Andare FuoriRotta significa viaggiare potendo scegliere la propria direzione. "Non ho studiato cinema, e quando mi
192 32 3MB
Italian Pages 216 [224] Year 2015
Table of contents :
Copertina
Abstract - Autore
Frontespizio
Copyright
Introduzione
Berlino 1999
Le signore-asilo
Il muro
In guerra – Berlino
Balcani 2000
Traghetto Split – Ancona
Mostar – Dall’altra parte
Lettera a mio padre da Mostar
Jugo
Valona, Albania 2000
Primo viaggio a Valona
Brindisi
Valona
Valona – di nessun aiuto
Dalla nave. Lettera a Barbara
Dalla nave. Lettera a papà
Valona, Albania 2001
Le stelle di Valona
Aurel
Kosovo 2001
Daca & Albi
Lettera a mio padre dal Kosovo
Balcani 2001
Taverna Srpska
Partita a Calcio
Da Padova a Istanbul 2001
Padova-Istanbul via Belgrado
Istanbul – Sofia
Italia 2001
Piazza Duomo, Padova
Michela & Fatjon
Manifestazione a Cosenza e Vasile
Albania 2002
Carcere Tirana
Uzina Dinamo
Durazzo 2002
Nord Est Italia, nave Kawkab 2002-2003
Il primo incontro con i marinai della Kawkab
Diario di una giornata sulla Kawkab (scritto con Francesco Cressati, coautore del documentario Marghera Canale Nord)
Tate Modern
Tate: appunti per Kawkab sul piccolo diario nero
Iraq 2003
Diario da Baghdad
Moldova e Tunisia 2003
Moldova
Moldova-Tunisia
Senegal, Burkina Faso, Ghana 2004
Senegal – Prima Tappa
Senegal, appunti in versi
Lettera dal Gambia
Burkina Faso, appunti in versi
Ghana – L’Africa del calcio
Ghana – L’Africa del calcio 2
Ghana, appunti in versi
Il Ritorno
Italia 2004
Laboratori di Realtà
Chioggia, Alba
Tunisia 2005
Kerchaou
Niger 2006
Da Niamey al deserto
Andata, ritorno. E di nuovo andata.
Nord Est Italia, presidio San Pietro 2006-2007
Racconti collegati alla realizzazione di PIP 49 e de La Mal’ombra a San Pietro di Rosà (VI)
Lampedusa 2009
Pochi mesi dopo
Intensità (finale)
Ringraziamenti
In questo libro Andrea Segre ha raccolto alcuni dei diari scritti a mano durante dieci anni di viaggi fuori rotta. Da Valona a Dakar, da Pristina ad Accra, da Sarajevo a Ouagadougou, da Tataouine a Baghdad i diari portano il lettore a conoscere mondi appena fuori l’Europa di Schengen che il regista ha attraversato per conoscere le storie e le origini dei migranti spesso protagonisti dei suoi film. Da Padova a Porto Marghera, da Rosà a Chioggia si sofferma invece a riflettere sul mondo da cui la sua storia è partita e che più volte i suoi film hanno raccontato. Sono viaggi e riflessioni raccolte dal 1999 in poi, che aiutano a ragionare sulle cause di molte delle complessità e tensioni dell’oggi. è regista e ha conseguito il dottorato in Sociologia della Comunicazione. Da oltre dieci anni presta particolare attenzione al tema delle migrazioni ed è socio fondatore di ZaLab. ANDREA SEGRE
Ha diretto due film lungometraggi prodotti da JoleFilm: Io sono Li (candidato a quattro David di Donatello e distribuito in oltre 45 paesi) e La Prima Neve (sezione Orizzonti – 72° Mostra del Cinema di Venezia). Tra i suoi documentari: Marghera Canale Nord, A sud di Lampedusa, La mal’ombra, Come un uomo sulla terra (candidato miglior documentario al David di Donatello), Il Sangue Verde, Mare Chiuso (Globo d’oro miglior documentario) e Indebito.
Andrea Segre
FuoriRotta Diari di Viaggio Marsilio
Con la collaborazione di
www.montura.it In copertina: © Marco Lovisatti. © 2015 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia Seconda edizione digitale 2020 ISBN 978-88-317-3965-8 www.marsilioeditori.it [email protected] Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. Seguici su Facebook Seguici su Twitter Iscriviti alla Newsletter
Indice Copertina Abstract - Autore Frontespizio Copyright Introduzione Berlino 1999 Le signore-asilo Il muro In guerra – Berlino Balcani 2000 Traghetto Split – Ancona Mostar – Dall’altra parte Lettera a mio padre da Mostar Jugo Valona, Albania 2000 Primo viaggio a Valona Brindisi Valona Valona – di nessun aiuto Dalla nave. Lettera a Barbara Dalla nave. Lettera a papà Valona, Albania 2001 Le stelle di Valona Aurel Kosovo 2001
Daca & Albi Lettera a mio padre dal Kosovo Balcani 2001 Taverna Srpska Partita a Calcio Da Padova a Istanbul 2001 Padova-Istanbul via Belgrado Istanbul – Sofia Italia 2001 Piazza Duomo, Padova Michela & Fatjon Manifestazione a Cosenza e Vasile Albania 2002 Carcere Tirana Uzina Dinamo Durazzo 2002 Nord Est Italia, nave Kawkab 2002-2003 Il primo incontro con i marinai della Kawkab Diario di una giornata sulla Kawkab (scritto con Francesco Cressati, coautore del documentario Marghera Canale Nord) Tate Modern Tate: appunti per Kawkab sul piccolo diario nero Iraq 2003 Diario da Baghdad Moldova e Tunisia 2003 Moldova Moldova-Tunisia
Senegal, Burkina Faso, Ghana 2004 Senegal – Prima Tappa Senegal, appunti in versi Lettera dal Gambia Burkina Faso, appunti in versi Ghana – L’Africa del calcio Ghana – L’Africa del calcio 2 Ghana, appunti in versi Il Ritorno Italia 2004 Laboratori di Realtà Chioggia, Alba Tunisia 2005 Kerchaou Niger 2006 Da Niamey al deserto Andata, ritorno. E di nuovo andata. Nord Est Italia, presidio San Pietro 2006-2007 Racconti collegati alla realizzazione di PIP 49 e de La Mal’ombra a San Pietro di Rosà (VI) Lampedusa 2009 Pochi mesi dopo Intensità (finale) Ringraziamenti
FUORIROTTA
Introduzione
Marzo 2015 Sono seduto a un tavolo Ikea in una stanza interamente arredata Ikea in un hotel di Abu Dhabi e la cosa che mi è più chiara è che non so dove sono. Negli ultimi tre-quattro anni ho dovuto per lavoro trascorrere molte, troppe notti in luoghi come questo. Alberghi, aeroporti, sale convegni, centri residenziali. Luoghi di transito, spazi di sosta temporanea dove nulla ti dice dove sei e dove tutto è semplicemente utile e comodo. Sono luoghi che mi danno una forte angoscia. E il vero dramma è che ci stanno invadendo, stanno entrando nelle nostre città e nelle nostre case in modo sempre più inevitabile. Dicono che il motivo sia puramente economico: i salotti omologati, i bar anonimi, le fermate degli autobus in plexiglas, le sedie di finto vimini, le grandi e piccole stazioni, le poltrone, le pentole, persino i quadri e le colonne sonore, sono tutti uguali ovunque e il motivo è che costano di meno, convengono. In parte può anche essere vero, ma credo che il motivo più profondo sia una forma sempre più diffusa di pigrizia mentale e culturale. Un po’ ci dispiace non riconoscere odori e colori, ma se funziona ci sta bene. Possiamo disperderci e non sapere più dove siamo. Come in questo ordinatissimo salotto marroncino avvolto dall’aria condizionata, che separa la mia pelle dal deserto arabico, appena fuori queste enormi finestre ermeticamente sigillate. Una condizione di annullamento identitario che offre una sensazione di sicurezza e protezione. Scompariamo, ma non corriamo rischi.
