Orient (to) express. Film di viaggio, etno-grafie, teoria d'autore 8857534316, 9788857534312

Rossellini, Resnais, Pasolini, Ivens, Marker, Antonioni, Malle. C'è stata una stagione - orientativamente tra gli a

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 8857534316, 9788857534312

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MIMESIS / CINEMA n. 39

Comitato Scientifico: Raffaele De Berti, Università degli Studi di Milano Massimo Donà, Università Vita-Salute San Raffaele Roy Menarini, Alma Mater Studiorum Università di Bologna Pietro Montani, Università “La Sapienza” di Roma Elena Mosconi, Università Cattolica di Milano Pierre Sorlin, Università Paris-Sorbonne Franco Prono, Università degli studi di Torino

Marco Dalla Gassa

ORIENT (TO) EXPRESS Film di viaggio, etno-grafie, teoria d’autore

MIMESIS

© 2016 – Mimesis Edizioni (Milano – Udine) Isbn: 9788857534312 Issn 2420-9570 Collana: Cinema, n. 39 www.mimesisedizioni.it / www.mimesisbookshop.com Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 02 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]

INDICE

Prefazione Voyages en Orient. Un’introduzione

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I CONTESTI 1. 2. 3. 4.

Il Grand Tour e i suoi occhiali verdi Il modernismo artistico e le muse d’oltremare Protagonismo asiatico e reazioni sincretiche 16 mm e altri presupposti di mobilità

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II. QUESTIONI 1. Il visibile, il genere e il fuori film 1.1. Le soglie del visibile 1.2. Nomadi e cacciatori di frodo 2. L’autore in viaggio I 2.1. Virtualità e prosopopea 2.2. Durate, statuti e distrazioni 2.3. Un costrutto in viaggio 3. Fissità e ibridismo. Recitare l’altro con sguardo fisso

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III INTRADUCIBILITÀ 1. Dieci minuti di girato e otto angoli di ripresa 2. Stereotipi e malintesi che producono saperi 2.1. Rendere visibile l’invisibile

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2.2. La forza mostrativa del cliché 2.3. Lo spazio di spiegazione del malinteso 3. Cosificazioni 3.1. Cartoline 3.2. Da oggetto a cosa 3.3. Condensati dell’alterità 4. Voci extra-extradiegetiche 4.1. Un invito a venire a sentire, forse anche un invito a perdersi 4.2. Voci in quanto tali 5. L’Oriente come palcoscenico. La Cina di Antonioni 5.1. Non ero andato in Cina per comprenderla, ma solo per vederla 5.2. La chiave dell’incomprensione

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IV FINZIONI 1. Mentisco e dico la verità 2. La narrazione come viaggio e come seduzione 2.1. Mondi possibili 2.2. Mondi praticabili 3. L’esibizione della finzione 3.1. Recitare l’altro 3.2. Siamo diventati lo spettacolo e loro gli spettatori 4. La seduzione del volto 4.1. Fotogenia, fotogenia pura, mobilità scandita 4.2. La prima cosa che vediamo sono i loro occhi 4.3. Vado a cercare dei volti, ecco tutto! 5. Offrirsi in pasto alla narrazione. L’India, la Palestina e lo Yemen di Pasolini 5.1. Un’esperienza che vuol essere esclusiva come la mia 5.2. Drammatizzando fino alla massima tensione 5.3. Un senso estetico forse esagerato, eccessivo, da anima bella 5.4. Il parossismo dell’amore per il raccontare

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V ETNO-GRAFIE 1. Tutto sta dentro un pugno 2. Culture in viaggio 2.1. L’autenticità revocata in dubbio 2.2. Prossimità e distanze con le immagini etnografiche 2.3. Viaggi come rilocazioni 3. Scritture del movimento 3.1. La sensazione che un’innovazione continua 3.2. Esempi di auto-etno-grafie 4. Corpi intra-intradiegetici 4.1. Immagini-glossa 4.2. Corpi, fantasmi, macchine 5. Il vero splendore. L’India di Roberto Rossellini 5.1. Questo calvo cinquantenne regista 5.2. Lo splendore del vero 5.3. Un’istanza detentrice di un’informazione privilegiata

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CONCLUSIONI. L’AUTORE IN VIAGGIO II 1. La furia contro l’ordine e l’eclissi della distanza

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APPARATI Appendice fotografica

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Filmografia

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Bibliografia

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Indice dei nomi

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PREFAZIONE

Siamo spesso portati a pensare all’autore cinematografico senza porci troppi problemi, prendendo a modello quello che ci viene consegnato dalla tradizione letteraria. Tuttavia, basta cercare di determinarne le caratteristiche percorrendone la storia, le funzioni e i ruoli per accorgersi che la nozione d’autore declinata al cinema presenta, oltre che evidenti ambiguità, aspetti peculiari e specifici. Uno tra tutti, spesso sottolineato ma raramente analizzato in maniera organica: l’identità geografica. Perché l’autore cinematografico è essenzialmente europeo, almeno fino alle soglie della mutazione postmoderna. E quando lo si è voluto cercare altrove, è il caso della politique des auteurs, lo si è fatto a partire da un fraintendimento straordinariamente produttivo. Del resto qualcosa di simile era accaduto qualche decennio prima ai cinéastes dell’avanguardia francese, conquistati da un’immagine fantasmagorica del cinema americano che si alimentava in molta parte di una illusione proiettiva. Ma se le cose stanno così, cosa succede agli autori europei quando vicissitudini storiche o personali, curiosità, inquietudine o insoddisfazione li spingono ad abbandonare i confini certi del vecchio continente, dislocandoli in contesti geografici del tutto diversi, lontani dal riconoscimento scontato dell’identità autoriale? Il caso più noto e più studiato è certamente quello dell’approdo americano. Ma si tratta, più che di un viaggio, di un transito in direzione di una possibile integrazione in un contesto produttivo, prima ancora che culturale, fondamentalmente diverso. La metafora potrebbe essere quella dell’innesto o del trapianto, con episodi di integrazione, rigetto e tutta una possibile teratologia di ibridi, chimere, mutazioni. Qui insomma l’elemento della dislocazione geografica perde di interesse e pertinenza a vantaggio dell’integrazione produttiva e di mercato. Il viaggio invece è al centro di quelle storie di registi e di cine-

II

Orient (to) express

ma che Marco Dalla Gassa analizza in questo volume, a partire dalla destinazione, l’Oriente, che già da sola vale a convocare una ricca mitologia odeporica. Nelle avventure orientali di Rossellini, Marker, Antonioni, Malle, Pasolini, Lang, solo per limitarsi a qualche nome, la forza dei luoghi riacquista il suo potere pieno, minaccia pericolosamente quella stessa identità autoriale stabilmente conquistata in terra europea. L’avventura in questo caso non è né metafora né semplice rimando evocativo a una mitologia: rimanda piuttosto a una condizione reale in cui l’intenzionalità costitutiva dell’autore europeo sbiadisce al contatto con spazi e tempi abitati da contraddizioni, malintesi, fraintendimenti, da processi spesso indiscernibili. Vladimir Jankélévitch riconosce al carattere avventuroso una posizione liminare, un po’ dentro e un po’ fuori rispetto alle vicende che si trova a affrontare. E non è questo rimanere sulla soglia, ossimorico coinvolgimento distante, un tratto comune dei viaggi in Oriente a cui è dedicato questo volume? In misura certo diversa per ciascuno, in una variazione continua tra il dentro – il pericolo dell’esser troppo coinvolti – e il fuori – la distanza rassicurante del gioco estetico. C’è un’altra contraddizione, ancora più interna e connaturata a queste esperienze di viaggio, che le pagine di Jankélévitch ci aiutano a focalizzare. Ogni avventura trae inizio da un atto autocratico, un’affermazione di sé, un porsi in prima persona nella forma del “io farò... io andrò...”. D’altra parte ogni avventura si fonda sul rischio di una perdita di sé, figurata o reale, determinata da una futurizione incerta e incontrollabile. E dunque per l’autore europeo un progetto di viaggio è sempre una affermazione di sé come autore, a prescindere dalle motivazioni, estetiche, etiche, produttive, di curiosità, di desiderio o di impegno. Ma il viaggio di contro è l’addentrarsi in un territorio resistente all’intenzione autoriale, in cui la contingenza lavora a erodere il progetto, a incrinare quella stessa affermazione di sé che pure la origina. Mi pare che il discorso di Della Gassa si dipani proprio a partire da questo nucleo, declinato in maniera originale e diversa in ciascuno dei casi affrontati. Contraddizione rispetto alla quale l’autore assume un atteggiamento che definirei di fruttuosa incorporazione. Perché non pretende di comporla ricostruendo una coerenza che riporti ciascuna esperienza di viaggio nell’alveo di una consolidata esegesi autoriale, ma anzi ne assume produttivamente lo scarto rispetto a ogni presupposto di organicità dell’opera. Ma an-

Prefazione

III

che perché adotta egli stesso un approccio avventuroso, rifuggendo un posizionamento univoco del proprio discorso, sia in direzione della ricostruzione storica che del paradigma degli studi postcoloniali. Pur animato da una forte tensione teorica, Dalla Gassa non rifiuta di lasciarsi guidare dalla materia concreta che studia. Ne nasce una trattazione aperta, stimolante, che mette alla prova la teoria a partire dall’anomalia di casi concreti non assimilabili agli schemi canonici. Senza sacrificare la leggibilità e anzi preservando quel piacere dell’esser sorpresi che è proprio di molte letture di viaggio. Guglielmo Pescatore

Bologna, 22/1/2016

VOYAGES EN ORIENT. UN’INTRODUZIONE

Josef atterra a Tokyo, insieme alla famiglia, il 5 agosto 1952. È accolto dai media locali alla stregua di una star. I giornali fanno a gara per intervistarlo. I produttori, che l’hanno invitato a guidare un progetto cinematografico ambizioso, non esitano a soddisfare tutte le sue esigenze lavorative, comprese quelle più insolite, come la scelta di ricostruire in un capannone industriale fuori Kyoto una intera isola del Pacifico. Un anno dopo – siamo nel luglio del 1953 – egli riparte per gli Stati Uniti nell’indifferenza generale, portando con sé, quasi di nascosto, una copia del suo film. *** Fritz, invece, giunge in India la mattina del 16 agosto 1956. Convinto da un uomo d’affari locale a trascorrere alcune settimane tra New Delhi e il Rajasthan, ha un’agenda piuttosto fitta d’impegni, tra meeting di lavoro, incontri con le autorità locali e alcuni sopralluoghi. Se l’accoglienza, anche in questo caso, è calorosa, è pur vero che bastano poche riunioni e alcune richieste dei committenti ritenute incongruenti con la sua autonomia espressiva per convincerlo a ritornare a Berlino poco più di un mese dopo, abbandonando un progetto cinematografico al quale teneva molto. *** Roberto atterra a Mumbai meno di tre mesi dopo la partenza di Fritz. Come Josef in Giappone, anche il suo primo impatto con la realtà locale è, a dir poco, esaltante. Vengono organizzati ricevimenti in suo onore, viene ospitato nelle migliori strutture della capitale, persino il primo ministro lo accoglie a braccia aperte durante un incontro privato a New Delhi. Undici mesi dopo, però, quando sale su un volo che lo riporta a Parigi, il clima è radical-

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mente mutato. Nessuna corona di fiori, nessuna manifestazione di commiato. Egli scappa, di fatto, da un paese nel quale non è più gradito, non prima però di aver spedito di nascosto la nuova fidanzata in Europa e aver ottenuto rassicurazioni – anche per merito dell’intercessione della moglie Ingrid – circa la spedizione per nave del materiale girato in quei mesi di stanza indiana. *** Pier Paolo, che ha un carattere più impetuoso e passionale, trascorre il Capodanno del 1960 tra le strade brulicanti di Mumbai. Invece di rientrare nella camera prenotata presso il lussuoso Taj Mahal Hotel insieme all’amico Alberto, attraversa la città con foga infantile, letteralmente assetato di vita al contatto con un mondo sconosciuto e attraente. Monumenti, mendicanti, suonatori, giochi all’aperto, palazzi, il mare silenzioso: tutto lo seduce. Poche settimane dopo – siamo nel febbraio 1961 – il suo entusiasmo è già scemato. Egli annota nel suo diario di viaggio il fastidio per una società che scopre iniqua e disorganizzata, per le condizioni di vita indigenti cui è costretta la maggior parte della popolazione, per un soggiorno che si fa sempre più disagevole, polveroso e sfiancante. C’è da dire che quest’esperienza non lo dissuaderà da altre spedizioni in altri paesi lontani. Tra il giugno e il luglio del 1963, ad esempio, è in Israele e Giordania, in un pellegrinaggio nei luoghi della predicazione e della passione di Cristo. Anche in questo caso lo abitano stati d’animo contraddittori: da una parte un afflato quasi mistico che lo induce ad apprezzare l’umiltà del mondo brullo e desertico in cui è cresciuto Gesù, dall’altra un’amarezza insanabile nei confronti di paesaggi violentemente trasformati dalla modernizzazione. Si tratta, in fin dei conti, di spinte emotive centrifughe che Pier Paolo riprova in altre nuove esplorazioni: quando torna in India nel 1968 o quando visita lo Yemen nel 1970, paese di cui si innamora perdutamente, per sua stessa ammissione, anche in virtù di alcune architetture urbane che sono state miracolosamente conservate nella loro integrità nonostante guerre civili e devastazioni, paese verso il quale, nondimeno, prova moti di rabbia e sconforto per la totale assenza di una consapevolezza conservativa del luogo, in modo particolare da parte della sua classe dirigente. ***

Voyages en Orient. Un’introduzione

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Louis invece sceglie di scappare in India quasi avesse bisogno di liberarsi dalle angustie di un rapporto matrimoniale che non decolla e dalle difficoltà che nascono all’indomani di un ennesimo scacco professionale. È il 5 gennaio del 1968 quando arriva, con altri due amici-collaboratori, a New Delhi. Trascorre qualche settimana nella grande metropoli e poi si addentra nella parte più nascosta del paese facendo perdere letteralmente le proprie tracce. Per cinque mesi attraversa tutto il subcontinente in un tour de force che, stando alla lettura dei suoi appunti di viaggio, lo conduce in un ottovolante di sensazioni disorientanti, rigeneranti, elettrizzanti, inquietanti. I problemi, in questo caso, si ripresentano al suo ritorno a Parigi. La città – siamo nel mese di maggio – è a ferro e fuoco. Gli studenti hanno occupato le aule universitarie, i sindacati hanno indetto uno sciopero generale che promette di immobilizzare la Francia per diverse settimane. Invitato come giurato al Festival del cinema di Cannes, viene coinvolto persino nelle tensioni di un’edizione particolarmente turbolenta. Tuttavia le conseguenze per così dire più «nefaste» sono ancora di là da venire e capitano esattamente due anni dopo, quando i documentari ricavati dai materiali audiovisivi registrati durante il soggiorno indiano sono presentati alle autorità locali e da queste violentemente criticati. Secondo i rappresentanti del governo e i principali mezzi d’informazione, Louis avrebbe offerto, scientemente, un’immagine negativa del loro paese. *** Se Louis avesse saputo in anticipo le disavventure che sarebbero capitate a Michelangelo, il collega italiano coinvolto in un’analoga esperienza in Cina, probabilmente non si sarebbe lamentato delle reazioni di biasimo suscitate dal suo lavoro. Ma Michelangelo atterra a Pechino solo nel maggio del 1972 e nemmeno lui può immaginare quante difficoltà lo attendano. Appena giunto nella capitale cinese viene tradotto in un ufficio dell’ambasciata al fine di «concordare» – si fa per dire – un itinerario di viaggio e di lavoro già deciso dalle autorità governative prima del suo arrivo. Preso atto delle condizioni limitate di mobilità, egli cerca di condurre in porto il progetto lavorativo soffocando – così dice – i suoi moti di autonomia. I problemi, nondimeno, giungono solo all’inizio del 1974 quando un giornale di Pechino pubblica un articolo al vetriolo contro di lui, accusandolo di essere al soldo dei regimi imperialisti

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e fascisti occidentali. Nel giro di poche settimane viene organizzata una vera e propria campagna di biasimo nei suoi confronti: si succedono manifestazioni di piazza, si pubblicano tazebao, si diffondono trasmissioni radiofoniche, si convocano ambasciatori. A settembre, quando Michelangelo vorrebbe presentare il lavoro alla Mostra del cinema di Venezia, le pressioni del governo cinese sono tali che la proiezione viene programmata in una sala decentrata, non senza la presenza di belligeranti gruppi maoisti pronti a vietare l’ingresso agli spettatori. *** Josef, Fritz, Roberto, Pier Paolo, Louis, Michelangelo, e ancora Agnès, Alain, Joris, Wim, Chris e molti altri. Sarebbe bello poterle raccontare così, in forma romanzata, le (dis)avventure occorse ad alcuni grandi registi europei che hanno girato film in paesi del Vicino ed Estremo Oriente nel corso del secondo Novecento. Li potremmo chiamare con il loro nome di battesimo e trattarli alla stregua di personaggi collocati in narrazioni spesso più grandi di loro. D’altronde il materiale per elaborare intrighi accattivanti e intrecci tortuosi certo non manca. Durante questi viaggi compaiono, in ruoli decisivi per decretarne fortune o sfortune, potenti capi di stato, giornalisti cinici, femme fatale seducenti, mogli abbandonate, produttori senza un soldo, piccoli orfani in cerca di aiuto oppure ministri in cerca di visibilità, colleghi invidiosi e così via. Se si perseguisse, poi, l’ipotesi romanzesca, potremmo puntare a restituire, con una certa precisione, la complessa psicologia dei nostri protagonisti: coglierne le paure, gli entusiasmi, i disorientamenti e le fatiche, smascherarne le debolezze o i sotterfugi, esaltarne lo spirito di adattamento, l’acume intellettuale, la determinazione artistica e la forza di volontà innanzi a imprevisti e contrattempi. Ci sarebbe però da risolvere il problema, non di poco conto, del genere letterario nel quale ricondurre tali storie e scegliere anche lo stile di scrittura da adottare. Preferire una narrazione in terza persona e un registro retorico che s’indirizza verso il giallo o il thriller così da accentuare gli elementi evenemenziali a nostra disposizione oppure affidarsi al flusso di coscienza, alla narrazione in prima persona e ai registri maggiormente codificati dalla letteratura odeporica come i diari di viaggio, gli epistolari o i pamphlet?

Voyages en Orient. Un’introduzione

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Questo libro, beninteso, non è e non promette di essere un romanzo. Fra poche righe i nomi propri saranno sostituiti dai cognomi e la forma saggistica prenderà il sopravvento, ma è bene che alcuni dei caratteri che appartengono a prassi più seducenti di racconto si presentino al lettore come punti di accesso a questo studio. La differenza – spesso difficile da cogliere – tra persona e personaggio è, intanto, il primo iato da colmare. Dico una banalità affermando che il viaggio è un’esperienza che porta con sé grandi tentazioni di drammatizzazione e la solidificazione di quelle che Ricœur chiama «identità narrative», ovvero «form[e] d’identità cui l’essere umano può accedere attraverso la funzione narrativa»1. Se è vero che tali dinamiche di auto-rappresentazione – o, meglio, di rappresentazione dell’ipseità attraverso identità finzionalizzate – s’innescano frequentemente durante i viaggi più comuni, a maggior ragione ciò capita quando l’esplorazione di mondi sconosciuti diventa spunto e pretesto per l’elaborazione di un prodotto artistico. Sebbene il focus d’interesse di questo lavoro siano i film e una serie di processi interculturali da essi generati, scopriremo che sarà impossibile prescindere dalle prosopopee e dalle condensazioni discorsive personificanti che abitualmente chiamiamo autori e che, nella restituzione dell’esperienza odeporica, si fanno, come dicevo, personaggi. Autori, personaggi, ma potremmo dire anche personalità e/o persone in carne e ossa. Difficile fare una distinzione netta tra ruolo sociale, professionale e individuale. Eccoli comunque lì, Josef e gli altri, mentre si avventurano in paesi lontani, mossi da grandi entusiasmi, spesso ritrovandosi invischiati in situazioni complesse, inaspettate e conflittuali. Questo è il secondo iato dentro cui calarsi: quello che separa attese consolidate e improvvisi risvegli, immaginari ordinati e contingenze caotiche, sicumere rassicuranti e imprevisti destabilizzanti. È uno iato tipico di ogni narrazione che si rispetti e che generalmente conduce i personaggi coinvolti da uno stadio iniziale di apparente equilibrio a uno di rottura, poco importa se cercato o casuale, per superare il quale occorre muoversi, agire, o, in un’ottica modernista, farsi agire dagli avvenimenti. Fatta la tara alle differenze che separano ogni 1

P. Ricœur, L’identité narrative, in «Revue des Sciences Humaine», a. LXXXXV, n. 221, 1991, p. 35. Più in generale sul concetto di identità narrativa si veda anche: Id., Sé come un altro, a cura di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 2011.

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singola vicenda, è indubbio che Josef, Fritz, Michelangelo, Pier Paolo e gli altri condividano sentimenti analoghi innanzi al franare di un sistema di attese e all’irrigidirsi delle condizioni di esistenza nell’alterità. Ma, come detto, è una condizione comune, propria di quegli eroi che abitano mondi finzionalizzati generalmente costruiti attorno a immaginari di genere. Se, insomma, partecipassero a delle finzioni narrative – ecco il terzo iato da prendere in considerazione – i registi-esploratori non sarebbero degli autori responsabili di autonome intenzionalità artistiche bensì attanti costretti a muoversi in universi diegetici prevedibili e a percorrere le strade segnate dai pattern di genere nei quali si sono invischiati, quelli che caratterizzano, in questo caso, la letteratura odeporica, i romanzi d’avventura o di formazione, i racconti fantastici ed esotici e così via. Di cosa parla allora questo libro e come ne parla, se non vuole e non può presentarsi come un romanzo? In parte l’ho già anticipato. C’è stato un tempo, nemmeno troppo lontano, in cui molti registi europei hanno compiuto viaggi in Asia (ma anche in Africa e in America meridionale), realizzando film, documentari, inchieste, opere sperimentali e così via. Orientativamente tra la metà degli anni Cinquanta e l’inizio degli Ottanta, ovvero durante la fase della storia del cinema che abitualmente conduciamo sotto il termineombrello di «modernità», capita che personalità come Rossellini, Lang, Renoir, Pasolini, Malle firmino pellicole in India, altre come Antonioni, Lizzani, Marker e, poco dopo, Bertolucci lo facciano in Cina, altre ancora come Sternberg, Resnais, Wenders e di nuovo Marker in Giappone. In questo medesimo intervallo temporale, Alain Robbe-Grillet lavora in Turchia, Agnès Varda in Iran, Joris Ivens in quasi tutto il continente asiatico, dall’Indonesia al Vietnam, dal Laos alla Cina, Werner Herzog va in Iraq e in Tibet (anche se in tempi più recenti). A oggi, quest’insieme di esperienze cinematografiche non è ancora stato studiato come un percorso frutto di una medesima temperie culturale. Per tale ragione, come si evince dal parziale carotaggio presentato poc’anzi e dal titolo assegnato a questo studio, Orient (to) Express intende farlo concentrandosi sulle esplorazioni nel continente asiatico di quei metteur en scène che oggi come ieri battezziamo come autori. Due categorie, queste ultime, piuttosto sfuggenti su cui merita spendere brevi parole di

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puntualizzazione che approfondiremo meglio in seguito. Intanto bisogna dire che l’autorialità viene qui convocata secondo criteri di ordine per così dire quantitativo e non qualitativo: i cineasti studiati non sono quelli che hanno firmato i film più convincenti da un punto di vista estetico, bensì quelli che hanno saputo addensare attorno alla propria persona una sfera di discorsività ampia e perdurante nel tempo. I loro lavori, detto altrimenti, hanno mobilitato discorsi, innescato polemiche, determinato incandescenze dialettiche, agevolato teorizzazioni, come dimostrano i paratesti a loro dedicati su cui tornerò sovente nel corso della trattazione. Siamo, in fondo, negli anni in cui il costrutto autoriale, grazie alla maturazione di un processo d’istituzionalizzazione del cinema all’interno dei domini dell’arte, assume un forte peso negoziale nella formazione delle opinioni pubbliche e la riconoscibilità dei nomi dei registi sopra menzionati è, a dir poco, lampante. Anche il criterio geografico scelto è vagliato nei suoi caratteri letteralmente superficiali, ovvero come mera estensione spaziale. Si tratta di una determinazione perimetrica piuttosto ampia, concordo, ma abbastanza facile da osservare in blocco, non fosse altro perché l’Oriente, qui considerato in senso lato ma generalmente associato al continente asiatico, è una categoria diffusa nella nostra (visione della) storia, vuoi per la lunga tradizione di narrazioni odeporiche che ci hanno preceduto, vuoi perché tutto il campo di studi che oggi conosciamo sotto l’etichetta di «postcoloniale» nasce, di fatto, dal seminale studio di Edward W. Said intitolato Orientalism2. Aggiungo che l’Asia, nella percezione comune, è spesso ritenuta la culla di «civiltà» (ahimè) «alternative» a quella occidentale, nei rapporti con le quali il senso di alterità culturale e di distanza geografica si fa più marcata e la comune dinamica di attrazione/repulsione verso il diverso più intensa. Ci tengo, tuttavia, a precisare che il vaglio delle sole esperienze asiatiche – escludendo, tanto per fare un esempio, quelle analoghe ed egualmente interessanti in Africa di cineasti come Pasolini, Pontecorvo, Rouch, Straub e Huillet, Herzog – non segue né criteri di gusto, né ragioni di campo, ma di semplice gestione degli ampi materiali della ricerca. E ciononostante, come spiegherò tra poche pagine, l’approccio metodologico scelto si propone di esse2

E. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Roma 1991.

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re applicato anche per casi simili esperiti in altri quadranti di mondo. D’altra parte una qualche forma di setaccio occorreva pur individuarla e quella dell’autore in viaggio mi sembra, per molte ragioni, la più convincente. Come si diceva poc’anzi, Resnais, Rossellini, Wenders et Compagnie non sono i soli «bianchi» con la macchina da presa che si sperimentano in questo genere di produzioni. Sono, viceversa, affiancati da migliaia di europei che, nello stesso periodo, si muovono intorno al mondo documentando gli itinerari percorsi e le popolazioni incontrate con sistemi di riproduzione sempre più leggeri ed economici. Abbiamo giornalisti televisivi, documentaristi, etnografi e antropologi, avventurieri, professori universitari, pellegrini, videoartisti, fotografi e una schiera crescente di turisti di varia risma. Per restare ai soli artisti sperimentali – quelli più vicini per milieu di provenienza e spettatori di riferimento ai registi modernisti – potrei ricordare analoghe esperienze asiatiche di film-maker come Paolo Brunatto, Massimo Bacigalupo, Tonino De Bernardi, Bill Viola, Leslie Thornton, Marin Karmitz, Jonas Mekas, Ulrike Ottinger e così via. A ben vedere, altrettanti sono gli autori che senza muoversi da casa assorbono allure di esotismo e orientalismo. Penso al teatro e al cinema di Carmelo Bene che riadatta la Salomè (1972)3 di Oscar Wilde e rievoca la Battaglia di Otranto tra ottomani e aragonesi del 1480 in Nostra Signora dei Turchi (1968), all’opera di Marguerite Duras, che attinge alle proprie esperienze autobiografiche (l’infanzia trascorsa nell’Indocina francese e in India), per elaborare romanzi, film e piéce che appartengono al cosiddetto ciclo indiano. Penso a Due o tre cose che so di lei (2 ou 3 choses que je sais d’elle, 1967) o a La cinese (La chinoise, 1967) di 3

Il primo film citato – che curiosamente, ma non volutamente, rappresenta un classico dell’orientalismo rivisitato in chiave modernista – mi consente di definire i criteri con cui si farà riferimento ai testi audiovisivi. Le pellicole che hanno ricevuto una distribuzione nel nostro paese saranno citate con il titolo italiano e, alla prima occorrenza e tra parentesi, con il titolo originale (se diverso da quello italiano) e l’anno di produzione. I film che invece non sono circolati né in sala né nei canali home-video del nostro paese verranno menzionati con il loro titolo originale e, alla prima occorrenza, con la data di produzione. Per altri dati tecnici relativi però ai soli film odeporici rimando alla filmografia inserita alla fine del volume.

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Jean-Luc Godard e ad altri film militanti che attorno al Sessantotto si lasciano attraversare dagli echi della guerra in Vietnam o della Rivoluzione culturale, come dimostra indirettamente anche il paradigmatico (almeno nel titolo) La Cina è vicina (1967) di Marco Bellocchio. Perché allora occuparsi di film europei realizzati in Asia e perché concentrarsi su quelli firmati da alcuni celebri autori? Il primo motivo è di carattere meramente storiografico. Sebbene tali pellicole siano poco o per nulla considerate dagli studi autoriali – è difficile, infatti, collocarle all’interno di griglie interpretative che mirano a rimarcare le uniformità, le intenzionalità e le lucidità intellettuali di un determinato corpus registico – esse capitano in momenti chiave nelle rispettive storie professionali dei loro artefici. Per Rossellini, ad esempio, il progetto di India Matri Bhumi (1959), con il coevo documentario televisivo L’India vista da Rossellini (1959), segna il passaggio dalla stagione del «polittico» bergmaniano4 a quella delle produzioni di stampo didattico, storico e divulgativo5. Per Pasolini, Appunti per un film sull’India cade durante i moti del Sessantotto e, insieme agli altri appunti e documentari di quegli anni,6 costituisce un nucleo di inchieste audiovisive d’indubbia forza polemica. Non a caso il «terzomondismo» pasoliniano è stato considerato, da molti esegeti, una lente d’ingrandimento precipua per rileggere il suo difficile rapporto con l’Italia di quel periodo. Per quanto riguarda Chung Kuo - Cina (1972) di Antonioni, è sufficiente ricordare che appartiene al periodo «nomade» del regista ferrarese al cui interno il Paese di Mezzo rappresenta la meta più lontana e più «esotica» tra quelle toccate dalle sue «peregrinazioni» in terre straniere7. E se non è difficile dimostrare quanta importanza assumono paesi come la Cina o il Giappone per registi come Joris

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I film in cui lavora la Bergman sono Stromboli terra di Dio (1950), Europa ’51 (1952), Siamo donne (1953) e Viaggio in Italia (1953). Il riferimento è a titoli come Viva l’Italia (1961), L’età del ferro (1964), La presa del potere da parte di Luigi XIV, (1966), ecc. Cfr. La rabbia (1963), Comizi d’amore (1963-64), Sopralluoghi in Palestina (1965), Appunti per un’Orestiade Africana (1970). Per quanto riguarda Antonioni le allusioni sono alle sue produzioni internazionali: Blow Up (1966), Zabriskie Point (1970) e Professione: reporter (1975).

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Ivens8 e Chris Marker9, parimenti non dovrebbe esserlo quando si prendono in esame esperienze isolate, eppur decisive, compiute da cineasti come Renoir, Sternberg, Resnais, Malle o Wenders10. Rischiando una prima approssimazione, si può dire che questi film appaiono importanti perché le esplorazioni da cui nascono ci conducono all’interno di uno dei caratteri precipui della modernità: il concetto e l’esperienza della crisi11. Quando parlo di crisi, però, non mi riferisco alla sua rappresentazione finzionale, come capita in molti lavori coevi di Antonioni, Godard, Fellini & Co., o alla crisi dei modi di rappresentazione 8

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Joris Ivens, nel corso della sua lunga carriera, visita frequentemente la Cina per ragioni professionali oltre che militanti. Firma un documentario di guerra intitolato I 400 milioni (The 400 Million, 1939), due brevi lavori in collaborazione con gli studenti dell’Accademia del cinema di Pechino (Letters from China e The War of the 600 Million People, entrambi del 1958), il monumentale Comment Yukong déplaça les montagnes (1975), realizzato durante la Rivoluzione culturale e il film-testamento Io e il vento (Une histoire de vent, 1988), a pochi mesi dalla sua morte. A questi film si aggiungono quelli dedicati alle guerre di colonizzazione francese, olandese e americana che il documentarista realizza in altri stati asiatici come Indonesia Calling (1946), Il diciassettesimo parallelo (Le DixSeptième Parallèle, 1967), Lontano dal Vietnam (Loin du Vietnam, 1967) e Le Peuple et ses fusils (1970). Chris Marker ha coltivato interessi e attenzioni per il Far East nel corso di tutta la sua carriera, raccontando – secondo le pratiche del film-saggio che gli erano più care – la Cina in Dimanche à Pékin (1955), la Siberia in Lettre de Sibérie, ma soprattutto il Giappone in Le Mystère Koumiko (1964), Sans soleil (1983), A.K. (1985), Tokyo Days (1988), Level Five (1997). Qui si allude a: Il fiume (The River, 1951) di Jean Renoir, L’isola della donna contesa (Anatahan, 1953) di Josef von Sternberg, Hiroshima mon amour (1959) di Alain Resnais, Calcutta (1969) e la serie televisiva L’India fantasma (L’Inde fantôme, 1969) di Louis Malle, Tokyo-Ga (1985) e Appunti di viaggio su moda e città (Aufzeichnungen zu Kleidern und Städten, 1989) di Wim Wenders. Il concetto di crisi – soprattutto di crisi della rappresentazione – è comunemente applicato alle esperienze del modernismo, non solo cinematografico, ma prima ancora letterario e pittorico. A tal proposito rimando almeno a: M. Călinescu, Five Faces of Modernity, Modernism, Avant-garde, Decadence, Kitsch, Postmodernism, Duke University Press, Durham 1987; C. Greenberg, Art and Culture. Critical Essays, Beacon Press, Boston 1961. Per quanto concerne il cinema del secondo dopoguerra, i primi riferimenti sono R. Armes, The Ambiguous Image. Narrative Style in Modern European Cinema, Indiana University Press, Bloomington 1976; G. De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, Pratiche, Parma 1993.

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propria di questa stagione storica, bensì, stante le dichiarazioni degli stessi registi o le ricostruzioni più fedeli dei biografi, all’insieme di contingenze e difficoltà che li coinvolgono e che spesso dettano le ragioni del viaggio o il loro dipanarsi successivo12. Parafrasando altrimenti, non è il riversamento sul piano diegetico o morfologico di un’indistinta condizione di crisi psicologica, scopica o intellettuale a stagliarsi come paradigmatica di tali esperienze, semmai lo è la pratica quotidiana di un disagio che i nostri autori, in altri casi, avevano ricondotto a una questione essenzialmente filmica, al senso o al non-senso delle immagini e dei racconti. Informata con questa luce, l’urgenza storiografica di cui si parlava prima trascende in buona sostanza i singoli tracciati individuali per farsi discorso comune che riguarda il modo con cui siamo abituati a leggere le pagine di storia del cinema che generalmente definiamo moderne o moderniste. Per chiarire ancor meglio questo punto vorrei seguire la falsariga dei contributi che Antoine Compagnon ha licenziato a pro12

Ricapitoliamo brevemente gli elementi di difficoltà in cui incorrono i cineasti in viaggio. Malle vola in India nel mezzo di una crisi matrimoniale e professionale acuita dalle difficoltà incorse per la realizzazione de Il ladro di Parigi (1967) e William Wilson, secondo episodio di Tre passi nel delirio (1968). Rossellini, prima di lanciarsi nella sua avventura indiana, trascorre diversi mesi d’inattività seguendo vari progetti produttivi poi abortiti per mancanza di finanziamenti o di convinzione e nei mesi di stanza tra Mumbai e New Delhi, intreccia una nuova relazione sentimentale che porterà alla fine il suo matrimonio con Ingrid Bergman. Antonioni, da parte sua, accetta l’invito della Rai per girare un documentario televisivo in Cina all’indomani dell’insuccesso commerciale e critico di Zabrinskie Point (1972). Renoir, invece, accetta di stabilirsi in Bengala per dirigere un film finanziato da uno strano imprenditore di origini indiane perché non vede l’ora di liberarsi dai lacci produttivi dell’industria hollywoodiana. Non a caso, dopo Il fiume, il regista francese tornerà a lavorare stabilmente in Europa, anticipando peraltro di qualche anno il percorso che compirà un altro celebre regista europeo a Hollywood. Mi riferisco a Fritz Lang che coglie l’occasione di un progetto cinematografico, poi fallito, sul Taj Mahal per lasciare gli Stati Uniti e tornare a vivere in Germania dove realizzerà il dittico orientalista La tigre di Eschnapur (Der Tiger von Eschnapur, 1959) e Il sepolcro indiano (Das indische Grabmal, 1959). Per quanto riguarda l’altro regista europeo di stanza a Hollywood poc’anzi citato, ovvero Josef von Sternberg, occorre dire che l’esperienza giapponese de L’isola della donna contesa (1951) rappresenterà, di fatto, l’ultima sua fatica dietro la macchina da presa.

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posito della modernità artistica e letteraria ne I cinque paradossi della modernità (1990) e poi nel successivo Les Antimodernes. De Joseph de Maistre à Roland Barthes (2005). In questi due testi, lo studioso francese dimostra che i fuochi di modernità che hanno bruciato l’Ottocento e il Novecento custodiscono aporie interne percorrendo le quali fino al loro parossismo è possibile ribaltare i paradigmi con cui abbiamo informato quest’età (e questa condizione artistica)13. Parole-chiave come «nuovo», «futuro», «teoria», (cultura di) «massa», «rinnegamento», così come sono declinate e vissute da alcuni autori come Baudelaire, Manet, Braque, Kandinskij, Duchamp o Pollock, conservano principi di «classicità» come, ad esempio, una latente nostalgia per il passato, la pratica priva di concettualismo e metaoperatività, il senso di appartenenza a un’élite, la tendenza alla restaurazione di un ordine e così via. Non è un caso che si possa parlare in termini apertamente contraddittori, ma egualmente efficaci, di una «tradizione del nuovo»14 che tende alla normalizzazione dei gesti di rottura e così facendo «va da un punto morto all’altro, si tradisce da sola e tradisce la vera modernità che è la grande negletta di questa tradizione moderna»15. «Il borghese – assolutizza Compagnon – non si fa più sbalordire. Ha visto tutto. La modernità è diventata ai suoi occhi una tradizione»16. Posso anticipare che anche i film di viaggio qui studiati si dispongono attraverso dinamiche paradossali capaci di informare con una luce diversa e frastagliata il paesaggio della modernità (cinematografica) in cui sono collocati. Ne vorrei individuare brevemente tre, rimandando il lettore ai capitoli centrali del libro per successive ponderazioni. Nascono tutte dalla particolare collocazione strategica degli autori nella sfera dei discorsi sociali del loro tempo. Com’è noto, la maggior parte di essi, da Ivens a Pasolini, da Marker a Lizzani, da Malle a Wenders, in anni di turbolente contestazioni e di avanzamento della cosiddetta «controcultura», sposa 13 14 15 16

A. Compagnon, I cinque paradossi della modernità, il Mulino, Bologna 1993; Id. Les Antimodernes. De Joseph de Maistre à Roland Barthes, Gallimard, Paris 2005. Si veda in particolare H. Rosenberg, La tradizione del nuovo, Feltrinelli, Milano 1964. A. Compagnon, I cinque paradossi della modernità, cit., p. 11. Ivi, p. 7.

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convinzioni politiche fortemente critiche nei confronti dell’establishment e più in generale della società di stampo capitalista, partecipando – chi in prima linea, chi in posizione più defilata – ai movimenti di protesta che esplodono durante gli anni della Guerra fredda. Quale naturale conseguenza delle loro posizioni politiche, questi cineasti tendono a simpatizzare per le popolazioni minacciate dall’omologazione del consumismo o per quelle che sono protagoniste di lotte di autodeterminazione e di rivoluzioni d’ispirazione comunista. Tuttavia – e gli esempi che ho ricordato a esordio di saggio lo dimostrano – durante il soggiorno nei territori dell’alterità tale sentimento di partigianeria si scontra con una realtà allogena diversa da quella attesa e fantasticata, che si rivela talvolta inospitale o critica nei loro confronti. Non è raro, insomma, che si produca uno scarto considerevole tra investimenti emotivi o intellettuali di partenza e falsi rispecchiamenti di arrivo, o ancora tra bagagli cognitivi utilizzati e loro inapplicabilità in altri quadri culturali, conducendo i cineasti-viaggiatori a ri-negoziazioni coatte delle proprie convinzioni. Tali rimodulazioni – ed ecco la prima aporia – s’indirizzano verso un inaspettato recupero di epistemi conservativi dell’esistente, o se si preferisce di atteggiamenti difensivi di carattere normalizzante: mi riferisco al frequente ricorso ai cliché e agli stereotipi, a un individualismo che genera malintesi e conflitti, all’inciampo in generalizzazioni o essenzialismi, per mezzo di letture semplificate del reale che evidentemente stonano con il loro profilo progressista e «terzomondista». Un secondo apparente controsenso riguarda la questione dell’autorità etnografica e, spesso, etnocentrica che definisce la loro presenza in terre straniere e che si lega, per ovvi motivi, alla loro identità di autori. Come insegnano i già citati studi postcoloniali (e poi quelli di teoria antropologica subito a ruota), anche il romanziere in viaggio, l’etnografo in missione, il religioso in pellegrinaggio, l’orientalista in trasferta, il diplomatico chiamato a un’ambasciata e, a questo punto, il regista con la macchina da presa possono esercitare un doppio potere precluso alle comunità native: quello del sapere – sono loro i portatori di determinate verità – e quello del racconto – sono sempre loro i traduttori interculturali dell’esperienza vissuta. È facile intuire che tale funzione autoritaria conduce in un territorio magmatico e contraddittorio specie chi non vorrebbe esercitare alcuna forma di dominio e di sopraffazione verso l’altro né farsi indiretto portavoce di classi diri-

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genti che, come detto, considerano responsabili delle inuguaglianze economiche e sociali a livello globale. Un bell’enigma da risolvere, il loro, reso ancora più complesso dalla terza delle aporie che vorrei segnalare e che si genera dalle due precedenti. Investiti da tali tensioni centrifughe, i registiesploratori subiscono una doppia marginalità: una prima nei confronti della realtà sociale e politica da cui provengono e dalla quale si sentono parzialmente esclusi (e con la quale, però, condividono epistemi, schemi mentali, immaginari); una seconda nei confronti delle realtà che visitano e di cui si sentono estranei, pur condividendo (almeno a parole), valori, modelli di vita, ideologie, richieste sociali. Ne consegue che le esperienze di cui sono protagonisti si configurano come spazi di «vacanza» intesa in senso letterale: vuoti di culture, vuoti di sguardi, vuoti di sensazioni, vuoti di ricordi. Ma soprattutto vuoti del concetto e delle pratiche d’autore, la cui dimensione storicizzata – si è «autori» perché in un particolare momento storico e in un determinato contesto c’è un gruppo sociale che ti riconosce come tale – si staglia paradossalmente per assenza. Vuoti il cui riempimento durante le fatiche e le gibbosità del viaggio è tutt’altro che scontato, tutt’altro che prevedibile, e dunque assolutamente da studiare. L’approccio più efficace attraverso cui studiare questo fenomeno è l’altro snodo su cui vale la pena ragionare sinteticamente in sede introduttiva. Osservandolo con sguardo retrospettivo, posso dire che il lavoro di ricerca che presento si configura a partire da una serie d’interdizioni più o meno stringenti poste alla mia scrittura. Questo libro non è un romanzo, lo abbiamo detto, ma non è nemmeno un saggio di taglio storiografico, né, per usare categorie molto in voga, una «genealogia» o un «atlante». Non è neppure uno studio di campo né una tassonomia. Dietro a queste etichette ci sono metodi di conduzione scientifica legittimi e spesso fondamentali nella letteratura di settore che nondimeno ho battezzato poco efficaci in questo frangente. Cerco di spiegarne brevemente le ragioni. La ricostruzione storiografica, soffermandosi per esempio sulle specificità degli itinerari di viaggio o delle culture messe in scena, o ancora dei particolari riferimenti all’agone politico-sociale in cui sono inseriti, avrebbe reso difficile la pratica della collazione tra artefatti realizzati in dissimili condizioni di praticabilità (visitare l’India o la Cina negli

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anni Cinquanta o Settanta non è evidentemente la stessa cosa). Ho insomma preferito limitarmi a offrire un quadro di prima contestualizzazione che consentisse al lettore di inserire i film dentro flussi dinamici di eventi e trasformazioni in essere sia sul fronte allargato della storia tout-court (§ I 3.) sia su quello più ristretto della storia del cinema (§ I 4.) senza addentrarmi troppo nel lavoro di ricostruzione filologica di ogni singola pellicola. L’ipotesi di ripercorrere la «vita delle forme» attraverso l’elaborazione di mappe visive o tematiche mi avrebbe invece condotto lontano dal dominio delle immagini in movimento, alla ricerca di giustapposizioni e rimari in una storia delle rappresentazioni odeporiche vissuta in larga parte sulla carta e sulla tela. Anche in questo caso, i due capitoli iniziali del libro, rispettivamente dedicati alla letteratura di viaggio (§ I 1.) e al fenomeno delle avanguardie pittoriche (§ I 2.), sono stati pensati per aiutare chi legge a individuare le principali corrispondenze tra forme espressive e diverse stagioni artistiche (dal fascino per il primitivo all’esacerbazione della crisi del soggetto, ecc.), senza tuttavia ripercorrerne le singole ramificazioni. Anche adottare una sola prospettiva d’indagine – penso soprattutto a quella qui più pertinente dei postcolonial studies – rischiava di porre il lavoro su un binario di codificazioni rigide, poco propense a captare, come un sismografo, le agitazioni che covano sotto le aporie e i paradossi già in parte anticipati. Non solo come risultato di una serie di operazioni metodologiche sottrattive, ma come frutto di una precisa volontà teorica – ricordo per inciso che il lemma «teoria», oltre al più noto significato speculativo, designa anche la delegazione di teori che le città-stato dell’antica Grecia inviavano per missioni di tipo religioso e tutt'oggi indica una sfilata o una fila di persone, animali o oggetti in movimento – ho deciso di elaborare una «narrazione» scientifica che partisse dall’individuazione di alcune incandescenze concettuali di stretto interesse dei film studies per poi saggiarne la temperatura al contatto con alcune strategie di espressione e alcune pratiche di rappresentazione del viaggio. L’attenzione è così caduta non solo sulla questione dell’autore, ma anche su quella del genere, sugli spazi semantici assegnati alla comunicazione per stereotipi e cliché, sui campi discorsivi che influenzano le storie ricettive di una pellicola, sul problema della finzione e, quello simmetrico, della restituzione mimetica del reale odeporico, e ancora sul valore fotogenico delle immagini esotiche, sui portati delle voci (autoritarie) di commento, sul ruolo degli oggetti, dei corpi e dei registri

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enunciativi nel momento in cui servono come filtri traduttivi per gestire le fatiche dell’incontro. Di volta in volta, costringendo chi legge a un faticoso, ma necessario pendolarismo tra teoria e pratica, tra addensamenti speculativi e loro successivi scioglimenti nella materia del film, ho chiesto ad alcuni contributi di importanti studiosi o ad alcune particolari sensibilità disciplinari di aiutarmi a focalizzare questi aspetti in modo da re-interrogarmi su certe dinamiche culturali e sul modo con cui fissiamo, come anticipato, certe categorie storiografiche. La speranza è che l’approccio metodologico abbracciato serva da schema orientativo per indagini che non riguardino le sole esperienze odeporiche autoriali in paesi asiatici e che più in generale schiuda l’auteur theory di ambito cinematografico a paradigmi e modelli interpretativi diffusi in ambito letterario e pittorico. Chi avrà la pazienza di continuare la lettura scoprirà che coltiverò la dimensione del paradosso in quasi tutte le sezioni del libro. Dopo una seconda parte intitolata questioni e interamente spesa per «appropriarmi» di alcuni contributi provenienti dai lavori di Edward Said, Homi Bhabha, Rey Chow, Michel Foucault o, in ambito cinematografico, di Pierre Sorlin, Richard Dyer, Roger Odin e altri ancora, inizierò un viaggio che mi porterà, nella terza parte del libro intitolata intraducibilità, a scoprire quanto siano decisivi, contrariamente alle vulgate comuni, gli usi stratificati dei pregiudizi o il continuo incaglio nei malintesi in un’ottica di significazione che pone il «nativo» in una posizione di parziale e inattesa forza negoziale. Nella quarta parte, denominata finzioni, mi soffermo invece sulla dimensione artificiale del racconto odeporico, finendo però paradossalmente per occuparmi di volti, di voci e di corpi (nudi), ovvero di quegli elementi della corporeità che dovrebbero garantire, ipoteticamente, l’accesso diretto ai dati fenomenici presentati in un film. Viceversa nella quinta parte, intitolata etno-grafie e maggiormente debitrice ai campi disciplinari dell’antropologia, l’attenzione verso le questioni della mimesis passa attraverso lo studio di alcune forme di sperimentazione modernista applicate al film di viaggio, ovvero attraverso categorie autenticanti di natura artificiali (come il non finito, il frammentario, la perdita di senso qui declinata nell’esperienza del disorientamento, la riflessività e così via), proprie del

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modernismo di questi anni17. Per evitare a mia volta di indurre destabilizzazioni in chi legge, ho però cercato di assegnare un’architettura coerente a questa parte del volume. Le ultime tre parti iniziano, infatti, dalla descrizione di una o più sequenze paradigmatiche (con relativo apparato iconografico in appendice di volume), proseguono con un carotaggio teorico che illustra lo snodo da approfondire secondo sensibilità che giungono da campi disciplinari diversi (il cognitivismo, la possible world theory, l’antropologia postmoderna, ecc.), si dipanano successivamente in due capitoli che calano le suggestioni raccolte all’interno di alcune pratiche della raffigurazione di viaggio, per concludersi nell’analisi di tre casi studio (uno per sezione) nel quale, idealmente, si inverano i ragionamenti fin lì condotti. A proposito di questi ultimi casi, è stato naturale individuarli nei tre «viaggi in Oriente» di tre tra i più noti autori italiani del tempo: Antonioni, Pasolini e Rossellini. Il loro contributo al modernismo odeporico risulterà decisivo soprattutto per quanto riguarda la funzione assertiva e distraente (per usare due paradigmi foucaultiani che approfondirò tra poco) esercitata dalla loro presenza autoriale, chi nello scontro con le autorità cinesi, chi nel «sopravvivere» al polverone innalzato dalla stampa scandalistica indiana, chi nel porsi in relazione, in forme complesse e contraddittorie, con i discorsi e le lotte terzomondiste. Conclude il saggio un breve capitolo riepilogativo che ritorna al concetto e alle pratiche dell’autore in viaggio, rileggendole alla luce delle argomentazioni nel frattempo svolte e avanzando supposizioni (certamente non definitive) sulle prossimità che si stabiliscono tra queste esperienze e alcuni paradigmi generalmente associati alla postmodernità. In un particolare passaggio che qui non anticipo, i registi ritroveranno infine il piacere del nome proprio. Sternberg, Lang, Rossellini, Pasolini, Malle, Antonioni e ancora Varda, Resnais, Ivens, Wenders, Marker e molti altri torneranno (per qualche istante) a essere semplicemente Josef, Fritz, Roberto, Pier Paolo, Louis, Michelangelo, Agnès, Alain, Joris, Wim, Chris…

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Le quattro categorie qui proposte, non esaustive se ricondotte ai film di viaggio, sono semplicemente quelle che Compagnon indica come caratterizzanti il modernismo artistico fin dalle sue prime manifestazioni letterarie di metà Ottocento. Cfr. A. Compagnon, I cinque paradossi della modernità, cit., pp. 28-32.

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Con nomi e cognomi – senza aporie, marginalità e soprattutto senza metterne in dubbio l’«autorialità» – vanno invece citate e ringraziate le persone che hanno reso possibile, grazie al loro aiuto, questo lavoro di ricerca. Come sempre accade quando le indagini durano anni, vengono svolte in più università o istituzioni e cercano parziali verifiche in saggi, convegni, seminari o lezioni, sono numerosi i colleghi, gli amici e gli studenti che si sono rivelati prodighi di consigli, critiche, suggerimenti, letture, domande scomode, appoggi (istituzionali e non), confronti in sedi pubbliche o private. Per evitare lunghi elenchi e forse anche per un moto di discrezione, evito di declinare – una a una – le ragioni della loro «indispensabilità», ma non meno sincera è la gratitudine, la riconoscenza e il riconoscimento che nutro nei confronti di chi ha accompagnato e reso agevoli, quando non piacevoli, le fasi della ricerca e della scrittura. Sperando di non dimenticare alcuno, ringrazio pertanto Massimo Bacigalupo, Giuseppe Barbieri, Marco Bertozzi, Viviana Bertuzzi, Francesca Bisutti, Annette Blomqvist, Stefano Bona, Ludovico Bonora, Fabrizio Borin, Donatella Calabi, Juan Calatrava, Giacomo Calorio, Gianni Canova, Giulia Carluccio, Luca Caminati, Francesca Castellani, Clizia Centorrino, Eleonora Charans, Roberto Chiesi, Fabrizio Colamartino, Andrea Cossu, Antonio Costa, Giorgio Cremonini, Lorenzo Cuccu, Lino Dalla Gassa, Tonino De Bernardi, Leonardo De Franceschi, Alessandro Del Puppo, Miriam De Rosa, Giovanni De Zorzi, Carlo Di Carlo, Isabella Di Lenardo, Bruno Di Marino, Virginie Dubois, Valeria Finocchi, Marco Grifo, Elisa Mandelli, Sara Martin, Anna Masecchia, Carmelo Marabello, Roy Menarini, Alessandro Mistrorigo, Simone Moraldi, Giovanni Morelli, Franz Mozzi, Stefania Parigi, Luigi Perissinotto, Guglielmo Pescatore, Stefano Pellò, Francesco Pitassio, Paolo Puppa, Leonardo Quaresima, Valentina Re, Roberto Revello, Barbara Rohregger, Matteo Rosati, Rosamaria Salvatore, Antonio Somaini, Nico Stringa, Luca Taddio, Giorgio Tinazzi, Chiara Tognolotti, Dario Tomasi, Marianna Vianello, Giada Viviani, Federico Zecca, Riccardo Zipoli, Guido Zucconi. Ringrazio ovviamente le istituzioni (e il loro personale) che hanno sovvenzionato o ospitato le mie ricerche. La Scuola Dottorale in Storia delle Arti promossa dalle Università Ca’ Foscari, Iuav di Venezia e dall’Università di Verona, il Dipartimento di Fi-

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losofia e Beni Culturali dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, il Departamento de Periodismo y Comunicación Audiovisual de la Universidad Carlos III de Madrid e poi il Museo Nazionale del Cinema di Torino con la Bibliomediateca «Mario Gromo», la Cineteca Lumière di Bologna con la Biblioteca «Renzo Renzi», il Gabinetto Scientifico Letterario GP Vieusseux, il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma con la Biblioteca «Luigi Chiarini», la Biennale di Venezia con l’Archivio Storico delle Arti Contemporanee, la Fondazione Querini-Stampalia, la Bibliothèque Nationale de France, la Joris Ivens Foundation, la Bibliothèque du Film della Cinémathèque Française di Parigi. Rivolgo un ringraziamento anche agli studenti che hanno frequentato i corsi, i seminari o le lezioni che ho svolto nell’ultimo periodo presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, l’Università Lumsa di Roma e l’Universidad Carlos III di Madrid, perché mi hanno permesso di mettere alla prova della loro attenzione, delle loro domande e del loro interesse alcuni esiti di questa ricerca.

Dedico questo lavoro ad Annette, Eric e a tutta la mia famiglia, per il supporto e la pazienza accordatemi durante i lunghi mesi di ricerca e scrittura. L’ultimo pensiero va invece ad Alberto Elena Diaz che ha visto nascere il progetto di questo libro, ma che purtroppo non può più vedere e giudicare i suoi esiti. La sua straordinaria disponibilità e la sua curiosa attenzione sono uno dei frutti più preziosi raccolti durante il lungo viaggio.

I CONTESTI

1. IL GRAND TOUR E I SUOI OCCHIALI VERDI

L’espressione «Grand Tour»1 circoscrive la tradizione dei viaggi di formazione che i giovani aristocratici dell’Europa settentrionale compivano in quella meridionale e in Italia specialmente, dalla metà del Cinquecento fino alla fine del Settecento.2 Di età compresa tra i sedici e i ventidue anni (con molte eccezioni), i rampolli delle famiglie più benestanti erano indotti a partire, perché si riteneva che i soggiorni nel Mezzogiorno completassero la loro educazione al gusto, alle buone maniere, alla cultura classica, alle arti, affilando nel contempo le attitudini al comando, lo spirito di intraprendenza, la capacità di adattamento, tutte doti necessarie per chi si candidava a far parte della classe dirigente del proprio paese. I loro itinerari erano spesso predeterminati, all’interno dei quali alcune città d’arte (Firenze, Roma, Bologna, Venezia), alcuni siti archeologici (Pompei, Paestum, la Grecia antica), alcuni particolari ambienti naturali (le montagne della Svizzera, il mare della Sicilia, il Vesuvio e il golfo di Napoli) costituivano posti-tappa (quasi) obbligati. A differenza dei viaggiatori dei secoli precedenti, stimolati a scendere al sud per motivi economici (in virtù della for1

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Per un’introduzione al fenomeno del Grand Tour rimando a: A. Brilli, Viaggio in Italia. Storia di una grande tradizione culturale, il Mulino, Bologna 2006; C. De Seta, L’Italia del Grand Tour da Montaigne a Goethe, Electa, Milano 1992; C. Hibbert, The Grand Tour, Weidenfeld & Nicholson, London 1987; G. Botta (a cura di), Cultura del viaggio, Unicopli, Milano 1989; J. Black, The Grand Tour, Routledge, London-New York 1985. Si tende generalmente a considerare il Grand Tour come un fenomeno che inizia con il trattato di Cateau-Cambrésis del 1559, quando si inaugura, nel cuore dell’Europa, un periodo di relativa pace e che si interrompe con la campagna d’Italia avviata da Napoleone nel 1796-97 e più in generale con gli eventi che portano alla crisi delle aristocrazie europee e alla fine dell’ancien régime.

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za commerciale-mercantile di molti stati peninsulari), accademici (in ragione della nascita delle prime università a Bologna, Padova e altri centri urbani) o religiosi (il pellegrinaggio a Roma rappresentava, prima della riforma protestante, uno dei passaggi cruciali nella vita dei fedeli), i grandtourists vivevano le loro «spedizioni» animati «dalla curiosità e dal bisogno dell’evasione, sensibil[i] al richiamo della cultura classica e […] sorrett[i] dallo spirito di osservazione della ‘nuova scienza’ baconiana o della nuova mentalità storiografica francese», assimilando, in altre parole, una disposizione al viaggio molto simile a quella «moderna».3 Con tutte le differenze del caso, possiamo considerare il Grand Tour come una sorta di turismo sensibile, colto e «pedagogico», che non mirava soltanto all’osservazione di monumenti, chiese o musei, ma serviva a stabilire, almeno in linea teorica, una conoscenza approfondita e partecipe delle realtà culturali visitate. Come ricorda Attilio Brilli, con il passare delle generazioni, il «gran giro» diventa anche un modo per costruire un’identità paneuropea diffusa e trasversale (tra le élite, s’intende), proponendosi come un fenomeno di cosmopolitismo ante-litteram, capace di tenere insieme sotto il vessillo della pratica odeporica i rappresentanti di paesi talvolta tra loro belligeranti.4 D’altra parte, quale che fosse la loro origine nazionale, i grandtourists sapevano di vivere un rito sociale codificato nel segno della «vacanza» e dell’eccezione, sì misurandosi con condizioni di vita non abituali e talvolta disagevoli, ma vivendo soprattutto un periodo di evasione individuale dalle leggi sociali del proprio paese, adottando un atteggiamento che formerà un certo modo di pensare la relazione e il contatto con l’alterità, nel doppio segno della attrazione/repulsione per il diverso, secondo paradigmi che funzioneranno a giustificare le successive politiche coloniali del Vecchio Continente. Ad accomunare i protagonisti di queste esperienze vi era poi la necessità di coltivare un lato estetico-artistico che si manifestava sia nella frequentazione di musei e aree archeologiche, nell’acquisto di quadri, reperti archeologici, sculture e altre opere d’arte, sia, in alcuni casi, nella predisposizione di diari, romanzi, saggi, ovvero di testi che andranno a costituire 3 4

A. Brilli, Quando viaggiare era un’arte. Il romanzo del Grand Tour, il Mulino, Bologna 1995, p. 12. A. Brilli, Viaggio in Italia, cit., pp. 36 e ss.

Il Grand Tour e i suoi occhiali verdi

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un preciso genere letterario (e pittorico)5. Il viaggiatore più celebre dei Grand Tour è senza dubbio Goethe, che con il suo Italienische Reise (1816-17)6 cristallizza in qualche modo i canoni narrativi (e romantici) di questo particolare esercizio, ma prima di lui vanno annoverati nel gruppo dei grandtourists molti intellettuali e letterati da Montesquieu a Montaigne, da Bacon a Sterne, da Seume a Stendhal e così via.7 Se l’etichetta Grand Tour indica generalmente il viaggio nei paesi dell’Europa meridionale, in verità, anche grazie alla sempre più estesa colonizzazione dell’Asia e dell’Africa settentrionale dalla fine del Settecento in avanti, essa può essere agevolmente applicata anche ad aree geografiche più lontane di quelle tradizionali. Grazie a eventi di certa rilevanza storica (la campagna in Egitto e in Siria condotta da Bonaparte nel 1798, la conquista da parte della Francia dell’Algeria tre decenni dopo, le guerre dell’Oppio a metà Ottocento, la riapertura dei commerci con il Giappone dopo la restaurazione Meiji, l’inaugurazione del Canale di Suez nel 1869, ecc.), si assiste a un lento, ma costante intensificarsi delle spedizioni di viaggiatori europei verso i paesi del cosiddetto Vicino ed Estremo Oriente.8 Malgrado i protagonisti di queste nuove spedizioni non siano sempre giovani aristocratici del Vecchio Continente, essi co5 6

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Cfr. C. De Seta, Grand Tour. Viaggi narrati e dipinti, Electa, Milano 2001. L’ultima edizione italiana del celebre testo è: J.W. Goethe, Viaggio in Italia, A. Mondadori, Milano 2013. Anche nelle prossime note, laddove è possibile, si tende a segnalare l’ultima edizione italiana dei testi odeporici citati. I riferimenti sono i seguenti: Montesquieu, Viaggio in Italia, Laterza, Roma 2008; M. de Montaigne, Viaggio in Italia, BUR, Milano 2012; F. Bacon, Saggi, Sellerio, Palermo 1996; L. Sterne, Viaggio sentimentale di Yorick lungo la Francia e l’Italia, Bompiani, Milano 2009; J. G. Seume, L’Italia a piedi. 1802, Longanesi, Milano 1973; Stendhal, Roma, Napoli e Firenze nel 1817, Fabbri, Milano 2006; Id., Viaggio italiano, 1828, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1961; Id., Passeggiate romane, Garzanti, Milano 2009. Per uno sguardo generale sul fenomeno del viaggio in Oriente rimando ancora a A. Brilli, Il viaggio in Oriente, il Mulino, Bologna 2012. Altre letture utili possono essere G. Bossi, Immaginario di viaggio e immaginario utopico. Dal sogno del paradiso in terra al mito del buon selvaggio, Mimesis, Milano-Udine 2003; B. Parry, Imperial Eyes. Travel Writing and Transculturation, Routledge, London-New York 1992; G. Borsa, La nascita del mondo moderno in Asia Orientale. La penetrazione europea e la crisi delle società tradizionali in India, Cina e Giappone, Rizzoli, Milano 1977.

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munque appartengono a strati elevati delle loro rispettive società: funzionari ministeriali, ufficiali, diplomatici, etnografi, professori, scrittori, politici. Sono loro, in virtù dell’alto grado d’istruzione conseguito, che si trasformano spesso nei principali traduttori su carta di queste nuove forme di esplorazione intellettuale. Di nuovo, i casi da convocare sarebbero numerosissimi, ma vale la pena ricordare solo i più importanti, giusto per sedimentare un’idea. Tra i viaggiatori-scrittori che visitano il Maghreb, la Terrasanta, la Turchia e la Grecia ci sono figure come Chateaubriand, Byron, Lamartine, de Nerval, Flaubert, Gautier;9 tra coloro che si avventurano, specialmente dal secondo Ottocento, nel lontano Far East si possono annoverare personalità come Loti, Claudel, Segalen (su cui torneremo a lungo), Malraux, Farrère, Michaux, Kipling, Hesse, Forster, Eliade, Gozzano e così via.10 Se quello appena svolto è un elenco ristretto e parziale, esso è comunque sufficiente per capire che i viaggi ancora più numerosi che si organizzano e si realizzano nel secondo Novecento – nei cui flussi si andranno a collocare le vicende dei vari Rossellini, Marker, Pasolini, Varda, ecc. – appartengono a una lunga e radicata storia odeporica che attecchisce su 9

10

F.R. de Chateaubriand, Milleottocentosei. Un anno della mia vita. Itinerario da Parigi a Gerusalemme, G. Ruscito Editore, Frosinone 1997; G. G. Byron, Il pellegrinaggio del Giovine Aroldo, Utet, Torino 1924; A. de Lamartine, Rimembranze di un viaggio in Oriente, Pirotta e C., Milano 1835; G. de Nerval, Viaggio in Oriente, Einaudi, Torino 1997; G. Flaubert, Salammbo, BUR, Milano 2008; Id., La tentazione di Sant’Antonio, Perrone, Roma 2013; Id., Voyage en Orient: 1849-1851, Gallimard, Paris 2006; T. Gautier, Voyage en Espagne, Signorelli, Milano 1935; Id., Voyage en Russie, Charpentier, Paris 1878; Id., Viaggio in Italia, La Vita Felice, Milano 2010. Mi limito a segnalare solo i principali lavori degli scrittori elencati. P. Loti, La signora dei crisantemi, Società Ed. Milanese, Milano 1908; Id., Fantasma d’Oriente, Asterios, Trieste 2013; P. Claudel, Oeuvres complètes, Gallimard, Paris 1962-1965 (in particolare Extrême-Orient, voll. 1-2); V. Segalen, Gli immemoriali, Lestoille, Roma 1980; Id., René Leys o il mistero del Palazzo Imperiale, Einaudi, Torino 1973; A. Malraux, I conquistatori, A. Mondadori, Milano 1992; Id., La condizione umana, Bompiani, Milano 2010; C. Farrère, Mes Voyages - La promenade d’Extreme-Orient, Flammarion, Paris 1923; H. Michaux, Un barbaro in Asia, O Barra O Edizioni, Milano 2014; R. Kipling, Da mare a mare, A. Mondadori, Milano 1993; H. Hesse, Dall’India, Garzanti, Milano 1987; E. M. Foster, Passaggio in India, O. Mondadori, Milano 2003; M. Eliade, Maitreyi. Incontro bengalese, Jaca Book, Milano 1989; G. Gozzano, Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India (1912-1913), Bompiani, Milano 2008.

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un terreno ricco di sedimentazioni ancora più antiche (le crociate, i pellegrinaggi in Terra Santa, le esplorazioni di nuove terre, le guerre coloniali, ecc.) all’interno del quale il Voyage en Orient diventa deposito d’immaginari positivi, sublimando processi storici spesso violenti in esperienze di carattere intellettuale. Non a caso, Said dedica medesima attenzione tanto agli scritti di politici, diplomatici o uomini di Stato quanto a quelli di letterati e romanzieri, considerando dunque la narrazione, qualunque configurazione essa abbia, un modo discorsivo (nel senso di Foucault11) essenziale per l’articolarsi di logiche di controllo del sapere/potere dell’Occidente nei confronti dell’Oriente. La genealogia intellettuale ufficiale dell’orientalismo includerebbe senz’altro Gobineau, Renan, Humboldt, Steinthal, Burnouf, Rémusat, Palmer, Weil, Dozy, Muir, per menzionare, quasi a casaccio, solo alcuni dei nomi più celebri del secolo XIX. Comprenderebbe poi alcune celebri associazioni di carattere scientifico e culturale: la Société asiatique, fondata nel 1822; la Royal Asiatic Society, fondata nel 1823; l’American Oriental Society, nata nel 1842, e così via. Ma potrebbe essere costretta a trascurare il grande contributo della narrativa, dai diari di viaggio ai romanzi d’avventure, al consolidamento delle suddivisioni introdotte dagli orientalisti tra le varie componenti geografiche, storiche ed etniche del Levante. Tale trascuranza sarebbe ingiusta, dal momento che proprio riguardo all’Oriente islamico la letteratura è particolarmente ricca, e ha dato un contributo specialmente significativo all’edificazione del discorso orientalista. Vi figurano opere di Goethe, Hugo, Lamartine, Chateaubriand, Kinglake, Nerval, Flaubert, Lane, Burton, Walter Scott, Byron, Vigny, Disraeli, George Eliot, Gautier. Più tardi, tra la fine del secolo scorso e l’inizio di quello attuale, si aggiunsero Doughty, Barrès, tutti autori che hanno contribuito ad arricchire la fisionomia del “grande mistero asiatico”.12

Bisogna dire che l’attenzione di Said per la letteratura odeporica è decisiva anche per questo studio. Nella ponderazione sulle narrazioni di viaggio, lo studioso di origini palestinesi accenna a una 11 12

Sul concetto di discorso in Foucault si veda almeno: M. Foucault, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971; Id., L’ordine del discorso e altri interventi, Einaudi, Torino 1972. E. Said, op. cit., p. 104.

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serie di modi di relazione con le culture asiatiche che ritorneranno con una certa puntualità nei casi da me analizzati e che vale la pena accennare: lo «smarrimento» dei francesi, l’«immaginazione materiale» degli inglesi, la ricerca nell’Oriente di miti privati o di espressioni esistenziali come nel caso di Chateaubriand, o il bisogno, solo parzialmente antitetico, di raccontare la «scienza», ovvero il reale «così com’è», come nel caso di Lane, e ancora la «frammentazione» della scrittura di Lamartine, la dimensione dello scacco e dell’assenza in Nerval, l’esibizione della corporeità in Flaubert e così via13. A differenza di Said, che muove le sue argomentazioni sul filo della percezione complessiva di un processo trans-storico, Attilio Brilli, muovendosi nel campo più ristretto della teoria letteraria, ha provato a offrire una sistematizzazione del genere odeporico, enucleando, nei suoi numerosissimi libri14, caratteri fondativi e principali refrain. Può essere utile ricordarne alcuni, perché alla fine di questo studio suoneranno familiari: il racconto dei preparativi prima della partenza, l’esplicitazione degli immaginari che guidano la percezione dell’altro, l’accentuazione del rilievo che assumono gli imprevisti nel tragitto, l’esibizione di un profilo estetico (il celebre motto di Chateaubriand: «Vado a cercare delle immagini, ecco tutto!»), il bisogno di provare sensazioni solo apparentemente antitetiche (sublime/orrido, sensuale/fantastico), la voglia di cliché (harem, bazar, bagni turchi, caravanserragli, ecc.), e via discorrendo. A proposito di registri narrativi, Brilli ricorda che sono i diari e le lettere quelli più frequentati, perché garantiscono, pur artatamente, un «migliore accreditamento del reale effettivamente vissuto». Quanto la struttura diaristica o epistolare siano un artificio teso ad accreditare la veridicità del viaggio, la fragranza stessa dell’esperien13 14

Si veda in particolare Ivi, pp. 168-198. Oltre ai testi già citati nelle precedenti note, ricordo tra i numerosi lavori dello studioso italiano dedicati alla narrativa odeporica anche i più recenti: A. Brilli, Dove finiscono le mappe. Storie di esplorazione e di conquista, il Mulino, Bologna, 2012; Id., Gerusalemme, La Mecca, Roma. Storie di pellegrinaggi e di pellegrini, il Mulino, Bologna 2014; Id. (a cura di), La Mecca rivelata. Avventure di esploratori europei nelle città sacre dell’Islam, Sellerio, Palermo 2015.

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za vissuta con i propri occhi e con i propri sensi è dimostrato dal fatto che, nella maggior parte dei casi, i libri vengono redatti o ricostruiti a posteriori, attraverso un lavoro memoriale, il quale, oltre le esperienze vissute e le conoscenze di prima mano, comprende dati e notizie tratti da altri volumi similari o da altre fonti.15

Per chi ha negli occhi i film odeporici della modernità, queste e altre pagine dei lavori di Brilli sembrano alludere direttamente ai film di Marker o Wenders, di Pasolini o di Malle, come se esistesse, seppure impercettibile, una linea di continuità che dalla letteratura del Grand Tour, passando per quella orientalista, giunge fino alle (dis)avventure dei registi europei in Asia nel secondo Novecento.16 Non si tratta invero di affermare l’esistenza di una processualità astorica che riproduce tendenze e forme discorsive uguali tra loro. Le differenze sussistono e sono decisive. Ciononostante è indubbio che la presenza fisica, la personalità e lo sguardo dell’artista in viaggio, sia esso uno scrittore o un regista, contribuiscano a determinare fenomeni in qualche modo paragonabili. Vediamone alcuni. Intanto, posso anticipare che anche Pasolini, Rossellini et Compagnie sembrano poter rappresentare una nuova aristocrazia in viaggio, un’aristocrazia di «intellettuali con la macchina da presa», certo, ma non meno esclusiva di quelle nobiliari. Come i grandtourists del passato, i nostri cineasti vivono l’esperienza odeporica come una «trasgressione» dal quotidiano, ancora una volta accolta positivamente dal milieu (ideologico) di riferimento. In molti passaggi dei loro film o dei loro scritti, emergono quei tratti formativi o, persino, terapeutici già dichiarati dalle generazioni precedenti di esploratori. Anche in questo caso siamo in presenza di un turismo «colto», vissuto come occasione per conoscere culture o religioni tradizionali (ad esempio il buddhismo o l’induismo) o per realizzare veri e propri (Grand) tour de force (si pensi ai viaggi di Marker in Sans soleil, quelli di Pasolini in tutta l’Africa, quelli dell’Ivens no15 16

A. Brilli, Quando viaggiare era un’arte, cit., p. 34. Questa posizione è rafforzata da alcuni studi, comparsi recentemente, che ragionano sulle nuove forme di Grand Tour che si esperiscono nell’Ottocento e Novecento, in ambito letterario e non solo. A tal proposito si legga: E. Chaney, The Evolution of the Grand Tour. Anglo-Italian Cultural Relations since the Renaissance, Routledge, London-New York 2014.

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vantenne in Cina). Persino gli itinerari programmati prevedono, come avveniva in passato, il passaggio dai medesimi posti-tappa, che tornando di film in film, talvolta configurandosi nelle medesime inquadrature, sembrano voler costituire una tradizione figurativa e iconografica comune.17 Simili poi vanno considerati gli incidenti di percorso, le difficoltà di adattarsi a nuove realtà, le delusioni della scoperta di realtà distanti da quelle immaginate, il bisogno di ricostruire a posteriori il tipo di esperienza vissuta, attraverso la predisposizione di memorie, lettere, diari filmati. Simile è anche quella che Brilli chiamava, a proposito dei viaggi in Italia, la ricerca di «un’identità paneuropea diffusa e trasversale» che anche nel nostro caso rende giustapponibili le fatiche produttive di cineasti tedeschi, francesi, italiani o olandesi. Simili sono le motivazioni che li inducono a partire e, conseguentemente, il loro tentativo di ridefinizione dello sguardo, il superamento di fasi di stallo nella propria vita personale o professionale, la curiosità e l’attrazione per l’ignoto, la seduzione fisica e carnale per il primitivo, la volontà di partecipare e capire i fatti della storia, ecc. A tal proposito può considerarsi estremamente produttiva la metafora degli occhiali verdi con cui Creuzé de Lesser pungolava i protagonisti del Grand Tour: I viaggiatori che hanno descritto l’Italia, che sono venuti in questo paese per scrivere un viaggio e con la determinazione di trovarvi e dipingervi ogni genere di beltà, hanno spesso cominciato con il raffigurarsela nell’immaginazione, poi con l’ammirarla; si tratta di 17

Ecco alcuni rilevanti passaggi e ri-passaggi. Tra le arterie trafficate di Mumbai troviamo le cineprese di Rossellini e Pasolini, a riprendere i templi di Madurai quelle di Malle e ancora Rossellini, a Udaipur o Jaipur passano gli operatori di Pasolini e Lang, sulle acque del Gange, collocate su un battello, ci sono i dispositivi di ripresa di Rossellini, Renoir (in Il fiume) e, più tardi, Gianfranco Rosi (nel suo Boatman, 1993); attraversano i parchi di Pechino o di Shanghai, per mostrarci uomini e donne impegnati in esercizi di Tai Chi, Lizzani e Marker, Antonioni e Ivens; sulla Tokyo Tower si ritrovano, in momenti diversi, Marker, Wenders e Herzog; nelle isole del Pacifico risiedono Marker e Sternberg (benché in questo caso gli ambienti naturali siano ricostruiti in studio); a mostrarci vigili urbani che gestiscono faticosamente il traffico veicolare delle grandi città di tutta l’Asia ci pensano sia il Marker di Lettre de Sibérie, Dimanche à Pékin e Sans Soleil, sia Ivens e Antonioni in Cina, Malle a Calcutta, e il Rossellini televisivo

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persone che hanno inforcato un paio di occhiali verdi e che quindi hanno visto tutto verde.18

Anche i registi odeporici indossano «occhiali verdi», le cui lenti su un versante sono le convinzioni politiche e sociali che scaturiscono da un interesse sempre più acuto nei confronti dei destini di alcune aree geografiche e culturali (§ I 3.), e sull’altro sono le fantasie (infantili) di grandi narrazioni avventurose, i miti e le leggende del passato, il fascino di luoghi magici e incantati cui fanno continuo riferimento i vari Rossellini, Pasolini, Malle, Antonioni nelle loro memorie o nei loro film. Scrittori come Kipling, Salgari, Byron, corpus letterari come i racconti delle Mille e una notte, personalità finzionalizzate come Marco Polo o Gengis Khan, ma anche kolossal del cinema muto, atlanti e mappe, fumetti, cartoline, manifesti cinematografici, fotografie, stampe o dipinti, costituiscono il corpus di un orientalismo «classico» che viene dal passato, di cui i nostri vorrebbero disfarsi, ma che, in un modo o nell’altro, continua a informare attese, percezioni, metodi del contatto. Tornerò su alcuni di questi «inciampi» nel corso del volume; qui basti, come indiretta controprova dell’esistenza di questi «occhiali verdi», la difficoltà di collocare le pellicole odeporiche all’interno delle filmografie dei rispettivi cineasti. Come accennato in esordio di saggio, titoli come Chung Kuo - Cina, India Matri Bhumi, Il fiore delle Mille e una notte, Il fiume, L’isola della donna contesa, L’India fantasma, ecc., si ritagliano lo spazio (pur decisivo) della parentesi o dell’eccezione nelle lunghe e fortunate carriere dei vari Antonioni, Pasolini, Renoir, Sternberg, Malle. Gli esiti filmici dei viaggi degli autori cinematografici delineano spesso una «vacanza» da certi temi o da certi stilemi ed è anche per questo che sono interessanti: perché, come avveniva per i loro progenitori grandtourists, la «vacanza» prevede una sua fine e una sua funzione, tutte da giocare nel Vecchio Continente, tutte da spendere nel segno della visibilità e dell’influenza esercitata all’interno dei discorsi pubblici.

18

A.-F. Creuzé de Lesser, Voyage en Italie et en Sicile fait en 1801 et 1802, Paris 1806, pp. VI-VII (citazione presente in A. Brilli, Il viaggio in Italia, cit., p. 371).

2. IL MODERNISMO ARTISTICO E LE MUSE D’OLTREMARE

Se avesse una qualche utilità individuare lo scarto che sussiste tra le esperienze odeporiche del Settecento e Ottocento e quelle del secolo successivo probabilmente esso riguarderebbe i processi d’industrializzazione che hanno coinvolto l’Europa (prima di altre aree geografiche), rivoluzionando letteralmente il paesaggio urbano, gli stili di vita delle popolazioni, l’organizzazione sociale, i paradigmi culturali e così via. Certo, nel giro di pochi decenni, grazie all’avvento di mezzi di trasporto sempre più veloci e performanti (auto, treni, aerei) e a una sempre più ampia diffusione dell’economia del capitale, diventa più comodo, rapido e sostenibile spostarsi da un luogo all’altro, anche per tragitti di migliaia di chilometri. Si assiste alla progressiva apertura di nuove vie di accesso a regioni e territori rimasti a lungo isolati o solo parzialmente toccati dai processi di colonizzazione dei secoli precedenti. S’intensificano le forme di dominio nei confronti di popolazioni e dei territori controllati dalle nazioni europee, in termini di sfruttamento della manodopera, forzato coinvolgimento in operazioni militari, uso intensivo delle risorse locali e implementazione degli scambi mercantili. Tuttavia, almeno nel quadro di una riflessione sulle forme di rappresentazione narrativa e/o visuale del viaggio, un ruolo non secondario è giocato dai cambiamenti che in rapida successione alterano il profilo geografico e sociale delle principali nazioni europee. Non devo citare gli scritti di Weber, Simmel o Benjamin, per rammentare qual è stato l’impatto della modernizzazione sulle esistenze delle persone, in modo particolare su quelle che abitano nelle grandi metropoli: crescita demografica, nascita di distretti industriali e sobborghi, affermazione economica e politica di nuove classi sociali, riorganizzazione dei flussi di mobilità. Non sembri un paradosso se il quadro storico e sociale velocemente tratteggiato agisce

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anche sulla natura, le motivazioni e le percezioni del viaggio e, più in generale, sulle forme d’interscambio culturale. Nel giro di pochi decenni, infatti, sempre a cavallo dei due secoli, sembra tessersi un filo rosso che unisce su un versante l’accelerazione dei processi di trasformazione degli stili di vita nelle metropoli dei paesi a economia avanzata e sull’altro la rappresentazione cristallizzata e la frequentazione di intere società premoderne isolate e ancora considerate «vergini», capaci di configurarsi, agli occhi degli occidentali, come realtà escluse e protette dal dinamismo imposto dal capitalismo e dal progresso. Si tratta invero di due facce della stessa medaglia come dimostra, ad esempio, per restare in ambito artistico, il diffondersi del primitivismo in quei movimenti pittorici che, più di altri, hanno celebrato l’avvento della modernità: il cubismo, il futurismo, il dadaismo, l’espressionismo e il surrealismo. È già stata fatta notare la corrispondenza cronologica tra l’apertura del Musée d’Ethnographie du Trocadéro di Parigi e la «nascita» del movimento cubista con l’esposizione de Les démoiselles d’Avignon di Picasso, entrambi datati 19071, così come l’influenza esercitata dalla scultura africana sull’opera del pittore spagnolo e di altri cubisti2. D’altra parte fascinazioni per il primitivo o per l’esotico attraversano le opere d’arte di molti artisti modernisti del periodo, da Henri Rousseau a Paul Gauguin, dai fauves Henri Matisse e André Derain allo scultore Constantin Brâncuși, passando per gli espressionisti del Blaue Reiter (Marc, Kandinskij, Macke), Paul Klee, Amedeo Modigliani, i raggisti russi Natalia Gončarova, Kazimir Malevič, Marc Chagall e molti altri.3 In estrema sintesi si può dire che tratti, stili, oggetti, 1 2 3

Cfr. W. Rubin, H. Seckel, J. Cousins (a cura di), Les Demoiselles d’Avignon, The Museum of Modern Art, New York 1994; C. Green, Picasso’s Les Demoiselles d’Avignon, Cambridge University Press, Cambridge 2002. Sul rapporto tra Picasso, il cubismo e il primitivismo rimando a: C. Harrison, F. Frascina, G. Perry, Primitivism, Cubism, Abstraction. The Early Twentieth-Century, Yale University Press, London-New Haven 1993. Come è facile prevedere, la bibliografia sull’argomento è vastissima. Per un’introduzione generale al rapporto tra le avanguardie storiche e il fascino del primitivo mi limito a rinviare a C. Rhodes, Primitivism and Modern Art, Thames & Hudson, London 1994; R. J. Goldwater, Primitivism in Modern Art, Harvard University Press, Cambridge 1986; J. D. Flam, M. Deutch (a cura di), Primitivism and Twentieth-Century Art. A Documentary History, University of California Press, Los Angeles 2003; S. Hiller (a cura di),

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soggetti, figure, ambienti in qualche modo riconducibili a culture lontane (dall’Africa alla Polinesia, dai tropici all’Estremo Oriente) abitano le superfici pittoriche degli artisti delle prime avanguardie, contribuendo a diffondere in esse un paradossale piacere per l’arcaico, l’incontaminato, l’erotico, l’imperscrutabile. Sono quelle che Maria Grazia Messina, con un’efficace espressione, chiama le muse d’oltremare.4 Si noti che anche in questo caso tali fascinazioni sono spesso figlie di esperienze «sul campo». Ai fin troppo celebri soggiorni di Gauguin a Tahiti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, vanno aggiunti, giusto per citare alcuni casi, i viaggi a Tunisi di Paul Klee, August Macke e Louis Moilliet nel 1914, quello coevo in Nuova Guinea di Max Pechstein e Emil Nolde (quest’ultimo visitando anche Russia, Cina e Giappone), quelli numerosi di Oskar Kokoschka, tra il 1924 e il 1930, in Algeria, Egitto, a Gerusalemme e in Turchia, quello di Matisse a Tahiti nel 1930, fino alle più recenti spedizioni in Africa o Asia, di artisti vicini alle nuove avanguardie del dopoguerra come Jean Dubuffet in Algeria e nel Deserto del Sahara nel 1947, Alighiero Boetti spesso in Afghanistan all’inizio degli anni Settanta o ancora Mario Schifano (che un ruolo di primo piano ricopre anche nel cinema sperimentale) in Laos nel 1970.5 Non è solo l’arte figurativa a definire questa sorta di affinità elettiva tra volontà espressive rinnovate e il desiderio odeporico dell’artista. Analoghe accordanze si trovano in ambito teatrale, ad esempio in Bertolt Brecht, talmente incuriosito dalla cultura e dalle arti performative cinesi da ambientare diversi suoi drammi nel Paese di Mezzo (come Die Maßnahme del 1930 o Der gute Mensch von Sezuan, 1938-1940), o in Antonin Artaud, il cui amore

4 5

The Myth of Primitivism. Perspectives on Art, Routledge, London-New York 1991. In italiano si veda invece: M. G. Messina, L. Giusti (a cura di), Primitivismo nelle avanguardie. Letture critiche e realtà operative, Carocci, Roma 2004; M. De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, Milano 1988. M. G. Messina, Le muse d’oltremare. Esotismo e primitivismo dell’arte contemporanea, Einaudi, Torino 1993. Nel 2009 si è tenuta al MAR di Ravenna un’importante esposizione artistica dedicata alle tele realizzate da molti pittori novecenteschi durante le loro esperienze odeporiche. Per approfondimenti rimando al catalogo: C. Spadoni, T. Sparagni (a cura di), L’artista viaggiatore. Da Gauguin a Klee, da Matisse a Ontani, Silvana, Cinisello Balsamo 2009.

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per il teatro balinese influenzerà la definizione del suo Teatro della Crudeltà; o ancora in Vsevolod Mejerchol’d che stabilì i criteri del metodo di apprendimento attoriale chiamato «biomeccanico» (anche) a partire dalle performance del teatro kabuki e dell’Opera di Pechino.6 E d’altra parte, nemmeno gli uomini di teatro resistono alla tentazione del viaggio: Artaud va in Messico negli anni Quaranta, Eugenio Barba è in India negli anni Sessanta, Jerzy Grotowski compie diversi viaggi in Asia Centrale, Cina, India, Messico, Tahiti tra i Cinquanta e i Settanta. E così via. Il breve elenco qui riportato, inevitabilmente incompleto e meritevole di analoghe incursioni in ambito coreutico e musicale,7 certifica, una volta di più, quanto siano importanti le esperienze odeporiche nel dipanarsi della storia delle arti. Nella fattispecie, al di là delle differenze che caratterizzano i singoli casi, mi pare che si possa rintracciare questa linea di continuità tra vissuti e pratiche artistiche in una doppia contigua tensione verso la ricerca di nuove forme di vita da una parte e verso la ricerca di una nuova vita delle forme dall’altra. In altre parole, da Picasso ad Artaud, da Joyce a Marker, il gesto artistico che erompe durante o dopo la decisione di inoltrarsi in un territorio geograficamente e culturalmente lontano confessa da un lato un bisogno di innescare rinnovati modi di relazione con l’esistente e dall’altro rinnovati modi di configurazione dell’atto creativo.8 6

7

8

Per una ricognizione sulle (reciproche) influenze tra le forme di teatro asiatiche e quelle europee si vedano i lavori di Nicola Savarese e precisamente: N. Savarese, Teatro e spettacolo fra Oriente e Occidente, Laterza, Roma-Bari 2000; N Savarese, Il teatro euroasiano, Laterza, RomaBari 2013. Per una sintetica ma efficace disamina sull’orientalismo teatrale, segnalo anche il capitolo Orientalism in the Theatre, in J. M. MacKenzie, Orientalism, History, Theory and the Arts, Manchester University Press, Manchester-New York 1995, pp. 176-207. Per una ricostruzione più esaustiva delle esperienze odeporiche europee in Asia, con una serie di focus e di approfondimenti che contemplano lo studio di tutti i principali linguaggi espressivi, musica e danza comprese, si rimanda a P. Amalfitano, L. Innocenti (a cura di), L’Oriente. Storia di una figura nelle arti occidentali (1700-2000), Bulzoni, Roma 2007, 2 voll. Non è un caso, infatti, se anche l’antropologia, la branca dei saperi umanistici deputata allo studio e alla conoscenza sul campo delle società premoderne attraverso rigidi protocolli di documentazione, si accorge di questa evidenza quando, ad esempio, un suo esponente autorevole come James Clifford individua spazi di prossimità ineludibili tra lo sviluppo

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Si diceva che esiste uno scarto tra le esperienze di viaggio novecentesche e quelle delle generazioni precedenti. A ben vedere è così, perché gli artisti che vivono durante quello che Hobsbawm chiama «il secolo breve»9 non viaggiano più o non viaggiano soltanto per rispondere a un rito (di iniziazione) di una classe sociale, ma perché spinti da qualche forma (esibita e dichiarata) di crisi e, quindi, da una conseguente volontà di rinnovamento dello sguardo, delle forme, degli stili di vita, dei propri convincimenti etici, secondo sensibilità proprie dell’età modernista. Come ricorda Francesco Ronzon a proposito delle arti figurative, mettendo in relazione primitivismo e accademismo ottocentesco: Per le Avanguardie storiche del primo Novecento (dada, futurismo, surrealismo) l’incontro con le arti dell’Africa e dell’Oceania viene dunque a rappresentare un’esperienza liberatoria. Non senza una certa ironia, queste ultime videro cioè la diversità di forme culturali come una licenza all’innovazione e una spinta a rompere le catene della tradizione. In particolare questi movimenti artistici interpretarono ingenuamente gli artefatti e le performance raggruppati sotto l’etichetta “arte primitiva” in un’ottica del tutto formalista, come esempi di un’estetica universale capace di esprimere la naturale energia creativa primordiale degli esseri umani libera da costrizioni delle vecchie tradizioni accademiche.10

Il paradosso che si genera dal tentativo di realizzare un’innovazione artistica recuperando forme d’arte «arcaiche», collocate per di più in dimensioni astoriche e atemporali, dimostra che l’esperienza dell’alterità non avrebbe le stesse coloriture e le stesse forme espressive se non dipendesse dal contesto storico e, più precisa-

9 10

delle forme artistiche europee e lo sviluppo della sua disciplina, mettendo in relazione i lavori etnografici sul campo di Malinowski, Griaule o Métreaux con quelli letterari di Conrad, Artaud o Leiris o, ancora, la nascita di alcune istituzioni etnografiche di inizio Novecento e l’irrompere sulla scena artistica del surrealismo francese, grazie a personaggi di «confine» che partecipano a entrambi i circuiti culturali come Bataille, Desnos o Breton. Avrò modo di ritornarci più avanti. Cfr. J. Clifford, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel XX secolo, Bollati Boringhieri, Torino 1993. E. J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914/1991, Bur, Milano 1997. F. Ronzon, Antropologia dell’arte. Dalla pittura italiana del Quattrocento all’arte etnica contemporanea, Meltemi, Roma 2006, p. 116.

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mente, dalla sua repentina trasformazione sull’onda del progresso tecnologico e della diffusione del capitalismo. Detto con uno slogan: ci si muove per cercare esperienze d’immobilità, s’immagina il viaggio e ci si lascia contaminare dall’alterità per arrestare, almeno per qualche istante, il tempo onnivoro e rapidissimo del moderno, si cavalca il nuovo abitati da un sentimento di nostalgia, coltivato nello spazio della vacanza o dell’esilio. Come ricorda Robert Burden nel suo Travel, Modernism and Modernity11, gli autori modernisti (egli lavora sui romanzieri inglesi, ma il discorso vale per pittori, commediografi e, infine, registi) praticano l’arte odeporica usando tropi e forme archetipiche del passato, ma accentuando, rispetto alle generazioni precedenti, una doppia tensione (apparentemente) paradossale, nel senso dato da Compagnon12: una prima tensione anti-moderna e conservativa che spinge a cercare forme solipsistiche e iper-soggettive di espressività (da qui scaturisce la critica che i romanzieri rivolgono al turismo di massa, considerato una delle prime grandi deformazioni della modernità); una seconda modernista e progressista che spinge ad assegnare alla dimensione odeporica il compito di trovare i limiti o le incongruenze dei modi occidentali di guardare e rappresentare il presente, per garantire una sorta di «progresso» anche nei domini dell’arte. Nessuna incongruità ed echi di convinzioni già incontrate: Rimpiazzando ampiamente lo stile moralizzante e didattico di epoca vittoriana, la letteratura di viaggio modernista divenne una forma letteraria più soggettiva, più vicina al libro di memorie che al manuale…, adottando uno stile impressionista, focalizzato tanto sulle reazioni o sulle consapevolezze dei viaggiatori quanto sui loro viaggi.13

In ambito cinematografico assistiamo a una simile dinamica nel mutarsi delle forme di rappresentazione dell’alterità culturale. Semplificando un po’, si può affermare che prima del secondo con11 12 13

R. Burden, Travel, Modernism and Modernity, Ashgate Publishing, Farnham-Burlington 2015. A. Compagnon, I cinque paradossi della modernità, cit. R. Burden, op. cit., p. 8 (trad. mia). Sullo stesso argomento si veda anche H. Carr, Modernism and Travel (1880-1940) in P. Hulme, T. Youngs (a cura di), The Cambridge Companion to Travel Writing, Cambridge University Press, Cambridge 2002, pp. 70-86.

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flitto bellico (e ancora per qualche anno dopo, durante il periodo della ricostruzione) i filoni cinematografici che mettevano in scena le culture alloglotte si esaurivano in pochi e definiti tracciati: avevamo le «vedute Lumière» che più tardi confluiranno nelle cosiddette attualità cinematografiche, nelle quali l’esotico si presentava per singoli flash ed esibizioni di fatti presentati come oggettivi; vi erano i primi esempi di cinema etnografico che, con protocolli più rigorosi e a una presenza in loco prolungata, miravano a raccogliere una documentazione audiovisiva di carattere scientifico, per pochi eletti (si pensi ai lavori di Basil Wright, Gregory Bateson e Margaret Mead);14 più importante, per capacità di penetrare negli immaginari collettivi, era il filone di fiction esotiche, con ambientazioni scelte in paesi già colonizzati ma ricostruite negli studios, forme narrative codificate e di grande impatto emotivo (melodrammi, kolossal, film di avventura), una fruizione di tipo escapista, conservativa di un principio di superiorità della civiltà occidentale.15 Esisteva poi una serie di manifestazioni moderniste che tradivano anch’esse, in altri modi, un interesse per il primitivo e per l’esotico, coniugandolo a momenti di sperimentazione espressiva, in modi del tutto analoghi a quanto avveniva negli altri campi espressivi delle avanguardie storiche.16 Quel che succede nel 14

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Alludo in modo particolare ai film di Bateson e Mead girati a Bali e in Nuova Guinea negli anni Trenta, ma montati e distribuiti soltanto negli anni Cinquanta (Kerba first years, 1951, A Balinese family, 1952, Trance and Dance in Bali, 1952, The First Days of a New Guinea Baby, 1952, e a Song of Ceylon di Basil Wright (1934). Per un approfondimento sul cinema etnografico della prima metà del secolo scorso si vedano tra gli altri: B. Engelbrecht (a cura di), Memories of the Origins of Ethnographic Film, Peter Lang, New York-Francoforte 2007; A. Artoni, Documentario e film etnografico, Bulzoni, Roma 1992; F. Marano, Camera etnografica. Storie e teorie di antropologia visuale, Franco Angeli, Milano 2007; C. Marabello, Sulle tracce del vero. Cinema, antropologia, storie di foto, Bompiani, Milano 2011. Si tratta, come si diceva poco sopra, di suddivisioni di comodo, non solo per quanto riguarda la questione dei registri filmici adottati, ma anche sul piano strettamente cronologico. I «filoni» individuati non si arrestano certo all’indomani della guerra, bensì si rinnovano in termini di qualità e quantità anche nella seconda metà dello scorso secolo, acquisendo talvolta una capacità di penetrazione maggiore in virtù della moltiplicazione dei canali di distribuzione e proiezione dei film. Si pensi ai primi lavori di Méliès, i cui giochi ottici e gli effetti scenici spesso si basavano sul fascino seduttivo di ambientazioni fantastiche oppure ad

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secondo dopoguerra, anche in virtù dell’innescarsi di una stagione sociale e politica caratterizzata da grandi turbolenze e conflittualità sociali, è un’intensificazione di queste ultime forme di rappresentazione «sperimentale» dell’alterità, associata alla possibilità di esibire, con maggiore efficacia, modalità di racconto soggettive e manifestazioni della propria «identità narrativa» (stanziale o in viaggio) raramente percorsi nella prima metà del secolo. Il termine «sperimentale» andrà naturalmente messo in discussione (§ V 3.1.), perché l’approccio formalista – anche quando applicato al cosiddetto cinema d’autore – porta con sé alcune aporie simili a quelle presenti in ambito artistico-figurativo. Ciononostante, è indubbio che sia proprio all’interno di questo territorio rappresentativo ibrido e dalla spiccata natura esperienziale, lontano dai modi istituzionalizzati del cinema classico, che si aprano spazi inediti di auto-referenzialità e autobiografismo, capaci di avvicinare questa pagina della storia del cinema alla letteratura e alla pittura odeporica modernista di cui ho appena dato brevemente conto. Prima di approfondire tali aspetti, è necessario però tracciare altri due quadri contestuali, qui richiamati perché considerati innescanti il fenomeno studiato. Mi riferisco al protagonismo del continente asiatico nello scacchiere geopolitico internazionale e all’impatto di alcune innovazioni tecnologiche nella riorganizzazione del comparto produttivo cinematografico europeo.

alcuni film «formalisti» russi come Tempeste sull’Asia (Потомок ЧингисХана, 1928) di Pudovkin, Turksib (Турксиб, 1929) di Turin o Tre canti su Lenin di Vertov (Три песни о Ленине, 1934). Si pensi anche all’interesse manifestato per gli ideogrammi giapponesi dallo stesso Ejzenštejn nei suoi appunti e libri teorici o ai tanti film orientalisti che si producono in Germania durante la stagione dell’espressionismo, tra cui vale la pena ricordare almeno Harakiri (1919) e Destino (Der müde Tod 1920) di Lang o i lavori di animazione di Lotte Reiniger. Analogo interesse verso l’allogeno si trova negli impressionisti e nei surrealisti francesi degli anni Dieci e Venti per pellicole orientaliste hollywoodiane come I prevaricatori (The Cheat, 1915) di DeMille (§ IV 4.1.) o Alleluya! (Hallelujah, 1929) di Vidor.

3. PROTAGONISMO ASIATICO E REAZIONI SINCRETICHE

Se nella seconda metà del Novecento una nuova ondata di fascinazioni e attrazioni per le culture e i paesi asiatici attraversa l’Europa, buona parte del merito va assegnato al protagonismo conquistato in ambito internazionale da questo continente – qui preso, come si diceva, nella sua mera estensione geografica –, primo passo di un lento e non sempre lineare processo di modificazione degli equilibri geopolitici ancora oggi in atto. Non è ovviamente possibile, in questa sede, sia per ragioni di spazio sia di pertinenza, scrivere una storia sintetica dell’Asia,1 tuttavia è necessario fare riferimento, per lampi e brevi accenni, ad alcuni degli eventi che hanno decretato l’inverarsi di tale protagonismo, in prima battuta perché influenzeranno le vicende odeporiche dei registi qui studiati. Bisognerebbe intanto ricordare che la seconda guerra mondiale, prevalentemente combattuta in Europa, si conclude nel paese più lontano e «sconosciuto» tra quelli alleati con la Germania di Hitler: il Giappone. Il carattere funesto e definitivo dello scoppio della bomba atomica a Hiroshima e Nagasaki ha il potere di issare improvvisamente un paese – e per traslazione, 1

C’è naturalmente chi ci ha provato, non sempre con brillanti risultati, ma spesso riuscendo a tracciare almeno una gerarchia dei fatti che indirettamente segnala quali eventi storici hanno interessato maggiormente l’opinione pubblica europea. Tra i testi consultati per la redazione di queste pagine segnalo almeno: A. Fiori, L’Asia orientale dal 1945 ai giorni nostri, il Mulino, Bologna 2010; H. O. Rotermund (a cura di), L’Asie orientale et méridionale aux XIXe et XXe siècles. Chine, Corée, Japon, Asie du Sud-Est, Inde, Presses universitaires de France, Paris 1999. Per una restituzione almeno parziale dell’emergere della questione asiatica nel dibattito del secondo novecento segnalo: J. Romein, Il secolo dell’Asia. Imperialismo occidentale e rivoluzione asiatica nel secolo XX, Einaudi, Torino 1969; G. Borsa, La nascita del mondo moderno in Asia Orientale. La penetrazione europea e la crisi delle società tradizionali in India, Cina e Giappone, Rizzoli, Milano 1977; J. Chesneaux, L’Asia nella storia di domani, Laterza, Bari 1967.

