Parlami. Piccolo libro dell’ascolto 9788868336899

Molti parlano, pochi lasciano parlare, quasi nessuno ascolta. Eppure, quando ci accade di essere ascoltati per davvero,

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Parlami. Piccolo libro dell’ascolto
 9788868336899

Table of contents :
Indice......Page 83
Frontespizio......Page 3
Esergo......Page 5
Presentazione......Page 2
Premessa......Page 6
Prima parte. Preparazione......Page 8
Conoscere......Page 9
Tacere......Page 10
Attendere......Page 11
Differire......Page 12
Domare......Page 13
Esporsi......Page 14
Rischiare......Page 15
Donare......Page 16
Credere......Page 17
Amare......Page 18
Servire......Page 19
Vigilare......Page 20
Concordare......Page 21
Percepire......Page 22
Osservare......Page 23
Danzare......Page 24
Ascoltarsi......Page 25
Sorridere......Page 26
Intuire......Page 27
Rispettare......Page 28
Dimenticare......Page 29
Respirare......Page 30
Frenare......Page 31
Schierarsi......Page 32
Ammettere......Page 33
Velare......Page 34
Medicare......Page 35
Coltivare......Page 36
Confessare......Page 37
Deludere......Page 38
Ragionare......Page 39
Scivolare......Page 40
Focalizzare......Page 41
Seconda parte. Azione......Page 42
Acuminare......Page 43
Decifrare......Page 44
Resistere......Page 45
Permettere......Page 46
Rinunciare......Page 48
Decentrare......Page 49
Aderire......Page 50
Scansare......Page 51
Provocare......Page 52
Superare......Page 53
Cedere......Page 54
Sventare......Page 55
Accogliere......Page 56
Raccontare......Page 57
Perdere......Page 58
Governare......Page 59
Sublimare......Page 60
Dissimulare......Page 61
Incassare......Page 62
Ospitare......Page 63
Sopportare......Page 64
Unire......Page 65
Indirizzare......Page 66
Espugnare......Page 67
Faticare......Page 68
Incrinare......Page 69
Negare......Page 70
Sfrondare......Page 71
Dissipare......Page 72
Ricominciare......Page 73
Spogliare......Page 74
Sostare......Page 75
Fronteggiare......Page 76
Abbracciare......Page 77
Accostarsi......Page 78
Svelarsi......Page 79
Inabissarsi......Page 80
Scomparire......Page 81
Amare vuol dire soprattutto ascoltare in silenzio. Antoine de Saint-Exupéry......Page 82

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Presentazione Molti parlano, pochi lasciano parlare, quasi nessuno ascolta. Eppure, quando ci accade di essere ascoltati per davvero, viviamo un’esperienza che può segnarci in profondità e innescare cambiamenti reali e duraturi nella nostra vita. Un ascolto vero è fatto di silenzio, musicalità, attesa, rapidità, autocontrollo, intuito, curiosità, audacia, prudenza, forza, docilità, raziocinio, familiarità con l’assurdo e di molti altri ingredienti contrastanti. Matteo Rampin concentra in questo “manuale dell’ascoltatore” venticinque anni di esperienza nelle vesti di clinico e di consulente, rivolgendosi al lettore in un ideale incontro a distanza nel quale l’autore, anziché parlare a chi legge, vuole prima di tutti ascoltarlo. Matteo Rampin, psichiatra, insegna comunicazione di crisi nei corsi per Negoziatori dell'Arma dei Carabinieri, e collabora su temi analoghi con alcuni reparti speciali delle Forze Armate e con enti dell'Intelligence e della Difesa nazionali e sovranazionali. È consulente di aziende pubbliche e private su temi attinenti il comportamento umano. Ha scritto più di trenta libri pubblicati in Italia e all'estero, tra i quali ricordiamo Al gusto di cioccolato (Ponte alle Grazie, 2005), Come non farsi bocciare a scuola (Salani, 2012), Mozart era un figo, Bach ancora di più (Salani, 2014).

Matteo Rampin

PARLAMI Piccolo libro dell'ascolto

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www.illibraio.it Ponte alle Grazie è un marchio di Adriano Salani Editore s.u.r.l. Gruppo editoriale Mauri Spagnol Art Direction: Pepenymi © 2017 Adriano Salani Editore surl - Milano ISBN 978-88-6833-689-9 Prima edizione digitale 2017 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

Parlare è un bisogno, ascoltare è un’arte. J.W. Goethe

Premessa C’è una cosa che tutti possiamo fare e che può cambiare il mondo. È un’azione semplice ed economica, che non richiede titoli di studio, prestanza fisica o bellezza, né doti da attori o strane «tecniche di comunicazione»; è qualcosa che si può fare quando si è sani e quando si è malati, da giovani e da vecchi, ovunque e sempre: è ascoltare. Ogni persona è assetata di ascolto: desidera, ama essere ascoltata. Quando si è ascoltati si sente di essere riconosciuti, accolti, accettati per quello che si è, stimati degni di interesse autentico, considerati persone e non strumenti. In poche parole, ci si rende conto di essere amati. Quando qualcuno mi ascolta, constato che mi sta regalando il suo tempo, e cioè una parte della sua vita. Non c’è regalo più grande. E se i modi per donare la vita sono infiniti, ascoltare è l’unico modo universale, perché è possibile a tutti. Ma come ascoltare? Non è facile ascoltare sul serio. Un ascolto distratto, tecnico o formale, serve a poco: non tocca le profondità, non fa risuonare le corde intime, non stabilisce una relazione autentica; anzi, può danneggiare, ferire. L’ascolto vale se è vero. In queste pagine sono raccolte alcune riflessioni su un tipo di ascolto che è diverso dal prestare orecchio in maniera distratta alla voce di chi parla: ci occuperemo di un ascolto che, quando prende vita, è capace di far scaturire qualcosa di decisivo nell’esistenza delle persone coinvolte. L’idea iniziale era stata compilare un manuale pratico per sanitari, operatori del soccorso e delle forze dell’ordine, insegnanti, allenatori, manager e, più in generale, per chiunque lavori con le persone; ma ben presto è risultato evidente che sono pochissime le professioni, e le situazioni, in cui l’ascolto è un elemento marginale. In realtà, nessuna condizione umana è incompatibile con la possibilità di far nascere un ascolto profondo. Eppure, sembra che siano sempre meno le persone capaci di impegnarsi in un ascolto vero, o seriamente intenzionate a farlo. È un dato preoccupante, ma scoraggiarsi non serve: in realtà, basta poco per imparare ad ascoltare sul serio, e lo sforzo per diventare ascoltatori dà sempre frutti. Infatti, ascoltare è uno dei modi più efficaci per dare senso alla propria esistenza: poiché ascoltando l’altro ne miglioro la vita, rendo migliore un sistema di cui faccio

parte a mia volta, e quindi miglioro anche la mia vita.

Prima parte Preparazione

Conoscere Eccoci qui, in questo punto del tempo: tu e io. Faccia a faccia per la prima volta; o, forse, per la prima volta disposti a parlare per davvero. Chi sei? Non so nulla di te. Per meglio dire, conosco molte cose: tutto quello che c’è da sapere a proposito dei miei simili, tutto ciò che ci rende simili, le molte cose per cui siamo uguali; ma sono più numerose le cose che ci rendono diversi, e lontani. Prima di tutto, la tua storia: che è solo tua, l’hai vissuta tu e nessun altro; nemmeno chi ti è più vicino può dire di conoscere davvero gli avvenimenti che hanno fatto di te la persona che sei. Nessuno ha sentito l’aria del mattino come l’hai sentita tu; nessuno sa quanto, in certi angoli scuri del tuo passato, la paura del buio che avanza ti abbia morso. Non ero con te quando alcune parole ti infondevano fiducia, quando altre te la rubavano; non so quali gesti ti abbiano incoraggiato, o quali sguardi abbiano congiurato per abbatterti. Ignoro quali siano le armi con cui, adesso, cerchi di combattere i tuoi mostri, e non immagino quali siano i modi con cui celebri le tue gioie. Anche tu sai poco di me; e molto di ciò che sai è solo un miraggio. Siamo due enigmi, ai nostri occhi. Eppure siamo tu e io, qui, ora. Ascolta: non importa se due abissi – il mio e il tuo – ci separano. Quando due persone si incontrano per camminare assieme, ciò che si dischiude loro è un orizzonte infinito, è una realtà più ampia, è l’intera vita. Essere in due può moltiplicare le forze. È così semplice, perché è così umano. Ci basti questo. Partiamo.

Tacere Tacerò, per poterti ascoltare. Il mio silenzio non sarà il vuoto ostile, distante, dell’assenza di parole; sarà un impulso per incoraggiarti a parlare. Mi impegno a fare di questo silenzio una sfera accogliente, un’attesa salda e ferma, perché i nostri racconti prendano vita in un «campo di possibilità» in cui seminare insieme e insieme coltivare, e raccogliere. Questo silenzio risuonerà tra noi due come una promessa solenne, diventerà un magnete che attira, e la sua musica parlerà la lingua antica della vicinanza e della somiglianza. Sarà un canto muto che dice: «Fatti avanti, riempi lo spazio che ora, qui, apro per te – proprio per te, solo per te; avanza con il tuo passo, fallo senza fretta, prendi l’avvio solo quando saprai che è il momento, e lascia che accada solo quando avrai trovato tutta la sicurezza che desideri, perché aspetterò quel momento, senza stancarmi».

Attendere Quanto a lungo può durare un silenzio? Non sappiamo più tacere, perché non sappiamo più aspettare. Temiamo il vuoto, e lo riempiamo con ogni cosa ci capiti sottomano: scendiamo a patti con tutto, pur di non udire il ronzio della nostra stessa presenza, che non smette di inquietarci. Più ancora, accettiamo ogni riempitivo pur di scansare il peso della presenza degli altri e della loro minaccia, a volte palese e a volte sottile. Il silenzio, quello vivo e fremente di chi ascolta, si dipana con una lentezza che rasenta l’immobilità. Ci vuole calma, per ascoltare. Bisogna essere cultori dell’attesa; non dell’inerzia, ma della vita nascosta sotto lo strato delle apparenze, del rigoglio che ferve di mutamenti che si sviluppano senza mai fermarsi, al riparo dal nostro rumore indaffarato. Prendi tempo, dunque: così potrai trovare il tuo ritmo. Osa tacere, anche tu, se è utile; e gusta il tuo silenzio, e il mio. Così ogni singolo secondo, dopo che lo avremo svuotato dell’impazienza, ci si svelerà pieno di una vita segreta, e delle sue promesse.

Differire Aspetterò, dunque. Penserò, ci penserò, ti penserò. Starò alla larga dalle scorciatoie. Guarderò con sospetto la mia cosiddetta esperienza. Scanserò il bisogno di dare un nome alle tue storie. Non estirperò la pianta medicinale prima che sia spuntata, cresciuta e sbocciata al punto giusto. Non ti darò risposte affrettate; non citerò frasi orecchiate nel vento; non ti incasellerò dentro diagnosi precostituite. Come vedi, sono molte le cose che non farò, che eviterò con cura. Anche se ne avvertirò l’urgenza, saprò resistervi. Quando prenderò la parola, sarà perché tu mi avrai dato il tempo per iniziare a capire, almeno un po’, chi sei.