Dentro questa dimensione una delle vittime più importanti è il viaggio. Negli ultimi anni spostandomi da albergo ad albergo, da salotto Ikea a salotto Ikea ho percorso migliaia di chilometri, ma molto spesso ho avuto la sensazione di non essere in viaggio. Non c’era nulla che mi mettesse a disagio, che mi costringesse a imparare nuove azioni, che mi aiutasse a sporcarmi con odori e colori nuovi. Così ho iniziato a fuggire da questi non viaggi, a ritornare a cercarne altri, viaggiando in una direzione che oggi è necessario definire fuori rotta. Terre vicine o lontane dove incontrare ciò che prima non conoscevo. Un’esperienza fondamentale che è stata da sempre la mia vera scuola di vita e di formazione professionale. C’è una piccola battuta su me stesso che faccio spesso, quando mi chiedono se ho frequentato il Centro Sperimentale di Roma (la scuola dove si è formata la maggior parte dei registi italiani) rispondo di no e aggiungo che ho frequentato il Centro Giovanile di Valona. Non è una scuola di cinema, ma il piccolo laboratorio di vita dove ho imparato a fare i miei primi documentari. Era il 2000 e attraversare l’Adriatico in direzione opposta alle migrazioni “illegali” di migliaia di albanesi fu una esperienza indimenticabile. Da allora per capire qualcosa di più del mondo e di me stesso ho cercato sempre più spesso di andare dove mi consigliavano di non andare. Così sono iniziati tutti i viaggi che questo libro conserva; sono alcune delle molte pagine di appunti che ho preso su piccoli e grandi quaderni che hanno viaggiato con me. Avevo voglia che l’importanza di questi viaggi si potesse in qualche modo sedimentare, non solo offrendo storie e racconti di mondi poco conosciuti, ma anche proponendo scelte e idee per reagire alla pigrizia che accompagna l’omologazione di oggi. Non serve andare lontano, anzi molto spesso i luoghi altri, le direzioni fuori rotta, sono molto vicine a noi, ma ci è assai più comodo non considerarle.
Questa è la storia del libro che avete in mano. E anche se raccoglie molti momenti del passato, ha in realtà un forte orizzonte futuro. Per due motivi. Il primo perché molte delle storie qui raccontate aiutano a riflettere su come va oggi il mondo e su come rischia di continuare ad andare. Il secondo è perché grazie alla sua distribuzione aiuterà la nascita di altri viaggi fuori rotta, non miei, ma di giovani cittadini del mondo che presentando i loro progetti al bando FuoriRotta avranno la possibilità di mettersi in viaggio. Nella speranza di poter presto leggere e ascoltare anche i loro diari, che potranno essere nuove fonti di energia per opporsi alla comodità di questi maledetti salotti stile Ikea. Infine un consiglio al lettore. L’ordine dei capitoli è cronologico e ho provato a tessere un filo logico nel passaggio da uno all’altro, ma a dire il vero credo non ci sia alcuna necessità di leggere il libro in sequenza. Potete saltare da un luogo all’altro, da un diario all’altro senza problemi. A voi la scelta. Buon viaggio. Andrea Segre Alcuni dei diari qui riportati sono legati alla produzione di documentari diretti da Andrea Segre, in particolare Ka Drita?, A metà, Marghera Canale Nord e La Mal’ombra: per poterli vedere potete prendere contatto con il regista tramite il blog: andreasegre.blogspot.it
26-27 gennaio 2001 In viaggio tra Tirana e Pristina a bordo di un piccolo autobus in mezzo alle montagne albanesi. Il fascino sta molto o forse del tutto nel nome di questi luoghi e nel rumore di questo autobus. A volte, a tratti sembra un sogno nel futuro ciò sarà racconto e insieme a ciò la vita sarà vita, perché è ed è stato racconto.
Berlino 1999
Le signore-asilo In Pappelallee c’è un giardino pubblico (Friedhofspark). Alla mattina ci vanno le signore-asilo. Sono ex casalinghe o così mi sembra. La Sabe1 dice che qui in Germania gli asili iniziano quando compi due anni. Prima ci sono le signore-asilo. Si portano dietro sette, otto o dieci bambini. Da lontano riconosci solo una o due signore, e una schiera di capelli biondi intorno. Poi si avvicinano e scopri due cose. 1) Tra i capelli biondi si era confuso un bambino indiano. 2) La signora spinge un carretto, è una sorta di doppia panchina a quattro ruote, un passeggino collettivo. È tutto di ferro e le due panchine che lo compongono sono una di fronte all’altra. Quando la signora-asilo ha fretta o i bambini sono stanchi, tutti salgono sulla panchina a quattro ruote e la signora-asilo spinge. La velocità appunto non è mai altissima.
Il muro I dipendenti dello Stato Est prendono l’ottantasette per cento dello stipendio dei dipendenti dello Stato Ovest. Ma i dipendenti dei ministeri (deputati e segretari compresi) che si trasferiranno nei nuovi
ministeri berlinesi, collocati per la maggior parte nel vecchio Est riconquistato, manterranno i loro stipendi di occidentali. «Dipingiamo contro la distruzione.» Dietro una rete metallica, lontano da turisti e passanti, rimane l’ultimo pezzo del vecchio muro a Potsdamer Platz. Credo l’ultimo pezzo di muro esistente. È assolutamente irraggiungibile, non illuminato, abbandonato allo stato di deposito di pietre e nonricordi. È la vecchia strategia del nuovo dittatore: tutto ciò che c’era prima va semplicemente e totalmente dimenticato, perché ciò che c’è oggi è l’unico esistente. Forse fa paura il simbolo di differenze che ancora esistono lampanti: strane paure come la nascita di impensabili nostalgie o la mistificazione di pesanti passati. Così il muro deve essere eliminato da Berlino, completamente. Che rimanga una curiosità di turisti occidentali disposti a vedere come è la nuova Berlino e poi andarsene, ma che non vi sia nulla in città che possa unire la città stessa col suo passato. Berlino cambia e Berlino cancella. È l’unico modo, dicono. È un errore grosso, credo. Ciò che la propria testa decide razionalmente di cancellare è ciò che la vita tiene sempre a disposizione della storia. La testa nulla può nei confronti della storia. Una sorta di protezionismo individualista del ricordo. Ho scoperto oggi di non essere l’unico a pensarla così. Le poche pareti nascoste ma sopravvissute del vecchio muro sono affrescate da murales che tentano fortemente di dare ai colori la forza di oltrepassare le griglie di acciaio che allontanano il muro. E lungo
queste pareti, le scritte “Permettiamo ai nostri figli di sapere”, “Dipingiamo contro la distruzione”. Firmato: East Side Artists. Non so ancora chi siano questi artisti e quanto tempo fa abbiano fatto quei dipinti. So di certo che fino a sei o sette mesi fa, il muro stava là per i turisti, per i bambini, per i sognatori. Era raggiungibile e toccabile da tutti. Oggi è di nuovo, dopo dieci anni, intoccabile. Cortina di ferro ridotta a luogo isolato, separato dal mondo da un’altra nuova e incruenta cortina di acciaio.
In guerra – Berlino Berlino, maggio 1999 Durante i bombardamenti NATO sulle principali città serbe. Stanno sfoderando tutta la loro superbia. È umano: più duro diventi più sicuro ti senti. E così l’umanità sgancia le sue bombe. Si svegliano la mattina e si sentono impegnati, coinvolti nella più alta delle superiorità: la responsabilità storica. È peggio di un’anfetamina. È polvere di sogno, è fumo di eternità. E così l’umanità sgancia le sue bombe. Frequentano solo le loro facce, le loro stanze, i loro sguardi. Accrescono il peso della loro responsabilità, della loro superiorità.
Accaniti cercano nuovi palazzi per incontri. Dopo li dimenticano. Accaniti sniffano nuovi consigli e nuove commissioni. E non le ascoltano. Accaniti attraggono i flash, masticano i taccuini. E ridono. La vita del loro gioco è nelle mani del loro gioco. E non esiste traguardo. Tracciano linee di pensiero non pensante e solchi di strategia ad alto costo. E così l’umanità sgancia le sue bombe. Costruiscono le loro pause, i loro caffè, le loro cene. Addobbano le prime pagine della loro responsabilità, della loro superiorità. Come una gara di cani del Nord, inseguono la corona della loro non-fatica. Lasciano le loro teste riempirsi del nulla nell’immutato potere. Il loro cerchio si allarga, ingloba serietà e spezie di gonfiata importanza. E così l’umanità sgancia le sue bombe. Intanto lontani dai loro gabinetti di appunti e resoconti gli uomini superstiti covano la rabbia e il dolore di ogni bomba, di ogni ferita. Nessuna scheggia di quel dolore sembra poter inquinare le porzioni delle loro cene. Gli uomini superstiti in stanze e in città vedono le forme e i colori del loro silenzio assistono al palcoscenico della loro sconfitta si scoprono sfiorati dal vento dell’inevitabile.
