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Orson Welles
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André Bazin

Temi di cinema/1

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André Bazin

ORSON WELLES

a cura di Elena Dagrada

Temi di cinema/1

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Temi di cinema /I Collana diretta da Elena Dagrada Titolo originale: Orson Welles Prima edizione: Chavanne, 1950 / Editions du Cerf, 1972 €> 1998 Cahiers du cinema

Traduzione dal francese di Elena Dagrada © Tutti i diritti riservati, 2012 Tipografìa Editrice TEMI s.a.s. di Bacchi Riccardo & C. - Trento È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico.

ISBN 978-88-97371-18-9

la edizione settembre 2005 la ristampa aprile 2012 Precedenti edizioni italiane della seconda stesura (Editions du Cerf, 1972): Il Formichiere, 1980 (traduzione dal francese di Paola Redaelli) Grafica Santhiatese Editrice, 2000 (tradizione dal francese di Elcna Dagrada).

Impaginazione: Lisa Esposito

Impianti c stampa: Tipografia Editrice Temi sas, Trento

In copertina: Orson Welles in Quarto potere

SOMMARIO

INTRODUZIONE di Elena Dagrada

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PREFAZIONI Profilo di Orson Welles di Jean Cocteau Che cos’è il cinema moderno di André S. Labarthe Welles e Bazin di Francois Truffaut

19 25 31

ORSON WELLES (1949 )

61

Un uomo del Rinascimento nell’America del XX secolo

63

L’orco in preda all’infanzia

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Da Citizen Kane a Macbeth

75

Dalla profondità del soggetto alla profondità di campo / >/r/ teatro al cinema

77

79

l >a//a tecnica al linguaggio

80

Conclusione

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6 ORSON WELLES (1958)

101

Premessa

103 103

La rinascita del cinema americano Primi passi. Il teatro e la radio

Il bambino prodìgio Una teatralità che straripa dalla scena Dublino. Prime interpretazioni Gli esordi come regista Il Mercury Theatre Vanno in onda i marziani Hollywood 1939-1941. Il grande dittico

Un contratto senza precedenti Quarto potere L’orgoglio degli A mberson Il grande dittico. Geologia e rilievo

L’ossessione dell’infanzia L’intuizione del piano-sequenza La tecnica delgrandangolo Il decoupage in profondità Uno stile che crea il senso Hollywood 1941-1944. Un genio costoso

Samba e mèlo Un film per Rita La signora di Shanghai Giro d’Europa. Cocciutaggine e versatilità

Macbeth Il terzo uomo Otello Ritorno al teatro Rapporto confidenziale Ritorno a Hollywood. «Impiegare la mia energia»

L’infernale Quinlan

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121 121 123 126 129 129 132 135 137 142

145 145 149 151

153 153 155 157 162 165 171 172

7

La meravigliosa povertà della televisione La vecchia tradizione degli sperimentatori

176 178

Conversazioni con Orson Welles

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di André Bazin, Charles Bitsch e Jean Domarchi I.

181

II. Melodramma e tragedia Meglio dell’avvocato del diavolo Una posizione difficile Abbasso Gide, viva Montaigne Una morale aristocratica Gli intellettuali americani mi sono estranei Alcuni misteri Non sono un tiranno con gli attori L’energia e l’intelligenza di un barbaro la rana e lo scorpione L'influenza del teatro

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INTRODUZIONE

di Elena Dagrada

Ci sono almeno due buoni motivi per leggere - o rileggere - questo libro, e tutt’e due hanno a che fare con André Bazin. Il primo motivo è Bazin stesso, ossia, quel che emerge del suo pensiero e del suo metodo in queste pagine dedicate a Orson Wel­ les. Bazin ne pubblica una prima stesura nel 1950, quando è ancora molto giovane; ha infatti soltanto trentadue anni. L'anno seguente, il 1951, insieme con Jacques Doniol-Valcroze e Joseph-Marie (Giusep­ pe Maria) Lo Duca avrebbe fondato i prestigiosi Cahiers du cinéma (nati da una costola dell'altrettanto prestigiosa Revuedu cinema, che aveva cessato le pubblicazioni tra il 1948 e il 1949). Ma soprattutto tra il '50 c il '58, vale a dire nel corso degli anni che si collocano tra la prima pubblicazione e la seconda stesura di questo libro, Bazin avrebbe scritto numerosi saggi fra i suoi più importanti, poi raccolti nei quattro tomi pubblicati postumi con il titolo Che cos’è il cinema? Il dato interessante è che le due stesure non divergono tanto nel l'atto che quella pubblicata nel '50 (scritta nel corso del 1949 e qui tradotta in italiano per la prima volta) si ferma, per forza di cose, al Macbeth, mentre quella del '58 è aggiornata fino a L’infernale {htinlan, quanto piuttosto nel tono, decisamente più militante c battagliero nella prima, un po' più pacato nella seconda (ma nel '58 Wclles non deve più essere difeso a spada tratta come nove anni prima almeno non in Francia! ). E, soprattutto, divergono per il fatto che tra il '50 e il '58 negli scritti di Bazin si verifica un vero e proprio

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fenomeno di migrazione interna, parecchie pagine dell’ Orson Welles nel ’50 vanno ad irrobustire nuovi articoli (fra cui l’importante “Per farla finita con la profondità di campo”), per poi confluire - modi­ ficate nella forma ma non nella sostanza - nel saggio “L’evoluzione del linguaggio cinematografico”, che è appunto il frutto della fusione di più scritti, nonché uno degli studi più significativi del primo tomo di Che cos’è il cinema? Bazin, così, nella seconda stesura del suo Orson Welles elimina alcune pagine pur importanti - non perché superate, ma perché già ribadite sufficientemente altrove - e al loro posto ricompatta il nu­ cleo analitico più omogeneo dedicato essenzialmente a Quarto potere e a L’orgoglio degli Amberson., più che a La signora di Shanghai e a Macbeth, conservandone inalterata la sostanza ma scrivendo di fatto un nuovo libro. È allora più che lecito considerare queste pagine come un indi­ spensabile complemento a Che cos’è il cinema?, una sorta di appendice al primo tomo dedicato a Ontologia e linguaggio. Vi si snodano i temi cruciali che attraversano più particolarmente quei saggi (in primo luogo, appunto, l’intresse per la profondità di campo). Vi emerge con forza, oltre al talento analitico di Bazin, il suo spiccato interesse per la forma e per l’evoluzione del linguaggio. Vi si ritrova l’inconfondibile qualità della scrittura di cui André S. Labarthc, nella prefazione alla seconda stesura (pubblicata in Francia la prima volta solo nel 1972), mette bene in luce la centralità della metafora. E in particolar modo è in queste pagine - già in quelle pubblicate nel ’50 - che Bazin utilizza, forse per la prima volta c in ogni caso da onomaturgo, l’espressione “piano-sequenza”. Un’espressione che oggi designa essenzialmente un’unità formale, in particolare nella pratica dell’analisi fìlmica, dove un piano-sequenza è appunto una sequenza realizzata in una sola inquadratura (in un solo “piano”). Un’espressione, però, che Bazin concepisce per designare anzitut­ to un concetto, un’idea di regia, un approccio alla messa in scena cinematografica che priviliegi la ripresa in continuità di un’intera azione, di un’intera unità drammatica, rifiutandosi di interromperla con la segmentazione del montaggio (inscindibile per questo dalle sue riflessioni sulla composizione in profondità del piano, ma indiffe-

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rente a cosa si debba intendere per sequenza, termine usato da Bazin come sinonimo di scena o azione). Un’espressione, ancora, che per Bazin possiede fin da subito una precisa valenza storica; a suo avviso, infatti, segna V evoluzione del linguaggio cinematografico in quanto presuppone, quasi avanguardisticamente, il superamento - se non il rifiuto - dei modelli di découpage messi a punto in precedenza, nella fattispecie la frammentazione dello spazio-tempo operata dal montaggio analitico classico (ecco allora che a proposito di cinema delle origini, secondo Bazin, dove mancano le condizioni per questo superamento, non si può parlare di piano-sequenza). Infine, un’e­ spressione che lo porta ad articolare ulteriormente la sua complessa concezione di realismo, poiché il reale, per Bazin, fra le molte altre caratteristiche possiede anche quella di esistere in continuità spazio­ temporale; e il piano-sequenza può dirsi un procedimento realista nella misura in cui restituisce allo spettatore la continuità percettiva della realtà (oltre alla sua complessità, alla sua ambiguità intrinseca, alla sua imprescindibile ambivalenza semantica). Ora, nell’individuare in Orson Welles - che è ovviamente il secondo motivo per cui vale la pena di leggere questo libro - uno stile di regia che privilegia appunto la ripresa in continuità, il ricorso al pianosequenza (o in ogni caso all’inquadratura lunga, in inglese long take), alla profondità di campo c a molto altro, e che proprio per questo sarebbe riconducibile a una particolare concezione di realismo, Bazin ha in qualche modo fatto scuola. L’interesse dell’Orson Welles di queste pagine, perciò, risiede nell’essere l’Orson Welles visto da André Bazin. Ed è un interesse più che sufficiente a compensare l’inevitabile incompiutezza dello studio, che per ovvie ragioni non ricopre l’intera produzione wellesiana. Perché anche Welles è ancora giovane quando Bazin gli dedica questo libro. Nel 1950, addirittura, ha a sua volta solo trentacinquc anni. Ha realizzato ancora pochi titoli, e pur fra mille difficoltà pro­ segue la sua attività cinematografica per molti anni dòpo la morte di Bazin. Oggi, su Welles, esistono ovviamente studi più aggiornati c soprattutto più accurati sotto il profilo filologico. Sono state compiute nuove ricerche approfondite, in molti casi meritevoli di aver scremato la verità dalla leggenda (che nelle pagine di Bazin ha

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il sopravvento soprattutto a proposito della celebre trasmissione ra­ diofonica dedicata a La guerra dei mondi). Altri studi ancora hanno iniziato a dissodare l’arduo terreno delle varianti che intercorrono fra le numerose versioni dei suoi film (un problema che tocca quasi tutti i titoli della filmografia wellesiana, come in parte si evince anche qui nelle dichiarazioni rilasciate dallo stesso Welles a Bazin, Charles Bitsch e Jean Domarchi). Insomma, su Orson Welles esiste ormai una letteratura critica e filologica più robusta e attendibile di queste pagine baziniane. Che restano ancor oggi, tuttavia, un passaggio obbligato. Una tappa imprescindibile per chiunque voglia avvicinarsi a Welles. Nel bene come nel male. E nel male, va detto, è soprattutto il ricorso al concetto di reali­ smo che è stato contestato a Bazin. Specie in arca angloamericana, la maggior parte degli studi su Welles successivi a questo hanno messo in risalto soprattutto la componente barocca o addirittura espressionistica dell’universo wellesiano, che si è voluta vedere in netto contrasto con la lettura baziniana. Le principali critiche mosse a Bazin, in partico­ lare, gli rimproverano di non aver saputo cogliere fin da subito, già in un film come Quarto potere, la centralità del montaggio (inteso appunto in opposizione al suo superamento nel piano-sequenza). O ancora, le deformazioni prospettiche che l’uso di obicttivi grandan­ golari, in Welles così frequenti, conferiscono alla profondità di campo, impedendo di conseguenza una percezione urealistica” dello spazio rappresentato. E certo sarebbe fàcile, a difesa di Bazin, sostenere che quei che non ha visto è perché non ha fitto in tempo a vederclo. Facile e inesatto perché Bazin, in realtà, ha fatto in tempo comunque a vedere l’essenziale (pensiamo a ciò che scrive nella seconda stesura a proposito del montaggio “per inquadrature brevi”, appunto, che caratterizza un film come Otello-, o sulle deformazioni dello spazio dovute proprio all’uso del grandangolo). Bazin, d’altronde, non ha bisogno di essere difeso. Per la buona ragione che si difende benissimo da sé. Basta lasciarlo parlare. Per questo, appunto, vale la pena di leggere o di rileggere queste pagine, qui pubblicate insieme per la prima volta e - per così dire - in ordine cronologico, precedute dalle importani prefazioni che le hanno accompagnate nel corso del tempo: quella di Cocteau, scritta per la

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prima edizione francese; quella di Labarthc, scritta per la pubblica­ zione della seconda stesura; infine quella di Truffaut, scritta per la traduzione americana di quest’ultima. Sono infatti pagine dove - per fare solo qualche esempio fra i numerosi possibili - a proposito del montaggio in Quarto potere Bazin coglie appieno tutta la complessità scrivendo che «Welies utilizza frequentemente un montaggio astrat­ to, metaforico, simbolico, per riassumere lunghi periodi dell’azione (l’evoluzione dei rapporti di Rane con la prima moglie, la carriera canora di Susan) (...) in contrasto (...) con il realismo estremo delle scene in cui gli eventi sono rispettati nella loro integrità»; di modo che «al posto di un decoupage ibrido, dove l’evento concreto viene dissolto per metà nell’astrazione dei cambiamenti d’inquadratura, abbiamo due modalità delia narrazione essenzialmente differenti». Sono pagine - quelle pubblicate nel ’50 - dove lo studioso francese dimostra di saper vedere con sorprendente acutezza dettagli signi­ ficativi come il riflesso di scenografie fuori campo rispecchiatè~rielle vetrine (quelle davanti a cui passeggiano George e Lucy ne L’orgoglio degli Amberson)', e di saper ascoltare, con uguale acutezza, lo spessore del suono articolato anch’esso in profondità, esaltandone la ricchezza, in riflessioni che da sole giustificherebbero un ritorno di interesse per questa prima stesura ingiustamente dimenticata. O ancora, sono pa­ gine dove Bazin afferma, a proposito delle deformazioni prospettiche dovute al grandangolo, che gli «obicttivi grandangolari presentano (...) la caratteristica di deformare sensìbilmente la prospettiva. Danno rimpressionc di uno stiramento in lunghezza, che accentua ancor più la profondità di campo. (...) L’allungamento dell’immagine in profondità, abbinata alla ripresa quasi costantemente dal basso, crea in tutto il film [ancora Quarto potere] un’impressione di tensione e di conflitto, come se l’immagine rischiasse di squarciarsi», negando così decisamente ogni possibile interpretazione ingenuamente “realistica” di una tale rappresentazione dello spazio, che poco oltre lo studioso francese non esita a definire «infernale», poiché sembra venire da terra, c perciò stesso dall’inferno... Perché in Bazin il concetto di realismo è forse discutibile ma Hit l'altro che ingenuo e, soprattutto, niente affatto riconducibile alla semplice idea di “realtà filmata”. Di supplemento di reale posto

14 davanti alla cinepresa. Di nuovo, si veda qui la definizione complessa che ne propone in entrambe le stesure e che rimanda a una concezione comunque astratta; a una concezione di realismo estetico. Se tutto questo non bastasse, c’è ancora almeno un ulteriore motivo per cui vale la pena di leggere questo libro: il modo in cui sposa il rigore del metodo alla passione. Un modo, a tratti, persino commovente, specie per noi che in un certo senso sappiamo com’è andata a finire. A mo’ di esempio basterà citare la bellissima pagina che Bazin scrive a introduzione della seconda intervista a Welles, nel tentativo di trasmettere al lettore, almeno a parole, l’emozione inten­ sa che è stata per lui e per i suoi compagni (’incontro con il grande regista, avvenuto un pomeriggio d’estate, esattamente il 27 giugno del 1958. Le righe in cui confessa, quasi a volersene scusare, di aver talvolta deliberatamente distolto l’attenzione dal senso delle parole, pronunciate in un difficile inglese dal suo interlocutore, per meglio assorbirne il suono, la melodia della voce. Per meglio imprimere nella memoria il ricordo di un incantesimo sonoro, oltre che visivo, che voleva conservare per intero. Precoce in tutto - proprio come Welles - Bazin purtroppo sarà precoce anche nella morte, sopraggiunta a soli quarant’anni, 1’11 novembre successivo a quell’intervista. Quel ricordo - oggi io sappia­ mo - l’avrebbe conservato unicamente per poco più di quattro mesi.

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Nota sulla traduzione

Nella traduzione della seconda stesura di questo libro - scritta da Bazin tutta d’un fiato c terminata poco prima di morire - sono stati conservati i ti­ toli dei capitoli c dei paragrafi aggiunti rcdazionalmente per la pubblicazione, ma è stata esclusa la tele-tcatro-filmografia voluta da Bazin a conclusione del suo studio (si veda la nota 2 alle “Conversazioni con Orson Welles”). I titoli dei capitoli c dei paragrafi della prima stesura, invece, sono di André Bazin. Nel saggio di Truffaut si è scelto di mantenere gli stessi anglicismi conservati nella pubblicazione in lingua francese, ma si sono corrette le occasionali inesattezze attenendosi a quanto corretto anche nella traduzione americana (in particolare, si è corretto il riassunto del fumetto di Schultz dove Truffaut confondeva Linus con Charlie Brown, o dove scriveva 1933 al posto di 1929); gli interventi correttivi che avrebbero invece comportato una modifica del testo, pur apportati nell'edizione americana, qui sono stati segnalati in nota. Anche in Bazin si sono corretti direttamente ne) testo alcuni lapsus cala­ mi (ad esempio: Tahiti al posto di Haiti; trecento al posto di trecentomila; di nuovo 1933 al posto di 1929), inesattezze come le date di nascita di Christopher c Beatrice Welles, o ancora i titoli delle pieces shakespeariane confluite in Five Kings. Ogni altro intervento è invece stato segnalato in nota, specie se la correzione nel testo ne avrebbe comportato la riscrittura o una perdita di senso (ad esempio nell'edizione del '50, dove Bazin attri­ buisce la produzione di The Lady from Shanghai alla RKO - anziché alla < Columbia - alludendo con insistenza al cambiamento dei rapporti tra Welles c la casa che aveva prodotto Citizen Kane). Due i termini lasciati in francese. Uno è decoupage., di uso comune nella pubblicistica specializzata. L’altro è recadrage, solitamente tradotto con (K-ritrasi che qui ci è sembrato opportuno evitare. Si ha recadrage quando, in seguito a un movimento di macchina, un’inquadratura subisce una variazione scalare; per esempio, quando un carrello indietro (effettuato senza stacchi) allarga progressivamente il campo visivo di un’inquadratura che inizia come primo piano di un attore e poi diventa, man mano, piano americano, figura intera, campo totale. È cioè una variazione nell'operazione di cadrage (da cadrei inquadrare), effettuata nel corso della stessa ripresa. Si ringraziano Michèle Lagny, Maria Sebregondi, Maria Tortajada e Marc Vernet per i preziosi suggerimenti.

PREFAZIONI

PROFILO DI ORSON WELLES

di Jean Cocteau

Ho conosciuto Orson Welles ne) 1936 alla fine del mio giro del mondo. È stato a Harlem, a uno spettacolo del Macbeth interpretato da .u tori di colore, strano e magnifico, dove mi avevano portato Glenway Wescott e Monroe Wheeler. Orson Welles era un giovanotto. Macbeth doveva farci incontrare di nuovo al festival di Venezia nel 1948. Fatto curioso, non vedevo alcun legame tra il giovanotto del Macbeth nero e il celebre regista che stava per mostrarmi un altro Macbeth (il suo film) in una saletta del Lido. Fu lui, in un bar di Venezia, a ricordarmi che un tempo gli avevo fatto notare che abitualmente il teatro evita la scena di sonnambulismo, mentre a mio avviso si tratta della scena fondamentale. Il Macbeth di Orson Welles è un film maledetto, nel senso nobile del termine che impiegammo per spiegarci con maggior chiarezza al festival di Biarritz1. 11 Macbeth di Orson Welles lascia gli spettatori sordi e ciechi, e credo proprio che le persone che lo apprezzano (alle quali mi vanto di appartenere) siano assai poche. Welles lo ha girato in fretta dopo innumerevoli prove. Voleva infatti che conservasse uno stile teatrale, cercando di dimostrare che il cinema può posare la propria lente su । igni opera e disprczzare il ritmo che si immagina debba essere quello

1 Allusione al Festival du film maudit, svoltosi a Biarritz, dove Cocteau, Bazin, Ihcsson c altri fondarono Objectif49. [N.d.T.]

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del cinema. Cinema è un’abbreviazione che disapprovo, a causa di ciò che rappresenta. A Venezia, abbiamo sentito ripetere senza sosta questo assurdo Leitmotiv. «Questo è cinema» o «Questo non è cinema». Si aggiungeva anche: «Questo film e un buon film, ma non è cinema» o «Questo film non è un buon film, ma è cinema». Ovviamente ce ne infischiavamo e, intervistati insieme alla radio, Welles ed io risponde­ vamo che ci sarebbe piaciuto sapere cosa fosse un film cinema e non chiedevamo altro che conoscerne la ricetta per metterla in pratica. Il Macbeth di Orson Welles è di una forza libera.e selvaggia. Con il capo coperto di corna e di corone di cartone, vestiti con pelli d’a­ nimali come i primi automobilisti, gli eroi del dramma si muovono nei corridoi di una specie di metropolitana di sogno, in sotterranei distrutti dove l’acqua trasuda, in una miniera di carbone abbandonata. Nessuna ripresa è casuale. La cinepresa è sempre piazzata dove l’occhio del destino può seguire le sue vittime. Talvolta ci chiediamo in quale epoca si svolga questo incubo, e quando incontriamo Lady Macbeth per la prima volta, prima che la cinepresa indietreggi e ce la mostri nel suo ambiente, vediamo quasi una signora in abiti moderni, coricata su un divano di pellicca accanto al telefono. Nel ruolo di Macbeth, Orson Welles si esibisce in una notevole interpretazione tragica e se l’accento scozzese imitato da americani può risultare insopportabile alle orecchie inglesi, confesso che non mi ha disturbato e che non mi avrebbe disturbato neppure se conoscessi la lingua inglese alla perfezione, poiché ci si potrebbe anche aspettare che dei mostri bizzarri si esprimano in una lingua mostruosa, in cui le parole di Shakespeare rimangono le sue parole. In breve, sono il peggior giudice e insieme il migliore di chiun­ que altro nel senso che, senza imbarazzo alcuno, solo l’intrigo mi ha coinvolto e il mio disagio è derivato da esso, anziché da un accento sbagliato. Questo film, ritirato da Welles dalla competizione veneziana e pro­ iettato da Objectif49 nel 1949, presso la Salle de la Chimie, incontra ovunque un’analoga resistenza. Riassume il personaggio di Orson Welles, che disprczza le consuetudini e conosce il successo unicamente attraverso i suoi punti deboli, ai quali il pubblico si aggrappa come a un’ancora di salvezza. A volte la sua audacia è talmente benedetta, è

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talmente baciata dalla fortuna che il pubblico se ne lascia conquistare, come ad esempio nella scena di Quarto potere in cui Rane distrugge un'intera stanza, o in quella del labirinto di specchi ne La signora di Shanghai. Nondimeno, dopo il ritmo sincopato di Quarto potere ì\ pubblico si aspettava un lungo seguito di sincopi e la bellezza placata degli Ambersons lo ha deluso. Era meno fàcile seguire con animo attento la bruma dei meandri che ci conducono dall’immagine insolita del ragazzino miliardario, somigliante a Luigi XIV, alla crisi di nervi di sua zia. Welles che si interessa a Balzac, Welles psicologo, Welles che rico­ struisce vecchie dimore americane, ecco chi indignava i maniaci del jazz e del jitterbutg. Hanno ritrovato Welles con il confuso La signora di Shanghai, lo hanno perduto di nuovo con Lo straniero, e queste montagne russe ci conducono al momento in cui Welles venne da Roma per abitare a Parigi. Orson Welles è una specie di gigante dallo sguardo infantile, un albero pieno di uccelli e di ombre, un cane che ha spezzato la catena c dorme sulle aiuole, un pigro attivo, un folle saggio, un solitario cir­ condato di gente, uno scolaro che dorme in classe, uno stratega che si Unge ubriaco quando vuol essere lasciato in pace. Sembra aver utilizzato meglio di chiunque altro l’incurante an­ datura della vera forza, che si fìnge alla deriva e segue la rotta con l'occhio socchiuso. Quest’aria sperduta che a volte affètta, di orso assonnato, lo protegge dalla febbre fredda e turbolenta dell’ambiente del cinema. Un modo di procedere che gli ha fatto prendere il largo, abbandonare Hollywood e lasciarsi trasportare verso altre compagnie c altre prospettive. Quando lasciai Parigi per New York, la mattina della mia partenza Orson Welles mi mandò un automa, un bellissimo coniglio bianco che muoveva le orecchie e suonava il tamburo. Mi ricordò il coni­ glio che suona il tamburo di cui parla Apollinaire nella prefazione a Picasso-Matisse della mostra Paul Guillaume, che per lui rappresenta la sorpresa dietro l’angolo di un tragitto dato. Quel superbo giocattolo era il vero tratto, la vera firma di Welles, c quando dall’America ricevo un Oscar che rappresenta una donna

22 ritta sulla punta dei piedi, o in Francia mi viene consegnata la piccola Vittoria di Samotracia, penso al coniglio bianco di Orson Welles come all’Oscar degli Oscar, al mio vero premio. L’idioma del cinematografo, lo ripeto, non è fatto di parole. La prima volta che proiettai I parenti terribili nella sala San Marco a Ve­ nezia, in margine al festival da cui avrei dovuto ritirare L’aquila a due teste come lui aveva ritirato Macbeth, eravamo seduti fianco a fianco. Probabilmente aveva difficoltà a capire i dialoghi; ma alla minima sfumatura di regia mi stringeva il braccio con tutte le sue forze. La proiezione era mediocre, c a causa di un amperaggio troppo debole si distinguevano a fatica i volti, così importanti in questo tipo di film. Poiché me ne scusavo, mi disse che la bellezza di un film va oltre gli occhi e le orecchie e non dipende né dal dialogo, né dalle macchine, che deve poter essere proiettato male, sentito male, senza che questo nuoccia al suo ritmo. Sono d’accordo. Talvolta, ad esempio in The Magnificent Amber­ sons, spinge questa convinzione fino a cercare l’antidoto contro la fascinazione in una fotografia sgraziata. Ma, dopo I parenti terribili, al Caffè Florian di piazza San Marco convenimmo che non bisogna cadere da una fascinazione all’altra, né fare affidamento sul prestigio della patina, che equivarrebbe di colpo a dipingere vecchi quadri. Di fatto, né io né Welles amiamo parlare del nostro lavoro. Gli spettacoli della vita ce lo impediscono. Potevamo rimanere a lungo immobili e osservare l’hòtel agitarsi intorno a noi. Questa immobilità avviliva assai gli uomini d’affari indaffarati e i nervosi esperti di cine­ ma. Era simile al supplizio delle gondole quando gli uomini d’affari indaffarati e gli esperti nervosi devono salirvi e sottomettersi alla loro cadenza. Fummo ben presto osservati con occhio torvo. La nostra calma diveniva spionaggio. Il nostro silenzio spaventava e si caricava di esplosivo. Se ci capitava di ridere, era atroce. Ho visto uomini serissimi passare in tutta fretta davanti a noi nel timore di qualche sgambetto. Eravamo accusati del crimine di leso-festival: quello di fare bande à part. Era così poco reale, così vicino a un’ipnosi collettiva che a Parigi Welles ed io non riusciamo a ritrovarci. I suoi passi si dirigono da una parte, i miei dall’altra. Se entra in un

23 ristorante, il proprietario lo informa che sono appena uscito e viceversa. Detestiamo il telefono. Per farla breve, i nostri incontri divengono ciò che devono essere: un miracolo. E questo miracolo avviene sempre quando ce n’è bisogno. Lascio a Bazin il compito di parlarvi in dettaglio di un’opera varie­ gata che non si limita al cinematografo, dove il giornalismo, la burla dei marziani, le regie teatrali di Giulio Cesare e del Giro del mondo in ottanta giorni occupano uno spazio considerevole. Volevo tracciare uno schizzo del profilo di un amico che amo e ammiro, il che è un pleonasmo nel caso di Orson Welles, poiché la mia amicizia e la mia ammirazione sono tutt’uno.