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un intero continente – in cima alle priorità delle agende politiche e al centro dei discorsi pubblici del Vecchio Continente. È dunque nel segno della tragedia (e in parte del senso di colpa europeo) che si inaugura un periodo in cui nazioni e popolazioni precedentemente sottomesse a varie forme di dominazione coloniale, trovano il modo per attirare l’attenzione (anche) dei distratti consessi pubblici occidentali, affermando una volontà di autodeterminazione che passa spesso attraverso il fragore delle armi.2 Quello che si stabilisce all’indomani della fine del secondo conflitto è, infatti, un equilibrio mondiale particolarmente instabile, continuamente spossato da guerre su scala locale o regionale che spingono spesso gli organismi internazionali e gli eserciti dei paesi occidentali a intervenire. Si comincia con la questione palestinese, ovvero con la proclamazione dello Stato di Israele il 15 maggio 1948 e la successiva guerra araboisraeliana che coinvolge Gran Bretagna, Stati Uniti e Nazioni Unite. Una questione che, com’è noto, si evolve nel corso del secolo attraverso il ciclico riproporsi di ostilità tra arabi e israeliani (la guerra con l’Egitto nel 1956, quella dei Sei giorni nel 1967, quella del Kippur nel 1973, ecc.).3 A titolo di curiosità segnalo che anche Pasolini, nei suoi Sopralluoghi in Palestina, si trova parzialmente coinvolto nel conflitto quando visita una Gerusalemme attraversata da filo spinato, trincee e checkpoint. La fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta vedono lo scoppio di altre guerre civili, sia in Cina, dove la vittoria dell’Armata Rossa guidata da Mao porta alla proclamazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949, sia in Corea,4 nelle cui operazioni belli2

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A tal proposito si veda P. Mishra, From the Ruins of Empire. The Revolt Against the West and the Remaking of Asia, Allen Lane, London 2012 e l’ultima parte del volume di K. M. Panikkar, Storia della dominazione europea in Asia. Dal Cinquecento ai nostri giorni, Einaudi, Torino 1958. Per una ricostruzione generale sull’argomento rimando a I. Pappé (a cura di), The Israel/Palestine Question, Routledge, London-New York 1999. Per comprendere invece come la questione palestinese sia in qualche modo costitutiva degli studi sull’orientalismo rimando al decisivo: E. Said. La questione palestinese, Gamberetti Editrice, Roma 1995. Qui, come nelle precedenti e successive note a corredo di questa breve ricostruzione di eventi e fatti storici, vista l’impossibilità di essere esaustivo, mi limito a segnalare alcune letture introduttive sui singoli avvenimenti

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che, iniziate nel 1950 e terminate tre anni dopo con la suddivisione in due della penisola, verranno coinvolti gli Stati Uniti e molti altri paesi delle Nazioni Unite, oltre a Cina e URSS. A poche centinaia di chilometri in linea d’aria, a partire almeno dal 1945, anche l’Indocina Francese deve fare fronte a una serie d’insurrezioni che presto si trasformano in guerriglia e poi in guerra aperta da parte dell’esercito di liberazione dei Viet Mihn, guidato da Ho Chi Min. Le sconfitte subite dai transalpini spingeranno il governo di Parigi a cercare un armistizio, firmato nel 1954, che sancirà la suddivisione del Vietnam in due stati, separati all’altezza del diciassettesimo parallelo.5 Si deve ricordare anche la guerra civile laotiana, scoppiata nel 1953, allora meno nota sul piano mediatico rispetto a quella del Vietnam, ma egualmente importante (e non solo per le popolazioni coinvolte). Quanto al Vietnam, gli eventi sono più che conosciuti: la cosiddetta seconda guerra d’Indocina, scoppiata nel 1960 e chiusa nel 1975 con la caduta di Saigon, segna, infatti, la prima grande sconfitta dell’esercito americano nel Novecento, cui si lega peraltro anche la guerra civile in Cambogia (ufficialmente svoltasi dal 1967 al 1975).6 Questi e altri fatti che coinvolgono il sudest asiatico troveranno rappresentazione non solo in servizi giornalistici, documentari televisivi, libri e fotografie, ma costituiranno il focus d’interesse di diversi autori odeporici come confermano alcuni titoli già citati. Penso a The War of the 600 Million People e Letters from China realizzati nel 1958 da Joris Ivens insieme agli studenti dell’Accademia di Pechino, La muraglia cinese (1958) di Carlo Lizzani, uno dei pochi film italiani che racconta la Cina rivoluzionaria di Mao e la condizione di colonia inglese di Hong Kong, Indonesia Calling (1947), sempre di Ivens e sempre focalizzato sulla situazione politica e sociale di quella regione, cui – nel corso degli anni Sessanta – vanno aggiunti i tanti film che parlano

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citati. W. Stueck, The Korean War. An International History, Princeton University Press, Princeton 1997; P. M. Edwards, Historical Dictionary of the Korean War, Scarecrow Press, Lanham 2010. M. Atwood Lawrence, F. Logevall (a cura di), The First Vietnam War. Colonial Conflict and Cold War Crisis, Harvard University Press, Cambridge 2007. G. Gribaudi (a cura di), Le guerre del Novecento, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2007.

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della guerra in Vietnam realizzati nel Vecchio Continente (al solo Ivens sono riconducibili opere come Lontano dal Vietnam, Le Peuple et ses fusils, Il diciassettesimo parallelo).7 Queste guerre (Cina, Corea, sud-est asiatico) vanno naturalmente collocate all’interno di più ampi processi di decolonizzazione8 che caratterizzano la stagione della cosiddetta Guerra Fredda9. Sempre e solo considerando il continente asiatico, negli stessi anni, paesi come la Siria e il Libano si liberano del controllo delle truppe francesi (1946), l’India (a maggioranza indù) e il Pakistan (a maggioranza mussulmana) conquistano pacificamente l’indipendenza dalla Corona Britannica (1947); Ceylon (ora Srī Lanka) e la Birmania (ora Myanmar) dichiarano la loro indipendenza l’anno seguente (1948). Se le Filippine ottengono autonomia politica nel 1946, riscattandosi però dal controllo giapponese solo nel 1949, sempre nello stesso anno è l’Indonesia a liberarsi dalla lunga dominazione olandese. Nel 1957 si fonda la Federazione malese, che dal 1963 con lo stato di Singapore (poi erettosi in Stato indipendente nel 1965) e altri territori più piccoli, forma la Malesia. Nel 1967 lo Yemen del Sud dichiara la propria indipendenza dagli inglesi (unificandosi solo nel 1990 con il nord nella Repubblica dello Yemen). Il Bhutan si emancipa nel 1971, dopo essere stato controllato prima dagli inglesi e poi da un protettorato indiano. Nel 1961 il Kuwait si libera dal controllo della corona inglese, mentre dieci anni dopo è 7

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Forse è persino inutile rimarcare la centralità della guerra in Vietnam nella costruzione degli immaginari sociali e culturali di quel periodo, in particolar modo di quelli relativi alla cosiddetta «controcultura». Segnalo tuttavia che la maggior parte degli studi dedicati all’argomento tendono a considerare quasi esclusivamente le produzioni hollywoodiane, con focus molto limitati ai documentari indipendenti e ai film militanti realizzati in quegli anni in Europa. Per approfondimenti rimando a: L. Dittmar, G. Michaud, From Hanoi to Hollywood. The Vietnam War in American Film, Rutgers University Press, New Brunswick 1990; J. M. Devine, Vietnam at 24 Frames a Second. A Critical and Thematic Analysis of Over 400 Films about the Vietnam War, University of Texas Press, Austin 1999; Laurent Tessier, Le Vietnam, un cinéma de l’apocalypse, Éditions du Cerf, Paris 2009. Per uno sguardo complessivo sul fenomeno della decolonizzazione si rimanda a D. Rothermund, The Routledge Companion to Decolonization, Routledge, London-New York 2006; M. E. Chamberlain, Decolonization. The Fall of the European Empires, Wiley, New York 1999. Si veda anche in italiano W. Reinhard, Storia del colonialismo, Einaudi, Torino 2002. J. Smith, La guerra fredda 1945-1991, il Mulino, Bologna 2000.

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la volta del Baḥrain, dell’emirato del Qaṭar e della federazione degli Emirati Arabi Uniti a ottenere autonomia politica e militare. A questi eventi ne vanno aggiunti altri egualmente capaci di interessare l’opinione pubblica europea. Mi riferisco alle rivolte a Lhasa in Tibet (1959), allo scoppio della Rivoluzione culturale in Cina (1966), alle guerre in Afghanistan (su tutte l’invasione sovietica del 1979, cui segue la resistenza armata dei talebani), la caduta dello Shah e la proclamazione della Repubblica Islamica nel 1979 in Iran, i sei colpi di stato in Iraq, da quello di ʿAbd al-Karīm Qāsim nel 1958 fino a quello del 1968 che riporta al potere il partito Baʿth, successivamente guidato da Saddam Hussein, alla guerra Iran-Iraq, alla salita al potere (e poi alla sua destituzione) di Indira Gandhi in India, ai conflitti tra Taiwan e la Cina, specialmente all’indomani (1971) dell’entrata della Cina nelle Nazioni Unite al posto dei rappresentanti del vecchio Guomintang. Nel quadro appena tracciato, vanno a inserirsi anche avvenimenti meno drammatici, ma di eguale impatto, come la conferenza di Bandung in Indonesia (1955) e la nascita del movimento dei Paesi non Allineati (guidati dall’India di Nehru, dalla Jugoslavia di Tito, dall’Egitto di Nasser e dall’Indonesia di Sukarno) che tante fibrillazioni porterà nelle cancellerie dei paesi membri della Nato o del Patto di Varsavia, e ancora le Olimpiadi di Tokyo del 1964, che mostrano al mondo quanto il Giappone sia divenuto un paese tecnologicamente avanzato, il Nobel per la Pace del 1973 al rivoluzionario vietnamita Lê Ðức Thọ, o quello del 1974 assegnato al premier giapponese Satō Eisaku per l’adesione nipponica al Trattato di non proliferazione nucleare. Vanno poi ricondotti a questo processo di affermazione della presenza asiatica nel mercato e nella cultura globale il boom economico delle cosiddette tigri asiatiche (Giappone, Corea del sud, Taiwan, Singapore, Hong Kong e recentemente la Cina), capaci di distribuire in tutto il mondo i propri prodotti ad alto contenuto tecnologico (elettrodomestici, automobili, computer e telefonia mobile, ecc.),10 la grande fortuna delle religioni orientali ben oltre i propri tradizionali confini (in modo particolare del buddhismo e più recentemente dell’islamismo in

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M. T. Berger, The Battle for Asia. From Decolonization to Globalization, Routledge, London-New York 2004.

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Europa),11 le mode nei confronti delle arti marziali, per l’architettura e il gusto decorativo giapponese, per lo yoga, la meditazione zen, la spiritualità new age e così via. Nel cercare di ricondurre i processi storici soltanto abbozzati all’ambito di pertinenza di questo studio preferisco rimarcare come anche i film modernisti di cui parlerò più avanti partecipino a forme di configurazione cinematografica fortemente condizionate da sincretismi e sguardi d’insieme. Vale a dire che si percepisce, in molti degli artefatti e dei prodotti mediatici che interagiscono con (o se si preferisce reagiscono al) l’affermarsi delle culture e delle identità del Vicino ed Estremo Oriente la volontà di offrire quadri di insieme, panoramiche complessive, processi dal respiro universale, un po’ come sto facendo con questo breve schema storico introduttivo. In altre parole, il dettaglio, la specificità, il singolo caso, in molti dei film o dei documentari dedicati a queste trasformazioni, interessa se e quando può scolorirsi in una ponderazione generale. Si prenda, ad esempio, il moltiplicarsi delle produzioni di film etnografici cui si assiste almeno dagli anni Sessanta in avanti. Gran parte del merito di questo incremento va senz’altro attribuito all’abbassamento dei costi di produzione e alla maggiore maneggevolezza delle nuove apparecchiature di ripresa e di registrazione del suono (§ I 4.), ma d’altra parte non si può negare che l’interesse per le riprese audiovideo da parte di molti antropologi cresce parallelamente alla consapevolezza (un po’ come avveniva per i pittori delle avanguardie storiche e per molti altri viaggiatori) di una perdita progressiva di specificità e tradizioni culturali con il diffondersi del modello capitalista su scala mondiale. L’ampiezza (talvolta abbiamo a che fare con decine di ore di girato a disposizione) e l’ambizione di molti documentari realizzati in questi anni sono, insomma, pari alla preoccupazione degli effetti di standardizzazione e appiattimento cul11

Per un’introduzione a un tema invero molto complesso suggerisco soprattutto i lavori dell’antropologo delle religioni Lionel Obadia e del sinologo/filosofo François Jullien: L. Obadia, Il buddhismo in Occidente, il Mulino, Bologna 2009; Id., La religion, Le Cavalier Bleu, Paris 2004; Id., L’Anthropologie des religions, La Découverte, Paris 2007; F. Jullien, Strategie del senso in Cina e in Grecia, Roma, Meltemi 2005; Id., La valeur allusive. Des catégories originales de l’interprétation poétique dans la tradition chinoise (Contribution à une refléxion sur l’alterité interculturelle), École française d’Extrême-Orient, Paris, 1985.

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turale che la globalizzazione nascente pone in essere. Lo confermano le centrifughe traiettorie di viaggio che compiono alcune celebri figure di etnografi-registi che attraversano con la loro macchina da presa quasi tutti continenti del globo alla stregua di novelli operatori Lumière. Forti di un medesimo bagaglio scientifico-disciplinare che applicano, senza sostanziali cambiamenti, a ogni indagine sul campo, il loro pendolarismo sembra raccontarci di un implicito progetto enciclopedico di preservazione visuale delle alterità anch’esso in qualche misura uniformante, pur nel segno dell’esibizione della differenza etnico-culturale. Penso a cineasti-etnografi come Robert Gardner,12 Tim Asch,13 David MacDougall,14 e accanto a loro altri colleghi come John Marshall, Jean Rouch (i quali lavorano quasi esclusivamente in Africa), Allen Moore e Ákos Östör, Gary Kildea, David Hancock e Herb Di Gioia, Boyce Richardson, Tony Ianzelo, Georges Dufaux, ecc.15 Risponde, d’altro canto, alla 12

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Nel corso della sua lunga carriera Robert Gardner gira film etnografici prima nella cordigliera centrale della Nuova Guinea, al contatto con la popolazione Dani, poi in Etiopia con gli Hamar e ancora a Varanasi e nel Kerala indiano. Per un’introduzione al suo lavoro rinvio a: I. Barbash, L. Taylor (a cura di), The Cinema of Robert Gardner, Berg, Oxford-New York 2007. Tim Asch è noto per aver realizzato film sui Dodos in Uganda, gli Yanomamö in Venezuela, le popolazioni nomadi dell’Afghanistan, i nativi balinesi e persino sugli abitanti delle piccole Isole Sonda in Indonesia. Cfr. E. D. Lewis (a cura di), Timothy Asch and Ethnographic Film, Routledge, London-New York 2004. David MacDougall coniuga la realizzazione di film etnografici con l’attività accademica. Tra i suoi film si annoverano lavori tra i Jie dell’Uganda, i Turkana in Kenya, i pastori sardi italiani, i bambini indiani affidati ad alcune istituzioni educative o tra gli indigeni australiani. Tra i testi di teoria etnografica segnalo almeno. D. MacDougall, The Corporeal Image. Film, Ethnography and the Senses. Princeton University Press, Princeton 2006 e Id., Transcultural Cinema, a cura di L. Taylor, Princeton University Press, Princeton 1988. Per un suo profilo più completo rimando in particolare al capitolo The Anthropological Cinema of David and Judith MacDougall (pp. 121-148) presente in A. Grimshaw, The Ethnographer’s Eye. Ways of Seeing in Anthropology, Cambridge University Press, Cambridge 2001. Sulla storia del cinema etnografico del secondo Novecento, all’interno di una bibliografia corposa, e sul rapporto tra sguardo della macchina da presa e strumenti dell’indagine antropologica rimando almeno a P. Loizos, Innovation in Ethnographic Film. From Innocence to Self-Consciousness, 1955-85, University of Chicago Press, Chicago-London 1993; K. G. Heider, Ethnographic Film, University of Texas Press, Austin 2006 (edizione aggiornata e ampliata); A. Grimshaw, A. Ravetz (a cura di), Visualizing Anthropology, Intellect Books,

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medesima tendenza all’uniformità (nel segno della differenza culturale) la scelta da parte di alcune istituzioni pubbliche o private di finanziare progetti di etnografia audiovisiva dalle grandi ambizioni. Penso al prestigioso Royal Anthropological Institute che tra gli anni Settanta e Novanta, in collaborazione con la Granada Television, co-produce una serie TV composta da più di quaranta documentari e intitolata Disappearing world. Ogni film, realizzato in sinergia tra un etnografo e un documentarista professionista, si pone l’obiettivo di raccontare allo spettatore inglese la vita e le tradizioni di popolazioni dimenticate o – come allude il titolo – «in via di estinzione».16 Analoghe ragioni spingono Norman Miller, fondatore della National Science Foundation, a produrre, tra il 1972 e il 1975, una serie di ventisei documentari intitolata Faces of Changes dove si descrive la vita (in cambiamento) di alcune comunità indigene provenienti da Cina, Taiwan, Bolivia, Kenya e Afghanistan.17 Senza continuare con noiosi elenchi, questi casi sono in grado di dimostrare che tali approcci «enciclopedici» rappresentano, su un versante, l’indiretta attestazione dell’effervescenza e la rapidità delle trasformazioni storiche e sociali in atto nel continente asiatico (e in tutti i cosiddetti «paesi in via di sviluppo») e, sull’altro versante, la diretta conferma di una volontà di gestione complessiva e generale dei saperi antropologici da parte di istituti culturali occidentali e di alcuni suoi importanti portavoce. Bisogna aggiungere che operazioni simili a quelle appena descritte vengono condotte, senza l’ausilio di enti accademici riconosciuti, da televisioni o case di produzione cinematografiche specializzate in documentari o film naturalistici. Penso ai lavori di

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Bristol 2005; S. MacDonald, American Ethnographic Film and Personal Documentary. The Cambridge Turn, University of California Press, Berkeley 2013. Per un’analisi della serie televisiva rimando a: P. Loizos, Granada Television’s Disappearing World Series. An Appraisal in «American Anthropologist», a. LXXXXII, n. 3, 1980, pp. 573-594. Si veda anche la pubblicazione istituzionale: A. Singer, L. Woodhead (a cura di), Disappearing World. Television and Anthropology, Boxtree, London 1988. Come capita in altri progetti audiovisivi di taglio antropologico, anche in questo caso la serie di documentari è accompagnata da una pubblicazione accademica. Cfr. N. N. Miller, M. L. Spitzer (a cura di), Faces of Change. Five Rural Societies in Transition: Bolivia, Kenya, Afghanistan, Taiwan, China Coast, American Universities Field Staff, Hanover 1978.

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Franco Prosperi negli anni Cinquanta, alla serie intitolata I viaggi del telegiornale (all’interno della quale si colloca L’India vista da Rossellini), prodotta dalla Rai sempre sul finire del decennio, oppure a documentari pensati per le sale (e per i grandi formati in cinemascope) come Le sette meraviglie del mondo (Seven Wonders of the World, 1956) di Tay Garnett, Paul Mantz, Andrew Marton, Ted Tetzlaff e Walter Thompson, o Orient (1960) di Arne Hverven, alle Geographic series, promosse dalla National Geographic Society sui canali televisivi CBS (dal 1964 al 1973), ABC (dal 1973 al 1975), PBS (dal 1975 al 1995), ma anche ad alcuni film di montaggio come La rabbia di Pasolini e Guareschi o Le Fond de l’air est rouge (1977) di Chris Marker, rielaborazioni originali e militanti di spezzoni di cinegiornali e materiali d’archivio che descrivevano eventi di portata storica. Vale la pena spendere due parole in più per accennare a un altro fenomeno cinematografico, coevo ai film di cui ci occuperemo, che conferma il prodursi di materiali che trattano la differenza culturale in termini sincretici. Mi riferisco al cosiddetto film mondo, sottogenere cinematografico riconducibile alla categoria dell’exploitation, emerso nel panorama produttivo italiano (ma non solo) all’indomani dei successi commerciali di opere come Mondo cane (1962), La donna del mondo (1963) o Mondo cane 2 (1963). La principale caratteristica dei mondo-movies è quella di sfruttare una serie di argomenti, di scene e di situazioni sensazionalistiche per allestire pseudo-documentari con forti dosi di violenza e sessualità esibita.18 Aspramente criticati dalla critica militante del tempo,19 i titoli di questo filone condividono 18

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Per un’introduzione, d’impronta accademica, al filone cinematografico e al suo ruolo nella cultura e nella società italiana degli anni Sessanta rimando ad alcuni studi comparsi in pubblicazioni inglesi: M. Goodall, Sweet & Savage. The World through the Shockumentary Film Lens, Headpress, London 2006; D. Bentin, Mondo Barnum in G. D. Rhodes, J. P. Springer (a cura di), Docufictions. Essays on the Intersection of Documentary and Fictional Filmmaking, McFarland & Company, London 2005, pp. 144-153; M. Goodall, Shockumentary Evidence. The Perverse Politics of the Mondo Film in S. Dennison, Song H.-L. (a cura di), Remapping World Cinema. Identity, Culture and Politics in Film, Wallflower Press, London 2006, pp. 118-128; M. Goodall, Dolce e Selvaggio. The Italian Mondo Documentary Film in L. Bayman, S. Rigoletto (a cura di), Popular Italian Cinema, Palgrave Macmillan, New York 2013, pp. 226-239. Secondo Lino Micciché, ad esempio, il sottogenere «ha rappresentato uno dei momenti peggiori del cinema italiano postbellico e, almeno dal punto

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con i meno biasimati film odeporici modernisti alcuni elementi di contatto e di (paradossale?) vicinanza. Come ho dimostrato più diffusamente in un’altra sede,20 anche gli shockumentary di Jacopetti, Prosperi & Co., come i film di Marker o Ivens, mescolano fiction e documentario, accompagnano gli spettatori in una sorta di viaggio attorno al mondo alla ricerca di tradizioni, riti e consuetudini, spesso pittoresche e stravaganti, assegnando al commento extradiegetico coloriture ironiche che indirizzano la fruizione spettatoriale e giocando con il lato voyeuristico della proiezione cinematografica. Quel che qui più conta rimarcare, al di là di supposte adiacenze di carattere morfologico o narrativo, è il tentativo di offrire allo spettatore, attraverso uno spettacolo simile al varietà teatrale, ovvero giustapponendo – una dopo l’altra – esibizioni di varia natura, un’esperienza unica e sincretica di rappresentazione del mondo capace di mitigare le distanze tra le culture o se non altro di renderle tra loro conciliabili, in virtù di un continuo ricorso a essenzialismi e stereotipi. Per concludere, si può affermare che, in modi certamente diversi e talvolta antipodali, i film etnografici, i mondo movies, i documentari televisivi e, come vedremo più avanti, i film di viaggio modernisti, riproducono una medesima disposizione normalizzante nei confronti di trasformazioni sociali e culturali che si affacciano, con sempre maggiore risoluzione, sul palcoscenico globale. Pur nella specificità di ogni artefatto, assistiamo a una tensione comune verso una faticosa – e spesso infruttuosa – assimilazione in un unico progetto audiovisivo o in un’unica esperienza di vita delle tante realtà culturali che rischiano una qualche forma di estinzione. Una tensione che, vista in controluce, non determina una riduzione delle distanze e delle disparità tra le parti, semmai una loro

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di vista della deontologia dei mass media, il peggiore in assoluto», perché «non poneva in alcun modo in discussione i fondamenti della morale repressiva, ma si limitava a sfruttarne gli epifenomeni a livello di viziosità voyeuristica», mettendo in campo «una dissacrazione di destra che non puntava affatto come si suole dire a mettere in discussione il sistema ma unicamente ad approfittare delle sue contraddizioni più esasperate per imbastirci sopra una speculazione». Cfr. L. Micciché, Cinema italiano. Gli anni ‘60 e oltre, Marsilio, Venezia 1995, pp. 136-137. M. Dalla Gassa, ‘Tutto il mondo è paese’. I Mondo Movies tra esotismi e socializzazione del piacere in «Cinergie. Il cinema e le altre arti», n. 5, 2014, pp. 83-95.

Protagonismo asiatico e reazioni sincretiche

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accentuazione, perché ogni sforzo di gestione di una tale mole di informazioni e sollecitazioni diventa sempre più difficile da controllare, sempre più vicino al fallimento, eppure in qualche modo sempre più «necessario», più coercitivo e più violento, specie se si vuole comprimere in un unico paradigma la complessità del paesaggio storico e sociale in cui ci si muove.

4. 16 MM E ALTRI PRESUPPOSTI DI MOBILITÀ

Individuati gli elementi di continuità tra letteratura, avanguardie storiche e cinema odeporico e le conseguenze ambivalenti determinate dall’imporsi di una «questione asiatica» nella storia del secondo Novecento, vorrei completare il quadro dei contesti e dei presupposti attorno ai quali si muove l’orientalismo modernista tracciando un’ultima linea di congiunzione che coinvolge le tecnologie che sono state introdotte nel mercato a partire dagli anni Quaranta e che hanno facilitato la mobilità dei cineasti. Come già avvenuto per i precedenti paragrafi, resta valida la decisione di ricostruire un fenomeno non cercando di perseguire un carattere di esaustività, bensì ponendo l’accento su quegli aspetti che prefigurano, presuppongono, rendono possibile il dipanarsi di un orizzonte tutto sommato coerente con le pratiche del cinema di viaggio. Intanto bisogna ricordare che dal dopoguerra in avanti (in particolare dopo la diffusione della televisione) si assiste a una profonda opera di riorganizzazione del comparto produttivo, a causa della sensibile e progressiva diminuzione del pubblico che frequenta le sale. L’obiettivo dei piccoli e dei grandi produttori è di allargare e radicalizzare l’offerta, per attrarre nuovi spettatori, specie di giovane età, e fidelizzarne la frequenza.1 1

In verità i discorsi sulla crisi del cinema sono ciclici quanto ciclica e articolata è la sua storia. Si parlava di «crisi» già prima dell’avvento del sonoro, si è continuato a parlare di «crisi» anche dopo, in modo particolare in occasione del centenario del cinema le cui celebrazioni sono trascorse tra funesti presagi di «morte del cinema». L’apparizione e soprattutto la diffusione del medium televisivo ha rappresentato comunque un momento fondamentale di riorganizzazione del comparto produttivo. Su questi aspetti si veda: P. Ortoleva, Il secolo dei media. Riti, abitudini, mitologie, Milano, Il Saggiatore 2009; V. Zagarrio, L’anello mancante. Storia e teoria del rapporto cinema-televisione, Lindau, Torino 2004; A. Barbera (a cura di),

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Da questo punto di vista, la diffusione dei film d’essai come dei kolossal d’avventura, la produzione di pellicole low budget e d’autore come di quelle dell’orrore o di exploitation, rispondono alla medesima logica di progressivo smarcamento da una programmazione media, standardizzata e controllata. La stessa introduzione di nuovi formati (il cinemascope, il 3D), pellicole (il technicolor) o impianti di diffusione sonora (Dolby) deve essere letta in un’ottica di rinnovamento dell’offerta cinematografica, per garantire ai vecchi e nuovi abitanti della sala un’esperienza più immersiva, spettacolare ed esclusiva rispetto ad altri regimi di visione. Le innovazioni tecnologiche hanno, in verità, un impatto notevole anche sul piano produttivo. Grazie a esse, in pochi anni, migliorano la definizione dell’immagine, la maneggevolezza delle macchine da presa, la precisione e la versatilità dei dispositivi di registrazione del suono. In altre parole, tutti gli strumenti di lavoro in mano ai cineasti diventano o più performanti o più economici (o entrambe le cose). Verso la metà degli anni Quaranta, ad esempio, vengono immesse sul mercato le pellicole pancromatiche, più sensibili e dunque capaci di lavorare in situazioni di scarsa o bassa illuminazione; alla fine dei Cinquanta si iniziano a utilizzare cineprese con formati in 16 mm,2 precedentemente commercializzate solo per uso amatoriale. Sviluppato dall’ingegnere polacco Stefan Kudelski, nel 1959 viene brevettato dalla società Nagra un sistema di registrazione sincrona del suono su nastro magnetico particolarmente leggero e preciso. Se nel 1946 si introduce il primo zoom moderno che, a differenza delle lenti tradizionali, ha in dotazione lenti a lunghezza focale variabile, intorno al 1963, grazie alla società francese Angénieux, vengono introdotte lenti transfocali che possie-

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Cavalcarono insieme. 50 anni di cinema e televisione in Italia, MondadoriElecta, Milano 2004. Più in generale sull’impatto del concetto di crisi nella definizione e nel superamento dell’età moderna del cinema si veda, tra gli altri, D. Harvey, La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano 1993 (il cui titolo in inglese è significativamente The Condition of Postmodernity) e la prima parte dello studio di G. Canova, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani, Milano 2000. Per approfondimenti, tra gli altri, si veda J. Monaco, How to Read a Film. Movies, Media and Beyond, Oxford University Press, New York-Oxford 2000, pp. 99-136.

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dono un range di azione ancora più ampio (si passa da 17.5 mm > 70 mm a 12 mm > 120 mm) tale da migliorare sensibilmente le performance tecniche degli zoom e così permettere un passaggio più rapido e preciso da ottiche grandangolari a teleobiettivi, senza destabilizzare il fuoco dell’immagine. Nastri audio e pellicole si fanno progressivamente più resistenti a condizioni metereologiche avverse (caldo, umidità) e, infine, vengono elaborati, in modo particolare dalla società tedesca Steenbeck, nuovi banchi di montaggio che velocizzano sensibilmente la messa in serie di un film.3 Favorito dalla presenza sempre più efficace di canali di distribuzione alternativi o paralleli a quelli tradizionali della sala (festival, cineclub, canali televisivi, sale parrocchiali o di partito, dopolavoro e altri luoghi di aggregazione) e da un progressivo abbassamento dei costi di produzione di un film (ogni step tecnologico risponde infatti anche a esigenze di risparmio economico), si sviluppa specialmente nel Vecchio Continente un modello di produzione più agile e dinamico, con forme di finanziamento eterogenee e flessibili che coinvolgono talvolta persino cooperative autogestite, enti di ricerca, società che operano in altri ambiti del mercato, favorendo l’ingresso di nuovi modelli di mecenatismo o nuovi investimenti pubblici. Registi come Jean Rouch, Jacques-Yves Cousteau, Arne Sucksdorff, Georges Franju, Alain Resnais, Vittorio De Seta, gli inglesi del Free Cinema, i francesi della Nouvelle Vague e più avanti i cineasti indipendenti americani, tutti in qualche modo protagonisti di un nuovo modo di intendere il cinema e di produrre pellicole low budget, pur lavorando in condizioni economiche precarie, possono godere di una libertà d’azione sconosciuta ai cineasti inseriti in filiere industriali più tradizionali.4 3

4

Per una storia delle innovazioni tecnologiche nel cinema legate all’evoluzione degli standard di rappresentazione rimandiamo a: Barry Salt, Film Style and Technology. History and Analysis, Starword, London 2006 (edizione aggiornata). Impossibile restituire, anche solo parzialmente, la bibliografia dedicata alle Nouvelle Vague, al cinema diretto e ad altri movimenti di rinnovamento del cinema negli anni Cinquanta e Sessanta. Mi limito a segnalare alcuni tra i testi più attenti alle dinamiche produttive da una parte e al quadro congiunturale dall’altra: A. De Baeque, La Nouvelle vague - Portrait d’une jeunesse, Flammarion, Paris 1998; M. Marie. La nouvelle vague, Lindau, Torino 1998; R. Neupert, A History of the French New Wave Cinema, University of Wisconsin Press, Madison 2007; S. Graff, Le cinéma-vérité.

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Come accennato in precedenza, questi processi di trasformazione delle condizioni produttive e tecnologiche hanno una grande ricaduta anche nell’ambito di questo studio. Avvalersi di dispositivi più leggeri, economici ed efficaci, utilizzabili anche in condizioni climatiche sfavorevoli o adattabili a situazioni di setting non controllabili in partenza, consente, ad esempio, opportunità di ripresa fino allora precluse a una troupe che lavora in plein air; l’abbassamento dei budget e il moltiplicarsi dei canali di diffusione di una pellicola agevola le iniziative dei singoli, anche quelle che non possono contare su grandi disponibilità economiche; l’accessibilità a banchi di montaggio più performanti favorisce il trattamento di un metraggio maggiore di pellicola, con relative conseguenze anche in relazione all’innalzamento della durata media di un film (specie di un documentario o di un film etnografico). Del contesto appena riassunto mi interessa cogliere soprattutto l’impatto che l’introduzione nel mercato della pellicola a 16 mm (a cui va associata quella degli impianti di registrazione sincrona del suono) produce nelle dinamiche di sviluppo ed evoluzione del cinema etnografico e documentaristico in generale e di quello moderno orientalista in particolare. Occorre ricordare, infatti, che la maggior parte dei titoli che analizzeremo nelle prossime pagine sono girati in questo formato (in genere con macchine da presa Eclair, Arri, Auricon o Beaulieu)5, a di-

5

Films et controverses, Presses universitaires de Rennes, Rennes 2014; P. Mary, La Nouvelle Vague et le cinéma d’auteur, Seuil, Paris 2006; Luca Venzi (a cura di), Nouvelle Vague. Forme, motivi, questioni, Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma 2011. Sono in 16 mm tutti i lavori di Chris Marker (Dimanche à Pékin, Le mystère Koumiko, Lettre de Sibérie, Sans soleil, Si j’avais quatre dromadaires), la serie televisiva L’India vista da Rossellini e tutto il girato che confluisce in India Matri Bhumi, alcuni episodi di Lontano dal Vietnam, gli Appunti per un film sull’India e i Sopralluoghi in Palestina di Pasolini (ma anche Appunti per un’Orestiade Africana), Calcutta e L’India fantasma di Malle, Comment Yukong déplaça les montagnès di Joris Ivens e Marceline Loridan, Chung Kuo - Cina e Kumbha Mela di Michelangelo Antonioni, Tokyo-Ga di Wim Wenders e ancora India Song della Duras, i film di Ivens girati in Laos e Vietnam, Apocalisse nel deserto (Lektionen in Finsternis, 1992) come la maggior parte dei film africani di Herzog, senza contare i lavori etnografici di Rouch, Gardner, Allison, Asch, Moore e altri già citati in precedenza.

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mostrazione della sua «appetibilità» economica, ma anche estetica. Sono gli stessi registi che ammettono, in interviste e testimonianze, il cambio di abitudini lavorative con il diffondersi dei nuovi formati. Ricorda Ivens: Alla fine degli anni Cinquanta la sincronizzazione dell’immagine col suono è venuta a sconvolgere l’arte del documentarista. Non ho intenzione di lanciarmi in spiegazioni tecniche e considerazioni filosofiche per dimostrare l’importanza del fenomeno, ma fino allora il 16 mm era rimasto relegato nel campo della ricerca scientifica, della televisione e di pochi amatori avanzati. Nel giro di qualche anno, col suono sincrono, ha preso una dimensione nuova. Quella cosa che i vecchi cineasti come me dispregiativamente chiamavano il vermicello?! è diventato per i giovani uno strumento di lavoro insostituibile e al momento di prendere le decisioni per il nostro secondo film in Vietnam, Marceline me ne ha convinto. Ho abbandonato il 35 mm col quale avevo realizzato tutti i miei film e mi sono lanciato nell’avventura del 16 mm sonoro. Per me era una vera e propria rivoluzione. I vantaggi erano evidenti: il materiale è più leggero, più maneggevole; col suono ci si può avvicinare agli uomini, perché così non si lasciano più solo fotografare, ma si esprimono e mi dissi «Se questo permette di dare la parola al popolo, perché no!».6

Rossellini, più sbrigativo, nel corso della prima puntata francese della serie televisiva indiana, si lascia scappare un’affermazione illuminante: «Je m’amuse beaucoup plus avec le 16 mm qu’avec le 35 mm».7 Malle invece si abbandona a una confessione interessante: I primi due mesi ero in India da solo. Avevo con me una cinepresa 16 mm, ma giravo pochissimo. Tornai assieme a una piccola squadra, eravamo in tre. […] Durante i successivi quattro mesi di riprese non avevo la minima idea di cosa fare del materiale. Pensavo vagamente a un lungometraggio, un documentario di novanta minuti intitolato “Il mio viaggio in India”. Ben presto però abbandonai l’idea. Aziona-

6 7

R. Destanque, J. Ivens, Joris Ivens o la memoria di uno sguardo, Ente dello Spettacolo, Roma 1988, pp. 368-369. «Mi diverto molto di più con il 16 mm che con il 35». Sull’esperienza di Rossellini nel documentario si veda: L. Caminati, Una cultura della realtà. Roberto Rossellini documentarista, Carocci-Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia, Roma 2012.

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vamo la cinepresa solo quando ci sembrava necessario, piacevole o interessante. Quando giravo, non pensavo mai.8

L’affermazione del film-maker francese ha un’importanza decisiva: con il 16 mm si può girare «senza pensare», senza un piano di lavoro predeterminato, senza un’idea chiara di cosa si intende fare. Che sia vera o meno la dichiarazione malliana, contiene una serie di convinzioni che modifica radicalmente i criteri di filmabilità di un evento, non più riconducibili a ragioni di script e/o di economia, ma a una dimensione soggettiva e autoreferenziale del gusto e del sentire. Il 16 mm sembra garantire, in altre parole, maggiore manovrabilità, sensibilità, talvolta divertimento, oltre a un maggiore metraggio e alla serenità di non dover affrontare certe pesantezze tecniche imposte dal 35 mm. È altresì vero che tali nuove dinamiche non determinano, solo per il fatto di esistere, una migliore interazione con l’«alterità», semmai prefigurano e motivano una certa pulviscolarità delle sue rappresentazioni. Lo anticipava, negli anni quaranta, un testo programmatico (e profetico) di Alexandre Astruc che merita una nostra lettura. In Naissance d’une nouvelle avant-garde: la caméra-stylo, così scrive il teorico e regista francese: Il cinema sta semplicemente diventando un mezzo d’espressione, come prima di lui lo sono state tutte le altre arti, in particolare la pittura e il romanzo. Dopo essere stato successivamente un’attrazione da fiera, un divertimento come il teatro boulevardier e un mezzo per conservare le immagini dell’epoca, diventa a poco a poco un linguaggio. Un linguaggio, cioè una forma nella quale e per mezzo della quale un artista può esprimere il proprio pensiero, per quanto astratto, o tradurre le proprie ossessioni, esattamente come avviene oggi per il saggio e il romanzo. Proprio perciò chiamo questa nuova età del cinema l’epoca della caméra-stylo.9

La pubblicistica successiva ha spesso considerato il testo di Astruc – con quell’immagine così affascinante e accattivante della caméra-stylo – come il prodromo della nascita e della diffusione 8 9

L. Malle, Malle on Malle, Faber & Faber, London 1996, pp. 70-71. A. Astruc, Nascita di una nuova avanguardia. La caméra-stylo, in A. Barbera e R. Turigliatto (a cura di), Leggere il cinema, Mondadori, Milano 1978, pp. 313-314.

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della Nouvelle Vague10 e poi del cinema d’autore, accostando questo saggio con un celebre intervento di François Truffaut, di pochi anni successivo, che pronosticava l’avvento di un cinema narrato in prima persona, autobiografico, vicino alla pratica del journal intime.11 Per entrambi i cineasti-scrittori, la macchina da presa poteva essere usata come una penna stilografica e il cinema farsi diario o lettera autografa. Non nego che da questa prospettiva i film di viaggio – spesso impostati sotto forma di lettera o diario autografo – assegnano pertinenza a tali convinzioni, e lo fanno paradossalmente meglio di film d’essai per così dire stanziali spesso basati – compresi quelli delle nuove onde – su adattamenti letterari, sceneggiature resistenti, griglie finzionali. Trovo tuttavia che il testo di Astruc assuma tonalità significanti più accese se collocato dentro il perimetro speculativo e pratico segnato dall’avvento di formati di ripresa più ridotti. Qualche riga dopo, egli in particolare scrive: Bisogna capire che il cinema fino a oggi è stato soltanto uno spettacolo. Ciò dipende precisamente dal fatto che tutti i film sono proiettati nelle sale. Ma con lo sviluppo del 16 mm e della televisione non è lontano il giorno in cui ognuno potrà disporre a casa sua di apparecchi di proiezione e noleggerà dal libraio all’angolo film scritti su qualsiasi soggetto, di qualsiasi forma: critica letteraria, romanzo, saggio di matematica, storia e divulgazione. Perciò non è più permesso di parlare di un cinema. Ci saranno dei cinema, come oggi ci sono delle letterature, poiché il cinema, come la letteratura, prima di essere un’arte particolare è un linguaggio che può esprimere qualsiasi ambito del pensiero.12 10 11

12

Per una ricostruzione generale del lavoro teorico di Astruc rimando a: A. Astruc, Du stylo à la caméra... et de la caméra au stylo, L’Archipel, Paris 1992. Scriveva Truffaut nel 1957: «Il film di domani mi appare più personale ancora di un romanzo individuale e autobiografico come una confessione o come un diario. I giovani registi si esprimeranno in prima persona e ci racconteranno del loro primo amore o di uno più recente, di una presa di coscienza politica, di un viaggio, di una malattia, del loro servizio militare, del loro matrimonio, delle loro ultime vacanze e ciò piacerà per forza perché sarà autentico e nuovo.[…] Il film di domani sarà un atto d’amore». Cfr. F. Truffaut, Le Cinéma français crève sous les fausses légendes in «Arts», 15 maggio 1957, p. 3 (trad. e corsivi miei). A. Astruc, Nascita di una nuova avanguardia, cit., p. 314.

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Al netto di fausti pronostici sull’allargamento dei modi di consumazione degli audiovisivi (gli apparecchi di proiezione domestici, l’acquisto di DVD dalla «libreria» sotto casa, la moltiplicazione delle televisioni e della loro offerta in termini di varietà di generi, format, canali tematici, piattaforme, ecc.), Astruc preannuncia e pregusta, in questo passaggio del suo ragionamento, l’esplosione pulviscolare delle forme di esposizione dei pensieri. Come esistono delle letterature, afferma, così esisteranno dei cinema. Al plurale. Egli però non si riferisce esclusivamente alla moltiplicazione degli schermi o dei luoghi di fruizione del film (invero già prima della seconda guerra mondiale esistevano titoli per le sale, ma anche altri pensati e realizzati per uso industriale, scientifico, giornalistico/informativo, artistico/sperimentale), ma a una disseminazione ampia delle modalità di espressione umana. Si trova conferma di questa interpretazione in un terzo passaggio del suo testo: Maurice Nadeau diceva in un articolo su Combat: “Se Cartesio vivesse oggi scriverebbe romanzi”. Chiedo scusa a Nadeau, ma già oggi un Cartesio si chiuderebbe nella sua stanza con una cinepresa a 16 mm e della pellicola e scriverebbe il discorso sul metodo in film, giacché il suo Discorso sul metodo oggi sarebbe tale che solo il cinema potrebbe esprimerlo convenientemente.13

Insomma, se ha ragione Astruc, l’abbandono del 35 mm per formati sempre più ridotti non determina il passaggio da una pratica più o meno pesante (il saggio teorico) a un’altra più leggera e fruibile (il romanzo) come teorizzava Nadeau, o, in ambito cinematografico, da una più tradizionale (il lungometraggio di finzione) a una più sperimentale (il film-saggio), semmai costringe a ripensare le modalità attraverso le quali portare a compimento la realizzazione di un progetto. Ciò che cambia, sembra dirci il saggista francese, è il metodo di lavoro, il modo con cui concepire la propria presenza nel processo creativo perché altra è la prossemica richiesta dall’ideazione, dalla realizzazione e dalla fruizione di un film (in ambito espressivo e in relazione alle forme di contatto con l’esistente). Ne consegue che l’avvento e l’uso del 16 mm impone un discorso di e sul metodo, rivedendo le relazioni tra dicibile e 13

Ibid.

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visibile, tra ciò che si intende e si può raccontare e ciò che si riesce o si può far vedere. Il diffondersi di formati più leggeri modifica anche il lavoro e la funzione del responsabile primario della produzione di un testo filmico, ovvero suo autore. In questo preciso passaggio del saggio di Astruc, egli è chiamato a rispondere a nuove articolazioni teoriche e pragmatico/strategiche che devono trovare una loro corrispondenza con i generi narrativi che il «libraio all’angolo» utilizza per agevolare il lettore/spettatore nell’acquisto del suo prodotto. Da questo punto di vista e contrariamente a quanto si crede, la caméra-stylo non pare essere l’alveo di espressione del soggettivo, bensì un nuovo punto di congiunzione tra la singola pratica espressiva e quelle categorie della visione che servono al fruitore per orientarsi nell’offerta audiovisiva. Per esprimere un pensiero non basta un buon vocabolario, servono supporti, registri e modelli espressivi riconoscibili, contesti adatti, interessi e bisogni condivisi. Tornerò nel prossimo capitolo, dedicato a questioni di ordine teorico, sulle ripercussioni che tale lettura ha sul fronte delle politiques des auteurs. Qui si può già preannunciare, concludendo il quadro dei contesti operativi dei film modernisti di viaggio, che un principio (e una tecnologia) che sembra offrire uno spazio di maggiore pertinenza per l’individuo/regista diventa in realtà – come mostra in controluce persino la ponderazione «autoriale» di Astruc – un modo sotteso e più efficace per riorganizzare i regimi di un discorso (filmico) e le logiche aggregative del pensiero.

II QUESTIONI

1. IL VISIBILE, IL GENERE E IL FUORI FILM

1.1. Le soglie del visibile1 Il visibile è ciò che i fabbricanti di immagini cercano di captare per trasmetterlo e ciò che gli spettatori accettano senza stupore. […] Le fluttuazioni del visibile non hanno niente di aleatorio: rispondono ai bisogni o al rifiuto di una formazione sociale. Le condizioni che influenzano le metamorfosi del visivo, e il campo stesso del visivo, sono strettamente legati: un gruppo vede ciò che può vedere, e ciò che è capace di percepire definisce il perimetro entro il quale esso è in grado di porre i propri problemi. Il cinema è al tempo stesso repertorio e produzione d’immagini. Mostra non già il “reale” ma i frammenti del reale che il pubblico accetta e riconosce.2

La teoria del visibile di Pierre Sorlin ha avuto una certa fortuna all’interno dei film studies. Nata da una riflessione sopra le modalità di trattamento dei materiali audiovisivi come fonti di documentazione storica, essa ha un portato significante ancora attuale nella misura in cui valuta il film come il prodotto di una plausibilità che si decide dentro un perimetro di conoscenze e percezioni che un particolare periodo storico e un certo gruppo sociale è in grado di darsi. Secondo l’ipotesi sorliniana (non certo isolata giacché riecheggiano convinzioni 1

2

Si segnala che il primo e il secondo paragrafo del capitolo nascono come riscrittura più estesa e articolata di un saggio pubblicato in spagnolo all’interno di un volume sull’orientalismo nelle arti. Per i doverosi confronti si veda M. Dalla Gassa, La desorientación orientada. Sobre una incierta tendencia del orientalismo cinematográfico, in G. Zucconi, J. Calatrava (a cura di), Arte y arquitectura. Orientalismo entre Granada y Venezia, Abada, Madrid 2012, pp. 359-380. P. Sorlin, Sociologia del cinema, Garzanti, Milano 1979, pp. 68-70 (corsivi miei). Segnalo che nelle citazioni in cui non viene dichiarato altrimenti, i corsivi sono sempre dell’autore.

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espresse in campi liminari da pensatori come Merleau-Ponty3, Bourdieu4 e altri), le immagini in movimento non sono il mero frutto di un dispositivo ottico che registra meccanicamente ciò che gli è innanzi, bensì il risultato di una serie di configurazioni che si determinano a partire da sensibilità e condizionamenti di carattere culturale, tecnologico, sociale, politico, economico, estetico, ecc., in azione tanto nella fase di creazione di quelle immagini quanto in quella della loro fruizione. Detto altrimenti, il visibile non è l’insieme di segni che si proietta su una qualche superficie bidimensionale (retinica o filmica), ma ciò che una capacità percettiva e cognitiva (individuale o collettiva) è in grado di elaborare e tradurre da quell’insieme di tracce. Ne consegue che la presunta natura ontologica del medium, da cui deriverebbe tout-court una sorta di «autenticità» dell’immagine,5 non è altro che una convenzione ricettiva dai perimetri alquanto instabili e porosi. Mi piace iniziare a studiare il fenomeno del modernismo odeporico da questa premessa perché l’orizzonte teorico che dispiega si presenta in forme più complesse e tonalità più sfumate se paragonato ad altri più diffusi nello studio delle rappresentazioni dell’alterità. Com’è noto, la maggior parte della letteratura che si occupa di esotismo e orientalismo tende ad appoggiarsi sui risultati speculativi sostenuti dagli studi di area postcoloniale, in modo particolare quelli nati da un testo predittivo e paradigmatico qual è il già doverosamente citato Orientalism di Edward Said. Grazie a questo libro, dato alle stampe nel 1978, e a quelli

3 4 5

M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 1969. Si veda in modo particolare: P. Bourdieu, La fotografia. Usi e funzioni sociali di un’arte media, Guaraldi, Rimini-Firenze 1972. Il riferimento più ovvio è ai testi di Bazin, ma c’è, invero, una lunga tradizione di studi teorici sulle forme di prossimità e di relazione tra realtà e rappresentazione cinematografica. A tale riguardo si veda: A. Bazin, Che cos’è il cinema, Garzanti, Milano 1972, (in particolare il saggio intitolato Ontologia dell’immagine fotografica, pp. 3-10) e S. Cavell, The World Viewed. Reflections on the Ontology of Film, Harvard University Press, Cambridge 1971. Per una ricostruzione complessiva del dibattito sul realismo nel cinema rimando invece A. Boschi, Teorie del cinema. Il periodo classico 1915-1945, Carocci, Roma 1998, pp. 123-164 e F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, Bompiani, Milano 1993, pp. 23-46; M. Hagener, T. Elsaesser, Teoria del film. Un’introduzione, Einaudi, Torino 2014, pp. 3-30.

Il visibile, il genere e il fuori film

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successivi licenziati da studiosi come Valentin-Yves Mudimbe,6 Homi K. Bhabha,7 Gayatri Spivak,8 Trinh T. Minh-ha,9 Robert J.C. Young,10 Achille Mbembe,11 e altri, si è diffusa la convinzione secondo cui le forme di racconto interculturale sono sempre allacciate a un fascio di discorsi di natura politica, asservite a una logica di relazione tra dominio e sottomissione, calate dentro una conflittualità tra un polo che gestisce il potere/sapere di controllo e un polo che gestisce il potere/sapere di resistenza. Tutto nasce dall’idea, non peregrina, che l’esperienza storica del colonialismo sia di fatto ineliminabile dalle costruzioni ermeneutiche e identitarie che si sono prodotte sia nelle società dominanti, sia in quelle dominate. Sotto questa luce, il libro di Said appare, già ai tempi della sua uscita, straordinariamente efficace: recuperando alcune pagine di Foucault e Gramsci (in anni in cui sul medesimo argomento scrivono pagine di analoga forza autori come Franz Fanon,12 Aimé 6 7

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Si rimanda in particolare a V. Y. Mudimbe, L’invenzione dell’Africa, Meltemi, Roma 2007. Tra i testi dell’autore, particolarmente importanti per questo studio, segnalo soprattutto: H. Bhabha, I luoghi della cultura, Meltemi, Roma 2001; Id. (a cura di), Nazione e narrazione, Meltemi, Roma 1997; H. Bhabha, W. J. T. Mitchell (a cura di), Edward Said. Continuing the Conversation, University of Chicago Press, Chicago-London 2005. Gayatri Spivak è nota soprattutto per i suoi studi sulla subalternità. A tal proposito si rimanda a G. C. Spivak, Selected Subaltern Studies, Oxford University Press, Oxford 1988; Id. The Post-Colonial Critic. Interviews, Strategies, Dialogues, Routledge, London-New York 1990; Id., Can the Subaltern Speak? in C. Nelson, L. Grossberg (a cura di), Marxism and the Interpretation of Culture, University of Illinois Press, Urbana 1988, pp. 271-313; Id., Critica della ragione postcoloniale, Meltemi, Roma 2004. Autrice dalla personalità e professionalità poliedrica (oltre che studiosa è regista, novellista, compositrice), Trinh merita di essere ricordata in questa sede in modo particolare per due studi di una certa importanza in ambito postcoloniale: Trinh T. M.-A., Woman, Native, Other. Writing Postcoloniality and Feminism, Indiana University Press, Bloomington 1989; C. West, R. Ferguson, Trinh T. M.-A., M. Gever (a cura di), Out There. Marginalisation in Contemporary Culture, New Museum of Contemporary Art-M.I.T. Press, New York 1990. Si veda in particolare R. J. C. Young, Mitologie bianche. La scrittura della storia e l’Occidente, Meltemi, Roma 2007. Cfr. A. Mbembe, Les jeunes et l’ordre politique en Afrique noire, L’Harmattan, Paris 1986 e soprattutto Id., Post-colonialismo, Meltemi, Roma 2005. Il riferimento d’obbligo è a F. Fanon, Pelle nera, maschere bianche, Tropea editore, Milano 1995, ma è da segnalare l’altrettanto importante Id., I

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Cesaire,13 Claude Lévi-Strauss,14 Paulo Freire,15 Léopold Sédar Senghor,16 Yves Lacoste,17 Roland Barthes18), Said sostiene l’esistenza di una strategia avvolgente e generalizzata che sfrutta le potenzialità attrattive degli immaginari letterari e figurativi per reificare paradigmi di stampo imperialista. L’orientalismo […] non è soltanto un fatto politico riflesso passivamente dalla cultura o dalle istituzioni, né è l’insieme dei testi scritti sull’Oriente, e non è nemmeno il frutto di un preordinato disegno imperialista “occidentale” destinato a giustificare la colonizzazione del mondo “orientale”. È invece il distribuirsi di una consapevolezza geopolitica entro un insieme di testi poetici, eruditi, economici, sociologici, storiografici e filologici; ed è l’elaborazione non solo di una fondamentale distinzione geografica (il mondo come costituito da due metà ineguali, Oriente e Occidente), ma anche di una serie di “interessi” che, attraverso cattedre universitarie e istituti di ricerca, analisi filologiche e psicologiche, descrizioni sociologiche e geografico-climatiche, l’orientalismo da un lato crea, dall’altro contribuisce a mantenere.19

Le rappresentazioni diffuse dell’Oriente – in tutte le sue possibili declinazioni – vengono così descritte come costrutti rispondenti non tanto all’intenzionalità di un singolo «autore», quanto a un progetto complessivo, inafferrabile, sfumato, stratificato, di affermazione di un’«autorità» etnocentrica che agisce contro un ventaglio di diversità essenzializzandole colpevolmente.

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dannati della terra, Edizioni di Comunità, Torino 1967. A. Cesaire, Discorso sul colonialismo, Roma, Lilith 1999. Tra i tanti testi dell’antropologo, linguista e filosofo francese si rinvia soprattutto a C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, Il Saggiatore, Milano 1975 e Id., Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano 1966 nonché ai quattro volumi raccolti sotto il titolo Mythologiques e pubblicati da Plon rispettivamente nel 1964, 1966, 1968 e 1971. P. Freire, La pedagogia degli oppressi, A. Mondadori, Verona 1971. L. S. Senghor, Negritudine e umanesimo, Rizzoli, Milano 1974. Y. Lacoste, Geografia del sottosviluppo, Il Saggiatore, Milano 1976. Tra i tanti testi di Barthes che hanno una certa attinenza con le questioni postcoloniali e interculturali si rimanda almeno a: R. Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1974, Id. L’impero dei segni, Einaudi, Torino 2004. E. W. Said, Orientalismo, cit., p. 21.

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Credere che l’Oriente sia stato creato – o come mi piace dire “orientalizzato” – per il solo gusto di esercitare l’immaginazione, sarebbe alquanto ingenuo oppure tendenzioso. Il rapporto tra Oriente e Occidente è una questione di potere, di dominio, di varie e complesse forme di egemonia. […] La struttura dell’orientalismo non è affatto una mera struttura di miti e bugie che si dissolverebbe come nebbia spazzata via dal vento appena la verità le venisse contrapposta. Personalmente ritengo che l’orientalismo sia più veritiero in quanto espressione del dominio euroamericano che come discorso obiettivo sull’Oriente. […] L’orientalismo quindi non è solo una fantasia inventata dagli europei sull’Oriente, quanto piuttosto un corpus teorico e pratico nel quale, nel corso di varie generazioni, è stato effettuato un imponente investimento materiale. Tale investimento ha fatto dell’orientalismo, come sistema di conoscenza dell’Oriente, un filtro attraverso il quale l’Oriente è entrato nella coscienza e nella cultura occidentali.20

Said realizza un’intrigante operazione speculativa che non cela una serie d’implicite contraddizioni (successivamente rimproverategli).21 La principale risiede nel fatto che se da un lato egli biasima le strategie di polarizzazione che si ritrovano in molti testi orientalisti, fondati su entità artefatte, geograficamente stabili solo perché si sostengono vicendevolmente,22 20 21

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Ivi, pp. 15-16. Per una più ampia disamina delle «criticità» metodologiche rivolte al testo di Said si rinvia a: R. Irwin, Lumi dall’Oriente. L’orientalismo e i suoi nemici, Donzelli, Roma 2008; D. M. Varisco, Reading Orientalism. Said and the Unsaid, University of Washington Press, Seattle 2007. Nella postfazione all’edizione del 1994, Said descrive il suo lavoro in questo modo: «Si tratta infatti di un testo profondamente scettico nei confronti di tutte le etichette categoriche come quelle di Oriente e Occidente e fastidiosamente attento a non “difendere” e persino a non discutere l’Oriente e l’Islam. […] Mi spingo anche molto più avanti quando, proprio all’inizio del libro, dico che parole come “Oriente” e “Occidente” non corrispondono a nessuna realtà stabile esistente come un fatto naturale e che queste designazioni geografiche sono una strana combinazione di aspetti empirici e immaginari. Nel caso della nozione di “Oriente” attualmente impiegata in Inghilterra, in Francia e negli Stati Uniti, l’idea deriva in buona misura da quello che è un impulso non semplicemente a descrivere, ma anche a dominare e talvolta a proteggersi». E. W. Said, Orientalismo, cit., p. 329.

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dall’altro, nondimeno, per avanzare il suo attacco contro dicotomie e semplificazioni, Said essenzializza, a sua volta, le forme di rappresentazione delle alterità, inserendole nel medesimo calderone discorsivo, senza istituire sostanziali distinzioni per quanto riguarda, ad esempio, la loro funzione culturale e politica. Trattati politici, romanzi letterari, quadri, piéce teatrali, film, reportage giornalistici, voci di enciclopedie, epistole e carteggi, diari di viaggio, purché realizzati da europei, sono considerati tra loro intercambiabili e/o commutabili, partecipi di un medesimo spettacolo finzionalizzante: La nostra iniziale descrizione dell’orientalismo come campo di studi eruditi acquista ora una nuova concretezza. L’idea di campo allude a uno spazio delimitato. Analogamente, il concetto di rappresentazione […] implica un riferimento al teatro: l’Oriente è un palcoscenico nel quale l’intero Est viene confinato. Sul palcoscenico compaiono figure il cui compito è rappresentare il più ampio ambito da cui provengono. L’Oriente non appare più come uno spazio illimitato al di là del familiare mondo europeo, ma come un’area chiusa, un ampio palcoscenico annesso all’Europa. L’orientalista non è altro che uno specialista in un campo del quale la vera responsabilità spetta all’Europa, così come il pubblico è storicamente e culturalmente responsabile del dramma (oltre che rispondente a esso) tecnicamente allestito dal drammaturgo. Dietro le quinte del palcoscenico orientale è custodito un ricchissimo repertorio culturale le cui singole voci evocano fantasmagorie di un mondo incantato: la Sfinge, Cleopatra, l’Eden, Troia, Sodoma e Gomorra, Astarte, Iside e Osiride, Saba, Babilonia, i Geni, i Magi, Ninive, il prete Gianni, Maometto e altri ancora; luoghi in certi casi soltanto nomi, metà immaginari metà conosciuti; mostri, diavoli, eroi, terrori, piaceri, desideri.23

Se fosse vera questa ipotesi, ovvero se ogni medium assolvesse la medesima funzione indipendentemente dai caratteri espressivi che gli sono propri, dalla provenienza culturale di chi lo adopera, dalla stagione storica vissuta, partecipando a un unico spettacolo teatrale in cui l’Oriente è il palcoscenico, gli autori i drammaturghi, gli europei e i nordamericani sono gli spettatori, signifi23

E. W. Said, Orientalismo, cit., p. 69.

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cherebbe che siamo innanzi a un insieme di raffinate e coerenti manifestazioni di una cultura scientemente imperialista, il braccio armato di un potere consapevole e invasivo da cui non è possibile sottrarsi24. Al contrario di quanto teorizzato da Said, l’approccio scelto da Sorlin, pur continuando a collocare l’ermeneutica del film nel campo delle pratiche culturali, assegna una specificità espressiva e financo estetica ai linguaggi audiovisivi, individuandola non in un gradiente di realismo o in uno spettro ideologico-politico, ma in un orizzonte scopico (la dialettica tra visivo e visibile) che prevede anche la partecipazione del pubblico alla creazione di un significato. Il concetto di visibile sorliniano, parafrasando altrimenti, non si compiace di cercare una volontà uniformante e di controllo agita «a monte», ma ribadisce la necessità di valutare il film come il risultato di un fascio di percezioni, conoscenze e saperi che si stabiliscono e si negoziano «a valle», tra l’oggetto riprodotto e la comunità che lo riconosce. Ed è al centro di tale negoziazione che si collocano le 24

Lungi dall’essere una posizione isolata, quella di Said trova riscontri anche nei lavori teorici di ambito audiovisivo. Nei primi anni Settanta, sono frequenti, infatti, gli studi che denunciano i nessi che sussistono tra cinema e (volontà di) potere (imperialista) o meglio ancora tra il dispositivo cinematografico e la sua volontà di «costruire» arbitrariamente uno spettatore ideale. Nei lavori di Comolli, Pleynet, Baudry, Lebel, Zimmer o, con meno radicalismi, in quelli di Metz e Mitry, si evidenziano i caratteri convenzionali e ideologici dell’apparato di riproduzione. Ne consegue, per tali studiosi, che découpage classico, illusione di profondità e condizioni della visione in sala (sovrapercezione, sottomotricità, identificazione con lo schermo, dimensioni sovrastanti dell’immagine cinematografica), sono tutti strumenti asserviti alla costruzione di una visione idealista, omogenea, pacificata, del mondo. Su questi aspetti si vedano in particolare: J.-L. Baudry, Effets idéologiques produits par l’appareil de base in «Cinéthique», n. 7-8, 1970, pp. 1-8; J.-L. Baudry, Le dispositif. Approches métapsychologiques de l’impression de réalité in «Communications», n. 23, 1975, pp. 56-72; J.-L. Comolli, Technique et idéologie. Caméra, perspective, profondeur de champ in «Cahiers du cinéma» (saggio suddiviso in quattro interventi pubblicati nei n. 229, 1971, pp. 4-21; 230, 1971, pp. 51-57; 231, 1971, pp. 42-49; 234-235, 1971, pp. 39-45); C. Metz, Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario, Marsilio, Venezia 1980; J. Mitry, L’image et le réel perçu, in Id., La sémiologie en question. Langage et cinéma, Editions du Cerf, Paris 1987, pp. 47-67. Per una ricostruzione del dibattito di quegli anni e le considerazioni sul cinema come dispositivo di costruzione ideologica si rinvia a: L. Albano, La caverna dei giganti. Scritti sull’evoluzione del dispositivo cinematografico, Pratiche, Parma 1992.

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questioni dell’«autenticità» o della «verità» delle immagini, le quali, iscritte in un’impostazione diacronica del visibile, dipendono da un equilibrio di condizioni che la Storia insegna essere instabile e destinato prima o poi a rompersi o a mutare progressivamente. Un equilibrio mai fisso, mai fossilizzato, mai definibile in un unico – per quanto articolato e raffinato – corpus discorsivo. 1.2. Nomadi e cacciatori di frodo Per confermare queste fin ovvie considerazioni basterebbe ricordare, ad esempio, la funzione commerciale e il profilo di «genere» che il film esotico assume tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, permutando immaginari, fantasie, soggetti da altre forme di consumo culturale, dalla pittura al teatro, dal vaudeville alle arti applicate, dalla fotografia alle arti coreutiche. Com’è noto, fin dai primi anni di diffusione del nuovo medium, si alimenta una moda per la rappresentazione folclorica dell’alterità ben collocata in un passaggio storico dove il colonialismo appariva – o veniva presentato – come un fenomeno positivo, non solo per i dominatori, ma anche per i dominati. I cataloghi delle case di produzione del periodo (Lumière, Pathé, Edison e altre) contengono, infatti, numerosi titoli orientalisti, tra vedute, tranche de vie e fatti storici di paesi lontani e rappresentazioni di rituali, danze, cerimonie curiose e bizzarre da ogni angolo di mondo. Si pensi anche alla fortuna seriale che ha avuto la rappresentazione della danza serpentina, una sorta di rivisitazione della danza dei Sette veli che lega il fascino della scoperta del movimento cinematografico (e dei trucchi ottici artigianali) con quello della seduzione sessuale di stampo esotico.25 La stessa produzione di Méliès – qualche anno dopo – annovera adattamenti di testi come Le mille e una notte o raffigurazioni di episodi della storia dell’antico Egitto e dell’antica

25

Alcuni esempi: Annabelle Serpentine Dance (Thomas A. Edison, 1894); Danse Serpentine n. 765 (Louis Lumière, 1896); Danse Serpentine (Leopoldo Fregoli, 1897), La Création de la Danse Serpentine (Segundo de Chomón, 1908). Cfr. G. Lista, The Serpentine Dance in the Cinematograph, in Marketa Uhlirova (a cura di), Birds of Paradise. Costume of Cinematic Spectacle, Koenig Books, London 2013, pp. 93-104.

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Roma,26 mentre, se avanziamo anche solo di pochi lustri, scopriamo che tra i titoli più popolari del tempo compaiono opere come Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone, Intolerance (Intolerance: Love’s Struggle Throughout the Ages, 1916) o Giglio infranto (Broken Blossom, 1919) di David W. Griffith, Lo sceicco (The Sheik, 1921) di George Melford, Il ladro di Bagdad (The Thief of Bagdad, 1924) di Raoul Walsh, Das indische Grabmal zweiter Teil (1921) di Joe May, Destino di Fritz Lang, Theonis, la donna dei faraoni (Das Weib des Pharao, 1922) di Ernst Lubitsch, I dieci comandamenti (The Ten Commandments, 1923) di Cecil B. DeMille ecc. Sono tutte pellicole chiaramente accomunate dall’esibizione di ambientazioni esotiche, leggendarie o mitologiche per infondere eccentricità e meraviglia alle storie portate sul grande schermo e quindi per cercare di attrarre – in ultima analisi – un numero sempre più ingente di spettatori.27 Più che la riprova di una presenza demiurgica che instilla ideologia colonialista in film di età e provenienza diverse, queste pellicole dimostrano che la domanda di perturbazione e disorientamento della visione è alta e duratura nel tempo. Non si tratta però di individuare strategie comuni a opere tanto diverse come quelle 26

27

Tra i tanti lavori «orientalisti» di Méliès menziono almeno: Vente d’esclave au harem (1897); Cléopâtre (1989); La vengeance du Bouddha (1901); Le Palais des mille et une nuits (1905). Per un approfondimento sulla dimensione fantastica (ed esotica) del cinema di Méliès si consiglia, all’interno di una corposa bibliografia, almeno: A. Costa, La morale del giocattolo. Saggio su Georges Méliès, Clueb, Bologna 1989; J. Malthête, M. Marie, Georges Méliès, l’illusionniste fin de siècle, Presses Sorbonne Nouvelle, Paris 1997 (atti di convegno). Si veda anche il recente: E. Giacovelli, La bottega delle illusioni. Georges Méliès e il cinema comico e fantastico francese (18961914), Bietti, Milano 2015. Sull’orientalismo nel cinema muto si possono trovare diversi interventi, in modo particolare per quanto riguarda il cinema americano. Ricordo almeno: G. Marchetti, Romance and the “Yellow Peril”. Race, Sex and Discursive Strategies in Hollywood Fiction, University of California Press, Berkeley 1993; N. Browne, Orientalism as an Ideological Form. American Film Theory in the Silent Period in «Wide Angle», a. XI, n. 4, 1989, pp. 23-31; M. Richardson, Otherness in Hollywood Cinema, Continuum International Publishing Group, New York 2010; A. Di Luzio, East is East and West is West, and Never the Twain Shall Meet. L’immaginario esotico e orientale nei modelli di rappresentazione del cinema muto, in G. Franci, M. G. Muzzarelli (a cura di), Il vestito dell’altro. Semiotica, arti, costume, Lupetti, Milano 2005, pp. 123-147.

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firmate da Griffith, Méliès, DeMille o Lubitsch, semmai individuare una convergenza (d’interessi) tra esigenze di profitto dell’industria e domanda d’intrattenimento dello spettatore in quel crocevia piuttosto trafficato dove si consuma la sfida per rendere «visibile», e dunque riconoscibile e condivisibile, l’universo potenzialmente sconcertante dell’alterità etnica o culturale. Si è accennato poc’anzi – e non per caso – alle dinamiche di genere, perché in esse si può declinare meglio la produttività della proposta teorica di Sorlin. È necessario tuttavia ricordare che il genere, contrariamente a quanto si crede, non è «una categoria che si presta a un’identificazione chiara e stabile» ma è «un termine polivalente, valorizzato in modo diverso da diversi gruppi di utenti […] in un’arena in cui gli [stessi] utenti, con interessi divergenti, sono in competizione per portare a termine i propri programmi».28 Ovvero, anche in questo caso, la responsabilità di elaborazione e di ri-definizione del costrutto non spetta ai soli registi, ma coinvolge «molteplici utenti […], non solo svariati gruppi di spettatori, ma [anche] produttori, distributori, esercenti, agenzie culturali e molti altri ancora».29 Anche per Rick Altman, insomma, il senso si costruisce all’interno di processi di negoziazione che tuttavia non sono così pacifici come potrebbe sembrare in prima battuta. Per spiegare bene il senso di questa competizione, lo studioso americano recupera e riadatta una metafora orientalista coniata da de Certeau a proposito dell’attività ermeneutica dei lettori, considerati alla stregua di «nomadi che praticano il bracconaggio […], razziando i beni d’Egitto per trarne godimento».30 Scrive Altman: I racconti delle tribù predatrici sulle rive meridionali del Nilo potrebbero apparire completamente fuori luogo nel discorso sul genere cinematografico eppure i sistemi operano in maniera analoga. Per poter creare nuovi cicli di film i produttori [intendendo il sostantivo in un senso allargato che abbraccia varie categorie di persone, quelle 28 29 30

R. Altman, Film/Genere, Vita & Pensiero, Milano 2004, pp. 324-325. Ivi, p. 317. «I lettori sono dei viaggiatori; circolano su territori altrui, come nomadi che praticano il bracconaggio attraverso pagine che non hanno scritto, razziando i beni d’Egitto per trarne godimento», M. de Certeau, L’invention du quotidien 1. Arts de faire, Gallimard, Paris 1990, p. 251 (anche in R. Altman, op. cit., p. 319).

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sopra elencate. nda] devono attribuire nuovi aggettivi ai generi sostantivali esistenti. Così facendo i produttori ‘espropriano’ precisamente il territorio precostituito del genere. Seppur senza autorizzazione, l’attività di differenziazione del prodotto s’insedia spesso in un nuovo genere, che diviene immediatamente soggetto a ulteriori incursioni da parte dei nomadi. Cicli e generi, nomadi e civiltà, incursioni e istituzioni, frodatori e proprietari – sono tutti parte del processo di rimappatura in corso che, a fasi alterne, mette in moto e fissa la percezione umana.31

L’ipotesi di Altman ha il merito di rilevare il carattere provvisorio, instabile e mutevole del visibile, non solo quando viene applicato al sistema dei generi, ma anche quando coinvolge insiemi più larghi o meno codificati come quello orientalista. Anche nel caso dei film qui presi in esame, la dimensione di sorpresa e straniamento che essi cercano solitamente di costruire deve predisporre una continua attività di recadrage, ovvero di ri-generazione dell’immaginario esotico nelle mappe di senso del cinema, per evitare di esaurirsi in poco tempo. Se ha ragione Sorlin quando scrive che «il visibile è ciò che i fabbricanti di immagini cercano di captare per trasmetterlo e ciò che gli spettatori accettano senza stupore»,32 significa che nei casi qui studiati, ovvero in film dove le esperienze dello stupore per l’alterità sono un tratto imprescindibile, il visibile deve «istituzionalizzare» la diversità, deve cioè elaborare un mondo plausibile in quanto diverso, familiare perché totalmente «altro» rispetto all’esperienza comune dello spettatore. Si comprende bene quale sia la dinamica conflittuale in opera, quella che mette di fronte – tanto per riproporre l’immagine di de Certeau/Altman – comunità stanziali da una parte e bracconieri nomadi dall’altra. Affinché resti tale la sensazione di stupore e spaesamento che i gruppi di utenti richiedono e (letteralmente) consumano di film esotico in film esotico, è necessario che il visibile orientalista non metta mai radici, non sia il frutto stantio di rappresentazioni ripetute in modo eguale, ma che sia a propria volta spaesato e minacciato, territorio aperto alle incursioni di altre comunità di nomadi che invadono e modificano l’esistente. 31 32

R. Altman, op. cit., p. 321. P. Sorlin, op. cit., p. 68.

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C’è di più. In questa dinamica conflittuale emergono gli elementi autoritari dei due soggetti della competizione: colui che realizza e allestisce la rappresentazione e colui che la fruisce, la consuma, la rielabora. Un terzo contributo teorico, quello di Roger Odin, ci dice che nel luogo di confluenza tra queste due autorità può anche ingenerarsi una profonda incomprensione. Nel recinto piuttosto ampio delle teorie da egli definite semio-pragmatiche, lo studioso francese afferma che è necessario considerare il bacino di significati di un film come il risultato delle pratiche di relazione, non per forza dirette o subordinate, tra un emittente e un ricettore, due figure/funzioni che si muovono secondo procedure e strategie ermeneutiche indipendenti, anche se scelte tra quelle a loro disposizione nello spazio sociale che vivono e di cui, beninteso, sono anch’essi il prodotto. «Non c’è vera comunicazione tra l’autore e lo spettatore», sostiene Odin, perché non esiste un processo univoco di «trasmissione di un testo da un emittente a un ricevente, ma [c’è] un doppio processo di produzione testuale: l’uno nello spazio della produzione e l’altro nello spazio della lettura».33 Collocati in alvei discorsivi separati, ricettore e enunciatore possono soltanto cercare di capirsi, di comprendersi, ma alla lontana: A prima vista il lettore può far funzionare qualsiasi modo rispetto a qualsiasi tipo di produzione; in realtà la costruzione testuale è sempre sottomessa a regole che limitano più o meno questa possibilità. Oltre le regole interne al testo (meno importanti di quanto si ritenga in genere), il lettore è il punto di passaggio di un fascio di determinazioni che regge, in gran misura, il modo in cui esso produce senso e affetti: determinazioni linguistiche, culturali, psicologiche, istituzionali, ecc. Queste determinazioni giocano un ruolo comunicazionale essenziale: più le determinazioni che influenzano lo spazio della ricezione si avvicinano alle determinazioni che influenzano lo spazio della produzione e più vi è possibilità che le costruzioni testuali messe in opera dall’attante-lettore si avvicinino a quelle effettuate dall’attante-regista, e che, dunque, i due attanti si comprendano; all’opposto, più queste determinazioni sono differenti e più i testi prodotti in ciascuno dei due spazi differiranno.34 33 34

R. Odin, Della finzione, Vita e Pensiero, Milano 2004, p. XXVIII. R. Odin, op. cit., p. XXIX. Sulla semio-pragmatica di Odin (più recentemente evoluta in una teoria degli spazi di comunicazione) si veda anche Id., Pour

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Problematizzare la relazione tra autore e fruitore delle immagini, come cerca di fare Odin, ha una sua utilità. Se, infatti, la rappresentazione orientalista o esotica, per essere tale, deve «istituzionalizzare lo stupore» ovvero rendere l’alterità familiarmente altra (Sorlin) e se in tale complessa dinamica negoziale, agisce comunque un fenomeno di lento e continuo confliggere tra configurazioni conservative dell’esistente culturale e altre trasformative (Altman), è altresì vero che l’orizzonte ricettivo può creare improvvise asincronie o disequilibri che tendono a rendere meno piano, levigato e progressivo il processo di negoziazione e di trasformazione descritto, specie se occorrono dei significativi cambi di paradigma nelle determinazioni di chi produce o fruisce una produzione testuale. Parafrasando altrimenti, se il concetto di visibile e se la logica di genere restituiscono un’idea di progressiva taratura (récadrage) tra costrutti e fenomeni, di contro la semio-pragmatica apre le porte a una dinamica significante irregolare, scomposta, disseminata e disequilibrata. Lo fa separando enunciatore e ricettore, ovvero facendoli dipendere da campi discorsivi autonomi, lo fa andando a cercare i significati della pratica cinematografico-cognitiva anche in quel campo discorsivo che Odin chiama il fuori-film, là dove abitano i protagonisti della comunicazione, dove agiscono i contesti, la socialità dei luoghi e delle relazioni tra attanti, lo fa accettando che l’istituzione, l’autorità, il sapere/potere (imperialista) possa dispiegarsi nel tempo e nello spazio dei significati e dei significanti non solo privo di una intenzionalità demiurgica di partenza, ma anche di un’uniformità, un’omogeneità, un comportamento disciplinato e disciplinante di arrivo. Visibile, genere e fuori-film sono categorie concettuali che acquisiranno, in un momento di intensa conflittualità sociale come quello degli anni Sessanta (e dintorni), una loro ulteriore produttività. Declinati in quest’ambito di studio essi si accordano, infatti e in modo straordinario, alle gibbosità e alle contraddizioni di cui ho une sémio-pragmatique du cinéma, in «Iris», n. 1, 1983, pp. 67-81; Id., La sémio-pragmatique du cinéma sans crise ni désillusion, in «Hors Cadre», n. 7, 1989, pp. 77-92; Id. Cinéma et téléphone portable. Approche sémiopragmatique, in L. Creton, L. Jullier, R. Moine (a cura di), Le cinéma en situation. Expériences et usages du film, Presse de la Sorbonne Nouvelle, Paris 2012, p.79-88.

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iniziato a dare conto in queste pagine. Come già anticipato, molti cineasti che si ritrovano a filmare in viaggio vivono l’esperienza odeporica senza avere sufficienti chiavi di lettura per interpretare e capire il mondo che li circonda. Nell’esatto istante in cui si sgonfiano le attese e si producono equivoci, si entra in contatto con un visibile che si predispone come forma narrativa di compromesso tra categorie valoriali progressiste e paradigmi culturali tradizionali. La difficoltà di conciliare queste esperienze con le attese del pubblico europeo di riferimento assesterà al visibile un’ulteriore tensione alla trasformazione (lenta o rapida che sia, dipende dai casi), anche se non per forza in direzione di una rigenerazione delle forme o degli sguardi. Da questo punto di vista, il ricorso alle pratiche del genere diventa, come vedremo, fondamentale. L’avvicinarsi – spesso inconsapevole – ad ambiti di rappresentazione del viaggio già esperiti in altri sistemi espressivi (su tutti la letteratura odeporica e la pittura delle avanguardie) conduce il regista-viaggiatore dentro alvei protetti, nel quale è possibile adottare precise strategie significanti (l’adozione di certi registri narrativi, l’uso della voce di commento, certi refrain morfologici come il primo piano, lo zoom o il camera-car), nella convinzione che siano forme di espressione che acuiscono la soggettività, quando si pongono, al contrario, dentro flussi discorsivi comuni. L’attenzione nei confronti del fuori-film servirà invece per evidenziare quanta e quale forza negoziale hanno i soggetti contro i quali s’infrangono le (dis) avventure odeporiche qui studiate. In questi casi, l’autorità (a valle) degli spettatori, soprattutto di quelli per i quali i film non sono pensati, ovvero per le popolazioni native, si giocherà non tanto all’interno dei film, quanto al suo esterno, in un alveo di socialità pragmatica che coinvolge fatti di cronaca, situazioni storiche, reazioni critiche, piccoli e grandi eventi, sollecitazioni empiriche. Come vedremo soprattutto nei capitoli dedicati alle vicende di Antonioni, Pasolini e Rossellini, anche un partito politico, un questuante o un tigrotto affamato, una relazione extraconiugale possono incidere sulla storia ricettiva e sui significati complessivi di una pellicola. Aggiungo, per consentire una migliore transizione alle sezioni successive del libro, che così intesi visibile, genere e fuori-film costringono da una parte a problematizzare la figura dell’autore cinematografico (e di quello in viaggio in particolare) su cui gran

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parte di questi discorsi verteranno, e dall’altra di riconsiderare gli approcci orientalisti alla rappresentazione interculturale. Nel primo caso, si può già anticipare che tanto nell’idea sorliniana di visibile come forma di configurazione iconica socialmente diffusa, quanto nell’ipotesi altmaniana di genere come conflitto tra istanze di comunità, quanto infine nel fuori-film odiniano come luogo di diffusione caotica del senso, lo spazio di espressione «autentica» e «soggettiva» del regista/autore si riduce sensibilmente e il suo bisogno di affermarsi come «nome proprio» si concilia faticosamente con il territorio culturale che intende presidiare. Nel secondo caso, basti anticipare che l’affermazione di una riconoscibilità d’autore troverà i suoi esiti più fertili proprio nella complessa articolazione di una (in)coscienza post-coloniale, l’aspetto che per certi versi rende uniche e inimitabili queste esperienze di viaggio specie se paragonate con la letteratura modernista del passato o con altre forme di raffigurazione dell’alterità, come quelle di approccio etnografico.

2. IL NOME D’AUTORE I

2.1. Virtualità e prosopopea1 Se nel corso degli anni Cinquanta il concetto di «Autore»2 tocca il momento di suo massimo fulgore e consenso, grazie agli scritti dei critici dei Cahiers du cinéma e a quella che essi per primi chiamano la politique des auteurs3, già a partire dalla metà degli anni Sessanta diverse voci si sollevano, recuperando e adattando 1

2

3

Si segnala che parte del paragrafo è una riscrittura ampliata e rivista di una mia pubblicazione precedente. Per confronti e verifiche si rimanda a M. Dalla Gassa, Sguardi di prossimità confinata. Il raggio d’azione dell’autore nello spazio della casa taiwanese in J. Lingelser, N. Lodato (a cura di), L’immaginario della casa nel cinema. Tra costruzione scenica e composizione scenografica, Como-Pavia, Ibis 2011, p. 57-64. Per un’antologia di scritti teorici sull’autore cinematografico (e non solo) si veda a J. Caughie (a cura di), Theories of Authorship, Routledge, London 2013 (edizione ampliata). Per una disamina articolata sulla trasformazione delle percezioni che investono il regista e le sue funzioni si rimanda a L. Albano, Il secolo della regia. La figura e il ruolo del regista nel cinema, Marsilio, Venezia 1999. Per una riconsiderazione complessiva del ruolo dell’autore segnalo un’ampia discussione svoltasi alla fine degli anni Novanta, in particolar modo nella trattatistica italiana a partire da due volumi monografici della rivista «Fotogenia». Cfr. A. Boschi, G. Manzoli (a cura di), Oltre l’autore I, «Fotogenia», n. 2, 1995; Id. Oltre l’autore II, «Fotogenia», n. 3, 1996; A. Franceschetti, L. Quaresima (a cura di), Prima dell’autore. Spettacolo cinematografico, testo, autorialità dalle origini agli anni Trenta, Forum, Udine 1997; L. Gandini, La regia cinematografica. Storia e profili critici, Carocci, Roma 1998. Buon ultimo nella letteratura italiana (per ora): G. Pescatore, L’ombra dell’autore. Teoria e storia dell’autore cinematografico, Carocci, Roma 2006. Sul ruolo avuto dai critici dei Cahiers du cinéma nell’imporre il concetto di autore nei discorsi pubblici si rimanda a: A. de Baecque, Les Cahiers du cinéma. Histoire d’une revue, Ed. Cahiers du cinéma, Paris 1991 (2 volumi); G. De Vincenti, Il cinema e i film. I “Cahiers du cinéma”1951-1959, Marsilio, Venezia 1980; J.-P. Esquenazi, Politique des auteurs et théorie du cinéma, L’Harmattan, Paris 2002.

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al cinema le teorie letterarie emerse da almeno un decennio, per manifestare le impasse logiche che tale concetto rischia di far determinare nel panorama speculativo dei film studies. Un ridimensionamento repentino che si determina in virtù dell’applicazione di una serie di approcci metodologici che assegnano, di volta in volta, la responsabilità del senso non a un soggetto antropomorfo, ma ad altre istanze enunciative, spesso di natura virtuale. L’applicazione della narratologia alla Settima arte, per esempio, provoca l’invasione di un «manipolo» di figure astratte (l’enunciatore, il foyer, il destinatore, il narrator, ecc.) che si traduce nella de-materializzazione dell’autore, erigendo filtri tra emittente, testo e ricettore e rendendo il testo filmico un gioco comunicativo asettico.4 In ambito letterario, il post-strutturalismo, più o meno nello stesso periodo, sancisce la «morte dell’autore» (secondo la celebre definizione di Roland Barthes5), sostituita dall’idea di autosufficienza della scrittura («La scrittura è la distruzione di ogni voce, di ogni punto di origine» ricordava il semiologo francese6), la quale un decostruzionista come Derrida7 ritiene essere addirittura il luogo dell’anonimia e della cancellazione delle tracce del sé. L’obiettivo del filosofo di origini algerine è di rigettare il modello della forma immobile, del «vero senso di un testo» e di negare quella convinzione secondo cui l’autore sia una sorta di ente «ultimo», un’origine, per sostituirla con il concetto di traccia scrittoria intesa come articolazione di un’altra traccia all’interno della quale l’origine del gesto creativo si sottrae e sparisce. Non vi è dunque presenza di un soggetto autoriale «bensì il simulacro di una presenza che si dislo-

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Una sintesi di alcuni importanti interventi di narratologia cinematografica si trova in: L. Cuccu, A. Sainati (a cura di), Il discorso del film. Visione, narrazione, enunciazione, ESI, Napoli 1988. I riferimenti fondamentali a tal proposito restano gli scritti di Gérard Genette. Tra i suoi lavori, invero tutti importanti, si vedano almeno: G. Genette, Figures III, Einaudi, Torino 1976; Id., Nuovo discorso del racconto, Einaudi, Torino 1987. Per il concetto di foyer si rimanda a C. Metz, L’enunciazione impersonale o il luogo del film, ESI, Napoli 1995, per quello di narrator a A. Gaudreault, Dal letterario al filmico. Sistema del racconto, Lindau, Torino 2007. R. Barthes, La morte dell’autore, in Id. Il brusio della lingua. Saggi critici, Einaudi, Torino 1988, pp. 51-56. Ivi, p. 51. J. Derrida, Della grammatologia, Jaca Book, Milano 1967.

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ca, si sposta, si rinvia, non ha propriamente luogo»;8 non vi è ricomposizione di valori e di concetti universali attorno a una figura catalizzatrice di sguardi e paradigmi, ma spazio aperto alla produttività degli scarti, delle differenze, dei rimossi, dei mascheramenti. Ovviamente tali posizioni – rinforzate direttamente o indirettamente, da altri studiosi che consideravano l’intenzionalità una categoria o irrilevante (William K. Wimsatt, Monroe Beardsley)9 od occlusiva (Michel Foucault, ci torniamo)10 e da quegli studiosi di storia dell’arte che preferivano soffermarsi sulla «vita delle forme», (quasi) indipendentemente da chi si faceva carico materialmente di configurarle (Aby Warburg, Henri Focillon, Étienne Souriau, Erwin Panofsky, ecc.)11 – trovano risonanza anche negli studi cinematografici in modo particolare nei lavori di Marie-Claire Ropars-Wuillemier, Peter Brunette e David Wills, Paolo Bertetto, Philippe-Alain Michaud12. La dimensione del latente, del rimosso e dello scarto mi consente di ricordare che anche l’approccio psicanalitico al cinema, attivo soprattutto dalla fine degli anni Sessanta 8

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J. Derrida, Margini della filosofia, Einaudi, Torino 1977, p. 53. Sui temi della differenza e dell’alterità nel pensiero derridiano si veda anche Id., La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971 (in particolare i saggi su Lévinas e Artaud). W. K. Wimsatt, M. Beardsley, The Intentional Fallacy, in Id., Verbal Icon. Studies in the Meaning of Poetry, University of Kentucky Press, Lexington 1954, pp. 3-18. Sul filosofo francese e sulla sua ponderazione attorno al concetto d’autore si è scritto molto, così come sono diversi i contributi a tal proposito dati alle stampe da Foucault nella sua lunga carriera. Tra i suoi testi cito almeno: M. Foucault, Che cos’è un autore?, in Id., Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 1971, pp. 1-21; M. Foucault, L’archeologia del sapere, cit. Tra gli studi che ne commentano le posizioni critiche segnalo invece: C. Benedetti, L’ombra lunga dell’autore: indagine su una figura cancellata, Feltrinelli, Roma 1999; N. Jacques-Lefèvre, F. Regard (a cura di), Une histoire de la “fonctionauteur” est-elle possible?, Université de Saint-Etienne, Saint-Etienne 2001 (atti di convegno); A. Compagnon, De l’autorité, Odile Jacob, Paris 2008. H. Focillon, Vita delle forme, Einaudi, Torino 1945; Aby Warburg, La rinascita del paganesimo antico. Contributi alla storia della cultura, La Nuova Italia, Firenze 1966; E. Panofsky, La prospettiva come “forma simbolica”, Feltrinelli, Milano 1966; É. Souriau, La corrispondenza delle arti. Elementi di estetica comparata, Alinea, Firenze 1988. M.C. Ropars-Wuilleumier, Le texte divisé, PUF, Paris 1981; P. Brunette, D. Willis (a cura di), Screen/Play. Derrida and Film Theory, Princeton University Press, Princeton 1989; P. A. Michaud, Aby Warburg et l’image en mouvement, Macula, Paris 1998.

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in poi, riduce lo spazio di movimento dell’autore (inteso nella sua accezione romantica) poiché individua l’orizzonte di senso di un film o nell’attività cognitiva dell’inconscio oppure nei meccanismi di funzionamento del dispositivo di base. In altre parole, anche coloro che s’interessano al rapporto tra i processi psichici e le pratiche modellizzanti del cinema (oltre a Christian Metz e Raymond Bellour, ricordo almeno Jean-Pierre Oudart, Jean-Louis Baudry e Stephen Heath13) mettono in secondo piano l’interesse per la volontà di un soggetto-creatore sostituendolo con uno di pari grado rivolto o all’istituzione cinematografica (con la sua ideologia, i suoi meccanismi, le sue funzioni sociali) o alla costruzione della soggettività spettatoriale, fondata su operazioni di interrelazione con le immagini (come ad esempio l’identificazione, il transfert, la condensazione, la simbolizzazione, il voyeurismo, il feticismo) che agiscono più o meno tutte a livello di latenza.14 In stagioni teoriche a noi più vicine, ad approcci che mirano all’autosufficienza del testo se ne sostituiscono altri, come quello intertestuale, che parlano di reti di interconnessioni, scambi, prestiti e contaminazioni che i singoli artefatti attivano con altri artefatti, altri sistemi espressivi, altre forme comunicative (si vedano a tal proposito almeno i lavori di Julia Kristeva, Roland Barthes, Michael Riffaterre e ovviamente Gérard Genette).15 Anche in que13

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C. Metz, Cinema e psicanalisi, cit.; R. Bellour, L’analisi del film, Kaplan, Torino 2005; J.P. Oudart, La suture in «Cahiers du cinéma», n. 211, 1969, pp. 36-39; Id., La suture 2 in «Cahiers du cinéma», n. 212, 1969, pp. 5055; Psychanalyse et cinéma, n. speciale della rivista «Communications», n. 23, Seuil, Paris 1975; J. L. Baudry, Proust, Freud et l’autre, Les Editions de Minuit, Paris 1984; S. Heath, Questions of Cinema, Indiana University Press, Bloomington 1981. Per una ricognizione sulle teorie e gli approcci psicanalitici applicati al cinema si veda: F. Casetti, Teorie del cinema, cit., pp. 171-192; L. Albano, V. Pravadelli (a cura di), Cinema e psicoanalisi. Tra cinema classico e nuove tecnologie, Quodlibet, Macerata 2006; L. Albano, Lo schermo dei sogni. Chiavi psicoanalitiche del cinema, Marsilio, Venezia 2004. J. Kristeva, Semeiotiké. Ricerce per una semanalisi, Feltrinelli, Milano 1978; Id., Desire in Language. A Semiotic Approach to Literature and Art, Columbia University Press, New York 1980; R. Barthes, S/Z, Einaudi, Torino 1973; Id., L’avventura semiologica, Einaudi, Torino 1991; M. Riffaterre, Semiotica della poesia, il Mulino, Bologna 1983; Id., La produzione del testo, il Mulino, Bologna 1989. Su Genette, oltre ai riferimenti presenti in una precedente nota, si rinvia almeno a G. Genette, Palinsesti. La

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sto caso, nell’ambito di una semiotica che si fa semiotica culturale e che si costituisce nella circolazione dei discorsi, nella loro relazione osmotica, nella capacità di continua riattivazione del senso dei paesaggi inter/transtestuali, non sembra esserci spazio per un (solo) soggetto creatore. Non può sorprendere se poi, con l’avvento del digitale – e arriviamo quasi ai giorni nostri – si passa dall’intertestualità16 all’intermedialità, alla cross-medialità, alla convergenza o all’ipermedialità, paesaggi teorico/pratici che tentano di collocare il cinema nel più ampio sistema dei media, studiando le modalità di trasformazione dell’esperienza filmica, delle condizioni della visione e delle nuove identità spettatoriali migranti e fluide, chiudendo ulteriormente le porte a una autorialità intesa come spiccata intenzionalità estetica di un singolo individuo.17 È pur vero che se si osservano i campi discorsivi sul cinema (magari quelli non frequentati da accademici) si scopre che il costrutto autoriale, nonostante tutti gli sforzi per esiliarlo o decostruirlo, continua a influenzare il fronte delle ermeneutiche, i piani della valutazione critica (da quella delle riviste per cinéphile ai giornali di larga diffusione), le logiche della costruzione di apparati paratestuali (i lanci promozionali, i trailer, le cartelle stampa, il making of) o epitestuali (gli apparati esteriori al film, quelli di commento, di rilettura, ecc..). Forse è proprio per cercare di motivare l’uso pratico del concetto che David Bordwell ha cercato di rivalutare in qualche modo l’opzione autoriale, anche in ambito teorico.18 Egli ha notato,

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letteratura al secondo grado, Einaudi, Torino 1997; Id., Soglie. I dintorni del testo, Einaudi, Torino 1989. Altri testi della letteratura sul cinema in lingua italiana sono: F. Casetti, L’immagine al plurale, Marsilio, Venezia 1984; G. Carluccio, F. Villa (a cura di), L’intertestualità. Lezioni, lemmi, frammenti di analisi, Kaplan, Torino 2006; M. P. Comand, L’immagine dialogica. Intertestualità e interdiscorsivismo nel cinema, Hybris, Bologna 2001. Anche in questo caso la letteratura sull’argomento è vasta. Punti fondamentali per un approfondimento sono: H. Jenkins, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007; G. P. Landow, Ipertesto. Il futuro della scrittura. La convergenza fra teoria letteraria e tecnologia informatica, Baskerville, Bologna 1993; J. D. Bolter, R. A. Grusin, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Angelo Guerini e Associati, Milano 2003; F. Casetti, La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene, Bompiani, Milano 2015. D. Bordwell, Making Meaning. Inference and Rhetoric in the Interpretation of Cinema, Harvard University Press, Cambridge-London 1989.

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ad esempio, che la narratologia e altri campi speculativi si sono spesso affidati a schemi personificanti (person-based schemata) o alla figura retorica della prosopopea per rendersi comprensibili a un ampio uditorio. Non è un caso se termini come focalizzazione, enunciatore, autore implicito, regime scopico, il Grand Imagier,19 ecc., rimandano a una presenza, a uno sguardo, a una coscienza, a una personificazione come se fosse necessaria l’assegnazione di tratti antropomorfi agli oggetti culturali che osserviamo. Si aggiunga che sembra sussistere un’unità minima d’intenzionalità autoriale20 anche in quegli studi che cercano di descrivere l’atto creativo come il risultato di un percorso di socialità del senso, ovvero di una pratica negoziale tra diverse istanze astratte (si pensi al già citato «visibile» di Sorlin o all’«occhio del Novecento» di Casetti):21 nell’entrare in conflitto, in frizione e poi a patti tra loro, le forze che partecipano alla costruzione dei significati si riconoscono inevitabilmente come soggetti che «vedono» e che interloquiscono, soggetti dotati dunque non solo di bisogni o di desideri, ma anche di ben precise strategie di posizionamento nell’agone relazionale, tali da consentire loro uno spazio seppur minimo di movimento. 2.2. Durate, statuti e distrazioni All’interno di un dibattito sugli auteurism studies che, con diversi gradi di intensità, ha continuato negli anni a impegnare una buona fetta di studiosi di cinema (e non solo),22 intendo 19 20

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Espressione coniata da Albert Laffay in Id., Logique du cinéma, Création et spectacle, Masson, Paris 1964. Lo stesso Antoine Compagnon, che si è a lungo occupato della questione, ha dimostrato come sia difficile, persino per un anti-autore per eccellenza come Roland Barthes, negare nel momento dell’analisi di un testo un’unità minima di intenzionalità. Cfr. A. Compagnon, Il demone della teoria. Letteratura e senso comune, Einaudi, Torino 2000. P. Sorlin, op. cit.; F. Casetti, L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, Bompiani, Milano 2005. Tra i contributi più recenti sono da segnalare sicuramente: B. K. Grant, Auteurs and authorship. A Film Reader, Blackwell Publishing, Malden 2008; S. Bernas, L’auteur au cinéma, L’Harmattan, Paris 2002; D. Vezyroglou, C. Gauthier, L’auteur de cinéma. Histoire, généalogie, archéologie, AFRHC, Paris 2013; M. Serceau, Y a-t-il un cinéma d’auteur?, Presses universitaires

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isolare due posizioni emerse proprio negli anni del modernismo cinematografico che ci consentono, pur da posizioni diverse e da contesti disciplinari differenti, di superare questa impasse collocando l’autore in una dimensione essenzialmente pragmatica, negandogli un profilo di idealismo romantico o di acuta percezione autoriflessiva e assegnandogliene di contro uno prettamente strumentale. Il primo contributo da recuperare è quello di Peter Wollen. Nel suo Sign and Meaning in the Cinema (1967), Wollen imposta il problema della presenza dell’autore, «assegnandogli» il compito di unificare e rendere omogenei l’insieme di stimoli centrifughi o almeno differenziati che provengono dal contesto interno (industria, maestranze, codici linguistici, pattern di genere…) o esterno (ambiente, situazione sociale, modalità distributive…) nel quale si trova a operare.23 Si tratta, in fondo, dell’idea di autore come agente catalitico, già presente in nuce nella teoria dell’eteroglossia proposta da Michail Bachtin,24 secondo cui esiste un responsabile del testo che incanala e depura le sollecitazioni da cui è investito e che cerca di costruirsi empiricamente come principio che unifica in un solo campo discorsivo i soggetti che incontra o con cui si relaziona. In questo modo, come parafrasa bene Guglielmo Pescatore, si postula una relazione ermeneutica in cui l’autore è una sorta di “deposito” di tipo cognitivo, ma anche un deposito di competenze,

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du Septentrion, Villeneuve-d’Ascq 2014. Si vedano anche, a proposito dell’applicazione del concetto di autore al cinema contemporaneo, R. Maule, Beyond Auteurism: New Directions in Authorial Film Practices in France, Italy and Spain Since the 1980s, Intellect Books, Bristol 2008; A. Beltrame, L. Fales, G. Fidotta (a cura di), Whose right? Media, Intellectual, Property and Authorship in the Digital Era, Forum, Udine 2014. P. Wollen, Signs and Meaning in the Cinema, Secker & Warburg, London 1967. Una rivisitazione di questa posizione si può trovare in K. Silverman, The Author as Receiver, in «October», n. 96, 2001, pp. 17-34, testo nel quale viene affrontato il caso emblematico di Godard – a partire dal suo film autobiografico JLG/JLG – Autoportrait de décembre (1994) – per rivisitare le strategie di autorialità del cineasta francese ripercorrendo le sue affermazioni sulla presunta inconsistenza stessa della politique des auteurs e teorizzando la sua presenza come una sorta di «antenna» che capta immagini, sensazioni, brandelli di racconti altrui e li riutilizza per la propria auto-rappresentazione. Si vedano a tal proposito i riferimenti presenti nel precedente capitolo.

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di saper fare. Si dà una totalità che parzialmente si incarna nei vari testi, per cui si rende possibile fare un’operazione a posteriori, partendo cioè dai vari testi e ricostruendo questo contenitore di manifestazioni che è l’autore.25

Consapevolmente o meno, la posizione di Wollen finisce per favorire un interessante aspetto del costrutto autoriale, raramente considerato negli studi coevi, ovvero (bergsonianamente parlando) quello della «durata» della condizione d’autore, ovvero di quel tempo necessario affinché un universo parcellizzato e centrifugo trovi coerenze e forze gravitazionali attorno al nome di un autore. Il quale resta a tutti gli effetti figura in carne ed ossa (il metteur en scène), necessaria per consentire l’innescarsi di certe scansioni di coerenza delle interpretazioni, ma che acquista progressivamente (così come può perdere) una sorta di essenza «virtuale» – che lo studioso, seguendo l’esempio di Lévi-Strauss, riconduce all’alveo del mito26 – nel momento in cui entrano in gioco gli atti cognitivi delle figure che lo affiancano, dai produttori che gli assegnano forza contrattuale, agli attori che gli riconoscono una sorta di primato intellettuale, dagli spettatori che lo cercano sulle locandine 25 26

G. Pescatore, op. cit., p. 81. «I miti, come ha fatto notare Lévi-Strauss, esistono indipendentemente dallo stile, dalla sintassi di una frase, dal suono musicale, dall’eufonia o dalla cacofonia. Il mito “agisce a un livello elevatissimo, e in cui il senso riesce, per così dire, a decollare dal fondamento linguistico da cui ha preso l’avvio”. Mutatis mutandis, lo stesso vale per il film d’autore. “Quando uno schema mitico passa da una popolazione a un’altra, le cui differenze di lingua, di organizzazione sociale o di genere di vita lo rendono difficilmente comunicabile, il mito comincia a impoverirsi e a ingarbugliarsi”. Lo stesso tipo d’impoverimento e confusione avviene in ambito cinematografico dove abbondano difficoltà di comunicazione. Ciononostante di solito si riesce a dar forma a un film, fosse anche in modo veloce, in due settimane, senza gli attori o la troupe che avrebbe preferito il regista, con un produttore invadente e forse, persino, con un censore che ha tagliato sequenze decisive. È come se un film fosse una composizione musicale piuttosto che un’esecuzione musicale, ma con la differenza che una composizione musicale esiste a priori (come spartito), un film d’autore invece si costruisce a posteriori». P. Wollen, op. cit., p. 105. (trad. mia, a esclusione delle citazioni di Lévi-Strauss recuperate dalle edizioni italiane degli scritti dell’antropologo francese. Cfr. C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano 2009, p. 236; Id, Razza e storia e altri studi di antropologia, Einaudi, Torino 1967, p. 144).