Domare Mettendoti davanti a me che ti ascolto, mi hai affidato un incarico cruciale, che partecipa della lotta e del combattimento. Ed è questo ciò che farò: lotterò, combatterò. I nostri nemici saranno molti, astuti e insidiosi. Non cercherò la tua riconoscenza, e quindi non ti compiacerò. Spesso non ti risulterò simpatico, perché non mi preoccuperò della tua approvazione. Non obbedirò alla prepotenza del primo impulso, né alla presunzione del mestiere. I tuoi assedi non mi irriteranno; non mi lascerò intimorire dai tuoi assalti; le tue minacce non mi faranno perdere la lucidità che esigi da me. Non cercherò nelle tue debolezze un rimedio alle mie, nella tua pena una consolazione per la mia, nel tuo bisogno di appoggio la compensazione del mio desiderio di potere. Resisterò alle lusinghe della via più comoda. Mi opporrò alla stanchezza. Lotterò contro le irruzioni dell’insofferenza e i sabotaggi della frustrazione e della noia. Incasserò il tuo sarcasmo, sopporterò il carico della tua sfiducia, resterò immune al tuo pessimismo. Non mi esalterò per il successo e non mi abbatterò nell’insuccesso. Parlerai e ti ascolterò, e allo stesso modo ti ascolterò quando tacerai. Aspetterò il tuo momento, senza forzare: anzi, forzandomi in molte cose. Non sarà mai il mio ego a reagire. È lui la belva, il nemico più feroce; e quindi lo controllerò, lo sottometterò, lo domerò: questa è la mia promessa, queste sono le mie regole d’ingaggio nella serie di battaglie che ci aspetta.

Esporsi Ho pronunciato per te questo giuramento solenne: sono disposto a espormi, a mettermi in gioco, e a ricominciare sempre a farlo, dato che non sarò mai pronto, e proprio quando dovessi sentire di esserlo, dovrò ricordarmi di diffidare di me stesso. E, per mettermi in gioco, rinuncio alla chimera di conoscere la realtà così com’è. Dichiaro di accettare, come un dato di fatto, che la mia visione è parziale. Conosco bene i meccanismi delle illusioni che deformano la mia prospettiva con il potere persuasivo delle lenti colorate: so di vedere a malapena un’anamorfosi, un incantesimo così ben congegnato da farmi correre il rischio di vivere dentro un sogno scambiandolo per la realtà. Per tutto questo, dal gioco che stiamo per iniziare mi aspetto ogni possibile voltafaccia e sorpresa, do per scontati rivoluzioni e sommosse, cambiamenti repentini di scenario; e quando giungeranno, non mi lascerò sorprendere. Arriverà – lo so – il momento dei cataclismi, dei subbugli e dei sovvertimenti, arriverà la messa in discussione delle certezze che credevo di padroneggiare: tutto questo ricordo a me stesso mentre ci stiamo assestando, tu e io, a portata di voce. Ecco, rinnovo l’impegno: prometto di essere disposto a rivedere tutte le premesse che do per scontate. Rifiuto ogni schema. Sono scettico finanche dello scetticismo, dubito anche del dubbio. La «verità» la lascio al mondo delle idee, perché tu e io non siamo idee: non lo è la crisi che attraversiamo, il dolore che viviamo, la realtà che percorriamo. Si tratta, come vedi, di un gioco terribilmente serio.

Rischiare Prima di mettermi in gioco ho analizzato il terreno, valutato le mie possibilità e ponderato i rischi; e, nel farlo, sono stato spietato: è in gioco la tua persona – la tua vita –, oltre che la mia. Ho concluso: accetto i rischi, tutti e fino in fondo. Escludere il rischio significherebbe giocare una partita truccata, o partire con una penalità. La mia non è una scelta di coraggio, ma l’esito razionale di una considerazione: la vita è una partita che può essere giocata o per finta o sul serio, ma se per viverla pienamente occorre giocarla sul serio, il solo modo di farlo è accettarne il rischio. Il rischio si materializza ogni volta che ci accingiamo ad ascoltare qualcuno per davvero: perché ogni sua parola, ogni esitazione, tutte le possibili silenziose allusioni modificheranno noi che ascoltiamo, e i cambiamenti che i silenzi e le parole avranno sortito in noi innescheranno altrettante reazioni in chi ci parla, e così via, in una sequenza il cui esito è imprevedibile. Lo si deve sapere, va detto una volta per tutte: l’ascolto è una stazione di posta dove il destino cambia i nostri cavalli.

Donare Rischiare, dunque. Il primo rischio da accettare senza condizioni è quello di darti, senza riserve, il mio tempo – cioè, la mia stessa vita – senza garanzie, senza una controparte, senza la sicurezza di averne qualcosa in cambio, nemmeno nei termini di un cambiamento positivo. Ogni volta che dai a qualcuno il tuo tempo, rinunci alla parte della vita che ritenevi «tua». Lo sappiamo bene: è solo lasciando il porto che ci si può spingere al largo, e il porto è anche il nostro tempo, un bene prezioso che posso munire di alti bastioni perché nessuno osi avvicinarsi, o che posso sguarnire delle difese per permettere che vi entrino altre navi. Se di fronte a te faccio silenzio – se ascolto, se aspetto, se mi sforzo di non colmare con le mie parole l’attesa delle tue – strappo dal mio tempo l’involucro che lo rendeva «mio», esclusivo, recintato dall’ego. Quando arretro per farti avanzare, quando disarmo il mio territorio e affino i miei sensi per capire qual è il tuo ritmo, perché è sul tuo ritmo che proverò a suonare le mie note, è allora che allargo il mio tempo per plasmarlo sul tuo. Quando ci riesco, è perché sto rinunciando al mio swing, all’impronta che lo rende distinguibile tra tutti, e – per quanto possibile – lo sintonizzo sul tuo. Ogni volta che reprimo la mia protesta per le tue lentezze o le tue precipitazioni, metto in comune il mio tempo, e lo rendo nostro: è così che tu entri nella mia vita, e io nella tua, e le nostre esistenze si mettono al passo.

Credere Ti domanderai, adesso, chi io sia: devi decidere se sarò in grado di ascoltarti, e quindi se vorrai parlarmi. Ecco chi sono: sono un idealista. E quindi sono una persona che si muove controcorrente; mi ispiro a un codice sorpassato. Qual è l’ideale che inseguo? Proverò a chiarirtelo. Voglio credere che ci sia un significato che oltrepassa quello evidente e immediato; mi sforzo di continuare a credere che questo significato ulteriore esista, anche quando non lo vedo più perché è deformato da realtà terrificanti: anzi, proprio quando non lo vedo, combatto per voler credere che un senso sia ancora a disposizione di chi lo cerca. So che questa necessità di un senso è dentro ogni persona, per natura, e so che non si viola la natura senza pagarne il prezzo. Ecco dunque chi sono, per te: con te, sono e sarò uno sforzo ininterrotto, una continua volontà di aderire a un progetto al cui centro sei tu. Non ti garantisco che riuscirò ad ascoltarti come tu vorresti, ma ti garantisco che farò tutto il possibile perché questo accada; e quando avrò fatto tutto il possibile e avrò esaurito le mie scorte, in quel momento inizierò a fare sul serio.

Amare Se ti ascolto sul serio mi parlerai davvero; e allora, presto, un universo impensato si squadernerà davanti a noi, e prenderà vita: è per forza così, deve accadere, e accade, perché c’è un intero, sfolgorante cosmo in ogni persona, e sarebbe imperdonabile lasciarlo soffocare nell’ombra. Ma per ascoltarti sul serio devo rinunciare a una parte di me; il che è impossibile: e proprio per questo intendo farlo. Come? Scommettendo sull’ipotesi che la singola vita non sia la cosa più importante: volendo credere che la Vita la supera. Non è un modo di dire: tra noi due ho abolito gli slogan. «Vita» vuol dire qualcosa di più ampio dell’esistenza della singola persona. Non lo dice anche la scienza? Il «fenomeno Vita» sa risollevarsi sempre dal baratro in cui le sue singole schegge precipitano per legge meccanica; c’è un’impetuosa forza vitale che vince le temperature estreme e colonizza gli ambienti più ostili del pianeta. La realtà supera il nostro angusto modo di vederla, e se l’esistenza ha un senso, forse è proprio questo: che non c’è una singola vita più importante delle altre, nessuno è più degno di un altro, come nessuno lo è meno; e perciò tu vali quanto valgo io, e dunque la tua vita, come la mia, ha un valore assoluto. Se la prendo seriamente, la mia vita vale quanto la tua: questo principio, in cui si compendia l’amore, è il mio ideale, ciò che voglio credere e che mi aiuterà a rinunciare a un po’ di me stesso.

Servire Ma tu non vuoi che ad ascoltarti sia un idealista ingenuo: cerchi una persona vera e concreta, che conosca l’amaro e il dolce della vita. Cerchi un idealista pragmatico, che sappia che nel mondo reale non si può amare l’altro più di quanto si ami se stessi, anche se sarebbe già sovrumano amare l’altro tanto quanto se stessi. Sto parlando di amore perché me ne parli tu, con il tuo bisogno che un’altra persona ti ascolti: sì, ascoltarti è un modo di amarti. Significa esserci: essere davvero lì dove tu sei; non un semplice coesistere occupando uno spazio vicino al tuo a respirare la stessa aria. Essere lì, con l’attenzione rivolta alla tua realtà irripetibile e singolare, come lo è il suo significato, il significato che tu hai in quanto persona, al di qua e al di sopra di ogni tua qualità positiva o negativa. È il cuore della questione. Esserci: essere qui per te; cioè, al tuo servizio. Servire. Sfida improba, ardua gara con se stessi, tenzone da affrontare senza risparmio di energie, fino a considerare la possibilità che diventi cruenta. Come affrontarla? Rinnovando a ogni passo la promessa di aderire al progetto più alto, che è servire.

Vigilare Ma prima di partire per il nostro viaggio urge una verifica. Servire vuol sempre dire aiutare? Che cosa significa servire? Ogni ingenuità va bandita. Un sentimentalismo generico non si addice al vero ascolto, che non è affatto una questione di emozioni lasciate libere. Al contrario, per ascoltare occorre una vigilanza rigorosa, mantenuta senza cedimenti. Occorre disciplina. Bisogna sorvegliare quello che accade dentro di noi senza stancarsi. Sono al varco trappole, fraintendimenti, zone d’ombra che vanno rischiarate prima di iniziare. Ci sono argomenti che non si devono affrontare, posizioni che non possono essere spalleggiate, alleanze nelle quali non si deve cascare. Se chi mi parla sfruttasse la mia disponibilità per il solo gusto di continuare a seguire certi suoi sterili schemi di comportamento, non vorrei diventare suo complice. Se la persona che ascolto volesse stare al centro della mia attenzione solo per soddisfare il culto di sé, regalerei il mio tempo ad altri. A maggior ragione, se usasse l’ascolto per ordire legami patologici, non mi farei impigliare nell’insensatezza dei suoi giochi. Ecco perché occorre monitorare quello che prende vita tra noi due, con continua cautela, a volte persino con diffidenza; non devo privarmi della facoltà di sospettare solo per inseguire moralismi all’insegna del «tutto è buono, tutto va bene». Mi vincolerò quindi alla massima prudenza. Per ascoltare serve cautela: l’atteggiamento guardingo di chi maneggia la materia esplosiva della vita. Passi avventati, azioni dettate dall’impulso, eccessiva fiducia nelle mie eventuali intuizioni, pretesa di «sentire» l’altro, sono tutti fattori che renderebbero inefficace l’ascolto. Ti prometto che li eviterò.