E così l’umanità guarda le proprie bombe. Scivolano. Ricordi di documentari in bianco e nero. Disegni di uova esplosive. Sagome di ali e rombi di grandi uccelli. Mani alzate di guerriglieri vittoriosi. Caschi, tute, bandiere. Il violino del pianto diventa più acuto. Ombre di case scomparse. Vecchi giornali di un passato, di un nuovo vicino. Occhi azzurri e mascelle larghe dei piloti della conquista. Divise di generali e sguardi di missili. La voce del cantante insegue il suo dolore. Cene, palazzi, responsabilità di laccate sicurezze. Impegni, tentativi e decolli. Visite diplomatiche, visite militari, visite indifferenti. Il sassofono rincorre l’armonica nelle rive del grande Fiume. La danza degli uomini superstiti si raccoglie oltre il silenzio. Il tamburo detta il ritmo ai passi. Pescatori, poeti, fumatori, donne e scolari seguendo la rabbia e il dolore del loro violino entrarono nei gabinetti dei cacatori di superiorità. Solo lì l’umanità potrà urlare la propria sofferenza.
1
Mia sorella Elisabetta, che sin da piccolo chiamo Sabe.
Balcani 2000
Con Cristha per organizzare un festival Questo è uno scritto molto diverso dagli altri. Non racconta solo i luoghi del viaggio, ma cerca di ordinare le idee per un progetto. Cristha è una incontenibile attivista socio-culturale italo-americana incontrata a Berlino. Nel 1999, in piena guerra kosovara, aveva organizzato nella casa-progetto K77 di Prenzlauer Berg a Berlino, un piccolo coraggioso festival B4 Berlin Balkan Black Box, dedicato alle produzioni culturali indipendenti dei paesi exjugoslavi divisi da dieci anni di guerre e nazionalismi. Un’idea all’avanguardia difficile da capire allora: superare i muri del nazionalismo dando voce a giovani artisti indipendenti e antinazionalisti. Oggi pare ovvio, ma vi assicuro che all’epoca era davvero una sfida difficile. A me e agli amici con cui a Padova organizzavo toniCorti (il primo piccolo festival di cortometraggi da cui nacque poi il più grande festival Itaca) l’idea sembrava abbastanza folle da poterla e doverla appoggiare. Così partimmo, io e Nicola, con Cristha per un viaggio di due settimane nel cuore dei Balcani feriti.
Traghetto Split – Ancona 16.3.2000 Siamo alla fine del viaggio. I pensieri sono rinchiusi in altri luoghi o abbandonati per scelta e per necessità. Qui cercherò per ora i segni di un progetto e del suo percorso.
Abbiamo incontrato a Pola, Zagabria e Mostar gruppi di persone o singoli individui che dovrebbero o potrebbero costituire insieme a noi e ai ragazzi di Berlino la base di partenza per l’organizzazione del festival di settembre in Jugoslavia (per i pignoli ex Jugoslavia). A Pola abbiamo conosciuto Jordan, rappresentante della categoria discutibile e ovviamente discussa “dell’organizzatore pagato e neutrale”. L’idea è stata dei ragazzi di Zagabria ed è di base molto semplice: per fare il festival è necessario avere un appoggio logistico-organizzativo che sia capace di essere interessato e disinteressato nello stesso tempo. È necessario quindi anche che sia pagato. Jordan non ha nascosto nulla. Lui studia marketing, non ha alcun pregiudizio, è aperto e disponibile a mettere a disposizione del nostro festival contro i pregiudizi la sua professionalità, senza perdere tempo nel cercare di dare una sua opinione. Una neutralità quasi anglosassone. A Pola abbiamo anche incontrato Igor Gabo, un regista quarantenne: persona tutt’altro che neutrale, molto passionale e fortemente appassionato al suo lavoro fino al punto di cercare di farlo coincidere con un sogno. Lui ci ha invitato a fare il festival in un piccolo paesino sulle colline dell’Istria collegandolo al suo festival cinematografico. Inutile dire che Igor ci è piaciuto di più di Jordan e che siamo arrivati a Zagabria portando con noi il fascino della sua proposta. Ma a Zagabria il fascino si è scontrato (democraticamente, come è tradizione della moderna era) con la posizione dei ragazzi della città, ovvero: Boris, architetto semidisoccupato che collabora con Arkzin, una rivista culturale e politica indipendente;
Igor, cantante dei Megabitch; Marcel, genio della cyber resistenza e della telecomunicazione, nonché collaboratore di Soros. Loro, in particolare i primi due, sono convintissimi di fare il festival in una città e non in un’isola nel centro delle colline istriane. I motivi della loro idea sono assolutamente validi: dalla necessità di risoluzione di problemi tecnici alla maggiore affluenza di pubblico, dal minor rischio di aggressioni “nazionaliste” alla volontà di evitare qualsiasi rischio di elitarismo. Tutte osservazioni che hanno smorzato il nostro entusiasmo del dopo Pola a favore dell’idea di Igor. Ciò che ci lascia un po’ perplessi sono (oltre a un fastidioso dondolio della nostra nave nel bel mezzo dell’Adriatico) almeno due aspetti della posizione di Boris e Igor a Zagabria: una sorta di sottomissione alle decisioni che Berlino vorrà prendere, collegata al conseguente tentativo di voler “convincere” Berlino di un’idea contro un’altra e la tendenza a spettacolarizzare e commercializzare alcuni aspetti centrali del festival, a partire dalle necessità di farlo in un luogo con molta gente e in collaborazione con un professionista disinteressato e pagato. Due tendenze che pur non intaccando la sincerità emotiva a dar vita al festival come progetto comune contro la separazione e le intolleranze, oscurano le giuste critiche all’idea del paesino nel bel mezzo dell’Istria. Oltre a loro, a Zagabria abbiamo conosciuto anche Alex detto Xandy e Robert. Il primo è un volontario tedesco pagato dalla Comunità Europea per lavorare con il gruppo politico giovanile indipendente e antagonista ATTAC. Il secondo è uno scrittore giovane impegnato nella costruzione di un dialogo tra letteratura croata e serba, due mondi rimasti separati per dieci anni e tuttora tenuti lontani da odi e follie.
Loro non hanno espresso una posizione particolare riguardo al luogo, nonostante Robert sembrasse anch’egli propendere per Pola. Ciò che invece abbiamo incontrato a Mostar è la storia di un sogno iniziato sei anni fa al termine o al supposto termine di un incubo. Il sogno è Mladi Most, una casa nel bel mezzo del confine tra Mostar Est e Mostar Ovest, tra il mondo bosniaco e quello croato, tra le due sponde della Neretva. una casa voluta da in gruppo di ragazzi di Berlino, per tentare di superare quel confine. Cristha stessa ha vissuto nella casa nel 1995-1996 e il viaggio a Mostar è per lei una sorta di pellegrinaggio annuale verso una città che dice di amare e che credo possa essere amata, come luogo di poesia e tragedia, di silenzio e dolore, di fantasia e realtà. Ogni luogo in cui la vita non può prescindere dal significato del luogo stesso, soffre del proprio significato, avvolgendo di fascino e imbarazzo chiunque cerci di capire e di condividere. Mostar, nel cuore della Bosnia ingoiata dai Balcani, è uno di quei luoghi. Anche Mladi Most (il cui unico difetto mi è parsa l’eccessiva rigidità progettuale) è interessata e disposta a partecipare all’organizzazione del festival. Anche loro orientati per motivi logistici a preferire Pola, si sono soffermati di più su come organizzarsi per diffondere l’idea tra gli altri artisti, sulla modalità di selezione dei lavori da mostrare, sull’impostazione dei laboratori inter-artistici da noi proposti, sulla ricerca di fondi e finanziamenti. Aspetti la cui preparazione non sarà certo cosa semplice. Con tutto ciò torniamo a casa investiti, più di quanto speravamo, della responsabilità di una decisione rapida e finale che a questo punto è affidata in parte a toniCorti e in maggior parte a Berlino.