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dei film ai critici che si occupano di decodificarne le intenzioni. L’autore insomma ha una durata e, anche se sembra brutto rilevarlo, una scadenza: c’è bisogno di tempo perché lo diventi e occorre attendere un certo passaggio di tempo perché perda tale attributo. Nel mezzo, il costrutto non trova una sua sostanzialità cristallizzata, ma cambia lentamente carattere e paesaggi di pertinenza. Il concetto di autore in altre parole è continuamente in viaggio. Se Wollen avanza le proprie convinzioni da una prospettiva ancora strutturalista, Michel Foucault, due anni dopo, propone uno sguardo meno essenzialista e finalistico, ma che rimarca, egualmente e in modi ancor più convincenti, la funzionalità pragmatica del «simulacro» teorico di cui ci occupiamo. Nel corso di una celebre conferenza tenuta davanti alla Société Française de Philosophie il filosofo francese si pone l’obiettivo di rispondere alla domanda «Che cos’è un autore?», concentrandosi sulla sua funzione discorsiva e sociale: L’autore considerato, naturalmente, non come l’individuo parlante che ha pronunciato o scritto un testo, ma l’autore come principio di raggruppamento dei discorsi, come unità e origine dei loro significati, come fulcro della loro coerenza […] funziona per caratterizzare un certo modo di essere del discorso: il fatto, per un discorso, di avere un nome di autore, il fatto che si possa dire “questo è stato scritto da un Tale” o “un Tale ne è l’autore”, indica che questo discorso non è una parola quotidiana, indifferente, una parola che se ne va, che vola e passa, una parola immediatamente consumabile, ma che si tratta di una parola che deve essere ricevuta in un certo modo e che, in una data cultura, deve ricevere un certo statuto.27

Dal breve passaggio qui citato possiamo desumere (almeno) due «funzioni d’autore», valide per tutti i sistemi espressivi e i regimi estetici e su cui intendo sostanziare l’approccio teorico di questo studio: una funzione «allertiva» e una «statutaria». Quanto alla prima, potremmo declinarla in questo modo: per Foucault è attraverso il «nome dell’autore» che il discorso lancia segnali di allerta al proprio destinatario, lo mette in guardia, chiedendogli di abbandonare ogni altra occupazione per concentrare la propria attenzione sull’opera da fruire. Consapevole del fatto che 27

M. Foucault, Che cos’è un autore?, cit., p. 8.

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l’interesse verso un artefatto scemerebbe fatalmente se il fruitore scambiasse l’oggetto che osserva per una banale manifestazione della quotidianità, il discorso chiede soccorso al costrutto per evitare distrazioni, noncuranze e trascuratezze del proprio interlocutore. L’autore, in virtù della lusinga relazionale che sa mettere in campo, allo charme che sa esercitare sul destinatario dell’opera, tenta di gerarchizzarne e modularne la ricezione scandendo i processi di relazione tra testo, contesto, destinatario. Se è vero quanto asserisce Foucault, logica vorrebbe che l’intensificazione di consapevolezza che si afferma tramite l’idea di autore non coinvolgesse chi ha creato un determinato artefatto, ma chi lo consuma, poiché è quest’ultimo che deve mettersi nella disposizione d’animo corretta per innescare un’ermeneutica, per affrontare un’interpretazione. L’allerta, in altre parole, consente una presa di coscienza del sé da parte del recettore. La seconda funzione del costrutto autoriale si addensa in altro modo: la parola o l’immagine che compongono un particolare discorso sembrerebbero affidarsi alla presenza virtuale dell’autore per acquisire uno status autonomo. Il nome è dunque il contrassegno attraverso il quale l’opera può godere di una propria riconoscibilità, di un regolamento applicativo, di uno statuto esistenziale (nel senso che esiste). Tale determinazione non è priva di conseguenze poiché trattare l’autore come una sorta di certificato di garanzia significa destituirlo, paradossalmente, dalla responsabilità creativa ed estrometterlo dal bacino delle intenzionalità. Il passaggio è importante e merita di essere illustrato meglio. Se l’autore non è chi firma un artefatto, ma è la firma stessa dell’artefatto, non è chi timbra un prodotto ma è il timbro sul prodotto, vuol dire che esiste, in uno spazio indefinito e inafferrabile, irriducibilmente «altro», una mano che si predispone all’autografo o che prepara la timbratura e, in uno spazio terzo, un’altra mano che si prepara – se avvisata per tempo – alla decifratura e al riconoscimento. Rinunciando a mia volta alla prosopopea, potrei articolare quanto appena detto in questo modo: l’autore è una strategia messa in atto da un campo discorsivo per comunicare rapidamente, efficacemente, emblematicamente, un determinato fascio di significati a un lettore/spettatore che continua a essere il responsabile ultimo dell’efficacia complessiva del processo. Se però, come accade

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spesso in Foucault, gli artefatti che comunicano e infondono senso sono elaborazioni di un sistema sociale pervasivo, sfuggente e autoritario e se, in tale dinamica, il lettore/spettatore non è un soggetto scientemente attivo della comunicazione bensì un potenziale oggetto da «sorvegliare e punire», una specie di bersaglio mobile da colpire per opera dell’istituzione che gestisce il sapere e il potere, ne consegue che il costrutto d’autore ivi utilizzato servirà, una volta ancora in modo strumentale, come agente contundente di una trama dominante e profonda che si nasconde dietro e sotto di esso.28 In altre parole, l’autore si fa strumento distraente: mentre chiede al lettore/spettatore attenzione su di sé e sulle immagini che «timbra», lo svia dal sistema intellettivo che agisce alle sue spalle in un orizzonte di pervasività di difficile determinazione.29 La fase modernista della storia del cinema, da questo punto di vista, è molto interessante perché, lungi dal mitizzare semplicemente un concetto e i suoi protagonisti, li rende problematici sul fronte delle pratiche autoritarie e del loro possibile disvelamento. Pensiamo in modo particolare alla cosiddetta politique des auteurs, quella battaglia culturale combattuta dai critici dei Cahiers du cinéma contro il vecchio cinéma de papa e che avrà come obiettivo, tra gli altri, di imporre lo statuto di autore a cineasti allora relativamente poco considerati come Rossellini, Renoir, Lang, Hitchcock, Ford, Hawks. Secondo la prospettiva qui abbracciata, non è irragionevole sostenere che l’uso del costrutto autoriale da parte di Bazin e, soprattutto, dei Giovani Turchi segua la stessa direzione funzionale indicata da Foucault, portandone alla luce, forse persino al parossismo, le dinamiche che abitano all’interno del suo percorso di reificazione. In termini ancora più espliciti, intendo affermare che la 28

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Per una più ampia e stratificata applicabilità delle idee di Foucault alla teoria cinematografica dell’autore si rimanda anche al recente: D. A. Gerstner, J. Staiger (a cura di), Authorship and Film, Routledge, London-New York 2003. Una raccolta di testi di Foucault direttamente o indirettamente riguardanti il cinema (con relativa esegesi) si trova in P. Maniglier, D. Zabunyan, Foucault va au cinéma, Bayard, Montrouge 2011. Non a caso Foucault apre la conferenza parigina citata ponendo al suo uditorio una domanda emblematica e retorica tratta da un lavoro di Beckett: «Cosa importa chi parla?».

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politique des auteurs pratica l’affermazione di un principio autoritario che per conquistarsi un campo discorsivo autonomo chiede soccorso a un principio costituente che passa sotto il nome di autore. In altre parole, ripercorrendo gli scritti di Truffaut, Godard, Rivette et Compagnie sarà agevole scoprire che i «veri» autori dei film – ovvero coloro che praticano un’autorità arbitraria che stabilisce gusti, tendenze, preferenze, intenzionalità – non sono i registi investiti di tale carica/funzione a monte, bensì coloro che impongono e stabiliscono le patenti di autorialità, a valle. Sono, dunque, paradossalmente, gli stessi critici – ma prima di passare dietro la macchina da presa – che partecipano all’elaborazione di una particolare koiné, per stabilire in che modo e con quali figure retoriche e attraverso quali battaglie di principio (la carrellata come «fatto di morale») è lecito costruire l’autorialità cinematografica, concedendo la licenza all’uno e togliendola all’altro. È esattamente assegnando soggettività ad altri (ad alcuni, non a tutti) che la soggettività dei critici si posiziona in una determinata sfera pubblica, ritagliandosi un perimetro di azione che avrà un’influenza culturale negli anni a venire (da qui la durata della riconoscibilità d’autore). E da potenziali bersagli mobili nell’ottica foucaultiana, i fruitori – in modo particolare i critici cinéphile – cercano di trasformarsi in referenti di un (possibile) sistema di senso autonomo, soggetti invisibili che provano a imporre una propria verità contro un certo modo di utilizzare il dispositivo e contro l’organizzazione industriale che vi è alle sue spalle. Occorre specificare, per concludere, che non lo fanno giocando in campo aperto, ma nascondendosi dietro la solidità culturale del costrutto autoriale che, anche in questo caso, viene destituito di immediata e idealistica intenzionalità e relegato a funzione pratica e pragmatica di un campo discorsivo in divenire. Lo fanno distraendo i propri lettori e le stesse istituzioni deposte alla gestione dei saperi. L’autore cinematografico è, insomma, utile alla battaglia delle idee portata avanti dai veri «autori» dei film che, in questo caso, sono proprio i critici dei Cahiers. 2.3. Un costrutto in viaggio Nel panorama così descritto, che fine fanno allora i registi che comunemente chiamiamo «autori»? Come si collocano? Che

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strategie adottano? Come li possiamo definire? Perché continuano a interessarci? Semplificando un po’, potremmo dire con Foucault che i «principi di raggruppamento dei discorsi» che conosciamo sotto il nome di Renoir, Antonioni, Godard, Bergman e così via, non appena si sentono investiti platealmente di una funzione ermeneutica e sociale così importante, tendono ad accordarvisi per acquisire altra riconoscibilità e da qui un più ampio potere di contrattazione. Lo fanno in modi per lo più plateali, forse il principale dei quali può essere considerato – come avrò modo di mostrare in più passaggi di questo volume – la loro entrata nel testo, la loro personificazione come autorialità «cosciente» (in teoria) che si espande tanto dentro quanto fuori la testualità diffusa del film. Chi scrive, infatti, è convinto che sia solo dopo aver impostato e cristallizzato un principio di coerenza – cioè dopo aver costruito e diffuso socialmente una sorta di personaggio ideal-tipico delle narrazioni rispondente al nome di autore – che una serie di strategie di rappresentazione «autorialiste» si consolidano nell’orizzonte delle pratiche cinematografiche, finendo per rafforzare la resistenza semantica della categoria in oggetto. Rispondono a tale tendenza, ad esempio, l’intensificazione delle forme di mise en abîme, la personificazione intradiegetica del regista tramite alter ego, i frequenti riferimenti autobiografici, l’uso pervasivo della voce di commento come intervento di intelligenze collocate fuori dall’universo limitato del racconto, ecc. I nomi dei registi poco per volta si fanno aggettivi (felliniano, bunueliano, godardiano), e si assiste a una canonizzazione culturale del costrutto. Non è un caso se Deleuze, nei due celebri volumi L’immaginemovimento e L’immagine-tempo (siamo a metà degli anni Ottanta), definisce la specificità speculativa della stagione modernista dalle pratiche significanti e coscienti dei singoli registi, convocati in qualità di pensatori e attori di una trasformazione radicale dei principi costituenti della narrazione filmica.30 Qui non s’intende sostenere, ovviamente, che la dimensione metariflessiva del film – quella capacità dell’opera, secondo Aumont, «di teorizzarsi da sé, [perché] più consapevole della pro30

G. Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, Ubulibri, Milano 1984; Id., L’immagine-tempo. Cinema 2, Ubulibri, Milano 1985.

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pria posizione in una storia della cultura e in grado di criticarsi per rinforzarsi»31 – sia una caratteristica assente in altre pagine della storia del cinema o che sia l’unico orizzonte di pertinenza dell’autorialità. Più semplicemente mi pare che tale assett sia un modo efficace per promuovere un ruolo che ha bisogno di conquistarsi spazi di visibilità, spicchi d’interesse pubblico, dialogismo diffuso. Non per esacerbare una coscienza autoriflessiva, ma per ragioni di efficacia ed economia il regista si fa autore «presentificandosi»:32 la messa in questione del proprio ruolo amplia i flussi discorsivi (perché mette in allerta lo spettatore) e inserisce la sua figura dentro una determinata sfera sociale, grazie a marche di riconoscibilità. Per fare, in un certo senso, massa (che) critica. Anche per questo motivo, l’autore può e deve essere considerato come un costrutto in viaggio, come soggetto esposto alle insicurezze del posizionamento, come istanza statutaria che – per essere tale – deve continuamente mettersi in gioco. E come capita in ogni esplorazione, sono il tragitto, come la durata per percorrerlo e le energie spese durante il cammino, a rappresentare quei veicoli fondamentali attraverso i quali si addensa il senso e si concentrano i discorsi. Certo, esiste un punto di arrivo, una destinazione finale, una meta che si vuole raggiungere (che sia l’India di Nehru o la Cina di Mao, il Giappone postbellico o la Siberia isolata dal mondo), ma è giocoforza l’itinerario affrontato, nei suoi rilievi e nei suoi contrattempi, nei suoi arresti forzati o nelle improvvise deviazioni, a tracciare quel terreno elettivo dove si manifesta il lavoro del costrutto autoriale come «antenna» che capta, nel senso di Wollen, Bachtin, o Silverman o come «funzione» che distrae, nel senso di Foucault. Il carattere fisico, il «corpo-proprio» del regista, per usare un’espressione «fenomenologica» di Merleauy-Ponty, è, in altri termini, il viatico per rendere credibile l’esperienza. Se c’è un itinerario, un percorso, un cammino, c’è chi deve materialmente e faticosamente percorrerlo.

31 32

J. Aumont, Moderno? Come il cinema è diventato la più singolare delle arti, Kaplan, Torino 2008, p. 48. Un taglio analitico simile a quello qui avanzato si può trovare in C. Sayad, Performing Authorship: Self-Inscription and Corporeality in the Cinema, I. B. Tauris, London 2013, studio che tuttavia non si occupa di cinema odeporico.

3. FISSITÀ E IBRIDISMO. RECITARE L’ALTRO CON SGUARDO FISSO

È pur vero che la condizione d’instabilità e il senso d’insicurezza del viaggiatore, l’esibizione di una fisicità stanca, possono essere interpretati come una sorta di contrassegno che autentica il fenomeno che si sta iniziando a studiare. Nella rinuncia a mettere in cantiere «grandi narrazioni» (i film di finzione esotici «classici»), sostituendole con «piccole narrazioni» (i film di viaggio modernisti), s’intravede il desiderio di evidenziare un profilo di disponibilità, una condizione di ascolto, il rifiuto di appoggiarsi a verità precostituite. Esplicitare la fatica della visione, la disarticolazione del racconto o l’insicurezza del punto di vista significa inoltre dimostrare allo spettatore che si intende imprimere all’insieme del proprio lavoro le stesse condizioni di marginalità, se non di subalternità, che si pensa vivano le popolazioni indigene, come se fosse possibile autenticare l’altro autenticando se stesso, ovvero rimarcando la propria onestà intellettuale, la propria disponibilità all’ascolto, l’urgenza del proprio errare, spostando sul piano narrativo e morfologico le condizioni di spaesamento di chi accetta di farsi investire dalle sollecitazioni e dagli imprevisti dell’esistente. È chiaro che nel momento in cui si parla di strategie ibride di «autenticazione» del sé o del nativo o di «subalternità» il discorso torna a collocarsi nell’ambito problematico dei postcolonial studies, seguendo la lunga scia di un dibattito che su questi temi prosegue da diverso tempo.1 Si noti, però, che nei testi di autori come Spivak, Bhabha, Aijaz, Hall, Glissant, lo stesso Said (e molti, molti altri), concetti come subalternità o ibridazione, così come altri affini quali creolizzazione, diaspora, meticciato, mai vengono assegnati ai dominanti (in questo caso i cineasti), bensì ai do1

Una convincente ricostruzione del dibattito si trova in: M. Mellino, La critica postcoloniale. Decolonizzazione, capitalismo e cosmopolitismo nei postcolonial studies, Meltemi, Roma 2005.

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minati (agli oggetti del loro sguardo). Sono termini che servono per individuare la condizione e l’identità dei soggetti senza voce (donne, minoranze, popolazioni colonizzate) o, in alternativa, di coloro che prendono parola (romanzieri, intellettuali, artisti), ma per rappresentare la propria condizione di esuli, migranti o meticci. Forse solo Bhabha, tra gli autori qui menzionati, ha sottolineato che l’ibridismo, inteso come dimensione ambigua, eterogenea e composita della rappresentazione, non è solo una strategia di rimodulazione più o meno forzata delle soggettività dominate, ma è consustanziale anche alle pratiche di affermazione dei soggetti dominanti, elemento originario e funzionale del potere da cui nascono, solo in seconda battuta, i processi di ricollocazione semantica delle identità altre. Lo studioso di origini parsi naturalmente si occupa di tali aspetti in un’ottica di discriminazione dell’autorità coloniale nei confronti di popolazioni a lungo sottomesse, ma come vedremo le ricadute semantiche del suo discorso nel nostro campo di studi non sono né casuali né irrilevanti. Egli, ad esempio, sostiene che l’autorità coloniale si autoafferma perché contempla la discriminazione come un processo di scissione (tra cultura madre e figli bastardi; tra sé e doppio) in cui il ripudiato lascia tracce ripetute di sé come «qualcosa di differente – una mutazione, un ibrido».2 L’ibridità è dunque il segno della produttività del potere coloniale, delle sue forze in trasformazione. È qui che però Bhabha compie un passo interessante nel suo ragionamento, tale da mettere in questione anche le pratiche filmiche moderniste. L’ibridità è la rivalutazione dell’assunto dell’identità coloniale, grazie alla ripetizione di effetti identitari discriminatori; essa mette in luce la necessaria deformazione e rimozione di tutti i luoghi di discriminazione e dominio. Sconvolgendo le istanze mimetiche o narcisistiche del potere coloniale, essa tuttavia ripropone il suo coinvolgimento identificandosi con strategie di sovversione che fanno volgere indietro lo sguardo del discriminato, fissandolo sull’occhio del potere. Infatti l’ibrido coloniale non è altro che lo sviluppo dello spazio ambivalente in cui il rito del potere è rappresentato nel luogo del desiderio, trasformando i propri oggetti in qualcosa che è al tempo stesso disciplinato e diffuso.3 2 3

H. Bhabha, I luoghi della cultura, cit., p. 158. Ibid (corsivo mio).

Fissità e ibridismo. Recitare l’altro con sguardo fisso

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L’ibrido coloniale, per Bhabha, è quello spazio ambivalente in cui il potere, deformando e rimuovendo le forme di discriminazione e dominio, si mostra capace di occupare tutta l’estensione significante dei discorsi, determinando, nel contempo, uno sconvolgimento delle istanze mimetiche e narcisistiche dell’autorità coloniale, le prime, per quel che pertiene l’orizzonte di questa ricerca, collegate ai concetti di documentario e di restituzione del reale, le seconde, forse più interessanti, legate all’affermazione di soggettività forti e spesso autoreferenziali come quelle degli autori (nella posizione di responsabilità sociale che essa comporta). Tale sconvolgimento, prosegue lo studioso, si estrinseca dentro uno spazio discorsivo nel quale: coloro contro cui è volta la discriminazione possono essere riconosciuti all’istante, ma hanno anche bisogno che sia riconosciuta l’immediatezza e la struttura dell’autorità – un effetto di disturbo tipico dell’esitazione ripetuta che affligge il discorso colonialista quand’esso contempla i propri soggetti discriminati: la inscrutabilità dei cinesi, i riti indicibili degli indiani, le abitudini indescrivibili degli ottentotti. Non che alla voce dell’autorità manchino le parole; piuttosto il discorso coloniale ha raggiunto il punto in cui posto di fronte all’ibridità dei suoi oggetti, la presenza del potere si rivela come qualcosa di diverso da ciò che affermano le sue regole di riconoscimento. Se l’effetto del potere coloniale è dato dalla produzione di ibridazione piuttosto che dal noioso ordine dell’autorità colonialista o dalla silenziosa repressione delle tradizioni native, allora ci troviamo dinanzi a un importante mutamento di prospettiva. […] L’ibridità è il nome di questo spostamento del valore da simbolo a segno, in virtù del quale il discorso dominante si scinde lungo l’asse del suo potere per essere dotato di rappresentatività e autorità.4

Cercando di tradurre la prosa particolarmente complessa di Bhabha, si può dire che l’esitazione ripetuta delle forme di rappresentazione della diversità che ritroveremo in Malle, Pasolini o Wenders può essere considerata come la manifestazione di una precisa fase del discorso autoritario, quella in cui l’istituzione coloniale, appurata l’ibridità dei soggetti osservati, per continuare ad auto-affermarsi come tale, cerca e trova nuove forme di ricono4

Ivi, p. 159-160.

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scibilità e di auto-rappresentazione, spostando lo spazio ambiguo della sua performatività dall’ordine del simbolico all’ordine del segno. Si tratta di un passaggio fondamentale perché dall’immagine dell’«altro» come simbolo di desiderio, mistero, erotismo, paura – tipico dell’orientalismo «classico» – si passa a una sua implicazione negli stretti spazi del segno, dentro una collezione ampia di semiosi altrettanto essenzializzanti. Tanto per anticipare il riferimento a qualche caso che approfondirò nei prossimi capitoli, si pensi all’operazione di Pasolini con Il fiore delle Mille e una notte nel quale il simbolico trova continuamente reificazione nel segno esposto dei genitali, delle nudità di giovani uomini e giovani donne, nelle parlate dialettali nelle ambientazioni smaccatamente orientaliste mischiate in uno zibaldone di fascinazioni visive che diventa immediatamente spaesamento. O si pensi a Hiroshima mon amour e a Sans soleil dove l’immaginario esotico nipponico torna parola, ripetuta, ridondante, manifestazione di una continua scissione tra banda audio e banda video, tra passato e presente, tra quadranti di mondo, memoria personale e memoria collettiva, tra tragedie indicibili e bisogni di «calmare» i sussulti emotivi con parole che si sforzano, senza successo, di chiosare, di illustrare, di capire. Simboli che si fanno segni sono anche le immagini animate o di repertorio di Lettre de Sibérie, gli arabeschi di Varda, la Grande muraglia, l’Esercito di terracotta e Il viaggio sulla luna di Ivens, le sale di pachinko di Wenders, persino le tigri di Rossellini, catturate in inquadrature che timbrano la loro «alterità» in quanto diverse per illuminazione, focali, modalità di ripresa, dalle restanti che compongono l’episodio (§ V 5.3.). Più in generale strategie di disposizione dei significanti che si traducono in traccia semiotica sono tutte le formule retoriche e narrative individuate dai nostri cineasti e su cui mi soffermerò più avanti (§ V 3.2.): le lettere, i diari, gli appelli, le interviste, le cartoline, gli appunti, le postille, i sopralluoghi, ecc. L’ibridità in effetti rovescia il processo formale di ripudio in modo tale che la dislocazione violenta dell’atto di colonizzazione divenga la condizione stessa del discorso coloniale. La presenza dell’autorità coloniale smette di essere immediatamente visibile; le sue identificazioni discriminatorie smettono di assumere un proprio riferimento, dotato di autorità, al cannibalismo di questa cultura o alla

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perfidia di quel popolo. L’articolarsi della rimozione e della dislocazione consente ora di identificare “il culturale” come una struttura di potere, una trasparenza negativa che finisce per costituirsi in forme antagonistiche, ai confini tra struttura di riferimento e struttura della mente.5

Se applicassimo la posizione di Bhabha in tutta la sua radicalità a quest’ambito di studio, non ci sarebbe «scampo» per gli autori modernisti e nemmeno per le loro «trasparenze negative», per quelle «forme antagoniste» di morfologie e narratività volte, come abbiamo scritto poc’anzi, a infondere nel loro lavoro le condizioni di marginalità dell’«altro». La loro sarebbe comunque, quasi inevitabilmente, una prassi di cristallizzazione della diversità e, in seconda battuta, di affermazione della propria autorità etnocentrica. Per averne conferma ritorniamo brevemente su un altro brano tratto da The Location of Culture a mo’ di esercizio «ludico». L’esercizio consiste nel sostituire i nomi di Barthes, Kristeva, Derrida, con quelli di Marker, Ivens, Antonioni, Malle, Pasolini o di altri cineasti qui studiati: Il despota turco di Montesquieu, il Giappone di Barthes, la Cina di Kristeva, gli indiani nambikwara di Derrida, i pagani cashinahua di Lyotard sono parte di questa strategia di contenimento in cui il testo Altro è visto una volta per tutte come orizzonte esegetico della differenza, mai come agente attivo di sviluppo. L’Altro è nominato, citato, inquadrato, miniato, incasellato nella strategia da “botta e risposta” di un illuminismo di serie; la narrazione e le politiche culturali della differenza si trasformano nel circolo chiuso dell’interpretazione. L’Altro perde il proprio potere di significare, di negare, di dare inizio al proprio orientamento storico, di creare il proprio discorso istituzionale e oppositivo. Per quanto si conosca in modo impeccabile il contenuto di una cultura “altra” e per quanto esso sia antietnocentrico, [è] solo il suo localizzarsi al termine di grandi teorie, cioè la necessità che sia sempre un buon oggetto di conoscenza analitica – il docile corpo della differenza – [che] potrà ricreare una relazione di dominio: questa è la più grande accusa che si può muovere al potere istituzionale della teoria critica.6

5 6

Ivi, p. 161. Ivi, p. 51.

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E, già che ci siamo, sostituiamo «teoria critica» con il nostro focus d’interesse: «il modernismo autoriale». È possibile uscire da questo cul de sac speculativo recuperando una posizione teorica che accetta il concetto di ibridismo assoluto di Bhabha, ma lo riconduce a una pratica di relazione. La domanda a cui rispondere non è se possiamo riportare il nativo alla sua autentica origine, ma cosa significa il nostro fascino verso il nativo nei termini dell’irreversibilità della modernità. Esistono molte e lodevoli spiegazioni di come il nativo nel mondo non occidentale sia stato usato dall’Occidente come strumento per promuovere e sviluppare i propri profili intellettuali. Secondo queste spiegazioni il modernismo, specialmente il modernismo che associamo con l’arte di Modigliani, Picasso, Gauguin, i romanzi di Gustave Flaubert, Marcel Proust, D. H. Lawrence, James Joyce, Henry Miller e così via, era possibile solo perché questi artisti del “primo mondo” dai nomi famosi incorporavano nella loro “creatività” la cultura e la produzione artistica dei popoli non occidentali. Tuttavia mentre gli artisti occidentali continuano a ricevere attenzione, categorizzati in modo particolare per tempo, luogo e nome, il trattamento delle opere dei popoli non occidentali continua ad avere qualcosa dei modelli sistematici di sfruttamento e alterazione.7

Modigliani, Picasso, Flaubert e, ancora, proseguendo l’esperimento sopra suggerito, Rossellini, Antonioni, Resnais, Wenders…: anche per Rey Chow gli artisti del «primo mondo», con le loro date, i loro nomi e cognomi, insomma con la loro riconoscibilità, sfruttano – di fatto – l’anonimato dell’indigeno. Kumiko sparisce, Marker resta. Il giovane attore che dovrebbe interpretare il maharajah negli appunti indiani svanisce dai radar, Pasolini resta. L’architetto giapponese e l’attrice francese arrestano la loro relazione, con i nomi delle rispettive città (dunque senza un vero nome proprio), mentre Resnais e Duras restano. Anche i registi del «primo mondo» incorporano nella loro «creatività» la cultura e la produzione artistica dei popoli non occidentali. In tal modo accentuano e propagano, frammentandolo, il timbro delle loro voci, spogliandosi o marginalizzandosi attraggono verso di sé l’attenzione dello 7

R. Chow, Il sogno di Butterfly. Costellazioni postcoloniali, Meltemi, Roma 2004, pp. 34-35.

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spettatore, o almeno così si auspicano, togliendola, di fatto, ai nativi, all’oggetto della loro rappresentazione. Ma c’è un ma: Quando contestiamo un discorso dominante facendo “risorgere” la voce/il sé immolato del nativo con le nostre letture […] entriamo troppo in fretta nel luogo altrimenti silenzioso e invisibile del nativo e ci trasformiamo per lui o per lei in agenti/testimoni viventi. Questo processo nel quale noi diventiamo visibili, neutralizza anche l’intraducibilità dell’esperienza del nativo e la storia di quella intraducibilità. L’affrettato rifornimento di “contesti” originali e di “specificità” diventa facilmente complice del discorso dominante che raggiunge l’egemonia proprio con la sua capacità di trasformare, rimodificare, rendere trasparente e in questo modo rappresentare persino quelle esperienze che gli resistono con un’ostinata opacità. […] Il problema della modernità quindi non è semplicemente un “amalgamare” “disparate esperienze” quanto piuttosto il confronto tra il “primo” e il “terzo” mondo nella forma del différend, ossia l’intraducibilità delle esperienze del “terzo mondo” nel “primo mondo”. […] Invece di affermare che il nativo ha già parlato perché il discorso egemonico e dominante è lacerato/ibrido/differente da se stesso e invece di restituire il nativo al suo contesto “autentico”, dovremmo dimostrare che è il silenzio del nativo l’indizio più importante della sua rimozione. Quel silenzio è nello stesso tempo la prova dell’oppressione imperialista (il corpo nudo, l’immagine corrotta) e ciò che, in assenza del testimone originale di quell’oppressione, deve agire al suo posto recitando o fingendo come lo sguardo fisso imperialista.8

In questo passaggio Chow fa direttamente riferimento al concetto di différend di Jean-François Lyotard. Per il filosofo francese il différend, tradotto in italiano con il termine dissidio, è lo stato instabile e l’istante del linguaggio in cui qualcosa che deve poter essere messo in frasi non può ancora esserlo. Tale stato comporta il silenzio, che è una frase negativa, ma fa appello anche a frasi possibili in via di principio […]. La posta della letteratura, della filosofia, e forse della politica, è quella di testimoniare il dissidio, trovando per esso un idioma.9 8 9

Ivi, pp. 36-37. J. F. Lyotard, Il dissidio, Feltrinelli, Milano 1985, p. 113.

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Diventa dunque difficile attribuire all’istante del silenzio un carattere di costrizione o di potenzialità, di soffocamento o di respiro, prima che diventi parola. Il silenzio è una dimensione in potenza, una fase prima di una frase, è una precondizione del senso, a meno che non vi siano oggettivi impedimenti materiali che tacciono definitivamente il pensiero, il potenziale, l’idea, negando loro la messa in atto. Tali oggettivi impedimenti, prosegue Lyotard, esistono e coinvolgono un campo piuttosto largo di esperienze umane e culturali – egli fa riferimento all’esperienza di Auschwitz, ma anche al colonialismo – in cui la vittima del dissidio è privata essa stessa dell’uso della parola o perché non è più presente per testimoniare la sua oppressione o perché la traduzione dell’esperienza della sconfitta in parola implicherebbe una sua alterazione, specie se per esprimersi è necessario usare il linguaggio del dominante (e dei paradigmi culturali che lo informano).10 Ritornando a Chow, potremmo dire che il problema della modernità autoriale è quello di prendersi la responsabilità di parlare al posto dell’«altro», assicurandosi però di preservarne un’intraducibilità che consente nello spazio del différend un’espressività almeno in potenza. In tal modo il discorso egemonico non può e non deve accontentarsi di amalgamare, ibridandole, «disparate esperienze», né «restituire il nativo al suo contesto “autentico”», cercando di storicizzarlo, di descriverlo, di dargli surrettiziamente parola nella propria lingua, tutte operazioni che si assolvono soltanto reificando ulteriori essenzialismi. Semmai deve cercare di accentuare il silenzio dell’«altro» come non troppo paradossale prova provata «della [propria] oppressione imperialista (il corpo nudo, l’immagine corrotta)» che egli mette, volente o nolente, in atto. E per silenziare il nativo, «in assenza del testimone originale di quell’oppressione», la migliore strategia, sembra dirci Chow, è quella di «agire [apertamente e dichiaratamente] al suo posto, recitando o fingendo come lo sguardo fisso imperialista». Ovverosia recitando – con sguardo fisso – la propria autorità che recita al posto dell’«altro». 10

Come è facile presupporre, la portata della teoria di Lyotard è tale che non può essere agevolmente sintetizzata in poche righe. Per un approfondimento sul testo – e sulle sue implicazioni all’interno degli studi postcoloniali – si rimanda a D. Lyotard, J. C. Milner, G. Sfez, Jean-François Lyotard. L’exercice du différend, Presses Universitaires de France, Paris 2001.

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In quest’interstizio, in questo différend, la pratica del silenziare diventa atto formale di autoaccusa, gesto espressivo (in negazione, in assenza) di un’inesprimibilità (il nativo che non può spiegarsi nella nostra lingua, il non nativo che occupa il territorio espressivo in forme scomposte), spazio di rappresentatività in potenza, nel quale però il delinearsi di perimetri, forme, contesti, modalità, funzioni, finalità, è demandato, evidentemente in un secondo momento, al soggetto «altro», se e quando sarà in grado di prendere parola. Occorre però capire in concreto come si dipana questo «silenziare per offrire lo spazio di una comunicazione altra in potenza» e in che modo, in questa partita di giro, la figura dell’autore gioca un ruolo decisivo. Ecco perché è giunto il momento di studiare più da vicino i film che narrano viaggi in luoghi e culture lontane, segnalandone, da principio, le forme di intraducibilità che abitano in essi.

III INTRADUCIBILITA

1. DIECI MINUTI DI GIRATO E OTTO ANGOLI DI RIPRESA

Joris Ivens e Marceline Loridan arrivano a Xi’an, capoluogo della provincia dello Shaanxi, per visitare il mausoleo del primo imperatore Qin. Hanno l’autorizzazione governativa per riprendere il celebre Esercito di terracotta, costruito più di duemila anni fa a difesa della tomba dell’imperatore Qin Shihuang, formato dalle riproduzioni perfettamente conservate di circa seimila guerrieri. Nonostante il permesso ottenuto, Ivens e Loridan vengono convocati dal direttore del mausoleo che, aiutato da un traduttore, pone alcune rigide condizioni per autorizzare il lavoro: per ragioni di tutela del bene archeologico, si potranno compiere soli dieci minuti di girato, da otto punti panoramici scelti dalla direzione del museo. Ivens è allibito. Cerca di spiegare che i vincoli imposti sono inaccettabili: per compiere un buon lavoro, afferma, servono metraggio, molti angoli di ripresa, libertà di movimento all’interno del sito. Al cineasta olandese non bastano, tuttavia, cinquant’anni di mestiere, una riconoscibilità internazionale, l’amicizia storica con il governo cinese, né diverse ore di discussione alla presenza di uno smarrito traduttore, affinché il sovrintendente si smuova dalla sua posizione. Al quarto giorno di trattative, perde le staffe e abbandona il negoziato (Fig. 1). Egli non abdica, tuttavia, all’idea originaria. Nella sequenza successiva lo vediamo, infatti, scarrozzare su una sedia a rotelle tra i negozi di souvenir adiacenti al museo alla ricerca di riproduzioni in scala dei guerrieri di terracotta. Aiutato da maestranze locali, acquista per poche centinaia di yuan tutte le sculture che trova, in modo da costruirsi un piccolo esercito e preparare così le inquadrature che servono per il suo film. Nella parte finale del brano, le riproduzioni in scala sono sostituite da uomini travestiti da soldati

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di terracotta che abbozzano una specie di marcia militare (Fig. 2). Subito dopo, alcune riprese aeree mostrano il profilo della Grande muraglia.1

1

Segnalo in nota che alcune inquadrature dedicate ai veri soldati di terracotta precedono la sequenza descritta, mostrandoci i dettagli di alcuni guerrieri e mettendo così in dubbio l’attendibilità della stessa. Che tutto l’incontro con il direttore del sito museale sia anch’esso una messinscena?

2. STEREOTIPI E MALINTESI CHE PRODUCONO SAPERI

2.1. Rendere visibile l’invisibile Pensare secondo categorie è un modo necessario di organizzazione della nostra mente. Esse creano mappe mentali per capire come vediamo il mondo e ci consentono di negoziare il modo in cui lo viviamo attraverso interazioni e relazioni sociali quotidiane. Sarebbe difficile immaginare o concepire il mondo senza l’uso di categorie che servono, nello scrivere e nel parlare comuni, come strumenti basilari di organizzazione della nostra comprensione.1

Le teorie sullo stereotipo – e più precisamente sulla funzione dello stereotipo per organizzare i campi del sapere sociale e le forme della percezione individuale – hanno avuto un’ampia diffusione nella letteratura dedicata agli studi cognitivi, e poi in ambito sociologico, linguistico/narratologico, nella cultura visuale e, non ultimo, in quella postcoloniale. Dai primi testi di Walter Lippmann,2 fino ai lavori di Tajfel, Sherif, Ichheiser, Berger e Luckmann, dal già citato Pickering, fino ad Allport, Perkins, Zijderveld,3 passan1 2 3

M. Pickering, Stereotyping. The Politics of Representation, Palgrave, New York 2001, p. 2 (trad. mia). W. Lippmann, L’opinione pubblica, Donzelli, Roma 2000. Degli autori citati ricordiamo almeno i seguenti lavori: H. Tajfel, Social Stereotypes and Social Groups, in J. C. Turner, H. Giles (a cura di), Intergroup Behaviour, Blackwell, Oxford 1981, pp. 144-167; M. Sherif, O. J. Harvey, B. J. White, W. Hood, C. W. Sherif, Intergroup Conflict and Cooperation. The Robbers Cave Experiment, University of Oklahoma Institute of Intergroup Relations, Norman 1961 (in particolare pp. 155–184); D. T. Campbell, Ethnocentric and Other Altruistic Motives in D. Levine (a cura di), Nebraska Symposium on Motivation, University of Nebraska Press, Lincoln 1965, pp. 283-311; G. Ichheiser, Misunderstandings in Human Relations. A Study in False Social Perception, University of Chicago Press, Chicago 1949; P. L. Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione

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do per gli scritti culturalisti di Bhabha, Loomba, Hall e altri,4 pur nelle differenze e specificità dei singoli casi, si è raggiunta una certa consonanza nel considerare lo stereotipo come una strategia di semplificazione del rapporto con il reale, tale da consentire una più efficace gestione degli stimoli complessi e contraddittori che giungono dall’ambiente che ci circonda. Lippmann, ad esempio, afferma che gli stereotipi sono dispositivi cognitivi polifunzionali: attuano processi di ordinamento percettivo, sono economici (nel senso che permettono di acquisire un maggior numero d’informazioni nel minore tempo possibile), sono proiezioni codificate sulla realtà, espressione di valori e credenze di una comunità. Per Hermann Bausinger, come per Eva Kuntz, la possibilità di utilizzare verità parziali consente l’orientamento fisico e facilita la comunicazione interpersonale, rinforzando l’identità e la coesione di gruppo5. Per Gordon Allport la formazione dei pregiudizi (che stanno alla base della diffusione efficace degli stereotipi), permette il costituirsi di nuclei d’informazione in base alla loro destinazione d’uso, attivando una risposta sia di carattere emotivo che razionale ogni qual volta un individuo o una comunità li interpella.6 Naturalmente quando vengono costruiti per «ingabbiare» l’alterità, gli stereotipi rispondono non solo a ragioni di tipo cognitivo,

4

5

6

sociale, il Mulino, Bologna 1969; G. Allport, La natura del pregiudizio, La Nuova Italia, Firenze 1973; T. Perkins, Rethinking Stereotypes. Ideology and Cultural Production, in M. Barrett, P. Corrigan, A. Kuhn, J. Wolff (a cura di), Ideology and Cultural Production, St. Martin’s Press, New York 1979, pp. 135-159; A. C. Zijderveld, On Clichés. The Supersedure of Meaning by Function in Modernity, Routledge, London-New York 1979. H. Bhabha, I luoghi della cultura, cit., (in particolare il capitolo La questione dell’Altro. Stereotipo, discriminazione e discorso del colonialismo, pp. 97-122); A. Loomba, Shakespeare, Race and Colonialism, Oxford University Press, Oxford 2002; S. Hall (a cura di), Representation. Cultural Representations and Signifying Practices, Sage, London 1997. H. Bausinger, Stereotypie und Wirklichkeit in A. Wierlacher, D. Eggers, U. Engel, A. F. Kelletat, H.-J. Krumm, E. Konrad (a cura di), Jahrbuch Deutsch als Fremdsprache, Iudicium Verlag, Munich 1988, pp. 157-170; E. Kuntz, Konstanz und Wandel von Stereotypen. Deutschlandbilder in der italienischen Presse nach dem Zweiten Weltkrieg, Peter Lang, Frankfurt am Main 1997. «La mente umana deve pensare con le categorie. Una volta che si sono formate, le categorie costituiscono la base normale del pregiudizio. Non sembra possibile evitare tale processo. Su di esso si basa in gran parte il pensiero umano». G. Allport, op. cit., p. 27.

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ma anche ad altre di ordine politico o ideologico. Chi si è occupato del fenomeno del colonialismo e dei suoi effetti sulle popolazioni subalterne, del modo con cui le culture egemoni hanno «inventato» le culture assoggettate o per lo meno ne hanno influenzato profondamente i processi identitari, sa che lo stereotipo razziale costituisce uno dei principali strumenti di controllo e di gestione del sapere/potere (in senso foucaultiano). Scrive Stuart Hall: [Primariamente] gli stereotipi afferrano, di una persona, poche caratteristiche semplici, vivide, di facile comprensione e […] riducono tutto ciò che riguarda quella persona a quei tratti, esagerandoli, semplificandoli, fissandoli per l’eternità senza possibilità di cambiamento o sviluppo […]. In secondo luogo lo stereotipo mette in atto una strategia di scissione. Divide ciò che è normale e accettabile dall’anormale e dall’inaccettabile. Quindi esclude ed espelle tutto ciò che non si adatta, che è diverso […]. Lo stereotipo, in altre parole, contribuisce al mantenimento dell’ordine sociale e simbolico. Pone un confine simbolico tra il ‘normale’ e il ‘deviante’, tra gli insider e gli outsider, tra il ‘Noi’ e il ‘Loro’. Favorisce il legame, l’unione di tutti ‘Noi’ che siamo ‘normali’ costituendo una comunità immaginaria; e conduce in un esilio simbolico i ‘Loro’ – gli ‘Altri’ – che sono in qualche modo diversi. […] In terzo luogo lo stereotipo tende a comparire dove ci sono grandi disuguaglianze di fronte al potere. Solitamente il potere è diretto contro un gruppo dominato o escluso. […] In breve, lo stereotipo è ciò che Foucault individua nel binomio ‘potere/sapere’. Esso classifica le persone secondo una norma e costruisce l’escluso come ‘altro’. È interessante notare, a tal proposito, che è quanto Gramsci aveva definito attraverso il concetto di ‘egemonia’.7

Ribadisce Bhabha (con accenti riconducibili alla psicanalisi freudiana): Un tratto importante del discorso coloniale è la sua dipendenza dal concetto di “fissità” nella costruzione ideologica dell’alterità. La fissità come segno della differenza culturale/storica/razziale nel discorso del colonialismo appare una modalità di rappresentazione paradossale: connota rigidità e ordine immutato tanto quanto disordine, degenerazione e ripetizione demoniaca. In modo simile lo stereotipo, strategia discorsiva di primo piano, è una forma di conoscenza e identificazio7

S. Hall (a cura di), Representation, cit., pp. 257-258 (trad. mia).

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ne che oscilla fra ciò che è “al suo posto”, già noto, e qualcos’altro che dev’essere impazientemente ripetuto, come se l’essenziale doppiezza dell’asiatico o la bestiale licenziosità sessuale dell’africano, che non ha certo bisogno di prove, non possano davvero mai essere provate all’interno di un discorso. […] Ritengo infatti che sia proprio la forza dell’ambivalenza a dare allo stereotipo coloniale il suo valore: essa assicura la sua ripetitività al mutare delle congiunture storiche e discorsive; pervade le sue strategie di individuazione e marginalizzazione; dà vita a quell’effetto di probabile verità e predicibilità che, per lo stereotipo, dev’essere sempre in eccesso rispetto a quel che può essere empiricamente provato e logicamente concepito.8

Le categorie stereotipate, spesso alimentate da pregiudizi, appaiono in sostanza come il principale strumento autoritario per separare l’accettabile dall’inaccettabile e gli insiders dagli outsiders, per imporre un ordine sociale e simbolico, per veicolare le pratiche discorsive, per instillare caratteri di continuità e cristallizzazione a processi storici in divenire. Per ottenere tali risultati lo stereotipo deve essere ripetuto assiduamente, restituire un senso di probabile verità e predicibilità, che può essere tale solo in presenza di un costrutto volutamente ambiguo, indimostrabile, eccessivo. La posizione di Richard Dyer, che ha affrontato la questione dello stereotipo applicandola in particolar modo al cinema di genere hollywoodiano e che dunque qui viene richiamato per una maggiore contiguità disciplinare,9 è più sfumata e cerca di mediare tra 8

9

H. Bhabha, I luoghi della cultura, cit., p. 97. L’autore aggiunge in un’altra parte del testo: «Io credo […] che lo stereotipo sia una modalità complessa, ambivalente, contraddittoria di rappresentazione, tanto inquietante quanto assertiva, che ci imprime non solo di ampliare i nostri obiettivi critici e politici, ma che modifica il nostro stesso oggetto di analisi. […] Non può esservi alcun passaggio semplice e inevitabile dall’attività semiotica all’interpretazione non problematica di altri sistemi culturali e discorsivi: in queste interpretazioni c’è una volontà di potere e conoscenza che, non riuscendo a specificare i limiti del proprio ambito di enunciazione ed efficacia, finisce per individualizzare l’alterità facendone un luogo di scoperta dei suoi stessi presupposti». (H. Bhabha, op. cit., p. 103). Richard Dyer ovviamente non è il solo teorico cinematografico che si è occupato di stereotipi. Tutt’altro. Per certi versi è l’ultimo di una lunga serie di studiosi che hanno riflettuto sulla questione tra cui possiamo certamente annoverare Béla Balázs, Rudolf Arhneim, Edgar Morin e molti altri. Per un quadro complessivo sul rapporto tra film e rappresentazioni stereotipate rimando a J. Schweinitz, Film and Stereotype: A Challenge for

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gli approcci di carattere cognitivista (lo stereotipo come strumento di conoscenza) e quelli di carattere sociale/politico (lo stereotipo come strumento di potere). Intanto, Dyer sottolinea l’aspetto di visibilità del costrutto: Il ruolo dello stereotipo è quello di rendere visibile l’invisibile, eliminando il pericolo che l’invisibile ci colga di sorpresa; e di rendere saldo, certo e distinto ciò che è in realtà fluido e molto più vicino alla norma di quanto il sistema di valore dominante voglia ammettere.10

Lo stereotipo, infatti, mantiene netta la linea di demarcazione delle definizioni, stabili[sce] chiaramente dove il limite finisce e perciò chi è chiaramente al di qua e chi chiaramente è al di la. Gli stereotipi non solo tracciano […] la mappa delle linee di demarcazione dei comportamenti accettabili e legittimi, ma soprattutto insistono sulle linee di demarcazione esattamente in quei punti dove in realtà non ce ne sono. Questo è chiarissimo quando gli stereotipi hanno a che fare con quelle categorie sociali che sono invisibili o fluide.11

Si noti. Inventarsi linee di demarcazione là dove non esistono è un modo diverso e forse più affascinante per definire i modi di configurazione di un’inquadratura oppure, se vogliamo allargare il campo, di un racconto. In altre parole lo stereotipo aiuta a perimetrare il territorio di azione di un’immagine, di un pensiero, di una narrazione, costituisce lo strumento arbitrario necessario per inquadrare, mettere in cornice, mettere in campo. Sembra insomma un presupposto ineliminabile delle operazioni di creazione audiovisiva (e non solo), come indirettamente confermano i caratteri assegnati dagli studiosi alle standardizzazioni: ambiguità, inquietudine, eccessività, predicibilità, indimostrabilità, ripetitività sono disposizioni proprie anche di molti film e di molte inquadrature. Poco prima di questo passaggio, però, Dyer aveva proposto una distinzione concettuale che aggiunge nuovi elementi d’interesse al

10 11

Cinema and Theory, Columbia University Press, New York 2011. R. Dyer, Dell’immagine. Saggi sulla rappresentazione, Kaplan, Torino 2004, p. 25. Ivi, p. 24.

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ragionamento ovvero quella tra tipi sociali e stereotipi sociali. Dal punto di vista dei film studies infatti: gli stereotipi sono una particolare sottocategoria della più generale categoria dei caratteri di finzione: il tipo. Mentre in Lippmann gli stereotipi sono essenzialmente definiti dalla loro funzione sociale, i tipi, a questo livello di generalizzazione, sono principalmente definiti dalla loro funzione estetica e precisamente come modo di caratterizzazione nella finzione. Il tipo è qualsiasi personaggio costruito attraverso l’uso di pochi tratti immediatamente riconoscibili e precisi, che non cambiano né si ‘sviluppano’ nel corso della narrazione che fanno riferimento alle caratteristiche ricorrenti e generali del genere umano (sia che queste caratteristiche vengano concettualizzate come universali ed eterne, l’’archetipo’, sia come storicamente e culturalmente specifiche, i ‘tipi sociali’, gli ‘stereotipi’) […]. I tipi sociali sono rappresentazioni di coloro che ‘appartengono’ alla società, cioè il genere di persone che ci si aspetta e che si è portati ad aspettarsi, di trovare nella propria società, mentre gli stereotipi sono coloro che non appartengono, che sono al di fuori della propria società.12

Dalla citazione qui proposta emergono alcune ipotesi di lavoro che vale la pena percorrere. Intanto, nelle pratiche di narrazione audiovisiva, lo stereotipo è da intendersi in un’accezione limitata, ovvero come una particolare declinazione del «tipo» (o delle modalità di tipizzazione), usato con coloro che non appartengono al proprio gruppo sociale, come possono essere gli stranieri. Esso non semplifica soltanto il quadro delle informazioni da gestire, ma identifica e perimetra l’altro, rendendolo irriducibilmente tale. In seconda battuta, lo stereotipo assume ancora più efficacia durante il viaggio, ovvero in quelle condizioni dove non esiste un’organizzazione sociale immobile o facilmente controllabile dei saperi. Aggiungo che questa delimitazione dei campi non può che avvenire all’interno della dialettica tra ciò che si può/vuole mostrare e ciò che non si può/non si vuole mostrare, in quell’ambito di negoziazione che Sorlin chiama visibile e di cui ho dato conto nella prima parte di questo studio. In altre parole quando chi utilizza la macchina da presa deve scegliere cosa rendere visibile e cosa no della 12

Ivi, p. 21.

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propria esperienza odeporica, adotta criteri di efficacia mostrativa, si affida alla predicibilità e, insieme, all’eccessività delle immagini. 2.2. La forza mostrativa del cliché. La sequenza descritta a inizio capitolo è tratta da Io e il vento di Ivens e Loridan e servirà da filo conduttore di questa parte di libro, in particolare per l’uso intelligente e ironico con cui si occupa di cliché e di stereotipi culturali. Intanto possiamo affermare che la decisione dei due registi di sostituire gli artefatti veri – le sculture di terracotta, una diversa dall’altra – con riproduzioni tutte identiche, di dimensioni ridotte e di materiale scadente, si configura come una messa in presenza della utilità e della agibilità del concetto di cui stiamo parlando. Di più: non è peregrino «interpretare» la stessa contrattazione tra Ivens e il direttore del museo come il conferimento di un numero limitato e ben perimetrato d’inquadrature da parte di un direttore/stereotipo nei confronti di un regista odeporico. Abbiamo visto che lo stereotipo, proprio come fa il funzionario statale con il documentarista, traccia perimetri-confini-inquadrature, limita e attiva il campo d’azione dello sguardo, separa l’accettabile dall’inaccettabile, impone un ordine sociale e simbolico, indica ciò che può far parte e ciò che deve essere escluso da un’immagine «ufficiale». Sarebbe ingenuo nondimeno non accorgersi che tale attività di essenzialismo ed economia di scala viene realizzata anche dalla controparte, ovvero da Ivens e Loridan. La rappresentazione dell’ottusità governativa conserva, infatti, alcune semplificazioni e tende a rassicurare un quadro cognitivo pregiudiziale fissato a monte. «I dieci minuti di girato e gli otto angoli di ripresa» sono dunque anche quelli usati dal regista olandese e dalla sua compagna francese per restituire l’idea già addomesticata di una certa rigidità burocratica cinese a uno spettatore occidentale che non può non condividerla. Quello appena espresso nei confronti della coppia di cineasti europei non è un giudizio di valore, ma la semplice attestazione di due attitudini stereotipanti al lavoro: da una parte c’è l’autorità cinese e dall’altra, non meno rilevante, quella franco-olandese. D’altronde è grazie al processo di semplificazione in atto che l’esercito di seimila guerrieri in terracotta può diventare

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finalmente visibile. La limitata estensione scopica della cinepresa non potrebbe offrirci l’intera armata in un solo colpo d’occhio, se non a patto di perdere la specificità delle singole (s)culture: ecco allora il bisogno di economizzare lo sforzo visivo (acquistando pochi guerrieri di dimensioni ridotte), trasformare l’esistente in un paesaggio tipizzato (gli uomini travestiti da guerrieri), accentuare le distanze culturali (il rappresentante del governo cinese che censura, il regista europeo che afferma la sua libertà d’espressione), tracciando confini anche laddove non è detto che ci siano (basti ricordare la simpatia provata dallo stesso regista olandese per il maoismo e il popolo cinese). Se si prosegue il carotaggio considerando anche altri film e altri registi si scoprirà che capita frequentemente di imbattersi in esempi dove vengono usati «quadri» di semplificazione simili a quello appena citato. Inizio col dire che il ricorso allo stereotipo è esso stesso insito nei format narrativi scelti dai cineasti odeporici o nelle contingenze del setting che influenzano la messa in forma di un film. Il documentario che mira a raccontare un paese (Malle, Antonioni, Rossellini) o a riflettere su certune problematiche sociali e politiche in esso riscontrabili (Appunti per un film sull’India) non può che muoversi attraverso brevi pennellate per passare il più velocemente possibile da una circostanza evenemenziale a quella successiva; il pamphlet ideologico non approfondisce, ma descrive superfici bidimensionali di realtà politicizzate (e, infatti, si possono girare film anche loin du); il film sperimentale mescola folgorazioni, fa emergere verità profonde solo a patto di imporre giustapposizioni «dodecafoniche» tra le immagini; i sopralluoghi inventariano spicchi di paesaggi o volti senza corpi, gli appunti annotano rapidamente, le opere concettuali non producono personaggi, ma fantasmi (è il caso della Duras). A ben vedere anche i tipi etnici di Rossellini, gli indigeni di Malle, i lavoratori petroliferi di Herzog (il riferimento è al suo Apocalisse nel deserto), i maharaja di Lang o Pasolini, gli amanti di Resnais, la donna contesa di Sternberg, il Kurosawa di Marker, l’Ozu di Wenders sono apparizioni tipizzate, anzi stereotipizzate perché coinvolgono gruppi esterni a quelli del regista che assegna loro la funzione di marcatori di riconoscibilità e accentratori di informazioni, indipendentemente dalle funzioni assunte sul piano narrativo o sul ruolo sociale eventualmente

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giocato nella comunità di appartenenza.13 Sia chiaro: le ripercussioni politiche insite in tali procedimenti non vengono meno, anzi si accentuano e si radicalizzano perché i nostri film puntano a sollecitare discussioni, a incitare prese di posizione, a pungolare forme abitudinarie di percezione, dunque dovrebbero essere loro, in prima istanza, a uscire dalle secche della prevedibilità figurativa. Nondimeno è il singolo processo stereotipizzante, non l’insieme preso in blocco, a dover essere valutato e giudicato per il modo con cui semplifica e demarca, orienta o disorienta, contraffà o agevola. Nel caso di Io e il vento, ad esempio, lo stereotipo del burocrate cinese ottuso e irreprensibile serve da una parte a riaffermare indirettamente il diritto alla libertà di espressione del cineasta in viaggio e dall’altra, in modo comunque autoironico, serve a Ivens in prima persona per ricollocarsi politicamente ed esteticamente nel panorama cinematografico di quegli anni, allontanando da sé quelle simpatie maoiste che negli anni Ottanta e Novanta diventava difficile giustificare. Nella sequenza citata e più in generale in tutto il film egli produce una serie d’immagini codificate del paese visitato (l’Esercito di terracotta, la Grande muraglia, i Buddha giganti, ma anche i mulini a vento olandesi) per indirizzare i discorsi culturali in territori meno ideologici e più addomesticati rispetto al precedente e controverso Comment Yukong déplaça les montagnes. In tal modo egli ridefinisce il proprio profilo autoriale presentandosi come un cineasta sempre alla ricerca di un’utopia (filmare il vento), quando sappiamo bene che il comunismo cinese per cui simpatizzava era tutt’altro che utopico. Facciamo un altro esempio per suffragare tale ipotesi, ricordan13

Si noti che tale discorso di immediatezza mostrativa vale anche per i tanti personaggi «creoli» che possiamo incontrare nei nostri film: Kumiko e la «giapponesità» di una giovane donna nata in Manciuria, la Melanie de Il fiume e la sua «indianità» mista a sangue inglese, la donna «immortale» dell’omonimo film di Robbe-Grillet, di cui sfuggono le origini, la Seetha di Lang, sangue europeo in abbigliamenti e movenze indiane: anch’essi sono personaggi tipizzati nella misura in cui un elemento identitario è assunto a simbolo di una condizione complessiva e generale, secondo una strategia discorsiva non così diversa da quella di far interpretare personaggi «esotici» da attori e interpreti europei o americani (lo fa negli stessi anni Lang, ma anche la Cavani con Milarepa). In tutti i casi, si tratta di corpi stereotipati di identità ibridate.

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do il modo con cui lavora forse il più anticonformista, invisibile e appartato tra i registi presi in considerazione: Chris Marker. Catherine Lupton, a tal proposito, sostiene che: Generalmente i primi diari di viaggio di Marker fondono insieme una reazione personale positiva di fronte ai luoghi visitati con intuizioni astute sulle forze politiche e sui comportamenti che hanno plasmato la loro identità […]. Sdegnando la pompa magna dei cliché e degli stereotipi nazionalisti, Marker va alla ricerca dei segni fuggenti che si trovano intessuti nella trama e nelle abitudini della vita quotidiana, rivelando come si organizzano e si esprimono le nazioni e le culture, come si relazionano rispetto alla memoria del passato e come immaginano il loro contributo al futuro.14

Nei suoi primi film, il cineasta parigino – ha ragione la Lupton – va in cerca di segni sfuggenti, incorporati nel tessuto della vita quotidiana, che rivelino come le culture esprimono se stesse in termini d’identità passate e immaginari futuri. Non ha ragione, però, quando afferma che Marker raggiunge tali obiettivi rinunciando a cliché e stereotipi nazionali. Si pensi, giusto per citare uno dei suoi primi film odeporici, a Le Mystère Koumiko, un’opera in cui sono numerosissimi i riferimenti alla stereotipizzazione della cultura nipponica: ritroviamo samurai, donne in kimono, allusioni alla sessualità «estrema» della popolazione (il sadismo). Poco importa se la comparsa di questi segni, giocata sul filo dell’ironia e dell’assurdo, non corrisponde a un pregiudizio negativo del regista su quella cultura. Il loro esserci attiva di per sé un campo di ragionamenti e di discorsi che si alimenta di rappresentazioni bidimensionali. D’altronde anche «innamorarsi» di una bella straniera, inseguirla per le vie di una città sconosciuta, soffermarsi sui suoi tratti somatici (il sorriso, gli occhi a mandorla, le fossette), e soprattutto utilizzarla come lente per osservare e conoscere un paese, significa affidare il racconto a un insieme di operazioni fondate su uno schema cognitivo piuttosto comune e presente, ad esempio, in molte narrazioni odeporiche letterarie. Forse non a caso il mediometraggio comincia con le riprese di uno schermo televisivo che proietta le tavole di un fumetto dedicato ai Fenouillar, 14

C. Lupton, Chris Marker. Memories of the Future, Reaktion Books, London 2005, p. 41 (trad. e corsivi miei).

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archetipo di una famiglia di commercianti di provincia, simbolo della medietà francese, in visita nella terra dei kami, quasi a cercare una corrispondenza tra stereotipi e tipi, tra riduzioni, tradimenti e traduzioni culturali. Marker rivolge a Kumiko domande sul suo sentirsi o meno giapponese (è originaria della Manciuria, ma si è trasferita all’età di dieci anni a Tokyo), su cos’è la bellezza per un giapponese, sul motivo per cui i manichini delle boutique e dei grandi magazzini hanno fattezze caucasiche e non orientali. Le inquadrature indugiano su elementi stranianti come la pantomima di un cambio della guardia davanti a Buckingham Palace (con due ragazzi giapponesi vestiti come le guardie della Regina) o di un villaggio «tradizionale» mitteleuropeo ricostruito in un parco giochi di Tokyo, mentre la colonna sonora colleziona brani di programmi radiofonici francesi che inciampano continuamente su essenzialismi e «curiosità esotiche». Insomma, tutta l’architettura significante del film – e il discorso vale in misura analoga anche per titoli come Dimanche a Pékin o Sans soleil – interpella senza soluzione di continuità i luoghi comuni sul Giappone per definire i limiti, le possibilità e i fuoricampo (ad esempio l’esperienza traumatica dell’invasione della Manciuria per Kumiko bambina). Se tale procedimento non banalizza la cultura ospite è solo perché Marker opera una soggettiva e personalissima selezione delle immagini e amalgama i segni stereotipati ivi inclusi in modo dialettico o conflittuale, ponendosi, di fatto, come il mallevadore di un uso dinamico e cinetico dello stereotipo. Bastino questi pochi esempi per evincere il modo in cui l’uso (raffinato) del cliché attiva un campo di discorsività fondato ulla sua forza mostrativa, sulla sua immediata riconoscibilità, anche quando viene convocato per essere smentito o schernito. Bastino, gli stessi esempi, per riassegnare senso allo spirito «anticonformista» dei registi modernisti, a quel collocarsi tra il «noi» e il «loro» che avevo rilevato come un problema di posizionamento di difficile disambiguazione. Alla luce delle dinamiche di stereotipizzazione, se mi si concede l’artificio retorico, i casi di Ivens e Marker – e quelli di altri cineasti su cui tornerò più avanti – dimostrano che non è la sintassi (la forma), né la semantica (i conte-

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nuti), bensì la pragmatica (la loro capacità di porsi in between)15 a farsi veicolo di pratiche discorsive che attestano la complessità delle esperienze odeporiche. Da qui una serie di interrogativi da recuperare nel prosieguo del lavoro. Per evidenziare la complessità di un processo serve un continuo ricorso alla semplificazione? E questa semplificazione allude a un «di più» inafferrabile dal visibile filmico, ovvero a un orizzonte impercepibile e forse non raccontabile dell’esistente inter-relazionale? Lo stereotipo, essenzializzando, protegge le culture? 2.3. Lo spazio di spiegazione del malinteso. Accanto allo stereotipo esiste un altro costrutto ineliminabile nella dialettica della prossimità interculturale: il malinteso. Spesso, infatti, quando operano essenzialismi di qualsiasi natura per incontrare, conoscere, perimetrare realtà lontane o, ancora, quando ci si appoggia alla soggettività talvolta autoreferenziale del protagonista del viaggio, il rischio di incappare in incomprensioni nei confronti dei luoghi visitati, o di ingenerarli nello spettatore, diventa particolarmente elevato. Pasolini incespica in numerosi equivoci sull’India e così accade a Rossellini, a Malle, a Renoir, anche se in misure diverse. Lo stesso si può dire per le esperienze di Antonioni in Cina, di Wenders in Giappone e così via. I malintesi che qui si producono, ma che solo uno sguardo retrospettivo può individuare con disinvoltura, sono segnali sintomatici per comprendere i caratteri di prossimità di tali esperienze. Ne Il malinteso. Antropologia dell’incontro,16 Franco La Cecla, ad esempio, sostiene che l’equivoco è uno dei veicoli principali, se non l’unico, per istituire una vera comunicazione interculturale. Non sembri un paradosso. La sua prospettiva prende spunto da un contesto storico, quello della cosiddetta globalizzazione, nel quale i malintesi sono all’ordine del giorno e dove lo spazio per il fraintendimento tra le parti invece che assorbirsi in nome di una standardizzazione 15 16

Sul concetto di in-between si vedano i testi di Homi Bhabha tra cui, oltre a quelli già citati, Id., Culture’s In-Between, in S. Hall, P. Du Gay (a cura di), Questions of Cultural Identity, Sage, London 1996, pp. 53-60. F. La Cecla, Il malinteso. Antropologia dell’incontro, Laterza, Roma-Bari 1997.

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dei gusti, dei consumi e dei linguaggi, si amplia a dismisura. Tutto questo, per La Cecla, non è un fatto negativo in sé perché: I malintesi a volte diventano lo spazio in cui le culture si spiegano e si confrontano, scoprendosi diverse. Il malinteso è il confine che prende una forma. Diventa zona neutra, un terrain-vague dove l’identità, le identità rispettive si possono attestare, restando separate appunto da un malinteso. Il malinteso può, in questo senso, difendere l’identità interna di una persona o di una cultura. […] Ma i malintesi offrono anche uno spazio di spiegazione. […] Il malinteso è allora una occasione di traduzione, una zona in cui l’incommensurabilità tra persone o tra culture arriva a patti. […] La gestione del malinteso ha a che fare […] con delle ‘pratiche’, con una competenza dei rapporti, con un ‘sapere’ culturale rispetto agli altri e alla alterità, con un’arte di vivere e di convivere nonostante o proprio grazie al malinteso.17

La posizione qui espressa ha chiare assonanze con quella di Dyer. Ancora una volta si parla di confini, di demarcazioni, di separazioni arbitrarie che consentono però il confronto o ingenerano la curiosità di superare i primi ostacoli della comunicazione. Si sottolinea anche un aspetto essenziale nella pratica del malinteso: la funzione generativa che hanno i soggetti che praticano la comunicazione, secondo una scala di valori o una gerarchia di influenze che va ben al di là dei contenuti stessi veicolati. I malintesi, in altre parole, diventano necessari perché garantiscono la riconoscibilità di gruppi sociali evitando mescolamenti che originerebbero confusione e perché nel contempo creano o affinano competenze. Sono sì «un’occasione di traduzione, una zona in cui l’incommensurabilità tra persone o tra culture arriva a patti», ma sono anche lo «spazio di spiegazione» dentro il quale i soggetti protagonisti della contesa acquistano visibilità e la sfruttano per i propri tornaconti personali. Declinando il discorso sul fronte cinematografico, possiamo dire che è ancora una volta il «fuori-film» il luogo interessato dal malinteso: sono i discorsi «attorno», «a partire da», «oltre» le pellicole a moltiplicare i fenomeni dell’incomprensione. Occorre altresì ricordare che entrambe le posizioni, quella di Dyer e quella di La Cecla, sono debitrici di chi individua nell’esperienza dell’estraneità la dimensione eticamente più corretta ed 17

Ivi, pp. 9-10.

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esteticamente più coerente per approssimarsi all’alterità culturale. Alludo, in particolare, al lavoro di Victor Segalen, la cui proposta teorica ha contribuito, come poche altre, a valorizzare l’esperienza del malinteso in ambito interculturale. Celebre per aver cercato nel corso di tutta la sua vita di scrivere e pubblicare, senza mai riuscirci, un saggio sull’«estetica del diverso»18, lo scrittore e antropologo francese ha lasciato in eredità una serie di appunti nei quali si proponeva di assegnare elementi di positività al concetto di «esotismo», intendendo con questo termine non l’immagine stereotipata e bidimensionale dell’Oriente – «la palma di cocco o il cammello»19 – bensì «tutto ciò che è “al di fuori” dell’insieme dei nostri fatti di coscienza quotidiani».20 Da un certo punto di vista, ogni esperienza incentrata sull’incomprensione del diverso può essere definita «exotica», andando a determinare quel principio di consapevolezza del sé che nasce al contatto con l’estraneo assoluto. Riecheggiano – nel delinearsi di tali argomentazioni – posizioni filosofiche che fioriranno nei decenni successivi e che evidenzieranno il portato fondamentale delle pratiche dell’alterità. Nella fattispecie il riferimento è agli scritti di Lévinas, Ricoeur e Waldenfels, che recupererò parzialmente più avanti. Il pensiero di Segalen resta tuttavia concentrato soprattutto sulla dimensione estetica dell’incontro o meglio ancora sulla sensazione di estetizzazione del diverso che consente all’exota – ovvero al viaggiatore che parte consapevolmente alla ricerca di un sentimento di estraneità – di rigettare la comune tentazione di controllo dei saperi del proprio interlocutore. Da qui la necessità di relazionarsi attraverso il malinteso. Come sostiene lo stesso antropologo, infatti, L’esotismo non è […] la condizione caleidoscopica del turista e dello spettatore mediocre, ma la reazione di vivace curiosità all’urto di un’individualità forte contro un’oggettività di cui essa percepisce e degusta la distanza. […] L’esotismo non è un adattarsi. Non è la com-

18 19

20

V. Segalen, Saggio sull’esotismo. Un’estetica del diverso, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2001. Scrive Segalen: «Cominciare con la sensazione di Esotismo. Terreno solido e sfuggente. Scartare attentamente quanto ha di banale: la palma da cocco e il cammello. Gustare il bel sapore. Non tentare di descriverlo, ma indicarlo solo a chi è in grado di gustarlo con ebbrezza». V. Segalen, Saggio sull’esotismo, cit., p. 41 (corsivo dell’autore). Ibid.

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prensione perfetta di un fuori di sé che si cerca di stringere in sé, ma la percezione acuta e immediata di un’eterna incomprensibilità. Partiamo dunque da questa confessione di impenetrabilità. Non illudiamoci di assimilare i costumi, le razze, le nazioni, gli altri, ma al contrario, rallegriamoci di non poterlo mai fare: in questo modo, il nostro piacere di assaporare il Diverso sarà duraturo.21

Vien da domandarsi: la disposizione exotica al viaggio determina, in buona sostanza, una confusione di riferimenti e direzioni orientative tale per cui è solo attraverso la coltura dell’incomprensibile che è possibile assegnare alla vicenda odeporica un senso complessivo e comunitario? E nel cinema modernista capita la stessa cosa? Intanto abbiamo visto in esordio di saggio che sono piuttosto frequenti i malintesi nelle storie produttive dei film odeporici modernisti. Torniamo sulle tracce di alcuni di essi, sia di quelli che finzionalizzano situazioni d’equivoco inserendole nelle diegesi (come fa Ivens in Io e il vento), sia di quelli che concernono le storie ricettive delle pellicole odeporiche (è il caso di Antonioni in Cina, su cui torniamo alla fine del capitolo, cfr. § III 5.). Per quanto riguarda la prima categoria sarà agevole ricordare quei titoli nei quali si narrano storie d’amore interetniche, terreno d’elezione per incontri sfiorati o mancati, tentativi d’ingaggio e seduzione, fragilità dei rapporti interpersonali. Penso ad esempio a L’immortale (L’immortelle, 1963) di Alain Robbe-Grillet, dove l’attrazione per la misteriosa donna di origini turche e la sua improvvisa scomparsa spingono il protagonista francese a una sorta d’indagine dai tratti etnografici in una realtà sociale e urbana (Istanbul) che sembra refrattaria a ogni suo tentativo di contatto. L’uomo è letteralmente intrappolato in una rete d’intrighi, equivoci, doppiezze. Chiede, ma non capisce, ipotizza soluzioni, quando sono gli altri a decidere per lui. Penso al già citato Le Mystère Koumiko di Chris Marker dove il fuoco di fila di domande che il cineasta rivolge alla ragazza giapponese presuppone una difficoltà di capire che si rispecchia in quello stesso smarrimento confessato dalla protagonista al termine del film. Ecco le ultime parole registrate su nastro magnetico dalla ragazza: 21

Ivi, pp. 45-46.

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Ogni mattina sono sorpresa, mi stupisco, non capisco nulla, non so commentare niente, ma presto giungeranno… le conseguenze degli eventi. È come uno tsunami dopo che c’è stato un terremoto: anche se è un evento lontano, l’onda avanza poco a poco… fin quando arriverà addosso a me.22

Traslando queste parole su un piano metaforico più ampio, si può dire che l’immagine dello tsunami che si abbatte sulla ragazza può essere interpretata sia come figurazione dell’impatto violento e improvviso che la presenza dell’occidentale produce quando giunge in terre straniere, sia come l’inesorabile senso di turbamento e destabilizzazione che si rovescia su un visitatore straniero innanzi all’indecifrabilità di ciò che lo circonda. D’altra parte anche Koumiko, in qualche modo, sa di essere straniera/estranea. Un terzo caso ancora più eloquente è messo in scena da Alain Resnais in Hiroshima mon amour, in una delle più celebri storie d’amore interetnico della storia del cinema. È sufficiente ascoltare il primo dialogo tra i due amanti per percepire nella «produttività» del malinteso, quando gli amanti ribattono tra loro: «Tu non hai visto niente a Hiroshima, niente» / «Io ho visto tutto»; «Io non ho inventato niente» / «Tu hai inventato tutto».23 Il dialogo dimostra, quasi plasticamente, come l’incapacità di intendersi tra le parti si dipani dentro un orizzonte scopico e visivo, in quello sforzo – evidentemente vano – di tracciare perimetri, di costruire quadri e confini (Dyer) e di assegnare loro un valore di credenza là dove questi perimetri non ci sono più. Non a caso ci ritroviamo in quella soglia di passaggio tra l’indicibile, il dicibile e il detto che Lyotard descriveva attraverso il concetto di différend, facendo riferimento a un esempio molto simile a quello di Hiroshima e Nagasaki, ovvero l’Olocausto (§ II 3.). Parallelamente, però, queste stesse parole d’incomprensione sono anche generatrici di un incontro, una storia d’amore che – come uno tsunami – investe i due protagonisti, ancorché non abbiano una reale possibilità di comprendersi, anzi, forse proprio perché non possono capirsi se non attraverso quella strategia del «recitare al posto dell’altro» (Chow) su cui tornerò 22 23

C. Marker, Commentaires 2, Seuil, Parigi 1967, p. 36 (trad. mia). Per una trascrizione integrale del dialogo rimando a M. Duras, Hiroshima mon amour. Scenario et dialogue, Gallimard, Paris 1992.

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nel prossimo capitolo commentando una successiva sequenza del film (§ IV 3.2.). Nel resto del racconto, i due si cercano, si parlano, si toccano, costruiscono spazi di spiegazione e negoziazione continua della loro storia e della loro presenza a Hiroshima, ma dentro un tempo limitato, quello che separa la donna dalla sua partenza per Parigi, e uno spazio isolato, desertificato, depauperato da connotati culturali come la nuova città di Hiroshima. Passando alle seconde occorrenze, quelle «esterne» ai film, mi limito a rammentare il solo caso di Louis Malle, rimandando ad altre parti del testo lo studio di casi simili (e in parte più complessi) che coinvolgono Sternberg (§ III 4.1.), Antonioni (§ III 5.), Pasolini (§ IV 5.), Wenders (§ V 2.2.) o Rossellini (§ V 5.). Il regista francese parte alla volta dell’India nel gennaio del 1968, in compagnia di due suoi collaboratori (il direttore della fotografia Étienne Becker e l’ingegnere del suono Jean Claude Laureux) e vi risiede per circa cinque mesi. In questo periodo di tempo attraversa il paese da nord a sud con due cineprese in 16 mm, raccogliendo svariate ore di girato. Una volta tornato in Francia (nel maggio 1968, in concomitanza con l’apice delle manifestazioni di protesta di operai e studenti), impiega circa un anno per montare i materiali e predisporre due prodotti simili a quelli realizzati un decennio prima da Rossellini, sia per ideazione, sia per piattaforme coinvolte: da una parte firma un documentario dedicato alla città di Kolkata (Calcutta) da distribuire nei cinema e presentare nei festival internazionali (l’anteprima sarà al Festival di Cannes, nel maggio 1969), dall’altra confeziona una serie televisiva in sette puntate intitolata L’India fantasma da vendere ai principali network europei. Antenne 2 inserisce la serie nel suo palinsesto tra il luglio e il settembre 1969, mentre la BBC lo farà soltanto l’anno successivo. Come emerge da diverse fonti, 24 sarà solo la versione internazionale del documentario a provocare un’inattesa ondata 24

Per una ricostruzione dell’accaduto si veda: L. Malle, Malle on Malle, a cura di P. French, Faber & Faber, London 1996; P. Billard, Louis Malle, le rebelle solitaire, Plon, Paris 2003; I. Vandeveldea, Outsider Films on India 1950–1990, in «Historical Journal of Film, Radio and Television», a. XXX, n. 2, 2010, pp. 248-250; A. A. Yang, Images of Asia. A Passage through Fiction and Film, in «The History Teacher», a. XIII, n. 3, 1980, pp. 351-369. Molte altre preziose informazioni si trovano nel diario di viaggio del regista. Cfr. L. Malle, L’Inde fantôme. Carnet de voyage, Gallimard, Paris 2005.

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di proteste da parte della comunità indiana di stanza nel Regno Unito e – a stretto giro di posta – da parte delle stesse istituzioni governative indiane. Come capitato ad altri colleghi, anche Malle subisce una campagna stampa avversa, con attacchi virulenti da parte delle testate che sostengono i gruppi politici di opposizione al Partito del Congresso, e infine gli viene preclusa la possibilità di visitare il paese perché persona non gradita. A osservare Calcutta e L’India fantasma con uno sguardo etnocentrico ci si potrebbe chiedere la ragione di una reazione così negativa a fronte delle continue dichiarazioni di simpatia e partecipazione che il regista elargisce, tramite la sua voce di commento, nel corso delle sei ore di proiezione. Pur coinvolto in quella sorta di fascinazione collettiva per l’India che attraversa la controcultura europea e statunitense in quegli stessi anni,25 è anche vero che Malle adotta metodi di ripresa «oggettivi» che ricordano il documentario di osservazione, o meglio ancora, il cosiddetto «cinema diretto», nella convinzione quasi vertoviana che una strumentazione leggera, una disponibilità all’immersione nel reale e un lavoro certosino al banco di montaggio, offrissero la possibilità di catturare l’essenza complessa di quella che lo stesso Vertov chiamava «la vita colta sul fatto».26 «Sapevo che l’India sarebbe stata uno shock – afferma il regista nella sua autobiografia – ma è stato molto più forte di quanto mi attendessi. […] Ho realizzato che ancorché l’India fosse impossibile da comprendere per uno straniero […] mi affascinava a tal punto da sentire il bisogno di visitarla».27 E poco oltre aggiunge: 25

26

27

Ricordo, ad esempio, che nel febbraio 1968 sono ospiti nell’Ashram di Maharishi Mahesh Yogi a Rishikesh i Beatles, insieme all’attrice Mia Farrow, il cantante scozzese Donovan, Mike Love dei Beach Boys e molti altri occidentali. Per una testimonianza diretta di quel soggiorno (un altro diario di viaggio) si veda: L. Lapham, I Beatles in India. Altri dieci giorni che cambiarono il mondo, Edizioni e/o, Roma 2007. Sugli orizzonti teorici presenti nella vertoviana Žizn’ vrasploch (tradotta in italiano con l’espressione «vita colta sul fatto», «vita colta in fragrante» o «vita presa alla sprovvista») si veda: D. Vertov, L’ occhio della rivoluzione: scritti dal 1922 al 1942, a cura di P. Montani, Mimesis, Milano-Udine 2011; P. Montani, L’ immaginazione narrativa. Il racconto del cinema oltre i confini dello spazio letterario, Guerini e Associati, Milano 1999 (in particolare il capitolo II intitolato: Il cinema “non recitato” e la vita colta sul fatto). L. Malle, Malle on Malle, cit., p. 68 (trad. mia).

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Il mio proposito era di partire per Calcutta, guardarmi intorno ed eventualmente iniziare a filmare. Nessun piano precostituito, nessuno script, nessun equipaggiamento per l’illuminazione, nessun committente già disposto a distribuire il film. […] In quel momento di crisi della mia vita, quando stavo cercando di rivalutare tutto quello che avevo fatto per andare più avanti, l’India era una perfetta tabula rasa: era un modo per ricominciare da capo.28

Nelle parole di Malle, dagli evidenti echi leirisiani, si registra ancora una volta la consapevolezza del viaggiatore straniero circa l’incapacità di comprendere le culture alloglotte. Un’incapacità che non ostacola bensì diventa volano del viaggio (e della ponderazione sul viaggio), ancorché condizione ideale di emergenza del malinteso. Come già per Renoir e per Rossellini, anche per Malle l’India rappresenta una via di fuga da una serie di difficoltà lavorative e personali, ma anche una specie di rito di purificazione (un «andare più avanti») e una sfida per vivere e osservare il mondo in modi nuovi (una «tabula rasa»). Da qui la decisione di immergersi in un paese straniero, alla ricerca della contingenza, dell’occasionale, del fortuito, ritrovati in una serie di manifestazioni culturali e sociali tra le più variopinte e distanti tra loro. Così, in Calcutta e in L’India fantasma, accanto alle riprese di foreste incontaminate, di cerimonie e danze tradizionali, di templi religiosi, di comunità che vivono in pace con il proprio territorio, ve ne sono altre di lebbrosari, bidonville, villaggi isolati dove si vive in estrema povertà; accanto a immagini che attestano la vitalità politica o la curiosità religiosa delle popolazione, ve ne sono altre che mostrano l’emergere di radicalismi, le rivendicazioni di alcune minoranze, le forme di sfruttamento del lavoro. Come accennato, l’affresco di situazioni registrate avrebbe dovuto garantire un inventario articolato e attendibile di fatti, volti e situazioni, tale da consentire un riconoscimento anche da parte degli spettatori indiani. Se così non accade è perché è l’idea stessa di «inventariare» le tante facce di un paese (vedi in particolare § IV 4) a stridere con la possibilità di comprendersi e capirsi. L’immersione in una realtà data, infatti, lungi dal garantire la tanto agognata «abluzione» dello sguardo, rende ancor più decisiva la 28

Ibid.

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presenza di un’istanza negoziale e regolativa che confeziona il percorso di senso del film. La supposta «spontaneità» della ripresa – o se si preferisce il non allestimento del set – rende, infatti, necessario un rigoroso lavoro al banco di montaggio che la preservi e insieme la renda comprensibile, ad esempio attraverso l’inserimento di una voce narrante (§ III 4.) che sottolinei tale atteggiamento di immediatezza e incapacità di comprendere. Siamo innanzi, in altre parole, all’ennesima strategia di (non) contatto che se in prima battuta diventa necessaria per ampliare le conoscenze di un altro che sembra presentarsi davanti alla macchina da presa «così com’è», in seconda pone in essere un ventaglio ineludibile di contraddizioni proprie di ogni «scrittura dell’altro». Insomma, collocando e ordinando il difforme, l’incompreso o l’indistinto in classi, generi o categorie si pratica un’operazione analoga a quella che si cela dietro la costruzione degli stereotipi dell’alterità: si attua un’economia dei saperi che permette, strategicamente, di orientarsi e avere una consapevolezza più precisa della posizione del sé rispetto a ciò che ci circonda (anche se questa posizione prevede l’esibizione del disorientamento), producendo tuttavia quelle forzature epistemologiche o quelle rigide organizzazioni semantiche che difficilmente possono essere accolte dai soggetti osservati senza colpo ferire. Da qui l’inevitabilità dell’equivoco. Concludo ritornando alla sequenza scelta come chiave di lettura di questo capitolo, quella dell’Esercito di terracotta in Io e il vento. Ivens, come abbiamo visto, rompe i negoziati con la direzione del Museo, ma non per questo recede dall’intenzione di realizzare alcune inquadrature dei guerrieri cinesi, collocando la macchina da presa nel punto che ritiene artisticamente più appropriato. Non vuole farsi condizionare. Per fare ciò elabora uno stratagemma ironico, beffardo e intelligente chiedendo ai suoi collaboratori di acquistare alcuni falsi soldati che riproducono (malamente) gli originali e collocandoli, secondo un ordine prestabilito, gli uni accanto agli altri su un territorio adiacente il sito archeologico dove è più agevole preparare i take del film. Mi pare evidente che lo spazio del malinteso o, se si preferisce, dell’inconciliabilità delle parti, anche nel mezzo dello sforzo tassonomico, riceva in questa sequenza l’ennesima reificazione. Ivens propone un altro modo di distribuire in scena gli oggetti e le persone secondo co-ordinate chiare, visibili, dotate di senso, eppure inaccettabili dai responsa-

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bili museali per il semplice fatto che questi ultimi sono depositari di un altro rigido sistema di rapporti tra le cose. Lo spazio del malinteso tra le parti è, insomma, una volta di più, uno spazio concreto, tangibile, nel quale anche l’estraneo, non più di terracotta bensì in carne e ossa, si muove con proprie «rigidità» e una propria personale prossemica.

3. COSIFICAZIONI

3.1. Cartoline Nel dicembre del 1985, all’interno della maratona televisiva intitolata La magnifica ossessione, curata da Enrico Ghezzi per celebrare i novant’anni del cinema, viene programmato un piccolo video di dieci minuti. S’intitola Videocartolina dalla Cina (1985) ed è un insieme non organico d’immagini montate da Bernardo Bertolucci per celebrare, a suo modo, il «compleanno» della Settima arte. In quelle settimane, il regista si trova nel Paese di Mezzo per svolgere alcuni sopralluoghi in vista del suo nuovo film, L’ultimo imperatore (The Last Emperor, 1987). Trattandosi di una produzione internazionale con un cospicuo budget, ci sono tre troupe al lavoro contemporaneamente. Una si trova nella provincia del Guanxi, e più precisamente a Guilin, celebre per i suoi paesaggi caratterizzati da particolari profili montuosi; una seconda è a Shanghai, dove è installato il quartier generale della produzione e dove si trova lo stesso Bertolucci; la terza, invece, è a Changchun, ex capitale dello stato fantoccio del Manchukuo, oggi una delle principali città della provincia del Jilin. A Shanghai è lo stesso regista a impugnare la piccola telecamera con cui cattura tranche de vie in modo del tutto occasionale e fortuito. Donne che stendono i panni, strade trafficate, grattacieli imponenti, imbarcazioni che solcano placide il fiume Huangpu, un’atleta che pratica il Tai-chi. Il cortometraggio non ha il respiro di un documentario monumentale come quello di Malle, ma un approccio simile. Come in altri film di viaggio, la voce di commento del regista ribadisce concetti ormai noti come il disorientamento innanzi a grandi folle («Sono uscito alle sette del mattino e ho provato l’estasi dell’occidentale solo in mezzo a dodici milioni di cinesi»), la delusione per i processi di globalizzazio-

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ne («Pezzi di Manhattan in realtà a Shanghai»), l’attenzione per luoghi caratteristici della storia culturale di un Paese («Indietro, indietro, indietro, indietro nel tempo, nello spazio, oltre la Grande muraglia, verso il Gobi») e così via. A interessarmi di questo breve filmato è, tuttavia, l’affermazione d’esordio con cui Bertolucci ne definisce la principale caratteristica: «Questa non è una video-lettera – asserisce – ma una video-cartolina dalla Cina che tanto vicina non è, ma forse lo sarà e quel giorno si chiamerà Cinacittà». La scelta di attribuire all’insieme indisciplinato d’immagini montate per l’occasione il titolo di «cartolina» ha un suo rilevante peso specifico. Di solito la cartolina1 è oggetto comune di ogni esperienza odeporica. Si acquista, si compila e si spedisce essenzialmente perché risponde a diverse funzioni sociali. Intanto attesta la presenza di una persona (o di un gruppo di persone) in un luogo generalmente lontano, «esotico», precluso ai più, condividendo con i propri cari un’immagine dal valore testimoniale e rimemorativo. Per assolvere tale compito, l’illustrazione scelta deve restituire un’identità «pubblica» del paese visitato, ossia garantire una riconoscibilità fondata su un insieme codificato di segni che attivano un immaginario già depositato. Da questo punto di vista si può dire che la cartolina contiene una proprietà traduttiva perché parafrasa e volgarizza un plesso di riferimenti culturali complessi e sconosciuti in un fascio di informazioni di immediata lettura. Se da una parte questa forma di «economia» culturale esclude dal canale comunicativo le popolazioni native, dall’altra bisogna dire che sono spesso queste ultime, producendo e vendendo ai turisti tali illustrazioni, ad auto-rappresentarsi tramite un immaginario esotizzato, mediatizzato ed estetizzato del sé (e a guadagnare il relativo compenso). Occorre aggiungere che anche la «grafia» di chi compila la cartolina – ovvero la sua soggettività, generalmente ridotta ad alcuni saluti di circostanza – ha uno spazio di esistenza, ma solo nella parte posteriore del cartoncino, non intaccando in alcun modo il 1

Di cartoline e delle loro funzioni memorative parlo anche in un testo dedicato all’esotismo di Tarkovskij, da cui riprendo alcuni spunti di riflessione. Cfr. M. Dalla Gassa, Tarkovskij esotico? Viaggio “al di fuori” dei fatti di coscienza quotidiani, in F. Borin (a cura di), Tarkovskiana 1. Arti cinema e oggetti nel mondo poetico di Andrej Tarkovskij, Cafoscarina editrice, Venezia 2012, pp. 11-40.

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sistema codificato e impersonale della foto che resta uguale indipendentemente da chi siano il mittente e il destinatario. Portando il ragionamento agli esiti più pertinenti per questo studio, possiamo considerare la cartolina come uno di quegli oggetti in cui si materializzano le esperienze del viaggio in forme essenzialmente sintetiche. È un corpo magnetico, che attira sguardi, mani, segni, la cui forza centripeta è direttamente proporzionale alla capacità di socializzare e codificare l’esperienza. Ha ragione insomma Bertolucci quando afferma che i film odeporici sono cartoline. Come le cartoline, d’altronde, anch’essi si offrono quali testimonianza di una presenza, assicurando quell’«esserci stato» dell’autore. Come le cartoline, anch’essi presentano scritture (la voce di commento), spesso separate dalle immagini, rivolte «ai propri cari», ovvero alle comunità di appartenenza (i cinéphile che guardano i programmi di Ghezzi), secondo parole di circostanza che escludono dal gioco dialettico i nativi. Come le cartoline, anche le pellicole di viaggio hanno un’utilità economica e sono paratesti di un’attesa (di altri film, di altri viaggi, di altri commenti). Come le cartoline, anche i film modernisti sono oggetti e si occupano di oggetti, nella loro dimensione fisica, concreta, ma anche nella loro funzione di scambio e, forse, di dono. 3.2. Da oggetto a cosa Quest’ultimo tema citato, ovvero quello degli oggetti, merita di essere meglio approfondito in questa sede. Si pensi, tanto per ricordare alcune delle numerose occorrenze in cui gli oggetti assumono un rilievo significante nelle narrazioni odeporiche, ai soldati di terracotta o alla maschera rituale regalata a Ivens in Io e il vento con la promessa che produca il vento, o ai maneki neko tanto amati da Marker, quelle piccole sculture giapponesi raffiguranti un gatto che alza una zampa (Sans soleil), o alle numerose scene dedicate all’industria manifatturiera indiana nei lavori di Malle o Rossellini, o alle statue di animali allegorici che impreziosisce la Via Sacra in Dimanche à Pekin o Chung Kuo - Cina, e ancora alle riproduzioni falliche e alle vestigia vaticane presenti in due mostre adiacenti a Jozankei nell’isola di Hokkaidō (Sans soleil), ai reperti conservati nel Museo della Pace di Hiroshima (Hiroshima mon amour), ai

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manichini dalle fisionomie occidentali di un grande magazzino di Tokyo (Le Mystère Koumiko), ai pachinko (macchinette simili alle slot machine) o ai sampuru (i cibi di plastica esibiti nelle vetrine dei ristoranti giapponesi) di Tokyo-Ga. E così via. Certo. Qualche lettore potrebbe ritenere che la curiosità manifestata dai cineasti nei confronti di manufatti e prodotti costruiti dalle popolazioni locali, così come quella per i luoghi che abitano, sia un fatto connaturato alle esperienze di viaggio e dunque non debba costituire interesse specifico. In fondo «stereotipo» vuole che il turista, colto o meno colto che sia, finisca sempre per acquistare souvenir, oggetti ameni, suppellettili da arredo, oppure prodursi nella realizzazione di istantanee da incorniciare o inserire in qualche album. Perché occuparsene allora in questa sede? C’è da registrare, intanto, un’attenzione sempre più spiccata verso la rappresentazione degli oggetti da parte della letteratura di settore, anche in virtù del numero crescente di pubblicazioni sul tema che provengono da campi disciplinari relativamente adiacenti,2 e della rilevanza che assumono settori di studio – penso soprattutto alla cosiddetta archeologia dei media3 – che si occupa2

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Non si possono non citare, almeno in nota, alcuni dei tanti saggi che si sono occupati del ruolo degli oggetti negli ambiti espressivi e sociali con approcci che provengono dalla teoria letteraria, dalla semiotica e poi dal design, l’arte contemporanea, la filosofia, ecc. Cfr. F. Rigotti, La filosofia delle piccole cose, Interlinea, Novara 2004; Id., Nuova filosofia delle piccole cose, Interlinea, Novara, 2013; G. M. Anselmi, G. Ruozzi (a cura di), Oggetti della letteratura italiana, Carocci, Roma 2008; M. Belpoliti, Il tramezzino del dinosauro. 100 oggetti, comportamenti e manie della vita quotidiana, Guanda, Parma 2008; M. Ferraris, Il tunnel delle multe. Ontologia degli oggetti quotidiani, Einaudi, Torino 2008; Id., Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Roma-Bari, Laterza 2009; H. L. Molotch, Fenomenologia del tostapane. Come gli oggetti quotidiani diventano quello che sono, Raffaello Cortina, Milano 2005; M. Smargiassi, Ora che ci penso. La storia dimenticata delle cose quotidiane, Dalai, Milano 2011; S. Connor, Effetti personali. Vite curiose di oggetti quotidiani, Raffaello Cortina, Milano 2014; F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Einaudi, Torino 1993; D. A. Norman, La caffettiera del masochista. Psicopatologia degli oggetti quotidiani, Giunti, Firenze-Milano 2009; N. MacGregor, La storia del mondo in 100 oggetti, Adelphi, Milano 2012. E così via. Impossibile dare conto di una bibliografia che di anno in anno, sul fronte dell’archeologia dei media, diventa sempre più consistente. Mi accontento di segnalare alcune letture introduttive o con tagli storico-

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no della fisicità degli oggetti mediatici della nostra quotidianità (dispositivi, opere, istallazioni, tecnologie). In un recente volume Antonio Costa sottolinea anche il ruolo fondamentale giocato dal cosiddetto digital turn.4 Se, infatti, le teorie narratologiche e più in generale quelle di campo tendevano in passato a studiare quasi esclusivamente personaggi ed eventi da una parte e forme della fruizione (passiva) dall’altra, i nuovi scenari imposti dall’avvento del digitale rimettono in gioco gli aspetti pratico-interattivi della visione, modificando profondamente la relazione tra immagini e spettatori. Questi ultimi oggi hanno «strumenti per segmentare, ingrandire, avvicinare e allontanare l’oggetto della e nella visione filmica», per separare insomma il singolo cinèma (per usare un termine caro a Pasolini5) dal flusso complessivo della figurazione iconica. Tale pratica, continua Costa, rientra perfettamente in quei processi di trasformazione degli oggetti in «cose» descritti da Remo Bodei in un suo importante contributo di qualche anno fa.6 Nel momento in cui, travalicando il carattere meramente funzionale, si assegna a certi oggetti filmici una serie di valori «altri» – un investimento affettivo, una stratificazione di senso, qualche forma di riuso, proprio o improprio, un carico simbolico, ecc. – ecco che essi si trasformano in «cose», vale a dire in materiali che godono di

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sociali interessanti: J. Parikka, What is Media Archaeology?, Polity, Cambridge 2012; E. Huhtamo, J. Parikka (a cura di), Media Archaeology. Approaches, Applications, and Implications, University of California Press, Berkeley 2011; E. Huhtamo, Illusions In Motion. Media Archaeology of the Moving Panorama and Related Spectacles, MIT Press, Cambridge 2013; E. Wolfgang, Digital Memory and the Archive, University of Minnesota Press, Minneapolis 2012; Siegfried Zielinski, Audiovisionen. Kino und Fernsehen als Zwischenspiele in der Geschichte, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1989; S. Zielinski, S. M. Wagnermaier (a cura di), Variantology. On Deep Time Relations on Arts, Sciences and Technologies, Verlag der Buchhandlung König, Cologne 2005. In italiano si veda invece: M. De Rosa, Cinema e postmedia. I territori del filmico nel contemporaneo, Postmedia book, Milano 2013. A. Costa, La mela di Cézanne e l’accendino di Hitchcock. Il senso delle cose nei film, Einaudi, Torino 2014, p. 18. Sul concetto di «cinèma» si veda P.P. Pasolini, La sceneggiatura come «struttura che vuol essere altra struttura», in Id., Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972, pp. 192-201. R. Bodei, La vita delle cose, Laterza, Roma-Bari 2009.

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una vita propria e che conquistano uno spettro di significati più ampio.7 E parafrasando Maffesoli, Costa sentenzia «l’oggetto è un concentrato del mondo».8 La scelta di Costa di collocare il suo studio alla congiunzione di questi due contributi filosofici ci permette di tracciare le prime contiguità tra le teorie degli oggetti e le pratiche di viaggio. Nel saggio di Bodei – come in molti film di viaggio – ritroviamo, ad esempio, caratteristiche già incontrate nell’oggetto-cartolina: Il privilegiare la cosa rispetto all’oggetto umano serve per altro a mostrare il soggetto stesso nel suo rovescio, nel suo lato più nascosto e meno frequentato. Investiti di affetti, concetti, simboli che individui, società e storia vi proiettano, gli oggetti diventano cose distinguendosi dalle merci in quanto semplici valori d’uso e di scambio o espressione di status symbol.9

Parafrasando possiamo dire che la cartolina (o il film-oggetto) si trasforma da «merce» in «cosa» se e quando determinati investimenti affettivi riescono ad apporre qualche traccia di scrittura nella sua parte nascosta, ovvero posteriore, se e quando un fascio di concetti o simboli viene registrato sopra (ne riparlo nella parte dedicata alle voci extradiegetiche), se e quando un’iscrizione personale offre una «interpretazione» di un’esperienza altrimenti impersonale o serializzata. In termini un po’ paradossali, ma ci tornerò su, l’investimento affettivo o simbolico produce una migliore 7

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A tal proposito è significativo che Remo Bodei per motivare il proprio lavoro parta dall’individuazione di un supposto malinteso, quello tra «oggetto» e «cosa», cercando vanamente – visto che l’uso continua a essere indistinto – di dissiparlo: «Sarà possibile chiarire meglio anche l’espressione “vita delle cose” dando così una risposta al legittimo interrogativo su come gli oggetti inanimati possano avere una vita autonoma, muoversi, sentire o addirittura pensare e agire. Tale paradosso si scioglie non appena dissipato l’equivoco che, nascosto nel linguaggio quotidiano, si infiltra spesso anche nei concetti più sofisticati. Il malinteso dipende dalla mancata distinzione tra “cosa” e “oggetto”, parole che il tempo ha confuso, provocando una serie di fraintendimenti a cascata che intorbidano tanto il pensiero filosofico, quanto il senso comune». R. Bodei, op. cit., p. 12. M. Maffesoli, Nel vuoto delle apparenze. Per un’etica dell’estetica, Garzanti, Milano 1993, p. 246. La citazione è ripresa da A. Costa, La mela di Cézanne, cit., p. 9. R. Bodei, op. cit., p. 22.

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definizione della distanza e della contiguità tra soggetto e oggetto (o «cosa»), l’uno considerato il rovescio dell’altro. Sotto quest’angolatura (il rapporto ir-reversibile di soggetto e oggetto), torna utile anche la lezione di Jean Baudrillard che, all’interno di una ampia riflessione sul funzionamento della società dei consumi, ha assegnato agli oggetti un compito letteralmente «contundente». Se, infatti, ne Il sistema degli oggetti e nei suoi primi scritti (peraltro coevi ai viaggi di Malle e Pasolini in India),10 ancora influenzati dalla semiotica strutturalista e da echi di marxismo, il filosofo francese considerava gli oggetti come segni di un sistema linguistico che operano su più piani (funzionale, valoriale, simbolico), permettendo alla società di gerarchizzarsi in gruppi e classi e costringendo il singolo in una condizione di alienazione o di reificazione nell’oggetto/merce, in una stagione successiva della sua ponderazione, ispirandosi a letture di area antropologica (Claude Lévi-Strauss, Georges Bataille e Marcel Mauss), egli introduce concetti più vicini all’orizzonte timico e «improduttivo» delle cose, come quelli di perdita, residualità, sacrificio, dépense (nell’accezione batailliana). Ne Lo scambio simbolico e la morte (1976),11 ad esempio, l’organizzazione della società dei consumi è messa a confronto con quella delle società «primitive» analizzate da Mauss nel suo Saggio sul dono;12 laddove queste ultime conservano una dimensione simbolica dello scambio, vale a dire quell’eccesso di significazione che oltrepassa la mera funzionalità/strumentalità dell’oggetto-merce, quelle contemporanee praticano una forma di virtualizzazione che può essere «contusa» solo mettendo in circolo principi di non referenzialità tra le cose, disequilibri che debordano dai limiti e dai confini sanciti da quella che Amy Homes chia-

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Si vedano in particolare: J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano 1972; Id., La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture, il Mulino, Bologna 1976; Id., Per una critica della economia politica del segno, G. Mazzotta, Milano 1974. Segnalo che Le systeme des objets esce per Gallimard nel 1968. J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 1980; Si veda anche: Id., Della seduzione, Cappelli, Bologna 1980; Id, L’America, Feltrinelli, Milano 1987; Id., L’altro visto da sé, Costa & Nolan, Genova 1987. M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino 1965.

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mava, in un celebre romanzo, «la sicurezza degli oggetti».13 In tal senso, anche il pensiero di Maffesoli segue, da una prospettiva solo apparentemente opposta, questo medesimo tracciato speculativo. In saggi come Il tempo delle tribù o Nel vuoto delle apparenze14 il sociologo francese tende a individuare dinamiche molto simili a quelle appena descritte in quelle forme postmoderne di organizzazione sociale che si addensano attorno a micro-comunità, meglio ancora a nuove aggregazioni tribali, dove l’individualismo si scioglie in una serie di gesti e pratiche collettive e dove la dimensione razionale e meramente utilitaristica della permutazione è sostituita da una di carattere affettivo-sentimentale. Non gli oggetti in sé, ma i valori comunitari attribuiti loro, i bisogni elementari che soddisfano (quelli di contatto tra le persone e opposizione ai processi di parcellizzazione economica e sociale15), partecipano a innalzare gli steccati dentro i quali si coagulano questi gruppi. «Per masse che si diffrangono in tribù – afferma Maffesoli – il cemento fondamentale è un’emozione o una sensibilità vissuta in comune».16 Ed è, nondimeno, alla dimensione del piacere e dell’appagamento che egli guarda principalmente, collocandosi in quel filone di pensiero sociologico che, ribaltando il cosiddetto Entzauberung der Welt weberiano (il processo di secolarizzazione della società imposto dall’avvento della società borghese, illuminista e industrializzata), suggerisce un più recente processo di «re-incanto del mondo», ovvero di riscoperta della dimensione magica, ma soprattutto estetica ed estatica del presente. Tornando al cinema e riprendendo il filo del discorso tracciato da Antonio Costa, si assiste a un avvicendamento nelle sensibilità critico-teoriche degli studi sugli oggetti cinematografici: a un approccio per cosi dire «modernista» di ricerca delle forme di «reificazione» del soggetto nell’oggetto (ad esempio tutti i lavori dedicati al tema del dispositivo cinematografico comparsi negli anni Settanta), se ne sostituisce progressivamente uno «postmoderno»

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A. Homes, La sicurezza degli oggetti, minimum fax, Roma 2001. M. Maffesoli, Il tempo delle tribù. Il declino dell’individualismo nelle società di massa, Armando, Roma 1988; Id., Nel vuoto delle apparenze, cit. Su quest’aspetto si veda: M. Douglas, B. Isherwood, Il mondo delle cose. Oggetti, valori, consumo, il Mulino, Bologna 1990. M. Maffesoli, Il tempo delle tribù, cit., p. 105.