Concordare Perché ti ascolto? Non perché tu provochi in me compassione; non perché io ne riceva una qualche ricompensa; non perché la bontà o l’altruismo siano qualità mie proprie, che ho ricevuto dalla natura: ma perché mi sono proposto di provare a liberarti da qualche laccio, a renderti una persona meno sofferente, a migliorare la tua condizione per quanto mi è possibile. Lo intendo fare legandomi con ferree catene ad alcune regole severe: non valicare determinate confini, e non permettere a te di valicarli; non mettere in discussione il presupposto che la tua vita è sacra, e lo sono anche la mia e quella di ogni altra persona; stare dalla parte di chi è indifeso, se la tua parte fosse in conflitto con quella; rifiutare di farsi manipolare; non prestare il fianco ai ricatti; non lasciarsi irretire dalle seduzioni. È il nostro patto. Lo abbiamo concordato, silenziosamente, e so che tu ne conosci i termini.

Percepire Si dovrebbe riuscire ad ascoltare nello stesso modo prodigiosamente percettivo che è proprio di un direttore d’orchestra: dovrei vibrare per ogni tuo minimo sospiro, riuscire a distinguere le pause del tuo raccontare in base alla loro funzione; notare i più tenui crescendo e decrescendo, i più esili rallentando e accelerando; sentire «fisicamente» il tuo ritmo personale, intuire dove cadono gli accenti prevedendoli prima che arrivino; lasciarmi quasi ferire dalle tue esitazioni, dagli intoppi, dalle incongruenze; cogliere le inflessioni, registrare le deflessioni; apprezzare le modulazioni ad altre tonalità, accogliere le transizioni improvvise che aprono squarci imprevisti… Percepire con un’apertura alla quale non siamo più abituati. La voce è uno strumento musicale, ogni volta che parliamo produciamo un canto. E, come il canto, la musica, l’arte hanno molti strati di significato, così è per ciò che diciamo. L’opera d’arte della tua vita esige un accostamento trepidante.

Osservare C’è un ascolto che si fa con gli occhi. Tutti sappiamo che anche il corpo parla; e quindi si deve ascoltare osservando ogni più flebile cambiamento di temperatura che avviene in questo corpo. Lo sguardo di chi ascolta, però, non è lo sguardo di chi scruta, dell’esperto che esamina, dell’investigatore che diffida, dello scienziato che analizza, del giudice che inquisisce. È uno sguardo che si può descrivere meglio in negativo, dicendo appunto quello che non dovrebbe essere. Se il mio sguardo sarà purificato da ogni scoria di questo tipo, sarà trasparente fino al punto che tu potrai vedervi la tua presenza, e riconoscerti nella mia pupilla. Occhio per occhio: sì, il mio occhio per il tuo – a favore del tuo, al servizio del tuo.

Danzare C’è un ascolto che è una danza. Esiste un ritmo personale, un’impronta più specifica ancora dell’impronta digitale. È la sintesi di tutte le inflessioni, le movenze, gli atteggiamenti del corpo e dell’animo. È quello che permette di riconoscere una persona dal suo passo, da un atteggiamento del corpo visto da molto distante, dall’attacco di una parola disturbata dal crepitio elettrico della trasmissione telefonica più incerta. Mettersi al passo di questo tuo ritmo è la condizione necessaria perché si dia l’ascolto vero. Lo si può fare nonostante gli occhi e le orecchie, a dispetto della lucidità analitica, ed è per questo che lo può fare anche un bambino piccolissimo. Poi, una volta che ci saremo messi al passo, la danza sarà guidata ora dall’una e ora dall’altra persona, e il concetto stesso di guida diventerà irrilevante: rimarrà tutto il resto.

Ascoltarsi C’è un ascolto di se stessi, ed è tanto importante quanto quello rivolto a chi sta parlando. Dentro di noi c’è una trama di argomenti e confutazioni, di diatribe, di commenti, traduzioni, note a piè di pagina. Questa trama complicata non può essere ignorata, anche se sto lottando contro le interferenze del mio ego: non è mettendole il silenziatore che si diventa capaci di ascoltare. E dunque la utilizzerò, facendone un ulteriore strumento per scandagliare. Che cosa provoca in me questo tuo sorridere con la voce? Perché ho colto il tuo ritmo così rapidamente, o che cosa mi impedisce di farlo? Da dove viene questo fastidio incongruo? Perché mi sto rallegrando nel sentire questo passaggio? Ogni domanda sarà un pungolo per mantenere alta la mia attenzione su tutto quello che si svolge tra noi due.

Sorridere Ti stai chiedendo se ti prenderò sul serio? Ne hai tutte le ragioni, perché la serietà è cruciale. È la vita stessa, abbiamo detto, a essere una faccenda seria. Non conta che si possa desiderare di viverla con leggerezza, pensando ad altro, dimenticando il carico che incombe su ogni persona: l’interconnessione tra tutti gli abitanti del pianeta rende impossibile, oggi, ignorare che cosa sia in ultima analisi la vita. Ma la serietà non è seriosità: è tutt’altro. Il clown, il comico, l’umorista sono le persone più serie, perché con una risata mettono in luce l’aspetto grottesco, sghembo, tragico della vita, e lo ricordano agli smemorati e ai rimbecilliti dal frastuono. La risata non avrebbe il suo infallibile potere di esorcismo, se non ci fosse un male da esorcizzare. Anche a noi sarà utile coltivare l’umorismo, per rischiarare il momento più scuro. Soprattutto quando saremo vicini al gorgo immobile del dolore, proveremo a sondare la possibilità del riscatto che ci viene dal sorriso: sarà un altro segno del fatto che siamo umani.

Intuire Per prenderti sul serio, bisogna aver preso sul serio la vita. Non occorre che tu conosca la mia vita nei dettagli, ma confido che ti mostrerò, con i fatti, che mi è impossibile prendere la vita in modo meno che serio. Capirai con intuito infallibile se quando ti ascolto sono serio – anche ridendo! – e sarà questa la chiave decisiva che farà sì che tu apra il tuo scrigno.

Rispettare Ti chiedi se avrò rispetto di te. Il rispetto discende dalla serietà con cui vivremo il nostro incontro. Non ha niente a che fare con i convenevoli della cortesia formale, con i sorrisi a buon mercato, con il corteo estenuante delle ritualità sociali: si tratta di considerare sacra la tua persona. Non sorprenderti, quindi, se userò poche formalità o se il mio tono ti sembrerà asciutto. Mi pare che la patina delle convenzioni sociali sia una maschera che viene indossata per nascondere il vuoto o il marcio. Anch’io, naturalmente, ho vasti campi vuoti o ingombri di erbacce. Ma conto sul fatto che, almeno, non cercherò di schermarli dietro cortine fumogene; considera questa mia scelta come un segno di rispetto nei tuoi confronti. Chi è concentrato sulle espressioni del proprio viso e sullo stile dei propri gesti non sta ascoltando davvero. Togliamoci la maschera: almeno quella dei buoni costumi che dovrebbero renderci «rispettabili». Ne emergerà, un po’ di più, la persona vera.

Dimenticare Pretendi la certezza che ciò che mi dirai sarà da me custodito nel segreto assoluto. È un tuo sommo diritto. Tenere sigillate all’interno dell’animo le cose che ascolterò, se parlerai, è parte essenziale del rispetto. Quelle cose, te lo assicuro con tutto me stesso, moriranno con me. Nessuno, te lo giuro, potrà estorcerle al mio cuore: vi rimarranno, rinserrate come un tesoro chiuso a tripla mandata. Su quanto ascolto da te calerà ogni volta, e per sempre, la cortina di un silenzio inviolabile. Una simile disposizione, se è vera, trapela da ogni cenno, da ogni gesto, da ogni inflessione della voce; e quindi non ci sarà bisogno di dichiararla, perché la percepirai chiaramente. Ma se così non fosse, fuggi da me: se non riscontri in me, con immediatezza, la capacità di sigillare le mie labbra al cospetto dei tuoi segreti, abbandona questo luogo, dimentica il mio nome, lasciami al mio destino e cerca altrove una persona che sia all’altezza di questo sacro impegno.

Respirare Mi scruti per capire se ti sto giudicando. Dal segreto, dal rispetto e dalla serietà nasce la fiducia. Ti schiuderai in maniera direttamente proporzionale a quanto capirai di poterti fidare di me. Ed è parte della fiducia il fatto di non sentire su di sé il peso del giudizio. Può dire ogni cosa solo chi si fida, e si fida solo chi non si sente giudicato. Chi teme il giudizio altrui rimane rigido, trattiene il fiato, annaspa rendendo impacciato ogni movimento, anche il più naturale, anche il respiro. Chi sente di non essere giudicato ricomincia ad alzare lo sguardo, a sciogliersi, a respirare. Potrei giudicarti? Potrei occuparmi di pagliuzze nei tuoi occhi senza prima essermi sbarazzato delle travi che ingombrano i miei? Ho ascoltato troppe persone per non conoscere il livello delle mie bassezze, delle mie miserie. Condannami, se ti giudicherò.

Frenare Chi pensa di sapere, chi riposa sereno sulla propria esperienza, chi crede di essere dotato di intuito divinatorio, chi confida nel suo fiuto per le cose umane, chi «capisce le cose al volo»: costoro non sono ascoltatori, perché mancano di prudenza. Per essere prudenti si deve essere umili. Umiltà deriva da humus, «terra». Umile è colui che si ricorda della sua origine, del suo essere fatto di terra, e quindi della sua fragilità e del suo essere sempre in bilico sul nulla; l’umiltà è la virtù per cui guardandoci allo specchio ci vediamo per quello che siamo: esseri imperfetti, manchevoli, a volte sordidi. Ma è solo questa virtù che ci permette di dare a noi stessi il giusto valore: che è sempre inferiore a quanto vorremmo credere. Il mito dell’autostima a tutti i costi ha fatto molte vittime. Solo chi ammette di essere piccolo riconosce di aver bisogno di crescere. Purtroppo, io non sono umile: in quanto umano, non conosco l’umiltà. Ma mi sforzerò di esserlo, perché non voglio incappare nei guai che derivano dalla stima sproporzionata di me stesso e dalle valutazioni irrealistiche di quello che faccio. Come provare a essere umili? Ho trovato una buona medicina: ricordarmi di quando ero io ad avere bisogno di essere ascoltato. Allora, ero incappato in persone che mi ascoltavano davvero e in persone che non lo facevano: dalle seconde ho imparato le cose da evitare; ho promesso di non ripetere quegli errori e di provare a imitare un po’ di quello che facevano le altre. Cerco di restare fedele a quella promessa.

Schierarsi Hai ancora una domanda, che ti trattiene dal parlare liberamente. Hai bisogno di sapere se appartengo alla categoria degli aguzzini: dei cattivi, come si diceva da piccoli. Li hai conosciuti, i cattivi; li hai incontrati molte volte; e le loro ombre continuano a prolungarsi nella tua notte. Anche adesso. Ecco perché mi passi al crivello delle tante domande che vogliono dire, tutte, la stessa cosa: «Sei anche tu un nemico?» Ti chiedi se ti ascolterò con cortesia recitata, se rivelerò i tuoi segreti, se riderò di nascosto delle tue paure, se approfitterò di te, se sarò solo un tecnico freddo e distante, se avrò la delicatezza e la sensibilità adatte alle tue piaghe, se anteporrò me stesso a te, se ti collocherò come un numero nella schiera dei tanti che ho ascoltato, se ti applicherò un’etichetta da museo di scienze naturali, se sarò un ladro del tuo tempo, se avrò voltafaccia improvvisi, se d’un tratto mi darò alla macchia, se saprò camminare con te fino al momento decisivo. O se invece sarò dalla tua parte sempre, a prescindere da tutto, a prescindere anche dalla tua stessa tendenza oscura a farti del male. Vorrei rassicurarti, ma ogni mia parola sarebbe insufficiente. Fino a quando non parlerai davvero, non saprai se ti posso ascoltare davvero. Sta a me fare di tutto perché tu inizi. Non lo vedi, questo, come un possibile indizio di quello che cerchi?

