dell’ordine umano e razionale per utilizzarli contro Dio significa tenere troppo poco conto della divinità del Dio eterno, per il quale le cose che sembrano logicamente «seguire» possono benissimo «precedere»; l’immagine che la Bibbia ci dà del mondo e della storia non corrisponde ad ogni modo alla nostra logica. Non ci è detto infatti che vi è in primo luogo un vasto campo che si chiama la natura, ed una massa di avvenimenti costituenti la storia universale, ed in questo quadro precedente, come una aggiunta e non importa dove, la storia d’Israele, di Gesù Cristo e della chiesa; no, il quadro ed il fondamento su cui riposa ogni divenire temporale è, secondo la Bibbia, la storia dell’alleanza fra Dio e l’uomo, questa storia che va da Adamo ad Abramo passando da Noè e da Giacobbe al Cristo ed a tutti coloro che credono in lui passando da Davide: ed in questo quadro che la natura e la storia svolgono in seguito il loro ruolo preciso: le cose non sono mai al contrario, anche quando la logica empirica richiederebbe lo fossero. I sopralapsari hanno osato trarre le conseguenze che derivano, per la conoscenza del decreto eterno di Dio, dall’immagine che la Bibbia ci dà del monco e della storia. Per parte loro gli infralapsari hanno rispettato la logica biblica nel quadro della loro esposizione sul compimento della salvezza, ma non hanno osato fare di più: posti di fronte al decreto eterno di Dio, si sono messi improvvisamente ad affermare l’esistenza di una dispensazione ritenuta più ragionevole, separando così le due economie divine e subordinando l’ordine della predestinazione all’ordine della provvidenza; contemporaneamente non hanno definito con precisione questa «economia naturale della provvidenza» cui si appellano; risultato: la loro dottrina, già oscurata fin dall’inizio a causa del famoso decreto assoluto, è diventata oscura anche su questo secondo punto, potendo ormai domandarci chi è mai quel Dio di cui affermiamo che ha creato il mondo e l’uomo, pur tollerandone la caduta. Non appena ammessa come principio la distinzione operata dagli infralapsari, non appena la si ritiene valida, nulla può impedire che vi sia qualcuno che voglia vedervi più chiaro e giunga alla conclusione seguente: esiste una bontà, un’onnipotenza, una saggezza divina universale e generale esplicantesi nelle opere particolari della creazione e della provvidenza (si

potrebbe ugualmente dire: nella natura e nella ragione); a questa bontà, a questa onnipotenza, a questa saggezza corrispondono, come un caso particolare alla regola generale, la misericordia e la giustizia di cui Dio dà prova nell’opera della redenzione; in breve, la posizione infralapsaria deve fatalmente contribuire, per lo meno, alla ulteriore dissociazione della teologia in una teologia naturale ed in una teologia della rivelazione. Ecco perché, sempre nel quadro dei presupposti comuni menzionati più in alto, questa posizione sembra meno buona dell’altra. Detto questo tuttavia si deve riconoscere che anche la posizione infralapsaria ha i suoi lati positivi, fra cui ne emergono due. Se, con le due tendenze fin qui analizzate, si pone come principio che la predestinazione è il decreto del beneplacito divino, che predetermina l’elezione e la riprovazione degli individui particolari, in maniera tale che la duplice intenzione divina si equilibra perfettamente, si deve riconoscere che, sia per quanto concerne Dio che per quanto concerne gli uomini, gli infralapsari introducono nella dottrina una mitigazione, poiché a lcro modo di vedere, questo decreto non è il decreto iniziale e supremo che Dio ha promulgato, tenendo conto della realtà differente da lui, rappresentata dal mondo e dall’uomo. Ricordiamo qui il punto di vista sopralapsario procedente dai medesimi presupposti: nella misura in cui non si preoccupa unicamente di se stesso o della rivelazione della sua gloria, Dio si preoccupa essenzialmente degli esseri umani particolari come tali, del loro destino finale (salvezza o perdizione), del loro cammino verso questo fine. Tutto quanto esiste (l’immenso complesso della creazione, il fatto infinitamente sconcertante della caduta che Dio permette e che significa l’immissione del regno del male nel mondo, la venuta di Gesù Cristo quaggiù, la fondazione e l’esistenza della chiesa, la conversione e l’indurimento che produce tale opera di salvezza) ha un solo e medesimo fine: fare sì che da un lato, l’individuo X vada in cielo e, dall’altro, l’individuo Y vada in inferno. Volgendosi verso il mondo e verso l’uomo, il Dio trinitario non ha altro disegno (indipendentemente dal fatto di essere in primo luogo il suo proprio oggetto). Che cosa significa simile concezione? Sebbene essa implichi che tutte le cose (compreso il fine ultimo verso cui tendono) sono necessarie e reali unicamente in virtù dell’autoglorificazione divina, significa semplicemente, e con un rigore di cui si hanno rari esempi, che l’uomo, cioè l’individuo X o Y, si trova promosso alla dignità di centro e di misura di ogni cosa. Improvvisamente vediamo aprirsi di fronte a noi un abisso, in cui gli estremi (e quali estremi!) si toccano;

è forse solo un caso che non solamente un Heidanus, ma anche un discepolo così esplicito di Coccejus che suo genero Fr. Burmann siano stati calvinisti sopralapsari e contemporaneamente cartesiani?; che cosa accade quando il fondamento teologico di questo bel sistema si trova scosso a tutto vantaggio del fondamento antropologico che era dissimulato e che si impone dapprima furtivamente, poi apertamente, come manifestazione della verità che si è intesa esprimere?; Heidanus e Burmann appartengono precisamente alla categoria dei teologi riformati, in cui si annuncia proprio questa trasformazione. Riassumendo: è difficile contestare che stabilendo una relazione così diretta ed insolita fra l’insieme dell’opera divina e l’individuo umano considerato in se stesso, il sopralapsarismo abbia finito per preparare e favorire, almeno concretamente, l’evoluzione in senso antropologico appena dichiarata. Invece l’infralapsarismo (che pure ha incoraggiato tale evoluzione per un altro verso) ha potuto giocare su questo punto un ruolo frenante, rifiutandosi di ricondurre in una maniera così sistematica e totale l’azione di Dio nel e per il mondo, alla sola dimensione della duplice predestinazione. Subordinando il decreto della predestinazione a quello della creazione e della caduta, l’infralapsarismo ottiene un primo risultato, negativo certo, ma non meno felice: impedisce che l’uomo, quando pensa a Dio, pensi subito ed automaticamente a se stesso; impedisce che l’atteggiamento di adorazione suscitato dal fatto che Dio s’adopera a salvaguardare la propria gloria si trasformi immediatamente in sentimento egocentrico di gioia o di spavento, quello stesso che esperimenta l’uomo predestinato al pensiero di andare in cielo o in inferno. Il richiamo che i decreti della creazione e della caduta precedono il decreto della predestinazione ha potuto avere come effetto di frenare, per lo meno, la tendenza, sempre minacciosa nel sopralapsarismo, ad invertire il rapporto fra Dio e l’uomo, a considerare cioè che Dio esiste per l’uomo, per l’individuo X o Y e che deve aggiustarsi per accordare a questo uomo quanto egli desidera o per risparmiargli quanto teme; questo nella misura in cui tale richiamo significa la possibilità di un pensiero avente Dio, la sua sovranità, la sua opera per oggetto, senza legarlo alle preoccupazioni suscitate dai nostri interessi, senza dedurlo da questi, ma lasciandolo completamente libero e capace di dominare ogni nostra preoccupazione. Certo si può giudicare infelice la maniera con cui gli infralapsari hanno proceduto in questa occasione; rinviando, al di là della redenzione, al campo supposto autonomo della creazione e della provvidenza, non si può affatto impedire alla

lunga l’irruzione dell’antropologia unilaterale; anzi, più si sottolinea l’autonomia di questo primo campo, più si contribuisce a preparare e a consolidare il terreno sul quale in seguito ci si porrà per proclamare che l’essere umano è capace di glorificare se stesso con l’aiuto divino. Nel quadro dei presupposti comuni cui abbiamo precedentemente accennato, non esiste nessuna salvaguardia efficace contro la possibilità di scivolare in questa direzione; si deve tuttavia riconoscere che insistendo sull’esistenza di un decreto primario ed indipendente relativo alla creazione ed introducendo così una certa elasticità nel rigore di un sistema in cui Dio è concepito unicamente in funzione del suo atteggiamento relativo alla salvezza o alla riprovazione di ogni individuo particolare, la posizione infralapsaria ha potuto ritardare e di fatto ha certamente ritardato (nel quadro dei presupposti comuni a tutta questa teologia) lo scivolamento della dottrina riformata nella direzione che abbiamo appena indicata; contemporaneamente ha potuto contribuire, fino ad un certo punto, ad attenuare la concezione troppo unilaterale del sopralapsarismo, secondo cui l’uomo sarebbe unicamente un eletto o un riprovato, il cui ruolo consisterebbe esclusivamente a compiere, durante tutta la sua vita, il destino, buono o cattivo, impostogli precedentemente. Poiché accanto al decreto della predestinazione discerne ancora un altro mistero di Dio il teologo infralapsario conosce ugualmente, almeno in teoria, un altro mistero dell’uomo, accanto al fatto che quest’uomo è semplicemente un eletto o un riprovato; per lui l’uomo è anche (ed anzi primariamente) la creatura di Dio che, in quanto tale, si è resa colpevole nei suoi confronti. È però vero che la mitigazione introdotta nella concezione dell’uomo è contestabile e pericolosa ed alla fin fine doveva rimanere senza effetto, rivelandosi il teologo infralapsario incapace di considerare l’uomo altrimenti che nella prospettiva della creazione e della predestinazione; supponendo che ci si scarti anche di poco da questa via e si lasci la mitigazione teorica fungere da pretesto per l’elaborazione di un’antropologia particolare derivante dal primo articolo della confessione di fede (quello concernente Dio creatore) si fa già un passo decisivo verso l’adozione di una dottrina naturale dell’uomo, destinata a relativizzare e finalmente a rimpiazzare il punto di vista cristiano; ciò spiega perché fino alla fine del secolo XVII ci si sia astenuti dal trarre le conseguenze pratiche di questa mitigazione teorica. Concludendo questo primo sguardo diremo che, nel quadro dei presupposti comuni menzionati precedentemente, l’infralapsarismo ha un vantaggio non trascurabile, avendo lasciata aperta la questione

seguente: come ed in che misura l’uomo è un eletto o un riprovato?; ha saputo cioè mettere in dubbio il carattere rigido e definitivo della doppia predestinazione dell’uomo, rinviando (pur partendo da una realtà mal scelta) ad una realtà situata al di là. L’altro vantaggio evidente dell’infralapsarismo consiste nel fatto di mantenere una riserva più grande nei confronti della caduta e della esistenza del male nel mondo. Certo, anch’esso rapporta tale realtà alla volontà ed alla decisione eterne di Dio, cercando di evitare in questa maniera ogni errore dualista: ma distingue il decreto autorizzante il male da quello della predestinazione; considera che il permesso di operare il male sia non uno dei mezzi che Dio ha voluto e stabilito onde poter eseguire la sua decisione di eleggere o di riprovare, ma semplicemente una circostanza utilizzata di fatto in vista di tale azione; Dìo ha permesso il male in maniera differente da quella con cui ha creato l’uomo ed il mondo, ma si serve della caduta dell’uomo (così come usufruisce della sua condizione creaturale) per agire su di lui, in modo da condurlo a confermare la sua elezione o il suo rifiuto. Conseguentemente bisogna considerare e comprendere i decreti divini nella loro reciproca differenza: sebbene siano una sola e medesima cosa in Dio, non ci è consentito di stabilire fra di essi una relazione. L’infralapsarismo afferma che questi decreti coesistono in Dio e costituiscono insieme la sua volontà unica e santa, in maniera che per noi resta inspiegabile; siamo di fronte ad un mistero; e questo mistero è parallelo a quello della libertà del beneplacito, caratterizzante le decisioni di Dio in un senso o nell’altro. Le tesi corrispondenti dei sopralapsari sono più audaci, o se si vuole più rudi e pericolose: spiegano infatti, almeno parzialmente, l’accusa regolarmente rivolta ai calvinisti di fare di Dio l’autore del peccato. I sopralapsari accordano alla sovranità divina su ogni cosa un’importanza così decisiva che la loro applicazione ad evitare ad ogni costo ogni parvenza di dualismo li rende meno sensibili all’altro pericolo, cioè alla tentazione di voler risolvere il problema del male, sforzandosi di razionalizzare quanto è irrazionale, onde farne in un certo modo un principio dell’ordine universale, una necessità indiscutibile, un elemento della natura. Gli infralapsari temono invece soprattutto proprio questo pericolo e per questa ragione nel loro sistema il male (come già la creazione) assume maggiormente il carattere di enigma oscuro ed insondabile. Poiché separano il campo del male dall’ordine della salvezza, i teologi infralapsari possono affermare meglio (o in ogni caso più chiaramente) che il nemico che ci minaccia è diabolico, che la sua potenza è reale e che, di

conseguenza, anche la nostra redenzione è reale; hanno il vantaggio di poter meglio mostrare che, nella nostra salvezza, si compie un giudizio etico ed una vittoria dell’onnipotenza divina e che Dio non ha destinato nessuno alla rovina, neppure coloro che ha riprovato; nel quadro dei presupposti comuni, hanno saputo mettere meglio in evidenza che la storia intercorrente fra Dio e l’uomo non è un processo naturale ed ancora meno un meccanismo in movimento. Certo, i sopralapsari non intendevano dire questo; ma i loro avversari possono dimostrare meglio perché non sia così; lasciando sussistere un mistero in Dio (il mistero della permissione del male), indipendente dalla volontà divina di manifestare la propria misericordia e la propria giustizia, hanno saputo incoraggiare il rispetto che deve osservare l’uomo (prigioniero del male ed incline a compierlo) nei confronti di Dio, anzi hanno evitato, contribuendovi decisamente, ogni scusa che l’uomo potrebbe ricercare nel fatto che il male risiede nell’intenzione divina come un fattore di elezione o di riprovazione. Che su questo punto l’infralapsarismo abbia dato prova di chiaroveggenza, è innegabile; tuttavia non si può andare oltre nell’ingarbugliata matassa. 7) Confrontando tutti questi argomenti si potrebbe, a prima vista, optare per una neutralità o un’indifferenza di principio, poiché, all’interno dei presupposti comuni alle due tendenze, posizioni e controposizioni sembrano equilibrarsi; si potrebbe (come è avvenuto alla fine del secolo XVII) cercare di mettere in evidenza la sostanza teologica delle due posizioni e proclamare che ciascuno è libero di scegliere la soluzione che meglio corrisponde al suo temperamento o consolarsi ripetendo che, a ben vedere, le due tendenze non sono inconciliabili, come lo prova il tentativo di P. van Mastricht; non credo però che questa sia la strada. Quando si è ben compreso il senso di questa controversia, non si può restare ad una neutralità di principio: il rifiuto di pronunciarsi non può significare la rinuncia ad ogni decisione; significa semplicemente che si è costatato, in fin dei conti, che sul terreno in cui è stata posta all’epoca, la controversia riformata non è stata risolta e non potrebbe esserlo neppure oggi, ponendosi su questo terreno; ciò non esclude però che la discussione non ci riguardi e che non siamo chiamati a prendere una decisione, nella prospettiva che è la nostra. La questione dell’oggetto della predestinazione (cioè dell’uomo eletto) è in effetti ancora la nostra questione e non possiamo ammettere che sia stata risolta in una maniera soddisfacente nel secolo XVI; proprio per questo non abbiamo affatto il diritto di rendere superfluo il problema del secolo XVII o di risolverlo in maniera fantasiosa;

peraltro noi restiamo incapaci di accedere alla materia comune alle differenti tendenze del secolo XVII perché, indipendentemente dal fatto che l’intenzione fondamentale del dogma calvinista resta per noi valida, seppure con altra interpretazione, tale materia è diventata molto problematica. Dal momento che cerchiamo la risposta ad una questione posta nel secolo della scolastica protestante, sia pure partendo da altri presupposti, le risposte date in quel momento storico non possono lasciarci indifferenti, sebbene non possano essere le nostre; ci obbligano invece a cercare da quale parte fosse allora il punto di vista relativamente più giusto, nel quadro di una teologia divenuta per noi incerta; non abbiamo il diritto di optare per una soluzione arbitraria ed irresponsabile, a seconda del nostro temperamento e neppure abbiamo diritto a rassicurarci troppo in fretta pensando che, all’epoca, si siano potute accettare senza troppe difficoltà questa o quell’altra forma di compromesso. Certo, vediamo che secondo il caso e nel quadro dei loro presupposti, i teologi del secolo XVII hanno potuto adottare le posizioni sopralapsaria o infralapsaria, ma non consiste in questo l’insegnamento da trarre da questo episodio della storia teologica; siamo infatti pienamente convinti che, sul loro terreno, le due posizioni erano a loro modo necessarie, ma che sono state adottate, l’una o l’altra, solo sotto la spinta di difficoltà di ogni genere, quasi costrette; così pure riteniamo che solo per necessità le due tendenze hanno potuto essere eventualmente conciliate. La vera questione che si pone per noi è la seguente: quale delle due posizioni in presenza ha saputo meglio preparare, nel quadro dei presupposti di allora, la risposta che deve essere data, su un altro terreno, all’autentica questione che si pose in quel momento e che resta legittimamente ancora la nostra? In altri termini: qual è, su questo terreno, il punto di vista cui possiamo collegarci e che ci obbliga a prendere posizione nella controversia, a proseguire cioè il nostro sforzo di riflessione non rompendo con il passato, né voltandogli le spalle con indifferenza, ma rispettando la continuità della storia ecclesiastica, non disprezzando i legami che ci collegano con questo passato, bensì riconoscendoli? 8) Se tale è la questione che si pone, è difficile non risolverla dicendo che, premesso quanto deve essere premesso ed omesso quanto si deve omettere, il punto di vista più giusto resta, malgrado tutto, quello sopralapsario. Le obiezioni che si possono presentare e che noi stessi abbiamo dovuto far valere (mostrando così il ben fondato relativo della posizione infralapsaria) si risolvono tutte, alla fin fine, in una segnalazione di pericoli. È infatti evidente che il teocentrismo rigido dei sopralapsari rischia di mutarsi continuamente in

un antropocentrismo altrettanto rigido; è almeno verosimile che il sopralapsarismo abbia contribuito a preparare questa metamorfosi che si è manifestata in seguito; infine, considerando la creazione, il peccato e la redenzione nell’unilterale (poiché esclusiva) prospettiva della rivelazione della gloria divina, i sopralapsari possono ben condurre ad una concezione che relativizza il problema del male e che riduce l’insieme dei rapporti fra Dio e l’uomo ad una specie di processo naturale in cui non si percepisce più nessuna contraddizione. Tuttavia che una posizione sia pericolosa, non significa ancora che sia falsa e meno ancora che la posizione contraria sia esatta. Una cosa appare subito evidente: considerati attentamente, gli incontestabili pericoli del sopralapsarismo non sono pericoli reali e non hanno potuto preparare concretamente gli sviluppi catastrofici che hanno seguito, se non perché il sopralapsarismo si è posto sul terreno avvelenato dei quattro presupposti comuni analizzati precedentemente. Se l’oggetto della predestinazione è l’individuo umano concepito astrattamente, è certo estremamente pericoloso il volere situare l’intenzione divina originale e fondamentale nell’atto mediante il quale Dio elegge e riprova; se la predestinazione significa l’istituzione eterna di un sistema immutabile condizionante l’insieme ed il dettaglio della realtà temporale e se, in questo sistema, l’elezione e la riprovazione si equilibrano perfettamente, è certo estremamente pericoloso il cercare di presentare la sovranità divina in una prospettiva così assoluta che persino la caduta ed il male devono essere considerati come mezzi necessari previsti e stabiliti da Dio in vista del fine da lui perseguito; se il decreto assoluto è l’ultima parola che bisogna dire a proposito del motivo determinante della divina predestinazione, è certo molto pericoloso il concepire Dio come colui che prevede, assicura e prepara la rivelazione della sua gloria destinando ineluttabilmente un certo numero d’individui al cielo o all’inferno e che, per questa ragione, ha creato il mondo, permesso e dunque voluto l’esistenza del peccato e del diavolo, per eseguire in seguito, senza affrettarsi, l’opera della redenzione, il cui significato (sempre in forza della determinazione eterna cui nulla sfugge) è di essere vocazione per gli uni ed indurimento per gli altri, occasione di elezione e strumento di riprovazione. Queste due possibilità che sono perfettamente equivalenti e che sussistono invariabilmente in forza di un equilibrio che nulla può infrangere, costituiscono infatti entrambe unitariamente il compimento del beneplacito nascosto, completamente anonimo e rigorosamente ermetico della divinità. È completamente esatto affermare (ciò dimostra la giustificazione relativa

dell’infralapsarismo) che se questi presupposti sono validi, l’immagine del Dio sopralapsario rischia di diventare quella di un demone, di modo che ben si può comprendere l’orrore con cui cattolici, luterani, arminiani, ma anche un numero considerevole di calvinisti si sono allontanati da tale dottrina; tuttavia bisogna vederci chiaro: è esclusivamente la tesi sopralapsaria formulata in base ai presupposti suaccennati che presenta questo pericolo e suscita questa reazione d’orrore; è il sopralapsarismo legato a tali presupposti che può dare l’impressione di essere una specie di sfida intellettuale; cosa che è anche accaduta concretamente, ad esempio, a quanto sembra, nella scuola di Maccovius. Tuttavia il pericolo ricordato non potrebbe farci prendere posizione contro la tesi sopralapsaria, se i suoi presupposti fossero così necessari e fondati come parevano essere all’antica teologia e quindi anche a tutti i sopralapsari del sec. XVII. Cerchiamo però un istante di considerare la dottrina sopralapsaria separandola da questo sfondo, sbarazzandola cioè da tutti gli elementi negativi che ne procedono: ci accorgeremo allora che essa intende semplicemente mostrare che l’opera di cui il mondo e l’uomo sono oggetto (e che di conseguenza è anche origine, fine e senso della loro esistenza) rileva dal disegno eterno di Dio, la cui sovranità si esercita nel quadro del suo amore. Questo Dio intende farsi conoscere, cioè, poiché è la somma di ogni gloria, intende comunicare e rivelare la sua gloria: tale è l’intenzione originale e fondamentale che egli ha nei confronti della sua creazione; e poiché nulla esiste che non rilevi dalla sua creazione, essendo egli il Signore di tutte le cose, la sua volontà prima e principale costituisce l’origine di ogni cosa, la realtà eterna che racchiude antecedentemente la totalità dei fenomeni che si produrranno nel tempo. Ma nel quadro di questa volontà da cui tutto deriva, Dio non vuole una qualsiasi cosa, bensì l’uomo; non certo l’idea di uomo, l’umanità, gli esseri umani individuali nella loro pluralità e nella loro singolarità, o meglio vuole anche tutto questo, però nel concreto, non in se stessi e non nell’astratto; vuole l’uomo, il suo uomo, il suo eletto, con la precisa intenzione di farne il testimone della sua gloria e conseguentemente l’oggetto del suo amore. In quest’uomo vuole sia l’umanità che gli individui particolari; in quest’uomo vuole quello che possiamo chiamare l’uomo o l’idea di uomo; ma in quest’uomo solamente. Ciò significa che vuole in primo luogo e propriamente parlando l’uomo concreto, così come lui lo ha creato ed eletto. Quest’uomo eletto deve, in quanto testimone della gloria divina, rivelare e confermare ciò che Dio è e vuole (e questa è la sua funzione positiva);

contemporaneamente però deve attestare ciò che Dio non è e non vuole (e questa è la sua funzione negativa che segna un limite ed indica un rifiuto); non si tratta dunque di una specie di secondo sì, ma di un no che corrisponde al sì divino e che non esiste se non in funzione di questo rapporto e di questa opposizione. Questo no indica il limite necessario del sì divino: così certamente Dio è Dio e non un non-Dio, altrettanto certamente esiste distinguendosi come Dio da tutto quello che egli non è e che egli non vuole; poiché Dio è e non è, vuole e non vuole, nel senso in cui abbiamo detto, destina ugualmente l’oggetto del suo amore ed il segno della sua gloria in seno al mondo che ha creato, ad essere un testimone di questa duplice intenzione, ad attestare cioè il suo sì ed il suo volere, come anche il suo no ed il suo non-volere; tutto ciò perché questo essere esista e viva veramente in comunione con lui e manifesti così nella sua persona la totalità della gloria divina. Dio non vuole che l’uomo così scelto cada e pecchi, ma che riprovi e rifiuti il peccato, cioè precisamente quello che Dio non vuole; intende che il suo eletto rinneghi ciò che lui stesso ha rinnegato, onde proclamare in questo modo il sì divino; poiché la sua gloria deve essere completa e la sua alleanza con l’uomo perfetta ed il suo amore senza riserva alcuna, Dio vuole ed approva non il male, non la caduta, non il peccato dell’uomo (l’eletto di Dio non dovrebbe peccare!), bensì l’uomo in quanto peccatore, in quanto oberato dal peccato, toccato dalla maledizione e dal male; vuole ed approva l’uomo che, come lui, esiste in questa contraddizione, l’uomo che è il suo compagno proprio perché deve dire no al peccato, l’uomo destinato a pronunciare questo no con lui e a confermare così il grande sì divino. Per queste ragioni quest’uomo dev’essere confrontato a sua volta veramente con ciò che Dio ha rinnegato; Dio infatti ha accettato questo confronto distinguendosi ed allontanandosi da quanto è differente da lui e da quanto egli non vuole; ma questo confronto con quanto Dio ha rinnegato (cioè con il male) significa necessariamente per l’uomo (che non è Dio e che quindi non è onnipotente) un confronto con una potenza che gli è superiore. Per questo motivo la vittoria sul male non può avere per l’uomo l’indiscutibile carattere che essa ha per Dio; deve mutarsi in avvenimento e tradursi in storia; la storia di una distretta e di una soppressione, di una morte e di una resurrezione, di un giudizio e di una liberazione, di una disfatta e di un trionfo. Ciò che costituisce in Dio una vittoria semplice, immediata, incontestabile della luce sulle tenebre deve assumere l’aspetto di questa storia

in seno al dominio del creato, cioè per l’uomo, se è vero che Dio ha voluto che l’uomo fosse il testimone della sua gloria. Per divenire avvenimento temporale, la liberazione divina ha dovuto accedere ad una via temporale; poiché Dio vuole l’uomo, l’uomo eletto, ha dovuto volere questo cammino; ha voluto cioè il confronto dell’uomo con la potenza del male, ha voluto che l’uomo lotti con essa, ha voluto che soccomba, appunto perché non è Dio, Ed intende essere proprio lui colui che deve e vuole venire in soccorso dell’uomo in balia ad un potere che lo supera, per dargli la sola vittoria possibile; vuole dunque essere Dio in modo che l’uomo sia obbligato a vivere della sua grazia esclusivamente; vuole che l’uomo sia l’araldo della sua gloria, perché si trova liberato da lui dal dominio del peccato, strappato da lui alla morte che segue la colpa. L’uomo sarà il testimone di Dio, perché Dio stesso interviene in suo favore e prende in mano la sua causa. Conseguentemente, Dio vuole certamente l’homo labilis, ma non perché egli cada: piuttosto perché nella sua condizione di uomo fallibile e decaduto sia il completo testimone della sua gloria. Sceglie questo l’homo labilis non per perderlo ma per elevarlo e risuscitarlo, in virtù della sua onnipotenza, dimostrando così di distinguersi, lui, il Signore, dal campo temporale della creazione. È precisamente questa predestinazione, il cui oggetto è l’uomo voluto e scelto da Dio, a costituire l’elezione eterna di Dio, cioè la somma di tutti i benefici che Dio ha riservato da tutta eternità, prima di creare alcunché, all’uomo, all’umanità, ad ogni individuo particolare ed all’insieme della creazione. L’uomo predestinato a diventare l’araldo ed il rappresentante del sì divino come anche del suo no, a vincere il peccato e la morte ma anche a subire il giudizio, è la promessa e la parola di Dio; è in lui che il Dio-che-elegge da tutta eternità si presenta all’umanità nel suo complesso e ad ogni individuo particolare; è in lui che la sua volontà ci viene incontro; è per mezzo di lui che egli agisce in ciascuno di noi. Tale è la dottrina sopralapsaria separata e sfrondata dai presupposti problematici dell’antica teologia. In ogni caso è così che possiamo rappresentarla un istante, tralasciando questo sfondo. Tolte dal loro contesto, le sue intenzioni e le sue proposizioni principali sembrano anch’esse molto chiare: la sovranità divina, prima ed ultima parola nella questione dei rapporti fra Dio e noi, non deve essere minimamente velata; essa deve però essere compresa come la sovranità del Dio della Bibbia che è giusto e conseguentemente misericordioso, che ha pietà di noi e conseguentemente ci chiama a giudizio; di modo che il pensiero della sovranità divina deve essere

per l’uomo consolazione ed esortazione, anzi la sola consolazione e la sola esortazione possibili. L’uomo peccatore (proprio lui) ha il diritto di considerarsi come l’oggetto dell’amore di Dio e come il testimone della sua gloria; a condizione naturalmente di comprendere che vive unicamente della grazia divina; e che la sua vita sgorgata dalla grazia significa che Dio stesso interviene in suo favore contro il peccato che lui, l’uomo, non può vincere, ma che Dio gli ha promesso di vincere in lui, grazie all’esistenza dell’uomo eletto. All’uomo peccatore non resta che accettare di vivere di questa promessa, concretizzata nell’esistenza di questo uomo eletto. Bisogna riconoscere che, liberata dai presupposti problematici, la tesi sopralapsaria riprende positivamente e rimette in valore la sostanza calvinista comune alle due tendenze. E non si può dire che essa presenti i pericoli inerenti al sopralapsarismo storico. Dio non si manifesta infatti come un essere esclusivamente preoccupato di se stesso e della rivelazione della sua gloria, riducente l’uomo ad un semplice strumento passivo; si presenta invece come un Dio che ama l’uomo e che nel suo amore fa dell’uomo un suo associato: lo fa partecipare al suo sì e di conseguenza anche al suo no, sottomettendolo alla contraddizione di cui lui, come Dio trionfa. Né il Dio sopralapsario così inteso condanna l’uomo a preoccuparsi unicamente della sua salvezza individuale, per la semplice ragione che l’individuo non è in se stesso il fine della rivelazione della gloria divina; la sola possibilità che infatti resta all’essere umano consiste nel cogliere la promessa datagli nell’esistenza dell’uomo unico eletto da Dio; non andremo quindi a cercare la nostra salvezza in una qualche finalità individuale, ma nella partecipazione alla vittoria di questo essere unico, scelto da Dio. Né il Dio sopralapsario così come cerchiamo di comprenderlo può essere confuso con un demone: poiché infatti, tramite la sua decisione iniziale mira, attraverso l’uomo che ha eletto, a rifiutare e a rinnegare il male e poiché in quest’uomo conferisce alla creazione il suo fine ed il suo significato, non si può pensare minimamente che abbia destinato l’opera delle sue mani o una parte di essa a diventare il campo del male. Non è forse il Dio che, nel suo eletto, ha rinnegato antecedentemente l’impero del male all’interno della creazione?; non ha mostrato in quel suo eletto che il male è una potenza che è stata vittoriosamente affrontata e che il regno delle tenebre esiste solo in quanto abolito? Né il Dio dei sopralapsari, così come lo intendiamo, potrebbe provocare nell’uomo quell’indifferenza così pericolosa che scusa le proprie colpe, dicendo che in fin dei conti è Dio a volere il male. Certo, Dio ha voluto il male, ma unicamente nel quadro del suo non-

volere santo e giusto, di cui l’uomo, che egli ha eletto, è chiamato ad essere il testimone e che si realizza nella storia di quest’uomo eletto, conformemente all’autodecisione eterna per mezzo della quale Dio è Dio e non è un non-Dio. Chi dunque, sapendolo o meno, potrebbe essere scusabile di fare il male che Dio ha voluto in questa maniera?; per chi dunque l’esistenza dell’uomo nel quale Dio ha rinnegato il male in nostro favore, non diventerebbe subito un’accusa ed un giudizio?; non sarà certo la grazia di Dio, la cui specificità è di cancellare la colpa, quella che potrebbe permetterci di continuare a peccare. Tutto ciò, beninteso, implica che il sopralapsarismo storico sia decisamente e seriamente corretto e completato: si tratta di lasciare nettamente da parte sia l’interpretazione individualista delle conseguenze della predestinazione e sia la riduzione dell’elezione e della riprovazione ad un sistema immutabile in cui i due termini siano perfettamente equilibrati; si tratta soprattutto di rinunciare all’idolo costituito dal celebre «decreto assoluto» e di sostituire a tutti questi sogni pii la conoscenza dell’uomo eletto, Gesù Cristo, che è l’oggetto propriamente detto della predestinazione divina. Tocchiamo qui il punto che costituisce il vantaggio decisivo del sopralapsarismo sull’infralapsarismo: è possibile lasciare da parte i presupposti su cui riposa, pur salvaguardandone la tesi principale; è possibile, senza alterarla, dare un’accezione cristologica alla nozione di homo labilis; possiamo anzi dire che per cessare di essere una posizione vulnerabile, tale teologia deve essere corretta e completata in questa maniera. Il sopralapsarismo fa pesare una minaccia sui presupposti problematici che sono i suoi, perché enuncia su questo terreno verità che possono effettivamente stupire per la loro audacia, sebbene vi si debba riconoscere una messa in evidenza dell’intenzione calvinista, ma che non devono essere giudicate intollerabili e rigettate come tali a causa della durezza che comportano e dei pericoli che ne conseguono, sempre su questo terreno. Nel quadro di tali presupposti, la posizione sopralapsaria è rimasta forzatamente svantaggiata e non sorprende che essa sia stata considerata il lotto di un certo numero di teologi particolarmente radicali ed eccentrici, suscitanti piuttosto spavento che simpatia; non avrebbe potuto avere udienza ed imporsi che a condizione di obbligare la teologia a rinnovarsi completamente; questo tuttavia è la dimostrazione del suo valore oggettivo e quindi storico: ha fatto avanzare la problematica, sebbene, nella forma che le era propria e nel quadro dei suoi presupposti, restasse incapace di evolvere e di provocare un superamento. Simile non è certo il caso dell’infralapsarismo.

9) L’infralapsarismo è stato in definitiva solo un movimento di opposizione che si è nutrito dei pericoli del sopralapsarismo; ha avuto certo il merito di scorgere tali pericoli e in questo senso la sua protesta è stata giusta; tuttavia i suoi argomenti decisivi non procedono dalla fede, bensì dalla logica e dalla morale. Così la teoria dell’homo creatus et lapsus costituisce non un progresso, ma un regresso, non un miglioramento, ma un indebolimento, rispetto a quanto i sopralapsari intendevano affermare, sostenendo come hanno fatto la stessa verità fondamentale. Rigettando la loro tesi a causa dei pericoli impliciti, l’infralapsarismo ha finalmente difeso una teoria indifendibile. I sopralapsari volevano infatti attestare ad ogni costo la verità seguente: all’inizio di ogni cosa, prima dell’esistenza dell’universo e della storia, vi è il Dio-che-elegge e l’uomo-eletto, cioè il Dio misericordioso e giusto e di fronte a lui, in un faccia a faccia eterno, l’homo labilis in quanto essere peccatore e perduto. Non hanno certo detto, né potevano dirlo dati i loro presupposti ciò che noi abbiamo attribuito al sopralapsarismo liberato da tali ipoteche: e cioè che il Dio-che-elegge da tutta eternità, questo Dio misericordioso e giusto, e questo homo labilis eletto da tutta eternità si chiamano Gesù Cristo. Ma non è contestabile che la dottrina sopralapsaria possa essere completata e corretta in modo da indicare tale direzione ed oseremmo dire che essa richiede simile correzione. È evidente che non si può dire questo dell’infralapsarismo, che anzi blocca ogni possibilità di una correzione cristologica, subordinando il decreto della predestinazione a quello della creazione e della provvidenza ed in un secondo momento a quello della caduta, senza legame intrinseco fra di loro. Per l’infralapsarismo esistono all’origine due tipi di decisione divina che per quanto concerne le relazioni intercorrenti fra Dio e l’uomo (che nel prosieguo si manifestano come volute attualmente ed una volta per tutte dal Creatore) restano oscuri, indeterminati, neutri; è certo giusto rispettare Dio in quanto tale in simili decisioni; ma non è forse presuntuoso pretendere di farci riconoscere in esse il medesimo Dio che si manifesta in seguito come il vero Dio nel quadro delle relazioni attuali e definitive stabilite con noi? In un precedente contesto, lo si ricorderà abbiamo costatato che la predestinazione è stata regolarmente oscurata dal fatto che la si è considerata come un semplice elemento all’interno dell’ordine divino universale e che la si è ritenuta, al seguito di Tommaso d’ Aquino, unicamente come una parte della provvidenza divina; certo non bisogna dimenticare che ponendo in primo piano la questione dell’appropriazione della salvezza il calvinismo delle origini

e la teologia dei Riformatori in generale, hanno posto questa pars providentiae in una prospettiva inedita; ma il sopralapsarismo è andato oltre e si è mostrato come un tentativo, gravido di promesse, di far saltare il quadro divenuto corrente ed obbligatorio dopo Tommaso d’Aquino, come un saggio per rovesciare il rapporto fra predestinazione e provvidenza, in modo che questa non preceda più quella nello sforzo di comprensione. Di fronte a questo tentativo, l’infralapsarismo ha difeso la tradizione che la teologia della Riforma aveva certo smosso, ma che non era riuscita a superare; ha canonizzato, se così si può dire, la tesi tomista, rinunciando così a colaborare al compito che pure s’imponeva, quello di ricercare un’intelligenza più penetrante del dogma calviniano; non aveva infatti nulla da presentare per una migliore comprensione di questo dogma e non ha potuto fare altro che riprendere i temi della tradizione che era stata confermata al Sinodo di Dordrecht. Ha certo formulato un buon numero di avvertimenti utili, ma incapace di enunciare proposizioni suscettibili di segnare una nuova tappa nell’intelligenza positiva della fede comune. L’infralapsarismo è stato conservatore, essenzialmente; per questo gli argomenti fatti valere contro il sopralapsarismo non sono stati, né potevano esserlo, argomenti provenienti dalla fede; e mentre i presupposti comuni alle due tendenze finivano di essere, malgrado tutto, scalzati dal sopralapsarismo (che senza volerlo li poneva in questione), venivano invece rafforzati dall’infralapsarismo. Come abbiamo visto, la posizione infralapsaria ha addolcito quanto la predestinazione aveva di troppo severo, attenuando il rigore di un sistema incentrato sul destino individuale e caratterizzato sia dalla simmetria perfetta dei suoi elementi e sia dal mistero della sua origine nel decreto assoluto; l’ha però fatto rinviando ad una «economia naturale della provvidenza» precedente l’ordine della predestinazione; ha cioè reso possibile, almeno teoricamente, la referenza ad una volontà divina implicante la subordinazione dell’economia della predestinazione. Se tale mitigazione non ha potuto condurre, praticamente, se non ad una catastrofe, aprendo le porte ad una teologia naturale, doveva avere come effetto, sul piano teorico, di nascondere, ancora una volta, i presupposti comuni alle due tendenze, impedendo al male di dichiararsi e rendendo inutile ogni ulteriore riflessione sui fondamenti stessi della dottrina in causa. Il rimedio si è rivelato peggiore del male. Accettando infatti una soluzione rassicurante, la teologia riformata si è condannata a trascinarsi dietro gli avvelenati presupposti comuni, fino al giorno in cui non si è vista costretta ad abbandonarli; era però troppo tardi;

l’illuminismo aveva già dimostrato, qui come altrove, che la sostanza del dogma (partendo dalla quale ormai da tempo si era rinunciato a ragionare con l’intenzione esclusivamente conservatrice ed ansiosa di salvaguardare almeno la concezione teologica tradizionale) era scomparsa, o meglio era diventata talmente estranea ai rappresentanti che dovevano proclamarla che questi ultimi non osavano più prenderla sul serio e difenderla, fosse anche solo in una prospettiva teologica! Nel suo insieme, sembra che il rifiuto della tesi sopralapsaria possa essere annovarato nella categoria dei fenomeni di stanchezza, così caratteristici della teologia del secolo XVII e che ci fanno comprendere perché tale teologia si è trovata così sprovveduta di fronte all’illuminismo; in verità essa racchiudeva già in sé il germe dell’illuminismo e cioè della propria dissoluzione; l’illuminismo teologico non è infatti altro, alla fin fine, che un fenomeno derivante dalla stanchezza esperimentata nel riflettere a partire dalla fede; nella misura in cui si prova tale stanchezza, si doveva necessariamente essere condotti a pensare partendo dall’incredulità. Qualunque cosa si possa obiettare contro le sue espressioni, la corrente sopralapsaria è stata, nella sua sostanza oggettiva in ogni caso, una forma di riflessione che, instancabilmente, ha proceduto dalla fede e come tale è stato un appello pieno di promesse alla teologia del secolo XVII. Se quest’ultima avesse saputo rompere i suoi schemi, si sarebbe presentata ben diversamente all’inizio del secolo XVIII e forse non si sarebbe assistito alla sua dissoluzione. Certo, per raggiungere tale scopo, il sopralapsarismo avrebbe dovuto farsi più autorevole di quanto non si è fatto; poiché si è limitato ad incrinare i presupposti tradizionali senza volerlo, e non li ha attaccati e demoliti con conoscenza di causa, è anch’esso responsabile della stanchezza che ha pervaso tutta la teologia riformata, restando incapace di presentarsi in maniera adatta a convincere; ha dovuto accontentarsi di restare una tendenza tollerata, accanto ad altre, senza riuscire a segnare nella storia del dogma della predestinazione quel progresso che si sarebbe potuti attendere. Per questa ragione non ha saputo dare alla teologia in generale quell’impulso salutare che pure il suo punto di partenza lasciava trasparire; resta tuttavia vero che, prendendo questo punto di partenza nella sostanza stessa del dogma calvinista, il sopralapsarismo ha compiuto un cammino fecondo che vale la pena di riprendere; questo non si può certo dire della posizione infralapsaria. I teologi di questa tendenza non hanno nulla di originale: si trova in essi quanto Calvino e più tardi i maestri del secolo XVII hanno insegnato prima di loro e talvolta meglio di loro; non hanno portato

nulla che possa permettere di risolvere i problemi rimasti in sospeso da allora e soprattutto di dare una risposta migliore alla questione dell’oggetto della predestinazione; hanno semplicemente mostrato che la risposta offerta dai sopralapsari, legata com’era ai presupposti comuni alle due tendenze, era troppo soggetta a cauzione per potere essere soddisfacente. Non sono peraltro riusciti a superarla, sostituendovi un’altra risposta, che fosse migliore. 1. J. COCCEJUS, Summa Theol.: 1662: cap. 37, 2. 2. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol. III, q. 24, art. 1 corpus. 3. Ivi, III, q. 24, art. 1 ad 2. 4. Ivi, III, q. 24, art. 2 corpus. 5. Ivi, III, q. 24, art. 3 sed contra. 6. AGOSTINO, De Civitate Dei XII, 16. 7. ATANASIO, Oratio II Contra Arianos capp. 75-77. 8. A. POLANUS, Synt. Theol. Christ.: 1609: col. 1574. 9. Ivi, col. 1596. 10. Ivi, col. 1570. 11. Ivi, col. 1568 s. 12. Ivi, col. 1596 s. 13. Ivi, col. 1596 s. 14. Ivi, col. 1575 s. 15. A. WALAEUS, Loci communes: 1640: p. 381; cfr. Sinossi di Leiden: 1624, disp. 24, 25. 16. Sinossi di Leiden: 1624: disp. 25, 27. 17. J. WOLLEB, Christ. Theol. Compendium: 1626: I, 4, 9. 18. A. WALAEUS, Loci communes: 1640: p. 380. 19. Ivi, p. 381. 20. Ivi, p. 382. 21. J. COCCEJUS, Summa Theol.: 1662: cap. 33, 7. 22. F. BURMANUS, Synt. Theol.: 1678: I, 38, 23. 23. J. COCCEJUS, Summa Theol.: 1662: cap. 37, 31. 24. F. BURMANUS, Synt. Theol.: 1678: I, 38, 23 e P. VAN MASTRICHT, Theor. Pract. Theol.: 1698: III, 3, 8. 25. F. BURMANUS, Synt. Theol.: 1678: I, 38, 23. 26. J. COCCEJUS, Summa Theol.: 1662: cap. 33, 16 s. 27. Ivi, cap. 34, 22. 28. Ivi, cap. 37, 31. 29. G. SCHRENCK, Gottesreich und Bund im aelteren Protestantismus (vornehmlich bei J. Coccejus, Guetersloh) 1923. 30. G. SCHRENCK (art. ἐϰλεϰτός), in Theologisches Woerterbuch zum Neuen Testament IV, 194 (= Grande Lessico del Nuovo Testamento VI, 523). 31. AGOSTINO, De praedestinatione sanctorum 15. 32. AGOSTINO, De dono perseverantiae 24, 67; cfr. anche Tract, in Joann. 105, 5-7. e Sermo 174, 2. 33. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol. III, q. 24, art. 3 sed contra. 34. Ivi, III, q. 24, art. 3 corpus.

35. Ivi, III, q. 24, art. 4. 36. Ivi, III, q. 24, art. 4, videtur 2. 37. Ivi, III, q. 24, art. 4, ad 3. 38. CALVINO, Congrégation: 1562 = C. R. 8, 108 s; cfr. De aeterna Dei praedestinatone: 1552 = C. R. 8, 306 s e Institution III, 22, 1. 39. A. HEIDANUS, Corp. Theol. Christ.: 1686: I, p. 217. 40. Cfr. soprattutto H. HEPPE, Die Dogmatik der evangelisch-reformierten Kirche, 129 s. e A. SCHWEIZER, Die protestantischen Centraldogmen (in ihrer Entwicklung innerhalb der reformierten Kirche, Zürich) 1856, II, pp. 43 s. e 181 s. 41. H. OTTEN, Calvins theologische Anschauung, p. 91 s. 42. CALVINO, Institution III, 21, 5 e III, 23, 7. 43. ZWINGLI, De providentia 5. 44. W. BUCANUS, Inst. Theol.: 1605: loc. 36, 8 s. 45. A. HEIDANUS, Corp. Theol. Christ.: 1686: I, p. 221. 46. F. TURRETTINI, Inst. Th. Elench.: 1679: IV, q. 9, 22. 47. Ivi, IV, q. 9, 20 s. 48. Ivi, IV, q. 9, 23. 49. Sinossi di Leiden: 1624: disp. 24, 23. 50. H. HEIDEGGERUS, Corp. Theol.: 1700, V, 34 cit. da H. HEPPE, Die Dogmatik der evangelischreformierten Kirche, 130. 51. F. TURRETTINI, Inst. Th. Elench.: 1679: IV, q. 9, 9-14. 52. Ivi, IV, q. 9, 15-19. 53. Ivi, IV, q. 9, 4. 54. P. VAN MASTRICHT, Theor. Pract. Theol.: 1699: III, cap. 2, 12 s. 55. Catechismo di Heildelberg: q. 26.

2. LA VOLONTÀ ETERNA DI DIO NELL’ELEZIONE DI GESÙ CRISTO Abbordando la questione dell’elezione di Gesù Cristo, abbiamo presentato e sviluppato due tesi, partendo dal testo di Gv. I, 1 ss. Abbiamo detto in primo luogo: Gesù Cristo è il Dio-che-elegge e questa prima tesi corrisponde al problema del soggetto dell’elezione eterna e gratuita. Abbiamo detto in secondo luogo: Gesù Cristo è l’uomo-eletto e questa seconda tesi corrisponde al problema dell’oggetto dell’elezione eterna e gratuita. Ad essere precisi, tutto il dogma della predestinazione è racchiuso in queste due proposizioni e tutto quanto dovremo dire in seguito non sarà che una spiegazione ed un’applicazione della verità qui enunciata. Le due proposizioni che abbiamo sviluppato costituiscono un’unità indissolubile: come sicuramente si rapportano a Gesù Cristo, così altrettanto sicuramente in lui Dio e l’uomo sono rispettivamente il soggetto e l’oggetto dell’elezione, che si devono considerare sempre in coappartenenza perfetta, che nulla potrebbe mettere in questione. Gesù Cristo è all’inizio con Dio. Ecco quanto è la predestinazione. Tutti i contenuti e tutti i rapporti racchiusi in questa nozione, risiedono originariamente in lui e devono essere compresi partendo da lui. Ci siamo già scartati troppo dalla strada tradizionale, perché non sia necessario spiegarci con grande cura sulla necessità e sulla portata del principio cristologico che è al punto di partenza della dottrina della predestinazione, così come la esponiamo qui. A. LA VOLONTÀ ETERNA DI DIO È L’ELEZIONE DI GESÙ CRISTO Cominciamo stabilendo un punto che si riferisce alla teoria della conoscenza (della predestinazione). Ecco la nostra tesi: la volontà eterna di Dio s’identifica con l’elezione di Gesù Cristo. Così dicendo ci separiamo da tutte le interpretazioni nelle quali il soggetto e l’oggetto della predestinazione (cioè il Dio-che-elegge e l’uomo-eletto) sono definiti come grandezze che, in definitiva, ci restano sconosciute e si trovano abbordate come tali. 1. Novità dell’impostazione. Quando si afferma che il Dioche-elegge è, nella sua onnipotenza, nella sua sapienza, nella sua giustizia e nella sua misericordia, l’essere supremo che dispone liberamente di tutte le cose e che possiede anche e soprattutto il diritto ed il potere assoluto di fissare la nostra sorte, il destino di noi uomini, è certo che ci si riferisce ad una grandezza che ci resta sconosciuta. Nel contempo ci si pone ugualmente di fronte ad una grandezza sconosciuta affermando che l’uomo-eletto è il risultato del

beneplacito divino, l’essere che Dio ha destinato da tutta eternità ad entrare in comunione con lui. È impossibile non costatare come questa duplice oscurità pesi anche sulle teorie dei rappresentanti e dei dottori più eminenti del dogma della predestinazione, a tal punto che, nelle sue espressioni più consequenti, il dogma stesso ha finito per assumere la forma di una predicazione il cui risultato è di farci credere che da entrambe le parti (cioè dalla parte di Dio e dalla parte dell’uomo) tutto resta e deve restare oscuro per noi. Affermando che la volontà eterna di Dio s’identifica con l’elezione di Gesù Cristo, rifiutiamo nella maniera più netta l’idea che esista qui una zona oscura. Così facendo non attentiamo certo al mistero della libertà di Dio, nella sua volontà eterna nei confronti dell’uomo; questo mistero esiste e concerne anche noi; si tratta infatti del mistero di Dio, ma anche contemporaneamente del mistero dell’uomo, poiché l’uomo è introdotto nel mistero divino dalla divina volontà eterna. Il problema che solleviamo concerne invece il carattere di questo mistero: nel suo aspetto semplice e duplice, è una luce incomprensibile o un’oscurità impenetrabile? Si tratta di sapere se dobbiamo discernere ed adorare in questo mistero la maestà di un Dio che ci è conosciuto o quella di un Dio che ci è sconosciuto. Si tratta parimenti di sapere se l’uomo confrontato alla maestà di questo Dio ci è conosciuto o ci permane sconosciuto. La storia del dogma della predestinazione è senza dubbio segnata continuamente da uno sforzo unico e prodigioso, teso a mostrare che il mistero dell’elezione è luce e non oscurità e che il Dio-che-elegge, come l’uomo-eletto, sono per noi grandezze conosciute e non sconosciute; ma questo sforzo non può raggiungere il suo scopo se non si osa fare il passo che vogliamo fare e che abbiamo già fatto nella nostra tesi; tutto resta oscuro fino a quando non si afferma che, nella predestinazione divina eterna, si ha a che vedere, da tutte e due le parti, ad un nome e ad una persona, e che si tratta, da entrambe le parti, del medesimo nome e della medesima persona, cioè Gesù Cristo. Bisogna che questo passo sia compiuto; altrimenti il soggetto o l’oggetto della predestinazione (anzi generalmente l’uno e l’altro) finiscono di perdersi ancora una volta in questa zona oscura di cui abbiamo parlato; conseguentemente si dovrà necessariamente continuare a dire che la dottrina della predestinazione si riduce a qualche oscuro arcano. Non possiamo perdurare in questa specie di gioco artificiale, sterile e così poco cristiano con il mistero, che può sì provocare (come di fatto ha provocato) fremiti di terrore o di gioia, ma che, lungi dall’edificare, non perviene se non a distrarre ed a

demolire. Fin che dalla parte di Dio, o dalla parte dell’uomo, o da entrambe le parti (come accade generalmente), accettiamo di essere condotti in qualche zona oscura e di restarvi, fin quando cioè pensiamo di non avere diritto di conoscere e neppure di cercare di conoscere l’identità del Dio-che-elegge e dell’uomo-eletto, non basta che ci si assicuri continuamente che è doveroso tacere davanti al mistero, per adorare e diventare molto umili; per poter tacere, adorare e diventare molto umili così come è richiesto (e non in altro modo) dobbiamo infatti sapere con chi e con che cosa ci incontriamo; occorre che il mistero stesso ci sia manifesto, abbia cioè un carattere ben preciso, il cui valore ed il cui potere siano tali da condurci ad un silenzio, ad un’adorazione, ad un’umiltà altrettanto precisi. Altrimenti si produrrà l’inevitabile: cercheremo di colmare noi stessi la lacuna costatata ed identificheremo di nostra iniziativa l’elemento che ci resta sconosciuto; lo faremo dandogli un nome qualsiasi e lo definiremo aiutandoci con un qualsivoglia concetto o andremo a cercarlo in questa o quell’altra realtà arbitrariamente; allora saremo a punto per adorare nel silenzio e nell’umiltà questa o quella immagine di Dio o dell’uomo elaborata da noi stessi. Certo, coloro che ci rinviano ad una zona oscura non hanno mai avuto l’intenzione di farci cadere nell’idolatria, ma non potranno affatto impedire di arrivare a questi estremi, fin quando rifiuteranno (come hanno fatto malgrado tutto i rappresentanti del dogma tradizionale della predestinazione) di mostrarci il vero aspetto del mistero che possiamo e dobbiamo affrontare nel silenzio, nell’adorazione, nell’umiltà che sono richiesti, non procedenti dal nostro arbitrio, ma esigiti dall’oggetto stesso.

Ci si può chiedere perché non si sia osato avanzare come cerchiamo di fare qui, nella direzione indicata dalla vera statura del Dio-che-elegge e dell’uomo-eletto, quando molto sovente si è stati così vicini ad imboccare tale sentiero. Vi è qui un grande enigma storico. Ma non vi è certo nessun enigma nel fatto che, date queste circostanze, la dottrina della predestinazione non abbia potuto affermarsi ed imporsi in modo che fosse riconosciuta quell’importanza fondamentale che le si attribuiva in maniera pressocché generale, dando invece adito a tanti disgraziati sviluppi a destra o a manca, o finendo di essere messa da parte come una specie di scandalo. Tutto questo è stato di serio pregiudizio per la riflessione che, proprio su questo punto, deve essere molto rigorosa, compromettendola invece fin dal principio, poiché il gioco cui abbiamo accennato con i misteri di Dio finisce per essere l’estrema ed unica possibilità.

2. Legittimità dell’innovazione. Il fatto di aver facilmente compiuto un passo in una direzione nuova e di aver osato fare tanto è sufficientemente importante da obbligarci a chiedere, ancora una volta, se ne avevamo diritto e permesso. Abbiamo ragione?; la nostra tesi, che presenta l’elezione di Gesù Cristo come la sostanza del dogma della predestinazione non è forse anch’essa una proposizione arbitraria, in cui oltrepassiamo i nostri diritti?; il fatto stesso

che, per mezzo di questa tesi, la duplice oscurità di cui abbiamo parlato si trovi dissipata, il fatto che ormai il Dio sconosciuto e l’uomo sconosciuto di cui è stata questione assumano un solo ed identico viso conosciuto, ricevano un nome, il nome di una persona, cosicché d’ora innanzi sappiamo davanti a chi e davanti a che cosa dobbiamo ammutolire, adorare ed umiliarci, questo fatto apre prospettive talmente insolite (rispetto a quanto si trova nella storia del dogma della predestinazione) che ci si può ben chiedere se riposi su dati esatti e se alla fin fine non si possa dire che abbiamo sollecitato la verità. Donde sappiamo noi dunque che Gesù Cristo è il Dio-che-elegge e l’uomoeletto, di modo che sia necessario rapportare ormai a questo denominatore comune tutto quanto resta da dire sul mistero dell’elezione? Se cerchiamo di comprendere come, da parte loro, i rappresentanti del dogma tradizionale sian giunti a pensare che Dio e l’uomo restano qui delle grandezze alla fin fine sconosciute, dobbiamo subito costatare che essi hanno evidentemente ragionato partendo da certi sistemi rilevanti più da considerazioni filosofiche sull’origine e lo sviluppo dell’essere nel suo divenire che dalla confessione di fede determinata da una concezione cristiana di Dio e dell’uomo. Evidentemente hanno meditato sui problemi della causa e dell’effetto, dell’infinito e del finito, dell’eternità e del tempo, dell’essenza e del fenomeno, cercando di trarre le conseguenze di questa riflessione; hanno così affrontato in primo piano ed al livello supremo la volontà sovranamente decisiva del Dio sconosciuto ed in un secondo momento la questione del destino dell’uomo, anch’esso sconosciuto. Tuttavia non abbiamo il diritto di dimenticare che anch’essi hanno letto attentamente la Bibbia e che nella loro dottrina della predestinazione hanno avuto anch’essi l’intenzione di commentare il passaggio di Rom. IX-XI come tutti gli altri testi della testimonianza rivelata a questo riguardo; ed è chiaramente la Bibbia (compresi testi come Ef. I, 4 e consimili) che invece di spingerli sul terreno su cui adesso noi siamo situati, li ha spinti a confermare l’idea di postulare, all’inizio di tutte le cose, l’esistenza di una duplice zona oscura inglobante Dio e l’uomo; la ragione per cui hanno fatto ed hanno potuto fare questo, come pure il motivo per cui noi non lo possiamo fare e non lo facciamo, devono essere molto profondamente motivati. Che i nostri predecessori si siano legati ad uno schema intellettuale specifico, non proveniente dalla Bibbia e che vi abbiano fatto ricorso anche per leggere questo libro e che noi, per parte nostra ci siamo liberati da tale schema, questo fatto da solo non potrebbe fornire in maniera decisiva il motivo ed il

contromotivo che si deve qui mettere in valore. È la lettura della Scrittura in se stessa e come tale che deve suscitare la decisione qui. E si tratta della decisione che implica la questione seguente: dove dunque e come dobbiamo riconoscere, nella Bibbia stessa, il Dio-che-elegge e l’uomo-eletto, cioè la realtà dell’elezione divina nella sua globalità, realtà su cui è chiesto di orientarci e che deve formare l’oggetto della nostra riflessione e della nostra esposizione? I passi biblici che menzionano direttamente ed esplicitamente l’elezione e la predestinazione sono relativamente poco numerosi e si dovrà costantemente tenerli in conto; ma di che cosa precisamente parlano questi brani?; in quale direzione ci invitano a fissare la nostra attenzione? È bene domandarci subito se il tema di cui trattano non debba essere considerato come lo sfondo necessario di tutte le altre dichiarazioni relative alla storia intercorrente fra Dio e l’uomo. In altri termini dobbiamo chiederci se possiamo comprendere tutto quanto ci è attestato dalla Bibbia sull’azione di cui l’uomo è oggetto da parte di Dio in maniera diversa che in funzione di questo sfondo, cioè come l’azione del Dio-che-elegge sull’uomo-eletto. Esegeticamente ci troviamo concordi con tutti i rappresentanti del dogma della predestinazione; dato il suo contenuto, il concetto di predestinazione fa parte delle nozioni fondamentali e continuamente riprese, che la Bibbia utilizza per parlare di Dio e dell’uomo, anche là dove i testi non lo nominano espressamente; il Dio eterno attestato dalla Bibbia è il Dio-che-elegge. Agisce infatti in questa maniera anche quando passa semplicemente, anche quando rigetta o si irrita, anche quando si limita a fare dell’uomo un semplice organo esecutivo dei suoi disegni. E l’uomo stesso, l’uomo situato nel tempo, è sempre (in un modo o in un altro) l’oggetto dell’elezione divina: si tratti di Ismaele o di Esaù, del Faraone o di Saul, di Ciro o di Giuda Iscariota, dei popoli o degli individui pagani vicini o lontani, tutti sono eletti, almeno virtualmente, come testimoni della scelta divina; anche gli uomini che Dio riprova o che semplicemente utilizza, rilevano della sua opzione. Inoltre concordiamo con i rappresentanti classici della dottrina della predestinazione su un altro punto ancora, quello rapportantesi alla testimonianza biblica concernente l’opera della creazione, della riconciliazione, della redenzione; come noi, anch’essi hanno compreso, con chiarezza più o meno grande, che il nome e la persona di Gesù Cristo costituiscono il centro ed il coronamento di tutto quanto Dio dice e fa, il senso ed il fine di tutte le sue intenzioni; in questa prospettiva non si potrà certo porre Gesù Cristo in posizione più eminente di quanto non abbiano fatto

Agostino e Calvino ed a modo suo anche Tommaso d’Aquino, né sottolineare più di loro il suo ruolo centrale e teleologico nell’opera divina. Se le nostre vie divergono, il punto di frizione è nella relazione fra la predestinazione e la cristologia. Esiste una linea che conduce da questa a quella, che vada cioè dal centro e dalla finalizzazione cristologica dell’opera di Dio nel tempo (così ben colti dall’antica teologia) al presupposto eterno di questa medesima opera divina (che anche l’antica teologia ha riconosciuto), una linea cioè che significhi che la dottrina della predestinazione esiga di essere spiegata partendo dalla cristologia, essendo Gesù Cristo la sostanza stessa di questa dottrina? Ascoltando correttamente la testimonianza biblica, si può trascurare di partire dal centro dell’opera divina nel tempo, se si vuole cogliere parimenti il presupposto di questa medesima opera in seno all’eternità? Il fatto è che gli antichi rappresentanti del dogma della predestinazione non hanno voluto tracciare la linea di cui parliamo; si sono rifiutati di stabilire un’equazione; l’opera di Dio con centro in Gesù Cristo è una cosa, il presupposto eterno di tale opera è per loro un’altra. Certo intendevano ben riconoscere Dio stesso (ed il Dio trinitario) in questo presupposto; ma lo definivano in maniera diversa da come lo vedevano agire nella sua opera; lo vedevano nell’indeterminatezza, diversamente da come si presenta quando agisce nel tempo, separandolo provvisoriamente dal nome e dalla persona di Gesù Cristo, non riconoscendolo di conseguenza, alla fin fine, identico a quest’ultimo. Parimenti consideravano senz’altro l’uomo come oggetto propriamente detto della predestinazione; ma pensavano all’uomo in generale (al genere umano nel suo insieme o alla somma degli individui come tali) e non, in ogni caso, all’uomo identico a Gesù Cristo. Infine discernevano anch’essi una linea che va da Dio all’uomo, dal presupposto eterno dell’opera divina al centro ed alla finalizzazione di quest’opera in Gesù Cristo; ma secondo la loro comprensione della Scrittura, questa linea doveva essere invertita; anche in relazione al centro ed alla finalizzazione dell’opera divina e del tempo la predestinazione eterna doveva costituire un dato primo ed indipendente, determinante un confronto fra Dio e l’uomo, diverso da quello prodottosi nel tempo in Gesù Cristo. Secondo loro, la decisione intervenuta tra Dio e l’uomo (la decisione in Gesù Cristo), con tutto ciò che essa implica, non poteva che prodursi in un secondo momento; in queste condizioni diventava semplicemente impossibile dare una risposta concreta alla duplice questione concernente l’identità del Dio-che-elegge e dell’uomo-eletto; parimenti la dottrina della predestinazione finiva di essere necessariamente condannata a

divenire oscura su questi due punti. Senza Gesù Cristo, il Dio trinitario non possiede per noi né viso né linguaggio: è e resta il Dio sconosciuto; e se non conosciamo l’identità del Dio-che-elegge, a chi e a che cosa potremo aggrapparci per conoscere l’uomo-eletto?; come quest’uomoeletto non finirà per restare per noi uno sconosciuto? Checché ne sia, l’antica teologia si è arenata qui e per farlo ha creduto di potersi rilegare anche (e precisamente!) alla testimonianza della rivelazione contenuta nella Sacra Scrittura. Se incominciamo a contraddirla su questo punto è perché riteniamo che la sua esegesi abbia seguito la linea di una decisione ermeneutica generale che in se stessa è contestabile e che non possiamo condividre. I migliori fra gli antichi teologi ci hanno insegnato a cercare e a trovare, con estremo rigore, nella parola la cui specificità è di chiamare, di giustificare, di santificare e che costituisce il contenuto della testimonianza biblica della rivelazione, la Parola stessa di Dio, accanto, al di sopra ed al di là della quale non è possibile situarne alcun’altra, alla quale dobbiamo rimanere fedeli per il tempo e per l’eternità, che ci lega definitivamente, nella quale dobbiamo porre ogni nostra confidenza; questa Parola non ci consente di ascoltare una voce diversa dalla sua; non ci autorizza ad accogliere nessun’altra concezione di Dio o dell’uomo, diversa da quella che ci è rivelata; concentra i nostri pensieri su tale concezione e ci fissa su di essa senza infingimenti, mettendoci in guardia contro ogni distrazione; intende rispondere in maniera sufficiente a tutte le nostre questioni, perché al di fuori di questa parola nulla vi è di sufficiente né in teoria né in pratica. L’opera di Dio nella sua totalità è contenuta in questa Parola e vi si trova rivelata in maniera perfetta; non si dà dunque nessun punto della conoscenza dell’opera di Dio che possa risiedere altrove da questa Parola; non vi è nessuna conoscenza dell’opera divina che possa condurci ad una profondità differente da quella di questa Parola. Inoltre i migliori fra gli antichi teologi (che furono ugualmente i rappresentanti classici del dogma tradizionale della predestinazione) ci hanno appreso che questa Parola di Dio in sé perfetta ed insuperabile, dobbiamo cercarla e trovarla con piena sicurezza nel nome e nella persona di Gesù Cristo, nell’unità realizzata in lui della vera divinità e della vera umanità, come nell’opera compiuta per mezzo di lui in questa unità; ci hanno anzi avvertiti con insistenza che per conoscere Dio e l’uomo dobbiamo evitare di scartarci, anche solo di poco, dalla conoscenza di Gesù Cristo; in altri termini ci hanno fermamente messi in guardia contro la tentazione d’immaginare Dio e l’uomo o di pretendere di sapere qualcosa a loro riguardo, al di fuori della contemplazione di Gesù

Cristo. Basti pensare qui alle grandi affermazioni del Nuovo Testamento, illuminate in maniera così feconda da quelle dell’Antico: Gesù Cristo ha ricevuto ogni potere in cielo e sulla terra, in lui Dio ha deciso di ricapitolare ogni cosa, in lui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza, in lui solo si ha salvezza, non esiste nessun altro nome che sia stato dato agli uomini per loro salvezza, è lui quegli che inizia e quegli che porta a compimento la nostra fede. Come si può prendere più sul serio e spiegare in maniera più penetrante tutte queste affermazioni particolarmente esplicite, se non riferendosi alla testimonianza messianica dei due Testamenti, come hanno fatto i teologi suaccennati, trattando i testi in cui vi sono questi elementi? Tuttavia resta una questione: hanno scrutato questi testi con sufficiente perseveranza?; sono sempre stati fedeli a questa direzione abbordando il problema della predestinazione?, ne hanno veramente tenuto conto, come si è in diritto di attendersi, ed hanno seguito le indicazioni capitali che pure hanno dato e di cui non potremo mai essere abbastanza riconoscenti? Dobbiamo rispondere di no. Quando s’imbattono nei passi biblici trattanti esplicitamente del Dio-che-elegge o dell’uomo-eletto o di entrambi, quando trovano la menzione del decreto eterno, premeditato ed incrollabile di Dio o dell’uomo determinato da tale decreto, sembra (cosa assai curiosa) che il loro sguardo scivoli improvvisamente da un’altra parte, verso qualche altezza o profondità divina situata al di là della Parola di Dio la cui specificità è di chiamare, giustificare e santificare, questa Parola che pure hanno esaltato come fonte e norma di ogni conoscenza di Dio e dell’uomo. Ecco che pare loro necessario passare qui accanto a Gesù Cristo, per cogliere Dio e l’uomo in una maniera diversa da quella dell’unità realizzatasi in lui; postulano senza ambagi l’esistenza di un’eternità differente da quella della vita eterna di cui tuttavia non cessano di affermare chiaramente e fortemente che è rivelata, presentata e donata come regalo dalla Parola di Dio, pronunciata nel quadro temporale e divenuta essa stessa carne; ed in questa eternità, discernono ancora un altro mistero, differente da quello che pure ammettevano, sulla base di testi non equivoci del Nuovo Testamento, svelato e manifestato in Gesù Cristo. Abbordando la questione del Dio-che-elegge e dell’uomo-eletto, gli antichi teologici provano il bisogno di riferirsi ad una realtà diversa e ad una conoscenza diversa da quelle su cui pure affermano che riposi la chiesa, che ad esse si trova indissolubilmente legata. Ecco che sorge allora, improvvisamente, nel campo della predestinazione eterna, una grandezza assolutamente estranea, proprio nel momento in cui pare stabilito per altra strada che il

riconoscimento di una qualsiasi altra grandezza non possa entrare in conto per la chiesa, data la testimonianza biblica della rivelazione su cui si edifica. Ora la questione, anche qui, non è affatto una questione secondaria ed accidentale, bensì vitale, come riconoscevano gli antichi teologi; porta sull’origine di tutte le cose, sulla conoscenza del decreto divino promulgato nel quadro dell’eternità pretemporale e valido non solo per il tempo nel suo insieme, ma anche per l’eternità postemporale, decreto assolutamente decisivo per la salvezza o la perdizione, la vita o la morte di ciascun individuo; la posta del dibattito è la retta conoscenza dell’economia che presiede al regno ed alla signoria di Dio, con tutto ciò che questo comporta per l’esistenza, la salvaguardia, la storia ed il destino della creazione e dell’uomo medesimo. In una sola parola: il punto che si tratta di mettere in chiaro è il seguente: che cos’è, alla fin fine, la decisione divina? Nessuno può negare l’attualità e l’urgenza di tale interrogazione. Che per risolvere questo problema l’antica teologia si sia ritenuta dispensata dal restare fedele al principio ermeneutico che pure aveva rigorosamente affermato e che, dopo aver molto bene applicato tale principio in altri campi, abbia rinunciato a farlo qui, è un fatto di portata incalcolabile; ed è assai sorprendente la facilità con cui gli antichi teologi si sono liberati, nel caso specifico, dell’obbligo di rispettare la coerenza della testimonianza scritturistica (che pure avevano brillantemente messo in evidenza); come se fosse naturale, non hanno esitato a subordinare l’unità biblica nella sua attestazione unanime e a presentare come dottrina della predestinazione una costruzione astratta, incompatibile con questa unità e con la testimonianza cristiana che pure era loro abituale, proprio quella testimonianza che qui finisce di essere posta in questione nel suo punto più sensibile, cioè nel suo punto di partenza. Che un’esegesi coscienziosa dei testi biblici esplicitamente concernenti la predestinazione abbia reso inevitabile tale cammino, è una cosa che non si può sostenere; bisogna leggere i testi in causa (come d’altronde tutti i testi) nel loro rapporto con l’insieme della Scrittura, cioè comprendendo che la Parola di Dio è il contenuto della Scrittura; la loro esegesi dipende strettamente da questo: essere deciso a rimanere fedeli, nella spiegazione, al contesto in cui si trovano di fatto e nel quale intendono essere letti. La tentazione filosofica stessa non poteva obbligare i teologi antichi a scantonare nella strada che hanno seguito; non avevano forse opposto su tutti gli altri punti una resistenza senza soste?; non era quindi inevitabile soccombere precisamente qui. Lo schema intellettuale umano che è il nostro lotto non poteva diventare pericoloso, se non si fosse presa la decisione previa

di allontanarsi dalla linea biblica. Questa decisione, da cui deriva in definitiva tutto il resto, è precisamente il cammino che non ci è consentito ripetere qui; non possiamo continuare ad analizzare, in questo contesto, le ragioni che spiegano tale decisione e non abbiamo bisogno di conoscere i motivi che l’hanno determinata nel suo svilupparsi; non possiamo che costatare questo: il cammino di cui parliamo è avvenuto e si è giunti in un vicolo cieco, della qual cosa un buon numero di gente avveduta non ha ancora preso coscienza. Ci è impossibile approvare questo cammino. Dobbiamo prendere una decisione diversa. Alla decisione ermeneutica generale dell’antica teologia opponiamo la nostra decisione: per quanto concerne l’esegesi dei passaggi biblici riguardanti esplicitamente l’elezione, consideriamo di dover riguardare esattamente nella medesima direzione, che presiede a tutta l’esegesi della Scrittura. Dobbiamo mantenerci saldi al fatto che la parola che si rivolge a noi nella Scrittura e che forma il contenuto di questo libro, è in se stessa e come tale la Parola di Dio perfetta ed insuperabile sotto ogni aspetto, che nella rivelazione ci manifesta completamente tutta la conoscenza di Dio e dell’uomo; non ci è mai permesso scartarci da questa Parola, essendo essa, in se stessa, la somma di tutto quanto è indispensabile e desiderabile sapere su Dio e sull’uomo, sulla loro relazione, sull’economia che guida questo rapporto; non dobbiamo quindi mai, sotto qualsiasi pretesto, crederci dispensati dal conoscere autenticamente Gesù Cristo o lasciarci portare alla deriva lontano da questa conoscenza. Perché ci sarebbe permesso o comandato di farlo proprio qui? Ci troveremmo concordi con gli antichi teologi (o almeno con la maggior parte di essi) se dovessimo definire la santificazione, la chiesa, la speranza; come noi essi insegnano infatti che secondo la Bibbia la santificazione dell’uomo altro non è che l’opera compiuta una volta per tutte da Gesù Cristo, che la chiesa altro non è che la vita del corpo terrestre che possiede in Gesù Cristo il suo capo celeste e di conseguenza il suo soggetto, che la speranza che ci sostiene è rigorosamente identica a Gesù Cristo, che ritornerà per esercitare il suo giusto giudizio, per mezzo del quale quanti credono in lui avranno accesso alla vita eterna. Perché dunque e con quale diritto si deve enunciare una proposizione che non contiene più il nome di Gesù Cristo allorché si tratta di comprendere e di spiegare quello che questa medesima Bibbia chiama l’elezione o la predestinazione?; donde traiamo la possibilità di guardare improvvisamente in un’altra direzione?; come possiamo porci da un punto di vista che ci permetta di enunciare improvvisamente quanto, generalmente ed in accordo con gli

antichi teologi, non ci sarebbe consentito fare? Quando applichiamo la nostra riflessione all’eternità pretemporale (cioè al campo della predestinazione, alla realtà che è all’inizio presso Dio) dobbiamo forse astrarre improvvisamente dal nome di Gesù Cristo, mentre simile cammino ci è giustamente proibito nel campo concernente l’eternità sopra- e postemporale (cioè nel campo del ciò che è e del ciò che sarà)?; Gesù Cristo è colui che è, che era e che sarà oppure no?; se lo è veramente, che cosa potrebbe autorizzarci od obbligarci a non trarre tutte le conseguenze, cioè a non riferirci all’origine reale di ogni cosa in Dio? In una sola parola: come non essere condotti a comprendere anche la predestinazione di Dio, la sua elezione gratuita eterna, come un avvenimento che avviene per mezzo di Gesù Cristo ed in lui?; come la nozione di elezione divina potrebbe rinviarci ad una realtà differente da Gesù Cristo, il quale (poiché è la nostra santificazione, poiché è la testa della chiesa, poiché è la nostra speranza) deve essere anche il Dio-che-elegge e l’uomo-eletto in una sola e medesima persona?; che cosa potrebbe essere e significare l’elezione nella Bibbia se la si può separare dal nome e dalla persona di Gesù Cristo?; non è forse a questo nome ed a questa persona che, sotto forma di attesa o sotto forma di ricordo, tutto quanto il contenuto della Bibbia si riferisce senza il minimo equivoco, vedendo in questo nome e in questa persona la manifestazione esaustiva di Dio stesso? Solo in un contesto differente da quello della Sacra Scrittura le nozioni di elezione, di predestinazione divina, di decreto eterno possono rinviare ad altra cosa, a quella duplice zona oscura, ad esempio, in cui Dio e l’uomo diventano grandezze sconosciute. La decisione ermeneutica degli antichi teologi ci resta incomprensibile. Se imbocchiamo un’altra strada, non pretendiamo tuttavia di fare opera originalmente straordinaria; riteniamo anzi di compiere il cammino più semplice e più facile che ci sia; quello che resta la sola possibilità secondo il metodo che gli antichi dottori hanno adottato giustamente dovunque in altri campi. Per questo riteniamo di poter scartare subito il rimprovero di coloro che pretendessero accusarci di innovazione arbitraria o di pretendere di conoscere, su questo punto, qualche cosa che permane inconoscibile; noi sappiamo che Gesù Cristo è il Dio-che-elegge e l’uomo-eletto; questa conoscenza ci deriva esattamente dalla fonte cui ha attinto l’antica teologia, quella medesima sorgente cui pretendeva attingere anche qui, sebbene non ne sia manifestamente il caso, sebbene se ne sia manifestamente allontanata su questo punto. Correggere e riparare questa arbitrarietà dell’antica teologia è il

nostro proposito. E se la tesi che difendiamo è suscettibile di apportare qualche luce su un punto che, nella dottrina della predestinazione dell’antica teologia, resta molto oscuro, crediamo di potere precisare che tale chiarezza non è stata fatta brillare arbitrariamente: si tratta infatti della luce che ci è data e che ci rischiara in qualsiasi altro punto della teologia e che, nel campo che ci occupa qui, non vediamo alcuna ragione di porre eccezionalmente sotto il moggio. La nostra tesi d’altronde non fa che riprendere l’intenzione che John Knox ed i suoi collaboratori hanno chiaramente messo in evidenza, senza naturalmente svilupparla, nella Confessio Scotica del 15601. Cristologia e dottrina dell’elezione sono considerate, almeno fino ad un certo punto, come due elementi paralleli in questa confessione di fede; conseguentemente sono trattate insieme; «l’unione sovranamente miracolosa della divinità e dell’umanità in Gesù Cristo» da un lato e la nostra salvezza dall’altro hanno la loro origine ed il loro fondamento nel medesimo decreto eterno ed immutabile di Dio. L’art. 7 rinvia semplicemente a questo decreto per rispondere alla questione concernente il perché dell’incarnazione ed in tale risposta è molto conciso. Ma a dire come l’elezione di Gesù Cristo sia in primo piano ci pensa l’art. 8, in cui la sostanza corrente della dottrina della predestinazione calviniana (culminante nell’elezione o nella riprovazione degli individui particolari) è semplicemente ricondotta ad Ef. I, 4. Nel contempo si spiega anche perché Gesù Cristo ha dovuto essere vero Dio e vero uomo: per essere nostro capo, nostro fratello, nostro pastore, il Messia ed il Redentore, la vittima del castigo da noi meritato ed il vincitore della morte di cui noi siamo passibili. Quanto alla nostra elezione o alla nostra riprovazione, in tanto in quanto costituiscono l’altro aspetto del decreto eterno ed immutabile, è evidente che per la confessione scozzese tutto quanto conviene dire si trova già enunciato nelle tesi relative a Gesù Cristo, cioè al suo essere vero Dio e vero uomo, il che postula il medesimo decreto eterno ed immutabile. Non è certo per caso che precedentemente2 questo documento confessionale invece di sviluppare, come era abitudine, una dottrina autonoma del peccato, espone il problema della caduta unicamente sotto forma di corollario riferito al destino primordiale dell’uomo ed il problema del peccato originale unicamente per introdurre il tema della fede in Gesù Cristo, così come la suscita lo Spirito Santo. È chiaro che Knox intendeva interpretare il fatto del peccato solamente in questo contesto e non come elemento a parte; che l’uomo sia contro Dio, è un fatto certamente importante ed estremamente

serio; ma vi è qualcosa di ancora più importante e di più serio: Dio è in favore dell’uomo in Gesù Cristo. Solo questo fatto permette di comprendere la portata e la gravità del peccato. Non si può certo misconoscere che nella confessione scozzese esiste un legame intrinseco fra la maniera con cui si considera la realtà del peccato e quella, cristologica, con cui si guarda alla predestinazione. Ai nostri giorni spetta a Pierre Maury il merito di aver messo in rilievo in una maniera tutta nuova il significato ed il fondamento cristologici della dottrina della predestinazione, dimostrando in particolare, con grande pertinenza, che Gesù Cristo è l’oggetto dell’elezione e della riprovazione divina. Lo ha fatto in una conferenza pronunciata al Congresso Internazionale di Teologia Calvinista tenuto a Ginevra nel 1936 e tutto incentrato sul problema della predestinazione. Leggendo gli Atti di tale Congresso è subito evidente la distanza che separa l’esposizione così nuova e così ricca di insegnamento di Maury dagli altri lavori e dalle altre discussioni storicamente molto interessanti, ma che, per il fondo, restano tributari delle diverse maniere tradizionali di formulare le questioni e che sono gravati dagli assiomi che pesano uniformemente su queste ultime3. Astrazione fatta da queste due voci, la prima appartenente ai tempi della Riforma e la seconda all’epoca contemporanea, per giustificare la nostra tesi pensiamo di ricollegarci anche a tre altre specie di testimonianze: innanzitutto i passaggi citati di Atanasio, Agostino e Coccejus che, beninteso, restano isolati, ma che proprio nel loro contesto sono oltremodo significativi; in secondo luogo il fatto che alla luce della disputa fra sopralapsari ed infralapsari, la soluzione cristologica appare come l’unica possibile; infine la tesi generale dei Riformatori (che richiede di essere approfondita e completata con urgenza) sul Cristo come specchio dell’elezione. La nostra tesi non è dunque arbitraria; storicamente parlando esistono importanti referenze che la motivano e che la rendono persino necessaria; tuttavia non ci dissimuliamo che, avendola enunciata come l’abbiamo enunciata, siamo fino ad un certo punto solitari. Bisogna però ripetere che è strano sia così. È strano che proprio qui dove la verità balza immediatamente agli occhi, debba essere enunciata ed esposta come se si trattasse di una novità. B. LA PREDESTINAZIONE COME DETERMINAZIONE ETERNA E DIVINA DEL TEMPO E DEI SUOI CONTENUTI

Con tutta la tradizione e conformemente alla testimonianza scritturistica, crediamo che la predestinazione è una determinazione eterna e divina del

tempo e di tutti i suoi contenuti. Tale determinazione è eterna poiché precede ogni realtà temporale ed è divina perché rileva dall’onnipotenza di Dio e porta il segno della sua fedeltà, cioè della sua invariabilità. 1. Esposizione della tesi. Come i teologi di stretta osservanza ed in particolare come i sopralapsari del secolo XVII, diciamo che la predestinazione è l’inizio di tutte le cose, nel senso che nulla la precede se non l’essere di Dio in se stesso, cioè nella relazione che Dio istituisce con la realtà che gli è differente; diciamo anzi che la predestinazione è essa stessa l’origine di tale relazione e di tutto ciò che essa implica: ogni cosa vi procede e ad essa continuamente è ricondotta. Noi conosciamo la volontà eterna di Dio al di fuori della predestinazione unicamente come l’atto per mezzo del quale Dio, da tutta eternità, afferma e conferma se stesso; ci prenderemo ben guardia dal contestare questa volontà eterna precedente la predestinazione; conseguentemente eviteremo di definire Dio partendo dalla sua relazione con il mondo ed eviteremo di tenerlo legato a quest’ultimo in maniera necessaria; con la nozione di predestinazione, di elezione gratuita sottintendiamo infatti giustamente che Dio si sia liberamente legato al mondo, senza perdere cioè la propria libertà, anzi confermandola. Utilizzando questa nozione, attestiamo dunque la volontà eterna del Dio che è libero in se stesso, nel senso che riconosciamo che, fin dall’origine e propriamente parlando, Dio si vuole, si afferma e si conferma da solo; parimenti però riconosciamo che solo la nozione di predestinazione ci permette di riconoscere e di attestare questa volontà eterna del Dio libero in se stesso; infatti solo nell’atto così definito (nell’atto cioè per mezzo del quale la relazione di Dio con il mondo e con gli uomini è fissata ed ordinata) possiamo discernere questa volontà e conseguentemente Dio stesso nella sovranità e nella gloria che possiede nel suo essere prima di tutta la realtà creata. Con la nozione di predestinazione confessiamo dunque, in accordo con la tradizione, la maestà insondabile del beneplacito divino, in forza del quale Dio ha il diritto ed il potere di disporre liberamente, da tutta eternità e per sempre, del mondo e di noi stessi, diritto e potere che ha infatti usato, cosicché la sua volontà eterna costituisce effettivamente la realtà prima ed ultima da cui bisogna partire e con la quale bisogna concludere ogni nostra riflessione sul mondo e su noi stessi. Tuttavia ci allontaniamo dalla tradizione in questo: diciamo che il beneplacito della volontà eterna di Dio non costituisce per noi un campo oscuro, che dovremmo riguardare e venerare come divino a causa proprio della sua oscurità; affermiamo che esso non significa per noi un perché

interrogativo cui non possiamo rispondere se non con un perché esclamativo, vuoto di sostanza e capace solo di reduplicare la questione; pretendiamo che non sia affatto necessario che la sapienza, la misericordia e la giustizia che caratterizzano questo beneplacito siano e restino semplici postulati verbali. Diciamo no a tutto questo, perché positivamente dobbiamo affermare quest’altro: la realtà che ci è stata svelata nel tempo come rivelazione divina e conseguentemente come rivelazione della verità su ogni cosa è quella stessa che si trova all’inizio di tutte le cose in quanto disegno e decreto eterni di Dio. Ecco la luce che fa risplendere il beneplacito divino; ecco il perché esplicativo ormai gravido di sostanza che non solo abolisce, ma risolve il nostro perché interrogativo; ecco infine la sapienza, la misericordia e la giustizia di Dio che non si limitano ad affermarsi come tali, ma si aprono a noi, diventano conoscibili e convincenti, in modo che ci è possibile sapere ciò che facciamo quando ci è comandato di sottometterci senza condizioni al beneplacito del Dio saggio, misericordioso e giusto e quando lo facciamo veramente. Questo modo positivo di concepire la libertà del Dio che predestina come una libertà che non si rifiuta, ma che anzi si apre alla nostra conoscenza, indica precisamente il punto in cui ci allontaniamo dalla tradizione ed in cui si deve ricercare l’innovazione portata dalla nostra tesi. La nostra posizione infatti è tutta quanta determinata dal riconoscimento della seguente verità: anche per quanto concerne la predestinazione, non abbiamo né il diritto né il dovere di allontanarci dalla rivelazione divina così come essa è, poiché precisamente nel quadro della rivelazione divina la predestinazione ci è svelata e non oscurata; il Dio che si rivela a noi è proprio in se stesso e come tale il Dio-che-elegge; la volontà pretemporale di Dio altro non è che la sua volontà sopratemporale, la quale si manifesta come tale proprio nel tempo, in cui inscrive la propria azione. Dobbiamo riconoscere la prima nella seconda; ciò è possibile; poiché come l’eternità di Dio è una sola, così Dio stesso è uno e non lo si può conoscere se non tutto intero, altrimenti non lo si conosce affatto. Queste considerazioni sono però già delle deduzioni e non avrebbero alcun valore se non fossero fondate sul fatto della rivelazione divina. Questo fatto costituisce una totalità; ci pone di fronte all’etenità in tutte le sue forme, poiché ci pone di fronte al Dio unico tutto intero; non ci indica solo ciò che è la volontà eterna di Dio, ma anche ciò che tale volontà è stata e ciò che sarà. In breve il Dio che la rivelazione pone sotto i nostri occhi è quello autosufficiente; ci basterà conoscerlo così come si presenta per cessare di immaginare che la sua volontà possa essere velata in questo o quel punto; per

fare questo tuttavia non bisogna chiudere pigramente gli occhi davanti alla rivelazione, né dobbiamo sbirciare qua e là in qualche altra direzione. Certo, cogliamo qui il mistero del beneplacito divino; ma si tratta di un mistero rivelato; in tutta la sua pienezza, il beneplacito divino possiede il carattere, la forma ed il contenuto che ci sono attestati dalla rivelazione e che, di conseguenza, si presentano veramente alla nostra percezione. Di fronte a questo mistero vi è evidentemente il mistero della fede: vi riconosciamo, in tutta la sua pienezza, carattere, forma e contenuto del beneplacito divino?; questo beneplacito incontra cioè tutta la nostra confidenza e la nostra obbedienza? Poiché tale è precisamente il mistero del beneplacito divino e la nostra decisione di credere rileva anch’essa da tale mistero. C’è la rivelazione e conseguentemente c’è conoscenza di Dio e della sua volontà: della sua volontà nella sua completezza e dunque anche della sua volontà eterna, in quanto precede il tempo e lo predestina; anche in questa prospettiva siamo chiamati a conoscere Dio per temerlo, adorarlo, amarlo; qui come altrove si tratta di vedere chiaro, di emergere dalle tenebre per trovare la luce e non per ricadere in qualche zona oscura, autodefinentesi come divina. Se riguardiamo la rivelazione divina come rivelazione del beneplacito e della volontà di Dio, se riconosciamo la libertà divina così come ci è rivelata e confermata in questa rivelazione, allora tutto diventa chiaro: vediamo che all’origine di ogni cosa vi è in Dio il disegno di dare se stesso nella persona del suo Figlio eterno al Figlio dell’uomo ed al Figlio dell’uomo perduto; anzi scopriamo che da tutta eternità Dio ha risolto di essere lui stesso questo Figlio dell’uomo perduto nella persona del suo Figlio eterno; all’inizio, presso Dio, cioè nel decreto eterno che precede l’esistenza virtuale o reale di ogni creatura, esiste come prima realtà la decisione la cui esecuzione si chiama ed è Gesù Cristo. Si tratta di una decisione in se stessa perfetta quanto al soggetto e quanto all’oggetto: il Dio-che-elegge e l’uomo-eletto, Gesù Cristo, nell’unità vivente che ne deriva, e conseguentemente il Figlio di Dio nel dono senza riserva fatto di se stesso al Figlio dell’uomo ed il Figlio dell’uomo nell’unione senza difetti che lo lega al Figlio di Dio, e conseguentemente l’alleanza di grazia conclusa e sigillata in forza dell’amore divino assolutamente libero (questa alleanza che Dio ha istituito con molta chiarezza ed alla quale ha giurato di rimanere fedele), tutto ciò è veramente il fatto iniziale, il dato primo e primario, la decisione da cui tutto il resto dipende e che fissa precedentemente la relazione fra Dio e la realtà differente da lui. Questa decisione è la somma della sapienza e dell’onnipotenza usate da

Dio per volere tale realtà e trarla all’esistenza; è la misura e la sorgente di ogni ordine e di ogni diritto definenti il rapporto di Dio con questa realtà, di cui predetermina anche il fine in maniera irrefutabilmente valida ed infallibilmente efficace; è la volontà eterna di Dio. Per il fatto che Gesù Cristo è la volontà divina conosciuta da noi tramite la rivelazione e che prendiamo sul serio proprio come contenuto di tale rivelazione, riconosciamo che egli è parimenti la volontà eterna di Dio, impedendoci di metterci alla ricerca di un’altra volontà divina, sia sulla terra o nel cielo, sia nel tempo o in quanto esiste prima e dopo ciò che noi denominiamo tempo. Questa volontà è la volontà di Dio cui ci è permesso ancorarci fermamente, perché Dio stesso vi resta fedele, e perché ci dà il permesso e l’ordine di attaccarci ad essa. La decisione divina non è dunque oscura, ma chiara; non dobbiamo solamente riconoscere in essa il Dio eterno il cui potere ci spaventa; possiamo discernervi, con tutto quanto ciò comporta d’incomprensibile, il Dio che ci fa conoscere effettivamente la sua sapienza, la sua misericordia, la sua giustizia, il Dio che ci fa conoscere se stesso come fondamento di ogni realtà e che, a questo titolo, ci permette di amarlo e di lodarlo. È la gloria di Dio che emana fulgida in questo atto supremo della libertà divina; il fine è quello di illuminare e di convincere, per suscitare in qualche modo la glorificazione di Dio; lungi quindi dal richiedere un sacrificio del nostro intelletto, intende risvegliare la nostra fede. Il Figlio di Dio, che da tutta eternità ha deciso di consegnarsi e di abbassarsi, che, con il Padre e lo Spirito Santo, ha scelto se stesso per unirsi al Figlio dell’uomo perduto e d’altro canto questo Figlio dell’uomo che, da tutta eternità è stato l’oggetto dell’elezione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, che cosa significa tutto ciò se non che l’unione eterna di Dio e dell’uomo rileva da una decisione concreta? Il contenuto di questa unione porta un nome ed è una persona; si chiama ed è Gesù Cristo; non è quindi conseguentemente un decreto assoluto. 2. Qualche chiarificazione. Non si potrà certo dire che simile concezione comporti una razionalizzazione ed una semplificazione indebite del mistero dell’elezione. Non si può infatti sostenere che la tesi secondo cui Dio, in virtù di una libertà impenetrabile, prende delle decisioni cui l’uomo è chiamato a sottomettersi per motivi altrettanto impenetrabili, costituisca una maniera corretta, da preservare ad ogni costo, di concepire il mistero della vita cristiana. Bisogna dire anzi che una tale rappresentazione di Dio e dell’uomo, piena di mistero fascinosa ed a modo suo perfettamente rassicurante, non ha alcun comun denominatore con la concezione cristiana; è del tutto naturale e

la si ritrova molto frequentemente nella storia delle religioni; in effetti l’uomo è sempre istintivamente portato ad abbandonarsi al fremito d’orrore ed al sentimento di quiete procurati dal pensiero che una potenza sconosciuta ha preso una decisione su di lui e che ormai la sua sorte è un fatto compiuto, senza che egli ne sappia qualcosa. Si tratta di un pensiero così vago che, sia sul piano della riflessione che a livello di volontà, ci dispensa volentieri dall’ubbidire alle esigenze più decisamente costringenti, da presentarsi come lo sfondo ideale su cui possono inscriversi, secondo le preferenze ed i gusti di ciascuno, le concezioni filosofiche e gli atteggiamenti pratici più diversi. L’idea di un destino indecifrabile ci è così familiare che non è affatto necessario ricorrere ad una rivelazione divina per coglierla; parlando di mistero si è già in questo caso forzato il senso che il termine possiede nella sua accezione rigorosa. Che quest’idea abbia potuto occupare in fin dei conti una posizione chiave nella dottrina cristiana della predestinazione, e quindi nella dottrina cristiana in generale, è cosa del tutto insolita e che essa abbia costantemente rivendicato tale posizione chiave (al punto che si sia creduto di doverla ritenere come valore sacro della fede cristiana da salvaguardare ad ogni costo) è un fatto difficile da spiegare e da giustificare. Non è forse il contrario che ci si dovrebbe attendere ed esigere? Non è forse proprio questa idea ad essere messa in questione ed effettivamente abolita, non appena la si esamini alla luce di una riflessione cristiana seria? Vi può forse essere in definitiva qualcosa di più estraneo e di più contrario alla fede cristiana che il fremito d’orrore o il sentimento di quiete che procura il pensiero di un decreto assoluto, considerato come la verità prima ed ultima da cui procedono tutte le cose? D’altronde non si tratta d’insegnare che la conoscenza di Dio in Gesù Cristo che, secondo la nostra tesi, deve sostituire il famoso decreto assoluto di natura inconoscibile, non sia essa stessa un mistero. In questo caso si avrebbe infatti un tentativo di razionalizzazione nella nostra intenzione di precisare e di correggere la dottrina tradizionale della predestinazione. Certo, l’immagine della verità che comprendiamo è chiara: la nostra vita è nascosta in Gesù Cristo e dunque in Dio, Gesù Cristo è fin dall’origine, all’inizio di ogni cosa (compresi noi stessi) il Dio-che-elegge e l’uomo eletto; ogni relazione fra Dio e l’uomo (ed in essa ogni relazione esistente fra Dio e la realtà differente da lui) è originariamente e propriamente la relazione fra Dio e l’uomo in Gesù Cristo, di modo che è esclusivamente in lui che dobbiamo cercare e trovare il nostro posto in questo campo; la nostra comunione con lui, la scelta di cui siamo

oggetto da parte sua e che fa di noi degli eletti, tutto ciò è la fede in Gesù Cristo. Ma se tutto questo è chiaro, la luce che riceviamo non è una luce naturale, procedente da considerazioni logiche o morali della ragione umana alle prese con essa, bensì una luce sgorgata dalla rivelazione e cioè da Dio. Invero se esiste una verità che ci è del tutto estranea, che non sale spontaneamente nel cuore di nessuna persona, qualunque cosa questa possa fare, che è propriamente impensabile al di fuori del miracolo dello Spirito Santo e della fede, è proprio questa che ci è proposta qui e che troviamo enunciata in questi termini: nel suo Figlio eterno, Dio ha voluto essere lui stesso il Figlio dell’uomo, facendo della causa dell’uomo la sua propria causa; si tratta della volontà eterna di Dio che segna l’origine di tutte le cose e, per conseguenza, anche la nostra origine; prima ancora della nostra nascita, prima ancora della creazione del mondo, noi eravamo già posti sotto la predeterminazione della volontà divina; e se Dio ha voluto il mondo è perché il suo amore, fin dall’inizio, abbraccia e domina tutte le cose. Se esiste un mistero che nel momento stesso in cui lo conosciamo ed in cui si apre a noi resta velato, si manifesta e si distingue costantemente e sempre maggiormente come un mistero, è proprio questo; se vi è un punto in cui tutto è stato previsto perché noi non finiamo mai di confrontarci con il mistero nonostante i nostri tentativi di razionalizzazione, è proprio questo; se vi è un luogo in cui, presi dal mistero fin nei nostri pensieri e nel nostro volere, siamo liberati da tutte le nostre irresponsabilità, strappati a tutte le concezioni e gli atteggiamenti che adottiamo arbitrariamente nella vita e davanti ad essa, è proprio qui. Sì è qui, ed in nessun posto diverso, che possiamo e dobbiamo dire: incontriamo non un qualsiasi mistero, ma il mistero cristiano; ci troviamo in faccia non di un qualsiasi enigma della vita o del pensiero, ma in presenza del centro del mistero cristiano, della fede cristiana; siamo in presenza del mistero che, se lo sappiamo riconoscere come si deve, merita precisamente la nostra adorazione e che è degno di essere considerato e trattato come mistero. Anche in questa prospettiva non dobbiamo affatto inquietarci, quando ci determiniamo a riconoscere che nel luogo in cui l’antica dottrina della predestinazione poneva il decreto assoluto, si trova invece il «decreto concreto» dell’elezione di Gesù Cristo. Se questa conoscenza può e deve imporsi, in altri termini se fra i presupposti dell’antica dottrina della predestinazione quello, primario e fondamentale, che definisce il carattere del decreto divino si trova corretto nel senso che abbiamo detto, ciò significa che la questione relativa all’elezione

divina, alla volontà eterna di Dio che predetermina e regge il tempo con tutti i suoi contenuti, compresa la nostra propria esistenza, non è una questione oziosa, che resta insolubile perché destinata a rimanere insolubile. Posti di fronte a questa questione non abbiamo il diritto di liberarcene scuotendo la testa o alzando le spalle con aria misteriosa, col pretesto di dare esempio di pietà e di rispetto. Ora lo specifico del decreto assoluto è che, sul punto più importante della dottrina della predestinazione, confronta l’uomo con una realtà (il carattere insondabile della libertà divina assunta in se stessa) che l’obbliga a tacere, sotto pena di perdersi completamente; in presenza del decreto assoluto non si dà finalmente che una soluzione, come abbiamo visto, per quanti intendono continuare a riflettere: la fuga nel misticismo e nel moralismo, cioè il ricorso ad una santità arbitrariamente scelta che implica l’idolatria e la propria giustizia; il riconoscimento del decreto assoluto, quando non distrugge tutto, attizza il fuoco della religiosità, non certo la fiamma della fede. Invece il decreto concreto dell’elezione di Gesù Cristo significa innanzitutto che noi siamo chiamati alla fede; essendo la sostanza stessa della rivelazione divina, fornisce antecedentemente il fondamento a tutte le nostre questioni e vi imprime una direzione ben precisa; costituendo il mistero autentico, nel senso cristiano del termine (di fronte al quale il mistero del decreto assoluto si mostra come una piattezza, come un luogo comune uscito dalla ragione o meglio dallo sragionamento dell’uomo) ci incita ad una ricerca infine sana. Infatti colui che ritiene valido il decreto assoluto non si pone più questioni; tutta la sua sapienza consiste nel riconoscere di non sapere nulla; e questa scienza, la cui specificità è di spaventare e di calmare contemporaneamente, significa la morte di ogni volontà di conoscenza, di ogni ricerca autentica ed aperta. È con il riconoscimento del mistero della elezione di Gesù Cristo che comincia ogni ricerca vera ed aperta; infatti, in questo mistero, siamo confrontati con l’autorità di cui non possiamo sapere nulla da noi stessi ma da cui abbiamo veramente tutto da apprendere, che ci insegna veramente qualche cosa e da cui possiamo senza sosta attendere una luce sempre nuova. Il mistero dell’elezione di Gesù Cristo è una risposta autentica; per questa ragione, dirimpetto ad esso, esistono una ricerca ed una verità di conoscenza anch’esse autentiche; questo mistero le reclama e le suscita nel medesimo tempo. Autentico significa: necessario, inevitabile, che ci prende interamente e che ci domina, in maniera che la nostra ricerca diventi vitale, in modo da non avere più la libertà di porre o di non porre questioni, di volere o di non volere conoscere. Autentico significa: non accademico. Non

esiste ricerca autentica se non là dove siamo confrontati con la risposta che, una volta data, ci obbliga a porre le questioni adeguate. Solo l’elezione di Gesù Cristo possiede alla fin fine questo carattere di risposta autentica, capace di esigere e di provocare una ricerca anch’essa autentica. Tutti gli altri misteri che abitualmente ci inducono a porre questioni ci riconducono in ultima analisi al decreto assoluto, cioè al mistero del Dio sconosciuto e dell’uomo sconosciuto davanti al quale la nostra ricerca non può che interrompersi definitivamente; l’elezione di Gesù Cristo invece è una realtà che noi dobbiamo conoscere e che ci obbliga costantemente a porre delle questioni, poiché in essa è stata pronunciata la prima e l’ultima parola su ogni cosa e su noi stessi, poiché essa è l’origine di tutto quanto, fissando anche antecedentemente il nostro essere o il nostro non-essere, la nostra vita o la nostra morte, poiché essa è la predestinazione che noi dobbiamo in ogni caso confermare, perché tutto quanto può riguardarci si trova visibilmente o segretamente caratterizzato dal fatto che proprio questa elezione, in prima ed ultima analisi, ci concerne. Non abbiamo bisogno di sapere molte cose; dobbiamo però sapere assolutamente ciò che è l’elezione divina e ciò che significa essere eletto; dobbiamo assolutamente sapere che questo vi è all’origine prima di ogni altra realtà. Parimenti, non è necessario che la nostra ricerca abbia oggetti molteplici, ma è necessario che abbia quell’oggetto là precisamente; si tratta infatti di un oggetto nei confronti del quale siamo sempre ignoranti; in effetti solo questa realtà necessaria resta sempre un mistero che ci affronta, che dobbiamo costantemente rifiutare di risolvere o di lasciare dietro di noi considerando di averlo crmai penetrato. Non esiste in questo campo un insegnamento che possiamo dire di aver esaurito, in modo da essere dispensati dal ritornarvi sopra; aver compreso qui, significa dover ancora sempre apprendere e comprendere; raggiungere qui una conclusione significa essere ricondotti senza sosta al nostro punto di partenza. L’elezione di Gesù Cristo è però anche una realtà nei confronti della quale possiamo interrogarci e che possiamo conoscere; ci strappa alla pigrizia provocata in noi dallo spavento o dalla quiete determinati dall’idea errata che la sola cosa da noi conosciuta, in questo campo, sia quella di non poter sapere nulla. Infatti, senza che ciò attenti alla sua eternità, l’elezione di Gesù Cristo è un fatto della storia: è l’eternità che si attesta all’interno dell’insieme della storia, costituendo essa stessa una storia fra le altre; è una parola chiara che può essere ascoltata, ricevuta ed insegnata; non è senza forma e possiede un contenuto ben preciso.

È il decreto eterno di Dio che porta un nome e che coincide con l’esistenza di una persona. Ecco perché essa è una risposta: una risposta divina, eterna, perfetta e non una risposta vuota, oscura, una semplice ripetizione di risposte e di questioni. Che cosa vi è all’inizio presso Dio? Lui, Gesù Cristo. Questa è la risposta. Poiché le cose sono così, la nostra riflessione non è più condannata ad un vicolo cieco e la fuga nel misticismo e nel moralismo perde ogni significato; la risposta che intendiamo insegna ed informa perfettamente; con ciò ci libera da ogni velleità di autoinsegnamento o di autoinformazione, come pure ameremmo fare a questo punto, senza renderci conto che, seguendo questa direzione, chiuderemmo definitivamente la strada ad ogni ricerca autentica della verità. Parliamo evidentemente della ricerca e della conoscenza della fede, parliamo dell’insegnamento ricevuto nella fede; la ricerca della fede è la ricerca autentica, mai conclusa eppure mai vana, poiché è fin dall’inizio e sempre di nuovo determinata, riempita ed orientata dalla risposta che le è stata data; la fede conosce il proprio oggetto e proprio per questo motivo intende scoprirlo senza sosta. Questa è la differenza essenziale e specifica che separa il decreto assoluto dall’elezione di Gesù Cristo; l’elezione di Gesù Cristo può essere riconosciuta nella fede, ciò che essa reclama e nel contempo suscita non è niente altro che la fede, cioè la confidenza in Dio che è essa stessa obbedienza; mentre non si può credere al decreto assoluto. Non si può che registrarlo senza battere ciglio, per subito dimenticarlo o per cercare di quietarsi in un’altra maniera, secondo le proprie fantasie ed i propri bisogni religiosi. Il decreto assoluto non può essere oggetto della nostra confidenza e quanto all’obbedienza che potrebbe determinare, resta sempre estremamente problematica. Riassumendoci: dal momento in cui l’elezione di Gesù Cristo prende il posto del decreto assoluto, la dottrina della predestinazione subisce una trasformazione decisiva: diventa possibile allora mostrare ed affermare che l’elezione divina è veramente una realtà che si può credere. Non bisogna dimenticare che, sotto il segno del decreto assoluto la celebre sequenza di Rom. VIII, 30 s. non può essere, nelle sue articolazioni essenziali, un oggetto di fede; tutt’al più e nel migliore dei casi può essere oggetto di un culto e di un gioco misteriosofico. Bisogna cominciare col riconoscere che l’elezione divina è l’elezione di Gesù Cristo: allora, e solo allora, diventa evidente che si accompagna alla fede, come la vocazione, la giustificazione, la santificazione e come Dio stesso. Secondo l’espressione di Lutero, Dio e la fede si accompagnano sempre.

C. LA VOLONTÀ ETERNA DI DIO IN GESÙ CRISTO È UNA VOLONTÀ SACRIFICALE La volontà eterna di Dio nell’elezione di Gesù Cristo è la sua volontà di sacrificarsi in favore dell’uomo che ha creato e che si è distolto da lui. È quanto accade, secondo la Scrittura, nell’incarnazione del Figlio di Dio, nella sua sofferenza e nella sua morte, come pure nella sua resurrezione. Questo è precisamente l’avvenimento che dobbiamo applicarci a comprendere come contenuto della predestinazione eterna di Dio. L’elezione gratuita in quanto origine di tutte le cose è il dono di Dio stesso identico al suo decreto eterno. Il dono di Dio stesso: Dio ha dato il proprio Figlio: questo avvenimento non solo ha avuto luogo, ma è la predestinazione eterna e divina. Dio ha parlato, ha detto la sua parola; con ciò si è dato e consegnato rischiando la propria esistenza; non per nulla, ma in favore dell’uomo che ha creato e che si è distolto da lui. Questa è la volontà eterna. Dobbiamo capire fin dall’inizio come e perché (lo si è costantemente riconosciuto ed esposto nel corso della storia della dottrina della predestinazione) questa volontà abbia due aspetti, come e perché contenga un sì ed un no, come e perché la predestinazione eterna e divina sia, per usare un termine evocatore, una praedestinatio gemina, una doppia predestinazione. 1. Praedestinatio gemina. Che cosa ha scelto Dio nell’elezione eterna di Gesù Cristo? A questa questione concernente il contenuto della predestinazione non abbiamo potuto dare finora una risposta unica, bensì sempre duplice. La prima risposta è la seguente: scegliendo, Dio ha preso una decisione che lo riguarda; ha risolto di dare ed inviare il proprio Figlio; ha deciso di pronunciare la sua Parola. È presso di lui che si trova il punto di partenza dell’obbedienza del Figlio al Padre; è in lui che la sua volontà ha preso questa forma concreta, che la sua natura è diventata tutta intera questa decisione; è tutta quanta la libertà e tutto quanto l’amore di Dio che sono diventati identici al decreto della predestinazione, identici all’elezione di Gesù Cristo. Ed ecco la seconda risposta: Dio ha scelto l’uomo, l’uomo concreto ed ha preso una decisione che lo riguarda; ha determinato il suo proprio Figlio ad esistere come Figlio di Davide; ha risolto di fare intendere la sua Parola all’interno del mondo dell’uomo. È in questo modo che Gesù Cristo è stato all’inizio presso Dio; ed è ugualmente in quest’inizio che la volontà divina ha assunto una forma concreta; ma ciò si è verificato in maniera tale che Dio ha cessato di essere solo con se stesso, che un altro, cioè quest’uomo particolare, è stato incluso nella sua volontà ed è diventato un nuovo oggetto (differente da Dio stesso) del decreto divino. D’ora innanzi il decreto divino, l’elezione di

Gesù Cristo, non comporta solo più il Dioche-elegge, ma anche l’uomo-eletto. La volontà eterna di Dio nell’elezione di Gesù Cristo contiene dunque due elementi. E poiché è identica alla predestinazione, essa è autenticamente ed essenzialmente una duplice predestinazione. Dovremo ritornare sulla differenza e sulla relazione esistenti fra i due elementi segnalati or ora; per il momento limitiamoci a costatare che già qui, nella sua origine e nella sua eternità, la volontà divina possiede due aspetti e costituisce dunque una duplice predestinazione; ciò che riconosciamo ed affermiamo confessando che Dio ha scelto per sé la comunione con l’uomo è infatti una cosa e ciò che riconosciamo ed affermiamo confessando che Dio ha scelto per l’uomo la comunione con lui è una cosa ben diversa. Sono queste due realtà che, nella loro unità, costituiscono la elezione divina. Ma poiché l’oggetto dell’elezione è duplice e differente, duplice e differente deve esserne anche il contenuto. Per Dio determinarsi in favore dell’uomo e della comunione con lui non significa la medesima cosa che determinare l’uomo ad entrare in comunione con lui; certo i due atti costituiscono il dono totale di Dio stesso all’uomo; ma se il secondo significa indubitabilmente un dono fatto all’uomo, il primo non può certo significare che Dio si dona o si procura un qualche cosa a se stesso, poiché che cosa mai Dio potrebbe ricavare e procacciare per sé, accordando all’uomo il privilegio di partecipare al suo essere? L’unica cosa che possa essere presa in considerazione in questa prospettiva è che Dio pone in questione se stesso, la sua divinità e la sua potenza, cioè tutto quanto possiede e tutto quanto è come Dio; se il fatto che Dio vuole darsi all’uomo, essere il «suo» Dio, significa per l’uomo un guadagno infinito, una inaudita promozione, non è certo lo stesso per Dio, per cui una tale alleanza non può che significare compromissione, da qualunque aspetto la si consideri; là dove l’uomo non può che essere vincitore, Dio non può che essere perdente. Tale è precisamente il contenuto, il duplice contenuto della predestinazione divina ed eterna, dato che essa è identica all’elezione di Gesù Cristo: Dio vuole essere perdente affinché l’uomo sia vincente. Salvezza sicura per l’uomo, pericolo altrettanto sicuro per Dio. Se dunque è a buon diritto che, nella dottrina della predestinazione si è sempre attestata una duplice realtà, parlando di elezione e di riprovazione, di predestinazione alla salvezza e alla perdizione, alla vita ed alla morte, possiamo senza indugiare oltre proporre la seguente affermazione: nell’elezione di Gesù Cristo, che è la volontà divina eterna, Dio ha destinato il sì all’uomo (cioè l’elezione, la salvezza, la vita) e si è riservato il no (cioè la riprovazione, la condanna, la morte). Se il beneplacito divino, che è all’origine

di tutte le cose presso Dio, comporta ugualmente il pericolo e la minaccia di una negazione, questo pericolo e questa minaccia sono il lotto che il Figlio di Dio e dunque Dio stesso ha assunto, poiché il Figlio di Dio è diventato il Figlio dell’uomo e come tale rappresenta e costituisce il beneplacito divino 2. Il no divino. In questo contesto dobbiamo parlare innanzitutto dell’aspetto negativo. Infatti la prima cosa che si manifesta nella predestinazione eterna di Dio è proprio questa: Dio si è scelto per essere l’amico ed il partner dell’uomo, ha scelto per se stesso la comunione con l’uomo; che parte si è dunque riservato volendo essere lui stesso il Figlio dell’uomo in Gesù Cristo?; senza dubbio sacrifica la propria intangibilità nei confronti dell’immenso campo della realtà che, non voluta da lui, non può essere che il dominio del male. Certo, Dio, in se stesso, non può essere affatto toccato dalla possibilità e dalla realtà di ciò che non vuole, non è toccato dall’esistenza di nessuna volontà che gli si oppone, non è toccato da nessuna virtualità del male. Dio è luce e non vi è tenebra in lui. Ma l’uomo che la sua volontà eterna eleva fino a farne un partner dell’alleanza, l’uomo che Dio ha scelto da tutta eternità onde essere un’unità con lui in Gesù Cristo, quest’uomo non è solamente toccato, ma soggiogato dal male; è l’uomo traviato, sedotto e colpevole che fa il male e subisce tutte le conseguenze della colpa. Dio rischia la sua gloria già per il semplice fatto di aver creato l’uomo come strumento di questa sua gloria, quest’uomo che, pur essendo una creatura buona di Dio, altro non è che una creatura appunto, quindi non Dio stesso; la gloria di Dio sarà celebrata da questo strumento buono come si addice, cioè come Dio stesso lo fa e come dovrebbe farlo una creatura uscita dalle mani di Dio?; misuriamo esattamente che cosa ha potuto significare per Dio il fatto di rimettere la cura della sua lode all’uomo, questo rappresentante così poco sicuro da tutti i punti di vista per una simile causa, questo servitore così pericolosamente minacciato e così compromettente per la volontà del Creatore? Cerchiamo di rappresentarci per un solo momento l’impossibile, cioè l’uomo ancora integro, l’uomo non caduto e senza peccato; dovremo almeno riconoscere che quest’uomo non è Dio e che per compiere la sua vocazione (vivere per la gloria di Dio) deve in ogni caso usare della libertà di decisione, propria della creatura; dovremo cioè convenire che esiste in maniera differente da Dio, senza nessuna sovranità e che si trova almeno messo in questione dal limite dell’impossibile, da ciò che resta per sempre escluso, dal limite delle forze che si oppongono alla volontà divina. La partecipazione a questa opposizione, a dire il vero, è per lui impossibile ed

esclusa nella misura in cui gli è proibita, nella misura in cui gli è permesso e comandato di vivere della Parola di Dio. Ma ne sarà capace? A quale pericolo si è esposto Dio per il semplice fatto che ha voluto assumersi la causa dell’uomo da lui creato senza difetto, determinandosi a diventare il «suo» Dio e ad essergli così solidale! Se quest’uomo di prima della caduta, di cui non possiamo assolutamente rappresentarci l’esistenza, aveva tutto da guadagnare da questa alleanza, Dio aveva tutto da perdervi. Ma l’uomo con cui s’incontra la volontà divina non è quest’uomo di prima della caduta, o meglio è quest’uomo ma nel senso che dopo essere stato creato buono, si è allontanato dal creatore; così Dio osa fare molto di più di quanto non si osi immaginare; il partner della sua alleanza eterna diventa l’uomo che non solamente è minacciato, ma che già è caduto nel pericolo che lo minaccia, cosicché in lui l’impossibile è diventato possibile, l’irreale reale ed il male definitivamente consumato. Si tratta dell’uomo che ha prestato l’orecchio a Satana e che, lungi dal rispettare il suo limite, ha disprezzato il divieto divino; dell’uomo che, volendo vivere altrimenti che della Parola di Dio, ha prostituito la sua esistenza, che fa vergogna e non onore a Dio, che ha tradito il suo creatore per ergersi a suo nemico e suo contraddittore; dell’uomo contro cui Dio non può che fare scoppiare la propria collera. Si tratta dell’uomo la cui sposa si chiama Eva ed il cui primogenito si chiama Caino, che oppone senza sosta nuove ribellioni agli interventi molteplici della grazia divina, che ha crocifisso il Messia di Dio e che, in quel momento, si chiama nel migliore dei casi Pietro e nel peggiore Giuda. È precisamente quest’uomo e la comunione con lui che Dio sceglie nell’elezione di Gesù Cristo. Il partner di Dio, all’interno della sua alleanza di elezione, è il Figlio dell’uomo perduto. Non parliamo ancora di quello che tutto ciò significa per l’uomo; pensiamo a Dio che in questo avvenimento si trova compromesso nella maniera più irreparabile; non solamente accetta di correre tutti i rischi, ma ancora si espone personalmente all’attacco ed al dominio del male. Che può infatti significare il fatto che Dio s’incarna, diventa l’uomo perduto, se non che si dichiara colpevole del no che la sua creatura gli oppone e che si sottomette alla legge della sua creazione, che esige che simile opposizione conduca infallibilmente alla disgrazia ed alla rovina?; sì, che può mai significare l’incarnazione, se non che Dio stesso accetta di essere l’oggetto della collera e del giudizio in cui è incorso l’uomo, sottomettendosi alla riprovazione meritata da quest’ultimo, per subire lui stesso la condanna, la morte, l’inferno, lotto della creatura decaduta?; che cosa si è infatti riservato di gloria, di gioia e di trionfo dal momento che in Gesù

Cristo ha voluto eleggere l’uomo e prendere il suo posto?; che cosa mai poteva apportargli questa scelta, se non proprio quanto fa parte di un campo nei cui confronti egli è interamente libero e verso cui non nutre nessun desiderio, cioè le tenebre, l’impossibilità della nostra esistenza peccatrice, condannata al castigo supremo? Se vogliamo sapere quanto Dio ha scelto per se stesso optando per la comunione con l’uomo, non possiamo che rispondere: ha scelto la nostra riprovazione; l’ha fatta sua; l’ha portata e subita con tutte le sue conseguenze, in tutto il suo orrore. A causa di questa scelta, cioè per amore dell’uomo, ha accettato di mettersi totalmente in questione, senza la minima riserva; ha scelto la nostra sofferenza (quella sofferenza che dovevamo subire da parte sua, poiché l’abbiamo offeso e poiché davanti a lui non siamo che peccatori) per farne la propria sofferenza; la sua scelta è a tal punto una scelta della grazia e dell’amore da significare questo dono totale, questa spogliazione, quest’abbassamento senza uguali in favore del suo oggetto. Dio sceglie come apostolo Giuda che lo tradirà; accetta la sentenza di Pilato onde rivelare il suo giudizio sul mondo; sceglie la croce del Golgota per farne il trono della sua regalità; sceglie la tomba di Giuseppe d’Arimatea come residenza, lui, che è il Dio vivente. Ecco come Dio ha amato il mondo! Se poi vogliamo sapere che cosa sia la riprovazione contenuta nel decreto eterno di Dio (questa verità di cui non si può fare cenno se non proprio nella dottrina della predestinazione), anche qui abbiamo una sola possibilità: guardare ciò che Dio ha scelto per sé nel Figlio suo, pronunciandosi in lui per la comunione con l’uomo. Dobbiamo semplicemente volgere la nostra attenzione sul fardello che Dio ha voluto portare lui stesso, quando ha determinato il suo Figlio ad essere il Figlio dell’uomo, su ciò che è stato sua perdita e suo guadagno nel Figlio suo, nell’alleanza conclusa con l’uomo. Quanto doveva aspettarsi di guadagnare e che di fatto ha guadagnato è questo: la condanna meritata dall’uomo è caduta su di lui. Con ciò Dio ha attirato su di sé la prova della vergogna e della distretta. È precisamente nel fatto che Dio ha agito in questo modo che noi dobbiamo conoscere quanto ha voluto da tutta eternità. È nel fatto che Dio ha voluto, da sempre, soffrire per noi che dobbiamo discernere il lato negativo della predestinazione divina. Dove dunque, se non qui, potremmo cercare validamente questo aspetto negativo? Vi è forse un altro luogo in cui possa essere rivelato a noi così come è, come cioè l’ha voluto il beneplacito divino che, da tutta eternità, gli conferisce la sua realtà? Notiamo di sfuggita che il fatto secondo cui Dio abbia risolto di prendere su di sé da tutta eternità e di subire la riprovazione dell’uomo, deve

interessarci anche da un altro punto di vista: esso giustifica infatti antecedentemente il rischio cui Dio ha deciso di esporre l’uomo già semplicemente creandolo ed ancora maggiormente permettendone la caduta. Ncn si può rimproverare a Dio di avere assegnato questo limite all’uomo in quanto creatura, cioè in quanto essere che, a differenza del suo Creatore, è soggetto alla tentazione, né di averlo confrontato con il male che, per lui, Dio, è naturalmente escluso, mentre per l’uomo può esserlo solo mediante la Parola ed il divieto divini. Non si può rimproverare a Dio di aver permesso e non impedito la caduta, cioè di aver lasciato il tentatore trionfare e l’uomo consumare la propria colpa. Nel decreto eterno di Dio, nulla di tutto questo può avere il significato di un’ingiustizia nei confronti della creatura, poiché Dio, in questo stesso decreto eterno, ha già deciso di appropriarsi dell’immenso pericolo cui, non senza la sua volontà, la creatura è esposta e di assumere tutta la distretta in cui, non senza permesso divino, la creatura ha voluto precipitarsi. È da tutta eternità che Dio ha deciso di non abbandonare, ma di soccorrere l’uomo che ha creato, quest’uomo già minacciato come creatura e che ha finito per cadere lasciandosi colpevolmente sedurre dal tentatore. Anche (o meglio precisamente) sotto il segno di questa determinazione negativa, l’uomo è nella sua globalità colui che Dio ha amato ed al quale da sempre si è consegnato nel Figlio suo, per rispondere al posto dell’uomo, per portare e subire ciò che, minacciata com’era, la sua creatura era condannata a subire. La responsabilità dell’uomo permane: nel limite che era il suo e come uditore della Parola di Dio, doveva agire in un determinato modo e non l’ha fatto; ma permane anche e soprattutto che Dio ha preso la responsabilità di creare l’uomo, senza impedirne la colpa. L’uomo non può schivare la propria responsabilità accusando Dio di aver troppo domandato; infatti quanto Dio ha esigito da se stesso, a causa dell’uomo, è infinitamente più duro; in fin dei conti quanto Dio ha domandato all’uomo era di vivere ed è di vivere come un essere a causa del quale lui, Dio, si è imposto il massimo della rinuncia. «Tu mi dirai: perché accusa ancora?; chi può resistere alla sua volontà? O uomo, tu piuttosto, chi se mai per contestare con Dio?» (Rom. IX, 19 s.). Risposta: tu sei l’uomo verso il quale, da tutta eternità, Dio si è voltato nel Figlio suo, sottomettendosi alla sua volontà in una maniera che ti sembra incredibile; tu sei l’uomo di cui Dio ha accettato da sempre di assumere la condizione precaria e miserabile; tu sei l’uomo che non ha nessun motivo di accusare Dio, ma che ha tutte le ragioni di accusare se stesso; tu sei l’uomo che Dio potrebbe certamente biasimare a giusto titolo, se persistessi a

contestare con lui, se rifiutassi di vivere come qualcuno in favore del quale Dio ha preso su di sé tutte le accuse, se in una parola ti ostinassi a voler vivere altrimenti che nella riconoscenza. Dal momento che l’aspetto negativo della predestinazione divina (il problema dell’uomo vulnerabile, peccatore e condannato) è il lotto che Dio assume, ne consegue che tale aspetto non concerne l’uomo; se dunque un no è effettivamente pronunciato nella predestinazione, non riguarda certo la creatura; la predestinazione, nella misura in cui comporta un’esclusione ed un rigetto non significa l’esclusione ed il rigetto dell’essere umano. Sebbene sfoci in una condanna ed in una morte, questa condanna e questa morte non sono quelle dell’uomo. È chiaro, beninteso, che tutto ciò potrebbe e dovrebbe essere la parte dell’uomo, poiché quest’ultimo si è rivelato inutilizzabile per Dio, già nel fatto di essere una creatura vulnerabile e fallibile e soprattutto perché, consumando il peccato, ha dimostrato di essere indegno di partecipare all’alleanza divina. Dio poteva escluderlo da sempre dalla sua alleanza; poteva abbandonarlo a se stesso e lasciarlo cadere totalmente; poteva non volerlo creare a causa del carattere problematico della libertà umana; poteva essere completamente autosufficiente; poteva trovare la sua gioia nella gloria e nella beatitudine intangibili della propria vita divina. Ma non l’ha fatto. Ha scelto l’uomo come partner della sua alleanza ed ha scelto se stesso, nel suo Figlio, come partner dell’uomo. Certo, questo non significa che abbia chiuso gli occhi sull’insufficienza e sull’infedeltà umana, né che abbia tollerato, nel campo della sua creazione, l’irruzione del male che ha invaso tutta quanta l’esistenza dell’uomo. Ciò significa che, per riparare l’offesa fatta alla sua maestà divina e per rimettere ordine nella sua opera devastata dal peccato umano, non ha voluto colpire il vero colpevole, portando lui stesso il peso della retribuzione divenuta necessaria, con tutte le sue disastrose conseguenze; ciò significa che ha sostituito se stesso all’uomo passibile di riprovazione, all’uomo perduto e condannato a morte, volgendo contro il suo cuore la collera che, diretta contro l’uomo, non poteva che annientarlo e cancellarlo dalla creazione. Fin dall’inizio il decreto eterno di Dio è stato quello del Dio giusto e misericordioso, cioè del Dio misericordioso nella sua giustizia e giusto nella sua misericordia. Questo decreto è giusto perché Dio ha voluto prendere il male sul serio, lo giudica e lo condanna, riprovando conseguentemente e consegnando alla morte l’autore di questo male; ma è anche un decreto misericordioso perché Dio ha fatto entrare il colpevole nel suo proprio cuore,

decidendo così di subire lui stesso la riprovazione, la condanna e la morte; è in questo decreto giusto e misericordioso del Dio giusto e misericordioso che trova il suo fondamento la giustificazione del peccatore operata per mezzo di Gesù Cristo con il suo corollario: il perdono dei peccati. Tale giustificazione del peccatore non significa che Dio non prenda sul serio il peccato, né che cessi di rendere l’uomo responsabile; significa invece che Dio si dichiara solidale con il peccatore colpevole, si mette al suo posto per subire tutte le conseguenze del male e soffre così lui stesso tutto quanto l’uomo doveva soffrire. Non significa che Dio perdona semplicemente senza chiedere altro; significa invece che Dio prende su di sé la pena che doveva seguire a quanto resta imperdonabile. La giustificazione del peccatore in Gesù Cristo è il contenuto della predestinazione nella misura in cui questa implica un no e significa un rifiuto. Anche in questa prospettiva la predestinazione è un atto eterno, cioè incrollabile ed irreversibile; la riprovazione non può quindi ritornare ad essere il lotto dell’uomo; al Golgota è avvenuto uno scambio, una sostituzione: Dio ha scelto la croce riservata ai malfattori per farne il proprio trono ed ha sofferto quanto l’uomo doveva soffrire. Questo scambio è avvenuto una volta per tutte perché è stato l’esecuzione della decisione presa da Dio da tutta eternità, perché è stato il compimento della sua volontà eterna nel quadro del tempo; in queste condizioni non può divenire caduco e niente può renderlo tale; conseguentemente non vi è nessuna condanna, davvero nessuna, per coloro che sono in Gesù Cristo (Rom. VIII, 1). Per questa ragione credere alla predestinazione divina significa per definizione stessa credere alla nonriprovazione dell’uomo o non credere al suo rigetto; non è l’uomo infatti ad essere riprovato; è Dio stesso nel suo Figlio, conformemente al suo decreto eterno. Che cosa avviene infatti quando Dio dà se stesso? Dona ed invia il proprio Figlio che è riprovato perché noi stessi non siamo riprovati. Predestinazione significa: l’uomo, conformemente alla decisione eterna di Dio, è liberato dalla riprovazione e tutto ciò a scapito di Dio stesso; è lasciato libero ed al suo posto è Dio stesso ad essere il perdente, l’abbandonato, il riprovato, l’agnello immolato fin dall’inizio del mondo. Non esiste quindi uno sfondo, un decreto assoluto, un mistero legato al beneplacito divino in cui la predestinazione possa essere e significare ugualmente e giustamente anche la riprovazione dell’uomo; anzi, proprio quando guardiamo nella zona più recondita e più intima del beneplacito divino, ci è dato comprendere che la predestinazione è e significa non-riprovazione dell’uomo, poiché essa è e

significa riprovazione del Figlio di Dio; che la predestinazione è in fin dei conti e senza dubbio alcuno una rivelazione della collera divina, ma che questa collera Dio ha voluto subirla precisamente nel Figlio suo. Considerarci ancora come oggetto della collera divina non può significare che una cosa: compiacerci nell’incredulità, nella disubbidienza e nell’ingratitudine, ignorando o volendo ignorare la sentenza di liberazione pronunciata su di noi, misconoscendo così completamente il senso della predestinazione divina; nella fede, nell’obbedienza e nella gratitudine, in un’esatta conoscenza del mistero dell’elezione non potremo mai trovare nella predestinazione la riprovazione dell’uomo, la nostra riprovazione, la riprovazione di chiunque altro; non certo perché non si sia meritato di essere riprovati, ma perché Dio non ha voluto rigettarci, perché al posto della nostra riprovazione ha voluto quella del Figlio suo. Che nella fede sia escluso di poter credere alla nostra riprovazione è un punto su cui concordiamo con tutti i rappresentanti perspicaci della dottrina della predestinazione; anche Agostino, anche Calvino, anche i calvinisti hanno sempre ripetuto che, nella fede, dobbiamo ancorarci al fatto di essere eletti e non riprovati; ma non si vede il fondamento di tale indicazione, né come essa diventi una direttiva applicabile, se non si proclama chiaramente che è all’elezione di Gesù Cristo che ci è permesso di credere allorquando crediamo alla predestinazione divina. Non si può infatti credere ad un decreto assoluto o se gli si vuole credere, non si acquisisce certo mai la certezza di essere eletti e non riprovati. Anche una fede generale in Dio o più concretamente in un Dio giusto e misericordioso non sarà utile in questo campo: di quale principio logico o morale infatti ci serviremmo per attribuire a Dio una giustizia ed una misericordia il cui risultato sarebbe: la riprovazione dell’uomo è esclusa dalla decisione divina? Che questo sia reale, è possibile esclusivamente se la decisione divina che ci concerne è identica alla decisione divina di donarsi a noi in Gesù Cristo; diciamo anzi meglio: se la decisione divina a nostro riguardo è contenuta nella decisione divina di donarsi a noi in Gesù Cristo; solo a questo punto si può dire senza ombra di dubbio che Dio esclude la riprovazione dell’uomo; e dal riconoscimento della giustizia e della misericordia di Dio deriva allora necessariamente un’altra certezza: quella cioè di non avere nessuna ragione di temere una riprovazione da parte di Dio, Infatti nel dono di Dio stesso in Gesù Cristo è subito chiaro che la riprovazione non ci riguarda, perché Dio ha voluto che essa concernesse lui e non noi e che noi non dobbiamo subirla, perché Dio l’ha interamente assunta.

Se dunque le cose stanno in modo tale che noi, credendo al dono di Dio in Gesù Cristo, abbiamo il permesso ed il dovere di credere ugualmente alla predestinazione divina, allora la questione è risolta: non possiamo credere che alla nostra non-riprovazione (nostra e di tutti gli uomini), non ci è consentito vedere nel rigetto dell’uomo se non l’oscuro oggetto cui si riferisce l’incredulità, il parallelo oggettivo di ogni falsa fede; lo specifico della fede falsa consiste infatti nel credere a qualche cosa che non è vero, perché Dio non lo ha rivelato, ad attaccarsi perversamente a quanto Dio non ha deciso ma escluso, precisamente, dalla sua decisione. Per poter affermare, come i nostri antenati hanno fatto giustamente che la fede alla predestinazione ha un carattere necessariamente positivo, bisogna dunque (ed in questo ci distinguiamo da loro) rifiutare di dissociare, anche solo minimamente, la volontà eterna di Dio e l’elezione di Gesù Cristo. 3. Il sì divino. Abbordiamo in altra prospettiva la medesima questione. Che cosa ha scelto Dio nell’elezione di Gesù Cristo? Abbiamo risposto: ha scelto per se stesso la comunione con l’uomo; e nel contempo ha scelto per l’uomo la comunione con Dio. È questo secondo punto che deve ritenere ora la nostra attenzione. Nell’opzione che ha operato offrendo se stesso, Dio ha non solamente deciso di sacrificare se stesso riservandosi la riprovazione, ma ha anche scelto il meglio per l’uomo; lo ha elevato in modo da farlo partecipe della sua alleanza; introducendolo nella propria comunione, ha voluto il profitto, la felicità e la gloria dell’uomo. Questa decisione originaria mediante la quale Dio accetta di non bastare a se stesso, questa decisione in cui, oltrepassandosi e volendo al di là del proprio essere, intende stabilire presso di sé l’inizio di ogni cosa, non può consistere che in una manifestazione sovrabbondante della sua gloria, in una rivelazione ed in una comunicazione del bene che egli è e possiede in se stesso. Dio non sarebbe Dio se le cose stessero altrimenti; e non è a lui che penseremmo, se volessimo dire le cose altrimenti; poiché infatti non vi è tenebra in lui, ciò che vuole e sceglie non può essere tenebra, né mezzo termine, né zona d’ombra neutra, in chiaroscuro fra tenebere e luce; nel suo risultato come nella sua intenzione, ciò che Dio vuole e sceglie non può essere che luce, senza riserva alcuna. Ciò che Dio fa, è ben fatto. Dobbiamo partire sempre di nuovo da questo assioma: nel suo volere e nella sua scelta, in primo come in ultimo luogo, è se stesso che Dio vuole; il suo volere e la sua scelta sono fin dall’inizio una determinazione dell’amore del Padre e del Figlio, nella comunione dello Spirito Santo. Come sarebbe possibile che il contenuto di questo volere e di questa scelta non fosse

buono?; come non sarebbe identico alla gloria divina, sempre nuova e particolare? Ma nella sua decisione originale e primaria Dio non sceglie solamente se stesso; scegliendo se stesso, sceglie contemporaneamente un altro oggetto, un altro essere, precisamente l’uomo. Così l’uomo è l’occasione e l’oggetto esteriore della sovrabbondanza della gloria divina; è verso l’uomo che si rivolge la bontà di Dio; è verso l’uomo che si trova diretto il beneficio divino. Ciò non significa certo che Dio abbia scelto e voluto un secondo Dio accanto a se stesso, ma che ha voluto e scelto un essere differente da sé; ed è questo essere; sua creatura e suo interlocutore, che ha destinato in tutta la sua alterità a partecipare alla gloria cui deve la sua origine; è questo essere che ha chiamato ad esistere nella luce di questa gloria ed a rifletterla. In una sola parola l’uomo è destinato ad essere, in quanto essere totalmente differente da Dio, colui che riceve il bene inerente alla natura divina, bene che è piaciuto a Dio di rivelare e di comunicare. Tale è dunque la parte che, secondo la decisione originale e primaria di Dio si trova attribuita, riservata ed assegnata all’uomo. Dio ha voluto e scelto l’uomo per destinarlo alla felicità ed ecco in che cosa consiste la felicità dell’uomo: nell’avere il permesso di attestare la gloria sovrabbondante del suo creatore. Dio ha voluto e scelto l’uomo per dargli la promessa della vita eterna ed ecco in che cosa consiste la vita eterna dell’uomo: nel vivere come testimone della gloria sovrabbondante di Dio. È con questo destino che l’uomo esiste all’inizio di ogni cosa, nel quadro del disegno divino, cioè presso Dio stesso. Costatiamolo subito: tocchiamo qui il contenuto positivo della predestinazione, il suo sì, il suo elemento primario e specifico, il suo significato, il suo fine. Ciò che Dio ha voluto e scelto predestinando l’uomo ad essere il testimone della sua gloria, chiamandolo cioè alla felicità ed alla vita eterna, doveva certo significare che lo destinava ad affrontare un pericolo ed una distretta; Dio ha voluto e scelto l’uomo con i suoi limiti, come una creatura che poteva e doveva incutergli vergogna usando, o meglio abusando, della sua libertà; così il punto pericoloso costituito dal fatto che l’uomo è soggetto alla tentazione, come anche il punto morto che significa la sua caduta, si trovano fin dall’inizio entrambi nel consiglio divino; a modo loro erano entrambi oggetto del volere e della scelta di Dio. Anche questo è vero. Questo fatto secondario accompagna il fatto primario come un’ombra che lo precede o lo segue. Decidendo di manifestare la propria gloria al di fuori del suo essere, Dio decide necessariamente e contemporaneamente che tale gloria (che in lui, nel seno della sua vita interna specifica, come Padre, Figlio e

Spirito Santo, non è soggetta ad alcuna contestazione, ad alcun disagio, ad alcuna opposizione) penetri nel campo della contraddizione, in cui la luce e le tenebre si separano, in cui quello che Dio vuole (cioè il bene) si distingue dal male (cioè da quanto Dio non vuole), in cui per coseguenza, per il fatto stesso dell’esistenza del bene, il male riceve per parte sua una specie di possibilità e di realtà nell’ordine dell’esistenza, in cui può entrare e di fatto entra in scena a modo suo il male, come potenza autonoma, come Satana. Il male non possiede e non potrà possedere che la possibilità dell’esistenza propria all’impossibile; non avrà mai se non il potere autonomo dell’impotenza; ma questo potere come tale può detenerlo e lo detienerà. Come poteva Dio decidere di manifestare sovrabbondantemente la propria gloria, come poteva determinarsi a volere ed a scegliere l’uomo come suo testimone senza volere e scegliere contemporaneamente l’ombra che non appartiene certo a questa gloria in se stessa, ma che esiste nel campo in cui essa si manifesta all’esterno?; come poteva non permettergli e quindi non dargli un’esistenza in quanto ombra già superata ed in via di dissolvenza, riservandogli un posto nel suo disegno eterno?; senza il male autorizzato in questo senso ben preciso, l’uomo ed il mondo non sarebbero quello che sono e conseguentemente, se non inglobasse questo permesso tutto speciale, il decreto divino che segna l’origine di tutte le cose non sarebbe ciò che è. Ma naturalmente questi due campi, positivo e negativo, sono oggetto della volontà divina ad un livello ed in un senso assolutamente differente. Ciò che Dio vuole e sceglie positivamente è unicamente la sovrabbondanza della propria gloria e conseguentemente la felicità e la vita eterna dell’uomo; non vuole nient’altro anche se permette che l’uomo possa essere tentato e soccomba; anche se permette il male. Il volere divino il cui oggetto è il male non ha dunque nessun fondamento proprio ed indipendente in Dio stesso; non se ne potrebbe parlare come di una luce particolare che di colpo avrebbe proiettato qui i suoi raggi; Dio vuole il male unicamente perché non vuole conservare per sé l’irradiarsi della sua gloria, ma intende farla brillare ugualmente al di fuori, unicamente perché vuole destinare l’uomo ad essere portatore e testimone di questa gloria. Non vi è nulla in Dio, nulla nella sua volontà e nella sua scelta dirette verso l’esterno cui il male, o colui che compie il male potrebbero reclamarsi, come se il male fosse anch’esso un’opera divina, come se possedesse la sua origine in Dio, come se corrispondesse a qualche cosa in Dio. Dio vuole precisamente il male come un’ombra che indietreggia e si dissolve: questo perché intende che brilli la luce che è la sua ed essa sola, per rivelarla e per comunicarla;

conseguentemente non potrebbe esserci in nessun caso questione di rappresentare come un rapporto proporzionale la relazione esistente fra il bene che Dio ha attribuito ed impartito all’uomo da tutta eternità ed il male (in quanto minaccia e disastro) che ha permesso, ed in questo senso anche voluto nel quadro di questa sua medesima decisione; qui non si può parlare che di sproporzione. È già spingersi troppo in là e parlare impropriamente chiamando il bene l’elemento primario ed autentico ed il male l’elemento secondario ed inautentico della volontà divina; queste definizioni potrebbero far pensare che il male possiederebbe, nel piano divino, un’autonomia ed un valore che in verità non possono essergli attribuiti; infatti quanto il male possiede di autonomia e di valore non può che essere l’autonomia ed il valore di essere escluso e conseguentemente rifiutato dall’economia divina, cioè dunque l’autonomia ed il valore del non-essere, il quale si oppone necessariamente all’essere nel quadro della creazione, ma che giustamente non esiste se non proprio in tale opposizione, non ha fondamento e significato se non come spirito della negazione. In nessun momento, cercando quale è il contenuto della predestinazione divina, possiamo trovare l’indicazione che l’uomo è destinato al male, condannato cioè a subire il dominio (con tutti i tormenti che ne conseguono) di questo spirito o piuttosto di questa potenza che è il contrario dello spirito. Se la predestinazione autentica, che fa dell’uomo un testimone della gloria divina chiamato alla felicità ed alla vita eterna, non può esistere se non al margine dell’abisso della predestinazione al male, è chiaro che quest’ultima non può che essere l’abisso del no messo in evidenza e suscitato dal sì divino, per essere subito contraddetto e superato da questo medesimo sì. Parlare di Dio significa parlare sempre del Creatore, del Riconciliatore, del Redentore e non dei loro contrari; affermare che Dio è giudice, riferirsi alla sua santità ed alla sua collera non significa mai altra cosa da questa; non si può dire che Dio assegna all’uomo, nello stesso modo e simmetricamente, un destino che sia contemporaneamente il bene ed il male, la vita e la morte, la gloria ed il suo contrario. Non si potrà parlare dell’abisso del male che con timore e tremore; si prenderà sul serio il male, così come gli è consentito di esistere in forza della decisione eterna di Dio, mai altrimenti; non si farà mai dei due aspetti di questa decisione una specie di dualismo; in altri termini, senza trascurare l’ombra che lo accompagna e senza negarla, ci si applicherà a vedere in Dio il Creatore, il Riconciliatore ed il Redentore, colui da cui ci si può attendere solo del bene. Il nostro compito è allora estremamente semplice: dobbiamo

combattere impietosamente la concezione che domina tutta la dottrina tradizionale della predestinazione su questo punto, poiché secondo tale concezione la salvezza e la dannazione sono due grandezze simmetriche rilevanti a pari grado dalla volontà divina. Per condurre a buon termine questo compito, non partiremo però da un’idea preconcetta dell’amore di Dio; ci rifiuteremo di pretendere che l’amore divino come tale impedirebbe a Dio (o potrebbe impedire) di volere a pari grado la salvezza e la dannazione od escluderebbe conseguentemente un’interpretazione simmetrica della doppia predestinazione; con quale diritto infatti possiamo postulare che Dio, nel suo amore così differente dal nostro, non possa, fin dall’inizio e con la medesima serietà, condannare e liberare, uccidere e vivificare, rigettare ed eleggere? Anche oggi dobbiamo difendere l’antica dottrina della predestinazione contro tutti gli attacchi suscitati da un simile pregiudizio. Vi è tuttavia un punto in cui la dottrina tradizionale è assolutamente indifendibile: la volontà di Dio nell’elezione di Gesù Cristo è certamente duplice, ma non simmetrica; non decide cioè nello stesso modo ed il medesimo titolo della vita e della morte dell’uomo, della sua salvezza e della sua perdizione. Partendo dall’elezione di Gesù Cristo in cui discerniamo la volontà e la scelta di Dio, l’amore divino concepito come un atto suscettibile di provocare al medesimo titolo e nello stesso modo la salvezza e la dannazione dell’uomo, deve essere rifiutato come una costruzione arbitraria; così arbitraria, almeno quanto quella che contesta a Dio il diritto di amare in quella specifica maniera. Donde traggono dunque la loro scienza coloro che hanno preteso attribuire a Dio questo tipo di amore così apertamente tenebroso? Certo non dalla contemplazione di Gesù Cristo, dalla conoscenza della volontà eterna di Dio nell’elezione di Gesù Cristo. Se riteniamo di non sapere nulla al di fuori di Gesù Cristo, allora dobbiamo opporci a questa teoria dell’equivalenza della doppia volontà divina; infatti non conosciamo la predestinazione dell’uomo al male ed alla morte se non nella forma in cui Dio ha voluto prenderla su di sé, liberandoci da essa totalmente. Poiché discerniamo la volontà eterna di Dio in questa liberazione operata in Gesù Cristo, il Figlio di Dio, che ha assunto per noi una forma di schiavo ed è stato obbediente fino alla morte di croce, poiché non conosciamo nient’altro che superi o preceda la volontà divina compiuta nel tempo in questa maniera, non ci è consentito in nessun caso di vedere il benché minimo rapporto proporzionale fra la volontà divina positiva (il cui oggetto è la vita e la salvezza dell’uomo) e quella che, sotto forma di permissione, destina l’uomo

ad essere sedotto da Satana e a diventare così colpevole nei confronti del suo Creatore; non possiamo percepire qui nient’altro che un’assoluta sproporzione; tanto è vero che la volontà divina positiva è primaria e domina, mentre l’altra è secondaria e subordinata, tanto è vero che la prima è il sì che conta, mentre la seconda è il no condizionato ma anche annullato antecedentemente da questo sì, tanto è vero che l’una è la forma durevole, mentre l’altra è la forma passeggera dell’opera di Dio. Sarebbe perfettamente presuntuoso e persino del tutto impensabile esporre le cose in questa maniera partendo da una idea preconcetta di Dio o dell’uomo. Se, così come lo concepiamo, il nostro discorso è giusto ed il solo possibile, è perché si fonda sul giudizio che Dio ha pronunciato sull’uomo e che, se riconosciamo in questo giudizio la decisione originale e definitiva di Dio, esclude ogni altra maniera di presentare la questione. Allora non abbiamo più la libertà di vedere nell’elezione eterna di Dio due decisioni simmetriche, l’una verso destra e l’altra verso sinistra; certo, esiste anche una scelta divina verso sinistra; ma Dio ha voluto che oggetto di quest’ultima fosse lui stesso e non l’uomo. Ha tolto a quest’ultimo ogni avversità per assumerla personalmente: il tormento riguardo al male che riesce ad esercitare il suo dominio in seno a quel mondo che dovrebbe essere il teatro della gloria divina, la sofferenza che risulta da tale dominio, la condanna e la perdizione che ne sono inevitabili conseguenze. Per questo non ci è consentito attribuire nessuna autonomia al dominio del male e neppure alla volontà divina rivolta verso il male, confrontata con esso d’altronde solo nella misura in cui essa stessa lo permette. Non possiamo infatti non riconoscere che in Gesù Cristo tutto ciò è superato, in via di dissolvimento, assunto e liquidato dalla volontà positiva della gloria che sovrabbonda; ora ciò che esiste in Gesù Cristo esiste fin dall’inizio presso Dio; per questo, fin dall’inizio, la parte dell’uomo nella decisione divina eterna non può che essere la predeterminazione corrispondente all’essenza divina perfetta, cioè la predestinazione al regno di gloria, alla salvezza, alla vita. Ogni altra predeterminazione non può che essere una predeterminazione immaginaria, inautentica, frutto del peccato e dell’errore, contraddetta dalla rivelazione. L’uomo dovrebbe assumere lui stesso quanto Dio ha riservato per sé, qualora pretendesse porsi sotto il segno di un’altra predeterminazione e considerarsi come un essere destinato a peccare ed a morire; se Dio ha assunto in prima persona la responsabilità di misurarsi con il male, all’uomo non resta che la possibilità del beneficio che gli è accordato proprio in questa maniera; e questo beneficio altro non è che la stessa gloria divina.

Senza il minimo equivoco e senza la minima riserva, Dio ha scelto l’uomo per farne l’araldo della sua gloria; è questo e solamente questo che s’impone a noi quando guardiamo l’uomo in Gesù Cristo; ciò che il Figlio dell’uomo soffre sulla croce del Golgota nell’unità con il Figlio di Dio che è la vittima espiatoria per la salvezza del mondo intero è l’inevitabile prova che deve attraversare per pervenire alla gloria della resurrezione e dell’esaltazione alla destra di Dio. Poiché la resurrezione, con tutte le sue conseguenze, non è la glorificazione del Figlio di Dio: quest’ultimo infatti non necessita di essere glorificato poiché, secondo il disegno divino, ha scelto precisamente l’abbassamento della derelizione e poiché gli compete, non tanto di ricercare la gloria divina, quanto piuttosto di manifestarla e di compierla nella potenza della sua divinità; tutto questo, strettamente parlando, è la glorificazione del Figlio di Davide: la sua giustificazione, la sua liberazione, il suo superamento della morte, la sua elevazione alla comunione con Dio, il suo accesso all’esistenza nuova che gli è destinata, la vita eterna, in una sola parola l’inizio della sua salvezza; questa è la parte dell’uomo nello scambio prodigioso che avviene quaggiù, in Gesù Cristo, fra Dio e la sua creatura, e tutto questo perché Gesù Cristo è già l’origine di ogni cosa. Ecco quello che dobbiamo riconoscere come spettante all’uomo nella predestinazione, se abbiamo la sicurezza che la volontà di Dio rivelata in Gesù Cristo s’identifica con la sua volontà eterna. È evidente che non è senza imporre a se stesso la più grande delle rinunce, che Dio accorda all’uomo questa partecipazione alla sua gloria; se ci è permesso esprimerci in questa maniera, diremo che non esiste, nel quadro della creazione, della gloria, della bontà, della felicità proprie a Dio stesso rinuncia più grande; siamo qui nel campo in cui Dio si priva del suo bene, in cui rinuncia a se stesso ed a tutti i privilegi della sua divinità per dare tutto questo all’uomo Gesù ed, in lui, alla sua creatura. Diciamo meglio: siamo qui nel campo in cui Dio non possiede gloria, bontà e felicità proprie se non nei beni che ha rivelato e comunicato all’uomo Gesù ed, in lui, alla sua creatura. Non vi possono essere dubbi: nella sua gloria sovrabbondante, Dio è esclusivamente amore, un amore che dona e si dona, che non ricerca il proprio tornaconto ma quello degli altri. All’abbassamento totale che il Figlio di Dio accetta in favore del Figlio dell’uomo perduto corrisponde l’elevazione totale accordata a questo Figlio dell’uomo perduto, mediante la grazia divina; è precisamente questa elevazione che è l’elemento decisivo nell’azione di Dio compiuta in Gesù Cristo e, conseguentemente, già nel consiglio divino da tutta

l’eternità; è essa il fine perseguito dal Dio che predestina ed è essa l’oggetto della volontà divina. Beninteso: Dio intende anche spogliarsi, abbassarsi in favore dell’uomo, togliere la condanna che pesa su quest’ultimo, affinché ogni giustizia sia compiuta ed il ciclo sia chiuso; lo vuole però in relazione con un solo e medesimo obiettivo: che l’uomo possa diventare, a pieno diritto, l’erede della sua gloria, della sua bontà, della sua felicità, che possa accedere alla comunione vivente con lui; questa disposizione, manifesta nell’opera della rivelazione e della riconciliazione, la si deve ugualmente trovare e rispettare come ordinamento nella predestinazione. Dobbiamo certo sapere da che cosa Dio ha voluto liberarci, ma dobbiamo ancora meglio conoscere quello che ha voluto donarci. Quello da cui ha voluto liberarci, lo possiamo conoscere unicamente perché ce ne ha liberati, come un qualcosa che è ormai completamente dietro di noi, come l’abisso ai cui bordi siamo mantenuti e custoditi; non abbiamo il diritto di fermarci alla contemplazione di tale abisso, come se fosse ancora il nostro campo, parallelamente al fatto che la nostra città celeste è nei cieli, dove il Cristo siede alla destra di Dio ed intercede per noi; non ci è consentito mettere su uno dei piatti della bilancia la caduta di Adamo, il peccato di Davide, il rinnegamento di Pietro, il tradimento di Giuda e sull’altro piatto la resurrezione di Gesù Cristo. Se infatti tutte queste abominazioni esistono, è ancora più vero che esse sono state abolite dalla resurrezione e che appartengono ormai alle cose antiche che sono passate. Il pensiero della predestinazione non può dunque suscitare in noi quei sentimenti mescolati di spavento e di gioia che certo dovremmo provare, se ci trovassimo di fronte ora ad una promessa ed ora ad una minaccia; no; la predestinazione non può che riempirci di gioia e questo precisamente perché, nella predestinazione divina, esiste un ordine, come abbiamo visto e perché quest’ordinamento è irreversibile. Questa disposizione non è un sistema del quale dovremmo considerare parallelamente le componenti; è la disposizione della volontà divina che intende seguire una certa via per far brillare la sua gloria davanti a noi, questa gloria che consiste, per Dio, nel diventare nostra salvezza, dopo averci liberato da tutto quanto ci minaccia; data questa finalità, non abbiamo che da rallegrarci. E poiché la predestinazione ci concerne unicamente in vista di questo fine (cioè della grazia) e non in forza del fardello che Dio ha dovuto e voluto innanzitutto toglierci per prenderlo su di sé, è su questa finalità che fisseremo la nostra attenzione pensando a questa dottrina ed esponendola. Questo non è ottimismo. Si tratta semplicemente di essere obbedienti e non disobbedienti, di essere riconoscenti e non ostinati.

Nell’obbedienza e nella riconoscenza, non potremo non rallegrarci della doppia predestinazione divina. Tale interpretazione della doppia predestinazione non è evidentemente possibile che ad una condizione: che l’elezione di Gesù Cristo diriga tutta la prospettiva e che, di conseguenza, siamo e restiamo risoluti nel guardare direttamente a Gesù Cristo, senza sbirciare a dritta e a manca, sia per quanto concerne il Dio-che-elegge e sia per quanto concerne l’uomo-eletto. Il Dioche-elegge è il Figlio benamato dal Padre e che corrisponde all’amore del Padre, assurto come tale a soggetto dell’origine e della predeterminazione di ogni cosa? E l’uomo-eletto, cioè l’oggetto di questa origine e di tale predeterminazione, è Gesù di Nazareth, nato nella grotta di Betlemme, morto sulla croce del Golgota e risuscitato il terzo giorno? Se tale è il caso, ne consegue che la doppia predestinazione non può essere concepita che in funzione dell’ordine che abbiamo già costatato, cioè in funzione della sproporzione che caratterizza il rapporto fra quanto Dio toglie e quanto Dio dona, fra la chenosi divina e l’elevazione umana, in una sola parola fra l’elezione e la riprovazione. Che, secondo la testimonianza neotestamentaria, la relazione fra rivelazione e riconciliazione compiute in Gesù Cristo sia proprio di questa natura, ecco quanto non è certo possibile contestare; dobbiamo vedere in questo rapporto anche il nesso che esiste all’interno della predestinazione divina?; oppure dobbiamo dirigere altrove il nostro sguardo? La dottrina tradizionale ci ha abituato a cercare altrove: non ha prospettato ed esposto la predestinazione divina in funzione dell’elezione di Gesù Cristo. È allora naturale che in essa la relazione fra il decreto di elezione ed il decreto di riprovazione sia stato esposto in maniera ben differente, ponendo i due decreti per così dire automaticamente sul medesimo piano, in modo da equilibrarsi perfettamente. Al di fuori della contemplazione della rivelazione e della riconciliazione compiute in Gesù Cristo, non abbiamo alcuna ragione che ci permette di definire, come abbiamo fatto, il rapporto che esiste in seno alla duplice predestinazione. Resta ora da sapere se la ragione che ci ha guidato fin qui in maniera così esclusiva non sia anche la disposizione cui dobbiamo ubbidire, lasciando apertamente da parte ogni altra considerazione. O meglio domandiamoci: quali sono dunque a questo punto le considerazioni che possono presentarsi in maniera abbastanza decisa da dispensarci di prendere sul serio la tabella di marcia che costituisce il motivo unico che finora ci ha determinati? Se non si riesce a dare a tale domanda una risposta sufficiente, è chiaro che si dovrà optare, volenti o nolenti, proprio per l’interpretazione che

abbiamo dato qui della doppia predestinazione. D. LA VOLONTÀ ETERNA DI DIO È UN’AZIONE

DIVINA CHE SI SVOLGE SOTTO

FORMA DI UNA STORIA

1. L’elezione divina come atto. Poiché è identica all’elezione di Gesù Cristo, la volontà eterna di Dio è un’azione divina che si svolge sotto forma di storia, d’incontro e di decisione fra Dio e l’uomo. Già nella predestinazione eterna di Dio incontriamo il Dio vivente; da tutta eternità Dio è il Vivente; ciò significa: Die esiste agendo da tutta eternità nel quadro delle sue relazioni interne come Padre, Figlio e Spirito Santo; esiste poiché si vuole e si conosce, amandosi, usando la propria sovrana libertà, dimostrando e confermando questa libertà, autodimostrandosi ed autoconfermandosi attraverso essa. Il fatto che Dio sia essere per se stesso non esclude che il suo essere sia una decisione, anzi l’include; Dio non è vivente solamente quando agisce o decide di agire all’esterno (certo è il Vivente anche quando agisce verso l’esterno, sebbene lo sia in maniera differente); no, l’insieme del suo essere e della sua azione al di fuori non sono che l’espandersi del suo essere e della sua azione interne, della sua propria vitalità personale, cioè la manifestazione all’esterno della decisione in forza della quale Dio è in se stesso quegli che effettivamente è. L’origine di tale manifestazione esterna è, nel seno di Dio stesso, la predestinazione. La predestinazione è azione: in se stesso Dio è azione in un modo e la sua opera tutta quanta nel mondo è azione anch’essa in una maniera diversa; essa segna il passaggio dall’opera interna di Dio alla sua opera esterna, dal suo esistere per se stesso, all’esistenza come Signore della creazione. Come potrebbe essere se non azione ed avvenimento?; con quale diritto potremmo permetterci di considerare Dio nella predestinazione in modo differente dal Dio vivente?; la volontà eterna di Dio, in quanto predestinazione di tutte le cose, è la vita divina sotto forma di storia, d’incontro, di decisione, elementi intercorrenti fra Dio e l’uomo; questa storia, questo incontro e questa decisione sono voluti e concepiti da tutta eternità, precedono ogni divenire e, proprio per questo, esistono per l’uomo prima ancora che Dio esista. 2. La parte di Dio. Se quanto abbiamo finora affermato è esatto, bisogna precisare che fin dall’inizio vi è presso Dio il nome e la persona di Gesù Cristo; fin dall’inizio la volontà divina è stata di dare se stesso in favore dell’uomo, sotto l’aspetto concreto dell’unità del proprio Figlio (o della sua Parola) con l’uomo Gesù di Nazareth; e questo punto di partenza significa vita, cioè storia, incontro, decisione. È presso Dio, nella sua volontà eterna,

che ha luogo l’avvenimento dell’elezione il cui risultato ci è rivelato dall’esistenza dell’uomo Gesù, attestata dalla Scrittura. È quest’uomo, l’oggetto del beneplacito divino. Perché lui precisamente? Si deve certo rispettare profondamente la scelta divina, effettuatasi in maniera tale che le sue conseguenze s’impongono come una testimonianza non equivoca del suo significato, della sua santità e della sua giustizia. Ma questo rispetto della libera scelta divina non è reale se non con piena conoscenza di causa: deve essere riconoscimento del libero amore di Dio, inteso come autore e come soggetto della scelta in questione; tale è il rispetto che ci è richiesto, comandato e permesso di fronte al beneplacito divino. La vita divina che si manifesta all’inizio nella predestinazione è la vita del suo amore, come abbiamo subito dovuto affermare tenendo conto del contenuto di questa predestinazione. Che Dio ami nella libertà non restringe, né mette in questione, bensì conferma il fatto che il suo amore è, fin dall’inizio di ogni cosa, il significato ed il motore della sovrabbondante sua vitalità interiore. Che cosa mai potremmo dire d’altro poiché il Figlio dell’uomo eletto è il Figlio stesso di Dio, cioè Dio stesso, Dio nel dono totale della sua persona? La persona dell’eletto attesta senza il minimo equivoco la qualità e l’identità di colui che elegge; testimonia in favore dell’autore dell’elezione; a posteriori certo, cioè unicamente perché l’autore dell’elezione testimonia innanzitutto in suo favore, unicamente perché il Figlio dell’uomo si trova integrato al Figlio stesso di Dio. Questo Figlio dell’uomo ci rinvia infatti alla grazia divina che si abbassa verso l’uomo per innalzarlo a se stessa; non rinvia a sé ma alla misericordia divina; testimonia dunque della libertà dell’amore di Dio, ma così facendo sottolinea ancora maggiormente la profondità e la specificità di questo amore. Attesta che la storia che si svolge fra Dio e l’uomo nella predestinazione dipende interamente dall’iniziativa divina; non sono Dio e l’uomo congiuntamente ad aver preso l’iniziativa di questa storia; è Dio solo e l’azione divina è incontestabilmente ed incondizionatamente fondamentale e primaria. L’uomo non può agire in questo campo se non perché Dio ha agito per primo; e come è naturale, quest’azione umana non ha potuto che prendere la forma di una responsabilità nei confronti dell’azione divina. Dio è il Signore nel suo decreto eterno e resterà tale nella sua azione sempre, da un capo all’altro; Dio decide ed è la sua decisione che crea la possibilità e la realtà della decisione umana; ma, ancora una volta dobbiamo ripetere che l’iniziativa sovrana di Dio non è oscura, anzi è perfettamente chiara nella sua intenzione e nella sua direzione. Dio non ha bisogno dell’uomo, ma non vuole essere

senza di lui; intende prenderlo su di sé; Dio non è solamente il proprio presupposto, bensì pure quello dell’uomo; tuttavia ciò è possibile perché Dio ha effettivamente introdotto l’uomo nel suo proprio presupposto. La preminenza assoluta in forza della quale Dio agisce è condizionata, in tanto in quanto è propria di Dio, dal fatto che precede non un niente (come sarebbe ancora una preminenza?), ma l’uomo stesso. Da tutta eternità Dio pone dunque la sua maestà (e questo significa l’atto di predestinazione divina) in questa relazione determinata con questo partner determinato. Si lega e prende posizione per essere il Dio dell’uomo. 3. La parte dell’uomo. Quella descritta è l’azione divina all’interno della predestinazione nella misura in cui Dio è il soggetto. Ma in questa azione non ci si deve fermare a questa parte. Per mezzo di essa intatti la storia, l’incontro e la decisione fra Dio e l’uomo non fanno che avere inizio. In effetti quando Dio elegge approva l’esistenza dell’uomo eletto e trova in essa una corrispondenza che gli consente di suscitare la fede dell’uomo, onde incontrare e ricevere questa fede come una decisione umana; il Dio-che-elegge dona a se stesso nell’uomo un partner che, autonomamente, potrà scegliere Dio e confermare in questa maniera che è proprio un eletto, capace di accettare il dono totale di Dio nel suo duplice significato e condurre la sua esistenza in funzione di questo dono; è questo dunque molto semplicemente, ma nell’accezione maggiore, l’autonomia della creatura, che è istituita ed assurge a legittimità nell’atto di elezione eterna da parte di Dio. Non si potrà mai sufficientemente sottolineare la libertà e la sovranità divina in questo atto; non si potrà mai sufficientemente ricordare che tutto qui è elezione gratuita, decisione ed iniziativa del beneplacito divino, che, in una sola parola, Dio possiede l’iniziativa e la preminenza assoluta nei confronti di colui che ha eletto; non si potrà mai andare sufficientemente avanti in questa direzione se non si ricorda che, nell’elezione divina, prima di tutto, si tratta della relazione fra Dio e l’uomo nella persona di Gesù Cristo. Chi prende l’iniziativa?; chi non cessa di precedere?; chi dunque decide, regna e comanda? Risposta: è Dio, sempre Dio! Fonda e mantiene l’unità fra se stesso e quest’uomo; lo chiama ad esistere di fronte a lui come suo servitore; ed è lui stesso nel suo Figlio che si identifica con quest’uomo. Lo riconosce, lo conferma e lo benedice come suo Figlio; fa di lui la sua Parola; gli concede di partecipare alla propria sofferenza nel quadro della condizione umana vulnerabile e decaduta, nella rottura e sotto il giudizio che hanno seguito la caduta. Ma parimenti gli accorda il suo diritto risuscitandolo dai morti ed introducendolo nella propria gloria divina.

Quanto all’uomo, qui non gli resta che pregare, seguire ed obbedire. Questo Figlio dell’uomo unito al Figlio di Dio non può e non vuole avere che una sola ambizione: che sia magnificato e che resti intatto l’onore del Padre che è nei cieli; la sua unica preoccupazione è di accettare e di ricevere come è stato lui stesso accettato e ricevuto nell’unità del Figlio di Dio; accettare la sua missione, accettare di condividere la sofferenza che gli è imposta, accettare infine anche di essere confermato, elevato e glorificato da parte di Dio; «che la tua volontà sia fatta e non la mia!». Vi è dunque qui teonomia, sovranità divina su tutta la linea; Gesù Cristo è lui stesso il Regno di Dio; ed è l’instaurazione di questo Regno, di questa relazione fra il Creatore e la creatura, che è precisamente la volontà divina fin dall’origine, il contenuto della predestinazione divina. Tuttavia dobbiamo sottolineare con uguale vigore che, in tutto questo, non si tratta affatto dell’instaurazione di qualche autocrazia gelosa ed ottusa: il Regno di Dio significa realmente l’amore divino rivolto verso l’esterno, il dono che Dio fa di se stesso alla propria creatura. Certo, nella sua relazione con la realtà differente da lui (e quindi in primo luogo con l’uomo), Dio vuole innanzitutto se stesso; in questa sua volontà è la sua gloria che intende manifestare e far sovrabbondare come predeterminazione di tutte le cose e di tutti gli avvenimenti; l’eccellenza del volere e dell’opera divina all’esterno deriva dal fatto che, anche qui, nelle grandi linee come nelle piccole cose, Dio vuole se stesso, compie se stesso e rivela esclusivamente se stesso. Però lo fa non solamente in se stesso, ma donandosi: ciò significa: volendo e riconoscendo la realtà differente da lui, cioè la sua creatura come tale, dandole e lasciandole un campo che le sia proprio e particolare, naturalmente in forza della sua bontà. Non sarebbe infatti Dio se volesse e permettesse un’autonomia diversa dalla sua; fuori di lui ogni autonomia non può che essere quella del diavolo, del male che, in se stesso, non ha ricevuto e non può ricevere un’esistenza propria, ma a cui anzi ogni esistenza propria è rifiutata da tutta eternità; tuttavia alla sua creatura (poiché ha voluto da tutta eternità darsi, comunicarsi e rivelarsi ad essa) Dio ha deciso di dare ugualmente un’esistenza propria ed indipendente: non perché essa la usi senza o contro di lui, bensì per lui; non perché essa la possegga in se stessa, bensì nel suo regno; non perché essa faccia concorrenza alla sua sovranità, bensì perché essa permetta di confermarla e di glorificarla, cioè di confermare e di glorificare il suo amore, che non vuole esercitare un potere meccanico, muovere dall’esterno un oggetto immobile, regnare su marionette o su schiavi, bensì intende trionfare

nell’esistenza di servitori e di amici fedeli, nella loro obbedienza, nella loro libera decisione in suo favore, non nella loro schiavitù. Tale è il senso, tale è la forza dell’elezione gratuita di Dio: a colui che Dio a scelto, è permesso di scegliere a sua volta Dio. Anche su questo punto si riconoscerà facilmente che è difficile di dire troppo o anche solo sufficientemente, non appena ci si rammenti che all’origine di tutte le vie e di tutte le opere divine, nel decreto eterno di Dio, sussiste, fra il Creatore e la creatura, quella relazione che diventa avvenimento e rivelazione in Gesù Cristo. Che cosa accade dalla parte di Dio? Nulla che richiami il dominio e la volontà di un cieco destino; Dio prende una decisione che si concretizza e diventa tangibile in una decisione corrispondente, unica e veramente sovrana della creatura stessa, cioè l’uomo Gesù; questi non è una sorta di burattino nelle mani di Dio, né una specie di portavoce o di altoparlante riducibile a semplice strumento della parola divina. In effetti l’uomo Gesù prega, parla ed agisce; lo fa con la pretesa più inaudita che ci sia; pretesa che lo fa scambiare per un folle ed alla fin fine accusare come bestemmiatore contro Dio. Si considera come il Messia ed il Figlio di Dio; accetta che lo si chiami Kύριоς (Signore) e si comporta effettivamente come tale. Parla ugualmente della sua sofferenza, senza vedervi però una necessità imposta dall’esterno, anzi ne parla come di una sofferenza voluta ed accettata. Infine la sua glorificazione finale non è mai per lui oggetto di un’attesa e di una speranza vaghe, bensì il fine verso cui avanza con la medesima sicurezza con cui se ne va incontro alla derelizione che l’ha preceduta. È precisamente come testimone del Regno di Dio autenticamente instaurato in mezzo a noi che egli può e deve essere ugualmente (proprio lui, l’uomo Gesù!) il vero re, dapprima nascosto ed in seguito manifesto, re che regna sui cuori, ma anche sui demoni e sulle malattie, cui i venti ed il mare e persino la morte obbediscono. Re lo è e resta davanti a Pilato. Re lo è e resta infine e soprattutto sulla croce. Questo vi è di assolutamente sconvolgente nella vita di Gesù e nella sua persona: ci troviamo di fronte ad un uomo che non si limita ad attestare la sovranità di Dio mediante la parola e l’azione; questo, altri profeti l’hanno fatto; ed evidentemente Gesù lo ha fatto a sua volta, ma in modo tale che, portando questa testimonianza, ha rivendicato ed esercitato lui stesso la sovranità e la signoria di Dio. Donando se stesso all’uomo nella persona di Gesù Cristo, Dio ha compiuto un’opera perfetta e miracolosa: non ha giocato con l’uomo, non l’ha mosso ed utilizzato come un oggetto qualsiasi, lo ha anzi innalzato alla dignità di soggetto, gli ha dato un’esistenza propria ed

un’autonomia reale, lo rende libero e lo fa re, precisamente, in maniera che la signoria sovrana di Dio prenda forma e si riveli proprio qui in quella dell’uomo. Come concepire allora non dico la esistenza, ma la semplice possibilità di una concorrenza sotto qualsivoglia forma?; come immaginare anche solo l’ombra di un conflitto fra teonomia ed autonomia?; come potrebbe Dio in questo caso specifico essere geloso e come potrebbe l’uomo oltrapassare i suoi diriti? Certo, agli occhi dei suoi contemporanei ebrei Gesù ha fatto figura di usurpatore e di impostore, incolpato e condannato per crimine di lesa maestà divina. Perché questo però? Perché i suoi contemporanei non hanno saputo vedere il servitore di Dio in colui che si è presentato ad essi come un re; ed inversamente perché non hanno saputo discernere il re nel servitore; in altre parole perché hanno misconosciuto il vero Dio ed il vero uomo, restando nascosta ai loro occhi la volontà divina. Questo tuttavia (come dobbiamo subito precisare se riconosciamo che il decreto eterno di Dio fa parte della rivelazione) non è solamente un avvenimento temporale in Gesù Cristo, bensì la volontà eterna di Dio manifestata nel tempo. La volontà eterna di Dio è l’uomo, testimone del regno di Dio e quindi, proprio per questo, regalmente libero, l’agnello di Dio che porta i peccati del mondo e proprio per questo il leone di Giuda che ha vinto il mondo. Assumendo nei confronti di Dio l’atteggiamento responsabile più semplice, più umile, più totale e riconoscendo così l’assoluta preminenza divina, quest’uomo è e sarà lui stesso un essere indipendente; anzi è e sarà l’essere sovrano e, conseguentemente, l’immagine di Dio all’interno della creazione. La volontà divina è l’atto della preghiera (in cui la confidenza in se stessi scompare per lasciare spazio alla confidenza in Dio); quest’atto segna nell’uomo la nascita di un’autentica coscienza di sé, che gli consente e gli ordina di pensare, di conoscere e di agire cessando di temere tutto quanto al di sotto, accanto, al di sopra di lui può essergli contrario e minacciarlo; l’uomo diventa così capace di far valere su ogni cosa una legittima pretesa ed una pretesa necessaria, quindi efficace: gli è cioè consentito di dominare nella misura stessa in cui intende servire. Se Gesù è stato quest’uomo e se di conseguenza, proprio per questo, è l’uomo eletto da Dio fin dall’origine, allora bisogna dire: la volontà divina ha per oggetto la vita di quest’uomo, che è tutt’intera preghiera. Siamo di fronte all’uomo che è fin dall’inizio presso Dio. È quest’uomo che l’amore di Dio riguarda e cerca. È a lui, alla sua esistenza, che si rapporta integralmente l’opera divina decisa da tutta eternità.

4. Il decreto del Dio vivente. Se fissiamo ora la nostra attenzione sul decreto eterno di Dio nella sua totalità, che cosa vediamo? Vediamo che è il decreto del Dio vivente, che è esso stesso anzi il Dio vivente all’inizio di tutte le sue vie, poiché è un avvenimento in seno alla divinità stessa: l’avvenimento della storia, dell’incontro e della decisione fra Dio e l’uomo. Dio sceglie l’uomo e ciò si manifesta con il fatto che a sua volta l’uomo sceglie Dio, per essere libero compiendo la sua volontà, per ricevere e per possedere davanti a lui un’esistenza propria ed autonoma. Tutto rileva qui dalla sovranità e dall’iniziativa divine. Il decreto di Dio è nella sua interezza elezione gratuita. Ma la decisione del Dio sovrano, l’elezione gratuita (in cui i due partners restano quello che sono, senza inversioni o confusioni possibili) ha essenzialmente il seguente contenuto: Dio sceglie l’uomo, onde questi sia chiamato a sceglierlo a sua volta, onde preghi e si doni così a lui, onde, nell’atto di questa scelta e quindi di questa preghiera, esista autonomamente nella libertà di fronte a lui. Rappresentante in germe la realtà differente da Dio, sebbene legata a lui nella pace e nella gioia: questo è l’uomo, senso di tutta la creazione, cui è consentito e comandato di avere un’autonomia autentica e reale nel campo che è il proprio. Nel contesto che è il nostro dobbiamo mettere in evidenza che la predestinazione divina intesa in questa maniera è un’azione vivente. In effetti la teonomia di Dio che postula e fonda l’autonomia umana, la scelta dell’uomo da parte di Dio che si traduce nella scelta di Dio da parte dell’uomo attestante che quest’ultimo può e deve anche scegliere se stesso, confermarsi ed affermarsi, tutto questo non può essere compreso e descritto se non come un atto, poiché tutto questo è essenzialmente un atto. Nessuno degli elementi di quest’azione potrebbe essere tolto dall’insieme e considerato in se stesso; né si potrebbe fare di tutti questi elementi un sistema che si può esporre come tale; per averne una visione autentica si deve guardare alla persona vivente di Gesù Cristo. Tutto questo è un movimento, una storia totalmente identica alla volontà divina, in cui però è incluso ugualmente l’uomo, la sua volontà, la sua decisione, la sua esistenza indipendente. Ed è questa volontà di Dio nella sua pienezza che si trova all’inizio presso Dio. È questo atto della volontà divina che è la predestinazione. Se così stanno le cose, la nostra esposizione può e deve assumere un tono polemico: la predestinazione è l’atto stesso della volontà divina così come noi l’abbiamo definita; non è un’astrazione, né il risultato per così dire immobile e stereotipo di tale atto; è dunque falso affermare che il divenire universale e l’esistenza umana determinati dalla predestinazione sono

certo una storia, un incontro ed un avvenimento viventi, ma che la predestinazione in se stessa è una realtà fissa ed immutabile. Non è quindi vero che, sotto la forma della predestinazione, una specie di morte costituirebbe la legge divina che presiede alla vita della creazione. Tocchiamo qui un limite ulteriore della dottrina tradizionale della predestinazione che ha visto in questo atto (e ciò si concepisce bene quando si prende avvio da una dottrina più pagana che cristiana su Dio) una decisione definitivamente conclusa ed irreversibile: assumendola da tutta eternità, Dio ne sarebbe in qualche modo divenuto prigioniero nell’ordine del tempo ed in forza della sua immutabilità, anch’egli non potrebbe più cambiare nulla. È evidente che la nozione di decreto assoluto, dominante nel protestantesimo classico, ha potuto dare luogo ed ha effettivamente dato luogo ad un malinteso che, disgraziatamente ha spinto gli spiriti proprio in questa direzione. Chi non penserebbe infatti, intendendo il termine decreto, a qualche ordinanza politico-militare, ad una legge, ad uno statuto, ad un regolamento che indichi ed esprima nero su bianco ed in maniera molto precisa la volontà di un sovrano? È vero che il decreto di un sovrano umano ha pur qualche vantaggio: spiegandolo ed applicandolo, si deve e si può, pur rispettandone la lettera, cercare di comprendere qual è la volontà viva di colui che l’ha promulgato; soprattutto, un simile decreto può essere corretto o abrogato da un altro; e questo, prima o poi, finisce appunto per accadere; non è dunque necessariamente una lettera morta, una lettera che uccide, ma può essere ugualmente un qualchecosa che dà la vita. Nel nostro caso però ci si riferisce ad un decreto divino cui non è affatto possibile attribuire le caratteristiche di un semplice decreto umano; è divino (si può giungere a dire) perché la volontà che vi si inscrive è definitivamente fissata; di conseguenza è impossibile mettersi in cerca di una volontà al di là della lettera che l’esprime e che, per definizione, esclude ogni modificazione ed ogni abrogazione. Ciò può conseguentemente significare che Dio ha espresso la sua volontà una volta per tutte nella sua eternità pretemporale, quando ha concepito e promulgato questo decreto; allora avrebbe scelto chi deve essere alla sua destra e chi deve essere alla sua sinistra; allora avrebbe deciso di salvare e di perdere, di far vivere e di far morire chi vuole, secondo il suo beneplacito. In quanto decisione vivente, quest’atto è perfectum, un passato eterno; non si dà più quindi oggi nel quadro temporale, una scelta ed un’opzione divine; Dio non agisce più nel presente se non per compiere il suo decreto, per eseguire una decisione che già è stata presa. Per noi che viviamo nel tempo, il Dio vivente è

solo più un semplice esecutore: è là per compiere il decreto della predestinazione, ma non gioca nessun ruolo nella predestinazione stessa e noi non possiamo riconoscerlo in essa. Tutto ciò che ci è consentito riconoscere nella predestinazione è il monumento funebre, il mausoleo del Dio vivente. Per noi, in questa prospettiva, non vi è dunque più un Dio vivente; tutta la vita divina si è esaurita nel quadro del decreto della predestinazione; Dio è vivente per noi, se ci fermiamo a quanto fa quaggiù, solo nella misura in cui cessa di esserlo altrove, nella sua eternità pretemporale; le sue parole ed i suoi atti non sono altro, in questo mondo, che l’eco del tema enunciato nella sua decisione eterna e che nel presente non ha più nessun valore autonomo. Del Dio che elegge da tutta eternità occorre dunque dire: è stato. Non è e non sarà se non nella misura in cui si trova stabilita la decisione nella quale precede tutto quanto è e sarà, se non nella misura in cui le cose presenti e future sono determinate da questa decisione. Vi è stata decisione e determinazione; Dio si è pronunciato; ma ora, nel quadro del tempo, non procede più a nessuna decisione. Nell’ordine temporale non sussistono che esseri ed avvenimenti rilevanti dalla decisione che li ha determinati nel passato. Lo si vede subito: in questa prospettiva è la morte (e la morte eretta ad assoluto) che sotto forma della decisione e della scelta eterna di Dio costituisce la legge divina che presiede ad ogni vita creata; un codice, valido ed efficace senza dubbio alcuno, vi sarebbe fin dall’inizio presso Dio; il Dio eterno si sarebbe limitato ad edificare tale codice, infondendogli forza di legge su ogni vita creata nell’ordine del tempo. Ma Dio stesso, in quanto Dio vivente, si sarebbe in qualche modo ritirato dietro a questo codice, per riposarsi e per trovare in se stesso la sua felicità; avrebbe abbandonato la sua creatura all’autorità della lettera di quel codice elaborato una volta per tutte; si sarebbe anzi autolegato a questa lettera nei confronti della sua creatura. Tale è la concezione che poteva risultare e che si è effettivamente sviluppata allorché si è usato del decreto assoluta per definire la predestinazione. Indiscutibilmente una simile concezione ha favorito il deismo, che stabilisce una separazione fra il creatore e la creatura e secondo cui la divinità assiste passivamente agli avvenimenti, mentre il mondo, ricevuto un impulso da parte di Dio, segue poi il proprio corso ed evolve in maniera autonoma; se si concepisce la decisione divina posta all’origine di tutte le cose come una decisione irrevocabile, precedente l’esistenza della creatura, si avrà certo difficoltà a sostenere, a lungo andare, che Dio continua a dirigere l’evoluzione consecutiva a questa determinazione primaria; se la predestinazione divina

non ha più nulla che la ponga come azione reale, ne consegue che Dio stesso cessa di essere azione e che è perfettamente assurdo domandare ancora di credere in lui, coinvolti come siamo nel dinamismo di un’evoluzione che più nulla può modificare. Non ci resta che considerare Dio come il principio enigmatico di quel divenire di cui siamo in realtà prigionieri ed a riconoscere il codice che ha promulgata fin dall’inizio per regolare definitivamente il cammino dell’universo e della nostra esistenza. È logico che in queste condizioni si indirizzi la nostra attenzione su altre grandezze, relative certo, ma attuali per porre in esse quella confidenza cui questo codice e colui che lo ha elaborato non possono più pretendere, quella confidenza il cui oggetto non può più essere il Dio che un tempo ha determinato ogni cosa, proprio perché questo Dio non è più il Dio che elegge e decide qui ed ora. Per essere l’oggetto della nostra fede, Dio dovrebbe infatti essere un Dio la cui scelta e la cui decisione esistono nel presente, un Dio che elegge e che decide oggi; se tale non è il caso e se di conseguenza non si può credere in lui, non si ha più un cammino tanto lungo per giungere a negarne l’esistenza; diciamo meglio: lo si è già negato per il fatto che non si crede più in lui, per il fatto che non lo si riconosce più come il Dio che elegge e decide oggi. Tuttavia non è necessario, né prudente, rinunciare per principio alla nozione di decreto per la semplice ragione che tale nozione rischia di condurci ad un grave malinteso; essa rende infatti conto di un dato di fatto che non è consentito negare e che anzi deve essere riconosciuto e sottolineato con estrema serietà; pone cioè in evidenza la costanza stessa di Dio e la sua fedeltà, sottolinea il carattere assoluto e definitivo del libero amore in forza del quale Dio ha proceduto alla sua decisione ed alla sua scelta, all’origine di tutte le cose. In questa decisione ed in questa scelta Dio non può certamente cambiare. Non ci si può quindi esprimere rettamente senza ricorrere alla nozione di un decreto, di un’ordinanza senza pari, con forza di legge nel quadro del tempo e dei fenomeni temporali nella loro globalità; non si potrà lasciare tanto facilmente da parte a questo proposito l’immagine di una lettera, di un codice eterno di cui Dio esegue le prescrizioni nella vita della sua creatura; facciamo attenzione a non cadere nell’errore del «decreto assoluto» (volendo evitare ad ogni costo una terminologia giuridica), concezione che si è creduto giusto introdurre nella dottrina tradizionale della predestinazione evidentemente per compensare quello che di troppo legalista poteva avere la nozione di decreto. Non dimentichiamo che nella dottrina della predestinazione siamo confrontati con la legge di Dio e non con qualche potenza divina che regola

arbitrariamente l’esistenza umana Per questa ragione abbiamo parlato, ed ancora dovremo parlare, della volontà eterna di Dio come di una decisione ben stabilita, come di un decreto. Ma (ed in questo ci scostiamo dalla dottrina tradizionale) dobbiamo dire che il decreto divino non è una cosa morta, bensì una realtà vivente, più viva di qualsiasi decreto umano. Dal momento che Dio ha preso la sua decisione in forza della sua costanza e della sua fedeltà, il testo della sua decisione ha forza di legge come nessun testo umano mai potrebbe averla. Però la lettera di questo testo è contemporaneamente spirito e vita, come non può essere per nessun codice umano, anche il migliore, anche quello applicato con la massima chiaroveggenza. Da tutta eternità Dio si è pronunciato, da tutta eternità ha preso la sua decisione ed operato la propria scelta: abbiamo a che fare senz’altro con un passato eterno, con un’azione compiuta e definitiva, con un fatto che precede ogni esistenza creata, in quanto la predetermina, che dirige e domina ogni cosa ed ogni avvenimento con una legge più ferma ed inflessibile del granito e dell’acciaio; ma la storia così determinata si svolge senza cessare di essere la vita divina; stabilita da tutta eternità, essa possiede, con il carattere di una compiutezza senza pari, il carattere di un presente e di un avvenire senza paragoni. Rilevando dall’eternità pretemporale, tale storia non resta al di là del tempo; poiché non vi è che un’unica eternità divina, essa lo accompagna anzi come un’eternità sovratemporale e lo segue come un’eternità postemporale; questa storia non è quindi solo un fatto del passato; è e sarà. Certo, essa è avvenuta: nulla può indebolire la portata di questo fatto. Però essa accade ed accadrà, perché è il principio e l’essenza di ogni divenire. Come può essere concepita allora se non come un divenire?; come può cessare di essere continuamente un avvenimento?; come può partecipare solamente alla perfezione del compiuto e non alle altre del presente e del futuro?; come la predestinazione divina può essere considerata allora un fatto passato, caduco, morto di cui non ci resta che registrare gli effetti?; che significa «un tempo» quando abbiamo a che fare con l’eternità divina? «Un tempo» significa senza dubbio anche un momento del passato, ma solo perché nell’eternità di Dio esiste pure un «oggi» ed un «dopo» e solo perché l’eternità di Dio non è la negazione del tempo, bensì solamente dei suoi limiti; qui «un tempo» non può significare semplicemente «prima»; parlando dell’eternità divina dobbiamo comprendere che il «prima» è anche il «presente» ed il «futuro». In altre parole: la predestinazione di Dio deve essere intesa certo come un fatto compiuto, non però come un fatto liquidato e passato: essa è, in tutta la forza

del termine, un avvenimento che si produce oggi. È sicuramente prima di tutti i tempi (ma anche al di sopra di tutti i tempi e nel tempo) che Dio è il Dio-chepredestina, istituendo presso di sé l’inizio di tutte le cose, scegliendo, decidendo, ingaggiandosi e legandosi (a noi, sì, ma prima ancora a se stesso), elaborando la lettera della sua legge che presiede ad ogni esistenza creata. È dunque falso pensare che Dio abbia regolato in un tempo passato la sorte di tutte le cose, per non più ritornarci o per non occuparsi che delle conseguenze della sua volontà. Se si vuole ad ogni costo parlare qui di causa e di effetti possiamo dire: volendo l’effetto, Dio non cessa di volere la causa; non cessa di essere il Dio vivente all’interno della causa stessa; non è una semplice eco: è e resta il tema che, sempre e di nuovo, si propone in forza propria alla nostra attenzione. La predestinazione è un’azione divina che nulla può alterare. Ecco quanto affermiamo nei confronti della dottrina tradizionale e contro di essa; pur cercando di rispettare la libertà di Dio, essa non ha potuto che infirmarla, rendendo Dio prigioniero di se stesso nel quadro della predestinazione. Dobbiamo quindi ricordarci che il termine praedestinatio (come quelli di creatio, di reconciliatio, di vocatio, di iustificatio, di sanctificatio e di glorificatio) designa un’azione divina e che non vi è nessun motivo per sostituirvi un concetto descrivente una realtà ferma ed immobile; si tratta precisamente di vedere e di comprendere che la predestinazione, nel suo carattere immutabile, è un’azione di Dio e che essa, a questo titolo, esiste fin dall’inizio presso Dio; parlando della predestinazione, parliamo di un movimento eterno. Per affermare questo, non ci riferiamo certo ad un concetto: è l’analisi stessa della realtà descritta dal termine «predestinazione» ad averci mostrato che tale termine non può che designare un dinamismo. La scelta di Dio e l’essere scelto dell’uomo derivante da tale scelta, l’intima interdipendenza segnalata fra teonomia ed autonomia, fra sovranità divina e fede umana non hanno assolutamente nulla di sistematico, poiché sono l’oggetto di una legge la cui specificità è di essere spirito e vita, di essere, in una sola parola, il contenuto di una storia concreta. La predestinazione non è semplicemente lo schema o il programma di una storia. È realmente essa stessa una storia precisa ed unica all’interno della volontà e della decisione divina. In quanto essa è una decisione concreta, un atto della vita e dello spirito di Dio, è la legge che precede ogni esistenza creata. Dato il suo carattere ed il suo contenuto, il decreto divino non può mai diventare un qualche cosa di rigido, una grandezza chiusa, bloccata, appartenente al passato. Certo, rilevando da Dio, tale decreto non può che essere immutabile

ed avere forza di legge; dato però il contenuto concreto datogli da Dio, non può cessare di essere un avvenimento, di avere un carattere attuale. Così la storia, l’incontro e la decisione eterne intercorrenti fra Dio e l’uomo (contenuto dell’evangelo in cui dobbiamo riconoscere la sostanza della predestinazione) non segnano nessuna rottura; non pervengono ad un dato statico concepito come presupposto di tutte le storie, gli incontri, le decisioni inscriventesi nel quadro della realtà temporale; come potrebbe la predestinazione essere storia, incontro e decisione se dovesse cessare di esistere con l’avvenimento del tempo, se potesse essere in qualche modo sostituita e soppiantata da quanto si svolge nel tempo? È proprio in quanto storia, incontro e decisione, in quanto atto dello spirito e della vita di Dio, in quanto determinazione ininterrotta di colui che, essendo il Signore di tutte le cose, ha il diritto ed il potere di agire in questa maniera che la predestinazione è il principio di ogni manifestazione dell’esistenza creata. Non si limita ad esistere questo principio, ma vive; non ha solo forza di legge, ma si fa valere; non possiede semplicemente un potere, ma lo esercita; non è solo stato posto, ma agisce. Che cosa dunque resta immutato ed immutabile? Senza dubbio alcuno, Dio stesso nella sua essenza trinitaria, in quanto è libero amore. E con Dio stesso, il suo decreto di elezione, il fatto che egli sceglie l’uomo secondo il suo beneplacito e che l’uomo è condotto a scegliere a sua volta proprio Dio, onde trovare in lui la sua gioia. Con Dio stesso ed in quanto identico alla sua volontà eterna, questo decreto, con tutto quello che gli è inerente, permane immutato ed immutabile, costituendo la determinazione eterna di ogni avvenimento temporale. Eterno non significa però morte, bensì vita; l’immutabile nell’accezione reale del termine non è sinonimo di immobilità; l’immutabile non può essere che la forza che muove ogni cosa e che muove anzi se stessa in senso specifico. Immutabile ed immutato resta anche il fatto che l’origine di ogni realtà presso Dio è essa stessa storia, incontro e decisione. Ecco la predestinazione. Definendola in questa maniera, non la confondiamo certamente con il movimento della storia universale, né con quello della storia della salvezza in cui la storia universale trova il suo senso e la sua finalità; la storia, l’incontro e la decisione originali intercorrenti fra Dio e l’uomo non s’identificano né con la storia universale, né con la storia della salvezza; costituiscono il mistero nascosto in seno alla prima, divenuto manifesto in seno alla seconda. Il mistero di ogni vita è l’esistenza del Dio vivente, in quanto creatore, custode, sostegno e direttore di ogni vita; il mistero di ogni avvenimento che si svolge nel mondo è la decisione divina che tutto precede

eternamente; la stessa storia della salvezza, verso cui tende ogni altra storia ed a causa della quale tutto quanto capita deve capitare, si costituisce in virtù del fatto che la decisione divina precedente ogni realtà, l’elezione dell’uomo da parte di Dio ed il consequente essere eletto dell’uomo diventano visibili e manifesti nel tempo sotto la forma della Parola di Dio proclamata e ricevuta, sotto la forma del popolo d’Israele e della chiesa, della vocazione, della giustificazione, della santificazione e della glorificazione dell’uomo che crede, ama e spera. Ecco perché dobbiamo riconoscere direttamente in ogni cosa la predestinazione divina, l’eterna decisione del suo libero amore; ed ecco perché qui non vi può essere questione né di autonomia assoluta, né d’assorbimento del temporale da parte dell’eterno, né di azioni, esperienze, meriti e beni cui l’uomo potrebbe richiamarsi, né di gloria, né di pretese cui l’uomo potrebbe appellarsi; vi può essere questione solo d’imitazione, di umiltà, di riconoscenza e di adorazione. Vi può essere questione, anche ed alla fin fine, di quella regale coscienza di sé cui accede l’uomo eletto. Poiché nella storia della salvezza è la predestinazione eterna ad esserci svelata, dovremo riconoscere quest’ultima come il mistero di tutti gli altri avvenimenti temporali ed è proprio partendo da essa che noi dovremo, se non comprendere, almeno considerare e valutare nell’insieme e nei dettagli tutti questi altri avvenimenti. La predestinazione divina non ci è dunque in nessuna maniera impenetrabile in linea di principio; lo sarebbe certo se non fosse che un testo di legge composto in qualche sfera eterna, lontana ed inaccessibile; essa è invece un atto della vita e dello spirito divino, che ci concerne perché si produce nel bel mezzo del nostro tempo in maniera certo non meno reale di quanto si verifichi nel quadro inaccessibile dell’eternità pretemporale. La predestinazione è dunque il mistero attuale (e nella storia della salvezza il mistero attualmente svelato) di ogni storia, di ogni incontro, di ogni decisione intercorrente fra Dio e l’uomo. Avviene e si inscrive nel tempo da tutta eternità; rivelandosi resta certo un mistero; ma è perché sia conoscibile e conosciuta come mistero. Si attua, mentre la Parola di Dio si manifesta; diventa avvenimento nella fondazione, nell’esistenza e nella condotta d’Israele e della chiesa; prende forma nella vocazione, nella giustificazione, nella santificazione e nella glorificazione dell’uomo; trapassa in fatto attuale là dove siamo risvegliati alla fede, all’amore ed alla speranza. Tuttavia essa esiste ugualmente là dove noi non la discerniamo direttamente, ma dove, ricordandoci di essa, riusciamo a riconoscerla (e lo possiamo fare perché l’abbiamo riconosciuta direttamente nella storia della salvezza) come una

realtà nascosta all’interno della storia universale. È però evidente che per conoscerla e riconoscerla bisogna essere presi nel suo movimento, cioè dobbiamo comprendere che essa ci riguarda in maniera somma; non esiste nessuna conoscenza della predestinazione al di fuori del cerchio descritto dal movimento del Dio-che-elegge verso l’uomo eletto e dell’uomo eletto verso il Dio-che-elegge; come potrebbe essere diversamente, dato che la predestinazione è questo dinamismo stesso, identificantesi con il decreto eterno di Dio, voluto da Dio e voluto da tutta eternità in maniera da volerlo sempre ed ancora? Di fronte a questo cerchio chiuso che costituisce l’elezione (di fronte cioè alla predestinazione divina ed eterna) non si può essere e rimanere spettatori; restando all’esterno, non possiamo vedere alcunché; per questa ragione dobbiamo considerare ogni conoscenza della predestinazione, per quanto debole sia, semplicemente come un invito a considerarci ed a comportarci sempre meglio e sempre più seriamente come gente che si trova già all’interno di questo cerchio, onde applicarci a cogliere in seguito, con più chiaroveggenza e con maggiore ampiezza, la verità che si propone alla nostra attenzione qui, direttamente o indirettamente. 5. Importanza del carattere attuale della predestinazione. La portata fondamentale del carattere attuale della predestinazione è subito evidente. Se la predestinazione è, senza alcuna variante né cambiamento, una storia, un incontro ed una decisione intercorrenti fra Dio e l’uomo, ne consegue che esiste sicuramente nel tempo un’elezione divina ed un essere eletto dell’uomo, una riprovazione divina ed un essere riprovato dell’uomo; diciamolo però subito: in tutto questo Dio non è legato, né prigioniero; non è cioè obbligato, dopo aver fatto un primo passo, a farne un secondo ed un terzo analoghi. Se è esatto che il Dioche-predestina non è solamente libero, ma che resta libero, se è esatto che non cessa di usare la sua libertà, ma che continua a pronunciarsi, è chiaro che bisogna fare i conti con decisioni sempre nuove da parte sua, nel quadro del tempo in cui si prosegue il suo disegno eterno. Allora (e la Bibbia parla esattamente in questa maniera) non esiste elezione divina cui non possa succedere una riprovazione, come non esiste riprovazione divina cui non possa succedere un’elezione. Sempre e costantemente, Dio resta il Signore della sua azione ed il padrone del cammino che ha scelto; sempre resta uguale a se stesso, come sempre permane l’ordine dell’elezione e della riprovazione di cui abbiamo parlato precedentemente; però Dio è e resta sempre anche il Dio vivente, di modo che l’ordine da lui istituito non cessa di essere attraversato ed animato dalla sua vita, sicché, all’interno di tale ordine, dei cambiamenti

saranno sempre possibili ed anzi effettivi. Né nella storia d’Israele e della chiesa, né nella vita degli individui questi mutamenti dovranno essere considerati come semplici apparenze o come speci d’eclisse suscettibili di oscurare momentaneamente il corso delle cose fissato da Dio; bisognerà anzi discernere in essi (nella novità, nella differenziazione e persino nella contraddizione rivelate dalla loro successione) la legge stessa della predestinazione divina, cioè l’azione del Dio vivente che è libero di amare là dove si è irritato e d’irritarsi là dove ha amato, che è libero di uccidere coloro che vivono e di far vivere i morti, che può pentirsi e cessare di pentirsi. È così che la predestinazione è descritta nel passo classico di Rom. IX-XI, dove tutto s’illumina non appena si avverte che non si tratta qui di un testo definitivamente fissato e stereotipo, bensì dell’azione eterna di Dio nell’ordine temporale. Simile interpretazione è però legata al fatto che la predestinazione sia identica all’elezione di Gesù Cristo. Se a questo punto noi non partiamo da Gesù Cristo, dovremo costatare che argomenti e contrargomenti si accumulano e si equilibrano indefinitivamente: affermazioni concernenti l’esistenza di un essere divino immobile, presiedente al destino di ogni realtà; affermazioni relative all’esistenza di una storia divina costantemente in movimento; staticità e dinamismo; e forse anche (causa disperata!) filosofia quietista da un lato e concezione attivista della vita dall’altro. Come stabilire la ragione e quale criterio può permettere di stabilire dove si trova il divino o dove non si reperisce? Anche qui la sola ragione che finalmente determina la nostra decisione è Gesù Cristo. Nella misura in cui noi riconosciamo che, nella persona e nell’opera di Gesù Cristo, la predestinazione è indiscutibilmente un avvenimento, una storia, un incontro ed una decisione fra Dio e l’uomo, ne riconosciamo anche la portata attuale. Dio elegge e l’uomo è eletto, Dio si abbassa e l’uomo è innalzato, Dio si dona a noi per dare noi a lui: tutto questo dinamismo che si produce in Gesù Cristo (il Figlio di Dio ed il Figlio dell’uomo) e che si manifesta identico alla decisione divina eterna, tutta questa storia in cui discerniamo e possiamo conoscere la predestinazione stessa, è un’azione; o altrimenti cessa di essere quello che è. Si tratta di un’azione qualificata, precisa, definita e compiuta; non è in contraddizione con l’essere di Dio; in forza di tale caratterizzazione essa non è infatti semplicemente spirito, ma anche lettera, possedendo così ugualmente la validità e il potere di una legge. Per questa ragione prenderemo ben guardia di schierarci in questa materia fra i partigiani del dinamismo contro i

rappresentanti della staticità, fra gli adepti dell’attivismo contro i fautori del quietismo; bisogna rinviare spalla a spalla gli avversari; riconoscendo il mistero della decisione divina nella persona concreta di Gesù Cristo, rifiutiamo certo il dinamismo e l’attivismo, ma considerando Gesù Cristo come la decisione del Dio eternamente vivente ci opponiamo ugualmente alla staticità ed al quietismo. È quanto deve manifestarsi anche in questo nostro contesto in maniera evidente. Si può concepire un decreto assoluto come un principio rigido ed eterno regolante ogni esistenza temporale, ma non si può certamente concepire Gesù Cristo in maniera differente da quella che lo pone come Signore vivente che dirige ogni esistenza temporale. Che il Padre ami il Figlio e che il Figlio obbedisca al Padre, che in questo amore ed in questa obbedienza Dio si doni all’uomo e ne assuma la bassezza per innalzarlo alla sua altezza, che l’uomo sia così reso libero per scegliere a sua volta il Dio che lo ha eletto, tutto questo è realmente ed esclusivamente una storia. È semplicemente impossibile parlare a questo riguardo di effetti qualsiasi derivanti da una non meglio identificata causa prima ed immobile ed inflessibile; se l’azione divina è il contenuto dell’eternità prima del tempo, questa eternità non potrebbe restare al di là del tempo; per definizione s’inscrive nel tempo, in cui diventa storia. Chi è e che cos’è Gesù Cristo, questo non può che essere raccontato; non può essere colto e definito come un sistema. La predestinazione è identica all’elezione di Gesù Cristo. Affermare, partendo da questo assioma, che la predestinazione ha una portata attuale, è enunciare una verità inattaccabile. Ma tale verità non ha nulla da spartire con le concezioni filosofiche ricordate poco fa. Contraddice l’una e non appoggia l’altra. In quanto verità teologicamente corretta, non può essere concepita ed enunciata che partendo dall’identità fra predestinazione ed elezione di Gesù Cristo. 6. Il Congresso Internazionale di Teologia Calvinista. La tesi dell’attualità della predestinazione è stata difesa al Congresso Internazionale di Teologia Calvinista svoltosi a Ginevra nel 1936 da Peter Barth nel suo studio: Il fondamento biblico della dottrina della predestinazione in Calvino, in cui lo studioso non nasconde la sua intenzione di correggere il Riformatore. La libertà di Dio, nel suo giudizio e nella sua misericordia, deve essere compresa in questa maniera: «Dio, nel dinamismo vivente della sua azione regale! Dio, le cui mani sono libere di creare la luce e le tenebre, di aprire e di chiudere, di legare e di sciogliere secondo il suo beneplacito! La Scrittura non ci pone forse di fronte al Dio che, ad ogni istante, è libero di pronunciarsi, che passa da una

decisione all’altra, invariabilment, come il Signore della vita e della morte, cui spetta eleggere e riprovare, abbassare ed innalzare? Data l’immagine che la Bibbia ci presenta di Dio, del suo pensiero, della sua azione, è impossibile lasciare in disparte la nozione di pentimento divino. Secondo la testimonianza biblica, Dio si riserva sempre la libertà di farci conoscere la sua potenza sovrana, operando mutamenti imprevisti e sconvolgenti. Il Signore uccide e fa vivere, fa discendere al soggiorno dei morti e fa risalire, come è detto in I Sam. II, 6. Nel contempo la Scrittura ci mostra che Dio, il Signore — che può fare quello che vuole — si comporta nei nostri confronti in un modo misteriosamente vivente. Parla della necessità che noi abbiamo di cercare Dio, di chiedere, di bussare alla porta, ma parla anche del Dio che ci cerca e che attende con pazienza che noi ritorniamo a lui. Ciò significa che anche l’uomo è chiamato alla decisione. Nessuna predeterminazione concernente il risultato del nostro combattimento può dispensarci dal trascurare l’estrema serietà della nostra situazione presente. L’ordine: lavorate alla vostra salvezza con timore e tremore conserva tutto il suo valore, precisamente perché Dio produce in noi il volere ed il fare. È chiaramente un errore l’aver adottato la nozione di causa per descrivere la relazione che lega la volontà divina alla volontà umana. Per la Scrittura la supremazia della grazia di Dio che ci incontra è sempre un’azione di Dio, del suo Spirito; tale atto non può mai essere spogliato del suo carattere esistenziale per essere ricondotto al livello di una relazione di causalità. È opportuno tradurre Es. III, 14: Sarò colui che sarò! Dio non è legato. È insondabilmente se stesso nella libertà del suo giudizio e nella libertà della sua grazia»4. A Ginevra queste indicazioni sono state curiosamente eluse o hanno urtato una dichiarata opposizione. È stato subito evidente (ed il fatto doveva confermarsi in seguito) che i calvinisti integrali costituenti il nucleo dell’assemblea non potevano accettare che Calvino fosse rivisto e corretto. Fin dall’inizio della discussione vi fu qualcuno che dichiarava, senza poter subito motivare la sua protesta, che la conclusione dell’intervento di Peter Barth non gli era piaciuta5. Nel corso del dibattito si sono abbordati i problemi centrali: che cosa bisogna pensare di una nozione come quella di pentimento divino, impossibile da scartare in una teologia biblica come intende essere la teologia calvinista? Ecco quanto hanno dichiarato su questo punto parecchi rappresentanti del Congresso, fra i più competenti della corrente maggioritaria: il Calvino esegeta deve essere distinto dal Calvino dommatico, poiché l’esegesi e la dommatica rappresentano due discipline differenti. Come esegeta

(interpretando tra l’altro il passo di Ez. XVIII, 23: Prendo forse piacere alla morte dell’empio?) Calvino ha potuto combattere una concezione meccanicista della volontà divina, riconoscendo sinceramente che Dio chiama tutti gli uomini, senza eccezione alcuna, al pentimento e fa succedere a precise minacce di castigo, promesse di grazia altrettanto nette. Come dommatico però è chiamato a combattere l’eresia ed ha quindi potuto insegnare, pur restando fedele alla Scrittura, che, nel suo disegno nascosto, Dio intende convertire solo i suoi eletti6; nella sua eternità, Dio è dunque immutabile; nel tempo invece è suscettibile di pentimento, di cambiamento, di alternare collera e perdono. Come si possono conciliare queste affermazioni? Non è certo possibile riuscirci. È però «l’originalità dell’ortodossia di articolare le sue confessioni di fede attorno ad un et tamen, un eppure. Sì, Dio si pente; ma è anche vero che sì, Dio non si pente; sì, il suo decreto è eterno; eppure sì, Dio cambia nel tempo; e noi non sappiamo come»7. Bisogna ben dire che in questa maniera si elude semplicemente il problema; non si avanza di un passo verso la soluzione separando, come si fa, il campo dell’esegesi da quello della dommatica, la sfera dell’eternità da quella del tempo e registrando semplicemente le due serie di affermazioni contraddittorie che risultano dall’irriducibile tensione che si ingenera. Se il decreto eterno di Dio come tale è immutabile, si pone subito una questione che certo non si può spostare con un gesto della mano né accusare di sterilità, poiché essa concerne la fede; si tratta cioè di sapere come una spiegazione meccanicistica della volontà divina possa non essere qui la prima e l’ultima parola della sapienza; o se si preferisce in che senso bisogna ancora prendere sul serio, dato che Dio è eterno, le affermazioni della Scrittura valide nell’ordine del tempo ed attestanti il dinamismo dell’azione divina. Queste affermazioni hanno sì o no una portata specifica, divina?; come possono averla se non portano il segno dell’eternità?; ed inversamente: con che diritto, in nome di quale fedeltà scritturistica, il dogmatico può essere condotto (anche in caso urgente, anche per combattere l’eresia) a mettere fra parentesi, a relativizzare, a rendere problematici i risultati esegetici concernenti la maniera con la quale Dio agisce quaggiù nei confronti dell’uomo, proponendo una dottrina del tutto differente per quanto riguarda la predestinazione divina eterna? Chi ci ordina di cercare la predestinazione altrove e non nell’attività temporale di Dio?; chi ci impone di comprenderla in maniera diversa da quella secondo cui si rivela e si manifesta in questa attività temporale?; non certo la Scrittura ad ogni buon conto! Allineare artificialmente delle contraddizioni e trattarle in seguito come

semplici aporie intellettuali ed abbandonarle infine dicendo: non ne sappiamo niente, non può essere il metodo di una teologia corretta. Ad ogni modo non si vede affatto con quale diritto, teologicamente parlando, ci è qui dapprima proposto un enigma, per cui si dice in seguito di doverlo scartare. Altri partecipanti hanno obiettato al conferenziere che la sua tesi sulla predestinazione come atto riconduce di fatto alla dottrina medioevale della potentia assoluta, del Dio sciolto da ogni legge8. «Si assiste ad una specie di gioco: si è sollevati dalla misericordia e si è precipitati dal giudizio ed alla fin fine non si sa più esattamente dove ci si trova»9. A questa obiezione il conferenziere ha risposto ripetendo che, ascoltando la Scrittura, a noi spetta di comprendere una volta per tutte la relazione che Dio instaura fra sé e noi uomini come relazione vivente e gravida di mistero. Ora proprio quest’ultima espressione, suscettibile di parecchie interpretazioni, tradisce il dilemma che pesa sulla stessa conferenza di Peter Barth ed in particolare sulla tesi finale, peraltro così giusta. Bisogna comprendere semplicemente che la relazione vivente e gravida di mistero di cui si parla (compreso quanto significa da parte dell’uomo, nell’atto libero della sua fede) è il compimento della predestinazione divina e che conseguentemente è Dio che istituisce, determina ed ordina tale relazione? È questo senz’altro il punto di vista del conferenziere ed egli non ha certo mancato di sottolinearlo. Però più ci si rilega a tale concezione e più si affermano, dal lato opposto, le obiezioni che si sono fatte valere assai chiaramente contro la tesi dell’attualità della predestinazione. Non si sostituisce forse (si potrà affermare) il netto destino dell’uomo così come è articolato nella dottrina tradizionale con una specie di gioco completamente incoerente, in cui giudizio e grazia si alternano senza motivo ed in cui è difficile (per non dire impossibile) sapere a che punto ci si trovi nel rapporto con Dio? È questa un’obiezione che non si può confutare partendo dalla relazione vivente e misteriosa che Dio ha istituito fra l’uomo e se stesso, per poco che si continui ad affermare la sovranità divina in tale relazione; si comprende così che J. Rilliet possa dire: la concezione di una libertà divina che è legata, che è incatenata ed in cui Dio si è reso sovrano da tutta eternità dell’individuo umano, per salvarlo nel tempo, sempre e malgrado questo individuo, costituisce la bellezza e la forza della dottrina calvinista della predestinazione, bellezza e forza che la tesi della predestinazione come avvenimento non può che alterare10. Anche il conferenziere sembra provare qualche disagio; per sfuggirvi tuttavia non ha visto che una strada, come si può vedere lungo tutta la sua

esposizione e soprattutto nel finale; riportare cioè il mistero e la vita che definiscono la relazione fra Dio e l’uomo al carattere esistenziale della decisione nella quale, o meglio di fronte alla quale l’uomo si trova posto dalla decisione divina. Dio non ci tratta come marionette, ma come gli esseri viventi che effettivamente siamo e che egli ha creato; ponendoci di fronte alla salvezza ed alla perdizione, ci pone un interrogativo; la vita e la morte ci costringono a cercare Dio. Dobbiamo deciderci (ed alla nostra decisione corrisponde il movimento interno della predestinazione, il fatto cioè che Dio può pentirsi e che effettivamente si pente); dobbiamo cioè incontrare Dio come il Dio vivente. Eccoci dunque di fronte all’altro corno di quel dilemma cui accennavamo in precedenza. Se la predestinazione non è riducibile ad un gioco a rimpiattino che Dio svolgerebbe con l’uomo, se non è l’atto arbitrario di una potentia absoluta, non resta che una possibilità: è una decisione divina condizionata ogni volta dalla decisone, per o contro di lui, che Dio costata nell’esistenza dell’uomo; in questo caso, volendo correggere Calvino, si correggerebbe semplicemente la dottrina luterana della «fede prevista»; o persino la dottrina tomista, a suo modo anch’essa molto misteriosa, concernente la collaborazione di Dio e dell’uomo nella comunicazione e nella ricezione della grazia. In questo caso il Dio-che-predestina sarebbe il Dio vivente innanzitutto perché il suo oggetto è l’uomo vivente, così come Dio lo ha creato. In quanto possiede il carattere di una decisione attuale, la predestinazione sarebbe determinata dal suo riferimento alla decisione esistenziale dell’uomo. È chiaro che P. Barth non ha mai inteso dire questo e non l’ha neppure mai pensato; ma si comprende assai bene che, indicando solamente questa direzione, il suo tentativo di spiegazione non sia riuscito a convincere il congresso della bontà della sua tesi e che alla fin fine (cfr. At. XIX, 28 s.) i partecipanti, irritati, abbiano alzato il tono, protestando ed agitandosi per dire che era necessario ritenere la dottrina del duplice decreto immutabile, che unico definisce la volontà eterna di Dio. Tutta la discussione è estremamente istruttiva perché mostra come, su un piano meramente formale, presa in se stessa e per se stessa, la tesi dell’attualità della predestinazione (cioè della predestinazione intesa come avvenimento) non gode di validità maggiore della tesi contraria e resta, come essa, minacciata dal determinismo e dal sinergismo. Quando si vuole correggere Calvino non ci si può limitare (come ha fatto disgraziatamente Peter Barth) alla sostituzione dell’idea di un decreto divino fissato da tutta eternità con quella di un Dio vivente, che interviene ed agisce in ciascun caso

particolare come il Signore che è libero e che resta libero. Certo, questa sostituzione è giusta. La tesi: «è la stessa cosa per Dio predestinare, aver predestinato e predestinare per il futuro» (idem est Deum praedestinare, et praedestinasse, et praedestinaturum esse) è notevole da ogni punto di vista. Essa deriva però da Duns Scoto10. Contro la duplice astuzia dello scotismo si tratta di mostrare che il Signore non prende alcuna decisione arbitraria e non si lascia determinare dal suo partner; non basta perciò rinviare a Dio e all’uomo in generale e neppure al mistero ed alla vita dell’uno e dell’altro in astratto; restando infatti nel generico non si può evitare il dilemma cui abbiamo accennato. Nel corso del dibattito (astrazione fatta dalla conferenza di P. Maury che disgraziatamente non ha partecipato alla discussione) si è tuttavia trovata una voce disposta ad adottare la tesi della predestinazione come avvenimento, cercando di stabilirla sul solo fondamento possibile e solido, quella del pastore di Riga R. Abramowski11. Però a tale proposta non è stata data nessuna importanza né fra i calvinisti di stretta osservanza, né dallo stesso conferenziere. Come elezione e riprovazione, la predestinazione è «una manifestazione ordinata all’opera divina della salvezza» ed è in questa prospettiva che essa deve essere compresa e predicata; è strettamente legata al popolo d’Israele nell’Antico Testamento e a Gesù Cristo nel Nuovo; conseguentemente la dottrina che la esprime è inseparabile dalla cristologia e dalla soteriologia; conseguentemente anche la fede nel Dio che giudica e che salva non ci pone direttamente in presenza della maestà divina e non può essere confusa con l’entusiasmo per Dio e per la sua gloria, trovandosi essa spezzata con il nostro peccato dalla croce di Cristo. Questi, ridotti all’osso, sono i pensieri che il pastore di Riga ha cercato di sviluppare senza successo al congresso ginevrino. Si può certo criticare il modo con cui li ha formulati: la predestinazione non è solamente una manifestazione, bensì la manifestazione dell’opera divina di salvezza e dell’azione divina all’esterno; non è solamente ordinata a tale azione, bensì la precede; tuttavia la direzione indicata era quella buona. Tutti i malintesi che può suscitare la dottrina dell’attualità della predestinazione sono superati, nel momento stesso in cui si parte dall’assioma che questa azione divina s’identifica con l’elezione di Gesù Cristo; là dove si scorge tale identità si riconosce subito che la predestinazione non è solamente una legge (suscettibile sempre di essere confusa con una lettera morta) che precede il tempo ed i suoi contenuti e soprattutto l’uomo e gli individui nel tempo; si capisce che essa è

un atto della vita e dello spirito di Dio, che precede l’uomo come la nuvola il popolo d’Israele nel deserto e che ha avuto luogo certo prima di tutti i tempi in Dio ma che, proprio per questo motivo, avviene senza sosta prima di ogni singola frazione di tempo. L’elezione di Gesù Cristo è infatti una storia, senza la minima rottura, senza la minima variante; come tale essa è la volontà eterna di Dio prima di tutti i tempi e conseguentemente la volontà eterna del Dio vivente nell’ordine del tempo; se Calvino e gli altri rappresentanti classici della dottrina della predestinazione si sono fermati ad una concezione statica della volontà eterna di Dio non è certo perché avessero dell’azione divina un’immagine priva di vita (Calvino è davvero l’ultima persona cui si potrebbe rivolgere simile rimprovero!), cosicché per rimettere le cose a posto sarebbe sufficiente insistere semplicemente in misura maggiore sulla nozione biblica del Dio che si pente e proporre una traduzione nuova e forse migliore di Es. III, 14. No, se sono rimasti bloccati ad un’immagine statica, è perché non hanno cercato e riconosciuto la volontà divina come tale (e cioè la predestinazione) nell’azione stessa di Dio, nel suo centro e nella sua finalità, cioè nella persona e nell’opera di Gesù Cristo. È infatti a questa condizione che la volontà di Dio può essere riconosciuta senza riserva alcuna come la volontà del Dio vivente e che diventa possibile, in piena conoscenza di causa, dichiarare erronea la concezione di un decreto rigido e stereotipo, in cui questa volontà è ridotta a lettera morta. Per portare su questo punto un correttivo serio alla dottrina classica, bisogna quindi rispettare in maniera decisa quella consegna che i Riformatori non hanno saputo rispettare: dobbiamo cioè riconoscere la volontà eterna di Dio in Gesù Cristo, e non altrove. Solo allora la tesi della predestinazione come atto s’impone per forza propria. Solo allora si riesce ad evitare il dilemma in cui si è insterilita la discussione del congresso ginevrino. Se la predestinazione è identica all’elezione di Gesù Cristo, un primo punto è subito acquisito: non è possibile confondere, anche solo minimamente, l’atto sempre vivente della predeterminazione, della decisione e dell’elezione divine con l’aziòne di una potenza assoluta o con un gioco capriccioso della divinità, di cui la creatura sarebbe oggetto e vittima. Che tale confusione non sia possibile, Peter Barth lo ha sostenuto a giusto titolo; ma non ne ha dato la prova (se non sacrificando un poco la sovranità della decisione divina a tutto vantaggio dell’uomo); se non si trova la volontà eterna di Dio nell’elezione di Gesù Cristo, dove mai sarà possibile trovarla se non nell’insondabile atto di libertà che significa il decreto assoluto? Quando ci si limita ad affermare la

sovranità di Dio in questo atto, considerato come un’azione vivente e continuamente rinnovata, ma indipendente da Gesù Cristo, è difficile evitare di vedere nel comportamento di Dio nei confronti della sua creatura un qualche cosa di diverso da un gioco, la cui regola è l’arbitrario ed il capriccio di un momento; si comprende quindi perché gli avversari di Peter Barth sono stati inclini a rifiutare la tesi della predestinazione come atto; si comprende la loro nostalgia della dottrina classica in cui si parla di un decreto fissato da tutta eternità, che una volta promulgato non è più posto in questione, cosicché, pur senza conoscere i dettagli di tale decreto, ci si può ancorare a qualche cosa di sicuro. Non si riesce infatti a vedere se non in maniera nebulosa (e persino a non vedere del tutto) in che cosa la tesi della predestinazione concepita come avvenimento attuale differisca da quella della famosa potenza assoluta del tardo medioevo. Ma l’idea di una volontà di Dio che, nella sua completa sovranità, si determina e si ordina per legarsi in seguito, s’impone non appena si vede che la predestinazione è identica all’elezione di Gesù Cristo; la storia in cui s’inscrive questa elezione non è infatti un divenire qualsiasi; ha un contenuto preciso ed una direzione specifica, non ritorna indietro, nessun’altra può rimpiazzarla o contraddirla; in essa la volontà di Dio è perfettamente chiara. Dio è e resta libero, ma precisamente nel quadro di questa libertà si è deciso a stabilire ed a mantenere l’alleanza di cui l’uomo è beneficiario; rinnega e detesta certo il peccato del figlio dell’uomo perduto con il quale intende concludere questa alleanza; lo fa però per approvare ed amare questo figlio dell’uomo perduto che lega a sé. Decide senza dubbio alcuno di riprovare l’autore del male, ma contemporaneamente, unendosi nel Figlio suo con il figlio dell’uomo, decide di liberare quest’ultimo per assumere lui stesso il rigetto che tocca all’uomo; vuole, approva ed ama l’uomo indegno come tale di questo favore, ma lo fa perché l’uomo non permanga nella sua indegnità; vuole anzi elevarlo fino a sé, dargli parte della propria dignità divina, non vuole cioè la morte del peccatore, ma che questi si converta e viva. Questo disegno stabilito in precedenza, Dio intende compierlo in modo tale che l’uomo possa vivere tutta quanta la storia che costituisce il contenuto della volontà eterna: l’uomo è condotto ad uscire dalla sua pretesa condizione d’innocenza ed a cadere nell’abisso della distretta e del peccato ed è solamente partendo da tale abisso che l’uomo sarà innalzato ad un’autentica condizione di innocenza, di giustizia, di felicità. Dio stesso segue però questo cammino, ne conosce il fine e vi permane fedele; così anche per l’uomo, cui è permesso di accompagnare Dio in questo cammino, lo

sbocco non può lasciare adito a dubbi. È lui, Dio, che sceglie l’uomo; e che l’uomo scelga a sua volta Dio, questa non può che essere una conseguenza, sebbene sia una conseguenza necessaria. Non vi è quindi nulla di opaco e di oscuro in questa storia. Il suo stesso mistero (e cioè il fatto che essa si produca, il fatto che la volontà divina approvi ed ami l’uomo, il fatto che quest’atto di libertà sia incomprensibile) è anzi la sua stessa chiarezza. Questa storia è la somma di ogni ordine e di conseguenza non può essere confusa con il gioco di una qualsiasi azione considerata in se stessa; non gode di una attualità in se stessa e come tale; è l’azione ben precisa che abbiamo descritto. Se affermiamo che essa non cessa, che, volontà eterna di Dio, essa non resta al di là del tempo, ma lo precede in tutte le sue parti, se affermiamo che il Dio la cui volontà è identica a questa storia non è prigioniero di se stesso, né prigioniero dell’universo di cui ha fissato il corso una volta per tutte, sarebbe completamente assurdo concludere che questo medesimo Dio giochi con il mondo o con l’uomo che vi si trova, cosicché non si possa sapere dove ci si trova con lui o che cosa dobbiamo attendere che ci capiti. Non per niente la Bibbia paragona la volontà divina che dirige la creazione a quella del vasaio che lavora l’argilla; la paragona cioè alla volontà riflessa e metodica di un artigiano; non alla volontà capricciosa di un bambino che gioca, sebbene questa immagine possa permettere apparentemente (ma solo apparentemente!) di esprimere meglio la sovranità del beneplacito divino. La sovranità divina non ha nulla da spartire con quella del capriccio, del caso e dell’arbitrario; dobbiamo anzi apprendere dalla rivelazione di questa sovranità divina che la sovranità del capriccio, del caso e dell’arbitrario non è sovranità assoluta, ma appartiene al campo del male rifiutato e negato da Dio, del nulla, la cui potenza è esattamente quella dell’impotenza. La sovranità di Dio e del suo beneplacito è una sovranità reale, perché è quella dell’ordine inerente alla storia che costituisce il contenuto della volontà eterna. Dal momento che dobbiamo comprendere questa volontà eterna ed ordinata come quella del Dio vivente, come l’azione continua e continuamente rinnovata del suo Spirito e nel contempo vedere in essa una legge, una lettera inalterabile ed irrimpiazzabile è subito escluso considerarci come gente precipitata senza ragione apparente in una successione indefinita di decisioni incoerenti. Conoscere questa volontà eternamente vivente significa precisamente conoscere un luogo sicuro che nessun sottinteso può inquietare; di fronte ad essa possiamo precisamente sapere dove siamo; e se ci è permesso e consentito di rilegarci ad una qualche realtà, è proprio ad essa

che dobbiamo riferirci. Se la predestinazione è identica all’elezione di Gesù Cristo, un secondo punto è parimenti acquisito: non si può certo affermare che la libertà divina, quadro in cui si svolge la decisione di Dio, sia limitata e condizionata dall’incognita esistenziale di una decisione umana corrispondente, cosicché la relazione vivente fra Dio e l’uomo, sempre ristabilita e rinnovata, abbia finalmente due poli: da un lato la decisione divina e dall’altro la decisione umana corrispondente cui la prima realtà dovrebbe riferirsi. Una simile concezione (che si può trovare sia nella dottrina luterana che nella dottrina tomista della predestinazione) non corrisponde certo al punto di vista che Peter Barth ha cercato di esporre a Ginevra; si può anzi dire che, a quanto pare, su questo punto specifico, le sue affermazioni non hanno suscitato delle obiezioni; solo resta il fatto che anche qui non si vede come sia possibile evitare un certo sinergismo dal momento che, per difendere la predestinazione come avvenimento, ci si appoggia su una verità biblica generale e non sull’elemento centrale e concreto della testimonianza scritturistica. Per potere affermare da un punto di vista generale che la relazione intercorrente fra Dio e l’uomo è una relazione vivente, si è quasi necessariamente condotti a considerare Dio e l’uomo come due partners che praticamente sono certo disuguali, ma che teoricamente si trovano in verità sul medesimo piano; conseguentemente il carattere vitale della loro relazione deve essere necessariamente inteso da due punti di vista (la decisione divina e la decisione umana) seppure Dio non cessi di conservare in tutto questo il primo posto. Nella stessa Scrittura d’altronde, se li separiamo dal centro concreto della testimonianza, Dio e l’uomo sembrano essere due partners dotati ciascuno di qualità e di competenze certo ben diversificate, ma indipendenti. Pur rifiutando di riconoscere queste affermazioni, pur difendendosi con veemenza (se non sempre con chiaroveggenza), si finisce sempre per cadere in una qualche forma sottile di sinergismo, se ci si ostina a considerare la relazione fra Dio e l’uomo in funzione di un punto di vista biblico generale; e questo anche se ci si propone di mostrare (come Peter Barth ha voluto fare giustamente) che simile relazione non è determinata, ma vivente. Quasi automaticamente si è condotti a concedere che la relazione in questione è vivente perché rileva non solamente dalla vita divina, ma anche dalla vitalità del partner umano. Invece non appena discerniamo la volontà eterna di Dio nel fatto concreto dell’elezione di Gesù Cristo, questo secondo corno del dilemma si trova immediatamente escluso. Nella storia dell’elezione di Gesù

Cristo, non vi è posto alcuno per nessuna forma di sinergismo per la ragione molto semplice che né il peccato, né la preghiera dell’uomo sono fattori che, in quanto decisioni umane corrispondenti alla decisione divina, possiedono il carattere di un mistero indipedente, di un mistero suscettibile di entrare in concorrenza con il mistero di Dio nel suo atto di predestinazione o di combinarsi con tale mistero in forza di una qualche legge di reciprocità. Certo questi due fattori sono attivi. Ma come lo sono? Il peccato non lo è se non nella misura in cui costituisce la determinazione da cui l’uomo Gesù si trova liberato dalla grazia divina e che, di fatto, non lo tocca; conseguentemente la riprovazione che colpisce quest’uomo non è la risposta al suo peccato: è piuttosto l’inflessibile risposta di Dio al peccato stesso, che è il lotto di tutti gli altri uomini; in altri termini: è Dio stesso a subire la durezza di tale risposta nella unità del suo Figlio con l’uomo Gesù. Ed il fatto stesso che questo uomo non pecchi, o positivamente, il fatto della preghiera in cui sceglie a sua volta Dio, il fatto dell’obbedienza nel quale prende su di sé il castigo di tutti quanti hanno peccato, tutto questo non è che la conferma della sua elezione, che quindi non può essere considerata per dire così la risposta divina alla sua innocenza ed alla sua preghiera. Lo vediamo chiaramente: qui l’uomo non si autodetermina; è predeterminato; ed è in questo senso che prende la sua decisione. Mediante la sua decisione non fa che dichiarare quello che effettivamente è: il Figlio di Dio divenuto il Figlio dell’uomo. Non esiste quindi nessun mistero indipendente e secondo, quello della decisione umana; vi è il mistero del Dio che si rivela e nient’altro; il mistero della sua onnipotenza che è identico a quello della sua grazia, del suo sì, del suo amore vittorioso nei confronti dell’uomo. Questo mistero include l’uomo; significa che, fino ad un certo punto, l’uomo può essere, rifiutando il peccato e scegliendo l’obbedienza, un’immagine ed un riflesso del Dio che predestina; in tutta questa storia, l’onore e la vita sono l’onore e la vita di Dio. Certo si tratta di una storia che intercorre fra Dio e l’uomo; certo essa è il teatro di una duplice decisione umana; ma quest’ultima non è assimilabile ai due fuochi di un’elisse, bensì al cerchio determinato dal suo centro unico che riflette e conferma. Se abbiamo compreso che la predestinazione è identica alla storia dell’elezione di Gesù Cristo, non rischiamo di cadere nell’eresia del sinergismo, se ci sforziamo di discernere la portata della predestinazione come atto; si tratta certo qui di un’opera comune di Dio e dell’uomo; ma essa si realizza unicamente in forza dell’azione divina. Questa storia è, tutt’intera, la storia del trionfo della libera grazia di Dio ed in questa forma, precisamente, il

trionfo della sovranità divina. Se anche a questo punto vogliamo rendere conto come si deve della predestinazione non possiamo fare di meglio che ripetere che il suo contenuto è la volontà eterna di Dio, immessa concretamente in questa storia. Si deve quindi approvare la tesi emessa da Peter Barth a Ginevra; a condizione tuttavia di non separarla dal suo fondamento necessario e solo possibile: il fondamento cristologico. È a questo prezzo che potremo uscire dal vicolo cieco manifestatosi a Ginevra. E questa è la lezione che deve essere tratta dalle discussioni cui ha convocato il Congresso Calvinista. 1. Confessio Scotica: 1560: artt. 7-8 1. Ivi, artt. 2-3. 2. P. MAURY, Election et foi, in «Foi et Vie», avril-mai 1936 e in De l’électlon éternelle de Dieu, Genève 1936. 3. De l’élection éternelle de Dieu. Actes du Congrès International de théologie calviniste, p. 21 s; cfr. p. 70 s. 4. G. OORTHUYS, De l’élection éternelle de Dieu, p. 58. 5. R. GROB, De l’élection éternelle de Dieu, p. 68. 6. A. LECERF, De l’élection éternelle de Dieu, p. 66 s. 7. M. J. HOMMES, De l’élection éternelle de Dieu, p. 63. 8. J. RILLIET, De l’élection éternelle de Dieu, p. 64. 9. Ibidem, p. 64. 10. DUNS SCOTO, cit. da A. LOOFS, Dogmengeschichte (Tuebingen), 1906, 4a ediz., p. 595 11. R. ABRAMOWSKI, De l’élection éternelle de Dieu, p. 58.