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attento, per dirla con Aumont, alla «cosificazione» dell’oggetto,17 ovvero a quei momenti di trasfigurazione visiva «in cui il cinema diventa capace di liberarsi dai condizionamenti delle apparenze e mira al raggiungimento dell’inattingibile».18 Per raggiungere tale obiettivo senza cadere nella tentazione di quella che Umberto Eco chiama la «vertigine della lista», conclude il ragionamento Antonio Costa, è necessario praticare forme di «rimontaggio» degli oggetti, attraverso selezioni timiche e «tribali» (ovvero non razionali) – è il caso del metodo Godard nelle sue Histoire(s) du cinéma (1988) – che alterino la linearità di certi processi e articolino nuove associazioni. In una stagione in cui si assiste a una continua proliferazione di beni e a un suo consumo bulimico, sono insomma le singole iscrizioni tratte da repertori immensi della cultura materiale a poter ambire allo statuto di cose e, così facendo, a infondere loro un nuovo ordine.19 3.3. Condensati dell’alterità Questa breve ricostruzione teorica mi permette di dimostrare che la presenza degli oggetti sullo schermo non è priva di ricadute semantiche ed esperienziali, men che meno quando avviene in contesti e luoghi «altri». Maschere del vento, manichini dei grandi magazzini, reti cucite per i pescatori, statue di terracotta, gatti di porcellana, ecc., sono oggetti che conquistano l’attenzione della macchina da presa non solo per la loro funzione strumentale, per la loro utilità sociale o per la loro efficacia tecnica, ma anche perché investiti di una qualche affettività e perché capaci, agli occhi dei registi, di cogliere e mostrare il carattere «inattingibile» di una particolare esperienza odeporica. Penso, giusto per scegliere un solo caso, ai sampuru, le perfette imitazioni plastificate dei piatti giapponesi viste in Tokyo-Ga di Wenders. 17 18 19

J. Aumont, L’objet cinématographique et la chose filmique, in «Cinémas: revue d’études cinématographiques / Cinemas: Journal of Film Studies», a. XIV, n. 1, 2003, p. 200. A. Costa, La mela di Cézanne, cit., p. 14. Ricordo che “l’ordre des choses” era una delle prime ipotesi di titolo per uno dei lavori divenuti capitali nel pensiero di Foucault ovvero: M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967.

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Il regista tedesco, intorno alla metà del film, sceglie di visitare una di queste piccole fabbriche artigianali e seguire il processo produttivo in tutte le sue fasi. La cura certosina con cui gli artigiani «cucinano» letteralmente i fogli di plastica cerata, i modi con cui li tagliano, li essiccano, li dipingono e li decorano fino a renderli letteralmente indistinguibili dai loro modelli reali, infonde a questi oggetti un valore spiccatamente simbolico (Fig. 3). Si badi però: non per i giapponesi che li producono e li vendono, ma esclusivamente per il regista straniero che li filma. Se, infatti, per i «nativi» quella che vediamo è semplicemente un’attività imprenditoriale volta a realizzare manufatti dalle mansioni ben precise (verificare che il cibo proposto da un ristorante corrisponda esattamente alla rappresentazione plastificata), per Wenders essa rappresenta una performance che interroga categorie concettuali come il «realismo», la «verosimiglianza» o l’«autentico» e che emblematizza un certo rapporto della cultura giapponese con (la caducità del)l’esistente. Agli occhi del cineasta sono, insomma, gli addentellati simbolici del gesto riproduttivo, che debordano, eccedono, sconfinano da un piano meramente funzionale dell’oggetto, a produrre sussulti, curiosità, intrighi. Ad accendere il suo sguardo. E con esso – talvolta, ma non sempre – malintesi, equivoci, incomprensioni. L’esempio di Tokyo-Ga ci fa capire che quando si parla di significato «debordante» si parte sempre da un’aderenza al materiale oggettuale. Il simbolico non è, in altri termini, un processo astratto che sublima il dato fenomenico, ma un diverso modo di relazionarsi concretamente con esso, cercando nel contempo di uscire dai suoi bordi. Ci si potrebbe allora domandare quali sono i bordi dell’imitazione di un sandwich o di un gatto di porcellana e come si possa oltrepassarli durante l’esperienza odeporica. Recuperando alcune delle posizioni precedentemente illustrate, diciamo intanto che i bordi di un oggetto non sono i suoi contorni fisici, ma i suoi modi di funzionamento istituzionalizzati. Se ha ragione Maffesoli quando afferma che l’oggetto è un «condensato del mondo», ovvero il prodotto di un processo di economia cognitiva, o se si preferisce un diverso modo di manifestazione sintetica dello «stereotipo», anch’esso risponde a un’istanza regolativa per oltrepassare la quale occorre in qualche modo eccedere dalla dimensione economica, produttiva,

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strumentale. Qui ci viene in aiuto Bodei quando ricorda che la trasformazione dell’oggetto in «cosa» serve soprattutto per «mostrare il soggetto stesso nel suo rovescio, nel suo lato più nascosto e meno frequentato». Arrischiando una personale inferenza, mi verrebbe da pensare che per oltrepassare i bordi dell’oggetto sia necessario, paradossalmente, capovolgerlo. Come quando per scrivere un commento su una cartolina occorre rivoltare per alcuni istanti il lato dove si trova l’illustrazione (l’oggetto interculturale), ecco che per attingere alla particolarità del soggetto, al suo lato più nascosto e meno frequentato, è necessario rovesciare il suo lato «dritto», la sua funzione. «Cosificare» gli oggetti in viaggio non significa dunque contaminarli, frammentarli, rovinarli, amalgamarli, bensì mantenerli intatti, curandone le superfici da qualsiasi degenerazione, e successivamente capovolgerne il senso. Naturalmente per «capovolgere il senso» è fondamentale che l’oggetto non abbia una sua immediata familiarità con la macchina da presa così da favorire il realizzarsi del processo descritto. Ne consegue che l’oggetto – lontano dalle abitudini dello spettatore – si cosifica (acquista valori altri rispetto a quelli meramente funzionali) per condensare in sé un’alterità «pura», dietro la quale si nasconde la soggettività «impura» o semplicemente autoreferenziale del viaggiatore. Prendiamo per esempio la celebre sequenza di Chung Kuo - Cina in cui Antonioni ci mostra come nascono i bambini nel paese maoista. Siamo nella Clinica Ostetrica di Pechino e un’operaia di trentacinque anni è distesa sul lettino di una sala operatoria in attesa di subire un taglio cesareo. L’anestesia viene praticata attraverso l’agopuntura. Le immagini si soffermano a lungo sugli aghi infilati nella pancia, poi sull’incisione uterina, sull’estrazione del feto e sulla calma olimpica della paziente. A proposito dell’agopuntura, la voce extradiegetica afferma che si tratta di «una pratica semplice, povera, che non richiede strumenti complicati», che «avvicina il paziente al medico in un rapporto umano più diretto», che «può essere imparata e applicata da chiunque» (le infermiere che la praticano sono infatti giovanissime). L’esperienza è di una tale «pregnanza» che dalla sua singolarità si può addirittura arrivare a sostenere che «anche le tecniche mediche in Cina sembrano voler dimostrare che si possono superare grandi ostacoli con mezzi semplici e usando gli antichi insegnamenti». Le parole di Antonioni non ci interessano per il loro

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grado di essenzialismo, ma perché rappresentano, plasticamente, proprio quel «rovescio» della cartolina su cui sto ragionando, ovvero quell’insieme di formule di «saluto» e socialità traduttiva che ci si attende giungano da un mittente che viaggia per il mondo. Si diceva che la materialità dell’oggetto – in questo caso l’ago – non viene meno, ma viene meno l’interesse per la sua efficacia. Gli aghi s’infilano, uno dopo l’altro e in tutta la loro lunghezza, nella pancia, nelle caviglie, nelle gambe della lavoratrice, ma il senso diffuso che essi comunicano non è quello della «naturalità» o degli «antichi insegnamenti» (almeno non quelli europei), semmai del dolore, del fastidio visivo o dell’incredulità (Fig. 4). Per quanto assomigli ai classici documentari medici, a uso e consumo di dottori, con la cinepresa che si attarda a riprendere i dettagli più intimi (il taglio dell’utero, il feto, il cordone ombelicale), anzi, forse a causa di un surplus di realismo dai tratti «raccapriccianti», la sequenza «cosifica» l’intervento, lo investe di affettività, facendone debordare il senso, anche se questo debordante emotivo – la voce di commento del regista, il sentimento di disagio dello spettatore comune – non è detto che sancisca l’originalità dello sguardo registico. Ma, in compenso, condensa un mondo (altro). Da qui secondo me derivano altri due processi legati alle rappresentazioni «cosificate» dell’alterità. Da una parte un costante ritorno su determinate immagini culturali che catturano la curiosità dei cineasti in viaggio, indipendentemente dalla loro identità e dal periodo storico in cui si mettono in cammino. Se si formasse una sorta d’immenso album composto dalle inquadrature di tutti i film esaminati, probabilmente ci accorgeremmo che molte di esse si ripetono con una precisa regolarità. Alcune occorrenze sono probabilmente prevedibili, altre meno. Tra le prime inserisco le immagini di lebbrosi in India (con i loro arti deformati), di ginnasti o praticanti di Tai-chi nei parchi cinesi (Fig. 5), di treni sopraelevati in Giappone, di monumenti famosi come la Grande muraglia in Cina o il Gate of India, di biciclette che attraversano le strade di Pechino, di chiatte e battelli che solcano il Gange, di avvoltoi che mangiano carcasse di animali nelle periferie delle metropoli indiane, di devoti che fanno le abluzioni nei fiumi o partecipano a cerimonie di cremazione induista. Sono in qualche misura immagini prevedibili perché appartengono a un immaginario culturale più ampio, coltivato anche da altri film o altri prodotti mediatici. Tra i secondi inserisco, perché sono

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abbastanza curiose, le sequenze che Marker e Wenders dedicano ai takenoko-zoku, una sorta di rockabilly giapponesi vestiti con abiti e accessori ispirati alla moda americana degli anni Cinquanta (Fig. 6), o a quelle ambientate negli ippodromi indiani dove Rossellini e Malle si attardano per mostrarci le classi alto-borghesi urbanizzate con il loro carico di cappellini, ombrelli, cravatte. Le immagini ripetute ci ricordano che esistono dei frame interpretativi che si attivano con una certa puntualità innanzi a uno sguardo culturalmente segnato come quello europeo, ma che si attivano solo in certe determinate circostanze e sempre solo in quanto addensatori di sensi «altri», che trascendono il mero valore strumentale dell’oggetto e oltrepassano il recinto fenomenico in cui è iscritto. In tal modo, scissi dal loro utilizzo quotidiano e incaricati di ghermire un’ampia gamma di significati simbolici e sensibili, gli oggetti si presentano in tutta la loro carica mostrativa e seduttiva. Eccoci al secondo processo di «cosificazione». Sembra, infatti, che i registi in viaggio riversino un certo investimento emotivo solo nei confronti di quegli oggetti che assicurano un’esperienza di natura estetica, quella sorta di «reincanto del mondo» teorizzato da Maffesoli che spinge alla riscoperta del carattere meraviglioso, quando non estatico, dello sguardo. Vorrei aggiungere, però, che nelle esperienze odeporiche non sono solo i manufatti o i prodotti artigianali a vivere i processi di «cosificazione» qui descritti. Sono «oggetti» che diventano «cose» anche certe categorie di persone (specialmente volti e corpi femminili, ma vi tornerò nel prossimo capitolo), quasi tutti gli animali (dagli elefanti alle tigri, dalle scimmie agli avvoltoi), alcune pratiche culturali e certe ritualità (cerimonie religiose, modelli di aggregazione sociale), certe forme architettoniche dai disegni accattivanti (i templi, le ceramiche), le sculture delle divinità che decorano i templi indiani, gli spettacoli di marionette, gli esercizi degli acrobati, le rappresentazioni teatrali dell’Opera di Pechino, le opere tecnologiche (dighe, centrali nucleari, canali di irrigazione), i robot e così via. Nella limitata giurisdizione che si può assegnare ai paragoni fatti tra film tanto diversi, mi pare che le occorrenze siano accomunate nel segno di un’attenzione verso le manifestazioni di valore storico-estetico-culturale che si allontanano consapevolmente dai doveri della mimesis e parallelamente esaltano le forme dell’invenzione, della manipolazione, dell’artigianalità. Giusto per limitarmi a qualche occorrenza penso, ad esempio, che le moschee di Esfahan entrino nel profilmico de Il fiore delle

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Mille e una notte di Pasolini e Plaisir d’amour en Iran (1976) di Varda (anche) per la raffinatezza decorativa delle maioliche, per i disegni ornamentali di forma geometrica (i cosiddetti girih) che mirano a rappresentare l’infinito, per la ricercatezza matematica delle composizioni architettoniche degli īwān (o delle loro nicchie ad alveare chiamate muqarnas), per il gusto per il calligrafico e l’arabesco, per la regolarità geometrica e astratta dei cortili o dei giardini. Insomma per tutti quegli elementi che oltre a un particolare portato estetico aggiungono un’esplicita dimensione simbolica, in questo caso con riferimento alle allusioni sessuali che lo spettatore europeo vi legge (le cupole come seni, i minareti come organi maschili eretti). Anche mostrare formazioni rigidamente codificate come gli spettacoli teatrali e di marionette, gli esercizi funambolici dei ginnasti che sfidano la forza di gravità, le costruzioni imponenti che mettono in luce i limiti della vista, senza contare l’attenzione per le grandi masse che si accalcano in determinati luoghi per ragioni politiche o sportive o di altra natura, risponde a una tensione verso una rappresentazione che non si adagia sulla restituzione piana del dato fenomenico, ma che lo scardina e lo trascende in un di più. Nei ginnasti e negli equilibristi che ci mostrano Marker, Ivens e Antonioni, simboli di un faticoso sforzo di sublimazione dell’individuo nella massa, nella danza di Seetha in La tigre di Eschnapur di Fritz Lang, prefigurazione di un discorso meta-linguistico su cui mi attarderò più avanti (§ IV 2.2.), nelle moltitudini di uomini mostrati da Malle o, ancora, da Antonioni, che, come comparse di un’imponente scenografia, si accalcano sui treni per raggiungere i posti di lavoro, nella manifestazione contro la guerra in Hiroshima mon amour, plastica «dimostrazione» delle distanze culturali tra i due protagonisti, non si cerca di raccontare un evento più o meno affascinante, più o meno vero, né di ricadere nella semplice ricerca del pittoresco o dell’esotico, del bello o del sorprendente. Al contrario, si cerca piuttosto di catturare il fascino per una performatività continuamente estratta dalla sua contingenza. Lo vediamo, anche, nell’insistente attenzione rivolta alla raffigurazione degli animali, soggetti peraltro tra i più comuni nell’immaginario esotico del nostro mondo. Occorre notare, a tal proposito, che raramente cammelli, elefanti, tigri, serpenti o altre specie animali generalmente associate a queste aree geografiche sono raffigurati come emblemi

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dell’alterità culturale o come minacce all’incolumità dell’esploratore «bianco», come invece accadeva nella letteratura odeporica o nelle stampe orientaliste, ma altrettanto raramente la loro presenza sullo schermo è frutto di una mera tensione alla mondanità. Più spesso anche gli animali, come certi oggetti, subiscono una sorta di antropomorfizzazione inconsapevole, ovvero di raffigurazione umanizzata in virtù della loro relazione mediata con le comunità native o i registi-viaggiatori. La scimmia in cattività o la tigre sotto minaccia dell’imperante modernizzazione mostrate da Rossellini in India Matri Bhumi, il cammello cieco che spinge una macina per produrre della sabbia ne L’India fantasma di Malle, la giraffa che viene uccisa da un cacciatore e muore esangue a terra in Sans soleil di Marker, gli avvoltoi che mangiano carcasse di bovini in Appunti per un film sull’India e ancora nei documentari di Malle, l’orso Michka, protagonista di un intero episodio di Lettre de Sibérie, la scimmia nella quale viene trasformato il principe Shahzamàn, in uno dei racconti delle Mille e una notte portato in scena da Pasolini, sono animali convocati essenzialmente per il ruolo simbolico e concettuale che ricoprono. L’ultimo aspetto che vorrei brevemente sviluppare rispetto a questi processi di «cosificazione» concerne le dinamiche relazionali che attiva. Qualche pagina fa si diceva che il «bene» (un termine peraltro che ha un carattere assiologico per nulla secondario in un approccio postcoloniale) mette in contatto, tiene insieme, solidifica, per dirla con Maffesoli, delle tribù, ovvero dei gruppi sociali più o meno coesi. Sebbene siano molte le formazioni sociali di stampo «tribale» messe in scena nei film odeporici (§ V 2.2.), le tribù che si amalgamano in questo caso sono essenzialmente quelle «europee» alle quali i registi guardano anche durante le loro spedizioni oltreconfine. Si pensi a Marker che a metà di Le Mystére Koumiko se ne torna a Parigi, mentre da un mercato delle pulci della capitale francese parte idealmente il suo viaggio in Cina di Dimanche a Pékin; si pensi a Pasolini che mette a confronto Sana’a e Orte sia in Le mura di Sana’a (1974) sia nel documentario Io e… Pasolini e la forma della città (1974); si pensi all’attrice di Hiroshima mon amour che allaccia una relazione con l’architetto giapponese a poche ore dal volo che la riporta in Europa; a Rossellini che commenta da uno studio televisivo romano e parigino le immagini che compongono le due serie gemelle L’India vista da Rossellini

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e J’ai fait un beau voyage; si pensi ancora al Wenders di Appunti di viaggio su moda e città che passa da Tokyo a Parigi nel giro di poche inquadrature o al collettivo di registi che partecipa alla realizzazione del documentario militante Lontano dal Vietnam composto in gran parte da immagini realizzate lontano, appunto, dai teatri di guerra nel sud-est asiatico. Al netto della simpatia suscitata, i nativi sono per lo più oggetti di scambio, «cosificazioni» che mettono in rilievo i soggetti che assegnano valore simbolico e concettuale alla loro presenza. Sono cartoline – lo vedremo meglio nel prossimo capitolo quando mi soffermerò sulla questione dei volti e dei primi piani – il cui rovescio assume forse ancora più importanza, perché è nella parte nascosta del cartoncino che si indicano mittente e destinatario e si licenziano le prime impressioni del viaggio. Il rovescio della cartolina, per molti versi, sono proprio le voci narranti che caratterizzano quasi ogni film di viaggio qui trattato.

4. VOCI EXTRA-EXTRADIEGETICHE 1

4.1. Un invito a venire a sentire, forse anche un invito a perdersi L’isola della donna contesa di Josef Von Sternberg è passato alla storia per la sua curiosa e singolare produzione. In un momento della sua carriera non particolarmente fortunato, il regista austriaco accetta la proposta di realizzare un film in Giappone ricevuta da un produttore locale conosciuto prima della guerra. Siamo all’inizio degli anni Cinquanta, quando si trasferisce prima a Tokyo, poi a Kyoto con la sua famiglia per circa un anno, rinunciando però all’aiuto di tecnici americani o europei e mettendosi alla guida di una squadra composta soltanto da attori e maestranze nipponiche. Il film che decide di mettere in scena narra di un piccolo evento della seconda guerra mondiale noto al pubblico dell’arcipelago – il naufragio su un’isola del pacifico di un gruppo di militari e la loro vita selvaggia e isolata per sette lunghi anni2 – rifiutandosi però di girare in esterni e chiedendo di ricostruire l’ambientazione insulare all’interno di un complesso industriale di Kyoto riadattato a stabilimento cinematografico per l’occasione.3 Nonostante la fama del regista, l’eccentricità dell’operazione, la moda nipponista in atto in quegli anni (durante tutti gli anni Cinquanta molti film di Kurosawa, Mizoguchi, Inagaki, Ichikawa e altri cineasti fanno incetta di premi), una volta terminato e distribuito nelle sale L’isola della donna contesa non si assicura un 1

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Si può trovare una prima versione di questo approfondimento sulle voci extra-diegetiche in M. Dalla Gassa, Voci sospese e contese. La dispersione delle polarità orientaliste nei limbi sonori extra-extradiegetici, in «Cinergie. Il cinema e le altre arti», n. 3, 2013, pp. 90-103. J. Rosenbaum, Aspects of ‘Anatahan’ in Id., Placing Movies. The Practice of Film Criticism, University of California Press, Berkeley 1995, pp. 87-94. Sulla genesi del film si veda in particolare: S. Mizuno, The Saga of Anatahan and Japan, in «Spectator», n. 2, 2009, pp. 9-24.

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seguito significativo di spettatori né in Giappone, né in Europa, né negli Stati Uniti, sparendo ben presto dalla circolazione e causando gravi difficoltà al cineasta che forse non a caso, dopo quella sfortunata avventura, non tornerà più dietro la macchina da presa. Definito qualche anno dopo dallo stesso Sternberg il suo vero capolavoro, in barba ai critici e al pubblico che ne avevano sancito l’insuccesso,4 rivalutato dagli studiosi solo dopo la sua morte5 in un’ottica autoriale, come sublime attestazione di un cinema barocco, finto, seducente, licenzioso, nemico di ogni «ontologia» del reale, il film fa la comparsa in questo studio come plastica dimostrazione di quanto poc’anzi affermato a proposito dell’inevitabilità e della produttività degli incontri culturali mancati, dei malintesi tra le parti che assumono i tratti del clamoroso e del sintomatico abbaglio. Come ricorda Sachiko Mizuno, le ragioni dell’insuccesso commerciale vanno ricercate negli equivoci che si pongono alla base dell’esperienza produttiva. Gli spettatori giapponesi, ad esempio, si rifiutarono di prendere seriamente (o ignorarono del tutto) il testo complesso di Anatahan considerandolo, implicitamente o esplicitamente, come un mero riflesso dell’esotismo, una brama coloniale e una paternalistica e inutile forma di simpatia da parte di un cineasta americano.6

Non basta che la pellicola sia recitata in nihongo da attori giapponesi, né che metta in scena un episodio della cronaca bellica noto al grande pubblico per conquistarne i favori. Come conferma la decisione dei produttori di «relegare» L’isola della donna contesa in un circuito di sale dedicate alla distribuzione di film stranieri, la pellicola appare fin da subito avulsa dal contesto produttivo e culturale del Sol Levante per varie ragioni.7 Quella che 4 5

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J. Von Sternberg, Fun in the Chinese Factory, The Macmillan Company, New York 1965. Per una storia della riscoperta, del recupero e del restauro della pellicola, avvenuta nel corso dei primi anni Settanta, si rimanda a: A. Slide, Nitrate Won’t Wait. A History of Film Preservation in the United States, McFarland & Co., Jefferson 1975, pp. 184-192. S. Mizuno, op. cit., p. 20 (trad. mia). Tra le tante possibili ragioni dell’insuccesso del film, Mizuno ne suggerisce almeno tre: la rappresentazione di una micro-società «barbarica» nella

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qui più m’interessa sottolineare riguarda la scelta di inserire una voce narrante extradiegetica a chiosa degli eventi. Chi ha visto il film sa, infatti, che esso è interamente commentato da una voice over in inglese, piuttosto prolissa e recitata dallo stesso regista, che interviene per illustrare il succedersi degli eventi, talvolta sovrapponendosi ai dialoghi tra i personaggi, talvolta no8 determinando conseguenze ricettive di non poco conto. Alle orecchie dello spettatore nipponico la voce inglese sembra una diretta espressione della recente presenza dell’occupante americano nell’arcipelago,9 mentre a quelle di un «occidentale»10 si offre come veicolo privilegiato di interrelazione con una diegesi che resta comunque inaccessibile, data l’impenetrabilità delle conversazioni tra i personaggi, né doppiate, né sottotitolate. Si produce così, in entrambi i casi, una distanza tra lo spettatore e la storia rappresentata, secondo vincoli di subordinazione da istanze terze e di straniamento nei confronti del racconto che moltiplicano quel sentimento d’isolamento culturale che pervade l’opera in ogni suo aspetto produttivo. Si aggiunga che la voce di commento de L’isola della donna

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quale quasi nessuna delle regole sociali abitualmente condivise dalla popolazione viene messa in pratica; la solidarietà nei confronti di un personaggio socialmente ambiguo (Keiko, l’unica donna sull’isola, trofeo sessuale e presagio di morte per il personaggio maschile che riesce – di volta in volta – a conquistare la leadership del gruppo); il risveglio dei sentimenti di vergogna e tristezza in un paese per il quale la sconfitta bellica costituiva ancora una ferita aperta. Ritroviamo l’escamotage narrativo sia nella versione per il mercato giapponese (dove compaiono i sottotitoli a tradurne il contenuto), sia nella versione internazionale dove si sostituisce al doppiaggio e alle garanzie che questa tecnica offre sul piano della comprensione e dell’immedesimazione. Com’è noto, l’esercito alleato (in gran parte costituito da soldati e amministratori americani) mantenne il controllo militare e politico del Giappone dal 1945 al 1952. Per un approfondimento sulla situazione politica del tempo si veda: E. Takemae, Allied Occupation of Japan, Continuum, New York-London 2003. In italiano: D. Tozzi Giuli, L’occupazione americana in Giappone, Kappa, Roma 1998. Scottato dall’insuccesso in patria e per evitarne uno analogo all’estero, il produttore Kawakita pensa di sostituire la voce di Sternberg con quella di un anonimo attore giapponese che recita in inglese con uno spiccato accento dell’arcipelago. La scelta, suggerita da alcuni distributori europei e giustificata dallo stesso Kawakita sulle colonne di Kinema Junpo, non preserva tuttavia il film da un pessimo risultato al botteghino. Cfr. J. Baxter, Von Sternberg, University Press of Kentucky, Lexington 2010, pp. 256-269.

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contesa non è onnisciente, ma glossa gli eventi da un punto di vista parziale, quello dei soldati giapponesi non coinvolti nei ménage con la protagonista del film (da qui la scelta di esprimersi in prima persona plurale), tanto da ammettere, in alcuni passaggi, di non conoscere l’esatto svolgimento di fatti comunque rappresentati dalla banda visiva. Come suggerisce Chion, in questo modo si determina una vera e propria frattura tra la voce del narratore-ácusma e lo sguardo indiscreto della macchina da presa […] ancora più inquietante se si pensa che questa voce – la quale afferma di non vedere – si trova proprio nel luogo che le consentirebbe di vedere tutto, quello del fuori campo, e si stenta a credere che essa non sia presente mentre è in corso l’azione che si sta svolgendo nel campo visivo. Si è piuttosto portati a credere che vi sia una certa malafede nella sua parziale cecità.11

Quello che lo studioso francese definisce un atto di malafede è in verità l’effetto di una tecnica piuttosto raffinata che rimarca il lavoro dell’istanza narrante e, indirettamente, le fatiche enunciative in cui incorre se coinvolta in operazioni interculturali di questa risma. Non bisogna dimenticare, recuperando le parole di Pascal Bonitzer, che la voce over ha in sé il potere «di disporre dell’immagine e di quello che essa riflette da un luogo assolutamente altro (rispetto a quello che si iscrive nella banda visiva)», 12 innescando dunque relazioni e prossimità con categorie quali quelle dell’alterità e dell’indeterminatezza che concernono intimamente questo studio. Più precisamente, seguendo il ragionamento di Mary Ann Doane: 11

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M. Chion, La voce nel cinema, Pratiche editrice, Parma 1991, p. 41. Ricordo che Chion ha dedicato diversi volumi allo studio della colonna sonora nel cinema, in tutti i suoi aspetti, non solo legati alla voce. Tra questi, segnalo almeno quelli pubblicati in italiano: Id., Musica, media e tecnologie. Un manuale per capire, un saggio per riflettere, Il Saggiatore, Milano 1996; Id., L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino 1997; Id., Un’arte sonora, il cinema. Storia, estetica, poetica, Kaplan, Torino 2007. P. Bonitzer, Les silences de la voix, in «Cahiers du cinéma», n. 256, 1975, p. 26. Sulle forme di «gestione» dei saperi narrativi da parte della voce narrante nel cinema americano si veda: S. Kozloff, Invisible Storytellers. Voice-Over Narration in American Fiction Film, University of California Press, Berkeley 1988.

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La voce over di commento […], a differenza della voce off, della voce over durante i flashback e del monologo interiore, è a tutti gli effetti una voce senza corpo. Mentre le precedenti tre voci lavorano per affermare l’omogeneità e la dominanza dello spazio diegetico, la voce over di commento è necessariamente presentata come esterna a quello spazio. Rappresenta una radicale alterità rispetto alla diegesi, che conferisce, a questa voce, una certa autorità. […] Parla senza alcuna mediazione con il pubblico, oltrepassando i “personaggi” e stabilendo una complicità tra sé e lo spettatore, il quale, grazie a essa, capisce e posiziona l’immagine. È a causa del fatto che la voce non è localizzabile, poiché non può essere legata a un corpo, che le è consentito di interpretare l’immagine, producendo la sua verità.13

Gli elementi di prossimità tra voice over e universo orientalista (in senso complessivo), iniziano a emergere in maniera lampante. La prima è depositaria di un potere assoluto (e spesso maschile) simile al potere/sapere di stampo colonialista che il secondo indirettamente esprime. Rappresenta un’assoluta alterità: un incontro di alterità tra immagine e suono che in campo culturale avviene tra un «noi» e un «loro», tra «civilizzati» e «primitivi», tra «occidentali» e «orientali» ecc. La voce over, poi, non è direttamente localizzabile né afferrabile come peraltro non lo è l’Oriente immaginato e narrato dai film esotici. Infine non ha corpo: è un costrutto culturale, è un’autorità indeterminata, nebulosa e planare come quella teorizzata da Said. Tuttavia Boillat, recuperando un’intuizione precedente di Chateauvert, aggiunge una considerazione sul costrutto che rende il quadro concettuale più sfumato: Il termine voice over […] connota la dimensione essenziale di questo procedimento: la voce plana, come una sorta di spirito, al di sopra del mondo diegetico da una parte e dello spazio della sala cinematografica dall’altro. Essa coinvolge l’umano senza il corpo, ma non senza trattenere, attraverso quello che Ronald Barthes ha chiamato la sua «grana», una parte dell’umanizzazione e della corporeità del locutore. La «grana» della voce, come dice Chateauvert, costituisce «una miniera 13

M. A. Doane, The Voice in the Cinema. The Articulation of Body and Space, in «Yale French Studies», n. 60, 1980, ripubblicato in B. Nichols (a cura di), Movies and Methods. An Anthology, Volume 2, University of California Press, Berkeley 1985, p. 572.

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d’informazioni sull’individuo», consentendo di associare certe caratteristiche vocali a un fisico dato, anche quand’esso non è mai mostrato sullo schermo. A dispetto di queste connotazioni, la voce over provoca comunque una disincarnazione che risulta non soltanto dall’assenza di visualizzazione del locutore diegetico, ma anche dalla stessa tecnica fonografica che consente […] una riproduzione senza tenere conto della presenza, né della esistenza, di una sorgente originale.14

Esiste, in altre parole, un processo di disincarnazione che, grazie alla tecnica fonografica, mantiene traccia di un’esistenza in un’assenza. In qualche misura, infatti, la voce conserva un’istanza documentativa che viene veicolata non dalle informazioni che trasmette (il suo sapere), ma da quelle che sono state materialmente incise, tracciate in un momento dato (la registrazione in sala), offerte come corollario semantico, come coloritura (il timbro, il ritmo, la «grana»). Si tratta di un piccolo passo in avanti nel ragionamento che però produce un rilevante scarto speculativo. Se fosse valida l’ipotesi di Boillat, nel bacino di suoni catturato sul nastro magnetico ci sarebbe un elemento che potenzialmente può incrinare l’unidirezionalità apparente dei meccanismi di funzionamento della voce (anche quella colonialista) e, subito dopo, l’eterodirezione dei saperi che essa mette in circolo. Lo spiega, ancora una volta e con parole più avvincenti, Chion, riferendosi complessivamente a tutte le voci di cui non è possibile individuare la fonte di provenienza che egli definisce acusmatiche. «L’ácusma è un elemento di squilibrio, di tensione, è un invito a venire a vedere, forse anche un invito a perdersi».15 Vi si trova, detto altrimenti, un sottofondo di incertezza nella certezza autoritaria della voce extradiegetica, un’apertura di credito o di possibilità potenzialmente imprevedibili e indomabili che nasce dalla dimensione materiale della voce over (l’incisione, il solco, la scalfittura). È esattamente in questo spazio dove il virtuale si fa concreto che si staglia il malinteso e che si produce quell’incomprensione di fondo la cui responsabilità va assegnata proprio all’istanza narrante, al suo asserire una verità (e un’autorità e una presenza) in un territorio di incertezza e imprecisione. 14 15

A. Boillat, Du bonimenteur à la voix-over. Voix-attraction et voix-narration au cinéma, Antipodes, Lausanne 2007, p. 24. M. Chion, La voce nel cinema, cit., p. 39.

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Torniamo al film di Sternberg. Abbiamo già visto alcune contraddizioni insite nel particolare uso della voice-over, non abbiamo però commentato quella più vicina ad altre esperienze odeporiche. Con la decisione di assumersi in prima persona la funzione del narratore, registrando la propria voce su nastro, Sternberg sembra suffragare le convinzioni di Boillat circa la presenza di uno spazio di significazione «altro» e «indipendente» rispetto al nucleo narrativo del film, un alveo che potremmo definire extra-extradiegetico perché non compromesso, né direttamente, né indirettamente, con la diegesi. La voce di Sternberg, infatti, sembra assolvere almeno tre funzioni, solo due delle quali riconducibili all’orizzonte del racconto. La prima è di tipo testimoniale (e diegetico) poiché le parole del commento restituiscono pensieri e opinioni di un gruppo preciso di personaggi coinvolti nel dramma. La seconda è di tipo retrospettivo (ed extra-diegetico), perché il momento in cui quelle parole sono pronunciate è successivo allo svolgersi dei fatti, implicando un processo di loro parziale riconfigurazione mnemonica. La terza, quella che qui m’interessa, è di tipo paratestuale (e dunque del tutto estranea al film), perché la voce sottintende, anche, una presenza fisica del regista (un esserci stato in Giappone in un determinato periodo) e una sua contemporanea trascendenza (l’essere di fatto vettore unico, traduttore dispotico, del senso complessivo del film). Se fosse vero, come credo, che queste ultime caratteristiche hanno il potere di attivare discorsi (non per forza positivi), esercitare una pressione sul piano mediatico, tracciare future linee di storicizzazione auratica, si potrebbe affermare allora che è attraverso il timbro, la grana, la cadenza della voce acusmatica sternberghiana che si stabilisce – in un rimandare a un altrove concreto rispetto al film – la principale condizione di estraneità della pellicola. In altre parole è come se fosse lo stesso Sternberg a mettere in atto tutti i presupposti affinché il suo film venga percepito dalla sua audience di riferimento come alieno, come altro e per certi versi inqualificabile. Ne consegue che sia la sua voce, non le opinioni che esprime, né tantomeno le immagini artefatte che filma, il vero portato esotico di tutta l’operazione, in un processo di denudamenti e di corporeità che di fatto coinvolge e convoca altri corpi – altri corpus – in questa sorta di appuntamento culturale (volutamente?) mancato.

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Sottopongo all’attenzione del lettore un altro caso, forse ancora più emblematico, di quello appena trattato e che rimanda al cinema di Pier Paolo Pasolini. Nella maggior parte dei suoi appunti di viaggio e dei suoi sopralluoghi, non solo la voce, ma anche l’investitura fisica del regista irrompono nella semiosi, determinando un asincronismo suono/immagine per certi versi ancora più dilaniante di quello di Sternberg. Basterebbe ricordare ciò che avviene in Appunti per un film sull’India e più precisamente nella sequenza d’esordio della pellicola, quando Pasolini si mostra in primo piano, sguardo fisso in macchina, mentre apre bocca e pronuncia una frase dal sapore programmatico: Non sono qui per fare un documentario, una cronaca o un’inchiesta sull’India, ma per fare un film su un film sull’India. I temi fondamentali di questo film sono i due temi fondamentali dell’intero Terzo Mondo, ossia i temi della religione e della fame.

Le verità cadono come pietre, ma sono pietre/parole friabili. Sono sufficienti pochi secondi per accorgersi che i movimenti labiali non coincidono col sonoro perché quest’ultimo non è stato registrato in loco, bensì in studio e poi sovrimpresso in fase di montaggio, come fosse un raffazzonato playback. Lo scarto improvviso contrasta con i postulati appena rivelati, «delegittimandoli» attraverso il primo piano di un volto scavato e sofferente e attraverso una grana e un timbro vocale insicuri. Collati insieme, questi elementi non determinano soltanto asincronismo ottico/ acustico, ma tracciano una doppia soggettività pasoliniana, dialettica e conflittuale. Quanto accade pochi istanti dopo non fa che confermare tale sensazione. Mentre scorrono le immagini di alcuni dipinti induisti e compare, in figura intera, un giovane portatore d’acqua, la voce di commento così prosegue: Ho chiesto a questo ragazzino che lavora nel convento di Rishikesh se uno dei monaci del convento, nel caso vedesse in una landa deserta dei tigrotti affamati che stanno morendo di fame, sarebbe disposto a dar loro il proprio corpo per sfamarli. E lui mi ha risposto di sì.

I dati visivi non convalidano quelli formulati dalla colonna sonora: il giovane scuote la testa, abbozza un sorriso, forse risponde

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positivamente a una domanda che non udiamo. Nondimeno la sua voce è assente, inascoltabile, sostituita da quella over pasoliniana che pretende di tradurne trame e accenti. Dobbiamo fidarci di quel che riporta Pasolini, senza avere certezza alcuna. Si reifica, in questo come in molti altri passaggi dei suoi Appunti per un film sull’India o dei suoi Sopralluoghi in Palestina, il carattere «endemico» che de Certeau assegna all’antropologia, ovvero il parlare al posto dell’altro o meglio ancora il tradurre le testimonianze orali delle società indigene in una «scrittura» che Clifford – ne riparlerò più avanti – avrebbe definito etnocentrica.16 Come un antropologo che non nasconde le operazioni arbitrarie che sono necessarie per dare forma organica agli appunti sparsi e disorganizzati presi durante un’indagine sul campo, così Pasolini procede per doppie articolazioni di coscienza, presentando convinzioni, fedi, partigianerie e insieme a esse, anche la materia grezza con cui sono state impastate. In qualche modo, come già Sternberg, si auto-esotizza, ovvero si pone «al di fuori» del consesso sociale e delle abitudini della rappresentazione, smarcando, una volta di più, la voce dalle immagini, per creare un intervallo dentro il quale le ermeneutiche possono agevolmente muoversi, contraddirsi, sostituirsi, integrarsi. L’operazione è identica a quella presente ne L’isola della donna contesa, con la differenza che qui la funzione mediale/storicizzante assolta dal regista de Il fiore delle Mille e una notte è ancora più accentuata sia per la sua presenza fisica nel quadro, sia per il registro documentaristico adottato, sia per la società «primitiva» e «terzomondista» che ha scelto di visitare. Pasolini passeggia, parteggia, ma soprattutto aleggia nel film. Ne consegue una sorta di paradosso antropologico: viaggio, insediamento, indagine, simpatia, scrittura e interpretazione (al posto) dell’altro restano operazioni etnografiche incluse in un film che accentua, egualmente, gli aspetti più autoritari, arbitrari, manipolativi della disciplina. Tutto si risolve nella più precaria delle opzioni: la richiesta di fiducia che egli rivolge agli spettatori (le carni ai tigrotti affamati) e che questi possono concedere o negare non al Pasolini diegetico (il corpo nell’immagine), né a quello extra16

Su de Certeau si veda almeno: M. de Certeau, La scrittura della storia, Il Pensiero Scientifico, Roma 1977 (in particolare il capitolo Etno-grafia. L’oralità o lo spazio dell’altro: Léry, pp. 219-257). Sulla messa in discussione delle proprietà e dei limiti della scrittura etnografica dell’Altro si rimanda a § V 2.

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diegetico (la voce nel film), ma solo a quello extra-extradiegetico, l’intellettuale italiano con tutto il suo corteo di insicurezze, contraddizioni, emarginazioni. Ci ritornerò (§ IV 5.). 4.2. Voci in quanto tali Si sottolineava, a inizio volume, il rischio, anche metodologico, nel voler a tutti i costi trovare uniformità e tendenze coerenti in un gruppo di pellicole realizzate da registi diversi, in periodi diversi, in paesi diversi, con finalità e registri enunciativi diversi. È indubbio, purtuttavia, che se esistono dei tratti di continuità tra i film qui studiati, uno dei più distinguibili è proprio riconducibile all’uso complesso della voice-over. La ritroviamo non solo nelle opere di Sternberg e di Pasolini già citate, ma anche nei film-saggio di Marker, Duras e Varda, nelle fiction di Robbe-Grillet e Resnais, nei documentari di viaggio di Antonioni, Malle e Wenders, nei lavori di Rossellini, ma anche in altri casi come quelli di Mekas (Reminiscences of a Journey to Lithuania, 1972), Lizzani (La muraglia cinese) Ivens (Comment Yukong déplaça les montagnes) e via discorrendo. Senza equiparare le varie strategie sonore scelte nei singoli film, può essere utile in questa sede concentrarci su quei lavori che sembrano sfruttare la voce extradiegetica come forma di accentuazione della soggettività dei cineasti in viaggio, alludendo appunto a uno spazio di espressione estraneo, nel quale l’orizzonte del malinteso o dell’intraducibilità culturale sembrano stagliarsi – con il loro carico di produttività – sullo sfondo degli eventi e delle rappresentazioni. Partirei, per emblematica del prelievo, dai lavori di Roberto Rossellini, un altro cineasta sulla cui esperienza in India tornerò diffusamente più avanti (§ V 5.). Inizio col dire che sia in L’India vista da Rossellini sia in India Matri Bhumi, il commento extradiegetico si pone come elemento negoziale nell’incontro tra il regista italiano e la realtà indiana. Si ricorderà, ad esempio, che tutte le puntate della serie TV hanno una struttura fissa e in qualche modo rassicurante. L’ambientazione iniziale è quella di uno studio televisivo, dove Marco Cesarini Sforza, un giornalista della Rai, introduce al tema della puntata e inizia a discorrere con il regista, chiedendogli notizie e curiosità sulla sua avventura indiana; Rossellini disquisisce

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amabilmente con il cronista, è prodigo di aneddoti, opinioni, dati statistici. Dopo alcuni minuti di conversazione, su uno schermo cinematografico montato all’interno dello studio televisivo, iniziano a scorrere le immagini catturate durante il soggiorno indiano dal suo operatore Aldo Tonti. Quando parte il filmato, le due voci in studio non si arrestano, ma continuano il loro fitto dialogo, il giornalista serrando quesiti e interrogativi su quanto sta vedendo, il regista glossando le immagini per evitare incomprensioni o per disinnescare luoghi comuni e pregiudizi su quel paese. Una volta terminata la proiezione, il «cicerone» e il suo sodale si congedano dal pubblico ridandosi appuntamento alla puntata successiva. Dalla costruzione schematica del programma emerge, intanto, che il format scelto assomiglia sia alla pratica dei film amatoriali di viaggio, sia alle modalità di fruizione dei film dei primi tempi, commentati da un bonimenteur per spettatori in cerca di emozioni esotiche. Un accostamento che vale anche per altri film già citati (L’isola della donna contesa, Sopralluoghi in Palestina, Appunti per un film sull’India, ecc.), questa volta però figurativizzando – prima e dopo la proiezione dei materiali audiovisivi – il luogo di emissione e registrazione sonora della voce di commento, ovvero lo studio televisivo della Rai. Come giustamente nota Angel Quintana, La serie L’India vista da Rossellini/J’ai fait un beau voyage è anch’essa determinata dalle costrizioni proprie dell’ambito informativo in cui è collocata. La televisione pretendeva di mostrare gli aspetti della vita collettiva di un paese e non di riflettere sui problemi soggettivi di un’individualità in viaggio. Questa volontà collocava la serie all’interno dei perimetri imposti dalla pedagogia classica, ovvero quelli della trasmissione di un sapere costituito.17

Il «sapere costituito» di un medium istituzionalizzante come la televisione, che rinforza e raddoppia il potere, l’autorità, l’autorevolezza esercitati dal regista-pedagogo-specialista, conserva però, a mio modo di vedere, anche gli antidoti contro l’unidirezionalità ermeneutica del senso. Essi sono dispersi, una volta ancora, nell’i17

A. Quintana, Voix plurielles, voix distantes. La question de l’énonciation in N. Bourgeois, B. Bénoliel, A. Bergala (a cura di), India. Rossellini et les animaux, Cinémathèque française-Cinéma Jean Renoir-La Coursive, Paris-Martigues-La Rochelle 1997, p. 87 (trad. mia).

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nafferrabilità dei piani sonori. Si pensi alle voci di Rossellini e del giornalista, che non possiamo considerare veramente «extradiegetiche» perché non appartengono alla colonna sonora di un testo cinematografico, ma sono il prodotto di una pratica sociale essenzialmente orale, interna a un testo televisivo. Sono voci diegetiche di una diegesi che si svolge all’interno di uno studio televisivo. In tal modo, cioè per consentire il batti e ribatti tra i due, i suoni della vita quotidiana indiana vengono lasciati in un sottofondo poco o per nulla udibile. Così facendo viene eliso lo spazio acustico indiano che diventa inaccessibile, paradossalmente protetto dalle voci italiane che vi si depositano, malamente, sopra. Una sfera di rumori, dialoghi, vibrazioni, musiche, che è comunque registrata su un nastro magnetico, conservato forse in qualche archivio o in qualche teca, alveo di tracce sonore che rimandano a presenze fisiche ormai irraggiungibili e dunque fuori da qualsiasi giurisdizione autoritaria. Se, poi, accostiamo la serie televisiva alla docu-fiction, scopriamo che il paesaggio sonoro si allarga e si stratifica ancor di più. In India Matri Bhumi esiste una voce narrante che si esprime in terza persona e che compare in alcuni particolari momenti del film (durante le transizioni da un episodio all’altro, nell’introduzione a ogni racconto, nell’episodio della scimmia). Come la più classica delle voices of God, quella elaborata da Rossellini appare pletorica, sicura di sé, convinta delle verità che riferisce («l’India più autentica vive nei suoi 580 mila villaggi…»). Tuttavia, accanto a essa, si giustappongono tre voci narranti che si esprimono in prima persona e che appartengono – idealmente – ai protagonisti dei primi tre episodi messi in scena. Diciamo idealmente, perché così come ne L’isola della donna contesa, queste voci non si sostituiscono a quelle dei protagonisti (che dialogano tra loro senza doppiaggio, né sottotitoli), ma semplicemente si affiancano a esse, recitate in italiano da attori che tradiscono un leggero accento straniero. Così, ogni personaggio, oltre a possedere una voce «vera», registrata in loco, ne possiede una seconda, vicaria, che si esprime nella lingua degli spettatori, ma che non appartiene, come negli altri casi analizzati, al regista del film. Appartiene semmai a una soggettività (l’attore di origini straniere che parla «al posto» dell’indiano) abbandonata a un mondo fantasmatico, a un luogo extraextradiegetico, una soggettività portatrice di un’identità straniera,

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a sua volta emarginata, perché sconosciuta. Senza diritto di asilo nel racconto, essa lascia tracce, segni, incisioni in una dimensione acusmatica che produce inquietudine. India Matri Bhumi conferma che la voce di commento, riconducibile a un posizionamento autoriale/autoritario collocato in un luogo terzo e con il quale ogni elemento della corporeità del film si deve relazionare, è una presenza fisica che valica i registri narrativi, contaminando appunti, sopralluoghi, finzioni, film sperimentali, lettere, ecc., anche se poi esistono modi diversi di abitare lo spazio extra-extradiegetico. In Hiroshima mon amour, ad esempio, le voci dei due personaggi giungono da un altrove dal quale manifestano tutta la difficoltà di capire la tragedia di Hiroshima («Ho visto tutto». «Non hai visto niente»)18. Nei documentari invece – non solo in quelli di Pasolini – la voce di commento è sempre assegnabile all’autore in qualità di testimone, bonimenteur, presenza/assenza e sguardo forte. Talora gli interventi che offre sono obliqui, velati, indiretti, come capita al commento trattenuto e alla significazione del non detto di Chung Kuo - Cina. Altre volte invece le parafrasi che provengono dall’extradiegesi vorrebbero assicurare un surplus d’informazioni e notizie allo spettatore quando, invece, cadono immediatamente nella forma diaristica della confessione delle proprie impressioni o emozioni. Si pensi al dittico L’India fantasma e Calcutta all’interno del quale Malle, inizialmente interessato a redigere un’opera di pura osservazione, finisce ben presto per proiettare, con un misto di entusiasmo e malessere, la propria scomposta soggettività, illustrando le immagini con una verbosità che tradisce la fatica di trovare un ordine all’enorme quantità di sollecitazioni che lo investono19. Un caso analogo si trova nei documentari giapponesi 18

19

Tra i testi che si occupano della voce di commento e della colonna sonora di Hiroshima mon amour rimando a: A. Boillat, op. cit., pp. 449-482; J. Cazenave, La voix off au féminin. Hiroshima mon amour et Aurélia Steiner, «Cahiers de Narratologie», n. 20, 2011, reperibile online all’indirizzo: http://narratologie.revues.org/6365 (ultima consultazione 24 ottobre 2015). Per un approfondimento sulla relazione tra immagini e commenti della voce narrante, in un’ottica postcoloniale che sottolinea il carattere complesso dello sguardo malliano rimando a: T. Bewes, “Another Perspective on the World”. Shame and Subtraction in Louis Malle’s ‘L’Inde fantôme’ in S. Bignall, P. Patton (a cura di), Deleuze and the Postcolonial,

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di Wim Wenders, dove la sua voce di commento, registrata in un inglese con intonazione tedesca si fa strumento per avanzare considerazioni personali sul viaggio, sulla memoria, sull’identità. D’altra parte, in esempi contrapposti a quelli appena convocati, l’uso della voice-over assume coloriture o offuscamenti inaspettati. Sto pensando a A.K. di Chris Marker dove possiamo ascoltare due voci extradiegetiche, quella del documentarista francese che agisce secondo forme espressive simili a quelle di altri suoi film (ci tornerò fra poco) e quella di Kurosawa che sentiamo parlare in giapponese in alcuni passaggi del making-of. Registrata di nascosto dai suoi collaboratori e riproposta da Marker senza essere doppiata, né parafrasata, quest’ultima voce è lasciata a un limbo di significazioni fondate essenzialmente sulla sua musicalità o, se si preferisce, sulla sua «grana». In questi e in altri casi,20 mi sembra che la voce narrante acquisti un peso ancora più rilevante, perché innanzi a immagini che possono essere autenticate per via delle insicurezze proprie del viaggio e dei malintesi interculturali, si risponde autenticando le emozioni che suscitano le esperienze odeporiche, infondendo loro corpo, colore, timbro. Detto altrimenti, sono i processi in itinere di processi in itinere – i film di viaggio – a restare quale pratica feno-

20

Edinburgh University Press, Edinburgh 2010, pp. 175-180. Un caso che meriterebbe di essere approfondito e che qui è ricordato in nota solo perché non si riferisce strettamente a una esperienza odeporica, è quello di India Song e di Son nom de Venise dans Calcutta désert (1976) di Marguerite Duras. Nel primo dei due lavori durasiani due piste narrative diverse si muovono parallelamente, una nella banda audio e l’altra nella banda video costruendo percorsi interpretativi (parzialmente) indipendenti, grazie ai quali la scrittura, prima ancora della sua recitazione orale, si fa performance esibita; nel secondo la regista/scrittrice ripropone la medesima colonna sonora di India Song a «commento» di una serie di quadri vuoti e statici all’interno dei quali non si svolge alcun racconto, dove non compare più alcun personaggio, dove dunque le presenze extra-extradiegetiche (relative al precedente film) abitano nuovi habitat fantasmatici. Sugli universi sonori dei due film segnalo: D. Liang, Marguerite Duras’s Aural World. A Study of the mise-en-son of India Song, in «Music, Sound, and the Moving Image», a. I, n. 2, 2007, pp. 123–139; L. Russell-Watts, Analysing Sound and Voice. Refiguring Approaches to the Films of the Indian Cycle, in R. Maule, J. Beaulieu (a cura di), In the Dark Room. Marguerite Duras and Cinema, Peter Lang, Oxford 2009, pp. 235-255.

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menologica privilegiata, come dimensione sonora dell’autentico, che tuttavia per affermarsi necessita, come una sorta di contraltare, di una voce «altra» da silenziare e così facendo proteggere dalle prassi della significazione. Per evidenziare tale paradosso, faccio un ultimo esempio tratto da Sans soleil di Chris Marker, nella fattispecie dalle sequenze in cui compare Yamaneko Hayao, amico dell’alter-ego Sandor Krasna, videoartista giapponese che manipola materiali audiovisivi di repertorio attraverso un sintetizzatore chiamato La Zona. Solo grazie alle sue parole è possibile definire i contenuti e il senso di quelle che appaiono agli occhi dello spettatore delle macchie saturate di colore. Tuttavia non è l’artista a parlare, bensì la voce narrante di una donna che legge le lettere ricevute da Sandor Krasna che descrive, in questo caso, la sua visita al laboratorio di Yamaneko. Mi ha mostrato i disordini degli anni Sessanta elaborati dal suo sintetizzatore. ‘Immagini meno bugiarde – afferma con la convinzione propria dei fanatici – di quelle che vedi in televisione’. Almeno si danno per quello sono, immagini in quanto tali, non la forma mobile, ma compatta di una realtà già inaccessibile.21

Se le immagini si offrono per quello che sono, ovvero solo come mere immagini, senza più legame alcuno con una realtà ormai diventata inaccessibile, la colonna sonora invece pone una serie di filtri o di livelli di significazione: c’è l’artista nipponico che parla per interposta persona e l’interposta persona (Sandor) che a sua volta parla per mezzo di una nuova interposta persona (l’amica che legge le lettere), capitalizzando una riflessione sul significato delle immagini e della memoria che appartiene, probabilmente, a un quarto soggetto, ovvero lo stesso Marker. Ne consegue che l’autenticità del processo di sintetizzazione dell’immagine («Des images moins menteuses […] que celles que tu vois à la télévision») è restituito dall’autenticità di voci che parlano sottraendosi, di presenze che si collocano sfuggendo e che ancora una volta contribuiscono a lasciare in fuoricampo voci, immagini, realtà di un Giappone che diventa ancor di più intraducibile e impenetrabile. Voci in quanto tali (quelle dei cineasti), per silenziare voci in quanto ipotesi. 21

Mia traduzione dal commento originale del film.

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In conclusione di ragionamento possiamo trattare le voice-over odeporiche alla stregua di strumenti che rendono «localizzabile» (si tratta in massima parte di un’allusione alla localizzazione) un alveo extra-extradiegetico, nel quale si staglia una figura àcusmatica, quella del regista in viaggio, che si manifesta attraverso una «grana», un «colore», un’identità altra. Questa condizione pone in essere una serie di strategie d’interposizione tra il «reale» e il «rappresentato» che evidenzia il dispotismo del costrutto. Malamente calata sulle immagini, la voce di commento produce conflitti, marca separazioni, genera esotismi, pratica imperturbabilità, finendo per moltiplicare le soggettività in campo e contribuendo così a polverizzare uno dei due poli dicotomici in contatto (il sé del cineasta). Quanto al secondo ipotetico polo – quello dell’alterità e dell’altrove – tanto nel Giappone sternberghiano o markeriano quanto nell’India rosselliniana e pasoliniana – esso è in qualche modo preservato dal soffocato mutismo cui è relegato. Certo, la condizione di disequilibrio tra conoscenze, poteri, doveri di rappresentazione resta analoga a quella dell’orientalismo «classico», dacché è sempre l’autorità occidentale a prendere la parola al posto degli altri. Esiste nondimeno, agibile e percorribile, una sorta di spazio dell’indifferenza, un parallelo cosmo extra-extradiegetico che esoticizza qualunque viaggiatore occidentale cerchi di accedervi. Un orizzonte del mistero, ben figurativizzato da Le Mystère Koumiko, nel quale accanto alla voce extradiegetica di Marker si aggiunge, a un certo punto, anche quella della giovane segretaria giapponese. La sua voce – registrata su nastro magnetico quando già il regista è partito per Parigi e da questi montata sopra una serie di immagini di «repertorio» catturate durante il soggiorno a Tokyo – assorbe, come quella di Sternberg, tutte le possibilità enunciative della narrazione: è diegetica, emessa da un impianto stereofonico presente nella stanza/studio di Marker, è extradiegetica, incisa sulla colonna sonora, mentre le immagini ci mostrano tranche de vie nipponiche (inerenti al tema trattato dalle singole risposte), allude, infine, a un limbo extra-extradiegetico, che è quello della sua presenza altrove. Non a caso, quando il regista torna in Giappone per il suo Sans soleil, sembra alla ricerca di un corpo e di un viso che non compariranno più. Sans soleil è un ritorno sugli stessi luoghi di diciassette anni prima. […] Tutto sembra immutato eppure manca Koumiko. […] Quale pa-

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ese meglio del Giappone, per dare forma visiva all’assenza? L’unico luogo dove tutto ciò che si è perso, si è rotto, si è logorato viene nobilitato da una festa. Dove anche per Koumiko Muraoka, di professione segretaria, ormai donna di mezza età, viene eretto un santuario di immagini che un tempo sono state impresse nel suo sguardo.22

22

I. Perniola, Chris Marker o del film saggio, Lindau, Torino 2003, p. 171.

5. ORIENTE COME PALCOSCENICO. LA CINA DI MICHELANGELO ANTONIONI

Tra i film odeporici che hanno maggiormente subito la «produttività del malinteso» vi è sicuramente Chung Kuo - Cina di Michelangelo Antonioni1. Ricordiamone brevemente la genesi. Siamo nel 1972. Il cineasta ferrarese sta vivendo un momento piuttosto delicato della propria carriera. L’esperienza americana di Zabriskie Point si è rivelata un mezzo fallimento2 e anche il progetto su cui sta iniziando a lavorare, intitolato Tecnicamente dolce, non raccoglie attorno a sé i finanziamenti sperati.3 Così, quando la Rai contatta il regista per proporgli di guidare una produzione unica nel suo genere, offrendogli la possibilità di visitare e documentare la vita di una nazione isolata dal mondo, per di più nel pieno di quella «Grande rivoluzione culturale proletaria» in nome della quale pochi anni prima migliaia di giovani europei erano scesi per le strade in tutta Europa, egli accetta l’incarico senza esitazione, affrontando quella che non poteva che rivelarsi una sfida sotto ogni punto di vista: culturale, politico, sociale, rappresentativo. Come emerge da molti racconti e ricostruzioni,4 l’esperienza 1

2 3 4

Per un più ampio sviluppo delle argomentazioni qui presentate mi permetto di rimandare a M. Dalla Gassa, Il migliore dei documentari impossibili. ‘Chung Kuo – Cina’ di Michelangelo Antonioni, in «Arts & Artifacts in Movie: Technology, Aesthetics, Communication», n. 11, 2014, pp. 69-89. Sulle difficoltà occorse al regista durante e dopo la produzione di Zabriskie Point si rimanda a: S. Chatman, Antonioni, or the Surface of the World, University of California Press, Berkeley 1985, pp. 159-176. Sulla difficoltà di realizzazione del progetto si veda l’introduzione del racconto/sceneggiatura pubblicato qualche anno dopo. Cfr. M. Antonioni, Tecnicamente dolce, a cura di Aldo Tassone, Einaudi, Torino 1976. Oltre ai testi citati nelle altre note si vedano anche: J. F. Lane, Antonioni Discovers China, in «Sight and Sound», a. XLII, n. 2, 1973, pp. 86-87; J. M. Barker, Bodily Irruptions. The Corporeal Assault on Ethnographic

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cinese di Antonioni si fa difficile fin dai primi giorni di arrivo a Pechino. Il documentario, rientrando tra i lavori agevolati e sostenuti dall’establishment del partito comunista affinché offrano alla comunità internazionale un’immagine positiva del paese, è supervisionato dalle autorità sia nelle fasi di pre-produzione sia durante la vita del set. L’itinerario è stabilito dalla committenza, le riprese e gli spostamenti da un luogo all’altro sono controllate da funzionari statali, ogni contatto con la popolazione avviene tramite l’intermediazione di guide e traduttori ufficiali. Il soggiorno cinese dura in effetti poche settimane, durante le quali Antonioni e la sua troupe attraversano luoghi più o meno celebri del passato imperiale (la Grande muraglia, la Città Proibita, la Via sacra, le tombe degli imperatori Ming, i giardini classici di Suzhou) e del presente rivoluzionario cinese (i sistemi di dighe e canali della provincia dell’Henan, il ponte di Nanchino, le comuni agricole, il traffico fluviale e mercantile, il riuso comunitario di vecchi edifici imperiali), visita le principali metropoli del paese (Pechino, Nanchino, Suzhou, Shanghai) e alcune sue regioni interne (le provincie di Henan, Hebei, Hunan e Jiangsu). Il risultato è un documentario di osservazione senza eccessive ambizioni formali, senza apparenti attriti e ambiguità, caratterizzato da una serena e placida compostezza. Dopo una presentazione in pompa magna in TV (Chung Kuo viene «lanciato» dalla Rai come l’evento televisivo dell’anno e proiettato in tre puntate tra il gennaio e il febbraio del 1973), la pellicola viene presto dimenticata nelle teche della televisione di Stato per alcune non secondarie ragioni. Intanto l’accoglienza della critica è tiepida, se non negativa, proprio perché il risultato confligge con l’idea autoriale che si è ormai intrecciata attorno al suo nome. Poi, a peggiorare le cose, giunge inaspettata una campagna di boicottaggio lanciata dalle stesse autorità politiche cinesi quasi un anno dopo la prima programmazione televisiva. A seguito di alcune proiezioni private nell’estate e nell’autunno del 1973, il governo cinese decide infatti di censurare la pellicola e vietarne la distribuzione in patria. A monito di ciò, il 30 gennaio 1974, il quoNarration, in «Cinema Journal», vol. XXXIV, n. 3, 1995, pp. 57-76; C. Di Carlo, Le regard imposé, video-intervento presente negli extra dell’edizione DVD francese del film.

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tidiano pechinese Renmin Ribao pubblica un articolo al vetriolo contro Chung Kuo - Cina nel quale si sostiene, tra le altre cose, che Antonioni è al servizio della propaganda fascista e imperialista occidentale e ha scientemente offerto una caricatura offensiva della Rivoluzione culturale. In poco tempo, in tutto il paese, vengono divulgati tazebao di critica alla pellicola, scritte canzoni di propaganda e capitoli dei sussidiari scolastici contro il regista, convocate manifestazioni di massa, attivate le diplomazie. Non contento delle azioni organizzate in patria, il governo cinese5 cerca anche di impedire la proiezione del film in varie occasioni pubbliche internazionali (anteprime, festival, ecc..) tanto da trasformare il documentario in un vero e proprio casus belli. Nel settembre 1974, ad esempio, in un evento collaterale della Mostra del Cinema di Venezia, l’opera è proiettata tra mille difficoltà, in mezzo a tafferugli causati da giovani maoisti inferociti, cordoni di polizia rinforzati, ministri infastiditi, ambasciate irritate.6 Con il passare degli anni, il documentario continua a mettere in imbarazzo i suoi autori, ma per ragioni diametralmente opposte. Anche in virtù delle verità storiche che emergono a proposito dei crimini commessi da Mao e dalla cosiddetta Banda dei Quattro durante «i dieci anni perduti»,7 Chung Kuo - Cina si trasforma in un film scomodo perché descrive la realtà cinese in modo indulgente, senza attriti e polemiche, tanto che non è raro imbattersi in articoli che – adottando uno sguardo retrospettivo incapace di

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Un interessante sguardo sul film alla luce delle relazioni diplomatiche tra Cina e Italia sotto il maoismo si trova in M. F. Pini, Italia e Cina, 60 anni tra passato e futuro, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2011. Archivio Storico delle Arti Contemporanee (a cura di), La querelle su Chung Kuo - Cina di Antonioni, in «Annuario 1975, Eventi del 1974», La Biennale di Venezia, Venezia 1975, pp. 511-518. È così che gli storici cinesi definiscono il periodo della Rivoluzione culturale, durante la quale sono all’ordine del giorno malversazioni e, in molti casi, veri e propri crimini ai danni degli oppositori e dei nemici politici della Banda dei Quattro. Per una rilettura della storia di questo decennio rimando a: P. Clark, The Chinese Cultural Revolution. A History, Cambridge University Press, Cambridge 2008; Yan J., Gao G., Turbulent Decade. A History of the Cultural Revolution, University of Hawaii Press, Honolulu 1996; F. C. Teiwes, W. Sun, The End of the Maoist Era. Chinese Politics During the Twilight of the Cultural Revolution, 1972-1976, M. E. Sharpe, Armonk (NY) 2007.

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compiere una corretta contestualizzazione degli eventi8 – ribaltano l’accusa rivolta a quel tempo ad Antonioni imputandogli ora simpatie maoiste.9 Quest’insieme di paradossi e capovolgimenti delle attese, di malintesi e incomprensioni reciproche non rappresenta soltanto una nota di colore indipendente e disgiunta dalla storia ricettiva del film, ma ne determina i contorni, le (s)fortune, le direzioni esegetiche. Su un versante si registra la tendenza alla rimozione quasi calcolata della pellicola dai discorsi agiografici che ricostruiscono l’attività del cineasta. Se ne capisce anche il motivo: Chung Kuo – Cina, come ho già ricordato, male si colloca nell’edificio autoriale innalzato nel corso degli anni attorno alla figura di Antonioni e dunque capita spesso che monografie e studi tendano a derubricare l’avventura cinese a fatto isolato e marginale. Poco centrano i contadini cinesi, i cori di propaganda degli studenti, gli esercizi di Tai-Chi con il cantore lucido del «modernismo» e il teorico della «visione come problema».10 Sull’altro versante, le disavventure del cineasta con la 8

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Scrive il giornalista Federico Rampini: «Rivisto oggi colpisce e imbarazza per la sua acritica simpatia verso il maoismo. La scelta dei soggetti è quasi sempre apologetica, un’elegante traduzione della propaganda ufficiale: il patriottismo delle operaie in fabbrica, le sedute di dottrina rivoluzionaria, i canti e le gare dei bambini a scuola, il duro ma gratificante lavoro dei contadini nei campi, la giovane partoriente che subisce un cesareo senza anestesia […] con un beato sorriso sulle labbra. I commenti trasudano ammirazione. […] La grande assente in Chung Kuo è però la tragedia della Rivoluzione culturale. Nulla nel film lascia intuire ciò che stava accadendo davvero in quegli anni: l’uso golpista dell’esercito da parte di Mao per far fuori i moderati, le purghe di massa, le persecuzioni ideologiche, i processi sommari, le autocritiche umilianti in pubblico, i lager dedicati alla rieducazione, la chiusura delle università, gli studenti e i docenti mandati al confino nelle campagne». F. Rampini, Il secolo cinese, Arnoldo Mondadori, Milano 2010, p. 54. Sul ruolo complesso giocato dagli intellettuali europei nella diffusione del pensiero politico cinese nel Vecchio Continente rimando a P. Hollader, Political Pilgrims. Western Intellectuals in Search of the Good Society, Transaction, New Brunswick 1997; A. M. Brady, Red and Expert. China’s Foreign Friends in the Great Proletarian Cultural Revolution 1966-1969, in Woei L. C. (a cura di), China Great Proletarian Cultural Revolution. Master Narratives and Post-Mao Counternarratives, Rowman & Littlefield, Lanham 2002, pp. 93-138. Il riferimento è naturalmente a uno dei testi più importanti che hanno definito il modernismo antonioniano ovvero: L. Cuccu, La visione come problema. Forme e svolgimento del cinema di Antonioni, Bulzoni, Roma

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Cina maoista spingono intellettuali come Umberto Eco, Serge Daney, Susan Sontag, Simon Leys e altri,11 a partecipare alle querelle politiche in atto per riflettere, ad esempio, sui complessi meccanismi di traduzione interculturale che si sono prodotti. Anche se discontinua e disorganizzata, si genera attorno a Chung Kuo - Cina una sfera discorsiva esterna al film costituita da fatti eterogenei, ma tra loro interconnessi come le battaglie ideologiche tra fazioni, i dotti ragionamenti degli intellettuali, le rimozioni calcolate, le prese di posizione ufficiali, le riscoperte postume e le riletture nostalgiche.12 Un campo discorsivo, insomma, che, come cercherò di illustrare in questa parte del volume, consente di cogliere le ambivalenze del contatto, la delicatezza dei processi di contrattazione del senso e l’autorevolezza e/o l’autorità di chi li conduce. In una formula: la «produttività del malinteso». 5.1. Non ero andato in Cina per comprenderla, ma solo per vederla. Cercando il volto di questa nuova società, ho seguito la mia tendenza naturale a concentrarmi sugli individui e a mostrare l’uomo nuovo,

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1973. Di Cuccu si vedano anche le successive «riscritture» sull’autore ferrarese, confluite nel recente: Id. Il discorso dello sguardo e altri saggi, ETS, Pisa 2014. Cfr. U. Eco, De Interpretatione, ovvero della difficoltà di essere Marco Polo in Id., Dalla periferia dell’impero. Cronache da un nuovo medioevo, Bompiani, Milano 1976, pp. 178-185; S. Sontag, Photography Unlimited, in «New York Review of Books», a. XXIV, n. 11, 1977, pp. 26-31 (ora anche in S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino 1992); S. Leys, Ombres chinoises, Bibliothèque asiatique, Paris 1974. Mi riferisco in modo particolare al successo registrato pochi anni fa da Chung Kuo - Cina in occasione di alcune proiezioni del film svoltesi a Pechino tra il 2002 (all’Istituto Italiano di Cultura) e il 2004 (all’Accademia del cinema) con un Michelangelo Antonioni ormai malato e impossibilitato a presenziare alle proiezioni, ma felice di mostrare il suo lavoro a spettatori cinesi a loro volta commossi e incuriositi dal poter rivedere immagini di un periodo storico quasi del tutto rimosso dal dibattito pubblico contemporaneo. Per una storia della ricezione del film in Cina, dagli anni della Rivoluzione culturale a oggi, si veda in particolare Xin L., China’s reception of Michelangelo Antonioni’s Chung Kuo, in «Journal of Italian Cinema & Media Studies», a. 2, n. 1, 2014, pp. 23-40.

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piuttosto che le strutture politiche e sociali che la rivoluzione cinese ha creato. Per comprendere queste strutture bisognerebbe restare nel paese molto più a lungo. Queste cinque settimane mi hanno permesso solo di dare un rapido sguardo; come viaggiatore ho visto le cose con l’occhio del viaggiatore. Ho cercato di portare con me lo spettatore del film, di portarlo, per così dire, per mano, e di farmi accompagnare da lui in questo viaggio. Inoltre le strutture politiche e sociali sono delle entità astratte che non si possono esprimere facilmente in immagini. Si sarebbero dovute aggiungere parole a quelle immagini, ma quello non era il mio ruolo. Non ero andato in Cina per comprenderla, ma solo per vederla. Per guardarla e per registrare quello che passava sotto i miei occhi.13

Secondo quanto raccontato a più riprese in interviste e testi autobiografici, Antonioni decide di porsi in un atteggiamento di disponibilità e ascolto nei confronti di una nazione che visita per la prima volta, cercando di raccontarla per rapidi sguardi.14 Si sottopone a snervanti negoziati con le autorità locali perché li ritiene necessari e persino utili per apprendere mentalità, culture, etichette dei propri interlocutori, rinuncia a qualsivoglia ambizione artistica e a «ogni intento di “costruzione” o di penetrazione» dell’«altro»,15 scegliendo un metodo di prossimità che mette al centro della scena i cinesi «così come sono», ovvero come «un grande repertorio di volti, di gesti, di abitudini».16 Come ricorda Codelli, si tratta di un atteggiamento inconsueto se paragonato a quello di altri viaggiatori. 13 14

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G. Bachmann, Da «Cina» a «Professione reporter», cit., p. 289 (corsivi miei). Queste le ultime parole licenziate dalla voice over: «La Cina apre le sue porte ma è ancora un mondo remoto e in gran parte sconosciuto. Abbiamo potuto gettare qui poco più di uno sguardo. C’è un detto dell’antica Cina: “Puoi disegnare la pelle di una tigre / non le sue ossa / Puoi disegnare il viso d’un uomo / ma non il suo cuore”». M. Antonioni, È ancora possibile girare un documentario?, cit., p. 71. G. Tinazzi, Michelangelo Antonioni, La Nuova Italia, Firenze 1985, p. 116. M. Antonioni, È ancora possibile girare un documentario?, cit., p. IX. Si tratta di un brano tratto dal testo di commento al film che nella sua interezza recita così: «Quest’opera non pretende di spiegare la Cina, ma più semplicemente di osservare questo grande repertorio di volti, di gesti, di abitudini. […] Sono loro, i cinesi, i protagonisti di questi nostri appunti filmati».

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A differenza di Carlo Lizzani, Joris Ivens, Simone de Beauvoir, Alberto Moravia, Roland Barthes e di altri noti intellettuali occidentali che ci restituiscono delle loro “visite ufficiali” nell’impero maoista soltanto quello che hanno immaginato di vedere, Antonioni filma senza abbellire, senza giudicare, senza spiegare.17

La «neutralità» del film, apparentemente propizia al confronto e al chiarimento tra le parti, è da ritenersi invece ostativa al dialogo e alla comprensione reciproca per almeno due ordini di fattori: il primo riguarda la priorità data all’individuo, all’«uomo cinese», in senso umanista e illuminista, con una considerazione strumentale dell’organizzazione sociale in cui è incardinato, come se si potesse raggiungere un elemento di verità solo nella fede verso l’universalità di alcuni caratteri inalienabili delle persone, indipendentemente dal contesto culturale in cui sono collocate; il secondo concerne la certezza di affidarsi al «rapido sguardo», senza per forza comprendere ciò che viene registrato dalla cinepresa e, quindi, in ultima analisi, delegando a questo strumento di riproduzione una funzione di tipo ontologico, quella di cogliere la realtà «così com’è», nella sua manifestazione esteriore. Non sfuggirà che concentrarsi, in Cina, sui bisogni degli individui significa adottare un atteggiamento che si mette in contrapposizione con un sistema culturale di ispirazione confuciana che preferisce dare precedenza alle esigenze della collettività (stato, partito, villaggio, famiglia) rispetto a quelle dei suoi singoli elementi. In seconda battuta, calarsi in modo impressionistico dentro una cultura millenaria, confidando sull’efficacia di un mezzo tecnologico e sulla forza significante dell’immagine non preparata, non allestita, non canonizzata, non può che produrre altri attriti in un paese in cui il concetto di reale ha poche relazioni con quello di mimesis e dove le immagini – specie quando non sono asservite alle volontà del partito – assumono un valore negativo e pericoloso. Che lo stratagemma retorico non sia così innocente e privo di ripercussioni politico-ideologiche appare chiaro, peraltro, non solo ai committenti cinesi, ma anche a una certa fetta della critica mili17

L. Codelli, La Chine sans camélias, in «Positif», n. 579, 2009, p. 84 (trad. mia).

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tante europea. Serge Daney, che in quegli anni dirige i Cahiers du cinéma,18 afferma ad esempio: Per noi […] la critica di Chung Kouo offriva […] un’occasione assai propizia di battere con decisione su un vecchio chiodo fisso […]: il nostro odio verso il naturalismo. A tutti coloro che si facevano rapire da questo spaccato di vita volevamo dire: nel cinema non c’è solo l’incontro, il naturale, il «come per caso» […]. [Il naturalismo di] Chung Kouo non era senza secondi fini né malignità. […] Antonioni scartava ciò che non capiva e che gli interessava poco: la politica cinese.

Per il critico e teorico francese, Antonioni finge un naturalismo «ingenuo» perché cova obiettivi reconditi rispetto a quelli dichiarati, scegliendo di posizionarsi nei discorsi pubblici con una condotta non priva di «malignità». Daney motiva questa scelta ipotizzando un generale disinteresse di Antonioni nei confronti della politica cinese, disinteresse alla base del quale si staglierebbe il più profondo dei malintesi tra le parti, quello relativo all’uso politico e istituzionalizzante delle immagini. Da parte mia, invece, non ne sarei così convinto. Prima di chiarire il punto, vorrei ricordare che accanto agli elementi di differenziazione e incomprensione tra le parti ve ne sono altri, tra loro inaspettatamente più attigui, che determinano paradossali attestati reciprochi. Intanto occorre evidenziare un aspetto non marginale nell’esito dell’incontro/scontro culturale che prescinde dalla natura ideologica della disputa: con Antonioni – e con l’Ivens dei soldati di terracotta, a differenza invece di quanto accade in casi analoghi come quelli vissuti da Pasolini o da Malle in India o da Marker in Cina e Giappone – gli «altri» sembrano in qualche modo partecipare ai processi di negoziazione della propria rappresentazione. I cinesi, infatti, «dicono la loro» prima, durante e dopo la realizzazione del documentario, attestando un diritto di parola che appartiene a un soggetto specifico, quello del «nativo» (o almeno di chi si erge a suo rappresentante), solitamente silente, passivo, subordinato o dipendente dallo sguardo odeporico, tutt’al 18

Sull’esperienza di Daney ai Cahiers du cinéma e per consultare una raccolta dei suoi saggi più importanti rimando a: S. Daney, La rampe. Cahiers critique. 1970-1982, Gallimard, Paris 1983.

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più – nelle dimensioni proprie della ricerca etnografica – ricondotto al ruolo di informatore e traduttore culturale.19 In questo caso, invece, il «burocrate» di partito, il giornalista embedded, l’alto papavero, sono scomodi portavoce, seppur condizionati politicamente, di una comunità che afferma una propria irriducibilità alle categorie interpretanti dell’osservatore europeo e che, a differenza di altri casi, ha il potere e la forza per imporla. Aggiungiamo che sembra instaurarsi tra le parti in conflitto – in virtù delle posizioni espresse e dei metodi adottati – un campo performativo comune. Penso, in modo particolare, all’articolo del Renmin Ribao che ha inaugurato la campagna di biasimo contro il regista. La rilettura di A Vicious Motive, Despicable Tricks: A Criticism of Antonioni’s Anti-China Film «China»20 è un esercizio utile e illuminante perché si può scoprire come, al netto di alcune asserzioni di vuoto linguaggio rivoluzionario presenti nella sua introduzione e nelle conclusioni, il testo dimostri di essere attento proprio all’ambito di espressione specifica del film, la sua morfologia. Nella seconda parte dell’articolo, il giornalista licenzia, infatti, opinioni sopra il pessimo modo di riprendere il ponte di Nanchino (angolazioni esagerate e condizioni atmosferiche sfavorevoli), la fotografia dai colori spenti e cupi, l’accostamento contrappuntistico di una canzone rivoluzionaria con le immagini di una porcilaia, l’uso di piani ravvicinati per rimarcare i materiali scadenti con cui è costruita una fabbrica di Shanghai. Condivisibili o meno, le posizioni del Renmin Ribao partono da un’attenzione agli aspetti della costruzione espressiva del documentario (le associazioni tra im19

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Sulla funzione complessa e ambigua degli informatori, come traduttori di culture e filtri che separano l’etnografo dalle società studiate e dai nativi si veda tra gli altri: U. Fabietti, Etnografia e culture. Antropologi, informatori e politiche dell’identità, Carocci, Roma 2012. Riprenderò il discorso più avanti (§ V 2). Cfr. A Vicious Motive, Despicable Tricks: A Criticism of Antonioni’s AntiChina Film «China», Pechino, Foreign Languages Press, 1974. La versione tradotta si trova in un opuscolo non firmato che riproduce sia l’articolo comparso sul giornale «Renmin Ribao» il 30 gennaio 1974, sia una sintesi di altri tre articoli sul film comparsi in quello stesso mese. Il libro è quasi introvabile, ma esiste una versione online. Cfr. http://greg.org/ archive/2007/07/21/comrades_join_me_in_a_relentless_exposure_of_ michelangelo_antonionis_despicable_tricks.html (ultima consultazione 24 ottobre 2015).

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magini e suono, l’angolazione delle riprese, la scelta degli obiettivi fotografici, l’impiego delle camere nascoste, ecc.), che statuiscono in filigrana una consapevolezza comune circa l’importanza che i significanti giocano nell’articolazione di un tracciato filmico.21 Non è d’altronde un caso se nell’intervista al «The Guardian», citata poc’anzi, Antonioni dimostra di ricordare perfettamente tutte le critiche che gli vengono mosse, negandone alcune e ammettendone altre, e dunque entrando all’interno di un confronto sul merito delle sue scelte registiche. Esiste un secondo elemento di contiguità più profondo, meno visibile. Quando si è fatto cenno, poc’anzi, all’attenzione di Antonioni nei confronti delle tranche de vie non si è sottolineato abbastanza il loro valore «neutro» e «ordinario». Dell’uomo che gusta un gelato in un teatro, della coppia di ragazzi che si apparta durante la visita alla Città Proibita, del gruppo di pensionati che accudisce un bambino in una sala del tè, dell’operaia che nel tempo libero cuce a macchina, il film non ci dice nulla, se non quello che vediamo svolgersi davanti alla cinepresa. In quanto personaggi anonimi e «neutri», sopra i quali si possono proiettare, come fasci di luce oggettiva, determinati significati universali, essi si presentano allo spettatore come attanti-funzione, elementi metonimici che dimostrano come quella cinese sia una popolazione (una collettività) dall’indole umile, serena, riservata, decorosa, silenziosa. È quanto Antonioni vuole vedere in ciò che lo circonda, ed è quanto egli vuole mostrare allo spettatore occidentale, secondo una tesi che nasce da convinzioni che ha maturato nel corso del viaggio. Se si paragonassero queste immagini con le fotografie, i poster, le locandine, le opere-modello promosse in quegli anni dalla propaganda comunista22, la prima impressione sarebbe quella della lontananza figurativa. Da una parte si staglierebbero le immagini assertive 21

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Si veda, nell’intervista citata di Bachmann, la precisione con cui Antonioni riporta le critiche ricevute, relativamente a certi modi di riprendere il paese (ad esempio il ponte di Nanchino) a cui risponde evidenziando le difficoltà in cui si è imbattuto. Cfr. G. Bachmann, Da «Cina» a «Professione reporter», cit., p. 290. Sulle forme propagandistiche del cinema durante la Rivoluzione culturale si veda P. Clark, Film-making in China: From the Cultural Revolution to 1981, in «The China Quaterly», n. 94, 1983, pp. 304-322. Si veda anche P. Clark, Chinese Cinema. Culture and Politics Since 1949, CUP Archive, Cambridge 1987, pp. 125-153.

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di una verità rivoluzionaria, dall’altra le immagini asservite a una verità quotidiana, minimalista. A un secondo carotaggio, tuttavia, emergerebbero altre evenienze più sorprendenti, legate a una simile funzionalità programmatica. Si potrebbe scoprire, così, che la raffigurazione dell’individuo cinese – sia esso soldato, contadino, operaio, studente, le quattro categorie su cui si fonda la dottrina maoista e che frequentemente compaiono, nelle loro rispettive «divise», in Chung Kuo - Cina – passa in entrambi i casi dall’accentuazione dei caratteri di superficie: da una parte il volto raggiante, la divisa piegata, la postura tronfia, i colori accesi dei vestiti o degli ambienti rivoluzionari, dall’altra il volto pacificato, gli abiti umili, i gesti precisi, il decoro degli ambienti di chi partecipa a un medesimo destino. Quale che sia il fine ultimo delle rappresentazioni, ne consegue che esse si basano su conformazioni stereotipate di personaggi-funzione che veicolano esteriormente «verità» interiorizzate dalle classi che personificano. E nell’uno come nell’altro caso, il diritto dell’individuo ad accedere a una determinata «iconosfera» è garantito solo dalla sua capacità di entrare in un perimetro-corpo, in un’immagine-facciata che si astrae dal fenomenico e diviene valore in sé, simbolo di un intero gruppo sociale. 5.2. La chiave dell’incomprensione. Se si è disposti ad accogliere questa prospettiva un po’ provocatoria circa la presenza di due autorità in campo che condividono un medesimo territorio, ci si accorgerà che il malinteso, l’incomprensione, il fraintendimento, da carattere negativo diventa elemento essenziale per rafforzare opinioni in contrapposizione e statuire, così, identità di sguardo più marcate. Per Antonioni, ad esempio, il limitato spazio di movimento in cui è costretto dalle autorità cinesi finisce paradossalmente per essere utile all’impostazione complessiva del film perché da una parte giustifica un processo di lavoro che si deve accontentare di restituire le superfici apparenti di visibilità del reale (senza avere la possibilità di relazionarsi profondamente con essa) e perché dall’altra rende ineluttabile uno sguardo parziale, emarginato, non libero.23 In 23

In tal senso un ruolo decisivo è assunto, ancora una volta, dalla voce

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queste determinate condizioni di angustia, l’istanza narrante si pone nella condizione perfettamente lecita di non capire e può persino dichiararlo apertamente in alcuni passaggi del suo commento extradiegetico. Essa si trova, in altre parole, nella posizione (la marginalità) per far credere agli spettatori europei (grazie alla sua autorità) che le immagini mostrate non abbiano un senso predeterminato all’origine, rendendole così più vere, più credibili. D’altra parte, anche le istituzioni governative cinesi hanno bisogno di trovare una qualche legittimazione nello scontro e la trovano opponendosi all’atteggiamento umile del cineasta e riaffermando, viceversa, la sua nomea, la sua riconoscibilità e la sua autorialità in campo. La controprova di quanto appena affermato si trova tracciata, plasticamente, nel destino occorso agli altri documentari realizzati in Cina da troupe europee o nordamericane nello stesso periodo in cui il regista visita il subcontinente. Oggi pochi sanno che nei primi anni Settanta, insieme a Antonioni e Ivens, altre troupe straniere varcano i confini cinesi e realizzano opere audiovisive per i circuiti dei cinema d’essai o per quelli televisivi.24 In molti di questi lavori non ritroviamo soltanto le strade e i monumenti delle stesse città visitate da Antonioni (a dimostrazione che sussistono itinerari

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narrante. Recitata da Andrea Barbato, collaboratore di Antonioni e coautore del testo di commento, la voice over descrive con molta precisione i vincoli ai quali si è dovuta sottomettere la troupe per immergersi nella vita quotidiana cinese: il divieto di filmare la casa di Mao, di fermarsi a riprendere un mercato clandestino, di mostrare una nave da guerra, di visitare un villaggio senza la presenza ingombrante di qualche responsabile di partito, la decisione di registrare momenti di vita pubblica con una camera nascosta per eludere il comportamento affettato di chi è consapevole della presenza di una macchina da presa, per di più straniera, in funzione, ecc. C’è, ad esempio, Marcel Carrière che firma Images de Chine (Canada, 1974), film ambientato in quattro città cinesi (Pechino, Shanghai, Shenyang e Guangzhou) e incentrato sulla vita di alcuni lavoratori; ci sono l’attrice Shirley MacLaine e Claudia Weill che lavorano a The Other Half of the Sky. A China Memoir (Usa, 1975), un documentario che racconta il viaggio di sette donne americane di estrazione sociale e origini etniche diverse in altre quattro metropoli cinesi (Pechino, Shanghai, Guangzhou e Hangzhou); c’è Jens Bjerre che in The Awakening Giant. China (Danimarca, 1970) racconta un viaggio in Cina di ben quattromila chilometri; ci sono Gerard Valet e Henri Roanne e il loro Chine (Belgio, 1971), un reportage televisivo sulla tournée cinese della nazionale americana di tennistavolo. E via discorrendo.

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prestabiliti o usuali per visitare la Cina), ma spesso anche le medesime circostanze narrative, come la sequenza del parto cesareo con agopuntura (ne troviamo una simile anche in The Other Half of the Sky, un documentario firmato dall’attrice Shirley McLaine nel 1975) le stesse arterie stradali, le stesse biciclette, le fabbriche in piena attività, le riunioni dei comitati rivoluzionari, l’alacre attività degli ambulatori, la vitalità delle scuole pubbliche, fino all’immancabile inquadratura del libretto rosso. Naturalmente nessuna di queste produzioni riceve il medesimo trattamento riservato a Chung Kuo - Cina e non certo per la loro maggiore ortodossia rivoluzionaria, ma semplicemente per l’«anonimato» dei rispettivi registi.25 Da ciò è lecito supporre che una parte dei motivi d’innesco polemico prodotto dal film nasce non tanto dallo sguardo lucido, soggettivo o «scomodo» del suo artefice, semmai dalla sua fama internazionale, dall’essere «un film di Michelangelo Antonioni». Per ritrovare compattezza attorno a un unico obiettivo e per infondere maggiore visibilità alle proprie battaglie politiche – colpendo Antonioni, la Banda dei Quattro intendeva mettere in un angolo il ministro Zhou Enlai, promotore di una politica più aperta alle relazioni diplomatiche e culturali con il resto del mondo26 – le autorità cinesi si trovano costrette ad assegnare al cineasta una consapevolezza politica e a leggere ogni sua scelta in chiave conflittuale. Non è un caso se il Renmin Ribao attacchi un «nemico del popolo» con un nome e cognome precisi, senza prendersela con altri responsabili del progetto come la televisione di stato italiana, quella cinese, altri membri della troupe come l’operatore di macchina, gli uffici incaricati di sorvegliare la produzione sino-italiana, ecc. In che modo si possano coniugare queste proposizioni con la strategia registica che tende (almeno in apparenza) all’annullamento del sé, al carsismo autoriale, alla pacatezza espressiva, è probabilmente 25

26

Un’indiretta riprova delle difficoltà incontrate specialmente dai registi che vantano una chiara riconoscibilità internazionale arriva anche dall’esperienza di Ivens in Cina, in relazione al suo Comment Yukong déplaça les montagnes. Per quel film il documentarista olandese dovrà far fronte a diverse pressioni politiche, soprattutto all’indomani della caduta in disgrazia di Zhou Enlai, suo «sponsor» interno. Per una ricostruzione (in soggettiva) di quella complessa produzione rinvio a: R. Destanque, J. Ivens, op. cit., pp. 399-423. Su questi aspetti si veda in particolare: Xiao J., A traveller’s glance: Antonioni in China, in «New Left Review», 2013, n. 79, pp. 103-120.

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l’ultimo dei nodi da sciogliere. Occorre ribadire, infatti, che Antonioni si avvia su un cammino raffigurativo lontano da quelli percorsi da molti film odeporici. Nelle tre ore di proiezione, ad esempio, egli cerca in tutti i modi di eliminare qualsivoglia marca formale o narrativa riconducibile alla sua figura o alla sua «poetica»: non compare mai in carne e ossa davanti alla cinepresa, non parla in prima persona, ma in un meno invadente plurale maiestatico; rimarca con particolare enfasi i momenti in cui gli viene vietata una ripresa o quando decide di utilizzare tecniche come la candid camera che tolgono espressamente margini di regia e di allestimento del reale. In sintesi, ottempera alle finalità dichiarate – mettere al centro della rappresentazione l’uomo cinese – cercando di accordarsi con l’indole e il temperamento che crede di riconoscere nella popolazione visitata, facendo propri il suo stesso senso del limite, la sua modestia, la sua morigeratezza. Quella che appariva, in un primo momento, come la scelta di cancellare il sé diventa, da quest’angolazione, un tentativo di armonizzare il sé a supposti caratteri essenzializzanti dell’«altro». Ma c’è di più. La scelta di campo è presentata come spontanea e necessaria anche perché da una determinazione contraria non sarebbe emersa alcuna morigeratezza visivo-narrativa. Se il regista, infatti, avesse deciso di accentrare sulla propria persona – o meglio sulla propria esperienza soggettiva – l’attenzione del pubblico in sala, gli obiettivi manifestati non avrebbero potuto trovare alcuna realizzazione. Pacatezza e modestia, gratuità e apparente anonimato appaiono come caratteri costitutivi di una precisa predisposizione retorica. La macchina da presa ci dà un senso di sorprendente scoperta, non tanto di oggetti o di luoghi, ma di persone: le loro facce e il comportamento negli esercizi durante i quali “si muovono in maniera ritmica, come se seguissero una musica che nessun altro può sentire”. I primi piani dedicati ai volti sono indagatori, quasi Antonioni sperasse di carpire un segreto dalla pelle, dagli occhi e dai capelli. Ma ciò che vedeva la macchina da presa era serenità, placidità, alla meglio curiosità.27

Se per interpretare il senso ultimo del film persino Seymour Chatman, raffinato narratologo, si affida a categorie empatiche e sensibili come quelle della placidità o della serenità d’animo, anch’esse rispon27

S. Chatman, op. cit., p. 172 (trad. mia).

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denti a un ideale proiettivo, a un altro tipo d’immaginario esotico o, per dirla con Umberto Eco, a «un’utopia possibile per un Occidente frenetico e nevrotico»,28 significa che Antonioni ha raggiunto il proprio scopo fingendo di annullarsi nell’immersività, ma, nel contempo, portando a termine un piano che conserva evidenti tracce di intenzionalità, persino politica, contrariamente a quanto sosteneva Daney. L’ultima sequenza del film spiega, meglio di altre soste speculative, quanto cerco di dimostrare. Come si ricorderà, Chung Kuo termina con quindici lunghissimi minuti dedicati a una performance acrobatica messa in scena da una compagnia teatrale di Shanghai. Atleti, funamboli, equilibristi, giocolieri s’inerpicano sulle pertiche componendo figure acrobatiche e piramidi umane, saltando su altalene a bilancia, librando in aria piatti e bottiglie e così via (Fig. 7). A ogni numero riuscito, gli spettatori del teatro di Shanghai applaudono a scena aperta mentre la macchina da presa si attarda a riprendere i visi truccati, le fisionomie tirate del volto, lo sguardo concentrato, i muscoli tesi. Da un certo punto di vista, assistiamo a un perfetto spettacolo di propaganda. Gli atleti si dimostrano all’altezza delle aspettative che il regime nutre nei loro riguardi, mostrando talento, spirito di sacrificio, lavoro di squadra, prestanza atletica, coordinazione, bellezza estetica. Sono campioni di una rivoluzione che vuole presentarsi al proprio pubblico e alla macchina da presa del regista straniero in tutta la sua solare perfezione. Letta da questa prospettiva, la sequenza dimostra l’attitudine antonioniana di mettersi al servizio dell’autorappresentazione del regime comunista, assegnando a essa una durata così consistente da indurci a credere, almeno in prima battuta, che vi sia una certa partecipazione e simpatia da parte della troupe televisiva. D’altronde, come si diceva poc’anzi, la scelta di indugiare sui dettagli dei volti, sulle espressioni affaticate, come spesso capita durante questi quindici minuti, potrebbe rispondere a una seconda volontà, quella di concentrare l’attenzione dello spettatore sulle caratteristiche dell’individuo, quindi sulle posture, gli atteggiamenti, le espressioni facciali che rendono ogni atleta diverso dal suo più prossimo collega. In questo modo, all’autorità politica che afferma la propria giustezza grazie all’auto-rappresentazione si affianca una seconda autorità – quella del regista – che afferma la 28

U. Eco, op. cit., p. 181.

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propria giustezza lasciando campo all’umanità degli atleti. Eccole, al dunque, le due autorità che giocano sullo stesso palcoscenico, che si rivolgono a due pubblici diversi (uno in teatro, l’altro in un salotto di una lontana abitazione italiana o europea), che negoziano i propri spazi, fingendo di non capirsi. In fondo la chiave dell’incomprensione si fa evidente in uno spettacolo teatrale che Antonioni riprende alla fine del suo documentario: dove cinesi atletici vestiti di colori vivaci, con fucile a tracolla, col volto maschio e sorridente, s’inerpicano con funambolica energia lungo alte pertiche. È la Cina rivoluzionaria che fornisce di sé un’immagine di forza. Mentre il film di Antonioni fornisce un’immagine di tenerezza e mansuetudine.29

Vi è però un terzo proliferarsi semantico, non rilevato da Umberto Eco, che cambia gli equilibri in gioco e che afferma, in levare e non in battere, la forza dell’autorità del regista in relazione a quella dei propri committenti. Esso s’istituisce nell’ampio e ondulato orizzonte dell’esegesi spettatoriale che si accende solo grazie al prolisso perdurare della rappresentazione. Come annota anche Xiao Jiwei: Se da una parte le marionette sulla scena, apparendo insieme animate e rigide, si presentano come una chiara metafora dell’apparato politico e culturale cinese, lo spettacolo d’acrobazia finale è stravolto invece dagli estenuanti long take di Antonioni, che ci permettono di capire come lo show, in apparenza affascinante, sia in realtà ripetitivo, noioso e del tutto privo di leggerezza. Il successo dell’esibizione nasce quasi interamente dalle abilità tecniche, dalla precisione meccanica e dal senso di coordinamento di una rigida formazione di stampo militare. Eppure, non possiamo essere sicuri se l’effetto ironico sia ricercato dal regista o se sia semplicemente il frutto di una messinscena nella quale il significato complessivo è demandato all’interpretazione dello spettatore.30

È, infatti, la durata eccessiva della sequenza, se paragonata alle altre brevi tranche de vie che hanno caratterizzato gran parte del documentario, a costringere il pubblico in sala a porsi interrogativi sulle ragioni di tale dilatazione temporale, andandole a cercare 29 30

Ivi, p. 182. Xiao J., op. cit., p. 115 (trad. mia).

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nell’alveo della lettura simbolica. Non è peregrino ipotizzare, infatti, che gli equilibristi, con il susseguirsi e il protrarsi delle loro attrazioni, diventino figure indicative di una condizione generale di precarietà che lo spettatore può liberamente assegnare o a una popolazione sfiancata dalla Rivoluzione culturale, o a una classe dirigente cinese che entro pochi anni imploderà su se stessa o ancora allo stesso documentario costretto in un precario equilibrio tra vincoli, subordinate, necessità, patti, compromessi. Si aggiunga che la ripetizione assidua dei numeri infonde una certa noia all’intero brano che se da una parte – come notato da Xiao – accentua il carattere ironicamente bolso della propaganda di regime, dall’altro produce un effetto straniante proprio nel momento in cui bisognerebbe teoricamente aumentare l’efficacia performativa e spettacolare delle immagini per emozionare lo spettatore in sala prima della chiusa finale. In questa scelta anti-drammatica è possibile intravedere, in controluce, una strategia di posizionamento del regista che, a pochi minuti dai titoli di coda, ma non fuori tempo massimo, pone in essere un suo ritorno al centro del campo di discorsività, da cui solo apparentemente si era allontanato. Il suo diventa, in altri termini, un principio di rappresentatività dell’autorità cinematografica che prorompe nel bel mezzo del palcoscenico teatrale, dopo aver seguito un percorso per lo più carsico, scegliendo di «banalizzare» e rendere «noiosa», almeno agli occhi del pubblico televisivo, l’esibizione della potenza politica e culturale del gigante cinese.31 31

L’impressione è avvalorata da una controprova riconducibile all’operazione simile, ma in qualche modo opposta, che Ivens e Loridan mettono in atto nel già citato Comment Yukong déplaça les montagnes. Chi ha visto quel film sa che anche la coppia franco-olandese dedica un proprio cortometraggio a un gruppo di atleti circensi. Nondimeno Entraînement au cirque de Pékin – questo è il titolo del loro cortometraggio – si sofferma soprattutto sulle fasi di preparazione dello spettacolo funambolico: gli esercizi, le fatiche, le attese, gli errori, le ripetizioni. A Ivens/Loridan interessa documentare il processo di costruzione di una «coscienza» comunista attraverso l’individuazione di un percorso formativo, di una pratica quotidiana, di una vita in comune. Il regista italiano, al contrario, non ha tempo per frequentare regolarmente la compagnia di ginnasti e dunque si trova nella condizione obbligata (la stessa peraltro anelata dalle autorità) di mostrare solo la perfezione atletica da loro esibita durante lo spettacolo. Un’esibizione che dunque fonda la propria essenza sulla performatività, sull’estetizzazione del gesto, sulla modalità, anzi sulle diverse modalità di

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La scelta di «riaffiorare» proprio durante uno spettacolo rivoluzionario32 determina di conseguenza alcune significative conseguenze anche sul fronte della riflessione meta-linguistica perché colloca la conflittualità tra le parti in campo aperto, sul piano della performance, della messa in scena, dei sistemi espressivi. La battaglia, a colpi di malintesi ricercati e di allusioni più o meno evidenti, si gioca attraverso i Primi Piani o i dettagli catturati dalla macchina da presa, il montaggio a pezzi brevi o l’uso delle carrellate ottiche, tutte soluzioni formali che sono esplicitamente precluse al range espressivo delle piéce rivoluzionarie. In tal modo, tutto si può dire di questa sequenza, tranne che ci sia incomprensione o mancanza di negoziazione tra le parti. Non c’è forse nemmeno uno scambio culturale. C’è un regista che – attraverso un preciso atto di collocazione del sé all’interno di una doppia rappresentazione, teatrale e cinematografica – si prende il lusso di lanciare una sfida a un’autorità in campo avverso, per di più nel bel mezzo dell’esibizione della sua ipotetica grandezza rivoluzionaria.

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messa in scena di una rappresentazione (cinematografica o teatrale poco importa). C’è un altro aspetto da considerare, in parte anticipato dalle parole di Xiao. Lo show circense non è il solo che Antonioni registra per il «piacere» degli occhi dello spettatore europeo, ma esistono due precedenti rassegne della propaganda di regime che sono riprodotte, forse non accidentalmente, durante il finale degli altri due segmenti del documentario: la prima parte di Chung Kuo, si ricorderà, si conclude con una pièce rivoluzionaria recitata da una compagnia di burattinai; la seconda parte termina invece nelle aule di una classe scolastica dove alcuni allievi cantano e ballano canzoni comuniste sulle note di una marcia militare, mentre nel cortile esterno della scuola un intero istituto superiore partecipa ad alcune gare di atletica sotto l’occhio vigile di un’effige di Mao. Nella parte conclusiva di tutti e tre i segmenti del documentario televisivo si trova così un’indiretta riflessione sulla relazione tra performance spettacolari, estetica artistica e propaganda politica.

IV FINZIONI

1. MENTISCO E DICO LA VERITÀ

Seetha viene condotta al Tempio della Dea. Il maharajah Chandra la raggiunge poco dopo compiendo a cavallo di un elefante il breve tragitto che lo separa dall’edificio sacro. Lo vediamo uscire dal Tripolia, l’ingresso con tre portali dell’odierno Palazzo della Città di Udaipur, per giungere dopo poco al Tempio Jagdish, un’altra delle attrazioni turistiche più note e conosciute del Rajasthan. Sceso dal pachiderma e compiuti i riti di purificazione previsti, Chandra entra nel Tempio della Dea. L’interno non ha però niente a che vedere con la facciata sfarzosa e le pareti decorate dell’edificio e tanto meno con quella di altri luoghi sacri di origine moghul o hindi (Fig. 8). È composto da un anfratto semivuoto scavato nella roccia, al cui centro s’innalza una gigantesca statua dalle pronunciate fattezze femminili. Rivestita con sole collane e monili d’oro che lasciano abbondantemente intravedere le sue carni, anche Seetha si presenta in modo conturbante all’occhio del sovrano (e degli spettatori), scendendo da ripide scale collocate alla sinistra della scultura e iniziando una performance coreutica su musiche dal sapore orientalista. Le sue movenze sensuali ed erotiche rappresentano un tributo alla Dea, ma sono compiute soprattutto per destare piacere negli occhi degli uomini lì presenti: il principe Chandra, poi suo fratello, i sacerdoti del tempio, altri uomini appartenenti alla sua cerchia. La danzatrice si esibisce da sola, nello spazio antistante il grande simulacro femminile, mescolando o meglio alludendo a stili di danza di varia provenienza. Sembra filare tutto liscio fin quando, turbata, Seetha arresta per un istante il ballo perché scorge, nascosto dietro una roccia sporgente, Harald, l’architetto tedesco di cui è segretamente innamorata, anch’egli voyeur della sua esibizione (Fig. 9). Le paure e le incertezze della ragazza sono motivate dal fatto che l’ingresso al tempio è severamente vietato agli europei, dunque Harald, se scoperto, a

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differenza degli altri uomini che la osservano, rischia l’esecuzione capitale. *** Il giovane Aziz vuole conquistare il cuore della bella Budùr, una ragazza incontrata per caso poco prima di sposarsi con la cugina Aziza. Il ragazzo però è ingenuo e impreparato alla vita. Con estremo candore, dopo essere arrivato in ritardo alla cerimonia nuziale, racconta alla promessa sposa di essersi innamorato di Budùr e, nei giorni successivi, le chiede addirittura aiuto per portare a buon fine il corteggiamento della sconosciuta. Aziza, amandolo e desiderando il suo bene, si adopera per lui suggerendogli come approcciarsi, come decifrare i gesti e le parole della ragazza, come rispondere alle sue domande. Aziz, seguendo alla lettera le indicazioni della cugina, diventa ben presto l’amante di Budùr anche se non si accorge, impegnato com’è nel corteggiamento, che la cugina Aziza nell’aiutarlo si ammala fino a morire (Fig. 10). Privato infine della sua consigliera, Aziz si rivela inabile a conservare il rapporto con la nuova fidanzata. Non esita, infatti, ad abbandonarla per un’altra donna con cui ha un bambino e quando torna a trovarla, un anno dopo, viene evirato per vendetta. La castrazione sembra far comprendere al ragazzo quali conseguenze hanno provocato i suoi gesti infantili e incoscienti. Finalmente afflitto per la morte di Aziza, torna piangente dalla madre di lei e riceve una pergamena illustrata dove la cugina ha trascritto le sue ultime frasi d’amore prima di morire. *** Lei e Lui hanno appena trascorso la notte insieme. Si sono incontrati per la prima volta la sera precedente. Al risveglio, l’uomo, un architetto di origine giapponese, cerca di avere qualche notizia in più sulla donna, un’attrice di nazionalità francese. Lei, indossato un kimono, gli racconta qualche episodio del suo passato, legato nella fattispecie all’estate del 1945, quando lo scoppio della bomba atomica sulle città di Nagasaki e Hiroshima (dove si trovano ora) mise fine alla guerra. Nel frattempo i due amanti bevono un caffè caldo, fanno la doccia insieme, si rivestono. Mentre Lei si trucca e indossa un vestito da infermiera, Lui le chiede di

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cosa parla il film per cui sta lavorando. «Un film pace! – le risponde – Cosa vuoi che si reciti a Hiroshima se non un film sulla pace?». A quel punto l’uomo le manifesta il desiderio di rivederla al più presto, ma scopre che l’indomani, a quella stessa ora, Lei sarà già su un aereo di ritorno in Francia. Scosso dalla notizia, l’architetto le domanda se è potuto salire nella sua stanza d’albergo la notte precedente solo perché sapeva che sarebbe stato il suo ultimo giorno in città, ma l’attrice nega, sorridendo, quest’evenienza e gli confessa di non aver mai pensato alla prossima partenza quand’era in sua compagnia. Non troppo convinto della risposta dell’amante, Lui sbotta: «Quando parli mi chiedo se mentisci o dici la verità». Lei, rimuginando un poco, ribatte: «Mentisco e dico la verità» (Fig. 11).