Ammettere Mi osservi, mi scruti, come è naturale che sia: vuoi accertarti se io ti stia seguendo, vuoi verificare che la mia mente non stia veleggiando altrove. Controlli che io sia con te, e solo per te. Di più, vuoi vedere se ti capisco: posso comprendere il tuo dolore, la tua rabbia? Ho idea di che cosa sia quello che provi, quella cosa a cui forse neanche tu sai dare un nome – figurarsi un’altra persona? Vorrei dirti che la risposta è no: non comprendo davvero che cosa hai nell’animo; non riesco a sentire il peso che tu avverti. Se pretendessi il contrario, la mia sarebbe una menzogna, e la coglieresti all’istante, e non mi crederesti più in nulla. Perché ciascuno vive il suo male, e ci sono zone precluse a qualsiasi altra presenza; il nucleo immobile del dolore, quello in fondo alla voragine, lo sentiamo solo noi.

Velare Per un’altra ragione ancora mi scruti: per cercare di capire se mentirò, o se sarò sincero e da me avrai solo la verità. Non mi è permesso mentire, se mi sto impegnando in un vero ascolto: la manipolazione è per i ciarlatani; per loro, l’ascolto è solo parte di una strategia di controllo delle proprie vittime. Non posso mentire. Ma i tuoi sguardi sollevano una questione complessa, su cui molti si sono incagliati: è meglio dunque sgombrare il campo dagli equivoci possibili… In che senso non posso mentire? A proposito di che cosa, devo dire la verità? Non posso mentire nell’essere, con tutto me stesso, una persona che ha deciso di ascoltarti anche sacrificando qualcosa, se tu lo accetti e se questo non danneggia altri. Dunque, non ti prometto che dirò sempre e solo la verità in tutto quanto dirò e tacerò: su questo, mi propongo invece di scegliere ogni volta quanto essere trasparente e quanto opaco. A volte sarà necessario velare qualcosa, e sempre sarà opportuno decidere quanto svelare. È una decisione che fa parte del gioco, e serve a giocare bene: non posso essere prevedibile, «catturabile» dentro i tuoi schemi, nei quali finirei per fare il tuo gioco.

Medicare Ascolto le tue domande mute, o espresse in modo cifrato; e intanto mi preparo a risponderti – se e quando sarà il momento; forse, però, le risposte non saranno quelle che ti aspetti. Se cerchi pietà, sappi che non è questo che ti darò: diventerei un complice della tua inerzia. Se reclami empatia, questa parola sulla bocca di tutti, ti risponderò che non sono le parole alla moda ciò che può colmare la distanza che ci separa. Se domandi simpatia, se mi domandi di essere simpatico, non mi impegno in una promessa di questo tipo: ti danneggerebbe. Se le tue sono richieste di rassicurazione, non è detto che io accondiscenderò. La mia rassicurazione più sensata è che farò l’impossibile per evitare palliativi temporanei. Non si curano le ferite ignorandole o trattandole con indulgenza. Un cuscino di piume può soffocare, un salvagente usato male impedisce di imparare a nuotare. C’è un macigno che dobbiamo sollevare, tu e io: servono muscoli, serve tenacia, ma soprattutto occorre guardare le cose per quello che sono; il tempo delle rassicurazioni verrà, ma a rassicurare saranno i fatti concreti, quelli che avremo reso possibili parlando, tacendo, aspettando e ascoltando. Prendersi cura, curare, è un atto che può essere cruento. A volte per medicare le ferite vi si deve spargere il sale sopra.

Coltivare Forse ti domandi se ho intenzione di enunciare qualche slogan, snocciolare qualche frase fatta, sentenziare qualche banalità di comodo. Me ne faccio un punto d’onore: non sentirai mai, qui, frasi come «sii ciò che sei», «credi in te», «fatti forza», «cerca la tua felicità», «abbi cura di te», «devi perdonarti», «devi volerti bene»; c’è un intero repertorio di frasi pronte all’uso che non servono a nulla, se non a generare maggiore confusione in chi se le sente indirizzare. Se minimizzassi quello per cui soffri, se banalizzassi le tue parole attingendo a questo repertorio stantio, sarebbe per te un’altra umiliazione, un’ulteriore vittoria di quella solitudine di cui ognuno porta il marchio e che ci rende soli anche tra diecimila «condivisioni». Cercherò di avere per ogni mia parola la stessa attenzione del contadino quando coltiva le piante da cui dipende la sua vita.

Confessare Ti domandi se sono saldo a sufficienza per riuscire a portare il peso di quanto mi stai per dire; se conosco a fondo gli strumenti di quello che sto facendo adesso, al tuo fianco: se davvero so ascoltare. Posso fartelo capire solo ammettendo i miei limiti, abbassando le mie difese e mostrandomi per quello che sono. Non c’è migliore dimostrazione di forza che esibire la propria debolezza. Non parleresti di fronte a un supereroe; un essere umano con le sue cicatrici è come te: questo è precisamente ciò che io sono di fronte a te, per te. Ora puoi sentirti a tuo agio.

Deludere Stai cercando una soluzione immediata e facile? Ti aspetti che ne abbia una pronta da fornirti? Devo deluderti: non ho la bacchetta magica, e devo dirtelo chiaro e forte, e ricordartelo ogni volta che tu dovessi tornare ad accarezzare questa idea. Non sono un mago, e tu lo sai: però, in fondo, mi attribuisci doti eccezionali di competenza, di forza, di intelligenza, anche solo di buon senso, e ti aggrappi alla speranza che io sia davvero quello che tu speri. Non posso evitare questo modo di pensare, perché fa parte della nostra natura. Aspiriamo a soluzioni calate dall’alto, scrutiamo il cielo per scorgere il lembo della tunica di un deus ex machina, ci aggrappiamo a ogni suo sostituto che riesca a conquistare la nostra fiducia. Su questo meccanismo mentale si basano i ciarlatani di ogni risma, da quelli della salute a quelli della politica. Devo muovermi sul crinale che sta tra due mondi: quello della realtà, che ci intrappola entrambi, e quello della speranza, che entrambi sostiene. Ma devo sorvegliare che la speranza non diventi illusione. Dovrò usare parole scolpite con cura, definizioni precise, distinzioni cristalline, per evitare che tu riempia la vacuità delle parole con significati che sono solo tuoi, e che ti servirebbero per alimentare il tuo bisogno di magia. Dovrò evitare di cedere al mio bisogno di sentirmi importante, un Salvatore. Dovrò ricordare a te e a me stesso che ogni passo richiede impegno, e fatica, e concentrazione, e che ogni scelta (anche quella di una parola) porta con sé un rischio.

Ragionare Hai l’esigenza di credere che la realtà sia semplice: se sei in difficoltà, è perché qualcuno ce l’ha con te, o ti ha fatto il malocchio, o ti ha educato male, o ti detesta ecc. Non credo nel malocchio, non credo nella predestinazione, non credo nelle punizioni cosmiche o nell’espiazione di colpe commesse in una vita precedente. Credo invece che raccogliamo quello che seminiamo, e che in tutte le fasi dalla seminagione alla raccolta entrano in gioco innumerevoli fattori che non possiamo controllare, e la cui esistenza dobbiamo accettare senza sconti. Sarò molto franco: accetto tutto di te, tranne una visione del mondo basata sulla magia, sulla superstizione, sul fatalismo meccanicistico. Siamo liberi perché abbiamo la capacità di ragionare, ed è su questa libertà che basiamo i nostri sforzi per risollevarci e tornare a vivere una vita più piena.

Scivolare E quindi, ponendoti molte domande mi esamini, mi soppesi e mi scandagli. La persona che occupa il posto d’onore, tra noi due, in questo momento sei tu: perciò, uno dei miei compiti è essere presente senza ingombrare. Dovrei essere trasparente e opaco a un tempo: presente ed elusivo. Sapendo questo, non parlerò di me, e se lo farò sarà parte di un piano il cui obiettivo interessa te, solo te; scivolerò, mi renderò imprendibile: non posso lasciare che tu mi afferri, mi inquadri o mi definisca, né che tu preveda le mie parole. Non reagirò come tu ti aspetti, per impedirti di sabotare la nostra relazione, alla quale guardi come a un’occasione di cambiamento. Non riuscirai a incapsularmi dentro griglie: resterò sempre, in parte, un enigma; ma sarò un punto fermo, una boa a cui aggrapparsi, un faro nella notte. Faro che non si lascerà schermare, boa impossibile da sommergere, enigma che non scioglierai oltre un certo grado. Se facessi diversamente, mi vedresti troppo simile a te, quando invece tu mi chiedi di essere come te e in un altro modo; al tuo fianco e dietro per spingerti e davanti per guidarti; più di un amico, differente da un partner.

Focalizzare Attorno a te ho disegnato una linea, ho tracciato un perimetro che costeggia a un micron di distanza il tuo volto e l’intera tua persona: è un confine invisibile, nessuno oltre a me può vederlo. È dentro a quel perimetro che adesso sto guardando: costringo i miei occhi a fissarsi, a fissare solo lì. Di quello che accade fuori, fino a che tu e io parliamo, non mi curo più. Cascasse il mondo, sei tu in questo momento al centro di quel mondo, sei il centro del mio mondo. So che lo sai: nessuno può vedere quel perimetro, ma tu lo senti in modo netto, lo percepisci con la percezione esatta che si sperimenta quando si è al centro dell’attenzione altrui. Non ci si sbaglia. Forse questa certezza è l’eco del ricordo, impresso nelle nostre fibre, di quando una donna è esistita per noi, attorno a noi, e noi siamo stati per molti mesi al centro del suo essere. E adesso questa chiarezza, la certezza di essere al centro del mio ascolto, sta operando ancora una volta il prodigio primordiale: affiora, infine, la tua disposizione a parlare. È ormai imminente; e tremo, nell’attesa e nel timore di non colmare le tue speranze. Parlami.

Seconda parte Azione

Acuminare Ci siamo: è giunto il momento. Inizi a parlare. Ogni tuo accento, intonazione, esitazione racchiuderanno molte informazioni su chi sei, così come ogni millimetro della tua scrittura incide sulla carta il tuo stile di espressione, che rende unico il tuo passo, inimitabile la tua mimica, inconfondibili i tuoi gesti. La mia attenzione si posa su tutto quello che dici, e vorrebbe rischiarare l’universo che dischiudi. Parlerai la tua lingua, non la mia: lo so bene; le parole che stai per usare hanno lo stesso suono di quelle che uso io, ma il loro significato per me e per te è diverso. La mia attenzione si fa acuminata sul modo in cui le dici: considera quali sono le inflessioni, le ondulazioni repentine e quelle a grande arco. Si fissa sui tempi: in quale preciso momento dici qualcosa, non prima né dopo. Si sofferma sullo sfondo sul quale disponi le tue frasi. Valuta in risposta a quale mio gesto pronunci questa o quella parola. Cerco di far luce su chi sia, in ogni momento, il destinatario del tuo parlare: se stai parlando a me, o a te stesso, o ad altri, e a quale dei tanti «tu» che albergano nel tuo animo – alla persona che sei stata o a quella che sarai. Un’attenzione ancora più aguzza si appunta su ciò che non dici: sulla faccia della luna che è nascosta perché scura, o buia perché celata. E sui silenzi, sulle pause: quanto durano, quanta tensione vi è accumulata, che cosa vuoi dire con le pause e ciò che con esse dici senza accorgertene, con quali pieghe e gesti non dici quello che taci.