PARAGRAFO 34 L’ELEZIONE DELLA COMUNITÀ 1. La predestinazione come elezione di Gesù Cristo è contemporaneamente l’elezione eterna del popolo di Dio la cui esistenza significa che Gesù Cristo è attestato al mondo intero e che il mondo intero è chiamato a credere in lui. Questa comunità unica ha un duplice aspetto: 2. in quanto Israele attesta il giudizio divino, in quanto chiesa attesta la misericordia divina. In quanto Israele è destinata ad intendere ed in quanto chiesa è destinata a credere la promessa fatta agli uomini. 4. Israele è la forma passeggera, la chiesa la forma futura del popolo di Dio eletto.

1. ISRAELE E LA CHIESA A. POSIZIONE DELLA TESI L’elezione dell’uomo s’identifica con la sua elezione in Gesù Cristo; Gesù Cristo infatti è l’origine eternalmente vivente dell’uomo e dell’intera creazione; eleggere significa eleggere in lui ed essere eletti significa essere eletti in lui. Esiste però effettivamente anche un’altra elezione oltre a quella di Gesù Cristo, non situata peraltro accanto o al di fuori, bensì all’interno della sua. Non possiamo parlare dell’elezione di Gesù Cristo senza menzionare costantemente anche quest’altra elezione. La condiscendenza divina che ha come sbocco l’uomo Gesiù concerne infatti ogni uomo creato e decaduto; nella persona dell’uomo Gesù, l’amore di Dio si indirizza all’uomo come tale, alla pluralità degli uomini e ad ogni uomo in particolare; sotto il nome di Gesù questo amore è annunciato a ciascuno, perché ciascuno creda; il cammino percorso dall’elezione divina è il cammino della testimonianza resa a Gesù Cristo, il sentiero della fede in lui. Compresa nell’elezione di Gesù vi è dunque anche l’altra elezione: l’elezione di tutti gli altri uomini che Dio incontra su questo cammino e nessuno ne è escluso. Però, contrariamente alla dottrina classica della predestinazione, la Sacra Scrittura, cui noi intendiamo riferirci, non è affatto preoccupata di interessarsi subito a tutti questi altri uomini eletti in Cristo; anche questo è certamente suo oggetto e noi pure lo faremo a nostra volta; tuttavia, partendo dall’elezione di Gesù Cristo, la Scrittura non considera immediatamente l’elezione di ogni credente in particolare. Tiene conto innanzitutto di una elezione intermedia e mediatrice, il cui soggetto è sempre Dio in Gesù Cristo ed il cui oggetto è l’umanità: gli uomini però non

sono considerati qui come individui particolari, bensì come comunità: precisamente la comunità scelta da Dio in Gesù Cristo per compiere un servizio determinato; secondo la Scrittura il destino di questa comunità è in primo luogo oggetto di quest’altra elezione compresa nell’elezione di Gesù Cristo; l’elezione individuale di ogni credente non potrà essere considerata che in funzione dell’elezione di questa comunità. Riconducendo tutto il problema della predestinazione a quello dell’elezione individuale, la tradizione si mostra quindi troppo affrettata. Per designare l’oggetto di quest’altra elezione, scegliamo il termine di comunità, ricoprente contemporaneamente la realtà d’Israele e quella della chiesa. Per dirla in breve, questo termine designa la comunità umana che, in maniera provvisoria e particolare, forma il cerchio naturale e storico dell’uomo Gesù; questa comunità è particolare nel senso che, di fronte al mondo intero, deve rendere testimonianza a Gesù ed invitare alla fede in lui; questa comunità è provvisoria nel senso che mira ad una comunità più ampia, quella di tutti gli uomini, in mezzo ai quali compie l’ufficio di testimone e di messaggero. Così compreso, il popolo di Dio costituisce in qualche modo il cerchio interno di quest’altra elezione cui si estende l’elezione di Gesù Cristo. Formando da un lato questo cerchio interiore, quest’ambiente particolare dell’uomo Gesù, ma appartenendo d’altro lato al mondo, il popolo di Dio svolge effettivamente una funzione intermedia e mediatrice; l’elezione del popolo di Dio è intermedia perché essa si situa fra l’elezione di Gesù Cristo e l’elezione di coloro che hanno creduto, che credono e che crederanno; ed è mediatrice perché rilega l’elezione di Gesù Cristo a quella di tutti i credenti e viceversa. La comunità non è quindi eletta per se stessa; fare astrazione da Gesù Cristo per situarla all’origine di tutte le cose sarebbe dar prova di presunzione giudaica e clericale; l’onore del popolo di Dio non può che essere l’onore del Cristo, l’onore disinteressato della testimonianza che deve essere resa al Cristo. La comunità che vorrebbe essere qualcosa di più del cerchio e dell’intermediario del Cristo alienerebbe certamente la sua elezione; neppure davanti al mondo la sua esistenza può essere ritenuta un fine in sé; la comunità è stata scelta nel mondo per rendere al mondo il servizio di cui quest’ultimo ha maggiormente bisogno: la testimonianza a Gesù Cristo. La comunità che scordasse questo servizio e non esistesse che per se stessa, senza più svolgere un ruolo intermedio, avrebbe alienato la sua elezione. Il cerchio interno non esiste dunque che in funzione del cerchio esterno, cioè in funzione dell’elezione che si compie in Gesù Cristo.

Reciprocamente però anche questo cerchio esterno esiste esclusivamente in funzione del cerchio interno; ogni elezione che si compie in Gesù Cristo è condizionata e limitata dall’elezione della comunità; con il suo aspetto intermediario e mediatore la comunità riflette l’esistenza dell’unico Mediatore, Gesù Cristo. Nella sua peculiarità nei confronti del mondo, riflette la libertà del Dio dell’elezione; per il servizio che svolge nel mondo (cioè per quello che la sua peculiarità ha di provvisorio) riflette l’amore del Dio dell’elezione; la testimonianza resa al Cristo, l’appello alla fede e la fede medesima ne procedono; gli individui saranno eletti in e con Gesù Cristo, e questo in seno alla comunità, per mezzo di essa e dunque anche per essa; sono inclusi così nell’elezione della comunità. Fuori della Chiesa non vi è salvezza!: questo assioma appartiene già alla dottrina della predestinazione. Ora come il Dioche-elegge e l’uomo-eletto sono uno in Gesù Cristo, così anche la comunità, che è l’oggetto primario di tale elezione, è unica. È necessario mettere ben in rilievo questa unità proprio nei confronti della predestinazione; abbiamo visto infatti che la predestinazione divina che si identifica con l’elezione di Gesù Cristo è una doppia predestinazione; si tratta cioè dell’atto fondamentale del libero amore mediante il quale Dio sceglie di unirsi all’uomo e di subire così il giudizio e mediante il quale sceglie parimenti di unire l’uomo a sé e di fargli misericordia. Da un lato, tramite questo atto di amore, l’uomo è destinato ad intendere la promessa e dall’altro è destinato a credervi; la sua esistenza assume da un lato una forma antica e passeggera e dall’altro una forma futura e definitiva; se dunque l’elezione della comunità è inclusa nell’elezione di Gesù Cristo, se essa è, in Gesù Cristo, l’oggetto di questo atto fondamentale del libero amore divino, bisogna attendersi di ritrovare questa intenzione duplice (eppure unitaria) della volontà di Dio nell’elezione di questa medesima comunità. Così è infatti secondo la Sacra Scrittura. Chi è Gesù Cristo rispetto alla comunità? Subito siamo posti di fronte ad una unità e ad una dualità: Gesù è il figlio promesso ad Abramo e a Davide, il Messia d’Israele; ma nel contempo è il Capo ed il Signore della chiesa composta da Giudei e da pagani. È tutte e due le realtà in una medesima ed unica persona; e la sua persona unica è tutte e due queste realtà; in quanto Signore della chiesa è infatti il Messia d’Israele ed in quanto Messia d’Israele è infatti il Signore della chiesa. Cerchiamo di circoscrivere provvisoriamente. Innanzitutto Gesù Cristo è il Messia crocifisso d’Israele; è il testimone autentico del giudizio cui Dio si sottopone scegliendo la comunione con gli uomini; è l’uditore primario della promessa divina; è il doloroso iniziatore

della vita umana nella sua forma provvisoria e gratuita. Ma in quanto Messia d’Israele (e Messia crocifisso) è anche segretamente il Signore della chiesa che Dio ha fondato sul suo sacrificio, questa chiesa che la sua misericordia chiama alla vita, che la sua promessa chiama alla fede, che è la forma futura (e definitiva) della comunità. In secondo luogo Gesù Cristo è il Signore risorto della chiesa; è il testimone autentico della misericordia con cui Dio unisce l’uomo a sé, rendendolo partecipe della sua gloria; è il prototipo del credente; è l’inauguratore trionfante dell’uomo nuovo e venturo. Ma in quanto Signore della chiesa (e Signore risorto) è anche manifestamente il Messia rivelato d’Israele, di cui Dio conferma la vocazione, di quest’Israele che è il testimone del giudizio e contemporaneamente l’uditore della promessa, forma transeunte della comunità. A questa unità ed a questa dualità di Gesù Cristo corrispondono unità e dualità della comunità e della sua elezione. Secondo il decreto eterno di Dio, questo popolo esiste in quanto Israele (in tutto lo sviluppo della sua storia, attraverso il passato come attraverso il futuro, ante et post Christum natum!), ma anche in quanto chiesa composta di giudei e di pagani (dalla sua prima manifestazione a Pentecoste fino al suo compimento nel ritorno di Cristo) secondo questa duplice forma (vetero e neotestamentaria) il popolo di Dio riflette e riproduce il duplice destino di Gesù Cristo stesso; in quanto Israele ed in quanto chiesa, la comunità è anch’essa indissolubilmente unitaria, ma in questa unità è duplice: Israele e la chiesa. In quanto chiesa questo popolo è Israele ed in quanto Israele questo popolo è la chiesa. Tale è la conseguenza ecclesiologica del fatto cristologico precedentemente rilevato. Cerchiamo ancora di circoscriverla provvisoriamente in questa forma. Israele è il popolo ebraico che si oppone all’elezione divina; è il popolo di Dio che deve manifestare la cattiva volontà, l’incapacità e l’indegnità umane di fronte all’amore di Dio; consegnando il suo Messia ai pagani perché sia crocifisso, Israele attesta la giustizia della condanna pronunciata contro gli uomini e che Dio in persona subisce. Ricevendo in questo modo la promessa, Israele ne resta uditore, senza pervenire tuttavia alla fede. In questa maniera manifesta la forma antica e passeggera dell’uomo ribelle. Ma Israele, il popolo ebraico che si oppone all’elezione divina, è segretamente anche la fonte della chiesa, di questa chiesa che esalta la sola misericordia divina mediante la sola fede nell’unico e medesimo Dio; la fede non è qui che obbedienza, audizione perfetta che coglie l’avvento dell’uomo nuovo nella scomparsa dell’uomo vecchio. Facciamo un secondo passo. La chiesa è l’assemblea composta da

giudei e da pagani chiamati in forza della loro elezione; è il popolo di Dio che deve manifestare la buona volontà, la disponibilità e l’onore di Dio di fronte all’umanità peccatrice; poiché Gesù, il Messia crocifisso d’Israele, si mostra nella sua risurrezione come il Signore della chiesa, questa può riconoscere e confessare la misericordia divina fatta agli uomini. E poiché essa riconosce e confessa che la Parola di Dio è la più forte e che si compie malgrado la resistenza di coloro che la intendono, essa può credere, conservare, custodire osservando questa Parola. In questa maniera la chiesa manifesta la forma nuova e ventura dell’uomo accolto da Dio. Però in quanto assemblea composta da giudei e da pagani chiamati in forza della loro elezione, la Chiesa rivela anche il destino d’Israele e lo conferma: Israele è eletto per dare la nascita a colui nel quale Dio si approprierà di tutto il peccato e di tutta la distretta degli uomini; è segnato dalla audizione della Parola di Dio che sempre deve precedere la fede; è la figura dell’uomo vecchio che passa e che fa posto all’uomo nuovo e venturo. Affrontiamo ora un terzo momento. Israele è il popolo ebraico che si oppone all’elezione; la chiesa è l’assemblea composta da giudei e da pagani chiamati in forza della loro elezione; questa è la definizione che diamo (e che dobbiamo dare) se vogliamo rispettare l’unità dell’elezione della comunità, fondata sull’elezione di Gesù Cristo. Non bisogna chiamare i Giudei il popolo «riprovato» e la chiesa il popolo «eletto»; l’oggetto dell’elezione non è né Israele in sé, né la chiesa in sé, ma tutti e due insieme. Parlare del popolo eletto d’Israele o di una chiesa eletta significa scambiare la parte per il tutto. La comunità eletta in Gesù Cristo (il corpo di Gesù Cristo!) ha il duplice aspetto di Israele e della chiesa. L’onore dell’elezione, l’amore di Dio fondamento di quest’elezione, l’alleanza eterna di Dio restano i medesimi da una parte come dall’altra, poiché colui che elegge e colui che è eletto si chiama essenzialmente Gesù Cristo ed è nel suo ambiente che ci si ritrova da una parte come dall’altra. È certo vero che le inflessioni sono ben diverse da un lato o dall’altro; la relazione fra l’elezione e la riprovazione che l’accompagna inevitabilmente è differente in un caso o nell’altro; questo deriva d’altronde dalla duplice determinazione di Gesù Cristo stesso. In effetti sotto la sua forma israelita e veterotestamentaria il popolo eletto è considerato in funzione dell’uomo eletto, mentre nella sua forma ecclesiale e neotestamentaria è considerato in funzione del Dioche-elegge. Questa differenza irriducibile si manifesta nel fatto che il popolo ebraico resiste alla sua elezione consegnando Gesù Cristo perché sia crocifisso, mentre l’assemblea, composta da giudei e da pagani e che nasce in questo medesimo

Gesù Cristo, è scelta in vista ed in forza della sua elezione. Nel primo caso ciò che è decisivo è che gli uomini rifiutino l’elezione divina e nel secondo è che il Dio dell’elezione accolga gli uomini. Tali sono i due aspetti della comunità eletta, i due poli fra cui si svolge la sua storia ed a senso unico; la sola e medesima alleanza ingloba l’insieme d’Israele e della chiesa; per questo bisogna definire l’opposizione segnalata in maniera sfumata e non esclusiva. Vi è sicuramente una riprovazione divina dietro la forma israelita della comunità caratterizzata dalla ribellione; ma vi si trova anche l’elezione in forza della quale Dio ha deciso di prendere su di sé questa riprovazione. Parimenti dietro la vocazione divina che caratterizza la forma ecclesiale della comunità vi è sicuramente il fatto dell’elezione; ma vi si trova anche la riprovazione che Dio ha preso su di sé. Bisogna rilevare attentamente l’irriducibile distinzione di questi due aspetti del popolo di Dio, ma non meno attentamente occorre notare l’indissolubile unità che essa mette in luce. Questa distinzione e questa unità non possono essere comprese (ed effettivamente non lo sono) che attraverso Gesù Cristo e la sua elezione, cioè mediante la fede della chiesa. L’alleanza che unisce qui i due termini dell’opposizione non è un terreno neutro di osservazione, situato fra Israele e la chiesa; quest’alleanza è la storia che si svolge fra l’uno e l’altra; il cammino che segue questa storia è il sentiero della conoscenza di Gesù Cristo: va da Israele alla chiesa; non può essere riconosciuto e descritto se non da coloro che partecipano a questa storia, che sono inseriti in questo dinamismo, in altre parole da coloro che sono nella chiesa e non da altri. Israele si mostra come noi l’abbiamo descritto in funzione di Gesù Cristo e della sua elezione. Resistendo alla sua vocazione e misconoscendo il suo Messia, Israele in quanto tale è incapace di sentirsi solidale con la chiesa e di comprendere la forma specifica della sua propria elezione; allorché Israele riconoscerà nel Signore risuscitato della chiesa, il Dio della sua propria elezione, quando Israele si unirà alla chiesa nella fede, scoprirà anche l’unità del popolo eletto e comprenderà quale è il suo posto e la sua funzione provvisoria in questo insieme; allora sarà alla testa della chiesa per confessare la cattiva volontà, l’incapacità e l’indegnità umane di fronte all’amore divino ed esalterà così la ricchezza della misericordia divina. Allora colui che ha consegnato il suo Messia alla croce attesterà alla chiesa la giustizia di quel giudizio di cui Dio ha ben voluto portare tutta la pena; ricorderà alla chiesa che essa non può annunciare se non quello che ha ricevuto; in quanto forma passeggera del popolo di Dio lascierà posto alla chiesa, che è la forma avvenire di questo

medesimo popolo. Quando Israele riconoscerà in Cristo la sua propria elezione e vi crederà, vivrà nella chiesa, vi si perpetuerà, essendo la fonte segreta e la sostanza nascosta che permette alla chiesa di essere il popolo di Dio. Anche la chiesa però dovrà riconoscere, in funzione di Gesù Cristo e della sua elezione, l’unità e la dualità della comunità eletta. Solo l’incredulità potrebbe separare qui quello che Dio ha unito. La chiesa che non riconoscesse la propria solidarietà con il popolo ebraico, che rinnegasse e dimenticasse l’unità d’Israele e della chiesa, alienerebbe la sua vocazione e la sua elezione. Una simile chiesa non sarebbe certo più chiesa! Quando la chiesa riconosce la propria elezione nel Messia crocifisso d’Israele, quando, mediante la fede, si scopre unita ad Israele, subito si manifesta l’unità di tutto intero il proprio eletto; la chiesa comprende allora qual è il suo posto, la sua funzione posteriore e definitiva in seno a questo tutto unico; la chiesa consolerà allora Israele annunciandogli la buona volontà, la disponibilità e l’onore di Dio, proclamando così la realtà della sua misericordia. Essa attesterà allora ad Israele che Dio ha posto rimedio al male che essi, i Giudei, pensavano di fare consegnando Gesù ai pagani; richiamerà ad Israele che la promessa può essere annunciata al mondo intero; in quanto forma futura del popolo di Dio la chiesa ingloberà Israele, sua forma passeggera, preservandola così dalla distruzione. Quando la chiesa riconosce in Gesù Cristo la propria elezione e vi crede, mette contemporaneamente in evidenza il destino d’Israele: la sua elezione in quanto popolo presso cui si è incarnato il Figlio di Dio, separato dagli altri popoli per ricevere la Parola e la promessa divine, chiamato a passare per essere sempre meglio il primo. La conoscenza dell’unità e della distinzione esistenti fra Israele e la chiesa dipende dunque essenzialmente dalla conoscenza che qui e là si ha di Gesù Cristo e della sua elezione. Per questo tutto quanto è stato detto non può essere detto se non per mezzo della chiesa, forma neotestamentaria della comunità e del popolo di Dio. In questa unità ed in questa distinzione Israele e la chiesa sono l’oggetto intermedio e mediatore dell’elezione divina. B. ILLUSTRAZIONE SCRITTURISTICA Accompagnamo le considerazioni di questo paragrafo con un’esegesi corsiva di Rom. IX-XI; il nostro studio tuttavia non si fonda solamente su questi capitoli ma sull’insieme della Scrittura, pur essendosi sviluppato parallelamente a questi capitoli, corrispondenti precisamente ai temi di questo paragrafo; non ci si deve quindi aspettare di trovare in Rom. IX-XI la giustificazione di tutte le nostre asserzioni e non bisogna neppure pensare che

tutti gli elementi di questo testo si applichino al nostro proposito. Tuttavia è proprio nella prospettiva generale e nella sostanza che vorremmo confrontare la nostra dimostrazione con quella di Rom. IX-XI. Troppo spesso si è esposta la dottrina della predestinazione senza tener conto in maniera completa e seguita di questo locus classicus. Apprendiamo innanzitutto, in Rom. IX, 1-5, che Paolo si sente in grado di svolgere il suo ministero apostolico ricevuto da Gesù Cristo unicamente in nome ed a vantaggio della chiesa e d’Israele; i versetti citati lo indicano chiaramente; è indispensabile alla sua opera apostolica ed è necessario per la sua salvezza personale che in quanto missionario egli possa sempre indirizzarsi in primo luogo agli Ebrei, come lo vediamo fare costantemente negli Atti degli Apostoli. Ma vi è di più: questo appello che Paolo rivolge ai Giudei non ha come scopo di porre in dubbio l’elezione d’Israele, ben piuttosto di confermarla, invitandoli ad obbedirvi, Infine allorché l’apostolo è rifiutato dai Giudei e deve indirizzarsi ai pagani per far risuonare loro l’appello della chiesa, questo non significa affatto che perda di vista i Giudei, ma che, dall’interno della chiesa, li chiama più vigorosamente ancora all’obbedienza. In quanto apostolo della chiesa, Paolo intende essere un profeta d’Israele, nell’accezione veterotestamentaria del termine. Non vuole riunire la chiesa se non nell’unità di questo ministero ed è in comunione con Israele che vuole vedere riunirsi la chiesa. Non è quindi per un sentimento nazionalista, bensì per fedeltà alla sua vocazione che Paolo assicura la chiesa di Roma della sua grande tristezza, del continuo dispiacere che porta nel cuore ogni qualvolta pensa al rifiuto d’Israele (vv. 1-2); dice la verità nel Cristo e lo Spirito Santo è testimone della sua sofferenza; non mente in questo frangente, come non mente nella predicazione del vangelo. Il suo messaggio concernente i Giudei è parte integrante di questa predicazione. L’incredulità dei suoi antenati secondo la carne (v. 3) rischia di separarlo da essi; ciò non deve avvenire; anche nella loro incredulità sono e restano suoi fratelli. La sua fede, la fede della chiesa lo unisce ad essi; la loro incredulità, che lo fa soffrire, non permette alla sua fede di rompere con essi; non può credere se non restando loro fedele, se non volgendosi verso di essi, se non pregando per essi (Rom. X, 1). Anche la sofferenza che patisce per causa loro non può che unirlo ad essi; è infatti la sofferenza dell’israelita (Rom. XI, 1) che ha riconosciuto il Messia d’Israele in colui che Israele ha rifiutato e sembra voler rifiutare ancora; è la sofferenza dell’israelita che conferma in

maniera definitiva quest’elezione che Israele rinnega così terribilmente. Chi mai potrà essere più israelita dell’apostolo della chiesa, sofferente per Israele? Lo è talmente, è talmente unito a quest’Israele incredulo che lo fa soffrire (v. 3) che, per la conversione del suo popolo e per la sua riunificazione alla chiesa, vorrebbe essere lui stesso separato dal Cristo, rinunciare per quanto sta in lui all’elezione di Gesù Cristo; tale è il prezzo che attribuisce al suo ministero apostolico e l’analogia con Es. XXXII, 32 s’impone; questo ministero è per lui più prezioso della sua stessa elezione, della sua stessa salvezza, della sua stessa speranza. Fino a questo punto si spinge per Paolo un servizio a nome ed a vantaggio d’Israele! Tanto il destino della chiesa è per lui legato a quello dell’Israele incredulo! Questa fraternità e questa solidarietà con Israele sono fondate oggettivamente (vv. 4-5 a) per il fatto che questi antenati secondo la carne sono rimasti, nella loro incredulità, della gente che lotta con Dio, cioè precisamente degli «israeliti» secondo il nome imposto da Dio a GiacobbeIsraele, come d’altronde Paolo lo è rimasto mediante la sua fede; come Paolo resta legato ad essi in forza proprio della sua fede, così essi restano per lui, malgrado la loro incredulità, il popolo eletto di Dio, che ha ricevuto in dono tutto quanto fonda ed alimenta la fede della chiesa; «ecco, all’Eterno, tuo Dio, appartengono i cieli ed i cieli dei cieli, la terra e tutto quanto essa contiene; ed è ai tuoi padri solamente che l’Eterno ha riguardato per amarli; e dopo di essi è alla loro posterità, è a voi che si è rivolto, scegliendovi di fra i popoli tutti quanti, come lo vedete oggi» (Deut. X, 14 s.). Tutto ciò resta vero, anche quando il popolo eletto assume la forma della chiesa in cui trova il suo compimento; il popolo di Dio trae le sue origini dal popolo incredulo d’Israele; nella sua forma ecclesiale non è nient’altro che Israele che, infine, perviene alla sua destinazione. Vive di tutto quello che Israele ha ricevuto in vista della sua missione: lottare con Dio. Vive della filiazione d’Israele (Es. IV, 22; Deut. VIII, 5; Os. XI, 1; Ger. XXXI, 9) cioè della promessa fatta alla razza di Abramo di avere una posterità nel Figlio dell’uomo proveniente da essa. Questa promessa è la benedizione di cui ogni figlio d’Israele è assicurazione per il padre. Rendendo testimonianza a Gesù Cristo la chiesa sa che la promessa si è compiuta; è la promessa fatta ad Israele quella che Gesù Cristo porta a compimento; la chiesa vive dunque anch’essa della gloria che Dio manifesta di fronte ed in mezzo ad Israele, vive di questa presenza divina operante negli avvenimenti felici o disgraziati della storia ebraica (questa presenza che uccide e che vivifica!). Israele non può e non deve scorgere questa presenza

misteriosa; la chiesa la vede (Gv. I, 14; II Cor. IV, 6); si tratta però precisamente della gloria offerta ad Israele nella Parola fatta carne e di null’altro, poiché nient’altro può esserci. La chiesa non vive solo della filiazione, vive anche delle alleanze concluse fra Dio e Israele. Effettivamente convenzioni e patti si stringono continuamente tra Dio e rappresentanti di questo popolo; la molteplicità di tali accordi prova fino a che punto la loro osservanza sia unilaterale!; le minacce divine abbondano nel momento in cui si stringono questi patti, che terminano generalmente con l’esecuzione di tutti i castighi predetti. La chiesa trova una piena e perfetta consolazione nell’alleanza unica che è stata rispettata dall’uomo e da Dio; ma quest’alleanza riassume e conferma per essa tutte quelle concluse con Israele. La chiesa vive inoltre del dono della legge fatto ad Israele. Questa legge insegna al popolo quale santità reclama da lui il Dio che è santo; la legge della chiesa è la fede che essa ha nel suo Signore, la cui santità crea la santità del suo popolo; obbedendo alla sua fede, la chiesa compie quanto la legge esige da Israele. Ed ancora la chiesa vive del culto permesso ed ordinato ad Israele. Questo permesso e questo comando si esprimono in tutta quanta la legislazione sacerdotale e sacrificale; la chiesa rende al sacrificatore sovrano quel culto in spirito e verità dovuto al suo sacrificio unico e sufficiente; è il culto permesso e comandato ad Israele che trova così il suo compimento. La chiesa vive anche delle promesse fatte ad Israele, promesse secondo le quali il popolo sarà benedetto e si moltiplicherà, possiederà il paese, diventerà ricco, potente e felice sotto la guida del suo re, per riunire finalmente tutte le nazioni sulla montagna di Sion; le promesse che la chiesa coglie ponendo la sua speranza nel Signore risuscitato riguardano il dono dello Spirito, il perdono dei peccati, la vittoria sulla potenza di Satana, la resurrezione dei morti, la vita eterna nel regno di Dio; ma queste promesse che la chiesa coglie sono le promesse fatte ad Israele. La chiesa vive dei patriarchi d’Israele, della comunione con Abramo, Isacco e Giacobbe, Mosé, Davide ed Elia; sono essi i grandi testimoni della vocazione, della salvaguardia e della marcia guidata di questo popolo; la chiesa sa che essi sono anche i testimoni di Gesù, in vista del quale questo popolo è stato chiamato, protetto e condotto; i padri d’Israele sono gli autentici padri della chiesa. Ed infine il fatto decisivo che riassume tutti gli altri: la chiesa vive del Cristo secondo la carne, questo Cristo che, in quanto uomo, è figlio di Abramo e di Davide e che si chiama Gesù di Nazareth. L’origine israelita di Gesù non è né fortuita né trascurabile rispetto alla sua origine

divina; la chiesa vive precisamente di colui che è un israelita nato da Israele; Paolo non dice semplicemente che Gesù è un israelita, bensì che proviene dagli Israeliti. Ciò significa che se è vero che il Messia è stato dato ad Israele, deve essere però esclusa la concezione secondo la quale il Messia apparterrebbe ad Israele; né d’altronde appartiene alla chiesa; ma è tutta quanta la comunità eletta che gli appartiene. Per questo Paolo lascia intendere che è sorto da Israele come un tizzone strappato all’incendio; è però da Israele che è sorto ed è stato tratto secondo la carne; non è uscito né dalla Grecia, né da Roma, né dalla Germania, ma proprio da Israele! È così, indipendentemente dall’incredulità d’Israele e dalla fede della chiesa; l’incredulità d’Israele non potrebbe annientare questo fatto e la fede della chiesa non può certamente negarlo, ma solo confessarlo: la salvezza viene dai Giudei (Gv. IV, 22); confessando questo Gesù che i Giudei hanno rifiutato, la chiesa rivela la resistenza d’Israele nei confronti della sua elezione e condanna (concordando con i profeti dell’Antico Testamento) la menzogna orgogliosa, il messianismo nazionalista e legalista della Sinagoga, da sempre oggetto dell’odio e della gelosia dei pagani. Ben lungi dal contestare l’elezione d’Israele, la chiesa l’afferma e l’insegna nei confronti di tutte le pretese dei pagani; confessando Gesù Cristo, confessa e riconosce in lui il compimento di tutte le promesse fatte ad Israele, di tutta quanta la speranza dei patriarchi, di tutte le minacce lanciate da Mosé e dai profeti, di tutti i sacrifici offerti nel tabernacolo o nel Tempio, di ogni lettera dei libri santi l’Israele; chiamando Israele alla fede, la chiesa non gli chiede nient’altro che questo: pentirsi obbedendo alla sua vocazione e diventare il popolo che riconosce il figlio dell’uomo sorto da Israele. Così parla Luca (il cristiano proveniente dal paganesimo?) negli Atti degli Apostoli (At. II, 14 s.; Ili, 12 s.; IV, 8 s.; VII, 1 s.; XVIII, 5; XXII, 1 s.; XXVIII, 23). La sola cosa di cui Paolo soffre pensando ad Israele, il solo rimprovero che la chiesa possa fare ad Israele è che questi non sia totalmente Israele! Questo popolo non vuole confermare la sua elezione riconoscendo, con la chiesa, che Gesù è il suo Messia; si ostina nella sua opposizione; e l’opposizione che si manifesta qui, in seno al popolo di Dio, è dolorosa e seria. «Ogni peccato ed ogni atto blasfemo (il peccato dei pagani!) sarà perdonato agli uomini, ma chiunque parlerà contro lo Spirito Santo (quanto cioè fa Israele nei confronti di colui che, nella sua resurrezione, è stato stabilito come suo Messia) non sarà perdonato né nel tempo presente, né nel tempo avvenire» (Mt. XII, 31 s.).

Per questa ragione vediamo che su questo punto s’infiamma di zelo non solamente Paolo, ma tutto quanto il Nuovo Testamento; questo zelo tuttavia (è subito chiaro) non tende ad escludere, bensì ad includere Israele e non è ispirato dall’odio, bensì suscitato dall’amore; questo zelo non ha nulla a che spartire con l’antisemitismo che, dall’esterno, nega e combatte l’elezione d’Israele, poiché è lo zelo concernente la casa di Dio fondata in Israele; l’antisemitismo non è che il risvolto pagano di quel peccato irremissibile cui Israele deve essere strappato ad ogni costo; la chiesa non può quindi fare nessuna concessione all’antisemitismo; non vive infatti la sua vita accanto ed al di fuori d’Israele, vive per mezzo d’Israele ed Israele vive in essa; la sua vita porta a compimento il destino d’Israele. Per questo (v. 5 b): «Benedetto sia eternamente il Dio che è al di sopra di tutti. Amen»1. La chiesa indirizza la sua lode a Dio, a quel Dio che è il Dio di tutti (Rom. III, 29) e che per questo è al di sopra di tutti, al Dio del popolo che comprende contemporaneamente Israele e la chiesa, la chiesa ed Israele. Come potrebbe essere diversamente, essendo questo popolo l’assemblea di tutti i credenti, «in primo luogo dei Giudei e poi dei Greci» (Rom. I, 16; II, 9 S; IX, 24)? Il fatto che non tutti i Giudei si uniscano a questa lode ed a questa fede non autorizza minimamente la chiesa a contestare l’elezione d’Israele e ad abbandonare questi non-credenti alla loro sorte; il Dio che è al di sopra di tutti è anche (ed in primo luogo!) il Dio di coloro che restano in questa incredulità; al mistero della sinagoga incredula, la chiesa non può opporre che la fede dell’Israele autentico e lo fa testimoniando la propria fede. In nome ed in favore di quest’Israele che è morto, la chiesa confessa colui che è il Signore dei morti e dei viventi (Rom. XIV, 9) e che, anche di fronte a questa morte, non cessa di essere la testa vivente di tutto il popolo di Dio, la speranza di quegli stessi che sono morti. 1. La costruzione ὧν ὁ έπἰ πἀντων ϑεὁς che ho ammesso un tempo (cfr. L’Epistola ai Romani, 312 s.) non è soddisfacente; non è impossibile rilegare ὁ ὥν a ὁ χριστὁς sebbene tale relazione non s’imponga; è certo tuttavia che, qui come altrove, Paolo pensa anche a Gesù Cristo, usando tali formule.

2. IL GIUDIZIO E LA MISERICORDIA DI DIO A. POSIZIONE DELLA TESI Per mezzo dell’elezione dell’uomo Gesù, Dio diventa l’alleato dell’uomo peccatore e decaduto, dell’uomo giustamente condannato; perché l’uomo perduto sia salvato e partecipi alla gloria eterna, Dio ha eletto l’uomo Gesù che ha preso su di sé la miseria umana e ci ha rivestiti della sua giustizia, della sua felicità e della sua potenza; il giudizio e la misericordia di Dio sono portati a compimento per mezzo dell’elezione di Gesù. Il popolo eletto di Dio è l’ambiente, il cerchio di quest’uomo eletto che è Gesù di Nazareth; è il luogo in cui risiede l’onore di Dio, in cui questo Gesù è riconosciuto come il Cristo, cioè come il Messia ed il Signore, in cui l’alleanza di Dio con l’umanità, il suo giudizio e la sua misericordia diventano manifesti; questo popolo è eletto onde rappresentare Gesù Cristo e l’opera che Dio ha compiuto in lui, servendo così di testimonianza e di avvertimento al mondo intero. Tutto quanto il popolo di Dio (Israele e la chiesa) è eletto in vista di questo fine; è vero come è sicuro che è stato eletto in Gesù Cristo; tutta la comunità eletta è ingaggiata in questo servizio, com’è vero che essa è fondata in Gesù Cristo nel suo duplice aspetto, così com’è vero che Gesù Cristo ne costituisce l’unità ed il centro. Dovunque questa comunità esiste, per la forza e su ordine di colui che ne è il centro, servirà questa finalità ben precisa: rappresenterà il giudizio e la misericordia divina. Il servizio particolare al quale Israele è chiamato all’interno di questo insieme che è la comunità eletta consiste nel riflettere il giudizio cui Dio ha strappato l’uomo e che subisce egli stesso nella persona di Gesù di Nazareth. Se Israele obbedisce alla sua elezione per mezzo della fede in Gesù Cristo, se trova il cammino della chiesa, se vi rivive e vi compie il suo destino, allora il suo contributo particolare all’interno dell’insieme consisterà nel manifestare la causa umana di questa sofferenza divina, l’incapacità, la cattiva volontà e l’indegnità degli uomini di fronte alla misericordia di Dio, come pure la giustizia dell’accusa rivolta all’umanità mediante le sofferenze del Cristo. La chiesa ha bisogno di simile contributo; non potrebbe rendere la sua testimonianza e lanciare il suo appello senza far intendere, contemporaneamente, la testimonianza peculiare d’Israele; non si può infatti annunciare Gesù Cristo senza parlare della sua sofferenza salvatrice e questa implica il riconoscimento della miseria umana che Gesù ha sopportato e portato con sé. La chiesa conosce la miseria umana solamente nella misura in

cui Israele, riflesso del giudizio divino, esiste in essa; se la chiesa dimentica o rinnega le sue origini israelite, ciò si manifesta, prima o poi, nel fatto che la conoscenza della miseria umana e la testimonianza salvatrice del Cristo vi perdono la loro forza e non sono più fedelmente espresse all’esterno; dove troverà allora la chiesa la sua forza e che cosa le resterà da attestare al mondo? Il suo carattere e la sua missione rischiano di perdersi; il suo nome di chiesa rischia di non significare più nulla; ha tutto l’interesse che il servizio toccato in sorte ad Israele si compia nel seno del popolo di Dio. L’aspetto israelita del popolo di Dio rivela quanto Dio sceglie per se stesso scegliendo, nella sua elezione eterna, la comunione con l’uomo; sceglie un popolo non obbediente, ma ribelle; non sceglie un popolo che potrebbe dargli qualche cosa come ricompensa, ma un popolo che deve ricevere tutto. Sceglie di soffrire per la colpa di questo popolo; sceglie di subire il castigo di tale peccato, l’obbrobrio e la morte che ne sono una conseguenza; si fa dei nemici proprio quando raccoglie su di sé la perdizione che essi avevano meritato. Ecco che cosa Dio sceglie decidendo di farsi uomo nella persona di Gesù, il Figlio di Davide, per stringere così la sua alleanza con gli uomini; ecco ciò che sceglie decidendo di rivestire la carne ed il sangue d’Israele; la forma israelita della comunità eletta mostra di che cosa è fatta l’umanità (quella del popolo di Dio come quella di tutti gli altri uomini), ciò che costa a Dio l’essere il suo Dio, ciò che costa a Dio di fare causa comune con questa umanità, ciò che costa a Dio esercitare la sua misericordia. Dio subisce lui stesso la maledizione: ecco il risultato del suo grande amore; l’uomo, è stato giudicato e questo giudizio è reale ed è valido, anche se è Dio che lo ha subito; che significano allora la buona volontà, la capacità e la dignità umane quando si comprende che l’uomo non sfugge alla perdizione se non a prezzo di questa maledizione subita da Dio? Una cosa è sicura: se tale è la volontà di Dio nei suoi riguardi, l’uomo non potrà resistere a Dio una seconda volta, non potrà avere la pretesa di sussistere se non in virtù della sua misericordia; non potrà revocare in dubbio la giustizia del giudizio che è stato reso (proprio perché è stato reso in questa maniera!) né la verità della sentenza pronunciata contro di lui; lo attesta infatti il Messia crocifisso d’Israele (consegnato da Israele e crocifisso da lui!). Sono queste le realtà che il popolo di Dio eletto, nella sua globalità, ha come compito di attestare: lo può fare ed effettivamente lo fa essendo il popolo del Messia d’Israele, rivestendo questa forma israelita, permettendo ad Israele di sopravvivere e di rivivere sotto l’aspetto della chiesa; attesta la miseria umana che solo la misericordia divina può guarire;

rivelando questa misericordia insondabile, dimostra al mondo una duplice verità: da un lato non può cadere nella perdizione e dall’altro è incapace di liberarsene da solo. Se Israele obbedisce alla sua elezione, se sopravvive e rivive nella chiesa, è ben questa la garanzia che simile aspetto (negativo) del messaggio della chiesa conserverà la sua attualità sino alla fine del mondo. Dio vuole che Israele obbedisca alla sua elezione, che abbia accesso alla chiesa, che compia all’interno della chiesa questo servizio particolare e che in questa maniera il popolo eletto faccia vedere la sua unità nella sua diversità. Tuttavia Dio non attende che Israele ubbidisca per richiederne il servizio. Questo servizio è implicito nella sua elezione in modo che Israele non può in nessun caso sottrarvisi, obbedisca o no a questa elezione; Dio non fa dipendere quanto attende da Israele dall’atteggiamento che Israele adotta a questo proposito; è piuttosto l’atteggiamento d’Israele che dipende da ciò che Dio si attende da lui. Qualunque sia, questo atteggiamento dipenderà dal servizio dato ed ordinato ad Israele; contribuirà all’opera del popolo di Dio nella chiesa; renderà testimonianza a Gesù Cristo; confermerà l’elezione di Gesù Cristo contemporaneamente a quella d’Israele e della chiesa. Se Israele obbedisse alla sua elezione, il suo atteggiamento e la testimonianza che rende al giudizio di Dio si armonizzerebbero con la testimonianza che la chiesa rende alla misericordia di Dio; la testimonianza d’Israele si unirebbe allora a quella della chiesa, portata ed addolcita (nel senso rigoroso del termine) da essa; si aggiungerebbe all’inno di lode del popolo eletto. Richiamando la discordia superata, l’atto di accusa annientato ed il peccato perdonato, tale testimonianza darebbe un sapore particolare al messaggio della redenzione del mondo, senza infirmarlo; l’onore d’Israele sarebbe allora quello di consolare e di mettere in guardia la chiesa, magnificando quel giudizio che è inseparabile dalla misericordia divina, ponendo davanti agli occhi della chiesa la croce che è la sua unica speranza; non per sminuire, ma per confermare quanto la chiesa come tale deve attestare. Il fatto è che Israele, come tale e nel suo insieme, non obbedisce alla sua elezione, ma vi resiste; vediamo che il Messia promesso ad Israele si manifesta e che, conformemente alla sua elezione, è consegnato da Israele e crocifisso per questo popolo; vediamo anche che la resurrezione conferma che egli era proprio il Messia promesso e che parecchi, anche provenienti dal paganesimo, credono in lui; però non vediamo che Israele come tale e nel suo insieme creda in lui. Anzi vediamo che Israele resiste alla sua elezione nell’istante stesso in cui la promessa che gli è stata fatta si compie; Israele rifiuta di aggregarsi alla

professione di fede della chiesa, rifiuta di compiere il servizio che gli compete all’interno della comunità eletta; forma e perpetua la Sinagoga, malgrado la distruzione del Tempio che mostra a tutti che la storia d’Israele è terminata. Proprio come se Israele avesse un destino ed un futuro accanto ed al di fuori della chiesa!; come se potesse realizzare il suo autentico destino accanto ed al di fuori della chiesa!; in questo modo provoca uno schisma e scava un abisso all’interno del popolo di Dio. Tuttavia l’incredulità d’Israele nulla può togliere a questo fatto: realmente ed oggettivamente, anche in questo atteggiamento insensato, Israele permane il popolo del Messia che è venuto e che è stato crocifisso e che è segretamente il Signore della chiesa (ciò che Israele ignora ancora); Israele non può sottrarsi al Dio della sua elezione né al popolo eletto e neppure sfuggire al servizio che gli è stato assegnato; compirà questo servizio secondo l’atteggiamento che ha assunto. Di fronte alla testimonianza della chiesa, non potrà che rappresentare il giudizio di Dio nudo e crudo, la resistenza con tutta la miseria che ne consegue, la condanna ed il castigo che Dio ha fatto suoi perché noi non ne siamo toccati, il regno delle tenebre che Dio ha dissipato mediante la sofferenza salvatrice di Gesù Cristo, l’esistenza antica e (grazie a Dio) trascorsa dell’uomo decaduto nella sua rivolta impotente. Israele si autopunisce nel suo orgoglio settario; non può però impedirsi di compiere, anche in questo caso, il servizio per il quale è stato eletto; anche in questa maniera, rende al mondo la testimonianza che questi attende da lui. Persino nella sua incredulità e nella forma fantomatica della Sinagoga, Israele mostra a che punto si trova l’umanità, ciò che Dio sopporta per amore, quale maledizione ha subito, chi è l’uomo da chi e per chi Gesù è stato crocifisso; è ben noto che l’esistenza degli Ebrei basta come prova dell’esistenza di Dio; diciamo meglio: come prova del peccato e della distretta degli uomini e conseguentemente come prova dell’insondabile amore di Dio che, in Gesù Cristo, ha riconciliato il mondo con se stesso. I Giudei del ghetto forniscono questa prova, involontariamente, senza gioia né splendore, ma la forniscono. Non avendo nient’altro da mostrare al mondo che l’ombra da essi proiettata sulla croce di Gesù Cristo, mostrano di fatto anch’essi Gesù Cristo. Né Israele può rovesciare quanto è stato compiuto da parte di Dio in favore degli uomini ed in loro stesso favore mediante Gesù Cristo; Israele non può rendere la forza ed il potere che, secondo il decreto di Dio, la condanna ed il castigo portati e assunti da Gesù, la potenza di Satana che è stata annientata, la distretta umana che è stata superata hanno acquistato per un momento, per subito perderli; non può rendere quella forza e quel potere che, secondo un

decreto eterno, Dio ha loro tolto. Non può dare al giudizio reso da Dio un significato contrario all’intenzione divina; non può rendere menzognera la misericordia divina manifestatasi in questo giudizio; la resistenza opposta all’elezione non può costituire un elemento che controbilanci in maniera definitiva l’elezione di Gesù Cristo e la sua stessa elezione; tale resistenza non può arrestare l’amore di Dio in Gesù Cristo ed annullare il suo decreto eterno. I Giudei possono mettersi da soli in torto, ma non possono portare alcun pregiudizio al dono che Dio ha fatto del Figlio suo ed all’ordine che, in questa maniera, ha instaurato in mezzo agli uomini; possono mancare di riconoscenza, ma non possono sopprimere le ragioni che avrebbero di essere riconoscenti; possono gettare scompiglio all’interno del popolo di Dio cui devono servire da fondamento, ma non possono distruggerlo. Possono far soffrire la chiesa, ma non possono rovesciarla né impedirle di guadagnare al Cristo giudei e pagani, né smentire il suo messaggio, avente per oggetto il loro Messia e la loro salvezza; non possono impedire la testimonianza della misericordia divina che in Gesù Cristo li raggiunge e resta valida anche per essi; non possono mutare nulla al fatto che Gesù Cristo è stato consegnato da essi e crocifisso anche per loro. Possono confermare sempre e di nuovo il loro peccato respingendo la mano di Dio che li cerca; ma l’opera di Dio che si compie attraverso il loro peccato per la salvezza del mondo e per la loro stessa salvezza non possono certo ridurla ad opera del nulla. Non possono fare altro che essere, con tutta la loro ribellione, strumenti della grande opera di Dio; possono rinnegare la loro unica speranza, ma nessun rinnegamento potrebbe annientarla; non possono infatti negare che Gesù Cristo è uno di loro, che anzi è innanzitutto uno di loro! La promessa irrevocabile di cui sono portatori resta sicura; conferma e prova la loro elezione, la loro appartenenza alla comunità eletta; si conferma non solamente per quanto riguarda il servizio cui non possono sottrarsi, ma pure riguardo alla misericordia divina che è fatta loro, cui resistono, ma che non potrebbero sopprimere. Quanto al servizio cui è destinata la chiesa, forma compiuta della comunità eletta, esso consiste nel portare il riverbero della misericordia, in virtù della quale Dio volge la sua gloria verso l’uomo. Il popolo eletto nella sua forma ecclesiale è la comunità del Signore risorto; la chiesa, fatta di Giudei e di pagani, ha come missione di far conoscere il significato divino del giudizio reso sugli uomini nella morte di Gesù, di testimoniare la buona volontà, la disponibilità e l’onore di Dio nei confronti dell’umanità adottata in Gesù Cristo; deve questa conoscenza alla resurrezione del suo Signore, il

Messia crocifisso d’Israele. Contrariamente al servizio d’Israele, il servizio della chiesa non è un servizio particolare accanto al quale potrebbe sussisterne un altro all’interno del popolo di Dio; piuttosto si deve dire che il servizio della chiesa ingloba il servizio d’Israele che è un servizio complementare; lo assume e lo utilizza come un contribuito necessario. L’unico servizio del popolo di Dio è assicurato dalla chiesa nella misura in cui Israele vive nella chiesa, così come questo medesimo servizio è assicurato da Israele nella misura in cui Israele fa vivere la chiesa mediante il suo Messia crocifisso, la suscita attraverso la resurrezione di questo stesso Messia e compie il proprio destino assumendo infine la forma della chiesa. Israele in sé e come tale non può partecipare se non involontariamente al servizio del popolo di Dio. Per sua disgrazia, sopravvive in effetti proprio in forza di questa partecipazione che non può rifiutare, cioè in virtù della necessità che gli è imposta di attestare il giudizio divino. Per essere salvato, Israele deve unire la testimonianza che rende al giudizio di Dio con la testimonianza che la chiesa rende alla sua misericordia. La forma ecclesiale del popolo di Dio manifesta ciò che Dio sceglie per l’uomo scegliendo la comunione con lui. Sceglie di fargli il dono del suo amore; sceglie, fra i suoi tesori, la giustizia e la santità, la pace e la gioia, la vita e la felicità; sceglie di essere lui stesso il fratello degli uomini, ma anche la loro guida, il loro servitore, il loro maestro, il loro medico ed il loro re; sceglie per essi un raggio della sua gloria. Lo fa venendo ad abitare nella carne e nel sangue di Giuda-Israele, assumendo come santuario la chiesa composta da Giudei e da pagani. Tutto questo si compie in nostro favore. Il popolo di Dio, nella sua forma definitiva ed ecclesiale, mostra quale è la volontà del Dio dell’elezione, ciò che Dio ci ha dato, ci dà e ci darà, ciò che possiamo attenderci; mostra che la misericordia è la decisione originale e fondamentale di Dio nei confronti dell’uomo, la sua partecipazione intima e totale al destino di quest’ultimo; mostra che il giudizio di Dio è incluso nella sua misericordia, la sua severità nella sua bontà, la sua collera nel suo amore. Se il giudizio reso sull’uomo (conformemente alla missione d’Israele) ci impedisce di sussistere diversamente che per grazia, la misericordia fatta all’uomo (conformemente alla missione della chiesa) ci impedisce ancora più nettamente di temere il giudizio, senza amare il giudice, senza attendere da lui la nostra giustificazione. Tutto questo attesta il Signore risuscitato della chiesa, il Signore che ha creato la chiesa rivelandosi ad essa, il Signore nel quale la chiesa ripone la propria fede, che deriva da lui. La comunità eletta deve

testimoniare tutto questo a sua volta; lo può e lo fa, perché è la chiesa di questo Signore, l’Israele composto da Giudei e da pagani; di fronte alla grande miseria umana, questo popolo confessa la grazia divina, che è ancora più grande. Rammenta al mondo la sua miseria, ricordandogli la misericordia divina. La chiesa porta il messaggio positivo che Dio indirizza al mondo ed in cui è certo incluso anche il messaggio negativo, in maniera però subordinata. La chiesa è la forma perfetta del popolo eletto. L’unità di questo popolo vi diventa visibile nella sua diversità; è in questa maniera che essa adempie la sua funzione mediatrice, in quanto ambiente provvisorio dell’uomo Gesù e che compie la sua missione nel mondo; la forma ecclesiale del popolo di Dio sta alla forma israelita come la risurrezione di Gesù sta alla sua crocifissione, la misericordia divina al suo giudizio. Ciò significa che la chiesa precede gli avvenimenti dell’ascensione e della Pentecoste, là dove vediamo che si costituisce chiamando giudei e pagani; esiste segretamente già in Israele; è già il fine ed il fondamento dell’elezione di questo popolo. La resistenza d’Israele non può mutare nulla al fatto che, fin dall’origine, la chiesa esista nel suo seno, poiché fin dall’origine Israele è la radice naturale da cui nascerà Gesù di Nazareth; malgrado la resistenza d’Israele, questa presenza della chiesa nel suo seno si manifesterà mediante rivelazioni speciali, benedizioni, vocazioni, direttive specifiche, una fede, un servizio ed un’obbedienza specifici; se la preesistenza della chiesa in Israele non annulla il giudizio che Israele ha come missione di rappresentare, questa missione particolare d’Israele non annulla neppure essa il fatto che questo popolo, in forza di quanto accade nel suo seno, è già il testimone della misericordia divina e che partecipa così, fin dall’inizio, alla forma definitiva del popolo di Dio, alla sua funzione, alla sua missione nel mondo. L’elezione d’Israele non è dunque solamente confermata dal fatto negativo della testimonianza che Israele rende al giudizio divino, ma anche dal fatto positivo di questa preesistenza e di questa prefigurazione della chiesa in seno a questo popolo. Secondo la Scrittura, Dio ha proceduto mediante l’elezione fin dalla fondazione del mondo e questo in vista dell’elezione d’Israele; partendo da tale elezione, che intende confermare e manifestare sempre e di nuovo, Dio non cessa di scegliere degli Israeliti che destina ad una missione speciale; ne fa dei rappresentanti e degli strumenti della misericordia con cui ha preso cura di questo popolo. La loro esistenza non modifica in nulla il destino d’Israele; mette solamente in luce ciò che Israele deve manifestare in quanto specchio e riflesso del giudizio divino: la miseria umana cui Dio non resta indifferente

ma che prende a cuore per guarirla, la fiamma salvatrice e purificatrice del suo amore che consuma ma che non distrugge, poiché la collera di Dio non è eterna. Tale è la prospettiva in cui la crocifissione di Gesù Cristo compie precisamente il giudizio divino; per questo l’aspetto negativo del messaggio della chiesa (il messaggio della croce) resterà attuale fino alla fine del mondo; l’esistenza degli eletti fin dalla fondazione del mondo mostra che questo messaggio vale fin dall’origine e la preesistenza della chiesa in Israele mostra che mette in luce la medesima realtà nel popolo eletto di Israele. L’esistenza degli eletti in Israele non modifica il destino d’Israele, poiché tali eletti sono eccezioni che confermano la regola, cioè che Israele deve servire a manifestare il giudizio divino; nella loro funzione e nella loro missione, essi non infirmano che parzialmente tale regola; si urtano costantemente in Israele a dei riprovati, che la confermano; ed infine, nel corso della storia d’Israele, il loro numero diventa sempre più ristretto e la loro esistenza sempre più nascosta, per ridursi in fin dei conti ad una sola persona: Gesù di Nazareth. La preesistenza della chiesa in Israele non si rivela dunque in realtà che alla luce di Gesù Cristo. A questa luce è possibile distinguere, nella storia d’Israele, certe prefigurazioni isolate, parziali e provvisorie di quella chiesa che diverrà manifesta con l’avvento, la morte e la resurrezione di Gesù Cristo. La preesistenza della chiesa in Israele traluce, lungo tutta la storia del popolo eletto, nel fatto che il peccato umano si trova denunciato, il giudizio di Dio manifestato, la fede e l’obbedienza dimostrate. Queste realtà sono rivelate come tali e convalidate non dalla storia sacra in se stessa, ma da Gesù Cristo e dalla sua chiesa, cui questa storia perviene per trovarvi il suo compimento. La preesistenza della chiesa in Israele consiste dunque nella sua profezia e nella sua prefigurazione reali, cioè indicate come reali dal loro compimento; tale profezia e tale prefigurazione si rapportano all’esistenza di eletti in Israele; sono il fine della loro elezione particolare. Se dunque la chiesa, forma compiuta del popolo eletto, ha come missione di proclamare in maniera universale, univoca e definitiva la misericordia divina, non rifiuterà certo di riconoscersi nel modello, nel presagio e nella prefigurazione che costituiscono gli eletti in Israele e di allinearsi su questi ultimi. Comprenderà anzi ed ammetterà che l’esistenza di questi eletti confermi l’elezione di Israele tutto quanto. Si sentirà dunque solidale con questo popolo nella sua intierezza, sebbene esso si unisca alla comunità di Dio in maniera differente. Ancora di più: essa considererà come un onore quello di contare nel suo seno degli Israeliti cristiani, testimoni viventi dell’elezione del

popolo d’Israele tutto intero. Ed infine la chiesa composta da giudei e da pagani riconoscerà che la sua vocazione è analoga a quella degli eletti in Israele, poiché nella persona dei suoi membri provenienti dal giudaismo e più ancora in quella dei suoi membri provenienti dal paganesimo, essa è sottratta, proprio come questi eletti, al giudizio pronunciato su Israele e sul mondo intero (conformemente alla missione d’Israele!) e, come essi, è chiamata, in virtù di una misericordia particolare, ad annunciare al mondo (ma anche ad Israele nella sua globalità) la vittoria dell’amore di Dio. È vero che la chiesa attende la conversione d’Israele. Non la può però attendere se non proclamando l’unità della misericordia divina che è fatta a lei come ad Israele, attestando così l’unità del popolo di Dio. B. ILLUSTRAZIONE SCRITTURISTICA In Rom. IX, 6 a Paolo spiega che la tristezza (di cui ha parlato nei vv. 1-2) non significa che occorra affliggersi sullo scacco della Parola di Dio davanti alla resistenza giudaica: «non è infatti vero che la Parola di Dio sia rimasta senza effetto». Dio non commette affatto errori, non subisce disfatte, non ha nulla da ritrattare; la sua parola resta vera anche quando l’uomo vi risponde con menzogne e si pone così dalla parte del torto; da israelita autentico, Paolo non può affliggersi su Israele senza rallegrarsi contemporaneamente (e rallegrarsi per Israele stesso) della costanza e della fedeltà del Dio d’Israele. Paolo si affligge perché Israele si separa dal popolo di Dio e si avvia verso il ghetto nel momento stesso in cui, in Gesù Cristo, la forma perfetta della comunità e dell’elezione d’Israele diventa manifesta per il mondo intero; tuttavia è ugualmente felice perché in questo anche l’elezione d’Israele è confermata e la volontà del Dio che elegge questo popolo è compiuta. In effetti, secondo la parola e la volontà di Dio, non è detto (vv. 6 b-7 a) che tutti i discendenti di Abramo e tutti coloro che portano il nome d’Israele siano destinati come tali ad essere membri della chiesa; sono membri del popolo eletto certamente, nessun uomo di questa stirpe può perdere questa qualità foss’anche Caifa o Giuda Iscariota, tutti appartengono per nascita al popolo eletto; ma non per questo sono tutti membri della chiesa, nascosta in Israele, manifestata in Gesù Cristo. Si tratta di cose diverse e sarà così fino alla fine dei tempi, non tuttavia oltre! «Quanti discendono da Israele, non sono per questo tutti quanti Israele»; non sono tutti quanti l’Israele autentico, quello il cui destino si compie raggiungendo la chiesa, unendosi così alla lode innalzata alla misericordia divina; certo qualcuno dei discendenti da Israele è Israele; ma tutti non discendono da Israele e non gli appartengono nel modo in cui gli

appartiene Gesù di Nazareth (v. 5). Strettamente parlando anzi, lui solo è veramente Israele e in lui, i suoi profeti, i suoi precursori, i suoi testimoni, tutti gli altri individui che sono stati eletti in maniera specifica proprio nel suo nome; nessuno appartiene all’Israele autentico per natura, in forza della carne e del sangue; ciascuno vi appartiene in forza di un’elezione particolare che rinnova e conferma l’elezione d’Israele. Questa elezione particolare (ed essa soltanto!) costituisce la chiesa preesistente in Israele, l’Israele vero e spirituale. «Per il fatto di essere della posterità di Abramo, non sono tutti suoi figli». Certo, essere «della posterità di Abramo» non è poca cosa; i discendenti di Abramo costituiscono indubitabilmente, come tali, il popolo eletto che ha per missione di rappresentare e di riverberare il giudizio divino, ripieno della sua misericordia; tuttavia i figli di Abramo, destinati a prefigurare l’autentico Israele ed a proclamare così la misericordia divina, non sono tali (come del resto lo stesso Messia) se non in forza di una scelta particolare da parte di Dio. Tale è a legge che Dio ha stabilito in Israele, perché Israele è il popolo eletto; fin dall’origine, Israele non vive che in forza dell’elezione; per questo il fenomeno della resistenza israelita che occupa Paolo non è affatto una novità o un’irregolarità ma, per quanto serio e doloroso sia, un’occasione di più per lodare Dio che ha sottomesso Israele a questa legge e gli ha dato questa regola. «In Isacco sarà data a te una posterità» (v. 7 b). In Isacco essa riceverà il nome sacro dei figli d’Abramo, degli autentici israeliti. Questo versetto è una citazione di Gen. XXI, 12 e richiama espressamente l’esclusione d’Ismaele. È in Isacco e non in Ismaele che si rinnova e si conferma l’elezione di Abramo, anche se Ismaele è lui stesso un figlio di Abramo e non lo è inutilmente. Questo passaggio della Genesi significa secondo il v. 8: «Non sono i figli della carne ad essere come tali figli di Dio, bensì i figli della promessa che sono considerati come la posterità». Figli della carne, genarati dall’uomo, nati dalla donna, lo sono entrambi, Isacco ed Ismaele e più tardi sia gli eletti che i riprovati saranno ugualmente figli della carne; come tali però, non sono figli di Dio; non costituiscono né delle figure del Messia d’Israele, né degli annunci della misericordia divina, né dei discendenti di Abramo nell’accezione in cui questi sono indicati dal v. 7 b: non sono di quelli che, spiritualmente, meritano di portare il nome di Abramo e di ritenersi sua posterità. Non possono essere figli di Dio e di Abramo che «secondo la promessa», cioè in tanto in quanto uomini che (come il Messia stesso) vivono della promessa fatta ad Abramo. La vita dei figli di Dio e della chiesa preesistente in Israele non trae la sua forza

dalla carne e dal sangue di Abramo, ma dalla promessa che gli è stata fatta. «I figli della promessa sono considerati come discendenza: è in essi solamente che questa posterità porta un nome santo ed essi solamente costituiscono l’Israele autentico. In ciascuno dei casi in cui Dio intrapprende ad edificare provvisoriamente la sua chiesa in Israele, manifesta la sua libertà di considerare come posterità autentica e profetica quella che destina particolarmente a questa funzione (così come in Rom. IV, 3 ss. considera Abramo come giusto a causa della sua fede). Coloro che vivono della promessa sono gli eletti di Dio, del Dio che ha eletto Abramo e che, prima che Abramo fosse, ha eletto Gesù Cristo. Essi (ma soloessi) sono figli di Dio e di Abramo nell’accezione propria del termine. Isacco è uno fra questi (v. 9); lo è in maniera esemplare nei confronti di tutti quelli che seguono poiché, come Paolo lo sottolinea in Rom. IV, 19 (cfr. Gen. XVIII, 11) è il figlio di una nascita miracolosa. «Isaac» significa «si ride», l’uomo «ragionevole» non può che ridere (cioè è nettamente indicato in Gen. XVIII, 12 s.) della parola rivolta ad Abramo: «Ritornerò da te in questa medesima epoca ed ecco, Sara, tua moglie, avrà un figlio» (Gen. XVIII, 10); si tratta di una promessa divina paragonabile a quella ricevuta da Abramo al tempo della sua vocazione o quando fu condotto nella terra promessa. Questa promessa non può realizzarsi o se si realizza, non può essere che per intervento divino. Per questo Isacco sarà, in questo senso molto preciso, figlio di Dio e di Abramo. Pur essendo un «frutto della carne», la sua esistenza è il compimento puro e semplice di una promessa divina; l’elezione di Abramo si rinnova e si conferma in lui; in lui si edifica la chiesa preesistente; indirettamente, Isacco testimonia in blocco l’elezione di tutto quanto Israele. Notiamo il testo parallelo di Gal. IV, 21-31: si tratta anche qui dei due figli di Abramo, l’uno nato «secondo la carne» dalla schiava Agar e l’altro generato in forza della promessa ed in virtù di questa stessa promessa nato dalla donna libera Sara. Il testo aggiunge espressamente: si tratta di due alleanze (v. 24); Agar rappresenta l’alleanza circoscritta, conclusa sul monte Sinai e realizzata nella Gerusalemme terrestre; Sara invece, «nostra madre», colei che è diventata madre miracolosamente rappresenta l’alleanza che la prima donna non ha potuto se non schizzare e che, senza restrizione alcuna, si realizza nella Gerusalemme celeste. «Quanto a voi, fratelli, come Isacco, siete figli della promessa» (v. 28); «non siamo figli della schiava, bensì figli della donna libera» (v. 31). Notiamo che Paolo trae dalla legge stessa (v. 21), dalla Scrittura

(vv. 22, 27, 30), la prova che la chiesa ed Israele sono dualità, malgrado quanto è loro comune (l’alleanza). La chiesa si distingue da Israele perché riceve direttamente e di nuovo la promessa fatta ad Abramo sul fondamento di un’elezione particolare. Consideriamo ancora il testo parallelo di Rom. IV, 925: Abramo ha creduto prima di essere circonciso, prima di essere un «ebreo»; ha ricevuto la circoncisione, segno dell’alleanza fra Dio e l’uomo che è Abramo (ed i suoi discendenti in lui) come «suggello della giustificazione per mezzo della fede, quando ancora era pagano», onde essere in questa maniera il padre di tutti coloro che credono, tratti dai pagani e tratti dai circoncisi (v. 10 s.); che riceva il mondo in eredità, non è promesso né a lui né ai suoi discendenti «secondo la legge», cioè in forza della legge israelita e del suo compimento. È promesso unicamente «per mezzo della giustificazione della fede», cioè in forza della giusta decisione divina, del decreto che vale prima della promulgazione della legge, all’interno come all’esterno del suo campo, decreto cui Abramo ha creduto ed obbedito (v. 13). Quando la promessa fatta ad Abramo è trasmessa a degli uomini in forza del decreto divino ed è ricevuta nella fede, diventa sicura, si compie, perché il suo compimento è sicuro (v. 16). Quando invece la promessa è data e ricevuta solamente sotto la forma della legge e quando di conseguenza il compimento della legge diventa il fondamento della speranza umana, la fede diventa senza oggetto e la promessa stessa perde in efficacia. Vivere sotto la legge significa infatti vivere sotto la collera di Dio; là dove è la legge, ivi è anche la trasgressione della legge; là dove non vi è la legge (cioè là dove essa non restringe la speranza, né sostituisce la promessa), ivi solamente non vi è trasgressione, ivi solamente la trasgressione è annullata (v. 15). È il caso che si verifica quando la promessa è fatta agli uomini come è stata fatta ad Abramo: in forza del sovrano decreto divino; e quando è ricevuta dagli uomini come fu ricevuta da Abramo, nella fede. Tutto questo si può produrre certo nel quadro della circoncisione e della legge, segni dell’alleanza conclusa con Abramo; ma può verificarsi anche al di fuori di questo quadro, per coloro che camminano sulle tracce della fede di Abramo. Abramo è «il nostro padre comune» (proprio come Sara, secondo Gal. IV, 26 è «nostra madre»); secondo Gen. XVII, 5 è padre di un grande numero di popoli (vv. 16-17); lui, che crede alla promessa di Dio, capace di rendere la vita a coloro che sono morti e di chiamare le cose che non esistono affatto come se esistessero (v. 17). Poiché persevera fermo nella fede, al di là di tutti i calcoli umani, ebbene «questo gli è stato ascritto a giustizia» (vv. 18-21),

come si esprime Gen. XV, 6. Si tratta della giustizia che corrisponde al decreto divino; non è solamente per Abramo che la Scrittura parla in questa maniera, ma anche per noi, anche per la chiesa che crede in colui che ha risuscitato Gesù di fra i morti; Abramo non è solamente il padre di Isacco e di Israele, è il padre della chiesa composta di giudei e di pagani. Così dunque la Parola di Dio non è smentita dal fenomeno dell’incredulità della Sinagoga (Rom. IX, 6); ne è anzi confermata; secondo la testimonianza della Scrittura, fin dall’inizio, Dio ha agito in Israele per elezione e per libera scelta. Ha distinto e separato la chiesa da Israele ed Israele dalla chiesa, confermando in questa maniera l’elezione d’Israele. Quest’affermazione è ripresa nei vv. 10-13 in forma ancora più accentuata. Non si tratta solo più dì due figli di un medesimo padre (Isacco si chiama ora «il nostro padre», così come era chiamato Abramo in Rom. IV, 1. 16), ma di due figli che hanno anche la medesima madre (Rebecca) e che sono gemelli (v. 11). Guardando indietro ai vv. 7-10, ci si potrebbe chiedere se Isacco non sia stato forse eletto in virtù di qualche vantaggio che presentava e se Ismaele non sia stato riprovato per una qualche colpa commessa; si sono trovate sempre molte ragioni per vantare il popolo d’Israele (e Giacobbe) e per denigrare Ismaele (ed Esaù); ma l’elezione dell’uno ed il rigetto dell’altro non dipendono certamente da quanto può essere lodato nel primo o biasimato nel secondo. Qui si tratta dell’elemento che distingue la chiesa in seno al popolo d’Israele; ciò non può essere quanto è lodevole in uno e quanto è riprovevole nell’altro; l’esempio di Giacobbe e di Esaù mostra chiaramente come una qualsiasi spiegazione ci questo genere sia erronea. È subito chiaro infatti che la decisione è stata presa nell’uno e nell’altro senso prima che gli interessati abbiano potuto influenzarla con le loro buone o cattive azioni. «Sebbene i figli non fossero ancora nati, e non avessero fatto né bene né male, fu detto: il primo ad uscire (e quindi il primogenito, colui che naturalmente potrebbe prevalersi di un diritto di priorità) sarà assoggettato al più giovane» (vv. 11-12; cfr. Gen. XXV, 23). La decisione dunque era già presa e la scelta compiuta: «Ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù» (v. 13; cfr. Mal. I, 2 s.); fra il destino dell’uno e quello dell’altro esiste una relazione che il v. 12 indica chiaramente e che il v. 13 non sopprime certo: il Dio di Giacobbe è anche il Dio di Esaù; la volontà di Dio, di quel Dio che ha eletto Abramo e tutta la sua discendenza, unisce il servitore al padrone, l’eletto al riprovato, colui che è amato a colui che è odiato. Entrambi riceveranno una benedizione dal loro padre Isacco

(sebbene questa sia differente per l’uno e per l’altro); ciò che accade per l’uno accade anche per l’altro all’interno del popolo di Dio; eppure l’accento è posto sul fatto che, nell’uno e nell’altro caso, si verifica qualcosa di differente, sul fatto che la chiesa e la discendenza di Abramo non sono identiche, sul fatto che la chiesa è separata non certo in forza di opere buone, ma (come accade per l’elezione dei discendenti di Abramo) in virtù del buon volere divino. Questa messa a parte è avvenuta «affinché sussistesse il disegno divino di elezione, non dipendente dalle opere umane, ma dalla sola volontà di colui che chiama» (vv. 11-12). Poiché all’interno della discendenza eletta sussiste l’elezione, si rinnova e si manifesta sotto forma di vocazioni differenti, la chiesa si edifica e l’elezione di questa discendenza si conferma. Non bisogna dimenticare questo secondo aspetto: la chiesa si edifica in virtù della libera disposizione divina all’interno di questa discendenza, in forza di una separazione cui corrisponde sempre anche un’esclusione. Il fatto che in questa razza sussista «l’elezione divina secondo il proposito (originale)», è l’onore, è la speranza che conservano tutti i suoi membri; anche i riprovati non sono abbandonati; beneficiano infatti di una protezione e di una direzione particolare da parte del Dio-cheelegge. Quando Agar fu cacciata nel deserto ed Ismaele si trovò in pericolo di morte «Dio intese la voce del bambino e l’angelo dell’Eterno chiamò dal cielo Agar e le disse: Che cosa hai Agar? Non temere, poiché Dio ha inteso la voce del bambino, lassù nel luogo in cui si trova. Alzati; prendi il bambino, serralo per mano, poiché io farò di lui una nazione grande. E Dio le aprì gli occhi ed essa vide un pozzo d’acqua. E Dio fu con il bambino che crebbe, abitò nel deserto e divenne tiratore d’arco» (Gen. XXI, 17 s.). Parimenti Esaù (Edom) non è abbandonato da Dio, è padre di un popolo riconosciuto da Dio e dal popolo di Giacobbe e la cui genealogia dettagliata si trova in Gen. XXXVI e I Cron. I accanto a quella d’Israele. Non bisogna dimenticare questi fatti se si vuole comprendere quello che la Bibbia intende per rifiuto, in opposizione, o meglio in relazione, con l’elezione; resta peraltro sempre una libera scelta divina quella che fonda ed edifica la chiesa; ed è in forza di tale scelta che questo popolo è il popolo eletto. Si tratta della scelta di grazia che è indipendente dalle qualità naturali o morali dell’eletto, che non dipende se non dalla volontà divina, dalla sua rivelazione e dal suo appello; si tratta della scelta particolare della grazia, che deve essere ricevuta ed accettata nella fede e che la fede sola può ricevere ed accettare; la libera scelta degli uni ne esclude altri. Secondo la Scrittura, vi è stato sempre un Israele escluso in forza di

questa libera scelta; Israele come tale non è stato mai identico alla chiesa; il fenomeno della Sinagoga ribelle non è dunque una novità. La Parola di Dio non è smentita da tale fenomeno. Quali sono le intenzioni di Dio riguardo al resto di Israele che non è destinato a fondare e ad edificare la chiesa?; che cosa vuole Dio con Ismaele?; e con Esaù che secondo il v. 13 ha odiato?; che cosa vuole fare oggi della Sinagoga ribelle? I vv. 14-29 rispondono a questi interrogativi. «Che diremo mai? Vi è forse dell’ingiustizia in Dio?» (v. 14). La questione che l’apostolo pone concerne la giustizia concreta (non quella astratta), la giustizia del Dio che elegge Israele. Il Dio dell’alleanza non è forse ingiusto escludendo tanti discendenti di Abramo, senza tener conto delle loro qualità naturali e morali?; la sua volontà non è forse arbitraria?; non si danno forse preferenze ingiuste? Per Paolo il problema riveste un’attualità bruciante: non vede forse la maggior parte del popolo d’Israele rimanere fuori della chiesa?; ha spiegato nei vv. 6-13 che, secondo la Scrittura, Dio ha agito sempre in Israele così come agisce ancora ora, con costanza che non conosce smentite; però questa costanza attestataci dalla Scrittura, allorché si pensa ai casi di Esaù e di Ismaele, non pone forse la questione della giustizia di questo Dio? E con quale urgenza, se si pensa a quello che Dio continua a fare ancora nel presente! Per meglio comprendere questo presente, si è consultata la Sacra Scrittura ai vv. 6 s.; ed ecco che ora la Scrittura stessa sembra complicare ulteriormente il problema; la tristezza di cui parla l’apostolo al v. 2 ha forse per causa la stranezza, l’ingiustizia dell’atteggiamento divino così come è evidenziato dalla stessa Parola di Dio? Paolo risponde come fa spesso in simili casi: «non sia mai!» (cfr. Rom. III, 4.6; VI, 2. 15; VII, 7; XI, 1. 11); tiene come assodato che Dio è giusto, lo si consideri nella Scrittura, lo si consideri nel presente; per l’apostolo è sicuro che Dio non agisce mai in maniera arbitraria, bensì sempre secondo l’ordine da lui istituito, in perfetto accordo con se stesso, in maniera assolutamente degna ed oggettivamente giusta, e ciò non malgrado, bensì proprio in forza dell’atteggiamento descritto nei vv. 6-13. Prova ne sia il nome che Dio ha rivelato a Mosé (v. 15); ed ecco questo nome: «Farò misericordia a chi faccio misericordia ed avrò compassione di chi ho compassione» (Es. XXXIII, 19); evidentemente è una trascrizione più semplice di Es. III, 14: «Io sarò chi sono». Secondo tale definizione, Dio si afferma e si glorifica nel suo avvenire; afferma e glorifica il suo essere presente mediante il suo essere futuro, la sua misericordia attuale mediante la sua misericordia avvenire. Poiché Paolo ha a che fare con un simile Dio, la questione sull’ingiustizia divina gli fa

semplicemente orrore ed oppone a questa assurda questione un «non sia mai!». L’atteggiamento divino in causa (ed esso solamente) corrisponde alla natura divina così come ci è rivelata nel nome di Dio; questo Dio è la giustizia in persona, la norma e la somma della giustizia; quello che Dio è in tutta libertà, lo sarà ancora e sempre di nuovo in questa medesima libertà: tale è infatti la sua natura. Essendo domani quello che è oggi, Dio non è affatto ingiusto, arbitrario o strano; la sua giustizia si manifesta nel fatto che rinnova, conferma e glorifica senza sosta il suo presente con il suo avvenire e con quello che sarà domani, tale quale è oggi; questo è il rapporto del Dio eterno con il tempo, la sua relazione e la sua alleanza con l’uomo che ha amato e creato. È così che Dio vive nell’elezione di Gesù Cristo e nell’elezione del suo popolo. Ed Es. XXXIII, 19 precisa: poiché Dio fa liberamente misericordia, farà ancora misericordia; agendo in questa maniera ed assicurando la continuità fra il suo presente ed il suo avvenire, Dio non dà all’uomo nessuna occasione di lamentarsi di una pretesa ingiustizia; Dio è giusto perché fa e farà misericordia, poiché non cesserà di essere misericordioso ma confermerà, in forza della sua misericordia futura, la sua misericordia passata e presente. Ecco come Dio si comporta nella sua alleanza con l’uomo, nell’elezione di Gesù Cristo e del suo popolo; ecco come fonda e rinnova, conferma e glorifica questa alleanza. Il segreto dell’atteggiamento divino descritto nei vv. 6-13 deriva dalla natura stessa di Dio: come Dio elegge Abramo, così fra i figli di Abramo elegge Isacco e fra i figli di Isacco Giacobbe; così elegge anche Mosé; come ha avuto compassione ieri. ha compassione oggi ed avrà compassione anche domani. In definitiva Dio conferma, rinnova e glorifica il suo presente mediante il suo avvenire, fa risplendere il giorno che viene avendo compassione dell’uomo Gesù e, con lui, di tutti quanti gli uomini: diventa uomo per portare su di sé tutta la miseria umana e per rivestire l’umanità della gloria che è la sua. A causa di questo giorno del Cristo in cui Dio rinnoverà, confermerà e glorificherà la sua giustizia (la giustizia della sua misericordia!) sopportando lui stesso il giudizio degli uomini, il popolo d’Israele da cui è uscito Gesù ha come Dio colui che ha detto: «Io sarò chi sono», un Dio che non cessa di scegliere in Israele la sua chiesa. In quale prospettiva mai si potrà accusare Dio d’ingiustizia? Dio è giusto perché la sua misericordia nei confronti d’Israele implica questa misericordia futura, inseparabile da Gesù e dalla sua chiesa, misericordia che vale per tutti quanti e per Israele nella sua globalità; Dio è giusto perché fa seguire la misericordia

particolare in forza della quale elegge Abramo e la sua discendenza, da quest’altra misericordia particolare inforza della quale sceglie la chiesa in Israele; il seguito rinnova, conferma e glorifica l’inizio. Amando Giacobbe ed odiando Esaù (v. 13), Dio è sovranamente giusto, sovranamente giusto perché non fa accezione di persona, non tenendo conto di tutte le qualità naturali e morali degli uomini interessati (vv. 10-13); «ciò non dipende né da colui che corre né da colui che vuole, ma da Dio che fa misericordia» (v. 16), allorché qualcuno è oggetto di questa misericordia particolare che viene a coronare la misericordia generale cui partecipano tutti i discendenti di Abramo, divenendo così un membro della chiesa. Vale per Mosé, per Isacco, per Giacobbe; se la grazia dipendesse da colui che corre o da colui che vuole, allora Dio sarebbe ingiusto ed in disaccordo con se stesso; infatti quanto seguirebbe in questo caso alla libera misericordia in forza della quale Dio sceglie Abramo sarebbe un’altra grandezza, un decreto rilevante dal volere umano e dalla corsa umana. Dio è giusto scegliendo Isacco, Giacobbe e Mosé, con questa mancanza di riguardo nei confronti di tutte le qualità umane, con la stessa libera misericordia con cui ha scelto Abramo. Ma quali sono le intenzioni di Dio nei confronti d’Ismaele, di Esaù, di tutto quell’Israele che non è chiamato a diventare chiesa? La risposta a questo interrogativo non è ancora stata data. Che significa infatti: «Ho odiato Esaù» (v. 13)? Quanto è stato detto della giustizia della misericordia divina (vv. 15 s.) vale anche per costoro? Nel prosieguo del discorso Paolo lo lascia intendere. Parlando di Mosé (e retrospettivamente di Isacco e di Giacobbe) i vv. 15-16 formano in qualche modo la premessa per quanto sarà detto ai vv. 17 s. d’Ismaele, di Esaù e di tutti gli altri riprovati in seno al popolo eletto d’Israele; la giustizia divina è attuale anche per loro, poiché il nome dell’Eterno è: «Sarò chi sono» o «Farò misericordia a chi faccio misericordia»; anche per quanto li concerne l’atteggiamento divino corrisponde al nome di Dio, alla natura divina così come è definita da questo nome. La Parola di Dio rivolta a Faraone (v. 17) non è opposta mediante una congiunzione avversativa con quella che è stata detta a Mosé (v, 15), bensì le è unita mediante una congiunzione esplicativa: ciò che segue conferma quanto precede. Il personaggio che ora funge da esempio è precisamente il grande avversario di Mosé, il Faraone dell’Esodo. Qual è la relazione con Israele in questo contesto?; solo questa: è il peggior nemico d’Israele ed il suo persecutore, prefigurazione perfetta di quanto Saulo di Tarso è stato lui stesso

quando ha perseguitato i cristiani e di quanto ancora è la Sinagoga nei confronti della comunità dei credenti; questo Faraone è quindi un’immagine particolarmente eloquente del popolo d’Israele riprovato e ribelle. La situazione di questo Israele coincide con quella di Faraone. Ed il contesto precisa: questa situazione non può che essere quella d’Israele, indipendentemente dal suo cammino o dal suo volere, dalle sue intenzioni o dalle sue opere; il Dio giusto (nel senso chiarito al v. 15) ha posto Israele in questa situazione; ciò che Dio vuole e ciò che fa agendo in questa maniera è illustrato dall’esempio di Faraone. Ogni atto della misericordia divina non è necessariamente seguito da un nuovo atto di misericordia (se no come potrebbe essere veramente un atto di misericordia, di misericordia divina?); che la misericordia succeda alla misericordia, questo resta oggetto divino e la decisione di Dio è libera, cosicché questa successione di atti di misericordia può anche essere interrotta; ecco l’aspetto negativo della verità enunciata al v. 15. Questo lato negativo concerne Ismaele, Esaù e Faraone; ma suppone un comportamento divino positivo, una misericordia divina fatta originariamente allo stesso Faraone; lo afferma espressamente l’Antico Testamento. Ecco infatti il contesto della parola citata al v. 17: «Se avessi steso la mia mano e se ti avessi colpito a morte, tu ed il tuo popolo, saresti sparito dalla terra; io invece ti ho lasciato sussistere (ti ho suscitato, ha letto Paolo nella versione greca dei Settanta) affinché tu veda la mia potenza (Paolo e la versione dei Settanta leggono: per mostrare in te la mia potenza) e che il nome mio sia magnificato su tutta quanta la terra» (Es. IX, 15 s.). Dio moltiplica miracoli ed avvertimenti sotto gli occhi di Faraone; questi non manca di riconoscere occasionalmente il suo peccato e la sua colpevolezza (Es. IX, 27; X, 16); chiede persino l’intercessione di Mosè (Es. VIII, 8.28; IX. 28; X, 17). Ogni volta Mosé prega effettivamente per Faraone (Es. VIII, 12.30; IX, 33; X, 18); ogni volta il castigo è sospeso, fino all’annientamento finale. Anche Israele, nella sua storia, conosce segni simili, ed in quantità numerosa, dell’originale misericordia divina; ma, diversamente da quanto accade per Isacco, Giacobbe e Mosé, questa misericordia, di cui benefica il Faraone, non è rinnovata, confermata e glorificata da una misericordia susseguente; Dio usa della sua libertà rifiutando a Faraone questa grazia. Tuttavia tutto ciò resta la libertà della sua misericordia. Anche quando Dio rifiuta a Faraone quello che accorda a Mosé, il Faraone resta sempre nella sfera di Mosé, poiché l’uno e l’altro dipendono dalla medesima libertà divina. La misericordia divina degli inizi non è stata accordata vanamente a Faraone, ma con intenzione positiva e

precisa; anch’egli è al servizio di Dio, partecipa all’onore ed alla speranza che implica un fatto simile; Dio lo fa sussistere, lo suscita per farne un testimone della sua potenza e perché il suo nome divino sia conosciuto su tutta la terra. Questo sinistro prototipo di tutti i riprovati in Israele serve a manifestare «la forza di Dio» che Rom. I, 16 identifica con l’evangelo, I Cor. I, 18 con la parola della croce, I Cor. I, 24 con Gesù Cristo stesso; serve ad annunciare «il nome di Dio», il che significa che Dio in persona si rivela e si afferma per mezzo di lui; il disegno che Dio persegue con l’elezione del suo popolo si realizza anche per mezzo di Faraone e non solo per mezzo di Mosé. Sul cammino che conduce al giorno di Gesù Cristo, Dio trova ed utilizza anche il Faraone e non solamente Mosé; Faraone ha il suo posto accanto a Mosé, poiché mostra che la realizzazione del disegno divino non dipende affatto dalla corsa e dal buon volere dell’uomo (nemmeno da quello di Mosé), ma deve realizzarsi costi quello che deve costare; Faraone si pone giustamente accanto a Mosé perché a suo modo attesta la giustizia di Dio, la giustizia della sua misericordia. Per i medesimi motivi, Ismaele ha il suo posto accanto ad Isacco, Esaù accanto a Giacobbe e la Sinagoga accanto alla chiesa. «Fa misericordia a chi vuole ed indurisce chi vuole» (v. 18). Queste parole riassumono il destino di Isacco, Giacobbe e Mosé da un lato, d’Ismaele di Esaù e del Faraone dall’altro. Prima di spiegarlo nel senso della dottrina classica della predestinazione, si sarebbe dovuto notare che il doppie ϑέλει («vuole») non può indicare assolutamente qui una volontà neutrale ed indeterminata, rivolgentesi indifferentemente da una parte o dall’altra; il volere divino è libero, ma non è indeterminato; è invece determinato nel senso indicato dal nome stesso di Dio (v. 15). Così determinato, ha una duplice direzione; da due lati ed in maniera diversa, Dio vuole una sola e medesima cosa; il ϑέλει comprende sia l’elezione (ἐλεεῖ) che l’indurimento (σϰληρύνει): si tratta di un solo ed unico disegno divino, che si realizza nell’elezione del popolo di Dio. Questo disegno, Rom. XI, 32 lo indica chiaramente, è il disegno della sua misericordia. È questo disegno che, secondo i vv. 15-17, Mosé e Faraone devono compiere; lo fanno in maniera differente ed è per questo che la volontà di Dio si manifesta differentemente in ciascuno di essi; Dio sceglie Mosé come testimone della sua misericordia e Faraone come testimone del giudizio che accompagna necessariamente questa misericordia. Fa di Mosé il servitore volontario e di Faraone il servitore involontario del suo nome e della sua potenza; rinnova la sua misericordia a Mosé; rifiuta di rinnovarla a Faraone. È subito evidente che per l’esistenza degli individui in questione questa differenza ha conseguenze

sensibili; ma non di questo si deve trattare qui; è stato probabilmente l’errore iniziale della dottrina classica della predestinazione d’interessarsi innanzitutto (e non certo a loro vantaggio) delle conseguenze umane e non delle realtà divine e di considerare che la differenza fra il destino di Mosé e quello di Faraone fosse il tema di Rom. IX, 18, come la differenza fra i due figli di Abramo è stato considerata tematica di Rom. IX, 6 s. I testi in questione vogliono mostrare che la diversità dei destini personali, così caratteristica per la storia del popolo d’Israele e che è indubbiamente opera della predestinazione divina, non contraddice né l’elezione di Israele né la giusta misericordia divina, anzi corrisponde all’una ed all’altra; differenze consimili devono prodursi durante tutto il corso della storia d’Israele, perché questa storia è un’attesa del Messia crocifisso e nel contempo la preistoria della chiesa del Signore risuscitato, poiché Dio vuole rivelarsi giusto, pur giustificando gli uomini (peccatori). ’Eλεεῖν designa al v. 18 la misericordia particolare, la misericordia rinnovata che manifesta l’aspetto positivo dell’intenzione divina nei confronti d’Israele, la sua volontà di formare la chiesa all’interno di questo popolo, prefigurazione della misericordia in virtù della quale Dio avrà pietà degli uomini nel giorno della resurrezione di Gesù Cristo. ∑ϰληρύειν significa irrigidire, indurire, pietrificare (la volgata dice bene: indurare); s’intende la misericordia iniziale che non si rinnova e che manifesta l’aspetto negativo dell’intenzione divina nei confronti d’Israele, quell’Israele che perviene alla costruzione di un popolo autosufficiente, prefigurazione del giudizio cui Dio sottometterà gli uomini, cui Dio, anzi, sottometterà se stesso in favore degli uomini. Bisogna dunque parafrasare come segue il v. 18: Dio si rivela all’uomo che destina a riflettere la sua misericordia, di modo che quest’ultimo adempie la volontà divina come l’adempie Mosé, volontariamente, con riconoscenza e sotto la sua benedizione; Dio si ritira invece dall’uomo che destina a riflettere il suo giudizio, a manifestare l’impotenza e la indegnità di tutto quanto è umano, di modo che questo secondo uomo compie la volontà divina come Faraone, involontariamente, senza riconoscenza e sotto la maledizione. La questione del v. 19, cui Paolo risponde ai vv. 20-22, è una sfida: «Tu mi dirai: perché mai rimprovera ancora?; chi può infatti resistere alla sua volontà?»; al v. 20 quest’interrogativo è presentato in questa maniera: «perché hai agito così nei miei confronti?»; è un’interrogazione così naturale che è vano chiedersi donde venga e perché Paolo vi si soffermi tanto: esprime infatti l’apologia dell’uomo che si vede posto fra i nemici di Dio, senza che il suo

impegno ed il suo volere contino qualcosa, come è detto nei vv. 16-18. Che cosa ha Dio da rimproverare a quest’uomo, se il suo impegno e la sua volontà non entrano in considerazione e se, qualunque cosa possa fare, Dio ha deciso di considerarlo come Faraone?; come potrebbe essere responsabile e punibile un tale uomo?; che ragione avrebbe mai di pentirsi e di appropriarsi la grazia divina?; non resisterebbe forse alla volontà di Dio anche compiendo le migliori fra le opere?; e se le cose stanno così, che cosa vi è di male ad essere un Faraone? La questione avrebbe un senso se Paolo, al v. 18, avesse affermato l’arbitrarietà di Dio, come lo pretende l’esegesi della dottrina classica della predestinazione. Tutto quanto si è detto su questo punto per risolvere simile questione è così radicalmente vano, tutto quanto si è detto per ricusare simile apologia è così totalmente inutile che dopo centocinquant’anni di discussioni, verso il 1700, con aria lacrimevole si trattava ancora del famoso scrupulus de praedestinatione hominis irregeniti, così caro agli avversari di Calvino, Agostino e Gottescalco1. Se Paolo, al v. 18, avesse proclamato il decretum absolutum, la sua risposta dei vv. 20 s. non sarebbe certo tale; Paolo però non ha proclamato al v. 18 il decretum absolutum; ha parlato della volontà misericordiosa del Dio della libertà ed allora la sfida del v. 19 non ha più significato. Nessun uomo che Dio destina ad essere un testimone del suo giudizio può dire a questo Dio libero nella sua misericordia: che cos’hai da rimproverarmi?; perché mi hai fatto così? (v. 20 a). Paolo non risponde, come si è sovente pensato: non sei che una creatura che il Creatore può trattare secondo il suo beneplacito; certo, Dio ha tale potere; ma Paolo non ricorre a questo potere astratto per mettere a tacere le contestazioni umane. D’altronde se così facesse, esaspererebbe solo la questione del v. 19. Il potere di Dio, che richiede l’umiltà da parte dell’uomo, è un potere ben determinato; corrisponde al decreto divino manifestato in Gesù Cristo; per questa ragione il v. 20 significa: Che tu sia un amico di Dio come Mosé o un suo nemico come Faraone, che tu ti chiami Isacco o Ismaele, Giacobbe o Esaù, sei in ogni caso l’uomo per il quale Gesù Cristo è morto sulla croce perché Dio fosse giustificato e sei anche l’uomo per la giustificazione del cuale Gesù Cristo è risorto dai morti (Rom. IV, 25). L’uomo che è posto di fronte a questa duplice giustificazione non può in nessun caso lanciare la sfida del v. 19; non può fare la propria apologia di testimone del giudizio divino; occorre dire all’amico come al nemico di Dio, al suo servitore volontario o involontario: sei chi sei in forza della volontà misericordiosa del Dio di libertà. Hai tutte le

ragioni di essere riconoscente, di deplorare la tua ingratitudine, di sentirtene responsabile, di pentirti e di porre tutta la tua speranza unicamente in Dio. Questo, e non la sfida, ti si addice, qualunque cosa Dio voglia fare di te, che tu viva all’ombra o alla luce della sua volontà misericordiosa, che tu debba attestare la bontà divina o l’impotenza umana. Come il seguito mostrerà, Paolo respinge la sfida dell’uomo annunciando l’evangelo e la giustificazione. L’uomo giustificato per mezzo di Gesù Cristo non può lanciare sfide a quel Dio che lo stesso Gesù Cristo ha giustificato; quest’uomo accetterà piuttosto la reprimenda divina e non vorrà inalberarsi contro Dio; qualunque sia il suo destino, loderà la mano divina cui è sottomesso. Lo scrupulus de praedestinatione è stato la punizione inflitta ai sostenitori della dottrina classica della predestinazione, che hanno creduto possibile contrapporre un Dio indeterminato ad un uomo ugualmente indeterminato; Paolo non ha fatto così; per questo non conosce tale scrupolo. La parabola del vasaio (vv. 20 b-21) costituisce il centro di tutta la dimostrazione: ciò è subito evidente se si vuole mantenere il significato evangelico di quanto precede e comprendere la parabola così come è stata presentata già nell’Antico Testamento (ad esempio in Ger. XVIII, 1-10), in linea d’altronde con l’interpretazione che segue e che è introdotta da una particella esplicativa (vv. 22-24: δέ). La parabola del vasaio è innanzitutto la ripetizione e la conferma del v. 18: nella sua misericordia, Dio è libero di manifestarsi o di nascondersi; è libero di rivelare il suo nome e la sua potenza a Mosé in un modo ed a Faraone in un altro, per mezzo di Mosé in una maniera e per mezzo di Faraone in un’altra. Lui che avrà compassione dei peccatori in Gesù Cristo, ha bisogno di testimoni per indicare la sua intenzione misericordiosa, ha bisogno della chiesa in Israele: essi sono i «vasi di onore»; abbisogna però anche di testimoni del suo giudizio (opera della sua misericordia), ha bisogno d’Israele in quanto tale: sono i «vasi di uso corrente»; Dio ha bisogno di queste due specie di testimoni di Gesù Cristo. Il Dio d’Israele, come il vasaio della parabola, non agisce in maniera capricciosa, ma secondo un’intenzione ben determinata, quella che il suo nome indica e che costituisce la sua natura; agisce in vista della propria giustificazione per mezzo della morte di Gesù Cristo e della giustificazione degli uomini per mezzo della resurrezione di questo medesimo Gesù Cristo; la sua azione ha come scopo di rivelare la via che conduce verso il giorno di Gesù Cristo. Lungo tutto questo cammino deve manifestarsi che Israele è il luogo dove abita la gloria di Dio e che questa gloria non è quella d’Israele, bensì quella del

Signore. D’altronde, anche negli esempi veterotestamentari cui Paolo s’ispira, la duplice azione del vasaio non si esercita in maniera indifferente e capricciosa, ora in un senso ed ora nell’altro: come se Dio gradisse e riprovasse alla cieca, ponendo tizio a destra e caio a sinistra con una serietà parimenti arbitraria. Anzi una è la sua azione εἰς τιμἡν ed altra la sua azione εἰς ἀτιμίαν e tali azioni si succedono in un ordine irreversibile. Dio dice sì verso destra; esprime allora la sua intenzione profonda e proclama quanto intende fare in Gesù Cristo fra gli uomini. Dice no verso sinistra; lo fa però per salvaguardare il suo sì verso destra; ciò significa che si avanza verso la realizzazione della sua intenzione finale e che intende mostrare ciò che la rivelazione della sua misericordia comporta per il fatto di compiersi in mezzo agli uomini. Fra i due aspetti di questa azione divina esiste uno squilibrio ed un’asimmetria; la luce del volere divino e l’ombra del suo non-volere si oppongono; vi è necessariamente una successione obbediente ad un senso unico. «La sua collera dura un istante, la sua grazia permane in eterno» (Sal. XXX, 6); «Per qualche istante ti avevo abbandonata, ma è con grande affetto che ti accoglierò; in un momento di collera, per un istante avevo distolto da te la mia faccia, ma è con un amore eterno che avrò compassione di te» (Is. LIV, 7 s.); «Quanto i cieli sono alti al di sopra della terra, altrettanto la sua bontà è grande per coloro che lo temono. L’uomo!: i suoi giorni sono come l’erba, fiorisce come i fiori del campo; quando un vento passa su un fiore, non esiste più ed il luogo in cui si trovava non lo riconosce più; ma la bontà dell’Eterno dura per sempre per coloro che lo temono e la sua misericordia dura per sempre per i figli d’Israele» (Sal. CIII, 11 s.). Simile è la relazione fra le due azioni del vasaio, del Dio d’Israele. L’errore della questione sollevata al v. 20 a proviene dalla dimenticanza di siffatta relazione. Il vaso non può dire a colui che lo ha fatto: «non mi hai fatto» (Is. XXIX, 16), né domandare: «perché mi hai fatto così?». Non è il potere del vasaio, ma il senso che il vasaio dà al suo potere e l’uso che ne fa ad impedire simile interrogazione. Infatti se i «vasi di uso comune» sono destinati a dimostrare l’impotenza e l’indegnità degli uomini, di questa massa da cui sono tratti contemporaneamente ai «vasi d’onore», questi ultimi, usciti dalla mano del medesimo vasaio, dimostrano quale è la volontà, quale è l’intenzione di Dio nei riguardi degli uomini. Come potrebbe l’uomo, invece di lodare l’azione divina, trarre dalla sua impotenza e dalla sua indegnità, attestate dai «vasi di uso corrente», il diritto d’installarsi in quest’atteggiamento negativo, avendo quest’ultimo senso solo se riferito

costantemente all’atteggiamento positivo di Dio, destinato a farlo scomparire? Che cosa resta da fare al «vaso di uso corrente», se non di confermare volontariamente la testimonianza dei «vasi d’onore», proprio mediante la testimonianza resa all’impotenza ed all’indegnità umane; o di farlo involontariamente; ad ogni modo, volontariamente o involontariamente di farlo sempre, poiché non potrà mai contraddire, ma solamente confermare il sì divino, mediante il suo no umano. Questa conferma è la missione d’Israele all’interno del popolo eletto da Dio; Israele come tale è il «vaso di uso corrente»; è testimone del giudizio divino, personifica l’impotenza e l’indegnità umane. Israele consegnerà il suo Messia perché sia crocifisso; ma, in mezzo e dirimpetto ad Israele, da sempre, si erge la chiesa, con la sua missione universale e definitiva, la chiesa che annuncia agli uomini la grande opera di Dio, la chiesa che, grazie al suo capo risuscitato, costituisce il «vaso d’onore», il testimone ed il rappresentante della misericordia divina in mezzo agli nomini. Israele può forse domandare: perché mi hai creato così?; perché mi hai fatto Israele e non chiesa? Certamente no, perché in quanto vaso di uso comune, testimone del giudizio divino, porta costantemente la chiesa nel suo seno ed è chiamato a parteciparne; è chiamato a servire il disegno di Dio volontariamente e non più suo malgrado; quest’appello a lasciarsi vincere dal messaggio del sì divino, sempre più grande del no umano, è la giustificazione riservata ad Israele ed implica pure la giustificazione dell’operato divino. Ecco perché la questione del v. 19 è impossibile. Ismaele è chiamato mediante Isacco, Esaù mediante Giacobbe, Faraone mediante Mosè, la Sinagoga mediante l’apostolo Paolo. Dato questo appello, dato il buon annuncio che è loro rivolto, come potrebbero mai riprendere a loro carico i termini della sfida di cui al v. 19? Che questa esegesi dei vv. 19-21 sia la sola possibile è quanto indica il commento alla parabola del vasaio dei vv. 22-24. Si tratta di un anacoluto, di una proposizione interrogativa parallela ai vv. 1921, che racchiudono anch’essi cinque questioni cui Paolo non risponde direttamente. La parabola del vasaio sembra essere un rebus. «E che dire se (la soluzione di questo rebus fosse tale che) Dio, volendo mostrare la sua collera e far conoscere la sua potenza, avesse sopportato con grande pazienza dei vasi di collera formati per la perdizione e tutto questo per far conoscere la ricchezza della sua gloria nei confronti dei vasi di misericordia precedentemente preparati per la gloria, quei vasi di misericordia che siamo noi, chiamati non solo di fra i giudei ma anche di fra i pagani?». Tutta la dimostrazione è perfettamente costruita: la relazione

intercorrente fra l’azione divina nei confronti degli uni e l’azione divina nei confronti degli altri è precisata da ϰαἰ ἵνα (in accezione finale e consecutiva) al v. 23; in vista della finalità perseguita, ἐλεεῖ del v. 18 precede σϰληρύνει e εἰς τιμἡν precede εἰς ἀτιμίαν del v. 21 b; ora quest’ordine si trova improvvisamente rovesciato, considerato in funzione dello svolgersi dell’azione divina di modo che una teleologia diventa subito evidente. Ciò sgorga chiaramente dai vv. 22-24: Paolo non parla di una duplice volontà divina, ma di un cammino lungo il quale Dio conduce gli uomini verso una finalità unica; per condurli a questo fine, Dio opera una doppia azione che si svolge con un ordine ben determinato; il senso di durezza che si provava leggendo i versetti precedenti, in cui la misericordia e la riprovazione divine, i vasi di uso comune ed i vasi di onore sembravano il compimento di due intenzioni divine distinte, si trova ormai dissipato. In effetti il verbo principale della seconda parte della frase, che è decisiva, è il verbo ϒνωρίση (v. 23); finalità della strada divina non è che vi siano vasi di misericordia, bensì il fatto che Dio faccia loro conoscere le ricchezze della sua gloria; ed è solamente in funzione di questa conoscenza che Dio ha bisogno di vasi di misericordia. Per questo motivo anche la prima parte della frase non serve a proclamare innanzitutto che esistono dei vasi di collera, né che Dio li ha creati tali e li ha destinati alla perdizione, nemmeno che Dio agisce così per mostrare la sua collera e rivelare la sua potenza: serve ad indicare in primo luogo che «Dio li ha sopportati con grande pazienza». Questo è il punto saliente del v. 22, non solamente perché ἢνεϰεν è qui il verbo principale, ma soprattutto perché la frase del v. 23 è collegata con questo verbo. Dio ha sopportato gli uni, onde manifestare per mezzo degli altri le ricchezze della sua misericordia: tale è l’interpretazione paolina della parabola del vasaio. Certo, secondo il v. 22, la volontà divina unitaria è pure una rivelazione di collera ed una manifestazione di potenza. Facendo misericordia, Dio non evita la collera; «ha sfoderato le armi della sua collera» è scritto in Ger. L, 25 e questa collera è diretta contro la corruzione umana; facendo misericordia, Dio esercita liberamente la sua onnipotenza, che si oppone all’impotenza umana. Quanto compirà come salvatore d’Israele in Gesù Cristo, sarà anche un atto di giudizio e di riprovazione; opporrà un no categorico all’agire umano (Rom. I, 18 s.) per il semplice fatto di assumere la responsabilità delle vicende umane; toglierà agli uomini ogni diritto e ogni pretesa. Però la sua collera conterrà precisamente la sua misericordia: è per mezzo di un giudizio di cui Dio stesso sopporterà tutto l’obbrobrio che l’uomo

sarà salvato; conseguentemente la storia d’Israele, la cui finalità altro non è che la salvezza degli uomini, non può essere nient’altro che una successione sempre più rapida di presagi annuncianti questo giudizio. Per questo motivo, lungo tutta questa storia, s’incontrano dei vasi di collera; manifestano il no divino che racchiude e nasconde il sì che Dio pronuncerà in Gesù Cristo, il Messia d’Israele; Israele non sarebbe Israele se non vi fossero nel suo interno, per confermare la sua elezione e la sua speranza, dei vasi di collera «preparati per la perdizione». Anzi bisogna che alla fine Israele diventi un unico vaso di collera, consegnando il suo Messia alla morte e diventando così il testimone del giudizio di Dio; tuttavia la negazione e la riprovazione dell’uomo non hanno un significato autonomo e non esprimono la volontà definitiva di Dio neppure nei confronti d’Israele; Paolo intravvede infatti il fine stesso della storia d’Israele, là dove Dio non dice «no», ma «sì», risuscitando dai morti quel Gesù che gli uomini hanno ucciso. Considerandoli in questa prospettiva finale si deve dire che anche i «vasi di collera sono stati sopportati con grande pazienza»; Dio non ha solo lasciato loro il tempo e con il tempo la vita, non ha solamente atteso (invano, è vero) il loro pentimento e la loro conversione; certo, ha fatto tutto questo, ma anche di più: utilizzando quei vasi di collera, Dio li ha assunti ed inclusi nella teleologia della sua volontà di misericordia. Non li ha dunque sopportati senza motivo e la pazienza con cui ha vanamente atteso il loro pentimento non è stata inutile: è stato anzi un atto di saggezza; portando la riprovazione umana nella persona del proprio Figlio, Dio ha superato e contemporaneamente limitato la riprovazione d’Ismaele, di Esaù, di Faraone e di tutto quanto Israele, ha dimostrato di portare lui stesso questa riprovazione; in questo contesto «portare» significa «sopportare» e «trasportare»; a causa dell’agnello di Dio che porterà i peccati del mondo (Gv. I, 29), i «vasi di collera» sono portati e sopportati (cfr. Rom. III, 25 s.). Diciamo meglio: la riprovazione d’Israele è «trasportata» fino al Cristo ed è proprio in questo fatto che risiede tutto il mistero della storia di questo popolo, come anche il mistero della sopravvivenza della sinagoga accanto alla chiesa; Dio non tollera solamente, non attende solamente la conversione, ma vuole questa Sinagoga come segno della sua collera e della sua libertà e questo ancora è un segno della sua eterna misericordia. «Nessuna potenza al mondo riuscirà a sterminare gli Ebrei; anzi, gli stessi Giudei non potranno riuscire a sopprimere se stessi, finché la pazienza di Dio vorrà sopportarli, ancora per un anno, secondo l’espressione di Lc. XIII, 8»2. La chiesa non ha forse bisogno di questo misterioso confronto,

di questo Israele che persevera nella sua antica ribellione, anche quando la sua speranza si è compiuta e che pure, anche così, è condotto verso questa speranza?; l’esistenza della Sinagoga, commento vivente dell’Antico Testamento, può in ogni caso apprenderle da quale «massa» (v. 21) essa medesima è stata tratta, da che cosa sia formata l’umanità salvata dalla grazia di Dio; alla luce di tale conoscenza, la chiesa può misurare la dimensione di questa grazia e fin dove Dio si è abbassato per innalzarla come ha fatto. La finalità di questo «sostrato dei vasi di collera» è la rivelazione della ricchezza della gloria divina nei confronti dei «vasi di misericordia» destinati alla gloria, cioè dei giudei e dei pagani che compongono la chiesa (vv. 23 s.). Non si noterà mai abbastanza il legame consecutivo e finale dei w. 22 e 23 se si vuole veramente comprendere questi vv. e tutto il passo dei vv. 13-29 che tratta della giustizia divina nel quadro dell’elezione del suo popolo. Il fine dell’elezione è indicato esplicitamente. Dio si mette in collera, giudica e punisce facendo misericordia, perché, senza questo, la sua misericordia non sarebbe né reale né efficace. Apprendiamo ora che la misericordia divina si confonde con la sua gloria. Nella sua misericordia, Dio si autogiustifica (e contemporaneamente giustifica l’uomo) come lo indica la rivelazione della sua collera; questa è dunque seguita dalla rivelazione della sua misericordia; deve precederla, perché così sarà ugualmente nel compimento della speranza d’Israele, nella conforma della sua elezione mediante l’abbassamento di Dio in vista dell’innalzamento dell’uomo, perché, in una sola parola, Gesù Cristo stesso sarà il cammino così indicato. Però poiché Gesù Cristo sarà questo cammino a senso unico, si deve dire che egli è il detentore del segreto della storia d’Israele che in lui raggiunge il suo fine; ecco perché il sostrato dei vasi di collera è un «trasporto», un «passaggio» della loro perdizione verso Gesù Cristo; ecco perché nel loro caso come nel caso dei vasi di misericordia non si può parlare di due intenzioni divine distinte e parallele. I vasi di collera, il popolo d’Israele, il traditore Giuda Iscariota non hanno ragione di esistere in se stessi; la parola di riprovazione che Dio pronuncia su questo Israele non è una parola definitiva e completa: è un prologo alla promessa di gloria che sarà fatta un giorno a questo Israele tenebroso; i testimoni della Parola di Dio definitiva e completa, i testimoni della gloria divina, sono i vasi di misericordia (v. 23) nel senso in cui Mosé (vv. 15 e 18) è stato chiamato oggetto della misericordia divina. Al v. 21 sono chiamati «vasi di onore». Non è detto che i «vasi di uso comune» che escono ugualmente dalla medesima mano divina, debbano servire anch’essi, al loro posto e

secondo la loro funzione, la gloria futura e la misericordia divina. Ma il legame che unisce il v. 23 al v. 22 mostra che questa è proprio la direzione: veri testimoni della collera, sono anche indirettamente testimoni della misericordia. Non sono naturalmente testimoni diretti e specifici; non sono i testimoni della resurrezione e dell’ascensione di Gesù Cristo, i testimoni di quello Spirito da cui Cristo è stato concepito e che ha comunicato ai suoi discepoli, in forza del quale Cristo è il Figlio di Dio e permette a degli uomini di chiamarsi figli di Dio; solo i vasi di misericordia, tratti dalla medesima massa (v. 21) degli altri possono testimoniare queste realtà. Solamente ne testimoniano quegli Israeliti usciti da Israele (v. 6) come Gesù ne è uscito e che con lui confermano, in maniera positiva e spontanea, l’elezione d’Israele; simili testimoni della grazia si trovano in Israele e per questa ragione questo popolo non offre solamente l’immagine della Sinagoga «votata alla perdizione», ma anche quella della chiesa, pronta a fare conoscere la gloria di Dio ed a lodare la sua misericordia; simili testimoni si riducono fino a coincidere con il solo Figlio di Davide. Poiché però questi procede da Israele, è prefigurato da tutti quei figli di Abramo e da tutti quei figli di Davide, da tutti quei profeti e da tutti quei servitori dell’Eterno, da tutti quei poveri e da tutti quei giusti che formano il «resto», sempre più ridotto, di tutti coloro che portano la vocazione e la speranza di questo popolo nel loro cuore. La Chiesa dei credenti (con colui che la riunisce, il Figlio di Davide, Gesù di Nazareth) preesiste in questi vasi di misericordia; colui che crea la chiesa in Gesù Cristo è quel medesimo vasaio, il Dio d’Israele, che non suscita solamente dei vasi di collera, ma anche dei vasi di misericordia, e che se suscita dei vasi di collera è solo per chiudere la bocca a quanti, fra i vasi di misericordia, vorrebbero glorificare l’uomo a spese di Dio. Perché accanto ad Isacco vi è un Ismaele, accanto a Giacobbe un Esaù, accanto a Mosé un Faraone ed accanto alla chiesa una sinagoga, tutti sono autentici figli della promessa e della fede del loro comune padre Abramo. La chiesa fondata sugli apostoli, fra i quali anche Giuda Iscariota, diventa così il segreto svelato dell’elezione d’Israele e del suo duplice compimento.

Frontespizio della prima edizione del primo volume della Dogmatica ecclesiastica (Monaco, 1932). Tutto ciò è espresso esplicitamente solo a partire dal v. 24: il «vaso di misericordia» (prefigurato dai padri, Mosé, Davide ed i profeti) è innanzitutto il Risorto, il Signore Gesù Cristo ed in secondo luogo la chiesa apostolica, chiamata e riunita dalla predicazione dell’evangelo. «Così ci ha chiamati, non solamente di fra i giudei, ma pure di fra i pagani»: tale è la conclusione dell’anacoluto dei vv. 22 s. Simile conclusione giunge inattesa a quanti hanno interpretato in maniera troppo servile i vv. 6 e 23; è però proprio questa conclusione (sottolineata dalla citazione di Osea ai vv. 25 s. e di Isaia ai vv. 27 ss.) ad essere il punto culminante della dimostrazione paolina concernente il comportamento di Dio nei confronti del popolo eletto d’Israele. Il testo dice espressamente che l’atteggiamento di Dio nei confronti della chiesa, prefigurato nel suo atteggiamento nei confronti d’Israele, riveste ugualmente un duplice aspetto: non sono solamente taluni «vasi di misericordia», alcuni

giudei che, in quanto figli di Abramo (vv. 4-5), potranno rivendicare il loro diritto e saranno chiamati ad essere chiesa; no; contemporaneamente agli ebrei una moltitudine di «vasi di collera», una moltitudine di pagani, di Moabiti, di Ammoniti, di Egiziani ed Assiri sarà chiamata anch’essa. Si tratta di quelle nazioni in mezzo alle quali Dio sembra aver rigettato il suo popolo caduto nell’indurimento di cuore, disperdendolo (da Ismaele ai re ed al popolo di Samaria, ma anche ai discendenti di Davide ed infine alla stessa Gerusalemme!); il v. 24 dichiara che gli uni e gli altri insieme saranno al termine della storia d’Israele dei «vasi di misericordia», dei testimoni della resurrezione di Gesù Cristo, degli strumenti dello Spirito Santo, degli eredi della gloria di Dio (v. 23); il miracolo della chiesa non consiste dunque solamente nel fatto che taluni giudei raggiungeranno il pentimento e la fede, ora che Israele è giunto al termine della sua storia consegnando il suo Messia, ora che Gerusalemme è stata distrutta. Non significa solamente che Abramo può generare ancora una volta un figlio dal seno avvizzito di Sara (Rom. IV, 19) e che alcuni giudei convertiti e risuscitati di fra i morti fanno rivivere Giacobbe ed il suo popolo. Certo il miracolo della chiesa è anche questo; Paolo è fiero di appartenere a questo Israele che è come un tizzone strappato dal fuoco (a questa tribù perduta e nonostante tutto conservata di Beniamino: Rom: XI, 1; Fil. III, 5); l’esistenza di cristiani provenienti dal giudaismo sarà sempre un segno di grazia, il segno della continuità della via divina, il richiamo della resurrezione di Lazzaro o meglio: il richiamo della resurrezione di Gesù dai morti. Che un giudeocristiano abbia vergogna della sua origine o che un paganocristiano gliela rimproveri non può che essere segno di una mentalità particolarmente ottusa e priva di autentica spiritualità. È un onore supremo ed imperituro quello di essere un cristiano proveniente dal giudaismo. Tuttavia il miracolo della chiesa non consiste solamente in questo, nel fatto cioè che sempre vi saranno come sempre vi furono, giudei che si convertono; consiste anzi e ben di più nel fatto che dei pagani, molti pagani, sono chiamati a questa medesima fede: una moltitudine di uomini venuti dai popoli che circondano Israele, dai popoli che non erano eletti, dai popoli che non avevano parte alle promesse e per i quali il Messia era un estraneo. Tutti costoro vivevano nel mondo di Dio, nella sua creazione e nel suo regno; nella misura in cui la loro storia ha incontrato quella di Israele, l’opera e la promessa di Dio hanno potuto rischiararli; di regola però le nazioni pagane non hanno formato che lo sfondo tenebroso della storia d’Israele. Per salvaguardare la propria santificazione, questo popolo ha sempre

dovuto separarsi da esse; la grazia accordata ad Israele è stata quella di essere protetto contro la loro potenza e la loro ostilità; l’amore di Dio per Israele sembrava escludere l’amore per le nazioni o implicare che Dio le utilizzasse al massimo come strumenti della sua collera. Tutte le eccezioni non fanno che confermare la regola: Israele è eletto, le nazioni no; queste ultime anzi non sembrano partecipare nemmeno alla misericordia divina sotto forma di «vasi di uso comune» (v. 21), sotto forma d’indurimento (v. 18); non sembrano partecipare né positivamente né negativamente alla gloria divina, né avervi alcun diritto. Bisogna forse correggere completamente questo quadro?; la presenza delle nazioni accanto ad Israele ha forse già un significato positivo nell’Antico Testamento?; sarebbero precisamente le eccezioni a costituire la regola?; bisogna dire che Dio si è occupato delle nazioni a causa d’Israele oppure che si è occupato d’Israele in maniera così particolare proprio a causa delle nazioni?; la vocazione specifica d’Israele non racchiude forse la vocazione di tutto il genere umano?; la promessa fatta ad Israele non è forse una promessa fatta a tutti coloro che credono? È proprio quanto si rivela allorché si considerano le cose in funzione della finalità e del compimento della storia d’Israele; noi vediamo infatti nella chiesa, accanto al piccolo resto di quanti provengono dal popolo eletto, la gran moltitudine di coloro che provengono dai popoli non eletti; e gli uni e gli altri sono chiamati a credere alle promesse fatte ad Abramo e a diventare figli di Abramo. Come è possibile tutto ciò?; che parte hanno i pagani con il Messia d’Israele? Non può essere, in ultima analisi, che la parte di Ponzio Pilato: il Messia è consegnato da Israele ai pagani per essere messo a morte e, dopo averlo ingiustamente condannato, questi ultimi lo uccidono effettivamente. Sono così contemporaneamente esecutori della cattiva volontà d’Israele e della buona volontà divina nei confronti d’Israele. Così e solo così, all’ultimo momento, i pagani partecipano alla speranza d’Israele, abbastanza presto tuttavia perché uno di essa possa, immediatamente dopo la morte di Gesù, pronunciare questa confessione di fede e di colpevolezza: «veramente quest’uomo era figlio di Dio» (Mc. XV, 39). I pagani fanno l’ultimo passo sul lungo cammino della storia d’Israele ed è con la loro professione di fede che questa storia ricomincia, prima ancora che gli apostoli siano diventati, mediante la resurrezione di Gesù Cristo e la comunicazione dello Spirito Santo, un autenticamente nuovo Israele; la morte di Gesù unisce in questo modo coloro che erano separati, gli eletti ed i non eletti; non è forse detto in Mc. XV, 38 che il velo del Tempio, che separava il luogo santo dal cortile, «si spaccò in due, dall’alto fino al basso»? La speranza

d’Israele rinasce nel momento stesso in cui è annientata e la chiesa, sostanza segreta d’Israele, vede la luce. L’avvenimento del mattino di Pasqua non può che confermare questa nascita della chiesa nel sangue del Messia d’Israele, chiesa in cui i pagani (un tempo «senza Cristo e privati del diritto di cittadinanza in Israele, estranei alle alleanze della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo»: Ef. II, 12) diventano «coeredi, formanti un solo corpo e partecipi della medesima promessa» (Ef. III, 6). «È infatti lui la nostra pace, lui che di due popoli ne ha fatto uno solo, rovesciando il muro di separazione e l’inimicizia, onde creare in se stesso, con i due, un solo uomo nuovo e con lo scopo di riconciliare l’uno con l’altro in un solo corpo con Dio mediante la croce, distruggendo per mezzo di essa l’inimicizia» (Ef. II, 14 s.). «Per mezzo di lui, noi, gli uni e gli altri, abbiamo accesso presso il Padre nel medesimo Spirito» (Ef. II, 18). Che sia così, è il segreto della «multiforme sapienza di Dio» (Ef. III, 10), che gli angeli stessi devono scoprire guardando alla chiesa e che sarà l’oggetto essenziale del messaggio apostolico e neotestamentario, della predicazione della misericordia di Dio, divenuta reale nel suo giudizio. Perché il v. 24 menziona il fatto strano che la chiesa è composta da Giudei e da pagani? Peterson ritiene, a torto, che «questa insignificante congiunzione copulativa esprima tutta la tragedia della sinagoga incredula» e che le citazioni dei vv. 25 s. lascino trasparire tutta «l’amarezza divina»3. Che cosa bisogna dire?; il contesto non tratta forse della giustizia delle misteriose dispensazioni divine nei confronti d’Israele dalle origini fino al presente, come pure del significato di «questa amarezza divina» che Israele ha dovuto percepire, come ancora del senso di questa «tragedia» (!) che oppone la sinagoga alla chiesa?; i vv. 22 s. non hanno forse risposto e dimostrato che la collera divina nei riguardi di una parte d’Israele è in correlazione con la sua misericordia con un’altra parte d’Israele, che sorge alla fin fine dalla prima sotto forma di chiesa? Se, secondo il v. 24, questa chiesa si compone di Giudei e di pagani, ciò non deve certo gettare un’ombra ulteriore sul passato e sul presente di Israele, bensì deve rischiarare questo passato e questo presente. Nel brano che va da IX, 30 a X, 21 si tratta certo anche del peccato di questo Israele che subisce, nel passato e nel presente, la collera divina; prima però (ed indipendentemente da questo peccato) si tratta di stabilire la giustizia divina nei confronti di questo stesso Israele. Secondo Rom. IX, 14 s. la giustizia di Dio nella storia d’Israele consiste nel fatto che Dio ha voluto manifestare la sua misericordia (contemporaneamente al suo giudizio) all’interno di questo

popolo e l’ha effettivamente fatto; è questo precisamente che illustra il miracolo della chiesa composta di giudei e di pagani; in relazione con i vv. 22 s., il v. 24 deve provare che ogni accusa rivolta contro Dio che agisce nei riguardi d’Israele come fa il vasaio con l’argilla (vv. 14, 19, 20) è senza oggetto, poiché, anche nella sua collera, il Dio d’Israele non cessa di fare misericordia. Non si mette in collera se non per fare sempre e di nuovo misericordia. Chi mai vorrebbe entrare in tenzone con questo Dio? Le citazioni veterotestamentarie dei vv. 25-29 illustrano doppiamente questa verità. In effetti il v. 24 che parla della vocazione dei pagani prova, conformemente ai vv. 25 s., l’assoluta sovranità ed il trionfo della misericordia divina così come si è manifestata in Gesù Cristo al termine della storia d’Israele. Le parole di Os. II, 25 e II, 1 che Paolo cita qui alludono ad «un popolo che non era il mio popolo», alludono a quella che non era «l’amata» e che sarà chiamata «amata». «E là dove si diceva: voi non siete il mio popolo, là proprio, voi sarete chiamati figli di Dio vivente». Il popolo cui si applicano queste profezie di Osea è il popolo d’Israele e più precisamente l’Israele del Nord, Jizréel, che in opposizione a Giuda, Osea (I, 3-9) qualifica di LoRuchama («non-amata») e Lo-Ammi («non-mio-popolo»). Ora riguardo a questa parte del popolo d’Israele che è stato rifiutato è scritto: «Il numero dei figli d’Israele sarà come la sabbia del mare che non si può né misurare né contare; ed invece di dire loro: non siete più mio popolo, si dirà loro: figli del Dio vivente! I figli di Giuda ed i figli d’Israele si riuniranno insieme, si daranno un unico capo e saliranno dal proprio territorio, perché grande sarà il giorno di Jizréel. Dite ai vostri fratelli: Ammi (popolo mio) ed alle vostre sorelle: Ruchama (amata)!» (Os. II, 1-3). Parimenti Os. II, 23: «E avverrà in quel giorno, parola del Signore, che io risponderò al cielo ed il cielo risponderà alla terra; la terra risponderà con il grano, il vino nuovo e l’olio e questi risponderanno a Jizréel. Io li seminerò di nuovo per me nel paese e amerò LoRuchama (non-amata); dirò a Lo-Ammi (non-mio-popolo): Tu sei il mio popolo ed egli risponderà: Mio Dio!». Che cosa fa Paolo citando questi passaggi? È senza alcun dubbio nella chiamata dei pagani a far parte della chiesa che Paolo vede compiersi la promessa di salvezza indirizzata all’Israele del Nord. I pagani, i credenti che provengono di fra le nazioni, coloro che provengono dalle profonde tenebre che circondano il popolo d’Israele, dovevano (ben di più ancora che le tribù del Nord) essere chiamati LoRuchama e Lo-Ammi, Non-amata e Non-mio-popolo; eppure proprio ad essi è

rivolto ora il meraviglioso appello: Mio popolo! Figli del Dio vivente! La promessa profetica si stende fino ad essi. Così vasta, così vittoriosa è, al termine della storia d’Israele, la misericordia divina annunciata da Osea, così grande è la rivelazione della gloria di Dio verso cui tende ogni cosa in questa storia. Tuttavia non bisogna ritorcere queste citazioni contro Israele, come se l’apostolo Paolo volesse dire, ispirandosi a questi passaggi di Osea: quanto è stato predetto ad Israele non si realizza per lui, bensì per i pagani che ne prendono il posto. Anzi: la promessa profetica che si compie nella vocazione dei pagani, l’annuncio del pentimento di Dio e della sua misericordia sono stati fatti al popolo riprovato d’Israele. Israele è questo Lo-Ruchama che sarà chiamato Ruchama e questo Lo-Ammi che sarà chiamato Ammi. Nel fatto che Paolo veda compiersi la promessa indirizzata all’Israele del Nord nella vocazione dei pagani, si è di fronte ad una deduzione dal più verso il meno (a maiori ad minus): se la misericordia di Dio è stata così grande per i pagani, tanto più Dio farà grazia a coloro che furono i primi a ricevere la promessa. Bisogna dunque considerare le citazioni di Osea come l’indicazione di una rinnovazione della promessa iniziale fatta ad Israele (alla frazione riprovata d’Israele) e l’ampiezza con cui tale promessa si realizza ne conferma il significato e la rende definitiva per Israele. Parlando della vocazione dei pagani, queste citazioni parlano anche, ed in maniera assai precisa, dell’avvenire dell’Israele riprovato. È vero che i passi in questione, come quelli dell’Esodo e della Genesi, parlano anche dei vasi di collera di cui è così ricca la storia d’Israele: per Osea dieci delle dodici tribù sono già passate dalla parte negativa; e queste dieci tribù traducono il mistero della Sinagoga; attestano questo popolo eletto che ora non si chiama se non Lo-Ruchama e LoAmmi, Non-amata e Non-mio-popolo. Ma contemporaneamente il testo di Osea richiama a questo popolo le parole di grazia, gli promette un avvenire che non sarà l’opera della collera, bensì della misericordia divina. Questo avvenire del popolo riprovato d’Israele ha già avuto inizo con la vocazione dei pagani; e questo permette di considerare il Dio d’Israele come identico al Dio d’Ismaele, di Esaù e di Faraone. Il Dio che fa tali promesse ai riprovati del suo popolo eletto e che compie queste promesse nei confronti di coloro che sono dieci volte riprovati perché non hanno mai fatto parte di questo popolo eletto, questo Dio non può essere accusato d’ingiustizia; non si può che celebrare la sua fedeltà e la sua sapienza, considerando il miracolo della sua misericordia; Israele riconosca questo miracolo e si leghi a questa consolazione: allora non si

lamenterà più dell’ingiustizia divina! Ma la costatazione del v. 24 dimostra ancora in una maniera differente la giustizia di Dio. In effetti questo versetto parla anche della vocazione dei giudei e stabilisce, conformemente ai vv. 27-29, che al termine della storia d’Israele è la misericordia divina e non il merito umano, la grazia e non la natura, la libertà e non la necessità a divenire manifeste in Gesù Cristo. Altrimenti come sarebbe possibile parlare di giustizia divina o anche di giustiza semplicemente e come sarebbe possibile fidarsi di quanto diventa manifesto? La dimostrazione si appoggia sulla citazione di Is. X, 22 s. e I, 9. Anche questi passaggi parlano della grazia di Dio nei confronti d’Israele. Nel primo di questi brani è detto: «In quel giorno, il resto d’Israele e gli scampati della casa di Giacobbe cesseranno di appoggiorsi su colui che li colpisce; si appoggeranno con confidenza sull’Eterno, sul Santo d’Israele. Il resto ritornerà, il resto di Giacobbe ritornerà al Dio potente. Quando il tuo popolo, o Israele, sarà come la sabbia del mare, un resto solamente ritornerà. La distruzione è decisa e farà manifesta la giustizia; e questa distruzione che è stata decisa, il Signore Eterno, il Signore delle armate, la compirà in tutto quanto il paese. Tuttavia così parla il Signore, il Dio degli eserciti: O popolo mio, che abiti in Sion, non temere l’Assiro. Ti colpisce con la verga ed alza il suo bastone su di te, come facevano gli Egiziani. Ma ancora un poco di tempo ed il castigo cesserà, poi la mia collera si rivolgerà contro di lui e lo annienterà» (Is. X, 20-25). Il secondo passaggio, con il quale si apre il libro del profeta Isaia, porta la conclusione consolante a quest’accusa diretta contro il popolo che permane ribelle, malgrado tutti i castighi: «È rimasta solo la figlia di Sion come una capanna in una vigna, come un casotto in un campo di cocomeri, come una città assediata. Se il Signore degli eserciti non ci avesse lasciato un resto, già saremmo come Sodoma, simili a Gomorra» (Is. I, 8-9). Queste promesse riguardano non tanto l’avvenire di Israele nella sua totalità (ed in questo differiscono da quelle di Osea), quanto piuttosto i casi specifici nel presente; parlano del resto d’Israele, della sua conservazione, del suo avvenire; ed è a questo resto che pensa Paolo parlando nel v. 24 della vocazione dei Giudei. In essi, come nella persona dei pagani convertiti, si è realizzata la promessa profetica. Isaia aveva «predetto» (v. 29) l’esistenza di questo resto. Le due citazioni del profeta non insistono sul fatto che si tratta solamente di un resto, né sarebbe conforme al pensiero paolino insistervi. Si tratta invece di sottolineare il miracolo della conversione d’Israele che, malgrado le sue

cadute, è salvato dalla meritata perdizione. Israele può sopravvivere, non perché è Israele, ma perché Dio lo salva e lo conserva in mezzo alle distruzioni. Altrimenti sarebbe diventato come Sodoma e Gomorra. Per grazia di Dio, Israele non condivide la sorte di Sodoma e Gomorra, ma è, come Loth, strappato all’annientamento ed il tempo della conversione gli è accordato. È così che bisogna comprendere la vocazione degli Ebrei: sono un tizzone strappato dal fuoco (Am. IV, 11; Zacc. III, 2). A più forte ragione questo è vero per i pagani! Più ancora e più specialmente sono oggetto della sollecitudine divina. Infatti la distruzione che Dio ha deciso sfiora il mondo nella sua totalità. La deduzione qui porta dal meno verso il più (a minori ad maius): se i Giudei dipendono interamente dalla misericordia di Dio, a maggior ragione questo è vero per i pagani. Se i Giudei riguardano quello che nella loro vocazione vi è di maggiormente consolante, devono riconoscere la misericordia divina e non i loro meriti, la grazia di Dio e non la natura umana, la libertà creatrice e non la necessità; è compito dei giudei credenti promuovere questa conoscenza all’interno della chiesa; persino la coesistenza dei giudei credenti ed increduli, la divisione d’Israele in chiesa e sinagoga non possono che sottolineare e rinforzare questa conoscenza, poiché manifestano che lo scopo di tutte le dispensazioni divine nei confronti dei Giudei e dei pagani sono atto della sua libera misericordia. Retrospettivamente si può dire che la missione d’Israele consiste nel preparare e nel prefigurare la chiesa, restando sempre questo «resto» che è stato salvato e che di nuovo deve essere salvato, questo «seme» (così i LXX traducono Is. 1, 9 e così Paolo lo comprende, pensando alla «semenza» di Abramo che è anche «il germoglio di Davide»: Apoc. XXII, 16). Israele vive per mezzo della grazia di Dio. E vivendo così, è identico a quel «germoglio» nel cui nome è eletto, identico alla totalità di coloro che sono chiamati a credere in lui. Questa missione d’Israele, questa identità con Gesù Cristo e con la sua chiesa è quanto giustifica l’atteggiamento passato e presente di Dio nei confronti di questo popolo. 1. S. WERENFELS, Opusc. II, p. 135 s. 2. E. PETERSON, Die Kirche aus Juden und Heiden (Salzburg), 1933, p. 34. 3. E. PETERSON, Die Kirche aus Juden und Heiden, 36 s.

3. LA PROMESSA DIVINA PERCEPITA E RICEVUTA MEDIANTE LA FEDE A. POSIZIONE DELLA TESI Mediante l’elezione eterna di Gesù di Nazareth, Dio si è fatto testimone dell’alleanza che ha deciso di stabilire fra sé e l’uomo, del giudizio e della misericordia che caratterizzano la sua grazia nei confronti dell’uomo; vuole che guardando a questa elezione senza uguali l’uomo riceva l’autotestimonianza divina come una promessa che abbia valore per lui; vuole che nella fede l’uomo applichi a se stesso il messaggio che gli è rivolto nella persona di Gesù Cristo, che lo lasci agire, vi si attenga e viva per il fatto che tale messaggio gli è stato rivolto. La comunità eletta da Dio, in quanto ambiente di Gesù di Nazareth (l’uomo eletto), è il luogo dove abita la gloria divina, cioè il luogo in cui Gesù appare come la promessa stessa di Dio, in cui è ascoltato e ricevuto, in cui, in lui e per mezzo di lui, la testimonianza per mezzo della quale Dio attesta la sua volontà positiva e la sua opera, è veramente percepita ed incontra la fede. La comunità è eletta (come rappresentazione di Gesù Cristo, come indicazione del giudizio e della misericordia divina compiuta in lui) per servire, davanti al mondo intero, la promessa divina che reclama l’udienza e la fede dell’uomo. La comunità tutta intera (Israele e la chiesa) è chiamata a questo servizio: così sicuramente come è stata eletta in Gesù Cristo, così sicuramente come gli deve la sua esistenza, la sua unità, le due forme distinte che essa riveste. Dovunque essa viva, è in ogni caso al servizio dell’autotestimonianza divina, che l’uomo ha la possibilità d’intendere per grazia e che è chiamato a credere. Il servizio particolare d’Israele in seno a questa comunità consiste nell’intendere, nel ricevere e nell’accogliere la promessa divina. Israele è la comunità di Dio in tanto in quanto l’annuncio della grazia divina la concerne. Obbedendo alla sua elezione (prendendo cioè il posto che è il suo nella chiesa) Israele contribuirà, in maniera specifica e peculiare, al compimento della missione affidata alla comunità tutta intera. Il suo ruolo consisterà sempre e di nuovo nel preparare l’uomo ad accettare semplicemente la parola pronunciata da Dio, a renderlo attento al fatto che qualche cosa gli è detto, a renderlo attento a quel qualche cosa che gli è detto, in opposizione a tutto quanto l’uomo è capace e desideroso di dire a se stesso. La chiesa ha bisogno di questo apporto: la promessa non è più autotestimonianza divina quando cessa di essere intesa come indirizzata all’uomo; non può essere creduta se prima non risuona; la fede stessa non può che essere l’ascolto perfetto, obbediente ed

attivo della parola di Dio. La chiesa non saprebbe rendere testimonianza a Gesù Cristo, come è suo dovere, senza averla ricevuta e senza riceverla continuamente come la stessa autotestimonianza di Dio. È proprio per questa ragione che l’interesse israelita (giudeo!) per la frase, la parola, il termine, la lettera deve sussistere nella chiesa ed in nessun caso deve cedere il passo alla libera speculazione; una chiesa divenuta antisemita o semplicemente asemita presto o tardi finirebbe per perdere la propria fede, poiché questa fede sarebbe diventata senza oggetto; non avrebbe più nulla da dire al mondo nella misura in cui pretendesse di dire a se stessa che deve credere e quello che deve credere. Diverrebbe allora una chiesa autoritaria ed arbitraria. Per questi motivi la chiesa ha tutto l’interesse che il servizio particolare d’Israele in seno alla comunità non sia interrotto, ma prosegua in completa fedeltà. La forma israelita della comunità mostra che Dio, scegliendo, nella sua elezione gratuita ed eterna, la comunione con l’uomo, ha imposto a se stesso l’atteggiamento irrevocabile di colui che precede, che ordina e che dona; non sceglie degli esseri liberi, saggi o ricchi, ma coloro che sceglie, li rende liberi, saggi e ricchi mediante la sua elezione; sceglie per se stesso la forma esistenziale della Parola che li concerne, li istruisce, li chiama, li risveglia, per riconciliarli con se stesso ancora prima di qualsiasi partecipazione umana. Sceglie di essere e di vivere per essi, venendo ad essi nella sua promessa e restando con essi mediante questa promessa. Sceglie di farsi intendere da essi. Ecco ciò che Dio sceglie per se stesso decidendo di diventare lui stesso uomo nella persona del figlio di Abramo, onde entrare in comunione con l’uomo, eleggendo Israele, onde riconoscerlo come sua carne e come suo sangue. È l’umanità di tutta quanta la comunità di Dio che si manifesta nella sua forma israelita; anzi l’umanità dell’uomo come tale, quell’umanità con cui Dio ha concluso la sua alleanza eterna. L’uomo non può che seguire Dio; però gli è realmente consentito di seguirlo. Non può che essergli sottomesso; però gli è realmente permesso di essergli sottomesso. Non può che ascoltarlo; però gli è consentito di ascoltarlo. Questa è l’umanità della comunità di Dio ed è questa umanità che costituisce anche e soprattutto l’ordine fondamentale che regola la posizione della comunità nei confronti del suo Dio. Il contenuto della promessa (che parla della misericordia divina all’opera nel suo giudizio!) è confermato da un elemento puramente formale: la relazione fra l’autore della promessa ed il suo oggetto è irreversibile. Ecco quanto attesta il fatto che il Messia d’Israele si è manifestato non come un re, ma come un servitore, come il Messia crocifisso. Ed è tutto questo che, nel suo insieme, la comunità eletta

da Dio deve precisamente attestare per mezzo del suo servizio. Essa è come tale la comunità che ascolta Dio, poiché è la comunità del Messia d’Israele; conseguentemente riveste una forma israelita ed è in essa che Israele compie il suo destino e continua ad esistere; credendo, essa mostra al mondo e contemporaneamente a tutti gli uomini che essi sono destinati ad ascoltare e devono quindi innanzitutto ascoltare: perché Dio è, possiede e conserva la parola, perché l’uomo non diventa uomo se non ascoltando ciò che Dio deve dirgli. Se, credendo, Israele riesce ad obbedire alla sua elezione, sarà nella chiesa il garante che questa condizione formale del messaggio della comunità è e resta adempiuta. Non vi possono essere dubbi: Dio intende condurre Israele a compiere questo servizio particolare ed a testimoniare così, integrandosi alla chiesa, l’unità della comunità nella sua diversità; in altre parole, Dio mira a condurre questo popolo dalla semplice parola ascoltata alla parola creduta nella fede. Tuttavia per utilizzarlo, Dio non aspetta affatto che Israele creda: il servizio di Israele infatti è stato deciso e compiuto per mezzo della sua elezione, indipendentemente dal suo atteggiamento; i diversi atteggiamenti adottati dal popolo eletto sono sempre effetti della sua dterminazione che ad ogni modo è una determinazione in vista del servizio che gli è richiesto; creda o no alla promessa di Dio, Israele non può negare di averla intesa, anzi deve confessarlo. Davanti a quest’ordine, non vi è scappatoia possibile: «Ascolta, Israele!». Israele intende la promessa. Qualunque cosa accada, deve portare ed in effetti porterà la testimonianza di Gesù Cristo e della sua elezione, della sua propria elezione ed anche dell’elezione della chiesa. Credere, e così obbedire alla sua elezione, significherebbe per Israele poter intendere in maniera corretta e perfetta, nella chiesa e con essa, quanto gli è detto; senza portare pregiudizio alla chiesa, sarebbe allora Israele nella chiesa; sarebbe allora suo compito (e sarebbe il suo titolo di gloria) di essere un continuo avvertimento ed un conforto per la chiesa, ricordandole la promessa divina che fonda e mantiene la comunità. Sarebbe così precisamente Israele (l’elemento ebraico nella chiesa) a vigilare, con il suo particolarissimo apporto, che la chiesa resti chiesa. Tuttavia Israele come tale e nel suo insieme non obbedisce alla sua elezione. La promessa cui deve la sua esistenza e la sua conversazione si compie; la parola diventa carne; Dio parla: conferma tutto quanto ha detto da sempre, mediante la morte e la resurrezione del suo Figlio. Senza alcun dubbio, Israele intende ed ora meno che mai può assumere a pretesto l’ignoranza e l’incomprensione. Intende, ma non crede, poiché rifiuta di ascoltare in maniera corretta e perfetta ciò che gli

è detto; rifiuta di applicare a se stesso il messaggio che gli è rivolto, di seguirlo, di vivere della promessa misericordiosa che Dio gli ha fatto. In questo momento decisivo, ascolta senza prestare attenzione ed in maniera imprecisa; ascolta la promessa e ne vive come se il suo contenuto non fosse contemporaneamente la misericordia divina ed il giudizio di Dio su tutti gli uomini; come se la promessa ingaggiasse l’uomo ad occuparsi lui stesso delle condizioni del suo compimento e come se, dando all’uomo questa preoccupazione, essa gli assicurasse un diritto sul suo compimento. Israele crede di potere e dovere porsi lui stesso in una giusta relazione con Dio; intende, ma è talmente indaffarato che dimentica la sola cosa realmente necessaria, quella che gli permetterebbe di ascoltare veramente; si pone così nel vuoto; macchia il suo onore nel momento stesso in cui potrebbe infine vederlo risplendere. Mediante la sua defezione, minaccia l’esistenza della comunità di Dio, che non può fare a meno di lui. Che si sia fermato sul cammino che conduce dall’audizione della promessa alla fede non cambia per nulla il fatto che, anche in questo irrigidimento, Israele sia il popolo di Gesù Cristo; il Dio-che-elegge e la comunità eletta inglobano anche l’Israele che cammina nel vuoto; questo popolo deve compiere il servizio che gli è stato affidato anche se si addormenta e si intorpidisce. In rapporto alla testimonianza che la chiesa rende alla fede, la funzione d’Israele consiste nel mostrare ciò che accade all’uomo come tale allorché ascolta: non può che rappresentare il cammino improduttivo, le pietre, i cardi ed i rovi del campo in cui cade la semenza della Parola; l’inizio senza seguito; il presente senza futuro; la questione senza risposta; l’occasione mancata. In questo modo Israele punisce se stesso. Non per questo può convincere Dio di menzogna. Non può pervenire ad evitare il servizio cui è destinato; non può isterilirsi per Dio; anche Ahasvero, l’ebreo errante, è a suo modo un testimone del Cristo. Anche se ascolta la promessa in maniera disattenta proprio nel suo punto culminante, anche se l’intende in maniera imprecisa e quindi falsa, pur tuttavia l’ascolta. Se ascoltare significa per Israele la morte, percepisce tuttavia la promessa che, di fatto, è pronunciata su un campo di ossa rinsecchite. Intende pur senza credere, tuttavia ascolta colui nel quale potrebbe credere, e lo ascolta per primo fra tutti gli uomini, colui nel quale si può e si deve credere. Come uditore della Parola, non crede, ma è al posto giusto. Chi mai infatti può far conoscere al mondo ed alla chiesa per mezzo di chi e per chi Gesù Cristo è stato crocifisso e perché lo ha dovuto essere, se non la Sinagoga (a meno che non sia lo stesso Risorto) che intende la

Parola di Dio e che, malgrado tutto quanto intende, permane senza fede sempre ed ancora? La testardaggine e la malinconia dei Giudei, le loro particolarità e le loro bizzarrie (si pensi al cimitero israelita di Praga) non contengono forse oggettivamente e praticamente una dose più grande di evangelo autentico che la saggezza di tutti i goym, di tutte le nazioni incredule riunite e che una buona parte della teoria e della pratica dei sedicenti credenti cristiani? Tutto ciò infatti è in relazione con l’ascolto sterile della Parola di Dio, che tuttavia non cessa di essere un ascolto. Se tale testimonianza passa inavvertita, le conseguenze sono negative per il mondo e per la chiesa, ma questo non significa ancora che la testimonianza non sia resa e che sia una testimonianza a Gesù Cristo. La disobbedienza d’Israele non può cambiare assolutamente nulla al contenuto ed alla portata della promessa divina stessa; Israele soffre della propria disobbedienza; la promessa no, anche se Israele l’ascolta senza credere. Israele può rompere, ma non sopprimere l’alleanza di misericordia che Dio ha stabilito con l’uomo; con la sua infedeltà non può mutare la fedeltà di Dio e l’eterno beneficio che gli viene dalla sua Parola; non ha il potere di annientare la veracità, la consolazione, l’esortazione, la speranza divine. La promessa resta quella che è, anche di fronte all’indurimento di Israele, cioè l’autotestimonianza irrevocabile ed irrefutabile di Dio, che l’uomo può, con sua propria perdita, rifiutare di credere, ma che nessuna incredulità potrebbe mai cambiare in messaggio di disgrazia. Israele non può mutare niente al fatto che questa promessa gli è data e che vale per lui; al fatto che, nella e per mezzo della elezione di Gesù Cristo, è precisamente Israele ad essere il popolo eletto di Dio, il campo in cui Dio intende realizzare la sua promessa in e per mezzo dell’uomo Gesù; al fatto che da lui Dio attende la fede, che intende confermare tramite opere buone scaturite da un’obbedienza specifica, per coronarla di gioia e di pace. Israele non può impedire che scaturisca dal suo seno Colui che è contemporaneamente l’inizio e l’oggetto della fede ed in cui l’ascolto diventa perfetto, né che sia suscitata in lui e con lui la chiesa, come il popolo di coloro che non si limitano ad ascoltare, ma che, nella fede, mettono in pratica la Parola; non può uscire dalla comunità di Dio né impedire che, mediante la testimonianza della chiesa, la voce di questa comunità raggiunga l’orecchio del mondo intero e quindi anche l’orecchio d’Israele stesso; può resistere alla grazia di Dio, ma non può mutarla in disgrazia, né teoricamente né praticamente, né in se stessa né nel servizio che deve renderle, né in rapporto al fatto che questa grazia sia indirizzata precisamente a lui. Non può portare

all’onore di Dio un colpo così grave che Dio cesserebbe di essere Dio ed anzi, il suo Dio. Sotto la forma perfetta che riveste la comunità eletta da Dio, la chiesa ha come compito, indipendentemente dall’atteggiamento assunto da Israele, di far rispettare la promessa intesa, credendovi. La chiesa è là dove, presso i giudei come presso i pagani, la promessa incontra la fede, avendo questa promessa condotto l’uomo a credere in essa. Credere significa: riporre la propria confidenza nella misericordia di Dio così come essa è attestata all’uomo, al giudeo come al pagano, da parte di Dio stesso, nella sua promessa. Si tratta della sicurezza essenziale, assoluta, totale che nessuno può procurarsi da solo, ma che per ciascuno è fondata sul fatto che Dio, risuscitando Gesù di fra i morti, ha rivelato la propria gloria all’uomo e gliel’ha donata. Si tratta quindi della certezza suscitata da Dio, grazie alla quale l’uomo, giudeo o pagano che sia, può reclamarsi a Dio come a colui che, in favore dell’uomo, ha reso, rende e renderà buona ogni cosa. Si tratta della sicurezza data a quell’uomo di cui Gesù è il Signore. Di conseguenza ecco in che cosa consiste il servizio della chiesa: ascoltando la promessa, la chiesa crede, ne vive ed attesta al mondo intero di essere il compimento temporale che prepara il compimento eterno della buona volontà di Dio nei confronti dell’uomo. La chiesa esercita questo servizio nella misura in cui intende la promessa e l’ascolta sempre e di nuovo, nella misura in cui dunque il servizio d’Israele ha luogo e prosegue in mezzo ad essa. Anzi, anche Israele è chiamato a svolgere il medesimo servizio: nella misura in cui la chiesa vive in lui, è uscita da lui ed ha ancora bisogno del suo aiuto particolare; nella misura in cui il destino di Israele trova il suo compimento nella forma che è propria della chiesa; nella misura in cui questo popolo fa il passo che lo conduce dall’ascolto alla fede. Israele vive ogni volta che fa questo passo, ogni volta che prende il suo posto nella chiesa, così certamente come il suo Messia crocifisso si è affermato mediante la sua resurrezione come il Signore della chiesa. Così facendo svolge un ruolo positivo al servizio della comunità e della sua missione nel mondo. Non dovrebbe scegliere la sua perdita ostinandosi ad intendere senza credere, di fronte alla chiesa ed al suo compito. Tuttavia malgrado la sua testardaggine, non può non giocare il suo ruolo. La forma ecclesiale della comunità mostra che Dio, scegliendo l’uomo nella sua elezione gratuita ed eterna onde entrare in comunione con lui, assegna a quest’ultimo il posto inalienabile di figlio e di fratello, di confidente e di amico. Ciò che Dio è, lo vuole essere anche per l’uomo; ciò che gli

appartiene, desidera anche comunicarlo all’uomo; ciò che è capace di fare, intende che l’uomo ne benefichi. Niente e nessuno sarà così vicino all’uomo, niente e nessuno potrà separare l’uomo da Dio. Ogni bisogno dell’uomo sarà colmato dalla comunione con Dio; in lui, l’uomo sarà restaurato, elevato e glorificato al di là di ogni limite. Ecco quanto ci è annunciato nella promessa compiuta dalla resurrezione di Gesù Cristo: l’uomo (giudeo o pagano che sia) può cogliere questo bene credendo a questa promessa, applicandosela, nutrendosene e vivendo di essa. In ogni caso è in quanto chiamato e risvegliato alla fede che l’uomo riceve tale dono ineffabile; ed è proprio questo che è permesso alla comunità di rivelare mediante la sua forma definitiva ed ecclesiale; essa infatti mostra che la promessa divina esige così imperiosamente di essere intesa proprio perché vuole essere riconosciuta e ricevuta mediante la fede per la salvezza e la pace degli uomini. Credendo alla promessa, essa rende manifesto che Dio ha posto il proprio onore nel ricordarsi dell’uomo e nel divenire sostegno di questo uomo; se ci è comandato di ascoltare Dio come colui che precede, che decide e che dona, ci è contemporaneamente ordinato (ed in misura ben maggiore) di abbandonarci al suo aiuto, di avere fiducia nei suoi ordini, di ricevere il bene che ci dà e di farlo fruttificare; ecco quanto attesta il Cristo risuscitato, Signore della chiesa e riflesso della gloria divina, come anche la fede dell’uomo Gesù, ricompensata e coronata secondo la promessa. È tutto questo che la comunità, nella sua intierezza, eletta da Dio, deve attestare a sua volta. Essa ascolta la voce di Gesù Cristo e crede in lui come nella promessa divina compiuta; credere in lui, significa per essa intendere esattamente tutto quanto Dio dice: ed essa stessa è la promessa di Dio compiuta, proprio perché vi crede. La chiesa è la forma perfetta della comunità, in tanto in quanto l’unità e la missione di quest’ultima diventano manifeste in essa; in quanto chiesa, la comunità (l’ambiente che sta attorno all’uomo Gesù) è l’intermediario fra Gesù ed il mondo a causa della missione, che è la sua, nei confronti di tutti coloro che stanno ancora al di fuori; Gesù vuole essere accettato dai suoi nella fede ed è attraverso la fede dei suoi che vuole farsi ascoltare nel mondo intero ed è ancora mediante la fede che devono essere chiamati dai suoi coloro che stanno al di fuori. Questo discorso ci porta a considerare la preesistenza della chiesa in Israele; la fede e di conseguenza la chiesa sono già il fine e di conseguenza la ragion d’essere della elezione d’Israele; per questa ragione la promessa divina non è solamente stata intesa in Israele, ma occasionalmente ha trovato la fede. Tutto quanto la chiesa annuncia all’uomo è stato, una volta

o l’altra, colto, sperimentato e vissuto in seno a questo popolo, in cui Dio ha già incontrato dei figli e dei fratelli, dei confidenti e degli amici; la storia della misericordia particolare di Dio nei confronti d’Israele è contemporaneamente e come tale la storia della fede chiamata a cogliere questa misericordia; in questa storia particolare, che si svolge in mezzo a lui ed in seguito partendo da lui, anche Israele è un testimone della fede e partecipa alla forma perfetta della comunità, come alla sua funzione ed alla sua missione nel mondo. La chiesa preesistente in Israele e finalmente uscita da lui, la chiesa della fede nella promessa di Dio è la conferma positiva dell’elezione di questo popolo; per lui credere significa in maniera tutta speciale: diventare volontariamente un agente della promessa che gli è stata rivolta, obbedendo all’elezione di Dio; ed inversamente si deve dire: ogni elezione particolare in Israele è una elezione in vista della fede, che conta sulla misericordia di Dio, colta proprio nel suo giudizio. Tuttavia il destino d’Israele come tale e nel suo insieme non è stato modificato dall’esistenza particolare di credenti esistenti in mezzo a questo popolo ed usciti da esso; si deve però affermare che Israele riceve la sua luce proprio a partire da questo punto; la sua finalizzazione diventa visibile: per essere creduta, la promessa vuole essere intesa. In questo senso ed a causa di quest’orientamento verso la fede che assume l’ordine di ascoltare dato ad Israele, l’apporto d’Israele all’opera della comunità eletta, considerata nella sua totalità, resta e resterà sempre. Poiché l’eccezione costituita dall’esistenza di alcuni credenti in Israele non infirma la regola secondo cui questo popolo, nella sua totalità, intende senza voler credere, mostrandosi così infedele alla sua elezione, poiché questi alcuni non devono essere considerati come credenti se non in parte ed in maniera transitoria, poiché d’altronde (ugualmente messi in evidenza a conferma della regola generale) ve ne sono altri profondamente induriti, mentre i fedeli sembrano diventare un resto sempre meno numeroso, è subito chiaro che questo resto non può che essere un’immagine della chiesa che nasce nella e con la resurrezione di Gesù; in altri termini, non lo si potrà discernere se non partendo da questo avvenire che è il suo; che esista occasionalmente nella storia d’Israele un ascolto della Parola di Dio che, considerando il suo fine ed il suo scopo nella persona di Gesù, debba essere compreso come un atto di fede, come una previsione e come una predizione della maniera corretta ed esatta con cui la chiesa ascolta (altrimenti, tale ascolto resta incomprensibile!), tale è la realtà della chiesa preesistente in Israele. La chiesa che crede alla promessa di Dio, la chiesa fondata sulla resurrezione di Gesù, non ha qui la

possibilità di volere o di non-volere comprendere; ha confidenza nella misericordia divina; conta perciò sulla sua efficacia ed ha gli occhi ben aperti per scorgerne le tracce anche più nascoste ed intricate. Riconoscerà dunque la propria fede nel modo particolare con cui ascoltano quei pochi fedeli che esistono in Israele e che sono usciti da lui e vedrà in essi coloro che Dio ha scelto con essa; non rifiuterà certo di riconoscere che l’esistenza di questo resto conferma positivamente l’elezione d’Israele nel suo insieme e quindi la sua appartenenza alla comunità di Dio, applicando questo discernimento ai cristiani provenienti dal giudaismo e viventi in mezzo ad essa; innanzitutto però non dimenticherà che la sua esistenza di chiesa non può essere e permanere possibile e legittima, se non sul fondamento d’Israele (ed i pagani che si trovano nel suo seno devono misurare questo fatto in tutta la sua portata!), a condizione cioè che vi sia l’ascolto della promessa. La chiesa avrà coscienza che la sua esistenza dipende da questo: non pretende semplicemente di credere reclamandosi a questo fondamento (a differenza d’Israele nel suo insieme e come tale!), ma crede veramente ciò che sente da parte di Dio, onde divenire così, per il mondo e per Israele, quel testimone vivente che è chiamata ad essere; la chiesa attende la conversione d’Israele; ma deve precederlo confessando quella fede che è richiesta alla chiesa e ad Israele, offerta alla chiesa e ad Israele, riconoscendo così l’unità del popolo di Dio. B. ILLUSTRAZIONE SCRITTURISTICA Non è certamente per caso che Rom. IX, 30 riprende formalmente la questione di IX, 14: «Che cosa diremo mai?». Allora Paolo chiedeva: vogliamo forse accusare Dio di essere ingiusto? Il testo indica ora chiaramente che cosa si deve pensare della duplice enigmatica presenza d’Israele sotto i tratti d’Isacco e d’Ismaele, di Giacobbe e di Esaù, di Mosé e di Faraone, della chiesa e della Sinagoga. Per comprendere bene questo discorso occorre discernere il tarmine della storia d’Israle, indicato dai vv. 22-24 che parlano della chiesa come realtà formata da giudei e da pagani. Rispetto a questo termine si è compiuto e manifestato un duplice fatto. Innanzitutto (v. 30) dei pagani che non cercavano la giustizia di Dio, il cui volere ed il cui fare non erano affatto diretti verso il compimento e l’esecuzione della volontà divina misericordiosa, che non conoscevano tale volontà divina e che di conseguenza ancor meno potevano sottoscrivervi ed adottarla, questi pagani hanno colto precisamente proprio queste volontà ed è loro permesso viverne. La giustizia di cui parla l’apostolo è infatti la volontà misericordiosa di Dio, che si è compiuta nell’apparizione e nella morte del Messia Gesù e che si è rivelata nella sua

resurrezione, onde permettere ad ogni uomo di coglierla mediante la fede e di viverne; né la loro origine, né alcuna delle loro qualità peculiari hanno reso i pagani degni e capaci di accedere a questa grazia; nessuna evoluzione storica li ha condotti un giorno a credere in Gesù e a cogliere effettivamente la giustizia divina. Hanno riconosciuto, ubbidito, avuto confidenza, senza poter riconoscere, acquiescere, avere confidenza; lo hanno fatto, semplicemente fatto; senza condizioni, senza preparazione, senza preistoria. Questa «chiamata» (v. 24) è avvenuta ed essi hanno risposto con la libertà dei morti risorti dalle tombe; non è dipeso né dalla loro volontà né dalla loro azione, ma unicamente dalla misericordia di Dio; questo fatto richiara retrospet tivamente la storia d’Isacco, di Giacobbe, di Mosé. Questi non sono diventati autentici eredi e portatori della promessa che in questa maniera; ed è da questo punto di vista che occorre comprendere oggi l’esistenza della chiesa nella sua globalità; con tutti i suoi membri, con Isacco, Giacobbe e Mosé, la chiesa è l’assemblea di coloro che hanno ricevuto vocazione, che hanno trovato la loro vita nella fede in colui che ha indirizzato loro la chiamata. Ogni confidenza nel volere e nel fare dell’uomo come in tutti gli sforzi umani è scomparsa in seno a questa assemblea, come è scomparsa ogni perplessità nei confronti della giustizia di Dio; la giustizia di Dio è infatti la sua misericordia ed è precisamente questa misericordia che trionfa nella chiesa; un’assemblea formata d’incapaci e di indegni, di morti che escono dalle loro sepolture ed hanno accesso alla fede: questo è il fatto che, al termine della storia d’Israele, è diventato avvenimento e rivelazione. Vi è però anche l’altro fatto (v. 31 s.): Israele (cioè la maggioranza schiacciante e caratteristica di questo popolo, ad eccezione appunto di alcuni condotti alla fede con i pagani) ha ricercato la legge della giustizia, si è cioè sforzato di osservare e di compiere le esigenza della promessa; è stato teso verso la Torah ed il Tempio; si è preoccupato di salvare essenzialmente la purezza e la santità del suo essere popolo eletto, di conservare e di coltivare le sue tradizioni. Ora che è successo? Agendo così, non ha incontrato la giustizia di Dio, né la volontà misericordiosa che la Legge indicava e neppure la stessa Legge; ha fatto precisamente il contrario di quanto pretendeva fare; ha trasgredito la Torah, profanato il Tempio, distrutto la purezza e la santità del popolo eletto, rinnegato le sue tradizioni. A questo Israele, descritto nei vv. 31 s., non mancavano (a differenza dei pagani di cui parla il v. 30) né le condizioni, né la preparazione, né la preistoria della salvezza, né il volere ed il fare corrispondenti; possedeva la Legge e si sforzava di compierla; non si può

quindi rimproverare, con Lietzmann, un falso orientamento della sua volontà. Poco più lungi, Paolo affermerà espressamente: «hanno zelo per Dio» (X, 2). Se il possesso della Legge non aiuta tuttavia Israele, se questi le passa accanto, è perché tutto quanto Israele possiede non può divenire sua proprietà vivente se non in relazione con quegli di cui è questione nella Legge e per la sola misericordia divina che è all’opera in tutto questo; la Legge infatti non può essere osservata ed adempiuta se non in questa relazione; cioè esclusivamente nel quadro della fede. Tocchiamo qui con mano la grande lacuna d’Israele. Secondo il v. 32 a, le opere corrispondenti alla sua missione ed alla sua preparazione non mancavano certo; gli è però venuta a mancare l’opera per eccellenza, quest’opera senza pari che è ordinata (ed in maniera decisiva) attraverso tutte quante le esigenze della Legge; gli è mancata la relazione reale con il significato e con lo scopo specifici della sua missione e tipici della sua qualifica particolare. Invece di affidarsi alla promessa ed alla misericordia di Dio, ha preteso aggrapparsi a se stesso, alla sua volontà, alla sua azione, per determinare in questo modo il compimento promesso; pur possedendo tutto, si è trovato così a mani vuote; e questo proprio perché ha preteso agire in maniera autosufficiente là dove solo la conoscenza obbediente della volontà divina poteva corrispondere a quella Legge che pure possedeva. Israele ha trasgredito la Legge non compiendo la sola opera che gli era comandata: l’opera della fede; secondo i vv. 32 b-33, ha urtato e si è schiantato su quella pietra che, secondo Is. XXVIII, 16, è il centro di Sion, il fondamento del culto e della Legge, la ragione di essere del popolo santo come tale; si tratta di costruire sulla pietra e sulla roccia poste in Sion, altrimenti non si può che demolire e darsi l’illusione di essere in piedi, nel momento stesso in cui si barcolla e si cade. Questa pietra e questa roccia, fondamento e sostegno d’Israele, costituiscono la libera misericordia di Dio che intende essere colta come una promessa, il cui compimento deve essere atteso unicamente da Dio, come indica d’altronde il suo contenuto, e non da qualche volere o fare provenienti dall’uomo. Il fondamento ed il sostegno d’Israele esigono la fede. Anche in essa, non cessano di essere quella pietra e quella roccia di cui parla l’apostolo e cioè le condizioni indispensabili della storia d’Israele. Questo dato è però contro Israele; il fondamento di questo popolo diventa per lui pietra d’inciampo e roccia di scandalo; Israele si schianta proprio contro quello che è la sua salvezza. Poiché i construttori assidui, ma in fin dei conti negligenti, rifiutano questo fondamento (così ammonisce il Sal. CXVIII, 22), poiché Israele, preoccupato per le sue opere, lascia da parte la sola opera che

corrisponde veramente alla sua missione ed alla sua preparazione, tutto quanto fa, tutto il suo culto e tutto il suo zelo per la Legge diventano peccato e colpa; malgrado i suoi sforzi, resta senza giustificazione; esattamente come i pagani che senza nulla possedere, fanno la sola cosa necessaria, l’opera della fede, conforme in realtà alla legge d’Israele (II, 14 s. 26 s.) e che, trovati dalla libera misericordia divina, rendono onore a tale misericordia e ad essa solamente. Ecco quanto è accaduto alla grande maggioranza d’Israele, quella che diventa caratteristica di questo popolo; tutto intento ad essere Israele, a rendersi degno della promessa e capace di compierla, Israele non ha creduto e non ha quindi compiuto la sola cosa mediante la quale poteva affermarsi davvero come Israele ed agire conseguentemente. È nella sua relazione con Gesù Cristo (in cui i pagani hanno scoperto con tanta premura la giustizia di Dio e cioè la sua volontà misericordiosa) che la trasmissione della Legge commessa da Israele è diventata avvenimento e rivelazione; mediante il suo atteggiamento nei confronti di Gesù Cristo, Israele ha mostrato di volere agire in modo autonomo, di voler provocare il compimento della promessa appoggiandosi alla propria volontà ed alla propria azione; ha trascurato e disprezzato la fede, rigettando così anche la promessa e la vita informata dalla promessa. Ha così rinnegato e messo in questione la sua propria esistenza di popolo eletto da Dio. In questa prospettiva che diremo dunque retrospettivamente della storia d’Ismaele, di Esaù e di Faraone? Dobbiamo subito riconoscere che anche qui il volere ed il fare dell’uomo non servono a nulla (IX, 16), ma che tutto dipende dalla misericordia di Dio; certo la volontà e l’azione dell’uomo non vengono a mancare; ma rivelano il loro compimento ultimo: l’incredulità e cioè la colpevolezza umana che dovrebbe escludere la misericordia di Dio se quest’ultima non fosse più grande di ogni umana colpevolezza. Quanto l’uomo può volere o fare, anche nelle migliori condizioni, anche quando benefica di tutta una tradizione storica che dovrebbe prepararlo a ricevere la salvezza, lo vediamo qui. La storia d’Ismaele, di Esaù e del Faraone prova anch’essa che solo la misericordia di Dio può condurre Dio e l’uomo ad incontrarsi e a rimanere insieme, conducendo così l’uomo alla salvezza; il diritto di Dio ad agire nei confronti d’Israele come ha fatto nei confronti d’Ismaele, Esaù e Faraone non può certo essere messo in questione guardando a quello che Israele vuole e compie o non vuole e non compie; se il diritto di Dio verso Israele deve essere e deve restare quello della sua misericordia, se lo è lo resta effettivamente, allora, dato il modo con cui

questo popolo si comporta, non si può certo contestare il diritto di Dio di porlo in conto alla sua misericordia spezzandolo, svelando la sua colpevolezza, togliendogli ogni velleità di autogiustificazione. Gli sviluppi di questa seconda parte dell’enunciato di Rom. IX, 30-33, cioè la spiegazione dei vv. 31-33, li troviamo in X, 1-21. Si ha l’abitudine di vedere in questo passaggio un’esposizione della colpevolezza particolare d’Israele e si ha certamente ragione; tuttavia non bisogna dimenticare l’applicazione pratica cui tende tale esposizione; è alla chiesa e per la chiesa formata da Giudei e da pagani che l’apostolo parla della colpevolezza d’Israele. Si rivolge cioè a quanti sono stati eletti e chiamati, giustificati, santificati e riuniti nella fede in Gesù Cristo per spiegare loro il senso dell’elezione che li ha toccati e per consolidarli in essa, per provare loro che questa elezione non dipende da volontà o azione umana, ma unicamente dalla misericordia divina. In una sola parola: intende chiamarli alla fede come all’opera che corrisponde alla loro elezione. Mediante l’esempio d’Israele, mostra alla chiesa quello cui sarebbero condannate ad essere anche le sue opere migliori, se essa non credesse; ricorda ai cristiani che la loro esistenza dipende unicamente dal diritto della misericordia divina; la loro solidarietà con Israele, in questo modo, non è certo soppressa, bensì rafforzata e confermata proprio da quanto l’apostolo dice qui «contro» Israele. Invero il passaggio che studiamo non è una requisitoria contro Israele, ma contro l’uomo eletto nella sua autosufficienza; attesta cioè il Dio-che-elegge; e quindi, per questo sentiero, costituisce una parola in favore dell’Israele eletto, che è così totalmente infedele alla sua elezione. Che occorra interprentare così Rom. X risulta non solamente da Rom. XI, ma anche proprio dal primo versetto (X, 1) in cui Paolo, riprendendo la sua testimonianza di IX, 1-5, dichiara che non cessa di pregare per la salvezza di quella frazione d’Israele che continua la storia d’Ismaele, di Esaù e di Faraone, che è lui, in quanto apostolo della chiesa precisamente, il profeta d’Israele e che vuole porsi (e non può non essere) come il servitore del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, per il bene dì questo popolo. Agli aderenti sviati della Sinagoga (v. 2) Paolo non esita a riconoscere zelo per Dio; l’orientamento della loro volontà è buono ed indirettamente essi sanno dove vanno, poiché conoscono perfettamente il Dio d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe ed in lui, il Padre di Gesù Cristo, di cui intendono la parola; la loro colpevolezza non sopprime il fatto che essi sono il vero popolo di Dio, né che il vero Dio è loro Dio; fondato nell’alleanza divina, questo fatto resta acquisito; nell’alleanza di Dio con Israele, la chiesa riconosce anch’essa l’alleanza eterna di Dio con l’uomo,

portata a compimento in Gesù Cristo. Non potrà dunque non vedere nello zelo dei Giudei per la loro causa un segno che l’uomo è destinato a vivere in questa alleanza; anche se sviato, lo zelo d’Israele non è inutile e senza oggetto; sebbene passi accanto a Gesù Cristo senza incontrarlo veramente, non cessa di attestarlo come la promessa divina portata a compimento. Zelo condannato a girare nel vuoto, perché manifestazione dell’incredulità, testimonia però della pienezza di quanto in realtà gli è sfuggito; tuttavia (ed è questa l’ombra che pesa sull’elezione d’Israele, la colpevolezza umana che, in questa prospettiva dell’elezione, deve mostrarsi sempre come una lode della sovranità della misericordia divina) è unicamente nella sua perversione, nella sua dimenticanza di Gesù Cristo, cioè in quello che costituisce propriamente il suo vuoto, che lo zelo degli ebrei può portare questa testimonianza; ed è unicamente in questa prospettiva (e con le riserve corrispondenti) che si può rendere ad Israele questa attestazione: «hanno zelo per Dio, ma senza intelligenza». Infatti l’oggetto stesso della fede (il Dio d’Abramo, di Isacco e di Giacobbe) non è loro sconosciuto; si tratta proprio del vero Dio, del Padre di Gesù Cristo, apice della salvezza attribuita ed accordata all’uomo; ma precisamente (v. 3) essi non sanno riconoscerlo come tale. Benché orientata verso di lui, la loro volontà è una volontà pervertita, mal diretta; si spezzano contro la roccia di salvezza che è loro attribuita ed accordata; non riconoscono la giustizia divina ed in essa non sanno vedere la misericordia. Non si affidano a Dio come Dio esige e come Dio è: l’essere che vuole agire e che agisce in loro favore; dimenticano che il presupposto, la preparazione e la preistoria da cui procedono dovrebbero apprendere loro a lasciarsi completamente colmare da Dio; non vogliono concedere a Dio il diritto di accettarli e di accoglierli secondo il suo retto volere. Non sono d’accordo di lasciar semplicemente fare nei loro riguardi; cercano piuttosto di stabilire la propria giustizia; si sforzano di agire e di affermarsi come gente che, compiendo autonomamente le condizioni della promessa, potrebbe essere degna del suo compimento ed averne diritto, come se queste condizioni non fossero giustamente ordinate alla grazia, cui non si può obbedire che nella fede. Credono di potersi mettere al posto di Dio; pretendono dargli un qualche cosa per guadagnarne il favore; attendono che alla loro offerta di un’obbedienza perfetta Dio risponda compiendo la promessa che è stata loro accordata. In questa maniera non si sottomettono alla giustizia di Dio, anzi vi disobbediscono; si trovano in stato di ribellione aperta contro il loro Dio, il Dio d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe;

la promessa divina contiene interamente la sua opera e non si può attenderne il compimento come una risposta, bensì unicamente come una decisione divina libera e gratuita. In nessun caso lo si può esigere, ma solo e sempre ricevere; non si può che acquiescere per mezzo della fede a quanto Dio dice e accettare mediante la fede quanto Dio compie; se la fede manca, la Legge di questo Dio è trasgredita e lacerata nel suo centro, in maniera tanto più terribile in quanto essa è letta ed intesa con notevole attenzione e tutte le opere richieste per il compimento dell’opera unica e veramente necessaria sono eseguite con grande zelo. In realtà infatti ogni attenzione mira unicamente a nascondere qui la disattenzione fondamentale e tutte le opere che sono compiute servono a velare la disobbedienza iniziale, sebbene esse non possano che svelarla; senza la fede, l’uomo non possiede più nulla, neppure là dove Dio gli ha donato tutto, come nel caso d’Israele; la mancanza di fede costituisce precisamente la colpa di coloro che si trovano sulla buona strada, conducente veramente al termine autentico. Poiché su questo cammino tentano di stabilire la propria giustizia, si rivelano peccatori; il peccato umano rifulge in essi come in nessun’altra parte; occorre l’elezione divina, ci vuole il popolo d’Israele perché la colpa dell’uomo diventi un avvenimento e si manifesti. La prova che Israele ha trasgredito la Legge nei suoi sforzi di autogiustificazione, che ha disobbedito alla giustizia di Dio e non è quindi stato giustificato, in breve, la dimostrazione della colpa del popolo eletto (e contemporaneamente la dimostrazione della piena sufficienza della misericordia di Dio per l’uomo eletto) è fornita innanzitutto nei vv. 4-13. Israele è il popolo la cui promessa è stata fin dall’inizio Gesù Cristo, di modo che l’ordine nel quale doveva vivere non poteva essere fin dall’inizio se non quello della fede; sforzandosi di stabilire la propria giustizia, invece di credere, era condannato a rifiutare Gesù Cristo; con questo rifiuto ha dimostrato che applicandosi a stabilire la propria giustizia, ha rifiutato la fede. In questa maniera non ha osservato, bensì trasgredito la legge, intesa come regola di vita contenuta nella promessa che gli era stata fatta e sotto la quale doveva vivere secondo la sua elezione; ha così messo in evidenza la ribellione umana contro Dio e la sua elezione, mostrando che la misericordia divina è la sola potenza capace di dirigere l’uomo eletto; ha provato ugualmente (ed è la funzione particolare della sua elezione) che l’uomo dipende interamente dalla misericordia divina che l’ha eletto e dalla fede in questa misericordia, che deve essergli predicata, offerta e comandata sempre e di nuovo. I vv. 4-13 mettono chiaramente in luce gli

elementi di questa dimostrazione. Se, in contraddizione con l’ordine delle frasi, il v. 4 dovesse essere tradotto realmente con «il Cristo è la fine della Legge» e se si dovesse comprendere che tale affermazione significa che in Cristo e per mezzo di lui la Legge data al popolo d’Israele è sorpassata, annosa, da mettere in disparte ed infine abrogata, i termini «per la giustificazione di tutti coloro che credono» resterebbero stranamente sospesi in aria, aggiunti e rilegati come sono al «Cristo». Inoltre l’affermazione in questione sarebbe a tal punto inconciliabile con il contesto, che sarebbe meglio rinunciare a spiegarne il significato. Il testo di IX, 31 non diceva forse espressamente che Israele, sforzandosi di compiere la Legge, le era passato accanto?; non si rimproverava espressamente a questo popolo (IX, 32 ss.) il fatto che la roccia posta in Sion è diventata una pietra d’inciampo?; il suo zelo per la Legge non è forse riconosciuto esplicitamente come uno zelo per Dio (X, 2)?; e nei versetti che seguono Paolo non solo non argomenta contro la Legge, ma non si fonda anzi proprio sulla Legge?; dove mai in tutti questi capitoli (anzi in tutta quanta la teologia paolina) si può rinvenire la traccia di un ragionamento secondo cui l’apostolo della chiesa avrebbe considerato la Legge come un dono di Dio abolito o reso caduco per mezzo di Cristo? Paolo ha opposto la giustizia della fede non alla Legge, bensì ad un determinato modo di ricevere e di applicare la Legge, maniera che secondo i vv. 2-3 manca d’intelligenza; ha denunciato cioè la profanazione ed il cattivo uso della Legge derivati dalla incredulità dei giudei; in accordo con Mat. V, 17 anche Rom. III, 31 conferma che l’apostolo non ha inteso annientare, bensì confermare la Legge mediante la sua predicazione. Cristo non può essere chiamato «fine della Legge», ma tutt’al più fine del peccato che s’impadronisce e si serve della Legge (Rom. VII, 11 ss.). Dobbiamo anzi dire che anche quest’interpretazione è estranea al contesto presente, di modo che non ci resta che interpretare «fine della Legge» in analogia con il concetto rabbinico di kelal (che forse serve a tradurre appunto tale espressione). Questo concetto rabbinico è utilizzato per riassumere il contenuto della Legge nella sua varietà; è una specie di denominatore comune designante la somma di tutte le esigenze della Legge; dal punto di vista ontico esprime la sostanza, l’unicità e la totalità della Legge; dal punto di vista pratico ha come funzione di porre in evidenza l’autorevolezza della Legge ed il compimento verso cui tende. Il kelal, la ricapitolazione (άναχεφαλαίωσις) della Legge, dice l’apostolo della chiesa nella sua qualità di profeta di Israele, è il Messia promesso per la

giustificazione di tutti coloro che credono in lui, venuto per compiere la promessa; è di lui e di lui solo che si tratta nella Legge intesa come regola di vita nel regime della promessa; è lui che spiega la Legge, l’osserva e la compie; è lui il garante della sua validità; vivere nell’obbedienza della Legge significa vivere credendo in lui. Rifiutandosi, Israele trasgredisce e viola la sua propria Legge; misconosce il kelal di questa Legge; occupato ad osservare i dettagli, gli sfugge l’insieme (IX, 31). Dimostra la sua colpevolezza disprezzando questo segno unico della volontà divina, segno che sempre è stato determinante e che è il fondamento autentico della sua esistenza; trova un’occasione di colpa non in qualche nuova rivelazione, ma nella Parola stessa del suo Dio che gli è stata detta e che ha inteso senza sosta; si urta al fondamento stesso della sua elezione; secondo IX, 32 s. si infrange contro la pietra d’angolo posta in Sion. Per questa ragione, la sua carenza d’intelligenza (vv. 2-3) non è solamente una disgrazia per lui, ma un peccato. È quindi del tutto impossibile comprendere la relazione del v. 5 con i vv. 6 ss. come se vi fosse divorzio fra la nozione giudaica ed il concetto cristiano della giustizia ed opporre la voce della «giustizia per mezzo della fede» alla voce di Mosé, gratificando quest’ultima, per così dire, di menzogna1. È escluso perché Paolo si riferisce nuovamente (e soprattutto ai vv. 6 ss.) alle parole scritte da Mosé (Deut. XXX, 12 ss.) che, secondo lo stesso Peterson, esortano ad un compimento attivo della Legge. Ed è escluso anche perché il termine ϒάρ che introduce il v. 5 indica una direzione del tutto diversa. In questo passo Paolo, partendo dal kelal della Legge (qui come nel parallelo forse più complicato di Gal. III, 12) ha voluto dire: l’uomo che compie la giustizia della Legge vivrà per mezzo di essa; l’uomo che compie la giustizia della Legge, cioè la volontà divina misericordiosa espressa tramite la Legge, è precisamente designato come colui che Dio indica e mira nella sua Legge; è a causa di quest’uomo che Dio ha posto Israele sotto la Legge; ed è quest’uomo ad essere da sempre il significato, il compimento e l’autorità della Legge e che ora, come tale, è manifestato. Quest’uomo è il Messia d’Israele. Poiché Mosé ha scritto questo di lui, «la voce della giustificazione per mezzo della fede diventata persona»2, malgrado il δέ che segue, i vv. 6 ss. non possono essere intesi come una protesta contro Mosé. Chi parla qui in effetti? Non certo un’idea personificata, ma precisamente colui di cui Mosé ha scritto che vivrà, essendo il kelal della Legge, cioè la giustizia davanti a Dio e la giustificazione divina per tutti coloro che credono in Dio. Poiché è il senso e l’autorità della Legge, il compimento ed il cammino

che conduce a tale compimento, è lui stesso la giustizia davanti a Dio. la giustificazione divina che ciascuno può e deve ricevere per mezzo della fede. Leggendo Mosé, l’uomo non può che intendere (venendo dall’oggetto della profezia, dall’essere unico che compie la Legge) la voce vivente che lo chiama (non opponendosi alla Legge, ma riassumendola e confermandola) a partecipare per mezzo della fede al compimento della Legge, onde rientrare a sua volta e restare, mediante la fede, un essere giusto davanti a Dio e da lui giustificato. In effetti l’appello che questa giustizia viva della fede fa risuonare ai vv. 6 ss. altro non è che un invito a compiere attivamente la Legge; è dunque normale che Paolo, dando la parola a questa Legge e tallonando per così dire gli Israeliti che lo ascoltano, continui a citare unicamente delle parole di Mosé: «Non dire nel tuo cuore: chi salirà fino al cido?; è infatti farne discendere il Cristo; oppure: chi discenderà nell’abisso?; è infatti far risalire il Cristo di fra i morti»; tali questioni sono proibite non da qualche nuova rivelazione, ma proprio dalla Legge di Mosé che Israele conosce molto bene e che è stata da lui riconosciuta! Sono i trasgressori della Legge che questionano in questa maniera e vivono di conseguenza. Infatti il Messia, speranza d’Israele cui la Legge lega il popolo di Dio, non apre le porte a simili speculazioni. Giustificazione divina per ogni uomo che crede in lui, è la manifestazione della misericordia di Dio. Non vuole essere né elevato né abbassato: vuole trovare in Israele la fede. Vedere nella Legge una serie di prescrizioni date ad Israele per procurarglì, in caso di osservanza, un diritto qualunque su Dio e permettergli così di penetrare il mistero di Dio, credere che la Legge è là per condurre l’uomo a compiere azioni destinate ad obbligare Dio nel compimento della sua promessa, pretendere di rovesciare l’ordine delle cose facendo della Legge di Dio per Israele una legge d’Israele per Dio: ecco le tendenze rifiutate come peccato e rese impossibili dalla stessa Legge. La Legge la cui somma è, secondo la sua stessa testimonianza, la persona di colui che la compie, proibisce ad Israele di vagabondare sulle sommità o negli abissi, di cercare di mettere la mano sulla maestà divina, di perdersi in un attivismo messianico; è questo infatti il peccato tipico degli eletti, l’atteggiamento che dovrebbe assolutamente essere evitato; esso è invero una rivolta contro l’elezione stessa. Significa difatti che gli eletti, preoccupati innanzitutto della loro elezione, dimenticano il Dio che li elegge e pongono in forse quest’elezione medesima; passeranno così accanto al Messia che viene e che è venuto; saranno obbligati a rifiutarlo perché non sarà colui che essi hanno fatto discendere dal cielo o

risalire dagli abissi; non riconosceranno in lui l’oggetto delle loro ricerche e dei loro sogni. Lo misconosceranno; vedranno in lui un estraneo, portatore insolito e blasfemo di una nuova rivelazione; mostreranno così quanto sono lontani ed indegni della loro elezione. Vietando simile atteggiamento, la giustizia personale della fede, kelal della Legge, esige positivamente tutt’altra cosa. È detto al v. 8: «La parola è vicino a te, nella tua bocca e nel tuo cuore». Esigenza? Sì, ma nel senso che il kelal di cui parla l’apostolo si annuncia per forza propria. Ogni esigenza autentica rivolta agli eletti, compresi i divieti loro imposti, riposa sul fatto che la Parola è presso di loro, posta sulle loro labbra; essi devono agire solo di conseguenza confessando questa Parola; e poiché essa è posta nel loro cuore, crederla. Ecco ciò che la Legge riassunta in Gesù Cristo, la Legge vivente che parla loro, esige dagli eletti. La giustizia della misericordia divina che si è offerta e data all’uomo eletto, attende da quest’uomo una cosa sola: che sia veramente colui al quale questa offerta e questo dono sono stati fatti e che si comporti di conseguenza. Qualunque cosa possa essere, ha inteso la Parola di Dio e questa Parola vive con lui; così anch’egli può vivere con essa e per mezzo di essa; tale è la Legge nel suo significato e nella sua sostanza. Richiede all’uomo di conformarsi ad essa, di darle seguito, di ascoltarla onde mettere docilmente in movimento le labbra ed il cuore; tutte le prescrizioni e tutti i comandamenti che in essa sono contenuti aiuteranno l’uomo in questa direzione; ma se questa è la sola cosa che la Legge divina richiede agli eletti, ne consegue che gli sforzi di questi ultimi per stabilire la loro personale giustizia, i loro vagabondaggi sulle sommità o negli abissi, i loro sogni d’impadronirsi della maestà divina non possono essere che trasgressione e rottura della Legge. Queste cose costituiscono non solo un’attività vana e destinata al fallimento, ma anche un’attività falsa e pericolosa che contraddice l’atto di misericordia che ha avuto luogo e che si situa completamente nella prossimità immediata della Parola di Dio; significano che si ignora tale prossimità; che si passa accanto alla misericordia divina e che le si resiste, mentre proprio essa è la sola realtà necessaria, capace di aiutare veramente l’uomo. L’eletto cui la Legge richiede quest’obbedienza e proibisce siffatto sforzo è il Giudeo che, nel suo zelo per Dio, ha rigettato e crocifisso Gesù Cristo e che ancora adesso, dopo la resurrezione e l’ascensione di questo medesimo Gesù, resta ostinatamente fedele alla giustizia delle opere, ai suoi sogni di conquista del cielo e degli abissi, in una sola parola, all’incredulità nella sua forma attiva. Paolo non si attarda a dimostrare che la Legge ha sempre parlato in

Israele, come è affermai» nei vv. 6-8 a; la sua opinione è sicuramente che essa ha parlato e che al kelal della Legge ha sempre corrisposto il kelal del peccato d’Israele; ogni trasgressione in seno a questo popolo ha messo in rilievo il peccato dell’uomo che preferisce il vagabondaggio religioso e la giustizia delle opere, piuttosto che la confessione richiesta e la fede nella parola della misericordia divina annunciata ed ascoltata. L’intenzione dell’apostolo però è anche quella di esprimersi, almeno implicitamente, in una prospettiva storica, poiché parlando direttamente del presente e per il presente nel v. 8 b, stabilisce l’equazione seguente: la Parola di Dio che è diventata a noi così vicina nell’atto della misericordia divina e che dobbiamo confessare e credere, dando prova di obbedienza e di riconoscenza, onde compiere la sola cosa veramente necessaria richiesta dalla Legge nella sua globalità ed in tutti i suoi comandamenti, questa Parola è identica alla Parola della fede predicata dagli apostoli della chiesa e cioè all’annuncio (oggettivo) di Gesù Cristo, in cui l’uomo può e deve credere ed alla predicazione (soggettiva) della fede in Gesù Cristo che rende l’uomo sicuro di aver parte alla giustificazione divina e conseguentemente di essere realmente e perfettamente salvato. Tale equazione, come tutto quanto precede, conferma che il messaggio apostolico relativo alla misericordia divina in Gesù Cristo non parla di una nuova rivelazione; ancora una volta dobbiamo comprendere che la rivelazione unica cui Israele ha partecipato nel passato è identica al messaggio proclamato dagli apostoli; l’atteggiamento che deve essere adottato nei confronti del Messia in forza di questo messaggio è, eminentemente, quell’opera che la Legge ha richiesto in ogni tempo, come è vero che il Messia è lui stesso l’esigenza unica, compiuta e, di conseguenza, valida della Legge. La Sinagoga non deve scegliere fra l’istanza nei cui confronti si sa e si dichiara responsabile ed una qualche autorità costituita di sana pianta, che non sarebbe per essa costringente; deve scegliere fra il compimento o meno del dovere che è richiesto da quell’istanza che la Sinagoga riconosce; che mediante una sua decisione essa consacri il suo fallimento, questa è la sua colpa, questa è la colpa dell’Israele incredulo. I vv. 9-13 spiegano l’equazione di cui abbiamo parlato, cioè i due τοῠτ’ἓστιν del v. 6 s. e quello del v. 8. Di per sé questa spiegazione potrebbe essere (e tale infatti ha potuto essere) un riassunto succinto della confessione battesimale cristiana; descrive in effetti ciò che Dio domanda apertamente oggi ad Israele, conformemente alla sostanza della volontà divina rimasta nascosta fino a questo momento; definisce esattamente l’atto che Israele rifiuta

di compiere oggi come in altri momenti. Rispetto al v. 5 (in cui Mosé parla dell’uomo che vivrà compiendo la giustizia della Legge), il v. 9 precisa quale deve essere l’atteggiamento normale del lettore intelligente: gli è richiesto di confessare con la propria bocca che Gesù è il Signore (poiché tale confessione gli è posta sulla bocca dalla parola stessa di Mosé), riconoscere cioè che l’uomo Gesù, di cui la Legge parla e di cui afferma che è il fine ed il significato di tutto quanto Dio vuole compiere in Israele e per Israele, possiede gli attributi dell’autentica divinità e, poiché tali qualità non possono «sere appannaggio di nessuno al di fuori di Dio, che è lui stesso il vero Dio. Ecco quanto la formula χύριος ’Ιησοῠς significa senza alcun dubbio e senza riserva per Paolo, qui come in I Cor. VIII, 6 e Fil’ II, 11. «Gesù è il Signore» significa «Gesù è Dio». «Il Signore è Gesù» significa «Dio è Gesù». Israele è chiamato a riconoscere nell’uomo che ha compiuto la Legge, il dono annunciato precisamente da questa Legge e che è identico alla persona di Dio stesso. Confessando la venuta di Gesù, Israele confessa Dio e la sua signoria, attesta il diritto che questo Dio, nella Legge, ha fatto valere sul suo popolo. Possa farlo credendo nel suo cuore che Dio ha risuscitato Gesù (poiché questa fede è stata piantata in lui dalla parola di Mosé che parla in effetti della vita di quest’uomo)! La vita del Risorto è la prova che Gesù è proprio il Messia, colui cioè che ha compiuto e che è lui stesso la giustizia di Dio annunciata per mezzo della Legge. Che Israele accordi dunque fede a questa prova che Dio dà di se stesso! Metta in Gesù quella confidenza che in forza della sua elezione deve porre in Dio medesimo! Colui che agisce in questo modo, colui che obbedisce alla Legge così come essa è, per quello che dice e che vuole a chiare lettere, costui sarà salvato; si trova in quel punto cui mira l’elezione d’Israele; in quanto uomo eletto è il vero partner del Dio-che-elegge ed in questa maniera partecipa alla salvezza accordata dal Dio-cheelegge all’uomo eletto. L’uomo eletto (v. 10) non può dimostrare la sua giustizia di fronte a Dio e confermare che la sua qualifica di eletto riposa sulla Legge se non possiede, in forza della resurrezione di Gesù, una sicurezza che trovi la sua espressione necessaria nell’atto di confessione di fede; mediante quest’atto riconoscerà che Gesù è il suo Signore ed il suo Dio in un modo che s’imporrà anche a coloro che ne sono fuori; possa quindi l’eletto manifestare, confermare ed affermare la propria elezione credendo, nel suo cuore, alla propria dignità di eletto e confessando con la sua bocca la salvezza che tale dignità gli procura! La Scrittura afferma nettamente che questa duplice azione è necessaria e perfettamente sufficiente: secondo Is. XXVIII, 16 chiunque crede in lui, l’uomo

Gesù risuscitato dai morti (come la parola di Mosé lo propone ad Israele) non sarà confuso (v. II); soddisfa alla giustizia richiesta dalla Legge ed è un autentico israelita; diventa ed è, per mezzo della fede, un uomo che esiste davanti a Dio e partecipa all’alleanza come se avesse compiuto lui stesso la Legge, poiché proprio questo gli è imputato, come è vero che crede. Sarà invece confuso (v. 7) colui che si mette a vagabondare invece di obbedire e a domandare: «chi mai scenderà negli abissi? questo significa far risalire il Cristo di fra i morti», come se l’autolegittimazione per mezzo della quale Dio conferma e glorifica l’uomo eletto risultasse dall’abilità e dagli sforzi del credente, come se quest’ultimo potesse e dovesse giustificare il Messia di Dio mediante la sua attività, come se fosse questione qui di una simile impresa! Nei confronti dell’autolegittimazione divina la fede del cuore è il solo atteggiamento possibile; essa sola infatti è realmente degna dell’uomo eletto ed essa sola rende pienamente giustizia al Dio-che-elegge. Si tratta di credere semplicemente che la resurrezione di Gesù di fra i morti è la grande opera divina, il compimento di tutte le promesse. Tale è la fede che non renderà confusi coloro che vi si legheranno. E la Scrittura (vv. 12-13) è altrettanto netta nell’altra direzione: la confessione del Κύριος ’Ιησοῠς permette all’uomo che crede Gesù risuscitato dai morti ed elevato così alla dignità di eletto, di entrare nei ranghi di coloro la cui liberazione e la cui salvezza sono assicurate da Dio medesimo ed a cui è consentito camminare in piena sicurezza verso l’avvenire, che è ormai il loro, in seno all’alleanza divina. Quando la Sinagoga intende oggi dalla bocca della chiesa questa confessione che le è così estranea e che da essa è stata condannata e rifiutata come blasfema, non ha da irrigidirsi, con il pretesto che la sua tradizione non le consente di riconoscere il Creatore in una creatura, né d’invocare e di adorare Dio nella persona di un essere umano; non ha il diritto di opporsi a questa confessione o di sottrarvisi allegando che essa deriverebbe da una concezione ellenistica, da una ripresa e da un’applicazione arbitraria del culto pagano dell’imperatore, cioè da un cammino che le è espressamente proibito dalla Legge di Dio. «Non vi è nessuna differenza fra giudeo e greco». La situazione dei giudei e dei greci nei confronti della confessione della chiesa e dei problemi che tale confessione pone, è identica. Ciò che il Giudeo intende oggi dalla bocca di numerosi greci lo concerne a pieno titolo ed a dire il vero dovrebbe essere la sua propria confessione di fede. Vi è un solo Signore al di sopra di tutti. È precisamente l’uomo Gesù ad essere quest’unico Signore. È ricco (cfr. IX, 23) perché compie la misericordia divina e quindi la sua

giustizia; è ricco perché è la misericordia e la giustizia divina personificate, cioè Dio stesso, somma e sorgente di ogni benedizione e di ogni salvezza per tutti coloro che lo invocano. Davanti a lui, tutti sono poveri, tutti dipendono dalla sua ricchezza, perché tutti sono peccatori: i greci con il loro culto dell’imperatore in cui la creatura prende il posto del creatore non sono meno poveri dei giudei della Sinagoga in cui la fede in Yahwé sottomette il Creatore alla potenza della creatura; non vi è alcuna differenza; il medesimo errore e la medesima distretta pesano su tutti, la medesima verità ed il medesimo soccorso possono, essi soli, portare la salvezza agli uni ed agli altri. La medesima promessa vale per i greci come per i giudei. L’onore del Creatore nei confronti della sua creatura come la salvezza della creatura operata dal suo Creatore, coincidono qui e là con il fatto che Gesù è riconosciuto ed invocato come il Signore. Se quanto attesta la resurrezione di Cristo di fra i morti e quanto è annunciato dagli apostoli, cioè che Gesù è Dio e che Dio è Gesù, non fosse vero, non vi sarebbe per il giudeo come per il greco che perdizione» Questa perdizione sarebbe definitiva per l’uno come per l’altro se non confessassero questa verità. Paolo non vuole però dire solamente che anche per il Giudeo questa confessione è la sola possibilità di salvezza; vuole invece dire sicuramente: essa è la sola possibilità di salvezza soprattutto ed in primo luogo per il giudeo. Quando il giudeo intende la confessione della chiesa (così come la intendono a loro volta i pagani), dovrebbe essere il primo a non tirarsi indietro e di conseguenza a rinunciare a stabilire un parallelo fra il culto dell’imperatore ed una fede in Yahwé che sono, l’uno e l’altro, incompatibili con questa confessione; lasciando cadere questo gioco funesto, dovrebbe riconoscere semplicemente l’uguaglianza benedetta di tutti gli uomini davanti al loro autentico Creatore, alla sua promessa, alla sua misericordia e comprendere che tutti quanti sono chiamati a confessare, senza discriminazione. la vera divinità e la vera giustizia di Dio. Il Giudeo non possiede forse (v. 13), proprio per quanto concerne questa confessione, la testimonianza della Scrittura (Gioel. III, 5 ripreso poi in At. II, 21) secondo cui «chiunque invocherà il nome del Signore, sarà salvato»? Chiunque crede nel profondo del cuore in quell’uomo che ha adempiuto la Legge, diventando così degno della sua elezione d’israelita, invocherà, mediante le sue lodi, azioni di grazia, suppliche rivolte a quest’uomo, non un secondo Dio, ma lo stesso Signore Yahwé, il Dio d’Israele; le sue labbra si apriranno spontaneamente per confessare di aver incontrato in lui il suo Creatore, su cui non rivendica alcun potere e che non potrebbe certo

confondere con la creatura, come fanno i pagani, il suo Dio cui può e deve legarsi perché, nella sua misericordia, questo Dio ha cercato e trovato proprio quell’uomo che invano aveva cercato il suo Dio; chiunque confessa che quest’uomo è Yahwé stesso, il Dio d’Israele ed il Signore del mondo, sarà salvo «negli ultimi giorni, nel grande e terribile giorno del Signore». È l’effusione dello Spirito su ogni carne che permetterà d’invocare il nome del Signore, il nome del Signore come il nome di quest’uomo, il nome di quest’uomo come il nome del Signore e di partecipare così alla salvezza. Non sarà invece salvo colui che, invece di obbedire nel senso indicato dal v. 6, continua a domandare nei suoi vagabondaggi libertini: «chi salirà fino al cielo? ciò significa fare discendere il Cristo», come se il fine cui Dio intende far pervenire l’uomoeletto potesse e dovesse essere il coronamento degli sforzi di quest’uomo, come se il Messia di Dio non si fosse avvicinato a noi a tal punto da vietarci per sempre di cercarlo nei cieli. Non si tratta di avvicinarci a Dio, ma di comprendere che Dio si è avvicinato a noi; il solo atto dell’uomo eletto corrispondente a quanto è il Messia di Dio, è l’atto della confessione, che si verifica allorché s’invoca il nome del Signore; l’uomo eletto sarà salvato per mezzo di quest’atto di fede e solo per mezzo di esso. Ecco quanto la Scrittura dice precisamente al Giudeo. Non si tratta dunque «anche di lui», ma si tratta «di lui precisamente», «di lui per primo» che dovrebbe essere pronto ad invocare l’uomo Gesù ed a confessarlo con la sua bocca. L’accusa contro i Giudei è diventata più serrata in questi vv. 9-13, anche se il tutto è ancora implicito. La Scrittura che il Giudeo stesso legge ed a cui pretende reclamarsi, parla per la chiesa, quando indica il sentiero su cui l’uomo non sarà confuso, bensì salvato; poiché parla per la chiesa, si pronuncia immediatamente contro il giudeo, per quanto quest’ultimo rifiuta di seguire questa strada. «Chiunque crede in lui non sarà confuso» (v. 11). «Chiunque invocherà il nome del Signore, sarà salvato» (v. 13). Ecco quello che dice la Scrittura a coloro che la leggono. Afferma dunque che chiunque non crede sarà confuso, che chiunque tralasci tale invocazione sarà perduto. Ora il Giudeo della Sinagoga non crede e tralascia quest’invocazione; combatte anzi la fede e la confessione della fede; tale è il suo peccato particolare e la sua colpa evidente. Paolo potrebbe trarre fin d’ora la conclusione che si legge al v. 16: «Tutti però non hanno obbedito»; i giudei della Sinagoga non sono nel novero di coloro che credono; confermata da quell’autorità che essi riconoscono e rispettano, la parola del v. 21 li concerne: «Ho teso le mie mani continuamente verso un popolo ribelle ed in

contestazione». Tuttavia questa conclusione estrema l’apostolo non la formulerà senza aver aggiunto altro; forse si pone anche lui la domanda che s’intravvede sullo sfondo di tutto il contesto dei vv. 4-13 e già nello sviluppo più generale da IX, 30 a X, 3: esiste veramente per i giudei una responsabilità ed un obbligo nel senso dei vv. 9-13?; i giudei cioè sono veramente tenuti a credere ed a confessare la fede? I vv. 14 s. rispondono chiaramente alla questione ed è questa risposta che consente la deduzione finale. La questione può essere posta molto concretamente partendo dal v. 13 che, tenendo conto del v. 11, solleva il problema della confessione in relazione con quello della fede. L’esigenza indirizzata ad Israele per mezzo della Legge è finalmente trapassata in esigenza della confessione; quanto Dio comanda ad Israele, è di confessare, con la chiesa, Gesù come Signore, cioè di fondersi nella chiesa, onde legittimarsi come Israele, confermando così la sua elezione. Paolo sa però, e già lo ha detto, che tale confessione non può che essere la confessione della fede. La giustizia della fede è la condizione con cui si accede alla salvezza nella chiesa, associandosi alla sua confessione (v. 10); ma la fede che giustifica è la fede nell’autodimostrazione divina fornita tramite la resurrezione di Gesù Cristo di fra i morti (v. 9); come potrebbe Gesù essere confessato come Signore senza questa fede?; come una realtà diversa da questa fede potrebbe condurre l’uomo nella chiesa?; che ne è di questa condizione previa?; il giudeo può veramente essere interpellato perché vi avrebbe soddisfatto o potuto soddisfare?; è giusto ritenerlo responsabile allorché omette di confessare la fede? «Come dunque invocheranno (confessando così che è il Signore) colui nel quale non hanno creduto?» (v. 14 a). Paolo ha ritenuto senza alcun dubbio (v. 8) che la Parola (ed il suo contenuto: l’uomo la cui risurrezione ha provato l’identità con Dio) fosse ugualmente vicina alla bocca ed al cuore dei giudei e che di conseguenza l’atto di fede e di confessione che essa suscita fosse normale anche per essi; per questo si è riferito alla fondamentale testimonianza di Mosé al v. 5 e poi nei vv. 6-8; nel v. 10 tuttavia ha riconosciuto che l’esigenza unica della Legge è articolata: la fede deve precedere la confessione. Senza la fede del cuore in colui che la Legge stessa annuncia come suo compimento non si dà né invocazione, né confessione possibili, né quindi è consentito parlare di assorbimento o piuttosto di una rinascita d’Israele nella chiesa. Se i lettori di Mosé devono pervenire alla fede (e quindi alla confessione) è indispensabile che possano intendere colui di cui parla Mosé. «Come crederanno in colui di cui non hanno sentito parlare?» (v.

14b). Come la sua presenza nella parola scritta di Mosé avrà sufficiente potere sul lettore perché questi, leggendo tale parola, scopra ed intenda veramente la voce del Vivente (v. 5), la voce di Gesù Cristo risorto (che solo può dimostrare con evidenza che proprio lui è colui nel quale devono credere), onde confessare in seguito che Gesù è il Signore (v. 8)? Non basta leggere che (v. 5) quest’uomo deve venire, compirà la giustizia della Legge e vivrà in forza di tale giustizia; bisogna intendere il buon annuncio secondo cui è realmente venuto, che è risorto di fra i morti e che è vivente. La Scrittura come testimonanza della rivelazione è una cosa, la rivelazione stessa, come compimento e contenuto di quanto è scritto, è altra cosa. Quest’«altra» cosa è forse quella che manca ai Giudei? Apparentemente no, se rivolgendosi ad essi ci si può riferire alla Scrittura come accade nei vv. 4-13. Ora, se quest’«altra» cosa non manca al giudeo, se ha non solamente letto la Scrittura, ma veramente inteso colui di cui parla la Scrittura, bisogna supporre che l’oggetto presentatosi a lui abbia avuto una voce e che questa voce abbia risuonato ai suoi orecchi. «Come ne sentiranno parlare, se non vi è nessuno che predica?» (v. 14c). Come intenderanno, come colui di cui ha parlato Mosé si avvicinerà ad essi in modo da suscitare necessariamente la fede e quindi la confessione, se, al di là del presente della parola scritta ed al di là della sua lettura, non si verifica ancora quest’altro avvenimento, se in una scia parola, la parola scritta non li incontra come predicazione, come il messaggio che li riguarda e li concerne cosicché essi non possano più sottrarvisi, diventando così, precisamente, persone che la parola riguarda e concerne e che di conseguenza sono obbligate a credere ed a confessare questa parola scritta? Perché la parola scritta diventi questa predicazione, una condizione è indispensabile. La parola di Mosé da sola non è sufficiente a condurre effettivamente i lettori alla fede ed alla confessione, a significare e a creare questa prossimità dell’oggetto che implica ed impone l’obbedienza in modo assoluto: Mosé può attestare quest’oggetto ed i giudei non possono certo negarlo; ma si rende veramente al giudeo il servizio di predicargli ciò che Mosé attesta? La sostanza della verità mosaica gli è attestata in modo tale che al giudeo non resta possibilità di sottrarvisi?; gli si dice veramente, come Mosé ha scritto, che Gesù è risuscitato dai morti e che è il vivente, in modo che, avendo inteso questo, possa crederlo e confessarlo?; «come vi saranno dei predicatori, se non vi sono degli inviati (cioè degli incaricati di una missione)?» (v. 15 a). Questa missione: tale è la condizione previa decisiva dell’avvenimento che è all’origine della predicazione e dell’ascolto e,

conseguentemente, della fede e della confessione di quanto è scritto nella Bibbia. Questa missione è necessaria perché, al di là di ogni testimonianza scritta e letta, si produca l’incontro con la rivelazione attestata. La Scrittura deve aprirsi: questo però è possibile solo se si parte dal suo oggetto, solo in forza del compimento della sua profezia. E se è vero che degli uomini sono veramente soggiogati (vv. 4-13) perché la Scrittura si è aperta ad essi, ciò significa: questi uomini hanno incontrato una predicazione che non consiste in una semplice ripetizione della parola scritta e che non è nemmeno il risultato di un atteggiamento arbitrario dell’uomo nei confronti di questa parola, ma che riposa su una missione; una predicazione che è comandata dall’oggetto della parola scritta e che, proprio per questo motivo, non la domina, bensì la serve, annunciando il suo compimento e spiegando come debba essere compresa. Questa predicazione esplica umilmente il suo mandato proclamando il buon annuncio secondo cui l’uomo che compie la Legge è venuto ed è risorto di fra i morti, come la Scrittura ha predetto. Nessuno può incaricarsi autonomamente d’annunciare queste cose; questo messaggio è motivato dall’avvenimento che ha avuto luogo; non può che essere una missione susseguente a questo avvenimento, che suscita lui stesso i suoi messaggeri, predicatori cioè che spiegano la Scrittura non solo nel suo significato, ma nella potenza stessa che possiede tale significato (o meglio il suo oggetto), rendendo così alla testimonianza della Scrittura il servizio che essa reclama. Infatti la Scrittura considerata in se stessa altro non è che testimonianza; una predicazione così legittimata non può fornire al lettore del testo scritto nessuna scusa: non vi è più possibilità di un pretesto per non intendere, per non credere, per non confessare la propria fede; in una predicazione motivata da una simile missione, la Parola di Dio ha sicuramente il carattere di una realtà immediata che guida ed impone l’obbedienza (v. 8). Il lettore si trova così posto subito e definitivamente sul cammino che conduce alla fede e dalla fede alla confessione. Paolo finora non ha fatto che porre una questione e si sarebbe tentati di dire per cercare di scusare i giudei della Sinagoga. La condizione previa di cui ha parlato si applica ai Giudei? Si può chiedere ai Giudei di confessare la propria fede in accordo con la chiesa? In verità Paolo non si è limitato a porre delle questioni. Vi ha già risposto: sì, è possibile chiedere queste cose ai giudei! I Giudeisono effettivamente responsabili nei confronti dell’esigenza motivata (quindi giusta) che è rivolta loro. Respingendola, sono diventati colpevoli. È quanto l’apostolo intende dire al v. 15 3 con la citazione d’Is. LII, 7 che prepara

la conclusione finale: «Come sono belli i piedi di coloro che annunciano la buona novella!»3. Con questo testo la Scrittura annuncia la necessità della fede (v. 11) e della confessione (v. 13) da un lato, come quella del messaggio che spiega il testo scritto in modo da ridurlo a parola costringente dall’altro; ha così reso attenti i Giudei all’avvenimento che costituisce la predicazione fondata su una missione; li ha cioè resi attenti alla proclamazione del compimento della profezia. Questa proclamazione concerne non solo il compimento già realizzato, ma anche la profezia di tale avvenimento; conseguentemente fa parte di una realtà che gli Ebrei devono conoscere. Non è perciò possibile intendere il v. 15 b solo come «una lode decorativa della vocazione dell’evangelista» come vorrebbe Lietzmann. Citando Isaia, Paolo afferma indirettamente che l’ultima delle condizioni previe è stata precisamente adempiuta. Partendo da questa citazione potrebbero essere riprese tutte le questioni precedenti e rispondere: una predicazione fondata su una missione è stata rivolta ai Giudei della Sinagoga; possono dunque intendere, credere, invocare il nome del Signore e confessare la fede in accordo con la chiesa; ed il seguito mostra che tale è il pensiero di Paolo. Tuttavia non è certo per caso che l’apostolo presenta questo pensiero capitale solo nella forma di una citazione scritturistica, lasciando le questioni precedenti apparentemente in sospeso e senza risposta. Nell’ultima e più importante parte della sua esposizione ha infatti parlato dell’apostolato della chiesa e conseguentemente del suo ministero. La sua dimostrazione sfocia qui nella semplice co* atazione del fatto che egli continua a rappresentare la predicazione ondata sulla missione, predicazione che Gesù Cristo con la sua resurrezione ha istituito, autorizzato e legittimato. In questo passaggio decisivo Paolo non deve più dimostrare nulla, ma semplicemente confermare il compimento di questa specifica parte della profezia. Sta là, con la sua persona e con il suo ministero, come risposta alla questione: i giudei possono realmente credere e confessare la loro fede? Si presenta beninteso con la sua persona in tanto in quanto essa coincide con il suo apostolato e non certo con la sua esperienza di giudeo convertito; ed è assai interessante costatare che qui, come in tutto il contesto che ci concerne, Paolo non si riferisce mai a siffatta esperienza; resta bloccato alla prova scritturistica anche là dove, secondo tale prova, si rivela lui stesso come il portatore della buona novella in favore dei giudei nel quadro del suo ministero apostolico, che pure non si può dimostrare se non ricorrendo al suo compimento. La via è ormai libera per l’affermazione del v. 16 a che riprende il (c tutto

intero» dei vv. II e 13 e nel quale la conclusione finale può essere intravvista per la prima volta: «Tutti quanti però non hanno obbedito alla buona novella». Che non abbiano obbedito alla parola della Scrittura, e di conseguenza a Dio (come lasciano intendere implicitamente i vv. 9-13) è una terribile realtà, poiché questo significa che essi non hanno obbedito alla buona novella, all’evangelo, escludendosi da tutti coloro che dovevano farlo. I messaggeri, i cui piedi sono belli secondo la citazione di Isaia, sono venuti anche presso di loro. Il messaggio è stato annunciato anche ad essi: il buon annuncio della verità mosaica è stato detto loro, non semplicemente sotto forma di una conferma solenne della parola scritta ed ancor meno sotto quella di un’asserzione arbitraria, ma come una verità legittimata dall’istanza che unica poteva legittimarla e di fatto l’ha legittimata: l’Ι’εὐαϒϒέλιον in quanto χήρυϒμα portato dall’Ι’ἀποσσολή. Si trova così escluso il sospetto di un messaggio non autentico, come anche la scusa che simile messaggio non sarebbe stato inteso o compreso; non si dà quindi più pretesto per non credere e per non confessare la fede; conseguentemente il rifiuto della confessione (Gesù è il Signore) non può essere interpretato e denunciato se non come disobbedienza, poiché l’esigenza della confessione riassume, secondo i vv. 913, tutte le esigenze della Legge ed è proprio questo compimento che è ordinato al lettore del testo biblico. Il rifiuto è l’incredulità; non è quindi una disavventura, bensì un’azione proibita dalla Legge; non può che essere trasgressione agli occhi di un lettore della Legge. Paolo tuttavia non intende costatare questo di propria autorità; lo vuole fare in forza della sua autorità apostolica, in modo che il Giudeo della Sinagoga debba riconoscere il fondamento partendo dai propri presupposti, cioè dalla Scrittura; la citazione di Is. LEI, 1 e la sua spiegazione nei vv. 16 b-17 servono a sottolineare proprio la conclusione tratta al v. 16 a. È molto importante per Paolo che ogni elemento della grande accusa, che deve confondere la Sinagoga (mostrando precisamente come il Dio misericordioso ha stabilito lui stesso il suo diritto mediante l’elezione d’Israele) sia una ripresa dell’affermazione di IX, 31 secondo cui Israele non ha adempiuto la Legge o di IX, 33 secondo cui la roccia posta in Sion è divenuta per Israele pietra d’inciampo e di scandalo. Per questa ragione richiama ora, onde allargare le conclusioni tratte al v. 16 a, che la sua requisitoria non è invenzione arbitraria, bensì è fondata sulla Scrittura in maniera indubitabile. Questa stessa Scrittura infatti annuncia che i messaggeri incaricati di proclamare la buona novella del compimento di ogni profezia urteranno

all’incredulità; vi sarà questo confronto incomprensibile fra la predicazione che suscita la fede e la rende assolutamente ed irresistibilmente necessaria da un lato ed il rifiuto effettivo della fede negli uditori di questo messaggio dall’altro. Lo spavento di Paolo di fronte all’atteggiamento della Sinagoga non è nuovo, come non sono nuove né l’esigenza della fede (v. 11) e della confessione (v. 13), né la legittimazione dell’una e dell’altra mediante l’esistenza di messaggeri che sono stati inviati (v. 15 b); anche di fronte alla Sinagoga, cui rimprovera di aver lasciato la sua questione senza risposta, Paolo non è certo il messaggero di una rivelazione estranea; non è che l’interprete ed il testimone della parola profetica che la Sinagoga conosce assai bene. Già una volta è accaduto (e doveva certamente essere così, visto quanto doveva verificarsi nel momento decisivo della storia d’Israele) che il messaggero della buona novella (relativa al servitore di Dio sofferente per i suoi fratelli) abbia dovuto alla fin fine (pur essendo debitamente legittimato dalla sua missione) allontanarsi da coloro cui portava il buon annuncio e rivolgersi verso il Dio che lo aveva inviato per domandargli perché mai lo avesse fatto e a che cosa potesse servire simile spreco di un messaggio apparentemente senza effetto positivo. «Signore, chi mai ha creduto alla nostra predicazione?» (v. 16b). Chi?; la risposta contenuta nella questione del profeta è: nessuno; ponendo tale questione, il profeta confessa la sua totale solitudine in mezzo a coloro che lo ascoltano, la sua solitudine con Dio e nello stesso tempo la solitudine di Dio stesso e della sua causa nei confronti del suo popolo. Questo popolo non crede proprio là dove è chiamato e costretto alla fede in maniera irresistibile; non solo dimentica, ma rifiuta i benefici divini a suo riguardo; tale è il suo comportamento nei confronti del Dio-che-lo-sceglie. Il v. 17 non è come vuole Peterson «una digressione che introduce il v. 4 18» . e neppure, come vuole Lietzmann una semplice ricapitolazione dei vv. 14-15. La sua Interpretazione presenta qualche difficoltà solo perché, da un lato, Paolo deriva dal contenuto negativo di Is. LIII, 1 (lamento ed accusa del profeta) l’ordine positivo di cui si denuncia la trasgressione e perché, d’altro lato, non sottolinea affatto tale trasgressione, come non sottolinea il lamento del profeta, lasciando al lettore di trovare lui stesso la conclusione che s’impone; e questa conclusione è che. secondo il testo di Isaia, se i Giudei hanno peccato un tempo contro un ordine ben preciso e positivo, lo fanno ancora e soprattutto oggi, nel momento decisivo della loro storia; quando si comprende questo chiaramente, il versetto cessa di essere incomprensibile. Qual è dunque l’ordine positivo di cui qui si tratta? Per vederlo bisogna

ricordare che il profeta, costatando l’assenza di fede che incontra il suo messaggio, non può più indirizzare la sua interrogazione ed il suo lamento se non a Dio; Dio è dunque il garante della fede che risulta necessariamente da questo messaggio ed il legame così creato è indissolubile; «la fede deriva da ciò che si ascolta e ciò che si ascolta viene dalla parola del Cristo» (v. 17). Il messaggio del profeta (ciò che è stato annunciato a noi: Is. LIII, 1) possiede una vitalità ed una potenza sovrane; non certo perché si tratta della predicazione nostra o di quella del profeta; quest’ultimo è infatti, in questa prospettiva, nella situazione esattamente simile a quella di Mosé, le cui parole non hanno efficacia se non traendola dal loro oggetto. In se stessa, la parola profetica non potrebbe suscitare la fede; poiché però il profeta è un inviato, poiché non pronuncia la sua predicazione di propria autorità, ma annuncia il messaggio che gli è stato dato, la parola che esprime possiede la potenza di colui che l’ha inviato; possiede in questo mandante il suo oggetto, la sua origine, il suo contenuto; ha la potenza della parola stessa del Cristo promesso. Poiché essa annuncia la buona novella del servitore di Dio, questo servitore parla lui stesso in essa ed è per questa ragione che essa si pone come la realtà necessariamente costringente che conduce tutti coloro cui è detta alla fede ed alla confidenza del cuore. La predicazione portata dalla parola del Messia e posta nella bocca del profeta da un lato e l’incredulità di coloro che l’ascoltano dall’altro: ecco un confronto del tutto impossibile! Là dove questa predicazione risuona, solo la fede è possibile; Bisogna qui sforzarsi di completare, seguendo il contesto, il pensiero di Paolo: se il profeta si vede obbligato ad indirizzare a Dio il lamento e l’accusa del v. 16b («Signore, chi mai ha creduto alla nostra predicazione?») è evidente che tale resistenza, tale possibilità dell’impossibile altro non è (secondo il v. 16 a, il passaggio di Isaia e la sua spiegazione) che un atto di disobbedienza rivolto contro Dio stesso e che Dio solo può giudicare. Considerando il comandamento definito in questa maniera, l’atto d’incredulità che isola il profeta dai suoi uditori è un fatto su cui nessun uomo, ma solamente Dio, autore e garante di tale comandamento, può dire la parola finale, la parola decisiva e liberatrice. Nella sua interrogazione, il profeta così crudelmente isolato ha già invocato la misericordia divina nei confronti dell’evidente peccato del popolo eletto. Chi crede? Considerando le cose partendo dall’uomo bisogna rispondere: nessuno. Crederà colui che la misericordia di Dio chiamerà e condurrà dall’incredulità generale alla fede. Paolo vuole cioè che si comprenda bene che la sua conclusione (Israele si trova

in uno stato di disobbedienza nei confronti del suo Dìo e nei confronti della Parola divina che conosce bene) è il contenuto di questa medesima Parola. Come l’esigenza della fede e della confessione, come l’esistenza dell’evangelo accessibile a tutti e parte integrante della promessa, la contraddizione e l’opposizione giudaiche sono parte integrante della profezia che la Sinagoga conosce assai bene. In simile resistenza non si compie a dire il vero se non quello che era scritto. Isaia aveva ragione di lamentarsi e di accusare perché, in quest’epoca decisiva che il profeta non aveva cessato di predire vedendo l’Israele del suo tempo, Paolo a sua volta ha altrettante ragioni di lamentarsi e di accusare: nella sua qualità di portatore del messaggio, anche lui è solo di fronte al popolo eletto. Le cose devono avvenire così, se è vero che la Scrittura non può mentire. Attraverso la predicazione apostolica del buon annuncio, portato dalla parola del Cristo stesso, Dio conferma che ha eletto Israele; parimenti Israele conferma di essere stato eletto, conferma la sua identità con il popolo passato di cui ed a cui Isaia ha parlato e ciò precisamente mediante l’atto di disobbedienza che costituisce la sua incredulità. Si può e si deve dire anche l’inverso, certamente: considerato alla luce della parola profetica rivolta un tempo al popolo eletto, Israele conferma che la sua incredulità, il suo rifiuto di confessare Gesù, porta il segno della disobbedienza; riconosce quindi di essere ancora e soprattutto quel popolo da cui il profeta non poteva se non allontanarsi per rivolgersi verso Dio, interrogandolo e supplicandolo di avere misericordia. Tuttavia, poiché tutto questo non è espresso, bensì resta sottinteso, si può ammettere che questa parte della dimostrazione scritturistica di Paolo conduce alla costatazione decisiva: la colpa innegabile dell’Israele riunito nella Sinagoga per combattere la chiesa fa parte, a modo suo, del compimento della profezia ed è, in tutto il suo orrore, conferma della sua elezione. Infatti è proprio questo popolo ribelle all’evangelo e quindi infedele alla sua elezione che è stato ed è il popolo eletto di Dio, radice naturale della chiesa chiamata e risvegliata alla fede mediante la misericordia. Si può certamente comprendere il seguito, cioè i vv. 18-20 ed il secondo tratto terminale del v. 21 come un corollario, una spiegazione supplementare della dimostrazione conclusa teoricamente al v. 17. A condizione tuttavia di mettere ben in luce che i vv. in questione non ripetono semplicemente ciò che precede, né si limtano a sottolinearlo; permettono (soprattutto il v. 21) di riconsiderare anzi tutto il tema dell’apostolo in una prospettiva nuova che non può essere negletta e trascurata.