2. LA NARRAZIONE COME VIAGGIO E COME SEDUZIONE

2.1. Mondi possibili Immergersi in una storia di finzione, diceva qualche tempo fa Kendall Walton, significa innanzi tutto sperimentare una seduzione.1 È un gioco di corteggiamenti, ingaggi, attrazioni quello che si stabilisce tra un testo, chi lo produce e chi lo consuma. Un gioco certamente serio, che richiede competenze, ingenera processi, sollecita assiologie, determina turbamenti, talvolta produce noia e rifiuto. Resta tuttavia un’operazione ludica, intesa nella formula infantile del «far finta di», o del «come se», che spinge il soggetto scopico – «proprio come fa il bambino quando gioca a interpretare ruoli diversi dal suo»2– a muoversi contemporaneamente tra due mondi, il nostro, quello che comunemente chiamiamo realtà, e quello della storia inventata, della finzione o, per usare un termine narratologico, della diegesi. Altrettanto condivisibile è la tesi secondo cui la seduzione narrativa può essere considerata alla stregua di un’esperienza di viaggio. Quando nei primi anni Novanta tiene a Harvard un ciclo di 1 2

K. L. Walton, How Remote are Fictional Worlds from the Real World?, in «Journal of Aesthetics and Art Criticism», a. XXXVII, n. 1, 1978, p. 12. «Per capire i dipinti, i drammi, i film, e i romanzi, dobbiamo prima considerare le bambole, i cavallucci di legno, i camion giocattolo, e gli orsacchiotti di pezza. Si deve ritenere che esista una continuità tra le attività in cui le opere d’arte rappresentazionali sono incluse, e che ne realizzano lo scopo, e i giochi di far finta dei bambini. Infatti, sostengo che queste attività vanno considerate esse stesse giochi di far finta […] le opere rappresentazionali fungono da supporti in questi giochi, così come le bambole e gli orsacchiotti di pezza fungono da supporti nei giochi dei bambini». Cfr. K. L. Walton, Mimesis and Make-Believe, Harvard University Press, Cambridge 1990, p. 11. La traduzione in italiano si trova ora in S. Zucchi (a cura di), Finzione e verità. Letture di Semiotica, 2003-2004, The Robin Hood Online Press, reperibile online all’indirizzo http://filosofia.dipafilo.unimi.it/bonomi/ZUCCHI%20I. pdf (ultima consultazione 26 ottobre 2015).

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lezioni dedicate alla narratologia, Umberto Eco inizia la sua dissertazione dal romanzo meta-letterario di Italo Calvino Se una notte d’inverno un viaggiatore, intitolando quel corso e la pubblicazione integrale delle sue lezioni con l’altrettanto odeporico Sei passeggiate nei boschi narrativi.3 Negli stessi anni, Erwin M. Segal, in uno studio sulle teorie cognitiviste dedicate alle fiction, recupera un importante contributo di George Lakoff e Mark Johnson sulla funzione linguistica della metafora4, ribadendone la dimensione odeporica anche negli studi narratologici. Egli scrive: La lettura può essere raffigurata come la partenza per un viaggio. Possiamo considerare il discorso narrativo come la parte concreta di un oggetto reale, ad esempio un libro, usando il quale il lettore viaggia con i propri occhi. […] Se una narrazione è presentata in forma orale possiamo immaginare il pubblico e il narratore come se viaggiassero durante la lettura. Anche altre forme di narrazione possono essere immaginate come viaggi: un’opera, un film, una pièce teatrale. Dato che ognuno di questi media possiede un proprio discorso che viene presentato e vissuto nel tempo, possiamo pensare a noi stessi come se li stessimo attraversando viaggiando durante il loro svolgimento.[…] La metafora del viaggio ci aiuta così a capire perché possiamo cogliere con facilità riferimenti multipli rivolti a uno stesso oggetto narrativo.5

Federico Di Chio, più recentemente, in un libro che indaga i principi dell’illusione narrativa (nel film e nella TV) aggiunge: L’illusione sa offrire dei viaggi di prim’ordine, in cui si sperimentano situazioni immaginarie, con l’evidenza della percezione reale. Occasioni preziose in cui l’uomo-spettatore può fare esperienza di sé fuori dalla propria vita, traendo da questo percorso soprattutto piacere e poi anche risorse importanti per la costruzione della sua identità.6 3 4

5 6

U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Bompiani, Milano 1994. Lakoff e Johnson, che considerano la metafora come un meccanismo privilegiato di funzionamento del linguaggio e del pensiero, iniziano il loro studio dal tropo letterario e cinematografico «L’amore è un viaggio». G. Lakoff, M. Johnson, Metafora e vita quotidiana, Rizzoli, Milano 1988. E. M. Segal, A Cognitive-Phenomenological Theory of Fictional Narrative in J. F. Duchan, G. A. Bruder, L. E. Hewitt (a cura di), Deixis in Narrative. A Cognitive Science Perspective, Hillsdale, New Jersey-Hove 1995, p. 66 (trad. mia). F. Di Chio, L’illusione difficile. Cinema e serie TV nell’età della disillusione, Bompiani, Milano 2011, p. 9 (corsivi miei).

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Thomas Pavel è ancora più esplicito: I confini, i territori, gli insediamenti d’invenzione necessitano tutti di viaggiatori metaforici, cioè di eroi d’invenzione che visitino i nostri lidi influendo sul nostro comportamento al pari degli eroi veri e propri. [...] Anche noi visitiamo paesi d’invenzione, abitandovi per un certo periodo e mischiandoci ai loro eroi. [...] Sguinzagliamo il nostro io d’invenzione a scandagliare il territorio, con l’ordine di riportarci informazioni accurate. [...] L’io di invenzione immedesimato prende in esame territori ed eventi intorno a sé con la stessa curiosità e ansia di vedere in atto la dinamica tra identità e differenza di chi viaggia in un paese straniero.7

L’insieme un po’ eterogeneo di queste citazioni mi serve per dimostrare – se mai fosse necessario – che la metafora del viaggio viene spesso utilizzata dagli studi narratologici per descrivere i caratteri e le proprietà delle fiction oppure le pratiche della loro fruizione. La frequenza della correlazione è tale da non meritare probabilmente grande attenzione, se non in alcuni specifici passaggi in cui si fanno riferimenti diretti più prossimi al nostro studio. Rileggendo l’ultimo brano citato nel quale si avanzano convinzioni simili a quelle trattate da Ricœur in alcuni testi coevi,8 il mondo d’invenzione è paragonato ai viaggi in terre straniere in quanto in entrambi i casi vi è sempre una distanza culturale, sociale, linguistica da colmare, per coprire la quale viaggiatore e lettore operano un processo di «sintonizzazione»: cercano di capire quali sono i confini entro cui muoversi, quali le consuetudini da rispettare (e quanto diverse sono dalle proprie), quali i linguaggi praticati e i segni convenzionali adottati per velocizzare la comunicazione. Insomma: c’è da capire quali sono le regole del gioco seduttivo, narrativo, odeporico in atto e, subito dopo, il «come ci si sente» al suo interno. Roger Odin definisce tale processo come «messa in fase», un preciso passaggio di ogni dinamica di finzionalizzazione:

7 8

T. Pavel, Mondi d’invenzione. Realtà e immaginario narrativo, Einaudi, Torino 1992, pp. 126-132 (corsivi miei). Per riferimenti rimando alla nota 1 presente nel capitolo introduttivo del volume.

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La messa in fase è un’operazione di omogeneizzazione: essa duplica il lavoro di omogeneizzazione del racconto attraverso l’omogeneizzazione del posizionamento affettivo dello spettatore rispetto alla dinamica narrativa e discorsiva (i giochi di valori) del film. Il lavoro di omogeneizzazione è la caratteristica più determinante della finzionalizzazione.9

Mi pare convincente tradurre la definizione di Odin, come un «mettersi d’accordo» tra i protagonisti di un corteggiamento, un capire se c’è feeling e se si può condurre la seduzione senza forzature o imposizioni, come un fatto naturale, un bisogno o forse (l’illusione di) un desiderio a portata di mano. D’altra parte non è mai certo che il gioco seduttivo funzioni, né che tutti coloro che sono coinvolti sappiano dare la giusta importanza ai gesti di attenzione o alle sfumature dell’abboccamento. Nel viaggio ci si ritrova in una condizione analoga a quella appena descritta se si pensa al sentimento di spaesamento coltivato da molti viandanti (da Segalen a Leiris, ai nostri Wenders e Marker) o al più frequente senso di fastidio e rifiuto che assale altri viaggiatori innanzi all’incomprensibile (vedi Pasolini): come nel soggiorno in terre straniere, come nello scherzo seduttivo, anche nella relazione del lettore/ spettatore con la finzione esiste una percentuale di probabilità d’insuccesso. E anche qualora essa non si verificasse, resta il fatto che processi qui descritti non possono considerarsi pacificati, unidimensionali e di facile risoluzione tra le parti. Continua Odin: Per funzionare nella prospettiva della finzionalizzazione, la produzione della messa in fase presuppone la messa in atto di due operazioni enunciazionali. La prima impone che io metta il lavoro dell’insieme dei parametri filmici al servizio del racconto; ciò significa che tutto il lavoro plastico, ritmico e musicale del film, che tutta la dinamica del montaggio, del gioco degli sguardi e delle inquadrature e anche il modo di recitare degli attori deve essere rapportato all’azione del racconto. In un film letto secondo la messa in fase tutto diviene narrativo. Di contro se un parametro si rende autonomo in rapporto al racconto si produce un effetto di sfasamento. Lo spettatore non vibra più al ritmo degli avvenimenti raccontati.10 9 10

R. Odin, Della finzione, cit., p. 58. Ivi, p. 50.

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I possibili casi di sfasamento dalla finzione individuati da Odin sono molteplici (plastico, attoriale, idiolettico, mostrativo, esterno, interno, ecc…), e sono quasi tutti riconducibili all’orizzonte delle attese spettatoriali inevase dal testo (filmico nel nostro caso, narrativo in senso lato) e sono accomunati dal fatto che sussiste in essi sempre uno slittamento, un disequilibrio, uno scarto che non consente al soggetto (scopico) di immergersi completamente nella diegesi, di sentirsi vibrare con essa, definendo i rispettivi ruoli nella «commedia». Già altri studiosi, come i già citati Walton e Pavel, o Marie Laure Ryan11 e Lubomír Doležel,12 sostenevano, prima di Odin, che tale disfasia fosse insita nella dialettica stessa che si attiva tra testo e fruitore. Secondo alcuni dei più autorevoli esponenti della cosiddetta Possible Worlds Theory di leibniziana ascendenza, essa si produce più precisamente nei principi d’interdipendenza che in ogni finzione si stabiliscono tra ciò che è riconducibile a fatti reali (il fattuale) e ciò che esibisce la propria natura d’invenzione (il fittizio),13 due dimensioni che il fruitore si premura di tenere insieme e raccordare per mezzo di una sorta di dissociazione calibrata (la cosiddetta «sospensione dell’incredulità»), pronta a sfaldarsi alla prima significativa incoerenza. Da qui una serie di operazioni di oculatezza relazionale, di calcolo dialettico, di sagacia pragmatica che sono propri della pratica narrativa. Per Marie Laure Ryan, ad esempio, il lettore/spettatore tende a proiettare sul mondo della finzione «tutto ciò che [sa] del mondo reale, operando unicamente le trasformazioni che non [è] in grado di evitare»,14 in un’ottica economica di adeguamento del sistema percettivo che prevede il suo riequilibrio quando i paradigmi abitualmente accettati vengono contraddetti dal testo. Ryan chiama tale processo il «principio di scostamento minimo» all’interno del quale chi legge e/o guarda colloca la propria operosità ermeneutica, assiologica, 11 12 13 14

M. L. Ryan, Fiction, Non-Factuals and the Principle of Minimal Departure, in «Poetics», n. 8, 1984, pp. 403-422. L. Doležel, Heterocosmica. Fiction e mondi possibili, Bompiani, Milano 1999. Per una precisazione sul senso che si dà ai termini «fattuale» e «fittizio» rimando a G. Genette, Finzione e dizione, Pratiche, Parma 1993. M. L. Ryan, Possible Worlds, Artificial Intelligence and Narrative Theory, Indiana University Press, Bloomington 1991, p. 49.

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emotiva. Umberto Eco, pur ribaltando gli assunti della Ryan, afferma più o meno la stessa cosa: Ogni finzione narrativa è necessariamente, fatalmente rapida, perché – mentre costruisce un mondo, coi suoi eventi e i suoi personaggi – di questo mondo non può dire tutto. Accenna, e per il resto chiede al lettore di collaborare colmando una serie di spazi vuoti. [...] Ogni testo è una macchina pigra che chiede al lettore di fare parte del proprio lavoro. [...] I mondi della finzione sono parassiti del mondo reale [...] Tutto quello che il testo non nomina e descrive espressamente come diverso dal mondo reale, deve essere sottinteso come corrispondente alle leggi e alla situazione del mondo reale. [...] Le finzioni mettono tra parentesi la massima parte delle cose che sappiamo su di esso, e ci permettono di concentrarci su un mondo finito e conchiuso, molto simile al nostro, ma più povero.15

Da un certo punto di vista, possiamo dire che la presenza di sfasamenti minimi è merito del gioco della lusinga che impone una distanza tra gli «spasimanti» che non sia né incolmabile né già risolta. Ogni esperienza narrativa richiede, infatti, al fruitore un esserci nella finzione senza dimenticare di non esserci, o se si preferisce, un fingere di non sapere che l’istanza narrante che gestisce il racconto, come direbbe Searle,16 finge di asserire verità. E poi decidere se e quanto a lungo mantenere fede al patto performativo sottoscritto. Di più. Portando il ragionamento alle sue estreme conseguenze, potremmo dire che lo spettatore/lettore, in una sorta di mimicry al quadrato, gioca a far lo spettatore/lettore, fa finta di esserlo, consapevole dell’intervallo che sussiste tra i mondi della finzione e della realtà, eppur pronto, se decide che gli conviene, a comportarsi «come se» non esistesse (a semplificare, a economizzare, a «chiudere un occhio»), per non rischiare di interrompere la «messa in fase» che la finzionalizzazione pretende di realizzare. «Lo specifico del “far finta” – scrive Jost – è attutire la percezione tra i due mondi».17 Attutire, non eliminare. In questo gioco seduttivo che il lettore/spettatore sperimenta 15 16 17

Cfr. U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, cit., p. 104. J. R. Searle, Expression and Meaning, Cambridge University Press, Cambridge 1979. F. Jost, Realtà/Finzione. L’impero del falso, Il Castoro, Milano 2003, p. 100.

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e che prevede un rapportarsi contemporaneamente con il mondo del fittizio e con quello del fattuale imparando a mantenere quella che Barthes chiamerebbe una «distanza amorosa»,18 c’è una terza pertinenza relazionale che agisce e della quale occorre tenere conto. Un costrutto che per abitudine e bisogno di sintesi chiamiamo «immaginario» e che lega ancor di più il discorso alla dimensione odeporica. L’immaginario è l’aldilà multiforme e pluridimensionale della nostra vita, nel quale siamo egualmente immersi. È l’infinita scaturigine virtuale che accompagna ciò che è attuale, vale a dire singolare, limitato e finito nel tempo. È la struttura antagonistica e complementare di ciò che si dice reale, e senza la quale, indubbiamente, non ci sarebbe reale per l’uomo o meglio realtà umana.19

Secondo la definizione di Morin, autore di un’opera capitale come Il cinema o l’uomo immaginario, la concretezza dell’esperienza del singolo è accompagnata da una sfera parallela e virtuale dentro la quale egli colloca «le aspirazioni, i desideri e i loro negativi, i timori e i terrori»,20 e – aggiungo io – anche gli schemi mentali, gli atteggiamenti, le predisposizioni, le persuasioni, i criteri di credenza. Una sfera che il singolo soggetto interpella costantemente (specie se fatica a comprendere ciò che gli è innanzi) e che assume una funzione ancora più importante nel momento in cui intercetta i campi della rappresentazione audiovisiva. La ragione è semplice: come dice lo stesso Morin, «l’immaginario è il punto di coincidenza tra immagine e immaginazione».21 Secondo tale approccio che tende a ricondurre la forza del costrutto su un piano essenzialmente antropologico, l’immaginario si colloca in una posizione terza e simmetrica rispetto al reale e alla finzione: del primo conserva l’immersività, ma non la fattualità; del secondo la virtualità ma non la volubi18 19 20 21

Sulla nozione di «distanza amorosa» si veda il saggio intitolato Uscendo dal cinema contenuto in R. Barthes, Il brusio della lingua, Einaudi, Torino 1988, pp. 355-359. E. Morin, L’industria culturale, il Mulino, Bologna 1963, p. 84. E. Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, Feltrinelli, Milano 1982, pp. 88-89. Ivi, p. 89.

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lità. È un «aldilà multiforme», una «scaturigine», che, a differenza della finzione e (della percezione) del reale, si presenta come un campo discorsivo stabile e per questo non scalfibile da una sola rappresentazione. Esso si genera, infatti, da una conformazione sociale (l’immaginario o è parzialmente condiviso da una comunità o non è) che si addensa e si modifica lentamente. Proprio per questo motivo può assumere la funzione di mediatore, specchio assorbente e riflettente, luogo virtuale di depositi verso il quale far confluire e cercare di risolvere i dissidi, le attese disattese, i passi falsi dell’abboccamento. Da questo punto di vista, l’immaginario può essere considerato quel repertorio di rappresentazioni simboliche al quale ricorrere per tarare la propria esperienza di visione o, nell’ottica enciclopedica di Eco, come l’insieme di tutte le interpretazioni possibili, non descrivibile nella sua totalità perché indefinito e inclassificabile, posseduto in modo diverso dai suoi utenti, «un’ipotesi regolativa in base alla quale in occasione delle interpretazioni di un testo [...] il destinatario costruisce una porzione di enciclopedia concreta che gli consenta di assegnare o al testo o all’emittente una serie di competenze semantiche».22 Lo spiega in un altro modo Jost: Quando la finzione produce i suoi effetti, c’è un momento in cui il ricettore tratta le situazioni narrative inedite come tratterebbe qualsiasi altra informazione nuova, di finzione o meno: e cioè cercando semplicemente di riportare ciò che non si conosce a ciò che si conosce e allo stesso tempo, di risolvere la distanza in una semplice differenza.23

L’immaginario è quel luogo dove si cerca di capire se le distanze si possono tradurre in differenze.

22

23

U. Eco, Semiotica e filosofia del linguaggio, Torino, Einaudi 1984, p. 111. Sul concetto di «enciclopedia» nel pensiero e negli scritti di Eco si rimanda a P. Violi, Le molte enciclopedie, in P. Magli, G. Manetti, P. Violi (a cura di), Semiotica. Storia, teoria, interpretazione. Saggi intorno a Umberto Eco, Bompiani, Milano 1992, pp. 99-113. F. Jost, op. cit., p. 28.

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2.2. Mondi praticabili Il percorso speculativo appena abbozzato ci ha condotto in un territorio solo apparentemente lontano dal focus di questo studio. Si è visto che la finzione può essere paragonata a un viaggio e/o a un adescamento nel quale lo spettatore si trova embricato, coinvolto e insieme parzialmente distaccato e dove la predisposizione al «far finta» assume un rilievo decisivo, come decisivo è l’atteggiamento che il fruitore assume in relazione alle turbolenze narrative che incontra. Le tre sequenze sopra descritte, tratte rispettivamente da La tigre di Eschnapur di Fritz Lang24, Il fiore delle mille e una notte di Pasolini e Hiroshima mon amour di Alain Resnais, in qualche modo mettono in figura quanto ho cercato di annotare a proposito dei caratteri del discorso finzionale. Costruiscono degli spazi praticabili di finzionalità come seduzione odeporica. Intanto sarà facile constatare che gli episodi scelti dipingono adescamenti tra personaggi che appartengono a culture ed etnie diverse (o, nel caso de Le mille e una notte, a classi sociali diverse). Seetha si esibisce accanto a una statua dalle accentuate forme 24

A proposito del lavoro di Lang occorre spiegare, almeno in nota, perché ho deciso di ricondurlo a questo studio. Non si tratta, infatti, né di un film di viaggio, frutto di un lungo soggiorno del regista tedesco in India, né di un film modernista, auto-consapevole, simpatizzante nei confronti delle comunità alloglotte. Trattasi, viceversa, di una pellicola smaccatamente orientalista, come quelle che si realizzavano in Germania prima della guerra o a Hollywood. La maggior parte delle sequenze è stata girata in uno stabilimento cinematografico di Berlino, gli attori sono europei o americani che recitano in ruoli allogeni, la narrazione si colloca nelle griglie di genere e più precisamente nel film esotico e d’avventura. Tuttavia, come si ricordava a inizio di saggio, anche La tigre di Eschnapur (e la sua seconda parte Il sepolcro indiano), sono il risultato «reagente» di un fallimento odeporico. Pochi anni prima Lang era stato coinvolto da un produttore indiano per la realizzazione di un film sulla costruzione del Taj Mahal da ambientare tra lo stato dell’Uttar Pradesh e quello del Rajasthan (ovvero tra Agra, Udaipur e Jaipur). Il primo viaggio in India si era rivelato indicativo delle difficoltà produttive che si sarebbero ingenerate se avesse accettato l’incarico e non se ne fece nulla. Il successivo dittico indiano tuttavia assorbe una serie di sollecitazioni di quei viaggi, sia per quanto riguarda il plot (si racconta la storia di un architetto tedesco chiamato da un principe a costruire un mausoleo in ricordo della donna amata), sia per quanto riguarda le ambientazioni (gli esterni sono girati negli stessi luoghi visitati da Lang durante il primo viaggio).

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femminili per il piacere degli occhi maschili indiani, ma anche di quelli di un architetto tedesco; Aziz si lascia rapire dalla bellezza aristocratica di Budùr e chiede alla cugina, nonché promessa sposa, di aiutarlo a conquistarla; l’architetto giapponese intavola una discussione con l’attrice francese per convincerla a ritrovarsi il giorno seguente, senza ottenere soddisfazione e senza sapere se stia recitando anche con lui. Seduzioni quindi che non hanno vita facile, tremendamente precarie, a rischio d’incidente in qualsiasi momento: uno sguardo di troppo di Seetha verso Harald può portare quest’ultimo al patibolo; una parola non correttamente recitata da Aziz può interrompere l’incantesimo di un amore (un incantesimo che peraltro conduce alla morte la vera seduttrice/regista di tutto il brano, vale a dire Aziza); una frase di troppo di Lui può spingere Lei a rinchiudersi in se stessa, per le sofferenze di una tragica storia d’amore. Seduzioni che prevedono anche delle parti da interpretare nella commedia: la ballerina, l’innamorata che rinuncia per amore al suo partner, la femme fatale, l’infermiera. Seduzioni che, infine, mettono in discussione il «come ci si sente» o, come direbbe Odin, il «come si vibra» al ritmo degli avvenimenti raccontati: Seetha si arresta timorosa quando intravede Harald; Aziz cade in disperazione quando si rende conto di aver fatto soffrire la cugina; Lei rivive il turbamento per il soldato tedesco che ha visto morire a Nevers. Emergono delle altre risoluzioni interessanti dalle sequenze qui convocate. Non mi sembra secondaria, ad esempio, la transizione per certi versi traumatica tra la fastosità riconoscibile degli esterni del Tempio Jagdish e l’interno cavo e spoglio della grotta in cui si celebra il rito di ringraziamento alla Dea. Un passaggio dal fattuale al virtuale, lo potremmo definire, grazie al quale il dominio dell’artificiale viene esibito in tutta la sua forza espressiva. E dove la distanza tra corpo in movimento e sguardi voyeuristici prende immediatamente la forma, le misure e l’esperienza della visione filmica, essendo la grotta una riproposizione – passando dal mito della caverna di Platone – degli spazi della sala cinematografica e Harald un doppio intradiegetico dello spettatore. Da questo punto di vista è del tutto giustificabile la pena che si prevede di infliggergli qualora venga scoperto a spiare: se manifestasse la sua presenza, l’architetto/spettatore interromperebbe la recitazione di Seetha e metterebbe prematuramente fine al gioco seduttivo della finzione.

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Il lungo brano de Il fiore delle mille e una notte ci racconta invece di un caso d’incompetenza comunicativa nel quale chi viene sedotto, vale a dire Aziz, deve affidarsi a un soggetto terzo (Aziza) che sia capace di decodificare i segni che vengono diffusi. Aziza è una sorta di «archivio di tutte le interpretazioni possibili» (Eco) che viene consultata per gestire e comprendere segni sconosciuti e per far combaciare la realtà dei fatti (l’incontro con Budùr) con le proprie attese di innamorato (l’ideale di donna rappresentato da Budùr). S’inscena una pratica di mediazione relazionale e di traduzione semiotica nella quale, pur nella sua vaporosità e inconsistenza fattuale, prende lentamente il sopravvento il terzo polo, l’«immaginario-Aziza» che rappresenta in fin dei conti l’orizzonte di riferimento dello spettatore/Aziz, orizzonte che non può venire meno, pena l’assoluto disorientamento e la perdita della propria posizione/identità tanto nella realtà, quanto nella finzione. L’«immaginario-Aziza» è, in definitiva, il fattore che consente al ragazzo di scegliere la giusta distanza, di mettersi in fase, di aderire a un «principio di scostamento minimo» che economizza lo sforzo e lo rende – almeno finché segue i suggerimenti di Aziza – straordinariamente produttivo. La sequenza di Hiroshima mon amour è interessante invece per un altro motivo. È quello che potremmo definire il verso delle attese sociali, quel fascio d’interlocuzioni che informa gli atteggiamenti, le regole e le consuetudini di un determinato consesso, spesso non dichiarate, ma pur sempre adeguate alla seduzione finzionale, qui emerse grazie a un cortocircuito meta-cinematografico. Come si è già detto, Lei non è un personaggio qualunque, ma è un’attrice francese che interpreta il ruolo di un’infermiera in una produzione cinematografica internazionale. Già il doppio ambito professionale è simbolico (attrice/infermiera), ma è il tipo di produzione per la quale lavora a esserlo ancora di più («un film sulla pace»). I codici sociali – che sono poi, in questo caso, il frutto di eventi storici tragici e di fresca memoria, dunque particolarmente stringenti – impongono orizzonti, perimetri e assiologie dentro le quali si colloca la finta finzionale. Se i processi si dipanano nell’esercizio del «come se», se i tempi dell’immersione possono essere flessibili, gli spazi in cui i personaggi sono collocati (anche nei due precedenti brani commentati) paiono invece prescrivere una consistenza fisica, un amalgama di tracce e di stratificazioni dalle qua-

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li non si può prescindere. Insomma, non sono solo mondi possibili quelli che ospitano Lei, Lui, Seetha, Harald, Budùr, Aziz e Aziza. Sono anche mondi concreti e praticabili secondo un principio di esperibilità che, una volta ancora, si negozia a valle, nelle pratiche quotidiane dell’alterità, negli spazi ristretti dell’abitabilità, nelle finzioni relazionali dentro le quali tradurre le proprie identità narrative in viaggio.

3. L’ESIBIZIONE DELLA FINZIONE

3.1. Recitare l’altro Giunti a questo punto del ragionamento bisognerebbe scoprire se il processo di esibizione della finzione, in tutte le sue possibili manifestazioni, appartiene solo ai tre film citati oppure si trova, e in che modo, in altre opere che si misurano con le culture alloglotte. In seconda battuta occorrerebbe intendere se tali relazioni includono quella tecnica dell’«agire al posto [del nativo] recitando o fingendo come lo sguardo fisso imperialista» teorizzata da Rey Chow, di cui avevo parlato a inizio di libro e che proponevo come proposizione teorica efficace per studiare le dinamiche di sapere/ potere proprie dell’arte e dalla narrazione odeporica. Un carotaggio etimologico può intanto aiutare a tracciare il perimetro speculativo dentro cui ri-collocare i giochi di seduzione finzionale. Com’è noto, il lemma «recitare» deriva dal latino e significa «rifare l’appello delle persone citate in tribunale».1 La provenienza giuridica del termine innesca un sotto-testo simbolico particolarmente adatto ai discorsi di pertinenza postcoloniale: appellare significa convocare per accusare o, volendo, per chiedere aiuto, testimonianza o informazioni da parte di un’autorità che agisce nei confronti di un subalterno (almeno sul piano dei ruoli sociali dentro il processo); appellare è anche un modo per assegnare – surrettiziamente e senza possibilità di scelta, come fanno i genitori con i figli – un nome, un’identità, nel senso che vi infonde Francesco Remotti, ovvero mitizzando un costrutto che non esiste

1

La definizione è tratta dal DELI – Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, curato da Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli per l’editore Zanichelli. Edizione consultata: 2a (1999).

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in natura, dunque fittizio.2 Recitare può dunque essere considerato sia come un modo per convocare l’«altro» nel tribunale del sé sia per appellarvisi, per infondergli una riconoscibilità che è perimetrata secondo i voleri e i paradigmi del nominante. Già dal significato etimologico della parola si può desumere il motivo per il quale è utile problematizzare le pratiche dell’«interpretazione» (altro termine gravido di ripercussioni simboliche), come fanno alcuni dei nostri film: perché consente di mettere in questione il grado di artificialità stessa del costrutto, domandandosi ancora una volta se sono gli orizzonti della mimesis che s’intendono perseguire o se invece si vuole dialogare con la realtà su piani concettuali o secondo pragmatiche più complesse. Si pensi all’operazione portata avanti da Pasolini ne Il fiore delle mille e una notte. Quasi tutti gli attori scelti dal cineasta sono di origine italiana, hanno poca esperienza davanti alla macchina da presa o sono addirittura dei non professionisti. Persino Ninetto Davoli e Sergio Citti, che hanno recitato in diverse pellicole di Pasolini, non nascondono nella loro fisicità e nel modo di stare innanzi alla macchina da presa le origini borgatare e una carriera lontana dalle accademie o dai corsi di dizione. Per ovviare alle loro insicurezze recitative, il regista bolognese preferisce far doppiare i suoi attori in fase di postproduzione, senza affidarsi tuttavia a doppiatori professionisti (attori capaci di «ripulire» in cabina di doppiaggio le imprecisioni della recitazione al tournage), bensì ad altri attori non professionisti che possiedono un marcato accento meridionale (leccese per la precisione). Si arriva pertanto al paradosso di avere personaggi di finzione di origini mediorientali (indiani, persiani, arabi, maghrebini…) interpretati da attori di origini italiane (o di nazionalità italiana, ma origini eritree come nel caso di Ines Pellegrini, interprete di Zumurrud), a loro volta doppiati da non professionisti italiani che parlano con una marcata inflessione pugliese. La lingua del nativo, come direbbe Chow, viene silenziata non una, ma due volte da filtri linguistici che ne sanciscono l’intraducibilità e che accentuano la rimozione dai campi discorsivi pasoliniani della materialità dell’«altro». Tuttavia, quel recitare con voci dalle marcate cadenze dialettali, dalle costruzioni grammaticali gergali, dalle sonorità cacofoniche (se applicate ai personaggi 2

F. Remotti, L’ossessione identitaria, Laterza, Roma-Bari 2010.

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del corpus letterario de Le mille e una notte), produce una sorta di cortocircuito acustico che sfrutta l’esibizione dell’inverosimiglianza linguistica per rimarcare i processi di esclusione e marginalizzazione che hanno coinvolto i subalterni. La scelta dei dialetti dell’Italia meridionale risponde, in altre parole, alla convinzione secondo la quale gli strati più poveri del nostro paese (i contadini del sud, i sottoproletari urbani) e le popolazioni del cosiddetto Terzo Mondo condividono medesimi destini sociali, economici e politici.3 Ecco che scegliere di far parlare i personaggi di una celebre raccolta di racconti orientalista con la voce dei «subalterni» italiani (almeno dal punto di vista economico) significa inoculare un sottotesto politico che rammenta indirettamente la condizione marginale degli attuali abitanti dell’Iran, dell’India, dello Yemen. Un bel gioco di aporie, insomma, è quello realizzato da Pasolini con Il fiore. Altri però ne esistono di simili in altre pellicole di viaggio. Si pensi – riprendendo quanto già detto nel capitolo sulla voice over (§ III 4.) – a quanto avviene ne L’isola della donna contesa dove le voci dei giapponesi sono abbandonate a loro stesse, coperte dalla voce extradiegetica di Sternberg che parla in inglese; oppure a India Matri Bhumi di Rossellini, nel quale le voci dei personaggi indiani sono nascoste dai commenti recitati (in italiano) da attori immigrati dal percepibile accento straniero che sembrano dare voce ai pensieri, alle emozioni, ai sentimenti e alle convinzioni dei personaggi di finzione, in una specie di flusso di coscienza tradotto in una lingua allogena. L’iniziativa, si capirà, non è dissimile da quella pasoliniana. Si pensi anche a Le Mystère Koumiko dove la protagonista del film parla un francese stentato e a un certo punto si trova costretta ad affidarsi a uno strumento traduttivo tecnologico (il registratore) per esprimere opinioni e sentimenti da un luogo lontano, esclusa dal «tribunale» del senso che è lo studio parigino di Marker. Si pensi a Ivens che traduce in francese – sempre attraverso una voce di commento – solo alcune parti dei dialoghi registrati nel monumentale Comment Yukong déplaça les montagnes, oppure a Sans soleil, dove una voce femminile legge le lettere 3

Per una trattazione dell’argomento si rimanda a L. Caminati, Orientalismo eretico. Pier Paolo Pasolini e il cinema del Terzo Mondo, Bruno Mondadori, Roma 2007; G. Trento, Pasolini e l’Africa, l’Africa di Pasolini. Panmeridionalismo e rappresentazioni dell’Africa postcoloniale, Mimesis, Milano-Udine 2010.

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scritte in prima persona da un cameraman giramondo. E così via. In questi e altri casi ci troviamo di fronte a un’oggettiva difficoltà nel dar voce all’alterità. Una difficoltà che non si risolve però in una semplice volontà di silenziare le soggettività e i linguaggi del nativo, come capita a molte opere di orientalismo più smaccato, bensì in una sostanziale messa in rilievo dei filtri traduttivi e della loro natura finzionalizzante. In altre parole, gli altri vengono convocati nel «tribunale» del sé in quanto testimoni oculari, si chiede loro una deposizione – nel senso etimologico di ‘sgravarsi di un peso, di una notizia’ – che tuttavia per essere comprensibile alla giuria (in sala) ha bisogno di una qualche forma di traduzione. Ne consegue che il risultato di questo sforzo – per sua stessa natura – è insieme un atto di menzogna e di verità. 3.2. Siamo diventati lo spettacolo e loro gli spettatori. La breve disamina compiuta all’interno di alcuni luoghi della significazione filmica ha trovato conferme a quel rincorrersi di cortocircuiti che l’esperienza odeporica di questa stagione dimostra di voler e saper innescare. L’ambiguità del segno, propria della sintassi «modernista» e «autoriale», lungi dal favorire una fruizione meditata degli artefatti dell’alterità, contribuisce a erigere barriere alterando le «giuste distanze» necessarie alla «messa in fase» della finzionalizzazione. Le voci si accumulano, si stordiscono, si ritraducono, si recitano addosso; le dinamiche di finzionalizzazione riproducono scarti, disagi, dépaysement. Informata da questa luce, la sequenza di La tigre di Eschnapur citata a inizio di capitolo assume – forse per un esibizionismo orientalista che tende al parossismo – altri tratti paradigmatici che possono aiutarmi a spingere il ragionamento un po’ più in là. Prima di commentarla una seconda volta occorre ricordare che in un passaggio precedente a quello descritto lo spettatore aveva scoperto che Seetha aveva probabili origini europee (in un dialogo con Harald, la ragazza aveva raccontato, infatti, di essere stata abbandonata ancora bambina da un uomo che suonava uno strumento musicale tradizionale irlandese). Lo snodo drammatico, pensato forse per rendere meno destabilizzante la relazione tra i due personaggi, ha una conseguenza di non poco conto in questo frangente. In li-

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nea ipotetica Seetha, infatti, dovrebbe rappresentare l’espressione dell’orientalismo più smaccato: è la danzatrice dai sette veli, dalle carni esposte, dalle movenze esplicitamente sensuali, la donna sinuosa che lusinga e seduce, il veicolo di conduzione al sacro e al divino indiano, venerata dagli uomini del tempio e fonte di desiderio per il principe. In verità, il suo essere proiezione di una bellezza in tutto e per tutto occidentale, come la pelle chiara, gli occhi verdi e i tratti somatici dell’attrice americana che la interpreta ostentano, dimostra al contrario l’arbitrarietà del costrutto orientalista, la sua falsificazione esibita, la sua finzione denudata. Lo stratagemma narrativo getta, così, un’altra luce sui giochi seduttivi attivati. Se in prima battuta era Harald il doppio intradiegetico dello spettatore occidentale, voyeur che assiste al rito senza farsi notare (proprio come chi sta seduto al cinema), in seconda occorre ammettere che anche Seetha può diventare veicolo di incarnazione di un’autorità etnocentrica che, per dirla con Chow, agisce al posto dell’«altro» «recitando o fingendo come lo sguardo fisso imperialista». In altre parole la ragazza indiana, ma dal sangue irlandese, sostituisce l’«altro» con il «sé», costringendo così Harald a spiare non più la massima espressione della diversità etnica, ma la massima espressione di un’identità etnica che recita la diversità. Questo passaggio è, a mio avviso, fondamentale perché è il punto di confluenza dei discorsi elaborati precedentemente sugli stereotipi e i malintesi da un lato, e sulle finzioni della narrazione dall’altro. Trasponendo questa situazione all’interno del corpus di film analizzati, vorrei sostenere che anche i registi modernisti in viaggio – specie quelli che si trovano embricati in spettacoli dell’alterità che non capiscono, non sanno decodificare o non tollerano – ricercano, elaborano e si affezionano ai meccanismi di esibizione del sé europeo come capita nel film di Lang. Sotto questa luce, le strategie retoriche di indebolimento o destabilizzazione del racconto, l’uso extra-extradiegetico delle voci di commento, i dispositivi di esplicitazione dei gradi finzionali, si dispongono come strumenti che servono a conciliare il sé europeo (il proprio modo di raccontare e di vedere in viaggio) con i profili dell’«altro», opacizzandone i segni della rappresentazione: mentre credono/sostengono di vedere e raffigurare l’«alterità», vedono e raffigurano gli spazi e le espressioni del sé nell’«alterità». Come Harald in Seetha. Come lo spettatore in Harald e in Seetha.

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Bisogna aggiungere che all’interno di questa specie di dispositivo panottico che centripeta gli sguardi etnografici invece di renderli centrifughi, i nativi, i «veri» indigeni, si trovano marginalizzati dalla narrazione, non nel senso di definitivamente esclusi, ma nel senso letterale di collocati ai margini, posti in un luogo che, però, può essere anche un altro punto di osservazione e di voyeurismo. Come Chandra, come il fratello Ramigani, come i custodi del tempio che osservano Seetha ballare e ne giudicano la bravura, per molti versi anche gli indigeni mostrati nei film odeporici, pur continuando a tacere, ovvero a restare i subalterni senza parola di cui ci ha parlato così a lungo Spivak, diventano anch’essi, a loro volta, spettatori del gioco seduttivo e orientalista che esiste tra autorità etnografica e reificazione filmica. Se dovessimo usare una definizione dal sapore retorico, essa suonerebbe così: mentre l’europeo spia l’europeo che esibisce se stesso imitando e recitando l’altro, l’altro – ai margini del quadro, inafferrabile – può osservare, guardare, divertirsi, offendersi e soprattutto decidere se la mimicry sia più o meno riuscita e reagire di conseguenza. Si ricorderà – ed è un fatto che non mi sembra casuale in questo discorso – che l’ingresso al tempio in La tigre di Eschnapur è espressamente vietato agli europei. Ne consegue che la presenza dell’europea Seetha al centro del palcoscenico, protagonista assoluta del rito, incarnazione stessa della divinità che è al suo fianco, si fa simbolo di una trasgressione che da una parte svuota il senso stesso del rito e che dall’altra, paradossalmente, mette nelle mani dell’«altro» la decisione – una volta acquisita consapevolezza della violazione della regola – di condannare a morte l’autorità etnografica che si è autoimposta nello spazio adibito al culto dell’indigeno. Seetha e Harald sono esposti e dunque rischiano, in teoria, di essere uccisi. Portando fino al punto di non ritorno questo processo logico, potrei sostenere che il gioco del «come se», del «far finta di», trasforma il nativo in un terzo incomodo, un soggetto dell’immaginario che incarna, come direbbe Eco, «l’insieme di tutte le interpretazioni possibili», specialmente quelle non ancora previste, vorrei aggiungere.4 Il nativo diventa, in altre parole, una sorta di spettAt4

Si pensi, a tal proposito, al modo con cui Marker descrive Kumiko durante le prime battute del suo film, ovviamente attraverso il commento in voice-over: «Kumiko non è la Giapponese modello, sempre che esista un

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tore che – pur nel silenzio – potrebbe, almeno potenzialmente, rompere le convenzioni, staccare la spina alla finzione, dimostrare che l’alterità è tale solo se non esiste «messa in fase», se non c’è «scostamento minimo», se non esiste «giusta distanza». Una sequenza di Hiroshima mon amour, ambientata in una Tearoom, mi sembra a proposito particolarmente illuminante. Come si ricorderà, in questo passaggio del film, l’architetto giapponese finge di essere il soldato tedesco con cui la donna ha avuto una relazione clandestina. «Quando sei nella cantina, io sono morto?» le chiede e quando lei dice: «Ti chiamo piano!», lui risponde «Ma io sono morto!». In uno dei punti di maggiore enfasi drammatica, ecco due personaggi che nello stesso istante non potrebbero essere più vicini e più lontani tra loro. Il motivo è presto detto. L’«altro» giapponese, parlando «come se» fosse il soldato tedesco morto anni prima, si mette nei panni di un «altro» familiare – francesi e tedeschi condividono una storia di conflitti, ma anche di grandi alleanze – in modi non difformi rispetto a quanto avveniva per il rapporto tra Seetha e Harald. Aggiungiamo che l’architetto non si «limita» a parlare con la lingua dello straniero, come fanno ad esempio la Kumiko di Marker o i personaggi doppiati di Pasolini o Rossellini, ma addirittura parla il francese che parlava il soldato tedesco durante la relazione clandestina con la ragazza francese (nel senso di un francese stentato e accentato). Un disegno traduttivo escheriano dove si distendono vie di fuga apparenti: l’«altro» che interpreta l’«altro» che assomiglia al «sé» (Hiroshima), il «sé» che non sa di interpretare l’«altro» per piacere a un altro «sé» (La tigre di Eschnapur), il «sé» (Aziz) che chiede a un proprio doppio (Aziza) le istruzioni per interpretare un «altro da sé» e conquistare un altro simbolo di alterità (Budùr). È bene ricordare, a questo punto, che Hiroshima mon amour, Il fiore delle Mille e una notte e La tigre di Eschnapur non sono i soli animale di tal genere. Non è la donna modello, né la donna moderna. Non è un caso, non è una causa, non è una classe, non è una razza. Non assomiglia ad altre donne o più esattamente assomiglia solo a quelle che non assomigliano ad altre donne». Cfr. C. Marker, Commentaires 2, cit., p. 11 (trad mia). Detto altrimenti, per il cineasta francese, Kumiko è la donna di tutte le interpretazioni possibili, nessuna esclusa, proprio perché sfugge alle definizioni, perché assomiglia proprio a quelle donne che non assomigliano ad altre donne.

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film in cui si attivano tali dinamiche. Un’altra sequenza che vale la pena ricordare, perché speculare a quella appena commentata, proviene da Chung Kuo - Cina di Michelangelo Antonioni. Il regista ferrarese si trova, a un certo punto del viaggio, nella regione montuosa dello Henan. Insieme alla sua troupe decide di visitare, senza preavviso, un piccolo paese di montagna. Il gruppo di visitatori stranieri è accolto da un capo-villaggio che, pur con una certa titubanza, li accompagna in una visita «ufficiale» inizialmente improvvisata poi, poco per volta, sempre più istituzionale. La voce narrante racconta che l’uomo ha chiesto ai suoi concittadini, nella fattispecie agli anziani e alle donne mal vestite, di chiudersi in casa per non offrire un cattivo spettacolo di sé. Sul ciglio delle abitazioni restano quasi soltanto ragazzi e ragazze che osservano il passaggio della troupe straniera. La macchina da presa cattura le loro espressioni incuriosite e perplesse. E mentre gli abitanti si raccolgono ordinatamente ai bordi della strada principale del villaggio, come se assistessero a una sfilata o a una processione, la voice-over licenzia un commento che merita di essere citato: Questi cinesi non hanno mai visto un occidentale. Ora cominciano ad affacciarsi sulle soglie sorpresi, intimoriti, curiosi. Non resistono alla tentazione di tornare a guardare. Continuiamo a filmarli, ma presto ci accorgiamo che gli stranieri, i diversi, siamo noi. Al di qua della macchina da presa restiamo per loro come oggetti sconosciuti e forse per loro anche un po’ ridicoli. È un colpo duro per il nostro orgoglio di europei. Per un quarto dell’umanità siamo così sconosciuti da incutere timore. I nostri occhi sono tondi, i capelli ricci, i nasi lunghi e ossuti, la pelle sbiadita, i gesti stravaganti, le fogge dei vestiti goffi. Sono spaventati ma cortesi. Temono di offenderci anche fuggendo. E perciò esitano. Restano finché possono davanti alla macchina da presa, impietriti ma immobili. E così per tutto il tempo della nostra irruzione nel paesino montanaro, ci troviamo davanti a una galleria di visi attoniti ma non leggiamo mai ostilità nelle loro espressioni.

Al netto delle formule essenzializzanti, la voce narrante riproduce un cortocircuito simile a quello generato dalle immagini lambiccanti di Lang. Mentre la troupe europea osserva e registra con la cinepresa i volti dei montanari, il flusso di coscienza del narratore descrive non gli altrui, ma i propri tratti somatici. Capovolge gli schemi per gestire un duplice sentimento di malessere: quello di

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sentirsi osservato, valutato, giudicato, considerato straniero o pittoresco alla stregua di un animale dello zoo; quello di vedere la realtà reagire e finzionalizzarsi innanzi al suo improvviso tentativo d’interazione. Anche in questo caso, come con la danza di Seetha, l’autorità etnografica si colloca al centro della rappresentazione (al centro della strada e dei luoghi pubblici del villaggio), attirando sguardi e maldicenze. Sebbene abbia in mano lo strumento che trasforma gli equilibri in disequilibri (la macchina da presa come corpo danzante e seducente), egli si colloca in una posizione arbitraria e, nel contempo, di apparente debolezza, perché esponendosi diventa facilmente razziabile, pur mettendo in atto una vera scorribanda come quelle dei nomadi di de Certeau. Accade una cosa analoga a Malle ne L’India fantasma. Tra le prime parole di commento ecco cosa dice: Siamo venuti per vederli e sono loro che guardano noi. Allora abbiamo preferito filmarli tali come erano, con i loro immensi e molteplici occhi voltati verso di noi, voltati verso l’occhio unico della macchina da presa. Abbiamo deciso di filmare tutti questi sguardi e di farne il motivo del nostro viaggio.

E poco oltre, durante le riprese di un matrimonio aggiunge: Ci avviciniamo e tutto si ferma. […] E una volta di più ci osservano. I ruoli si sono capovolti: siamo noi che siamo diventati lo spettacolo e loro gli spettatori.

Una volta ancora la realtà si finzionalizza, diventando inafferrabile, lontana, irriducibile al desiderio di realismo e autenticità dei cineasti. Un altro modo per finzionalizzarsi – ancora una volta speculare ma collimante con i casi segnalati prima – è quello di accentuare l’indifferenza, di sottolineare la propria irriducibilità allo sguardo del visitatore. È quanto capita a Pasolini (o almeno è quanto egli crede che capiti) quando s’inabissa in mezzo ai ragazzetti indiani o arabi, non lesinando commenti che attestano un imbarazzo, diverso per toni da quelli di Malle e Antonioni, ma del tutto analogo ai precedenti per i medesimi sentimenti di inutilità o disagio provati. In Sopralluoghi in Palestina, ad esempio, afferma in vari passaggi del commento extradiegetico:

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Qui puoi constatare la modernità della struttura sociale di Israele e il reale benessere di questa nazione. Questo lo dico perché nel caso che si dovesse girare il film là, immagino che sarebbe molto difficile trovare delle comparse. Tutti lavorano, il loro lavoro è ben retribuito e soprattutto è un lavoro ideale. [...] Gli ebrei sono inutilizzabili. E poi vedi le facce degli arabi. Sono facce in cui non è passata assolutamente la predicazione di Cristo. Sono facce precristiane, pagane, indifferenti, allegre, animalesche [...] Queste immagini parlano da sole […] Come vedi tutto questo materiale è inutilizzabile.

In tutti questi casi ci troviamo a innanzi a sequenze in cui l’autorità etnografica dell’autore cinematografico «recita o finge lo sguardo fisso imperialista» (Chow), assumendosi il ruolo di chi gioca il gioco della finzione, di chi «finge di fingere», di chi si colloca in un reticolo di «come se». Nel momento in cui il fattuale (la realtà nel suo dispiegarsi innanzi alla rappresentazione) si finzionalizza (si prepara alla visita – e alla vista – del gruppo di stranieri), si confondono i piani di lettura e di esegesi. E ciò avviene sia che si visiti un paesino sperduto nell’Henan sia l’India rurale di Nehru, sia la Palestina a maggioranza araba. Chi è che mente e chi dice la verità? Dove sta la realtà e dove l’artificio? Chi seduce e chi viene sedotto? Quale immagine è utile e quale inutile? Chi è ai margini e chi è al centro? Chi lancia lo sguardo sul mondo e chi lo subisce?

4. LA SEDUZIONE DEL VOLTO

4.1. Fotogenia, fotogenia pura, mobilità scandita Il dibattito attorno al concetto di fotogenia, sviluppatosi in Francia negli anni Dieci e Venti dello scorso secolo, fu colorato da straordinarie venature orientaliste. Si pensi che uno dei film che spinse critici e registi di quegli anni a interrogarsi sul fascino enigmatico dell’immagine cinematografica fu I prevaricatori di Cecil B. DeMille (1915), storia d’amore e di violenza tra una donna benestante americana e un uomo d’affari giapponese. Il successo internazionale della pellicola doveva molto alla presenza dell’attore Hayakawa Sessue, una delle figure che meglio incarnava quel «Pericolo Giallo» che ha da sempre percorso, con inesorabile frequenza, la cinematografia hollywoodiana.1 Quello tratteggiato nell’opera di DeMille era, d’altronde, un personaggio pericoloso, seducente, diabolico, che non poteva certo lasciare indifferente né la coprotagonista del film, né la critica e il pubblico del periodo. A proposito dell’interpretazione dell’attore nipponico, Louis Delluc ad esempio scrisse: Hayakawa domina le folle con la sua malinconia. Ancora una volta non parlo di talento, considero questi attori, soprattutto lui, come una forza naturale e il suo viso come un’opera di poesia […]. La malinconia, ma sì. Non è la crudeltà felina e implacabile, la brutalità misteriosa, l’odio di colui che resiste, il disprezzo di colui che ubbidisce, no, non è questo che ce lo impone, e tuttavia solo di questo si parla. E la malinconia? Gli occhi talmente freddi davanti al dolore che, aperti, sembrano chiusi per sempre, e soprattutto il suo sorriso

1

Cfr. G. Marchetti, Romance and the “Yellow Peril”, cit. Sulla figura di Hayakawa rimando invece a: D. Miyao, Sessue Hayakawa. Silent Cinema and Transnational Stardom, Duke University Press, Durham 2007.

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dalla forma strana, dalla ferocia di un bambino, e nemmeno; la ferocia di un puma o di un giaguaro, e non è più ferocia! La bellezza di Sessue Hayakawa è dolorosa. Poche cose al cinema possono, come la luce e il silenzio di questa maschera, rivelarci l’esistenza di esseri soli. Credo proprio che le persone sole, e sono tante, ritroveranno la loro disperazione senza via d’uscita nella malinconia profonda del selvaggio Hayakawa.2

Un altro dei più importanti teorici della fotogenia, Émile Vuillermoz, parlò in forme più tranchant di «presenze attoriali che si trasformano in corpi astrali»,3 Colette lo apostrofò come un genio,4 mentre Jean Epstein, commentando la sequenza di un suo successivo film, Sospetto tragico (The Honor of His House, 1918) di William C. de Mille (fratello maggiore del più noto Cecil B.), si espresse in questi termini: Hayakawa, stupefatto attore tragico, fa piazza pulita della sceneggiatura. Qualche manciata di secondi basta a offrire lo spettacolo magnifico della sua andatura equilibrata. Attraversa con naturalezza una stanza, con il busto un po’ obliquo. Porge i suoi guanti a un domestico. Apre una porta. Poi, uscito, la richiude. Fotogenia, fotogenia pura, mobilità scandita.5

Come si evince dalle citazioni qui rammentate, la centralità che Hayakawa assunse all’interno del dibattito francese sulla fotogenia dipendeva anche dal fatto che molti dei personaggi da lui interpretati erano ambigui e sfuggenti (da un punto di vista sociale, sessuale, etnico) riproducendo, indirettamente, caratteri collocabili dentro il perimetro significante, piuttosto poroso, del concetto stesso. Come ricorda Guglielmo Pescatore,6 la fotogenia 2

3 4 5 6

L. Delluc, Beauté, in Id., Écrits cinématographiques, a cura di P. Lherminier, Cinémathèque française, Paris 1986, p. 32. La traduzione in italiano del brano si trova ora in Fotogenia. La bellezza del cinema, n.s. di «Cinema & Cinema», a. XIX, n. 64, 1992, pp. 109-110. É. Vuillermoz, Un Blasphème, in «Cinémagazine», n. 35, 1923, p. 301 (corsivo mio). Colette, Cinéma, in «Excelsior», 7 agosto 1916, p. 2; ora in A. e O. Virmaux, Colette au cinéma, Flammarion, Paris 1975. J. Epstein, Bonjour cinéma, Fahrenheit 451, Roma 2000, pp. 33-34 (corsivo mio). G. Pescatore, L’immagine è se stessa, in «Cinema & Cinema», a. XIX, n. 64,

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rappresentava in quegli anni una sorta di termine-ombrello che faceva da agente catalitico di diverse idee di cinema e di varie modalità di relazione con il fenomenico. La stessa celebre definizione che ne diede Epstein in un testo del 1926 – «Che cos’è la fotogenia? Chiamerò fotogenico ogni aspetto delle cose, degli esseri e delle coscienze che accresca la sua qualità morale attraverso la riproduzione cinematografica»7 – appare oggi piuttosto nebulosa e vaga, specie per quel riferimento a «qualità morali» di un’immagine oggettivamente difficili da individuare. Si aggiunga che la diffusione del lemma nella trattatistica dell’epoca contribuì a trasformarlo in un concetto «alla moda, decorativo, suscettibile di apparire con significati e in contesti assai diversi tra loro»,8 tanto da poter indicare vari aspetti dell’esperienza filmica, dalle «qualità compositive, plastiche o luministiche delle immagini in movimento», a «quegli attributi che un’attrice deve possedere per ben figurare sullo schermo», da «ciò che il cinema deve essere», fino al «potere di illuminazione di una lampada».9 Provando a sintetizzare posizioni parzialmente eterogenee nella direzione di un’univocità già indicata da altri studi,10 si può dire che la fotogenia indicò quell’insieme di qualità peculiari dell’immagine cinematografica che consentiva allo spettatore di cogliere verità e profili dell’esistente esteticamente più marcati e, nel contempo, inafferrabili a occhio nudo. Da questo punto di vista si giustifica l’attenzione quasi maniacale dei commentatori dell’epoca nei confronti della recitazione del divo giapponese: la sua maschera indefinita, i ruoli ricoperti e l’alterità del suo corpo

7 8 9 10

1992, pp. 5-14. J. Epstein, L’essenza del cinema. Scritti sulla settima arte, Biblioteca di Bianco e Nero, Roma 2002, pp. 49-50. G. Pescatore, L’immagine è se stessa, cit., p. 5. I riferimenti qui riprodotti, tratti da vari scritti dei teorici della fotogenia, si trovano riuniti in Ivi, p. 6. Oltre al numero speciale già citato di «Cinema&Cinema» interamente dedicato alla questione della fotogenia, con testi di Pescatore, Carluccio, Abel, Dall’Asta e altri, rimando anche a C. Tognolotti, Al cuore dell’immagine. L’idea di fotogenia nel cinema europeo degli anni Venti, Edizioni della battaglia-La luna nel pozzo, Palermo-Bologna 2005; É. Bullot, Le fulgural et la photogénie, in «Cinémathèque», n. 17, 2000, pp. 16-27; R. Abel (a cura di), French Film Theory and Criticism, 1907-1929, vol. 1, Princeton University Press, Princeton 1988.

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resero concrete e tangibili quelle sensazioni di minaccia, adescamento, attrazione che sono proprie dell’esperienza fotogenica e insieme interculturale. Non sfuggirà a chi legge la liaison tra i caratteri di Hayakawa e quelli generalmente assegnati all’Oriente in quanto luogo di pericolo e attrazione, seduzione e disorientamento. Come ricorda Said, capita spesso che la razionalità europea che si rispecchia nell’alterità trovi piacere e interesse a vedersi «indebolita nelle sue fondamenta dalla propensione orientale per l’eccesso, dalle alternative, oscuramente attraenti, che esso offre ai valori considerati normali».11 Ne I prevaricatori ritroviamo esattamente tale carattere ammaliante e anti-sociale, affidato a un campione di un’alterità insieme terribile e familiare. L’attore giapponese è, infatti, agli occhi dei teorici della fotogenia, una bestia feroce («un puma, un giaguaro»), ma pur sempre addomesticabile, un selvaggio che fa paura e che, nello stesso tempo, è riconoscibile,12 un uomo dallo spirito ineguagliabile («una bellezza malinconica»), nel quale tuttavia si può riconoscere una diffusa e umana condizione di solitudine. Le ricadute sul piano teorico sono altrettanto significative: la sua presenza enigmatica è esibizione del potere seduttivo, smaccatamente estetico e moralmente ambiguo dell’immagine fotogenica, senza negarsi, indirettamente, come indice di un’alterità codificabile e controllabile (come il concetto stesso di Oriente in cui è collocata). Ci sono altri elementi che confermano la bontà della collazione tra fotogenia e orientalismo. Penso al fascino per i corpi e per il nudo cinematografico espresso dai «fotogenici» secondo un’abitudine configurativa che appartiene (anche) ai modi della rappresentazione esotica13. In La photoplastique au cinéma (1918), Louis Delluc afferma, ad esempio, che «la nudità al cinema si sta affermando e imponendo. Essa è fotogenica quanto nient’altro»,14 mentre Ep11 12 13

14

E. Said, Orientalismo, cit., p. 63. Ricordo che a un certo punto del film, dopo una colluttazione, il protagonista viene marchiato a fuoco dalla donna che sta cercando di sedurre. Sulla relazione tra il nudo, i corpi, i volti e le morfologie filmiche, non soltanto nel periodo delle avanguardie, rimando a N. Brenez, De la figure en général et du corps en particulier. L’invention figurative au cinéma, De Boeck Université, Bruxelles-Paris 1998. L. Delluc, La photoplastique au cinéma, in «Paris-Midi», 6 luglio 1918, ora in Id, Ecrits cinématographiques, cit., pp. 210-212. La traduzione in

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stein allarga la prospettiva ricordando che «il cinema, subdolo radiografo, vi scortica fino al midollo, fino al cuore della vostra idea pura che viene messa a nudo» e che «sullo schermo tutti sono nudi, di una nudità nuova».15 Anche in questo caso, la tendenza critica a cercare la fotogenia del nudo esibito sullo schermo offre conferme a quel percorso di conciliazione degli opposti, di corresponsabilità delle aporie, che abbiamo già visto convergere nel corpo ambiguo e catalizzante di Hayakawa. Rileggendo questo e altri passaggi dei testi di Delluc alla luce delle posizioni teoriche espresse da Francesco Casetti nel suo L’occhio del Novecento, si scoprirà, infatti, che l’indeterminatezza del costrutto fotogenico consente una doppia e mediatizzata relazione con le immagini, anche con quelle che alludono alla sfera della sessualità. Il cinema, come spiega bene lo studioso italiano, è «esibizione dei corpi», certo, senza però cadere «nelle trappole legate a questa esibizione di nudità», «trasfigura i corpi che pure con spudoratezza esibisce», «è impudico [pur sapendo] riscattare questa sua impudicizia». In tal senso «la nudità è fotogenica: e la fotogenia riscatta e sublima».16 Che queste stesse caratteristiche siano associabili alle pratiche orientaliste non è così facile da dimostrare, anche perché si è soliti assegnare al lemma uno spettro di significati di ordine politico di radicale pervasività. Come sappiamo, per Said, i discorsi orientalisti sono forme coese del dominio euroamericano nei confronti dell’Oriente, predisposizioni dei campi del sapere volte a favorire modalità di controllo più invasive, di natura militare o economica. Detto in termini più chiari, sembra esserci poco spazio in Orientalism per la moderazione e la dimensione negoziata dei significati. Nondimeno una lettura «integralista» del libro non sarebbe solo ingenerosa nei confronti del suo autore, ma anche scorretta sul piano filologico. In molti passaggi del testo, Said si mostra consapevole del fatto che il discorso orientalista pone in essere strategie di addomesticamento delle culture tali da rendere familiare lo sconosciuto e gestibile l’ignoto. Parlando per esempio del rapporto tra l’Occidente e l’Islam afferma:

15 16

italiano è tratta da F. Casetti, L’occhio del Novecento, cit., p. 40 dal quale recupero l’impostazione duale associata al tema della nudità nelle teorie fotogeniche (pp. 39-45). J. Epstein, Bonjour Cinema, cit., p. 106. F. Casetti, L’occhio del Novecento, cit., p. 41.

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Si pensi a come l’Oriente, il Vicino Oriente in modo particolare, sia stato considerato dall’Occidente il proprio grande opposto complementare sin dall’antichità. […] Ciò che dà una qualche unità alla variegata molteplicità di questo incontro è l’oscillazione tra i due poli menzionati. Ciò che era estraneo e lontano diviene a poco a poco stranamente familiare; si tende a non giudicare più alcunché completamente estraneo, o completamente abituale, mentre emerge una terza possibilità, quella cioè di vedere le cose nuove, cose viste la prima volta, come versioni di qualcosa precedentemente conosciuto. In sostanza tale nuova possibilità non è tanto un mezzo per imparare, quanto un metodo per tenere sotto controllo ciò che appare come una minaccia alla nostra consueta visione del mondo. […] La minaccia viene modificata, si impongono valori familiari, alla fine la mente attenua la pressione discriminando tra gli elementi effettivamente “originali” e altri che reputa in fondo “ripetizioni”. In questo modo anche l’Islam fu addomesticato.17

È indicativo, insomma, che per «addomesticare» una cultura altra si debba passare attraverso un dispositivo scopico che consente di «vedere le cose nuove […] come versioni di qualcosa di precedentemente conosciuto», trasferendo la gestione di queste dinamiche su quel piano negoziale che Sorlin non esiterebbe a chiamare del «visibile». La fotogenia, sotto questa prospettiva, parrebbe presentarsi come l’esatto contrario dell’orientalismo poiché consente di vedere quel che già si conosce (un oggetto insignificante del reale) come una cosa nuova (un oggetto fotogenico), a cui si assegna un maggior valore estetico in virtù dell’intervento innervante della macchina da presa. Tuttavia, a ripensarci, gli effetti che producono i due processi collimano e s’integrano perfettamente in una doppia logica di progressiva integrazione domestica del selvaggio (è questo in fondo il significato letterale di «addomesticare») e continua ostentazione della sua singolarità esteriore. Siamo esattamente nel mezzo di quel processo d’istituzionalizzazione dello stupore di cui avevo parlato nella prima parte di questo libro. La fotogenia (e l’orientalismo) non esisterebbero se questo tentativo di evidenziare l’eccezionale non costituisse un modo indiretto per catalogare, gestire, perimetrare, normalizzare l’esistente. Vorrei ritornare, per un momento, sulla sequenza già analizzata 17

E. Said, Orientalismo, cit., pp. 64-65 (corsivi miei).

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della danza di Seetha per meglio chiarire il filo del ragionamento. Qui abbiamo il corpo seminudo della ballerina che – come Hayakawa ne I prevaricatori – attira gli sguardi lussuriosi di personaggi e spettatori. È «fotogenia, fotogenia pura, mobilità scandita», incanto del movimento, estasi dello sguardo. La sua carica erotica dipende esclusivamente da elementi di carattere visuale: movimenti sensuali, fisico prorompente, abbigliamento ammiccante. D’altra parte, però, la sua esibizione ammansisce parallelamente il fascino perturbante del diverso in virtù delle sue origini europee che rendono socialmente accettabile (dunque «visibile») l’attrazione provata per la sua femminilità. Si aggiunga che il dispositivo in cui è collocata la domina perché è domata (nel senso di appartenere a una domus, una casa), ma non sarebbe al centro della scena se non fosse anche, e nel medesimo tempo, una creatura portatrice di un’alterità irriducibile, senza la quale non potrebbe esprimersi per conto della Dea che incarna. Il suo corpo è, in altre parole, un medium, un conduttore riconoscibile di dati e informazioni, come teorizzato da Casetti, i cui contenuti, però, conservano tratti irriducibili e inafferrabili. In Seetha, nell’Hayakawa di DeMille e in molti altri esempi sui cui tornerò fra poco (ad esempio i nudi di Pasolini) convivono senza contraddizione Said e Segalen, addomesticamento e indomabilità, controllo dei saperi e indeterminatezza dei significati, fisicità e astrazione, familiarità e straniamento, recitazione e nudità, stupore e sua istituzionalizzazione. È esattamente in questo paradosso che si rinsalda la prossimità tra fotogenia e orientalismo e che si definisce – sarà il prossimo step del ragionamento – uno dei principali frame interpretativi degli autori in viaggio. Prima di tornare ai registi odeporici voglio però soffermarmi su un ultimo elemento che m’interessa rimarcare della teoria fotogenica perché stabilisce con ancora maggior precisione la giurisdizione di un universo che si mediatizza attraverso l’accentuazione dell’estremo (culturale). Parlo dell’attenzione che studiosi come Epstein o Delluc dedicano, nei loro lavori, al primo piano18. In que18

La letteratura critico-teorica sul ruolo e la funzione del primo piano nel cinema è, per ragioni facilmente intuibili, piuttosto corposa. Per un approfondimento sulla questione, oltre ai testi citati nel prossimo paragrafo, rimando almeno a: G. A. Carluccio, Verso il primo piano. Attrazioni e racconto nel cinema americano 1908-1909. Il caso Griffith-

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sto caso considero principalmente il corpus teorico di Epstein per il quale il close up non è solo una delle possibili soluzioni espressive per riprendere il volto umano, ma è la figura retorica che cattura con maggiore efficacia il lato fotogenico del reale. Scrive il regista di Cœur fidèle: Improvvisamente lo schermo mostra un volto e il dramma, faccia a faccia, mi dà confidenza e si gonfia di impreviste intensità. Ipnosi. Ora la tragedia è anatomica. Lo scenario del quinto atto è quest’angolo della guancia che strappa secco il sorriso. L’attesa di un epilogo palpitante, dove convergono 1000 metri d’intrigo, mi soddisfa più di ogni altra cosa. Prodromi dei muscoli pellicciai scorrono sotto la pelle. Le ombre si spostano, tremano, esitano. Si decide qualcosa. Un vento d’emozione sottolinea di nuvole la bocca. L’orografia del viso vacilla. Scosse sismiche. Rughe capillari cercano dove aprire una crepa. Un’onda le porta via. Crescendo. Un muscolo scalpita. Il labbro è cosparso di tic come un sipario teatrale. Tutto è movimento, disequilibrio, crisi. Scatto. La bocca cede come una deiscenza di frutta matura. Una commessura affila lateralmente sul bisturi l’organo del sorriso. Il primo piano è l’anima del cinema. […] La chiave di volta del cinema, il primo piano, esprime al massimo questa fotogenia del movimento.19

In questo, come in altri brani, 20 emerge chiaramente come il primo piano, nel pensiero del teorico e regista francese, statuisca una prossimità radicale al volto. Esso definisce le fisionomie in modi

19 20

Biograph, Clueb, Bologna 1999; P. Bonitzer, Décadrages, peinture et cinéma, Éditions de l’Étoile-Cahiers du Cinéma, Paris 1985; P. Sorlin, Esthétiques de l’audiovisuel, Nathan, Paris 1992; N. Brenez, De la figure en général, cit. J. Epstein, Bonjour cinéma, cit., pp. 89-90 e 92 (corsivi miei). Ecco altri esempi: «Il primo piano è l’anima del cinema. Può essere breve perché la fotogenia è un valore che si misura in secondi. Se si prolunga non vi trovo un piacere duraturo. Dei parossismi intermittenti mi commuovono come punture. Fino a oggi non ho ancora visto la fotogenia pura durare un intero minuto. Bisogna quindi ammettere che essa è una scintilla e un’eccezione a intermittenza» (Ivi, p. 90.). In un altro ancora chiosa: «Il primo piano modifica il dramma attraverso l’impressione della vicinanza. Il dolore è a portata di mano. Se stendo il braccio ti tocco, intimità. Conto le ciglia di questa sofferenza. Potrei sentire il sapore delle sue lacrime. Mai un viso si è avvicinato tanto al mio. Mi marca stretto e io lo inseguo faccia a faccia. Non c’è più nemmeno l’aria tra noi, me lo mangio. Acuità visiva massima» (Ivi, p. 98).

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precisi e, nel contempo, le traspone in un paesaggio astratto. Concilia in sé – come capiterà ai film odeporici – una tensione al movimento e una tensione alla stasi, o alla sublimazione. Per Epstein il primo piano smaschera il volto e lo drammatizza, «lo denuda e lo sublima». È istante che cattura e rapisce l’esistente, ma per un tempo insufficiente alla comprensione o alla lettura ponderata. È, insomma, nel medesimo tempo, ingresso principale – dunque medium – a una fenomenologia esasperata dell’esistente e, insieme, veicolo posto a una sua sacralizzazione, come gli ultimi contributi teorici del cineasta francese tendono a confermare21. Voglio ribadire che tale opera di negoziazione tra gli opposti avviene nel segno della radicalità dell’esperienza visuale e non del compromesso al «ribasso», della moderazione figurativa. Come avviene in misura analoga per l’uso del campo lunghissimo, il primo piano non si presenta come uno stilema accomodante, quali potrebbero essere un campo medio, una figura intera o un piano d’ambientazione, ovvero soluzioni espressive che in qualche modo mirano a una «giusta distanza» tra personaggio e macchina da presa, bensì come stilema che acutizza il ritmo e la portata significante delle inquadrature imponendosi nella prossimità. Da questo punto di vista possiamo asserire che anche l’immagine – e non solo i suoi contenuti, i suoi personaggi o i responsabili della sua costruzione – recita un’alterità e lo fa esacerbando la radicalità di certe soluzioni espressive. Purtuttavia recitare, come abbiamo visto nel precedente paragrafo, è anch’essa una forma di mediazione. O meglio è un «rifare l’appello delle persone citate in tribunale» per vedere se in aula, di fronte a una serie di giudici – come i sacerdoti che valutano la pertinenza della danza di Seetha, come la cugina Aziza che indirizza e guida la nudità emotiva di Aziz, come l’architetto giapponese che ascolta e s’immedesima nella confessione dell’attrice francese – si può raggiungere un patto tra le parti o applicare un codice. Nel tribunale orientalista, i teste, nel senso di testimoni, sono teste, nel senso di volti, facce, espressioni, anche se raramente possono prendere la parola. Sono convocati per essere osservati meglio e – nel contempo – per acutizzare il sentimento di sentirsi osservati. 21

Per un approfondimento sugli ultimi esiti delle teorie cinematografiche di Epstein rimando a C. Tognolotti, La fotogenia del sacro in Jean Epstein, in «Bianco & Nero» , n. 552, 2005, pp. 165-172.

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4.2. La prima cosa che vediamo sono i loro occhi Scorrono i titoli di testa. Una canzone rivoluzionaria introduce le prime immagini del documentario. Vediamo i primi piani di un gruppo di uomini e donne cinesi. Sono per lo più giovani ragazze, ma ci sono anche giovani militari e studenti, che sentendosi osservati guardano verso la macchina da presa che li riprende approfittando di una focale corta e di lente carrellate ottiche. Dopo aver indicato il luogo delle riprese, (siamo nella celebre Piazza Tiān’ānmén), la voce narrante afferma: «Sono loro, i cinesi, i protagonisti di questi appunti filmati, non pretendiamo di spiegare la Cina, vogliamo solo cominciare a osservare questo grande repertorio di volti, di gesti, di abitudini». Così inizia Chung Kuo - Cina: ovvero con le riprese dei volti in primo piano di un piccolo gruppo di wu ming, cinesi senza nome e senza identità, messi in relazione con i padri del comunismo (Lenin, Marx, Stalin), le cui gigantografie fanno bella mostra di sé ai lati della piazza (Fig. 12). In un altro momento del documentario, Antonioni e la sua troupe si trovano a Suzhou presso il Tempio del Giardino dell’Ovest (Xiyuan Si) dove è conservata un’immensa collezione di statue che raffigurano il Buddha. Mentre la voce narrante illustra ed essenzializza,22 due lenti movimenti di macchina riprendono, in successione, i volti delle statue della divinità (sono diciassette in tutto!) e terminano con il primo piano di un visitatore che le osserva. Poi, con un cambio improvviso di location, ci troviamo nel bel mezzo di una piazza di Nanchino popolata di bambini e giovani donne. L’operatore alla macchina insegue i presenti con lo zoom, cattura il loro volto con primi piani ravvicinati e invadenti (sono dieci in tutto). Durante le riprese i bambini, ma soprattutto le ragazze tradiscono un certo imbarazzo misto a curiosità verso la macchina da presa che osservano chi nascostamente, chi esibendo un bel sorriso. Quelli brevemente descritti sono tre brani di un documen22

Così recita la voce di commento: «Cinquecento statue, tutte rappresentano il volto del Buddha in altrettante incarnazioni fantastiche e simboliche. Le molte facce della stessa divinità presente in ogni momento della vita. Una specie di culto della personalità d’altri tempi».

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tario che in molti altri punti si offre come una vera e propria galleria di ritratti spesso rivolti direttamente in macchina, spesso ripresi senza alcun commento. È il modo privilegiato – anche se ovviamente non unico – con cui Antonioni decide di porsi tutte le volte in cui entra in luoghi e spazi pubblici: scuole, comuni agricole, ospedali, mercati, fabbriche, sale da tè, spettacoli circensi, parchi cittadini, ecc. Le sequenze qui individuate si differenziano dalle altre solo perché la voce di commento esplicita la predilezione per i volti, in modo particolare per quelli «fotogenici» di giovani ragazze e bambini. C’è qualcosa di più in questi brani: c’è l’implicito parallelismo tra la bellezza semplice della gente comune e quella «artefatta» di uomini politici o divinità. Il confronto tra volti scolpiti o disegnati e volti catturati in modo «autentico» per le strade cinesi – ben evidenziato dalle carrellate dedicate ai padri del comunismo o ai volti del Buddha che si concludono innanzi ad alcune persone in carne e ossa – sembra persino assurgere a un’implicita dichiarazione di poetica: i primi piani dei cinesi, confrontati da una parte con i volti dell’ideologia politica effigiati in Piazza Tiān’ānmén o dalle istituzioni religiose, sembrano più autentici, più veri. Ora siamo di nuovo tra le strade dell’India. Partono i titoli di testa. Mentre scorrono le informazioni sull’équipe che ha contribuito a realizzare il documentario, sulle note di una musica tradizionale indiana, le immagini si soffermano su una serie di primi piani (Fig. 13). Sono diciannove in tutto e sono tutti uomini e donne che guardano verso l’obiettivo della macchina da presa. Il primo episodio del documentario televisivo poi comincia con una serie di interviste – dodici in tutto – a rappresentanti della classe dirigente e dell’intellighenzia del paese ripresi anch’essi in primo piano. Nel complesso, i primi due minuti e mezzo de La caméra impossible, primo episodio de L’India fantasma di Louis Malle, presentano una trentina di primi piani, senza altre inquadrature di raccordo. Pochi minuti dopo la troupe del cineasta francese è in un paese di campagna. Un gruppo di ragazzini attornia il regista che sta preparando il set per una ripresa. Le inquadrature seguenti, registrate da due differenti cineprese, catturano i loro occhi, i loro volti, anche in questo caso rivolti verso il dispositivo

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cinematografico. È in questo esatto momento che il regista francese licenzia le parole di commento già citate qualche pagina fa e che ora riporto in una versione leggermente più ampia: Ovunque andiamo, la prima cosa che vediamo sono i loro occhi, i loro sguardi. Gli indiani ci circondano, ci accerchiano. Siamo venuti per vederli e sono loro che guardano noi. Allora abbiamo preferito filmarli tali come erano, con i loro immensi e molteplici occhi voltati verso di noi, voltati verso l’occhio unico della macchina da presa. Abbiamo deciso di filmare tutti questi sguardi e di farne il motivo del nostro viaggio.

Poco dopo, mentre vengono ripresi i festeggiamenti di un matrimonio, Malle ribadisce la convinzione di sentirsi continuamente osservato: «Quando ci avviciniamo tutto si ferma. […] E una volta di più ci osservano. I ruoli si sono capovolti: siamo noi che siamo diventati lo spettacolo e loro gli spettatori». Nel frattempo però la macchina da presa si attarda a catturare un’altra galleria di volti e di primi piani, questa volta prevalentemente femminili. Essere visti, come nel caso di Antonioni nel villaggio di montagna, ma anche di Rossellini innanzi all’incantatore di serpenti nella prima puntata del suo L’India vista da Rossellini (§ V 5.), non arresta, anzi sollecita la macchina da presa del viaggiatore a catturare i volti che lo scrutano, talvolta con curiosità, altre volte con sospetto. Siamo sempre in India quando ci imbattiamo in un’altra serie di primi piani, di nuovo di bambini e di donne. Alludo a un breve ma importante passaggio di Appunti per un film sull’India di Pasolini, quando il regista improvvisa alcuni «provini a cielo aperto», di volti e fisionomie indiane (Fig. 14). Egli è alla ricerca di attori (non professionisti) in grado di incarnare i protagonisti del film e li cerca innanzi tutto a partire dalla rispondenza delle loro fisionomie a un immaginario quanto mai personale. Si tratta di una sequenza capitale per comprendere l’entità di certi processi e meccanismi di visione. Ad esempio, la moglie del maharajah è «assoldata» – se così si può dire – dopo aver sfogliato alcuni libri illustrati nei quali compaiono, una dopo l’altra, riproduzioni stilizzate di figure femminili abbigliate in abiti eleganti. A catturare l’attenzione del cineasta è l’ultima delle donne disegnate perché tiene in braccio un

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bambino e ricorda una natività cristiana. Viceversa i due figli del principe vengono «selezionati» tra i tanti ragazzi che accerchiano la troupe ogni volta che scende per le strade. Sono nove le inquadrature che mostrano i volti silenziosi e sorridenti di bambini e bambine, anche in questo caso con lo sguardo rivolto in macchina, tra cui vengono effettivamente individuati sia il figlio maggiore sia la figlia minore del Maharajah. Specifico che Pasolini aveva già individuato l’attore che avrebbe dovuto interpretare il principe in un soldato indiano che vediamo ripreso in primo piano, anche in questa circostanza, mentre scorrono i titoli di testa del film. Siamo in Turchia. Il film è L’immortale di Alain Robbe-Grillet. Comincia con una camera-car dedicata ad alcuni antichi insediamenti archeologici, poi partono i titoli di testa. L’immagine fissa su cui scorrono i credits è di una donna, affascinante, languida, distesa, lo sguardo in macchina, ripresa in primo piano. Potrebbe essere un frame, una fotografia o un fermo-fotogramma. Non è chiaro, tuttavia familiarizzeremo ben presto con quest’immagine perché comparirà sovente durante il racconto, in tutti i momenti topici dell’intrigo e nel suo tragico scioglimento finale23 tanto da statuirsi come un gros plan ossessivo e ossessionante perché rimanda alla scoperta dell’altro, al sesso, alla sparizione, alla memoria e ovviamente alla morte. Un primo piano altrettanto ossessivo e ricorrente si trova anche in Le Mystère Koumiko di Chris Marker. Compare una prima volta nei titoli di testa del documentario – è il dettaglio degli occhi di Kumiko – per poi allargarsi in primi e primissimi piani della ragazza che chiusa nella sua abitazione guarda divertita verso l’obiettivo della camera di Marker facendo smorfie, 23

La stessa immagine ritorna diverse volte. All’inizio e alla fine della prima sequenza, sparendo con un originale effetto ottico che simula l’apertura e la chiusura della tenda veneziana che il protagonista aziona quando spia dal suo appartamento i passanti per strada; durante la prima notte trascorsa con il giovane professore, con la mano di lui a coprirne parzialmente il volto; dopo la sua sparizione, durante la ricerca svolta nei luoghi frequentati dalla coppia; nel momento in cui la misteriosa ragazza franco-turca muore in un incidente stradale investendo un cane; e ancora nelle successive reminiscenze del co-protagonista. Appare, infine, come ultima immagine del film, subito dopo il primo piano del professore francese, anch’egli morto in un incidente stradale simile a quello che ha coinvolto la ragazza

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coprendosi una parte del viso, chiudendo gli occhi, sorridendo, imitando gatti o altri animali e così via. Anche in quest’occorrenza è il dettaglio del volto, o meglio, degli occhi della protagonista a chiudere – di fatto – la narrazione, visto che essi compaiono nella penultima lunga inquadratura del film prima della ripresa di un’insegna luminosa. Dettagli, occhi, volti, ma anche corpi ripresi con piani ravvicinatissimi. È il caso dell’esordio di un’altra storia d’amore, quella raccontata in Hiroshima mon amour che inizia con le celebri inquadrature delle membra avvinghiate della coppia franco-nipponica. Braccia, mani, corpi, prima sudati, poi ricoperti di sabbia, ancora uniti, quasi inestricabili, anche se scopriremo che le distanze tra i due innamorati sono tante e, in alcuni casi, irriducibili. Il fermo fotogramma di una ragazza della GuineaBissau è invece l’immagine più nota di Sans soleil. Compare nella locandina del film, è l’ultima di una serie di primi piani dedicati ad alcune donne africane che frequentano il mercato di Pidjiguiti (Fig. 15). Tra la macchina da presa e questa giovane donna s’innesca un corteggiamento di sguardi (e di relativi gros plan). La voce di commento chiosa: La vedo – lei mi ha visto – sa che la vedo – mi offre il suo sguardo, ma solo fino all’angolatura in cui è ancora possibile far finta che esso non si sia rivolto verso di me – e infine il vero sguardo, dritto, che è durato 1/25 di secondo, il tempo di un’immagine.24

Ho convocato questa lunga serie di primi piani perché sono convinto che in essi risiedano alcuni tra gli aspetti più complessi e problematici della filmografia qui studiata. In un certo senso, i piani ravvicinati potrebbero essere percepiti come uno dei maggiori veicoli per sancire il carattere realistico, documentario, quasi etnografico del cinema di viaggio, vista la prossimità con l’esistente che promettono di assicurare. I tratti del viso sarebbero la conferma di quanto la differenza culturale, quella delle fisionomie, può essere colmata in una sola inquadratura. Lo sguardo in macchina poi garantirebbe, sempre per le stesse ragioni, una sorta di contatto privilegiato, uno scambio di vedute, tra nativo e viaggiatore, che si guardano negli occhi e – forse – s’intendono o almeno cercano di 24

Traduzione mia dalla versione originale del film.

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farlo. Si autenticano vicendevolmente. Aggiungo che nell’ambito di una «politica» modernista che punta a scardinare le forme di racconto tradizionali, lo sguardo rivolto in camera (e dunque verso lo spettatore) sembra problematizzare la presenza e il ruolo della cinepresa «occidentale» nel campo dell’alterità culturale. Essa non sarebbe più invisibile, dunque figlia di un dispositivo di controllo indiretto e pervasivo, ma diventerebbe un oggetto/soggetto che si ritaglia un ruolo da protagonista in un’ottica di partecipazione alla raffigurazione interculturale (§ V 4.2.). È pur vero che il primo piano del volto dei nativi parrebbe proporsi anche come un fattore di astrazione, un veicolo di parossismo delle differenze o, se si preferisce, un marker delle lontananze esistenti giacché esalta i caratteri di diversità somatica che sussistono tra viaggiatori e indigeni. Si tratta vieppiù di una separazione che tende a rilevare – lo abbiamo visto per la Kumiko di Marker, lo vedremo tra poco per il ritratto che il cineasta francese dedica a Kurosawa in A.K. (§ V 1.1.) – non i caratteri di pericolo o fobia, bensì quelli di seduzione e fascinazione che il volto dell’altro genera nell’osservatore. Il close up, in altre parole, restituisce la bellezza incommensurabile di una cultura lontana, a partire dai suoi aspetti più superficiali come lo sono il volto e le sue fattezze fotogeniche. Tuttavia quest’impostazione, letta da una prospettiva postcoloniale, non si esime dall’esercitare una funzione di controllo e di gestione del rapporto (di potere) interculturale. Il primo piano di nativi colti nella loro ieratica avvenenza ripresenta, infatti, un’idea esotica dell’alterità che appartiene all’orientalismo tradizionale e che caratterizza, ad esempio, le strategie di rappresentazione di istituzioni occidentali deputate alla «catalogazione» delle diversità biologiche e culturali.25 Più in generale si può affermare che 25

Non sembri irrispettosa la vicinanza che si può trovare tra le carrellate di primi piani poc’anzi menzionati e i ritratti fotografici che compaiono frequentemente sulle copertine di riviste come il National Geographic. A ben vedere i «teneri» bambini dei documentari di Malle o Pasolini o le «dolci» ragazze riprese da Antonioni e Marker possono essere considerati degli ideali progenitori di quell’anonima ragazza afgana immortalata dal fotografo Steve McCurry in un campo profughi del Pakistan nel 1984, il cui ritratto, comparso nella copertina dell’edizione americana del National Geographic del giugno 1985, è ormai entrato a pieno titolo nell’immaginario iconografico occidentale. In entrambi i casi, i volti si impongono allo spettatore europeo grazie alla loro carica fotogenica,

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essi sono veicoli di controllo di un Oriente che in modi latenti si presenta, pur sempre, come una minaccia (è indubbio che sia più facile «tenere a bada» la superficie ristretta di un volto rispetto a quella più estesa di un corpo o di più corpi in movimento), e, al contempo, vie d’accesso per una loro progressiva familiarizzazione o per un loro addomesticamento. Un addomesticamento che avviene, non a caso, nella radicalità del loro presentarsi come volti senza nome, senza identità, senza parola. Da questo punto di vista si motiva anche il fatto che spesso questi volti sono paragonati a oggetti «inanimati»: i manichini di un grande magazzino, le raffigurazioni del Buddha, i padri del comunismo, le rovine archeologiche e così via. Nella collazione – è quasi dichiarato a gran voce – emerge la loro autenticità, ma anche il loro anonimato, la vitalità e il loro sparire nella folla. In altre parole, sembra quasi che i registi vogliano asserire che si può «recitare l’altro con lo sguardo fisso orientalista», a patto che l’altro a sua volta li fissi, portatore di uno splendore icastico, di un’irriducibile anonimia alla quale sono giocoforza ricondotti dalla predilezione per le fisionomie e i volti silenziosi. 4.3. Vado a cercare dei volti, ecco tutto! Registro, a questo punto, un’interessante sovrapposizione di sensibilità e di concetti tra le teorie licenziate da Gilles Deleuze e alcuni dei casi qui elencati. Come noto, in L’immagine-movimento, il filosofo francese asserisce che nel primo piano – che egli definisce immagine-affezione – convivono sempre due caratteri bipolari, ma complementari: «una serie di micro-movimenti» (le espressioni fisiche del volto) che si coagulano però su «una lastra ricettiva immobile» (la sua forza di assorbimento del senso e di astrazione). Il viso dell’attore è, in altri termini, un’unità sia riflessiva sia riflettente che accoglie una dimensione dello stupore e una nell’accezione ambigua ed estrema del termine che ho evidenziato nel paragrafo precedente e sono portavoce del medium/dispositivo che li ospita, la rivista della società americana in un caso, i film modernisti dall’altro. Per una visione critica della politica iconografica del National Geographic si veda: S. L. Hawkins, American Iconographic. National Geographic, Global Culture and the Visual Imagination, University of Virginia Press, Charlottesville 2010.

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del desiderio e che si dispone come «nervo sensibile» e «tendenza motrice». Evito di commentare lo schema «bipolare» avanzato da Deleuze perché lo abbiamo già incontrato nei testi dei teorici della fotogenia e nei commenti di Casetti poc’anzi citati e mi limito a segnalare, in un breve inciso, un’importante conferma relativamente al taglio del discorso qui riprodotto: anche Deleuze sceglie come principale caso-studio della sua ponderazione sui volti un film orientalista, vale a dire Giglio infranto di Griffith come lo era I prevaricatori di DeMille per Epstein, Delluc et Compagnie. Detto questo, vorrei soffermarmi invece qualche tempo in più sulla coabitazione di un carattere di «qualità» e uno di «potenza» che l’autore transalpino individua nelle immagini-affezione e che credo riguardi da vicino la predilezione dei registi odeporici per i volti indigeni. Scrive Deleuze: Così come il volto intensivo esprime una Potenza pura, si definisce cioè con una serie che ci fa passare da una qualità all’altra, il volto riflessivo esprime una qualità pura, cioè un “qualche cosa” in comune a parecchi oggetti di natura differente.26

Su un versante, sostiene il filosofo pensando soprattutto alla serie di primi piani presenti nei film di Ėjzenštejn, il volto può presentarsi come «intensivo» poiché soddisfa una volontà di potenza pura del cinema; sull’altro, riferendosi soprattutto ai lavori di Griffith, il volto può essere anche «riflessivo», ovvero riflettere un desiderio estetizzante della macchina da presa che va alla ricerca della qualità del bello. Si tratta, a ben vedere, di due caratteri propri anche dell’immagine esotica. «Potenza» e «qualità» rinviano, infatti, l’uno alla volontà di controllo dell’alterità, l’altro alla sua seducente estetizzazione. Non sarà, insomma, difficile individuare nei primi piani dei nativi rammentati qualche riga sopra questi due aspetti tra loro indiscernibili: i volti catturati dalle cineprese degli autori odeporici registrano e sublimano, prelevano e isolano, catturano ed estraggono, statuiscono e decantano. In quelle che Deleuze chiamerebbe «serie intensive» di piani ravvicinati, sembra quasi che il flusso narrativo si sospenda, la storia e la cronaca s’interrompano, il tempo rallenti la sua corsa, accentuando con forza 26

G. Deleuze, L’immagine-movimento, cit., pp. 112-113.

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l’affettività destabilizzante dell’esperienza del contatto, ma anche la familiarità di un incontro in un territorio neutro o, se non altro, circoscritto come lo può essere solo un close up.27 Il primo piano è, in altre parole, quel modo espressivo che permette alla macchina da presa di dimostrare tutto il suo potere di gestione dei fasci comunicativi, tutta la sua capacità di rendere fotogenica una certa limitata porzione di mondo, estromettendola per qualche momento dal suo contesto e ribadirne la funzione cognitiva privilegiata. Sarebbe tuttavia sbagliato credere che l’attenzione ossessiva per gli occhi a mandorla della bella segretaria giapponese o per il sorriso enigmatico della guida franco-turca, per le gote tonde della bambina indiana o per le braccia intrecciate della coppia franconipponica – ricordo che i particolari di un corpo umano per Deleuze possiedono caratteri «voltificanti» e dunque sono in tutto e per tutto equiparabili a essi – neghino al primo piano anche una sua precipua funzione narrativa. Come ricorda Jacques Aumont, il volto rappresenta un veicolo di senso decisivo perché è attraverso di esso che alcune tra le principali funzioni sociali dell’uomo – quella linguistica, quella espressiva, quelle relazionale – si dipanano.28 Per questa ragione il close up è a tutti gli effetti protagonista di tutte le declinazioni possibili del cinema narrativo per una semplice e banale ragione: la specificità sociale dell’individuo è nel suo volto. È altresì vero che è soprattutto nel periodo modernista che il primo piano si impone come strumento per affermare un’idea ambigua e complessa di relazione con l’esistente. Rammenta Aumont: 27

28

Ricordo, almeno in nota, che nel concetto di immagine-affezione di Deleuze riecheggia, una posizione altrettanto importante sul primo piano di quella espressa da Béla Balázs. Scrive il teorico ungherese: «L’espressione di un volto isolato è chiusa in se stessa e perfettamente comprensibile: non v’è bisogno di pensare a null’altro nello spazio e nel tempo. Non importa che un momento prima abbiamo visto quel volto come parte integrante di un corpo. Vedendolo isolato, ci troviamo improvvisamente soli, a quattr’occhi, con quel volto. […] L’espressione del volto, e il significato di tale espressione, non hanno alcun rapporto o legame con lo spazio. Dinanzi a un volto isolato non ci sentiamo nello spazio. Non esiste più, in noi, la percezione dello spazio. Per noi esiste una dimensione di altro genere». Cfr. B. Balázs, Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova, Einaudi, Torino 1987, p. 51. J. Aumont, Du visage au cinéma, Éditions de l’Étoile-Cahiers du Cinéma, Paris 1992.

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È diventato facile oggi, dopo L’immagine-tempo e le Histoire(s) du cinéma, individuare una definizione un po’ passe-partout della modernità cinematografica. Essa giungerebbe dalla guerra, dal senso nuovo che il suo orrore ha suscitato, conducendo il cinema, attraverso il documentario, a un nuovo realismo. Il mito neorealista del “non attore” acquista qui tutto il suo senso: si tratterebbe di un cinema del corpo umano abitato realmente, senza la mediazione dell’attore e praticamente senza quella del personaggio, di un cinema del volto innocente e integro. Questo viso sarebbe, in fin dei conti, il primo volto propriamente umano del cinema. […]. Per quanto possa essere tipizzato (e la maggior parte delle volte lo è), resta sempre un volto in qualche modo anonimo. Se il nome accostato a un viso è ciò che permette di entrare in relazione simbolica con altri volti, il cinema degli anni Cinquanta cerca di dimenticare questo nome. L’individuo è idealmente (e in alcuni casi limiti, molto noti, realmente) presentato come essere umano, volontariamente non dotato della qualità artificiale del personaggio.29

I volti anonimi dei nativi possono insomma rispondere – almeno a un primo livello di analisi – alla ricerca del reale e di un nuovo umanesimo che attraversa il cinema postbellico. Persone, non personaggi, esseri umani, non tipi narrativi: i primi piani – sia nei documentari sia nelle fiction – restituiscono il senso del mistero umano che si trova nel volto delle persone ignote, specie in quelle dai tratti fisionomici sfuggenti, dall’abbigliamento o dalle capigliature «curiose», come quelle che abitano l’alterità culturale. Nondimeno, se il primo dopoguerra esalta – con il neorealismo – quest’attenzione verso il personaggio anonimo, dopo pochi anni, con le pagine più radicali del modernismo, si verifica uno scarto significativo nelle forme di rappresentazione che riguarda, indirettamente, anche chi è coinvolto in avventure odeporiche. È ancora Aumont a ricordare che il processo di addensamento dei significati – propri e traslati – dell’inquadratura filmica durante gli anni Sessanta e Settanta, in un ambito di performatività vicina a quella del ritratto pittorico, tende ad associare la «voglia di reale» alla ricerca non solo dell’autentico, ma di una sorta di verità superiore, quasi allegorica:

29

Ivi, p. 112 (trad. mia).

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Il ritratto cinematografico raggiungerebbe così la sua pienezza nelle occasioni filmiche in cui si profila un’espressività, ma individualizzata e indicante una veridicità. È in questo senso, senza dubbio troppo generale, che il cinema del dopoguerra sembra meglio di altri cercare il ritratto, dal momento che, più ancora di altri ideali riconducibili al volto cinematografico, mira a un ideale di verità.30

Realtà e verità, come noto, non sono concetti sinonimici, anche se il senso comune suggerirebbe così. Semplificando molto, si può dire che la realtà si offre all’occhio (meccanico) come un dato registrabile o riproducibile tout court, la verità si rivela alla mente (dello spettatore) come il risultato di un processo di costruzione/interpretazione dei fatti. La partita, insomma, si gioca su due piani diversi se non altro perché la ricerca di un ideale di verità – che può essere anche la verità del disorientamento, del misterioso, dell’ambiguo, della crisi – si svolge, almeno in ambito cinematografico, per mezzo di uno specifico principio di organizzazione del reale, del set e dell’inquadratura. Nei primi piani nei film di Bergman o Godard, di Fellini o Straub, ricorda ancora Aumont, sembra che l’umanesimo così tanto ricercato dal cinema neorealista, in un impeto parossistico, imploda in se stesso. «La rigidità del viso, il primo piano, la perpendicolarità della ripresa» privano il volto della possibilità «di essere l’esterno visibile di un interno invisibile», trasformandolo in una superficie d’iscrizione materiale, sensibile solo a una dimensione di fredda esteriorità. 31 Detto altrimenti, attraverso l’esibizione delle superfici fisionomiche, il primo piano può accentuare l’inafferrabilità dell’interiorità delle persone, a maggior ragione di quelle che non si sono mai incontrate o non hanno un vocabolario in comune. In questo passaggio speculativo si trova la fenditura percorrendo la quale si può ricondurre il discorso generale impostato da Aumont al particolare delle esperienze di viaggio. Intanto anche i volti degli indigeni senza identità (i documentari di viaggio) o con un’identità misteriosa (è il caso delle fiction come Hiroshima mon amour, L’immortale, Le Mystère Koumiko, La tigre di 30 31

Ivi, p. 130 (trad. mia). Ivi, p. 139 (trad. mia).

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Eschnapur o L’isola della donna contesa), presentano caratteri di materialità e astrazione: si offrono allo sguardo della cinepresa come oggetti impotenti di un voyeurismo caratterizzato da una volontà di potenza e da una di estetizzazione, fissando, nel contempo, il loro pervicace mutismo attraverso lo sguardo diretto e interpellante in camera. Ma c’è di più. S’innesca, sia nella ricerca di un reale «nuovo» (se non altro perché sono nuovi i territori visitati agli occhi dei registi in viaggio), sia nella consapevolezza della sua inafferrabilità, un gioco di «posizionamenti» dialettici tra il nativo e il regista che da una parte accentua l’inacessibilità del mondo interiore di chi è osservato e dall’altra la disparità tra i due sguardi in azione. Si viene a creare così – ed è questo l’aspetto più interessante – una sorta di vuoto significante che deve essere riempito dall’azione o dalla narrazione. Afflato documentario, astrazione dal contesto, voyeurismo e silenziosità. Se ne deduce che la seduzione, il mistero, l’arcano del close up, cui viene ricondotto l’altro, non rappresenta soltanto il detonatore della ponderazione teorica, come avveniva per gli scritti sulla fotogenia che prendevano spunto dalla presenza «altra» di Hayakawa Sessue, ma diviene, in questi casi, il pretesto stesso del movimento fisico dei registi, il volano per il loro più o meno reale dépaysement. Il volto è l’enigma da risolvere (Marker, Robbe Grillet), la materia fisica cui aggrapparsi in un paesaggio postatomico (Resnais), la contro-ideologia cui appellarsi (Antonioni), l’immaginario infantile che cerca faticosamente una verosimiglianza (Pasolini). Il volto è soprattutto materiale di innesco, è spinta, impulso, coinvolgimento, molla. Ecco spiegato il motivo per cui quasi tutti i film odeporici – o almeno quelli che ho citato in apertura di paragrafo – contengono nella sequenza di esordio, e ancor più spesso nei titoli di testa, serie intensive di primi piani di nativi e di indigeni: è come se i registi sentissero il bisogno di cominciare il loro viaggio nei territori dell’alterità attraverso una rassicurante parata di volti esibiti, ritratti, immortalati. Il primo piano regola e orienta, pre-figura e post-figura. Viseifica il rapporto tra soggetto e oggetti della ripresa, riconducendo il viaggio e la seduzione a un gioco di sguardi e di fotogenie. I registi odeporici possono così riscrivere il motto di Chateaubriand: «Vado a cercare dei volti, ecco tutto!».

5. OFFRIRSI IN PASTO ALLA NARRAZIONE. L’INDIA, LA PALESTINA E LO YEMEN DI PASOLINI

Su Pasolini e il cosiddetto Terzo Mondo si è scritto molto in questi anni e per ovvie ragioni: l’intellettuale bolognese è stato, infatti, uno dei personaggi pubblici italiani più sensibili e attenti alle grandi trasformazioni storiche, geopolitiche e sociali che hanno investito l’Africa, l’Asia e il Sudamerica nel secondo Novecento. Solo considerando la sua produzione cinematografica1 troviamo riferimenti diretti ai (con relativi viaggi nei) paesi asiatici o africani in Sopralluoghi in Palestina (con soggiorno in Israele nel 1963 alla ricerca di possibili location), Edipo Re (con sopralluoghi e riprese in Marocco nel 1966 e nel 1967), Appunti per un film sull’India (con soggiorno tra la fine del 1967 e l’inizio del 1968), Appunti per un’Orestiade africana (con relativo viaggio in Uganda e in Tanzania alla fine del 1968), Medea (con sopralluoghi e riprese in Turchia e in Siria nel 1969), nel Decameron, Le mura di Sana’a e in Pasolini e la 1

Alla produzione su pellicola andrebbe invero aggiunta quella su carta: penso alla raccolta di corrispondenze intitolata L’odore dell’India che restituisce pensieri, luoghi e incontri che Pasolini vive nel 1961 in un lungo viaggio in compagnia di Elsa Morante e Alberto Moravia (ne parliamo tra poco), ma anche ad alcune poesie dedicate all’Africa (come ad esempio Profezia, La Guinea, E l’Africa?, L’uomo di Bandung, tutte scritte nella prima metà degli anni Sessanta). E poi ci sono i progetti abortiti come Il padre selvaggio, un trattamento solo parzialmente sviluppato in sceneggiatura (redatto nel 1963 e pubblicato da Einaudi nel 1975) o come gli Appunti per un poema sul Terzo Mondo, di cui sviluppa parzialmente solo due dei cinque «capitoli», quello dedicato all’India e all’Africa; un progetto condotto con grandi difficoltà come il film di montaggio intitolato La rabbia (1963). E poi ancora lettere, interviste, editoriali, saggi e così via. Per un profilo complessivo della relazione tra l’opera di Pasolini e il Terzo Mondo si rinvia ai già citati testi di Giovanna Trento e Luca Caminati, su cui peraltro ritornerò nelle prossime righe e, in inglese, a C. Bongie, A Postscript to Transgression. The Exotic Legacy of Pier Paolo Pasolini, in Id., Exotic Memories. Literature, Colonialism, and the Fin de Siècle, Stanford University Press, Stanford 1991, pp. 188-228. .