Decifrare Che cosa ne è delle parole che prendono il largo? Che cosa succede quando i loro suoni mi toccano? Quello che dici è quello che sei: non tutto, certo; ma forse più di quello che pensi, e di sicuro più di quanto io possa capire. Nondimeno, provo a decifrarlo. Rifiuto le teorie precostituite. Decifrare alla maniera delle scuole vuol dire interpretare in modo vincolante, parziale, angusto. Altri sono i modi con cui mi riprometto di farmi vicino al tuo parlare. Provo a coglierne anzitutto lo sfondo generale. Cerco tracce di un senso, o di una sua mancanza. Esploro il grado della tua personale commistione di luce e buio, quell’impasto che fa di te una persona singolare e irripetibile, diversa da ogni altra mai apparsa sulla faccia della Terra. Nei miei pensieri affiorano raffiche di domande. Mi chiedo dove stai andando, e quanto tu ne sia consapevole. Mi domando quali siano le tue domande. Che cosa riguardano? Chi riguardano? Quanto ti assillano, e quanto respiro ti concedono? Hai forse smesso di farti alcune domande? E quali, e perché? Ascolto le tue domande, a partire da quelle che non osi fare a parole.

Resistere Ascoltarti è, adesso, un cimento gravoso. Stai parlando come se non avessi parlato per secoli, come se fossi rimasto chiuso dentro una prigione dalla quale solo ora, dopo tentennamenti ed esitazioni, ti affacci. La tua sete di ascolto – che non si placherà mai fino in fondo – non troverà presto il sollievo che cerca. Le tue parole mi avviluppano, tracimano senza posa, come se tu ti guardassi persino dal respirare, per non sottrarre un istante al flusso di cose che premono da dentro di te per essere espresse. È dura restare composti in mezzo al profluvio di frasi, e di domande e imprecazioni, e al rovescio di urla e lacrime e sbuffi e rimbrotti. Devo resistere all’urgenza di interromperti e di rispondere almeno a qualcuna delle cose che premono in te; mi pare che dovrei rassicurarti, ma so che la sola cosa che devo arginare è l’impellenza di placare, dicendo qualcosa, la tua marea montante: sarebbe un tradimento. In questo momento non vuoi risposte: domandi solo silenzio e attenzione. Dire qualcosa, fosse anche la cosa più sensata al mondo, sarebbe come importi me stesso.

Permettere Stai mentendo. Sfoderi l’arsenale delle bugie vasto e antico come l’umanità: omettere qualcosa, inventare qualcos’altro, mescolare invenzione e verità, tralasciare di specificare un’espressione, attirare l’ascolto su un tema marginale… Lo fai perché sei un essere umano: nessun tratto distintivo è più vero, per la nostra specie, del mentire. Senza finzioni, la nostra storia si sarebbe arrestata a un passo da quella degli scimmioni. Noi siamo, tra tutti gli animali, quelli che fingono, ossia quelli che plasmano scenari nell’arena segreta chiusa nel loro cranio: solo così possiamo scansare gli eventi più minacciosi, perché ne immaginiamo le conseguenze e li anticipiamo. È per questo che non posso recriminare sulla tua facilità di tessere inganni: questa abilità quasi magica è la nostra radice più autentica. Proverò a dipanare la matassa delle menzogne? A trovare una strada tra insidie di cose non vere, o nascoste, o vere a metà? Mi farò cacciatore di tracce, di indizi che portano al vero? No, non lo farò. Poiché non siamo in un tribunale, non giocheremo a guardia e ladri. Accetto che tu menta. Non cerco «la» verità. So che la verità piena non esiste nelle parole: è in te, è te, in qualche modo sei tu la tua verità. Tu, una persona: vera, anche nel mentire. Se menti, esisti, e questa è una verità. Ma combatterei una battaglia sviata, e sbagliata, se le spire delle bugie mi avvolgessero. Non posso farmi irretire. Sarebbe un errore: saremmo traviati da premesse scorrette. Ci troviamo dunque in un bel dilemma. Se attacco la tua invenzione come se fosse un nemico, la rendo più forte, più saldamente coesa, e probabilmente tra poco diverrà baluardo di altre invenzioni più strane; se la accetto come vera, dovrò seguirti in una strada sospesa sul nulla. Per sciogliere l’enigma, l’unica possibilità è che io consideri la menzogna un’amica un po’ strana: capitolo di una storia più grande, più estesa, più alta di quella che stai narrando, e che in parte costruiremo assieme. Si tratta di guardare alle bugie come si guarda a quelle dei bambini: trasformandole in spunti per insegnare qualcosa del mondo reale. Così, il tuo sotterfugio diventerà un compagno di giochi, un attore che agisce su una scena di cui

siamo coautori; qualcosa da usare, una leva su cui poggiarci per prendere il balzo, per decollare: come ogni aereo, contro la spessa resistenza dell’aria.

Rinunciare Il mio ascolto non fa sì che, quasi per magia, tu sia disposto ad ascoltare le cose che vorrei dirti. In realtà, in questo momento non mi ascolti affatto: non vuoi altro che parlare, hai orecchie solo per la tua stessa voce. Ogni tanto, interrompendo lunghi minuti di monologo, mi concedi di dire qualcosa; eppure, mentre credo di parlarti, tu non sei più qui: sei già altrove, mi fissi con gli occhi dell’indifferenza; stai già ascoltando le tue prossime parole, ancora non dette, mentre le mie rimbalzano e si spengono contro la parete invisibile eretta tra te e me. Ma è un ascolto questo, se il momento di risponderti non viene mai? Il tuo rifiuto di ascoltare è un altro chiaro messaggio che stai inviando, è qualcosa di cui sarà opportuno tener conto. Mi dispongo, quindi, all’attesa senza limiti. Rinuncio a ogni altra mossa, a ogni decisione intempestiva. Tempi opportuni, certo, verranno.

Decentrare È chiaro che a te non interessa chi sono. È un altro volto della asimmetria tra le nostre posizioni. L’impegno a essere presente assorbe le mie forze, ma tu non te ne accorgi, non te ne curi; sei indifferente, ti è indifferente chi io sia; al posto mio potrebbe esserci chiunque. Questo sta rendendo l’incontro meno fertile. Ne cerco la ragione, e mi pare sia questa: è la tua sofferenza a far sì che tu non abbia al centro del tuo mondo altri che te. Finché dura questa fase, non avrebbe senso provare a dirti qualcosa: non l’ascolteresti; se anche ascoltassi non capiresti, come invece potresti fare se solo ti appesantisse un carico più lieve; infine, se tu capissi chiaramente, si tratterebbe di un’increspatura di qualche istante, pronta a essere sommersa subito dopo dall’onda di ritorno del tuo dolore. Troppo grande è, adesso, la pressione che eserciti su di te. La tua sofferenza, la tua storia, la tua rabbia, le tue emozioni distruttive – quali che siano – sono ciò che ti paralizza, ma lo fanno in quanto sono tue, in quanto sono vortici che risucchiano sul tuo «io» ogni possibile spazio libero. Questo solo ti interessa: che io sappia chi sei tu; non ti restano energie per occuparti di chi sia io, o del fatto che ti possa aiutare o no. Anche questo può essere un punto su cui fare leva; a mano a mano che la sensibilità per la tua sofferenza aumenta, diventa più probabile che un mio cenno al tuo «io», così denudato, esposto come un’ulcera, sortisca un effetto utile per iniziare un cambiamento di rotta che ci avvicinerà all’azione decisiva. Essa, in qualche modo, avrà a che fare con qualcosa di arduo: il decentrare.

Aderire Se ti ascolto con tutta l’oggettività di cui sono capace, non posso ignorare un fatto: ti sono antipatico. Magari cerchi di nasconderlo, per educazione, oppure non ti premuri nemmeno di dissimulare quello che provi, e lasci che le onde dell’antipatia mi arrivino intatte. Non ti piace quello che dico o potrei dirti, non ti piace chi sono, non ti piace il mio ruolo, o il fatto che tu debba parlare a me invece che ad altri, non ti piace… Partendo da queste coordinate, potrà mai scorrere qualcosa di buono tra noi? Eppure, è proprio questo che deve accadere. E poi, subito, un’altra questione: è ancora possibile che nasca una corrente positiva, quando si pronuncia il verbo «dovere»? La battaglia in cui siamo ingaggiati è anche quella contro il buonismo, e lo psicologismo da quattro soldi; atteggiamenti che fanno del «sentire» il metro per ogni scelta. Eppure, usciremo indenni – migliori! – dalla nostra avventura solo se io ricorderò a me stesso che, anche nell’ascolto, non è il sentire quello che conta. Sentire è necessario e inevitabile, ma lasciarsi condizionare da ciò che sentiamo è fuorviante. Ho stabilito di resistere alle fluttuazioni del sentire; ne ho fatto una parte importante del mio programma d’azione. Aderire tenacemente al programma significa questo: che se anche sentissi di essere odiato da te, nondimeno dovrei occuparmi di te, dal momento che siamo qui, tu e io. Ancora una volta, si tratta di mettere il freno alla spontaneità, questa vorace tiranna, seduttrice di ogni condotta.

Scansare Appena accenno a dire qualcosa, rispondi attaccando. Respingi come errore il contenuto di ogni mia possibile argomentazione. Mi contraddici sempre, a prescindere da ciò che dico. Solo il tuo comportamento generale non è contradditorio; con ogni tuo gesto stai riaffermando che ogni mia parola sarà sottoposta a processo, e rigettata; non importa quale sarà il mio tema: senza scampo, lo confuterai e sosterrai il suo contrario. Nemmeno ti importa se, così facendo, entrerai in contraddizione con ciò che hai sostenuto fino a un secondo prima; la tua priorità, entrando in rotta di collisione con i miei argomenti e sgretolandoli con argomenti contrari, è importi. Devo riconoscere subito questo tranello, che potrebbe attirare con prepotenza il mio istinto di reazione e l’impulso a mostrarti che le mie tesi sono più forti delle tue. E devo scansare il duello che mi proponi: è l’unico modo per vincerlo; perché, finisca come finisca, o vinciamo assieme o assieme perderemo.

Provocare Mi dai sempre ragione. Accondiscendi, con assenso sistematico e docile. Questa situazione è l’opposto di un ascolto vero. Non è plausibile che tu mi dia ragione sempre. Se accade, significa che non mi ascolti sul serio, e ciò vuol dire che io, per primo, ho fallito nell’ascoltarti. Un assenso di questo tipo è pericoloso perché potrei inebriarmi del potere apparente che mi conferisci, e perché ottenendo da te una piena remissività ti renderei dipendente da me. Devo invece agire in modo che tu ti sollevi dal tuo stato: e se è questo il nostro obiettivo, sono tuoi nemici l’arrendevolezza, il desiderio di conformarti a me, la paura di deludermi. Lottiamo assieme, no? Questo mi basta: che tu acconsenta a dissentire. Da parte mia mi accerterò che non sia un gioco di parole; proverò a provocarti, in modo da ottenere una reazione differente. Dopo, il coraggio di averlo fatto ti stupirà.