Si penserebbe infatti volentieri che la questione del v. 18 sia una semplice ripetizione: «Ma io dico: non hanno forse inteso?». Infatti già ai vv. 14-15 era stato costatato che i Giudei hanno bisogno d’intendere per credere e quindi confessare e che possono effettivamente ascoltare, così sicuramente come è vero che la predicazione fondata su una missione non manca loro certamente. Tuttavia il problema della possibilità d’intendere si pone altrimenti al v. 18, come lo prova la risposta. Nel v. 14 era detto oggettivamente: si può intendere là dove c’è una predicazione fondata su una missione; tale costatazione presupponeva che la predicazione fondata su una missione avesse realmente raggiunto i Giudei, che in una sola parola i messaggeri del buon annuncio fossero giunti fino ad essi; il v. 18 riprende evidentemente questa condizione. È adempiuta?; oppure esiste in ultima istanza una scusa suprema per i Giudei, nel senso che una spiegazione della Legge, una spiegazione viva da parte di colui di cui parla la Legge (e cioè da parte della parola del Cristo che suscita la fede) non li avrebbe raggiunti? La risposta fornita dal Sal. XIX, 5 ci mostra subito che è possibile ed anzi necessario pensare (a proposito del concetto di missione: v. 15) non solamente all’apostolato della chiesa in generale, ma anche all’apostolato di Paolo in particolare e di comprendere così che a questo punto dell’esposizione, l’apostolo parla indirettamente ed implicitamente di se stesso. Il v. 18 non afferma, come forse ci si attenderebbe, che vi è pure (secondo Gal. II, 8) un apostolato della circoncisione conferito a Pietro ed agli altri apostoli ed in forza del quale i Giudei avrebbero ben potuto intendere quanto dovevano intendere per poter credere e confessare la fede; se Paolo invece dichiara citando il salmo («La loro voce è andata per tutta quanta la terra e le loro parole fino alle estremità del mondo abitato») altro da quanto ci attenderemmo, limitandosi a costatare che anche i Giudei devono aver inteso quello che tutti hanno inteso, è perché ignora coscientemente e di proposito la ripartizione del lavoro missionario di cui informa Gal. II; dice che i Giudei hanno dovuto intendere l’evangelo, perché tale evangelo è stato predicato a tutti i popoli della terra. Si riferisce dunque al suo apostolato particolare, l’apostolato presso i pagani; lo fa forse pensando in maniera tutta particolare alla Sinagoga della diaspora, situata fuori della Palestina, cioè fuori dal campo dell’apostolato dei circoncisi?; lo si può supporre, tuttavia bisogna pensare maggiormente al fatto che, malgrado la ripartizione del lavoro missionario, l’apostolato si è presentato a Paolo come il compimento della relazione fra il Cristo risorto assiso alla destra del Padre ed i popoli del mondo intero e che in tal modo la predicazione ai Giudei, lungi dall’essere agli occhi dell’apostolo

un’attività autonoma, è inclusa in tale relazione ed in tale compimento, essendone l’effetto necessario e per così dire, praticamente, la prima conseguenza, come lo mostrano gli Atti degli Apostoli. Rendendosi presso i pagani, Paolo si reca anche ed in primo luogo presso i Giudei disseminati presso questi popoli pagani: i Giudei sono dunque suscettibili di avere inteso la voce che è risuonata per tutta quanta la terra. Per comprendere la citazione del Sal. XIX, non bisogna forse mettere troppo l’accento sull’attività missionaria dell’apostolo che essa segnala anche senza alcun dubbio; conviene invece considerare questa attività come la conseguenza ed il segno di un avvenimento che, indipendentemente da essa, precede, condiziona ed instaura proprio tale predicazione. In effetti Paolo ha visto nella relazione istituita fra il Cristo glorificato ed i popoli pagani una linea diretta; quanto all’opera particolare della missione, essa non può che essere ai suoi occhi se non una conferma necessaria di tale relazione, una specie di realizzazione indiretta. Poiché Gesù Cristo è risuscitato dai morti, la salvezza è conosciuta dal mondo intero per la prima volta in maniera oggettiva, così come si è realizzata, innanzitutto ed una volta per tutte, nella sua realtà e nella sua estensione universale, sulla croce del Golgota. L’annuncio che l’apostolato offre al mondo intero non ha altra funzione che di rendere attento il mondo ad una realtà che lo precede nella sua esistenza, che ha già potuto vedere e che ha già potuto intendere. Chissà se gli αὐτοί del Sal. XIX, 5 non sono nel pensiero di Paolo semplicemente gli angeli, considerati come i primi autentici messaggeri dell’evangelo? È certo ad ogni buon conto che desiderando ardentemente di percorrere il mondo intero con l’evangelo (come lo attesta a più riprese la Lettera ai Romani: I, 13-16; XV, 16-24), l’apostolo non intende precedere la Parola di Dio, ma solamente seguirla. Citando il Sal XIX. non può che pensare secondariamente a quanto è stato fatto per mezzo di lui e degli altri apostoli in campo missionario; poiché la Parola di Cristo è sovrana, sa che il mondo intero l’ha oggettivamente ricevuta (v. 17); per questa ragione stringe i Giudei senza via di scampo, non potendo essi pretendere di non aver inteso tale parola. Intravvede già come realtà compiuta la chiesa composta di Giudei e di pagani, questo corpo terrestre il cui capo celeste è il Cristo sovranamente elevato al di sopra degli angeli e conseguentemente del mondo intero. Come allora sarebbe possibile che anche i Giudei non siano confrontati con il Cristo? Come non avrebbero inteso la sua Parola, cioè il messaggio del compimento della Legge? La seconda questione supplementare è enunciata e risolta nei vv. 19-20;

esprime un’idea parallela a quella del v. 18 («Ma, dico io, Israele non lo ha forse capito?»); non si trova invece nella serie di questioni dei vv. 14-15. Si riferisce evidentemente ai vv. 2-3, in cui la colpa d’Israele è definita in termini di mancanza di conoscenza. Tale è precisamente l’elemento di accusa da parte dell’apostolo, elemento che deve essere messo in evidenza. Di fronte alla giustizia divina, che ne è dell’ignoranza (ἀγνωσία) dei Giudei? Non li conduce forse a voler rimpiazzare la giustizia divina con la loro propria giustizia e a trascurare la sola cosa che è stata loro chiesta per il compimento della Legge? La questione e la risposta dei vv. 19-20 non possono certo mettere in causa l’esistenza di questa ignoranza; anzi la sottolineano: i Giudei hanno compreso molto bene proprio quello che non hanno compreso; così chiaramente i vv. 23. Comprendendo, non hanno compreso; non hanno voluto comprendere; come si esprime il v. 18 non hanno inteso pur intendendo, hanno cioè rifiutato d’intendere. La maniera con cui tale verità è dimostrata ai vv. 19-20 mostra che è necessario cercare la risposta dietro tutta la serie di questioni che precedono il v. 15, nell’esistenza stessa di Paolo, l’apostolo dei gentili. Infatti le citazioni di Deut. XXXII, 21 e di Is. LXV, 1, che sottendono la dimostrazione, mettono anche in rilievo quanto si è verificato in seguito al fatto di cui parla il v. 18, in connessione con la predicazione dell’evangelo al mondo pagano. Paolo non discute affatto la questione se l’evangelo è facilmente comprensibile agli, uomini in generale ed ai giudei in particolare; non cerca neppure in qual modo lo si possa rendere maggiormente comprensibile. Già al v. 18 non ha voluto continuare ad esaminare se l’evangelo è stato veramente inteso dai giudei; ha semplicemente costatato che l’evangelo è stato annunciato in maniera così alta che tutti coloro che volevano ascoltare, anche i giudei, avrebbero potuto farlo. La risposta dei vv. 19-20 presuppone che il vangelo non sia affatto facile da comprendere; si parla infatti di un popolo senza potelligenza che non cerca Dio e che non gli chiede nulla; questo popolo Dio lo ha preferito ad Israele, si è lasciato trovare da lui, attraverso la sua Parola risuonante per tutta quanta la terra ed ha provocato così la gelosia del suo popolo. Paolo vedrà più tardi (XI, 11) in questa divina incitazione alla gelosia cui è soggetto Israele, la ragione della preferenza accordata ai pagani. Israele non è ancora stato colto e mosso da questa gelosia, secondo l’apostolo; se così fosse, non confermerebbe la sua elezione con l’incredulità, bensì mediante l’obbedienza della fede. Paolo è sicuro che tale sarà l’avvenire d’Israele; tale tuttavia non è ancora il suo presente; per questo afferma semplicemente che da un punto di vista

oggettivo esiste la ragione per la gelosia d’Israele e che la preferenza accordata ai pagani è reale. Uomini senza intelligenza, uomini che sono chiusi alla Parola di Dio, comprendono! Dio si è lasciato trovare da coloro che non lo cercavano e si è rivelato a coloro che non gli chiedevano nulla. Ecco l’avvenimento che significa l’appello e la conversione dei pagani alla chiesa. Come questi pagani avrebbero potuto comprendere l’evangelo?; partendo da quali presupposti?; chi mai potrebbe autonomamente cercare e reclamare quel Dio di cui l’evangelo racconta la misericordia? I pagani hanno capito e colto, nei fatti, quanto era necessario comprendere e cogliere: Dio si è lasciato trovare, Dio si è rivelato; ciò è accaduto poiché sono stati chiamati alla fede per mezzo del miracolo della misericordia divina; la loro fede, la loro presenza nella chiesa sono la prova che essi hanno compreso. Tale è l’avvenimento che si è verificato laggiù, all’esterno, fra i popoli pagani, grazie alla forza dell’evangelo in cammino. I Giudei possono ancora pretendere di non aver compreso?; possono spiegare la loro ignoranza come impotenza o come disgrazia?; come se siffatta impotenza e disgrazia non fosse partecipata anche dai pagani! L’evangelo non ha trovato questi ultimi disposti meglio dei Giudei; Dio però li ha trovati attraverso l’evangelo per dare loro parte alla sua rivelazione. È mediante l’evangelo che essi sono stati strappati alla loro impotenza ed alla loro disgrazia. Ora, data la loro origine, la loro elezione, la legge da cui dipendono, i Giudei non erano forse destinati per primi a beneficiare di questo miracolo?; non erano chiamati, in forza di quanto Dio aveva compiuto in mezzo ad essi in vista dell’edificazione della chiesa, ad essere un popolo intelligente che cerca Dio e si mette finalmente a cercarlo?; se hanno fatto e fanno ancora difetto, non è certo a causa della loro incapacità di comprendere, né a causa della loro incapacità d’intendere. L’avvenimento della missione, l’esistenza della chiesa composta di Giudei e di pagani, il miracolo della pentecoste conseguente alla resurrezione di Gesù Cristo rendono definitivamente impossibili l’una e l’altra scusa. Comprendendo i vv. 18-20 concretamente, come esige il testo, non si potrà certo dire che essi ripetono semplicemente quanto è stato detto precedentemente. Forse, sebbene sembrino inutili, permettono proprio di formulare la conclusione cui l’apostolo intendeva giungere in questo capitolo. Ogni apparenza di pura erudizione biblica che potrebbe intravvedersi in quanto precede si trova qui dissipata. Ormai una cosa è chiara: la vita del messaggero di Gesù Cristo, partito nel mondo pagano con la missione del Signore che lo ha incontrato direttamente, sostiene l’argomentazione destinata

a provare la colpevolezza d’Israele; quanto è nuovo in questi vv. è il fatto che gli avvenimenti dei tempi messianici, cui Paolo partecipa direttamente nella sua qualità di portatore dell’apostolato presso i pagani, nutrono direttamente l’accusa conferendole la sua portata autentica; tuttavia, pur costatando questo, non bisogna scordare che Paolo resta fedele alla linea seguita fin dall’inizio: per lui la dimostrazione mediante la Scrittura (e persino tramite l’erudizione biblica) resta determinante. Gli sarebbe stato facile dare ed illustrare la prova che i Giudei possono intendere e comprendere, utilizzando qualche aneddoto o immagine tratta dalle sue esperienze missionarie. Citando al v. 18 il Sal. XIX avrebbe potuto menzionare tutta la fatica impiegata per convincere i Giudei; per illustrare il v. 19 avrebbe potuto raccontare qualche fatto di cui era stato testimone al momento della conversione di pagani dell’Asia Minore e della Grecia; non fa invece nulla di tutto questo, contentandosi di citare la Legge ed i profeti. È stato predetto che Israele avrebbe inteso il buon annuncio e che sarebbe stato in grado di comprenderlo; parimenti la Scrittura ha annunciato gli avvenimenti cui Paolo è così intimamente mescolato nel presente e che svelano così dolorosamente l’opposizione fra la possibilità d’intendere e di comprendere data ai Giudei e la loro disobbedienza effettiva; tutto ciò è stato profetizzato ed è questo che preoccupa Paolo e lo conduce ad introdurre tali avvenimenti nel dibattito. Il suo comportamento non deriva da follia e non si spiega con la tradizione teologica di cui pure Paolo è l’erede; raramente l’apostolo ha sfruttato una prova scritturistica in una maniera così rigorosa e conseguente, come in questo contesto, in cui occupa, per così dire, tutto il posto. Dimostrando infatti come fa qui la colpevolezza d’Israele, non intende negare affatto l’elezione di questo popolo; anzi, come mostra il seguito nel cap. XI non ha che una intenzione: affermare l’elezione di questo popolo che non ha scusanti di questo popolo realmente disobbediente e mostrare che Dio lo ha scelto perché è il Signore della misericordia. Per poter fare questo, in nessun momento deve perdere di vista la Parola che Dio ha rivolto ad Israele mediante Mosé ed i profeti (ricordiamo che il v. 18 si riferisce alla terza parte del canone biblico!). In effetti, non è mediante considerazioni teologiche astratte, né mediante esperienze ecclesiastiche, ma unicamente mediante la Scrittura che la colpa d’Israele può essere costatata e provata in modo da non contraddire, bensì da confermare la sua elezione. È unicamente mediante la Scrittura (mediante cioè i documenti dell’elezione e della vocazione che trova in mano sua) che Israele può essere accusato in modo da poter essere veramente colpito da tale accusa;

poiché la Scrittura che lo accusa gli certifica, con la medesima sicurezza, la fedeltà incrollabile del suo Dio. Non solo al Giudeo, bensì ad ogni uomo, essa annuncia quanto sia grande la misericordia divina, proprio per il colpevole; insegna che il Dio misericordioso è anche il Dio-che-elegge e che l’elezione di questo Dio è quindi anche sempre misericordia; se voleva restare fedele all’intenzione della sua esposizione Paolo non doveva tralasciare la Parola della Scrittura ed infatti non l’ha tralasciata. È notevole (ma anche naturale) che il rabbinismo manifesto di questo capitolo contribuisca a dargli precisamente quel carattere eminentemente evangelico che gli è peculiare, malgrado il tema trattato. È ugualmente impossibile comprendere e spiegare il v. 21, di cui non abbiamo ancora parlato, se dovessimo intendere l’insieme ed il dettaglio, il contenuto e la forma di questo capitolo in maniera diversa dall’intenzione di cui abbiamo trattato. Questo v. non è un semplice parallelo delle citazioni dei vv. 19-20, come si pretende comunemente; infatti Is. LXV, 2 non parla più della possibilità di comprensione da parte dei Giudei, ma della disobbedienza e dello spirito di contraddizione del popolo di Dio, che si oppone alla longanimità ed alla misericordia divina. Il v. 21 conferma il v. 16 e di conseguenza mette il punto finale a tutta la pericope. Non solamente Israele non intende né comprende, ma anche, malgrado la possibilità d’intendere e di comprendere, non obbedisce; la disobbedienza, la trasgressione della Legge e quindi la colpevolezza d’Israele nei confronti del suo Dio, tali sono i fatti da ritenere, considerando l’atteggiamento della Sinagoga nei confronti della chiesa. Ma se è vero che il v. 21 costituisce il seguito immediato del v. 20 (e ciò anche nell’Antico Testamento) e coopera nettamente al peso della conclusione paolina, non è certamente questa l’unica ragione che ha deciso l’apostolo a concludere precisamente con queste parole; lo fa evidentemente perché il testo di Isaia non tratta solamente (e a dire il vero di sfuggita) della disobbedienza e della contraddizione d’Israele, ma perché parla in maniera decisiva di quanto Dio ha fatto per il suo popolo. È verso questo popolo che «ogni giorno Dio ha teso le sue mani»; è a questo popolo che si è offerto senza sosta, ponendosi al suo livello e provando sempre e di nuovo la sua fedeltà; è nei confronti di questo popolo che ha esercitato la sua misericordia. La colpa d’Israele esce quindi attenuata? Certamente no; non potrebbe anzi essere costatata con maggior nettezza e severità che in questo testo che pure la menziona solo di sfuggita; è designata infatti come oggetto della misericordia divina e solo così si manifesta come oggetto del suo giudizio, della sua minaccia, della sua

punizione. Si trova così ricondotta (ancora una volta come il contenuto della profezia) in quella luce del compimento manifestatosi nel presente; appare così come un fatto compiuto che è, in tutto il suo orrore, non contro, ma in favore dell’elezione d’Israele. Tale è il significato dell’elezione d’Israele: colpevole nei confronti del suo Dio, questo popolo non può fare altro che glorificare sempre più la misericordia divina. 1. E. PETERSON, Die Kirche aus Juden und Heiden, 43 s. 2. Così H. LIETZMANN (commentario ad locum). 3. Forse bisogna leggere con E. PETERSON, Die Kirche aus Juden und Heiden, p. 49: il bene come buona novella oppure la buona novella come bene. 4. E. PETERSON, Die Kirche aus Juden und Heiden, p. 50.

4. L’UOMO DEL PASSATO E L’UOMO DELL’AVVENIRE A. POSIZIONE DELLA TESI Nell’elezione eterna di Gesù di Nazareth, Dio, giudice misericordioso, assegna gratuitamente all’uomo un termine ed un nuovo inizio; lo fa morire perché viva veramente; lo condanna a passare perché abbia un avvenire reale. Il fine dell’elezione di Gesù di Nazareth s’identifica con la volontà giusta e salutare di Dio di sopprimere radicalmente la distretta umana e di accordare all’uomo il più grande dei benefici; Dio prende il posto dell’uomo nella persona di questo individuo unico per togliergli, assumendola su di sé, l’amarezza del suo destino finale ed accordargli la gioia di un nuovo inizio; così l’elezione di Gesù Cristo destina l’uomo a morire ed a vivere, a passare ed a risuscitare. Il popolo di Dio, la sua comunità eletta, ambiente circondante l’uomo eletto che è Gesù di Nazareth e di conseguenza luogo dove risiede la gloria divina, deve avere un carattere corrispondente a questa duplice determinazione del suo capo celeste: esiste anch’esso sotto forma passeggera e contemporaneamente futura, è segnato anch’esso contemporaneamente dal segno della morte e della vita. Compie il suo destino, fondato nell’elezione, incarnando ed attestando al mondo sia la morte da cui l’uomo è liberato, sia la vita di cui questo medesimo uomo è stato gratificato da Dio. Il popolo di Dio nella sua interezza (Israele e la chiesa) possiede questa duplice determinazione, riferita alla sua elezione, così certamente come è vero che è stato eletto in Gesù Cristo e che ne costituisce il corpo, sotto duplice aspetto. Dovunque esiste, rappresenteràsempre (non certo autonomamente, ma in forza del potere del suo capo vivente in mezzo ad esso) e contemporaneamente l’uomo del passato e l’uomo dell’avvenire, la grazia di Dio che uccide e che fa vivere. Il servizio particolare che incombe ad Israele nel seno della comunità eletta nel suo insieme sarà di lodare la misericordia di Dio, testimoniando della caducità, della morte e dell’eliminazione dell’uomo vecchio, che rifiuta la sua elezione opponendosi così a Dio. Allorché Israele è fedele alla sua elezione, quando cioè si apre alla fede riconoscendo il compimento di tutte le promesse divine nel fatto della resurrezione di Gesù Cristo, dà un contributo specifico di natura critica all’opera del popolo di Dio nella sua globalità: richiama cioè che l’uomo ribelle a Dio è condannato a scomparire, per ricevere la vita dopo aver ritrovato la pace con Dio e che è per la propria salvezza che deve subire la morte, cui Dio si è sottomesso lui stesso nel proprio Figlio. La

chiesa abbisogna di questo richiamo; la sua testimonianza concernente Gesù Cristo e la vita avvenire, promessa all’uomo nello stesso Gesù Cristo, non potrebbe essere chiara se non fosse accompagnata, sullo sfondo e come in tono minore, dall’attestazione d’Israele, il cui Messia s’identifica con il Crocifisso; senza Israele, senza il richiamo della condizione passeggera e della caducità umane, senza la conoscenza ed il riconoscimento della grazia del giudizio di morte che raggiunge l’uomo, la chiesa potrebbe parlare solo astrattamente (cioè in maniera inefficace) della vita eterna che le è stata promessa. Persino la predicazione della resurrezione di Gesù diverrebbe parola priva di senso, là dove si fosse scordato che ogni carne è come l’erba; senza il sale di questa conoscenza, la chiesa non potrebbe sussistere un solo istante come chiesa; per essa tutto dipende dall’esistenza continua nel suo seno del servizio particolare che è il lotto d’Israele. Nella sua forma israelita la comunità eletta mostra ciò che Dio ha scelto per se stesso scegliendo, nella sua grazia eterna, la comunione con l’uomo; sceglie ciò che gli è estraneo, ciò che è indegno di lui: la carne vulnerabile, la sofferenza, la morte, per liberarne l’uomo e rivestirlo della sua gloria; tale è l’avvenimento che significa l’elezione del figlio di Maria e che riverbera l’elezione d’Israele. Il radicalismo con cui Dio manifesta la sua misericordia nei confronti dell’uomo, il mistero stesso con cui si copre il suo sacrificio, tutto ciò si riflette nel destino di questo popolo senza sosta consegnato all’obbrobrio, perseguitato, sterminato nel corso della sua lunga storia che parte dalle malversazioni subite in Egitto e giunge sino alla rovina finale di Gerusalemme e che prosegue ancora, come una ripetizione mai compiuta delle sofferenze di Giobbe e del Servitore di cui parla Isaia. Inquietante presenza questa di un popolo sempre ricrocifisso in mezzo agli altri popoli! In verità, Israele paga di persona per essere il popolo di Dio! All’abisso della sua distretta corrisponde l’abisso in cui Dio stesso è disceso, senza ritenere di pagare troppo cara la sua eterna alleanza con l’uomo; quanto è la sorte dell’uomo, quanto significa l’irruzione del peccato e della morte nel mondo e più ancora quanto è il Dio che gradisce l’uomo nel Figlio suo e quanto è perfetta tale sua condiscendenza nei suoi confronti: ecco ciò che la comunità eletta deve mostrare nella sua forma israelita. Essa proclama l’impotenza dell’uomo privo del soccorso divino; denuncia l’illusione e la vanità degli sforzi che cerca di compiere nella speranza di aiutarsi autonomamente; afferma la totale sufficienza della misericordia divina. È questo che attesta in maniera preminente il Messia crocifisso e morente d’Israele; attestarlo al suo

seguito, questo è il compito della chiesa; e per questa ragione occorre che Israele continui a vivere in mezzo ad essa. La chiesa non potrebbe annunciare correttamente al mondo la misericordia del Dio che dona la vita, se non avesse costantemente presente la miseria del mondo; per averla costantemente presente però deve riconoscerla come sua propria miseria; ciò è possibile a condizione che essa sia non solo chiesa, ma pure e contemporaneamente Israele. Quando Israele accede alla fede ed entra così nella chiesa per compiere il suo destino conformemente all’elezione di cui è oggetto, le condizioni sono adempiute perché la conoscenza di cui è questione resti vivente nella comunità e perché sussista, con essa, la necessaria messa in guardia contro ogni sicurezza che non s’identifichi con la sicurezza della fede. Che Israele pervenga alla fede ed entri nella chiesa per compiervi il suo servizio particolare, tale è l’intenzione divina nei suoi confronti e tale è la promessa contenuta nell’elezione; tuttavia Dio non è legato all’obbedienza d’Israele, cosicché questo popolo possa sottrarsi al servizio che deve rendere, perseverando nell’incredulità, vanificando la promessa; l’elezione di questo popolo implica invece che esso deve rendere il servizio cui è chiamato sia nella disobbedienza (anzi mediante la stessa disobbedienza) per sua disgrazia e sia nell’obbedienza (anzi mediante la stessa obbedienza) per la sua salvezza. Deve cioè portare la sua testimonianza particolare sia che entri nella chiesa e sia che resti al di fuori di essa; Israele, il servitore sciancato dall’Eterno, dipende da Dio e non viceversa; in un modo o nell’altro deve compiere la volontà divina e rivelare così l’abisso della miseria umana e la dimensione della misericordia divina; qualunque essa sia, tale testimonianza contribuirà all’opera del popolo di Dio affidata alla chiesa; attesterà l’esistenza del corpo del Cristo; confermerà ad ogni buon conto l’elezione d’Israele e con essa quella della chiesa. Se Israele non fosse infedele alla sua elezione, la sua specifica testimonianza concernente la caducità dell’uomo vecchio e del suo universo sarebbe parte integrante della confessione di fede propria all’insieme della comunità che attende il Regno di Dio, completerebbe cioè la testimonianza di speranza, fondata sulla resurrezione del Cristo, di cui la chiesa è portatrice e si accorderebbe con essa. La sofferenza è stata superata, la morte è vinta, la vita s’afferma e sussiste al di là di tutto quanto è transeunte: ecco ciò che la chiesa potrebbe affermare con forza ancora maggiore se avesse nel suo seno un Israele autentico, suscettibile di rammentarle in qual modo tale vittoria è stata ottenuta ed a che prezzo questa verità è diventata autentica, è autentica e lo

sarà per sempre; Israele comprenderebbe allora che l’onore che gli spetta in proprio consiste nel mantenere la chiesa sotto il messaggio della croce, affinché essa possa, partendo di là, affermare e proclamare come si deve il vangelo della speranza, conservando la sua speranza come attesa concreta, opposta ad ogni speculazione astratta. Ed ecco che nella resurrezione di Gesù Cristo la manifestazione dell’uomo nuovo è divenuta avvenimento; Gesù è il Messia d’Israele, il figlio promesso di Abramo; di conseguenza, in lui Israele è diventato un popolo nuovo, è stato condotto dalla morte alla vita e la sua speranza (contemporaneamente però a quella dei pagani!) è diventata un presente, che gli indica il suo posto ed il suo compito nella chiesa. Tutto quanto concerne la sua pace temporale ed eterna si è verificato ed è diventato avvenimento. In verità però in quanto tale e nel suo insieme Israele sfugge, non si rende conto che le cose antiche sono trascorse e che ogni cosa è diventata nuova, resiste alla morte misericordiosa partendo dalla quale potrebbe infine vivere e vivere veramente, si irrigidisce in una fedeltà carnale a se stesso ed in una corrispondente speranza, rifiuta di accettare la sentenza di morte sotto cui si è posto consegnando ai pagani il suo Messia e sotto cui potrebbe ormai avere la sua salvezza, poiché è anche per i suoi peccati che il Messia è morto. Crede di potere e di dovere assicurare, difendere, salvaguardare la sua esistenza contro il Dio che già l’ha strappato alla rovina, rinnovato e glorificato; intende guardare indietro, sempre indietro e non in avanti; provoca così la divisione più mostruosa possibile all’interno del popolo di Dio; cerca deliberatamente di rompere l’unità del corpo di Cristo. Questo tentativo però è destinato allo scacco. Se Israele si applica a realizzare ciò che è impossibile in sé, è affare suo, nel senso specifico e forte del termine; così facendo si condanna, si carica e si sottopone da solo a sofferenza; non cessa tuttavia di essere il popolo di Gesù Cristo risuscitato, il popolo del Signore che, sebbene Israele non lo veda, non per questo smette di essere il capo sovrano della chiesa. La decisione avvenuta in Gesù Cristo da tutta eternità ed al centro stesso del tempo concerne anche ed innanzitutto Israele, anche se esso è disobbediente; le cose antiche sono passate; ogni cosa è diventata nuova. Così il frutto dell’incredulità giudaica (prototipo di ogni forma d’incredulità) deve essere cercato non all’esterno, ma solo all’interno dei risultati della misericordia divina; in verità, oggettivamente parlando, l’opzione contro natura d’Israele significa semplicemente che là dove era consentito a questo popolo di servire, deve ormai adempiere il suo compito nell’assurdo, cercando vanamente di contraddire Dio; di fronte alla

testimonianza della chiesa, Israele deve incarnare e rappresentare esemplarmente, in astratto (poiché essa è stata rinnegata e liquidata dalla misericordia divina) tutta la distretta umana consecutiva al peccato: cioè il limite e la sofferenza dell’uomo, la sua caducità, la morte cui l’uomo si è condannato. È costretto a personificare una reliquia a metà venerabile ed a metà pietosa, un’antichità miracolosamente conservata in seno alla storia umana e che indica assai bene la misura dell’uomo e delle sue fisime; deve condividere la vita storica totalmente senza speranza dei popoli di questo mondo, senza tuttavia aver tempo per sé, senza potere ritirarsi ad un dato punto dalla scena per fare posto ad altri; così si punisce da solo; così inquieta la comunità di Dio. Però non potrebbe realmente opporsi a Dio: anche nella sua situazione, non può che servire la volontà divina, collaborare all’opera del popolo di Dio, rendere la testimonianza che Dio gli richiede. Se la Sinagoga non può e non vuole ricevere il messaggio della resurrezione, deve tuttavia attestare ed in maniera chiara il fatto che «non è più qui» e porre in modo sempre più forte la questione «perché cercate fra i morti colui che è il vivente?». Se, ostinandosi come fa a guardare indietro, rifiuta di riconoscere che ogni cosa è diventata nuova, è tuttavia obbligata a rendere testimonianza in una maniera sempre più aperta che tutte le cose antiche sono trascorse; testimonia delle tenebre che hanno coperto la terra al momento della morte di Gesù; dice il sospiro della creatura che caratterizza propriamente l’universo in cui e per cui Gesù ha dovuto morire. Si tratta anche in questo caso di una testimonianza (indiretta certo ma reale) resa al Cristo, in contrasto con il messaggio della chiesa che nessuna incredulità giudaica potrebbe interrompere!; Israele mostra ciò che è stata, ciò che è la carne che Dio ha rivestito ed assunto!; mette in evidenza la rovina cui questa carne è stata strappata dalla potenza della Parola di Dio! Testimonianza disgraziata se si vuole, ma efficace ed utilizzabile proprio nella sua miseria. La Sinagoga porta questa testimonianza contro sua voglia, confermando così l’elezione d’Israele; questa non è stata revocata; niente e nessuno potrebbe invalidarla. Che Dio non uccida se non per fare vivere è quanto implica la promessa data ad Israele contemporaneamente alla sua elezione; la benedizione non è stata rifiutata a Giacobbe che lotta contro Dio ed esce sciancato da questo combattimento; il sì divino non sfugge Giobbe, l’uomo del dolore: gli è anzi rivelato proprio nel no che lo accompagna. Dio non si lascia distogliere dal suo disegno perché vuole il bene dell’uomo senza e contro il merito umano: l’infedeltà e l’ingratitudine esemplari di Israele non possono

affatto impressionarlo. L’infedeltà e l’ingratitudine umane, Dio le conosceva già in maniera esaustiva, quando ha rivolto il suo amore nei confronti dell’uomo, prima ancora di creare il mondo: lo hanno forse impedito di volere fin da allora il bene di quest’uomo? E quanto al fatto che si è verificato ed è diventato manifesto nella resurrezione di Gesù, in favore anche e soprattutto della folla dei malati, dei prigionieri e degli oppressi del suo popolo (questo fatto che ci mostra l’uomo rivestito della gloria di Dio), non può certamente diventare caduco per Israele; nessun progresso nel dipanarsi del tempo può trasformare tale avvenimento in passato; in esso infatti l’uomo dell’avvenire fa posto all’uomo condannato a trascorrere ed incontra tutti coloro che sono morti, compresi il popolo e la Sinagoga della morte, chiamando a sé e dunque alla vita tutti gli abitanti del ghetto. Israele non può impedirlo. Anche qui, come per quanto concerne il servizio che deve assicurare in ogni caso, Israele non possiede alcun mezzo per ostacolare la volontà, il decreto e la provvidenza di Dio. Può condannarsi, caricarsi di colpe, soffrire e farsi soffrire, ma non può cambiare nulla al fatto che il Redentore vive anche per lui; può subire la sorte che si è attirato optando come ha fatto, ma non può soffrire in maniera eterna; può glorificare la morte, ma non può renderle il potere che le è stato tolto. Un Giudeo per l’eternità? Certamente no, poiché il Giudeo non può rendersi eterno, né eternizzare il suo destino; nella morte e nella resurrezione di Gesù, il Messia giudeo, un limite è stato posto all’eternità d’Israele dalla misericordia divina (così come è stato posto ad ogni analoga forma di eternità!). Il Giudeo non può nulla contro il fatto che la testimonianza relativa alla misericordia di Dio (a questa misericordia che si è rivolta innanzitutto verso di lui) sia una realtà; può ancora riprodurre sotto molteplici forme il peccato di Israele per esserne punito reiterate volte; non può tuttavia rendere caduca la promessa divina che si oppone alla sua maniera di essere, esemplarmente carnale. È il fratello di Gesù Cristo: nessuna ortodossia rabbinica, nessun liberalismo, nessun indifferentismo può consentirgli di fare astrazione da questo fatto; ne è segnato in maniera indelebile; pur essendo impossibilitato a vivere come popolo libero, non può confondersi con un qualsivoglia altro popolo. Per questo è destinato a morire certo, ma anche a vivere. Indipendentemente dall’opzione e dalla situazione d’Israele, il servizio della Chiesa, forma compiuta del popolo di Dio, consiste nell’attestare (rilegandosi mediante la fede alla Parola ricevuta e riconoscendo la misericordia divina) la venuta del Regno di Dio che mette un punto finale alla

distretta umana e nel testimoniare l’esistenza dell’uomo nuovo e della vita eterna che gli è accordata. La chiesa esiste in mezzo ai Giudei ed ai pagani perché Gesù non ha distrutto invano la potenza della morte, perché Gesù, testimone della vita eterna, non può rimanere solo ma suscita, riunisce ed invia subito in missione coloro che partecipano di questa vita e la attestano con lui; la chiesa proclama dunque che la glorificazione di Gesù è lo scopo del suo abbassamento, che la sua sovranità regale corona la sua sofferenza, che in lui l’uomo vecchio lascia il posto all’uomo nuovo; è là per annunciare ciò che può e deve diventare, nella mano di Dio, l’uomo accolto da Dio e gradito da lui. Il suo messaggio è il messaggio esaustivo e decisivo affidato al popolo di Dio nel suo insieme; ciò che Israele deve dire si coordina con questo messaggio e gli funge da introduzione. In questa maniera la Chiesa è legata alla funzione ausiliaria d’Israele e dipende dall’esistenza continua di questo popolo in mezzo ad essa. Inversamente si può dire: la sua esistenza è il compimento del destino d’Israele che, in ogni caso, è destinato a sopravvivere, sia per la sua disgrazia (in quanto popolo che vorrebbe vivere senza poterlo realmente e che per questo è condannato a vivere un’esistenza fantomatica, contestata, disprezzata e dispersa in mezzo alle nazioni) e sia per la sua salvezza (in quanto popolo cui è stato concesso di morire, onde divenire proprio per questo un segno della vita eterna fra le nazioni che sorgono e scompaiono). Israele vivrebbe per la sua salvezza se compisse nella chiesa questo servizio ausiliario, se (in una sola parola) credesse nel suo Messia. Sotto la forma ecclesiale, il popolo di Dio mostra chiaramente ciò che Dio vuole per l’uomo chiamandolo alla comunione con lui nell’elezione gratuita: scegliendo l’uomo da tutta eternità, Dio lo sceglie per l’eternità; eleggendolo per mezzo della grazia, lo elegge per la sua salvezza; chiamandolo ad entrare in comunione con lui, si fa il garante ed il dispensatore della salvezza eterna che gli è accordata. Lo riveste realmente della sua gloria, senza per questo cessare di essere Dio e senza che l’uomo cessi per questo di essere uomo. Ecco che cosa succede quando Dio gradisce Israele e, in Israele, l’uomo Gesù e, in Gesù, la folla degli individui usciti dai Giudei e dai pagani. L’uomo eletto da Dio è l’uomo che Dio rende partecipe della salvezza eterna. Questo è quanto è concesso alla comunità di Dio di mostrare nella sua forma compiuta, in quanto chiesa. Essa indica che la morte e lo stesso inferno (con tutto il loro terrore!) sono ormai pienamente sotto il dominio del Figlio beneamato di Dio. Se è assurdo e vano (data la missione d’Israele) di rifiutare di considerare e di subire la morte come il segno del giudizio divino, lo è ancora maggiormente

(data la missione della chiesa) di onorarla e di temerla come tale, invece di rallegrarsi nella speranza della vita eterna che è il dono gratuito della misericordia divina. È questa speranza che attesta imperativamente il Signore risorto della chiesa: è assolutamente impossibile, quando si crede in lui, di andare oltre la rivelazione o di passarle accanto. E si tratta della rivelazione della realtà che viene e che permane. Da parte sua la chiesa attesta proprio questo con la sua missione, in nome e con la forza di Colui che l’ha suscitata e che l’ha riunita; prende parte per la vita contro la morte, per la vita che sorge dalla morte e che si afferma in essa ed al di sopra di essa; di fronte al vecchio uomo che passa, confessa la sua fede nell’uomo nuovo che viene. Porta ugualmente testimonianza della caducità dell’uomo, ma lo fa (né può fare diversamente) attestando l’uomo nuovo che resta, cioè Gesù Cristo, il Vivente. Essa conosce certo la morte; si tratta però della morte definitivamente privata del suo potere, della morte subordinata alla vita e costretta a servirla. La Chiesa è la forma compiuta del popolo di Dio perché il messaggio che questo popolo (l’ambiente circostante di Gesù) è incaricato di trasmettere al mondo riceve la sua forma specifica e sostanziale come messaggio della chiesa; si tratta della forma specifica dell’evangelo, del buon annuncio per tutte le vittime della menzogna e dell’ingiustizia, per tutti i prigionieri e gli ammalati, per tutti coloro che si smarriscono o che sono schiacciati dalla sofferenza; Gesù si trova in mezzo ai suoi con il suo vangelo, volendo che attraverso essi il buon annuncio raggiunga il mondo intero. Fra il cerchio interno della comunità ed il cerchio esterno costituito dagli altri uomini, un evento deve costantemente prodursi: occorre che in questo punto d’incontro, in questo momento limite, l’evangelo sia predicato. Ma se tale è il compito assegnato al popolo di Dio quaggiù (se questo popolo deve cioè portare la luce della misericordia divina) il principio che ha determinato la sua origine può forse essere altra cosa? La chiesa dell’evangelo è in effetti identica alla determinazione prima ed ultima d’Israele; conseguentemente è fin dall’inizio che la consolazione, la benedizione e la potenza salvifica della Parola e della volontà di Dio sono esistite in Israele, sono state riconosciute, sono state gustate in forza di un’illuminazione e di una prospettiva particolari da una folla d’individui, in mezzo a tutti i giudizi ed i castighi di cui questo popolo è stato teatro. Nella missione, nel destino e nell’opera di questi individui particolari, l’evangelo già preesiste, in quanto forma specifica e sostanziale della missione propria all’insieme della comunità in seno allo stesso ordine della Legge, nell’ombra proiettata dai suoi giudizi e dalle sue minacce. Nella

misura in cui questa preistoria si svolge all’interno della storia d’Israele, Israele partecipa con la chiesa alla forma compiuta della comunità, al corpo del Cristo e possiede così, anche lui, una missione universale. Mediante la preesistenza della chiesa in Israele che annuncia l’uomo nuovo, anche l’elezione d’Israele si trova confermata in maniera positiva; la chiesa non modifica la vocazione speciale d’Israele: l’illumina e la spiega; mostra che la storia di questo popolo è dominata da un capo all’altro dalla volontà paterna di Dio; le minacce e le punizioni divine di cui tale storia è intessuta, come pure la somma delle sofferenze che un uomo come Giobbe ha dovuto subire, non hanno senso se non procedono dall’intenzione di un Padre. Dato che la crocifissione di Gesù Cristo, unita alla sua resurrezione, è un beneficio divino, il calvario d’Israele, in cui s’inscrive la preistoria, dell’evangelo, è anch’esso un beneficio. È sempre in questo contesto che la Chiesa riconoscerà la figura dell’uomo che passa. Israele però non fornirà mai altro che un’immagine della preesistenza della chiesa; la chiesa stessa non assume forma se non nel momento in cui dei giudei e dei pagani, chiamati da Gesù risorto, ricevono insieme la consolazione e la benedizione dell’evangelo; coloro che, prima di questo avvenimento, hanno beneficiato della consolazione e della benedizione non sono che piccola minoranza dispersa nello stesso Israele. La grazia che è stata loro accordata si manifesta, senza eccezione alcuna, come qualificazione passeggera della loro esistenza; se sono stati custoditi e sostenuti è in mezzo alla rovina senza speranza di tutti gli altri; e finalmente sembrano scomparire essi stessi, nel momento in cui la totalità d’Israele assiste melanconicamente alla fine della sua storia. Come individuo realmente consolato e benedetto resta in scena il solo Gesù Cristo. Così, a voler essere precisi, l’esistenza di queste persone lascia aperto un problema: il problema dell’uomo nuovo strappato alla morte e promesso alla vita. La storia d’Israele si rivelerebbe incomprensibile dal di dentro, se non pervenisse alla soluzione positiva di tale problema e non esigesse di essere globalmente interpretata partendo proprio da questa soluzione. Nella chiesa fondata sulla resurrezione di Gesù di fra i morti, questo problema non potrebbe essere negletto o evitato; la chiesa non crederebbe realmente all’evangelo se non riconoscesse la sua propria fede in quella dei fedeli che sono stati preservati e salvati in Israele, se non percepisse che la speranza che li ha sostenuti è identica a quella che precisamente la sostiene; riconoscendo questo, avrà a cuore di confermare l’elezione di Israele nel suo

insieme e non potrà impedirsi di considerare il dovere di sperare per Israele tutto quanto come il suo compito più immediato e specifico. Cosciente e riconoscente per il legame che la unisce ad Israele e della responsabilità che possiede nei suoi confronti, la chiesa sarà felice di contare fra i suoi membri dei cristiani provenienti dal giudaismo; non vorrà essere essa stessa null’altro che Israele che compie il suo destino; è unicamente dalla grazia rivolta verso Israele che intende trarre vita. Se la chiesa attende veramente la conversione d’Israele, non potrà restare indietro; non esiterà a precederlo sul cammino, confessando l’unità del popolo di Dio, l’unità dell’uomo che passa e che viene, come esige la misericordia divina, nella persona di Colui che ha subito la morte e messo in evidenza la vita; per tutti. B. ILLUSTRAZIONE SCRITTURISTICA La questione di XI, 1 («Dico dunque: Dio ha rigettato il suo popolo?») può essere vista come seguito della serie d’interrogazioni costellanti X, 18-191 A coloro che si domandano se il motivo dell’incredulità d’Israele non debba essere cercato nel fatto che i Giudei non possono intendere né comprendere, l’apostolo ha risposto nettamente con un no, che rinvia alla costatazione di X, 16 a e X, 21: sono stati disobbedienti; ma questa costatazione può aprire ad un’altra questione. E ad essa Paolo ha già risposto precedentemente in maniera negativa, data la forma in cui presenta X, 21. Quivi è infatti detto che Dio ha teso le sue mani ogni giorno verso un popolo ribelle e contraddicente. L’idea che Dio abbia fatto questo invano ed abbia cessato d’intervenire, l’idea che la fedeltà divina possa diventare inefficace e venire meno è assolutamente inconcepibile nel quadro del pensiero paolino. Il «non fia mai!» immediato di Rom. XI, 1 ne è la prova. Tuttavia la questione può porsi e perché tutto sia chiaro, è necessario che sia formulata: poiché Israele è stato disobbediente, poiché ha risposto alla fedeltà divina rigettando Gesù Cristo, consegnato ai pagani e crocifisso, non si deve forse pensare che questo popolo è diventato per così dire lui stesso pagano?; non bisogna concludere che si trova rigettato ed escluso, come strumento indegno e nocivo dal disegno di Dio, cosicché tale disegno ne esce modificato?; la disobbedienza patente d’Israele non deve essere attribuita forse ed alla fin fine proprio ad una modifica della volontà divina?; questo popolo non è forse diventato incapace di obbedire, pur non cessando di ascoltare e di comprendere, proprio per il fatto che Dio l’ha smessa con lui, ha finito di esigere da lui un’obbedienza reale e seria, non ha più riservato alcun avvenire ad Israele? Come Paolo giustifica il μὴγένοιτο(«impossibile! non fia mai!») con cui scioglie la questione?

contrariamente a Rom. X, riferendosi direttamente a se stesso: «Io infatti sono israelita, della posterità d’Àbramo, della tribù di Beniamino. Dio non ha (perciò) affatto rifiutato il suo popolo, che ha conosciuto prima (ancora di eleggerlo)» (vv. 1b-2a). Non credo tuttavia che la forza della sua dimostrazione si trovi nella deduzione seguente che resta implicita: in quanto israelita, sono diventato io stesso un cristiano2 ed attesto così che Israele non è stato rigettato; questo è senz’altro vero; però il fatto che nella prova scritturistica che segue sia il profeta Elia (e non qualche pio israelita) a prendere la parola mostra che Paolo riferendosi a se stesso non ha pensato tanto alla sua conversione, quanto piuttosto alla sua funzione di apostolo. Ci pensa, non senza ricordare la dimensione sovrapersonale e tipica della sua conversione (cfr. I Tim. I, 16), nella misura in cui, a differenza di altre conversioni di natura generale, quest’ultima è avvenuta a seguito di un incontro diretto con Gesù Cristo risuscitato. Mi pare che Ströter abbia ragione nell’ammettere che Paolo ha visto nella sua conversione una profezia, un prototipo e un segno della conversione dell’Israele incredulo, che coinciderà con il ritorno di Gesù Cristo, interpretandola, da quel momento come una prova che Dio non ha respinto il suo popolo. Non è un caso che il testo insista sul fatto che l’uomo convertito è un appartenente alla tribù di Beniamino che (secondo Giud. XX, XXI) ha rischiato di essere annientata, un discendente di Saul, il re riprovato eppure eletto. Tuttavia, l’accento di Rom. XI, 1 cade altrove. Che l’apostolato, funzione che consiste nel proclamare il Cristo risorto, sia affidato a lui, Paolo, un israelita, un discendente di Abramo, un beniaminita come tanti altri e che gli altri apostoli siano anch’essi e senza eccezione giudei, ecco la giustificazione «esistenziale» del μὴ γένοιτο dell’apostolo e la sua portata decisiva. Per poter ammettere che Dio abbia respinto il suo popolo Paolo dovrebbe considerare che al di là della sua persona, la sua funzione e la sua missione non avrebbero più alcun senso. Nella misura in cui la sua persona rappresenta la funzione apostolica, Paolo vede in essa proprio il suo popolo, Israele; e lo vede aver parte attiva e non solo passiva nella storia della salvezza, nell’opera del Cristo risuscitato. Non ha forse visto e udito personalmente il Signore, lui l’israelita conscio delle sue origini, il giudeo legato alla Sinagoga, il rabbino pieno di promesse che, al pari dei suoi concittadini ancora inalberati contro la chiesa, si è comportato da nemico dichiarato di Gesù, perfino dopo la crocifissione e la risurrezione, e per di più nel nome del giudaismo, lui che si è lasciato coinvolgere senza riserva

dalla disobbedienza di Israele descritta in Rom. X? Non è forse stato fatto apostolo dei pagani proprio da quel Signore? L’unione che si è compiuta in lui, fra il Giudeo e l’apostolo dei pagani, è la dimostrazione evidente che Dio non ha respinto il suo popolo e che il giorno in cui tende la mano verso una nazione ribelle non è ancora tramontato. Questa unione significa che la chiesa ha fatto il suo ingresso in Israele, in quell’Israele che, per parte sua, non ne voleva sapere di lei. Il vecchio ceppo secco ha ripreso vita grazie a quel nuovo germoglio. Dio ha confermato attraverso la chiesa quello che voleva fare del suo popolo; perciò, considerando quella frazione dell’Israele autentico, si è costretti a dire: grazie alla misericordia di Dio in Gesù Cristo, Israele stesso e in quanto tale non è stato respinto ma salvaguardato e conservato ed è chiaro che non costituisce soltanto una tappa della chiesa, ma la chiesa stessa, il testimone libero e consapevole del compiersi delle promesse divine e colui che riceve la salvezza che, in quel compimento si è incarnata. Si osserverà che sia nella domanda del v. 1 a, sia nella risposta negativa del v. 2 a, Paolo ha utilizzato le affermazioni del Sal. XCIV, 14: «L’Eterno non respingerà il suo popolo, non abbandonerà la sua eredità. Poiché il giudizio sarà conforme alla giustizia e tutti coloro il cui cuore è retto lo approveranno». μὴ γένοιτο si imponeva dunque fin dal v. 1 a: una risposta positiva sarebbe stata in contraddizione diretta con il testo di quel salmo. In conclusione, la prova fornita dall’apostolo col rinvio al fatto che lui, il Beniaminita, è stato investito della funzione apostolica, non è da prendere in assoluto; come tutto ciò che ormai determina l’avvenire d’Israele, ha senso soltanto nel quadro del compimento della profezia di cui questo popolo è oggetto. Fra Israele che Dio ha preconosciuto e Paolo che, secondo Gal. I, 15, è stato messo da parte fin dal seno di sua madre (come Geremia, anche lui beniaminita), c’è la parola della Scrittura che viene a confermare i due fatti; per questa ragione l’apostolo può presentare con tanta sicurezza il suo apostolato come prova della perennità dell’elezione d’Israele. Il seguito mostra che il rifiuto contenuto nella domanda del v. 1 a (cioè il riferimento positivo alla fedeltà di Dio) richiede ancora un’altra giustificazione. I vv. 2b-4 rispondono infatti chiaramente ad una domanda inespressa: l’esistenza di un individuo isolato, ammesso che metta in evidenza l’elezione di Israele a dispetto dell’atteggiamento generale di quel popolo, può in questo caso avere una valore di dimostrazione? La solitudine dell’apostolo non richiama forse la sorte che Israele ha riservato a tutti i suoi profeti e non conferma forse, in definitiva, il rifiuto di Gesù Cristo di cui Paolo è il

messaggero? Paolo stesso non ha forse citato in precedenza (X, 16) il famoso testo di Is. LIII, 1: «Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione?». Non appare forse, lui che condivide la solitudine di Dio stesso, come una prova vivente a sfavore dell’elezione di Israele? Che cosa può essere e che cosa può significare il fatto che in lui coesistano il Giudeo e l’apostolo dei pagani, se non un’eccezione che conferma la regola, secondo la quale Dio ha respinto il suo popolo? Non è escluso che problemi del genere siano stati sollevati già allora negli ambienti paganocristiani. Comunque si sono senz’altro posti più tardi e fino ai nostri giorni. Il problema che Paolo si trova a fronteggiare è quello dell’antisemitismo cristiano. La crocifissione di Gesù Cristo non dimostra in maniera inequivocabile che i Giudei devono essere considerati e trattati come un popolo maledetto? E gli antenati giudei dell’apostolo e della chiesa nel suo insieme non sono forse qualcosa di cui vergognarsi o comunque un fatto senza importanza? Risponde a questo tipo di preoccupazioni il richiamo alla storia di Elia (vv. 2 b-4). La risposta è negativa. Poiché, e questo richiamo lo mette in rilievo, l’esistere, in Israele, di un solo individuo incaricato da Dio e che lo serve fedelmente, prova di fatto che Dio non ha agito invano presso il suo popolo; indica che fino alla venuta del Messia, Dio ha agito con successo presso i pagani ma anche presso i Giudei e che, comunque, Israele è stato e rimane ancora il suo popolo. Il richiamo ad Elia dimostra l’esistenza della chiesa già nello stesso Israele. La solitudine di Elia viene a legittimare quella di Paolo che si riferisce al suo apostolato per dimostrare che Dio non ha respinto il suo popolo. «Non sapete quello che la Scrittura racconta di Elia, quale lamento rivolge a Dio contro Israele: Signore, hanno ucciso i tuoi profeti, hanno capovolto i tuoi altari; sono rimasto solo e tentano di togliermi la vita. Ma quel è la risposta di Dio? Mi sono riservato settemila uomini che non hanno mai adorato il dio Baal». Si tratta di un episodio della storia del regno del Nord che, separandosi dalla casa di Davide, aveva mostrato fin dall’origine e in se stesso che cos’è l’apostasia e che, sotto il regno di Achab e di Gezebele, stava vivendo l’apogeo dell’evoluzione determinata da quell’atto iniziale di disubbidienza. Il lamento di Elia, in quella situazione, è parallelo a quello di Is. LIII, 1 e si vede chiaramente come esso coincida con quello dell’apostolo stesso. La sola cosa che pare acquisita è che, ancora una volta, la regola viene a confermare l’eccezione: il profeta è solo fra il suo popolo che lo attacca e lo perseguita a morte; Dio stesso è dunque respinto e, di conseguenza, l’esclusione di Israele sembra essere decisa. Ma la storia di Elia è istruttiva perché contrappone al

lamento del profeta un «oracolo di Dio» che porta una nota del tutto diversa al momento decisivo, quando Elia si augura la morte e si corica sotto una ginestra, avendo già raggiunto la conclusione a cui la domanda che qui tormenta Paolo ci vorrebbe condurre. Dio risponde così: «Lascerò settemila uomini in Israele, tutti quelli che non hanno piegato il ginocchio dinanzi a Baal e la cui bocca non l’ha baciato» (I Re XIX, 18). Questo oracolo, secondo il contesto, è la conclusione di un discorso di Dio che conferma, nel suo contenuto sostanziale, il giudizio del profeta sul suo popolo. Dio infatti incarica Elia (I Re XIX, 15 ss.) di ungere Hazael quale re di Siria, Jehu quale re di Israele e Eliseo per succedergli in quanto profeta, affinché questi tre personaggi siano lo strumento del giudizio che pesa su Israele. «Accadrà che colui che sfuggirà alla spada di Hazael, sarà fatto morire da Jehu; e colui che sfuggirà alla spada di Jehu, sarà fatto morire da Eliseo». In tal modo il testo spiega con chiarezza che la collera e il castigo di Dio riposano sulla maggioranza del popolo di Israele e, nell’ambito di quella maggioranza, su Israele in quanto tale e nel suo insieme. Ma ecco che menziona anche quei 7000 uomini che Dio si è riservati, che non si sono conformati agli altri e che non hanno preso parte all’apostasia generale; registra dunque in Israele una minoranza che uscirà illesa dal fuoco della collera e del castigo divino. Il profeta non costituisce dunque, come crede, la sola eccezione; non è ad ogni modo solo con Dio, Dio ha avuto cura di dargli dei compagni. Certo, ci si può chiedere che cosa mai rappresentino quei 7000 in confronto a Israele nel suo insieme. Non stanno anche loro a confermare la reiezione di quel popolo? Ma, leggendo il seguito, ci si accorge che quella minoranza la cui presenza deve essere una fonte di coraggio per il profeta, esiste, ed è notevole, per l’insieme di Israele. Si tratta, in effetti, di 7000 uomini che costituiscono «tutto il popolo, tutti i figli di Israele», nella guerra che scoppierà fra Achab e ben Hadad di Siria (I Re XX, 15). E, in epoca successiva (Il Re XXIV, 16), gli uomini abili al servizio militare che Nabuccodonosor deporta da Gerusalemme, saranno 7000. La minoranza dei 7000, citata da I Re XIX, 18, non costituisce dunque una minoranza qualunque: quella minoranza, e non la maggioranza infedele, rappresenta Israele in quanto tale. Il fatto che Dio la «lascia sussistere» dimostra che egli tiene ad Israele, che non ha respinto il suo popolo. Elia stesso, che Dio consola rivelandogli l’esistenza di quei 7000 (proprio mentre gli annuncia il giudizio sulla maggioranza del popolo) non è solo: nel portare avanti la sua missione è circondato dalla loro presenza invisibile. Perfino nella sua solitudine, sta davanti a Dio per Israele nel suo insieme, per Israele in

quanto tale. E nemmeno Paolo è solo: non è un individuo, una persona privata senza forza dimostrativa. Può e deve riferirsi alla sua esistenza di Giudeo e di missionario dei pagani, come ad una valida prova che Dio non ha respinto il suo popolo. Poiché Gesù Cristo risuscitato ha fatto di lui, nemico e persecutore, il suo messaggero presso i pagani, la fedeltà di Dio verso l’insieme di Israele che ha crocifisso il suo Signore e che anche dopo la risurrezione lo ha misconosciuto e respinto, è diventata evidente. Tuttavia l’allusione ai 7000 uomini della storia di Elia spinge Paolo più lontano. Per ora non si riferisce più al suo specifico apostolato (ci tornerà al v. 13); sa che anche lui, in quanto apostolo, è ancor oggi invisibilmente circondato da quei 7000 uomini che non hanno adorato Baal (in quanto la profezia si compie sicuramente anche nel presente). E continua così: «Come allora, anche nel presente sussiste un “resto”, secondo l’elezione della grazia. E se è per grazia, non è più per opere; altrimenti la grazia non sarebbe più una grazia» (vv. 5-6). Come si vede, Paolo non si limita ad applicare ai 7000 del tempo presente l’oracolo dell’Antico Testamento. Certo fa anche questo: non pensa soltanto agli altri apostoli che come lui provengono da Israele e che ne fanno ancora parte; si riferisce pure ai Giudei, di Gerusalemme chiamati alla fede dalla predicazione apostolica dentro la chiesa: pensa ai 3000 della Pentecoste (At. II, 41), diventati 5000 (At. IV, 4) e di cui si trascura forse volutamente di stimare la crescita successiva (At. V, 14). Pensa soprattutto anche, ed è ovvio, a tutti quei Giudei conosciuti o sconosciuti ai quali non ha annunciato invano la Parola di Dio nella Sinagoga. Si tratta del compimento della profezia ἐν τῷ νῠν ϰαιρῷ (nel presente messianico). Ma la parola dell’apostolo è anzitutto, e aldilà di quella applicazione, una spiegazione dell’oracolo di Dio e in particolare del termine ϰατέλιπνο sottolineato al v. 4 dell’aggiunta di ἐμαυτῷ. L’accento verte chiaramente su quel che Dio ha voluto fare ed ha compiuto per mezzo di quei 7000 uomini, in qualche modo per se stesso, nel suo campo. L’immagine che il testo del libro dei Re evoca per l’apostolo non è quella dei 7000 che hanno rifiutato di adorare Baal, a cui Dio avrebbe risparmiato il giudizio per ricompensarli della loro fermezza. È invece per se stesso, in vista del suo piano, che il Dio di Israele ha voluto veder sussistere cuei 7000 uomini e li ha messi da parte; ed è successivamente (conseguentemente a quell’esser messi da parte, diremmo) che hanno potuto essere incrollabili. Se già nel passato è esistita una simile minoranza, è a motivo della decisione e della determinazione divina; ed è pure a motivo di quella decisione

e di quella determinazione che la minoranza rappresenta l’insieme d’Israele davanti a Dio e si trova a testimoniare la perennità della sua elezione. Gli eletti in seno ad Israele attestano sempre l’elezione d’Israele medesimo. Per cuesto motivo si fa strada ormai un nuovo concetto per designare i 7000 uomini della storia di Elia e per indicare il loro significato nel presente: si tratta del concetto di «resto» (λεῖμμα ϰατ’ ἐϰλογὴν χάριτος). Si vede subito la difficoltà logica che si prospetta: l’espressione «elezione per grazia» non sembra potersi applicare ad un «resto» del popolo, eletto senz’altro nella sua totalità dalla sola grazia. Parimenti non sembra, a prima vista, che se quel «resto» può sussistere, lo debba ad una «elezione particolare della grazia». L’idea di un «resto» del popolo eletto fa piuttosto pensare ad una minoranza che, grazie ad un comportamento conforme all’elezione dell’insieme, è diventata degna di sussistere, cioè di sfuggire al giudizio che colpisce la maggioranza. Ma Paolo non ha in effetti mai pensato ad una dignità di quel genere. Dei Giudei contemporanei che credono in Cristo e, indirettamente, dei 7000 credenti del tempo di Elia, afferma al contrario che sono stati chiamati a formare quel «resto» secondo l’elezione della grazia, e non in virtù della loro dignità. Chiaramente intende dire che l’elezione d’Israele in quanto tale è già una grazia e che la grazia di Dio nei confronti di quel popolo è consistita fin dall’inizio nel suo atto di elezione. Ma la determinazione fondamentale dell’esistenza d’Israele non rimane nel vago, al di là del tempo: condiziona in maniera determinante la vita di quel popolo nel quadro del tempo. Il rapporto di Dio con Israele presenta sempre e di nuovo il carattere di una scelta che è essa stessa una grazia, di una grazia che si compie in una scelta. Se quella relazione prende ogni volta una forma concreta, nel senso che Dio (fatta eccezione per i suoi servi e inviati straordinari quali Mosè ed Elia) «si riserva» sempre 7000 uomini in Israele per rappresentare quel popolo, è chiaro che ci troviamo di fronte ad una ripetizione e ad una conferma della stessa elezione gratuita che ha fondato Israele nella sua esistenza e nel suo insieme. Quella minoranza non è anzitutto un «resto» costituito da gente fedele, obbediente e stabile, quantunque quelle persone si distinguano ogni volta per la loro fedeltà, obbedienza e fermezza. Costituisce anzitutto il resto di coloro che Dio stesso ha messo da parte con la sua autorità e nella sua libera grazia, per confermare l’elezione d’Israele. Se Elia e i 7000, se Paolo e gli altri Giudei credenti hanno potuto «sussistere», non lo devono alle loro qualità e alle loro virtù: non hanno alcun diritto da far valere qui; nessuna opera buona, nessun merito, nessuna prodezza riuscirebbe a renderli degni di costituire quel

«resto». Se lo possono essere e lo sono, è grazie all’elezione iniziale di Israele quale solo Dio l’ha voluta e decisa, è perché, in una parola, oggi come ieri Dio intende confermare che è il Dio d’Israele, il Dio che ha scelto Israele in quanto tale e che agisce di conseguenza. Se dal punto di vista di Dio nulla è perduto, malgrado la colpa e la disobbedienza d’Israele, se la sua elezione sussiste in quanto ci sarà sempre davanti a lui quel «resto» che rappresenta l’insieme, non è perché l’apostasia d’Israele non sarebbe in fondo così grave o ancora perché, in certi casi, quel popolo sarebbe in grado di presentare opere di giustizia grazie alle quali si potrebbe assicurare la fedeltà divina. È chiaro che né la condotta valorosa dei 7000, né la fedeltà di Elia, né la fede dei Giudei contemporanei che si convertono, né la sua fede di apostolo, né la sua obbedienza personale costituiscono per Paolo opere di quel tipo, atte a giustificare i loro autori e ad impegnare Dio stesso. Per questa ragione le «azioni» che necessariamente i 7000 «valorosi» saranno chiamati a compiere non potrebbero, in quanto frutti dell’elezione gratuita, dar luogo ad una pretesa umana che renderebbe la grazia inutile. Se Dio serba per sé un «resto» in Israele e si lega in tal modo fermamente a quel popolo, questo non vuol dire che avrebbe trovato presso una minoranza di brava gente una dignità tale da farlo legare a loro, altrimenti che per sua scelta. Se la grazia di Dio rivolta a quel resto e, in lui e attraverso di lui, all’insieme d’Israele, si riferisse ai meriti dei 7000 valorosi, non sarebbe grazia. L’elemento più prezioso di cui quel resto e, con lui ed in lui, tutto Israele può rallegrarsi, sarebbe annullato: alludo a quel favore non meritato, incondizionato, garantito dall’onnipotenza e dalla bontàdi Dio, a quella pura misericordia divina che, nella sua stessa purezza, sviluppa tutta la sua forza. In questo caso Dio non sarebbe quello che è apparso ad Abramo: il Dio che dà la vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che non sono. Se rispondesse ai favori umani con i suoi favori, non sarebbe più il Dio vivente, il Dio che esiste solo attraverso se stesso e che, per questa ragione, è la consolazione e la speranza d’Israele. Sarebbe anche vana la promessa fatta a Israele (Rom. IV, 14) e priva di contenuto la fede che vi si riferisce, poiché il contenuto della promessa è la rivelazione della giustizia di Dio per mezzo di colui che deve sorgere da Israele e la fede è l’attesa fiduciosa e audace di quel compimento. Se la grazia di Dio si dovesse riferire alle opere dei suoi eletti non sarebbe una grazia, ma il contrario di una grazia; rimarrebbe infatti determinata e limitata dagli atti della giustizia umana. Che cos’è che dà tutto il suo prezzo alla fede

degli eletti, che cosa consente loro di essere sicuri di se stessi e di trionfare, se non il fatto che il loro Dio è il Dio vivente, che esiste di per sé e che la sua grazia rivolta loro è veramente senza condizioni e senza limiti? Non è, in breve, l’esatto ripetersi per loro dell’avvenimento che si era prodotto fra Dio e Abramo, il grande miracolo dell’alleanza con il quale Dio inaugura i suoi rapporti col suo popolo? Perciò gli eletti di Dio in Israele esistono per l’insieme d’Israele; in loro, Dio si lega a quel popolo in quanto tale e rimane fedele a tutto quel che gli ha promesso. I 7000 di cui parla la Scrittura mettono in evidenza in modo inequivocabile la sostanza dell’elezione per mezzo della grazia e, di conseguenza, quel che significano la consolazione e la speranza d’Israele; mostrano la vera natura di quel popolo da cui sorgerà miracolasamente colui che è contemporaneamente il Figlio di Dio e il Figlio dell’uomo; attestano l’atto per mezzo del quale Dio viene a compiere in modo così perfetto la promessa e a colmare l’attesa della fede. Quelle persone sarebbero le ultime ad immaginare che ci si possa servire di loro per dimostrare che Israele sarebbe in grado di compiere opere che lo giustifichino e che obbligherebbero Dio a rimanergli fedele. Non è questo il punto. È in virtù della misericordia di Dio che c’è sempre di nuovo «un Israele» in Israele: cioè un resto che attesta e conferma l’elezione di quel popolo attraverso la sua stessa elezione e, diciamolo, anche attraverso il suo operare, il suo «valore», attraverso quello che fa e attraverso quello che non fa, alla maniera dei 7000 di un tempo e di oggi, di un Elia o di un Paolo. Quel resto però non agisce in tal modo perché è o rimane Israele, ma perché esso è già la Chiesa in Israele, perché costituisce già l’opera della misericordia creatrice di Dio, misericordia che nulla può mettere in scacco e a cui né la disobbedienza né la colpa d’Israele potrebbero fissare dei limiti. Quel resto non attesta affatto la propria dignità, né quella d’Israele; nella sua stessa indegnità, che è anche quella di tutto Israele, attesta la gloria divina e l’opera miracolosa attraverso la quale Dio compie la sua promessa. Per Paolo non c’è alcun dubbio che la forza della dimostrazione che intende offrire ricordando la storia di Elia onde convincere i suoi lettori che Dio non ha respinto il suo popolo, sta essenzialmente nella spiegazione che dà, ai vv. 5-6, del ϰατέλιπον ἐμαυτῷ del v. 4. Dal momento che, nella sua libera grazia, senza tener conto delle opere o della dignità umane, Dio si è riservato un resto sia nel passato che nel presente e dal momento che Paolo stesso (il Giudeo e l’apostolo dei pagani, come ha ricordato), indegno di essere chiamato apostolo perché ha perseguitato la chiesa di Dio, è quello che è per la sola

grazia di Dio (I Cor. XV, 9 ss.), per quella stessa ragione, quel resto è la prova sicura che Dio non ha respinto il suo popolo. Lo è in quanto già costituisce la chiesa in Israele, preesistente nei 7000 di un tempo ed esistente oggi nella comunità ugualmente proveniente dai Giudei e di cui lui, Paolo, il persecutore, è stato fatto l’apostolo. Il resto d’Israele dimostra che Dio non ha respinto il suo popolo, poiché attesta l’operà miracolosa del Figlio di Dio e del Figlio dell’uomo sorto da Israele, partecipando così anch’esso a quest’opera. Dal momento in cui un tal miracolo diviene possibile, perché reso reale dalla misericordia divina, è dimostrato che quella misericordia è ugualmente rivolta verso Israele; di conseguenza il problema antisemitico del v. 1 proviene dall’incredulità e colui che lo formula deve essere insistentemente chiamato al pentimento. Attestando l’elezione attraverso la grazia divina (incondizionata secondo il v. 6), la storia di Elia e soprattutto, su questo sfondo, la storia di Paolo parlano della misericordia divina che si oppone vittoriosamente alla disobbedienza e alla colpa d’Israele, testimoniando in tal modo la costanza di Dio nella scelta di questo popolo. Ecco quanto agli occhi di Paolo conferisce forza all’argomentazione e la fine del capoverso che sorprende per i suoi dettagli crudeli (vv. 7-10), lo indica molto bene. L’essenziale è condensato nel v. 7, ma la prova scritturale data nei vv. 8-10 a favore dell’affermazione del v. 7 «in particolare, non poteva mancare.Τί οὖν non pone una nuova domanda ma significa: «e allora?», qual è il senso decisivo di quel che precede e che cosa ne deriva? La risposta ricorda dapprima «quel che Israele cerca» (cfr. IX, 31 e X, 3): si sforza di compiere la legge della giustizia provando a stabilire la propria giustizia. Considera la legge ricevuta, che istituisce la vita sotto la promessa, come un’esigenza e una possibilità che lo invita a rendersi degno della sua elezione e a provocare in tal modo il compiersi della promessa stessa, facendo scendere il Cristo dal cielo o facendolo risalire dall’abisso. Vorrebbe confermare la sua elezione con le sue forze, con la serietà ed il valore delle sue opere. Vorrebbe essere quello che è, in virtù di se stesso. Ma tutto quello, «non lo ha ottenuto». Il cap. X ha mostrato come Israele, seguendo quella via, si è reso colpevole della trasgressione della legge e ha messo in dubbio la sua elezione; ha disobbedito rifiutando di credere e di confessare che tutte le promesse sono state compiute dal Messia che Dio gli manda e che è il solo contenuto, il kelal della legge. Paolo non ci torna. In compenso, compare qui un nuovo elemento in riferimento al cap. X: «Ma l’elezione lo ha ottenuto». Nel passo di Rom. IX, 30 era detto: i pagani che non cercavano la giustizia, hanno ricevuto la giustizia,

quella della fede; e in Rom. X, 20: Dio si è lasciato trovare da quelli che non lo cercavano e si è manifestato a quelli che non lo invocavano. Per Israele, l’ultima parola pareva essere la costatazione della sua colpa, derivante dal suo zelo senza discernimento per Dio. Ma in base alla prova stabilita al cap. XI, 1-6 e secondo la quale Dio non ha respinto il suo popolo, né questo, né l’asserzione del v. 7 a possono rappresentare l’ultima parola. Perciò si inserisce il v. 7b. Secondo i vv. 1-6, alla costatazione del cap. X concernente l’inattesa conversione dei pagani, corrisponde il fatto che l’elezione ha ottenuto in Israele anche quel che Israele cercava, senza trovarlo. Il concetto di ἐϰλογή indica qui i 7000 di un tempo e di oggi, o ancora il λεἰμμα ϰατ’ ἐϰλογὴν χάριτος(v. 5) ed è dunque una abbreviazione. In fondo, non è privo di importanza che Paolo abbia scelto proprio questa abbreviazione. Chi ha ottenuto ciò che Israele cercava senza ottenerlo? Nessuno, né il «resto» né i 7000 valorosi in quanto tali, ma l’elezione, ἐϰλογή χάριτος, di cui è questione al v. 5; è dunque Dio stesso che l’ha ottenuto per sua volontà e per sua iniziativa e solo in seguito tutti gli altri, grazie a quell’elezione che li ha creati e costituiti, riuniti, protetti e mantenuti in vita. L’abbreviazione utilizzata dall’apostolo esprime molto chiaramente l’idea che né la dignità né la gloria dell’uomo sono la causa o la conseguenza di quell’acquisizione. Si può dire che il «resto» in Israele ha ottenuto quel che Israele cercava senza ottenerlo; questo significa, secondo le indicazioni del cap. X relative a quel che i pagani hanno ottenuto senza cercarlo: quel «resto» ha ottenuto la giustizia dinanzi a Dio, cioè la giustizia accordata all’uomo che crede. Ha ottenuto di essere «accolto» da Dio e che Dio gli fosse rivelato. In riferimento al contenuto del cap. X relativo alla ricerca d’Israele, significa anche che quel resto ha ottenuto di essere il vero Israele; è stato ed è quello che Israele si è sforzato invano di essere: l’«Israele di Dio» (Gal. VI, 16), il «soldato di Dio» che è fedele alla sua elezione e al nome che ha ricevuto. In questo resto, l’elezione d’Israele da parte di Dio ha trovato il suo riflesso umano. In esso si vede che l’elezione di Dio non è stata semplicemente trasmessa ai pagani e Israele, suo oggetto iniziale, messo da parte. No, l’esistenza dei 7000 uomini conferma l’elezione di Dio in quanto elezione d’Israele; permette di riconoscere nell’appello dei pagani la rivelazione della vera dimensione dell’elezione D’Israele. In altri termini: Israele ottiene ragione attraverso quei 7000. In loro risplendono la vocazione e la situazione unica di Israele, il suo esser messo da parte fra tutti i popoli della terra, che è fondamentale»

Il fatto di essere Giudeo costituisce appunto, a motivo di quel resto, la ragione di una gioia necessaria e di una giusta fierezza: forse più ancora dopo che prima della venuta di Cristo. Poiché il resto di cui parla l’apostolo attesta che l’elezione di Dio è anche l’elezione di Israele o piuttosto: che esso rappresentava e rappresenta ancora in fondo e anzitutto l’elezione d’Israele, la sua elezione in vista della chiesa. La schiera degli eletti, o più esattamente la scelta da parte della grazia di Dio, raggiunge lo scopo che Israele nel suo insieme ha perseguito invano. Gli eletti lo raggiungono allo stesso modo dei pagani, secondo il cap. X: come il popolo che è stato trovato senza aver cercato, a cui Dio è stato rivelato senza che esso lo abbia richiesto. La sostanza di quell’evento, di quel guadagno non è dunque affatto il successo dell’uomo che desidera e che corre, ma unicamente il trionfo della misericordia divina. Non è Israele che è venuto alla chiesa, ma è la chiesa che è venuta a Israele. Non è Israele stesso, ma è Dio che, nel resto d’Israele, ha fatto di lui quello che è. Ogni mezzo per raggiungere quello scopo, all’infuori dell’opera e della parola della grazia, non potrebbe essere tenuto in conto. Data per scontata la sola iniziativa divina, i 7000 sono la prova che Dio non ha respinto il suo popolo. Per Paolo, tutto è legato alla continuità che esiste fra Israele e la chiesa ed alla realtà rappresentata dal resto di Israele, cioè all’esclusività della misericordia che crea e che mantiene quella continuità. Aggiunge per contrasto: «Mentre gli altri sono stati induriti» (v. 7 c), fondandosi (vv. 8-10) su quel che è scritto di quell’indurimento d’Israele voluto da Dio. Il seguito (vv. 11 ss.) ci mostra quel che intende con l’indurimento dei λοιποί. Paolo considera che quell’indurimento è in relazione con la storia della salvezza che si compie all’interno e per mezzo del popolo eletto d’Israele. Quella vicenda non è interrotta da cuanto accade ai λοιποί; continua a svolgersi e implica pure, in quanto storia della salvezza, la terribile possibilità di rimanere storia della salvezza anche nel destino funesto di quegli «altri». Sono inciampati a causa del loro indurimento e così (v. 115) la salvezza è diventata accessibile ai pagani. Questo per eccitare quegli «altri» ad una salutare gelosia, affinché (v. 12 ss.) attraverso il loro ritorno irrompa la gloria finale e completa di Dio, gloria di là da venire per i pagani e per tutta la chiesa. Ed i loro passi falsi, l’inciampare connesso con il loro indurimento, non significano affatto (secondo il v. 12), la loro caduta, né che Dio li avrebbe lasciati cadere e nemmeno che non sarebbero stati anche loro l’Israele eletto o che avrebbero smesso di esserlo. Ecco quanto dobbiamo anzitutto considerare per poter comprendere i vv. 7-10.

Nel leggerli, l’indurimento d’Israele, considerato in sé, non è ancora chiaramente percepibile in questa prospettiva. In relazione al «resto» è detto: hanno ottenuto la giustizia di Dio perché la grazia e la chiesa sono venute verso di loro; pertanto hanno già potuto essi stessi essere la chiesa e, in tal modo, un Israele che risponde alla sua elezione; ma a ciò si oppone, dura e definitiva, la costatazione che gli «altri», la schiacciante maggioranza degli uomini israeliti si sono induriti, sono rimasti sordi a tutte le parcle e a tutti i benefici di Dio, ed anche questo doveva contribuire, secondo la volontà divina, a perderli (come per il Faraone: IX, 17). È proprio questo il significato del termine «indurimento» e le citazioni dell’Antico Testamento (vv. 8-10) danno dettagliatamente la stessa interpretazione. La domanda del v. 11 non pare dunque inopportuna: data quella maggioranza indurita, l’elezione di Israele non appare forse come una realtà caduca, per lo meno per quella maggioranza? Non bisognerebbe dire che Dio ha respinto il suo popolo a favore della chiesa? Anche se i 7000, in Israele, appartengono alla chiesa, non dobbiamo forse dire di quel popolo quel che si deve dire della sua maggioranza: Dio l’ha respinto in quanto tale? Eppure le parole μὴ γένοιτο, con le quali Paolo refuta ancora una volta al v. 11 la conclusione dei vv. 7-10, sono già motivate proprio in quei versetti: con i vv. 5-6, e facendo loro immediato seguito, essi mirano a provare che è l’elezione gratuita di Dio ad aver condotto un resto di Israele alla chiesa e dunque alla realizzazione dell’elezione. Lo dimostrano coll’indicare quel che Dio, nella sua libertà, ha fatto a tutti gli altri in Israele. Che Israele non abbia alcun merito nella sua elezione, che la sola misericordia di Dio renda possibile e necessaria l’esistenza del «resto» è evidente, poiché Dio può anche respingere degli individui in Israele. Proprio quella libertà che qui gli consente di accordare una partecipazione alla realizzazione dell’elezione d’Israele, gli permette di rifiutarla altrove. Può anche chiudere l’accesso alla chiesa, come infatti è capitato alla maggioranza degli Israeliti. Sullo sfondo della severità di Dio verso coloro che si trovano a far parte della maggioranza, prende corpo la verità del v. 6: la sua grazia è proprio una grazia. E ciò mette in rilievo ancor più la consolazione e la speranza, la ragion d’essere e la certezza ultima dell’elezione d’Israele, popolo cui anch’essi appartengono. Nulla può essere più decisivo per loro e per il loro avvenire. L’opposizione fra gli eletti e gli induriti in seno al popolo di Dio fa sparire le ultime tracce dell’idea secondo la quale i primi dovrebbero a se stessi la loro elezione; tanto più chiaramente mostra in che consiste la libera grazia ed illumina a priori le tenebre

dell’indurimento. Le persone che si induriscono non sono forse proprietà del Dio che sceglie a motivo della sua grazia e non delle opere umane? Dio non è forse, anche nei loro confronti, anche quando li indurisce, il Dio di Israele? L’esistenza degli eletti prova che Dio non ha respinto il suo popolo, poiché è il Dio misericordioso. Soltanto un resto, soltanto una scelta in seno al popolo eletto lo poteva indicare. Quel che Dio rivela in tal modo, e che non può che rivelare in tal modo, non è forse la verità dell’elezione di Israele? In che maniera quella verità non giova anche a quelli che devono, col loro indurimento, metterla in evidenza? Qui ancora Paolo si riferisce, a proposito dei λοιποί (v. 7c), alla Scrittura nel suo insieme: Isaia, Mosè, Davide. Questo dà più peso alla costatazione che Dio ha indurito la maggioranza d’Israele, che l’esistenza di quella maggioranza, nella contraddizione e nell’opposizione, è opera sua, come quella dei 7000. Ancora una volta il contrasto, che Paolo segnala riferendosi all’Antico Testamento, dimostra che la grazia è proprio grazia. Paolo però non cita la Scrittura per prenderle a prestito qualche formula particolarmente adatta ad esprimere le sue idee personali e a confermare le sue tesi, così come non si potrebbe pretendere, per provare che Dio non ha respinto il suo popolo, che basti citare questi passi dell’Antico Testamento. Se Paolo lo fa, è che per lui tutto l’Antico Testamento predice il tempo della salvezza inaugurato da Gesù Cristo e, in particolare, i rapporti fra Israele e la Chiesa; la Scrittura infatti non si limita a fornirgli la spiegazione dell’esistenza dei 7000 fra i quali egli si annovera, ma gli apre anche gli occhi sugli «altri», su coloro che costituiscono la Sinagoga incredula. È proprio quanto intende attestare al v. 7 c: Dio non ha respinto il suo popolo. La Scrittura si contraddirebbe se, parlando dell’indurimento operato da Dio, passasse di colpo a lato del Sal. XCIV, 14. Le affermazioni relative all’indurimento non confermano forse, a modo loro, che Dio non ha respinto il suo popolo? Non è il caso di ricordarle? Infatti, dopo quel che è stato detto dell’elezione dei 7000, rimane aperto il problema degli altri: quella maggioranza di persone che, in Israele, restano fuori. Che ne è di coloro i quali non sono che rappresentati dai 7000? Qual è la loro posizione e il loro ruolo? Che fine fanno? Al v. 7 c, Paolo stesso aveva risposto con semplicità: «… mentre gli altri sono stati induriti». L’apostolo però non vuole che si dia di quell’affermazione un’interpretazione divergente dal contesto scritturale. La Scrittura, in quanto profezia di Cristo e del suo tempo, l’illumina e l’interpreta; ci impedisce di vedervi un’asserzione che sarebbe in contraddizione con il v. 1 o con il Sal. XCIV, 14. Così rischiarata,

l’affermazione dell’apostolo dimostra anch’essa che Dio non ha respinto il suo popolo; e ciò vale pure per gli induriti cui si riferisce. In definitiva ci si sbaglierebbe di molto se si pensasse che i vv. 7-10, presi a sé, contraddirebbero in qualche modo tutto l’inizio, che pure è così chiaro, del cap. XI, confermato dal μὴ γένοιτο del v. 11 e dalle dichiarazioni successive. In definitiva questi versetti sono soltanto una parafrasi di Rom. IX, 32 ss.: Israele ha inciampato contro la pietra posta in Sion. Ne sono una conferma. Ne sottolineano un altro aspetto: la gente squalificata di cui parla il passo di Rom. IX, 32, accecata e sorda, è caduta in una trappola, le è stata riservata un’occasione di caduta ed una retribuzione. I versetti in questione confermano che la pietra di salvezza è diventata una pietra di inciampo. Ma sono ancora più chiari perché affermano che tale era la volontà di Dio: «Dio ha dato loro uno spirito insensibile» (v. 8). Una preghiera di Davide, l’antenatore di Gesù Cristo, contro i suoi nemici si trasforma in una condanna irrevocabile pronunciata contro gli «altri» in Israele. Ma non bisogna dimenticare che, secondo Rom. IX, 31 ss. e l’insieme del cap. X, la Parola di Dio è e rimane pronunciata oggettivamente anche fra loro e che la «tavola» imbandita in mezzo a loro è il segno e la somma di tutti i benefici divini. Il loro indurimento non può mai essere altro che una prova della divinità del Dio d’Israele. Sano e rimangono affidati a lui. L’eventualità di un abbandono da parte di Dio, di cui parla:1 v. 11 a, è esclusa. Non vi accennano i vv. 7-10. Il fatto stesso che Dio si occupi di quegli «altri» in modo così duro dimostra che non può fare a meno di occuparsene. Che è successo? Il v. 8 è un riassunto di Is. XXIX, 10 e di Deut. XXIX, 4. La parola relativa all’assopimento si trova nel seguente contesto: «Stupitevi e meravigliatevi, chiudete gli occhi e diventate ciechi. Sono ubriachi, ma non di vino. Barcollano, ma non per effetto di forti alcolici. Poiché l’Eterno ha sparso su voi uno spirito di torpore. Ha chiuso i vostri occhi (i profeti), ha velato le vostre teste (i veggenti). Tutta la rivelazione è per voi simile alle parole di un libro sigillato che viene consegnato ad un uomo che sa leggere, dicendogli: Leggi! e che risponde: Non posso, poiché è sigillato; o come un libro che si dà ad un uomo che non sa leggere dicendo: Leggi! e che risponde: Non so leggere» (Is. XXIX, 9-12). Si vede chiaramente come tutto è preparato per quegli «altri» di cui parla il v. 7 c: il libro, i profeti, i veggenti, le profezie e la loro rivelazione e come tutto questo sia chiuso, velato, sigillato per loro e non importa se sono intelligenti o stupidi, se sanno leggere o no. Il fatto è che non sono pronti a ricevere quel

che è preparato per loro, secondo la volontà e la decisione di Yahvé. È Yahvé che ha rifiutato loro quel favore immergendoli nel torpore. Ma bisogna anche vedere il contesto dell’altra parola menzionata al v. 8: «Mosè convocò tutto Israele e disse loro: Avete visto tutto quel che l’Eterno ha fatto sotto i vostri occhi, nel paese d’Egitto, a Faraone, a tutti i suoi servi e a tutto il suo paese, le grandi prove che i tuoi occhi hanno visto, i suoi miracoli e i suoi grandi prodigi. Ma fino a quel giorno, l’Eterno non vi ha dato un cuore per capire, degli occhi per vedere, delle orecchie per udire. Ti ho condotto per quarant’anni nel deserto; i tuoi vestiti non si sono logorati su di te, e la tua scarpa non si è consumata al tuo piede» (Deut. XXIX, 2-5). C’è di nuovo un’opposizione fra la realtà oggettiva (la fedeltà e la sollecitudine di Yahvé verso Israele) e la realtà soggettiva (il cuore per comprendere, gli occhi per vedere, le orecchie per udire, che mancano a Israele perché Dio glieli ha rifiutati). «Fino a quel giorno, l’Eterno non vi ha dato un cuore per comprendere». Accentuando quest’ultima parola, Paolo non vuol sicuramente dire che sarà sempre così; poiché la relazione fra profezia e compimento non implica che quel che è stato una volta debba continuare «fino a quel giorno». Con quest’ultima espressione, Paolo designa il limite, messo in rilievo nella profezia, del modo di agire di Dio, che non sarà la sua ultima parola nel compimento. La realtà oggettiva e la realtà soggettiva non si possono indefinitamente equilibrare, in quanto provengono da Dio. Infine l’apostolo cita le pesanti parole del Sal. LXIX, 23-24 (vv. 9-10), che ci insegnano che la sollecitudine di Dio è diventata e doveva diventare per alcuni un trabocchetto, un’occasione di caduta e di punizione; ma non dimentichiamo che quel salmo nel suo insieme è un appello al soccorso, lanciato da Israele in difficoltà, che termina con queste parole: «Gli infelici lo vedono e si rallegrano; voi che cercate Dio, il vostro cuore viva! Poiché l’Eterno ascolta i poveri, non disprezza i suoi prigionieri. I deli e la terra lo celebrino, i mari e tutto quello che muove in essi! Poiché Dio salverà Sion e costruirà le città di Giuda; la gente vi si stabilirà e ne prenderà possesso; i discendenti dei suoi servi ne faranno la loro eredità, e coloro che amano il suo nome vi abiteranno» (Sal. LXIX, 33-36). Tutti questi testi affermano dunque che Dìo può indurire e che lo fa. Ma lo affermano riferendosi all’evidenza del suo operare, al caso in cui illumina anziché indurire, in cui si dà a conoscere anziché nascondersi. Infatti, pur sottolineando la gravità dell’indurimento, evidenziano contemporaneamente il carattere provvisorio di quest’elargizione divina.

Anche se la profezia li designa come tali, non è ancora stata detta l’ultima parola sugli induriti. Perciò, riferendosi alla profezia, Paolo stesso non pronuncia una parola definitiva su quelli che chiama gli «altri». Come quella del v. 1, la domanda seguente cui risponde il v. 11, sembra aver preoccupato i paganocristiani delle comunità paoline: «È per cadere che sono inciampati?». I Giudei sono stati induriti e la tavola stessa della grazia, apparecchiata fra loro, è diventata per loro un’occasione di caduta (vv. 9-10), per il semplice fatto che era nelle intenzioni di Dio di escluderli dall’elezione? Μὴ γένοιτο, risponde ancora una volta l’apostolo, rifiutando un modo di ragionare che non solo gli pare illogico, ma assurdo e sacrilego. Non vuole assolutamente che quanto affermato prima sia interpretato nel senso della domanda del v. 11. Abbiamo già indicato il peso di quel μὴ γένοιτο a proposito del v. 1. Dio non ha respinto il suo popolo: questa verità è superiore al fatto che alcuni sono stati induriti. Paolo ne trova conferma nei passi apparentemente così sconvolgenti dell’Antico Testamento che ha citato. Mostra, coll’aiuto di un ragionamento doppiamente dialettico, quel che Dio intendeva fare di coloro che ha indurito e quali sono state le conseguenze inevitabili di quell’intenzione divina: è attraverso la caduta di questi pochi che la salvezza doveva giungere ai pagani e proprio quell’avvenimento ha avuto luogo per «muovere a gelosia» gli appartenenti ad Israele caduti nell’indifferenza. In definitiva, sono questi ultimi che hanno portato la salvezza ai pagani. Consegnando il loro Messia ai pagani che lo uccideranno, i Giudei sono stati, insieme a loro, gli strumenti dell’opera della riconciliazione divina compiuta dalla morte di Gesù. Giudei essi stessi, anche gli Israeliti caduti nell’indurimento beneficiano del frutto di quell’opera: sono stati resi partecipi della salvezza per grazia e del compimento delle promesse di Israele. Non sono i 7000 eletti, ma gente indurita e accecata come Giuda Iscariota, ad avere permesso che cadesse il muro di separazione fra Israele e il mondo non israelita e che per tal via fosse messa in risalto la solidarietà dei Giudei e dei pagani nel peccato e nella grazia. Respinto dai Giudei che lo consegnano ai pagani, Gesù appare ormai come il Cristo di Israele ma anche come il Salvatore del mondo. Nel libro degli Atti (XIII, 46; XVIII, 6; XXVIII, 28) Paolo motiva la sua missione presso i pagani col rifiuto che incontra presso i Giudei e se insiste su questo fatto, è perché vi vede un parallelo ed un’illustrazione della vicenda di Gesù Cristo. I pagano-cristiani devono capire che quanto rimproverano ai Giudei increduli, cioè il loro comportamento nei confronti di Gesù, che si

ripete nel loro atteggiamento nei confronti di Paolo e della comunità cristiana è diventato (grazie ad un miracoloso compimento di Is. II, 2-4; XXV, 6; Ger. III, 17; Zacc. II, 11; VIII, 20 ss.) il presupposto della loro salvezza. Se non fosse stato consegnato ai pagani dai Giudei, Gesù non sarebbe diventato il Salvatore del mondo e se non fosse stato respinto dal suo popolo, Paolo non sarebbe diventato l’apostolo delle nazioni. Dio aveva bisogno dei Giudei proprio in favore dei pagani. Aveva bisogno della loro caduta ed è per provocare tale caduta che li ha resi insensibili. Perciò quest’insensibilità fa parte della storia stessa della salvezza in modo decisivo, proprio in favore dei pagano-cristiani. Come sostiene Ströter con ragione, anche nell’indurimento degli Ebrei c’è un riflesso dell’amore di Dio che non ha risparmiato suo figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi. I pagano-cristiani non hanno dunque da domandarsi se Dio non ha voluto lasciare che i Giudei induriti si perdessero. Non è chiaro che sono nelle sue mani? Ma l’apostolo cambia argomento nella stessa frase. Non si limita a vedere nella caduta degli Ebrei, che renda la salvezza accessibile ai pagani, lo scopo supremo della volontà di Dio; nella proposizione finale εἰς τò παραζηλῶσαι αὐτούς spiega che, inversamente, la salvezza dei pagani non è che un mezzo per «muovere a gelosia i Giudei». Bisogna forse pensare che il testo riprenda in modo inedito l’immagine, familiare all’Antico Testamento, del matrimonio fra Yahvé e il suo popolo e della giusta gelosia che la reiterata infedeltà d’Israele provoca presso Dio? Paolo vuol forse dire: ora la situazione è capovolta ed ormai Yahvé, volgendosi verso la chiesa, intende suscitare la gelosia di Israele, inducendo così quest’ultimo a tornare a lui, come scrive Peterson? Checché ne sia, il pensiero dell’apostolo è questo: poiché la salvezza giunge ai pagani, Israele deve capire quale è e rimane il suo ruolo in quest’evento che ha disprezzato provvisoriamente nella sua follia. Deve riconoscere nel Salvatore del mondo il suo Messia che, in quanto tale, gli è rimasto nascosto. È necessario che discerna nella misericordia divina che si esercita all’esterno, sugli ignoranti e sui perduti, che cos’è il suo Dio e che cosa è anche e anzitutto per Israele stesso. Ecco quel che Dio vuole, quando rende accessibile ai pagani la salvezza attraverso la caduta dei Giudei da lui induriti. Non ha dunque lasciato cadere i Giudei, ma li ha induriti per la loro salvezza. Questo devono osservare i paganocristiani, portati a vedere nell’indurimento la prova che Dio ha abbandonato i Giudei ribelli. Non li ha affatto abbandonati, anzi per causa loro ha teso la mano ai pagani e l’esistenza di quei pagani che beneficiano della salvezza è un appello agli accecati appartenenti ad Israele e, in tal modo, una conferma della loro elezione eterna.

In contenuto dei vv. 12-15 è di per sé chiaro. Ma l’ordine in cui le proposizioni si presentano oscura il pensiero: i vv. 12 e 15 sono manifestamente raggruppati, poiché il v. 12 è precisato e spiegato dalla domanda retorica del v. 15; per parte loro i vv. 13-14 formano un tutto che, logicamente, è legato al v. 11, così come il 12 deve seguire e non precedere il 13 e il 14; poiché il significato globale del passo non ne viene modificato, proponiamo dunque di leggere il testo in quest’ordine: vv. 13, 14, 12, 15. L’inizio del v. 13 indica che, nel v. 11, Paolo ha ripreso una domanda posta dagli ἔϑνη (pagani), cioè dai suoi ascoltatori cristiani provenienti dal paganesimo. L’apostolo considera questi ultimi come i rappresentanti dell’insieme del mondo pagano, così come vede l’insieme di Israele nel λεῖμμα del v. 5 e nei λοιποί del v. 7. Dal punto di vista cristologico ed escatologico, la chiesa è di fatto ogni volta l’intero Israele: include i 7000 e la categoria di coloro che rifiutano ostinatamente, coloro che provengono dal mondo pagano, le persone già credenti e quelle che lo diverranno un giorno. Al v. 13 compaiono in primo piano i pagani che sono già stati riuniti nella chiesa, in opposizione alla Sinagoga che persiste nella sua incredulità e che pongono talvolta domande analoghe a quelle del v. 11. Conoscono Paolo, sanno che è il loro apostolo, l’apostolo dei pagani. E Paolo riconosce anche lui che è proprio così. Come no? Più di tutti gli altri apostoli messi insieme, non ha smesso di affermare che in Cristo non vi è alcuna differenza fra Giudei e pagani e che il popolo di Cristo è composto da Giudei e da pagani. Di conseguenza ha ammesso senza la minima riserva e proclamato ai venti e al mare che la missione fra i pagani è il compito specifico della chiesa dalla risurrezione di Gesù Cristo e dal miracolo della Pentecoste in poi. In opposizione diretta o indiretta verso gli altri apostoli, ha lottato per la libertà dei pagano-cristiani, rifiutando non la legge ma le sue prescrizioni specifiche (diventate caduche in seguito al compimento delle promesse che contenevano). Ha denunciato con tutte le sue forze l’erronea posizione cristiana secondo la quale i pagani si dovrebbero fare dapprima giudei per poi entrare a far parte della chiesa. Ma proprio perché è e vuole essere l’apostolo dei pagani, deve escludere, come già aveva affermato all’inizio (IX, 1-5), che possa dimenticare e lasciar da parte Israele stesso e, in Israele, coloro che resistono alla volontà di Dio. La gloria del suo ministero di apostolo dei pagani consiste appunto, per lui, nel provocare quelli che chiama «carne della sua carne», cioè «i suoi consanguinei secondo la carne» (IX, 3), nell’eccitare la loro gelosia, affinché anch’essi possano entrare nella chiesa, Paolo non può e non vuole abbandonare «la sua

carne», Tale fedeltà però non ha nulla da spartire con l’attaccamento al sangue e alla razza o con un «patriottismo bruciante»3 e nemmeno beninteso con l’orgoglio religioso di un Giudeo ferito nel suo amor proprio e che perciò si proporrebbe, attraverso la missione presso i suoi compatrioti ed i giudeocristiani, di riunire i suoi «consanguinei secondo la carne» intorno al «Cristo secondo la carne» (II Cor. V, 16), onde mettere definitivamente in luce la missione particolare del suo popolo, missione che pure è stata abolita, avendo trovato nel Cristo il suo punto finale. In altri casi (Fil. III, 2), Paolo si è pronunciato chiaramente contro un simile neomessianismo cristiano; anche qui, quello che dice del suo rapporto con la «sua razza» va in una direzione diametralmente opposta. Il δοξάζειν del suo apostolato fra i gentili non può certo glorificare un qualsivoglia nazionalismo pagano-naturale che si sostituisca al nazionalismo giudaico. In campo puramente nazionale, le nostre speranze ed i nostri più legittimi diritti non hanno peso e sono inesistenti in confronto a quelli che Israele possiede in quanto nazione, come ben ha visto Ströter. Il terreno nazionale su cui sono cresciuti i pagano-cristiani è scuro e privo di speranza (Ef. II, 11 ss.). Il δοξάζειν dell’apostolo consiste ancor meno (e qui Ströter sbaglia) in un tentativo di rinnovare direttamente o indirettamente il nazionalismo giudaico (prototipo di ogni cattivo nazionalismo); esso ha il significato di un appello al pentimento rivolto ai Giudei perché smettano di trasgredire la loro legge nazionale, che è la legge dell’elezione divina. Proprio in questo consiste la δόξα dell’apostolato di Paolo fra i pagani! La chiesa formata da pagani lo deve sapere: non ha una sua specifica δόξα. Partecipa alla δόξα d’Israele servendola. Il suo Signore è il Messia di Israele, che quel popolo ha consegnato ai pagani e che Dio ha dato a questi ultimi grazie all’errore d’Israele. Il tramite umano di quel dono è Paolo, l’apostolo dei gentili, israelita lui stesso, che partecipa pienamente alla colpa del suo popolo. Portare quel dono ai pagani significa anzitutto toglierlo a Israele, ma sarà per ridarglielo con maggior efficacia. Vedendo i pagani soddi sfatti, Israele non può che esser mosso a gelosia e trovarsi di nuovo costretto all’atto di conversione che ha rifiutato; deve riconoscere il valore del bene più autenticamente suo nel momento stesso in cui quel bene è passato in altre mani. Passando ad altri, l’eredità di Israele non ha smesso di appartenergli. Gesù non è meno, ma tanto più Messia d’Israele, da quando è proclamato ed accolto come Salvatore del mondo intero. Israele non dovrebbe forse riconoscere il suo Messia in colui che ora gli si presenta dal seno del mondo? Il Signore del mondo intero si volge ancora

una volta verso il suo popolo! Per Paolo, la gloria del suo ministero presso i pagani consiste nella nuova offerta fatta a Israele; discerne dunque nella gloria di Israele (quella gloria futura e inseparabile dalla sua conversione e non in quella del giudaismo) la gloria della missione fra i pagani e della chiesa di origine pagana. Perciò indica la conversione e la liberazione di «alcuni» (v. 14), di cui è stato testimone fra i Giudei della diaspora, come il vero scopo della sua attività di missionario e di fondatore della chiesa fra i pagani. La chiesa ottiene la sua vera gloria con l’integrazione di quegli «alcuni», con la presenza di Giudei e di pagani nel suo seno. Lo scopo dell’elezione d’Israele è la chiesa; di conseguenza questa è quello che è solo grazie ad Israele, cioè in funzione della gloria futura di quel popolo e della presenza dei testimoni di quella gloria nella persona di quegli «alcuni». Ecco quello che i paganocristiani devono ammettere. Non possono dunque essere che lo strumento della conversione d’Israele. L’apostolo dei gentili scommette tutto su questa unica carta; la sua conversione e la sua vocazione non hanno altro significato. I pagani diventati cristiani grazie alla sua predicazione non possono rimanere indietro: la loro esistenza di pagano-cristiani deve essere al servizio della nuova offerta di Dio ad Israele; questo è il senso del loro battesimo e della loro fede; questa è la loro funzione nella storia della salvezza. Attribuendo loro quella funzione, Dio li prende sul serio; assumendola, si possono prendere loro stessi sul serio. La chiesa intera vive in quanto porta l’offerta di Dio a Israele, così come vive della speranza nell’avvenire che tale offerta implica. Per lei tutto dipende dall’accettazione di quest’offerta da parte d’Israele. Certo, essa è già completa; ma esiste sotto una forma provvisoria per tutto il tempo in cui la Sinagoga continua la sua resistenza e in cui sussiste un Israele che sta «al di fuori». In queste circostanze la sua stessa elezione le è per così dire ancora estranea e rimane come separata dal suo stesso fondamento. Il progresso della missione fra i pagani e la gloria delle comunità formate da pagani, per quanto numerose e importanti, non possono che venire a confermare una tal separazione, cioè quella imperfezione della chiesa. La chiesa attende la conversione di Israele; unita ad Israele, non solo potrà credere, ma anche vedere la sua specifica elezione. È quanto Paolo ha affermato con crescente precisione nei vv. 12 e 15, in cui oppone lo stato di fatto attuale, il suo significato particolare e positivo per la chiesa e in particolare per la chiesa dei pagani, allo stato di fatto futuro, che recherà alla comunità una benedizione divina molto più efficace, cioè la

rivelazione completa della saggezza e della bontà delle vie di Dio; a quel punto sarà raggiunto il fine ultimo della storia del popolo di Dio. Secondo il v, 11, è attraverso la caduta dei Giudei che la salvezza è giunta ai pagani: pertanto ogni presunzione pagano-cristiana si trova di colpo condannata. L’indurimento della maggioranza di Israele non significa che Dio abbia respinto il suo popolo. Come potrebbe essere, poiché la caduta di Israele, conseguenza di quell’indurimento, ha consentito la costituzione della chiesa composta da giudei e da pagani? Questo pensiero è ripreso nei vv. 12 e 15 (sotto una forma molto condensata!): «La lóro caduta ha costituito la ricchezza del mondo e il loro impoverimento la ricchezza dei pagani» (v. 12); «il loro essere respinti è la riconciliazione del mondo» (v. 15). Ecco come attualmente si presentano le cose in Israele e fra Israele e la Chiesa. Notiamo che i termini caduta, impoverimento, essere respinti non fanno che riprendere e riassumere la grande requisitoria del cap. X. Israele ha peccato contro Dio e continua a farlo; per il momento deve portare le conseguenze di tale comportamento senza partecipare al compimento della promessa che gli è stata fatta; ha l’aspetto del nemico che Dio ha scelto. Ma l’elezione di Israele si realizza già ora con il fatto che il suo peccato (che commette in quanto Dio non gli ha ancora dato un cuore per comprendere, occhi per vedere e orecchi per udire e in quanto, pur essendo presente con la sua bontà, si è chiuso a lui) avviene perché si compia la misericordia divina. Con la sua caduta, Israele apre le paratoie attraverso le quali le ricchezze di Dio si riversano sul mondo pagano. La promessa fatta a Israele sfocia nella riconciliazione del cosmo, per mezzo della morte del figlio di Dio diventato uomo per il mondo che avrebbe meritato quella morte e che è stato liberato dal suo debito a causa di quella morte. Il peccato di Israele rivela che il perdono annunciato a quel popolo era, grazie a quella sostituzione, la promessa di cui viveva il mondo intero. L’elezione di Dio, fino a quel momento riservata al solo popolo di Israele, appare ormai come la realtà in cui ogni uomo può riconoscere la sua elezione nella fede in Gesù Cristo, come la base della Chiesa formata da Giudei e da pagani. È il peccato d’Israele, strumento della libera grazia di Dio, che lo ha messa in evidenza. È quel peccato d’Israele che il Messia ha sopportato, portato e scontato sulla croce e, in esso, il peccato del mondo intero. In esso! La quota del peccato dei pagani che egli doveva sopportare, portare e scontare, si è aggiunta al peccato di Israele. I pagani hanno avuto un ruolo solo indiretto nella crocifissione, come i vangeli sottolineano chiaramente. Sono semplici esecutori della decisione che deriva dal peccato del popolo eletto. La decisione

d’Israele ed il tradimento di Giuda Iscariota hanno reso solidali Giudei e pagani non solo nella lotta contro la grazia di Dio, ma anche nel quadro della vittoria fondata dalla risurrezione di colui che avevano rispettivamente consegnato e ucciso. Attraverso la decisione d’Israele, Dio ha fatto di Gesù la salvezza di tutti coloro che credono in lui. A quel punto non ce l’avrebbe fatta a respingere il suo popolo di Israele (il suo Giuda!), la maggioranza di coloro che ostinatamente avevano rifiutato (fra i quali bisogna annoverare anche Pietro e tutti i discepoli di Gesù). I pagano-cristiani dovrebbero tenerne conto nei loro rapporti con la Sinagoga: questa non è perduta, anche se esiste un legame evidente fra la caduta d’Israele e la loro salvezza. Ma Paolo vorrebbe far capire loro una conseguenza ancor più difficile da afferrare: la salvezza è venuta da Israele verso di loro, i pagani, affinché i Giudei siano mossi a «gelosia» e che la grazia possa ancora una volta essere offerta alla Sinagoga. Devono accettare di essere loro stessi, nella chiesa, un semplice mezzo verso quello scopo; la ricchezza che è stata loro accordata dalla caduta dei Giudei non ha smesso di appartenere a questi ultimi; deve dunque ritornare a loro e di conseguenza i pagani si devono considerare e devono agire come dei gestori. È loro concesso di accettare questa dura realtà sapendo che il ritorno della Sinagoga dentro la chiesa, scopo della loro esistenza, significherà per loro non solo una ricchezza più grande ma anche lo scopo ultimo e positivo della chiesa: il passaggio dalla fede alla contemplazione, dalla riconciliazione alla redenzione, dalla vita terrena alla vita eterna. Al παράπτωμα dei Giudei nel presente si oppone e corrisponde (v. 12) il loro πλήρωμα nell’avvenire, cioè la loro partecipazione totale alla grazia di Dio che si è servita del loro peccato; ma non è ancora chiaro quale sarà la contropartita futura della ricchezza fin d’ora attribuita ai pagani. «Quanto più grande sarà la ricchezza che risulta dal loro πλήρωμα!». Il v. 15 in compenso è esplicito: «Se il loro essere respinti è stata la riconciliazione del mondo, che cosa sarà la loro reintegrazione, se non un ritorno da morte a vita?». E l’esclamazione ancora oscura del passo decisivo del v. 12 è precisata dalla domanda retorica del v. 15. La partecipazione dell’intero Israele alla fede e alla salvezza della chiesa coinciderà con la rivelazione del carattere escatologico del presente messianico, cioè del periodo inaugurato dalla risurrezione di Gesù Cristo dai morti. Quando l’intero Israele si riunirà per credere in Gesù, suo Messia, le cose ancora nascoste saranno svelate; allora Gesù Cristo tornerà nella sua gloria con tutti i suoi angeli ed i morti risusciteranno; allora il regno di Cristo nella chiesa culminerà nel regno eterno di Dio su una nuova terra e

sotto nuovi cieli. A quel punto la maggior ricchezza di cui parla l’Apostolo si aggiungerà alla ricchezza della riconciliazione operata dalla morte di Gesù Cristo sulla croce e già ora riconosciuta dalla chiesa dei Giudei e dei pagani. Per il momento la chiesa si limita a pregustare quella gloria, poiché vive ancora nei tempi messianici, aspettando la rivelazione della fine e del nuovo inizio, già inaugurato, di ogni cosa. Vive ancora nella fede, cioè nei pianti, sofferenze, grida e dolori, all’ombra della morte e non nella contemplazione diretta, non nella beatitudine eterna. Ma in quel momento Gesù Cristo sarà rivelato come il vero vincitore: lui, che è la misericordia di Dio fatta persona (e anche la sua giustizia), eseguirà finalmente il giudizio che gli appartiene. Allora tutti i morti vivranno per lui quali sono esistiti attraverso di lui e in relazione con lui durante la loro vita. In quel momento! Tutta la chiesa aspetta «quel momento». Coincide con il πλήρωμα di Israele, cioè con la conversione futura della Sinagoga, con la sua πρόσλημψις, con la sua accettazione ed ammissione del Messia, con il suo essere ricevuta nella comunità dei credenti. Questa coincidenza non è dovuta al caso. Il «ritorno da morte a vita» è stato fin dall’inizio il segno sotto il quale si è venuta a trovare tutta la storia di Israele. Basti ricordare la nascita e il sacrificio di Isacco, i primogeniti degli Israeliti salvati in Egitto, il passaggio del Mar Rosso, la verga di Aronne che porta fiori e frutti (Num. XVII, 8 ss.), l’esperienza di Giona, il profeta recalcitrante, la visione delle ossa secche (Ez. XXXVII). Quel che gli è stato promesso si verificherà, per la Chiesa e per l’intero cosmo, quando lui, Israele, crederà in Gesù. Quel fatto sarà un miracolo di Dio stesso; significherà risurrezione dai morti, rivelazione della fine di ogni cosa nell’alba di un mondo nuovo e, di conseguenza, non se ne saprebbe dare un’«immagine» storica. È nella prospettiva di quel miracolo che l’apostolo dei pagani e, con lui, la chiesa composta da Giudei e da pagani, hanno la missione di ridestare la gelosia della Sinagoga. Certo né l’apostolo né la chiesa possono ottenere qualcosa con la costrizione; né fare o ottenere cosa alcuna. Il fanatismo di talune missioni aventi per oggetto i Giudei non è autorizzato dal nostro passo; d’altronde qui non è affatto questione di una missione fra i Giudei. Piuttosto, dai vv. 12 e 15 e riprendendo i vv. 13-14, si direbbe che la missione fra i pagani e l’esistenza della chiesa formata da Giudei e da pagani costituiscano la vera missione fra i Giudei. Operano il παραζηλῶσαι, costituiscono l’offerta rinnovata e rafforzata da parte di Dio al popolo della sua elezione originaria. Che la salvezza di «alcuni» di quel popolo (v. 14) rappresenti l’autentico significato della missione e della chiesa fra i

pagani, sarà sempre e soltanto una conseguenza secondaria, anche se indispensabile. Non è la chiesa, ma Dio che compie la reintegrazione di cui parla il testo, cioè Gesù Cristo nella gloria del suo ritorno, che convertirà la Sinagoga, così come solo lui risusciterà i morti. Qui come altrove, la chiesa non può che essere la chiesa, e in tal modo provocare il παραζηλῶσαι dei Giudei. Ma non sarebbe la chiesa se non provocasse questo παραζηλῶσαι, se non facesse fruttificare il dono che le è stato affidato a tal fine, se, in una parola, non confessasse Gesù Cristo in modo tale che l’offerta divina raggiunga i Giudei. Non sarebbe la chiesa, se il Salvatore del mondo fosse così poco riconoscibile nella sua fede, nella sua speranza e nel suo amore da non indurre i Giudei a riconoscere in lui il loro Messia. La chiesa assuma la sua responsabilità nei confronti dei Giudei rimanendo fedele a se stessa e diventandolo sempre più. Sappia che proprio così lavorerà a favore dei Giudei e della loro conversione. Se non suscitasse quel παραζηλῶσαι, se il problema dell’ammettere e dell’accogliere la Sinagoga divenisse per lei una faccenda estranea, per metà dimenticata o trascurabile, insomma se non facesse più i conti con il miracolo di Dio, dimostrerebbe che nemmeno lei attende realmente il ritorno del suo Salvatore, che verrà a giudicare i vivi ed i morti; in tal caso la sua fede, sprovvista di speranza e di amore, sarebbe vanificata. La speranza della rivelazione di Gesù Cristo, che sola nutre la fede, secondo il nostro passo, coincide con la speranza in favore d’Israele. Perciò i vv. 11-15 anticipano la parentesi che sarà sviluppata nei vv. 19-22: la chiesa cerchi di essere e di rimanere chiesa. Quello che ha già ricevuto segnala il dono più grande che riceverà ancora. Ma quell’avvenimento coinciderà con l’opera nuova che Dio vuol compiere per Israele e per mezzo della quale intende realizzare tutte le sue promesse nei confronti di quel popolo. La chiesa non sarebbe la chiesa se non aspettasse quel «dono più grande» e, con esso, il «dono nuovo» destinato ad Israele nella sua totalità. Non sarebbe la chiesa se non esistesse anche nella sua responsabilità per Israele. Quest’ultimo punto è ancora in primo piano nei vv. 11-15, che hanno mostrato perché i paganocristiani non devono dedurre dall’indurimento della maggioranza degli Israeliti che Dio li ha abbandonati: è proprio grazie alla caduta di Israele che la chiesa ha ricevuto quel che la fonda in quanto chiesa; di conseguenza, la conversione di Israele le darà compimento in quanto chiesa. Non può comprendere la sua origine e il suo scopo se non comprendendo che è solidale con Israele. La presenza di pagano-cristiani al suo interno dimostra che essa stessa sarebbe respinta, se Dio avesse effettivamente respinto Israele.

I vv. 16-18 propongono un secondo argomento contro l’opinione paganocristiana già confutata al v. 11. Si tratta di un’analisi fonda mentale, presentata sotto forma di parabola, dei rapporti fra Israele e la chiesa. Per la prima volta incontriamo qualcosa di simile in questi capitoli. Ecco l’importantissimo risultato di quest’analisi: poco importano l’indurimento della maggioranza in Israele e la sua caduta (di cui i vv. 11-15 hanno parlato diffusamente); Israele è proprietà e opera di Dio, condizione sine qua non dell’esistenza della chiesa e dei pagano-cristiani. Qualunque cosa si voglia dire dei membri induriti di quel popolo, essi fanno comunque parte dell’opera divina cui la chiesa ed i paganocristiani devono tutto. Insomma la chiesa, e soprattutto i suoi membri paganocristiani, si dovrebbe considerare respinta da Dio, se pensasse e dicesse che così è per Israele o, comunque, per gli Israeliti induriti. Le affermazioni che tendono maggiormente a tale conclusione sitrovano all’inizio ed alla fine della parabola: «Se la radice è santa, lo sono anche i rami» (v. 16), e «Se ti vanti, ricordati che non sei tu che porti la radice, ma la radice che porta te» (v. 18). L’immagine della «radice santa» (Is. XI, 1.10; LIII, 2) e quella delle «primizie sante» (Es. XXIII, 16; Num. XV, 18) indicano probabilmente la stessa cosa. Gli esegeti non sanno se queste espressioni designano i patriarchi o, ancora una volta, il «resto» cui si riferisce il v. 5, i 7000 eletti in Israele, un tempo e oggi. Designano certamente gli uni e gli altri. Ma le fonti veterotestamentarie delle due immagini citate non consentono di applicarle anzitutto o esclusivamente all’una o all’altra delle due grandezze in questione, e nemmeno a tutt’e due. La successiva immagine della radice occuperebbe, in questo caso, troppo spazio. D’altronde, la conclusione della parabola è troppo importante per non pensare che a quelle due grandezze. patriarchi e i 7000 sono, rispetto alla radice, rami accanto ad altri rami: fronde che, contrariamente ad altre, non sono state tagliate ma sono rimaste attaccate all’albero potato, sorto dalla radice. Perciò fanno parte di quella radice o, secondo l’immagine del v. 16, delle primizie. La radice trasmette i suoi caratteri a tutti i rami dell’albero proveniente da essa e le primizie condividono la loro qualità di pane dell’offerta con tutti gli altri pani fatti con la medesima pasta. Queste immagini indicano anzitutto quello che fa di Israele un Israele in tutti i suoi membri, quello per cui Israele è e rimane il popolo eletto da Dio. È la promessa fatta ad Abramo, di una posterità in cui tutti i popoli saranno benedetti ed il compimento di tale promessa. Tutti gli Israeliti in quanto tali sono gli antenati o per lo meno i consanguinei di quella discendenza (poiché quella discendenza è la ragion d’essere e lo scopo

dell’insieme, il solo tesoro che tutti gli Israeliti hanno in comune; stabilisce cioè il loro diritto all’esistenza in quanto Israeliti). Gesù può essere inteso e designato come il primo Israelita, benché cronologicamente sia l’ultimo? È lui che costituisce la posterità, e di conseguenza la radice da cui tutti provengono oppure (la prima immagine è più suggestiva) costituisce la primizia prelevata dalla pasta e offerta a Dio affinché tutti gli altri pani siano accetevoli e commestibili? Comunque, secondo la Bibbia, la radice di Israele, il suo primo ed ultimo germoglio è «il germoglio di Jesse» (Is. XI, 10), «il germoglio di Davide» (Apoc. V, 5; XXII, 16): il Figlio dell’uomo, la Parola e il Figlio di Dio, in una parola l’uomo in cui, da sempre, si è manifestato e si è concretizzato nel tempo l’amore di Dio per tutti. Se si comprendono in questo senso le immagini di Rom. XI allora, ma solo allora, si misura l’importanza dell’aggettivo «santo» che compare due volte e qualifica, al v. 16, le primizie e la radice. Le primizie e la radice sono sante in quanto il Dio d’Israele è santo perché mira, in ogni circostanza e senza stancarsi, a far sorgere dal suo popolo l’uomo unico: Gesù. E la storia di quel popolo è, nel suo insieme, una prefigurazione di quel Gesù e della sua chiesa. Intendendo le cose in tal modo, si capisce anche perché Paolo dicesse, senza dare prove particolari, che le primizie o la radice sono sante e si riferisse a questo fatto per formulare le sue ulteriori, fondamentali conclusioni. Si rapporta ad un patrimonio comune all’intero Israele, tradizioni la cui santità è senz’altro riconosciuta dai pagano-cristiani e, in particolare, da coloro che avrebbero fatto domande tipo queie dei vv. 1 e 11. Certo, tutta la chiesa riconosceva la dignità specifica dei patriarchi e perfino dei 7000 uomini di cui parla il testo; ma, per i suoi membri non giudei, non era ovvio veder designare quelle persone come una radice santa che santifica e sostiene tutti gli altri rami. Non si poteva usare quel linguaggio con una chiesa formata da giudei e da pagani, se non identificando in Gesù Cristo quella radice. Così intesa, l’immagine consente di afferrare le due conclusioni del v. 16. La santità dei patriarchi o dei 7000 non potrebbe di per sé suscitare quella di tutta la massa, di tutti i ramoscelli generati da Israele e da quel popolo in quanto tale. Accanto ad Israele, c’è Ismaele; accanto a Giacobbe, Esaù; accanto ai 7000, i λοιποί. Se l’aggettivo «santo» si addice ai primi, come può essere applicato anche ai secondi? E qui è questione dei secondi. Per provare che Dio non li aa respinti, basterebbe affermare che sono santi in quanto i loro fratelli, pur così diversi da loro lo sono? I vv. 1-11 ci insegnano che i primi rappresentano anche i secondi; ma non lo si può ripetere indiscriminatamente

a proposito di coloro che si sono induriti. È necessaria un’altra dimostrazione, e la troviamo pronta, se è vero che la radice santa non designa gli uni o gli altri, ma il fratello ultimogenito di tutti, che in realtà è primogenito. Infatti, anche coloro che si sono induriti partecipano della sua santità. L’attributo di quel primogenito, cioè la misericordia di Dio rivolta all’uomo nella persona di Gesù, è quello del Dio d’Israele, dell’elezione, della promessa fatta globalmente a quel popolo e, di conseguenza, dà consistenza alla santità di ogni individuo in Israele: perfino a coloro che si sono induriti e a quell’immensa maggioranza d’israeliti che, dopo aver sempre guardato verso gli dei stranieri e aver lapidato i profeti, hanno finito per consegnare il Figlio di Dio alla morte; dà consistenza alla santità di Giuda Iscariota. L’attributo del Dio d’Israele non è vano per la gente che, nell’ambito di quel popolo, lo ha completamente misconosciuto cadendo nella disobbedienza. Anche coloro che in gran numero si son fatti insensibili devono aver spazio accanto ai pochi individui miracolosamente illuminati, per prefigurare Gesù e la sua Chiesa: Ismaele accanto a Isacco, Esaù accanto a Giacobbe, il Faraone e la brigata di Kore accanto a Mosè, Saul accanto a Davide, Achab accanto ad Elia, il falso profeta accanto ai veri, i re che fanno quel che è male agli occhi dell’Eterno accanto ai monarchi integri. Nel corso di tutto l’Antico Testamento vediamo che un riflesso della santità divina lambisce anche coloro che paiono empi e null’altro e che la grazia proietta indirettamente la sua luce anche su coloro che sembrano essere giudicati e colpiti dalla collera di Dio. Parimenti i riguardi degli eletti per coloro che sono respinti (Davide) attestano in modo chiaro che questi ultimi non costituiscono soltanto un «non-Israele» una specie di nulla, ma che fanno parte del popolo santo scelto da Dio. Quel che è santo in coloro che sono diventati insensibili non proviene dagli altri, dagli eletti, ma dalla radice d’Israele, dalla base e dallo scopo dell’elezione di quel popolo, dall’origine israelita comune agli eletti e ai respinti, che ha come nome iniziale e finale Gesù. Poiché tale radice è santa, anche i rami lo sono. Ecco che il v. 17 assume tutto il suo significato. Lo si capisce meglio partendo dalla fine: «Non ti glorificare a scapito di quei rami!». Il paganocristiano non si vanti assolutamente del suo appartenere alla chiesa, a scapito di uno qualsiasi di coloro che hanno fatto o fanno parte di Israele, nemmeno se si trattasse di un Giuda Iscariota. Per quante cose siano accadute o accadano, quello è il popolo santo di Dio, il popolo con il quale Dio ha trattato nella sua grazia e nella sua collera, in seno al quale ha benedetto e giudicato, eletto e insensibilizzato, gradito e respinto. Comunque sia, Dio l’ha gradito e

non cesserà di gradirlo in un modo o nell’altro. Santificati da lui in quanto antenati e consanguinei del solo Santo in Israele, gli Israeliti sono tutti santi come non lo possono essere per via naturale né i pagani, per quanto eccellenti, né i pagano-cristiani, nemmeno i migliori, malgrado la loro appartenenza alla chiesa, benché anche loro siano santificati dal Santo di Israele e per quella ragione siano essi stessi diventati Israele. Ogni membro del popolo di Israele è comunque sempre partecipe di una santità diversa da quella di qualsiasi altro popolo. È la santità della radice naturale, Gesù, che è contemporaneamente l’ultimo discendente e il primogenito di Israele. Il pagano-cristiano la deve rispettare in ogni Giudeo, senza eccezione. Si asterrà dunque dal glorificarsi a spese di Israele, anche se sembra avere le migliori ragioni per farlo, dato il comportamento particolare del Giudeo e la posizione che occupa in quanto membro della chiesa di Gesù Cristo. È vero, infatti, da un lato, che molti rami santi, nati dalla radice santa, hanno dovuto essere recisi. Erano spuntati da quella radice. Ne possedevano e ne possiedono tuttora le caratteristiche. Appartenevano e appartengono ancora al tronco sorto dalla radice. Ma ormai hanno finito di esservi collegati, giacciono accanto, lontano dalla loro origine. Hanno solo più l’esistenza effimera di un ramo reciso, condannato a seccare. Questa è stata la sorte di tutti coloro che, in Israele, da Ismaele fino all’attuale Sinagoga e malgrado il loro nome di Israeliti, sono stati ciechi nei confronti dell’opera che Dio ha compiuto in favore del suo popolo. Queste persone hanno proiettato un’immensa ombra su tutta la storia di Israele. Si tratta dell’Israele disubbidiente e idolatrico, dei suoi falsi profeti e dei suoi re empi, dei suoi scribi e dei suoi farisei; si tratta del sommo sacerdote Caifa, si tratti di Giuda Iscariota fra i dodici apostoli. Sì, esiste, alla nostra sinistra, tutta quella parte d’Israele santificata soltanto dalla collera di Dio! Il pagano-cristiano la conosce bene, e sembra avere le migliori ragioni per glorificarsi a sue spese. D’altro lato però esistono rami vivi: anch’essi sono nati dalla radice santa e partecipano alla sua natura. Appartengono al tronco sorretto da quella radice; diversamente da quanto accade ai rami tagliati, ne vivono e crescono con lui; il loro avvenire si confonde con l’albero e con la radice che li nutre. Si tratta di tutti coloro che hanno riconosciuto il Santo di Israele e creduto in lui; hanno ricevuto da lui la loro giustificazione davanti a Dio e pertanto possiedono la garanzia della salvezza. Poiché è la stessa situazione in cui si trova il pagano-cristiano, questi sembra avere delle ragioni per gloriarsi a scapito dell’«altro Israele», dell’Israele che è alla sua sinistra. Ma il v. 17 risolve il problema. Va oltre con

la parabola delle radici e dei rami. Lo sfrondare certi rami caratterizza la potatura di un olivo pregiato; l’esistenza di altri rami su quell’albero significa che giovani germogli di olivo selvatico sono stati innestati sull’olivo pregiato, per sostituire i rami sfrondati. Gli esegeti, da Origene e Lietzmann, sono stati scandalizzati perché quella parabola è una sfida al buon senso. Infatti un giardiniere non è solito innestare germogli selvatici su un albero pregiato; se vuol fare un buon lavoro, deve invece innestare germogli di valore su un soggetto selvatico. «Paolo era un cittadino e Gesù un contadino», spiega Lietzmann per giustificare questo preteso errore dell’apostolo. Ma Paolo non ha forse scelto intenzionalmente quella parabola assurda, perché non esiste analogia in arboricoltura, e nemmeno in altri campi, per far comprendere la realtà che vuol illustrare? Poiché solo l’opposto di quel che farebbe un normale giardiniere può servire a descrivere quel che Dio ha fatto, sia in Israele sia con la creazione della Chiesa composta da Giudei e da pagani. Il fatto stesso di recidere dei rami, cioè di separarli dal tronco che li nutre, non è normale poiché, secondo il v. 16, quei rami sono santi a motivo della loro radice. Com’è possibile che vi sia un «altro Israele»? Come mai la storia del popolo eletto ha sempre una faccia «in ombra»? Perché non tutto va per il suo verso, sotto la benedizione e nella luce continua di Dio? Perché non tutti gli Israeliti sono come Abramo, Isacco e Giacobbe? Come mai Giuda è fra gli apostoli? Come mai la Sinagoga di oggi può esistere con l’assenso di Dio? Ed ecco un altro fatto abnorme: di colpo diventati obbedienti, i pagani credono, partecipano pertanto al compiersi della promessa fatta a Israele ed è loro concesso e ordinato di considerare Abramo loro padre. Sono un Israele vivente, in opposizione a molte altre persone che, per nome e antenati, avrebbero per primi e loro soli il diritto di esserlo. L’olivo selvatico non deve essere innestato sull’olivo pregiato, a scapito di quest’ultimo. Ma un’operazione del genere, incomprensibile, impossibile, è avvenuta e per questa ragione Paolo, il «cittadino», utilizza una parabola il cui contenuto è contrario a tutte le regole di una sana arboricoltura. E anche riguardo alle parabole di Gesù, sarebbe meglio essere cauti nell’affermare che sono «legate al vissuto» nel senso corrente del modo di dire. Allargando in modo così insolito l’immagine della radice e dei rami, Paolo vuol dire questo: certo, in Israele, molti sono stati respinti e lo sono tuttora; certo, i paganocristiani non solo appartengono a Israele ma sono il vero Israele e molti in Israele non sono e non possiedono quel che dovrebbero essere e possedere; certo, molti pagani sono e possiedono quel che non potevano essere e

possedere in quanto pagani, poiché quella grazia non poteva esser loro attribuita che in quanto Israeliti. Ma questo non significa per i paganocristiani, Paolo lo prende in considerazione nei vv. 11-22, che si possano gloriare a spese dei respinti d’Israele, evitarli come gente perduta davanti a Dio e voler essere la chiesa senza di loro. Questo è escluso poiché, anche secondo l’insolita immagine del trattamento dell’olivo, hanno preso il posto di quei respinti. Il pensiero dei vv. 11-15 sulla salvezza giunta ai pagani a causa della caduta d’Israele, appare qui in una nuova forma; Israele è in un primo tempo assottigliato da quella caduta, privato di molti suoi membri, ma è immediatamente arricchito dall’aggiungersi di credenti provenienti dal paganesimo. In pratica i pagano-cristiani sostituiscono in qualche modo gli assenti: abitano le loro case, usano i loro attrezzi, gestiscono i loro beni. Ma non sono che dei sostituti, degli stranieri trapiantati altrove. Gli assenti non sono morti. La sistemazione definitiva dei rapporti fra le due parti avverse non ha ancora avuto luogo. Se i pagano-cristiani occupano ora il posto degli Israeliti venuti meno, lo devono all’intervento divino e, indirettamente, proprio a coloro che hanno sostituito. L’accento cade interamente su quell’evento doppiamente incomprensibile: quelli che, per origine e natura, costituiscono Israele, non vivono più come Israele, perché non si alimentano più attraverso la radice santa di quel popolo; esistono solo più separati dalla loro origine e, pertanto, sono destinati a morire; e quelli che, simili a un olivo selvatico, per la loro origine stavano al di fuori, non tagliati fuori ma al di fuori, quelli adesso stanno all’interno: «Adesso sei partecipe della radice e della linfa dell’olivo pregiato». I pagano-cristiani hanno ormai avuto accesso a quel rango del tutto inconcepibile e pretendono gloriarsene a scapito dell’«altro Israele». Una simile pretesa ha da essere subito annientata. Di che cosa si può gloriare, come può giudicare chi si trova in una situazione acquisita in modo così incomprensibile e che, empio per natura, occupa il posto di gente naturalmente santa? Che altro rimane all’infuori della gratitudine, segno di una simpatia intensa, totale, nei confronti di coloro che hanno perduto tutto in modo così sconvolgente? Ma l’avvertimento e l’esortazione del v. 18 vanno ancora oltre, in rapporto al v. 16. Di che si può e si deve gloriare il pagano-cristiano, anche a giusto titolo, in rapporto all’«altro Israele»?In che cosa gli è realmente superiore? In nulla, secondo il v. 17, anche considerando che adesso si trova «all’interno», mentre Israele resta «all’esterno». I due fatti sono ugualmente incomprensibili: l’abbassamento

degli «altri» e la propria crescita. Paolo si riferirà ancora, nei vv. 19-22, alla portata reale e positiva di quello «scambio», inconcepibile per i paganocristiani e per l’intera chiesa. Non dirà certamente che i pagano-cristiani hanno ragione di gloriarsi. C’è una sola gloria che il pagano-cristiano possiede e che Israele non possiede. ma impedirà al primo di gloriarsi da solo, poiché la radice santa lo regge, quella radice da cui l’«altro Israele» è stato tagliato fuori e che ha smesso di reggerlo. Possiede il Messia Gesù per mezzo della fede, per la sua giustificazione davanti a Dio e per la sua salvezza eterna. È retto da lui, ne vive. Ha pertanto una speranza e un avvenire, malgrado tutte le minacce e tutte le paure della morte. In Gesù possiede il suo diritto di cittadinanza celeste. Ma l’Israele infedele possiede anch’egli questo Messia, che è all’origine del suo proprio Messia e lo rimane. Gesù gli è stato annunciato attraverso la legge ed i profeti. Nato giudeo, è stato crocifisso ed è risuscitato all’interno d’Israele, a Gerusalemme. Ma Israele è stato reso insensibile da Dio, perciò non crede e sta davanti a Dio con tutto il suo carico di ingiustizia, senza speranza e senza consolazione davanti alla morte inesorabile. Non è retto dalla sua radice santa. La gloria di essere sostenuti da quella radice è privilegio reale dei pagano-cristiani. Costoro però non se ne possono vantare; non possono che glorificare il Signore. Malgrado il grande cambiamento operato a loro favore e a spese degli altri, rimangono senz’altro sorretti dalla radice di Israele. Non sono in nessun caso, di per sé, dei «portatori». Se fossero portatori anziché essere portati, vivificanti anziché essere vivificati, dispensatori anziché beneficiari, solo allora avrebbero buoni motivi per gloriarsi e disprezzare gli «altri». Ma sono «portati». E tutto crolla. Sono portati dalla radice d’Israele, dal ceppo santo che santifica anche gli «altri», benché siano tagliati fuori; di conseguenza sono santificati come non lo potrebbero mai essere in quanto pagani. In che modo i pagano-cristiani potrebbero essere portati da quella radice, viverne ed esserne essi stessi santificati, senza riconoscere la santità di quegli altri»? Davide, inseguito da Saul, non ha riconosciuto e onorato nel suo nemico, respinto da Dio, l’eletto e l’unto di Yahvé? «Gli oracoli di Dio sono stati loro confidati» (e lo sono sempre: Rom. III, 2). Gli «oracoli» neotestamentari di Dio sono anche e senza eccezione oracoli pronunciati da Giudei! Colui che possiede Gesù per mezzo della fede non può non voler riconoscere e gradire i Giudei, antenati e consanguinei di Gesù. In caso contrario non riesce a riconoscere e a gradire l’Ebreo Gesù. È condannato a respingerlo come respinge gli Ebrei. È il fondamento stesso della chiesa ad esser messo in questione, nella misura in cui i pagano-cristiani

pensano di trattare gli Israeliti al di fuori della più grande sollecitudine e della più intensa simpatia. Tutto il ragionamento termina, nei vv. 19-22, con un’esposizione relativa all’atteggiamento che di necessità deriva, per i pagani diventati credenti, dai loro rapporti con i Giudei rimasti increduli. Questa stessa esposizione si trasforma in esortazione, appello: «Non ti abbandonare all’orgoglio, ma temi» (v. 20). E ancora: «Considera la bontà e la severità di Dio» (v. 22 a). Sono evidenti l’ironia e la minaccia (vedi il ϰαλῶς del v. 19) che accompagnano l’esortazione. Dal momento che, con la caduta dei Giudei, la salvezza è giunta ai pagani e che la chiesa si compone di Giudei e di pagani, questi ultimi ricevono nella chiesa una precisa funzione, che per definizione esclude che possano considerare e trattare gli Ebrei come gente abbandonata da Dio. Infatti l’avvenire della chiesa è indissolubilmente legato alla speranza di Israele, come abbiamo visto nei vv. 11-15, mentre i vv. 16-18 insistevano sull’origine della chiesa cioè sul fatto che i pagani hanno tratto beneficio dai diritti che appartenevano autenticamente ad Israele. L’attuale esistenza della chiesa e, nella chiesa, l’esistenza specifica dei pagano-cristiani rendono impossibile ogni atteggiamento di disprezzo nei confronti dei Giudei increduli, come afferma la conclusione nei vv. 19-22 (sotto forma di esortazione, come si addice). La chiesa esiste a motivo della fede e soltanto a motivo della fede dei suoi membri, cioè in virtù della decisione che gli Ebrei increduli hanno appunto rifiutato e rifiutano tuttora di prendere. È soltanto per mezzo della fede che i pagano-cristiani partecipano alla salvezza promessa ad Israele, salvezza che è provvisoriamente sfuggita ad Israele incredulo e giunta ai pagani proprio grazie a quell’incredulità. Ma che possano credere, è la prova dell’esser stati oggetto della bontà di Dio la cui severità ha confuso gli altri. Per mezzo della fede sono dunque legati a quel Dio e in particolare alla sua bontà. Che la sua severità non li abbia raggiunti, ecco un effetto inaudito e incomprensibile della sua misericordia; ma non potrebbero considerarsi esonerati dal temere la severità di quello stesso Dio, considerando coloro che ha raggiunto. Al contrario, quello spettacolo li deve incitare al timore. Ma poiché attraverso la fede sono da parte loro legati alla bontà di Dio, che si è rivolta a loro, non hanno che da attenersi essi stessi alla bontà di Dio perseverando nella fede e da affrontare in tal modo il giudaismo incredulo (il seguito dei vv. 23-36 indica che proprio quello è il centro di tutto il passo): vivranno dunque aspettando che Dio si degni di usare, nei confronti di quel popolo, la medesima incomprensibile bontà di cui attualmente beneficiano.

Per il fatto che esistono nella chiesa, cioè per il fatto che sono credenti, non possono considerare i Giudei increduli senza questa aspettativa e senza adeguarvi il loro atteggiamento nei loro confronti. La loro fede non si può dirigere contro quella parte di Israele; può esistere soltanto in suo favore. In quell’attesa e nell’atteggiamento che determina, devono (insieme ai giudeocristiani che sono fra loro) credere in vece e in favore di tutto il popolo di Israele. Il v. 19 mostra subito chiaramente quanto Paolo intendeva denunciare nei versetti precedenti (17-18), alludendo all’orgoglio dei paganocristiani; indica anche quel che l’apostolo ha voluto escludere, analizzando i rapporti che esistono fra Israele e la chiesa formata da Giudei e da pagani. La domanda dei vv. 1 e 11 lascia trapelare l’esistenza di una teoria pagano-cristiana, di cui il v. 19 indica l’essenziale: «I rami sono stati recisi, affinché io fossi innestato». Peterson afferma con ragione che quella tesi costituisce «la risposta tipica del pagano che, nella chiesa, ignora il mistero della chiesa e per il quale tutto si riduce alla giustapposizione «storica» del giudaismo e del cristianesimo». Si tratta infatti dell’argomentotipo di cui si serve l’antisemitismo cristiano ancora oggi: i Giudei hanno crocifisso Gesù Cristo, di conseguenza hanno cessato il essere il popolo eletto. La cristianità, composta di Giudei e di pagani, ha ora sostituito quel popolo, si dice ancora. La chiesa ha segnato il dissolversi storico di Israele. Con la fondazione e l’esistenza della chiesa, Israele è diventato un gigante del passato. Quanto a tutti i recalcitranti che formano la maggioranza di quel popolo nel passato e nel presente, si può dire una cosa sola: che sono «all’esterno» e che Dio li ha abbandonati al loro destino. L’ironia del ϰαλῶς del v. 20 non esclude, anzi include, che Paolo accetti il fatto oggettivo che sta alla base di quest’argomentazione. Non ha parlato lui stesso, al v. 17, dei rami che sono stati tagliati e sostituiti da innesti selvatici? Con la crocifissione di Gesù Cristo, Israele in quanto tale è diventato un gigante del passato, nella misura in cui continua a vivere nella chiesa come popolo eletto messo a parte da Dio. Non si potrebbe però misconoscere in modo più grave il mistero della chiesa che vedendo in essa una prova che Dio ha respinto il suo popolo e che, se ha trattato come lo ha fatto la maggioranza di esso, è per abbandonarlo; poiché, si dice, Dio non può più essere il Dio di gente che lo ha rinnegato! Questo ragionamento trascura completamente, come fa la Sinagoga stessa, il fatto della risurrezione di Gesù Cristo che, per i Giudei come per i pagani, illumina la sua morte di una tal luce che è ormai impossibile per la chiesa usare l’argomento caro ai pagano-cristiani. Nella

risurrezione di Gesù Cristo, infatti, Dio ha cancellato l’ultima traccia della rivolta giudaica contro Cristo e, al tempo stesso, l’ultima traccia del rimprovero verso i Giudei stessi: in altre parole, ha preferito la sua propria volontà nei confronti di Israele a quella di questo popolo; o ancora ha fatto sapere che il Messia d’Israele è il Salvatore del mondo e in tal modo, in fin dei conti, si è ugualmente pronunciato a favore di Israele. Vivere nella chiesa significa esistere per mezzo e nella forza della risurrezione di Gesù Cristo. Che cosa infatti ha creato la chiesa, se non quel punto finale che abolisce il rifiuto di Israele, quell’autoattestazione per mezzo della quale Dio conferma il suo volere nei confronti di quel popolo? Ma vivere nella chiesa significa credere e su questo punto la maggior parte degli Ebrei trova la sua pietra d’inciampo: non credono, non vogliono vedere il punto finale che la risurrezione significa, rimangono ciechi e sordi di fronte al compiersi delle promesse divine, compimento che si è avverato malgrado i peccati di tutti, malgrado tutte le forme passate, presenti e future dell’incredulità di Israele; si comportano come se non fosse accaduto nulla. Perciò sono rami recisi. La risurrezione di Gesù Cristo infatti, mette in luce in modo definitivo quel che Mosè e i profeti non si sono stancati di attestare: essere Israele, significa vivere e crescere rimanendo legati alla radice santa d’Israele, cioè credere. Proprio questo manca ai «rami» cui Paolo si riferisce, da Ismaele fino alla Sinagoga del presente. Per questo i rami sono recisi, benché provengano dal ceppo santo. In compenso, che vediamo nei cristiani provenienti dal paganesimo? Credono! Perciò sono innestati sul ceppo santo, benché siano rami selvatici e diventano santi essi stessi, a motivo della radice che li porta. Esistono dunque all’interno della chiesa. Vi «sussistono». Ma credono veramente? Il loro modo di ragionare costringe l’apostolo a rivolgere loro molto seriamente questa domanda decisiva. Essa è esposta dapprima in forma negativa nei vv. 20 b-21. Se queste persone credono, è grazie alla risurrezione di Gesù Cristo dai morti. Dio si è opposto in modo vittorioso all’incredulità giudaica ed ha attestato, con la risurrezione di Gesù, che il Messia di Israele è il Salvatore del mondo: ecco il fatto che ha determinato la loro fede nell’uomo consegnato e messo a morte dagli Ebrei stessi; si attengono a questo fatto, dal momento in cui credono. Ma questo stesso fatto deve anche servire loro da avvertimento: «Non ti abbandonare all’orgoglio, ma temi» (v. 20b). Consegnando e facendo crocifiggere Gesù, gli Ebrei hanno pensato di avere l’ultima parola; ma la risurrezione di quel medesimo Gesù ha dimostrato che una mano superiore

aveva definitivamente annullato quel progetto. Israele si è abbandonato all’orgoglio quando, disprezzando il Dio che gli concedeva e gli ordinava di essere il suo popolo, ha creduto di poter sfuggire definitivamente alla mano che lo guidava. È caduto perché ha tentato di resistere alla misericordia del Signore che lo aveva scelto. Ecco quel che la risurrezione di Gesù Cristo ha evidenziato. Ed ecco quel che la chiesa cristiana e, in essa, i pagano-cristiani devono costantemente ricordare. Confondendo l’orgoglio dei Giudei, recidendo «alcuni dei rami» naturali e aprendo così la via ai pagani, Dio ha dimostrato una volta per tutte, ai Giudei e ai pagani, che è in grado di opporsi radicalmente all’incredulità e all’orgoglio umani e che è deciso a farlo. «Se Dio non ha risparmiato i rami naturali, non ri sparmierà nemmeno te» (v. 21). Se ha trattato in tal modo il ceppo naturale della chiesa, cioè Israele, il suo popolo, a maggior ragione agirà in tal senso nei confronti della chiesa, se vi si dovesse introdurre l’incredulità d’Israele. Se ha messo in luce la totale impotenza della rivolta umana attraverso un giudizio così radicale proprio là dove aveva promesso la sua grazia, quale sarà il rigore del suo castigo là dove l’uomo ribelle non beneficia più di una simile promessa, là dove la grazia gli è giunta al di fuori di ogni radicamento preventivo, come è il caso appunto dei pagani riuniti nella chiesa? Dato il modo in cui è fondata la loro fede, come quei pagani non temerebbero Dio, come non temerebbero di mettersi davanti a lui in una situazione analoga a quella in cui i Giudei sono caduti respingendo Gesù Cristo? Vi si metterebbero sicuramente e condividerebbero a loro volta la sorte riservata ad Ahasvero, che per ora è presentato loro come un avvertimento della misericordia divina se, in rapporto all’Israele incredulo, si abbandonassero all’orgoglio e si volessero opporre a lui facendo riferimento a Dio; in realtà si opporrebbero a Dio e alla sua misericordia. A quel punto cadrebbero automaticamente sotto il medesimo giudizio rivolto all’Israele incredulo. Anzi no, il giudizio che li colpirebbe sarebbe peggiore; poiché non sono come gli Ebrei beneficiari della promessa, non appartengono secondo natura alla radice che li regge. «I popoli cristiani che perdono la loro fede cadono ad un livello di abbruttimento e di inesistenza che l’Ebreo non può conoscere», come scrive Peterson: ritornano allo stato di allontanamento da Dio, connaturato al paganesimo, situazione da cui perfino i Giudei increduli sono preservati proprio in quanto Giudei. I pagano-cristiani perdono la loro fede non appena si lasciano andare all’orgoglio nei confronti dei Giudei. Senza esserlo loro stessi, e senza potersi mettere al di sopra di loro, cadono nella medesima presunzione che ha

condotto i Giudei a respingere Gesù Cristo: lo respingono ancora una volta respingendo i Giudei, suoi antenati e suoi consanguinei; infatti dimostrano di non ammettere che il Messia giudaico sia il Salvatore del mondo. Credete veramente? domanda Paolo ai pagano-cristiani. Se voi credeste in Gesù Cristo risuscitato, dovreste infatti temere Dio; poiché attraverso la risurrezione di Gesù Cristo, Dio ha annullato la presunzione ebraica e anche ogni orgoglio che si leva contro di lui. Se vi doveste vantare e smettere di credere, il vostro orgoglio sarebbe anch’esso annientato dalla potenza che Dio ha mostrato in quell’evento. Il v. 22 riprende la stessa domanda in chiave positiva. Poiché, con la risurrezione di Gesù Cristo, Dio ha cancellato l’ultimo segno della cattiva volontà di Israele e nel corso di quell’operazione la parte infedele di quel popolo è stata recisa, consentendo in tal modo la formazione della Chiesa, ne consegue che è stato abolito un fatto di tutt’altra natura: il rifiuto di Israele stesso. Risuscitando Gesù, Dio si è infatti pronunciato a favore del Messia di Israele: in definitiva, ha agito a favore di Israele e non contro di lui. L’evento di Pasqua rivela non solo la severità di Dio, ma soprattutto la sua bontà: la bontà del Dio di Israele che, per quel fatto, si estende su Israele stesso. Pasqua è veramente il segno che Dio ha suggellato e confermato la sua alleanza con i padri attraverso la morte di Gesù, e col dono del suo Figlio ha consolato e benedetto il suo popolo definitivamente liberato dal suo peccato. È chiaro ormai che, nell’immensamaggioranza, gli Israeliti incapaci oggi come ieri di discernere e di afferrare per mezzo della fede la bontà di Dio, non se ne vogliono giovare e si condannano in tal modo a subire la severità del suo giudizio. Peraltro accade che, paradossalmente, gente proveniente dal paganesimo discerna, riconosca e afferri per mezzo della fede la rivelazione di quella bontà e partecipando in tal modo al compimento delle promesse fatte a Israele, diventi essa stessa Israele. Si assiste dunque ad un capovolgimento impensato: la bontà di Dio nei confronti del suo popolo è accolta, a parte qualche eccezione, da gente che non si può riferire ad alcuna elezione o speciale promessa divina e che, fino a quel punto, ignorava del tutto il Dio di Israele e la sua legge, ma obbediva senz’altro alle divinità terrene e pertanto si trovava senza Dio nel mondo. Ora quella gente crede, a motivo della risurrezione di Gesù Cristo, al perdono dei peccati che Dio ha acquistato loro per mezzo della morte di Gesù Cristo; queste persone beneficiano della consolazione e della benedizione divine. Sono stati innestati sul tronco nato dalla radice santa, e si nutrono di quella radice, mentre a motivo dello stesso

evento numerosi Israeliti non hanno più quella medesima possibilità. Paolo li spinge a meditare quel fatto inconcepibile ed a capire che viene richiesta loro una sola cosa: restare sotto la bontà di Dio che si è rivolta verso di loro in modo tanto incomprensibile, legarsi senza riserva alla rivelazione loro accordata. Devono prendere veramente sul serio quel che è stato loro dato di fatto dalla risurrezione di Gesù Cristo. Si devono applicare a ricevere sempre di nuovo la bontà del Dio di Israele che è diventato un loro bene. Hanno il solo dovere di essere riconoscenti, senza sbirciare né a destra né a sinistra. Insomma, devono semplice mente credere. Infatti «sussistono» nella Chiesa, all’interno e per mezzo della fede (v. 20) e sono quelli che Dio ha aggiunti ad Israele. Scostandosi dalla fede, firmano la loro sentenza di morte. La severità divina nei confronti di Israele li riguarda nel senso che lo spettacolo dei «rami recisi» deve ricordare loro in qual modo il loro Dio, che è il Dio di Israele, si comporta con i loro nemici, e quant’è terribile cadere nelle mani di quel Dio, il Dio vivente. Stiano attenti, loro che sono soltanto dei rami aggiunti al tronco di Israele, di non cadere nell’incredulità. Ma sono credenti, vero? Celebrino allora la misericordia del Dio che ha eletto Israele. Vivano della bontà di quel Dio, ricordandosi che si estende ad Israele. Con che diritto avrebbero la pretesa di affermare che Dio ha abbondato il suo popolo? Come potrebbero sostenere che il loro accedere alla salvezza significa il rifiuto definitivo di coloro di cui possiedono ormai i diritti e i doveri? Come potrebbero fare loro quell’oscura distinzione secondo la quale il «giudaismo» e il «cristianesimo» sarebbero due religioni o due mondi separati che si succedono? Se dovessero pensarlo, significherebbe che si sono riappropriati dell’errore della Sinagoga e che, diventati essi stessi «Sinagoga», sono stati recisi. In altre parole, bisognerebbe riconoscere che quel che è accaduto in Israele si sarebbe ugualmente verificato in seno alla Chiesa. Se quella gente crede veramente e di conseguenza continua a vivere della bontà del Dio di Israele, non può che sperare la parte migliore per Israele e per tutti gli Israeliti: cioè non si stancherà di stare davanti a Dio con la sua fede, occupando il posto della parte di quel popolo attualmente dispersa. La suddivisione dei temi del capitolo XI non coincide esattamente con l’ordine redazionale; infatti la conclusione delle spiegazioni relative all’avvenire e alla speranza di Israele appare nel contesto dei vv. 16-25, caratterizzato dall’immagine dell’olivo pregiato e dell’olivo selvatico e dall’esortazione rivolta ai pagano-cristiani. Ritroviamo quella stessa immagine nei vv. 23-24. L’esortazione prosegue in quei due versetti ed è espressamente

ribadita al v. 25: ἴνα μὴ ἦτε ἐν ἑαυτοῖς φρόνιμοι. E i vv. 30-31 assumono di nuovo la forma parenetica. L’orientamento e il contenuto del concetto divergono in modo evidente a partire dal v. 23. Certo, anche qui l’apostolo risponde alla domanda che domina tutto il capitolo: Dio ha respinto il suo popolo? Ma lo fa in modo diverso e in una nuova prospettiva, in quanto ormai considera Israele partendo dalla chiesa e non più, come nei vv. 11-22, la chiesa a partire da Israele. Dopo aver dimostrato che la chiesa non può essere la chiesa di Dio se non nella sua relazione, creata e voluta da Dio, con il popolo di Israele, spiega in modo inverso che è nel suo rapporto con la chiesa, quale Dio lo ha stabilito e lo stabilirà ancora, che Israele è e rimarrà il popolo di Dio. Il v. 23 ci insegna che il recidere rami naturali sull’olivo pregiato, come mostra l’esistenza della Sinagoga, costituisce per il momento una ragione di amarezza; non significa che Dio abbia detto la sua ultima parola sul rapporto fra Israele e la chiesa; di conseguenza la chiesa non deve vedere in quell’episodio una rivelazione della volontà finale di Dio nei confronti di Israele. Il quadro offerto dal presente è senza dubbio scuro, ma corrisponde a tutto quel che è accaduto nella storia d’Israele, a tutto quel che hanno esplicitamente annunciato Mosè ed i profeti. Da un lato c’è la «radice santa di Israele», il Messia, che è il vero oggetto dell’elezione di quel popolo e con lui tutti quelli che credono in lui: in gran numero pagani e alcuni Israeliti, questi ultimi messi lì come per confermare la regola secondo la quale il loro popolo in quanto tale non è il popolo dell’elezione e non spartisce dunque in senso positivo la misericordia divina; d’altra parte c’è la maggioranza di Israele, l’Israele che è stato eletto per servire ad un solo scopo: mettere in luce la misericordia divina nella sua libertà di fronte a tutte le forme del volere umano e a tutte le pretese che ne derivano. Ma se per il momento le cose sono a quel punto, non vuol dire che siano immutabili. Già i vv. 20-22 avevano messo in guardia contro le idee sbagliate che ci si può fare a proposito della durata della sua partecipazione alla vita della chiesa. Si è nella chiesa e vi si sussiste per fede. Ma si crede quando si teme Dio. E si teme Dio quando si dipende dalla sua bontà, rinunciando ad ogni altra sicurezza. In caso contrario, non si può che cadere, e la chiesa stessa subisce un cambiamento decisivo, che non è un buon cambiamento. Smettendo di fidare nella sola bontà di Dio, i cristiani non potrebbero che essere «recisi» da Gesù Cristo, l’essere e il fondamento della chiesa, esattamente come i Giudei infedeli sono stati separati dall’elezione di Israele. Ma, stranamente, secondo i vv. 20-22 è chiaro che quel cambiamento funesto per la chiesa avverrebbe, di fatto e

concretamente, se i cristiani si volessero gloriare di loro stessi in rapporto ai Giudei increduli e abbandonarsi all’orgoglio, come se la situazione fosse diventata di colpo immutabile e il problema posto dall’atteggiamento di Israele fosse stato risolto una volta per tutte in loro favore. Colui che, nella Chiesa, pensa di potersi porre su quel terreno, si erge contro il libero potere decisionale del Dio misericordioso e, in tal modo, avanza su un terreno senza fondo, al di fuori e a lato della Chiesa. Infatti, non dipende più dalla bontà di Dio, non teme dunque più Dio. Di conseguenza, non crede più. Cioè non sussiste più, ha smesso di essere nella Chiesa e questo verrà a galla tosto o tardi. Se ne rendano conto i pagano-cristiani: immaginando che la situazione presente è definitiva, e che pertanto si possono gloriare a spese della Sinagoga, corrono verso l’abisso. Poiché finché dura il tempo presente, nulla è definitivo, nulla è immutabile in seno al creato. Solo la fedeltà e la costanza del Dio eterno, Creatore e Signore, sono veramente dure voli! A quel Dio la chiesa si deve legare per essere su un terreno solido. Sarà dunque sempre disponibile a riconoscere tutti i cambiamenti che quel Dio introdurrà nel quadro della creazione, conformemente alla sua volontà. Dio rimane libero di agire come gli pare, questa è la verità gravida di minaccia e di consolazione che domina qualsiasi situazione. Pertanto lo scisma che separa la chiesa dalla Sinagoga è già abolito; la chiesa in quanto Israele autentico formato da Giudei e da pagani, non potrebbe dimenticare la promessa che riposa sull’Israele infedele della Sinagoga. Il Dio che recide è anche quello che rinnova e ricrea. Ha tagliato qualche ramo naturale per sostituirlo con rami selvatici. Questa situazione caratterizza attualmente la chiesa e la Sinagoga. Ma Dio può di nuovo innestare quel che ha reciso. C’è dunque una promessa per la Sinagoga. Per quanto sembri definitiva agli occhi della chiesa, l’incredulità ebraica non è un fatto eterno ma temporaneo e limitato. Infatti, come potrebbe essere un fatto eterno? Ne è incapace per definizione. Non è, al contrario, il fatto «limitato» per eccellenza (ϰατ’ ἐξοχὴν) che. agli occhi di Dio, deve avere un termine, anche se l’uomo non lo può vedere? Dio non smette mai di dire no all’incredulità, per quanto inveterata. Di conseguenza la fede in lui non potrebbe esentarsi dal fare i conti con la fine di ogni forma di incredulità; non potrebbe esistere senza attendere con fermezza un cambiamento dal male al bene, anche là dove, umanamente parlando, la potenza del male sembra essere invincibile. Perciò Paolo punta sulla possibilità che i rami recisi siano nuovamente innestati. Non dimentica quel che è accaduto ai rami selvatici: ricorda costantemente il miracolo inconcepibile dei pagani che sono passati

dalle tenebre alla luce, il modo in cui sono stati resi partecipi della radice santa e sono apparsi d’improvviso come l’oggetto autentico dell’autentica elezione di Israele. Tutto è diventato reale ed evidente grazie alla risurrezione di Gesù Cristo. Ormai dunque è impossibile credere che l’incredulità giudaica possa essere definitiva e che Dio abbia pronunciato la sua ultima parola a questo proposito. Si tratta insomma di comprendere che gli Israeliti apparentemente esclusi dall’elezione saranno un giorno reintegrati: ciò esclude definitivamente ogni motivo di dubbio sull’autenticità dell’elezione di Israele in quanto tale. Si osservi che Paolo fonda la sua speranza non su una visione ottimistica dell’uomo israelita, ma sull’onnipotenza di Dio: «Dio è così potente da innestarli di nuovo» (v. 23 b). Ma per lui come per gli altri testimoni dell’Antico e del Nuovo Testamento, l’onnipotenza di Dio non equivale a qualsiasi potenza astratta e senza limiti. È la dottrina dell’apocatastasi, cioè della redenzione finale universale, che deriva sia da una visione ottimistica dell’uomo sia da una rappresentazione astratta della potenza propria della divinità. Paolo non si esprime in funzione di quella dottrina. Parla da una parte dell’uomo realmente perduto, come lo vede nella Sinagoga e che, secondo Rom. X, non incita all’ottimismo; si riferisce d’altra parte all’onnipotenza concreta del Dio che, in Gesù Cristo, ha accolto l’uomo ed è intervenuto in suo favore. Si tratta dell’onnipotenza, diventata evidente, della risurrezione di Gesù Cristo, attualizzata nella fede della chiesa e la cui rivelazione finale avverrà al momento della parusia. Il pensiero relativo all’avvenire di quell’uomo e all’onnipotenza di quel Dio è concepibile soltanto nel quadro della fede; essa è un atto concreto di speranza in cui non si potrebbe né sovrastimare l’uomo né intaccare la libertà di Dio. Ma è per questo che possiede contemporaneamente forza e chiarezza. Dato il modo in cui Dio si comporta nei confronti dell’uomo, la fiducia in lui non è mai troppa: la sua sovranità e la sua promessa non si possono più misconoscere e, di conseguenza, diventa impossibile disperare dell’uomo, credere ancora al persistere della sua incredulità. La sola cosa con la quale ormai si possano fare i conti, è la fede che un giorno sarà data a coloro che, per il momento, non credono. Questo è sottolineato dalla spiegazione del v. 24 in riferimento all’onnipotenza di Dio. Quel che Paolo considera e quel che gli pare determinare l’intero avvenire è il fatto evidente che caratterizza il tempo presente: i pagani sono stati chiamati a diventare il vero Israele e in tal modo sono stati visibilmente integrati all’elezione.

Agli occhi dell’apostolo, quel che è accaduto ai pagani è doppiamente miracoloso. Costoro erano per natura estranei all’alleanza. Sono cresciuti e vissuti lontani da ogni speranza. Erano semplici rami nati dall’olivo selvatico. Provenienti da ogni specie di popoli informi, facevano semplicemente parte dell’universo, del cosmo che, in sé non potrebbe essere stato né diventare oggetto dell’elezione divina. All’infuori di Israele, nessun popolo è infatti il popolo di Dio. Poiché è da Israele che il Figlio di Dio è sorto in quanto uomo. E poiché la salvezza per l’uomo consiste nel partecipare all’umanità del Figlio di Dio, nel diventare suo fratello, nell’essere con lui e in lui oggetto dell’elezione divina, nessuno potrebbe accedere alla salvezza, cioè alla comunione con il Dio vivente, all’infuori d’Israele. Perciò la salvezza è destinata ai Giudei, e a loro soltanto. Perciò «Cristo è stato il servitore dei circoncisi, per dar prova della veracità di Dio con il confermare le promesse fatte ai padri» (Rom. XV, 8). I pagani di cui parla l’apostolo, non avevano nulla in comune con i Giudei. Per natura, facevano parte di un mondo estraneo all’elezione, privo di promessa e di salvezza. Ed ecco che, contrariamente a tutte le leggi naturali, sono stati sradicati da quel mondo, recisi dall’olivo selvatico a cui appartenevano e da cui traevano alimento; d’ora in poi sono liberati dalla loro situazione priva di speranza, liberati dalla vanità e dalla calamità della loro esistenza non israelita. Una simile negazione della negazione è dunque in sé e in quanto tale già un miracolo. Come avrebbero potuto, da soli, non essere più quello che erano? In che modo l’uomo riuscirebbe da solo a non essere più un pagano? Abramo stesso e con lui Israele, sono stati tratti dal mondo pagano e elevati alla dignità di popolo del Figlio di Dio e del Figlio dell’uomo, non grazie ai loro meriti, ma grazie ad un atto del Dio che sceglie per mezzo della sua Parola onnipotente. L’esistenza di quella radice naturale, santa nel suo carattere naturale, non è un prodotto dell’evoluzione, ma implica un atto creativo: non deve nulla alla natura, ma tutto alla grazia. Ed ecco che quella scelta si ripete. Non che questo o quel popolo prenda ormai il posto di Israele o diventi una nazione eletta accanto a lui. È escluso per definizione, poiché l’elezione d’Israele ha avuto luogo a causa dell’elezione del Figlio di Dio e del Figlio dell’uomo, a causa di Gesù Cristo che è uno solo; non potrebbe dunque essere superata, sostituita o completata da nessun’altra. Capita semplicemente che avvenga una nuova separazione in seno ai popoli della terra, proprio fra i non eletti, e quell’avvenimento viene a confermare che non sono eletti in sé e che non c’è popolo eletto ai’infuori di Israele. In altri termini, si assiste ad una vera rottura

della legge naturale, ad un’abolizione della negazione che caratterizza l’esistenza dell’uomo nel mondo, ad una limitazione della sua condizione priva di speranza. Persone di tutte le nazioni, improvvisamente non sono più determinate dal loro ambiente naturale. Persone che vivevano senza speranza e senza Dio, secondo la legge di questo mondo, sono ora staccate dalle loro origini, strappate al loro vuoto e alla loro miseria. La storia di Abramo che lascia il paese di Haran si ripete in mille modi. Paolo vede anzitutto questo quando si riferisce all’onnipotenza di Dio (v. 23), e questo fatto è degno di essere preso in considerazione: non è inconcepibile e miracoloso che dei pagani di colpo non lo siano più, siano tratti dal loro ambiente naturale, dopo essere stati crocifissi, messi a morte e sepolti con Gesù Cristo, e in tal modo liberati da quanto fino a quel momento determinava la loro intera esistenza? Ma è solo un aspetto del medesimo miracolo. Dopo aver detto: «Sei stato reciso dall’olivo selvatico», l’apostolo aggiunge anche (e di fatto si tratta della medesima operazione): «Sei stato innestato sull’olivo pregiato secondo una prassi contraria alla natura» (alla natura dell’olivo pregiato, e non alla «tua natura», come traduce Lietzmann). Dall’altra parte c’era dunque Israele: creato e mantenuto in vita dalla grazia dell’elezione divina, affinché fosse il tronco sul quale sarebbe sorto colui che è il Figlio di Dio e il Figlio dell’uomo, Israele, che cresce nutrito dalla radice santa e pertanto costituisce il popolo dell’alleanza verso il quale l’amore di Dio si è rivolto in modo del tutto unico, poiché quell’amore non è altro che la comunione del Padre con il Figlio, cioè con Gesù, l’uomo eletto, e col suo popolo e, di conseguenza, non potrebbe essere confuso con una generica «filantropia» divina. Gesù, l’uomo eletto, portava in sé l’intera promessa della salvezza futura, e la benedizione già presente in quella promessa. Si addiceva alla natura delle cose, creata e salvaguardata dalla grazia, che tutto ciò esistesse qui, in Israele, e non altrove. Di conseguenza Israele è stato messo a parte e i comandamenti della sua legge mirano ad assicurare e a perpetuare la sua peculiarità. La circoncisione è il segno dell’alleanza, e serve a ricordare ad ogni individuo maschio di quel popolo che appartiene non alla gente di fuori ma a coloro da cui nascerà l’uomo unico secondo Dio. Ecco spiegato lo zelo dimostrato dai profeti per impedire ogni compromesso esterno o interno con i pagani e con i loro usi. Ecco dove era necessario arrivare per preservare la grazia diventata natura. E che accade quando i tempi sono compiuti? «Contrariamente alla natura dell’olivo pregiato», molti pagani, strappati al loro ambiente, si uniscono ad Israele e riconoscono il suo Messia. In altre parole, essi stessi diventano Israele:

prendono parte ai suoi vantaggi, prendono il posto che, di diritto, non poteva che spettare ad autentici Israeliti. Senza però dover sottostare alle condizioni fino ad allora imposte ai proseliti, cioè senza diventare loro stessi dei Giudei, senza farsi circoncidere, senza sottomettersi alla disciplina della legge. Rimangono quello che sono, pagani, ma credono. Credono al Messia di Israele. E quello basta perché siano essi stessi Israele e partecipino a tutte le promesse fatte a quel popolo. Anzi, prendono ormai parte al compimento di quelle promesse, alla salvezza che deve essere ancora rivelata, ma che è già una realtà presente. Com’è stato possibile? Παρὰ φύσιν, senza alcun dubbio, non in opposizione alla natura della radice santa di Israele, ma in opposizione alla natura del ceppo nato da quella radice, quale si è sviluppata. Occorreva che la storia israelita giungesse al suo termine e che il perdono dei peccati promesso ad Israele diventasse un fatto in Gesù Cristo. Occorreva anche che quel popolo diventasse insensibile al punto da rifiutare l’ultimo atto del patto divino, consegnando il suo Messia ai pagani, cioè alla morte. Occorreva che, per mezzo della risurrezione di Gesù Cristo, Dio manifestasse la sua resistenza a Israele, pur conducendo i pagani alla fede. In una parola, la saggezza insondabile e l’onnipotenza irresistibile di Dio, hanno consentito che «l’olivo naturalmente selvatico venisse innestato sull’olivo pregiato». Ecco il secondo aspetto del miracolo di cui parla l’apostolo: «I pagani glorificano Dio per la sua misericordia» (Rom. XV, 9). Paolo si riferisce a questo fatto quando dichiara, al v. 23, pensando ai Giudei ribelli: «Anche loro saranno innestati». Afferma testualmente: «A maggior ragione saranno innestati secondo la loro natura sull’olivo che è loro specifico». Non fa un’ipotesi, basata sull’osservanza o sull’analisi di un’evoluzione già in corso. La sua certezza non deriva dal felice sviluppo della missione fra i Giudei, né da un eventuale diverso atteggiamento nell’ambito della Sinagoga. L’avvenimento che annuncia è chiamato «mistero» nel v. 25 e nel v. 24 è motivato unicamente dall’espressione avverbiale πόσῳ μᾱλλον. La conversione dei pagani è il grande miracolo in confronto al quale quella dei Giudei sarà sempre un miracolo meno importante; essendo stato e essendo tuttora testimone di quel primo miracolo, a maggior ragione l’apostolo può contare sul secondo. Di conseguenza, lo deve annunciare. La conversione dei pagani caratterizza infatti l’evento dei tempi messianici inaugurati dalla risurrezione di Gesù Cristo; segna il compimento di tutte le promesse fatte ad Israele, è il miracolo in cui l’elezione di quel popolo si è manifestata una volta per tutte. Dei pagani vengono dalle estremità della terra alla montagna di Sion per adorare Dio con

Israele: non è forse il compiersi di tutte le promesse fatte a Israele e la rivelazione della sua elezione? Dal momento che quel fatto inaudito si è verificato, può stupire che Israele vi abbia la sua parte? La montagna di Sion a cui ormai i pagani hanno accesso non è forse il luogo di residenza naturale per Israele? Come potrebbe chiudersi definitivamente anche solo ad una parte di Ebrei? Si può pensare che Israele possa non essere, a breve scadenza, riunito tutto insieme intorno al suo Signore? In altre parole, non bisognerà che, in un modo o nell’altro, i rami attualmente recisi siano di nuovo innestati? Il gran miracolo che si è verificato richiede di necessità questa «reintegrazione», il cui carattere inconcepibile si colloca meno nella sua natura che nel fatto che essa non si è ancora verificata. Fin dall’inizio, infatti, quell’enigma è stato (IX, 1-5) il punto di partenza delle riflessioni di Paolo: è veramente incomprensibile che Israele non sia ancora diventato, nella sua totalità, il popolo della chiesa. Poiché la chiesa esiste fin dall’inizio nella radice santa da cui Israele proviene; Israele è chiamato ad essere chiesa nel corso di tutta la sua storia e a manifestarlo alla fine attraverso la rivelazione del suo Messia; in ultimo deve scomparire in essa e assumerne il volto autentico e definitivo. Perciò il v. 24 afferma esplicitamente: οἱ ϰατὰφύσιν ἐνϰεντρισϑήσονται. In altre parole, l’evento annunciato dall’apostolo sarà del tutto naturale: segnerà la fine di una rottura incomprensibile in seno al corso normale delle cose. Il grande miracolo dei tempi messianici, la vocazione e la conversione dei pagani, non può che servire, in definitiva, ad annunciare e a preparare il ristabilirsi dell’ordine naturale in riferimento a Israele. L’elezione dei pagani rende manifesta già da ora quella di Israele. È inconcepibile che l’evento «naturale» che deve confermare l’elezione di Israele non abbia ancora avuto luogo, benché sia già annunciato e preparato dal miracolo che si è verificato; è inconcepibile che l’incredulità di Israele continui a velare la sua elezione e a renderla dubbiosa. Ecco l’enigma contro cui Paolo lotta per tutti i capitoli IX-XI dell’epistola ai Romani: colpito e messo in crisi nel suo intimo dalla contraddizione che scorge, non teme di affrontarla in tutti i suoi aspetti, pur cercando di impedire alla chiesa di volerla risolvere eliminandola arbitrariamente. Per poter sussistere in quanto chiesa di Gesù Cristo, la comunità cristiana deve, proprio a motivo della sua elezione, sempre mostrarsi riconoscente nei confronti di Israele anche se incredulo; deve continuare a sperare per lui e a rimanergli umilmente fedele. Ecco quel che l’apostolo vuol farle capire con tutti i mezzi. Nel v. 25 parla di un «mistero» che la Chiesa, soprattutto nella sua

componente di origine pagana, deve conoscere e riconoscere: Οὐ γὰρ ϑέλω ὑμᾶς ἀγνοεῖν, ἀδελφοί, τò μυστήριον τοῦτο … Non si tratta in questo caso del cambiamento che avverrà per Israele quando, conformemente alla sua natura e a conferma della sua elezione, sarà di nuovo innestato e la Sinagoga sarà integrata alla Chiesa. Questo evento sarà infatti normale: fin da ora, è annunciato e preparato dalla vocazione e dalla conversione dei pagani. No, il mistero di cui parla Paolo sta essenzialmente nel fatto che quell’evento non si è ancora prodotto: ecco un enigma che continua a preoccupare l’apostolo e, con lui, l’intera chiesa. Se Paolo definisce mistero quell’enigma, quel «non ancora» o quell’«ancora sempre» che comunque mette in crisi, è perché ancora una volta vuol mostrare che non si tratta di uno «scandalo» fortuito della storia universale che potrebbe essere spiegato in un modo qualsiasi, ma di qualcosa che è dispensato dal volere divino, che precede e oltrepassa nel modo più assoluto le possibilità della saggezza e della riflessione umana. Soltanto l’elezione eterna di Dio, che coinvolge Israele e la chiesa, è da prendere in considerazione a questo proposito. Fin dall’inizio Paolo considera un mistero l’enigma che la Sinagoga costituisce per lui e per la chiesa. Si è sempre riferito alla volontà di Dio per spiegare il «non ancora» o l’«ancora sempre» di cui prende atto: nel passo di Rom. IX, 6-13, ha mostrato come, fin dall’inizio, Dio ha eletto la chiesa in Israele, procedendo ad una distinzione in seno a quel popolo; in Rom. IX, 14-29 e IX, 30-X, 21, ha mostrato in qual modo Dio, nel procedere a quella distinzione, abbia rivelato la giustizia e la perfetta sufficienza della sua misericordia: in Rom. XI, 1-10 e XI, 11-22, ha infine mostrato che la Chiesa esiste già di fatto in Israele e che non potrebbe avere quell’identità senza l’Israele incredulo. Si tratta dunque di un solo e unico rinvio alla decisione di Dio che la chiesa conosce bene, poiché Gesù Cristo ne è il contenuto, e che rimane nascosta nei ben noti fatti insoliti e sconvolgenti. Non come un enigma qualsiasi. Essendo accessibile alla sola fede, quella decisione divina esclude che la si possa penetrare o scartare senza problemi; suscita al contrario, in coloro che l’affrontano, spavento, gratitudine e speranza, meraviglia e adorazione. Perciò il termine «mistero», che l’apostolo utilizza a proposito di Israele la cui conversione si fa attendere, riassume di fatto l’intero problema dibattuto nei capitoli IX-XI di Rom. Paolo vuol far sapere ai cristiani che in tutta quella vicenda si trovano in presenza del mistero di Dio; perciò li esorta a non considerarsi saggi (ἐν ἑαυτοῖς φρόνιμοι), a rinunciare alla loro ragione per attenersi «alla profondità della ricchezza, della saggezza e della sapienza di Dio» (v. 33). Il v. 24 ha presentato ancora

una volta l’enigma nella sua forma più brutale: il fatto incomprensibile, cioè la vocazione e la conversione dei pagani, si è verificato; l’altro fatto, quello comprensibile, normale, necessario, cioè la conversione d’Israele stesso, non è ancora avvenuto. Perché? Perché tale è la volontà di Dio, risponde l’apostolo, nel v. 25 b. Dio ha deciso che la maggioranza di Israele, incarnata dalla Sinagoga, cada nell’insensibilità e rimanga lontana dalla chiesa, cioè priva dei benefici dell’elezione e temporaneamente esclusa dal compimento delle promesse, finché si verifichi l’evento di cui si scorgono già i primi segni: cioè finché la «totalità dei pagani» sia entrata nella chiesa e la loro elezione abbia raggiunto il suo scopo attraverso la loro vocazione e la loro conversione. La «totalità dei pagani» non significa la totalità numerica di tutti gli individui pagani; infatti, nella Bibbia, non è mai questione di «totalità non qualificate»; designa la somma dei membri eletti del corpo di Gesù Cristo, provenienti dal mondo pagano. Infatti secondo Col. I, 19, è in Gesù Cristo che abita ed esiste il πλήρωμα; egli è la somma e il criterio di ogni pienezza. È dunque la somma ed il criterio dell’insieme degli eletti. Di conseguenza è la fede in lui che determina chi, fra i Giudei ed i pagani, appartiene al numero di coloro che sono chiamati ad entrare nella chiesa. Ma, e qui risiede il mistero del decreto di Dio, occorre che prima la totalità dei pagani sia entrata. Quello che, secondo Rom. I, 6, spetta di diritto «prima ai Giudei, poi ai Greci», deve spettare, dato il modo in cui avvengono le cose (fatta astrazione del «resto» uscito da Israele), anzitutto ai Greci e solo dopo ai Giudei. Bisogna che gli ultimi siano i primi e i primi gli ultimi (Mc. X, 31). I figli nati in casa saranno buttati fuori e dovranno attendere, mentre gente venuta dai quattro punti cardinali sarà riunita nel regno di Dio con Abramo, Isacco e Giacobbe (Lc. XIII, 28). Vi corrisponde, a livello politico, il fatto che «Gerusalemme sarà schiacciata dalle nazioni, fino a che i tempi delle nazioni saranno compiuti» (Lc. XXI, 24). I fatti salienti della storia d’Israele: il doloroso appartarsi della Chiesa, l’ombra funesta che ogni vocazione proietta in seno a questo popolo, l’insensibilità provocata da Dio, l’incredulità umana, nulla di tutto ciò è dovuto al caso, secondo il v. 26 a. Ma non è nemmeno il caso di vederci un effetto del capriccio o dell’arbitrarietà di Dio. Si tratta di fatti spiegati ma non motivati dalla colpa e dal peccato di Israele. Sono motivati in quanto è giusto e necessario, secondo la volontà buona, gratuita e misericordiosa di Dio, che i

primi fra gli eletti siano lasciati indietro e che di conseguenza i loro occhi, le loro orecchie e i loro cuori rimangano misteriosamente chiusi. Se la Sinagoga continua ad esistere, è perché l’elezione d’Israele da parte di Dio è la sua elezione in Gesù Cristo, cioè l’elezione operata dalla misericordia divina e a questo fatto deve corrispondere il mezzo attraverso il quale si compie: «È attraverso questo mezzo che tutto Israele sarà salvato». «Tutto Israele» non significa nemmeno qui la totalità dei Giudei presi individualmente. Ma è poco verosimile che l’espressione sia semplicemente parallela alla precedente e designi l’insieme dei membri di ceppo israelita scelti da Gesù Cristo. Il seguito del testo mostra che l’accento della frase cade sull’οὔτως, cioè sul fatto che il capovolgimento incomprensibile che è intervenuto rappresenta la via giusta e necessaria della salvezza cui gli eletti di Israele (nel senso stretto del termine) partecipano anche, attestando e confermando in tal modo l’autenticità dell’elezione del popolo giudaico in quanto tale. «Tutto Israele» designa la comunità degli eletti provenienti dai Giudei e dai pagani, che Dio ha scelto in Gesù Cristo, cioè la chiesa intera che, con la radice santa di Israele, includerà tutti coloro che, in ultima istanza, sono legati a quella radice e se ne nutrono: il residuo di Israele, i pagani a loro volta integrati, e infine e soprattutto, tutti coloro fra i Giudei che, dopo essere stati recisi, saranno nuovamente innestati. «La totalità di Israele» sarà salvata nel modo attualmente figurato dal rapporto della chiesa con la Sinagoga: i primi saranno gli ultimi, e gli ultimi saranno i primi. Perché? Perché è in questo modo, e solo in questo, che la salvezza di tutto Israele appare come un atto della misericordia divina, con il quale Dio innalza gli umili e abbassa i potenti, con cui perdona i peccati senza tener conto delle pretese umane; poiché infine è soltanto in questo prodigioso capovolgimento che la salvezza può essere un effetto dell’elezione, la quale è identica alla misericordia divina. Nella citazione dei vv. 26 b-27, non è da trascurare il v. 27 che, riassumendo a modo suo il testo di Ger. XXXI, 33-34, precisa quel che (αὒτη) sarà in definitiva l’alleanza di Dio con il suo popolo, cioè, secondo il v. 26 b che si riferisce ad Is. LIX, 20: «Un liberatore verrà da Sion ed eliminerà la disubbidienza dei discendenti di Giacobbe». Israele sarà dunque santificato e salvato dalla venuta promessagli di un liberatore uscito da Sion, la cui funzione sarà quella di cancellare la disubbidienza. Solo in tal modo sarà portata a termine l’alleanza fra Dio e il suo popolo. E questo implica che gli ultimi saranno i primi, e i primi gli ultimi. Gli ultimi saranno i primi proprio perché il Liberatore accoglie coloro che sono perduti e concede loro il soccorso

di cui hanno bisogno: quelli che ha innalzato costituiscono Israele! I primi saranno gli ultimi perché quel Liberatore stabilisce che le persone oggetto di quell’intervento sono perdute ed hanno assoluto bisogna del suo soccorso: quelli che ha abbassato costituiscono Israele! Questo, appunto, è la maniera di fare di Dio «in Gesù Cristo» nei confronti dell’intero Israele che di necessità è posta in risalto nel capovolgimento dell’ordine naturale significato dall’insolita successione: prima i pagani, poi i Giudei. È consentito ai pagani di «precedere», poiché nella loro bassezza naturale sono, in rapporto ai Giudei, l’oggetto stesso dell’elevazione di cui il Liberatore venuto da Sion è l’autore. E i Giudei sono condannati a «seguire», poiché nella loro elevatezza naturale sono, in rapporto ai pagani, l’oggetto dell’abbassamento operato da quel medesimo Liberatore. È in quella differenza che la misericordia divina rivolta verso gli uni e gli altri diventa reale e visibile. Ecco perché quella stessa differenza è conforme al volere di Dio e, di conseguenza, rappresenta il mistero cui si tratta di credere, che si tratta di contemplare con stupore e di adorare nell’ambito dell’enigma che caratterizza gli attuali rapporti fra la chiesa e la Sinagoga. Chiunque discerna la via che Dio segue qui, via che non potrebbe rimanere impenetrabile alla chiesa, si potrà certo meravigliare, ma finirà per ammettere che deve essere così. La via che riassume tutte le vie di Dio e che la chiesa conosce, il piano di Dio, quale esiste in origine e quale è stato rivelato, è infatti Gesù Cristo. Poiché Gesù Cristo viene da Sion, il problema è risolto: non può essere venuto invano anche per Israele in quanto tale. E poiché esce da Sion, vuol dire che è andato nel mondo intero, come lo indica Is. LIX, 19, che precede immediatamente la parola citata al v. 26: «Il nome di Yahvé sarà temuto dall’Occidente e la sua gloria dal Levante; poiché giungerà come un fiume in piena che lo spirito di Yahvé metterà in fuga». È lui il ῥυóμενος (liberatore) e se la sua funzione regale consiste nel cancellare il peccato, è chiaro che il capovolgimento di cui parla l’apostolo deve avvenire e che davanti a lui (poiché per mezzo suo Dio famisericordia a tutti e tutti sono destinati ad essere suoi fratelli per mezzo della fede), i ricchi devono essere come dei poveri e i poveri come dei ricchi, gli eletti come dei respinti e i respinti come eletti. Da quel momento, la speranza per Israele (cioè l’avvenire della Sinagoga nella chiesa) si trova non più all’inizio, come potrebbe sembrare, ma alla fine di ogni cosa. Lo si noti: questa è la sua esistenza reale. Quanto al diritto di primogenitura giudaico, che indica che Dio ha scelto dapprima Israele, è in quel capovolgimento che entra veramente e manifestamente in vigore. I Giudei non sarebbero gli ultimi se non fossero

autenticamente i primi. Certo, non sono ancora gli ultimi, ma per ora sembrano voler rifiutare di entrare nella chiesa. Però non possono cambiare nulla al fatto che vivono già ora con la chiesa, sulla base e nell’economia della misericordia divina: certo, senza che ancora credano, ma in vista della fede; poiché è in vista della fede che sono stati scelti per primi, affinché vengano a confermarla da ultimi. Perciò Israele possiede la sua specifica speranza nella speranza della chiesa: poiché se la chiesa crede già non può essere, anche per lei, altro che l’economia della misericordia divina in tutta la sua estensione, che dà alla fede della chiesa il carattere di una speranza sicura. È la conclusione dei vv. 28-36. È opportuno iniziare con l’ascolto del v. 29: «I doni della grazia e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (letteralmente «senza pentimento»). Questa frase è infatti alla base del v. 28 b, che costituisce la spiegazione in contrappunto del v. 28 a. D’altronde la frase del v. 29 è l’assioma in seguito sviluppato e precisato nei vv. 30-32. Che significa? Richiama Rom. IX, 6: «La Parola di Dio non potrebbe vanificarsi o rimanere priva di effetto». Quest’affermazione più generale, e anche l’insieme dei capitoli IX e X, va interpretata in base al passo di Rom. XI, 29; le promesse fatte ad Israele, o meglio, l’amore di Dio che si è rivolto verso di lui (infatti è di questo amore che parlano i termini di χαρίσματα e di ϰλῆσις), insomma il fondamento di ogni elezione, tutto ciò è incontrollabile. Anticipiamo qui la celebre conclusione di Rom. XI. Le promesse di Dio, il suo amore, la sua scelta, fanno parte della costanza divina stessa. Le sue decisioni (ϰρίματα) sono insondabili e le sue vie (ὁδοί) sono incomprensibili, dice il v. 33; cioè bisogna escludere di giudicarle da un punto di vista superiore; non si può che riconoscerne la validità sottomettendovisi. Infine, sono insondabili e incomprensibili in quanto Dio (secondo i vv. 34-35) non ha alcun consigliere o concorrente perché, nel suo volere, precede veramente tutto quel che esiste, tant’è vero che (secondo il v. 36) tutto viene da lui, esiste grazie a lui e tende verso di lui. Ma una tal lode della sovranità di Dio, che ha da sola la responsabilità di tutto ciò che accade, ha un senso molto preciso in base ai vv. 30-32: è perché Dio è misericordioso oltre ogni comprensione che è a tal punto insondabile. La sua misericordia è la sua volontà che precede ogni cosa; è l’inizio e il termine e lo strumento di tutto ciò che esiste. Perciò non vi è caso, arbitrarietà, capriccio, cioè infedeltà, nelle sue decisioni e nelle sue vie, per quanto insondabili e incomprensibili possano parere ed essere di fatto. In tutto ciò che vuole, Dio non può e non potrà smettere di volere una cosa sola; e in tutto quello che fa, non smetterà di fare una cosa sola, poiché lui è e rimane il

medesimo, cioè colui che è misericordioso al di là di ogni possibilità di comprensione. Per il fatto che è misericordioso, ha scelto il proprio Figlio e a causa di lui il popolo di Israele, per fargli grazia e chiamarlo a sé. Non lo ha fatto invano, né solo superficialmente. Non si smentirebbe mai, altrimenti sarebbe lui stesso un mentitore. Altrimenti, si perderebbe nella sua stessa divinità: no, per il fatto che è Dio, rimane e rimarrà fedele a se stesso. L’affermazione del v. 29 non procede da qualche concezione filosofica sull’immutabilitas propria dell’Essere supremo, non più di quanto il suo parallelo, nella dossologia dei vv. 33-36, si riferisca all’incomprehensibilitas e all’independentia di quell’Essere supremo. Ma nemmeno ci si potrebbe vedere l’espressione del disappunto di un Giudeo che, per disperazione, si riferirebbe ad una fedeltà che Dio dovrebbe conservare nei confronti del suo popolo, per il fatto che quel popolo sarebbe una razza a parte o perché esso stesso sarebbe stato fedele alla sua legge. L’affermazione del v. 29 non è altro che l’espressione e la testimonianza della speranza cristiana che discerne, nella risurrezione di Gesù Cristo, la prova che la misericordia divina non ha termine, e che riconosce Dio come il Dio eterno in quell’atto e gli dà ragione. I χαρίσματα designano l’insieme dei benefici della riconciliazione compiuta nella morte di Gesù Cristo e la ϰλῆσις indica la rivelazione di quell’avvenimento, quale si è verificata nella risurrezione di Gesù Cristo medesimo. Ma che altro è tutto ciò, se non il compiersi di tutte le promesse di Dio ad Israele, il realizzarsi concreto dell’elezione di quel popolo verso il quale Dio si è rivolto nel suo amore? Chi riconosce, come fa la chiesa, che la fedeltà di Dio si è manifestata e realizzata in questo, riconosce anche che quella fedeltà è la stessa che Dio conserva verso Israele; in una parola, riconosce e accoglie con gratitudine tutto quel che Dio ha realmente dato a quel popolo. E colui che confessa, come fa la chiesa, oltre a quella fedeltà di Dio anche la ragion d’essere della sua speranza, colui che vede tutto il suo avvenire nel fatto irrevocabile creato dalla misericordia divina, costui spera anche e proprio per Israele, cioè aspetta con sicurezza che quel che è stato dato ad Israele giovi non solo ad altri ma in definitiva anche a quel medesimo popolo. Dal momento che Dio rimane fedele a se stesso, cioè alla sua misericordia, e che la Chiesa può contare su di lui, è chiaro che l’avvenire di Israele non può più dar luogo alla minima perplessità, qualunque cosa possa significare in sé e per la Chiesa, il fatto che la Sinagoga continui ad esistere. Il v. 29 non fa che motivare definitivamente l’affermazione del v. 28 b: i Giudei attualmente increduli sono amati da Dio, conformemente all’elezione

d’Israele, a motivo dei loro padri (benché recisi, sono santi perché nati dalla radice santa: v. 16). Altrimenti, la promessa fatta ai padri sarebbe rimasta vana, e vana la fede in essa. In poche parole, gli antenati di Israele, non amati, sarebbero rimasti senza consolazione. Ma «sono amati»! Questa è la parola decisiva della storia di Israele; si applica alla situazione presente e ad ogni membro di quel popolo. Definisce da ora la posizione dei Giudei increduli: sono amati da Dio, non a motivo di quello che sono e fanno e la chiesa dovrebbe comprendere che è così anche per lei, ma a motivo della fedeltà divina. Dio infatti ci ha amato per primo e continua ad amarci, anche se non è ricambiato; non si è dato lui stesso attraverso suo Figlio a favore dei suoi nemici? Certo, in base al v. 28 a, i Giudei increduli sono attualmente, dato il loro atteggiamento nei confronti dell’Evangelo, dei nemici di Dio (a motivo del parallelo del v. 28 b, bisogna piuttosto tradurre: sono odiati da Dio). Ma non cambia nulla. Perché quel giudizio, per quanto giusto, non può essere valido che in relazione al carattere irrevocabile dell’elezione, non può che avere un senso: che, allo stato attuale dei rapporti fra la chiesa e la Sinagoga, i Giudei increduli confermano e attestano la sentenza di morte eseguita sul Golgota sull’uomo peccatore, cioè l’inevitabile abbassamento di tutto ciò che si eleva davanti a Dio e il fatto che ogni creatura ha bisogno ed è degna di misericordia. Il giudizio in questione però non può pregiudicare nulla, nemmeno riguardo all’avvenire dei Giudei. Facendovi riferimento per condannare senza scampo la Sinagoga quale esiste nel presente, la chiesa rinnegherebbe il Dio che non può essere rinnegato e in tal modo condannerebbe se stessa. Perché mai i Giudei increduli rimangono indietro, perché mai continuano ad essere «odiati da Dio»? In base allo sviluppo dei vv. 11-22, è δι’ ὑμᾶς «per causa vostra», affinché l’Evangelo giunga al mondo pagano (v. 11) e i pagani «entrino» per primi (v. 25). La chiesa, in particolare nella sua componente pagano-cristiana, non dovrebbe comprendere che le persone che hanno quella funzione sono destinate ad un avvenire del tutto diverso, per ora ancora oscuro, e che perfino in quella funzione sono già amati da Dio in quanto sono vittima del suo odio? Che significa infatti l’assioma cristiano del v. 29: i doni della grazia e la vocazione di Dio sono irrevocabili (cioè senza pentimento)? Dato il modo in cui è espresse ai vv. 30-32, indica la consolazione che chiesa e Sinagoga hanno in comune e che non possono capire e ricevere se non insieme. Che c’è all’inizio, quando si considerano le cose dal punto di vista umano? Risposta: la disobbedienza. I pagani che, in questo momento, precedono i

Giudei increduli nella chiesa devono riflettere sulla verità del v. 30 a: «Anche voi, un tempo, avete disobbedito a Dio». Non è dunque alla loro obbedienza che devono il loro attuale vantaggio, cioè la loro presenza nella chiesa, in cui ormai hanno un avvenire e una speranza. Non è la loro obbedienza che costituisce la realtà incrollabile cui si possono riferire per andare avanti senza paura. Umanamente parlando, quel che sta dietro di loro corrisponde esattamente e obiettivamente a quel che si scopre dietro i Giudei increduli: la disobbedienza verso Dio. Nella fattispecie si tratta di una disobbedienza molto più spaventosa di quella degli Ebrei, perché per loro era naturale, non era turbata né contenuta da alcuna promessa o legge divina, perché in una parola era semplicemente la conferma senza limiti del vuoto in cui esistevano dinanzi a Dio. Ma a questa disobbedienza è stato posto un termine: i pagani sono stati aggregati alla chiesa. Forse perché sono diventati obbedienti? No. Se lo sono diventati, è perché hanno ottenuto misericordia da parte di Dio, di quel Dio cui fino ad allora non avevano fatto che disobbedire. Se occupano il posto che ora è il loro, non è perché si sono alzati per andare di loro iniziativa alla montagna di Sion; è perché il ῥυόμενος uscito da Sion è andato verso di loro e li ha strappati al «vano modo di vivere ereditato dai loro padri» (J Pt. I 18), per prenderli con sé e fare di loro la sua proprietà. Ma lo stra mento di una simile misericordia non meritata (v. 30 b) è stato appunto l’incredulità giudaica di cui costatano l’esistenza, senza capirla, all’interno della Sinagoga. Ancora una volta, i pagani non sarebbero quello che sono se la salvezza non fosse venuta loro dai Giudei, attraverso la caduta dei Giudei, cioè attraverso quel che appunto rende questi ultimi detestabili agli occhi di Dio. Come farebbero a quel punto a non considerare se stessi come un oggetto e a non vedere negli altri uno strumento della misericordia divina? Che altro potrebbero costatare, in se stessi come in quegli insoliti partners, se non la rivelazione di quella misericordia, la manifestazione del suo carattere insondabile e incrollabile? Dove si collocherebbero, se non su quel terreno, per prendere in considerazione il loro avvenire e quello degli Israeliti increduli? Ma (v. 31) la disobbedienza esiste anche, fin dall’inizio, presso i Giudei increduli, anche se si presenta in altro modo. Presso di loro infatti, non è semplicemente un fatto del passato, ma una realtà presente. Non avendo la copertura della misericordia divina che l’annulla, è una disobbedienza manifesta e flagrante, che si presenta come l’atteggiamento specifico e primario dell’uomo nei confronti di Dio. Ed è una disobbedienza molto più brutta di quella dei pagani, perché si è creata e continua a crearsi nel quadro

della rivelazione dell’elezione, nell’ambito dell’alleanza fra Dio e il suo popolo, perché consiste insomma nel rifiuto del Messia venuto presso i Giudei e crocifisso per loro, e perché in tal modo costituisce il peccato irremissibile, il peccato contro lo Spirito Santo. Ma sarebbe assurdo mettere a confronto la disobbedienza pagana e quella ebraica, per considerare l’una più leggera e l’altra più pesante. Già in Rom. I e II Paolo ha posto rigorosamente sullo stesso piano i peccati dei pagani e quelli dei Giudei, malgrado tutte le loro differenze. Un atto di disobbedienza rimane comunque sempre tale, e se è rivolto contro Dio, non può essere abolito che dalla sua misericordia. Ma il carattere insondabile e incrollabile della misericordia di cui i pagani sono stati oggetto, quella misericordia che non è altro che il compimento di tutte le promesse fatte ad Israele, porta necessariamente l’apostolo alla formulazione di questo pensiero: poiché la misericordia divina è la risposta alla disubbidienza umana, è possibile discernere la legge che regolerà l’avvenire ancora nascosto e oltrepassare la disobbedienza ebraica che si costata nel presente. Paolo lo fa quando dice: «Hanno disobbedito al fine di ottenere anche misericordia». Pertanto la disobbedienza ebraica non è soltanto lo strumento della salvezza dei pagani! Deve condurre anche loro alla salvezza, grazie soltanto alla misericordia divina. La loro decisione funesta è avvenuta, e non la si può cambiare, come non si può più cambiare nulla al passato dei pagani. Ma la misericordia di Dio non costituirebbe il presente dei pagani, se non rappresentasse anche l’avvenire dei Giudei. E qui come altrove, sarà necessario uno strumento. Però non potrebbe essere la disobbedienza dei pagani. In base al v.11 e seguenti, è al contrario la loro obbedienza che deve suscitare la gelosia dei Giudei. Ma ecco che non è questione né dell’obbedienza dei pagani né della gelosia dei Giudei. È semplicemente questione della misericordia accordata ai pagani: attraverso essa, i Giudei stessi otterranno misericordia. L’esistenza di quella misericordia sarà, in quanto espressione della bontà divina e non di un essere o di un agire dell’uomo, lo strumento per mezzo del quale quella stessa bontà divina raggiungerà coloro verso i quali si è rivolta in origine. Il secondo νῦν del v. 31, garantito dalla critica testuale, sembra sconveniente perché la manifestazione della misericordia divina verso i Giudei, di cui il testo parla, concerne unicamente il futuro. Ma la misericordia concessa ai pagani è una realtà presente e non futura; e poiché quest’ultima, in quanto strumento della bontà divina, è già reale anche per i Giudei, l’azione di Dio in loro favore è

veramente innescata. Chi ha orecchie per udire, oda: è la proiezione della questione giudaica in chiave escatologica, che rende impossibile all’antisemitismo cristiano la presenza insolita di quel secondo νῦν nel testo! Che la speranza di Israele sia veramente la sua speranza, e di conseguenza quella della chiesa, cioè futura, non diminuisce in nulla la responsabilità attuale della chiesa nei confronti di quel popolo; poiché la chiesa stessa vive della misericordia divina. Pertanto tutti condividono la stessa situazione (v. 32). Ma nemmeno qui è questione di una totalità indeterminata; è questione del ’πᾶς Ἰσραήλ di cui parla il v. 26. È lui che vive in una situazione di disobbedienza ed è destinato ad aprirsi alla misericordia divina. pagani sono stati racchiusi nella disubbedienza naturale in cui Dio ha lasciati in passato; i Giudei stanno racchiusi nella disobbedienza contro natura in cui Dio li ha precipitati oggi indurendo i loro cuori. Perciò sono tutti prigionieri dello stesso carcere! Ma, poiché il carcere si apre e tutti si ritrovano nella medesima condizione, Dio ha destinato i pagani alla misericordia di cui sono partecipi nel presente e che i Giudei conosceranno nell’avvenire. Tutto inizia dunque con la disobbedienza umana, e tutto finisce con la misericordia divina che si estende a tutti e dovunque. Concerne la «totalità di Israele» nel quadro dell’elezione del Dio la cui maestà consiste nell’essere misericordioso. 1. Per l’esegesi di Rom. XI è utile leggere, malgrado i suoi possenti errori, lo studio di E. F. STROETER, Die Judenfrage und ihre goettliche Loesung nach Roem. Kap. 11, Brema, s. d. 2. Così H. LIETZMANN (commentario ad locum). 3. Così H. LIETZMANN (commentario ad locum).

PARAGRAFO 35 L’ELEZIONE DELL’INDIVIDUO 1. L’uomo isolato e separato da Dio è, come tale, ripudiato da Dio. Ma solo l’uomo senza Dio può scegliere questo destino. La comunità di Dio è presente per testimoniare ad ogni individuo particolare che una tale scelta è nulla e non avvenuta, poiché ogni uomo appartiene dall’eternità a Gesù Cristo, nel quale Dio l’ha scelto e non ripudiato. 2. Essa gli offre testimonianza che la riprovazione, meritata a causa di questa scelta insensata, è subita e assunta da Gesù Cristo e che egli è destinato, in grazia della giusta scelta divina, a vìvere eternamente con Dìo. 3. La promessa della sua elezione personale determinerà l’individuo a trasmettere al mondo intero la testimonianza della comunità di cui è membro. 4. La rivelazione del suo ripudio non potrà che condurlo a credere in Gesù Cristo come in colui che ha preso su di sé e abolito questo ripudio.

I. GESÙ CRISTO, LA PROMESSA DATA E RICEVUTA A. UNO SGUARDO METODOLOGICO AL PASSATO Vogliamo cercare di analizzare, terminando, ciò che significa l’elezione divina per l’uomo preso individualmente. In tutte le sue tendenze e sfumature, la dottrina tradizionale della predestinazione ha cominciato dalla considerazione di questo problema, senza riuscire essenzialmente a liberarsene. Tutti i quesiti che abbiamo finora studiato sotto l’angolo dell’elezione di Gesù Cristo e della comunità l’hanno seriamente interessata solo relativamente a quanto, per lei, costituiva l’interrogativo stesso dell’elezione gratuita: qual è dunque il disegno eterno (positivo o negativo) che fissa i rapporti di ordine privato tra Dio e gli uomini presi individualmente? La fretta con cui questo problema è stato affrontato e la facilità con cui si è ammesso che vi era esclusivamente questo nella predestinazione, sono veramente sorprendenti. Ma sono fatti, e fatti talmente comuni e notevoli, che hanno per così dire acquisito la forza e l’autorità di necessità interne. L’evoluzione che ha portato a questa concezione si riflette nella dinamica del pensiero occidentale che, a partire dall’antichità e attraverso il Rinascimento, ha condotto alla scoperta e alla valorizzazione dell’individuo, proprie dei tempi moderni. In un momento come l’attuale (in cui queste cose

sono rimesse in discussione con tanta passione) è importante riconoscere l’elemento di verità che tale evoluzione ha permesso di mettere in evidenza e non mancheremo di farlo per quanto ci riguarda. Bisogna tuttavia riconoscere che il movimento del pensiero occidentale di cui parliamo ha contribuito, come fattore problematico, a dare il suggello di assioma all’idea che la dottrina della predestinazione dovesse trattare esclusivamente del fondamento eterno della relazione tra Dio e l’individuo. Non è per caso che Agostino, il padre della dottrina classica della predestinazione, è anche stato l’uomo al quale dobbiamo un nuovo genere letterario: l’autobiografia cristiana. Certo, questo fatto non spiega di per se stesso il pathos che caratterizza la sua dottrina della predestinazione tuttavia non si arriverebbe a comprendere la sostanza di quest’ultima astraendo dal famoso «Dio e l’anima» delle Confessioni che, in seguito, ha avuto un’influenza così notevole, sia secondo una visione cristiana e sia in una prospettiva profana. La dottrina agostiniana della predestinazione risponde, come abbiamo già visto, a questo interrogativo: perché, tra le persone che ascoltano la Parola di Dio, gli uni credono e gli altri non credono? Questa risposta ci rinvia alla «scuola assai lontana dai sensi della carne, in cui il Padre viene ascoltato ed insegna a raggiungere il Figlio»1, là dove Dio a suo piacere parla agli uni e non parla agli altri. Questa scuola misteriosa è la predestinazione divina, nella misura in cui quest’ultima costituisce il mistero che differenzia gli individui. Tuttavia, dal punto di vista generale e oggettivo, Agostino continua a vedere nella predestinazione una «preparazione della grazia»2 o una «preparazione dei benefici di Dio»3. Egli l’ha ugualmente messa in relazione non con gli individui ma con i due regni, le «due città, cioè le due società degli uomini, tra le quali ve n’é una che è predestinata a regnare in eterno con Dio, l’altra a subire un eterno supplizio con il diavolo»4. Inoltre non bisogna dimenticare che in Agostino si trovano anche importanti indicazioni in favore di un intendimento cristologico della predestinazione. Nella stessa direzione di questo autore, Tommaso d’Aquino ha ancora definito la predestinazione, da un punto di vista oggettivo e non personale, come «una certa divina preordinazione dall’eterno concernente cose che per grazia di Dio avverranno nel tempo»5. In Calvino stesso le cose sono ancora in piena evoluzione poiché, almeno nella prima edizione dell’Institutio e nel Catechismo del 1542, egli ha collegato l’elezione alla chiesa e poiché, almeno in parte, ha ripreso anche lui le indicazioni agostiniane relativamente ad una

soluzione cristologica del problema. Ma è precisamente in lui che appare il cambiamento decisivo. Se nel trattato de aeterna Dei praedestinatione si trova ancora una definizione abbastanza ampia, giacché la predestinazione è concepita come il disegno «mediante cui (Dio) stabilisce il futuro per tutto il genere umano e per ogni singolo uomo»6, nell’ultima edizione dell’Institutio invece, la nozione si è ridotta; la predestinazione altro non è se non «il proposito eterno di Dio in forza del quale egli ha determinato ciò che voleva fare d’ogni singolo uomo. Non li crea infatti tutti nella medesima condizione: ma dispone gli uni per la vita eterna, gli altri per l’eterna dannazione. Così, secondo il fine per cui l’uomo è creato, diciamo ch’egli è predestinato a morte o a vita»7. Qui si trova indicata la direzione che doveva essere seguita, per così dire spontaneamente, dai riformati e dai luterani, dagli ortodossi e dagli eterodossi, dai soprae dagli infralapsari, dai «teologi dei testamenti» e dai loro avversari. Certo Calvino8 ed i dogmatici del diciassettesimo secolo conoscono e insegnano ancora l’esistenza di una «elezione generale», una elezione cioè che riguarda tutto un popolo: il popolo d’Israele. Ma è già significativo che essi collochino quest’avvenimento unico in un «genere» che contiene soltanto questa specie; è ancor più significativo che teologicamente non sappiano che farsene e che senza la minima spiegazione si volgano subito verso l’«elezione particolare», verso la «predestinazione degli eletti (di cui ormai dobbiamo parlare)», per non esaminare più rient’altro se non quest’ultima, come pure la «dannazione» che le corrisponde9. Anche un uomo così notevole e perspicace come Coccejus definisce il contenuto della predestinazione (che s’identifica per lui con il «testamento» eterno) con queste lapidarie parole: «Dio elesse alcuni eredi della vita; allo stesso modo ripudiò altri e li colpì con il suo odio»10. Ed è unicamente a questi individui, situati alla destra o alla sinistra di Dio, che i documenti confessionali (a parte la Confessio Scotica) si interessano: sono essi l’oggetto della predestinazione. È vero che l’ortodossia usava ricorrere alla nozione di predestinazione nella sua dottrina della chiesa; ma in pratica si sviluppava e si formulava questa nozione come se non esistessero né Israele né la chiesa, mentre solo l’individuo veniva considerato come vero e proprio oggetto della predestinazione. Quanto si era lontani dal ricorrere prima di tutto a Gesù Cristo, malgrado gli insegnamenti ricevuti da Agostino e più tardi da Coccejus! Si raggiungeva una visione un po’ più ampia del problema solo in quanto vi era l’uso di legare più o meno strettamente la dottrina della predestinazione a quella della provvidenza generale di Dio; ma,

dal momento che si riconduceva fatalmente quest’ultima alla dottrina dell’elezione gratuita, concepita come predestinazione degli individui particolari, era ancora più aggravato l’individualismo che, ove il caso, si nutriva con la meditazione della stessa eternità divina. Infine l’esposizione relativa alla predestinazione degli angeli buoni e cattivi, che apriva regolarmente il capitolo riguardante l’oggetto della dottrina in causa, veniva a rinforzare l’immagine già pronta de «gli uni-gli altri», situati alla destra e alla sinistra di Dio, poiché postulava sullo sfondo, nel mondo degli spiriti superiori, l’esistenza di una realtà preliminare corrispondente. Questo orientamento della dottrina ecclesiastica della predestinazione è certamente legato alle forme anteriori dell’individualismo secolare; una cosa tuttavia è sicura: con questo nuovo orientamento la dottrina stessa non è stata soltanto uno dei fattori che hanno contribuito a introdurre il pietismo e il razionalismo nella chiesa, ma anche uno dei presupposti senza i quali l’evoluzione successiva dell’individualismo secolare (a partire da J. J. Rousseau e dal giovane Schleiermacher, passando per Max Stirner e Kierkegaard, fino a Ibsen e a Nietzsche) sarebbe addirittura inconcepibile. Per quanto duramente essa sia stata accusata in quello che chiamiamo tempo moderno, resta il fatto che nessuno ha pensato o ha potuto pensare di fare opposizione su quest’ultimo aspetto; siamo stati infatti eccessivamente nutriti (e più di tutti proprio gli antichi mistici, ben prima dei profeti «laici» del diciottesimo e diciannovesimo secolo) dal luogo comune che la dottrina con le sue nuove tendenze ha imposto al pensiero occidentale in un modo assolutamente originale: nutriti cioè dal concetto che bisogna riconoscere e rispettare nella persona umana, presa individualmente, l’origine e il fine di tutte le vie di Dio o anche la somma stessa di tutta quanta la realtà divina. B. LA NOSTRA PROSPETTIVA Anche su questo punto ci siamo allontanati dalla tradizione dogmatica; il problema dell’elezione divina non si riduce infatti a quello dell’elezione degli individui; semplicemente lo include. Bisogna dunque trattare il secondo problema in stretto rapporto con il primo, collegandolo cioè con la discussione sull’elezione di Gesù Cristo e con quella sull’elezione d’Israele e della Chiesa. Il problema dell’elezione congloba il tema sul quale la dottrina tradizionale ha rivolto così rapidamente e così esclusivamente la sua attenzione. Si tratta della libera decisione dell’amore di Dio in favore del patto con l’uomo, senza il quale (poiché il Padre e il Figlio possiedono la loro inesprimibile unità nello Spirito Santo) Dio non vuole essere Dio: la rivelazione del Padre nel Figlio per

mezzo dello Spirito Santo, cioè la rivelazione delle profondità divine, è infatti identica alla rivelazione di questo patto, precisamente alla sua rivelazione in Gesù Cristo. Si tratta del dono eterno di Dio in Gesù Cristo e della sua attestazione per opera della sua comunità, la quale deve rappresentare e annunciare, come popolo d’Israele, l’abbassamento di Dio verso l’uomo, il suo giudizio sul peccato, la sua promessa e, come chiesa, l’elevazione dell’uomo verso Dio, l’approvazione che riceve la sua fede, il compimento del patto di grazia, cioè la giustificazione e la salvezza del popolo intero. Dal momento che tale dono di Dio in Gesù Cristo costituisce la decisione divina che precede non solamente tutte le realizzazioni ma anche tutte le altre decisioni della divinità (poiché le include come origine di tutte le vie e di tutte le opere di Dio) è in essa che dobbiamo discernere la doppia predestinazione eterna di Dio, la sua elezione gratuita. La tesi comune secondo cui la dottrina della predestinazione dovrebbe insegnare, in sostanza, che Dio ha predestinato gli uni alla salvezza e gli altri alla dannazione si rivela perciò discutibile. Rapportata al dato biblico che dovrebbe esprimersi nella dottrina della predestinazione, questa tesi è insufficiente per poter essere considerata come il tema centrale della dottrina in esame ed altrettanto bisogna dire di ogni altra definizione dell’elezione individuale. Si tratta infatti solo di un tema particolare che costituisce una forma del tema principale; ne esistono altre due: l’elezione di Gesù Cristo e l’elezione della comunità; la forma di cui parliamo non dovrebbe mai essere considerata in astratto, ma soltanto in concreto, successivamente alle altre due. Per arrivare a una proposizione corretta in questo campo, bisogna determinarla tenendo rigorosamente conto di quanto deve essere detto sull’elezione di Gesù Cristo e sull’elezione della comunità. L’ordine in cui i problemi particolari vengono affrontati non ha un’importanza fondamentale. È allo scopo di mettere in rilievo l’antitesi che abbiamo scelto l’ordine qui adottato. Inoltre avremmo avuto molta più difficoltà ad apportare il correttivo che giudichiamo necessario e a metterlo in evidenza se, in accordo con la tradizione, avessimo voluto incominciare da dove ora concludiamo. Conveniamo che in sé dovrebbe essere possibile e che anzi potrebbe essere conveniente, sempre a condizione che il correttivo in causa sia riconosciuto, rovesciare l’ordine delle materie, incominciare cioè, con la tradizione, ad argomentare sull’elezione individuale per abbordare in seguito i grandi temi dell’elezione di Israele e della chiesa e, terminando, l’elezione di Gesù Cristo. Possiede una vera importanza fondamentale, come correttivo necessario, solo la conoscenza del fatto che l’elezione dell’individuo

deve essere strettamente legata a quella di Gesù Cristo e della comunità. Dicendo che il problema dell’elezione divina ingloba quello dell’elezione degli individui, riconosciamo anche che questo secondo problema appartiene necessariamente all’argomento del primo e che di conseguenza deve essere studiato ed esposto con la più grande cura nel suo stesso contesto. Ciò che è deciso dall’eternità in Gesù Cristo concerne concretamente ogni individuo: si tratta di una decisione pronunziata per ogni uomo e che gli è annunziata sotto la forma della testimonianza di Israele e della Chiesa, cioè dalla Parola di Dio. È in questa Parola che Dio gli si avvicina come il Dio-che-elegge, per fare di lui un eletto. Dall’eternità quest’uomo è il predestinato e di questo la dottrina dell’elezione deve certo anche parlare. Dall’eternità è lui che Dio ha guardato, conosciuto, voluto e predeterminato nell’elezione di Gesù Cristo e in quella della comunità che lo attesta; è a lui che ha dato se stesso; è lui ch’egli pone in giudizio ed è verso di lui ch’egli rivolge la sua misericordia. Sì, l’individuo è proprio l’oggetto dell’elezione gratuita. Parlando con tanta sollecitudine e forza della predestinazione individuale, la dottrina classica non era certo fondamentalmente nell’errore. Non tenendo conto di questo fatto la dottrina di Dio (e in particolare quella dell’elezione gratuita, dove si discute la preistoria dei rapporti tra Dio e l’uomo) sarebbero completamente distanti dalla verità. Certo però non si deve isolare o considerare ipostaticamente la relazione creata dall’elezione, come ha fatto la dottrina tradizionale, a detrimento di un giusto intendimento di questa relazione. Bisogna invece comprendere e descrivere l’elezione in tutti i suoi aspetti, tenendo conto di tale relazione. Tuttavia questa precisazione non limita e non attenua in nulla l’importanza del terzo ciclo di discussioni che qui ci interessa. La predestinazione non è semplicemente quella degli individui in un senso improprio e secondario; l’elezione di Gesù Cristo non rende solo relativa quella degli uomini particolari: piuttosto la fonda accanto e al di fuori di se stessa, così l’elezione individuale non è annullata per il fatto di non potere avere senso ed importanza se non in Gesù Cristo; è proprio di essa che si tratta, in Cristo. Perché ciascuno sappia d’essere eletto nella propria individualità specifica, è necessario che l’elezione di Gesù Cristo gli sia testimoniata e predicata. Gesù Cristo, che differisce da tutti gli altri uomini perché è l’oggetto primo dell’elezione divina, non li espropria tuttavia in virtù delle sue prerogative; ma proprio per queste prerogative (non è forse lui anche il soggetto dell’elezione?) egli è veramente tutto per loro e dona loro tutto. Egli

presuppone e assume precisamente la condizione di ogni individuo, il quale, senza di lui, sarebbe condannato a procedere dal nulla e a ritornarvi. Poiché viene in primo luogo l’elezione di Gesù Cristo ha per effetto non di soffocare, bensì di valorizzare definitivamente le «particelle di verità» dell’«individualismo». Bisogna dire altrettanto dell’elezione della comunità. Anch’essa implica, all’interno e all’esterno del suo campo, una relativizzazione dell’elezione dell’individuo, ma è così ch’essa la fonda. L’elezione individuale non diviene nulla e non avvenuta perché è condizionata e limitata da quella della comunità. È la loro elezione personale che la comunità annunzia agli uomini, prendendo a testimonio Gesù Cristo e chiamandoli a credere in lui. Dal momento che il Signore (venuto da Israele e da cui la chiesa è nata) vive, tutti coloro ai quali la comunità si rivolge in suo nome vivono anch’essi, in lui e con lui. È la loro elezione precisamente che conferisce alla comunità la sua visibilità ed efficacia. La comunità non conduce una vita particolare in rapporto ai suoi membri. Vive in essi. Non spoglia coloro ai quali essa annunzia l’elezione di Gesù Cristo. Tutte le sue prerogative le possiede, anch’essa, per loro; e ciò che essa è, non lo è che in loro. Invece di trascurare le «particelle di verità» dell’«individualismo», si mettono al contrario in risalto, quando si vede nell’elezione dell’individuo il fine dell’elezione della comunità. A questo proposito, costatiamo attualmente l’esistenza di due tendenze da cui dobbiamo nettamente separarci. Esiste un concetto moderno che da una ventina d’anni si è affermato sempre più come una specie di surrogato dell’elezione di Gesù Cristo: il concetto di capo. Il capo è l’individuo che in un campo dapprima limitato, poi sempre più vasto ed infine illimitato, riunisce in se stesso tutte le prerogative dell’elezione gratuita, nel senso che egli è l’eletto non «per gli altri» ma «invece che gli altri» e che accanto a lui non esistono più individui ed in ogni caso non esistono più individui eletti. Il mistero dell’esistenza umana che dipende dalla sua sfera d’azione è il suo proprio mistero. Dove il capo regna, ogni libertà e responsabilità, ogni autorità e ogni potere gli appartengono. Egli è il personaggio dal quale gli altri si vedono spogliati, con la loro propria elezione, di tutto il resto: il mistero della loro individualità e della loro solitudine, la libertà e la responsabilità, l’autorità e il potere; essi possono soltanto conservare tutto questo in feudo, per eseguire le decisioni del padrone. Uscito dai ranghi e innalzato al di sopra della massa per divenire colui che solo ha il diritto di essere un individuo, il capo è, in rapporto agli altri, l’usurpatore assoluto. L’elezione, nel senso in cui la si intende nella nozione moderna di capo, non ha che un punto comune con

l’elezione di Gesù Cristo: ne è l’esatto rovesciamento e la perfetta caricatura. L’individualismo occidentale ha avuto la sua importanza nell’elaborare questa nozione e conteneva già il germe della mentalità cinica e criminale propria dell’usurpatore. Se, superato per così dire e condotto all’assurdo dalle sue proprie conseguenze, ha scatenato contro di sé la reazione più impietosa, conviene notare che in tutto questo è messa in gran luce l’opposizione in cui si è trovato, fin dagli inizi, con la nozione cristiana di elezione. Quest’ultima non implica una spogliazione della moltitudine in favore dell’individuo; il fatto che Gesù Cristo sia l’unico eletto significa che gli altri uomini non si trovano spogliati, ma al contrario assicurati in lui della loro propria elezione, con tutto quello che essa concerne: l’individualità, la libertà, la responsabilità, l’autorità, il potere. Gesù Cristo è l’oggetto dell’elezione divina «per tutti loro» e non «invece che loro». Egli non conserva per sé le prerogative che possiede in qualità di eletto di Dio; non le usa come un bottino, ma egli è ciò che è e possiede ciò che possiede per rivelarlo e trasmetterlo agli altri. Il suo regno non è una caserma o un penitenziario, ma la casa di coloro che sono liberi in lui, con lui e attraverso di lui. Egli è il Signore e nello stesso tempo il Servitore di tutti. Se l’individualismo secolare sembra aver trovato il suo scopo e il suo fine nella nozione moderna di capo, resta il fatto che la sua intenzione profonda, ch’esso stesso non ha quasi compreso, è stata salvaguardata dal concetto cristiano di elezione e così resterà anche nell’avvenire, dopo la catastrofe che si è verificata. Ma vi è un altro concetto moderno che ha un ruolo importante e che rappresenta una specie di surrogato dell’elezione della comunità. È d’altronde strettamente legato al primo. Esiste sotto due forme che sono state a lungo inconciliabili ma che, nel corso dell’evoluzione più recente, hanno sempre più teso a raggiungersi e a confondersi. Si tratta da una parte del concetto di «massa» (nel senso sociale della parola) e dall’altra del concetto di «popolo» (nel senso nazionale della parola). L’uomo eletto, come lo intende il comunismo, è la massa, creata dalla proletarizzazione generale originata dal capitalismo; come l’intende il fascismo, è il popolo, modellato dalla razza, la lingua e la storia. Le due nozioni conducono direttamente a quella dello Stato totalitario in cui rispettivamente la massa e il popolo, possiedono non solamente la loro unità ma anche la loro essenza e la loro sostanza e che, in un caso come in un altro, è il portatore dell’elezione. Secondo lo Stato totalitario l’uomo che fa parte della massa o del popolo non può avere che l’esistenza e la funzione di un ingranaggio sempre intercambiabile e senza valore personale. Per esso

l’individuo ha valore soltanto per quanto esegue o non esegue nel quadro della sua funzione particolare. Non lo interessa assolutamente in se stesso né in ciò che vorrebbe o potrebbe divenire come individuo. Per tale Stato l’individuo non ha che una cosa da fare: morire con tutto quello che gli è caro, rinunciare al suo diritto alla vita, alla sua coscienza, alla sua intelligenza, alle sue opinioni accidentali e alle sue convinzioni essenziali per sparire alla fine anche fisicamente, affinché viva l’insieme, popolo o massa, tal quale è stato organizzato dallo Stato. Non è l’individuo che è eletto, ma l’insieme degli individui, cinicamente, in vece sua. Anche in questa prospettiva l’individuo non possiede un proprio mistero, né libertà e responsabilità, né autorità e potere. Tutto ciò può essergli attribuito solamente in prestito dalla massa, mentre essa non ha alcun obbligo verso di lui che le deve tutto e mentre lui stesso non è tenuto a mostrare qualità particolari, né a valorizzare la sua personalità o la sua originalità; questo dovere gli è tolto insieme con il diritto che ne consegue; non vive se non perché è e accetta d’essere uno strumento passivo, sottomesso alla massa, anzi confermando la sua sottomissione alla massa. Anche qui la nozione che abbiamo presentato non ha che un punto comune con quella dell’elezione del popolo di Dio: è il suo esatto rovescio. Se il concetto di capo si presenta come una conseguenza ultima dell’individualismo occidentale, la nozione dello Stato totalitario (fondato sulla massa o sul popolo) rivela la fatica che si è impadronita di questo individualismo ed ha potuto neutralizzarlo; manifesta cioè l’impotenza interna che, fin dall’inizio, gli era inerente. L’individualismo occidentale ha avuto tuttavia abbastanza occasioni di affermarsi e di imporsi, soprattutto quando si è visto tradito nel modo che sappiamo. Però il fatto è questo: ci si è potuti stancare di esso, ma solo al punto di preferirgli lo Stato totalitario! Benché si riferisca anch’essa ad una comunità, quella del popolo di Dio, la nozione cristiana d’elezione non è assolutamente il risultato di una stanchezza. L’elezione divina implica quella di un popolo e contemporaneamente quella degli individui che fanno parte di tale popolo; ma, come elezione individuale, non è meno autentica di quanto lo sia come elezione collettiva. Non si dà elezione dell’insieme senza elezione dell’individuo. È infatti nella sua elezione personale che quest’ultimo può e deve riconoscere quella della comunità. Il suo particolare mistero, con tutto ciò che implica, non sparisce: gli è invece garantito dall’inserimento nel seno del popolo di Dio. L’individuo non è soltanto un delegato della comunità: egli ne assume personalmente la responsabilità. Non è soltanto un vassallo, ma un uomo libero. Non agisce

come semplice ingranaggio di una macchina (o come la cellula di un organismo), ma di sua iniziativa. Non è subordinato a un tutto, ma, al posto che gli compete, è lui stesso questo tutto; ciò ch’egli è come individuo, lo è anche come insieme; ciò che diviene il tutto, diviene anche lui. Uno per tutti, tutti per uno! Sul terreno dell’elezione divina, non c’è un vero conflitto tra l’«individuo» e la «comunità»; non è dunque necessario arrivare a compromessi. Nelle attuali circostanze non abbiamo alcuna ragione di ricusare l’individualismo per procedere a riforme collettiviste. È proprio nel contesto dell’elezione divina che l’«individuo» riceve e conserva l’onore che gli appartiene; è infatti qui che attraverso la «comunità» o piuttosto insieme ad essa, egli occupa una posizione legittima e piena di promesse, poiché è fondate in Gesù Cristo, l’eletto per eccellenza. Questi sono i limiti che oggi dobbiamo chiaramente segnare. Se in seguito a un malinteso, l’individualismo secolare ha potuto appellarsi fin dall’inizio alla nozione cristiana di elezione, bisogna impedire che, in seguito a un malinteso ancora più grave, l’autoritarismo e il collettivismo che trionfano in questo momento non cerchino di giustificarsi nello stesso modo. Sarebbe d’altronde solo a loro confusione. C. PRECISAZIONI SUL TERMINE «INDIVIDUO» Il termine «individuo» che abbiamo usato provvisoriamente ha più di un senso nel nostro contesto; deve essere dunque precisato mediante una definizione di coloro che sono l’oggetto della predestinazione divina in Gesù Cristo, dentro e attraverso la comunità. Esiste una «individualità» dell’uomo in opposizione alla «collettività»: che quest’ultima si chiami famiglia, popolo, Stato, società, umanità. Non è tra Dio e una qualunque di queste collettività, ma tra Dio e le persone umane individuali, che si svolge la storia messa sotto il segno della predestinazione divina. L’elezione gratuita mira direttamente a persone concrete. In Gesù Cristo questa elezione ha avuto luogo; la comunità ne è la necessaria mediatrice; ma sono degli individui ad essere l’oggetto dell’elezione (in Gesù Cristo; attraverso la comunità) — ben inteso nelle loro relazioni con delle collettività, cioè con tutte le determinazioni, condizioni, obblighi, limiti e possibilità che questo implica. Resta tuttavia che sono proprio degli individui a essere scelti, con le loro responsabilità personali, e non collettività come tali; non esistono famiglie, popoli o umanità predestinate; anche il popolo di Israele non è che la forma primaria (e passeggera) della comunità; non esistono che uomini predestinati (in Gesù Cristo; con la mediazione della comunità). Dio

non sceglie tutti quanti ma, ogni volta, degli individui. Ed è in loro, ogni volta, ch’egli cerca, chiama, benedice e santifica gli altri uomini, l’umanità nel suo insieme. È in loro che, all’origine di tutte le sue opere e di tutte le sue vie, ha amato, previsto, conosciuto e mirato tutti gli uomini, dirigendo verso di loro il beneficio della sua alleanza e la grazia della sua elezione. Promessa per tutti gli altri, costoro costituiscono, in Gesù Cristo e con la mediazione della comunità, il popolo eletto, composto di individui particolari e così si presentano come una grandezza nuova, in riferimento a tutte le collettività originate dalla natura e dalla storia. Non certo perché l’uomo in sé, con tutte le sue particolarità, sarebbe più uomo solo quando lo si consideri in quello che possiede in comune con i suoi simili. Non certo perché l’individuo come tale sarebbe più vicino a Dio e meglio suscettibile di piacergli della massa stessa; l’affinità dell’individuo con Dio, che gli permette di essere l’oggetto dell’elezione gratuita, riposa infatti esclusivamente sulla natura e sull’opera di Dio. Dio stesso è una «persona» e il suo unico Figlio, origine di tutte le sue vie e di tutte le sue opere, è il suo unico Figlio; è verso di lui che ha diretto il suo amore ed è in lui che è divenuto il Dio dell’uomo e ha fatto dell’uomo un suo figlio. Ecco perché è ogni volta l’individuo, un uomo particolare, che Dio guarda quando si rivolge verso gli uomini (nel tempo e nell’eternità); ed ecco perché ogni volta è attraverso l’individuo ch’egli si indirizza alla massa umana. Dal momento che, in se stesso come all’origine di tutte le sue vie e di tutte le sue opere, Dio è una persona, la questione è risolta: l’uomo che ascolterà (o non ascolterà) la Parola di Dio, l’uomo che crederà (o non crederà), che sarà riconoscente (o ingrato) è proprio ogni volta un individuo particolare che porta un certo nome o un altro; la Parola di Dio non si rivolge a famiglie, a popoli, a gruppi sociali o all’umanità nel suo insieme, bensì a «individui», chiamati ad essere testimoni nel loro ambiente; sono loro ch’essa chiama a credere e a proclamare la loro fede, sono loro che ricevono il battesimo e sono riuniti per formare la chiesa. Questi individui riconoscono la loro propria elezione in quella di Gesù Cristo. Ed è per l’azione dello Spirito Santo nel loro cuore, nelle loro libere decisioni personali, che avviene l’elezione della comunità. Osservata sotto questo aspetto, la nozione d’«individuo» prende un senso positivo anche nel nostro contesto. Si può così notare che il concetto cristiano d’elezione è teoricamente molto più «individualista» di tutti i luoghi comuni dell’individualismo secolare. È il concetto cristiano che, in definitiva, resterà la garanzia dell’intenzione che anima quest’ultimo, anche se dovesse capitare che lo si finisse per trascurare.