Si delinea comunque, come soluzione probabile, la realizzazione del festival nella prima settimana di settembre a Pola in un campeggio dove sia possibile anche l’istallazione di uno spazio per spettacoli. Credo sia una soluzione intelligente perché è capace di evitare la folla turistica dell’agosto polesano (che confonderebbe e farebbe disperdere la concentrazione per il festival), di mantenere un collegamento con un pubblico potenzialmente molto ampio, di rassicurare i zagabresi sull’organizzazione dell’evento e di avere uno spazio unico dove ospitare gli artisti al fine di incentivare prima di ogni cosa la loro e la nostra collaborazione. Restano da risolvere: se e quanto pagare Jordan, se concentrare tutto nel campeggio o se cercare qualcosa in più, come non perdere i contatti con Igor Galo e, ma questo è un problema solo nostro, come incastrare Pola con toniCorti 2000. Per ora abbiamo raccolto forse la più importante delle condizioni di partenza: è abbastanza forte la sensazione dell’esistenza di una comune volontà diffusa e concreta di mettere a disposizione del mondo il nostro sogno. Quando siamo partiti mettevamo in dubbio questa comune volontà, oggi mettiamo in dubbio o meglio partiamo dal dubbio e dalla paura della mancanza di capacità organizzativa. È da questa paura che apriamo la via al sogno, consci di non essere soli. Fra un mese o meno tutto ciò dovrà essere nero su bianco sotto forma di progetto comune condiviso da tutti i gruppi e dedicato a ognuna di queste dondolanti navi dell’Adriatico. Il progetto non si è mai realizzato. Ma da quel viaggio sono nati molti altri percorsi.
toniCorti si è gemellata con Mladi Most mandando due registi italiani (Alberto Bougleux e Luca Rosini) a vivere e produrre racconti in terra bosniaca, Cristha ha continuato a organizzare B4 a Berlino e al festival toniCorti 2000 invitammo molti degli artisti conosciuti in quello e altri viaggi.
Mostar – Dall’altra parte Mostar, 14.3.2000 Dall’altra parte della Neretva Sparavano i croati. C’è una grande chiesa di fronte a noi. Tra noi invece minareti e cupole. Da questa parte bosniaci e serbi. Dall’altra parte credo vivessero e da questa parte credo vivessero. Perché dovrebbero raccontarmelo ancora? Ho bisogno di pensare solo che sia stato uno sbaglio, un terribile sbaglio sulle sponde della Neretva. E chissà quanto lontano può essere ancora il mondo. Dall’altra parte della Neretva parlano di noi. E pensare che è solo un caso che io sia da questa parte. E chissà quanto lontano può essere il mondo. Dall’altra parte non mi conoscono. Qui ho conosciuto Arel, che non parla la mia lingua e così se ne è andato. Forse dovrei passare di là.
E chissà quanto lontano può essere ancora il mondo. Dall’altra parte della Neretva non ci guardano più e anche quando ci guardavano nessuno mi conosceva. Credevo di poter essere osservato, non ho trovato nessuno disposto a farlo, neanche dall’altra parte. Ascolto i rumori e non so da dove arrivano. Dall’altra parte forse mi aspettano, nonostante nessuno mi conosca. E chissà quanto lontano può essere il nostro mondo.
Lettera a mio padre da Mostar 16.3.2000 Caro babbo, ieri sera sono stato per la prima volta di fronte allo Stari Most, il vecchio ponte di Mostar. Per arrivarci devi attraversare una lunga strada nel bel mezzo del quartiere a ovest della Neretva, soprannominato dagli abitanti stessi della città “Beirut”. La parte ovest di Mostar è quella croata: etnicamente croata, nazionalmente croata, religiosamente croata (ovvero cattolica), politicamente croata ecc. ecc. La parte est ovviamente è, quantomeno per esclusione, quella bosniaco-musulmana. I serbi, per loro fortuna, e i rom per loro sfortuna, sono privi di territorio etno-fisico. Beirut è un quartiere musulmano nella zona croata della città. A Beirut ci sono due strade parallele, non più larghe di dieci metri: entrambe le strade sono state, a secondo dei successi e delle sconfitte militari, linee del fronte croato-bosniaco. Tutte le case lungo le
due vie sono totalmente distrutte e ciò che rimane della loro sfortunata esistenza sono le mura esterne completamente bucherellate dalla più grande delle invenzioni economico-militari: la mitragliatrice. La linea del fronte croato-bosniaco era quindi una strada non più larga di via Machiavelli, dove il croato è Massimo, il tabacchino, e il bosniaco è il direttore della Cassa di Risparmio di Padova agenzia numero… non mi ricordo. Per molti mesi dopo la fine della guerra le due strade di Beirut sono state trasformate in terra di nessuno e tutti gli esseri umani di etnia bosniacomusulmana relegati al di là della Neretva. Oggi le due città sono collegate non solo da un ponte e qualche passerella, ma anche dalla mancanza di qualsiasi checkpoint. Le strade di Beirut sono però rimaste così come erano alla fine dei combattimenti. Quelle più a est (mi riesce difficile definire via Machiavelli più a est di via Bonazza, ma questo è il mondo) sono nel bel mezzo del ristabilito quartiere musulmano al di là della Neretva. Lungo essa la comunità islamica ha costruito uno degli otto o dieci nuovi minareti di cemento bianco e lucente di cui è stata dotata la città musulmana alla fine del conflitto. Lungo la strada più a ovest abbiamo invece scoperto un simpatico ufficio postale delle Poste della Federazione di Bosnia ed Erzegovina, sulle cui pareti era affisso un ritratto di Tudjman, incorniciato a lutto e affiancato da adesivi del suo partito. Per non parlare dell’enorme cattedrale cattolica in costruzione sempre lungo la strada più a ovest, esattamente di fronte all’ufficio postale. Ovviamente la guerra non è stata solo a Beirut. Mostar è una piccola città (credo tu l’abbia visitata prima di tutto ciò…) facilmente osservabile nella sua
limitata estensione da un punto qualsiasi delle due montagne che la circondano, una a est e una a ovest: l’unica differenza con le due strade di Beirut è che nel caso delle colline, a sparare da est, erano i serbi. In mezzo a ognuna di queste semplicissime postazioni militari non vi era spazio che per gli esseri umani rimanenti, difficile distinguerli per etnia, più semplice forse è la distinzione più antica: sopravvissuti e non. È la prima volta papà che vedo in vita mia non solo i segni, ma anche i risultati della follia. Ogni casa è costellata di buchi, ogni piccolo quartiere ha un cimitero dove le date di morte sono tutte uguali, molti volti sono segnati da una qualsiasi delle storie possibili tra le strade di Beirut. Cerco ogni secondo di ricordare i passaggi storicopolitici che hanno portato a Beirut o al silenzio della vecchia Basilica distrutta. Ricostruisco i perché, le colpe, le idee, gli interessi, le dinamiche, le strategie, le ideologie e gli errori, ma ti assicuro che non è abbastanza. È come se ci fosse in queste case quella parte del significato di una vita che io non ho mai incontrato: non so quale possa essere la definizione e non so se ne esista una spiegazione. So che esistono uomini che trovano tutto ciò normale o per scelta o per convinzione o per abitudine. So anche però che ci sono in queste case uomini le cui vite hanno dimenticato tutto ciò che può far parte della più grande gioia di una vita, o almeno di quell’aspetto della vita che io ho finora conosciuto: il sogno. Ci sono persone responsabili della fine di molti sogni che potevano nascere anche in questo angolo di mondo. Quelle persone continuano a godere di una
guerra che per ora è solo congelata dietro al riconoscimento pacifico della vittoria della parte più assurda dal vivere: l’odio. Ci sono altre persone, alcune ho avuto la fortuna di conoscerle, che sono qui perché possono ancora sognare: il loro più grande sogno è ridare un sogno a chi è stato negato. A volte penso sia una questione di presunzione, altre volte ho la sensazione che sia tutto inutile, poi alzo lo sguardo, vedo questa terra, questa parte di mondo e capisco il loro sogno. Credo di averti scritto questa lettera per un motivo più importante e più semplice di tanti altri: queste case, queste vite, quelle vie a Beirut, quei fantasmi di mattoni bucati e quello che rimane dello Stari Most sono segni di un qualcosa che esiste in questa storia che chiamiamo vita e di fronte alla quale ho avuto, forse per la prima volta, veramente paura. Ieri sera sono stato per la prima volta di fronte allo Stari Most: ho avuto paura. Semplicemente e completamente paura. Intorno rimaneva solo silenzio e poco più in là, la mia vita. Per questo ho dovuto scriverti. Chissà! Magari il mio babbo un po’ può difendermi da questa paura. Un bacio, Andrea P.S. Ho dimenticato di raccontarti che in mezzo tra le due strade parallele di Beirut, c’è un grandissimo e nuovissimo hotel di colore giallo e con bellissime insegne al neon. È la sede di tutti gli operatori delle organizzazioni internazionali legate a ONU, NATO e UE.
Si chiama Hotel Ero, ma qui lo chiamano Hotel Eros.
Jugo Nisš, 16.5.2000 Mi ricordo di quei film in cui il protagonista si chiede, come nelle più prevedibili ricerche di suspense: «Dove sono, non capisco, dove sono?» Ho sempre dubitato di quelle scene. E oggi so molto bene dove sono: in un parco a Niš, circondato da vecchi jugoslavi con grandi occhiali, vestiti bianchi e grigi, pelle abbronzata e due interminabili partite a scacchi. Ogni tanto posso sentire anche l’odore delle loro sigarette.