Jean Cocteau, agosto 1949

CHE COS’È IL CINEMA MODERNO?

di André S. Labarthe

Poco tempo prima di morire, André Bazin aveva progettato di pubblicare una nuova stesura dello studio che aveva dedicato a Orson Welles nel 1950, la cui prima edizione era andata esaurita1. Il testo che presentiamo è l’ultima versione - rimasta inedita - di quel libricino così come André Bazin l’aveva rimaneggiato e aggiornato all’indo­ mani dell’uscita parigina de L’infernale Quinlan. Sì tratta, quindi, di un testo importante, che viene a completare i quattro tomi di Che prattutto ne Lo straniero e ne La signora di Shanghai. Esso consiste nel far camminare il personaggio che interpreta verso la cinepresa, ma non lungo l’asse di ripresa, bensì nel farlo avanzare come un granchio, mentre guarda dall’altra parte; lo sguardo non è quasi mai rivolto verso gli occhi del suo interlocutore, bensì al di sopra della sua testa, come se l'eroe wellesiano potesse dialogare solo con le nuvole. L’espressione dello sguardo è, anch’essa, assai particolare: un’aria distratta e malin­

48 conica a un tempo, dolorosamente preoccupata, intenta a suggerire che alle parole pronunciate si sommano segreti pensieri. Questo stile di recitazione, dolcemente allucinato, unico al mondo, è d’una forza poetica ineguagliata. Siamo talmente abituati a considerare Orson Welles come una personalità di rilievo, che dimentichiamo troppo spesso che è un attore prodigioso. Più tardi - quando egli stesso avrà abbandonato il ruolo del primo attor giovane - Orson Welles si troverà ad infondere, non trovo altre parole, ad infondere questa recitazione ad altri: Charlton Heston ne L’infernale Quinlan, Anthony Perkins ne II processo. Nelle interviste che ha rilasciato, Orson Welles ha raccontato in che modo ha girato Otello, in luoghi distanti migliaia di chilome­ tri, improvvisando scenografìe e costumi, utilizzando cinque o sei pellicole di sensibilità differente, filmando di spalle le controfigure incappucciate che sostituivano gli attori chiamati su altri set. Biso­ gnava essere il grande tecnico che era già ai tempi dei suoi esordi per cavarsi d’impaccio, ed è fuor di dubbio che è facendo il montaggio di questo film, che totalizza quasi duemila inquadrature ( Quarto potere ne contiene solo cinqueccntosessantadue, e L’orgoglio degli Amberson certamente la metà), che Orson Welks si è appassionato a questa fase del suo lavoro. Orson Welles è sempre stato un regista musicale, ma prima di Otello faceva musica all’interno delle inquadrature, a partire da Otello farà musica al tavolo di montaggio, vale a dire fra le inquadrature. Se Otello è così segmentato, è perché i passaggi da un’inquadratura all’altra si effettuano talvolta su raccordi di movi­ mento, tal altra su cerniere dei testo, tal altra ancora su inflessioni di voce o degli sguardi. La prima inquadratura lunga del film si ha solo quando Jago, camminando di fianco a Otello, comincia a insinuare il dubbio nella sua mente; la macchina da presa precede entrambi in una lunghissima carrellata sugli spalti. Micheal Mac Liammóir è otti­ mo nel ruolo di Jago e dal modo in cui Orson Welles lo valorizza, rispetto alla macchina da presa e a se stesso, si avverte chiaramente tutta l’ammirazione, la riconoscenza e il rispetto che doveva pro­ vare nei confronti di questo grande attore irlandese che l’aveva fatto debuttare nel 1931 al Gate Theatre di Dublino, e che aveva

49 accondisceso a simular di credere che il giovane debuttante ame­ ricano, che aveva sedici anni e fìngeva di averne venticinque, fosse un grande attore di New York! Se al momento della sua uscita Otello non è stato ammirato a sufficienza è perché Orson Welles, voltando le spalle al tono solenne alla Ejzenàtejn, o a quello accademico e ampolloso alla Laurence Olivier, rifiutando di rientrare nel “genere nobile”, ha cercato di lare meno un capolavoro che un film vivo. Filmando Otello come un thriller, vale a dire riconducendolo a un genere popolare, mi pare che Orson Welles si sia avvicinato maggiormente a Shakespeare. Non ignoro che quest’ultima frase potrebbe farmi rispedire all’aeroporto di Londra, eppure lo stesso Orson Welles ha dichiarato a suo tempo: «La famosa tradizione shakespeariana che viene invocata così spesso è assai meno un dogma che una leggenda. In effetti, non è affatto una tradizione: è fin troppo spesso un semplice accumulo di cattive abitudini». Primato del montaggio! È ancora sotto questo segno che ritrovia­

mo Orson Welles in Rapporto confidenziale, uno dei miei film preferiti, probabilmente perché in esso Welles ricorre alPintera sua gamma. Quando lo gira, con pochissimi mezzi, Orson Welles fa cinema da quindici anni e si abbandona qui a una sorta di ricapitolazione della sua opera. Attraverso il cittadino Kane, in Quarto potere Orson Welles intuiva cos’è la vecchiaia; in Rapporto confidenziale la sente, ed è questo che crea l’emozione, non solo quando guardiamo il perso­ naggio di Arkadin ma anche quello di Jacob Zouk, splendidamente interpretato da Akim Tamiroff. Ugualmente splendidi sono Michael Redgrave, la sposa-bambina Paola Mori, Frederic O’Brady, Mischa Auer, Patricia Medina e Katina Paxinou che, nel ruolo di Sophie, si c truccata esattamente come una baronessa che Welles ammira da tempo, la Baronessa Karen von Blixen-Finecke, alias Isak Dinesen, geniale scrittrice danese di cui adatterà più tardi Storia immortale. I poiché tutta la vita di Orson Welles si svolge all’insegna degli incontri c delle coincidenze, non c’è da stupirsi nell’apprendere che la stessa Karen Blixen, all’inizio del suo romanzo I vendicatori anflcHci, scritto in Danimarca nel 1943, citi i primi versi del poema

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di Coleridge, parafrasati anche all'inizio di Quarto potere^ girato da Orson Welles quattro anni prima: Legendary was the Xanadu where Kubla Kahn decreed His statley pleasure dome: Where twice five miles offertile ground With walls and towers weregrilled round14. Nessun favoloso palazzo per Gregory Arkadin, ma il personaggio è magico per davvero; sembra capace di trovarsi nello stesso istante a Monaco, a Città del Messico, a Istanbul; i testimoni del suo passato muoiono uno dopo l’altro a migliaia di chilometri di distanza man mano che il giovane Van Stratten, ingaggiato dallo stesso Arkadin per rintracciarli, li ha localizzati! Le opposizioni c le differenziazioni di ambienti, luoghi, comportamenti, personalità e modi di morire rispondono al principio dc\Venumerazione che regge la composizio­ ne della maggior parte delle fiabe. Sapevamo che Orson Welles era il regista dell’ambiguità, eccolo divenuto quello dell’ubiquità, in questo film dove calza, come l’orco di Charles Perrault, gli stivali delle sette leghe. Quando, in una scena ambientata in un aeroporto, Gregory Arkadin trova l’aereo completo ed offre urlando diecimila dollari al viaggiatore che gli cederà un biglietto, abbiamo qui un bellissimo equivalente deH’appcllo di Riccardo III: «Il mio regno per un cavallo». Grazie a Welles, Shakespeare diviene di casa in un aeroporto. Si girano molti film che si pretendono “internazionali” ma solo quelli di Orson Welles lo solo per davvero, voglio dire nello spirito. Il nome di Arkadin è così bello che mi sono chiesto a lungo da dove venisse, fino al giorno in cui ho assistito a una rappresentazione de II gabbiano di Óechov, dove il personaggio dell’attrice si chiama Irina Arkadina. Quando l’uso delle videocassette sarà generalizzato e guarderemo a casa i film che amiamo, chi possiederà una copia di Rapporto confi­ denziale sarà a lucky man. 14 Qui - diversamente dall’edizione americana - Truffimi sostituisce i primi due versi di Coleridge (che in Quarto potere compaiono come menzione grafica) con la loro parafrasi pronunciata dallo speaker del cinegiornale News on thè March. [N.d.T.]

51 Eccoci giunti a L’infernale Quinlan, dove Orson Welles si invecchia c si imbruttisce come per dimostrare, esagerando, che ha rinunciato una volta per tutte a interpretare ruoli da primo attor giovane, benché all’epoca, nel 1957, abbia solo quarantadue anni. André Bazin, che ha tanto amato Orson Welles e l’ha capito così bene, è morto pochi mesi dopo aver visto L’infernale Quin­ lan. Eppure, si noti come la descrizione che Bazin fa dell’ispettore Quinlan potrebbe applicarsi all’interpretazione che Orson darà di l'alstaff: «Vecchio alcolizzato che succhia caramelle per resistere alla tentazione del whisky, brutto, obeso, l’arcangelo non è più che un povero diavolo che esercita il suo genio irrisorio nella meno nobile delle occupazioni». Viceversa, descrivendo Macbeth e Otello, Bazin sembra analizzare L’infernale Quinlan: «Non meravigliamoci se i due film shakespeariani di Welles sono appunto due delle tragedie maggiormente improntate alla doppia tematica de La bella e la bestia, né soprattutto se il suo adattamento invoca l’innocenza per Macbeth e la pietà per Otello. Non tanto la grandezza nel male benché grandezza vi sia -, ma l’innocenza nel peccato, nella colpa nel crimine». Se ne L’infernale Quinlan Orson Welles si appesantisce e si invec­ chia a piacere, la sua cinepresa volteggia con la foga di un giovanotto. ( igni inquadratura di questo film rivela l’amore per il cinema e il piacere di farne. In molti film hollywoodiani udiamo la musica imponente di Tiomkin o di Max Steiner, che si agita e prende il volo, incollata a immagini disperatamente fisse c statiche. Ne L’infernale Quinlan assistiamo al fenomeno opposto: sono le immagini di Welles che cantano e prendono il volo, mentre la partitura di Henry Mancini resta inchiodata a terra, forse a causa di un missaggio banalizzante, eseguito in assenza del regista. Negli anni successivi all’uscita de L’infernale Quinlan, l’influenza esercitata da questo film si avvertirà spesso, per esempio ne L’arancia meccanica di Stanley Kubrick. Mi sembra infine che L’infernale Quinlan confermi un’idea veri­ ficabile attraverso film come librando sonno, Un bacio c una pistola, Psycho: filmato da un regista ispirato, il thriller più ordinario può di-

52 venire il più emozionante fairy tale. Come dice Jean Renoir: «Ogni grande arte è astratta». Lo confesso, non sono un ammiratore del Processo., che Orson Wel­ les ha girato su commissione, come molti altri suoi film, ma forse con un rispetto paralizzante, poiché stavolta non si tratta più di un thriller da esaltare, ma di un capolavoro della letteratura mondiale, Il processo di Franz Kafka. Spesso, e nonostante la scissione del Mercury Theatre dopo L’orgoglio degli Amberson, Orson Welles si è accostato al suo lavoro nel cinema con lo stesso spirito del direttore di una compagnia teatrale: «Quest’anno allestiremo uno Shakespeare». Qucll’anno, il 1962, fu la volta di un Kafka. Il film è più sfarzoso di tutti quelli che Orson Welles aveva girato da tempo, almeno per quanto riguarda il gigantismo delle scenografìe e l’abbondanza delle comparse. Le due spiegazioni che fornirò per giustificare la mia delusione - dopo aver tuttavia notato che la critica francese fu in generale eccellente - sono che Welles, così a suo agio nel filmare la potenza, l’orgoglio, il dominio, forse non ha gli strumenti per mostrare il loro contrario: la debolezza, l’umiltà, la sottomissione. Fin dall’adolescenza la sua corpulenza e la sua statura lo hanno portato naturalmente a interpretare ruoli di re. Nei suoi film, non si vede quasi mai Orson Welles mangiare o guidare un’automobile (tranne che ne La signora di Shanghai). Lo si vede spesso alzarsi, raramente lo vediamo sedersi. Questo personaggio importante richiede una messa in scena importante; nello schema classico del campo-controcampo, è impossibile immaginare Greta Garbo filmata per tre quarti di spalle. Orson Welles è bigger than life, Kafka è smaller than life. Ecco perché, filmato dalle stesse angolazioni di Gregory Arkadin o Charles Foster Kane, con la macchina da presa a livello del pavimento, l’eroe di Kafka interpretato da Anthony Perkins non ci colpisce a sufficien­ za e rimane a noi lontano. L’ha detto Jean Cocteau: «Il poeta è un uccello che deve cantare sul suo albero genealogico». Ho visto II Processo parecchie volte, e a furia di aspettarvi con impazienza ogni apparizione di Akim Tamiroff sono giunto alla conclusione che il film sarebbe stato kafkiano ed emozionante se tutto il casting fosse stato composto da attori ebrei dell’Europa centrale. Ma il punto di forza del Processo è ancora una volta il montaggio.

53 È in questo periodo che Welles dichiara con decisione: «Per me, il

montaggio non è uno degli aspetti del cinema, è l’aspetto». Hitchcock o Robert Bresson direbbero o dicono la stessa cosa, anche se sull’in­ tenzione e sull’esecuzione le loro idee divergono moltissimo. Per rifinirne il montaggio a suo piacimento, Orson Welles ha consegnato la copia del Processo con cinque mesi di ritardo, poiché è un cineasta più critico di quanto non si creda; quando gira è pieno d’istinto, di impulso e di impeto, ma in seguito, come se giudicasse severamente i suoi slanci, al tavolo di montaggio si critica impietosamente, cosa che mi ha spinto a scrivere molto tempo fa: «I film di Orson Welles sono girati da un esibizionista e montati da un censore». Dopo aver fatto a mia volta la parte del censore, e suggerendo che II processo potrebbe esser stato diretto da Elmyr de Hory, non mi dilungherò ulteriormente su questo film che Bazin avrebbe forse amato e in cui, sicuramente, avrebbe saputo cogliere bellezze che a me sono sfuggite. Falstaffnon è una tragedia di Shakespeare, ma una sceneggiatura di Orson Welles composta a partire da quattro pièces del suo autore prediletto. Già nel 1939, Orson Welles aveva scritto per il teatro un adattamento di quattro testi (fra cui Enrico IV e Riccardo II, che qui ritroviamo) e lo aveva intitolato Five King? . * Lo spettacolo pare fosse un fallimento, mentre qui, in Falstaff, tutto funziona a meraviglia grazie all’idea di ricentrare l’azione sul personaggio di l-’alstaff, che Orson Welles interpreta stupendamente. Quando aveva visto, durante la guerra, il film di Marcel Pagnol La moglie del fornaio, Orson Welles aveva dichiarato: «Raimu è il più grande attore del mondo»; vedendo questo Falstaff, a cui Welles ha conferito un'umanità pagnolesca, questa frase mi ritorna in mente. Attorno a Wellcs-Falstaff, molti grandi attori danno il meglio di sé: Jeanne Moreau, Keith Baxter, Margaret Rutherford, Fernando Rey, John Gielgud, Walter Chiari; ritroviamo qui un casting armonioso come quello di Rapporto confidenziale, una straordinaria fotografia in

r' Evocato da Truffàut in francese (letteralmente: Les cinq rois), il testo era una di Riccardo II, Enrico IV, Enrico V, Le allegre comari di Windsor. [N.d.T.]

miiicm

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bianco e nero di Edmond Richard, un uso della macchina da presa e del suono che rasenta il sublime. Al film successivo farò un unico rimprovero: la sua brevità. Infet­ ti, Storia immortale dura solo cinquanta minuti e per questo la sua carriera è stata quella di un film marginale, mentre si tratta di una bella storia che avrebbe potuto rivolgersi a un pubblico normale. Nell’opera puritana, o in ogni caso assai casta, di Orson Welles, Storia immortale ci offre il primo nudo femminile, quello di Jeanne Moreau, al servizio di una specie di fiaba araba scritta da una danese e che si svolge in Cina! Ciò che da sempre interessa Orson Welles non è la psicologia, non sono i thriller, non sono i film d’amore e d’avventura come se ne fanno da quando esiste il cinema; ciò che io interessa sono le storie in forma di fiaba, in forma di fàvola, le allegorie. Orson Welles, i cui film iniziano tutti implicitamente con: «C’era una volta...», sarebbe il regista ideale per Le mille e una notte. Storia immortale è al tempo stesso una storia e la messa in scena di una storia, poiché racconta di un ricco mercante di Macao, Mr. Clay (Orson Welles), deciso a finanziare la realizzazione, nella vita vera, di una brevissima e intensa storia d’amore che i marinai hanno l’abitudine di raccontarsi a vicenda come se fosse accaduta a uno di loro. Questa storia è quella di un uomo ricco e vecchio, che per avere un figlio offre cinque ghinee a un marinaio affinché trascorra una notte d’amore con sua moglie. Quando la sente, dalla bocca del suo segretario Elishama, Mr. Clay desidera che questa storia diventi vera e così ingaggia una prostituta, Virginie (Jeanne Moreau), e un marinaio, affinché si accoppino nello spazio di qualche ora. All’indomani della notte d’amore, che è stata splendida c intensa «come un terremoto», Mr. Clay muore nella sua poltrona. Qui siamo in un: «C’era una volta...» al quadrato e il film, realiz­ zato con pochi mezzi, è uno dei più intensi del suo autore. Tutti i personaggi sono simpatici e commoventi. La storia, che poggia sulla fortuna di Mr. Clay e sul potere che gliene deriva, ruota intorno al solito rapporto di forza, ma essendo ogni personaggio consenziente ed emotivamente appagato, la fiaba sprigiona una sensazione di ma­ linconica dolcezza, o più esattamente di felicità triste. Welles c Jeanne

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Moreau sono meravigliosi e l’immagine del marinaio che corre per le strade dietro il cab, subito dopo esser stato ingaggiato da Mr. Clay, è indimenticabile. Dando il cambio a Francois Reichenbach, che aveva svolto un reportage sul famoso falsario Elmyr de Hory, vissuto a Ibiza fino al suicidio avvenuto nel 1977 e a cui Clifford Irving aveva dedicato un libro prima di diventare a sua volta celebre grazie a una falsa autobio­ grafia di Howard Hughes, Orson Welles ha composto, con F come Valso, un altro film dove il montaggio è sovrano e dove la forma da pseudo-reportage serve a trasmettere poesia. Orson Welles ha cer­ tamente trascorso più di un migliaio di ore davanti alla moviola, per far cantare insieme un migliaio di inquadrature girate in un tempo senz’altro più breve. Una delle scene finali del film ci mostra Picasso mentre guarda camminiate la bella Oja Palinkas. Tutte le inquadrature della giovane donna sono reali e ce la mostrano in movimento mentre passeggia per le strade; a volte, è vista attraverso le lamine orizzontali di una tenda alla veneziana grigia. È Picasso che guarda la bella attrice ungherese16? Sì e no, perché Orson Welles, diabolico, ha filmato alcune foto di Picasso, dei ritratti in cui gli occhi del grande pittore sono bene aperti e guardano chiaramente verso destra, verso sinistra o direttamente verso l’obiettivo. A volte, le lamine della veneziana si trovano davanti al volto di Picasso, che sembra allora guardare la bella Oja clandestinamente, come un voyeur. Questa scena rappre­ senta una dimostrazione sublime delle possibilità del montaggio, considerato come una mistificazione; è questo il soggetto del film, il cui tono scherzoso e la cui cinica vivacità ci allontanano da Sha­ kespeare per avvicinarci a Sacha Guitry. F come falso - il cui vero intento sotterraneo è probabilmente una risposta di Welles alla polemica sollevata da Pauline Kael - avrebbe potuto chiamarsi La Komance ics tricheur^7. Nel momento in cui scrivo queste righe, nel luglio del 1978, OrOja Palinkas, alias Oja Rodar, è in realtà jugoslava. [N.d.T.] 1 Allusione al titolo di un romanzo di Sacha Guitry, da cui l’autore ha tratto il filn* /z Roman d’un tricheur (vt. I., Il romanzo di un baro), 1936. [N.d.T.]

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son Welles ha girato quindici film, di cui dodici sono stati mostrati al pubblico. Che ne è degli altri tre? Don Chisciotte, le cui riprese sono iniziate più di vent’anni fa, è lasciato volutamente incompiuto da Orson Welles che lo ha girato e fotografato personalmente un po’ dappertutto per il mondo, forse in 16 mm, forse in 35 mm (forse alternando i due formati). I) film è interpretato dallo stesso Welles nel ruolo di se medesimo, dalla giova­ ne Patty McCormack (che forse nel frattempo è divenuta una madre di famiglia) e soprattutto da Akim Tamiroff che è morto da qualche anno, verosimilmente senza aver terminato la sua parte. La ragione che Orson Welles adduce per spiegare l’incompiutezza del film è la necessità di filmare, per la scena finale, l’esplosione della bomba H che distruggerà tutto e tutti, ad eccezione di Don Chisciotte e San­ cho Panza. Nel corso degli anni, intorno a questo film si è creata una tale leggenda che non ci sarebbe da meravigliarsi se Welles preferisse rimanerne l’unico spettatore. D’altronde, stanco di essere interrogato così spesso a proposito di questo film, Welles ha deciso di intitolarlo: Quando terminerà Don Chisciotte * Dead Reckoning^, da un thriller della sèrie noire. Orson Welles ha girato questo film nel 1967, in Jugoslavia, e l’ha finanziato egli stes­ so grazie al favoloso compenso che aveva ricevuto per recitare in un grande film patriottico jugoslavo. Tra gli interpreti figurano: Jeanne Moreau, Lawrence Harvey (morto di recente, poco tempo dopo aver terminato il doppiaggio della sua parte!), Orson Welles stesso e Oja Palinkas, che ritroveremo nei prossimi film di Welles. Si tratta di un buon romanzo di Charles Williams, un’avventura poliziesca che coinvolge i passeggeri di due imbarcazioni. Il film è stato girato con una troupe molto ridotta, con Welles che impugnava personalmente la cinepresa (salvo quando recitava), e con Jeanne Moreau che aveva accettato, oltre al proprio ruolo, l’impiego di script-girl. La motiva­ zione fornita da Orson Welles per non mostrare il film è l’assenza

Titolo della prima stesura della sceneggiatura scritta da Welles per il film The Deep, dal romanzo di Charles Williams Dead Calm, pubblicato in Italia nel 1977 da Longanesi con il titolo Punto morto. [N.d.T.]

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dell’inquadratura finale: l’esplosione al largo di una delle due barche. Personalmente, mi auguro che Orson Welles riesca a girare l’inqua­ dratura di un’esplosione talmente grandiosa da giudicarla degna di essere usata anche come finale per il Don Chisciotte'. Come si vede, la produzione recente di Orson Welles può apparire come una riflessione sul cinema. Mr. Clay in Storia immortale si regala la messa in scena di una storia che gli piace e ne muore. L’indagine di F come Falso mostra che un capo-montatore deve essere un capo­ mentitore., ed era logico che Welles arrivasse a parlare direttamente di cinema in un film. Si dà il caso, infatti, che il nuovo film di cui Orson Welles sta completando le riprese mentre scrivo, The Other Side of the Wind'9, racconti la storia di un vecchio regista hollywoodiano che gira, o ha appena finito di girare, il suo ultimo film. Le riprese sono iniziate nell’estate del 1970, poi Welles le ha interrotte, quindi ricominciate più volte secondo il metodo inaugurato con Otello. Non volendo essere identificato con il personaggio principale, Orson Welles ha esitato a lungo prima di scegliere un attore per la parte del regista Hannaford: filmava quindi le scene “frammentandole” abbondan­ temente e rimandando a più tardi le inquadrature con Hannaford. Nella primavera del 1974 si è deciso ad affidare la parte di Hannaford al collega John Huston. Non dovremmo quindi vedere in questo film un addio al cinema, l’equivalente di ciò che fu II testamento di Orfeo per Jean Cocteau, a meno di non ritenere che nell’opera di Orson Welles un film su quattro abbia un tono testamentario, a cominciare da Quarto potere, per continuare con Rapporto confidenziale e Don Chisciotte. Welles ha sempre mostrato di apprezzare le biografìe, i bilanci esistenziali, i tuffi nel passato. È fàcile prevedere che avrà molto da dirci su Hollywood, i movies fans, i biografi, i reporters... Credo anche di sapere che nel corso del film Hannaford ironizzi sul numero di libri che gli sono stati dedicati, molto superiore al numero di film che ha realizzato! Altrove,

19 Titolo citato da Truflàut in francese (letteralmente: L’autre cóté du vent). | N.d.T.]

58 una bella frase del dialogo fa dire a un personaggio: «Didyou know they had dissolves in Shakespeare?». A mio parete, tutte le difficoltà che Orson Welles ha incontrato al box office, e che hanno certamente frenato il suo slancio creativo, derivano dal fatto che è un cineasta-poeta. I finanziatori di Hollywood (nonché, a onor del vero, il pubblico in tutto il mondo) ammettono la bella prosa, John Ford, Howard Hawks, c persino la prosa poetica, Hitchcock, Roman Polanski, ma assai più difficilmente la poesia pura, la fàvola, l’allegoria, la fiaba. Non è il caso di complimentarsi con Orson Welles per essere rimasto fedele a se stesso c non aver fitto concessioni poiché, anche se volesse, non potrebbe fare altrimenti! Ogni volta che dice: «Azione!», trasforma la vile realtà in poesia. Pertanto, Orson Welles ha girato film con la mano destra, Quarto potere, L’orgoglio degli Amberson, i tre Shakespeare, Storia immortale, The Other Side of the Wind, e film con la mano sinistra, i thriller. Nei film fatti con la mano destra c’è sempre della neve, in quelli fatti con la mano sinistra degli spari, ma tutti rappresentano ciò che Cocteau chiamava «poesia cinematografica». Il vero dramma di Orson Welles, secondo me, risiede nell’aver trascorso da trentanni le sue serate con produttori onnipotenti che gli offrivano sigari, ma non gli avrebbero affidato cento metri di pellicola da impressionare. Sono loro che lo hanno ingaggiato trenta volte, forse più, per ruoli di qualche giorno nei quali era “diretto” (!) da registi dieci volte meno dotati di lui. Sappiamo peraltro che David Lean ha avuto a disposizione dieci mesi di riprese per fare II dottor Zivago, e che Welles ha girato L’in­ fernale Quinlan in cinque settimane! Se si pensa a questo aspetto delle cose, si converrà che gli è stato necessario forgiarsi una forte filosofìa personale per non lasciarsi mai sfuggire pubblicamente una lamentela, una qualche durezza, un pen­ siero aspro, una frase amara. Nell’idea che il mondo del cinema si è fetta di Orson Welles c’è un lato “fuori concorso”, un aspetto “fuori competizione”, outsider, che a volte deve convenirgli e aiutarlo nel suo processo creativo, altre volte infastidirlo c ferirlo. Questo può spiegare il suo famoso reluctant release le cui proporzioni aumentano di anno in anno.