La descrizione dell’«individuo» che abbiamo dato finora non è sufficiente a caratterizzare l’uomo come oggetto della predestinazione divina. L’uomo è predestinato come «individuo» e non come membro di una collettività; ma questo non vuol dire ch’egli lo sia nella sua individualità, se con ciò si intende che sia essa a distinguerlo nella sua qualità di essere predestinato. L’individualità è la «condizione indispensabile», non la «ragione» della predestinazione. Predestinazione vuol dire: è il tal uomo particolare che si trova posto davanti a Dio, direttamente, senza sostituzione né confusione. Questa definizione non permette però ancora di descrivere la predestinazione come atto gratuito di elezione. In qual misura essa è, in riferimento all’uomo considerato come suo oggetto, un’elezione gratuita, cioè la decisione di una bontà e di una condiscendenza divina libera, immeritata e incondizionata, come indica il fatto ch’essa si manifesta innanzitutto in Gesù Cristo, secondo la testimonianza della comunità? In questa prospettiva occorre che l’individualità dell’uomo predestinato sia chiaramente diversa dalla semplice particolarità che gli è propria e che lo distingue dai gruppi sociali cui appartiene. L’individualità in questione deve senza dubbio superare questa particolarità; ma nello stesso tempo deve essere tale che, considerandola, non si possa veramente interpretare se non come grazia, in analogia con l’elezione di Gesù Cristo e con quella della comunità, il fatto che Dio prenda in considerazione l’individuo per amarlo e per eleggerlo. In altri termini: per essere in condizioni di definire l’uomo predestinato, la nozione di «individuo» deve essere compresa partendo da una dimensione completamente nuova: bisogna che, al di là della sua accezione immediata e positiva, sia considerata nel suo significato negativo, che solo può rendere evidente come l’uomo predestinato sia, sotto tutti gli aspetti, l’uomo graziato. L’uomo predestinato è effettivamente (in forza dell’elezione di Gesù Cristo e della comunità) l’individuo che, nella scelta di cui è oggetto da parte di Dio, non trova la conferma del suo essere, bensì la giustificazione che proviene dalla grazia, il perdono. Se è l’oggetto della scelta divina, non è perché la sua umanità sia gradevole a Dio, ma perché tale umanità, indegna e ribelle in se stessa, si trova assunta, trasformata e rinnovata da Dio. Si tratta dell’uomo che Dio incontra sovranamente (nella sovranità della sua potenza assoluta e della sua misericordia, della sua costanza e della sua pazienza), non con un «poiché» naturale, ma con un «malgrado tutto» miracoloso; si tratta dell’uomo che Dio sceglie esclusiva mente «d’autorità», per farne l’alleato del suo patto, al di fuori e contro ogni merito ed ogni potere umano. L’uomo predestinato è

l’uomo reso «utilizzabile» per Dio dall’opera dello Spirito Santo. Siamo così obbligati a esaminare il concetto d’«individuo» nella sua accezione negativa, che va più lontano e più in profondità di quanto sembri a prima vista. Certamente, nel suo rapporto con le grandezze collettive, l’individualità umana possiede anche un lato negativo; anche in questo contesto, essa porta il segno dell’indegnità e della ribellione ed ha assolutamente bisogno di essere coperta, trasformata e rinnovata da Dio. Ma ciò non significa che questi caratteri le siano «essenziali». In questa prima accezione, l’individualità non è in se stessa il peccato; non è ad essa che solo la grazia di Dio può rispondere (come giustificazione del peccatore); non è essa come tale a caratterizzare la predestinazione dell’uomo come elezione gratuita. Donde viene ch’essa adempia a questo ruolo? Donde si origina dunque il bisogno di perdono e di rinnovamento dell’individuo? Perché può essere eletto solo sotto la forma di un atto di grazia? È a questa domanda che risponde la testimonianza della comunità: esiste un’altra individualità umana, negata in Gesù Cristo; essa non ha niente di comune con l’individualità nel senso che abbiamo osservato; può esserne soltanto la caricatura e la perversione, non senza marcarla talora in maniera ben radicale. Essa caratterizza il comportamento dell’«individuo» che, invece di ricevere, riconoscente, come una grazia, l’identità e la dignità che il Dio unico gli conferisce pensa di considerare tutto questo come bene proprio, come diritto inerente alla sua esistenza, per valersene contro Dio stesso. Come se il fatto che Dio prenda l’individuo in considerazione per amarlo ed eleggerlo dipendesse dal merito e dal potere dell’uomo! Come se Dio non l’avesse scelto di sua autorità! Come se il patto (il patto di grazia) che Dio ha concluso con l’uomo appartenesse al «genere collettivo» e come se, in qualità di alleato di Dio, l’uomo potesse di conseguenza vivere in favore di se stesso, così come gli è permesso di fare, grazie alla bontà divina!, rispetto all’insieme dei suoi simili (accanto a tutto ciò che lo unisce ad essi)! Questa è l’individualità umana che Gesù Cristo ha negato e per questo essa non può essere considerata e definita se non negativamente; significa l’isolamento empio e perverso dell’uomo; è il segno dell’ateismo. Dal momento che l’uomo ha il diritto di essere autenticamente un «individuo» davanti a Dio, capita ch’egli voglia esserlo senza Dio e contro di lui, unicamente per empietà e per sua disgrazia. L’«individuo» che agisce così si comporta precisamente come quell’uomo che Dio ha escluso da tutta eternità. Pretendere di essere un uomo isolato, separato da Dio non può che essere il lotto dell’uomo senza Dio;

equivale infatti a scegliere proprio la possibilità esclusa dall’elezione gratuita. Nell’elezione gratuita (in Gesù Cristo) invero questa «individualizzazione» funesta non è considerata: è semplicemente messa al bando, come possibilità satanica; a causa dell’elezione gratuita, vale a dire poiché Gesù Cristo è l’origine di tutte le vie e di tutte le opere di Dio, l’uomo, scegliendo questa possibilità satanica che lo separa dal suo Creatore, sceglie il nula; la sua stessa scelta, come tale, proviene dal nulla. L’uomo sceglie esattamente ciò che non può scegliere; sceglie come se potesse scegliere altro che conformarsi alla propria elezione; opta per la possibilità che Dio ha scartato pronunziandosi in suo favore. Agisce dunque come un senza Dio; ha la vertigine del vuoto; ma in questa scelta mostruosa si ritrova anticipatamente contraddetto e superato da ciò che Dio ha deciso e compiuto per lui da tutta l’eternità, procedendo all’elezione di Gesù Cristo. È a lui, l’uomo senza Dio, che mira la testimonianza della comunità. Questa testimonianza non nega, costata invece che l’uomo senza Dio è l’autore di questa scelta mostruosa, che resta ciò che è; ma concerne l’uomo, ogni uomo, che, grazie alla propria scelta, si è separato da Dio e che, a causa di tale separazione, è condannato a essere ripudiato da Dio. Questa testimonianza indica all’uomo la vanità della sua scelta, l’assurdità della sua bramosia, attirando la sua attenzione sull’elezione gratuita in Gesù Cristo, origine di tutte le vie e di tutte le opere di Dio. L’uomo può certo riuscire, attentando a Dio e per la propria rovina, a comportarsi come un individuo isolato ed escluso; non è però in suo potere essere siffatto individuo, perché Dio in Gesù Cristo, gli ha tolto tale possibilità. L’uomo non può che richiamare e riprodurre, in modo assolutamente disastroso, la possibilità che gli è stata tolta; ma il suo atto mostruoso, con tutto ciò che ha di funesto e di catastrofico, non potrebbe mai essere altro che un atto di impotenza. L’uomo può compiere il peggio e compiacersi nella sua ribellione; può diventare un peccatore e porsi sotto il giudizio di Dio; egli fa certamente queste cose; ma non saprebbe mai rendere caduca né modificare la decisione eterna in virtù della quale Dio lo considera non in se stesso ma nel suo Figlio Gesù Cristo. L’uomo può continuare a mentire (e certamente lo fa); ma non può cambiare la verità in menzogna. Può ribellarsi (e certamente lo fa); ma rimane incapace di creare il minimo fatto suscettibile di abolire la scelta di Dio. Può fuggire Dio (e certamente lo fa); ma non sa sfuggirgli. Può odiare Dio e provocare il suo odio (e certamente lo fa); ma non può trasformare nel suo contrario l’amore eterno che trionfa persino nell’odio. Può isolarsi da Dio (e certamente lo fa: egli può e vuole, agisce ed è senza Dio); ma,

in questo, riesce soltanto a provare quanto egli cerca di contestare, cioè l’impossibilità per lui di «giocare all’individuo» davanti a Dio. Se egli si separa da Dio, Dio non si separa da lui. È all’uomo che ignora ancora tutto questo o che lo dimentica (ed ognuno su questo punto perde rapidamente la memoria) che la comunità si rivolge per offrirgli testimonianza dell’elezione di Gesù Cristo: all’uomo che ama le proprie tenebre, si compiace nel suo errore, si afferma nella sua rivolta, all’uomo che non smette mai di fuggire Dio e di odiarlo, all’uomo che si prende sul serio nel suo ateismo e che, rappresentando la posizione del riprovato, subisce per ciò stesso la riprovazione; la comunità lo informa che si sbaglia, che si ribella, che si sottrae e che cade nell’odio proprio quando è capitale per lui di non farlo; ma lo avvisa anche che tutto questo è vano perché la scelta ch’egli fa è negata e annullata fin dall’eternità in Gesù Cristo. Prendendo le sue decisioni infatti, l’individuo può certo negare tutto e annullare se stesso, ma in nessun caso saprebbe abolire l’elezione della grazia divina. Quest’uomo, l’uomo senza Dio che nel suo comportamento insensato si diverte a giocare al riprovato, è lui, proprio lui, l’uomo predestinato. In effetti è il nulla del suo crimine che dall’eternità è stato messo in evidenza in Gesù Cristo; nell’elezione divina riceve proprio quello che gli è inaccessibile, che non ha meritato e addirittura respinto: la grazia di Dio; è per lui, il nemico di Dio, che la grazia vale, malgrado la sua inimi cizia ed il suo crimine: essa significa il ripudio del ripudiato ch’egli si compiace di rappresentare, il perdono dei peccati, la giustificazione del senza Dio. Così ogni uomo è per Dio un nemico, da tutta l’eternità. Ma (così testimonia la comunità) è questo nemico nel suo isolamento disastroso, segnato dalla caduta e prigioniero della natura di Adamo, che Dio da tutta eternità ha considerato, amato, eletto e attirato a sé in Gesù Cristo. Si tratta ogni volta dell’«individuo», dicevamo. Precisiamo adesso: si tratta ogni volta del «senza Dio» che, nella sua individualizzazione mortale, si precipita allegramente verso la riprovazione divina e la subisce; è la sua individualizzazione che Gesù Cristo ha negato, la sua riprovazione ch’egli ha assunto e abolito. È chiaro che, vista in questa accezione negativa, che è capitale, la nozione d’«individuo» significa la crisi e il limite di ogni «individualismo». Che l’«individuo» stia in guardia; potrebbe non essere altro che un «isolato», un senza Dio. E, secondo la testimonianza della comunità, è persino destinato a esserlo. Ha perduto la dignità e i diritti che aveva ricevuto da Dio, pretendendo di farli valere contro Dio. Essendosi «individualizzato» secondo regole proprie, appartiene ormai alla «massa», cioè alla «massa della perdizione». Quest’ultima si compone di

persone che si sono isolate e separate da Dio e che, per questa ragione, divengono incapaci di assolvere ai loro obblighi verso la collettività, come pure di preservare e di mettere in valore le loro qualità personali all’interno dei gruppi umani. Il senza Dio è maturo per tutte le forme dell’autoritarismo e del collettivismo; ugualmente, non è lontano dall’accettare di veder profanata, pervertita e distrutta in mille modi la sua esistenza d’uomo. Non gli resta che riconoscere la sua posizione ed aspettare il ripristino della sua dignità e dei suoi diritti, unicamente in forza dell’assicurazione che in Gesù Cristo la sua «individualizzazione» insensata è stata annullata e che può, lui, il reprobo, considerarsi in Gesù Cristo come un eletto, perché questa grazia gli è promessa, conformemente alla decisione sovrana e primaria di Dio nel medesimo Gesù Cristo. È proprio questo il messaggio con cui la comunità eletta (come ambiente circostante l’uomo eletto, Gesù di Nazareth) deve rivolgersi ad ogni uomo: ha infatti per missione di annunziare ad ognuno la promessa che gli è fatta di essere proprio lui un eletto, conoscendo bene la scelta insensata dell’uomo e potendo misurare la dimensione del suo ateismo. Non è essa stessa composta di senza Dio che hanno potuto ascoltare e credere la promessa e che devono sempre di nuovo ascoltarla e crederla? Non è obbligata a tenere costantemente conto dell’ateismo innato dei suoi membri? Non ignora certo nulla della riprovazione eterna dell’uomo separato da Dio, riprovazione che ogni individuo si ostina a riproporre; conosce ciò che tale scelta insensata dell’uomo dovrebbe costare; sente la minaccia che pesa su quest’uomo; discerne la collera, il giudizio e il castigo di Dio, promessi all’uomo che si è allontanato da lui per individualizzarsi; vede l’ombra sotto cui ogni individuo si pone, dal momento che decide d’essere un uomo isolato ed escluso e dal momento che, a tutti i riguardi, si comporta come se fosse veramente un riprovato; in una parola, non ignora nulla di tutto ciò che concerne l’uomo. Ma innanzitutto conosce Gesù Cristo, poiché è stata creata dalla sua morte e dalla sua resurrezione e gli appartiene; è lui che l’ha chiamata a portare testimonianza, è lui ch’essa annunzia e nient’altro; non conosce dunque l’uomo se non nella misura in cui conosce Gesù Cristo. Sa che egli è senza Dio e condannato alla riprovazione; ma conosce una verità più alta ed è nell’ambito di questa verità che discerne tutto il resto; sa ciò che è avvenuto della minaccia che pesa sull’uomo e come e dove si è compiuta; sa che, nella decisione che presiede a tutte le sue vie e le sue opere, Dio ha preso su di sé la riprovazione meritata dall’uomo che si è separato da lui e che, in forza di

questa decisione, il solo uomo veramente riprovato è il suo proprio Figlio; sa che in Gesù Cristo solo la riprovazione divina ha seguito il suo corso e raggiunto il suo scopo, di modo che gli altri uomini ne sono esenti ed essa non li riguarda più. Ciò che ancora li concerne è il loro peccato, la loro colpevolezza di uomini senza Dio, la sofferenza che devono subire (come segno di quella che è stata patita al loro posto) e infine la presa di coscienza della minaccia che pesa su di loro; tutto questo è sufficientemente grave e temibile. Ma c’è una cosa che non può più interessarli, ed è l’obbligo di subire l’esecuzione di questa minaccia, di soffrire la dannazione eterna, la perdizione definitiva prodotta dal loro ateismo. La loro bramosia è senza oggetto perché dovrebbe tendere a far di loro degli esclusi; ora tale destino finale rimane fuori dalla loro portata e non può più essere il loro, dal momento che è stato subito anticipatamente dal Figlio di Dio, chiamato dall’eternità a prendere il posto degli empi. È questa la sfida che la comunità eletta lancia ai senza Dio che non vogliono conoscere nulla; questo è il fatto che mette loro di fronte; testimonia che la via che essi seguono era vana prima ancora che l’avessero presa e che la loro bramosia era stata annullata prima ancora che il mondo fosse. Possono scegliere ciò che vogliono, andare dove vogliono: non riusciranno ad attribuirsi il posto e il destino del riprovato ch’essi bramano nella loro follia, ripudiando Dio. Dio non accetta di trattarli come essi stessi lo trattano e come conseguentemente avrebbero meritato di essere trattati. È la rivelazione di questa opposizione divina a tutta la follia umana che ha creato la comunità. Come essa potrebbe rivolgersi all’uomo, a qualsiasi uomo, altrimenti che offrendogli testimonianza di questa opposizione? Ma la comunità sa ancora altro e ben di più: sa che se Dio ha strappato l’uomo alla sua riprovazione ben meritata per dirigere quest’ultima sul suo proprio Figlio, è perché intende attirare a sé l’uomo e rivestirlo della sua gloria; sa che Dio fa grazia all’uomo non soltanto in modo negativo, strappandolo cioè al ripudio, ma anche in modo positivo, facendo di lui l’oggetto della sua elezione; è questa economia di grazia ad essere veramente l’elemento primario e specifico della decisione presa nel Figlio suo. Dio sceglie l’uomo per legarlo a sé; ama i suoi nemici; ama i senza Dio. Non perché vogliono privarsi di lui, ma perché lui non può privarsi di loro, e perché di conseguenza essi non possono privarsi di lui. L’uomo non ha che un fine: vivere eternamente in comunione con Dio. Ecco ciò che mette in evidenza la rivelazione di Gesù Cristo crocifisso e risuscitato dai morti. La comunità eletta non conosce l’uomo se non in funzione di questo avvenimento; ed è questo fatto ch’essa deve testimoniare a ciascuno. Non è

certo in suo potere fare degli eletti; non può nemmeno rivelare all’uomo ch’egli è un eletto; ciò appartiene infatti a Dio solo. La comunità stessa è nata e sussiste in virtù dell’elezione divina e della rivelazione di questa elezione; gli eletti esistono soltanto a causa del dono di Dio e conoscono la loro posizione soltanto perché Dio l’ha rivelata; la comunità non può altro che testimoniare il fatto e la rivelazione dell’elezione gratuita di Dio. Non può esistere senza produrre questa testimonianza; non può rivelare Gesù Cristo senza annunziare a tutti coloro cui si rivolge la promessa della loro elezione. Certamente essa non saprebbe farlo senza ricordare anche la minaccia della riprovazione che pesa su tutti loro; ma tale richiamo sarà soltanto un commento e una valorizzazione della promessa stessa. Ciò che ne risulterà e ciò che l’uomo ne farà, non spetta alla comunità prevedere e decidere; essa non è qualificata a distinguere tra coloro che sarebbero degni della promessa annunziata e coloro che ne sarebbero indegni; non ha dunque il diritto di predicare o di tacere questa promessa secondo i casi. Coloro che ascoltano e credono vivono come eletti di Dio; la comunità non può che predicare affinché le persone ascoltino e credano; bisogna in effetti che la promessa sia proclamata e giunga a coloro che non la conoscono ancora, che l’hanno dimenticata o che parzialmente la ignorano. Ecco perché la comunità è chiamata a rivolgersi al mondo ed agli uomini; non le è consentito di lasciarsi spaventare e scoraggiare dal loro ateismo; non le è permesso di prendere a pretesto le sue «esperienze» per distogliersi dal suo compito specifico: dichiarare ad ogni uomo, con il messaggio di Gesù Cristo, la promessa della sua elezione. Non ha il diritto di rovesciare il rapporto istituito in Gesù Cristo, tra l’elezione e la riprovazione, tra la promessa e la minaccia; ancor meno ha il diritto di fare la benché minima riserva sulla promessa del vangelo. Conosce certamente l’ateismo che caratterizza l’uomo; ma sa soprattutto che, secondo il decreto eterno di Dio, Gesù Cristo è morto e risorto per tutti. Deve dunque rivolgersi senza alcuna riserva ad ogni uomo per chiamarlo ad ascoltare e a credere; e così facendo, anticiperà sull’ascolto, sulla fede e di conseguenza sull’elezione di ogni uomo. Del resto il suo stesso ascolto e la sua stessa fede non sono forse state anticipate, dal momento ch’essa è stata costituita in comunità eletta dalla stessa promessa, attraverso l’autorivelazione di Gesù Cristo? Come Dio l’ha incontrata nell’uomo Gesù di Nazareth, così essa deve incontrare la «massa della perdizione», i figli perduti di questo secolo, che secondo i termini della promessa, non sono perduti. Essa ha l’obbligo di dire a ciascuno di essi ch’egli è precisamente l’oggetto dell’elezione gratuita di Dio. Gli individui isolati e

separati da Dio, gli atei che ascoltano e credono, con il Vangelo di Gesù Cristo, la promessa della loro elezione, ecco coloro che vivono come eletti di Dio. Che siano degli eletti non trascende infatti soltanto il loro ascolto e la loro fede, la promessa che è rivolta loro come tale e l’esistenza della comunità che testimonia loro questa promessa; trascende il loro proprio essere, come ogni essere che Dio ha creato differente da se stesso, con una sola eccezione: l’essere dell’uomo Gesù di Nazareth. Questi uomini sono eletti nel piano del volere e del decreto propri al Dio trinitario, cioè: al di là della loro vita, del loro ascolto e della loro fede, al di là della comunità e della promessa ch’essa attesta, da ciò che costituisce precisamente la loro origine e il loro oggetto, cioè dalla Parola di Dio che ha voluto divenire ed è divenuta carne, e da essa sola. L’essere eletto è la ragione d’essere totale, la grande premessa e il presupposto eterno dell’esistenza degli individui cui è accordato di vivere come eletti; s’identifica con il fatto che l’eletto Gesù Cristo ha eletto anche loro e questo non in forza della loro natura e delle loro possibilità umane, della loro storia e delle sue diverse fasi (allo stesso modo è opportuno dire altrettanto dell’essere riprovato dell’uomo). Tra l’essere dell’eletto e la sua vita vengono ad inserirsi l’avvenimento e la decisione che manifesta la ricezione della promessa. Non è per essere un eletto, bensì per vivere come tale che l’uomo ha bisogno di ascoltare la promessa e di prestarle fede. Per il fatto di essere eletto, ogni uomo non vive già come un eletto; forse non lo fa ancora; o forse ha cessato di farlo, o non lo fa che in parte, od anche mai; in questa stessa misura egli vive come un riprovato, a dispetto della sua elezione. Tali sono le diverse possibilità dell’uomo senza Dio. Ma ecco che è proprio lui, l’uomo senza Dio, nella sua attività insensata e deplorevole, ad essere l’oggetto dell’elezione gratuita di Dio; ch’egli possieda e realizzi le diverse possibilità che abbiamo visto, ch’egli conduca (provvisoriamente, più tardi, parzialmente o totalmente) la vita di un riprovato, sotto la minaccia del suo effettivo ripudio, tutto questo può certo mettere in dubbio il suo essere eletto, ma non può annullarlo, poiché tale essere eletto è certamente fondato e deve essere ricercato non in lui stesso ma soltanto in Gesù Cristo. Il suo ripudio (considerate le possibilità già menzionate) non può essergli annunciato che sotto l’aspetto di una minaccia incombente, esattamente come la sua elezione non può essergli testimoniata che sotto la forma della promessa che gli è stata fatta. L’essere dell’uomo si trova da un lato come dall’altro unicamente nella mano e sotto lo sguardo di

Dio.

L’esordio autografo del paragrafo 73 della Dogmatica ecclesiastica (vol. IV, 3) (Basilea, Karl Barth-Archiv).

La comunità riconosce e attesta l’essere dell’uomo, di ogni uomo, in Gesù Cristo. Ecco perché riconosce e attesta la minaccia del ripudio e la promessa dell’elezione di cui ogni uomo è l’oggetto: si tratta della minaccia annullata e della promessa confermata da Gesù Cristo; senza nascondergli la minaccia del suo ripudio, ormai senza forza, essa si rivolgerà all’uomo annunciandogli la promessa della sua elezione, ormai acquisita; è unicamente nella misura in cui rispetta quest’ordine della grazia e del giudizio, dell’assoluzione e dell’accusa, della salvezza e della perdizione, ch’essa è effettivamente in misura di attestare Gesù Cristo crocifisso e risorto, conformemente alla sua esistenza di comunità e al compito che le è assegnato. Ora con la promessa dell’elezione (limitata, spiegata e sottolineata dalla minaccia del ripudio), una nuova

possibilità si presenta per l’uomo senza Dio: la possibilità di passare dall’esistenza pervertita in sé impossibile di riprovato, all’esistenza autentica, stabilita per lui dall’eterna decisione divina, l’esistenza di un eletto. È proprio questo in effetti il contenuto della promessa dell’evangelo di Gesù Cristo correttamente interpretato: in Gesù Cristo, tu non sei riprovato, poiché egli ha assunto il tuo ripudio, ma sei eletto; in Gesù Cristo, Dio ha definitivamente dimostrato la vanità della tua pretesa di condurre una vita diversa da quella che egli ti ha destinato; ecco la promessa che la comunità deve annunciare all’uomo senza Dio e che quest’ultimo ha la possibilità di ricevere, di ascoltare e di credere. Ascoltare significa: prendere conoscenza della decisione intervenuta in Gesù Cristo, e credere significa: accettare la posizione nuova creata da questa decisione. Quando l’uomo senza Dio ascolta e crede la promessa afferra la possibilità di cui parlavamo: si allontana dalla sua vita di riprovato per volgersi verso l’esistenza autentica di uomo eletto. È così subito chiaro che la sua esistenza assurda di reprobo contraddice sicuramente il suo essere eletto in Gesù Cristo; ma, più di tutto questo, è subito evidente che il suo essere eletto in Gesù Cristo contraddice vittoriosamente il suo comportamento di uomo riprovato. Ecco quanto appare in maniera nitida. Infatti, segretamente e oggettivamente, senza che l’uomo ne sia cosciente e lo voglia, si tratta di una contraddizione, di un combattimento che ha sempre avuto luogo e non cessa di aver luogo, in qualsiasi circostanza, se è vero che la decisione eterna di Dio, che vuole che l’uomo sia eletto e non ripudiato, ha avuto luogo e non cesserà di aver luogo. Vi è però una novità: appena l’uomo ascolta la promessa della sua elezione e vi presta fede, appena questa diventa uno dei dati concreti della sua esistenza, la lotta di cui parliamo diventa manifesta e reale anche soggettivamente; comprendendola e volendola, l’uomo vi aderisce lasciando ch’essa diriga le sue decisioni, i suoi atti ed il suo comportamento. Ormai, da quando conosce la promessa e vi presta fede e tanto a lungo quanto vi si attiene, conduce la vita di un eletto, a dispetto del suo ateismo ed in opposizione alla sua vana esistenza di riprovato. Lui stesso è una persona umana, un individuo diverso da Gesù Cristo; come tale vive ciò ch’egli è in Gesù Cristo, indipendentemente dal proprio volere e dalle proprie ambizioni e senza spiare a destra e a sinistra; vive per il fatto che in Gesù Cristo la sua riprovazione è stata rifiutata e la sua elezione compiuta; vive per il fatto che Gesù Cristo è morto ed è risorto anche per lui; vive: con al di sotto di lui il nulla che aveva scelto nella sua follia e al di sopra, nei luoghi altissimi, il reale

da cui si era distolto; l’«individualizzazione» perversa che l’aveva condotto a isolarsi e a separarsi da Dio si trova alle sue spalle, non è più che un puro passato e davanti a lui vi è la giustizia che costituisce l’avvenire eterno che gli è accordato. Se l’uomo ascolta e presta fede alla promessa della sua elezione compiuta in Gesù Cristo può vivere e vivrà quella vita e nessun’altra. Poiché è quella vita, e nessun’altra, che gli è attribuita dall’elezione di Gesù Cristo annunciata dalla comunità. Questo è lo sguardo che volevamo dare sul terzo ed ultimo complesso di problemi trattati in questo capitolo. Abbiamo descritto l’elezione dell’individuo come elezione avvenuta in Gesù Cristo dell’uomo senza Dio; abbiamo indicato che quest’ultimo appare come un eletto perché gli è permesso di vivere la vita di un eletto non appena egli ascolti, creda e riceva la promessa della sua elezione. Questa definizione esige però il rinvio ad un’ultima precisazione che qui sarebbe indispensabile, ma che non potrebbe essere fatta senza abbandonare non soltanto il linguaggio e lo stile, ma anche l’intenzione e la dinamica che caratterizzano la ricerca e l’esposizione di natura puramente didattica, per trapassare direttamente (poiché indirettamente questo passaggio è senz’altro inevitabile nella dogmatica) alla predicazione, all’esortazione ed alla pastorale. Dicendo che «i singoli individui» sono l’oggetto dell’elezione divina ci si esprime sempre e malgrado tutto con una certa imprecisione che, pur leggera, è tuttavia notevole, finché si parla di questi individui impersonalmente alla terza persona e si permette così all’uditore o al lettore di supporre che in tutto questo ci si riferisce agli «altri» e non a loro stessi. Considerato da questo punto di vista, l’oggetto della predestinazione non è certamente «l’individuo», né «il senza Dio», né «l’uomo» che ascolta la promessa e vi presta fede, né «colui» che vive della vita dell’eletto, se si indica con queste espressioni una persona diversa dall’uditore o dal lettore del testo; è peraltro tutto ciò nella misura in cui l’oggetto s’identifica precisamente con l’uditore e con il lettore. Questi ultimi non possono riconoscere esattamente ciò di cui si sta trattando se non notano che tutta la ricerca e tutta l’esposizione relativa all’oggetto della predestinazione, considerato sotto quest’ultimo aspetto, si rivolgono a loro personalmente, al di là di qualsiasi spiegazione puramente didattica: proprio tu sei quest’uomo. Considerato così, l’oggetto della predestinazione sei tu stesso; è di te che si tratta; o meglio: è a te che si parla quando si abborda il problema dell’elezione individuale nel contesto di quella di Gesù Cristo e della comunità. Tutto quanto si può dire sull’individuo come tale suona

notevolmente inautentico nella misura in cui tale individuo non è un soggetto in possesso di un essere proprio che permetta di considerarlo e di analizzarlo dall’esterno; l’essere dell’individuo eletto risiede in effetti nell’essere di Gesù Cristo: «è nascosto con il Cristo in Dio» (Col. III, 3); inoltre esso non si costituisce che attraverso la promessa annunciata dalla comunità insieme con l’evangelo di Gesù Cristo. Questa promessa, costitutiva dell’individuo eletto, non è però una teoria su un oggetto; è invece una parola rivolta «ogni volta» ad un soggetto. È certamente «dottrina», ma nell’accezione originale ed autentica del termine latino doctrina: insegnamento, lezione che esige ogni volta l’ascolto attento e la fede. È nell’ascolto (o nel non ascolto), nella fede (o nell’incredulità), nella riconoscenza (o nell’ingratitudine) del soggetto in questione che deve intervenire e interverrà ogni volta quella decisione che rivela in qual senso gli sarà stata appresa la verità con la mediazione della dottrina. La dottrina gli dice in tutte le occasioni la verità, assicurandogli (partendo dall’elezione di Gesù Cristo e secondo il mandato della comunità eletta) che, anche lui, è un eletto di Dio. C’è però una questione che la dottrina, intesa come insegnamento della promessa, non saprebbe risolvere: il problema di sapere se, dal momento che l’uomo rifiuta di ascoltare e di credere, essa deve confermargli, a dispetto della sua elezione, che sta conducendo la vita di un riprovato e che si trova così sotto la minaccia del ripudio effettivo, o se, dal momento che l’uomo accetta di ascoltare e di credere, essa ha il diritto di annunciargli che vivrà l’esistenza di un eletto, conformemente alla sua elezione. La decisione su questo punto interviene allorché il soggetto che si trova ogni volta confrontato con la parola rivoltagli è chiamato a dimostrare se ha ricevuto l’insegnamento oppure no, se è convertito o rimane inconvertito. Tutte le affermazioni che la promessa fa sull’uomo (cioè: che è un individuo isolato e separato da Dio come tutti gli altri, e dunque un ateo, su cui pesa la minaccia del ripudio, minaccia che già significa per lui angoscia e miseria; ma che gli è permesso, proprio in questo evento, di ascoltare e di credere il buon annuncio che in Gesù Cristo egli non è ripudiato ma eletto, cioè un uomo che può vivere la vita di un eletto ascoltando e credendo in ciò che gli si dice) tutte queste affermazioni possiedono la loro portata esatta e specifica, differente da quella di una semplice «dichiarazione» perché (avendo la loro origine in Gesù Cristo, la Parola eterna di Dio ed essendo un messaggio della sua comunità eletta) sono un’«apostrofe» mirante a provocare la

decisione che «ciascuno» deve prendere o che, più precisamente: sarà «lui stesso» a dover prendere. La promessa dice a ciascuno, sia uditore o lettore: non puoi in alcun modo ascoltare o leggere qui una parola che si riferisca a qualcun altro che non sia tu stesso, non sei in una sala di spettacolo ma sulla scena; è di te che si tratta; tu sei «questo» individuo di cui si parla. Sei isolato da Dio e di conseguenza senza di lui, un ateo; sei minacciato; ma ecco che in realtà ti trovi in una situazione ben diversa. Infatti è per te precisamente che Gesù Cristo ha preso su di sé la riprovazione divina, con le sue reali e terribili conseguenze: sei dunque dispensato dal subirla tu stesso; è per te precisamente che Gesù Cristo è l’uomo eletto da Dio e rivestito della sua gloria; è te che attendono la vita eterna e la comunione con Dio. È per te che Gesù Cristo è morto ed è risorto; sei tu l’eletto in lui e con lui; è infine nel risultato di ciò che dirai e farai (o rifiuterai di dire e di fare) da parte tua (ora che tutto questo ti è stato detto) che si deciderà se, con il messaggio che ti è stato annunciato, sarà la vecchia maledizione che ti raggiungerà ancora una volta o se sarà invece la benedizione eterna che riposerà su di te in tutta la sua novità. All’interno e insieme a ciò che dirai e farai ora (o rifiuterai di dire o di fare), sei costretto a prendere le tue responsabilità di fronte a ciò che ti è stato detto e a confermarne in un modo o in un altro la verità (persistendo nel tuo ateismo o voltandogli la schiena, per la tua salvezza o per la tua rovina). La comunità non adempirebbe correttamente al suo compito se non lo eseguisse esprimendosi implicitamente o esplicitamente alla seconda persona singolare; ed il suo compito (che consiste nel trasmettere a ciascuno la promessa contenuta nell’evangelo di Gesù Cristo) non sarebbe stata compreso, qualora non fosse stato inteso in questo modo, qualora tu non ti sia accorto che ti riguarda e che la verità che risuona al tuo orecchio è, in un modo o in un altro, una promessa valida per te personalmente; se così non fosse l’elezione dell’«individuo» o del «senza Dio», come anche l’elezione della comunità e quella stessa di Gesù Cristo, sarebbero certamente incomprese. La dogmatica (che come tale non è né predicazione, né esortazione, né pastorale) non può che rinviare a quest’ultima prospettiva che precisa ed accentua la dottrina dell’elezione gratuita di Dio; questo rimando è però indispensabile; laddove si tratta degli «eletti» (e dei «riprovati») impersonalmente alla terza persona, l’intenzione profonda e la spiegazione ultima delle verità enunciate concernono infatti sempre, ed in verità, la seconda persona. D. LA NOSTRA POSIZIONE NEI CONFRONTI DELLA TRADIZIONE DOMMATICA «Vi è una predestinazione degli uomini per mezzo della quale Dio tra il

genere umano creato a sua immagine, ma pronto a cadere spontaneamente nel peccato, stabilì che alcuni si salvassero in eterno per opera di Cristo, altri invece in eterno fossero dannati nella propria miseria, per manifestare la gloria della sua misericordia e della sua giustizia»11. Questa definizione permette di chiarire nettamente la distanza che ci separa dalla dottrina classica della predestinazione, a proposito della questione che sembrava essere per lei di primaria importanza. Abbiamo già preso le nostre distanze all’inizio, rifiutando di subordinare «la salvezza per mezzo di Cristo» alla «decisione» divina ed identificando queste due nozioni. Secondo la regola che vuole che sia Dio, e nessun altro, a rivelarsi abbiamo interpretato il decreto eterno ricorrendo alle tesi più importanti della cristologia sull’unità e la diversità delle due nature, sull’umiliazione e l’innalzamento di Gesù Cristo, sulla sua funzione profetica, sacerdotale e regale; abbiamo considerato Gesù Cristo come il Dio-che-elegge e l’uomo-eletto (nel quale tutti sono eletti) e, inversamente, come il Dio-che-riprova e l’uomo-riprovato (nel quale gli altri uomini non sono ripudiati); abbiamo visto nella predestinazione l’elezione della comunità chiamata a testimoniare su questa decisione positiva e negativa, intervenuta in Gesù Cristo in favore di tutti. Tali sono in sostanza i presupposti partendo dai quali abbiamo abbordato la questione specifica che la dottrina classica ha considerato invece come il problema per eccellenza: la questione dell’elezione dell’insieme degli uomini (degli individui, dei senzaDio, della «tua» elezione). Quando si proclama l’esistenza di un decreto divino indipendente da Gesù Cristo, non si capisce che senso potrebbe avere l’attività di una comunità il cui compito consisterebbe, come sembra di capire dalla definizione di Wolleb, nel predicare un’altra volontà divina assoluta, a fianco di quella che è stata compiuta «in Cristo» e «attraverso Cristo». Se invece il decreto divino si identifica con Gesù Cristo, il compito della comunità eletta è chiaro: consiste esclusivamente nell’annunciare a tutti l’evangelo nel quale ciascuno riceve la promessa della sua elezione in Gesù Cristo. Si deve dire di più: la nozione di un decreto divino indipendente da Gesù Cristo permette di considerare gli altri (gli individui, i senza-Dio, ogni persona) come una massa neutra die l’elezione di Gesù Cristo forse concerne o forse no, cosicché la definizione della predestinazione deve scindersi («alcuni» e «altri») in due proposizioni: la prima relativa agli «eletti» (per i quali Gesù Cristo è stato eletto, è morto ed è risuscitato) e la seconda relativa ai «riprovati» (per i quali Gesù Cristo non significa praticamente nulla). Se Gesù Cristo invece è l’origine di tutte le vie e di tutte le opere di Dio, è impossibile ammettere che

esista la benché minima neutralità nei suoi riguardi; di conseguenza non è certo il caso di differenziare la predicazione secondo che ci si rivolga agli uni o agli altri, né soprattutto di separare gli uomini in due gruppi distinti. Simile divisione è parimenti esclusa se si considera la nozione della comunità eletta, deputata a testimoniare. Se questa testimonianza concerne esclusivamente l’evangelo, quest’ultimo non è certo esclusivo: per sua stessa essenza non potrebbe infatti essere un buon annuncio, se fosse destinato agli uni e non agli altri. La comunità non ha il diritto di fare la minima accezione di persona, se sa e riconosce che la «gloria della misericordia e della giustizia di Dio» come pure l’«eterno beneplacito divino» non hanno niente di anonimo, ma si chiamano Gesù Cristo; la testimonianza di Gesù Cristo (e cioè del decreto eterno di Dio) si condensa necessariamente in una sola proposizione con cui la comunità deve volgersi, altrettanto necessariamente, verso tutti e verso ciascuno per annunciare che (in virtù dell’elezione di Gesù Cristo) la libera grazia dell’elezione è la determinazione divina efficace dell’uomo e che (in virtù del ripudio di Gesù Cristo) la riprovazione meritata da tutti è la nondeterminazione divina ugualmente efficace. Il regno dei cieli è aperto e l’inferno incatenato, Dio è giustificato e Satana rifiutato, la vita trionfa e la morte è vinta, la fede in questa buona novella è la sola possibilità, mentre l’incredulità è la possibilità per sempre esclusa: ecco la testimonianza di cui la comunità è debitrice verso tutti gli uomini. Dal momento che la predestinazione è l’elezione di Gesù Cristo, essa non può venire predicata che sotto la forma di questa sola ed unica proposizione, in questa rottura d’equilibrio tra le tesi e le antitesi; è in quest’enunciato, i cui elementi sono diversamente sottolineati e accentuati, che deve essere presentata a tutti e a ciascuno; solo così può seriamente essere l’oggetto della nostra fede o della nostra incredulità. Allora infatti diventa chiaro ch’essa riguarda te e me veramente. Certo la proposizione che abbiamo formulato può provocare e provocherà una divisione: gli uni ascolteranno e gli altri rifiuteranno d’ascoltare, gli uni crederanno e gli altri non crederanno, gli uni saranno riconoscenti e gli altri ingrati; essa però non può permettere di prevedere questa separazione né di considerarla come fatale; non può condurci a fare di tale separazione un principio immutabile, come è avvenuto nella dottrina classica opponente sistematicamente gli «eletti» ai «reprobi». Sarà invece una costante protesta contro ogni sistematica discriminazione, che scarterà proprio a causa di Gesù Cristo; opererà incessantemente per raccogliere coloro che si separano, ricordando ai credenti il ripudio che hanno

meritato e ai non credenti l’elezione che non hanno meritato, annunciando agli uni e agli altri colui nel quale essi sono stati eletti e non ripudiati; si distruggerebbe infatti da sola se in qualsiasi circostanza, fosse anche nel profondo dell’inferno, dovesse cessare di essere l’affermazione dell’elezione gratuita di Dio. Dovevamo precisare chiaramente la distanza che separa questa nostra concezione dell’elezione individuale da quella di coloro che rappresentano la dottrina classica; ora possiamo in tutta tranquillità sottolineare quei punti in cui i nostri predecessori sono arrivati a conclusioni che, al di là del loro contesto, indicano precisamente la direzione nella quale desideriamo sforzarci di comprendere il dogma visto sotto l’aspetto della terza ed ultima questione, oggetto di questo paragrafo. 1. Nelle presentazioni della dottrina classica della predestinazione si trova regolarmente la tesi secondo cui l’essere degli eletti acquista realtà nella loro fede, più precisamente nella loro fede in Gesù Cristo. «Ci elesse, affinché crediamo»12; «elesse coloro che volle per gratuita misericordia, affinché fossero fedeli e concesse loro la grazia, affinché diventassero fedeli»13; «donde possiamo arguire che alcuni uomini sono eletti gratuitamente, se non perché Dio illumina con il suo Spirito quelli che vuole, affinché per fede siano introdotti nel corpo di Cristo? L’elezione precede certo la fede, ma è conosciuta attraverso la fede»14; «la fede segue l’elezione; l’elezione è la causa efficiente della fede; la fede è il mezzo destinato a realizzare il piano divino dell’elezione»15. Tutte queste tesi hanno un carattere polemico: combattono infatti le concezioni secondo cui la fede sarebbe in un modo o in un altro la causa dell’elezione oppure, secondo l’espressione di Melantone, la sua causa concomitante16. Ma affermano anche positivamente: gli eletti sono i credenti (poiché la loro elezione si è realizzata nel tempo attraverso la loro vocazione). È l’atto e l’avvenimento della fede a manifestare ciò che significa il fatto di essere eletto. «Vi è pertanto una particolare vocazione che contrassegna e sancisce l’eterna elezione di Dio in modo da rendere palese ciò che prima è stato nascosto in Dio»17. La fede però è essenzialmente fede che tende verso Dio (credo in Deum), consistente in atti di conoscenza e d’amore, d’obbedienza e di fiducia che si traducono in un comportamento umano reale e visibile, differente dagli altri; è una determinazione attraverso cui Dio agisce nell’uomo conformemente alla sua volontà eterna; esprime l’orientamento dell’uomo verso Dio. Anche nelle

sue manifestazioni esteriori più ammirevoli, non sarebbe nulla senza questo fondamento e questo oggetto. La fede si radica in Gesù Cristo, promessa della misericordia divina e tutto ciò è opera e dono dello Spirito Santo; la fede è per l’uomo la porta aperta verso Dio, ma è Dio che ha aperto questo varco; nella fede l’uomo diventa il soggetto nuovo che non può più entrare in concorrenza con Dio, può solo voler vivere di Dio, con Dio e secondo Dio, poiché la grazia divina lo ha strappato all’ateismo e gli ha dato un’altra situazione, quella della conoscenza di Dio, dell’amore per lui, dell’obbedienza e della fiducia orientate verso di lui. È dunque giusto dire che l’essere eletto dell’uomo diventa concretamente reale e visibile nella sua fede. Ma se l’essenza della fede (senza cui, anche nelle sue più alte manifestazioni esteriori, la fede non sarebbe nulla) sta nel fatto che l’uomo si trova risvegliato dalla grazia di Dio ed assurge così a soggetto nuovo, è impossibile opporre in modo assoluto il credente all’uomo che, contrariamente a lui, non presenta i segni visibili ed esteriori della fede, impossibile dunque considerare senz’altro l’uno come un «eletto» e l’altro come un «riprovato». Se, come eletto, un individuo è un soggetto nuovo, egli si ritrova (ma in Gesù Cristo solamente) per così dire innalzato al di sopra di se stesso in ciò ch’egli ha di migliore e al di sopra degli altri in ciò ch’essi hanno di peggiore; la differenza che l’oppone agli altri non può essere, da questo punto di vista, che una differenza relativa, che non potrebbe essere identica a quella che separa i termini «eletto» e «riprovato»; è in effetti la grazia di Dio che ha risvegliato quest’uomo e lo ha reso capace di comportarsi come un credente. In che modo la grazia potrebbe significare che Dio mostri la sua preferenza assoluta per lui, il credente e la sua indifferenza assoluta per tutti gli altri? Certo, egli crede in Colui nel quale gli altri non credono, ma nel quale, oggettivamente, sono anch’essi chiamati a credere (in virtù della medesima promessa alla quale egli non può legarsi se non per fede); non credere è per loro oggettivamente tanto assurdo ed impossibile quanto a lui stesso era apparso quando è pervenuto alla fede; come credente egli realizza la possibilità che, oggettivamente, è la sola da considerare e che d’altronde anche gli altri possiedono. Il credente (sì, proprio lui) non potrebbe vedere in nessun caso nell’incredulità altrui un fatto definitivo; d’altronde come sarebbe in condizione di constatarla con certezza, dal momento che essa è incredulità altrui e non sua? Non può certo negarne la possibilità: la conosce infatti effettivamente come la sua propria realtà, che è dietro a lui; e non può in nessun caso abolirla: sa bene che la fede può essere suscitata soltanto partendo

dal suo fondamento e dal suo oggetto e che l’incredulità anch’essa non è suscettibile di essere abolita se non cominciando proprio di qui. Ma il credente (sì, precisamente lui) non può assolutamente levarsi contro l’incredulo supponendo che quest’ultimo possa essere un «riprovato»; egli conosce infatti chi ha portato e subito la riprovazione meritata ed inevitabile del senza-Dio, la sua personale riprovazione. Come potrebbe considerare, non fosse che per ipotesi, gli altri come dei ripudiati, per il semplice fatto ch’egli immagina di conoscere la loro incredulità, cioè il loro ateismo?; non rinnegherebbe, in questo caso, l’essenza medesima della sua fede?; e che ne sarebbe allora del suo proprio essere eletto? Non si può credere, seriamente credere contro coloro che non credono, ma soltanto per loro, al loro posto, annunciando loro la promessa che egualmente li concerne. Anche Calvino ha potuto parlare all’occasione di un «giudizio di carità» che permette di tenere conto della «vocazione alla salvezza» e dunque dell’elezione di coloro che presentano i segni esteriori di una «sana vocazione»; è persino giunto a dire delle persone scomunicate dalla chiesa: «non dobbiamo dunque assolutamente cancellare dal numero degli eletti gli scomunicati o disperare per loro come fossero già perduti»; anche nei casi più gravi, bisogna raccomandarli a Dio e pregare per loro «sperando per il futuro meglio di quanto vediamo al presente»18. Negli Articoli di Dordrecht si afferma: «Per quanto attiene a coloro che approfittano esteriormente della loro fede ed emendano la loro vita, secondo l’esempio degli apostoli, dobbiamo gludicare e parlare assai bene: la parte più intima dei cuori ci è infatti sconosciuta; per quanto riguarda gli altri che non sono ancora chiamati, dobbiamo invece pregare Dio, il quale chiama le cose che non sono, come se fossero; e neppure dobbiamo insuperbirci contro di loro, proprio come se in essi stessimo osservando noi stessi»19. La Confessio Helvetica Posterior di Bullinger dichiara in termini più generali: «bisogna sperare bene nei riguardi di tutti»; e nella Confessio Sigismundi si può leggere: «non bisogna dubitare della salvezza di nessuno, per tutto il tempo in cui sono utilizzati i mezzi della grazia, perché gli uomini tutti ignorano quando Dio chiama i suoi in un modo efficace; nessuno sa chi crederà e chi no, perché Dio non è legato ad un’epoca determinata e guida ogni cosa secondo il suo gradimento»20. Se ci si esprime così non per qualche inconseguenza di ordine sentimentale, ma sotto la pressione di una costrizione oggettiva, non c’è dubbio che si sarebbero dovute affermare, nella medesima linea, anche delle verità ancora più fondamentali

ed essenziali, tenendo conto della natura della fede conseguente all’elezione. Se esiste un «giudizio di carità» da un lato, perché mai dall’altro sareboe escluso un «giudizio di speranza»? 2. Tra gli elementi fondamentali della dottrina classica della predestinazione, conviene segnalare in secondo luogo la tesi secondo cui gli eletti sono strappati unicamente dalla sola grazia di Dio alla stessa impotenza e alla stessa rovina che costituiscono la miseria propria dei riprovati; essi stessi ne sono cioè affetti fin dall’origine. «Poiché, malgrado la corruzione e la nefandezza della nostra natura, alcuni credono nell’evangelo è sacrilegio attribuire tale fatto alla loro bontà; dobbiamo piuttosto sempre ringraziarne Dio»21. Infatti: «soltanto la grazia separa i redenti da coloro che sono perduti, che una causa comune fin dall’origine aveva addensato in un’unica massa di perdizione»22; «non per i meriti (giacché la massa universale è condannata proprio nella sua origine viziata) ma per la grazia che separa»23. Degli eletti prima della loro vocazione bisogna dunque dire: «sono giudicati estranei; poiché la vocazione degli uomini è nascosta nel cuore di Dio, che cos’altro si è manifestato in essi se non la dannata impurità? Se li osservi, vedrai la progenie dell’Ade, che risente della corruzione comune a tutta la massa. E se non sono trascinati all’estrema e addirittura disperata empietà, ciò non avviene certo per una loro congenita bontà, ma perché sulla loro salvezza veglia l’occhio di Dio e si protende la sua mano»24. Non esiste (e questo è stato affermato contro Martin Bucero) un «seme d’elezione» che avrebbe reso gli eletti atti ad essere chiamati25. No, essi non erano «né migliori, né più degni, ma tutti giacevano in una comune miseria»26. Si tratta veramente «dell’uomo misero tra molti miseri, cui è impossibile raggiungere la vita senza la grazia», quando si parla dell’oggetto dell’elezione27. Riassumendoci: al di fuori della grazia dell’elezione, gli eletti non sono certo dei riprovati, ma si pongono come dei riprovati in mezzo agli altri; partecipano pienamente al loro peccato e alla loro colpa e su di essi pesa la minaccia della riprovazione che è ugualmente la loro paga; è unicamente attraverso la loro vocazione che sapranno di non essere ripudiati, bensì eletti da tutta eternità. «Coloro che hanno accesso a Cristo erano già figli di Dio nel suo cuore, per quanto in se stessi fossero nemici; e dal momento che erano predestinati alla vita, sono dati a Cristo»28. Ma, come ha sottolineato espressamente Calvino, non è mai possibile per loro, anche nella nuova posizione, dimenticare ciò che sono stati: il ricordo della loro empietà e della loro perdizione iniziale li accompagna ed è

loro rammemorato costantemente dalla debolezza e dalla perversità della loro esistenza e della loro attività di credenti29. Al di fuori della grazia sempre attiva dell’elezione e della vocazione, nulla potrebbe impedir loro di ricadere nella loro primigenia situazione. «Non immaginiamo infatti che gli eletti per una continua direzione dello spirito tengano sempre la via retta; diciamo anzi che spesso vacillano, sono incerti, vanno a sbattere e quasi si allontanano dalla via della salvezza»30; «offendono gravemente Dio con enormi peccati, incorrono nel reato di morte, rattristano lo Spirito Santo, interrompono l’esercizio della fede, feriscono pesantemente la coscienza, talvolta capita che perdano temporaneamente il senso della grazia»31. Ma se così stanno le cose, in che modo la solidarietà degli eletti con gli «altri» e di questi «altri» con gli eletti potrebbe essere scossa? Sarebbe forse perché l’occhio e la mano di Dio avrebbero vegliato sulla salvezza dei primi anche anteriormente alla loro vocazione?; ma costoro non hanno bisogno della stessa grazia dopo, come prima di questo evento?; che cosa mai ci permette di pensare che Dio non vegli ugualmente anche su tutti gli altri? Oppure sarebbe forse perché gli eletti sono stati preservati, ancor prima di essere chiamati, da un’empietà «estrema e disperata»?; ma se non vi deve essere questione qui di una differenziazione assoluta tra credenti e non credenti, con qual diritto si può affermare che questi ultimi non beneficiano di quella differenziazione tutta relativa di cui è possibile discutere? Oppure bisognerebbe parlare di una rottura causata dalla novità che si è manifestata negli uni, insieme e dopo la loro vocazione?; ma anche questa novità è a tal punto contaminata dalle reminiscenze del passato, che non sarebbe certo sufficiente a stabilire una linea di demarcazione assoluta. No, dicono tutti i sostenitori della predestinazione: in definitiva è solo la grazia di Dio, nella sua libertà sovrana e immutabile, che separa gli eletti dai riprovati. Ma (il problema è tutto qui) la grazia di Dio (che elegge e chiama, che è eterna e che si rivela nell’ambito del tempo) opera veramente una separazione tra gli eletti e i riprovati o non piuttosto tra i senza-Dio ed i credenti? In questo ultimo caso effettivamente un legame sussiste ancora tra gli uni e gli altri: poiché i credenti hanno tutte le ragioni di riconoscere che senza la grazia divina sono essi stessi dei senza-Dio e non soltanto sono stati, ma sono ancora e non cesseranno di essere minacciati dalla riprovazione; e poiché da parte loro, i senza-Dio non possono essere considerati che come uomini i quali, esposti alla medesima minaccia, non hanno ancora ricevuto o hanno cessato di ricevere la promessa della loro elezione e per conseguenza devono essere chiamati ad ascoltare e a credere. Si

dovrà ammettere che, su questo punto, l’antica dottrina della predestinazione disponeva di tutti gli elementi necessari per giungere a una conclusione molto differente da quella che ha effettivamente tratto. Perché non ha saputo rendere fecondo l’implacabile rigore con cui ha considerato la miseria dell’uomo, riconoscendo il peso infinito della riprovazione (di cui la miseria umana non è che l’ombra) che Gesù Cristo ha preso su di sé, affinché l’uomo non sia ripudiato e perduto? Perché non ha tratto tutte le conseguenze della sua analisi impietosa, mostrando quanto sia alta e profonda la grazia del Dio che si è rivolto verso gli uomini-senza-Dio e quanto l’ateismo di questi ultimi sia impossibile, comprendendo e facendo comprendere infine come sia imperativamente necessario, insostituibile e responsabile la fede di coloro che riconoscono e ricevono questa grazia ed ai quali è permesso di rallegrarsene e di celebrarla? Perché ci si è ostinati a celebrare questa grazia affermando ch’essa scavava un abisso assoluto tra gli empi «eletti» e gli empi «riprovati»? Non vi vediamo altra causa che questa: non si è voluto prendere sul serio il fatto che la grazia di Dio deve essere compresa molto semplicemente, con una logica tutta infantile, come «la grazia di nostro Signor Gesù Cristo». Ecco perché dobbiamo trarre proprio qui una conclusione diversa da quella dell’antica dottrina. 3. Quanto all’incidenza pratica ed ecclesiastica della dottrina, mettiamo in rilievo la tesi seguente che ha avuto una grande importanza: l’essere eletto dell’uomo e la grazia ad esso legata restano acquisiti nelle circostanze più sfavorevoli. Si tratta del problema della perseverantia (perseveranza, costanza, protezione divina) sanctorum. Non si possono trascurare in effetti i numerosi testi biblici che si riferiscono a questo problema: soprattutto Lc. XXII, 32; Gv. X, 28 s.; Rom. VIII, 28-39; I Cor. I, 8; Fil. I, 6; I Gv. III, 9-24; V, 18, dove si discute della μαϰροϑυμία divina, della πίστις e della ύπομονἡ cristiane. Nello scritto di Agostino il cui titolo «sul dono della perseveranza» è significativo, il tema della perseveranza cristiana appare unicamente nel quadro generale della polemica antipelagiana: in mezzo ad altre virtù (come la castità e l’obbedienza) l’autore nomina ugualmente la fedeltà fino alla morte, ch’egli considera come un puro dono di Dio, cioè come una perfezione che prende origine dalla predestinazione; tuttavia la definizione che dà della predestinazione nello stesso scritto indica a qual punto il problema della perseveranza dei santi gli stia a cuore. In effetti egli dichiara che la predestinazione è «la preconoscenza e la preparazione dei benefici divini,

mediante cui sono liberati tutti quanti coloro che vengono liberati»32. È però nel trattato pubblicato qualche anno più tardi ed intitolato «sulla correzione e sulla grazia» che si trova l’essenziale del pensiero di Agostino su questo argomento: «chiunque nella provvidentissima disposizione divina di salvezza è preconosciuto, predestinato, chiamato, giustificato, glorificato già è figlio di Dio; non dico non appena è rinato, ma subito persino ancor prima di nascere; né mai può giungere a perdizione»33. Certamente, secondo il nostro autore, nessuno deve vantarsi di appartenere al numero degli eletti34. Ma per quanti ne fanno parte un fatto è sicuro: «la loro fede, che diventa operante mediante l’amore di carità, sicuramente o non viene meno oppure se vi è qualcuno in cui viene meno, è ristabilita prima che finisca questa vita e, cancellate totalmente le iniquità in cui qualcuno può essere incorso, si stabilisce (per gli eletti) una perseveranza fino alla fine»35. «Se qualcuno di essi perisce, è Dio che sbaglia; ma nessuno di essi perisce, perché Dio non sbaglia; se taluni di loro periscono, Dio è vinto dalla colpa umana, ma nessuno di loro perisce, perché Dio non può assolutamente essere vinto»36. In corrispondenza con le definizioni agostiniane, anche Tommaso d’Aquino scrive: «la predestinazione consegue il suo effetto in modo certissimo ed infallibile»37; «coloro che in forza della predestinazione divina sono ordinati ad avere la vita eterna, sono scritti semplicemente nel libro della vita e mai ne saranno cancellati»38. Praticamente un predestinato non può morire in stato di peccato mortale, cioè non può andare alla perdizione eterna39. Ciò che è nuovo in Calvino, che ha dedicato alla questione un’attenzione tutta particolare, è innanzitutto il significato pratico, meno per la morte che per la vita dell’eletto, ch’egli le riconosce. Cito qui, tra tanti altri, due passaggi: «Fra tanti violenti sussulti, fra tanti accidenti, fra tante tempeste agitate in questo risiede la fermezza perpetua della nostra situazione: che Dio, il quale ha decretato nel suo consiglio ciò che attiene alla nostra salvezza, con la forza del suo braccio costantemente la protegge. Se guardiamo noi stessi, che altro possiamo fare se non trepidare? Tutto vacilla infatti per quanto ci concerne e nulla vi è di più debole per noi. Ma poiché il padre celeste non consente che periscano coloro che ha donato al Figlio, quanto vi è di potenza in questo fatto, altrettanto vi è per noi fiducia e gloria. Poiché Dio è così forte, si manifesterà certo costante ed invitto assertore del suo dono»40. «Per tutti gli eletti la vita eterna è assicurata; nessuno può venir meno; nessuna violenza e nessun attacco può sottrarre qualcuno; la loro salvezza risplende in forza

dell’invitta potenza divina. Vedo che io vacillo molto frequentemente e non passa giorno che non sembri lì lì per sommergere. Però, poiché Dio sostiene i suoi eletti affinché mai siano sommersi, confido di rimanere saldo, sicuramente, fra innumerevoli tempeste»41. Con Calvino anche i luterani dichiarano: «Dio ha voluto circondare la mia salvezza a tal punto, con presidi così sicuri, da porla nel suo eterno disegno di salvezza (che non può né fallire né essere sconvolto) come in una rocca munitissima e così facendo la mise in custodia nell’onnipotente mano del nostro Signore Gesù Cristo, luogo donde nessuno potrà mai strapparci»42. Nel XVII secolo ancora essi affermavano (con una forma che senza dubbio può dare adito a discussioni): «L’elezione divina è costante ed immutabile, fatta secondo il disegno divino che non può subire cambiamenti e secondo la previsione della fede perseverante fino al termine della vita; e questo a tal punto che gli eletti non possano allontanarsi dalla loro elezione ed abbandonare la salvezza eterna»43. Un secondo elemento di novità che appare in Calvino è questa presupposizione, che ritorna costantemente: nella fede gli eletti devono essere certi del loro essere eletti, certi cioè della costanza della grazia divina rivolta verso di loro (ritorneremo più sotto su questo punto). Infine si trova in lui una terza tesi inedita: si tratta dell’esplicita costatazione riguardante il carattere indistruttibile della fede suscitata negli eletti, carattere fondato sulla loro vocazione: «Questo argomento sia chiarito una volta per tutte: per quanto ridotta o malferma sia la fede degli eletti, tuttavia poiché lo Spirito dì Dio è pegno e testimonianza infallibile della loro adozione, il marchio ch’egli pone nel loro cuore non può mai essere cancellato»44. Non che gli eletti non debbano lottare contro il dubbio, l’inquietudine e persino l’incredulità: «è tuttavia meraviglioso che la fede sostenga i cuori dei fedeli in mezzo a tali e così rudi colpi; così come capita a Davide; per quanto sembrasse essere sopraffatto, riprendendosi e lottando contro la sua debolezza, non ha smesso di salire verso Dio. Ora colui che, combattendo contro la sua debolezza si sforza nella sua afflizione di persistere nella fede e di progredirvi, è già in gran parte vittorioso»45. Questa costatazione ha fatto sì che Calvino e i calvinisti fossero accusati dai luterani46; questi ultimi intendevano certo offrire al credente l’assicurazione che avrebbe conservato «la condizione di fedeltà nell’ultimo punto o momento della vita» (cioè fin sul suo letto di morte) e combattevano così l’idea che l’uomo avrebbe potuto perdere la grazia alla fine della sua esistenza; ma che non cessavano ci considerare la possibilità, per gli stessi eletti, di perdere totalmente, anche se solo in modo provvisorio, la grazia e la fede. Nelle tre

forme sviluppate da Calvino la dottrina della «perseverantia sanctorum» è divenuta una tesi fondamentale di numerose confessioni di fede riformate47; anche il Catechismo di Heidelberg48 e gli irlandesi Articoli di religione49 ne hanno indubbiamente tenuto conto. Per comprendere meglio di che cosa si tratta, è bene confrontare questa dottrina nella sua forma più elaborata, così come è stata proclamata nel Sinodo di Dordrecht, con le tesi che sono state difese contro di essa nel corso di questo medesimo sinodo. I rimostranti si erano espressi sulla questione nel modo seguente (dapprima nei loro articoli del 1610 e poi in modo definitivo nella dichiarazione fatta davanti al sinodo): tendendo loro la mano in Cristo, Dio ha reso i credenti così forti con la sua grazia, ch’essi non avrebbero certo più il potere di ricadere nell’incredulità; se questo però avviene in autentici credenti, e realmente avviene, può causare la loro rovina eterna, anche se è sempre possibile richiamarli al pentimento. È «nocivo alla pietà e ai buoni costumi» insegnare che i credenti non potrebbero più peccare se non per ignoranza e debolezza e che nessun peccato potrebbe far perdere loro la grazia di Dio, dal momento che tutti i loro sbagli sono stati loro rimessi; insegnando così, «si apre la porta all’assicurazione carnale»; che l’uomo si accontenti per il presente di essere sicuro della sua fede e della sua buona coscienza; per l’avvenire vi è una sola assicurazione: e cioè che si può perseverare nella fede grazie alla vigilanza, alla preghiera e agli esercizi di pietà e che la grazia di Dio non mancherà mai a chiunque osservi questa disciplina. Si persevererà veramente nella fede, nella pietà e nelle opere d’amore?; ecco ciò che non si saprebbe prevedere; e si può domandare: è proprio necessario saperlo? Vediamo ora la contro-argomentazione del Sinodo50. La perseveranza nella fede non concerne assolutamente la nostra libera volontà; è accordata agli eletti in forza della loro elezione, grazie alla morte, alla risurrezione e alla mediazione eterna di Gesù Cristo; Dio non ci concede il suo soccorso per lasciarci in seguito la cura di soccorrerci da noi stessi. I veri credenti non possono soccombere come tali al peccato mortale, non possono peccare contro lo Spirito Santo, né essere perduti completamente e fino in punto di morte; l’assicurazione che essi hanno della grazia accordata loro si fonda sulla costanza delle promesse divine; non è vero che tale assicurazione sia un cuscino di pigrizia; una fede che s’inorgoglisse alla leggera non sarebbe infatti la fede giustificante e salutare; la nuova nascita non si ripete e non ha bisogno di ripetersi: non è per nulla che Cristo ha pregato per Pietro, affinché la sua

fede «non vacilli». Riassumiamo ora la dichiarazione positiva del Sinodo51. È esatto che gli eletti, dopo esser stati chiamati alla fede, vivono anch’essi (e persino i migliori) in «questo corpo di morte» e che essi hanno assolutamente il dovere di umiliarsi fino alla morte davanti a Dio, di cercar rifugio nella croce del Cristo e di mortificare la loro carne per mezzo dello Spirito Santo e delle opere ch’egli suscita; ma ridotti alle loro sole forze non avrebbero mai il potere di farlo, non potrebbero cioè rimanere e perseverare nella grazia ricevuta; Dio è fedele: perciò è lui che li conserva nella sua grazia. Ciò non significa che essi siano dispensati dal vegliare e dal pregare: devono farlo per non soccombere alla tentazione, come Davide e Pietro; ciò non significa neppure ch’essi non possano agire realmente, nel modo più grave e più pericoloso, contro Dio e contro la loro coscienza, perdendo così ogni senso della grazia; ciò significa invece che Dio non ritira ai suoi il suo Spirito Santo e non permette ch’essi si gettino nella rovina eterna. Il seme incorruttibile che li ha fatti nascere nuovamente si conserva in loro; Dio non cessa di rinnovarli con la sua Parola ed il suo Spirito, affinché si pentano, domandino e ricevano il perdono, ritornino ad essere sensibili alla grazia, adorino la misericordia che li solleva e cerchino tanto più la loro salvezza con timore e tremore; in questo modo (non a causa del loro merito o del loro potere, ma per mezzo della grazia di Dio) non sono in condizioni di rimanere completamente o fino in punto di morte tra coloro che sono caduti, né d’incorrere nella loro rovina. «Per quanto riguarda loro», sì, tutto questo sarebbe certo possibile, ma non «per quanto attiene a Dio», il cui proposito e la cui promessa non possono né variare né ingannare. È accordato ai credenti di conoscere tutto ciò, a ciascuno secondo la sua fede, dalla Parola di Dio: non con un’audacia carnale, ma con un timore infantile, pregando, portando la loro croce, proclamando fermamente la loro fede, prestando attenzione alle vie di Dio, temendo di abusare della sua bontà e facendo corretto uso della predicazione e del sacramento, per dire tutto, trovando la loro gioia in colui che, dopo aver iniziato in loro la sua opera, vorrà anche portarla a termine. «Questa è (dice la dichiarazione che conclude la confessione di Dordrecht e le conferisce il suo carattere) la dottrina della perseveranza dei credenti e dei santi autentici e dell’sicurazione che li concerne. Dio l’ha rivelata pienamente nella sua Parola e l’ha impressa nel cuore dei fedeli per la gloria del suo nome e la consolazione delle anime pie. La carne non può possederla; Satana la odia; la gente non se ne cura; gli ignoranti e gli ipocriti ne abusano; gli eretici la combattono. Ma la sposa del Cristo la ama molto teneramente, come un tesoro di valore senza pari e la

difende con un’intrattabile ostinazione. E essa continuerà a farlo poiché Dio stesso ci penserà, il Dio che nessun proposito potrebbe prendere in difetto e contro il quale nessuna potenza può levarsi. A lui, al Dio unico, Padre, Figlio e Spirito Santo siano l’onore e la gloria per tutti i secoli, amen». È chiaro che così interpretata la tesi della perseveranza dei santi non può che essere completamente approvata. È subito evidente che quanto i rimostranti hanno creduto di dover ricordare per attaccarla era perfettamente insignificante, un povero postludio del cattolicesimo della fine del medioevo, un povero preludio del neoprotestantesimo razionalista e pietista. Poiché Dio, «il Padre di misericordia e il Dio di ogni consolazione» (II Cor. I, 3) non può ingannarsi, né essere vinto, né essere infedele a se stesso e agli uomini, il suo «sì» agli eletti non potrebbe mutarsi in un «no» assoluto; avendo questo «sì» assoluto nell’orecchio e nel cuore, gli eletti possono e devono essere sicuri, per fede, della loro elezione e, di conseguenza, della loro salvezza eterna, a dispetto del loro «no» funesto a Dio, contro il quale hanno ormai la possibilità di condurre un giusto combattimento, una lotta feconda. Anche l’obiezione dei luterani è senza valore e poco degna di Lutero: se la fede degli eletti si nutre di Gesù Cristo, suo fondamento e suo oggetto, non si vede proprio come la si potrebbe perdere; una fede che fosse amisibile sarebbe così poco consolante «nell’ultimo momento della vita» che non sarebbe certo degna di considerazione nel resto dell’esistenza; la fede autentica non deve forse significare che, nella vita e nella morte, cioè sempre e non ogni tanto, continuiamo ad essere sicuri della nostra salvezza (non per quanto attiene alle nostre forze, ma rispetto a Dio), affidandoci alla Parola di Dio, conoscendo la sua decisione che è nello stesso tempo dietro e davanti a noi, per poter essere così armati e pronti a muovere la buona battaglia, dovunque ce ne sia bisogno? Si pensa dunque di rendere la fede meno costosa rifiutando di riconoscerla costante? Non si potrà dunque essere abbastanza riconoscenti a Calvino di avere valorizzato la dottrina della «perseverantia sanctorum» così come ha fatto, superando le definizioni di Agostino e di Tommaso d’Aquino. Anche qui non bisogna stupirsi che tale dottrina non abbia trovato l’eco che certo avrebbe meritato e che anzi sia stata considerata abbastanza frettolosamente dalla teologia e dalla chiesa riformata come un postulato incomprensibile, e persino sospetto, dell’ortodossia al suo declino. Si pensi, per esempio, all’angoscia lancinante di un Samuel Werenfels riguardo alla salvezza della sua anima: cent’anni dopo Dordrecht, quest’uomo è stato perseguitato tutta la vita da simile problema che lo ha, in un certo senso, reso

inadatto al lavoro. Non era dunque fatale che la dottrina di cui parliamo, per lo meno come è stata purtroppo interpretata nell’insieme del sistema calvinista, in cui la si applicava agli uni (gli eletti) in opposizione agli altri (i ripudiati), fosse considerata, malgrado tutte le garanzie e le precauzioni di Dordrecht e di Calvino stesso, come ben troppo logica, pretenziosa e pericolosa? Chi sopporterebbe effettivamente, senza presunzione, senza cadere nella leggerezza o nella disperazione, di sentirsi dire, prendendo coscienza della propria elezione, ch’egli è il cristiano raffigurato nel quinto articolo di Dordrecht? E chi, a meno di essere completamente insensibile, sopporterebbe l’idea che gli altri, a causa della loro riprovazione, sono necessariamente esclusi da questa condizione cristiana, la sola in cui l’uomo possa vivere normalmente? Non ci si può certo trastullare con un pensiero di questo tipo: da un lato Dio è fedele a se stesso completamente e fino alla fine, dall’altro l’uomo è capace di dar prova della stessa costanza, a dispetto del peccato, della morte e del diavolo. Non lo si può fare proprio perché si tratta qui del più vero di tutti i pensieri. Questa dimensione doveva essere trattata a fondo, fino alle sue ultime conseguenze; altrimenti (astraendo dal fatto di prendere in considerazione «la pietà e i buoni costumi») doveva necessariamente sembrare una bestemmia o per lo meno un dogma teologico del tutto sterile. Consiste appunto in questo la lacuna dei padri dell’ortodossia riformata: non sono pervenuti fino in fondo alla loro affermazione. Questa è senza dubbio la ragione per cui l’apprezzabile vantaggio, di cui avevano usufruito alla loro epoca, non ha avuto seguito. È infatti impressionante notare come per spiegare questo punto capitale della dottrina della predestinazione i padri riformati non facciano più intervenire il «decreto assoluto», ma argomentando ricorrano quasi esclusivamente al fondamento della conoscenza della predestinazione, cioè a Gesù Cristo, alla Parola di Dio e alle sue promesse. Questa è la ragione per cui il quinto articolo di Dordrecht, preso in sé, è in un certo senso inattaccabile e appare, nei suoi limiti, come una testimonianza evangelica d’inestimabile valore. Ma ci si è fermati per strada: non hanno osato fare il passo che avrebbe condotto alla scoperta immediata e salutare che il fondamento gnoseologico della predestinazione è anche il suo fondamento reale, cioè alla conoscenza che colui-che-elegge e che, nella sua volontà gratuita, rimane fedele completamente e fino alla fine è Gesù Cristo stesso. Non sono partiti dall’assioma secondo cui l’elezione di Gesù Cristo è la nostra specifica elezione; non hanno saputo vedere che proprio tale fatto conferisce la consistenza temporale ed eterna alla grazia di cui siamo l’oggetto e alla fede

che ci è data, poiché Gesù Cristo è insieme il Dioche-elegge e l’uomo-eletto. Invece di iniziare riconoscendo questa verità che taglia alla radice ogni presunzione, ogni leggerezza e ogni disperazione, hanno dato il primo posto al «decreto assoluto», in cui non viene considerata una distinzione, per opera della grazia di Dio, tra l’elezione e la riprovazione, ma invece una separazione tra «eletti» e «riprovati», stabilita secondo un principio per definizione insondabile. È chiaro: partendo dall’altro assioma sarebbe stato precluso di colpo che il «dono della perseveranza» fosse attribuito agli uni e contestato agli altri in modo assoluto; per ciò stesso si sarebbe evitato di dare della chiesa questa immagine apparentemente eroica ma in realtà profondamente settaria e poco convincente, di un popolo privilegiato che si incammina serenamente verso il cielo, senza occuparsi per nulla di ciò che avviene intorno a sé. Non vi è alcun dubbio che allora sarebbero stati costretti a rivelare, a quanti ancora non lo sanno, che la fedeltà divina, in tutta la sua ricchezza ed in tutta la sua potenza, concerne anche loro, come tutti gli altri. La risurrezione di Gesù Cristo di tra i morti non avrebbe dunque valore se non per gli uni?; Gesù non avrebbe perseverato nella preghiera se non in favore di qualche privilegiato?; sarebbe soltanto per costoro che la potenza di Satana è stata distrutta dall’instancabile fedeltà divina ed umana che si è manifestata in Gesù Cristo?; il Figlio di Dio non avrebbe sopportato l’obbrobrio dell’uomo riprovato e non avrebbe rivestito la gloria dell’uomo eletto se non per una particolare categoria di uomini?; non è forse per tutti l’incarnazione del regno di Dio, l’αὐτοβασιλεία? Chi oserebbe parlare dell’elezione in questi termini, quando essa è esclusivamente (senza alcun «decreto assoluto» al di là o al di sopra) l’elezione di Gesù Cristo? Coloro che riconoscono in lui il fondamento reale della loro elezione potrebbero forse vedere negli altri (chiunque di loro sia) se non degli uomini che non credono ancora o non credono più e che, per questa ragione, non possono ancora o non possono più riposare sull’azione della fedeltà divina ed umana che si è manifestata anche per loro e vivere sotto la sua legge, uomini cioè ai quali essi, i credenti, sono assolutamente tenuti a rendere noto, nel modo più giusto ed efficace, che sono chiamati alla fede? Le loro premesse non hanno permesso ai padri dell’ortodossia riformata di trarre queste conseguenze. È senza alcun dubbio un «tesoro inestimabile» quello che «la sposa di Cristo» ha ricevuto con la dottrina della «perseveranza dei santi»; non si potrebbe esaltarne troppo il valore; l’evangelo diffonde tutta la sua luce solo quando questa dottrina è riconosciuta e insegnata. Ridotta però al concetto secondo cui aprioristicamente significa tutto per gli uni e non dice

nulla agli altri, non ha potuto che oscurarsi e confondere completamente l’insegnamento cristiano. Effettivamente questo a priori non ha proprio nulla a che vedere con l’elezione gratuita dì Dio. 4. Riprendiamo ora, come abbiamo anticipato, la risposta che ha dato l’antica dottrina della predestinazione alla questione della conoscenza e della certezza che l’individuo può avere della propria elezione52. La Riforma è stata attaccata su questo punto dal Concilio di Trento che dichiara in sostanza: nessuno, a meno di poter godere di una speciale rivelazione, può sapere con certezza assoluta ed infallibile chi è eletto e chi di conseguenza persevererà fino alla fine; non è perciò in nessun caso necessario inserire tra gli articoli di fede la certezza dell’elezione53. Calvino ha ribattuto: sviluppando così come ha fatto la disamina dell’elezione in Ef. I e Rom. VIII, Paolo ha veramente potuto pensare che i suoi lettori non avessero la possibilità ed il dovere di conoscere la loro propria elezione? E quale «rivelazione speciale» potrebbe qui entrare in causa se non quella che, secondo I Cor. II, 10. 12. 16 è stata ricevuta da tutti i veri figli di Dio?54. Ma già Agostino e Tommaso d’Aquino, che certo si auguravano che l’elezione individuale fosse insegnata, predicata e creduta, richiedevano tuttavia che fosse lasciata aperta teoricamente la questione dell’identità personale degli eletti. La teologia della Riforma ha dato una sola ragione per giustificare la sua risposta positiva a questo problema, ma l’ha presentata in una forma nettamente differenziata. Per Calvino, come abbiamo visto, il Cristo è «lo specchio dell’elezione»: «donde so di essere eletto? Cristo fa per me le veci di mille testimoni; infatti là dove ci troviamo nel suo corpo, la nostra salvezza, riposa in una sicura e tranquilla situazione, come se fosse già situata nei cieli»55. La «navigazione sicura e persino giaiosa» al di sopra dell’abisso del decreto divino, «il luogo in cui viviamo (l’espressione è di san Bernardo56): perché Dio, essendo placato, ci placa», «poiché il nostro riposo consiste nell’averlo favorevole», tutto questo possiamo ottenere, sempre che vogliamo attenerci a questa sola «testimonianza»57 al «canale» nutrito dalla fonte nascosta58, alla «copia» di cui Dio possiede l’originale59. «Dato che la fede è fondata in Cristo, potranno intervenire alcune cose che le saranno d’aiuto: cionondimeno essa si fonda unicamente sulla grazia di Dio»; «infatti per quanto tutte le grazie di Dio siano come aiuti o appoggi da cui la fede è confermata e sostenuta, essa non cessa tuttavia di avere il suo fondamento nella sola misericordia di Dio»60. Si tratta di un rapporto analogo a quello

intercorrente tra la testimonianza interiore dello Spirito Santo che parla nella Scrittura ed i diversi momenti della credibilità esterna dei testi biblici61. In un caso come nell’altro però, Calvino non ha considerato che fosse sbagliato o inutile rinviare a questi «aiuti o appoggi». Si noterà che in tutti i passaggi che abbiamo citato come in quelli che fanno loro riscontro, ha anche parlato della fede in Cristo come del fondamento della certezza dell’elezione. Non che tale fede sia un fondamento diverso dal Cristo. È in effetti l’atto e il comportamento umano in cui si verifica l’avvenimento fondamentale; l’uomo trova in Cristo il suo unico fondamento; con la stessa certezza con cui si afferma che il Cristo è l’origine e l’oggetto della fede, così si dice che egli risiede e agisce, proprio lui, nella fede del credente e diviene uno con lui62. Ma proprio per questo diventa inevitabile considerare la fede come un’azione ed un modo d’essere umani e vedere nel fedele e nella sua vita (la sua vita nella fede sì, ma insomma la sua vita) una conferma ausiliare e tuttavia indispensabile di questa testimonianza decisiva. È proprio perché quest’ultima è fondata e vera in se stessa che l’uomo può accedere alla certezza attraverso la forza di Gesù Cristo e dello Spirito Santo certamente, ma in modo tale che tale certezza si inscrive nella sua personale decisione, nella sua fede e nella sua testimonianza, in breve nella sua esistenza. Il Cristo non può diventare il testimone dell’elezione dell’uomo senza che l’uomo accolga la sua testimonianza e divenga (anche per se stesso) il portatore di tale testimonianza. In Cristo i credenti riconoscono che i benefici ch’essi ricevono giornalmente dalla mano di Dio «provengono dalla sua segreta adozione»63. «Non dimenticare nessuno dei suoi benefici»! (Sal. CIII, 2). Calvino ha parlato con estrema riserva di questo aspetto della questione. Non intendeva attribuirgli alcuna importanza se preso isolatamente e in nessun caso voleva fondarvi sopra la «certezza della salvezza»64. Tuttavia ne ha parlato; non soltanto ha concesso ma proprio affermato che, inclusa nella fede in Gesù Cristo, la presa in considerazione nell’uomo dell’opera del Dio-cheelegge è permessa e necessaria. «La vocazione si dimostra ferma attraverso la santità della vita»65. Se la testimonianza di questa santità non costituisce certo un fondamento su cui il credente potrebbe appoggiarsi, permette tuttavia un «avvicinamento o un appoggio dal basso in aiuto della fede»66; è un «segno», una «prova», un «documento». «Vuol dire insomma che si tratta di un segno da cui riconoscere i figli di Dio tra i riprovati; quando cioè questi vivono santamente e onestamente; scopo dell’elezione divina è infatti questa santità

di vita». Per quanto concerne il fondamento della loro salvezza, i santi trascureranno ciò che si può vedere delle loro opere e riguarderanno unicamente alla bontà di Dio. Ma «una coscienza delle opere fondata, eretta, stabilita in questa maniera merita considerazione, poiché così si dà testimonianza dell’inabitazione e del regno divino in noi»67. La fede del cristiano è la fiducia nella misericordia di Dio e in essa sola. «Tuttavia non le impediamo di sostenersi e confermarsi con tutte le prove ch’essa ha della benedizione di Dio. Infatti se tutti i doni che Dio ci ha fatto, quando li ricordiamo, sono come raggi della limpidezza del suo viso per illuminarci a contemplare la sovrana luce della sua bontà, a più forte ragione le buone opere ch’egli ci ha dato devono servire a dimostrare che lo Spirito di adozione ci è stato concesso»68. Non mi sembra possibile negare, come fanno invece H. Otten e W. Nielsen, che quanto più tardi sarà chiamato «syllogismus practicus» sia già stato effettivamente uno degli elementi della teologia di Calvino e anche tenendo conto della riservatezza con cui il riformatore ha voluto e creduto di poterlo introdurre nell’insieme del suo sistema, non credo che l’abbia condannato. Il problema ch’egli intendeva risolvere esisteva ed esiste infatti veramente: si tratta di riconoscere che il testimone di Gesù Cristo (nel suo ruolo del tutto subordinato, improprio e secondario, nondimeno del tutto indispensabile) è tale prima di tutto per se stesso (insieme ed in ciò ch’egli è per opera della fede in lui). Se infatti la sua testimonianza, in se stessa e come tale, non gli fornisce la minima certezza, come potrebbe ricevere la testimonianza di Gesù Cristo e dello Spirito Santo che invece procura una certezza reale e totale, se non la ricevesse lui stesso, ossia se non le fosse indirizzata attraverso la sua fede, la sua vita e le sue «opere»? Poiché io vivo come un eletto, sarò e sono certo della mia elezione. Così sembra essere il senso esatto del famoso passaggio del Catechismo di Heidelberg in cui, volendo sapere perché dobbiamo compiere opere buone, è risposto in terzo luogo: «dobbiamo compierle affinché possiamo essere assicurati della nostra fede dai frutti ch’essa produce»69. Da questo punto di vista è perfettamente normale che già il catechismo di Leo Jud (1541), uno dei prototipi di quello di Heidelberg, abbia risposto al medesimo interrogativo: «Sesto: la nostra elezione, la nostra vocazione, la nostra fede e la nostra salvezza ci divengono sicure per mezzo delle buone opere; da esse vengono la sicurezza gioiosa e la ferma speranza che ci permettono di attendere con fiducia ed animo sereno la venuta del Cristo, il quale renderà a ciascuno secondo le opere suscitate dalla

sua fede. Infatti nella misura in cui io porgo aiuto al mio prossimo, gli faccio del bene e lo amo, io acquisto sicurezza e divengo certo che la mia fede è buona e non sbagliata o immaginaria e che io sono un vero cristiano, secondo la parola di Pietro (II Pt. I, 10)». Come mai questa verità non soltanto utile ma necessaria nel suo giusto contesto ha dunque potuto essere interpretata in seguito in un senso che minacciava a tal punto la fede nell’elezione gratuita di Dio, che si preferì alla fin fine rinunciare ad usufruirne ancora? L’impulso di Calvino doveva chiaramente condurre a conseguenze deplorevoli, là dove non si comprendesse più che la testimonianza in oggetto non poteva essere in sostanza che quella di Gesù Cristo stesso e dello Spirito Santo; tutto è cioè rimesso in discussione dal momento in cui si dimentica che le «grazie delle buone opere» non sono che un «appoggio dal basso», con la funzione di «mostrare» e ch’esse hanno valore dimostrativo soltanto in maniera del tutto impropria, inclusiva e secondaria. Ci sono tre cose che, nell’insieme della sua concezione, Calvino desiderava mettere in luce seguendo un ordine impossibile da rovesciare. In primo luogo non si ha il diritto di mettere al primo posto la testimonianza delle opere, attribuendole un ruolo decisivo. È purtroppo quanto è avvenuto fin da Teodoro di Beza. Alla domanda: «In quella perniciosissima tentazione concernente l’elezione dei singoli, dove mai potrò rifugiarmi?», Beza risponde infatti: «Guarda agli effetti, da cui la vita spirituale è sicuramente diagnosticata e la nostra elezione percepita, come per mezzo dei sensi si percepisce la vita del corpo. Che io sia eletto dunque lo comprendo innanzitutto dalla mia santificazione iniziata, cioè dall’odio del peccato e dall’amore per la giustizia; a questo aggiungi poi la testimonianza dello Spirito concernente la mia coscienza»70 E ciò è avvenuto a Dordrecht nella Reiectio errorum dove, a differenza dell’art. V 10, sono menzionati «i segni propri dei figli di Dio» prima delle promesse di Dio71; poi in Gomarus che commenta così il famoso passaggio di II Pt. I, 10: «Dalle buone opere come dai frutti ed effetti proprii riconosciamo e dimostriamo la nostra fede come causa prossima; ed in questa maniera dalla conferma di una vocazione efficace risaliamo gradatamente all’elezione, da cui la vocazione di cui sopra dipende come da causa necessaria»72; e infine in Wolleb che dichiara: «Nell’indagare sulla nostra elezione si deve progredire con metodo analitico dai mezzi dell’esecuzione al decreto, partendo inizialmente dalla nostra santificazione»73. In secondo luogo non si devono separare le opere dalla fede, quasi che si possa considerare il frutto in se stesso, senza l’albero

che lo porta. Non si devono sottomettere all’apprezzamento empirico, arbitrario (e per così dire «esistenziale») dell’uomo, indipendentemente dalla testimonianza che deriva dalla fede (cioè da Gesù Cristo stesso) e dallo Spirito Santo. È proprio ciò che avviene invece quando Teodoro di Beza crede di dover affermare che si può riconoscere «la vita spirituale come la vita del corpo dai sensi»; o quando Wolleb non teme di enunciare il sillogismo seguente: «Chiunque sente in sé il dono della santificazione, per mezzo del quale moriamo al peccato e viviamo per la giustizia, costui è giustificato, chiamato ossia donato alla vera fede ed eletto. Ma io sento questo per grazia di Dio. Quindi sono giustificato, chiamato ed eletto»74. In terzo luogo non si deve dissociare la testimonianza delle opere dall’autotestimonianza di Gesù Cristo, ossia dalla promessa del perdono dei peccati, cioè dalla Parola di Dio nella sua oggettività per opporre questa testimonianza al decreto insondabile di Dio, come se si fosse in grado di penetrarne il mistero o come se esistesse, tra la decisione divina da una parte e la pietà e la morale umana dall’altra, una relazione per così dire immediata. È proprio questo che rende così poco accettabile l’esposizione dell’articolo I 12 di Dordrecht. Che i fedeli possano riconoscere i frutti della loro elezione «con gaudio spirituale» e «santo diletto», come qui si afferma, ecco ciò che sembra poco convincente in quest’ottica. Che cosa si poteva rimproverare al cattolicesimo del Concilio di Trento, pretendendo di fondare la certezza dell’elezione in questo modo, così poco degno di Calvino? Questo cattolicesimo non era in conclusione più riformato dei riformati, dichiarando apertamente che preferiva rinunciare a fondare tale certezza su basi così fragili? Una cosa è chiara: innanzitutto Beza, Gomarus, i partecipanti del sinodo di Dordrecht e Wolleb hanno saputo veramente discernere e hanno voluto riprendere per conto loro il problema già proposto da Leo Jud e trattato in seguito da Calvino (con la triplice riserva che abbiamo ricordato); in seguito si sono applicati sistematicamente a risolverlo (e per la chiarezza dell’esposizione, nella forma del famoso sillogismo che conosciamo); infine e soprattutto hanno acquisito la convinzione che bisognava lasciar da parte la riservatezza calviniana per mettere in primo piano la testimonianza personale dell’uomo eletto, concepita come l’espressione di un’osservazione e di un giudizio empirico (in questo modo la testimonianza di Gesù Cristo si trova relegata in secondo piano). Si vede subito l’interrogativo che sorge a questo punto: questi autori sono caduti accidentalmente nell’errore oppure erano condannati a deviare nell’ambito stesso della concezione fondamentale che

dividevano con Calvino, poiché, in questo quadro, le garanzie proposte dal riformatore erano necessariamente destinate a cessare di essere capite e a essere lasciate da parte? La piega che rischiava di prendere l’esame del problema da parte di questi teologi sollevò l’opposizione. Il Consensus Bremensis (1595) contiene già qualcosa di assimilabile ad una protesta previa contro la deviazione che si sarebbe presto manifestata. In effetti, a proposito della discussione che ci interessa e in cui ugualmente si imbatte, esso afferma esplicitamente che quando si è «gravemente turbati» dal dubbio riguardo alla propria predestinazione, «bisogna rivolgere lo sguardo non alle cose che si possono provare e sentire in se stessi, ma alle promesse sicure e infallibili della Parola di Dio. Sono queste che dobbiamo considerare e meditare per combattere il dubbio; sono queste che conviene opporre ai propri sentimenti ed alle impressioni intime, finché ritroviamo la consolazione dello Spirito Santo, la quale si manifesta validamente attraverso la meditazione della Parola divina. Nel campo della medicina e della vita umana in generale l’esperienza e le sensazioni procedono e soltanto in seguito si stabilisce ciò che si può ritenere per vero. Ma nella sfera della conversione e della sicurezza del cuore in Dio, bisogna iniziare facendo posto alla Parola del Signore per accoglierla e approvarla; è mediante questa Parola che si devono combattere i propri peccati, contro le apparenze della coscienza, del dubbio e dello scoraggiamento, chiamando aiuto, come il padre angosciato di Mc. IX, 24: Io credo Signore, vieni in aiuto della mia incredulità. Soltanto allora il cuore si sente sempre più assicurato e consolato, secondo l’impulso e il movimento dello Spirito Santo, come Davide stesso ne dà prova (Sal. CXXX, 5 e Sal. CXIX, 50, 92. E nel cantico ben conosciuto, lo Spirito di Dio parla cosí ai cristiani abbattuti e sofferenti: quando Dio sembra sottrarsi, resta senza alcuna paura, perché la sua presenza più sicura egli non la vuole dimostrare. La sua Parola ne è il pegno più certo, e se il tuo cuore ti afferma il contrario non lasciarti abbattere. Meditiamo infine questo pensiero di Lutero che vale tant’oro quanto pesa e conferma tutto ciò che abbiamo detto: Colui che è cristiano autentico deve credere alle cose invisibili, sperare nelle cose future, amare Dio che si manifesta contrario ed in questo modo perseverare fino alla fine nella parola che da Lui ci è stata trasmessa»75. Parlando così si può senza dubbio contribuire a ristabilire la posizione salvaguardata dalla triplice riserva di Calvino. Non bisogna però che la verità e la bellezza della dichiarazione dei teologi di Brema, con i riferimenti a Lutero e a Paolo Speratus (di cui si cita la

12a strofa del corale «È giunta qui per noi la salvezza»), ci facciano dimenticare che il sillogismo introdotto da Beza e dagli altri significa, nella forma in cui è stato capito, l’accantonamento del vero problema, quale era stato esposto da Calvinc. È stato così anche quando più tardi Polanus76 e F. Turrettini77 hanno cessato completamente di parlare della testimonianza della vita cristiana, limitandosi semplicemente a rinviare alla «testimonianza interiore dello Spirito Santo»; e soprattutto quando la maggior parte dei dogmatici riformati (come Bucanus, Walaeus, gli autori della Sinossi di Leiden, Heidanus, Burmanus, van Mastricht) hanno negato o soltanto nominato senza soffermarvisi l’esistenza del problema. Troviamo un tentativo di compromesso in M. F. Wendelin che formula il sillogismo in questo modo: «Chiunque per mezzo della parola è chiamato alla chiesa ed alla vita eterna e quindi è consacrato per mezzo della fede in Gesù Cristo, crede cioè che i suoi peccati gli sono stati rimessi per merito del Cristo uomo-Dio ed inoltre con sincero e per nulla artificioso desiderio onora Dio secondo il comando della parola ed ama il prossimo, costui è eletto alla vita eterna. Ma io sono chiamato… e consacrato… credo tutto ciò… e per di più onoro Dio… Quindi sono… eletto»78. Si noterà ch’egli sostituisce il «sente» e «io sento» di Wolleb con «è» e «io sono», spiegati essi stessi da «crede» e «io credo»; parimenti subordina l’«onorare Dio» al «credere» e collega il tutto alla «vocazione» oggettiva e alla «consacrazione attraverso la parola». Ma, per quanto si esprima con più circospezione e di conseguenza con meno chiarezza di Beza e degli altri, Wendelin ha veramente avuto intenzione di dire qualcosa di diverso da questi ultimi? Poteva pensare diversamente nel quadro della concezione generale comune? Egli ha d’altronde espressamente affermato che la premessa minore del sillogismo, così come lui stesso lo comprendeva, si fonda su un «esame di coscienza» e che anche la conclusione dipende da un giudizio della coscienza. Ora secondo l’opera di W. Amesius, che fa testo per la teologia riformata di quest’epoca, la coscienza è l’«abito naturale» che permette all’uomo di formulare un giudizio sul suo stato davanti a Dio; per mezzo di essa l’uomo è immediatamente rilegato a Dio80. L’«cesarne di coscienza» è infatti «l’atto riflesso dell’intelletto, per mezzo del quale l’uomo comprende e con giudizio soppesa i propri atti congiuntamente alle circostanze che li accompagnano»81. E la conclusione tratta dalla coscienza stessa è «l’atto della coscienza per mezzo del quale l’uomo applica a se stesso quel medesimo giudizio divino che la sua azione o il suo stato riescono a raggiungere» ed il cui risultato è da un lato «la giustificazione, l’assoluzione»

e a livello massimo «l’approvazione» («l’atto della coscienza per mezzo del quale si afferma che l’uomo nella sua azione è piaciuto a Dio»)82 e dall’altro «l’accusa» e la «condanna» e nel caso più favorevole «la gioia, per cui mezzo l’uomo si riposa nella propria azione, come in un autentico bene a sé ormai congiunto»83. Quando si hanno sotto gli occhi queste definizioni, si è obbligati a convenire che il compromesso tentato da Wendelin è in verità uno scacco. Malgrado la cura avuta per evitare la via seguita da Beza e dagli altri, questo teologo appartiene alla categoria di coloro che erano certamente coscienti dell’importanza del problema in causa, ma che, per trovare una migliore soluzione, non hanno potuto astenersi dall’accantonare la triplice riserva di Calvino. Indubbiamente ci si trovava posti in un dilemma: o restare fedeli alla tesi iniziale della dottrina della certezza insegnata da Calvino («Cristo tiene per me il posto di mille testimoni») o considerare il problema indicato dal riformatore («la grazia delle buone opere… indica chiaramente»); per dirlo in altra maniera o lasciar cadere il problema stesso o abbandonare la riserva con cui Calvino lo aveva trattato. Calvino non si è trovato invischiato in tale dilemma solo perché esso gli è sfuggito, dal momento che, per una fortunata inconsequenza, pensava da un lato di poter conciliare il punto di partenza cristologico e il risultato antropologico del suo pensiero e dall’altro di evitare di passare sotto silenzio una discussione obiettivamente necessaria e di cadere in una grossolana teoria dell’autogiustificazione. Giustamente i suoi discepoli non hanno più condiviso tale punto di vista ed hanno fatto una scelta in un senso o nell’altro; tutto questo però non poteva rappresentare che una scelta disgraziata. Come mai con tutta la sua perspicacia il teologo non abbia visto che si trattava di far qui una scelta e per di più una cattiva scelta: questo è l’enigma storico e psicologico davanti a cui veniamo a trovarci. Il dilemma è effettivamente inevitabile nel quadro della concezione fondamentale comune a tutti i teologi in causa. Per Calvino e i suoi discepoli si trattava di rispondere a questa domanda: in che modo l’uomo, eletto secondo il decreto assoluto e separato dai riprovati, può divenire e essere certo della sua elezione e, nel caso specifico, in che modo può essere, per mezzo della sua esistenza cristiana, un testimone per se stesso in questa vicenda, lui, quest’uomo, «eletto» in opposizione al suo compagno «riprovato», esclusivamente in forza del beneplacito di un Dio assoluto? Che significa il fatto di attribuirgli la capacità e di autorizzarlo ad assicurarsi della sua elezione «anche con la considerazione delle sue opere»? In primo luogo si

poteva forse esigere da quest’uomo che ponesse tale «considerazione» soltanto all’ultimo posto, per attenersi inanzitutto al Cristo?; se il Cristo non è che lo strumento della grazia di Dio che elegge e ripudia segretamente, come potrebbe essere il testimone principale dell’elezione dell’uomo?; se l’uomo stesso è l’eletto del Dio nascosto, come potrebbe non essere anche il testimone principale di questa grazia verso se stesso?; ed in questo contesto come la «considerazione» delle opere umane potrebbe costituire solo un semplice «appoggio dal basso» e non assurgere a procedimento principale e decisivo, che permette all’uomo di diventare sicuro della propria elezione? Se poi non è così, in che cosa dunque il consiglio di attenersi al Cristo può minimamente essergli utile?; quali rapporti può avere col Cristo, se è l’oggetto della riprovazione eterna del Dio nascosto?; come si può esigere da quest’uomo di ricorrere per fede alla «considerazione» che sola può assicurarlo della sua elezione? Se fosse veramente certo della sua elezione per via della fede, questo significherebbe obbligatoriamente ch’egli è sicuro del suo essere in Gesù Cristo e dunque di Gesù Cristo stesso. Ma come potrebbe ottenere con questo mezzo una certezza, dal momento che egli è eletto nel quadro di un decreto assoluto? Non gli resta dunque che una cosa da fare per rassicurarsi sulla sua elezione: ricorrere ad un «sentire» a fianco del «credere» ed inoltrarsi sul sentiero di un «esame di coscienza» che conduce all’autogiustificazione. Ed in secondo luogo come si poteva esigere da quest’uomo che rinunziasse ad immaginare che esiste una corrispondenza misteriosa (ed alla fin fine ùn’identità) tra il decreto divino nascosto ed il proprio esistere sotto la grazia (la sua pietà e la sua morale) constatabile sperimentalmente?; come si poteva impedirgli di provare la «santa voluttà» di essere se stesso e a suo favore una così perfetta e rallegrante illustrazione di ciò che è avvenuto nell’insondabile mistero del decreto nascosto di Dio? Questi sono gli interrogativi che, stranamente, sono completamente sfuggiti a Calvino. Beza ed i suoi seguaci li hanno riconosciuti e poiché non volevano ignorare il problema del riformatore, hanno creduto di poter scegliere un male minore, chiaramente senza misurare le conseguenze della loro opzione: hanno infatti elaborato un dogma teologico il cui umanesimo palese rischiava di mettere in discussione tutto quanto i Riformatori pensavano di aver potuto discernere sulla relazione tra il Cristo, la grazia, la fede e le opere. In grande maggioranza tuttavia i teologi riformati non hanno riconosciuto questi problemi e per non cadere nel vicolo cieco di questo dogma hanno scelto un male minore «diverso», rifiutando di interessarsi al problema di Calvino. Da qualsiasi parte ci si

volgesse, le cose erano tali che non si poteva non scegliere. La necessità di una revisione totale del dogma risulta dunque anche dalla storia di questo problema. Se Gesù Cristo, e non il decreto assoluto, è il fondamento reale dell’elezione di ogni individuo, mentre la comunità eletta ne costituisce lo strumento, è evidente che bisogna dare immediatamente ragione a Calvino, come a Beza ed ai suoi seguaci: il problema della certezza personale dell’individuo si pone e deve essere risolto. Gli individui come tali sono in effetti i senza-Dio: soltanto eletti in Gesù Cristo, e con la mediazione della comunità, sono chiamati a possedere (a «fortificare» secondo II Pt. I, 10) con la fede la loro elezione, ascoltando e accettando la testimonianza di Gesù Cristo come garante della loro personale testimonianza; hanno bisogno di certezza; e se ciò di cui devono divenire sicuri non può essere che l’elezione di Gesù Cristo e se la forza loro data a questo scopo non può essere che la forza ch’essi ricevono nella fede e nella vita cristiana, in virtù della propria personale elezione, ne consegue che non soltanto è loro permesso, ma addirittura ordinato, di assicurarsi sempre e di nuovo della propria elezione, avvenuta in Gesù Cristo, divenendo essi stessi i loro personali testimoni, vivendo cioè la loro fede come eletti. In questa prospettiva essere eletto significa precisamente: essere nei propri confronti il testimone dell’elezione, vivendo la propria fede. Questo deve essere affermato con molta maggior autorevolezza di quanto non abbia fatto Calvino. Ma se Gesù Cristo è il fondamento reale dell’elezione, ne risulta anche che bisogna opporre al sistema di Beza e dei suoi seguaci le verità che seguono. Esse permetteranno inoltre di respingere le esitazioni degli altri teologi riformati, ispirati dalla triplice riserva calviniana (che solo nel preciso contesto finora esaminato non è inattaccabile). Primo: che l’eletto sia verso se stesso testimone della propria elezione significa ch’egli è nei suoi confronti il testimone dell’elezione di Gesù Cristo e che, in essa e con essa, gli è consentito di testimoniare la propria elezione. La «considerazione delle opere» non può essere in questo caso che quella delle «opere del Cristo», cioè della grazia promessa all’uomo-senza-Dio minacciato di ripudio, a causa del Cristo e attraverso di lui, cioè a causa dell’azione santificante di cui egli può essere oggetto, in quanto eletto di Gesù Cristo. È evidente che in tutto questo l’uomo ha un ruolo, nel senso che è nello stesso tempo colui che porta e colui che riceve tale testimonianza; questo ruolo però non è altro che un «appoggio dal basso» alla testimonianza del Cristo, che agisce per se stesso, miracolosamente e gratuitamente. Parimenti è non meno evidente in questo contesto che l’uomo chiamato a sostenere questo ruolo, il

senza-Dio minacciato di ripudio e divenuto in virtù della grazia il portatore ed il ricettacolo della testimonianza del Cristo, non sarebbe capace di dare un significato assoluto alla differenza che esiste tra la sua posizione e quella del senza-Dio che gli sta vicino.

Secondo: la sua partecipazione a questa testimonianza, cioè la sua certezza personale, non ha proprio niente a che vedere con l’introspezione ed i giudizi ch’egli dà di se stesso. Che cosa potrebbe significare in questo caso l’introspezione se non che il senza-Dio sta esaminando il senza-Dio?; quest’ultimo come arriverebbe a giudicarsi e a condannarsi da solo, per non dir nulla della possibilità di autogiustificazione postulata dalla premessa minore del sillogismo?; non è certo osservandosi e giudicandosi, bensì credendo che l’uomo può portare e ricevere la testimonianza del Cristo e agire di conseguenza. Credendo; essendo cioè l’eletto di Gesù Cristo, lasciando dietro a sé il proprio ateismo, vivendo della grazia che è stata promessa proprio a lui, al senza-Dio, praticando le opere della fede e portando così realmente testimonianza dell’elezione di Gesù Cristo per mezzo di ciò ch’egli è. È chiaro che un semplice sillogismo non permetterebbe di descrivere questo comportamento; ma è soprattutto chiaro che l’eletto non saprebbe ricevere la testimonianza del Cristo soltanto a suo favore; ricevendola personalmente, egli non può che trasmetterla al suo compagno «riprovato» per farlo beneficiare dell’annullamento del ripudio che lo minaccia, così come lui stesso ne beneficia. Come sarebbe l’eletto di Gesù Cristo, se la fede che gli permette di esserne certo non divenisse subito un atto di speranza e di predicazione nei confronti del suo prossimo, onde far partecipare quest’ultimo all’opera della comunità di Dio nel mondo?

Terzo: l’eletto che acquisisce in questo modo la certezza della propria elezione discernerà senza alcun dubbio una corrispondenza (e persino un’identità) non tra il decreto nascosto di Dio e la sua pietà o la sua morale, ma tra l’elezione di Gesù Cristo e l’evento della fede, tra la forza interna della testimonianza che gli è permesso di portare e di ricevere (per trasmetterla) e il miracolo che lo rende atto a svolgere realmente tale ruolo. È evidente che costatando l’esistenza di simile corrispondenza (di siffatta identità anzi), potrà rallegrarsi non in se stesso, ma soltanto «nel Signore», a causa della grazia di cui egli è l’oggetto e che la sua gioia prenderà la forma di una promessa e di una speranza per l’uomo «riprovato» che gli sta vicino, per il senza-Dio. Questa è la «santa voluttà» che colma l’eletto sicuro della propria salvezza: gli è permesso di trasmettere la Parola di cui vive a coloro che non ne vivono ancora o hanno cessato di viverne. In conclusione: il problema della certezza dell’elezione, come è stato considerato da Calvino, può e deve essere meditato; parimenti conviene mantenere la riservatezza con cui il riformatore l’ha trattato. Nel quadro della dottrina classica della predestinazione, non si è potuto fare una cosa se non a detrimento dell’altra; in compenso, nel quadro della dottrina della predestinazione fondata cristologicamente, entrambe le cose sono ugualmente possibili ed indispensabili. 1. AGOSTINO, De praedestinatione sanctorum 8, 13. 2. Ivi, 10, 19.

3. AGOSTINO, De dono perseverantiae 14, 35. 4. AGOSTINO, De Civitate Dei XV, 1. 5. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol. III, q. 24, art. 1 corpus. 6. CALVINO, Da aeterna Dei praedestinatione: 1552 = C. R. 8, 313. 7. CALVINO, Institution III, 21, 5. 8. CALVINO, Sermoni sul Deuteronomio = C. R. 26, 521 s e 27, 46. 9. Ad esempio W. BUCANUS, Inst. Theol.: 1605: locus 36, 1, 5 s. e A. POLANUS, Synt. Theol. Christ.: 1609: col. 1572 s. 10. J. COCCEJUS, Summa Theol.: 1662: cap. 37, 2. 11. J. WOLLEB, Theol. Christ. Comp.: 1626: I, cap. 4, § 2, 3. 12. AGOSTINO, De praedestinatione sanctorum 19, 38. 13. PIER LOMBARDO, Sent. I, dist. 41 D. 14. CALVINO, De aeterna Dei praedestinatione: 1552 = C. R. 8, 318. 15. A. POLANUS, Synt. Theol. Christ.: 1609: col. 1580. 16. MELANTONE, Loci: 1559 = C. R. 21, 912 s. 17. CALVINO, De aeterna Dei praedestinatione. 1552 = C. R. 8, 272. 18. CALVINO, Comm. di I Cor. I, 9 = C. R. 49, 312 e Institution IV, 12, 9. 19. Sinodo di Dordrecht: 1619: Canones III/IV, 15. 20. Confessio Helvetica Posterior: art. 18 e Confessio Sigismundi: 1614 citata da E. F. K. MUELLER, (hrsg., Die Bekenntnisschriften der reformierten Kirche, Leipzig 1903), p. 841. 21. CALVINO, De aeterna Dei praedestinatione: 1552 = C. R. 8, 300. 22. AGOSTINO, Enchiridion 99. 23. AGOSTINO, De Civitate Dei XIV, 26. 24. CALVINO, De aeterna Dei praedestinatione. 1552 = C. R. 8, 337. 25. CALVINO, Institution III, 24, 10. 26. Sinodo di Dordrecht: 1619: Canones I, 7. 27. J. COCCEJUS, Summa Theol.: 1662: cap. 39, 7. 28. CALVINO, De aeterna Dei praedestinatione: 1552 = C. R. 8, 292. 29. CALVINO, Institution III, 14, 9 s. e Commento su Ez. 11, 20 = C. R. 40, 249. 30. CALVINO, De aeterna Dei praedestinatione: 1552 = C. R. 8, 340. 31. Sinodo di Dordrecht: 1619: Canones V, 5. 32. AGOSTINO, De dono perseverantiae 14, 35. 33. AGOSTINO, De correptione et gratia 9, 23. 34. Ivi, 13, 40; cfr. De dono perseverantiae, 1, 1. 35. AGOSTINO, De correptione et gratia 7, 16. 36. Ivi, 7, 14. 37. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol. I, q. 23, art. 6 corpus. 38. Ivi, I, q. 24, art. 3 corpus. 39. Ivi, I, q. 23, art. 6 ad 2. 40. CALVINO, De aeterna Dei praedestinatione: 1552 = C. R. 8, 275. 41. Ivi = C. R. 8, 321. 42. Form. Concordiae: Sol. Declar. XI, 45. 43. A. QUENSTEDT, Theol. did. pol.: 1685; III, cap. 2, sect. 2, qu. 8 th.

44. CALVINO, Institution III, 2, 12. 45. Ivi, III, 2, 17. 46. A. QUENSTEDT, Theol. did. pol.. 1685: III, cap. 2, sect. 2, qu. 7. 47. Consensus Bremensis: 1595: cap. 9; Sinodo di Dordrecht: 1619: Canones V; Confessione di Westminster: 1647: cap. 17. 48. Catechismo di Heidelberg: questioni 1, 52 e 54. 49. Articoli Irlandesi di Religione: 1615: art. 38. 50. Sinodo di Dordrecht: 1619: Reiectio errorum V. 51. Ivi, Canones V. 52. Cfr. soprattutto W. NIESEL, Syllogismus practicus?, in Aus Theologie und Geschichte. Festschrift E. F. K. Mueller (Tuebingen), 1933, 158 s e H. OTTEN, Calvins theologische Anschauung, 54 s. 53. Concilium Oecumenicum Tridentinum: Sect. VI: 1547: decr. de iustificatione: capp. 12-13 e can. 1517. 54. CALVINO, Acta Syn. Tridentini. 1547: = C. R. 7, 463 s. 55. CALVINO, De aeterna Dei praedestinatione: 1552 = C. R. 8, 321. 56. BERNARDO DI CLAIRVAUX, In Cant. Serm. 23, 16. 57. CALVINO, Institution III, 24, 4. 58. Ivi, III, 24, 3. 59. CALVINO, Sermone su Eph. I, 4 s. = C. R. 51, 281. 60. CALVINO, Comm. su 1 Gv. III, 14 = C. R. 55, 339. 61. CALVINO, Institution I, 7-8. 62. Ivi, III, 1, 1; III, 2, 24 e passim. 63. Ivi, III, 24, 4. 64. CALVINO, Comm. su 1 Gv. III, 19 = C. R. 55, 341. 65. CALVINO, Spiegazione della II Pt. 1, 10 = C. R. 55, 450. 66. CALVINO, Comm. su 1 Gv. III, 19 = C. R. 55, 341 s. 67. CALVINO, Spiegazione della II Pt. 1, 10 = C. R. 55, 450. 68. CALVINO, Institution III, 14, 18. 69. Catechismo di Heidelberg: q. 86. 70. TEODORO DI BEZA, Quaestionum et responsionum christianus libellus: 1580: q. 1, 124 citato da A. SCHWEIZER, Glaubenslehre der evangelisch-reformierten Kirche (Zuerich), 1847, II, 529. 71. Sinodo di Dordrecht: 1619: Reiectio errorum V, 5. 72. F. GOMARUS, Opera: 1644: II, 439. 73. J. WOLLEB, Chr. Theol. Compend.: 1626: I, cap. 4, can. 15. 74. lvi, I, cap. 4, can. 15. 75. Consensus Bremensis: 1595: VII, 5. 76. A. POLANUS, Synt. Chr. Theol.: 1609: col. 1602 s. 77. F. TURRETTINI, Inst. Theol. Elench.: 1679: IV, 13. 78. M. F. WENDELINUS, Chr. Theol.: 1634: I, 3, 19. 79. W. AMESIUS, De conscientia: 1643: I, 1, 2. 80. Ivi, I, 8. 81. Ivi, I, 10. 82. Ivi, I, 11.

2. L’ELETTO E IL RIPROVATO A. IMPOSTAZIONE GENERALE Che cosa permette a degli uomini individuali di essere degli eletti, in Gesù Cristo e attraverso la comunità? Diamo innanzitutto una risposta generale: si tratta di una qualificazione, specifica e concreta, della relazione di Dio con gli uomini eletti e della relazione di questi ultimi con Dio, indipendentemente dalle qualità personali, dal modo di comportarsi, dalla maniera di agire loro propria; in forza di tale qualifica il loro destino, la loro condotta, le loro azioni, la loro funzione, il loro compito nel mondo che li circonda rivestono una forma precisa e distinta; gli eletti diventano così degli eletti indipendentemente dalla loro persona, dalle loro qualità, dai loro meriti e persino dalla loro vocazione. Questa ultima infatti non fa che rivelare e confermare ciò che essi già sono; così pure quanto essi od altri possono sapere della loro elezione non prova assolutamente nulla; dimostrano a se stessi ed agli altri quello che sono semplicemente seguendo la via che è conforme alla loro elezione. È la logica che seguono e che caratterizza le loro azioni (come pure il fatto di adempiere ruoli e compiti cui sono chiamati) a manifestare la loro elezione; quest’ultima non può dunque essere considerata astrattamente né da loro, né dagli altri, neppure per un solo istante; solo nella misura in cui è concretamente vissuta può essere oggetto di contemplazione. Se la vita degli eletti altro non è che il compimento della loro elezione, tale compimento non può essere il contrario della loro esistenza; sono ciò che sono; niente e nessuno, nel campo della creazione, ha conferito loro quello specifico carattere che sta tutto quanto nella relazione concretamente intercorrente fra Dio e gli eletti e che quindi si appoggia interamente su Dio. È nella e con l’elezione di Gesù Cristo, con la mediazione della comunità, che gli eletti sono eletti. Questo spiega perché, quando si consulta la Bibbia sull’elezione individuale (e non è necessario farlo a lungo) non si ha il diritto di attenersi unicamente ai testi ed ai contesti in cui è esplicitamente questione di elezione, cioè là dove compaiono i termini bachar o ἐϰλέγεσϑαι. Dato che il tema riveste un’importanza tanto fondamentale, può certo essere esplicitamente affrontato, ma non è necessario che lo sia sempre. Fa parte del clima della Bibbia, Antico e Nuovo Testamento. Poiché le caratteristiche degli eletti dipendono dal fatto che sono determinati e che il loro essere, la loro vita e i loro atti ne sono segnati, si capisce per quale motivo la Bibbia non parli molto della loro condizione e perché i termini che servono a designarla vi appaiano

meno sovente di quanto ci si potrebbe aspettare. Tanto più dunque, dobbiamo badare al fatto in sé, attestato per così dire implicitamente, come capita quasi sempre, da tutte le pagine della Bibbia. Ci sì riferisce infatti all’elezione di singoli individui in tutti i passi in cui, enigmaticamente, compare un nome di uomo che rimane in primo piano per un certo tempo: colui che porta quel nome diventa, fra altri, con la sua vita, i suoi atti, le sue sofferenze, l’oggetto provvisorio e secondario della testimonianza e, in tal modo, un testimone di quanto quella testimonianza stessa contiene. Il fatto assolutamente enigmatico che questo o quell’uomo venga, in un modo o nell’altro, ad occupare la scena, il fatto che sovente porti un nome di per sé molto significativo, ecco quanto, nella Bibbia, costituisce l’indicazione fondamentale dell’elezione di quel singolo. Perché proprio Abele, ci si potrebbe domandare già in riferimento a Gen. IV, 4, ove si legge che Dio guardò con favore lui e il suo sacrificio? E perché dunque Caino? Leggiamo infatti più oltre (Gen. IV, 15 s.) che il Signore stesso accorda una protezione speciale a quell’assassino. Perché, nella lunga serie dei patriarchi che va da Adamo a Noè, Enoch appare improvvisamente (Gen. V, 24) come l’uomo che camminava con Dio?; «… poi non fu più, perché Dio lo prese». E donde viene Noè, nella generazione perversa che Dio si è pentito di aver creato, quell’uomo di cui è detto che era «giusto e integro, nel suo tempo e che camminava con Dio» (Gen. VI, 9)? Perché Dio è celebrato da Noè (Gen. IX, 26) come il «Dio di Sem», dato che la discendenza di Sem passa inosservata fino al momento in cui (Gen. XI, 26) compare Abramo ed occupa tutta la scena, per poi far posto ai personaggi insoliti di Isacco e di Giacobbe? E che significa l’importanza data a Giuda, tra i figli di Giacobbe, poi a Beniamino e infine, in una prospettiva molto diversa, a Giuseppe? Ed ecco che le cose prendono una piega che il libro della Genesi non lascia affatto prevedere: entra in scena (Es. II, 1 s.) Mosè «della casa di Levi» e accanto a lui entrano Aronne e Giosuè; poi tocca ai Giudici, a Samuele, a Saul e a Davide e infine ai profeti, quelli noti e quelli meno noti, ognuno animato da uno «spirito» insolito e con l’incarico di portare un messaggio particolare da parte di Dio, messaggio che a loro pesa. Così quando Abramo (Neem. IX, 7), Mosè (Sal. CVI, 23), Aronne (Sal. CV, 26), Davide (I Re. VIII, 16; XI, 39; II Cron. VI, 6; Sal. LXXVIII, 70; LXXXIX, 4), Zorobabele (Ag. II, 23), Geremia, oppure il profeta anonimo dell’esilio, oppure l’ultimo re privo di potere Jeconia (Is. XLIX, 7) sono esplicitamente designati come eletti di Dio, si tratta di una semplice conferma.

Il termine, anche quando non è utilizzato, si limita a ricordare una realtà che nella Bibbia è ovvia, cioè la libertà misteriosa nella cui dimensione tutte quelle persone esistono e compiono il loro destino più o meno chiaro, gli uni in una luce perfetta e gli altri nell’ombra più profonda, come il Faraone dell’esilio e Saul; ricorda che, ognuno al suo posto, sono necessariamente ma fortuitamente (nella dimensione inevitabile della loro condizione storica, diremmo noi) oggetto della testimonianza biblica e testimoni loro stessi. Questa libertà misteriosa indica la libertà più generale dell’elezione individuale nell’Antico Testamento. Nel Nuovo Testamento le cose assumono un altro aspetto, perché la storia di Israele non si prolunga al di là della crocifissione del Cristo e a rigore la Chiesa non ha storia, ma soltanto una struttura che si rinnova costantemente (nel tempo della pazienza di Dio che giunge fino alla rivelazione della fine già compiuta). La discendenza dei patriarchi, dei giudici, dei re, dei sacerdoti e dei profeti non continua dunque, per esempio, in una discendenza parallela di uomini cristiani che appartengono a Dio; questo perché la Chiesa, costituita e rappresentata in origine dai dodici apostoli, è essa stessa l’assemblea degli eletti (ἐϰλεϰτοί). Ma l’elezione di tutti coloro che la chiesa riunisce, di ogni cristiano in particolare, costituisce appunto, come per gli eletti dell’Antico Testamento, l’enigma della libertà in cui quelle persone appaiono nella loro dimensione. Per il fatto che la chiesa è fondata sui dodici apostoli designati per nome proprio da quella Parola di cui essa è loro debitrice e che predica, è subito chiaro che la chiesa è costituita e rappresentata da loro. La figura dell’apostolo Paolo è profondamente significativa a questo proposito: la sottolineatura della sua conversione e della sua missione personale che discendono dal Cristo risorto, il ruolo del tutto esemplare che riveste fra Gesù Cristo ed i cristiani raggruppati nelle varie comunità hanno la funzione di mostrare che la storia d’Israele si ferma alla crocifissione. Ormai non sono più necessari uomini di Dio particolari, rivelazioni particolari e di conseguenza vocazioni ed elezioni particolari. Tutti coloro che credono in Gesù Cristo hanno a che fare con il mistero particolare che caratterizza gli uomini di Dio dell’antico patto. I cristiani esistono in quanto sono un solo popolo eletto di sacerdoti e di profeti, in quanto sono una nazione santa che appartiene a Dio (I Pt. II, 9), ognuno in forza della sua elezione personale. Il cristiano è quello che è, così come lo sono Abele, Abramo, Mosè e tutti i profeti; vive e conferma lui stesso la determinazione specifica della sua esistenza; compie così la sua predestinazione personale. Nella chiesa tutti sono ἐϰλεϰτοί, cioè individui

eletti: ecco quanto distingue la chiesa da Israele. Ma che siano tutti ἐϰλεϰτοί, ecco quanto la chiesa ha in comune con Israele e che indica il compimento di tutto quel che, nell’ambito di Israele, era profezia. B. IMPOSTAZIONE SPECIFICA 1. Il problema che abbiamo posto all’inizio esige però un approfondimento molto preciso; abbiamo infatti mostrato che l’elezione coincide con il fatto che questi o quegli individui devono agire in conformità con la loro qualificazione specifica; dobbiamo ora sottolineare, come già abbiamo lasciato intravedere, che né il caso né la necessità bastano a spiegare questo avvenimento. È’Dio, il mistero degli eletti; è una qualificazione in vista del servizio di Dio, del ministero della rivelazione e della riconciliazione, a definire il destino che gli uomini devono compiere in quanto eletti, nel quadro storico in cui la loro apparizione e la loro esistenza sono decise; queste sono infatti decise da Dio e la qualificazione di eletti altro non è se non la volontà e il beneplacito di Dio. È conforme alla volontà divina che questi o quegli individui entrino in scena in quanto eletti. Diciamo meglio: si tratta di un fatto che dipende da questa volontà e da questo beneplacito. L’enigma della libertà (che li fa essere quello che sono) consiste nel fatto che Dio ha deciso in questo modo, proprio a motivo della sua libertà. Occorre anche aggiungere che in tal modo l’enigma iniziale trapassa in autentico mistero. Nel definire l’essenza e l’esistenza degli individui eletti con la formula: «essi sono quello che sono», ci siamo significativamente avvicinati alla definizione dell’essenza e dell’esistenza di Dio stesso; infatti l’espressione «Io sono colui che sono» oppure «Io sono colui che sarò» è (secondo Es. III, 14) il nome con il quale Dio si è fatto conoscere a Mosè; chi altro può portare questo nome se non Dio stesso oppure colui al quale ciò è consentito ed ordinato, secondo la volontà di Dio, entro i limiti della sua condizione di creatura, per il fatto di essere eletto, cioè amato da tutta eternità, accolto nel patto divino e destinato a viverci? L’elezione individuale non si fonda dunque sull’enigma dell’individualità o della singolarità delle persone, cioè in quello che le distingue come tali; è nell’elezione divina stessa che è fondato il mistero del nome particolare, dell’individualità e della singolarità di ogni eletto; è l’essere individuale e singolare di Dio che costituisce l’essere personale dell’eletto e gli conferisce il suo nome particolare. Per il fatto che Dio è quest’essere particolare, gli eletti sono anch’essi questi o quegli uomini particolari: i suoi amici, i suoi, i suoi figli. Abele e Caino, Abramo, Isacco e Giacobbe, Mosè e Davide, come ogni

profeta, esistono non per se stessi, ma per Dio; per il fatto che sono degli eletti, nella loro identità, al loro posto, nella loro dimensione, ciascuno, con il suo nome e la sua persona, vive pensa e agisce «in nome di Dio»; si addice infatti alla natura di Dio di confermare se stesso in tutto quello che fa, di rimanere fedele al suo essere, di riprodurre la propria essenza, con tutta la sua gloria, in tutti i suoi attributi e in tutte le sue opere. Se dunque gli individui eletti hanno un segno originale che impronta e trasforma l’intera loro vita, è opportuno discernere in quale contesto, per quale ragione e in che modo acquisiscono questo carattere: essi sono degli eletti di Dio. Nella sua dimensione e a modo suo l’eletto è, nell’ambito dell’intera sua esistenza, un riflesso dell’esistenza divina; certo, la sua vita, improntata e trasformata dall’elezione, si svolge entro limiti e condizioni molto precise; grazie alla sua elezione egli vive (e la sola eccezione è Gesù Cristo, l’uomo eletto) una vita definita e limitata dalla sua natura di creatura, cioè del tutto diversa dalla vita divina; pertanto la sua elezione è e rimane diversa dall’elezione in cui Dio dispone sovranamente di se stesso, per essere, all’esterno, il Signore di tutti i signori, proprio in virtù della sovranità interna che gli è peculiare. Sarebbe impossibile dimenticare in questo contesto l’insistenza con cui il Nuovo Testamento in particolare invita gli eletti a riconoscere in Dio il loro padre e a riconoscersi suoi figli. Senza dubbio esiste una parentela molto diretta (At. XVII, 28) fra la natura di Dio e quella dell’uomo eletto. A questo punto si capisce la riservatezza del Sal. CXXVII, 2 in cui gli abitanti della città che Dio custodisce sono chiamati «i suoi»1; anche II Tim. II, 19 dice: il Signore conosce «i suoi». Es. XXXIII, 11 precisa ulteriormente: «L’Eterno parlava con Mosé faccia a faccia, come un uomo parla con il suo amico». L’espressione «amico di Dio» è applicata ad Abramo in testi quali Is. XLI, 8, II Cron. XX, 7, Giac. II, 23. E in Gv. XV, 14 s. Gesù chiama i suoi discepoli «suoi amici» nella misura in cui fanno quel che è loro ordinato, perché, a differenza di semplici servitori, sanno quello che fa il loro Signore, suo Padre. Nel Sal. XLV, 7 s., il re che celebra le sue nozze è oggetto dell’invocazione seguente: «Il tuo trono, o divino, (Lutero dice: «o Dio»), è eterno; lo scettro del tuo regno è uno scettro di giustizia. Tu ami la giustizia e detesti la cattiveria. Perciò, o divino, il tuo Dio ti ha unto»; e nel Sal. II, 7: «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato. Chiedimi e io ti darò le nazioni per eredità, le estremità della terra per tuo possesso». Il Sal. LXXXII, nella descrizione del giorno del giudizio che incombe sui giudici della terra, chiama costoro esplicitamente «dei» e si può leggere al v. 6: «Avevo detto: voi

siete dei, voi siete tutti figli dell’Altissimo»; e se il seguito del testo precisa (v. 7): «Ma voi morrete come uomini, cadrete come un principe qualunque»; è però significativo che, secondo Gv. X, 34 s., sia proprio in riferimento al v. 6 che Gesù ha dichiarato: «La Scrittura non può essere annullata» e che, unicamente riferendosi a quest’ultimo versetto, con un ragionamento a minori ad maius, ha stabilito la prova della sua filialità divina. Occorre citare anche Rom. V, 17 dove Paolo oppone al regno della morte scatenato dal peccato di Adamo, il regno futuro, garantito da Gesù Cristo, di coloro che, per mezzo di lui, sono diventati partecipi della grazia di Dio nel giudizio. E II Tim. II, 12: «Se noi perseveriamo, regneremo anche con lui». E Apoc. XX, 4: «Io vidi dei troni; e a coloro che vi si sedettero fu dato il potere di giudicare»; si tratta delle anime «di coloro che erano stati decapitati per aver dato testimonianza di Gesù e a motivo della parola di Dio e di coloro che non avevano adorato la bestia né la sua immagine e che non avevano ricevuto sulla fronte e sulle loro mani il segno. Tornarono in vita e regnarono con Cristo per mille anni». Pensiamo infine al testo di I Cor. VI, 3 in cui Paolo afferma che un giorno i credenti giudicheranno gli stessi angeli. Tutti questi passi indicano senza il minimo dubbio che nel pensiero dell’Antico e del Nuovo Testamento gli eletti vivono in una relazione non soltanto esteriore e formale, bensì interiore e sostanziale con Dio; dipendono interamente da lui, sebbene ne differiscano in modo totale; esistono unicamente grazie a lui e per questo non gli sono estranei; hanno un’affinità specifica con il suo regno e vi partecipano nel modo loro proprio. L’eletto è un’immagine di Dio nell’ambito della creazione; grazie alla scelta di cui è stato oggetto, e non certo per merito suo, si trova ad essere su un terreno solido, sul cui non può che essere fedele, così come Dio è fedele a se stesso in tutti i suoi attributi e in tutte le sue opere; tant’è vero che la continuità specifica della sua esistenza, i suoi atti, le sue sofferenze, le sue esperienze, le sue liberazioni, possono dar luogo ad una testimonianza legittima della costanza e, di conseguenza, della sovranità e della volontà di Dio. L’eletto è, non di per sé ma in quanto eletto, un testimone autentico di Dio. Non è a caso che agisce come strumento della rivelazione, al servizio della riconciliazione fra Dio e gli uomini. E non vi è contraddizione nel fatto che, pur essendo un cittadino di questo mondo perduto, «carne» come tutti gli altri uomini, sia reso adatto a quel servizio e a quella funzione di modo che, per mezzo suo, quel servizio e quella funzione si compiano di fatto. Vi è qualificato dalla sua

stessa elezione; il fatto di essere eletto costituisce la sua forza, perché corrisponde a Dio stesso, perché è il semplice riflesso della persona di Dio; l’enigma della sua esistenza umana è in realtà il mistero dell’esistenza di Dio. Perciò gli eletti sono persone che camminano con Dio e trovano grazia davanti a lui; come potrebbe essere altrimenti, dal momento che sono «i suoi», «i suoi amici», «i suoi figli»?; se sono oggetto del suo favore, è perché Dio si riconosce in loro. 2. Alla qualificazione specifica della relazione di Dio con gli eletti e del rapporto di questi ultimi con Dio corrisponde nella realtà il fatto oggettivo di essere diversi dagli altri uomini; questa differenza costituisce appunto la loro vocazione; e la loro vocazione, opera dello Spirito Santo, si manifesta consentendo una duplice possibilità: l’elezione di Gesù Cristo può esser loro annunciata dalla comunità come costitutiva della loro specifica elezione e di conseguenza possono diventare certi della loro elezione compiuta in Gesù Cristo, per mezzo della fede in lui. Questa duplice possibilità costituisce la differenza oggettiva che separa gli eletti dagli altri uomini; attraverso il libero gioco della predicazione e della fede, questi si ritrovano ad esser messi da parte per un servizio che gli altri ignorano; tutto ciò sarà manifesto per il fatto che essi tacciono quando gli altri parlano, testimoniano quando gli altri mentono, restano fermi quando gli altri vacillano, lodano Dio per le cose che fanno bestemmiare gli altri, sono allegri per quelle che rattristano gli altri e tristi per quelle che li rallegrano, tranquilli là dove gli altri sono tesi e tesi dove quelli sono tranquilli. A motivo della loro vocazione essi sono, all’interno e con la comunità di Dio nel suo insieme, stranieri in mezzo agli uomini; ripetono e riproducono così la solitudine di Gesù Cristo, luce che rischiara il mondo proprio perché è la luce del mondo; sono suoi testimoni perché sono eletti in lui, chiamati da lui ed a lui, nel contesto della duplice possibilità accennata, opera dello Spirito Santo. La differenza che separa gli eletti dagli altri uomini, cioè la loro vocazione, è il compimento, o meglio l’inevitabile complemento della loro elezione. E come potrebbe essere altrimenti, in che modo il dono dello Spirito Santo (sotto la forma di questa duplice possibilità della predicazione e della fede) potrebbe mancare a coloro che Dio ha eletto per mezzo del Figlio? Dal momento che l’elezione di Gesù Cristo è la verità, la differenza che caratterizza coloro che sono eletti in lui, cioè la loro vocazione, è la testimonianza della verità, e null’altro; la verità è attestata solo là dove (e solo qui trova il suo complemento corrispondente) dentro e con l’eiezione di Gesù Cristo, gli uomini possono udire l’annuncio della loro propria elezione e

diventarne certi per mezzo della fede; perciò la differenza che separa gli eletti dagli altri uomini, la loro solitudine e la loro condizione di stranieri nel mondo, costituiscono appunto la testimonianza della verità. Tutto ciò non si può certamente affermare per quanto riguarda la distinzione degli altri uomini dagli eletti. Infatti perché la duplice possibilità di cui abbiamo parlato viene loro a mancare, perché non hanno lo Spirito Santo, perché non si trovano nel quadro della predicazione e della fede, soprattutto perché rifiutano impietosamente l’offerta che viene loro fatta il loro ateismo, dichiarato o meno che sia, non è, come la vita dei figli di Dio, il complemento corrispondente, oggettivamente necessario di un autentico mistero dell’esistenza umana; non esiste cioè autentico mistero dell’esistenza umana cui potrebbe corrispondere la testimonianza di una vita senza Dio; la testimonianza di una vita senza Dio è, di per se stessa, una falsa testimonianza. Non avere lo Spirito Santo, cioè vivere senza vocazione e senza Dio, significa incappare nel tentativo maligno, mortalmente pericoloso ed impotente, di vivere l’esistenza di un riprovato. Il riprovato è l’uomo rinnegato e respinto, a causa del suo peccato, dal giusto giudizio di Dio, l’uomo abbandonato alla mercede di Satana e del suo dominio, cioè alla perdizione eterna; l’uomo è condannato a subire quel castigo in quanto ha suscitato e attirato su di sé la forza mortale dell’inimicizia divina; questa è la minaccia che pesa sul riprovato e la vita di ogni uomo avrebbe dovuto, in condizioni normali, sopportarne l’esecuzione. Ma nell’elezione di Gesù Cristo questa minaccia è stata distolta da tutti noi, per concentrarsi sul Figlio di Dio e su lui solo; la vita del riprovato è diventata per noi un’impossibilità oggettiva, in quanto Dio l’ha destinata al Figlio suo, l’esistenza priva di vocazione e vissuta senza Dio significa un regresso verso quest’impossibilità oggettiva, un tentativo di esporsi nuovamente alla minaccia già eseguita e di conseguenza abolita. Perciò tale tentativo è contemporaneamente maligno, mortalmente pericoloso ed impotente: maligno in quanto implica la negazione del fatto che, nel suo amore eterno, Dio ha accolto l’uomo peccatore e colpevole; mortalmente pericoloso, in quanto suscita nuovamente la riserva, la disapprovazione, l’avversione e, in una parola, l’odio di Dio, la cui ombra dovrebbe necessariamente pesare su ogni uomo; impotente, in quanto può senza dubbio attestare e confermare il peccato e la colpevolezza dell’uomo, non disgiunto dalla punizione che ne è la conseguenza, ma nulla può cambiare al fatto che è Gesù Cristo e lui solo ad essere il riprovato, colui che porta l’intero peccato e l’intera colpevolezza dell’uomo, oltre al castigo che ne è la

conseguenza. Coloro che incappano in questo tentativo possono anche mentire, ma la loro menzogna è diretta contro l’elezione gratuita di Dio. Questo dunque distingue gli eletti dagli altri uomini: i primi, mediante la loro vita, rendono testimonianza alla verità, mentre i secondi mentono, opponendosi alla verità. A questo punto dovrebbe esser chiaro che, anche solo per questa ragione, gli uni e gli altri sono complementari; gli uni e gli altri si trovano infatti nel campo dell’elezione gratuita, nella medesima mano di Dio, sotto la sovranità la cui origine e il cui principio si chiama Gesù Cristo: i primi in quanto obbediscono, i secondi in quanto disobbediscono; i primi in quanto figli della casa, i secondi in quanto schiavi recalcitranti, gli uni sotto la benedizione, gli altri sotto la maledizione; se quelli mostrano quel che Dio vuole attraverso la loro testimonianza resa alla verità, questi indicano con altrettanta chiarezza quel che Dio non vuole attraverso la loro falsa testimonianza. Così gli uni e gli altri sono al servizio della rivelazione della volontà e della decisione divine, rivelazione che è senz’altro luce, ma che non potrebbe esistere ed essere riconosciuta come tale, senza diventare contemporaneamente ombra e luce. Come in questo servizio i credenti «sono» gli eletti, in quanto attestano la verità (cioè Gesù Cristo l’uomo-eletto) col rappresentare, ripetere e riflettere la sua vita, così i senza Dio «sono» i riprovati, nella misura in cui rappresentano, ripetono e riflettono la morte del solo riprovato (Gesù Cristo), attraverso la loro falsa testimonianza sulla condanna dell’uomo. Uno solo infatti è contemporaneamente eletto e riprovato e si tratta di Gesù Cristo che, attestato dagli uni e dagli altri, è il Signore e il capo degli eletti e dei riprovati; in quanto li rappresenta in modo autentico fin dall’inizio, i secondi quanto i primi sono appunto anch’essi i suoi rappresentanti; naturalmente gli uni e gli altri secondo il loro ruolo ed in un modo opposto. Da una tale coappartenenza dei due gruppi in Gesù Cristo, deriva l’esistenza di un richiamo molto preciso, che concerne gli eletti e di un’attesa altrettanto precisa che concerne gli altri. 3. Il richiamo che attiene agli eletti è questo: la relazione di Dio con loro e la loro relazione con Dio si qualifica fin all’origine per l’appunto in Gesù Cristo. È lui il Figlio e l’amico di Dio; in lui Dio si compiace, in quanto vi riconosce il suo proprio volto; lui è il mistero di Dio, grazie a cui esiste una qualifica equivalente anche per altri. Senza di lui, gli eletti non potrebbero essere quello che sono; senza di lui, sarebbero condannati ad essere dei riprovati come tutti gli altri; il peccato che fa di Dio il nemico dell’uomo è appunto il loro peccato e senza Gesù Cristo dovrebbero subire quel che spetta

di diritto all’uomo peccatore. Essere respinti lontano da Dio ed essere perduti in eterno non rimarrebbe per loro una vana minaccia. Al di fuori di Gesù Cristo gli eletti non hanno nessun vantaggio su quei riprovati, di cui i senzaDio cercano di rappresentare, ripetere e riflettere l’esistenza attraverso la loro falsa testimonianza; si riconosceranno anzi anche troppo in questa falsa testimonianza: riconosceranno cioè quello che sarebbero condannati ad essere, senza Gesù Cristo; se sono eletti, lo devono esclusivamente al fatto che Dio ha amato l’uomo (e dunque ha amato anche loro) da sempre in Gesù Cristo, per attirarlo a lui, proprio quell’uomo che, di per sé, non potrebbe che essere un riprovato (cioè quello che i senza-Dio si ostinano a voler rappresentare). Ecco infatti in che modo Dio li ha amati e associati a lui da sempre: ha gettato su Gesù Cristo la riprovazione che minacciava anch’essi, al punto che tale riprovazione è stata annullata per loro; vivendo la loro elezione per mezzo della fede in Gesù Cristo, non possono pensare a quello su cui si fonda senza contemporaneamente pensare alla riprovazione che è stata allontanata da essi; conseguentemente dovranno sapere di essere solidali (e riconoscersi tali) con i senza-Dio (da cui li separa soltanto l’incredulità). Non sono forse potenzialmente anch’essi dei riprovati?; non è forse esclusivamente in Gesù Cristo che sono qualcosa di diverso?; nemmeno loro hanno il minimo diritto di pretendere altro che non sia il subire la collera di Dio, ben meritata; soltanto la grazia di Gesù Cristo è la causa della loro qualifica di figli e di amici di Dio. La loro solidarietà con gli altri si estende però anche a quanto li separa da loro. È infatti unicamente attraverso la loro vocazione (cioè attraverso quella duplice azione dello Spirito Santo cui abbiamo accennato) che la loro elezione si realizza e si concretizza nell’ambito della loro vita; simile concretizzazione, simile corrispondenza oggettivamente necessaria della loro elezione nella loro esistenza di testimoni della verità (cioè di Gesù Cristo) non è affatto scontata e non rientra nelle loro possibilità naturali; gli eletti non hanno la possibilità di predicare a se stessi la loro elezione in Gesù Cristo e nemmeno di decidersi a credere a quella predicazione. È per mezzo dello Spirito Santo che l’una e l’altra cosa sono possibili e reali, la predicazione e la fede, cioè tutto quel che distingue gli eletti dagli altri uomini; senza lo Spirito Santo, cioè senza la loro vocazione, i credenti sarebbero senz’altro simili agli altri, in tutto ciò che li separa da loro: dei senza-Dio; la testimonianza della loro vita non potrebbe essere diversa da quella falsa testimonianza che rinnega e oltraggia l’elezione gratuita di Dio. Infatti è proprio così: ogni persona chiamata inizia da una vocazione; ad ogni ascoltatore, la predicazione è stata

estranea prima di quel certo giorno; ogni credente è stato prima un miscredente. Per nessun eletto l’elezione è un fatto ininterrotto; ognuno ha larghi settori della sua vita situati all’infuori della predicazione e della fede; in nessun chiamato le tracce della sua non-vocazione originaria sono completamente scomparse e, per certi aspetti, egli assomiglia anche troppo ai senza-Dio, quando rinnega la sua elezione; in una parola non vi è credente che non abbia la possibilità funesta di scorgere nella sua vocazione e perfino nel dono dello Spirito Santo qualcosa di diverso dalla grazia eristica che assolve. Gli eletti sanno così di essere solidali con gli atei e tali si riconoscono, anche da questo punto di vista; in mezzo a tutti quanti si erge la croce di Gesù Cristo, sola speranza per gli uni e per gli altri; quello che sono stati, sono e saranno senza questa speranza, i credenti lo possono scorgere negli atei. Ma più ancora che nella vita degli altri, è nella loro stessa vita che intravvedono tutta la forza tenebrosa della grande menzogna, quella menzogna che Gesù Cristo ha smascherato e di cui ha portato per noi la punizione. Accuseranno proprio se stessi come i maggiori colpevoli, dal momento in cui, grazie alla loro vocazione, sarà loro concesso di ascoltare e di accettare la sentenza che li libera. In che cosa dunque, se non in quel che li separa dagli altri, i credenti potrebbero riconoscere la loro perdizione e la loro miseria?; in che modo colui che rifiuta questo discernimento potrebbe avere lo Spirito Santo?; soltanto l’uomo che sa e che scopre sempre di nuovo che è unicamente la grazia di Gesù Cristo a fondare la sua elezione e la sua vocazione, possiede lo Spirito Santo. 4. L’attesa che concerne gli altri uomini deriva dal fatto che la qualificazione originaria e preminente di Gesù Cristo (che sola rende possibile quella degli eletti) è la verità che sorpassa, ingloba ed illumina anche l’esistenza di coloro che ne sembrano privi, in quanto la loro vita rende una falsa testimonianza, in quanto cioè stanno manifestamente incappando nel tentativo maligno, mortalmente pericoloso ed impotente di rappresentare, ripetere e riflettere la condizione dell’uomo respinto da Dio. Non si ha il diritto di dimenticare che la qualifica di eletti (che è anzitutto quella di Gesù Cristo) vale anche per gli altri. Costoro ne sono privati nella misura in cui non la riconoscono e non lasciano che prenda in loro un posto importante; non possono però opporre all’immagine dell’uomo che Dio ci ha dato (anzitutto nel suo Figlio e poi nei suoi eletti) un’altra immagine dell’uomo che sarebbe anch’essa conforme alla verità; non possono che opporre il loro rifiuto. Possono disprezzare l’elezione gratuita di Dio, ma non la possono respingere e

rendere caduca; non hanno la possibilità di fare in modo che Dio li consideri in modo diverso da come ha voluto da sempre considerare l’uomo peccatore nel Figlio suo; che il loro tentativo, nella sua malignità e nella sua audacia, sia impotente di fronte alla volontà e alla decisione di Dio, significa semplicemente che essi non possono essere privati della qualifica che deriva dall’elezione, se non in modo relativo e non assoluto; o, per dirla in maniera positiva, non possono essere dei «riprovati» se non nella contingenza. Un limite è loro fissato per il fatto che il riprovato (cioè l’uomo che porta, sopporta e annulla veramente la collera di Dio) è Gesù Cristo: conseguentemente non possono essere che dei riprovati potenziali; nulla certo impedisce loro di esserlo, ma non hanno il potere di attirare su di sé una seconda volta la spada della collera di Dio, in quanto quella spada ha già colpito, anche se meriterebbero mille volte che colpisse proprio loro. Sono i senza-Dio, coloro che mentono e non sfuggiranno alla verga della collera divina. Ma tale situazione è uguale anche per gli eletti. Se questi ultimi non sono dei respinti (e non lo sono a motivo della loro elezione compiuta in Gesù Cristo) e se esposti alla verga e non alla spada della collera divina non sono perduti, bensì salvati come attraverso il fuoco, ne deriva che, sempre tenendo presente l’eiezione compiuta in Gesù Cristo, non ci si deve aspettare che gli altri uomini siano condannati ad essere veramente davanti a Dio quello che la loro vita pare indicare, cioè gente privata della qualifica di cui abbiamo parlato. Non siamo certo in grado di affermare che così non può essere; dovremmo però aver escluso Gesù Cristo dal nostro pensiero, per attribuirci il diritto di affermare il contrario, in riferimento a chicchessia. Prendendo in considerazione la loro elezione e tenendo presente di conseguenza che vi è un solo riprovato (precisamente colui che ha preso su di sé tutto il loro peccato) gli eletti non hanno appunto altra possibilità all’infuori di questa: aspettarsi che gli altri uomini, qualunque sia la loro condizione, ricevano la qualifica che ancora manca loro. Questa aspettativa si rende necessaria ed evidente quando pensiamo a quello che separa gli eletti dagli altri: alla loro vocazione, alla duplice azione dello Spirito Santo. Quel che li separa (cioè il compimento della loro elezione) deriva come l’elezione stessa dalla volontà e dall’opera di Dio. È per testimoniare la verità che gli eletti sono chiamati; l’esistenza degli altri, dei senza-Dio è invece una testimonianza mendace; come concepire che questa falsa testimonianza abbia la solidità dell’altra?; donde trarrebbe la sua forza, in un mondo in cui è stata oggettivamente contraddetta dalla morte e dalla risurrezione di Gesù Cristo? Il fatto stesso che la vocazione degli eletti di Dio

sia un mistero ed un miracolo significa appunto che il limite fra vocazione degli eletti e quella degli altri non è invalicabile: lo è per l’uomo, ma non per Dio, di cui gli eletti ed i chiamati sono, appunto, i testimoni. Colui al quale è stato consentito di ricevere la predicazione di Gesù Cristo non potrà in nessun caso pensare che Gesù Cristo sia, per principio, inaccessibile a qualcuno; e colui al quale è stato concesso di giungere alla fede, non potrà mai pensare che gli altri, chiunque e comunque essi siano, non possano credere; se anche si rassegnasse alla loro reiezione (ma in realtà non lo può, perché sa benissimo chi è il riprovato) non si potrebbe comunque rassegnare al loro ateismo. Come potrebbe accettare che Gesù Cristo sia morto e risuscitato invano? Di fronte all’ateismo degli altri, poiché è proprio per degli atei che Gesù Cristo è morto e risuscitato, non può che attendere la loro vocazione; certo nemmeno noi possiamo dire di più, a questo punto, in quanto la vocazione degli altri sarà opera di Dio, come lo è quella degli eletti; ma anche qui dovremmo escludere Gesù Cristo dal nostro pensiero, se volessimo rifiutare agli altri la speranza cui gli eletti stessi sono rinviati in modo esclusivo, se cioè noi rifiutassimo di prenderli in considerazione proprio alla luce di quella speranza. 5. Il necessario richiamo agli eletti e l’inevitabile aspettativa nei confronti degli altri uomini concorrono a dimostrare che è il caso di considerare gli uni e gli altri insieme, malgrado tutto ciò che li separa e che ad ogni modo la loro opposizione non può essere pensata in termini assoluti. Per il fatto che gli uni e gli altri si trovano nella medesima mano di Dio, quest’opposizione, malgrado tutto il suo rigore, non può che essere relativa. È l’elezione di Gesù Cristo, origine di tutte le vie e di tutte le opere di Dio a rendere necessari il richiamo e l’aspettativa di cui parliamo e a porre in luce di conseguenza la relatività dell’opposizione intercorrente fra gli eletti e gli altri uomini; dopo aver considerato l’elezione di Gesù Cristo, si rende però necessaria un’altra precisazione a proposito di tale opposizione. Siamo partiti dal pensiero che gli eletti costituiscono una pluralità di individui qualificati da Dio e differenziati dalla loro vocazione; vi abbiamo opposto un’altra pluralità di individui la cui elezione è messa in questione in quanto non provoca presso di loro un comportamento adeguato e in quanto la loro vita sembra perfino negarla e per questa ragione li abbiamo chiamati «riprovati»; esistono infatti degli uomini simili: i chiamati e i non chiamati, i credenti e gli atei, di conseguenza gli eletti e, per lo meno in apparenza, i riprovati: un popolo di Dio e la massa dell’ umanità». In base alla testimonianza della Scrittura, la storia degli uomini si svolge, nelle grandi e nelle piccole cose, su questi due binari: è la storia del

consolidamento, della separazione e dell’incontro sempre nuovi di questi due popoli; stiamo però attenti: la storia autentica e preminente, così come il confronto reale e decisivo di questi popoli, non devono essere considerati, sempre secondo la testimonianza biblica, là dove si oppongono l’un l’altro, sulla linea di demarcazione fra «eletti» e «reprobi»; quello che separa ed al tempo stesso unisce gli uni e gli altri non appare infatti anzitutto e precisamente in loro, ma là dove l’eletto e il reprobo si oppongono in una sola e medesima persona. Per definire un eletto, ci si deve riferire rigorosamente ed esclusivamente all’immagine dell’uomo che Gesù Cristo ci offre. Gesù Cristo è infatti l’uomo qualificato da quella specifica relazione con Dio di cui abbiamo parlato; la sua vita compie e attua in maniera autentica un’elezione autentica; a lui Dio ha detto: «Ti ho chiamato per nome, tu sei mio». È stato in mezzo a tutti gli altri, ha condiviso pienamente la loro miseria, ha occupato un posto e seguito una via particolare; Dio lo ha chiamato «suo figlio» e «suo amico» prima di tutti gli altri ed in opposizione ad essi; è veramente la persona eletta. Se esistono altri eletti è perché lo è lui, anzitutto e in modo specifico cosicché gli altri sono inclusi nella sua elezione; se ci sono altri chiamati, esistono unicamente nella comunione dello Spirito Santo che ha chiamato proprio lui in primo luogo e che è anzitutto ed in modo preminente il suo Dio; per questa ragione, gli eletti sono la sua comunità: Israele e la Chiesa, il popolo di coloro che partecipano alla sua elezione e alla sua vocazione ed ai quali è concesso di compiere, di attestare e di confermare, per mezzo della loro fede, quell’elezione e quella vocazione. Se si astrae dall’elezione di Gesù Cristo, tutti gli altri uomini appaiono come riprovati. Di per sé e in quanto tale ogni «individuo» sarebbe respinto, se la sua elezione non fosse inclusa in quella di Gesù Cristo, se Gesù Cristo non fosse stato eletto per farsi carico della riprovazione di tutti e così allontanarla. Questa è l’opera che Gesù Cristo ha voluto compiere e ha compiuto realizzando la sua elezione (l’elezione autentica e preminente): facendosi carico della riprovazione che minaccia necessariamente l’uomo, ha acquisito per quest’ultimo il diritto di essere un eletto, un figlio e un amico di Dio. L’uomo non potrebbe che essere un riprovato, senza questa volontà e quest’azione di Dio nell’elezione e nella vocazione di Gesù Cristo; se la sua vita fosse qualcosa di diverso dal compimento, dall’attestazione e dalla conferma dell’elezione e della vocazione di Gesù Cristo, sarebbe condannato ad essere escluso dalla comunione dello Spirito Santo, che è lo spirito di Gesù Cristo e di conseguenza non potrebbe affatto partecipare alla comunione dei

santi; sarebbe soltanto più un uomo senza vocazione, senza Dio e che altro mai potrebbe fare se non condurre la vita inautentica di un riprovato? Gesù Cristo pertanto è non solo un eletto fra i tanti, ma l’eletto, a fianco e al di fuori del quale non ci sono che riprovati. Di fronte a tutti gli altri uomini, e perché non ci siano reietti, lui solo è, in loro favore, l’eletto, foggetto dell’elezione gratuita di Dio. Anche per definire un riprovato ci si deve riferire rigorosamente all’immagine dell’uomo che Gesù Cristo ci indica. Gesù Cristo è, proprio in forza della sua elezione, l’uomo che Dio ha respinto lontano da sé e consegnato alla morte eterna, secondo il suo giusto giudizio; è nel compimento autentico di un’elezione autentica che la sua vita è quella di qualcuno che è stato condannato a subire l’inimicizia mortale di Dio; il fatto che si faccia carico di una simile dimensione umana caratterizza lo spazio particolare che egli occupa fra tutti gli altri. È lui, suo figlio e suo impareggiabile amico, che Dio ha trasformato in peccatore; è lui, l’individuo respinto. Se esistono altri riprovati è unicamente nell’ambito di questo disconoscimento maligno, mortale ed impotente, che ci fa dimenticare chi è il solo riprovato, insomma nell’ambito di quell’ateismo che non rispetta il diritto che Gesù Cristo ha acquisito per tutti. E se ci sono altri uomini che, a modo loro, sono condannati a subire quanto la collera divina, arbitrariamente provocata, implica in fatto di sofferenza per coloro che si ostinano nel loro rifiuto, la maledizione che pesa su di essi è soltanto l’eco di quella che ha colpito Gesù Cristo al posto loro. I riprovati (coloro cioè che vivono l’esistenza del riprovato) sono testimoni del peccato di cui Gesù ha voluto rispondere, della punizione che Gesù ha voluto subire. Se la loro testimonianza (nella misura in cui sembra segnalare il loro abbandono da parte di Dio e la loro perdizione) in fin dei conti non può che essere inautentica (poiché, a rigore, il fatto di essere abbandonato da Dio e di essere perduto non è affar loro ma affare di Gesù Cristo), questa loro testimonianza inautentica indica comunque colui che è stato il peccatore abbandonato e perduto, nel vero senso della parola e la cui ombra si allunga su tutti quanti. Malgrado tutto il loro ateismo, non possono ristabilire la perversione che egli ha distrutto, sacrificando se stesso, né riaccendere il fuoco della collera divina che egli ha subito accettando quel sacrificio; con tutto il male che fanno e tutta la sofferenza che sopportano in quanto peccatori, non possono far altro che essere, volenti o nolenti, partecipi della riprovazione che Gesù Cristo ha preso su di sé e distolto da loro, portando a compimento la sua elezione; non possono impedire di essere essi stessi, oggettivamente e nei fatti,

testimoni della sua elezione. Nemmeno loro sarebbero quello che sono, senza di lui; anch’essi non possono che essere, in maniera secondaria e impropria, quello che Gesù Cristo è, in maniera primaria e propria. Égli è il riprovato, in quanto è l’eletto; a motivo della sua elezione, non esiste alcun riprovato all’infuori di lui; è a causa dell’elezione di tutti i riprovati che egli si staglia solo, di fronte a loro; per loro egli è il riprovato (e crea attraverso la sua condizione di respinto le premesse per la loro elezione); in tal modo è anche l’oggetto dell’elezione gratuita di Dio. Ecco in quale maniera Gesù Cristo è il Signore e l’inizio, il contenuto e l’oggetto della testimonianza degli «eletti» e dei «riprovati». In modo del tutto diverso, anzi opposto, gli uni e gli altri trovano la loro esistenza soltanto in lui; è in lui, rappresentante fin dall’origine dell’uno e dell’altro, dell’eletto e del reprobo, che la loro opposizione acquista la sua inevitabilità; è a causa di lui che la loro opposizione non diventa soltanto relativa, ma appare come un’opposizione tra fratelli che, nella loro esistenza e nella loro funzione complementari, costituiscono un’unità inalienabile e indissolubile. Come l’elezione di Gesù Cristo si compie nella sua riprovazione sostitutiva come, inversamente, questa è la conferma di quella, così gli eletti e i riprovati coesistono non soltanto per opporsi, ma anche per confrontarsi; esistono gli uni accanto agli altri; esistono gli uni per gli altri. Poiché essi non sono Gesù Cristo, ma soltanto i suoi testimoni, costituiscono, ovviamente, due figure antitetiche; ma per il fatto di essere necessariamente i suoi testimoni, si trovano ad essere legati, pur continuando a formare un’antitesi; sono finalizzati gli uni agli altri; non si possono prendere in considerazione gli eletti senza i riprovati e nemmeno i riprovati senza gli eletti; in un caso come nell’altro, non si può fare a meno di pensare alla mano che li tiene entrambi, alla mano di Colui che è il Signore e il capo degli uni e degli altri e che rivela di essere il medesimo per gli uni e per gli altri, malgrado tutte le differenze che li separano. Gli eletti devono costantemente attestare l’elemento positivo, il fine della volontà di Dio, cioè la sua misericordia; altrettanto costantemente, i riprovati li accompagnano per attestare l’elemento negativo: quel che Dio, onnipotente, santo e buono non vuole, cioè il suo giudizio. Gli uni e gli altri sono dunque sempre testimoni della medesima volontà del medesimo Dio: rinviano costantemente al patto che li avvolge, gli uni egli altri e la cui efficacia non dipende dalla fedeltà degli eletti più di quanto non sia minacciata dall’infedeltà dei riprovati ed il cui compimento si manifesta sì nella benedizione che ricade sugli eletti, ma è anche proclamato e reso pubblico per diventare l’oggetto di una nuova promessa, senza che la

maledizione che pesa sui riprovati lo possa vanificare. Perciò il rapporto fra la fedeltà e l’infedeltà, la benedizione e la maledizione, la vita e la morte degli uni e degli altri non potrebbe essere stabilito in maniera sempre favorevole agli eletti e sempre sfavorevole ai riprovati; perciò i ruoli, le direzioni e le vie proprie di queste due figure parallele si intersecano continuamente, così come si intersecano le figure stesse; perciò gli eletti talvolta meritano il biasimo, mentre, a modo loro, i riprovati raccolgono la lode: in tal caso capita ai primi di subire il giudizio di Dio e ai secondi di ricevere dei segni della sua pazienza e della sua bontà; perciò gli uni e gli altri si assomigliano assai, per molte ragioni, malgrado tutte le differenze: tant’è vero che, pur riempiendo funzioni diverse, non possono che lavorare insieme e talvolta perfino sostituirsi. Sono a tal punto finalizzati gli uni agli altri, a tal punto condizionati gli uni dagli altri, che la figura unica di Gesù Cristo diventa spesso più evidente nella loro opposizione di quanto lo sia quest’opposizione stessa; il Dio che elegge e chiama opera qui la separazione ed essa avviene sempre conformemente alla sua giustizia, cioè in modo tale che egli abbia ragione nei confronti degli uni e degli altri ed a loro favore; non giungerà mai a dispensare l’uomo dalla sua responsabilità nei confronti di Dio o a permettergli di sfuggire alla responsabilità di Dio verso di lui e per così dire a scantonare dalla sua elezione e dalla sua grazia. Dio non fa distinzioni; se si schiera con i suoi eletti, ciò significa che costoro devono lottare con lui come con il loro nemico per partecipare alla sua benedizione e per conservarla; parimenti ciò non significa affatto che non si possa comportare allo stesso modo con i riprovati. Se nasconde loro il suo volto, non per questo smette di essere anche per essi il solo e vero rifugio; se si dichiara loro nemico, è proprio questo il modo particolare di essere con loro; quando innalza, ha anche provveduto ad abbassare e quando colpisce qualcuno, significa che non lo ha ancora abbandonato del tutto. La differenza creata da Dio fra gli eletti ed i riprovati è (anche e soprattutto là dove si manifesta in tutto il suo rigore) la conferma dell’alleanza che costituisce l’origine divina di ogni cosa, lo strumento dell’opera con cui si dà attuazione a quest’alleanza, la profezia e la proclamazione della separazione fra Dio e gli uomini, da lui istituita e sormontata attraverso l’incarnazione, della grazia in cui proclama il suo diritto contro ogni peccatore e stabilisce il diritto di ogni peccatore dinanzi a lui. Il modo in cui Dio ama consiste nello stabilire questa linea di demarcazione; tale è il suo modo di amare il suo proprio Figlio; tale è il suo modo di amarci in lui. Se il vero oggetto del suo amore non è costituito da alcun altro «individuo»

all’infuori di lui, ne deriva che nessuno, all’infuori di lui, può essere divorato dal fuoco di quell’amore, cioè dalla collera divina; tutti gli eletti e tutti i riprovati hanno la funzione di indicare questo amore divino nel suo duplice aspetto; e hanno la funzione di vivere, nella loro diversità, del fatto che Dio ha amato questo solo essere per amarli in lui ieri, oggi e domani. Questa è la possibilità di cui godono gli uni e gli altri. C. ILLUSTRAZIONE SCRITTURISTICA 1. Uno sguardo d’insieme. Dobbiamo ascoltare ora, senza timore di addentrarci in dettagli, la testimonianza relativa a Gesù Cristo, nella sua forma prima e fondamentale, nella sua dimensione di annuncio e di profezia, cioè la testimonianza dell’Antico Testamento. Possiamo anzitutto riferirci a Gen. IV, in cui all’affermazione secondo cui Dio guarda con occhio favorevole Abele ed il suo sacrificio, si oppone quest’altra affermazione del v. 5: «Ma non ebbe uno sguardo favorevole per Caino e per la sua offerta». La differenza intercorrente fra questi due personaggi non si fonda affatto su una qualche qualità preventiva tipica di ognuno: fin dall’inizio, dipende con evidenza da una decisione di Dio. Questo primo riferirsi all’elezione divina di un individuo in opposizione ad un altro, ci indica già che se Abele è scelto a preferenza di Caino, non dobbiamo però dare un giudizio negativo assoluto su Caino. Certo, secondo il v. 6, Caino diventa l’assassino di suo fratello ed è obbligato a nascondersi lontano dal volto di Dio (v. 14), come già era successo ai suoi genitori nel paradiso terrestre (Gen. III, 8); ma non per questo è abbandonato da Dio; Dio promette di proteggerlo e la sua esistenza sembra ricevere una qualifica molto particolare: certo non quella di Abele, non quella che rende il sacrificio di quest’ultimo gradito a Dio e che, cosa strana, implica la morte (è in questo testo che la morte di un uomo è menzionata per la prima volta nella Bibbia). Caino riceve un segno di vita; proprio lui, l’assassino che sa, secondo il v. 13, che la punizione meritata è troppo grande per essere sopportata; nella differenza irriducibile che lo separa da Caino, Abele esiste nella dimensione che gli è propria e a modo suo proprio per Caino, così come quest’ultimo è lì proprio per suo fratello. Sarà necessario tenere a mente questa storia per così dire tipica, nell’affrontare i contesti biblici in cui è questione dell’elezione di taluni individui a scapito di altri uomini. Noè trova grazia agli occhi dell’Eterno (Gen. VI, 8) ed è considerato «giusto, nell’ambito della sua generazione» (VII, 1). Nell’ambito della posterità di Sem, il nome di Abramo diventa un segno di benedizione: «Io benedirò coloro che ti benediranno e maledirò coloro che ti malediranno e tutte le

famiglie della terra saranno benedette in te» (Gen. XII, 3); proprio per questa ragione però, il patriarca deve lasciare il suo paese, la sua patria e la casa di suo padre (Gen. XII, 1). Ormai inizia tutta una serie, o meglio una duplice serie, di differenziazioni che si intersecano continuamente: è con Isacco che Dio intende stabilire la sua alleanza eterna (Gen. XVII, 19, 21) e non con Ismaele, il primogenito; tuttavia, la preghiera di Abramo per Ismaele è esaudita: anche quest’ultimo è destinato a vivere, ad essere benedetto e a prosperare (Gen. XVII, 18, 20). Anche tra i figli di Isacco, benché Esaù sia il primogenito ed il preferito da suo padre (Gen. XXV, 24 s.), è Giacobbe, il minore, che riceve (si sa come!) il diritto di primogenitura e la benedizione paterna, senza che questo significhi tuttavia che Isacco non abbia in serbo anche per il primo una benedizione che, nella sua specificità, è veramente reale, anche se più oscura (Gen. XXVII, 38 s.). E benché Giacobbe preferisca Rachele a Lea, il Signore rende feconda la donna trascurata (i cui figli sono Levi, capostipite del sacerdozio e Giuda, capostipite della monarchia: Gen. XXIX, 30 s.). Tuttavia Rachele non rimane sterile ma, liberata dal suo disonore, diventa la madre di Giuseppe (Gen. XXX, 23 s.), che suo padre preferirà a tutti gli altri fratelli (Gen. XXXVII, 3) e la cui storia (la sua segreta superiorità, il suo essere abbandonato ai pagani, la sua esaltazione ed il suo dominio su costoro, il suo ricongiungersi con i fratelli che lo hanno respinto, la bontà senza confronti con la quale usa in loro favore il suo potere e le sue ricchezze) simboleggia di fatto molto meglio l’avvenire d’Israele, è molto più messianica della storia di uno qualsiasi dei figli di Lea. Si verifica di nuovo una scelta e una distinzione insolita (descritta dettagliatamente in Gen. XLVIII) fra i figli di Giuseppe, Efraïm e Manasse, adottati dal loro nonno Giacobbe: «Poi Giuseppe li prese entrambi, Efraïm nella sua mano destra, alla sinistra di Israele, e Manasse nella sua mano sinistra, alla destra di Israele, e li fece avvicinare a sé. Israele distese la sua mano destra e la posò sulla testa di Efraïm che era il più giovane, e posò la sua mano sinistra sulla testa di Manasse: lo fece con intenzione, di posare le sue mani in questo modo, poiché Manasse era il primogenito» (v. 13 s.). Giacobbe è cieco, pertanto Giuseppe pensa di dover correggere il suo errore: «afferrò la mano di suo padre, per distoglierla dalla testa di Efraïm e dirigerla sulla testa di Manasse. E Giuseppe disse a suo padre: Non così, babbo, poiché questo è il primogenito; metti la tua mano destra sulla sua testa. Suo padre rifiutò e disse: Lo so, lo so, anche lui diventerà un popolo, anche lui sarà grande: ma il suo fratello minore sarà più

grande di lui e la sua discendenza darà luogo ad una moltitudine di nazioni» (v. 17 ss.). Nel frattempo si è creata una differenziazione anche fra i figli di Lea. Ruben, «tu, mio primogenito, mia forza e primizia del mio vigore, superiore per dignità e potenza», non sarà il capo (Gen. XXXV, 22; XLIX, 2 ss.), lo sarà invece Giuda: «Tu riceverai l’omaggio dei tuoi fratelli; la tua mano sarà sulla nuca dei tuoi nemici, i figli di tuo padre si prosterneranno davanti a te. Giuda è un giovane leone. Tu risali dalla preda, figlio mio. Lo scettro non si allontanerà da Giuda, e il bastone simbolo di sovranità non si allontanerà dai suoi piedi, fino al momento in cui verrà colui al quale appartiene, a cui i popoli obbediranno» (Gen. XLIX, 8 ss.). Però Gen. XXXVIII racconta che il matrimonio di Giuda con Shua, la Cananea, rimane sterile, nel senso che Er, figlio di quel matrimonio, dispiace all’Eterno e muore prima di aver potuto consumare la sua unione con Tamar; si legge anche che Onan rifiuta il matrimonio leviratico con Tamar e, essendo a sua volta dispiaciuto all’Eterno, muore anche lui; il racconto ci dice infine in che modo del tutto insolito quella stessa Tamar è resa incinta da Giuda suo suocero, e come, alla nascita dei suoi due figli, i gemelli Perets e Zerach, il secondo, Perets, precede suo fratello e diventa il primogenito, per essere poi l’antenato di Davide e l’antenato di Gesù Cristo menzionato da Mt. I, 3 e da Lc. III, 33. La tradizione biblica non potrebbe essere più esplicita nell’indicare sia la discriminazione continuamente operata dalla scelta divina e sia la libertà con cui questa discriminazione attraversa e contraddice tutte le differenze umane che ci sono abituali o che sono fondate su preferenze; essa attesta la relatività di tali differenze, poiché è evidente che i personaggi qui esclusi, cioè squalificati, non sono respinti in maniera assoluta, bensì permangono ogni volta, e ognuno a modo suo, collegati positivamente con il Dio dell’alleanza. Soltanto il caso dei figli di Giuda, Er e Onan, potrebbe, a rigore, far pensare ad una disapprovazione assoluta; in tutti gli altri casi, è chiaro che le persone lasciate da parte beneficiano anche loro di una benedizione particolare e compiono perfino, nella loro dimensione, una vocazione divina. Si è però sorpresi dal fatto che la differenziazione individuale, che caratterizza in maniera così precisa l’elezione divina nella Genesi, venga meno con il concludersi della storia patriarcale. Nelle altre parti storiche del Pentateuco, come pure nei libri di Giosuè e dei Giudici, non si tratta più di una duplice serie di differenziazioni che si intersecano e si contraddicono. Ormai è Israele nel suo insieme che si trova ad essere «distinto da tutti i popoli

della terra» (Es. XXXIII. 16); è separato dagli Egiziani come da un muro, al momento delle dieci piaghe (Es. X, 23); ma nemmeno qui mancano del tutto indizi della relatività dell’opposizione esistente fra Israele e le altre nazioni. Gli Israeliti non hanno il diritto di dichiarare la guerra ai Moabiti e agli Ammoniti, che sono discendenti del tutto illegittimi di Lot (Giud. XI, 15; cfr. Deut. II, 9.19); da Moab proviene Balaam, che pronuncia suo malgrado una benedizione su Israele (Num, XXII s.); da Moab proviene Ruth, l’antenata del re Davide (Ruth I, 4.16; II, 11); inoltre pare che non sia da escludere del tutto un rapporto positivo con gli Edomiti e gli Egiziani: «Non avrai in abominio l’Edomita, poiché è tuo fratello; non avrai in abominio l’Egiziano, poiché sei stato straniero nel suo paese. I figli che nasceranno loro, alla terza generazione entreranno a far parte dell’assemblea dell’Eterno!» (Deut. XXIII, 7 s.). Perfino la tribù dei Madianiti, presentata secondo i canoni della più autentica ostilità, appare strettamente legata al destino di Israele e dunque al suo Dio, nella persona di Jetro, suocero di Mosè (Es. II, 15 s.; III, is.; XVIII, 1 s.; Num. X, 29 s.). Infine, fra i Cananei autoctoni, destinati sempre all’annientamento totale, c’è Raab, la prostituta (Gios. II, 1 s.; VI, 23) classificata fra le antenate di Gesù (Mt. I, 5), che «non è morta con i ribelli, perché ha accolto le spie con benevolenza» (Ebr. XI, 31). Così pure i Gabaoniti che, grazie alla loro astuzia, sono stati risparmiati: «Giosuè li destinò fin da quel giorno a tagliare la legna e ad attingere l’acqua per l’assemblea e per l’altare dell’Eterno, nel luogo che l’Eterno avrebbe scelto: ancora oggi hanno questa mansione» (Gios. IX, 27). 2. La tipologia del Levitico. Se questo è l’essenziale della testimonianza sul punto che ci interessa nei racconti storici di questa parte del canone biblico, è tanto più notevole che la legislazione cultuale del Levitico contenga una reminiscenza straordinariamente precisa della differenziazione individuale che predomina così chiaramente nei racconti della Genesi. Vi si tratta di due prescrizioni rituali diverse, tuttavia chiaramente collegate nella loro stessa struttura. Da un lato (Lev. XIV, 4-7) si tratta di uno dei riti dell’azione cultuale che segna la dichiarazione di purezza di un lebbroso: in questa circostanza, il sacerdote si fa portare due uccelli vivi, del legno di cedro, della porpora e dell’issopo; dà ordine di sgozzare uno degli uccelli su acqua corrente e di raccogliere il suo sangue in un vaso di terra; l’altro volatile è immerso con gli altri materiali nel sangue del primo; poi, il lebbroso guarito è asperso sette volte con quel sangue, mentre l’uccello vivo è lasciato andar libero nei campi.

D’altro lato (Lev. XVI, 5 ss.), si tratta del rito specifico del gran giorno delle espiazioni, in cui due capri entrano in scena: si comincia col sistemarli «davanti all’Eterno», cioè all’entrata della tenda di convegno; poi «Aronne tirerà a sorte fra i due capri, per vedere quale debba essere per l’Eterno e quale per Azazel; Aronne farà avvicinare il capro destinato in sorte all’Eterno e lo offrirà come sacrificio di espiazione; e il capro destinato in sorte ad Azazel, sarà posto vivo davanti all’Eterno, affinché serva a compiere l’espiazione e affinché sia lasciato libero nel deserto per Azazel» (v. 8). Secondo i vv. 15 s. l’aspersione del sangue del primo capro verrà fatta, dopo l’aspersione del sangue di un toro, sopra e davanti alla targa che ricopre l’arca (lo ἱλαστήριον, «sede della grazia», secondo Lutero) e si farà la stessa cosa per l’altare, dal lato esterno; in tal modo avverrà l’espiazione di tutte le impurità e di tutte quante le trasgressioni del popolo. L’altro capro, secondo i vv. 21 s. sarà trattato in questo modo: «Aronne poserà le sue due mani sulla testa del capro vivente e confesserà su di lui tutte le iniquità dei figli di Israele e tutte le trasgressioni con le quali essi hanno peccato; le porrà sulla testa del capro, poi lo caccerà nel deserto, con l’aiuto di un uomo che avrà questo incarico. Il capro porterà via su di sé tutte le iniquità in una terra di collera; sarà cacciato nel deserto». Si comprende la normativa che regola questi due riti complementari (come pure tutta quanta le legislazione sacrificale dell’Antico Testamento), quando si osserva che il sacrificio che accompagna la storia di Israele (esattamente come la profezia) è un segno ed una testimonianza dell’intenzione divina che sta alla base di questa storia e la conduce verso il suo fine, cioè un segno e una testimonianza degli avvenimenti successivi che vi si svolgono. La legge e le ordinanze specifiche relative al sacrificio hanno la funzione di indicarne e di garantirne la portata significativa, regolandone nel modo più esatto possibile la forma adeguata e appropriata al popolo di Israele. Regolamentate e fissate come leggiamo, le due azioni complementari di Lev. XIV e XVI pongono in rilievo la forma che hanno in comune: due animali del tutto simili sono sottoposti ad un trattamento del tutto diverso. Secondo Lev. XIV, 15 s. li sceglie il sacerdote, mentre secondo Lev. XVI, 8 si procede al sorteggio; nei due casi ci si riferisce chiaramente ad una scelta insondabile, operata da Dio stesso; per quale motivo queste due azioni accompagnano la storia d’Israele?; quale momento di questa storia vogliono indicare come segno e testimonianza dell’intenzione divina? Siamo chiaramente in presenza dell’aspetto particolare di questa storia, caratterizzato dalla differenziazione operata da Dio, con la scelta di questi o quegli individui. Queste azioni

specifiche attestano le decisioni divine ed indicano lo scopo verso il quale tende la storia d’Israele in quanto storia delle scelte di Dio. Le prescrizioni che vi si riferiscono servono a fissare proprio questa testimonianza. Tutto questo è dimostrato ancora più chiaramente dal modo con cui sono trattati i due animali. I capitoli XIV e XVI del Levitico hanno un punto in comune: viene utilizzato un animale e non l’altro; o meglio quest’altro è utilizzato soltanto nella misura in cui rimane per così dire solennemente e necessariamente inutilizzato; uno è ucciso, l’altro è lasciato libero. Asteniamoci per il momento dal cercar di sapere che cosa significhi utilizzare e non utilizzare, uccidere e lasciare in libertà; provvisoriamente rinunciamo anche a chiederci chi è designato dall’animale sacrificato e a chi si riferisce l’altro. Basta considerare queste indicazioni in se stesse e genericamente per essere inevitabilmente rinviati ai racconti della Genesi che ci parlano di Abele e di Caino, di Isacco e di Ismaele, di Giacobbe e di Esaù, di Lea e di Rachele. La storia d’Israele, nella misura in cui è storia di queste discriminazioni, è commentata in modo evidente proprio da queste azioni rituali del Levitico; il suo carattere di testimonianza è per così dire fissato proprio nelle prescrizioni relative a queste azioni. I capitoli XIV e XVI del Levitico hanno anche questo in comune: in entrambi si tratta di una dichiarazione di purificazione. La purificazione consiste, secondo Lev. XIV, nel costatare la guarigione del lebbroso, da parte del sacerdote che agisce in qualità di medico; secondo Lev. XVI, consiste nel costatare da parte di Aronne o da parte del sommo sacerdote, l’assoluzione del popolo nella sua globalità. Si osservi che le azioni rituali in quanto tali non operano la purificazione; la attestano come un fatto che è avvenuto, avviene ed avverrà ancora; né il sacerdote, né Aronne ne sono autori, ma solo Dio. «Solo Dio può rimettere i peccati. Che cosa resta dunque all’uomo se non testimoniare ed annunciare la grazia concessa da Dio? Ciò non si frappone tuttavia a che coloro cui spetta il compito d’insegnare, in un certo qual modo, cancellino le colpe del popolo. Infatti, sebbene solo la fede purifichi i cuori, il ministro, che attesta la nostra riconciliazione con Dio, è giustamente ritenuto come colui che cancella le nostre colpe. La fede difatti riceve quella testimonianza che Dio trae dalla bocca dell’uomo»2. Partendo non soltanto da queste azioni in sé, ma da quello cui si riferiscono (cioè dai racconti di elezione della Genesi) bisogna riconoscere che il loro compimento da parte di taluni uomini descrive ed attesta le intenzioni e gli atti di Dio nei confronti dell’intero popolo d’Israele. Lo indica già il semplice fatto che l’uomo israelita,

oggetto della purificazione (in quanto individuo ed in quanto popolo) interviene qui, come pure in tutta la legislazione sui sacrifici, per così dire unicamente in quanto spettatore dei riti che raffigurano tale purificazione, poiché questi riti non interessano che animali e in qualche modo gli sono dunque estranei. Lo concernono in quanto il modo di trattare questi animali, gli fa vedere il modo in cui Dio lo ha trattato e vuole trattarlo; lo concernono in quanto gli indicano quel che sarà evidente alla fine e in ultimo luogo, cioè il senso e il risultato della sua storia, conformemente alla volontà e alla rivelazione di Dio; gli confermano, in quanto semplici simboli, che è chiamato e destinato lui stesso, con la sua storia illustrata in questa maniera, ad essere il testimone della realtà che si deve manifestare e che deve giovare anche a lui, non in quanto opera sua, ma all’interno dell’ordine oggettivo delle gesta di Dio. Ma la sostanza comune alle azioni regolamentate da Lev. XIV e XVI è comprensibile soltanto tenendo presenti le prospettive interne, cioè la differenza di accento che caratterizza il modo in cui le due prescrizioni attestano il medesimo fatto o commentano ed illustrano la medesima testimonianza (cioè la storia di Israele in quanto storia di elezioni singole). Infatti l’utilizzazione e la non utilizzazione, la condanna a morte e la liberazione dei due animali, comuni ai due riti, hanno un senso diverso nell’uno e nell’altro caso. Il capitolo XVI del Levitico intende la purificazione (rappresentata dal trattamento inflitto ai due animali) nella prospettiva del presupposto che le è indispensabile, della via che conduce ad essa, del mezzo utilizzato a questo fine; non è la condizione nuova di popolo riconciliato con Dio a premere, bensì la riconciliazione di cui il popolo ha bisogno per conoscere questo cambiamento e il fatto che questa riconciliazione esiste; quel che importa, non è la cosa per cui la morte e il sangue del primo capro sono utilizzati, ciò a cui devono servire, ma piuttosto il fatto che sono utilizzati, che devono servire e che lo possono. La purificazione destinata e promessa all’uomo presuppone (e questa condizione preventiva Dio l’ha colmata con la sua grazia e la sua misericordia, provvedendovi egli stesso, di sua iniziativa, in quanto giudice saggio e onnipotente) che è ordinato e concesso all’uomo di morire (all’uomo autore del peccato, all’uomo che, con la sua impurità, è oggetto della collera divina). Questa condanna a morte salutare, decisa e compiuta da Dio in forza del suo amore per l’uomo, è rappresentata dall’uccisione dei diversi animali nel giorno dell’espiazione (dunque anche dal sacrificio del primo capro) e

quindi dall’aspersione col sangue dell’arca e del tabernacolo, aspersione il cui scopo è la santificazione del santuario. Il sangue del primo capro raffigura la soppressione totale della vita umana; l’uomo è scelto per l’Eterno e non per Azazel, non per il deserto, in quanto è l’oggetto di questa sofferenza e di questa morte apportatrici di salvezza, che creano il presupposto per la sua purificazione e per la sua vita nuova; gli è concesso (ed è una conseguenza dell’amore di Dio per lui) di lasciare che il suo sangue si diffonda, di lasciare la sua vita dietro di lui. Dio lo mette sulla via della salvezza, collocandolo sotto la misericordia e l’orrore totale di quel giudizio di morte. È nel primo capro, quello destinato dalla sorte all’Eterno, che è concesso e ordinato all’uomo di riconoscersi in quanto eletto, cioè in quanto si distingue dagli altri: Dio lo utilizza e lo vuole, a prezzo del suo sangue, ma è proprio lui ad utilizzarlo e a volerlo in questa maniera. Ci si può domandare: com’è possibile? L’uomo in effetti è carne, è un essere impuro e trasgressore; l’intero popolo di Dio e i suoi eletti hanno svenduto la loro appartenenza a Dio; questo è il loro peccato. Che quest’uomo perduto sia di fatto gradito, proprio in quanto tale, per offrire quel sacrificio a Dio; che Dio lo veda nella sua totale perdizione, non come un essere che gli appartiene ma come un essere che appartiene ad Azazel, al deserto e che per questa ragione lo ponga sotto il suo giudizio e sulla via che conduce alla vita; questo è il segreto della sua grazia simboleggiata qui. In tutto questo però si tratta di un’identità che l’immagine in se stessa non può rendere e che perfino il suo parallelo storico (cioè i racconti delle discriminazioni operate dall’elezione) non riesce a mettere in evidenza. Nel simbolo (come nella cosa che esso designa) esistono sempre due elementi: due animali e due uomini, in rapporto ai quali la realtà unica che essi devono rappresentare riveste due aspetti. Perciò il rito simbolico del giorno delle espiazioni mette in scena accanto all’animale utilizzabile, un secondo animale inutilizzabile, o piuttosto un animale la cui utilità appare in maniera solenne proprio nella sua inutilità; accanto alla morte del primo, che in realtà implica grazia e salvezza, è questione della vita del secondo, che in verità è il punto più alto della desolazione, la morte stessa; che l’uomo in quanto tale sia inadatto al servizio di Dio, che il suo sangue sia privo di valore, che nemmeno a prezzo di qualsiasi giudizio (anche della morte) la sua vita non possa ridiventare una cosa buona, ecco quel che indica il modo in cui il secondo capro è trattato. La sorte toccata a quest’ultimo è infatti fra le più terribili: l’animale è non già messo in libertà, ma cacciato dentro il dominio di

Azazel, il demone del deserto, consegnato a una non-esistenza priva di speranza, abbandonato ad una vita che, appunto, non è tale. Ecco quel che tu meriti!, viene detto al popolo nel momento in cui il secondo capro è cacciato nel deserto; ecco donde sei stato tratto; senza la grazia di Dio, saresti condannato a restare in questa situazione funesta, a condurre questo tipo di vita all’ombra della morte. Dio conduce dalle tenebre alla luce, dal deserto al paese della promessa: ecco l’annuncio che ti è dato dall’elezione dei patriarchi ed ecco quello che la sua parabola ti mette davanti con il primo capro utilizzato per il sacrificio. Nella stessa linea i non-eletti devono essere considerati come dei testimoni del fatto che il deserto, le tenebre, sono il luogo da cui la grazia di Dio ha strappato i suoi; con la loro esistenza attestano non solo e non soprattutto il loro peccato, ma il peccato e il castigo di tutti; ed ecco che quel peccato è posto sulla testa del secondo capro, inadatto al sacrificio, per essere caricato e portato via sotto gli occhi di tutti, là dove troverà il suo ambito e la sua punizione: lontano dalla comunità, nella solitudine mortale del deserto. Inadatto alla purificazione, indegno di santificazione; inutilizzabile per il sacrificio che salva, per la morte che opera la riconciliazione e apre la via ad una nuova vita; utilizzabile soltanto per una vita che non è tale: simile è il giudizio pronunciato sul secondo capro ed eseguito per mezzo della sua cacciata nel deserto. Questo secondo capro è il simbolo dei non-eletti, così come essi ci appaiono (come Caino, Ismaele, Esaù) in opposizione agli eletti e la cui funzione è di incarnare l’uomo nella sua dimensione reale, privo della grazia dell’elezione, di indicare qual è l’unica possibilità e il solo avvenire di un simile uomo. Si osserverà però che anche questo secondo capro si trova «posto dinanzi all’Eterno»: il trattamento che subisce e l’indicazione della sua inutilità costituiscono una parte integrante del segno e della testimonianza del giorno delle espiazioni. Abele è inconcepibile senza Caino, come Isacco senza Ismaele: è infatti nel secondo personaggio che si manifesta la grazia che consente al primo di essere un eletto; questi deve poter riconoscere nell’altro, come in uno specchio, la condizione da cui è stato tratto ed il Dio che lo ha liberato; l’eletto trae beneficio dalla sua nuova condizione soltanto per il fatto che Dio lo ha strappato al suo antico stato: quello cioè di non eletto. Per il fatto che l’elezione è una grazia, il capro inutile e cacciato nel deserto è legato al capro utilizzato e sacrificato e il non eletto è inseparabile dall’eletto. Riflettiamoci un attimo: entrambi sono «posti dinanzi all’Eterno»: guardiamoci dal vedervi un’indicazione favorevole soltanto al primo capro, cioè all’uomo messo a parte per il Signore.

L’azione descritta nel capitolo XIV del Levitico prende invece una direzione opposta. Il significato della purificazione dell’uomo, fondata sull’elezione divina, è illustrato qui non dall’uccello sgozzato, ma da quello rimesso in libertà. Affinché l’uomo divenga puro, cioè diventi un uomo nuovo, liberato dai terribili limiti imposti all’esistenza del lebbroso segnato dalla collera di Dio, affinché non sia più uno scomunicato e affinché, da oggetto di giudizio diventi oggetto della grazia, bisogna che muoia; occorre che il suo sangue sia sparso fino all’ultima goccia; soltanto la radicale abolizione della sua vita fin qui impura può far nascere una vita nuova. Nella sorte riservata al primo volatile è questione ci questa condizione previa: il volatile è sgozzato; il suo sangue è sparso in vista del rito successivo, parallelo a quello descritto nel capitolo XVI del Levitico. Qui però l’accento cade interamente sullo scopo del sacrificio. L’uccello che continua a vivere è immerso nel sangue dell’altro, insieme con gli altri materiali, fra cui il legno di cedro e l’issopo, uno a simbolo della grandezza e l’altro a simbolo della piccolezza, a significare che l’oggetto che si tratta di purificare, è effettivamente purificato nella sua totalità. Il lebbroso guarito è asperso sette volte con quel sangue, mentre l’altro uccello è lasciato libero: «di fronte ai campi» è detto letteralmente, cioè nella pianura, verso la libertà. Dal momento che il primo uccello ha perduto la sua vita e il suo sangue per la purificazione del secondo, questo è di fatto puro e può e deve essere liberato; e dal momento che il lebbroso guarito è asperso col medesimo sangue, gli viene dichiarato che si trova ormai lontano dall’ambito della collera di Dio e che è diventato un membro libero della comunità. «L’uccello che fino a quel momento tremava quanto l’altro in mano al sacerdote, ha preso allegramente il volo»3. Il primo uccello rappresenta senza dubbio la risurrezione, la grazia di Dio rivolta verso l’uomo, la libertà che ha ricevuto, la vita che gli è stata restituita, insomma la purificazione e il rinnovamento in vista dei quali deve certamente morire in modo radicale. Lui, l’uomo? Anche qui, l’identità dell’uomo messo a morte e risuscitato non può essere indicata con una sola immagine, così come, in Lev. XVI, l’identità fra l’essere sacrificato e l’altro. Nel rito descritto da Lev. XIV, come nelle storie cui quel rito si riferisce, ci sono necessariamente due cose (due animali, due uomini), in rapporto alle quali l’unica realtà designata e rappresentata assume un duplice aspetto: da una parte si tratta dell’uso che è fatto della morte del primo volatile e dall’altra dello scopo a cui serve, cioè la vita del secondo. Il primo deve morire, affinché il secondo viva. Questo è anche il punto centrale della

differenziazione che compare nei racconti relativi all’elezione: ogni volta un uomo deve morire, deve essere respinto e messo da parte, affinché un altro possa vivere. Ma, ed è una buona notizia per tutti i respinti e per tutti coloro che sono stati messi da parte, l’uccello che, secondo Lev. XIV, non partecipa all’azione decisiva e che, nella prospettiva di Lev. XVI è inutile, è appunto quello che trae vantaggio dal sacrificio dell’altro. Immerso nel sangue del primo, rimasto indenne, santificato da una morte che non è la sua, è messo in libertà per confermare in modo parabolico che la purificazione del lebbroso è compiuta e che una nuova vita è cominciata per lui nella comunità. Il primo è chiaramente utilizzato in favore dell’altro, di colui che si rivela inutilizzabile. È molto chiaro: il non eletto è appunto colui che trae vantaggio dal frutto dell’elezione. Come non vederlo? Ormai Caino, Ismaele, Esaù traggono beneficio da un diritto ancora più grande di quello menzionato in Lev. XVI; sono loro che, alla luce di Lev. XIV, diventano i testimoni della risurrezione; la promessa destinata all’uomo situato a destra si compie senza dubbio nell’uomo situato a sinistra; l’individuo elevato da Dio nell’elezione si trova abbassato fino alla morte, affinché l’individuo abbassato da Dio nella reiezione sia elevato. Quest’ultimo non è lì semplicemente come un’ombra che serve a mettere in evidenza la luce in cui il suo compagno esiste; non gli si trova legato come per esempio Lazzaro dipende dall’uomo ricco a causa delle briciole che cadono dalla sua tavola. Qual è infatti la ricchezza dell’uomo elevato dalla sua elezione?; che altro ne può fare, se non darla, concedendo la sua vita in sacrificio, diventando povero?; serve soltanto a questo e proprio in questo consistono la grandezza e l’onore della sua elezione; muore, affinché l’altro viva. Secondo Lev. XIV, sussiste forse la minima apparenza di un’ingiustizia di Dio nei confronti dei non-eletti, nell’immagine del secondo uccello che prende il volo verso la libertà a prezzo del sangue del primo? Se i non-eletti, gli esclusi, i reietti restano nell’ombra, affinché la luce della grazia di Dio illumini gli eletti (Lev. XVI), Lev. XIV ci insegna che è appunto questa l’ombra (il deserto, il regno di Azazel) nella quale questa luce brilla e si diffonde. L’uomo riconosca con gratitudine la sua elezione nell’immagine del primo capro di cui parla Lev. XVI: veda in esso il segno della sua vocazione a dare se stesso, a rinunciare a se stesso, a subire il giudizio della collera di Dio (che è il fuoco del suo amore), come solo un eletto può esserlo. Ma con la medesima gratitudine riconosca la sua non-elezione nell’immagine del secondo uccello di cui parla Lev. XIV: veda in essa il simbolo della vita alla

quale è destinato, e che nasce dal sacrificio del suo partner eletto, il segno della risurrezione in vista della quale l’eletto deve affrontare la morte. Dopo questa analisi delle differenze tipiche dei due testi, occorre tornare alla loro interdipendenza interna ed alla sostanza che hanno in comune: entrambi parlano della volontà di Dio nei riguardi dell’uomo; entrambi illustrano la strada che si imbocca per avvicinarglisi; entrambi attestano che Dio destina l’uomo alla morte ed alla vita: prima alla morte e poi alla vita. La morte è il salutare giudizio di Dio, necessario al compiersi del suo progetto di grazia nei confronti dell’uomo e rappresentante in tal modo il suo amore per lui; è il giudizio per mezzo del quale l’uomo è purificato e attraverso il quale è condotto alla vita; è il sacrificio voluto, ordinato e gradito da Dio, nel contesto della sua bontà verso l’uomo. A questo significato unico della morte, si oppone il duplice significato che i nostri testi danno alla vita: può essere la vita senza speranza dell’uomo che non è degno della morte e si trova privato della salvezza che la morte opera; può essere la vita nuova e libera dell’uomo ritenuto degno della morte, che ha attraversato per la sua salvezza. Ma nell’uno e nell’altro testo, la morte e la vita si riferiscono ogni volta al solo e medesimo uomo e a quel che per lui significa la comunione con Dio. Si nota subito l’incomprensibilità totale della realtà attestata dai due capitoli in questione: non conosciamo infatti esplicitamente la morte, di cui qui è questione come di un’opera dell’amore di Dio per l’uomo, come di una distinzione e di un onore che gli sono accordati, come di una purificazione che lo porta ad una nuova vita; non conosciamo l’uomo della cui morte bisognerebbe dire che è un sacrificio salutare e che, di conseguenza, potrebbe essere considerato come un eletto di Dio; i predicati che si riferiscono qui alla morte dell’uomo e all’uomo stesso fanno di queste due grandezze una realtà che trascende in modo assoluto la realtà che conosciamo. E bisogna dire altrettanto a proposito della vita descritta in questi due capitoli del Levitico: non conosciamo né l’uomo realmente e definitivamente respinto nel regno privo di speranza di Azazel, né l’uomo realmente e definitivamente restituito alla libertà; nel suo aspetto negativo o positivo, la vita che noi conosciamo è una realtà del tutto limitata; esattamente come nessun israelita si poteva riconoscere direttamente nel sacrificio del primo animale, nessuno era in grado di riconoscersi nel ritorno alla libertà del secondo; quanto l’immagine attesta, trascende anche da quest’altro punto di vista la realtà umana che conosciamo. Ne consegue che la realtà simbolizzata qui non può essere la dimensione

dell’uomo; la morte e la vita di cui è questione oltrepassano in modo troppo evidente i limiti umani, perché gli israeliti abbiano potuto contemplarle in altro modo che sotto forma di azioni rituali; hanno una dimensione troppo aperta perché essi abbiano mai potuto esserne coinvolti. Parimenti i racconti biblici che mettono in scena degli eletti e dei riprovati, non possono essere esaurienti. Quanto ci viene detto di questi eletti e di questi riprovati non corrisponde affatto alla morte e alla vita descritte nel Levitico: il loro destino rimanda inevitabilmente ad una realtà situata al di là della loro esistenza; questa realtà non può che essere attestata dai racconti e dai riti biblici, sotto forma di immagine; essa raggiunge cioè l’uomo soltanto sotto forma di predicazione della verità, di rivelazione di quel che gli è nascosto ed è appunto questo il significato delle storie e dei riti della Bibbia. La vita e la morte di cui abbiamo parlato, coinvolgono l’uomo attraverso la parola di Dio e solo attraverso essa; anzi, nella fede in quella Parola ed in essa soltanto. Ma la mancanza di comprensibilità appena segnalata concerne anche l’unità stessa dell’oggetto attestato. Supponiamo di conoscere la morte, questo giudizio della grazia divina, questo sacrificio pienamente salutare la cui esperienza significa onore e speranza, il cui significato è l’elezione dell’uomo condannato; supponiamo ugualmente di conoscere l’uomo la cui vita è stata purificata dalla lebbra, l’uomo che era sotto il dominio di Azazel e che è destinato al regno della libertà; in che modo potremmo dunque riconoscere noi stessi nell’una e nell’altra di queste realtà?; se la grazia di Dio consente all’uomo di morire, come può ancora vivere in seguito, sia nel regno di Azazel, sia nel regno della libertà?; e se gli è consentito di vivere per mezzo di quella stessa grazia, in un primo tempo nelle tenebre e nella disperazione, poi nella luce e nella gioia, perché deve in seguito morire?; il rito del giorno delle espiazioni e il rito della purificazione del lebbroso erano così collegati per l’israelita, da non potere pensare all’uno senza pensare all’altro? Che in questo caso noi abbiamo a che fare con una sola e medesima realtà, in virtù della quale l’uomo è destinato contemporaneamente a morire e a vivere, è un fatto non meno oscuro della grazia di quella morte e di quella vita. Questo ci indica ancora una volta in che misura la cosa significata vada oltre il campo della nostra conoscenza; ma dall’impossibilità di immaginare l’unità della realtà di cui è questione, deriva che questa realtà ci deve essere attestata per lo meno con l’aiuto di due immagini; a rigore, anzi ce ne sono quattro. Non possiamo infatti discernere questa morte e questa vita con la mediazione di una sola immagine; dobbiamo ascoltare due parole diverse e siamo invitati a farlo dai

nostri due capitoli con il loro messaggio centrale diretto ogni volta in senso opposto; la prima parola, relativa alla morte, rinvia al passato, alla vita perduta che è stata abolita per mezzo di questa morte; la seconda, anch’essa relativa alla morte, annuncia l’avvenire, la vita nuova creata e acquisita per mezzo di quella medesima morte. Ognuna delle due parabole però designa anche, ogni volta, due grandezze di cui l’una attesta la morte salutare e l’altra attesta sia la vita vecchia e perduta, sia la vita nuova ritrovata. I racconti relativi agli eletti e ai riprovati (cui si riferiscono i riti sacrificali di cui parliamo) non sfuggono a questa dualità; perciò sono essi stessi testimonianze, confermate e ripetute per così dire dalla testimonianza parallela del Levitico, designanti qualcosa che va al di là della loro portata; ogni volta, un certo personaggio vi compare soltanto come un eletto che Dio utilizza e ogni volta un altro personaggio vi si trova in veste di respinto che non serve a nulla; ma anche si verifica sempre quell’incrociarsi che capovolge la situazione e indica che Dio si interessa all’improvviso in modo positivo a coloro che sono lasciati da parte. A dire il vero, le testimonianze relative all’elezione e alla riprovazione sono molto fluide nella Bibbia e non ci consentono di identificare in modo troppo superficiale gli eletti o i ripiovati con questi o quei personaggi storici. Rimangono testimonianze che vertono su due grandezze diverse e in cui è questione, col medesimo rigore che nel Levitico, di una discriminazione molto seria: Caino non è Abele, Giacobbe non è Esaù e Rachele non è Lea; ma» in ognuno di questi individui, ogni volta è l’elezione di Dio che si manifesta in quanto agente di differenziazione. In definitiva, come le azioni che Lev. XIV e XVI ricordano, i racconti biblici relativi all’elezione possiedono un carattere provvisorio. Pertanto, nel problema che ci interessa, l’Antico Testamento nella sua globalità si rivela come una sola e unica testimonianza di una sola e unica realtà, di cui si può semplicemente dire in modo positivo, se ci si attiene a questo libro, che è ciò di cui testimonia, che è il suo oggetto specifico. Ci troviamo così di fronte ad un enigma connesso da un lato alla mancanza di comprensione della vita e della morte dell’uomo di cui parlano i riti del Levitico ed i racconti di elezione della Genesi commentati da quei riti; d’altro lato quest’enigma è connesso con la mcncanza di comprensione dell’unità di quest’uomo. Dato che il commento fornito dai riti di sacrificio sottolinea il fatto che l’oggetto dei racconti di elezione è quest’uomo messo a morte e vivente, non può certo eliminare l’enigma della sua vita e della sua morte; al contrario, l’esistenza di tale duplice enigma nei racconti di elezione è

definitivamente confermata dal commento dei riti di sacrificio. Questi dati ci pongono di fronte ad una decisione da prendere. O l’oggetto della testimonianza veterotestamentaria è per noi una grandezza sconosciuta (ed allora ciò può significare che, per una ragione qualsiasi, ci rimane nascosto: o perché non si è ancora fatto conoscere, o perché, essendosi fatto conoscere, ci è sfuggito; ma può anche significare che non esiste affatto, cioè che l’Antico Testamento, in definitiva non ha oggetto, che la sua testimonianza verte sul vuoto, che in una parola non c’è nulla e che non bisogna cercare nulla dietro le storie e le immagini di questo libro, così come non bisogna cercare nulla dietro i messaggi di salvezza o di rovina dei suoi profeti). Oppure l’oggetto della testimonianza veterotestamentaria si riferisce alla persona di Gesù Cristo (così come è stato visto, interpretato e predicato dagli apostoli, in quanto si è rivelato e presentato a loro in questo modo). La decisione a favore dell’una o dell’altra di queste possibilità non è una decisione esegetica, bensì una questione di fede, distinta dall’esegesi, sebbene inevitabilmente posta dall’esegesi stessa; quale che sia la risposta che si dà a questo problema, dovrà essere in definitiva l’ultima parola dell’esegesi; e questa potrebbe anche essere un «non è affatto chiaro». Se ammettiamo che occorre dare al problema una risposta positiva, riconosciamo che la scienza biblica e cristiana del passato ha visto con ragione in Lev. XIV e XVI, come nei racconti di elezione della Genesi, delle profezie di Gesù Cristo, delle immagini e delle storie che hanno il loro significato e il loro compimento in lui. Fin qui non abbiamo seguito questo tipo di esegesi, poiché abbiamo cominciato col lasciar da parte il nome di Gesù Cristo, limitandoci a lasciar parlare i testi dell’Antico Testamento che, di per sé, non possono articolare questo nome; ma se utilizziamo fino in fondo questo metodo, finiamo col constatare che quei testi ci pongono in definitiva davanti ad un enigma: l’oggetto di cui parlano è inintellegibile, cioè impossibile da afferrare nel contesto degli avvenimenti e delle prospettive dell’Antico Testamento; benché esso stesso si presenti come una realtà umana, trascende infatti in tutti i modi l’insieme della realtà umana. Non possiamo certamente dire: ci troviamo sì davanti ad un enigma, ma conosciamo il nome di Gesù Cristo che (secondo la testimonianza del Nuovo Testamento) è la sostanza stessa e la chiave di tale enigma; è lui che, in quanto mistero rivelato, occupa il luogo in cui l’esegesi si deve fermare e pronunciare la sua ultima parola; in lui infatti si urta contro l’oggetto di cui parlano i testi veterotestamentari, che lo rivelano come colui che sta di fronte ad essi; conseguentemente questi testi sono una

profezia di Gesù Cristo. Non è certo così. Dobbiamo piuttosto riconoscere che una conclusione così raggiunta non sarebbe costrittiva, in quanto l’enigma (la cui spiegazione deve essere il solo risultato sicuro dell’esegesi), potrebbe, malgrado quel che sappiamo di Gesù Cristo, essere ugualmente risolto in un modo del tutto diverso e potrebbe eventualmente perfino essere privo di oggetto reale; soltanto la decisione positiva della fede in Gesù Cristo (il solo modo di essere certi di lui, così come veramente è) può stabilire la fondatezza dell’esegesi cristiana che, fin dall’antichità, ha visto nei testi dell’Antico Testamento delle profezie di Gesù Cristo; è attraverso la decisione positiva della fede, che esclude l’incredulità, che questa esegesi diventa non solo possibile, ma si impone come necessaria. Come potremmo credere in Gesù Cristo senza essere obbligati a riconoscerlo come oggetto di quei testi; come, nella fede in lui, potremmo scartare l’ultima parola dell’esegesi, che designa appunto tale oggetto, cioè il nome di Gesù Cristo? Attraverso questa decisione della fede, abbiamo un vantaggio su un’esegesi che l’ignora o che crede di dover rimanere nell’aspettativa; osiamo infatti pronunciare l’ultima parola e designare l’oggetto di cui parlano i testi; senza limitarci a constatare l’enigma che pongono, possiamo indicarne la soluzione. Dobbiamo sapere esattamente quello che facciamo con quest’operazione; ci si può giustamente domandare se la Chiesa antica ne sia sempre stata consapevole; ci è però anche consentito di agire conformemente a quanto sappiamo. Accettata questa metodologia, possiamo continuare e dire: l’individuo eletto nell’Antico Testamento (cioè l’uomo qualificato, distinto e messo da parte in modo così chiaro e differenziato nei racconti e nelle immagini di questo libro) è sempre un testimone di Gesù Cristo, anzi, è il tipo del Cristo medesimo; lui, Gesù Cristo, è appunto originariamente l’individuo eletto; ogni altro personaggio lo è soltanto nella misura in cui lo rappresenta, in cui costituisce una figura che lo annuncia o lo richiama, una figura che gli appartiene, un membro importante o insignificante, forte o debole del suo corpo, un appartenente punito o benedetto, abbassato o innalzato, del suo popolo, cioè in un modo o nell’altro, un suo testimone. In questo senso è Gesù Cristo che rappresenta ognuno dei quattro animali di Lev. XIV e XVI. Abbiamo visto infatti che, per rappresentare la realtà designata da quei riti, ognuno di loro assume ogni volta un ruolo essenziale ed indispensabile; che siano parecchi, che i testi debbano menzionare ogni volta due animali che, secondo Lev. XIV e XVI hanno funzioni così diverse, significa che abbiamo a che fare con una profezia che, di per sé, non è ancora in grado di parlare del

suo compimento, cioè di Gesù Cristo; in questo senso, Gesù Cristo è il mistero rivelato di quella realtà rappresentata dalla morte e dalla vita dell’uomo nell’Antico Testamento, realtà che trascende in modo assoluto quella dell’uomo dell’Antico patto e dell’uomo in generale. Se la cosa non è evidente nei testi medesimi, ancora una volta è perché tali testi sono una profezia; non possono dunque attestare il loro compimento, come farà invece il Nuovo Testamento. L’esegesi che Calvino ha svolto su Lev. XVI è dunque corretta. «La verità di entrambe le figure è stata manifestata nel Cristo; egli è stato infatti l’agnello di Dio, la cui immolazione ha cancellato i peccati del mondo; a lui è stato tolto ogni decoro ed è stato ripudiato di mezzo agli uomini, perché fosse purificazione»4. Ecco infatti qual è il significato e qual è lo scopo dell’elezione di Gesù Cristo: nel suo onore e nella sua gloria, è l’agnello senza difetto e senza macchia, destinato fin da prima della fondazione del mondo a spargere il suo sangue prezioso (I Pt. I, 19 s.), a dare la sua vita per molti, a diventare povero affinché tutti siano arricchiti. Questo è Gesù Cristo, secondo la sua natura divina: è il Figlio eterno che riposava nel seno del Padre e che, nato dal Padre, ha rivestito la nostra carne, al fine di essere e di offrire quel sacrificio a gloria di Dio e per la nostra salvezza; sostituendosi in tal modo a noi, ha compiuto la nostra riconciliazione con Dio; assumendo questo ruolo è e deve essere lui stesso il riprovato: è condannato a prendere su di sé il peccato degli altri, come il secondo capro di Lev. XVI (e la sua chiesa crede che le è concesso e ordinato di caricarlo di tutte le sue colpe), per portarlo via e soffrire «lontano dalla porta» (Ebr. XIII, 12 s.), nelle tenebre, nel nulla, origine e dominio del peccato, a tal punto che quest’ultimo non potrà più essere né diventare un peso per nessuno. Così Gesù Cristo è (nella nostra carne, secondo la sua natura umana, in quanto Figlio di Davide) il riprovato consegnato ai pagani dal suo stesso popolo, sceso nel soggiorno dei morti, dove non può che gridare: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Dovunque si volga lo sguardo, non si vede nessun uomo che partecipi a questa gloria dell’agnello predestinato da Dio, nessun uomo che conosca quest’obbrobrio e quest’abbandono della vittima sacrificata dagli uomini secondo la volontà divina. Di più anzi: in che modo mai un solo uomo potrebbe contemporaneamente partecipare a questa gloria e a questa vergogna? È in lui, il vero Dio e il vero uomo che, in una unità perfetta, la gloria e l’obbrobrio di cui parla la Bibbia sono diventati una realtà, una sola e medesima realtà.

Parimenti gli esegeti del passato non si sono certo ingannati vedendo in Lev. XIV una profezia del compimento attestato da Rom. IV, 25, cioè del fatto che Gesù Cristo «è stato consegnato per le nostre offese ed è risuscitato per la nostra giustificazione». «Consegnato»: tale è appunto l’onore miracoloso e profondamente misterioso che è concesso al primo volatile, nel Levitico, cioè in realtà all’uomo Gesù Cristo; non perché Gesù Cristo sia impuro (è il lebbroso che è impuro, cioè tutti gli uomini, in favore dei quali quest’uomo è abbandonato e sacrificato); ma in quanto è la purezza stessa a motivo della sua obbedienza e si trova in tal modo adatto al sacrificio. È dunque con la sua purezza, nella sua umanità senza peccato che si sostituisce al ebbroso, che diventa lui stesso il lebbroso e muore della morte senza cui quest’ultimo non potrebbe essere purificato. Ma è ancora lui, e soltanto lui, che rappresenta il lebbroso guarito, simboleggiato dall’uccello lasciato in libertà; perché lui, l’uomo messo a morte, coperto dal suo proprio sangue, al fine di rivelare la giustizia perfetta e la purezza di coloro per i quali è stato sacrificato, lascia la morte dietro di sé: in virtù della sua divinità, della sua qualità di Figlio di Dio che lo distingue da tutti, risuscita dai morti (Rom. I, 4), affinché tutti possano condurre con lui una vita nuova (Rom. VI, 4). Anche qui tutto è chiaro: nessuno è stato «consegnato» come lo è stato lui e a che mai servirebbe, che qualcuno lo fosse stato?; nessuno è stato elevato come lo è stato lui e da dove mai ne prenderebbe la forza?; in che modo qualcuno sarebbe o potrebbe diventare l’uno e l’altro, cioè quest’uomo abbassato ed innalzato in maniera così radicale? È soltanto in lui, contemporaneamente vero Dio e vero uomo, che questo abbassamento e questa elevazione sono diventati realtà, una sola e medesima realtà. Chiunque pensa di dover mettere in disparte questa soluzione in quanto ultima parola dell’esegesi di Lev. XIV e XVI dovrà: o provare che esiste un’«altra» ultima parola suscettibile di spiegare meglio questi testi; oppure ammettere che non conosce qui un’ultima parola, cioè che non sa, in definitiva, di che cosa si tratti in questi testi. Tutto quanto abbiamo detto si applica ugualmente a quei racconti di elezione, di cui i capitoli XIV e XVI del Levitico sono corona. Se, in base al commento fornitone, questi racconti si riferiscono ad una sola e medesima realtà (e ad una realtà unica), l’uomo che mettono in scena e che trascende tutto quel che sappiamo per altre vie dell’umanità (quest’uomo che si trova al di là delle due figure sotto cui si presenta di volta in volta), è indubbiamente l’uomo Gesù Cristo che, in quanto tale, è Figlio di Dio. Sarebbe difficile contestare che, secondo il Nuovo

Testamento, Gesù Cristo sia contemporaneamente colui che è venuto dall’alto per tornarvi e colui che quaggiù ha subito abbassamento, colui che vive della grazia di Dio e che è segnato dalla sua collera, colui che rivendica il mondo come sua proprietà e che è misconosciuto e respinto dai suoi (e tutto ciò in quanto è volere di Dio); colui che è al tempo stesso eletto e respinto da Dio; respinto in quanto eletto, eletto in quanto respinto. Se tutto ciò è conforme all’esegesi neotestamentaria, si dovrà per forza vedere nei racconti di elezione dell’Antico Testamento una profezia del Cristo, tanto più in quanto essi mettono in scena due personaggi differenziati. In altri termini si riconoscerà Gesù Cristo sia nel tipo di Abele sia in quello, opposto, di Caino; sia nel tipo di Isacco e del suo sacrificio e sia in quello di Ismaele, l’uomo cacciato e miracolosamente preservato; sia nell’immagine delle tribù di Lea messe da parte e sia in quella delle tribù di Rachele, oggetto di un’elezione del tutto diversa; sia nell’esistenza del popolo di Israele e sia in quella, non confrontabile, dei popoli pagani esclusi eppure, fino ad un certo punto, graditi. «Sia… sia»: senza escludere; significa al contrario che dobbiamo riconoscere Gesù Cristo in modo diverso presso gli uni e presso gli altri, cioè lo dobbiamo discernere ogni volta in ognuno di questi tipi con le sue caratteristiche che gli sono inerenti. Nessuno di loro è portatore di una testimonianza identica; nessuno di loro si limita a ripetere la testimonianza dell’altro; la diversità storica tipica delle immagini che ci sono date degli individui eletti e non eletti, situati a destra o a sinistra, è evidente e nessuna esegesi saggia la può trascurare; non è consentito procedere ad un livellamento, ad una semplificazione arbitraria che miri a facilitare artificialmente la comprensione. Ma questo rispetto della diversità dei personaggi biblici è perfettamente garantito se, anche qui, l’ultima parola dell’esegesi è di fatto il nome di Gesù Cristo; se, in altri termini, comprendiamo anche qui che Gesù Cristo è l’individuo nel quale ritroviamo sia l’unità della testimonianza comune propria a tutti quei personaggi e sia quel che costituisce la loro specificità. 3. La tipologia Saul-Davide. Intendiamo illustrare adesso il problema della scelta difierenziatrice di Dio, riferendoci ad un contesto dell’Antico Testamento in cui, ancora sotto una forma storica, tale scelta si pone con acutezza notevole, cosicché tutto quanto troviamo di simile nei racconti della Genesi sembra essere semplice indicazione: si tratta dell’opposizione fra Saul e Davide, costituente il tema dei due libri di Samuele. La chiave di tutto quanto l’Antico Testamento intende dire ed attestare con la storia di questi due primi re d’Israele, la troviamo da un lato nelle

deliberazioni intercorse fra Dio e Samuele e dall’altro nelle deliberazioni siglate fra Samuele ed il popolo, descritte al cap. VIII del primo libro di Samuele. Nell’insieme delle narrazioni storiche veterotestamentarie, a partire dal primo libro di Samuele, si tratta essenzialmente dei re o piuttosto del re d’Israele; il tema fondamentale rimane però sempre l’insieme del popolo, le dodici tribù con le loro famiglie ed i loro membri, di cui i libri di Giosuè e dei Giudici hanno raccontato l’ingresso nella terra promessa e le prime esperienze ed attività in questo nuovo contesto; si preannuncia però la divisione della nazione in due regni: secondo Giud. XIX-XXI, la tribù di Beniamino, minacciata di annientamento totale eppure preservata, si oppone alle altre tribù fino al momento in cui sarà Giuda ad occupare definitivamente la posizione particolare indicata da II Sam. II, 1 ss. e da I Re XI, 13 e XII, 20. Di conseguenza mentre un tempo (malgrado il ruolo preponderante svolto da Mosè, da Giosuè, dai Giudici e, fino ad un certo punto da Samuele) la comunità nazionale costituiva il partner stesso del Dio che entra in tenzone con Israele, adesso ormai è il re che, in quanto rappresentante e capo del popolo, appare in primo piano. E la missione specifica dell’ultimo di questi capi «carismatici», consiste appunto nel proclamare e nello stabilire la nuova istituzione: è per mezzo suo che i due primi re di Israele sono «unti», diventano cioè χριστοί. Ne deriva la messa in rilievo della figura di Samuele, di cui si parla prima ancora che entri nella storia; ne deriva il contrasto che lo oppone al personaggio di Eli ed alla perversione della sua casa (I Sam. I-IV) e che significa appunto la fine di un’epoca, confermata dal fatto che perfino i figli di Samuele non sono (secondo I Sam. VIII, 1) i giudici di cui Israele ha bisogno; dai tempi dell’uscita dall’Egitto, non ci sono stati avvenimenti altrettanto considerevoli quanto l’unzione per mezzo di Samuele del primo, e poco dopo, del secondo re di Israele. Inizia una nuova epoca. Il primo libro di Samuele al cap. VIII spiega in che modo questa svolta decisiva è diventata possibile e necessaria. Non ci si deve lasciar fuorviare, nella lettura di questo capitolo, dall’impressione che l’istituzione di una monarchia umana in Israele sia contraria alla volontà divina e che sia stata in qualche modo imposta da un popolo insensato, mentre Dio l’avrebbe per così dire autorizzata di malavoglia. Non è certo questo il pensiero della tradizione che, fin dall’inizio si colloca qui, con la massima logica, sul terreno dell’idea secondo cui, fra Dio e il re, intercorre l’essenziale di quel che deve essere riferito sugli avvenimenti relativi a Dio e al popolo. Il nuovo ordine trae la sua origine non da una

modifica della volontà di Dio, ma da una rivelazione di questa volontà che fin qui era rimasta nascosta e I Sam. VIII parla di tale rivelazione. Certo: lo strumento e il porta-parola di questa rivelazione è in un primo tempo soltanto la follia del popolo che, come le altre nazioni (VIII, 5.20), desidera avere un melech che lo giudichi, lo conduca e guidi le sue guerre (VIII, 20); ben a ragione Samuele ritiene spiacevole questa domanda (VIII, 6); con più ragione anzi di quanto lui stesso pensi: infatti non è lui, ma Dio che gli Israeliti hanno respinto, così come hanno sempre fatto dai tempi dell’uscita dall’Egitto (VIII, 7 s.; X, 19; XII, 17.19). E così è pronunciato su di loro un giudizio che viene anche eseguito, quando Dio ordina a Samuele di accedere alle loro richieste (VIII, 7.22; XII, 1); «ecco dunque il re che voi avete scelto, che voi avete chiesto; ecco, l’Eterno ha messo su di voi un re» (XII, 13) con tutte le prerogative pericolose che possiede (VIII, 10 s.); «allora imprecherete contro il re che vi siete scelti, ma l’Eterno non vi esaudirà» (VIII, 18). Samuele darà dunque loro quanto desiderano, contro il suo stesso parere e conformemente alla loro empietà; non dimentichiamo però che tale decisione rimane conforme all’ordine di Dio; è la scelta di Dio, e non quella del popolo, che susciterà il re richiesto, in questo caso Saul, figlio di Kis, della tribù di Beniamino (I Sam. IXX). È significativo fin dall’inizio il fatto che, per scoprirlo, Samuele non sia mandato nella sua famiglia (come accadrà per Davide), ma che sia Saul stesso a venire dinanzi a lui e per così dire a capitargli fra le mani; Saul però sa lui stesso, esattamente, quello che fa?; sta cercando le asine di suo padre ed è lui ad essere designato dalla sorte come futuro re di Israele, dall’assemblea riunita a Mitspa. «Lo cercarono, ma non lo trovarono»; lo si deve far uscire da un nascondiglio in cui si era volontariamente eclissato (X, 20 s.); «l’Eterno non ti ha forse unto perché tu sia il capo della sua eredità? Regnerai sul popolo dell’Eterno e lo libererai dalla mano di tutti i suoi nemici» (XI, 1); «salverà il mio popolo dalla mano dei Filistei; ho visto infatti l’infelicità del mio popolo e il suo grido è salito fino a me» (X, 16). Questa è appunto la volontà positiva di Dio anche nei confronti di Saul; questo è il piano che ha per lui e che sarà eseguito in seguito punto per punto. Senza ironia e senza la minima riserva, è detto di Saul che Dio gli dà un cuore nuovo (X, 9), che lo spirito di Dio lo afferra (X, 10; XI, 6; XIX, 23); il proverbio: «Saul si trova anche fra i profeti?» (X, 12; XIX, 24) non solleva una questione da poco: Saul si trova effettivamente fra i profeti!; quelli che lo disprezzano e non gli fanno alcun regalo il giorno della sua elezione, sono persone indegne (X, 27), che devono soltanto alla sua magnanimità la fortuna

di rimanere in vita (XI, 12 s.). Saul vincerà gli Ammoniti, gli Amaleciti ed i Filistei; realizzerà perfettamente, secondo la volontà di Dio, tutto quello che il popolo aveva diritto di aspettarsi dal suo re; in tutto ciò non si comporterà mai come un empio. Si darà da fare perché Dio riceva dei sacrifici degni di lui (XI, 15; XIII, 9; XV, 21); propenderà per una grande severità cultuale, che lo spingerà quasi a far condannare a morte suo figlio Gionatan (XIV, 24.38 s.); ripulirà il paese dagli indovini e da coloro che consultano i morti (XXVIII, 9). E dopo il suo peccato, farà penitenza e implorerà il perdono, altrettanto sinceramente quanto farà Davide allorché, più tardi, quest’ultimo si troverà nella medesima situazione (XV, 24; XXIV, 17 s.; XXVI, 21 s.): «e Saul si prosternò davanti all’Eterno»; questa è la frase che termina il racconto del suo peccato più grave (XV, 31). Pensiamoci un poco: Saul è perfettamente cosciente dell’autentica regalità di Davide che ormai si preannuncia; inseguendo Davide e volendolo uccidere si pone, involontariamente certo ma tanto più chiaramente come suo testimone e di conseguenza l’annunciatore delle intenzioni più importanti di Dio (XVIII, 8; XXIII, 17; XXIV, 21; XXVI, 25); Samuele non dimentica di onorarlo proprio come re davanti al popolo, nel momento stesso in cui deve annunciare che Dio ha ritirato la sua mano da lui e gli toglierà la regalità (XV, 30 s.); Davide stesso, che Saul perseguita e minaccia, continua ad onorarlo per tutta la sua vita come unto del Signore e lo tratta in modo adeguato: non lo colpirà con la sua mano e proibirà severamente ai suoi compagni di farlo (XXIV 7; XXVI, 9 s.). Anche dopo la sua morte, Saul sarà sempre considerato come persona sacra da Davide; quest’ultimo si vendica dei presunti assassini del suo predecessore (II Sam. I, 14) e pronuncia su lui e su Gionatan un lamento solenne. «Montagne di Gelboe, non cada su di voi né rugiada né pioggia, e i vostri campi non diano primizie per le offerte! Perché lì sono stati gettati gli scudi degli eroi, lo scudo di Saul, le armi dell’unto!». (II Sam. I, 21); «figlie d’Israele, piangete su Saul, che vi rivestiva magnificamente di scarlatto, che metteva ornamenti sull’orlo dei vostri abiti! (II Sam. I, 24); a motivo di Saul, vendicherà ancora la morte di suo figlio Ischbaal (Ischboschet; II Sam. IV). Se, in questa prospettiva, si rilegge I Sam. VIII (da cui tutto quel che abbiamo visto trae origine ed in cui si racconta appunto in qual modo Israele riceve il suo primo re) non si può fare a meno di riconoscere che la grazia divina nascosta costituisce il senso e lo scopo del giudizio che la concessione divina significa, che, in una sola parola, è l’intenzione che il popolo deve servire, in tutta la sua follia ed in tutta la sua

empietà. Quanto Israele vuole e desidera (un capo ed una guida, un giudice che cammini dinanzi a lui e conduca le sue guerre) costituisce, in modo diverso da come lo pensa, la volontà e l’intenzione di Dio, prima ancora che questo popolo abbia avuto ed espresso la sua idea; questa volontà e questo pensiero di Dio saranno confermati dalla rivendicazione che è tanto dispiaciuta a Samuele al momento dell’assemblea di Rama: sono confermati alla stessa maniera in cui accade che l’uomo, nella sua follia, confermi suo malgrado il piano di Dio.

Lettera autografa di Barth a Robert Meister (da Basilea, 4 aprile 1964) (Basilea, Karl Barth-Archiv).

La perversità degli Israeliti non è legata al fatto che desiderano un re e non è per questa ragione che respingono Dio a Rama, al contrario la voce del popolo è qui la voce di Dio, che il profeta deve rispettare; la loro perversità consiste nel fatto che desiderano di avere un re diverso da quello che Dio vuole e che hanno già preso la loro decisione a questo proposito; domandano una monarchia umana, che è in opposizione alla sovranità di Dio e che in qualche modo la intende completare; pretendono un eroe e un capo fatto a loro misura, un segno della loro potenza nazionale, un simbolo della loro unità, un garante personale della loro sicurezza e delle loro ambizioni, in una sola parola, un uomo che risponde ai loro criteri di scelta. Lo si noti: non si può dire che abbiano senz’altro ricevuto a Rama quest’uomo a misura delle loro scelte; l’intera vicenda di Saul ci indica il contrario; del tutto diverso dai re abituali e in contrasto con l’ideale proclamato a Rama, Saul segue la sua strada, come un essere eletto e qualificato da Dio, come l’unto autentico designato dal profeta autentico di Dio, come un uomo consacrato e santificato

che cerca la comunione e la parola di Dio, che esegue liberamente o meno la sua volontà; così come un tempo Caino, porta un segno che proibisce a chiunque di colpirlo, di modo che la sua sorte è quella che Dio ha deciso e perfino, come per Caino, la sua morte sarà vendicata sette volte. È evidente: Saul ha anche il carattere del re che Dio ha destinato al suo popolo, contro la volontà ed il pensiero di quest’ultimo, ma per la sua salvezza. Quando si legge I Sam. VIII tenendo presente tutto ciò che segue, non si può far a meno di osservare che l’esercizio delle prerogative regali, riassunte dai vv. 11-17, pone sì in evidenza il pericolo e l’oppressione che esse implicano, ma non ha avuto un ruolo importante nella storia di Saul; quanto alle lamentele del popolo, lasciate prevedere dal v. 18 e riferentesi al peso dell’istituzione monarchica, si manifesteranno più tardi, sotto Geroboamo (I Re XII), ma nel contesto che esaminiamo, la storiografia dell’Antico Testamento non vi dà peso; pare aver considerato infatti la monarchia di Saul non come una sconfitta, ma come un segno della grazia di Dio nei confronti del suo popolo. Certo, il popolo ha commesso una «grave ingiustizia» domandando un re secondo i desideri del suo cuore: il discorso di addio di Samuele (XII, 16-23) lo sottolinea ancora con molta chiarezza; ma come l’Eterno, a motivo del suo nome, non abbandonerà il suo popolo, così Samuele ritiene di commettere un peccato contro Dio se smette di pregare per questo popolo. Tale è dunque il segno sotto cui la monarchia di Saul è posta. Già con il suo primo re, Israele ha ricevuto qualcosa di completamente diverso e di migliore di quello che avrebbe potuto desiderare; dandogli il re Saul, Dio non gli ha restituito il bene per il male; gli ha accordato la monarchia che era annunciata e prefigurata nel passato da Mosè, Giosuè e dai Giudici e che un giorno avrebbe preso una forma visibile. Secondo i piani di perdono di Dio e non secondo i sogni orgogliosi dell’uomo. Naturalmente però non si può contestare, dopo aver preso in considerazione I Sam. VIII e soprattutto quel che segue, che la figura di Saul sia in ombra, malgrado la luce che l’avvolge. Saul non è ancora il vero re di Israele; certo, per un momento sembra avere l’occasione e la possibilità di esserlo; benché formalmente nata da una «grave ingiustizia», la sua monarchia non esclude che il monarca e il popolo possano temere il Signore e servirlo fedelmente con tutto il loro cuore. «Vedete infatti quali meraviglie ha compiuto fra voi!» (XII, 24); queste meraviglie includono senz’altro, secondo il contesto, l’elezione e l’incoronazione di Saul; a motivo della grazia che è il fondamento della sua monarchia, questa dovrebbe finalmente dare inizio ad un’era in cui si teme Dio e lo si serve in modo del tutto nuovo. «Ma se fate il

male perirete, voi e il vostro re» (XII, 25). È chiaramente escluso che Saul di fatto possa fare un buon uso dell’occasione e della possibilità che gli sono offerte; la sua monarchia incarna il male che provoca il castigo; Saul è condannato a essere semplicemente il sostituto di Davide, il vero re, a cadere e a preparare fin dall’inizio la sua caduta: tutto ciò è evidente e necessario per la storiografia dell’Antico Testamento, che lo considera come voluto e ordinato da Dio, esattamente come la monarchia stessa, istituita in occasione della «grave ingiustizia» di cui l’intero popolo si è reso colpevole. La santità di Dio esige che la rivelazione della sua grazia che trionfa sul peccato umano non sia disgiunta dalla rivelazione del suo giudizio su tale peccato, nella fattispecie sulla «grave ingiustizia» commessa; lo strumento della rivelazione della grazia di Dio è, da questo punto di vista, la persona di Saul, il Beniaminita; non ci si deve nascondere che i peccati di cui Saul è autore e per i quali Samuele, secondo la sua missione divina gli annuncia che ha definitivamente perduto la sua condizione di re, sono in fondo dei peccati «microscopici»: oggi ancora soffochiamo con una certa fatica il sentimento di simpatia e di approvazione che ci coglie quando consideriamo quelli che la Bibbia chiama i peccati di Saul. Ci viene raccontato anzitutto che il re offre lui stesso l’olocausto che deve segnare l’inizio della campagna contro i Filistei, perché questi ultimi sono già in marcia contro gli Israeliti e Samuele tarda ad arrivare. Risposta di Samuele: «Il tuo regno non durerà. L’Eterno si è scelto un uomo secondo il suo cuore e l’Eterno lo ha destinato ad essere il capo del suo popolo, perché non hai osservato quel che l’Eterno ti aveva ordinato» (XIII, 14). In secondo luogo ci viene detto che Saul non ha eseguito completamente il giudizio di interdetto contro gli Amaleciti: ha lasciato in vita il re Agag e, con il popolo, ha risparmiato la parte migliore del bestiame preso al nemico. Ascoltiamo il racconto della morte di Agag: «Poi Samuele disse: conducetemi Agag, re di Amalek! E Agag avanzò verso di lui con aria allegra; diceva: certamente, l’amarezza della morte non sussiste più. Samuele disse: come la tua spada ha privato molte donne dei loro bambini, così tua madre sarà, fra le donne, privata di un figlio. E Samuele fece squartare Agag davanti all’Eterno, a Gilgal» (XV, 32 ss.). Non è forse concesso ad Agag, questa figura due volte oscura, di annunciare per un attimo la vittoria sulla morte, di essere un testimone della risurrezione e questo in modo del tutto diverso rispetto al suo partner profetico?; a che gli giova però?; e a che giovano al re Saul tutte le spiegazioni, tutte le scuse, tutti i pentimenti e tutte le preghiere, poiché non ha agito al momento opportuno come Samuele agisce adesso? La risposta di

quest’ultimo, cioè la risposta di Dio al comportamento di Saul, è la seguente (e non si ha il diritto di amputarla nemmeno in minima parte): «L’Eterno prova piacere negli olocausti e nei sacrifici, come nell’obbedienza alla sua voce? Ecco, l’obbedienza vai meglio del grasso degli animali destinati al sacrificio. E la disobbedienza è colpevole quanto la divinazione e la resistenza lo è quanto l’idolatria e l’adorazione degli dei domestici. Poiché hai respinto la parola dell’Eterno, anch’egli ti respinge come re» (XV, 22 ss.). «E Samuele non andò più a trovare Saul fino al giorno della sua morte; poiché Samuele piangeva su Saul» (XV, 35). Questi pianti di Samuele su Saul sono come l’ultimo raggio di luce che avvolge la figura del re. Osserviamo che i due peccati riferiti dal narratore biblico mettono in evidenza tutto quel che può essere rinfacciato a Saul. Poiché quando è detto, più oltre, che lo spirito dell’Eterno si allontanò da lui e che uno spirito malvagio, mandato dall’Eterno, lo agitava (XVI, 15; XVIII, 10); quando diventa chiaro che questo spirito malvagio eccita la gelosia e l’odio del re decaduto contro Davide, che più di una volta rischia di essere assassinato dal suo persecutore; e quando, per finire, questo stesso spirito malvagio fa di Saul il vero assassino dei sacerdoti di Nob (XXII, 6 ss.), nella linea della tradizione biblica, tutto ciò non appartiene più al peccato a causa del quale quell’uomo è stato respinto, ma viene considerato effetto di tale riprovazione. Poiché lo spirito dell’Eterno si è allontanato da lui e uno spirito malvagio mandato da Dio lo tormenta, Saul trascende e finisce per rivolgere la sua aggressività contro se stesso, non senza talvolta ripudiare i suoi atti davanti a Davide (XXIV, 17; XXVI, 21 s.), non senza l’ardente desiderio di udire, attraverso la mediazione di Samuele morto, la parola di Dio che gli viene rifiutata, finché alla fine si suicida, oscuro presagio di Giuda Iscariota, mettendo fine in tal modo alla sua corsa e a quella dei suoi figli; ma, anche dopo la sua morte, deve confermare la sua rovina e quella dei suoi, poiché la sua casa continua ad indebolirsi (II Sam. III, 1) e poiché i suoi discendenti cadono sotto i colpi della vendetta tardiva dei Gabaoniti (II Sam. XXI, 1 ss.). Di quanto il successivo peccato di Davide, a confronto con quello di Saul, è più grossolano e più flagrante! Ma il contrasto fra gli errori microscopici di Saul e il suo essere rifiutato come re assume una dimensione altrettanto grande, secondo l’intenzione consapevole del narratore, di quella che esiste fra la terribile colpa di Davide e il permanere della sua elezione. È subito chiaro, indipendentemente da tutto quello che si può dire a favore o contro Saul, che la monarchia nata dalla decisione divina a Rama (I Sam. VIII), può soltanto avere l’aspetto che riveste in Saul, se è vero che manifesta la grazia di Dio nel

suo giudizio, se è vero che rivela, con la grazia, il giudizio, la collera di Dio su ogni empietà ed ingiustizia degli uomini, se, in una parola, mette in evidenza il giudizio della grazia. Saul era «giovane e bello, più bello di ogni altro figlio di Israele e più alto di tutti, di tutta la testa» (IX, 2); è attraverso questi lineamenti, che egli corrisponde alle aspettative di Israele nei confronti del suo re; è così che può realizzare l’ideale del popolo. Ma in questa maniera è un peccatore e perciò deve cadere e morire; l’ideale popolare non può che essere distrutto perché i pensieri di pace che Dio nutre nei confronti di Israele sono manifesti, perché quel popolo deve ricevere il suo vero re come un dono; è per vivere e morire in quanto rappresentante di quest’ideale che Saul diventa re. Infatti quanto la gente desidera, quello a cui mira, desiderando una monarchia nazionale, non è soltanto qualcosa di diverso dall’unica sovranità divina: è qualcosa che si presenta come opposto ed ostile ad essa. «Voi mi avete detto: No!, ma un re regnerà su noi. Eppure l’Eterno, il vostro Dio, era il vostro re» (XII, 12). Questo «no» deve essere infranto, perché è rivelato ora il «sì» della monarchia istituita da Dio, che non entra in concorrenza con l’autentica sovranità divina; Saul deve anzitutto diventare re per mettere in evidenza quel «no» israelita ed il suo infrangersi ad opera del «sì» divino; non è necessario un peccato grossolano e particolarmente evidente di Saul per far emergere quest’aspetto negativo della grazia che la monarchia voluta e stabilita da Dio implica; è sufficiente che Saul dimostri di essere proprio il re che il popolo desidera nella sua follia. È ciò che si rende evidente appunto con la duplice caduta di Saul, microscopica da un punto di vista umano, ma gigantesca e decisiva di fronte a Dio: Saul vuol compiere il sacrificio; lui in persona vuol rappresentare il riconciliatore fra Dio e il suo popolo; pretende creare di sua iniziativa le condizioni che consentiranno agli Israeliti di resistere ai loro nemici e di sussistere senza danno nel paese della promessa, allorché, secondo l’ordine di Dio, deve cancellarsi dinanzi ad un altro e, in quell’altro, dinanzi a Dio stesso. Gli Israeliti avevano voluto un re che fosse più alto di loro di tutta la testa e che li precedesse in quella concorrenza attiva alla sovranità di Dio: è proprio quel che Saul concretizza e mette in evidenza con l’innocente fretta di cui dà prova secondo I Sam. XIII. Inoltre Saul cerca di trovare un compromesso parziale, un piccolo accomodamento con il mondo circostante, con i re e i popoli che lo circondano (e dunque anche con i loro dei) benché questo ambiente circostante si presenti a lui nella sua forma più pericolosa: il re degli Amaleciti; perciò compie

soltanto al 99 % la volontà di Dio secondo la quale la santificazione della terra promessa non poteva essere operata che al prezzo dell’annullamento totale dell’elemento straniero. Anche qui Saul risponde esattamente al desiderio degli Israeliti che volevano un re che fosse più alto di loro di tutta la testa: attraverso questa concorrenza (questa volta passiva) alla sovranità di Dio, attraverso questo «adattamento intellettuale» al mondo circostante, che solo sembrava poter rendere possibile la vita in Canaan, fisicamente e spiritualmente. Queste sono le due azioni che Saul compie in modo quasi innocente, anzi, in modo del tutto innocente. Nei due casi obbedisce ad un’intenzione umanamente del tutto lodevole ma, nei due casi, mette in evidenza la sovranità che si è resa autonoma e che, in quello che fa o lascia fare, entra in conflitto con quella di Dio: la monarchia nazionale, condannata appunto a scomparire là dove Dio aveva deciso ed era sul punto di istituire il regno della sua grazia e non il regno di quel che piace all’uomo. Poiché in entrambi i casi (sia attraverso un’attività sia attraverso una passività colpevoli davanti al comandamento di Dio) Saul rappresenta Israele e poiché quanto compie è di fatto tipico di Israele (eseguendolo in quanto re di questo popolo), è condannato a subire la reiezione come giusta punizione dei suoi peccati e lo spirito di Dio si allontana da lui per lasciare il posto ad uno «spirito malvagio», esattamente come prima lo aveva afferrato, per dargli un cuore nuovo. I peccati personali microscopici che commette, bastano ad indicare che Saul è corresponsabile della «grave ingiustizia» di Israele; è però proprio in questo che consiste la sua dignità e la sua funzione di re; Dio pone su di lui il peccato e la colpevolezza indicata da questa «grave ingiustizia», così come la punizione che ne consegue; tutto questo dramma diventa il suo dramma personale, poiché non è più fra Dio e il popolo, ma fra Dio e lui, Saul, che viene regolato e condotto alla sua conclusione. Nella misura in cui è personalmente questo re d’Israele peccatore, colpevole e punito, Saul è una figura del tutto indispensabile nell’Antico Testamento; è necessario a motivo della santità della grazia di Dio; se non esistesse un Saul con il suo «spirito malvagio» mandato dall’Eterno, un Saul consegnato all’odio che lo spinge inevitabilmente contro Davide e che in tal modo incarna tutta la ribellione di Israele, ma anche la sua impossibilità di affermarsi, la sua liquidazione attraverso la collera di Dio, non potrebbe esistere un Davide, un autentico re di Israele per grazia di Dio, cioè un monarca che non entrerà in concorrenza con Dio, il solo sovrano, ma che sarà il suo testimone umano osservando i suoi comandamenti.