Valona, Albania 2000
Primo viaggio a Valona Ovvero, piccola nota a posteriori, dove si capisce da quanto lontano partivo.
Brindisi 18.10.2000 Non mi risulta semplice constatarlo ma mi ritrovo in una cabina singola della nave Europa 1, unico traghetto di linea della Skanderberg lines. Dal finestrino vedo ancora il porto di Brindisi: fa un certo caldo qui dentro, ma aprire il finestrino non è il caso, vista la precaria composizione dell’infinità di fragmenti in cui il vetro è stato ridotto. Da questo finestrino domani vedrò Valona e quindi l’Albania. Qualcosa scricchiola, le funi di acciaio rimbombano sul tetto e lentamente oscilliamo. Nel frattempo provo a ricostruire come e perché ora mi trovo qui. Il 16 settembre scorso, a Bologna, ho partecipato a una serata del progetto Eurovision 2000 all’interno di un locale bolognese che fa parte del circuito Cafè 9. Eurovision 2000 è un programma televisivo virtuale che nelle nove città della cultura europea 2000, si
basa nella messa in onda (online e tramite proiezioni nei nove caffè) di video critici rispetto all’idea Ovestcentrica o Maastricht-centrica di identità europea. Prodotti sull’immigrazione, sull’emigrazione, sulle identità locali e sui localismi, sui rapporti Est-Ovest e sull’Est. Alla fine della serata Claudio Bazzocchi di ICS, il Consorzio Italiano di Solidarietà con cui ho scritto la tesi di laurea, mi ha proposto di organizzare e inventare un seminario di produzione video con i ragazzi del centro ICS di Valona. Io ho aspettato la fine della stesura tesi, che partiva dal viaggio fatto a maggio tra Serbia e Kosovo, e finalmente questa mattina alle dieci sono partito. A Bologna sul treno per Brindisi ho incontrato Kosta, detto Ghimi, cittadino valonese di ritorno a casa per una breve vacanza a causa di un infortunio sul lavoro. Ghimi mi ha raccontato il suo punto di vista su Albania, Italia, storia, Valona e vita. A Brindisi Ghimi mi ha fatto da guida per biglietti, dogana e cibo. Mi ha anche offerto un caffè e mentre eravamo al bar abbiamo incontrato un concittadino di Ghimi. Arbar, detto Bani. Bani fa il muratore come Ghimi ma ha anche studiato storia all’università di Tirana. Con lui abbiamo a lungo discusso di Albania, Italia e mondo: abbiamo discusso sul molo del porto di Brindisi fino a mezzanotte. Alla fine avevo freddo e invidiavo Bani perché lui aveva ricevuto in regalo dall’agenzia del porto una camera singola. È stato a quel punto che ho deciso di regalarmi questa stanza singola sulla mitica Europa 1: con una penna ho scritto sulla copertina del mio biglietto ciò
che era scritto anche in quello di Bani: CAB – singola – interna. I motori si sono accesi. Buonanotte. Spero.
Valona 19.10.2000 Per ora mi hanno lasciato solo, qui, in questo bar Indipendenza vicino al porto di Valona. Solo uomini davanti al telegiornale: incroci di fumo, tradizione, passione, chiusura, balcani, resistenza e confusione. Sono qualcosa o sono solo delle copie di qualcos’altro da loro? L’identità è qui luogo di contaminazione impura: non c’è spazio per confronto, per interazione tra chi è giusto e chi deve imparare. Loro devono imparare, lo vogliono fare perché vogliono guadagnarci, ma non lo vogliono come istinto perché sono chiamati a farlo attraverso la più evidente azione opposta della libertà: l’imitazione. Questo rapporto con l’altro potrebbe essere il punto di partenza del lavoro qui a Valona. Sono venuti a prendermi.
Valona – di nessun aiuto Valona, 22.10.2000
Il segreto è non credersi di aiuto. L’assurdo è dover avere questo segreto. Faccio storicamente parte della prima generazione di italiani che si sente chiamare superiore. È da tale condizione che nasce la voglia di non stare con i superiori. Venire qui e stare con gli inferiori non risolve il problema, lo conferma o addirittura lo costruisce. È per questo che non mi voglio sentire di aiuto e oggettivamente non vedo il motivo per cui potrei esserlo. In realtà ICS, l’associazione che mi ha invitato qui, sta diffondendo metodi e spazi di resistenza sociale contro l’annunciato trionfo del soldo e contro il suo stesso annuncio. Diffondere resistenza non è insegnare a vivere, è esporre un progetto e cercare qualcuno che vi aderisca. L’unico aiuto nella politica internazionale è quello contingente, ovvero la distribuzione a chi, per ora o per sempre, non ha nulla. Ogni altro progetto e azione politica in quanto tale ha due possibili forme: dall’alto al basso e dal basso all’alto. Chi sceglie la prima vende la propria azione politica come aiuto. Credo che chi voglia scegliere la seconda debba partire da due principi fondamentali: 1) io non sono di aiuto a te se non nella forma universale e differenziata della conoscenza; 2) io diffondo in molte terre ciò che diffondo anche a casa mia: un’opinione.
Conoscenza e opinione: è questo da cui parto. Piaceva all’uomo ritenersi ignorante: oggi ne ha paura o invidia. Io non conosco Valona e tantomeno l’Albania. È per questo che sono venuto qui e anche perché molti nel mondo, o meglio nei mondi, non conoscono Valona e l’Albania. Insieme a Elidon, Ketti, Rada e Tani proveremo a raccontare questa Valona, questa Albania e ne daremo la nostra opinione. Spero sinceramente che ciò possa essere d’aiuto alla lotta contro l’arroganza, ma non riconosco nessun livello di superiorità o inferiorità di chi vive e vegeta in questa o quella arroganza, in questa o quella presupponenza, in questa o quella indifferenza, in questa o quella passività. Il segreto è continuare a scoprirsi ignoranti e condividerne la scoperta. P.S. Mi si potrebbe obiettare che sono qui grazie ai soldi di un ministero italiano impegnato nella crescita della propria superiorità. Le risposte sono due. Se nel ministero o chi per esso c’è qualcuno che finanzia la ricerca di conoscenza senza secondi fini (e non me ne sono stati chiesti) è possibile ipotizzare che qualcuno condivide quanto io ho espresso. L’ordine mondiale prevede squilibri economici che io non condivido: cerco di non alimentarli e di raccontarli.
Dalla nave. Lettera a Barbara
Valona-Brindisi, 22.11.2000 Sono sulla linea di confine tra le acque albanesi e quelle italiane. E non la vedo. Credo sia naturale e in una parentesi di sospiro, ne sono contento. I confini tra Italia e Albania esistono, in molti momenti e aspetti del quotidiano. Ma soprattutto esistono nelle facciate luccicanti dei ristoranti e negli alberghi dei signori del confine: gli scafisti. I loro imperi economici non sono certo simili a quelli dei veri signori della ricchezza occidentale, ma la loro sfacciata arroganza non è meno fastidiosa: hotel, bar e ristoranti di colori fucsia e metallizzati sono tutti in prima fila lungo il porto di Valona, a fianco al mare della democratica barriera e della loro fortuna. Valona è piena di Mercedes, molto oltre qualsiasi pessimistica aspettativa: ci sono quattro o cinque strade a Valona e le Mercedes sono tutte lì. Oltre alle strade ci sono anche vicoli di fango, polvere e sassi: anche lì Mercedes. Sembra davvero uno scherzo, un gioco, una forma di teatro dell’ironia: preferisco credere sia colpa dei tedeschi, anche se qualche dubbio sugli albanesi mi viene. Valona è anche piena di arance e mandarini: il mio compagno di viaggio, Beni, mi ha spiegato che è stato Krusciov a suggerire la coltivazione di agrumi in Albania, promettendo in cambio il grano dell’Ucraina. Il problema è che oggi gran parte di questi alberi rimangono selvaggi e incolti: la casa dove dormiremo ne è un esempio chiarissimo, circondata da una ventina o più di aranci, mandarini e ulivi destinati a non essere sfruttati (a meno che non saremo noi a
decidere di raccoglierne i frutti). In fondo è una forma di trionfo naturale. Valona ha una spiaggia bruttissima e non è consigliabile farci il bagno. Ma è sufficiente allontanarsi da Valona pochi chilometri in direzione sud per scoprire coste, spiagge, acque e montagne da cui l’essere umano si è tenuto a sufficiente distanza. Valona di notte muore, le strade sono buie e anche le Mercedes si spengono: le uniche isole di vita sono pochi bar e ristoranti dove la fauna si riduce a maschi e stranieri. Valona è un luogo della mia ricerca, una ricerca di mondi destinati a vivere all’ombra di definizioni che appaiono indubitabili: cercherò di raccontare il dubbio a Valona, il dubbio che Valona sia come dovrebbe essere. Valona è in Albania e io sto tornando in Italia per portarti con me in Albania: molti uomini albanesi tornano in Albania per portare la propria donna con sé in Italia, e molti altri preferiscono farla aspettare. Io non ho quasi nulla a che fare con la storia di questi uomini, anche se sto imparando a conoscerli: io sono più fortunato e io non posso decidere, come per molti di loro è naturale, della vita della “mia donna”. Sto imparando a conoscerli e spero che loro abbiano la pazienza di conoscere me. In queste strade credo di non voler essere solo, preferisco di gran lunga poter essere con te. E così ti vengo a prendere: la nave spero stia per arrivare, il sole è rossissimo e la testa mi pesa.