59 La carriera di Orson Welles è perciò difficile, ma non più di quella di Carl Dreyer o di Jean Cocteau, e la sua attività di attore di successo, la sua personalità da divo, rendono meno urgente la sua ricerca di finanziamenti, che è poi il destino di tutti i cineasti. Se non fosse un grande attore, se non fosse sollecitato a recitare nei film degli altri, Orson Welles avrebbe girato più film come regista? Sono propenso a crederlo, ma la sua opera è già notevole così com’è e non dobbiamo dimenticare che se il cinema muto ci ha dato grandi temperamenti visivi: Murnau, EjzenStejn, Dreyer, Hitchcock, il cinema sonoro ne ha portato con sé uno solo, un solo cineasta il cui stile sia immediatamente riconoscibile in soli tre minuti di film, e il suo nome è Orson Welles. È appunto quel che André Bazin ha dimostrato scrivendo: «In Orson Welles, [la tecnica] (...) non è soltanto un modo di fare regia, essa chiama in causa la natura stessa della storia. Con essa, il cinema si allontana un po' più dal teatro, diviene meno uno spettacolo che un racconto. Come nel romanzo, in effetti, qui non è solo il dialogo, la chiarezza descrittiva (...) che crea il senso, ma lo stile impresso al linguaggio».

Francois Truffaut, luglio 1978 (sull’aereo Parigi-Los Angeles)

ORSON WELLES (1949)

I. Un uomo del Rinascimento nell’America del Ventesimo secolo

La fama di Orson Welles è senza dubbio fra le più sconvolgenti che esistano. È legata a eventi di ogni sorta. Non mi riferisco unica­

mente a una varietà di opere straordinaria per un uomo di trentatré anni, che vanno dalla glossa universitaria alla ricetta di cucina per L’Almanach du Fermici passando per la pittura, il giornalismo, la magia, il teatro, la radio e il cinema, nonché un miscuglio sconcer­ tante di uscite pubbliche assai diverse fra loro, quali celebri e ripetute avventure amorose, prese di posizione politiche e clamorose trovate pubblicitarie, dove è difficile distinguere il capriccio dall’astuzia e dall’indipendenza. Questa insolita varietà disorienta, quando non irrita, coloro che cercano di esprimere un giudizio sul suo autore. Certamente non è estranea ai rimproveri e ai sarcasmi di cui la tem­ pestano alcuni, fra i quali si trovano diverse anime belle. Il fatto è che presuppone un’inquietante disparità di valori e sembra mettere sullo stesso piano fenomeni ritenuti incomparabili. Quando finalmente Citizen Kane uscì, dopo mesi di laboriose trattative fra gli avvocati del signor Hearst, quelli della RKO e i pro­ curatori legali di Orson Welles, la facciata del cinema newyorkese era addobbata da una serie di insegne al neon con l’effigie del Wonder Boy. Le luci erano disposte in ordine concentrico, affinché accese in successione dessero l’illusione di un viso che si ingrandisce fino a raggiungere dimensioni colossali. Il tutto era costato non meno di 12.000 dollari. È difficile immaginare Marcel Carnè o René Clair

reclamizzati da una simile pubblicità, persino sulla facciata del Rex o del Gaumont-Palace. Ammettiamolo, questi procedimenti irritano

64 una certa nostra idea della dignità artistica. Ci sembrano accettabili al circo o al music-hall, ma per fortuna il cinema stesso li ha abban­ donanti da tempo. Ci sembra che un uomo che se ne serve non possa essere un vero artista e che la sua arte ne debba risentire. Pertanto, il rimprovero più comune che è stato rivolto a Welles è di essere l’i­ stigatore di un vasto bluff, il suo. A partire da questo pregiudizio, è normale mettere in dubbio anche ciò che di primo acchito potrebbe stimolare la riflessione o l’ammirazione. Reso diffidente da ciò che interpreta come una frode artistica, lo spettatore di buona volontà finisce necessariamente per dirsi che lo si vuole ingannare anche là dove la merce sembra buona. La sua reticenza è tanto più volentieri astiosa in quanto, paradossalmente, l’opera di Welles urta spesso i gusti e le abitudini del pubblico. È sempre confortante disprezzare ciò che non si capisce. Ma gli intellettuali c la gente del mestiere non hanno scuse. Non esiste più nessun pittore al mondo (se non della domenica o del francese Salon des Artistes) disposto a contestare il genio di Pi­ casso, nonostante tutto ciò che il pittore degli Arlecchini c dei Tori ha potuto fare per scioccare i borghesi. Ora, se Welles non ha dalla sua parte l’unanimità del pubblico ( Citizen Kanc e ancor più gli Ambersons hanno avuto, in America, solo un successo di stima c, in Francia, di ciné-club), ha contro di sé la maggioranza dei professio­ nisti del cinema. Ricordo l’indignazione di alcuni di essi, e non dei meno importanti, all’uscita della prima proiezione degli Ambersons in Francia. Avremo occasione di esaminare in dettaglio qualcuna delle loro argomentazioni. Ma è facile cogliervi, al di là degli alibi tecnici, un trasporto e un cattivo umore che non dipendono solo dalla pura coscienza professionale. Già in America, fin dal suo arrivo a Hollywood, Welles ebbe con­ tro di sé delle autentiche cabale di professionisti, ancor prima che si sapesse quale film avrebbe girato. La ragione era semplice. Era riuscito a firmare un contratto unico nel suo genere, che gli riconosceva una libertà totale nella scelta del soggetto e dei mezzi tecnici. Un giorno, Welles interruppe le riprese perché due importanti personalità della RKO erano venute a vederlo girare senza aver preso accordi in pre­ cedenza con lui. Stiamo pur certi che imponendo la sua libertà alla

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galera hollywoodiana Welles scandalizzò i suoi nuovi colleghi assai più che con i campi in profondità e l’audacia dei soggetti. Ma questa argomentazione non vale per la Francia dove, al contrario, credo che anche il più umile dei nostri assistenti gli sarebbe stato riconoscente. In compenso, a parte qualche eccezione, la sua regia fece vedere rosso anche al meno conformista dei nostri professionisti. Superata la prima sorpresa, il tempo di raccoglire qualche idea e si evocò il bluff, l’effetto gratuito, la sistematica ricerca di eccentricità senza fondamento e, del resto, senza originalità, poiché si sarebbe trattato per la maggior parte solo di una reminiscenza dell’espressionismo tedesco o di tecniche di ripresa vecchie di vent’anni. Questi esercizi potevano ingannare solo i giovani o gli ignoranti. Ricordo in particolare l’indignazione di uno dei nostri registi più brillanti all’uscita degli Ambersons, una cui immagine lo aveva parti­ colarmente contrariato: quella del lungo dialogo d’amore in calesse. Questo tipo di scena è sempre girata con un “trasparente”, ovvero con gli attori immobili in studio, mentre il paesaggio scorre dietro di loro grazie a una proiezione su uno schermo smerigliato. Per inversione del movimento, durante la proiezione si ha l’impressione che siano loro a spostarsi nello spazio. Le difficoltà di inquadrare in primo piano, la precisione della recitazione c della registrazione del dialogo, solitamente impongono il ricorso a tale trucco. Di fatto, nei nove decimi di questa scena degli Ambersons, tra George e Lucy tutto avviene come se Welles avesse utilizzato un trasparente, poiché si vede la strada scorrere uniformemente dietro i personaggi. È solo alla fine che la macchina da presa arretra di qualche metro, ruota leggermente su se stessa e mostra il carro, il cavallo e l’intera strada che abbiamo appena percorso. Il nostro regista attribuiva a Welles la diabolica in­ tenzione di voler stupire i suoi colleghi (poiché senz’altro il pubblico non nota nulla di tutto ciò) c di aver fatto costruire la scenografìa di una strada per il solo piacere di coglierli in fallo un istante. Avre­ mo modo di ritornare su questa scena e di vedere, analizzandola in dettaglio, che questa ipotesi è la meno verosimile. Esistono almeno due o tre ragioni esteticamente decisive per condannare l’utilizzo del trasparente in questa precisa sequenza. È chiaro che, come minimo, il nostro regista non era ben disposto verso Welles. Poiché, insomma,

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anche se la scena fosse stata girata per il solo piacere di dimostrare che sì può fare a meno del trasparente, non ci sarebbe niente di scandaloso in una prodezza tecnica che si potrebbe anche ascrivere fra i meriti del suo autore. Lo stesso vale per i famosi soffitti. Il tempo di recuperare qualche ricordo c sono state evocate con un sogghigno le scenografìe con i soffitti di Stroheim. Se ne potrebbero citare molti altri, non foss’altro che quelli di John Ford in Ombre rosse. Ma bisogna essere davvero incompetenti o accecati dalla cattiva fede per farsi beffe al tempo stesso delle riprese con il grandangolo e delle scenografìe con i soffitti; per­ ché l’apertura deU’obiettivo richiede una scenografìa completamente chiusa se non si vogliono mostrare le sovrastrutture dello studio. Certo, [’ingenuità c le prese di posizione dei sostenitori di Welles non sono state sempre meno schematiche; ma il minimo che si possa dire dei suoi detrattori è che nonostante i riferimenti storici o tecnici non hanno dato prova di maggior sangue freddo. È tutto ciò che volevamo dimostrare. Riconosciamo pure allo spettatore profano, così come all’esperto, il pregiudizio della piena buona fede. Ammettiamo che non entri nell’opinione del primo alcuna stupidità estetica congenita e nell’in­ dignazione del secondo nessun disprezzo davanti alla facilità di un successo troppo immediato. Come spiegare la violenza e la severità dei giudizi che a volte sì sentono esprimere su un uomo che ha al suo attivo, all’età di trentatré anni, la messa in scena dì numerose pieces che i migliori critici newyorkesi hanno iodato all’unisono, che si è rivelato senza ombra di dubbio uno dei più grandi direttori di attori del mondo, un prodigioso talento radiofonico e di cui almeno due film ( Citizen Kane e The Magnificent Ambersons) sono opere forse discutibili ma piene di inventiva e grondanti di immaginazio­ ne poetica. Cito di proposito unicamente le qualità per certo più incontestabili di Orson Welles. Quelle che il suo peggior nemico gli dovrebbe riconoscere. Proporrei la seguente spiegazione: il genio si perdona facilmente quando si accompagna alla modestia, o a qualche forma dì stupidità. Ma la mostruosità dei doni artistici divide inevitabilmente il pubblico non appena vi scorge, per di più, la consapevolezza di sé e l’abilità

67 strategica. Welles, in effetti, possiede fra molti altri il genio del bluff. Lo concepisce come una fra le belle arti allo stesso titolo della presti­ digitazione, del cinema o del teatro. In verità, se si dovessero sintetiz­ zare i doni di Welles in una parola e si dovesse ricondurre a una sola le arti sulle quali ha trionfato, direi volentieri che è essenzialmente un uomo di teatro e un regista. Ma a condizione di intendere queste parole nell’accezione più vasta contemplata nel mondo moderno e in particolare nella civiltà americana. Il suo teatro è la vita pubblica e la sua scenografia il mondo occidentale. Ogni mezzo tecnico gli è congeniale per fare regia, dalla pubblicità al neon al microfono della radio, dalla stampa alla fàbbrica di film hollywoodiani, per mostrare e allestire una sorta di spettacolo permanente ogni cui singola opera non è che una componente più o meno riuscita. È a partire da questa

insaziabile volontà di messa in scena, propria di questo genio della creazione permanente di uno spettacolo continuo, che si spiega la prodigiosa capacità di assimilazione delle tecniche più diverse. Il fatto è che dal momento in cui le affronta, esse perdono la loro autonomia e si unificano come altrettante varietà di una sola e stessa arte: una sorta di super-teatro concepito su misura per duecento milioni di persone c di cui egli è l’artefice. Se ci scandalizza è perché il nostro tempo non è più quello di quei mostri del Rinascimento in cui il minimo staterello italiano aveva la sua dozzina di Wonder Boys ad ogni generazione, dove i futuri da Vinci, gli eventuali Michelangelo, raggiungevano la padronanza di più arti già all’età di quattordici anni. Non è mia intenzione peggiorare la si­ tuazione di Orson Welles con questi paragoni eccessivi. Tanto più che il genio è una questione che riguarda la sociologia e la storia quanto la psicologia individuale. Forse oggi Leonardo da Vinci esporrebbe le sue tele alla fiera delle croste, a meno di non essere semplicemente dirigente di una fàbbrica di automobili o pilota di linea. Ci manca ancora la giusta distanza per sapere quali tracce un uomo come Wel­ les avrà saputo e potuto lasciare sulla sua generazione. I più grandi artisti del Rinascimento non sono neppure necessariamente quelli che sembrarono i più brillanti ai loro contemporanei. È anche possibile

che Welles fàccia un cattivo uso del suo genio, che lo sprechi in atti­ vità per natura effimere c deludenti; non voglio neppure anticipare

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un giudizio su ciò che sarà il suo futuro. Ma quel che è certo è che è uno dei rari uomini capaci di dominare la divisione fra le arti che dal Rinascimento separa sempre più la nostra civiltà artistica e, per ciò stesso, in grado di reinventare ciascuna di esse a partire dall’ispirazione originale che reca in sé. Viviamo in un mondo di specialisti. Non solo in ambito scientifico e industriale ma ancor più, e persino prima della specializzazione delle scienze, in ambito artistico. Da qui derivano i nostri radicati pregiudizi contro gli autodidatti enciclopedici. Per di più, questa specializzazione ha promosso forme d’arte raffinate dove trionfa il gusto. L’evidente mancanza di gusto di un.Orson Welles, il suo miscuglio sconsiderato del meglio e del peggio, la facilità con cui sacrifica, se del caso, gli accostamenti raffinati e sottili (che pure abbondano nella sua opera) all’efficacia di un effetto monumenta­ le, urtano inevitabilmente il nostro senso delle gerarchie artistiche. C’è in lui un curioso amalgama di barbarie1, di astuzia, puerilità e genio poetico, che non accettiamo tanto facilmente in uno stesso individuo. Siamo per di più europei e proprio per questo nutriamo solidi pregiudizi contro i fenomeni sociologici che ci sono estranei. In particolare la tecnica pubblicitaria, che al contrario è parte inte­ grante della vita americana. Ma è appunto per essersi perfettamente adeguato al proprio secolo e alla propria società (esattamente come un da Vinci o un Michelangelo lo erano alla politica del loro tempo e lavoravano per i tiranni) che Welles ha potuto agire in armonia con essi e forzare in particolar modo le porte del Santuario americano per eccellenza, mi riferisco a Hollywood - il tempio supremo dove mille vestali alimentano la purezza infrangibile dei miti che centocinquanta milioni di fedeli affascinati ammireranno nell’oscurità religiosa delle sale - per introdurvi, contro il rituale in uso, la macchina infernale della libertà poetica. Mi fa piuttosto piacere che i nostri cineasti, i quali non cessano di vituperare la standardizzazione della produzione americana, si rivelino

1 Roger Lecnhardt mi riferisce questa parola di Welles pronunciata nel corso di una discussione a Mogador: «11 futuro è dei barbari».

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di colpo così sensibili c spacchino il capello in quattro sull’uso che Orson Welles ha saputo fare di una libertà la cui conquista gli è già costata abbastanza cara! Occorre ricordare loro che Welles è il solo, con Eric von Stroheim e Charlie Chaplin, ad aver saputo imporla, almeno momentaneamente, al sistema di produzione hollywoodiano. Non hanno voluto ascoltare la battuta de La signora di Shanghai, l’ultimo him girato nel quadro dei suoi contratti con la RKO2 e per il quale ha astutamente accettato una sceneggiatura poliziesca terribilmente convenzionale, per meglio distruggerla ad ogni metro di pellicola: «Lei si crede davvero indipendente dal denaro?» domanda l’avvocato corrotto. E il marinaio Michael O’Hara, che somiglia, c pour cause, a Orson Welles come un fratello, risponde semplicemente: «Io sono indipendente». Si possono rivolgere molti rimproveri a Orson Welles. Rimproveri più o meno fondati. Ma possiede un merito che i suoi più accaniti detrattori avrebbero difficoltà a contestargli. Quello di aver saputo fino ad ora rimanere libero. È una qualità che, per un poeta, ed anche

per un cineasta, compensa bene, se del caso, qualche peccato contro il buon gusto.

IL L’orco in preda all’infanzia

Certo, Welles non avrebbe neppure concepito l’affermazione senza condizioni della sua libertà artistica se non vi fosse stato spinto, per inquadrarlo nella sociologia americana, da una personalità dalla vitalità singolare. Il bambino prodigio di Kenosha, il figlio della pianista e dell’in­ ventore, che all’età di due anni attirava l’attenzione di uno psichiatra per la sua precocità non ha visto spegnersi, come a volte accade con l’adolescenza, il fuoco creatore della sua infanzia. Al contrario, tutto sembra avvenuto come se questo adulto precoce avesse conservato certi tratti fondamentali dell’infanzia nello sbocciare delle sue facoltà

2 In realtà The Lady from Shanghai fu prodotto dalla Columbia. (N.d.T.)

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di uomo. I) bambino prodigio si è impercettibilmente trasformato in genio puerile. Ma che non si attribuisca a questa parola nulla di peggiorativo, al contrario. Il poeta non è forse colui che ha saputo preservare la propria infanzia? In Welles, semplicemente, questo giovanilismo si afferma spesso con una spudoratezza del resto consapevole e provocatrice. È in tutta evidenza alla base delle sue scelte più originali. Si racconta che visitando gli studi della RKO, messi per contratto a sua intera disposizione, gridò: «Ecco il più straordinario trenino elettrico che un uomo abbia mai posseduto!». È facile scorgere nel modo in cui affronta ciascuna delle sue nuove fatiche d’Èrcole un piacere abnorme per il gioco, manifestazione di un’infanzia ancora viva e che utilizza per soddisfare i doni e la capacità di lavoro straordinari dell’adulto3. In fondo non ha mai smesso di divertirsi con il teatro di marionette ricevuto in dono, nel 1927, dallo psichiatra che lo aveva esaminato. Da qui anche l’egotismo colossale che i suoi detrattori non mancano di rimprove­ rargli ad ogni sua mossa. Egotismo che è troppo fàcile confondere con l’egoismo di cui Welles è completamente privo. Su quest’ul­ timo punto si possono citare mille esempi irrefutabili, che vanno dalle sue convinzioni politiche a tale o tal altro aneddoto della sua vita privata, passando per i legami professionali e sindacali. Nella conversazione privata, Welles è l’uomo più squisito e più cortese e moralmente più generoso che io conosca; posso fornirne un esem­ pio che presenta, per le stesse condizioni in cui ne fui testimone, le garanzie più assolute di sincerità. Accadeva in agosto, a Venezia, in Campo dei Miracoli. Ero andato ad assistere alle riprese di una scena di Otello. Avevo peraltro faticato a trovare la piccola troupe e le attrezzature, di una povertà tutta elisabettiana, nascosti in una stradina. Ero là fra alcuni curiosi veneziani che ignoravano visibil­ mente di cosa si trattasse. Welles, seduto su una misera sedia di ferro presa in prestito alla trattoria più vicina, meditava in attesa di non so cosa, come accade regolarmente nel cinema. Posso assicurare

' Anche i collaboratori con i quali ha litigato attestano questa capacità di lavoro mostruosa: è capace di resistere senza dormire diversi giorni e diverse notti.

71 che non c’era alcuna platea in grado di apprezzare il gesto: Welles, scorgendo una massaia italiana per mano al suo marmocchio, con la sporta sotto il braccio, che guardava da un po’ i preparativi delle riprese, si alzò dalla sua misera sedia di regista e l’obbligò a sedersi con la stessa naturalezza che avrebbe avuto se si fosse trovato in metropolitana. È bene insistere su questa distinzione tra egoismo ed

egotismo. Il primo è un difetto che non comporta in sé alcuna virtù compensatrice. L’egotismo è la sorte comune a tutta una famiglia di artisti che non potremmo rimproverare per questo, salvo negare loro la singolarità più essenziale propria dei creatori. Non ci si deve quindi stupire se la personalità di Orson Welles è così smaccatamente presente nei suoi film, specie in quelli sui quali ha esercitato più o meno direttamente un reale controllo: Citizen Kane, The Magnificent Ambersons, La signora di Shanghai e Macbeth. Uno psicanalista senza dubbio vi scorgerebbe fàcilmente la volontà puerile di affermazione di sé, la rivincita di un’infànzia insoddisfatta: tòrse all’opposto della situazione classica, per eccesso di libertà e di doni. Troppe fate si sono chinate su quella culla, senza lasciare al bambino il tempo di vivere la sua età. Così non c’è da stupirsi se, in definitiva, Quarto potere e L’orgoglio degli Amberson possono essere ricondotti a una tragedia dell’infànzia. L’ultima volontà di Kane, il superuomo, il super-cittadino che consuma la sua fàvolosa ricchezza giocando con e contro l’opinione pubblica, il suo “progetto fondamentale”, come direbbero gli esistenzialisti, è interamente racchiuso in una sfera di vetro dove alcuni fiocchi di neve artificiale piovono a volontà sopra una casetta. Questo vegliardo canuto, che nessuno osa dire rimbambito, che praticamente ha avuto in mano le sorti di una nazione, prima di morire afferra questo ricordo puerile, questo giocattolo salvato dalla distruzione della stanza di bambola di sua moglie Susan. La parola della fine è la stessa dell’inizio: il Rosebud di cui l’indagine cerca invano il significato nella vita avventurosa di Kane non è che la parola scritta sulla tela di una slitta per bambini. Quando l’orgoglio e gli alibi del successo hanno allentato la morsa e il vecchio, alle soglie della morte, si abbandona fino a far scivolare in un’estrema fantasticheria la più segreta chiave dei suoi sogni, la sua parola storica è solo una parola da bambino. Non è proprio con la

72 slitta, il cui ricordo forse incosapevole lo ossessionerà fino alla morte, che colpisce con rabbia, all’inizio della sua vita, il banchiere venuto a strapparlo ai giochi con la neve e alla protezione materna, venuto a rapirlo all’infànzia per farne il cittadino Kane? A great citizen, Kane lo è divenuto per davvero, così come era condannato dalla fortuna; almeno si è vendicato di un’infànzia frustrata giocando con il potere sociale come con una slitta straordinaria, per lasciarsi inebriare dalia vertigine della fortuna o schiaffeggiare chi osava mettere in dubbio la fondatezza morale delle sue azioni e del suo piacere. Smascherato dal suo migliore amico e dalla donna che credeva di aver amato di più, prima di morire Rane confessa che non serve a niente conquistare il mondo se si è perduta la propria infànzia. Se si mettesse in dubbio, sulla base di un solo film, l’ossessione dell’infànzia nell’opera di Welles, Uotgoglio degli Amberson apporterebbe la conferma decisiva. Benché stavolta non si tratti di una sceneggiatura originale, ma di un romanzo la cui trama gli è stata imposta a priori4, Welles è riuscito a permeare il personaggio principale, interpretato da Tim Holt, della stessa ossessione di Kane. Non che George Minafer sia un duplicato di Foster Kane, niente affatto. Il contesto sociale, il momento storico, le vicende biografiche in cui si dibatte l’erede degli Amberson conferiscono al suo dramma personale tutta un’altra parven­ za. Ma nel suo attaccamento tirannico alla madre, e nella sua opposizione all’amore di Eugene, l’industriale che rappresenta al tempo stesso il progresso economico e sociale, ritroviamo la stessa “fissazione” egotica all’universo dell’infanzia, a quell’universo di cui era il re (la scena in cui il giovane George, vestito con curiosi abiti alla Luigi XIV, si rifiuta di chiedere scusa, è altamente significativa). Ma, più ancora di questa facile lettura in filigrana della sceneg­ giatura, quel che può convincerci della profonda autenticità del tema dell’infànzia in Quarto potere e ne L’orgoglio degli Amberson è l’inserimento, nella storia o nella regia, di particolari significativi e visibilmente non premeditati che si sono imposti all’immaginazione

4 In realtà, fu Welles a proporre ai vertici della RKO di portare sullo schermo il romanzo di Tarkington. [N.d.T.]

73 dell’autore unicamente attraverso la loro forza affettiva. Ad esempio, la ricorrente predilezione per la neve, caratteristica di una fantasticheria infantile (le palle di neve degli Enfants terribles). La nostalgia della neve è legata ai nostri primi giochi (a questo bisognerebbe senz’altro aggiungere uno specifico simbolismo della neve, il cui biancore minac * ciato, presentimento di fango, si addice particolarmente alla colpevole innocenza dell’infanzia). Ne L’orgoglio degli Amberson, il primo bacio d’amore di George a Lucy è mascherato dall’alibi di una caduta nella neve. Altro particolare, questa volta della sceneggiatura, il legame di Kane con Susan risale a un incontro avvenuto mentre Kane, solitario, se ne andava a piedi a rivedere in un deposito di periferia gli oggetti che erano appartenuti alla madre. Indirettamente collegato al tema dell’infanzia, dell’egotismo e del bisogno di affermazione sociale è la predilezione di Kane per le statue, attraverso cui persegue visibilmente il desiderio impossibile di divenire un monumento egli stesso. Me ne vorrei se insistessi e citassi troppi esempi, che peraltro non» mancherebbero. Il fatto è che il mio obiettivo non è di procedere a una psicanalisi estetica di Orson Welles, per almeno due ragioni. La prima è che una tale operazione non potrebbe essere condotta seriamente senza un esame molto più approfondito della sua opera fin nei suoi minimi dettagli; la seconda è che sarebbe perfettamente inutile ai fini della mia tesi. Mi basterebbe aver convinto il lettore della presenza, nell’opera di Welles, di temi drammatici e di imma­ gini che testimoniano un’ossessione dell’infanzia in modo tanto più irrefutabile in quanto Welles, appunto, non fa affatto ricorso a sceneggiature di tipo psicanalitico per esprimerla. Citizen Kane e The Magnificent Ambersons sono tutto il contrario di quei film a tesi freudiana con cui Hollywood ci inonda da alcuni anni. Se lo psicanalista vi trova il suo tornaconto, è come in Victor Hugo, Edgar Poe o Baudelaire e non come in un quadro di Salvador Dall. Unica nella storia del cinema, l’opera di Eric von Stroheim tradisce altrettanto chiaramente il suo autore, benché in modo intellettual­ mente assai meno elaborato, ma con una sincerità non meno eguale. Lungi dal proporci la minima tesi sui suoi personaggi e, a maggior ragione, su se stesso, Welles al contrario ce li sbatte in faccia come prove irriducibili ad alcun semplice giudizio morale. Quando scrive,

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nella presentazione di Citizen Kane\ «Signori, Signore, non so cosa penserete di Mr. Kane; non lo voglio neppure immaginare. Vedete, l’ho interpretato io stesso. Suvvia, Kane è un eroe e una canaglia, un mascalzone e una brava persona, un grande innamorato, un grande cittadino americano e uno sporco maiale. Dipende da ciò che si dice di lui», stiamo attenti a non vedervi una provocazione da imbonitore, una semplice precauzione oratoria. Certo, noi con­ danniamo Kane e abbiamo buone ragioni per pensare che anche Welles lo condanni. Ma questo giudizio non è completo, poiché abbiamo anche molte buone ragioni per trovate Kane simpatico. Come il suo amico Joseph Cotten, lo abbandoniamo con rimpianto perché non si può vivere senza schierarsi, ma con quale diritto lo giudichiamo? E siamo sicuri che il giudizio di Dio ratificherebbe il nostro? George Minafer Amberson provoca in noi lo stesso disagio, lo stesso misto di irritazione e simpatia. Questi personaggi sono equivoci e ambigui come la vita, come noi stessi. Oserei affermare che al cinema l’ambiguità è un segno di valore che non trae in inganno. La grande maggioranza dei film, infatti, non supera il livello del romanzo feuilleton e del melodramma. In questo spettacolo a cui chiede un’efficacia immediata e trasparente - il contra­ rio del turbamento - il pubblico sopporta a fatica di non riconoscere distintamente i buoni e i cattivi. A dispetto delle eventuali raffinatez­ ze di certe sceneggiature, della loro più o meno grande sottigliezza psicologica, il cinema non ha per nulla superato il manicheismo che dominava le féeries di Méliès e che ancora regna nel buon vecchio western. Rari sono i film che osano imporci l’immagine di un mondo dove le cose non sono così semplici, dove dobbiamo prender posizione liberamente, foss’anche contro le nostre simpatie. Solo il personaggio di Chariot è riuscito a raggiungere la popolarità più vasta nella massima ambiguità (è vero che questa ambiguità era segreta e che Verdoux, rivelandola, ha diviso gli spettatori). Osando basare i suoi film su personaggi sufficientemente complessi da richie­ dere al tempo stesso la nostra condanna e la nostra simpatia, Welles è andato controcorrente rispetto alle semplificazioni cinematografiche; ha avvicinato un po’ di più il film all’arte del racconto più evoluto: il romanzo.