Consideriamo ora l’immagine che la storiografia dell’Antico Testamento ci offre di Davide: anche qui dobbiamo costatare, come in Saul, l’esistenza di due serie diverse di indicazioni, di due tipi di caratterizzazioni o meglio di una determinazione che si muove in una duplice direzione. Davide non è al cento per cento una figura luminosa, così come Saul non è al cento per cento un prodotto delle tenebre; Davide ha un lato «Saul» così come Saul ha un lato «Davide»; sono senz’altro due personaggi, ma per afferrare esattamente quello che l’Antico Testamento ci vuole mostrare attraverso di essi, occorre distinguere chiaramente in ciascuno di loro due individui, moltiplicandoli per così dire e vedere in loro quattro personaggi, cioè quattro componenti, onde avere una visione d’insieme. In Davide l’accento cade altrove che in Saul, o piuttosto indica un capovolgimento. Che, secondo I Sam VIII, il consenso divino concernente l’istituzione di una monarchia umana in Israele implichi un atto di grazia (che senza dubbio rimane inizialmente del tutto nascosto) e non implichi un semplice abbandono (benché consista anche in questo!), che l’interpretazione di quel fatto data da I Sam. XII, 22 sia giusta:«L’Eterno non abbandonerà il suo popolo, a motivo del suo grande nome, poiché l’Eterno ha fatto di voi il suo popolo», ecco ciò di cui si dovrebbe dubitare in modo serio, se la storia di Saul fosse la storia della genesi effettiva della monarchia israelita, se, in altri termini, fosse per così dire valida in sé e indipendentemente da quella di Davide. Non se ne può tuttavia dubitare, poiché, benché indipendente all’inizio, la storia di Saul non è concepibile nel suo seguito e di fatto non ci è stata trasmessa se non in relazione con quella di Davide; e poiché inversamente la storia di Davide rimane del tutto impensabile senza quella di Saul, a cui anzi è del tutto collegata fin dall’inizic, fino alla morte di quest’ultimo e perfino oltre. Se le tradizioni relative a questi due personaggi hanno potuto essere inizialmente indipendenti, il loro significato non può però essere compreso esattamente se non viene considerato in funzione della stretta interdipendenza che le lega nel testo che abbiamo ricevuto, in cui costituiscono un insieme coerente. In base a questa prospettiva globale, Davide si è per così dire trovato fin dall’inizio all’ombra di Saul: «L’Eterno si è scelto un uomo secondo il suo cuore e l’Eterno lo ha destinato ad essere il capo del suo popolo, perché tu non hai osservato quel che l’Eterno ti aveva ordinato» (I Sam. XIII, 14). «Già un tempo, quando Saul era nostro re, eri tu che conducevi e riconducevi Israele. L’Eterno ti ha detto: Pascerai il mio popolo e sarai il capo di Israele» (II Sam. V, 2): questa è la rivelazione che Davide riceve al momento del suo

insediamento come monarca, a Hebron. Ma all’inizio, e ancora per molto tempo, questo non risulta evidente; Davide non corrisponde all’ideale popolare, non è il più bello dei figli di Israele, non è più alto di loro di tutta la testa, non è l’uomo che il popolo applaude a prima vista, come è il caso di Saul (I Sam. X, 24); se le donne cantano mentre danzano: «Saul ha colpito i suoi mille e Davide i suoi dieci mila», questo si riferisce alla sua gloria militare e non alla sua futura condizione regale. I segni stessi di questa condizione rimangono d’altronde inizialmente e per lungo tempo nascosti al popolo; l’uomo che raccomanda Davide a Saul come capace di consolarlo nei suoi momenti di sconforto («Ecco, io ho un figlio di lesse, Betlemita, che sa suonare; è anche un uomo forte e valido, che parla bene e che ha un bell’aspetto e l’Eterno è con lui»: XVI, 18) non sa che le sue parole, e soprattutto l’ultima, descrivono i segni in base ai quali si riconosce il re scelto da Dio; e se capita che Gionatan (I Sam. XXIII, 17), Abigal (XXV, 28), Saul stesso (XXIV, 21) e (non senza tradimento) il suo capo di guerra Abner (II Sam. III, 17) parlino di Davide come del futuro re di Israele, si tratta di intuizioni e di dichiarazioni profetiche. Quanto caratterizza la sua sovranità è di essere completamente ignorata dagli uomini all’inizio e per un periodo abbastanza lungo; questo incognito (nel caso specifico il fatto che Saul sia inizialmente messo in luce rispetto a Davide) ricorda le circostanze nelle quali Giacobbe preferisce Rachele a Lea, la cui tribù si cancella in seguito completamente davanti a quella di Beniamino; è soltanto davanti a Dio che Betlemme e Giuda, nella persona di Davide, emergono in primo piano e certo, dal punto di vista di Dio, è questo un fatto molto importante! È necessaria una missione speciale di Samuele (I Sam. XVI, 1 ss.); poiché inizialmente e secondo la volontà di Dio, la sorte aveva designato la tribù di Beniamino e, in quella tribù, Saul (X, 20 ss.), di modo che Samuele aveva potuto dire al popolo: «Vedete colui che l’Eterno ha scelto? Nessuno, fra il popolo, gli assomiglia!» (X, 24); e quando già si trova a Betlemme, in casa di lesse e dei suoi figli e scorge Eliab, il primogenito, i suoi pensieri si orientano una volta ancora, nel senso abituale, nel senso di Saul: «Dice fra sé: Certamente è lui, il principe dell’Eterno, il suo unto». Ma deve lasciarsi richiamare: «Non prendere in considerazione la sua apparenza e l’altezza della sua statura; io non voglio lui. Il metro di Dio non è quello dell’uomo; l’uomo bada a quel che colpisce gli occhi, ma l’Eterno considera il cuore». La stessa scena si ripete a proposito dei sette figli di lesse, fino al momento in cui sarà chiaro che l’Eterno non ha scelto nessuno di loro, fino a quando non arrivi l’ultimogenito, Davide, che

sono andati a cercare al pascolo cui ha condotto le pecore di suo padre. In quel momento è detto a Samuele: «Alzati, ungilo, perché è lui!» (Sam. XVI, 6-12). Le circostanze straordinarie della sua elezione, sono ancora ricordate a Davide nel grande discorso di consacrazione, seguito da promesse, del profeta Nathan: «Io ti ho preso al pascolo, dietro alle tue pecore, perché tu divenissi capo del mio popolo, di Israele» (II Sam. VII, 8). E si potrebbe citare anche il fatto che Davide trionfa su Golia non con le armi tìpiche del soldato, che sono troppo pesanti per lui, ma con gli attributi del pastore: il bastone, la bisaccia e la fionda (I Sam. XVII). Perché proprio lui? In base alla tradizione, occorre rispondere: perché figlio di lesse, semplice e modesto pastore, non è certamente in grado di diventare il potente re di Israele; perché appunto non corrisponde all’immagine ideale che il popolo aveva in vista a Rama e che è stata concretizzata da Saul; perché non è assolutamente in grado di soddisfare le esigenze dell’elezione, volute dagli uomini, di un re terreno. Il significato è questo: perché non era affatto, lui Davide, il re la cui figura e la cui esistenza significassero la negazione e il rifiuto della sovranità di Dio su Israele. O per dirlo in positivo: in quanto era l’uomo il cui cuore (non la sua mentalità e il suo carattere, ma il suo essere reale, quale Dio lo ha visto o piuttosto previsto nella sua onnipotenza) è stato creato di nuovo; infatti è soltanto in qualità di semplice pastore, cioè in quanto esercita il mestiere più umile e l’autorità più dipendente, la più terra-terra e la più insignificante, che può essere anche il pastore di Israele. È lui, il pecoraio senza prestigio che Dio, nella sua grazia, aveva in vista, concedendo a Samuele di rispondere alla folle esigenza del popolo! In questa prospettiva è opportuno ormai intendere la carriera e la personalità di Davide, in quanto re d’Israele, eletto inizialmente in maniera segreta e poi in piena luce. Davide deve appunto cominciare coll’attraversare quel lungo periodo caratterizzato dall’incognito. Non ha diritto di fare nulla, per abbreviarlo: preferisce farsi espellere presso i pagani, nel sud del paese; preferisce servire i Filistei (XXI, 11 s.; XXVII, 1 s.; XXVIII, 1 s.; XXIX, 1 s.), piuttosto che seguire la via della rivolta contro il governo di Saul; preferisce esporre se stesso continuamente alla morte, piuttosto che spargere il sangue del re decaduto. È necessario che mantenga questo rispetto per Saul, l’unto del Signore, durante tutta la vita di quest’uomo e anche dopo la sua morte; è necessario in quanto è l’eletto di Dio, in opposizione ad ogni elezione fatta dagli uomini e dunque ad ogni autoelezione, perché non può cercare ma soltanto trovare e ricevere di fatto la sua conferma da parte degli uomini, solo

nel momento in cui essa sarà anche la conferma da parte di Dio; è inoltre necessario che sia perseguitato a morte da Saul, da colui che incarna (d’altronde incaricato da Dio) la monarchia secondo Israele; è necessario che sia costantemente strappato come per miracolo alla sorte che gli è riservata. «Non c’è che un passo fra me e la morte» (XX, 3); «il re di Israele è uscito alla ricerca della mia vita, come si andrebbe a caccia di una pernice in montagna» (XXVI, 20); è necessario esattamente come la condanna di Gesù da parte di Pilato, che non può fare nulla senza averne ricevuto il potere. Poiché è soltanto nella dimensione di un uomo condannato a morte e liberato da Dio da quest’angoscia, che Davide conferma attraverso la sua esistenza la decisione di Dio in forza della quale deve diventare il capo del popolo d’Israele, anch’esso continuamente consegnato alla morte e costantemente strappato al suo dominio. È anche necessario che, non soltanto per quel che riguarda Saul, ma anche in modo generale, Davide non si renda colpevole di nessun spargimento di sangue, come traspare anche nelle sue ultime parole (I Re II); deve rappresentare nella sua persona il re eletto da Dio, anche per il fatto che lascia veramente a Dio solo l’incarico di vendicarlo dei suoi nemici; il fatto che finisca per dar ordine di far morire Joab, il suo aiuto più fedele, in quanto è ricoperto dal sangue di un altro e che quest’ultimo sia sepolto nel deserto, appartiene a questo contesto (I Re II, 34). In breve, è necessario che l’esistenza di Davide presenti tutta una serie di caratteristiche che, malgrado tutte le somiglianze evidenti, non richiamino affatto le caratteristiche del melek orientale dell’epoca. Per toccare il cuore della realtà che, nel senso della tradizione, fa di Davide un tipo di eletto sprigionante luminosità, è sufficiente pensare al dialogo continuo in cui Davide si trova impegnato con Dio, a quella ricerca di Dio (menzionata per esempio in I Sam. XXIII, 2 s.; XXX, 8; II Sam. II, 1; V, 19 s.) il cui risultato, a differenza di quanto avviene per Saul, è sempre positivo e salutare. Che Dio sia con lui, come è affermato qui (I Sam. XVI, 18) e molto spesso altrove, è l’indicazione più semplice e più completa del suo essere messo da parte in quanto re: un’anticipazione dell’«Emmanuele», il nome messianico di Is. VII, 14. Nello stesso senso va menzionata la turbolenta processione (descritta in II Sam. VI) che accompagna il trasporto dell’arca a Gerusalemme dove, al suono «di ogni genere di strumenti di legno di cipresso, di arpe, di liuti, di tamburini, di sistri e di cembali», Davide, a capo del popolo, «balla con tutta la sua forza davanti all’Eterno, avvolto da un efod di lino» e il

testo che ci fa sapere che Mical, sua moglie, figlia di Saul, è colpita da sterilità per averlo disprezzato. «Voglio danzare davanti all’Eterno! Sia benedetto l’Eterno che mi ha scelto a preferenza di tuo padre e di tutto il suo casato, per stabilirmi quale capo sul popolo dell’Eterno, su Israele. È davanti all’Eterno che io voglio danzare! E voglio sembrare di ancor più bassa condizione e abbassarmi ai miei stessi occhi; tuttavia sarò onorato dalle donne di servizio di cui tu parli!» (VI, 21). Nulla riesce a spegnere l’entusiasmo che qui si manifesta e che ha la sua giustificazione in se stesso; riappare la legge che presiede alla vita di Davide: abbassamento e elevazione; il disprezzo non può che incitarlo ad abbassarsi ancora, pur facendogli proseguire il suo cammino ininterrotto verso la gloria, mentre, parallelamente, Saul procede a passi regolari verso la morte. Si può ormai vedere anche nel prestigio di Davide che per così dire nasce dall’ombra e si trova posto in piena luce, l’effetto di una medesima necessità interna. Ovviamente non bisogna tralasciare le qualità morali; certo, fin dall’inizio, ci viene detto che Davide era «un uomo forte e valido, un guerriero»; ma la tradizione ci informa, al tempo stesso, che sapeva suonare l’arpa, che era una specie di cantore di Dio, come lo indica il racconto della sua danza davanti all’arca: se ne può dedurre che, per la tradizione, queste qualità sono più importanti delle virtù militari e dell’eloquenza, di cui non sarà più questione, in modo particolare, in seguito. L’immagine che si sprigiona da I Sam. XVI, 23, è l’immagine di Davide che precede Saul, di Davide che domina Saul, di Davide il re autentico per grazia di Dio, di Davide in opposizione al suo precursore e sostituto: «Così, ogni volta che lo spirito di Dio tormentava Saul, Davide prendeva l’arpa e suonava; Saul allora respirava più tranquillo ed era sollevato e lo spirito malvagio si allontanava da lui». Può anche essere evocata la scena sinistra del capitolo XVIII, 10 ss. in cui, in una circostanza analoga, Saul afferra la sua spada per inchiodare Davide al muro. «Ma Davide l’evitò due volte; poiché l’Eterno era con Davide e si era allontanate» da Saul» (v. 12). Osserviamo che nel primo caso il contrasto è piacevole e tranquillo e nel secondo atrocemente comico, però i due quadri si completano. E non è con la spada, ma con l’arpa in mano che l’eletto ci è presentato dalla tradizione come un uomo giustificato: il re per grazia di Dio ha la meglio sul re per grazia di Israele, ora incarnando davanti a lui la misericordia divina, ora ponendo in rilievo il suo peccato ma anche la sua impotenza; nei due casi si tratta di Davide il musico. Per questo motivo, il fatto che si siano attribuiti a Davide non meno di 73 (85 secondo la versione dei Settanta) fra gli inni contenuti nel libro canonico dei Salmi, è molto più

interessante del problema da bibliotecario secondo cui ci si dovrebbe domandare con che diritto si è osato farlo. Se ammettiamo senza problemi che verosimilmente solo la metà dei nostri Salmi sono anteriori all’esilio e solo un infimo numero fra di essi può risalire all’epoca di Davide e perfino se ammettiamo e prendiamo in considerazione la possibilità che forse non abbiamo a che fare con un testo attribuibile alla mano di Davide in nessuno di questi ultimi, questo stesso fatto ci parla in modo ancor più chiaro ed evidente; ci dice: a partire dall’epoca di Davide e man mano che ci si allontanava da essa, la comunità cultuale israelita si è riconosciuta sempre più legata al suo secondo re, il vero re di Israele ed è anche chiaro che si è per così dire identificata con lui quando, attraverso i suoi canti e la sua musica, voleva e intendeva magnificare e adorare appunto lo splendore di Dio secondo il suo genio specifico, ripudiante ogni rappresentazione della divinità. Ma questo cantore di Dio è anche il guerriero senza pari che Dio manda e arma, come è esemplarmente mostrato dalla storia del suo incontro con Golia: «Tu cammini contro di me con la spada, la lancia e il giavellotto; ed io cammino contro di te nel nome dell’Eterno degli eserciti, del Dio dell’esercito di Israele che tu hai disprezzato» (I Sam. XVII, 45). «E lo uccise senza avere alcuna spada in mano» (XVII, 50). Bisogna ricordarsene, quando si viene in seguito a sapere dei successi militari di Davide: anzitutto al servizio di Saul (XVIII, 5); poi come capo dei franchi tiratori e dei mercenari al servizio del principe dei Filistei (XXVII, 8 s.); poi come principe vassallo di Tsiklag contro gli Amaleciti che sconfigge (in maniera così completa che non si parla più di essi in seguito, nell’Antico Testamento) il giorno stesso in cui, secondo la tradizione, sulle montagne di Gelboe si definisce in maniera irrevocabile il destino di Saul, che aveva risparmiato quel popolo, nella sua battaglia persa contro i Filistei (XXX, 1 ss.); poi, dopo esser salito sul trono, come conquistatore di Gerusalemme (II Sam. V, 6 s.); ed infine come vincitore dei Filistei medesimi (v. 17 ss.) e (secondo la visione imperiale del cap. VIII di II Sam.) dei Moabiti, degli Edomiti e di tutti gli altri popoli. Che Dio combatta per Israele e che l’israelita si serva tuttavia validamente della spada, ubbidendo soltanto all’ordine di Dio e confidando completamente in lui, non costituisce contraddizione, come già mostrano i vecchi racconti di Es. XVII, 8 ss. Le due cose sono talmente integrate, in Davide, che non si possono separare: nondimeno, nel modo in cui la tradizione le ha coordinate, la decisione non procede mai dalla spada di Davide e non è mai presentata come il risultato delle sue qualità di capobanda o di re; proviene da Dio e mette in

luce Dio, Dio di cui Davide conduce le guerre per la salvezza di Israele, che non è il suo popolo, ma il popolo di Dio. Il fatto che Davide si cancelli in quanto capo di esercito per far posto a Joab e abbia soltanto un ruolo passivo, in fin dei conti, nella campagna contro gli Ammoniti (II Sam. X), che costituisce lo sfondo su cui avviene la sua caduta (II Sam. XI-XII), così come nella repressione della rivolta di Assalonne (II Sam. XV-XIX) e di Sceba (II Sam. XX), è altrettanto caratteristico della sua gloria quanto la sua precedente attività di guerriero. Evidentemente la tradizione intende affermare due cose su di lui: è stato il guerriero più forte che sia mai esistito; e tuttavia non è stato un guerriero, ma un semplice spettatore delle guerre di Yahvé, tant’è vero che rimane un personaggio incomprensibile e inutilizzabile per il militarismo del mondo come oer il pacifismo profano, senza un rapporto stretto sia con la predicazione di una fiducia in Dio puramente passiva e sia con quella di una fiducia in sé, partendo dalla quale l’uomo cercherebbe di darsi da fare da solo, per far valere i suoi diritti e per difenderli. Notiamo infine che la più importante delle sue azioni militari è appunto la meno spettacolare fra tutte, cioè la conquista di Gerusalemme. Questa città era infatti un vecchio agglomerato situato in disparte e politicamente in decadenza, che né la situazione geografica né la storia destinavano a ricoprire un ruolo considerevole; era sfuggito fino ad allora all’accupazione generale del paese, come se fosse stato dimenticato e (secondo II Sam. V, 6 s.) Davide l’ha conquistato non per Israele e nemmeno per Giuda, ma per se stesso, per farne la sua città; si osserverà che in quest’occasione egli è ancora una volta, e chiaramente per l’ultima, al comando del corpo di cui è stato il capo fino al suo avvento sul trono. Non è dopo la morte di Saul (II Sam. I, 1 s.), né dopo la sua elezione da parte della tribù di Giuda (II Sam. II, 4 s.), e neppure dopo la sua investitura e la sua unzione da parte dell’insieme d’Israele (V, 1 s.), ma soltanto dopo la conquista e l’occupazione di quell’inaccessibile Gerusalemme, che Davide riconosce infine «che l’Eterno lo confermava come re di Israele e che elevava il suo regno a causa del suo popolo d’Israele» (V, 12). È proprio da questo terzo sito per così dire neutro (cioè in quanto re che ha il suo trono nella sua città di Gerusalemme) che diventa al tempo stesso re di Giuda e d’Israele. Ed ecco che, nei documenti narrativi posteriori, si assiste ad uno spostamento del tutto straordinario dell’accento principale, nel senso che (secondo passi quali I Re XI, 13.32.36; XIV, 21; II Re XXIII, 27) non è Davide ma Gerusalemme ad essere espressamente designata come l’autentico oggetto

dell’elezione divina, in quanto luogo in cui abita il nome di Dio. Ecco infatti quel die si può leggere in I Re VIII, 16: «Io ho scelto Gerusalemme perché vi fosse edificata una casa in cui abitasse il mio nome, ma ho scelto Davide perché regnasse sul mio popolo di Israele». Gerusalemme sta all’elezione di Davide come la residenza del nome di Dio in Israele sta alla sovranità di Davide in quanto monarca umano su questo stesso Israele; Davide è eletto perché Dio ha scelto di risiedere di persona in mezzo ad Israele; sul suo trono regale può e deve essere semplicemente una sentinella posta dinanzi al trono di Dio stesso. Per questo motivo deve conquistare Gerusalemme e farne la sua città: la sua città regale e, in tal modo, la città di Dio; il re terreno esiste soltanto per attestare che Dio ha la sua residenza in Israele e che lui stesso l’ha scelta, e non un qualche genio geopolitico; pertanto la gloria della monarchia davidica è caratterizzata, anche da questo punto di vista in senso imperiale, non come quella di Davide, ma come quella che il Dio di Israele possiede e fa risplendere intorno a sé. La tradizione aggiunge ancora questo elemento alla gloria di Davide: «Esercitava il diritto e la giustizia nei confronti di tutto il suo popolo» (II Sam. VIII, 15). «Il Dio di Israele ha parlato, la roccia di Israele mi ha detto: Colui che regna fra gli uomini con giustizia, colui che regna nel timore di Dio, è simile alla luce del mattino, quando brilla il sole e la mattinata è senza nuvole; i suoi raggi dopo la pioggia fanno nascere il verde dalla terra» (XXIII, 3 s.). Ed ecco l’eco di questa lode, sulla bocca della donna di Tekoa: «La parola del re mio signore mi dia riposo. Poiché il re mio signore è come un angelo di Dio, capace di ciscernere il bene e il male» (II Sam. XIV, 17) e: «Ma il mio signore è saggio quanto un angelo di Dio, e conosce tutto quel che accade sulla terra» (XIV, 20; cfr. XIX, 28). In uno strato apparentemente più recente della tradizione (II Sam. XXIII, 13 ss.), gli si attribuisce, nei confronti dei suoi compagni d’armi, una grandezza d’animo di cui si trova quasi un parallelo letterale nella storia di Alessandro Magno. Viene anche molto spesso sottolineato che ha successo (I Sam. XVIII, 5.14.30), che diventa sempre più potente (II Sam. V, 10), che si è fatto un nome (II Sam. VIII, 13): tutte cose che provano che Dio è con lui. I tagliapietre di Hiram, re di Tiro, hanno già lavorato per lui (V, 11). Ma è opportuno osservare che sotto questo primo aspetto (cioè governo giusto, saggezza, successo, ricchezza) Davide è ancora soltanto una pallida immagine della gloria che sarà quella di Salomone (anche lui preso in considerazione in modo unilaterale sotto la stessa angolatura). Il regno di Davide non è il regno del Signore della

chiesa trionfante, ma il regno del Signore della chiesa militante e sofferente: certo, ha anche le sue vittorie e raggiunge il suo apogeo al momento della conquista di Gerusalemme e del trasporto dell’arca in questa città (II Sam. VVIII), come pure nella fedeltà e nella misericordia di cui il nuovo re dà prova nei confronti del figlio sciancato del suo amico Gionatan, ucciso in battaglia; poiché la gloria di Davide non può che rimbalzare sulla casa di Saul e su Saul medesimo, l’infelice rappresentante della monarchia stabilita dalla grazia di Israele; il che significa che ricopre il popolo nel suo insieme e la «grave ingiustizia» che ha commesso contro il suo Dio. Insomma, anche se si può vedere nella monarchia davidica al suo apogeo una specie di parallelo della trasfigurazione di cui parlano i Vangeli, il personaggio di Davide, per quanto fin dall’inizio circondato da luce che in seguito diventa sempre più evidente, continua ad essere associato (a differenza di quanto accade per Salomone) a Saul, vivo o morto; in altri termini, non si può prendere in consideratone Davide se non in relazione col suo partner sfortunato e in funzione dell’ombra che questi proietta su di lui; il fulgore di Davide non ha il carattere diretto e indiscutibile del prestigio di Salomone; nel suo aspetto glorioso, il suo regno è una anticipazione del regno di suo figlio. Davide possiede pure un aspetto che richiama Saul; certo, anche da questo punto di vista egli rimane Davide ed è completamente distinto da Saul; che Dio sia con lui, come non lo è stato con Saul fin dall’inizio e fino alla fine e come non lo è mai più potuto essere a causa di quello che Saul doveva rappresentare, lo si vede in modo ancora più evidente da questa nuova angolatura, che non da quella in base alla quale abbiamo finora considerato il secondo re di Israele. Ma anche a proposito di Davide, è opportuno osservare che la grazia divina che caratterizza la sua monarchia e che ha preso forma nella sua persona, è la grazia che si è rivolta verso un popolo peccatore, prigioniero della sua grave ingiustizia e in se stesso totalmente perduto. Anticipiamo l’elemento più significativo di questo contesto, evocando l’amicizia o piuttosto l’alleanza fra Davide e Gionatan. Non a caso il legame che si stabilisce fra questi due uomini è concepito e descritto in modo solenne dalla tradizione, nella prospettiva di una «alleanza di Dio» (Sam. XX, 8), cioè di uno statuto in cui Dio ha e conserva il ruolo di testimone fra i due contraenti (XX, 23.42) i quali, per questa ragione, sono tenuti a conservarsi reciproca fedeltà. Tale è l’alleanza di Dio che è conclusa fra Davide e Gionatan e che (promessa di quell’altra esistente fra Yahvé ed il suo popolo, sempre rotta in modo unilaterale da Israele) deve essere da loro rispettata fino alla

morte e anche oltre la morte. «L’anima di Gionatan si affezionò all’anima di Davide e Davide l’amò come la sua propria vita» (I Sam. XVIII, 1; cfr. XX, 17). «Sto soffrendo a causa di te, Gionatan, fratello mio! Tu rappresentavi tutto il mio piacere; il tuo amore per me era ammirevole, al di sopra dell’amore delle donne» (II Sam. I, 26). Si osserverà che, in questa vicenda, è Gionatan che ama e Davide che è l’oggetto di questo amore; secondo I Sam. XVIII, 3 e XX, 8 Gionatan è chiaramente designato come autore dell’alleanza: è lui che ne prende l’iniziativa e la responsabilità; con la stessa intensità con cui Saul, suo padre, detesta e perseguita Davide, così Gionatan ama e salva Davide. Se Gionatan deve prender parte in modo completo alla sorte di suo padre e di conseguenza morire con lui, nondimeno, nel suo rapporto con Davide, non è soltanto un amico autorizzato ad assistere passivamente all’avvento del nuovo re; gli è concesso di essere un consolatore e un aiuto per Davide al momento in cui costui è ancora sconosciuto ed inseguito, fino al giorno in cui riceverà, in suo figlio, la ricompensa alla sua fedeltà. La tradizione non poteva attestare in modo più chiaro il perdono dei peccati di cui anche Saul nel suo essere respinto è oggetto, se non attribuendo al figlio ed all’erede di quest’ultimo (in fondo emarginato da Davide e la cui esistenza costituisce una gravissima minaccia per la futura sovranità davidica) il posto stesso di Dio nel suo rapporto con Israele, vedendo cioè in lui il segno della grazia divina rivolta verso Davide. E non poteva testimoniare in modo migliore l’efficacia durevole di quel perdono se non attraverso quel cap. IX di II Sam., in cui mostra come Davide, da parte sua, rimanga fedele all’alleanza conclusa con Gionatan trattando con benevolenza Mefibaal (Mefiboshet), suo figlio, la cui presenza, pure, gli ricordava la funesta figura di Saul. Si giunge fino alla menzione di Mica, il giovane figlio di Mefibaal (II Sam. IX, 12), con un solo significato: bisogna infatti che compaia quella «terza e quarta generazione di coloro che mi odiano» (Es. XX, 5), ma è in questa prospettiva che tale menzione esiste. Dal momento in cui Davide si trova ad essere eletto senza per questo smettere di essere legato a Saul, dal momento che è il rappresentante del sì di Dio mentre Saul non può che raffigurare il suo no, in quanto l’uno è portatore della benedizione e l’altro della maledizione, è chiara una cosa: una parte dell’ombra che avvolge il secondo non può non avvolgere la persona e la funzione del primo. Quando Gionatan dice a Davide: «L’Eterno sia con te come lo è stato con mio padre!» (I Sam. XX, 13), pronuncia una parola che, anche da questo secondo punto di vista, non è priva di una sua portata

significativa. È opportuno anzitutto notare che, secondo la tradizione nel suo insieme e in base a tutta una serie di indicazioni specifiche la cui importanza è considerevole, Davide stesso si trova posto sotto il segno di quel non ancora» che, d’altra parte, caratterizza la monarchia di Saul e non la sua. Se Saul è soltanto il sostituto di Davide nell’aspetto negativo, Davide a sua volta è, e senza dubbio nell’aspetto positivo, il sostituto di qualcun altro: con il suo predecessore, attesta il simbolo e l’immagine della monarchia per grazia di Dio. Naturalmente l’apparire di Davide ha come effetto di rendere caduca e di sostituire con un’immagine migliore quella, funesta, che il popolo si è costruita già nel deserto di un «dio che cammini dinanzi a noi» al posto di Mosè (Es. XXXII, 1 s.): l’immagine del giovane toro, che ha appena ripreso una forma concreta in Saul, con il concorso di Samuele che esercita il suo mandato divino come un tempo lo fece Aronne. Non è necessario riferirsi ad Am. VI, 5, in cui Davide, con la sua arpa e i suoi canti sembra essere diventato, secondo il profeta, una specie di idolo popolare; no, è chiaro che il racconto biblico stesso non voleva in alcun modo vedere nella figura di Davide qualcosa di più che un’immagine del re legittimo, del re per grazia di Dio; anche là dove il testo dà maggiori ragguagli sul carattere di Davide (per esempio nel discorso di consacrazione del profeta Natan: II Sam. VII), quest’ultimo rimane una grandezza oggettiva, cioè limitata nella sua funzione e nelle sue possibilità. Davide non è un essere unico; già Samuele, che gli dà l’unzione regale come a Saul, è un personaggio che lo precede ed esiste accanto a lui; così Saul e Gionatan sono, a fianco di Davide, delle figure indispensabili; e perfino Joab, che usa la spada al posto suo, può essere in fin dei conti respinto e condannato ad essere sepolto nel deserto. Conta soprattutto il fatto che non è quanto Davide è e fa di per sé, quanto prova e ottiene perché il Signore è con lui, a costituire la sostanza della promessa che riceve all’apogeo del suo fulgore; conta bensì l’annuncio che Dio fonderà per lui una casa e renderà solido, magnificandolo, il trono di suo figlio. La vita di Davide culmina nella promessa che la sorpassa e rimanda ad altro: questo è il suo limite, questa è l’indicazione decisiva del suo carattere provvisorio e simbolico. In base a II Sam. VII, 2 Davide è tormentato perché abita in una casa di cedro, mentre l’arca di Dio si trova sotto una tenda; il profeta Natan sembra indovinare il suo pensiero profondo e gli dice: «Va’, fai tutto quel che hai in mente, poiché l’Eterno è con te» (VII, 3); ecco però che Dio stesso interviene per illuminare Natan e, attraverso di lui, Davide: che lui, l’Eterno, sia con Davide, rimane

valido senza che Davide, che ci pensava senza dirlo, gli costruisca una casa; la cosa è confermata dal fatto che lui, l’Eterno, dà a Davide un nome «grande come il nome dei grandi che sono sulla terra» e concede per mezzo suo, al suo popolo Israele, un luogo di riposo. Ma ecco l’essenziale (ormai tutto prende l’aspetto del futuro): «L’Eterno ti renderà grande, ti fonderà una casa. E quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu sarai addormentato con i tuoi padri, io conserverò dopo di te la discendenza nata dalle tue viscere e renderò stabile la sua sovranità. Sarà il tuo discendente che costruirà una casa per il mio nome ed io renderò stabile per sempre il suo trono regale. Sarò per lui un padre e lui per me sarà un figlio. Se compie il male io lo punirò con la verga degli uomini e con i colpi che si danno ai figli degli uomini; ma la mia grazia non si allontanerà da lui, come invece l’ho allontanata da Saul che ti ha preceduto. La tua casa e il tuo regno sussisteranno per sempre» (VII, 11-15). E nella lunga preghiera che pronuncia dopo questa comunicazione di Natan, Davide riposa interamente su questa promessa: in base ad essa invoca Dio come il Dio unico ed incomparabile, supplicandolo di compiere la sua Parola; riconosce così lui stesso il suo proprio limite (VII, 18-29). La tradizione ha conservato scrupolosamente questa opposizione fra Davide ed il figlio che gli sarà concesso; è l’Eterno che fonda la casa di Davide; di conseguenza non è Davide che può e deve costruire la casa dell’Eterno, cioè il Tempio di Gerusalemme. La tradizione ha talvolta spiegato la cosa dicendo che a causa delle sue guerre, Davide non ha potuto compiere quest’opera (I Re V, 3); occasionalmente, ha tenuto conto della sua intenzione, per fargliene un elogio: «Hai avuto in mente di costruire una casa per il mio nome e hai fatto bene» (I Re VIII, 18); nella sua forma più tardiva, ha perfino precisato che Davide ha fornito a suo figlio il denaro, i materiali e perfino il personale per l’impresa: «Ecco, con i miei sforzi, ho preparato per la casa dell’Eterno cento mila talenti d’oro, un milione di talenti d’argento e una quantità di bronzo e di ferro che non è possibile pesare, perché ce n’è in abbondanza; ho anche preparato legno e pietre e tu ne aggiungerai ancora. Hai presso di te un gran numero di operai, di tagliatori di pietre e di falegnami, di uomini abili in ogni genere di lavoro. L’oro, l’argento, il bronzo e il ferro non si contano. Datti da fare e agisci e l’Eterno sia con te» (I Cron. XXII, 14 s.). Inoltre, secondo questo racconto tardivo, Davide avrebbe fornito a suo figlio anche un modello del tempio e progetti molto dettagliati, concernenti la sua forma, il suo arredamento e la sua sistemazione, «in base ad uno scritto della mano dell’Eterno» (I Cron. XXVIII, 11-19). Ma nessun documento va al

di là del limite oggettivo indicato prima; tale limite anzi si trova confermato dai dettagli e dalle precisazioni aggiunte: la costruzione del Tempio non è opera di Davide, ma di colui che lo segue, cioè di suo figlio; Davide può essere soltanto il precursore cui viene promesso il successore che porterà a compimento l’opera. Ed è anche lui, suo figlio, che sarà l’uomo saggio, giusto, glorioso, il re della chiesa trionfante, che Davide non è ancora. Possedere la promessa, essere il precursore e il padre di tanto figlio, questa è la grandezza tipica di Davide. Il fatto poi che questo figlio, Salomone, pur costruendo il Tempio in tutto lo sfarzo della sua saggezza, della sua giustizia e della sua gloria, non rappresenti ancora il compimento di tale promessa, ma si situi egli stesso all’interno di un nuovo limite oggettivo e costituisca a sua volta una figura rinviante al di là di se stessa, questo è un fatto a sé, che non dobbiamo esaminare qui. Ad ogni modo la persona di Salomone, il figlio di Davide, è indispensabile in quanto viene a completare la figura di Davide e a superarla: indispensabile quanto tutte le altre che la circondano. Non è Davide, ma il figlio di Davide, che finisce per cacciare definitivamente l’immagine del giovane vitello rappresentato da Saul; non è Davide, ma il figlio di Davide che compie la grande costruzione necessaria, la cui conduzione va in senso esattamente opposto a quello degli israeliti idolatri del deserto; non è Davide, ma il figlio di Davide che costruisce una casa per l’Eterno, in risposta a quella che è stata fondata da Dio per Davide. Così, anche in quel che concerne l’opera di riconoscenza e di gratitudine, il re Davide non è il rappresentante del suo popolo ma di suo figlio che, portando a termine quest’opera, qui ancora in modo simbolico, sarà il vero re di quel popolo. Un’altra realtà si manifesta inoltre qui; per due volte, nel racconto biblico, pare che Davide possa sacrificare la sua vita per il suo popolo e preservarlo dalla rovina per mezzo della sua morte; ma per due volte questo non si realizza, perché il suo sacrificio non è gradito. Nel primo caso, Achitophel dà ad Assalonne il consiglio di sorprendere il re in fuga, mandando contro di lui un commando fidato, per uccidere soltanto lui: «Allora io ricondurrò a te tutto il popolo; la morte dell’uomo a cui serbi rancore assicurerà il ritorno di tutti e tutto il popolo sarà in pace» (II Sam. XVII, 3). Assalonne però non segue questo consiglio. Nel secondo caso Davide stesso, punito per aver censito il popolo contro la volontà di Dio, esclama: «Ecco, sono io che ho peccato, sono io ad essere colpevole! Ma costoro, che sono il gregge, che cosa hanno fatto? Prenditela dunque con me e con la mia famiglia!» (II Sam. XXIV, 17). Certo, l’angelo dell’Eterno che aveva colpito il popolo per mezzo della peste si ferma

e Davide costruisce poi un altare sull’aia del Gebuseo Aravna, senza che peraltro la sua offerta sia gradita. D’altronde il flagello ha già fatto numerose vittime: 70.000 uomini sono morti. E Davide stesso non aveva forse preferito il castigo del popolo al suo proprio castigo? Tutto quel che può fare, in fin dei conti, è di comperare l’aia di questo Aravna; ancora una volta, il sacrificio della sua persona non è stato accettato. Anche i lamenti su Assalonne morto (II Sam. XVIII, 33) sono privi di controparte: «Assalonne figlio mio, Assalonne figlio mio, figlio mio, Assalonne! Perché non sono morto io al posto tuo? Assalonne, figlio mio, figlio mio!». L’amore naturale del padre per suo figlio non si esprime in questo modo: il desiderio insensato di Davide dimostra che qui è in causa la promessa, nel senso che, con Assalonne, suo erede, ha perduto tutto. Ma è troppo tardi: né il lamento del re, né il suo desiderio di poter morire al posto di suo figlio, possono cambiare qualcosa al fatto che una sostituzione di questo tipo non è accettabile. Ecco che, poco dopo questo avvenimento, si verifica esattamente l’opposto: l’altro suo figlio, nato dall’adulterio con Betsabea, è di fatto morto per lui, per espiare il suo peccato. Davide stesso ha pronunciato qui il giudizio: «L’uomo che ha fatto ciò merita la morte» (II Sam. XII, 5). In risposta al suo pentimento però (XII, 13 s.), Natan gli dice: «L’Eterno perdona il tuo peccato, tu non morirai. Ma in quanto hai fatto bestemmiare i nemici dell’Eterno, commettendo quell’azione, il figlio che ti è nato morirà». Davide prega, piange e digiuna; anche qui è in gioco la promessa; ma non c’è rimedio, il bambino muore. Tuttavia, il comportamento del tutto insolito del re in occasione di questo lutto indica che la tradizione non ha soltanto visto una punizione nella morte del bambino ma pure il perdono miracoloso del colpevole: infatti, dal momento in cui Davide venne a conoscenza della morte del bambino «si alzò da terra, si lavò, si unse e si cambiò di vestiti; poi andò nella casa dell’Eterno e si prosternò». E poiché gli si domandano spiegazioni sul suo comportamento particolare, risponde: «Quando il bambino viveva ancora, io digiunavo e piangevo, poiché pensavo: chissà se l’Eterno non avrà pietà di me e se il bambino non vivrà? Adesso che è morto, perché digiunerei? Posso farlo tornare in vita? Andassi anche verso di lui, non ritornerà verso di me. Davide consolò Betsabea sua moglie. Andò verso di lei e si unì ad essa. Lei concepì e generò un figlio che chiamò Salomone e che fu amato dall’Eterno» (II Sam. XII, 20 ss.). Così il concepimento e la nascita di Salomone (il figlio amato da Dio, il figlio promesso) si producono immediatamente dopo la morte dell’altro che sembra essere esistito soltanto per assicurare la punizione di

Davide e la sua sopravvivenza, soltanto per rendere possibile il concepimento e la nascita del figlio della promessa. Certamente, Davide ha avuto personalmente molto da soffrire nel corso della sua vita: dapprima a causa della sua missione, in seguito a causa del suo peccato; ma la possibilità di una sofferenza e di una morte sostitutive non è stata di sua competenza, così come non era stata di competenza di Saul; che si tratti del suo popolo o di suo figlio, il sacrificio che prende in considerazione gli è subito interdetto e reso impossibile. Lo vediamo piangere, è vero, su Assalonne e sul primo figlio di Betsabea; continua però a vivere e finisce per imboccare senz’altro «la strada di tutti i viventi» (I Re II, 1), per addormentarsi infine con i suoi padri ed essere sepolto nella sua città (I Re II, 11); da questo punto di vista, poiché un sacrificio sembra essergli richiesto senza essere accettato, si trova ad essere sotto la medesima legge di Isacco (Gen. XXII, 12) e del re Giosafat (I Re XXII, 33). Parimenti anche Giuseppe è mandato da Dio in Egitto «per assicurare il permanere della vostra stirpe nel paese e per salvare la vita a molti fra di voi» (Gen. XLV, 7), senza che questo avvenga e prezzo della sua vita. Anche Gionatan, l’amico di Davide, che ha peccato per ignoranza, si vede condannato a morte da Saul e si prepara a morire, ma si trova liberato dall’intervento del popolo (I Sam. XIV, 43 ss.). Il limite che Davide non ha diritto di valicare è appunto il limite assoluto che è assegnato all’uomo dell’Antico Testamento in generale e a tutti i personaggi che entrano in scena in questo libro. In questa prospettiva si capisce meglio per quale motivo non gli sia consentito di fare quel che spetta di diritto a suo figlio e per quale ragione costui indichi a suo padre il suo limite, in quanto costituisce la somma delle promesse che gli sono state fatte. Soltanto partendo dai fatti or ora ricordati, si può comprendere quello che la tradizione ci riferisce sul peccato di Davide. Lo abbiamo già indicato: questo peccato è lampante e mostruoso, se paragonato a quello di Saul. È opportuno d’altronde collocare II Sam. XI-XII esattamente nel suo contesto, per discernere in che cosa consista concretamente tale peccato, in riferimento a quanto afferma la tradizione. Né il titolo della Bibbia di Zurigo: «L’adulterio di Davide», né quello della Bibbia di Lutero: «Adulterio e delitto di Davide», sono pertinenti. Infatti nella requisitoria di Natan (II Sam. XII), l’accento non cade in modo particolare sull’adulterio commesso con Betsabea, come ci si potrebbe aspettare, benché si tratti anzitutto e di fatto del peccato stesso di Davide e benché quel peccato sia in stretta connessione con quanto Osea e

altri profeti hanno designato apparentemente come la colpa originaria d’Israele, in seno all’alleanza con Yahvé. Davide si vede anche rinfacciare l’assassinio di Uria; a questo proposito osserviamo che il re cerca, nel modo in cui si sa, di evitare di commetterlo in prima persona e che di fatto non ha commesso assassinio, nel senso in cui lo si intendeva allora; Natan stesso modifica la sua prima accusa: «Tu hai colpito Uria con la spada», precisando: «Tu l’hai ucciso con la spada dei figli di Ammon» (II Sam. XII, 9). È necessario dunque attenersi rigorosamente alla parabola in cui Natan mette in scena l’uomo ricco che ruba la sola pecora posseduta dal povero e soprattutto è necessario soffermarsi sul contrasto decisivo che sorge dal fatto che l’apostrofe «Tu sei quell’uomo», viene ad essere spiegata in questo modo: «Io ti ho unto come re su Israele e ti ho liberato dalla mano di Saul, io ti ho dato in mano la casa del tuo padrone, ho posto sul tuo seno le mogli del tuo padrone e ti ho dato la casa di Israele e di Giuda. E se questo non fosse bastato, avrei aggiunto ancora altro. Perché dunque hai disprezzato la parola dell’Eterno, facendo quel che è male agli occhi suoi?» (XII, 7). A questo punto si capisce meglio in che cosa consista il peccato di Davide: quest’uomo, all’apice della sua gloria, ha dimenticato il Signore che lo ha fatto re e che lo ha condotto a questo punto culminante; quest’uomo, dopo esser stato innalzato così come lo è stato, si è comportato in fin dei conti come un re dei popoli stranieri, come uno di quei tiranni e tirannucoli per cui il diritto è «quanto è utile» e quanto è in loro potere; non è stato meno cieco ci quanto più tardi sarà Achab nei riguardi di Naboth (I Re XXI), anzi si dimostra peggiore di Geroboamo, suo nipote (I Re XII); il suo delitto è superiore a quello che ha commesso facendo il censimento del popolo e che gli è stato imputato come un gravissimo misfatto (II Sam. XXIV). Non è Saul, ma Davide che ha confermato con i fatti il terribile potere (annunciato nelle «prerogative» indicate da I Sam. VIII) di cui un re si può servire sulla terra: mettere la mano su quello che appartiene al popolo, mentre invece dovrebbe proteggerlo; è Davide che assume di colpo, e senza che nulla lo lasci prevedere, la figura del vitello dell’Esodo, che gli Israeliti hanno adorato, di cui conservano nostalgia e che sarà la loro rovina; è Davide che dimentica e disprezza l’Eterno. Non si concentrano proprio in questo tutte le condizioni per gli altri peccati qui segnalati: adulterio, furto, assassinio, menzogna? Quello che è per così dire ovvio nei tiranni dell’epoca, non può essere naturale per Davide; egli non è infatti uno di quei re che hanno la faccia simile al vitello e che abbondano intorno ad Israele; egli è re per grazia di Dio e non degli uomini. L’Eterno è con lui. Deve attestare la sovranità di Dio; sul

trono che occupa, è chiamato a far la guardia davanti al trono di Dio; non ha il diritto di usare le sue prerogative regali in qualsiasi modo e per qualsiasi scopo. Perciò non può dare nessuna risposta al «perché?» che ode dalla medesima bocca che gli ha appena comunicato la promessa divina; non può che confessare: «Ho peccato contro l’Eterno»; non gli resta che pronunciare la sentenza di morte sull’uomo ricco della parabola, cioè su se stesso;ogni passo compiuto nel senso di II Sam. XI lo condanna irrevocabilmente. Il peccato commesso un giorno da Saul in questa stessa direzione, si trova completamente sorpassato da quello di Davide; se occorresse distinguere fra peccati mortali e peccati veniali, fra colpe grossolane e colpe leggere, Davide dovrebbe essere respinto e Saul eletto; di fronte a cose equivalenti, un minimo di giustizia esigerebbe che questi due uomini fossero trattati da Dio con lo stesso metro. Se però la tradizione, che sottolinea senza riserva la sproporzione dei loro errori, giudica in modo del tutto diverso, se ci dice che, dopo essere stato punito, Davide è perdonato, ci sono delle ragioni, perché dica questo. È senz’altro evidente che Davide si trova, in questo caso, molto vicino a Saul: così vicino, diremmo, che ci chiediamo se non è più Saul di quanto Saul stesso non sia mai stato!; la solidarietà intrinseca fra questi due personaggi non può più esser messa in dubbio in questo caso; soprattutto perché il peccato di Davide significa appunto l’abbandono della sovranità che lo distingue da Saul, a vantaggio di quella, di natura pagana, che proprio in quest’ultimo è respinta. Il rigore di questa solidarietà appare nel giudizio che segue il peccato di Davide, altrettanto inesorabilmente quanto la fine di Saul segue immediatamente i suoi inizi. La morte del bambino, in effetti, è soltanto l’inizio della punizione di Davide. Natan gli annuncia che la disgrazia e la spada non si allontaneranno più dalla sua casa, che le sue mogli saranno trattate in pubblico come egli ha trattato in segreto la moglie di Uria. Queste profezie si realizzano esattamente nella storia di Assalonne e più tardi nella storia dei re succedutisi a Gerusalemme; ormai Davide e la sua casa saranno trascinati nella confusione e nelle vicissitudini scatenate dal delitto del secondo re di Israele; la dinastia davidica partecipa alle alterne vicende delle grandi e delle piccole dinastie dell’epoca e che, fatte le debite proporzioni, sono le alterne vicende di tutte le monarchie e dittature di questo mondo. Il dramma di Betsabea e di Uria rivela che Davide non è stato scelto al posto di Saul e non beneficia della presenza di Dio perché impastato di una natura diversa da quella del suo predecessore; la sua storia e la storia della sua dinastia assumono senz’altro un’altra forma, ma non sono assolutamente e

fondamentalmente diverse dalla storia di Saul; perciò sono poste fin d’ora sotto segni per lo meno analoghi. Quale storico profano potrebbe dunque stabilire una differenza di principio fra la catastrofe di Saul e quella, certo meno rapida ma altrettanto evidente, di Davide e della sua dinastia? Davide è punito nel senso che, a partire dal suo peccato diventa anch’egli un personaggio della storia profana e, con tutta la sua luce, è a sua volta anch’egli coinvolto nell’ombra, molto più considerevole, cui nessuna figura di questo mondo può sfuggire. Ma pur parlando in modo molto esplicito del peccato di Davide e pur menzionando esplicitamente la sua punizione, la tradizione veterotestamentaria distingue tuttavia fra Davide e Saul come fra il giorno e la notte; perciò dobbiamo tentare di chiarirci ancora una volta quello che bisogna o non bisogna intendere per elezione divina, in questa tradizione. Non bisogna intendere una qualifica accordata a un individuo per il fatto che non partecipa o partecipa meno degli altri al peccato umano. Giuda e Beniamino, come più tardi le dieci tribù di Israele e di Giuda sono di fatto sempre simili alla massa di persone che prima nel deserto, poi a Rama, hanno richiesto un dio ed un re che avesse l’aspetto di un giovane vitello per camminare dinanzi a loro; Saul e Davide sono stati impastati col medesimo materiale; sono i rappresentanti peccatori del medesimo popolo peccatore e le loro colpe, sottili o grossolane, lo hanno messo in rilievo. Inversamente l’elezione di un individuo non implica, secondo la tradizione veterotestamentaria, che Dio protegga senz’altro i suoi eletti dalle manifestazioni anodine o per lo meno troppo evidenti della loro natura perversa, in modo da essere in ogni caso esenti da peccati flagranti quali l’adulterio, l’omicidio, il furto e la menzogna; la grazia che riposa su Davide sembra non aver nulla da spartire con questo tipo di immunità morale; ma soprattutto, essere eletto non significa sfuggire al giudizio sotto il quale è posto il mondo e non dover soffrire, per colpa propria, quello che ogni uomo, prima o poi, in un modo o in un altro, deve soffrire nel quadro della storia. Secondo l’Antico Testamento, l’elezione individuale significa al contrario che un uomo è messo da parte; un uomo che (con tutti gli altri ed in particolare con quanto lo distingue dagli altri) è un peccatore che si rivela e che viene punito in quanto tale. Che quest’uomo sia, suo malgrado, stabilito da Dio quale testimone della sua volontà (della volontà della sua grazia), questa è l’elezione nel senso dell’Antico Patto; essa esiste unicamente in funzione di quello che Dio ha in vista per quest’uomo e di quello che vuol fare di lui; s’identifica con la testimonianza di cui l’eletto si fa carico e proprio

per questo è duratura. Le virtù morali non garantiscono reiezione più di quanto i peccati non la aboliscano; non convive con i peccati leggeri più di quanto non venga annullata da peccati più gravi; non dipende dal sì o dal no del testimone. È interamente affare di Dio; solo in questa dimensione è affare dell’uomo, comunque egli sia, qualunque siano il bene o il male che può fare. Quando si capisce tutto ciò, si comprende anche che la caduta di Davide (la si veda nel suo adulterio con Betsabea, come dice il secondo libro di Samuele o nel censimento che ha voluto fare, secondo il racconto del primo libro delle Cronache) non è in contraddizione con l’aspetto «luminoso» di questo re, in opposizione a Saul; si comprende che è un tocco indispensabile nell’insieme del quadro. Il re per grazia di Dio, nasconde anche il volto di un tiranno: non si tratta di cosa da poco, ma di una realtà seria, esigente, spietata, mostruosa, come lo indica II Sam. XI. È in questo modo, ed in nessun altro, che egli è il re per grazia di Dio. In quanto tale, dipende interamente dalla misericordia e dal perdono di Dio; non può sussistere, se non perché Dio sussiste e lo regge; non può presentare nulla a Dio, all’infuori delle sue mani vuote. Il fatto che Davide sia quest’uomo, non costituisce, beninteso, una conferma della sua elezione, della sua sovranità, del suo ruolo di testimone della sovranità divina; anche Saul era così; tutto questo riceve la sua conferma unicamente dal fatto che Dio ha intenzione di condurre e di portare avanti il suo piano servendosi di un individuo strutturato così. Quello che l’«io» divino (così brutalmente opposto a Davide in II Sam. XII, 7) ha voluto e deciso, permane, né potrebbe essere revocato in dubbio, ma soltanto confermato dal successivo «perché?». Nella sua fedeltà a se stesso, Dio intende glorificarsi attraverso la casa di Davide e per tale ragione quest’uomo continua ad essere un tipo luminoso, in riferimento a Saul, benché sia un personaggio penoso, molto più penoso diremmo (poiché ormai il suo peccato è svelato) di Saul stesso. Perciò Davide confessa il suo peccato ed ecco l’essenziale (poiché Saul ha fatto altrettanto di fronte a Samuele): il suo peccato gli è perdonato; perciò il giudizio che cade su di lui e sulla sua casa non può intaccare la promessa che gli è stata fatta; perciò l’Eterno resta con lui fino alla fine, anche con suo figlio, anche con la sua dinastia, benché tutti, senza eccezione, debbano subire la maledizione su ogni carne, messa in evidenza dalla caduta di Davide. Che Dio solo sia re ed il monarca umano si limiti ad essere il suo testimone, è ciò che rende ancora più evidente, se possibile, l’immensa contusione nella quale il testimone si perde; il testimone, non può in nessun caso oscurare quello che Dio intende mostrare con chiarezza attraverso di lui ed in lui; non sarà mai liberato dal servizio che

ha rinnegato e per il quale evidentemente non era adatto. E perché? Perché non sarebbe anche lui un re dall’aspetto di vitello? Non in forza di se stesso, poiché senza dubbio lo è, secondo II Sam. XI; ma per il fatto che, anche per i rinnegati e gli incapaci, anche per i re dal volto di vitello, non c’è esonero dal servizio di Dio; designato per quel servizio, Davide ha un carattere indelebile, che non potrebbe essergli tolto e di cui non si può liberare. Questa è la forza della sua elezione, alla luce specifica del racconto della sua caduta. Fermiamoci qui e guardiamo indietro. I due libri di Samuele raccontano in che modo Dio ha provocato l’istituzione e diretto gli inizi della monarchia in Israele; più concretamente contengono il raccolto dello stabilirisi, radicato nell’elezione divina, dei due primi re israeliti, Saul e Davide, del loro conflitto e dei loro atti di governo. Abbiamo già osservato che l’interesse e il tema della storiografia dell’Antico Testamento si orientano ora in una nuova direzione: se fino a questo momento l’attenzione degli autori biblici era rivolta al popolo nel suo insieme (d’altronde non mai privo di capi e di guide, da Mosè a Samuele), adesso si fissa su quei capi e quelle guide che sono le persone dei re; la storia di Israele diventa anzitutto quella dei suoi re, cui si trova non solo incorporata, ma anche completamente legata, tant’è vero che non può più esistere e aver significato di per se stessa; è ogni volta dominata dal capo che la dirige, Saul, Davide, poi tutti i re di Gerusalemme e di Samaria. Ma parallelamente a tutto questo, avviene un altro cambiamento: la storiografia che fino ad allora si era prevalentemente occupata dell’unità del popolo d’Israele nel deserto e del trasporto dell’arca dell’alleanza in Palestina («da Dan a Bersheba»), ormai dirige la sua attenzione da Silo verso il sud, più esattamente sulla regione situata fra Bethel e Hebron da un lato, e tra la foce del Giordano e la frontiera orientale del regno dei Filistei dall’altro; questo paese, anche se in seguito si espande, conserva proprio nel sud il suo centro; e se i narratori biblici sembrano soffermarsi per un certo tempo sulla tribù di Beniamino, situata d’altronde in questa zona, il loro sguardo, quasi come la stella dei magi venuti da Oriente, non tarda a dirigersi verso Betlemme in Giuda, per fissarsi alla fine su Gerusalemme. La monarchia per la quale ha interesse la storiografia veterotestamentaria è quella dei re di Giuda e di Gerusalemme; è soltanto a motivo della collera di Dio ed a prezzo di un rinnegamento dell’unica monarchia legittima che il regno si dividerà in seguito e che si vedrà sorgere una monarchia la quale, paradossalmente, avrà un nome designante l’insieme della comunità santa: il regno d’Israele, a Samaria. Fin dall’inizio, la monarchia di Saul ha imboccato proprio questa

direzione, tutto a sua confusione; la monarchia di Davide, che in seguito si fa strada e che corrisponde alla volontà positiva di Dio, è invece quella dei re di Giuda, a Gerusalemme. Se il racconto biblico è perfettamente limpido su questo punto, nondimeno, per altri aspetti, è estremamente oscuro e contraddittorio. E come nel caso di Lev. XIV e XVI o della storia dei patriarchi della Genesi, questo è dovuto all’oscurità del tema stesso ed alla sua unità. Quanto al primo punto, è opportuno non perdere di vista che l’origine della monarchia di Davide, poi stabilitasi a Gerusalemme, si situa in Rama: quivi gli Israeliti hanno richiesto, con la mediazione di Samuele, una monarchia esercitata da un uomo; tale desiderio è stato dichiarato illegittimo non soltanto da Samuele, ma da Dio stesso, che vi ha visto un tentativo di respingere la sua sovranità; pertanto, accordando al popolo quello che chiedeva, Dio pronuncia un giudizio su simile richiesta, e in seguito nulla o almeno nulla di esplicito, renderà caduco questo giudizio, nemmeno quando Saul sarà sostituito da Davide. La vicenda di Betsabea ci mostra al contrario che Davide è appunto l’uomo presso il quale le famose «prerogative del re» (I Sam. VIII) producono il loro effetto. E allora come mai, la grazia annunciata a Davide (II Sam. VII) si riferisce espressamente all’avvenire, ad una promessa e non ad un compimento immediato, nel contesto della sua monarchia? Per quale ragione ha sempre come oggetto non Davide, ma suo figlio, quel figlio di cui Dio promette di essere lui stesso il padre? Questa ambiguità continua a sussistere nel seguito della storia; la ritroviamo in Salomone, poi nei suoi successori, di cui ci è detto che soltanto una metà scarsa ha fatto, seguendo l’esempio di Davide, quanto è bene agli occhi dell’Eterno, ha dimostrato cioè la legittimità della monarchia in rapporto a quella di Samaria ed in opposizione a quella di Saul. E tutta questa fetta di storia non culmina forse con la catastrofe che si scatena anzitutto su Samaria, poi su Gerusalemme, mettendo fine in tal modo alla stessa monarchia legittima, alla dinastia di Davide? L’ultimo re di questa dinastia, Johakin, non è forse ammesso, per puro favore, al tavolo del monarca di Babilonia, Evil-Merodac (II Re XXV, 27 ss.), esattamente come l’ultimo erede di Saul, Mefibaal, si era trovato un giorno al tavolo di Davide (II Sam. IX, 10 s.)? La sua posizione, anzi, non è ancora peggiore? Osserviamo che in seguito la tradizione ha sempre accuratamente evitato di vedere nella funzione di Zorobabele, discendente di Davide, una restaurazione e una continuazione della monarchia davidica.

Nel corso dei secoli in cui il testo ed il canone dell’Antico Testamento hanno ricevuto la loro forma definitiva, non c’è più re a Gerusalemme, né alcun dirigente, all’infuori di qualche governatore, più o meno apertamente suddito delle grandi potenze, il cui potere non ha avuto alcun ruolo in rapporto al tema specificamente biblico; l’Antico Testamento ne parla appena o li menziona soltanto di sfuggita, senza mai stabilire legami fra la loro autorità e la monarchia di cui parlano i due libri di Samuele; nel quadro degli scritti canonici, il tentativo di negare o di modificare il fatto che, fin dal 586, Gerusalemme non ha più avuto re, è destinato al fallimento. Così i racconti relativi all’antica monarchia, appaiono ancor più enigmatici; come poteva la comunità postesilica trovare motivo di edifica zione nei libri di Samuele, che raccontano essenzialmente la storia di Saul e di Davide?; come poteva non essere urtata dall’ambiguità, ormai definitivamente dimostrata, di quella storia?; la differenza fra Saul e Davide, da cui qui tutto dipende, non era forse stata nel frattempo completamente abolita?; la monarchia stabilita a Gerusalemme, era mai stata veramente conforme alla volontà di Dio?; il giudizio che a Rama presiede alla nuova istituzione, non era forse stato l’annuncio dei fatti che ognuno aveva ora sotto gli occhi da sei secoli (Dio non vuole monarchia a Gerusalemme, anzi, non vuole nessun re terrestre in Israele)? La storia della monarchia israelitica non è stata forse per intero la storia di un solo e medesimo errore?; la promessa di II Sam. VII, in base alla quale la dinastia di Davide sarebbe sopravvissuta attraverso tutti i disastri, non è stata forse completamente smentita dai fatti? È difficile credere che siano stati conservati e tenuti in auge i testi di Samuele per puro interesse storico o per affetto verso un grande passato, per poi inserirli nel canone e leggerli come documenti della rivelazione; il valore loro attribuito potrebbe forse essere spiegato dal fatto che si è visto in essi una raccolta di storie, illustranti verità religiose e morali; basti pensare all’uso che ne è stato fatto nel corso dei secoli nel giudaismo successivo, e non soltanto nel giudaismo, per prendere in considerazione simile possibilità. Ma questo non basta a spiegare perché tali testi sono stati composti e in che modo hanno potuto essere inseriti nel canone. Quale interesse di ordine «sacrale» si aveva nel leggerli? Ancora una volta siamo posti dinanzi all’enigma stesso dell’Antico Testamento: o vediamo una comunità religiosa che si riunisce e rimane raggruppata per secoli intorno ad un testo il cui contenuto, in sé e in rapporto al presente, doveva sembrarle del tutto incomprensibile, un testo in cui essa non poteva che scoprire la storia di un errore (confessato di fatto, anche se non

esplicitamente), di un inizio (per giunta contradditorio) rimasto senza seguito (come un edificio che diventa assurdo perché incompiuto) ovvero vediamo questa comunità riconoscere in tali testi una profezia rimasta incompiuta fino a quel momento. Non si può dedurre con cortezza dai testi di Samuele, né dalla storia che continua nei libri dei Re e nemmeno dalle esperienze successive del popolo, sfiorate appena dall’Antico Testamento, che l’esistenza di un re umano sia conforme alla volontà del Dio di Israele. Se questi testi sono veramente per la comunità documenti della rivelazione, questa non li può leggere e comprendere se non in senso escatologico, cioè come una profezia. Come profezia di chi o di che cosa? Questa è appunto la grande incertezza dinanzi alla quale ci troviamo in rapporto all’oggetto di cui si tratta in tali testi. Ma quest’incertezza si estende pure all’unità stessa dell’oggetto in questione. Ammettiamo che tutto sia chiaro; ammettiamo che l’atto di Rama non sia soltanto una sentenza di giudizio ma anche una sentenza di grazia, spiegata e confermata dall’elezione di Davide, dalla presenza dell’Eterno al suo fianco, dal suo accedere al potere e come conclusione dalla promessa che gli è fatta; rimane però un problema. Perché dunque, in queste condizioni, il suo infelice predecessore è designato come un eletto da Dio e, a modo suo, come un uomo messo a parte per Dio?; perché mai Saul, il re per grazia degli uomini, viene prima di Davide e sta accanto a lui come un sovrano legittimo e non a motivo di un’usurpazione (simile a quella di Abimelek a Sichem: Giud. IX, 1 ss., la cui impresa è così violentemente contestata nella favola di Jotham) o come è capitato con Assalonne, in seguito ad una rivolta (II Sam. XV, 7); non è stato forse chiamato e unto anch’egli da Samuele, che esegue esattamente le direttive di Dio?; donde viene e dove va lo Spirito che afferra anche lui, benché se ne allontani in seguito?; per quale ragione Saul si trova anche fra i profeti? Abbiamo visto infatti che tutta la sua esistenza è caratterizzata in maniera indelebile da quest’aspetto e da questa determinazione. Come mai si prova disagio nel seguire la sua marcia verso la monarchia e nell’apprendere in che modo si svolge il suo destino?; perché siamo stupiti anche della luce che malgrado tutto continua ad avvolgerlo?; perché troviamo così pochi motivi plausibili che consentano di accusarlo? Possiamo continuare a farci le stesse domande a proposito di Geroboamo, il primo sovrano del regno del Nord: come mai questo personaggio, in cui in qualche modo risuscita la monarchia di Saul, è presentato non senza qualche simpatia, come un «uomo valido» fra gli architetti di Salomone, come il «figlio di una vedova» (I Re XI, 26 s.)?; come

mai la tradizione ci mostra in seguito il profeta Achia, di Silo, che si rivolge a lui in questi termini (che ricordano l’esortazione a Saul): «Se tu obbedisci a tutto quello che ti ho ordinato, se tu cammini nelle mie vie e se tu fai quello che è bene ai miei occhi, osservando le mie leggi come ha fatto Davide, mio servitore, io ti edificherò una dimora stabile, come ne ho edificata una a Davide e ti darò Israele» (I Re XI, 38 s.)? Sempre secondo la tradizione, quello stesso Geroboamo giunge a occupare il suo trono dopo esser fuggito in Egitto per scampare a Salomone e rientra in paese solo dopo la morte di quest’ultimo. Bisogna notare che è Roboamo, il figlio di Salomone, l’erede promesso a Davide, cui Dio stesso dà un rivale, secondo le parole di Achia; questo rivale regnerà su tutte le tribù di Israele, ad eccezione di una sola, benché non sia di ascendenza davidica. Che Geroboamo non abbia mantenuto le sue promesse e perfino che la tradizione non sembri dare peso all’esistenza di un re d’Israele in grado di fare quanto piace a Dio, è un fatto che ora non dobbiamo esaminare. L’esistenza di una promessa però pone a questo punto un problema, tanto più che tale promessa è appunto accostata a quella rivolta a Davide. Fino a che punto tutto ciò, poiché il testo è formale, dev’esser preso sul serio?; perché la legittimità dei re di Samaria non è mai messa esplicitamente in questione, anche se lo è implicitamente?; questi re non portano forse il titolo fastidioso di «re di Israele», benché vivano lontano dalla città di Davide e dal Tempio? Spesso anzi sembra ovvio che essi conducano una guerra aperta contro i discendenti di Davide. Insomma, la tradizione continua a commisurare il regno degli uni su quello degli altri; in una sola parola: che significa l’elezione divina del re d’Israele? Ques’ultimo infatti, benché respinto, benché incamminato per una strada perversa e catastrofica, minacciato dalla collera di Dio, continua ad essere molto seriamente un eletto, un re scelto da Dio. Dio vuole una sola ed unica cosa, con questa monarchia, ammettendo che la voglia veramente oppure vuole due cose diverse?; ma che cosa può dunque volere, in quest’ultimo caso, poiché si tratta di due realtà che si contraddicono? Il medesimo problema si pone a proposito dello stesso Davide: perché non è chiaramente riconoscibile come eletto di Dio in opposizione a Saul?; è infatti profondamente sconvolgente, malgrado tutta la bellezza del racconto, che il figlio di Saul abbia, nei riguardi di Davide, un ruolo attivo e determinante, nell’alleanza di Dio. E che si vede, in seguito? Non è Davide, ma suo figlio che si trova chiamato ad occupare il posto del re, che è al tempo stesso il posto del figlio di Dio; e non è Davide, chissà perché veramente, che costruirà il Tempio. Infine, ed è il colmo, è praticamente la

caduta di Davide a concretizzare, in maniera molto più spettacolare del peccato di Saul, il concetto pagano della monarchia, respinto da Dio. E che pensare dell’elezione divina, quando riflettiamo su quello che Salomone stesso è stato? Infatti dopo averci presentato in lui un re di gloria che oscura completamente il ricordo di Saul, dopo aver descritto minuziosamente il modo in cui ha costruito il Tempio, dopo aver vantato la sua saggezza, la sua giustizia e la sua gloria, ecco che la tradizione (I Re XI) si limita a segnalare che col progredire dell’età il suo cuore non appartiene più interamente a Dio, come lo era stato il cuore di Davide suo padre; Salomone è attratto da Astarte, (divinità dei Sidoni) e da Milcam (l’abominio degli Ammoniti) e costruisce per Kamosh (l’abominio dei Moabiti) un santuario sulla montagna che si trova di fronte a Gerusalemme (il Monte degli Ulivi, dunque). «Ed altrettanto fece per tutte le sue mogli straniere, che offrivano dei profumi e dei sacrifici ai loro dei» (I Re XI, 4 ss.). Si può veramente dire che il suo cuore non appartiene più per intero all’Eterno!; che fine ha fatto la sua sapienza?; dove si trova ora quel «cuore intelligente» che ha richiesto (I Re III, 9 ss.) e che gli è stato promesso, con tutto il resto?; che ne è di quella filialità divina di cui Davide ha ricevuto l’annuncio? Anche qui si cerca invano l’autentico re, il re eletto dalla grazia di Dio. Ed è la stessa cosa per gli altri discendenti di Davide. È pur vero che dopo la partenza negativa cui si assiste con Roboamo, si trovano re conformi al volere di Dio; basti citare Asa, Giosafat, Joas, Amatzia, Azaria, Ezechia ed infine Giosia; tutti questi personaggi, che regnano abbastanza a lungo, si distinguono chiaramente dal resto, ma non si può certo vedere in loro delle figure meno discutibili di Davide e soprattutto la loro successione, sempre interrotta, è definitivamente chiusa con Giosia. Se il loro carattere e le loro azioni, quali li ha fissati la tradizione, hanno potuto essere oggetto di edificazione, non si può tuttavia non vedere che nessuno di questi monarchi ha segnato l’inizio del regno del vero re di tutto quanto Israele, senza contare che tutti dovevano sopportare l’esistenza parallela ed ostile di quegli «altri re di Israele», stabiliti a Samaria. Pure qui rispunta il medesimo problema: che significa l’elezione divina del re d’Israele? Poiché di questo si tratta per la tradizione, che menziona una dinastia preferita a quella di Saul, succedentesi senza interruzione sul trono di Samaria; Dio vuole una sela e medesima cosa con questa monarchia, ammettendo che la voglia veramente oppure vuole due cose?; ma qual è allora la sua intenzione reale e finale, se si tratta di due cose contradditorie? Ecco le aporie sollevate da questi testi, relativamente all’unità dell’oggetto

da essi attestato. E poiché hanno a che fare proprio con quest’oggetto qui ancora, anzi soprattutto qui, ci si trova di fronte al problema: in che modo questi testi hanno potuto essere letti come documento della rivelazione e incorporati nel canone dalla comunità postesilica, se è vero che considerazioni storiche, artistiche o pedagogiche non possono essere tenute in considerazione? È consentito tener conto di un’altra possibilità: che cioè la comunità postesilica abbia letto e compreso i testi in questione come una profezia; è infatti fra i nebiim (fra i profeti appunto) che sono stati classificati nel canone; si sono visti in questi «libri storici» delle parole profetiche e simboliche, né poteva accadere diversamente, dato il loro contenuto. Ma a chi o a che cosa si riferisce questa profezia?; quale dunque può essere l’oggetto cui si guarda o a cui si tenta di guardare, leggendo quanto è scritto in questi testi? Chiaramente per giungere ad una conclusione, non rimane che ripetere, applicandole ai nostri testi, le considerazioni sviluppate a proposito di Lev. XIV e XVI. Questi testi hanno un oggetto che resta sconosciuto sia al lettere ebraico che a noi?; oppure sono senza valore e assurdi, in quanto semplicemente non hanno alcun oggetto?; oppure la risposta del Nuovo Testamento (risposta che deve essere cercata nel senso di At. II, 25 ss.) è quella determinante e pertinente? In quel passo, Pietro cita il testo del Sal. XVI, 8 ss. («Tu non abbandonearai la mia anima nel soggiorno dei morti e non permetterai che il tuo santo veda la corruzione; mi hai fatto conoscere i sentieri della vita…»), dopo aver fatto notare che Davide ha detto questo εἰς αὐτον, cioè a proposito di Gesù di Nazaret crocifisso e risorto; ed ecco come giustifica quest’osservazione preventiva: «Fratelli, mi sia permesso di dirvi liberamente, a proposito del patriarca Davide, che è morto, che è stato sepolto e che la sua tomba esiste ancora oggi fra noi. Ma poiché era profeta e poiché sapeva che Dio gli aveva promesso con giuramento di far sedere uno dei suoi discendenti sul suo trono, ha previsto e annunciato la risurrezione di Cristo, dicendo che questi non sarebbe stato abbandonato nel soggiorno dei morti e che la sua carne non avrebbe visto la corruzione» (At. II, 29 ss,). Ritroviamo la stessa interpretazione del medesimo salmo nel discorso che Paolo pronuncia alla sinagoga di Antiochia di Pisidia (At. XIII, 35 ss.). Si trova introdotta da un testo preso a prestito da Is. LV, 3: δώσω ὑμῖν τὰ ὄσια Δαυἰδ τὰ πιστά (At. XIII, 34): «Vi darò le grazie promesse a Davide, quelle grazie che sono assicurate» (cioè il compimento, nella morte e nella risurrezione di Cristo, della profezia fatta a Davide). E il breve scorcio di storia di Israele contenuto

in questo discorso, termina col seguente richiamo: «Domandarono allora un re. E Dio diede loro, per quarant’anni, Saul figlio di Kis, della tribù di Beniamino; poi, avendolo respinto, suscitò per loro re Davide, di cui ha lasciato questa testimonianza: Ho trovato Davide, figlio di lesse, uomo secondo il mio cuore, che compirà tutte le mie volontà. Dalla sua posterità, Dio secondo la sua promessa, ha suscitato a Israele un salvatore che è Gesù» (XIII, 21 ss.). «E noi vi annunciamo questa buona novella: la promessa fatta ai nostri padri, Dio l’ha compiuta per noi, loro figli, risuscitando Gesù…» (XIII, 32 s.). Secondo gli apostoli Pietro e Paolo, la storia dei re dell’ Antico Testamento aveva dunque un oggetto. Ma se chiamano questo oggetto Gesù Cristo (messo a morte sotto Ponzio Pilato conformemente alla volontà di Dio e risuscitato dai morti dalla potenza di Dio) dobbiamo ancora una volta lasciarci dire che il problema ultimo posto dall’esegesi dei testi che ci interessano, la questione del loro oggetto, coincide con il problema della fede: riconosciamo con gli apostoli che tale oggetto è la persona di Gesù Cristo oppure con la Sinagoga di prima e dopo Cristo non lo riconosciamo? I testi dell’Antico Testamento, da soli, non consentono di trovare una soluzione; sboccano in una serie di aporie; e naturalmente non abbiamo il diritto, nemmeno qui, di adottare la soluzione degli apostoli, per il fatto che la nostra esegesi non riesce a uscire da siffatta serie d’interrogativi e per il fatto che la concezione del Nuovo Testamento ci pare rispondere ammirevolmente alle nostre perplessità. Gli apostoli stessi non sono giunti alla loro soluzione, come se questa fosse una possibilità scoperta e scelta di loro iniziativa o come se essa segnasse il trionfo finale dell’erudizione giudaica; no: semplicemente è accaduto che l’Antico Testamento è stato loro aperto (Le. XXIV, 27 s.) dall’avvenimento della risurrezione di Gesù Cristo, cosicché ormai, alla luce di questo compimento, non hanno più potuto leggere la profezia in altro modo, se non come parola relativa a quest’oggetto. Se prendiamo per buona la decisione degli apostoli, motivata così come essi l’hanno fatto (cioè come imposta dalla rivelazione di Dio in Gesù Cristo e dunque come decisione di fede in lui), è ovvio che l’ultima parola dell’esegesi dei testi di cui parliamo sarà la constatazione seguente, che non solo diventa possibile, ma pure necessaria: il re eletto, di cui si tratta, è Gesù di Nazaret. L’ultima parola, diciamo noi! Nel corso della nostra indagine, come si è potuto notare, non abbiamo mai pronunciato questo nome, ma siamo rimasti sempre nei limiti dell’Antico Testamento, per cercare di cogliere all’interno di questo quadro, il significato della nozione di re eletto; siamo così giunti alla

costatazione che la grandezza in questione non corrisponde a nulla di evidente o di intellegibile nel mondo veterotestamentario; né la monarchia voluta da Dio, né la persona del re eletto, né la realtà in sé, né la sua unità sono univoche, tant’è vero che il problema decisivo: che cosa Dio vuole in questa vicenda e chi intende utilizzare per compiere la sua volontà, non potrebbe essere risolto senza dar luogo ad equivoci, se partiamo dai testi in cui si pone. Se si ammette il presupposto che l’ultima parola che gli apostoli hanno creduto di dover dire in questo caso (come prima parola dell’evangelo, come prima parola della fede che dovevano predicare) è anche la nostra ultima parola, proprio in quanto può e deve essere per noi anche la prima, è ovvio che la nostra esegesi ed i suoi risultati ne ricevono una luce di cui non può beneficiare l’esegesi puramente giudaica (o l’esegesi che, per qualsiasi ragione, rimane di fatto di ispirazione giudaica!). Sempre partendo da questo presupposto possiamo continuare e dire: anche il re eletto dei libri di Samuele (in quanto variante dell’individuo eletto) è, con tutte le sue possibilità ed in tutti i suoi aspetti, un testimone di Gesù Cristo; ogni volta ne è l’immagine ed il tipo, pur rimanendo ogni volta se stesso. Che esistano parecchi aspetti di questo re (due ad ogni modo, anzi a rigore quattro) e che siano irriducibili ad un comune denominatore, continuando ad essere contradditori fra loro, proprio questo li caratterizza in quanto simboli della profezia, in opposizione al compimento che avviene nella persona di Gesù Cristo. E se nella loro disparità non riescono ad attestare il loro stesso oggetto (la monarchia israelita) in modo che tale oggetto appaia chiaramente e in modo intellegibile come un ordine voluto da Dio, ecco ancora l’indicazione e la conferma del loro significato profetico. Non dobbiamo cercare in essi il compimento: è la sovranità di Gesù Cristo che costituisce tale compimento, la realtà, l’oggetto di cui testimoniano e di cui possono solo testimoniare. Proviamo a ripensare partendo da questi presupposti tutti i problemi sollevati dai nostri testi. Se la monarchia israelita istituita al momento dell’assemblea di Rama è l’immagine della sovranità di Gesù Cristo, il fatto che l’atto della grazia divina (che ha avuto luogo in quella occasione) abbia e conservi il carattere di un atto di giudizio è certamente oscuro, ma non più oscuro, anzi altrettanto chiaro, di quest’altro fatto: il re dei Giudei, l’uomo in cui Dio ha inaugurato il suo regno come regno della grazia per tutto il suo popolo è e rimane colui che Dio ha respinto e dato in balìa della morte, in risposta al peccato del popolo, poiché la sua collera si è infiammata contro tale ribellione iniziale. È lui (Gesù Cristo) che rappresenta tutto il peccato dell’uomo, tutti i vitelli d’oro dell’universo; è

lui (l’essere respinto e punito) la vittima offerta per espiare tutta l’ingiustizia e tutta l’empietà del mondo; è lui che prende il posto di tutti i «Saul» che Davide sorpasserà ancora con la sua caduta; è lui che Dio, dopo aver gradito il suo sacrificio, ha elevato alla sua destra e posto sul suo trono per farne il re, nel cui regno non ci sarà più ingiustizia e impurità, perché il potere che esercita è quello del perdono dei peccati. Se la monarchia israelita è il tipo, l’annuncio ed il segno della sovranità di Gesù Cristo, allora non ci si può meravigliare che sia transeunte, che dopo essersi apparentemente stabilita nel presente, sia ininterrottamente rivolta verso l’avvenire (da Saul verso Davide, da Davide verso suo figlio, da Salomone verso i suoi figli ed i loro successori, per concretizzarsi infine nell’ultimo fra loro, Jeconia, seduto alla tavola d’onore del re di Babilonia). Questo fatto rimane oscuro certamente, ma è forse più oscuro della stessa sovranità di Gesù Cristo che, in quanto regno della riconciliazione rimane, finché il mondo esiste, una promessa, un oggetto di fede e di speranza? Questa regalità non è forse nascosta nella struttura visibile della chiesa la quale, in tutte le epoche e sotto tutte le sue forme, non può che segnalare implicitamente la gloriosa presenza di colui che, per quanto abbia creato tutte le cose e le domini, non può che essere tollerato (nel migliore dei casi come un ospite) dalle potenze di questo mondo, cioè rimanere un segno quaggiù e null’altro? Se la monarchia israelita è il simbolo della sovranità di Gesù Cristo, non meraviglia affatto che abbia avuto un termine, che la comunità abbia potuto riferirvisi soltanto come ad un dato del passato; tutto ciò non è più oscuro; è altrettanto chiaro quanto il fatto che il regno di Gesù Cristo, il regno della riconciliazione col mondo presente, con la creazione che noi conosciamo, contiene contemporaneamente un limite ed uno scopo. Solo «quando tutte le cose gli saranno state sottomesse, il figlio stesso sarà sottomesso a colui che gli ha sottomesso ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutti» (I Cor. XV, 28). È soltanto in questo «essere eterno di Dio in tutti» che la sovranità di Gesù Cristo sarà una sovranità eterna, in quanto segnerà, con la fine del tempo, l’avvento della storia ϰατ’ ἐξοχήν, della storia per eccellenza. Se il re riprovato d’Israele (sia esso Saul o Geroboamo) è il prototipo di Gesù Cristo, non siamo più di fronte ad un enigma assoluto quando, nell’Antico Testamento, ci si accorge che tale re porta anche, a modo suo, le caratteristiche di un essere eletto e santificato da Dio, poiché riceve e occupa il trono per diritto divino, poiché conserva anche nella decadenza una certa

grandezza, divenendo oggetto di terrore ma non di disprezzo (la sua fine ha infatti l’aspetto di un giudizio severo e non l’aspetto di una liquidazione trionfalistica). È dunque in modo legittimo e del tutto serio che Saul si trova fra i profeti. Si è posto egli stesso là dove appunto si trovano i trasgressori (cioè i riprovati), là dove la ribellione umana si consuma e conseguentemente dove la collera di Dio deve colpire; così, dopo di lui, anche i re di Samaria non sono mai sfuggiti alla mano del Dio che abbandonavano; poiché nella terribile dimensione del loro peccato (più peccato del popolo che loro proprio) e nella tenebra mortale della collera subita non hanno fatto altro che annunciare e rappresentare quel re il quale, benché innocente, ha accettato di occupare il posto, di prendere la guida di tutti gli uomini peccatori, di porsi fra Dio e ciascuno di essi. Chi dunque se non il re per grazia di Dio, può sostituirsi al povero re per grazia degli uomini, presentarsi a questo titolo davanti a Dio e subire il giudizio di morte?; chi dunque se non il figlio di Dio stesso, può essere il re degli uomini compiendo questa terribile funzione? Chiaramente questo re non può essere privato dell’onore che, secondo la narrazione dell’Antico Testamento, spetta anche a Saul ed agli altri sovrani riprovati d’Israele; davanti a lui, non ci si domanda se Dio ha voluto due cose che si contraddicono, consentendo che accanto a Davide (prima e dopo di lui) Saul e tutti gli altri re dello stesso tipo abbiano il loro ruolo ed il loro splendore particolare; occorre che un riflesso della gloria di cui risplende la grazia di Dio, cada anche su loro e sia evidente; come è vero che colui che muore sul Golgota della morte del malfattore è lui stesso, in quanto colpito dalla disapprovazione di Dio, il portatore di questa gloria, il re di grazia, com’è vero che Pilato mantiene con ragione («Quel che ho scritto l’ho scritto», Gv. XIX, 22) la sua iscrizione sulla croce: «Gesù di Nazaret, re dei Giudei». In tal modo questo pagano accecato viene a confermare che nulla è da cambiare nella profezia dell’Antico Testamento relativa a questo re. E se al contrario il re eletto d’Israele, se Davide stesso ed il figlio di Davide, se ogni re di Gerusalemme sono a modo loro il riflesso e il simbolo di Gesù Cristo, non c’è alcun enigma assoluto nel fatto di non trovare presso tali personaggi un’immagine del tutto chiara e direttamente evidente di questo re; non ci dobbiamo meravigliare, per esempio, di vedere Gionatan e Salomone superare Davide, di sapere che quest’ultimo non ha il diritto di costruire il Tempio, di conoscere che commette un peccato apparentemente più grave di Saul e che il figlio promessogli inaugura il regno della gloria solo per renderlo subito dopo impossibile, di sapere per finire che tale regno non ha alcuna

realtà sotto i successori di Davide. Quando si considerano questi dati partendo da Gesù Cristo, loro autentico oggetto, si capisce perché l’Antico Testamento contenga tanti motivi contradditori, senza peraltro preoccuparsene; si comprende che metta in evidenza con tanta forza l’aspetto negativo del re eletto, senza tuttavia voler mai presentare al lettore un’immagine in cui il negativo ed il positivo, l’ombra e la luce per così dire si equilibrino; come il re riprovato rimane quel che è malgrado tutta la luce che lo circonda, così il re eletto è e rimane eletto; l’elemento negativo in lui non è certo taciuto, ma quanto deve essere messo in risalto, in questo caso, non ha nulla di negativo: Dio è con Davide; Davide ha vinto e ottenuto il potere, ha danzato davanti all’Eterno per le vie di Gerusalemme; Dio gli ha promesso di costruirgli una casa e lo ha fatto; poi Salomone ha costruito una dimora per Dio, è stato saggio e ricco e fra i suoi successori se ne sono sempre trovati di quelli che hanno camminato sulle orme di Davide, obbedendo ai comandamenti divini e facendo esperienza della benedizione; anche tutto il resto è senza dubbio riferito, ma sempre soltanto in margine e senza ricevere un’importanza in sé. Se il re Gesù Cristo è l’oggetto autentico ed il vero eroe di queste vicende regali, allora non può certo essere diversamente: la grazia divina e i peccati umani, i miracoli e le benedizioni di Dio con la loro necessaria limitazione, la realtà della sua bontà e della sua fedeltà concretamente in atto così come il carattere provvisorio della sua presenza nella storia, non si possono equilibrare, né possono esistere parallelamente. Il secondo elemento deve sempre essere dominato dal primo e respinto in margine, come avviene nell’immagine veterotestamentaria del re eletto. È la risurrezione e l’elevazione di Gesù Cristo (la rivelazione della sua divinità nella debolezza, sempre trasfigurata, della nostra natura umana) che si riflettono in quest’immagine. Per il fatto che Gesù Cristo è il re eletto d’Israele, la vittoria e la sovranità di Davide, la saggezza e la ricchezza di Salomone, la lode dei re buoni devono apparire quasi senza equivoco in questa immagine. Quasi. Ci deve sempre essere questo margine negativo. Che esista veramente; che se ne debba tener conto (a rischio di scandalizzare) al punto che si può continuamente confondere la figura del re eletto con quella del re respinto; che occorra seguire molto da vicino il filo del racconto per non perdersi: tutto questo non concerne solamente il fatto di avere a che fare con Pimmagine dell’oggetto e non con l’oggetto stesso (c meglio abbiamo a che fare con l’oggetto soltanto nella misura in cui è rappresentato dalla sua immagine); riguarda l’oggetto stesso; è a causa sua che la sua immagine ha questo

carattere, è a causa sua che esiste questo margine negativo che non si può far a meno di vedere. Se infatti nella sua valenza specifica e positiva l’immagine, partendo dal suo oggetto Gesù Cristo, sottolinea indubbiamente il senso e la forza dell’elezione divina, la gloria della grazia di Dio sotto l’aspetto del re umano dato al popolo, l’elemento negativo (dominato dall’elemento positivo certo, ma ben visibile, manifesto, chiamato col suo nome e resoci noto) ci ricorda chi Dio ha eletto e qual è il popolo il cui re è così potente e così glorioso; ci indica che Dio ha giustificato e salvato dei peccatori perduti e che, per farlo, ha dovuto assumere la loro natura, diventare simile a loro; non ci consente di dimenticare il prezzo che Dio ha pagato per essere il re di grazia a capo del suo popolo e per regnare su di esso. Non dobbiamo trascurare il re riprovato a vantaggio del re eletto, Saul a vantaggio di Davide e di Salomone; li dobbiamo certo considerare nella situazione loro propria, ma è insieme che dobbiamo riguardarli; occorre che Davide e Salomone ci appaiano come persone che stanno sull’orlo di un abisso, come persone sfuggite alla morte. Altrimenti in che modo possiamo riconoscere il valore della loro vittoria e il senso della loro gloria?; che cosa possiamo sapere di colui che è risuscitato per la nostra giustificazione, se non vediamo in lui quegli che è stato consegnato per i nostri peccati?; se il riflesso della gloria proprio della grazia illumina Saul, occorre anche che l’ombra della giusta collera divina avvolga Davide e Salomone. Istituendo la sovranità del Figlio suo incarnato, Dio vuole infatti una sola e medesima cosa e sono necessarie sia la luce che l’ombra; quello che Dio vuole è la grazia dei peccatori nella persona del Figlio suo consegnato per loro; in che modo la gloria potrebbe mancare al Figlio nell’inferno del suo abbassamento fino alla morte ed in che modo l’obbrobrio e la vergogna non velerebbero il fulgore della sua divinità e della sua elevazione alla destra del Padre? La sovranità divina in Cristo è perfetta su entrambi i versanti; perciò noi costatiamo resistenza, scandalosa agli occhi nostri, di elementi positivi in Saul e di elementi negativi in Davide. In Cristo, l’oggetto designato dalle loro due vicende, i due personaggi sono uno solo: costituiscono il vero re d’Israele nella singolare successione e nella contraddizione interna che li caratterizza entrambi, così come nella vittoria dell’uno sull’altro, risultante dal loro confronto. Si osservi bene: se la monarchia di Israele è il simbolo della sovranità di Gesù Cristo e se il re israelita situato a destra o a sinistra è il simbolo di questo stesso Gesù Cristo, ciò non significa che lo scandalo della storia veterotestamentaria sia eliminato; al contrario, appare allora in tutta la sua

gravità; ed è allora che diventa uno scandalo fecondo. Ci distoglie infatti da quella innocua contemplazione storica che ci consente, certo, di meravigliarci rimanendo a distanza, senza però costringerci a prendere una qualsiasi decisione; non ci possiamo più adattare al fatto che Dio ha detto dialetticamente sì e no a Israele, al momento dell’assemblea di Rama; non ci possiamo accontentare né dell’idea che la monarchia stabilita in quel momento sia stata e sia rimasta un enigma, né rassegnarci alla sua scomparsa; non ci possiamo accontentare di sapere che Saul è stato respinto e che tuttavia non assomiglia mai ad un uomo semplicemente abbandonato da Dio, né che Davide è stato eletto e che tuttavia non sembra essere con chiarezza e definitivamente il vero re scelto da Dio. Ogni facile soluzione di questi dati contradditori ci diventa impossibile se ammettiamo, secondo le direttive apostoliche, che deve essere così perché Gesù Cristo è il re d’Israele, eletto da Dio. Allora infatti è lui, è la grazia di Dio rivelatasi in lui per i peccatori perduti, a diventare l’enigma degli enigmi, il mistero dei misteri; di conseguenza non possiamo più evitare le pietre d’inciampo dell’Antico Testamento, perché sono poste sulla nostra strada dalla rivelazione e dalla riconciliazione stesse; e sono proprio queste opere ad allontanarle per la nostra salvezza. Che valore ha lo stupore che proviamo leggendo questi vecchi testi, paragonato a quello che essi hanno provocato nella comunità postesilica o a quello che ha chiaramente afferrato la chiesa apostolica non appena li ha letti alla luce del loro compimento in Gesù Cristo? Dio è grazia e collera, Dio fa vivere e morire, Dio elegge e respinge; queste sono le due realtà apparse indissolubilmente legate in una sola e medesima persona; non se ne è potuta rinnegare una, non si sono potute separare, ma interpretandole una attraverso l’altra, si è stati obbligati a discernere nell’uomo in cui si trovavano congiunte la presenza stessa del regno di Dio. Che la storia dei re dell’Antico Testamento sia non soltanto enigmatica ma miracolosa, che sia il racconto del miracolo della grazia di Dio, non ha potuto e non può essere visto e capito se non nello stupore cristiano suscitato dal contenuto di questa storia. Questo implica che si abbia il coraggio di pronunciare qui, di fatto, l’ultima parola dell’esegesi, dataci dal Nuovo Testamento. Se leggiamo questi racconti condividendo lo stupore cristiano degli apostoli, preferiamo rinunciare a cercare e a descrivere quello che ha potuto essere lo stupore che ha presieduto alla loro elaborazione nelle cerchie profetiche anteriori all’esilio (che conosciamo male) e alla loro redazione negli ambienti postesilici. In realtà il termine «stupore» è troppo debole per definire il sentimento degli autori, redattori e compilatori di testi di

questo tipo. È chiaro che queste persone hanno voluto raccontare le origini della monarchia israelitica e hanno esposto le cose come le hanno viste. È difficile immaginare che non abbiano avuto coscienza dell’enigma dinanzi a cui si trovavano e dinanzi al quale ad ogni modo ponevano soprattutto i loro lettori. È difficile infatti contestare l’enigmaticità dei loro scritti. Che lo siano stati, lo si capisce meglio se si ammette che il fatto stesso di cui hanno parlato contiene un enigma e se si ascolta il Nuovo Testamento precisare di quale enigma si tratti e di quale verità divina, nascosta e rivelata al tempo stesso, sia ripieno. Colui al quale non si addicesse, per una ragione o per l’altra, il nostro «se» (cioè il presupposto dell’esegesi apostolica di questi testi) ci indichi pure una soluzione migliore del problema posto dal re eletto dei libri di Samuele. 4. La tipologia del libro dei Re. Illustriamo in terzo luogo la scelta differenziatrice di Dio nell’Antico Testamento, studiando il capitolo 13 del primo libro dei Re, che forma un tutto unitario: si tratta della scena che mette alle prese l’uomo di Dio venuto da Giuda e il vecchio profeta di Bethel, all’epoca di Geroboamo. Il testo pare appartenere ad uno strato redazionale diverso dal suo contesto o per lo meno ad una tradizione diversa, analoga forse al ciclo di Eliseo, posto all’inizio del secondo libro dei Re; riflette riflessioni e idee concernenti il rapporto fra l’autentico uomo di Dio e il profeta professionale, che ricordano molto chiaramente il libro di Amos; esse sono così originali, che non è impossibile trovarvi, se non per la forma almeno per il contenuto, un frammento di un’antica tradizione sul personaggio del profeta israelita e sui rapporti dei due regni. Qualunque sia però la sua origine, questo testo è così notevole e così ricco di insegnamento per il problema che ci interessa, che merita ascoltarlo. Si tratta del confronto molto drammatico e molto radicale fra un anonimo uomo di Dio proveniente da Giuda (dominio della città di Davide, del tempio di Salomone e del culto che vi si svolge secondo la volontà di Dio) ed un profeta di Bethel (dove Geroboamo, il primo monarca delle dieci tribù dell’Israele separato dalla dinastia davidica, ha instaurato uno pseudo-culto nazionale, che sta allora per inaugurare); l’argomento del nostro capitolo verte sul come quest’uomo di Dio e questo profeta siano legati eppure divisi, come malgrado tutto siano inseparabili e come anche Giuda e Israele siano legati. Ci viene detto anzitutto (vv. 1-5) che l’uomo di Dio, proveniente da Giuda come Amos (VII, 14) e non membro della casta profetica, si reca al santuario di Bethel su ordine di Dio (ancora una volta come in Am. VII, 15), per

pronunciarvi un oracolo contro il culto; la parola di Dio che deve annunciare riguarda l’altare costruito da Geroboamo; un discendente della casa di Davide (Giosia), profanerà pubblicamente e difinitivamente quest’altare, immolando su di esso i suoi sacerdoti e facendovi bruciare ossa umane. Impossibile immaginare una negazione più decisa della legittimità del culto celebrato a Bethel e una minaccia più chiara per il suo avvenire; impossibile esprimere meglio l’incompatibilità di tale culto con quello di Gerusalemme, da cui verranno la purificazione e la vendetta, perché Dio è a Gerusalemme e non a Bethel, perché dice sì laggiù e non qua; impossibile ricordare con maggior forza l’esclusivismo che gioca a favore del regno di Davide e a svantaggio del regno separato. Un segno divino verrà a confermare immediatamente il giudizio: l’altare si spaccherà e la cenere che sta sopra l’altare sarà sparsa. Accanto all’altare sta il re Geroboamo; è a capo del suo clero illegittimo, sotto gli occhi di quel suo Israele che ha convocato per celebrare una festa da lui stesso istituita (XII, 32 s.); alza la mano dall’altare contro l’uomo di Dio, gridando: afferratelo! Ma questa mano si trova ad essere paralizzata ed egli non può più ricondurla a sé; allora il segno che è stato appena annunciato si verifica; l’altare si spacca e la cenere si sparge. Fino a questo punto del racconto, si potrebbe pensare semplicemente ad una variante più ricca dell’incontro che ha avuto luogo proprio lì, fra Amos e Amatzia, il sacerdote di Geroboamo II (Am. VII, 10 s.). Ma non è così. Il confronto brutale fra colui che porta l’oracolo di Dio e il cesaropapismo nord-israelita è infatti soltanto (in I Re XIII) la materia ed il presupposto del vero problema di cui sarà questione. Nella seconda parte del racconto (vv. 610), assistiamo ad un ammorbidimento provvisorio dell’opposizione (che tuttavia non può modificare la sua durezza originaria, se non nel senso che per un attimo questa sembra velata); Geroboamo si mostra spaventato per quanto è successo e, a causa della sua mano paralizzata, domanda all’uomo di Dio di intercedere: «Implora l’Eterno, il tuo Dio e prega per me affinché io possa ritirare la mia mano!»; l’uomo di Dio consente ed il miracolo si riproduce in senso inverso; allora il re lo invita gentilmente a casa sua, a mangiare, a bere e ad accettare un dono. Ha dimenticato la minaccia contro l’altare?; ha dimenticato la parola ed il segno che mettono radicalmente in questione il culto di Bethel e, di conseguenza, la legittimità della sua monarchia e del suo regno?; oppure pensa che, avendo lui stesso ricevuto un segno della pazienza di Dio, la minaccia del giudizio sia evitata e che l’altare sarà riparato e preservato? L’invito che rivolge al suo avversario sembra indicarlo;

Geroboamo si augurerebbe la riconciliazione, la tolleranza, un accordo amichevole fra lui e l’emissario di Giuda, inviato da Dio; non ci si potrebbe tener per mano?; perché Gerusalemme e Bethel non potrebbero sussistere parallelamente?; Geroboamo non lo capisce. Ma è appunto ciò che l’uomo di Dio rifiuta di concedergli, declinando il suo invito; è appunto questo genere di concessioni che Dio gli proibisce e che non può accettare, anche se Geroboamo gli desse la metà del suo regno; ha ricevuto la missione di far risuonare a Bethel una protesta e perciò non ha il diritto di accettare in quel luogo nemmeno un pezzetto di pane, di instaurare il benché minimo segno di comunione; deve anzi tornare a casa sua da un’altra strada: in tutto il territorio del Nord può essere soltanto un fuggiasco, deve evitare ad ogni costo di rimetterci piede, come se dovesse fare qualcosa di diverso da una protesta. L’intercessione in favore del re non implicava di per sé una comunione; gli doveva semplicemente mostrare, con una punizione miracolosa, che non aveva il diritto di colpire l’uomo di Dio. L’opposizione è stata in un certo senso velata da questo episodio, ma il modo in cui il profeta si è dovuto comportare in seguito, mostra chiaramente che non è stata eliminata. Fino a questo punto però, il vero oggetto del testo rimane ancora nascosto; Geroboamo è soltanto un comprimario nel conflitto che deve essere esposto; tale conflitto appare chiaramente nella terza parte (vv. 11-19). Entra in scena una nuova figura: un vecchio profeta che abita a Bethel e che, a differenza dell’uomo di Dio, è un profeta di mestiere; appartiene ad una categoria di individui che un tempo era data per scontata in Israele; queste persone erano, in ugual misura, giustificate e minacciate dall’esistenza degli autentici uomini di Dio, oggetto di una vocazione diretta, in seguito designati anch’essi con il nome di profeta. Erano al tempo stesso giustificati e minacciati, abbiamo detto; potevano essere saltuariamente i portatori di oracoli redi di Dio, senza che questo caratterizzasse la loro vocazione e la loro funzione; potevano perfino non aver nulla da dire; potevano essere di fatto dei falsi profeti. Uno di questi personaggi, di cui non sappiamo null’altro, interviene a questo punto nella storia dell’uomo di Dio venuto da Giuda per pronunciare il suo oracolo; prende il posto del re, nel dialogo con questo straniero; non ha vissuto in prima persona la scena dell’altare, ma ne ha avuto semplicemente conoscenza attraverso i suoi figli. Veniamo a sapere che si informa sulla strada seguita dall’uomo di Dio, che fa sellare il suo asino per seguirlo e che avendolo trovato mentre sedeva sotto un terebinto, lo prega di tornare indietro per mangiare e bere a casa sua. Che cosa possiamo dire se non che questo vecchio

profeta ha intuito tutta la portata del rifiuto opposto a Geroboamo (secondo i vv. 6-10) e che vorrebbe ad ogni costo ottenere una ritrattazione; ha capito che la sorte di Israele ne dipendeva; in altre parole tenta ogni mossa per ristabilire la comunione fra Gerusalemme e Bethel, che l’invito di Geroboamo aveva in prospettiva, in quanto Geroboamo parteggiava per la tolleranza e il compromesso. Non riesce a rassegnarsi al rifiuto subito dal suo re; deve e vuole aiutare quest’ultimo con tutti i mezzi: l’uomo di Dio venuto di Giuda non rifiuterà, verrà e mangerà a Bethel; in tal modo dimostrerà che l’altare incrinato, la minaccia del giudizio che pesa sul culto e sull’insieme del regno israelita sono cose non definitive, proprio come la mano paralizzata di Geroboamo. Questo spiega la fretta del vecchio profeta e il suo invito incalzante: «Vieni a casa con me a mangiare un boccone!». L’altro gli risponde come aveva risposto prima al re: «Non posso»; non può, perché non ne ha il diritto; «infatti mi è stato detto dalla parola dell’Eterno: tu non vi mangerai pane e non vi berrai acqua e non ritornerai dalla stessa strada che hai seguito all’andata». Il profeta di Bethel si trova posto dinanzi al medesimo rifiuto, prima opposto a Geroboamo; dovrebbe prendere atto anch’egli della sua sconfitta, se appunto non fosse un profeta (cioè non forse un conoscitore diretto degli oracoli di Dio, ma insomma in qualche modo uno specialista); se in una parola non conoscesse per lo meno la possibilità di rispondere a tale rifiuto con un argomento avente la stessa autorità e lo stesso peso. Il suo desiderio di fronteggiare la minaccia nel nome del re e del popolo, organizzando quel pasto, ha il sopravvento; non teme perciò di creare un’ambiguità: «Anch’io sono un profeta come te» (l’ambiguità stessa della sua esistenza di profeta di mestiere glielo può permettere) per aggiungervi subito una menzogna («gli mentiva», dice il testo); «un angelo mi ha parlato da parte dell’Eterno e mi ha detto: Riconducilo con te in casa tua e dagli del pane da mangiare e dell’acqua da bere!». Il primo punto culminante del racconto è raggiunto. Tutto sta ormai su una punta di spillo; un oracolo che viene dall’Eterno (secondo l’affermazione di colui che lo porta) si oppone ad un altro; un’ulteriore parola di Dio viene a mettere in questione una rivelazione precedente. L’uomo di Dio di Giuda si trova dinanzi a questo problema: quello che ha ricevuto da Dio è forse superato e corretto da quanto il profeta sostiene di aver ricevuto lui stesso?; la minaccia contro l’altare di Bethel, e dunque contro l’Israele maggioritario, la sovranità unica del Dio di Davide e della sua casa sono forse state, in definitiva, una verità e una rivelazione provvisoria?; Dio non ha forse avuto un’intenzione precisa sui due regni divisi, quando ha

esaudito la sua preghiera per il re punito?; la sua grazia e il suo giudizio non sono stati suddivisi da una parte e dall’altra in modo tale che sia possibile prendere in considerazione un compromesso reciproco, soddisfacente per entrambi?; il Dio di Davide non è stato forse più tollerante di quanto non sia sembrato inizialmente al suo inviato?; non è forse giusto innalzare a Bethel un segno di comunione? Una «parola dell’Eterno» pronunciata dal profeta di Bethel lo mostra chiaramente e l’uomo di Dio provieniente da Giuda depone le armi: «Tornò indietro con lui e mangiò del pane e bevve dell’acqua in casa sua». Osserviamo che in tutto questo non c’è traccia di morale; perfino la menzogna del vecchio profeta sembra condannabile nel racconto soltanto perché fa parte della riprovazione di Geroboamo, di Bethel e di tutto il regno del Nord; cioè: l’intervento del profeta in favore di quella causa persa era possibile soltanto attraverso una menzogna; infatti la decisione divina contro Israele era già stata presa e, anche con la miglior buona volontà del mondo, non gli si potevano opporre che parole vuote. D’altra parte l’inviato di Giuda non è vittima della sua mancanza di carattere, ma ricorda non senza turbamento che ci sono stati dei profeti autentici anche nel regno riprovato; non può dunque escludere di primo acchito die un oracolo di Dio gli sia rivolto anche laggiù; il Dio cui si offrivano i sacrifici sull’altare di Bethel non è infatti una divinità straniera, ma appunto il Dio di Israele, anche se il culto che gli veniva reso era soltanto una ripresa dell’antica adorazione del vitello. È in quest’equivoco fra elezione e riprovazione che è incastrato l’uomo di Dio proveniente da Giuda. La quarta parte (vv. 20-26) reca una grandissima sorpresa e costituisce il secondo punto culminante del racconto. La menzogna cede di colpo il posto alla verità: «mentre sedevano a tavola, la parola dell’Eterno fu rivolta al profeta che lo aveva fatto tornare indietro». Così accade che Dio utilizzi il profeta di mestiere per fargli dire la sua Parola; senza tener conto dell’intento originario di quest’uomo, senza più sottolineare la sua bestemmia ed il suo tradimento, lo coglie attraverso la sua stessa menzogna; i ruoli si invertono; colui che inizialmente aveva detto la verità deve udire dalla bocca di colui che mente l’oracolo dell’Eterno; deve lasciarsi dire che non ha osservato il comandamento di Dio e che sarà punito. Il giudizio pronunciato contro Geroboamo e il suo altare, era conforme a verità ed è lui, il messaggero diventato infedele, che ne subirà il primo effetto: «Il tuo cadavere non entrerà nel sepolcro dei tuoi padri»; è dunque l’altro, il mentitore, che ora dice la verità: è costretto a «gridare» all’uomo di Dio il comandamento che in un

primo tempo aveva voluto rinnegare ed annullare; di conseguenza deve distruggere il segno di pace che aveva voluto dare e riconoscere che il pasto che ha offerto non è un simbolo di comunione. Come avrebbe potuto esserlo, poiché ha avuto luogo contro la volontà di Dio?; colui che si avvale del compromesso deve rinunciare al suo progetto e rivolgersi proprio contro l’uomo che era riuscito a persuadere della necessità e della assennatezza di una transazione. Ora le cose precipitano; l’uomo di Dio venuto da Giuda si alza una seconda volta per tornare a casa, ma «trova sulla sua strada» un leone che lo uccide e «il suo cadavere resta disteso sulla strada; l’asino rimase accanto a lui e il leone stette accanto al cadavere». Scena particolare: perché il leone l’ha ucciso senza divorarlo e senza attaccare l’asino? Alcuni passanti segnalano la cosa e quando il profeta di Bethel ne è a conoscenza comprende subito: «È l’uomo di Dio che è stato ribelle all’ordine dell’Eterno, dice; e l’Eterno lo ha abbandonato in mano al leone, che lo ha straziato e fatto morire, secondo la parola che l’Eterno aveva pronunciata su di lui». Colui che parla in tal modo è proprio l’individuo che ha indotto la vittima in errore e l’ha spinta a disubbidire abusando della sua autorità professionale. Ancora una volta però, il testo non ne tiene conto: quest’uomo esiste, per il momento, solo in quanto testimone che conosce e deve confermare che l’episodio del leone non è casuale; poiché il messaggero di Giuda si è di fatto opposto alla decisione di Dio, viene ad essere colpito da questa decisione, contemporaneamente a Geroboamo, a Bethel, all’altare e a tutto il regno del Nord; la morte lo afferra di colpo, come qualcuno che abbia toccato i fili ad alta tensione. Per aver voluto concludere una pace che Dio non voleva, è soltanto più un cadavere; la sconfessione che ciò significa per il profeta di Bethel, per il suo re e per tutta la causa che ha voluto difendere non ha bisogno di essere espressamente formulata; i fatti sono lì. Corrispondono a quanto l’uomo di Dio ha in un primo tempo annunciato ed a quel che il vecchio profeta ha dovuto confermare suo malgrado: Dio non vuole la pace fra Gerusalemme e Bethel; l’uomo venuto da Giuda ha agito contro questa volontà e, di conseguenza, contro la sua elezione e la sua vocazione; pertanto non gli rimane che morire su quella terra straniera dove ha tradito la sua missione. E come forse lo indicano testi quali Gen. XLIX, 9, Am. I, 2 e III, 8, non è a caso che un leone debba essere l’esecutore di questa sentenza. Ma la vicenda non è ancora finita: il dramma rimbalza e raggiunge il suo terzo punto culminante in una quinta parte (vv. 27-32). Il profeta di mestiere diventato un vero profeta, l’uomo della menzogna che ha pronunciato il

giudizio divino contro il vero uomo di Dio (cioè contro se stesso e contro la causa che difende) non si accontenta di simile inversione dei ruoli. Per la seconda volta si alza anche lui e si affretta sul luogo del disastro; trova le cose quali gli sono state descritte e porta il cadavere a Bethel per piangerlo, secondo l’uso e seppellirlo. «Mise il cadavere nel sepolcro, e fece compianto su di lui, dicendo: Purtroppo, fratello mio!». Poi dà ordine di voler essere lui stesso sepolto, dopo la sua morte, accanto al defunto: «Deporrete le mie ossa accanto alle sue ossa. Poiché avrà compimento la parola che egli ha gridato, da parte dell’Eterno, contro l’altare di Bethel e contro tutti i santuari che sono nelle città di Samaria!». I ruoli sono dunque ancora una volta invertiti: il peccato e la punizione dell’uomo di Dio venuto da Giuda non hanno modificato la sua missione più di quanto non abbiano abolito la sua dignità, la sua superiorità sul profeta di Bethel; infatti non è soltanto per onorarlo che costui lo colloca nella sua tomba, ma è per prepararsi un rifugio, il giorno in cui si compirà la minaccia, confermata dal peccato e dalla punizione di questo morto, che egli formula ancora una volta solennemente nel suo nome. L’epilogo provvisorio del racconto (vv. 33-34), in cui il testo riprende la storia di Geroboamo, mette in evidenza che quest’ultimo non si lascia fermare dall’evento verificatosi, ma continua a camminare nella cattiva strada di uno pseudo-culto: «Quella fu un’occasione di peccato per la casa di Geroboamo e per questo è stata sterminata e distrutta dalla faccia della terra». La vera conclusione del racconto si trova soltanto in II Re XXIII, 15-20, dove veniamo a sapere come Giosia ha eseguito la minaccia pronunciata nel nostro capitolo, profanando l’altare di Bethel e gli altri santuari samaritani; ci viene detto che fece aprire un cimitero per prelevarvi le ossa necessarie a quell’atto di profanazione; per caso capitò sul sepolcro dell’uomo di Dio mandato un tempo a Geroboamo e dopo essersi fatto raccontare tutta la storia, proibì di toccarlo: «Cosi le sue ossa furono conservate con le ossa del profeta che era venuto da Samaria». Dati i diversi aspetti di questo drammatico racconto, ci si può domandare, senza riuscire a dare una soluzione, quale sia il problema che vi è trattato: è forse l’opposizione fra l’autentico uomo di Dio ed il profeta professionista oppure l’opposizione fra i due regni, di Giuda e di Israele? Questi due elementi sono a tal punto connessi nella narrazione, che bisogna costantemente farvi riferimento per comprenderla; certo il problema profetico è indubbiamente in primo piano; ma quello dei due regni è, altrettanto chiaramente, più che un semplice motivo secondario. Se si considera il contesto di I Re XIII, si potrebbe

perfino essere tentati di affermare che il problema profetico interviene soltanto per illuminare l’altro, cioè che non è affrontato se non in funzione di tale sfondo. Esiste però anche un altro punto su cui è impossibile pronunciarsi: quale dei personaggi che rappresentano i due regni, si pone al centro del racconto, in quanto eroe del dramma?; è l’uomo di Giuda, o quello di Bethel?; o dietro di loro: è il re peccatore Geroboamo oppure Giosia, il re riformatore e giustiziere annunciato e che verrà più tardi? Infatti se nessuno di questi due monarchi deve mancare al quadro, in quanto l’uno presuppone e completa l’altro, si costata anche e soprattutto che i due profeti che si trovano in primo piano e le cui vie s’intersecano continuamente, sono a tal punto legati fra di loro che l’intento della narrazione diventa evidente: anch’essi sono solidali e devono essere considerati insieme. Se dunque, pur tenendo conto dei vari temi che qui si intersecano, ci sforziamo ad una visione d’insieme, costatiamo l’esistenza di due doppie immagini, che si situano una a destra e l’altra a sinistra. La duplice immagine situata a destra appare con l’uomo di Giuda e, nello sfondo, con il re Giosia: rappresenta il profetismo autentico, proveniente da Dio, in quanto difensore della monarchia davidica, sola vera; o, se si preferisce, rappresenta la monarchia davidica in quanto ambito e ricettacolo del profetismo autentico. L’aspetto positivo di tale immagine, lo scorgiamo nell’implacabile intervento dell’uomo di Dio venuto da Giuda per condannare l’altare di Geroboamo e nell’atto di confessione col quale rifiuta l’invito del re, poi quello del profeta di Bethel; qui senza dubbio si trovano la missione, la legittimità e l’autorità che provengono da Dio; qui si manifestano la grazia (in virtù della quale Davide e Gerusalemme sono stati scelti per realizzare la volontà divina) e concretamente (come rovescio di tale grazia) il giudizio tramite cui Dio non accetta il culto offertogli a Bethel e disapprova perfino il popolo e il re riuniti intorno a quell’altare, benché quel popolo si chiami anche (significativamente) «Israele» e benché quel re abbia avuto accesso al trono conformemente alla volontà divina ed in seguito alla chiamata di un profeta. Infatti separandosi dalla casa di Davide, le dieci tribù si sono separate segretamente e apertamente da Dio stesso; Samaria è il luogo in cui il popolo di Dio ha cessato di essere tale; l’araldo di questa sventura è l’uomo di Dio venuto da Giuda, non meno di tutta l’esistenza del regno di Giuda in opposizione a quello di Israele e, più tardi, di Giosia, il re riformatore e giustiziere. Ecco perché la mano di Geroboamo si paralizza nel momento in cui si alza contro

l’uomo di Dio; ecco perché l’altare di Bethel si spacca e diventa un presagio della sua futura rovina; ecco perché questa rovina un giorno sicuramente si verificherà. Il corso degli eventi non può più essere fermato; la causa che qui è in gioco, come un tempo quella di Davide, è la causa stessa di Dio; l’obbedienza rigorosa con cui l’uomo di Dio esegue in un primo momento la sua missione, la forza con cui rifiuta ogni compromesso esistono per attestare che i dadi sono definitivamente gettati. Lo dimostra anche il fatto che appena lasciato da parte dal suo legittimo portatore, il mandato di Dio trova un altro rappresentante nella persona del profeta di Bethel; come pure il fatto che il leone di Giuda entra in scena e colpisce nel momento in cui l’uomo di Giuda smette di voler essere quel che è e deve essere e non può in nessun caso smettere di essere. Una sola cosa non accade: l’uomo di Dio ucciso dal leone non è divorato; il suo cadavere è conservato e perfino sepolto in una tomba, straniera certo, ma sicura e degna; e più tardi, quando il giudizio colpisce Bethel, accade che gli ultimi resti di quest’uomo di Giuda sono risparmiati; si tratta di povere ossa certo, ma insomma sono le sue ossa. Così la causa che ha difeso non solo ha trionfato attraverso il suo peccato, ma anche attraverso il suo castigo, attraverso la sua morte e al di là di essa; rimangono i suoi resti; la grazia di Dio su Gerusalemme e Giuda, la fedeltà del Dio d’Israele che sussiste eternamente è rimasta la stessa, malgrado questo servitore sbagliato: perlomeno le sue ossa sono preservate dalla rovina. Nessun autentico uomo di Dio, per quanto pesante sia la sua infedeltà, finisce per esser posto sotto un segno diverso da quello della fedeltà di Dio; perfino Gerusalemme, perfino Giuda, malgrado tutti i loro peccati; la radice di Davide, anche se tagliata al suolo, sussiste. La grazia di Dio non può infatti venir meno e la sua alleanza di grazia non può essere scossa. Il sepolcro di Bethel è il segno potente di questa grazia e di questo patto. L’aspetto negativo della duplice immagine è subito evidente: il rappresentante della causa di Dio si trasforma qui in un cattivo testimone nel momento cruciale, decidendosi per errore ad accettare l’invito del profeta di Bethel; non dà prova di mancanza di carattere, ma dimostra di essere particolarmente sordo alla Parola di Dio che ha appunto proclamato e confessato; tale è l’enigma della sua decisione errata. È possibile che avendo non soltanto udito ma annunciato lui stesso la Parola di Dio nell’obbedienza, non agisca conformemente a quello che le sue parole ma più ancora i suoi atti e il suo comportamento lasciano intendere?; è possibile che non porti a termine il suo atto?; è possibile che possa mettere su uno dei piatti della

bilancia l’oracolo che ha ricevuto da Dio e che ha enunciato lui stesso e sull’altro una parola contradditoria, pronunciata da un terzo e che vanta anch’essa la sua provenienza da Dio?; è possibile che sia proprio questa seconda parola ad aver più peso sulla bilancia? Secondo il nostro racconto tutto ciò non solo è possibile, bensì reale. L’uomo di Dio che compie la sua missione davanti all’altare di Bethel, che confessa la sua fede senza riserva davanti al re ed al vecchio profeta, questo stesso uomo rinnega e tradisce adesso tutta la sua missione attraverso quello che fa, come se non fosse accaduto nulla! Quest’uomo, diciamo? Certo egli segnala l’abisso accanto a cui cammina ogni autentico uomo di Dio, ogni autentico profeta, secondo il nostro testo: la Parola di Dio può essere rinnegata e tradita perfino dai suoi annunciatori ufficiali. Ma non è soltanto questo. Non è soltanto il profeta autentico a diventare rinnegato e traditore, ma, in lui e come lui, Gerusalemme, la città di Davide, la città di Dio, ma, in lui e come lui, Giuda, il regno in seno al quale si trova la casa costruita a Dio da Salomone e nella quale il vero Dio non aveva rifiutato di risiedere. Quello che quest’uomo di Giuda compie, è quanto farà Giuda nel suo insieme, Gerusalemme intera: anche questo regno paragonerà la missione che ha ricevuto e di cui è stato l’araldo alla missione che altri popoli pretendono di aver ricevuto; anch’esso darà ascolto a voci cosiddette angeliche per prendere a sua volta una decisione sbagliata, per diventare tollerante e di conseguenza disobbediente e cadere infine nell’apostasia, perdendo, a partire da quel momento, l’identità che lo distingue, nell’essenziale, dal regno del nord. Tutta questa evoluzione non è forse già iniziata sotto Robóamo, sotto Salomone e perfino, prova ne sia la sua caduta, sotto lo stesso Davide? immancabilmente seguirà il suo corso, malgrado tutti i freni, malgrado Giosia e la sua riforma. Certo, con Gerusalemme, Giuda rimarrà quello che è, nella misura in cui la sua missione (mal eseguita e rimasta senza seguito) non le è ritirata e non le sarà tolta; però nella persona di molti suoi re e soprattutto dei suoi ultimi, questo popolo farà ciò che dispiace ali’Eterno, in contraddizione totale con la sua missione, esattamente come l’uomo di Dio del nostro racconto, che ha tradito il suo mandato in modo inizialmente appena percettibile. A questo punto è impossibile che il leone di Giuda non si rivolga contro Giuda, che la voce che ruggisce da Sion, la voce del giudizio, non scuota la casa stessa di Dio e non finisca col ridurla in polvere. L’uomo di Dio deve morire a causa della verità che ha udito e proclamato; anche Gerusalemme, come lo stesso regno di Davide, dovrà avere termine a causa della verità che i suoi profeti (Isaia,

Michea, Geremia) sono stati costretti a predicare come un giudizio; quanto rimarrà di tale regno, saranno tombe: tombe onorate, sepolcri di re e di profeti, ma insomma pur sempre e solo tombe; Gerusalemme diventerà una città piena di ricordi gloriosi, così da far invidia a Samaria, ma sarà pur sempre una città di rovine, che non ritroverà mai più il suo antico splendore; e la tomba dell’ultimo dei discendenti di Davide, non sarà il sepolcro dei suoi padri, ma un sepolcro sito in terra straniera. Questo è l’aspetto negativo dell’immagine situata a destra. La doppia immagine situata a sinistra ha naturalmente fattezze del tutto diverse e bisogna anzitutto considerarne l’aspetto negativo, nettamente predominante. È Geroboamo a trovarsi improvvisamente al centro della scena: si tratta del re che intende essere al tempo stesso sacerdote e che ha i requisii per creare un culto contemporaneamente nazionale e religioso; in un atteggiamento che tradisce un perfetto demonismo, offre lui stesso il primo olocausto davanti all’altare, in occasione della festa che ha proclamato per contrassegnare la dimensione religiosa impressa al suo regno; incarna cioè nella sua persona lo stato clericale e la chiesa di stato. Il peccato dell’Israele che Dio respinge appare qui, per così dire, allo stato puro; le immagini del vitello non sono ormai più necessarie; per questo il nostro testo non le menziona in modo particolare. Il motivo per cui Dio dice no a quest’altare e a questo trono, a questa religione e a questa politica balza immediatamente agli occhi nel personaggio di Geroboamo. È Saul che ritorna e il popolo che lo segue è il popolo che ha respinto Dio come suo re e conseguentemente la casa di Davide. Tuttavia non è il re, bensì il profeta di Bethel ad essere, nel nostro racconto, il vero rappresentante di questa zona oscura che è il mestiere profetico in opposizione alla confessione profetica dell’uomo di Giuda. Non è certo per caso che i ruoli sono suddivisi qui esattamente come in Amos: da un lato l’istituzione, la semplice possibilità; dall’altro la realtà del profetismo fondato sulla libertà di Dio. La legittimità dell’istituzione in quanto tale non è negata in questo confronto; Giuda ha annoverato anch’esso dei profeti istituzionali e, inversamente, Israele ha avuto ugualmente autentici uomini di Dio; ma la confessione sembra caratterizzare la situazione del regno del Sud mentre la professione quella del regno del Nord. La luce cade naturalmente sulla prima, l’oscurità sulla seconda. L’ombra che avvolge il profeta di professione proviene dagli elementi che quest’ultimo condivide con la monarchia nazionale: fatta astrazione per l’elezione divina che può anche manifestarsi in questo campo (seppure ne significhi la crisi), il mestiere di

profeta è in sé e in quanto tale un’espressione israelitica dello slancio vitale cananeo, della religione del sangue e del suolò, cose tutte che, secondo la volontà del Dio del Sinai e di Gerusalemme, non possono informare il modo di vivere e di adorare del popolo di Israele. Non è dunque per caso che tale profetismo possiede con la monarchia del Nord quell’affinità che gli è propria, secondo il nostro racconto e che d’altronde possiederà più tardi anche con i corrispondenti re del regno del sud; il profeta professionista infatti ripete esattamente all’uomo di Dio la proposta del suo re: gli domanda di mangiare e di bere a Bethel e di innalzare in tal modo un segno di comunione fra Gerusalemme e quella città, fra Giuda e Israele; la monarchia d’Israele, la dinastia separata dalla casa di Davide vorrebbe essere non al di fuori ma all’interno dell’alleanza di Dio. Geroboamo pensa in particolare e a modo suo di essere il re D’Israele, del popolo eletto da Dio e per questa ragione ritiene che il Dio unico d’Israele debba essere adorato anche a Bethel; tale è anche l’opinione del profeta del nostro racconto. Certo questa monarchia e questo profetismo devono necessariamente cadere nel cananeismo, come dimostreranno Achab e i suoi sacerdoti fanatici di Baal; questo però avverrà in seguito ad una degenerazione; come ci appaiono qui, dove semplicemente tollerano la forma israelita e yahvista del mito cananeo, si limitano a coltivare un certo nazionalismo religioso. Il nostro uomo, in quanto profeta, discerne ancor meglio del re la necessità di una giustificazione teologica del regno nordisraelita e del suo culto, proprio la giustificazione che è stata messa in questione dall’uomo di Giuda e che può essere ristabilita soltanto se quest’ultimo acconsente a mangiare e a bere a Bethel. Proprio in quanto profeta, conosce, per raggiungere questo scopo, un mezzo migliore del semplice colloquio da uomo a uomo di cui si è valso il re: il discorso religioso, di cui è specialista e che all’occorrenza tenta di utilizzare facendo assegnamento sull’autorità che gli viene dalla sua professione. In tal modo, il profeta di mestiere riesce ad essere quel che il re di Israele non ha potuto essere: un vero tentatore, anzi un corruttore vincente, nei confronti dell’uomo di Dio. Ecco perché è lui il vero rappresentante del regno delle tenebre in questa vicenda; ecco perché, accanto a quello che fa il profeta di mestiere, l’azione di Geroboamo sembra insignificante. Esiste qualcosa di peggio del destino di Israele, condannato ad andare incontro al giudizio che Gerusalemme ha continuato ad annunciargli, qualcosa di peggio delle abominazioni di Geroboamo e di tutti i suoi successori, il fatto cioè che Gerusalemme, che Giuda possa essere indotto in tentazione da Samaria,

inizialmente in forma molto innocente; si richiede soltanto un po’ di tolleranza e di amicizia reciproca, un po’ più di lealtà nei rapporti, secondo l’esempio che, piùavanti, daranno Achab e Josaphat non è però il caso di ingannarsi, la tentazione diabolica è già presente, sotto quest’aspetto piacevole e seducente: la tentazione di ammettere che la forma israelitica del cananeismo («Anch’io sono un profeta come te!») trovi legittimazione, che sia anche una forma di vita possibile e giustificata per il popolo di Dio, in seno all’alleanza. Dal momento che il profeta di Bethel riprende (in armonia con il re ma meglio di lui) quest’idea interessante e la fa trionfare, dal momento che osa enunciare una parola di Dio che ha inventata lui stesso e secondo la quale la comunione fra Israele e Giuda non solo è permessa, ma ordinata, dal momento che il suo oracolo (non è forse il rappresentante accreditato dell’istituzione legittima di simili oracoli?) sfiora la verità, benché sia una menzogna, dal momento che l’uomo di Dio depone le armi (come più tardi Gerusalemme e Giuda soccomberanno alla tentazione della tolleranza e finiranno esattamente come è finita Samaria) tutto è chiaro: colui che professa il mestiere profetico diventa l’autentico Satana del nostro racconto. Geroboamo ed il regno nordisraelita nel suo insieme sono colpevoli: tuttavia l’essenziale del loro peccato non consiste nel fatto di mettersi essi stessi in situazione tale da rendere possibile e reale il giudizio di Dio, ma nel fatto che in questo modo la casa di Davide e il suo popolo, il tempio di Gerusalemme, la promessa e la speranza di Israele vengono ad essere compromessi e pertanto la vita in seno all’alleanza divina viene intaccata alla radice, in forma inizialmente inoffensiva ma, in sostanza, mortale fin dal principio. Lo strumento di quest’attacco è, in base a I Re XIII, appunto il profeta di Bethel, difensore molto più sperimentato (e pertanto molto più pericoloso) della causa sbagliata di Samaria. Perciò quest’uomo è il personaggio principale dell’immagine di sinistra presa in considerazione nel suo aspetto negativo. Ma quest’immagine è duplice e come quella di destra aveva un aspetto negativo, così questa possiede un aspetto positivo. C’è anzitutto la pazienza di Dio che accompagna certamente il duro giudizio contro l’altare di Bethel, poiché tale giudizio si riferisce all’avvenire e pertanto concede tempo a Geroboamo e al suo popolo; anche se rafforzata da quel che è successo nel frattempo, rimane un semplice avvertimento; se anche, secondo l’epilogo (vv. 33-34), il giudizio non è stato inteso come avvertimento, se anche la proroga concessa a Geroboamo è stata disprezzata, c’è comunque una proroga. Geroboamo e il suo regno dispongono di tempo; Dio esercita il suo giudizio

inizialmente nella forma dell’oracolo pronunciato dall’uomo di Giuda contro l’altare di Bethel e del segno che avviene su quest’altare; la Parola di Dio può ancora essere ascoltata e obbedita: esiste anche un pentimento di Dio, quel pentimento di cui gli abitanti di Ninive hanno beneficiato, secondo il libro di Giona. Bethel e più tardi Samaria si trovano anch’esse sotto il segno della pazienza divina; perciò se laggiù ci sono dei re non adatti, vi si incontrano anche autentici uomini di Dio, quali Elia e Osea; perfino le caste o le conventicole profetiche non mancano di autentici testimoni di Yahvé che, all’epoca di Achab e di Gezebele, per esempio, subirono la persecuzione e il martirio. Per queste ragioni la storiografia veterotestamentaria registra fedelmente sia gli avvenimenti verificatisi nel regno di Israele fino all’anno fatidico del 722 e sia quelli svoltisi nel contesto di Sion; perciò in definitiva nei documenti narrativi dell’epoca, le figure di Elia e di Eliseo occupano un posto ed hanno un ruolo che non sono attribuiti ad alcuno dei personaggi regali ó profetici del régno di Davide. È come se Dio aspettasse pazientemente, un secolo dopo l’altro, un pentimento sempre possibile. Là guarigione della mano paralizzata di Geroboamo mette in risalto anch’essa la pazienza divina; occorreva certo che al re venisse impedito di metter mano sull’uomo di Dio; ma la sua intenzione poteva essergli perdonata: era sufficiente che ascoltasse quello che gli era stato detto in modo così impressionante, mentre subiva per di più il suo castigo miracoloso. Anche qui però quanto accade al profeta di Bethel è di gran lunga l’avvenimento più importante: da teologo della peggior specie, questo vecchio peccatorè, questo autentico Satana di tutta la vicenda, diventerà in seguito, colui che annuncia la vera Parola di Dio; dopo aver mentito, gli è ordinato e concesso di convincersi lui stesso della sua menzogna; gli è accordata la possibilità di comprendere che l’uomo che voleva persuadere è che è riuscito purtroppo a farlo, aveva ragione (contro di lui, ma che importa?). Aveva ragione, punto e basta. E lui, il profeta mentitore, è ora autorizzato a difendere la verità che non è più rappresentata dall’altro; lui, il profeta di professione, assume ormai la funzione di autentico uomo di Dio; lui, l’israelita, si compromette per la causa di Giuda e di Gerusalemme e diventa pertanto un precursore di Elia e di Osea; come costoro si ribella infatti contro il suo re, il suo popolo e il suo paese. Come potrebbe pronunciare la Parola di Dio senza prendere tale posizione?; in che modo potrebbe essere un messaggero della verità, se non bruciasse quello che ha adorato, se l’affinità fra la professione profetica e la monarchia non appartenesse ormai al passato? Questo capovolgimento è l’effetto della grazia del Dio d’Israele che si oppone

al suo popolo, proprio perché non lo ha respinto, ma intende ancora accoglierlo e servirsene; questa grazia non può andare perduta per Bethel e per Samaria, malgrado la loro flagrante colpevolezza, malgrado l’avvicinarsi minaccioso della scadenza significativa dell’anno 722; il Dio di Davide non ha né dimenticato né abbandonato le pecore perdute della casa di Israele. Gli abitanti di Gerusalemme non hanno il diritto di disprezzare l’Israele scismatico e quest’ultimo non ha alcuna ragione di disperare. Esiste un’elezione e una vocazione anche per i senza-Dio. Ce ne sono altri?; la fede di Abramo non ha forse come oggetto colui che giustifica gli empi, i senzaDio?; Davide, il re eletto non è stato un tempo, come dimostra la sua caduta, un tizzone strappato all’incendio?; c’è mai stata in Gerusalemme e in Giuda un’altra consolazione, una consolazione migliore di quella proveniente dal Dio che appunto accoglie con tanta libertà e in modo così miracoloso un popolo di per sé perduto? Questa consolazione ormai sovrabbonda per il disgraziate profeta di Bethel. Lo avvolge a tal punto che non esiste forse, in quel momento, a Gerusalemme e in Giuda, uomo più riconfortato, profeta più autentico di questo vecchio peccatore che, dovendo porre se stesso (con l’uomo di Dio, con il suo re e con tutto il suo popolo) sotto il giudizio della parola di Dio, diventa, da professionista, organo stesso della grazia rivolta a Davide, grazia che nessuna pazzia o perversità può scuotere e rendere caduca. Se si è preso nota di tutto ciò che lo condanna, è opportuno prendere anche conoscenza di tutto quello che adesso gioca in suo favore, in questa situazione totalmente trasformata da Dio: in suo favore e di conseguenza in favore di Geroboamo e del suo regno colpevole che slitta sempre più velocemente verso la rovina; in suo favore e, di conseguenza in favore di Israele; malgrado l’impenitenza ci questo popolo, malgrado la poca attenzione che rivolge alla proroga accordatagli, malgrado il giudizio che, infallibilmente, lo colpirà. Una cosa appare ad ogni modo con chiarezza nella figura di questo profeta: il vero Dio di Israele, per quanto misconosciuto, per quanto mal onorato abbia potuto essere, non ha smesso di essere il Dio del suo popolo e tanto la sua legge quanto la sua promessa permangano immutabili. È lui, Dio, la sostanza del patto di grazia concluso con il popolo; questa sostanza è pertanto inattaccabile, invulnerabile, per quanto gravemente abbia potuto essere minacciata dai seduttori e dalle loro vittime, da Israele e da Giuda. Ed infine all’aspetto positivo che caratterizza l’immagine situata a sinistra, si riferisce anche e soprattutto la fine del nostro racconto: il castigo della trasgressione umana non raggiunge Geroboamo (in cui pure il peccato di Israele si era manifestato

nel suo vero volto e che aveva tentato di sedurre l’uomo di Dio venuto da Giuda); non raggiunge nemmeno il profeta (che usando della sua teologia giustifica il peccato di Geroboamo e riesce a condurre a buon fine l’opera di seduzione); no, il castigo colpisce l’uomo che, in fondo, è soltanto complice della colpa degli altri due, in quanto in fin dei conti non ha rifiutato il loro invito a mangiare e a bere con loro, cioè in quanto ha accettato di erigere un segno di comunione contrario alla volontà di Dio. È lui, l’uomo sedotto, ad essere punito; è questo personaggio estraneo al vero dramma, e solo lui, a subire il fuoco della collera divina; il leone uccide l’uomo di Dio venuto da Giuda, mentre Geroboamo, con la sua mano guarita, può continuare a vivere e perfino il vecchio profeta riesce ancora a stabilire tranquillamente le sue ultime volontà prima di morire. Lui, il colpevole principale, si trova liberato e gode di una protezione perfino al di là della morte: nel giorno del giudizio le sue ossa sono risparmiate con quelle dell’uomo venuto da Giuda. Ecco la luce stupefacente che avvolge l’immagine di sinistra, ecco l’elemento positivo che, appunto, deve esistere anche qui. Terminando, occorre ancora considerare il particolare rapporto esistente fra le nostre due immagini, che si disgiungono per intersecarsi continuamente; esigono, infatti, di essere esaminate ed interpretate insieme; hanno senso soltanto nella misura in cui, nella loro opposizione, nel loro aspetto negativo e positivo, rinviano costantemente l’una all’altra. Si osservi a questo proposito il posto estremamente significativo che occupa, anche esteriormente, il racconto di I Re XIII in tutta la storiografia veterotestamentaria: segue immediatamente la narrazione dello scisma prodottosi sotto Roboamo e Geroboamo, che in qualche modo spiega; al tempo stesso costituisce come una soprascritta alla storia successiva dei due regni separati d’Israele e del conflitto che ha inizio in questo momento fra il profetismo professionale e il profetismo primitivo da una parte, come fra il falso e il vero profetismo dall’altra. Insomma, tutto quello che seguirà, si trova già annunciato e prefigurato qui. Di che cosa sarà questione nella storia che si prepara? In primo luogo dell’unità della volontà di Dio, relativa al popolo liberato dall’Egitto per essere condotto attraverso il deserto nel paese dei Cananei e, di conseguenza, dell’unità di tale popolo e dell’omogeneità di tutta la sua storia, di tutte le sue tribù, di tutti i suoi re e profeti. Ed in secondo luogo della diversità intrinseca di quest’unica volontà divina, se è vero che Dio vuole questo popolo tutto unito e lo vuole per sé: al suo servizio, sotto la sua benedizione, al fine di santificarlo, cioè di respingere e di annullare il suo peccato; se, in altri termini, è vero che Dio ama il suo

proprio Figlio in seno a quel popolo e che di conseguenza odia tutto quanto significa infedeltà alla sua promessa, ogni attesa di salvezza immaginaria e arbitraria, ogni speranza non orientata sul compimento di quella promessa. Questa diversità della volontà di Dio ha come conseguenza necessaria una rottura in seno ad Israele, uno scisma: ormai c’è il regno di Davide da un lato e l’impero nazionale di Samaria dall’altro; in riferimento a questo stato di cose il profetismo stesso si divide ed esiste ormai sotto una forma primigenia o professionale, autentica o inautentica. In tutto questo però (lo dimostra in terzo luogo questa vicenda) la volontà di Dio continua ad essere la medesima nei confronti dell’intero Israele; la sua fedeltà sussiste e la sua promessa rimane valida; pertanto, la divisione e l’opposizione che si producono necessariamente in Israele possono avere consistenza solo in quanto rinviano al di là di loro stesse, solo in quanto attestano l’unità della volontà divina ed in tal modo quella del popolo (come una verità escatologica certo, ma è proprio questo a conferirle la sua realtà) con un’intensità che non poteva essere la caratteristica del regno, della monarchia e del profetismo non divisi; la divisione degli uomini parla infatti (molto più della loro non-divisione) di Dio in quanto autentica ragion d’essere di Israele, in quanto re e profeta autentico del suo popolo. È in forza della separazione che ormai esistono anche vere relazioni nella storia di Israele; e nella misura in cui uomini, popoli, re, profeti, appaiono da entrambe le parti così mediocri, così poveri, così indifesi all’interno di tali relazioni, diventano appunto occasioni più vere di autentiche rivelazioni divine che, in quanto tali, mettono in risalto il vero significato dell’esistenza d’Israele. La ricchezza di tali relazioni e di simili occasioni è già esemplare nel testo di I Re XIII. Perciò chiediamo: in che misura le due doppie immagini che vi scopriamo si accordano; in che misura sono non mute ma parlanti, nella loro opposizione; in che senso attestano la volontà unica, pur in tutta la sua differenziazione, del Dio di Israele e, di conseguenza, quanto fa del popolo diviso il popolo stesso di Dio?

Torniamo un attimo all’immagine di destra, il cui personaggio principale è l’uomo di Dio, venuto da Giuda: la missione di quest’ultimo a Bethel dimostra già che l’autentico Israele, l’Israele del sud, non possiede nessun diritto all’esistenza fondato sul popolo stesso, nessuna possibilità di rallegrarsi e di glorificarsi della sua elezione a scapito del falso Israele del nord; non può accettare la situazione senza rivolgersi verso il suo compagno scismatico, senza darsi da fare per strapparlo al suo errore ed alla sua rovina; ha anzi degli obblighi nei suoi confronti: gli deve la Parola di Dio. Perciò il desiderio di tolleranza e di comunione reciproca, che traspare nel modo in cui l’uomo di Giuda è accolto, si trova subito senza oggetto; la separazione non significa che il regno del nord sia liberato e escluso dall’ambito della Parola di Dio e che ormai sfugga al regno della grazia; lo scisma si è appena consumato e la salvezza ritorna proprio là dove la grazia è stata respinta, portata da coloro presso cui tale grazia è stata ricevuta: i Giudei. Il diritto all’esistenza di questi Giudei del Sud coincide esattamente con la loro missione, il loro messaggio, la Parola di Dio che è stata data proprio ad essi, certo per essi, eppure non soltanto per essi, bensì per l’insieme d’Israele; è soltanto recandosi nel Nord con questa Parola che l’uomo del Sud può confermare e giustificare la sua elezione; così il desiderio di Geroboamo e del suo profeta è superato prima ancora di essere formulato e seguito da un qualche effetto. Poiché Dio ha previsto da molto tempo e in maniera del tutto diversa una tavola comune per l’insieme del suo popolo d’Israele, non può certo nascere nulla dalla comunione arbitraria sognata dagli interlocutori dell’uomo di Giuda; l’autentica comunione fra il vero e il falso Israele non sta in una qualsiasi pace conclusa fra loro; sta nell’evento della Parola di Dio che il primo annuncia al secondo, in quanto ne è il messaggero. La parola e l’ascolto sono la forma dell’amore reale che deve regnare e trionfare qui. Infatti quanto qui è utile e necessario è che si giunga a pronunciare e ad ascoltare la Parola di Dio; lo esige la separazione stessa; può soltanto essere questione di parlarsi e di ascoltarsi; la grazia di Dio in seno alla separazione significa appunto che la sua Parola è là, che continua a poter essere annunciata ed intesa, che un nuovo inizio è sempre possibile. C’è anzi di più:l’autentico Israele deve parlare col suo compagno sperduto proprio perché la colpa di quest’ultimo non gli è estranea, perché quello che separa da Dio l’insieme di Israele si è manifestato nel regno del Nord separato dalla casa di Davide e dal Tempio di Gerusalemme; non è dall’alto di una qualche superiorità incontestabile, ma nell’abisso della medesima sventura, sostenuto soltanto dalla grazia divina

immeritata, che Giuda si rivolge a Israele per bocca del suo profeta; per questa semplice ragione gli deve parlare e gli deve dire quello che appunto costituisce la sua sola sicurezza, cioè la Parola di Dio. Anche da questo punto di vista, la comunione auspicata a Bethel esiste dunque da molto tempo e in modo del tutto diverso da come ci si compiace di immaginarlo. Ma per il fatto che esiste quest’altra comunione (cioè la comunione migliore, fondata sulla Parola di Dio e radicata nella comune colpevolezza) l’esistenza del falso Israele significa anche una gravissima minaccia per l’esistenza dell’autentico Israele. Questo solo è ormai importante: che questa comunione, e nessun’altra, si realizzi tra le due parti; nessun’altra, diciamo; cioè nessuna comunione in cui la Parola di Dio possa essere soffocata e la miseria comune rinnegata. Occorre che la Parola di Dio sia proclamata e ascoltata; non deve diventare una semplice presupposizione tacitamente accettata dalle due parti ed atta a rassicurarle; occorre che la miseria comune sia svelata: anch’essa non deve diventare una specie di evidenza aprioristica che permetta agli interlocutori di accordarsi con poca spesa, invece di restare l’uno di fronte all’altro per parlarsi e ascoltarsi. Il falso Israele è una grave minaccia per il vero Israele proprio perché lo invita ad accettare simile tacito accordo, che è un rinnegamento e che significa in fondo non solo la possibilità di continuare a vivere nel proprio errore, ma anche che l’autentico Israele si confonde automaticamente con il falso; il vero Israele non ha diritto all’esistenza se non perché è responsabile dell’altro Israele, se non perché compete a lui l’iniziativa del dialogo; non accettando questa responsabilità, rinunciando a prendere l’iniziativa, è già entrato in comunione con l’altro e per questa ragione ha già cessato di esistere. In effetti ha rifiutato in questo caso la grazia che ha fatto di lui un popolo eletto e chiamato; gli resta ormai solo più la colpevolezza che lo lega all’altro Israele, il peccato di Davide che da solo non ha il potere di unire Israele (solo la Parola di Dio lo può), benché abbia quello di dividerlo. Perseverando nella loro colpevolezza e respingendo la grazia di Dio, le due parti che si fronteggiano non possono riunirsi, possono soltanto allontanarsi sempre di più l’una dall’altra; solo l’amore prescritto da Dio, ha il potere di unire; se questo viene a mancare, resta soltanto l’inimicizia. L’esistenza del falso Israele è pericolosa per l’altro perché significa che il vero Israele può allontanarsi da questo amore. La nostra storia dimostra anzi che qui vi è più di un semplice pericolo: il falso Israele trapassa veramente in seduttore ed in corruttore dell’Israele legittimo; la storia ci insegna che l’uomo di Dio proveniente da Giuda accetta l’invito rivoltogli e diviene così indegno del ministero che ha ricevuto e della

benedizione che lo fa vivere: così indegno che può essere soltanto ucciso; poiché ha agito esattamente come il falso Israele, poiché ha respinto la grazia di Dio è condannato a manifestare quanto non è stato ancora rivelato al falso Israele: ossia che dove il peccato è la sola realtà e la grazia è assente, non c’è più che la morte, il ritorno a quel nulla da cui Israele è stato tratto. Per questo è precisamente il vero Israele a subire la conseguenza dell’errore del falso Israele: poiché tale errore è anche il suo; poiché è unicamente la grazia di Dio a conservarlo al di sopra dell’abisso della comune colpevolezza; poiché questa grazia (che è anche la sola speranza del falso Israele) lui, l’Israele autentico, l’ha disprezzata invece di esaltarla. Sarà richiesto molto a colui che ha ricevuto molto. L’uomo di Giuda ha ricevuto molto, infinitamente più di Geroboamo e del profeta di Bethel; così non gli è richiesto nulla di meno della sua vita; ha creduto di dover rischiare tutto, è necessario ch’egli perda tutto. Ma la storia non si conclude con questa catastrofe; essa ci narra che il seduttore e il corruttore del vero Israele ha simultaneamente il dovere e la facoltà di riprendere lo stendardo abbandonato dalla sua vittima; il falso Israele non ha cessato di essere il popolo di Dio. Ecco ciò che dimostra (per l’estrema confusione, ma anche per l’estrema consolazione della verità) il fatto che la Parola di Dio non possa essere ridotta al silenzio e che la miseria comune non possa essere rinnegata, sebbene per il momento Israele nella sua totalità sembri aver scelto l’impossibile possibilità, il rifiuto della grazia; ciò che, per sua vergogna e rovina, il vero Israele non può compiere, viene compiuto dall’altro contro il suo compagno ribelle e chiaramente in favore della comunità tutt’intera; contro il vero profeta si leva ora il profeta di mestiere, il falso profeta di Bethel: è lui che salverà la causa comune ai due regni, riprendendo la missione di Giuda, al fine di ristabilire la comunione distrutta nel rispetto dell’amore prescritto da Dio e al fine d’innalzare di nuovo, ben diversamente da come aveva pensato e voluto, il segno della speranza che coinvolge anche il falso Israele. Il profeta di Bethel resta dunque ormai per sempre a fianco dell’uomo di Giuda: come suo giudice e (meglio ancora) come suo salvatore; se l’uomo di Giuda è condannato a essere ucciso dal leone e deve morire, tuttavia è salvato anch’egli, per il fatto che la Parola di Dio non è soffocata e la colpevolezza comune non è rinnegata; non è a causa dei suoi meriti, ma esclusivamente per grazia divina che la realtà facente dell’insieme di Israele e parimenti di Giuda il popolo di Dio e sussistente anche all’interno del tradimento di quest’ultimo può ridiventare una realtà viva. Questa realtà è stata ed è ancora adesso (malgrado il leone!) la

grazia concessa a Davide, la promessa fatta a Giuda e a Gerusalemme, in una parola la fedeltà di Dio, da cui l’uomo di Dio traeva la sua qualifica; egli non vive certo di quest’ultima, ma della continuità dell’opera di Dio, della costanza e della vita divina che aveva il dovere di servire proprio in forza di tale qualifica; se egli se ne è mostrato indegno e se ha dovuto morire e scomparire proprio a causa della sua infedeltà, la vita gli è stata nondimento confermata e salvata nel profondo della morte, poiché l’opera di Dio non ha cessato di proseguire. Se l’affermazione del profeta di Bethel «Anch’io sono un profeta come te» ad una prima lettura non è altro che presunzione e menzogna e se l’uomo di Giuda, incapace di rendersene conto, sente tutto il peso di tale sarcasmo andando incontro alla morte, resta pur sempre vero che la stessa affermazione, tenendo conto della grazia di Dio che trionfa nella debolezza di quest’uomo, è piena di conforto e di promesse. «Anch’io sono un profeta come te»; ciò che ti sostiene e mi sostiene è indipendente dalla tua costanza e dalla tua caduta; ciò che ti salva e mi salva, non è il fatto che tu sei o che io sono un profeta, ma il fatto che Dio non cessa di inviare nuovi profeti al suo popolo. Perciò, benché il compianto intonato sull’uomo di Giuda a Bethel «Ahimè, fratello mio!» sia un canto funebre, esprime tuttavia una verità obiettiva e perenne: all’interno del falso Israele, quest’uomo possiede qualcuno che lo chiama fratello e che è per lui un fratello, qualcuno nella cui parola e nella cui opera (dal momento che sono la Parola e l’opera di Dio) la sua propria parola e la sua opera, e perciò lui stesso, si perpetuano. Certamente questo fratello può offrirgli soltanto una tomba. Nell’ambito della storia dei re e dei profeti dell’Antico Testamento, la ristabilita comunione dell’Israele restaurato non può infatti avere che una tomba come cornice suprema; è il sepolcro d’Israele a diventare dapprima quello di Giuda, per accogliere in seguito lo stesso Israele; più tardi avverrà l’inverso; ad ogni modo è proprio in questo sepolcro che si attuerà la riunione dei fratelli separati. E questa tomba, con le reliquie che raccoglie, sopravviverà al di là del giudizio; a causa dei resti di Giuda, sussisteranno anche i resti di Israele; la sostanza delle due parti rimasta indenne sarà l’indicazione provvisoria della fedeltà di Dio verso l’insieme del suo popolo d’Israele. Si noti che in questa conclusione del racconto non viene mai meno la superiorità di uno dei personaggi sull’altro; che non è mai soppressa la distinzione per cui vi è da una parte il vero Israele e dall’altra il falso; che l’uomo di Giuda ha continuato ad essere l’eletto e il profeta di Bethel ha continuato ad essere il riprovato. Proprio nella loro unità di eletto e di riprovato essi formano insieme l’intero popolo di Israele dal quale la grazia

di Dio non si è mai allontanata; come il riprovato interviene infatti in favore dell’eletto riprendendo la sua missione e come l’eletto interviene in favore del riprovato subendo il suo castigo, così alla fine il primo prende le difese del secondo permettendogli di riposare nella sua tomba ed il secondo, dopo la morte, offre al primo il beneficio della grazia che riposa su di lui: le loro spoglie riunite nella tomba saranno risparmiate e conservate; altrettanto avviene della qualifica e della missione del vero Israele: rinnegate e tradite dal loro detentore sono riportate in onore da Dio stesso. Che cosa mai può dunque succedere di meglio al vero Israele, se non questa umiliazione e questo innalzamento? Ritroviamo ora tutto questo, come in uno specchio, nell’immagine deformata che ha come personaggio principale il profeta di Bethel. Eccoci immediatamente nella sfera della riprovazione; siamo in presenza dell’Israele che ha perduto il nome ed il diritto all’esistenza, dell’Israele che è, per così dire, già respinto tra i pagani e che deve essere classificato nella loro medesima categoria; la colpevolezza dell’insieme di Israele si è manifestata qui apertamente e come i lebbrosi cacciati erano condannati a formare una miserabile comunità lasciata a se stessa, così questo Israele di Samaria è isolato, separato dal trono di Davide e dal tempio di Dio, senza poter far valere i suoi diritti a partecipare al patto, poiché li ha volontariamente rifiutati, senza prender parte alcuna alla promessa: oggetto di avversione e fonte di pericoli per l’autentico popolo di Dio, oggetto di collera e origine di sacrilegi per Dio stesso. Che cosa può essere un re d’Israele a Samaria, se non un usurpatore, un’imitazione miserabile e blasfema del figlio promesso di Davide?; che cosa può essere un profeta in quest’oscuro regno se non un uomo che possiede solo un titolo o, all’occasione, un mentitore e un falso profeta?; quando da Samaria ci si rivolge a Gerusalemme si può vedere soltanto ciò che si è perduto, lo stato di grazia smarrito, la patria da cui si è diventati stranieri; da laggiù ci si può attendere soltanto la conferma del giudizio sotto cui ci si è posti e che si è condannati a subire. È proprio questo che l’inizio della nostra storia vuole indubbiamente ricordare; al re e al popolo d’Israele viene annunciata, con la minaccia contro l’altare di Bethel, la riprovazione, confermata dal deliberato rifiuto dell’invito a partecipare a quel banchetto che dovrebbe ristabilire e concretizzare la comunione dei due regni separati; essi sono posti cioè di fronte a un atto della più rigorosa intolleranza. Ma improvvisamente le cose appaiono anche sotto un altro aspetto ed in una forma brutale si riprende contatto tra Gerusalemme e l’Israele del Nord colpevole e scismatico, non

appena quest’ultimo ha preso coscienza della separazione avvenuta. Il regno separato non è più oggetto d’indifferenza per l’altro; pur assumendo la forma di un giudizio, la grazia di Dio non si è allontanata; subito, fin dal primo passo falso, gli si è di nuovo presentata. L’errore che pesa su di lui è il peccato comune all’insieme di Israele; ma la Parola di Dio che Giuda possiede (e non Israele) concerne l’insieme d’Israele e di conseguenza deve essere annunciata dalla parte del popolo che l’ascolta a quella che non vuole ascoltarla; questa doppia solidarietà è già un mistero insito fin dall’inizio nel racconto. Non è infatti invano che, fin dall’inizio, il racconto si svolga come una rivelazione della pazienza di Dio nella sua stessa ira e che fin dall’inizio (un inizio veramente inquietante e sinistro) lasci intendere non che Dio voglia liberarsi di questo popolo perduto, ma che desideri invece ricominciare da capo con lui e dargli la possibilità di un nuovo avvio. Dio colpisce, ma non spezza; colpisce con la verga, non con la spada; colpisce con la severità di un padre, proprio come ha promesso a Davide parlandogli di suo figlio (II Sam. VII, 14). Dio rimane Dio e non rompe il patto anche nei riguardi di coloro che l’hanno infranto; è e rimane anche il Dio dell’impuro; a questo punto, anzi arriva perfino a occuparsi degli altri, dei puri, soltanto per metterli al servizio degli impuri. Il fatto che Geroboamo non risponda alla missione dell’uomo di Giuda con il pentimento, ma cerchi di eludere il suo richiamo con un’astuzia tutta sentimentale (l’invito), mostra immediatamente a che punto sia giunto il peccato di Israele e quindi come tale popolo non sia stato ripudiato a torto, ma ben a ragione. In altre parole, il regno separato non vuole permanere nel distacco salutare in cui si trova, per ascoltare, in questo stesso distacco, la Parola di Dio; intende invece di colpo superare la distanza, concludere una pace arbitraria, quando Dio è suo nemico ed esso dovrebbe come Giacobbe lottare con lui per essere di nuovo benedetto; trascurando questo conferma di non essere l’autentico Israele. E poiché il suo tentativo ha un successo iniziale, il suo peccato si diffonde ovunque: non soltanto si priva da solo della benedizione che la dura mano di Dio voleva chiaramente accordargli, ma diventa seduttore e corruttore vittorioso per Giuda e per la sua missione. Pare ormai che tutto Israele sia condannato a sprofondare nell’abisso della colpevolezza comune: difatti la grazia si distacca ora dallo stesso Giuda, significando per l’insieme la perdita di ogni speranza; in questa situazione disastrosa, avviene però un miracolo nella persona del profeta di menzogna; il cattivo destinatario, ingrato verso la Parola di Dio, ne diviene il portatore e il messaggero. Notiamolo: senza avere alcun merito, senza e addirittura contro

la propria intenzione, solo perché Dio è e rimane Dio, solo perché non ha ripudiato il suo popolo d’Israele. Nella figura del falso profeta di Bethel vivono ormai quel regno e quel popolo di Samaria (dove la colpevolezza dell’insieme di Israele si è concretizzata in modo sosì flagrante) che hanno l’obbligo e l’autorizzazione di entrare al servizio di quel Dio che l’eletto ha rinnegato. Proprio quando, in una forma diversa da quella precedente, l’ira di Dio esplode, quando il leone colpisce ed uccide, questo sinistro impero delle tenebre si trova sostituito dall’eletto di Dio che subisce in vece sua la punizione del peccato comune, che concretamente è stato all’inizio il peccato di questo regno, il peccato di seduzione. Benché non fosse stato che complice, l’eletto subisce la morte meritata in realtà da Geroboamo e dal suo profeta; è lui che ora è steso inanimato sulla strada; è lui che deve essere sepolto in una tomba straniera mentre i suoi compagni sono liberati e si compie in favore del profeta di Bethel la parola ambigua ch’egli ha pronunziato: «Anch’io sono un profeta come te». L’uomo indegno riceve la dignità che appartiene all’altro e predica al suo posto la Parola di Dio; ha forse desistito dalla sua indegnità?; no certamente. Resta indegno innanzitutto nei confronti di Dio: non gli è stata conferita nessuna dignità con la sua nuova missione, è piuttosto Dio che si è arrogato tale dignità e si è servito della sua voce di menzogna. E resta indegno anche nei confronti dell’uomo di Giuda ch’egli considera il vero e legittimo uomo di Dio, malgrado il suo errore; ecco perché, invece di rallegrarsi della sua morte come si trattasse della fine di un empio, così piange: «Ahimè, fratello mio!», proprio come Davide aveva pianto con molta sincerità sulla morte di Gionathan e di Saul. Che la profezia pronunciata contro il giusto si sia avverata, che quest’ultimo abbia finito di vivere, non costituisce per lui una vittoria, essendo diventato anch’egli, pur in tutta la sua indegnità, un messaggero della Parola di Dic: tale compimento significa infatti non una conferma della sua missione, ma una perdita della garanzia che è indispensabile a lui. l’indegno, per adempiere la funzione che gli è stata assegnata. Un profeta di Bethel, per quanto portatore della più autentica Parola di Dio, che cosa diviene senza l’uomo di Giuda, araldo primo e verace di tale Parola?; che diviene Israele senza Giuda?; e Samaria senza Gerusalemme? È laggiù a Gerusalemme, non qui a Samaria, che si trovano l’elezione, il patto, la promessa. Che cosa può dunque significare questo «qui» se non c’è quel «laggiù»?; che può avvenire dei servi di una città in cui i cittadini legittimi sono stati sterminati?; se il riprovato è eletto (malgrado il suo ripudio da parte dell’incomprensibile grazia divina) su che cosa potrà mai

appoggiarsi se la visione dell’eletto gli diventa oscura, se, malgrado la sua elezione, l’eletto è soltanto un riprovato secondo il giudizio di Dio, se in una parola, l’araldo della pazienza e della grazia di Dio è eliminato per aver disprezzato la propria dignità? Così non può trattarsi qui di un trionfo del profeta di Bethel: quest’uomo non può essere infatti giustificato né davanti a Dio né davanti agli uomini; deve invece (cfr. Mt. XXVII, 59-60) procurarsi un rifugio nel suo sepolcro, facendovi prima deporre l’uomo di Giuda, per trovarvi più tardi lui stesso riposo al suo fianco; ossa saranno unite ad altre ossa, resti ad altri resti, ma anche in questo caso, gli avvenimenti avranno un ordine preciso: i resti del riprovato riposeranno vicino ai resti dell’eletto, Israele vicino a Giuda e non l’inverso; così, al momento del giudizio, i resti di Israele saranno risparmiati a causa dei resti di Giuda e non l’inverso. È in questa unità e secondo un ordine che non deve essere abolito né invertito (unità che si trova confermata all’interno e malgrado tutta la dialettica che caratterizza la fine della nostra esposizione) che i nostri due personaggi costituiscono insieme l’Israele unico e totale, da cui la grazia di Dio non si è allontanata, l’Israele che è il portatore della promessa divina per tutti i popoli, per il mondo intero, ossia il testimone del vero profeta di Dio; nello stesso modo, come abbiamo visto, Davide e Saul si accomunano, attestando insieme il re d’Israele, senza però confondersi mai, senza mai divenire per nessun motivo due figure identiche; nello stesso modo (infine e soprattutto) gli animali del sacrificio liturgico (i due capri ed i due uccelli) attestano insieme il culto sacerdotale e sacrificale affidato a Israele, pur restando sempre figure distinte; non soltanto unità aritmetiche che come tali potrebbero essere invertite, ma due individualità precise, diverse ed antitetiche. Rinunciamo ad esporre ancora una volta in maniera particolareggiata il problema della realtà e dell’unità dell’oggetto, attestato dal testo biblico, accontentandoci di darne una brevissima indicazione; è evidente che tale problema si pone anche qui ed è, se possibile, ancora meno suscettibile degli altri di soluzione all’interno della prospettiva veterotestamentaria; del resto è assai significativo che la storia dei profeti di I Re XIII termini con la menzione di un sepolcro: non si tratta di un sepolcro vuoto, ma di uno di quei sepolcri «che sembrano belli dal di fuori e che, dentro, sono pieni d’ossa di morto e di ogni specie di impurità» (Mt. XXIII, 27). In questo caso si tratta di una di quelle tombe di profeti che potevano essere costruite ed ornate (Mt. XXIII, 29) e che non si è certo mancato di costruire ed ornare, poiché, molto tempo dopo,

essa doveva attirare l’attenzione del re Giosia; ma infine, si tratta soltanto di una tomba nella quale l’eletto e il riprovato, il degno e l’indegno, il giusto e l’ingiusto, il profeta che confessa la sua fede e il profeta di mestiere, Giuda e Israele, Gerusalemme e Samaria sono condannati a riposare insieme, con tutto ciò che li unisce e li distingue; si tratta di una tomba in cui, quale ultima possibilità, l’uomo diventato ormai solo passato è realmente sotterrato, per essere definitivamente dimenticato il terzo giorno, dopo aver trascorso quaggiù il periodo della sua vita. È già notevole che questa storia (forse la più impressionante ed in ogni caso la più completa e la più ricca delle storie di profeti dell’Antico Testamento) si concluda con la costruzione di un sepolcro; che in una parola quanto risulta di chiaramente positivo dalle due doppie immagini del nostro racconto sia in definitiva soltanto l’indicazione che il sepolcro comune ai nostri due personaggi è stato preservato nel momento del giudizio, che altrimenti non avrebbe certamente risparmiato un cimitero. Come se costoro non fossero meno «finiti» di tutti gli altri morti!; forse che la parola: «Ogni carne è come l’erba… e l’erba secca» non concerne anche loro?; sottolineando che i due profeti sono alla fine posti nel medesimo sepolcro, il nostro racconto vuole indubbiamente mostrare che queste parole si applicano anche ad essi. È unicamente precisando che tale sepolcro è stato conservato con i resti che conteneva, che il nostro racconto intende dirci ancora qualcosa in più. Secondo Is. XL, 8 questo «qualcosa in più» si riassume nella frase: «ma la Parola del nostro Dio permane in eterno»; si può ben dire che effettivamente, dall’inizio alla fine, la storia di I Re XIII, testimoni in sostanza che la Parola di Dio resta; attraverso la costanza e la defezione, la fedeltà e il tradimento degli uomini, a sinistra o a destra di Dio. Ma ciò che avverrà degli uomini che devono ascoltare ed annunciare questa Parola, ricevere la sua grazia e subire il suo giudizio, a sinistra come a destra, quanto a conoscere se e fino a qual punto essi stessi partecipano al suo permanere non può essere appreso dal nostro racconto, proprio perché esso riferisce la storia di due profeti dell’Antico Testamento, storia che si svolge nei limiti di tempo dell’antico patto; o piuttosto proprio perché quanto ci viene narrato su questo argomento si riferisce semplicemente alla conservazione della tomba e dei resti di questi due profeti. La permanenza eterna della Parola di Dio e l’esistenza prolungata, ma tuttavia limitata nel tempo, di questi resti sono evidentemente due entità, così come quegli stessi resti sono e rimangono, per quanto avvicinati, le reliquie di due profeti assai differenti e dei due regni israeliti assolutamente diversi, che essi rappresentano. Poiché essi non si

conservano in eterno, è chiaro che è la discussione sulla permanenza della Parola di Dio ad essere intavolata e lasciata aperta. Così il problema della realtà e dell’unità di ciò che è testimoniato dal racconto di I Re XIII rimane un problema urgente, ma non risolto. Ora ecco che la nostra narrazione rinvia ad un oggetto reale, se Gesù Cristo entra nel suo campo visuale e se questa storia di un profeta si interrompe per trovare la sua continuazione nella storia di Pasqua. Gesù Cristo: cioè la Parola di Dio che permane eternamente nella nostra carne; l’uomo nato a Betlemme, in Giuda, che è stato pure il profeta di Nazareth; il Figlio di Davide che è stato anche il re del popolo del Nord senza legge e senza salvezza; l’eletto di Dio che è anche il portatore della riprovazione divina; il condannato giustiziato per aver assunto una colpa che gli era estranea ed a cui è stato suscitato un testimone, anzi molti testimoni, tra i peccatori; il Cristo giacente il cui trapasso significa la fine di tutto e che, proprio nel suo trapasso, è divenuto la consolazione e il rifugio di tutti i perduti. Gesù Cristo: cioè colui che è stato ed è tutto questo; colui che morì e fu sepolto, ma che non lo fu per essere dimenticato, ma perché fosse risuscitato di fra i morti il terzo giorno, per opera della potenza di Dio. È chiaramente in questo profeta unico che vivono i due profeti (e i due regni d’Israele) che, alla fine, non possono se non morire nella nostra storia, essere sepolti e sussistere ancora per un lasso di tempo con le loro ossa; è lui la realtà e l’unità ch’essi non hanno mai posseduto nella sfera dell’Antico Testamento e che tuttavia hanno impresso in loro un segno; in lui essi permangono e permane eternamente la Parola di Dio da loro proclamata; altrimenti, dove si troverebbero? Che cos’è dunque il capitolo 13 del primo libro dei Re se non una profezia?; e dove si deve cercare il compimento di questa profezia, se non si trova in Gesù Cristc?; queste sono le domande alle quali devono rispondere coloro che potrebbero essere insoddisfatti del risultato della nostra ricerca, così come abbiamo cercato di esporlo brevemente. 1. Lutero: «suoi amici» o «suoi beneamati». 2. CALVINO, Commento su Lev. 14 = C. R. 24, 325. 3. CH. STARKE, Syn. Biblioth. exeg. in Vet. Test.: 1763: I, 1605. 4. CALVINO, Comm. su Lev. 16 = C. R. 24, 502.

3. LA DESTINAZIONE DELL’ELETTO A. POSIZIONE DELLA TESI L’elezione di un uomo, cioè la qualifica della sua relazione con Dio che appare in un modo di essere la cui caratteristica è quella di distinguerlo dagli altri, si realizza secondo un’intenzione ben precisa; significa che la sua vita riceve un contenuto e uno scopo ben definiti; concretizzata dalla sua vocazione, l’elezione di cui l’uomo è oggetto, dà alla sua esistenza un orientamento ed una pienezza determinata, cioè un senso ed un ordine che non dipendono più dal caso o dall’arbitrario, perché sono l’effetto del beneplacito divino. Quale è dunque questa determinazione o piuttosto questa destinazione dell’eletto? Perché è scelto? Questo è il problema che ora dobbiamo esaminare. 1. La natura dell’elezione. La risposta completa e decisiva da ogni punto di vista a tale domanda è data dal fatto che, in tutte le situazioni, l’uomo è eletto in Gesù Cristo, con lui, da lui e per lui; qualunque possano essere le caratteristiche naturali e storiche, esse sono subordinate in un modo o nell’altro a questa determinazione più importante; solo in Gesù Cristo l’eletto è ciò che è e sarà ciò che sarà. In lui ha la sua pienezza ed il suo limite; in lui il sì e il no sulla sua vita sono stati pronunziati dall’eternità; ciò che gli è concesso di essere e di diventare (o di non essere e di non diventare) in Gesù Cristo (ossia l’individuo o la persona che Dio gli permette di essere) diventa palese in quanto, conformemente alla sua elezione, egli riceve la vocazione dallo Spirito Santo. Gesù Cristo è per lui: questo è l’evento che fonda e rivela interamente il senso e l’ordine dell’esistenza dell’eletto; e poiché Gesù Cristo è per lui, lo scopo e il contenuto della sua vita personale vengono ad essere predeterminati e previsti; è eletto affinché sia manifesto che Gesù Cristo è per lui. Questa prima risposta implica la seconda: l’uomo è eletto in ogni caso all’interno ed insieme alla comunità di Gesù Cristo, con la sua mediazione e per essere uno dei suoi membri. È infatti in Gesù, il Messia e il Signore, che si trovano eletti rispettivamente Israele e la chiesa; così ogni elezione individuale si manifesta nella struttura della comunità, fondata sull’elezione di Gesù Cristo e attraverso la funzione che la comunità adempie in virtù di questa stessa elezione; in altre parole ogni elezione individuale avviene a sua volta in vista di una partecipazione a tale funzione. Coincidendo con la sua elezione, la destinazione dell’individuo da e per Gesù Cristo, poiché Gesù Cristo vive nella comunità che è il suo corpo, è anche la sua destinazione da e per Israele, da e

per la chiesa; eletto all’interno ed insieme alla comunità di Dio, l’eletto è ciò che è e possiede ciò che possiede direttamente ad opera di Gesù Cristo e per lui; conseguentemente esiste come tale nel grembo della comunione dei santi dove riceve e continua la funzione che Gesù Cristo ha affidato ai suoi. Questi ultimi sono talmente inseparabili da Gesù Cristo che l’individuo non può appartenere a lui senza appartenere anche ad essi nello stesso tempo, senza prendere da loro, senza possedere con loro ed in mezzo a loro la destinazione particolare che gli è peculiare, poiché Gesù Cristo è per lui. Che Gesù Cristo e la sua comunità costituiscano la destinazione, ossia lo scopo e il contenuto dell’esistenza dell’eletto, non deve essere inteso come una risposta puramente formale alla nostra domanda, poiché tale risposta ne richiama un’altra, questa volta definitiva e sostanziale. Si dovrebbe piuttosto dire: quanto caratterizza specificamente la destinazione dell’eletto è il fatto di essere un uomo la cui vita è situata in un circolo chiuso, circoscritto verso l’alto da Gesù Cristo e verso il basso da Israele e dalla comunità; l’esistenza dell’uomo che vive in questo circolo è precisamente l’esistenza orientata e ordinata conformemente all’elezione gratuita di Dio; la sua destinazione non potrebbe essere descritta più obiettivamente e più concretamente se non riferendosi appunto a questo circolo; per definirla meglio non si può che ricorrere incessantemente a questo riferimento che contiene tutto. Tuttavia per farlo convenientemente, dobbiamo dare ancora un certo numero di risposte che conseguono dalle prime due e che, anche da parte loro, non potrebbero essere puramente formali. Infatti la verità fondamentale (ossia che l’eletto riceve la sua destinazione da Gesù Cristo e per lui, attraverso la sua comunità e per essa) esige essa stessa una spiegazione altrettanto fondamentale. 2. La destinazione dell’eletto dalla parte di Dio. Ritorniamo alla base ed al punto di partenza della dottrina della predestinazione allorché diciamo come prima cosa che l’eletto è destinato a lasciarsi amare da Dio, cioè a vivere come un individuo che Dio, nella sua incomprensibile e immeritata bontà, non ha voluto e non vuole abbandonare, perché così ha deciso da tutta eternità e per sempre. Qui si tratta in realtà della destinazione che compete a Gesù Cristo: è lui che, da tutta eternità e per sempre, è destinato a essere il prediletto di Dio; si tratta pure della destinazione d’Israele e della chiesa: sono essi il popolo e l’assemblea di coloro che, in Gesù Cristo, sono l’oggetto dell’amore di Dio; si tratta conseguentemente anche della destinazione dell’eletto. Nessun eletto non può essere o augurarsi di essere altro che l’oggetto dell’amore di Dio. Dio vuole amarlo (è questa la grande realtà) e gli chiede di lasciarsi amare; è per

questo che lo elegge; è perciò concesso ed ordinato all’uomo eletto di esistere come socio del patto che Dio ha voluto e fondato lui stesso, di cui è il Signore e la garanzia e la cui permanenza è assicurata dalla sua fedeltà onnipotente. Tutto questo significa amore; un amore severo, geloso, bruciante; un amore eterno, distaccato dai limiti delle cose create, un amore che perdona e rende partecipe la creatura della gloria del suo Creatore. Tale partecipazione assicurata e accordata gratuitamente come promessa presente e come conclusione attesa, costituisce lo scopo e il contenuto, l’orientamento e la pienezza, il senso e l’ordine dell’esistenza propria dell’eletto; è la sola cosa che gli occorra e che gli è nel contempo perfettamente sufficiente; non potrebbe essere e divenire qualcosa di più grande, non potrebbe, a nessuna condizione, essere e divenire altra cosa se non l’oggetto sempre nuovo dell’amore di Dio nel Figlio suo, che proprio per questo ha assunto la nostra natura; il suo dovere sta nel riconoscere di essere amato come membro del corpo di Gesù Cristo, in comunione con tutti coloro che possiedono la medesima destinazione. Che Dio destini l’eletto ad essere l’oggetto del suo amore significa che lo destina alla felicità; la gloria di Dio, cui la creatura è chiamata a partecipare, è la profusione della perfezione e della gioia divine; Dio elegge l’uomo da tutta eternità e per sempre affinché possa afferrare un raggio e raccogliere una goccia della beatitudine divina, ne viva e si rallegri in lui e con lui. È infatti alla felicità che Dio ha destinato l’uomo decidendo di essere unocon-lui nel suo proprio Figlio, concedendogli cioè nulla di meno che se stesso; e la resurrezione di Gesù Cristo, la sua ascensione, come già i «segni e i miracoli» che hanno caratterizzato la sua vita terrena (come rivelazioni della sua gloria), ci mostrano in lui qualcuno che possiede pienamente la felicità. È ancora alla felicità che Dio ha destinato l’uomo scegliendo (nella e con l’elezione di Gesù Cristo) Israele e la Chiesa come il popolo di coloro che lo ringraziano per il dono di se stesso, che lo amano in risposta e che possono lodarlo, a causa della salvezza di cui possiedono l’assicurazione e la promessa. Per questo dunque (che lo riconosca, lo senta e ne offra testimonianza come è giusto oppure no) l’eletto è un uomo felice; non manca e non mancherà mai di nulla; il suo unico atteggiamento verso Dio è la riconoscenza. Se cerchiamo di definire lo scopo e il contenuto che Dio ha dato alla sua vita, possiamo e dobbiamo semplicemente dire: quest’uomo è eletto esclusivamente per essere contento della propria sorte, nel tempo e nell’eternità, come prediletto da Dio e socio del suo patto. Saremmo imprudenti se pretendessimo, in virtù di un qualunque rigorismo, sopprimere qualcosa in questa definizione. Qualsiasi

aggiunta volessimo ancora farvi, essa dovrà anche, e in tutte le circostanze, includere questa risposta. 3. La destinazione dell’eletto dalla parte dell’uomo. Ma la felicità dell’eletto come partecipazione personale alla beatitudine divina sarebbe erroneamente interpretata se fosse considerata soltanto come un bene che si riceve, si prende e si possiede, o come fine a se stessa, o anche come una specie di vicolo cieco dove la sovrabbondanza della perfezione e della gioia divine verrebbe per così dire ad esaurirsi; non si deve pensare che Dio si limiti, quando elegge, ad accordare la felicità a qualcuno; la sua gloria è in effetti la somma dell’amore attraverso il quale non si stanca mai di mostrarsi, di manifestarsi e di comunicarsi. Come gloria di Gesù Cristo, essa è tutto, eccetto uno scopo fine a se stesso: per il fatto che è concessa a questo eletto unico ed è da lui ricevuta, per il fatto che diviene completamente sua, essa è un’azione, di Dio e di Gesù Cristo, che continua a manifestare i suoi effetti. Parimenti come gloria d’Israele e della chiesa, non è un bene superiore che si andrebbe esaurendo nella gioia ch’esso procura; è necessario che agisca e si manifesti nell’opera di questo popolo; ed a questa condizione significa anche gioia e felicità. L’esito è assolutamente identico se consideriamo la gloria accordata individualmente all’eletto. Quest’ultimo non può riceverla, prenderla e possederla se non come una felicità da trasmettere, un motivo di gratitudine e un invito alla riconoscenza. Come potrebbe essere una partecipazione alla vita di Dio, un adempimento della comunione creata dalla sua alleanza, se non fosse una partecipazione attiva al suo amore, alla sua azione, alla sua opera, se, in una parola, l’uomo rimanesse soltanto l’oggetto e non divenisse il soggetto della gloria divina? Che sia concesso all’eletto di aver bisogno di Dio per conoscere la gioia perfetta nel tempo e nell’eternità equivale al fatto che Dio lo introduce nell’evento della sua propria vita, della sua azione, della sua opera, al fatto che Dio vuole anche utilizzarlo e che l’uomo deve accettare di essere uno strumento al servizio dell’autoglorificazione divina. Come questo servizio, la felicità dell’eletto consiste infatti interamente nella riconoscenza nei confronti di quel Dio che ha dato se stesso agli uomini; Dio lo elegge affinché la sua vita divenga una vita riconoscente (cioè una vita della grazia e nella grazia); Dio lo elegge affinché la sua esistenza sia un solo atto di gratitudine. Ch’egli renda grazie e che, in tutta la sua persona, sia un atto di ringraziamento, questa è la destinazione dell’eletto; a questo scopo Dio gli si offre nell’elezione di Gesù Cristo, nell’elezione d’Israele e della chiesa e infine nella sua elezione personale; è concesso all’uomo eletto di ringraziare: tale è il mistero

dell’elezione gratuita dell’individuo. Ma che cosa significa la riconoscenza; che cosa significa la felicità; che cosa vuol dire essere amati da Dio? Chiaramente significa partecipare alla vita divina con un comportamento umano che costituisca una rappresentazione e un riflesso della gloria di Dio e della sua opera; non vi può essere di più; la riconoscenza è una reazione a un beneficio che in sé non potrebbe essere ripetuto e, per conseguenza, non può essere ricevuto e confermato se non da una risposta che gli corrisponda e lo rispecchi realmente. Così dunque, la riconoscenza dell’eletto è l’atto che corrisponde alla grazia di cui è stato l’oggetto e null’altro; l’uomo eletto è destinato a «corrispondere» al Dio misericordioso, a essere la sua immagine, il suo imitatore, nell’ordine creato; non deve riprodurre un’immagine di Dio o dell’uomo che ha scoperto lui stesso: la sua imitazione ha per oggetto Dio medesimo, nel suo atto di elezione. L’eletto è legato a Dio ed è obbligato nei confronti di Dio; Dio lo ha determinato prima ch’egli esistesse; lo determina nei cieli altissimi, al di là di ogni autodeterminazione. Conseguentemente l’eletto può vivere solo imitando il Dio che lo predestina. Che cos’è Gesù Cristo, l’eletto e la riconoscenza della creatura ch’egli incarna, se non il prototipo di tutte le rappresentazioni del Dio misericordioso, la riproduzione per eccellenza e l’imitazione, libera da ogni pretesa, dell’opera divina?; e che cosa può essere la comunità di Gesù Cristo se non il popolo e l’assemblea di coloro che, creati per opera della grazia di Dio, diffondono la conoscenza di questo beneficio, presentano e celebrano il loro Creatore, non come l’immaginano, ma quale è e quale vuol essere, ossia esattamente come si è a loro rivelato?; è come dire che anche l’individuo eletto è quanto è perché l’elezione di Gesù Cristo è, attraverso la comunità, la sua propria elezione. Occorre ch’egli sia un testimonio di tale elezione; questa è la sua destinazione, questa è l’intenzione di Dio nei suoi riguardi; solo eseguendo questa intenzione egli riceve il senso che orienta e ordina la sua esistenza. Il beneplacito gratuito di Dio intende adempiersi non soltanto in lui, ma per mezzo suo; solo così si compie realmente ed efficacemente anche in lui; l’eletto è l’oggetto reale di questo beneplacito nella misura in cui, come testimone, ne è anche il soggetto. L’eletto è dunque un uomo che si trova al servizio del Dio della grazia; la vocazione che riceve dallo Spirito Santo e che gli consente di ascoltare il buon annuncio della sua elezione in Gesù Cristo e di appropriarsi per fede della promessa, non è soltanto di ordine personale: è nello stesso tempo una vocazione di carattere ministeriale; essa implica non soltanto la sua particolare

salvezza e felicità, ma anche il suo servizio come testimone. Proprio come Gesù Cristo, il portatore eletto della gloria divina, adempie un compito, riflesso nell’esistenza e nella missione della comunità, così avviene anche per ogni eletto individualmente; ciò che Dio è per lui è infatti indissolubilmente legato a ciò che gli è concesso di essere nei confronti di Dio; la sua salvezza implica un dovere, la sua fede nella promessa di Dio equivale ad una responsabilità, la sua felicità è inseparabile da un’obbedienza. Difatti la realtà che determina la sua felicità è nello stesso tempo lo scopo ed il contenuto del suo ministero; si tratta della sua elezione, coincidente con l’elezione di Gesù Cristo e con quella della comunità. È eletto per dare al posto che gli compete, una dimostrazione di spirito e di potenza del suo essere eletto e testimoniare di conseguenza dell’elezione di Gesù Cristo e della comunità; è eletto per confermare e rendere palese, da parte sua, questa origine di tutte le vie e di tutte le opere di Dio, come decisione del Signore che è al di sopra di tutto e come verità accanto alla quale non ne esistono altre; è eletto per unire la sua voce debole, ma totalmente spiegata, al grande giubilo che, partendo dall’elezione gratuita, attraversa tutta la creazione di Dio e accompagna tutte le sue vie e tutte le sue opere. Questo è il suo destino, il suo dovere e il suo obbligo; metterebbe in discussione e rinnegherebbe la sua personale elezione se si sottraesse a tale compito; poiché Dio è misericordioso nei suoi confronti, vuole che egli celebri la grazia di cui il mondo è stato l’oggetto ancor prima di essere stato creato e di cui rimane l’oggetto anche se deve passare e trasformarsi. Ogni individuo eletto è come tale un messaggero di Dio, tali sono il suo servizio e la sua missione; per questo gli è permesso di rappresentare e di rispecchiare la gloria di Dio; ed in questo gli è concesso di essere riconoscente e felice. È e deve essere anch’egli un apostolo, poiché Gesù Cristo è eletto per essere l’apostolo della grazia, poiché Gesù Cristo è in connessione con l’apostolato della grazia che attribuisce il suo senso e la sua legge alla vita della comunità nel suo insieme. Per quanto gli compete, l’eletto è destinato a far risplendere la luce che ha brillato su di lui, a diffondere la buona novella dell’amore di Dio che ha avuto il dono di ricevere, ad assumere nei confronti degli altri quella vocazione della quale è stato partecipe; se differisce dagli altri e se gli altri si distinguono da lui, ciò ha un solo significato; tale oscuro contrasto si chiarisce alla luce del compito che l’eletto possiede nei loro confronti. Deve infatti far loro conoscere quanto essi ignorano e che lui stesso ignorava e non ha potuto conoscere se non in virtù della sua vocazione e che

perciò non può più evitare di riconoscere e di confessare; deve opporsi alla menzogna di cui gli altri sono prigionieri e di cui lui stesso sarebbe stato definitivamente e disperatamente prigioniero, se la verità non gli fosse stata rivelata: perciò la protesta contro questa menzogna è per lui una necessità vitale; deve ricordare che la loro vita perduta, al di fuori del cerchio della predicazione e della fede rappresenta la riprovazione, da cui senza Gesù Cristo sarebbe lui stesso colpito e deve attendere che lo Spirito Santo venga a confermare quella decisione che è stata presa anche sulla loro vita: è con questo ricordo e in questa attesa ch’egli si rivolgerà loro. Sapendo, per quanto lo riguarda, che gli è stato concesso di prendere coscienza di tale decisione, senza che la causa di tale scoperta possa essere attribuita ad alcuna eloquenza umana e sapendo tuttavia che l’eloquenza umana è anche stata utilizzata come servizio in questo evento, prenderà ogni cura per far conoscere agli altri l’offerta della grazia che è rivolto anche ad essi, invitandoli a partecipare alla speranza di cui, per parte sua, gli è permesso di vivere. Non dimentichiamo che tutto questo è essenzialmente e particolarmente l’opera di Gesù Cristo stesso e, al suo servizio, l’opera mediatrice d’Israele e della chiesa; però colui che è eletto in Gesù Cristo e per la sua comunità è, per definizione, un testimone di quest’opera; partecipa infatti al compito di Gesù Cristo e della sua comunità. Non potrà essere certo più di un messaggero né dovrà voler essere di più; ma non gli sarà possibile non esserlo; troverà anzi il suo onore e la sua gioia proprio nell’adempimento di questo ministero, che orienterà e riempirà totalmente la sua esistenza. Naturalmente la differenza tra il Dio che elegge e l’uomo eletto rimane totale; l’uomo eletto non potrebbe prendere su di sé il potere di eleggere o di riprovare; non può che testimoniare, rappresentare e rispecchiare in realtà ciò che Dio è ed opera veramente soltanto in Gesù Cristo. È destinato a rinviare alla decisione divina, che però è chiara: per eleggere l’uomo, per farlo partecipe della sua gloria, Dio ha voluto scegliere ed ha scelto realmente per se stesso la necessaria riprovazione dell’uomo peccatore; ciò implica che la testimonianza dell’eletto deve conformarsi a un ordine molto preciso; l’eletto non può presentare agli altri l’elezione e la riprovazione come due possibilità equivalenti: può solo mostrare loro che l’elezione è la possibilità fondamentale aperta e che la riprovazione è la possibilità fondamentalmente esclusa, in quanto eliminata dal dono che Dio ha fatto di se stesso. Può invitarli a riconoscere la loro elezione soltanto nel modo in cui si invita qualcuno a riconoscere la verità; può chiamarli a riconoscere la loro riprovazione soltanto mettendoli in guardia contro il

tentativo di adocchiare la possibilità esclusa dal fatto che Dio si è dato all’uomo, contro il tentativo di mentire a Dio che ha eliminato tale possibilità; conseguentemente non ha il diritto di comportarsi nei confronti di nessuno degli uomini come se quest’ultimo non fosse un eletto, come se l’amore di Dio non valesse anche per lui, come se il patto divino non fosse stato concluso ugualmente per lui, come se l’ateismo con il quale contraddice la sua veritiera condizione fosse una cosa seria, come se fosse assurdo e impossibile testimoniare anche per lui l’elezione gratuita compiuta in Gesù Cristo. Certamente incontrerà il suo prossimo sapendo che quest’ultimo (come qualsiasi altro eletto, come l’insieme della comunità) è incapace da solo di essere un eletto, un oggetto dell’amore di Dio, un socio del suo patto, incapace dunque di partecipare come tale alla vocazione operata dallo Spirito Santo; tuttavia non dovrà sottrarsi al dovere di testimoniare davanti a lui (con la parola, l’azione ed il comportamento) ciò che Dio vuole e ha deciso anche in suo favore e da tutta eternità nell’elezione di Gesù Cristo; senza alcuna riserva predicherà l’evangelo, invitandolo a credere molto seriamente e con tutto l’amore di cui è capace. Lo farà senza sottintesi, anzi con la massima fiducia, sapendo che nella grazia di Dio non esiste disgrazia in forza della quale un qualsiasi individuo (come se fosse un riprovato, come se Gesù Cristo non fosse stato riprovato al suo posto!) avrebbe la proibizione di essere un eletto e di ricevere una vocazione conforme a simile elezione. È questa conoscenza, quest’obbligo e questa fiducia a caratterizzare il comportamento di ogni eletto nei confronti degli altri; è in questo modo che l’eletto deve essere il messaggero e l’apostolo del Dio misericordioso; è adempiendo a questo servizio e a questa missione, riflettendo cioè la gloria di Dio e compiendo così la sua destinazione, ch’egli stesso è salvato e conosce la felicità. L’eletto non ha il potere di eleggere altri uomini, né di chiamarli; d’altronde non ha scelto né chiamato neppure se stesso; ma ha il potere (assolutamente diverso dal potere di Dio!) di essere per gli altri un testimone fedele, gioioso e serio della loro elezione e della loro vocazione. È un compito modesto; non deve preoccuparsi della dignità o dell’indegnità dei destinatari del suo messaggio; se è tenuto a consegnare questo messaggio, non è però responsabile del successo. All’interno di questo stesso limite tuttavia, esiste un compito possibile; non ha nulla di un’impresa titanica, condannata perciò a divenire tragica; a dire il vero non è neppure un’impresa: è ancora una volta soltanto un compito e colui che l’assume non deve portarne lui stesso e in primo luogo il peso. Se esso esige senza dubbio l’impiego di tutte le possibilità

umane, nondimeno non le supera mai; richiede tutto ciò che l’uomo possiede, ma non di più; per quanto non permetta a quest’ultimo di essere mai soddisfatto di se stesso, comporta tuttavia un’immensa consolazione: Dio desidera accontentarsi dell’uomo, senza richiedergli più di quanto gli ha dato da fare, purché lo faccia! Così la testimonianza dell’elezione gratuita è un’opera umana: eseguendola, l’uomo non può sostituirsi a Dio, dire la sua Parola, fare ciò che Dio solo fa; partecipa tuttavia all’opera di Dio come può farlo una creatura, come un uomo che è oggetto dell’amore e dell’elezione del suo Creatore. Dio non fa dell’uomo un «secondo Dio» assegnandogli simile destinazione; l’onore come l’efficacia del ministero umano dipendono dal suo Signore; conseguentemente è anche un ministero senza angoscia. Che gli sia permesso di vivere all’ombra di questo servizio, questa è la gloria e la forza dell’uomo eletto. 4. Una prospettiva teonomica. Facciamo un passo avanti: con la sua elezione e la sua vocazione, con il ministero che gli è richiesto e che deve eseguire, l’eletto è destinato a promuovere l’opera di riconciliazione del Dio vivente in mezzo al mondo; eleggendo e chiamando un individuo, Dio allarga il circolo dell’elezione di Gesù Cristo e della comunità verso l’esterno; o se si vuole l’elezione e la vocazione dell’individuo implicano un’irruzione della grazia nell’oscuro regno della menzogna che domina nel mondo, un regresso ed una limitazione dell’empia gloria che l’uomo trae da se stesso. L’esistenza di ogni eletto significa un progresso nascosto ma reale verso il regno di Dio come regno della grazia; è opera divina che si manifestino simili progressi in un luogo oppure in un altro; ed è sempre opera divina di fissare lo scopo di tali progressi, numerosi (relativamente all’indegnità degli uomini) o meno numerosi (considerando la loro moltitudine) che siano. In una parola è Dio a determinare senza appello l’ampiezza del cerchio dell’elezione; che tale cerchio poi debba ricoprire alla fine l’intera umanità (secondo la dottrina dell’apocatastasi), è però una tesi che non dobbiamo formulare, proprio per rispetto alla libertà di Dio; la libertà di Dio non è infatti un codice da cui potere trarre diritti ed obbligazioni. Come il Dio della grazia non ha alcun obbligo di eleggere e di chiamare a sé anche un solo individuo, così non è obbligato ad eleggere e a chiamare tutta l’umanità; il risultato della sua elezione e della sua vocazione non è una metafisica della storia; la necessità di testimoniare che in Gesù Cristo e nella comunità questa elezione e questa vocazione si realizzano. Ma anche bisogna dire subito: la conoscenza della grazia che accompagna la libertà divina deve impedirci di formulare la tesi

contraria, di affermare cioè l’impossibilità di considerare l’allargamento totale e supremo del cerchio dell’elezione e della vocazione; che si tratti dell’elezione di Gesù Cristo, della sua comunità o dell’individuo, conosciamo la predestinazione gratuita soltanto quale decisione della misericor dia divina; ci troveremmo anche qui a fare della metafisica (sebbene nel senso inverso) se pretendessimo assegnare un qualsiasi limite alla misericordia divina e dichiarare così chiusa l’era dei progressi possibili. Eviteremo dunque le due tesi accennate, poiché nella loro astrazione non risultano dall’evangelo di Cristo, essendo piuttosto deduzioni puramente formali senza contenuto oggettivo; prenderemo in considerazione semplicemente il fatto che dove un individuo è eletto e chiamato, avviene qualcosa di decisivo: l’uomo vecchio fa posto all’uomo nuovo, il mondo non riconciliato si trova riconciliato ed in questa maniera il regno di Dio si stabilisce, anche se in una forma ancora nascosta; nello stesso tempo un nuovo testimone e un nuovo messaggero dell’elezione gratuita entrano in scena. Tale è, relativamente alla storia della salvezza, la destinazione dell’individuo eletto e certo non è lecito sottovalutarla. Poiché è appartenuto ed anzi appartiene ancora al mondo degli uomini (come la comunità eletta e come l’uomo Gesù Cristo) e poiché, eletto in Gesù Cristo è strappato al mondo e destinato a compiervi il suo compito specifico, quest’uomo è un segno (anche indipendentemente da tutto ciò che può voler dire di per sé); testimonia che è stato compiuto un passo verso la vittoria finale; rappresenta, con tutta la sua persona, una conferma ed una rammemorazione della verità; in una parola costituisce un fatto nuovo per il mondo intero. E questo segno indica una sola ed identica cosa: che il Dio della grazia ha ragione e l’uomo che lo disconosce o l’ignora ha torto; ci spinge a credere e a sperare che altri passi saranno fatti, che altre conferme e ripetizioni della medesima verità avranno luogo, con la riserva della libera decisione di Dio; ci incoraggia a pensare che il popolo di Dio nascosto nell’umanità (che non conosce ancora l’amore di Dio, né il suo Signore e perciò non conosce neppure se stesso) possa divenire più numeroso di quanto lo sia stato finora; ci impone di metterci alla ricerca di questo popolo di Dio nascosto che sonnecchia nel mondo. È chiaro che ogni eletto è destinato a contribuire a risvegliarlo; per questo è chiamato a divenire un araldo; a far risuonare un annuncio nel mondo. Egli però non può determinare e sapere quello che avverrà del suo richiamo; l’allargamento della sfera dell’elezione coinciderà sempre e solo con l’ampiezza della corrispondente libera volontà di Dio; coloro che ascolteranno la predicazione della loro elezione e vi presteranno

fede saranno sempre quelli che Dio ha eletto in Gesù Cristo e ha determinato di conseguenza a divenire uditori credenti. Il popolo di Gesù Cristo, comunione dei santi, si manifesterà sempre come l’assemblea di coloro che riconoscono e confessano Gesù Cristo e che rappresentano dunque realmente tale popolo; l’avvenimento si produrrà sempre in un certo momento (nel momento fissato da Dio), in virtù della potenza e dell’azione divina (in Gesù Cristo e per opera dello Spirito Santo); è Dio che dirige la sua causa. Ecco perché le due tesi cui accennavamo prima sono impossibili. Solo una cosa è certa: l’uomo eletto esiste affinché il cerchio dell’elezione (ossia il numero degli uomini che riconoscono e confessano Gesù Cristo nel mondo) non resti stazionario, ma si allarghi, aumenti e cresca. Solo una cosa è certa: il dono ricevuto dall’eletto con la sua elezione e la sua vocazione costituisce anche un dovere per lui: significa che deve aprire e non chiudere la porta, includere e non escludere, affermare e non negare nei confronti di coloro che lo circondano, proprio perché egli stesso è un uomo cui è stato aperto, che è stato incluso ed a cui è stato detto il grande sì della libera grazia e dell’amore eterno di Dio, senza che ne avesse alcun merito. È di questo sì e in questo sì ch’egli deve vivere in mezzo agli altri uomini; facendo loro ascoltare questo sì, rappresenterà e rifletterà il Dio misericordioso, Gesù Cristo e il suo popolo; anche dicendo di no, dirà di sì, anche chiudendo la porta, l’aprirà, anche escludendo, includerà. Saprà affrontare gli altri irritandosi forse contro di loro ma senza mai disprezzarli, mostrandosi intrattabile ma senza cattiveria, duro ma non amaro, estraneo ma mai nemico; non disprezzerà mai la loro perdizione (e la sua propria perdizione!) originale, ma non dimenticherà neppure l’obbligo ch’egli possiede nei loro riguardi per il fatto di essere stato, sebbene perduto, l’oggetto della grazia di Dio; per conseguenza, non abbandonerà mai la sicurezza che tale grazia sia rivolta anche verso di loro; non si esporrà mai alla stanchezza nel suo ministero nei loro confronti, né diventerà mai infedele a quest’ultimo, fondandosi sul giudizio personale ed arbitrario ch’egli dà di loro. Ciò che significa il fatto che Dio ha riconciliato il mondo con se stesso (II Cor. V, 19) è opera di Dio d’indicarlo e di conoscerlo; l’eletto si deve preoccupare in tutte le circostanze del servizio, del «ministero della riconciliazione» (II Cor. V, 18) e di null’altro; si tratta del destino che segna la sua vita e che gli è chiesto di vivere. B. ILLUSTRAZIONE SCRITTURISTICA Anche qui è alla Bibbia che ci riferiremo per porre e risolvere il problema dell’orientamento e dello scopo della vita dell’uomo eletto. Nel caso

particolare, si tratta di lasciarci istruire dalla testimonianza che il Nuovo Testamento rende al Cristo. 1. Lo sfondo veterotestamentario. Certamente anche nell’Antico Testamento l’elezione significa che l’uomo eletto si sente non soltanto qualificato e distinto, ma anche destinato a condurre una vita conforme alla sua separazione. Tuttavia è pressoché impossibile, nell’ambito dell’Antico Testamento, descrivere tale vita, cioè definire «per quale fine» l’individuo è eletto, se non con una formula che è indubbiamente ricchissima, ma che esige una spiegazione: a suo modo ed al suo posto, l’individuo è eletto perché Dio stesso (il Dio d’Israele autore e motore della storia particolare di questo popolo ed il Signore che determina secondo il suo volere il corso mutevole di quest’ultima) rappresenta il senso e lo scopo della sua vita. Ora ciò che Dio vuole attraverso la storia d’Israele non può essere sicuramente stabilito partendo dall’Antico Testamento come tale, ma viene dissimulato nella testimonianza dell’antico patto che in apparenza sembra contraddirsi parlando continuamente dell’amore e della collera di Dio, della salvezza e del giudizio futuro, della vita e della morte del popolo eletto, accentuando sempre l’elemento negativo. È come dire che è difficile e persino impossibile trovare nell’Antico Testamento, una risposta chiara al problema di sapere ciò che propriamente significa per l’eletto il fatto di essere un amico, un servitore e un figlio di Dio, il fatto di essere santificato e distinto da Dio, in opposizione a coloro che non lo sono. Secondo la testimonianza veterotestamentaria, la collera di Dio non smette di opporsi apparentemente al suo amore, come espressione definitiva della sua volontà nei riguardi d’Israele: non vi è promessa, in questo libro, che non implichi in anticipo una minaccia ancora più grave come non vi è beneficio che non sia oscurato dall’imminenza di un giudizio ancor più severo. In altre parole conviene sempre comprendere l’intenzione divina tenendo conto in tutte le circostanze di tale duplice prospettiva. Ciò non equivale forse a dire che nell’Antico Testamento gli eletti sono inconcepibili senza i loro compagni, i non eletti, i riprovati; che questi ultimi sono a modo loro santificati da Dio per servire, al posto che compete, la sua volontà di grazia e di giudizio riguardo a Israele; che, essendo così segni dell’elezione di questo popolo nella sua interezza, sono anch’essi degli eletti; di modo che per discernere ciò che sono gli eletti in Israele, è necessario sforzarsi continuamente di capire ciò che sono questi altri individui, i non eletti, i riprovati? Riconoscendo questo, si riconosce che non è possibile pervenire a una chiara visione dell’esistenza dell’eletto restando solo nel campo

veterotestamentario; che anche qui l’eletto possieda un’esistenza specifica ed innegabile, è una costatazione possibile soltanto nella misura in cui si esamina la testimonianza veterotestamentaria alla luce dell’adempimento realizzatosi in Gesù Cristo e nella realtà della chiesa; soltanto in questa misura. Solo poiché, secondo la testimonianza del Nuovo Testamento, Gesù Cristo nasce, soffre, muore, risuscita di tra i morti e siede alla destra di Dio, per assumere nella sua chiesa la forma terrena che gli compete finché perdura l’immagine di questo secolo, diviene evidente ciò che è stato il volere di Dio riguardo al suo popolo d’Israele, dall’inizio ed in tutte le fasi della storia. Solo poiché la testimonianza dell’Antico Testamento rivela di essere autentica in tale adempimento, si può capire e nello stesso tempo si vede dissiparsi l’oscurità che circondava questa testimonianza e che continuerebbe ad esistere se potessimo separare il campo veterotestamentario da Gesù Cristo. Tenendo presente questo limite imprescindibile, non si può più dire che, secondo l’Antico Testamento, la volontà di Dio sia una volontà che si contraddica e si annulli e per conseguenza non chiaramente discernibile perché sarebbe nello stesso tempo amore e collera, grazia e giudizio, vita e morte; si dovrà invece riconoscere che la volontà del Dio d’Israele è quella della sua misericordia onnipotente, la sua collera è la forma bruciante del suo amore, il suo giudizio è quello della sua grazia e che se egli uccide è unicamente per far vivere; il fatto che l’ombra e la luce siano così poco uniformemente distribuiti nell’Antico Testamento, il fatto che in questo libro la luminosità sembri sempre apparire sullo sfondo, soltanto ai margini di una immensa zona d’ombra, non deve stupirci né indurci in errore. Come potrebbe essere diversamente dal momento che da un lato in tutto questo campo oscuro è Gesù Cristo a dover essere indicato come colui nel quale le tenebre del mondo intero sono vinte dalla luce del suo Creatore e Signore e d’altro lato, questo stesso Gesù Cristo può essere soltanto indicato e non ancora designato col suo nome? Tuttavia la rivelazione della volontà del Dio d’Israele così come risulta dal Nuovo Testamento e a partire dal limite ch’essa fissa all’Antico, ci permette di scoprire immediatamente quanto abbiamo chiamato il senso e lo scopo della vita dell’uomo eletto, di rispondere cioè chiaramente alla domanda relativa al fine dell’elezione individuale. Poiché a partire da questo limite si compone la duplice e sconcertante immagine dell’amore e della collera, della grazia e del giudizio di Dio, ecco che si struttura anche la doppia immagine corrispondente (ed altrettanto sconcertante) degli eletti e dei riprovati; ecco che crolla la famosa barriera che, secondo l’Antico Testamento, sembrava separare Israele

dai pagani, il popolo amato dal popolo riprovato, Abele da Caino, Isacco da Ismaele, Giacobbe da Esaù, Davide da Saul, Gerusalemme da Samaria. La coappartenenza talmente insolita di queste due categorie di individui si spiega così, poiché la condanna che colpisce l’uomo appare ormai in tutta la sua gravità, ma anche nella sua completa subordinazione alla misericordia onnipotente, che si è rivolta verso di esso. Effettivamente è proprio in questa prospettiva a presentarsi Gesù Cristo, l’uomo eletto che costituisce, secondo il Nuovo Testamento, il limite dell’Antico ed a partire dal quale cade il velo che ricopre la testimonianza veterotestamentaria. Articoliamo questo dato in quattro proposizioni di base. 2. La sintesi cristologica del Nuovo Testamento. Innanzitutto Gesù Cristo non possiede al suo fianco un Caino, un Ismaele, un Esaù, un Saul; non gli occorrono simili compagni; in lui infatti si manifesta, senza equivoco possibile, ciò che Dio vuole quando elegge, per qual fine sceglie l’uomo, che cosa sono il senso e lo scopo della vita umana sotto la potenza dell’elezione. In secondo luogo Gesù Cristo non necessita di nessun compagno perché spetta proprio a lui, l’eletto, portare l’inevitabile riprovazione divina e subire la condanna eterna come risposta di Dio al peccato dell’uomo. Nessuno è eletto al di fuori ed a fianco di lui; e poiché nessuno al di fuori e a fianco di lui è eletto a portare la riprovazione divina, nessuno anche è ripudiato al di fuori e a fianco di lui; dove infatti si potrebbe cercare la riprovazione meritata dall’uomo, se non proprio nella pena che ha colpito Gesù Cristo e che egli ha portato per tutti gli altri? La riprovazione non può dunque raggiungere nessuno; non riguarda più noi; di conseguenza non c’è più posto, a fianco e al di fuori di Gesù Cristo, per un Caino, un Ismaele, un Esaù, un Saul. In terzo luogo bisogna dire che Gesù Cristo è nella sua persona la realtà e la rivelazione della riconciliazione del mondo, ripudiato da Dio a causa del peccato; ciò significa che egli segna l’assoluta superiorità della volontà elettiva sulla volontà di riprovazione; infatti si può vedere in lui come quest’ultima sia completamente subordinata alla prima. Si noti tuttavia: parliamo di subordinazione e non di annullamento. Come l’opera di Gesù Cristo potrebbe non testimoniare infatti che la volontà di Dio è anche volontà di riprovazione, tenendo conto del mondo peccatore?; è anzi in Gesù Cristo (e rigorosamente parlando solo in lui) che tale fatto diventa palese poiché nella sua umanità Dio accetta di essere lui stesso oggetto e vittima di questa riprovazione. Ma c’è di più: nell’uomo che subisce la riprovazione, Dio si è glorificato e, ciò facendo, ha glorificato anche l’uomo; ha voluto risuscitare dalla morte colui che espia sulla croce il peccato

del mondo intero; la volontà di Dio trionfa in Gesù Cristo, perché segue la via che discende dai luoghi supremi fino all’abisso per poi risalirvi, perché segna l’adempimento, ma pure la limitazione del no divino per mezzo del suo sì di grazia. Nell’onnipotenza della sua misericordia, Dio presenta Gesù Cristo come l’uomo eletto e presenta se stesso come il Dio che lo elegge. Gesù Cristo rappresenta questa direzione irreversibile; così è la verità e la vita. Ed in quarto luogo Gesù Cristo è nella sua persona (tocchiamo così lo scopo della nostra riflessione) la realtà e la rivelazione della vita dell’uomo eletto, nella misura in cui è ciò che è (nella sua umiliazione e nella sua esaltazione, nel compimento della riprovazione divina come nella sua limitazione e nella sua subordinazione) non per se stesso, ma come realtà e rivelazione della volontà divina in favore di una pluralità aperta di altri uomini. È proprio in quanto realtà e rivelazione della misericordia onnipotente di Dio verso questa pluralità di uomini che Gesù Cristo è eletto; eletto per portare su di sé ed in questo modo togliere la riprovazione degli uomini e conseguentemente per compiere in se stesso nel tempo la loro elezione eterna; eletto per essere la promessa e l’annuncio del beneficio che così viene elargito. È dunque «per molti» che Gesù Cristo, l’uomo eletto, è ciò che è. 3. La missione salvifica del Cristo. «Per molti». Che cosa dobbiamo intendere con questa espressione? Non è certamente perché la volontà divina reale e manifesta in Gesù Cristo sia limitata o impotente che non possiamo parlare qui semplicemente di tutti gli uomini, ma dobbiamo menzionare una pluralità aperta di individui. Infatti la volontà di Dio (come è stato continuamente e giustamente sottolineato riferendosi a I Tim. II, 4) nella sua intenzionalità è diretta alla salvezza di tutti gli uomini e nella sua potenza è abbastanza efficace per salvarli tutti. In perfetta concordanza con I Cor. V, 19 Gesù Cristo è chiamato la luce del mondo (Gv. VIII, 12; IX, 5; XI, 9; XII, 46), «l’agnello di Dio che porta il peccato del mondo» (Gv. 1, 29), il Figlio unico che Dio ha dato per amore del mondo (Gv. III, 16). Secondo Gv. III, 17 egli è stato «inviato affinché il mondo sia salvato per opera sua» e secondo Gv. VI, 33 (cfr. v. 51) egli è «il Salvatore del mondo», il pane di Dio che discende dal cielo «e dà la vita al mondo». Infine secondo I Gv. II, 2, egli è «la vittima espiatoria per i nostri peccati e non soltanto per i nostri, ma per quelli del mondo intero» e secondo Gv. I, 9 la luce «che rischiara tutti gli uomini». Queste indicazioni ci impediscono di fare della pluralità aperta (che costituisce il numero degli eletti in Gesù Cristo) una pluralità chiusa, in opposizione al

resto degli uomini, considerati come dei riprovati. Dobbiamo dunque rifiutare le grandi linee della dottrina classica della predestinazione, la cui concezione è contraddetta dall’unità della volontà di Dio reale e manifesta in Gesù Cristo; tale concezione contrasta con l’impossibilità di considerare una riprovazione divina differente da quella che ha avuto per oggetto Gesù Cristo, che subendola l’ha definitivamente abolita; non può essere dunque sostenuta proprio perché Gesù Cristo è la via irreversibile che procede dall’abisso ai luoghi supremi, dalla morte alla vita. A questo titolo egli è la verità che ci rivela il segreto di Dio e che essendo unica ci impedisce di cercar altrove un’altra verità. La dottrina classica si condanna da sola poiché (secondo Gv. VI, 37) Gesù Cristo non allontana chi viene fino a lui. Non sarebbe tuttavia giusto identificare la pluralità aperta degli eletti in Gesù Cristo con l’insieme degli uomini, perché in Gesù Cristo entriamo in relazione con la volontà divina personale, viva e libera sia nei confronti del mondo e sia in rapporto ad ogni uomo in particolare. In lui, diciamo: non dobbiamo dunque tener conto di una volontà divina che non sia quella del suo amore reale e manifesto in Gesù Cristo; non dobbiamo tener conto di un amore divino che non sia legato alla libertà rivelata in Gesù Cristo e che, secondo il Vangelo di Giovanni, ha per effetto di condurre a Gesù Cristo unicamente coloro che sono stati attirati e dati dal Padre al Figlio. Ciò significa che l’intenzione di Dio riguardo al mondo intero e ad ogni uomo in particolare resta la sua intenzione, come il suo potere su tutte le cose resta il suo potere: non possiamo disporre in nessun modo di tale intenzione e di tale potere, né per diminuirli, né per allargarli arbitrariamente. Appartiene solo a Dio decidere per chi l’uomo Gesù Cristo è eletto all’interno dell’umanità considerata nel suo insieme. Accontentiamoci di sapere che, in tutte le circostanze, è la misericordia onnipotente di Dio che, sempre rinnovata, regola tale decisione. Infatti che Gesù Cristo sia la realtà e la rivelazione della misericordia onnipotente di Dio nei confronti del mondo intero e di ogni individuo è un evento costante che si concretizza in incontri ed azioni sempre nuove, in cui Dio (Padre, Figlio e Spirito Santo) agisce ininterrottamente, suscitando la fede ora negli uni ed ora negli altri, che riconoscono e comprendono questo fatto nell’ambito della promessa della loro elezione. È dunque giusto parlare di una pluralità di individui. Non possiamo però fissarne il numero, perché non troveremo mai in Gesù Cristo una qualsiasi ragione per procedere alla benché minima delimitazione, perché Gesù Cristo, realtà e rivelazione della misericordia onnipotente di Dio, non è morto ma vive e regna eternamente, perché in una parola compete proprio a

lui di fisssare ogni volta il senso e la portata dell’evento ch’egli porta in mezzo agli uomini. Per la stessa ragione non dobbiamo confondere la pluralità degli uomini (che sono qui presi in considerazione) con l’insieme dell’umanità, ma dobbiamo accettare la verità che ci è trasmessa dal più importante dei testi di Giovanni prima citati: Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo Figlio unico affinché chiunque creda in lui non perisca, ma possieda la vita eterna (III, 16). L’evento della venuta del Figlio di Dio concerne sempre coloro che credono in lui, sono loro ad essere in realtà l’oggetto del potere supremo di Dio (Padre, Figlio e Spirito Santo) sul mondo; la realtà e la rivelazione della misericordia onnipotente di Dio in Gesù Cristo si presentano loro in modo tale ch’essi possono riconoscere, raccogliere e ricevere in lui la promessa della loro elezione. Ma «coloro che credono in lui» non sono mai tutti gli uomini, mai l’insieme dell’umanità come tale; essi costituiscono sempre una frazione di persone messe a parte; esistono nel mondo come eletti «di mezzo al mondo» (Gv. XV, 19); sono la pluralità, i πολλοί (numerosi) per i quali il Figlio dell’uomo ha dato la sua vita in riscatto (λύτρον: Mt. XX, 28). Secondo Mt. XXII, 14 questa pluralità è pur sempre una minoranza (ὁλίγοι) in rapporto agli altri che potrebbero credere, cui Gesù Cristo è stato inviato e che sono obiettivamente interessati dal suo richiamo, ma non sono raggiunti. Non si può affermare (senza usare violenza ai testi) che secondo il Nuovo Testamento il mondo come tale sia eletto; tutto ciò che si può dire è che l’elezione di Gesù Cristo ha avuto luogo per il mondo, affinché il mondo ne possa beneficiare; questo può essere apertamente sostenuto, senza la minima riserva. Se in questa linea cerchiamo di comprendere quale sia il senso della vita dell’uomo eletto, dato che Gesù Cristo è la realtà e la rivelazione di ogni elezione, dato che è il Figlio di Dio e il Figlio dell’uomo che l’Antico Testamento ci promette e di cui il Nuovo Testamento ci racconta la nascita, la morte e la risurrezione, dobbiamo rispondere: l’uomo eletto esiste per gli altri, ossia nella misura in cui è la dimostrazione che la misericordia divina onnipotente riguarda il mondo intero, riguarda tutti coloro che non l’hanno ancora riconosciuta e che perciò perseverano ancora nell’ingratitudine. Se anche per questo aspetto della predestinazione ci fossimo attenuti rigorosamente alla persona di Gesù Cristo, saremmo stati necessariamente condotti a capire che l’individuo non deve considerare la sua elezione come un fatto privato che gli permette di compiacersi nella certezza della salvezza personale, ma che se è eletto (e per conseguenza salvato) lo è per poter participare attivamente alla misericordia onnipotente di Dio operante nel mondo. Tale misericordia è infatti così grande

che intende utilizzare l’uomo da lei salvato ed accordargli il privilegio di essere al suo servizio presso gli altri. È sufficiente considerare Gesù Cristo, l’uomo eletto, per riconoscere tutto ciò. Come allora gli eletti (non sono forse eletti in lui?) possono comportarsi diversamente? A questo punto diventa evidente la differenza tra la concezione biblica dell’elezione individuale e quella che, fin dall’inizio, è stata purtroppo alla base della dottrina ecclesiastica della predestinazione. Ben inteso: il Nuovo Testamento conosce anche l’individuo salvato, la cui esistenza è interamente imperniata sull’attesa della vita eterna; ma mentre la dottrina classica fissa la sua attenzione su questa destinazione e sfocia su questo punto in una specie di vicolo cieco, poiché in definitiva si limita ad affermare che gli eletti, a differenza dei riprovati, avranno il privilegio «di andare in cielo», la concezione biblica, che distingue meglio ciò che significa per l’uomo la grazia di essere rivestito della gloria eterna di Dio, offre ancora una volta un’apertura nel senso che, per essa, gli eletti sono chiamati ad adempiere un ministero di testimonianza, proprio perché attendono la vita eterna, proprio perché sono gli eredi attraverso la fede della gloria divina. 4. La risposta dell’eletto. Consideriamo qui, se ci è permesso d’iniziare dalla fine, la descrizione che l’Apocalisse di Giovanni ci offre della comunità futura, unita al coro degli angeli e dell’insieme della creazione riportata alla sua destinazione primigenia. Ciò che distingue i ventiquattro anziani di Apoc. IV, sono indubbiamente gli abiti bianchi e le corone d’oro (v. 4); parimenti le moltitudini di ogni nazione, di ogni tribù, di ogni popolo e di ogni lingua, che stanno davanti al trono di Dio e davanti all’agnello, secondo Apoc. VII, indossano vesti bianche e tengono in mano delle palme (v. 9); «essi non avranno più fame, non avranno più sete e il sole non li colpirà, né alcun calore. Poiché l’agnello che è sul trono li pascerà e li guiderà alle sorgenti delle acque della vita e Dio asciugherà tutte le lacrime dei loro occhi» (v. 16 s.). Si tratta, secondo Apoc. XIV, di coloro che «sono stati riscattati di tra gli uomini, come primizie per Dio e per l’agnello; sulla loro bocca non si è trovata menzogna perché essi sono irreprensibili» (v. 4 s.). Ma questi uomini, che hanno raggiunto al termine della loro vita un mondo nuovo, non sembrano godere passivamente della loro innocenza, giustizia e felicità eterne; sappiamo infatti (Apoc. IV, 10) che i ventiquattro anziani si prosternano davanti a colui che è seduto sul trono, l’adorano e gettano le loro corone ai suoi piedi intonando il loro canto di lode: «Tu sei degno, Signore e Dio nostro, di

ricevere la gloria e l’onore e la potenza; perché tu hai creato tutte le cose ed è per volontà tua ch’esse esistono e sono state create». Secondo Apoc. V, 9 s. essi cantano «il cantico nuovo» che ha per oggetto colui che è degno di aprire il libro del giudice, perché è stato immolato e ha riscattato gli uomini per Dio; cantico che in seguito è ripreso in forma variata da milioni e miliardi di angeli e poi da tutte le creature che sono in cielo, sulla terra, sotto la terra e in mare. Infine, secondo Apoc. VII, 10: «Essi gridavano ad alta voce dicendo: la salvezza è dovuta al Dio nostro, assiso sul trono e all’agnello!». Altrove leggiamo che essi «sono davanti al trono di Dio e lo servono notte e giorno nel suo Tempio» (Apoc. VII, 15), perché sono usciti dalla grande tribolazione e hanno lavato e reso candide le loro vesti nel sangue dell’agnello. Ed ancora (Apoc. XIV, 2) ci è detto che con il loro cantico nuovo essi colmano il cielo di un rumore simile a quello delle cascate o di un gran tuono o simile al suono che producono gli arpisti suonando il loro strumento. Come è ben chiarito da tutti questi passaggi, con la loro innocenza, giustizia e felicità, gli eletti ricevono una parola ed una voce (come scopo, in qualche modo, del favore fatto loro personalmente) ed hanno per compito di utilizzare questa voce e di dire questa parola, affinché risuonino nell’insieme dell’universo rinnovato. Come potrebbe essere diversamente, se è vero che questi uomini «seguono l’agnello dovunque vada» (Apoc. XIV, 4)?; e poiché questa è la loro destinazione futura ed eterna, il loro compito presente e provvisorio può forse essere differente?; la loro predestinazione eterna non significa forse ch’essi sono eletti per essere dei testimoni, proprio come Dio «li ha predestinati ad essere simili all’immagine del Figlio suo, affinché egli sia il primogenito tra numerosi fratelli» (Rom. VIII, 29)? Se non si vuole mai perdere di vista che si deve riconoscere esclusivamente in Gesù Cristo il Dio che elegge e l’uomo eletto, allora non si può mancare di veder chiaramente in quale direzione è necessario cercare, per discernere il contenuto delte vita dell’uomo eletto; questo contenuto si chiama testimonianza; l’uomo è eletto per essere un testimone. Così comprendiamo perché, in risposta alla nostra domanda, il Nuovo Testamento ci dice e deve dirci effettivamente qualche cosa di completamente diverso da ciò che risulta dalla dottrina ecclesiastica della predestinazione; secondo il Nuovo Testamento gli eletti non sono soltanto salvati nel mondo futuro e nel mondo presente, ma come creature salvate e come oggetto della felicità colmano il cielo e la terra di quel rumore potente di cui parla Apoc. XIV; questa è la differenza che vogliamo mettere in rilievo.