Superare Parli di me, direttamente, senza veli, e sono parole che fanno male. Mi vuoi ferire, qualcosa ti spinge a farlo, o forse semplicemente la tua sofferenza ha cancellato i convenevoli e i camuffamenti della vita cosiddetta civile, lasciando a nudo ciò che pensi. Mi dici, dimostrandolo con precisione, che non valgo nulla. E per confermare che hai ragione, che non valgo niente e quindi non potrò fare niente per te, non ci sarebbe modo migliore che rimanerci male, e reagire alle tue affermazioni con umiliazione o risentimento. Svalutami pure, squalificami, infierisci con tutti gli argomenti che il mio amor proprio ben conosce, e detesta: fallo pure, perché nulla di tutto questo può scalfirmi. Troverai un avversario bene addestrato: per imparare ad ascoltare, ho dovuto lottare contro un nemico molto potente e subdolo, il mio orgoglio; e su questo terreno, per alcuni aspetti, ho vinto, ho superato limiti che mi parevano invalicabili: ecco perché non resterò scioccato dalle tue ragioni così acuminate.

Cedere Ora non mi attacchi frontalmente, ma provi a minare in modo obliquo la mia autostima. Ti riesce bene, perché, per qualche motivo, sai esattamente dove colpire: l’obiettivo delle tue frecce può essere di volta in volta la mia età, o può avere a che fare con il mio mestiere, o con il mio aspetto fisico, o con il luogo dove ti ascolto – in breve, con qualsiasi cosa. Come effetto del tuo preciso scoccare di dardi, accuso il colpo: sì, sei abile; ecco, si insinua il dubbio, si affacciano gli spettri del fallimento, della colpa, già si addensa la nube rossastra della vergogna. Stai riuscendo a demolire i propositi che mi animavano. Non posso permettere a questa parte di te di rovinare quello che potrebbe nascere dal nostro ascolto, ma non riesco a trovare armi da opporre a queste tue, così sottili, così cruente. Poi mi si manifesta la risposta corretta: darò ragione ai tuoi attacchi; l’autostima è un altro di quei preconcetti endemici che, mentre sembrano promettere benessere ed efficacia, sono porte che conducono a labirinti senza sbocco. Infatti, sforzarsi di aumentare la propria autostima è come cercare di sollevarsi da terra tirandosi per i capelli. E perciò: mi fai capire che valgo poco, che non sono all’altezza, che non ti sono utile come scioccamente pretendevo? Ebbene: accetto questa definizione, accolgo il tuo affondo, e arretro sulla posizione che mi fa dire, con sincerità bruciante, che è vero, non sono capace di aiutarti, non ti so ascoltare. E appena lo accetto, nello stesso istante, per effetto di questa ammissione, ogni nube si dissolve: tanto meno sono capace, tanto più mi metto in gioco per diventarlo.

Sventare Vuoi mostrarmi che non sono capace di guarirti? È vero: hai ragione; non lo so fare, non so guarirti. Sarai tu a guarire, non io a guarirti, perché ci sono nodi che nessuno potrà sciogliere al posto tuo. Quanto a me, sarò un custode che sbarra la strada ai parassiti, agli impostori, a chi ti fa fretta: a tutti i nemici, qualunque sia la loro provenienza – vengano essi da te, da altri o da me stesso. Annullando la mia pretesa di salvarti, renderò più aggredibile almeno uno degli ostacoli al tuo riscatto.

Accogliere Vuoi mostrarmi che nessuno soffre quanto te. Non ho il diritto di respingere questa tua tesi, benché non sia troppo difficile metterla in crisi, volgendo lo sguardo attorno. È vero infatti che non posso contraddirti, perché ciascuno vive la propria sofferenza, e non importa in quale punto della scala del male gli «esperti» del dolore, senza averla sperimentata, la collochino: se in alto, se in basso. Nessuna persona soffre quanto te? D’accordo: sia pure. Solamente, non devo colludere con la deriva che potrebbe discendere da questo; una frana che è sempre possibile, e misteriosa e oscura; vorrei accennartene. Uno dei grovigli della nostra natura è che ci affezioniamo al male. In qualche modo, per ragioni su cui nessuno scienziato ha ancora gettato una luce definitiva, il ghigno feroce della sofferenza ha un substrato di piacere. Perciò, corriamo sempre il rischio di attaccarci al dolore. Ci pare, facendo così, di esorcizzarlo? È un modo per sentirci importanti, o per sperare di diventarlo agli occhi di qualcuno? È solo un altro modo per assicurarci che siamo ancora vivi? Vogliamo espiare qualcosa? O farla espiare a qualcuno? Non intendo nemmeno iniziare a sondare queste e altre simili ipotesi. Voglio farti sapere che, se nessuno soffre quanto te, e se ti stava a cuore farmelo sapere, ora lo so, accolgo questa dichiarazione, abbine la certezza di questo; e proprio per questo non lascerò che tu ti crogioli nel tuo dolore. Sarebbe come sabotarti nel modo più bieco.

Raccontare Mi minacci: esplicitamente, mi annunci che mi farai del male. Attacchi diretti come questi sono rari, tra noi civili, tra noi educati: ma mi sono preparato per tempo, ed è per questo che riesco a rispondere. Se reagissi con la paura, non potremmo più parlare davvero. Se rispondessi con un’aggressione pari alla tua, vincerebbe il più forte, e – come sai – perderemmo entrambi. L’ironia? Non sarebbe una mossa saggia: anch’essa non è altro che una forma sottile di aggressione. Far finta di nulla? Potrebbe spingerti ad alzare il tiro. E allora, quello che faccio è prendere la parola e raccontarti quello che sta accadendo: con parole piane, franche, altrettanto dirette; ti dico qualcosa il cui senso è: «Mi stai minacciando, e in questo modo mi rendi difficile, o impossibile, ascoltarti su argomenti che potrebbero essere più utili ai tuoi interessi». Così, ho la speranza che ascolterai ciò che tu hai fatto ascoltare a me, e riconoscerai meglio di me il senso di questo tuo agire. Confido che anche per te, anche in questa occasione, ciò sia sufficiente a smontare l’ostilità dell’attacco. Quasi sempre, chi assale lo fa anche perché spaventato dalla sua stessa foga.

Perdere Mi pare che il tuo intento sia solo farmi perdere tempo. I perché posso provare a immaginarli: ti hanno trascinato qui, tu non volevi venire… e adesso, questo è il modo più facile per sabotare il loro piano. Ma il tuo tempo è il mio, e se accetto di «perderlo», è il nostro che perdiamo, tu e io. Avrai da me, quindi, il più risoluto diniego a prestarmi come complice del tuo piano, che ignorerò. Ora, visto che siamo qui, conviene giocare tutte le carte. Se tu ritenessi che qualcosa di interessante può esserci, in fondo, anche in una situazione forzata come questa, forse apriresti uno spiraglio; e allora, come fartelo pensare? Non ho altri modi che dichiararti la mia disponibilità ad accettare tutto, anche le tue proteste, le tue offese, lo scherno: si tratterà di una esperienza mai da te provata; lo so, perché se così non fosse non ti troveresti nella crisi che ci ha fatti incontrare.

Governare L’eros, i sensi, l’attrazione fisica. Certo che c’entrano, anche qui. Entrano nella stanza in cui ci troviamo e ci ricordano che siamo animali – nemmeno molto abituati a usare la ragione, in effetti. Mi seduci. Se tu lo faccia sapendolo, o se questa carica promani inavvertita dai tuoi modi e dai tuoi toni, non so: sento però le sirene, mi sembra di essere in ballo come Ulisse sulla tolda di una nave sempre più mossa dal vento. Si diffonde un tepore leggero, che sbalza l’equilibrio con virate violente, e dilaga in istanti silenziosi. Posso, devo cercare di essere il capitano che sul ponte più alto della nave promette che farà di tutto per salvare le vite che gli sono affidate: anche a costo di affondare con la sua nave mettendo fine al suo istinto più resistente, quello di sopravvivere. In questo momento sto passando in rassegna tutte le figure di persone che ho conosciuto – per averle incontrate o solo sentite narrare, o lette – e che avevano le caratteristiche fisiche, mentali, emotive, spirituali di questo genere di capitani capaci di governare gli elementi. So già di non essere come loro; so però che anch’essi, prima di essere come li ho conosciuti, erano come me. Questo mi dà forza.

Sublimare Mi domandi amicizia. Essere amici! Non c’è parola più usurata, non c’è richiesta più scontata. Subito, quando due esseri umani si sintonizzano, parte il corteo dei riflessi condizionati e delle ritualità che invitano all’amicizia. Ma accettare sarebbe inimicizia verso di te. Non saremmo amici, se volessimo esserlo. Abbi questa certezza, come ce l’ho io: che qualcosa è riservato agli esseri umani, di più alto dell’amicizia, e che questo dono sovrumano è possibile; c’è qualcosa di molto più sensato del sentimento. C’è un’amicizia che oltrepassa l’amicizia animale e biologica, che ha a che fare con obblighi a cui ci si vincola liberamente, che si basa sulla dedizione risoluta, sulla volontà e sul «nonostante». È la sublimazione dell’amicizia. Abbi come punto fermo questa verità, nota a tutti: il medico che diventasse amico del suo paziente non lo saprebbe più curare. Farò conto di essere medico, per te, in questo momento.

Dissimulare Quello che adesso stai dicendo mi spaventa. Credevo di aver fatto i conti con le mie paure – in verità, con la paura: questa compagna della condizione umana, questa costante del mio mestiere. E invece, ecco una sua nuova manifestazione, evocata senza preavviso da una tua certa inarcatura su una specifica parola, da una larvata allusione, balenata e poi riavvolta nel flusso delle immagini che stai srotolando. Ora è propriamente il momento del coraggio: cioè, di mostrare indifferenza alla paura, nonostante la paura. È una belva astiosa, un morbo contagioso: se te la mostrassi, rimbalzerebbe tra noi due, ingigantendosi a ogni passaggio. È mio preciso dovere disinnescarne la spirale viscida prima che prenda forma. Tu hai bisogno di sentire che la paura non può intaccare la mia apertura verso di te. Cercherò di essere all’altezza di questa esigenza. Fingerò di non aver paura, perché dissimulare la paura è uno dei modi in cui si esprime il coraggio. Ma si può dissimulare, cioè fingere, quando ci si dedica all’ascolto? Sì, e non farlo per ragioni moralistiche sarebbe profondamente immorale.

Incassare Stai sputando veleno contro tutti. A te interessa questo, in questo momento: e io non sono che uno dei tanti bersagli contro cui dirigi i tuoi fiotti di bile. Devo dispormi a incassare, come l’allenatore di boxe che si presta a fare da sacco per i pugni dei suoi atleti. So che quando avrai dato interamente fondo alla tua rabbia senza che nulla te lo abbia impedito, spossato da te stesso, in te stesso resterà un atomo di chiarezza; allora, in un modo che adesso nemmeno immagini, ti accadrà di vedere meglio ogni cosa. In quel momento sarò pronto a impedirti di diventare preda della vergogna per aver perso il controllo. Sempre avrò cura di far sì che tu salvi la faccia, perché il tuo volto è il mio.