75 III. Da Citizen Kane a Macbeth L’ossessione dell'infanzia che era facile cogliere in Citizen Kane e ne L’orgoglio degli Amberson sembra non lasci più traccia, è vero, in Journey into Fear, La signora di Shanghai e Macbeth. Tralascerei il primo, una fantasia poliziesca truculenta, dove il gusto del gioco non lascia alcun posto al contrabbando delle idee. Ma La signora di Shanghai, a dispetto di un intrigo poliziesco strampalato, di per­ sonaggi decisamente sconclusionati e di una regia fatta di continui giochi formali, è un'opera altamente significativa nella quale Orson Welles ha forse messo se stesso non meno che in Quarto potere. Il carattere convenzionale della sceneggiatura, che gli era imposta, la presenza di una star sulla cresta dell'onda, Rita Hayworth, perso­ naggio il cui comportamento si impone ancor più imperativamente dcll'argomcnto della storia, all'apparenza vincolavano Orson Welles da ogni parte. Si trattava dell'ultimo film che la RKO gli affidava pensando che, con una tale sceneggiatura e con una vedette come Rita, commercialmente Welles non rischiasse di fere troppo danno. Quanto lontano si era già dal contratto leonino che, meno di cinque anni prima, consegnava la RKO mani e piedi alla fantasia di un Wonder Boy di 25 anni. Anziché rifiutare il film, Welles accettò di fingere di stare al gioco. Dato che non era più in grado di imporre apertamente la propria libertà a Hollywood, avrebbe almeno falsato subdola­ mente tutti gii ingranaggi della macchina. Della storia poliziesca originaria non deve rimanere un granché, anche se per accertarsene bisognerebbe essere in grado di raccontarla e se lo stesso regista ha rinunciato a riconoscervisi (me l’ha detto egli stesso). I personaggi entrano in campo e ne escono senza alcuna logica, si uccidono quan­ do ce n’è bisogno e resuscitano allo stesso modo. Quanto alla bella Rita, in questo gioco svolge un ruolo strano, demoniaco e angelico a un tempo, è il genio cattivo del rude marinaio Michael O’Hara e contemporaneamente la sua vittima. Quando l’abbandona all’alba, morente, fra i vetri in frantumi di un Luna Park deserto, Welles non commette solo un atto provocatorio nei confronti del pubblico, che in assenza di happy end esige almeno che la vedette muoia tra le brac­ cia dell’eroe. Egli abbandona il giocattolo rotto e i miti agonizzanti

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alla loro sorte, fogge con il passo pesante dei suoi celebri piedi piatti, la schiena curva, la bocca impastata delle notti in bianco, nella luce livida di Frisco, mentre la sua voce d’oro commenta, come un coro, la foga dell’eroe dalla porta di servizio del palazzo delle illusioni, e questo commento recita: «Morta, ora devo cercare di dimenticarla. La mia innocenza trionfa... Ma, innocente o colpevole, non vuol dir niente, (’essenziale è saper invecchiare». «Innocente o colpevole..., l’essenziale è saper invecchiare...». Siamo davvero lontani dall’ossessione di Kane? Se non troviamo più le allusioni all’infànzia di un eroe (di cui del resto il film non ci dice nulla c che esce di scena così come era entrato) è perché da Citizen Kane a La signora di Shanghai, poi a Macbeth, il messaggio di Welles si è affinato e non ha più bisogno di ricorrere a un simbolismo psi­ cologico privato e individuale per esprimere la tragedia etica in cui il bene e il male, la colpevolezza e l’innocenza si spartiscono la coscienza dilaniata dell’eroe. Con Macbeth, Welles non poteva certo permettersi le libertà di contrabbando de La signora di Shanghai. Shakespeariano accanito, il suo obiettivo non era altro che servire ancor più fedelmente il teatro elisabettiano di quanto non avesse potuto fare sulla scena. Ma l’interpretazione e la messa in scena, a dispetto di una tecnica molto lontana da quella dei suoi altri film, confermano e coronano la dialettica dei temi di cui abbiamo seguito il cammino nei tre film precedenti. Certuni sono rimasti scioccati, fortemente scandalizzati dal cattivo gusto delle scenografie, aggravato da un’evidente povertà materiale, dal decoupage tecnico (di cui riparleremo più oltre), dalla fotografìa che appariva tutt’a un tratto di una banalità sconcertante dopo le prodezze formali della produzione RKO. Il film fo molto penalizzato per il fatto di essere presentato a Venezia contempora­ neamente a Hamlet di Laurence Olivier, rispetto al quale si collocava indubbiamente agli antipodi. Fra il lusso, la ricchezza, la seduzione plastica di Hamlet e la bruttezza, la povertà, l’austerità di Macbeth, la scelta del pubblico - e anche della critica - fu fatta in anticipo. Resta tuttavia da vedere se il vero teatro non fosse dalla parte di Orson Welles. Certo, non ci spingeremo fino a lodare il suo cattivo gusto o la bruttezza dei costumi; dopo tutto sarebbe meglio se le scenografie

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fossero belle. Ma ancora una volta il gusto, oltre ad essere relativo, non è un valore estetico primordiale: se ne possono preferire altri. Ci importa molto di più sapere quale delle due interpretazioni è la più ricca e si spinge più lontano, tra l’Amleto freudiano di Laurence Olivier o il Macbeth dilaniato tra paradiso c inferno di Orson Welles. Questa scenografìa di cartone incatramato, questi scozzesi barbari, vestiti con pelli d’animali e che brandiscono delle specie di lance a forma di croci in legno nodoso, questi luoghi insoliti grondanti d’acqua, dove regnano nebbie che non lasciano mai indovinare un cielo in cui dubitiamo che ci siano stelle, costituiscono letteralmente un universo da preistoria. Non quella dei nostri antenati galli o celti, ma una preistoria della coscienza, alla nascita del tempo e del peccato, quando il cielo e la terra, l’acqua e il fuoco, il bene e il male non sono ancora del tutto distintamente separati. Macbeth è al centro di questo universo ambiguo, come la sua coscienza nascente, a immagine di quel fango, miscuglio di terra e di acqua, dove il fascino delle streghe l’ha invischiato. Pertanto questa scenografia, che si può trovare brutta, evoca almeno il dramma metafisico di Macbeth, attraverso una specie di dramma tellurico di cui mostra la metamorfosi. L’ambiguità psi­ cologica di Kane è qui totalmente depurata da specificità biografiche; quella di Macbeth, sepolto nei suoi delitti, ma in cui sentiamo tuttavia palpitare un misterioso barlume d’innocenza e quasi la possibilità di una grazia e di una salvezza, innalza al massimo livello dell’etica e della poesia il dramma iniziale di Kane5. Sc Orson Welles non esistesse, Graham Greene avrebbe dovuto inventarlo.

IV Dalla profondità del soggetto alla profondità di campo

Non abbiamo certo tentato di esaurire i temi che l’opera di Welles potrebbe disvelare. Sarebbe stato possibile analizzarla se­ condo prospettive del tutto differenti. Tanto quanto rappresenta s II Reverendo Padre Félix O. Moriion, direttore dell’istituto Pro Deo, ha chiesto .1 Welles se pensava che Macbeth si fosse salvato. Al che Welles rispose: «Forse».

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la ricerca angosciosa di un bambino, Citizen Kane è anche uno dei ritratti più significativi del capitalismo americano e in The Magnifi­ cent Ambersons non vanno ignorati il rigore e l'efficacia dell'affresco sociale. Ma abbiamo preferito mettere in evidenza le infrastrutture comuni a tutta l'opera piuttosto che attardarci sulle particolarità del resto estremamente significative sotto altri punti di vista - delle sceneggiature. Ciò di cui ci piacerebbe aver convinto il lettore, al di là del bluff della pubblicità o delle astuzie del prestidigitatore, è la serietà, la profondità dell’opera di Welles. Lo stesso Welles insiste sull’importanza fondamentale del soggetto quando si parla con lui di cinema. Di primo acchito, i suoi propositi disorientano colui la cui ammirazione è nata dalla prodigiosa immaginazione formale di Quarto potere. Ma si capisce subito che a parte qualche prodezza tecnica l’invenzione artistica, in Welles, è sempre subordinata al per * seguimento di un’espressione intima, alla creazione di personaggi, a una visione del mondo. A teatro gli è accaduto di accumulare una prodigiosa cianfrusa­ glia, come quella sera della “prima” in cui si presentò sul proscenio per dichiarare al pubblico: «I critici invitati alle prove generali hanno scritto che nella mia pièce avevo messo di tutto tranne un elefante e una macchina da cucire, è falso: eccoli». E due macchinisti hanno introdotto la macchina da cucire c l’elefante. Ma gli è accaduto anche di recitare Shakespeare davanti a ten­ daggi neri o persino al muro di mattoni del fondo della scena. The Magnificent Ambersons è costato caro, ma Macbeth è stato realiz­ zato in ventun giorni con scenografie a buon mercato e ho visto Welles a Venezia girare Otello quasi in fretta e furia, con dei pezzi di spago e dei costumi logori. Quando parla di Hollywood, Welles dice che ciò che manca di più ai registi è una poetry. Vale a dire un’invenzione poetica, la creazione di un mondo personale. Ma è proprio perché Welles ha avuto la forza di inventare un universo tutto suo, perché è in primo luogo un inventore di personaggi ed anche un moralista, che ha saputo scompaginare le forme cinema­ tografiche con un’originalità indiscutibile. Non lasciamoci quindi fuorviare dal falso problema della forma e del contenuto. Se ades­ so, per le necessità dell'analisi e la chiarezza del discorso critico,

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occorre parlare della “tecnica” di Orson Welles nelle pagine che seguono, vedremo che tranne qualche pezzo di bravura, del resto assai gradevole, raramente la novità dei procedimenti è stata più indissociabile dalle esigenze del soggetto. È assai difficile pretendere di definire la tecnica cinematografica

di Orson Welles, da un lato perché si è già molto diversificata, ma ancor più perché non possiede uno stile in senso stretto. Lo stile è lui. Può modificarlo a suo piacimento, lui solo resta immutabile, e la sua personalità sa imporre ai generi più diversi un ritmo e un tono inconfondibili.

Dal teatro al cinema Se è vero che Orson Welles, come suggerivamo all’inizio di que­ sto studio, è anzitutto un uomo di teatro, di un teatro commisurato ai mezzi dello spettatore moderno, all’origine ogni sua regia si trova l’attore: e anzitutto quello che dirige meglio: se stesso. Se Welles non avesse sfondato, se la fortuna non gli avesse sorriso, se la radio CBS avesse annullato all’ultimo momento la famosa trasmissione sull’invasione dei marziani, ora Broadway avrebbe pur sempre la più brillante troupe teatrale americana e il più originale fra i regi­ sti. Bisogna davvero essere ciechi o in cattiva fede per contestare a Welles una superiorità senza pari nella direzione degli attori. Quasi tutto il cast di Citizen Kane, proveniente dal Mercury Theatre, af­ frontava per la prima volta uno studio cinematografico; era diretto da un regista di venticinque anni, intento a realizzare il suo primo film. Forse nella storia del cinema ci sono stati altri film altrettanto ben interpretati, ma certo non meglio che da Joseph Cotten, Agnes Moorehead c Dorothy Commingorc... Quanto agli Ambersons, Tim Holt, che fino ad allora aveva interpretato solo ruoli da comparsa nei western, incarna il suo personaggio con tanta convinzione e in­ tensità da confondersi, nella nostra mente, con Orson Welles, di cui visibilmente non è altro che il portavoce. Anne Baxter, nel ruolo di Lucy, riesce con un solo e unico sorriso rigido a esprimere tutto il dolore, tutta la civetteria o tutta la fierezza richiesti dalla sua parte.

80 Ma forse, ancor più dell’eccellenza delle esibizioni individuali, ciò che sorprende nell’interpretazione dei film di Welles è l’unità del tono, la coesione, il ritmo generale della recitazione, visibilmente animata dall’interno da un’unica volontà alla quale ogni attore si è intimamente uniformato. Probabilmente solo un uomo di teatro è capace di comunicare al cinema questa complicità che permette agli attori di regolare la propria recitazione l’uno sull’altro e di accordare la loro parte sullo stesso temp(fi. Risiede senza dubbio in questo uno dei segreti della miracolosa riuscita di Les parents terrible?', i cui in­ terpreti avevano “provato” così tante volte sulla scena che avrebbero potuto spezzare le loro battute davanti alla macchina da presa senza perdere il ritmo da cui erano partiti. Che sia personalmente presente, come in Citizen Kane, o che diriga da dietro le quinte il balletto degli attori, Welles regna al cento per cento sull’interpretazione dei suoi film. Diretti da lui, i grandi attori come Agnes Moorehead divengono sublimi, i meno bravi si rivelano perfetti. Tutti respirano allo stesso ritmo di chi li anima. Anche in questo caso, nella storia del cinema si potrebbero citare solo tre o quattro nomi paragonabili: quelli di Chaplin, di Stroheim, di Renoir...

Dalla tecnica al linguaggio

È ora necessario, se vogliamo addentrarci ulteriormente nell’analisi delle regie di Welles, isolare un po’ arbitrariamente due film, Quarto potere e L’orgoglio degli Amberson. La scelta si basa su due ragioni: Quarto potere è senza dubbio il più importante film di Welles e per giunta il più noto. The Magnificent Ambersons., benché non sia stato portato a termine dal suo autore e Welles si rifiuti di riconoscerne la paternità integrale, è tuttavia con Citizen Kane-a parte Macbeth-il film più wellesiano che conosciamo. Ora, questi due film possiedono, per di più, il merito di essere messi in scena secondo una tecnica di ripresa e di decoupage quasi identica; potremo così trovare nell’uno la 6 In italiano nel testo. [N.d.T.] 7 Les parents terribles(I parenti terribili, Jean Cocteau, 1948). [N.d.T.]

81 conferma delle ipotesi formulate per l’altro. Infine e soprattutto sono essenzialmente Citizen Kane e accessoriamente The Magnificent Am­ bersons che costituiscono finora l’apporto più originale di Welles alla tecnica cinematografica. Lo scherzo di Journey into Fear e il pastiche all’umor nero de La signora di Shanghai sono istruttivi in sé quanto alla personalità del loro autore, ma non aggiungono nulla alla storia della regia, di cui invece Quarto potere è riuscito a scompaginare tutti i canoni. Quando si è visto e rivisto Citizen Kane, e per poco che si sia meditato senza pregiudizi sulla sua regia, le accuse di plagio o di eccentricità formale appaiono fuori luogo per mancanza di logica o per cattiva fede. Certo, Welles ha imposto ai tecnici metodi di lavoro insoliti e ha preteso da loro effetti considerati come praticamente irrealizzabili, secondo le abituali condizioni di lavoro in studio. Prima di cominciare a girare, ha trascorso diverse settimane in scena per farsi spiegare il funzionamento e le possibilità delle apparec­ chiature, pur rifiutando in generale di ascoltare i tecnici quando costoro giudicavano alcune procedure irrealizzabili. Se anche si fosse concesso qualche ebbrezza da bambino viziato nel manipolare il suo “straordinario trenino elettrico”, non ci sarebbe in questo ancora nulla di imperdonabile. Lo stesso Welles oggi dichiara che Citizen Kane è un film troppo barocco per i suoi gusti, non privo di qualche superfluo bric-à~brac. Ma coloro che condannano il film sulla base di questa pagliuzza hanno nell’occhio una trave che nasconde loro i molteplici esempi di invenzione stilistica, di luminosi adattamenti della forma alle intenzioni profonde del soggetto, di cui Citizen Kane è la dimostrazione dall’inizio alla fine. Si è detto anche che Welles aveva trascorso molto tempo a visionare gli archivi della ci­ neteca del Museum of Modem Art di New York. Non ho trovato alcuna conferma di questa affermazione. So solo che Welles nega di aver visto la maggior parte dei film che sono stati evocati a questo proposito e che detesta la scuola espressionista tedesca. Ma anche supponendo che un regista di teatro di venticinque anni, del tutto ignaro di cinema e in procinto di girare un film, possieda la capacità di assimilare in qualche giorno trent’anni di storia del cinema e di ricavarne esattamente quel che gli occorre, ciò dovrebbe piuttosto

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aggiungersi ai suoi meriti. Molti di coloro che glielo rimproverano, al contrario, si trascinano da dieci o vcnt’anni nelle carreggiate di una regia tradizionale, incapaci di concepire che non sia la sola possibile. Per di più, sfogliando i classici Welles non avrebbe fatto altro che quanto siamo soliti lodare in tutte le altre arti. A nessuno viene in mente di rimproverare Gide per aver letto Montaigne. Tralasciamo queste argomentazioni così povere, che si fermano alla superfìcie del problema. È meglio che proviamo a chiarirci su questa famosa “profondità di campo” che ha fatto scorrere tanto inchiostro, non sempre a proposito. Riconosco volentieri agli “anti-wellesiani” che quella degli avvocati (fra cui la mia) non è sempre stata una condotta più limpida della loro e che le argomentazioni avanzate o le spiegazioni fornite erano a volte inattendibili. Il fatto è che l’entusiasmo non è sempre un consigliere migliore dell’astio. Oggi, con un po’ di distanza e le passioni placate, mentre le innovazioni tecniche introdotte da Welles sono divenute moneta comune nella produzione americana, son maturati i tempi per apprezzarne il contenuto e la portata. Prima di elevare il dibattito a una prospettiva critica, svincolata dalle intenzioni soggettive dell’autore, per comprendere l’opera unicamente in se stessa può essere interessante chiedersi come mai Welles sia stato naturalmente spinto a esigere da Gregg Toland lo stile di ripresa che conosciamo. Noteremo così che è assai più verosimile attribuirgli delle intenzioni di artista sincero alla ricerca dell’espressione più adeguata, anziché il desiderio di épater la bourgeois e i colleghi. Uomo di teatro, abbiamo detto, Welles è ossessionato dal primato dell’attore. Per lui la scena da realizzare costituisce un’unità spazio­ temporale. La recitazione di un attore perde di senso, si svuota della sua linfa drammatica come un ramo tagliato, se in essa non viene mantenuto un tegame vivo e sensibile tra i protagonisti e l’ambien­ te. D’altra parte, la scena colta in tutta la sua durata si carica come un condensatore, bisogna che sia tenuta accuratamente al riparo da qualsiasi contatto disturbatore, c ben guardarsi da ogni intervento, prima che abbia raggiunto il voltaggio drammatico necessario a far scoccare la scintilla verso cui tutta l’azione è protesa. Prendiamo come esempio la scena preferita da Welles ne L’orgoglio degli Amberson-.

83 quella della cucina, tra Fanny, George e poi Jack. Dura esattamente dieci minuti, ovvero trecento metri, il tempo di un’intera bobina di pellicola. La macchina da presa resta immobile dall’inizio alla fine8 di fronte a Fanny e a George che, rientrato in quel momento dal viaggio con sua madre, si è precipitato in cucina ad ingozzarsi di torte alla crema preparate dalla zia. Distinguiamo, in questa scena, ciò che possiamo chiamare “l’azione reale” dall’“azione pretesto”. L’azione reale è l’inquietudine trattenuta di zia Fanny, segretamente innamo­ rata di Eugene Morgan, che con fìnta noncuranza cerca di sapere se George e sua madre hanno viaggiato con Eugene. L’azione pretesto, che invade l’intero schermo, è volutamente insignificante e sopraffò le timide ma sofferte velleità di zia Fanny: è la puerile ingordigia di George. A queste due azioni corrispondono due dialoghi: quello vero, fatto di alcune rare domande insidiose, mascherato in qualche modo nell’altro, volgarmente banale, nel quale Fanny esorta George a non mangiare troppo in fretta o ad aggiungere zucchero alla torta. Trattata in modo classico, questa scena sarebbe stata frammentata in diverse inquadrature allo scopo di permetterci di distinguere con chiarezza l’azione reale dall’azione fittizia. Le poche parole rivelatrici dei sentimenti di Fanny sarebbero state messe in rilievo da un primo piano, che ci avrebbe anche consentito di apprezzare la recitazione di Agnes Moorehead in quel preciso momento. Insomma, la continuità drammatica sarebbe stata l’opposto di quella che Welles ci impone qui, con dura oggettività, al fine di condurci con il massimo di effica­ cia alla crisi di nervi finale di Fanny, che esplode brutalmente durante il dialogo insignificante. È stato molto meglio (nonché più teatrale)

renderci intollerabile a poco a poco la tensione che si instaura, un secondo dopo l’altro, tra i veri sentimenti dei protagonisti e il loro comportamento manifesto. Alla fine, il dolore e la gelosia di Fanny scoppiano come un uragano che era nell’aria, ma di cui non si po­ tevano prevedere con esattezza il momento e la violenza. Il minimo movimento della macchina da presa, un primo piano per chiarirci * In realtà, all'inizio e alla fine di questa lunga inquadratura la macchina da presa esegue due movimenti panoramici, brevissimi c simmetrici, che non pregiudicano la validità dell’analisi di Bazin. [N.d.T.]

84 l’evoluzione della scena, avrebbe sgretolato quel fascino denso che ci costringe a partecipare intimamente all’azione. Riesaminando da un altro punto di vista il decoupage in Welles, avremo occasione di analizzare scene costruite in questo stesso modo, così caratteristico. Ma dovrebbe già risultare evidente che solo la tecnica di ripresa di Gregg Toland9* ilera in grado di valorizzare così l’azione. Se si voleva giocare in ogni momento sulla significativa unità della scena, costruire l’azione non su un’analisi logica dei rapporti tra i personaggi e il loro ambiente, ma sulla percezione fisica di questi rapporti in quanto forze drammatiche, facri assistere alla loro evoluzione, fino al punto in cui la scena intera esplode per tutta la pressione accumulata, occorreva necessariamente che la cornice dello schermo potesse rivelare la scena nella sua totalità. Ecco perché Welles ha chiesto a Gregg Toland di risolvere questo difficile problema. È noto, infatti, che almeno per

le riprese illuminate artificialmente è quasi impossibile ottenere una profondità di campo abbondante; l’obbligo di aprire il diaframma dell’obiettivo ancor più che in esterni soleggiati, la continua ricerca di luci morbide e modulate ne sono la ragione tecnica principale (a cui va aggiunto senza dubbio che, dal 1920, le ricerche ottiche sono state sollecitate da ben altre qualità fotografiche). In linea di principio, il problema è di facile soluzione come lo sarebbe per un fotografo dilettante: basta diaframmare a sufficienza. Di fatto, questa operazione sconvolge tutta la tecnica dell’illuminazione e conduce ad abbandonare lo stile soffuso e il chiaroscuro universalmente prati­ cato. C’era bisogno di un operatore della classe di Gregg Toland per correre i rischi inerenti a questa procedura. Poiché sarebbe troppo semplice credere che la profondità di campo non sia altro che una questione di sensibilità della pellicola e di diaframma dell’obiettivo. Nel découpage classico, quando l’operatore deve preoccuparsi uni­ camente del fuoco di un’inquadratura alla volta, ad esempio in una

9 In realtà, il direttore della fotografia di The Magnificent Ambenons ea Stanley Cortez, come lo stesso Bazin corregge nella stesura del 1958, notando peraltro che il cambio di operatore - senza sminuire i meriti di Toland - non modifica lo stile e il decoupage tecnico di Welles. [N.d.T.]