Dalla nave. Lettera a papà
Valona-Brindisi, 22.11.2000 Caro babbo, questa volta scrivo la tua lettera nel mio quaderno, così tu potrai leggerne una copia e io conservarne il ricordo. Sono sulla nave del ritorno, è il 22 novembre e ti assicuro che il Nord è da qui molto lontano: siamo sul ponte della nave, sono le tre del pomeriggio e il sole ci scalda. Il mare è quasi piatto e la linea dell’orizzonte è un segno precisissimo, un bordo nero tra due diverse tonalità di blu. Il silenzio non c’è, perché il motore del traghetto è di quelli roboanti e balcanici, ma a tratti, quasi per sbaglio, riesco anche a sentire le onde: a poppa intravvedo ancora la costa albanese, le montagne grigie, quasi bianche nella loro rude purezza che noi abbiamo imparato a chiamare povertà. I miei compagni di viaggio, Barbara, Francesco e Enzo, dormono o quantomeno così amano credere: è come se stessero cercando di rubare l’ultimo sole mediterraneo prima della nordica foschia. È bello ogni tanto potersi trovare in quei pezzi di realtà che la maggior parte degli uomini vivono virtualmente, quei luoghi della terra che la storia o semplicemente l’uomo ha consegnato alla descrizione, alla rappresentazione: questo mare, quest’acqua, questi rumori e colori sono gli elementi veri, materiali, concreti del “breve tratto di mare che separa Valona da Brindisi e l’Albania dalla Puglia, gli extracomunitari dagli europei”. Molte volte mi (e forse ci) è parso di “conoscere” molto di quel “breve tratto di mare che divide Valona da Brindisi” e molte volte tale “conoscenza” mi (o forse ci) è sembrata tanto chiara da poterne trarre osservazioni e giudizi. Essere qui, in questo pezzo di
reale, mi libera dal potere imprevisto della “descrizione” e mi consegna al piacere silenzioso della conoscenza materiale, permettendomi anche di giudicare e astrarre, ma evitando di costringermi a farlo. È il potermi consegnare alla materia che mi fa amare la conoscenza e con essa la mia origine: il vivere. Uno dei primi libri che ho rubato dalla tua libreria è Viaggio in Italia di Goethe e uno dei testi più interessanti della mia carriera universitaria è stata Kosovo. Albanesi e serbi: le radici del conflitto di Marco Dogo: non sono libri eccezionali ma l’Italia di Goethe e il Kosovo citato da Dogo sono luoghi del reale e non solo della “descrizione”. È su questa strada che cerco di muovermi e il motivo per cui lo faccio è perché mi piace. Questa esperienza in Albania ha veramente fatto parte di questa strada: abbiamo realizzato quattro storie, ovviamente in video, nate nel cuore reale di Valona, perché scritte e accompagnate dallo sguardo, l’esperienza, la vita di un ragazzo di Valona. Io e Francesco abbiamo accettato di lasciarci trasportare nella città e la città ha accettato di farsi fotografare da noi. Certamente in questo modo abbiamo creato un’altra “descrizione” e certamente spero che possa raggiungere più persone possibili; ciò che non spero è che permetta di accontentarsi di essa. I miei compagni di viaggio si sono svegliati e il sole tramonta. Un grande bacio da un gran bel pezzo di materia.
Valona, Albania 2001
Le stelle di Valona Valona, novembre 2001 Il punto di partenza è questo. Il punto è: quanto agli uomini conviene o può quantomeno interessare la salvaguardia di questo cielo? Sono migliaia le stelle che ogni notte non posso vedere a Padova come in qualsiasi altra città, o forse semplicemente zona delle sviluppate terre. Il cielo è pieno di arancioni bagliori e di luminosi disturbi ed è raro riuscire a trovare un angolo di buio da dove poter osservare. D’altronde sono decine di anni che le nostre città non si spengono: migliaia di notti illuminate da civili esigenze di ordine, sicurezza, comodità e pubblicitaria competizione. Decine d’anni di prospera e utile negazione del buio. A Valona, Albania, meno di trecento chilometri dalle coste italiane, nel 2001 l’elettricità viene fornita per non più di dieci ore al giorno e con una potenza molto limitata rispetto agli “standard europei”. La maggior parte di queste dieci ore sono concentrate ovviamente nel dopo tramonto. Tuttavia l’abitudine a non poter contare sulla luce artificiale e la consapevolezza della scarsa potenza di voltaggio ha
impedito il trionfo delle fonti di violazione del naturale buio notturno. In parole più semplici, i lampioni sono pochi e deboli, nessuna casa o palazzo è illuminato ad arte con luci al neon avvolgenti e pulite, le insegne sono piccole e separate, i cortili delle case si accontentano di una piccola lampadina e le auto che circolano dopo le otto sono pochissime. La città accetta la notte, vi entra dentro e attende di dover accendere le candele sempre pronte nei cassetti della cucina e sui comodini affianco al letto. Poco sopra, quasi a dialogare con le singole lampadine distinte casa per casa, il cielo si riempie di centinaia di stelle: non sono puntini di luce, ma segni nitidi, bianchi come la perla, perfettamente circondati dal nero della notte. Le figure astronomiche si compongono e la loro geometria spiega con naturale chiarezza la nascita di miti e nomi. Le tre stelle della cintura di Orione ne sono l’esempio più evidente, ma anche lì dove i segni di bianco e luce si fanno più lontani, ovvero più piccoli, la loro isolata chiarezza è poesia per gli occhi: esattamente come lungo la spada di Orione e intorno a una delle stelle della testa. È in questi luoghi del grande nulla che maggiormente si esalta l’affermazione del buio, perché è proprio lì dove le stelle si fanno più fitte e più fini che l’occhio si emoziona di poterle distinguere. Sembra quasi di volerle contare e quasi subito nascono spontanee due idee: dare a questi segni un nome e di conseguenza iniziare a parlarci. Il nome spesso rimane segreto, ma il dialogo diventa sempre più sincero fino al punto di essere pronunciato. Con la testa sollevata e gli occhi dilatati
dall’oscurità iniziamo a parlare, a sussurrare domande e confessioni, a cercare risposte e soprattutto a invocare e sorridere. Non è merito delle stelle ma della notte e del suo poter essere tale: il bagliore arancione dei cieli più sviluppati non danneggia la millenaria luce stellare ma attacca al cuore la natura profonda della notte: il vuoto. È grazie al vuoto che l’uomo ha imparato ad avere paura e a essere solo, è nella paura e nel silenzio che nascono quelle emozioni che ci permettono non solo di capirci, ma anche di ascoltare e raccontarci. Tuttavia è davvero pensabile che l’uomo possa agire al fine di procurarsi paura e silenzio? Ne ha profondamente bisogno, ma non è in alcun modo spinto a cercarli: ne sente più o meno consciamente la mancanza, ma tende non solo a non volerla riconoscere, ma anche a ridurne al minimo gli spazi. Nessuno porrà mai al centro del proprio agire (sia individuale che sociale probabilmente) la ricerca di un qualcosa intrinsecamente imbarazzante, ovvero di un qualcosa con cui il confronto è tanto rischioso e difficile quanto necessario. Tanto più se quel qualcosa in fondo siamo noi stessi. Il confronto imbarazzante con noi stessi è ciò che in realtà tentiamo di evitare e nello stesso tempo ciò di cui più profondamente sentiamo prima o poi la mancanza. Il vuoto intorno alle stelle è il silenzio che tendiamo a coprire e di cui, spesso inconsciamente, sentiamo la mancanza. Non credo possa esistere un equilibrio in questo contrasto tra profondi bisogni dell’uomo e preferisco per ora spostare il piano di osservazione sul livello sociale (forse addirittura sociologico).