Naturalmente è evidente che gli eletti (cioè gli individui eletti in e con l’uomo Gesù Cristo) sono soltanto portatori secondari di questa voce potente e testimoni in secondo grado; il testimone autentico della misericordia onnipotente di Dio (e per conseguenza la realtà e la rivelazione della sua volontà) è solamente Gesù Cristo; la funzione degli eletti consiste unicamente nel raccogliere e nel trasmettere quanto hanno udito da lui. L’importanza di quanto hanno inteso (e non sono certo parole qualsiasi) risiede interamente nel fatto che essi lo hanno ascoltato direttamente da lui; è lui la voce potente che viene dall’alto e riempie i cieli; è lui la realtà e la rivelazione della volontà divina; è lui il regno di Dio da lui stesso proclamato; è lui per conseguenza anche il buon annuncio di questo regno. Essendo il Figlio del Padre, gli è sufficiente rendere testimonianza di se stesso; non gli è necessario fare altro per portare testimonianza di quella verità che Dio intende far conoscere all’uomo. Per questa ragione gli eletti in lui e con lui non devono testimoniare una volontà divina, un regno di Dio ed un evangelo astratti che Gesù Cristo avrebbe fatto conoscere loro per poi lasciare che se ne occupassero da soli; la loro responsabilità non consente invece di staccarsi da Gesù Cristo; la loro funzione rimane completamente legata alla sua persona. «Sarete miei testimoni» (At. I, 8), i testimoni del testimone per eccellenza, i testimoni di colui che ha reso testimonianza di se stesso, dell’«agnello che è stato immolato». Tutto ciò che andasse oltre o contraddicesse questo compito esclusivo sarebbe non soltanto inconciliabile con la loro vita di eletti, ma non potrebbe che mettere in discussione la loro stessa elezione. Come potrebbero infatti proclamare la misericordia onnipotente di Dio quale fondamento della loro elezione, se non proclamando colui nel quale la loro elezione si trova concretizzata e rivelata? E come attesterebbero l’innocenza, la giustizia e la felicità ch’essi possiedono in virtù della loro elezione, se non annunciando Gesù Cristo, in cui è promessa loro quell’elezione di cui però possono divenire certi soltanto attraverso la fede in lui? «Restate in me, ed io (resterò) in voi! Come il sarmento non può produrre frutti da solo, se non rimane attaccato al ceppo, così neppure voi lo potete se non rimanete in me… Senza di me, non potete far nulla. Se qualcuno non rimane in me, è gettato fuori come il sarmento e secca; in seguito si raccolgono i tralci, si gettano sul fuoco e bruciano» (Gv. XV, 4 ss.). Ecco quindi come il prologo del IV Vangelo presenta Giovanni Battista (e in lui lo stesso evangelista ed in quest’ultimo tutti i testimoni del Nuovo Testamento): ((Egli venne per servire da testimone, per rendere testimonianza alla luce affinché tutti credessero per mezzo di lui; non

era egli la luce; ma apparve per rendere testimonianza alla luce» (Gv. I, 7 s.). «E noi tutti abbiamo ricevuto dalla sua pienezza e grazia per grazia» (Gv. I, 16). Da parte sua, Paolo dichiara ai Corinti (presso i quali si è affermato nelle forme più svariate un cristianesimo troppo ricco e troppo sicuro di sé) di non voler conoscere null’altro fra di loro «se non Gesù Cristo e Gesù Cristo crocifisso» (I Cor. II, 2); ed è certamente considerando questa affermazione capitale che si deve capire ciò ch’egli ha loro detto poco prima: «Considerate, fratelli, che tra di voi che siete stati chiamati non vi sono molti saggi secondo la carne, né molti potenti, né molti nobili; ma Dio ha scelto le cose folli del mondo per confondere i saggi; ha scelto le cose deboli del mondo per confondere i forti; ha scelto le cose VIII del mondo e quelle spregevoli e che non sono, per ridurre al nulla quelle che sono, affinché nessuna carne si glorifichi davanti a Dio» (I Cor. I, 26 ss.; cfr. Giac. II, 5). È perché i credenti sono eletti in e con Gesù Cristo, è perché, viventi in lui e per lui sono interamente poveri, che rappresentano qualche cosa nel mondo e lo dominano; la loro vittoria sta essenzialmente nella loro ricchezza nascosta in Gesù Cristo; la loro funzione è unicamente un servizio di Gesù Cristo, interamente legata alla certezza sempre rinnovata ch’«egli è stato fatto da Dio per noi saggezza, giustizia, santificazione e redenzione» (I Cor. I, 30). Ecco quanto presuppone senza sosta la testimonianza degli eletti, ossia la loro funzione che resta pur sempre secondaria; in accordo con il Nuovo Testamento non si può quasi definire diversamente la parola che è stata loro affidata se non come la Parola di Gesù Cristo stesso; non significa infatti nulla accanto ed al di fuori di lui. Notiamo di passaggio che è proprio in questa prospettiva che si giunge anche a capire ciò che significa la vita degli eletti nell’Antico Testamento, dove appare, fatto strano, così regolarmente legata a quella dei riprovati; effettivamente alla luce di quanto abbiamo detto la tesi generale, secondo la quale il Dio d’Israele è il senso e lo scopo della loro vita, riceve un contenuto concreto; i personaggi dell’Antico Testamento sono già anch’essi, e per così dire in maniera esclusiva, dei segni del limite assegnato alla storia d’Israele, testimoni, sostituti, supplenti e rappresentanti di Gesù Cristo. Poiché l’uomo nel quale Dio ha riconciliato il mondo con se stesso, nel quale il muro di separazione è stato abolito e l’inimicizia distrutta non è ancora apparso nella sfera del patto antico e per conseguenza non può ancora essere designato con il suo nome, è normale che, in questa sfera, gli eletti e i riprovati, come d’altronde l’amore e la collera di Dio, siano sempre così stranamente legati e

separati nello stesso tempo; ma dal momento in cui appare colui che con la sua persona e il suo nome costituisce il limite dell’Antico Testamento, ossia il fine della storia che si svolge in questo libro, l’arbitrario e le contraddizioni che sembrano caratterizzare i personaggi veterotestamentari si dissipano subito; l’esistenza di questi personaggi non designa più il vuoto ma, unitamente a quella degli eletti del Nuovo Testamento, rinvia al centro in cui la volontà elettiva di Dio si è dichiarata. Nella luce in cui sono posti, quando vengono considerati a partire da questo limite, gli uomini dell’antico patto cessano di essere dei segni oscuri: divengono e sono a loro volta testimoni di questa luce. Bisogna rilevarlo: in questa luce, solamente! Cioè unicamente nella misura in cui quegli che essi attestano offre loro antecedentemente la propria testimonianza, nella misura in cui «colui che viene dopo di me è passato davanti a me, poiché era prima di me» (Gv. I, 15). Alla luce di questo «prima di me» divengono e sono anch’essi personaggi luminosi, divengono e sono anch’essi testimoni reali di Gesù Cristo. Non è certo a caso che, per giungere a tale costatazione, abbiamo considerato l’ultimo dei personaggi del patto antico, che è nello stesso tempo la prima delie figure neotestamentarie: Giovanni Battista; è proprio grazie all’insegnamento del Nuovo Testamento che possiamo capire, anche da questo punto di vista, ciò che ci dice l’Antico; il problema che esaminiamo può essere risolto indirettamente dall’Antico Testamento perché si trova risolto direttamente dal Nuovo. È quindi verso il Nuovo Testamento che dobbiamo rivolgerci per scoprire che l’individuo eletto, secondo la Bibbia ed in analogia con Gesù Cristo, è destinato a essere per il mondo intero un messaggero della fede, un testimone della misericordia divina onnipotente che è, in Gesù Cristo, il fondamento gratuito di ogni elezione individuale. 5. Eletti nella comunità di Gesù Cristo. Quando si leggono i passaggi, tutto sommato non molto numerosi, in cui si tratta dell’elezione (ἐϰλογή, πρόϑεσις, προορισμός) individuale nel Nuovo Testamento e ci si domanda quale sia l’oggetto di questa decisione divina, si giunge immediatamente alla seguente costatazione generale: essere eletto o predestinato nel senso neotestamentario significa essere destinato ad esistere nella comunità o chiesa di Gesù Cristo, cioè tra persone che, in virtù della loro comunione con Gesù Cristo operata dallo Spirito Santo attraverso la loro vocazione, si trovano anche legate tra di loro dalla realtà di una comunione che permane. Realizzando il suo progetto eterno (πρόϑεσις) in Gesù Cristo, «nel quale abbiamo, per mezzo della fede in lui, la libertà di avvicinarci a Dio con fiducia» (Ef. III, 11), Dio stabilisce (v. 9)

un disegno di salvezza (οἰϰονομία), la cui concretizzazione e rivelazione è innanzitutto la comunità, l’ἐϰϰλησία (v. 10), nella quale si trovano riuniti e legati tutti coloro che possiedono tale libertà di avvicinarsi a lui con fiducia; è di questa comunità che si parla apertamente già in Ef. I, 3 s., dove si tratta di coloro che Dio ha benedetto con ogni specie di benedizione nei luoghi celesti in Cristo e che ha eletto già prima della fondazione del mondo, affinché essi siano santi e irreprensibili davanti a lui; ugualmente l’ἐϰϰλησία è indubbiamente la somma degli «essi» e dei «noi» dei quali Rom. VIII descrive la vita fatta di obbedienza, di speranza e di innocenza, sotto la legge dello Spirito; essa raduna l’insieme di coloro che Dio ha «conosciuto in anticipo» ed ha «predestinato» a essere simili all’immagine del Figlio suo e che di conseguenza ha anche chiamato, giustificato e glorificato (v. 28 ss.), cioè la totalità degli «eletti» che niente e nessuno può separare dall’amore di Dio (v. 33 ss.). Secondo I Tess. I, 4 Paolo conosce un’elezione (ἐϰλογή) dei cristiani nel loro insieme, poiché l’evangelo non è stato predicato tra loro soltanto a parole, ma con potenza, nello Spirito Santo e con molta efficacia (v, 5); per questa ragione può sempre rendere grazie a Dio per tutti loro, a causa della loro fede, del loro amore e della loro speranza (v. 2 s.); che essi siano eletti ed amati da Dio, che il Vangelo sia stato divulgato in mezzo a loro, che lo Spirito Santo li abbia risvegliati e benedetti, che essi costituiscano la comunità cristiana di Tessalonica, tutte queste indicazioni sono perfettamente sinonime, secondo il passaggio in discussione. Quanto all’esortazione di Col, III, 12 (in cui l’apostolo domanda ai suoi lettori di «assumere» sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di dolcezza, di pazienza), essa si fonda sul fatto ch’egli si rivolge loro «come ad eletti di Dio, santi ed amati da lui (ὡς ἐϰλεϰτοεὶ τοῦ ϑεοῦ ἅγιοι ϰαὶ ἠγαπημένοι); secondo il?. io s., tale esortazione ha il medesimo significato dell’invito a «rivestire» l’uomo nuovo, che si rinnova, in modo riconoscibile, secondo l’immagine di colui che l’ha creato, «dove non c’è greco né giudeo, circonciso o incirconciso, barbaro o scita, schiavo o libero, ma dove il Cristo è tutto in tutti»; l’elezione, la decisione di Dio nei riguardi di questi uomini, la loro santificazione operata attraverso il suo amore, la comunità di Gesù Cristo, la vita di coloro ch’essa raccoglie, l’orientamento nell’esistenza che la comunità imprime: ecco ancora altrettante indicazioni sinonime. Si ritrova la medesima concezione in Apoc. XVII, 14 dove coloro che accompagnano l’agnello (il Signore dei signori) per lottare contro la bestia (rispettivamente contro i dieci re) sono designati senza riprender fiato con le

parole: «chiamati ed eletti e fedeli» (ϰλητοὶ ϰαὶ ἐϰλεϰτοὶ ϰαὶ πιστοὶ). In II Pt. I, 10 i cristiani sono esortati a «fortificare» la loro vocazione e la loro elezione, cioè a confermarle con tutto ciò che necessariamente contiene la loro fede fondata sulle promesse divine. In Tit. I, 1 e in II Tim. II, 10 gli ἐϰλεϰτοὶ sono identificati con la comunità: nel primo passaggio Paolo caratterizza il suo ministero come l’apostolato per la fede degli eletti di Dio e per il riconoscimento della verità; nel secondo dichiara ch’egli sopporta tutto a causa loro. È però soprattutto la prima lettera di Pietro a dover trattenere la nostra attenzione. Già in apertura i credenti (stranieri e dispersi in Asia Minore) sono chiamati nel loro insieme ἐϰλεϰτοὶ e la loro natura è così definita: essi provengono dalla πρόγνωσις del Padre, sono oggetto della santificazione dello Spirito, sono destinati ad obbedire ed a partecipare all’aspersione del sangue di Gesù Cristo; tutto ciò che sono, lo devono alla loro elezione; ed è a causa della loro elezione che essi sono quello che sono. Il brano di I, 17 ss. ci apprende il risultato della πρόγνωσις del Padre; prima ancora della creazione del mondo, il suo oggetto era già il Cristo, l’agnello senza difetto e senza macchia, il cui sangue prezioso ha riscattato i suoi dal loro vano modo di vivere, ereditato dai padri, cosicché ormai si può dir loro: «sarete santi, perché io sono santo!» (v. 16). Secondo II, 4 ss. essi si sono accostati alla pietra viva, rifiutata dagli uomini e disprezzata dall’incredulità, ma scelta ed onorata da Dio; edificati sopra di essa, sono loro stessi le pietre vive di una casa spirituale: «una razza eletta, un sacerdozio regale, una nazione santa, un popolo che Dio si è acquisito»; l’onore che in questa maniera deriva loro, è posseduto perché essi credono, in opposizione a coloro che non credono. In tutte queste esortazioni e consolazioni, l’epistola si riferisce ininterrottamente a questo fatto: come cristiani voi esistete su questo fondamento; e poiché esistete su questo fondamento, siete necessariamente dei cristiani, con tutte le conseguenze che ne risultano: la sofferenza, l’azione, la speranza. Alla fine della lettera si trova quasi una conferma indiretta di questa identificazione dell’elezione e della chiesa: infatti, nei saluti (V, 13), l’apostolo chiama la comunità in seno alla quale egli scrive (probabilmente quella di Roma) ἡ ἐν Βαβυλῶνι αυνεϰλεϰτή (la comunità che è stata chiamata insieme in Babilonia). Nella II Gv. 1 e 13 poi si considerano in modo chiaro due comunità, chiamate rispettivamente ἐϰλεϰτὴ ϰυρία (signora eletta) e ἀδελϕὴ ἐϰλεϰτή (sorella eletta). In conclusione: quando parla di ἐϰλογή o di πρόϑεσις o di προορισμός di Dio, il Nuovo Testamento designa sempre, senza mai separarla da Gesù Cristo sul quale è fondata, l’elezione di coloro che sono

chiamati a lui e che, per questa ragione, credono in lui. Come abbiamo visto in un contesto precedente, l’elezione d’Israele non è certamente smentita o considerata peritura: poiché è la sua elezione a causa di Gesù Cristo, s’identifica con quella di coloro che credono in lui, cioè con l’elezione della chiesa. Essere eletto vuol dire credere; e poiché coloro che credono sono la Chiesa, essere eletto vuol dire essere nella Chiesa. Si tratta di un circolo chiuso, che nulla può rompere; non c’è elezione in vista di altro; l’individuo eletto è guidato alla fede dalla predicazione e conseguentemente si trova incorporato alla comunità dei credenti, alla Chiesa. Ciò che gli è permesso e che ci si può attendere da lui, ciò che riceve da Dio e che diviene per mezzo di Dio, non è mai «particolare»; tutti i predicati dell’eletto sono originariamente quelli di Gesù Cristo; per questa ragione appartengono ai suoi, a coloro che credono in lui, senza alcuna distinzione. Conviene notare che il concetto di elezione (o dei suoi sinonimi) non si applica mai (con una sola eccezione: Rom. XVI, 13) all’individuo, ma sempre all’insieme designato con il pronome «essi» o con il «noi» delle epistole; tuttavia l’individuo non è certo lasciato da parte; tutto quanto sulla base della rivelazione e della riconciliazione in Gesù Cristo concerne la comunità e si può sperare da essa, riguarda anche l’individuo e si può sperare da lui. Ma il circolo di cui abbiamo parlato è chiuso anche in un altro senso. Nella comunità di coloro che credono in Gesù Cristo non si può parlare di una distinzione tra eletti e non-eletti: l’elezione e la chiesa sono infatti due realtà che si compenetrano; il Nuovo Testamento parla sì di una gravissima minaccia incombente sugli eletti raccolti nella comunità; tuttavia nel Nuovo Testamento «non si tratta mai di un certo numero di persone (di una élite), che si distinguono all’interno della comunità»1, non vi si trova mai alcuna indicazione che autorizzi a considerare l’esistenza di cristiani che possano, apertamente o meno, non appartenere al numero degli ἐϰλεϰτοί. Quando (come ha fatto Calvino) si afferma che la comunità cristiana è il luogo dell’elezione e della riprovazione, bisogna allora rilevare che il concetto di comunità utilizzato non è certamente quello neotestamentario; arbitrariamente o meno, la comunità è stata confusa con un’immagine del popolo d’Israele che rimane al di fuori della prospettiva del Nuovo Testamento, cioè con un’entità caratterizzata dalla separazione tra eletti e riprovati; ora la realtà e la rivelazione dell’ἐϰϰλησία neotestamentaria costituiscono precisamente la rettifica di tale immagine. Nella chiesa non si tratta più di separazione tra eletti e riprovati, poiché essa è formata dall’elezione di colui che ha assunto con la sua morte e reso caduca con la sua

resurrezione tutta la sfera della riprovazione, poiché essa è il luogo dove, con la fede, l’uomo partecipa all’elezione e al trionfo di Gesù Cristo e dove gli è permesso e ordinato di attenersi, in Gesù Cristo, alla propria elezione, lasciando da parte il ripudio dal quale è stato liberato in lui. Solo chi non crede può essere ancora ripudiato; chi crede non può più essere un riprovato; nella comunità del Nuovo Testamento essere riprovato è una condizione impossibile. Certamente in questa comunità ogni individuo deve sorvegliare la sua fede (πίστις), cioè la sua chiamata (ϰλῆσις) e la sua elezione (ἐϰλογή); in altre parole il problema della πίστις e in conseguenza della ϰλῆσις è sempre presente e continua a esigere da parte sua una risposta sempre nuova; è evidente tuttavia che dove vi è πίστις vi è anche ϰλῆσις e ἐϰλογή. Così il circolo di cui abbiamo parlato permane anche in questa prospettiva. 6. Eletti a servizio del mondo. Dobbiamo ora approfondire la nostra analisi. Se il circolo dell’elezione coincide con quello della comunità (o chiesa) di Gesù Cristo, che cosa significa dunque far parte di questa comunità, che cosa vuol dire l’esistenza di questa comunità come tale? Se consultiamo i testi biblici costatiamo che l’ultima parola concernente la comunità cristiana e l’esistenza all’interno di tale comunità (e conseguentemente l’ultima parola sul senso e sullo scopo dell’elezione individuale) non può certo mai assumere l’aspetto di una dottrina secondo cui i credenti riuniti nella chiesa si troverebbero senz’altro strappati al mondo, al peccato e alla morte, perché giustificati e santificati in vista della vita eterna; lo scopo delle esortazioni e delle consolazioni ch’essi ricevono non coincide mai con il compimento presente o futuro del loro destino personale; la chiesa non è affatto un’istituzione divina preposta ad appagare le necessità religiose dell’individuo, perfezionando e utilizzando i mezzi adeguati a questo proposito. È ben vero che tutto questo esiste anche nella comunità come dono e come compito, che l’elezione nella chiesa possiede anche questo scopo; tuttavia, dopo un esame più preciso, possiamo costatare che tale scopo è completamente subordinato ad un fine più importante: come la chiesa in cui riceve esortazione e conforto, l’eletto è destinato inanzitutto ad essere nel mondo al servizio del Signore della chiesa, al servizio della misericordia divina onnipotente che si è concretizzata e rivelata in lui, affinché la chiesa come tale e, in essa, ogni eletto al suo posto ed a modo suo, proclamino all’esterno il nome e la causa origine della loro vita. Se la catena d’oro di Rom. VIII, 29 s. culmina nell’ἐδόξασεν («glorificò»), non bisogna però dimenticare che la nozione di δόξα (gloria) comporta in se stessa l’idea di luce; di conseguenza il fine ultimo dell’elezione non può certo

essere semplicemente l’elevazione e il conforto che sicuramente anche la δόξα comunica a coloro che la ricevono; ma come Dio stesso è glorioso nel suo potere di rivelarsi e nell’atto attraverso cui realmente si rivela (lui, l’inestinguibile fonte di luce, lui che diffonde irresistibilmente intorno a sé lo splendore della sua perfezione) così pure devono riflettersi al di fuori quell’elevazione e quel conforto ch’egli accorda al suo Figlio unico, come anche a coloro che sono i suoi fratelli e che sono eletti in lui e con lui; in una sola parola: coloro che sono stati glorificati da Dio possono e debbono glorificarlo a loro volta ed è questo lo scopo della loro elezione. A questo proposito viene subito in mente il famoso testo di Mt. V, 14 ss. che richiama chiaramente le parole di Gv. VIII, 12: «Voi siete la luce del mondo. Una città posta su di un monte non può rimanere nascosta; e non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma (la si mette) sul candeliere, in modo che illumini tutti coloro che sono in casa. La vostra luce risplenda così davanti agli uomini affinché essi vedano le vostre opere buone (!) e glorifichino (a loro volta) il Padre vostro che è nei cieli». In Ef. I, 3 si parla della nostra benedizione nei luoghi celesti in Gesù Cristo, mentre nel v. 4 l’apostolo nomina la nostra elezione in lui prima della fondazione del mondo e nel v. 5 (in accordo con Rom. VIII, 29) precisa: «predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà»; non dobbiamo trascurare la finale di tutto questo passo che, a parte la prima epistola di Pietro, è forse il più chiaro fra i passi neotestamentari concernenti la predestinazione; perché Dio ha compiuto tutto questo? Senza alcun dubbio per noi; si tratta infatti dell’origine dell’opera di quella grazia che ci ha trovati; proprio per questo però, si è prodotta «a lode e gloria della sua grazia» (v. 6). Ascoltiamo anche Ef. I, 11: «In lui siamo divenuti anche eredi, essendo stati predestinati secondo il piano di colui che tutto opera secondo il consiglio della sua volontà». Anche qui, dobbiamo notare il seguito (v. 12) in cui si dichiara ancora più chiaramente che al v. 6, evidentemente con un richiamo all’opera della comunità perfetta della fine dei tempi: «perché noi fossimo a lode della sua gloria, noi che per primi abbiamo sperato in Cristo». Infine in Ef. III, 11 si afferma espressamente che l’esistenza della comunità riposa sulla predestinazione eterna di Dio; conviene tuttavia notare che (v. 10) tale comunità non ha il proprio fine in se stessa, perché esiste in quanto, per mezzo suo, sia nota ai principati e alle potestà dei cieli la sapienza divina infinitamente varia. È riferendosi alla πρόϑεσις e alla ϰάρις di Dio (di cui

beneficiamo fin dall’eternità in Gesù Cristo) che Paolo esorta Timoteo a non vergognarsi di rendere testimonianza al Signore e neppure a lui, l’apostolo incatenato, ma a soffrire con lui per l’evangelo (II Tim. I, 9). Il legame tra l’elezione e la testimonianza appare anche subito nel passo dell’Apoc. XVII, 4 che tratta della lotta finale del Cristo e dei suoi eletti. E benché sembri esser lasciato sullo sfondo in testi come Col. III, 12 e II Pt. I, 10, lo si ritrova chiaramente in primo piano in I Tess. I, 4 ss.: se la comunità di Tessalonica viene fortificata dalla Parola e dallo Spirito di Dio che riposano sull’elezione, è affinché i suoi membri siano imitatori di Paolo e del Signore ricevendo la Parola di Dio in mezzo a molte tribolazioni; e divulgandola altrove, essi sono divenuti modello (τύπος) di fede in Macedonia, in Acaia e dappertutto (v. 6 s.). Si può fare la medesima osservazione a proposito dell’importante passo di I Pt. II, 4 ss. in cui la descrizione dell’onore dei credenti come popolo eletto (v. 9) culmina nella seguente indicazione: «voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce»; non è certo a caso quindi che questa epistola insista tanto sulla necessità per i credenti di testimoniare la loro fede al di fuori, in mezzo ai pagani (II, 12; III, 1 s., 16; IV, 16). Se non è facile capire perché, nella lista dei saluti di Rom. XVI, un certo Rufo sia chiamato ὁ εϰλεϰτὸς ἐν ϰυρίῳ (?. 13), sappiamo invece bene che cosa significhi l’unica eccezione alla regola secondo cui nel Nuovo Testamento è sempre la pluralità degli ἐϰλεϰτοί a corrispondere all’ἐϰλογή: ci riferiamo all’elezione dell’apostolo Paolo. Si capisce senz’altro il significato che ha avuto per lui personalmente la sua elezione, con tutto ciò che ne deriva. Egli annuncia l’evangelo, potenza di Dio per la salvezza di chiunque creda e non ha veramente alcuna ragione di vergognarsene (Rom. I, 16) perché ne ha fatto lui stesso l’esperienza; eppure apprendiamo da 1 Cor. IX, 27 ch’egli teme di essere lui stesso disapprovato, dopo aver predicato agli altri. In ogni caso (e pensiamo ancora una volta a Rom. IX, 5) Paolo non crede assolutamente che la sua conversione e l’elezione che la fonda abbiano uno scopo in se stesse, cioè possano permettergli semplicemente di godere sulla terra e nell’aldilà dei benefici di Dio ch’esse gli procurano; fin dall’inizio sappiamo infatti che Anania (At. IX, 15) riceve l’ordine di andarlo a trovare (lui, che fino a quel momento è stato un persecutore della Chiesa) «perché quest’uomo è uno strumento da me eletto (σϰεύος ἐϰλογῆς) per portare il mio nome davanti alle nazioni, ai re e ai figli d’Israele»; secondo At. XXII, 14 s. sappiamo poi che

Anania compie la sua missione presso Saulo dicendogli: «Il Dio dei nostri padri ti ha destinato a conoscere la sua volontà, a vedere il Giusto e ad udire le parole della sua bocca, poiché gli sarai testimone, presso tutti gli uomini, delle cose che hai veduto ed udito». E Gesù stesso (At. XXVI, 16 ss.) dichiara al suo persecutore: «Alzati e sta’ in piedi; poiché ti sono apparso per costituirti (προϰειρίσασϑαί σε) ministro e testimone delle cose che hai visto e di quelle per le quali mi manifesterò a te. Ti ho scelto di mezzo a questo popolo e di mezzo ai pagani, verso cui ora ti invio per aprire loro gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di Satana a Dio, perché ottengano, per la fede in me, il perdono dei peccati e l’eredità con i santi». A questo corrisponde quanto Paolo afferma di se stesso: egli è stato «messo da parte per l’evangelo di Dio concernente il Figlio suo» (Rom. I, 1 s.); meglio ancora (Gal. I, 15): piacque a Dio, che lo aveva messo da parte fin dal seno di sua madre e chiamato con la sua grazia, di rivelare in lui il Figlio suo affinché «l’annunziasse come il buon annuncio in mezzo ai pagani»; secondo I Tim. I, 16 poi egli ha ottenuto misericordia perché Gesù Cristo mostrasse in lui per primo (in lui, il primo dei peccatori, come dice al v. 15) tutta la sua longanimità, come esempio (ὑποτύπωσις) per coloro che avrebbero creduto in lui per la vita eterna. Se anche Paolo celebra la ϰάρις divina in funzione della sua persona (come ad esempio in I Cor. XV, 10 s. oppure II Cor. XII, 9 s.), in definitiva celebra sempre la grazia del suo apostolato; il suo εὐϰαριστεῖν, il suo rendere grazie (I Cor. I, 4 S.; FU. I, 3 S.; Col. I, 3 S.; I Tess. I, 2 s.; II Tess. I, 3 S.) non ha senso se non in relazione con le comunità cristiane, cioè con la sua opera d’apostolo. Possiamo dire in conclusione che l’interdipendenza paolina dell’elezione, della grazia e dell’apostolato dimostra che riferendo l’elezione alla sua persona in un modo così deciso, l’apostolo non contraddice la regola caratteristica del Nuovo Testamento, secondo cui l’elezione è quella della chiesa o meglio del vivere all’interno della chiesa. 7. Eletto per l’apostolato. Si può riconoscere esemplarmente il significato dell’essere nella chiesa (in breve: il significato della chiesa stessa) in ciò che il Nuovo Testamento chiama apostolato ed in particolare in ciò che Paolo ha descritto come la realtà del proprio apostolato. Da un lato la chiesa è l’uomo eletto Gesù Cristo con i suoi, cioè con coloro che credono in lui: per questa ragione essa è l’oggetto dell’elezione divina; e d’altro lato (si tratta in questo caso della spiegazione del modo in cui Gesù Cristo perviene ai suoi ed i suoi giungono fino a lui) essa è il cerchio dei dodici apostoli (completato non da

Mattia, bensì da Paolo, dopo l’eliminazione di Giuda), comprensivo di tutti coloro che, per il ministero e l’opera di questo gruppo, sono chiamati alla fede e incorporati a Gesù Cristo, per costituire in questa forma il popolo eletto delle dodici tribù d’Israele nella dispersione (Giac. I, 1). Tale è l’insegnamento che troviamo nella prima parte del canone neotestamentario (cioè nei vangeli e che può confermare e chiarire in definitiva tutte le osservazioni già fatte a proposito della vita e del compito peculiare degli eletti. La chiesa (ossia la «congregazione degli eletti») possiede (insieme con la grazia di cui è stata oggetto) questo orientamento essenziale verso l’esterno, verso la missione, verso il mondo, poiché non è soltanto fondata sull’apostolato ma si identifica con esso, poiché a partire dalla sua origine (cui rimane strettamente legata) è quella città posta sul monte e quella luce posta sul candeliere di cui parla il Vangelo e così (lungi dall’essere nascosta) è visibile; poiché è nella sua natura di illuminare, di essere portatrice di rivelazione. Il meno che si possa dire secondo me è che Schrenk non sia chiaro allorché scrive che, nei vangeli, il circolo degli apostoli «indica ciò che vale per l’insieme della comunità» e quando aggiunge: «è alla sua sorgente, il cerchio apostolico, che l’elezione diventa una grandezza viva per tutto quanto l’insieme»2. Leggendo queste parole si ha netta l’impressione che la relazione intercorrente tra l’elezione e l’apostolato sia stabilita a posteriori dagli evangelisti, che vogliono illustrare ed interpretare la comunità propriamente detta rapportandosi a quella degli apostoli. Deve essere esattamente l’inverso: infatti se il collegio apostolico è veramente la «sorgente» di quanto il Nuovo Testamento denomina elezione, è subito evidente che quanto deve essere affermato nella comunità eletta e quanto viene detto a questo proposito nella parte epistolare del Nuovo Testamento non può che rinviare, rinforzandolo, a ciò che deve essere detto originalmente e sempre in primo luogo del cerchio degli apostoli. A questo cerchio la chiesa deve la sua esistenza primigenia; come dimostra appunto l’apostolato di Paolo, ciò non vuol dire semplicemente ch’essa ne riceva un primo impulso, bensì ch’essa non può cessare di vivere dell’opera e della parola degli apostoli, sotto pena di pervenire alla sua dissoluzione; in altre parole: i predicati di unità, di santità e di cattolicità della chiesa sono assolutamente inseparabili da un solo e medesimo predicato che li comprende tutti e cioè dall’apostolicità. La chiesa è apostolica o non lo è. «Apostolico» vuol dire da un lato: la chiesa esiste grazie all’opera e alla parola continua degli apostoli; e dall’altro: essa esiste facendo essa stessa ciò che hanno fatto gli apostoli e ciò ch’essi non smettono di fare, data la natura della loro opera e

della loro parola. Non c’è vita della chiesa e nella chiesa che possa includere meno o più di quanto si è manifestato agli apostoli come la «vita» (I Gv. I, 2); che possa includere meno o più della testimonianza che è stata loro comunicata, trasmessa, affidata, data ed imposta. Vivere nella chiesa significa dunque vivere con gli apostoli, nei due sensi che abbiamo descritto. Dal momento che la chiesa esiste con questa regola, il legame tra l’elezione e la comunità cristiana non può avere definizione diversa da quella che troviamo nella parte epistolare del Nuovo Testamento. 8. Illustrazione sinottica dell’apostolato. I passi dei Sinottici che trattano il tema dell’apostolato formano tre gruppi omogenei immediatamente percepibili, presentanti tuttavia chiare diversità nella forma e nella sostanza. Certo si tratta da un capo all’altro della missione di dodici, anzi di undici discepoli di Gesù, riassunta e concretizzata nella loro condizione di discepoli. Però nei passi in cui viene descritta l’attività di Gesù in Galilea è posta in primo piano la loro vocazione; in seguito, nell’esposizione dell’ultimo viaggio di Gesù a Gerusalemme, si insiste sulla loro funzione particolare di rappresentanti espliciti del fondamento e della norma che regolano la vita del discepolo o della comunità; infine, narrando i fatti della risurrezione o dell’ascensione, viene dato rilievo al compito ch’essi devono adempiere nel mondo, compito che coincide nuovamente con quello del discepolo o della comunità di Gesù. I tre cerchi certamente si confermano a vicenda, poiché la missione degli apostoli, ossia degli inviati di Gesù Cristo, è la sostanza stessa di tutte queste indicazioni; non si deve però trascurare la differenza di accentuazione che caratterizza il modo d’approccio a tale sostanza. D’altronde è subito percepibile come tale unità differenziata dell’apostolato (e per conseguenza della comunità) corrisponda a quanto più tardi è stato denominato il triplice ufficio del Cristo: l’ufficio profetico nella prima fase (Galilea), sacerdotale nella seconda (sofferenza) e regale nella terza (elevazione) si ritrova in grado derivato anche negli inviati di Gesù Cristo. Sappiamo che alla domanda (32): «Ma tu, perché sei chiamato cristiano?» il Catechismo di Heidelberg risponde: «Perché per mezzo della fede sono un membro del Cristo e per conseguenza sono participe della sua unzione: per confessare il suo nome e per offrirmi a lui in sacrificio vivo di riconoscenza; per combattere in questa vita contro il peccato e il diavolo, con una libera coscienza; per regnare infine nell’eternità insieme con lui su tutte le cose create». Questa risposta potrebbe essere anche una definizione dell’apostolo neotestamentario, così come è concepito nei Sinottici; l’apostolato è la

partecipazione attiva dei membri di Cristo alla sua unzione, al suo ministero messianico; poiché tale partecipazione è esclusivamente una grazia, poiché riposa interamente sull’elezione e poiché è resa possibile unicamente dalla fede, può essere, per definizione stessa, solo una partecipazione attiva. L’ufficio dello stesso Messia, comunque lo si configuri, è in ogni caso l’ufficio di un inviato (l’ufficio del Figlio che è inviato dal Padre e che, investito dei suoi pieni poteri, è venuto nel mondo creato da Dio e bisognoso del suo amore); per questo (Ebr. III, 1) Gesù è chiamato ἀπόστολος; «il Padre mi ha inviato», questa è l’indicazione che nel quarto vangelo (in particolare nei cap. V-VIII) domina i discorsi in cui Gesù si manifesta ai suoi discepoli ed ai Giudei. Lo stesso vangelo insiste anche sul legame tra la missione di Gesù e quella dei suoi; «come il Padre ha inviato me nel mondo, così anch’io ho mandato loro nel mondo. E per essi io santifico me stesso, affinché anch’essi siano santificati nella verità (Gv. XVII, 18 s.). Ed il racconto che il medesimo scritto fa della resurrezione contiene la medesima indicazione: «La pace sia con voi! Come il Padre ha mandato me, così anch’io mando voi. Detto questo, soffiò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo» (Gv. XX, 21 s.). L’apostolato è la partecipazione alla missione stessa di Gesù; i suoi detentori lo possiedono non perché l’abbiano voluto e deciso loro stessi, ma perché Gesù ha voluto e deciso così; non perché ne abbiano la possibilità, ma perché Gesù l’ha conferito loro; non a causa della loro scelta, ma oggettivamente e nettamente in virtù della ferma direttiva ricevuta da Gesù, che li ha invitati a fare ciò che lui stesso ha fatto. L’azione di Gesù prosegue nel mondo nella forma subordinata che è l’attività degli apostoli, cui egli ha conferito nelle forme dovute mandato e qualifica; in questo senso gli apostoli (e per mezzo loro e con loro tutta la chiesa, tutti i cristiani) sono certamente «partecipi della sua unzione»; non sono soltanto dei ϰριστιανοί, ma anche, essi stessi, dei ϰριστοί: «hanno ricevuto l’unzione da parte di colui che è santo» (I Gv. II, 20; cfr. v. 27). Sono essi stessi profeti, sacerdoti e re (I Pt. II, 9), perché Gesù Cristo è tale e li ha amati come suoi. Non è quasi possibile sottomettere ad un’analisi storica la concezione differenziata che i Sinottici danno dell’apostolato; sotto i suoi tre aspetti l’immagine di Gesù e dell’apostolato presentata in questi vangeli, non è affatto il riflesso di un’evoluzione storica, che ci permetta o ci obblighi a esaminare la realtà in questione come se comprendesse tre elementi indipendenti, che solo la loro successione potrebbe riunire e per conseguenza soltanto una visione

d’insieme permetterebbe di mettere in rapporto; questa differenziazione dell’apostolato è invece la differenziazione oggettiva di una sola e medesima realtà. Così, per comprenderla meglio, sarà opportuno partire dalla forma ultima ed esauriente che essa riveste alla fine dei vangeli, nella storia della risurrezione; quest’ultima forma non esclude, anzi include le due altre; lo dimostra il modo in cui gli evangelisti ne hanno parlato. Si tratta dell’ordine di missione che (secondo Luca, la finale non autentica di Marco e gli Atti degli Apostoli) precede immediatamente l’ascensione; come la sua ripetizione in At. I, 8 sottolinea in maniera peculiare, quest’ordine segna il passaggio dalla prima parte del canone neotestamentario alla seconda, in cui occupano il centro del quadro la parola e l’opera degli apostoli. È significativo che Matteo (XXVIII, 16) collochi l’avvenimento in Galilea, mostrando così che, insieme all’attività di Gesù, si conclude anche il periodo della fondazione dell’apostolato, mentre per Luca lo stesso evento si produce manifestamente a Gerusalemme (XXIV, 36 s.), dove il circolo chiuso da Matteo si riapre sulla Pentecoste e sugli inizi dell’attività degli apostoli (più esattamente dell’apostolo Paolo) inviati nel mondo pagano. È anche significativo che l’«ordine di missione», secondo Mt. XXVIII, 18 sia una parola diretta di Gesù stesso, mentre invece, secondo Lc. XXIV, 46 s., è legato alla spiegazione che Gesù dà ai suoi discepoli dei discorsi ch’egli aveva fatto, quando era ancora con loro: era necessario che fossero adempiute tutte le cose scritte su di lui nella legge di Mosè, nei profeti e nei salmi. Inoltre in conformità con quanto è stato scritto in questi medesimi libri, il pentimento e la remissione dei peccati saranno predicati nel suo nome a tutti i popoli «cominciando da Gerusalemme»; testimoni di questo adempimento della Scrittura saranno i discepoli; in questo senso essi saranno i «miei» testimoni (At. I, 8). L’insegnamento oggettivo racchiuso in queste varianti è certamente più importante della controversia storica che può sollevare, in modo tutto particolare. la prima di esse. I due avvenimenti seguenti sono infatti oggettivamente veri e devono essere presi in considerazione: inanzitutto la missione del Risorto, come Matteo intende sottolineare palesemente collocando la scena in Galilea, è proprio quella che Gesù, prima della sua morte, ha chiesto ai suoi discepoli di compiere in Israele; in secondo luogo in virtù della risurrezione tale ordine di missione significa che la Parola di Dio, nata da Sion, si diffonde in tutto il mondo. Infine è oggettivamente esatto che si tratta di un ordine che solo Gesù ha potuto dare e ha dato e che, di conseguenza, costituisce come tale l’adempimento della Scrittura, la sostanza

stessa di tutto l’Antico Testamento. Ecco ora gli elementi che sono comuni ai racconti di Matteo e di Luca: i discepoli, proprio nel momento decisivo, sono profondamente turbati e divisi di fronte a Gesù (il fatto sembra strano, pensando che si è alla fine dei vangeli, ma evidentemente è necessario che sia così); secondo Lc. XXIV, 37 quando Gesù si presenta in mezzo a loro, essi sono presi da spavento perché credono di vedere uno spirito; Mt. XXVIII, 17 aggiunge ch’essi si prosternarono davanti a lui, «ma qualcuno dubitava». Queste indicazioni corrispondono a quanto ci è stato detto sull’atteggiamento dei discepoli prima della morte e della risurrezione di Gesù; da soli non sono strumenti capaci di compiere la loro missione; è sempre stato ed è sempre necessario che Gesù in persona li leghi a lui in modo tale ch’essi stessi, come suoi inviati, possano fare ciò ch’egli ha fatto. Gli evangelisti non hanno avuto altra visione degli apostoli; neppure nel momento più importante e solenne di tutti in cui l’apostolato passa dal suo autentico detentore a questi ultimi; se alcuni uomini ricevono realmente un ministero regale, non è sicuramente perché possiedano qualità che li renderebbero degni. È Gesù, il re che farà di loro dei re oppure non lo saranno mai; egli si presenta dinnanzi a loro unicamente come colui che porta e concede la pienezza del loro compito futuro; egli fa precedere l’ordine di Mt. XXVIII, 18 da una dichiarazione, quasi a prova ch’egli è veramente in grado di comandare: «Ogni potere (ἐξουσία, potestas) mi è stato dato in cielo e sulla terra»; forte di questo potere egli li interpella per comandare loro di parteciparvi. A prima vista il parallelo di questa dichiarazione sembra mancare nel testo di Luca; in realtà esiste; per Luca infatti, dal momento che Gesù rappresenta l’adempimento della Scrittura, è anche il suo unico commentatore e a questo titolo conferma e dimostra di essere il portatore del potere e della gloria di Dio. Tale è già il senso dell’esposizione che precede l’ordine di missione in Luca (il racconto di Emmaus: XXIV, 13-35); Gesù, che è nello stesso tempo il contenuto della Scrittura e la sua rivelazione, fa dei suoi discepoli ciò ch’essi non possono giustamente essere da soli; cioè dei testimoni del contenuto della Scrittura e per conseguenza i suoi propri testimoni. Ed ora (secondo Mt. XXVIII, 19 a) il compito ch’essi devono adempiere, perché Gesù li ha resi capaci, è indicato dalle semplici parole «fate miei discepoli tutte le nazioni»; tutto il resto: «andando», «battezzando», «istruendo» ha soltanto valore participiale. Μαϑητεύσατε: fate degli altri uomini ciò che siete voi stessi, cioè miei discepoli ed insegnate loro ad imparare ciò che voi stessi avete imparato;

πάντα τεὰ ἔϑνη: questa espressione designa gli uomini di tutti i popoli, del mondo intero. Si noterà che nel μαϑητεύσατε riappare e si trova confermato il primo stadio (quello profetico) dell’attività di Gesù; invece la relazione maestrodiscepolo acquista una nuova dimensione; diventa il rapporto che esiste tra un re ed i ministri cui affida il governo. È proprio quanto indica il μαϑητεύσατε nella sua relazione con il πάντα τὰ ἔϑνη: la parola profetica che Gesù ha rivolto ai suoi discepoli in Galilea rivendica il diritto di diventare, sulla loro bocca, una parola destinata al mondo intero. «Quello che io vi dico nelle tenebre, ditelo alla luce del sole; ciò che vi è detto in un orecchio, predicatelo sui tetti!» (Mt. X, 27). La regola esistente fin dall’inizio sviluppa appieno la forza che le è inerente: i dodici sono stati chiamati a seguire Gesù onde essere in grado di mettersi in cammino (πορεύεσϑαι) come suoi discepoli, per andare tra le nazioni e precederle per chiamarle a seguire Gesù. Lc. XXIV, 47, precisa il contenuto di questa parola ch’essi hanno ricevuto e che devono predicare nel mondo: si tratta della predicazione del pentimento e della remissione dei peccati «nel suo nome» a tutti i popoli. In effetti la sostanza pratica del nome di Gesù ch’essi devono proclamare è proprio il pentimento in vista del perdono dei peccati; questo atto però non potrebbe essere staccato dalla proclamazione del suo nome; soltanto nel suo nome, nella rivelazione e nella realtà della sua persona, l’annunzio del pentimento e della remissione costituisce una predicazione reale con un contenuto effettivo. Si tratta di chiamare gli uomini a credere in lui; a riconoscere e ad accettare il pentimento realizzato per mezzo di lui; perché in questa fede e in questo pentimento il perdono dei peccati, ch’egli ha acquisito per il mondo, si può discernere e produce i suoi effetti. Ecco ciò che dimostra chiaramente Mt. XXVIII, 19 b dove il μαϑητεύσατε, a prima vista abbastanza sorprendente, si trova immediatamente spiegato dalla frase participiale: βαπτίζοντες αὐτοὑς εἰς τὸ ὄνομα τοῦ πατρὸς ϰαὶ τοῦ υἱοῦ ϰαὶ τοῦ ἁγίου πνεύματος; il testo indica cosi ciò che la gente deve imparare dagli apostoli, ossia il buon annuncio secondo cui ogni uomo, attraverso il battesimo, può accedere alla rivelazione e alla realtà della misericordia del Dio trinitario; il dono della grazia di Dio esiste già per ciascuno, in tutta la sua pienezza sovrana e imponente: ecco ciò che le nazioni devono apprendere a riconoscere ascoltando gli apostoli ed ecco ciò che gli apostoli devono insegnare alle nazioni; l’ordine dato agli apostoli è semplicemente l’ordine di predicare Pevangelo. Ma (involontariamente sembra di trovare in Mt. XXVIII, 19 b e 20 a la disposizione delle epistole paoline) questa predicazione non può essere

astratta; è sempre un’applicazione del buon annuncio a coloro che l’ascoltano nel mondo; dove il battesimo viene impartito nel nome del Dio trinitario, dove tutto deve concludersi nella conoscenza e nel riconoscimento del demo della grazia, si tratterà sempre e necessariamente di τηρεῖν, cioè di tener duro, preservare, vegliare, salvaguardare, conservare intatto; tuttavia la forma di questo τηρεῖν non spetta agli uomini, neppure agli apostoli; spetta solo a Gesù Cristo, cioè a colui che ha cancellato il peccato degli uomini attraverso il pentimento realizzato in loro favore. Si tratta dunque di «conservare» ciò ch’egli ha affidato agli apostoli, ossia la regola della fede; in una sola parola si tratta di «conservare» quell’applicazione pratica che, come spiegazione dell’evangelo, non è una forma arbitraria, bensì una forma necessaria di quest’ultimo. È così che in Mt. XXVIII, 20 a il 8διδάσϰοντες segue il βαπτίζοντες del v. 19b, ponendosi come secondaric; ed è così che si concretizza il pentimento che secondo Lc. XXIV, 47 è sicuramente richiesto anche a tutti gli altri popoli della terra, L’ordine dato agli apostoli di battezzare e di insegnare è completamente legato a colui che lo impartisce: è lui che deve essere confessato e reso noto al mondo intero, perché in lui, e in lui solo, si esprime l’ordine della grazia divina. Se ancora ne dubitassimo, la finale di Mt. XXVIII è chiarissima a questo proposito: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (v. 20 b); tale conclusione ripete e conferma l’inizio: ogni potere è stato dato a me, che vi affido questa missione ed insieme questo ministero, in cielo e sulla terra; in ogni momento, voi potrete contare sulla forza della mia autorità. È in questo senso che altrove si dice degli apostoli: «Chi ascolta voi, ascolta me» (Lc. X, 16). Ma l’ultima parola di Mt. XXVIII indica anche che, per la forma come per la sostanza, il μαϑητεύειν degli apostoli è totalmente e definitivamente legato a lui, Gesù Cristo, tanto che essi non potrebbero certo dare al loro messaggio un contenuto diverso dal βαπτίζειν nel nome del Dio trinitario ed una forma diversa dal διδάσϰειν, per mezzo del quale insegnano agli uomini a osservare tutto ciò che il Signore ha loro prescritto; non è cioè concepibile per gli apostoli di predicare un altro vangelo ed un’altra legge, diversi da quelli che portano il suo nome. Il fatto di essere con loro fino alla fine del mondo ha due significati: egli li difenderà fino alla fine del mondo, se essi lo confesseranno davanti agli uomini; li rinnegherà però fino alla fine del mondo, se essi dovessero rinnegarlo davanti agli uomini, per preferirgli le proprie rivelazioni (Mt. X, 32 s.). La fine dell’esposizione di Luca (XXIV, 49) non dice nient’altro

di diverso quando, riferendosi alla Pentecoste (ed è una caratteristica del terzo vangelo) enuncia quest’ordine di Gesù: «Ecco che manderò su di voi quanto il Padre mio ha promesso; voi però restate in questa città (Gerusalemme) finché non siate rivestiti della potenza che giunge dall’alto»; infatti la potenza dall’alto cioè lo Spirito Santo costituisce (grazie alla presenza di Gesù Cristo immanente nella sua parola e nella sua opera) la garanzia, l’autorizzazione e la legittimazione autentica, ma anche la critica necessaria dell’apostolato; è Gesù Cristo che dà ai suoi testimoni questa potenza, poiché essa è di certo fin dall’origine la sua potenza. Secondo Gv. XX, 22 il compimento di tale promessa (cioè l’evento della Pentecoste) coincide con l’ordine di missione; invece per i sinottici ed in particolare per Luca (vedi anche At. I, 8), gli apostoli già investiti del mandato devono aspettare ancora per un certo periodo l’adempimento di simile promessa, decisiva per la loro missione; siccome però il «senza di me, voi non potete fare nulla» (cioè il «dove e quando vuole») così chiaramente affermato dai sinottici è anche una dottrina giovannea, è subito evidente questo dato: facendo infondere da Gesù lo Spirito Santo negli apostoli, Giovanni sottolinea ciò che costituisce l’alfa e l’omega della testimonianza dei tre primi vangeli: gli apostoli sono quello che sono e possiedono ciò che possiedono, perché Gesù lo vuole e concede loro queste qualità, ponendosi lui stesso non solo come il contenuto, ma anche come l’efficacia e come suo criterio della loro missione. Proprio perché egli è re (e dunque sempre in funzione della sua regalità valorizzata e proclamata, sempre in funzione del potere che gli è connesso), essi sono re a loro volta; in lui (ed in lui solamente) essi sono eletti a questa dignità; egli stesso infatti è il re eletto d’Israele e del mondo intero. E se sono re (e non dimentichiamo che questo vale in loro per tutta quanta la chiesa) è per regnare con lui, in virtù del potere della Parola ch’egli ha insegnato loro e che insegnerà anche al mondo intero. Ritorniamo ora al secondo dei tre stadi della testimonianza evangelica sull’apostolato; lo caratterizza esteriormente il fatto che Gesù lascia la Galilea per recarsi a Gerusalemme; questa svolta nella sua vita è indicata da tre annunzi relativi alle sue sofferenze. Il legame con quanto precede appare chiaramente poiché i tre annunci culminano in quest’ultimo: «… e il terzo giorno egli risusciterà». Non è «malgrado il fatto» ch’egli prenda la via che lo condurrà alla morte, bensì «proprio perché» sta seguendola, che Gesù (elargitore agli apostoli della loro funzione e della loro missione) è il re del mondo intero; è proprio lui che si manifesterà con la sua elevazione e che

(inviando i suoi apostoli a predicare la remissione dei peccati da lui acquisita) entrerà nel suo regno per esercitarlo attraverso questa predicazione fino alla fine del mondo; è la conoscenza di questa regalità (che è loro riservata in essa) come pure della particolare funzione a dovere essere data agli apostoli, la cui investitura è descritta e confermata anche qui, in modo tutto particolare (si pensi soprattutto alla parola di Gesù a Pietro: Mt. XVI). In questo periodo si colloca il racconto secondo il quale Gesù condusse con sé Pietro, Giacomo e Giovanni su di un alto monte dove «egli si trasfigurò davanti a loro; il suo viso risplendette come il sole e le sue vesti divennero bianche come la luce. Ed ecco, Mosè ed Elia apparvero a loro, conversando con lui». I discepoli percepiscono «dalla nuvola» una voce che fa sentire queste parole: «Questo è il mio Figlio diletto, nel quale ho riposto la mia compiacenza: ascoltatelo» (Mt. XVII, 1 ss.). Sempre in questo periodo (secondo Lc. X, 21 s.) «Gesù esultò di gioia per opera dello Spirito Santo e disse: io ti rendo gloria, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai prudenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, ti glorifico perché così ti è piaciuto. Tutte le cose mi sono state affidate dal Padre mio e nessuno conosce chi sia il Figlio, all’infuori del Padre, né chi sia il Padre all’infuori del Figlio e di colui al quale il Figlio avrà voluto rivelarlo. E, volgendosi verso i suoi discepoli, soggiunse: Beati gli occhi che vedono le cose che voi vedete! Poiché vi dico che molti profeti e re desiderarono vedere quello che voi udite e non l’hanno veduto, ascoltare quello che voi udite e non lo hanno udito». In questo stesso contesto Luca (XII, 2 s.) inserisce i passi in cui Gesù dichiara che quanto vi è di nascosto sarà rivelato, che la sua Parola deve essere proclamata sui tetti, che i suoi messaggeri devono temere solo Dio perché anche i capelli del loro capo sono tutti contati; lo stesso avviene per il testo sulla confessione ed il rinnegamento di Gesù in cui la presenza permanente del Signore tra i suoi è così nettamente affermata, sull’assistenza dello Spirito Santo nell’ora della persecuzione e (XI, 33) sulla lucerna che deve essere posta sul candeliere. Infine è sempre in questo stesso contesto che Luca (XI, 27) cita la risposta di Gesù alla donna del popolo che voleva lodare sua madre: «Anzi, beati coloro che ascoltano la Parola di Dio e la osservano». Leggiamo altrove che dopo l’istituzione della cena Gesù, trascurando e superando maestosamente la contesa sul primo posto che è scoppiata tra i discepoli, dice loro: «Voi siete quelli che hanno perseverato con me nelle mie prove; per questo io preparo un regno in vostro favore, come il Padre mio l’ha preparato per me, affinché mangiate e beviate alla mia mensa nel mio regno e sediate in trono a giudicare

le dodici tribù di Israele» (Le. XXII, 28 ss.). Infatti quando il sole e la luna si oscureranno, quando le stelle cadranno dal cielo e quando infine il Figlio dell’uomo apparirà sulle nuvole per essere il proprio segno e testimoniare se stesso, al suo ordine i suoi angeli usciranno con la tromba sonora, per radunare gli eletti dai quattro venti, da un’estremità all’altra dei cieli (Mt. XXIV, 29 ss.). Così dunque, anche in questo secondo stadio, l’apostolato è rischiarato dalla luce che si manifesta originariamente nei racconti della risurrezione; già ora è perciò opportuno considerarlo nettamente e palesemente sotto questa luce; benché il Venerdì Santo, il rinnegamento di Pietro, la fuga dei discepoli ed il tradimento di Giuda siano ancora degli eventi futuri capaci di oscurare il presente. Ma si trova la traccia di questa luce soprattutto in un passo di capitale importanza: Mt. XVI, 13 riferente la conversazione di Cesarea di Filippo. Secondo tale passaggio Gesù, rinviando evidentemente alla via che ha seguito fino a quel momento, domanda ai suoi discepoli: «La gente chi dice che io sia, io, il Figlio dell’uomo?». Le risposte vanno all’inizio tutte nella stessa direzione: uno dei profeti di Dio, «Elia, Geremia o un altro». Considerando la prima tappa dell’attività di Gesù, queste risposte non sono sbagliate in se stesse; riflettono l’opinione che rappresentava certamente una conoscenza corretta all’epoca galileana, quando «tutti erano presi da sbigottimento e glorificavano Dio dicendo: un gran profeta è apparso tra di noi!» (Lc. VII, 16 s.); e quando (secondo Mt. XXI, 11-16) la folla che accompagnava Gesù a Gerusalemme lo presenta ancora come «il profeta Gesù di Nazareth», è certo che, per gli evangelisti, essa non si sbaglia. Solo che la confessione di Pietro, fatta nel nome dei dodici ed espressa in Mt. XVI, 16 conduce più lontano; precisamente proprio là dove i discepoli si trovano posti in realtà soltanto dopo la risurrezione, in virtù della volontà e dell’ordine di Gesù, in virtù dello Spirito Santo comunicato loro; siamo rinviati cioè al momento in cui essi possono pronunciare tale confessione ad alta voce e proclamarne pubblicamente il contenuto. Che cosa dice in realtà questa confessione? Questo: «Tu sei il Messia, il Figlio del Dio vivente!». Si comprende subito perché essa ha dovuto essere soltanto «mormorata», perché fino al terzo stadio della testimonianza non può acquistare tutto il suo significato, La prima parte della risposta di Gesù a Pietro (v. 17) dimostra che si tratta proprio di un’anticipazione: «Tu sei beato, Simone, figlio di Giona perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli»; la rivelazione dell’uomo risuscitato di fra i morti a causa della potenza del Padre, la comunicazione del suo Spirito Santo hanno avuto luogo in

segreto (ma in segreto, precisamente!) quando la confessione che Gesù è il Messia diviene possibile e reale; ed è a questo carattere anticipatore della confessione di Pietro, al carattere ancora segreto del suo contenuto, che rinvia l’imposizione del silenzio (v. 20) con cui Gesù conclude la sua risposta e che gli altri evangelisti sottolineano, da parte loro, utilizzando un’espressione più forte (ἐπετίμησεν: Mc. VIII, 30). Se Gesù è il Messia, è anche il re: Figlio del Dio vivente, è il re d’Israele e per conseguenza del mondo intero. Non è dunque soltanto un profeta, ma il profeta, il maestro quale si presenterà ai suoi discepoli al momento della risurrezione per fare anche di loro dei maestri e maestri investiti di un potere regale. La confessione di Pietro radicalizza dunque le altre risposte date alla domanda di Gesù; per questo Gesù dichiara beato Pietro in quanto, in quel momento, egli è il portavoce dei dodici; tuttavia, non vuole ancora che a questa tappa della sua carriera la confessione sia resa pubblica. Perché? Senza alcun dubbio perché il render noto il mistero della sua messianicità, già riconosciuta dal circolo dei dodici, riguarderà ancora una volta una particolare rivelazione del Padre e del Figlio e perché il momento opportuno per tale particolare rivelazione non è ancora venuto. Una seconda tappa, la tappa intermedia, deve prima essere superata nel cammino che Gesù segue e per conseguenza nella vocazione e nell’investitura degli apotoli; sarà lui stesso in seguito (ma soltanto in seguito, quando questa seconda tappa sarà superata e non prima) a fare in modo che gli apostoli predichino sui tetti ciò che è stato loro detto all’orecchio; è necessario che essi aspettino il suo benestare, come deve fare anche il mondo che ha bisogno della rivelazione del mistero del Figlio dell’uomo. Il testo di Gv. VI, 14-15 può essere citato come parallelo istruttivo: «La gente, visto Gesù fare quel miracolo, diceva: Questi è certamente il profeta che deve apparire sulla terra. E Gesù, sapendo che sarebbero venuti a prenderlo (ἁρπάζειν) per farlo re, si ritirò di nuovo solo sul monte». Nessuno deve obbligare Gesù in questa maniera; l’uomo fatto re da altri uomini o il Gesù arbitrariamente proclamato re dagli apostoli non sarebbe il profeta venuto sulla terra, non sarebbe il re d’Israele e dell’universo; questo Gesù non sarebbe Gesù. E gli apostoli che, in questa circostanza, agirebbero senza essere da lui autorizzati, non sarebbero i suoi apostoli, malgrado la superiorità della loro conoscenza e della loro confessione; oppure dovrebbero averlo rinnegato in quanto suoi apostoli ed essersi sollevati contro di lui. A questo proposito notiamo la risposta significativa che Gesù dà alla confessione di Pietro, secondo Gv. VI, 70: «Non sono stato forse io a eleggere voi, i dodici? Eppure uno di voi è un διάβολος».

L’evangelista prosegue osservando: «Egli parlava di Giuda Iscariota, figlio di Simone; infatti era lui che lo avrebbe tradito, pur essendo uno dei dodici». Compete a lui, Gesù, che ha eletto i dodici, di renderli adatti a proclamare il mistero della messianicità ch’essi hanno riconosciuto e confessato oppure essi resteranno inabili a farlo: non potranno che smentire la loro elezione e divenire διάβολοι, traditori del loro maestro, come Giuda e malgrado la loro elezione, il loro atto di riconoscimento e la loro confessione. Le famose dichiarazioni di Gesù a Pietro (in Mt. XVI, 18-19) sulle quali si è fondata l’esegesi romana (o piuttosto la teoria romana) per attribuire il potere a una chiesa che si oppone al suo Signore proclamando da se stessa il suo nome, riguardano il futuro e c’è una ragione: οἰϰοδομήσω… οὐ ϰατιοχύσουσιν… δώσω. Sono una promessa e, tra la promessa e il suo adempimento, vi è la croce: quella croce precisamente verso cui Gesù Cristo si accinge a camminare nel momento in cui dà la risposta che noi conosciamo alla confessione di Pietro; e tra questa promessa e il suo adempimento, vi è pure, oltre alla sofferenza e alla morte di Gesù, la tentazione e la vagliatura dei suoi discepoli, compresi gli apostoli, compreso lo stesso Pietro; ciò significa mettere in evidenza che gli apostoli umanamente sono deboli come la gente alla quale devono annunciare il mistero di Gesù e che, per annunciarlo, hanno un’assoluta necessità (e non smettono mai di averla) della potenza particolare di Gesù, se la loro opera non deve diventare il contrario di questa predicazione, cioè un tradimento. È questo aspetto della verità (che noi abbiamo anche chiaramente riconosciuto nella terza tappa della testimonianza, cioè nelle narrazioni della risurrezione) a caratterizzare precisamente questa tappa intermedia della vocazione e dell’investitura degli apostoli; questa seconda tappa si trova posta completamente sotto il segno della sofferenza e della morte di Gesù e conseguentemente sotto il segno della prova dei discepoli; tutto ciò si manifesta con una chiarezza eccezionale nel fatto che (secondo Mt. XVI, 21 ss.) la promessa e l’ordine del silenzio dati da Gesù sono immediatamente seguiti dal primo annunzio delle sue sofferenze, di fronte al quale Pietro (quello stesso Pietro che ha espresso il mistero del Messia e ha ricevuto la nota promessa) dimostra la sua perfetta insufficienza, prendendo Gesù da parte per rimproverarlo e tentare di allontanarlo dalla sua strada («Non sia mai vero, Signore! Questo non t’avverrà mai!»), per ricevere questa terribile risposta che ricorda molto ciò che è detto di Giuda in Gv. VI, 70: «Vattene lontano da me, Satana! Tu mi sei di scandalo perché i tuoi pensieri non sono i pensieri di Dio, ma quelli degli uomini». Segue

immediatamente l’avvertimento rivolto ai discepoli: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinunzi a se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (XVI, 24 s.); solo chi avrà perduto la sua vita a causa mia la ritroverà; soltanto dopo questa crisi il Figlio dell’uomo verrà nella gloria del Padre suo, per rendere a ciascuno secondo la sua πράξις (condotta) ed alcuni di coloro che sono presenti vedranno ancora questo evento durante la loro vita. In conseguenza la follia di Pietro che vorrebbe alzare tre tende «una per te, una per Mosè, una per Elia» è ancora una volta messa in evidenza nel racconto della trasfigurazione (XVII, 4), che insiste, come nella storia della risurrezione, sul gran timore che colpisce i discepoli presenti (XVII, 6), mentre il seguito (la guarigione dell’epilettico: XVII, 14 ss.) sottolinea l’impotenza di tutti gli altri provocata dalla loro ὀλιγοπιστία, dalla loro poca fede (XVII, 20). Poco dopo il secondo annunzio delle sofferenze (XVII, 22 ss.) i discepoli domandano: «Chi è il più grande nel regno dei cieli?» (XVIII, 1 s.) e Gesù risponde loro: è colui che diviene umile come un fanciullino, cioè che nasce nuovamente, nel senso di Gv. III, 3. È opportuno inserire nel medesimo contesto le parole di Gesù quando ricorda che non ha luogo dove posare il capo e che coloro che vogliono seguirlo devono lasciare i morti seppellire i loro morti e non voltarsi indietro, dopo aver messo mano all’aratro (Lc. IX, 57 ss.). O l’esortazione ai settanta discepoli (Lc. X, 20): «Non rallegratevi perché vi sono soggetti gli spiriti; rallegratevi piuttosto perche i vostri nomi sono scritti nel cielo». Sempre nello stesso periodo Gesù parla a Marta e a Maria della sola cosa che è necessaria (Lc. X, 41) e racconta diverse parabole significative: quella dei servitori fedeli che aspettano il loro padrone (Mt. XXIV, 43 ss.; Lc. XII, 35 ss. e XVII, 7 ss.), quella delle dieci vergini (Mt. XXV, 1 ss.), quella dell’uomo che vuole costruire una torre o del re chi si prepara a fare la guerra (Lc. XIV, 25 ss.). Tutte queste parabole non possono essere capite se non sono poste in relazione con il ritorno di Cristo. Il terzo annuncio delle sofferenze (Mt. XX, 17 ss.) è seguito dalla domanda formulata dalla madre dei figli di Zebedeo (Mt. XX, 20 s.; cfr. Mc. X, 35 s.), come se questa domanda fosse la sola risposta adeguata a simile annuncio! Ai due discepoli che pretendono di poter bere il calice che Gesù sta per bere ed essere battezzati con il battesimo che a lui stesso sarà impartito, viene risposto ch’essi hanno ragione: «Ma quanto al sedere alla mia destra o alla mia sinistra non tocca a me il concederlo e sarà concesso solo a coloro ai quali è stato preparato dal Padre mio». Gli altri discepoli si sdegnano contro i due fratelli. Gesù deve allora spiegare a tutti

ch’essi si preoccupano di onori e di funzioni proprie ad un regno terrestre e non al suo regno: «Chi tra voi vorrà essere grande, sia il vostro servo; e chi tra voi vorrà essere il primo, sia vostro schiavo. Appunto come il figlio dell’uomo è venuto, non per essere servito, ma per servire e dare la sua vita per la redenzione di molti» (Mt. XX, 24 ss.). Il grande discorso sulla fine del mondo e la parusia (Mc. XIII e parall.) è anch’esso interamente dominato da un’esortazione e un avvertimento ai discepoli: non devono lasciarsi impressionare dalla bellezza del tempio di Gerusalemme, perché di esso verrà lasciato solo pietra su pietra (Mc. XIII, 1 s.) e badino a non lasciarsi sedurre da coloro che verranno nel nome di Cristo (Mt. XXIV, 5); i falsi Cristi avranno un tale prestigio da sedurre, se fosse possibile, anche gli eletti; durante il periodo di grande tribolazione che si abbatterà su Gerusalemme in seguito alla morte di Gesù, i discepoli saranno abbandonati alla persecuzione da parte dei Giudei e dei pagani «e se quei giorni non fossero abbreviati, nessuno si salverebbe; quei giorni però saranno abbreviati, per amore degli eletti» (Mt. XXIV, 22). La venuta del Figlio dell’uomo è «alle porte» (Mt. XXIV, 33) e la generazione contemporanea sarà ancora testimone di tutte queste cose (Mt. XXIV, 34); quando avverranno precisamente?; nessuno, che sia uomo o angelo, lo sa e Gesù stesso dichiara di non saperlo, poiché soltanto il Padre lo sa. Si tratta della crisi incontro alla quale vanno i discepoli; ecco perché Gesù domanda loro di essere vigilanti; non conoscono infatti né il giorno né l’ora. «Quello che dico a vol, lo dico a tutti: Vigilate!» (Mc. XIII, 37); o secondo Lc. XXI, 36: «Vegliate dunque e pregate sempre per poter evitare tutto quanto sta per accadere e comparire in piedi davanti al Figlio dell’uomo». È immediatamente dopo l’istituzione della cena che Luca riferisce la contesa di precedenza nata tra i discepoli e che Gesù risolve ricordando loro che la vera grandezza sta nel servire; benché per l’evangelista tale richiamo di Gesù abbia il senso di una promessa relativa alla gloria futura dell’apostolato, ciò non gli impedisce tuttavia di sottolineare quanto Gesù dice a Pietro subito dopo: «Simone, Simone, Satana va in cerca di voi per vagliarvi come si vaglia il frumento. Ma ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno; e tu, quando sarai convertito, conferma i tuoi fratelli (XXII, 31 s.); parimenti quando più tardi Pietro pretenderà di seguire Gesù in prigione e alla morte, si sentirà rispondere: «Pietro, ti dico che oggi 11 gallo non canterà, prima che tu abbia negato tre volte di conoscermi». Mt. XXIV, 30 aggiunge che, dopo aver cantato i salmi con i suoi discepoli, Gesù dà loro questo annunzio sconvolgente: «Io

sarò per voi tutti, questa notte, occasione di caduta». E il fatto viene subito confermato: durante la tentazione nel giardino del Getzemani, essi non hanno la forza di vegliare neppure un’ora con lui (Mt. XXVI, 40); non è forse parlare al vento il richiamarli ancora una volta come egli fa, secondo Lc. XXII, 46: cc Perché dormite? Alzatevi e pregate per non cadere in tentazione»?; infatti nel momento in cui il loro maestro è arrestato «tutti i discepoli l’abbandonarono e presero la fuga» (Mt. XXVI, 56) e Pietro lo rinnegherà come già Giuda lo ha tradito. Tale è l’immagine degli apostoli, dataci in questo secondo stadio della testimonianza neotestamentaria: essi non vedono assolutamente la strada che Gesù ha deci» di seguire e restano ciechi di fronte al fatto ch’egli sicuramente la seguirà fino alla fine; si ingannano completamente sul modo in cui potrebbero seguirlo e servirlo; si sbagliano del tutto sulla loro capacità di farlo; le loro idee su ciò che devono attendere da tale imitazione sono interamente errate; infine tutto questo si conclude praticamente nella loro totale defezione nel momento in cui essi avrebbero veramente dovuto dimostrare che le loro intuizioni e le loro risoluzioni erano serie, operando in conformità con queste ultime. In realtà essi non seguono Gesù; si inorgogliscono della loro sapienza, vengono a lite, poi li vediamo dormire e prender la fuga, per rinnegarlo e tradirlo; ecco il commento che ci danno gli apostoli della confessione di Pietro, a Cesarea di Filippo! Che Gesù possa dir loro, secondo Lc. XXII, 28: «Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove», tutto questo acquista un significato soltanto se ci si ricorda che gli apostoli, con la loro conoscenza, confessione, perseveranza e fedeltà, partecipano completamente alla transitorietà del cielo e della terra (di cui si tratta in Mt. XXIV, 35) e che per loro (come pure oltre loro) una sola cosa è vera: «Le mie parole non passeranno!». Ciò che rimane è il richiamo perseverante che Gesù rivolge loro ininterrottamente: il richiamo a vegliare, a pregare, ad abbassarsi, a servire; tale richiamo non cade nel vuoto; poiché è lui, Gesù, che resta fermo al loro posto e, attraverso la sua opera totalmente efficace, interviene per loro, gli apostoli che fuggono e falliscono su tutta la linea. Egli esiste per loro, veglia, prega, si abbassa, diventa servo per loro ed è lui che, nella sua sofferenza e nella sua morte, prende la loro croce: questo è l’aspetto positivo che risulta dall’immagine della vocazione e dell’investitura degli apostoli, in questo secondo stadio. «Mentre mangiavano Gesù prese del pane; e dopo averlo benedetto, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: Prendete e mangiate; questo è il mio corpo. Poi prese un calice e, avendo reso grazie, lo diede loro

dicendo: Bevetene tutti; perché questo è il mio sangue, il sangue del nuovo patto, che sarà sparso per molti, in remissione dei peccati» (Mt. XXVI, 26 ss.). Non si ha forse l’impressione che l’apostolato affidato ai dodici nella prima fase della testimonianza, sia stato di nuovo ripreso loro completamente all’apogeo della seconda, per essere ricondotto e rimesso a Gesù stesso, in qualità di apostolo per eccellenza? E tuttavia l’apostolato che dà il suo significato e la sua forza all’elezione dei dodici (e in loro all’elezione di Israele e della chiesa nel loro insieme) non appare mai tanto chiaramente come alla luce di questo paragone, in cui il «per voi» sembra infine essere la sola cosa valida, mentre in realtà è fondamento del «per me» messo in evidenza dal πορευϑέντες… μαϑητεύσατε… βαπτίζοντες… διδάσϰοντες di Mt. XXVIII, 18. Si tratterà, in questo passo, della rivelazione e dell’efficacia della morte di Gesù sulla croce: di questa morte ch’egli soffre da solo, non con i figli di Zebedeo, ma con i due malfattori alla sua destra e alla sua sinistra; Gesù, nel quale Dio ha riconciliato il mondo con lui stesso, ha il potere di affidare ad alcuni uomini, riconciliati da lui con Dio ed eletti tra gli altri, il «ministero della riconciliazione» nel mondo; la non imputazione dei peccati, come è applicata e rivelata da Dio in lui e per lui, è necessaria affinché la bocca di questi uomini pronunzi «la parola della riconciliazione» (I Cor. V, 18-19). Poiché tale indispensabile evento si produce in questo secondo stadio della testimonianza evangelica sull’apostolato (così diviene infatti evidente che gli apostoli non sono essi stessi riconciliatori, salvatori e rivelatori di Dio dal momento che si ritraggono dietro a Gesù lasciandogli tutto il posto libero) questi fatti significano che siamo, in questo caso, al centro del mistero della loro vocazione di testimoni. Si noti bene: non si tratta affatto di eliminare gli apostoli. Alla luce dei richiami rinnovati di Gesù che, in particolare, non smette di ammonire Pietro, alla luce delle promesse che, in considerazione della gloria che succede alle sofferenze del loro maestro, accompagnano i poco saldi discepoli, l’istituzione della cena conferma nel modo più forte l’essenza della comunione del Cristo e dei suoi apostoli; il «per voi!» ch’essa mette in evidenza viene a autenticare senza alcuna confusione possibile il «per me» espresso dalla loro vocazione e dalla loro missione in Galilea; essa indica come la loro bocca potrà e dovrà aprirsi per annunciare il mistero messianico nel mondo intero, come, in una parola, essi saranno in grado di predicare sui tetti ciò che è stato loro detto all’orecchio. Possiamo ora riprendere il passo di capitale importanza di Mt. XVI per cercar di capire la portata decisiva della risposta alla confessione di Pietro, il

portavoce dei dodici; non si sarebbe mai dovuto separare la famosa affermazione «Tu sei Pietro» (v. 18) dal contesto in cui si trova e che abbiamo segnalato di sfuggita; questo contesto appartiene alla seconda parte dell’esposizione evangelica, che culmina nella storia della Passione. Evidentemente tutto dipende dall’identità di Pietro; è chiaro che gli evangelisti vedono in lui il portavoce degli altri apostoli, come testimoniano costantemente i testi; che si possa dire altrettanto dei suoi successori sul soglio romano nella loro relazione con i vescovi delle altre comunità, è un problema che non potrebbe essere posto nel quadro dell’esegesi, poiché non esiste un testo neotestamentario che offra la benché minima indicazione in favore di tale costruzione. In tutte le circostanze, anche secondo Mt. XVI, Pietro è stato sempre solo il portavoce dell’insieme dei dodici; la sua confessione è la risposta esplicita alla domanda: «chi dite voi ch’io sia?» (v. 15); quanto è decisivo però, è che Pietro è continuamente designato come il portavoce dei discepoli che sono diretti da Satana e che concludono il loro cammino sempre incespicante con la fuga e il rinnegamento; la sua stessa confessione, per quanto corretta, cade sotto il colpo della censura di Mt. XVI, 20, cioè provvisoriamente e finché non se ne saprà di più, egli non deve formularla; infine, l’iniziativa ch’egli assume (v. 22) è respinta da Gesù, che anzi la definisce un’opera satanica (v. 23). Se proprio si voleva fare di questo portavoce dei discepoli il «principe degli apostoli» (contro l’esplicita volontà di Gesù, che nella contesa sulla precedenza sorta tra i discepoli ha condannato l’impiego di simili categorie!) bisognava andare fino in fondo, cioè tenere anche conto di ciò che Pietro è stato a partire da Mt. XVI fino, e ivi compresa, alla storia della Passione: è lui che rappresenta e trascina gli altri discepoli sulla via degli errori e dei malintesi, della viltà e della infedeltà. Come «principe degli apostoli» nel senso che abbiamo definito egli è sostenuto (con tutti gli altri) attraverso la prova, dalla fedeltà sempre salda di Gesù stesso; che cosa è Pietro senza Gesù, senza la parola, senza l’intercessione, senza la sofferenza e la morte sostitutiva di Gesù, senza la gloria che si trova non al termine del suo cammino particolare, ma al termine della via seguita da Gesù?; che cosa è Pietro, se si astrae da ciò che Gesù fa di lui, poiché proprio questo è ciò che vuole e ciò che aspetta da lui? Se esiste in qualche passo un avvertimento contro un’istituzione ecclesiastica che si sostituisca alla persona, alla parola e all’opera di Gesù, appropriandosene così l’autorità, è proprio qui nei vangeli dove la figura di Pietro sottolinea più di qualsiasi altra l’affermazione decisiva: «Fuori di me, voi non potete fare nulla». Se Pietro è

un «principe» tra gli apostoli, lo è come la prova vivente che ogni apostolo è come un tizzone strappato all’incendio, come la dimostrazione più convincente che il fondamento dell’autorità e della gloria apostolica risiede nel fatto che un apostolo (non soltanto Paolo: I Cor. XV, 10, ma ogni apostolo) è ciò che è per grazia di Dio. È a questo Pietro (oggettivamente, ma anche soggettivamente umiliato in profondità e perciò simbolo di tutti gli altri apostoli) che si applica la parola di Mt. XVI, 18: «Sopra questa pietra, edificherò la mia chiesa e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa». È evidente che la solidità e l’invincibilità della chiesa non hanno niente a che vedere con la forza di carattere e la potenza di persuasione di Pietro e dei suoi compagni; conosciamo i fatti; non è certo vero che questi uomini perseverino con Gesù nelle sue prove, secondo la testimonianza unanime dei vangeli, se non in quanto Gesù, il solo vincitore di ogni prova e di ogni tentazione, persevera con essi nelle loro prove. Parimenti si può affermare soltanto con alcune riserve che sia la fede di Pietro e degli altri apostoli a dare alla chiesa il suo fondamento incrollabile; è vero solo nella misura in cui non sono la carne e il sangue che hanno rivelato a Pietro l’oggetto della sua fede (ossia la regalità di Gesù Cristo), ma il Padre che è nei cieli, attraverso lo Spirito Santo, cioè il Dio che ha risuscitato Gesù di tra i morti; dunque nella misura in cui Gesù ha pregato per Pietro affinché la sua fede non venga meno. In una parola è vero soltanto se, pronunziando la parola «fede», si pensa subito al suo oggetto e alla sua origine, cioè a Gesù stesso, al Crocifisso e al Risorto, che è stato per primo fedele a Pietro, affinché Pietro possa esserlo a sua volta per lui. Si deve dire altrettanto della confessione di Pietro e degli altri apostoli: essa non è il fondamento indistruttibile della chiesa se non perché Gesù ha seguito fino alla fine la strada del vero Messia, il Figlio del Dio vivente, se non perché nella sua morte ha instaurato il suo regno; in questo modo la confessione è vera; posta legittimamente sulla bocca degli apostoli, diviene un messaggio rivolto al mondo intero. La roccia incrollabile della chiesa è dunque Pietro, senza dubbio e con lui il cerchio dei dodici; ma l’origine è in Gesù che ha dato a Pietro e ai dodici apostoli questa qualifica, malgrado la loro insufficienza umana, al di fuori ed in opposizione al loro personale contributo. La chiesa riposa sulla fede di Pietro e del cerchio degli apostoli, perché Gesù è stato l’oggetto e l’origine di tale fede e non ha mai cessato di esserlo; parimenti la chiesa riposa sulla loro confessione, perché Gesù è colui che è annunciato in quest’ultima, formulata per suo ordine e non a causa dell’iniziativa degli uomini che lo riconoscono. Pietro con il cerchio

degli apostoli (coloro cioè che Gesù ha raccolto in occasione della cena per dar loro il suo corpo e il suo sangue, secondo l’affermazione esplicita di Mt XVI, 18) costituisce la sede incrollabile della chiesa di Gesù Cristo; è proprio da individui così chiamati, legittimati ed equipaggiati che Gesù Cristo è proclamato, poiché in simile relazione di subordinazione in cui devono ricevere tutto, questi uomini sono per lui, come egli è con loro ed egli predica se stesso attraverso di loro per «edificare la sua chiesa». Secondo il v. 19 le loro parole e i loro atti hanno il potere (si tratta del potere di Gesù: quale altro potere avrebbe mai questa portata?) di legare e di sciogliere sulla terra (di rimettere e di ritenere i peccati, secondo Gv. XX, 23), di aprire e di chiudere il regno dei cieli. Ciò che dicono e fanno corrisponde (sempre in virtù della volontà, dell’azione e della decisione di Gesù) al potere delle chiavi di cui Dio è il detentore. Dal momento che «questo» Pietro e «questo» cerchio apostolico si trovano sempre in presenza di Gesù, nel quale tale potere è fondato e conferito, l’orgoglio ecclesiastico e la presunzione clericale sono spezzati alla radice; la loro esistenza significherebbe infatti semplicemente che questa presenza e questo legame con Gesù, non esistono e per conseguenza non esiste neppure il potere di cui stiamo parlando. Non si può parlare di un «abuso» del potere delle chiavi; il clericalismo, che sembra abusarne, dimostra soltanto che l’ha perduto che non lo ha mai posseduto; quando lo si possiede nel modo in cui è stato dato a Pietro, agli apostoli e all’insieme della chiesa, se ne fa un uso corretto. Risiede infatti nella predicazione di Gesù Cristo che, a seconda di aver avuto luogo oppure no, rimette o ritiene peccati, producendo così nel mondo una crisi, una separazione, corrispondente a ciò che avviene non sulla terra ma in cielo, a una realtà di cui non dispongono né gli apostoli né la chiesa, ma che appartiene al consiglio di Dio, cioè alla decisione presa ogni volta in Gesù Cristo. Gli apostoli sono gli esecutori di questo consiglio di Dio: lo sono come uomini che Gesù ha attirato a sé donandosi per loro. Sono sacerdoti in virtù del suo ufficio sacerdotale. Sono innalzati perché sono stati abbassati, oggettivamente e soggettivamente ed in questa maniera sono legati a Gesù, totalmente dipendenti da lui, vivendo per opera sua ed insieme a lui. Non possono dare se non ciò che ricevono; la cena, il corpo e il sangue di Gesù. Potere delle chiavi vuol dire potere missionario. In questo senso Mt. XVI, 19 rinvia già a Mt. XXVIII, 18, dove l’ordine di missione è chiaramente dato, mentre i discepoli ricevono realmente dallo Spirito Santo il potere che, in questo passo, è stato loro soltanto promesso. Ma il testo di Mt. XVI, 18-19

sottolinea che Pietro e il cerchio apostolico (in conformità con le indicazioni della storia della passione) devono servire Gesù fondando e garantendo la sua chiesa: la chiesa che come tale detiene il potere missionario; il v. 18 indica ch’essi debbono servirle come fondamento e garanzia indistruttibile; effettivamente è necessario ch’essa sia fondata e garantita in questo modo per divenire secondo il v. 19, portatrice del potere missionario. In tale maniera, almeno teoricamente, la sua predicazione esclude ogni resistenza e ogni altro ricorso e la chiesa stessa è completamente sicura dei suoi risultati; questo fondamento e questa garanzia sono gli apostoli, umiliati e nello stesso tempo fortificati, durante la dolorosa via seguita da Gesù; tale è Il senso e lo scopo della loro vocazione di apostoli in questo secondo stadio, intermedio, della testimonianza evangelica. La prima forma che riveste l’apostolato (in coincidenza con il periodo dell’attività galilaica di Gesù) ci mostra le cose sotto l’aspetto relativamente più semplice. Ritroviamo qui indicazioni che abbiamo imparato a conoscere nel terzo e nel secondo stadio della testimonianza apostolica, rispettivamente nel suo rapporto con la regalità di Gesù da un lato e con il suo ufficio sacerdotale dall’altro. È proprio nel presente contesto infatti che ci è dato scoprire come (e ciò corrisponde al secondo stadio) gli apostoli siano stati designati in quanto tali e ci è consentito vedere come quello che li caratterizza oggetto di tale scelta si ricollega con quanto abbiamo approfondito antecedentemente sulla loro posizione nei riguardi di Gesù. D’altronde i testi che esaminiamo ora sottolineano molto più chiaramente la missione degli apostoli; insistono sulla portata esauriente del loro ministero e sul mondo che devono raggiungere; è come dire che anticipano l’ordine finale che, nel terzo stadio della testimonianza, consacra il loro incarico e con il quale Gesù li libera (o piuttosto li lega definitivamente). Tutte queste cose però restano qui ancora velate, nel senso che non sono espresse in termini precisi e non assumono i contorni ed i contrasti che caratterizzano il secondo e il terzo stadio della narrazione; certamente tutto è già indicato e in modo che sia impossibile trascurarlo: esattamente come la croce e la risurrezione sono presenti fin dall’inizio ed è impossibile capire ciò che ci viene detto di Gesù, senza tenerne conto; ma poiché la sua sofferenza e la sua morte, la sua messianità e la sua elevazione restano ancora nascoste (non sono cioè oggetto di una menzione diretta), la purificazione ed il consolidamento dell’apostolato (e conseguentemente la sua glorificazione) restano in profondità e non si manifestano rispettivamente se non nel secondo e nel terzo stadio. Gesù è in

questo momento il maestro e il profeta di Nazareth, un maestro e un profeta senza pari e capace di sconvolgere tutte le concezioni comuni; parallelamente gli apostoli appaiono, in questo stadio, come persone invitate a seguire il profeta e chiamate alla scuola di questo maestro. È a partire da questa vocazione ch’essi sono affermati nel loro incarico che, in questo caso particolare, ha la forma di una missione passeggera, concludentesi provvisoriamente con il loro ritorno presso Gesù (mentre nel secondo stadio la loro vocazione sembra trarre la sua forza dalla loro investitura purificata e consolidata e nel terzo dalla loro stessa missione). Fino a che punto l’apostolato sia un elemento indispensabile della storia evangelica nel suo insieme è dimostrato subito dal fatto che, secondo i Sinottici e secondo lo stesso Giovanni, la vocazione dei discepoli è una delle prime cose che ci sono raccontate a proposito di Gesù. Per Matteo ad esempio è del tutto evidente che Gesù è solo soltanto nel momento del suo battesimo nel Giordano e della sua tentazione (questa solitudine corrisponde a quella, ulteriore, del Venerdì Santo!); anche Giovanni ha adottato un simile punto di vista; né sembra differente la visione di Marco: se questi infatti fa precedere la vocazione dei discepoli dall’indicazione che Gesù è venuto in Galilea e ha predicato il Vangelo di Dio dicendo: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; fate penitenza e credete alla buona novella» (I, 14), è però opportuno considerare tale riassunto come un titolo che annuncia i fatti successivi, piuttosto che come la sintesi di una predicazione che Gesù avrebbe pronunciato prima di chiamare i suoi. Forse soltanto Luca vede le cose in un modo diverso, poiché dopo la tentazione riferisce di un tentativo di predicazione di Gesù a Nazareth e di alcune guarigioni a Cafarnao, per nominare soltanto dopo la vocazione dei primi discepoli, inserita nel racconto della pesca miracolosa di Pietro. Tuttavia anche in Luca è difficile pensare a tali annotazioni precedenti diversamente che come un semplice preludio, di modo che si può enunciare questa tesi: l’esistenza dell’apostolato inizia con l’attività stessa di Gesù. L’apostolato: è questo effettivamente il termine che occorre impiegare per riferire di ciò che nei Sinottici viene detto sulla chiamata dei primi discepoli; non si possono infatti separare le parole: δεῦτε ὀπίσω μου («seguitemi»: Mc. I, 17) da queste altre: ϰαὶ ποιήσω ὑμᾶς γενέσϑαι ἁλεεῖς ἀνϑρώπων («e vi farò pescatori di uomini»); Gesù domanda ad alcuni uomini di venire a lui e di seguirlo, affinché egli possa fare di loro qualche cosa di ben preciso. Ciò che sono in se stessi non ha alcuna importanza: ci viene soltanto riferito che erano pescatori e gettavano le loro reti; solo in Luca

(V, 4 ss.) questa caratteristica banale si trova notevolmente illuminata dal fatto che questi uomini gettano le loro reti su ordine di Gesù stesso e ne traggono una straordinaria benedizione; ciò significa che, anche quando essi abbandonano il loro mestiere per seguire Gesù, il loro punto di partenza non è certo uno fra i tanti possibili, ma è precisamente Gesù, il suo ordine, la rivelazione del suo aiuto miracoloso, anche se pare ch’essi l’abbiano incontrato per la prima volta. Lo stesso vangelo (V, 8) mostra d’altronde chiaramente perché non possono essere degni di seguire Gesù se non precisamente partendo da lui: «Signore, allontanati da me, perché sono un uomo peccatore!»; la ragione ed il presupposto della loro vocazione non potrebbero essere da parte loro una cosa diversa da un’elezione; e precisamente da un’elezione compiuta da Gesù stesso. Tale evidenza è ancora più sottolineata dal fatto che il discepolo di cui si narra la vocazione (dopo quella di Pietro, di Andrea e dei due figli di Zebedeo) ossia Matteo (Mt. IX, 9 s.) o Levi (Mc. e Lc.), è un gabelliere; chiamando a sé questi uomini, Gesù non promette di farli prima cristiani ed in seguito apostoli; promette subito di fare di essi dei pescatori di uomini, ossia degli apostoli, portatori di una missione che sarà loro affidata: essi dovranno cercare e raccogliere gli uomini, come un pescatore cerca e raccoglie i pesci. Se a partire da questo momento e sulla base di questa vocazione, essi si chiamano i suoi μαϑηταί, ciò significa che quanto devono insegnare, dopo averlo imparato alla sua scuola, non è innanzitutto un metodo privato che conduca alla salvezza e alla felicità personale; prima di ogni altra cosa devono capire il messaggio di cui saranno i portatori in mezzo agli uomini per cercarli e raccoglierli. Si tratta in questo caso di una vocazione nel senso etimologico del termine: Gesù li priva del loro mestiere, o piuttosto sostituisce il precedente con un nuovo mestiere che consisterà (in relazione con il primo) nel cercare e nel raccogliere uomini. Questa ricerca e questa raccolta si devono concepire in un modo assolutamente generale; la chiesa e il mondo saranno dunque il campo del nuovo mestiere; il verbo «raccogliere» ci rinvia alla chiesa, mentre il verbo «cercare» ci rinvia al mondo. Per imparare il loro nuovo mestiere, quello autentico, i pescatori di Galilea abbandonano le loro reti e le loro barche e seguono Gesù; è a questo che Gesù li chiama invitandoli a seguirlo; li ha eletti per chiamarli, per dar loro questo nuovo mestiere. Il senso e lo scopo dell’elezione individuale secondo il Nuovo Testamento non potrebbero essere indicati più chiaramente che in questo passo: l’individuo è eletto da Gesù per appartenergli e compiere ciò per cui Gesù stesso è stato eletto, ossia predicare l’evangelo a molti uomini, formare

la chiesa che deve parlare al mondo, in modo che la lucerna posta sul candeliere illumini tutti coloro che sono in casa. Questa vocazione all’apostolato, fondata sull’elezione, ingloba tutto quanto è detto nella prima parte della testimonianza evangelica sul problema che ci interessa; quanto possiamo leggere in altri passi può essere considerato la spiegazione di questo fatto fondamentale; nell’adempiere la sua elezione e la sua vocazione, Gesù non vuole essere solo. Non vuole cioè che gli uomini siano dei semplici oggetti della sua opera (ciò che beninteso sono anche certamente ed anzi inanzitutto gli apostoli); eleggendoli e chiamandoli, vuole ch’essi agiscano insieme con lui e partecipino al suo ministero; e questo ministero è l’ufficio profetico. Le altre parti della testimonianza evangelica sono là per dimostrare che gli apostoli non potrebbero certo partecipare a questo ministero senza partecipare alla sofferenza e alla gloria di Gesù, vero com’è del resto che Gesù non è soltanto il profeta» ma anche il sacerdote e il re. Tuttavia, già nella prima parte dove si descrive la vocazione dei discepoli al ministero profetico, il vangelo non manca di sviluppi che rinviano alle tappe ulteriori della narrazione ed in un certo modo le anticipano. Dobbiamo ricordare prima di tutto l’«investitura» dei dodici apostoli, così com’è stata riferita con una certa libertà dall’insieme degli evangelisti. Seccndo il racconto della loro vocazione i discepoli non hanno ricevuto altro che una promessa, mentre la loro nuova condizione di discepoli ne presuppone l’adempimento; questo fatto nucvo non li esonera però assolutamente dalla loro condizione di discepoli; gli evangelisti adoperano molto raramente la parola ἀπόστολοι poiché, nei tre livelli della testimonianza, continuano a chiamare μαϑηταί, come se nulla fosse accaduto proprio coloro che sono stati fatti espressamente apostoli e che, apparentemente, sono perciò stati oggetto di una promozione. Questo semplice fatto ci permette però di concludere che la vocazione, assunta in se stessa, implica già l’investitura; in altre parole, si deve considerare quest’ultima come un elemento della prima e non come una specie di promozione che autorizzi i discepoli a superare la loro condizione di uomini chiamati a ricevere la promessa; tale condizione (nella quale i pescatori e i gabellieri del lago di Genezareth sono introdotti) non necessita infatti di una dimensione complementare: constatiamo semplicemente ch’essa include la loro investitura in qualità di apostoli. Una simile considerazione è ben rilevata dai passi che descrivono rinvestitura degli apostoli come un fatto particolare: essa è semplicemente un’anticipazione della purificazione e del consolidamento dell’apostolato caratterizzanti il secondo stadio della

testimonianza. In realtà è nell’istituzione della cena, con i fatti che la precedono, che noi possiamo riconoscere l’istituzione vera e propria dell’apostolato; accade però che sia l’istituzione della cena e sia l’immagine dell’apostolato che ci viene data in tale contesto, si trovino precisamente in una forma non elaborata nella narrazione evangelica nel suo primo stadio. Leggiamo in Mc. III, 13 che Gesù «salì sopra il monte» e Lc. VI, 12 spiega che vi passerà una notte intera pregandoed. è di nuovo significativo che ciò che segue (l’investitura degli apostoli) è introdotto da Mt. IX, 35 ss., contrariamente ai passi che si trovano in Luca o in Marco, con una descrizione dell’attività di Gesù. Apprendiamo infatti che Gesù percorre «tutte le città e i villaggi, insegnando… predicando… e guarendo» e che, vedendo le turbe, ne ha compassione perché sono stanche e sfinite come pecore senza pastore, per cui si rivolge ai discepoli dicendo: «La messe è abbondante ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai nella sua messe». La divergenza esistente tra i due racconti contribuisce a illuminare rinvestitura degli apostoli che nei tre vangeli segue immediatamente: da una parte vediamo Gesù solo con Dio e dall’altra lo vediamo solo di fronte agli uomini e alla loro miseria; il problema di sapere quale dei due racconti sia esatto non presenta alcun interesse; si completano e si illuminano a vicenda cosicché anche se in questo caso potessimo fondarci su di una testimonianza univoca, dovremmo pur sempre considerarla sotto i due aspetti appena menzionati. Infatti il risultato della doppia solitudine di Gesù (che prega e che si volge verso il popolo per insegnare, predicare e guarire) è proprio l’apostolato che senza dubbio esiste già, ma che deve essere ancora rivelato e proclamato come strumento di collaborazione umana all’opera del Messia. Colui che prega Dio e che si lamenta vedendo le turbe è certo completamento solo, non ha pari, sta vicino a Dio per gli uomini e vicino agli uomini per Dio, una volta per tutte e in un modo assolutamente unico; non può certo in nessun senso esistere invano in siffatta situazione unica, in questa doppia solitudine senza pari; non è infatti soltanto il profeta e il messaggero della buona novella del patto stabilito tra Dio e gli uomini, non chiama soltanto ad ascoltarla, ma gli compete anche di invitare a collaborare attivamente nella sua proclamazione. È proprio ciò che testimoniano i tre evangelisti quando raccontano che Gesù (secondo Lc. VI, 13: all’alba, dopo la sua notte solitaria) ha chiamato i suoi discepoli presso di lui. «Quelli ch’egli stesso volle» dice Mc. III, 13 mentre Lc. VI, 13 riferisce ch’egli li ha eletti, scelti. In entrambi i casi è

chiaro che per divenire ciò che devono divenire, ossia discepoli, questi uomini dipendono unicamente dalla decisione e dal potere di Gesù. Ora ciò che Gesù vuole e sceglie, con la sua decisione e secondo il suo potere, è l’esistenza dei dodici apostoli. Il numero dodici ha un senso simbolico e non aritmetico; nell’Antico e nel Nuovo Testamento designa il popolo d’Israele, la sua elezione, la sua vocazione tra gli altri popoli, il suo carattere e la sua missione in qualità di popolo del Messia e del Salvatore del mondo; che Gesù abbia «fatto» dei discepoli che ha chiamato «i dodici», significa ch’egli ha istituito tra loro in maniera del tutto nuova l’incarico e la vocazione che competono a Israele di fronte agli altri popoli. Ha trasmesso questo incarico e questa vocazione ai suoi discepoli; ha istituito (letteralmente: egli fece, ἐποίησεν) i dodici (è detto espressamente in Mc. III, 14 e III, 16) in conformità con la promessa di Mc. I, 17; che colui del quale si dice che «fa», crea, fonda il popolo d’Israele sia il Messia d’Israele, è indicato dallo stesso verbo senza che abbisogni una maggiore precisazione. Chiaramente l’opera dell’uomo che ha chiamato a lui pescatori e gabellieri sta per compiersi; all’intemo della Galilea pagana, in questo classico regno dell’apostasia e della riprovazione, sorge un nuovo Israele, o piuttosto l’antico Israele pervenuto al suo fine, per eseguire la sua missione; nel caso specifico si tratta di questi dodici uomini che (secondo Mc. III, 14) sono destinati «ad essere con lui» (ἵνα ὦσιν μετ’ αὐτοῦ). Questa prima descrizione dell’apostolato (così ampia : Me. III, 14-15), dimostra chiaramente quanto sia indispensabile evocare già fin d’ora tutto ciò che si produrrà in seguito, nell’intervallo tra Mt. XVI e Mt. XXVI. Nella forma nuova (o piuttosto nella forma antica pervenuta al suo fine) di questo cerchio di dodici uomini poi designati con il loro nome, Israele possiede e compie la sua destinazione: essere con lui, Gesù, partecipare al suo ufficio, collaborare alla sua opera; i due altri scopi dell’esistenza dei dodici (Mc. III, 14-15) vi fanno esplicito riferimento: ϰαί ἵνα ἀποστέλλη αὐτους ϰηρύσσειν ϰαὶ ἔϰειν ἐξυσίαν ἐϰβάλλειν τὰ δαιμόνια: «e li inviò per predicare e diede loro il potere di cacciare i demoni»; Mt. X, 1 cita soltanto il secondo di questi scopi: il potere di scacciare gli spiriti maligni. Dall’interno del popolo oppresso e stremato, di mezzo al gregge senza pastore disperso sulle montagne, Gesù ha chiamato i dodici per costituire con loro il nuovo Israele; a loro volta essi devono presentarsi con lui all’interno di questo popolo; con lui, cioè con il suo potere di rinnovamento, di purificazione e di guarigione, che permette di distruggere il regno di Satana, conformemente all’intenzione ed alla forza della

misericordia divina presente, reale e rivelata in lui. Che essi debbano compiere tutto questo eseguendo il loro incarico di messaggeri del regno di Dio, è espresso da Matteo con forza notevole, tanto ch’egli fa seguire la narrazione dell’istituzione degli apostoli dal grande discorso missionario del capitolo X, 6 ss.; apparentemente, non se ne parla in Lc. VI, 13; ma sembra che il nome di «apostoli» dato da Gesù ai dodici sia sufficientemente esplicito. Del resto questa lacuna di Luca si trova subito colmata: leggiamo infatti (VI, 17 s.) che Gesù scende con i suoi discepoli per fermarsi in mezzo ad una gran folla di gente venuta «da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone. Essi erano venuti per ascoltarlo e per essere guariti dalle loro infermità. Quelli che erano tormentati da spiriti impuri, ne erano guariti»; poiché egli è con loro ed essi sono con lui, divengono e costituiscono il nuovo Israele che possiede la missione di predicare e il potere di guarire, di purificare e di combattere vittoriosamente contro Satana; è evidente il legame con ciò che ci viene detto al secondo livello della narrazione sulla dipendenza assoluta degli apostoli nei confronti di Gesù.

Karl Barth nel 1958. Quanto essi siano inseparabili da Gesù e come Gesù li consideri suoi è rilevato con forza tutta particolare nel passo di Mt. XII, 46 ss., che riferisce ciò che Gesù dice e fa, mentre sua madre e i suoi fratelli, che stanno lì fuori, cercano di parlargli: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? E stendendo la mano verso i suoi discepoli disse (dando un’occhiata a quelli che erano seduti intorno a lui, secondo Mc. III, 34): Ecco mia madre e i miei fratelli. Perché, chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre». Oppure in Mt. XIII, 10 ss. dove Gesù precisa, dopo aver raccontato la parabola del seminatore: «A voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma non è dato agli altri (per loro, tutto è annunciato in parabole: dice Mc. IV, 11). Infatti a chiunque ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chiunque non ha, sarà tolto anche quello che ha». Gesù parla per parabole affinché si compia la profezia d’Isaia sugli uomini che

vedono e non discernono nulla, che ascoltano e non intendono nulla; esiste infatti una regola che non si può modificare; da solo l’uomo non ha la possibilità di volgersi verso Dio, mentre tale impossibile possibilità gli è tolta non appena Dio lo rivolge effettivamente verso di lui! Questa regola è il mistero del regno dei cieli che i discepoli devono imparare a conoscere alla scuola di Gesù e che essi possono realmente conoscere restando presso di lui; è così ch’egli li ha inseriti nella sua personale solitudine di fronte a Dio e di fronte al mondo. Certo sembra strano (mentre invero è semplicemente logico) che secondo Mc. IV, 13 Gesù si volga poi verso di loro dicendo: «Non intendete questa parabola? Come dunque intenderete tutte le parabole?» e ch’egli debba spiegare loro in particolare il mistero della Parola di Dio, quand’essa è seminata nell’uomo; è però proprio in questa maniera che li pone al suo fianco; essi saranno i messaggeri ed i portatori della sua potenza nell’ambito della conoscenza ch’egli dà loro, cioè a partire dalla sua specifica posizione fra Dio e gli uomini. È come dire ch’essi rimangono completamente alla sua dipendenza. Rileggiamo qui il racconto di Mc. VI, 30 ss. concernente la moltiplicazione dei pani. Gli apostoli sono appena tornati da Gesù e gli hanno riferito tutto quanto hanno fatto ed insegnato; non si può certo attribuire a sollecitudine umana l’ordine che Gesù dà loro immediatamente: «Venite in disparte, in un luogo solitario e riposatevi (ἀναπαύσασϑε) un poco» («giacché c’era un andare e venire e essi non avevano neppure tempo di mangiare») ed il fatto che li conduca in disparte, in una barca; molti infatti li seguono (ed è qui che Marco accenna alla compassione di Gesù per la folla, simile ad un gregge di pecore senza pastore) e sorge subito il problema di nutrirli: «Date loro da mangiare», dice Gesù agli apostoli. Ma essi hanno soltanto cinque pani e due pesci. Che cosa possono fare di fronte a cinquemila uomini? È qui che diventa evidente quale specie di ἀναπαύεσϑαι, sia necessaria per far fronte alla situazione e quale specie di riposo Gesù voglia dare loro. È lui che fa sedere la folla sull’erba verde, per file di cento e di cinquanta. Ciò che segue è perfino nelle formule un’anticipazione dell’istituzione della cena: egli prende i cinque pani e i due pesci, alza gli occhi al cielo e li benedice; spezza i pani e li dà ai discepoli perché li distribuiscano alla gente; poi divide tra tutti i due pesci. «Tutti mangiarono e si saziarono». Questo, come scopo e come origine della loro opera, è il «riposo» promesso agli apostoli: si tratta dell’opera di Gesù stesso; questi nutre cinquemila persone con i pochi viveri che gli apostoli gli presentano; tale è l’abbondanza ch’egli dà loro, sotto l’aspetto della povertà ch’essi stessi debbono offrire e dare. La stessa indicazione sul legame

intercorrente fra Gesù ed i suoi si ritrova nel racconto della tempesta sedata (Mc. IV, 35 ss.) e in particolare nell’episodio di Gesù che cammina sul mare (Mt. XIV, 22 ss.); gli apostoli sarebbero perduti se colui che dorme tra loro mentre la tempesta infuria non si fosse svegliato e se colui che per un istante si è allontanato non ritornasse verso di loro camminando sulle acque ormai calme. Anche il fatto che egli si addormenti, pur essendo tra loro, è fonte di scandalo: «Maestro, non t’importa della nostra rovina?» (Mc. IV, 38); «Maestro, maestro, siamo perduti!» (Lc. VIII, 24). «I discepoli, vedendolo camminare sul mare, si turbarono e dissero: È un fantasma! E gridarono dalla paura». (Mt, XIV, 26). In entrambi i casi occorre ch’egli dica loro: «Non temete!», perché essi si rassicurino. Sono necessarie cioè la sua presenza e la sua Parola perché essi non siano inghiottiti dalla tempesta. E quando Pietro, più coraggioso degli altri discepoli, non teme di camminare sul mare come ha visto fare a Gesù, ma non può farlo senza preoccuparsi della violenza del vento, invece di continuare a fissare il suo sguardo sul maestro, è soltanto dalla mano del Signore che può essere salvato e deve accettare che gli si dica: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». Infine è significativo che nella sua brevità il racconto di Marco (VI, 51 s.) si concluda con queste parole: «E si stupirono più che mai dentro di sé; infatti non avevano compreso il miracolo dei pani, essendo il loro cuore indurito». Possiamo dunque osservare che la determinazione fondamentale dell’apostolato dei discepoli si conferma in ogni avvenimento registrato: sono stati destinati «a essere con lui». Sono cioè con lui, perché egli è innanzitutto e sempre con loro. Ma oltre alla vocazione e all’investitura degli apostoli, la prima parte dei vangeli menziona in modo esplicito anche la loro missione. Solo Matteo (X, 5 ss.) la collega direttamente all’investitura; tuttavia anche lui ne parla come di un’azione indipendente. Quanto a Luca, nominando, oltre il viaggio dei dodici (IX, 1 ss.), la missione particolare di settanta altri discepoli (X, 1 ss.), mette in evidenza il legame, diciamo meglio: l’unità, esistente tra l’apostolato propriamente detto e la chiesa stessa; secondo Luca le istruzioni date ai settanta discepoli sono identiche a quelle che, secondo gli altri vangeli, concernono i dodici; secondo Luca l’esortazione rivolta agli apostoli comprende quella indirizzata ai discepoli o alla chiesa. Dobbiamo rammentare che in questa fase della narrazione gli apostoli non sono ancora inviati presso gli altri popoli, come avviene nel racconto della risurrezione; il loro obiettivo missionario è l’insieme delle pecore perdute della casa d’Israele (Mt. X, 5);

tutto questo è conforme al fatto che Gesù non ha ancora terminato di percorrere quel sentiero che lo vedrà rifiutato da Israele nella sua qualità di servo di Dio e per conseguenza non ha ancora affermato la sua regalità sul suo popolo e sul mondo intero. Gli apostoli non possono certo affrettare i tempi, ma devono solo seguire Gesù; per questa ragione è loro proibito di «andare tra i pagani e nelle città dei Samaritani»; in conformità con la qualifica ricevuta al momento dell’investitura devono compiere solo due opere: predicare il regno di Dio e risanare gli infermi (Lc. IX, 2). Che il «risanare» costituisca una parte integrante dell’attività apostolica, va in parallelo con la forma che simile attività riveste in questo primo contesto; come l’attività miracolosa di Gesù, il potere di guarigione dei discepoli annuncia la vittoria sugli spiriti maligni e sulla morte che ha avuto luogo una volta per tutte nella risurrezione di Gesù; è il segno della messianicità e della regalità di Gesù; indica la differenza che separa questo profeta e i suoi discepoli dai profeti dell’Antico Testamento. L’ordine di missione di Mt. XXVIII non comporta più alcuna indicazione a questo riguardo, proprio come Gesù stesso non ha più compiuto alcun miracolo dopo la sua risurrezione; è pur vero che nella relazione data da Marco (XVI, 17) si parla nuovamente di un’attività di guarigione da parte degli apostoli; questa però è una prova interna che la pericope di Mc. XVI, 9-20 non appartiene al vangelo primitivo, datando di un’epoca in cui non si capisce più la differenza dei tempi manifestata dalla risurrezione. Tuttavia se dopo Pasqua il ministero di guarigione non è più parte integrante della missione della chiesa, ciò non significa affatto (come dimostrano gli Atti degli Apostoli) che le guarigioni siano ormai escluse dall’attività apostolica ed ecclesiastica; non si deve dedurre soprattutto che il potere concesso agli apostoli sugli spiriti maligni e sulla morte sia stato tolto di nuovo, sia agli apostoli che alla chiesa; tutto ciò vuol semplicemente dire che non è più necessario che la risurrezione sia ancora annunciata, avendo già avuto luogo e che ogni guarigione, ogni purificazione, ogni vittoria sul diavolo e sulla morte devono essere d’ora innanzi considerate per mezzo della fede e proclamate come fatti adempiuti all’interno di questo evento. Riferendosi a Mt. XXVIII, 18 s. si può verosimilmente sostenere che l’ordine di guarire, dato agli apostoli secondo la prima forma della testimonianza evangelica, ha trovato il suo legittimo epilogo nel compito, affidato a loro in seguito, di battezzare nel nome del Dio Trinitario. Le istruzioni date ai discepoli mandati in missione sono relativamente

sparse in Marco e in Luca, mentre sono per così dire codificate in Mt. X. Un rapido sguardo ci permette di dividerle in tre gruppi. Il primo gruppo (Mt. X, 8 ss.) mette in evidenza quanto caratterizza gli apostoli e, con loro, quelli che sono nella chiesa: tutti questi possono fare il loro cammino in mezzo agli uomini da cui non devono aspettarsi né consolazione né aiuto, liberi come sono nei loro confronti data la qualità del messaggio ch’essi portano, o piuttosto che li porta: «avete ricevuto gratuitamente, gratuitamente date». Il secondo gruppo (Mt. X, 17 ss.), usufruendo in parte dei medesimi termini impiegati più tardi nel discorso riguardante la parusia, elenca le prove e le persecuzioni di cui gli apostoli e la chiesa saranno oggetto da parte degli uomini e durante le quali non dovranno lasciarsi dominare dalla paura o dal tormento. Infatti «il discepolo non è superiore al maestro, né il servo al padrone. Basti al discepolo di essere trattato come il suo maestro e al servo di essere trattato come il suo padrone. Se hanno chiamato Belzebul il padrone di casa, a maggior ragione chiameranno così quelli della sua casa» (Mt. X, 24 s.). La compagnia nella quale si trovano li rende invincibili. Il terzo gruppo (Mt. X, 26 ss.) elenca tutta una serie di elementi positivi. Nella misura in cui saranno senza paura (come dev’essere naturale per loro) i discepoli vedranno compiersi tutto ciò che si deve adempiere: quanto è nascosto agli altri, e non a loro, deve essere svelato; poiché Dio vuole tale rivelazione, tutti i capelli del loro capo sono contati; se fanno la volontà di Dio e confessano Gesù davanti agli uomini, anche Gesù li confesserà davanti al Padre suo. Dal momento che questa volontà di Dio si compirà, essi non devono temere le divisioni che seguiranno alla rivelazione di ciò che è nascosto e da cui saranno colpiti fin nel cerchio dei loro più intimi. Parimenti se capiterà loro di essere ben accolti e ben trattati dagli uomini, in realtà sarà Gesù ad essere oggetto di tale beneficio; questa sarà la loro ricompensa; «chi riceve voi, riceve me e chi riceve me, riceve colui che mi ha mandato». Non può sfuggire a nessun lettore di Mt. X questo legame che unisce gli apostoli a colui che li manda e che appare sempre di più come il centro stesso di tutto il «discorso»; quanto ci viene detto su questi uomini (sulla loro attività e sulla loro sofferenza, compresi gli elementi di esortazione e di conforto) non ha che un senso; è ordinato e permesso loro di essere e di restare gli inviati di Gesù. Siamo tentati di chiederci, leggendo questo testo, perché si tratti così poco, o affatto, delle azioni compiute dagli apostoli; senza dubbio non è indispensabile parlarne nei dettagli poiché, da un capo all’altro, si accenna al «riposo» degli apostoli, al

centro e al punto di appoggio dei loro atti; essi devono predicare il regno di Dio, cioè Gesù stesso. Ch’egli sia con loro e che in questo modo sia loro consentito di essere con lui, non per loro stessi, ma per gli uomini ai quali sono mandati, questo è il mistero che dirige anche la loro missione. E questo è il mistero stesso del loro apostolato, il mistero della destinazione assegnata all’eletto secondo l’insegnamento del Nuovo Testamento. Per quale fine Dio elegge un uomo? Il Nuovo Testamento risponde a questa domanda presentandoci semplicemente l’esistenza degli apostoli, parlandoci della loro vocazione, della loro investitura e della loro missione; è proprio in loro nel loro essere e nel loro agire, che la chiesa, come assemblea degli eletti di tutte le epoche della storia, può e deve riconoscere se stessa; è in loro che ogni cristiano riconoscerà ininterrottamente il senso e lo scopo della sua elezione. Essere eletti da Dio significa essere eletti in Gesù Cristo; Gesù Cristo infatti è l’oggetto specifico e primario dell’elezione divina; egli è il solo uomo eletto e ciò significa appunto che al di fuori di lui nessuno può essere eletto. Ma essere eletti da Dio significa anche essere eletti con la mediazione di Gesù Cristo; egli infatti è anche lo strumento specifico e primario dell’elezione divina; per mezzo suo, come oggetto della sua elezione, e soltanto per mezzo suo, esistono anche altri uomini eletti al suo fianco. In una parola è dunque in lui e per opera sua che gli apostoli (e la moltitudine raccolta nella chiesa degli apostoli) sono degli eletti. A che cosa sono destinati? Il Nuovo Testamento risponde: a trasmettere la promessa che è stata fatta loro; cioè a testimoniare e a predicare Gesù Cristo nell’ambito della fattualità del mondo, in mezzo alla gente che non ha ancora sentito parlare di lui, non è stata ancora portata a credere in lui e che di conseguenza non gode ancora i benefici della sua opera di profeta, di sacerdote e di re, benché quest’opera sia stata compiuta anche per tutti questi uomini; questi uomini che in realtà vivono già sotto la sua signoria, ma che non l’hanno ancora riconosciuto e confessato come il Signore, testimoniandogli la loro gratitudine. Andare in questo mondo per battezzarlo; ecco a che cosa sono destinati gli apostoli; e attraverso loro la chiesa; e nella chiesa tutti i suoi membri, tutti gli eletti. Se Dio elegge un uomo, è affinché quest’uomo sia un testimone di Gesù Cristo e, di conseguenza, un messaggero ed un portatore della gloria che gli compete. 1. G. SCHRENK (art. ἐϰλογή), in Theologisches Woerterbuch zum Neuen Testament IV, 185 (= trad. ital.: VI, 498). 2. G. SCHRENK (art. ἐϰλογή), in Theologisches Woerterbuch zum Neuen Testament IV, 179 (trad. ital.: VI, 483).

4. LA DESTINAZIONE DEL RIPROVATO A. POSIZIONE DELLA TESI 1. La natura del riprovato. L’uomo che si è isolato da Dio opponendosi alla propria elezione compiuta in Gesù Cristo è «rifiutato» e «riprovato». Dio è per lui, ma egli è contro Dio; Dio gli è misericordioso, ma egli è ingrato; Dio l’accoglie, ma egli si sottrae; Dio perdona i suoi peccati, ma egli li ripete come se non fossero stati perdonati; Dio lo libera dallo stato di colpevolezza e dal castigo dovuto alla sua caduta, ma egli continua a vivere come un essere prigioniero di Satana; Dio lo destina alla felicità e al suo servizio, ma egli sceglie la tristezza di un’esistenza determinata dal suo arbitrio e vissuta per la propria gloria. Così, a suo modo, il riprovato esiste insieme con l’eletto; non avremmo ancora capito veramente quale è la destinazione dell’eletto, se pretendessimo di non considerare quella del riprovato; che cosa vuol fare Dio di quest’ultimo?; quali sono dunque lo scopo, il senso, il contenuto della sua esistenza, se è vero che anch’essa è oggetto della predestinazione divina? Dobbiamo partire dalla costatazione seguente: per definizione il riprovato è oggetto della volontà di Dio in un senso molto diverso da quello in cui lo è l’eletto. La volontà unica che determina nello stesso tempo l’eletto e il riprovato è in questo caso il non-volere onnipotente, santo e misericordioso di Dio. Il patto di grazia stabilito da tutta eternità non ha come riscontro un patto d’ira anch’esso eterno; così non esiste, inparallelo con il regno di Gesù Cristo, un regno di Satana che abbia la stessa portata, la stessa durata, lo stesso valore e lo stesso prestigio. Non è conforme all’intenzione di Dio rimanere in collera per sempre contro l’uomo; ecco perché il suo patto di grazia è veramente l’origine di tutte le sue vie e di tutte le sue opere; egli l’ha stabilito per distruggere l’impero del diavolo e mettere in evidenza la schiacciante superiorità del regno di Gesù Cristo. La riprovazione eterna dell’uomo è, una volta per tutte, la riprovazione subìta e per conseguenza «rifiutata» da Gesù Cristo, nel quale Dio stesso si è sacrificato. È chiaro perciò che per definizione il riprovato esiste in un modo assolutamente diverso dall’eletto: è l’uomo che il Dio onnipotente, santo e misericordioso non ha voluto; poiché Dio è sapiente e paziente persino in quanto biasima, quest’uomo può certo ancora esistere così com’è e non essere semplicemente eliminato; oggetto del non-volere divino, esiste però insieme con l’eletto, seppure non in modo indipendente, a fianco o al di fuori di quest’ultimo, sebbene non come un secondo personaggio di cui si potrebbe

costatare e spiegare la natura e la destinazione astraendo da quelle dell’eletto; in qualità di riprovato, non possiede una vita propria in rapporto a quest’ultimo; per quanto negative siano le cose che si debbono affermare contro di lui, esse costituiscono anche immediatamente dati assai positivi, che agiscono in suo favore. Donde infatti il riprovato potrebbe avere un’esistenza specifica? Esiste in realtà solo perché è oggetto del non-volere di Dio; proprio a questo titolo partecipa alla grazia che l’ha creato e che lo conserva; proprio per questo motivo rimane nell’ambito del patto di grazia stabilito da tutta eternità; anch’egli, al suo posto, si trova nel campo circoscritto dall’elezione e dal regno di Gesù Cristo, a confronto con la potenza vittoriosa dell’amore divino. Quest’amore può bruciarlo e divorarlo, com’è ben normale: resta pur sempre l’amore onnipotente, santo e misericordioso; è lui precisamente che impedisce al riprovato di condurre un’esistenza indipendente, a fianco e al di fuori di quella dell’eletto; è questo amore, di fronte al quale il riprovato dà prova di una così pericolosa cattiva volontà, che alla fine lo costringe all’impotenza ed alla vanità, obbligandolo a condurre l’esistenza fantomatica di un essere che certamente crede di levarsi controla verità, ma non ne è assolutamente capace ed in realtà deve farsene testimone, pur contro la propria volontà. L’uomo può essere posseduto e dominato da Satana, può essere lui stesso diabolico e questo è il caso del riprovato; non più dello stesso Satana giunge però ad innalzarsi alla dignità di un essere creato e conservato da Dio stesso, cioè ad un’esistenza propria e autonoma. Non può che esistere impropriamente (tollerato dalla sapienza e dalla pazienza di Dio), mentre l’eletto possiede l’essere sul fondamento dell’elezione di Gesù Cristo, origine di tutte le vie e di tutte le opere di Dio. Poiché l’eletto esiste, esiste anche il riprovato. Solo l’eletto conosce il riprovato; non potrebbe infatti conoscersi come eletto, conoscere la propria elezione, senza conoscere nello stesso tempo il riprovato, tal quale è, nella sua esistenza impropria e fantomatica, oggetto del non-volere di Dio. Ma l’eletto conosce il riprovato prima di tutto ed essenzialmente nel suo prototipo, Gesù Cristo: nella persona di colui che, senza avere lui stesso meritato di essere riprovato, è stato eletto per prendere il posto del riprovato e per portare la sua riprovazione; è proprio in Gesù Cristo che si trova l’uomo ingrato che si oppone a Dio, l’uomo che si sottrae al suo Creatore, l’uomo prigioniero e maledetto perché ripete il peccato che gli è stato perdonato; qui risiedono la colpa e la morte dell’uomo soggiogato da Satana e divenuto lui stesso diabolico. Ciò che quest’uomo fa, ciò che è in opposizione all’amore del suo

Creatore, quale atteggiamento ha davanti a sé, ciò che merita e ciò che gli spetta nel giusto giudizio di Dio: tutte queste cose appaiono nella loro verità proprio là dove sono private della loro verità; là dove sono smascherate ed abolite come menzogna; là dove l’eletto ha voluto essere ed è stato il riprovato; là dove la riprovazione meritata da tutti è divenuta la sua (proprio di lui che non la meritava) per non continuare appunto ad essere quella di tutti. È dunque discernendo il fondamento stesso della sua elezione che l’eletto conosce e riconosce il riprovato: chi infatti se non lui può conoscere colui nel quale è stato eletto?; e perciò chi mai se non l’eletto, può conoscere il riprovato? Ne consegue allora la tesi seguente: poiché l’eletto esiste, il riprovato esiste a sua volta insieme con lui e non certo al di fuori ed al suo fianco; in Gesù Cristo, fondamento della sua elezione, l’elettopossiede il riprovato; quest’ultimo è accolto in seno all’esistenza stessa dell’eletto che Dio La amato, giustificato e santificato dall’eternità. Che cosa potrebbe essere dunque l’esistenza del riprovato se non questa coesistenza con l’eletto, oggetto dell’amore di Dio? In una parola l’eletto conosce il riprovato proprio perché è eletto in Gesù Cristo. È come dire ch’egli lo riconoscerà in secondo luogo e soprattutto in se stesso, nella propria empietà che, sebbene sia dietro alle spalle, resta pur sempre una minaccia presente e futura; è lui l’uomo di cui Gesù Cristo ha preso il posto per essere riprovato; è lui che dovrebbe essere il riprovato che Gesù Cristo è stato; è lui che si sforza continuamente, come se Gesù Cristo fosse morto invano, di prendere il posto di questo riprovato, con la pretesa di assumere la sentenza e la sorte che lo riguardano; è lui che continuamente cerca di riprendere contro la grazia di Dio il combattimento assolutamente nefasto e vano che caratterizza il peccato, come se tale combattimento non fosse stato superato per sempre con il perdono dei peccati, che Dio ha deciso e compiuto donando se stesso. Così l’eletto riconosce il riprovato: alla luce del ripudio di Gesù Cristo, discerne la medesima condizione cui è stato strappato e che cerca ininterrottamente di far rinascere. Chi, se non l’eletto, può conoscere colui che è stato riprovato al suo posto e distinguere alla sua luce l’ombra che lo accompagna? Credendo in lui vede l’uomo vecchio, il corpo di morte da cui è stato liberato; ma vede anche e sempre l’empietà che non gli dà tregua. Se non credesse, se non fosse eletto, non vivrebbe con quest’ombra che lo accompagna ininterrottamente. La caratteristica dell’eletto (e sua soltanto) sta nel fatto che, come oggetto dell’amore di Dio, egli porta anche e sempre con sé l’uomo che Dio odia, accolto nel suo essere eletto, assunto e coperto dalla grazia di Gesù Cristo. Ed

è così che in terzo ed ultimo luogo (e non in primo come insegnava la vecchia dottrina della predestinazione), l’eletto riconoscerà anche il riprovato nell’empietà e nell’ateismo degli altri uomini, ossia in tutte le forme grossolane o raffinate dell’errore, in tutte le manifestazioni della brutalità o dell’astuzia, della stoltezza, della mancanza di carattere, dell’orgoglio, della leggerezza, della superstizione, dell’eresia, dell’incredulità, di cui sarà più o meno direttamente testimone. Tutto questo esiste, sarebbe assurdo negarlo; ma non èassurdo vedervi i segni e la reminiscenza della riprovazione che Gesù Cristo ha subito per liberarci, insieme a tutti gli altri uomini; soprattutto dobbiamo renderci ben conto che la pagliuzza nell’occhio del prossimo (per non parlare della trave che è nel nostro) è così fastidiosa perché ci dimostra che questo prossimo si sforza (come noi e benché in quest’atto non ci sia alcun senso) di lottare contro la propria elezione e opporsi in tal modo alla grazia di Dio. Siamo effettivamente nel giusto: si tratta del peggior disordine possibile e di un disordine chiaramente intollerabile; ma è proprio questo disordine che Gesù è venuto a riparare, questo disordine di cui noi siamo sempre colpevoli. Così l’eletto è chiamato a riconoscere il riprovato considerando l’ombra impenetrabile che accompagna anche il suo prossimo; più la considera però, più distingue pure la luce che lo avvolge, permettendo così di proiettare un’ombra. È proprio per l’eletto che il prossimo (che rientra anch’esso nella sfera dell’elezione di Gesù Cristo) esiste avendo con sé (e non al di dentro e nemmeno al di fuori o al suo fianco) un riprovato che ha la caratteristica di essere stato accolto in Gesù Cristo (per quanto strano e scandaloso possa sembrare). Quale altra esistenza si potrebbe attribuire in definitiva al riprovato, considerato sotto l’aspetto del prossimo, se non quella di una simile coesistenza? La risposta alla domanda concernente la destinazione del riprovato dipende interamente da quanto abbiamo detto: non si deve attribuirgli un’esistenza differente da tale coesistenza impropria e dipendente; lo si deve perciò considerare sempre nella sua relazione con l’eletto (sia Gesù Cristo o sia l’uomo eletto in Gesù Cristo). Non possiamo cioè valutare la realtà della sua esistenza diversamente da quello che ha fatto Dio stesso; in ogni caso non la prenderemmo sul serio se non la considerassimo come un’ombra che decresce, sfuma e passa; come tale essa continua a essere sufficientemente insolita, minacciosa, pericolosa e funesta, ma esistente unicamente in seno al limite che Dio le ha imposto. Ed è certo più importante, più urgente e più serio considerare questo limite che ostinarsi a misurare l’orrore che le è proprio,

all’interno di esso. Il riprovato non è che un’ombra, un fantasma: questo è il limite assegnatogli da Dio; esiste nella persona di Gesù Cristo unicamentecome l’oggetto dell’elezione e dell’amore di Dio, cioè come un essere accettato in lui; deve la sua esistenza solo al fatto che Gesù Cristo è stato messo in discussione ed ha vinto; in una parola vive soltanto perché è stato messo a morte come riprovato ed è risuscitato come eletto per aver parte della vita santa, giusta e buona di Gesù Cristo. Poiché Gesù Cristo prende il suo posto, gli toglie il diritto e la possibilità di possedere un essere proprio e autonomo, conferendogli il suo stesso essere; legato a Gesù Cristo, l’uomo può solamente essere stato, ma non più essere un riprovato; tra lui e la sua personale esistenza di riprovato si pongono la morte che Gesù Cristo ha subito per lui e la risurrezione attraverso cui Gesù Cristo gli ha concesso il suo posto di eletto. Il riprovato non può più presentarsi e affermarsi se non nella misura in cui è un essere che è stato, che ha cessato di esistere; che questa possibilità non gli sia stata tolta è già abbastanza grave in sé; egli però non può più utilizzarla se non all’interno del limite che gli è stato fissato da Dio, non lo può più con il potere assoluto che caratterizza un essere presente, autonomo e sovrano. Questo potere gli è stato tolto per sempre con l’evento della morte e della risurrezione di Gesù Cristo, in conformità con il decreto promulgato da Dio fin dall’eternità. Così anche il riprovato non esiste (in seno all’empietà passata, presente e futura condivisa con l’eletto) se non in quanto incarna sempre lo stesso tentativo malvagio, pericoloso e impotente di cui abbiamo parlato in altro contesto: anticipatamente è riconosciuto menzognero, smascherato e squalificato come mentitore dall’elezione (l’elezione di Gesù Cristo) e, praticamente, dalla stessa fede dell’eletto. Non può avere tregua né incoraggiamento; se può mettere in discussione l’elezione ed offuscarla, non ha tuttavia il potere di renderla caduca; può certamente mentire, ma non può far sì che l’evangelo menta. Non dispone di alcuna verità particolare che possa essere opposta a questo evangelo, né di alcun potere contro la verità: la fede lo smentisce e lo soggioga anche se non è più grande di un grano di senape. Riesce certamente a riprodurre il peccato per il quale Gesù Cristo è morto, ma non è abbastanza forte per perpetrarlo; può subire allegoricamente la pena di morte che Gesù Cristo ha subito al suo posto, ma non potrebbe provare la medesima pena; può disprezzare e rinnegareil rinnovamento che si è manifestato anche per lui nella risurrezione di Gesù Cristo, ma non sarebbe capace di eliminare il segno sotto il quale la sua vita è posta in virtù di questo fatto. La fède caratteristica dell’eletto è il riconoscimento della superiorità di

Gesù Cristo (l’eletto) sul riprovato, cioè sull’uomo cui l’empietà stessa dell’eletto sembra continuamente conferire una certa realtà; tale fede dunque (il cui oggetto è l’elezione di Gesù Cristo) smentisce qualsiasi autenticità attribuibile all’essere del riprovato ed è dimostrazione della sua caducità; essa segna dunque (con Gesù Cristo) il limite di una simile esistenza fantomatica. Il riprovato non può esistere se non sotto la forma di un’ombra inconsistente, per quanto palese essa sia, in seno all’empietà degli altri uomini e l’eletto, che è il solo a conoscere il riprovato, non può dimostrare meglio di essere anch’egli ingaggiato nella stessa avventura degli altri uomini, se non contando sulla promessa di cui per parte sua vive, malgrado la propria empietà. Ad ogni buon conto l’eletto può e deve considerare l’empietà propria ed altrui come facente parte dello sterile tentativo, mediante cui l’uomo si sforza di resistere alla grazia di Gesù Cristo; anche per quanto riguarda il prossimo non può certo mettere in conto il successo di un simile tentativo, né credere al valore e all’efficacia di siffatta resistenza; ciò che crede per se stesso (ossia che Gesù Cristo, l’eletto, domina il riprovato) deve crederlo anche per gli altri. Ecco perché si opporrà alla loro empietà e di fronte ad essa confesserà la sua fede; dovunque si rivela l’empietà, tocca a lui smentirla; lungi dal temere gli altri, deve opporre loro resistenza. Qualsiasi forma assuma la sua opposizione, combatterà però sempre e soltanto per la sua fede nella buona novella; non avrà che una sola arma: la sicurezza che Gesù Cristo è morto e risuscitato anche per coloro cui si deve opporre; affronterà l’altro negandogli proprio di usufruire di quest’estrema possibilità, di poter assumere cioè il ruolo del riprovato. Testimonierà sempre che l’elezione di Gesù Cristo è l’origine che determina la sua vita, così com’è il punto di partenza di tutte le vie e di tutte le opere di Dio; anche se naturalmente è tanto poco in grado di liberare gli altri dall’ombra della riprovazione quanto lo è riguardo a se stesso (poiché Dio solo possiede questo potere), tuttavia annuncerà loro in tutte le circostanze quella libertà cheesiste e sussiste anche per essi; alla luce dell’evangelo (e la predicazione del buon annuncio costituisce precisamente la destinazione precipua dell’eletto), il riprovato appare anche negli altri come un’ombra che decresce, sfuma e passa, come una figura in fuga, chiaramente e continuamente limitata da Dio. 2. La destinazione del riprovato. Essendo questa la natura del riprovato, è ora possibile precisarne la destinazione. Il riprovato non ha alcuna funzione al di fuori e a fianco di quella dell’eletto; esiste con lui, indicando il senso e lo scopo della sua esistenza; la sua destinazione è l’opposto di quella dell’eletto,

un opposto negativo certo, ma necessario e mai trascurabile; nel suo risultato finale designa esattamente il luogo in cui comincia la destinazione propriamente detta e positiva dell’eletto. Nella realtà specifica della sua esistenza, il riprovato è inanzitutto chiamato a mettere in evidenza il destinatario dell’evangelo, la cui proclamazione è compito dell’eletto. Dal momento che il riprovato non è semplicemente eliminato, ma è autorizzato ad esistere in forme differenti (grazie alla sapienza e alla pazienza di Dio) all’interno dei limiti che gli sono stati fissati, egli rappresenta il mondo ed ogni individuo particolare che abbisognano dell’elezione divina; come peccatore e colpevole nei confronti di Dio, egli è l’uomo perduto, condannato a dimostrare sempre e di nuovo la sua perdizione causata dalla sua empietà, malgrado la sua elezione e la salvezza ch’essa implica; è l’uomo che ha reso necessario per la sua salvaguardia e la sua tutela il personale sacrificio di Dio nel Figlio suo e alla liberazione e alla conservazione del quale soltanto questo sacrificio ha potuto essere sufficiente; egli è l’uomo caduto in una colpa così grave che soltanto la misericordia di Dio può assumerla. Rappresentare quest’uomo: ecco in che cosa consiste la vita del riprovato; ch’essa possa soltanto rappresentarlo, ch’essa sia in se stessa solo menzogna, perché quest’uomo (cioè l’uomo realmente ripudiato) è in realtà Gesù Cristo è subito evidente; ad ogni modo questa falsa rappresentazione definisce la realtà stessa dell’esistenza del riprovato. È infatti attraverso tale menzogna ch’egli dà testimonianza (ed «è» il riprovato proprio in quest’attestazione) dell’uomo che necessita dell’elezione divina (dell’uomo cioè per cui non vi è alcuna grazia divina, perché egli ha voluto sottrarsi; dell’uomo da cui Dio si è staccato perché lui stesso gli ha voltato le spalle; dell’uomo che ha scelto la maledizione e la morte, invece di scegliere la benedizione e la vita e che è ormai condannato a vivere sotto il segno di questo scelta perniciosa). Evidentemente a quest’uomo è necessaria l’elezione divina, è necessaria l’elezione di Gesù Cristo, l’elezione gratuita che si è prodotta in Gesù Cristo. Per lui (onde eliminarlo o piuttosto trasformarlo) Gesù Cristo è morto e risorto; con lui, nella sua persona e in quella degli altri, l’eletto viene a confronto; a lui si rivolge l’evangelo inteso come messaggio della verità che l’eletto è chiamato a predicare. A lui deve essere detta la buona novella; in suo favore l’elezione di Gesù Cristo deve essere concretizzata dall’eletto; è per chiamarlo a sua volta che esiste ogni individuo chiamato. Poiché è ancora soltanto un semplice destinatario, poiché non si unisce ancora (o si unisce mal volentieri) alle lodi che, a partire dall’elezione

di Gesù Cristo, attraversano tutta la creazione, il riprovato è la prova che questa glorificazione non è destinata a risuonare nel vuoto: rappresenta coloro che l’aspettano, perché devono intenderla; rappresenta la creatura in preda ad un’immensa nostalgia; di conseguenza indica insieme il senso e lo scopo di queste lodi. Incarnando solamente una «chiesa che semplicemente ascolta» e che come tale è incapace di essere veramente una «chiesa», egli significa per la «chiesa che insegna» la totalità della chiesa di cui fanno parte sia coloro che hanno bisogno della verità e sia coloro che la proclamano; segno concreto dell’oggetto dell’elezione in tutta la sua purezza (cioè dell’eletto «prima» e «senza» la sua elezione, dell’eletto ancora privato dell’impronta che lo distingue dagli altri) dimostra, senza che sia possibile il minimo malinteso, che cos’è la grazia, che cos’è l’elezione, che cos’è l’elezione della grazia; senza il riprovato, si potrebbe trascurarlo o dimenticarlo e questo non deve mai essere trascurato o dimenticato né nel tempo, né nell’etemità; l’esistenza reale del riprovato ostacola tale negligenza o simile oblio. Il richiamo di Gesù Cristo crocifisso e privato della vita fa in modo che la sua elezione e la rivelazione che se ne ha con la risurrezione devono essere sempre capite come un atto dell’elezione gratuita di Dio; la presenza del riprovato nell’empietà sempre rinnovata dell’eletto indica ininterrottamente a quest’ultimo che è stato l’oggetto di una scelta misericordiosa; e la sua presenza negli altri uomini serve a ricordare all’eletto ch’egli è tenuto a testimoniare loro la grazia che ha ricevuto, poiché essa esiste anche per essi, benché possano ignorarlo o averlo dimenticato. Dal momento che il riprovato compie questa funzione, partecipa a quella dell’eletto. Ed è a questo ch’egli è destinato. Per il carattere della sua esistenza, il riprovato è in secondo luogo destinato a mettere stabilmente in evidenza ciò che l’evangelo ha rinnegato e vinto: di fronte e in relazione con il «gloria a Dio nei cieli altissimi», gli compete di far risuonare il «gloria a Dio dalle profondità dell’abisso»; il riprovato è l’uomo che nella sua idolatria non ha null’altro da testimoniare se non se stesso (cioè l’individuo che si è separato da Dio) e la sua scelta pericolosa; effettivamente e nel senso più assoluto della parola, non ha niente da dire. È l’uomo che, vivendo in una falsa libertà, vive ugualmente in una falsa schiavitù; l’uomo che si ritrova ingannato perché ha ingannato se stesso; l’uomo che non partecipa alla verità se non perché è costretto a dimostrare quanto sia totalmente e definitivamente incapace di vivere davanti a Dio senza il dono che Dio ha fatto di se stesso, perché non vi è nulla in lui che possa rendere una tale vita reale e possibile; l’uomo che è senza riconoscenza,

cioè senza felicità. Ora è esattamente quest’uomo che secondo il vangelo è stato rinnegato e vinto dall’elezione gratuita di Dio, dal patto eterno stabilito tra Dio e l’uomo; è proprio la condanna di quest’uomo che Dio ha assunto; è quest’uomo che la Parola di Dio riguarda fin dall’etemità; è la sua liberazione e la sua ammissione al servizio che, nel suo amore, Dio ha deciso dall’eternità e realizzato nel volgere del tempo. Che esistano per lui (cioè proprio per quest’uomo) una comunione con Dio, il Santo ed una comunione dei santi, un perdono dei peccati, una risurrezione della carne ed una vita eterna, a causa di Gesù Cristo e in forza della sua elezione: ecco ciò che dice il vangelo. Ma il vangelo non può essere chiaro, articolato, concreto, senza questo margine, senza questo sfondo, che si può vedere certo soltanto a partire da esso, ma che non si può non vedere: e cioè il giudizio cui l’uomo è stato strappato dall’elezione gratuita diDio, l’uomo giudicato che ogni essere chiamato con il nome di uomo dovrebbe essere, ma che nessuno è condannato a essere, proprio a causa di questo atto di elezione. Non si deve trascurare e dimenticare tale giudizio, che è la condizione stessa di una predicazione corretta dell’evangelo. Con la sua presenza il riprovato impedisce una simile dimenticanza. L’uomo ripudiato sul Golgota veglia affinché si sappia sempre chi è colui che è risuscitato per la gloria di Dio il mattino di Pasqua, affinché nessuno dimentichi che quest’uomo è stato davvero nella condizione di morte ed è ritornato alla vita; parimenti il riprovato che ciascuno può riconoscere in se stesso e negli altri è là perché non si dimentichi che la comunione con Dio o con i fratelli, il perdono dei peccati, la risurrezione della carne e la vita eterna (sia che applichiamo tali espressioni a noi stessi o agli altri) non sono e non possono mai divenire vane affermazioni; dal momento che il riprovato (l’apostolo negativo, l’uomo che non ha nulla da dire) assume questa funzione, ha anche subito qualche cosa da dire, partecipando così alla vocazione dell’eletto e situandosi all’interno della determinazione divina. Il suo ex profundis, fosse anche dal profondo dell’inferno, rimane un gloria Deo ex profundis. Che cosa sarebbe mai della destinazione dell’eletto, se il riprovato non fosse ininterrottamente presso di lui con la sua specifica destinazione? In terzo luogo ed infine nella limitazione particolare della sua esistenza, il riprovato è destinato a mettere in evidenza l’intenzione dell’evangelo. Qui ci troviamo al limite estremo, dove la destinazione del riprovato segna l’inizio di quella dell’eletto. Ovunque il riprovato è una figura che decresce, sfuma e passa; dato il modo in cui la sua sorte è stata fissata dall’elezione di Gesù Cristo, è condannato all’impotenza e all’irrealtà; non potrà mai essere altro

che un semplice oggetto della vittoria della verità, stabilita dall’eternità e riportata nel cuore stesso del tempo. Il riprovato non ha avvenire: volendo essere padrone di se stesso, non può che preparare la propria rovina. Ora in forza della sua elezione gratuita (operando cioè un patto con lui) Dio vuole chiaramente dare un avvenire all’uomo che in sé ne è privo; è con questa intenzione che Dio, con la sua Parola, si volge verso di lui; si volge cioè verso l’uomo che in sé è ripudiato, abbandonato senza speranza al declino e alla morte. Laforma concreta che assume l’intenzione dell’evangelo è la predicazione e la fede che gli corrisponde, ossia l’opera dello Spirito Santo che chiama l’uomo eletto e lo dirige verso la felicità, la riconoscenza e la testimonianza; questa positiva intenzione del buon annuncio è messa in evidenza nella sua forma concreta proprio dall’esistenza del riprovato, nella misura in cui essa è unicamente un’esistenza incapace e priva di realtà; si tratta di un’evidenza posta indirettamente: proprio come l’ombra, il giudizio e la morte attestano rispettivamente la luce, la grazia e la vita, con le caratteristiche di un limite, al di là del quale solo il nulla o solo l’intenzione evangelica può esistere. Non resta niente al riprovato; o allora gli restano la predicazione e la fede. Come non restava nulla al condannato del Golgota se non la risurrezione, così non resta nulla all’eletto, propenso a credere di poter essere un riprovato, se non la parola della predicazione e la fede, se non l’opera dello Spirito Santo. Questa è la prospettiva in cui gli sarà consentito di considerare anche gli altri uomini; a lui come a tutti non resta che la possibilità di ascoltare la Parola di Dio e di credere; l’eletto se ne rende conto perché sa che il condannato del Golgota è risuscitato. A partire da questo evento, gli è permesso di capire veramente la volontà di Dio nei confronti del riprovato; Dio non vuole il riprovato in quanto tale; soltanto nella sua collera lo vuole così com’è, ma in virtù dell’elezione di Gesù Cristo, della sua morte e della sua risurrezione la sua ira viene trattenuta e superata: si trova subordinata a quella sua volontà positiva che non ha smesso di farlo agire e che s’identifica con la sua misericordia, la misericordia della sua elezione. Che tale misericordia ci sia offerta nell’ambito della predicazione e della fede, che noi possiamo viverne interamente, questa è la volontà positiva di Dio, che non ci è concesso di dimenticare. Nella misura in cui è condannato a passare e a non possedere nessun avvenire, il riprovato impedisce proprio questa dimenticanza; solo l’assenza di ogni speranza (e il riprovato del Golgota, come il riprovato che è in noi e negli altri è senza speranza) può essere l’occasione della speranza reale; è soltanto in questo deserto che l’opera dello Spirito

Santo può cominciare, la predicazione può essere veramente ricevuta e la fede divenire viva. Poiché il riprovato (e pensiamo qui ancora una volta al servizioreso da Israele alla chiesa ed al legame che unisce la chiesa ad Israele) stimola l’attenzione dell’eletto a tutto ciò, partecipa alla destinazione di quest’ultimo ed è così che perviene a possedere la propria destinazione. Così com’è, è destinato ad ascoltare la predicazione della verità e ad accedere alla fede, cioè a divenire, da testimone involontario ed indiretto, un testimone volontario e diretto dell’elezione di Gesù Cristo e della sua comunità. B. ILLUSTRAZIONE SCRITTURISTICA 1 Giuda, il riprovato. La figura nella quale si concentra il problema del riprovato nel Nuovo Testamento è quella di Giuda Iscariota il discepolo e apostolo che ha «tradito» Gesù. Notiamolo subito: il Nuovo Testamento, come d’altronde l’Antico ma ben più chiaramente, non va a cercare lontano il riprovato; lo scopre nella prossimità immediata dello stesso Gesù Cristo; non dunque nel mondo indifferente e ostile in cui è venuto il Figlio di Dio ed al quale si rivolge la testimonianza degli apostoli, della chiesa, degli eletti. Questo «parallelo» dell’eletto non costituisce assolutamente un avversario venuto dal di fuori, opponentesi dall’esterno al regno di Dio; non smette certo di essere in stretto rapporto con la potenza e l’attività di colui che il vangelo di Giovanni chiama il «principe di questo mondo»; ma per il fatto stesso di manifestarsi in Giuda Iscariota, il «principe di questo mondo» non è così facile da riconoscere e da combattere come se affrontasse Gesù Cristo e la sua chiesa da lontano, sotto forma di un personaggio del tutto estraneo al regno di Dio, se, in una parola, si opponesse alla testimonianza cristiana dall’esterno e rappresentasse per così dire semplicemente la pura negazione dell’oggetto. Questo «parallelo» dell’eletto non possiede certo l’autorità, la dignità e il potere di un simile netto avversario. L’esistenza di quest’uomo ripudiato da Dio, del «figlio di perdizione» (Gv. XVII, 12) indica sì (poiché è così stranamente vicina a quella di Gesù e degli apostoli) che il diavolo è sempre un nemico «intimo», ma rivela nel contempo la relatività del potere di quest’ultimo: il fatto ch’egli non possa agire se non attraverso l’opera di un discepolo e apostolo è la miglior prova che resta per così dire sotto il controllo diretto del Signore, della sua potenza e della sua attività. In effetti Giuda Iscariota è anch’egli un discepolo e un apostolo:allo stesso livello di un Pietro o di un Giovanni è chiamato, investito di una funzione, inviato; lo è persino più di loro poiché è il solo ad appartenere (con Gesù) alla tribù di Giuda, alla razza di Davide; nessuna delle liste in cui vengono

enumerati i dodici omette di citare il suo nome, espressamente menzionato per ultimo. Quando raccontano come quest’uomo si mette d’accordo con i principi dei sacerdoti per tradire Gesù (Mc. XIV, 10 e par.) o quando descrivono lo stesso tradimento (Mc. XIV, 47 e par.), i sinottici non mancano di precisare ancora una volta, parlando di lui: «Giuda uno dei dodici». E quasi per prevenire qualsiasi malinteso, Gesù stesso dichiara testualmente: «Non sono forse stato io a eleggere voi dodici? Eppure uno di voi è un διάβολος», mentre l’evangelista spiega: «egli parlava di Giuda Iscariota, figlio di Simone; era lui infatti che lo avrebbe tradito, pur essendo uno dei dodici» (Gv. VI, 70 s.). Non dimentichiamolo: tutto ciò che secondo i vangeli Gesù ha detto dei suoi discepoli, tutto ciò che ha fatto per loro e per mezzo di loro, concerne anche Giuda; attivamente o passivamente, quest’ultimo ha tratto vantaggio senza riserva alcuna dall’attività di Gesù; «era dei nostri, aveva ricevuto la sorte dello stesso nostro ministero» (At. I, 17). In Marco (XIV, 18 s.) è detto intenzionalmente: «uno di voi che mangia con me, mi tradirà»; Luca (XXII, 21) precisa anch’egli: «La mano di chi mi tradisce è qui sulla tavola»; Giovanni (XIII, 18 s.) sottolinea con maggiore intensità la parola del Sal. XLI, 10 già ricordata da Marco (XIV, 18): «Conosco quelli che ho scelto (eletto). Ma bisogna che si compia la Scrittura: chi mangia 11 pane con me ha levato il suo calcagno contro di me». Nessuno dei sinottici ha mai contestato che anche Giuda abbia ricevuto ciò che Gesù ha dato agli apostoli, istituendo la cena; di conseguenza non sarebbe certo giusto pensare che, negli ultimi versetti di Gv. VI, Gesù abbia voluto dire che Giuda non ha realmente e lealmente confessato insieme con Pietro: «Signore, e a chi andremo noi? Tu solo hai parole di vita eterna. Noi abbiamo creduto e riconosciuto che tu sei il Cristo, il Santo di Dio» (Gv. VI, 68 s.); secondo il v. 64, Gesù ha semplicemente contestato che tale confessione, soggettivamente giusta, fosse oggettivamente corretta sulla bocca di Giuda. Il Nuovo Testamento non ci dice che Giuda sia stato uno pseudoapostolo tra gli apostoli autentici o un individuo ripudiato tra uomini che si suppongono o si pretendono eletti. Ci dice che uno degli apostoli e degli eletti autentici è stato nello stesso tempo un ripudiato, perché ha tradito Gesù. Prima di tutto è bene notare la straordinaria tranquillità con cui il Nuovo Testamento parla di Giuda Iscariota. Fin dall’inizio gli evangelisti fanno molto apertamente una costatazione irrefutabile nei suoi riguardi: «colui che poi lo tradì» (Mc. III, 19); «lo stesso che poi lo tradì» (Mt. X, 4); «il quale fu poi traditore» (Lc. VI, 16). In seguito offrono tutte le notizie necessarie sul

complotto, il tradimento e la fine del traditore; il passo di At. I, 15 s. espone semplicemente ciò che ha significato e reso praticamente necessaria la sua scomparsa per il cerchio dei dodici; a rigore, mai nessuno ha scagliato la pietra contro Giuda. Astraendo dalla prospettiva della versione giovannea dell’unzione di Betania, non si è mai tentato di «presentare» il traditore, sottolineando le particolarità del suo carattere o rivelando alcuni aspetti del suo comportamento; egli sembra sempre un personaggio che agisce in conformità con un piano e che, senza dubbio, è condannato ad ascoltare la parola: «Guai a colui che tradirà il Figlio dell’uomo!», come Pietro che per contrasto, dopo la sua confessione è stato proclamato beato; ma tutto questo non significa affatto che Pietro sia particolarmente avvantaggiato nei confronti e ai danni di Giuda. L’esistenza e l’attività di Giuda che è stato chiamato ed eletto come tutti gli altri apostoli, rimangono dominati da questa parola: «Gesù sapeva fin dall’inizio… chi era colui che lo avrebbe tradito»; Gesù stesso dice a Giuda: «Ciò che fai (o vuoi fare) fallo presto» (Gv. XIII, 27); il termine che definisce costantemente l’azione di Giuda e che abbiamo reso qui con il verbo «tradire», come si fa usualmente, è il verbo παραδοῦναι che significa semplicemente «trasmettere», «consegnare»; e se si guarda da vicino a ciò che è stato l’atto di Giuda, si dovrà pur ammettere che la parola «tradimento» suggerisce, anche tecnicamente parlando, idee ben troppo complesse perché possano esprimere esattamente l’evento che ha avuto luogo. Durante la settimana precedente la pasqua giudaica, Gesù (come precisano Mc. XIV, 18 e Mt. XXVI, 55) non si è mai curato di nascondersi, cosicché fosse necessario ricorrere ai servizi di un «traditore» per scoprirlo; i sommi sacerdoti cercavano unicamente il mezzo di arrestarlo attirando la minor attenzione possibile: «bisogna che ciò non accada durante la festa, perché non nasca tumulto in mezzo al popolo» (Mt. XXVI, 5); Giuda ha soltanto fornito questo mezzo. In altre parole ha «semplicemente» consegnato Gesù; di fronte a lui, si è comportato con un minimo e non con un massimo di ostilità; la sua colpevolezza è dunque minima (pensiamo qui al Saul dei libri di Samuele). Secondo Gv. XVIII, 3 S. ha interpretato in fin dei conti solo una parte di spettatore nell’arresto di Gesù e se invece (come riferiscono i sinottici) ha permesso di identificarlo mediante un bacio, questo conferma una volta di più che ha potuto tradire il Signore proprio perché gli era vicino. Questo è infatti l’essenziale: Gesù è stato «dato» da uno dei suoi, da uno dei suoi discepoli e apostoli, dall’interno della chiesa, cioè è stato strappato dal regno di Dio, dal

campo in cui aveva liberamente circoscritto la sua attività, per essere consegnato «tra le mani degli uomini», come da tempo aveva annunciato la profezia della passione, cioè ai sommi sacerdoti e poi ai pagani che lo avrebbero crocifisso. Giuda non fa che provocare il movimento, ma lo provoca; consegna Gesù ai principi dei sacerdoti; questi lo consegneranno ai pagani, cioè a Pilato (Mc. XV, 1; Mt. XXVII, 2 18; Gv. XVIII, 30. 35. 36); e Pilato lo consegnerà perché sia crocifisso (Mc. XV, 15; Mt. XXVII, 26; Gv. XIX, 16); gli anelli posteriori di questa catena sono chiaramente molto più importanti del primo. Resta però chiaro che il fatto quasi secondario della delazione di Giuda è il primo anello della catena; è infatti questo atto minore a determinare tutto il seguito; posta in questo punto iniziale e decisivo, la chiesa è in realtà identica ad Israele che ripudia il suo Messia, identica al mondo pagano che si unisce ad Israele nella sua caduta. È un discepolo e un apostolo a dare l’impulso decisivo; si tratta di un impulso piccolissimo, insignificante in rapporto agli atti che seguiranno; consiste in questo bacio che attesta e suggella ancora una volta il legame del suo autore con Gesù; è minimo, ma mette tutto in movimento. Giuda ha consegnato Gesù: è così che la storia che Gesù doveva ancora vivere per completare la sua opera prende il suo corso. Per capire bene la figura del Giuda dei vangeli bisogna contemporaneamente rilevare l’insignificanza del suo errore e la gravità che assume a causa delle sue conseguenze. Sono queste due considerazioni a conferire alla testimonianza evangelica concernente Giuda quella strana serenità, di cui parlavamo all’inizio. Giuda Iscariota è una figura non casuale, ma necessaria della narrazione evangelica; è infatti di ciò che ha fatto che si tratta principalmente nei diversi annunci della passione: μέλλει ὁ υἱὸς τοῦ ἀνϑρώπου παραδίδοσϑαι εἰς χεῖρας ἀνϑρώπων: «è necessario che il figlio dell’uomo siaconsegnato nelle mani degli uomini» (Mt. XVII, 22). Occorre che esiste un legame di questa natura tra il regno di Gesù Cristo come regno di Dio (ossia tra i dodici apostoli) e il mondo; bisogna che proprio nel momento decisivo i dodici apostoli condividano la colpevolezza d’Israele e del mcndo pagano verso Gesù, affinché Gesù possa compiere in seguito la volontà di Dio nei loro confronti, come nei confronti di Israele e del mondo; il Figlio dell’uomo deve essere consegnato nelle mani degli uomini («degli uomini peccatori»: Lc. XXIV, 7; «dei peccatori»: Mt. XXVI, 45): altrimenti costoro non potrebbero possederlo com’è invece stato loro ordinato e permesso, né ricevere da lui ciò che Dio ha deciso di dar loro proprio attraverso una tale mediazione. Il senso stesso dell’apostolato e dell’elezione dipende da quest’avvenimento.

Ed è l’apostolo Giuda Iscariota ad essere l’agente particolare di questo evento, necessario secondo il disegno divino. Non possiamo però approfondire maggiormente la prospettiva che si apre a questo punto senza prima notare che, sempre con la medesima serenità di cui sopra, il Nuovo Testamento ha considerato e condannato l’azione ci Giuda come un peccato e un errore di estrema gravità. «Il Figlio dell’uomo se ne va, com’è scritto di lui (secondo ciò che è stato decretato: dice Lc. XXII, 22), ma guai a colui per mezzo del quale il Figlio dell’uomo è tradito! Sarebbe stato meglio per lui che non fosse mai nato» (Mc. XIV, 21). Se la parola di Gesù a Pilato (Gv. XIX, 11): «Colui che mi consegna a te commette un peccato più grave (del tuo)» concerne innanzitutto i sommi sacerdoti d’Israele e per conseguenza i Giudei, concerne tuttavia anche l’uomo che costituisce il primo anello di simile catena. Giuda è il grande peccatore del Nuovo Testamento. Gesù «fu turbato nello spirito» quando dichiarò: «In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà» (Gv. XIII, 21); è il diavolo che ha messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, il progetto di tradire Gesù (Gv. XIII, 2); è Satana che entra in Giuda per condurlo alla realizzazione di un tale progetto (Lc. XXII, 3; Gv. XIII, 27). È così che Giuda può essore chiamato «il figlio della perdizione» (Gv. XVII, 12) e anche «un diavolo» (Gv. VI, 70); «Giuda, preso il boccone, si affrettò a uscire: era notte» (Gv. XIII, 30); è sicuro che anche Paolo non ha semplicemente ricordato tale indicazione per interesse cronologico: «Il Signore Gesù, la notte in cui fu tradito…» (I Cor. XI, 23). La parola del prologo ci Giovanni è ormai perfettamente adempiuta:«la luce splende nelle tenebre» (Gv. I, 5); «è venuto nella sua casa ed i suoi non l’hanno accolto (Gv. I, 11); nei confronti di Gesù, l’opera dei suoi è un rifiutare (παραλαμβάνειν) invece di un ricevere (παραδοῦναι). Sappiamo bensì che quest’opera delle tenebre non ha significato una disfatta (ϰαταλαμβάνειν) della luce (Gv. I, 5); resta però il fatto che una simile opera è anche quella dei «suoi» nel senso più intimo della parola; dei «suoi», precisamente nella persona dell’apostolo Giuda. 2. Il peccato di Giuda. Ma quale è dunque il peccato commesso da quest’ultimo? Ricordiamoci delle parole di Gesù (Gv. XVII, 12): «Quando ero con loro nel mondo, li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dato, li ho custoditi e nessuno di loro si è perduto, tranne il figlio di perdizione; e questo affinché si adempisse la Scrittura». Esprimiamo questo discorso con un concetto generale: Giuda, tra gli eletti di Gesù, è colui per il quale è risultata

vana la protezione loro accordata. Gesù l’aveva già lasciato capire a Pietro nel momento della lavanda dei piedi: «Chi è lavato, ha bisogno di lavarsi soltanto i piedi per essere mondo; anche voi siete mondi, ma non tutti. Perché egli sapeva chi sarebbe stato a tradirlo; perciò disse: non siete tutti mondi» (Gv. XIII, 10 s.); dunque che gli apostoli siano mondi è vero, com’è vero il fatto che Gesù li ha eletti, ha accordato loro la sua presenza, ha vegliato su di loro e li ha custoditi; e tuttavia Gesù deve e vuole lavar loro i piedi: «Se non ti lavo, tu non avrai parte con me» (Gv. XIII, 8). I piedi sono la parte impura di coloro che sono completamente puri e Giuda rappresenta precisamente questa impurità degli uomini completamente puri, questi piedi sporchi degli apostoli. Notiamolo subito: Giuda rappresenta questa realtà in modo tutto specifico, anche se i piedi di tutti quanti gli apostoli devono essere lavati. E notiamo anche subito che Gesù, lavando i piedi dei suoi apostoli, cancella pure l’impurità che è rimasta in loro; compie questo atto, malgrado le proteste di Pietro; e dice loro espressamente (Gv. XIII, 14) che dovranno lavarsi i piedi a vicenda, cancellare cioè quanto resta della loro impurità. Ora è precisamente Giuda che rappresenta in maniera tutta particolare quest’impurità: l’uomo in cui diviene evidente che la presenza e la protezione di Gesù hanno agito invano, benché si trattasse di uno dei suoi. Che ne è di questa impurità che rivela quella di tutti gli apostoli, malgradoquesti siano stati lavati e siano del tutto mondi, pur avendo tuttavia continuamente bisogno di avere i piedi lavati? La risposta a questa domanda può essere trovata nella versione giovannea dell’unzione di Betania (Gv. XII, 1-8), in cui Giuda ha un ruolo opposto a quello di Maria, la sorella di Lazzaro. «Maria, presa una libbra d’unguento di nardo di gran valore, ne unse i piedi di Gesù e glieli asciugò con i suoi capelli; e la casa fu ripiena dell’odore dell’unguento» (v. 3). Si tratta di un atto di inaudita prodigalità, gratuito e disinteressato e nello stesso tempo umilissimo; Gesù fa capire che compiendolo, Maria ha onorato anticipatamente il suo cadavere, cioè ha glorificato la sua morte; non per niente si parla nuovamente dei «piedi», ma questa volta dei piedi di Gesù: ciò significa che Maria offre a questo Gesù, i cui piedi calpestano la nostra terra e partecipano così alla sua impurità, a questo Gesù il cui abbassamento avrà per ultimo termine la morte, quanto ella ha di più caro e di più prezioso. È chiaro che questa azione di Maria rappresenta e descrive la vita degli apostoli, nella misura in cui essi sono completamente puri, cioè nella misura in cui la presenza e la protezione di Gesù non hanno agito invano per loro; tutto questo si manifesterà nel

mondo, attraverso la loro vita; come la casa di Maria, il mondo sarà riempito del profumo dell’evangelo. Ora è proprio questa prodigalità che Giuda non riesce a comprendere e di cui rifiuta di essere complice, come indicano le sue proteste (v. 4). Egli non si oppone certo al fatto che Maria regali il suo unguento; è però del parere che si sarebbe dovuto venderlo, in modo da ricavarne trecento danari, non per lui (egli dice), ma per i poveri; non vuole riconoscere che l’offerta di Maria (rappresentazione esemplare di ciò che dev’essere in qualche modo la vita degli apostoli) sia un sacrificio compiuto esclusivamente per Gesù. Non gli basta che questa offerta glorifichi semplicemente la morte di Gesù; vorrebbe renderla produttiva; secondo il suo parere, dovrebbe permettere di compiere un’opera utile e buona, servire a migliorare la sorte dei più diseredati; soltanto così avrebbe un senso. Ora questi pensieri dimostrano in che cosa Giuda fosse impuro; è proprio nutrendo simili idee, espresse tutto sommato in un modo innocente, in realtà non così cattive e relativamente facili da correggere, ch’egli ha finito per «tradire» Gesù; l’uomo che non si dà a Gesù senza riserva (cioè con prodigalità), l’uomo che reputa alcune cose troppo buone per essergli sacrificate, l’uomo che considera un tale proposito più importante della glorificazione dell’umiliazione e della morte di Gesù, quest’uomo è impuro, si oppone alla propria elezione e prova che non può essere un apostolo. In altre parole non può che tradire Gesù, tradirlo perché sia crocifisso; l’ha già fatto con il suo solo atteggiamento; ha dimostrato di essere uno di quegli individui nelle cui mani Gesù non può che essere condannato a morte; si è rivelato in anticipo loro complice; è anticipatamente quello degli apostoli «che doveva tradire Gesù»; e se ne parla sempre in questo modo in tutte le enumerazioni degli apostoli e in quasi tutti i passi in cui si nomina. Non può che essere il rappresentante dell’impurità di tutti gli apostoli. L’evangelista lo rileva senza riguardi, quando nota al v. 6: «Egli disse ciò non perché si curasse dei poveri; ma perché era ladro e siccome teneva la borsa, asportava ciò che si metteva»; sicuramente ciò che rimprovera a Giuda è la sua cupidigia e anche la sua disonestà; tuttavia è chiaro che, nell’atmosfera dell’esposizione giovannea, il comportamento di Giuda, come quello di Maria, oltrepassa il piano puramente personale. Mette cioè in evidenza il fatto che questo apostolo, in conformità con la sua natura e con la sua funzione, rimpiange alla fin fine che sia lui sia i suoi compagni abbiano abbandonato tutto per Gesù; Giuda vorrebbe che questo sacrificio fosse produttivo; non è contro Gesù; non chiede che di seguirlo. Ma è per Gesù in un modo che in definitiva lo fa essere contro; si

riserva infatti di fissare lui stesso, in ultima analisi, le conseguenze dell’imitazione di Gesù Cristo; questa imitazione non è fine a se stessa, ma mezzo verso un fine, che forse egli non distingue molto chiaramente, che crede però di poter definire, sentendosi autorizzato a prendere alcune «libertà» di fronte a Gesù. Invero desidera soltanto una cosa: conservare la propria indipendenza; «egli disse ciò non perché si curasse dei poveri» nota l’evangelista; in altre parole si preoccupa non dell’opera buona in se stessa, ma della sua opera personale, non del soccorso da portare agli altri ma del valore dell’iniziativa che intende prendere lui stesso in favore degli altri. Ed è così ch’egli diviene «ladro» per Gesù e tra gli apostoli; è così ch’egli rinnega il suo apostolato ed è fin dall’inizio colui che tradirà Gesù; se accogliesse Gesù (Gv. I, 11) sarebbe d’accordo con lui, cesserebbe di riservarsi la sua libertà, rinuncerebbe alla sua disonestà. Dal momento ch’egli non è in grado di dare il suo accordo completo a Gesù, si è già pronunciato contro di lui ed è già divenuto complice dei suoi nemici; che cosa vi è infatti tra Gesù e i suoi nemici, senon l’esigenza di Gesù che chiede una fede totale, una perfetta umiltà, un dono senza riserve?; data la posizione adottata da Giuda, egli potrà unicamente consegnare Gesù alla morte, cioè cercar di distruggere radicalmente la sua esigenza. I sinottici hanno cercato di comprendere il peccato di Giuda proprio in questa maniera; riferiscono infatti che Giuda ha deciso di consegnare Gesù per una somma di danaro (Mc. XIV, 10 s.; Lc. XXIII, 3 s.), trenta monete d’argento (Mt. XXVI, 15); è dunque chiaro che per lui Gesù era «da vendere». Giuda aveva voluto conservare la sua libertà di fronte a Gesù; certo l’aveva seguito, ma non si era attaccato e abbandonato a lui; poteva preferirgli un’altra cosa che gli sembrasse migliore. A questo punto tutto diventa possibile; non essendosi consegnato interamente a lui, è condannato a consegnarlo; in definitiva, a ben vedere, questo tradimento è eseguito già a partire da quel momento. Anche per i sinottici il fatto che i sommi sacerdoti gli abbiano offerto del denaro (o che secondo Mt. XXVI, 15 sia stato lui a chiedere quanto gli avrebbero pagato il tradimento) non è che l’occasione esteriore che permette di rivelare la vera situazione. Però il testo di Mt. XXVI, 15 dove si parla di trenta monete d’argento, volge la riflessione ancora in un’altra direzione; l’allusione a Zac. XI, 4-17 è infatti chiara; anche se la relazione tra i due testi è molto particolare. In Zaccaria è il profeta (che incarna lo stesso Yahwè) a ricevere le trenta monete d’argento: sono il salario pagatogli dai

mercanti di animali, cioè dai capi interessati d’Israele per conto dei quali ha custodito per un certo tempo le miserabili pecore di questo popolo (destinate da loro a essere vendute e condotte al macello). Il profeta ha rinunciato a pascolarle: «avevano posto termine alla mia pazienza ed esse stesse si erano alienate da me» (v. 8); dice dunque al cattivo pastore: «Se vi piace, datemi la mia mercede: se no, non datela!:»; «ed essi pesarono come mercede trenta monete d’argento. Il Signore Eterno mi disse: Gettala nel tesoro questa somma vistosa per cui mi hanno valutato! E io presi le trenta monete d’argento, e le gettai nel tesoro, entro alla casa del Signore» (v. 12 s.). Secondo Mt. XXVI, 14 e XXVII, 3 s. è Giuda stesso che prende il posto del profeta (cioè dello stesso Yahwé); anche lui si mette al servizio dei cattivi pastori d’Israele, i capi del popolo; anche lui esige e riceve da loro una mercede: trenta monete d’argento. Tuttavia qui è tutto invertito: non è perché ha custodito le pecore destinate al macello ch’egli riceve una mercede, ma perchésta per consegnare il vero pastore al macello (questo elemento è del tutto estraneo al passo di Zac. XI). Egli occupa in un modo strano il posto dello stesso Yahwé, poiché compie esattamente gli atti che conducono Yahwé a perdere la sua pazienza, a rinunziare alla custodia delle pecore e ad abbandonarle alla loro sorte. Giuda stesso è infatti (chiaramente in qualità di rappresentante dell’insieme del gregge) la pecora che si sottrae al vero pastore e rende vana tutta la sua cura. Rivela dunque (ed è questa la nuova luce che i testi di Matteo in particolare proiettano sul peccato di Giuda) ciò ch’era già chiaro in Zac. XI: le miserabili pecore d’Israele non sono semplicemente le vittime e tanto meno le vittime innocenti dei loro cattivi pastori; questo popolo possiede invece i capi che merita; è responsabile insieme a loro nei confronti del vero pastore. Chi è dunque Giuda, l’uomo che intende riservare la sua libertà di fronte a Gesù sperando in qualcosa di migliore, l’uomo per il quale Gesù è «da vendere», l’uomo che può per conseguenza sacrificarlo, consegnarlo e che in definitiva, l’ha già fatto? Egli non porta invano il nome di Giuda; rappresenta chiaramente i Giudei in mezzo agli apostoli, cioè la stirpe da cui è nato Davide e da cui, presentemente, è venuto il figlio promesso a Davide (si capisce completamente ora ciò che Giovanni voleva dire quando parlava dell’impurità dei piedi di tutti gli apostoli); la riserva così caratteristica che egli assume di fronte a Gesù (essa in fondo significa ch’egli non gli dà nulla) corrisponde esattamente al comportamento usuale di Israele nei confronti di Yahwé comportamento che regolarmente provoca il ripudio di questo popolo. Israele non ha mai incontrato il suo Dio come Maria ha incontrato Gesù, non ha mai

voluto credere semplicemente in lui, cioè darsi a lui senza riserve; ha sempre preteso servire a parte anche altri dei e si è sempre accontentato di fargli l’elemosina di trenta monete d’argento; un po’ di religiosità, analoga a quella degli altri popoli, alcune cerimonie di sacrificio, un minimo di fedeltà alla legge, ecco quanto Israele ha saputo offrire a Yahwé. Giusto quanto poteva permettere, almeno formalmente, di far durare il suo culto attraverso i secoli, proprio come quelle trenta monete d’argento potevano solamente essere poste nella cassa il cui contenuto doveva servire a mantenere il tempio. Poiché Israele non ha mai voluto rispondere al suo Dio (che ha continuato a vegliare su di lui a guisa di vero e buon pastore) con il dono riconoscente e totale di se stesso, gli ha rifiutato proprio la sola cosa ch’era in dovere di dargli. Ora questa retribuzione miserabile, questa pietosa elemosina che Israele ha osato offrire al suo Dio come ricompensa dei suoi benefici, ecco che la ritrova sotto la forma delle trenta monete d’argento pagate a Giuda; è la sua paga, la paga della sua infedeltà, della libertà che ha voluto riservarsi e che lo ha spinto ad agire all’opposto di Maria; è il premio che gli compete per aver tradito Gesù. Tale è la sua opera e tale è la sua ricompensa. Nella persona di Giuda Israele riceve, per così dire di ritorno, dalla mano dei suoi capi, ciò che lui stesso ha continuato ad offrire a Dio attraverso tutta quanta la sua storia; il ripudio d’Israele da parte del suo pastore (di cui parla il testo di Zaccaria) è ormai irrevocabilmente compiuto; seppure in un modo che certamente questo testo non lasciava supporre, poiché non sono le pecore vendute dai cattivi pastori ad essere condotte al macello, bensì lo stesso pastore, l’autentico e buon pastore. Ed ecco come scoppia e si sfoga l’ira di questo pastore. Secondo Zaccaria, la verga chiamata «grazia» e la verga chiamata «alleanza» sono spezzate; qui ormai il pastore stesso è e sarà «spezzato»; Israele lo consegna al macello proprio per questo. Qual è il risultato?; che cosa ricava da quest’azione lui, che non ha voluto saperne della «grazia», della custodia del buon pastore?; che gli resta dopo il suo rifiuto? Queste trenta monete d’argento; né più né meno; cioè un po’ di religione, un po’ di questa religiosità con cui ha voluto nutrire il suo «dio», giusto quanto gli è sufficiente per poter ricominciare senza fine a riparare il suo tempio cadente. Non vi è nulla d’insolito, nulla di inatteso né di casuale: è proprio questo che Israele voleva avere: queste trenta monete d’argento. Secondo Mt. XXVI, 15 infatti Giuda chiede quanto gli sarà dato se consegna Gesù e gli viene contato e pagato subito il prezzo al quale si valuta il suo tradimento; è dunque sapendo esattamente quanto ne ricaverà ch’egli cerca un’occasione per consegnare

Gesù; in altre parole: le trenta monete d’argento valgono per lui più del suo maestro e gli sembrano preferibili ai trecento danari che per Maria erano il segno dell’abbandono senza riserve a Gesù; si può vedere così fino a che punto Giuda desiderasse conservare la sua libertà di decisione. Riceve dunque quanto ha voluto: trenta monete d’argento. Ma in quest’azione non fa che rappresentare Israele nel suo insieme; in lui i Giudei fanno ciò che Esaù, il riprovato ha già fatto: vendono il loro diritto di primogenitura per un piatto di lenticchie; agiscono così ad occhi aperti, con cognizione di causa e tuttavia sono chiaramente ciechi. Ormai sonolasciati a loro stessi, condannati a mangiare illimitatamente il loro piatto di lenticchie; è una semplice conseguenza; avendo tradito Gesù, avendo voluto uccidere il buon pastore, non resta loro nient’altro. Possono vivere e morire in seno al loro giudaismo, alla loro religione di Yahwé senza Yahwé; possono senz’altro godere la paga che hanno chiesto: essere il popolo di Dio senza credere in lui e senza obbedirgli; «non vi pascolerò più! Chi muore, muoia; chi ha da essere distrutto, sia distrutto! E quelli che restano, si divorino l’un l’altro!». Ecco quello che ha detto il buon pastore di Zac. XI, abbandonando il gregge recalcitrante, degno in tutto dei suoi cattivi pastori (v. 9). E la stessa cosa dice oggi, accettando di essere condotto al macello, al posto degli uomini del suo popolo, per loro colpa e secondo la loro volontà. Costoro hanno ricevuto la paga che hanno voluto e meritato e così il loro castigo è già segretamente cominciato; che, con l’insieme d’Israele, Giuda desideri questa paga che segna l’inizio del suo castigo, che Gesù abbia per lui semplicemente un valore commerciale, questo è il suo peccato; e questo peccato dimostra che la presenza e la protezione da parte di Gesù, di cui gli apostoli hanno goduto, sono state vane per lui; rivela l’impurità da cui tutti quanti gli apostoli dovevano essere lavati. Ma per poter approfondire queste indicazioni, dobbiamo seguire fino in fondo il destino particolare di Giuda, come viene descritto nel Nuovo Testamento. Solo la fine di quest’uomo dimostra a che punto il suo atto è stato considerato spregevole dal testo evangelico. Anche in questo caso è Matteo (XXVII, 3 ss.) che, riferendosi come altrove a Zac. XI, ci fornisce un’indicazione che viene almeno parzialmente a contraddire la relazione degli Atti (I, 18 ss.). Ci viene specificato innanzitutto (Mt. XXVII, 3) che Giuda si pente non appena si rende conto delle conseguenze immediate del suo crimine: la condanna di Gesù da parte dei principi dei sacerdoti che lo consegnano a

Pilato. Giuda cioè credeva di fare solo un piccolo passo: consegnare Gesù; non voleva però che il suo atto avesse delle gravi conseguenze; gli bastava di avere manifestato in tal modo la sua libertà di fronte al suo Signore. Abbiamo visto infatti che Giuda non era contro Gesù più di quanto lo stesso popolo d’Israele non fosse mai stato contro Yahwé; soltanto non era favorevole a Gesù nell’unica maniera in cui lo si può essere, se non si vuole effettivamente essere contro di lui; non poteva perciò ammettere di essere stato la prima maglia della catena di eventi susseguenti il suotradimento. In particolare non voleva aver contribuito a permettere che i Giudei consegnassero Gesù a Pilato; siccome costata che in realtà ne è responsabile, rimpiange la sua azione, causa di tutti gli altri eventi; vorrebbe tornare indietro e per far ciò, reputa che vi sia un solo espediente: rendere la somma che ha ricevuto a coloro che gliel’hanno pagata. «Egli riportò le trenta monete d’argento ai principi dei sacerdoti ed agli anziani, dicendo: Ho peccato poiché ho tradito il sangue innocente». Non vi è alcuna ragione che impedisca di considerare seriamente questo atto di pentimento e di confessione di Giuda, con il tentativo di riparazione ch’esso implica; non manca nulla di tutto quanto più tardi è stato ritenuto segno di autentico pentimento; vi è infatti la contrizione nel cuore, la confessione sulla bocca, la soddisfazione nell’opera. Il pentimento di Giuda non è, a suo modo, più completo di quello di Pietro, di cui ci viene detto semplicemente (Mt. XXVI, 75) che, dopo aver rinnegato Gesù tre volte, uscì fuori e «pianse amaramente»? Faremo ben attenzione a non dimenticare tutto questo, onde evitare di condannare troppo affrettatamente Giuda da un punto di vista puramente morale; con lo stesso intendimento, faremo attenzione a non interpretare il bacio con il quale Giuda ha consegnato Gesù come il massimo della falsità (ciò che spesso si è fatto). Come un apostolo avrebbe potuto tradire Gesù in altro modo se non con questo segno, ultima testimonianza della sua comunione con lui?; come un apostolo avrebbe potuto non rimpiangere subito il suo tradimento, mostrarsi cioè capace di un autentico pentimento?; è chiaro subito che sia per la forma assunta dal suo crimine (il bacio) e sia per il suo pentimento, Giuda deve confermare una volta ancora di essere veramente un apostolo. L’evangelista però s’interessa non alla persona, bensì all’azione di questo apostolo. Qual è stata dunque questa azione? L’abbiamo visto: esteriormente è stata relativamente insignificante; il tradimento di Giuda non sta forse al rinnegamento di Pietro come gli errori cultuali di Saul stanno all’adulterio di Davide?; non sembra anche qui che il riprovato sia un peccatore meno grande dell’eletto? Giuda ha condotto gli

sbirri dei sommi sacerdoti in una località in cui si poteva arrestare Gesù senza attirare l’attenzione; questo arresto però avrebbe potuto compiersi ugualmente in altro modo ed altrove; noi possiamo semplicemente costatare i fatti che si sono verificati e notare che l’azione di Giuda ha provocato il movimento conclusosi con la morte di Gesù. Per usare un’immagine diciamo che è statoGiuda, l’apostolo Giuda, ad azionare la leva di comando e non i principi dei sacerdoti, non Pilato ed i suoi soldati, neppure Pietro, il rinnegato o gli altri discepoli che hanno abbandonato Gesù. Nell’azione di Giuda Israele ha definitivamente dimostrato di essere il popolo che si rifiuta di servire Dio senza riserve, cioè il popolo che non vuole assolutamente servirlo; nella sua azione le pecore stesse hanno consegnato il buon pastore al macello per avere in ricompensa trenta monete d’argento; nella sua azione la tribù di Giuda ha testimoniato di ripudiare il Messia che le era stato promesso e che le era stato realmente inviato; nella sua azione il cerchio stesso degli apostoli si è rivelato anch’esso responsabile di tale ripudio. Proprio questo è l’irrevocabile avvenimento espresso dall’atto di Giuda, di per sé insignificante, così come i peccati insignificanti che il primo libro di Samuele attribuisce a Saul attestano irrevocabilmente che la regalità di Saul è in realtà il ripudio della regalità di Yahwé; data la natura dell’azione di Giuda, nessuna successiva penitenza avrebbe potuto cambiare qualcosa alla parola che Gesù ha pronunciato commentandola: «Guai a colui dal quale il Figlio dell’uomo è tradito»; ecco perché Giuda, malgrado la serietà della sua intenzione finale, non è assolutamente in grado di espiare realmente o di riparare il suo crimine. Come Saul si è pentito seriamente, ha confessato i suoi errori e ha dimostrato di poter agire meglio, così Giuda ha rimpianto la sua azione, ha riconosciuto il suo peccato e ha cercato di riparare il male commesso; ma, non più di Saul, non è riuscito a riparare assolutamente nulla; perciò i principi dei sacerdoti e gli anziani hanno accolto a ragione il suo pentimento, la sua confessione ed il suo tentativo di riparazione dicendogli: «Che importa a noi? Pensaci tu!» (v. 5). Non potevano aiutarlo più di quanto egli non poteva aiutarsi; non potevano rendere caduco il suo atto, quest’atto le cui conseguenze già sfuggivano loro di mano; l’intero movimento è ormai in azione, seguita ormai implacabilmente il suo corso ed il responsabile è e resta uno solo e medesimo: Giuda. Ecco perché secondo il Nuovo Testamento il suo pentimento resta un problema aperto, cui nessuna promessa di grazia viene a dare una risposta; d’altronde come avrebbe potuto essere possibile una simile promessa, dato che il pentimento di Giuda, inteso come azione sua personale, non può essere completo e concluso;

o piuttosto non può esserlo che nei termini del movimento provocato dalla sua azione, cioè unicamente in forza dell’atto riparatore che Gesù ha compiuto con la suamorte per il peccato del mondo intero, e dunque anche per il peccato di Israele, e dunque anche per il peccato di Giuda? Ora proprio tale atto di riparazione (che apre la possibilità di un pentimento perfetto, reale ed accettabile, poiché fondato sulla fede nell’espiazione del peccato del mondo intero adempiuta in Gesù) non si è ancora prodotto; il fatto della grazia di Dio (concretizzata dall’abbandono del Figlio suo nelle mani dei peccatori in loro favore) e la sua rivelazione (mediante la risurrezione di Gesù) non si sono ancora manifestati in eventi reali; è come dire che Giuda con il suo pentimento si trova al di qua di questo evento, tutto dedito com’è alla sua opera personale, abbandonato alla sua libertà di decisione, libertà che, contrariamente a Maria, egli ha voluto riservarsi nei confronti di Gesù. Ha rifiutato di avere Gesù esclusivamente come suo Signore; non ha voluto consacrarsi interamente alla glorificazione della morte del suo maestro; ha inteso essere un apostolo mantenendo delle riserve. È perciò inevitabile che il suo stesso pentimento sia incompleto e non autentico; la sua riserva lo porta a tradire Gesù e non gli consente di riparare il suo crimine; colpevole unicamente di aver messo in azione il movimento conclusosi con la condanna a morte di Gesù, Giuda non partecipa alla promessa che, traendo la sua forza da questo atto di abbassamento, concerne anche lui. Di fronte alla croce resta colui che vi ha condotto Gesù, che «ha tradito il sangue innocente», l’uomo che la croce accusa e condanna. In Giuda però è anche la sua tribù (la tribù di Giuda, la discendenza di Davide e per conseguenza Israele intero) ad occupare questo posto; come Saul, della tribù di Beniamino, si oppone a Davide, così Israele si oppone a Yahwé, secondo le indicazioni dei profeti che in numerosi capitoli esprimono il loro pianto senza fine; dove si potrebbe trovare grazia per colui che l’ha totalmente rifiutata, dal momento che non ha voluto vivere totalmente di essa e come potrebbe non essere respinto il pentimento dell’uomo che ha rifiutato la grazia? Si capisce allora perché la seconda versione della fine di Giuda (quella di At. I) non menziona ed anzi sembra persino ignorare completamente quel pentimento che Matteo descrive con tanta forza. Secondo il v. 18 Giuda acquista un campo «con il salario della sua iniquità», senza provare il minimo rimorso per quanto è capitato a Gesù; già su questo punto le contraddizioni dei due racconti, che non si deve cercare di accordare, dimostrano chiaramente che, secondo ilNuovo Testamento, non si può tener conto di

alcuna promessa di grazia per Giuda e che il suo pentimento non può essere vero; l’atteggiamento che Matteo attribuisce a Giuda può perciò essere del tutto ignorato dagli Atti degli Apostoli. La sola cosa che risulta dalla testimonianza neotestamentaria è che Giuda paga il suo atto con la sua vita e con la sua qualità di apostolo (senza peraltro poterlo riparare); questo atto ha luogo «al di qua» della morte e della risurrezione di Gesù e dimostra che, contrariamente a Maria, Giuda ha rinunciato a partecipare alla riconciliazione futura; esattamente come, secondo la parola di Gesù, non resta altro a Gerusalemme se non la perdizione, dopo il suo rifiuto della grazia (Mt. XXIII, 37). Ciò che avviene del «salario» di Giuda, secondo le due versioni contraddittorie di Matteo e degli Atti, è come una triste similitudine del fatto che quest’uomo si è condannato da solo ad essere senza nessun avvenire. Secondo Mt. XXVII, 5, cercando di riparare la sua colpa, Giuda avrebbe creduto di riuscirvi in qualche modo facendo delle sue trenta monete d’argento lo stesso uso che il profeta di Zac. XI aveva latto delle sue: «Gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò»; ma evidentemente è troppo tardi; il momento in cui Israele pensava di potersi accontentare di offrire al suo Dio un po’ di giudaismo, il momento in cui trenta monete d’argento potevano essere considerate almeno come un piccolo contributo alle riparazioni del tempio di Gerusalemme e al mantenimento del culto, questo momento è passato. Il tempio, Gerusalemme ed il culto a Gerusalemme, Israele come popolo particolare di Dio: tutto ciò è infatti diventato caduco; consegnando Gesù, Giuda ha segnato l’inizio di questo declino; ormai la continuazione dei lavori di restaurazione del tempio non ha più senso, come pure diventa inutilizzabile tutto ciò che si può mettere nella cassa dove (secondo Mc. XII, 42) una povera vedova ha ancora gettato il suo obolo; il giudaismo che Giuda ha preferito al Messia promesso e dato ad Israele e di cui ha reso concreto il ripudio non ha ormai più la benché minima importanza per assicurare la sopravvivenza del tempio, di Gerusalemme e di Israele come popolo particolare di Dio. Naturalmente tale non è l’opinione dei principi dei sacerdoti e degli anziani, sconcertati dal gesto di Giuda. Il testo afferma che essi «raccolte le monete d’argento, dissero: non è lecito metterle nel tesoro del tempio perché sono prezzo di sangue»; confermano dunque con queste parole che l’azione per cui hanno pagatoGiuda è una cattiva azione, un crimine; si riconoscono così indirettamente colpevoli e decidono di impedire che questo «prezzo di sangue» entri nel tesoro del tempio, come nella storia di Zac. XI.

Dopo essersi consultati tra loro, stabiliscono di comperare «con questo danaro il campo del vasaio» per darvi sepoltura agli «stranieri», cioè ai Giudei della diaspora che morivano durante il loro soggiorno a Gerusalemme, durante le feste della Pasqua. Matteo nota (v. 9 s.) che così si adempie la parola profetica: «Presero i trenta pezzi d’argento, il prezzo del mercanteggiato, che i figli d’Israele hanno valutato a prezzo e li dettero per comperare il campo del vasaio, secondo quanto mi aveva ordinato il Signore»; l’evangelista attribuisce a Geremia questo testo di Zaccaria; se vi è qui non un errore ma un’intenzione, quest’ultima concerne precisamente l’elemento centrale di tutto il passo (ossia il «campo del vasaio»: v. 10) che in lingua ebraica proviene da un errore di copista, poiché in Zac. XI, 13, si parla certamente del «tesoro del tempio» e non del «campo del vasaio». Questo «campo del vasaio» richiama in Matteo la «casa del vasaio» di Ger. XVIII, 1 ss. da un lato e l’acquisto del campo di Anatot di Ger. XXXII, 6 ss. dall’altro; abbiamo qui ancora una volta un caso che ci dimostra che malgrado i malintesi e le confusioni che contiene, la Bibbia è più istruttiva di altri libri vergini da ogni errore redazionale; in questo caso particolare la citazione di Matteo apre infatti straordinarie prospettive. L’aver indicato Geremia significa innanzitutto ed in maniera molto generale che vi è una relazione tra l’azione di Giuda e quella dei principi dei sacerdoti da una parte e la caduta imminente di Gerusalemme dall’altra. L’allusione alla casa del vasaio poi, obbliga a ricordare il v. 4; «il vaso che stava facendo si guastò, come capita all’argilla manipolata dal vasaio; egli lo rifece in forma diversa, come gli piacque di farlo»; è evidente il rapporto con Israele ed in particolare con l’apostolato di Giuda. Infine Matteo rinvia a Ger. XXXII, dove si parla dell’acquisto di un campo da parte del profeta, acquisto che ha il valore di una promessa, proprio prima della distruzione di Gerusalemme: «si acquisteranno ancora case, campi e vigne in questa terra» (v. 15); l’acquisto da parte dei sacerdoti di un campo destinato a diventare luogo di sepoltura annuncia il sinistro rovesciamento di questa promessa; dopo il crimine di Giuda, dopo il ripudio del Figlio di Davide, Gerusalemme è condannata a divenire un cimitero per gli stranieri, cioè per i figli d’Israele divenuti pellegrini nella loro propria patria. Il tempo in cuipossedeva ancora un tempio colmo di vita è passato: non vi è più posto se non per le tombe. È vero che tutte queste allusioni si riferiscono poco a Zac. XI; tuttavia continuano a gettare una luce quasi insopportabile sull’ultima frase di questo capitolo (v. 17), quando si pensa a Giuda ed ai suoi complici, i

principi dei sacerdoti e gli anziani: «Guai al pastore da nulla, che abbandona il gregge! La spada affondi nel suo braccio e nel suo occhio destro! Il suo braccio inaridisca e il suo occhio destro si oscuri!». Visto quanto hanno fatto del salario di Giuda, i principi dei sarcerdoti e gli anziani hanno firmato, con la sua, la loro condanna e quella di Israele. Secondo la versione degli At. I invece, non sono i sacerdoti ad avere acquistato un campo, ma lo stesso Giuda del cui pentimento non si fa cenno; il fatto che all’epoca della composizione degli Atti la tradizione popolare chiami questo campo il «campo di sangue» (v. 19) non è un richiamo al «prezzo del sangue» di cui parla Matteo (XXVII, 8); ricorda piuttosto che Giuda non ha potuto godere un solo istante del suo acquisto, perché è stato vittima di una morte tanto improvvisa quanto spaventosa. Gli Atti vedono in questa morte l’adempimento del Sal. LXIX, 26: «la sua casa divenga deserta e nessuno vi abiti» e aggiungono subito citando il Sal. CIX, 8: «un altro prenda il suo ufficio (ἐπισϰοπή)»; nella prospettiva degli Atti queste due citazioni concernono contemporaneamente Giuda e il popolo d’Israele; come Giuda nella sua follia ha perduto in un sol colpo ciò che aveva acquistato tradendo Gesù (il campo) e ciò che Gesù gli aveva dato chiamandolo a essere uno degli apostoli (l’ἐπισϰοπή), così Israele, dando prova della medesima follia, ha perduto ciò che pure aveva voluto assicurarsi consegnando il suo Messia (la sua esistenza religiosa e nazionale, con la prospettiva di un regno universale) e ciò che stava per realizzarsi nel suo interno grazie alla presenza del Messia (ossia la possibilità di vivere come il vero popolo di Dio e di compiere la sua reale missione presso gli altri popoli). Che cosa resta dunque? Un campo privato del suo proprietario, una funzione senza un individuo che la compia e che sarà passata in seguito a un altro, una città e una terra divenuti un deserto, una santità e una missione che non sono più quelle d’Israele ma che saranno date a un popolo differente. Così diventa chiaro che la versione degli Atti corrisponde, se non esteriormente almeno sostanzialmente, a quella di Matteo. Ciò che avviene del salario di Giuda conferma, secondo i due racconti, che Giuda l’apostolo, come Giuda il popolo non hanno più, come tali, nessun avvenire: Giuda incarna infatti il popolo ed il popolo è infatti incarnato da Giuda. Secondo Mt. XXVII, 5 l’episodio è sigillato dal suicidio di Giuda: «si allontanò ed andò ad impiccarsi», Abbiamo qui indubbiamente una reminiscenza di II Sam. XVII, 23 che racconta il medesimo fatto a proposito di

Achitofel, un tempo amico e consigliere di Davide; quest’uomo si era schierato calla parte di Assalonne al momento della cospirazione e della rivolta di quest’ultimo, aveva concepito un astuto piano per perdere Davide e si era offerto per eseguirlo; ma grazie a Khushai, che era rimasto fedele a Davide ed aveva finto di essere passato dalla parte di Assalonne, tale piano era completamente fallito. «Achitofel, visto che il suo piano non era seguìto, sellò il suo asino e partì per andarsene a casa nella sua città; diede degli ordini ai suoi e si impiccò; fu così ch’egli morì e venne sepolto nel sepolcro di suo padre». A prima vista Giuda appare come l’opposto di questo personaggio dell’Antico Testamento; si impicca infatti perché ha avuto successo laddove Achitofel ha fallito; mentre quest’ultimo si impicca perché ha fallito proprio dove Giuda ha avuto successo. Ma guardando più da vicino, si può anche dire quest’altra cosa: Giuda si impicca perché, come Achitofel, si accorge di aver puntato sulla carta cattiva, cioè di essersi legato a una causa perduta, condannata a cadere; dopo aver avuto successo proprio dove Achitofel ha fallito, dopo aver infatti consegnato alla morte il Figlio di Davide, Giuda si trova posto di fronte al nulla assoluto di quello che ha ottenuto, e come Achitofel testimonia con il suo suicidio che per lui ormai la vittoria di Davide è certa, ci si può chiedere seriamente se Matteo, con questa reminiscenza, non abbia voluto dire, almeno di sfuggita, che il suicidio di Giuda è anch’esso una testimonianza annunciante la resurrezione del Figlio di Davide. Ad ogni buon conto testimonia certamente e prima di tutto il giudizio causato dall’atto che Giuda non ha potuto espiare, benché l’avesse voluto; è necessario che si compia la parola di Gesù: «Guai all’uomo!…»; deve sparire colui che ha tradito Gesù e deve manifestarsi, in seno al cerchio apostolico, questo vuoto che indica la comune colpevolezza degli apostoli; bisogna che la chiesa stessa si accorga di questo vuoto che può essere colmato solo da un altro individuo regolarmente investito di mandato, cioè una nuova creazione che potrà garantire nello stesso tempo la continuità e l’autenticità della missione ecclesiastica. Giuda non ha alcun avvenire né come apostolo, né nella chiesa; può soltantoavere un avvenire nella chiesa questa Maria da cui egli si è separato in un modo così tipico, cioè l’apostolato concepito ed esercitato nel modo in cui ha agito questa donna; Giuda è soltanto «passato» in seno alla chiesa. E con lui, l’altro Giuda: il popolo che ha consegnato ai pagani il Figlio di Davide e con lui Gerusalemme: questa Gerusalemme che, come dice Gesù, «non ha voluto»; questo popolo e questa città sono condannati a passare, a sparire, per far posto ad un altro, affinché, in quest’altro, possa continuare la

loro vita sprecata e perduta, ma risvegliata di tra i morti, sì veramente di tra i morti; tale è il giudizio che si adempie nella morte di Giuda. Secondo Matteo questo giudizio assume la forma significativa di un «autogiudizio»; Giuda muore, come Saul, di sua mano; si è riservato la sua libera decisione nei confronti di Gesù (questa libera decisione che l’ha condotto esattamente a tradire il suo maestro) ed è chiaro che (seguendo questa via, dopo il rifiuto del suo pentimento) si trovi costretto a questa fine, al suicidio. Non ha preteso fin dall’inizio di essere giudice di se stesso?; ebbene lo sarà fino in fondo, fino alla morte; malgrado il rifiuto del suo pentimento, egli vuole attribuirsi proprio ciò che, in tutte le circostanze, non poteva che essergli dato: l’ultimo giudizio, il giudizio di Dio sulla sua azione e, per conseguenza, il ristabilimento dell’ordine da lui distrutto. Attende il ristabilirsi dell’ordine per il fatto di dichiarare lui stesso che la sua vita è perduta e per il fatto che ne diviene il carnefice impiccandosi a un albero; non potrebbe così confermare in un modo più terrificante di trovarsi e di muoversi proprio al di qua della riconciliazione del mondo compiuta con la morte di Gesù e rivelata dalla sua risurrezione; non vuol infatti ricevere come una libera grazia quel giudizio di Dio che ha certamente meritato, rifiuta di attendere questo giudizio dalla mano divina, pensa di incaricarsene e di eseguirlo lui stesso contro di sé. È chiaramente alla luce di quest’atto di «autogiudizio», punto culminante di tutte le catastrofi precedenti, che Matteo ha considerato la rovina di Gerusalemme e dello stato religioso giudaico; la fine della nazione ebraica corrisponde alla fine di Giuda; condannato a morte il suo Messia, Israele ha seguito la via dove non solo doveva, ed inevitabilmente, incontrare il giudizio di Dio ma dove anche restando sempre fedele a se stesso, alla fine non avrebbe potuto far altro che suicidarsi. È quello che ha fatto in definitiva nell’anno 70 con la sua rivolta contro i Romani e soprattutto cercando di difendere Gerusalemme contro Tito; non potendo più vivere, si è deliberatamente e volontariamente dato la morte (si pensa qui al ben noto racconto della fine dell’ultimo grande sacerdote); questa morte che, invece di essere l’espiazione dei suoi peccati, ne è soltanto l’espressione finale. La versione di At. I ignora il suicidio di Giuda; parla in termini oscuri di un incidente mortale di cui questi sarebbe stato vittima dopo aver preso possesso del suo campo: «Quest’uomo, acquistato un campo col salario della sua iniquità, cadde e crepò per mezzo e si sono sparse tutte le sue viscere» (v. 18); l’orrore di questa descrizione (che si è cercato a volte di accentuare, a volte di attenuare, rinvigorendola in seguito con tratti leggendari o ricorrendo

alle fantasie di una pseudo erudizione) contraddice tutte le spiegazioni puramente storiche o profane. Il racconto intende dirci chiaramente che Giuda è stato la causa della sua rovina personale; ha trovato un ostacolo mortale nella propria impossibilità interiore: le σπλάγχνα (viscere) designano, nel Nuovo Testamento, l’essere più intimo dell’uomo nel momento in cui si esteriorizza; essendo una creatura, non ha potuto sopportare il peso mostruoso della contraddizione nella quale si era smarrito. La sua esistenza ha dovuto scoppiare, come una granata innescata nella mano; ha dovuto morire così; At. I non dice che la sua morte fu provocata da lui stesso, bensì in lui stesso. Questa versione ha considerato in questa maniera il giudizio che Giuda ha subìto come un autogiudizio; e sempre qui, lo sguardo si sposta su Gerusalemme, su Israele. Agire come Giuda, al di là dell’atto considerato in se stesso, è fare qualcosa per cui ci si condanna e ci si giudica da se stessi, è un distruggersi dall’interno; uccidere Gesù significa pure uccidere se stessi, anche se non ci si suicida nel senso specifico del termine; anche su questo punto, le due versioni si accordano dunque e si confermano nel profondo, molto più chiaramente di quanto non consentano di supporre a prima vista le loro contraddizioni formali. Vediamo dunque che cos’è il peccato di Giuda. Non si può certo dire che su questo punto le indicazioni generali del Nuovo Testamento siano inadeguate; esse tradiscono lo spavento e persino il terrore; è infatti l’opera delle tenebre, come opera del popolo d’Israele, ad essersi compiuta qui, nel bel mezzo del cerchio apostolico, in seno alla chiesa stessa. Giuda, tra gli apostoli, è proprio il rappresentante d’Israele e, nella chiesa, il «figlio della perdizione», l’uomo in cui Satana è entrato e che è lui stesso un demonio; conseguentemente, secondo il Nuovo Testamento, anche il suo pentimento è rifiutato, per quanto serio esso sia o possa essere; non si può che attribuirgli, con spavento, la ben nota fine. Non sono possibili dubbi: siamo posti qui, al centro del Nuovo Testamento, di fronte al problema dell’uomo riprovato; che cosa pretende Dio da quest’uomo?; che cosa ha deciso di fare di lui? È significativo che questo problema sia posto anch’esso esattamente nel punto centrale, proprio dove il Nuovo Testamento ha sollevato e risolto l’argomento dell’uomo eletto. È d’importanza capitale che venga continuamente ribadito: si tratta del medesimo punto centrale. Giuda è e resta «uno dei dodici»: «egli era dei nostri» (At. I, 17); non è un’affermazione formale; certo nessuno degli altri apostoli ha tradito Gesù, tuttavia Giuda e gli altri apostoli sono legati l’uno

con l’altro nel modo più stretto possibile. Scegliendoli e chiamandoli, Gesù li ha indissolubilmente riavvicinati e uniti; ciò che ha fatto Giuda concerne anche tutti gli altri; non che essi abbiano compiuto quell’azione, non che siano suoi complici, ma in quanto avrebbero potuto eseguirla, in quanto hanno anch’essi simile possibilità. Se così non fosse, sarebbe impossibile capire perché all’annuncio di Gesù: «uno di voi mi tradirà» (Mc. XIV, 19; Mt. XXVI, 22), fossero tutti «molto afflitti» e perché uno dopo l’altro (εἶς ϰατὰ εἶς) chiedano, ciascuno per sé (εἶς ἐϰάστος): «Signore, sono forse io?». Secondo Lc. XXII, 23 si domandano gli uni gli altri «chi fosse mai di loro che farebbe tal cosa», mentre secondo Gv. XIII, 22 ss. si guardano tra loro «incerti di chi parlasse»; Pietro interroga il discepolo appoggiato sul petto di Gesù; ma Gesù stesso risponde: «È colui al quale porgerò del pane inzuppato» e inzuppato il pane, lo offre subito a Giuda. La tensione che, secondo i quattro evangelisti, caratterizza tutta questa scena proviene indubbiamente dal fatto che, se uno degli apostoli è stato effettivamente designato, tutti gli altri potevano esserlo, ugualmente ed altrettanto. Tutto questo è ben rilevato dalla forma significativa nella quale la tradizione ha riferito l’unzione di Betania. Chi dunque ha protestato contro la prodigalità di Maria ed emesso il pio parere che i trecento danari, provenienti dalla vendita dell’unguento, avrebbero potuto essere dati ai poveri? Secondo Gv. XII è Giuda e l’evangelista, interpretando al peggio la sua intenzione, non esita ad affermare che è un ladro: così la versione giovannea dell’unzione di Betania ci ha permesso di definire il peccato di Giuda in funzione del contrasto che si manifesta tra quest’uomo e Maria. Colpisce però che nel racconto parallelo di Mc. XIV, 4 non sia Giuda a protestare contro l’azione di Maria, bensì semplicemente «alcuni»: «alcuni se ne indignarono: perché si è sciupato questo unguento?», mentre (secondo Mt. XXVI, 8) questi «alcuni» sono esplicitamente «i discepoli». Questi «alcuni» oppure «i discepoli» rappresentano qui, nel medesimo racconto, la parte che Giovanni attribuisce a Giuda. Ancora una volta bisogna dire che le difficoltà di ordine storico sollevate da questa contraddizione hanno poca importanza, in paragone all’insegnamento che si trae proprio da questa; è possibile che le divergenze notate provengano da tradizioni differenti e simultanee; è anche possibile che l’elemento di Matteo costituisca una precisazione deliberatamente apportata al testo di Marco (a meno che l’elemento di Marco non rappresenti una semplice interpretazione di quello di Matteo) e che Giovanni abbia volontariamente «concentrato» in

un solo individuo, ossia Giuda, ciò che i due altri evangelisti riferiscono come se fosse il comportamento di parecchie persone; può anche essere che l’elemento giovanneo sia quello primitivo e che Matteo e Marco lo abbiano «generalizzato». Comunque il Nuovo Testamento ci dà delle informazioni diverse su questo argomento ed afferma (in modo tale che nessun lettore possa nasconderselo): le persone dell’ambiente vicino a Gesù e gli stessi discepoli, in breve tutti coloro che non sono stati traditori, avrebbero potuto parlare come Giuda ha parlato in questo caso particolare; o anche: Giuda in quest’occasione ha potuto esprimersi come lo avrebbe potuto fare qualunque individuo dell’ambiente vicino a Gesù o come tutti gli altri discepoli. Il Nuovo Testamento non ha separato, bensì considerato insieme Giuda e gli altri apostoli, proprio quando ci offre, per così dire, la chiave del peccato di Giuda. Secondo Gv. XII Giuda, contrariamente a Maria, si sottrae fraudolentemente a quel Gesù che esige dai suoi il dono totale di sé e lo fa garantendosi con la pia intenzione di seguire il Cristo secondo il suo proprio piano e il suo autonomo giudizio; secondo i Sinottici i discepoli si trovano esattamente nella stessa situazione e hanno bisogno dello stesso rimprovero: «i poveri li avete sempre con voi (e se volete, potete far loro del bene), mentre non avrete sempre me» (Mc. XIV, 7; Mt. XXVI, 11). Essi si pongono con Giuda nel punto stesso a partire dal quale potevano come lui diventare traditori ed in cui virtualmente hanno anch’essi già tradito Gesù; si capisce perciò che la domanda: «Signore, sono io?»sia sincera e necessaria; dicendo che uno di loro lo avrebbe tradito, è infatti ad ognuno di loro che Gesù poneva la domanda. In questa prospettiva si distingue meglio il significato della lavanda dei piedi (Gv. XIII): Gesù deve lavare i piedi di tutti quanti i suoi discepoli, poiché anche quelli che, a differenza di Giuda, hanno la testa e le mani monde, non sono per ciò meno impuri di quest’ultimo; insieme a Giuda, sono tutti colpevoli e hanno tutti bisogno di essere purificati; se da parte sua Giuda è impuro in un senso tutto particolare, lo è in quanto rappresenta i piedi impuri di tutti gli apostoli, cioè in quanto incarna e mette in evidenza ciò che la chiesa, nella sua origine, possiede in comune con l’Israele recalcitrante e biasimato e per conseguenza con il mondo stesso. In Giuda (e non soltanto in lui, bensì in tutti gli apostoli, figli di Abramo per vincoli carnali) è Ismaele che vuol sussistere malgrado Isacco, Esaù malgrado Giacobbe, il Faraone malgrado Mosè, Saul malgrado Davide. Come potrebbe essere diversamente? Come se non fosse così, potrebbe essere vero che la Parola di Dio ha rivestito la carne dei figli di Àbramo e che la chiesa, nella sua struttura originaria (cioè apostolica) è

composta proprio da questi figli di Abramo per vincoli carnali? Certamente poiché Gesù li ha eletti e chiamati, poiché è rimasto con loro (Gv. XV, 3) e li ha custoditi, tutti gli apostoli, compreso Giuda, hanno già conosciuto una purificazione obiettiva: il loro capo e le loro mani sono già stati lavati; sono stati purificati perché Gesù li ha chiamati a sé, raccolti, fatti testimoni dei suoi atti e uditori delle sue parole; li ha incontrati come la luce che, sovranamente, rischiara il mondo in cui vivevano; li ha chiamati suoi e li ha trattati come tali; ha creato tra lui e loro quella relazione irreversibile di cui parla Gv. XV, 5: «io sono la vite e voi i tralci»; ha detto loro: «voi siete già mondati dalla parola che vi ho annunciato» (Gv. XI, 3). Questa è stata la loro purificazione ed essa non può certo essere annullata, essendo risultata vana per uno di loro, cioè per Giuda, che ha conservato il capo e le mani impure secondo quanto è detto in Gv. XIII, 10 e XVII, 12; Pietro commette dunque un errore domandando a Gesù (Gv. XIII, 9) di lavargli anche il capo e le mani, perché era già cosa fatta: «chi è lavato, ha bisogno di lavarsi soltanto i piedi per essere mondo; e voi siete mondi» (v. 10); il rimedio contro la loro impurità esiste oggettivamente in Gesù e si tratta di riconoscerlo subito. Non è tanto importante sapere se la frase restrittiva di Gv. XIII, 10: εἰ μὴ τοὺς πóδας (incerta dal punto di vista della critica testuale) sia una glossa esplicativa oppure se sia stata lasciata da parte da un copista (che la giudicava inconciliabile con il ϰαϑαρòὃδλος); quest’ultima possibilità è verosimile; ma secondo il contesto anche nel primo caso la spiegazione delle parole: «non ha bisogno di null’altro» è tuttavia assolutamente netta ed inevitabile. Gv. XV, parla infatti anch’esso di una purificazione particolare dei discepoli che sono già oggettivamente puri, come tralci attaccati alla vite e lo stesso passo ricorda che i tralci che non rimangono attaccati alla vite e non portano frutti saranno recisi; la lavanda dei piedi, concepita come la purificazione particolare e soggettiva di coloro che sono già oggettivamente puri non deve perciò essere sottovalutata e presa alla leggera, nei confronti della purificazione oggettiva che i discepoli hanno già provato; tanto più che, secondo un’ipotesi in apparenza convincente formulata dalla ricerca esegetica recente, il racconto della lavanda dei piedi sostituisce quello dell’istituzione della cena che manca nel vangelo di Giovanni. Ciò che Gesù dice a Pietro (in Gv. XIII, 8) non può prestarsi ad alcun malinteso: «se io non ti lavo, tu non avrei parte con me»; la lavanda particolare dei piedi è la condizione previa ed indispensabile della comunione con Gesù; se Pietro non fosse oggetto di quest’azione si troverebbe anch’egli in comunione con Giuda,

cioè con il diavolo; egli deve essere purificato in particolare proprio per ciò che possiede in comune con Giuda. Per capire tutto il passo bisogna tener conto dei versetti che aprono il capitolo. Al v. 1 si dice che Gesù, sapendo che è giunta l’ora di passare da questo mondo al Padre, poiché aveva amato i suoi che erano nel mondo, li aveva amati εἰς τἑλος, parole che significano nello stesso tempo «fino alla fine» e «fino alla perfezione»: li ha dunque amati di un amore assolutamente totale e senza riserve. Il v. 3 ci informa che Gesù sapeva che il Padre aveva messo tutto nelle sue mani, che era venuto da Dio e a Dio sarebbe ritornato. Questo è stato il suo pensiero sui suoi, su di sé e su Dio, nel momento stesso in cui, secondo il v. 2, il diavolo aveva già concepito il suo proposito o piuttosto aveva già messo in cuore a Giuda il proposito di tradirlo. Per il vangelo di Giovanni questo momento critico contiene assolutamente tutto. Vi è ciò che accade in alto: il cammino di Gesù verso la morte e nello stesso tempo il suo ritorno al Padre da cui è venuto; vi è ciò che accade in basso: l’attuazione già in corso della possibilità satanica di Giuda; vi è ciò che accade in Gesù stesso: egli conosce la pienezza assoluta della sua potenza e vuole usufruirne ancora una volta, senza riserva, nel suo rapporto con i suoi ed in loro favore. È in questo momento critico tra tutti ch’egli si alza per lavare i piedi dei suoi discepoli. È evidente il parallelismo con l’istituzione della cena. Qual è dunque l’elemento decisivo di questo parallelismo? Per scoprirlo, bisogna partire dalla prima risposta di Gesù alla prima domanda di Pietro: «Pietro gli disse: Tu, Signore, lavi i piedi a me? Gesù rispose: Ciò che faccio, non lo comprendi ora, lo comprenderai più tardi» (v. 7). Non ora: prima della morte di Gesù, Pietro non conosce ancora di abbisognare di quell’evento rappresentato dalla lavanda dei piedi e non sa quale ne sia la potenza e l’effetto; solo in seguito, dopo la morte di Gesù, vedrà ciò che presentemente gli rimane nascosto, conoscerà la potenza e l’effetto dell’evento il cui simbolo gli sembra oscuro; capirà allora quanto gli fosse necessaria la realtà rappresentata dalla lavanda dei piedi. La lavanda dei piedi è chiaramente, come la cena stessa, un’anticipazione di ciò che sarà comunicato ed accordato agli apostoli e all’intera chiesa con la morte di Gesù, al di là della sua presenza e della sua vita terrena, quando il suo amore si sarà manifestato nella pienezza della sua potenza divina, testimoniata dalla croce e rivelata dalla risurrezione; Gesù darà loro con la sua morte più di quanto aveva dato loro con la sua presenza quaggiù, nel suo rapporto oggettivo con loro; come annuncia la cena, darà loro il suo corpo da mangiare e il suo sangue da bere. È se stesso dunque ch’egli darà loro al prezzo della sua morte; vivrà in loro e essi vivranno per

opera sua; egli infatti dà sovranamente la sua vita. Non l’abbandona nel vuoto, mentre l’abbandona alla morte: è proprio ad essi ch’egli l’abbandona; questo è l’amore «fino alla fine», questo è l’amore «perfetto» con cui ha amato i suoi che sono nel mondo; ed è indubbiamente questo che la lavanda dei piedi vuole rappresentare. Essa assume immediatamente il carattere di un atto di umiltà, da parte di colui al quale il Padre ha dato in mano ogni cosa, atto che sorprende enormemente i discepoli; come nella cena Gesù è il padrone di casa che distribuisce al suoi il suo pane e il suo vino, così nella lavanda dei piedi egli diventa loro schiavo: per abbassarsi completamente davanti a loro e per loro, utilizza proprio l’onnipotenza che il Padre gli ha dato in mano; parallelamente nella cena il padrone di casa usa il pane ed il vino per dare se stesso, per indicarsi come colui il cui corpo sarà spezzato e il cui sangue sarà sparso; bisogna dunque comprendere la lavanda dei piedi partendo prima di tutto dal testo di Fil. II, 7 s. Si noterà inoltre che Gesù si mostra qui come l’autentico prototipo di Maria di Betania che gli sacrifica quanto ha di più prezioso; è così che l’avvertimento di Gesù a Pietro («Tu non avrai parte con me, se io non ti lavo») ricorda anche che la comunione con Gesù implica necessariamente il comportamento di Maria, non come «condizione indispensabile», ma come «conseguenza indispensabile»; per questa ragione i discepoli sono invitati e «lavarsi i piedi gli uni gli altri», per testimoniare la loro appartenenza a Gesù quale loro Signore e Maestro. La lavanda dei piedi rappresenta dunque la morte di Gesù come il servizio che in un’inconcepibile umiliazione quest’ultimo farà ai suoi, in qualità di loro Signore; non si tratta però di un servizio qualsiasi; si tratta del servizio che solo questo servitore, che è precisamente il Signore, può rendere e di cui tutti hanno bisogno al massimo grado. Mentre Gesù vede sopraggiungere la sua morte, mentre è cosciente dell’onnipotenza che ha ricevuto dal Padre e ch’egli utilizza (qui sempre per anticipazione e allegoricamente) per amare i suoi «fino alla fine», cioè per divenire loro schiavo, Giuda dentro di sé ha già preso la via che lo condurrà a tradire il suo maestro. Nel momento in cui Gesù accetta e adempie questo servizio di schiavo, intravvede come una piaga aperta nel corpo dei suoi: benché siano puri a causa della parola da lui annunciata, benché siano tralci attaccati alla vite e siano «nel mondo» (v. 1) come uomini il cui capo e le mani sono già state lavate da lui, essi partecipano intimamente alla natura d’Israele ed al suo ripudio, proprio come Giuda, ch’egli ha scelto insieme agli altri, si trova in mezzo a loro. La lavanda dei piedi dimostra ciò che significa il fatto che Gesù li ami «fino alla fine» (ἀγαπἀν εἰς τέλος) con un amore che rivela e

manifesta la sua onnipotenza; mette in evidenza ciò che manca ad essi senza la sua morte e che solo la sua morte può dar loro; mette in rilievo ciò che è la loro miseria, cui può provvedere solo il dono totale di se stesso. Poiché Giuda è tra di loro, poiché la presenza e l’azione di quest’apostolo rivelano ciò che vuol dire per gli apostoli il fatto di essere «nel mondo», Gesù deve morire; a causa di questa impurità e per eleminarla, salirà sulla croce; e in rapporto a Giuda, o piuttosto a tutto ciò che gli apostoli hanno in comune con lui, il segno della sua morte è un atto di purificazione, ossia questa lavanda dei piedi indispensabile anche a coloro il cui capo e le mani sono già purificati. Pietro, l’apostolo eletto e chiamato, ha bisogno tanto quanto Giuda, eletto e chiamato come lui a questo compito, della morte di Gesù, di questo culmine dell’amore di Gesù rappresentato qui da questo servizio di schiavo attraverso il quale il Signore significa il dono totale della sua persona; infatti la natura d’Ismaele e di Esaù, del Faraone e di Saul la cui ribellione prorompe nella persona e nell’opera di Giuda, non è meno quella di Pietro che quella di Giuda; il pericolo di essere reciso dalla vite come un tralcio sterile minaccia lo stesso Pietro; quest’ultimo è incline tanto quanto Giuda ad affermare la sua autonomia nei confronti di Gesù (benché egli non l’abbia consegnato ma semplicemente rinnegato) e con questa convinzione!; l’atto esemplare di Maria di Betania non è meno incomprensibile all’uno che all’altro. Considerando il male mortale che minacciava l’apostolato e e che aveva assunto un aspetto visibile in Giuda, considerando l’oscura presenza d’Israele e del mondo nei discepoli (a dimostrazione che anche gli eletti erano dei riprovati ed erano stati scelti proprio come tali), Gesù doveva amare i suoi «fino alla fine», doveva morire per loro e appartenere loro come colui che muore per loro; doveva morire a causa del peccato che nessuno poteva riparare e che poteva essere soltanto perdonato; a condizione che il giudizio postulato dalla giustizia di Dio si fosse prodotto. Il ripudio dei discepoli esigeva un giudizio su di loro: malgrado la purificazione già compiuta (che certamente l’azione di Giuda esclude e contraddice oggettivamente, ma non rende soggettivamente impossibile) e che, come ha dimostrato proprio il caso di quest’uomo, poteva anche realizzarsi invano. Ebbene è precisamente questo giudizio (di cui tutti erano passibili con Giuda) che Gesù ha preso su di lui nella sua morte; Gesù si è preoccupato della purificazione che non era possibile se non nella forma del giudizio, del ripudio da parte di Dio di coloro che l’avevano ripudiato; se ne è curato in quanto, conformemente alla sua elezione, si è messo al servizio dei riprovati fino al sacrificio totale di se stesso. Questo è il fatto illustrato e

raopresentato dalla lavanda dei piedi. Sulla base e in virtù di questo servizio gli apostoli possono ormai vivere come uomini in favore dei quali Gesù è pronto a intervenire, di cui lava l’impurità e ai quali accorda la propria purezza; Gesù è il capo (la testa) della chiesa perché è il riconciliatore del mondo con Dio, perché come re e profeta, è ancheil grande sacerdote che sacrifica se stesso; davanti a questo capo della chiesa, Pietro e Giuda occupano il medesimo grado ed in ogni caso provano la medesima miseria. Se l’aspetto soggettivo della loro relazione con Gesù non fosse stata regolato dalla sua morte, se con questa morte sostitutiva non fossero divenuti dei soggetti nuovi malgrado la loro natura, se infine non avessero ricevuto la libertà di condurre nel mondo una vita nuova grazie alla potenza della vita che è stata sacrificata per loro, gli apostoli sarebbero stati tutti perduti, compreso Pietro, «Senza di me non potete far nulla» (Gv. XV, 5), queste parole si applicano tanto a Pietro e agli altri, quanto a Giuda. Chr. Starke fa la seguente osservazione, piuttosto acuta, a proposito di At. I, 15 ss.: «Se Pietro non avesse avuto la sicurezza del perdono del suo peccato, non avrebbe osato parlare così. Avrebbe infatti potuto temere che qualcuno venisse a dirgli: Pietro, anche tu sei un fratello di Giuda!»1. È per indicare quest’ultimo dono della sua persona ai suoi ed alla sua chiesa (dono senza il quale tutti gli altri sarebbero vani e che tutti quanti questi altri servono ad annunciare) che Gesù ha lavato i piedi di tutti i suoi discepoli; proprio come nei Sinottici si è rivolto e comunicato a tutti i discepoli, al momento della cena, con i segni del pane e del vino, indicanti rispettivamente il suo corpo spezzato ed il suo sangue versato per loro. 3. Il destino del riprovato. Dicendo «a tutti i suoi discepoli», ci rendiamo conto del problema che nasce: Giuda è stato ammesso a beneficiare dell’opera di Gesù?; la morte di Gesù rappresentata dalla cena e dalla lavanda dei piedi ha una portata di salvezza anche per quest’uomo? Non è possibile dare una risposta semplice a simile interrogativo. Da un lato infatti Giuda è e rimane per gli evangelisti un apostolo eletto e chiamato da Gesù Cristo, partecipa alla cena e rispettivamente all’atto di purificazione che la lavanda dei piedi rappresenta. Bisogna dar prova veramente di una durezza senza limili se si afferma che non vi è perdono per Giuda, che la realtà rappresentata da questi due atti non ha nessuna portata positiva per lui, che in una parola Gesù per lui è morto invano; poiché infine il suo crimine ha semplicemente rivelato qualcosa che, in Pietro e negli altri apostoli, era rimasto ancora nascosto; «l’amore fino alla fine» con il quale Gesù ha voluto amare i suoi discepoli non avrebbe forse raggiunto proprio lui, che con la sua persona e con la sua azione,

ha messo in evidenza il fatto che, non morendo, Gesù non li aveva ancora amati fino alla fine?; la preghiera di Lc. XXIII, 34 non ha compreso anche Giuda o nei suoi riguardi sarebbe forse rimasta senza effetto? Ma d’altro lato gli evangelisti descrivono Giuda mentre fugge l’ultima e decisiva manifestazione dell’amore di Gesù in favore dei suoi, per andare a compiere il suo crimine e le parole di Gv. XVII, 12 («Quelli che tu mi hai dato, li ho custoditi e nessuno di loro è perito tranne il figlio della perdizione») sembrano voler dire che in definitiva l’opera di Gesù per Giuda è stata vana. Secondo Matteo e gli Atti quest’uomo non è forse escluso dalla realizzazione positiva di quanto egli stesso ha ricevuto in testimonianza, per il semplice fatto che il suo destino è situato e compiuto al di qua della morte di Gesù, cioè procede per così dire ancora nell’ambito e sotto il segno dell’antico patto, rotto da Israele, cosicché il suo pentimento, anche sincero, è condannato a essere sterile? Secondo Gv. XIII, 27 poi, nel momento stesso in cui ha ricevuto l’ultima testimonianza dell’amore di Gesù, Giuda non è forse stato spinto irresistibilmente a compiere il suo atto: «E dopo quel boccone, Satana entrò in Giuda. Gesù gli disse: Ciò che vuoi fare, fallo presto»? Così dunque, secondo gli evangelisti, sarebbe prematuro e perfino non concesso cercare di risolvere il problema di Giuda in un senso o nell’altro; in ogni caso, nella forma in cui l’abbiamo posto, il problema deve restare senza risposta; dobbiamo accettare innanzitutto di essere confrontati con un contrasto che nulla può attenuare. Da un lato Gesù che manifesta tutta la sua sollecitudine per la sua chiesa e quindi per il mondo, verso cui si rivolge per mezzo del servizio ecclesiastico; Gesù che guarisce radicalmente la malattia mortale che colpisce il mondo, Israele e la chiesa; Gesù che adempie così la propria elezione, la sua missione di Figlio di Dio e di Figlio dell’uomo. Dall’altro lato Giuda che altro non è se non l’oggetto di questa sollecitudine, il portatore e il rappresentante di questa malattia mortale, l’uomo riprovato che Dio ha amato eleggendo Gesù Cristo e verso il quale si è rivolto inviando il Figlio suo. Dunque da una parte Gesù per Giuda (sì: proprio per lui) e dall’altra Giuda contro Gesù (sì: proprio contro questo Gesù che è per lui, che si sacrifica totalmente in suo favore, che gli lava i piedi, gli offre il suo corpo spezzato e il suo sangue versato e diviene così il suo bene). Il Nuovo Testamento non ci fornisce alcuna informazione diretta sul risultato di questo strano contrasto, di questo «per» e di questo «contro» che si oppongono. Così la descrizione del pentimento di Giuda non ci autorizza assolutamente a concludere che (necessaria mente o verosimilmente) quest’uomo si sia alla fin

fine convertito ancora quaggiù e neppure ci apre alcuna prospettiva sulla possibilità di una sua conversione nell’aldilà. Parimenti nulla è detto per significare che una tale possibilità sia esclusa. Stupisce che il Nuovo Testamento non abbia affatto utilizzato la possibilità che gli era offerta di presentare Giuda come esempio tipico della riprovazione e della perdizione definitiva di alcuni individui, come una personificazione della loro dannazione temporale ed eterna. Da una parte non fissa alcun limite alla grazia di Gesù Cristo per quanto riguarda Giuda, anzi pone Giuda proprio nel punto in cui questa grazia proietta tutta la sua luce. D’altra parte non fa mai di lui una figura che permetta di dimostrare l’esistenza di qualche apocatmtasis, una qualche riconciliazione universale; per questa ragione vuol descrivere la situazione che si stabilisce tra Gesù e Giuda (questa situazione che riassume quella esistente tra Gesù e tutti gli altri uomini, tra l’elezione dell’uomo da parte di Dio e la sua necessaria riprovazione) come la condizione aperta della predicazione. È la promessa totale e senza riserva della sua elezione. È la promessa dell’amore eterno di Dio che lo riguarda, lo cerca e lo trova, promessa ricevuta anche da Giuda nella cena e nella lavanda dei piedi simboleggianti l’amore «fino alla fine» di Gesù per i suoi. È la promessa che concerne lui, il riprovato che può dimostrare soltanto di non esserne degno; lui, il cui ripudio deriva proprio dal fatto ch’egli non vuole essere amato in questo modo; lui, che è un nemico della grazia di Dio. Che cosa avverrà?; quale sarà il risultato di una simile situazione?; «quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà ancora fede sulla terra»? (Lc. XVIII, 8). Quanto questa domanda sia importante, fino a che punto, dalle due parti, sia una domanda aperta sulla situazione creata dalla predicazione, è quanto mostra Giuda in opposizione a Gesù. Dimostra però anche, trattandosi parimenti dell’opposizione di Gesù a Giuda, ciò che vuol dire il fatto che una tale interrogazione sussista nella condizione creata dalla predicazione; la predicazione infatti non esiste per entrare in concorrenza con l’uomo cui si rivolge; esiste perché la promessa si rivolga all’uomo e l’uomo sia da essa interpellato. È in questa situazione (e soltanto in essa) che si decide a che cosa il riprovato sia destinato da Dio. È per questo che si tratta di una situazione non soltanto aperta, ma assolutamente determinata in un modo ineguale da una parte e dall’altra; di una situazione in cui il confronto tra il «per» e il «contro» non è sol tanto strano, ma anche unico nel suo genere; essa è infatti il teatro dell’opposizione tra la grazia di Gesù Cristo, divinamente irresistibile e l’ostilità umanamente (ma soltanto umanamente!) insormontabile contro questa grazia. Tale è

l’opposizione che rimane aperta nella condizione creata dalla predicazione: è in questa opposizione che Giuda si trova posto; è in essa che l’uomo ripudiato deve riconoscersi in Giuda e Pietro deve sentirsi solidale con quest’ultimo; è ad essa che penserà la chiesa (come ciascuno dei suoi membri), ogni qualvolta si porrà il problema della riprovazione totale e definitiva dell’uomo. La chiesa non deve predicare la riconciliazione universale, come non deve prendersi gioco di questa dottrina predicando una grazia di Gesù Cristo impotente e una cattiveria umana onnipotente; senza attenuare l’opposizione di cui abbiamo parlato e senza cadere nel dualismo, essa proclamerà l’onnipotenza della grazia e l’impotenza della malvagità umana nei confronti della grazia; è proprio così infatti che si trovano confrontati alla fine il «per» di Gesù e il «contro» di Giuda. Comunque, esista o no la possibilità o l’impossibilità della conversione di Giuda, una cosa è chiara: la situazione creata dalla predicazione è una condizione che resta aperta; anche l’uomo ripudiato non può sfuggire a tale coedizione, né alla relazione che esiste tra le due realtà che si oppongono; si tratta infatti di un ordine al quale non può sottrarsi, ch’egli può soltanto confermare, confermando così a suo modo se stesso. Questa è la destinazione divina del riprovato che, secondo il Nuovo Testamento, appare con molta chiarezza ed in maniera specifica nella persona e nell’azione di Giuda. Qualunque possa essere o non essere la portata positiva della sua morte per Giuda stesso, una cosa permane chiara: il suo crimine (rivelatore del male mortale di cui soffrivano segretamente tutti gli apostoli) non ha certamente potuto rendere caduco, né smentire l’apostolato istituito in vista della predicazione dell’elezione e della grazia di Gesù Cristo; non ha avuto conseguenze di questo genere, nemmeno parzialmente, nemmeno in rapporto ad una qualunque delle tribù del popolo d’Israele che, dopo aver ripudiato il suo Messia, è stato chiamato a rivivere negli apostoli in virtù dell’elezione di Gesù Cristo; anche la scomparsa di Giuda, nel momento in cui avrebbe dovuto esercitare la sua funzione di apostolo, non ha assolutamente creato un vuoto definitivo in seno al corpo destinato a costituire il fondamento della chiesa. Né l’apostolato, né la chiesa fondata su di esso non hanno mai cessato di essere, a causa della sua defezione, «la totalità d’Israele» (Rom. XI, 26); per quanto grave abbia potuto essere, questa disobbedienza non ha potuto né distruggere, né modificare nulla, poiché la grazia di Gesù Cristo è sempre la più forte; notiamo inoltre che in I Cor. XV, 5 Paolo non esita a dire che dopo la sua risurrezione, Gesù è apparso «ai dodici», benché, per determinare questo

numero, Giuda non contasse più e Mattia o Paolo fossero ancora al di fuori del cerchio apostolico. La disobbedienza di Giuda è appena capace di fare di lui (non a detrimento, ma proprio a conferma della sua elezione e della sua vocazione) un semplice sostituto del suo incarico apostolico particolare, che ha dovuto poi essere assunto da un altro uomo; quest’ultimo ha semplicemente dovuto riprendere l’opera dello «scomparso» (nel senso letterale del termine) per compierla in comunione con gli altri apostoli. Ritroviamo qui il racconto di At. I, 15 ss.: vi si parla dell’elezione o piuttosto del sorteggio di Mattia come testimone della risurrezione, affinché egli detenga, al posto di Giuda il ϰλῆρος τῆς διαϰονίας ταύτης (cioè l’eredità di tale funzione) prima assegnato a quest’ultimo. Sono radunate circa centoventi persone; Pietro spiega come con l’azione ed il destino di Giuda sia stata adempiuta la Scrittura e dimostra come sia necessario scegliere un sostituto tra coloro che fin dall’inizio hanno accompagnato Gesù insieme con gli apostoli; due uomini sono proposti (evidentemente da tutta l’assemblea): Giuseppe-Barsaba-Giusto e Mattia; poi si chiede a Dio, che conosce i cuori, di mostrare quale di questi due uomini egli abbia scelto «per aver parte a questo ministero dell’apostolato che Giuda ha abbandonato per andare al luogo suo»; alla fine si tira a sorte «e la sorte cadde su Mattia, che fu aggregato agli undici apostoli» (συγϰατεψηϕίσϑς). La storia è sorprendente, ma in sé è perfettamente chiara; ciò che invece è veramente strano in tutta questa vicenda è che questo medesimo libro degli Atti, apertosi con un racconto sugli apostoli, divenga sempre di più, a partire dalla storia di Stefano, il primo martire (capitolo VII) e dichiaratamente dopo il capitolo XIII, la storia del solo apostolo Paolo; tanto che non si può quasi evitare di costatare che in realtà è proprio lui, Paolo, ad aver occupato il posto di Giuda e ripreso l’opera dell’apostolo che è mancato. Quanto a sapere se il libro degli Atti abbia veramente voluto fare questa affermazione senza esprimerla, si tratta di un problema a parte. Ad ogni modo non si può certo negare che Saulo, della tribùdi Beniamino, sia esattamente l’uomo nella cui persona e nella cui opera il cerchio apostolico, anche quello ricostituito, abbia trovato di fatto il suo vero complemento, sia cioè il tipo di apostolo che corrisponde il meglio possibile alla situazione posteriore alla morte e alla risurrezione di Gesù, alla realtà del perdono dei peccati ricevuto e proclamato. In se stesso, prima della sua conversione, Saulo agisce come un parallelo di Giuda, per lo zelo con cui si adopera, ricordato in tutte le relazioni (At. IX, 1 s.; XXII, 4 s.; XXVI, 10 s.) che lo riguardano, per arrestare i membri delle assemblee cristiane, uomini e donne e condurli a Gerusalemme. Come Saul (il