85 scena che ne comporta tre principali e il resto può essere lasciato in un flou ovattato (come avviene soprattutto con i primi piani), non deve fare attenzione ai raccordi di luce e di scenografìa se non per questa singola inquadratura. Al contrario, l’operatore intento a realizzare un’immagine che rappresenta ad esempio uno spazio di venti metri di larghezza per trenta di lunghezza, al cui interno si trovano una scenografìa complessa e più azioni disposte su diversi piani, è un pesista della ripresa. Le difficoltà abituali si ritrovano decisamente moltiplicate. Per questo William Wyler, parlando di Gregg Toland a proposito del film I migliori anni della nostra vita, girato a sua volta interamente in profondità di campo, lo elogiava assai meno per aver saputo risolvere qualche problema ottico che non per il fatto di essere Punico operatore americano in grado di inquadrare e raccordare le scene in profondità. Ma la nitidezza della scena in profondità non poteva bastare all’adesione di Welles a un modello teatrale, gli ci voleva anche una profondità di campo “laterale’’. Per questo Gregg Toland ha utilizzato obiettivi grandangolari molto ampi, avvicinando l’angolo di ripresa a quello della visione abituale dell’occhio umano. Questi grandangolari caratterizzano lo stile delle immagini di Quarto pote­ re, forse ancor più della profondità di campo (ne I migliori anni della nostra vita, Gregg Toland sembra piuttosto esser ricorso ad obiettivi a focale lunga, per ottenere un’angolazione ristretta e un effetto da teleobiettivo). È all’apertura eccezionale di questo campo visivo che sono dovuti in primo luogo i soffitti, divenuti indispensabili per nascondere le sovrastrutture dello studio. La loro messa in opera deve aver complicato eccezionalmente i problemi di illuminazione, tanto più che c’era bisogno di una luce intensa. Più volte si è dovuto provvedere usando dei falsi soffitti di garza, che lasciassero passare la luce. Gli obiettivi grandangolari presen­ tano in compenso la caratteristica di deformare sensibilmente la prospettiva dell’immagine. Danno l’impressione di uno stiramento in lunghezza, che accentua ancor più la profondità di campo. Non arrischierò l’ipotesi che Welles avesse previsto questo effetto; in ogni caso lo ha messo a frutto. L’allungamento deH’immagine in profon­ dità, abbinata alla ripresa quasi costantemente dal basso, crea in tutto

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il film un’impressione di tensione e di conflitto, come se l’immagine dovesse crollarci addosso o squarciarsi. Nessuno può negare che ci sia una convincente affinità tra questa fisica dell’immagine e la metafìsica drammatica della storia. Quanto ai soffitti, soprattutto ne L’orgoglio degli Amberson, essi contribuiscono a collocare i personaggi in un universo chiuso, che le scenografìe schiacciano da ogni lato. In un eccellente e fondamentale studio sullo spazio nel cinema1011 , Maurice Schérer ha messo perfettamente in evidenza il ruolo delle strutture spaziali dell’immagine cinematografica. Del resto, in pittura il si­ gnificato dei punti di fuga è riconosciuto da molto tempo, e oggi son tutti d’accordo nel lodare le famose deformazioni verticali di E1 Greco. Perché diavolo ciò che si proclama esser carico di senso e di alto valore estetico in un’arte tradizionale smette, di colpo, di essere un procedimento nobile quando si tratta di cinema. Per­ ché mai Orson Welles dovrebbe esser solo un esibizionista e uno spaccone quando infonde a tutta un’opera la stessa caratteristica formale? Certamente Orson Welles non è né l’inventore della ri­ presa dal basso, né il primo ad aver utilizzato i soffitti; ma quando ha voluto lavorare di tecnica c sbalordirci con le prodezze formali, ha fatto La signora di Shanghai. L’uso continuo della ripresa dal basso in Quarto potere, invece, fa sì che ben presto smettiamo di esserne pienamente coscienti, pur continuando a subirne l’effetto. È quindi assai più verosimile che il procedimento corrisponda a un

preciso intendimento estetico: imporci una data visione del dram­ ma. Visione che si potrebbe definire infernale poiché lo sguardo dal basso verso l’alto sembra venire da Terra11, mentre i soffitti, precludendo ogni fuga interna alla scenografìa, completano la fatalità della maledizione. La volontà di potenza di Kane ci schiaccia, ma è a sua volta schiacciata dalla scenografia. Per mezzo della macchina

10 La Rcvuc du cinema, n. 14. [Si tratta di “Le cinéma, art de l’espace’’, La Revue du cinéma, n.14,1948; Maurice Schérer è il vero nome di Eric Rohmer. N.d.T. 1 11 Tutti i fotografi sanno che un’illuminazione proveniente dal basso conferisce al volto un carattere demoniaco, mentre la luce che cade dall'alto spiritualizza il soggetto. Nel suo Procès de Jeanne d’Arc Dreyer si è mirabilmente destreggiato con questi significati dell'angolazione di ripresa.

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da presa, siamo in qualche modo in grado di percepire lo scacco di Kane con lo stesso occhio che ce ne fa subire la potenza. Finora ci siamo dedicati a suggerire il perché delle scelte tecniche effettuate da Welles, a partire dalla sua psicologia di creatore, rispetto al suo passato e ai suoi gusti. Ma dobbiamo abbandonare questo punto di vista soggettivo, che potrebbe limitare la portata della nostra analisi. Qualunque siano state le sue intenzioni, coscienti o meno, resta il fatto che i suoi film esistono, indipendentemente da ciò che sappia­ mo del loro autore. L’influenza di Quarto potere sull’evoluzione del cinema, il suo valore esemplare, superano di gran lunga l’ammirevole lezione di regia drammatica che abbiamo cercato di commentare. Oltre all’originale valorizzazione di una data azione, sono le strutture stesse del linguaggio cinematografico quali erano praticate pressapoco universalmente verso il 1940, e lo sono ancora più spesso oggi, che Welles è riuscito a scuotere. Volutamente, non mi soffermerò sull’originalità dell’andamento narrativo di Quarto potere, sulla scomposizione del tempo e sulla molteplicità dei punti di vista. Welles non ne è affatto l’inventore, al cinema, e il procedimento è chiaramente preso dal romanzo. Ma è quanto meno ammirevolmente messo a punto e mai, prima, lo si era messo più compiutamente a frutto. Per la prima volta, ad esempio, abbiamo sullo schermo l’equivalente di un romanzo di Dos Passos. Perché Welles non si accontenta di mettere in discussione la cronolo­ gia del racconto e di intervenire, in questo modo, sul tempo biogra­ fico del suo eroe; completa questo attentato ontologico servendosi della diversità dei punti di vista. Non solo Kane esiste in sostanza unicamente attraverso ciò che è stato “per gli altri”, ma, grazie al simulacro delle attualità cinematografiche, Welles aggiunge un punto di vista che non è tale: il punto di vista obiettivo della fotografìa, che riduce il suo eroe a non essere altro che una traccia, un’ombra, un segno sulla pellicola, afferrato dal caso, negli istanti più diversi: al balcone di Hitler o quando rovescia della malta su un cappotto nuovo mentre posa una prima pietra. Ma non è solo la suggestiva originalità di questo procedimento del racconto adattato al cinema che mi sembra certificare con maggior sicurezza il talento di Welles,

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poiché dopo tutto poteva essersi ispirato ad alcuni romanzi: forse è ancor più Pabilità della sua esecuzione. Nulla di elaborato, né di maldestro nella messa a punto di questo puzzle drammatico, ma al contrario un notevole senso dell’ellissi, un utilizzo diabolicamente abile delle affinità o dei contrasti, al line di superare le lacune cal­ colate del racconto. Benché The Magnificent Ambersons, in linea di principio, sia costruito secondo uno svolgimento cronologico lineare, vedremo che i procedimenti di messa in scena implicano in fondo la stessa discontinuità tra i fatti riportati. Ora, questi sono di natura essenzialmente differente quando si tratta del dramma psicologico o del suo contesto sociale. Da questo punto di vista l’esposizione di The Magnificent Ambersons è un modello del genere. In uno o due minuti, Welles riesce a presentarci simultaneamente i perso­ naggi principali, ad abbozzare l’intrigo e a tracciare un panorama straordinariamente espressivo degli anni Novanta in una cittadina di provincia americana. Ma ancora una volta occorre passare rapidamente oltre queste qua­ lità dei film di Welles, che lo spettatore anche profano non dovrebbe avere particolari difficoltà ad apprezzare, purché sia almeno un poco in buona fede. Bastano un po’ d’attenzione e di riflessione. Per concludere, è meglio soffermarci su novità più specifiche, per cogliere le quali, neU’unità dell’opera, è forse necessaria una certa consuetudine con l’analisi cinematografica. Vedremo, del resto, come esse siano strettamente dipendenti dai soggetti e dal modo in cui questi vengono trattati. Abbiamo visto che per Welles l’interesse della profondità di campo, così accanitamente contestato da alcuni, risiedeva probabilmente in un certo modo di conferire importanza ai personaggi e alle scenografìe. Ma la profondità di campo comporta ben altre conseguenze che la rappresentazione dei soffitti e uno stile di recitazione più conciso. An­ zitutto, i suoi vincoli tecnici rendono molto più difficili i cambiamenti di inquadratura. Tuttavia, Welles non era uomo da fermarsi di fronte a simili difficoltà, se la scelta di far svolgere l’insieme della scena nel campo visivo definito dalla macchina da presa non fosse stata di per sé contraddittoria con la classica pratica del cambiamento d’inquadratura. Meglio, Welles molto spesso accentua il mantenimento di questa unità

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drammatica evitando persino i movimenti di macchina che di fatto ristabilirebbero con la successione dei recadrage^1 un decoupage ap­ parente. Ma forse, per maggior chiarezza, a questo punto è necessario ricordare cosa intendiamo per découpage. Lo scopo di ogni film, qualunque esso sia, è illuderci di assistere a fatti reali che si svolgono davanti a noi come nella realtà quotidiana. Ma questa illusione cela un inganno fondamentale, poiché la realtà esiste in continuità spaziale, mentre lo schermo ci presenta una successione di piccoli frammenti detti “inquadrature”, di cui l’ordine, la scelta e la durata costituiscono appunto ciò che chiamiamo il decoupage di un film. Se, facendo un consapevole sforzo di attenzione, cerchiamo di cogliere le fratture imposte dalla macchina da presa alla continuità di svolgimento del fatto rappresentato, e di capire perché normalmente non le percepiamo, ci accorgiamo di tollerarle in quanto lasciano comunque sussistere in noi l'impressione di una realtà continua e omogenea. La nostra mente ammette l'inserto di un dettaglio del pomello di una porta, come se si trattasse della concentrazione del nostro sguardo e del nostro interesse sul pomello di quella porta, come se la macchina da presa semplicemente anticipasse il movimento del nostro occhio. Neppure nella realtà vediamo tutto nello stesso momento: l'azione, la passione, la paura ci inducono a effettuare un decoupage inconsapevole sullo spazio che ci circonda; le nostre gambe e il nostro collo non hanno aspettato il cinema per inventare la carrellata c la panoramica, così come non l'ha aspettato la nostra attenzione per fare dei close-up. Questa universale esperienza psicologica è sufficien­ te a far dimenticare la sostanziale inveosimiglianza del decoupage, e permette allo spettatore di prendervi parte come al rapporto naturale che intrattiene con la realtà.*

12 Come già ricordato, si ha recadrage quando - in seguito a un movimento di macchina - un'inquadratura subisce una variazione scalare; per esempio, quando un carrello indietro (effettuato senza stacchi) allarga progressivamente il campo visivo di un'inquadratura che inizia come primo piano di un attore c poi diventa, man mano, piano americano, figura intera, campo totale. È cioè una variazione nel l'operazione di eadrage (da cadrer, inquadrare), effettuata nel corso della stessa ripresa. (N.d.T.]

90 Studiamo, per contrasto, una sequenza13 tipica di Welles: quella del mancato avvelenamento di Susan in Quarto potere. Lo schermo si apre sulla camera di Susan vista da dietro il comodino. In primo piano, incollato alla macchina da presa, un enorme bicchiere che occupa quasi un quarto dell’immagine, con un cucchiaino e un tubetto di medicine aperto. Il bicchiere nasconde quasi compietamente ai nostri occhi il letto di Susan, immerso in una zona d’ombra da cui giungono soltanto dei rantoli indistinti, come di qualcuno che stia dormendo, drogato. La camera è vuota. Proprio in fondo a questo deserto privato: la porta, resa ancor più lontana dalla falsa prospettiva delPobiettivo. E, dietro questa porta, dei colpi. Senza aver visto nient’altro che un bicchiere e udito due rumori su due piani sonori diversi14, abbiamo capito di colpo la situazione: Susan si

13 Ciò che qui descrive Bazin è in realtà solo una parte - la prima e più ela­ borata - della sequenza relativa al fallito suicidio di Susan, che si conclude con la richiesta di quest'ultima di non cantare più, accettata suo malgrado da Kane. [N.d.T.] 14 Per mancanza di spazio, dobbiamo ridurre a una parentesi le importanti considerazioni che resterebbero da fare sull'uso del suono da parte di Orson Welles, principalmente in Citizen Kane e in The Magnificent Ambersons. L'espe­ rienza radiofònica gli ha permesso di rinnovare la componente sonora dell’immaginc cinematografica, di cui così possiamo renderci conto fino a che punto sia abitualmente piatta c convenzionale. Non solo Welles trae il maggior vantaggio drammatico possibile dal significato di un suono, ma anche dal rilievo - che non è altro che la profondità di campo sonora - della sua collocazione nello spazio. A questo scopo, si è ben guardato dal far ricorso al potenziometro per diminuire il volume di un suono che si allontana. Questo procedimento abituale conferisce un falso rilievo, piatto quanto il disegno di una prospettiva un po' troppo disinvolta: Welles invece ha chiaramente allontanato il microfono dalla fonte sonora, come nella scena notevole dell'opera in cui, mentre Susan canta con difficoltà la sua aria, la macchina da presa sale nei ballatoi. Ricordiamo anche, fra cento altri esempi possibili, il primo piano sonoro della macchina da scrivere con cui Kane porta a termine la recensione di Leland. Questa messa in scena del suono nello spazio è ulteriormente completata dal realismo assai studiato dei timbri. Provate a chiudere gli occhi durante una scena di Kane o degli Ambersons* sarete sorpresi dal colore delle voci che si rispondono e dall'individualità di ciascun suono. Il suono, che solitamente sullo schermo non è altro che il supporto del dialogo o il complemento logico deH'immagine, qui fa parte della messa in scena.

91 è chiusa in camera per avvelenarsi; Kane cerca di entrare. La struttura drammatica della scena è essenzialmente basata sulla distinzione di due piani sonori: il vicino rantolo di Susan, i colpi di suo marito alla porta. Tra questi due poli, tenuti a distanza dalla profondità del campo, si stabilisce una tensione. Ora i colpi si son fatti più pesanti: Kane cerca di forzare la porta a spallate, ci riesce. Lo vediamo, mi­ nuscolo, comparire nel riquadro della porta, e precipitarsi verso di noi. La scintilla tra i due poli drammatici deU’immagine è scoccata. La scena è finita. Per capire a fondo l’originalità di questa messa in scena, che può sembrare naturale per quanto facilmente raggiunge il suo scopo, bisogna cercare di immaginarsi, anche approssimativamente, ciò che qualcuno che non fosse Welles non avrebbe mancato di fare. La scena sarebbe stata segmentata in cinque o sei inquadrature almeno. Per esempio: dettaglio del bicchiere e dei calmanti, inqua­ dratura di Susan sudata c rantolante nel letto (in quel momento, rumore fuori campo di colpi contro la porta), inquadratura di Kane che bussa alla porta, creazione di “suspense” con un breve montaggio alternato15, vale a dire una serie di inquadrature prima all’interno e poi all’esterno della stanza, fino all’inquadratura della porta che cede sotto la spinta di Kane; a questo punto, ritorno su Kane di spalle che si precipita verso il letto e forse, per finire, primo piano di Kane chinato su Susan. Si vede chiaramente come la sequenza classica, composta da una serie di inquadrature che analizzano l’azione secondo il modo in cui il regista vuole farcene prendere coscienza, si risolva qui con una sola c unica inquadratura. Così, al limite, il découpage in profondità di campo di Welles tende alla scomparsa della nozione di inquadratura, in un’unità di decoupage che si potrebbe chiamare piano-sequenza. Paradossalmente, accade che l’immobilità della macchina da presa

15 Nell'originale francese Bazin usa l'espressione “montaggio parallelo'', che negli .inni Cinquanta designa ancora indifferentemente il montaggio parallelo (utilizzato da Griffith in Intolerance, 1916) c quello alternato, al quale lo studioso francese là qui riferimento. (N.d.T.]

92 debba di fatto tradursi in un movimento assai complicato, quando la scena stessa è in movimento. Approfittiamone per analizzare il celebre travelling utilizzato da Welles negli Ambersons, nel dialogo d’amore in calesse. È ricondotto, per inversione, a un’inquadratu­ ra fìssa poiché dall’inizio alla fine George e Lucy sono inquadrati nella stessa cornice. Resta da giustificare la “scandalosa” assenza di trasparente. Mi pare anzitutto che un trasparente, per quanto impercettibile, non dia la stessa impressione di realtà di una sce­ nografìa ricostruita, non tanto per la grana della proiezione sullo schermo smerigliato, quanto a causa delle differenze inevitabili nella tonalità delle illuminazioni sull’attore (in studio) e sulla sce­ nografìa (fotografata in esterni). È in questo modo, con “inserti”

in trasparente, che eccellenti registi rovinano scandalosamente il pezzo classico della scena d’amore in barca. È un errore che Renoir non avrebbe commesso. Avrebbe certamente preferito perdere la battuta principale del dialogo. Ma ammettiamo che si tratti di una finezza eccessiva, benché ci sembri assai importante in un’opera in cui il realismo della scenografìa svolge un ruolo essenziale, e osserviamo ancor più da vicino. Durante lo scambio di battute tra George e Lucy, vediamo scorrere dall’altro Iato della strada le case, i negozi, le manifatture, il tipico sfondo della Midtown di quel tempo. Certo, vi riserviamo solo un’attenzione superficiale, ma la nitidezza della fotografìa non ci consente di ignorarne la presenza. Nel frattempo il dialogo prosegue, si avvicina allo scioglimento drammatico (la fierezza di Lucy e l’orgoglio di George fanno fallire questo tentativo di riconciliazione); la macchina da presa ci rende partecipi grazie a un leggero arretramento che allontana da noi i protagonisti e... mostra, nello stesso istante, l’insieme della strada dove abbiamo visto scorrere gli elementi in successione. Lungi dall’essere gratuita, questa scoperta aggiunge in qualche modo la scenografìa, ce ne consegna il bilancio come il colpo di frusta di George - che ordina ai cavalli di proseguire al galoppo - conclude in modo significativo il dialogo d’amore mancato. È questa leggera panoramica finale, che il trasparente non avrebbe consentito (per lo meno con questa disinvoltura), che permette di concludere la sequenza senza scompensi. Ma c’è un’altra ragione più decisiva che

93 giustifica la costruzione della scenografìa di una strada (la quale, del resto, serve ad altri momenti del film), vale a dire che questo travelling in calesse fa il paio con quello che accompagna l'altro dialogo d’amore dopo il ritorno di Lucy (dialogo che termina con lo svenimento di Lucy nel drugstore). In questo caso i protagonisti sono a piedi, ma percorrono ugualmente la strada sul marciapie­ de dall’altra parte. La prossimità della scenografìa, l’entrata nel drugstore nella stessa inquadratura16 questa volta avrebbero reso il trasparente spudoratamente evidente. Ma Welles è andato oltre: durante la passeggiata, nelle vetrine compare il riflesso della sce­ nografìa che abbiamo visto nella scena del calesse17. Così, la strada che la macchina da presa non può abbracciare tutta in una volta, contemporaneamente agli attori, acquista una realtà, una presenza che la lega altrettanto intimamente alla loro recitazione, come se questa si fosse svolta in un spazio ristretto. Il fatto è che alla base di ciò che si vuole sconsideratamente farci prendere per gratuite forzature tecniche risiede una tenace volontà di stile; l’approfondimento del realismo del racconto. Ma cerchiamo nuovamente di intenderci su questo termine ambiguo. Il decoupage classico, lo abbiamo visto, si basa essenzialmente sul “cambiamento di inquadraura” (la cui forma elementare è il “campo controcampo”) e sull’assenza di profondità di campo (il primo essendo parzialmente determinato dalla seconda). Come abbiamo cercato di mostrare in precedenza, l’esperienza abituale della percezione rende queste convenzioni in qualche modo inavvertibili per lo spettatore. Ma sbaglieremmo a vederci la conseguenza inevitabile, o ancor meno

16 Nelle copie del film distribuite dalla RKO, con un montaggio diverso da quello voluto da Welles, questa inquadratura è in realtà interrotta da un primo piano di Lucy visibilmente apocrifo. [N.d.T.] 17 Si tratta effettivamente della stessa scenografia (comprendente alcune insegne commericali che è possibile leggere riflesse nelle vetrine), ottenuta riallcstendo parte del piazzale esterno della RKO, come confida lo stesso Welles a Peter Bogdanovich in This is Orson Welles, a cura di Jonathan Rosenbaum, New York, HarperCollins, 1992 (tr. it. in Orson Welles, Peter Bogdanovich, Io, Orson Welles, a cura di Jonathan Rosenbaum, Milano, Baldini & Castoldi, 1993).

94 la sola possibile, di leggi psicologiche. Queste hanno semplicemente fornito al decoupage classico delle motivazioni sufficienti al suo con­ solidamento, alla sua generalizzazione. La sua vera giustificazione non è di ordine psicologico, ma estetico: deriva dal rapporto che in questo modo si è voluto implicitamente stabilire tra lo spettatore e fazione rappresentata. Sotto le sembianze del realismo congenito dell’immagine cinematografica si è voluto far passare subdolamente tutto un sistema d’astrazione. Si dava l’impressione di limitarsi a sud­ dividere gli eventi secondo una sorta di anatomia naturale dell’azione: in realtà, si subordinava integralmente la realtà al “senso” dell’azione, la si trasformava a nostra insaputa in una serie di “segni” astratti. In questa serie di segni, il dettaglio del pomello della porta non è più un pomello di porta dallo smalto screpolato, dall’ottone sbiadito, di cui immaginiamo il freddo contatto. È l’equivalente della frase: «Si domandava con angoscia se la levetta della porta sarebbe scattata». Non dico che una tale convenzione implicita non sia esteticamente giustificata, ma affermo due cose. 1. Che non lascia alcuna libertà allo spettatore rispetto all’evento. 2. Che pone implicitamente che una data realtà a un dato mo­ mento possieda un senso e uno solo rispetto a un evento dato. Quando sono impegnato in un’azione, nella realtà la mia atten­ zione, guidata dal mio progetto, procede a sua volta a una sorta di découpage virtuale in cui effettivamente un dato oggetto perde ai miei occhi alcuni dei suoi aspetti per divenire segno o strumento; ma l’azio­ ne resta sempre in corso d’opera, l’oggetto è costantemente in grado di ricondurmi alla sua realtà di oggetto (per esempio, tagliandomi la mano se si tratta di vetro) e, attraverso ciò, persino di modificare l’a­ zione prevista. Io stesso sono in ogni momento libero di non volerne più sapere di questa azione o di esserne distratto dalla realtà stessa, che cessa allora di apparirmi come una scatola di attrezzi. Ora, il decoupage classico sopprime totalmente questa specie di libertà reciproca, nostra e dell’oggetto. A un découpage libero sostitu­ isce un découpage obbligato dove la logica delle inquadrature rispetto all’azione anestetizza completamente la nostra libertà. Questa non può più essere avvertita poiché non può più essere esercitata. L’utilizzo sistematico delia profondità di campo, in Kane e negli

95 Ambersons, avrebbe di fatto solo un interesse modesto se Welles non ne ricavasse altro che un perfezionamento del decoupage classico. Ma Welles se ne serve diversamente. Essa costringe lo spettatore a esercitare la sua libertà di attenzione e contemporaneamente gli fa sentire l'ambivalenza del reale. Una scena come quella della cucina, negli Ambersons, finisce per essere quasi intollerabile. Sembra che durante tutta la sequenza (un'unica inquadratura immobile)18 la macchina da presa si rifiuti ostinatamente di venire in nostro aiuto per guidarci nel labirinto di un’azione che sentiamo crescere, ma di cui non sappiamo esattamente dove e quando si manifesterà. Chissà se è proprio nel momento in cui guardiamo George che a Fanny sfuggirà un mutamento di fisionomia rivelatore. E gli oggetti, smaccatamente estranei all'azione durante tutta la scena, mostruosa­ mente presenti (i dolciumi, le vettovaglie, la batteria da cucina, una caffettiera, ccc.), sollecitano la nostra attenzione senza che un solo movimento di macchina sopraggiunga ad attenuarne la presenza. Allo stesso modo, in tutta l'ammirevole sequenza del ballo all’inizio de L’orgoglio degli Amberson (il cui decoupage è del resto assai simile a quello dell’inseguimento ne La regola del gioco), numerosi poli di attrazione attraversano continuamente la cornice dello schermo, costringendoci a saltare dall’uno all’altro, con il rimpianto di ab­ bandonare il precedente. È chiaro che la profondità di campo era la condizione tecnica

preliminare a questa estetica dell’azione. Essa sola poteva far sì che la realtà si imponesse così efficacemente alla nostra attenzione. Il decou­ page drammatico di Citizen Kane doveva essere completato da questo decoupage tecnico. Così come gli investigatori non riescono a scoprire il senso della vita di Kane, a sua volta lo spettatore deve esser messo di fronte a un puzzle dal decoupage. Al posto della messa in scena che disossa l’azione come si trincia un pollo, il decoupage dà Welles afferra alcuni eventi, indubbiamente carichi di senso, senza però che questo sia del tutto esplicitato come tale e liberato, per le necessità del racconto, dai suoi rapporti intrinseci con le realtà contigue.

Si veda qui la nota 8. [N.d.T.]

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Contrariamente a ciò che si potrebbe credere di primo acchito, il decoupage in profondità è più carico di significato del découpage analitico. Non è meno astratto di quest'ultimo, ma il supplemento di astrazione che infonde alla narrazione gli deriva appunto da un sovrappiù di realismo. Un realismo in qualche misura ontologico, che restituisce all’oggetto e alla scenografìa la consistenza del loro esistere, il peso della loro presenza; un realismo drammatico, che si rifiuta di separare l’attore dall’ambiente, il primo piano dagli sfondi; un realismo psicologico, che riporta lo spettatore alle condizioni reali della percezione, che non è mai del tutto determinata a priori19. Indubbiamente, tutte le grandi opere cinematografiche riflettono più o meno esplicitamente la visione morale e le tensioni spirituali del loro autore. Sartre scriveva, a proposito di Faulkner e Dos Passos, che nel romanzo ogni tecnica narrativa rimanda necessariamente a una metafìsica. Il vecchio decoupage non poteva contribuire a esprimere una metafisica, qualora ci fosse stata: il mondo di Ford e di Capra si può definire a partire dalle sceneggiature, dalle tematiche, dagli effetti drammatici che ricercano, dalla scelta delle scene. Non si ritrova nel decoupage in quanto tale. In Orson Welles, invece, il découpage in

” Questa analisi troppo breve tralascia alcuni effetti che occorre almeno menzio­ nare. In opposizione a questa messa in scena “realista”, che procede per “piani-se­ quenza” colti dalla macchina da presa come blocchi di realtà, Welles utilizza invece frequentemente un montaggio astratto, metaforico o simbolico, per riassumere lunghi periodi detrazione (l'evoluzione dei rapporti di Kane con la sua prima moglie, la carriera canora di Susan). Ma questo procedimento molto antico, e molto usato nel cinema muto, trova qui un nuovo senso, in contrasto appunto con il realismo estremo delle scene in cui gli eventi sono rispettati nella loro integrità. Al posto di un decoupage ibrido, dove l'evento concreto viene dissolto per metà nell'astrazione dei cambiamenti d'inquadratura, abbiamo due modalità della narrazione essenzial­ mente digerenti. Lo si capisce appieno quando, dopo la serie di sovrimpressioni che riassumono tre anni del supplizio di Susan, e che terminano sulla lampada che si spegne, lo schermo ci fa brutalmente sprofondare nel dramma dell’avvelenamento di Susan. Jcan-Paul Sartre, in un articolo su l’£cr«« franfais, ha sottolineato molto a proposito che tutto ciò rappresenta l'equivalente della forma iterativa inglese: «Per tre anni egli la costrinse a cantare su nini i palcoscenici d'America. L’angoscia di Susan aumentata, ogni spettacolo era per lei un supplizio, un giorno non ce la fece più...»: avvelenamento di Susan!