È destinata Valona a progredire nella utile e prospera negazione del buio? Nessuno si pone o può porsi il problema di ciò che potrebbe venire a mancare? Credo di rischiare la divagazione narrativa, ma affronterò la domanda a partire dall’incontro tra Antonio, un amico italiano, e un vecchio pastore di Himara, un paesino della costa albanese meridionale. La conversazione si è svolta nella sala da pranzo della piccola pensione costruita sul lungomare dal figlio del pastore, dopo alcuni anni di emigrazione e risparmi in Grecia; è la pensione dove io stesso ho trascorso le mie prime due notti in terra albanese nell’ottobre del 2000. Quella sera Antonio si è fatto raccontare dal vecchio pastore la storia della sua vita: settant’anni vissuti sempre in Albania e per la maggior parte sempre a Himara. Anni di tradizione, isolamenti e fatiche. Anni in cui il pastore aveva visto crescere i figli e i nipoti vivendo e condividendo ogni giorno e ogni notte con la moglie. Antonio alla fine del racconto ha abbracciato con lo sguardo l’amico albanese e nella più ingenua sincerità gli ha chiesto se a lui non fosse mai venuta, dopo settant’anni, la voglia di prendere con sé la moglie e fare un viaggio, anche solo un piccolo viaggio ma comunque un viaggio. I figli e i nipoti ormai stavano bene, avevano tutti la loro casa a Himara e uno di loro, il più grande, aveva anche quella pensione in riva al mare, costruita dopo mesi e mesi di lavoro e emigrazione. A dire il vero alcune delle stanze della pensione erano ancora in via di costruzione, ma nell’insieme il progetto era completo e le cose andavano abbastanza bene. Perché allora non chiedere alla vita, a quella vita di settant’anni, un piccolo regalo? Potersene andare anche solo per qualche giorno lontano da Himara, fuori dall’Albania, a vedere una parte di quel mondo rimasto da sempre lontano ed
estraneo. In fondo, suggeriva Antonio, la vita prima o poi finisce ed è abbastanza difficile pensare di poter avere una seconda possibilità. Il vecchio pastore di Himara era d’accordo con Antonio e non solo sorrideva alle sue parole, ma scuoteva anche la testa da destra a sinistra, da sinistra a destra, secondo la gestualità che in Albania, esattamente all’opposto delle convenzioni italiane, significa affermazione e compiacenza. «Caro Antonio, tu hai ragione e anche io molte volte negli ultimi anni ho pensato di meritarmi un viaggio: a Parigi, ho sempre pensato di poter andare a Parigi, di poter lasciare qui mio figlio con sua moglie, con i suoi figli e con i suoi fratelli. Ora le cose vanno bene. Mi sono detto: c’è la pensione, il ristorante, le case e adesso c’è anche la libertà. Tante volte alla sera guardando il mio mare e bevendo il nostro raki ho pensato a quello che tu questa notte mi chiedi. Ogni volta però mi fermo, socchiudo gli occhi e mi rendo conto di non poter partire.» «Perché?» chiede Antonio. «Se io davvero partissi caro Antonio, chi porterebbe tutte le mattine le mie pecore al pascolo?» Esistevano ed esistono tuttora decine di possibili risposte alla domanda del vecchio pastore: nessuna di queste però può avere lo stesso valore di verità della domanda stessa. Il pastore tutte le mattine, poco dopo l’alba, esce con le sue otto pecore e con un piccolo bastone di legno scuro. Usciti dal cortile, girano tutti e nove verso nord e percorrono per circa trecento metri la strada del lungo mare, poi la attraversano ed entrano nella spiaggia dove camminando sulla sabbia di piccoli sassi bianchi, percorrono circa mezzo chilometro a pochi passi dal mare in direzione nord-ovest. Poi, lì dove la spiaggia finisce, prendono un piccolo sentiero verso il
promontorio che protegge il golfo di Himara. Rimangono lì quasi tutta la mattina, finché il pastore non fischia tre volte. E sfiorando un sasso con il bastone riconduce le otto pecore verso il cortile della casa. Antonio aveva visto quella scena per un’intera settimana: al momento della risposta del pastore alla sua ingenua e sincera domanda, quella scena di quotidiana normalità aveva assunto il peso non solo di una vita, ma anche del suo significato. Parigi va avanti anche da sola, le otto pecore probabilmente no. È l’esistenza di altre dimensioni ciò che unisce le stelle di Valona, l’emozione del silenzio e il pastore di Himara. Altre rispetto a cosa? Rispetto a quell’unico che nel suo prospero e necessario riprodursi rende molti dei luoghi delle sviluppate terre conformi, simili e a tratti omologhe. Quell’unico che pone le sue basi di meritato successo su due principali elementi: affascinare al fine di abituare e vendere al fine di poter consolare. Non esiste in questo mondo e tantomeno in questi mondi solo quell’unico, anche se a noi abitanti delle sviluppate terre conviene crederlo e agli abitanti delle sfruttate terre conviene sperarlo. A Valona di notte, quando scendo dalla collina dove vive da almeno quarant’anni la famiglia di Elidon e percorro la strada di sassi e fango che mi riporta al mio appartamento un po’ freddo ma molto comodo e pulito, non posso che camminare piano e incerto: semplicemente non vedo e solo l’esperienza e l’abitudine che non ho mi permetterebbero di avanzare spedito evitando pozzanghere, sassi o buche.
Lungo la strada non c’è illuminazione pubblica e le uniche fonti di luce sono le lampadine delle due case, una a monte e una a valle della strada. Mi è difficile dire che la cosa sia utile o conveniente ma nello stesso tempo mi è difficile ogni sera evitare di alzare lo sguardo e trovare nella silenziosa moltitudine delle stelle l’emozione e il bisogno di salire in questa stanza e iniziare a scrivere, raccontare o sussurrare. Non c’è dubbio che Parigi sia bella ma perché deve essere indubbia la scelta tra Parigi e le pecore di Himara?
Aurel A me non cambia più di tanto nella vita essere controllato, schedato e preso in giro dal “mio” consolato a Valona. Per decine di persone che vorrebbero dall’Albania raggiungere regolarmente l’Italia, che chiedono i documenti di riconoscimento del loro lavoro in Italia, che sperano di raggiungere figli o mariti, che hanno bisogno anche un solo timbro di convalida di un titolo di studio o che potrebbero anche solo essere turisti in un mondo diverso (un po’ come il pastore di Himara), per tutti loro il comportamento furbesco e superiore del consolato significa nel migliore dei casi ritardi e silenzi. Nel peggiore doversi rivolgere a chi può ottenere ciò che loro non possono. Aurel, un ragazzo di Valona venticinquenne, incontrato sul traghetto che ci ha portati a Brindisi alla fine delle riprese in Albania, mi ha raccontato molti altri aneddoti sulle avventure consolari. Dice, per esempio, che sono aumentati tantissimo i tempi di attesa, controllo e ritardo nei consolati dopo
l’11 settembre. Fino ad allora il consolato era tenuto a concedere un appuntamento ai richiedenti entro venti giorni dalla richiesta, dopo l’appuntamento aveva due settimane per concedere o meno il visto. Dopo gli attentati di settembre, la necessità di far crescere le misure antiterrorismo in vari ambiti della legislazione italiana e internazionale (“alleanza antiterrorismo” la chiamano nel nostro mondo), ha comportato la crescita dei tempi di attesa per l’appuntamento fino a quaranta giorni e dei tempi di attesa per il visto fino a trentacinque. Aurel ha vissuto in Italia come clandestino per quasi cinque anni, lavorando nella provincia di Pesaro prima in una falegnameria e poi in un mobilificio. Nel dicembre 2000 il proprietario dell’azienda ha accolto, dopo anni di onorato e clandestino servizio, la richiesta di Aurel di avere un regolare contratto di lavoro. Nel gennaio 2001, Aurel ha iniziato tutte le pratiche necessarie per vedere confermato e ufficializzato il contratto, fingendo per ovvi motivi di non essere in Italia e di volerci venire sulla base della chiamata di lavoro. Ufficio di collocamento, USSL, ufficio di igiene e questura hanno fatto varie indagini sul luogo di lavoro e su quello che il datore di lavoro aveva indicato come futura possibile residenza del neoassunto. Le procedure hanno richiesto circa sette mesi di tempo, periodo durante il quale Aurel ha continuato a lavorare e vivere nella normale clandestinità. Una volta ufficializzato il contratto e inoltrata la chiamata per lavoro, Aurel si è imbarcato a Brindisi utilizzando il nome e il passaporto di uno sconosciuto venditore di se stesso: uscire regolarmente dall’Italia avrebbe significato per lui o l’impossibilità di dimostrare la sua presenza a Valona nei mesi delle indagini o addirittura l’espulsione in quanto
clandestino e il conseguente divieto di entrata in Italia. Giunto a Valona nel settembre del 2001, Aurel ha iniziato le pratiche per ottenere il regolare visto e permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Due mesi e mezzo dopo ho incontrato Aurel nel traghetto ValonaBrindisi, il suo primo viaggio regolare Albania-Italia. L’avventura burocratica di Aurel finirà verso la metà di dicembre di quest’anno, quando, esattamente un anno dopo aver ottenuto il suo primo contratto di assunzione (e sei anni dopo aver iniziato a lavorare per l’economia italiana), Aurel riceverà il permesso di soggiorno temporaneo per lavoro dipendente. Lui sorride e sa di avere di fronte una nuova sfida. Aurel vuole portare in Italia i due anziani genitori: il problema è che la nuova legge sull’immigrazione del governo Berlusconi (che porta il significativo nome di Decreto Bossi-Fini) prevederà che possono ottenere il ricongiungimento familiare dei genitori solo gli immigrati con permesso di soggiorno e figli unici. «In sei anni di immigrazione non ho conosciuto nessun extracomunitario figlio unico.» «E allora che farai Aurel?» «Diventerò figlio unico!» Sorride ancora e guarda oltre l’oblò del traghetto, verso le prime luci della centrale elettrica di Brindisi. Aurel ha tre fratelli. La madre di Aurel sei sorelle e un fratello. Il padre ancora di più.