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forma della città (di cui si possono rinvenire tracce di un soggiorno in Yemen nel 1970) e ancora Il fiore delle Mille e una notte (con location individuate in Yemen, Iran, Tibet e di nuovo India). Le ragioni dell’interesse di Pasolini per l’Africa e, in misura minore, per l’Asia sono note e possono essere agevolmente riassunte in poche righe: la ricerca, presto rivelatasi utopica, di un mondo premoderno, non contaminato dal consumismo e dove è possibile ritrovare quella «innocenza» già proiettata, con altrettanta successiva disillusione, nel sottoproletariato romano; la simpatia nei confronti di quelle popolazioni che si sono affrancate dal colonialismo; il bisogno di ripostulare le teorie marxiste alla luce di realtà socio-culturali ed eventi storici quasi del tutto ignorati dall’intellighenzia di sinistra (come farà la letteratura post-coloniale negli stessi anni); la preoccupazione – dai tratti predittivi – per il fenomeno delle migrazioni e per lo sfruttamento dei diseredati e degli ultimi della terra da parte del capitalismo transnazionale.2 Da questo punto di vista la posizione politica di Pasolini è straordinariamente coerente: le tesi sostenute sono chiare sia nei film sia nella produzione saggistica; i dibattiti che ha acceso e animato sono serviti a svegliare, almeno in parte, un’opinione pubblica pigra e conservatrice; l’approccio «militante» e «partigiano» non è mai venuto meno anche in anni di apparente disimpegno. Terrò perciò sullo sfondo delle prossime argomentazioni questi dati di fatto e queste posizioni politiche poiché le ritengo inoppugnabili e partecipi di un orizzonte discorsivo che spicca ancora oggi per rara acutezza e indiscussa lucidità. Proverò viceversa in questa sede a offrire una visione laterale e parzialmente provocatoria dell’opera pasoliniana, relativa alle dinamiche del viaggio e alla loro stretta interdipendenza con i meccanismi della finzione. Se n’è già accennato nelle pagine precedenti: stereotipi, essenzialismi, esotismi, incanti, fastidi, slanci, vagheggiamenti, delusioni sono alcuni degli atteggiamenti che accompagnano il regista nelle sue (dis)avventure terzomondiste, tra i più difficili da contestualizzare perché, come ammette uno dei pochi studiosi che se ne 2

Su questi aspetti, oltre ai testi già menzionati, si vedano: G. Sapelli, Modernizzazione senza sviluppo. Il capitalismo secondo Pasolini, a cura di Veronica Ronchi, Bruno Mondadori, Milano 2005; A. Canadè (a cura di), Corpus Pasolini, Pellegrini, Cosenza 2012. Si veda anche il numero monografico di «Aut Aut» intitolato Inattualità di Pasolini (n. 345, 2010).

Offrirsi in pasto alla narrazione. L’India, la Palestina e lo Yemen di Pasolini 243

è diffusamente occupato, «sarebbero forse (e sono) imbarazzanti dal punto di vista di un’analisi in chiave “post-coloniale”».3 Troppo contraddittori, troppo ingenui, troppo eretici, insomma, i suoi lavori anche tenendo conto che ha avuto accesso a corpus teorici come quelli di Gramsci, Fanon o Senghor. Anticipando sinteticamente alcune delle posizioni che esprimerò nelle prossime pagine, vorrei dimostrare che queste aporie pasoliniane sono molto meno contraddittorie di quel che appaiono in prima battuta, a patto di interrogarle a partire da alcune categorie trattate in questo capitolo: la finzione, la seduzione, la recitazione dell’alterità, la fotogenia, il primo piano. Più precisamente sono convinto che il cinema odeporico di Pasolini può essere descritto (anche) come un grande tentativo di finzionalizzare l’arte del contatto, in cui la dimensione della seduzione, non solo di carattere sessuale, ma soprattutto di carattere evenemenziale, gioca un ruolo decisivo. Poco importa che egli usi il registro del dramma, della tragedia o quelli più «realisti» dell’inchiesta, del diario o del documentario: non ci sarebbe probabilmente un Pasolini nel Terzo Mondo se accanto alle questioni geopolitiche e sociali e a quelle più intime e personali, non emergesse – fortissimo – un bisogno di racconto, una necessità d’innesco. Detto altrimenti, Pasolini approfitta dell’esperienza odeporica per trasporre il proprio corpo in viaggio in un’identità narrativa e drammatizzata, nel senso di Ricœur, e dunque condivisibile con il lettore/spettatore. Lo fa sia prefigurando una serie di possibili percorsi esegetici, sia rimandando continuamente a forme di estetica/estasi dell’incontro. Ma andiamo con ordine e illustriamo quanto appena accennato (ri)entrando nel mondo dell’alterità pasoliniana da una delle porte principali dell’Asia, il Gate of India di Mumbai. 5.1. Un’esperienza che vuol essere esclusiva come la mia È quasi mezzanotte, al Taj Mahal c’è l’aria di un mercato che chiude. […] Sono le prime ore della mia presenza in India, e io non so dominare la bestia assetata chiusa dentro di me, come in una gabbia. Per3

L. Caminati, Orientalismo eretico, cit., p. 24.

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suado Moravia a fare almeno due passi fuori dall‘albergo, e respirare un po’ d’aria della prima notte indiana. Così usciamo, sullo stretto lungomare che corre dietro l’albergo, attraverso l’uscita secondaria. Il mare è pacifico, non dà segno di presenza. Lungo la spalletta che lo contiene, ci sono delle automobili in sosta e, vicino a esse, quegli esseri favolosi, senza radici, senza senso, colmi di significati dubbi e inquietanti, dotati di un fascino potente, che sono i primi indiani di un’esperienza che vuol essere esclusiva come la mia. […] Hanno uno straccio bianco che gli avvolge i fianchi, un altro straccio sulle spalle, e, qualcuno, un altro straccio intorno al capo: sono quasi tutti neri di pelle, come negri, alcuni nerissimi. […] A poche decine di metri, contro il mare e il cielo estivi, si alza la Porta dell’India. È una specie di arco di trionfo, con quattro grandi porte gotiche, di stile liberty abbastanza severo. […] Ancora ai margini di questa grande porta simbolica, altre figure da stampa europea del seicento: piccoli indiani, coi fianchi avvolti da un drappo bianco e, sui visi mori come la notte, il cerchio dello stretto turbante di stracci. Solo che, visti da vicino, questi stracci sono luridi, di una sporcizia triste e naturale, molto prosaica, rispetto alle suggestioni figurative di un’epoca a cui essi, del resto, si sono fermati. […] Ci sogguardano, me e Moravia, lasciandoci perdere: il loro occhio inespressivo non deve vedere in noi niente di promettente.4

Inizia così il diario di viaggio che Pasolini stende durante il suo primo soggiorno in India avvenuto tra la fine del 1960 e il febbraio del 1961. Approfittando dell’invito a un convegno internazionale sul poeta Tagore, per celebrarne il centenario della nascita, Pasolini decide di trascorrere alcune settimane nel grande paese guidato da Nehru visitando alcune delle sue località più note in compagnia degli amici e colleghi Elsa Morante e Alberto Moravia: Mumbai, New Delhi, Varanasi (Benares), Kolkata (Calcutta), Madras, Agra, Cochin, e ancora Gwalior, Khajuraho (Chattarpur), Aurangabad e molti altri centri minori. Il suo non è solo un periodo di vacanza: come farà Moravia con il «Corriere della Sera»,5 anche Pasolini re4 5

P.P. Pasolini, L’odore dell’India, Longanesi, Roma 1962, p. 11-14. Al suo fianco, Moravia persegue il medesimo proposito, redigendo dodici reportage per il «Corriere della Sera», comparsi sul quotidiano milanese dal 19 febbraio al 30 luglio 1961, confluiti poi, con lievi modifiche, in un unico volume intitolato Un’idea dell’India, edito da Bompiani. I due libri

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dige, durante quelle poche settimane, alcuni reportage giornalistici che verranno pubblicati da «Il Giorno» tra il febbraio e il marzo di quell’anno e poi raccolti in un unico volume, intitolato L’odore dell’India, edito da Longanesi nel 1962. Il brano sopra riportato è, per l’appunto, l’esordio del primo articolo datato 26 febbraio 1961. Il testo – non sarà difficile scoprirlo – contiene tratti paradigmatici di un certo modo di intendere l’incontro con i nativi che ritroveremo, pur con vari gradi d’intensità, negli anni a venire e nelle sue opere successive. Ciò che però m’interessa rimarcare, di quest’esordio, è soprattutto il ruolo simbolico che assume la Porta dell’India agli occhi dello scrittore. Atterrato a Mumbai da poche ore e incapace di «dominare la bestia assetata chiusa dentro di [sé]», Pasolini scappa nottetempo dal Taj Mahal Hotel e si dirige, quasi macchinalmente, verso «una specie di arco di trionfo, con quattro grandi porte gotiche, di stile liberty abbastanza severo», che attraversa con un certo timore per poi immergersi in una realtà abitata da ragazzetti e mendicanti vestiti di «stracci» e «asciugamani». Quella che leggiamo nelle prime righe de L’odore dell’India è la descrizione di una specie di «rito iniziatico» nel quale il Gate funge da soglia spazio-temporale superata la quale si entra in un mondo-altro, abitato da strane figure che sembrano provenire da «una stampa europea del seicento» e che nondimeno, viste da vicino, appaiono sudicie, luride e poco amichevoli. La prima sensazione di minaccia di Pasolini è la stessa provata da Antonioni o Malle: «Ci sogguardano, me e Moravia, lasciandoci perdere: il loro occhio inespressivo non deve vedere in noi niente di promettente». Oltrepassata la Porta, Pasolini pare cercare un’alterità assoluta: «sento la vita di un altro continente come un’altra vita – dice dopo poche pagine – senza relazioni con quella che conosco, non potrebbero essere più diversi per stile di scrittura, atteggiamento, sensibilità. Freddo, analitico, geograficamente e storicamente circostanziato (un’idea) quello di Moravia (che conosceva già l’India per via di un precedente viaggio compiuto negli anni Trenta); partecipe, immerso, discontinuo, impressionista (un odore) quello di Pasolini. Per un confronto tra i due testi si veda: R. Dedola, La valigia delle Indie e altri bagagli. Racconti di viaggiatori illustri, Pearson, Milano 2006, pp. 55-106; G. Benvenuti, Il viaggiatore come autore. L’India nella letteratura italiana del Novecento, il Mulino, Bologna 2008; A. D’Aquino Creazzo, L’io e l’altro. Il viaggio in India da Gozzano a Terzani, Avagliano Editore, Cava dei Tirreni 2006, pp. 51-75.

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quasi autonoma, con altre sue leggi interne, vergini».6 Sappiamo, però, che quest’affermazione verrà continuamente smentita nei successivi resoconti nel momento in cui si attarderà a descrivere ciò che vede paragonandolo ai paesaggi familiari italiani: le palazzine residenziali del Malabar Hill «degne dei Parioli», una piazza che ricorda un «arazzo di Porta Portese», un paesaggio dalle «radure salgariane», la faccia di un mendicante che assomiglia a San Sebastiano», il Taj Mahal come San Pietro, un atto di teppismo autostradale degno di «Palermo o di Milano» e così via. Come accennato poc’anzi, suggerisco di risolvere l’incongruenza tra la prima affermazione e le sue successive «smentite»7 considerando il rapporto con l’alterità non da un punto di vista culturale, ma da uno evenemenziale e retorico. Il Gate of India non conduce, infatti, in una realtà locale, ma, come capita ad esempio nel film Rashomon (Rashōmon, 1951) di Kurosawa Akira, si presenta come uno dei tanti possibili varchi di una narrazione. Vista sotto questa luce, sia essa percepita come estranea o familiare, portatrice di conflitti emotivi o di sue pacificazioni, la dimensione del viaggio conserva sempre un gradiente tensivo che spinge alla proliferazione di altri racconti e altre percezioni. In tal senso, il richiamo alla familiarità di volti e paesaggi, di luoghi e situazioni rientra in quel «principio di scostamento minimo», teorizzato da Ryan, di cui abbiamo parlato in esordio di capitolo e che spinge non solo il lettore, ma anche il viaggiatore a proiettare sul mondo finzionale/altro «tutto ciò che [sa] del mondo reale, operando unicamente le trasformazioni che non [è] in grado di evitare».8 Ecco allora che il continente indiano è «un’altra vita», in quanto «altra narrazione», con alcuni elementi di facile e deludente riconoscibilità (la borghesia uguale in tutto il mondo, il Taj Mahal come San Pietro, ecc…) e altri, come le fisionomie (le pelli nere, i corpi emaciati), l’organizzazione sociale (le caste), i costumi (gli stracci), portatori di uno scarto tra esperienza reale (europea) e esperienza finzionalizzata. 6 7

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P.P. Pasolini, L’odore dell’India, cit., p. 15. Si pensi a quando alla fine del diario afferma: «L’India non ha nulla di misterioso, come dicono le leggende. In fondo si tratta di un piccolo Paese, con solo quattro o cinque grosse città. […] In realtà un Paese come l’India, intellettualmente, è facile possederlo». P.P. Pasolini, L’odore dell’India, cit., p. 79. M. L. Ryan, op. cit., p. 49.

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Sono convinto che si possa interpretare il primo lavoro odeporico di Pasolini – e più in generale tutte le sue opere di «viaggio» – come un continuo processo di narrativizzazione dell’alterità anche in virtù delle stesse strategie di posizionamento «intradiegetico» del nostro autore. Egli nel corso di tutto il diario di viaggio rimarca i sentimenti di solitudine,9 la generosità dispendiosa,10 l’unicità dell’esperienza11 e ancora il disorientamento provocato da queste immersioni non protette in luoghi sconosciuti secondo caratteri che, nondimeno, ritroviamo in molte pagine (filmate o scritte) delle esperienze odeporiche dei cineasti modernisti. Tale ricerca d’innocenza e istintività viene ricondotta correttamente – da parte di Luca Caminati – all’interno dei territori ermeneutici della letteratura post-coloniale,12 e pur tuttavia, nel valutare le forme complesse e stratificate degli approcci interculturali pasoliniani, occorre tenere in considerazione anche l’importanza di determinate regole di retorica e di messinscena applicate comunemente dal cineasta con tanto d’impliciti rimandi a nuove narrazioni «da farsi». Forse non a caso quando si trova davanti a una sala cinematografica, Pasolini chiama uno dei tanti «accattoni» incontrati per strada con l’appellativo di «personaggio». D’altronde quando, ad esempio, afferma che i giovani di Mumbai assomigliano ai «ragazzi di vita» delle borgate romane egli non fa altro che considerare i giovani indiani alla stregua di attanti di una storia, eroi o tipi di una narrazione che travalica la semplice dimensione fenomenica.13 9 10 11

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«Mi piaceva camminare, solo, muto, imparando a conoscere passo per passo, quel nuovo mondo, così come avevo conosciuto passo passo, camminando solo, la periferia romana», P.P. Pasolini, L’odore dell’India, cit., p. 31. «Io finché non sono stremato – ineconomico come sono – non disarmo», Ivi, p. 20 (corsivi miei). «Lungo la spalletta che lo contiene, ci sono delle automobili in sosta e, vicino a esse, quegli esseri favolosi, senza radici, senza senso, colmi di significati dubbi e inquietanti, dotati di un fascino potente, che sono i primi indiani di un’esperienza che vuol essere esclusiva come la mia», Ivi, p. 11-12 (corsivi miei). Recuperando la lezione di Said e le categorie di Pratt in Imperial Eye lo studioso italiano sostiene che «L’odore dell’India si basa su false premesse da parte del narratore. La persona che narra, e che vuole essere percepita come innocente (perché non aggravata dal peso della tradizione orientalista europea) e istintiva (a garanzia dell’autenticità della propria esperienza), scrive reprimendo la memoria orientalista; ma questo tentativo fallisce». L. Caminati, Orientalismo eretico, cit., pp. 24-25. «Torno su verso l’albergo. Davanti a un edificio, ora spento, che è insieme

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Che esista una sorta di correlazione tra il viaggio in India e l’inizio dell’avventura di Pasolini come regista non lo dice la sola cronologia,14 ma anche altri riferimenti a una narrazione che potremmo definire proto-cinematografica. Penso alla scelta di paragonare il sottoproletariato del Terzo Mondo ai poveri dei tempi di Gesù Cristo, in una sorta di parallelismo implicito tra nativi e figure dell’immaginario cristiano che anticipa il lavoro di adattamento de Il vangelo secondo Matteo (1964). Penso all’uso compulsivo15 della parola «stracci» per indicare in modo quasi dispregiativo la dhoti, termine che poi ritornerà in La ricotta, un episodio del film Ro.Go.Pa.G. (1963), a indicare il nome del protagonista. Girato un anno dopo il suo soggiorno indiano, il celebre cortometraggio matura molti punti di contatto con l’esperienza odeporica del regista. Intanto, se non è ancora un «film su un film da farsi» (come lo saranno gli Appunti) è senz’altro un «film su un film che si sta facendo», dacché narra la storia di un figurante cinematografico – di nome Stracci, appunto – che lavora sul set di una produzione cinematografica impegnata, guarda caso, nell’ennesima trasposizione della passione di Cristo. Qui il borgataro ha il compito di «recitare» – se così si può dire – la parte del ladrone buono messo in croce sul Golgota, ma Stracci non è un attore, bensì una comparsa (in tutte le accezioni del termine), un sottoproletario romano che accetta un umiliante e faticoso impiego pur di sfamare la propria famiglia. Egli è un «morto di fame» in senso letterale – morirà sulla croce a causa di un’indigestione di ricotta –, ma lo è anche in senso allusivo, in quanto parente stretto dei molti «morti di fame» che Pasolini incontra (e che così apostrofa) nel subcontinente asiati-

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un cinema e un ritrovo, il Regal, un ragazzetto mi si avvicina coi suoi shorts larghi come sottane e la camicia sporca sopra. Mi fa capire di essere disposto a offrirmi qualcosa: anzitutto procurarmi dell’alcool, perché a Bombay c’è il proibizionismo; e poi, naturalmente, altro. Io gli do una rupia, e lo lascio: sono intimidito, non capisco nulla di quel personaggio». Cfr. P.P. Pasolini, L’odore dell’India, cit., p. 21. Come è noto il viaggio con Morante e Moravia cade esattamente tra la fine della prima stesura della sceneggiatura di Accattone (estate 1960) e l’inizio delle riprese del film (aprile 1961). De Vecchis conta dodici occorrenze solo nelle prime quattordici pagine del diario; a un carotaggio complessivo ne emergono trentacinque in tutto. P. De Vecchis: Pasolini e l’India. Gli stracci, la pura visività della parola scritta e le città morte, in «Otto/Novecento», a. XXXIII, n.1, 2009, p. 184.

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co. C’è di più. Come annota Rossana Dedola, possiamo ritrovare l’«essenza» di Stracci nella figura di un anziano mendicante che Pasolini incontra sulla spiaggia di Chowpatty e che sembra volersi avventare sopra un banchetto di avanzi.16 Non è difficile scorgere nel motivo del cibo come appagamento materiale e nello stesso tempo come offerta religiosa, ma qui anche come oggetto di scena, un’eco dell’episodio sulla spiaggia di Bombay che pare coniugarsi con un momento fondamentale della liturgia cattolica e complicarsi nella finzione cinematografica: il cibo offerto alla divinità si trasforma nella religione cattolica in eucarestia, nel corpo di Cristo offerto in sacrificio, ma è anche l’oggetto verso cui la fame, il motore che li fa correre, spinge gli accattoni.17

Il tema dell’«eucaristia» – qui declinato nei termini del sacrificio e del dono del sé all’altro – non è insomma solo un Leitmotiv di tutta l’opera pasoliniana,18 elemento fondante di quella relazione con il sacro e con la religione cattolica che caratterizza buona parte della sua produzione, ma è anche un’allegoria narratologica o, se si preferisce, un addensatore di semiosi come dimostrano gli studi 16

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Ecco il brano a cui fa riferimento Dedola: «Nel frattempo s’era messo accanto a me che osservavo, un uomo anziano, con dei lunghi capelli neri fasciati dal fetido turbante, e una grande barba nera: tutto avvolto di stracci bianchi, mi sogguardava, con una specie di ghigno. […] Capii che il suo era un sorriso di complicità. E capii anche che stava aspettando che la famiglia se ne andasse, per andare a mangiarsi le sue offerte. E capii infine che era mezzo morto di fame. Quel sorriso vergognoso voleva semplicemente dire: “Adesso io vado a braccare quel cibo e a mangiarmelo come un cane. Tu mi capisci, no? Be’, son stupidaggini, cose che capitano a tutti: anche tu hai fame, vero?”». Cfr. P.P. Pasolini, L’odore dell’India, cit., p. 37 (corsivi miei). R. Dedola, op. cit., pp. 74-75. Non bisogna dimenticare, infatti, che il termine «morti di fame» – inteso in senso letterale – individua la condizione di molti personaggi tratteggiati dal cinema pasoliniano. Lo sono i protagonisti dei suoi primi film, Accattone, Mamma Roma (Ettore muore anche per mancanza di cibo), lo sono il padre e il figlio di Uccellacci, uccellini, mentre a causa di una indigestione di funghi muore la moglie del protagonista di La terra vista dalla luna. Ancora: sono cannibali (mangiano carne umana) i protagonisti dell’episodio medievale di Porcile, senza contare ovviamente il sacrificio di Gesù Cristo ne Il vangelo secondo Matteo. Come sappiamo bene, anche il soggetto di Appunti per un film sull’India comincia con un episodio di auto-immolazione sempre legato al tema della fame.

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di Louis Marin sulla «parola mangiata».19 Il gesto della comunione allude, parafrasando diversamente, a un insieme codificato e ampio di racconti, parabole, eventi, predicazioni, gesti, segni, codici, tutti esperiti in assenza fisica dell’autorità che li ha vissuti in prima persona: il Cristo deus ex machina, enunciato ed enunciatore implicito della Storia che si colloca al centro del rito nel momento in cui assegna, attraverso l’incarnazione del corpo nell’ostia, il ruolo di protagonista sia al cibo consacrato sia al fedele che lo riceve (o che lo ruba). Non voglio arrivare a dire che Pasolini si auto-rappresenta come figura cristologica20, ma certamente egli è consapevole di quanto essa costituisca una delle più grandi fonti di narrazioni potenziali a cui si può attingere ancora oggi. Da questo punto di vista, anche i libri sacri, come capiterà per i repertori riconducibili ai miti greci (da Edipo Re a Medea, passando per l’Orestea) o alla letteratura orientalista (per esempio i racconti de Le mille e una notte), vengono considerati alla stregua di exempla contemporanei, luoghi di scrittura e riscrittura, repertori di storie in cui convivono, come d’altronde capita nell’originale genere religiosoletterario medievale, una forte carica fattuale, un carattere esplicativo di ordine morale e paternalista, un piacere retorico per l’intrattenimento, un continuo richiamo all’autorità narrante.21 Con l’aggiunta – nel caso dei Vangeli e dei testi sacri – di un repertorio figurativo straordinariamente ricco di rimandi di ordine pittorico 19

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Cfr. L. Marin, La parole mangée ou le corps divin saisi par les signes, in Id., La parole mangée et autres essais théologico-politiques, Klimksieck, Paris 1986. Sullo stesso argomento si veda anche T. Migliore, “Questo è il mio corpo”. Operatività del segno tra Jean-François Lyotard e Louis Marin, in «Aut Aut», n. 338, 2008, pp. 126-136; C. Marmo, Semiotica della presenza. L’emergere della transustanziazione nel IX secolo e le sue implicazioni semiotiche, in N. Dusi, G. Marrone (a cura di), Destini del sacro. Discorso religioso e semiotica della cultura, Meltemi, Roma 2008. Su quest’argomento rimando a M. W. Bruno, Corpus Christi Pasolini, in A. Canadè (a cura di), op. cit., pp. 85-102; S. Murri, Pier Paolo Pasolini, Il Castoro Cinema, Milano 2003, p. 56 e ss. Con un approccio cattolico si veda anche: G. Pozzetto, “Lo cerco dappertutto”. Cristo nei film di Pasolini, Àncora, Milano 2007. Per un approfondimento sul ruolo storico, religioso e culturale degli exempla rimando a C. Bremond, L’exemplum, Brepols, Turnhout 1982. Per quanto riguarda gli aspetti propriamente narrativi e letterari invece si veda: C. Delcorno, Exemplum e letteratura. Tra Medioevo e Rinascimento, il Mulino, Bologna 1989.

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da rivivere concretamente come capita allo stesso Stracci che «abita» e «veste» i tableau vivant della Deposizione di Cristo ispirati a Rosso Fiorentino o al Pontormo. 5.2. Drammatizzando fino alla massima tensione L’offrirsi in pasto, il donarsi come «eucaristia», il sacrificarsi nella dimensione della sublimazione rappresentano pratiche tragiche ed estreme di «identità narrativa» che ossessionano il nostro non soltanto nei suoi film «religiosi» come Il Vangelo o La ricotta, ma anche nel resto della sua produzione, compresi i documentari di viaggio di cui qui ci occupiamo. Vi è, infatti, una dimensione dello scacco e del fallimento, dell’insuccesso e della destabilizzazione, che caricano di una certa tensione drammatica la prosa filmica pasoliniana e che rimandano continuamente all’idea del sacrificio cristiano. Il primo pensiero va per evidenti ragioni agli Appunti per un film sull’India, frutto di un secondo viaggio nel subcontinente avvenuto a cavallo tra il 1967 e il 1968, all’indomani della realizzazione dell’Edipo Re. Come racconta in un’intervista comparsa su «Vie nuove» a firma del giornalista Romano Costa, Pasolini scrive in quei mesi un breve soggetto ispirandosi a una leggenda indiana raccontatagli da Elsa Morante22. La vicenda riguarda un ricco Maharajah che incontra una coppia di tigrotti affamati durante una perlustrazione nei suoi possedimenti ricoperti di neve e, di fronte alla loro sofferenza, si offre in pasto per garantirne la sopravvivenza. Colpito anche per ragioni biografiche dal racconto,23 il regista 22 23

R. Costa, L’India di Pasolini, in «Vie nuove», 25 gennaio 1968. Scrive Pasolini nei Quaderni rossi: «Avevo cinque anni e la mia famiglia allora abitava a Conegliano. La sera di una domenica, io, la mamma e il babbo eravamo appena tornati dal cinematografo. Io aspettavo che fosse pronta la cena e sfogliavo certi foglietti che erano stati dati al cinematografo come réclame. Ricordo ancora una sola illustrazione, ma la ricordo con grande precisione che mi turba ancora. Quanto la osservai! Che soggezione e voluttà mi diede! La divoravo con gli occhi e tutti i miei sensi erano eccitati per poterla gustare a fondo. […]. La figura rappresentava un uomo riverso tra le zampe di una tigre. Del suo corpo si vedevano solo il capo e il dorso; il resto scompariva (lo immagino ora) sotto la pancia della belva. Ma io credetti invece che il corpo fosse stato ingoiato, proprio come il topo tra le fauci di un gatto… il giovane avventuriero, del resto, pareva

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bolognese decide di tornare in India per verificare la plausibilità della vicenda del Maharajah, così simile – anche se non viene esplicitato – all’esperienza del Cristo che si offre in pasto attraverso il sacramento della comunione. Durante il suo secondo soggiorno indiano, egli intervista intellettuali, religiosi, contadini, politici e gente comune, compie sopralluoghi, individua ipotetici attori tra le persone incontrate per strada. Sul posto decide di valutare anche l’attendibilità di una seconda parte del racconto scritta di suo pugno e ambientata nell’India democratica di Nehru. Come emerge dal soggetto poi pubblicato con il titolo Storia indiana all’interno di una raccolta di scritti curata da Luciano De Giusti,24 Pasolini immagina che la famiglia del principe, venuto meno il capofamiglia e persi tutti gli averi dopo l’indipendenza, inizi a errare in preda alla fame attraversando un paese impoverito e colpito da un’ennesima terribile carestia. Nel tentativo di raggiungere la città santa di Varanasi (Benares) sia la moglie sia i quattro figli del Maharajah muoiono uno dopo l’altro, in una sorta di tremendo contrappasso al primo sacrificio paterno. Anche in questo caso, Pasolini cerca conferme del tracciato evenemenziale attraverso interviste ai politici e ai giornalisti locali utili inoltre per riflettere sui temi più scottanti del tempo come il controllo delle nascite, l’abolizione delle caste, gli effetti dell’industrializzazione, ecc.25

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ancora vivo, e conscio di essere semilavorato dalla tigre stupenda. Giaceva col capo supino, in una posizione quasi di donna, inerme, nudo. L’animale intanto lo inghiottiva ferocemente. […] Davanti a questa figura […] sentivo un brivido dentro di me, e come un abbandono. […] Intanto cominciavo a desiderare di essere io l’esploratore divorato vivo dalla belva. Da allora spesse volte prima di addormentarmi fantasticavo di essere in mezzo alla foresta e di essere aggredito dalla tigre. Mi lasciavo divorare da essa. E poi naturalmente… escogitavo il modo di riuscire a liberarmi e a ucciderla» Cfr. P.P. Pasolini, Quaderni rossi, in Id., Romanzi e racconti, a cura di W. Siti, S. De Laude, Mondadori, Milano 1998, Vol. I, pp. 135-136. P.P. Pasolini, Storia indiana, in Id. Il cinema in forma di poesia, a cura di L. De Giusti, Cinemazero, Pordenone 1979, pp. 134-135. Presentato in una sezione collaterale della Mostra del cinema di Venezia del 1968, Appunti per un film sull’India passa pressoché inosservato tra gli addetti ai lavori a causa di un’edizione particolarmente travagliata della manifestazione che vede – con Pasolini sempre in prima fila – manifestazioni di piazza, occupazioni simboliche delle sale, contestazioni durante le celebrazioni più sfarzose, rinvii dell’inaugurazione, critiche all’establishment e le dimissioni finali del direttore Chiarini. Al di là di

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Se dunque durante il primo viaggio indiano il tema dell’incontro con una realtà altra era stato declinato attraverso il registro della testimonianza oculare, in questo secondo trascorso è il registro dell’inchiesta a fare da sostegno a un’esperienza che cerca comunque una difficile traduzione narrativa. Non bisogna, infatti, dimenticare che gli Appunti per un film sull’India, anche se propedeutici a un film da farsi che non si farà, pongono in essere un racconto nel momento in cui ne assodano l’inammissibilità. E se ci fossero dubbi sul gradiente evenemenziale di un non-film, contribuisce a fugarli, appena dopo i titoli di testa, l’inquadratura del Gate of India in tutta la sua maestosa carica narratologica, porta d’ingresso anche a questo secondo racconto indiano. Si diceva della dimensione – anch’essa narrativa – dell’offerta del sé come prefigurazione di un sacrificio, come esibizione di un fallimento. La pellicola, in questo senso, ne è una plastica dimostrazione perché, come già ricordato, non si trasformerà mai in un vero film, ma condividerà il medesimo destino degli altri capitoli di quel Poema sul Terzo Mondo che Pasolini avrebbe voluto ambientare non solo in India, ma anche in Africa, nei paesi arabi, in America meridionale e nei ghetti delle metropoli statunitensi. L’insieme dei materiali raccolti offrono egualmente, anzi direi in misura più ampia, spunti ermeneutici preziosi. Si pensi a cosa scriveva Pasolini proprio a proposito del suo poema: L’idea di questi Appunti per un poema del Terzo Mondo mi è venuta girando in India un documentario che aveva come soggetto i sopralluoghi per un film di questa storia. Girando in India, mi sono, infatti, accorto dell’enorme vastità degli argomenti possibili per un film sul Terzo Mondo: l’India da una parte non mi si è presentata come un paese “tipico” del Terzo Mondo (infatti vi mancano alcune situazioni sostanziali: per esempio un’opposizione politica veramente forte questa prima sfortunata proiezione, è più in generale la forma ibrida degli Appunti a risultare difficilmente collocabile nelle griglie un po’ strette dei format audiovisivi: non è un lungometraggio destinato alle sale, ma un prodotto televisivo difficilmente collocabile in palinsesto perché non appartiene ad alcun genere né format. Proiettato all’interno della trasmissione TV7 il 5 luglio 1968, avrà pertanto una scarsa diffusione, anche in virtù del fatto che in quegli stessi mesi Pasolini è impegnato su molti fronti (cinema, poesie, romanzi) e dunque abbandona velocemente il progetto a se stesso.

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e soprattutto originale, e la non-violenza di Gandhi non ha ancora subito l’evoluzione che tende a rovesciarla, verso forme di contestazione violenta); dall’altra parte, gli altri problemi comuni con tutto il Terzo Mondo hanno in India proporzioni così vaste e inafferrabili, che “ridurle” alla durata di un film normale, sembrerebbe impresa molto difficile. Ridurrei dunque il film indiano ai temi fondamentali della Religione e della Fame (cioè tornerei allo schema iniziale della storia), trascurando gli altri, ma drammatizzando fino alla massima tensione quei due temi fondamentali. Infatti, riducendo il film a un episodio, sarei costretto a concentrare tutto sulle quattro morti: il padre che si dà in pasto alle tigri, e la moglie e i tre figli che muoiono a uno a uno di fame.26

Ancora una volta – si legge tra le righe – l’esperienza indiana stressa e frustra le aspettative, soprattutto ideologiche, dell’autore, ma il suo stato di sconforto si traduce nel «confezionamento» di un’opera che, sebbene non finita, mira egualmente a realizzare una «drammatizzazione fino alla massima tensione». Si tratta, evidentemente, di una tensione che, come per l’eucarestia, si genera attraverso il gesto della sottrazione o per mezzo della sublimazione del sacrificio ovvero, in termini cinematografici, tramite la produzione di materiali di avanzo (casting, ricerca di location, interviste, inchieste, documentazione varia), che, pur tuttavia, nella loro natura residuale, subiscono una sorta di doppio processo di smottamento: in quanto immagini catturate senza una precisa logica drammaturgica, le singole riprese degli Appunti vivono della loro frammentarietà, del loro reciproco «isolamento»; in quanto prodotti non funzionali ad altri progetti cinematografici, si offrono come protasi senza apodosi, come forme ipotetiche di racconto senza alcuna forma di reggenza. Vivono nella loro condizione allusiva. Nuove conferme alla mia ipotesi di lavoro giungono da altri progetti incompiuti (o compiuti «altrimenti») che coinvolgono le realtà postcoloniali, ovvero Sopralluoghi in Palestina e La rabbia. In Terrasanta, come ho avuto modo di rimarcare altrove, il regista entra in contatto con un paese o violentemente segnato dallo sviluppo industriale o abbandonato a se stesso, e in ogni caso privo 26

P. P. Pasolini, Appunti per un poema sul Terzo Mondo (1968), in Id., Per il cinema, cit., Vol. II, pp. 2677-2686 (corsivi miei).

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dei segni della presenza di Cristo. L’assenza del suo corpo, propria dell’eucaristia, qui diventa addirittura assenza di tracce, segni, impronte del suo passaggio e della sua possibile finzionalizzazione.27 Pur montato velocemente per ragioni di carattere produttivo (Alfredo Bini era convinto di poter convincere nuovi investitori ad associarsi dopo aver intuito le intenzioni poetiche pasoliniane espresse sia nelle interviste con don Andrea, sia nel commento over) e successivamente disconosciuto dallo stesso Pasolini,28 Sopralluoghi appare nondimeno coerente con il resto della sua filmografia29 sia perché si trovano espresse convinzioni sul sottoproletariato dei paesi del Terzo Mondo che torneranno in altri film, sia perché si possono rinvenire le medesime articolazioni complesse della sua presenza intradiegetica, sia infine perché si definisce un elemento di continuità con il repertorio «classico» della letteratura odeporica, essendo quello in Terrasanta uno degli itinerari più battuti dagli intellettuali europei degli scorsi secoli. È su quest’ultimo punto che vorrei brevemente soffermarmi partendo dal riferimento a una sequenza paradigmatica del film, quando Pasolini si trova sulle sponde del fiume Giordano insieme a don Andrea. Ripreso in figura intera e poi in mezzo primo piano, egli afferma: Le confesso, Padre Andrea, che essere qui brutalmente e fisicamente davanti alla bruta fisicità del Giordano, toccare le sue erbe, appoggiarsi sugli alberi, mi dà un senso d’imbarazzo, quasi una specie di mancanza di rispetto. Ma sa a chi penso? Penso ai grandi fratelli 27 28 29

Come si ricorderà, Pasolini sceglierà di «ricostruire» la Palestina del suo Vangelo altrove, segnatamente a Matera, nella città vecchia. Si veda in particolare J. Halliday, Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, Guanda, Parma 1992, p. 73. Scrive, ad esempio, Sandro Petraglia: «Questo sopralluogo offre lo spunto per un’operazione estremamente interessante sul piano linguistico, trattandosi di una sorta di diario filmato sotto forma di appunti velocemente stenografati mediante la macchina da presa. L’ “in più” […] sta nella totale rinuncia a qualsiasi filtro […]. I trasalimenti provati durante il viaggio sono qui restituiti nella loro assoluta purezza e appaiono finalmente strutturati in un materiale per più versi refrattario a una deformazione culturale solitamente cara all’uomo. Nella lucidità originaria delle immagini pulsa ormai la dinamica iconoclasta della prossima realizzazione [de Il Vangelo secondo Matteo, nda]». Cfr. S. Petraglia, Pier Paolo Pasolini, La Nuova Italia, Firenze 1971, p. 57.

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italiani degli altri secoli, ai pittori, al Pollaiolo e agli altri che hanno dipinto il battesimo di Cristo, che hanno dovuto immaginarselo il Giordano, per cui il Giordano era lontano al di là del mare e dei monti, qualcosa di irraggiungibile. Per me è qui. Ora, mi sento, come ripeto, imbarazzato per ragioni estetiche.

Nel confessare di non sentirsi all’altezza della tradizione pittorica del passato, Pasolini si pone nella scomoda posizione dell’artista che cerca e non trova nella realtà circostante un repertorio di volti e di luoghi sufficientemente convincenti da essere fissati sulla tela o sullo schermo e dialogare così con i capolavori di quelli che egli stesso definisce «fratelli italiani degli altri secoli». Non a caso il Giordano viene «battezzato» come «un povero umile, disperato, fiumiciattolo verde», il paesaggio palestinese, di volta in volta, come «misero», «spelacchiato», «deludente», i volti delle persone «inadatti» perché lontani da una certa iconografia. Eccoci insomma innanzi all’ennesima delusione per un’alterità non sufficientemente «altra» che, tuttavia, produce almeno due processi significanti tra loro complementari. Da un lato abbiamo un cineasta intento a occupare lo spazio dell’inquadratura con il proprio corpo, quasi a voler coprire con la propria emaciata fisicità le «manchevolezze» del reale (un offrirsi in pasto); dall’altro s’instaura con il dato fenomenico una relazione di carattere estetico/ iconografico. Ne parlerò meglio nel prossimo capitolo (§ V 4.), ma posso anticipare che esiste una forte correlazione tra la gracilità di Pasolini e la bellezza fotogenica che egli si propone di cercare in ogni paesaggio e in ogni volto. Il suo corpo minuto, esposto, ossuto fa da contraltare a un mondo che dovrebbe brulicare di una perfezione estetica che, nel corso dei sopralluoghi e dei tanti viaggi, si fa notare per la sua assenza. Ciò avviene anche quando Pasolini lavora su materiali altrui. Mi riferisco al film di montaggio La rabbia e alla dimensione visuale che cova in un progetto di pochi mesi precedente a quello evangelico. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un film «fallito», inizialmente pensato per essere una personale rivisitazione della recente cronaca storica, recuperando e montando liberamente materiali provenienti dai cinegiornali «Mondo libero», trasformatosi successivamente a causa del coinvolgimento nella produzione di Giovannino Guareschi e della richiesta di molti tagli in cabina

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di montaggio, in una sorta di cine-match tra visioni progressiste e reazionarie sul presente.30 Presentato al pubblico come il confronto tra «il diavolo» e l’«acquasanta» (così venivano definiti i due intellettuali nelle locandine del film), La rabbia si rivela un insuccesso al botteghino e viene ritirato dalle sale, anche se oggi, grazie a un percorso di riappropriazione di quei materiali,31 si rivela particolarmente interessante per il modo con cui Pasolini affronta la questione postcoloniale.32 Che così definisce: Scoppia un nuovo problema nel mondo. Si chiama Colore. / Si chiama Colore, la nuova estensione del mondo. / Dobbiamo ammettere l’idea di migliaia di figli neri o marroni, / infanti con l’occhio nero e la nuca ricciuta. / Dobbiamo accettare distese infinite di vite reali, / che vogliono, con innocente ferocia, entrare nella nostra realtà. / Altre voci, altri sguardi, altri amori, altre danze: / tutto dovrà diventare familiare e ingrandire la terra!

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Convinto da Gastone Ferranti, produttore dei cinegiornali «Mondo libero», a realizzare un film di montaggio per valorizzare l’enorme archivio di attualità cinematografiche da questi posseduto, il regista bolognese realizza una sorta di video-saggio dedicato alla situazione politica e sociale del tempo. Nella prima versione del film presentata a Ferranti nell’autunno del 1962, aiutato in cabina di montaggio da Carlo di Carlo, Pasolini assembla immagini che mostrano la Rivoluzione cubana, i fatti di Ungheria, le lotte di autodeterminazione dei paesi africani e asiatici, l’incoronazione della Regina Elisabetta, la guerra d’Algeria, la morte di Marylin. Tuttavia, in un secondo momento, con l’inserimento di Guareschi nel progetto, Ferranti chiede a Pasolini di tagliare alcune parti del suo montaggio, rendendo il prodotto parzialmente diverso dalle intenzioni iniziali. Sulla genesi del film si vedano in particolare: R. Chiesi, Il mosaico elegiaco di Pasolini, «Cineforum», n. 478, 2008, pp. 43-49; Id., Il “corpo” tormentato de La Rabbia. La genesi del progetto, la “normalizzazione” del 1963, l’ipotesi di ricostruzione del 2008, «Studi Pasoliniani», n, 3, 2009, pp. 13-26. Il riferimento è al rimontaggio fatto da Tatti Sanguineti e Giuseppe Bertolucci per ridare «dignità» di opera autonoma alla prima versione del film, poi velocemente e dolorosamente ridotta dallo stesso Pasolini su richiesta del produttore. La rabbia di Pasolini di Giuseppe Bertolucci è stato prodotto dallo stesso Istituto Luce, insieme al Gruppo Editoriale Minerva Raro Video e alla Cineteca di Bologna, nel cui laboratorio di conservazione L’immagine ritrovata sono stati ri-assemblati i materiali. A tal proposito si veda: M. Jaran, Pasolini, Fanon e l’umanesimo transnazionale, in «Studi Pasoliniani», n. 7, 2013, pp. 49-64.

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Il «problema del colore», l’«occhio nero e la nuca ricciuta», «migliaia di figli neri o marroni»: trattasi di occorrenze nelle quali intere questioni sociali sono sintetizzate in opzioni di visibilità che determinano inghippi, inneschi, problemi di natura (anche) narrativa. In quei «dobbiamo ammettere», «dobbiamo accettare», «tutto dovrà diventare» Pasolini manifesta, in altre parole, la consapevolezza di una condizione d’inadeguatezza culturale e iconica nei confronti di un nuovo mondo che chiede di inserirsi, «con innocente ferocia», nei discorsi delle collettività europee, prefigurando un giorno in cui esso sarà in grado di imporre «voci, sguardi, amori e danze». «Tutto dovrà diventare familiare», afferma il regista/poeta. Tutto, traduco io, dovrà colorarsi in una narrazione familiare. 5.3. Un senso estetico forse esagerato, eccessivo, da anima bella C’è accanto ad Agra, a una ventina di miglia, una città morta, costruita dai dominatori mussulmani, e subito abbandonata, per l’aridità dei dintorni. È rimasta intatta. Un largo cerchio di mura rossicce cinge tutt’intorno, in un largo anello, la campagna, e qualche miserando villaggio sorto in tempi recenti. Nel centro, sopra le gobbe irregolari di un colle, è costruito il centro della città, a sua volta circondato da alte mura. Tutto di mattoni rossicci, con qua e là merletti di arabeschi di marmo. Non nascondo la mia attrazione per queste città morte e intatte, cioè per le architetture pure. Spesso le sogno. E provo verso di esse un trasporto quasi sessuale. Era stupendo. Non mi ci sarei mai staccato.33

Il brano appena citato da L’odore dell’India assume, alla luce di quanto stiamo dicendo e di alcuni successivi lavori pasoliniani, un carattere predittivo nella considerazione che il cineasta ha dell’alterità culturale. È facile, infatti, trovare connessioni tra le parole qui licenziate e due suoi piccoli film «minori», realizzati pochi mesi prima della sua morte, nei quali quest’attrazione per le architetture «pure» emerge con grande forza. Mi riferisco a Le mura di Sana’a e a Pasolini e la forma della città di Paolo Brunatto. Il primo film è un cortometraggio di pochi minuti realizzato in una pausa 33

P.P. Pasolini, L’odore dell’India, cit., pp. 131-132.

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di lavorazione del Decameron34 e dedicato a Sana’a, una città yemenita miracolosamente preservata nella sua fisionomia originaria dal passaggio della Storia, ma ora minacciata da un processo di rapida modernizzazione che rischia di inficiare le sue architetture secolari.35 Da qui la decisione di realizzare un piccolo pamphlet che si conclude con un appello all’UNESCO affinché includa la città all’interno della lista dei siti «patrimonio dell’umanità». Nella seconda versione del lavoro, quella oggi più conosciuta, ma montata solo nel 1974, vengono inserite anche alcune riprese di Orte. La cittadina laziale di origine medievale viene presa a modello di una modernizzazione ormai definitivamente compiuta a danno delle bellezze paesaggistiche e artistiche del passato. Dopo aver ascoltato le opinioni di alcuni abitanti locali, il regista ci mostra in Piano Totale il profilo delle mura medievali parzialmente rovinato dalla presenza di alcuni palazzi moderni costruiti negli ultimi tempi, paventando un analogo destino per la capitale yemenita. Bisogna sapere che Pasolini si trova a Orte nell’autunno del 1973 per le riprese di un documentario televisivo realizzato da Paolo Brunatto per conto della Rai.36 Qui, in una sorta di monologo che 34

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Siamo nell’ottobre del 1970 e Pasolini sta concludendo le riprese di Alibech, uno degli episodi del Decameron. Egli si trova a Sana’a, allora capitale della Repubblica Araba dello Yemen, giudicata dallo stesso regista particolarmente adatta per restituire uno scorcio dell’Italia boccaccesca. Benché l’episodio venga poi eliminato, Pasolini si «innamora» della città tanto da ambientarci in futuro alcune parti de Il fiore delle Mille e una notte. Scrive Pasolini: «Si tratterà forse di una deformazione professionale, ma i problemi di Sana’a li sentivo come problemi miei. La deturpazione che come una lebbra la sta invadendo, mi feriva come un dolore, una rabbia, un senso d’impotenza e nel tempo stesso un febbrile desiderio di far qualcosa, da cui sono stato perentoriamente costretto a filmare [...]. Ma è chiaro che se volessi veramente ottenere qualcosa, dovrei dedicare a questo scopo la mia intera vita. Son cose che qualche volta si pensano, ma poi non si fanno. Frustrazione terribile, ma consolata dal pensiero che ci sono persone che, in realtà, per mestiere dovrebbero occuparsi di questi problemi e che dunque la responsabilità è dovuta a loro». P.P. Pasolini, «Corriere della Sera», 29 giugno 1974. Il film rientra all’interno del ciclo di documentari televisivi andato in onda all’inizio degli anni Settanta, intitolato Io e…, curato dall’autrice e critica d’arte Anna Zanoli. Si trattava di una serie di programmi «monografici», per mezzo dei quali alcuni tra i più importanti intellettuali e artisti italiani del tempo (da Fellini a Moravia, da Bassani a Zanzotto, da La Pira a Parise e

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si avvicina al flusso di coscienza, il regista riflette sulla difficoltà di preservare le architetture e le forme urbane italiane, nella fattispecie quelle di Orte e di Sabaudia. Mostrato dietro la macchina da presa mentre cerca di preparare un’inquadratura della cittadina laziale, Pasolini si rivolge all’amico Ninetto Davoli che gli è accanto confessando che rimane sempre turbato dalle forme di alterazione dei luoghi e dei paesaggi imposte dalla modernizzazione. E indicando una volta ancora quegli stessi palazzi costruiti accanto alle mura di Orte afferma che è a causa loro che «la massa architettonica della città è incrinata, è rovinata, è deturpata da qualcosa di estraneo» che inficia la «perfezione stilistica», cioè «la forma perfetta, assoluta» del centro storico. Non si tratta di un problema solo italiano – continua il cineasta – ma di un processo irreversibile che tocca anche i paesi del Terzo Mondo e che minaccia perle come Yazd sul Golfo Persico, Al-Mukalla sul Golfo di Aden, Bhaktapur nel Nepal e, ovviamente, Sana’a in Yemen. E sempre rivolgendosi a Ninetto afferma: Quante volte mi hai visto soffrire, smaniare, bestemmiare perché questo disegno, questa purezza assoluta della forma della città era rovinata da qualcosa di moderno, da qualche corpo estraneo che non c’entrava con questa forma della città, con questo profilo della città, così severo. […] Questo io forse lo soffro in modo particolare, non soltanto perché ho un senso estetico forse esagerato, eccessivo, da anima bella, ma anche perché ho tanto lavorato su dei film storici, in cui questo problema era proprio un problema pratico. Perché questo non è un difetto solo italiano, ma è un difetto di tutto il mondo ormai, soprattutto del Terzo Mondo. […] Rimangono i monumenti, ma non è dei monumenti che si tratta, non son quelli il problema, quelli è facile salvarli, è l’intera forma della città che è difficile salvare.

altri) erano chiamati a scegliere un’opera d’arte verso cui si sentivano legati per illustrarne il valore artistico ai telespettatori. Sulla puntata dedicata a Pasolini si può anche leggere la ricostruzione in prima persona della stessa autrice del programma. Cfr. A. Zanoli, Introduzione a Pasolini e… la forma della città, in F. Francione (a cura di), Pasolini sconociuto, Edizioni Falsopiano, Alessandria 2012, pp. 164-171.

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Sia in Le mura di Sana’a sia in Pasolini e la forma della città, l’attenzione alle architetture minacciate dal progresso emerge con grande forza perché costantemente ricondotta alla realtà deturpata italiana.37 Sana’a viene definita in entrambi i lavori come una Venezia yemenita, e viene messa a confronto, secondo criteri del tutto soggettivi, con Orte. Ne consegue che ancora una volta la presenza dell’altrove e dell’altro – in un rapporto di corrispondenza simile a quello che lega la rappresentazione alla realtà – serve per mettere in gioco e narrativizzare la propria identità personale (da «anima bella» che candidamente si scandalizza), sociale (da italiano che soffre per la rovina del patrimonio culturale), artistica (da regista in cerca di un’inquadratura ben fatta), intellettuale (da militante pronto a smuovere le agenzie internazionali), e infine odeporica (da viaggiatore «orientalista» che non lesina giudizi tranchant nei confronti della classe dirigente di Sana’a e che parla «in nome della vera se pur ancora inespressa volontà del popolo yemenita»).38 La forma perfetta della città, da questo punto di vista, altro non è che l’ideale e utopica perfezione di un mondo diegetizzato a confronto con uno concreto, contaminato dai processi che trasformano l’esistente, nella cui assenza si trova lo stimolo continuo a cercare scenari possibili per nuove storie, individuando nell’etica e nell’estetica del sopralluogo l’unica dimensione possibile del viaggio verso mondi sconosciuti. Parlo di etica ed estetica del sopralluogo perché altrimenti si rischierebbe di ridurre la complessità pasoliniana a un insieme di percorsi di essenzialismo autoreferenziale che non colgono l’ur37

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Per un approfondimento sulla questione dal punto di vista della storia delle architetture urbane si veda anche: L. Ciacci, I musei della città. Dagli archivi del cinema al museo della città, in «Città & Storia», n. 1-2, 2008, pp. 247-255. Ecco alcuni stralci dell’appello pasoliniano: «Ci rivolgiamo all’UNESCO, perché aiuti lo Yemen a salvarsi dalla sua distruzione, […] [e] ad avere coscienza della sua identità e del Paese prezioso che esso è. […] Ci rivolgiamo all’UNESCO perché intervenga finché è in tempo a convincere un’ancora ingenua classe dirigente che la sola ricchezza dello Yemen è la sua bellezza […]. Ci rivolgiamo all’UNESCO in nome della vera se pur ancora inespressa volontà del popolo yemenita, in nome degli uomini semplici che la povertà ha mantenuto puri, in nome della grazia dei secoli oscuri, in nome della scandalosa forza rivoluzionaria del passato» (Corsivi miei).

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genza sociale e politica che cova nei suoi lavori, nonché l’impatto che hanno nella formazione dell’opinione pubblica italiana. Anticipando le conclusioni verso cui mi sto avviando, posso dire che in Pasolini sembra disambiguarsi l’equivoco circa il carattere morale della fotogenia, almeno nel perimetro di senso assegnato al concetto da Jean Epstein. Esiste, infatti, in Pasolini, una strettissima correlazione tra l’idea di seduzione fotogenica e l’identità narrativa e insieme politica, com’è d’altronde lo stesso cineasta a confermare in una celebre dichiarazione rilasciata a Brunatto a proposito della relazione tra fascismo e società dei consumi. Il fascismo, il regime fascista, non è stato altro […] che un gruppo di criminali al potere. E questo gruppo di criminali al potere non ha potuto, in realtà, fare niente. Non è riuscito a incidere, nemmeno a scalfire lontanamente, la realtà dell’Italia […]. Ora invece succede il contrario: il regime è un regime democratico eccetera, però quella acculturazione, quella omologazione che il fascismo non è riuscito assolutamente a ottenere, il potere di oggi, cioè il potere della civiltà dei consumi, invece riesce a ottenere perfettamente; distruggendo le varie realtà particolari, togliendo realtà ai vari modi di essere uomini che l’Italia ha prodotto in modo storicamente molto differenziato. E allora questa acculturazione sta distruggendo in realtà l’Italia, e io posso dire senz’altro che il vero fascismo è proprio questo potere della civiltà dei consumi che sta distruggendo l’Italia. E questa cosa è accaduta tanto rapidamente che forse non ce ne siamo resi conto: è avvenuto tutto in questi ultimi cinque, sei, sette, dieci anni; è stato una specie di incubo in cui abbiamo visto l’Italia intorno a noi distruggersi e sparire. E adesso, risvegliandoci forse da questo incubo e guardandoci intorno, ci accorgiamo che non c’è più niente da fare.

È bene notare che la rivisitazione pasoliniana del concetto di fascismo si colloca all’interno di una battaglia culturale contro il consumismo che egli combatte negli stessi mesi, soprattutto attraverso una serie di editoriali polemici pubblicati su alcuni quotidiani nazionali. Negli scritti licenziati per il «Corriere della Sera», «Il Mondo», «Paese sera» e altre testate, egli teorizza il prodursi di una vera e propria trasformazione antropologica nel popolo italiano causata da un potere transnazionale che ha spazzato via le organizzazioni sociali «arcaiche» e «paleoindustriali» italiane, sostituendole con un sistema fondato sull’ideo-

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logia edonistica e uniformante del consumo. Per esempio, in un articolo pubblicato il 10 giugno 1974 sul «Corriere», egli afferma provocatoriamente che non esiste differenza apprezzabile tra fascisti e antifascisti perché «sono culturalmente, psicologicamente e, quel che è più impressionante, fisicamente, interscambiabili. Nel comportamento quotidiano, mimico, somatico non c’è niente che [li] distingua».39 Come si può intuire, si tratta di convincimenti che destano scandalo nell’opinione pubblica del tempo e che spingono diversi notisti di varia estrazione – da Moravia a Bocca, da Ferrara a Calvino – a sollevare aspre critiche nei suoi confronti. Queste critiche, nondimeno, non riescono a intravedere il filo di un discorso che assume coerenza, a mio parere, soprattutto se affiancato alla sua attività di cineasta e alla sua esperienza di viaggiatore. Le mura di Sana’a e La forma della città insegnano, infatti, che il nuovo potere capitalista è tanto pericoloso agli occhi di Pasolini perché minaccia di rendere il paesaggio storico e culturale uniforme e indistinto primariamente da un punto di vista visivo e fotogenico. In una lettera aperta a Calvino del luglio 1974 il nostro ribadisce: Ho detto e lo ripeto che l’acculturazione del Centro consumistico ha distrutto le varie culture del Terzo Mondo […]: il modello culturale offerto agli italiani (e a tutti gli uomini del globo, del resto) è unico. La conformazione a tale modello si ha prima di tutto nel vissuto, nell’esistenziale: e quindi nel corpo e nel comportamento.40

La ricerca affannosa e fallimentare delle forme pure delle città, dei volti tersi da cercare per le strade polverose del Terzo Mondo sembrano attestarsi, insomma, come l’unica alternativa possibile alla degenerazione della società, prima di tutto di quella italiana. Corpi e comportamenti sono gli insediamenti del racconto, di un racconto che rigetta l’uniformità e che valorizza, esteticamente, la differenza.

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P.P. Pasolini, Gli italiani non sono più quelli, in «Corriere della Sera», 10 giugno 1974, ripubblicato con il titolo Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, in Id., Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975, p. 67. P.P. Pasolini, Quello che rimpiango. Lettera aperta a Italo Calvino, in «Paese Sera», 8 luglio 1974, ora in Id., Scritti corsari, cit., p. 50.

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5.4. Il parossismo dell’amore per il raccontare. Conferme a quanto vado dicendo giungono dall’ultimo lavoro odeporico di Pasolini, uno dei titoli che più faticosamente si collocano nella filmografia pasoliniana. Terzo capitolo della cosiddetta «Trilogia della vita», Il fiore delle Mille e una notte sembra, infatti, praticare la ricerca di un’alterità irriducibile e atemporale, lontana dalle battaglie politiche della contemporaneità, e di un «altrove» nudo, esposto, «scandaloso», che si traduce nell’esplicitazione di una sessualità vitalistica alternativa e non consustanziata alle logiche del consumismo occidentale. Corpi nudi e architetture nude, così presenti nel film, rispondono entrambe all’ipotesi – esplicitamente primitivista – che il senso originario delle cose, delle relazioni interumane, dei rapporti con lo spazio naturale non debba essere sovra-strutturato da interventi successivi (ad esempio lo scavo psicologico, la delimitazione dei rapporti, l’individuazione di un ordine), ma si possa mantenere il più possibile integro e incontaminato. L’idea del film – fanno fede le testimonianze del cineasta rilasciate a riviste e giornali – nasce ancora una volta a Sana’a. L’innamoramento nei confronti dell’architettura di questo centro urbano sembra spingerlo a cercare nuove occasioni di lavoro che giustifichino un veloce ritorno nello Yemen e che lo «costringano» a nuove riprese per salvaguardare, almeno in pellicola, un tesoro artistico/culturale a elevato rischio di deterioramento. Ero nello Yemen, e mi è venuta l’idea delle Mille e una notte. Un’idea del tutto astratta. Perché in tutto lo Yemen non c’è una palma, ma si sente una fantasticità più profonda, che viene da quella sua mirabile architettura tutta in verticale, di case alte e povere, l’una a fianco dell’altra nelle anguste stradine. Lo Yemen è il paese più bello del mondo. Sana’a, la capitale, è una Venezia selvaggia sulla polvere, senza San Marco e senza la Giudecca: una città-forma, una città la cui bellezza non risiede nei deperibili monumenti, ma nell’incomparabile disegno. […] Ho cominciato dunque dopo lo Yemen a leggere le Mille e una notte, e l’ho letto tutto, coscienziosamente. La proliferazione di racconti uno dentro l’altro, la capacità di affabulazione all’infinito, il raccontare per il raccontare fermandomi ogni volta su un dettaglio inaspettato, il parossismo dell’amore per il raccontare, mi hanno avvinto più di qualsiasi cosa… e l’assenza di una fine.41 41

G. Massari, L’idea delle mille e una notte, in «Il Mondo», n. 22, 31 maggio 1973

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In questa dichiarazione la corrispondenza tra la purezza della «forma della città» e il «raccontare per il raccontare» appare indissolubile. Se in questo film, Pasolini riesce a muoversi con rara libertà accumulando tracce narrative, episodi e sotto-intrecci disordinatamente assemblati, e attribuendo una forma policentrica alla pellicola, forse qualche ragione va cercata proprio nella disposizione labirintica della città di Sana’a e in quella «ipnotica» della raccolta di racconti. Più in generale il film si offre, nella sua configurazione a «scatole cinesi»,42 come un repertorio di immagini che legano il proprio valore fotogenico con il piacere della finzionalizzazione. Chi ha visto la pellicola sa, infatti, che molti episodi sono ambientati in luoghi di particolare valore paesaggistico o storicoartistico. Non vediamo solo le mura di Sana’a, ma anche la Masjede Imam, la moschea dell’Imam, nella piazza Naqsh-e jahàn di Isfahan in Iran, il Dar al-Hajar, il palazzo sulla roccia costruito a pochi chilometri dalla capitale yemenita, l’Hanukam Dhota, il complesso di edifici reali e templi che sorge nell’antico centro storico di Kathmandu in Nepal, ecc. A tal proposito faccio notare che molti dei siti scelti come location sono diventati con il passare del tempo e per ironia della storia dei veri e propri siti UNESCO, come se il sogno di preservazione del cineasta e la sua battaglia politica avessero, in effetti, ottenuto alcuni importanti risultati. Tuttavia la Storia non è solo ironica, ma è anche abitata da tragica ineluttabilità: nel marzo del 2015 una coalizione di nove stati arabi guidati dall’Arabia Saudita ha iniziato a bombardare lo Yemen, e in particolare la città di Sana’a, per cercare di fiaccare la resistenza degli Houthi, un gruppo di «ribelli» che ha occupato la parte occidentale del paese; tra l’aprile e il maggio dello stesso anno, una serie di terremoti ha colpito il Nepal, provocando migliaia di vittime e radendo al suolo diversi edifici storici di Kathmandu. Questi tragici eventi dimo42

(corsivo mio). Se Pasolini paragona l’architettura narrativa del film alle scatole cinesi, anche altri commentatori si affidano a metafore di eguale suggestione. Adelio Ferrero parla, ad esempio, di «effetto rapsodico» (A. Ferrero, Pier Paolo Pasolini, Marsilio, Venezia 1977, p. 129), Amengual di «costruzione per incastonamenti» (B. Amengual, Pasolini, Etudes cinématographiques, Paris 1977, p. 113), Canova di forma ad «arazzo» (G. Canova, prefazione di P.P. Pasolini, Trilogia della vita. Sceneggiature originali de Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte, Garzanti, Milano 1995, p. 13).

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strano come l’ipotesi pasoliniana di cristallizzare il profilo di una città, proteggerla dal passaggio del tempo e dai processi di trasformazione imposti dall’uomo, sia pura utopia, ma dimostrano anche quanto la presenza nel film di monumenti destinati prima o poi a deteriorarsi renda la loro finzionalizzazione un atto di salvaguardia – seppur parziale – di superfici e profilature. Un discorso analogo può essere portato avanti per i numerosi piani ravvicinati che compaiono nel corso del film. Non ne ho parlato nello scorso paragrafo, ma Il fiore è probabilmente il film odeporico dove compaiono in assoluto più primi e primissimi piani (Fig. 16). Anche a causa della contestuale rinuncia all’uso dei movimenti di macchina (panoramiche e carrelli) e ai raccordi tra un’inquadratura e l’altra, i piani ravvicinati, specie se accostati ai campi lunghi sui paesaggi storico-artistici, entrano nel flusso narrativo delle opere come singolarità e non come parti di un meccanismo discorsivo oliato e concatenato. Sono una specie di risposta al profilo deturpato di Orte o a quei giovani fascisti e anti-fascisti tra loro irriconoscibili: in un film esotico – sembra dirci Pasolini – è ancora possibile evidenziare delle differenze e catturare delle «autenticità», isolandole dal contesto e liberandole da un consumo di carattere esclusivamente economico. È insomma proprio nei primi piani (e nei campi totali) che si realizza quell’accrescimento del «valore morale» delle immagini teorizzato da Epstein e messo in pratica da Pasolini, proprio perché in essi si può rintracciare il carattere arcaico di un reale che non è ancora stato corrotto, ma che attende in qualche modo di essere rovinato dal trascorrere del tempo (nei volti degli attori) o dall’irrompere di eventi più o meno tragici del contemporaneo (terremoti, speculazione edilizia, ecc.). Corpi e paesaggi diventano, in altri termini, lo specifico filmico, il campo di battaglia cinematografico (o visuale) dentro il quale una serie di caratteri inafferrabili del contingente trovano uno spazio di espressione. Uno spazio resistenziale che si manifesta o nel dettaglio ravvicinato, nel frammento, nel particolare anatomico, oppure nella presa di distanza, nella contemplazione altera di una lontananza, (nel senso dato a questi termini da Segalen). Per questa ragione, ne Il fiore – e in generale nei film che si concentrano sulla forza significante del primo piano – viene meno lo spazio per un universo (narrativo) medio e lineare. Ancora una volta, la negoziazione

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delle immagini avviene nel segno della radicalità, dell’estremo o, secondo le categorie pasoliniane, del puro e dell’incorrotto. Che ciò avvenga all’interno di un immaginario esotico e orientalista non deve pertanto sorprendere. L’esibizione della bellezza dell’immagine in sé, la sua capacità di ricondurci all’estasi – e da qui al sacro, al contemplativo, all’irrazionale – rappresenta un modo per finzionalizzare la complessità del reale in una dimensione di purezza visiva che ha nell’«anima bella» del regista la sua garanzia di autenticità maggiore. L’orientalismo – come la fotogenia – offre esattamente questo servizio: permette di adottare un atteggiamento estatico, offrendo l’illusione che attraverso tale sentimento si possa aver accesso a una più profonda verità – una sua essenza, un suo specifico – che la vorticosità del presente storico non consente di afferrare. Questi sono film [quelli della Trilogia della Vita, N.d.A.] abbastanza facili e li ho fatti per opporre al presente consumistico un passato recentissimo dove il corpo umano e i rapporti umani erano ancora reali, benché arcaici, benché preistorici, benché rozzi, però tuttavia erano reali e opponevano questa realtà all’irrealtà della civiltà consumistica.43

La realtà, per Pasolini, è insomma la finzione dell’arcaico, la fisicità di corpi, volti e paesaggi esibiti nella loro trasformazione in diegesi. Da questo punto di vista, Il fiore delle Mille e una notte porta addirittura al parossismo le teorie di Said, facendo implodere le tradizioni raffigurative orientaliste europee: i sette veli della Salomè diventano i corpi senza veli, nudi, esposti, di Zumurrud. I tappeti volanti diventano – nella sequenza del volo del diavolo – sovrapposizioni d’immagini realizzate in senso anti-mimetico. I deserti, le giungle, i palazzi principeschi, solitamente ricostruiti negli stabilimenti cinematografici (si pensi alla danza di Seetha), qui sono invece vere moschee islamiche, veri palazzi indiani, veri quartieri yemeniti, vere montagne nepalesi. E non sono solo «piacevoli decorazioni», ma costituiscono la conferma della produttività del sopralluogo come costrutto astratto che allude a una nar43

P.P. Pasolini, Vita attraverso le lettere, a cura di N. Naldini, Einaudi, Torino 1994, p. 284.

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ratività alternativa ai canoni classici e come pratica concreta, come incubazione lenta di una fioritura improvvisa che colloca l’exota nell’irrealtà reale di un primitivo che può essere tale solo in un’immagine bidimensionale proiettata sullo schermo.

V ETNO-GRAFIE

1. TUTTO STA DENTRO UN PUGNO

L’équipe è in pieno fermento. Si tratta di preparare il set, gestire i movimenti delle comparse, verificare che gli attori siano in campo, scegliere l’obiettivo e la distanza focale giusta, predisporre lampade, pannelli riflettenti e diffusori affinché l’illuminazione sia perfetta, allestire microfoni per garantire una registrazione precisa e pulita del suono. Una voce narrante ci ricorda che nonostante vi siano molti giovani tecnici nella troupe, i collaboratori più stretti del regista sono anziani professionisti con molta esperienza alle spalle. Li vediamo all’opera: Honda Iroshiro è il primo assistente, Nakai Asakazu e Saitō Takao i direttori della fotografia, Muraki Yoshiro lo scenografo, Yanoguchi Fumio l’ingegnere del suono, Sano Takeji il graffista, Nogami Teruyo la direttrice di produzione. Sono sette, come I sette samurai (Shichinin no Samurai, 1954), afferma la voce narrante (Figg. 17 e 18). A ognuno di loro viene dedicato un primo o primissimo piano (spesso sfruttando lo zoom). Accanto a loro, altri membri della troupe: dai produttori agli assistenti alla regia, dal responsabile del meteo fino – un po’ provocatoriamente – ai cavalli. Mentre il commento extradiegetico sciorina identità del crew e relative mansioni tecniche, mentre la colonna sonora riproduce suoni che provengono dal set e che non vediamo (l’ululare del vento, il fragore di alcuni spari, la corsa dei cavalli, il clangore delle spade) più di venti primi piani vengono montati consecutivamente, tutti dedicati ai membri di una troupe descritta, dalla voce narrante, come una sorta di sistema solare al cui centro c’è il regista che, buon ultimo, compare sulla scena mentre un assistente gli massaggia la schiena. Così ci viene descritto: E al centro di tutto il sistema c’è Sensei. Anche noi abbiamo adottato l’abitudine di chiamarlo Sensei, Maestro. In tutte le discipline, dalle composizioni floreali alle arti marziali, il Sensei è colui che, raggiungendo la perfezione tecnica, ottiene una specie di bonus spirituale.

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L’ombra di rispetto che circonda e protegge il sapere non ha niente a che vedere con il terrore che alcuni registi, non avendo il suo genio, pensano di dovere trasmettere per regnare sul set. E come in passato i grandi maestri di spada, Sensei ignora l’astrazione. Parla del mestiere, riflette sui fatti, sulle esperienze. Quando gli si domanda perché ha fatto questo o quello, mi risponde: «Mi è venuto naturale».1

Le riprese, intanto, indugiano, sul cineasta. Si tratta ovviamente di Kurosawa Akira (Fig. 18). È lui il Maestro, il centro del sistema solare attorno cui tutto ruota. È lui il depositario di una caratura spirituale superiore. È lui a non parlare la lingua dell’astrazione, ma quella della concretezza, della tecnica, della pragmatica. *** Siamo in una sala giochi di Tokyo dove si trovano decine di macchinette simili a slot machine. Gli avventori giocano a pachinko, un gioco d’azzardo che consiste nell’introdurre alcune biglie in un dispositivo meccanico e osservarne il percorso di discesa deviato dalla presenza di piccoli chiodi metallici. Le macchine sono colorate e rumorose, i volti dei presenti, al contrario, impassibili: nessuna eccitazione sembra smuovere giocatori calati in una sorta di stordente monotonia. La cinepresa si muove tra gli avventori (Fig. 19). La voice over commenta le immagini in questo modo: Fino a quella notte tarda e in tutte le notti che seguirono, mi sono perso in una delle tante sale del pachinko dove si sta seduti davanti alla macchina in un rumore assordante. Ero un giocatore tra i tanti e per questo ancora più solo, che guardava le innumerevoli biglie metalliche saltare tra i chiodi verso il fondo e solo qualche volta finire in una buca vincente. Questo gioco provoca una specie di ipnosi, una strana sensazione di felicità, vincere non è più così importante, ma il tempo passa, per un po’ si perde il contatto con se stessi, e ci si fonde con la macchina. Forse si dimentica quello che si è sempre voluto dimenticare. Questo gioco è apparso dopo la guerra perduta quando i giapponesi dovevano dimenticare un trauma nazionale. Solo i più abili o i più fortunati o i giocatori di professione riescono a vincere tante biglie e a scambiarle con sigarette, prodotti alimentari o elet1

Mia traduzione dal commento originale del film.

Tutto sta dentro un pugno

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tronici o con scontrini che possono essere cambiati illegalmente in soldi in uno dei vicoli circostanti.

*** Un uomo scende dall’automobile e inizia a camminare lungo il crinale di una collina. Fa pochi passi e si siede su una roccia. Tiene a tracolla un registratore su cui imprime i pensieri che lo invadono innanzi al monte delle Beatitudini e alla vista del Lago di Tiberiade. Con lo sguardo rivolto in camera, ripreso in campo medio e poi in mezza figura (Fig. 20), dice: La zona è spaventosamente desolata e brulla. Sembra uno dei luoghi più abbandonati della Calabria o delle Puglie […]. Quello che mi ha fatto più impressione è l’estrema piccolezza, la miseria, l’umiltà di questo posto, ed è stata – perché aspettavo questo monte delle Beatitudini come uno dei luoghi più favolosi del mio film, dello spettacolo che mi avrebbe dato la Palestina – un’impressione incredibile di piccolezza, ripeto, di umiltà, una grande lezione di umiltà. In fondo, sto pensando che tutto quello che ha fatto e detto Cristo, quattro piccoli vangeli, una predicazione e una piccola terra, una piccola regione fatta di quattro colline brulle, un monte, il Calvario, dove è stato ucciso, tutto sta dentro un pugno.

2. CULTURE IN VIAGGIO

2.1. L’autenticità revocata in dubbio Nel 1984 la School of American Research organizza a Santa Fé, nel New Mexico, un seminario destinato a trasformare profondamente le discipline etnografiche. Durante quel convegno, otto antropologi, un critico letterario e uno storico disquisiscono attorno alla pratica della scrittura etnografica, e più precisamente attorno alle convenzioni retoriche, ai modelli narrativi e alle forme di comunicazione adottate dagli studi antropologici. Gli interventi cercano di far riemergere la disciplina dall’angolo (buio) in cui le teorie postcoloniali la stavano, di fatto, relegando, tacciandola come esempio di dominio ed egemonia culturale occidentale ai danni di quelle ritenute, a torto o a ragione, come culture marginali ed estranee. Si trattava di riversare nei domini delle scienze etnografiche una doppia consapevolezza fino allora non sufficientemente coltivata: ovvero che la scrittura è sempre una «finzione», in quanto impiega determinati artifici linguistici e narrativi per filtrare e veicolare i saperi, e che rappresenta l’affermazione di una autorità testuale al lavoro. Nel testo introduttivo agli atti di quel convegno, James Clifford e George E. Marcus spiegano: Non partiamo dall’osservazione partecipante, né dai testi (buoni per un’interpretazione), ma dalla scrittura, dal costruire testi. Non più dimensione marginale, occulta, la scrittura è ora momento centrale di quel che fanno gli antropologi sul campo, e dopo. Se questo momento non viene ancora descritto né discusso seriamente dipende dalla persistenza dell’ideologia dell’immediatezza dell’esperienza e della rappresentazione. La scrittura ridotta a metodo: appunti ben ordinati, cartine accuratamente disegnate, risultati della ricerca puntualmente riferiti. Per i saggi qui raccolti è un’ideologia ormai crollata. […] L’attenzione all’organizzazione del testo e all’aspetto

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retorico sottolinea il carattere costruito e artificiale delle analisi culturali. È una critica della trasparenza e afferma la storicità dell’etnografia, il suo coinvolgimento nell’invenzione di culture, non nella loro rappresentazione. […] Gran parte dei saggi, anche se si concentrano sulle pratiche testuali, trascendono i testi per giungere al contesto del potere, della conservazione, della pressione istituzionale, dell’innovazione.1

Attraverso lo studio degli artifici retorici che fioriscono nella scrittura etnografica (es. l’uso della terza persona singolare o del presente), dei modi di costruzione dell’autorità disciplinare (es. problematizzare il concetto di stanzialità), dei meccanismi traduttivi in atto (es. l’uso di insiemi coerenti come il «nativo», i «dogon», i «nuer» per descrivere comunità complesse), i protagonisti di quel seminario portano avanti un’operazione meta-discorsiva di smottamento della «classicità» etnografica rinunciando all’idea delle «grandi narrazioni» così come al finalismo e alla coerenza delle interpretazioni «giuste», prediligendo viceversa l’attenzione al dettaglio (in)significante del segno e, più in generale, ai processi di manipolazione discorsiva dei saperi. Faccio notare che, secondo logiche non così imprevedibili, considerare l’etnografia alla stregua di un genere letterario permette, tra le altre cose, di schiudere precise aree d’intersezione con i viaggi modernisti cinematografici. Innanzi tutto l’approccio scelto mette l’etnografo al centro dei fasci discorsivi in forme simili a quanto capita agli autori cinematografici e più in generale agli artisti che si occupano di elaborare in termini finzionali le forme dell’alterità: le strategie retoriche e testuali della scrittura antropologica servono per auto-definire una riconoscibilità sociale di chi impugna la penna e riempie i taccuini di appunti, fondata su un’affermazione di autorevolezza da una parte e di pertinenza di sguardo dall’altra. Anche se nascosta dietro forme di racconto che mirano all’invisibilità (propria e della propria scrittura), la soggettività dello studioso si afferma per il suo grado di ambivalenza. Per un verso egli deve apparire indipendente, imparziale, distaccato, cosciente, autonomo; per l’altro deve, comunque, sottomettersi a un consesso più 1

J. Clifford, G. E. Marcus (a cura di), Scrivere le culture, Meltemi, Roma 1997, p. 24.

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ampio che stabilisce codici e lineamenti professionali necessari per interpretare quel determinato ruolo sociale. In altre parole, mentre chiede di essere riconosciuto da una comunità di appartenenza come indipendente e oggettivo, l’etnografo afferma una soggettività dipendente dai processi di codificazione dei saperi cui è vincolato e che contribuisce a vincolare.2 Quest’ambiguità, come si ricorderà, è alla radice delle esperienze odeporiche di Pasolini e compagni, giacché anche il regista coltiva l’ideale – utopico – di un’autonomia di movimento e di prospettiva rispetto alla società di cui è «nativo» che sfocia però nell’applicazione – non importa quanto sofisticata – di un insieme di semplificazioni cognitive che appartengono all’orizzonte di saperi e delle sensibilità culturali di cui è espressione. Si aggiunga – e siamo al secondo punto d’intersezione – che rimarcare la «pesantezza» significante della scrittura consente di relativizzare il contributo di coloro che appartengono alle culture studiate, in virtù del fatto che il loro «punto di vista» è sempre e comunque filtrato/tradotto/riconfigurato da una voce terza, che è presenza terza, scrittura terza. Per Clifford, ad esempio, tale prospettiva funziona anche capovolgendo i fattori: attraverso l’uso impersonale della terza persona e del genere maschile il punto di vista dell’antropologo può essere assegnato al «nativo», senza che quest’ultimo abbia facoltà di parola per mettere in discussione la bontà traduttiva delle sue «presunte» dichiarazioni. L’indigeno così viene escluso una seconda volta dal processo di rappresentazione. Battezzare poi il trattato antropologico come 2

Scrive Clifford a proposito di Malinowski, figura centrale dell’antropologia novecentesca: «Argonauts [...] produce una finzione culturale e annuncia la nascita di un personaggio autorevole: Bronislaw Malinowski, l’antropologo di tipo nuovo. Questo personaggio [...] non fu [...] costruito sul campo. Il personaggio non rappresenta, ma razionalizza una esperienza di ricerca [...]. Si è tentati di suggerire che la comprensione etnografica (un atteggiamento coerente di simpatia e di impegno ermeneutico) risulti piuttosto come una creazione della scrittura etnografica che non come una qualità propria della esperienza etnografica. In ogni caso quel che Malinowski realizzò con la scrittura fu contemporaneamente 1) l’invenzione romanzesca dei trobriandesi a partire da un ammasso di note prese sul campo, di ricordi, ecc. 2) la costruzione di una nuova figura pubblica, quella dell’antropologo come ricercatore sul campo». Cfr. J. Clifford, I frutti puri impazziscono, cit., pp. 135-136.

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un costrutto di «finzione» – e siamo al terzo punto di contatto – ci aiuta a considerare il tradizionale oggetto di studio della disciplina, ovvero la ricostruzione di culture «altre» sotto forma di organizzazioni sistemiche, coerenti e logiche, come una missione ideale e benvenuta, ma destinata al fallimento o alla parzialità, nella stessa misura in cui lo sono – e il paragone non sembri forzato – i film modernisti qui studiati, costretti anch’essi a muoversi in territori narrativi e formali parziali, instabili, precari o a impegnarsi in progetti produttivi tanto ambiziosi quanto spesso soggetti a contrattempi e conflittualità (come negli esempi già citati di Rossellini e Malle in India o Antonioni in Cina). Nel suo successivo lavoro, The Predicament of Culture. Twentieth-Century Ethnography, Literature, and Art, James Clifford specifica con maggiore nettezza la convinzione secondo la quale un codice culturale non può mai definirsi puro, a causa di un mondo – anche quello di una microsocietà «primitiva» – in continua evoluzione, all’interno del quale le identità perdono le loro certezze granitiche e i luoghi si fanno permeabili a sollecitazioni di varia provenienza. Proprio perché le costruzioni sociali non sono stabili,3 la loro messa in scena deve abbandonare le pretese di mimetismo e oggettività, favorendo un’articolazione delle forme soggettive, parziali, disorganiche dei saperi, in vista di un posizionamento diverso della disciplina. Un passaggio dell’introduzione del libro è esemplare di tale prospettiva e merita di essere citato integralmente: Questo libro è un oggetto etnografico rappezzato, una collezione incompleta. È costituito da una serie di esplorazioni scritte e riscritte nel corso di sette anni. Il suo momento storico è segnato da rapidi cambiamenti nei termini – scientifici, estetici e testuali – che sovrintendono alle rappresentazioni interculturali. Scritte dall’interno di un «Occidente» il cui titolo a rappresentare una storia umana uni-

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«Qualsiasi perseguimento di una terra promessa, qualsiasi ritorno a sorgenti originarie o recupero di una tradizione genuina implica discutibili atti di purificazione. Tali pretese di purezza sono in ogni caso sempre minate dal bisogno di inscenare autenticità in contrapposizione ad alternative esterne, spesso dominanti». Ivi, p. 24. Per una ricostruzione critica del profilo di Clifford rimando a: A. M. Forero Angel, L. Simeone, Oltre la scrittura etnografica, Armando, Roma 2010.

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ficata è oggi messo da tante parti in discussione e la cui stessa identità spaziale è sempre più problematica, le esplorazioni qui raccolte non possono – non dovrebbero – dar luogo a una visione tutta di un pezzo. La loro parzialità è evidente. I capitoli, di varia forma e stile, rispecchiano circostanze diverse e specifiche occasioni di stesura. Non ho tentato di riscrivere quelli già pubblicati per produrre una superficiale coerenza. Anzi, ho incluso nei volumi testi che deliberatamente ne spezzano il tono dominante, nella speranza di rendere in tal modo manifesta la retorica dei miei resoconti. Preferisco le immagini a fuoco nitido, composte in modo che rivelino l’inquadratura o l’obiettivo utilizzati. L’etnografia, un’attività ibrida, appare così come scrittura, come collezionismo, come collage modernista, come potere imperiale, come critica sovversiva. In una prospettiva più ampia, forse, il mio tema è una forma di viaggio, un modo di capire e di muoversi in un mondo eterogeneo […] [N]el secolo XX l’etnografia rispecchia nuove «pratiche spaziali» […] nuove forme di residenza e circolazione. Questo secolo ha visto una straordinaria espansione della mobilità, se si considerano il turismo, il lavoro migratorio, l’immigrazione, la proliferazione urbana. Sempre più numerosi sono coloro la cui «stanzialità» riposa sull’ausilio di mezzi di trasporto di massa, automobili, aeroplani. Popolazioni straniere si sono stabilite nelle città di sei continenti rimescolandosi spesso, però, in modi parziali, specifici. L’«esotico» è sorprendentemente vicino. Per converso, non sembrano esserci sul pianeta luoghi tanto distanti in cui non sia dato avvertire la presenza dei prodotti, dei mezzi di comunicazione di massa e del potere «moderni». La vecchia topografia ed esperienza di viaggio sono esplose. Non è più possibile lasciare il proprio tetto fiduciosi di trovare qualcosa di radicalmente nuovo, un tempo e uno spazio altri. La differenza la si incontra nella più contigua prossimità, il familiare affiora agli estremi della terra. Questo dis-«orientamento» si riflette per tutto il libro. Per esempio l’etnografia accademica del secolo XX non si configura come una pratica interpretativa di stili di vita distinti, integri, ma piuttosto come una serie di dialoghi, imposizioni e invenzioni specifici. La differenza «culturale» non è più una esotica e stabile alterità; i rapporti io-altro sono faccende di potere e di retorica piuttosto che di essenza. Un’intera struttura di aspettative circa l’autenticità nella cultura e nell’arte è revocata in dubbio.4

4

J. Clifford, I frutti puri impazziscono, cit., pp. 26-27 (corsivi miei).

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Clifford sceglie metafore fotografiche e cinematografiche (il fuoco nitido, l’inquadratura, l’obiettivo utilizzato) per descrivere il proprio approccio scientifico e forse non è un caso giacché, a ripercorrere questa citazione, si trovano molte delle caratteristiche dei film odeporici già evidenziati negli scorsi capitoli. Gli oggetti rappezzati, le collezioni incomplete, l’Occidente come costrutto (di potere) da mettere in discussione, la scrittura (filmica) come attività ibrida, frutto di un amore per il collezionismo (delle immagini dell’alterità), «come collage modernista, come potere imperiale, come critica sovversiva», il capire in viaggio nella dimensione del disorientamento, la differenza incontrata nella più contigua prossimità e il familiare che affiora agli estremi della terra, «un’intera struttura di aspettative circa l’autenticità nella cultura e nell’arte [che] è revocata in dubbio»: sono tutte forme descrittive che ben si applicano ai collage modernisti di Marker, allo smarrimento sensibile di Antonioni, alle pratiche militanti di Ivens, alla frammentarietà di Pasolini, alle domande senza risposta di Malle, agli oggetti rappezzati di Duras, persino agli uomini «tappezzati» del più sicuro di tutti i registi in viaggio, Rossellini. Tale prospettiva apre altri due scenari antropologici/odeporici che vale la pena esplorare seppur in maniera rapida. Il primo riguarda la possibilità di considerare qualsiasi testo che abbia a che fare con le forme dell’alterità culturale come potenzialmente utile alla disciplina. Dunque documenti, appunti, immagini, fotografie, oggetti, romanzi, diari, articoli di giornale, ma anche evidentemente i film (di finzione, sperimentali, etnografici…) possono partecipare con la stessa legittimità degli appunti dell’etnografo alla costruzione (parziale) di un sapere. Clifford non a caso parla di autenticità nella cultura e nell’arte, dimostrando che dalla sua prospettiva non esiste differenza tra le pratiche etnografiche e quelle artistiche, come confermano le parti del suo libro dedicate al rapporto tra l’opera di Conrad e le indagini di Malinowski, ai diari di viaggio di Leiris, Segalen e Cesaire o al surrealismo etnografico.5 Il secondo scenario rimanda invece alle trasformazioni imposte dalla cosiddetta «globalizzazione», un processo con il quale i registi modernisti cominciano a relazionarsi tra gli anni Cinquanta 5

Il riferimento è soprattutto alla seconda parte del libro intitolata Spostamenti. Cfr. Ivi, pp. 143-220.

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e Sessanta e che nei decenni successivi subirà un’ulteriore accelerazione. Si tratta di un fenomeno complesso che annovera manifestazioni di diverso segno e spessore con le quali l’antropologia, come d’altronde gli studi postcoloniali e quelli nascenti di cultura visuale, deve giocoforza relazionarsi, iniziando a ragionare su concetti ibridi come diaspora, migrazione, meticciato, creolizzazione, mutazione, contaminazione.6 Si diffonde una percezione sempre più accesa e condivisa sull’impossibilità di separare le culture, le identità, i tipi etnici, giostrando le proprie categorie in cambi disciplinari sempre meno definibili, sempre meno stabili, sempre meno coesi, sempre più piccoli.7 È al centro di questa serie d’intersezioni che film odeporico e antropologia sperimentale possono attivare un faticoso dialogo. Si pensi, ad esempio, all’altro importante studio licenziato da Clifford alla fine degli anni Novanta: in Routes. Travel and Translation in the Late Twentieth-Century egli introduce il concetto di «travelling cultures» come nuovo modo di concepire le culture e i rapporti tra società diverse. L’antropologo americano demitizza e ridimensiona definitivamente la questione della stanzialità della ricerca sul campo, ricordando che il viaggio non è solo l’esperien6

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Per una prima disamina sul cambiamento d’interessi dell’antropologia in relazione alle trasformazioni economiche e sociali che negli ultimi decenni hanno investito la maggior parte delle società del pianeta si veda almeno: M. Kilani, Antropologia. Dal locale al globale, Dedalo, Roma 2011; U. Fabietti, R. Malighetti, V. Matera, Dal tribale al globale. Introduzione all’antropologia, Bruno Mondadori, Milano 2012. Da questo punto di vista registro un significativo gap tra le idee di società che si vanno diffondendo dagli anni Ottanta in avanti, anche grazie ai nuovi approcci antropologici, e le pertinenze che il cinema odeporico modernista propone alla disciplina e alla riflessione sul reale, per il semplice fatto che le esperienze sotto il vaglio della mia riflessione sono storicamente precedenti all’assurgere di tale consapevolezza. Escludendo i lavori più recenti di Marker, Herzog e Wenders (quelli peraltro coevi agli scritti di Lyotard, Derrida, o, in ambito etnografico, Marcus, Clifford e altri), negli altri precedenti casi il «viaggio in Oriente» si pone ancora come ricerca di un sapere, «un modo di capire», una speranza di orientamento che si traduce, ben presto, in un dis-orientamento verso il quale ogni cineasta e ogni film reagiscono secondo peculiarità che sono loro proprie. In tal senso, come ho cercato di sottolineare nella prima parte di questo studio, non si tratta di esperienze troppo diverse da quelle di Leiris, Malraux, Segalen e tanti altri viaggiatori del Novecento, se non fosse per gli strumenti di racconto e di rappresentazione di cui dispongono, le macchine da presa.

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za fondante dell’antropologo, ma anche di quelle figure con cui solitamente gli antropologi si relazionano, vale a dire gli «informatori», gli strumenti «traduttivi» di cui essi si servono quando entrano in contatto con realtà di cui non conoscono lingua, usi e costumi e che sono destinati prima o poi ad abbandonare. Assumendo come paradigmatica la storia di un gruppo di pellegrini che giunto a Plymouth nel Massachusetts riesce a superare le rigidità dell’inverno del 1620 grazie all’aiuto di Squanto, un nativo americano che conosceva l’inglese, che aveva viaggiato a lungo e che da poco tempo era ritornato tra i suoi «simili», Clifford ricorda che spesso i dialoghi e i saperi si stabiliscono tra figure dalle identità indefinite o mescolate. Squanto, come altri informatori, riesce a comunicare con i pellegrini perché non è né un vero nativo, né un vero straniero, perché ha conosciuto sia l’esperienza del viaggio (e del disorientamento e dello spaesamento), sia quella del radicamento, imparando a comunicare con interlocutori assetati di concetti e paradigmi che li conducono a una fissità sociale, trasmettendo loro nozioni e opinioni sulla propria cultura influenzate dalla propria esperienza di mobilità. Per Clifford però il concetto di «travelling culture» è da intendersi in senso lato. Prova a spiegarlo ricostruendo un dialogo con una collega. L’antropologo Christina Turner ha insistito con me su questo punto. Squanto come norma emergente? Gli informatori etnografici come viaggiatori? Ma gli informatori non sono tutti viaggiatori e neppure tutti nativi. Molti scelgono di limitare la loro mobilità e un numero ancora maggiore viene mantenuto «al suo posto» da forze repressive. Turner ha fatto un lavoro etnografico in un ambiente di operaie giapponesi, donne che non hanno «viaggiato», in nessuna accezione corrente del termine. Ma guardano la televisione. Hanno un senso di ciò che è locale e di ciò che è globale; sfidano le caselle tipologiche dell’antropologo; e non sono semplicemente le portatrici di una cultura. È un errore, mi ha detto la Turner, insistere sul «viaggio» inteso in senso letterale. Ciò dà per scontate molte cose e restringe eccessivamente l’importante questione di come i soggetti sono culturalmente «localizzati». Sarebbe meglio mettere in rilievo le molteplici, differenti modalità del nesso tra dentro e fuori, e ricordare che il viaggio, o lo spostamento, può coinvolgere forze che potente-

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mente passano attraverso, la televisione, la radio, i turisti, le merci, gli eserciti.8

Il «passare attraverso» della televisione, del cinema e di altre forme di rappresentazione in movimento trasformano il medium di cui ci occupiamo in un testimone traduttivo dal moto perpetuo e dall’impossibilità di territorializzarsi. Dal mio punto di vista, sono «culture in viaggio» le macchine da presa che attraversano i tanti confini che uniscono e separano gli insiemi, di qualunque natura e densità essi siano: i confini reali che Pasolini percorre per passare da Israele alla Giordania nei suoi Sopralluoghi, quelli monumentali ma inutili come la Grande muraglia visitata da Ivens e Antonioni, quelli invisibili che dividono gli amanti di RobbeGrillet o di Resnais; e ancora i confini che separano la scimmietta in cattività di Rossellini dalle sue sorelle non addestrate, quelli da trompe-l’oeil su cui si specchiano i personaggi della Duras, quelli che risuonano in un nastro magnetico registrato in Giappone e ascoltato in Francia nel 1964. Sono «scritture del movimento» (giocando con l’etimologia del termine cinematografia) i dispositivi di riproduzione che si muovono nei territori dell’alterità, sono culture moderniste in polvere, per usare la felice espressione di Appadurai, veicoli attraverso i quali si diffonde quello che lo studioso indiano chiama con un felice neologismo il «mediorama», ovvero il flusso delle immagini veicolate dai mezzi di comunicazione di massa che permette ai saperi e agli immaginari di superare le barriere, di allargare i fronti dialogici forse più di quanto possano fare gli stessi esseri umani.9 2.2. Prossimità e distanze con le immagini etnografiche Come forse si sarà intuito, la domanda cui questo capitolo vorrebbe rispondere riguarda l’eventuale rapporto di contiguità tra i film odeporici e le discipline dell’incontro. Esiste, in altre parole, 8 9

J. Clifford, Routes. Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 33. A. Appadurai. Modernity at Large. Cultural Dimensions of Globalization, University of Minnesota Press, Minneapolis 1996.

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al netto di essenzialismi, malintesi e seduzioni, una dimensione di utilità di questi materiali audiovisivi per chi si occupa di studiare le formazioni culturali? E viceversa, più banalmente, prorompe in questi lavori qualche iscrizione di realtà, capace di liberarsi dai vincoli della finzionalizzazione e restituire la ricchezza e la complessità del dato fenomenico? La risposta più semplice e diretta a quest’interrogativo comunque complesso non può che essere positiva. Si pensi ai film citati in esordio di capitolo. Kurosawa e la sua troupe, ripresi durante le riprese di Ran (1985) in A.K., sono senza dubbio «autentici» – «sono proprio loro!» – come sono «vere» le riprese del film, «reali» i sacchi pieni di calce che vengono sparsi alle pendici del monte Fuji per simulare una tempesta di vento, in «carne e ossa» le centinaia di comparse e le decine di cavalli necessari per le riprese delle battaglie, così come è «vero» il sangue finto (trattasi di vernice) che segna i corpi dei guerrieri colpiti da spade e frecce. Non c’è dubbio che siano «autentici» i giocatori che alienano la propria giornata trascorrendola innanzi alle macchinette di pachinko, come è verosimile la testimonianza di Wenders che racconta di aver trascorso intere notti in una di queste sale giochi in Tokyo-Ga. Vale lo stesso discorso per Sopralluoghi in Palestina, il quale ci mostra cosa sono diventati i luoghi della predicazione di Cristo in una Palestina contemporanea. D’altronde l’uomo che parla al microfono è senz’altro Pasolini, le opinioni che licenzia sono, senza dubbio, spontanee. Se poi allargassimo il carotaggio ad altri film di viaggio ci accorgeremmo che spesso quello documentaristico è il registro più utilizzato dai film odeporici (persino quelli di fiction), perché garantiscono l’affiorare di molteplici tracce di realtà. Penso ai materiali d’archivio sullo scoppio delle bomba atomica che compaiono in Hiroshima mon amour, oppure ai «veri falsi» Guerrieri di terracotta che acquista Ivens in Io e il vento, e ancora alle statue allegoriche degli animali che vegliano sulla Via Sacra che conduce alle tombe degli imperatori della dinastia Ming vicino a Pechino (e che vediamo sia in Dimanche à Pekin sia in Chung Kuo - Cina), ai Gopura, le alte torri monumentali che ornano la città di Madurai (presenti sia in India Matri Bhumi sia in L’India fantasma), agli Iwan della Moschea dell’Imam (ne Il fiore delle Mille e una notte, ma anche in Plaisir d’amour en Iran di Agnes Varda), alla Tokyo Tower, ben visibile sia in Le Mystére Koumiko sia in Tokyo-Ga. E così via. In

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alcuni passaggi le immagini si fanno o volutamente raccapriccianti, nel loro crudo realismo, come avviene per le inquadrature dei lebbrosi presenti nei film indiani di Malle e Pasolini o volutamente sconvenienti, nel loro «esibizionismo», come avviene per i corpi nudi de Il fiore o le rappresentazioni di organi sessuali maschili in Sans soleil e Tokyo-Ga. Esiste, poi, innegabile e accostabile a una tendenza propria dell’etnografia, una certa predilezione per la raffigurazione delle minoranze etniche. Pasolini visita i drusi e una tribù nomade vicino al Mar Morto, Malle frequenta i villaggi dei Bondo e dei Toda, rispettivamente nella parte orientale e meridionale dell’India, Marker le popolazioni jacute e tungusi in Siberia o quelle indigene che abitano nelle isole Ryūkyū, tra Giappone e Taiwan. Ivens e Loridan i Kazaki e gli Uiguri nel Sinkiang.10 In questi e in altri casi a interessare i registi sono spesso i riti, le danze, le celebrazioni, le cerimonie, le rievocazioni, i cortei, le processioni, le liturgie: Antonioni, nel documentario omonimo, ci mostra il Kumbh Mela, la celebre festività hindu che si tiene ogni dodici anni vicino alla città santa di Prayag (Allahmabad); Malle, nel secondo episodio di L’India fantasma, ci catapulta all’interno del Rathotsavam, una festa religiosa che si tiene vicino al tempio del Dio Kapaleeshwarar a Mylapore; Marker, in Sans soleil, ci mostra il Ningyo-Kuyo, la cerimonia di cremazione consacrata al riposo delle anime delle bambole rotte che si tiene ogni 25 settembre presso i templi Kiyomizu-dera; Ivens, in Autour du pétrole: Taking, uno dei dodici film che compongono Comment Yukong déplaça les montagnes, assiste alla rivisitazione rivoluzionaria del yangko, una danza tradizionale della Cina nordorientale. E così via. Nondimeno, se la risposta immediata alla domanda sopra formulata è stata positiva, quella più ponderata lo è meno, per altri dati oggettivi da considerare. Intanto è bene ribadire che nessuno dei film qui studiati può essere definito stricto sensu un film etnografico. A differenza di film-makers già citati come Robert Gardner, Timothy Asch, Asen Balikci, Roger Sandall o David MacDougall, la maggior 10

I documentari Les Kazaks e Les Ouigours, pur essendo stati realizzati nel medesimo periodo in cui Ivens e Loridan soggiornano in Cina, sono poi stati esclusi dal montaggio definitivo di Comment Yukong déplaça les montagnes e montati e distribuiti in un secondo momento. Sono insomma da considerarsi documentari del tutto autonomi da quelli della serie.

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parte degli autori odeporici non è nella condizione e spesso non ha neppure la volontà di studiare in modo approfondito una determinata società, documentando, ad esempio, i meccanismi che regolano un sistema sociale. Si aggiunga che essi non adottano metodologie di ricerca scientifica, non si rivolgono a comunità di studiosi, non seguono canoni di un campo disciplinare, non sono finanziati da istituzioni atte allo studio o alla conservazione delle forme culturali (centri di ricerca, università, musei…). Ad allontanare i nostri film dalla tradizione delle indagini antropologiche vi sono altri due aspetti non secondari: raramente essi concedono la parola ai «nativi», consentendo loro di co-partecipare alla realizzazione delle forme di rappresentazione (e se lo fanno di solito avviene senza rigidi protocolli di verifica); altrettanto raramente garantiscono quella presenza sul campo, quella stanzialità che, da Malinowski fino agli anni più recenti, è diventata una delle condizioni indispensabili affinché una ricerca culturale possa dirsi etnografica.11 11

In verità la presenza dei nostri autori nei paesi stranieri varia molto da caso a caso. Se, ad esempio, Pasolini trascorre in India poche settimane, come peraltro farà Lang per i suoi progetti indiani o Antonioni per Kumbha Mela, al contrario Rossellini, Malle e Renoir risiedono all’estero per lunghi periodi, il primo quasi un anno, il secondo otto mesi, il terzo quasi sei. Tornando a Pasolini possiamo annoverare, tra le sue esperienze di «stanzialità etnografica», le tre settimane trascorse in Palestina o i vari viaggi nello Yemen, generalmente della durata di pochi giorni. Quasi una toccata e fuga possono essere considerate anche le esperienze di Marker e Antonioni in Cina, che vantano soggiorni brevi e itinerari di viaggio decisi dalle autorità locali, mentre al contrario Ivens e la moglie Loridan hanno la possibilità di organizzare soggiorni di diversi mesi nel Paese di Mezzo, garantendosi una stanzialità (e un appoggio delle istituzioni) non meno significativa di quella degli etnografi. Si esauriscono in poche settimane invece le presenze di Wenders in Giappone e di Marker in Siberia, quando invece quest’ultimo cineasta può annoverare numerosi viaggi nel Sol Levante e dunque una conoscenza piuttosto approfondita di quel paese. Naturalmente il soggiorno più o meno lungo di un regista in un determinato paese dipende dalle particolari circostanze produttive in cui è calato. Talvolta i viaggi sono fortemente voluti e preparati e rispondono a percorsi cinematografici ponderati e progettati con una certa lungimiranza (è il caso di Rossellini), altre volte nascono da contingenze occasionali e dunque non prevedono lunghi periodi di stanza all’estero (Antonioni in Cina, Marker in Siberia e ancora in Cina); in qualche caso dipendono dall’esigenza di uscire da un’impasse nella propria carriera (Malle, Renoir), in talaltri sono strumentali ad altri progetti cinematografici (i sopralluoghi per altri film) o dipendono da commesse ben precise (il making-of di

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Un discorso analogo può essere condotto anche in riferimento alle ricorrenti immagini della ritualità che colonizzano molti film di viaggio. Più che veri e propri riti, assistiamo a «gibbosità» del reale che invadono il profilmico e che il «visibile» modernista odeporico può cogliere solo per frammenti e parzialità, in quel gioco di rimandi seduttivi per innescare i quali, però, il rito fa leva guarda caso sull’ostentazione del suo profilo mostrativo e scenografico (danze, mascheramenti, movenze e gesti codificati, utilizzo di oggetti più o meno comuni, ecc..) e sul suo darsi «appositamente» al piacere della vista. È questo l’aspetto che colpisce e attrae l’occhio della macchina da presa, ma anche quello che rende di fatto diversi i criteri di relazione con il canonico e il ritualizzato. I «nativi», ad esempio, inscenano il rito non solo per ragioni performative, ma per le funzioni sociali che una specifica comunità assegna a gesti e posture codificate. Gli antropologi o gli etnografi, portatori di sguardo «estraneo» ma professionale, s’interessano al rito come sintomatica ed eclatante manifestazione di un’organizzazione dei saperi da studiare e da divulgare. I registi dei nostri film, invece, considerano lo spettacolo rituale come paradossale veicolo di «accesso» all’impenetrabilità del gesto e, da qui, a un’estetica delle superfici tanto esposte quanto inafferrabili. Le solennità descritte, infatti, sono tanto affascinanti quanto misteriose, anche perché allo spettatore è preclusa la possibilità di comprendere il senso complessivo di certi gesti, la funzione di certi oggetti, il ruolo di certi officianti, in una parola di afferrare i confini, i bordi, i linguaggi di quanto sta vedendo e che raramente riesce a decodificare. Al significato simbolico e sociale di una manifestazione culturale vengono preferite le emozioni che suscitano in chi la osserva, accompagnate da un senso di disorientamento o di dispersività che inevitabilmente coglie chi riceve troppe sollecitazioni visive. Malle e Antonioni (in Kumbha Mela) – richiamiamo alla mente qualche caso – fanno dell’incomprensione dei riti religiosi (induisti e buddhisti) una delle marche della loro India spirituale e fantasmatica, ma anche Marker non si addentra oltre un certo limite nelle cerimonie shintoiste giapponesi che così tanto lo affascinano; d’altra parte la filosofia di vita che informa gli esercizi di Ran realizzato da Chris Marker e finanziato dal produttore del film di Kurosawa).