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profondità di campo diventa una tecnica costitutiva del senso della narrazione. Non è soltanto un altro modo di fare regia, essa chiama in causa la natura stessa della storia. Con essa, il cinema si allontana un po’ più dal teatro, diviene meno uno spettacolo che un racconto. Come nel romanzo, in effetti, qui non è solo il dialogo, la chiarezza descrittiva, il comportamento dei personaggi che crea il senso, ma lo stile impresso al linguaggio. Lungi dall'essere, come ha detto qualcuno, una speculazione sulla disattenzione dello spettatore, un “ritorno all’inquadratura fissa” pra­ ticata fin dagli inizi del cinema da Méliès, Zecca o Feuillade, o anche non so quale riscoperta del teatro filmato20, il piano-sequenza di Or­ son Welles è una tappa fondamentale nell’evoluzione del linguaggio cinematografico, che dopo essere passato attraverso il “montaggio” del muto e il “decoupage” del parlato tende effettivamente a risco­ prire l’inquadratura fissa, ma in uno sviluppo dialettico che integra tutte le conquiste del decoupage nel realismo del piano-sequenza. Certo, Welles non è l’unico promotore di questa evoluzione, di cui reca traccia anche l’opera di Wylcr. Il grande profeta ne è forse Eric von Stroheim, e Renoir, durante il suo periodo francese, non ha mai smesso di lavorare nella stessa direzione. Ma Welles vi ha apportato un contributo poderoso e originale, con il risultato, lo si voglia o

20 Bisognerebbe poter analizzare alla moviola la tale o tal altra inquadratura di Welles per mostrare che Rimpaginazione degli oggetti, il découpage virtuale creato dallo spostamento degli attori nelle zone d’ombra o di luce, gli effetti di prospet­ tiva ccc., forniscono allo spettatore gli stessi punti di riferimento intellettuali di un decoupage classico; ma questo decoupage resta latente nell'unità dell’immagine. I ì’altra parte, è una veduta elementare che permette di confondere l’immobilità della cinepresa con l'immobilità dell’inquadratura. È sempre molto più efficace creare il movimento rispetto alla fissità di una cornice. Un’“entrata in campo” ben programmata produce un’impressione di movimento assai più violenta di un travelling elaborato. Le inquadrature fisse di Welles sono lavorate internamente dagli spostamenti dello spettro drammatico della scena c l’immobilità della cornice mette in risalto la mobilità reale o virtuale dell’azione. Nel travelling del calesse, studiato prima, è durante lo spostamento della macchina da presa che l'inquadra­ tura - di fatto - resta fìssa. A) contrario, siamo bruscamente scossi dalla partenza .il galoppo della vettura, che esce repentinamente fuori campo quando la macchina da presa si è fermata.

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meno, di far vacillare l’edifìcio delle convenzini cinematografiche. Non è un caso se dopo aver segnato il passo, dal 1938 al 1943 o 1944, la produzione americana ha ripreso a darci film originali, certo troppo pochi, ma indiscutibili, che devono assai poco alia perfezione classica degli anni dal 1936 ai 1938. Attraverso l’evoluzione di un Wyler, l’ascesa dei Billy Wilder, dei Dmytryck, dei Preston Sturges, degli Otto Preminger (quello di Fallen Angel c non di Ambra)21 non è azzardato cogliere l’influenza, o per lo meno il geniale colpo di maglio, di Citizen Kane.

Conclusione

Queste poche pagine, che non pretendono certo di esaurire l’argomen­ to, al lettore sono forse sembrate ispirate dal principio appassionato di reperire le tracce del genio là dove, secondo alcuni, non ci sarebbe che paccottiglia o reminiscenze? Stando al nostro giudizio compiacente questi film di Welles sarebbero come le famose locande spagnole, dove è il critico che porta il cibo? Spetta allo spettatore in buona fede giudicare. Quanto a noi, ogni nuova visione di un film di Welles ci conferma al contrario nella convinzione di un talento eccezionale per varietà e originalità. Solo il suo carattere provocatore e giovanile e l’in­ genua fiducia in se stesso che testimonia hanno potuto scandalizzare coloro che sono disposti a riconoscere unicamente il genio aureolato di pudore e di modestia, nonché accecarli fino a negare l’evidenza. Anche se Welles non mantenesse tutte le promesse contenute nei suoi primi film, questi ugualmente basterebbero alla sua gloria. L’esem­ pio di un Chaplin che conserva per più di trent’anni il suo posto nel panorama della produzione cinematografica è unico. Ma a Stroheim, Gance, Ejzen&tejn, Renoir, sono bastati pochi film per meritare il riconoscimento di tutti coloro che amano la settima arte ed entrare a far parte della storia del cinema. Il latto è che il cinema brucia le tappe

21 Si tratta di Fallen Angel (Un angelo è caduto., 1945) e di Forever Amber (Am­ bra, 1947). [N.d.T.]

99 come se avesse bisogno di recuperare, in pochi decenni, un ritardo di quattromila anni sulle altre arti. L'evoluzione della letteratura si calcola in secoli o quanto meno in generazioni, è commisurata alla durata di una vita umana. Quella del cinema lo è al ritmo della tecnica moderna, quasi altrettanto rapida di quello della moda. Per questo occorre sapervi cogliere ciò che è importante, anche nella novità chiassosa e nel clamore pubblicitario. Di quanti registi possiamo dire che abbiano cambiato la nostra visione del cinema? Che lo si voglia o no, Welles avrà scosso le colonne del Tempio. Gli anni dal 1941 al 1946 sono già segnati dalla sua impronta. Sono quelli di Quarto potere e de La signora di Shanghai. Tutto, attraverso di lui, vi apparirà rimesso in discussione: i personaggi, il racconto e la regia. Dopo di lui il classicismo più tradizionale non può più neppure avere lo stesso senso, poiché oggi lo appreziamo attraverso una visione arricchita dalla sua stessa negazione. È possibile rinunciare agli insegnamenti dell’opera di Welles, rinnegarli, persino contraddirli. Ma non è più consentito ignorarli.

ORSON WELLES (1958)

PREMESSA

La rinascita del cinema americano

Per tutti i cinefili che nel 1946 avevano raggiunto l’età della ragione cinematografica, il nome di Orson Welles coincide con l’entusiasmo per la riscoperta del cinema americano; meglio ancora, esso riassume in sé la convinzione, comune a tutta la giovane critica d’allora, di assistere a una rinascita e a una rivoluzione nell’arte hollywoodiana. Quarto potere è stato a questo-dopoguerra un po’ come I prevaricatori a quello del 1914-1918, con la differenza che il film di Cecil B. de Mille illustrava gli inizi di un’arte che nel 1941 aveva smesso di balbettare da tempo. Ancor più dell’audacia del soggetto, tuttavia, fu una profonda novità di stile e di linguaggio che parve costituire l’importanza del primo film di Welles. Scrivendo sulla Revue du cinema'. «Ci si può chiedere se nella storia del cinema Orson Welles prenderà posto accanto a Griffith, Chaplin, Stroheim, Ejzenstejn...», Jacques Doniol-Valcroze esprimeva allora l’opinione di molti critici; di tutti quelli, in ogni caso, che poco dopo si riunirono intorno a Jean Cocteau, Robert Bresson e Roger Leenhardt per fondare Objectif 49, di cui il Festival du film maudit di Biarritz fu un manifesto memorabile. Orson Welles avreb­ be potuto essere il presidente onorario di un tale movimento, che si voleva risolutamente rivolto al futuro. Riconsiderando oggi, a più di dieci anni di distanza, il mio entu­ siasmo di allora, ovviamente mi chiedo cosa ne resti e se ci eravamo sbagliati nel fare dell’autore di Quarto potere il simbolo delle nostre

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speranze in una rinascita del cinema. Onestamente penso di no, anche se mi accadrà, nelle pagine che seguono, di moderare alcuni dei miei vecchi giudizi, o di rettificare la relativa importanza che oggi attribuisco a questa o a quell’audacia tecnica e stilistica. Anzitutto, nel 1946 non ci sbagliavamo nel rivolgere la nostra ammirazione verso un film del 1940. Il tempo ci ha solo dato ra­ gione. Gli anni Quaranta furono per Hollywood gli anni critici della trasformazione, di cui avemmo la rivelazione solo nel dopo­ guerra. Il decennio precedente fu caratterizzato dalla maturità e dal perfezionamento dei grandi generi che fecero la gloria del cinema sonoro americano: la commedia psicologica o coreografica, il film gangster, il burlesque e il film comico stralunato (i fratelli Marx, Laurei e Hardy) c naturalmente il western. Verso il 1937 la produzione hol­ lywoodiana aveva senz’altro raggiunto un alto livello di perfezione e soprattutto di equilibrio, vale a dire di classicismo. Tutte le condizioni storiche concorrevano a che oramai scivolasse verso la decadenza, se una qualche opera geniale, o per lo meno profondamente originale, non fosse venuta a rigenerare l’ispirazione e la tecnica, a scuotere le abitudini in procinto di volgersi in convenzioni, a provocare una di quelle mutazioni del gusto che segnano l’origine di tutte le nuove correnti artistiche. La Francia ebbe La regola, del gioco, Hollywood, Quarto potere. Certo sarebbe eccessivo fare di questo famoso film di Welles il nuovo punto di partenza di tutto il cinema americano. Ba­ sterà vedervi il più significativo e soprattutto il più efficace dei colpi di maglio che scossero le colonne dei tempio. E questo, da un punto di vista negativo, ma anche positivo: il suo fu un apporto stilistico e intellettuale considerevole e fecondo. Nicholas Ray, che è il regista americano più rappresentativo della nuova generazione di registi degli anni Cinquanta, ossia del movimento che vanta nomi di registi come Richard Brooks, Robert Aldrich, Anthony Mann ed Elia Kazan, Nicholas Ray, dunque, ha dichiarato1: «Welles è un grande uomo di teatro e un grande regista, forse uno dei più grandi della storia del cinema. Noi esordienti non gli saremo mai abbastanza riconoscenti

1 Citato da Peter Noble in The Fabulous Orson Welles, London, Hutchison, 1956.

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per aver esplorato tante nuove strade. E che nessuno si permetta di venire a dire il contrario». Così, dieci anni dopo, il giudizio di un cineasta americano della nuova generazione viene a confermare quello della giovane critica francese degli anni tra il 1946 e il 1950, dimostrando che aveva visto giusto nell’indicare l’opera di Orson Welles come una delle componenti più autentiche dell’avanguardia cinematografica all’indomani della guerra. Se anche avesse realizzato solamente Quarto potere, L’orgoglio degli Amberson e La signora di Shanghai, Orson Welles meriterebbe a tutti gli effetti di comparire in posizione di rilievo in uno dei grandi medaglioni dell’ideale arco di trionfo della storia del cinema.

PRIMI PASSI IL TEATRO E LA RADIO

Il bambino prodigio Orson Welles è nato il 6 maggio 1915, non lontano da Chicago, a Kenosha nel Wisconsin, da una famiglia agiata ed eccentrica che coniugava l’eredità dell’arte con quella della tecnica. Suo padre, Richard Head Welles, era a un tempo inventore, industriale e alber­ gatore; sua madre, Beatrice Ives Welles, una stimata pianista. Questo ambiente familiare permette al giovane Welles di frequentare fin dalla prima infanzia una comunità di artisti e intellettuali: attori, pittori, scrittori, musicisti, amici dei suoi genitori. Costoro non pensano che i bambini debbano andare a letto, o mangiare con i domestici, quando ci sono visite. Il signore e la signora Welles appartengono piuttosto al genere del padre di Montaigne, e il loro figlio conserva un ricordo tenero e riconoscente della loro intelligente benevolenza: «Mio padre», dirà, «era un uomo delizioso, generoso e tollerante, adorato da tutti i suoi amici, gli devo un’infanzia privilegiata e l’a­ more per i viaggi. Da mia madre ho preso l’amore per la musica c per l’eloquenza, senza le quali nessun uomo è completo». In qualsiasi modo si interpreti l’opera di Orson Welles, quindi, si sbaglierebbe nel credere di scorgervi una qualche ribellione contro un’infanzia repressa o infelice. A meno che non si tratti di una sorta di ribellione paradossale e inoffensiva contro questa felicità. Forse, anche l’adulto

108 che non ha sofferto all’età in cui tutti i bambini fanno brutti sogni è incompleto. Comunque sia, i genitori del giovane Welles non pongono alcun freno alle precoci manifestazioni del suo genio. Anche se avessero messo al mondo un bambino ordinario, gli avrebbero in ogni caso impartito la stessa educazione liberale e raffinata, grazie alla quale la precocità del giovane prodigio avrà modo di esplodere. Le sue prodezze giungono persino alla stampa locale, dato che troviamo in un giornale di Madison (Wisconsin) un articolo su Orson intitolato: “Disegnatore, attore, poeta, ha soltanto dieci anni". Ma è già da parecchi anni che passa per un bambino prodigio alla Washington School di Madison, diretta da un rinomato psicopedagogo di nome Mueller. Costui aveva individuato nel suo allievo un soggetto straordinario da sottoporre ai molteplici test che ne confermavano un’età mentale mostruosamente avanzata. Sul suo soggiorno alla Washington School si conoscono aneddoti degni del piccolo genio della scuola di pedagogia moderna evocata da Chaplin in Un re a New York. Il dottor Bernstein, che fu amico dei genitori prima di divenire tutore dell’orfano, scrisse a Peter Noble, biografo inglese di Orson Welles a cui ci rifaremo ampiamente in questo capitolo: «La straordinaria maturità del bambino mi ha sempre sorpreso. A due anni ragionava già con intelligenza, e per come si comportava davanti alle opere d’arte ero certo che sarebbe divenuto un artista. Siccome sua madre era un’ottima pianista, pensavo che sarebbe divenuto senz’altro musicista, e per il suo terzo compleanno gli regalai un violino. Purtroppo le sue braccia erano troppo piccole e non potè suonarlo. Gli regalai allora una bacchetta da direttore d’orchestra». È lo stesso dottor Bernstein che inizia il suo futuro pupillo alla

prestidigitazione. Com’è noto, questo insegnamento non è caduto nelle mani di un incapace e lo porterà a tagliare in due Marlene Dietrich per patriottismo1il . Dopo la panoplia del perfetto illusionista, il buon 1 Allusione a un numero di prestidigitazione eseguito per intrattenere le truppe, incluso nel film Follow the Boyt ( Paloma nera, Edward Sutherland, 1944); cfr. infra, il paragrafo “Samba c mèlo”. [N.d.T.]

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dottore offre a Orson un teatrino di marionette che senza dubbio sarà all’origine della vocazione del ragazzo per il teatro, vocazione che poco alla volta avrà la meglio, come vedremo, sulla predilezione per la musica e il disegno. Questa educazione poco convenzionale non impedisce a Orson Welles di viaggiare con i genitori. È durante un viaggio in Europa

che perde la madre, quando ha appena otto anni. Rimasto vedovo, il padre si ritirerà dagli affati e viaggerà ancora più spesso, portando sempre con sé il figlio che visiterà così quasi tutta l’Europa e buona parte dell’Asia. Più tardi, quando non sarà in Cina o in Giamaica, e dopo la morte del padre che sopraggiungerà purtroppo qualche anno dopo quella della madre, Orson frequenterà la Todd School, altra scuola rinomata per il suo metodo d’insegnamento rivoluzionario. Se non vi impara esattamente a fare le addizioni, vi completa soprattutto la formazione letteraria in ambito teatrale e comincia a manifestarvi, a titolo amatoriale, le proprie doti di regista e attore. Ottiene da Roger Hill, direttore della Todd, di allestire alcune pièces elisabettiane, e sarà sempre alla Todd che Orson avrà l’idea di quel famoso digest di più tragedie shakespeariane che doveva più tardi mettere in scena al Mercury Theatre, con il titolo Five Kings. Infine, con un Giulio Cesare vince il premio dell’Associazione drammatica di Chicago per la miglior realizzazione scolastica della regione, non senza che la giuria si sia fatta produrre la prova formale di non trovarsi di fronte ad attori professionisti. Quando lascia la Todd School, Orson Welles ha sedici anni e cinquecento dollari in tasca. Pensa ancora di perfezionarsi nel disegno e nella pittura, ma desidera soprattutto viaggiare e fare teatro. Parte per la vecchia Europa e fa tappa nel suo avanposto, in quell’austera e pittoresca isola di Aran, così cara a Flaherty. Da Aran andrà naturalmente in Irlanda. Dublino è una città ricca di tradizione teatrale: è lì che il Wonder Boy del Wisconsin, il bambino prodigio e il figlio! prodigo, comincia a meravigliare il mondo, finalmente da professionista.

110 Una teatralità che straripa dalla scena

Prima di passare all’attività cinematografica di Orson Welles, che ovviamente qui ci interessa più di ogni altra, soffermiamoci ancora sul suo lavoro teatrale. Se su questo argomento riteniamo di non poterci limitare ad una enumerazione troppo succinta è perché per l'autore di Quarto potere e di Otello il teatro non precede solamente il cinema, ma condiziona profondamente e nella loro essenza tutte le manifestazioni del suo genio, a cominciare naturamente dal cinema. Lo vedremo, del resto, più in particolare quando analizzeremo la regia nei film che ha realizzato. I soli rapporti diretti ed espliciti tra il teatro e la filmografia di Welles giustificherebbero questa attenzione; Macbeth e Otello., in effetti, non si potrebbero capire senza rifarsi all'esperienza scenica del loro regista. Ma, al di là di queste evidenti filiazioni, e ben più profondamente che nella scelta dei soggetti, il teatro impronta intimamente numerosi aspetti dello stile di Welles. Inoltre, il teatro domina persino la sua vita, ma il teatro inteso nella sua accezione più vasta di volontà di potenza spettacolare, compreso, di conseguenza, anche quel gusto per la pubblicità e per lo scandalo che può irritare qualcuno. Certo è che il teatro, nel senso tradizionale della parola, e ancor più esattamente il teatro elisabettiano, è alla base della cultura e del gusto di Orson Welles; ma non meno certo è che per lui la teatralità straripa dalla scena e invade la vita. Quando - lo vedremo fra poco - il governo vietò al Federal Theatre di rappresentare The Craddle Will Rock e la compagnia trovò le porte del teatro sbarrate, Orson Welles improvvisò per strada su due piedi, per gli spettatori in abito da sera, uno spettacolo che consentì di attendere che si trovasse una soluzione per il problema della sala. Quando questa fu finalmente trovata, le scenografìe vennero caricate sui camion, e gli attori sopra. Questa incredibile parata si mise allora in marcia, seguita dalla schiera del pubblico, e tutto il corteo arrivò così al vecchio Venice Theatre, dove, a dispetto dei burocrati di Washington, potè aver luogo la prima. Non so cosa i critici lodarono di più il giorno dopo, sui giornali, della messa in scena di The Craddle Will Rock o di qucll'altra, la fantastica improvvisazione su scala cittadina,

Ill che la inglobava come un dettaglio: Orson Welles, appollaiato su di un camion, che ipnotizza la folla come Marc’Antonio sul cadavere di Cesare.

Dublino. Prime interpretazioni

Dunque, nel 1931 il sedicenne Orson sbarca a Dublino (non senza aver incidentalmente visitato l’Irlanda in groppa a un asino). Lì assiste, pieno di meraviglia, alla rappresentazione di un testo di Synge interpretato dal Gate Theatre. Questa eccellente compagnia irlandese, diretta da Hilton Edwards e Micheàl Mac Liammóir, in tre anni di esistenza aveva conquistato una fama internazionale. Con un bel coraggio, Orson si presenta ai direttori come «un divo del teatro di New York». «Ci trovammo - racconta McLiammóir - in presenza di un giovanotto alto e paffuto, dalle labbara piene ed espressive, con occhi allungati da asiatico. La sua voce, segnata da un forte accento americano, aveva i toni potenti di un predicatore o di un condottiero. Sul palcoscenico polveroso sgorgava e risuonava al punto da far crollare le pareti ed il soffitto. Si muoveva con noncuranza e ci osservava con una pazienza magnifica, consapevole di offrirci un’occasione insperata, ossia la possibilità di ingaggiarlo». Difatti, lo scritturano per recitare la parte del duca Alessandro di Wiirttemberg in Siisi l’ebreo. Questo personaggio era un vegliardo di sessantanni, perciò l’adolescente vi coglie al volo l’occasione per creare uno di quei personaggi che prediligeva alla Todd School, e soprattutto per truccarsi abbondantemente. Il gusto di Orson Welles per il trucco e i posticci è ben noto e risale alla sua prima infanzia. Aveva soltanto una decina d’anni quando il dottor Bernstein scoprì nella camera de) suo protetto uno scarmigliato vecchietto lillipuziano dallo sguardo stralunato: era Orson che provava Re Lear. In seguito, a teatro come al cinema, sono stati numerosi i personaggi per i quali Orson Welles si è divertito a trasformarsi il viso e a cambiarsi l’età; ma si è notato meno - forse per lo stesso motivo - quanto raramente egli abbia recitato senza alcun posticcio o trucco e, soprattutto, sen­ za rimodellarsi il naso. Questa è la spiegazione che egli ne ha dato:

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«Laurence Olivier e io odiamo i nostri nasi: essi conferiscono ai nostri volti un’espressione comica, mentre il nostro più caro desiderio è di impersonare personaggi tragici. Ciò spiega il nostro amore per i posticci. Per tutti gli usi comuni, il mio naso è del tutto sufficiente e persino decorativo, ma ha smesso di crescere quando avevo dieci anni, il che lo rende assolutamente inadatto per recitare Re Lear, Macbeth o Otello». Si noterà che questa spiegazione non si riferisce solo alla forma del naso, ma al suo aspetto infantile. Avremo modo di soffermarci più seriamente su questa ossessione dell’infànzia. Ma mi ricordo anche di una conversazione con Orson Welles durante la quale egli evocava, davanti a me, il piacere di recitare in teatro con un naso dalla sagoma corretta. Nemmeno allora egli invocava l’esigenza dello stile, ma il bisogno della maschera, del piccolo scudo di cartone o di plastilina sufficiente a difendersi dal pubblico. Recitare a naso scoperto è come presentarsi nudi alla ribalta. Dopo Siiss l’ebreo, Orson recita la parte del fantasma in Amleto e del re di Persia in un certo Mogu of the Deserti. Malgrado la relativa inesperienza e le forzature che potevano ca­ ricare la sua recitazione, il giovane attore ottiene critiche abbastanza favorevoli, tali da far arrivare la sua fama fino a Londra, da dove gli giungono alcune proposte. Lascia così Dublino per l’Inghilterra. Purtroppo, però, il Ministero del Lavoro gli rifiuta il permesso di recitare, e Welles è costretto a far ritorno in America, non senza aver fatto visita di sfuggita a Bernard Shaw.

Gli esordi come regista

Ma Broadway è lontano da Dublino e nessuno vi prende sul serio questo “ragazzo”. Con la collaborazione dell’amico Roger Hill, della Todd School, Welles mette a frutto l’inattività forzata redigendo un’e­ dizione delle opere di Shakespeare commentata per il teatro, corredata

2 Si tratta di un testo di Padraic Colum, messo in scena al Gate Theatre dal 26 dicembre 1931 al al 9 gennaio 1932. [N.d.T.]

113 da numerose indicazioni per la messa in scena e da disegni dell’autore. Questo lavoro sarà raccolto nel volume intitolato The Mercury Shakespeare. Successivamente si reca in Marocco, dove si dedica alla pittura, e in Spagna, dove si appassiona alle corride e si cimenta persino nell’arena. Di ritorno a Chicago, si annoia ancora per alcuni mesi, che non gli bastano per portare a termine la stesura di una biografìa di John Brown, fino al giorno in cui rincontro con Thornton Wilder gli dà finalmente la possibilità di essere introdotto nell’ambiente teatrale americano tramite una raccomandazione presso la celebre attrice Katherine Cornell, che lo ingaggia per recitare in tournée in Romeo e Giulietta, Candidate e Barrett of Wimpole Street e gli promette di farlo debuttarc a New York, alla riapertura della stagione teatrale, nella parte di Mercuzio, sempre in Romeo e Giulietta', in realtà, avrà solo la parte di Tibaldo. Nel periodo tra la fine di questa tournée e la ripresa della stagione, Welles si distrae a Woodstock allestendo, nel quadro delle iniziative della Todd School, una sorta di Festival di cui è l’animatore e per cui fa venire da Dublino i suoi amici del Gate Theatre, Hilton Edwards e Micheàl Mac Liammóir. Se si escludono le sue prime esperienze da dilettante, è nel 1934 alla Todd School che Welles fa il suo vero debutto come regista. Il festival di Woodstock era destinato ad essere importante nella biografìa di Welles per un altro fatto: vi conobbe un’affascinante attrice di diciotto anni, Virginia Nicholson, che sposò alcuni mesi dopo. Aveva appena diciannove anni. Nel 1938 la coppia avrà una figlia che chiamerà Christopher, con il nome del figlio maschio de­ siderato. Nella compagnia di Katherine Cornell, benché non abbia avuto la soddisfazione di interpretare parti di primo piano, Welles cominciò finalmente a farsi conoscere a Broadway. L’animatore di una giovane compagnia d’avanguardia, John Houseman, io notò e gli offrì di lavorare con lui. Si trattava di mettere in scena una picce in versi, di carattere sociale e progressista, che rievocava il crollo di Wall Street: Panie, di Archibald MacLeish3. Lo spettacolo venne rappresentato soltanto tre volte, ma il sodalizio Welles-Houseman

3 La regia di questo spettacolo non fii di Welles, ma di James Light [N.d.T.]

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era nato per durare alcuni anni4. Tanto per cominciare, determinerà il successo del Federal Theatre. Il Federal Theatre era una lodevole iniziativa della politica rooseveltiana. Per porre rimedio alla crisi del teatro, e soprattutto alla disoccupazione dilagante tra gli attori dopo il 1929, Washington aveva deciso di sovvenzionare in ogni Stato alcune compagnie teatrali. Nello Stato di New York le compagnie non furono meno di cinque, tra cui il Negro Theatre, diretto appunto da John Houseman. Que­ sti, naturalmente, fece appello alPamico Orson Welles, che del resto, nel frattempo, si era fatto un nome alla radio dove la sua voce d’oro faceva meraviglie. Fu in quell’occasione che a Welles venne l’idea di allestire il famoso Macbeth nero, trasponendo l’azione dalla Scozia ad Haiti, all’epoca deirimperatore nero Jean Christophe, mentre le streghe diventavano stregoni vudù. «Il nostro obiettivo non era stravagante - ha scritto Orson Welles - volevamo offrire a degli artisti di colore l’occasione di interpretare delie parti degne di questo nome, invece di relegarli negli eterni ruoli di balie con il fazzoletto o di zii Tom». Questo Macbeth, con musiche di Virgil Thomson e costumi di Nat Karson, fu uno spettacolo memorabile nel quale Orson Welles potè già dare la misura della sua inventiva c consolidare la sua giovane autorità. Dopo Macbeth, sempre per il Federal Theatre Welles allestirà una versione molto libera di Un cappello di paglia di Firenze, con il titolo Horse Eats Hat, in ricordo del film di René Clair che l’aveva forte­ mente impressionato; poi il Faust di Marlowe. Nello stesso periodo, reciterà in un altro teatro di Broadway, in una pièce tanto indigesta quanto idealista, contro i mercanti di cannoni, intitolata Ten Million Ghosts. Si risolverà in un simpatico fiasco, che non dissuaderà Welles dall’allestirc un altro spettacolo sociale c progressista: una sorta di satira della vita politica americana sotto forma di opera, intitolata The Craddle Will Rock. Questa volta i nemici del Federal Theatre e della 4 Questo sodalizio avrà fine nd dicembre dd 1940, dopo la realizzazione di Quarto potere c un'ultima messa in scena di Welles per un adattamento teatrale di Native Son di Richard Wright.