Beniamita dell’Antico Testamento) perseguita Davide, così Saulo (il Beniamita del Nuovo Testamento) perseguita «la chiesa di Dio» (Gal. I, 13; I Cor. XV, 9) ed è durante questa attività, descritta espressamente per due volte come un παραδοῦναι (At. VIII, 3; XXII, 4), che viene sorpreso dall’apparizione e dalle parole di Gesù: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» e da lui investito dell’incarico particolare di apostolo. Perciò egli designa se stesso come l’ἔϰτρωμα, l’aborto (I Cor. XV, 8), come il minimo fra gli apostoli (I Cor. XV, 9; Ef. III, 8) ed il primo dei peccatori che Gesù è venuto a salvare (I Tim. I, 15). Quelli dei suoi lettori che conoscevano i vangeli erano obbligati, considerando Paolo, a pensare subito a Giuda, il Giudeo. Con il nome di Saulo, Paolo è stato per la chiesa nascente «l’occhio cattivo», così come Giuda lo era stato per Gesù; in lui però questo occhio cattivo è stato colpito da cecità per aprirsi alla verità; incomprensibilmente, Paolo trova misericordia e diviene l’oggetto della grazia sovrabbondante del Signore (I Tim. I, 13 s.). Essendo divenuto quello che è per grazia di Dio ed avendo lavorato più di tutti quanti gli altri (I Cor. XV, 10), non è più il parallelo di Giuda, bensì l’uomo rinato, liberato dal suo peccato e dalla sua infamia; come tale, incarna il nuovo Israele, fedele alla sua vocazione. Infatti a che cosa mai è destinato Israele, secondo l’Antico Testamento, se non a essere una luce per i pagani e per il mondo?; ma la luce d’Israele è la promessa contenuta nella persona del suo Messia; e secondo gli Atti e le epistole, la missione di far conoscere il Messia d’Israele ai pagani è la funzione apostolica particolare di Paolo. Proprio una simile funzione costituisce la ripresa dell’incarico di Giuda; questa è l’inverosimile e radicale inversione che ha luogo; Paolo riprende le cose nel punto stesso in cui Giuda, con il suo pentimento, aveva voluto modificarne o arrestarne il corso. Entra cioè in scena per com piere con i suoi mezzi ciò che, con grande spavento di Giuda, i principi dei sacerdoti e gli anziani avevano fatto loro stessi, come secondo anello di una catena disgraziata: egli consegna (= trasmette!) Gesù ai pagani; lo consegna però non più per infedeltà, bensì proprio per fedeltà alla vocazione e alla missione d’Israele; non più perché lo si condanni a morte, bensì per testimoniare nel mondo intero la sovranità di colui che era morto, ma che è risuscitato. Giuda non ha dunque potuto assolutamente annientare e nemmeno alterare l’istituzione dell’apostolato; che cosa osserviamo infatti dopo la sua morte?; il cerchio degli apostoli si ricostituisce; non solo, ma soprattutto vediamo che inizia e prosegue poi, nella persona di Paolo, l’apostolo «in soprannumero», la vera storia apostolica, che si riassume in un

solo fatto, secondo Mt. XXVIII, 19: la trasmissione di Gesù ai pagani. Tuttavia, sebbene con un certo timore, dobbiamo andare oltre, se vogliamo ben misurare ciò che significa che Giuda sia stato sostituito teoricamente certo da Mattia, ma praticamente da Paolo e che in questo modo egli sia stato degradato per far posto a questo apostolo, «in soprannumero» rispetto al cerchio dei dodici. Secondo l’immagine nettissima che nell’insieme ci propone il libro degli Atti (esitando e per così dire quasi a malincuore) Paolo (malgrado o piuttosto a causa della sua incorporazione tardiva nel cerchio apostolico, malgrado o piuttosto a causa del suo passato molto insolito) non è un apostolo, bensì l’apostolo, nel periodo che va dalla risurrezione di Gesù alla morte dei dodici, che del resto il Nuovo Testamento non menziona, Anche la struttura del canone neotestamentario lo conferma, poiché il messaggio di Paolo ne domina la seconda parte, un po’ come quello di Gesù ne domina la prima. Si aggiunge che nessuno dei dodici ha fornito testimonianze così numerose, vive e intime sul modo in cui la promessa fatta da Gesù, al momento della cena, si è compiuta in un’esistenza d’apostolato; nessuno degli apostoli ha parlato come Paolo delle conseguenze dell’effondersi dello Spirito Santo, cioè di ciò che diviene la vita umana nutrita e dissetata, custodita e retta dalla vita divino-umana di Gesù, offerta per i nostri peccati; nessun apostolo, a nostra conoscenza, ha parlato con tanta audacia e logica della sua comunione personale con Gesù Cristo; nessuno ha osato vedere come Paolo, nel suo ministero, il riscontro diretto del ministero di Gesù Cristo, pur rispettando la distanza che lo separa da lui. Lo ha fatto proprio lui, Paolo, di cui Giuda è stato esattamente il sostituto prima della morte di Gesù. Perché ora dobbiamo tenere conto di Giuda, benché questi non possa rappresentare Paolo se non in senso negativo?; non è forse anch’egli, al suo posto e a suo modo, l’apostolo in mezzo a tutti gli altri?; non è forse il «santo», nel senso arcaico del termine, cioè l’uomo designato, segnato, colpito da interdetto, bandito, perché gravato della maledizione divina e che per questa ragione si trova, nel modo più strano, nella prossimità immediata di Gesù? Perché, senza che questo diminuisca in nulla la sua colpevolezza, l’infamia di Giuda, secondo le chiare indicazioni dei vangeli, può essere considerata soltanto come la rivelazione dell’infamia di tutti gli apostoli, dell’insieme d’Israele? Che cosa significa il fatto che è lui, Giuda, che Satana attacca per condurlo a commettere il suo crimine e a subire una morte spaventosa, mentre tutti gli altri escono indenni dall’avventura, benché non siano migliori e abbiano meritato la medesima sorte? È possibile non distinguere, al di là di tutte le

differenze, l’analogia che esiste tra la condizione di Giuda (e soltanto di lui) e quella di Gesù stesso? Giuda non muore forse immediatamente prima di Gesù? Non vi è in questo qualcosa di più di una prossimità temporale? Secondo Gv. XI, 50 il sommo sacerdote ha detto: «…è meglio che un uomo solo muoia per il popolo e così non perisca l’intera nazione»: queste parole, fatte le debite trasposizioni, non sembrano applicarsi anche a Giuda nel suo confronto con gli altri apostoli? Fatte le dovute trasposizioni, come i malfattori sulla croce (Lc. XXIII, 41) Giuda riceve ciò che le sue azioni hanno meritato ed anche ci più, ossia la morte, salario del peccato (Rom. VI, 23); in effetti la sua morte non ripara nulla; è la morte senza speranza ed assolutamente sterile di colui che disobbedisce fino al trapasso, di colui che, anche morendo, vuol rimanere il giudice di se stesso, la morte senza alcuna giustificazione, che non può essere un sacrificio, che è soltanto un castigo e che di conseguenza non può essere sorgente di nessuna luce e di nessuna vita. Rimane una sola analogia tra Giuda e Gesù: come Gesù, Giuda ha subito la morte al posto degli altri. In altre parole, Gesù non è andato solo verso la morte resa necessaria dal peccato degli apostoli; Giuda è stato l’unico ad accompagnarlo, benché la sua morte non abbia avuto alcuna forza; egli rappresenta tutti i personaggi dell’antico patto sempre nuovamente infranto, la cui morte è stata un castigo e null’altro: Ismaele ed Esaù, il Faraone, Saul, Achitofel; le tenebre che avvolgono la fine di quest’apo stolo mettono in evidenza la luce e la vita che sorgono dalla morte di Gesù. Questa vicinanza a Gesù, questa analogia con il suo destino, ecco ciò che caratterizza Giuda e lui soltanto; l’orrore del suo crimine non impedisce che quest’uomo si trovi proprio direttamente confrontato con la grazia di Dio manifestata in Gesù Cristo; si tratta di un confronto che nulla potrebbe abolire ma che beninteso non deve essere trasformato in una relazione positiva, secondo l’interpretazione dei «cainiti» del secondo secolo. Il «Vangelo di Giuda» di cui sembra essersi nutrita questa setta e che non appartiene ai documenti canonici, contiene quasi solamente grossolani errori. È tuttavia certo, secondo il buon annuncio documentato dal Nuovo Testamento, che Gesù ha avuto presso di sé prima della sua morte un apostolo testimone di quella riprovazione divina dell’uomo, ch’egli ha portato e cancellato, come pure ha avuto al suo fianco dopo la risurrezione un apostolo testimone dell’elezione divina dell’uomo, di cui egli è stato l’oggetto e che ha compiuto nella sua persona. Che Giuda abbia avuto la prima funzione, come Paolo la seconda è un dato sicuro, qualsiasi abbia potuto essere d’altra parte il destino di quest’uomo. Considerando Giuda e Paolo, il

problema della destinazione del riprovato deve condurci a comprendere che in ogni caso non vi è eletto che occupi il posto che dapprima era quello del riprovato e che l’opera dell’eletto non può mai essere se non il capovolgimento miracoloso di quella del riprovato. Tra il riprovato e l’eletto, tra Giuda e Paolo, vi è Gesù Cristo, che secondo Lc. XXIII, occupa il posto tra i due malfattori crocifissi con lui; e la riprovazione di Giuda è proprio quella che Gesù Cristo ha portato, così come l’elezione di Paolo è inanzitutto la sua; senza Gesù Cristo, Giuda non sarebbe Giuda e Paolo non sarebbe Paolo. Ma se come figura dominante Gesù Cristo sta qui nel centro e se è vero che, nel centro, è il prototipo inaccessibile ma onnipotente di questi due tipi di uomini, tutto ciò significa che la situazione esistente tra l’eletto ed il riprovato è e resta la condizione aperta della predicazione; l’eletto non potrebbe creare questa condizione, così come il riprovato non sarebbe capace di abolirla; in questa situazione, quest’ultimo è semplicemente destinato ad interpretare la parte di un sostituto chiamato a scomparire per far posto all’eletto. La sola cosa che ci si può dunque aspettare è che, in forza del capovolgimento qui operato da Dio in Gesù Cristo, il riprovato divenga un giorno un eletto. Bisogna procedere ulteriormente. Abbiamo visto che Giuda non è in grado di recare pregiudizio all’istituzione dell’apostolato; come dimostra (con il libro degli Atti) l’insieme della testimonianza neotestamentaria posteriore alla risurrezione di Gesù, la causa oltrepassa qui l’uomo; essa è così importante che, seppure condannato a essere soltanto un semplice sostituto, Giuda diventa nella sua persona e nella sua opera puramente negativa, il portatore eminente dell’apostolato. Questo è il primo elemento. Ma non è tutto. Sempre in virtù della superiorità di questa causa (cioè della grazia di Gesù Cristo e non certamente in forza di un qualche merito di Giuda) avviene che quest’uomo, suo malgrado, sia palesemente incaricato di collaborare per la parte che gli spetta al compito dell’apostolato e della chiesa, fondata sull’elezione di Gesù Cristo e ch’egli vi collabori effettivamente attraverso il suo crimine. Per arrivare a capire, dobbiamo ritornare al concetto importante che utilizza il Nuovo Testamento per descrivere l’azione di Giuda: si tratta del verbo «consegnare», παραδοῦναι. Applicato all’azione di Giuda, tale verbo ha sicuramente un senso negativo e soltanto negativo; vuol dire che Giuda è stato l’uomo che, in mezzo agli apostoli, in seno a quella chiesa che già stava costituendosi, non soltanto ha rinnegato e sacrificato il Signore, ma lo ha abbandonato ai suoi nemici, lo ha posto in loro potere, perché potessero

trattarlo secondo le loro intenzioni ostili; qualunque sia il modo in cui i fatti sono accaduti, alla fine ed oggettivamente si è giunti a questo. Giuda è stato soltanto il primo anello della catena, ma resta il fatto che proprio lui, un apostolo, è stato questo primo anello. Ciò che significa tecnicamente il verbo «consegnare» possiamo osservarlo in Mt. V, 25: un uomo ha un avversario; se non si mette d’accordo con lui «mentre se ne va insieme» corre il rischio che questi lo «consegni» al giudice (μήποτέ σε παραδῶ), il giudice lo «consegni» all’ufficiale di giustizia e quest’ultimo lo getti in carcere. Oppure in Mt. XVIII, 34: irritato contro un servo indebitato al quale aveva condonato tutto il suo debito e che ha agito in modo opposto nei riguardi di uno dei suoi compagni, un padrone lo consegna (παρέδωϰε) ai carcerieri, fintanto che non abbia pagato tutto il suo debito. Formalmente Giuda agisce verso Gesù proprio come questo avversario e questo padrone di cui parla Matteo. Mc. I, 14 e Mt. IV, 12, parlando di Giovanni Battista che è stato appena arrestato, dicono ch’egli è stato «consegnato»: così Giuda con la sua azione ha riservato a Gesù la stessa sorte avuta da Giovanni Battista. Secondo Mt. X, 21 e par. si andrà oltre ogni limite in periodo di persecuzione, tanto che i cristiani sì «consegneranno» tra di loro; così dice profeticamente Gesù stesso; Giuda è il primo a farlo ed è proprio Gesù ch’egli consegna. Prima della sua conversione Saulo «consegnava» i cristiani che riusciva a prendere e, divenuto Paolo, è stato lui stesso «consegnato» dai Giudei ai pagani (At. XXI, 11; XXVIII, 17) e dai pagani ad altri pagani (At. XXVII, 1; XXVIII, 16), come prima Pietro era stato «consegnato» da Erode ai suoi soldati (At. XII, 4). In tutti questi passi «consegnare» significa dare un individuo libero o relativamente libero in potere di persone che gli sono ostili e da cui non può aspettarsi che del male. È proprio in questo che consiste il peccato di Giuda contro Gesù; la sua azione mette fine alla libertà e alla spontaneità con le quali Gesù aveva potuto agire fino a quel momento, per predicare il regno di Dio, chiamare alla fede e alla penitenza e confermare il suo messaggio attraverso segni e miracoli; ormai la potenza di Gesù è limitata dal potere di coloro cui è stato consegnato. Deve accontentarsi di usare del potere diminuito che gli resta e che, ad ogni istante, può essere annullato; non è più in grado di opporre un’azione efficace contro coloro che lo detengono; può soltanto subire il loro arbitrio; per trionfare di loro, dovrebbe trovarsi al di là di quanto è obbligato a subire in seguito all’azione di Giuda; in ogni caso, non potrebbe farlo in virtù del suo potere personale che gli è slato appena tolto, poiché è stato «consegnato». La

predicazione del regno di Dio ch’egli non può più assumersi, deve essere ripresa per così dire da un altro luogo, da una terza parte, partendo da un’istanza superiore alla potenza dei suoi nemici ed alla sua particolare impotenza; perché sia giustificata la sua attuale impotenza, deve essere investito da un potere assolutamente nuovo; questa è la situazione in cui Gesù si trova posto ad opera di Giuda, questo è il cammino assolutamente inedito per cui ormai deve procedere. A causa dell’azione di Giuda, la relazione di Gesù con coloro che lo circondano più da vicino è completamente modificata; non si tratta più di un libero gioco di forze presenti, di una lotta aperta in cui si possa fare appello all’attenzione, all’intelligenza, alla convinzione, alla buona volontà; Gesù ha cessato di essere il motore di questa lotta ed ogni ora che passa aggrava la minaccia che pesa su di lui da quando è stato consegnato: da un momento all’altro rischia di essere ridotto al silenzio completo, di essere definitivamente messo fuori gioco. Non è forse così che, in ogni epoca, ci si è accordati per mettere fine all’attività di individui considerati «indesiderabili»?; e la minaccia sarà realizzata; Gesù morirà per mano di coloro ai quali è stato consegnato. Questa sarà l’estrema conclusione dell’atto perpetrato da Giuda; se non capita null’altro, se da questa «terza parte» di cui parlavamo non interviene una qualche azione decisiva, tutto è definitivamente regolato; Gesù avrà vissuto per nulla e la predicazione del regno di Dio sarà stata vana, come lo è già stata chiaramente per Giuda. Riassumendo: Giuda si è incaricato di mettere Gesù in una situazione da cui nessuno, salvo Dio, poteva trarlo; consegnandolo agli uomini, lo ha consegnato ad un potere che poteva e doveva annientare le sue forze e alla fine ucciderlo, di modo che non gli restasse altra possibilità se non quella di invocare la potenza di Dio; agendo così Giuda sembra indubbiamente aver alterato il suo ministero d’apostolo trasformandolo nel suo contrario. Infatti anch’egli era stato scelto e chiamato ad essere apostolo non per consegnare Gesù in potere degli uomini, ma per condurre gli uomini sotto il suo potere; non per consegnare Gesù ai peccatori, ma per consegnare a lui i peccatori; in una parola: «per fare schiava ogni intelligenza all’obbedienza del Cristo» (II Cor. X, 5). Anche la sua missione consisteva nel confermare e nel glorificare nel mondo la libertà di Gesù Cristo e nell’aprire la via alla predicazione del regno di Dio. «Ogni potere mi è stato dato in cielo e in terra» (Mt. XXVIII, 18); proprio così; la regalità di Gesù Cristo è il presupposto dell’apostolato della chiesa che si manifesterà dopo la morte di Gesù e di Giuda. Ora ciò che Giuda ha fatto con il suo παραδοῦναι sembra essere un oscuro parallelo del presupposto assai diverso di cui il

diavolo può vantarsi, secondo Lc. IV, 6: egli ha ricevuto (παραδέδοται), lui il diavolo, ogni ἐξουσία e ogni δóξα di questo mondo e le dà a chi vuole; con il suo παραδοῦναι Giuda sembra avere non soltanto confermato ma dimostrato (e definitivamente dimostrato, poiché in questo caso si tratta dell’ἐξουσία e della δóξα del Figlio di Dio) la verità di questa παράδοσις, cioè della sovranità del diavolo; non a caso passi come quelli di Lc. XXII, 3 e Gv. VI, 70; XIII, 2, 27 indicano la sua azione come quella di un essere posseduto da Satana; in verità, poteva forse rinnegare più spaventosamente la sua funzione di apostolo, se non agendo come ha agito? È chiaro che la sua volontà e il suo merito non hanno avuto alcuna parte nel fatto che la sua azione, malgrado tutto, ha avuto un senso e un contenuto di versi da quelli che comporta il verbo παραδοῦναι, come espressione del comportamento assoggettato alla grande menzogna di Satana; e non vi è dubbio che il suo atto ha avuto effettivamente un’altra portata; è incontestabile infatti che con il suo παραδοῦναι Giuda ha partecipato attivamente al compito positivo dell’apostolato. In effetti non è certamente a caso che la nozione di παράδοσις (che applicata all’azione di Giuda ha un’accezione puramente negativa) sia anche utilizzata con significato assolutamente positivo per indicare e descrivere il ministero apostolico, in quanto tale ministero consiste nel trasmettere di prima mano, fedelmente e integralmente ad altri uomini, venuti in seguito e non direttamente informati, le notizie relative a Gesù, alle sue parole, alla sua morte e alla sua risurrezione e la conoscenza della volontà di Dio rivelata in lui sull’esistenza e l’ordine della chiesa. Il Nuovo Testamento non nasconde che divenendo portatori di una simile παράδοσις, gli apostoli hanno ripreso formalmente l’attività degli scribi, la quale era diventata uno degli aspetti particolari della loro disobbedienza e infine l’ultima manifestazione dell’infedeltà d’Israele nei riguardi del suo Dio. Poiché gli scribi osservano la «tradizione degli avi», la parola di Is. XXIX, 13 sugli ipocriti viene adempiuta, secondo Mc. VII, 6 s.: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. È vano il culto che mi rendono, perché insegnano dottrine che sono prescrizioni di uomini». Gesù rivolge loro questo rimprovero: «Voi lasciate da parte (ἀϕέντες) il comandamento di Dio, e rimanete attaccati alla tradizione degli uomini… Trascurate (ἀϑετεῖτε) il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione» (Mc. VII, 8 s.), «Rendete vana (ἀϰυροῦντες) la parola di Dio mediante la tradizione che vi siete data (τῆ παραóσει ὑμῶν ἧ

παρεδώϰατε)» (Mc. VII, 13). È dunque significativo (e non bisogna dimenticarlo) che l’attività dei Giudei, chiamata dallo stesso Gesù ἀϕιέναι, ἀϑετεῖν, αϰυροῦν della parola e del comandamento di Dio, prenda in seguito proprio la forma della funzione specifica degli apostoli, dal momento che Paolo non esita a scrivere utilizzando espressioni che ricordano fin troppo Mc. VII: «Dunque fratelli, state saldi e mantenete le tradizioni che avete ricevuto, sia con il discorso, sia con la nostra lèttera» (II Tess. II, 15). Il rischio che corrono gli apostoli è evidente, ma devono correrlo. Bisogna che Gesù Cristo stesso sia ormai l’oggetto della «tradizione degli uomini» e che così, con la sua trasmissione da una mano umana all’altra, venga costruita la sua chiesa; egli non teme la «trasmissione» (tradimento, tradizione) di Giuda o dei Giudei; vuol essere di nuovo trasmesso, consegnato, malgrado il pericolo che corre così ancora una volta. Il pericolo indicato da Mc. VII è chiaramente scongiurato poiché ha avuto luogo la risurrezione; ormai il Cristo non muore più (Rom. VI, 9): ecco perché egli non deve più temere di essere consegnato ancora una volta nelle mani dei peccatori; al contrario, è con questo mezzo che vuole trionfare. Al di là della condanna della «tradizione» di Giuda e dei Giudei, esiste dunque una «tradizione» (trasmissione) nuova, giusta e buona di Gesù. Ed ecco perché il vangelo di Luca (I, 1 s.) è definito come un «racconto (διήγησις) dei fatti che si sono compiuti tra noi, secondo quanto ci hanno trasmesso (ϰαϑὼς παρέδοσαν ἡμῖν) quelli che fin da principio sono stati testimoni oculari e sono divenuti ministri della parola». Ed ecco anche perché al παραλαμβάνειν del Signore, che distingue il vero apostolo da Giuda (Gv. I, 11), corrisponde il παραδοῦναι, la «trasmissione» ad altri di quanto il primo ha ricevuto (I Cor. XI, 23; XV, 3), come in seguito questo παραλαμβάνειν definirà il modo in cui gli altri devono ricevere la παράδοσις apostolica (II Tess. III, 6). Dopo essere stati schiavi del peccato (ciò che ora non sono più), sono determinati dalla tradizione che è stata loro trasmessa sotto la forma della dottrina apostolica (Rom. VI, 17); la loro caratteristica è di essere ormai interamente gli oggetti (παρεδóϑητε) di questa tradizione e a questo titolo ad essa obbediscono. Paolo si è riferito particolarmente alla sua qualità di portatore della tradizione in tre passi, chiaramente decisivi per lui: in I Cor. XI, 2 dove si tratta della subordinazione delle donne agli uomini ma dove, in definitiva, è abbordato tutto il problema della relazione del Cristo e della comunità; in I

Cor. XI, 23 a proposito della cena; infine in I Cor. XV, 3 a proposito della testimonianza della risurrezione di Gesù Cristo. Ciò che Paolo doveva difendere ed ha difeso, in questi tre campi, era la tradizione: doveva semplicemente trasmettere ai suoi lettori ciò che lui stesso aveva ricevuto. È in virtù di questa trasmissione che vi è stata una chiesa a Corinto e che, secondo Rom. VI, 17, uomini fino a quel momento schiavi del peccato, sono divenuti schiavi della giustizia. Così l’apostolo può soltanto ricordar ininterrottamente ciò che ha loro trasmesso, spiegandolo e applicandolo. È abbastanza significativo che (a parte Lc. L 1 s. ed i passi paolini appena citati) solo il testo di Giud. 3 riprenda il verbo παραδοῦναι in questa particolare accezione: esorta infatti i cristiani «a combattere per la fede che è stata trasmessa una volta per tutte ai santi». In realtà soltanto l’apostolo Paolo applica questo concetto al suo ministero; e nel passo di I Cor. XI, 23 lo fa in tal modo che nello stesso versetto il verbo παραδοῦναι è anche impiegato per indicare il tradimento di Giuda: «Ho ricevuto dal Signore quello chevi io trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui fu consegnato (trasmesso, tradito) prese del pane e dopo aver reso grazie a Dio, lo spezzò…». Queste due «trasmissioni» si caratterizzano reciprocamente, di modo che Paolo si trova nell’ombra di Giuda, così come Giuda si trova sotto la luce di Paolo. Non esiste un παραδοῦναι apostolico che non abbia dietro a sé il giudizio del παραδοῦναι di Giuda, ossia l’atto di cui Giuda e i Giudei si sono resi colpevoli avendo abbandonato ed annullato la Parola di Dio il suo comandamento; questo atto di disobbedienza però è stato trasformato in un atto di obbedienza che ha prodotto, nel mondo intero, l’esistenza della chiesa; è diventato il παραδοῦναι degli apostoli, di cui Paolo è stato il minimo, benché avesse lavorato più di tutti. Non si deve perciò attribuire una portata positiva all’azione dello stesso Giuda, in quanto, benché perversa, essa rappresenta la tradizione apostolica fedele e obbediente?; Giuda ha soltanto danneggiato la libertà regale di Gesù?; è stato soltanto uno strumento del diavolo, destinato a ridurre il Figlio di Dio all’impotenza mettendolo in potere degli uomini peccatori? Certamente è proprio in questa luce che dobbiamo considerare quest’uomo, dato ciò che sappiamo della sua mentalità, del suo comportamento e del suo peccato; la sua disobbedienza è una disobbedienza pura e semplice; ciò che ha fatto è (come la «tradizione» dei Giudei di cui parla Mc. VII) un abbandono, una separazione e un annullamento della Parola di Dio; il ripudio di questo apostolo eletto è

veramente un ripudio che non è consentito trasformare segretamente in elezione. Si giudicherebbe in modo puramente arbitrario perdendo il proprio tempo, se si pretendesse di attribuire a Giuda pensieri e intenzioni nascoste, che autorizzino a considerarlo alla fin fine come un giusto; il peccato d’Israele non comporta alcuna giustificazione di questo genere, non più del peccato degli apostoli manifestatosi in Giuda, non più del peccato umano in generale; ciò che giustifica il «tradimento» (trasmissione) di Giuda non basta a giustificarlo personalmente. Non tocca però a noi risolvere il problema della giustificazione di Giuda, attribuendogli non si sa quali lodevoli intenzioni; Dio solo è giudice su questo argomento; si tratta esattamente della questione davanti a cui è posto il malfattore crocifisso alla sinistra di Gesù dalla risposta del condannato alla destra e la promessa che gli è stata fatta, interrogativo al quale neppure noi possiamo rispondere. Dobbiamo lasciare il problema aperto, pur costatando ch’esso non cessa di essere chiarito dal fatto che l’azione di Giuda, in sé ingiustificabile, assume la stessa forma di quella degli apostoli fedeli, messa in rilievo dal ministero di Paolo, successore del discepolo mancante. Che Paolo, destinato a trasmettere Gesù, sia quello che è unicamente per la grazia di Dio, ecco ciò che giustifica Giuda e dà un senso positivo al suo atto; ecco ciò che, in conformità alla sua elezione, fa della sua attività una funzione apostolica; ecco, in una parola, ciò che indica la vittoria dell’elezione di questo riprovato sulla riprovazione, benché ci sia proibito attenuare in qualsiasi modo la gravità di quest’ultima. Quanto giustifica Giuda è unicamente la sua qualità di sostituto, il fatto ch’egli esista soltanto per far posto a colui che darà un contenuto tutto diverso alla funzione ch’egli stesso ha adempiuto così male. E si tratta di un’autentica giustificazione; non solo per Giuda del resto; ma pure della «trasmissione» dei giudei, di quell’infedele popolo d’Israele, che rifiuta l’adempimento delle promesse e che respinge la grazia di Dio sorta nel suo interno. Israele infatti possiede la forma del popolo eletto che troverà in seguito il suo autentico contenuto nella chiesa; è e resta la radice da cui, con lo stesso Gesù Cristo, ha avuto origine la chiesa; è e resta l’ombra delle realtà che si manifesteranno in Gesù Cristo e nella sua chiesa. Nulla di più, certamente; ma una tale funzione non può essergli tolta né per il suo peccato ed il suo ripudio, né per la crocifissione di Gesù e la distruzione di Gerusalemme; permane sempre il fatto che i Giudei trasmettano la Parola e il comandamento di Dio (pur abbandonandoli e annullandoli!) e non possono mai smettere di farlo. Ecco ciò che giustifica Israele, pur confermando la sua condanna; questa è la luce che non smette di illuminare il

«Giudeo eterno», per quanto metta in grande evidenza le tenebre nelle quali cammina; questa è la predicazione di cui egli continua ad essere l’oggetto. Essa significa ch’egli è sempre invitato ed esortato a rinunziare ad essere soltanto un sostituto per passare, come Paolo, dal suo vuoto esistenziale alla pienezza. Anche non convertito, anche nella sua natura puramente negativa, Israele (Giuda!) è non soltanto una figura negativa, ma una figura positiva, in una forma che è assolutamente unica. Tutto ciò non sarebbe però chiaro se ora non notassimo che secondo il Nuovo Testamento esiste anche e soprattutto, accanto al παραδοῦναι di Giuda ed a quello apostolico, un παραδοῦναι divino, che è propriamente il prototipo dei due altri e che non ci permette più di disconoscere la loro coappartenenza e la loro interdipendenza, anche se sono diametralmente opposti riguardo al loro contenuto; il παραδοῦναι divino dimostra che la corrispondenza formale dei suoi due paralleli umani non potrebbe essere attribuita ad un caso accidentale di linguaggio; ne è infatti il prototipo. Bisogna innanzitutto menzionare qui lo spaventoso e misterioso παραδοῦναι di Rom. I, i8 ss.: nella sua ira, Dio tratta gli uomini esattamente come Giuda ha trattato Gesù; li priva della libertà; li rende impotenti consegnandoli a un potare che li supera in modo assoluto, il potere del loro nemico che si prende gioco di loro. Chi è questo nemico? Leggiamo (in At. VII, 42) che Dio si è allontanato dagli Israeliti per «consegnarli» (παρέδωϰεν) al culto dell’armata del cielo, cioè al culto dei falsi dei, degli dei stranieri. E impiegando tre giri di frase differenti, Rom. I c’informa che Dio ha «consegnato» (παρέδωϰεν) gli uomini «all’impurità, secondo le concupiscenze dei loro cuori» (v. 24), «a passioni d’infamia (v. 26),;a reprobi sentimenti, per commettere cosse indegne» (v. 28). Secondo questi ultimi testi dunque, il nemico superiore cui gli uomini sono abbandonati da Dio è la loro propria opera, che inizia nel profondo di loro stessi e che si esprime esteriormente con azioni cattive; Dio li abbandona a loro stessi, alla loro rovina; tale è l’opera della sua collera nei loro confronti e tale è il significato di παραδοῦναι in questo contesto. Esso implica il senso che ritroviamo anche in Ef. IV, 19: «essi si sono consegnati alla dissolutezza» o in II Pt. II, 4, dove si parla degli angeli peccatori che Dio ha consegnato alle tenebre e riservati al giudizio. Senza dubbio è in riferimento a Rom. I, 18 (dove ci viene detto che «dall’alto del cielo» Dio consegna gli uomini alla loro rovina e come riflesso terrestre di quest’azione) che è necessario interpretare il fatto, tecnicamente

poco chiaro, che per due volte nelle lettere di Paolo si parli di alcuni uomini consegnati o che debbono essere consegnati a Satana; sembra che in entrambi i casi si tratti di una specie di scomunica concepita come estrema possibilità della disciplina ecclesiastica; in entrambi i casi è Paolo (che agisce naturalmente in nome di Dio) ad esserne l’autore. Vi è dapprima il fatto dell’incesto, in I Cor. V, 1 ss.: l’apostolo si stupisce che il colpevole non sia stato ancora escluso dalla comunità; e spiega che per quanto gli compete, pur essendo assente di corpo ma presente di spirito, ha già deciso che cosa si deve fare; quando sarà là («essendo adunati voi ed il mio spirito con il potere che viene dal nostro Signore Gesù») «quest’uomo sarà consegnato a Satana per la rovina della carne, nel nome del Signore Gesù, affinché lo spirito si salvi nel giorno del Signore». Vi è in seguito il passo di I Tim. I, 19 s.: Timoteo è esortato a conservare la fede e la buona coscienza; infatti «rigettandola, alcuni hanno fatto naufragio rispetto alla fede; sono di questo numero Imeneo e Alessandro che io ho consegnato a Satana, affinché imparino a non dire bestemmie». Questi uomini (che comunque sono esclusi dalla comunità) sono dunque abbandonati a loro stessi; nel caso specifico il castigo è definito come abbandono a Satana; si trovano «consegnati» proprio al potere di colui che hanno voluto servire. Costatiamo così subito che l’uso di quest’accezione di παραδοῦναι è testimoniato nelle lettere di Paolo. Dio in cielo e l’apostolo sulla terra «consegnano». Coloro che sono «consegnati» sono alcuni uomini ben determinati: secondo At. VII, 39 ss. sono i padri d’Israele cui Dio ha parlato, che hanno rifiutato di ubbidirgli e che anzi lo hanno respinto rimpiangendo l’Egitto, facendosi un vitello ed esultando «dell’opera fatta con le loro mani»; secondo Rom. I, 18 ss. sono i pagani che, sebbene avessero conosciuto Dio, non l’hanno onorato come Dio e non gli hanno reso grazie; secondo I Cor. V, 1 ss. si tratta di un cristiano che con il suo comportamento ha dimostrato di rappresentare un resto del vecchio fermento che non serve per celebrare la festa della pasqua; secondo I Tim. I, 19 s. si tratta ancora di due cristiani che hanno fatto naufragio rispetto alla fede e sono diventati dei bestemmiatori. La condizione che accomuna tutti costoro consiste nel fatto di essere «consegnati», cioè abbandonati a tutte le conseguenze dell’esistenza ch’essi stessi hanno scelto di vivere, agendo come hanno fatto; sono condannati a cadere proprio dove hanno voluto porsi: gli Israeliti, che esultano per le opere fabbricate con le loro mani così come fanno gli Egiziani, sono abbandonati ad un’idolatria smisurata; i pagani, che si vantano della loro sapienza,

esperimentano la follia di una sfrenata immoralità; i cristiani, che hanno disprezzato la libertà dei figli di Dio, si ritrovano semplicemente sotto il potere ed il dominio di Satana. Questa è l’opera della collera di Dio; l’ira di Dio infatti è profonda; brucia e annienta. Come nel caso di Giuda, è impossibile emettere la benché minima riserva, cercare di addolcire o attenuare le cose; la riprovazione, poiché di questo si tratta, è la riprovazione; essere abbandonato vuol dire essere abbandonato, consegnato a Satana; Paolo non esita a usare questa espressione per qualificare la sua azione anche nei confronti di alcuni cristiani. La schiavitù nella quale si trova l’uomo riprovato, secondo i testi appena citati, è in sé e come tale incondizionata e infinita; non vi è infatti impotenza maggiore di quella dell’uomo lasciato a se stesso da Dio; non vi è tirannia più implacabile di quella cui l’uomo si trova consegnato quando Dio lo ha abbandonato alla sua sorte. E il verdetto di cui l’uomo è oggetto è giusto: Dio non gli ha forse dato la parte che gli compete e ch’egli ha desiderato?; né esiste una qualsiasi possibilità di modificare in seguito questo verdetto; né di appellarsi ad una qualche istanza superiore. L’azione di Dio nei confronti dell’uomo ha ancora un punto in comune con quella di Giuda nei riguardi di Gesù: essa vuol significare che essendo stato «consegnato» nel modo in cui abbiamo visto, l’uomo si trova totalmente impotente ed a lui non resta che appellarsi a Dio stesso, non certo per metterlo dalla sua parte, né perché sospenda il suo giudizio, ma per supplicarlo (ex profundis; dal profondo dell’abisso del suo abbandono senza speranza) di non cessare di essere il suo Dio, la cui potenza non cambia anche quando riprova, di modo che lui, il riprovato, possa continuare ad afferrarsi a questa potenza e di modo che, anche per lui, l’ultima parola sia quella che Dio pronuncia e l’ultimo atto quello che Dio compie. I testi che abbiamo citato dimostrano chiaramente che abbandonando l’uomo alla sua sorte, Dio lo mette in una situazione tale ch’egli non ha più alcun’altra possibilità salvo quella appena enunciata. Riferiamoci ancora a Mt. V, 26: «In verità ti dico: tu non ne uscirai prima di aver pagato fino all’ultimo centesimo»; o pensiamo semplicemente alle minacce di Mt. XXV, 41 o di Apoc. XIX, 9; XX, 15; XXI, 8; XXII, 15. Tuttavia un’ultima possibilità del tutto nuova non può essere esclusa per coloro che Dio ha «consegnato» e benché sia infinitamente lontana, nondimeno deve restare aperta; è in ogni caso quanto lasciano intravvedere i due testi in cui si parla di cristiani abbandonati a Satana. Certamente secondo 1 Cor. V, bisogna che «la carne perisca», cioè che l’esistenza umana del cristiano consegnato a Satana subisca il giudizio di Dio, ma Paolo non manca di aggiungere: «affinché lo

spirito si salvi nel giorno del Signore». Per l’antropologia paolina il πνεῦμα (che non bisogna confondere con la ψυχή, l’elemento vitale invisibile dell’esistenza umana) è la comunione che l’uomo cristiano ha ricevuto con Gesù Cristo, attraverso il suo battesimo, comunione che gli permette di essere un soggetto nuovo e, proprio per questo, reale e personale; la «carne» del colpevole (come somma del corpo e dell’anima) si trova distrutta, per il fatto che questo colpevole è stato «consegnato» a Satana; ma non è così del suo spirito che, secondo Paolo, è chiamato a partecipare alla salvezza futura. L’apostolo ha dunque consegnato quest’uomo a Satana con una precisa intenzione: che attraverso la rovina della sua carne, il suo spirito si salvi; intendeva certo purificare la comunità; ma mirava nello stesso tempo, al di là della rovina carnale del colpevole, alla salvezza del suo spirito, ex profundis, nel giorno del Signore. Si ritrovano le medesime indicazioni, sebbene in forma più sfumata, a proposito di Alessandro e di Imeneo, in I Tim. I, 19 s.: l’abbandono di questi due uomini a Satana non è fine a se stesso; significa essenzialmente ch’essi hanno bisogno di essere corretti: «… affinché imparino a non dire bestemmie», bisogna che attraverso il castigo di cui sono oggetto, siano condotti a separarsi dalle loro bestemmie. Anche qui si trova indicata la possibilità della salvezza escatologica, «nel giorno del Signore»; essa non esclude e non attenua il castigo, ma ne segna il limite; questo limite circoscrive infatti ciò che in realtà è «senza limite», cioè il fuoco eterno, proprio come la potenza di Satana, che non ha un vero dominio sull’uomo, ha il suo limite nella potenza del Signore. Vi è una ragione oggettiva per cui il limite in questione deve essere messo in evidenza nel caso particolare di cristiani «consegnati» a Satana; esso non viene rilevato infatti in At. VII dove si tratta dei padri d’Israele che si abbandonano all’idolatria: tutto il discorso di Stefano è, dall’inizio (v. 2) alla fine (v. 53), esclusivamente una requisitoria e l’indignazione ch’egli solleva dimostra solo che i discendenti di questo popolo meritano la stessa sorte dei loro avi; parimenti non vediamo come il destino dei pagani, abbandonati alle loro concupiscenze secondo Rom. I, potrebbe essere diverso. In realtà il silenzio di At. VII, e di Rom. I su questo limite, silenzio che non significa non esistenza, è forse ancora più eloquente di un accenno esplicito e per rendersene conto, basta leggere il testo attentamente. Al termine di At. VII gli uditori frementi di rabbia contro Stefano interrompono il suo discorso; mentre questo atteggiamento sottolinea e conferma la terribile verità che è stata loro

rivelata sui loro padri, si dice di Stefano: «Ma egli, pieno di Spirito Santo, fissati gli occhi in cielo, vide la gloria di Dio e Gesù stare alla destra di Dio. E disse: Ecco, io vedo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo stare alla destra di Dio» (v. 55 s.); questo è chiaramente il limite del castigo d’Israele, la possibilità escatologica posta al di là della sua riprovazione. Certamente gli uditori non vedono tale limite, come non lo vedono i cristiani «consegnati» a Satana in I Cor. V e I Tim. I; Stefano però lo vede; non soltanto per quanto lo riguarda; come la promessa che gli permetterà in seguito di subire la morte dei martiri o come la conferma della requisitoria che ha appena pronunciato; ma anche per gli altri, per coloro che ha chiamato (v. 52) i traditori e gli assassini del Giusto e che ben presto infliggeranno a lui stesso la morte; vi distingue infatti la speranza che circonda malgrado tutto la loro riprovazione apparentemente definitiva. Gesù siede alla destra di Dio; tale è il fatto rivelatore della salvezza che vale anche per loro e che è loro offerta; e questa salvezza è esattamente lo scopo della loro riprovazione definitivamente confermata, la conclusione necessaria della loro condanna senza limiti. «Signore, non imputare loro questo peccato!»; sono le ultime parole di Stefano, secondo il v. 60 (cfr. Lc. XXIII, 34). Se ci volgiamo ora verso Rom. I costatiamo certo che non vi si accenna ad un qualsiasi limite o ridimensionamento della collera di Dio accesasi contro i pagani; tuttavia non si può parlare di tale collera senza tener conto del v. 17 e del seguito di tutto il passo, fino a Rom. III, 20. Secondo questo contesto la collera di Dio, per quanto implacabile possa essere, non è assolutamente una manifestazione indipendente e per così dire chiusa in se stessa della vita divina; è al contrario l’inverso della giustizia di Dio e della sentenza che libera e giustifica i pagani ed i Giudei che hanno fede in Gesù Cristo. Questa sentenza ha senza dubbio un effetto distruttore; significa che al di fuori della libertà e della giustizia della fede tutti gli uomini, pagani e Giudei, sono perduti; è come un fuoco che divora l’uomo intero, per non lasciargli altro che la fede, attribuendogli, come credente, la giustizia e la libertà. Ecco perché possiede un rovescio, quello della collera; ecco perché non potrebbe esistere senza comportare una rivelazione della collera; ed èproprio di una simile rivelazione che parla tutto il passo di Rom. I, 18-III, 20 dove si afferma che Dio ha consegnato, abbandonato, lasciato a loro stessi i pagani. In tutto questo però non vi è nulla che sia contrario o estraneo all’amore di Dio; è anzi proprio il suo amore che in questo caso brucia e divora tutto ciò che negli uomini si oppone a lui, affinché essi possano vivere per opera della fede

in Gesù Cristo: «affinché lo spirito si salvi», «affinché imparino a non bestemmiare»; che Dio li consegni e li abbandoni a loro stessi significa che, nella loro follia, essi non esistono più per lui, che sono per così dire spazzati via, cacciati lontano dalla sua vista (a meno che non credano!), che in una parola Dio non vuol più riconoscerli (astraendo da quest’unica possibilità della fede). Poiché vuole considerarli liberi e giusti per mezzo della fede, non vuol più considerarli diversamente; ecco perché: παρέδωϰεν, «li consegnò»; un amore che agisse in un altro modo nei loro riguardi, che risparmiasse loro la necessità di essere completamente spazzati via, non sarebbe l’amore di Dio. È realmente l’amore di Dio che li tratta in questa maniera; è partendo dalla loro fine che Dio rinnoverà tutto in loro favore; è dalla morte ch’essi debbono subire che li risusciterà; è da questo stato di abbandono che non possono evitare ma soltanto aggravare, confermandone l’ineluttabilità, che li salverà in un attimo. Del resto tutta l’epistola ai Romani testimonia in seguito (dal v. 21 del capitolo III) che la rivelazione della collera di Dio si ricollega a questa possibilità escatologica e che «consegnando» gli uomini come ha fatto, Dio ha soltanto buone intenzioni nei confronti di tutti, pagani e Giudei. Ecco ciò che non si deve dimenticare se si vuole veramente capire il παρέδωϰεν di Rom. I. Per discernere tuttavia esattamente il collegamento appena indicato, dobbiamo innanzitutto tener conto del significato positivo che il Nuovo Testamento (e anche qui principalmente l’apostolo Paolo) attribuisce al verbo παραδοῦναι come espressione di un’azione compiuta da Dio stesso. Abbiamo visto che la «trasmissione» malvagia, barbara e ingiustificabile di Gesù ad opera di Giuda ha come suo riscontro oggettivo un’altra «trasmissione» di Gesù agli uomini, costituente il senso e la sostanza del ministero apostolico, grazie alla quale la chiesa è fondata e conservata sulla terra. Questa seconda «trasmissione» ripara il male fatto dalla prima: glorifica Gesù che la prima aveva oltraggiato e testimonia la sua sovranità proprio là dove era stato pri vato della sua libertà e consegnato al potere dei suoi nemici. L’azione di cui Giuda ha preso l’iniziativa ha un seguito ed un tutt’altro seguito!; si è conclusa oggettivamente con la giustificazione del peccatore che l’aveva iniziata; quello che fa l’apostolo Paolo (un Saul convertito che un tempo ha agito come Giuda) dimostra che non si potrebbe contestare puramente e semplicemente all’apostolo Giuda una partecipazione attiva al compito positivo dell’apostolato. Sarebbe però temerario trarre una simile conseguenza, se non fossimo condotti a farlo dalla costatazione che esiste un’analoga corrispondenza

all’interno stesso del concetto del παραδοῦναι divino; il Nuovo Testamento infatti non parla soltanto di un παραδοῦναι motivato dalla collera con la conseguenza che Dio abbandona gli uomini a loro stessi o li consegna a Satana; se cuesto fosse l’unico senso dato al παραδοῦναι, non potremmo certamente parlare di limiti precisi, né affermare che in definitiva i passi in cui si tratta della collera divina indicano, in una forma o nell’altra, la possibilità escatologica di una salvezza per coloro che sono l’oggetto di questa collera e sembrano così totalmente perduti. Non sapremmo infatti esattamente come considerare una tale possibilità escatologica, così come non sapremmo come considerare il παραδοῦναι di Giuda, la sua elezione e la sua vocazione, se non ci fosse il riscontro del παραδοῦναι apostolico, se in una parola, l’apostolo Giuda non si trovasse posto in realtà nell’irradiazione dell’apostolo Paolo. Ma in entrambi i casi esiste una corrispondenza e se abbiamo potuto attribuire un valore positivo al παραδοῦναι della collera divina, è perché quest’ultimo è il riscontro di un ben diverso παραδοῦναι divino che è il solo a permetterci di considerare reale la possibilità escatologica di cui finora ci siamo dovuti limitare a parlare ed è il solo a spiegare perché il giudizio di Dio, abbandonando gli uomini a loro stessi, è veramente luce e non tenebre. Se vi è realmente un sì divino che spiega il no divino, non è allora troppo temerario, ma veramente necessario riconoscere un rapporto tra l’atto di Paolo e quello di Giuda e parlare conseguentemente di una giustificazione oggettiva di Giuda. Ecco infatti il παραδοῦναι divino di cui è questione nel Nuovo Testamento, a fianco dell’altro: si tratta dell’azione con cui Dio stesso consegna Gesù (Rom. IV, 25; VIII, 32) o con cui Gesù, come Figlio di Dio, si autoconsegna (Gal. II, 20, Ef. V, 2, 25); proprio qui si rivela chiaramente che Dio ha agito come Giuda; ma in questo caso particolare l’analogia è molto più diretta. Fino ad ora infatti sono uomini quelli che Dio ha consegnato, così come Giuda aveva consegnato Gesù; adesso invece è Gesù ch’egli consegna o ancora è Gesù che si autoconsegna; chiaramente ci troviamo di fronte al παραδοῦναι che precede tutti gli altri in valore ed in importanza. Prima che Giuda abbia consegnato Gesù, è Dio (o Gesù) che l’ha fatto; prima di essere oggetto della «tradizione» (o «trasmissione») apostolica, è Dio a «trasmettere» se stesso; prima di «consegnare» nella sua collera i pagani e i Giudei, egli ha consegnato, abbandonato, sacrificato se stesso: non ha risparmiato il suo proprio Figlio, ma lo ha consegnato per noi tutti (Rom. VIII, 32). La necessità, l’efficacia ed il senso di ogni παραδοῦναι si fondano dunque su questo atto iniziale e radicale, di cui Dio nella persona di Gesù Cristo o di cui Gesù in

qualità di Figlio di Dio, è oggetto; è dunque impossibile comprendere il significato biblico del verbo «consegnare» senza queste considerazioni; ogni azione espressa da questo verbo richiama o rinvia a questo atto iniziale, in cui ritrova la sua realtà e non si potrà cercare di interpretarlo, senza tener conto di questo παραδοῦναι divino primordiale. Costatiamo subito che i passi in cui si tratta di questo παραδοῦναι sano molto importanti. Tale è il passo di Rom. IV, 25 che costituisce il punto culminante della spiegazione in cui Paolo, citando in ultimo Abramo, illustra ciò che è la fede e dimostra come la giustizia divina è accordata a colui che crede. La fede che secondo l’apostolo può giustificare i credenti, è fede in Colui che ha risuscitato il Signore Gesù di fra i morti; ed ecco come questo Dio, che è il Dio di Àbramo, ci ha giustificati: ha «consegnato» Gesù per togliere le nostre offese e lo ha strappato alla tomba per rivestirci con la sua giustizia; il fatto che Gesù sia stato consegnato da Dio crea dunque il preliminare indispensabile del bene che riceviamo dalla fede, nel senso che allontana proprio ciò che impedisce a Dio di considerarci giusti, ossia le nostre offese. Il passo di Rom. VIII, 32 ne è ulteriore conferma: costituisce la conclusione decisiva dell’esposizione del capitolo VIII relativa alla vita dei cristiani posti sotto la legge dello Spirito di vita a loro concesso e regge in particolare tutta la spiegazione di Rom. VIII, 29-39 dove si parla dell’innocenza in cui è loro permesso di esistere di fronte a Dio. Se Dio è per loro, chi sarà contro di loro?; ora, Dio è per loro; e come non concederebbe tutto ciò che può provare la loro innocenza, poiché è giunto fino al fondo del suo amore, poiché non ha risparmiato il proprio Figlio ma lo ha consegnato per tutti loro (παρέδωϰεν, è detto come in Rom. I), poiché grazie a questo atto (in cui Dio si compromette ancora ben diversamente da Abramo nel momento del sacrificio di Isacco) colui che è il loro giudice ha contraddetto anticipatamente tutto ciò di cui li si può accusare? Ecco perché è detto (v. 33 s.): chi potrà o vorrà portare accuse contro gli eletti di Dio?; chi li giudicherà?; chi li condannerà o biasimerà? Risposta: solo Gesù Cristo, il Figlio di Dio consegnato per loro, che ha già fatto tutto questo poiché è morto, poiché è risuscitato e siede ormai alla destra di Dio, dove non è contro di loro ma interviene in loro favore, nella sfera dell’amore da cui niente né alcuno potrebbe separarli. In un altro passo capitale, quello di Gal. II, 19-20 Paolo dichiara che «per mezzo della legge, egli è morto alla legge» (cioè è liberato dall’accusa e dal giudizio grazie all’adempimento realizzatosi sul Golgota) e che ormai è chiamato a vivere per

Dio; è stato crocifisso con il Cristo, poiché dando soddisfazione alla legge, la morte del Cristo ha nello stesso tempo posto un punto finale alla sua esistenza d’uomo messo in discussione e accusato dalla legge; la sua vita è ormai soltanto la vita del Cristo in lui, cioè una vita nella fede, tutta rivolta al Figlio di Dio (o fondata sulla fede dimostrata dal Figlio di Dio, si potrebbe anche tradurre), «il quale mi ha amato e ha dato se stesso per me». Dando se stesso come ha fatto, Gesù Cristo ha definitivamente liberato l’apostolo; conseguentemente quest’ultimo non può più ricadere sotto la schiavitù della legge che l’accusa; la morte di Gesù ha segnato per Paolo l’inizio di una vita nuova, che è ormai la sola possibile. Quanto ai due testi di Ef. V, essi costituiscono certamente dei paralleli di Fil. II, 6 s. poiché le due frasi che ricordano come il Cristo abbia dato se stesso sono inserite in un contesto nettamente parenetico. Secondo il v. 1 s. i cristiani devono divenire «imitatori» di Dio «come dei figli bene amati» e vivere nella carità «sull’esempio del Cristo che ci ha amati e che ha dato se stesso a Dio per noi, come un’offerta ed un sacrificio di odore soave». E secondo il v. 25 ss. i mariti sono esortati ad amare le loro mogli «così come il Cristo ha amato la chiesa ed ha dato se stesso per lei per santificarla con la parola, dopo averla purificata col battesimo dell’acqua, al fine di farsi comparire davanti gloriosa la sua chiesa, senza macchia, senza ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata». Si costata dunque che anche nell’ambito della lettera agli Efesini, il cui pensiero ed il cui linguaggio sono così diversi da quelli delle prime epistole, la nozione del παραδοῦναι divino ha un’importanza essenziale dal punto di vista cristologico ed ecclesiologico e che oggettivamente ha il medesimo significato di quello rilevato nelle lettere ai Romani e ai Galati. È questione della riconciliazione dell’uomo con Dio, in quanto fondata sulla purificazione dei peccati. Solo esseri innocenti possono continuare a esìstere davanti a Dio, essere giusti di fronte a lui e servirlo; ora l’uomo non è innocente, ma colpevole; ha perciò bisogno di essere purificato. Egli però non saprebbe purificale se stesso; se deve veramente essere reso puro, può esserlo solo per opera di Dio che gli perdoni i suoi peccati; ed ecco che tale atto di perdono è stato compiuto per il fatto che Dio ha consegnato il Cristo e il Cristo ha consegnata se stesso. Si trova così creata la condizione preliminare dell’esistenza positiva dei cristiani e della chiesa: ormai i credenti possono essere figli di Dio, goderne la libertà, conoscerne la speranza e la comunità stessa può prendere parte alla gloria che consiste nel glorificare Dio nel tempo e nell’eternità; tutto è stato fatto affinché gli uomini riconciliati con Dio gli

appartengano, tanto è vero che essi sono stati dichiarati liberi e giusti, qui ed ora, dal Cristo che siede alla destra del Padre; tutto è stato fatto affinché possiedano in Cristo il loro difensore e affinché abbiano da lui le prerogative di accesso e il loro avvenire in cielo. Senza il perdono dei peccati quest’elevazione sarebbe impossibile; e siccome debbono la loro elevazione a quella del Cristo risuscitato, anche la condizione della loro elevazione (ossia il perdono dei peccati) ha reso necessario l’umiliazione del Cristo; perché fossero perdonati, bisognava che Dio «consegnasse» suo Figlio e che suo Figlio «consegnasse» se stesso in loro favore. Conviene ritornare qui al senso tecnico del verbo «consegnare»: essere abbandonato alla propria impotenza, di fronte a un nemico che ha forze superiori. L’espressione definisce la sorte dell’uomo che, disponendo di un certo potere, si vede privato della sua libertà, di modo che il potere di cui dispone è non soltanto reso precario ma annullato ed a quest’uomo non resta che sottomettersi alla legge del più forte, pur contando, per il rimanente, sulla potenza di Dio; la libertà di cui Gesù è stato privato da Giuda è evidentemente soltanto un debole riflesso della libertà divina di cui Dio lo ha privato e di cui egli ha privato se stesso; il Figlio di Dio che suo Padre non ha risparmiato e che non si è risparmiato non è solamente un essere che dispone di un certo potere come altri: egli è l’Onnipo tente. «Tutto è stato fatto per mezzo di lui (il Verbo) e senza di lui non è stato fatto nulla di ciò ch’è stato fatto» (Gv. I, 3); esisteva «in natura di Dio» (Fill. II, 6); si può dunque misurare ciò che implichi per lui il fatto di essere «consegnato». È dell’onnipotenza e della libertà divina che Gesù si è lasciato privare: per opera di Giuda certamente, ma non inanzitutto per opera di Giuda; egli è stato infatti all’origine di questa privazione dal momento che ha umiliato se stesso e ha preso natura di schiavo, diventando simile agli uomini; il Verbo si è fatto carne (Gv. I, 14): questa è chiaramente la «trasmissione» propriamente detta ed originale di Gesù. In quanto Giuda ha fatto o ha iniziato a fare (secondo il racconto di Gv. XVIII, 1-12 chi è infatti in realtà il vero attore?) essa si è semplicemente manifestata nelle sue ultime conseguenze; che il Figlio dell’uomo abbia dovuto essere consegnato, secondo queste ultime conseguenze, nelle mani degli uomini peccatori è un fatto motivato da questa prima «trasmissione» il cui autore è Dio stesso o Gesù; parimenti se Gesù si è umiliato ed è stato obbediente fino alla morte sulla croce (Fill. II, 8) è perché in precedenza ed in modo decisivo si è spogliato della sua «natura divina» per prendere la «natura di uno schiavo». Il primo evento si è verificato per preparare il secondo e quest’ultimo è stato soltanto la conseguenza e la

rivelazione del primo. Non possiamo comprendere il παραδοῦναι divino positivo (causa di tutti gli altri e luce che rende chiaro anche l’atto di Giuda) senza approfondire il significato del παραδοῦναι primigenio e specifico e per fare questo dobbiamo partire dal decreto stesso dell’amore eterno di Dio; secondo tale decreto il Padre ha mandato il Figlio e il Figlio ha obbedito al Padre; secondo tale decreto Dio ha voluto rivolgersi verso l’uomo ancora prima che questi fosse creato (la creazione celi uomo si fonda infatti proprio su questo decreto) con l’intenzione incomprensibile e misericordiosa di entrare in comunione con lui (e attraverso di lui con tutte le altre creature) e di farlo partecipare alla vita eterna, divenendo gratuitamente suo compagno e alleato. La realizzazione di questa intenzione è il regno di Dio. Che Dio testimoni all’uomo il suo amore e lo testimoni in questo modo; che la sua grazia sia sovrabbondante (benché non ne sia necessitato, ha tuttavia deciso così in virtù della pienezza della sua gloria) e che essa sia sovrabbondante esattamente in questo modo (i fatti avrebbero potuto prodursi ben diversamente, ma Dio li ha voluti così); tutto questo significa: egli costruisce e determina il suo regno, la sua signoria. Ora il παραδοῦναι divino positivo è incluso in questo decreto dell’amore eterno di Dio; concretamente l’atto di inviare del Padre e quello di obbedire del Figlio non si distinguono da questo παραδοῦναι divino positivo; c’è dunque un motivo per cui testi come Rom. VIII, 35, Gal. II, 20 ed Ef. V, 25 lo mettono così chiaramente in rapporto con l’ἀγαπᾶν divino. Non si tratta infatti di un rapporto stabilito posteriormente e definibile come storico, ma di un rapporto originale, eterno e proprio per questo inserito anche nella storia; è Dio che ha deciso di «consegnarsi», di abbandonarsi, di sacrificarsi; e questo significa che Dio vuole rendere l’uomo partecipe della vita eterna, divenendo gratuitamente suo alleato. L’uomo infatti così come è, non è degno né capace di accettare che Dio divenga suo alleato in questa forma misericordiosa; non può ricevere questo dono; ecco perché è necessaria questa condiscendenza, questa umiliazione, in cui Dio rinuncia alla sua gloria, nel senso che la nasconde ed accetta che si trasformi nel suo contrario. Se è realmente conforme alla volontà del Padre di inviare il Figlio suo coeterno e se è realmente conforme alla volontà del Figlio obbedire eseguendo questa missione; se veramente Dio vuol dare se stesso all’uomo divenendo esattamente ciò ch’egli è, cioè un essere di carne, indegno e incapace; questo significa indubbiamente che Dio vuol consegnare se stesso, mettersi nella condizione dell’uomo senza potere, dell’uomo sottomesso a forze che lo oltrepassano: non soltanto accettando le servitù della condizione delle

creature, ma anche ponendosi sotto la maledizione della colpa umana, sotto l’infamia di una esistenza dominata e determinata dal peccato. Dio intende cioè sacrificarsi al punto da adottare un modo di vita che è l’esatto contrario del suo modo di essere e della sua divinità; è verso quest’uomo, la cui esistenza è così irrimediabilmente contraria alla sua, che Dio ha diretto il suo amore eterno; è lui che Dio vuol rendere partecipe della vita eterna; è lui che Dio guarda, cerca e chiama; è con lui che Dio ha deciso di legarsi. Se vuole veramente questo (e solo questo può certamente volere) è chiaro che vuole anche «consegnarsi», cioè trattare se stesso come Giuda ha trattato Gesù; lo ha fatto raggiungendo il culmine del suo amore per noi; «mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal. II, 20); non risparmiando nemmeno il proprio Figlio (Rom. VIII, 32), ha agito senza riguardi contro se stesso, per venire dove ci troviamo noi ed assumere pienamente la nostra condizione; non ha giudicato che la sua divinità fosse troppo preziosa da dover rinunciare a travestirla, ad oscurarla, persino a gettarla nel fango, assumendo lui stesso la condizione umana, divenendo lui stesso un uomo tra gli uomini, un membro del popolo giudaico, al fine di portare così la promessa valida per tutti, per coloro che provengono da tutti i paesi. Questa è stata la sua offerta (Ef. V, 2): ha sacrificato la sua libertà al suo amore; il suo amore è così grande che ha suscitato questo sacrificio; la sua libertà è così grande ch’egli ha potuto (poiché è la libertà del suo amore) travestirla, oscurarla, accettare che sia macchiata. Dio è così fedele e così costante nella libertà del suo amore che, pur restando tal quale egli è, ha potuto divenire per noi assolutamente ineguale a se stesso, come dimostra l’atto con cui si è consegnato e dato per noi. E venendo a prendere il nostro posto, a dividere la nostra condizione, privando cioè se stesso volontariamente della sua libertà divina, ha reso possibile e reale quel perdono senza cui non esisterebbe una vita eterna, senza cui il regno della misericordia non potrebbe essere stabilito; consegnando se stesso è intervenuto per purificarci dal nostro peccato, per liberarci dalla nostra colpa e dal nostro castigo. Si è consegnato «per noi», «per me», è detto nei testi che abbiamo citato. È ciò che dimostra chiaramente il passo di Gal. II, 20 in cui Paolo parla espressamente della nuova vita (affrancata dalle accuse e dalle servitù della legge) che è ormai la sua, in quanto è la vita del Cristo in lui; per fondare in modo duraturo questa libertà, per divenire veramente la vita di Paolo e fare dell’apostolo un essere che gli appartenesse personalmente, bisognava che Dio prendesse il suo posto innanzitutto in tutt’altro modo; è quanto l’apostolo esprime dicendo che il Figlio di Dio si è consegnato,

sacrificato per lui. La cosa non è meno chiara in Ef. V, 25 dove si tratta della chiesa gloriosa, senza macchia né ruga di cui il Cristo è la figura perché l’ha amata e ha consegnato se stesso per lei; ogni azione positiva del Cristo sull’uomo e nell’uomo procede infatti da una sola e medesima realtà; il Cristo cioè si è consegnato (o secondo Rom. VIII Dio ha consegnato il proprio Figlio) per l’uomo fin dall’inizio. Tale atto costituisce l’intervento libero e volontario del Cristo messosi al posto dell’uomo, la cui caratteristica è di essere un peccatore riprovato da Dio. Che cosa fa il Cristo in questo luogo? Diciamo inanzitutto, in modo generale e provvisorio, che lo santifica, insieme con quanto lo circonda, con la sua presenza e con l’opera che vi compie, come individuo in mezzo ad altri. Ciò equivale a dire che quest’opera, come tutte le opere umane, è limitata; egli predica il regno di Dio con la parola e con dei segni, esattamente come altri profeti prima di lui; a sua volta benedice ed illumina Israele come i profeti, sacerdoti e re dei tempi passati hanno sempre fatto. Che lui, il Figlio di Dio, agisca in questo modo significa già rinuncia, abbandono, sacrificio; già qui si manifesta l’inconcepibile ed intollerabile limitazione della sua maestà; già vediamo interamente il miracolo dell’umiliazione divina nel semplice fatto che Dio viene a occupare il posto di un individuo per difendere in mezzo a noi la sua causa (che è anche la nostra causa personale!) partendo proprio dai limiti che sono quelli di un’esistenza umana determinata dal suo ambiente e in mezzo a miliardi di altre simili. Proprio questo ci dimostrano la vita e l’attività di Gesù fino al suo arresto e alla sua crocifissione. Distinguiamo però tutta la portata di questo miracolo soltanto quando costatiamo che è fin dall’inizio che Gesù va incontro alla prigionia e alla croce e che su di lui pesa l’ombra che diventerà alla fine tenebra completa nel momento del suo arresto, della sua sofferenza e della sua morte. In questo posto che è il nostro, in questa condizione umana che ha voluto assumere, egli si vede privato della possibilità di continuare la sua missione profetica; la sua attività, interamente orientata verso la sola cosa necessaria, è brutalmente interrotta; Israele, ch’egli ha benedetto ed illuminato, risponde ai benefici ricevuti escluclendolo dal proprio seno ed è in seguito alla richiesta di questo popolo ed a causa di ciò ch’egli ha fatto in suo favore, che sarà punito con la morte. Al ci fuori del ricorso al Padre suo, la cui gloria è completamente nascosta, al di fuori della prospettiva del suo ritorno al di là delle tenebre che lo circondano, non gli resta realmente più nulla; come uomo si trova completamente eliminato dal momento finale della morte; ha subìto tutto questo al nostro posto, nella sua esistenza e nella

sua funzione di uomo simile a tutti noi: lui che era il Figlio del Dio vivo, lui che poteva dare ordini alle legioni angeliche (Mt. XXVI, 5.3) e non ha usufruito di questo potere. È per assumere la nostra sorte che ha dato se stesso per noi. Questo «per noi», sottolineato con tanta forza da Paolo, indica chiaramente in qual senso, concedendosi come ha fatto, Gesù ha adempiuto la volontà di Dio; dimostra che tale sacrificio non è dovuto al caso, che non ha niente da spartire con il tragico dell’esistenza umana, ma che doveva aver luogo esattamente come deve compiersi la volontà di Dio e non quella di un qualsiasi «destino»; la vita di Gesù, il suo arresto, la sua sofferenza e la sua morte costituiscono l’evento che doveva prodursi tra Dio e l’uomo affinché l’amore di Dio raggiungesse il suo scopo, affinché l’uomo avesse parte alla comunione con Dio e alla vita eterna. Consegnando Gesù, Dio ha preso le misure divenute necessarie a causa dell’uomo, indegno e incapace di essere partecipe e di ricevere la vita eterna; consegnando Gesù, Dio ha in realtà giudicato, condannato e punito l’uomo; per essere trasformato in bene, ciò che vi è tra Dio e noi deve essere dapprima eliminato, secondo il diritto e la giustizia. Che Gesù abbia dovuto essere «consegnato» dimostra l’immensità e la gravità di ciò che deve essere eliminato e che può esserlo soltanto perché Dio stesso prende su di sé la condanna ed il castigo resi inevitabili, di modo che questa condanna e questo castigo non possono più raggiungerci e non devono essere più subiti da noi, mentre siamo resi liberi per ricevere ciò che Dio vuol darci. Ecco ciò che Dio ha deciso di fare ed ha effettivamente compiuto nella persona di Gesù. Ha potuto farlo poiché quest’azione dipende dalla sua onnipotenza, poiché la sua umiliazione segna precisamente il trionfo, e non la disfatta, del suo potere sovrano, poiché l’incognito, l’oscurità e l’infamia che ha accettato non potrebbero diminuire in nulla la sua divinità. In tutto questo ha agito come Dio solo può agire: si è mostrato fedele non soltanto all’uomo ma anche a se stesso, poiché la misericordia di cui ha dato prova è stata un atto della sua giustizia e la giustizia che ha esercitato è stata un atto della sua misericordia, poiché essendo nello stesso tempo l’offeso, l’accusatore, il giudice e la legge, gli competeva di regolare tutto il problema a suo gradimento ed ha voluto farlo subendo lui stesso ciò che noi avremmo dovuto subire. Il suo intervento è stato veramente salutare, veramente in nostro favore («per noi», dice il Nuovo Testamento), poiché ha avuto luogo nella persona di colui che (essendo il Figlio suo) possedeva la dignità e il potere del Signore di tutti gli uomini e che, consegnandosi, li ha liberati dalla

colpa e dal castigo: siamo proprio tutti noi che Dio ha amato dall’eternità in lui ed è in nostro favore che lo ha eletto. Che Gesù sia stato consegnato significa dunque che la purificazione indispensabile alla riconciliazione del mondo con Dio si è compiuta; una volta per tutte, grazie a questo evento, il peccato è stato abolito, il perdono acquisito e il regno di Dio aperto; questa è stata l’opera della giusta misericordia e della misericordiosa giustizia di Dio, che ha assunto la nostra condizione, che ha preso il posto in cui, lasciati a noi stessi, saremmo stati condannati a passare e a sparire definitivamente. Ecco perché Paolo chiede (in Rom. VIII, 31) dando al suo interrogativo l’aspetto di una sfida realmente fondata sul timore di Dio: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?»; solo la sicurezza che viene da Gesù gli permette (e lo obbliga) a lanciare questa sfida; infatti è perché Gesù è stato consegnato, ha subito la sofferenza tanto impietosa quanto immeritata del giardino di Gethsemani e del Golgota, in conseguenza dell’atto di Giuda, che Dio è per noi. È realmente il timore di Dio, originato dalla fede in Gesù «consegnato per noi», che conduce l’apostolo a porre la domanda di Rom. VIII, 31; egli sa infatti che i nostri peccati ci sono perdonati e che ormai ci è permesso di partecipare alla vita data da Dio, proprio perché Gesù è stato consegnato. Se mai avesse la pretesa di vivere una vita diversa da questa, l’uomo disobbedirebbe al decreto dell’amore eterno di Dio; secondo l’espressione di Paolo (Gal. II, 21) rifiuterebbe la grazia divina; il Cristo sarebbe morto invano se la libertà che ha acquisita per noi con la sua morte restasse come sospesa nel vuoto. Di fronte a questo dono, un solo atteggiamento è legittimo: accettare che sia valido per noi ciò che ha avuto luogo per noi; lasciare che Dio prenda il nostro posto in quanto egli è in Cristo, in modo sovrano e determinante, il Signore della nostra vita; operando diversamente, non potremmo agire che «contro di noi» e affermarci per ciò stesso anche «contro Dio». Riconoscere questa situazione, significa precisamente dimostrare che si teme Dio e che lo si rispetta. Per regolare l’insieme dei suoi rapporti con la creazione, Dio deve fare questo primo passo, questo passo decisivo, che consiste nel dare se stesso in Gesù Cristo per purificare il mondo dal suo peccato, per allontanare l’indegnità e l’incapacità che caratterizzano la situazione dell’uomo di fronte a lui; l’ostacolo al suo patto con l’uomo è rimosso, la via che permette la realizzazione di tale patto è aperta e le condizioni necessarie per il nostro accesso alla vita eterna sono adempiute, proprio poiché Dio ha dato se stesso in Gesù Cristo, perché non ha soltanto eseguito ma anche preso su di sé il giudizio provocato dal peccato, di modo che non siamo più noi a doverlo

subire; è così che si trova definitivamente regolato tutto il problema dei rapporti tra Dio ed il mondo creato e questa situazione non può più essere abrogata. Nascono di qui la sfida di Rom. VIII, 31 come lo zelo bruciante di cui è colma l’epistola ai Galati: come potrebbe Paolo non lanciare una simile sfida e non dar prova di zelo?; certamente dando se stesso come ha fatto in Gesù Cristo, Dio non ha ancora detto la sua ultima parola; in ogni caso ha però pronunciato la penultima, che con nessun pretesto potrebbe essere dimenticata. È a partire da questa indicazione, sottolineata con tanta forza dall’apostolo Paolo, che dobbiamo riprendere, per completarli e possibilmente arricchirli, i significati normali del verbo παραδοῦναι nel Nuovo Testamento. Un primo fatto sembra evidente: i Giudei ed i pagani che Dio ha «consegnato» nella sua collera, così come i cristiani di cui ci viene detto che sono stati «abbandonati» a Satana, non subiscono una sorte più grave di quella che Dio impone a se stesso «consegnando» il proprio Figlio. Che cos’è infatti la libertà di cui sono privati paragonata, alla maestà di cui Dio ha spogliato se stesso nel proprio Figlio?; che cos’è la loro umiliazione in rapporto all’abbassamento cui Dio consente volontariamente?; che cos’è la loro schiavitù di fronte a quella che Dio ha accettato?; che cosa hanno perduto in relazione a ciò che Dio ha sacrificato dal momento in cui il suo Verbo si è fatto carne ed ha così voluto subire l’assalto delle potenze che minacciano ogni carne, facendone cosa di sua competenza? Certamente essi devono subire un castigo, ma per quanto severo esso sia, è già in anticipo superato e come emarginato da ciò che ha dovuto soffrire Gesù Cristo, «consegnato a causa delle nostre offese». Per misurare il rigore e la durezza di un castigo, bisogna continuamente chiedersi chi è colui che lo subisce: una punizione anche cura può apparire sopportabile per alcuni, mentre sarà veramente spaventosa e mortale per altri; vi è tutta la distanza che separa il cielo dalla terra tra la sofferenza del Figlio di Dio, abbandonato al potere di Satana e quella dei Giudei o dei pagani, dell’incestuoso di Corinto o d’imeneo e di Alessandro condannati a subire la medesima pena; se questi uomini soffrono duramente, non vi è nulla nei loro tormenti che Dio non abbia deciso di subire lui stesso dall’eternità e che non abbia accettato di subire effettivamente, solo che la prova che ne deriva per lui è infinitamente più atroce. Le loro sofferenze non sono mai altro che un preludio o un posludio della passione di Gesù Cristo; è in lui, Gesù Cristo e non in loro, che si può vedere ciò che significa, per l’uomo, il fatto di essere consegnato senza difesa al potere di un nemico senza scrupoli e superiore in

forze; la loro riprovazione sta a quella di Gesù Cristo (secondo Rom. VIII, 22 s.) come il sospiro della creatura al grido del Figlio di Dio mentre spira sulla croce. Già tenendo conto di queste cose vediamo subito perché non si parli mai del Dio che nella sua collera abbandona gli uomini a loro stessi, senza un rinvio, diretto o meno, alla possibilità escatologica di cui trattavamo prima, cioè senza richiamare la nostra attenzione allo scopo e al senso salutare dell’azione divina. In particolare già fin d’ora dobbiamo capire che la rivelazione della collera di Dio per tutta l’empietà e l’ingiustizia degli uomini (Rom. I) è in realtà solo l’inverso della rivelazione della sua giusta decisione, intervenuta in Gesù Cristo in favore di tutti coloro che credono. Il fatto che gli uomini siano «consegnati» e puniti, per quanto reale e grave, non ha nessun significato indipendente, ma è continuamente rapportato all’«abbandono» subito da Gesù. La sofferenza di costoro ha soltanto questo di specifico (secondo i passi in cui se ne parla): essa significa il loro abbandono a se stessi, ai loro peccati, a Satana; i malvagi sono presi nelle loro stesse reti poiché (secondo Apoc. XXII, 11) possiedono la spaventosa libertà di continuare ad essere ciò che sono; che cos’è l’inferno, questo luogo di tormenti dove i riprovati sono precipitati, dove si sentono pianti e stridore di denti, se non la possibilità, per ciascuno, di trovare e di possedere molto semplicemente ciò che ha cercato nella sua follia e nella sua malvagità ed essere proprio così come si è voluto? Si tratta veramente dei tormenti infiniti e della morte eterna che il riprovato deve subire; a prima vista sembra che Gesù non abbia potuto soffrire così, poiché è per obbedienza ch’egli ha umiliato se stesso fino alla morte. Ma che cosa dovremmo dedurre da questo disaccordo apparente tra ciò che Gesù ha fatto e ciò che ha sofferto?; forse ch’egli ha subèto una cosa diversa dai tormenti e dalla morte che i riprovati si sono riservati e hanno meritato?; certamente no, poiché è il contrario che è vero: questi tormenti e questa morte che non aveva meritati, data la sua obbedienza, li ha subiti proprio per loro, al loro posto. Malgrado il disaccordo apparente di cui parlavamo in precedenza, abbiamo una sola possibilità, a meno che l’«abbandono» di Gesù non abbia alcun senso: accettare la testimonianza secondo cui Gesù è stato consegnato per noi alla sofferenza e alla morte. «Per noi» che, se crediamo e confessiamo questo, dobbiamo considerarci veramente solidali con i Giudei ed i pagani ripudiati, con l’incestuoso di Corinto, con Imeneo ed Alessandro, in quanto siamo obbligati a riconoscere di aver meritato pure noi la collera divina che, come ci informa la Scrittura, è scoppiata contro di loro. Ciò che Gesù ha subìto, lui innocente è

indubbiamente la punizione di tutti questi uomini abbandonati da Dio nella sua collera, il giudizio che l’uomo si attira e non può che attuare contro se stesso, poiché è stato reso libero di continuare ad essere malvagio; senza essere stato malvagio. Gesù Cristo ha dovuto soffrire ciò che ciascuno deve soffrire perché è libero di continuare ad essere malvagio; ha sopportato la sofferenza d’Israele abbandonato all’idolatria, la sofferenza dei pagani abbandonati alle concupiscenze dei loro cuori, la sofferenza di quei cristiani abbandonati a Satana di cui parla il Nuovo Testamento. Dove giunge l’uomo così abbandonato, nella miseria senza speranza procuratagli dal suo abbandono, là si trova Gesù Cristo (Gesù Cristo nel giardino di Gethsemani, Gesù Cristo sul Golgota); ecco il calice ch’egli beve, dopo aver chiesto ch’esso sia allontanato, dopo aver riconosciuto ancora e sempre che berlo è conforme alla volontà di Dio. Dobbiamo aggiungere subito: è solo lui che beve questo calice, non Pietro, nemmeno Giuda e nessuno di coloro che Dio ha consegnato nella sua collera e nessuno di noi che, tutti, avremmo meritato di essere abbandonati; solo lui è consegnato e abbandonato a questa sorte; altrimenti come si potrebbe affermare seriamente che è stato consegnato «per noi», «al nostro posto»? In conclusione: quanto gli uomini «consegnati» hanno sofferto e quanto coloro che hanno meritato di esserlo possono ancora soffrire, è Gesù Cristo che le ha sofferto per loro; essi non devono dunque soffrirlo più; la sofferenza di Gesù Cristo li dispensa; Dio li ha risparmiati perché non ha risparmiato il proprio Figlio. Non conviene però minimizzare la loro pena ed il loro castigo; i giudizi ch’essi subiscono e che anche noi subiamo sono non soltanto meritati, ma terribili; è terribile essere un Faraone, un Saul, un Giuda, un Alessandro o un Imeneo; è terribile essere condannato alla perdizione e dover prendere il cammino che conduce all’inferno. Non dimentichiamo però che noi conosciamo in realtà soltanto un trionfo dell’inferno ed è l’abbandono di Gesù Cristo; e sappiamo che questo trionfo ha avuto luogo affinché non ce ne fossero mai più altri, affinché l’inferno non potesse più vincere nessuno. Non dobbiamo dimenticare che Gesù stesso è disceso nel più profondo dell’inferno, non soltanto «insieme» a molti altri, ma «per» molti altri, «al loro posto», al posto di tutti coloro che credono in lui. È a lui, il Figlio di Dio che si è umiliato per obbe dienza fino a subire la morte riservata ai malfattori, fino ad essere appeso alla croce, malgrado la sua innocenza che Dio ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome: ὑπέρ πᾶν ὄνομα (Fil. II, 9); ciò che ha fatto domina assolutamente tutto ciò che è stato fatto o può essere ancora fatto, sia in bene che in male, sia come azione o come passione; è come dire

che la sua opera supera completamente tutti i tormenti e tutte le morti che altri uomini possono essere condannati a subire, In qualità di riprovati. Gesù Cristo è il riprovato per eccellenza; in lui infatti Dio è diventato un riprovato ed in lui ha toccato il fondo della riprovazione. Così anche in questa prospettiva non possiamo considerare lo stato e la sorte di coloro che Dio ha «consegnato» nella sua collera come una realtà indipendente; certamente non dobbiamo negare che la loro condizione corrisponde a qualche cosa di reale; non possiamo però attribuirle se non una realtà limitata da Gesù Cristo, dalla sua umiliazione, dalla sua discesa all’inferno, dal fatto che è stato lui stesso consegnato, anzi lui innanzitutto. Tutto ciò significa che si tratta di una realtà limitata dalla fede in Gesù Cristo; credere in Gesù Cristo vuol dire non smettere un solo istante di lasciargli senza riserva alcuna la cura di pronunciarsi su di noi come su tutti gli altri uomini; credere in Gesù Cristo significa non poter più considerare come perduto nessuno di coloro che Dio ha consegnato nella sua collera. Non conosciamo nessuno che Dio abbia veramente e definitivamente abbandonato a se stesso; non conosciamo che un solo essere abbandonato e perduto, ossia Gesù Cristo; egli è stato perduto (ma anche ritrovato) affinché nessuno, a parte lui, lo fosse. La sorte degli uomini consegnati dalla collera di Dio, lasciati a loro stessi, abbandonati a Satana sarà soltanto, e questo per la loro personale salvezza, un richiamo infinitamente lontano della sofferenza del Cristo, un segno anticipatore o una semplice eco della sua morte; in questo senso indicherà dunque, senza alcun dubbio, la condanna che l’uomo ha meritato, ma soprattutto rinvierà alla grazia che lo preserva da questa condanna. Si comprende così meglio perché la possibilità escatologica cui si è precedentemente accennato svolga un ruolo talmente importante nei passi del Nuovo Testamento relativi alla collera di Dio. È evidente ch’essa non può essere considerata se non in quanto puro limite escatologico; la riprovazione dei reprobi, il giudizio che pesa su di loro è un fatto pienamente acquisito, che non si potrebbe affatto cambiare; i riprovati sono realmente ed a buona ragione «nell’ombra» e non potrebbero, di loro iniziativa, sfuggire a quest’ombra. Si deve ammettere (secondo la Scrittura) che sono innumerevoli le persone che al pari di Giuda non hanno mai avuto la possibilità di pentirsi realmente o hanno vissuto e sono morti senza aver adempiuto le condizioni di una penitenza degna di salvezza; se vi è malgrado tutto una luce ed una speranza per loro, è unicamente perché esiste un «eschaton», un limite che circoscrive dall’esterno la loro condizione senza uscita; questo eschaton, che si oppone esteriormente e in modo nuovo alla

condizione dei reprobi, porta un nome: si chiama Gesù Cristo, consegnato per la purificazione e l’espiazione dei peccati del mondo intero. Qualunque cosa Dio possa fare dei riprovati, non riserva loro in ogni caso la sorte che ha riservato a se stesso consegnando Gesù; infatti è proprio in loro favore ch’egli si è trattato come ha fatto nel proprio Figlio; affinché essi stessi non dovessero subire il giudizio, cioè non fossero condannati a perire. Non ci compete sapere che cosa è avvenuto o avverrà di loro, posti sotto la luce dell’opera compiuta da Dio per il mondo; solo Gesù Cristo è il pegno del perdono dei peccati e solo lui è risuscitato dalla morte; solo lui dunque è anche il garante ed il testimone della speranza, per noi come per gli altri uomini. Ma ci compete ancora meno negare che anche i riprovati siano effettivamente posti sotto questa luce; non potremmo infatti confessare che Gesù Cristo è la nostra luce, senza riconoscere di meritare anche noi di essere consegnati e condannati dalla collera divina; è dunque solo considerandoci solidali con «gli altri» che possiamo seriamente confessare la nostra fede. Vogliamo a nostra volta essere in grado di lanciare la sfida di Paolo: «Se Dio è per noi, chi mai sarà contro di noi?» e poterlo fare sinceramente? Bisogna allora che evocando tutti gli individui che apparentemente o meno ricordano la figura di Giuda, noi siamo in grado di pensare e di affermare, secondo le esigenze della nostra fede: «Se Dio è per loro, chi mai sarà contro di loro?». Il loro abbandono a se stessi o a Satana metterà ancor più in evidenza il fatto che Dio sia anche per loro; infatti, tenuto conto di tutta la distanza che li separa, la loro condizione assomiglia tanto più a quella di Gesù Cristo quanto più essa è umanamente disperata; ciò che Dio ha fatto per il mondo, dando il proprio Figlio per noi, ci è ricordato tanto più chiaramente ogni volta che consideriamo «gli altri»; o piuttosto, no, basta che noi guardiamo noi stessi per ricordarci ciò che vuol dire la perdizione, ciò che significa il fatto di essere un uomo ripu diato da Dio. Tanto in ciò che riguarda gli altri, quanto in ciò che concerne noi stessi dobbiamo dunque rilegarci sempre più alla realtà escatologica che domina tutto il Nuovo Testamento: Gesù è stato consegnato al posto dei peccatori. Questo è l’evento che sviluppa ormai tutti i suoi effetti e che ci permette di sperare, cioè di intravvedere, in margine alla condizione senza uscita dei riprovati, la possibilità di una liberazione. Esaminiamo ora la παράδοσις (tradizione) apostolica alla luce del παραδοῦναι divino positivo. Costatiamo subito che quanto gli apostoli hanno fatto trasmettendo la conoscenza di Gesù ad altri e fondando la chiesa proprio in forza di questa trasmissione salutare ha anch’esso la sua origine nel

παραδοῦναι di Dio. L’attività degli apostoli è, in quest’occasione, un’attività piena di autorità, proprio perché non è affatto originale ma è interamente legata a quella di Dio, suo prototipo, che ha consegnato suo Figlio, il quale a sua volta ha consegnato se stesso nelle mani degli uomini peccatori. Le tenebre del giudizio divino, le tenebre della riprovazione di cui soffrono uomini peccatori, non sono che l’ombra inevitabile del giudizio e della riprovazione che Dio ha deciso dall’eternità e compiuto nel tempo senza risparmiare il proprio Figlio; a maggior ragione la luce della grazia che illumina il ministero di altri uomini peccatori, incaricati di testimoniare il Vangelo di fronte ai loro simili, non è che il riflesso della luminosità proiettata dalla misericordia eterna che Dio ha voluto adoperare nei nostri riguardi, consegnando suo Figlio. La schiavitù ed i tormenti dei riprovati non significano nulla di nuovo e non costituiscono alcuna realtà indipendente, in rapporto a ciò che Gesù Cristo ha sofferto e ha sofferto anche per loro; ugualmente, la tradizione apostolica, questa trasmissione salutare di Gesù, non significa anch’essa nulla di nuovo e non ha alcun valore in sé; è una semplice «trasmissione» umana del dono di Dio. È un’attività non «produttiva» ma «riproduttiva»; l’apostolo non è «un signore», è il servitore di un solo e medesimo Signore; non ha inventato né scoperto in se stesso il tema della sua predicazione; questo tema si è imposto a lui, come una creazione di Dio prima e senza ch’egli l’abbia cercato. Lasciato a se stesso, l’apostolo si sarebbe messo in cerca di tutt’altra cosa di un ben diverso messaggio; invece predicando, non fa che ripetere ed imitare su scala umana ciò che Dio ha fatto prima; «consegna», «trasmette» Gesù Cristo, poiché, primitivamente e nel senso letterale della parola, è Dio stesso che l’ha «consegnato» e «trasmes so». L’apostolo è soltanto un testimone del decreto divino e della sua esecuzione; anche qui vi è tutta la distanza che separa il cielo dalla terra, tra ciò che Gesù Cristo diviene per ia volontà di Dio e ciò ch’egli diviene in seguito per il ministero degli apostoli; è soltanto in questa differenza che sta l’unità di queste due azioni. Se Gesù Cristo è ((consegnato» nelle mani di uomini che lo «trasmettono» ad altri, è perché Dio l’ha voluto e l’ha già fatto lui stesso una volta per tutte, fin dall’eternità; che cosa sarebbe infatti la parola apostolica senza l’incarnazione del Verbo di Dio?; e che cosa sarebbe la grazia della predicazione apostolica senza la grazia della grande opera di Dio cui essa si riferisce e da cui trae la sua sostanza? Tra il παραδοῦναι apostolico e quanto Dio ha voluto e compiuto fin dall’eternità consegnando suo Figlio vi è il medesimo rapporto che quello intercorrente tra le lodi che la creazione rende

a Dio a quelle che Dio stesso ha preparato al Figlio suo nella gloria della risurrezione. Questo atto è la παράδοσις autentica propriamente detta. Grazie a questa παράδοσις l’amore onnipotente di Dio si è rivolto con efficacia verso l’uomo; un ponte è stato gettato sull’abisso che separa Dio dall’uomo; Dio ha cercato e trovato l’uomo. In essa è stata creata per l’uomo la possibilità di esistere di fronte a Dio e di vivere con lui; in essa è stato spazzato via quanto impediva all’uomo di vivere in questo modo, quanto lo escludeva dal patto e faceva di lui un nemico di Dio; per mezzo suo l’uomo è stato purificato dal peccato e l’accesso al regno di Dio gli è stato aperto. In essa è stato concesso all’uomo di avere una speranza sicura nella vita eterna; per mezzo suo la chiesa è stata fondata e si conserva e questo senza alcun intervento umano; in essa Dio ha corso un rischio per noi; non era infatti forse pericoloso e compromettente per lui e per il suo onore impegnarsi così profondamente di fronte all’uomo da divenire lui stesso un uomo, da mescolarsi agli altri uomini, per adempiere il suo compito in mezzo a loro e come loro? Per mezzo suo Dio si è compiaciuto di essere vinto, di essere ridotto all’impotenza, di essere ucciso e ripudiato da coloro cui era divenuto simile; attraverso di essa Dio ha realizzato la sua benevolenza nei confronti dell’uomo; infatti esponendosi al pericolo e essendone sopraffatto, ha esattamente compiuto il passo decisivo che gli permette di essere in favore degli uomini, di salvarli e di dar loro la speranza della vita eterna. È proprio questa παράδοσις divina che si riflette nell’attività degli apostoli; poiché consegnando se stesso Dio sa quello che vuole e quello che fa, poiché questo dono non può essere vano, occorre che vi sia questo riflesso, questa ripetizione e questa imitazione; poiché Dio parla attraverso questa παράδοσις, bisogna che essa incontri un’eco nel quadro della sua creazione. La tradizione (trasmissione) apostolica è questa eco; non può essere che un’eco e non potrebbe mai essere una voce indipendente; ma, benché assai diversa, benché in un campo molto differente, secondo la testimonianza del Nuovo Testamento, essa è indubbiamente l’eco della παράδοσις divina. La «tradizione» apostolica è un atto attraverso il quale alcuni uomini osano, con le loro parole umane, porre altri uomini davanti al fatto che l’amore onnipotente di Dio riguarda anche loro, anzi loro precisamente; che un ponte è stato gettato sull’abisso; che Dio li ha cercati e trovati; che essi esistono davanti a lui e possono vivere con lui; che non vi è nulla tra Dio e loro che lo possa impedire, nulla che li escluda ancora dal suo patto e dal suo regno; che si trovano davanti a una porta spalancata e possono sperare; che possono aspettare la vita eterna. Parlando in questo modo, gli

apostoli non enunciano una verità astratta; altrimenti non si tratterebbe della verità della rivelazione, ma di un mito, di una speculazione senza sostanza e senza efficacia; ciò che essi proclamano è invece un fatto interamente contenuto nel nome di Gesù Cristo. È il suo nome che essi trasmettono raccontando «i fatti che si sono compiuti tra noi» (Lc. I, 1); non sono filosofi o pensatori; sono testimoni oculari e servitori del Verbo che li ha incontrati in Gesù Cristo e al potere del quale si sono sottomessi. Poiché sono incluse nel nome di Gesù Cristo che spiegano e di cui narrano la storia, le loro affermazioni traducono la verità, non astrattamente, ma come un fatto, come una rivelazione; è nel nome di Gesù Cristo che risiedono la sostanza e l’efficacia del messaggio che gli apostoli trasmettono con l’aiuto di parole umane; la loro parola è sempre superata, ma anche fondata e illuminata dal Verbo di Colui di cui essi sono testimoni. La loro predicazione, sempre umana, si nutre interamente del suo oggetto; non vi è tradizione apostolica se non perché vi è stata una tradizione, una trasmissione divina e questo una volta per tutte; ciò che dicono gli apostoli è sempre soltanto un’eco di tale evento. Non sono loro che creano la chiesa, per quanto essa debba la sua esistenza alla loro predicazione; essi non fanno che chiamare coloro che Dio ha già chiamato e che raggiunge attraverso le loro parole umane; sono soltanto operai mandati tra le messi per raccogliere ciò che non hanno seminato: il grano è cresciuto senza di loro, prima ch’essi abbiano fatto qualcosa; si limitano semplicemente a segnalare il fondamento della chiesa, che è stato posto fin dall’eternità e nella sfera del tempo, grazie al fatto della παράδοσις divina. In tutto questo corrono anch’essi un rischio: la semplice ripetizione e la semplice imitazione dell’azione divina non sono senza pericoli; la sofferenza e la morte che Dio stesso ha subito nel proprio Figlio si riflettono infatti inevitabilmente nella vita degli apostoli; ricordiamoci degli avvertimenti di Mt. X, 24 ss.: il discepolo non è superiore al maestro né il servo al padrone. Questo significa che predicando Gesù Cristo agli uomini, gli apostoli si espongono alla sofferenza; l’uomo che trasmette, nella sua sostanza e nella sua forza divina, il nome di colui che è stato «consegnato» da Dio, deve aspettarsi di essere lui stesso. «consegnato»; deve aspettarsi di subire, a suo modo, qualcosa della sofferenza che Dio si è imposta nel proprio Figlio. Non per nulla Paolo applica almeno una volta a se stesso o ai portatori del ministero apostolico in generale, la famosa espressione «essere consegnato» (II Cor. IV, 11): «infatti noi, pur essendo vivi, siamo continuamente consegnati alla morte a causa di Gesù (εἰς ϑάνατον παραδιδóμεϑα διά Ίησοῦ), affinché anche la

vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale». È sicuramente nella medesima prospettiva che bisogna interpretare Col. I, 24: «Ora io mi rallegro nelle sofferenze che patisco per voi; e completo nella mia carne quello che manca delle sofferenze del Cristo» (τά ὑστερήματα τῶν ϑλίψεων τοῦXριοστοῦ). Quello che manca delle sofferenze del Cristo non può essere che questa eco in seno alla creazione, questa ripetizione e questa imitazione che si producono nel ministero apostolico, nel senso che gli apostoli non possono «manifestare» la vita di Gesù senza essere anch’essi «consegnati», senza soffrire per coloro presso cui esercitano il proprio compito. Ma che cos’è mai il pericolo che hanno corso e al quale hanno dovuto soccombere in comunione con Gesù, oggetto della loro predicazione, in paragone a quello cui Dio stesso si è esposto una volta ancora affidando loro il compito che hanno avuto? Si tratta in particolare del pericolo di cui si discute in Mc. VII, 6 ss. a proposito della tradizione degli uomini, che rischiano di impadronirsi del verbo divino per poi abbandonarlo, rifiutarlo ed annullarlo; che cosa diviene la verità trasmessa da Dio quando, tra le mani degli apostoli, è condannata a essere soltanto una tradizione umana?; che cosa è divenuta nelle mani degli scribi?; chi ci garan tisce che Gesù Cristo non sarà ancora una volta tradito dagli undici apostoli, dallo stesso Paolo?; chi ci prova che costoro non rischiano di essere anch’essi degli scribi cristiani che cadono sotto i colpi dello stesso giudizio degli scribi giudei di Mc. VII? Bisogna porsi la domanda con il massimo rigare possibile, per poter apprezzare al suo giusto valore il fatto che il Nuovo Testamento, quando nomina la tradizione apostolica, considera siffatto pericolo come un ostacolo visibilmente superato, escluso, inesistente; ben lontano dal porre un parallelo tra gli apostoli e gli scribi, il Nuovo Testamento lascia supporre come realtà del tutto evidente che, per quanto riguarda i primi l’evento segnalato da Mc. VII non si è prodotto e non poteva prodursi; è innegabile tuttavia che il Nuovo Testamento consideri l’attività apostolica come il seguito di quella degli scribi e non stimi di dover attribuire agli apostoli, in quanto uomini, una qualche virtù superiore. Tra gli scribi e gli apostoli vi è però la morte di Gesù, per mezzo della quale Dio ha prevenuto il pericolo di cui parliamo, prima ancora che potesse prendere una nuova forma; questo pericolo ha assunto una forma concreta nell’apostolo Giuda, negli scribi giudei, negli Israeliti come insieme, con la loro tradizione; dopo la morte di Gesù, esso è definitivamente rimosso e non può più presentarsi, nemmeno in una forma inedita, è stato reso informe ed è stato neutralizzato. Nella morte di Gesù infatti Dio ha messo se stesso in pericolo ed è stato volontariamente

sopraffatto, affinché l’uomo peccatore (di cui ha così assunto la condanna) sia purificato e liberato del suo peccato e da quel momento finisca di poter essere pericoloso. L’uomo peccatore è stato disarmato e non può più mutare la situazione; può certamente esitare a riconoscerla, ma non sarebbe capace di ridiventare quello che non è più; non può più impadronirsi una seconda volta del Figlio di Dio, dato per lui. La storia della fedeltà di Dio e dell’infedeltà di Israele, la storia di Giuda Iscariota; la storia dell’orto del Gethsemani e del Golgota sono irripetibili; tutte le apparenti ripetizioni saranno sempre soltanto giochi di ombre informi; Gesù è vincitore. Questo è il fatto che non può più essere annullato; e tale avvenimento si paleserà ovunque la conoscenza di Gesù (nel quale Dio ha dato se stesso) susciterà la fede e sarà predicata, affinché ascoltando questa predicazione altri possano credere a loro volta. Si tratta in questo caso della tradizione (o trasmissione) apostolica; certamente in questa ripetizione ed imitazione Gesù si rimette nelle mani di uomini peccatori; ma se questi uomini non fanno che ripetere e imitare, al loro posto, ciò che Dio ha fatto consegnando il proprio Figlio, se la loro predicazione si nutre esclusivamente di questo oggetto, non vi è più il problema che il pericolo di cui parlavamo più sopra riappaia sotto un altro aspetto nella tradizione apostolica. Questa tradizione dovrebbe finire di essere quello che è, la tradizione degli apostoli, cioè una predicazione che si nutre esclusivamente del proprio oggetto, per comportare ancora questo pericolo, anche solo in apparenza. Qui ci può essere infatti soltanto un finto pericolo; oggettivamente la causa di Dio, questa causa che Dio ha fatto trionfare dando il proprio Figlio, non può più essere minacciata dopo che il suo promotore ha esposto se stesso al peggiore pericolo possibile; non può nemmeno essere minacciata soggettivamente, cioè per opera degli uomini peccatori che la prendono in mano, come avviene nella tradizione apostolica. Essa stessa purifica le mani che la ricevono per trasmetterla, per quanto sporche possano essere; anche passando per queste mani, non può essere né alterata, né falsata; nessun scriba potrà più abbandonarla o rifiutarla o annullarla. Da sola, essa si attesta e si conferma e si difende. La tradizione apostolica è la ripetizione e l’imitazione umana del dono di Dio; mani di uomini peccatori conservano e trasmettono esattamente ciò che hanno ricevuto; ecco perché il Nuovo Testamento insiste tanto sulla fedeltà e la purezza che devono caratterizzare questa tradizione. Essa è fedele e pura in quanto corrisponde alla situazione creata oggettivamente dalla morte di Gesù; non ha altro contenuto e altro oggetto di questa morte; o se si vuole tutti i suoi altri contenuti sono inclusi e debbono

restare inclusi in questa morte; ecco in che cosa consiste la sua fedeltà e la sua purezza. Ed ecco ciò che le preclude di divenire ciò che è divenuta ed è stata la tradizione degli scribi, secondo Mc. VII; vi è una corrispondenza perfetta tra il dono di Dio e l’attività apostolica quando, nella fedeltà e nella purezza di cui stiamo parlando, gli apostoli riproducono da una parte con la loro predicazione l’atto della grazia divina rivolta verso l’uomo e dall’altra ripetono con la loro sofferenza l’atto di umiliazione che Dio ha giudicato necessario per dare forza alla grazia; il secondo elemento viene ad essere testimonianza e conferma del primo. L’azione di Giuda non può essere né ripetuta né imitata, nel quadro della tradizione apostolica; altrimenti questa tradizione cesserebbe di essere quello che è; ovverossia una predicazione umana che si nutre del dono di Dio. Pur permanendo il fatto che i suoi messaggeri sono uomini peccatori, come lo è Giuda, «trasmettendo» la morte di Gesù, compiono un atto che non ha rapporto con quello di Giuda se non perché è il suo esatto contrario; grazie alla morte di Gesù, contenuto e oggetto della loro tradizione, l’attività degli apostoli non può più essere un tradimento di Gesù; in conformità con il significato positivo dell’apostolato, essa può essere solo una glorificazione di Gesù, cioè della sua morte, proprio come l’atto simbolico di Maria di Betania, secondo Gv. XII. Paolo dice sì proprio là dove Giuda aveva detto no e lo fa dopo aver egli stesso detto di no, proprio come Giuda. Ecco dunque ciò che lo unisce a Giuda, lui e gli altri apostoli: la morte di Gesù; grazie a questa morte, il Giuda che era in Paolo è stato ucciso; purificato e liberato del suo passato, quest’ultimo non può più compiere l’atto che Giuda ha compiuto verso Gesù, non può più agire in conformità del suorcapasoovai anteriore; la possibilità di continuare a dire di no, di consegnare Gesù senza difesa al potere degli uomini, gli è stata tolta; «quel ch’era vecchio è sparito, ecco è sorto il nuovo» (II Cor. V, 17). Di che cosa si tratta?; che cosa resta, che cosa c’è di nuovo, dopo che ogni cosa ha rivelato la sua caducità?; qual è il frutto della risurrezione di Gesù? Risposta: la dimostrazione dell’impotenza umana, in confronto all’onnipotenza di Gesù. È di questo che si tratta nel messaggio trasmesso dagli apostoli; ormai il pericolo di imitare gli scribi di Mc. VII è completamente allontanato; lo è stato dalla morte di Gesù, da Dio stesso che ha dato suo Figlio, quel Dio di cui Paolo e gli apostoli hanno per compito di ripetere e di imitare esattamente l’opera. 4. Conclusioni sul destino di Giuda. Tutto ciò ci riconduce a Giuda: che cosa bisogna pensare, alla luce di quanto abbiamo detto, dell’azione

dell’apostolo che ha consegnato Gesù? L’abbiamo visto: Giuda ha messo Gesù in una situazione tale ch’egli non poteva più aspettare alcun soccorso da nessuno, fuorché da Dio; sembra perciò che Giuda abbia completamente pervertito il suo ministero di apostolo per divenire senza riserva alcuna il servo del diavolo. Lo sembra solo? Senz’altro no. La sua intenzione, il modo in cui l’ha realizzata, il risultato che ha ottenuto nell’ambito della storia umana di Gesù e della sua storia personale, tutto prova ch’egli ha agito conoscendo a fondo i fatti; coscientemente e deliberatamente ha tratto e messo in rilievo le conseguenze ultime del fatto che il Verbo di vino è divenuto carne ed ha voluto inserirsi nella storia, per dividere la sorte comune a tutti gli uomini; la sua azione ha concretizzato il riflesso naturale di ogni essere umano posto di fronte all’uomo che era il Figlio di Dio. Giuda ha condannato quest’uomo e ha così svelato la legittimità della condanna che pesa su tutti gli altri uomini; ha confermato una volta per tutte che il mondo nel quale Dio ha inviato il suo Figlio è il regno di Satana, cioè il campo della libertà snaturata e sprecata dalla creatura, che si oppone e resiste alla volontà e all’opera del suo Creatore; ciò che altri hanno fatto a Gesù, a fianco di Giuda e dopo di lui, fino all’atto finale della pena di morte, è stato soltanto la conseguenza del crimine di questo discepolo. L’atto di Giuda contiene e rappresenta ciò che Gesù deve subire, come un seme contiene e rappresenta già la pianta cui darà vita. Tuttavia più cerchiamo di approfondire il peccato di Giuda, più diventa chiaro che quest’uomo non ha esattamente fatto quello che voleva fare, simile in questo ai Giudei ed ai pagani dei quali alla fine egli è diventato il capro espiatorio; costatiamo ch’egli ha potuto soltanto compiere la volontà di Dio, il quale si è dato e si è umiliato per agire in favore degli uomini e contro il regno di Satana, onde purificare il mondo dal peccato di cui gli uomini sono colpevoli e che Giuda rappresenta in modo esemplare; considerando il peccato di Giuda nella sua ultima e terrificante portata, vediamo che è veramente Adamo che in questo caso è passato all’attacco diretto contro Dio, questo Adamo che, ascoltando il consiglio del serpente, in fondo voleva semplicemente essere come Dio, essere un uomo divino, liberato dai limiti della sua condizione di creatura. Per raggiungere questo scopo, Adamo ha alzato la mano contro Dio, come Caino contro suo fratello; è a questo prezzo che pensava di poter essere libero; pensava di vivere senza essere disturbato, come un uomo investito delle prerogative divine. Che cosa ci è consentito dire però se è piaciuto a Dio di voler essere fin dall’eternità l’oggetto di questo attacco da parte dell’uomo e se gli è piaciuto di esserlo effettivamente nel bel

mezzo del tempo?; e questo per purificare e liberare definitivamente l’uomo dalla sua colpevole presunzione, dalla sua follia mortale, dalla spaventosa maledizione provocata dal desiderio insensato di assomigliare al suo Creatore; e questo per rifare quest’uomo smarrito a sua immagine, a immagine del suo Figlio. Paolo non ha forse ragione (e non è esattamente a Giuda che questo testo si applica?) quando dice che dove abbondò il peccato, ivi sovrabbondò la grazia (Rom. V, 20), dove la legge condanna l’uomo definitivamente, il vangelo entra in gioco per dimostrare ciò che Dio riserva a questo condannato senza speranza? Non si può dimenticare: poiché Dio ha voluto essere attaccato dall’uomo e ha subito concretamente questo attacco conformemente alla sua volontà onnipotente e poiché così facendo ha voluto purificare e liberare l’uomo dalla sua follia e dalla maledizione della sua divinizzazione usurpata, per rifarlo a immagine del proprio Figlio, bisognava che l’uomo si levasse contro di lui, bisognava che andasse fino in fondo alla sua impresa, bisognava che il Figlio dell’uomo fosse «consegnato». Ecco perché l’azione di Giuda non potrebbe essere considerata come uno sgradevole episodio di una storia che finisce per accomodarsi, né come una manifestazione di qualche oscura potenza appartenente a una sfera situata al di fuori della volontà e dell’opera di Dio: deve essere considerata invece senza alcuna riserva (e soprattutto!) come un elemento di questa volontà e di quest’opera; Giuda compie esattamente ciò che Dio vuole. Anch’egli, prima ancora di Pilato, è l’executor Novi Testamenti. Consegnando senza vergogna Gesù ai suoi nemici, Giuda compie il sacrificio che Dio ha deciso e che sta offrendo a favore dell’uomo suo nemico e dello stesso Giuda; in tutta la loro infamia, le trattative di Giuda con i principi dei sacerdoti sono soltanto un riflesso del decreto eterno secondo cui Dio ha stabilito di non risparmiare il proprio Figlio; il perfido bacio con cui Giuda indica Gesù al momento dell’arresto è anche, in tutta la sua slealtà, un segno della gratitudine dell’uomo perduto verso colui che vuole intervenire in suo favore. Ecco perché le parole che Gesù ha rivolto poco prima a Giuda: «Ciò che fai, fallo presto», non sono soltanto una terribile sentenza di giudizio ma anche un ordine che significa come Gesù strappi per così dire al suo discepolo l’iniziativa e dimostra come proprio lui sia padrone degli eventi che stanno per prodursi. Questi eventi dovevano compiersi. In un certo senso Giuda e, accanto a Gesù, il personaggio più importante del Nuovo Testamento; è lui innanzitutto e lui solo tra gli apostoli a collaborare attivamente nel momento decisivo all’esecuzione di quanto è la volontà di Dio, divenuto in seguito il contenuto stesso del buon annuncio; è lui l’uomo

che è proprio condannato nel modo più esplicito dalla legge di Dio; è lui che dimostra chiaramente che rischiamo di sbagliarci completamente se pensiamo che, nel quadro del Nuovo Te stamento, non esistono individui puramente riprovati, poiché, tra gli apostoli, è il solo a dare l’impressione di agire nettamente e persino unicamente come un riprovato. Quando, lasciandosi condurre dal fatto che Dio ha voluto consegnare ed ha consegnato Gesù, si misura quanto sia indispensabile la funzione esercitata da Giuda, si può capire fino a un certo punto perché una setta sorta nei primi secoli (i cainiti) abbia potuto consacrare un culto particolare a quest’uomo; le ragioni che si sono fatte valere a giustificazione di tale culto non sono più assurde, dopo tutto, di quelle che hanno condotto altrove alla venerazione di Maria, la madre di Gesù; comunque il meno che si possa dire è che l’avversione popolare per colui che è stato denominato il «re degli scellerati»2 non è assolutamente giustificata; e quando un autore come Cari Daub continua ripetere in tutti i toni che Giuda è «un peccatore senza pari» per condannarlo e colpirlo definitivamente d’anatema dimostra semplicemente fino a che punto l’idealismo tedesco si trovasse disarmato e perplesso, quando affrontava il punto essenziale del Nuovo Testamento3. Non è però opportuno né venerare Giuda, né disprezzarlo; si tratta piuttosto di distinguere il paradosso che caratterizza tale personaggio; la sua azione, così totalmente propria di un peccatore, non è meno (o meglio lo è precisamente in quanto tale) propria di un executor Novi Testamenti. Nell’atto infame che Giuda ha compiuto, il παραδοῦναι divino e il παραδοῦναι umano non possono effettivamente essere distinti, proprio come avviene della «tradizione» apostolica fedele, in cui il secondo si riferisce al primo come al suo contenuto e al suo oggetto; nel caso di Giuda che ha pervertito il suo compito per servire Satana, i due παραδοῦναι coincidono anzi perfettamente e sono simultanei. Conviene notarlo: questo fenomeno si verifica proprio quando il παραδοῦναι umano è un peccato cosciente, voluto, che si può soltanto condannare e che il Nuovo Testamento condanna senza riserve; il peccato esiste qui in vista della giustizia e il male si trasforma in bene; siamo in presenza di un evento in cui il sì non segue il no, come in Paolo o negli altri apostoli, ma in cui il no è in sé e come tale il sì, perché Dio si compiace di farne un sì, che, in questa situazione, egli stesso vuol dire e pronunziare. Dio intende trarre quest’ultima conseguenza dall’incarnazione del suo Verbo ed è proprio lui che in questo caso la trae effettivamente; è lui che esige questa fine della sua storia, la storia dell’uomo Gesù e la realizza personalmente; è lui che

si è qui umiliato senza riserve per mettersi al livello dell’uomo: a tal punto che si lascia ridurre completamente all’impotenza e accetta di essere interamente consegnato alla mercé di Satana, il principe di questo mondo e questo tramite un uomo pari a Giuda, nel quale si sviluppano e si manifestano semplicemente le ultime conseguenze dell’atto voluto e compiuto da Adamo. Così Giuda non ha forse collaborato, nel punto decisivo, all’esecuzione della volontà divina? Non ha forse, lui «il peccatore senza pari», dato aiuto a Dio, non malgrado ma nel suo stesso peccato? Non vi è dunque nulla che possa autorizzarci a dichiarare che Giuda sia un santo oppure a disprezzarlo; solo la conoscenza, l’adorazione e la glorificazione di Dio hanno un senso; Giuda si trova «abbandonato» a tal punto, e questo per colpa sua, che non si può pensare né di difenderlo né di lodarlo. Non lo si può però nemmeno biasimare e condannare; quanto Dio ha fatto (lui che è stato «abbandonato» ancora in tutt’altro modo) rende infatti superfluo ogni biasimo e ogni condanna; sacrificando se stesso ha anche dato un senso al sacrificio di Giuda. Quest’ultimo è divenuto, in un modo non soltanto indiretto ma diretto (cioè proprio come riprovato) un servo di Dio, come sia Paolo sia Pietro non hanno mai potuto essere: il servo dell’opera della riconciliazione cui gli altri apostoli non hanno partecipato che in seguito e soltanto in qualità di testimoni. Ecco il fatto decisivo che non dobbiamo mai dimenticare a proposito di Giuda, il discepolo che ha «consegnato» Gesù; ecco ciò che resta, malgrado tutte le conseguenze che possono d’altronde risultare per la persona stessa di Giuda; questa è la sua effettiva partecipazione al compito positivo dell’apostolato e si tratta di una partecipazione eminente perché è partecipazione alla creazione della base stessa su cui si fonda l’apostolato: la tradizione (παράδοσις) divina. Poiché la tradizione divina (Dio ha dato suo Figlio, ha dato se stesso) è il contenuto e l’oggetto della tradizione (trasmissione) apostolica, quest’ultima non potrebbe esistere senza Giuda, senza il suo atto; così, suo malgrado, Giuda ha collaborato positivamente (e anche fondamentalmente!) al ministero dell’apostolato e della chiesa, fondato sull’elezione di Gesù Cristo; tale è la potenza sovrana della causa affidata agli apostoli, dell’elezione di cui sono stati oggetto per dive nire servi di questa causa. Essa utilizza anche colui che cerca di rifiutarla, di tradirla, di rinnegare la propria elezione all’apostolato; essa lo soggioga a tal punto che. anche sedotto da Satana, non riesce a decadere senza divenire un sostituto del portatore autentico dell’apostolato, un protopito negativo di Paolo; essa è abbastanza potente per conservarlo nell’ambito dell’elezione, lui, il riprovato, che si trova posto alla sinistra

mentre Paolo l’apostolo eletto si trova alla destra: infatti Gesù Cristo, che li rappresenta entrambi, è veramente tra di loro. Ecco perché Giuda rimane a confronto con lo stesso Gesù e meglio ancora è simile a lui, poiché è il solo tra gli apostoli a essere condannato a morire con lui; non che la sua morte abbia una portata salvifica; è soltanto la morte del peccatore che tutti hanno meritato, ma è ad essa che gli apostoli continueranno a pensare evocando quella di Gesù subita per tutti loro. Tuttavia (come ci è dimostrato dall’uso del verbo παραδοῦναι) la causa di Dio è così grande che fa di Giuda uno strumento; eppure Giuda è il παραδιδούς che, consegnando Gesù, rende concrete le ultime conseguenze della caduta di Adamo: la rivolta contro Dio e che, a causa del suo atto, è condannato a morire della morte del peccatore e a essere ormai soltanto un sostituto d’apostolo; Dio fa di quest’uomo uno strumento della sua «tradizione», senza la quale la stessa tradizione apostolica non avrebbe alcun contenuto, alcun oggetto. Non si oppone a Giuda solo per trionfare di lui; piuttosto assume pienamente la sua parte, per attribuirgli una funzione non secondaria, bensì eminente e decisiva. Da quanto precede non dobbiamo trarre conclusioni miranti a scusare e a giustificare l’operato di Giuda; se non vogliamo allontanarci dai dati espliciti del Nuovo Testamento, non possiamo vedere nella sua azione altro che un atto peccaminoso e colpevole; e poiché è necessario attenerci a questo giudizio, bisogna badare a non concludere che l’abbandono di Gesù da parte di Giuda e il suo abbandono da parte di Dio siano ira di loro in relazione tale che sia consentito affermare che il destino di questo apostolo abbia subito una trasformazione positiva. Limitiamoci a costatare che la superiorità della causa affidata agli apostoli è così grande, che lo stesso Giuda non ha potuto sottrarsi all’obbligo di servire questa causa ed è stato realmente costretto a collaborarvi con una funzione positiva, in conformità al compito eccezionale che gli è stato assegnato. Questo fatto deve essere costatato tanto quanto l’altro (cioè il peccato e la colpevolezza di Giuda) perché, secondo il Nuovo Testamento, non può essere disconosciuto. A gettare una luce più viva sui singolarissimi dati da cui siamo partiti aiuta il fatto secondo cui Giuda nel Nuovo Testamento è sempre denominato come «uno dei dodici» e che il termine di elezione è espressamente utilizzato anche nei suoi riguardi; la superiorità della causa apostolica, che si manifesta con il massimo di chiarezza proprio perché Giuda deve servire tale causa con il suo stesso peccato e con la sua colpevolezza, è la superiorità dell’elezione divina di cui anch’egli è stato oggetto; l’elezione di Giuda supera, eclissa,

controlla e domina la sua riprovazione: non soltanto in parte ma interamente, non soltanto in modo relativo ma assolutamente. Non certo perché questa riprovazione non sia né veritiera né seria, ma precisamente perché lo è, perché se esiste un personaggio biblico in cui non si può proprio trovare null’altro che non sia la riprovazione divina, questi è davvero Giuda. Sì, è veramente quest’uomo del tutto riprovato ad essere eletto e ad essere «uno dei dodici»; è lui che, nel momento decisivo, deve fornirne la prova e dimostrarlo più chiaramente degli altri; è lui che è preposto a indicare in vista di qual servizio Dio sceglie e elegge. Come abbiamo sottolineato all’inizio, la dottrina neotestamentaria della predestinazione attribuisce un’importanza decisiva al fatto che l’uomo ripudiato da Dio, il «riscontro» dell’eletto, si trova non ad una qualsiasi distanza da Gesù, ma nella sua più intima ed immediata prossimità; la minaccia inquietante che pesa sugli eletti è indicata con sufficiente chiarezza dalla presenza in mezzo a loro del riprovato, che siede alla stessa tavola di Gesù; «Signore, sono forse io?»: questa è la domanda che ciascuno in particolare può e deve porsi, anche se si trova a fianco di Gesù, anche se appartiene al cerchio degli eletti. Ma un’altra cosa si manifesta ora ancor più chiaramente: il riprovato che sta a fianco di Gesù non può possedere l’autorità, la dignità e la potenza di un avversario oggettivo; al contrario, per quanto detestabili siano il suo essere e la sua opera e benché non vi sia nulla di meno dell’autorità, della dignità e della potenza di Satana a nascondersi dietro di lui, tutto avviene e si svolge sotto la sovranità, l’irradiazione ed il controllo di Gesù. La libertà di movimento di Giuda è limitata da ogni parte dalla libertà di movimento di Gesù; la sua azione perniciosa rimane tutta relativa all’azione benefica di Gesù; in fin dei conti, è destinata, contrariamente all’intenzione che la guidava, ad assumere un significato positivo, proprio a causa di questo suo essere relativa a Gesù. Il personaggio «antitetico» costituito dall’uomo riprovato da Dio non ha un proprio valore secondo il Nuovo Testamento; la sua posizione è tutto tranne che autonoma; esiste certo, ma unicamente come un’ombra. In rapporto all’uomo eletto, esiste soltanto più nel modo in cui Giuda morto esiste ancora in Paolo o come le cose passate continuano a essere, proprio come cose passate, dopo il prodursi di cose nuove o ancora come la carne, soggiogata sussiste dopo che lo Spirito è stato dato all’uomo. I παραδιδóντες umani sono dunque sotto il regno del παραδοῦναι divino che si è compiuto nella morte di Gesù Cristo, sotto la potenza della predicazione che ne scaturisce per loro; esistono (per esprimersi con I Pt. III, 19) come «spiriti in carcere» verso cui il Cristo è

disceso per portar loro il buon annuncio; è vero che sono dei riprovati, degli spiriti in carcere, ma è pure vero che il Cristo è entrato dentro la loro prigione ed essi sono divenuti oggetto del suo annuncio. «Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi»: questa parola garantisce anche loro; la loro sorte è legata alla potenza dell’offerta divina e della predicazione che la proclama e questa potenza è più forte di tutto: essi sono nella condizione lasciata aperta dalla predicazione della buona novella e la totale ineguaglianza di forze a confronto dimostra a che punto questa condizione è e rimane aperta. Il Nuovo Testamento si è occupato di questo aspetto della dottrina della predestinazione (cioè della dottrina della riprovazione divina e dell’uomo riprovato) anche nella prospettiva dell’adempimento e dell’interpretazione dell’Antico Testamento; sappiamo infatti che pure l’Antico Testamento attesta l’elezione in questa prospettiva negativa ed oscura; ricordiamoci con quanta cura nei passi più importanti relativi a Giuda, sia attirata l’attenzioane sul fatto che tutto avviene in vista (ed esclusivamente in vista) dell’adempimento della profezia veterotestamentaria. Operando contro il Messia d’Israele, Giuda, il παραδιδούς, agisce esattamente come il popolo eletto ha agito da sempre verso il suo Dio; è lui che dimostra con il suo operato che il popolo eletto è nel suo insieme riprovato da Dio; ancora una volta in Giuda riprendono vita tutti i grandi riprovati dell’Antico Testamento; in lui sono per così dire riepilogati, loro che già hanno dovuto testimoniare nel loro tempo che il popolo eletto era in realtà un popolo riprovato, scelto nel bel mezzo della sua riprovazione unicamente in forza della promessa divina accordatagli fin dall’inizio e mai disdetta, scelto esclusivamente nella persona dell’uomo in vista del quale è stato possibile a questo popolo avere la sua esistenza particolare e necessaria. Di fronte all’azione di Giuda e dopo che Israele ha consegnato ai pagani (per farlo morire) Colui nel quale è stato eletto, non si può più dubitare della riprovazione di questo popolo, concretizzata dal ripudio di tutti i suoi membri; Giuda deve morire come è morto e Gerusalemme deve essere distrutta come è stata distrutta; il diritto d’Israele all’esistenza è diventato caduco ed ecco perché l’esistenza stessa d’Israele è condannata. Ma ciò che è valido per Giuda (ossia che l’offerta divina si rivela superiore al tradiménto degli uomini) vale anche per Israele nel suo insieme; è sotto questa luce che conviene esaminare retrospettivamente la riprovazione divina del popolo eletto che l’Antico Testamento mette sempre più in evidenza; il ripudio d’Israele non ha nessun significato particolare, al di fuori dell’elezione divina, malgrado sia (così come

hanno sempre e di nuovo testimoniato i profeti) il segno evidentissimo della collera di Dio senza freno e con il massimo rigore. Se gli individui riprovati dell’Àntico Testamento sono senza dubbio tali e così rimangono, resta però immutabile il fatto che la promessa accordata ad Israele è valida anche per loro ed essi vi prendono parte nella loro stessa riprovazione; questa promessa li concerne tanto quanto gli eletti, in cui continua a vivere e che si oppongono loro ininterrottamente; questi ultimi infatti sono stati scelti in qualità di testimoni di Colui nel quale Israele è scelto e così resterà, malgrado ed all’interno della sua completa riprovazione. Come Giuda non può minimamente alterare la causa dell’apostolato con il suo tradimento e con la sua riprovazione, ma deve divenire solamente il sostituto dell’autentico apostolo, così Israele non può certo con la sua infedeltà né annullare la promessa che gli è stata fatta, né rendere caduca o inefficace la missione che gli è stata affidata a beneficio di tutti i popoli. Mettendo Gesù Cristo in evidenza, Israele ha compiuto e giustificato il senso della sua esistenza; anche se è stato condannato a sparire dalla scena per aver rifiutato la promessa perfino nel suo adempimento, tale promessa, che gli è stata fatta e che si è compiuta in Cristo, gli resta ancora come gli resta la sua missione, anch’essa adempita in Cristo. Come Giuda ha dovuto, consegnando Gesù e condannando se stesso, prendere una parte attiva al compimento della decisione di Dio di dare il proprio Figlio, così, in modo altrettanto attivo, Israele ha realizzato la sua missione respingendo Gesù e consegnandolo ai pagani, come dimostra Paolo in Rom. XI. La grazia di Dio verso Israele è superiore all’infedeltà di questo popolo, come al giudizio che quest’ultimo ha attirato su se stesso e di cui ha dovuto subire le conseguenze. L’Antico Testamento si trova giustificato a posteriori dalla storia che abbiamo ricordato e che esso ha continuato ad indicare attraverso tutti i fatti riferiti e tutte le sue profezie, benché in apparenza le innumerevoli minacce di cui è ricolmo e di cui annuncia la realizzazione sembrino renderlo iricomprensibile. Ma è anche giustificato perché non descrive i riprovati senza accordare loro i tratti degli eletti e perché d’altra parte, malgrado la riprovazione che pesa sull’intero popolo, parla di individui eletti: certamente questi ultimi non sono incontaminati da tutti i segni della riprovazione, ma tuttavia, come eletti e con i loro caratteri particolari, testimoniano chiaramente la promessa fatta all’insieme d’Israele. Se Israele ha dovuto sparire dalla scena, è per conoscere una prima risurrezione nella chiesa di Gesù Cristo, composta di Giudei e di pagani, garanzia di future e nuove risurrezioni. In questi limiti gli è stato dato

di partecipare alla grazia di quel Dio che ha consegnato il proprio Figlio; certo esso è certamente, in qualità di popolo eletto particolare, il popolo riprovato e liquidato da Dio e continua ad esserlo, dopo l’atto che ha compiuto contro Gesù Cristo e fintantoché non si sarà risvegliato a una vita nuova nella chiesa; resta tuttavia il fatto che Israele consegnando Gesù, (cioè proprio nella sua malvagità) è stato lo strumento attraverso cui è stata fondata la chiesa di Gesù Cristo; così ha messo in grande evidenza quella luce che permette anche a lui di sperare. L’offerta divina, proclamata dalla confessione di fede della chiesa di Gesù Cristo, è la speranza d’Israele; essa significa per lui la promessa della sua elezione, che domina, supera, controlla e governa la sua riprovazione; la predicazione di questo dono di Dio si rivolge anche ad Israele. Essa proclama che Gesù Cristo è morto anche per il popolo ripudiato d’Israele. Che cosa avverrà? Questo è il segreto di Dio. Se non tocca a noi rispondere a questa domanda, possiamo tuttavia affermare che il popolo riprovato d’Israele si trova posto ad ogni buon conto nella condizione aperta, e tuttavia così disugualmente determinata, della predicazione, di modo che il problema della sua sorte non deve comunque porsi altrimenti che in questa prospettiva. Abbiamo così risposto per l’essenziale alla domanda: che cosa vuole Dio, che cosa ha in vista, nel momento in cui biasima, qual è la sua intenzione nei confronti dell’uomo che non è eletto? La risposta non può essere che questa: vuole esattamente che quest’uomo intenda l’evangelo, cioè la promessa della sua elezione; vuole dunque che l’evangelo gli sia annunciato; vuole che l’uomo possa impossessarsi, per viverne, della speranza che gli viene data dall’evangelo; vuole che il riprovato creda e, come credente, divenga un riprovato eletto. Il riprovato infatti non ha davanti a sé nessuna esistenza indipendente; non è destinato da Dio ad essere soltanto un riprovato, ma a lasciarsi dire e a potere dirsi ch’egli è un riprovato eletto. Questi sono veramente gli eletti del Nuovo Testamento: sono riprovati eletti proprio nella loro riprovazione, riprovati tra i quali Giuda è vissuto ma tra i quali ha trovato anche la morte, come nel caso di Paolo. Sono riprovati che, così come sono, sono chiamati alla fede: riprovati che, sul fondamento dell’elezione di Gesù Cristo e nella sicurezza ch’egli ha dato se stesso per loro, credono alla loro elezione personale. 1. CH. STARKE, Syn. Biblioth. exeg. in Nov. Test.: 1765: II, 1735. 2. L’espressione è di Abramo di santa Chiara. 3. C. DAUB, Judas Ischarioth oder das Boese im Verhaeltnis zum Guten (Gotha), 1816 s.

APPENDICI

APPENDICE PRIMA PER UNA LETTURA DELLA KIRCHLICHE DOGMATIK Riteniamo utile presentare l’insieme della Kirchliche Dogmatik offrendo la traduzione dei riassunti dei singoli paragrafi, testi cui Barth ha sempe annesso un’importanza fondamentale e che ha preparato con meticolosità; nel contempo diamo un’embrionale sinossi fra il testo tedesco e la più articolata traduzione francese di accesso più immediato per il lettore italiano; ciò non è invece necessario per la versione inglese in quanto tale traduzione segue esattamente la divisione dell’originale. Quest’appendice integra quanto precedentemente esposto nella nota storica. Com’è noto, la Kirchliche Dogmatik è incompiuta a duplice titolo: non solo manca il volume quinto (consacrato all’opera di Dio il Redentore) cosicché il piano rigorosamente trinitario giace spezzato nella sua parte finale, ma anche la parte conclusiva del volume quarto, dedicato all’etica della riconciliazione, di cui Barth ha pubblicato solo il frammento sul battesimo, cioè sul fondamento della vita cristiana. La dommatica barthiana deve rimanere così. Tuttavia lo schema di quest’etica era chiaramente tracciato; Barth ne ha dato notizia nella prefazione al frammento sul battesimo; un vasto materiale era pronto (taluni punti in doppia stesura) ed era stato utilizzato nell’attività accademica degli anni 19591961. Hans-Anton Drewes ed Eberhard Jüngel lo hanno pubblicato nelle Akademische Werke della Gesamtausgabe (1976), Crediamo opportuno tenerne conto per offrire un quadro più completo; daremo perciò una traccia sufficientemente ampia servendoci anche di un lavoro di Sergio Rostagno, purtroppo solo ciclostilato; tuttavia per ribadire il carattere frammentario e non definitivo tutti questi elementi sono dati in carattere piccolo e le indicazioni del capitolo e dei parafrasi sono posti in parentesi quadre. VOLUME PRIMO

LA DOTTRINA DELLA PAROLA DI DIO PROLEGOMENI ALLA DOMMATICA KD I/1 e I/2 = D 1-5 Introduzione §1 KD I/1, 1 ss. =D 1, 1 ss. Il compito della dommatica «La dommatica, disciplina teologica, è l’esame scientifico cui la chiesa cristiana sottopone il contenuto delle parole che pronuncia su Dio».

§2 KD I/1, 23 ss. = D 1, 23 ss. Ruolo dei prolegomeni alla dommatica «Chiamiamo prolegomeni il capitolo iniziale della dommatica, in cui si tratta del modo di conoscenza, che le è specifico». LA DOTTRINA DELLA PAROLA DI DIO CAPITOLO PRIMO

LA PAROLA DI DIO COME CRITERIO DELLA DOMMATICA §3 KD I/1, 47 ss. = D 1, 45 ss. La predicazione della chiesa, materia della dommatica «Le parole che sono pronunciate su Dio nella chiesa si pongono come predicazione allorché, rivolgendosi all’uomo per mezzo del sermone e del sacramento, pretendono e sperano di portare fedelmente la Parola di Dio, il cui ascolto autentico esige la fede. Nella misura in cui, malgrado tale pretesa e simile speranza, sono parole umane, esse costituiscono la materia del lavoro dommatico. Devono cioè essere misurate e rapportate al criterio della Parola di Dio, che si sforzano di annunciare». §4 KD I/1, 89 ss. = D 1, 85 ss. Le tre forme della Parola di Dio «È in forza della Parola di Dio che la predicazione e la chiesa devono essere quello che sono. Questa Parola è attestata dalla Sacra Scrittura, nella testimonianza dei profeti e degli apostoli cui è stata detta, inanzitutto e definitivamente, per mezzo della rivelazione divina». §5 KD I/1, 128 ss. = D 1, 121 ss. L’essenza della Parola di Dio «La Parola di Dio, nelle sue tre forme, è una parola che Dio rivolge all’uomo. Ora è precisamente nell’atto di cui l’uomo è oggetto da parte di Dio che essa interviene e si dispiega con forza. Essa costituisce allora un avvenimento senza paragoni, che si compie nel mistero divino». §6 KD I/1, 194 ss. = D 1, 181 ss. Possibilità di conoscere la Parola di Dio «La realtà della Parola di Dio nelle sue tre forme trova solo in se stessa la

sua fondazione. Di conseguenza la conoscenza che l’uomo ne ha può solamente significare il suo riconoscimento. Questo poi non può diventare reale ed essere reso comprensibile se non in virtù dell’azione della Parola stessa di Dio». §7 KD I/1, 261 ss. = D 1, 239 ss. La Parola di Dio, il dogma e la dommatica «La dommatica è l’esame critico del dogma, cioè della Parola di Dio nella predicazione della chiesa. O concretamente: l’esame della concordanza tra il messaggio della chiesa annunciato per mezzo degli uomini e la rivelazione attestata nella Scrittura. I prolegomeni alla dommatica, che devono determinare il metodo conoscitivo proprio di tale scienza, consistono dunque nell’esporre la dottrina delle tre forme della Parola di Dio: la forma rivelata, la forma scritta, la forma predicata». CAPITOLO SECONDO

LA RIVELAZIONE DI DIO SEZIONE PRIMA: Il Dio trinitario §8 KD I/1, 311 ss. = D 2, 1 ss. Dio nella sua rivelazione «La Parola di Dio è Dio stesso nella sua rivelazione. E poiché Dio si rivela come il Signore, ciò significa, per quanto attiene alla rivelazione della Scrittura, che Dio stesso nella sua inalterabile unità, ma anche nella sua inalterabile diversità, è il rivelatore, la rivelazione e l’oggetto della rivelazione». §9 KD I/1, 367 ss. = D 2, 51 ss. La Trinità di Dio «Secondo la Sacra Scrittura, il Dio che si manifesta è unico in tre maniere di essere distinte, consistenti in reciproci rapporti: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. È in questo modo che Dio è il Signore. In questo modo il “tu” divino incontra l’“io” umano, l’inalterabile soggetto si rivolge verso l’uomo per legarsi e rivelarsi a lui precisamente come il “suo” Dio». §10 KD I/1, 404 ss. = D 2, 84 ss. Dio il Padre

«Secondo la Scrittura il Dio unico si rivela come il Creatore, cioè come il Signore della nostra esistenza. Come tale è nostro Padre, poiché è già Padre in se stesso, come Padre di Dio il Figlio». §11 KD I/1, 419 ss. = D 2, 97 ss. Dio il Figlio «Secondo la Sacra Scrittura il Dio unico si rivela come il Riconciliatore, cioè come il Signore nel bel mezzo della nostra inimicizia contro di lui. Come tale è il Figlio venuto a noi o ancora la Parola di Dio che ci è stata rivolta, perché è già precedentemente in se stesso il Figlio o la Parola di Dio il Padre». §12 KD I/1, 470 ss. = D 2, 140 ss. Dio lo Spirito Santo «Secondo la Scrittura il Dio unico si rivela come il Redentore, cioè come il Signore che ci rende liberi. Come tale è lo Spirito Santo, la cui venuta ci rende figli di Dio, poiché egli è già in se stesso lo Spirito d’amore che unisce Dio il Padre e Dio il Figlio». SEZIONE SECONDA: L’incarnazione della Parola di Dio §13 KD I/2, 1 ss. = D 3, 1 ss. La libertà di Dio in favore dell’uomo «La rivelazione divina consiste, secondo la Sacra Scrittura, nel fatto che la Parola di Dio è diventata un uomo e che per questa ragione un uomo particolare è diventato la Parola di Dio. Gesù Cristo, l’incarnazione della Parola eterna, è la rivelazione di Dio. Nella realtà dell’avvenimento dell’incarnazione, Dio manifesta la sua libertà di essere il nostro Dio». §14 KD I/2, 50 ss. = D 3, 43 ss. Il tempo della rivelazione «Nell’avvenimento che è la presenza di Gesù Cristo, la rivelazione di Dio s’identifica con il tempo che Dio dispiega in nostro favore. Si tratta del tempo portato a compimento da questo medesimo avvenimento. Tale tempo, che riempie l’attesa dell’Antico Testamento ed il ricordo del Nuovo, è dunque anche il tempo che testimonia di questo avvenimento». §15 KD I/2, 134 ss. = D 3, 113 ss.

Il mistero della rivelazione «La rivelazione di Dio in Gesù Cristo è il mistero dell’elezione, della santificazione, dell’assunzione della natura e dell’esistenza umana da parte della Parola eterna di Dio che, in questo congiungimento della vera divinità e della vera umanità, diventa la Parola di riconciliazione che Dio rivolge all’uomo. Il segno di un tale mistero, che è rivelato dall’avvenimento della risurrezione, è il miracolo della nascita di Gesù Cristo: il fatto cioè di essere stato concepito per opera dello Spirito Santo e di essere nato dalla vergine Maria». SEZIONE TERZA: L’effusione dello Spirito Santo §16 KD I/2, 222 ss. = D 4, 1 ss. La libertà dell’uomo per Dìo «Secondo la Sacra Scrittura la rivelazione divina consiste nel fatto che Dio, lo Spirito Santo, ci illumina per farci percepire la sua Parola. L’effusione dello Spirito Santo è la rivelazione di Dio. È dalla realtà di questo avvenimento che dipende per noi la libertà di essere i figli di Dio, cioè di riconoscerlo, di amarlo e di lodarlo così come si è rivelato». §17 KD I/2, 304 ss. = D 4, 71 ss. La rivelazione di Dio come superamento della religione «La rivelazione di Dio per mezzo dell’effusione dello Spirito Santo è la sua presenza critica e riconciliatrice all’interno del mondo delle religioni umane, cioè dei tentativi fatti dall’uomo per giustificarsi e per santificarsi con i suoi mezzi davanti all’immagine della divinità che si compone autonomamente ed arbitrariamente. La chiesa è il luogo della religione autentica unicamente nella misura in cui, per mezzo della grazia, vive della grazia». §18 KD I/2, 397 ss. = D 4, 147 ss. La vita dei figli di Dio «Allorquando è ricevuta e riconosciuta nello Spirito Santo, la rivelazione di Dio crea degli uomini che non possono più esistere senza cercare Dio in Gesù Cristo, né cessare di attestare che Dio li ha trovati». CAPITOLO TERZO

LA SACRA SCRITTURA § 19

KD I/2, 505 ss. = D 5, 1 ss. La Parola di Dio per la chiesa «La Parola di Dio è Dio stesso nella Sacra Scrittura. Infatti in forza di un’unica e medesima signoria, dopo aver parlato un tempo a Mosè ed ai profeti, agli evangelisti ed agli apostoli come il Signore, Dio s’indirizza oggi attraverso i loro scritti alla sua chiesa. La Scrittura è santa, è essa stessa Parola di Dio poiché, nella forza dello Spirito Santo, è diventata e diventerà la testimonianza della rivelazione di Dio». § 20 KD I/2, 598 ss. = D 5, 81 ss. L’autorità nella chiesa «La chiesa non rivendica un’autorità diretta, assoluta ed intrinseca per se stessa, ma unicamente per la Sacra Scrittura in quanto Parola di Dio. L’obbedienza all’autorità della Parola di Dio attestata nella Scrittura si trova oggettivamente determinata dal fatto che tutti coloro i quali, nella chiesa, confessano di riconoscere e di ricevere la testimonianza biblica devono essere pronti a prestarsi reciprocamente attenzione, mentre cercano di spiegare e di applicare tale testimonianza. L’autorità della chiesa, costantemente limitata da quella della Sacra Scrittura, che la fonda, si mostra dunque come un’autorità indiretta, relativa ed estrinseca». §21 KD I/2, 741 ss. = D 5, 208 ss. La libertà nella chiesa «Colui che è membro della chiesa non rivendica una libertà diretta, assoluta ed intrinseca per se stesso, ma unicamente per la Sacra Scrittura in quanto Parola di Dio. Ora l’obbedienza nei confronti della libera Parola di Dio che si rivolge a noi nella Sacra Scrittura possiede una determinazione soggettiva. In effetti, il semplice fatto di riconoscere la testimonianza scritturistica significa che si è pronti ad assumersi la responsabilità di spiegare e di applicare simile testimonianza. La libertà nella chiesa è limitata dalla libertà della Sacra Scrittura, in cui trova il suo fondamento. Si tratta dunque di una libertà indiretta, relativa ed estrinseca». CAPITOLO QUARTO

LA PREDICAZIONE DELLA CHIESA §22 KD 1/2, 831 ss. = D 5, 289 ss.

La missione della chiesa «La Parola di Dio è Dio stesso nella predicazione della chiesa di Gesù Cristo. Per il fatto che Dio affida alla chiesa la missione di parlare di lui e che la chiesa esegue tale missione, proclama lui stesso la sua rivelazione nelle testimonianze che ci sono date. La predicazione della chiesa è pura quando la parola umana che vi si esprime per confermare la testimonianza biblica della rivelazione riflette e nel contempo suscita l’obbedienza alla Parola di Dio. Ne deriva che la parola del predicatore della chiesa costituisce l’oggetto particolare ed immediato del lavoro dommatico». §23 KD I/2, 890 ss. = D 5, 342 ss. La dommatica, funzione della chiesa che ascolta «La dommatica chiama la chiesa che insegna ad ascoltare in maniera sempre completamente rinnovata la Parola di Dio presente nella rivelazione attestata per mezzo della Scrittura. Non può tuttavia svolgere tale compito se non assume a sua volta il posto della chiesa che ascolta, obbedendo così essa stessa alla Parola di Dio, come alla norma cui la chiesa chiamata ad ascoltre si riconosce inanzitutto sottomessa». §24 KD I/2, 943 ss. = D 5, 392 SS. La dommatica, funzione della chiesa che insegna «La dommatica chiama la chiesa che ascolta ad insegnare in maniera completamente rinnovata la Parola di Dio, presente nella rivelazione attestata per mezzo della Sacra Scrittura. Non può tuttavia svolgere tale compito se non assume a sua volta il posto della chiesa che insegna, sapendosi così coinvolta dalla Parola di Dio, in quanto oggetto assegnato per definizione alla chiesa chiamata ad insegnare». VOLUME SECONDO

LA DOTTRINA DI DIO KD II/1 e II/2 = D 6-9 CAPITOLO QUINTO

LA CONOSCENZA DI DIO §25 KD II/1, 1 ss. = D 6, 1 ss. L’avvenimento della conoscenza di Dio «Non si dà conoscenza di Dio se non nell’avvenimento della rivelazione

della Parola di Dio per mezzo dello Spirito Santo, cioè nella realtà della fede e dell’obbedienza che questa implica. Il contenuto di tale conoscenza è l’esistenza di Colui che dobbiamo temere al di sopra di ogni cosa, poiché ci è consentito di amarlo più di ogni altra cosa e che resta per noi un mistero, proprio perché si è fatto conoscere da noi in una maniera così chiara e così certa». §26 KD II/I, 67 ss. = D 6, 62 ss. La conoscibilità di Dio «Da parte di Dio, la possibilità di conoscerlo risiede nel fatto che è lui stesso la verità e che si presenta come tale all’uomo nella sua Parola, per mezzo dello Spirito Santo. Da parte dell’uomo, questa medesima possibilità consiste nel fatto che, nel Figlio di Dio e per mezzo dello Spirito Santo, la creatura umana diventa l’oggetto del beneplacito divino ed è così resa capace di partecipare alla verità». §27 KD II/1, 200 ss. = D 6, 179 ss. I limiti della conoscenza di Dio «Dio non è conosciuto se non per se stesso. Non lo conosciamo dunque in forza delle rappresentazioni e delle nozioni che utilizziamo per cercare di rispondere alla sua rivelazione mediante la fede. Non lo conosciamo neppure al di fuori di quel cammino che ci è permesso e ci è ordinato. La realtà, e di conseguenza la veracità della nostra conoscenza umana di Dio, dipende rigorosamente dal fatto che Dio stesso, nella sua grazia, degna accogliere e qualificare le rappresentazioni e le nozioni con cui noi ci sforziamo di cogliere la verità divina». CAPITOLO SESTO

LA REALTÀ DI DIO §28 KD II/1, 288 ss. = D 7, 1 ss. L’essere di Dio come colui che ama nella liberta «Dio è Dio nell’atto della sua rivelazione. Ricerca e suscita una comunione fra lui e noi ed è così che ci ama. Il suo amore implica precisamente che, anche senza di noi, in quanto Padre, Figlio e Spirito Santo, egli è colui che, nella sua sovrana libertà, è autosufficiente nella sua esistenza». §29

KD II/1, 362 ss. = D 7, 69 ss. La perfezione di Dio «Dio vive la sua essenza perfetta nella pienezza delle sue perfezioni multiple, singolari e distinte. Ciascuna di esse è autosufficiente pur essendo correlata alle altre. Infatti sia come forma dell’amore in cui Dio esprime la sua libertà, sia come forma della libertà in cui Dio ci ama, ciascuna di esse si identifica con Dio stesso, con la sua essenza una, semplice e specifica». §30 KD II/1, 394 ss. = D 7, 98 ss. Le perfezioni dell’amore di Dio «La divinità dell’amore di Dio consiste e si conferma nel fatto che Dio è pieno di grazia, misericordioso e paziente in se stesso ed in tutte le sue opere ed appunto per questo santo, giusto e sapiente». §31 KD II/1, 495 ss. = D 7, 191 ss. Le perfezioni della libertà di Dio «La divinità della libertà di Dio consiste e si conferma nel fatto che Dio è uno, costante ed eterno in se stesso ed in tutte le sue opere ed appunto per questo onnipresente, onnipotente e glorioso». CAPITOLO SETTIMO

L’ELEZIONE GRATUITA DA PARTE DI DIO §32 KD II/2, 1 ss. = D 8, 1 ss. L’elaborazione di una corretta dottrina dell’elezione «La dottrina dell’elezione divina è la somma dell’evangelo, perché la miglior cosa che mai possa essere detta ed intesa è che Dio scelga l’uomo e che egli sia, in questa maniera, per lui, quegli che ama nella libertà. Questa dottrina trova il suo fondamento e la sua pace nella conoscenza di Gesù Cristo, poiché questi è contemporaneamente il Dio che elegge e l’uomo eletto. Essa fa parte della dottrina di Dio perché Dio, scegliendo l’uomo, lo determina certamente, ma nello stesso tempo determina ugualmente se stesso per una libera sua scelta. Essa ha come compito di attestare, fin dal principio, che il punto di partenza di tutte le vie e di tutte le opere di Dio è la sua grazia eterna, libera e costante». §33 KD II/2, 101 ss. =D 8, 97 ss.

L’elezione di Gesù Cristo «L’elezione gratuita è l’origine eterna di tutte le vie e di tutte le opere di Dio in Gesù Cristo, in questo senso che, nella sua libera grazia, Dio si autodetermina in favore dell’uomo peccatore, onde destinarlo alla sua appartenenza. Dio prende dunque su di sé la riprovazione che pesa sull’uomo, con tutte le sue conseguenze ed elegge quest’uomo, onde dargli partecipazione a quella gloria che è la sua». §34 KD II/2, 215 ss. = D 8, 205 ss. L’ elezione della comunità «La predestinazione come elezione di Gesù Cristo è contemporaneamente l’elezione eterna del popolo di Dio la cui esistenza significa che Gesù Cristo è attestato al mondo intero e che il mondo intero è chiamato a credere in lui. Questa comunità unica ha un duplice aspetto: in quanto Israele attesta il giudizio divino, in quanto chiesa attesta la misericordia divina. In quanto Israele è destinata ad intendere ed in quanto chiesa è destinata a credere la promessa fatta agli uomini. Israele è la forma passeggera, la chiesa la forma futura del popolo di Dio eletto». §35 KD II/2, 336 ss. = D 8, 304 ss. L’elezione dell’individuo «L’uomo isolato e separato da Dio è come tale rigettato da parte di Dio. Ma solo l’uomo senza Dio può scegliere un simile destino. La comunità di Dio è là per attestare ad ogni individuo particolare che siffatta scelta è nulla e non avvenuta, poiché ogni uomo appartiene da tutta eternità a Gesù Cristo, in cui Dio lo ha scelto e non riprovato. Essa porta testimonianza a ciascun uomo che la riprovazione da lui meritata a causa della sua scelta insensata è subita ed assunta da Gesù Cristo e che egli è destinato, in forza della giusta scelta divina, a vivere eternamente con Dio. La promessa della sua elezione personale determinerà l’individuo a trasmettere al mondo intero la testimonianza della comunità di cui è membro. E la rivelazione della sua riprovazione non potrà che condurlo a credere in Gesù Cristo come in colui che ha preso su di sé ed abolito tale riprovazione». CAPITOLO OTTAVO

IL COMANDAMENTO DI DIO §36

KD II/2, 564 ss. = D 9, 1 ss. L’etica considerata come uno dei compiti della dottrina di Dio «Dottrina del comandamento di Dio, l’etica espone la legge come la forma dell’evangelo, cioè come la santificazione di cui l’uomo è oggetto da parte del Dio che lo elegge. Essa trova il suo fondamento nella conoscenza di Gesù Cristo, perché Gesù Cristo è contemporaneamente il Dio santo e l’uomo santificato. Fa parte della dottrina di Dio perché, rivendicando per sé l’uomo, Dio si rende responsabile di quest’ultimo in un modo che gli è del tutto specifico. Così all’etica spetta di attestare fin dall’inizio la grazia di Dio, nella misura in cui tale grazia lega ed obbliga l’uomo per la sua salvezza». §37 KD II/2, 612 ss. = D 9, 45 ss. Il comandamento come rivendicazione divina «Poiché Dio ci fa grazia in Gesù Cristo, il suo comandamento è la rivendicazione che s’impone a noi affinché accettiamo di dargli ragione mediante tutta la nostra attività e rispondiamo al suo appello mediante la nostra libera obbedienza». §38 KD II/2, 701 ss, = D 9, 124 Il comandamento come decisione divina «Poiché Dio ci fa grazia in Gesù Cristo, il suo comandamento è la decisione sovrana, chiara e buona che determina il carattere della nostra azione: la decisione da cui noi sempre dipendiamo, sotto cui ci è dato di esistere e che non cessa di orientare il nostro cammino». §39 KD II/2, 819 ss. = D 9, 232 ss. Il comandamento come giudizio divino «Facendoci grazia in Gesù Cristo, Dio è il nostro giudice. Ci giudica perché ci vuole trattare come suoi a causa del proprio Figlio; ci giudica condannando, nella morte del suo Figlio, tutta la nostra attività come trasgressione e dichiarandoci giusti mediante la resurrezione del Figlio suo; ci giudica per renderci liberi per la vita eterna, sotto la sua sovranità». VOLUME TERZO

LA DOTTRINA DELLA CREAZIONE KD III/1, III/2, III/3 e III/4 = D 10-16 CAPITOLO NONO

L’OPERA DELLA CREAZIONE §40 KD III/1, 1 ss. = D 10, 1 ss. La fede in Dio, il Creatore «L’uomo comprende di dovere alla creazione divina non solo tutta quanta la realtà che è differente da Dio, ma anche la propria esistenza ed il suo specifico modo di essere unicamente quando riconosce la testimonianza di Dio stesso e vi risponde, cioè quando crede in Gesù Cristo, riconoscendo in lui l’unità realizzata del Creatore e della creatura come pure quella vita di cui egli è ora il Mediatore, sotto l’egida del diritto e nell’esperienza della bontà del Creatore nei confronti della sua creatura». §41 KD III/1, 44 ss. = D 10, 43 ss. Creazione ed alleanza «La creazione è la prima nella serie delle opere del Dio tre volte santo ed in questo essa è l’origine di tutte le cose differenti da Dio stesso. Poiché la creazione segna anche l’inizio del tempo, la sua realtà storica sfugge ad ogni osservazione e ad ogni relazione di natura storica e non può essere attestata, anche nei racconti biblici, che nella forma di una semplice saga letteraria. Secondo la testimonianza che ce ne offre la Scrittura il fine della creazione, e dunque pure il suo significato, è di rendere possibile la storia dell’alleanza di Dio con l’uomo, alleanza che possiede il suo punto di partenza, il suo centro ed il suo compimento in Gesù Cristo. La storia di questa alleanza è il fine della creazione, come la creazione è essa stessa l’inizio di questa storia». §42 KD III/1, 377 ss. = D 10, 356 ss. Il sì di Dio, il creatore «L’opera di Dio, il creatore, consiste in particolare nel beneficio in forza del quale, nei limiti della condizione creaturale, la sua creazione può esistere perché Dio le ha dato realtà e può essere buona perché l’ha giustificata». CAPITOLO DECIMO

LA CREATURA §43 KD III/2, 1 ss. = D 11, 1 ss. L’uomo in quanto problema della dommatica «L’uomo situato sotto il cielo e sopra la terra è l’oggetto principale

dell’insegnamento teologico sulla creatura, perché Dio ci rivela nella sua Parola la relazione che l’unisce all’uomo. E poiché l’uomo Gesù è la Parola rivelata di Dio, è lui la fonte della nostra conoscenza dell’essere umano creato da Dio». §44 KD III/2, 64 ss. = D 11, 61 ss. L’uomo creatura di Dio «L’essere dell’uomo è la storia in cui una delle creature di Dio, eletta e chiamata da Dio, assume la sua responsabilità davanti a lui e si mostra capace di farlo». §45 KD III/2, 242 ss. = D 11, 219 ss. L’uomo destinato ad essere l’alleato di Dio «Al fatto che l’uomo è destinato da Dio a vivere con lui corrisponde incontestabilmente il fatto che l’essere creato dell’uomoesiste nell’incontro: fra l’“io” ed il “tu”, fra l’uomo e la donna. È in questo incontro che egli è un essere umano. Ed è in forza della sua umanità così costituita che è parabola dell’essere del suo Creatore e che esiste sperando in lui». §46 KD III/2, 391 ss. = D 12, 1 ss. L’uomo come anima e corpo «Per mezzo dello Spirito di Dio l’uomo è il soggetto, la forma e la vita di un organismo materiale, cioè l’anima del proprio corpo, pur essendo totalmente e contemporaneamente l’uno e l’altra, in una differenza irriduttibile, un’unità indissolubile ed una reciprocità irreversibile». §47 KD III/2, 524 ss. = D 12, 120 ss. L’uomo nel suo tempo «L’uomo esiste nel quadro che gli è dato della sua vita passata, presente e futura. Colui che stabilisce in questo modo i limiti dell’essere umano, poiché era prima di lui e sarà ancora dopo di lui, è il Dio eterno, suo Creatore e suo partner nell’alleanza. È lui la speranza che consente all’uomo di vivere nel suo tempo». CAPITOLO UNDICESIMO

IL CREATORE E LA SUA CREATURA §48

KD III/3, 1 ss. = D 13, 1 ss. La dottrina della provvidenza: fondamento e forma «La dottrina della provvidenza ha per tema la storia dell’essere creato come tale. Questa storia si svolge tutta quanta e completamente sotto la paterna sovranità di Dio il Creatore, la cui volontà si compie e si manifesta all’interno dell’elezione gratuita, cioè nella storia dell’alleanza fra Dio e l’uomo e cioè in Gesù Cristo». §49 KD III/3, 67 ss. = D 13, 58 ss. Dio Padre, Signore della creatura. «Dio esercita la sua sovranità paterna sulla creatura conservandola, accompagnandola e dirigendola lungo tutto il corso della sua esistenza particolare. Tale azione si rivela mediante la misericordia, di cui il mondo è teatro ed oggetto in Gesù Cristo. Ed in questo quadro essa ha per scopo di rivelare la gloria del Figlio unigenito». §50 KD III/3, 327 ss. = D 14, 1 ss. Dio e la potenza del nulla «Anche nel quadro della sovranità divina in cui si trova inserito, il divenire universale è minacciato e perturbato da una potenza ostile che si oppone alla volontà del Creatore e di conseguenza pure alla natura buona della sua creatura: la potenza del nulla. Dio ha giudicato questa potenza in forza della sua misericordia manifestata e diventata efficace in Gesù Cristo; in virtù di tale giudizio, Dio decide dove, come, con quale ampiezza ed in quale rapporto subordinato alla sua Parola ed alla sua opera simile potenza può ancora agire, fino al momento in cui sarà rivelato, agli occhi di tutti, il fatto che essa è già stata completamente rifiutata e liquidata». §51 KD III/3, 426 ss. = D 14, 82 ss. Il Regno dei cieli, i messaggeri di Dio ed i suoi avversari «L’azione di Dio in Gesù Cristo, cioè la sovranità che esercita sulla sua creatura, si chiama il “regno dei cieli”, mobilizzando come fa, in primo luogo il mondo superiore. Dal seno di tale mondo superiore, Dio sceglie ed invia i suoi messaggeri, gli angeli. Costoro precedono la rivelazione della volontà divina ed il suo compimento sulla terra a guisa di testimoni autentici ed obiettivi; accompagnano quest’avvenimento come servitori fedeli e fidati di Dio e

dell’uomo; sono infine le sentinelle che vigilano efficacemente per contenere gli elementi e la potenza ostile del caos», CAPITOLO DODICESIMO

IL COMANDAMENTO DI DIO IL CREATORE §52 KD III/4, 1 ss. = D 15, 1 ss. L’etica nella dottrina della creazione «Il compito dell’etica speciale legata alla dottrina della creazione consiste nel mostrare che il comandamento unico del Dio unico che fa grazia all’uomo in Gesù Cristo è ugualmente quello del Creatore, di modo che esso costituisce già la santificazione dei fatti e gesti creaturali dell’essere umano». §53 KD III/4, 51 ss. = D 15, 47 ss. La libertà davanti a Dio «Dio il Creatore vuole che l’uomo, sua creatura, sia responsabile davanti a lui. Il suo comandamento significa in particolare che è permesso all’uomo di osservare e di santificare il giorno del riposo come un giorno di festa, di libertà, di gioia. Ed inoltre tale comandamento insegna all’uomo che può confessare Dio con il cuore e con la bocca e rivolgersi a lui per chiedergli tutto quello di cui abbisogna». §54 KD III/4, 127 ss. = D 15, 119 ss. La libertà nella comunità «Chiamando a sé l’essere umano, Dio il Creatore lo volge contemporaneamente verso il suo simile. Il comandamento di Dio significa in particolare che, nell’incontro dell’uomo e della donna, nei rapporti fra genitori e figli e sulla via che conduce l’uomo dagli esseri che gli sono vicini a quelli che gli sono lontani, è permesso all’essere umano di rallegrarsi, accettando ed onorando coloro con cui coesiste e che coesistono con lui». §55 KD III/4, 366 ss. = D 16, 1 ss. La libertà di vivere «Chiamando l’uomo a sé e rivolgendolo verso il suo simile, Dio il Creatore gli ordina di onorare la vita — la sua propria e quella degli altri uomini — come un bene che gli presta e che deve essere protetto da ogni atto arbitrario, perché deve essere usato attivamente per servirlo e per mostrarsi pronti a

servirlo». §56 KD III/4, 648 ss. = D 16, 264 ss. I limiti della libertà «Dio il Creatore vuole l’uomo (che gli appartiene, che è legato al suo simile e che deve approvare la propria vita come pure quella altrui) in un’intenzione particolare che si manifesta nei limiti del suo tempo, della sua professione e del suo onore, limiti che Dio già ha fissato all’uomo in quanto suo Creatore e suo Signore». VOLUME QUARTO

LA DOTTRINA DELLA RICONCILIAZIONE KD IV/1, IV/2, IV/3 e IV/4 Frammento = D 17-26 CAPITOLO TREDICESIMO

OGGETTO E PROBLEMI DELLA DOTTRINA DELLA RICONCILIAZIONE §57 KD IV/1, 1 ss. = D 17, 1 ss. L’opera di Dio, il Riconciliatore «L’oggetto, l’origine ed il contenuto del messaggio percepito e predicato dalla comunità cristiana hanno come centro la libera azione della fedeltà di Dio che prende in mano la causa perduta dell’uomo, precipitato nella rovina per aver rinnegato il suo Creatore. In Gesù Cristo, Dio la fa causa propria e la conduce a buon termine, difendendo, affermando e manifestando così il suo onore nel mondo». §58 KD IV/1, 83 ss. = D 17, 81 ss. La dottrina della riconciliazione: visione generale «Il contenuto della dottrina della riconciliazione è la conoscenza di Gesù Cristo, 1) il vero Dio che si abbassa per riconciliarsi con lui, ma anche 2) l’uomo autentico innalzato da Dio ed in questa maniera riconciliato con lui. È dunque nell’unità di queste due nature che Gesù Cristo è 3) il garante ed il testimone della nostra riconciliazione. Questa triplice conoscenza di Gesù Cristo implica la conoscenza del peccato dell’uomo: 1) l’orgoglio, 2) l’inerzia, 3) la menzogna, come pure la conoscenza dei tre momenti che segnano il compimento della riconciliazione: 1) la giustificazione, 2) la santificazione, 3) la vocazione ed ancora la conoscenza dell’opera dello Spirito Santo 1) nel

raduno, 2) nell’edificazione, 3) nella missione della comunità e di conseguenza la conoscenza dell’essere del cristiano in Gesù Cristo 1) nella fede, 2) nell’amore, 3) nella speranza». CAPITOLO QUATTORDICESIMO

GESU’ CRISTO IL SIGNORE COME SERVITORE §59 KD IV/1, 17 ss. = D 17, 164 ss. L’obbedienza del Figlio di Dio «Gesù Cristo è vero Dio: lo dimostra il fatto che imbocca la via che lo conduce lontano dal Padre suo per diventare lui, il Signore, un servitore. Infatti nella gloria del vero Dio è accaduto questo: il Figlio eterno è stato obbediente al Padre suo coeterno abbassandosi in maniera da divenire il fratello dell’uomo, colui che si mette a fianco dell’uomo, cioè del trasgressore e che lo giudica nel senso di accettare di essere giudicato e consegnato alla morte in vece sua. Dio il Padre lo ha risuscitato di fra i morti. Con questo gesto ha riconosciuto, nella sofferenza e nella morte del figlio, l’atto di giustizia compiuto, in nostro favore e gli ha conferito forza di legge. Mediante tale atto di giustizia, Dio ci ha ricondotti a sé e fatti passare dalla morte alla vita». §60 KD IV/1, 395 ss. = D 18, 1 ss. L’orgoglio e la caduta dell’uomo «Il verdetto che Dio ha reso risuscitando dai morti Gesù Cristo, crocifisso in nostro favore, rivela immediatamente chi è stato eliminato dalla morte del Figlio suo: l’uomo che, pretendendo di essere egli stesso signore, giudice del bene e del male, suo proprio salvatore, ha voluto essere come Dio e si è opposto così alla sua grazia sovrana. Di conseguenza un tale individuo in particolare e l’umanità in generale si trovano irreparabilmente, radicalmente e totalmente colpevoli di fronte a Dio». §61 KD IV/1, 573 ss. = D 18, 170 ss. La giustificazione dell’uomo «Il diritto di Dio riconosciuto nella morte di Gesù Cristo e proclamato nella sua risurrezione a dispetto dell’ingiustizia umana è, come tale, il fondamento di un diritto nuovo dell’uomo, che gli è per così dire corrispondente. Questo diritto attribuito all’uomo in Gesù Cristo, che dimora

nascosto in lui e che lui solo rivelerà un giorno, è inaccessibile all’immaginazione, agli sforzi ed alle opere di chiunque. Però è reale e nella sua realtà fa appello alla fede di ogni uomo: cioè al riconoscimento, alla presa di possesso ed all’attività che già gli sono conformi qua ed ora». §62 KD IV/1, 718 ss. = D 19, 1 ss. Lo Spirito Santo e la riunificazione della comunità cristiana «Lo Spirito Santo è la potenza di risveglio mediante la quale Gesù Cristo ha creato e continuamente rinnova il suo corpo, cioè la sua forma di esistenza terrestre e storica: la Chiesa una, santa, universale ed apostolica. Questa costituisce la cristianità, cioè il raduno di coloro che, prima di tutti quanti gli altri uomini, sono già fin d’ora resi capaci, per mezzo di Gesù Cristo, di condurre volentieri una vita sottomessa al verdetto divino reso nella morte di Gesù Cristo e rivelato mediante la sua risurrezione di fra i morti. Essa è dunque la rappresentazione provvisoria di tutta l’umanità giustificata da Gesù Cristo». §63 KD IV/1, 826 ss. = D 19, 107 ss. Lo Spirito Santo e la fede cristiana «Lo Spirito Santo è la potenza di risveglio mediante la quale Gesù Cristo chiama un uomo peccatore ad aderire alla sua comunità, lo invita cioè, come cristiano, a credere in lui: a riconoscerlo, a conoscerlo e a confessarlo come il Signore che si è fatto servitore; ad averne a sufficienza di se stesso e del mondo a causa della vittoria che in Gesù Cristo è stata riportata sul suo orgoglio e sulla sua caduta; a divenire subito pieno di sicurezza e di confidenza sia per quanto concerne sé che per quanto riguarda il mondo, poiché in Gesù Cristo sono state ristabilite contemporaneamente la giustizia dell’uomo ed i nuovi sentieri». CAPITOLO QUINDICESIMO

GESU’ CRISTO IL SERVITORE COME SIGNORE §64 KD IV/2, 1 ss. = D 20, 1 ss. L’esaltazione del Figlio dell’uomo «Gesù Cristo, il Figlio di Dio e il Signore, si è abbassato al rango di servitore; come tale, è anche il Figlio dell’uomo che è stato innalzato al rango di Signore: l’uomo nuovo ed autentico, l’uomo regale che onora ed attesta Dio,

perché partecipa al suo essere ed alla sua vita, alla sua sovranità ed alla sua azione. A questo titolo, è la testa, il rappresentante, il salvatore di tutti gli altri uomini, come pure l’origine, il contenuto e la misura delle direttive divine che ci sono state donate nell’opera dello Spirito Santo». §65 KD IV/2, 423 ss. = D 21, 1 ss. L’inerzia e la miseria dell’uomo «Le direttive divine che ci sono state impartite nella risurrezione di Gesù Cristo crocifisso per noi, mostrano immediatamente chi è stato vinto nella sua morte: l’uomo che, avendo rifiutato di usare della sua libertà, ha voluto essere autosufficiente nella pochezza di un essere rinchiuso su di sé ed è così stato consegnato alla morte, essendosi trovato sottomesso, irrimediabilmente e completamente, alla potenza della stupidaggine, dell’inumanità, della sregolatezza, della preoccupazione di cui è diventato colpevolmente preda». § 66 KD IV/2. 565 ss. = D 21, 134 ss. La santificazione dell’uomo «L’esaltazione dell’uomo che, malgrado la sua defezione, si è verificata nella morte di Gesù ed è stata manifestata nella sua risurrezione, è come tale la creazione della nuova forma di esistenza dell’uomo come fedele partner dell’alleanza divina. Essa riposa integralmente sulla giustificazione dell’uomo davanti a Dio e come tale è realtà solo in Cristo Gesù, ma in lui è potente e lega ogni uomo. Essa si autoattesta poiché, costituendo le direttive del Cristo, è efficace in seno all’umanità. Precisamente nella vita di un popolo di uomini che, in forza dell’appello loro rivolto a seguire Gesù, del loro risveglio che li conduce a voltarsi verso Dio, della lode delle opere, della loro individuazione mediante la croce che devono portare, hanno, come peccatori, già la libertà di obbedire, già la libertà di camminare come dei santi. E questo popolo rappresenta provvisoriamente la gratitudine che il mondo tutto quanto è destinato a manifestare in risposta all’azione dell’amore di Dio». § 67 KD IV/2, 695 ss. = D 22, 1 ss. Lo Spirito Santo e l’edificazione della comunità cristiana «Lo Spirito Santo è la potenza vivificatrice per mezzo della quale Gesù, il Signore, edifica nel mondo la cristianità come suo corpo, cioè come la forma propria della sua esistenza terrena e storica, per farla crescere, salvaguardarla

ed ordinarla come comunione dei santi ed in questo modo renderla adatta a rappresentare provvisoriamente la santificazione di tutta l’umanità, compiuta in Gesù Cristo». § 68 KD IV/2, 825 ss. = D 22, 128 ss. Lo Spirito Santo e l’amore cristiano «Lo Spirito Santo è la potenza vivificante per mezzo della quale Gesù Cristo trasferisce un uomo peccatore nella sua comunità e gli accorda in questo modo la libertà di essere un testimone di Dio che si dà attivamente a lui ed al prossimo. Gli dà cioè la libertà di corrispondere all’amore con cui Dio lo ha amato per attirarlo a sé e raddrizzarlo, trionfando della sua inerzia e della sua miseria». CAPITOLO SEDICESIMO

GESU’ CRISTO IL TESTIMONE VERIDICO §69 KD IV/3, 1 ss. = D 23, 1 ss. La gloria del Mediatore «Gesù Cristo così come è attestato nella Sacra Scrittura è la sola Parola di Dio che dobbiamo ascoltare, in cui dobbiamo confidare, cui dobbiamo ubbidire nella vita e nella morte» (Ia tesi della dichiarazione teologica di Barmen: 1934). §70 KD IV/3, 425 ss. = D 24, 1 ss. La menzogna e la dannazione dell’uomo «La promessa di Dio, efficace nella resurrezione di Gesù Cristo, incontra l’uomo e ne mette a nudo il suo carattere falsificatore. Nei pensieri, nelle parole, nel comportamento dell’uomo la liberazione ottenuta da Dio e per Dio, nella completa libertà, si trasforma: diventa un tentativo per mezzo del quale l’uomo, schiavo di se stesso, cerca di mettere la mano su Dio onde servirsene ed autoaffermarsi. Si tratta di un rovesciamento che se riuscisse sarebbe l’autodistruzione dell’uomo e propriamente la sua dannazione». §71 KD IV/3, 553 ss. = D 24, 123 ss. La vocazione dell’uomo «La Parola di Gesù Cristo, il Vivente, è l’appello per mezzo del quale quel medesimo Gesù Cristo risveglia degli uomini per aprirli ad una conoscenza

attiva della verità e porli così nello stato nuovo di cristiani, per accoglierli cioè ed introdurli in una comunione particolare con lui, ponendoli al servizio della sua opera profetica come testimoni da ogni parte stretti, ma ben armati». § 72 KD IV/3, 780 ss. = D 25, 1 ss. Lo Spirito Santo e la missione della comunità cristiana «Lo Spirito Santo è la potenza illuminatrice di Gesù Cristo, il Signore vivente, per mezzo della quale questi riconosce la comunità da lui chiamata come suo corpo, cioè come sua peculiare forma di esistenza terrena e storica, al cui servizio affida la sua parola profetica e la provvisoria comprensione della già realizzata vocazione di tutto il mondo degli uomini e del sì di tutte le creature. Fa questo perché la convoca come suo popolo di mezzo agli altri popoli. La pone perciò in questo modo, affinché per quanto le compete riconosca in favore di tutti gli uomini che tutto quanto è stato chiamato in lui, portando così tutto l’universo a riconoscere che il patto stretto in lui fra Dio e l’uomo è il primo e l’ultimo senso della storia del mondo e che la manifestazione futura di questo patto è la sua grande speranza, già qui ed ora efficace e vivente». §73 KD IV/3, 1035 ss. = D 25, 252 ss. Lo spirito Santo e la speranza cristiana «Lo Spirito Santo è la forza illuminatrice per mezzo della quale Gesù Cristo consente ad un uomo peccatore di diventare membro della sua comunità, superando la menzogna e la condanna umana, nella speranza in lui, cioè nella certa, fedele e gioiosa attesa della sua nuova venuta che porta a compimento la rivelazione della volontà divina circa le cose ultime, ma anche la rivelazione di quanto viene incontro all’uomo nell’immediato futuro». [CAPITOLO DICIASSETTESIMO]

[IL COMANDAMENTO DI DIO IL RICONCILIATORE] [§74] [pp. 1-73] [L’ etica nella dottrina della riconciliazione] Il comandamento cui chiama la parola di Dio è il concreto contenuto di quell’evento che intercorre di volta in volta fra Dio e l’uomo nella realtà storica particolare; il Dio che comanda non è una vuota trascendenza, ma il partner dell’uomo chiamato ad operare liberamente e responsabilmente; il

concetto direttore dell’etica della riconciliazione è dunque la categoria dell’alleanza, poiché riconciliazione altro non può significare se non l’incontro di Dio e dell’uomo nella situazione storica concreta (pp. 1 - 16). Parlando di Dio occorre rifarsi alla dottrina dell’elezione di Gesù Cristo ed alla dottrina della creazione; il suo fare è qualificato e preciso; il suo sì non soggiace ad alcuna foma di riduzione (pp. 16 -28). Parlando dell’uomo si deve rilevare la sua responsabilità, la sua libertà, la sua natura anticipatrice di tutta l’umanità, alla luce della dottrina nell’elezione che gli consente ed ordina di vivere nella luce della grazia e non nell’ombra del peccato (pp. 28 - 40). Parlando della situazione storica la si deve valutare come incontro autentico di due soggetti, esprimibile con la categoria del partner, in cui all’uomo è concessa libertà responsabile proprio perché si trova di fronte a Dio (pp. 40 - 46). Il comandamento si pone quindi come insegnamento dinamico che dà luogo ad una storia. Per esprimere questa realtà sono possibili diverse categorie teologiche (vita cristiana, libertà, penitenza, fede, riconoscenza, lealtà fedele, decisione), ma nessuna ha la concretezza della categoria di invocazione. In questa prospettiva sono da esaminare il fondamento della vita cristiana (il battesimo), lo svolgersi dell’esistenza credente (scandito dalle esigenze del Padre nostro), il culmine della vita cristiana (la santa cena), punto che Barth non ha potuto toccare (pp. 46 - 73). Questo paragrafo comporta rinvii espliciti alla dottrina dell’elezione nella sua parte cristologica (KD II, 2, 101 ss. = D 8«97 ss. = § 33), all’etica generale (KD II/2, 737 ss. = D 9, 158 ss. = § 38, 2), all’etica della creazione (KD III/4, 1 ss. = D 15, 1 ss. = § 52, 1); esiste una doppia stesura sul concetto-categoria di lealtà; si hanno pure due pagine come nuova stesura iniziale. [§75] KD IV/4 Fragment = D 26 FRAMMENTO Il battesimo fondamento della vita cristiana «L’atto per mezzo del quale un uomo si volge verso Dio per essergli fedele, e cioè la sua vocazione, è identico all’opera del Dio fedele, compiutasi perfettamente nella storia di Gesù Cristo. Grazie alla potenza di risveglio, di vita e d’illuminazione di questa storia, un tale atto diventa, in quanto battesimo dello Spirito Santo, il nuovo inizio della vita di quest’uomo. Il primo passo della vita umana fedele a Dio e dunque cristiana è il battesimo di acqua che l’uomo, obbedendo alla sua decisione, richiede alla comunità ed al quale la

comunità procede. Così compreso il battesimo d’acqua è la confessione che l’uomo pronuncia pregando Dio di concedergli la sua grazia e rendendo gloria alla libertà della grazia divina». [§76] [pp. 75 - 179] [Lo svolgimento della vita cristiana: il Padre nostro: il Padre e i suoi figli ] Il Padre nostro è la preghiera che ci indica la strada su cui vivere, mettendo a confronto due soggettività (pp. 75-79). Parlando della soggettività di Dio dobbiamo dire che essa è adeguatamente espressa dal termine Padre, indicante l’amore per la creatura e rinviante ineluttabilmente al fondamento cristologico dell’elezione divina; per l’uomo tale nome non può che essere invocazione; solo questo tipo di appercezione introduce infatti ad una conoscenza fattiva di Dio (pp. 79-110). Parlando della soggettività dell’uomo elevato alla dignità di figlio si devono rilevare il fondamento cristologico di tale elevazione, la prospettiva del patto che rende concreto questo tipo di discorso ed apre l’uomo all’invocazione, la caratterizzazione comunitaria (pp. 110-136). La relazione fra le due soggettività si attua nell’invocazione, ad un tempo opera della creatura umana e dello Spirito Santo in essa (pp. 136 - 148). In questa prospettiva si svolge l’esistenza cristiana: essa è un’esistenza spirituale in cui il credente è continuamente confrontato con Dio, senza che la solidarietà con il mondo e con gli uomini getti un’ombra su tale relazione, il cui fondamento ultimo è il Cristo unico mediatore (pp. 148 - 153); ha un carattere sociale, politico e cosmico, poiché i cristiani non vivono per se stessi, ma per il mondo, sono nel mondo seppure non del mondo, vivono nel mondo la verità dell’uomo, portando una testimonianza vicaria in nome dell’intera umanità (pp. 154-166); è un’esistenza in cui Dio non è inattivo, perché in risposta all’invocazione, al ringraziamento, alle lode ed alla richiesta fa sempre qualche cosa di nuovo (pp. 166 - 179). [§ 77] [pp. 180-346] [Lo svolgimento della vita cristiana: Il Padre nostro: lo zelo per l’onore di Dio ] La santificazione dell’onore di Dio è al centro della prima parte della preghiera del Padre nostro (pp. 180 -187). La situazione in cui si dibattono a questo proposito il mondo, la chiesa, il singolo individuo è caratterizzata dall’alternanza ci conoscenza e di fraintendimento del diritto di Dio (pp. 187-

189). Il mondo, definito dalla storia dell’uomo, oggettivamente conosce Dio e gli può rendere onore, perché questo Dio è il suo creatore; soggettivamente però non vi è nessuna corrispondenza; anzi si dà negazione da parte del mondo con l’ateismo (il cui aspetto più interessante è la portata polemica; esiste una doppia stesura), con la religione (tentativo di cavarsela con Dio, peggiore dell’ateismo; cfr. KD I/2, 304 ss. = D 4, 71 ss. = § 17), con il tentativo di far servire Dio ai nostri scopi, con il disimpegno di fronte all’uomo che soffre (pp. 189-219). La chiesa può conoscere, lodare e testimoniare Dio riferendosi al suo fondamento, ma lo misconosce allorché crede troppo in se stessa (chiesa introversa) o quando soffre d’inferiorità nei confronti del mondo (chiesa estroversa) o allorché partecipa al peccato del mondo (pp. 219-235). Il singolo cristiano è capace di conoscenza (è iustus!), ma contemporaneamente (simul!) di non-conoscenza (peccator!) mediante il compromesso, grande scandalo della vita cristiana (pp. 235-254). Che si possa pregare per superare questa situazione è il buon annuncio della vita cristiana (pp. 254-262). La santificazione del nome di Dio mira a togliere quest’ambivalenza: è azione di Dio; è stata compiuta in Gesù Cristo; la sua portata si estende dal passato, al presente, al futuro come qualcosa di sempre nuovo (pp. 262-294). A questa azione, l’uomo è chiamato a partecipare realmente (pp. 282-294), concretamente (pp. 294-308) nella vita personale presentandosi come testimone della speranza vivente, nella chiesa rifiutando le opposte indicazioni di una chiesa peccatrice e di una chiesa di puri, nel mondo rifiutando sia il disprezzo che lo spirito di crociata. Il cristiano deve essere facitore della parola, uomo attivo: la Parola di Dio lo deve guidare e lo deve condurre ovunque al rifiuto del compromesso, senza però estremismi (pp. 308 - 346): la chiesa «ha bisogno di sale, non di pepe» (p. 325) «riforma è provvisorio rinnovamento, limitato cambiare aspetto della chiesa a partire dalla propria origine» (p. 329). [§78] [pp. 347 - 47.] [Lo svolgimento della vita cristiana: Il Padre nostro: la lotta per la giustizia umana ] La santificazione del nome di Dio porta alla lotta per l’umana giustizia; si tratta però di lotte della fede e non di lotte private, non è un farsi giustizia da sé, bensì un mettere la propria vita attivamente al servizio del Signore, senza pretendere con ciò una purezza assoluta. La lotta di cui si tratta non è contro

qualcuno, ma in favore di tutti ed è lotta contro il bisogno e contro il disordine. «La causa dei credenti — il problema della militia Christi e quindi à dell’ecclesia militans — proprio in quanto è la causa di Dio, è semplicemente quella dell’uomo» (p. 357). Dio è fondamentalmente il garante della giustizia umana. Decisiva è l’invocazione: Venga il tuo Regno!: è una verticale che implica un’orizzontale, in cui l’uomo deve fare senza infingimenti la sua parte (pp. 347 - 363). La lotta del cristiano è contro le forze del male. La storia dell’uomo conferma e ripete il peccato di Adamo; la separazione e l’estraniamento da Dio implicano un’alienazione dell’uomo; non che questa cada fuori dell’ambito dell’azione divina, ma vi si sforza con catastrofiche conseguenze. Volendo diventare signore, l’uomo si trasforma in apprendistastregone scatena così potenze indubbiamente deleterie, ma che per fortuna non possono mai diventare realmente assolute ed oggettivamente atee; restano pseudo-realtà cui si può dare il nome di assolutismi (assolutismo politico; la forza del denaro; le ideologie; la propaganda ed altre ancora a livello minuto). Sono forze che rendono schiavi; il Nuovo Testamento chiede di combatterle, opponendo alla loro pseudo-realtà un’assoluta e tetragona incredulità (pp. 363399). È qui che si apre l’avvenimento sovrano del Regno di Dio che «è reale in quanto accade che Dio stesso viene come re e come signore» (p. 406); «l’uomo può prendere in mano molte cose, ma assolutamente mai il Regno di Dio» (p. 410); l’uomo può migliorare il mondo, cambiarlo lo può solo l’intervento di Dio. Dire Regno di Dio significa riferirsi alla persona di Gesù; in lui il Regno si è mostrato nella comunità primitiva come presente e come futuro e la comunità vive nel ricordo e nell’attesa; ciò accade per Gesù nell’evento di Pasqua e per la comunità nell’evento della Pentecoste (pp. 399 - 450). L’invocazione del Regno implica azione: «l’ethos cristiano consiste nel fatto che degli uomini fatti liberi per pregare e chiamati ad invocare: venga il tuo Regno, sono anche fatti liberi e chiamati a fare uso della propria libertà nell’obbedire al comandamento loro dato e nell’andare incontro al Regno che viene dalla loro parte» (p. 454). L’azione cristiana è correlata al Regno ed ha come scopo l’uomo deve dire sì e no concreti nella vita di ogni giorno per amore dell’uomo; sì e no relativi certo, ma contro tutti gli assoluti. Deve stare responsabilmente accanto al mondo e dargli coraggio; deve annunciare all’uomo che Cristo è la sua speranza (pp. 450-470). In questo paragrafo vi sono tre importanti excursus: sul significato del termine militia (pp. 249 s.); sulla caratterizzazione escatologica del Regno di Dio (pp. 411-422) sul concetto

di Regno di Dio nei due Blumhardt (pp. 443-450). [§ 79] [Il culmine della vita cristiana: la santa cena] [VOLUME QUINTO]

[LA DOTTRINA DELLA REDENZIONE]

APPENDICE SECONDA PER UNA VALUTAZIONE DEI TESTI E DEGLI AUTORI ESAMINATI DA K. BARTH NELLA DOTTRINA DELL’ELEZIONE DIVINA

SOMMARIO: 1. Per una valutazione generale. — 2. Opere prevalentemente teoretiche. — 3. La dottrina biblica della predestinazione divina. — 4. Note storiche generali. — 5. L’epoca patristica. — 6. L’epoca medievale. — 7. La Riforma classica. — 8. L’epoca delle confessioni. — 9. L’ortodossia protestante. — 10. Altri elementi. Il discorso svolto nell’introduzione, come anche la stessa lettura del testo barthiano suppongono la possibilità di una disamina accurata dei principali testi ed autori con cui Barth entra in dialogo differenziato nel corso della sua esposizione. Piuttosto che costellare il testo barthiano di note inevitabilmente dispersive ed episodiche che poco avrebbero giovato e che sarebbero probabilmente state d’inciampo nella lettura di un testo che, pur nelle sue difficoltà, si presenta in maniera estremamente lineare, è parso utile raggruppare in un’appendice il materiale che avrebbe dovuto essere diviso nel corso della trattazione, disponendolo in modo sistematico e storico, integrandolo e dotandolo ove necessario di una solida cornice, rendendolo così facilmente ed immediatamente accessibile. Triplice è la prospettiva messa in opera: inventariare testi ed autori in questione in maniera organica; offrire una traccia atta a rischiarare il cammino barthiano dall’interno della Kirchliche Dogmatik, notando frequenze significative, consentendo ove necessario episodici riferimenti ad altri saggi, rilevando le concrete valutazioni che Barth dà dei vari autori, movimenti, testi; permettere una disamina della lettura barthiana presentando una bibliografia abbondante, ma selettiva, ricca quindi di studi capitali. La finalità è quella di offrire uno strumento di verifica e di lavoro pienamente utilizzabile per rivangare il testo barthiano in tutto il suo spessore, valutandone così appieno originalità, importanza ed attualità a quarant’anni di distanza, sul piano sistematico, metodologico e di interpretazione storica; uno strumento di ricerca che consenta cioè, proprio in forza della sua aridità e dei meandri che suggerisce, di valutare concretamente la svolta teologica operata da Barth; uno strumento che permetta, per così dire, di seguire l’iter logico con cui si è costruita la Kirchliche Dogmatik, la formazione dei lunghi excursus biblici e storici, la cui esegesi struttura e sostanzia il testo dommatico propriamente detto. Accanto a questa finalità specifica, due altre animano di riflesso quest’appendice: offrire una traccia abbondante per uno studio della dottrina della predestinazione in generale e quindi utile (al di là delle lacune legate alla particolare prospettiva adottata e d’altronde facilmente colmabili con il riferimento ai testi generali abbondantemente indicati) oltre lo studio del nostro autore; ed in secondo luogo favorire, su taluni autori o movimenti, uno sguardo meno convenzionale, consentendo una revisione critica. Questa appendice non sarebbe stata possibile senza la pubblicazione, a cura di H. Krause, del Registerband della Kirchliche Dogmatik (1970); a questo strumento indispensabile è d’altronde sempre necessario rapportarsi; vi abbiamo tuttavia apportato qualche integrazione qua e là dove, per la nostra sezione, era saltata (ben comprensibilmente) qualche citazione. In quest’appendice ci si riferisce costantemente al testo tedesco.

1. Visione generale Per una visione generale dei problemi legati alla dottrina della predestinazione è sufficiente riportarsi ad alcuni eccellenti articoli di dizionari: Dictionnaire Apologétique, IV, 195-270 (A. D’ALÈS: 1922); Dictionnaire de Théologie Catholique, XII, 2801-3021 (A. LEMONNYER, H. D. SIMONIN, J. SAINTMARTIN, R. GARRIGOU-LAGRANGE, B. LAVAUD: 1935); Die Religion in Geschichte und Gegenwart, II, 614 ss. (W. PANNENBERG: 1959, 3a ediz.) e V, 481 ss. (E. DINKLER, E. KAEHLER, W. PANNENBERG: 1959, 3a ediz.); Lexikon für Theologie

und Kirche, VIII, 661-672 (R. SCHNACKENBURG, J. AUER, K. RAHNER, J. MOLTMANN: 1963, 2a ediz.); Encyclopédie de la foi, III, 468-475 (J. AUER: 1967, 2a ediz.; si tratta della trad. franc. dello Handbuch Theologischer Grundbegriffe; esiste anche la trad. ital.: Grande Dizionario Teologico, Brescia, 1965 ss.). 2. Opere prevalentemente teoretiche a. In campo cattolico è preminente un’impostazione assai distante da quella di K. Barth sia per metodologia che per problematica. Conservano un vigore particolare i seguenti saggi: TH. DE RÉGNON, La métaphysique des causes (1886), Paris, 1906, 629 ss.; R. GARRI-GOU-LAGRANGE, La prédestination des saints et la grâce, Paris, 1930; F. CAYRÉ, La doctrine catholique de la prédestination, «L’Année Théologique», 1941, 24 ss. e 42 ss.; L. CIAPPI, La predestinazione, Roma, 1954; PH. DE LA TRINITÉ, Notre liberté devant Dieu, in Structures de la liberté, Paris, 1958, 47-67; B. BRO, Doit-on être dansl’angoisse en face de la prédéstination?, «La Vie Spirituelle», 1962, 40-57; CH. SIMONIN, Prédestination, prescience et liberté, «Nouvelle Revue Théologique», 95, 1963, 711-730; J. FARRELLY, Predestination, Grace and Free Will, London, 1964; PH. D. GULIELMI-MOST, De gratia et praedestinatione, Roma, 1964; B. LONERGAN, Grazia e libertà, Roma, 1971; F. VAN STEENBERGHEN, Connaissance divine et liberté humaine, «Revue Théologique de Louvain», 2, 1971, 46-48; L. MALEVEZ, Interiorité et gratuité de la vocation chrétienne, «Ephemerides Theologicae Lovanienses», 48, 1972, 51-88. Si devono ugualmente citare le trattazioni manualistiche che svolgono il tema della predestinazione ora in maniera estremamente astratta nell’ambito del «de Deo Uno» ed ora in maniera più concreta nell’ambito del «de gratia Christi»: fra i primi si cfr. gli esemplari trattati di A. TANQUEREY (Synopsis Theologiae Dogmaticae, Parigi-Roma, 1911, I3a ediz. notevolmente riveduta, vol. I, 295-311) e di H. LENNERZ (Roma, 1955, 5a ediz. riveduta ed ampliata, pp. 267-360); fra i secondi M. SCHMAUS (Dogmatica cattolica, Torino, 1963, vol. III/2, 313-324) e J. AUER (Il Vangelo della grazia, Assisi, 1971, 59-99) entrambi tradotti dal tedesco. Una prospettiva assai più ricca (passata però sotto silenzio) era stata proposta da M. J. SCHEEBEN, l’unico autore che per potenza d’ingegno e coerenza di sintesi sappia offrire un esempio veramente luminoso in chiave nettamente cristocentrica: Mysterien des Christentums, Freiburg-im-B., 1865 (cfr. la trad. franc.: Les Mystères du christianisme, Paris, 1947, 698-735 con introduzione di

A. KERKVOORDE; esiste anche la trad. ital.: Brescia, 1955; rist. 1966). Su punti particolari sono da ricordare gli apporti essenziali di H. DE LUBAC, Catholicisme. Les aspects sociaux du dogme, Paris, 1938, 207-239 (trad. ital. ultima nell’Opera omnia: Milano, 1979: pagine bellissime sulla predestinazione della chiesa); G. FESSARD, De l’actualité historique, Paris, 1959, vol. I, 95-119, 215-241, 243-291 e vol. II, 27-71 (rapporti giudei-pagani in seno ad una teologia della storia); H. U. VON BALTHASAR: Einsame Zweisprache. Martin Buber und das Christentum, Köln, 1958 (dialettica chiesa-sinagoga) e Il tutto nel frammento, Milano, 1970, 126-130 e 251-256 (orig. ted.: 1963; medesima tematica del saggio precedente nel quadro di una teologia della storia a dimensione eminentemente cristocentrica; l’influsso di Barth è riconosciuto). b. In campo protestante l’influsso barthiano non ha portato tutti i frutti desiderati; tuttavia le posizioni di Barth sono diventate sempre più un necessario punto di riferimento e di confronto; tali permangono anche nei più recenti sviluppi. Si cfr. inanzitutto gli articoli informativi di W. BREUNING, Neue Wege der protestantischen Theologie in der Prädestinationslehre, «Trier Theologische Zeitschrift», 68, 1959, 193-210 e di J. MOLTMANN, Prädestination, in Lexikon für Theologie und Kirche, VIII, 670-672 (1963: 2a ediz.). Quindi: P. MAURY: Election et foi, in De l’élection éternelle de Dieu, Genève, 1936 (ampiamente valutato da Barth per la sua impostazione cristocentrica: KD II/2, 168) e La prédestination, Genève, 1957 (postumo; con prefazione elogiativa di Barth; queste conferenze hanno giocato un grande ruolo nella presentazione della dottrina barthiana nel mondo anglosassone ed americano); G. DELUZ, Prédestination et liberté, Neuchâtel-Paris, 1942 (onesto esempio di problematica); E. BRUNNER, Dogmatik, vol. I, Zürich-Stuttgart, 1946 (trad. franc. sulla 3a ediz.: Genève, 1964, vol. I, 325-376); O. WEBER, Grundlagen der Dogmatik, Neukirchen, 1962, vol. II, 458-559; W. PANNENBERG: voci Erwählung (III: Dogmatisch) e Prädestination (IV: Dogmatisch), in Die Religion in Geschichte und Gegenwart, II, 614-621 (1958: 3a ediz.) e V, 487-489 (1959: 3a ediz.); Heilsgeschehen und Geschichte, «Kerygma und Dogma», 5, 1959, 218237 e 259-288 (da inquadrare tuttavia nell’insieme dell’elaborata e complessa opera pannenberghiana); Human Nature, Election and History, Philadelphia, 1977 (= Die Bestimmung des Menschen. Menschsein, Erwählung und Geschichte, Göttingen, 1978; cfr. la precisa disamina offerta da R. GIBELLINI,

Teologia e ragione. Itinerario e opera di W. Pannenberg, Brescia, 1980, 216 ss. e le osservazioni di R. MARLÉ, in «Recherches de Science Religieuse», 67, 1979, 82 s.); J. MOLTMANN, Prädestination und Perseveranz, Neukirchen, 1961 (cfr. la precisa introduzione in R. GIBELLINI, La teologia di J. Moltmann, Brescia, 1975, 31 ss.); K. SCHWARZWAELLER, Das Gotteslob der angefochtenen Gemeinde. Dogmatische Grundlegung der Prädestinationslehre, Neukirchen, 1970; G. TOURN, La predestinazione nella Bibbia e nella storia: una dottrina controversa, Torino, 1980. Si veda anche la densa sintesi inserita da A. DUMAS nella voce Péché (en théologie protestante) del Vocabulaire O ecuménique, a cura di Y. CONGAR, Paris, 1970, 73 ss. (in particolare pp. 80 ss.; trad. ital.: Assisi, 1974). 3. La dottrina biblica sulla predestinazione divina a. Per una visione generale sono esaurienti gli articoli di dizionari che, nel loro intreccio, costituiscono ampie monografie o sintetiche, preziose raccolte di dati con linee generali d’interpretazione. Inanzitutto il Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, Stuttgart, 1933 ss. accessibile anche in trad. ital. cui ci riferiamo (Brescia, 1960 ss.): προγινώσϰω e πρóγνωσις (II, 532-535: R. BULTMANN); διαθήϰη (II, 1013-1093.G. QUELL-J. BEHM); ἔλεως (III, 399-422: R. BULTMANN); ’Iσραήλ (IV, 1101-1196: G. VON RAD-H. KUHN-K. GUTBROD); ϰαλέω (IV, 1453 ss.: K. L. SCHMIDT); λαὁς (VI, 87-165: H. STRATHMANN-R. MEYER); ἐϰλέγομαι (VI, 400-532: G. SCHRENK-G. QUELL); λεῖμμα (VI, 534-588: G. SCHRENK-V. HERN-TRICH); μνστήριον (VII, 645-717: G. BORNKAMM); προορίζω (VIII, 1267-1280: K. L. SCHMIDT). Quindi varie voci del Bibellexikon (Einsiedeln, 1951: Erwählung, 424 ss.: H. HAAG e Rest, 1427 s,: B. J. ALFRINK); del Bibeltheologisches Wörterbuch (Graz-Wien-Köln, 1959; trad. ital.: Brescia, 1969, 2a ediz.: Predestinazione, 1072-1086: C. SPICQ; Resto, 1185-1189: H. GROSS; Vocazione, 1555-1562: G. MOLIN); del Vocabulaire de théologie biblique (Paris, 1960; trad. ital.: Torino, 1965: Alleanza, 22-32: J. GIBLET-P. GRELOT; Disegno di Dio, 243-252: A. VIARD-P. GRELOT; Elezione, 275-283: J. GUILLET; Vocazione, 1283 s.: J. GUILLET); del Vocabulaire biblique (NeuchâtelParis, 1964, 3a ediz.: Alliance, 10-13: G. PROOUX-P. BONNARD; Appeller, 20-23: E. DISERENS; Elire, 86-90: F. MICHAËLI-P. BONNARD; Israel, 133136: F. MICHAËLI-CH. MASSON; Mystère, 189 s.: M. BOUTTIER; Reste, 252-254: A. LELIÈVRE; esiste anche la trad. ital.: Roma, 1969); le parti bibliche delle voci

citate al punto 1; la voce Alleanza del Die Religion in Geschichte und Gegenwart (I, 1512-1518: J. HEMPEL-L. GOPPELT), del Lexicon für Theologie und Kirche (II, 770-778: V. HAMP-J. SCHMID), dell’Encyclopédie de la foi (I, 38-46: J. HASPECKER). Infine la bella e densa monografia di H. H. ROWLEY, The Biblical Doctrine of Election, London, 1950. b. Per la dottrina veterotestamentaria occorre riferirsi inanzitutto ad alcune teologie dell’Antico Testamento che forniscano una adeguata inquadratura dei testi: si cominci con G. VON RAD, Teologia dell’Antico Testamento, Brescia, 1972 (2 voll.; originale tedesco del 1960 con varie ediz. successive); si passi quindi agli apporti non meno significativi di W. EICHRODT, Theology of the Old Testament, 2 voll., London, 1969: 3a ediz. e 1967 (edizione notevolmente migliorata rispetto all’edizione originale tedesca riveduta del 1957; trad. ital.: vol. 1, Brescia, 1980; imprescindibile per la nostra tematica), di E. JACOB, Théologie de l’Ancien Testament, Neuchâtel-Paris, 1955 (1968: 2a ediz.), di R. SMEND, Die Mitte des Alten Testaments, Zuerich, 1970 (molto importante); si finisca con O. PROCKSH, Theologie des Alten Testaments, Gütersloh, 1950; P. VAN IMSCHOOT, Théologie de l’Ancien Testament, ParisTournai, 1954; J. D. BARTHÉLEMY, Dieu et son image, Paris, 1964 (trad. ital.: Milano, 1975: 2a ediz.); H. U. VON BALTHASAR, Herrlichkeit: III/1/2: Alter Bund, Einsiedeln, 1966 (trad. ital.: Milano, 1980); G. FOHRER, Theologische Grundstrukturen des Alten Testaments, Berlin, 1972 (trad. ital.: Brescia, 1978); W. ZIMMERLI, Grundriss der alttestamentlichen Theologie, Stuttgart, 1972; J. L. MCKENZIE, A Theology of the Old Testament, London, 1974 (trad. ital.: Brescia, 1978); ed anche (tenendo soprattutto conto delle bibliografie) A. MATTIOLI, Dio e l’uomo nella Bibbia d’Israele, Torino, 1980. Si consultino quindi i seguenti articoli che con il loro intreccio offrono ampia materia d’indagine (oltre alle parti veterotestamentarie degli articoli citati in 3A): Election, in The Interpreter’s Dictionary of the Bible, II, 76-82 (G. E. MENDENHALL: 1962); Terra (H. H. SCHMID: pp. 199 ss.), Eleggere (H. WILDBERGER: pp. 241 ss.), Misericordioso (H. J. STOEBE: pp. 509 ss.), Bontà (H. J. STOEBE: pp. 520 SS.), Ereditare (H. H. SCHMID: pp. 673 ss.), Israele (G. GERLEMAN: pp. 676 ss.) in Dizionario Teologico dell’Antico Testamento, a cura di E. JENNI e C. WESTERMANN, ediz. ital. a cura di G. L. PRATO, vol. I, Torino, 1978 (ediz. orig. tedesca del 1971); Adamâ (Terra: J. G. PLOEGER: I, 187-210) e

Aman (Verità, Veracità: A. JEPSEN: I, 625 ss.) in Grande Lessico dell’Antico Testamento, Brescia, 1975 ss. (trad. dall’originale tedesco del 1970 ss.; ediz. ital. a cura di F. MONTAGNINI e F. RONCHI). Caratteristiche divine con particolare riferimento alla tematica dell’elezione: in generale: E. JACOB, Théologie de l’Ancien Testament, 28-95; F. MICHAËLI, Dieu à l’image de l’homme, Neuchâtel-Paris, 1949; R. CRIADO, Los símbolos del amor divino en el Antigo Testamento, in Cor Jesu, Roma, 1959, vol. I, 411-460; la teologia del Nome: A. M. BESNARD, Le mystère du Nom, Paris, 1962 e J. KINYONGO, Origine et signification du nom divin Yahwè à la lumière des récents travaux et des traditions sémitico-biblique, Bonn, 1970; paternità di Dio: M. J. LAGRANGE, La paternité de Dieu dans l’Ancien Testament, «Revue Biblique», 5, 1908, 481-499; J. ZIEGLER, Die Liebe Gottes bei den Propheten, Münster, 1930; J. L. MCKENZIE, The Divine Sonship of Israel and the Covenant, «Catholical Biblical Quarterly», 8, 1946, 320-331; L. MORALDI, La paternità di Dio nell’Antico Testamento, «Rivista Biblica», 7, 1959, 44-56; W. MARCHEL, Abba! Père! La prière du Christ et des chrétiens, Roma, 1963, 9-99; gloria di Dio: H. KITTEL, Die Herrlichkeit Gottes, Giessen, 1934; B. STEIN, Der Begriff Kebod Jahweh. Seine Bedeutung für die alttestamentliche Gotteserkenntnis, Emsdetten, 1939; H. U. VON BALTHASAR (cit.); giustizia: K. H. FAHLGREN, Sedaka. Nahestehende und entgegengesetzte Begriffe im A. T., Uppsala, 1932; fedeltà e misericordia: N. GLUECK, Das Wort Hesed im altentestamentlischen Sprachgebrauch, Giessen, 1927; I. DE LA POTTERIE, De sensu vocis Hemet in Vetere Testamento, «Verbum Domini», 1949, 336-354 e 1950, 29-49; H. J. STOEBE, Die Bedeutung des Wortes Hasad im A. T., «Vetus Testamentum», 1952, 244 ss.; collera divina: R. V. T. TASKER, The Biblical Doctrine of the Wrath of God, London, 1951; timore di Dio: L. DEROUSSEAU, La crainte de Dieu dans l’A. T., Paris, 1970; Dio sposo: A. NEHER, Le symbolisme conjugal: expression de l’histoire de l’A. T., «Revue d’Histoire et de Philosophie Religieuses», 34, 1954, 31-49; Dio pastore: PH. DE ROBERT, Le berger d’Israël. Essai sur le thème pastoral dans l’A. T., Neuchâtel-Paris, 1968; Dio vindice: P. D. MILLER, The Divine Warrior in early Israel, Cambridge, 1973. Elezione e vocazione d’Israele: K. GALLING, Die Erwählungstraditionen Israels, Giessen, 1928; W. STAERK, Zur alttestamentliehen Erwählungsglaube,

«Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft», 1937, 1 ss.; W. EICHRODT, Israel in der Weissagung des Alten Testaments, Zürich, 1952; TH. C. VLIEZSN, Die Erwählung Israels nach dem Alten Testament, Zürich, 1953; F. HESSE, Das Verstockungsproblem im Alten Testament, Berlin, 1955; K. KOCH, Zur Geschichte der Erwählungsvorstellung in Israel, «Zeitschrift für die alttestamentliche Wissenschaft», 67, 1956, 205-226; J. Jocz, A Theology of Election, London, 1958; R. MARTIN-ACHARD, La signification théologique de l’élection d’Israël, «Theologische Zeitschrift», 16, 1960, 333-341; H. WILDELBERGER: Jahwes Eigentumsvolk, Zürich, 1960 e Die Neuinterpretation des Erwählungsglaubens Israels in der Krise der Exilszeit, in Festschrift W. Eichrodt, Zürich, 1970, 307-324; B. RENAUD, Je suis un Dieu jaloux, Paris, 1963; H. J. ZOBEL, Ursprung und Verwurzelung des Erwählungsglaubens Israels, «Theologische Literaturzeitung», 93, 1968, 1-12; J. ALONZO DIAZ, El Israel de la fé y el Israel de la historia en cuanto a la elección y allianza divinas, «Estudios Eclesiásticos», 46, 1971, 155-168; P. E. DION, Dieu universel et peuple élu, Paris, 1975. Alleanza: R. KRAETZSCHMAR, Die Bundesvorstellung im Alten Testament in ihrer geschichtlichen Entwicklung, Marburg, 1896; P. KARGE, Geschichte des Bundesgedankens im Alten Testament, Münster, 1910; E. LOHMEYER, Diatheke, Leipzig, 1913; L. G. DA FONSECA, Diatheke-foedus an testamentum, «Biblica», 8, 1927, 31-50, 161-181, 290-319, 418-441 e 9, 1928, 26-40, 143-160; P. VAN IMSCHOOT: L’Esprit de Yahwé et l’alliance nouvelle dans l’Ancien Testament, «Ephemerides Theologicae Lovanienses», 1936, 201 ss. e L’alliance dans l’Ancien Testament, «Nouvelle Revue Théologique», 1952, 758 ss.; J. BEGRICH, Berît. Ein Beitrag zur Erfassung einer alttestamentlichen Denkform, «Zeitschrift für die alttestamentliche Wissenschaft», 60, 1944, 1-11; F. ASENSIO: Misericordia et Veritas. El Hesed y emet divinus. Su influjo religioso-social en la historia d’Israel, Roma, 1949 e Teologia y historia del pacto: en torno a una interrogación biblica, «Gregorianum», 1966, 665-684; C. WIÉNER, Recherches sur l’amour pour Dieu dans l’Ancien Testament, Paris, 1957; J. L’HOUR, La morale de l’alliance, Paris, 1966; A. BARUCQ, La notion d’alliance dans l’Ancien Testament et les débuts du judaïsme, in Populus Dei. Mélanges Cardinal A. Ottavìani, Roma, 1969, 5-110; L. PERLITT, Bundestheologie im Alten Testament,

Neukirchen, 1969; P. BEAUCHAMP, Propositions sur l’alliance de l’Ancien Testament comme structure centrale, «Recherches de Science Religieuse», 1970, 161-194; L. KRINETZKY, L’alliance de Dieu avec les hommes, Paris, 1970 (trad. dal tedesco); D. J. MCCARTY-G. E. MENDENHALL-R. SMEND, Per una teologia del patto nell’Antico Testamento, Torino, 1972 (comoda raccolta di saggi pubblicati originariamente nel 1969, 1954 e 1966); D. J. MCCARTY, Berît in Old Testament History and Theology, «Biblica», 53, 1972, 110-121; E. KUTSCH, Verheissung und Gesetz. Untersuchungen zum sogenannten Bund in Alten Testament, Berlin, 1973. Si vedano inoltre taluni testi particolarmente importanti (tralasciamo i commentari e le opere troppo tecniche per qualche semplice indicazione di massima): Genesi: J. GOLDSTAIN, Promesses et alliances. L’histoire patriarcale, Paris, 1971 e A. DE PURY: La promesse patriarcale: origines, interprétations et actualisations, «Etudes Théologiques et Religieuses», 51, 1976, 351-366 e Promesse divine et légende cultuelle dans le cycle de Jacob, Paris, 1978; Esodo: H. CAZELLES, Etudes sur le Code de l’Alliance, Paris, 1946; H. GROSS, Der Sinai-Bund als Lebensform des auserwählten Völker in Alten Testament, in Festschrift M. Wek, Berlin, 1962, 1-16; K. H. WALKENHORST, Der Sinai im liturgischen Verständnis der deuteronomistischen und priesterlichen Tradition, Bonn, 1969; E. ZENGER, Die Sinaitheophanie. Untersuchungen zur jahwistischen und elohistischen Geschichtswerk, Würzburg, 1971; F. E. WILMS, Das Jahwistische Bundesbuch in Ex. 34, München, 1973; Deuteronomio: H. CAZELLES, Jéremie et le Deutéronome, «Recherches de Science Religieuse», 38, 1951, 5-36; R. CLEMENTS, God’s Chosen People. A theological Interpretation of the Book of Deuteronomy, London, 1968 (trad, ital.: Torino, 1978); M. Weinfield, Deuteronomy and the Deuteronomic School, Oxford, 1972; Giosuè: J. L’HOUR, L’alliance de Sichem, «Revue Biblique», 69, 1962, 5-36, 161-184, 350-368; libri storici: J. GARCIA TRAPIELLO, La Alianca del Señor con el Rey David, Granada, 1970 e T. VEIJOLA, Die ewige Dynastie. David und die Enstehung seiner Dynastie nach der deuteronomischen Darstellung, Helsinki, 1975; profeti in generale: M. HOEPERS, Der neue Bund bei den Propheten, Freiburg-im-B, 1933; J. HARWEY, La RîbPattern: Réquisitoire sur la rupture de Valliance, «Biblica», 43, 1962, 172-196; J. LIMBURG, The Root Rîb and the prophetic Lawsuit Speeches, «Journal of Biblical

Literature», 88, 1969, 291-304; S. AMSLER, Le thème du procès chez les prophètes d’Israël, «Revue de Théologie et de Philosophie», 1974, 116-131; profeti minori: N. WAMBACQ, Hosea propheta misericordiae, «Verbum Domini», 1949-1950, 141-146; U. DE VESCOVI, La nuova alleanza in Osea, «Bibbia e Oriente», 1, 1959, 172-178; F. H. SEILHAMER, The Role of Covenant in the Mission and Message of Amos, in Old Testament Studies in Honor of J. M. Myers, Philadelphia, 1974, 435-451; J. L. VESCO, Amos de Teqoa, défenseur de l’homme, «Revue Biblique», 87, 1980, 481 ss. (specialmente pp. 508-513); A. PETITJEAN, Les Oracles du proto-Zacharie: un programme de restauration pour la communauté juive d’après l’exil, Paris, 1969; G. GAIDE, Jérusalem, voici ton Roi: Zach. IX-XIV, Paris, 1968; K. SEYBOLD, Spätprophetische Hoffnungen auf die Wiederkunft des davidischen Zeitalters in Sach. IX-XIV, «Judaica», 29, 1973, 99-111; R. TOURNAY, Zach. IX-XIV et l’histoire d’Israël, «Revue Biblique», 81, 1974, 355-374; profeti maggiori: S. PORUBCAN, Il patto nuovo in Is. 40-66, Roma, 1958; P. BEAUCHAMP, Le Deutéroisaie dans le cadre de l’alliance, Lyon, 1970; D. BALTZER, Ezechiel und Deuterojesaja, Berlin, 1971; W. LEMPP, Bund und Bundeserneuerung bei Jeremia, Tübingen, 1956; R. MARTIN-ACHARD: La nouvelle alliance chez Jérernie, «Revue de Théologie et Philosophie», 12, 1962, 81-92 e Quelques remarques sur la nouvelle alliance chez Jéremie, «Ephemerides Theologicae Lovanienses», 33, 1974, 141-164; W. ZIMMERLI, The Message of the prophet Ezekiel, «Interpretation», 23, 1969, 131-153. Israele: A. R. HULST, Der Name Israel im Deuteronomium, «Oudtestamentische Studien», 9, 1951, 65-106; R. MARTIN-ACHARD, Israël et les nations, Neuchâtel-Paris, 1959; H. J. ZOBEL, Das SelbstVerständnis Israels nach dem Alten Testament, «Zeitschrift für die alttestamendiche Wissenschaft», 85, 1973, 281-293; P. DIEPOLD, Israels Land, Stuttgart, 1973; V. HVONDER, Israel Sohn Gottes, Göttingen, 1975; E. JACOB, Les trois racines d’une théologie de la Terre dans l’Ancien Testament, «Revue d’Histoire et de Philosophie Religieuses», 55, 1975, 469-480; J. LANDOUSIES, Le don de la terre de Palestine, «Nouvelle Revue Théologique», 98, 1976, 324-336. Resto d’Israele: R. DE VAUX, Le Reste d’Israël d’après les prophètes, «Revue Biblique», 42, 1933, 526-539; W. E. MULLER, Die Vorstellung von Rest im Alten Testament, Leipzig, 1939 (nuova ediz. rivista da H. D. PREUSS, Neukirchen,

1973); S. GAROFALO, La nozione profetica del Resto d’Israele, Roma, 1942; F. DREYFUS, La doctrine du Rest chez le prophète Isaϊe, «Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques», 39, 1955, 361-386; U. STEZEMANN, Der Restgedanke bei Jsaias, «Biblische Zeitschrift», 13, 1969, 161-186; G. F. HASEL, The Remnant. The History and Theology of the Remnant Idea from Genesis to Isaiah, Andress University (Michigan), 1972; P. ZERAFA, Il resto d’Israele nei profeti preesilici, «Angelicum», 49, 1972, 3-29. Sui 353 testi veterotestamentari citati da Barth in questa sezione, è particolarmente rilevante l’esegesi teologica offerta per i seguenti: Gen., IV, 416 = KD II/2, 391; Gen., XVIII, 10-13 = II/2, 237; Lev., XIV e XVI = II/2, 393-404; I Sam., VIII-XV = II/2, 404-410 (cfr. pure KD IV/1, 485-493); I Sam., XVI-XXIV = II/2, 406-417; I Sam., XXVI-XXXI = II/2, 406-414; II Sam., I-IV = II/2, 404-417; II Sam., V-X = II/2, 413-418 e 425-426; II Sam., XI = II/2, 414 e 420-424 (cfr. pure KD IV/2, 524-527); II Sam., XVII = II/2, 419 (cfr. pure KD III/4, 459-467); II Sam., XIX, 1 = II/2, 419; I Re, II = II/2, 413 e 420; I Re, VIII, 16 = II/2, 415; I Re, XI = II/2, 428; I Re, XIII = II/2, 434, 440 s., 443, 445 s., 453; I Re, XIX, 15-18 = II/2, 297 s.; I Re, XX, 15 = II/2, 298; II Re, XXIII, 15-20 = II/2, 439; Salm., CIII = II/2, 134; Is., LXIII, 9 = II/2, 115; Os., I = II/2, 253 s.; Zac., XI, 4-17 = II/2, 514519. Per una retta comprensione dell’esegesi teologica barthiana è necessario ricordare che, alla base, vi si trova una «lettura cristiana» dell’Antico Testamento per cui cfr. solamente W. VISCHER, Das Christuszeugnis des Alten Testaments, 2 voll., München, 1934 e 1942 (trad. franc.: Neuchâtel–Paris, 1949 e 1951; opera molto apprezzata da Barth; Vischer è fra gli autori con cui Barth si sente maggiormente in sintonia proprio per l’alta qualità teologica della sua esegesi: cfr. KD I/2, 52, 75, 87, 97; II/1, 130, 463; III/1, 91, 218, 221; III/4, 353; IV/1, 470, 474, 486, 508, 520, 522; IV/2, 706: IV/3, 443, 447; Wilhelm Vischer zum 60 Geburtstag, «Basler Predigten», 6-1-1955 e «Arbeit und Besinnung» 1-61955); L. GOPPELT, Typos. Die typol. Deutung des AT im Neuen (1936), Darmstadt 1959 (ristampa: 1972); J. COPPENS: Les harmonies des deux Testaments, Tournai, 1949 (2a ediz.) e Von christlichen Verständnis des Alten Testaments, Freiburg-im-B., 1952; J. KNIGHT, A Christian Theology of the Old Testament, London, 1959; C. LARCHER, L’actualité chrétienne de l’Ancien Testament d’après le Nouveau Testament, Paris, 1962; P. GRELOT: Sens chrétien

de l’Ancien Testament, Paris-Bruges, 1962 (= trad. ital.: Roma, 1965) e La Bibbia e la teologia, Roma, 1969, 1-79; C. WESTERMANN, Das Alte Testament und Jesus Christus, Stuttgart, 1968.(= trad. ital.: Brescia, 1974); U. MAUSER, Gottesbild und Menschwerdung. Eine Untersuchung zur Einheit des Alten und Neuen Testaments, Tübingen, 1971; D. MOODY-SMITH, The Use of the Old Testament in the New, in J. M. EFIRD ed., The Use of the Old Testament in the New, Durham, 1972, 3-65; W. J. HARRINGTON, The Path of biblical Theology, Dublin, 1973 (tutto il cap. 3); S. AMSLER, Le dernier et l’ avant-dernier. Les rapports entre le Nouveau et l’Ancien Testament, «Recherches de Science Religieuse», 63, 1975, 385-396. Per l’impianto metodologico che giustifica tale prospettiva cfr. solamente: R. DE VAUX: A propos de la théologie biblique, «Zeitschrift für die alttestamentliche Wissenschaft», 1956, 225 ss. e Peut-on écrire une théologie de l’Ancien Testament?, in Mélanges Chenu, Paris, 1967, 439 ss. (= Bible et Orient, Paris, 1967, 59 ss.); H. WILDBERGER, Auf dem Wege zu einer biblischen Theologie, «Evangelische Theologie», 1959, 70-90; E. JACOB: Possibilités et limites d’une théologie biblique, «Revue d’Histoire et de Philosophie Religieuses», 1966, 116-130 e Prêcher sur l’Ancien Testament, «Revue d’Histoire et de Philosophie Religieuses», 61, 1981, 327-340; J. GUILLET, De l’Ancien Testament à l’Evangile: une expérience globale, «Recherches de Science Religieuse», 63, 1975, 397-406; vie nuove, originali ed assai pregnanti offre, seppure indirettamente, il contributo di J. A. SANDERS,. Torah and Canon, Philadelphia, 1972 (= trad. franc.: Identité de la Bible, Paris, 1975; vi si trova un’appendice in cui Sanders risponde alle critiche rivoltegli: pp. 153 ss. ed un’appendice bibliografica ragionata, dovuta a M. C. CALLAWAY: pp. 163 ss., molto utile); per una visione sintetica della problematica cfr. ora P. M. BEAUDE, L’accomplissement des Ecritures. Pour une histoire critique des systèmes de représentation du sens chrétien, Paris, 1980. c. Barth, trattando da teologo dommatico il tema, non si sofferma in una disamina storica che coinvolga gli apporti del periodo oggi comunemente detto «intertestamentario»; d’altronde all’epoca della nostra sezione, la grande massa costituita dai documenti di Qumrân non era ancora stata scoperta; uno sguardo tuttavia può essere utile seguendo J. JEREMIAS, Der Gedanke des Heiligen Restes in Spätjudentum und in der Verkündigung Jesu, «Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft», 42, 1949, 184-194; F. NOETSCHER,

Schicksalsglaube in Qumran und Umwelt, «Biblische Zeitschrift», 3, 1959, 205234 e 4, 1960, 98-121; A. JAUBERT, La notion d’alliance dans le judaïsme aux abords de l’ère chrétienne, paris, 1963; J. A. FITZMYER, The Aramaic «Elect of God» Text from Qumran Cave IV, «Catholical Biblical Quarterly», 27, 1965, 348-372; L. MORALDI, I manoscritti di Qumrân, Torino, 1971, 118 ss., 278 s., 292 ss., 343 ss.; P. SACCHI (a cura di), Apocrifi dell’Antico Testamento, Torino, 1981 (v. indice analitico: voci giusto-eletto, libertà, predeterminismo). d. Per la dottrina neotestamentaria si ha una visione generale nella parte corrispondente degli articoli citati in 3A e nell’utile sintesi di A. A. SALOMON, The New Testament’s Doctrine of Election, «Scottish Journal of Theology», 11, 1958, 406-422. Per la posizione sinottica in generale: J. JEREMIAS, Der Gedanke des Heiligen Restes (cit. al punto 3 c); J. DAUMOSER, Berufung und Erwählung bei den Synoptikern, Meisenheim, 1954; J. GNILKA, Die Verstockung Israels, München, 1961; su testi specifici prevalentemente nella versione matteana: su Mt. XXI, 33 ss. e pp.: A. FEUILLET, Les ouvriers de la vigne et la théologie de l’alliance, «Recherches de Science Religieuse», 1947, 303-327; X. LÉON-DUFOUR, Etudes d’Evangilè, Paris, 1965, 308-343; W. TRILLING, L’annuncio di Cristo oggi, Brescia, 1970, 167-192 (trad. dal tedesco); H. MERKEL, Das Gleichnis von den Ungleichen Söhnen, «New Testament Studies», 20, 1974, 254-261; su Mt. XXII, 1 ss.: J. JEREMIAS, Les Paraboles de Jésus, Lyon-Paris, 1962, 176 ss. (trad. dal ted.; trad. ital.: Brescia, 1964) e H. SCHLIER, Essais sur le Nouveau Testament, Paris, 1968, 255-262 (trad. dal tedesco; trad. ital.: Brescia, 1970). Per una visione generale della concezione giovannea si veda in particolar modo la tematica dell’«ora di Cristo»: O. CULLMANN: La foi et le culte de l’Eglise primitive, Neuchâtel-Paris, 1963, 141 (trad. ital.: Roma, 1968); Etudes de théologie biblique, Neuchâtel-Paris, 1968, 144 ss. (trad, ital.: Roma, 1972); Il mistero della redenzione nella storia, Bologna, 1966, 365 ss. (originale tedesco: 1965); J. L. MARTYN, History and Teoiogy in the Fourth Gospel, New York, 1968; G. FERRARO, L’«ora» di Cristo nel quarto vangelo, Roma, 1974. Per la concezione paolina in generale oltre al sempre prezioso F. PRAT, La théologie de saint Paul, 2 voll., Paris, 1942 (33a ediz. per il tomo 1°) e 1941 (28a ediz. per il tomo 2°) accessibile anche in italiano (Torino, 1950, 7a ediz.) cfr. D. DEDEN, Le «mystère» paulinien, «Ephemerides Theologicae Lovanienses», 13,

1936, 405-422; F. DAVIDSON, Pauline Predestination, London, 1946; V. BOURLIK, La predestinazione: san Paolo e s. Agostino, Roma, 1961, 1-86; H. M. DION, La prédestination chez s. Paul, «Recherches de Science Religieuse», 53, 1965, 5-43. Sul testo di Rom. IX-XI: i commentari (da consultare almeno W. SANDAYA. C. HEADLAM: 1895 e 1962: 5a ediz.; H. LIETZMANN: 1908 e 1971: 6a ediz. citato da Barth; M. J. LAGRANGE: 1916 e ristampa: 1950; F. J. LEENHARDT: 1957; S. LYONNET: 1962: 3a ediz., E. KAESEMANN: 1974: 3a ediz.; O. MICHEL: 1976: 14a ediz.; H. SCHLIER: 1977; O. KUSS: vol. 3: 1979; U. WILCKENS: vol. 2: 1980); l’ottimo status quaestionis di W. G. KÜMMEL, Die Probleme von Röm. 9-11 in der gegenwärtigen Forschungslage, in Die Israelfrage nach Röm. 9-11, hrsg. L. DE LORENZI, Roma, 1977, 13-33 (= Heilsgeschehen und Geschichte. Gesammelte Aufsätze, II, Marburg, 1978, 245-260); i contributi di H. E. WEBER, Das Problem der Heilsgeschichte nach Röm. 9-11, Leipzig, 1911; F. W. MAIER, Israel in der Heilsgeschichte nach Röm. 9-11, München, 1929; E. F. STROETER, Die Judenfrage und ihre göttliche Lösung nach Röm. 9-11, Brema, s. d. (anteriore però al 1940; opera cui Barth si riferisce «malgrado i suoi possenti errori»: KD II/2, 294); K. L. SCHMIDT: Die Judenfrage im Lichte der Kap. 9-11 des Röm., Zürich, 1943 (1947: 2a ediz.) e Die Verstockung des Menschen durch Gott, «Theologische Zeitschrift», 1951, 1 ss.; A. FEUILLET, Le plan salvifique de l’Epître aux Romains, «Revue Biblique», 1950, 336 ss. e 489 ss.; J. M. BOVER. La reprobación de Israel en Rom. 9-11, «Estudios Eclesiásticos». 1951, 63-82; E. DINKLER, The Historical and Eschatological Israel in Rom. 9-11, «Journal of Religion», 36, 1956, 109 ss. (Festschrift G. Dehn, Neukirchen-Bonn, 1957, 81 ss.; Signum crucis. Aufsätze zum Neuen Testament, Tübingen, 1978, 241 ss.); J. MUNCK, Christus und Israel. Eine Auslegung von Röm. 9-11, Kopenhagen, 1956; S. LYONNET: De doctrina praedestinationis et reprobationis in Rom. IX, «Verbum Domini», 1956, 193 ss. e 257 ss. e Quaestiones in epistulam ad Romanos, II, Roma, 1962, 2a ediz.; J. M. OESTERREICHER, Israel’s Misstep and Her Rise. The Dialectic of God’s Saving Design in Rom. 9-11, in Studiorum Paulinorum Congressus Internationalis Catholicus, Roma, 1963, I, 317 ss.; CH. PLAG, Israels Wege zum Heil. Eine Untersuchung zu Röm. 9-11, Stuttgart, 1969; E. GUTTGEMANNS, Studia Linguistica Neotestamentica, München, 1971, 34 ss.; F. W. MARQUARDT, Die Juden in Röm., Zürich, 1971; B. CORSANI, I capp. 9-11 della

lettera ai Romani, «Bibbia e Oriente», 14, 1972, 31 ss.; D. ZELLER, Juden und Heiden in der Mission des Paulus, Stuttgart, 1973; L. DE LORENZI hrsg., Die Israelfrage, cit.; G. S. WORGUL, Rom. 9-11 and Ecclesiology, «Biblical Theological Bulletin», 7, 1977, 99 ss.; W. D. DAVIES, in Paganisme, judaïsme, christianisme. Mélanges M. Simon, Paris, 1978 (sulla parabola dei due olivi); W. S. CAMPBELL, The Place of Rom. 9-11 within the Structure and Thought of the Letter, in Texte und Untersuchungen. Oxford Congress 1973, Berlin, 1980. Per il rapporto più generale chiesa-sinagoga cfr. solamente taluni saggi globali: A. CHARUE, L’incrédulité des Juifs dans le Nouveau Testament, Gembloux, 1929; E. PETERSON, Die Kirche aus Juden und Heiden, Salzburg, 1933 (= Theologische Traktate, München, 1951; trad, ital.: Milano, 1946; opera con cui Barth entra in dialogo critico); PH. H. MENOUD, L’Eglise naissante et le judaïsme (1952), in Jésus-Christ et la foi. Recherches néotestamentaires, Neuchâtel-Paris, 1975, 276-313; W. MAURER, Kirche und Synagoge, Stuttgart, 1953; G. BAUM, The Jews and the Gospel. A. Re-examination of the New Testament, Westminster-London, 1961; W. SCHRAGE, Ekklesia und Synagoge, «Zeitschrift für Theologie und Kirche», 60, 1963, 178-202; H. SCHLIER, Il tempo della chiesa, Bologna, 1965, 60 ss. e 373 ss. (trad. dal tedesco; originale del 1955; raccolta di saggi di epoca precedente); Antijudaismus im Neuen Testament? Exegetische und systematische Beiträge, München, 1967; P. BENOIT, Exégèse et théologie, Paris, 1968, III, 387-441 (vari saggi di epoca precedente); H. L. ELLISON, The Mystery of Israel, Exeter, 1968; L. CERFAUX, La survivance du peuple ancien à la lumière du Nouveau Testament, in Populus Dei. Miscellanea Card. A. Ottaviani, Roma, 1969, 919 ss.; P. RICHARDSON, Israel in the Apostolic Church, Cambridge, 1969; W. D. DAVIES: The Gospel and the Land: Early Christianity and Jewish Territorial Doctrine, Berkeley-Los Angeles-London, 1974; Jérusalem et la terre dans la tradition chrétienne, «Revue d’Histoire et de Philosophie Religieuses», 55, 1975, 491-535; Paul and the People of Israel, «New Testament Studies», 24, 1977- 1978, 4-39; La dimension territoriale du judaïsme, «Recherches de Science Religieuse», 66, 1978, 533-568; L. ETTMAYER, Kirche als Sammlung Israels?, «Zeitschrift für Theologie und Kirche», 100, 1978, 127-139; S. SANDMEL, Anti-Semitism in the New Testament?, Philadelphia, 1978.