Ospitare Qui l’ascolto è doloroso: mi provoca un male fisico. Mi stai rivelando realtà terrificanti. Ciò che prende forma nelle tue parole, un po’ per volta, all’inizio, e poi con sempre maggiore sicurezza, è un arazzo spaventoso. Le cose che mi dici, assieme a quelle che ancora mi nascondi, disegnano una scena che vorrei non essere costretto a osservare. Ecco la materia ripugnante che ti è toccato trangugiare; il racconto si gonfia di aspetti che le persone assennate vogliono fermamente confinare – e quasi sempre vi riescono – in perimetri valicabili al massimo da parte di uno sceneggiatore di film dell’orrore. Considero che è forse la prima volta che questo cumulo di aberrazioni viene detto a un altro essere umano: se così fosse, provo a dire a me stesso, sia il benvenuto. Che altro potrei fare? Anche il mostruoso troverà spazio in questo spazio segreto che abbiamo stabilito di avere in comune: assieme, gli sottrarremo forza, di modo che ogni parola in più pronunciata dalla tua bocca sarà una ventata in meno di cui l’abominio potrà disporre per continuare i suoi nefasti tumulti. E questo, fino a che lo disinnescherai; certo, non del tutto: ma forse, quel tanto che basta, per adesso, a darti l’impulso necessario a procedere di qualche altro passo nel folto della tua personale selva oscura.

Sopportare È ormai chiaro che in te, oltre la cortina di faticosa normalità che è stata intessuta in anni di pratica sorvegliatissima, permane un nucleo che non può essere chiamato se non con questo nome: follia. La coerenza vischiosa e irredimibile del delirio dà conto della cocciutaggine con cui cozzano le tue idee contro le mie, contro le «nostre», di noi che siamo al di qua della tua prospettiva. Quando ho iniziato a comprendere di che cosa stavi parlando, la paura mi ha invischiato con i suoi lacci di pece: ha fatto capolino con la sua testa di rettile l’antico timore, l’allarme evocato dal trovarsi di fronte a un essere umano distante da noi tanto quanto può esserlo rimanendo tuttavia umano, ed essendo perciò ancora più spaventoso. Nulla del repertorio cristallino della razionalità potrà scalfire la tua costruzione, che proprio per questo appartiene alla follia: anzi, ogni mia asserzione ne proverà la verità, in un ineluttabile teorema perverso e pervertitore. Tacerò, dunque. Tacerò, e ascolterò. Sopporterò il peso dell’antica paura. Eppure, non è proprio questo mio tacere l’inizio di un’azione nuova, di una nuova apertura alla tua verità sbilanciata? Non è forse questa la prima volta che un essere umano ti ricorda che si è umani anche perché si può oltrepassare la natura e le sue difese, e si può dunque sedere sulla soglia dell’assurdo senza trasalire, e si può evitare la derisione che tenta di rimediare al terrore, e rifiutare la fuga nella rassicurante categoria del «pazzo!», perfino ascoltare senza panico e senza indifferenza il rumore sghembo del tuo incubo? Parlami, dunque: mentre lo farai saremo simili, ancora una volta, perché solo un essere umano può perdere la ragione. Parlami. Lo stesso, anche se starai delirando, proverò a stare al tuo fianco, finché ritroverai la strada di casa.

Unire È venuto il momento della confidenza che viola i tabù. Mi hai detto quello che nessun orecchio umano aveva mai udito. Non me ne glorierò: sarei uno sciacallo, un parassita meschino. Il suggello del segreto resterà inciso in me fino a quando le mie stesse labbra saranno sigillate per sempre. Ora che hai parlato di quella realtà, so: ora tutto mi si squaderna con lucente chiarezza, e mi ferisce e mi sgomenta – ora sono in pericolo. Altre figure, altre persone potrebbero pretendere questa verità, che è stata pronunciata qui e ora, nel chiuso del nostro silenzio parlante. C’è di più. Tu potresti rimpiangere il momento in cui hai vinto ogni ritrosia e hai scommesso sull’ipotesi di mettere il tuo segreto in comune con me: potresti, domani o tra anni, voler ritornare da me e reclamare il diritto di essere, tu, l’unica persona a sapere; potresti volere l’assicurazione definitiva che non parlerò. Certo, che ho paura. Perché l’hai fatto? Ti detesto, in questo momento. Detesto me, per non avere sventato in tempo la tua confessione: perché l’hai fatta? Mi faccio orrore perché credo di essere stato mosso dalla vanità nel lasciare che tu proseguissi. Ascolto me stesso, impaurito e arrabbiato. Ma non è me che devo ascoltare. Non c’è un «me», oggi. Quello che è accaduto, qui, oggi, è un’inusuale espansione: una parte di te è venuta a prendere posto in mezzo ai miei pensieri e al mondo che gira loro intorno, per cui siamo in parte la stessa persona, ormai. La tua sorte è ormai legata un po’ alla mia, ed è reciproco. Legami come questo hanno fatto la storia delle comunità umane. Tu e io siamo una comunità. Le mie valutazioni sono poca cosa rispetto all’esserci messi assieme. Confido nella miseria delle mie valutazioni, ossia nella grandezza di tutto ciò che le supera, ed è infinito.

Indirizzare Mi fai capire che stai pensando di toglierti la vita. Non me lo dici in modo provocatorio, o con gli accenti tipici di coloro che strepitano per il gusto di allarmare, né alla maniera colorita dei mitomani: no, ti limiti a buttare là qualche vaga considerazione, lasci in sospeso una o due implicazioni, avanzi qualche malcelato presupposto. Se tu lo dichiarassi apertamente, ne sarei meno toccato. Ho colto questi segnali. Devo occuparmene attivamente: non c’è un secondo da perdere. Ti porto sull’argomento. Con cautela, con somma delicatezza, selezionerò le parole; ma è cruciale che ti giunga il messaggio che capisco bene a che cosa alludi, che cosa mi vuoi far capire. Ne possiamo parlare. Forse potremo vedere la realtà da un punto di vista inusuale, che non sospettavi. Magari questo potrà addirittura far cambiare prospettiva.

Espugnare Questo mi verrebbe da pensare: che non vuoi cambiare per davvero. Ma se così fosse, a che scopo staremmo qui a confrontarci? Alcuni indizi me lo fanno sospettare: però devo chiarire a me stesso che questi indizi si alzano come vapori untuosi dalle teorie di scuola, sono considerazioni di filosofia da bar; illazioni, voci sussurrate che congiurano e convergono su questa facile tesi: tu non cambi, dunque è perché non vuoi farlo. Quando invece, a parlare è la mia insofferenza per il fatto di non vedere emergere risultati dal nostro incontro, dal mio ascolto. È mio compito, ora, espugnare queste voci, rocche fortificate dentro cui alloggiano le mie pretese. Devo ammetterlo: se mi parli per cambiare, e il cambiamento non viene, è per mia colpa; perché non vedo il mio errore, non padroneggio gli eventi, non metto te al primo posto, e insisto e permango in errore senza cambiare i miei modi di pormi di fronte al mistero che sei. Dunque, sono io quello che non vuole cambiare, fino a prova contraria: e questo è il mio dogma, da adesso in avanti, e su questo fonderò il mio piano d’azione. Sì, cambierò per cambiarti: così, all’ultima pagina della storia che stiamo scrivendo a quattro mani, tu sarai cambiato, e lo sarò io, grazie a te.

Faticare Quello che dici, in qualche modo mi fa provare antipatia per te. È un fatto, semplice e inevitabile. Ho l’obbligo di riconoscerlo e di dirlo a me stesso. E non posso farmene una colpa, perché le sensazioni sono biologia, come l’attività dei visceri. Dunque, il fatto di accorgermene e di accettarlo come una cosa naturale, mi mette al riparo da tanti errori. Quindi, è altrettanto chiaro: anche se provo antipatia per te, nondimeno sono con te. L’impegno maggiore che questo mi richiede si tradurrà in risultati migliori, così come il supplemento di fatica necessaria a raggiungere un risultato sportivo può diventare il carburante mentale indispensabile per conseguirlo.

Incrinare Cerchi conferme al tuo quadro: vuoi che ti dica ciò che già pensi. Sarebbe comodo, per me; è anzi una delle cose più semplici da fare, nell’ascolto; è sufficiente captare che cosa l’altro vuole sentirsi dire, e annuire con garbo, sorridere moderatamente, assentire a ogni sua descrizione. Ma ricorda: sei un essere umano perché puoi cambiare. È questo che fa di te un capolavoro. Di più: il modo in cui puoi cambiare è unico, perché lo sei tu, e il cambiamento che tu potrai sperimentare sarà irripetibile, inedito, e non ce ne sarà uno identico per l’intera durata del cosmo. Proverò a farti balenare la bellezza sfavillante di questo concetto, anche a costo di perdere tutto quello che sinora abbiamo intessuto. L’alternativa sarebbe rendersi conto di avere ordito una rete, e di esserci rimasti intrappolati, tu e io. Ecco perché una delle mie azioni, ascoltandoti, è provare a incrinare ciò che costruisci ogni volta che dici qualcosa e ti ascolti mentre la dici.

Negare Stai cercando un alleato per le tue diatribe. Mi esponi le tue ragioni, e il quadro pare coerente: naturalmente, lo è solo perché sei tu che lo dipingi, e ne scegli contorni, colori, luci e ombre. Ti pare scontato che io parteggi per te. Ti stupiresti se così non fosse, se io ti negassi la mia alleanza: non hai esposto nel dettaglio il perché e il percome della tua condizione? Non è lampante che hai patito un’ingiustizia, che gli altri sono malvagi, che hai diritto a un risarcimento adeguato al danno subito? Eppure: come posso parteggiare per te, se non conosco l’intera scena che mi descrivi? Potrei solo affidarmi a te, e alle valutazioni che fai delle altre persone in gioco. Non posso farlo. Sarei parziale, e dunque il mio non sarebbe un ascolto ma una fusione insana, una specie di inglobamento del mio punto di vista all’interno della tua prospettiva. L’ascolto presuppone una distanza, e la implica: la distanza deve ridursi, ma non annullarsi; la differenza tra come tu e io vediamo la realtà non può annichilirsi; se così fosse, ne emergeremmo impoveriti. Se poi scoprissi che vuoi manipolarmi per i tuoi interessi, abbi la certezza che te lo impedirei, forse anche abbandonando il campo.

Sfrondare Vuoi una cosa, e al tempo stesso vuoi il suo opposto. Sei inchiodato a questo labirinto senza uscita; e mi chiedi una luce, una via, un appoggio: non posso trincerarmi dietro espedienti machiavellici per scansare la responsabilità di indirizzarti, né accomodarmi nelle rituali frasi come «devi trovarla tu, la via d’uscita». Nemmeno dovrei influenzarti, se influenzare significa restringere per qualche tempo lo spazio illimitato delle tue possibilità di scelta; ridurre la libertà, ossia l’umanità. Eppure, è certo che ogni mia mossa e ogni mio silenzio ti influenzano; tanto più adesso, in questa tua crisi. È impossibile non influenzare, e quindi sarebbe stupido puntare a non farlo. Piuttosto, conviene scegliere il modo più sano di farlo, e provarci. Se vuoi una cosa e anche il suo opposto, forse quello che devo fare è provare ad aiutarti a ragionare meglio. Posso tentare di sfrondare i legacci che ti avvinghiano e ti impediscono un passo spedito. Aumentare la logica dei tuoi pensieri è un obiettivo giusto e sensato. Per conseguirlo, posso anche ridurre momentaneamente le tue possibilità di scelta: posso persuaderti, posso orientarti, influenzarti. Questo è precisamente il modo in cui è lecito esercitare un’influenza: nel restringere per qualche minuto la finestra delle tue scelte possibili c’è la chiave per poi riaprirla e spalancarla al di là di ogni aspettativa.