115 politica rooseveltiana trovano un appiglio più consistente e gli uffici di Washington possono mettersi in movimento. Welles e Houseman ricevono così l'ordine di cancellare lo spettacolo. Si rifiuteranno di obbedire, c la polizia chiuderà la sala la sera della prima. Duemila persone resteranno in strada di fronte alle porte sbarrate, ed è per loro che Orson Welles improvviserà la strabiliante manifestazione che abbiamo evocato prima. Il Federal Theatre era morto, ma la gloria di Orson Welles aveva fatto un altro passo da gigante.

Il Mercury Theatre

Questa gloria gli avrebbe finalmente dato la possibilità, nel 1937, di costituire, sempre con Houseman, una propria compagnia. I due compari si trovarono senza troppa difficoltà un socio accomandante. Il Mercury Theatre era nato. La sua originalità consisteva nell’ambizione di rappresentare alternativamente opere teatrali moderne c classiche, cosa che fanno numerose compagnie europee, ma che non si era praticamente mai realizzata a Broadway, dove ancor oggi perdura l’abitudine esclusiva di vedere gli stessi spettacoli tenere il cartellone per mesi. Il Mercury Theatre cominciò con l’allestimento di Giulio Cesare. Facendo virtù degli scarsi mezzi a disposizione, Welles, che aveva la parte di Bruto, concepì l’idea di rappresentare la tragedia di Shake­ speare con costumi contemporanei. All’epoca dell’apogeo politico del fascismo in Europa, questo ammodernamento risultava audace. Per di più la tragedia veniva recitata senza scenografìe, unicamente con un sistema di praticabili disposti in orizzontale davanti al muro di mattoni sul fondo. La prima di Giulio Cesare, 1*1 novembre del 1937, fece scalpore presso la critica newyorkese, che moderò ancor meno il suo entusiasmo quando il giorno dopo potè contrapporvi, in negativo, una sfarzosa e chiassosa messa in scena in Antonio e Cleopatra, di Tallulah Bankhead. Il successo di Giulio Cesare fu tale che si dovette apportare rapidamente una modifica al programma. Lo spettacolo venne trasferito in una sala più grande, e più centra­ le, dove restò in cartellone per parecchi mesi, prima di far ritorno

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al Mercury, dove venne rappresentato in alternanza con un’opera teatrale moderna di Thomas Dekker': Shoemaker’s Holyday. Nella primavera del 1938, il Mercury presentò ancora La casa dei vedovi, di Bernard Shaw, dove Welles ebbe modo di divertirsi interpretando il personaggio ottuagenario del capitano Shotover. Questa difficile commedia ottenne solo un modesto successo. Gli affari non anda­ vano ancora troppo male, ma Orson Welles non sapeva fare i conti, e malgrado tutto la società galleggiava a stento. Sprofondò con La morte di Danton, di Biichner, che Welles aveva allestito in modo più dispendioso di Giulio Cesare. Aveva latto costruire delle specie di scale mobili, per far emergere gli attori dal palcoscenico, e incollare millesettecento maschere sul fondo per suggerire l’idea della folla. La pièce fu un innegabile e considerevole fiasco, a dispetto del modo in cui Welles aveva reso il personaggio di Saint-Just. Infine, il programma seguente, nella primavera del 1939, fu un disastro. Si trattava di una sintesi di Riccardo II, Enrico IV, Enrico V, Enrico VI e Le allegre comari di Windsor, intitolato senza pudore Five Kings. Nel corso delle prove mancarono cinquemila dollari e Five Kings non vide mai le luci della ribaltas6. Il Mercury Theatre era morto! Viva il Mercury Theatre! In fóndo, quest’onorevole fine dopo due anni di gloriosa attività era tutt’altro che un fallimento. Per breve che sia stata la sua vita, il Mercury ha svolto un ruolo cruciale nel teatro americano d’anteguerra, e la sua influenza è stata paragonata a quella del Cartel in Francia. Ma soprattutto, dal punto di vista che ci interessa qui, esso ha rappresentato una tappa fondamentale nella carriera di Orson Welles. È con il Mercury che egli ha finalmente potuto, a ventitré anni, dare tutta la misura del suo genio teatrale. Ed è ancora con il Mercury che Orson Welles ha potu­ to radunare quel meraviglioso gruppo di attori, destinati a diventare quasi tutti celebri e ad affiancarlo un po’ più tardi, nel suo lavoro a Hollywood, con la loro stupenda omogeneità di recitazione: Joseph

s Thomas Dekker è in realtà un contemporanco di Shakespeare. (N.d.T.] * In realtà, Five Kings fu messo in scena a Boston, Washington e Philadelphia, ma non arrivò mai a New York. [N.d.T.]

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Cotten, George Coulouris, Agnes Moorehead, Everett Sloane, Paul Stewart, Erskine Sanford, Ray Collins... La fine del Mercury Theatre ci ha molto avvicinati al giorno in cui Hollywood, a suon di tromba, chiamerà a sé Orson Welles. Se ci si vuole divertire a riscrivere la storia, si può immaginare, senza troppa inverosimiglianza, che il teatro avrebbe guidato in ogni caso il brillante regista di Broadway nella capitale dei cinema. Non sarebbe Punico esempio: soprattutto dopo la guerra, gli scambi tra Broadway e Hollywood sono stati frequenti, non solo per quanto riguarda i testi, cosa che è sempre avvenuta in America, ma anche e sempre più spesso per gli attori e i registi. È noto ciò che il cinema americano degli anni intorno al ’55 deve al famoso Actor's Studio di Elia Kazan7, da cui sono usciti, in particolare, James Dean e Marion Brando. In precedenza, drammaturghi come Clifford Odets e Thornton Wilder dovevano lavorare a Hollywood dopo essere stati l'avanguardia del teatro newyorkese. Oggi, dopo il già menzionato Elia Kazan, è ad uno dei registi più celebri di Broadway, Joshua Logan, che Hollywo­ od deve alcuni dei suoi film più interessanti e più ricchi di promesse per la buona salute del cinema americano. Welles, quindi, sarebbe senz’altro sbarcato un giorno o l’altro a Hollywood, ma è molto probabile che ciò sarebbe accaduto più tardi e in circostanze assai diverse, che non gli avrebbero permesso la libertà che la sua notorietà extra-teatrale gli aveva procurato: quella che si era conquistata in tre anni alla radio, il cui coronamento doveva giungere con la famosa trasmissione sui marziani.

Vanno in onda i marziani Forse l’esperienza radiofonica di Orson Welles non è stata, per la sua opera cinematografica, meno decisiva di quella teatrale. Ricor­ darla, quindi, non è soltanto un modo per evocarne l’aneddotica.

7 L’Actor’s Studio fu fondato nel 1947 da Cheryl Crawford, Robert Lewis ed Elia Kazan. [N.d.T.]

118 Tuttavia, siccome è ancora più celebre dei suoi successi teatrali, e soprattutto più conosciuta, è lecito riferirla più in breve, sebbene in genere non si sappia quanto poco fu programmata l'incredibile avventura dell’invasione immaginaria del New Jersey da parte dei marziani. Dall’epoca del Federal Theatre, Welles era un divo della rete CBS (Columbia Broadcasting System), dove aveva conquistato una progressiva libertà di azione. Dal 1938 vi dirigeva una trasmissione settimanale, a cui partecipava la sua compagnia teatrale: The Mercury Theatre on the Air. La trasmissione doveva presentare ogni volta l’a­ dattamento di un’opera classica, con Welles come conduttore. Dopo L’isola del tesoro, Jane Eyre, L’uomo cheJu Giovedì, Giulio Cesare, Ilgiro del mondo in ottanta giorni, e qualche altra trasmissione da soggetti altrettanto poco scandalosi, Welles ebbe l’idea di mandare in onda un’opera di “fantascienza”, come si direbbe oggi. Inizialmente prese in considerazione libri come La nube purpurea di Shiel e II mondo perduto di Conan Doyle, prima di fermarsi su La guerra dei mondi del suo quasi omonimo H.G. Wells. La trasmissione corse persino il rischio di non aver luogo, tanto il contenuto del libro parve in un primo tempo deludente ai suoi adattatori. Essi trovavano queste storie di marziani completamente idiote. Ma Orson stava dirigendo le prove di Danton, doveva ri­ spettare il contratto con la radio c non poteva affatto permettersi di cambiare il programma in extremis. Il 29 ottobre 1938, disperato per la mediocrità delle prove registrate, Welles pensa con gli amici del Mercury che il solo modo di aggiungere un po-’-dLsalealla^toria sia quello di accentuare il realismo degli eventi attualizzandoli, e passa la notte a rimaneggiare l’adattamento per infondervi una nota di autenticità, ambientando l’azione in differenti luoghi d’America. Il risultato, comunque, non gli sembra brillante e tutti coloro che assistono all’ultima prova, attori o tecnici, la pensano allo stesso modo. Ma è troppo tardi per migliorare. Ciò che accadde in seguito è noto, e se l’awcnimento non avesse lasciato tracce obiettive, se non fosse divenuto oggetto di veri c propri studi scientifici, oggi crederemmo a stento alla sua esistenza e soprattutto alla sua risonanza. Questo straordinario fenomeno di

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schizofrenia collettiva su scala nazionale ci parrebbe smisuratamente gonfiato dalla pubblicità, o dalla leggenda wellesiana. Ma i fatti sono lì. Bastò che un anonimo speaker annunciasse durante la trasmissio­ ne, come in un’edizione straordinaria, l’atterraggio dei marziani nel New Jersey, poi che uno dopo l’altro giungessero nuovi comunicati dello stesso genere, nonché un discorso “drammatico” del ministro degli interni e, successivamente, del presidente, a confermare c ad aggravare la notizia, perché migliaia e poi centinaia di migliaia, e infine miloni di ascoltatori credessero alla fine del mondo. Le conseguenze di questo panico sono divenute famose: la gente fuggiva ovunque, gli abitanti di città in campagna e viceversa. Le strade erano percorse in piena notte da innumerevoli automobili. Ai preti veniva chiesta la confessione. Si verificarono aborti, fratture di arti nel pigia pigia, sincopi; gli ospedali e i centri psichiatrici non sapevano più come far fronte all’emergenza. A Pittsburgh, una donna preferì mettere fine ai suoi giorni piuttosto che essere violentata dai marziani. Nel Sud si pregava sulle pubbliche piazze. Nelle città semiabbandonate ebbero inizio i saccheggi. Nel New Jersey venne richiamata la Guardia Nazionale. Parecchi giorni, se non parecchie settimane più tardi, soccorritori della Croce Rossa e Quaccheri dovettero ancora addentrarsi nel cuore delle Black Hills, nel Dakota, per convincere le povere famiglie terrorizzate che potevano far ritorno alle loro case. Assieme ad Orson Welles, ci fu senza dubbio almeno un altro beneficiario di questa isteria collettiva: lo stimato Mr. Hadley Cantril, professore di psicologia all’Università di Princeton, che si dilettò a studiare il fenomeno e potè descriverlo, in un dotto saggio, come «la prima manifestazione moderna di panico osservata fino ad oggi su materiali di ricerca adeguati ai sociologi». Mentre mezza America perdeva la testa e la polizia circondava la sede dell’emittente, i cui centralini telefonici erano bloccati dalla chiamate, Orson Welles proseguiva imperturbabile questa “mediocre” trasmissione, prima di precipitarsi con i suoi attori in teatro per pro­ seguire le prove notturne di Danton. Soltanto l’indomani mattina si sarebbe davvero reso conto, e con grande stupore, della portata del disastro... o del suo trionfo.

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Le conseguenze di questo incredibile panico furono molte­ plici e svariate, ed è anche probabile che Orson Welles avrebbe avuto di che mordersi le mani per lungo tempo, se non avesse avuto un ottimo avvocato sufficientemente attento alla stesura dei contratti. Quello che legava Welles alla CBS, fortunatamente, lo svincolava dalle responsabilità relative alle conseguenze delle trasmissioni, salvo per tutto ciò che riguardava tentativi di plagio o di calunnia. Fu perciò la CBS a doversela sbrogliare con il buon centinaio di cause intentate dalle vittime della mistificazione del 30 ottobre 1938. Ancora solo una parola, che non pregiudica la validità delle spiegazioni dello stimato Mr. Cantril di Princeton. È bene ricordare, se non per spiegarla, quanto meno per collocarla nel suo contesto storico, che questa “fine del mondo”, doppiamente wellesiana, esplose in un'America sensibilizzata dalFinquietudinc della guerra imminente. Era l’epoca di Monaco, e non era molto lontano il giorno in cui un anonimo speaker avrebbe interrotto un program­ ma di varietà per annunciare, con voce tremante, che Pearl Harbor era appena stata distrutta dai giapponesi. Ma, stavolta, molti degli americani che avevano creduto a Orson Welles pensarono a uno scherzo di cattivo gusto.

HOLLYWOOD 1939-1941 IL GRANDE DITTICO

Un contratto senza precedenti

Questo spettacolare scompiglio aveva definitivamente promosso Welles a divo nazionale. Hollywood non poteva più esimersi dall’offrirgli ponti d’oro. Toccò alla RKO, nella persona del suo presidente di allora, George Schaefer, l’onore di trattare con questa giovane ed esigente celebrità. Le sue richieste, del resto, non erano tanto finan­ ziarie quanto giuridiche ed artistiche. Welles pretendeva di ottenere ciò che maggiormente terrorizza Hollywood, una completa libertà. Non intendeva neppure separarsi dai suoi compagni del Mercury Theatre. Così le trattative furono laboriose, ma alla fine Orson Welles la spuntò e nell’agosto del 1939 gli fu fatto un contratto unico negli annali di Hollywood. Vi si stipulava che avrebbe fatto un film all’an­ no, a sua scelta come direttore di produzione, regista, sceneggiatore o interprete, o tutte queste cose insieme. E gli veniva riconosciuto il venti per cento dei proventi lordi di ogni film, su cui avrebbe ricevuto cinquantamila dollari d’anticipo. Queste clausole eccezionali ebbero l’effetto di maldisposte profon­ damente Hollywood contro il “genio” che pretendeva di scombussolare tutto. Fu preso in giro e soprattutto fu boicottato, al ricevimento che aveva organizzato per festeggiare il suo insediamento si presentarono in pochi. Il suo vestire trasandato e una barba alla Bombard, destinata

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a completare la messa a punto del suo personaggio per il film che aveva intenzione di girare, solleticarono in particolar modo l'estro dei caricaturisti. Insomma, l'invidia era al lavoro! Welles, che ostentava indifferenza, si rifugiò con uno stuolo di segretarie in una lussuosa villa in cima a Brentwood Hill, dove preparò con fervore l'adattamento cinematografico dell'opera che aveva scelto: Cuore di tenebra, di Joseph Conrad. Era un dramma d'avventura ambientato in Africa centrale; Welles doveva interpretare la parte di Kurtz, che Marlow, l’eroe che racconta la storia, cerca di salvare. L'idea di Welles, originale per l’epoca, era di conservare nel film la prima persona narrativa del romanzo: Marlow, identificato con la macchina da presa, non si sarebbe quindi mai visto. È possibile, se non probabile, che a Welles fosse venuta quest’idea in seguito alle trasmissioni radiofoniche dove egli era nel contempo primo condut­ tore e... prima persona narrante1. Comunque sia, si sa come andò. Ci voleva un Orson Welles, la realizzò invece un Robert Montgomery alcuni anni dopo ne La donna nel lago, nel modo meno convincente possibile. Ma forse si trattava anche di un’idea fintamente buona, comunque la si prendesse, e non dobbiamo rimpiangere troppo che Welles abbia dovuto abbandonarla. La preparazione di Cuore di tenebra era quasi finita quando scoppiò la guerra, privando la RKO dei suoi mercati europei, una prospettiva incresciosa per un film da più di un milione di dollari. D’altra parte Dita Parlo, la protagonista prevista e scritturata, era “internata” in Francia in quanto cittadina austriaca. Molto contrariato, Schaefer rinunciò e in cambio suggerì a Welles un poliziesco più classico: The Smiler with a Knife, che il poeta inglese Cecil D. Lewis aveva scritto per divertimento. Ma questo nuovo progetto fallì a sua volta a causa di Carole Lombard e Rosalind Russell, le dive interpellate, che una dopo l’altra rifiutarono di correre rischi con quel ragazzo originale senza esperienza. Dobbiamo ringraziarle, poiché fu la loro prudenza che fece venire a galla un terzo progetto, ideato da Welles e Mankiewicz: Quarto potere.

1 In francese: «meneur de jcu et de... jc». [N.d.T.]

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Quarto potere Era allora la primavera del 1940. Houseman, Mankiewicz e Welles lavorarono più di tre mesi a questa nuova sceneggiatura, il cui primo giro di manovella, finalmente, fu dato davanti a tutta la stampa convo­ cata solennemente per l’occasione il 30 luglio 1940. Il giorno dopo, l’articolo del Motion Picture Herald cominciava con: «Silenzio! Un genio al lavoro». Era passato un anno esatto da quando Orson Welles era approdato a Hollywood. Contrariamente alle apparenze, quell’anno non era affatto passato invano. È nota la celebre frase pronunciata da Orson Welles durante la prima visita agli Studi della RKO: «È proprio il più bel trenino elet­ trico che un ragazzo possa sognare». Una frase “infantile”, come si vede! Ma non si era limitato a questo. Quei lunghi mesi di indugi e di parziale inattività, tra l’estate del 1939 e l’estate del 1940, Welles li aveva messi a frutto per iniziarsi con metodo ai meccanismi dello Studio e ai segreti della ripresa, e per farsi proiettare numerosi film. Così, si avvicinò alla regia di Quarto potere arricchito di una cultura tecnica e artistica che senz’altro non avrebbe posseduto se avesse dovuto mettersi immediatamente al lavoro. Le riprese di Quarto potere durarono quindici settimane. Il film venne consegnato al montaggio il 23 ottobre 1940. La sua realiz­ zazione era stata circondata da un riserbo impressionante ed è noto l’aneddoto secondo cui un commando di produttori, che aveva osato introdursi sul set durante le riprese, trovò gli attori intenti a giocare a base-ball per ordine del regista. Nonostante, o a causa di questo riserbo, si diffusero indiscrezioni sulla natura scandalosa della sceneggiatura. La famosa columnist Louella Parson, legata ai giornali del magnate della stampa William Randolph Hearst, pur avendo fino a quel momento sostenuto Orson Welles dovette aller­ tare il suo principale. Si sosteneva che la biografia immaginaria del protagonista del film fosse abbondantemente ispirata alla vita dello stesso Hearst. Il seguito doveva provare che queste indiscrezioni non erano prive di fondamento. Malgrado le smentite di rigore da parte di Welles e della RKO, Hearst ottenne ugualmente che i suoi

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avvocati e Miss Parsons prendessero visione del film una volta finito il montaggio. Ciò che videro fu per loro più che sufficiente e Hearst, ad ogni buon conto, cercò di impedire l'uscita del film. Per il vero, i suoi argomenti legali erano molto deboli e tanto Schaefer quanto Welles lo sapevano bene. Tennero duro, e l'uscita sugli schermi di Quarto potere fu persino annunciata con grande pubblicità per il 14 febbraio 1941. Hearst, che non si faceva illusioni sull’esito dell’azio­ ne legale, fece allora intervenire un’artiglieria più ufficiosa, ma assai potente. I suoi giornali boicottarono i film della RKO e contro lo Studio avviarono persino una campagna diffamatoria, mentre le altre case di produzione divennero oggetto di forti pressioni. A un certo punto si progettò addirittura la creazione di un consorzio destinato ad acquistare il negativo per distruggerlo. Welles, impavido, in coda alle occasioni mondane dichiarava tuttavia che se si fosse continuato a seccarlo in quel modo avrebbe messo in cantiere una sceneggiatura su una grande idea riguardante... la vita di William Randolph Hearst. Le cose, d’altronde, non sarebbero forse arrivate a quel punto se il fuoco non fosse stato accuratamente attizzato da un’altra pettegola della stampa scandalistica, Miss Hedda Hopper, che contro la sua rivale Louella Parsons sostenne Welles così tanto e così bene che la diatriba finì per creare discordia in seno allo stato maggiore della RKO, dove Schaefer dovette scendere a patti. Una settimana dopo l’altra, l’uscita di Quarto potere veniva rimandata e Welles, preoccupato, a nome suo e del Mercury Theatre si decise a minacciare pubblicamente di far causa alla RKO per rottura di contratto. Per fortuna non dovette giungere a tanto; del resto la RKO, che aveva già speso più di ottocentomila dollari per il film, era a sua volta ansiosa di ammortizzarli. Nonostante i fulmini di Hearst, Quarto potere venne quindi presentato alla stampa il 9 aprile 1941, contemporaneamente al Broadway Theatre di New York e all'Ambassador di Los Angeles. Fu un enorme successo, e l’indomani la critica era in delirio per l’entusiasmo. L’eco di questo trionfò dovette contribuire a far ristabilire Orson Welles, che il medico, temendo un esaurimento nervoso, aveva mandato a riposarsi in una clinica di Palm Spring. Purtroppo, questo successo di critica doveva restare un successo

125 di stima che il pubblico non avrebbe confermato. “Film adulto”, Quarto potere si rivelò decisamente al di sopra dell’età mentale dello spettatore americano. Tutt’al più contribuì ad alzarla. In poche parole, nonostante lo scandalo e la critica, per la RKO il primo film di Welles fu finanziariamente un pessimo affare. In attesa di un’analisi più dettagliata, limitiamoci per ora a ricordare la trama del film. Meglio ancora, lasciamo il compito all’autore stesso: «Quarto potere racconta l’indagine svolta da un giornalista di nome Thompson per scoprire il significato delle ultime parole di Kane. Poi­ ché, a suo avviso, le ultime parole di un uomo devono spiegare la sua vita. Forse è vero. Ma Thompson non scoprirà mai cosa Kane abbia voluto dire; il pubblico, invece, lo scopre. La sua indagine lo porta da cinque persone che conoscevano bene Kane, che lo amavano o lo odiavano. Gli raccontano cinque storie divesre, ciascuna assai parziale, di modo che la verità su Kane si può dedurre solo, come d’altronde ogni verità su un individuo, attraverso la somma di tutto ciò che è stato detto su di lui. «Secondo alcuni, Kane amava solo sua madre; secondo altri, amava solo il suo giornale, solo la sua seconda moglie, solo se stesso. Forse amava tutte queste cose, forse non ne amava nessuna. Il pubblico è l’u­ nico giudice. Kane era a un tempo egoista e generoso, era a un tempo un idealista e un imbroglione, un grand’uomo e un individuo medio­ cre. Tutto dipende da chi ne parla. Non è mai visto attraverso l’occhio obiettivo di un autore. Lo scopo del film, d’altronde, risiede assai più neU’esposizione del problema che nella sua soluzione». Dobbiamo solo aggiungere, poiché non emerge con chiarezza da questo fedele riassunto, che la frammentazione del racconto portava Welles a intervenire liberamente sulla cronologia, che non veniva più rispettata. Le diverse testimonianze, mettendo l’accento su questo o quell’evento, si accavallavano fatalmente l’ima sull’altra e ciascuna di esse costituiva un ritorno al passato fra i ritorni al presente del gior­ nalista investigatore. Dopo Quarto potere, il procedimento chiamato flashback è stato utilizzato abbondantemente, e nel 1941 non era certo originale, ma fino ad allora era stato impiegato assai di rado e solitamente senza sovrapposizioni cronologiche (si veda per esempio Alba tragica, realizzato poco tempo prima dell’ideazione di Quarto

126 potere). Successivamente, del resto, il flashback è stato più spesso utilizzato in modo molto più elementare, come espediente narrativo, mentre vedremo che in Quarto potere esso assurge alla dignità di un punto di vista metafìsico. In ogno caso, se il film di Welles non ha assolutamente inventato il flashback, lo ha introdotto nel linguaggio cinematografico corrente. La storia della sceneggiatura ne è stata in­ contestabilmente rivoluzionata. Quanto a quella della regia, vedremo che non ne fu meno segnata. Particolare piccante, mentre al giorno d’oggi (’Academy Award dispensa di buon grado anche cinque Oscar a pretenziose produzioni pseudo-intellettuali, ne trovò solo uno da assegnare all’autore, attore, regista di Quarto potere, quello per la sceneggiatura. Alla fine del 1941, Orson Welles tornò a Hollywood per tener fede al suo contratto, che prevedeva ancora tre film. In linea di principio, il programma avrebbe dovuto essere interamente tracciato, ma in seguito all’incidente di Quarto potere e alle riserve del pubblico l’autorità di Welles era un poco vacillante, come forse la fiducia di Schaefer. In poche parole, non era più tempo di prodezze come Heart of Darkness., e nemmeno più come The Smiler with a Knife1. Si parlò per un po’ del Circolo Pickwick, ma alla fine si ripiegò su un rassicurante romanzo di Booth Tarkington: L’orgoglio degli Amberson.

L’orgoglio degli Amberson

Meno noto, sia perché non fu circondato da un’aura di scandali, sia perché Welles rinunciò a comparirvi come attore, tuttavia L’orgoglio degli Amberson non è affetto meno importante di Quarto potere, al quale è anche possibile preferirlo. È d’altronde l’opinione di Orson Welles, che ho sentito contrapporre l’unità e la semplicità di stile de L’orgoglio degli Amberson al bric-à-brac di Quarto potere. Quel che si può dire è che Welles, invertendo l’ordine consueto, ha prodotto il suo 2 Teoricamente, del resto, The Smiler era stato solo rinviato sine die, e Welles aveva proposto e fìtto accettare alla RKO di girare in seguito Heart of Darkness, rinunciando su questo film ad ogni forma di guadagno.