L’esegesi barthiana suppone una lettura in cui è all’opera una particolare concezione di storia della salvezza, incentrata sul principio cristologico di sostituzione, illustrata magistralmente qualche anno più tardi in una classica opera di O. CULLMANN, Cristo e il tempo. La concezione del tempo e della storia nel cristianesimo primitivo., Bologna, 1965 (sulla terza ed. tedesca del 1962; originale del 1946) ancora oggi insostituibile (specie pp. 143 ss.). Barth cita in questa sezione 696 testi neotestamentari. Eccone alcuni che giocano un ruolo molto importante: Mt., IV, 19 = KDII/2, 491; Mt., X = II/2, 497; Mt., X, 24 s. = II/2, 554 (cfr. KD III/45 554); Mt., XIII, 10-15 = II/2, 495; Mt., XIV, 13-21 = II/2, 495; Mt., XIV, 13-20 = II/2, 483 e 488-490; Mt., XVII, 22 = II/2, 511; Mt., XXVI = II/2, 508-563; Mt., XXVI, 56 = II/2, 486 s.; Mt., XXVIII, 16 = II/2, 479-482 (cfr. KD III/2, 544); Mt., I, 14, 17 = II/2, 491; Mc., VI, 30 s. II/2, 495; Mc., VIII, 27-30 = II/2, 483 (cfr. KD IV/2, 100; IV/3, 52 s.); Mc., XIV = II/2, 508563; Mc., XV, 38 s. = II/2, 252; Lc., IX 15. =II/2, 496; Lc., IX, 10-17 = II/2, 495; Lc., IX, 18-20 = II/2, 483 (cfr. KD IV/2, 100); Lc., XIII, 8 = II/2, 249; Lc., XXII = II/2, 508-563; Lc., XXIV, 36 s, e 46 s. = II/2, 479-481; Gv., I = II/2, 102-106; Gv., I, 14 = II/2, 131; IV, 22 = II/2, 225; Gv., VI, 37 = II/2, 467; Gv., XII, 1-8 = II/2, 512; Gv., XIII, 1-11 = II/2, 525 (cfr. KD III/4, 546); Gv., XVII, 12 = II/2, 511; Gv., XIX, 22 = II/2, 432; At., I, 8 = II/2, 470 (cfr. KD IV/3, 689 e 912); At., I, 15 s. e 20 = II/2, 510, 518, 520 s., 530; At., XIII, 46 = II/2, 307; Rom., III, 2 = II/2, 318; Rom, VIII, 28 = II/2, 15 (cfr. KD II/1, 474; III/3, 425; IV/2, 308-310 e 316); Rom., IX-XI = II/2, 222-226, 235-256, 264- 285, 294-336; Rom., IX, 19 s. = II/2, 181 e 22 s.; II Cor., IV, 11 = II/2, 555; II Cor., V, 18 s. = II/2. 95 e 487 (cfr. KD I/2, 260 e 336; IV/1, 78-83 e 666; IV/2, 94; IV/3, 696); Fil., II, 10 = II/2, 106; Col., I, 15 = II/2, 112; I Tim., II, 4 = II/2, 466 (cfr. KD IV/4, 32); I Pt., II, 9 = II/2, 15, 377, 479 (cfr. KD IV/3, 585); Apoc., III, 5 = II/2, 15; Apoc., IV = II/2, 469. Come si vede sono soprattutto i testi sinottici relativi alla passione (Mt., XXVI; Mc., XIV; Lc., XXII) ed il prologo giovanneo ad avere, con il locus classicus di Rom., IX-XI un ruolo preponderante con un’esegesi avvincente e talora vertiginosa. Per l’interpretazione della figura di Giuda (vangeli ed Atti) cfr. esaurientemente O. CULLMANN, Le douzième apôtre, «Revue d’Histoire ed de Philosophie Religieuses», 1962, 133 ss. (= Vorträge und Aufsätze, TübingenZürich, 1966, 214 ss.); B. GARTNER, Iscariot, Philadelphia, 1971; J. A. MORIN, Les deux derniers des douze: Simon le Zélote et Judas Iskariôth, «Revue Biblique», 80, 1973, 332-358.

Per l’interpretazione teologica della dialettica chiesa-sinagoga è illuminante la riflessione di J. L. LEUBA: L’Institution et l’Evénement. Les deux modes de l’oeuvre de Dieu selon le Nouveau Testament, Neuchâtel-Paris, 1950 e L’Institution et l’Evénement: défense et illustration, «Verbum Caro», 1951, 105 ss. (=Ala découverte del’espace oecuménique, Neuchâtel-Paris, 1967, 28-46); A. DUMAS, Le «Testament» fait à l’Eglise est-il du même ordre que l’«Alliance» conclue avec Israël?, «Revue d’Histoire et de Philosophie Religieuses», 32, 1952, 230 ss.; T. FEDERICI, Israele nella storia della salvezza, «Humanitas», 22, 1967, 75-109. Per Pinterpretazione del prologo giovanneo: a) in forma teologica: E. THURNEYSEN, Der Prolog zum Johannesevangelium, «Zwischen den Zeiten», 3, 1925, 12-37; H. VOGEL. Das Wort ward Fleisch. Ein Kapitel aus der Christologie, München, 1937; R. GUARDINI, Im Anfang war das Wort. Eine Auslegung von Joh., 1, 1-18, Würzburg, 1940; B. PRETE, La sintesi cristologica del prologo giovanneo, «Sapientia», 4, 1951, 478-487; M. LELONG, Le prologue, Paris, 1960; b) in forma esegetica: oltre ai commentari (soprattutto M. J. LAGRANGE: 1925 e 1936: 5a ediz,; J. H. BERNARD: 1928; R. BULTMANN: 1941; D. MOLLAT: 1973: 2a ediz.; E. HAENCHEN: 1980; R. SCHNACKENBURG: 1965; R, BROWN: 1966, questi due ultimi tradotti anche in italiano): M. E. BOISMARD, Le prologue de st. Jean, Paris, 1953; J. JEREMIAS, Der Prolog des Johannesevangeliums, Stuttgart, 1967; A. FEUILLET, Le prologue du quatrième évangile, Paris, 1968; C. K. BARRETT, The Prologue of St. John’s, London, 1971; c) si ricordi che Barth ha commentato i primi 8 cap. del quarto vangelo nell’anno accademico 1925-1926 (ripetendo il corso nel 1933); pubblicato (1976) nell’edizione delle Gesamtausgabe a cura di W. FUERST, tale commento consente un approccio ulteriore della lettura cristologica di Barth. Quanto a Rom. IX-XI, Barth lo ha lungamente commentato tre altre volte: nel Roemerbrief del 1919, nel Roemerbrief del 1922 e nella Kurze Erklärung del 1956 (che però è costituita da note del 1940-41; ciò spiega perché quest’ultima rifletta un’esegesi assai vicina a quella della nostra sezione, mentre gli altri due testi ne sono abbastanza distanti, come d’altronde sono distanti fra di loro). 4. Note storiche sulla dottrina della predesitnazione Una visione generale esauriente si ha cfr. la disamina storica degli articoli

cit. n. 1 e ricorrendo ai trattati de Deo Uno (in particolare H. LENNERZ: Roma, 1955: 5a ediz., pp. 268-302 e F. M. GENUYT: Tournai-Roma, 1963, pp. 122-128) e De gratia Christi (in particolare CH. BAUMGARTNER: Tornai-Roma, 1963: 2a ediz., pp. 40-147, 249-251, 290-303, 313-326 e G. BIFFI, in A. BENI-G. BIFFI: Torino, 1974, 33-112) o più embrionalmente a E. KLEE, Storia dei dogmi, Torino, 1858, II, 86 ss. (originale: 1838). 5. Note storiche: l’epoca patristica a. ATANASIO DI ALESSANDRIA (295-373). Barth lo cita 33 volte nella KD, soffermandosi sovente, come qui (KD II/2, 116 s.), a discuterne le tesi (cfr. KD I/1, 461 s.; I/1, 490; I/2, 148 s.; I/2, 686; II/1, 250 s.; III/3, 441 s.; IV/1, 219). Qui il riferimento porta sulla seconda delle Orationes III Contra Arianos (capp. 7577) che Barth deriva molto probabilmente (cfr. KD II/2, 118) da A. POLANUS (Syntagma Theologiae Christianae, Hanoviae, 1609, 1596 s.). Per l’interpretazione barthiana bisogna rifarsi all’insieme della cristologia atanasiana; tuttavia la lettura di Barth deve essere giudicata come infondata o almeno come fortemente influenzata dalla sua presa di posizione dommatica; Barth «fa della venuta nella carne una conseguenza dello stato eterno dell’essere-Dio-uomo, mentre Atanasio intende dire che la fondazione (di tutte le cose) è avvenuta nel momento dell’incarnazione, conformemente alla decisione divina presa antecedentemente nel Logos, facendo così della venuta nella carne il punto di partenza di una estrapolazione che si spinge fino ad un disegno redentore, formato da tutta eternità». Non si può ritenere atanasiana l’idea centrale di Barth secondo cui «fin dall’origine in Dio, il Logos è identico all’uomo Gesù»; «non si può utilizzare la testimonianza di Atanasio in questo senso, perché la problematica qui proposta gli è estranea»; né in Atanasio vi è traccia della tesi per Barth cruciale, concernente Gesù Cristo come soggetto dell’elezione, come il Dio-che-elegge, per cui non è possibile affermare né che «in lui, noi siamo eletti, poiché da tutta eternità, è lui che vuole diventare uomo», né che «l’umanità eletta è associata al Logos nel decreto eterno». In particolare Barth legge in maniera errata una frase molto importante del testo: Oύϰοῦν εἰϰότως ἐπιβαίνων ὁ Λόγος εἰς τὴν ἡμετέραν σάρϰα ϰαὶ ἐν αῦτῆ ϰτιζòμενος ἀρχὴ όδῶν είς ἔργα αύτοῦ, ϑεμελιοῦται οὕτως, ὢσπερ ἧν ἐν αὐτῶ τò βούλημα τοῦ Πατρóς, ϰαϑάπερ εἴρηται πρò τοῦ αἰῶνος… rilegando ϑεμελιοῦται a πρò τοῦ αἰῶνος, che invece va letto con il seguito del testo. Cfr. in modo tutto speciale J. ROLDANUS, Le Christ et l’homme dans la théologie

d’Athanase, Leiden, 1968, 218-219. Le Orationes Tres Contra Arianos sono reperibili in J. P. MIGNE, Patrologiae Cursus Completus. Series Graeca (PG), Parigi, 1887, vol. 26, 12-468; ora è però imprescindibile la trad. commentata di C. J. DE VOGEL, Redevoeringen tegen de Arianen, Utrecht, 1949. Se l’autenticità non fa più dubbi, la datazione è molto controversa: la cronologia bassa (fra il 356 ed il 362 durante il terzo esilio) continua a contrapporsi ad una cronologia alta (verso il 339), mentre in ribasso appare la cronologia media (dal 347 al 350). Si integri la cristologia qui riportata con quella del Contra Gentes (in PG 25, 4- 96; T. KEHRHAHN: Berlin, 1913; TH. CAMELOT: Paris, 1947) e soprattutto del De Incarnatione Verbi (si cfr. l’ampia ed esauriente edizione di CH. KANNENGIESSER: Paris, 1973, che dispensa da ulteriori richiami). Un sintetico, ma eccellente status quaestionis sui problemi di autenticità, testo e cronologia che coinvolgono le opere atanasiane in J. ROLDANUS, op. cit., 374-401. Per una visione generale riferirsi agli articoli di dizionari: F. LOOFS, Realencyklopädie für protestantische Theologie und Kirche, II, 194-205; X. LE BACHELET, Dictionnaire de Théologie Catholique, II, 2143-2178; G. BARDY, Dictionnaire d’Histoire et de Géographie Ecclesiastiques, IV, 1314-1340; alle monografie di F. CAVALLERA (Paris, 1908) e G. BARDY (Paris, 1926); al contributo di W. SCHNEEMELCHER, Athanasius von Alexandrien als Theologe und als Kirchenpolitiser, «Zeitschrift für die neutest. Wissenschaft», 43, 19501951, 242-256. Per una valutazione della cristologia atanasiana: J. A. MOEHLER, Athanase le Grand et l’Eglise de son temps, trad. franc., Paris, 1840; H. VOIGT, Die Lehre von Athanasius von Alexandrien, Bremen, 1861; C. VERNET, Essai sur la doctrine christologique d’A., Genève, 1879; L. ATZBERGER, Die Logoslehre des A., München, 1880; A. G. PELL, Die Lehre des hlg. A. von der Sünde und Erlösung, Passau, 1888; H. STRAETER, Die Erlösungslehre des hlg. A., Freiburgim-B., 1894; F. LAUCHERT, Die Lehre des hlg. A., Leipzig, 1895; K. Hoss, Studien über das Schrifttum und die Theologie des A., Freiburgim-B., 1899; A. STUELCKEN, Athanasiana, Leipzig, 1899; G. VOISIN, La doctrine christologique de st. A., «Revue d’Histoire Ecclesiastique», 1, 1900, 226-248; E. WEIGL, Untersuchungen zur Christologie des hlg. A., Paderbon, 1914; A. GAUDEL, La théologie du Logos chez A., «Recherches de Science Religieuse», 9, 1929, 524-

539 e 11, 1931, 1-26; H. G. OPITZ, Untersuchungen zur Überlieferung der Schriften des A., Berlin, 1935 con la recens. di J. LEBON, «Revue d’Histoire Ecclesiastique», 31, 1935, 783-788; J. B. BERCHEM: L’Incarnation dans le plan divin d’après st. A., «Echos d’Orient», 33, 1934, 316-330; Le rôle du Verbe dans l’oeuvre de la création et de la sanctification d’après st. A., «Angelicum», 15, 1938, 201-232; Le Christ sanctificateur d’après st. A.» «Angelicum», 15, 1938, 515-558; J. B. SCHOEMANN, Eὶϰών in den Seriften des hlg. A., «Scholastik», 16, 1941, 335-350; L. BOUYER, L’Incarnation et l’Eglise corps du Christ dans la théologie de si, A., Paris, 1943; F. L. CROSS, The Study of st. A., Oxford, 1945; R. BERNARD, L’image de Dieu d’après st. A., Paris, 1952; A. VAN HAARLEM, Incarnatie en verlossing bij A., Wageningen, 1961; D. RITSCHL, A.: Versuch einer Interpretation, Zürich, 1964; J. ROLDANTLF, op. cit. (esiste una seconda edizione rivista: 1977 che non ci è stato possibile consultare); K. E. SKOURATE, La sotériologie de st. A., «Travaux Théologiques», 7, 1971, 257 ss.; G. ZAPHIRIS: Connaissance naturelle de Dieu d’après A., «Kληρονομία», 6, 1974, 61-96 e Reciprocai Trinitarian Revelation and Man’s Knowledge of God according to st. A., Thessalonica, 1974; A. SCHINDLER, in F. VON LILIENFELD-E. MÜHLENBERG hrsg., Gnadenwahl und Entscheidungsfreiheit in der Theologie der Alten Kirche. Vorträge, Erlangen, 1980 (rileva acutamente le novità atanasiane). b. AURELIO AGOSTINO (354-430). Citato da Barth 205 volte nella KD, quasi sempre con ampia discussione delle tesi, è qui presente con sei opere molto importanti: il Tractatus CXXIV in Johannem (del 416) anteriore quindi alla condanna pelagiana; il De Civitate Dei (in testi posteriori al 418) nel bel mezzo della lotta antipelagiana; l’Epist. 217 ad Vitalem (verso il 427); il De correptione et gratia (426-427); il De praedestinatìone sanctorum (428-429) ed il De dono perseverantiae (428-429) fra i testi più espliciti e duri della fine. Vi sono altre citazioni di opere, ma solo incidentali e finalizzate alle tesi qui esaminate. La scelta barthiana è indubbiamente felice, mantenendo la complessità di un pensiero, di cui riconosce la luce, pur non disconoscendo le grosse ombre. Lo si può vedere rifacendosi all’ampia antologia curata da J. CHÉNÉ, La théologie de saint Augustin: grâce et prédestination, Le Puy-Lyon, 1961 (un modello nel genere); alla preziosa disamina puntualizzatrice data da H. BOUILLARD, Karl Barth, II, 147-152: alle precise note orientative sull’esegesi agostiniana dei testi

paolini in F. PRAT, La théologie de saint Paul, I, 296-299, 314-315, 527-531 e A. D’ALÈS, art. Prédestination, in Dictionnaire Apologétique, IV, 205-214. Per un approccio generale alla tematica agostiniana si consultino gli articoli del Dictionnaire de Théologie Catholique, I, 2268-2472 (E. PORTALIÉ), del Dictionnaire de Spiritualité, I, 1101-1130 (C. BOYER) e del Die Religion in Geschichte und Gegenwart (3a ediz.), I, 738-748 (R. LORENZ); le biografie di C. BOYER (Paris, 1932), G. BARDY (Paris, 1940: 3a ediz.) e A. MANDOUZE (Paris, 1968); le monografie di O. ROTTMANNER, Der Augustinismus. Eine Dogmengeschichtliche Studie, München, 1892; F. VAN STEENBERGHEN, La philosophie de st. A., «Revue Néoscolastique de Philosophie», 1932, 366-387 e 1933, 106-126, 230-281; E. GILSON, Introduction à l’étude de st. A., Paris, 1949 (3a ediz.; alle pp. 325-351 di questo studio imprescindibile vi è un’ottima bibliografia ragionata e divisa; alle pp. 337 s. la bibliografia concerne la nostra tematica). Sulla dottrina della predestinazione in particolare: J. P. BALTZER, Der hlg. Aug. Lehre über Prädestination und Reprobation, Wien, 1871; M. JACQUIN: La question de la prédestination au V et VI siècle: st. Augustin, «Revue d’Histoire Ecclésiastique», 1904, 265 ss., 725 ss. e La prédestination selon saint Augustin, in Miscellanea Agiografica, Paris, 1931, II, 853 ss.; K. KOLB, menschliche Freiheit und göttliches Vorherwissen nach Augustin, Freiburg-im-B., 1908; C. BOYER, Le système de st. Aug. sur la grâce, «Recherches de Science Religieuse», 1930, 501-523 (= Essais sur la doctrine de st. Aug., Paris, 1932, 206-236; Essais anciens et nouveaux sur la doctrine de st. Aug., Milano, 1970, 269-294); H. JONAS, Augustin und das paulinische Freiheitsproblem, Göttingen, 1930; F. SAINT-MARTIN, La pensée de st. Aug. sur la prédestination gratuite et infaillible des élus à la gloire d’après ses derniers écrits (426-430), Paris, 1930; M. DE LAMA, S. Aug. doctrina de gratia et praedestinatione, Torino, 1934; H. DIEM, Augustins Interesse in der Prädestinationslehre, in Theologische Aufsätze. Karl Barth zum 50. Geburtstag, München, 1936, 362 ss.; R. STAKEMAIER, Der Kampf zur Aug., Paderbon, 1937; F. CAYRÉ, La prédestination dans st. Augustin, «L’Année Théologique», 1941, 42-63; X. LÉON-DUFOUR, Grâce et libre arbitre chez st. Augustin, «Recherches de Science Religieuse», 1946, 129-163; F. J. THONNARD: La prédestination augustinienne et l’interprétation de O.

Rottmanner, «Revue des Etudes Augustiniennes», 1953, 259-287 e La prédestination augustinienne. Sa place en philosophie augustinienne, «Revue des Etudes Augustiniennes», 1964, 97-123; H. RONDET: La liberté et la grâce dans la théologie augustinienne, in St. Augustin parmi nous, Paris-Le Puy, 1954, 199 ss. (con note a pp. 297 ss.); La prédestination augustinienne; gènése d’une doctrine, «Sciences Ecclésiastiques», 1966, 229-251; La grazia di Cristo, Roma, 1966 (trad.), 105 ss., 140 ss.; Essais sur la doctrine de la grâce, Paris, 1964, 245 ss.; G. DE PLINVAL, Aspects du determinisme et de la liberté dans la doctrine de st. Aug., «Revue des Etudes Augustiniennes», 1955, 345 ss.; G. NYGREN, Das Prädestinationsproblem in der Theologie Augustins, Lund, 1956; J. VAN GERVEN, Liberté humaine et prescience divine d’après st. Aug., «Revue Philos, de Louvain», 55, 1957, 317-330; A. SAGE, La prédestination chez st. A., «Revue des Etudes Augustiniennes», 1960, 31-49 (presentazione della tesi di Boublik cit. qui appresso al momento della discussione); V. BOUBLIK: La predestinazione in s. A., «Divinitas», 1961, 149- 164 e La predestinazione: s. Paolo e s. Agostino, Roma, 1961, 87-229; J. M. RIST, Augustine on free Will and Predestination, «Journal of Theological Studies», 20, 1969, 420-427. Il discorso su Agostino è imprescindibile dal quadro storico del pelagianesimo, semipelagianesimo ed agostinismo. Su Pelagio ed il pelagianesimo: gli articoli della Real-Encyclopädie für Protestantische Theologie und Kirche, XV, 747-774 (F. LOOFS: 1904), del Dictionnaire de Théologie Catholique, XII, 675-715 (R. HEDDE-E. AMANN: 1933)? della RealEncyclopädie der Classischen Altertumwissenschaft, XIX, 226-242 (E. DINKLER: 1936); le storie della chiesa di L. Duchesne (Paris, 1929: 5a ediz., III, 199-257), di A. FLICHE-V. Martin (G. De Plinval: vol. 4, Paris, 1937, 397-421), di H. MARROUJ. DANJELOU (H. MARROU: vol. 1 della Nouvelle Histoire de l’Eglise, Paris, 1964, 450-459) tutte accessibili in italiano; i saggi di G. DE PLINVAL: Recherches sur l’oeuvre littéraire de Pélage, «Revue Philologique», 60, 1934, 10-42; Le problème de Pélage dans son dernier état;, «Revue l’Histoire Ecclésiastique», 35, 1939, 5-21; Pélage: ses écrits, sa vie et sa réforme, Lausanne, 1943 (con attento esame della bibliografia antecedente); Points de vue récents sur la théologie de Pélage, «Recherches de Science Religieuse», 1958, 227-236; J. FERGUSON, Pelagius, Cambridge, 1956; T. BOHLIN, Die Theologie des Pelagius

und ihre Genesis, Upsala, 1957; H. RONDET, La grazia di Cristo, 120 ss.; S. PRETE, Pelagio e il pelagianesimo, Brescia, 1961; R. F. EVANS, Pela gius: Inquiries and Reappraisals, London, 1968; G. BONNER, Augustine and modern Research of Pelagianism, Villanova, 1972; G. GRESHAKE, Gnade als Konkrete Freiheit. Eine Untersuchung zur Gnadenlehre des Pelagius, Mainz, 1972 con la recensione di A. TRAPÉ, «Augustinianum», 1973, 482 ss.; O. WERME-LINGER, Rom und Pelagius. Die theologische Position der römischen Bischöfe in pelagianischen Streit in den Jahren 411-432, Stuttgart, 1975; J. B. VALERO, Las Bases antropoiogicas de Pelagio en su tratado de las Expositiones, Madrid, 1980. Barth cita esplicitamente Pelagio solo 6 volte nella KD e il pelagiaoesimo solo 4 volte (nell’insieme delle 10 volte, 4 sono nella nostra sezione), ma la tematica è qui onnipresente. Sulle controversie semipelagiane: l’articolo del Dictionnaire de Théologie Catholique, XIV, 1796-1850 (E. AMANN: 1935); la storia dei dogmi di J. TIXERONT (Paris, 1931, III, 274-312); la storia ecclesiastica di L. DUCHESNE (III, 258-286); 1 contributi di G. DE PLINVAL (nella storia ecclesiastica di A. FLICHE-V. MARTIN: IV, 397-419); K. RAHNER, Augustinus und der Semipelagianismus, «Zeitschrift für Kathol. Theol.», 1938, 171 ss.; H. RONDET, La grazia di Cristo, 155 ss. Sulle vicende dell’agostinismo cfr. solo FI. RONDET, La grazia di Cristo, 177 ss. 6. Note storiche; l’epoca medioevale a. Per un inquadramento generale delle interpretazioni medioevali si ricorra all’ottima sintesi di P. ZERBI, Il Medioevo nella storiografia degli ultimi venti anni, Milano, 1976. Per muoversi agevolmente in quest’ampio arco di tempo si consultino le storie della filosofia: B. GEYER, Die patristische und scholastische Philosophie: II: F. UEBERWEG, Grundriss der Geschichte der Philosophie, Berlin, 1928, 11a ediz.; M. DE WULF, Histoire de la philosophie médiévale, Louvain-Paris, 1934-1942: 3 voll., 6a ediz. (trad. ital.: Firenze, 19441949); E. GILSON, La philosophie au Moyen-Age, Paris, 1944, 2aediz.; P. VIGNAUX: La pensée au Moyen-Age, Paris, 1938 (trad. ital.: Brescia, 1945) e La philosophie au Moyen-Age, Paris, 1958; C. VASOLI, La filosofia medievale, Milano, 1960; F. VAN STEENBERGHEN, Introduction à l’étude de la philosophie médiévale, Louvain-Paris, 1974; o si acceda a taluni saggi fondamentali: M. GRABMANN, Geschichte der scholastischen Methode, Freiburg-im-B., 1909-1911,

2 voll.; E. GILSON, L’esprit de la philosophie médiévale, Paris, 1932, 2a ediz. (trad. ital.: Brescia, 1957); J. LECLERCQ, Uamour des lettres et le désir de Dieu, Paris, 1957; J. PAUL, Histoire intellectuelle de l’Occident médiéval, Paris, 1973; P. VIGNAUX, De St. Anselme à Luther. Etudes de philosophie médiévale, Paris, 1976. Sull’alta scolastica: A. LANDGRAF, Einführung in die Geschichte der theologischen Literature der Frühscholastik, Regensburg, 1948 (trad. franc. riveduta ed ampliata dall’Autore, da P. M. A. LANDRY e P. BOGLIONI: Paris, 1973); S. VANNI ROVIGHI, La prima scolastica dal sec. IX al sec. XII, in Grande Antologìa Filosofica, Milano, 1966, IV, 621 ss.; P. RICHÈ, Education et culture dans l’Occident barbare: VI-VIII siècles, Paris, 1972, 3a ediz.; A. VAUCHEZ, La spiritualité du Moyen-Age occidental, Paris, 1975 (trad. ital.: Milano, 1979). Sul fulgore della scolastica (XII-XIII secolo): J. DE GHELLINCK, Le mouvement théologique du XII siècle, Bruxelles-Paris, 1948: 2a ediz.; M. D. CHENU: La théologie au XII siècle, Paris, 1957 (trad. ital.: Milano, 1970) e La théologie comme science au XIII siècle, Paris, 1959 (trad. ital.: Milano, 1970); F. VAN STEENBERGHEN, La philosophie au XIII siècle, Louvain-Paris, 1972 (trad. ital.: Milano, 1974); M. M. DAVY, Initiation médiévale. La philosophie au XII siècle, Paris, 1980 (trad. ital.: Milano 1981). Sulla bassa scolastica: P. VIGNAUX, Le nominalisme au XIV siècle, Montréal-Paris, 1948; C. GIACON, La seconda scolastica, 3 voll., Milano, 1946-1950; H. A. OBERMAN: The Harvest of Medieval Theology. Gabriel Biel and Late Medieval Nominalism, Cambridge Mass., 1963 (= Spätscholastik und Reformation: der Herbst der mittelalterlichen Theologie, Tübingen, 1965); Forerunners of the Reformation. The Shape of late Medieval Thought, London-New York, 1966; Werden und Wertung der Reformation. Vom Wegestreit zum Glaubenskampf, Tübingen, 1977 (trad. ital.: Bologna, 1982). Sul tema specifico: J. VERWEYEN, Das Problem der Willensfreiheit in der Scholastik, Heidelberg, 1909; A. LANDGRAF, Dogmengeschichte des Frühmittelalters: die Gnadenlehre, Regensburg, 1952; H. BOUILLARD, La théologie de la grâce au XIII siècle, «Recherches de Science Religieuse», 1948, 469 ss.; P. VIGNAUX, Justification et predestination au XIV siècle, Paris, 1934; J. AUER, Die Entwicklung der Gnadenlehre in der Hochscholastik, 2 voll., Freiburg-im-B., 1942 e 1951. b. Barth si riferisce ad alcuni esponenti predestinazianisti assai rigidi:

ISIDORO, vescovo di Siviglia, morto nel 636 (citato solo 2 volte nella KD di cui una qui); GODESCALCO (la forma è da preferire a GOTTESCALCO) di Orbais, morto fra l’866 e l’869 (citato 3 volte solo qui); GREGORIO DA RIMINI, morto nel 1357 (solo qui 1 volta) e John Wyclif, morto nel 1384 (solo qui 1 volta). Di Isidoro Barth cita i Sententiarum Libri Tres (accessibili nella edizione di J. MIGNE: PL 83) sulla cui portata H. RONDET, La grazia di Cristo, 185 e soprattutto J. FONTAINE, Isidore de Séville et la culture classique dans l’Espagne visigothique, Paris, 1959. Per Godescalco Barth cita ancora secondo HINCMARUS, De praedestinatione Dei et libero arbitrio posteriore dissertatione (nell’edizione J. MIGNE: PL 125); è ora possibile l’ediz. accuratissima di C. LAMBOT, Godescalc d’Orbais. Oeuvres théologiques et grammaticales, Louvain, 1946; per una disamina della posizione storica di Godescalco cfr. gli articoli del Dictionnaire de Théologie Catholique (P. GODET, Gottescalc, VI, 1500-1502 e B. Lavaud, Prédestination, XII, 2901-2935); le storie di H. HEFELE H. LECLERCQ (Histoire des Conciles, Paris, 1911, IV, 137-187), di R. SEEBERG (Lehrbuch der Dogmengeschichte, Göttingen, 1930: 4a ediz., III, 65-71), di A. FLICHE-V. MARTIN (E. AMANN, L’époque carolingienne, VI, 320-344); i contributi di J. TURMEL, La controverse prédestinatienne au IX siècle, «Revue d’Histoire et de Littérature Religieuses», 1905, 47-69; B. LAVAUD, Précurseur de Calvin ou témoin de l’augustinisme: le cas de Gotte skalk, «Revue Thomiste», 1932, 72-101; E. AEGERTNER, Gotteskalk et le problème de la prédestination au IX siècle, «Revue d’Histoire des Religions», 1937, 87-223; H. RONDET, La grazia di Cristo, 186192; e per una visione più generale sia J. JOLIVET, Godescalc d’Orbais et la Trinité: la méthode de la théologie carolingienne, Paris, 1958, sia la grande opera di J. DEVISSE, Hincmar archevêque de Reims 845-882, Genève, 1975 (3 voll.) che rinnova notevolmente la problematica e consente una più equa valutazione dei fatti e delle idee. Per Gregorio da Rimini (senza riferimenti specifici): M. MERLIN, in Dictionnaire de Théologie Catholique, VI, 1852 s.; R. SEEBERG, Lehrbuch der Dogmengeschichte, III, 734 ss. e 771 ss.; P. VIGNAUX, Justification et prédestination (cap. 4); M. SCHUELER, Prädestination, Sünde und Freiheit bei Gregor von Rimini, Stuttgart, 1934; H. RONDET, La grazia di Cristo, 286 ss. Per Wyclif (senza riferimenti specifici): F. LOOFS, Leitfaden zur Dogmengeschichte, Göttingen, 1906: 4a ediz., 637-654; H. B. WORKMAN, John

Wyclif, Oxford, 1926 (1966: 2a ediz.); R. SEEBERG, Lehrbuch der Dogmengeschichte, III, 592 ss., 737 ss., 778 s.; F. LAUN, Die Prädestination bei Wyclif und Bradwardin, Göttingen, 1932; H. RONDET, La grazia di Cristo, 271 ss.; J. A. ROBSON, Wyclif and the Oxford Schools, Cambridge, 1961; J. STACEY, Wyclif and Reform, London, 1964. c. PIER LOMBARDO, il Magister Sententiarum, morto poco dopo la sua elezione a vescovo di Parigi, verso il 1160 è citato da Barth 22 volte nella KD (due volte qui). L’edizione migliore dei Libri Quattuor Sententiarum (composti fra il 1154 ed il 1157 e corretti nell’insegnamento del 1157-1158) è ora quella di Quaracchi (a cura di P. V. DOUCET e P. I. BRADY: 2 voll., 1971 e 1981) che sostituisce l’antica del 1916 (in 2 voll.; ancora benemerita) ormai introvabile. Su questo autore: J. DE GHELLINCK: Pierre Lombard, in Dictionnaire de Théologie Catholique, XII. 1941-2014 e La carrière de Pierre Lombard, «Revue d’Histoire Ecclésiastique», 1931, 792-830 e 1934, 95-100; O. BALTZER, Die Sentenzen des Petrus Lombardus: ihre Quellen und ihre dogmengeschichtliche Bedeutung, Leipzig, 1902; F. CAVALLERA, St. Augustin et le Livre des Sentences de Pierre Lombard, «Archives de Philosophie», 7, 1930, 428 ss.; PH. DELHAYE, Pierre Lombard, Montréal-Paris, 1961; P. I. BRADY. Prolegomena all’edizione quaracchiana del 1971 (pp. 1-169; esaurientissimo status quaestionis delle nostre conoscenze che rinnova la problematica, corregge numerose inesattezze storiche e storiografiche, apporta lumi decisivi sulla complessa questione delle fonti, grazie anche ad una documentazione rinnovata). Sulla straordinaria fortuna di quest’opera: P. GLORIEUX, Sentences, in Dictionnaire de Théologie Catholique, XIV, 1860-1884. d. GIOVANNI FIDANZA Detto BONAVENTURA (1217?-I274) è citato 13 volte nella KD; qui interessa sommariamente un testo del Breviloquium, databile anteriormente al 1257; Barth avrebbe potuto sfruttare molto di più il cristocentrismo bonaventuriano, anche se le osservazioni barthiane sono giustificate. Per il Brevitoquium si veda l’edizione di Quaracchi: esiste un’editto maior (Opera omnia, V, 199 ss.: 1892) e un’editto minor (sfrondata di apparati: 1938). Nell’abbondante bibliografia bonaventuriana citiamo solamente: per le opere suscitate dal recente centenario del 1974 basti rifarsi ai bollettini bibliografici di F. RUELLO, «Recherches de Science Religieuse», 64, 1976, 229-270 e L. J. BATAILLON, «Revue des Sciences Philosophiques et

Théologiques», 64, 1980, 103-107 e 122-131; per i saggi anteriori: E. LONGPRÉ;, La théologie mystique de st. Bonaventure, Quaracchi, 1921; E. GILSON, La philosophie de st. B., Paris, 1924 e 1943: 2a ediz. rived. (pp. 397-405: importante bibliografia); R. LAZZARINI, S. B. filosofo e mistico del cristianesimo, Milano, 1946; J. RATZINGER, Die Geschichtstheologie des hlg. B., München, 1959; J. BOUGEROL: Introduction à létude de s. B., Paris-Tournai, 1961 e St. B. et la sagesse chrétienne, Paris, 1963; H. DUMÉRY, Itinéraire de l’esprit vers Dieu, Paris, 1967 (eccellenti pagine introduttive); G. H. TAVARD, S. BONAVENTURE as Mistic and Theologian, Roma, 1973; per i saggi contemporanei e posteriori al centenario: Sanctus Bonaventura: volumen commemorativum, Grottaferrata, 1973-1974, 5 voll, (interessano particolarmente i voll. 2, 4, 5: quest’ultimo contiene un’importante bibliografia esaustiva a partire dal 1850; il cit. contributo di F. RUELLO esamina dettagliatamente questo prezioso materiale permettendo un orientamento); S. VANNI ROVIGHI, San Bonaventura, Milano, 1974; A. J. W. HELLMANN, Ordo. Untersuchung eines Grundgedankens in der Theologie Bonaventuras, München, 1974; V. G. LEINSLE, signum. Das Verständnis zeichenhafter wirklichkeit in der Theologie Bonaventuras, München-Paderbon, 1976; E. H. COUSINS, Bonaventure and the Coincidence of Opposites, Chicago, 1978 (con le annotazioni critiche di G. H. TAVARD, «Theological Studies», 41, 1980, 576 ss. e di F. Ruello, «Recherches de Science Religieuse», 70, 1982, 290 ss.); F. CORVINO, Bonaventura da Bagnoregio francescano e pensatore, Bari, 1980. Sull’aspetto cristocentrico: F. BERNARELLO, Gesù Cristo nella spiritualità bonaventuriana, Roma, 1965; A. ELSAESSER, Christus der hehrer des Sittlichen. Die christologische Grundlagen für die Erkenntnis des Sittlichen nach der Lehre Bonaventuras, Paderbon, 1968; E. BETTONI, Visione cristocentrica della spiritualità in san Bonaventura, «Cultura e scuola», 13, 1974, nn 49-50, 151-167; L. CIGNELLI, Il Cristo di san Bonaventura, in Bonaventuriana. Saggi in occasione del VII Centenario, Gerusalemme, 1974, 5-67; D. HERRERA, San Buenaventura ante el Cur Deus homo, in Sanctus Bonaventura, II, 125-142; E. H. COUSINS, The two Poles of Bonaventure’s Theology, in Sanctus Bonaventura, IV, 153-176; J. L. GONZALES, The Work of Christ in st. B. systematic works, in Sanctus Bonaventura IV, 371-385; C. DEL ZOTTO, La teologia dell’immagine in san Bonaventura, Vicenza, 1977. Per il

problema della predestinazione con le connesse questioni: J. VERWEYEN, Das Problem der Willensfreiheit in der Scholastik, 99-111; G. BOZITKOVIC, S. B. doctrina de gratia et libero arbitrio, Marienbad, 1919; M. B. YPRES, La prescience divine selon s. B., «Collectanea Franciscana», 9, 1939, 321-360; J. G. BOUGEROL, Le rôle de l’«influentia» dans la théologie de la grâce chez st. B., «Revue Théologique de Louvain», 5, 1974, 273-300; V. RISTORI, La libertà in san Bonaventura. Non «potestà di scelta» ma «possesso di sé in Dio», Roma, 1974. e. TOMMASO D’AQUINO (1225/1226-1274) è citato nella KD 140 volte nelle posizioni tipiche della Summa Theologiae; i riferimenti costanti e l’importanza delle tematiche che oppongono i due autori hanno suscitato una vasta bibliografia che merita un’attenta considerazione; se ne veda un elenco nella nostra selezione bibliografica (p. 403). Per la nostra questione l’esegesi può ritenersi sufficientemente corretta; tuttavia una maggiore sensibilità ai passi paralleli (per Summa Theol., I, qq. 23-24: I Sent., dist. 40, q. 1, art. 2; dist. 40, q. 4, art. 1; dist. 41, tota; Contra Gent., III, 163; e per Summa Theol., III, q. 24: Contra Gent., IV, 9; Ad Romanos, cap. 1, lect. 3) ed allo schema generale, al genere letterario, alle categorie espressive, al contesto storico della Summa avrebbero consentito di smussare talune acerbità o valutare aspetti sottaciuti. Per inquadrare la questione della predestinazione è perciò necessario un discorso ampio che tenga presenti: 1) biografie come quelle di S. VANNI ROVIGHI (Bari, 1973; eccellente storia della critica con bibliografia abbondante e selezionata) e di J. A. WEISHEIPL (New York, 1974; ottimo status quaestionis delle nostre conoscenze); 2) precise ricostruzioni di ambiente: M. D. CHENU, Introduction à l’étude de st. Thomas, Paris, 1950 (trad. ital.: Firenze, 1953); P. AUDET, Approches historiques de la Summa Theologiae, «Etudes d’Histoire Littéraire et Doctrinale», 17, 1962, 7-29; E. H. WEBER: La controverse de 1270 à l’Université de Paris et son retentissement sur la pensée de st. Thomas, Paris, 1970 e Dialogue et dissensions entre st. Bonaventure et st. Thomas d’Aquin à Paris, Paris, 1974; 3) sintesi generali: P. ROUSSELOT, L’intellectualisme de st. Th., Paris, 1908 (1936: 3a ediz. a cura di L. DE GRANDMAISON); E. GILSON, Le Thomisme, Paris, 1922 (1965: 6a ediz.); A. SERTILLANGES, La philosophie de st. Thomas, Paris, 1940 (trad. ital.: Roma, 1957); C. FABRO: Il concetto di partecipazione in san Tommaso, Torino, 1598 e Partecipazione e causalità, Torino, 1961; G. LAFONT, Structures et méthode dans la Somme Théologique de

saint Thomas d’Aquin, Bruges-Paris, 1960; E. MICHEL, Nullus potest amare aliquid incogniturn. Ein Beitrag zur Frage des Intellektualismus bei Thomas von A quin, Freiburg-im-B., 1979; 4) le miscellanee suscitate dal centenario: St. Thomas Aquinas. Commemorative Studies, 2 voll., Toronto, 1974; Studi tomistici, 4 voll., Roma, 1974; Tommaso d’Aquino nel VII Centenario, 9 voll., Napoli, 1975 ss. (specialmente i voll. 3 e 4); se ne veda l’accurato esame in F. RUELLO, «Recherches de Science Religieuse», 64, 1976, 359 ss. e in L. J. BATAILLON, «Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques», 64, 1980, 103-122; 5) articoli di dizionari come Dictionnaire de Théologie Catholique, XV/1, 618-761 (a più voci) e Die Religion in Geschichte und Gegenwart, VI, 856-863 (W. PANNENBERG); 6) saggi particolarmente attenti alla metodologia teologica di Tommaso: Y. M. CONGAR: art. Théologie, in Dictionnaire de Théologie Catholique, XV/1, 378- 392 e 447-502 (1946); Le sens de l’économie salutaire dans la théologie de st. Thomas, in Festgabe J. LORTZ, Baden-Baden, 1957, II, 73-122; Le moment économique et le moment ontologique dans la sacra doctrina, in Mélanges Chenu, Paris, 1967, 155-187; M. Corbin, Le chemin de la théologie chez st. Thomas, Paris, 1974 (capitale); D. DUBARLE, Uontologie du mystère chrétien chez si. Thomas, «Angelicum», 52, 1975, 455-520; 7) saggi cristologici: M. J, LE GUILLOU, Le Christ et l’Eglise. Théologie du mystère, Paris, 1964; B. CATAO, Salut et Redemption chez st. Thomas d’Aquin, Paris, 1966; M. SECKLER, Le salut et l’histoire. La pensée de st. Thomas sur la théologie de l’histoire, Paris, 1967; G. RE, Il cristocentrismo della vita cristiana, Brescia, 1968 (particolarmente attento all’opera scritturistica); I. BIFFI: I misteri della vita di Cristo in s. Tommaso, Varese, 1972 e La teologia dei misteri di Cristo in san Tommaso, «Studia Patavina», 21, 19745 298-353; R. POTVIN, The Theology of Primacy of Christ according st. Thomas and its scriptural Foundations, Freiburg-im-B., 1973; M. CORBIN, La parole devenue chair. Lecture de la première question de la Tertia Pars de la Somme Théologique, «Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques», 62, 1978, 5-40. Per la dottrina della predestinazione, alla bibliografia citata da S. VANNI ROVIGHI (pp. 194 ss.), si aggiungano: Y. M. CONGAR, Praedeterminare et prae deter minatìo chez saint T homas, «Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques», 1934, 363-371; J. AUER, Die menschliche Willensfreiheit im Lehr system des Thomas von

Aqmn und J. Duns Scoio, München, 1938; H. BOUILLARD, Conversion et grâce chez st. Thomas d’Aquin, Paris, 1941 (soprattutto pp. 38 s, 85 s, 149-152); H. DUMÉRY, Philosophie de la religion, Paris, 1957, I, 241-249; H. RONDET, La grazia di Cristo, 242-249. La Summa Theologiae può essere consultata nell’editto Leonina (con il commento del CAIETANO) o nell’editio Taurinensis di Marietti (con ottimo commento di P. CARAMELLO), nella versione italiana di Salani (Firenze, 1949 ss.), nella traduzione francese della «Revue des Jeunes» (Paris, 1925 ss.), nella versione tedesca particolarmente per il commento (München-Graz, 1933 ss.). Per la discussione sul piano della Summa: M. D. CHENU, Le plan de la Somme, «Revue Thomiste», 1939, 95-108; E. PERSSON, Le plan de la Somme Théologique, «Revue de Philosophie de Louvain», 1958, 545572; A. HAYEN: La structure de la Somme Théologique, «Sciences Ecclésiastiques», 1960, 59-82 e San Tommaso d’Aquino e la vita della chiesa oggi, Milano, 1966, 111-147; G. LAFONT, Structures, 15-33. 102-169, 258- 264, 265-266, 299-300, 400-493; I. BIFFI, Un bilancio delle recenti discussioni sul piano della Summa Theologiae di s. Tommaso, «La Scuola Cattolica», 91, 1963, 147-176 e 295-326; A. PATFOORT, L’unité de la I Pars et le mouvement retenu de la Summa Theologiaè, «Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques», 1963, 513-544; E. POUSSET, Une relecture du traité de Dieu dans la Somme Théologique de saint Thomas, «Archives de Philosophie», 38, 1975? 559-593 e 39, 1976, 67-89. f. San Tommaso è dunque l’autore che, nell’esposizione barthiana, rappresenta esaurientemente il Medioevo per quanto concerne la nostra tematica; gli altri esponenti citati fanno semplicemente corona ed accendono qua e là qualche traccia in una rifles sione teologica e dommatica ben sistematica; non stupiscono perciò certe omissioni che il lettore pure attenderebbe a prima vista di vedere colmate. Ci siano consentite due esemplificazioni. L’impostazione teologica di Barth vanifica dall’interno la problematica del rapporto esistente fra prescienza e predeterminazione o predestinazione: ecco perché nessun accenno è fatto a questa tematica; non solo Barth rinuncia ad illustrare la posizione di SCOTO ERIUGENA (il cui De praedestinatione = PL 122, dell’859-860, è una tappa miliare: cfr. M. CAPPUYNS, Jean Scot Erigène, Louvain-Paris, 1933 e M. DAL PRAT, Scoto Eriugena, Milano, 1951: 2a ediz.), ma anche a citare il diletto ANSELMO D’AOSTA (la cui presenza

nella KD è sempre qualitativamente importante: 66 volte e la cui portata per la sintesi barthiana è difficilmente esagerabile, come mostra il Fides quaerens intellectum del 1931) che con il suo De concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum libero arbitrio (dopo il 1106) segna un punto di non ritorno (lo si veda nell’edizione critica di F. S. SCHMITT, vol. 2: Edimburgo, 1950; nella trad. frane, di P. ROUSSEAU, Paris, 1947; nella trad. ital. di S. VANNI ROVIGHI, Bari, 1969). Parimenti Barth può superare tutto un altro filone, quello in cui si esprimono e si consumano volontarismo e determinismo nelle loro complesse articolazioni, perché la discussione di talune posizioni della riforma classica lo rende superfluo. Si spiega così il silenzio relativo su Duns Scoto e quello assoluto su Ockam, Biel e Staupitz che pure dovrebbero essere presenti. Forse Barth ha sottovalutato la portata e soprattutto le implicanze di una tale espressione concettuale. Diamo ad ogni modo alcune indicazioni per guidare eventuali studi, tutt’altro che trascurabili per la tematica della predestinazione sia teoricamente che storicamente. Per DUNS SCOTO (per le sue opere si veda ormai l’esemplare edizione curata da C. BALIC, Città del Vaticano, 1950 ss.): 1) gli articoli del Dictionnaire de Théologie Catholique, IV, 1865-1947 (R. RAYMOND) e dell’Evangelisches Kirchenlexikon, I, 980-982 (1956; 1961: 2a ediz.: W. PANNENBERGER); 2) le monografie generali di R. SEEBERG, Die Theologie des Johannes Duns Scotus, Leipzig, 1900; P. MINGES: Verhältnis zwischen Glauben und Wissen. Theologie und Philosophie nach Duns Scotus, Paderbon, 1908 e Johannis Duns Scoti doctrina philosophica et theologica, 2 voll., Quaracchi, 1930; E. LONGPRÉ, La philosophie de Duns Scoto, Paris, 1924; C. R. J. HARRIS, Duns Scotus, 2 voll., Oxford, 1930; H. SCHWAMM, Das göttliche Voherwissen bei Duns Scotus und seinen ersten Anhängern, Innsbruck, 1934; E. GILSON, Jean Duns Scot. Introduction à ses positions fondamentales, Paris, 1952; C. BALIC, Circa positiones fundamentales Duns Scoti, «Antonianum», 28, 1953, 261-306; P. BONNEFOY, Le Vénérable. Duns Scot, Roma, 1960; G. BARBAGLIO, Fede acquisita e fede infusa secondo Duns Scoto, Ockam e Biel, Brescia, 1968; 3) i contributi specifici di P. VIGNAUX, Justification et prédestination, 9-41; J. AUER, Die menschlische Willensfreiheit im Lehrsystem des Thomas von Aquin und J. D. Scotus, München, 1938; W. PANNENBERG, Die Prädestinationslehre des Duns Scotus im Zusammenhang der scholastischen Lehrentwicklung, Göttingen, 1954 (si tratta di un’opera succinta

ma fondamentale, le cui conclusioni sono ampiamente condivisibili; si vedano in particolare le pagine finali che raggiungono la dottrina luterana fino alla melantoniana formula di concordia; cfr. un’esposizione articolata in R. GIBELLINI, Teologia e ragione. Itinerario e opera di W. Pannenberg, Brescia, 1980, 10-19). Duns Scoto è citato 6 volte nella KD e per due volte sono discusse le sue posizioni (KD I/2, 155 e II/2, 210). Per OCKAM (mai citato nella KD) che si muove in una linea determinista, ricadendo in posizioni che la pur aporetica soluzione di Scoto aveva, almeno parzialmente, superato: 1) il Tractatus de praedestinatione et praescientia e la Summa Logicae nell’ediz. di PH. BOEHNER, New York, 1945 e 1957 ss.; 2) gli articoli Nominalisme (P. VIGNAUX) e Ockam (E. AMANN) del Dictionnaire de Théohgie Catholique, XI, 733-789 e 864-904; 3) le monografie generali di N. ABBAGNANO, Guglielmo di Ockam, Lanciano, 1931; C. GIACON, Guglielmo di Ockam, Milano, 1941; C. VASOLI, Guglielmo di Ockam, Firenze, 1947; E. BETTONI, in Grande Antologia Filosofica, IV, 14111476; A. GHISALBERTI, Guglielmo di Ockam, Milano, 1972; 4) i contributi specifici di E. ISERLOH, Gnade und Eucharistie in der philosophischen Theologie des W. von Ockham, Wiesbaden, 1956 e G. BARBAGLIO, Fede acquisita (1968). Per GABRIEL BIEL (citato 1 sola volta nella KD): 1) si esamini la posizione nel Collectorium circa quattuor libros Sententiarum (ediz. W. WERBECK e U. HOFMANN, Tübingen, 1973 ss.); 2) i saggi di G. BARBAGLIO (1968) e H. A. OBERMAN (1963, 1966, 1977); C. FECKES, Die Rechtfertigungslehre des G. Biel, Munster, 1925; L. GRANE, Gabriel Biels Lehre von der Allmacht Gottes, «Zeitschrift für Theologie und Kirche», 1956, 53-74; W. ERNST, Gott und Mensch am Vorabend der Reformation: eine Untersuchung zur Moralphilosophie und - Theologie bei G. Biel, Leipzig, 1972. Per J. STAUPITZ (la cui impostazione cristocentrica della predestinazione avrebbe dovuto particolarmente interessare Barth): E. WOLF, Staupitz und Luther, Leipzig, 1927 e D. C. STEINMETZ, Misericordia Dei. The Theology of Johannes von Staupitz in its late medieval Setting, Leiden, 1968. Per come l’apporto di Scoto, Ockam, Biel e Staupitz confluisca nella Riforma cfr. G. MIEGGE, Lutero giovane, Milano, 1964 (2a ediz.), 82-113 ed è leggendo queste pagine che si può constatare come Barth tratti implicitamente queste prospettive proprio studiando il pensiero dei Riformatori classici. In questo quadro di omissioni, e contrapposto ad esso, non stupisce invece l’incidentale citazione di un testo di

s. Bernardo (presente altre 11 volte nella KD) che è notoriamente un autore cui le sistematiche protestanti portano attenzione (cfr. H. RONDET, La grazia di Cristo. 196 s.). 7. Note storiche: la Riforma classica a. Un inquadramento generale, quanto mai utile a causa delle complesse revisioni storiografiche in corso, non può che essere estremamente succinto nella prospettiva teoretica che è la nostra. 1) Proponiamo anzitutto un elenco di storie della Riforma correnti in Italia, escludendo i manuali: in primo luogo l’incomparabile strumento di lavoro costituito da J. DELUMEAU, Naissance et affirmation de la Réforme, Paris, 1968: 2a ediz. (trad. ital.: Milano, 1975); in secondo luogo gli agili compendi di R. H. BAINTON, The Reformation of tre 16th Century, Boston, 1952 (trad. ital.: Torino, 1958); di M. BENDISCIOLI, La Riforma protestante, Roma, 1952; di J. LCRTZ- E. ISERLOH, Kleine Reformations geschickte, Freiburg, 1969 (trad, ital.: Bologna, 1974); di R. STAUFFER, La Réforme et le protestantisme, in Histoire des Religions (Encyclopédie de la Pléiade), Paris, 1972, II, 911-1013 (trad. ital.: Bari, 1976); di G, ALBERIGO, La Riforma protestante: origini e cause, Brescia, 1977 (pp. 7-47); quindi le grosse sintesi (con ricca bibliografia) di J. LORTZ, Die Reformation in Deutschland, vol. 1, Freiburg, 1939 (1965: 5a ediz.; trad, ital.: Milano, 1980; per la bibliografia si consiglia la trad. franc, integrata da D. OLIVIER, vol. III: Bibliographie et tableau chronologique, Paris, 1971); di E. G. LÉONARD, Histoire générale du protestantisme, vol. I, Paris, 1961 (trad, ital.: Milano, 1971); di E. ISERLOH-J. GLAZIK H. JEDIN, Reformation, Katholische Reform und Gegenreformation, Freiburg-im-B, 1967 (trad, ital.: Milano, 1975); di V. VINAY, La Riforma protestante, Brescia, 1982, 2a ed, riveduta, 2) In secondo luogo proponiamo una serie di opere consacrate alla teologia della Riforma classica: dapprima il compendio di H. STROHL, La pensée de la Réforme, Neuchâtel-Paris, 1951 (trad. ital.: Bologna, 1971); quindi i saggi di H. HEPPE, Dogmatik des deutschen Protestantismus in sechzehnten Jahrhundert, Gotha, 1857; O. RITSCHL, Dogmengeschichte des Protestantismus, 4 voll., Göttingen, 1908-1927; R. SEEBERG, Lehrbuch der Dogmengeschichte, vol. IV/1-2, Leipzig, 1917 (= Darmstadt, 1959); F. WERNLE, Der evangelische Glaube nach dem Hauptsckriften der Reformatoren, 3 voll, Tübingen, 1918-1919; W. KOEHLER,

Dogmengeschichte, II: Das Zeitalter der Reformation, Zürich, 1951; E. HIRSCH, Hilfsbuch zum Studium der Dogmatik: Die Dogmatik der Reformatoren und der altevangelischen Lehrer, Berlin, 1958, 3a ediz.; infine le opere di V. SUBILIA che offrono una preziosa introduzione (specialmente I tempi di Dio, Torino, 1971; Sola Scriptura: autorità della Bibbia e lìbero esame, Torino, 1975; La giustificazione per fede, Brescia, 1976). 3) In terzo luogo un’opera breve ma estremamente stimolante, suscettibile di ricostruire sinteticamente un clima ed una problematica: L. GRANE ed., University and Reformation, Leiden, 1981 (soprattutto i contributi di L. W. SPITZ, B. MOELLER, R. STAUFFER). b. MARTIN LUTERO (1483-1546). È citato 337 volte nella KD in maniera sempre rilevante, di modo che una lettura seguita dei principali testi consente una idea sufficientemente approfondita dell’ermeneutica barthiana nei confronti del Riformatore. Nella nostra sezione Lutero ricorre 9 volte; le opere cui Barth fa riferimento sono il de servo arbitrio (1525), il grande catechismo (1529) ed il piccolo catechismo conosciuto pure come Enchiridion (1529); il discorso tuttavia è molto più ampio e sa rilevare in maniera esauriente l’apporto cristologico nella dottrina della predestinazione. Accostarsi al pensiero di Lutero è ardua impresa a causa soprattutto delle revisioni storiografiche della figura del monaco di Wittemberg; in questa stessa collana due volumi sono consacrati a Lutero (Scritti politici, a cura di G. PANZIERI SAIJA con introd, di L. FIRPO, Torino, 1959: 2a ediz. e Scritti religiosi a cura di V. VINAY, Torino, 1967); essi costituiscono una solida traccia per una prima iniziazione. Per muoversi invece nei meandri dell’interpretazione cattolica su Lutero: H. STROHL, L’évolution religieuse de Luther jusqu’en 1515, Strasbourg-Paris, 1922, 9-33; H. BORNKAMM, Luther zwischen den Konfessionen: Vierhundert Jahre Katholischer Lutherforschung, in Festschrift G. Ritter, Tübingen, 1950, 210-231; G. Rupp, The Righteousness of God, London, 1953, 3-36; W. VON LOEWENICH, Der moderne Katholizismus, Witten, 1959, 312-345 (4a ediz.); V. VINAY, Nuovi orientamenti dell’indagine cattolica su Lutero?, «Protestantesimo», 1962, 158-178; A. BRANDENBURG, Auf dem Wege zur einem ökumenischen Luthersverständnis, in Reformata Reformanda. Festschrift H. Jedin, Münster, 1965, 313-329; M. LIENHARB, La place de Luther dans le dialogue protestant-catholique actuel, «Positions Luthériennes», 1965, 65-87; O. H. PESCH: Zwanzig Jahre Katholischen

Lutherforschung, «Lutherische Rundschau», 16, 1966, 392-406 e Abenteuer Lutherforschung. Wandlungen des Lutherbildes in Katholische Theologie, «Die Neue Ordnung», 20, 1966, 417-430; R. STAUFFER, Le catholicisme à la découverte de Luther, Neuchâtel-Paris, 1966; H. JEDIN, Mutamenti nell’interpretazione cattolica della figura di Lutero e loro limiti, «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», 23, 1969, 361-377; J. WICKS ed., Catholic Scholars Dialogue with Luther, Chicago, 1970; G. PH. WOLF, Das neuere französische Lutherbild, Wiesbaden, 1974. 1. Sulla formazione di Lutero e la dialettica che lo rilega alla tradizione: a) J. LORTZ, Die Reformation in Deutschland, vol. 1, Freiburg, 1939 (1965: 5a ediz.; trad. ital.: Milano, 1980); K. A. MEISSINGER, Der Katholische Luther, München, 1952; H. BOEHMER, Der junge Luther, Leipzig, 1954 (6a ediz.); L. SAINTBLANCHAT, Recherches sur les sources de la théologie luthérienne primitive, «Verbum Caro», 8, 1954, 82 ss.; A. AGNOLETTO, La filosofia di Lutero, Milano, 1960 (ripreso ed ampliato in Grande Antologica Filosofica, Milano, 1964, VIII, 1011-1148); H. STROHL, Luther jusqu’en 1520, Paris, 1962 (2a ediz.); G. MIEGGE, Lutero giovane, Milano, 1964 (2a ediz.); TH. SUESS, Luther, Paris, 1970; L. GRANE, Modus loquendi theologiens. Luthers Kampf und die Erneuerung der Theologie: 1515-1518, Leiden, 1975; b) G. BAUCH, Wittenberg und die Scholastik, «Neues Archiv für sächsische Geschichte», 1897, 342 ss.; K. BAUER, Die Wittenberger Universitätstheologie und die Anfänge der deutschen Reformation, Tübingen, 1928; E. G. SCHWIE- BERT, New Groups and ldeas at the University of Wittenberg, «Archiv für Reformationsgeschichte», 1958, 60-78; TH. SUESS, Remarques sur la «Controverse contre la théologie s colasti que», «Bulletin de la Société d’Histoire du Protestantisme Français», 1967, 313-331; c) A. HAMEL, Der junge Luther und Augustin, 2 voll., Tübingen, 1934 s.; W. VON LOEWENICH, Zur Gnadenlehre bei Augustin und Luther, «Archiv für Reformationsgeschichte», 1953, 52-64; D. NAUTA, Augustin and the Reformation, «Free University Quarterly», 1955, 237-247; M. LODS, L’augustinisme dans les couvents augustiniens à l’époque de Luther, «Positions Luthériennes», 5, 2:957, 198-201; d) P. VIGNAUX, Luther commentateur des Sentences, Paris, 1935 e L. SAINT-BLANCHAT, Luthers Verhältnis zu Petrus Lombardus, «Zeitschrift für systematische Theologie»,

1953, 300-311; e) P. VIGNAUX, Luther lecteur de Gabriel Biel, «Eglise et Théologie», 22, 1959, 33-52 e L. GRANE, Contra Gabrielem, Copenhagen, 1962; f) P. VIGNAUX, Sur Luther et Qckam, «Franziskanische Studien», 1950, 21-30; B. HAEGGLUND: Theologie und Philosophie bei Luther in der ackamistischen Tradition, Lund, 1955 e Luther et l’occamïsme, «Positions Luthériennes», 1955, 213-223; E. ISERLOH, Gnade und Eucharistie in der philosophischen Theologie des W. von Ockham. Ihre Bedeutung für die Ursachen der Reformation, Wiesbaden, 1956; HL Ä. OBERMAN, Da Occam a Lutero: studi recenti, «Concilium», 1966, 5, 160-171 e 1967, 7, 147-157. 2. Sul pensiero di Lutero: a) sintesi generali: J. K. KOESTLIN, Luthers Theologie in ihrer geschichtliche Entwicklung und ihren inneren Zusammenhang dargestellt, Stuttgart, 1863 (1901: 3a ediz.); K. HOLL, Gesammelte Aufsätze: vol. 1: Luther, Tübingen, 1921 (1948: 7a ediz.); E. Seeberg, Luthers Theologie, 2 voll, Göttingen-Stuttgart, 1929-1937 (1950: 2a ediz.); L. PINOMAA: Der Zorn Gottes in der Theologie Luthers, Helsinki, 1938; Der existentielle Charakter der Theologie Luthers, Helsinki. 1940; Sieg des Glaubens. Grundlinien der Theologie Luthers, Göttingen, 1964; R. PRENTER, Spiritus Creator. Studier i Luthers Theologi, Copenhagen, 1944 (trad. ted.: München, 1954); H. BORNKAMM: Gott und Geschichte bei Luther, Lüneburg, 1947 (2a ediz.) e Luthers geistige Welt, Gütersloh, 1960 (4a ediz.); E. BIZER, Fides ex auditu. Eine Untersuchung über die Entdeckung der Gerechtigkeit Gottes durch M. LUTHER, Neukirchen, 1951; E. WOLF, Peregrinatio. Studien zur reformatorischen Theologie und zum Kirchenproblem, 2 voll., München, 19541965; B. LOHSE, Ratio und Fides. Eine Untersuchung über die Ratio in der Theologie Luthers, Göttingen, 1958; R. HERMANN: Gesammelte Studien zur Theologie Luthers und der Reformation, Göttingen, 1960 e Luthers Theologie, Göttingen, 1967; B. A. GERRISH, Grace and Reason. A Study in the Theology of Luther, Oxford, 1962; P. ALTHAUS, Die Theologie M. Luthers, Gütersloh, 1963 (2a ediz.); K. ALAND, Der Weg zur Reformation, München, 1965; F. GOGARTEN, Luthers Theologie, Tübingen, 1967; H. DOERRIES, Beiträge zum Verständnis Luthers, Göttingen, 1970; TH. BEER, Der fröhliche Wechsel und Streit. Grundzüge der Theologie Martin Luthers, Leipzig, 1974; R. WEIER, Das Theologieverständnis M. Luthers, Paderbon, 1976; D. OLIVIER, La foi de Luther,

Paris, 1978; b) sintesi particolarmente attente alla struttura di pensiero di Lutero: W. VON LOEWENICH, Luthers Theologia crucis, München, 1919 (1954: 4a ediz.; trad. ital.: Bologna, 1975); F. KATTENBUSCH, Deus absconditus bei Luther, in Festgabe für J. Kaftan, Tübingen, 1920, 170 ss.; T. F. BAKKER, Coram Deo. Bijdrage tot het onderzoek naar de Structur van Luther Theologie, Amsterdam, 1956; G. EBELING: Evangelische Evangeliensauslegung. Eine Untersuchung zu Luthers Hermeneutik Darmstadt, 1962 (2a ediz.); Luther: Einführung in sein Denken, Tübingen, 1964 (2a ediz.; trad. ital.: Brescia, 1970); LutherStudien, vol. 1, Tübingen, 1971; Lutherstudien, vol. 2/1: Disputatio de homine, Tübingen, 1977; J. LORTZ: Martin Luther. Grundzüge seiner geistigen Struktur, in Reformata Reformanda. Festgabe H. Jedin, Münster, 1965, 214-246; Reformatorisch und Katholisch bei jungen Luther, in Humanitas Christianitas. Festschrift W. von Loewenich, Witten, 1968, 47-62; Luther und wir Katholiken heute, in Kirche und Staat in Idee und Geschichte des Abendlandes. Festschrift F. Maass, Wien-München, 1973, 166-191 (notevoli precisazioni dell’opera classica precedentemente citata); K. O. NILSSON, Simul. Das Miteinander von Göttlichen und Menschlichen in Luthers Theologie, Göttingen, 1966; O. H. PESCH: Der hermeneutische Ort der Theologie bei Thomas von Aquin und Martin Luther und die Frage nach dem Verhältnis von Philosophie und Theologie, «Theologische Quartalschrift», 1966, 159-212; Zur Frage nach Luthers reformatorischer Wende, «Catholica», 20, 1966, 216- 243 e 264-280; Die Theologie der Rechtfertigung bei Martin Luther und Thomas von Aquin, Mainz, 1967 (opera capitale che rinnova notevolmente la prospettiva cattolica su Lutero; cfr. J. HOFFMANN, «Istina», 1970, 329-349); L. GRANE, Die Anfänge von Luthers Auseinandersetzung mit dem Thomismus, «Theologische Literaturzeitung», 95, 1970, 241-249; K. H. ZUR MUEHLEN, Nosextra nos. Luthers Theologie zwischen Mystik und Scholastik Tübingen, 1972; B. GHERARDINI, Theologia crucis. L’eredità di Lutero nell’evoluzione teologica della Riforma, Roma, 1978 (con le precisazioni di Per una fondazione critica della theologia crucis, «Divinitas», 27, 1978, 176- 219); c) cristologia: TH. HARNACK, Luthers Theologie mit besondere Beziehung auf seine Versöhnungs- und Erlösungslehre, 2 voll., München, 1862 e 1886 (= 1927); E. VOGELSANG, Der angefochten Christus bei Luther, Berlin-Leipzig, 1932; Y. M. J. CONGAR:

Regards et réflexions sur la christologie de Luther, in Das Konzil von Chalkedon, Würzburg, 1954, III, 457-487 (= Chrétiens en dialogue, Paris, 1964, 453-489) e Lutherana. Théologie de l’eucharistie et chrictólogie chez Luther, «Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques», 66, 1982, 169-198; J. TERNUS, Chalkedon und die Entwicklung der proiestmtischen Theologie, in Das Konzil von Chalkedon, III» 531-611; G. FORCK, Die Königs Herrschaft Jesu Christi bei Luther, Berlin, 1959; U. ASENDORF, Gekreuzigt und auferstaenden. Luthers Herausforderung an die moderne Christologie, Hamburg, 1970; J. D. KINGSTON Siggins, Martin Luther’s Doctrine of Christ, New Haven, 1970; M. LIENHARD, Luther, témoin de Jésus-Christ. Les étapes et les thèmes de la christologie du Réformateur, Paris, 1974; utile anche come introduzione TH. SUESS, L’histoire du salut dans la théologie et dans la liturgie de Luther, «Positions Luthériennes», 21, 1973, I-II. 3. Sulla dottrina della predestinazione che deve tenere presenti gli aspetti finora rilevati: C. BECK, Uber die Prädestination. Die augustinische, calvinische und lutherische Lehre, Hamburg, 1847; F. KATTENBUSCH, Luthers Lehre von unfreien Wille und von der Prädestination nach ihren Entstehungsgründen untersucht, Göttingen, 1875; E. ERIKSTEIN, Predestinasjonen i Luthers Romerbrevs foreslening, «Norsk Theologisk Tijdsckrift», 1954, 16-31; W. PANNENBERG, Der Einfluss der Anfechtungserfahrung auf den Prädestinationsbegriff Luthers, «Kerygma und Dogma», 1957, 109-139; L. PINOMAA, Unfreier Wille und Prädestination bei Luther, «Theologische Literaturzeitschrift», 1957, 339-349; H. BUIS, Historic Protestantismus and Prédestination, Philadelphia, 1958; S. PFüRTNER, Luther und Thomas im Gespräch. Unser Heil zwischen Gewissheit und Gefaehrdung, Heidelberg, 1961 (trad. franc.: Paris, 1967); G. ROST, Der Prädestinationsgedanke in der Theologie Martin Luthers, Berlin, 1966; F. BROJCHÉ, Luther on Predestination. The Antinomy and the Unity between Love and Wrath in Luther’s Concept of God, Stockholm, 1978. 4. Per il de servo arbitrio: a) edizioni: WA (edizione di Weimar) 18; Oeuvres de Luther (ed. di Ginevra) 5; D. DE Rotgsmont (Paris, 1937); G. MIEGGE (Roma, 1930: ediz. parziale); R. JOUVENAL (Torino, 1969: passi scelti a collazione del de libero arbitrio erasmiano); B) saggi: CL. HUMBERT, Erasme et

Luther: leur polémique sur le libre arbitre, Paris, 1909; K. ZICKENDRATH, Der Streit zwischen Erasmus und Luther über die Willensfreiheit, Leipzig, 1909; E. Schott, Luthers Lehre vom servum arbitrium in ihrer theologischen Bedeutung, «Zeitschrift für Systematische Theologie», 7, 1929, 399- 430; R. HERRMANN: Zu Luthers Lehre vom unfreien Willen, «Greifswalder Studien», 4, 1931, 17-38 e Von der Klarheit der Heiligen Schrift. Untersuchungen und Erörterungen über Luthers Lehre von der Schrift De Servo Arbitrio, Berlin, 1958; W. MAURER, Humanismus and Reformation, «Theologische Rundschau», 1931. 49-74 e 104145; E. SCHWEINGRUBER, Luthers Erlebnis des unfreien Willens, Zürich, 1947; F. GOGARTEN, Sittlichkeit und Glaube in Luthers Schrift de servo arbitrio, «Zeitschrift für Theologie und Kirche», 1950, 227-264; E. ERIKSTEIN, Luthers Prädestinationslehre geschichtlich dargestellt bis einschliesslich de Servo Arbitrio, Göttingen, 1957; H. BORNKAMM, Erasmus and Luther, «Lutherjahrbuch», 1958, 3-22; H. J. IWAND, Um den rechten Glauben, München, 1959; K. L. OELRICH, Der späte Erasmus und die Reformation, Münster, 1961; J. BOISSET, Erasme et Luther: libre ou serf arbitre?, Paris, 1962; O. J. MEHL, Erasmus contra Luther, «Lutherjahrbuch», 29, 1962, 52-64; E. F. WINTER, Erasmus-Luther Discourse on free Will, New York, 1962; H. Vorster, Das Freiheitverständnis bei Thomas von A quin und Martin Luther, Göttingen, 1964; H. J. MC SORLEY, Luthers Lehre vom unfreien Willen nach seiner Haupschrift De Servo Arbitrio im Lichte der biblischen und Kirchlichen Tradition, München, 1967; C. R. GEREST, Duserf-arbitre à la liberté du chrétien, «Lumière et Vie», 1969 (n. 61), 75-120; K. SCHWARWAELLER, Theologia crucis. Luthers Lehre von Prädestination nach de servo arbitrio, München, 1970 (coglie assai bene la posizione di Barth nei confronti di Lutero); E. W. KOHLS, Luther oder Erasmus. Luthers Theologie in der Auseinandersetzung mit Erasmus, Basel, 1972; A. CLAIR, Servitude et liberté de la volonté. Le débat entre Erasme et Luther, «Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques», 64, 1980, 83- 100; G. Chantraine, Erasme et Luther: libre et serf arbitre, ParisNamur, 1981; c) occorre tenere conto anche di talune opere dedicate ad Erasmo: in primo luogo le biografie di R. H. BAINTON (Firenze, 1970) e di J. C. Margolin (Paris, 1965); quindi L. FEBRVE, Aucoeur réligieux du XVI siècle, Paris, 1957, 73-111 (prezioso esame bibliografico); infine E. W. KOHLS: Die Theologie

des Erasmus, 2 voll., Basel, 1966 e Erasme et la Réforme, «Revue d’Histoire et de Philosophie Religieuses», 50, 1970, 245-256; L. E. HALKIN, Erasme et l’humaritsme chrétien, Paris, 1969; C. BÉNÉ, Erasme et saint Augustin, Genève, 1969; G. CHANTRAINE, Mystère et philosophie du Christ selon Erasme, Gembloux, 1971; M. HOFFMANN, Erkenntnis und Verwirklichung der wahren Theologie nach Erasmus von Rotterdam, Tübingen, 1972. 5. Per i Catechismi, inseriti fra i libri simbolici della chiesa luterana nel 1580: a) edizioni: WA 30; Oeuvres de Luther, VII; De Bekenntnisschriften der evangelisch-lutherischen Kirche, Berlin, 1930 (1976: 6a ediz.), vol. II; A. JUNDT, Les Livres Symboliques, Paris, 1948; Ch. Horning, Le Grand Catéchisme, Paris, 1854; Enchiridion, in Scritti religiosi, citati (ivi si trovano preziose indicazioni sulla fortuna italiana di questo gioiello); b) studi generali: M. SAVOYE, Etude historique sur la formation des catéchismes de Luther, Paris, 1901; O. Albrecht, Luthers Katechismen, Leipzig, 1915; J. MEYER, Historischer Kommentar zu Luthers Kleinen Katechismus, Göttingen, 1929; J. M. REU, Martin Luthers Kleiner Katechismus, München, 1929; K. ALAND, Der Text des Kleinen Katechismus in der Gegenwart, Gütersloh, 1954; G. HOFFMANN, Der Kleine Katechismus als Abriss der Theologie M. Luthers, «Lutherjahrbuch», 30, 1959, 49-63. c. FILIPPO MELANTONE (1497-1560). Barth lo cita 58 volte nella KD; raramente però si sofferma nella discussione delle tesi; si può d’altronde dire che la lettura barthiana di Melantone è tradizionale e quindi abbastanza riduttiva, frutto forse di reazione nei confronti di un’antica lettura (cfr. E. BUSCH, Karl Barth, 50, 54, 56). Nella nostra sezione, le quattro citazioni si riferiscono ai Loci nelle loro varie edizioni: i Loci Communes rerum theologicarum seu Hypotyposes Theologiae (1521; 17 edizioni fino al 1525 con lievi modifiche nella 13, e I5a edizione del 1523 e 1524); i Loci Communes Theologici (1535; 14 edizioni fino al 1542; forse l’esposizione più equilibrata; è d’altronde questo il periodo più notevole dell’attività di Melantone che nel 1530 aveva redatto la Confessio Augustana); i Loci Theologici (1543; 34 edizioni fino al 1559; importante la 13a del 1551; l’ultima del 1559 è considerata quella definitiva); questa edizione del 1543 è stata tradotta in francese da Calvino, il quale vi prepose un’eccellente prefazione (1546 e 1551) che merita di essere conosciuta per una miglior

comprensione di Melantone (la si veda comodamente a cura di C. SCHMIDT, in «Builetin de la Société de l’Histoire du Protestantisme Français», 2, 1854, 122127). Per le tre fasi dei Loci ci si riporti all’edizione del Corpus Reformatorum (Brunswich, 1854, vol. 21; ristampa: Frankfurt, 1964); per l’edizione del 1521 si consulti ancora l’edizione di TH. KOLDE (Leipzig-Erlangen, 1925); per le edizioni del 1521 e del 1559 è ormai indispensabile l’edizione di R. STUPPERICH (vol. 2, a cura di H. ENGELLAND, Gütersloh, 1952). Su Melantone: a) ricerca: G. BUTTLER, Das Mélanchtonbild der neueren Forschung, «Monatsschrift für Pastoraltheologie», 49, 1960, 129-137; P. FRAENKEL, Fünfzehn Jahre Melanchtonsforschung, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», 22, 1960, 582-624; 23, 1961, 563-602; 24, 1962, 443-478; R. STUPPERICH, Der unbekannte Melanchton. Wirken und Denken des Praeceptor Germaniae in neuer Sicht, Stuttgart, 1961; E. BIZER, Zur Methode der Melanchtonforschung, «Evangelische Theologie», 24, 1964, 1-24; P. FRAENKEL-M. GRE- schat, Zwanzig Jahre Melanchtonsstudium, Genève, 1967; W. HAMMER, Die Melanchtonforschung im Wandel der Jahrhunderte. Ein beschreibendes Verzeichnis, 2 voll., Gütersloh, 1967-1968; S. WIEDENHOFER, Zum Katholischen Melanchtonbild im 19. und 20. Jahrhundert, «Zeitschrift für Katholische Theologie», 102, 1980, 425- 454; b) biografie: C. L. MANSCHRECK (Nashville, 1958); A. SPERL (München, 1959); H. BORNKAMM (Göttingen, 1960: 3, ediz.); P. MEINHOLD (Berlin, 1960); L. Stern (Halle, 1960); R. STUPPERICH (Berlin, 1960); G. URBAN (Bretten, 1960); M. GRESCHAT (Witten, 1965); M. ROGNESS (Minneapolis, 1969); c) pensiero: H. ENGELLAND, Melanchton: Glaube und Handeln, München, 1931; R. STUPPERICH, Der junge Melanchton als Sachwalter Luther, «Jahrbuch für Westfälische Kirchengeschichte», 1949, 47-69; P. SCHWARZENAU, Der Wandel im theologischen Ansatz bei Melanchton von, 525555, Gütersloh, 1956; W. NEUSER, Der Ansatz der Theologie Ph. Melanchtons, Neukirchen, 1957; H. H. LENTZ, Reformation Crosswords. A Comparison of the Theology of Luther and Melanchton, Minneapolis 1958; N. CASERTA, F. Melantone: dall’umanesimo alla riforma, Roma, 1960; W. ELLIGER hrsg., Ph. M.: Forschungsbeiträge, Göttingen, 1961; V. VAJTA hrsg., Luther und Melanchton, Göttingen, 1961; A. AGNOLETTO, La filosofia di Melantone, in Grande Antologia Filosofica, VIII, 1149-1234 (1964); E. BIZER, Theologie der Verheissung. Studium der theol. Entwicklung der jungen Melanchton,

Neukirchen, 1964; W. MAURER: Melanchton - Studien, Gütersloh, 1964 (sottolinea in particolare l’influenza di Agostino) e Der Junge Melanchton zwischen Humanismus und Reformation, 2 voll., Göttingen, 1967-1968; J. BOISSET, Mélanchton, Paris, 1967; K. HAENDLER, Wort und Glaube bei Melanchton, Gütersloh, 1968; S. WIEDENHOFER, Formalstrukturen humanistischer und reformatorischer Theologie bei Ph. M., 2 voll., Bern, 1976; d) sui Loci Theologici: D. SCHWARZ, Melanchton’s Loci nach ihrer weiteren Entwicklung, «Theologische Studien und Kritiken», 30, 1857, 297-326; P. Joachimsen, Loci Communes, «Lutherjahrbuch», 1926, 27-97; Hoppe, Die-, Ansätze der späteren theologischen Entwicklung Melanchton’s in den Loci von 1521, «Zeitschrift für Systematische Theologie», 1929 (estratto); W. MAURER: Zur Komposition der Loci Melanchtons von 1521 «Lutherjahrbuch», 1958, 146180 e Die Loci Communes als wissenschaftliche Programmschrift, «Lutherjahrbuch», 1960, 1-50; R. SCHAEFER, Christologie und Sittlickeit in Melanchtons frühen Loci, Tübingen, 1961; e) sulla dottrina della predestinazione: CH. WITZ, Essai historico-dogmatique sur le libre arbitre et la prédestination dans les Loci Communes de Melanchton, Strasbourg, 1869; f) per la lettura barthiana è utile A. BRUELS, L’évolution de la doctrine sur Dieu chez le jeune Melanchton: 1518-1535, «Revue d’Histoire Ecclésiastique», 66, 1971, 5-45; g) si veda in italiano l’antologia curata da A. AGNOLETTO (Torino, 1981, con buona introduzione ed ulteriori puntuali indicazioni bibliografiche). d. HULDRYCH ZWINGLI (1484-1531). È citato 44 volte nella KD e 5 volte nella nostra sezione; non siamo ancora qui alla piena comprensione dell’intenzione riformatrice di Zwingli (cosa che si verificherà a partire da KD IV: cfr. IV/1, 59 s., 383, 794;5 IV/2, 611; IV/3, 152, 430; IV/4, 141 ss. fra i testi principali; si cfr. a questo proposito J. COURVOISIER, Zwingli et Karl Barth, in Antwort. Festschrift zum 70. Geburtstag von Karl Barth, Zürich, 1956, 369-387), ma neppure più alla freddezza iniziale (cfr. E. BUSCH, Karl Barth, 129); sebbene si rilevi l’apporto cristologico, l’esposizione può considerarsi, nella nostra sezione, abbastanza riservata. Di Zwingli ci si riferisce al de vera et falsa religione (1525), alla fidei ratio (1530) e al de providentia (1530). 1. Per le opere di Zwingli riferirsi al Corpus Reformatorum (voll. 88-101:

Leipzig, 1908 ss., poi Zürich, 1955 ss.), all’edizione di M. SCHULER-J. SCHULTESS (Zürich, 1828 ss.: 8 voll.; usata da Barth), all’edizione di F. BLANKE-O. FARNERO. PREI-R, PFISTER (Zürich, 1940 ss.: 7 voll.); per la Fidei Ratio si veda la trad» francese annotata in «Etudes Théologiques et Religieuses», 56, 1981, 377-402; l’ediz. inglese a cura di S. MACAULEY JACKSON (Durham, 1981); la traduzione italiana parziale in G. ALBERIGO, La Riforma protestante, 132-135; 2. fra le opere che riassumono lo stato della ricerca: G. FINSLER, Zwinglibibliographie. Verzeichnis der gedrückten Schriften von und über U. Zwingli, Zürich, 1897 (ristampa Nieukoop, 1962); W. KOEHLER, Die neuere Zwingli - Forschung, «Theologische Rundschau», 1932, 329-369; L. VON MURALT, Probleme der Zwingli - Forschung, «Schweizerische Beiträge zur Allgemeinen Geschichte», 4, 1946, 247-267; R. PFISTER: Neue Beiträge zur Zwingli - Forschung, «Zwingliana», 1952, 445-452 e Die Zwingli - Forschung seit 1949, «Archiv für Reformationsgeschichte», 48, 1957, 230-240; J. V. Pollet, «Revue des Sciences Religieuses», 28, 1954, 155-174; 37, 1963, 34-59; 38, 1964, 294-298; G. W. LOCHER: Wandlungen des Zwingli - Bildes, «Vox Theologica», 32, 1962, 169-182; Die Wandlung des Zwingli - Bildes in der neueren Forschung, «Zwingliana», 2, 1963, 560 ss. e H. Z. in neuer Sicht, Zürich, 1969; F. BUESSER, Das Katholische Zwingli - Bild von der Reformation bis zur Gegenwart? Zürich, 1968; U. GAEBLER, H. Z. im 20. Jahrhundert, Zürich, 1975; 3. fra le biografie: D. CUNZ (Aarau, 1937); W. KOEHLER (Leipzig, 1943; Stuttgart, 1954: 2a ediz.); O. FARNER (4 voll., Zürich, 1943-1960, essenziale); J. COURVOISIER (Genève, 1948; 1953: 2a ediz.); J. V. POLLET (Paris, 1963); F. SCHMIDT-CLAUSING (Berlin, 1965; trad. ital.: Torino, 1978); M. HAAS (Zürich, 1969; 1976: 2a ediz.); F. BTJESSER (Göttingen, 1973); G. R. POTTER (London, 1976); F. E. SCIUTO (Napoli, 1980; con la preziosa recensione di V. SUBILIA, in «Protestantesimo», 36, 1981, 220-225); W. KOEHLER, Die Geisteswelt U. Z., GOTHA, 1920; J. ROGGE, Z. und Erasmus, Stuttgart, 1962; H. Meylan, Zwingli et Erasme (1969), in D’Erasme a Théodore de Bèze, Genève, 1976, 53-62; W. N. NEUSER, Die Reformatorische Wende bei Z., NEUKIRCHEN, 1976 (1978: 2a ediz.); U. GAEBLER, H. Z. reformatorische Wende, «Zeitschrift für Katholische Geschichte», 89, 1978, 120-135; G. W. LOCHER, Zwingli’s Thought. New Perspectives, Leiden, 1981; 4. pensiero generale: J. V. POLLET: Dictionnaire de Théologie Catholique, V, 3745-3928 e Lexicon für Theologie und Kirche, X, 1433-1441 (2a ediz.); F. BLANKE, Die Religion in Geschichte und Gegenwart, VI,

1952-1960 (3a ediz.); V. VINAY, Eneiclopedìa delle Religioni, VI, 432 ss.; L. VON MURALT, Z. dogmatisches Sonder gut, Zürich, 1932; A. RICH, Die Anfänge der Theologie H. Z., Zürich, 1949; G. W. LOCHER, Die Theologie H. Z. im Uchte seiner Christologie: I: Die Gotteslehre, Zürich, 1952; C. GALLICET-CALVETTI, La filosofia di U. Z, in Grande Antologia Filosofica, VIII, 1339-1403; J. COURVOISIER, Z. théologien réformé, Neuchätel-Paris, 1965; Ch. GESTRICH, Z. als Theologe, Zürich, 1967; 5. elementi specifici: G. W. LOCHER, Die Prädestinationslehre H. Z, «Theologische Zeitschrift», 1956, 526-548; F. Blanke, Z. Fidei Ratio: Enstehung und Bedeutung, «Archiv für Reformationsgeschichte», 57, 1966, 96-101; C. GALLICET-CALVETTI, Spinoza e il de providentia di Z, «Rivista di Filosofia Neoscolastica», 61, 1969, 387-424; M. BUTTNER, Regiert Gott die Welt? Studien zur Providentialehre bei Z. und Melanchton, Stuttgart, 1975. e. LEO JUD (1482-1542). Citato solo qui per il suo Catechismo del 1541 (il cosiddetto Piccolo Catechismo), in cui è notevole l’influsso di Calvino e che è considerato un prototipo del Catechismo riformato di Heidelberg (1563). 1. Edizione: O. FARNER (Zürich, 1955); 2. Studi: P. SCHMIDT, Leo Jud, Meister Leu, Zürich, 1942; L. WEISZ, Leo Judt, Zwinglis Kampfgenosse, Zürich, 1942; J. A. BRANDSMA, Leo Jud, dux militum Christi, «Vox Theologica», 1954, 125-132; O. FARNER, Leo Jud, Zwinglis trenester Helfer, «Zwingliana», 1955, 201-209; K. H. WYSS, Leo Jud. Seine Entwicklung zum Reformator 1519-1523, Frankfurt-Bern, 1976. f. HEINRICH BULLINGER (1504-1575). È citato 18 volte nella KD o per la Confessio Helvetica Posterior (1566) o per il Compendium Christianae Religionis (1556); Barth apprezza la concentrazione cristologica operata da Bullinger e si può ritenere soddisfacente una tale lettura; d’altronde se noi oggi sentiamo la necessità impellente di riaprire il dossier teologico di Bullinger (aiutati da inventari come J. STAEDTKE, Heinrich Bullinger: Bibliographie: Beschreibendes l’erzeichnis der gedruckten Werke von H. B., Zürich, 1972 e stimolati dall’inizio assai promettente della pubblicazione della corrispondenza voluminosissima: vol. 1, a cura di U. GAEBLER e E. ZSINDELY, Zürich, 1973) quanto attualmente possiamo dire non va molto oltre quello che era consentito dire a Barth. 1. Studi generali: C. PESTALOZZI, H. Bullinger: Leben

und aus ge w. Schriften, Elberfeld, 1858; E. EGLI, Bullinger, «Zwingliana», 1904, 419 ss.; G. V. SCHULTHESS-RECHBERG, H. Bullinger, Halle, 1904; A. BOUVIER, H. B. le successeur de Zwingli d’après sa correspondance avec les réformés et les humanistes de langue française, Neuchâtel-Paris, 1940 (con le recensioni di L. FEBVRE, ora in Au coeur religieux du XVI siècle, Paris, 1957, 268-273 e di H. MEYLAN, in «Revue d’Histoire Suisse», 1940, 496-500); J. STAEDTKE, Die Theologie des jungen Bullinger, Zürich, 1962; Heinrich Bullinger, Zürich, 1975. 2. Studi specifici: H. GOOSZEN, H. B. en de strijd over de Praedestinate, Rotterdam, 1901; J. STAEDTKE, Der Zürcher Prädestinationsstreit von 1560, «Zwingliana», 1953 (estratto); P. WALSER, Die Prädestination bei H. B. im Zusammenhang mit seiner Gotteslehre, Zürich, 1957. g. GIOVANNI CALVINO (1509-1564). Il Riformatore di Ginevra è citato 296 volte nella KD (di cui 26 nella nostra sezione), molto spesso con ampia ed appropriata discussione delle tesi; l’esegesi è simpatica, ma libera; era già così in Calvinfeier 1936 (München, 1936) e in Explication du Catéchisme de Calvin (Basel, 1941) e così sarà anche nella Préface preposta all’antologia di testi curata da CH. GAGNEBIN (Paris, 1948) e in Calvin als Theologe, «Theologische Literaturzeitung», 1959, 241-244. Le opere cui Barth si rapporta di preferenza nella nostra sezione sono: le varie edizioni latine e francesi dell’opera sistematica (Institutiones Christianae Religionis e L’Institution Chrétienne); il trattato de aeterna Dei praedestinatione del 1552 e la Congrégation sur l’eléction del 1562 (ripresa di un testo pronunciato nel 1551). Si tratta degli scritti indubbiamente più significativi ed equilibrati; sono stati lasciati cadere gli interventi più apologetici (del 1557, 1558, 1559) o puramente ripetitivi (il latino de praedestinatione et providentia Dei del 1550 che è un estratto dalla Institutio del 1550); sono stati valutati invece gli apporti esegetici (in particolare il commento latino alla Lettera ai Romani del 1550) e, seppure più embrionalmente, quelli omelitici (cui Barth è sempre stato attento; qui particolarmente il Sermone su Eph. I, 3 ss., ottavo dei 48 consacrati a tale lettera nella numerazione corrente; avrebbe potuto sfruttare anche i 13 Sermoni sull’elezione gratuita di Dio in Giacobbe e reiezione in Esaù del 1560) e catechetici (in speciale maniera il catechismo del 1537 e quello del 1542 con edizione latina nel 1545). Accostare Calvino oggi non è facile; in questi ultimi

anni sono usciti lavori capitali che rivelano quanto ancora resti da fare; in questa collana è stata edita L’Istituzione della Religione Cristiana, 2 voll., a cura di G. TOURN (Torino, 1971) ed alla magistrale introduzione del Tourn (come alla preziosa nota storica ed alla precisa bibliografia) rinviamo, accontentandoci qui di alcune generali annotazioni e di una bibliografia specifica sulla dottrina della predestinazione, con i necessari riferimenti alla dottrina ci Dio e alla cristologia. 1. Bibliografie: W. NIESEL, Calvin - Bibliographie 1901-1959, München, 1961; P. FRAENKEL, Petit Supplément aux bibliographies calviniennes 1901-1963, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», 1971, 385-413; J. N. TYLENDA, Calvin Bibliography 1960-1970, «Calvin Theological Journal», 1971, 156-193; P. DE KLERK, Calvin Bibliography, «Calvin Theological Journal», 1972, 221-250; 1974, 38-73; 1974; 210-240; 1975, 175-207; 1976, 199-243; P. FRAENKEL-J. N. TYLENDA-P, DE KLERK-D. KEMPFF, A Bibliography of Calviniana 1959-1974, Leiden, 1975; A. GANOCZY, Calvin dans le jugement des catholiques d’aujourd’hui, «Concilium», 1966, n. 2, 37-44; H. SCHOLL, Calvinus catholicus. Die Katholische Calvinforschung im 20. Jahrhundert, Freiburg-im-B., 1974. 2. Fra le biografie (elemento non indifferente per una autentica ricostruzione e lettura della teologia calviniana): J. R. ARMOGATHE, Les vies de Calvin aux XVI et XVII siècles, in Historiographie de la Réforme, NeuchâtelParis, 1977, 45-59; E. DOUMERGUE, Jean Calvin, les hommes et les choses de son temps, 7 voll., Lausanne, 1899-1917 e Neuilly, 1926-1927; F. BARTH, Calvins Persönlickeit und ihre Wirkungen auf des geistige Leben der Neuzeit, Bern, 1909 (opera importante del padre di Barth); E. CHOISY (Genève, 1909); A. LANG (Leipzig, 1909); P. WERNLE (Tūbingen, 1909); A. DE QUERVAIN (Berlin, 1926); J. D. BENOÎT (Moulhouse, 1933; 1948: 2a ediz.); L. FEBVRE, Crayon de J. Calvin (1952), in Au coeur réligieux du XVI siècle, Paris, 1957 (1968: 2a ediz.), 251-267; G. GLOEDE (Leipzig, 1955: 3a ediz.); A. M. SCHMIDT (Paris, 1957); J. CADIER: Jean Calvin, Paris, 1958 (trad. ital.: Torino, 1964) e Calvin: sa vie et son oeuvre avec un exposé de sa philosophie, Paris, 1967; W. F. DANKBAAE (Neukirchen, 1959); J. BOISSET (Paris, 1964); R. STAUFFER, L’humanité de Calvin, Neuchâtel-Paris, 1964 (opera di capitale importanza); J. STAEDTKE (Göttingen, 1969); W. NEUSER (Berlin, 1975); molto importante (proprio anche per la disamina storica del problema della predestinazione) è l’esemplare opera di U. PLATH, Calvin und

Basel in den Jahren 1550-1556, Zürich, 1974. 3. Fonti e formazione di Calvino: a) in generale: F. WENDEL, Calvin: sources et évolution de sa pensée religieuse, Paris, 1950; J. BOISSET, Sagesse et sainteté dans la pensée de Calvin. Essai sur l’humanisme du Réformateur français, Paris, 1960; A. GANOCZY: Le jeune Calvin. Genèse et évolution de sa vocation réformatrice, Wiesbaden, 1966 e La Bibliothèque de l’Académie de Calvin, Genève, 1969; b) punti specifici: F. WENDEL, Calvin et l’humanisme, Paris, 1976; C. CALVETTI, La filosofia di G. Calvino, Milano, 1955; A. M. HUGO, Calvijn en Seneca, Groningue, 1957; Calvin: Commentary on the De Clementia of L. A. Seneca, ed. F. C. BATTLES-A. H. HUGO, Leiden, 1969; CH. PARTEE, Calvin and Classical Philosophy, Leiden, 1977; L. SMITS: L’autorité de st. Augustin dans l’Institution Chrétienne de J. Calvin, «Revue d’Histoire Ecclésiastique», 1950, 670- 687 e Saint Augustin dans l’oeuvre de Calvin, 2 voll, Assen, 1957 s.; J. CADIER, Calvin et st. Augustin, in Augustinus Magister, Paris, 1954, II, 1039 ss.; B. B. WARFIELD, Calvin and Augustin, Philadelphia, 1956. 4. Pensiero: a) in generale: E. DOUMERGUE, Jean Calvin, cit., vol. 4, Lausanne, 1910; P. WERNLE, Der evangelische Glaube, cit., vol. 3: Calvin, Tübingen, 1919; K. HOLL, Gesammelte Aufsätze: III: Calvin, Tübingen, 1928 (= 1948: 7a ediz.); P. BRUNNER, Vom Glauben bei Calvin, Tübingen, 1928; H. WEBER, Die Theologie Calvins, Basel, 1930; P. IMBART DE LA TOUR, Calvin et l’Institution Chrétienne, Paris, 1935; A. LECERF, Etudes calvinistes, Neuchâtel, 1949 (autore che Barth critica); W. NIESEL, Die Theologie Calvins, München 1957: 2a ediz. (autore ed opera molto valutati da Barth che nella nostra sezione si riferisce all’ediz. del 1938); W. KRUSCHE, Das Wirken des Heiligen Geistes bei Calvin, Göttingen, 1957 (opera che rinnova profondamente le prospettive); V. NIJENHUIS hrsg., Calvinus oecumenicus, The Hague, 1959; K. REUTER, Das Grundverständnis der Theologie Calvins, Neukirchen, 1963; A. GANOCZY: Calvin théologien de l’Eglise et du ministère, Paris, 1964 e Calvin et Vatican II: l’Eglise servante, Paris, 1968; Regards contemporains sur Jean Calvin, Paris, 1965; V. VINAY, Ecclesiologia ed etica politica in G. Calvino, Brescia, 1972 (titolo riduttore); W. H. NEUSER hrsg., Calvinus Theologus, Neukirchen, 1976; E. P. MEIJERING, Calvin wider die Neugierde. Ein Beitrag zum Vergleich zwischen Patristischem und Reformatorischem Denken, Nieuwkoop, 1980; R.

H. AYERS, Language, Logic and Reason in Calvin’s Institutes, «Religious Studies», 16, 1980, 283-297; L. SCHUMMER, L’ecclésiologie de Calvin à la lumière de l’Ecclesia Mater, Berne, 1981 (parecchi elementi notevoli); b) dottrina di Dio: R. T. LISTON, J. Calvin’s Doctrine of Sovereignty of God, Edinburgh, 1930; H. ENGELLAND, Gott und Mensch bei Calvin, München, 1934; E. A. DOWEY, The Knowledge of God in the Theology of Calvin, New York, 1952; J. H. L. PARKER, The Doctrine of Knowledge of God. A Study in the Theology of Calvin, Edinburgh, 1952; M. NEESER, Le Dieu de Calvin d’après l’institution de la Religion Chrétienne, Neuchâtel, 1957; N. MALET, Dieu selon Calvin, Lausanne, 1977 (opera di capitale importanza); R. STAUFFER, Dieu, la création et la Providence dans la prédication de Calvin, Berne-Frankfurt, 1978 (opera che rinnova profondamente la ricerca ed equilibra non poche idee su Calvino); c) cristologia: M. DOMINICÈ, L’humanité de Jésus d’après Calvin, Paris, 1933; E. EMMEN, De Christologie van Calvijn, Amsterdam, 1935; J. L. WITTE, Die Christologie Calvins, in Das Konzil von Chalkedon, Würzburg, 1954, II, 487592; J. F. JANSEN, Calvin’s Doctrine of the Work of Christ, London, 1956; P. VAN BUREN, Christ in our Place. The Substitutionary Character of Calvin’s Doctrine of Reconciliation, Grand Rapids, 1957; E. D. WILLIS, Calvin’s Catholic Christology. The Function of the So-Called Extra Calvinisticum in Calvin’s Theology, Leiden, 1966; K. BLASER, Calvins Lehre von den drei Amtern Christi, Zürich, 1970. 5. La dottrina calviniana sulla predestinazione è esaurientemente esposta nei seguenti studi: C. BECK, Uber die Prädestination. Die augustinische, calvinische und lutherische Lehre, Hamburg, 1847; A. MEYLAN, La liberté humaine et la prédestination, Lausanne, 1852; A. LECERF: Le determinisme et la responsabilité dans la système de Calvin, Paris, 1895; Souveraineté divine et liberté créé (1933), in Etudes calvinistes, Neuchâtel-Paris, 1949, 11-18; La souveraineté de Dieu d’après le calvinisme (1935), in Etudes calvinistes, 19-24; L’élection et le sacrement, in De l’élection éternelle (1936), 252-262; M. SCHEIBE, Calvins Prädestinationslehre, Halle, 1897; A. SAVARY, La prédestination chez Calvin, Paris, 1901; TH. F. HERMAN, Calvin’s Doctrine of Predestination, «The Reformed Church Review», 1909; V. MONOD, La prédestination calviniste, «Foi et Vie», 8, 1909; H. BOIS, La prédestination d’après Calvin, «Revue de

Métaphysique et de Morale», 1918; W. VAN DEN BOSCH, De ontwikkeling van Bucers praedestinatiegedachten voor het optreden van Calvijn, Amsterdam, 1922; H. BARNIKOL, Die Lehre Calvins von unfreien Willen und ihr Verhältnis zur Lehre der übrigen Reformatoren und Augustinus, Neuwied, 1927; H. VISSCHER, Van de leer der praedestinatie bij Calvijn, Franeker, 1930 (1936: 2a ediz. riveduta); R. JÉZÉQUEL, Sur la prédestination, «Revue d’Histoire et de Philosophie Religieuses», 1930; L. BOETTNER, The Reformed Doctrine of Predestination, Grand Rapids, 1932 (severamente, ma giustamente criticato da Barth); J. LÉQUIER, Prescience et liberté, «Revue de Métaphysique et de Morale», 1933; G. FRIETHOFF, De Predestinatieleer van Thomas en Calvijn, Zwolle, 1936 (2a ediz.); De l’élection éternelle. Congrès International de Théologie Calviniste, Genève, 1936 (soprattutto gli interventi di P. BARTH, J. CADIER, R. GROB, G. S. HENRY, W. A. LANGENOL, A. LECERF, D. MACLEAN, P. MAURY, G. OOTHUYS; Barth ne discute ampiamente; punti essenziali sono per Barth le linee di lettura del fratello Peter e di Maury: KD II/2, 168, 207 ss.); P. BARTH, Die Erwählungslehre in Calvins Institutio von 1536, in Theologische Aufsätze. Karl Barth zum 50. Geburtstag, München, 1936; A. D. R. POLMAN, De Praedestinatieleer van Augustinus, Thomas van Aquin en Calvijn, Franeker, 1936; P. JACOBS, Prädestination und Verantwortlichkeit bei Calvin, Kassel, 1937 (= Darmstadt, 1968); J. LOUP, Prédestination et universalisme dans la théologie de Calvin, Neuchâtel, 1938; H. OTTEN: Calvins Theologische Anschauung von der Prädestination, München, 1938 (opera molto valutata da Barth) e Prädestination in Calvins theologischer Lehre, Neukirchen, 1968; E, DE PEYER, Calvin’s Doctrine of Divine Providence, «The Evangelische Quaterly», 1938, 30-45; W. H. VAN DER VET, Verbond en verkiezing bij Calvijn, Aalten, 1939; G. DELUZ, Prédestination et liberté, Neuchâtel-Paris, 1942; W. A. HAUCK: Vorsehung und Freiheit nach Calvin, Gütersloh, 1947 e Die Erwählten: Prädestination und Heilsgewissheit bei Calvin, Gütersloh, 1950; E. BRUNNER, Prédestination et liberté, «Revue d’Histoire et de Philosophie Religieuses», 32, 1952, 83-96; C. CALVETTI, I presupposti filosofici della dottrina calvinista del servo arbitrio, «Rivista di Fi losofia Neoscolastica», 1952, 301-333; A. HUXLEY, Grace, Predestination and Salvation, «The Hibbert Journal», 1952; H. BERGER, Calvins Geschichtsaufassung, Zürich, 1955; J. E. SKINNER, Predestination and

Determinism, «Anglican Theological Review», 1955; E. BUESS, Praedestination und Kirche in Calvins Institutio, «Theologische Zeitschrift», 1956, 347-361; H. BUIS, Historic Protestantism und Predestination, Philadelphia, 1958; F. BUESSER, Calvins Erwählungslehre, «Reformatio», 1960, 319-328; J. MOLTMANN: Erwählung und Beharrung der Gläubigen nach J. Calvin, in Calvinsstudien 1959, Neukirchen, 1960 e Prädestination und Perseveranz, Neukirchen, 1961; J. DANTINE, Die Prädestinationslehre bei Calvin und Beza, diss., Göttingen, 1965; M. W. CONDITT, More Acceptable than Sacrifice. Ethics and Election as Obedience to God’s Will in the Theology of Calvin, Basel, 1973. 6. Per la storia delle varie edizioni dell’opera sistematica: J. KOESTLIN, Calvins Institutio nach Form und Inhalt in ihren geschichtlichen Entwicklung, «Theologische Studien und Kritiken», 1868, 7-62 e 416-486; J. M. MARMELSTEIN, Etude comparative des textes latins et français de l’Institution de la Religion Chrétienne par Jean Calvin, Groningen, 1921; F. WENDEL, Calvin: sources et évolution, 79-88; G. TOURN, Nota storica, in Istituzione, cit., vol. 1, 99-108. Per le edizioni latine: a) 1536: Corpus Reformatorum I, 5- 248; P. BARTH, Joannis Calvini opera selecta, München, 1926 (1963: 2a ediz.), vol. 1, 19-283; A. GANOCZY, Le jeune Calvin, 139-269; b) 1539; 1543; 1550; 1559: Corpus Reformatorum II; P. BARTH-W. NIESEL, Joannis Calvini opera selecta: Institutio Christianae Religionis 1559 quibus accessionibus per singulas editiones ab anno 1536 usque ad annum 1559 locupletata sit, apparatu critico oculis subicitur, loci theologorum et aliorum scriptorum a Calvino allati unde hausti sint demonstratur: voll. 3 (3a ediz.: 1962); 4 (3a ediz.: 1968); 5 (2a ediz.: 1962). Per le edizioni francesi: a) 1541: A. LEFRANC (Paris, 1911; eccellente l’introduzione) e J. PANNIER (4 voll.: Paris, 1936); b) 1560 (tenendo conto delle edizioni latine e delle francesi: 1541; 1545; 1551 e 1553): J. D. BENOÎT (5 voll.: Paris, 1957-1962); c) 1560: G. TOURN (2 voll.: Torino, 1971). Si ricordi che la dottrina della predestinazione compare sistematizzata nell’edizione latina del 1539 (prima vi erano solo interessanti annotazioni che Barth rileva): questi capitoli (che risentono la lettura proficua di Agostino) hanno una chiara venatura polemica; Calvino sottolinea il ruolo che deve svolgere la dottrina dell’elezione nella dommatica cristiana; avversario è Melantone che nei Loci del 1535 aveva qualificato inutile e confusa speculazione ogni ricerca in tale direzione (cfr. J. KOESTLIN, 40 ss. e F. WENDEL, Calvin: sources et évolution, 82).

Per il Catechismo del 1537: P. BARTH, Joannis Calvini opera selecta, vol. 1, 378 ss.; per il Catechismo del 1542 (1545): P. BARTH, Joannis Calvini opera selecta, vol. 2, 59 ss. e Jean Calvin. Deux Congrégations et Exposition du Catéchisme, par R. PETER, Paris, 1964, XXV ss, 32 ss.; per i due catechismi, oltre al citato lavoro di K. BARTH cfr.: A. GONIN, Les Catéchismes de Calvin, Paris, 1893; M. BOEGNER, Les Catéchismes de Calvin, Pamiers, 1905; P. GUELFUCCI, L’oeuvre catéchétique de Calvin, «Revue de Théologie», 1945, 10-31. Per i Sermoni su Efesini del 1562: Corpus Reformatorum LI, 241 ss. Per il Commento a Romani del 1550: Corpus Reformatorum XLIX; Commentaires sur le Nouveau Testament: IV: Romains, Genève, 1961; Johannis Calvini Commentatorius in Epistulam Pauli ad Romanos, ed. T. H. L. PARKER, Leiden, 1981; L. GOUMAZ, La doctrine du salut d’après les Commentaires de J. Calvin sur le Nouveau Testament, Nyon, 1917; H. H. WOLF, Die Einheit des Bundes. Das Verhältnis von Alten und Neuen Testament bei Calvin, Neukirchen, 1958 (2a ediz.); T. H. L. PARKER, Calvin’s New Testament Commentaries, London, 1971; P. GIRARDIN, Réthorique et liberté. Calvin. Le Commentaire de l’Epître aux Romains, Paris, 1979. Per il de aeterna Dei praedestinatione del 1552: Corpus Reformatorum VIII. Per la Congrégation del 1562: Corpus Reformatorum VIII e Calvin homme d’Eglise, éd. M. DOMINICÉ, Paris-Genève, 1936. h. TEODORO DI BEZA (1519-1603). Barth lo cita assai raramente (3 volte nella nostra sezione; ed altre due volte ancora) e sempre indirettamente; con questi limiti si sforza ad una comprensione integrale del progetto beziano e vi schizza talora un’apologia contro letture deformate e deformanti; d’altronde oggi l’edizione preziosissima della corrispondenza (A. DUFOUR-H. MEYLAN con vari collaboratori: Genève, 1960 ss.: finora 9 voll.) e l’accurato inventario delle opere (F. GARDY-A. DUFOUR, Bibliographie des oeuvres de Th. de Bèze, Genève, 1960) consente una migliore ripresa degli studi. J. V. BAUM, Theodore Beza, 3 voll., Leipzig, 18431852; E. CHOISY, L’Etat calviniste chrétien à Genève au temps de Th. de Bèze, Genève, 1902; P. F. GEISENDORF, Th. de Bèze, Genève, 1949 (= 1967; con bibliogr.); H. MEYLAN, La conversion de Bèze ou les longues hésitations d’un humaniste chrétien (1959), in D’Erasme à Théodore de Bèze, 145-167; J. DANTINE, Die Prädestinationslehre bei Calvin und Beza, diss., Göttingen, 1965; J. S. BRAY, Theodore Beza’s Doctrine of Predestination, Nieuwkoop, 1975.

i. PIETRO MARTIRE VERMIGLI (1500-1562). Il «Melantone del calvinismo» (così nell’ottica tradizionale che tuttavia deve essere arricchita notevolmente, riconoscendo al nostro non solo capacità di sistematizzazione, ma pure autentico vigore teologico) è citato 2 sole volte nella KD (di cui 1 qui). I suoi Loci Communes (1576) avrebbero potuto interessare maggiormente Barth. CH. SCHMIDT: Vie de Pierre Martyr, Strasbourg, 1835 e Petrus Martyr Vermigli. Leben und ausgewählte Schriften, Elberfeld, 1858; PH. MCNAIR, Peter Martyr in Italy. An Anatomy of Apostasy, Oxford, 1967 (trad. ital.: Napoli, 1971); J. P. DONNELLY, Calvinism and Scholasticism in Vermigli’s Doctrine of Man and Grace, Leiden, 1976; G. DALL’ASTA, Pietro Martire Vermigli fiorentino. La vita e la sua teologia (tesi dottorale: Facoltà Teologica Milano, 1977: cfr. A. RIMOLDI, «La Scuola Cattolica», 106, 1978, 97). 8. Note storiche: l’epoca delle confessioni a. Per un inquadramento storico 1. In generale: la bibliografia citata al n. 7 (per le storie della riforma di LORTZ e di LÉONARD anche il vol. II); V. VAJTA hrsg., Die evangelischlutherische Kirche, Stuttgart, 1977; K. ALASKI hrsg., Die Reformierten Kirche, Stuttgart, 1977. 2. La Riforma in Germania: K. SCHOTTENLOHER, Bibliographie zur deutschen Geschichte in Zeitalter der Glaubensspaltung, 7 voll., Stuttgart, 1956-1964; L. VON RANKE, Deutsche Geschichte im Zeitalter der Reformation, 6 voll., 1839-1847: ed. critica a cura di P. JOACHIMSEN, München-Leipzig, 19241926; F. VON BEZOLD, Geschichte der Deutschen Reformation, Berlin, 1890 (trad, ital.: Milano, 1911); P. JOACHIMSEN, Die Reformation als Epoche der deutschen Geschichte, München, 1951 (2a ediz., trad, ital.: La Riforma: Lutero e Carlo V, Venezia, 1955); M. SCHMIDT, ’Evangelische Kirchengeschichte von der Reformation bis zur Gegenwart, Berlin, 1956; E. W. ZEEDEN, Grundlagen und Wege der Konfessionsbildung in Deutschland im Zeitalter der Glaubens Kämpfe, «Historische Zeitschrift», 185, 1958, 249-299; B. MOELLER: Reichsstadt und Reformation, Gütersloh, 1962 (trad, franc.: Genève, 1966) e Deutschland im Zeitalter der Reformation, Göttingen, 1977; E. BIZER, Reformationsgeschichtliche Deutschlands 1532 bis 1555, Göttingen, 1964; F. W. KANTZENBACH, Die Reformation in Deutschland und Europa, Gütersloh, 1965;

K. BRANDI, Deutsche Geschichte im Zeitalter der Reformation und Gegenreformation, Berlin, 1959 (4a ediz.); S. E. OZMENT, The Reformation in the Cities. The Appeal of Protestantisme to Sixteenth Century Germany and Switzerland, New Haven-London, 1975; W. ELERT, Morphologie des Luthertums, 2 voll., München, 1963 (3a ediz.); H. FORSTHOFF, Reinische Kirchengeschichte: Die Reformation am Niederrhein, Essen, 1929; J. MOLTMANN, Christoph Pezel (1539-1604) und der Calvinismus in Bremen, Bremen, 1958. 3. La Riforma in Svizzera: J. H. HOTTINGER, Helvetische Kirchengeschichte, 4 voll., Zürich, 1968-1729; J. C. FUESSLIN, Beiträge zur Erläuterung der Kirchenreformationsgeschichte des Schweizerlandes, 3 voll., Zürich, 1741-1753; A RUCHAT, Histoire de la Réformation en Suisse, par les soins de L. VUILLEMIN, Nyon, 1835-1838 (7 voll.); E. BLOESCH, Geschichte der schweizerischreformierten Kirche, Bern, 1898-1899 (2 voll.); J. DIERAUER, Geschichte der Schweizer Eidgenossenschaft 1516-1648, Gotha, 1907 (= Berna, 1967); W. HADORN, Die Reformation in der deutschen Schweiz, Leipzig, 1928; P. MAURI, Die Reformation in der Schweiz in Lichte der neueren Geschichtschreibung, Zürich, 1945; O. VASELLA, Reform und Reformation in der Schweiz, Münster, 1958; R. PFISTER, Kirchengeschichte der Schweiz, vol. 1, Zürich, 1964; S. E. OZMENT, The Reformation in the Cities. The Appeal of Protestantism to Sixteenth Century Germany and Switzerland, New Haven-Londen, 1975. 4. La Riforma in Francia: J. CRESPIN, Livre des martyrs, Genève, 1554 (= éd. D. BENOÎT-M. LELIÈVRE, Toulouse, 1885-1889: 3 voll.); Histoire Ecclésiastique des Eglises Réformées au Royaume de France (detta di TH. DI BEZA): 1580 (éd. G. BAUM-G. CUNITZ-R. REUSS, Paris, 1883-1889: 3 voll.); FLERIMOND DE RAEMOND, L’histoire de la naissance, progrès et décadence de l’hérésie de ce siècle, Paris, 1605: voll.; G. VON POLENZ, Geschichte des französischen Calvinismus bis Nationalversammlung in Jun 1789, Gotha, 1857-1869: 5 voll.; N. A. F. PUAUX, Histoire de la Réformation française, Paris, 1859- 1869: 7 voll.; L. AGUÉSSE, Histoire de l’établissement du protestantisme en France, Paris, 1886: 4 voll.; P. IMBART DE LA TOUR, Les origines de la Réforme, Paris, 1905-1914: 3 voll.; J. VIÉNOT, Histoire de la Réforme française, Paris, 1926-1934: 2 voll.; CH. ROULET, Histoire de l’Eglise de France, Paris, 1946-1949: 3 voll. (2a ediz.); J. CHAMBON,

Der französische Protestantismus, München, 1948 (6a ediz.; trad, franc.: Genève, 1958); A. BAILLY, La Réforme en France jusqu’à l’édit de Nantes, Paris, 1960; R. M. KINGDON, Geneva and the Consolidation of the French Protestant Movement 1564-1576, Genève, 1967. 5. La Riforma nei Paesi Bassi: H. T. ELIAS, Kerk en Staat in de Zuideliske Nederlanden 1598-1621, Antwerpen, 1931; W. F. DANKBAAR, Hoogtepunten mit het Neterlandsche Calvinijmus in de zestiende eeuw, Haarlem, 1946; J. LINDEBOOM, De confessioneele ontwikkeling de Reformatie in de Nederlanden, The Hague, 1946; J. REITSMA-J. LINDEBOOM, Geschiedenes van de Hervorming en de Hervormde Kerk der Nederlanden, The Hague, 1949 (5a ediz.); D. NAUTA, Het Calvinisme in Nederland, Franekar, 1949; J. ROELINK, Het Calvinisme, in Algemene Geschiedenes der Nederlanden, vol. 4, Utrecht, 1952; E. DE MOREAU, Histoire de l’Eglise en Belgique, voll. 4-5, Bruxelles, 1949-1952; L. E. HALKIN, La Réforme en Belgique sous Charles-Quint, Bruxelles, 1957 (con eccellente bibliografia); R. COLLINET, La Réformation en Belgique au XVI siècle, Bruxelles, 1958. 6. La Riforma in Inghilterra: G. CONSTANT, La Réforme en Angleterre, Paris, 1930-1939 (2 voll.); PH. HUGHES, The Reformation in England, London, 1950-1954: 3 voll. (= New York, 1963: 2a ediz.); J. H. MOORMAN, A History of the Church of England, London, 1953; A. G. DICKENS, The English Reformation, London, 1964; L. E. BINN, The Reformation in England, Hamden, 1966 (2a ediz.); P. M. PARKER, The English Reformation to 1558, London, 1966 (2a ediz.). 7. La Riforma valdese: basti riferirsi a A. A. HUGON-G. GONNET, Bibliografia valdese, Torre Pellice, 1953; V. VINAY, Le confessioni di fede dei Valdesi Riformati, Torino, 1975 (con le annotazioni di G. GONNET, «Protestantesimo», 31, 1976, 159-181); W. ERK hrsg., Waldenser: Geschichte und Gegenwart, Frankfurt, 1972 (gli interventi di V. VINAY); A. MOLNAR-A. A. HUGON, Storia dei Valdesi, voll. 1-2, Torino, 1974; G. TOURN, I Valdesi: la singolare vicenda di un popolo-chiesa, Torino, 1977 (assai rapido, ma preciso). b. Gli accenni polemici che Barth riserva in questa sezione ad una particolare concezione dell’etica calvinista nel suo sviluppo e nel suo rapporto con il mondo moderno necessitano di uno specifico chiarimento: 1. calvinismo e capitalismo: M. WEBER, Die protestantische Ethik und der Geist des

Kapitalismus, «Archiv für Sozialwiss. und Sozialpolitik», 20-21, 1904-1905 (trad. ital. con intr. di E. SESTAN, Roma, 1945; Firenze, 1965: 2a ediz.; ripresa in Sociologia delle Religioni, a cura di CH. SEBASTIANI, con introd. di F. FERRAROTTI, Torino, 1976, vol.1, pp. 184-275: quivi si troveranno tutti gli elementi per una discussione); E. TROELTSCH, Soziaallehren der christlichen Kirchen und Gruppen (1909): trad ital.: Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani, 2; Il protestantesimo, Firenze, 1960, 223-462 (per una concreta e non riduttiva valutazione cfr. H. E. TOEDT, in Lessico dei teologi del secolo XX, a cura di P. VANZAN e H. J. SCHULTZ, Brescia, 1978, 85-91; J. SÉGUY, Christianisme et société. Introduction à la sociologie d’E. Troeltsch, Paris, 1980; R. MENGUS, E. Troeltsch et l’institution de l’absolu, «Recherches de Science Religieuse», 70, 1982, 481-498); H. R. TREVORROPER, Religion, the Reformation and Social Change, London, 1967 (trad. ital.: Bari, 1969; 1975: pp. 41-85); 2. il significato del calvinismo: H. WENDORF, Calvins Bedeutung für die protestantische Welt, Leipzig, 1940; A. A. VAN SCHELVEN, Het Calvinisme gedurende zijn blocitijd in de 16. en 17. eeuw, 2 voll., Amsterdam, 1943 e 1951; H. ROESSLER, Der Calvinismus, Bremen, 1951; J. T. MC NEILL, The History and Charachter of Calvinism, New York, 1954; B. S. WARBURTON, Calvinism, Grand Rapids, 1955. c. Catechismi Barth cita nella nostra sezione il piccolo ed il grande Catechismo di LUTERO (V. Lutero), il catechismo di LEO JUD (V. Jud), il catechismo del 1537 e quello del 1542 (1545) di CALVINO (V. Calvino) ed il Catechismo di Heidelberg del 1563. Su quest’ultimo, documento per eccellenza della chiesa riformata, citato 83 volte nella KD in maniera sempre rilevante (5 volte qui) cfr.: 1) edizioni: W. CUNO, Der Heidelberger Catechismus erklärt, Praga, 1891; A. LANG, Der Heidelberger Katechismus, Leipzig, 1907; W. NIESEL, Bekenntnisschriften und Kirchenordnungen der nach Gottes Wort reformierten Kirche, München, 1948 (3a ediz.), 148 ss.; H. HOEKSEMA, The Heidelberg Catechismi Grand Rapids, 1956; A. PÉRY, e Catéchisme de Heidelberg, Genève, 1359; 2) studi: M. FRICK, Reformierten Glaube. Eine Darstellung des biblischen Lehre an Hand des Heidelberger Katechismus, Zürich, 1932; W. NIESEL, Der Heidelberger Katechismus und die Erwahlungslehre, «Reformierte Kirchenzeitung», 1932; K.

BARTH: Einführung in den Heidelberger Katechismus, Basel, 1938 (trad. ital.: Milano, 1957) e Die christiche Lehre nach dem Heidelberger Katechismus, Basel, 1948; J. CADIER, Le Catéchisme de Heidelberg, Toulouse, 1942; J. J. VON ALLMEN, Le Catéchisme de Heidelberg, Neuchâtel-Paris, 1944; W. HOLLWEG, Neue Untersuchungen zur Geschichte und Lehre des Heidelberger Katechismus, Neukirchen, 1961; 3) W. NIELSEL, Karl Barth und der Heidelberger Katechismus, in Antwort, 148-155. Si ricordi inoltre che K. BARTH ha consacrato una piccola bella opera all’insieme dei catechismi: La prière d’après les catéchismes de la Réformation, Neuchâtel-Paris, 1950 (1967: 3a ediz.; trad. ital. a cura di G. MORRA: Fossano, 1974). d. Confessioni di fede 1. Fonti: Corpus Confessionum, ed. C. FABRICIUS, Berlin, 1928 ss. (incompiuto); Die Symbolischen Bücher der evangelisch-luterischen Kirche, hrsg. J. T. MUELLER, Gütersloh, 1912 (11a ediz.: rifacimento dell’opera di TH. KOHLE); Die Bekenntnisschriften der evangelischlutherischen Kirche, hrsg. vom Deutschen Evang. Kirchenausschuss, Göttingen, 1930 (1967: 6a ediz.); Collectio Confessionum in Ecclesiis Reformatis Publicatarum, ed. H. A. NIEMEYER, Leipzig, 1840; Die Bekenntnisschriften der Reformierten Kirche, hrsg. E. F. K. MUELLER, Leipzig, 1903; Bekenntnisschriften und Kirchenordnungen der nach Gottes Wort reformierten Kirche, hrsg. W. NIESEL, München 1937 (1948: 3a ediz.); Reformierte Bekenntnisscriften und Kirchenordnungen in deutsche Übersetzung, hrsg. P. JACOBS, Neukirchen, 1949. 2. Studi: a) in generale: G. J. PLANCK, Geschichte der protestantischen Theologie von der Konkordienformel an bis in die Mitte des 18, Jahrhunderts, Göttingen, 1831; J. A. MOEHLER, Symbolik oder Darstellung der dogmatischen Gegensätze der Katholiken und Protestanten nach ihren offentlichen Bekenntnisschriften, Mainz, 1832 (ediz. critica a cura di J. R. GEISELMANN, 2 voll., Köln, 1958- 1961); E. W. ZEEDEN, Die Enstehung der Konfessionen, München, 1965; C. ANDRESEN hrsg., Handbuch der Dogmen und Theologiegeschichte: 2: Die Lehrentwicklung in Rahmen der Konfessionalität, Göttingen, 1980; b) luteranesimo: J. A. DORNER, Geschichte der protestantischen Theologie (1867), Hildesheim, 1965 (si cfr. il giudizio di Barth in La Théologie protestante, 17 e 366-376); J. DOELLINGER, Die Reformation: ihre

innere Entwicklung und ihre Wirkung im Umfange des lutherischen Bekenntnisses, 3 voll., Regensburg, 1848 ss.; W. ELERT, Morphologie der Luthertums: I: Theologie und Weltanschaung des Luthertum hauptsächlich im 16. und 17. Jahrhunderten, München, 1931 (1963: 3a ediz.); E. SCHLINK, Theologie der lutherischen Bekenntnisschriften, München, 1948 (3a ediz.); F. BRUNDSTAEDT, Theologie der lutherischen Bekenntnisschriften, Gütersloh, 1951; B. LOHSE, in Handbuch der Dogmen-und Theologiegeschichte, 2, pp. 1-164; c) calvinismo: H. HEPPE, Die Bekenntnisschriften der Reformierten Kirchen Deutschlands, Elberfeld, 1860; P. JACOBS, Theologie reformierten Bekenntnisschriften in Grundzügen, Neukirchen, 1959; W. NIESEL, Das Evangelium und die Kirche. Ein Lehrbuch der Symbolik, Neukirchen, 1960 (2a ediz.); A. COCHRANE ed., Reformed Confessions of the sixteenth Century, London, 1966; W. NEUSER, in Handbuch der Dogmen-und Theologie geschickte, 2, pp. 165-352. 3. Confessioni luterane. Fra le confessioni luterane Barth si riferisce alla Formula di Concordia pubblicata a Dresda il 25 giugno 1580 (in latino: 1584) con i nomi dei sei principali redattori (Jacobus Andreae, Selnecker, Musculus, Koerner, Chytraeus e Chemnitz); essa si compone di una prefazione, di una Solida Declaratio (preparata a Bergen dal marzo al maggio 1577) e di un riassunto (Epitome) in taluni punti (come nel caso della predestinazione) d’inusitata violenza nei confronti del calvinismo; frutto di una lunga elaborazione (gli sforzi iniziarono subito dopo la morte di Melantone e cominciarono a concretizzarsi nel 1567) che vede riuniti i migliori spiriti del luteranesimo («sforzo di uomini tenaci e pazienti sodisfatti solo da una dottrina che vive della pienezza scritturistica») è indubbiamente la somma teologica più notevole non solo del luteranesimo, ma di tutta la Riforma. In essa rivivono sia la Confessio Augustana (con l’Apologia), sia gli Articoli di Smalcalda, sia ancora i Catechismi luterani. Barth la cita 15 volte (4 volte qui) in maniera sempre rilevante (principali testi: KD I/2, 400, 608 s., 695, 704, 717, 923 s.; II/2, 14, 65, 76; III/2, 31; IV/1, 535). cfr. J. N. ANTON, Geschichte der Concordienformel der evang-luth. Kirche, 2 voll., Leipzig, 1779; F. N. R. FRANCK, Die Theologie der Concordien-Formel, Erlangen, 1858-1865 (4 parti); A. WEISS, Le dogme de la Formule de Concorde comparé à celui de la Confession d’Ausbourg, Wissembourg, 1868; P. e J. JUNDT, Introduction a A.

Jundt, La formule de Concorde, Paris, 1948 (testo e commento; dall’Introd. è tratta la cit. precedente); J. G. TAPPERT, The Book of Concord, Philadelphia, 1959 (testo e commento); E. G. LÉONARD, Histoire. II, 23-29. 4. Confessioni riformate. Barth si riferisce alle seguenti: 1. Confessio Gallicana (1559; può considerarsi opera di Calvino; fu ripresa al Sinodo Nazionale di La Rochelle nel 1571 sotto il patrocinio di Th. de Bèze, Jeanne d’Albert e G. de Coligny). Edizioni: J. CRESPIN, Livre des martyrs, II, 649-655; Histoire Ecclesiastique (dite de Th. de Bèze), I, 97-104; E. GAUTHIER-A. LEGERF, appendice all’ediz. del Catechismo di Calvino, Paris, 1897 (eccellente); P. BARTH, Johannis Calvini opera selecta, vol. 2, 297 ss. (eccellente); P. MARCEL (Paris, 1952: discutibile); R. MEHL, La Confession de foi des églises réformées en France dite Confession de la Rochelle, Paris, 1959 (popolare). Studi: J. PANNIER, Les origines de la confession de foi et la discipline des églises réformées de France, Paris, 1936; E. G. LÉONARD, Légende et histoire du Synode de 1559, «Etudes Evangéliques», 1959, 12-27; J. POUJOL, L’ambassadeur d’Angleterre et la Confession de foi du Synode de 1559, «Bulletin de la Société de l’Histoire du Protestantisme Française», 1959, 49-53; P. JACOBS, Das hugenottische Bekenntnis, «Evangelische Theologie», 1959, 203-208. Barth la cita 10 volte nella KD (1 sola volta qui). 2. Confessio Scotica (1560) dovuta a JOHN KNOX, fortemente ispirata all’Institutio calviniana. Barth la cita 11 volte nella KD (qui 3 volte in maniera rilevante) e vi ha dedicato un’opera importante: The Knowledge of God and the Service of God according to the Teaching of the Reformation, London, 1938 (trad, tedesca: Zürich, 1938; trad, franc.: Neuchâtel-Paris, 1945) data come Gifford Lectures ad Aberden nel 1937 e nel 1938. Edizioni: Collection of the Confessions of Faith in the Church of Scotland, 2 voll., Edinburg, 1719-1722 e più comodamente nella cit. opera di Barth. Studi sulla Riforma in Scozia: J. KNOX, History of the Reformation in Scotland, a cura di W. C. DICKINSON, 2 voll., London-Edinburgh, 1949 (originale: 1573); A. F. MITCHELL, The Scottish Reformation. Its Epochs, Episodes, Leaders and Distinctive Characteristics, a cura di D. H. FLEMING, Edinburgh, 1900; D. H. FLEMING, The Reformation in Scotland, London, 1910; J. H. J. BORLEIGH, A Church History of Scotland, London, 1960; G. DONALDSON, The Scottish Reformation, Cambridge, 1960

(ricca bibliografia). Studi su J. Knox: (circa 1513-1572): le biografie di P. H. BROWN (London, 1895); A. LANG (London, 1905); E. PERCY (London, 1937); R. S. WALKER (London, 1940); J. D. MACKIE (London, 1951); C. MCGEEGOR (Philadelphia, 1957); P. Janton (Paris, 1967); J. RIDLEY (Oxford, 1968); E. HURAUT, Knox et ses relations avec les Eglises Réformées du Continent, Cahors, 1902; A. MEZGER, J. Knox et ses rapports avec Calvin, Montauban, 1905; P. JANTON, Concept et sentiment de l’Eglise chez John Knox, Paris, 1972. Cfr. inoltre R. SWANTON, Scottish Theology and Karl Barth, «The Reformed Theological Review», 33, 1974, 17-25. 3. Confessio Belgica (1561) citata nella KD 6 volte (1 qui). Edizione: J. N. BAKHUIZEN VAN DEN BRINK, De Nederlandsche Belijdenisgeschriften, Amsterdam, 1940, 47-141 (testo francese, latino e olandese). Studi: J. N. BAKHUIZEN VAN DEN BRINK: Quelques notes sur l’histoire de la Confession des Pays-Bas en 1561 et en 1566, «Bulletin de la Communauté de l’Histoire des Eglises Wallones», 1941 e De tekst van de Belijdenisgeschriften en van de liturgische Formulieren der Nederlandse Herwormde Kerk, «Nederlands Archief voor Kerkgeochiedenis», 1951, 207-250; A. D. R. POLMAN, Onze Nederlandsche Geloofsbelijdenis, Franekar, 1948 (volume 1). 4. Confessio Rhaetica (1562) citata solo qui (1 volta solamente). 5. Confessio Helvetica Posterior (1566) redatta da H. Bullinger (v. Bullinger) ad uso personale fin dal 1560 o 1561 (o anche secondo taluni 1562), preannunciata da quella Brevis ac pia institutio christianae religionis del 1551 (pubblicata 1559) che è un testo fondamentale per la conoscenza sia di Bullinger e sia della Confessio Helvetica Posterior (cfr. B. NAGY, H. B. Sendschreiben an die ungarischen Kirchen und Pastoren, Budapest 1968 e M. MAKAY, Brève et pieuse institution de la religion chrétienne, in Divers aspect de la Réforme aux XVI et XVII siècle, Paris, 1975, 239-286). La si denomina posterior poiché la prima confessione della Svizzera tedesca è quella di Basilea (1536: cfr. l’ediz. di F. BURI, Zollikon-Zürich, 1958). Barth cita la Posterior 11 volte (2 qui in maniera rilevante). Edizioni: W. HERRENSRUECK (testo latino), in W. NIESEL hrsg., Bekenntnisschriften (cit.); W. HILDEBRANT-R. ZIMMERMANN (testo tedesco: Zürich, 1936); J. COURVOISIER (testo franc, del 1566: NeuchâtelParis, 1944; con ricca introduzione e preciso commento). Studi: L. THOMAS, La Confession Helvétique, Genève, 1890; W. HILDEBRANT-R. ZIMMERMANN,

Bedeutung und Geschichte des zweiten helvetischen Bekenntnisses, Zürich, 1936; J. STAEDKE hrsg., Glauben und Bekennen. 400 Jahre Confessio Helvetica Posterior, Zürich, 1966. 6. Consensus Bremensis (1595): citato solo qui 3 volte. 7. Libro di Staffort redatto dal margravio Ernst Friedrich BADEN-DURLACH (1599): citato solo due volte nella KD (di cui 1 qui). 8. Confessio Sigismundi (1614) citata 2 volte nella KD (di cui 1 qui). 9. Articoli Irlandesi di Religione (1615) citati solo qui 3 volte. 10. Confessione di Westminster (1647) citata 4 volte nella KD (di cui 3 qui). Cfr. A. F. MITCHELL-J. STRUTHERUS, Minutes of the Session of the Westminster Assembly of Divines, Edinburgh, 1874; S. W. CARRUTHERS, The Every-day work of the Westminster Assembly, Philadelphia, 1943; W. L. LINGE, The Story of the Westminster Assembly: 1643-1648, «Union Seminary Quarterly Review», 1943, 321-331; T. C. PERRS Jr., Tercentenary of the Westminster Assembly, «Religion in Life», 1943, 43-52; J. N. THOMAS, The Contribution of the Westminster Assembly to Christian Thought, «Union Seminary Quarterly Review», 1943, 342-351; R. H. NICHOLS, The Tercentenary of the Westminster Assembly, «Church History», 1944, 25-41; T. HOYER, The Historical Background of the Westminster Assembly, «Concordia Theological Monthly», 1947, 572-591; G. S. HENDRY, The Westminster Confession for Today. A Contemporary Interpretation, Richmond-London, 1960. 12. Confessione Valdese (1655) citata solo qui (1 volta); si tratta di una confessione più succinta della Gallicana cui si ispira, redatta nel drammatico momento della primavera di sangue del 1655 (testo francese) e ripresa qualche anno più tardi (1662: testo italiano); cfr. il testo in V. VINAY, Le confessioni, 179-204 (con le annotazioni di pp. 29-32). 5. Confessioni anglicane. Barth cita i 39 articoli del 1563 (la cui lunga storia comincia con i 10 articoli del 1536, prosegue con i 6 articoli del 1539 e sfocia nei 42 articoli del 1553 risentendo palesemente sia delle confessioni di fede presentate alla dieta di Augusta che dei decreti formulati a Trento) solo qui (1 sola volta). Cfr. E. J. BICKNELL, A Theological Introduction in the ThirtyNine Articles of the Church of England (3a ediz. rivista da J. CARPENTER), London, 1955 (testo critico inglese e latino); G. ALBERIGO, La Riforma

protestante, 164-172 (versione italiana integrale); N. MICKLEM, Die Lehre der Reformation von der Erlösung im Verstandnis des englischen Protestantismus, «Theologische Literaturzeitung», 1948, 520-530. Sullo speciale carattere pratico e mediatore della teologia anglicana buone annotazioni di G. GASSMANN, in Handbuch der Dogmen-und Theologiegeschichte, 2, pp. 353-409. 9. Note storiche: l’ortodossia protestante a. In generale. O. RITSCHL, Dogmengeschichte des Protestantismus: IV: Orthodoxie und Synkretismus in der altprotestantischen Theologie, Göttingen, 1927; H. E. WEBER: Glaube und Mystik, Gütersloh, 1927; Reformation, Orthodoxie und Rationalismus, 2 voll., Göttingen, 1937 e 1951 (= Darmstadt, 1962); Das innere Leben der altprotestantischen Orthodoxie, in H. ASMUSSEN hrsg., Rechtglaubigkeit und Frommigkeit, Berlin, 1938; H. LEUBE, Kalvinismus und Luthertum im Zeitalter der Orthodoxie, Leipzig, 1928 (soprattutto il vol. I); A. C. AHLEN, The Seventeenth Century Dogmaticians as Philosophers, «Concordia Theological Mondy», 1959, 162-167; E. BIZER, Frühorthodoxie und Rationalismus, Zürich, 1963; R. KIRSTE, Masstäbe und Methoden biblischer Hermeneutik in der altoprotestantischen Orthodoxie, Bijdragen, 36, 1975, 290301. L’ortodossia protestante termina con un periodo estremamente interessante, detto «ortodossia razionale» (per i dati storici si aggiunga il vol. III della storia del LÉONARD, Paris, 1964) su cui Barth ha avuto un giudizio teologicamente duro; Barth ha tuttavia notato l’estrema importanza di questo crogiuolo culturale; si cfr. gli eccellenti capp. 2-4 di Die protestantische Theologie, Zürich, 1946 = La théologie protestante, Genève, 1969, pp. 23-106 e Images du XVIII siècle, Neuchatel-Paris, 1949, 15-78 ove si può comprendere tutta la portata del movimento colto nei suoi sviluppi successivi. b. L’ortodossia luterana. 1. In generale: H. SCHMID, Die Dogmatik der evangelisch-lutherischen Kirche, Gütersloh, 1893: 7a ediz. (nuova ediz. a cura di H. G. POEHLMANN, Gütersloh, 1979); H. E. WEBER, Der Einfluss der protestantischen Schulphilosophie auf die orthodox-lutherische Dogmatik, Leipzig, 1908; H. LEUBE, Die Reformideen in der deutschen Lutherischen Kirche zur Zeit der Orthodoxie, Leipzig, 1924; W. ELERT, Morphologie der Luthertums: I: Theologie und Weltanschaung des Luthertums hauptsächlich im 16. und 17.

Jahrhunderten, München, 1931 (1963: 3a ediz.); A. L. DRUMMOND, German Protestantism since Luther, London, 1951; E. G. LÉONARD, L’orthodoxie luthérienne en Allemagne au XVII siècle, «Etudes Théologiques et Religieuses», 1960, 29-46; C. H. RATSCHOW, Lutherische Dogmatik zwischen Reformation und Aufklärung, 2 voll., Gütersloh, 1964 e 1966 (con la reazione critica di R. SCHROEDER, «Evangelische Theologie», 1971, 16 ss.); R. D. PREUS, The Theology of Post Reformation Lutheranism, London-St. Louis, 1970 (vol. 1) e 1972 (vol. 2). 2. LEONARDUS HUTTERUS (1563-1616): esponente della facoltà di Wittenberg, «malleus calvinistarum», antifilippista (e quindi antisinergista) deciso, polemista vigoroso contrario ad ogni sforzo irenico, meritò di essere chiamato, con anagramma del suo nome, «Redonatus Lutherus». Il suo influsso fu notevolissimo; il suo Compendium locorum theologicorum ex Scriptura Sacra et Libro Concordiae collectum (1610) divenne una specie di catechismo dell’ortodossia luterana ed è riedito ancora nel sec. XIX. un indice ulteriore dell’importanza di Hutterus (Hutter in tedesco) è data dal fatto che nel 1817 il famoso professore di Jena, Karl August Hase, brillante esponente della scuola schleiermachiana, parlava di una sua opera diretta contro il razionalismo (la Dogmatik der evangelischlutherische Kirche) come di un «Hutterus redivivus». Barth si riferisce al Compendium (1610); lo cita altre 3 volte nella KD; tuttavia sempre e solo brevemente. 3. JOANNES GERHARD (1582-1637): professore a Jena, «oracolo teologico della Germania», è stato definito giustamente da Tholuck: «il più sapiente fra gli eroi dell’ortodossia luterana ed il più amabile dei sapienti». Ebbe la costante preoccupazione di mettere in risalto la finalità pratica esistenziale e consolante del dogma; la sua opera è tutta orientata sulla vita della grazia nell’anima dei credenti: si è potuto dire che essa costituisce la giustificazione teologica della grande opera spirituale iniziata dal pietismo di J. Arndt. Merita di essere ricordato il suo approccio particolarmente ricco della Scrittura e l’importanza, veramente notevole ed eccezionale, da lui accordata ai Padri greci (specialmente Atanasio, Cirillo di Gerusalemme, lo pseudo-Macario, lo pseudo-Dionigi) come anche la riscoperta equilibrata del «senso spirituale» nell’esegesi patristica. I suoi Loci Communes Theologiae (in 9 voll.: 1610-1621) sono pubblicati ancora nel sec. xix. Barth lo cita 50 volte nella KD, discutendone talora a lungo le posizioni (es.: KD I/1, 356, 362; I/2, 220, 596, 675

s.; II/1, 201 s., 522 s., 544, 548 s.; II/2, 75 ss.; III/3, 760). Cfr. E. TROELTSCH, Vernunft und Offenbarung bei Joannes Gerhard und Melanchton, Göttingen, 1892; B. HÄGGLUND, Die Heilige Schrift mit ihre Deutung in der Theologie Johann Gerhards, Lund, 1951; L. BOUYER, La spiritualité orthodoxe et la spiritualité protestante et anglicane (Histoire de la spiritualité, III/1), Paris, 1965, 139-141. 4. ABRAHAM CALOV (1612-1685): rappresentante di un luteranesimo molto stretto, polemista brillante e mordace, merita tuttavia un posto assai maggiore di quello riservatogli generalmente; nelle sue opere teologiche non mancano le intuizioni felici; né il suo approccio scritturistico deve essere ritenuto negativo. Il suo Systema locorum Theologicorum (1655-1677), in 12 volumi, costituisce una summa interessante, non priva di reale vigore. Barth lo cita 14 volte nella KD, discutendone a volte a lungo le posizioni (es.: KD I/2, 581 s.; III/3, 35 s., 136, 184 s.; III/4, 227). Cfr. J. KUNZE, in Real-encyclopädie für protestantische Theologie und Kirche, III, 648-654. 5. JOHANNES ANDREAS QUENSTEDT (1617-1688): nipote di J. Gerhard, deriva dallo zio una preoccupazione particolare per la vita spirituale e la pastorale; teologicamente è però solo un ripetitore; in questo tuttavia consiste proprio l’utilità della sua Theologia didactico polemica (1685-1696). Barth lo cita 98 volte nella KD, discutendone le tesi soprattutto in KD I/1, 244, 284 s., 447, 455 s.; I/2, 81, 176, 528 s, 582 s, 965 s.; II/15 209 s., 267 ss., 369 s., 415 s., 424 s., 479 s.; 11/2, 75 ss.; III/1, 153 s.; III/2, 183 s.; III/3, 40, 151 s.; IV/2, 72 s, 568 s.; IV/3, 554 s., 876 s. Cfr. R. D. PREUS, The Vicarious Atonement in J. Quenstedt, «Concordia Theologica Montly», 1961, 78-97. 6. JOHANNES FRANZISKUS BUDDEUS (1660-1727): esponente dell’ortodossia razionale, autore di celebri Institutiones Theologicae (1723) è citato da Barth 10 volte nella KD (principali testi: KD I/2, 313 s., 318 s.; II/2, 93 s.) ed occupa una preziosa pagina di Die protestantische Theologie = La théologie protestante, 77 s. 7. Barth si riferisce ancora a JOHANN FRIEDRICH KOENIG (autore di una Theologia positiva acroamatica, ROSTOCK, 1665; citato altre 3 volte nella KD); a DAVID HOLLAZ (O HOLLATZ), celebre teologo della Pomerania che subisce l’influsso del pietismo ed autore, tra l’altro, di un’importante Theologia positiva (Wittemberg, 1707) cui si riferisce Barth, che cita Hollaz 34 volte nella

KD (discutendone le tesi in KD I/1, 113; 1/2, 168, 313; III/3, 258 s.; IV/2, 52 ss.; IV/3, 581 s.); a JOHANN WILHELM BAIER (autore di un Compendium theologiae positivae, 1686; citato 13 volte nella KD). c. L’ortodossia riformata 1. In generale. ALEX. SCHWEIZER: Die Glaubenslehre der evang. reform. Kirche, 2 voll., Zürich, 1844-1845 e Die Protestantische Centraldogmen, Zürich, 1854; O. RITSCHL, Dogmengeschichte des Protestantismus: III: Die Reformierte Theologie im 16. und 17. Jahrunderten, Göttingen, 1926; A. A. VAN SCHELVEN, Het Calvinisme gedurende zijn bloeitijd, 2 voll., Amsterdam, 1943 e 1951; H. HEPPEE. BIZER, Die Dogmatik der evangelisch-reformierten Kirche, Neukirchen, 1958: 3a ediz. (con eccellente introduzione di E. Bizer, ampia scelta di testi ed importante prefazione di K. BARTH); O. FATIO, Méthode et théologie. Lambert Daneau et les débuts de la scolastique réformée, Genève, 1976 (eccellenti indicazioni utilissime). 2. La questione arminiana Se l’ortodossia luterana, fin dall’equilibiata Formula di Concordia, aveva saputo sfuggire all’ottica del sistema predestinaziano (al punto che J. Andreae poteva notare con soddisfazione che riguardo alla predestinazione nessuna controversia importante si è manifestata fra i teologi aderenti alla Confessione di Augusta), accentuando anzi le precauzioni per prevenire ogni discussione poco edificante, non vi riuscì invece il calvinismo che, preoccupato di affermare l’assoluta sovranità divina, scivolò ben presto nelle conseguenze più dure della «doppia predestinazione», sottolineando l’onnipotenza divina nella sua assoluta arbitrarietà. La disputa dilaga nei Paesi Bassi, favorita e fomentata dall’esplosiva situazione politica e culturale di quelle terre ed assume, intrecciandoli, due problemi di per sé distinti: da un lato la disputa fra sopralapsari (la predestinazione è situata prima ancora della colpa di Adamo) ed infralapsari (la predestinazione è situata dopo la colpa di Adamo), incentrata però sullo sfondo comune di un rigido calvinismo; dall’altro lato la revisione del calvinismo operata da Arminio e dai suoi seguaci, detti «rimostranti», dalla celebre Rimostranza con cui nel ioio si rivolsero al potere civile chiedendo tolleranza religiosa contro le intemperanze degli avversari gomaristi. La necessità di attenuare l’estrema rigidità del calvinismo originario (almeno nell’interpretazione data a partire da Beza) per recuperare in qualche misura il significato e la valenza dell’impegno personale di ogni singolo

credente, con un evidente avvicinamento alle concezioni che non erano solo quelle della chiesa romana e degli aborriti papisti e neppure solamente, almeno in parte, quelle dei seguaci di Melantone (i cosiddetti filippisti, opposti agli gnesioluterani di un Flaccio Illirico), ma pure della tradizione ereticale cinquecentesca e dei suoi epigoni sociniani che proprio in Olanda aveva trovato un fertile terreno, porta Arminio ed i suoi seguaci ad una visione più laica, sebbene non meno confessante, del calvinismo, aprendo una strada che porterà i suoi frutti, al di là di quel Sinodo di Dordrecht, teologicamente e politicamente assai importante, che segna la temporanea sconfitta del blocco arminiano. Il discorso di K. Barth, ampio ed articolato, si incentra naturalmente sulla disputa sopralapsaria ed infralapsaria di cui offre un’esposizione critica quanto mai avvincente e precisa, equanime, senz’altro da condividere per il superamento cristologico che propone; ha però presente sempre il contesto teologico e politico che media l’esposizione; l’intenzione arminiana invece, pur in una simpatia critica, ci sembra letta in maniera riduttiva (quasi assimilata al liberalismo teologico con cui Barth ha cominciato a saldare i conti fin dalla 2a ediz. del Roemerbrief), anche se occorre riconoscere che Barth mette esattamente in chiaro le cose: sia la revisione prospettata da Arminio, sia la prospettiva sopralapsaria, sia la disputa infralapsaria hanno punti essenziali da ritenere, ma il quadro è da superare. Sulla situazione storico-politica: oltre la bibliografia generale cit. nn. 7-8 cfr.: J. HUIZINGA, La civiltà olandese del Seicento, trad., Torino, 1967; C. WILSON, La Repubblica olandese, trad., Milano, 1968; P. GEYL: The Revolt of the Netherlands (1555-1609), London, 1958 (2a ediz.) e The Netherlands in the 17. Century, London, 1961 (2a ediz.) per il vol. 1 (1609-1648) e 1964 (2a ediz.) per il vol. 2 (1648-1715); M. FIRPO, Il problema della tolleranza religiosa nell’età moderna, Torino, 1978, 165 ss. Sulle università dei Paesi Bassi: P. DIBON, La philosophie néerlandaise au siècle d’or: vol. I: L’enseignement philosophiques dans les universités à l’époque précartésienne: 1575-1650, Paris-Amsterdam, 1954; J. A. CRAMER, De Theologische Faculteit te Utrecht ten tijde van Voetius, Utrecht, 1932; P. C. MOLHUYSEN, Bronnen tot de geschiednis der Leidsche Universitaet, 7 voll., The Hague, 1913 ss.; A. ECKHOF, De theologische Faculteit te Leiden in de XVII eeuw, Utrecht, 1921; T. H. LUNSINGH SCHEURLEER-G. H. M. POSTHUMUS MEYJES ed., Leiden University in the Seventeenth Century, Leiden, 1975 (con ricca

bibliografia). Situazione del calvinismo in generale: D. NOBBS, Theocracy and Toleration. A Study of the Disputes in Dutch Calvinism from 1600 to 1650, Cambridge, 1938; W. F. DANKBAAR, Hoogtepunter uit het Nederlandsche Calvinisme in de zestiende eeuw, Harlem, 1946; J. N. BAKHUIZEN VAN DEN BRINK, Controverse in de zestiende eeuw, in Geloofsinhoud en geloofsbeleving, Utrecht, 1951, 11-42. Sulla disputa infra- e sopralapsaria: ALEX. SCHWEIZER, Protest. centraldogmen, II, 43 ss., 181 ss.; H. HEPPE-E. BIZER, Die Dogmatik, 129 ss.; K. DIJCK, De Strijd over Infra- en Supralapsarisme in de gereformeerte Kerk van Nederland, Kempen, 1912. JACOBUS ARMINIUS (O HARMENSZ: 1550-1609) è citato con i suoi seguaci rimostranti 8 volte nella KD (di cui 6 qui), ma l’arminianesimo è un dato costante di confronto, a) Edizioni delle opere: Jacobi Arminii opera theologica, Lugduni Batavorum, 1629; Jacobi Armimi opera theologica, Frankfurt, 1635; The Work of Arminius, London, 1825 (1828, 1875); The Writings of James Arminius; ed. J. NICHOLS-W. R. BAGNALL, Grand Rapids, 1956. b) Biografie: C. BRANDT (a cura di J. L. MOSHEIM: Brunswich, 1725, 2a ediz.); J. NICHOLS (London, 1843); J. H. MARONIER (Amsterdam, 1905). c) Articoli di dizionari: E. MANGÉNOT, in Dictionnaire de Théologie Catholique, I, 1968-1971 e E. DE MOREAU, in Enciclopedia Italiana, IV, 514 ss. d) Studi: PH. LIMBORCH, Relatio historica de origine et progressu controversiarum in foederato Belgio de praedestinatione, in Institutiones theologiae christianae, Amsterdam, 1715 (4a ediz.); J. NICHOLS, Calvinism and Arminianism compared, 2 voll., London, 1824; ALEX. SCHWEIZER, Die protestantischen Centraldogmen, II, 25-224; J. J. E. KELLER, Dieu et l’homme d’après Calvin et d’après Arminius, Lausanne, 1850; C. FLOUR, Etude historique de l’arminianisme, Nîmes, 1889; TH. VAN OPPENRAAIJ, La doctrine de la prédestination depuis l’origine jusqu’au Synode de Dordrecht, London, 1906; A. H. HENTJENS, Remonstrantsche en calvinistische Dogmatiek, London, 1913; De Remonstranten. Gedenkboek bij het 300-jaring bestaan der Remonstrantsche Broederschap, Leiden, 1919; H. D. FOSTER, Liberal Calvinism. The Remostrants at the Synod of Dordt in 1618, «Harvard Theological Review», 1923; A. W. HARRISON: The Beginnings of Arminianism to the Synod of Dordt, London, 1926 e Arminianism, London, 1937; O. RITSCHL,

Dogmengeschichte, III, 314-339; J. N. VAN AKEN, De Remonstrantsche Broederschap in verleden en heden, Arnhem, 1947; L. M. ATKINSON, The Achievement of Arminius, «Religion in Life», 1950, 418-430; B. M. WARREN, A Theological Compend of the Works of James Arminius, Norther Baptist Seminary, 1954; J. VEENHOF, Het Remonstrantione te Kampen tot de regeringsverandering in 1620, «Kamper Almanak», 1957-1958, 255-272; J. C. GODBEY, Arminius and Predestination, «Journal of Religion», 53, 1973, 491-498. e) Sulla diffusione dell’arminianesimo in Inghilterra e la netta opposizione dei puritani (rappresentanti di un rigido calvinismo ortodosso) cfr. le indicazioni di M. FIRPO, Il problema, 182 ss. f) Per la Rimostranza del 1610: H. Y. GROENEWEGEN (Leiden, 1910) e J. N. BAKHUIZEN VAN DEN BRINK, Nederlandsche Belijdenisgeschriften, 282 ss. Fra i seguaci di Arminio, Barth si riferisce a PHILIPP VON LIMBACH, autore di un conosciuto Compendium theologiae christianae (1686). Sinodo di Dordrecht (1618-1619) citato 12 volte nella KD (di cui 9 qui in maniera molto rilevante), a) Edizioni: Acta et scripta synodalia Dordracena, Harderwijck, 1620; Acta Synodi Nationalis Dordrechti, Dordrecht, 1620; J. N. BAKHUIZEN VAN DEN BRINK, Nederlandsche Belijdenisgeschriften, 218 ss. b) Studi: E. MANGÉNOT, in Dictionnaire de Théologie Catholique, II, 1968 ss.; W. F. DANKBAAR, in Die Religion in Geschichte und Gegenwart, II, 243 ss. (3a ediz.); N. CHÂTELAIN, Histoire du Synode de Dordrecht, Paris-Amsterdam, 1841; H. BLIND, Le Synode de Dordrecht, Genève, 1881; H. KAAJAN, De groote Synode von Dordrecht, Amsterdam, 1918; W. MEINDERSMA, De Synode van Dordrecht, Zaltbammel, 1918; W. J. M. VAN EYSINGA, De internationale Synode van Dordrecht, in Exuli amico Huizinga, Harlem, 1948, 7-40. c) Fra i delegati al Sinodo, Barth cita in maniera speciale: Matthias Martini (1572-1630) grande esponente del calvinismo bremense (cfr. HEPPE-BIZER, Die Dogmatik, LIII-LV); Johannes Jakob Breitinger (1575-1643) rappresentante zurighese (cfr. J. C. MOERINKOFER, Breitinger und Zürich, Zürich, 1873); Markus Rütimeyer di Berna; J. Konrad Koch di Schaffhouse; Sebastian Beck e Wolgang Meyer di Basilea (cfr. M. GEIGER, Die Basler Kirche und Theologie im Zeitalter der Hochortodoxie, Zürich, 1952); solo il Martini è ulteriormente citato (KD IV/I, 57) e data la sua eccezionale statura è di ancora utile lettura il suo Christianae

doctrinae summa capita, quae continentur in symbolo apostolico, decalogo, oratione dominica, institutione disciplinae ecclesiasticae, s. baptismi et s. coenae (1603), Herbonae Nassoviorum, 1626. 3. I rappresentanti dell’ortodossia riformata L’elenco che segue, in ordine cronologico, aiuta ad una comprensione più ampia dell’ortodossia riformata; di qualche utilità pratica sono peraltro taluni raggruppamenti più significativi a condizione tuttavia di ritenerne la precarietà; si hanno così le seguenti costellazioni generali: a) arminianesimo: Philipp von Limbach; b) sopralapsarism©: il primo deciso rappresentante è sicuramente TEODORO DI BEZA (V. supra), anche se in un certo senso si può già citare CALVINO (cfr. H. OTTEN, Calvins theologische Anschauung von der Praedestination, 91 s.) e persino ZWINGLI e LUTERO (almeno il Lutero del de servo arbitrio), pur sottolineando che questi autori non si posero tali problematiche (cfr. KD II/2, 137 s.), da cui sono esenti ancora le Confessioni di fede riformate e la stessa Confessio Belgica (cfr. E. G. LÉONARD, Histoire, II, 214); il Sinodo di Dordrecht non accetterà la posizione, probabilmente a causa dei suoi eccessi e giungerà a condannare il Maccovius, tuttavia più per il suo metodo scolastico che per le posizioni teologiche; Barth cita Bucanus, Gooarus, Maccovius, Heidanus, Burmann ed il matematico Philipp NAUDEUS (1654-1729; cfr. P. PASCHINI, in Enciclopedia Italiana, XXIV, 317; citato solo qui); c) infralapsarismo: soprattutto Polanus, la Sinossi di Leiden, Wolleb, F. Turrettini e J. H. Heideggerus; d) «ortodossia di compromesso»: si riferisce alla mediazione ed alla conciliazione tentata da taluni autori (fra cui soprattutto P. van Mastricht) fra sopralapsarismo ed infralapsarismo, strada che finisce in realtà per aggravare le rispettive aporie; e) cocceianismo: Coccejus, Witsius, Burmann, van Til: f) «ortodossia razionale»: nella Svizzera della seconda metà del sec, XVII e della prima metà del sec. XVIII si ha un notevole sforzo irenico, lontano da ogni confessionalismo stretto, tutto teso a superare gli integrismi, tutto centrato su alcuni articoli essenziali, aperto al dialogo con il pensiero moderno; i rappresentanti di questa «ortodossia razionale» sono soprattutto J. A. Turrettini, J. F. Ostervald e S. Werenfels che Barth cita; pur benemeriti per tanti aspetti, questi autori segnano la lenta morte del pensiero teologico, esauritosi in questa lunga stagione di riflessione, non priva di grandezza, ma certo ripetitiva e, per molta parte, incapace di una risposta adeguata alle esigenze dell’ora. Si cfr. le pagine dedicate da Barth in Die protestantishe Theologie = La théologie protestante, 80-86 estremamente penetranti; g) parimenti si noti un raggruppamento topografico culturale: sono presenti le università di Ginevra (F. Turrettini e Heideggerus), Losanna (Bucanus), Basilea (Polanus, Wolleb, Werenfels), Utrecht (Burmann e Witsius), Gröningen (Alting), Franeker (Amesius, Maccovius, Coccejus, Witsius), Leiden (Gomarus, Walaeus, Coccejus, Witsius, van Til e gli autori della Sinossi) e Brema (Coccejus); si può rilevare l’ampiezza del ventaglio proposto e soprattutto la sua ricchezza. WILHELM BUCANUS O (DU BUC), professore a Losanna dal 1591 al 1603,

autore di un vigoroso compendio (Institutiones theologicae seu locorum communium christianae religionis ex Dei verbo et praestantissimorum theologorum orthodoxo consensu expositorum analysis, Genevae, 1609), sopralapsario e pensatore originale; citato 19 volte nella KD; qui 4 volte con rilievo (cfr. pure KD IV/1, 408 ss.). AMANDUS POLANUS (1561-1610), professore all’Università di Basilea, uno dei

promotori della metodologia scolastica applicata alla dommatica protestante, autore di una giustamente celebre opera (Syntagma theologiae christianae, Hanoviae, 1609); Barth lo cita elogiativamente 90 volte, di cui 8 volte qui; principali testi: KD I/2, 163 s., 310, 424, 426, 528, 582, 800, 807, 809, 880 s., 907 s.; II/1, 292, 295 s., 298 s., 317 s., 369 s., 374 ss., 403 s., 416 s., 426, 448, 461 s., 479 s., 549 s., 553 s., 580 s., 588 s., 594 s., 600 s., 618 s., 640, 698, 725 ss., 753; II/2, 119 s.; III/1, 55; III/2, 3, 88 ss., 456 s.; IV/1, 57 s., 408 s.; IV/2, 44, 82; IV/3, 14 ss. Cfr. HEEPE-BIZER, Die Dogmatik, XLVIs.; M. GEIGER, Die Basler Kirche und Theologie im Zeitalter der Hochorthodoxie, Zürich, 1952; E. STAEHELIN, Amandus Polanus von Polandsdorf, Basel, 1955; A. STAEHELIN, Geschichte der Universität Basel, Basel, 1957. FRANZISKUS GOMARUS (O GOMAR: 1565-1641): professore a Leiden, intrattabile e veemente avversario di Arminio e dei rimostranti (di cui comunque non comprende minimamente il significato delle posizioni), teologicamente aspro; di lui si ricordi qui la Disputatio de divina hominum praedestinatione del 1614: Barth lo cita 10 volte, di cui 2 nella nostra sezione (cfr. anche KD II/1, 647 ss.). Cfr. O. RITSCHL, Dogmengeschichte, III, 303 ss. e J. FORGET, Gomar, in Dictionnaire de Théologie Catholique, VI, 1477-1480. ANTONIUS WALAEUS (1573-1639): professore a Leiden, coautore della Sinossi, va ricordato anche per i Loci Communes Sacrae Theologiae (Lugduni Batavorum, 1640); Barth lo cita 8 volte (di cui 3 qui; principali testi: KD I/2, 310 s.; II/1, 647 s.); cfr. H. HEPPE-E. BIZER, Die Dogmatik, LX. WILHELM AMESIUS (1576-1633): professore a Franeker, occupa un posto notevole nella storia della spiritualità riformata ed un rilievo decisamente grande nella teologia puritana dell’alleanza (theology of the covenant) in cui scompare ogni arbitrarietà divina ed ogni asperità dalla dottrina della elezione; le sue opere più importanti sono De conscientia (Franeker, 1643) e Medulla Sacrae Theologiae (Franeker, 1623; esiste un’edizione inglese del 1642; forse ce n’era già stata una nel 1638); Barth lo cita 5 volte (principali testi: KD II/2, 372; III/4, 71; IV/1, 57). Cfr. H. HEPPE-E. BIZER, Die Dogmatik, LXIII-LXVII; L. BOUYER, La spiritualité, 169 s.; H. VISSCHER, Guillelmus Amesius, Haarlem, 1894; K. REUTER, W. Amesius der führende theologe des erwachenden reformierten Pietismus, Neukirchen, 1940. JOHANNES HEINRICH ALTING (1583-1644): professore all’Università di

Groningen, estraneo alle dispute del tempo, ha esercitato un influsso notevole (cfr. J. H. HOTTINGERUS, Cursus theologicus methodo altingiana, Heidelberg, 1660); si veda la sua opera Methodus theologiae didacticae nell’edizione dell’opera omnia curata da J. H. Hottingerus (Amsterdam, 1687); Barth lo cita 3 sole volte (1 volta qui). Cfr. H. HEPPE-E. BIZER, Die Dogmatik, LVII s. MARKUS FRIEDRIK WENDELIN (1584-1652) discepolo ad Heidelberg del celebre David Waengler detto Pareus rettore del ginnasio di Zerbst, polemista antiluterano; si ricordino Christianae theologiae systema maius (Casellis, 1656) e Collatio doctrinae christianae Reformatorum et Lutheranorum (Casellis, 1660); Barth lo cita 9 volte (2 qui; cfr. KD I/2, 312; III/3, 186). Cfr. H. HEPPE-E. BIZER, Die Dogmatik, LVI. JOHANNES WOLLEB (1586-1629): professore a Basilea, infralapsario deciso, autore di un Compendium theologiae christianae (1626) che ebbe un meritato successo per la sua chiarezza: Barth lo cita 40 volte (6 qui; principali testi: KD I/2, 164, 178 s., 310, 782, 880 s.; II/1, 523 s., 583 ss.; II/2, 83 s., 357, 370; III/3, 108 s.; IV/1, 57 s., 409); cfr. H. HEPPE-E. BIZER, Die Dogmatik, XLVII s.; M. GEIGER, Die Basler Kirche und Theologie im Zeitalter der Hochorthodoxie, Zürich, 1952; A. STAEHELIN, Geschichte der Universität Basel, Basel, 1957. JOHANNES MACCOVIUS (O MAKOWSKI: 1588-1644): polacco, professore a Franeker a partire dal 1615, condannato al Sinodo di Dordrecht per il suo ostinato sopralapsarismo e soprattutto per l’uso del metodo scolastico; Barth lo cita solo qui senza discussione; cfr. A. KUIPER, Johannes Maccovius, Leiden, 1899. ABRAHAM HEIDANUS (1597-1676): autore di un Corpus Theologiae Christianae in XV locis digestum (si veda l’edizione lionese del 1686), è citato 26 volte nella KD (6 volte qui: cfr. KD I/2, 311 ss.); si rilevi l’approccio globale del Barth; cfr. A. J. CRAEMER, A. H. en zijn Cartesianisme, Utrecht, 1889. JOHANNES KOCK (O COCCEJUS: 1602-1669): professore a Bremen, Franeker e Leiden (a partire dal 1650), pensatore vigoroso, ha dato origine ad un sistema detto «federativo», incentrato sull’idea di alleanza, tutto ripieno di una pedagogia della grazia, che infonde alla sua teologia una valenza particolare; malgrado l’indubbia grandezza teologica, Coccejus conobbe le amarezze dell’incomprensione ed accese, quanto ingiuste e riduttive polemiche; uno dei meriti di Barth è stata la lettura integrale di quest’autore e la fedele esegesi della sua intenzione originaria, contro le interpretazioni di ieri e di oggi; fra le

sue opere si vedano Summa doctrinae de foedere et testamento Dei (Amsterdam, 1648) e Summa Theologiae ex Scripturis repetita (Amsterdam, 1665), entrambe anche nell’edizione del 1673. Barth lo cita 25 volte nella KD (6 qui; principali testi: KD II/2, 119 s., 122 s.; III/3, 103, 152 s., 180; IV/I, 57 s., 61 ss.). Cfr. J. VAN DER FLIES, De Johanne Cocceio antischolastico, Utrecht, 1859; H. DIESTEL, Studien für foederal Theologie, «Jahrbücher für deutsche Theologie», 1865; J. ZORANNY, Geschichte des Coccejanismus, Budapest, 1890; G. SCHRENK, Gottesreich und Bund im älteren Protestantismus vornehmilich bei J. Coccejus, Gütersloh, 1923; J. MOLTMANN, Geschichtstheologie und pietistisches Menschenbildei Johann Coccejus und Theodor Undereyk, «Evangelische Theologie», 1959, 343-361; H. HEPPE-E. BIZER, Die Dogmatik, LXVII-LXX. FRANÇOIS TURRETTINI (1623-1687): dopo studi approfonditi a Ginevra, Leiden, Parigi, Saumur e Montauban, fu nominato pastore a Ginevra nel 1648, quindi nel 1653 professore di dommatica all’Accademia, dove nel 1654 assumeva la funzione di rettore; assai rigido ed intransigente, è uno degli artefici del Consensus del 1647 e del 1649, passo che doveva portare al Consensus Helveticus, la cui Formula consensus può giustamente essere ritenuta il più preciso ed esclusivo dei simboli riformati (1675), accettato solamente nel 1678 a Ginevra; l’intransigente posizione di Turrettini (contrastata anche da Heideggerus, pur vicino al nostro) lascerà libero spazio al liberalismo teologico dell’«ortodossia razionale», il cui rappresentante più autorevole (teologicamente parlando) è proprio il figlio del Turrettini, JeanAlphonse. Barth lo cita 33 volte (principali testi: KD I/1, 199; 1/2, 36 s., 160, 207, 220 s., 966; II/1, 594; II/2, 139 ss.; III/3, 110; IV/3, 876 s.) di cui 3 nella nostra sezione, riferendosi all’opera principe, una delle migliori espressioni del calvinismo stretto: Institutiones theologiae elenchticae (3 voll., Ginevra, 16791685; Amsterdam, 1701; Edinburgh, 1847 s.). Cfr. E. DE BUDÉ, Vie de François Turrettini, Lausanne, 1891; G. KEIZER, François Turrettini: sa vie, ses oeuvres et le consensus, Lausanne, 1900; H. HEPPE-E. BIZER, Die Dogmatik, LXXIXs.; J. COURVOISIER, De la Réforme au protestantisme. Essai d’ecclésiologie reformée, Paris, 1977, III-116. SINOSSI dI LEIDEN (1624): Doctorum et professorum in Academia Leidensi Johannis POLYANDRI, Andr. RIVETI, Ant. WALAEI et Ant. THYSSII Synopsis

purioris theologiae: si veda la 6a ediz. di Lione, 1881. Barth cita questo testo classico, il cui influsso sul calvinismo è stato enorme, 36 volte nella KD, di cui 4 qui (principali testi: KD I/2, 138 s., 168; III/2, 81, 357; III/3, 195; IV/1, 409). Cfr. H. HEPPE-E. BIZER, Die Dogmatik, LX. Per Walaeus: v. supra. Per J. Polyander: successore di Gomarus a Leiden (altrettanto fermo, ma meno veemente), antiarminiano deciso, ha svolto un ruolo di primo piano al Sinodo di Dordrecht e ha partecipato alla traduzione della Bibbia promossa da tale assemblea (la cosiddetta «Bibbia degli Stati» terminata nel 1635 e pubblicata nel 1637). Per A. Rivet: 1573-1651: professore a Leiden (1620-1632), impedito dal governo di Luigi XIII di recarsi al Sinodo di Dordrecht (dove doveva rappresentare le comunità francesi con Du Plessis-Mornay, Pierre du Moulin e Daniel Chamier), polemista di stretta ortodossia, storico assai parziale, fu uno dei maggiori esponenti francesi, non privo di un certo vigore: H. J. HONDERS, Andreas Rivetus, Utrecht, 1930; A. G. VAN OPSTAL, André Rivet, een in vloedrijk Hugenoot aan de hof van Frederik Hendrik, Amsterdam, 1937; B. DOMPNIER, L’histoire religieuse chez les controversistes réformés du début du XVII siècle: l’apport de Du Plessis-Mornay et Rivet, in Historiographie de la Réforme, éd. PH. JOUTARD, Neuchâtel-Paris, 1977, 16-36. FRANZISKUS BURMANUS (O BURMANN: 1628-1679): intelligente e personale discepolo di Coccejus, polemista e professore a Utrecht, aderì al sopralapsarismo; la sua Synopsis Theologiae et speciatim oeconomiae et foederum Dei (Amsterdam, 1671; parecchie edizioni) è di lettura ancora utile; Barth lo cita 29 volte, di cui 5 qui (principali testi: KD I/2, 312 s.; III/3, 83; IV/1, 409 s.). Cfr. H. HEPPE-E. BIZER, Die Dogmatik, LXXVI s. e G. CASTELLANI, in Enciclopedia Italiana, VIII, 142 s. PETRUS VAN MASTRICHT (1630-1710): esponente dell’«ortodossia di compromesso», autore di una pregevole Theoretica-Practica Theologia (1698; editio nova: Amstelodami, 1725), è citato 27 volte nella KD (di cui 5 qui; principali testi: KD 11/1, 369 s., 592, 731 s.; II/2, 142, 150; III/2, 456; III/3, 118, 178, 186, 333). Cfr. H. HEPPEE. BIZER, Die Dogmatik. LXXXs. JOHANN HEINRICH HEIDEGGERUS (O HEIDEGGER: 1638-1698): autore di opere assai pregevoli (Medulla theologiae christianae e Corpus theologiae da consultare nell’edizione del 1695 e del 1700 rispettivamente), professore a Ginevra, svolge un ruolo moderatore, controbilanciando le asperità del

Turrettini in vista di un Consensus delle comunità della Svizzera francofona; Barth lo cita 22 volte (di cui 1 volta qui); principali testi: KD II/1, 480, 600 s.; III/3, III, 123 s., 135, 140, 184; IV/1, 410; IV/3, 645 s., 875 s. Cfr. J. ENGERT, in Enciclopedia Italiana, XVIII, 433; M. GASS, Geschichte der protestantische Dogmatik, Berlin, 1857, II 353 ss.; R. SEEBERG, Lehrbuch der Dogmengeschichte, IV/2, 706 ss.; K. HUTTER, Der Gottesbund in der Heilslehre des Zürcher Theologen J. H. Heidegger, Gossan, 1956; H. HEPPE-E. BIZER, Die Dogmatik, LXXVIII. HERMANN WITSIUS (1636-1708): discepolo di Ceccejus a Leiden, professore a Franeker, Utrecht, Leiden, pensatore assai vigoroso; è autore di un eccellente De oeconomia foederum del 1685 (Trajecti ad Rhenum, 1693: 2a ediz.; 1694: 3a ediz.); Barth lo cita solo 2 volte (di cui 1 qui). Cfr. S. P. HERINGA, Specimen historico-theologicum de Hermanno Witsio, Amsterdam, 1861; J. van GENDEREN, Hermann Witsius, The Hague-Utrecht, 1953; H. HEPPE-E. BIZER, Die Dogmatik, LXXIV ss. SALOMON VAN TIL (1643-1713): discepolo di Coccejus, assai vicino a Witsius, professore a Dordrecht e a Leiden; Barth lo cita 3 volte (KD I/2, 313 s., 318; II/2, 83); cfr. H. HEPPE-E. BIZER, Die Dogmatik, XC s. SAMUEL WERENFELS (1657-1703): rappresentante dell’«ortodossia razionale» (e come J. A. Turrettini, figlio di un pastore che si era distinto nell’imporre il Consensus Helveticus), professore a Basilea, è forse il più deciso sostenitore dell’irenismo teologico; malgrado i suoi indubbi meriti nell’interpretazione scritturistica (cfr. E. G. LÉONARD, Histoire. III, 52-53) e l’indubbio fascino della sua predicazione morale (cfr. J. COURVOISIER, De la Réforme au protestantisme, 173 s.), merita il duro giudizio teologico del Barth (Samuel Werenfels und die Theologie seiner Zeit, «Evangelische Theologie», 3, 1936, 180203; La théologie protestante au XIX siècle, 80-82) che cita Werenfels 8 volte (KD I/2, 5, 315, 597, 764; II/2, 18, 245, 366; III/4, 7). 10. Note storiche: altri elementi a. Fra gli elementi importanti di questa sezione deve essere rilevato il riferimento alla sesta sessione del Concilio Tridentino (1547: decreto sulla giustificazione, capp. 12-13, canoni 15-17); si vedano per l’ermeneutica barthiana di Trento alcuni testi fondamentali della KD (I/1, 35, 68, 96, 108; I/2, 527 s., 609-622, 631 s., 672, 700, 714; III/4, 136; IV/1, 697-700; IV/2, 562-564); si

esamini in particolare (per struttura, metodologia e risultati) il volume di H. KUENG, Rechtfertigung. Die Lehre Karl Barths und eine Katholische Besinnung, Einsiedeln, 1957 (4a ediz.: 1964; trad. franc.: Paris, 1965; trad. ital.: Brescia, 1969) con la reazione di Barth (la lettera-prefazione nel medesimo volume; KD IV/4, XI; E. BUSCH, Karl Barth, 379) e le recensioni suscitate (un lungo elenco nella nostra selezione bibliografica: p. 377). Edizioni: J. LE PLAT, Monumentorum ad historiam Concilii Tridentini potissimum illustrandam spectantium amplissima collectio, 7 voll., Lovanio, 1781-1787; Concilium Tridentinum. Diariorum, Actorum» Epistolarum Tractatum nova collectio, Freiburg-im-B., 1901 ss. (a cura della GŌRRES GESELSCHAFT, interessa per la sess. VI il vol. 5); H. DENZINGER-A. SCHOEMMETZER, Enchiridion symbolorum, definitionum et declaratìonum de rebus fidei et morum, Barcellona-Friburgo, 1965 (33a ediz.; per il nostro tema: nn. 1540-1541 e 1565-1567). Studi generali: P. RICHARD, Concile de Trente, Paris, 1930-1931 (vol. IX/1-2 della Storia dei Concili di J. HEFELE-H. LECLERCQ); A. MICHEL, Les décrets du Concile de Trente, Paris, 1938 (vol. X/1 della medesima); H. JEDIN, Geschichte des Konzils von Trient, 5 voll., Freiburg-im-B., 1949 ss. (trad. ital.: Brescia, 1958-1981; per il punto specifico: vol. II, 332-334 della trad. ital.); G. SCHREIBEN hrsg., Das Weltkonzil von Trient. Sein Werden und Wirken, 2 voll., Freiburg-im-B., 1951; Il Concilio Tridentino. Prospettive storiografiche e problemi storici, Milano, 1965; I. ROGGER ed. Il Concilio di Trento e la Riforma tridentina, 2 voll., Roma, 1966. Studi specifici: J. HEFNER, Die Entstehungsgeschichte des Trienter Rechtfertigungsdekretes, Pacerbon, 1909: H. RUECKERT, Die Rechtfertigungslehre auf dem Tridentinischen Konzil, Bonn, 1925; E. STAKEMEIER, Glaube und Rechtfertigung, Freiburg-im-B, 1937; A. STAKEMEIER, Das Konzil von Trient über die Heilgewissheit, Heidelberg, 1947; F. BUUCK, Zum Rechtfertigungsdekret, in Das Weltkonzil, 117-143; F. J. SCHIERSE, Das Trimterkonzil und die Frage nach der christlichen Gewissheit, in Das Welikpnzil, 145-167; V. HEYNCK, Zur Kontroverse über die Gnadengewissheit auf dem Konzil von Trient, «Franzisk. Studien», 37, 1955.. 1-17 e 161-188; P. BRUNNER, Die Rechtfertigungslehre des Konzils von Trient, in Festgabe Kard. Jaeger und Bischof Stählin, Kassel, 1963, 59-96. Sulla reazione di Calvino a Trento (registrata da Barth): Corpus Reformatorum, VII; G. BAVAUD, La

doctrine de le justification d’après Calvin et le Concile de Trente, «Verbum Caro», 1968, 83- 92; T. W. CASTEEL, Calvin and Trent: Calvins reaction to the Council of Trent in the context of his Conciliar Thought, «Harvard Theological Review», 63, 1970, 127-172. Si troveranno ulteriori informazioni in H. JEDIN: Geschichte (opera assolutamente imprescindibile); Das Konzil von Trient. Ein Überblick über die Erforschung seiner Geschichte, Roma, 1948 (importantissimo per le fonti); Kirche des Glaubens, Kirche der Geschichte, 2 voll., Freiburg, 1966 (trad. ital. con introd. di G. ALBERIGO: Brescia, 1972). b. La teologia cattolica post-tridentina è molto ricca di controversie (si rammentino la controversia «de auxiliis», la controversia baiana, la controversia giansenista) e di dialettica scolastica (si ricordino le posizioni differenziate dei teologi agostiniani, tomisti e gesuiti) con figure non prive di rilievo; K. Barth tuttavia non entra in dialogo con questo fenomeno, anche perché taluni aspetti rivivono, in forme un po’ diverse, nella tradizione confessionale protestante; vi è però qualche sporadico accenno da un lato alla questione del sinergismo e dall’altro al problema della «scientia media», in cui grazia e libertà sono legate «simultaneamente». Si rimanda ai manuali «de gratia Christi» (in particolare CH. BAUMGARTNER, pp. 121-145 con abbondante bibliografia e G. BIFFI, pp. 90-112 di notevole chiarezza), alle opere generali cit. n. 1 ed al prezioso saggio di H. RONDET, Prédestination, grâce et liberté, in Essais sur la théologie de la grâce, Paris, 1964, 201-242 (ove sono notati anche i tentativi moderni in questa linea). c. Accenni importanti e di durezza teologica notevole si trovano nei riguardi della mistica protestante; Barth vi vede la morte progressiva della riflessione teologica (KD I/2, 348 ss.; II/1, 9 s., 216 s., 703 s.; IÏ/2, 121 s., 174 s.; IV/2, 567 ss.; IV/4, 17 s., fra i principali testi) e la via che apre alla riduzione di Schleiermacher e del neoprotestantesimo (KD I/2, 5 ss., 62 s., 619 s., 634 s., 641 ss., 686 s.; II/1, 323 SS.; II/2, 593 SS.; IV/1, 413 SS., 787 ss.; IV/2, 6 s., 60 ss., fra i principali testi); il riferimento è qui GERHARD TERSTEEGEN (1697-1769), rappresentante della mistica riformata (KD I/2, 277 s.; II/2, 121; III/2, 640; III/4, 628; IV/1, 797; IV/3, 635, 652) che un tempo aveva riscosso i consensi di Barth, giovane vicario liberale a Ginevra (G. Tersteegen, «Gemeinde-Blatt Genf», 1910, n. 40; cfr. E. BUSCH, Karl Barth, 52). Sulla mistica protestante in generale basti riferirsi agli eccellenti studi di L. BOUYER, La spiritualité protestante et anglicane, in Histoire de la spiritualité chrétienne, III/1, 81-291 e di H. JAEGER,

La mystique protestante, in La Mystique et les mystiques, Paris, 1967 ove si troveranno numerose altre indicazioni. Su Tersteegen (un saggio della sua spiritualità si può avere in P. ETIENNE, Spiritualité protestante, Namur, 1965, 87-97 con al’ cune pagine tratte da Weg der Wahrheit, per la cui ediz. integrale si preferisca quella di Basel-Stuttgart, 1905): K. BARTHEL, Tersteegen’ s Leben, Bielefeld, 1852; H. FORSTHOFF, Die Mystik in Tersteegen’s Liedern, Bonn, 1918; R. ZWETZ, Die dichterische Persönl. G. Terteegen’s, Jena, 1925; F. WINTER, Die Frömmigkeit G. T. in ihren Verhältniss zur französische-quietistischen Mystik, Neuwied, 1927; G. WOLTER, G. T. geistliche Lyrik, Marburg, 1929; W. BLANKENNAGEL, Tersteegen als religiöser Erzieher, Köln, 1934; F. WEINHANDL, G. T.: Gott ist gegenwärtig, Stuttgart, 1955 (antologia con eccellente introduzione); A. PAGEL, G. T.: ein Leben in der Gegenwart Gottes, Giessen, 1960; C. P. VAN ANDEL, Gerhard Tersteegen, Utrecht, 1961; GIOVANNA DELLA CROCE (G. VON BROCKHUSEN), Gerhard Tersteegen, Bern-Frankfurt, 1980. d. Fra i pensatori moderni nessuno, ad eccezione di E. Kant, occupa nella nostra sezione un posto di rilievo. Sono menzionati John Milton per la sua opposizione alla dottrina calvinista della predestinazione (cfr. l’interpretazione e la ricca bibliografia date da E. G. LÉONARD, Histoire, II, 272-275 e 393-395), Benjamin Franklin per una certa qual interpretazione del calvinismo (cfr. E. G. LÉONARD, Histoire, II, 40), Max Weber per la celebre tesi sull’etica protestante (cfr. supra) e come rappresentanti dell’individualismo antropocentrico J. J. Rousseau (KD II/2, 569; III/1, 465; il saggio dedicatogli in Die protestantische Theologie im 19. Jahrhundert, esistente anche isolato in Images du XVIII siècle, pp. 79-151 con una precisa nota di M. BRASPART e in Filosofia e rivelazione, con le preziose annotazioni di V. VINAY, pp. LXI-LXV), F. D. Schleiermacher, S. Kierkegaard, Max Stirner (KD I/2, 46; II/1, 505; II/2, 338, 569; III/2, 22), Friedrich Nietzsche (KD I/2, 497; II/2, 338, 569; III/1, 382, 466; III/2, 276-290, 334, 349 s.; III/4, 369, 429, 446; IV/1, 208, 480, 679; IV/2, 522; IV/3, 722) e Heinrik Ibsen (KD III/1, 466; IV/1, 679). Per un approccio globale si veda sia De protestantische Theologie im 19. Jahrhundert (alla trad. francese occorre integrare quanto manca) e sia Evangelische Theologie im 19. Jahrhundert, Zollikon-Zürich, 1957. Per Kant, Schleiermacher e Kierkegaard è necessario un riferimento più puntuale. Emmanuele Kant è considerato nella sua globalità; tuttavia l’attenzione si

porta soprattutto su Die Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft del 1793 (ediz. di Berlino, VI, 1915; trad. franc.: J. GIBELIN, Paris, 1943, ripresa nel 1965; trad. ital.: a cura di M. OLIVETTI, Bari, 1980) e su Der Streit der Fakultäten del 1978 (ediz. di Berlino, VII, 1917; trad. frane.: J. GIBELIN, Paris, 1965); cfr. il saggio in Die protestantische Theologie (=La Théologie protestante, 135-174 soprattutto le pp. 138 s., 142 s., 147, 164- 167, 171-173) e KD I/1, 201; I/2, 10, 53, 878 s.; II/1, 302, 349, 522; II/2, 21, 23, 724 s., 730; III/1, 47, 49, 466; III/2, 92 s.; III/3, 357 s., 392; IV/1, 420 s., 552; IV/2, 887, 901, 905; IV/3, 608, 643 (fra i principali testi). Cfr. P. HEINTEL, Die Stellung der transzendentalen Aesthetik in der Kritik der reinen Vernunft, «Wiener Zeitschrift für Phil, Psycol., Päd.», 8, 1965, 65 ss. (importante per le linee rinnovanti l’interpretazione generale); I. L. BRUCH, La philosophie religieuse de Kant, Paris, 1968; I. MANCINI, Kant e la religione, Assisi, 1972. Quanto poi Kant abbia accompagnato la formazione di Barth lo si può vedere consultando gli indici onomastici di H. BOUILLARD, Karl Barth, vol. 1 (1957) ed. E. BUSCH, Karl Barth (1976). Friedrich Ernst Daniel Schleiermacher è per Barth una presenza costante. Nella KD è citato 137 volte con ampia discussione. Ecco i principali testi: I/1, 8, 35, 63, 160, 200, 212, 220, 293, 298 s, 327, 341, 431; I/2, 10, 87, 112 s., 135, 147 s., 197, 213, 316 s., 601 s., 623 s., 681 s., 878 s., 882 s., 893, 909, 928; II/1, 196 s., 217, 303, 368 s., 380 s., 416, 555 s., 595 s., 713 s.; II/2, 582 s., 601 603 ss., 614; III/2, 10, 92, 463; III/3, 132, 365-383, 397 s., 480 s.; III/4, 134, 137 s., 171 s., 195, 212 s., 216, 226 s., 248, 252, 345-347, 440, 518, 537, 591; IV/1, 51 s, 169, 415, 420 s., 424 s., 733; IV/3, 863 s.; IV/4, 207. Si vedano inoltre Die Theologie Schleiermachers: Vorlesungen Göttingen Wintersemester 1923-1924, hrsg. D. RITSCHL (Gesamtausgabe: 2: Akademische Werke), Zürich, 1978; Brunners Schleiermacherbuch, «Zwischen den Zeiten», 1924/8, 49-64; Schleier machers Weihnachtsfeier, «Zwischen den Zeiten», 3, 1925, 38-61 (ripreso in Die Theo und die Kirche, 106 ss.); Schleiermacher, «Zwischen den Zeiten», 5, 1927, 422464 (ripreso in Die Theologie und die Kirche, 136 ss.); Das Wort in der Theologie von Schleiermacher bis Ritschl, «Zwischen den Zeiten», 6, 1928, 92109 (ripreso in Die Theologie und die Kirche, 190 ss.); Schleiermacher, «Berliner Tageblatt» 24-2- 1934; il saggio in Die protestantische Theologie (La Théologie protestante, 233-273; anche in Filosofia e rivelazione, 433-518);

Nachwort um Schleiermacher, in H. BOLLI hrsg., Schleiermacher Auswahl, München-Hamburg, 1968, 290-312 (integrato come appendice in La Théologie protestante, 445-465); si cfr. anche l’indice onomastico nel volume di E. BUSCH, Karl Barth (1976) per situare meglio i singoli contributi. Su Schleiermacher: 1) bibliografia: T. N. TICE, Schleiermacher Bibliography, Princeton, 1966 (fino al 1964) e G. MORETTO (v. infra), 553-562 (fino al 1977); 2) in generale: B. GHERARDINI, La seconda riforma, Brescia, 1964, vol. I, 3-66; G. VATTIMO, Sch. filosofo dell’interpretazione, Milano, 1968; II Centenaire de la naissance de Schleiermacher, «Archives de Philosophie», 32, 1969, 5-128 (H. BOUILLARD, M. SCHMIDT, H. G. GADAMER, H. KIMMERLE, M. SIMON, R. STALDER: i migliori specialisti fanno il punto nei settori essenziali); R. STALDER, Grundlinien der Theologie Schleiermachers: I: Zur Fondarne ntaltheologie, Wiesbaden, 1969; H. J. BIRKNER, Theologie und Philosophie. Einführung in Probleme der Schleiermacher-Interpretation, München, 1974; M. SIMON, La philosophie de la religion dans l’oeuvre de Schleiermacher, Paris, 1974; T. H. JOERGENSEN, Das religionsphilosophische Offenbarungsverständnis des späteren Schleier macher, Tübingen, 1977; S. SORRENTINO, Schleiermacher e la filosofia della religione, Brescia, 1978 (il primo capitolo: pp. 7-83 costituisce una preziosa, equilibrata ed abbondante rassegna di studi); G. MORETTO, Etica e storia in Schleiermacher, Napoli, 1979; E. SCHROFNER, Theologie als positive Wissenschaft-Prinzipien und Methoden der Dogmatik bei Schleiermacher, Bern-Frankfurt, 1980; 3) studi particolari: T. RENDTORFF, Kirchlicher und freier Protestantismus in der Sicht Schleiermachers, «Neue Zeitschrift für syst., Theologie und Religionsphilosophie», 1968, 18-30; G. EBELING: parecchi articoli ora riuniti in Wort und Glaube, II, 305-342 (Tübingen, 1969) e III, 60-136 (Tübingen, 1975); P. DÉMANGE: La conscience de soi, lieu du mystère du monde chez Schleiermacher, «International Studies in Philosophy», 1976, 133-144; Anthropologie et théologie, «Etudes philosophiques», 1977, 191-202; Inspiration prophétique et foi chrétienne. Réflexions sur la pensée religieuse de Schleiermacher, in «Cahiers de l’Université Saint-Jean de Jérusalem», 1977, 1529; 4) sulla Kurze Darstellung des theologischen Studiums: ed. di Berlino, vol. I (1843); H. SCHOLZ (Leipzig, 1910; Darmstadt, 1973); R. OSCULATI (Brescia, 1980); B. GHERARDINI, La genest della Enciclopedia di Schleiermacher, «Divinitas», 23,

1979, 88-107; 5) su Reden über die Religion: ed, di Berlino, vol. I (1843); J. ROUGE (Paris, 1944); G. DURANTE (Firenze, 1947); F. HERTEL, Das theologische Denken Schleiermachers untersucht an der ersten Auflage seiner Reden über die Religion, Zürich, 1965; 6) su Der christliche Glaube: ed. di Berlino, voll. 3-4 (1843); M. REDEKER (Berlin, 1960); S. SORRENTINO (Brescia, 1981: finora solo il vol. 1); H. J. BIRKNER, Schleiermacher christliche Sittenlehre im Zusammenhang seines philosophisch-theologischen Systems, Berlin, 1964; D. OFFERMANN, Schleiermachers Lehre von Gott dargestellt nach seinen Reden und seiner Glaubenslehre, Göttingen, 1970; H. PEITER, Theologische ldeologiekritik. Die praktischen Konsequenzen der Rechtfertigungslehre bei Schleiermacher, Göttingen, 1977; J. E. THIEL, God and World in Schleiermacher s Dialektik and Glaubenslehre, Bern-Frankfurt, 1981. Sören Kierkegaard è citato 23 volte nella KD (principali testi: I/1, 115; I/2, 424 s., 817; IV/1, 769, 828; IV/2, 848, 886 s.; IV/3, 135, 467-470), mentre all’epoca del Roemerbrief del 1922 era una presenza costante e soprattutto ispiratrice; i motivi dello spostamento sono indicati chiaramente in Dank und Reverenz, «Evangelische Theologie», 1963, 337 ss. (in occasione del conferimento del premio Sonning) e in Kierkegaard und die Theologen, «Kirchenblatt für die reformierte Schweiz», 119, 1963, 150 ss. (ripreso in «Réforme», 11-5-1963); cfr. anche E. BUSCH, Karl Barth, 154, 376, 423. Cfr. 1) in generale: W. RUTTENBECK, Sören Kierkegaard: der christliche Denker und sein Werk, Berlin, 1929; J. WAHL, Etudes Kierkegaardiennes, Paris, 1938 (ristampa: 1965); C. FABRO ed., Studi Kierkegaardiani, Brescia, 1960 (eccellente raccolta); M. GRIMAULT, La mélancolie de Kierkegaard, Paris, 1966; H. FISCHER, Die Christologie des Paradoxes. Zur Herkunft und Deutung des Christusverständnisses S. Kierkegaards, Göttingen, 1970; J. COLETTE, Histoire et absolu. Essai sur Kierkegaard, Paris, 1972; M. CORNU, Kierkegaard et la communication de l#x2019;existence, Lausanne, 1972; N. VIALLANEIX: Kierkegaard: l’unique devant Dieu, Paris, 1974 e Ecoute, Kierkegaard, 2 voll., Paris, 1977; ed inoltre le egregie introduzioni di C. FABRO alle trad. ital. del Diario (1a ediz.: Brescia, 1948; 2a ediz.: Brescia, 1962; 3a ediz.: Brescia, 1981), delle Briciole (Bologna, 1962) e della Postilla (Bologna, 1962); 2) studi specifici: a) H. BOUILLARD, La foi d’après Kierkegaard, «Bulletin de Littérature Ecclesiastique», 1947, 19 ss. (=

Logique de la foi, Paris, 1964); C. FABBO, Fede e ragione nella dialettica di Kierkegaard (1948), in Dall’essere all’esistente, Brescia, 1965, 2a ediz., pp. 127187; G. BORTOLASO, Interiorità ed esistenza: la «Postilla», («Civiltà Cattolica», 1963, IV, 132-140; P. FRUCHON, Kierkegaard et l’historicité de la foi, «Recherches de Science Religieuse», 60, 1972, 329-363 e 61, 1973, 321-352; b) P. A. STUCKI, Le christianisme et l’histoire d’après Kierkegaard, Basel, 1963; G. BORTOLASO, Storia e cristianesimo: le «Briciole’», «Civiltà Cattolica», 1963, II, 453-463; H. FRITZSCHE, K. Kritik an der Christenheit, Stuttgart, 1966; c) M. THULSTRUP, Kierkegaards Verhältnis zu Hegel und zum spekulativen Idealismus: historisch-analytische Untersuchung, Stuttgart, 1972; A. CLAIR, Médiation et repétition: le lieu de la dialectique Kïerkegaardienne, «Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques», 59, 1975, 38-78; d) V. LINDSTROM, La théologie de l’imitation de Jésus-Christ chez S. Kierkegaard, «Revue d’Histoire et de Philosophie Religieuses», 35, 1955, 379392 e E. BISER, Im Schatten des Kreuzes. Erwägungen zu Kierkegaards Gedanken der geheimen Passion Jesu, «Geist und Leben», 46, 1973, 324-332. e. Fra gli storici del dogma sono utilizzati Alexander Schweizer (1808-1888; il più fedele fra i discepoli ed il più libero fra i continuatori di Schleiermacher; autore di due opere ancora capitali e già menzionate: citato 19 volte nella KD, è oggetto di un importante saggio in Die protestantische Theologie, 516-523 = La théologie protestante, 358-365; cfr. D. CHRIST, in Redencyclopädie für protest. Theologie und Kirche, XVIII, 66-72; O. PFLEIDERER, Die Entwicklung der protest. Theologie, Freiburg-im-B., 1891, 123-128; B. GHERARDINI, La seconda riforma, vol. I, 205-210), Heinrich Heppe (cfr. Zum Geleit a H. HEPPE-E. BIZER, Die Dogmatik, VII-X, testo del 1935 e E. BUSCH, Karl Barth, 139 s.), G. Schrenk (come studioso di Coccejus: cfr. KD II/2, 123; IV/1, 58 s.). Fra gli studiosi del calvinismo Heinz Otten (7 volte), Wilhelm NieseJ (6 volte nella KD di cui 4 qui; cfr. E, BUSCH, Karl Barth, 119, 133, 160, 205, 210, 216; Niesel fu allievo di Barth a Göttingen e suo dottorando, rivestì un ruolo notevole nella chiesa confessante, in ogni occasione seppe alleare la più intelligente ricerca alla fedeltà barthiana), il fratello Peter (cfr. E. BUSCH, Karl Barth, 17 s., 133, 272) e Loraine Boettner (autore severamente, ma giustamente criticato). Barth si riferisce anche al Congresso Internazionale di Teologia calvinista tenuto a Ginevra nel 1936, indubbiamente un avvenimento culturale di prim’ordine, in

cui Barth vede sbocciare una revisione possibile della dottrina calvinista della predestinazione negli interventi del fratello Peter (KD II/2, 207-214), di Rudolf Abramovski (KD II/2, 210) e di Pierre Maury (KD II/2, 168 e 210; si veda la prefazione data dal Barth a La prédestination, Genève, 1957; cfr. E. BUSCH, Karl Barth, 219, 247, 263, 273, 375) pur in un insieme ancora invecchiato (cfr. E. BUSCH, Karl Barth, 247); il congresso con gli interventi citati aiuta non poco Barth nella sua ricerca (cfr. E. BUSCH, Karl Barth, 247 s.); i primi frutti sono riconoscibili in Gottes Gnadenwahl, München, 1936. Fra gli esegeti sono citati soprattutto Theodor Zahn (3 volte nella KD) Adolf Schlatter (31 volte nella KD, cfr. E. BUSCH, Karl Barth, 16 s., 38, 42 s., 74, 89; cfr. B. GHERARDINI, La seconda riforma, vol. I, 358-361; A. BAILER, Das Systematische Prinzip in der Theologie A. Schlatters, Stuttgart, 1968; G. EGG, A. Schiatters Kritische Position gezeigt an seiner Matthäusinterpretation, Stuttgart, 1968; K. H. RENGSTORF, in Lessico dei teologi del secolo XX, a cura di P. VANZAN e H. J. SCHULTZ, Brescia, 1978, 46-51; P. STUHLMACHER, «Zeitschrift für Theologie und Kirche», 1978, 81 ss.), Hans Lietzmann (citato 8 volte nella KD), Gottlob Schrenk (KD II/2, 126, 474, 477; ugualmente illustre in questo campo), Erik Peterson (citato 15 volte nella KD; principali testi al di fuori della nostra sezione: III/3, 443 s., 551 s., 555 s., 563-566; cfr. E. BUSCH, Karl Barth, 121, 132, 146, 178; cfr. F. BOLGIANI, Dalla teologia liberale alla escatologia apocalittica: il pensiero e l’opera di Erik Peterson, «Rivista di Storia e di Letteratura Religiosa», I, 1965, 1-58), Ernst Ferdinand Stroeter (citato 3 volte) e fra i più antichi Christoph Starke (citato 4 volte nella KD).

INDICI

INDICE DEI PASSI BIBLICI1 Genesi: (III). (III, 8). (IV). (IV, 4). (IV, 5). (IV, 6). (IV, 13). (IV, 14). (IV, 15 s.). (V, 24). (VI, 8). (VI, 9). (VII, 1). (IX, 14). (IX, 26). (XI, 26). (XII, 1). (XII, 3). (XV, 6). (XVII, 5). (XVII, 7 s.). (XVII, 18). (XVII, 19). (XVII, 20). (XVIII, 10). (XVIII, 11). (XVIII, 12 s.). (XXI, 12). (XXI, 17 s.). (XXII, 12). (XXII, 16). (XXV, 23). (XXV, 24 s.). (XXVII, 38 s.). (XXIX, 30 ss.). (XXX, 23 s.). (XXXV, 22). (XXXVI). (XXXVII, 3). (XXXVIII). (XLV, 7). (XLVIII). (XLVIII, 13 s.). (XLVIII, 17 ss.). (XLIX, 2 ss.). (XLIX, 8 ss.). (XLIX, 9). Esodo:

(II, 1 s.). (II, 15 s.). (III, 1 s.). (III, 14). (IV, 22). (VIII, 8). (VIII, 12). (VIII, 28). (VIII, 30). (IX, 15 s.). (IX, 27). (IX, 28). (IX, 33). (X, 16). (X, 17). (X, 18). (X, 23). (XVII, 8 ss.). (XVIII, 1 s.). (XX, 5). (XXIII, 16). (XXXII, 1 s.). (XXXII, 13). (XXXII, 32). (XXXIII, 11). (XXXIII, 16). (XXXIII, 19). Levitico: (XIV, 4-7). (XIV, 15 s.). (XVI, 5 ss.). (XVI, 8). (XVI, 15 s.). (XVI, 21 s.). Numeri: (X, 29 s.). (XV, 18). (XVII, 8 ss.). (XXII s.). Deuteronomio: (II, 9). (II, 19). (VIII, 5). (X, 14 s.). (XXIII, 7 s.). (XIX, 2-5). (XIX, 4). (XXX, 12 ss.). (XXXII, 21). Giosuè:

(II, 1 s.). (VI, 23). (IX, 27). Giudici: (IX, 1 ss.). (XI, 15). (XIX-XXI). (XX-XXI). Ruth: (I, 4). (I, 16). (II, 11). I Samuele: (I-IV). (II, 6). (VIII). (VIII, 1). (VIII, 5). (VIII, 6). (VIII, 7 s.). (VIII, 10 s.). (VIII, 11-17). (VIII, 18). (VIII, 20). (VIII, 22). (IX-X). (IX, 2). (IX, 16). (X, 1). (X, 9). (X, 10). (X, 12). (X, 19). (X, 20 s.). (X, 24). (X, 27). (XI, 6). (XI, 12 s.). (XI, 15). (XII, 1). (XII, 12). (XII, 13). (XII, 16-23). (XII, 17). (XII, 19). (XII, 22). (XII, 24). (XII, 25). (XIII). (XIII, 9).

(XIII, 14). (XIV, 24). (XIV, 38 s.). (XIV, 43 ss.). (XV, 21). (XV, 22 ss.). (XV, 24). (XV, 30 s.). (XV, 31). (XV, 32 ss.). (XV, 35). (XVI, 1 ss.). (XVI, 6-12). (XVI, 15). (XVI, 18). (XVI, 23). (XVII). (XVII, 45). (XVII, 50). (XVIII, 1). (XVIII, 3). (XVIII, 5). (XVIII, 8). (XVIII, 10 ss.). (XVIII, 10). (XVIII, 12). (XVIII, 14). (XVIII, 30). (XIX, 23). (XIX, 24). (XX, 3). (XX, 8). (XX, 13). (XX, 17). (XX, 23). (XX, 42). (XXI, 11 ss.). (XXII, 6 ss.). (XXIII, 2 s.). (XXIII, 17). (XXIV, 7). (XXIV, 17 s.). (XXIV, 21). (XXV, 28). (XXVI, 9 s.). (XVI, 20). (XXVI, 21 s.). (XXVI, 25). (XXVII, 1 s.). (XXVII, 8 s.).

(XXVIII, 1 s.). (XXVIII, 9). (XXIX, 1 s.). (XXX, 1 s.). (XXX, 8). II Samuele: (I, 1 s.). (I, 4 s.). (I, 14). (I, 21). (I, 24). (I, 26). (II, 1 ss.). (II, 4 s.). (III, I). (III, 17). (IV). (V-VIII). (V, 1 ss.). (V, 6 s.). (V, 10). (V, 11). (V, 12). (V, 17 ss.). (V, 19 s.). (VI). (VI, 21). (VII). (VII, 2). (VII, 3). (VII, 8). (VII, 11 ss.). (VII, 14). (VII, 18-29). (VIII). (VIII, 13). (VIII, 15). (IX). (IX, 10 s.). (IX, 12). (X). (XI-XII). (XI). (XII). (XII, 5). (XII, 7). (XII, 9). (XII, 13 s.). (XII, 20 ss.). (XIV, 17).

(XIV, 20). (XV-XIX). (XV, 7). (XVII, 3). (XVII, 23). (XVIII, 33). (XIX, 28). (XX). (XXI, 1 ss.). (XXIII, 3 s.). (XXIII, 13 ss.). (XXIV). (XXIV, 17). I Re: (II). (II, 1). (II, 11). (II, 34). (III, 9 ss.). (V, 3). (VIII, 16). (VIII, 18). (XI). (XI, 4 ss.). (XI, 13). (XI, 26 s.). (XI, 32). (XI, 36). (XI, 38 s.). (XI, 39). (XII). (XII, 20). (XII, 32 s.). (XIII). (XIII, 1-5). (XIII, 6-10). (XIII, 11-19). (XIII, 20-26). (XIII, 27-32). (XIII, 33-34). (XIV, 21). (XIX, 15 ss.). (XIX, 18). (XX, 15). (XXI). (XXII, 33). II Re: (XXIII, 15-20). (XXIII, 27). (XXIV, 16).

(XXV, 27 ss.). I Cronache: (I). (XXII, 14 s.). (XXVIII, 11-19). II Cronache: (VI, 6). (XX, 7). Neemia: (IX, 7). Salmi: (II, 7). (II, 8). (VIII, 5). (XVI, 8 ss.). (XIX). (XIX, 5). (XXX, 6). (XLI, 10). (XLV, 7 s.). (LXIX, 23 s.). (LXIX, 26). (LXIX, 29). (LXIX, 33 ss.). (LXXVIII, 70). (LXXXII, 6 s.). (LXXXIX, 4). (XCIV, 14). (CIII, 2). (CIII, 11 s.). (CIII, 14). (CV, 26). (CVI, 23). (CIX, 8). (CX, 4). (CXVIII, 22). (CXIX, 50). (CXIX, 92). (CXXVII, 2). (CXXX, 5). Proverbi: (VIII, 22 s.). (XVI, 4). Isaia: (I, 8 s.). (II, 2-4). (VII, 14). (IX, 7). (X, 20 ss.).

(XI, 1). (XI, 10). (XXV, 6). (XXVIII, 16). (XXIX, 9 ss.). (XXIX, 13). (XIX, 16). (XL, 8). (XLI, 8). (XLII, 1). (XLII, 6). (XLV, 23). (XLIX). (XLIX, 7). (LII, 7). (LIII, 1). (LIII, 2). (LIII, 9 s.). (LIV, 7 s.). (LIV, 9). (LIV, 10). (LV, 3). (LIX, 19). (LIX, 20). (LXII, 8). (LXIII, 9). (LXV, 1). (LXV, 2). Geremia: (III, 17). (XVIII, 1-10). (XVIII, 4). (XXII, 24-30). (XXXI, 9). (XXXI, 33 s.). (XXXII, 6 ss.). (XXXII, 15). (XXXII, 40). (L, 5). (L, 25). Ezechiele: (XVI, 60). (XVIII, 23). (XXXVII). (XXXVII, 26). Daniele: (VII, 13 s.). Osea: (I, 3-9). (II, 1-3).

(II, 1). (II, 23). (II, 25). (XI, 1). Gioele: (III, 5). Amos: (I, 2). (III, 8). (IV, 11). (VI, 5). (VII, 10 s.). (VII, 14). (VII, 15). Michea: (V, 1). Aggeo: (II, 23). Zaccaria: (II, 11). (III, 2). (IV). (IV, 6). (VIII, 20 ss.). (XI, 4-17). (XI, 9). (XI, 12 s.). (XI, 17). Malachia: (I, 2 s.). Matteo: (I, 3). (I, 5). (III, 17). (IV, 1-11). (IV, 12). (V, 14 ss.). (V, 17). (V, 25). (V, 26). (IX, 9 s.). (IX, 35 ss.). (X). (X, 1). (X, 4). (X, 5 ss.). (X, 6 ss.). (X, 8 ss.). (X, 17 ss.).

(X, 21). (X, 24 ss.). (X, 26 ss.). (X, 32 s.). (XI, 17). (XI, 27). (XII, 31 s.). (XII, 46 ss.). (XIII, 10 ss.). (XIV, 22 ss.). (XIV, 26). (XVI). (XVI, 13). (XVI, 15). (XVI, 16). (XVI, 17). (XVI, 18 s.). (XVI, 20). (XVI, 21 ss.). (XVI, 24 s.). (XVII, 1 ss.). (XVII, 4). (XVII, 6). (XVII, 14 s.). (XVII, 20 ss.). (XVIII, 1 s.). (XVIII, 34). (XX, 17 ss.). (XX, 20 s.). (XX, 24 ss.). (XX, 28). (XXI, 11). (XXI, 46). (XXII, 14). (XXIII, 27). (XXIII, 29). (XXIII, 37). (XXIV, 5). (XXIV, 22). (XXIV, 29 ss.). (XXIV, 33). (XXIV, 34). (XXIV, 35). (XXIV, 43 ss.). (XXV, 1 ss.). (XXV, 41). (XXVI). (XXVI, 2). (XXVI, 5). (XXVI, 8).

(XXVI, 11). (XXVI, 14). (XXVI, 15). (XXVI, 22). (XXVI, 26 ss.). (XXVI, 40). (XXVI, 45). (XXVI, 53). (XXVI, 55). (XXVI, 56). (XXVI, 75). (XXVII, 2). (XXVII, 3 ss.). (XXVII, 5). (XXVII, 8). (XXVII, 9 s.). (XXVII, 18). (XXVII, 26). (XXVII, 59 s.). (XXVIII). (XXVIII, 16). (XXVIII, 17). (XXVIII, 18 s.). (XXVIII, 19). (XXVIII, 20). Marco: (I, 14). (I, 17). (II, 17). (III, 13). (III, 14 s.). (III, 16). (III, 19). (III, 34). (IV, 11). (IV, 13). (IV, 35 ss.). (IV, 38). (VI, 30 ss.). (VI, 51 ss.). (VII). (VII, 6 ss.). (VII, 8 s.). (VII, 13). (VIII, 30). (IX, 24). (X, 14). (X, 31). (X, 35 s.). (XII, 42).

(XIII). (XIII, 1 s.). (XIII, 37). (XIV, 4). (XIV, 7). (XIV, l0 s.). (XIV, 18 s.). (XIV, 21). (XIV, 47). (XV, 1). (XV, 15). (XV, 38 s.). (XVI, 9-20). (XVI, 17). Luca: (I, 1 s.). (III, 33). (IV, 6). (V, 4 ss.). (V, 8). (VI, 12). (VI, 13). (VI, 16 ss.). (VII, 16 s.). (VIII, 24). (IX, 1 ss.). (IX, 35). (IX, 57 ss.). (X, 1 ss.). (X, 16). (X, 20). (X, 21 S.). (X, 41). (XI, 27). (XI, 33). (XII, 2 s.). (XII, 35 ss.). (XIII, 8). (XIII, 28). (XIV, 25 ss.). (XV, 7). (XV, 32). (XVII, 7 ss.). (XVIII, 8). (XIX, 10). (XXI, 24). (XXI, 36). (XXII, 3 s.). (XXII, 21). (XXII, 22).

(XXII, 23). (XXII, 28 s.). (XXII, 31 s.). (XXII, 46). (XIII, 3 s.). (XXIII, 33). (XXIII, 34). (XXIII, 35). (XXIII, 41). (XXIV, 7). (XXIV, 13-35). (XXIV, 27 s.). (XXIV, 36 s.). (XXIV, 46 s.). (XXIV, 49). Giovanni: (I, 1-2). (I, 1). (I, 2). (I, 3). (I, 4). (I, 5). (I, 7 s.). (I, 9). (I, 10). (I, 11). (I, 14). (I, 15 s.). (I, 16). (I, 18). (I, 19). (I, 29). (III, 3). (III, 16). (III, 17). (III, 35). (IV, 22). (IV, 34). (V-VIII). (v, 19). (V, 21). (V, 26). (V, 30). (VI, 14 s.). (VI, 33). (VI, 37). (VI, 39). (VI, 44 s.). (VI, 51). (VI, 64).

(VI, 65). (VI, 68 s.). (VI, 70 s.). (VIII, 12). (VIII, 56 s.). (IX, 5). (X, 28 s.). (X, 34 s.). (XI, 9). (XI, 50). (XII, 1-8). (XII, 3 s.). (XII, 6). (XII, 34). (XII, 46). (XIII). (XIII, 1). (XIII, 2). (XIII, 3). (XIII, 7). (XIII, 8). (XIII, 9). (XIII, 10 s.). (XIII, 14). (XIII, 18 s.). (XIII, 21). (XIII, 22 ss.). (XIII, 27). (XIII, 30). (XIV, 1). (XIV, 6). (XIV, 10). (XIV, 28). (XV, 1 ss.). (XV, 4 ss.). (XV, 14 ss.). (XV, 16). (XV, 19). (XVII, 1-5). (XVII, 2). (XVII, 5). (XVII, 6). (XVII, 9). (XVII, 10). (XVII, 12). (XVII, 18 s.). (XVII, 24). (XVIII, 1-12). (XVIII, 3 s.). (XVIII, 30).

(XVIII, 35 s.). (XIX, 5). (XIX, 11). (XIX, 16). (XIX, 22). (XX, 21 s.). (XX, 23). Atti: (I, 8). (I, 15 ss.). (I, 17). (I, 18 ss.). (II, 14 s.). (II, 21). (II, 23). (II, 25 ss.). (II, 29 ss.). (II, 41). (III, 12 s.). (IV, 4). (IV, 8 s.). (IV, 12). (IV, 27 s.). (V, 14). (VII). (VII, 1 s.). (VII, 39 ss.). (VII, 42). (VII, 52). (VII, 53). (VII, 55 s.). (VII, 60). (VIII, 3). (IX, 1 s.). (IX, 15). (X, 38). (XII, 4). (XIII). (XIII, 21 ss.). (XIII, 32 s.). (XIII, 34). (XIII, 35 ss.). (XIII, 46). (XVII, 28). (XVIII, 5). (XVIII, 6). (XIX, 28 s.). (XXI, 11). (XXII, 1 s.). (XXII, 4 s.).

(XXII, 14 s.). (XXVI, 10 s.). (XXVI, 16 ss.). (XXVII, 1). (XXVIII, 16). (XXVIII, 17). (XXVIII, 23). (XXVIII, 28). Romani: (I). (I, 1 s.). (I, 4). (I, 13-16). (I, 16). (I, 17). (I, 18 ss.). (I, 18-III, 20). (I, 24). (I, 26). (I, 28). (II). (II, 9 s.). (II, 14 s.). (II, 26 s.). (III, 2). (III, 4). (IH, 6). (III, 21). (III, 25 s.). (III, 29). (III, 31). (IV, 1). (IV, 3 ss.). (IV, 9-25). (IV, 10 s.). (IV, 13). (IV, 14). (IV, 15). (IV, 16 s.). (IV, 18-21). (IV, 19). (IV, 25). (V, 17). (V, 20). (VI, 2). (VI, 4). (VI, 9). (VI, 15). (VI, 17). (VI, 23).

(VII, 7). (VII, 11 ss.). (VIII). (VIII, 1). (VIII, 22 s.). (VIII, 28 ss.). (VIII, 29-39). (VIII, 29 s.). (VIII, 29-39). (VIII, 30). (VIII, 31). (VIII, 32). (VIII, 33 ss.). (VIII, 35). (IX-XI). (IX). (IX, 1-5). (IX, 1 s.). (IX, 3). (IX, 4 s.). (IX, 6-13). (IX, 6 s.). (IX, 7-10). (IX, 8). (IX, 9). (IX, 10-13). (IX, 11 s.). (IX, 13-29). (IX, 13). (IX, 14-29). (IX, 14 s.). (IX, 15-16). (IX, 15-17). (IX, 15). (IX, 16-18). (IX, 16). (IX, 17). (IX, 18). (IX, 19-21). (IX, 19 s.). (IX, 20-21). (IX, 20-22). (IX, 20). (IX, 21). (IX, 22-23). (IX, 22-24). (IX, 22). (IX, 23-24). (IX, 23). (IX, 24).

(IX, 25-26). (IX, 25-29). (IX, 27 ss.). (IX, 29). (IX, 30). (IX, 30-X, 3). (IX, 30-X, 21). (IX, 30-33). (IX, 31 ss.). (IX, 32). (IX, 32 s.). (X, 1-21). (X, 1). (X, 2 s.). (X, 3). (X, 4-13). (X, 4). (X, 5). (X, 6-8). (X, 6 s.). (X, 8). (X, 9-13). (X, 9). (X, 10). (X, 11). (X, 12-13). (X, 13). (X, 14 s.). (X, 15). (X, 16-17). (X, 16). (X, 17). (X, 18-19). (X, 18-20). (X, 18). (X, 19-20). (X, 19). (X, 20). (X, 21). (XI). (XI, 1-2). (XI, 1-6). (XI, 1-10). (XI, 1-11). (XI, 1). (XI, 2 ss.). (XI, 4). (XI, 5-6). (XI, 5). (XI. 6).

(XI, 7-10). (XI, 7). (XI, 8-10). (XI, 8). (XI, 9-10). (XL 11 ss.). (XI. 11-12). (XI, 11-15). (XI, 11-22). (XI, 11). (XI, 12-15). (XI, 12 ss.). (XI, 13-14). (XI, 13). (XI, 14). (XI, 15). (XI, 16-18). (XI, 16-25). (XI, 16). (XI, 17-18). (XI, 17). (XI, 18). (XI, 19-22). (XI, 19). (XI, 20-21). (XI, 20-22). (XI, 20). (XI, 21). (XI, 22). (XI, 23-24). (XI, 23-36). (XI, 23). (XI, 24). (XI, 25). (XI, 26-27). (XI, 26). (XI, 27). (XI, 28-36). (XI, 28). (XI, 29). (XI, 30-31). (XI, 30-32). (XI, 30). (XI, 31). (XI, 32). (XI, 33-36). (XI, 33). (XI, 34-35). (XI, 36). (XIV, 9).

(XV, 8). (XV, 9). (XV, 16-24). (XVI, 13). I Corinti: (I, 4 s.). (I, 8). (I, 18). (I, 24). (I, 26 ss.). (I, 30). (II, 2). (II, 10). (II, 12). (II, 16). (IV, 7). (V, 1 ss.). (V, 18-19). (V, 19). (VI, 3). (VIII, 6). (IX, 27). (XI, 2). (XI, 23). (XV, 3). (XV, 5). (XV, 8). (XV, 9 ss.). (XV, 10 s.). (XV, 20). (XV, 28). II Corinti: (I, 3). (I, 4 s.). (I, 20). (IV, 4). (IV, 6). (IV, 11). (V, 16). (V, 17). (V, 18). (V, 19). (X, 5). (XII, 9 s.). Galati: (I. 4). (I, 13). (I, 15). (II). (II, 8).

(II, 19). (II, 20). (II, 21). (III, 9). (III, 12). (IV, 4). (IV, 21-31). (IV, 21). (IV, 22). (IV, 26). (IV, 27). (IV, 28). (IV, 30). (IV, 31). (VI, 16). Efesini: (I). (I, 3-4). (I, 3-5). (I, 4). (I, 5). (I, 6). (I, 9-11). (I, 9). (I, 10). (I, 11). (I, 12). (I, 23). (II, 11 ss.). (II, 12). (II, 14 s.). (II, 18). (III, 6). (III, 8). (III, 9). (III, 10 s.). (III, 11). (IV, 19). (V, 1 s.). (V, 2). (V, 25). (V, 25 ss.). Filippesi: (I, 3 s.). (I, 6). (II, 6). (II, 6 s.). (II, 7 s.). (II, 8). (II, 9).

(II, 10). (II, 11). (III, 2). (III, 5). (IV, 3). Colossesi: (I, 3 s.). (I, 15). (I, 17). (I, 18). (I, 19). (I, 24). (II, 2 s.). (II, 9). (II, 10). (III, 3). (III, 10 s.). (III, 12). I Tessalonicesi: (I, 2 S.). (I, 4 ss.). (I, 5). (I, 6 s.). II Tessalonicesi: (I, 3 s.). (II, 13). (II, 15). (III, 16). I Timoteo: (I, 13 s.). (I, 15). (I, 16). (I, 19 s.). (II, 4). (II, 6). II Timoteo: (I, 9). (II, 10). (II, 12). (II, 19). Tito: (I, 1). (I, 2). (II, 11). Ebrei: (I, 2). (I, 3). (II, 11 s.). (III, 1).

(V, 8). (VI, 13). (VII, 16 s.). (VII, 27). (IX, 14). (IX, 26). (XI, 31). (XII, 2). (XIII, 12 s.). Giacomo: (I, 1). (II, 5). (II, 23). I Pietro: (I, 1 s.). (I, 16). (I, 17 ss.). (I, 18). (I, 19 s.). (I, 20). (II, 4 ss.). (II, 9). (II, 12). (III, 1 s.). (III, 16). (ni, 19). (IV, 16). (V, 13). II Pietro: (I, 10). (II, 4). (III, 9). I Giovanni: (I, 1). (I, 2). (II, 2). (II, 20). (II, 27). (III, 9). (III, 24). (V, 18). II Giovanni: (1). (13). Giuda: (3). Apocalisse: (II, 23). (III, 5).

(IV, 4). (IV, 9). (IV, 10). (IV, 16). (V, 5). (V, 9 s.). (VII, 9). (VII, 10). (VII, 15). (XIII, 8). (XIV, 2). (XIV, 4 s.). (XVII, 4). (XVII, 8). (XVII, 14). (XIX, 9). (XIX, 13). (XX, 4). (XX, 12). (XX, 15). (XXI, 8). (XXII, 11). (XXII, 15). (XXII, 16). 1. Il presente indice registra esclusivamente i passi biblici contenuti nel barthiano qui tradotto.

INDICE DEGLI AUTORI1

Abramo di s. Chiara. Abramovski R. Agostino. Alting J. H. Amesius W. Arminius J., Arminiani, Rimostranti. Articoli Irlandesi di Religione. Articoli (i 39). Atanasio. Baden-Durlack E. F. (Margravio di); cfr. Liber Staffort. Baier J. W. Barth P. Beck S. Bernardo di Clairvaux. Beza T. (di). Boettner L. Bonaventura. Breitinger J. J. Bucanus W. Bucero M. Buddeus J. F. Bullinger H.; cfr. anche Confessio Helvetica Posterior. Burmann F. Calov A. Calvino G.; cfr. anche Confessio Gallicana. Castellione S. Catechismo di Heidelberg. Coccejus J. Concili Ecumenici: – Calcedonia. – Nicea. – Trento. Confessioni di fede: – Belgica. – Gallicana. – Helvetica Posterior; cfr. anche Bullinger. – Rhaetica. – Scotica; cfr. anche Knox. – Sigismundi. – Valdensis. – Westminster. – v. anche: Articoli Irlandesi di Religione; Articoli (i 39); Consensus Bremensis; Formula Concordiae; Liber Staffort; Sinodo di Dordrecht. Congresso Internazionale di Teologia Calvinista. Consensus Bremensis. Daub C. Erasmo da Rotterdam.

Filone di Alessandria. Formula Concordiae. Franklin B. Gerhard J. Godescalco d’Orbais. Goethe W. Gomarus F. Gregorio da Rimini. Grob R. Heidanus A. Heideggerus J. H. Heppe H. Hollaz D. Hommes M. J. Hutterus L. Ibsen H. Incmaro di Reims. Isidoro di Siviglia. Jud L. Kant E. Kierkegaard S. A. Knox J.; cfr. anche Confessio Scotica. Koch J. K. Koenig J. F. Lecerf A. Liber Staffort; cfr. Badendurlach E. F. Lietzmann H. Limbach Ph. (van). Loofs A. Lutero M. Maccovius J. Martini M. Mastricht P. (van). Maury P. Melantone F. Meyer W. Milton J. Mueller E. F. K. Naudeus Ph. Niesel W. Nietzsche F. Oorthuys G. Origene. Otten H. Pelagio, Pelagianesimo, Semipelagianesimo. Peterson E. Pier Lombardo. Polanus A. Quenstedt J. A. Rilliet J.

Rimostranti, cfr. Arminius J. Rousseau J. J. Rütimeyer M. Schlatter A. Schleiermacher F. D. Schrenk G. Schuler M. Schulthess J. Schweizer A. Scoto Duns. Sinodo di Dordrecht, (sopralapsarismo-infralapsarismo). Sinossi di Leiden. Sopralapsarismo; infralapsarismo, cfr. Sinodo di Dordrecht. Speratus P. Starke Ch. Stirner M. Ströter E. F. Tersteegen G. Til S. (van). Tommaso d’Aquino. Turrettini Fr. Vermigli (Pietro Martire). Walaeus A. Weber M. Wendelin M. Fr. Werenfels S. Witsius H. Wolleb J. Wyclif J. Zahn Th. Zwingli H. 1. Il presente indice onomastico registra esclusivamente gli autori espressamente citati dal testo barthiano qui tradotto; ne sono quindi esclusi i nomi biblici per il cui reperimento può offrire utile traccia l’indice dei passi scritturistici. Questo indice integra particolarmente i dati forniti dall’appendice seconda; per eventuali divari, si tenga presente che l’Appendice seconda annota solo le citazioni vere e proprie, mentre l’indice rileva anche le menzioni sporadiche.

INDICE DELLE TAVOLE Karl Barth nel 1944 L’esordio autografo del paragrafo 13 della Dogmatica ecclesiastica (vol. I, 2) Frontespizio della prima edizione del primo volume della Dogmatica ecclesiastica L’esordio autografo del paragrafo 73 della Dogmatica ecclesiastica (vol. IV, 3) Lettera autografa di Barth a Robert Meister Karl Barth nel 1958