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Tai Chi che compiono molti anziani cinesi nei parchi di Pechino e che sono spesso oggetto di interesse da parte dei cineasti europei, viene tradotta in poche e frettolose asserzioni didascaliche. In questo modo si realizza una sorta di doppio movimento intrecciato: il profilmico accentua i suoi aspetti più mostrativi mentre i suoi orizzonti semantici lentamente si confondono. Come abbiamo già avuto modo di notare nella parte di questo studio dedicata agli oggetti o ai corpi, nella loro carica fotogenica, si assiste a un mostrarsi per esibirsi e a un coevo esibirsi per sottrarsi. Esiste, infine, un’ultima prossimità tra etnografia e film odeporico che condensa, unisce e differenzia sensibilità, sguardi e priorità rappresentative. Mi riferisco all’attenzione che viene posta, in molti dei titoli qui studiati, alle minoranze etniche (e non solo). Nei film ambientati in India, si discetta di caste (in particolar modo quella degli intoccabili), ma si visitano anche società teosofiche, college universitari, ashram, monasteri. In Cina accade lo stesso con le rurali o le fabbriche, mentre in Vietnam e in Laos, grazie a Ivens, scendiamo nei rifugi dove vivono le popolazioni in guerra. In Israele visitiamo un kibbutz con Pasolini, in Giappone entriamo nelle sale giochi di pachinko con Wenders e trascorriamo diversi giorni insieme a una troupe cinematografica come nel caso di A.K. E così via. Sarebbe sbagliato però considerare l’attrazione verso questi luoghi come la conferma che gli autori in viaggio mirino ad assegnare uno statuto etnografico al proprio lavoro. Viceversa, il fatto di trovarsi così frequentemente in luoghi circoscritti consente loro di individuare con maggiore disinvoltura gli spazi dentro cui è consentito muoversi, gli eventi significativi che si possono filmare, le persone che vale la pena eleggere a personaggi, i punti di riferimento (guide, responsabili, capi) con i quali è possibile interagire. In altre parole, scegliere ambienti perimetrati e gruppi sociali autoregolamentati illude il cineasta di avere a che fare con realtà più gestibili e dunque più adatte per essere riprese. Pensiamo a quanto succede in Tokyo-Ga nella sequenza della sala di pachinko. In questa parte del film, il regista tedesco, abbandonandosi a una serie di vagabondaggi notturni tra le strade della capitale, si fa attrarre dalle sale giochi per lo strano rito ivi inscenato. Si vede una moltitudine di uomini di tutte le età seduti gli uni accanto agli altri, davanti a interminabili file di macchinette luccicanti. Nessuna eccitazione, tipica degli ambienti in cui si organizzano

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giochi d’azzardo, sembra attraversare gli avventori che introducono palline nelle macchine in una sorta di alienante monotonia. Ai frequentatori della letteratura orientalista questa sequenza avrà ricordato un capitolo de L’impero dei segni di Roland Barthes. Scritta all’indomani di tre viaggi in Giappone avvenuti nel 1966, l’opera del semiologo francese inserisce questo «strano» esercizio sociale all’interno di una serie di pratiche culturali e di sistemi simbolici (gli ideogrammi, la cucina, l’organizzazione urbana della, ecc.) ritenuti peculiari del paese visitato. Paragonando il pachinko ai giochi europei come il flipper, Barthes scrive: Per il giocatore occidentale, una volta lanciata la pallina, si tratta via via di correggerne il tragitto della ricaduta (comunicando impulsi all’apparecchio); per il giocatore giapponese, invece, tutto si determina col colpo d’avvio, ogni cosa dipende dalla forza impressa dal pollice alla levetta; l’abilità è immediata, definitiva, in essa soltanto consiste il talento del giocatore, che non può correggere il caso che in anticipo e con un colpo solo. Ovvero, più esattamente: il lancio della pallina non è, tuttalpiù, che delicatamente trattenuto o affrettato (ma assolutamente non orientato) dalla mano del giocatore, che con un solo impulso muove e sorveglia; questa mano è dunque quella d’un artista (alla maniera giapponese), per il quale il tratto (grafico) è un accidente controllato. Il pachinko riproduce in definitiva, nell’ordine meccanico, il principio stesso della pittura alla prima, che vuole che il tratto sia tracciato con un solo movimento, una volta per tutte, e che, a causa anche della qualità stessa della carta e dell’inchiostro, non possa mai essere corretto; allo stesso modo, la pallina lanciata non può essere deviata (si tratterebbe di una grossolanità indegna, strapazzare l’apparecchio, come fanno i nostri truffatori occidentali); il suo percorso è predeterminato dal solo lampo del suo slancio iniziale. A che serve quest’arte? A regolare un circuito nutritivo. La macchina occidentale si regge su un simbolismo della penetrazione; si tratta con un colpo ben assestato, di possedere la pin up che, tutta illuminata sul pannello dei comandi, provoca e attende. Nel pachinko non c’è nulla di sessuale (nel Giappone, in questo paese che io chiamo il Giappone, la sessualità sta nel sesso, non altrove).12

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R. Barthes, L’impero dei segni, Einaudi, Torino 1984, pp. 36-37.

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Non sfuggiranno, in questa lunga citazione, gli elementi di essenzialismo e i paragoni Oriente/Occidente tanto biasimati da Said e presenti anche in un lavoro così prezioso e curato come quello di Barthes. Al di là di questo dato di fatto, ciò che conta notare nel brano è lo sforzo ermeneutico volto a tradurre in termini comprensibili un rito sconosciuto e sfuggente, nelle sue forme, nella sua sostanza, persino nella collocazione in un contesto culturale abitualmente noto per tradizioni più nobili del gioco d’azzardo. Come il combattimento dei galli a Bali per Geertz,13 o i rituali di possessione Hauka per Rouch,14 quelli agrari delle isole Trobriand per Malinowski,15 le danze dei nativi delle isole Andamane per Radcliffe-Brown,16 il gioco del pachinko può diventare quel micro fenomeno attraverso il quale comprendere il funzionamento di una società, le sue filosofie di vita, i suoi modi di relazionarsi con l’esistente. L’operazione messa in atto da Wenders è invece di tutt’altro tipo. Mentre scorrono riprese in dettaglio di macchinette sfavillanti dentro le quali rotolano centinaia di biglie di metallo producendo un rumore assordante e fastidioso, e ancora dopo alcuni primi piani di giocatori dalle espressioni indecifrabili, la voce narrante abbandona ogni intenzione analitica e descrittiva propria dello studioso/semiologo ed esalta, invece, le reazioni ingenerate nel visitatore/turista straniero, («mi sono perso in una sala di pachinko»; «ero un giocatore tra i tanti e per questo ancora più solo»). La sua prospettiva di sguardo informa il fenomeno sotto una luce che rimarca gli elementi di dissociazione e disappartenenza che egli crede di individuare nel pachinko. Così, agli occhi di Wenders, il gioco si configura come uno strumento stupefacente («questo gio13 14

15 16

C. Geertz, Il “gioco profondo”. Note sul combattimento dei galli a Bali, in Id., Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna 1987, pp. 399-449. Il riferimento è al film Les maîtres fous (1955-56), durante la cui lavorazione Rouch partecipa a un rito di possessione della setta Hauka della popolazione Songhai che vive tra il Mali e il Niger. Sulle rappresentazioni del rito in Rouch si veda C. Marabello, Sulla soglia del rito. Note su un corpus filmico di Jean Rouch, in «Fata Morgana», n. 17, 2012, pp. 143-148; S. Zumbo, Il cinema che faremo. Modernità e archetipi in ‘Les Maîtres fous’, in «Fata Morgana», n. 17, 2012, pp. 149-155. B. Malinowski, La vita sessuale dei selvaggi della Melanesia nordoccidentale, Feltrinelli, Milano 1968. A. R. Radcliffe-Brown, The Andaman Islanders, Cambridge University Press, Cambridge 1922.

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co provoca una specie di ipnosi), estatico («una strana sensazione di felicità»), lenitivo («forse si dimentica quello che si è sempre voluto dimenticare»), fagocitante («ci si fonde con la macchina»), perché è questo il tipo di esperienza a cui decide di abbandonarsi. Il rito che l’antropologo avrebbe cercato di sviscerare con indagini più dettagliate possibili e che il semiologo ha cercato di tradurre in un sistema simbolico familiare e logico, qui invece diventa il pretesto per accentuare una fascinazione personale che, simultaneamente, si avvicina al fastidio, un’immersione che, in quanto ipnotica, rimarca distanze e dissociazioni con la realtà visitata. I film di viaggio, si evince da questo e da altri casi, non allestiscono indagini etnografiche sul campo, ma inscrizioni etnografiche in campo. Vale a dire che recuperano e inseriscono all’interno del campo dell’inquadratura alcune tracce di alterità senza ambire a una ricostruzione approfondita di quella manifestazione culturale rappresentata, senza saperla organizzare da un punto di vista epistemologico/interpretativo. Si pensi a tal proposito a un altro film menzionato nel prologo del capitolo, ovvero ad A.K. di Chris Marker che rappresenta, senza alcun dubbio, uno dei titoli più etnografici che questa stagione modernista ci restituisce, ma solo perché documenta e ricostruisce la vita di una «minoranza» perfettamente conosciuta dal regista, quella delle troupe cinematografiche. Grazie al making-of markeriano è possibile, infatti, costruirsi un’idea abbastanza fedele dei riti di una comunità (il modo di lavorare di Kurosawa), delle dinamiche relazionali in atto (tra maestranze e comparse ad esempio), della gerarchia che soggiace l’organizzazione del lavoro (da Kurosawa ai suoi collaboratori storici, fino a scendere agli attori, ai tecnici, alle comparse), del rapporto che la comunità/troupe istituisce con la natura (la nebbia che interrompe le riprese), con certe abitudini quotidiane (la pausa pranzo, l’arrivo puntuale del regista alle 10 del mattino) e così via. Nondimeno la posizione marginale e auto-marginalizzata scelta da Marker non ci restituisce un affresco completo della lavorazione, bensì spunti, sollecitazioni, flash, impressioni, peraltro dichiarate dalla tematizzazione del documentario e dalla presenza di una sorta di «camera di decompressione» nella quale vediamo un televisore sul cui schermo scorrono immagini di altri film kurosawiani. Immagini d’immagini. Flash di frammenti. Rimemorazioni improvvise e sparizioni altrettanto repentine.

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2.3. Viaggi come rilocazioni. Si tratta insomma di comprendere che la relazione tra film di viaggio, etnografia e rappresentazione mimetica della realtà va ricondotta su altri piani speculativi e analitici. Difatti, non basta affidarsi al valore documentale dell’immagine odeporica, vuoi perché è filtrata, come abbiamo già visto, da una serie di strategie rappresentative e schemi culturali, vuoi perché le informazioni che presenta sono comunque insufficienti per comprendere processi sociali o storici ampi e stratificati. Viceversa vanno trovati punti di raccordo tra le discipline e forme di prossimità con il fenomenico dialogando con le due «sensibilità» acquisite dalle discipline antropologiche una volta assimilati la lezione della letteratura post-coloniale e i paradigmi del pensiero postmoderno. Mi riferisco alla questione del viaggio e a quella della scrittura. Mentre rimando al prossimo paragrafo per approfondire il secondo punto, vorrei soffermarmi sul primo, iniziando a declinare la questione del viaggio e della mobilità non solo da un punto di vista fisico, ma anche da un punto di vista concettuale, più precisamente relativo alle forme di trans-codificazione delle esperienze e degli artefatti già illustrato da Clifford nel suo Routes. Travel and Translation in the Late Twentieth-Century. Per spiegare meglio cosa intendo è necessario adattare al nostro oggetto di studio alcune delle proposte teoriche che descrivono il funzionamento delle nuove pratiche sociali e culturali favorite dall’avvento delle tecnologie digitali e dalla riorganizzazione dell’industria dello spettacolo. Pur con diverse sfumature e gradi di intensità, c’è, infatti, un generale accordo tra gli specialisti di film e media studies attorno al recente inverarsi di una stagione mediale fondata sulla convergenza delle informazioni e delle culture, sulla loro diffusione su un numero sempre più ampio di piattaforme e, insieme, sulla loro straordinaria volatilità. Questa stagione viene delineata solitamente con definizioni che suggeriscono una trasformazione di «stato» e un’idea di trasferimento figurativo o concreto. Celebre – non solo in ambito italiano, ma anche internazionale – è la formula coniata da Casetti per individuare i nuovi standard delle immagini, quella dinamica della «rilocazione»17 che, rispet17

Il concetto di «rilocazione» è sviluppato da Francesco Casetti in suoi diversi recenti lavori, tra cui segnalo, oltre ai già citati L’occhio del Novecento e La

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to all’altrettanto fortunata formula descrittiva del panorama contemporaneo, ovvero la «rimediazione»,18 prefigura oggetti audiovisivi e fruitori che si muovono con una certa disinvoltura da una piattaforma mediatica all’altra. Un movimento «solido» è previsto dalle «culture convergenti» o dai «media spalmabili» di Jenkins,19 mentre uno «liquido» è previsto dalle teorie di Bauman20. D’altronde il sottotitolo del profetico Understanding Media21 di Marshall McLhuan recitava The Extensions of Men, delineando, già diversi anni or sono, un presente e un futuro sociale dove i corpi umani si estendono fisicamente e virtualmente nello spazio. Nell’attuale condizione, da molti ancora definita «postmoderna»,22 le immagini si fanno migranti,23 i media mutanti,24 l’estetica ibrida,25 le esperienze mirano alla vertigine e al volo.26 Si muovono e cambiano condizione sia le immagini sia le esperienze degli spettatori, si integrano e si contaminano sia i media, tra vecchi e nuovi, sia le culture e le identità. Le forme della traduzione – intesa nel senso etimologico di condurre qualcuno da un posto all’altro – assumo-

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Galassia Lumière, anche Id., Relocation. The Last Supper in Piazza della Scala, in «Cinéma & Cie», n. 11, 2008, pp. 7-14; Id., L’esperienza filmica e la ri-locazione del cinema, in «Fata Morgana», n. 4, 2008, pp. 23-40; Id., Back to the Motherland. The Film Theatre in the Postmedia Age, in «Screen», n. 52, 2011, pp. 1-12; Id., Cinema Lost and Found. Trajectories of Relocation, in «Screening the Past», n. 32, 2011, reperibile online all’indirizzo http:// www.screeningthepast.com/2011/11/cinema-lost-and-found-trajectoriesof-relocation/ (ultima consultazione 5 novembre 2015). J. D. Bolter, R. A. Grusin, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Angelo Guerini e Associati, Milano 2003. H. Jenkins, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007; S. Ford, J. Green, H. Jenkins (a cura di), Spreadable media. I media tra condivisione, circolazione, partecipazione, Apogeo, Milano 2013. Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 1967. J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1981. Si veda ad esempio: L. De Giusti (a cura di), Immagini migranti. Forme intermediali del cinema nell’era digitale, Marsilio, Venezia 2008. Il riferimento indiretto è al convegno annuale intitolato Media Mutations, organizzato dall’Università di Bologna e dedicato appunto alle mutazioni del paesaggio mediale contemporaneo. B. Maio, C. Uva, L’estetica dell’ibrido. Il cinema contemporaneo tra reale e digitale, Bulzoni, Roma 2003. A. D’Aloia, La vertigine e il volo. L’esperienza filmica fra estetica e neuroscienze cognitive, Ente dello Spettacolo, Roma 2013.

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no nel mondo contemporaneo un ventaglio straordinariamente ampio di possibilità di realizzazione. Consapevole del cambiamento di paradigma e collocazione diacronica che la mia proposta giocoforza sottintende (sulle implicazioni di una rilettura «postmoderna» delle esperienze odeporiche rimando però all’ultimo capitolo del libro), penso che molte esperienze di viaggio qui studiate contengano, talune in nuce, altre compiutamente, alcune delle forme complesse di declinazione della mobilità. A muoversi, infatti, come accade più agevolmente con le nuove tecnologie digitali, non sono solo i registi, ma anche gli spettatori, le immagini, le informazioni, mentre mutano le relazioni sentimentali, così come la percezione dello spazio e del tempo individuale, attraverso l’esperienza della visione, anzi delle visioni. In molti dei casi qui studiati si reificano situazioni a esse paragonabili. Si pensi ad esempio alla frequenza piuttosto insolita con cui dai soggiorni nei territori dell’alterità emergono configurazioni narrative che non si accontentano di colonizzare il medium cinematografico, ma trasmigrano, si «spalmano» su altri dispositivi, altre piattaforme o altri linguaggi espressivi e comunicativi. Parto dalle riprese in 16 mm. realizzate da Aldo Tonti durante la prima fase del soggiorno indiano di Rossellini: come vedremo meglio nel paragrafo dedicato al cineasta, alcune di quelle inquadrature, registrate durante un viaggio in tutto il subcontinente, confluiranno nei documentari preparati per la televisione italiana e francese. Un’ulteriore selezione trasmigrerà in India Matri Bhumi a costruire il tessuto documentario – le transizioni da un episodio all’altro – e finzionale – i singoli episodi – della pellicola. Alcune delle foto scattate in quei mesi di viaggio, invece, diventeranno libri fotografici come quello curato da Adriano Aprà nel 1991 (India 57)27 o quello di Jean Vautrin (alias Jean Herman), intitolato J’ai fait un beau voyage - Photo-journal 1955-1958, pubblicato alla fine degli anni Novanta.28 I contenuti di quelle immagini che già si predisponevano per una ricezione guidata per mezzo delle molte interviste o anticipazioni rilasciate da Rossellini a riviste di critica

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A. Aprà, Rossellini. India 1957, Cinecitta International, Roma 1991. J. Vautrin, J’ai fait un beau voyage. Photo journal 1955-1958, Editions du Cercle d’Art, Paris 1999.

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cinematografica e ai giornali,29 si sono poi disgiunte nei mille rivoli significanti prodotti dalle polemiche dell’attualità giornalistica (si pensi all’affaire Sonali a lungo cavalcato dai giornali scandalistici indiani e europei) e assemblate nel tempo della rimemorazione sotto forma di ricostruzioni romanzate successive (ad esempio quella di Dileep Padgaonkar30). L’India di Rossellini è, insomma, pellicola in 16mm, in 35mm, immagine televisiva, stampe fotografiche, carta di giornale. Disseminazioni mediali di luoghi ed esperienze altre sono all’ordine del giorno anche nel cinema di Chris Marker. Grazie al suo viaggio in Cina, oltre a Dimanche à Pékin, il regista francese prima dà alle stampe un book fotografico intitolato Clair de Chine, pubblicato come inserto del numero che la rivista «Esprit» dedica alla Cina nel gennaio 1956 e accompagnato da un suo breve testo di commento,31 poi prepara le illustrazioni per Chine, la guida che Armand Gatti scrive nel 1957 per la collana Petite Planète delle Éditions du Seuil curata dallo stesso Marker.32 Dei numerosi viaggi in Giappone conosciamo gli esiti filmici più importanti, vale a dire il trittico Le Mystère Koumiko, Sans soleil, A.K., mentre andrebbero considerati come parti fondanti delle medesime esperienze nipponiche anche i successivi video Level Five e Tokyo Days, nei quali vengono riusate riprese compiute in occasione del tournage di Sans soleil, ma scartate in sede di montaggio, e soprattutto il libro fotografico Le Dépays, presentato come una sorta di film cartaceo, con commento scritto annesso, dedicato alla città di Tokyo e ai suoi abitanti.33 Dai viaggi in India di Pasolini si generano diari e resoconti (L’odore dell’India), film su film da farsi (gli Appunti), location per racconti fantastici, mitologici e deterritorializzati (Il fiore delle Mille e una notte), mentre da quelli in Medio Oriente o in Africa 29 30 31 32 33

Una parziale raccolta delle interviste rilasciate in quegli anni si trova in R. Rossellini, Il mio metodo. Scritti e interviste, a cura di A. Aprà, Marsilio, Venezia 1987 e in Id., Il mio dopoguerra, edizioni E/O, Roma 1995. D. Padgaonkar, Stregato dal suo fascino. Roberto Rossellini in India, Einaudi, Torino 2011. C. Marker, Clair de Chine. En guise de carte de voeux, un film de Chris Marker, supplemento fotografico di «Esprit», n. 234, 1956. A. Gatti, Chine, Seuil, Paris 1968. C. Marker, Le Dépays, Herscher, Paris 1982.

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(come per Rouch e Herzog) fioriscono altri film da farsi (Il padre selvaggio,34 L’Orestiade), altre inchieste (La rabbia), altre location per film (Medea, Edipo Re, ancora Il fiore), altri racconti o poesie.35 Dalle fotografie scattate in quei viaggi dai fotografi di scena sono state tratte pubblicazioni e soprattutto mostre che hanno viaggiato in tutto il mondo.36 Se sulle polemiche innescate da Chung Kuo - Cina ho già avuto modo di soffermarmi qui aggiungo che l’esperienza nipponica di Tokyo-Ga è alla base del piccolo documentario Appunti di viaggio su moda e città, mentre Ivens ritorna in Cina (o la Cina ritorna in Ivens) svariate volte: con I 400 milioni (1939), nel dittico Letters from China e The War of the 600 Million People (entrambi del 1958), in Comment Yukong déplaça les Montagnes (1976), Les Kazaks (1977) e Les Ouigours (1977), in Io e il vento (1988), cui si aggiunge, indirettamente, il cinegiornale Commémoration à Paris de la mort de Mao Ze Dong (1978). Anche qui, l’esperienza di un paese contamina i generi e i linguaggi: abbiamo film finzione, documentari, cinegiornali, film amatoriali, film di propaganda, lettere filmate, film collettivi, finti film muti. Quando l’esperienza dell’altro non «colonizza» un numero rilevante di modalità e di linguaggi espressivi tende a occupare e vampirizzare il tempo filmico, spesso dilatandolo oltre misura. Anche questa, se vogliamo, è una forma di mobilità. L’India vista da Rossellini è composto da dieci puntate per complessivi 251 minuti, Comment Yukong si dipana in dodici documentari lunghi complessivamente 763 minuti. Chung Kuo - Cina, diviso in tre parti, dura «solo» 207 minuti, 34 35

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Il film non è mai stato realizzato, ma la sceneggiatura è stata pubblicata per Einaudi. Cfr. P. P. Pasolini, Il padre selvaggio, Einaudi, Torino 1975. Si pensi, ad esempio, a poesie come La Guinea pubblicata nella raccolta Poesie in forma di rosa (Garzanti, Milano 1964), o Profezia, presente nella raccolta di testi pasoliniani Alì dagli occhi azzurri (Garzanti, Milano 1965). Tutte le sue liriche si trovano ora in P. P. Pasolini, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1993. Mi riferisco, in modo particolare, alla mostra fotografica L’Oriente di Pasolini. ‘Il fiore delle Mille e una notte’ nelle fotografie di Roberto Villa, promossa dalla Cineteca del Comune di Bologna in collaborazione con il Centro Studi – Archivio Pier Paolo Pasolini e l’Associazione “Fondo Pier Paolo Pasolini” di Bologna. La mostra, inaugurata e tenutasi a Bologna, da maggio a ottobre 2011, è stata poi allestita o riallestita in diverse città italiane e straniere, da Roma (2011) a Casarsa (2012) da Sao Paulo (2012) a Buenos Aires (2013), da Los Angeles (2013) a Tallin (2013), da Lima (2014) a Toronto (2014), da Genova (2014) a Milano (2015) e così via.

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i sette episodi televisivi de L’India fantasma valgono in tutto 378 minuti a cui si vanno ad affiancare i 105 minuti di Calcutta. Pur nella loro carica esotica, La tigre di Eschnapur e Il sepolcro indiano, un unico plot suddiviso in due diversi film, si completano in 194 minuti. Certo, esistono anche film più brevi, ma è un fatto che la durata «espansa» (il riferimento al testo di Gene Youngblood non è casuale)37 di certi film di viaggio produca l’effetto che si otterrebbe se si osservasse un grande affresco da una distanza di esagerata prossimità alla tela: non si riesce né ad avere uno sguardo d’insieme, né a collocare il singolo dettaglio all’interno di un disegno complessivo. D’altronde se non è il tempo della narrazione a dilatarsi è lo spazio a scomporsi: Le mura di Sana’a salta improvvisamente dalla capitale dello Yemen a Orte, nel Lazio; Dimanche à Pékin da Parigi alla capitale cinese, Hiroshima mon amour dalla cittadina giapponese a Nevers, Le Mystère Koumiko e Appunti di viaggio su moda e città da Tokyo ancora alla capitale francese. Sans soleil è un tour du monde con tappe a Tokyo, Guinea Bissau, Islanda, San Francisco, l’Ile de France, Si j’avais quatre dromadaires un tour de force con passaggi (fotografici, dunque privi di movimento) in Cina, Cuba, Giappone, Grecia, Urss, Corea e Islanda, Il fiore delle Mille e una notte un’«odissea» tra Yemen, Iran, India, Nepal, Etiopia, Dal polo all’equatore (1985) un viaggio sulle montagne del Tirolo, poi al Polo Sud, in Uganda, in India e in Indocina e sul confine russo-persiano. Se non sono il tempo e lo spazio, allora è la rimemorazione a immergere lo spettatore in un passato ricodificato nei suoi perimetri cronotopici. Si pensi alle immagini di repertorio che vengono usate da Resnais (Hiroshima), Marker (le immagini de La Zona o Okinawa in Level Five), Pasolini (La Rabbia) o più recentemente da Gianikian e Ricci Lucchi che riusano pellicole, inquadrature, take catturati da operatori anonimi all’inizio del Novecento per ridefinire e riconfigurare gli immaginari collettivi del colonialismo, dell’esotismo, dell’alterità.38 E così via. 37

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G. Youngblood, Expanded cinema, a cura di P. L. Capucci, S. Fadda, Clueb, Bologna 2013. Si veda, sulla scia della fortunata espressione di Youngblood, anche: B. Di Marino, M. Meneguzzo, A. La Porta (a cura di), Lo sguardo espanso. Cinema d’artista italiano, 1912-2012, Silvana, Cinisello Balsamo 2012. L’esperienza di riuso di vecchie pellicole non si trova solo in found footage film come Dal polo all’equatore (1985), Images d’Orient. Tourisme vandale (2001), Frammenti elettrici n. 2. Vietnam o Frammenti elettrici n. 4. Asia (entrambi del 2005) oppure come Mother Dao the Turtlelike (Moeder Dao de Schildpadgelijkende, 1996), una raccolta di attualità cinematografiche

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In tutti i casi qui richiamati, e in altri ancora menzionabili, la proliferazione, la disseminazione, la dilatazione, la rilocazione mi paiono azioni accomunabili in un doppio segno: da una parte un’esperienza di mobilità che invade gli oggetti mediatici, li rende porosi, aperti alla contaminazione, mediaticamente transfughi; dall’altra un disagio raffigurativo da esprimere in forme non tradizionali e oltre gli spazi comuni della semantica cinematografica. Le opere monumentali possono essere il risultato di una voglia di raccontare che si sposa però con un’incapacità di selezionare un tempo della visione sostenibile, almeno per le logiche del mercato, relegando performance mostrative in canali di diffusione che non garantiscono un ampio afflusso di pubblico o una sua presenza costante (la mini-serie televisiva). I fotogrammi che si affiancano alle istantanee, che si affiancano alle parole, che si affiancano alle illustrazioni, che si affiancano al palcoscenico teatrale – e così via – sono conformazioni di senso che accettano uno status precario, non completo, rimandando spicchi esperienziali ad altri media, ingenerando un orizzonte di consapevolezze più diffuso, ma meno solido, meno stabile. Anche la riproposizione di materiali altrui è egualmente segno di una crisi di fiducia nella possibilità di rendere significanti – se non dopo una lunga azione scolorente del tempo – le immagini della contemporaneità, non fosse altro perché è diventata consapevolezza comune l’impossibilità di liberarle dalle timbrature orientaliste che ne contrassegnano le superfici. In estrema sintesi, e ancora una volta, occorre costatare il fatto che il bacino di significati di questi lavori non si esaurisce all’interno dell’opera cinematografica, ma esonda in quello che più volte si è definito «fuori film», un campo di discorsi e - ora scopriamo - di pratiche della visione così largo da richiedere uno spostamento fisico e concettuale per essere percorso da parte a parte.

realizzate tra il 1912 e il 1932, provenienti dalle Indie Orientali Olandesi e rimontate da Vincent Monnikendam; ne troviamo anche nel recente Les plages d’Agnès (2008) dove l’operazione che la Varda mette in atto è altrettanto interessante perché recupera dal proprio archivio personale immagini catturate durante il suo viaggio in Cina con Marker a metà degli anni Cinquanta (era la sua assistente) e le riutilizza perché già temporalmente vecchie, culturalmente segnate, anamnesi abbandonate e riapparse da qualche angolo buio della memoria.

3. SCRITTURE DEL MOVIMENTO

3.1. La sensazione che un’innovazione continua Il secondo ambito di corrispondenze tra i film di viaggio, i film etnografici e la rappresentazione delle culture alloglotte riguarda – come accennato alcune pagine fa – la questione della scrittura, vero e proprio nodo gordiano delle discipline dell’incontro almeno da L’écriture de l’histoire (1975) di Michel de Certeau in avanti1. Come ricordato nello scorso paragrafo, nel passaggio dalla parola orale dei nativi o degli informatori alla traduzione scritta (nella lingua) degli osservatori si crea una voragine di senso per colmare la quale gli antropologi hanno proposto vari approcci e diverse metodologie di lavoro. Per i protagonisti della svolta decostruzionista e postmodernista – alludo non solo ai già citati Clifford, Marcus e Fisher, ma anche a studiosi come Stephen Tyler, Louise Pratt, Vincent Crapanzano, Michael Taussig, Renato Rosaldo2 – una delle ricette più efficaci è l’introduzione di spazi di sperimentazione e creatività nel lavoro sul campo e nella sua «rilocazione» testuale. In Anthropology as Cultural Critique3 Marcus e Fisher, ad esempio, affermano: Una volta che sono rese palesi le convenzioni e la natura retorica del 1 2

3

M. de Certeau, La scrittura della storia, Il Pensiero Scientifico, Roma 1977. Si veda in particolare: V. Crapanzano, Hermes’ Dilemma and Hamlet’s Desire. On the Epistemology of Interpretation, Harvard University Press, Cambridge 1992; R. Rosaldo, Culture and Truth. The Remaking of Social Analysis, Beacon Press, Boston 1989; S.A. Tyler, The Unspeakable. Discourse, Dialogue and Rethoric in the Postmodern World, University of Wisconsin Press, Madison 1987; M.L. Pratt, Imperial Eyes. Travel Writing and Transculturation, Routledge, London-New York 1992. G. E. Marcus, M. M. J. Fischer, Antropologia come critica culturale, Meltemi, Roma 1998.

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discorso realista, si apre lo spazio per formulare nuove domande, per concretizzare nuovi oggetti di studio e per esplorare nuovi ambiti discorsivi attraverso esperimenti sulla forma.4

La questione della sperimentazione diventa così un elemento decisivo per l’attività dell’etnografo che, un po’ come avviene per i cineasti odeporici, si trova costretto a relazionarsi con i dati della realtà (secondo ovviamente obiettivi e bagagli disciplinari diversi) attingendo a una cassetta degli attrezzi ricolma di strumenti che spingono a una attività continua di aggiustamento, prova, rabberciamento. Ciò che risulta particolarmente importante nella discussione che verte sui testi sperimentali auto-consapevoli, non è tanto la sperimentazione per se stessa, ma lo spunto teorico prodotto da una determinata tecnica di scrittura e la sensazione che una innovazione continua nella natura dell’etnografia possa essere un mezzo utile allo sviluppo della teoria.5

Sperimentare significa offrire spunti teorici e instaurare una sensazione d’innovazione continua, tanto nell’etnografia, quanto, verrebbe da dire, nel film di viaggio. La sperimentazione è benvista perché contempla l’errore e lo spazio significante del residuo, dell’eccesso, della contraddizione, perché riesce ad affrontare i fallimenti o le strade senza via di uscita, perché instaura un rapporto di dialogo più intenso con un lettore meno passivo. Si noti: Marcus parla di una sensazione, non di un’affermazione, avanza un’ipotesi di sviluppo della disciplina, non una determinazione precisa e finalistica. Toccherà a Catherine Russell, qualche anno dopo, il compito di costruire un legame ancora più stretto tra cinema etnografico e avanguardie artistiche nel suo Experimental Ethnography. The Work of Film in the Age of Video. Lo studio di Russell persegue obiettivi analoghi a quelli di Marcus o Clifford quando sostiene che:

4 5

G. E. Marcus, Dopo la critica dell’etnografia. La fede, la speranza e la carità, ma di tutte più grande è la carità, in R. Borofsky (a cura di), L’antropologia culturale oggi, Meltemi, Roma 2000, pp. 65-66. G. E. Marcus, M. M. J. Fischer, op. cit., p. 95.

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tenere insieme il cinema sperimentale e quello etnografico produce una illuminazione reciproca. Dal lato sperimentale, l’etnografia assegna un’intelaiatura critica per spostare il focus di attenzione dalle preoccupazioni formali al riconoscimento degli investimenti culturali e del posizionamento degli artisti avanguardisti. Dal punto di vista etnografico, le innovazioni testuali che sono state sviluppate dai registi sperimentali indicano il modo in cui «la critica dell’autenticità» è stata affrontata nel cinema. Il film sperimentale può essere visto come una sorta di laboratorio in cui le politiche della rappresentazione e le convenzioni del cinema d’osservazione vengono condotte a un esame minuzioso.6

Vi è insomma, secondo la studiosa americana, una sorta di mutuo aiuto tra etnografia e film sperimentale che mi sento di allargare anche al cinema odeporico modernista e che si avvicina all’idea dell’eteroglossia teorizzata da Michail Bachtin,7 ovvero a quell’uso simultaneo di diversi tipi di discorso, tra loro interdipendenti, capaci di illuminare – come in un gioco di specchi – le strategie retoriche presenti negli altri discorsi che partecipano alla creazione di un ampio campo tensivo di saperi. Da questo punto di vista, il compito dello studioso dovrebbe consistere, in sostanza, nell’individuare quella che Clifford chiama una polivocalità di soggetti che abitano un fatto etnografico, secondo contestualizzazioni continue e negoziazioni morfologiche, semantiche e pragmatiche tra codici in qualche modo intraducibili eppure commutabili, contribuendo ognuno a mettere in circolo occasioni di destabilizzazione e, insieme, di consapevolezza, di malintesi e di epifanie. Da qui la ricerca di 6

7

C. Russell, Experimental Ethnography. The Work of Film in the Age of Video, Duke University Press, Durham 1999, p. XII (trad. mia). Sullo stesso argomento si veda anche, C. W. Thompson (a cura di), L’Autre et le sacré. Surréalisme, cinéma, ethnologie, L’Harmattan, Paris 1995; J. Desmond, Ethnography, Orientalism and the Avant-Garde Film, in «Visual Anthropology», a. IV, n. 2, 1991, pp. 147-160. Sul concetto di eteroglossia si veda intanto M. Bachtin, La parola nel romanzo, in Id., Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 1979 e poi, inserito nel quadro più generale delle teorie dialogiche e del pensiero del semiologo russo, A. Ponzio, Michail Bachtin. Alle origini della semiotica sovietica, Dedalo, Bari 1980; Id., Tra semiotica e letteratura. Introduzione a Michail Bachtin, Bompiani, Milano 1992; M. Holquist, Dialogism. Bakhtin and his World, Routledge, New York-London 1990; S. Vice, Introducing Bakhtin, Manchester University Press, Manchester 1997.

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un territorio magmatico, sperimentale appunto, escluso dai canali più frequentati della comunicazione di massa; da qui il bisogno di assicurarsi un modello rappresentativo che rifiuti il naturalismo e che mescoli tutti gli artefatti utili alla relazione interculturale. È evidente come in tale approccio la presenza dello «scrittore» (l’etnografo, il letterato) sia lungi dall’essere irrilevante e anonima come sostenevano i teorici della «morte dell’autore» di stampo decostruzionista. Al contrario, come ricorda in un altro passaggio del suo testo la Russell, si allargano oltremodo gli spazi di espressione del gesto autobiografico in chi produce artefatti culturali: L’autobiografia diventa etnografica nel momento in cui il videomaker capisce che la propria personale storia è implicata in formazioni sociali e processi storici più ampi. […] Il soggetto che entra “nella storia” è reso destabilizzante e incoerente, un sito di pressioni discorsive e articolazioni. L’auto-etnografia è un veicolo e una strategia per trasformare le forme imposte dell’identità e per esplorare le possibilità discorsive di soggettività inautentiche. […] L’auto-etnografia può essere ciò che James Clifford chiama “self-fashioning”, laddove l’etnografo cerca di rappresentare se stesso come fosse una fiction, iscrivendo un proprio doppio nel testo etnografico.8

Appare chiaro che la questione della sperimentazione, o se si preferisce di quell’ibrido che Bhabha definiva negativamente come «rivalutazione dell’assunto dell’identità coloniale» e come «necessaria deformazione e rimozione di tutti i luoghi di discriminazione e dominio», possa assumere attributi diversi se nell’interrogarla non si cercano responsi che riguardano la realtà dell’oggetto, ma quella del soggetto della rappresentazione. Da questo punto di vista, il film di viaggio (o il film sperimentale) riesce a essere molto più interessante – e forse più «autentico» – del film o del saggio etnografico perché lavora, dichiaratamente, attorno alla dimensione della scrittura e perché esibisce incagli e tracce che non è peregrino assegnare all’alveo della «grafia». E non mi riferisco tanto a quegli ambiti della significazione cinematografica dove il lessico assume un ruolo centrale (ad esempio nell’elaborazione dei testi delle voci narranti) bensì alle pratiche di sperimentazione discorsiva (e visiva) che i cineasti scelgono 8

Cfr. C. Russell, op. cit., pp. 276-277 (trad. mia).

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di utilizzare per meglio «tradurre» o se si preferisce «volgarizzare» le loro esperienze di viaggio in metraggio filmico. Non quindi il semplice racconto (del sé) in viaggio, semmai quelle dimostrazioni, concrete o sublimate, del loro essere segno, traccia, impronta, scrittura appunto. Un’auto-etno-grafia, per dirla con Russell, in cui la collocazione fisica e concettualizzata del sé segue il procedimento della prosopopea, ovvero passa attraverso l’applicazione di schemi-personificanti in cui l’essere della narrazione collima con l’essere nella narrazione e, giocoforza, con l’essere in viaggio. Uso, non a caso, categorie che David Bordwell applica per descrivere le inferenze della retorica nell’interpretazione del cinema,9 e dunque nell’ambito della critica e della teoria, perché penso che tali inferenze si trovino pure nelle forme di predisposizione dell’interpretazione del sé nel film. Ritorniamo sotto le pendici del monte Fuji per trovare una dimostrazione concreta di quanto vado sostenendo. In A.K. Marker adotta, come è facile intuire, il regime enunciativo del making-of, essendo un lavoro realizzato sul set di Ran a scopo sia celebrativo (l’esaltazione della bravura del regista e della troupe), sia criticoespositivo (mostrare il «dietro le quinte» e ampliare l’esperienza percettiva ed estetica dell’opera giapponese).10 Organizzato per «capitoli», o meglio per parole chiave, il documentario interpreta in maniera «eterodossa» la doppia funzione paratestuale appena descritta. Se la finalità agiografica11 è evidente, ad esempio, nel testo di commento riportato a inizio capitolo, sono tuttavia i modi di agire e di posizionarsi di Marker sul set a testimoniare una certa atipica originalità nell’«avvicinarsi», diciamo così, al Sensei. In quella sequenza, così come in tutto il resto del documentario, 9 10

11

D. Bordwell, Making Meaning, cit., pp. 146-167. A tal proposito ricordo che il documentario di Marker, finanziato da Serge Silberman, il produttore francese di Ran, è oggi inserito tra i contenuti extra delle principali edizioni internazionali in DVD del capolavoro kurosawiano. Rammento che Chris Marker non è nuovo a film-omaggio ad altri registi o personalità del mondo dell’arte e della cultura. Si vedano quelli dedicati a Yves Montand (La Solitude du chanteur de fond, 1974), Simone Signoret (Mémoires pour Simone, 1986), Andrej Tarkovskij (Une journée d’Andrei Arsenevitch, 1999) e Aleksandr Medvedkin (Le tombeau d’Alexandre, 1993). Per un approfondimento su quest’insieme di pellicole rimando a: C. Lupton, Imagine Another. Chris Marker as a Portraitist, in «Film Studies», n. 6, 2005, pp. 74-80.

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Marker celebra Kurosawa restandogli sempre a debita distanza, riducendo al minimo le inquadrature e i primi piani a lui dedicati (sempre colto mentre lavora alacremente o nelle sue pause di «solitudine creativa») e preferendo viceversa approssimarsi ai suoi più stretti collaboratori, alle maestranze, ai tecnici, persino ai cavalli. La preoccupazione maggiore del cineasta è, in altre parole, la vita del set, l’organizzazione del lavoro, la ricostruzione di quel «sistema solare» attorno al quale si organizza la produzione, senza mai avvicinarsi tuttavia al sole-Kurosawa forse per paura di non bruciarsi troppo. E, difatti, non trovano spazio nel film le interviste al regista giapponese o agli attori, né vengono indicate le caratteristiche salienti del plot (il fatto di essere tratto da un testo di Shakespeare), né le intenzioni «poetiche» dello stesso Kurosawa. Come se non bastasse, quando sentiamo parlare il regista giapponese è perché la sua voce è stata registrata a sua insaputa durante una riunione, quasi fosse inopportuno accostarsi alla sua persona o impossibile ottenere l’autorizzazione a intervistarlo. Il makingof non si propone, insomma, come apparato modellizzante di canoni e caratteri della pellicola, o come luogo della familiarità e della vicinanza tra spettatore e regista al lavoro. Viceversa assume – oltre a quelli tradizionali – un altro tipo di compito. Non bisogna nascondersi, infatti, che la scelta configurativa di Marker, sperimentale sia da un punto di vista stilistico che narrativo perché avanza per rotture e suggestioni ed è del tutto priva di quella dimensione didascalico-illustrativa generalmente presente in questo genere di prodotti, trova ragioni di legittimità soprattutto nel tentativo di teorizzare o se si preferisce di concettualizzare la propria presenza in un territorio di alterità come quello di un set cinematografico alle pendici del Fuji. Intanto si delinea una sorta di implicita proiezione (diretta o inversa) del regista francese in quello nipponico. Per esempio, Kurosawa appare inafferrabile proprio come lo stesso Marker ha amato rappresentarsi nel corso di tutta la sua carriera. Entrambi parlano la lingua della tecnica («Sensei ignore l’abstraction. Il parle du métier, il réfléchit sur des faits, sur des expériences. Quand on lui demande pourquoi il a fait ceci ou cela, il me répond “il m’est venu naturellement”»), l’uno – Marker – accentua la sua collocazione marginale nei confronti del sistema solare kurosawiano secondo un principio di «lateralità» del proprio sguardo che è dunque intensificazione della propria

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estraneità o, se si preferisce, della propria condizione straniera sul set. Ecco la traccia, ecco i solchi, ecco la scrittura. Tale convinzione trova peraltro modi di consustanziazione nel format adottato: il making-of, infatti, non è solo un prodotto industriale funzionale alla promozione di una pellicola o di un apparato paratestuale per espandere l’esperienza della visione, ma in questo caso è anche un prodotto volutamente estraneo ai canali di distribuzione tradizionali del cinema. È un contenuto extra, tuttavia ideato e realizzato quando ancora i DVD erano da inventare! Ecco perché, in questo come in altri casi, si può parlare di un testo filmico che, secondo un procedimento che ricorda la prosopopea, utilizza vestiti, modi di presentarsi, fisionomie, profili, scritture proprie di chi vive la propria condizione odeporica o di alterità. 3.2. Esempi di auto-etno-grafie Qui di seguito vorrei cercare di tracciare una sorta di mappa dei format, dei registri e delle forme narrative «sperimentali» (ovvero non immediatamente riconducibili alla fiction o al documentario classico) utilizzate dai cineasti in viaggio, con lo scopo di esplicitare i processi auto-etnografici che in essi risiedono più o meno esplicitamente. Naturalmente nello sforzo ermeneutico non c’è alcuna ambizione di esaustività, visto che il campione scelto è piuttosto esiguo, né di rigida tassonomia, dacché spesso i film travalicano le categorie individuate attraversandole o collocandosi non sempre perfettamente al loro interno. Tuttavia è bene specificare che ogni regime enunciativo o modello narrativo adottato si ripercuote sulle forme di prossimità che i film e i loro autori istituiscono con il dato fenomenico. Dallo sperimentale, ancora una volta, si cercherà di arrivare all’etnografico. Appunti e postille Parto dagli appunti. Il regista che definisce il perimetro d’azione di questa modalità narrativa è certamente Pasolini in opere come Appunti per un film sull’India o Appunti per un’Orestiade africana. Possono considerarsi egualmente degli appunti di viaggio anche Chung Kuo - Cina, Tokyo-Ga, Appunti di viaggio su moda e città e

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più in generale tutte quelle opere che fanno della frammentarietà, della velocità e della (sovra)impressione della scrittura i loro tratti più marcati (penso ai film di Malle, ma anche, allargando un po’ il campo, a opere «sperimentali» come Vieni dolce morte (dell’ego) di Paolo Brunatto realizzato nel 1968 o Migrazione di Massimo Bacigalupo, girato nel 1970). In linea ideale, gli appunti sono banchi di prova per una pragmatica che tende a enfatizzare tre diversi modi di collocarsi nel testo e nel campo etnografico: la «strumentalità», la «residualità» e l’«estemporaneità». Vediamo come. - Come «block-notes di un regista»,12 gli appunti sono innanzi tutto strumentali in quanto cercano di fissare su pellicola idee, soluzioni, ipotesi di lavoro, ma in ordine sparso e in modo impressionistico. Nel caso di Pasolini sono funzionali a un «film da farsi», esattamente come i sopralluoghi (si veda il prossimo punto), anche se raramente tale proposito viene portato a termine. Più spesso gli appunti vengono abbandonati a loro stessi, orfani dello scopo per cui sono stati pensati e scritti.13 - Essi diventano allora residuali, acquistano quell’eccedenza di senso che è propria dello scarto o dell’avanzo. L’immagine che cerca l’«altro» emarginato si auto-emargina dal ciclo produttivo industriale (il lungometraggio di finzione destinato alle sale), per restare bozza, prova di stampa (leggi: prova di contatto), «rifiuto» tra i «rifiuti». - Per essere tale l’appunto deve essere estemporaneo, ovvero presentarsi come formalmente stringato, sintatticamente disordinato, 12

13

Il riferimento è ovviamente al titolo di un documentario di Fellini del 1969, a segnalare che il «format» degli appunti non viene impiegato soltanto da cineasti in viaggio, ma anche da autori che indagano realtà a loro più vicine, quando non intime e autobiografiche come nel caso del regista riminese. Tra gli altri film costruiti in forma di appunto o annotazione e legate ad alcune figure autoriali cito almeno Appunti su un fatto di cronaca, un film di montaggio firmato da Luchino Visconti nel 1951 e Appunti su “La città delle donne”, documentario Rai del 1980 firmato da Ferruccio Castronuovo e dedicato all’omonimo film di Fellini. Si ricorda che sono «film da farsi» o work in progress, ovvero progetti di altri lungometraggi che non vedranno la luce se non sotto l’ombrello di narrazioni impressioniste e frammentarie come è il format degli «appunti» anche il film di fantascienza che vuole realizzare Sandor Krasna in Sans soleil, nonché La chinoise di Jean-Luc Godard, il cui sottotitolo non a caso recita «Un film en train de se faire» e che riproduce, stilisticamente, l’andamento assiomatico, rapido, per singoli e brevi capitoli del Libretto rosso di Mao a cui il film e il suo autore indirettamente si ispirano.

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narrativamente caotico. Se fosse ponderato, costruito con un ordine e un tracciato prestabilito, curato nella sua morfologia, non sarebbe più un appunto, ma qualcosa di diverso. Insomma, sono da considerarsi annotazioni quei brani filmati che non seguono un filo logico, una progressione narrativa, una concausalità di fatti ed eventi, presentando, viceversa, sottolineature ripetitive e ridondanti di gesti, fatti, opinioni, impressioni.

Nel caso di Pasolini quanto descritto è particolarmente evidente: i suoi appunti sono pieni di glosse insistenti, segni di una ricerca spasmodica del volto, del luogo, della parola, dell’immagine «giusta», della domanda pertinente ai propri interlocutori, una ricerca che spesso, come abbiamo visto nel paragrafo a lui dedicato, non ha successo. Anche negli altri film citati, l’appunto è soprattutto reificazione del sé per flash, illuminazione improvvisa, attenzione al dettaglio, scrittura rivista e riscritta, promemoria (come nei casi di Wenders), flusso di coscienza. È veramente difficile, insomma, non vedere in questo modello anti-narrativo un vero e proprio stile di viaggio, un modo con cui incamminarsi e prodursi nei territori dell’alterità riallacciando, nel contempo, un legame indissolubile con la narrativa odeporica dei decenni e secoli passati (§ I 1.). Sopralluoghi Una variazione al tema degli appunti è quella dei sopralluoghi. Ne vediamo, innanzitutto, in quelli per Il vangelo secondo Matteo, ma ci sono tracce e momenti di repérage anche in Appunti per un film sull’India, dove vengono individuati come possibili ambientazioni della storia del Maharajah alcuni dei palazzi e dei monumenti già scelti da Lang per il suo dittico indiano (in particolare il Palazzo del Lago e il City Palace di Udaipur). Anche Sans soleil si basa sull’ipotesi che ci sia un cineoperatore che gira per il mondo alla ricerca di possibili location per un film di fantascienza che vorrebbe ambientare in un imprecisato futuro (e che ovviamente non vedrà mai la luce). E se il pellegrinaggio a San Francisco di Sandor Krasna sui luoghi dove è stato girato La donna che visse due volte (Vertigo, 1958) di Hitchcock è un sopralluogo al contrario, nel senso che il personaggio non va a cercare un luogo da riprendere nel prossimo futuro, ma un luogo già ripreso nel recente passato, quel-

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lo di Bertolucci in Videocartolina dalla Cina invece è un sopralluogo a tutti gli effetti, visto che è propedeutico alla realizzazione del kolossal L’ultimo imperatore. Quali sono gli aspetti di concettualizzazione della scrittura impliciti nella scelta del sopralluogo? Ne provo a elencare alcuni: - Pur mantenendo anch’essi una funzione strumentale e necessaria alla conduzione virtuosa di un processo produttivo, i sopralluoghi acquistano un profilo estetico e mostrativo più marcato rispetto agli appunti. I luoghi dove si conducono i repérage sono generalmente suggestivi e incantevoli, indipendentemente dalla presenza o meno di una troupe. Essi si dispongono, insomma, davanti alla troupe che li filma senza rinunciare a una sorta di alterità implicita (e bella): si mettono al servizio di una produzione cinematografica, ma mantengono una identità autonoma, una riconoscibilità indipendente dall’esito del sopralluogo. - Una volta scelti come location, i luoghi visitati acquistano però anche un doppio spessore diegetico apparentemente contraddittorio. Nel trasformarsi da ambienti ad ambientazioni, essi diventano depositi di storie, talvolta di numerosi film girati nei medesimi posti, ma, proprio grazie alla loro capacità di costruire immaginari sociali e visuali, sono a loro volta moltiplicatori di storie, nel senso che favoriscono nuovi pellegrinaggi, nuove visite turistiche, nuove immagini fotografiche. È un costrutto immobile che produce mobilità. - Nella sua accezione più tecnica, il sopralluogo serve per costruire un catalogo d’immagini: paesaggi, profili di colline, deserti, vicoli di città, mura di cinta, monumenti, chiese antiche, interni, ecc. La relazione che i luoghi istituiscono con le produzioni è di tipo tassonomico. Per questa ragione, in quanto siti disposti in una banca dati, possono essere ordinati e recuperati secondo criteri che non riflettono per forza un principio di verosimiglianza e di prossimità reale. Da inquadrature potenziali possono diventare inquadrature «reali» solo se sanno soddisfare una precisa esigenza produttiva, se insomma fanno di più (etimo di soddisfare) di quel che solitamente è chiesto loro, ovvero eccedono dal loro valore di calco, dal riprodurre una semplice realtà, garantendo ad esempio efficienza, economia, abitabilità, quando non seduzione, bellezza, fascinazione.

In senso generale, il riferimento alla pratica del repérage pone una serie d’interrogativi relativi alla questione dell’identità in viaggio. Un’alterità irriducibile e riconoscibile (quella dei nativi, quella

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dei luoghi, ma soprattutto quella dei cineasti), nello spostarsi, nel trasformarsi, cambia la propria condizione di presenza e di essenza, stabilisce un di più, che può essere ricondotto sia a dinamiche estetico-mostrative (un mostrarsi meglio e in modi più seducenti), sia a dinamiche di rimozione e latenza (un nascondersi meglio), sia a modi e attitudini (un disporsi al contatto). Caratteristiche che troviamo perfettamente incarnate in Pasolini e Marker, oppure in Hiroshima mon amour dove le location acquistano un valore inevitabilmente simbolico, cambiando la loro natura identitaria nella trasposizione dalla realtà al film e dal film al film nel film. In quest’ultimo caso, la città di Hiroshima è, per così dire, il sopralluogo introvabile per eccellenza, giacché è stata rasa al suolo e qualsiasi ricostruzione della città prebellica è inconcepibile. L’attrice impegnata nell’ennesimo work in progress, nell’ennesimo «film da farsi», calca luoghi che offrono un di più rispetto ad altre location, e infatti solo a Hiroshima si possono fare film sulla pace, accentuando un di meno, un sottrarsi alle ambizioni di rappresentazione del luogo. Hiroshima assurge a luogo simbolo di finzionalizzazione nel momento in cui la vera Hiroshima (la vera esperienza della guerra) diventa «luogo-sopra-il-quale» ogni narrazione, ogni racconto, ogni storia d’amore non attecchisce, scivola via. Lettere e diari Giocano anch’essi sul dialogismo distacco/immersione i formati epistolari o diaristici attraverso i quali vengono confezionate alcune delle produzioni odeporiche. Come con gli appunti, anche qui assistiamo a una vera e propria ostentazione del processo di scrittura ma, in questo caso, i riferimenti ai generi e alle forme della narrativa di viaggio sono ancora più espliciti. Chris Marker in Lettre de Sibérie e Sans soleil fa leggere alle voci narranti epistole e carteggi. Ivens chiama uno dei suoi primi film documentari nel Paese di Mezzo, realizzato con gli studenti dell’Accademia di Pechino, Letters from China, per sottolineare l’intenzione di comunicare, attraverso una sorta di carteggio filmato, con i lontani spettatori europei. Bertolucci, ne abbiamo già parlato, scrive una Videocartolina dalla Cina. Diari di viaggio possono essere considerati sia L’India fantasma di Louis Malle, che inaugura ogni sequenza

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con un cartello indicante giorno e luogo delle riprese, come fosse una pagina di diario, sia Tokyo-Ga di Wenders, le cui immagini si presentano esplicitamente come garanti della memoria odeporica del cineasta, sia infine, anche se si tratta più di un «ritorno a casa» che non di un vero e proprio viaggio nell’alterità, il documentario Reminiscences of a Journey to Lithuania di Jonas Mekas. Dal punto di vista del racconto del sé in viaggio, diari e lettere spartiscono un territorio concettuale comune, perimetrabile attraverso almeno tre vettori di senso: - In entrambi i generi di scrittura s’individua un interlocutore più o meno fittizio cui rivolgere un insieme di discorsi che mettono in forma le esperienze contingenti della diversità, mescolando la descrizione dei fatti vissuti con le emozioni, i dubbi, le perplessità, le fantasie da essi suscitate. In un caso, le lettere, ci si rivolge a qualcuno che appartiene alla propria famiglia o a una cerchia di amici, generalmente situato nel paese d’origine del mittente, nell’altro, il diario, ci si rivolge a un sé collocato in un «altrove», dove la distanza non è spaziale, ma temporale e si decide nelle pratiche della rilettura. - Attraverso la scrittura audiovisiva si determina così un gioco di rispecchiamenti interessante poiché l’incontro con l’esotico viene interpretato attraverso il filtro imposto dalla comunicazione con un soggetto familiare, ma distante, la cui presenza da una parte offre una sorta di rassicurazione emotiva o di assimilazione razionale del diverso, dall’altra però erige ostacoli e dighe tra la realtà rappresentata e chi fruisce la narrazione (i destinatari delle missive e, in seconda battuta, lo spettatore), sospingendo questi ultimi a concentrarsi maggiormente sulla soggettività dell’istanza narrante rispetto a una supposta (e impraticabile) oggettività dell’«altro». Ne consegue che diari e lettere sono i generi più vicini all’autobiografia, ma se in quest’ultimo caso il soggetto scrivente è costretto a crearsi un doppio-intradiegetico che calca da protagonista i fatti, nell’epistole o nei resoconti giornalieri questa stessa figura tende a incarnare il ruolo di semplice osservatore, di soggetto presente, ma emarginato o laterale ai fatti. - Sia nella lettera sia nei diari si demanda, inoltre, una parte essenziale dell’orizzonte significante ad altri soggetti impliciti o a luoghi di senso magmatici. L’epistola, ad esempio, si comprende meglio se si riesce a collocarla all’interno di un carteggio, il cui allestimento – tanto importante quanto i singoli pezzi che lo compongono – è delegato a un’istituzione narrativa astratta, spesso sfuggente; il giornaliero di un diario, invece, si afferra nella sua peculiarità a patto

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di collegarlo con la storia personale dell’individuo/diarista, con le sue contraddizioni, i suoi rimossi, le sue ferite, le trasformazioni che opera il trascorrere del tempo. Si tratta di due dimensioni che spesso sfuggono allo spettatore teso a cogliere il flash e l’istante senza riuscire a collocarlo in una cronologia più ampia e distesa.

Il regista-viaggiatore che si presenta allo spettatore come autore di missive e diari tende, insomma, a porre in primo piano gli strumenti con cui media la relazione con la diversità. Sono, infatti, «schermi» protettivi sia il processo di scrittura sia l’individuazione di un destinatario familiare, ma lontano. Il baricentro cognitivo si sposta inevitabilmente verso una dimensione ellittica della comunicazione rappresentata dagli spazi non narrati tra un’epistola e l’altra, dagli eventi scientemente o inscientemente rimossi delle cronache quotidiane, dalle forme di lateralità di sguardo che caratterizzano la propria presenza nelle realtà alloglotte. Come esempio concreto prendo il caso più illuminante a disposizione: Sans soleil di Chris Marker. Le figure narratologiche individuate nel film accentuano il senso di spaesamento e inafferrabilità che pervade ogni fase della significazione markeriana. Da una parte c’è una donna senza nome, senza volto e senza luogo che riceve delle lettere da luoghi lontani e che legge e commenta ad alta voce; dall’altra c’è l’autore di queste missive, un cineoperatore giramondo, che le scrive e le spedisce dai luoghi del suo dépaysement, senza mai mostrarsi davanti all’occhio della macchina da presa. A comunicare sono , in definitiva, entità inafferrabili (entrambe senza una corporeità) in grado di costruire un rapporto di sintonia tale per cui la sollecitazione visiva che destabilizza l’esperienza della visione (del regista, della lettrice e dello spettatore) viene bilanciata dal diffondersi di un flusso di coscienza auto-centrato e autoreferenziale, composto letteralmente da tracce sparse di scrittura che finiscono per esibire il carattere fantasmatico delle due figure narratologiche. Ci ritornerò fra poche pagine (§ V 4.2.). Omaggi Un’altra forma narrativa che concettualizza la relazione interculturale è senza dubbio quella dell’omaggio rivolto a una personalità di origini allogene, ma nota internazionalmente. Penso ai lavori di

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Wim Wenders dedicati a Ozu Yasujirō (Tokyo-Ga), e allo stilista giapponese Yamamoto Yohji (Appunti di viaggio su moda e città); penso al Chris Marker di A.K., consacrato alla figura di Kurosawa e di Sans soleil dove troviamo una lunga sequenza dedicata a Vertigo di Hitchcock. Alla stessa «categoria» afferiscono anche quei titoli che presentano apologie più o meno dichiarate di alcune autorevoli figure politiche, come Nehru nei documentari televisivi di Rossellini o Ho Chi-min nei lavori militanti di Ivens. Pur indirettamente, emergono anche in queste produzioni processi di scrittura autoetnografica individuabili in almeno tre ambiti: - Come abbiamo già sottolineato, la volontà di porsi al servizio di un altro da «sé» con il quale intrattenere varie interazioni accentua il principio di lateralità ricercato dai registi in viaggio e, nel contempo, attesta la loro appartenenza a una medesima famiglia (o artistica o politico-ideologica). - Concentrarsi su uomini e donne già noti, maestri nei rispettivi campi del sapere, permette ai cineasti odeporici di organizzare il proprio spaesamento con criteri di movimento più certi, essendo i personaggi intervistati o descritti meritevoli di essere emulati e imitati. - Esaltarne la caratura morale o la perfezione delle opere consente loro, infine, di travalicare le difficoltà di traduzione e le incomprensioni reciproche. Nehru o Ho Chi-min, Ozu o Kurosawa, sono, in altre parole, veicoli attraverso i quali accedere al carattere idealmente precipuo di una cultura (o di una convinzione politica) e, insieme, all’universalità di certe forme di espressione.

Possiamo affermare, in sintesi, che anche l’omaggio, ovvero la scrittura al servizio di altre scritture, è strategia retorica che consente al film-maker di occupare una posizione volutamente marginale nella comunicazione interculturale, sagomando profili di specularità e indiretto riconoscimento tra artisti e affermando il carattere trans-culturale di taluni linguaggi. Pamphlet e inchieste Chiudo con una categoria diversa da quelle precedenti perché pone in essere una diversa disposizione dei significati relativi alla rappresentazione interculturale. Mi riferisco al registro del pam-

Scritture del movimento

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phlet (o del film a tesi), particolarmente in voga, per ovvie ragioni, negli anni Sessanta e Settanta. L’esempio più noto è Lontano dal Vietnam, opera collettiva di critica contro la guerra vietnamita alla quale lavorano cineasti che abbiamo imparato a conoscere come Ivens, Marker, Varda. Si possono considerare pamphlet militanti anche La cinese di Godard, che «racconta» la Rivoluzione culturale attraverso le battaglie ideologiche di un gruppo di studenti rinchiusi in un appartamento parigino, il già citato Le mura di Sana’a di Pasolini, realizzato in difesa di un bene artistico in pericolo, oppure opere fortemente condizionate, da un punto di vista ideologico, come La muraglia cinese di Carlo Lizzani o i documentari di Joris Ivens più volte citati. Un forte taglio sociale hanno anche i film che costruiscono le loro storie a partire da inchieste di varia natura. Tra i titoli già incontrati ricordo almeno Hiroshima mon amour, L’immortale, Le Mystère Koumiko, Appunti per un film sull’India, ma anche, più blandamente, Tokyo-Ga e L’India fantasma. Pur diversi, questi lavori condividono diverse dimensioni di fragilità. - Intanto la maggior parte di esse cercano di inserirsi nel flusso degli avvenimenti storici – la guerra in Laos o in Vietnam, la Rivoluzione culturale – manifestando una partigianeria che è, giocoforza, l’attestazione di uno sguardo di parte. Il pamphlet asserisce una verità che è sempre parziale. - Contestualmente, questo stesso sguardo accentua una distanza con la realtà verso la quale simpatizza. Volente o nolente il regista straniero che racconta guerre o processi storici non è personalmente implicato in quegli eventi, talvolta, come nel caso di Lontano dal Vietnam o La cinese, è fisicamente lontano (loin du) dai luoghi dove essi accadono; altre volte, come ad esempio in Le mura di Sana’a, la lontananza è culturale come ho già avuto modo di commentare altrove. - Nelle poche volte che accade, l’intervista ai nativi, generalmente funzionali alla definizione di un’inchiesta, rimarca la distanza tra le parti o la difficoltà di comunicare (sia da un punto di vista linguistico sia sul fronte prossemico). Negli imbarazzi della moglie del maharajah intervistata da Pasolini o in quelli di Kumiko indagata da Marker, nel pianto di Atsuta Yūharu, sollecitato dalle domande di Wenders su Ozu, come nelle lusinghe subite dalla ballerina di Bharatanatyam in L’India fantasma o nelle indecisioni di Cesarini Sforza di fronte

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alle critiche che gli rivolge indirettamente Rossellini, si intravedono in controluce tutte le difficoltà dei cineasti a porre domande e a ottenere risposte da una realtà refrattaria e non rispondente in modo compiuto alle loro attese o convinzioni.

In questo modo, tanto il pamphlet quanto l’inchiesta rivelano la fallibilità di ogni sforzo assertivo, per via dell’implicita impossibilità di giungere a spiegazioni convincenti o perché troppo ideologiche o perché prive di strumenti etnografici solidi. Succede così che nel momento in cui la ricerca fallisce, i modi della relazione evaporano, i dialogismi si ammutoliscono e resta soltanto l’autore a catalizzare l’attenzione dello sguardo giudicante spettatoriale: la sua figura viene messa a nudo e lo scudo protettivo impugnato (la promessa di raggiungere una qualche verità) diventa improvvisamente troppo fragile. Le ragioni dell’«altro» perdono incisività e la pratica relazionale si sbilancia dalla parte di chi è (f)autore della ricerca e non di chi ne è oggetto. La sua polivocalità – come vedremo fra qualche pagina (§ V 4.2.) – si rivela in gran parte autoreferenziale.

4. CORPI INTRA-INTRADIEGETICI

4.1. Immagini-glossa In un recente volume dedicato alle interazioni tra cinema, etnografia, antropologia e fotografia, Carmelo Marabello definisce le immagini prodotte dagli etnografi come «immagini glossa» la cui principale funzione è quella di «autenticazione». «La cifra delle immagini etnografiche – spiega – si assume l’onere del vero come esito da tracciare e produrre, nel segno dell’autentico, dell’originale»1 secondo processi di significazione capaci di restituire per sineddoche, mondi da frammenti, universali da eventi semplici e tuttavia non singolari, [di] discorsivizzare la lingua altrui nel codice della propria, di proporre lo statuto dell’alterità come visibilità, come possibilità di messa in luce dell’altro nella forma dell’osservazione, nella potenza della registrazione.2

Un compito improbo che tuttavia l’immagine etnografica può ancora assolvere, a patto di sapersi collocare in un contesto etnologico più ampio e integrato, mantenendo una posizione e una funzione periferica, in una costante disposizione e dispersione relazionale, di chiusura e di apertura, che spinga il soggetto scopico all’acquisizione di competenze esegetiche anche sul fronte iconico/mostrativo e imponga la fatica e la «fàtica» del compromesso. Le immagini etnografiche non vivono, infatti, in un super dizionario. […] Zone di contatto, esse si producono come glosse, attestano e contestano descrizioni e iscrizioni di cui sono prodotto e azione, esito e apertura. Frammenti auspicati di logos, immagini latenti 1 2

C. Marabello, Sulle tracce del vero, cit., p. 423. Ibid.

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delle fratture etnografiche di questo, le immagini glossa segnano le alterità accomodandole: abituano per così dire la vista, assegnano allo sguardo orizzonti di eventi, si producono come esemplari, per ritirarsi e acconciarsi rapidamente come contingenti e occasionali, nell’arco di tempo del loro uso. […] Nell’isola disciplinare della ricerca etnologica le immagini glossa sussumono il progetto di formazione dello sguardo etnografico, l’istituzione di condizioni di pertinenza e competenza di esso. Tuttavia, il compito cui queste immagini attendono si rivelerà complesso, debitorio comunque nei confronti delle forme di consumo spettacolare. […] Le immagini glossa, nella loro circolazione, assumono così una sorta di funzione fàtica, operano come produttrici di immagini a mezzo di immagini, [come] una agency […], un’agenzia e un’agenda di pertinenze, di sguardi competenti, nella formazione di una comunità convergente.3

Sotto una certa prospettiva che qui vorrei sostanziare, i film modernisti rispondono a funzioni simili a quelle descritte da Marabello. Le loro forme di scrittura sperimentale, quelle evidenziate poco sopra, hanno molto a che vedere con la questione dell’«autenticazione», della relazione con il vero attraverso un convergere di dubbi e spiegazioni. Come le rappresentazioni etnografiche, anche quelle di Pasolini, Rossellini e colleghi sono consapevoli del loro posizionamento marginale: stanno e si collocano ai margini della geografia, dell’industria cinematografica, della politica e anche delle discipline antropologiche. Nella maggior parte dei casi cercano di comunicare per «sineddoche» tracciando «mondi da frammenti», «universali da eventi semplici e tuttavia non singolari». Lo sguardo di un cinese per una cinesità umile e dignitosa, gli arabeschi di una moschea come teoria di un innamoramento interetnico, le sabbie di un deserto come reificazione di un’apocalisse. Inoltre i film studiati propongono anch’essi «lo statuto dell’alterità come visibilità», auspicano l’acquisizione di competenze traduttive e disposizioni esegetiche in chi guarda, sognano la costruzione di «comunità convergenti» (quelle europee, sollecitate a rivolgere un’attenzione maggiore nei confronti di culture e paesi a torto ritenuti lontani). Esiste tuttavia una contingenza nell’immagine odeporica modernista che separa questa esperienza da quella dell’etnografia in 3

Ivi, pp. 424-425.

Corpi intra-intradiegetici

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senso stretto e che riguarda il diverso modo di essere o, meglio ancora, di presentarsi come «glossa». Nel senso di Marabello, l’immagine etnografica è tale se si assegna alla parola il suo significato comune, quello di nota/postilla che spiega il «verbo» e/o la «legge»,4 sostituendosi e insieme sovrapponendosi alla questione della scrittura etnografica su cui Clifford, Magnus e altri si sono a lungo interrogati. La «glossa», prendendo per buone queste accezioni, resta una notazione esplicativa che spiega, illustra, parafrasa. In questo caso, abbracciando in modo più ampio lo spettro significante del termine, mi pare più utile soffermarsi sul suo significato originario. Nel greco antico e successivamente in latino, il termine γλῶσσα (glōssa) indica la lingua o l’insieme di parole rare, cadute in disuso, bisognevoli di spiegazione. Il lemma circoscrive, per così dire, le parole in disuso di una lingua (il greco e il latino) oggi in disuso.5 Alla luce di quest’accezione, le immagini dell’alterità diventano «glossa» – reali, autentiche – se evidenziano un’oscurità, un’incapacità di capire, un senso nascosto e fantasmatico e, contemporaneamente, se mettono in atto un tentativo di spiegazione che finisce però per essere approssimativo, ingenerando quei malintesi su cui ho ragionato nella precedente parte di questo studio. Sono, ad esempio, glōsse-non-glosse, «frammenti auspicati di (non) logos» gli interventi di spiegazione e delucidazione di cui si rendono protagoniste le voci extradiegetiche di molti film odeporici poiché si presentano come «note a margine» incapaci di chiarire, semplificare, ridefinire l’oggetto della visione che cercano di commentare. Più sono numerosi, prolissi o assillanti i loro interventi, più efficaci e occludenti diventano, infatti, i processi che silenziano l’alterità e l’autorità alloglotta. Si tratta a ben vedere di una modalità di relazione con il reale che non cerca l’autenticità dell’immagine stessa (che resta glōssa, 4

5

Ricordiamo in nota un fatto noto: nell’italiano corrente con glossa si è soliti intendere innanzitutto le note scritte ai margini dei testi biblici e giuridici e, solo per estensione negli ambiti linguistico-narratologici quelle che compaiono accanto a qualsiasi tipo di testo scritto. «Gr. glôssa, che, oltre a ‘lingua’ significa anche ‘parola rara che abbisogna di una spiegazione. […] Da glôssa i Latini formarono (sec. II d.C.) […] glossāriu(m) ‘elenco di arcaismi o forestierismi bisognevoli di spiegazione’». Cfr. DELI – Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, a cura di M. Cortelazzo e P. Zolli, Zanichelli, Bologna 1999, p. 673.

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immagine arcaica, immagine oscura di una iconografia oscura), ma l’autenticità dei processi che essa è in grado di ingenerare sia all’interno del film sia all’esterno. La dimensione mimetica è dunque essenziale solo nella misura in cui si fa latrice di altri processi discorsivi e ricettivi nei quali l’autentico si disloca dal contenuto più o meno «veridittivo» delle inquadrature, per rilocarsi nelle forme di rappresentazione dell’alterità attuate, le sole in grado di assegnare un gradiente di «credibilità» alle immagini. A infondere credibilità e veridicità al mondo rappresentato è, in altre parole, quell’insieme di operazioni che, da una parte, sorregge le strategie narrative adottate (ad esempio il ricorso alla modalità degli appunti, delle note, dei sopralluoghi per mettere in forma un sapere che cerca, ma non sa cosa afferrare, di uno sguardo che si muove, ma che non sa come disporsi in uno spazio altro), e che, dall’altra, coinvolge l’«autorità etnografica» di Clifford, ovvero il regista cinematografico, qui considerato come garante della giustezza dell’immagine, poiché è la sola figura che può sopperire alle proprie parzialità con i crediti fiduciari lo spettatore è disposto ad accordargli in virtù della sua riconoscibilità sociale. Le percezioni, le convinzioni, gli stili di movimento dell’autore cinematografico diventano, in altri termini, uno dei criteri di valutazione dell’«onestà» del racconto. Così facendo, la configurazione iconica dell’altro si abbarbica ancora di più addosso a chi la configura, alla sua mobilità e volubilità, per farsi discorso che accentua i caratteri di marginalità propri di un cinema che vuole essere «alternativo» a quello tradizionale. Soffermandosi, in definitiva, nell’alveo delle pratiche della testimonianza, anziché in quelle della documentazione. Il terzo brano filmico inserito nel prologo del capitolo è in grado di rendere più concreto il discorso. Mi riferisco al prelievo tratto dai Sopralluoghi in Palestina, più precisamente alla sequenza in cui Pasolini, appena giunto in Galilea, registratore a tracolla, si siede su una roccia ai piedi di una collina e confessa alla cinepresa le sue prime impressioni al contatto con i luoghi della predicazione del Cristo. La «realtà» che lo circonda è disadorna e scialba. È un distendersi di strade, colline, vegetazioni prive d’iscrizioni e di tracce. Il cineasta in viaggio descrive ciò che vede e non solo: La zona è spaventosamente desolata e brulla. Sembra uno dei luoghi più abbandonati della Calabria o delle Puglie […]. Quello che mi ha

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fatto più impressione è l’estrema piccolezza, la miseria, l’umiltà di questo posto, ed è stata – per che aspettavo questo monte delle Beatitudini come uno dei luoghi più favolosi del mio film, dello spettacolo che mi avrebbe dato la Palestina – un’impressione incredibile di piccolezza, ripeto, di umiltà, una grande lezione di umiltà.

Dalle parole pronunciate si evincono sensazioni che si riversano sul portato sensibile del viaggiatore, mutandone percezioni e agire. Se, infatti, da un lato le colline brulle e il lago disabitato non dicono nulla al professionista del sopralluogo, dall’altro offrono al cineasta-intellettuale una «grande lezione di umiltà». In altre parole, pur nella loro insignificanza, assolvono una funzione pedagogica o, per lo meno, allertiva. È in questo invisibile scarto logico-cognitivo che si può constatare come il reale diventi glōssa-non-glossa poiché è nell’instante in cui si sottrae (ovvero quando diventa lemma intraducibile, luogo di piccolezze e assenze) che l’esperienza odeporica si riconfigura nella direzione di una maggiore autenticità e credibilità. Non del dato fenomenico in sé, come ribadito più volte, ma del ventaglio di processi significanti che esso schiude una volta sottoposto allo sguardo privilegiato (e partigiano) del regista in viaggio. Continua Pasolini: In fondo, sto pensando che tutto quello che ha fatto e detto Cristo, quattro piccoli vangeli, una predicazione e una piccola terra, una piccola regione fatta di quattro colline brulle, un monte, il Calvario, dove è stato ucciso, tutto sta dentro in un pugno.

Ecco che da un luogo di supposta piccolezza e umiltà si genera uno dei più strabilianti essenzialismi del pensiero pasoliniano. Racchiudere la storia di Cristo in un «pugno» costituisce, inutile negarlo, una vera e propria provocazione, culturale e religiosa, che raggiunge diversi scopi. Intanto colloca il regista in una sorta di «tabula rasa» (la collina brulla), dove sguardo e parola possono rileggere un’intera tradizione religiosa da una prospettiva prevalentemente estetica. Forse non a caso, egli si pone al centro dell’inquadratura, con una pesante attrezzatura sulle spalle, quasi a simboleggiare una croce (§ IV 5.2.), facendosi asserzione di una cultura stanca, affaticata, emaciata. La traccia di una scrittura impacciata. La fatica di Pasolini contribuisce così a legittimare la

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funzione fàtica della comunicazione, nel senso attribuito a questo termine da Roman Jakobson:6 non è importante che egli stabilisca delle verità o che conduca uno scambio di saperi, ma che stabilisca e mantenga il contatto tra gli attori della comunicazione, siano essi i nativi o gli spettatori. Che stia lì. Al centro. Immobile. Il cineasta assume, in altre parole, il ruolo di medium, veicolo privilegiato di senso, strumento attraverso il quale passano tutti i contenuti di un confronto. 4.2. Corpi, fantasmi, macchine. Non c’è solo l’esempio di Pasolini in Sopralluoghi in Palestina per suffragare la mia tesi. La presenza del corpo-regista nei film odeporici costituisce, invero, una delle strategie più interessanti del modernismo odeporico, perché mostra corpi in viaggio, o meglio corpi etnografici in movimento. Alcuni sono debordanti. Penso a Rossellini, vero e proprio deus ex machina, un imbonitore che prende letteralmente possesso del programma televisivo in cui è invitato (Fig. 21). Accende per sé e per il giornalista di turno una sigaretta dopo l’altra, si attarda con movenze misurate negli aneddoti più succosi, si sbraccia per dare forza alle sue teorie, sorride ironico o acquista una postura severa. Altri sono fragili. Quello di Pasolini7 lo abbiamo già visto: è figura che domanda, si domanda, si carica del peso di un microfono, sorride, si muove in continuazione, faticosamente seguito da macchine da presa dalle quali sembra voler sfuggire. Penso a Ivens novantenne che, in Io e il vento, esibisce la sua vecchiaia, trasportato su una portantina per cercare le sonorità del vento tra le montagne del Sichuan e nel deserto del Gobi (Fig. 21). Altri corpi sono semplici flash. Penso a Marker, che ha coltivato pervicacemente la sua invisibilità pubblica, ma che appare per pochi attimi in Tokyo-Ga nascosto dietro un foglio di carta dove è disegnato un felino (Fig. 22) o allo stesso Wenders che si mostra in Appunti di viaggio su moda e città mentre gioca a bili6 7

R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 1966, pp. 181-218. Sulla centralità della fisicità e della mimica del corpo attoriale nel cinema del nostro rimando a: A. Canadè (a cura di), op. cit.; M. Mancini, G. Perrella, Pier Paolo Pasolini. Corpi e luoghi, Theorema, Roma 1982.

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ardo con lo stilista Yamamoto (Fig. 22) o a Malle che si fa riprendere nel primo episodio de L’India fantasma, accanto alla sua macchina da presa, mentre un nugolo di ragazzini lo accerchia (Fig. 21), così come era accaduto a Pasolini prima di lui sempre in Palestina (Fig. 22). Come evidenzia Marker con i suoi alter-ego Sandor Krasna e Guillaume-en-Egypte8 è anche vero che la presenza di un regista all’interno della diegesi può seguire strategie configurative che non prevedono il suo ingresso in carne e ossa all’interno dello spazio profilmico. In modi direi speculari a quelli appena descritti (e pertanto con la medesima efficacia espressiva), ci sono pellicole che preferiscono lavorare sulla latenza, il fantasmatico, l’impercepibile registico. Il termine fantôme utilizzato da Malle per la sua serie televisiva traduce efficacemente tale dinamica. È un’India spettrale, paradossalmente incorporea, quella che passa attraverso il suo sguardo immersivo. Egli è ovunque, in tutte le puntate della serie, ma il suo esserci è evanescente, invisibile o fuori luogo. Spettri di un tempo mai esistito (se non nella finzione ozuiana) sono d’altronde anche quelli che cerca (il fantasma di) Wenders nel suo soggiorno giapponese, in una continua sottolineatura dell’incapacità di adattarsi ai modi alienanti della vita metropolitana9. È un doppelgänger Kumiko che spedisce in Francia all’amico Marker delle registrazioni vocali, raddoppiando la separazione di corpo e voci già insita nelle tecniche narrative del documentarista francese. È un fantasma il protagonista de L’immortale, convincente incarnazione dell’intellettuale francese (con qualche tratto autobiografico?) elaborata da Alain Robbe-Grillet. Ancora più impercettibile e illuminante è la presenza/assenza di Paolo Brunatto nel suo Vieni 8

9

Possiamo considerare una reificazione del regista anche la frequente apparizione del suo alter-ego, ovvero il gatto arancione chiamato Guillaume-en-Egypte, in molti film, videoessay, programmi interattivi su internet, mostre e allestimenti museali. I fans del regista hanno anche rinvenuto due cammeo dello stesso Marker in Lettre de Sibérie e, ancora, in Sans Soleil. Su questo particolare aspetto dell’opera markeriana rinvio almeno a: A. Lambert, Also known as Chris Marker, Le Point du Jour, Paris 2008. Sul carattere simulacrale del documentario wendersiano rinvio a: N. M. Alter, Documentary as a Simulacrum. ‘Tokyo-Ga’ in R. F. Cook, G. Gemünden (a cura di), The Cinema of Wim Wenders. Image, Narrative, and the Postmodern Condition, Wayne State University Press, Detroit 1997, pp. 136-162.

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dolce morte (dell’ego), un viaggio in Turchia, Iran, Afghanistan, Pakistan, India e Nepal restituito attraverso strategie formali che rendono impossibile la decodifica delle immagini e la tracciabilità geografica del viaggio stesso. Un film sperimentale che, fin dal titolo, tende a sopprimere la soggettività dello sguardo registico, scomponendola in un pulviscolo di sensazioni, onirismi e sollecitazioni scopiche10. Vi è poi un terzo modo per alludere alla presenza del regista nella diegesi senza prevedere la sua iscrizione fisica o fantasmatica, ovvero attraverso la presenza di un altro stilema frequente nei film di viaggio: la «camera-car». La scelta di collocare la macchina da presa o sul cofano motore di un’automobile o all’interno del suo abitacolo pone in essere un parallelismo tra mezzo meccanico, dispositivo di riproduzione e sguardo del cineasta. Intanto occorre dire che l’auto, rispetto, ad esempio, a motocicli, biciclette o camminamenti a piedi, si caratterizza per una mobilità rapida, apparentemente libera e, insieme, già parzialmente prefigurata (si va dove ci sono le strade asfaltate o sterrate, si vede ciò che è possibile dal finestrino). È inoltre cabina mobile che protegge da incontri non piacevoli, costituendosi come una sorta di micro-mondo isolato. È bussola che orienta e disorienta insieme, collegando la rappresentazione al dovere della navigazione, alla scelta delle soste, alla velocità di crociera, al rischio di perdersi. Gli esempi sono ovviamente molti e ne posso citare solo alcuni: ricordo la passione per le automobili di grande cilindrata di Rossellini che spesso ama descriversi come un gran guidatore e che spesso ci mostra l’India dal cruscotto della sua auto; rammento i Sopralluoghi in Palestina (Fig. 24) o l’incipit di Appunti per un film sull’India, nei quali l’automobile è veicolo imprescindibile nel primo contatto pasoliniano con la realtà straniera (Fig. 23). Si può poi ricordare Chung Kuo - Cina, il cui primo movimento centrifugo verso la «periferia» di Pechino avviene a bordo di una vettura che ci mostra, in mezzo a tanti edifici, anche l’abitazione di Mao Zedong. La fine tragica dei protagonisti de L’immortale avviene, in entrambi i casi, in un in10

In nota ricordo che il fantasmatico e la spettralità sono intrecciati all’emergere dei canoni espressivi della modernità non solo in ambito cinematografico, ma anche in ambito artistico in senso lato. Per approfondimenti su questi aspetti suggerisco la lettura di: J.-M. Rabaté, The Ghosts of Modernity, University Press of Florida, Gainesville 1996.

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cidente stradale (Fig. 24), mentre Wenders ci mostra frequentemente il traffico della capitale giapponese (così come i tanti monitor montati all’interno delle vetture) sia in Tokyo-Ga sia in Appunti di viaggio su moda e città (Fig 24). Analoghe carrellate su strade giapponesi popolate da automobili e da fantasmi si possono trovare anche in Hiroshima mon amour (Fig. 23, primo fotogramma) o Sans soleil (Fig. 23, terzo fotogramma). Ancora più celebre è la sequenza in «soggettiva» di Hiroshima mon amour in cui un’automobile attraversa le strade di Hiroshima senza che si sappia chi sia a guidarla (forse è lo stesso Resnais). Senza proseguire oltre quest’elenco, mi preme sottolineare come l’esibizione del corpo autoriale nello spazio profilmico, la sua «fantasmizzazione», oppure la costrizione del suo sguardo nello spazio angusto di un’automobile rappresentino tre strategie che concretizzano, con una certa precisione, l’orizzonte «etnografico» dei film di viaggio. E se in un’altra parte del testo (§ III 4.) potevamo affermare che le voci extra-extradiegetiche sottintendevano «una presenza fisica del regista (un esserci stato in un determinato periodo) e una sua contemporanea trascendenza (l’essere di fatto vettore unico, traduttore dispotico, del senso complessivo del film)» e definivano «un alveo nel quale si staglia una figura àcusmatica, quella del regista in viaggio, […] attraverso tutta una serie di strategie di interposizione tra il ‘reale’ e il ‘rappresentato’», allo stesso modo ora possiamo dire che le strategie di iscrizione registica inerenti la colonna visiva mantengono la medesima doppia peculiarità che trascende la dimensione meramente diegetica del racconto. Tanto quelle erano voci extra-extradiegetiche, quanto questi possono essere definiti corpi intra-intradiegetici perché attestano l’autenticità dell’immagine attraverso la presa in carico personale e soggettiva di una serie di contraddizioni implicite del viaggio. In fin dei conti, è Rossellini in persona, non un suo doppio, a incontrare Nehru, intrecciare una relazione sentimentale con Sonali, entrare in conflitto con la stampa locale (ne riparliamo tra poche pagine); è sempre Pasolini, non un suo delegato di celluloide, a chiedere all’UNESCO di salvare la città yemenita; è Marker, non il suo alter-ego Sandor Krasna, a girare il mondo per catturare il filo di un ragionamento personale, ma anche per collezionare scatti fotografici coi quali comporre libri di viaggio o i «film in forma di foto». È Malle a essere attaccato dai media indiani così com’è Antonioni a subire lo stesso trattamento dalla Banda dei Quattro, è il suo nome, non quello di un suo personaggio, a essere scandito in piazza dai militanti comunisti. È Sternberg,

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non altri, a essere accolto come un eroe dalla stampa giapponese al suo arrivo a Tokyo, e poi ignorato dieci mesi dopo quando ritorna in Usa. È a Resnais, e non ad altri, in virtù dei suoi precedenti documentari, e in modo particolare al suo Notte e nebbia (Nuit et brouillard, 1955), che viene chiesto di provare a girare un film su Hiroshima. Sono più in generale gli elementi di testimonianza diretta dei registi in viaggio, il loro essere stati lì, ad avvalorare quelle esperienze e, di conseguenza, le loro rappresentazioni cinematografiche. È il loro corpo «intra-intradiegetico» a produrre senso e testualità diffusa anche fuori dal film. Per tali ragioni si può dire che i registi viaggiano in quanto persone che indossano una sorta di accreditata «autorialità». Corpi, dunque, ma anche trascendenze d’autore. Essi, infatti, portano in valigia un ruolo sociale che permette loro, ad esempio, di raggiungere luoghi geografici preclusi ai più, di intervistare capi di stato, talvolta di trasgredire regole o leggi del paese ospitante. Nondimeno, viaggiando in quanto autori essi si «riscoprono» persone, nella fatica del cammino, nell’imprevedibilità dell’incontro, nella difficoltà del tournage, nella fàtica di una comunicazione senza veri scambi di sapere. Ecco allora che l’esserci nei luoghi visitati e nelle diegesi costituisce un modo per mettersi in gioco allontanandosi, il più possibile, dalla coerenza oppressiva dell’autorialità fine a se stessa e per imprimere un diverso movimento delle forme, legato agli andamenti sussultori del contingente, alla curiosità per lo sconosciuto, all’urgenza della militanza, alle imposizioni determinate dalle abitudini culturali delle società visitate. Detto altrimenti, il viaggio impone, leirisianamente, di rinunciare – almeno in modo parziale e/o ipotetico – all’ideale dell’artista come creatore consapevole di un’opera e del film come risultato di uno sforzo intellettivo e, dunque, come orizzonte coerente e chiuso di significati. Di più: se accettiamo l’idea foucaultiana che l’«autore» è un elemento discorsivo distraente (distrae il lettore dalle logiche arbitrarie che organizzano i saperi) possiamo anche considerare i film odeporici come strumenti che, conducendo il «costrutto autoriale» lontano dal proprio «habitat naturale», lo distraggono dalla sua funzione distraente. Ne consegue che, permettendo allo spettatore di ritarare i propri meccanismi allertivi (la gerarchia delle proprie predisposizioni) e di interrogarsi sulla reale capacità statutaria dell’«autore», questi film tracciano il vero territorio etnografico di cui siamo

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andati alla ricerca nel corso di tutto il capitolo. Detto con uno slogan: nel momento in cui «il re è nudo», ovvero il regista esibisce la propria nudità fisica e, insieme, trascendente del suo essere autore, ecco che si materializza il portato veridittivo dei processi inscenati. Tornerò più diffusamente su questo punto nelle conclusioni del libro. Non prima di aver affrontato la produzione di viaggio dell’ultimo grande cineasta italiano che manca all’appello, Roberto Rossellini, colui che forse meglio di altri colleghi (per la sua «ingombrante» presenza), e certamente prima di molti di loro rileva quanto la configurazione e la rappresentazione del reale dipendano dal modo con cui il regista modernista impone il suo esserci nei territori dell’alterità.

5. IL VERO SPLENDORE. L’INDIA DI ROBERTO ROSSELLINI

5.1. Questo calvo cinquantenne regista Rossellini atterra a Mumbai nel dicembre del 1956 insieme al direttore della fotografia Aldo Tonti,1 ma è da almeno un anno che cova il desiderio di realizzare un film in India e sull’India.2 Secondo la dettagliata ricostruzione di Adriano Aprà3 e Gianni Rondolino,4 il regista è al lavoro da diversi mesi per documentarsi sulla cultura indiana, per trovare i necessari sostegni produttivi e abbozzare 1

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Buona parte delle informazioni raccolte sull’esperienza rosselliniana in India è tratta dai seguenti volumi: S. Sen Roy, Notes, in A. Aprà (a cura di), Rossellini. India 1957, cit.; A. Aprà, In viaggio con Rossellini, Edizioni Falsopiano, Alessandria 2006; N. Bourgeois, B. Benoliel (a cura di), op. cit.; P. Brunette, Roberto Rossellini, University of California Press, Berkeley 1996; L. Caminati, Una cultura della realtà, cit.; S. Dasgupta, Altro mondo, Longanesi, Roma 1961; J. Herman, Rossellini tourne India 57, in «Cahiers du cinéma», n. 73, 1957, pp. 77-78; Id., Rossellini. L’anti-digest défakirisateur, in «Cinéma 57», n. 21, 1957, pp. 44-49; D. Padgaonkar, op. cit.; A. Quintana J. Oliver, Roberto Rossellini, la Herencia de un maestro, Ediciones della Filmoteca, Valencia 2005; R. Rossellini, La mia “India”, in «Filmcritica», a. XXXIX n. 390, 1988, pp. 571-574; Id., Quasi un’autobiografia, a cura di S. Roncoroni, A. Mondadori, Milano 1987; Re. Rossellini, O. Contenti (a cura di), Chat room Roberto Rossellini, Luca Sossella Editore, Roma 2002; A Tonti, Odore di cinema, Vallecchi, Firenze 1964; J. Vautrin, J’ai fait un beau voyage, cit.; T. Gallagher, The Adventures of Roberto Rossellini. His Life and his Films, Da Capo Press, New York 1998. Ad esempio, in un’intervista comparsa su Cinema nuovo nel 1955, Rossellini afferma di voler visitare il subcontinente indiano per «studiare l’atmosfera, analizzare i problemi maggiori, porne in evidenza qualcuno che possa permettermi di valorizzare la tradizione magica, fachiristica e filosofica contrapponendola alle voci attuali, a quelle nuove che sorgono, a quelle che già si vanno imponendo». Cfr. G. Rondolino, Roberto Rossellini, UTET, Torino 2006, p. 240. A. Aprà, Les parcours d’India, in Id. (a cura di), Rossellini. India 1957, cit. G. Rondolino, op. cit., 2006.

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una traccia di sceneggiatura insieme all’amico iraniano Fereydoun Hoveyda, all’epoca funzionario UNESCO e collaboratore dei Cahiers du Cinéma. In quegli anni Rossellini vive tra Roma e Parigi e frequenta l’ambiente della cinefilia transalpina. Riallaccia i rapporti con il vecchio amico Renoir, che gli parla a lungo della sua esperienza indiana ne Il fiume, conosce e cerca di sostenere il lavoro di giovani colleghi come Jean Rouch e François Truffaut, inizia a maturare i primi convincimenti attorno a un’idea di cinema pedagogico ed enciclopedico che troverà fertile applicazione con il diffondersi del medium televisivo negli anni Sessanta. Attraversa nel complesso un momento di difficoltà produttiva determinata sia dagli esiti deludenti dei suoi lavori più recenti, sia dalla crisi matrimoniale con Ingrid Bergman, che spingerà la coppia a seguire strade lavorative sempre più distanti.5 I paratesti che tracciano le fasi di evoluzione del progetto indiano sono tutti più o meno concordi nell’affermare che il regista si predispone a visitare l’India per realizzare un grande affresco storico e sociale, sulla falsariga di quanto realizzato nel dopoguerra in Italia con Paisà (1946).6 Egli sente e crede possibile raccontare l’essenza di un’intera nazione a partire dalla rappresentazione di una serie di episodi emblematici sulle difficoltà di affermazione dell’India democratica, sul rapporto atavico tra uomo e animali, sul conflitto tra tradizione e rinnovamento dei costumi, e così via.7 Le prime settimane d’insediamento in India cominciano sotto i migliori auspici.8 Oltre a preparare i film, tenere alcune conferen5

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Rossellini è piuttosto restio a raccontare eventi che appartengono alla vita privata (peraltro a ragione, vista la continua e spesso eccessivamente morbosa opera di scandaglio subita da parte della stampa italiana e internazionale), ma una fonte diretta circa alcuni passaggi della sua vita è rappresentata dalla biografia dell’altra protagonista della vicenda, vale a dire Ingrid Bergman. Per ulteriori dettagli si rimanda pertanto a I. Bergman, A. Burgess, Ingrid Bergman. La mia storia, A. Mondadori, Milano 1983. Cfr. Rossellini, Quasi un’autobiografia, cit. Sarà peraltro il principale rappresentante delle istituzioni indiane, il primo ministro Nehru, a dichiararsi entusiasta del progetto e a garantirgli l’appoggio governativo in un primo incontro avvenuto a Londra nel novembre del 1956 a meno di un mese dalla partenza per Mumbai, e poi in un secondo, a New Delhi, nel gennaio dell’anno successivo. Ricorda Tonti nella sua autobiografia: «Ci insediammo al Taj Mahal Hotel considerato dagli indiani alla stregua di un monumento nazionale. Da questo momento in poi le conferenze-stampa non si contarono più.

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ze e partecipare alla vita culturale della città,9 Rossellini incontra alcune delle figure che lo accompagneranno nella sua «avventura» indiana: Kittu, un documentarista che aveva conosciuto sul set di Viaggio in Italia, ora assunto dalla Films Division, l’ufficio governativo che offre sostegno logistico ed economico alla produzione; Jean Herman, un francese che insegna letteratura a Mumbai e che lo seguirà in quasi tutto il suo soggiorno; Hari Dasgupta, già assistente di Renoir per Il fiume e la moglie Sonali, che verrà scelta prima come attrice del film e poi come assistente alla regia e sceneggiatrice.10 Persino le difficoltà incontrate con il primo coproduttore indiano che sparisce lasciandogli i conti dell’albergo da pagare11 vengono agevolmente superate, anche grazie a un incontro avuto con Nehru a New Delhi il 10 gennaio 1957, durante il quale il regista ottiene rassicurazioni sul suo appoggio istituzionale e la possibilità di seguirlo in alcuni viaggi di Stato per conoscere direttamente come si sta trasformando il paese sotto la sua guida. Inizia con queste prime spedizioni al seguito del primo ministro un periodo di alcuni mesi in cui Rossellini e Tonti attraversano l’India da nord a sud, registrando con una macchina da presa leggera (una 16 mm.) situazioni, luoghi, paesaggi, popolazioni che più li colpiscono12.

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Letterati, pittori, ministri, tutti offrivano al regista il credito più ampio». A. Tonti, op. cit., p. 184. Cfr. M. Giammusso, Vita di Rossellini, Elleu multimedia, Roma 2004, pp. 239-243. D. Padgaonkar, op. cit., p. 61. Si veda anche S. Dasgupta, op. cit. Sulle difficoltà iniziali di Rossellini, sui contatti con la produzione indiana e con le televisioni europee rimandiamo per una testimonianza diretta a Tonti, op. cit., pp. 182-187 e per una ricostruzione storica più distaccata a Giammusso, op. cit., pp. 239-243. Durante i primi viaggi al seguito di Nehru, Rossellini visita Bodh Gaya e Nalanda nello stato del Bihar, la diga di Hirakud sul fiume Mahanadi nello stato federato dell’Orissa e poi Santiniketan, l’università fondata dal poeta premio Nobel Rabindranath Tagore nel Bengala occidentale (ci passeranno qualche anno dopo anche Pasolini e Moravia). Dopo un passaggio per Mumbai, Rossellini riparte per il meridione: qui visita Bangalore, Mysore, Gandhigram (dove si trova un ashram dedicato alla promozione delle idee sociali del Mahatma), Khanapur con la sua riserva naturale, le rocce dell’antica città di Trichinopoly (vicino a Madras nello stato del Tamil Nadu), Madurai, la città dei templi, Kollam (Quilom) sulle coste del Kerala, dove un gruppo di norvegesi gestisce un programma dell’Onu volto allo sviluppo delle attività ittiche. Arriva fino nel Malabar,

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Dopo questi primi tre mesi impiegati a conoscere da vicino buona parte del subcontinente indiano, Rossellini lavora all’allestimento degli episodi che andranno a costituire India Matri Bhumi, forte di una serie di abbozzi di sceneggiatura rielaborati insieme a Sonali Dasgupta. Egli procede in modi flessibili ed economici: con un canovaccio agile e una troupe composta di poche unità, il cineasta s’installa nel luogo delle riprese, individua le location, seleziona gli attori (non professionisti), realizza nel giro di pochi giorni i take che formano l’intreccio principale, secondo un approccio documentaristico a basso impatto finzionale che prevede pochi momenti recitati e molti altri di osservazione dell’esistente. In questo modo, a metà marzo completa il primo episodio, quello del Mahout, nella riserva naturale di Khanapur dove vivevano e lavoravano i grandi elefanti che compaiono sullo schermo. A parte alcuni problemi alle apparecchiature in dotazione,13 il piano di lavorazione prosegue piuttosto speditamente, tanto che l’8 aprile la troupe è già a Hirakud nello stato dell’Orissa, pronta per i sopralluoghi, il casting e le riprese del secondo episodio, quello che vede protagonista un operaio della grande diga che ha appena terminato il suo contratto di lavoro e che sta per trasferirsi altrove. Anche in questo caso, il lavoro sul set è abbastanza rapido e le riprese terminano il 26 dello stesso mese. A fine aprile, iniziano i primi veri problemi perché Rossellini diventa oggetto di attacchi da parte della stampa scandalistica locale per il supposto rapporto extraconiugale con Sonali Dasgupta. Come raccontano Dileep Padgaonkar e Maurizio Giannussi nei rispettivi volumi, il legame sentimentale tra i due era probabilmente cominciato già da alcune settimane e aveva reso difficile il lavoro sul set a causa dei continui andirivieni del regista per incontrare la sceneggiatrice, di stanza prima a Kolkata, poi a Mumbai. Con la copertura del caso da parte dei media indiani e in particolare da quando la donna abbandona il tetto coniugale per trasferirsi in una stanza del Taj Mahal Hotel adiacente a quella di Roberto,

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più precisamente a Thiruvananthapuram (Trivandrum) e a Capo Comorin, il lembo di terra più a sud di tutta la penisola. Sui problemi di manutenzione delle apparecchiature causate dal caldo indiano si vedano sia il testo romanzato di Padgaonkar sia: F. Hoveyda, J. Rivette, Intervista con i Cahiers du cinéma, in R. Rossellini, Il mio metodo, cit., p. 175.