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film “barocco” prima della sua opera classica. Ma, in fondo, l’essenziale delle invenzioni stilistiche del primo si ritrova meglio controllato e più intelligentemente depurato nella seconda, spesso addirittura più sviluppato. Tanto che ciò che aveva colpito maggiormente la critica, la forza sociale del soggetto, si ritrova forse con più acutezza e profondità in questa rievocazione realistica e insieme critica dell’America di fine Ottocento, inizio Novecento. La storia è quella di una ricca famiglia di una piccola città del Sud3, la cui supremazia sociale è a poco a poco compromessa dallo sviluppo delle industrie venute dall’Europa e dagli stati del Nord. George Minafer Amberson è l’orgoglioso rampollo di questa stirpe; Isabel, sua madre, era stata un tempo fidanzata con un certo Eugene Morgan, che un giorno aveva respinto poiché le era parso ridicolo. Vent’anni dopo, vedovo, Morgan ritorna con la figlia Lucy. È divenuto un facoltoso industriale, lanciato nella fabbricazione di automobili. La sua fortuna non farà che aumentare, mentre quella degli Amberson va sgretolandosi. Ben presto, la vedovanza di Isabel renderà lecita l’a­ morosa amicizia di Eugene, che Isabel in realtà non aveva mai smesso di amare. Entrambi potrebbero, con vent’anni di ritardo, realizzare il loro antico sogno di felicità, se l’orgoglio di George e forse qualche sentimento edipico non sopraggiungessero ad ostacolarlo. Eppure George è innamorato di Lucy c le fa goffamente la corte, ma questa unione fra la tradizionale fierezza del Sud e la nuova ricchezza indu­ striale, che in Lucy non lo scandalizzerebbe, nel caso di sua madre gli appare come una decadenza e un’onta. Così, si adopera per con­ trastarla con la complicità di zia Fanny, vecchia fanciulla innamorata senza speranza di Eugene. A sua insaputa, George farà l’infelicità di tutti, di Morgan, di sua madre, di zia Fanny e la propria, poiché il suo orgoglio scoraggerà Lucy. Suprema umiliazione, dopo la morte di Isabel George sarà costretto a guadagnarsi da vivere: le proprietà terriere degli Amberson, inghiottite dalla zona industriale, hanno perso quasi tutto il loro valore. Un relativo happy end, di cui Welles probabilmente non è responsabile, modifica in extremis la tristezza ■’ Si tratta, in realtà, di Indianapolis; una città del Midwest, regione originaria di Welles. [N.d.T.]

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di questo destino: rientrando dal lavoro, George viene investito da un’automobile e condotto all’ospedale dove Lucy, commossa dalla sua disgrazia, si riconcilia con lui. Sicuramente l’intrigo sentimentale, che ne L’orgoglio degli Amber­ son occupa una parte preponderante, è piuttosto convenzionale. È del genere di Back Street o di Ungrande amort ; ma l’analisi psicologica e soprattutto raffresco sociale ne rinnovano il significato e gli conferisco­ no una dimensione intellettuale e morale che lo giustificano appieno. È senza dubbio questa verità psicologica che determinò l’insuccesso commerciale de L’orgoglio degli Amberson, il cui classicismo, apparen­ temente più convenzionale, lasciò il pubblico ancora più freddo delle audacie di Quarto potere. Gli uccelli del malaugurio della RKO non mancarono di predirlo, e Orson Welles venne esonerato dal montaggio del film. Furono probabilmente rigirati dei raccordi per modificare la sceneggiatura. Alcuni, d’altronde, sono fàcilmente riconoscibili. Per giunta, il montaggio finale fu eseguito mentre Welles si trovava in Sudamcrica, impegnato nelle riprese di It’s All True. L’orgoglio degli Amberson è interpretato da Dolores Costello, ve­ dova di John Barrymore che non recitava più dai tempi del muto, nel ruolo di Isabel; Joseph Cotten in quello di Eugene Morgan; Agnes Moorehead esegue una splendida interpretazione di zia Fanny; Ray Collins interpreta lo zio Jack e Richard Bennet il maggiore Amberson. Anne Baxter è una meravigliosa Lucy Morgan, dal sorriso insieme doloroso e sottilmente rigido. Quanto a George, è interpretato da Tim Holt, il cui nome, fino ad allora, era comparso solo nei titoli di western a buon mercato. Qui, è in tutta evidenza il sostituto di Orson Welles, al quale somiglia leggermente. Basti dire che questo pesante riferimento non lo schiaccia, tanto il regista ha saputo infondergli la propria personalità.

4 In originale nel testo; si tratta de La donna proibita (Back Street), di John M. Stahl, 1932.1N.d.T.) 5 In francese nel testo; si tratta di Un grande amore ( Love Affair, Leo McCarey, 1938). [N.d.T.]

IL GRANDE DITTICO

GEOLOGIA E RILIEVO

L’ossessione dell’infanzia

Prima di procedere nella biografia artistica di Orson Welles, è giunto il momento di soffermarci sulla sua opera e di riflettere sul suo significato critico. Non c’è dubbio, infatti, che anche se avesse realizzato solo Quarto potere e L’orgoglio degli Amberson Welles oc­ cuperebbe un posto importante nella storia del cinema. Constatare che, almeno sul piano formale, l’essenziale dell’apporto wellesiano è già contenuto nei suoi primi due film non sminuisce l’importanza dei film successivi. Ma, soprattutto, l’analisi e la riflessione ne mettono in luce l’uni­ tarietà di stile. Nell’insieme della filmografìa del loro autore queste due opere si configurano come un poderoso massiccio estetico, di cui geologia e rilievo richiedono uno studio simultaneo. Anzitutto, il senso! Quarto potere e L’orgoglio degli Amberson * da soli, costituiscono quel che potremmo chiamare il ciclo del realismo sociale, per distinguerlo da un lato dal ciclo shakespeariano, composto da Macbeth e Otello * e dai “divertimenti etici” rappresentati da La signora di Shanghai e Rapporto confidenziale. D’altronde, qui diverti­ mento non va inteso in un’accezione peggiorativa, e neppure riduttiva. Certo è però che gli ultimi due film menzionati sono realizzati come un insieme di artifìci umoristici, costruiti a partire dalle convenzioni

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del genere poliziesco. In altri termini, la serietà del messaggio passa attraverso l’apparente futilità de) gioco. Quarto poterei L’orgoglio degli Amberson., invece, sono per il cinema l'equivalente del romanzo realista, diciamo nella tradizione balzachiana. Essi si impongono in primo luogo come efficaci testimonianze critiche sulla società americana. Ma questo primo livello di significato deve essere superato, e sotto la sedimentazione sociale si giungerà ben presto al massiccio cristallino del significato morale. Da questo punto di vista, l’o­ pera di Welles è una delle più indiscutibili della storia del cinema e si colloca a fianco dei grandi paesaggi spirituali costruiti dagli Stroheim, i Chaplin, gli EjzenStejn, i Renoir, i Flaherty, i Rossel­ lini... In mancanza di un’analisi e di una descrizione esaustiva di questo messaggio, cercheremo di mettere in evidenza uno dei temi principali dell’immaginazione di Welles, quale appunto si manifesta, in modo del tutto particolare, nei suoi due primi film: l’ossessione dell’infanzia o, se si vuole, la sua nostalgia. La volontà di potere sociale di Kane, l’orgoglio di George Minafcr, affondano le loro radici nell’infanzia, vale a dire in quella di Welles. Eppure abbiamo visto che fu un’infànzia felice per eccellenza, ma forse appunto e paradossalmente incompiuta a causa della sua stessa felicità. Trop­ pe fate si sono chinate su quella culla, senza lasciare al bambino il tempo di vivere la sua età. Così non c’è da stupirsi se, in definitiva, Quarto potere e L’orgoglio degli Amberson possono essere ricondotti a una tragedia dell’infanzia. L’ultima volontà di Kane, il superuomo, il super-cittadino che consuma la sua favolosa ricchezza giocando con e contro l’opinione pubblica, il suo “progetto fondamenta­ le”, come direbbero gli esistenzialisti, è interamente racchiuso in una sfera di vetro dove alcuni fiocchi di neve artificiale piovono a volontà sopra una casetta. Questo vegliardo canuto, che nessuno osa dire rimbambito, che praticamente ha avuto in mano le sorti di una nazione, prima di morire afferra questo ricordo puerile, questo giocattolo salvato dalla distruzione della stanza di bambola di sua moglie Susan. La parola della fine è la stessa dell’inizio: il Rosebud di cui l’indagine cerca invano il significato nella vita avventurosa di Kane non è che la parola scritta sulla tela di una slitta per bambini.

131 Quando l’orgoglio e gli alibi del successo hanno allentato la morsa e il vecchio, alle soglie della morte, si abbandona fino a far scivolare in un'estrema fantasticheria la più segreta chiave dei suoi sogni, la sua parola storica è solo una parola da bambino. Non è proprio con la slitta, il cui ricordo forse incosapevole lo ossessionerà fino alla morte, che colpisce con rabbia, all'inizio della sua vita, il banchiere venuto a strapparlo ai giochi con la neve e alla protezione materna, venuto a rapirlo all'infanzia per fame il cittadino Kane? A great citizen., Kane lo è divenuto per davvero, così come era condannato dalla fortuna; almeno si è vendicato di un'infanzia frustrata giocando con il potere sociale come con una slitta straordinaria, per lasciarsi inebriare dalla vertigine della fortuna o schiaffeggiare chi osava mettere in dubbio la fondatezza morale delie sue azioni e del suo piacere. Smascherato dal suo migliore amico e dalia donna che credeva di aver amato di più, prima di morire Kane confessa che non serve a niente conquistare il mondo se si è perduta la propria infanzia. Se si mettesse in dubbio, sulla base di un solo film, l’ossessione dell'infanzia nell’opera di Welles, L’orgoglio degli Amberson appor­ terebbe la conferma decisiva. Benché stavolta non si tratti di una sceneggiatura originale, ma di un romanzo la cui trama gli è stata imposta a priori1, Welles è riuscito a permeare il personaggio princi­ pale, interpretato da Tim Holt, della stessa ossessione di Kane. Non che George Minafer sia un duplicato di Foster Kane, niente affatto. Il contesto sociale, il momento storico, le vicende biografiche in cui si dibatte l’erede degli Amberson conferiscono al suo dramma personale tutta un’altra parvenza. Ma nel suo attaccamento tirannico alla madre, e nella sua opposizione all'amore di Eugene, l’industriale che rappresenta al tempo stesso il progresso economico e sociale, ritroviamo la stessa “fissazione” egotica all’universo dell’infanzia, a quell’universo di cui era il re (la scena in cui il giovane George, vestito con curiosi abiti alla Luigi XIV, si rifiuta di chiedere scusa è altamente significativa).

1 In realtà, come si è già ricordato, fu Welles a proporre ai vertici della RKO di portare sullo schermo il romanzo di Tarkington. [N.d.T.]

132 Ma, più ancora di questa facile lettura in filigrana della sceneg­ giatura, quel che può convincerci della profonda autenticità del tema dell’infànzia in Quarto potere e ne L’orgoglio degli Amberson è l’inserimento, nella storia o nella regia, di particolari significativi e visibilmente non premeditati che si sono imposti all’immaginazione dell’autore unicamente attraverso la loro forza affettiva. Ad esempio, la ricorrente predilezione per la neve, caratteristica di una fantasti­ cheria infantile (le palle di neve degli Enfants terribles). La nostalgia della neve è legata ai nostri primi giochi (a questo bisognerebbe senz’altro aggiungere uno specifico simbolismo della neve, il cui biancore minacciato, presentimento di fango, si addice particolar­ mente alla colpevole innocenza dell’infanzia). Ne L’orgoglio degli Amberson, il primo bacio d’amore di George a Lucy è mascherato dall’alibi di una caduta nella neve. Altro particolare, questa volta della sceneggiatura, il legame di Kane con Susan risale a un incontro avvenuto mentre Kane, solitario, se ne andava a piedi a rivedere in un deposito di periferia gli oggetti che erano appartenuti alla ma­ dre. Indirettamente collegato al tema dell’infanzia, dell’egotismo e del bisogno di affermazione sociale è la predilezione di Kane per le statue, attraverso cui persegue visibilmente il desiderio impossibile di divenire un monumento egli stesso. Ancora una volta questa interpretazione, diciamo così esistenziale, non pretende affatto di esaurire il senso dei due primi film di Welles, di cui si potrebbe percorrere facilmente il labirinto seguendo altri fili d’Arianna. L’importante è che si sarebbe altrettanto certi di incontrarvi il Minotauro. L’opera di Welles è un’opera abitata dai fantassmi, ecco tutto quel che bisognava dimostrare!

L’intuizione del piano-sequenza

Ma più che al messaggio morale e intellettuale, che si preciserà e si arricchirà forse ancora in seguito, Quarto potere e L’orgoglio degli Amberson debbono la loro importanza storica, e l’influenza decisiva che hanno esercitato sul cinema di tutto il mondo, al loro genio formale e alla loro rivoluzionaria originalità espressiva. Possiamo

133 analizzare la tecnica di regia dell’uno o dell’altro, indifferentemente, perché a dispetto delle non trascurabili variazioni di stile tra i due film, l’essenziale delle loro soluzioni espressive resta identico. Questa comunanza è tanto più significativa, in quanto l’équipe tecnica e in particolare l’operatore sono diversi. Non si debbono affatto sminuire i meriti di Gregg Toland, che prima e dopo la sua collaborazione con Welles ha dimostrato di essere un operatore di genio, a cui il regista esordiente dovette certamente molto, ma a ben vedere l’eleganza raffinata e vagamente sofisticata della fotografìa di Stanley Cortez è esattamante l’opposto della rude franchezza di Toland. Eppure il decoupage tecnico de L’orgoglio degli Amberson si basa sugli stessi principi, che quindi dipendevano proprio dalla volontà dell’autore. Quando si è visto e compreso Quarto potere, e per poco che si sia meditato senza pregiudizi sulla sua regia, le accuse di plagio o di eccentricità gratuita per épater les bourgeois appaiono immediatamente risibili. Fra le scelte formali adottate e il significato del film esistono rapporti a tal punto necessari, che la voglia di stupire e di distin­ guersi appare infinitamente più improbabile del bisogno di creare un nuovo linguaggio su misura per lo schermo, capace di esprimere nuove realtà. Cerchiamo di ricostruire uno di questi percorsi logici che vanno dall’intenzione alla forma. Ad esempio, è legittimo pensare che Welles, da uomo di teatro, costruisca la sua regia a partire dall’attore. Possiamo immaginare che l’intuizione del piano-sequenza, di questa nuova unità della semantica e della sintassi per lo schermo, sia nata dal modo di vede­ re di un regista abituato a collegare l’attore alla scenografìa, e che ha sentito il decoupage tradizionale non più come un’agevolazione del linguaggio ma come una perdita di efficiacia, una mutilazione delle potenzialità spettacolari dell’immagine. Per Welles, la scena da realizzare costituisce un’unità spazio-temporale. La recitazione di un attore perde di senso, si svuota della sua linfa drammatica come un ramo tagliato, se in essa non viene mantenuto un legame vivo e sensibile tra i protagonisti e l’ambiente. D’altra parte, la scena colta in tutta la sua durata si carica come un condensatore, bisogna che sia tenuta accuratamente al riparo da qualsiasi contatto disturbatore, e ben guardarsi da ogni intervento, prima che abbia raggiunto il

134 voltaggio drammatico necessario a far scoccare la scintilla verso cui tutta l'azione è protesa. Prendiamo come esempio la scena preferita da Welles ne L’orgoglio degli Amberson: quella della cucina, tra Fanny, George e poi Jack. Dura quasi il tempo di un'intera bobina di pellico­ la. La macchina da presa resta immobile dall'inizio alla fine2 di fronte a Fanny e a George che, rientrato in quel momento dal viaggio con sua madre, si è precipitato in cucina ad ingozzarsi di torte alla crema preparate dalla zia. Distinguiamo, in questa scena, ciò che possiamo chiamare “l’azione reale” dall'“azione pretesto”. L’azione reale è l’inquietudine trattenuta di zia Fanny (segretamente innamorata di Eugene Morgan), che con finta noncuranza cerca di sapere se Ge­ orge e sua madre hanno viaggiato con Eugene. L’azione pretesto, che invade l’intero schermo, è volutamente insignificante e sopraffa le timide ma sofferte velleità di zia Fanny: è la puerile ingordigia di George. A queste due azioni corrispondono due dialoghi: quello vero, fatto di alcune rare domande insidiose, mascherato in qualche modo nell'altro, volgarmente banale, nel quale Fanny esorta George a non mangiare troppo in fretta o ad aggiungere zucchero alla tona. Trattata in modo classico, questa scena sarebbe stata frammentata in diverse inquadrature allo scopo di permetterci di distinguere con chiarezza l’azione reale dall’azione apparente. Le poche parole ri­ velatrici dei sentimenti di Fanny sarebbero state messe in rilievo da un primo piano, che ci avrebbe anche consentito di apprezzare la recitazione di Agnes Moorehead in quel preciso momento. Insom­ nia, la continuità drammatica sarebbe stata l'opposto di quella che Welles ci impone qui, con dura oggettività, al fine di condurci con il massimo di efficacia alla crisi di nervi finale di Fanny, che esplode brutalmente durante il dialogo insignificante. Non è forse stato me­ glio renderci intollerabile a poco a poco la tensione che si instaura, un secondo dopo l’altro, tra i veri sentimenti dei protagonisti c il loro comportamento manifesto? Alla fine, il dolore c la gelosia di Fanny scoppiano come un uragano che era nell'aria, ma di cui non si 1 Come si è già ricordato, all'inizio e alla fine di questa lunga inquadratura la macchina da presa esegue per il vero due movimenti panoramici, brevissimi e sim­ metrici, che non pregiudicano la validità dell'analisi di Bazin. [N.d.T.]

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potevano prevedere con esattezza il momento e la violenza. Il minimo movimento della macchina da presa, un primo piano per chiarirci l’evoluzione della scena, avrebbero sgretolato quel fascino denso che ci costringe a partecipare intimamente all’azione. Riesaminando da un altro punto di vista il decoupage in Welles, avremo occasione di analizzare scene costruite in questo stesso modo, così caratteristico. Ma dovrebbe già risultare evidente che solo la tecnica della ripresa era in grado di valorizzare così l’azione. Se si voleva giocare in ogni momento sulla significativa unità della scena, costruire l’azione non su un’analisi logica dei rapporti tra i personaggi e il loro ambiente, ma sulla percezione fisica di questi rapporti in quanto forze drammatiche, fàcri assistere alla loro evoluzione, fino al punto in cui la scena intera esplode per tutta la pressione accumulata, occorreva necessariamente che la cornice dello schermo potesse rivelare la scena nella sua totalità. Ecco perché Welles ha chiesto al suo operatore di risolvere questo difficile problema. Allo stesso modo, in tutta l’ammirevole sequenza del ballo all’inizio de L’orgoglio degli Amberson, il cui decoupage è del resto assai simile a quello dell’inseguimento ne La regola del gioco, numerosi poli di attrazione attraversano continuamente la cornice dello schermo, costringendoci a saltare dall’uno all’altro, con il rimpianto di abbandonare il precedente.

La tecnica delgrandangolo Ma la nitidezza della scena in profondità non poteva bastare all’adesione di Welles a un modello teatrale, gli ci voleva anche una profondità di campo “laterale”. Per questo Gregg Toland ha utilizzato obiettivi grandangolari molto ampi, avvicinando l’angolo di ripresa a quello della visione abituale dell’occhio umano. Questi grandangolari caratterizzano lo stile delle immagini di Quarto potere, forse ancor più della profondità di campo (ne I migliori anni della nostra vita, Gregg Toland sembra piuttosto esser ricorso ad obiettivi a “focale lunga”, per ottenere un’angolazione ristretta e un effetto da teleobiettivo). È all’apertura eccezionale di questo campo visivo

che sono dovuti in primo luogo i soffitti, divenuti indispensabili per

136 nascondere le sovrastrutture dello Studio. La loro messa in opera deve aver eccezionalmente complicato i problemi di illuminazione, tanto più che con i diaframmi molto chiusi c’era bisogno di una luce intensa, all’origine dei forti contrasti dell’immagine. Più volte si è dovuto provvedere usando dei falsi soffitti di garza, che lasciassero passare la luce. Gli obiettivi grandangolari presentano in compenso la caratteristica di deformare sensibilmente la prospettiva. Danno l’impressione di uno stiramento in lunghezza, che accentua ancor più la profondità di campo. Non arrischierò l’ipotesi che Welles avesse previsto questo effetto; in ogni caso lo ha messo a frutto. L’allungamento dell’immagine in profondità, abbinata alla ripresa quasi costantemente dal basso, crea in tutto il film un’impressione di tensione e di conflitto, come se l’immagine rischiasse di squarciarsi. Nessuno può negare che ci sia una convincente affinità tra questa fìsica dell’immagine e la metafìsica drammatica della storia. Quanto ai soffitti, soprattutto ne L’orgoglio degli Amberson., essi contribuiscono a collocare i personaggi in un universo chiuso, che le scenografie schiacciano da ogni lato. In un eccellente e fondamentale studio sullo spazio nel cinema3, Maurice Schérer ha messo perfettamente in evi­ denza il ruolo delle strutture spaziali dell’immagine cinematografica. Del resto, in pittura il significato dei punti di fuga è riconosciuto da molto tempo, e oggi son tutti d’accordo nel lodare le famose deformazioni verticali di E1 Greco. Perché mai ciò che si proclama esser carico di senso e di alto valore estetico in un’arte tradizionale dovrebbe, di colpo, smettere di essere un procedimento nobile quan­ do si tratta di cinema? Perché mai Orson Welles dovrebbe esser solo un esibizionista e uno spaccone quando infonde a tutta un’opera la stessa caratteristica formale? Certamente Orson Welles non è né l’inventore della ripresa dal basso, né il primo ad aver utilizzato i soffitti; ma quando ha voluto lavorare di tecnica e sbalordirci con la varietà delle prodezze formali, ha fatto La signora di Shanghai. L’uso continuo della ripresa dal basso in Quarto potere, invece, fa

■' La Revue du cinema, n.14. [Si tratta di “Le cinéma, art de l’espace”, La Revue du ànima, n.14,1948; Maurice Schérer è il vero nome di Eric Rohmer. N.d.T.]

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sì che ben presto smettiamo di esserne pienamente coscienti, pur continuando a subirne l’effetto. È quindi assai più verosimile che il procedimento corrisponda a un preciso intendimento estetico: im­ porci una data visione del dramma. Visione che si potrebbe definire infernale poiché lo sguardo dal basso verso l’alto sembra venire da terra, mentre i soffitti, precludendo ogni fuga interna alla scenografia, completano la fatalità della maledizione. La volontà di potenza di Kane ci schiaccia, ma è a sua volta schiacciata dalla scenografia. Per mezzo della macchina da presa, siamo in qualche modo in grado di percepire lo scacco di Kane con lo stesso occhio che ce ne fa subire la potenza.

Il decoupage in profondità Finora ci siamo dedicati a suggerire il perché delle scelte tecniche effettuate da Welles, a partire dalla sua psicologia di creatore, rispet­ to al suo passato e ai suoi gusti. Ma abbandoniamo questo punto di vista soggettivo, che potrebbe limitare la portata della nostra analisi. Qualunque siano state le sue intenzioni, coscienti o meno, resta il fatto che i suoi film esistono, indipendentemente da ciò che sappia­ mo del loro autore. L’influenza di Quarto potere sull’evoluzione del cinema, il suo valore esemplare, superano di gran lunga l’ammirevole lezione di regia drammatica che abbiamo cercato di commentare. Oltre all’originale valorizzazione di una data azione, sono le strutture stesse del linguaggio cinematografico quali erano praticate pressapoco universalmente verso il 1940, e lo sono ancora più spesso oggi, che Welles è riuscito a scuotere. Volutamente, non mi soffermerò sull’originalità dell’andamento narrativo di Quarto potere, sulla scomposizione del tempo e sulla molteplicità dei punti di vista. Welles non ne è affatto l’inventore, al cinema, e il procedimento è chiaramente preso dal romanzo. Ma è quanto meno ammirevolmente messo a punto e adattato alle pos­ sibilità del cinema; mai, prima, lo si era messo più compiutamente a frutto. Ma passeremo rapidamente oltre queste qualità dei film di Wel-

138 les, che lo spettatore anche profano non dovrebbe avere particolari difficoltà ad apprezzare, purché sia almeno un poco in buona fede. Bastano un po’ d’attenzione e di riflessione. Per concludere, è meglio soffermarci su novità più specifiche, per cogliere le quali, nell’unità dell’opera, è forse necessaria una certa consuetudine con l’analisi cinematografica. Vedremo, del resto, come esse siano strettamente dipendenti dai soggetti c dal modo in cui questi vengono trattati. Abbiamo visto che per Welles l’interesse della profondità di campo, così accanitamente contestato da alcuni, risiedeva probabilmente in un certo modo di conferire importanza alle scenografie e ai personaggi. Ma la profondità di campo comporta ben altre conseguenze che la rappresentazione dei soffitti e uno stile di recitazione più conciso. An­ zitutto, i suoi vincoli tecnici rendono molto più difficili i cambiamenti di inquadratura. Tuttavia, Welles non era uomo da fermarsi di fronte a simili difficoltà, se la scelta di far svolgere l’insieme della scena nel campo visivo definito dalla macchina da presa non fosse stata di per sé contraddittoria con la classica pratica del cambiamento d’inquadratura. Meglio, Welles molto spesso accentua il mantenimento di questa unità drammatica evitando persino i movimenti di macchina che di fatto ristabilirebbero, con la successione dei recadragcf, un decoupage ap­ parente. Ma forse, per maggior chiarezza, a questo punto è necessario ricordare cosa intendiamo per decoupage. Lo scopo di ogni film, qualunque esso sia, è illuderci di assistere a fatti reali che si svolgono davanti a noi come nella realtà quoti­ diana. Ma questa illusione cela un inganno fondamentale, poiché la realtà esiste in continuità spaziale, mentre lo schermo ci presenta

4 Come si è già ricordato, il termine recadragc è solitamntc tradotto con peri­ frasi che qui ci è sembrato opportuno evitare. Si ha recadrage quando, in seguito a un movimento di macchina, un’inquadratura subisce una variazione scalare; per esempio, quando un carrello indietro (effettuato senza stacchi) allarga progressiva­ mente il campo visivo di un’inquadratura che inizia come primo piano di un attore e poi diventa, man mano, piano americano, figura intera, campo totale. È cioè una variazione nell’operazione di cadrage (da cadrer, inquadrare), effettuata nel corso della stessa ripresa. [N.d.T.]

139 una successione di piccoli frammenti detti “inquadrature”, di cui (’ordine, la scelta e la durata costituiscono appunto ciò che chia­ miamo il decoupage