Dissipare Vivi una confusione così grande che non sai nemmeno che cosa vuoi, e se vuoi qualcosa. Se ti ascolto, e perciò ti incoraggio anche a parlare tra te e te, un po’ alla volta la nebbia si diraderà e lascerà il posto a un paesaggio più definito, entro il quale ricomincerai a orientarti. Per dissipare questo buio devo evitare di suggerirti approdi buoni per me, adatti a me: in questo momento la tua vulnerabilità è più acuta, e potresti aggrapparti a ogni mia parola come a una boa nel mare agitato. Ecco perché, ancora di più, devo ascoltarti senza parlare.

Ricominciare Non riesco a capirti. Il mio volontario tacere, tutta la mia attenzione, il mio più franco interesse non sono stati sufficienti. Non riesco a fare mia la tua esperienza: che cosa provi? che cosa pensi? che cosa stai vivendo? Non lo so. Vuol dire che non ti ho ascoltato davvero. Ora posso, ora devo ricominciare da capo.

Spogliare Mi parli di un fatto orribile che ti è accaduto, e che ha cambiato per sempre la tua vita. La rovina si è abbattuta su di te, del tutto imprevista, e ti ha lacerato. Hai provato in tutti i modi a sottrarti, ma la disgrazia ti ha rincorso come un incubo, ti ha raggiunto dove ti vedevi già al sicuro, e infine si è avventata su di te, e ha affondato i canini. La sorte ti ha sbranato. Posso mostrarti, perché lo so (anche se non ti racconterò di me), che da quando la tua vita non è più la stessa, un nuovo spessore può renderla più sensata: quello che ti è capitato ha sbalzato dallo sfondo indistinto dei giorni ciò che sul serio conta, quello che davvero è importante; il tuo dramma ha messo a nudo l’essenziale delle cose, della vita, delle persone, di te. Hai ridotto all’osso la realtà, quella vera. Sia la tua vita, da adesso in avanti, la celebrazione instancabile delle cose fondanti, fondamentali, di ciò che conta davvero. A tanto sarà servito sfrondare l’esistenza da ogni orpello; ed è questo, per la tua sventura, il solo balsamo.

Sostare Ti ascolto parlare della tua disabilità. Vivi in un corpo che ti tradisce, che non si allinea con i corpi degli altri, della maggioranza statistica (almeno, di quella che vediamo noi, qui, al sicuro nei nostri serragli cintati da alte siepi). Non ti ferirò minimizzando i limiti che porti su di te, ma quando sarà il momento ti risponderò che, davvero, sono solo due le possibilità che hai di fronte: vivere un’esistenza penosa a causa della tua infermità, o – nonostante la tua infermità –impegnarti per vivere la vita più sensata, ricca e densa possibile. Nel dirti questo, ti prospetto uno scenario che ha fruttato tanto, a tanti: già nel dirlo, stiamo facendo assieme un passo avanti.

Fronteggiare Mi parli della tua morte: come timore, come proposito reale, come minaccia incombente. E mi ricordi la mia morte. Moriremo. Questo fatto, crudo e duro come porfido, questo fatto contro cui si spuntano le armi del discorrere, non è più – adesso che me ne parli – un corpo estraneo da accantonare con eleganza o con pervicacia. Moriremo, morirò. Me lo ricordi, mentre trafiggi di crocette l’elenco delle parole e delle cose legate alla morte. Mi dici di quando non ci sarai più, di quanto i tuoi cari piangeranno; ti dilunghi sulle cose mai terminate e sui rimpianti; esplori il repertorio universale della perdita estrema e del lutto. È qui che ti devo ascoltare con attenzione suprema, e tacere è imperativo. Che cosa c’è di più vero di questo? La morte è reale più di ogni cosa. Ineluttabile, e inesorabile, e irreversibile. Tanto lo è, quanto ci sforziamo di espellerla dalle nostre giornate, che pure corrono a lei. Ti ascolto, perché finché me ne parli tu esisti, tu vivi, sei qui e la combatti, e la vinci anche in questo momento. Parlarne, quindi, è impedirle di prendere possesso del nostro oggi, finché un oggi esiste. Perciò, scappare da questo argomento sarebbe come gettarti in un pozzo di angoscia, in qualche modo equivarrebbe a lasciarti morire già adesso. Sì, è vero: si muore da soli; ma se siamo in due a specchiarci sul fondo di questo pozzo, togliamo qualche potere al suo veleno, che già oggi, prima del tempo, vorrebbe ammorbarci.

Abbracciare Mi parli di quello che nessuno mai pensa davvero che possa accadere: della morte di chi ami più della tua stessa vita. Ora che ti trovi nella costrizione di parlare di quello che è il più terribile degli argomenti, soltanto ora sai che cosa è davvero la vita. E ora non è più un parlare: è un balbettio, un girare in cerca di parole adatte che pure non esistono, di significati che non si trovano o che si rivelano vuoti. No, non è più parlare: è cercare scampo senza trovare riparo, è negare senza riuscirci; è l’urlo di chi è rimasto, da solo, in fondo alla grotta. E io ascolto, e taccio, e porto su di me la pena e lo strazio che ci fa uguali perché esseri umani, perché consapevoli. È questa squassante consapevolezza, la pena che dobbiamo scontare per il fatto di essere diversi da ogni altro animale. Il sapere è la nostra condanna. «Sapere» vuol dire sperimentare il gusto salato dell’esistenza: un sale che brucia più di quello delle lacrime. L’irruzione dell’insensato, il capovolgimento di ogni ordine, la sovversione di qualsiasi coordinata, così che non c’è più un sopra e un sotto, cosicché la notte non cessa mai di collassare su se stessa: questi sono i temi che devi enumerare adesso. Mentre parli, diventi un sacrario. Come potrò varcarne la soglia? Come potrei osare fuggire davanti a essa? In che modo saprò esistere, resistere al tuo fianco, abbracciarti, quando il fardello è così sfigurato, così difforme dall’abituale esperienza? Solo trattenendo il respiro in ginocchio; provando a rendere sacro ogni nostro secondo.

Accostarsi Mi chiedi conto del mistero del male: che è il mistero della vita, perché se non ci fosse il male a insidiarla, la vita non avrebbe mistero. Potrei propinarti le mie dissezioni del problema, o intorpidirti con accenni autobiografici; ma sarebbero, questi e quelle, viziati dal possessivo «miei». Il male è adesso una presenza che incombe su di te, è solo tua la luce che vacilla sotto l’ombra di quel masso. Deciderò quindi di risparmiarti ogni mia iniziativa, che non sia quella sufficiente a farti toccare con mano il fatto che esiste rimedio almeno alla solitudine, anche di fronte a massi di questa gravità. Proverò a dirtelo tacendo ancora di più, ascoltandoti con ancora maggiore dedizione, facendomi ancora più vicino a te in questa barca su cui siamo, trepidanti, in mezzo a un mare instabile e inafferrabile ed estenuante – ma là, in fondo, c’è un porto: eccolo, lo vedi?

Svelarsi Non riesci più a parlare. La sofferenza ti ingolfa, ti toglie il fiato. Non trovi più le parole. È questo tuo silenzio che ascolto, senza parlare: ma guardandoti, assentendo, respirando anch’io a fatica. Siamo muti, ma parliamo la lingua universale del dolore; e non le permetteremo di sfigurarci: non permetterò che lo facciano la mia urgenza di dire qualcosa, la mia paura di non riuscire a farlo nel modo adatto, il mio desiderio di trarmi subito fuori da questo tuo, nostro stallo. Non riesci a parlare: nonostante ciò, ascolto questo tuo panico che tracima, so che è anch’esso una parola, e quello che più conta è che è «tua», parla di te, è parte di te, per qualche momento vorticoso sei tu. Nella voragine della sofferenza si svela il volto più vero di chi mi sta davanti.

Inabissarsi Mi chiedi se Dio esiste. Nientemeno! Potrei risponderti con le mie opinioni al riguardo, potrei persino provare a fornirti le mie ragioni. Potremmo parlare a lungo e dimostrare tutto e il suo contrario, dimostrare che non si può dimostrare nulla, concludere che non se ne può parlare, che non è serio, che non è da adulti. Però la domanda, questa domanda, tu l’hai posta, e non posso eluderla. È la domanda sul senso della vita, della tua vita. C’è un senso che oltrepassa il senso immediato di quello che accade? O non c’è? È la vera, unica domanda. Provo a risponderti così: non è indifferente se Dio c’è o non c’è; nell’uno e nell’altro caso, si tratta di sbilanciarsi senza rete; ma non si può avere la certezza che un senso ultimo non ci sia, o che ci sia. E quindi si tratta di dare in anticipo, comunque ci si pronunci, senza pretendere di riavere qualcosa in cambio. Eppure, già questo nostro sbilanciarci è un modo per rendere più presente il Mistero. Dare senza avere. Essere per dare. Io per te: quando il «per» indica una moltiplicazione, un’espansione che va oltre la banalità della somma, della giustapposizione, non è già questo un possibile Senso capace di superare la banalità? In questo «per te» non palpita già, in embrione, l’immagine di un Dio creatore, che trae l’universo dal nulla? E nell’ascoltarci veramente (con tutto quello che comporta) non siamo già propaggini di questo Mistero? Non diamo alla luce la luce di un Dio amorevole ogni volta che lottiamo contro l’oscurità? Non siamo al centro della sua vertigine, se sanguiniamo per sanare le ferite altrui?

Scomparire Perché chi parla si manifesti, occorre che chi ascolta si renda, in qualche modo, assente. Ci sono molti modi per farlo; alcuni sono stati ricordati nelle pagine precedenti, e sono una minima parte. Ogni volta che l’ascoltatore si ammanta di invisibilità pur rimanendo presente – anzi essendolo tanto più, proprio in quei momenti – si ha una specie di anticipazione di quello che, di necessità, avverrà in un secondo momento, quando i due si allontaneranno. La separazione è una parte dell’incontro. Abbiamo passato, faccia a faccia, una parte del tempo che ci è stato dato; molto è accaduto, molto è venuto alla luce in questa vicenda antica e sempre nuova dell’incontro. Adesso è il momento di proseguire, di riprendere la rotta. Se ascoltare è servito a qualcosa, il fatto di andare e di lasciarti andare sarà la cosa giusta. Se l’ascolto ha seguito un criterio sano, e ha dato più senso al nostro incontro, avremo nutrito la nostra reciproca libertà. Se l’ascolto è stato vero, siamo diventati persone migliori, tu e io: dunque, il mondo è diventato un luogo un po’ più sensato.

Amare vuol dire soprattutto ascoltare in silenzio. Antoine de Saint-Exupéry

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Frontespizio Esergo Presentazione Premessa Prima parte. Preparazione Conoscere Tacere Attendere Differire Domare Esporsi Rischiare Donare Credere Amare Servire Vigilare Concordare Percepire Osservare Danzare Ascoltarsi Sorridere Intuire Rispettare Dimenticare Respirare Frenare Schierarsi Ammettere Velare Medicare Coltivare Confessare Deludere Ragionare Scivolare Focalizzare

Seconda parte. Azione Acuminare Decifrare Resistere Permettere Rinunciare Decentrare Aderire Scansare Provocare Superare Cedere Sventare Accogliere Raccontare Perdere Governare Sublimare Dissimulare Incassare Ospitare Sopportare Unire Indirizzare Espugnare

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Faticare Incrinare Negare Sfrondare Dissipare Ricominciare Spogliare Sostare Fronteggiare Abbracciare Accostarsi Svelarsi Inabissarsi Scomparire Amare vuol dire soprattutto ascoltare in silenzio. Antoine de Saint-Exupéry

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