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la situazione precipita e gli appoggi di cui il regista aveva goduto vengono rapidamente meno. Egli s’inimica i rappresentanti del mondo cinematografico e delle élites intellettuali della capitale, di cui Hari Dasgupta e la sua famiglia sono figure di spicco, i referenti della casa di produzione indiana, tanto che persino l’amico e collaboratore Kittu si vede costretto ad abbandonare anzitempo il progetto, persino i membri della sua stessa troupe, a partire dal fidato Aldo Tonti che è costretto ad attendere le decisioni del regista senza potersi muovere dalla capitale indiana nonostante la moglie versi in Italia in precarie condizioni di salute. Lo scandalo, che assume ben presto proporzioni internazionali e finirà per coinvolgere in prima persona la stessa Ingrid Bergman, aggiunge nuove preoccupazioni a una condizione lavorativa già difficile e complessa. Proprio in ragione di questi eventi, Rossellini preferisce ambientare gli ultimi due episodi (quello della tigre e quello della scimmia) non più a Rourkela e a Bodhgaya nel Bengala occidentale, ma in location situate a pochi chilometri dalla metropoli: nel parco nazionale Sanjay Gandhi (con riprese dall’8 al 16 giugno) e a Mumbra, un sobborgo della città di Thane (con riprese dal 18 al 22 maggio). Il ridursi dei giorni di tournage e del metraggio di pellicola impressionato, nonché la necessità di spedire in India un’altra troupe per realizzare alcune riprese di raccordo circa un anno dopo, segnalano indirettamente la speditezza con cui il cineasta si vede costretto a lavorare. Durante l’estate la presenza di Rossellini in India si fa, se possibile, ancora più angusta. Roberto e Sonali sono costretti a separarsi e a incontrarsi solo in gran segreto, mentre il regista fatica sia a ottenere il rinnovo del visto, sia, successivamente, i documenti necessari per autorizzare il trasporto in Europa del materiale girato. Come racconta la stessa attrice nella sua autobiografia, sarà solo grazie all’intercessione della Bergman con Nehru in persona, durante un incontro a Londra, a consentire di superare l’impasse burocratica. Nel frattempo i soldi terminano, Rossellini lascia insolvente il Taj Mahal Hotel (è Tonti a raccontarlo) e si trasferisce a Delhi, presso un albergo gestito da una coppia italiana. Appare ormai chiaro ai più che le condizioni economiche, logistiche e personali affinché il suo lavoro possa proseguire siano venute definitivamente meno. D’altra parte, nello stesso periodo, l’attenzione morbosa dei ro-

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tocalchi non cessa di attenuarsi. Suggerisco a tal proposito la lettura della ricostruzione romanzata di quei giorni da parte di Dileep Padgaonkar perché in essa si trovano le trascrizioni parziali di alcuni articoli comparsi sulle testate Filmindia e Blitz, scorrendo i quali si intuiscono quali similitudini vi siano tra l’esperienza di Rossellini in India e, ad esempio, di Antonioni in Cina, sebbene i conflitti interculturali scoppino durante e non dopo la realizzazione del film. Anche in questo caso, infatti, ci troviamo innanzi a giornali che cavalcano lo scandalo per mere ragioni politiche (appoggiare o attaccare Nehru e il Partito del Congresso) o per rimarcare le differenze tra attitudini, convinzioni e tradizioni autoctone e quelle meno «virtuose» che provengono dall’Occidente. Rossellini, come Antonioni (o lo stesso Malle più avanti), è sia «vittima sacrificale» collocato sull’altare delle battaglie ideologiche interne, sia un perfetto antagonista (perché riconoscibile, perché «potente») di una disputa che vede contrapporsi, a colpi di malintesi e incomprensioni, autorità etnografiche in cerca d’identità e legittimazione. A tal proposito si paragonino le parole con cui il cineasta descrive la propria supposta aderenza alla cultura indiana (secondo la teoria più volte espressa degli «uomini drappeggiati» e degli «uomini cuciti»)14, e quelle dei suoi critici che gli riconoscono tutt’altre forme di «prossimità». Afferma Rossellini durante la terza puntata francese della serie J’ai fait un beau voyage: La mia teoria è questa: ci sono civiltà di «uomini drappeggiati» e civiltà di «uomini cuciti». L’uomo dagli abiti drappeggiati è un uomo più morbido, più bello, molto più tenero, se si vuole, molto più tollerante, il che è molto importante. I cuciti sono invece lì, attivi, efficienti.15

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Oltre alle occorrenze indicate nel testo, si ritrovano altri riferimenti alla metafora degli uomini cuciti e drappeggiati nella trascrizione di una serie di presentazioni televisive andate in onda e conservate dall’INA e in un’intervista pubblicata dalla rivista Cinéma 59. intitolata Le pays des hommesdrapés vu par un homme cousu. Cfr. R. Rossellini, Il mio metodo, cit. Il brano è tratto dalla terza puntata della serie televisiva francese J’ai fait un beau voyage, i cui riferimenti si trovano anche in C. Marabello, Nell’India di laggiù, cit., p. 112.

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Poi in un’intervista a François Tranchant e Jean-Marie Vérité aggiunge, partendo da una considerazione sul primo ministro indiano: Nehru, come tutti gli indiani, è un «uomo drappeggiato». Cerca di aprire il suo spirito a tutte le conoscenze e di ottenere una sintesi poetica del mondo. Noi europei siamo degli «uomini cuciti» siamo diventati degli specialisti, eccelliamo in un campo peculiare alla nostra attività, ma siamo incapaci di capire quanto non fa parte della nostra specializzazione. Noi siamo prigionieri delle nostre abitudini; dico «noi», ma io mi sforzo di diventare un «uomo drappeggiato».16

In questa differenza di vestiario tra indiani ed europei, Rossellini individua evidentemente il segno esteriore di una profonda distanza culturale tra un «noi» e un «loro» che, nondimeno, giudica colmabile, almeno nel suo personale caso. Si tratta, invero, di una polarizzazione essenzialista dai forti connotati paradossali che Elena Dagrada, ad esempio, vede già in azione anni prima, più precisamente in Viaggio in Italia, nella differenza di atteggiamenti e mentalità che separa la coppia inglese impegnata in un moderno Grand Tour e le popolazioni incontrate nel corso del viaggio.17 Una metafora che, con un evidente ribaltamento delle assegnazioni, funziona anche per alcuni commentatori indiani: Questo calvo cinquantenne regista italiano del film neorealista Roma città aperta ha dimostrato di considerare Bombay una città aperta, aperta alla seduzione di donne sposate al pari della sua città natale, Roma. Ma Bombay non l’ha fatta passare liscia a quest’italiano ossessionato dal sesso quando, lo scorso aprile, si è saputo che Roberto aveva ghermito e portato con sé nel quartiere cristiano l’anemica e scheletrica ventottenne Sonali Dasgupta, una donna bengalese sposata e con due figli.18 16 17

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Cfr. F. Tranchant e J.-M. Vérité, Uomini drappeggiati e uomini cuciti, in R. Rossellini, Il mio metodo, cit., p. 184. E. Dagrada, Le varianti trasparenti. I film con Ingrid Bergman di Roberto Rossellini, LED, Milano 2005, p. 289 e ss. Per una rilettura della dicotomia tra «uomini cuciti» e «uomini drappeggiati» in termini di «disillusione» vs «croyance» rinvio a R. De Gaetano, Viaggio in Italia. La credenza oltre l’illusione, in «Fata Morgana», 2013, n. 19, pp. 205-211. D. Padgaonkar, op. cit., p. 136.

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In questo e in altri passaggi, Rossellini è descritto secondo i più frequentati cliché dell’italianità – un «dongiovanni», il «peccatore italiano», il «passionale italiano», il «farabutto italiano», un «fanfarone e gradasso» – e additato come persona licenziosa e priva di morale per gli scandali destati già ai tempi delle sue relazioni con Anna Magnani prima e con Ingrid Bergman poi. Agli occhi dei giornalisti più reazionari, egli è insomma un uomo fin troppo «drappeggiato» (un uomo più morbido, più bello, più tollerante), tacciato persino come incarnazione del Rāvaṇa, re demoniaco della mitologia induista, nei confronti di una civiltà che, seguendo l’esempio dell’eroe virtuoso Rāma, il protagonista del poema epico Rāmāyaņa, auspica invece di essere «cucita», nel senso di instaurare con la propria tradizione culturale e spirituale un legame più saldo e resistente. Tornerò tra poco sui modi con cui si descrive e si colloca Rossellini sulla scena dell’incontro interculturale, ma lo faccio soltanto dopo aver segnalato gli ultimi dati essenziali della storia produttiva di India Matri Bhumi e dei due documentari televisivi. Tornato finalmente a Parigi nell’ottobre del 1957, il regista italiano cerca di trarre il meglio dal materiale a disposizione, trascorrendo diversi mesi al banco di montaggio, non senza ulteriori difficoltà, dal momento che si rendono necessarie altre riprese indiane di cui verrà incaricato il regista Romolo Marcellini.19 Dalla ricognizione filologica di Elena Dagrada a proposito di quei mesi di lavoro si può evincere lo sforzo di continua ri-taratura del progetto da parte del regista romano20. A suffragio di ciò, basti pensare ai tanti titoli con cui la pellicola viene presentata agli organi di stampa (da India ’57 a India ’58 da Il donatore di terre fino al più suggestivo Vita e insegnamenti di Shri Vinobha Bhave). D’altra parte l’alone di «mistero» che avvolge l’avventura indiana di Rossellini non tende a dissiparsi se è vero che ancora nel gennaio del 19

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Sono poche, a quanto mi risulta, le informazioni relative al viaggio di Marcellini in India. Non è chiaro quali parti del film abbia realizzato, (anche se verosimilmente sono quelle relative agli ultimi due episodi del lungometraggio) né quali fossero le indicazioni precise che Rossellini scrive di avergli impartito in alcuni suoi promemoria. Per maggiori ragguagli si veda: E. Dagrada, Vita e insegnamenti di Shri Vinobha Bhave. Note sull’avventura indiana di Roberto Rossellini, in «Ciemme», n. 154, 2006, pp. 53-55. Ivi, pp. 51-60.

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1958, su un supplemento de «Il Contemporaneo», Antonello Trombadori afferma che il film sarebbe stato composto di nove episodi, forse recuperando l’informazione dalla testimonianza che Jean Herman licenzia sui Cahiers du cinéma nel luglio dell’anno precedente. In quello stesso numero del magazine, il giornalista pubblica i soggetti di sei episodi scritti da Rossellini e dalla sua équipe21, anche se ora sappiamo che solo quattro erano stati approntati durante l’anno trascorso nel subcontinente. Appurato l’evidente ridimensionamento del progetto cinematografico rispetto all’ipotesi originaria, occorre tuttavia rimarcare che Rossellini conserva l’idea di tratteggiare un affresco dell’India, sulla falsariga di quanto fatto nei film neorealisti, attraverso la predisposizione di alcuni racconti esemplari. Occorrerà tuttavia attendere qualche mese prima di osservare il frutto del suo lavoro. Solo tra il 7 gennaio e l’11 marzo 1959 la RAI trasmette le dieci puntate di L’India vista da Rossellini, mentre la RTF, la televisione statale francese, programma J’ai fait un beau voyage dall’11 gennaio al 6 agosto dello stesso anno. India Matri Bhumi viene invece proiettato in anteprima mondiale al Festival di Cannes il 9 maggio 1959 e successivamente presentato in Italia alla fine di giugno ottenendo il favore di molta critica, specialmente oltralpe. 5.2. Lo splendore del vero Jean-Luc Godard scrive a proposito di India Matri Bhumi: India prende in contropiede tutto il cinema tradizionale: l’immagine non è che il completamento dell’idea che la provoca. India è un film di una logica assoluta, più socratico di Socrate. Ogni immagine è bella, non perché sia bella in sé, come una inquadratura di Que viva Mexico, ma perché essa è lo splendore del vero e perché Rossellini parte dalla verità. Là dove gli altri forse arriveranno tra vent’anni, egli ne è già partito. India ingloba il cinema mondiale come le teorie di Riemann e Planck la geometria e la fisica classica. […]. India è la creazione del mondo.22 21 22

R. Rossellini, L’India tra il vecchio e il nuovo, in «Il contemporaneo», 11 gennaio 1058, supplemento al n. 2, anche in E. Dagrada, Vita e insegnamenti, cit., pp. 51 e 56-57. J. L. Godard, India, in «Cahiers du cinéma», n. 96, 1959, p. 41 (trad. mia).

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Al di là dei toni enfatici, la posizione espressa da Godard ci consente di capire quanto Rossellini sia stato abile nel proporsi come il garante della verità della rappresentazione, come punto di riferimento per entrare all’interno di un «mondo» che evidentemente è stato «creato», generato e costruito ad arte dallo stesso cineasta. Non sfuggirà che le parole del critico dei Cahiers du cinéma prescindono dalle problematiche di natura mimetica insite nell’operazione cinematografica (l’utilizzo di vari formati di pellicola, la ricostruzione dell’incontro tra la tigre e il contadino secondo forme di discorsività lontane dalla tradizione baziniana, ecc.). Esse, viceversa, si concentrano su categorie ermeneutiche più sfuggenti o astratte: l’immagine come complemento di un’idea, la verità (già trovata e non solo cercata) come splendore, una nazione come (sinonimo della) creazione del mondo. Siamo, evidentemente, all’interno di quelle pratiche d’iscrizione del regista nel tessuto del film («Rossellini parte dalla verità») già discusse nelle pagine scorse e dedicate alla scrittura del sé in viaggio, alla forza dei corpi intraintradiegetici, alla forme di sperimentazione di registri narrativi ibridi, strategie atte a posizionare, in un modo o nell’altro, l’autore all’interno della narrazione e subito dopo a renderlo una figura trascendentale, un vero e proprio deus ex machina. Da questo punto di vista, la lettura godardiana di India Matri Bhumi è efficace perché postula la questione della verosimiglianza non su un piano fenomenico, ma ontologico. Se esiste etnografia rosselliniana, questa è data dall’incarnazione e/o dalla rivelazione – per usare ancora una volta un termine cristologico – della sua presenza nel testo. D’altra parte, non è accidentale il fatto che il viaggio di Roberto Rossellini in India abbia dato origine a una ricca documentazione tra fonti dirette (scritti del regista, interviste, autobiografie delle persone coinvolte) e indirette (saggi e monografie, reportage giornalistici, romanzi). Tale processo dipende, almeno in parte, dall’ascendente che il cineasta ha saputo esercitare nell’opinione pubblica di quegli anni e dal suo modo di porsi nel viaggio. A differenza di altri colleghi che lo hanno preceduto (penso ai casi di Sternberg, Renoir e Lang), egli ha manifestato una volontà di integrazione e un interesse verso aspetti propri della contemporaneità oggettivamente rari. L’India per Rossellini è il presente, è la diga di Hirakud, l’industria ittica o quella del legname, la riforma delle caste, la convivenza tra religioni, lo spazio assegnato agli animali,

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il ruolo politico della borghesia e dell’intellighenzia. Le sue riprese – anche nel più parco e «pachidermico» India Matri Bhumi – ci offrono strade piene di gente, montaggi a pezzi brevi sui volti di tipi etnici, luoghi e mete distanti migliaia di chilometri l’una dall’altra ricondotte all’unità del film, espressioni della modernità e della tradizione accolti talvolta nella stessa inquadratura. Immagini – quelle dei documentari – che cercano di catturare le fisionomie composite di una società in piena trasformazione, altre – quelle del lungometraggio di fiction – che cercano di cogliere l’essenza degli orizzonti valoriali, delle sfide in essere. Una classica modernità o una moderna classicità, per tornare alle categorie di Compagnon. Così facendo, se si osserva da vicino il tessuto filmico rosselliniano, ci si accorgerà che esso non è «drappeggiato», bensì «cucito» nella direzione di quella sperimentalità auto-etnografica teorizzata da Russell. In India Matri Bhumi, ad esempio, sono rammendate insieme inquadrature in 16mm e altre in 35mm, ambientazioni metropolitane e altre rurali, paesaggi tropicali e desertici, voci stentoree declamate come nei più tradizionali documentari televisivi e timide voci indiane doppiate da attori non professionisti. Anche nelle due serie televisive, che pur vantano una solidità enunciativa superiore, in virtù di un format che impone una struttura rigida e una scansione dei temi predeterminata, la sensazione è che la pratica del collage e della giustapposizione di materiali disorganici continui a prevalere: prendendo come caso studio la sola produzione italiana, vi sono ben quattro episodi su dieci ambientati solo a Mumbai e dintorni; dei restanti sei, tre descrivono l’India meridionale e in particolare il Kerala, uno la diga di Hirakud nello stato dell’Orissa e gli ultimi due (intitolati rispettivamente Il Pandit Nehru e Gli animali) sono concepiti con un tema a soggetto. Non è tutta l’India, insomma, quella che vediamo, ma solo alcune sue parti. Fa da contraltare, infatti, alle pratiche d’intensificazione raffigurativa di particolari aree, la scelta di rimuovere altri luoghi visitati da Rossellini: mancano le riprese del Bengala, di New Delhi, mancano immagini di stati importanti come l’Uttar Pradesh (dove ci sono Agra e la città santa di Varanasi, poi mostrata in India Matri Bhumi), le regioni a sud della catena montuosa dell’Himalaya e così via. Manca, in altre parole, un principio «drappeggiato» di coerenza geografica nei carotaggi scelti, tale da garantire una rappresentatività del reale fondata su criteri di pregnanza oggetti-

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va. Ed emerge, contestualmente, il piano di pertinenze di natura ontologica e fideistica che Godard ha saputo individuare distintamente e che lo stesso Rossellini prefigura in alcune sue dichiarazioni: Ciò che mi piacerebbe sapere è se vedendo il film, aneddoti a parte, si esce con l’impressione di un mondo oppure no. Prima di tutto ho cercato di dare quest’impressione. Poco mi importa il metodo con cui ho cercato di raggiungere il mio scopo. Solo questo conta. E siete voi e il pubblico che deve giudicare se era o non era urgente mostrare questo mondo. […]. È importante che lo spettatore esca dal film con un’impressione simile a quella che ho avuto io.23

Se mi si consente un gioco di parole, possiamo sintetizzare dicendo che lo splendore del vero è, come vedremo nel prossimo paragrafo, un Rossellini che è un vero splendore. 5.3. Un’istanza detentrice di un’informazione privilegiata Vorrei concentrare la parte conclusiva di questo focus sui documentari televisivi perché costituiscono la cartina al tornasole per comprendere qual è la posta in gioco dietro le strategie di collocazione di Rossellini all’interno delle sue produzioni indiane. Com’è noto, gli episodi di entrambe le serie iniziano con un breve dialogo introduttivo tra il regista e un giornalista (Marco Cesarini Sforza nella versione italiana e Étienne Lalou in quella francese), collocati all’interno di uno studio televisivo. Se la versione francese è caratterizzata da una scenografia essenziale (un tavolino, due poltrone, delle quinte grigie dietro il giornalista, riproducenti un disegno astratto dietro il cineasta), più interessante è quella italiana, dal momento che lo studio televisivo è costruito come se fosse l’interno di una sala cinematografica, assegnando così un indiretto profilo professionalizzante all’ospite intervistato. Il dialogo che si sviluppa a inizio di ogni puntata tra il giornalista e il regista serve per approfondire alcuni caratteri della cultura indiana, per fornire informazioni essenziali sui luoghi visitati e per anticipare il conte23

F. Hoveyda, J. Rivette, Intervista con i Cahiers du cinéma, cit. p. 169.

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nuto delle riprese. Queste ultime sono generalmente un insieme di vedute della durata di circa venti minuti destinate a descrivere gli usi e i costumi delle popolazioni. In tutte e dieci le puntate (venti, se sommiamo quelle francesi, dalla progressione molto simile),24 Rossellini assume il ruolo di guida, prodigo com’è di aneddoti, curiosità, teorie, giudizi e soprattutto minuziose descrizioni di ogni aspetto della vita locale. Egli glossa il glossabile provando a disinnescare luoghi comuni e pregiudizi, rinnovare saperi, presentare curiosità. Come giustamente nota Angel Quintana, Il sistema enunciativo che la serie utilizza per trasmettere un sapere è molto semplice e ricorda anche la dialettica del cinema primitivo. L’atto di enunciazione attraverso la voce di commento è intimamente legato a un’esperienza precedente, quella del viaggio. Ecco perché il dispositivo televisivo deve mostrare in studio il corpo di chi ha visto l’India, un corpo testimoniale che legittima l’esistenza di un io narratore e i suoi commenti […]. Il cineasta assume la posizione di chi spiega le immagini – il bonimenteur – all’epoca del cinema dei primi tempi. Sebbene le immagini registrate da Rossellini riflettano un’esperienza vissuta, la serie TV non è una sorta di diario personale, ma un’opera didattica nella quale il cineasta cela la propria esperienza sotto la maschera dell’obiettività. Per condurre in porto questa strategia, egli deve fare del suo commento un atto pedagogico. Dato che i fatti raccontati dal narratore non sono esposti con un tono soggettivo, questo narratore si presenta come istanza detentrice di un’informazione privilegiata.25

Quanto viene realizzato dalle trasmissioni televisive assomiglia in altri termini sia alla pratica dei filmini amatoriali di viaggio, sia alle modalità di fruizione dei film dei primi tempi, commentati «live» da un bonimenteur chiamato a rassicurare e, insieme, ad affabulare spettatori digiuni di vedute lontane. In tal modo, il regista in studio si erge a personaggio centrale del programma televisivo, anzi, a protagonista assoluto della trasmissione, così come assume centralità semantica il luogo di registrazione sonora e di emissione della sua voce, una centralità che potremmo dire pari, 24 25

Sulle differenze tra le due serie, quella francese e quella italiana, si faccia riferimento ancora ai testi già citati di Luca Caminati e Carmelo Marabello. A. Quintana, Voix plurielles, voix distantes cit., in N. Bourgeois, B. Bénoliel (a cura di), op. cit., pp. 86-87 (trad. e corsivi miei).

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se non superiore, a quella dei luoghi visitati. Ne consegue che la partecipazione per i destini dell’India, la simpatia più volte manifestata per la cultura di quel paese, i dotti rimproveri che Rossellini rivolge al giornalista quando questi inciampa in semplificazioni o imprecisioni (soprattutto nella versione italiana), possono essere considerati anche come una sorta di maschera o se si preferisce un vestito di scena «indossato» per coprire con il velo dell’autorevolezza un certo paternalismo umanista che ne contraddistingue l’atteggiamento e la presenza. Basterebbe, tra l’altro, analizzare l’esordio della serie televisiva italiana per ritrovare «in azione» il fenomeno comunicativo appena descritto. I due commentatori si preoccupano, fin da subito, di chiarire i rispettivi obiettivi e i rispettivi ruoli: l’uno – il giornalista stanziale – si dimostra alla ricerca (claudicante) di conferme a paradigmi culturali che immagina di condividere con gli spettatori e che sente di dover rappresentare all’interno della diegesi televisiva; l’altro – il cineasta viaggiatore – sembra spinto, al contrario, dalla determinazione di offrire un’immagine diversa dell’India rispetto a quella abituale, distaccandosi dunque radicalmente dalle opinioni più comuni. Da qui emerge, già dalle prime battute del programma, uno scontro dialettico misurato e sopito solo dall’atteggiamento un po’ sornione di Rossellini. Faccio notare fin da subito che si tratta di uno scontro indispensabile per assegnare le rispettive identità e competenze, come si può facilmente evincere da questo scambio di battute: (MCS) Oddio, quest’India la conosciamo un po’ tutti…, così, per sentito dire, per letture, meglio, abbiamo letto tutto quello, tutto quello che si sa di mitico e di favoloso dell’India, per cui abbiamo tutti nella nostra testa probabilmente dei luoghi comuni sull’India…. (RR) (interrompendolo) Molti. (MCS) … Molti, addirittura! (e sorride)… (RR) Sì. (MCS) … che sono quelli di Kipling, di Salgari, direi, quelli che abbiamo letto da bambini…. (RR) (ancora interrompendolo) Forse Salgari è il più, il più onesto no? Il più vero, ecco. (MCS) (in difficoltà) ehm, allora, appunto, paese favoloso, favola… (RR) (bloccando il discorso ancora), beh no non è così, è un paese

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favoloso, favoloso per quello che sta facendo, ma non è un paese favoloso nel senso che intende lei. (MCS) Beh, sì, io dico proprio nel senso degli incantatori di serpenti… (RR) (scuotendo la testa) No, no, no. (MCS) … dei diamanti grossi come nocciole. (RR) (spazientito) Sì, ci sono degli incantatori di serpenti, ci sono i maharaja, ci sono i diamanti, probabilmente, io non li ho visti però, invece è un paese straordinario, straordinario proprio perché sta facendo una grossa battaglia per il suo sviluppo. Poi dovrei dire che forse è l’incomprensione dell’India che ha fatto nascere tanti miti. Si parla ad esempio del misticismo. Non si può certo dire che gli indiani non siano mistici, ma lo sono in un modo differente da quello che noi pensiamo. Ci sono i serpenti, però i serpenti non si vedono, gli incantatori di serpenti non sono quelli che noi diciamo e così i fachiri, così i maharaja. Lo sforzo che ho fatto è di vedere l’India, di vedere un’India assolutamente reale.

In questa contrapposizione dialogica – mi pare evidente – sussiste un gioco delle parti che, da un lato, mira a rendere avvincente e serrata la conversazione e, dall’altro, a trasformare il cineasta in una «istanza detentrice di un’informazione privilegiata». In tal modo «la funzione di Rossellini come istanza di enunciazione presente nello studio televisivo finisce per essere vicina più alla figura dello specialista che non a quella del testimone»,26 o più precisamente a quella della guida che accompagna per mano il neofita in una certa realtà che solo il primo conosce. Da qui le ragioni per una prosodia sicura, per l’auto-assegnazione di un’autorevolezza («Lo sforzo che ho fatto è di vedere l’India, di vedere un’India assolutamente reale»), la pazienza e la generosità del pedagogo che decide di condividere i propri saperi con gli altri. Ne consegue che l’apparente dissidio tra regista e giornalista nasconde una complementarietà tra attese confermate e altre rovesciate che si dipana in un alchemico dosaggio di elementi retorici e/o iconici che mai lacera le abitudini ricettive dello spettatore, garantendo, così, una rassicurante curiosità verso l’allogeno. Gli stessi essenzialismi «anti-cliché» proposti a voce dal regista – la prima puntata, ad esempio, s’intitola emblematicamente India senza 26

A. Quintana, op. cit., p. 87.

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miti – diventano, a tal proposito, un modo efficace e indiretto per statuirsi come autorità narrativa, come chi è in grado di proporsi come sguardo vero, quando non splendido. Potremmo chiamarle delle glosse del sé anche quando si manifestano, o vorrebbero manifestarsi, come glosse dell’alterità. Si pensi, ad esempio, a quando Rossellini definisce l’India come un grande stomaco che «assimila e digerisce tutto», che incorpora e ingloba ogni diversità e ogni sollecitazione esterna: è probabile che egli usi una metafora visivamente suggestiva – come aveva già fatto con quella degli uomini «cuciti» e «drappeggiati» – anche nella speranza che commentatori e studiosi la adottino per definire il suo modo di fare e intendere cinema, capace di assimilare le sollecitazioni dell’esistente; oppure alle numerose volte in cui afferma il grado di tolleranza del popolo indiano (ignorando, per esempio, quanto successo in Kashmir), forse per vedere assegnata alla sua persona e ai suoi film la medesima tolleranza e disponibilità inclusiva; o ancora alla sequenza finale della puntata, quando sappiamo dalle sue parole che la folla che assiste all’esibizione malconcia di un incantatore imbranato si è accalcata attorno all’uomo incuriosita soprattutto dalla presenza in loco della troupe occidentale, come se fosse la macchina da presa – e dunque lo stesso regista, la sua presenza nella piazza pubblica – la vera esibizione in atto. Più in generale si può dire che i documentari indiani di Rossellini da una parte cercano di offrire uno spaccato ampio e tempestivo della società multietnica indiana, in una tensione verso la realtà che è insieme passione per la scoperta e responsabilità di uno sguardo personale, ricerca di un’essenza e accentuazione di una soggettività in azione. Scrive a tal proposito Marabello: La scelta etica di Rossellini non si manifesta certo nella pratica della camera partecipata di Rouch, nella produzione di film come approssimazioni successive i cui esiti intermedi di montaggio sono condivisi con i nativi filmati. Rossellini, sodale di Rouch nella Parigi dei primi anni Cinquanta, criticherà poi l’ipotesi di cinéma vérité del cineasta antropologo leggendola come strategia di camouflage, elisione della responsabilità di restituzione del mondo nella forma del film di cui il regista è autore. Il cineasta italiano si pensa all’interno di un movimento dove la pratica dell’immagine nasce nella frizione e nella passione del reale, segno della realtà nella forma-film, memoria soggettivamente restituita, in un processo dove il linguaggio

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della rappresentazione e la tecnica della rappresentazione viaggiano insieme verso il vero, come pratica visibile del soggetto che filma - il movimento di macchina - e come pratica diversamente visibile della struttura formale - il montaggio.27

Tuttavia questa tensione verso il «vero», che potremmo ridefinire come tentativo di immersione in una realtà sconosciuta per comprenderne gli aspetti più intimi, più intensi, più vivi e poi per testimoniarla all’esterno seguendo un’istanza educativo-pedagogica e un’urgenza universalista, sembra portare con sé l’utilizzo costante di pratiche ermeneutiche traduttive semplificanti ed economizzanti, quindi aperte all’equivoco o all’opinione azzardata, situazioni dalle quali emerge il ruolo di «autorità etnografica» che egli in qualche misura cerca di ritagliarsi per ritrovare quella che Marabello chiama «la responsabilità di restituzione del mondo nella forma del film di cui il regista è autore». Capita così che in molti passaggi del documentario televisivo, quelli dove il regista si avventura in teorie sociali di difficile verifica,28 egli non dimostra soltanto un’assenza di consapevolezza riguardo il «particolare percorso delle nazioni postcoloniali, in particolare di quelle soggette alla forzata modernizzazione post-partizione come l’India»,29 ma ci fa capire come lo sguardo che egli posa sulla realtà indiana serve per riverberare di luce benigna le immagini, assegnando ai fenomeni osservati un carattere positivo indipendentemente dalle ragioni che ne hanno determinato la comparsa. Non dimentichiamo che si tratta di un pregiudizio positivo che acquista valore di verità in virtù dell’autorevolezza di chi lo comunica e che serve a definire anche il profilo «splendido» del cineasta. Penso alla sottolineatura continua dell’operosità, della razionalità, della coscienza orga27 28

29

C. Marabello, Nell’India di laggiù, cit., pp. 114-115. Ricordo almeno un paio dei tanti essenzialismi disseminati dal cineasta nel documentario televisivo. Nella seconda puntata della serie italiana, ad esempio, egli afferma che il sistema castale è il risultato di una razionale organizzazione sociale/etnica di tipo paritario, basandosi sul fatto che il termine «colore» e «casta» in sanscrito hanno la medesima etimologia; nel corso della terza puntata, invece, afferma l’assenza di senso storico negli indiani, visti come un popolo capace di «digerire» o «drappeggiare» anche il tempo; a proposito della cucina indiana, ne lamenta gusti e sapori, riconducendoli alla cucina italiana, ecc. L. Caminati, Una cultura della realtà, cit., p. 90.

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nizzativa indiana, caratteri che possono essere accolti come verosimili solo a patto di credere alle parole del nostro bonimenteur. Parole che, anche grazie alle sue capacità affabulatorie, arrivano a giustificare improbabili collazioni interculturali (ad esempio le imbarcazioni del Kerala considerate simili alle gondole veneziane; l’attitudine all’ozio che avvicinerebbe l’indiano all’abitante della Roma antica, ecc.), a sposare luoghi comuni sull’indole dei popoli o l’influenza di un determinato clima sul loro comportamento,30 a semplificare il funzionamento di certi sistemi di organizzazione sociale (vedi le joint family) o delle filiere produttive (l’industria del legno in Kerala), incedendo talvolta in eccessivo «trasporto» come quando osserva gli operai che costruiscono la diga di Hirakud e li descrive come persone «perfettamente coscienti che lo sforzo fatto accelera la trasformazione della loro vita». Al di là di approssimazioni o semplificazioni, presenti in quasi tutti i film odeporici, mi preme sottolineare il fatto che questi passaggi partecipano alla costruzione di una precisa identità dell’autore in viaggio, in virtù della sua capacità di proporre una sorta di essenzialismo di segno opposto rispetto ai luoghi comuni solitamente frequentati dall’orientalismo tradizionale. Faccio un solo esempio per rendere più evidente la disamina, recuperando le sequenze dedicate alla presenza di una società norvegese in Kerala chiamata dalle Nazioni Unite ad aiutare le popolazioni locali nello sviluppo dell’industria ittica. Mentre Rossellini commenta e descrive i metodi di pesca autoctoni, improvvisamente, senza alcuna preparazione, ecco comparire tre bambini biondissimi, quasi albini, che passeggiano su una spiaggia tropicale incrociando alcuni bambini indiani, dalla pelle più scura. La prima immagine di questo micro-brano è tanto stordente quanto inaspettata e plastifica l’opposizione fisica, cinetica e allegorica tra le due culture, quella europea/scandinava da una parte e quella indiana/tropicale dall’altra. Sembra sussistere un’inconciliabilità che potrebbe destabilizzare, in modi incongrui, le attese spettatoriali. In verità, con l’approfondirsi del micro-intreccio e la descrizione delle attività eseguite dal gruppo di operatori norvegesi, scopriamo che tale 30

«Come sempre il Meridione è più povero e più vivo» afferma durante la sesta puntata intitolata Le lagune del Malabar; «Al sud l’arte è più aggressiva» teorizza invece nella quinta puntata, intitolata Verso sud.

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antagonismo serve a Rossellini per portare avanti il suo discorso sulla razionalità e l’intelligenza degli indiani. Le barche disegnate dai norvegesi – racconta il regista non senza un tocco di causticità – sono più grandi, più capienti, più stabili di quelle indiane, dunque permettono una maggiore raccolta di pesce, nondimeno essendo state progettate per navigare nei mari del nord, sono troppo grandi per reggere la furia dei monsoni e sono costrette a restare ferme quattro mesi l’anno. Viceversa le imbarcazioni più leggere e rapide costruite nei secoli dai popoli indiani, a dispetto della loro apparente fragilità, riescono a navigare anche in condizioni climatiche avverse. La verità di Rossellini, così come statuita da Godard e dai successivi esegeti, non si trova, in definitiva, soltanto nelle immagini mostrate allo spettatore, né nelle teorie avanzate a glossa di quanto mostrato. Il vero, l’etnografia del vero, lo splendore del vero, sono semmai i modi di scrittura del sé da parte del nostro cineasta e la sua capacità retorica e persuasiva. Lo rivela plasticamente questa sequenza. Nel commentare le immagini dei norvegesi anche il giornalista Cesarini Sforza biasima il progetto delle Nazioni Unite e attesta, con un sorprendente trasporto emotivo, la maggiore razionalità e intelligenza delle pratiche indiane, dando finalmente ragione a Rossellini31. Quest’ultimo reagisce alle parole dell’interlocutore visibilmente sorpreso, quasi come se il copione non fosse stato rispettato. «Mi fa piacere che mi dia ragione» risponde con una malcelata, ma imprevista soddisfazione. E se anche il giorna31

Osservando le imbarcazioni indiane solcare l’Oceano il giornalista italiano afferma con un certo trasporto: «Adesso non vorrei che ne traessimo delle conclusioni errate da questa storia delle barche dei norvegesi in India, cioè, io mi rifaccio al suo discorso iniziale, ai suoi ragionamenti iniziali, Rossellini, cioè questo non è che dimostri che gli aiuti internazionali o che queste organizzazioni siano qualcosa di sbagliato o che non funzionino insomma, semmai dimostrano che l’India, proprio come diceva lei, è molto più razionale di quello che noi pensavamo, cioè che tutte le cose che vediamo fare e che ci sembrano strane, che ci sembrano arretrate o che ci sembrano enormi dal nostro punto di vista sono invece perfettamente logiche, o quasi, perfettamente razionali, date le condizioni dell’ambiente, e anche queste barche così apparentemente…». Lo interrompe Rossellini: «Mi fa piacere che mi dia ragione…». Ribatte allora sorridendo Cesarini Sforza: «Beh, sì, sì, mi sto convincendo anche io, sto diventando un po’ indiano!».

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lista che agiva da contraddittorio imbevuto di pregiudizi appartenenti all’immaginario orientalista classico accoglie e fa suo il «modernismo tradizionale» rosselliniano significa che l’opera di convincimento del cineasta ha raggiunto il suo apice, il suo risultato definitivo. Il bonimenteur ha persuaso anche il più «ottuso» dei suoi interlocutori e cionondimeno così facendo ha ostentato la ragione ultima della sua presenza. Il re inaspettatamente è nudo. In un certo qual senso, in questo passaggio, si scopre insomma che l’atto di «credenza nel mondo» che secondo Roberto De Gaetano tutto il cinema di Rossellini e in particolare il quasi coevo Viaggio in Italia chiedono di compiere allo spettatore, pena l’abbandono a uno stato di disillusione e disincanto32, si trasforma, durante il viaggio in India, in un gesto fideistico da rivolgere al corpo intra-intradiegetico stesso del regista. Senza croyance nelle sue parole e nel suo sguardo, nelle sue «verità» (in senso godardiano) e nel principio regolativo imposto dalla sua presenza nello studio televisivo, il rischio è di perdersi nel tecnicismo norvegese, ovvero di realizzare «barche cinematografiche» inappuntabili dal punto di vista estetico-formale, ma incapaci di reggere le intemperie della stagione delle piogge. Parafrasando altrimenti, non è solo questione di vestiti cuciti o drappeggiati da indossare, bensì di corpi già vestiti che sanno imporsi nell’agone relazionale, corpiglōssa in grado di assorbire i colpi inferti dai «monsoni» (il «fuorifilm», gli attacchi della stampa scandalistica alla sua persona, le domande «ingenue» del giornalista), senza smettere di navigare, anzi, trasformando questi materiali di inciampo in esperienze cinematografiche da filtrare, mostrare e raccontare.

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Cfr. R. De Gaetano, Viaggio in Italia. cit.; Id., Un sentimento scettico del mondo, in «Fata Morgana», n. 20, 2013, pp. 39-54.

CONCLUSIONI L’AUTORE IN VIAGGIO II

1. LA FURIA CONTRO L’ORDINE E L’ECLISSI DELLA DISTANZA

Voler tracciare delle conclusioni – poco importa se parziali o definitive – a un lavoro impostato volutamente secondo traiettorie analitiche dispersive e centrifughe, multivocali e irregolari, appare un proposito per lo meno sconveniente, da non perseguire per non inficiare la natura stessa dell’indagine. Nell’ultima parte di questo testo vorrei tentare semmai di ri-problematizzare alcune questioni sollevate nel capitolo intitolato, per l’appunto, «Questioni», alla luce dei casi appena studiati e delle convinzioni finora espresse. Riprenderò in particolare alcuni orizzonti teorico-metodologici (il «visibile» di Sorlin, il «fuori-film» di Odin, i nomadi di Altman, l’Autore come funzione distraente di Foucault, ecc.), ricollocandoli in un discorso nel frattempo arricchitosi di vari addensamenti semantici, come la produttività del malinteso e dello stereotipo, la concretezza dei «mondi finzionali possibili», il recitare lo sguardo e la voce dell’altro e così via. Da questo punto di vista un importante, ancorché datato, lavoro di Daniel Bell mi aiuta a trovare una sintesi, perché rimette in dubbio il costrutto «modernista» e quello «autoriale» con i quali mi sono misurato nelle scorse pagine, ridefinendone, almeno in parte, perimetri e periodizzazione. In The Cultural Contradictions of Capitalism1 – siamo a metà degli anni Settanta – il sociologo americano definisce il modernismo artistico e culturale (essenzialmente quello pittorico e letterario di inizio Novecento) come la forma più acuta di «sensibilità del moderno», condivisa da quegli attori sociali che si ritrovano stretti tra le trasformazioni strutturali della società da un lato e quelle della cultura dall’altro. Trattasi, ricorda Bell, di soggetti che reagiscono alle grandi rivolu1

D. Bell, Le Contraddizioni culturali del capitalismo, Fabbri editori, Milano 1978.

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zioni economiche, industriali e sociali del Novecento osteggiando le ideologie più diffuse e reazionarie, i fondamenti paradigmatici di una comunità, le forme abituali dell’organizzazione civile, acquisendo, di contro, una cognizione empirica e quasi empatica con l’esistente cangiante, per mezzo di almeno due processi caratteristici di relazione tra autore, opera d’arte, contesto e rivisitazione delle forme identitarie del sé.2 La prima categoria viene definita con la formula «eclissi della distanza»3 e serve per descrivere il processo di maggiore prossimità tra opera d’arte e spettatore da una parte e tra autore e opera d’arte dall’altra. Si tratta, a suo dire, di un’eclissi di alcune pratiche estetiche precedenti, come la contemplazione, la ponderazione e la canonizzazione estetiche, a tutto vantaggio di atteggiamenti immersivi, immediati, istintuali. Forzando un po’ il suo pensiero, potremmo dire che nel modernismo di Bell l’opera d’arte è il suo «autore» e viceversa il suo «autore» è l’opera d’arte; analogamente, vale anche il discorso opposto: l’opera d’arte è il suo spettatore e lo spettatore è l’opera d’arte. Chi guarda, in altri termini, interloquisce direttamente con l’«autore», attraverso e dentro l’opera d’arte, in una giostra medievale nella quale cavallo, cavaliere, contendente, lancia e armatura condividono il medesimo campo conflittuale, diventando tra loro quasi indistinguibili o comunque assolutamente liminari. La seconda categoria, che egli definisce con la formula «odio verso l’ordine»,4 veicola e incanala l’ambizione dell’«autore» verso la sua auto-infinitizzazione, sostituendo «l’ordine tradizionale dei valori […] con un nuovo sistema fondato sull’esperienza (estetica) e sulle sensazioni soggettive».5 Secondo la rilettura di questo passaggio da parte di un altro sociologo americano, Scott Lash: Ciò che è in discussione qui non è la più volte citata guerra moderni2

3 4 5

Forse è utile ricordare, in nota, che il testo di Bell si occupa solo marginalmente di modernismo artistico e letterario. Dunque la lettura che qui si propone del libro del sociologo americano tende a recuperare solo quei passaggi del suo pensiero che sono poi stati ripresi e commentati dagli studi sul modernismo e il postmoderno nei domini artistici semplicemente perché più prossimi alle questioni teoriche affrontate in questo studio. Ivi, pp. 99-119 (edizione inglese). Ivi, pp. 49-50. R. Ceserani, Raccontare il postmoderno, Bollati Boringhieri, Torino 1997, p. 127.

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sta contro il sacro, la sua originaria difficoltà e il tentativo di turbare il pubblico, di épater le bourgeois; non solo la rivolta anti-fondazionalista del modernismo e la rabbia contro lo stile dominante. Decisiva invece è la sua spinta verso l’auto-infinitizzazione; la sua insistenza sull’imperio del sé, sull’“uomo come creatura che si auto-infinitizza” spinto alla ricerca dell’oltre; la faustiana collocazione del sé al posto di Dio […]. Il sé nella dimensione faustiana del modernismo è per Bell indubbiamente non “l’uomo astratto”, o l’idea della sostituzione di Dio con le morali razionaliste dell’umanismo; piuttosto è un sé dionisiaco radicato in concezioni della soggettività estetico-sensibili. Non solo la natura formale e l’ordinamento razionale dell’arte modernista nei suoi primi decenni erano radicate in un insieme di valutazioni che rappresentavano l’apoteosi della dimensione estetica, ma questo estetismo era necessariamente congiunto a una psicologia imperniata sulla nozione di istinto, in quanto la giustificazione estetica della vita significava che la ricerca del sé doveva comportare l’esplorazione della sua relazione con la sensibilità.6

Il modernismo, verrebbe da dire, è considerato lo spazio dell’iper-soggettività, della relazione sensibile, dell’istinto che si aggiunge all’impressionistico, in un definitivo superamento del «moderno» come età del razionale, come espressione più alta e cosciente dell’illuminismo o dell’umanesimo, come evidenza del progresso tecnologico e dell’ampliamento dei saperi. Sappiamo bene che sulle tesi di Bell albeggia un dibattito che proporrà, negli anni seguenti, una progressiva e radicale sostituzione degli epistemi che descrivono le società contemporanee post-fordiste e postindustriali. Le sue posizioni dunque sembrano preparare il campo al diffondersi del concetto di «postmoderno», anticipando peraltro di poco tempo l’uscita del celeberrimo La Condition postmoderne. Rapport sur le savoir (1979) di Jean-François Lyotard,7 testo in cui il filosofo francese evidenzia l’entrata in crisi dell’età moderna e il conseguente dischiudersi di una nuova condizione antropologica e sociale che reagisce alla fine delle grandi narrazioni, che mette in discussione i principi di credenza o la preminenza del razionale sul timico. Nondimeno rileggere Bell (e altri)8 soltanto in fun6 7 8

S. Lash, Modernismo e postmodernismo. I mutamenti culturali delle società complesse, Armando Editore, Roma 2000, pp. 151-152. J. -F. Lyotard, La condizione postmoderna, cit. Su posizioni in parte equiparabili o comunque legate alle medesime

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zione dei contributi epistemologici che si susseguiranno significa, in qualche modo, rischiare di assegnare alla stagione modernista che egli cerca di descrivere una mera collocazione transitoria, di passaggio da una età moderna a una postmoderna, con il rischio di lasciarsi sfuggire alcuni suoi elementi specifici o di collocarli, una volta ancora diacronicamente e idealisticamente, nella linea di congiunzione tra due ipotetici poli. D’altronde, assegnare caratteri che successivamente varranno come marker del postmoderno (il sensismo, l’iper-soggettività, l’impressionismo) a fenomeni artistici che emergono in Europa all’inizio del Novecento come la letteratura inglese o le avanguardie storiche significa mettere in questione le modalità stesse di storicizzazione dei processi culturali e questa non è certo la sede più opportuna per un’operazione di tale complessità. Qui semmai è più appropriato declinare le due categorie belliane poc’anzi citate sul fronte delle esperienze odeporiche moderniste, per verificarne la singola pertinenza. La prima determinazione di Bell – tradotta nell’espressione «odio contro l’ordine» – si manifesta attraverso un’intensificazione delle sensazioni di contatto, un approccio emotivo, un’esacerbazione della soggettività. Da questo punto di vista, l’ipotesi sembrerebbe confliggere con quella ormai nota di Aumont per il quale il modernismo cinematografico degli anni Cinquanta/Sessanta/ Settanta si riconosce in «una modernità più risoluta, riflessiva, capace di teorizzarsi da sé, più consapevole della propria posizione in una storia della cultura e in grado di criticarsi per rinforzarsi»,9 ma anche con quella sostenuta da Giorgio De Vincenti secondo cui la modernità nel cinema si trova in quelle pellicole che coniugano «l’impegno metalinguistico con il recupero dell’aspetto riproduttivo del cinema».10 In estrema sintesi, per Aumont e De Vincen-

9 10

questioni storiografiche si collocano, ad esempio, i lavori di Alan Wilde (Id., Horizons of Assent. Modernism, Postmodernism, and the Ironic Imagination, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1987), Matei Călinescu (Id., Five Faces of Modernity. Modernism, Avant-garde, Decadence, Kitsch, Postmodernism, Duke University Press, Durham 1987), Peter Brooker (Id., Modernism/Postmodernism, Longman, London-New York 1992). J. Aumont, Moderno?, p. 48. «È proprio la combinazione dell’impegno metalinguistico con il recupero dell’aspetto riproduttivo del cinema (film come testo secondo, produzione nuova e critica di un testo preesistente) il motivo di fondo che definisce

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ti (ma anche per Païni e per altri), c’è modernismo nei lavori di quei registi che dimostrano di essere consapevoli del proprio ruolo artistico e creativo (da qui la riflessione metalinguistica) e della necessità di affermarlo interagendo in modo profondo, razionale, lucido con la realtà circostante. Da parte mia, alla luce del campo di studi appena attraversato, propongo di non polarizzare le posizioni appena declinate, bensì di coniugarle insieme in un’ottica d’interdipendenza. Mi sembra, infatti, che l’auto-infinitizzazione dell’autore/esecutore, impostata come progetto faustiano già fallimentare in partenza, debordi dal piano delle intenzionalità (e delle coscienze lucide) in un più ampio e disarticolato piano delle contingenze, delle sub-emozioni, dell’istintuale e dell’impressionistico. La condizione del viaggio aiuta certamente l’affiorare di tali atteggiamenti, ma per dirla con Lash non sarà difficile imbattersi, anche nei film «stanziali» modernisti, in una «ricerca del sé [che] comporta l’esplorazione della relazione con la sensibilità». Nei film modernisti di viaggio, ma anche nelle produzioni di registi come Godard, Bergman o Fellini, non è peregrino affermare che possa esistere una «coscienza incosciente» o meglio una coscienza che si àncora agli spettri emotivi e non solo razionali del contatto.11 La seconda determinazione, riassumibile nell’espressione «eclissi della distanza», ponendo l’autore/esecutore in un rapporto di prossimità, se non di contiguità, con gli altri attori della comunicazione sociale e audiovisiva, tende a mettere in pericolo il costrutto autoriale più ancora di quanto sia lecito aspettarsi. Se, infatti, ha ragione Bell quando sostiene che il modernismo

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a nostra avviso il moderno cinematografico propriamente detto». Cfr. G. De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, Pratiche editrici, Parma 1993, p. 19. Negli anni più recenti, la teoria del cinema ha ampliato, in maniera considerevole, il campo agli studi sull’emozione, l’affezione (nel senso deleuziano) e il sentimento, non solo a proposito degli studi sull’autore, sul genere o sul personaggio, ma anche come veicolo prioritario per l’analisi del film, per lo studio delle forme di ricezione spettatoriale e per la produzione di pensiero. Per un’introduzione in italiano a questo campo di studi si vedano almeno: G. Carluccio, F. Villa (a cura di), Dentro l’analisi. Soggetto, senso, emozioni, Edizioni Kaplan, Torino 2008; E. Carocci, Attraverso le immagini. Tre saggi sull’emozione cinematografica, Bulzoni, Roma 2012 e il numero 12 del 2011 della rivista «Fata Morgana», dedicato appunto al tema dell’emozione.

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contempla l’immersione psichica dell’autore nel testo, ponendosi come interfaccia diretta con il lettore/spettatore, eliminando filtri e distanze, ne consegue che tale collocazione dell’autore determina, almeno indirettamente, una messa in discussione della sua autorità/autorevolezza. Egli si getta o viene gettato nell’agone relazionale e pertanto è alla mercé di attacchi, di urti, pressioni e pungoli che possono provenire da altre parti del testo o dalla stessa attività ermeneutica del suo fruitore. Percorre uno spazio «indifeso», facilmente razziabile (per tornare alla metafora di de Certeau), sostanzialmente attaccabile nel territorio della comunicazione e dell’estetica. Si tratta, a ben vedere, di una prova di forza o meglio ancora di resistenza del costrutto autoriale di fronte alle increspature della relazione, alle sabbie mobili dell’intraprendenza esegetica, alle pressioni centrifughe che agiscono sopra, attraverso e contro di esso. Ne consegue che nell’ottica belliana il ricorso a strategie «meta-linguistiche» non vale come attestazione di una consapevolezza dell’autore circa le sua responsabilità e il suo statuto, ma come tentativo di collocare lo spettatore all’interno del setting, a contatto con «autore» e opera d’arte, per permettergli di respirare e conoscere le contingenze (e le pochezze) del lavoro della messa in scena, ribadendo – come dimostrano film come Bellissima (1952) di Luchino Visconti, Il disprezzo (Le Mèpris, 1963) di Jean-Luc Godard, 8 ½ (1963) di Federico Fellini, Effetto notte (La Nuit américaine, 1973) di François Truffaut e molti altri – l’ambigua e complessa assegnazione di intenzionalità estetica al regista.12 Quanto riscontrato in alcune vicende qui studiate – pensiamo ai casi di Rossellini, Pasolini o Antonioni – mi spinge ad affermare che un certo modernismo in viaggio possa assumere, con maggiore evidenza di quello «stanziale», le caratteristiche qui sopra riportate. Ci imbattiamo, infatti, in fenomeni o processi di autoinfinizzazione di faustiana memoria perché spesso l’«autore» certifica, in un solo viaggio, l’affermazione del sé e il suo fallimento. Esprime spesso «odio verso l’ordine», non solo da un punto di vista ideologico e militante: si pensi alle scritture non concluse dei tanti appunti, diari, sopralluoghi, making-of, alla precarietà dei modi di 12

Su questo particolare aspetto dell’autorialità si rimanda ancora a: L. Albano, Il secolo della regia. cit.

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ripresa in 16mm., agli allontanamenti dai canoni degli sguardi disciplinati e disciplinari (come quello etnografico), alla difficoltà di relazionarsi con altri ordini istituzionali (come Ivens e soprattutto Antonioni con il regime cinese). D’altra parte abbiamo assistito a molte «eclissi della distanza», non solo geografiche, ma anche fisiche/dialettiche. Ovvero discese da parte dei cineasti odeporici nell’agone dialettico delle forme, posizionandosi in uno spazio diegetico privo di difese: l’asma di Ivens, l’emaciata fisicità di Pasolini, i nascondimenti di Marker, il gigioneggiare di Rossellini sono stratagemmi discorsivi per mettersi alla prova, verificando la propria resistenza agli attacchi ermeneutici, la propria forza di informare un mondo, ovvero di dare forma a un coerente raggruppamento discorsivo. Ma anche le voci narranti a cui è stato dedicato molto spazio assolvono questa stessa funzione, quella di evidenziare un limbo extra-extradiegetico (un fuori-film) nel quale individuare la presenza scomoda, ingombrante e sviante del cineasta. Pescatore, a tal proposito, asserisce una convinzione utile anche in questo frangente: Assistiamo in questi casi a un doppio movimento, apparentemente antitetico: se da un lato l’autore appare come pronominalizzazione del movimento delle forme, dall’altro si manifesta come presenza più o meno esplicita e incombente inscritta nell’universo della rappresentazione, che è sempre più difficile far coincidere con i limiti angusti del testo. Un personaggio concettuale, o meglio percettuale, nella logica deleuziana, ma anche un autore-mondo, figurante e feticcio che si pone narcisisticamente al centro di una testualità diffusa. […] Il movimento che porta l’autore ad abitare come presenza e come marchio l’universo testuale è in realtà il prolungamento deviato del movimento che lo costruisce come forma pronominale del divenire delle forme. Un autore che si dà in una funzione intertestuale e/o paratestuale e che pare appartenere più al polo dell’enunciato che al polo dell’enunciazione, attore in senso semiotico (ma anche secondo il senso comune) di questa forma di testualità diffusa.13

Ancora una volta canoni modernisti e postmodernisti si sovrappongono. Qui Pescatore sta cercando di definire l’autore postmoderno, ricordando quanto egli appartenga al polo dell’enunciato, 13

G. Pescatore, L’ombra dell’autore, cit., p. 134.

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quanto sia un autore-mondo, un autore/attore che si pone, narcisisticamente, al centro di una testualità diffusa di cui è referente, o meglio soggetto di riferimento, nucleo responsabile degli indirizzi dati alle pratiche ermeneutiche tramite il tentativo di pronominalizzare il movimento delle forme. L’autore è brand, marchio di fabbrica, oggetto di culto, è, infine, distrazione, come già sosteneva Foucault, poiché è percetto, sistema di attivazione di percezioni che indirizzano le attenzioni dello spettatore sulla figura autoriale (auratizzata) e non altrove. Ora, al netto di caratteri sovra-sensazionali particolarmente accentuati nel cinema contemporaneo (il pastiche, la dimensione ludica, il citazionismo, la mostratività, l’iper-stimolazione), mi pare che alcuni degli attributi individuati da Pescatore (e prima ancora da Bell e altri) possano essere conferiti anche all’ambito del cinema odeporico modernista.14 Anche nei casi qui affrontati ci si è imbattuti spesso in autori/attori-mondo che presentificandosi (fisicamente, con la propria voce, con il proprio «sguardo fisso», o con il proprio carico fantasmatico) hanno risposto a una funzione catalitica, nel senso di Wollen, assimilando, attirando, informando non tanto le volontà e le intenzionalità creative a monte del film, quanto le pratiche ermeneutiche che si sono sviluppate a valle del film. Ed è con queste ultime che i registi (in carne e ossa) si sono relazionati, o accordandosi a esse o reagendo contro di esse, o, infine, cercando di ritagliarsi altri spazi di movimento all’interno di perimetri già configurati dalla funzione dominante assegnata loro. Da molti punti di vista l’Ivens engagé, il Pasolini inquieto, l’Antonioni pacato, il Marker felino, il Rossellini gaudente, la Varda schiva, il Wenders nostalgico hanno recitato nella parte dell’«autore», attribuendosi caratteristiche da personaggio, sia in termini di visibilità, sia in termini di prerogative attanziali. Sono, al dunque, cognomi, pronomi, ma sono anche nomi propri: Joris, Wim, Roberto, et Compagnie. Mettendosi in mostra o in scena, essi hanno denudato e denunciato, nei fatti, la dimensione arbitraria e autoritaria del costrutto che s’impegnavano a rappre14

Lo stesso Pescatore non nega la diffusione di pratiche analoghe anche in altri passaggi della storia del cinema, presentando ad esempio, nel medesimo volume citato, due approfondimenti analitici dedicati a Hitchcock e a Leone. Cfr. G. Pescatore, L’ombra dell’autore, cit., pp. 107-155.

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sentare. Lo hanno fatto – e in tal senso probabilmente ha ragione Lash – nell’ottica dell’indagine conoscitiva, ma anche in quella del sacrificio del sé (del riflettere su di sé) per ottenere un determinato scopo: Le rappresentazioni assumono una certa opacità nello stesso momento in cui divengono auto-legislative. Ciò che accade è che l’attenzione dell’osservatore viene attirata dalla superficie dell’immagine, vale a dire dalla rappresentazione stessa. […] Dire che il modernismo problematizza la rappresentazione equivale a vedere la produzione culturale nel modernismo come una sorta di esercizio di “soluzione di problemi” (o anche come un processo di apprendimento) in cui la decifrazione delle possibilità contenute nel materiale estetico è il problema che deve essere risolto.15

Recitare nel ruolo di «autore» – Pasolini avrebbe detto «darsi in pasto ai tigrotti affamati» – ha significato, spesso, accentuare il profilo narcisistico/mostrativo dei film odeporici ma, al contempo, ha consentito ai cineasti di indagare e forse disvelare, sacrificando il sé, il modo con cui funziona un processo autoritario che impone e altera, indirizza e distrae, configura e attrae, ben oltre le intenzioni del singolo. A partire da quella particolare strategia che abbiamo chiamato «recitare al posto dell’altro con lo sguardo fisso» e che qui potrebbe essere chiamato un esercizio di «soluzione dei problemi» che, proprio come ricordava Lash, rimane tuttavia sulla superficie delle immagini e delle rappresentazioni, perché è quello, essenzialmente, il campo di manifestazioni delle problematiche dell’alterità nel quale si possono esprimere i registi in viaggio. Può aiutare, a questo punto del discorso, recuperare parzialmente la proposta teorica di Bernhard Waldenfels il quale chiama «fenomenologia responsiva»16 quell’insieme di processi che configurano la costruzione dell’identità del singolo attraverso una serie di gesti reattivi e reagenti, spesso imprevedibili, innanzi al materializzarsi dell’estraneo: 15 16

S. Lash, op. cit., p. 24. Sulla fenomenologia responsiva rimando a: B. Waldenfels, Antwortregister, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1994 e, in italiano, B. Waldenfels Fenomenologia dell’estraneo, R. Cortina, Milano 2008.

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Con l’inizio dell’età moderna il grande ordine globale si frantuma, [...] si spezza la ‘catena dell’essere’, che un tempo collegava tutto con tutto, e il soggetto, nel quale l’ordine globale sembrava trovare il suo centro e cardine, si allontana gradualmente dal centro. Questa frantumazione della ragione e questo decentramento del soggetto appartengono alle avventure della modernità occidentale. Tali avventure [...] durano già da tempo; tuttavia, solo nel XVIII e nel XIX secolo e in maniera definitiva nel XX secolo l’estraneo penetra espressamente e irrevocabilmente nel nucleo della ragione e nel cuore stesso di ciò che è il proprio. La sfida lanciata da un estraneo radicale, rispetto al quale ci vediamo confrontati, significa che non c’è alcun mondo in cui siamo completamente a casa nostra e che non c’è alcun soggetto che sia padrone in casa propria.17

Secondo Waldenfels l’estraneità è una dimensione originaria dell’esperienza umana, è un «non sentirsi mai del tutto padroni a casa propria» che dipende dalla relazione con quegli elementi del fattuale di cui il «proprio» (ovvero il soggetto) non può «appropriarsi». È per questo motivo che l’estraneo appare, nella configurazione dei discorsi pubblici, a un tempo allettante e minaccioso. «Minaccioso poiché l’estraneo fa concorrenza al proprio e rischia di sopraffarlo; allettante poiché l’estraneo risveglia possibilità che risultano più o meno escluse dagli ordinamenti della vita propria»18.

Quella descritta da Waldenfels è, a ben vedere, l’ambivalenza che vivono in particolar modo i viaggiatori (compresi quelli con la macchina da presa), che esperiscono una perdita di centralità e, insieme, un’intensa autoreferenzialità, nel momento in cui praticano un movimento verso l’estraneo, scegliendo di non «accoglierlo» in casa propria, ma facendosi, per così dire, accogliere in casa sua. La lettura di Waldenfels che fa Fabio Ciaramelli può risultare utile per rafforzare il ragionamento:

17

18

B. Waldenfels, Politiche dell’estraneo. L’istituzione del moderno e l’irruzione dell’altro, a cura di F. Menga, Ombre Corte, Verona 2012, pp. 16-17. Per una lettura critica del pensiero del filosofo tedesco si veda la ricca prefazione al libro a firma del curatore. Cfr. F. Menga, L’istituzione e l’estraneo. Elementi di una fenomenologia del politico nella riflessione di Bernhard Waldefenls, in B. Waldenfels, Politiche dell’estraneo, cit., pp. 7-20. Ibid.

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L’estraneità, considerata come inaccessibilità immediata, va intesa come un’impossibilità fornita d’un contenuto positivo. […] Lungi dal presupporre l’appropriazione preliminare del proprio, l’inaccessibilità immediata dell’estraneo scuote la presunta indipendenza del proprio, la sua immaginaria coincidenza immediata col sé. L’ambiguità della reazione all’estraneo è inevitabile, sempre oscillante tra gli estremi della curiosità e del fastidio, dell’integrazione nel proprio e della dissoluzione del proprio. La radice di questa peculiare ambivalenza affettiva, cioè di questa oscillazione tra fascino e minaccia cui l’esperienza dell’estraneo è in quanto tale connessa è ciò che l’accomuna al “sacro” e al “perturbante”.19

Il «proprio» di fronte all’«estraneo» viene scosso nella sua convinzione di vivere una presunta autonomia e omogeneità, condizione che si rivela frutto di proiezioni e autoinganni. Se poi il proprio è il regista-narcisista in viaggio che si fa personaggio (Roberto, Pier Paolo, Michelangelo, ecc.), la fenomenologia responsiva di Waldenfels diventa una presa di responsabilità del singolo che si traduce nella reazione all’inatteso mimetico attraverso l’accrescimento del sensibile, la sperimentazione dei sensi come declinazione alla pluralità degli approcci, degli incontri, dei cinema avrebbe detto Astruc, delle routes avrebbe detto Clifford. Contemporaneamente, però, la strategia responsiva dell’io «auto-infinitizzato» diviene invenzione, tipizzazione, frammentazione, ibridismo, alterità assoluta, ovvero tutte forme discorsive che evidenziano la pochezza del «sé» (nel senso della sua limitatezza, della sua parzialità), ma che, da un punto di vista degli studi postcoloniali, rappresentano pur sempre un meccanismo per silenziare i nativi. E in questa condizione paradossale, nel senso di Compagnon, diventa inevitabile l’ingenerarsi di malintesi che portano con sé – una volta ancora – quella che Ciaramelli, riprendendo il pensiero di Waldenfels chiama «ambivalenza affettiva, cioè [quella] oscillazione tra fascino e minaccia cui l’esperienza dell’estraneo è in quanto tale connessa [ed] è ciò che l’accomuna al “sacro” e al “perturbante”». Un senso ancora più accentuato se tale dinamica si reifica, come dicevamo, durante il viaggio, durante il movimento. È pur vero che in questa sorta di continuo «darsi in pasto», lo 19

F. Ciaramelli, La distruzione del desiderio. Il narcisismo nell’epoca del consumo di massa, Edizioni Dedalo, Bari 2000, pp. 106-107.

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spettro del «visibile» può accogliere nuove ampiezze. I casi studiati hanno dimostrato, intanto, quanta visibilità desiderassero ottenere i registi odeporici nel momento in cui hanno girato i propri film: visibili le loro silhouette, udibile la loro voce, visibili le tracce lasciate sul cammino, visibili i luoghi di transito o di soggiorno, visibili le popolazioni incontrate. Si ricorderà quanto si diceva a inizio del volume a proposito della proposta sorliniana, ovvero che doveva ritagliarsi una particolare applicabilità nell’ambito dell’orientalismo, normalizzando il piacere per l’esibizione del diverso. Per essere «accettato senza stupore», sostenevo rileggendo Sorlin, il «visibile esotico» doveva presentarsi come «mondo plausibile in quanto dissimile, familiare perché totalmente ‘altro’». Ebbene, alla fine di questo studio, possiamo affermare che la diversità esibita, mostrata e istituzionalizzata dal film odeporico modernista è soprattutto quella del suo «autore», quella di un fascio di discorsi personificatosi in prosopopea che istituzionalizza la messa in scena dell’arbitrarietà come forma di spiazzamento (meta)cinematografico. Eclissando le distanze e inserendo il responsabile del testo filmico nello stesso campo cinematografico e geografico dell’opera, degli attori, degli indigeni, dei riti, delle primi piani, dei set sotto il monte Fuji, dei soldati di terracotta, il visibile orientalista si rigenera perché colto da una prospettiva soggettivante e autoreferenziale, allargando parallelamente i territori dell’invisibilità e gli spazi del distraente. Anche a questo servono i meccanismi di «distrazione» foucaultiani che ho individuato nei precedenti capitoli, dalle voci extra-extradiegetiche alla recitazione al posto dell’altro, dalla fotogenia del volto alla moltiplicazione dei registri narrativi. Mi pare, infine, che l’«eclissi della distanza» e la «furia contro l’ordine» diventino due chiavi di lettura efficaci per ri-orientare anche il profilo di genere del film odeporico modernista. Nell’immagine simbolica mutuata da Altman a partire da un testo di de Certeau, quella cioè che descrive la trasformazione del genere attraverso la metafora del conflitto tra comunità stanziali da una parte e gruppi di nomadi dall’altra, si possono ritrovare anche le metafore belliane: l’eclissi della distanza è, per molti versi, l’accentuarsi di uno spazio liminare tra fenomeni di conservazione (le comunità/la funzione-autore) e altri di trasformazione dell’esistente (i nomadi/la funzione-ricezione), mentre l’odio dell’ordine è quello provato dai nomadi nei confronti di una stanzialità valo-

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riale che da «costituita» cerca di diventare «sostituita» (i registi che sostituiscono il se orientalista al visibile orientalista «classico»). Sotto questa luce, ossia considerando il film di viaggio (che si lega agli omonimi generi letterari e figurativi) come un genere (o un sottogenere) a se stante, la particolare collocazione dell’autore come viaggiatore acquista un profilo capace di rispondere alle sollecitazioni eteroclite a cui è sottoposto una volta messosi in viaggio. Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, infatti, l’autore odeporico mette in discussione la propria autorevolezza/autorità in campo «avverso», nel campo dell’«altro», accentuando (e non eclissando) la distanza tra il sé, l’opera e chi vive nel mondo «caldo» e «protetto» della sala cinematografica o nel contesto originario di partenza (non a caso spesso questi film non sono compresi dagli spettatori e/o dalla critica né autoctona né del paese natale). Egli non è un nomade, bensì una comunità stanziale che si mette in cammino. D’altra parte anche l’altro paradigma belliano, applicato alle dinamiche odeporiche, si reifica nel paradosso: la «furia contro l’ordine» (l’auto-infinitizzazione) qui agisce in un territorio di caccia «esotico» nel quale il viaggiatore/regista è egli stesso il detentore di un ordine costituito e comunicato, quello del sapere/ potere occidentale, da cacciare, in tutte le accezioni del termine. Questo potere, come ho cercato di dimostrare nei capitoli precedenti, silenzia l’altro, costringendolo, come parziale contropartita, a osservare, bandire, giudicare, criticare, da una posizione altrettanto marginale, provando a sua volta un «odio» o almeno un biasimo nei confronti del viaggiatore/regista. E se nei film di viaggio degli autori moderni assistessimo – ennesimo paradosso – a un’eclissi che aumenta le distanze e a una furia contro l’ordine che, da questi personificato e finzionalizzato in modo più o meno consapevole, si rivela essere una furia contro se stessi?

Appendice fotografica

Fig. 1. Intraducibilità. Io e il vento. «Dieci minuti di girato e otto angoli di ripresa».

Fig. 2. Intraducibilità. Io e il vento. Ivens e il falso esercito di terracotta.

Fig. 3. Condensati dell’alterità. Tokyo-Ga. L’industria che produce sampuru.

Fig. 4. Condensati dell'alterità. Chung Kuo - Cina. L’agopuntura e gli «antichi insegnamenti».

Fig. 5. Condensati dell'alterità. Chung Kuo - Cina. Esercizi di Tai-chi nei parchi cinesi.

Fig. 6. Condensati dell’alterità. Tokyo Ga (a e b); Sans soleil (c). I balli takenoko-zoku nei parchi giapponesi.

Fig. 7. L’Oriente come palcoscenico. Chung Kuo - Cina. La chiave dell’incomprensione.

Fig. 8. Finzioni. La tigre di Eschnapur. Chandra in visita al Tempio Jagdish.

Fig. 9. Finzioni. La tigre di Eschnapur. La danza di Seetha e Harald che spia.

Fig. 10. Finzioni. Il fiore delle Mille e una notte. Budùr, Aziza e Aziz.

Fig. 11. Finzioni. Hiroshima mon amour. «Mentisco e dico la verità».

Fig. 12. La prima cosa che vediamo. Chung Kuo - Cina. Titoli di testa.

Fig. 13. La prima cosa che vediamo. L’India fantasma. Titoli di testa.

Fig. 14. La prima cosa che vediamo. Appunti per un film sull’India. Casting.

Fig. 15. La prima cosa che vediamo. Sans soleil. Al mercato di Pidjiguiti.

Fig. 16. Offrirsi in pasto alla narrazione. Il fiore delle Mille e una notte. Fotogenia dei volti.

Fig. 17. Etno-grafie. A.K.. Il sistema solare.

Fig. 18. Etno-grafie. A.K.. Il sistema solare e il Sensei.

Fig. 19. Etno-grafie. Tokyo-Ga. «Mi sono perso in una delle tante sale del pachinko»

Fig. 20. Etno-grafie. Sopralluoghi in Palestina. «Tutto sta dentro un pugno».

Fig. 21. Corpi. Rossellini, Ivens, Malle. Corpi intra-intradiegetici.

Fig. 22. Corpi. Pasolini, Marker, Wenders. Corpi intra-intradiegetici.

Fig. 23. Corpi, fantasmi, macchine. Hiroshima mon amour; Appunti per un film sull’India; Sans Soleil. Camera car.

Fig. 24. Corpi, fantasmi, macchine. L’immortale; Sopralluoghi in Palestina; Appunti di viaggio su moda e città. Camera car.

FILMOGRAFIA DI RIFERIMENTO

L’isola della donna contesa (Ana-ta-han) di Josef Von Sternberg, Giappone 1953. Dimanche à Pékin di Chris Marker, Francia 1955. Letters from China di Joris Ivens, Cina 1958. Lettre de Sibérie di Chris Marker, Francia 1958. La muraglia cinese di Carlo Lizzani, Italia 1958. Hiroshima, mon amour (id) di Alain Resnais, Francia/Giappone 1959. L’India vista da Rossellini di Roberto Rossellini, Italia 1959 (serie televisiva composta dai seguenti dieci episodi: India senza miti; Bombay, la porta dell’India; Architettura e costume di Bombay; Varsova; Verso il Sud; Le lagune del Malabar; Il Kerala; Hirakud - La diga del fiume Mahadi; Il Pandit Nehru; Gli animali in India). India Matri Bhumi di Roberto Rossellini, Italia-Francia 1959. La tigre di Eschnapur (Der Tiger von Eschnapur) di Fritz Lang, GermaniaFrancia-Italia 1959. Il sepolcro indiano (Das indische Grabmal) di Fritz Lang, Germania-Francia-Italia, 1959. L’immortale (L’immortelle) di Alain Robbe-Grillet, Turchia-Francia-Italia, 1963. Le mystère Koumiko di Chris Marker, Francia 1965. Le ciel, la terre di Joris Ivens, Francia 1966 Si j’avais quatre dromadaires di Chris Marker, Francia-Germania 1966. Lontano dal Vietnam (Loin du Vietnam) di Joris Ivens, William Klein, Claude Lelouch, Agnès Varda, Jean-Luc Godard, Chris Marker, Alain Resnais, Francia 1967. Appunti per un film sull’India di Pier Paolo Pasolini, Italia 1968. Calcutta (id.) di Louis Malle, Francia, 1968. Le 17e parallèle. La guerre du peuple di Joris Ivens, Marceline Loridan, Francia-Vietnam 1968. Vieni dolce morte… di Paolo Brunatto, Italia 1968. L’India fantasma (L’inde fantôme) di Louis Malle, Francia, 1969 (serie televisiva composta dai seguenti sette episodi: La caméra impossible; Choses vues à Madras; Les indiens et le sacré; Rêve et réalité; Regards sur les castes; Les étrangers en Inde; Bombay, l’Inde future). Migrazione di Massimo Bacigalupo, Italia 1970.

Le mura di Sana’a di Pier Paolo Pasolini, Italia 1971. Chung Kuo - Cina di Michelangelo Antonioni, Italia-Cina 1972. Reminiscences of a Journey to Lithuania, Jonas Mekas, GB-Germania Ovest 1972. Il fiore delle Mille e una notte di Pier Paolo Pasolini, Italia/Francia 1974. India Song di Marguerite Duras, Francia 1975. Comment Yukong déplaça les montagnes di Joris Ivens, Marceline Loridan, Francia 1976 (Composto dai seguenti film: Autour du pétrole: Taking; La pharmacie nr. 3: Shangai; L’usine de générateurs; Une femme, une famille; Le village de pêcheurs; Une caserne; Impressions d’une ville: Changhai; Histoire d’un ballon: Lycée No 31 - Pékin; Le professeur Tsien; Un répétition à l’Opéra de Pékin; Entraînement au cirque de Pékin; Les artisans). Plaisir d’amour en Iran di Agnès Varda, Francia 1976. Son nom de Venise dans Calcutta désert di Marguerite Duras, Francia 1976. Les Kazaks - minorité nationale - Sinkiang di Joris Ivens, Marceline Loridan, Cina 1977. Les Ouigours - minorité nationale - Sinkiang di Joris Ivens, Marceline Loridan, Cina 1979. Sans soleil (id.) di Chris Marker, Francia 1983. Videocartolina dalla Cina di Bernardo Bertolucci, Italia, 1985. A.K. (id.) di Chris Marker, Francia-Giappone, 1985. Dal Polo all’Equatore di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Italia-Germania dell’Ovest, 1985. Tokyo-Ga (id.) di Wim Wenders, Usa-Germania dell’Ovest, 1985. Io e il vento (Une histoire de vent) di Joris Ivens, Francia-Cina, 1988. Appunti di viaggio su moda e città (Aufzeichnungen zu Kleidern und Städten) di Wim Wenders, Francia-Germania-Giappone 1989. Kumbha Mela di Michelangelo Antonioni, Italia, 1989. Apocalisse nel deserto (Lektionen in Finsternis), Werner Herzog, Francia-GBGermania 1992.

BIBLIOGRAFIA

La seguente bibliografia, senza obiettivi di esaustività sul tema, presenta una selezione dei volumi consultati nel corso della preparazone di questo studio. Ulteriori specifici richiami a taluni aspetti affrontati nei singoli capitoli o alla letteratura critica relativa ai singoli film analizzati si trovano nelle note a pie’ di pagina del testo. Abel R. (a cura di), French Film Theory and Criticism, 1907-1929, vol. 1, Princeton University Press, Princeton 1988. Abruzzese A., L’occhio di Joker. Cinema e modernità, Carocci, Roma 2006. Affergan F., Exotisme et alterité. Essai sur les fondements d’une critique de l’anthropologie, Presses Universitaires de France, Paris 1987, tr. it. Esotismo e alterità. Saggio sui fondamenti di una critica dell’antropologia, Mursia, Milano 1991. Albano L., La caverna dei giganti. Scritti sull’evoluzione del dispositivo cinematografico, Pratiche, Parma 1992. Albano L., Il secolo della regia. La figura e il ruolo del regista nel cinema, Marsilio, Venezia 1999. Albertazzi S., Lo sguardo dell’altro. Le letterature postcoloniali, Carocci, Roma 2000. Albertazzi S., Amigoni F. (a cura di), Guardare oltre. Letteratura, fotografia e altri territori, Meltemi, Roma 2008. Alemán J. (a cura di), Los Otros Entre Nosotros. Alteridad e Inmigración, Círculo de Bellas Artes, Barcelona 2009. Allport G., The Nature of Prejudice, Addison-Wesley, Reading 1954, tr. it. La natura del pregiudizio, La Nuova Italia, Firenze 1973. Alter N. M., Documentary as a Simulacrum. ‘Tokyo-Ga’ in R. F. Cook, G. Gemünden (a cura di), The Cinema of Wim Wenders. Image, Narrative, and the Postmodern Condition, Wayne State University Press, Detroit 1997, pp. 136-162. Altman R., Film/Genre, British Film Institute, London 1999, tr. it. Film/Genere, Vita & Pensiero, Milano 2004. Amalfitano P., Innocenti L. (a cura di), L’Oriente. Storia di una figura nelle arti occidentali (1700-2000), Bulzoni, Roma 2007.

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INDICE DEI NOMI E DEI FILM

400 milioni, I, 18n, 296; A.K., 18n, 168, 233, 271-272, 284, 288, 291, 295, 303-305, 312; Abel, 221n; Accattone, 248n, 249n; Aijaz, 103; Alleluya!, 48n; Allison, 64n; Allport, 117-118; Altman, 82-83, 85, 349, 360; Amenagual, 265n; Annabelle Serpentine Dance, 80n; Antonioni, 14, 17-18, 19n, 25, 38n, 39, 64n, 86, 101, 107-108, 124, 128, 131, 133, 149, 152, 164, 173-190, 216-217, 228-230, 233n, 235, 239, 245, 278, 280, 283, 285, 286n, 287, 323, 332, 354-356; Apocalisse nel deserto, 64n, 124; Appadurai, 283; Appunti di viaggio su moda e città, 18n, 153 , 296-297, 305, 312, 320, 323; Appunti per un film sull’India, 17, 64n, 124, 153, 162-163, 165, 230-231, 241, 248, 249n, 251-254, 295, 305, 307, 313, 322; Appunti per un’Orestiade Africana, 17n, 64n, 241, 296, 305; Appunti su “La città delle donne”, 305n; Appunti su un fatto di cronaca, 305n; Aprà, 294, 327; Arhneim, 120n; Artaud, 43-44, 45n; Asch, 55, 64n, 285; Astruc, 66-69, 359;

Atsuta, 313; Aumont, 101, 147, 236-238, 352; Awakening Giant. China, The, 184n; Bachtin, 95, 102, 301; Bacigalupo, 16, 306; Bacon, 33; Balázs, 120n, 236n; Balikci, 285; Balinese Family, A, 47n; Barba, 44; Barbato, 184n; Barrès, 35; Barthes, 76, 90, 94n, 107, 179, 203; Bassani, 259n; Bataille, 45n, 145; Bateson, 47; Baudelaire, 20; Baudrillard, 145; Baudry, 79n, 92; Bauman, 293; Bausinger, 118; Bazin, 74n, 99; Beardsley, 91; Beauvoir, 179; Becker, 133; Bell, 349-354, 356; Bellissima, 355; Bellour, 92; Bene, 16; Benjamin, 41; Berger, 117; Bergman, Ingmar, 101, 238 e n., 353; Bergman, Ingrid, 17n, 19n, 328, 331, 334; Bertetto, 91; Bertolucci, Bernardo, 16, 139-141, 308309;

420 Bertolucci, Giuseppe, 257n; Bhabha, 24, 75, 103-108, 118-119, 302; Bini, 255; Bjerre, 184n; Blow Up, 17n; Boatman, 38n; Bocca, 263; Bodei, 143-144, 149; Boetti, 43; Boillat, 159-160; Bonaparte, 33; Bonitzer, 158; Bordwell, 93-94, 303; Bourdieu, 74; Brâncusi, 42; Braque, 20; Brecht, 43; Breton, 45; Brilli, 32, 36-38; Brooker, 352n; Brunatto, 16, 258-259, 262, 306, 321; Brunette, 91; Burden, 46; Burnouf, 35; Burton, 35; Byron, 34-35, 39; Calcutta, 18n, 38n, 64n, 133-135, 167, 297 Călinescu, 353n; Calvino, 198, 263; Caminati, 241n, 247; Canova, 265n; Carluccio, 221n; Carrière, 184n; Casetti, 94, 223, 225, 292; Cavani, 125n; Cesaire, 76, 280; Cesarini Sforza, 164, 313, 338, 345 e n.; Chagall, 42; Chateaubriand, 34-36, 239; Chatman, 186; Chiarini, 252n; Chine, 184n; Chion, 158, 160; Chow, 24, 108-111, 132, 209-210, 213, 218; Chung Kuo - Cina, 17, 39, 64n, 141, 149-150, 167, 173-190, 216-217, 228229, 284, 296, 305, 322;

Orient (to) express Ciaramelli, 358-359; Cina è vicina, La, 17; Cinese, La, 16, 305n, 313; Citti, 210; Claudel, 34; Cléopâtre, 81n; Clifford, 44n, 163, 275, 277-283, 300302, 317-318, 359; Codelli, 178; Cœur fidèle, 226; Colette, 220; Comizi d’amore, 17n; Commémoration à Paris de la mort de Mao Ze Dong, 296; Comment Yukong déplaça les montagnes, 18n, 64n, 125, 164, 185n, 189n, 211, 285 e n., 296; Comolli, 79n; Compagnon, 19-20, 46, 94n, 359; Conrad, 45n, 280; Costa, Antonio, 143-144, 146-147, 251; Costa, Romano, 251; Cousteau, 63; Création de la Danse Serpentine, La, 80n; Creuzé de Lesser, 38; Dagrada, 333-334; Dal polo all’equatore, 297 e n.; Dall’Asta, 221n; Daney, 177, 180 e n., 187; Danse Serpentine n. 765, 80n; Danse Serpentine, 80n; Das indische Grabmal zweiter Teil, 81; Dasgupta, Hari, 329, 331; Dasgupta, Sonali, 295, 329-33; Davoli, 210, 260; De Bernardi, 16; de Certeau, 82-83, 163, 217 e n., 299, 354, 360; De Gaetano, 346; De Giusti, 252; de Mille, 220; de Nerval, 34-36; De Seta, 63; De Vecchis, 248n; De Vincenti, 352; Decameron, 241, 259 e n.;

Bibliografia Dedola, 249 e n.; Deleuze, 101, 234-235, 236n; Delluc, 219, 222-223, 225, 235; DeMille, 48n, 81-82, 219, 235; Derain, 42; Derrida, 90-91, 107, 281n; Desnos, 45n; Destino, 48n, 81; Di Carlo, 257n; Di Chio, 198; Di Gioia, 55; Diciassettesimo parallelo, Il, 18n, 52; Dieci comandamenti, I, 81; Dimanche à Pékin, 18n, 38n, 64n, 127, 141, 153, 284, 295, 297; Disappearing world, 56; Disprezzo, Il, 355; Disraeli, 35; Doane, 158-159 Doležel, 201; Donna che visse due volte, La, 307, 312; Donna del mondo, La, 57; Doughty, 35; Dozy, 35; Dubuffet, 43; Duchamp, 20; Due o tre cose che so di lei, 16; Dufaux, 55; Duras, 16, 64n, 108, 124, 164, 168n, 280, 283; Dyer, 24, 120-123, 132; Eco, 147, 177, 187-188, 198, 202, 204; Edipo Re, 241, 250-251, 296; Effetto notte, 355; Ejzenštejn, 48n, 235; Eliade, 34; Eliot, 35; Epstein, 220-221, 223, 225-227, 227n, 235, 262, 266; Europa ‘51, 17n; Faces of Changes, 56; Fanon, 75, 243; Farrère, 34; Fellini, 18, 238, 259n, 306n, 353-354; Ferranti, 257n; Ferrara, 263; Ferrero, 265n;

421 Fiore delle Mille e una notte, Il, 39, 106, 151-152, 163, 194, 205-208, 210211, 215, 242, 259n, 264-268, 284285, 295-297; First Days of a New Guinea Baby, The, 47n; Fisher, 299-300; Fiume, Il, 18n, 19n, 38n, 39, 125n, 328329; Flaubert, 34, 35, 36, 108; Focillon, 91; Fond de l’air est rouge, Le, 57; Ford, 99; Forster, 34; Foucault, 24, 35, 75, 91, 97-99, 101-102, 119, 147n, 349; Frammenti elettrici n. 2. Vietnam, 297n; Frammenti elettrici n. 4. Asia, 297n; Franju, 63; Freire, 76; Gandhi, Indira, 53; Gandhi, Mohandas Karamchand, 254; Gardner, 55, 64n, 285; Garnett, 57; Gatti, 295; Gauguin, 42-43, 108; Gautier, 34-35; Geertz, 290; Genette, 90n, 92; Ghezzi, 139, 141; Gianikian, 297; Giannussi, 330; Giglio infranto, 81, 235; Glissant, 103; Gobineau, 35; Godard, 17-18, 95n, 100-101, 147, 238, 306n, 313, 335-336, 338, 345, 353354; Goethe, 33, 35; Gončarova, 42; Gozzano, 34; Gramsci, 75, 119, 243; Griaule, 45n; Griffith, 81-82, 235; Grotowski, 44; Guareschi, 57, 256, 257n;

422 Hall, 103, 118-119; Hancock, 55; Harakiri, 48n; Hawks, 99; Hayakawa, 219-220, 222-223, 225, 239; Heath, 92; Herman, 329; Herzog, 14-15, 38n, 64n, 124, 281, 296; Hesse, 34; Hiroshima mon amour, 18n, 106, 132-133, 141, 152-153, 167, 194-195, 205-208, 215, 232, 238, 284, 297, 309, 313; Histoire(s) du cinéma, 147, 237; Hitchcock, 99, 307, 312; Hitler, 49; Ho Chi Min, 51, 312; Hobsbawn, 45; Homes, 145; Honda, 271; Hoveyda, 328; Hugo, 35; Huillet, 15; Humboldt, 35; Hverven, 57; Ianzelo, 55; Ichheiser, 117; Ichikawa, 155; Image d’Orient. Tourisme vandale, 297n; Images de Chine, 184n; Immortale, L’, 131, 231, 238, 313, 321322; Inagaki, 155; India fantasma, L’, 18n, 39, 64n, 133135, 153, 167, 217, 229-230, 284-285, 297, 309, 313, 321; India Matri Bhumi, 17, 39, 64n, 153, 164-166, 211, 284, 294, 330, 334, 335-338; India Song, 64n, 168n; India vista Rossellini, L’, 17, 57, 64n, 153, 164-166, 296, 335, 338-346; Indonesia Calling, 18n, 51; Intolerance, 81; Io e il vento, 18n, 115-116, 123-125, 131, 136-137, 141, 284, 320; Isola della donna contesa, L’, 18n, 19n,

Orient (to) express 39, 155-158, 161, 163, 165-166, 211, 239; Ivens, 14, 18 e n., 20, 25, 37, 38n, 51-52, 58, 64n, 65, 106-107, 115, 123, 125, 127, 131, 136, 141, 152, 164, 179-180, 184, 185n, 189n, 211, 280, 283-285, 286n, 288, 296, 309, 312-313, 320, 355-356; J’ai fait un beau voyage, 153, 164-166, 294, 332, 335; Jacopetti, 58; Jakobson, 320; Jenkins, 293; JLG/JLG - Autoportrait de décembre, 95n; Johnson, 198; Jost, 204; Journée d’Andrei Arsenevitch, Une, 303n; Joyce, 44, 108; Jullien, 54n; Kandinskij, 20, 42; Karmitz, 16; Kawakita, 157n; Kazaks, Les, 285n, 296; Kerba First Years, 47n; Kildea, 55; Kinglake, 35; Kipling, 34, 39, 340; Kittu, 329, 331; Klee, 42-43; Kokoschka, 43; Kristeva, 92, 107; Kudelski, 62; Kumbha Mela, 64n, 286n, 287; Kuntz, 118; Kurosawa, 124, 155, 168, 246, 272, 284, 287n, 291, 304, 312; L’età del ferro, 17n; La Cecla, 128-129; La Pira, 259n; Lacoste, 76; Ladro di Bagdad, Il, 81; Ladro di Parigi, Il, 19n; Lakoff, 198; Lalou, 338; Lamartine, 34, 35, 36; Lane, 35, 36;

Bibliografia Lang, 14, 19n, 25, 38n, 48n, 99, 124, 125n, 205 e n., 213, 216, 307, 335; Lash, 350, 353, 357; Laureux, 133; Lawrence, 108; Lê Ðức Thứ, 53; Lebel, 79n; Leiris, 45n, 200, 280, 281n; Lenin, 228; Letters from China, 18n, 51, 296, 309; Lettre de Sibérie, 18n, 38n, 64n, 106, 153, 309, 321n; Level Five, 18n, 295, 297; Lévi-Strauss, 76, 96, 145; Lévinas, 130; Leys, 177; Lippmann, 117-118, 122; Lizzani, 14, 20, 38n, 51, 164, 179, 313; Lontano dal Vietnam, 18n, 52, 64n, 153, 313; Loomba, 118; Loridan, 64n, 115, 123, 189n, 285-286; Loti, 34; Lubitsch, 81-82; Luckmann, 117; Lumière, 47; Lupton, 126; Lyotard, 109-110, 132, 281n, 351; MacDougall, 55, 285; Macke, 42-43; MacLaine, 184n, 185; Maffesoli, 144, 146, 148, 151, 153; Magnani, 334; Maîtres fous, Les, 290n; Malevič, 42; Malinowski, 45n, 277n, 280, 286, 290; Malle, 14, 18 e n., 19n, 20, 25, 37, 38n, 39, 64n, 65, 105, 107, 124, 128, 133135, 139, 141, 145, 151-153, 164, 167, 180, 217, 229-230, 233n, 245, 278, 280, 285, 286n, 287, 306, 309, 321, 323, 332; Malraux, 34, 281n; Mamma Roma, 249n; Manet, 20; Mantz, 57; Mao, 50-51, 102, 175, 184n, 306n, 322; Marabello, 315-317, 342;

423 Marc, 42; Marcellini, 334 e n.; Marcus, 275, 281n, 299-300, 317; Marin, 250; Marker, 14, 18 e n., 20, 25, 34, 37, 38n, 44, 57-58, 64n, 107-108, 124, 126127, 131, 141, 151-153, 164, 168-170, 180, 200, 211, 214n, 215, 231, 233 e n., 239, 280, 281n, 285, 286n, 287 e n., 291, 295, 297, 298n, 303-304, 309, 311-313, 320-321, 323, 355-356; Marshall, 55; Marton, 57; Marx, 228; Matisse, 42-43; Mauss, 145; May, 81; Mbembe, 75; McCurry, 233n; McLhuan, 293; Mead, 47; Medea, 241, 250, 296; Medvedkin, 303n; Mejerchol’d, 44; Mekas, 16, 164, 310; Melford, 81; Méliès, 47n, 80, 82; Merleau-Ponty, 74; Messina, 43; Métreaux, 45n; Metz, 79n, 92; Micciché, 57n; Michaud, 91; Michaux, 34; Migrazione, 305; Milarepa, 125; Miller, 56, 108; Mitry, 79n; Mizoguchi, 155; Mizuno, 156; Modigliani, 42, 108; Moilliet, 43; Mondo cane 2, 57; Mondo cane, 57; Monnikendam, 298n; Monroe, 257n; Montaigne, 33; Montand, 303n;

424 Montesquieu, 33, 107; Moore, 55, 64n; Morante, 241n, 244, 248n, 251; Moravia, 179, 241n, 244 e n., 245n, 248n, 259n, 263; Morin, 120n, 203; Mother Dao the Turtlelike, 297n; Mudimbe, 75; Muir, 35; Mura di Sana’a, Le, 153, 241, 258-263, 297, 313; Muraglia cinese, La, 51, 164, 313; Muraki, 271; Mystère Koumilko, Le, 18n, 64n, 126, 131-132, 142, 153, 170, 211, 231-232, 238, 284, 295, 297, 313; Nadeau, 68; Nakai, 271; Nasser, 53; Nehru, 53, 102, 218, 252, 312, 323, 328n, 329, 332-333; Nogami, 271; Nolde, 43; Nostra Signora dei Turchi, 16; Notte e nebbia, 324; Obadia, 54n; Odin, 24, 84-87, 199-201, 349; Oigours, Les, 285n, 296; Orient, 57; Östör, 55; Other Half of the Sky. A China Memoir, The, 184n; Ottinger, 16; Oudart, 92; Ozu, 124, 312-313; Padgaonkar, 295, 330, 332; Païni, 354; Paisà, 328; Palais des mille et une nuits, Le, 81n; Palmer, 35; Panofsky, 91; Parise, 259n; Pasolini e la forma della città, 153, 241, 258-263; Pasolini, 14-15, 17, 20, 25, 34, 37, 38n, 39, 50, 57, 64n, 86, 105-108, 124, 128, 133, 143, 145, 152-153, 162-164, 167, 180, 200, 205, 210-211, 215, 217,

Orient (to) express 225, 230-231, 233n, 239, 241-268, 277, 280, 283-285, 286n, 295, 297, 305-307, 309, 313, 316, 318-321, 323, 329n, 354-357; Pastrone, 81; Pavel, 199, 201; Pechstein, 43; Pellegrini, 210; Perkins, 117; Pescatore, 95-96, 220, 221n, 355; Petraglia, 255n; Peuple et ses fusils, Le, 18n, 52; Picasso, 42, 44, 108; Pickering, 117; Plages d’Agnès, Les, 298n; Plaisir d’amour en Iran, 152, 284; Pleynet, 79n; Pollaiolo, 256; Pollock, 20; Pontecorvo, 15; Pontormo, 251; Porcile, 249n; Pratt, 247n; Presa del potere da parte di Luigi XIV, La, 17n; Prevaricatori, I, 48n, 219, 222, 225, 235; Professione: reporter, 17n; Prosperi, 57-58; Proust, 108; Pudovkin, 48n; Quintana, 165, 339; Rabbia, La, 17n, 57, 241n, 254, 256258, 296-297; Radcliffe-Brown, 290; Rampini, 176n; Ran, 284, 303 e n.; Rashōmon, 246; Reminiscences of a Journey to Lithuania, 164, 310; Remotti, 209; Rémusat, 35; Renan, 35; Resnais, 14, 16, 18 e n., 25, 108, 124, 132, 164, 205, 239, 283, 297, 324; Ricci Lucchi, 297; Richardson, 55; Ricoeur, 13, 130, 199, 243;

Bibliografia Ricotta, La (episodio di Ro.Go.Pa.G.), 248-249, 251; Riffaterre, 92; Rivette, 100; Roanne, 184n; Robbe-Grillet, 14, 125n, 131, 164, 231, 283, 321; Roma città aperta, 333, 346; Rondolino, 327; Ronzon, 45; Ropars-Wuillemier, 91; Rosi, 38n; Rossellini, 14, 16-17, 19n, 25, 34, 37, 38n, 39, 57, 65 e n., 86, 99, 106, 108, 124, 128, 133, 135, 141, 151, 153, 164-166, 211, 215, 230, 278, 280, 283, 286n, 294-295, 312, 314, 316, 320, 322-323, 325, 327-346, 354356; Rosso Fiorentino, 251; Rouch, 15, 55, 63, 64n, 290, 296, 328, 342; Rousseau, 42; Russell, 300-303, 337; Ryan, 201, 246; Saddam Hussein, 53; Said, 24, 35-36, 74-79, 103, 159, 222225, 247n; Saitō, 271; Salgari, 39, 340; Salomè, 16; Sandall, 285; Sanguineti, 257n; Sano, 271; Sans soleil, 18n, 37, 38n, 64n, 106, 127, 141, 153, 169-170, 211, 232, 285, 295, 297, 305n, 307, 309, 311-312, 321n; Satō Eisaku, 53; Sceicco, Lo, 81; Schifano, 43; Scott, 35; Searle, 202; Segal, 198; Segalen, 34, 130-131, 200, 225, 280, 281n; Senghor, 76, 243; Sepolcro indiano, Il, 19n, 205n, 297; Sette meraviglie del mondo, Le, 57;

425 Seume, 33; Sherif, 117; Si j’avais quatre dromadaires, 64n, 297; Siamo donne, 17n; Signoret, 303n; Silberman, 303; Silverman, 102; Simmel, 41; Solitude du chanteur de fond, La, 303n; Son nom de Venise dans Calcutta désert, 168n; Song of Ceylon, 47n; Sontag, 177; Sopralluoghi in Palestina, 17n, 64n, 163, 165, 217-218, 241, 254-256, 273, 283-284, 307, 318-320, 322; Sorlin, 24, 73, 79-80, 82-83, 85, 94, 122, 349, 360; Sospetto tragico, 220; Souriau, 91; Spivak, 75, 103; Stalin, 228; Stendhal, 33, 35; Sternberg, 14, 18 e n., 19n, 25, 38n, 39, 124, 133, 155-156, 157n, 161-164, 170, 211, 323, 336; Sterne, 33; Straub, 15, 238; Stromboli terra di Dio, 17n; Sucksdorff, 63; Sukarno, 53; Tagore, 244; Tajfel, 117; Tarkovskij, 303n; Tempeste sull’Asia, 48n; Terra vista dalla luna, La, 249n; Tetzlaff, 57; Theonis, la donna dei faraoni, 81; Thompson, 57; Thornton, 16; Tigre di Eschnapur, La, 19n, 152, 193194, 205-208, 212-214, 215, 239, 297; Tito, 53; Tokyo Days, 18n, 295; Tokyo-Ga, 18n, 64n, 142, 147-148, 272-

426 273, 284-285, 288-291, 296, 305, 310, 312-313, 320, 323; Tombeau d’Alexandre, Le, 303n; Tonti, 165, 294, 327, 328n, 331; Trance and Dance in Bali, 47n; Tranchant, 333; Tre canti su Lenin, 48n; Tre passi nel delirio, 19n; Trento, 241n; Trinh, 75; Trombadori, 335; Truffaut, 67 e n., 100, 328, 354; Turin, 48n; Turksib, 48n; Turner, 282; Uccellacci uccellini, 249n; Ultimo imperatore, L’, 139, 308; Valet, 184n; Vangelo secondo Matteo, Il, 248, 249n, 251; Varda, 14, 25, 34, 106, 152, 164, 284, 298n, 313, 356; Vautrin, 294; Vengeance du Bouddha, La, 81n; Vente d’esclave au harem, 81n; Vérité, 333; Vertov, 48n, 134; Viaggio in Italia, 17n, 329, 333, 346; Viaggio sulla luna, Il, 106; Videocartolina dalla Cina, 139-140, 308, 309; Vieni dolce morte (dell’ego), 305, 322; Vigny, 35; Viola, 16;

Orient (to) express Visconti, 306n, 354; Viva l’Italia, 17n; Vuillermoz, 220; Waldenfels, 130, 357-359; Walsh, 81; Walton, 197, 201; War of the 600 Million People, The, 18n, 51, 296; Warburg, 91; Weber, 41; Weil, 35; Weill, 184n; Wenders, 14, 16, 18 e n., 20, 25, 37, 38n, 64n, 105-106, 108, 124, 128, 133, 147-148, 151, 154, 164, 168, 200, 281n, 284, 286n, 288, 290, 307, 310, 312-313, 320-321, 323, 356; Wilde, 352n; Wills, 91; Wimsatt, 91; Wollen, 95-97, 102, 356; Wright, 47; Xiao, 188-189, 190n; Yamamoto, 312, 321; Yamaneko, 169; Yanoguchi, 271; Young, 75; Youngblood, 297; Zabrinskie Point, 17n, 19n, 173; Zanoli, 259n; Zanzotto, 259n; Zhou, 185 e n.; Zijderveld, 117; Zimmer, 79n;

Cinema 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27

Jean-Luc Douin, Dizionario della censura nel cinema. Tutti i film tagliati dalle forbici del censore nella storia mondiale del grande schermo Massimo Donà, Abitare la soglia. Cinema e filosofia Angelo Moscariello, Breviario di estetica del cinema. Percorso teorico-critico dentro il linguaggio filmico da Lumière al cinema digitale Dziga Vertov, L’occhio della rivoluzione. Scritti dal 1922 al 1942 Enrico Biasin, Giovanna Maina, Federico Zecca (a cura di), Il porno espanso. Dal cinema ai nuovi media Thomas E. Wartenberg, Pensare sullo schermo. Cinema come filosofia Roland Quilliot, La filosofia di Woody Allen Andrea Panzavolta, Lo spettacolo delle ombre. Un itinerario tra cinema, filosofia e letteratura Francesco Ceraolo, L’immagine cinematografica come forma della mediazione. Conversazione con Vittorio Storaro Luca Taddio (a cura di), David Cronenberg. Un metodo pericoloso André Bazin, Jean Renoir Andrea Rabbito, Il cinema È sogno. Le nuove immagini e i principi della modernità Alessandra Spadino, Pasolini e il cinema ‘inconsumabile’ Una prospettiva critica della modernità Raffaele De Berti, Il volo del cinema. Miti moderni nell’Italia fascista Valentina Re, Cominciare dalla fine Damiano Cantone, I film pensano da soli Marco Senaldi, Rapporto confidenziale. Percorsi tra cinema e arti visivee Marco Boscarol (a cura di), Tetsuo: The Iron Man. Il cinema di Tsukamoto Shin’ya Luca Cosci, Monica Innocenti, Abcinema: abbecedario della settima arte Andrea Panzavolta, Passeggiate nomadi sul grande schermo. Saggi sul cinema da Ingmar Bergman a Tim Burton Francesco Zucconi, La sopravvivenza delle immagini nel cinema. Archivio, montaggio, intermedialità Gianni Volpi, Alfredo Rossi e Jacopo Chessa (a cura di), Barricate di carta. «Cinema&Film», «Ombre rosse», due riviste intorno al ’68 Cosetta Saba, Archivio, Cinema, Arte Cristina Formenti, Il mockumentary. La fiction si maschera da documentario Stefania Schibeci, Le Phénomène de l’extase di Salvador Dalí. Surrealismo, fotografia, montaggio Roy Menarini (a cura di), Cinema senza fine Ivelise Perniola, L’era postdocumentaria

28 Leonardo Gandini, Voglio vedere il sangue 29 Giancarlo Alviani, Un’aspirina e un caffè con Bernardo Bertolucci 30 Valentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84 31 Alfredo Rossi, Elio Petri e il cinema politico italiano. La piazza carnevalizzata. Contiene lettere e scritti di Elio Petri. Interventi di Goffredo Fofi, Franco Ferrini e Oreste de Fornari 32 Christian Uva, L’immagine politica. Forme del contropotere tra cinema, video e fotografia nell’Italia degli anni Settanta 33 Sara Martin, Streghe, Pagliacci, Mutanti. Il cinema di Álex de la Iglesia 34 34° Premio Sergio Amidei. Catalogo, 2015, pp. 132, Isbn 9788857531090 35 Alessandro Cadoni, Il segno della contaminazione. Il film tra critica e letteratura in Pasolini 36 Andrea Parlangeli, Da Twin Peaks a Twin Peaks. Piccola guida pratica al mondo di David Lynch 37 Andrea Rabbito, L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale 38 Deborah Toschi, La ragazza del cinematografo

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Finito di stampare gennaio 2016 da Digital Team - Fano (PU)