Kosovo 2001
Daca & Albi Ascolto le semplici parole dell’inglese internazionale di Daliburka, detta Daca. Vive a Plementina Daca, ovvero Daliburka. Plementina è una enclave serba nel cuore del Kosovo, un luogo che per quanto ci riguarda potrebbe anche non esistere. Quale senso ha preoccuparsi per l’esistenza di luoghi di confinamento di qualche migliaia di persone appartenenti al gruppo dei cattivi perdenti? Mi dispiace, ma non sto ironizzando. È chiaro, palese, implicito e perciò non comunicato che chi ha perso una guerra (per di più umanitaria) non possa che essere destinato a rappresentare quotidianamente la propria sconfitta. Si tratta di razionali soluzioni amministrative: un paese che esce da un conflitto deve rispettare come priorità il principio cardine delle relazioni militari: tutti i vantaggi agli amici del vincitore, tutte le libertà al vincitore. Gli altri? Esistono per poter confermare i disequilibri postbellici. Daca è una degli altri. Ostinandomi a raccontare non solo la storia, ma anche il volto, lo sguardo, i luoghi, le strade, le abitudini e i parenti, non faccio altro che ribadire il suo e il mio destino di vivere nel nuovo mondo belligerante, dove non esiste il nemico, ma esiste il bene e le sue nefaste conseguenze. Daca ha diciassette anni, sorride sul parapetto della casa mai
finita di suo fratello maggiore ed è una nefasta conseguenza del bene, di un bene troppo grande e bello per soffermarsi a osservare la strada impolverata di Plementina. Quell’unica strada dove una mamma alta e bella accompagna la carrozzina dalle grandi ruote fino alla piccola macchina arrugginita del popcorn salato e dove, poco dopo, una Zastava2 incrocia fumosa una coppia di sorelle rom ostinate nel loro vero sorridere, mentre, nascosto dall’edicola di metallo arancione, il tipico giovane debole e muscoloso lucida i colori metallizzati della mountain bike a pochi metri, o forse a pochi passi, dalle due vacche pascolanti del maestro di algebra in pensione. Daca conosce troppo bene o semplicemente troppo quell’unica strada della sua enclave. L’unica cosa che salva me, Daca e il nostro ingenuo racconto dal totale insabbiamento è la lingua. Daca parla inglese. Albi lo studia. Albi deve fare l’imprenditrice, perché ha capito che questa è la strada per la sopravvivenza nella terra dei ricchi. Poco importa se sopravvivenza a Padova significa una casa in centro, due auto, la pelliccia, l’aria condizionata e i vestiti griffati (ma almeno resistenti, sottolinea lei come migliaia di altri consumanti e consumati sopravviventi). Ciò che importa è nella logica perdente di questo viaggio, la storia della sua fatica e del suo sacrificio: la fuga, la clandestinità, i mille lavori nella Bassa Padovana, la solitudine e l’ossequio silenzioso dell’ospitalità passiva e necessaria. Così ha imparato a convivere con il suo stereotipo, a giocarci, a trasformarlo in un terreno di sfida e di funzionalità. Lei ha fatto per anni la clandestina, per anni la ragazza sola albanese in Italia, per anni la bella ragazza sola e per anni (meno e più attuali) la signora
emancipata dalla colpa, ma ora anche dalla dignità dell’immigrazione. Non si è mai rifiutata, prima per condizioni di potere e poi anche di maturato volere, di danzare nei suoi panni e sul suo scenografato palcoscenico. È per questo che oggi Albi è una bella imprenditrice con gonna di pelle e camicia di seta, proprietaria di una efficiente azienda produttrice di sistemi di sicurezza. Ed è per questo che Albi studia inglese, assume la sue sorelle come segretarie per aiutarle con il permesso di soggiorno e si coccola con qualche preoccupazione e qualche falsità il grasso marito da cui ha ereditato l’azienda e lo stile di vita. Chiaramente Albi ha anche accettato il pensiero razzista di Carlo Maria, marito imprenditore. Ma tutto questo perché la dimensione della terra ricca, unica e indivisibile, è la dimensione di cui è fondamentale apprendere e applaudire regole, formalità e falsità. È la dimensione a cui Albi ha presto capito di non poter raccontare la terra negata e confusa delle sue origini (Albi è di Valona). Ed è questa triste comprensione la molla che induce il migrante a falsificare se stesso in base a ciò che ha ascoltato dell’altro, suo ospite. La falsificazione purtroppo può avere mille forme: Albi voleva fare la ballerina e fa invece l’imprenditrice di sistemi di sicurezza. Imer voleva fare il rom e invece pulisce cavalli per evitare il carcere, Lazan voleva sposarsi e invece fa l’operaio a Montagnana, Karim voleva organizzare feste e invece si è inventato una cooperativa per manodopera maghrebina. La falsificazione esprime anche la criminalità e ne ha il diritto se non storico almeno umano. Non tutte le criminalità sono figlie della falsificazione, ma questo per ora è un altro discorso. Ciò che abbiamo scoperto con Albi è proprio la natura ontologica della falsificazione: Albi è spesso falsa perché ha imparato a essere falsa. Per questo
quando noi le chiediamo quasi per favore di raccontare come è nata questa falsificazione, lei semplicemente lo fa. E facendolo scopre di poterlo fare. Perché Albi è e sarà sempre a metà. Ma essere a metà è, in quantomeno utile, condizione di maggiore vitalità. E questo nella terra ricca sembra non lo capiremo mai, nonostante gli appunti di qualche ingenuo o forse ostinato viaggiatore.
Lettera a mio padre dal Kosovo Febbraio 2001 Caro babbo, questa volta il viaggio è più veloce e più comodo e sono sull’aereo Skopje-Roma della Macedonian Avion Transport. I viaggi in autobus tra Tirana e Pristina mi hanno un po’ stancato e l’idea di altre trenta o più ore di traghetti, pulmini e treni mi hanno spinto a scegliere l’aereo. In questi venti giorni la maggior parte della mia attenzione è stata catturata dal lavoro di Barbara. Si tratta di un progetto di UNHCR dedicato interamente alla costruzione di gruppi di donne appartenenti alle popolazioni minoritarie del Kosovo, ovvero serbe, rom, goranje (musulmani di lingua serba) e askalya (rom di lingua albanese). Oltre a dare in qualche modo un aiuto a Barbara nella gestione pratica del lavoro, molto del mio tempo è trascorso nel discutere sulle condizioni delle minoranze e in particolare di quella serba. Abbiamo
passato molte giornate in paesi enclave come Plementina, Babin Most, Gračanica e Caglavica, luoghi dove vivono solo serbi e i cui “confini” sono costantemente soggetti a protezione della KFOR, la missione NATO in Kosovo: è come se a Ponte San Nicolò vivessero solo “nemici” dei padovani senza potersi muovere oltre il checkpoint KFOR di Roncaglia. I serbi (circa centomila in tutto il Kosovo) vivono in una sorta di limbo a-storico, in attesa di capire se rimanere o se emigrare tutti verso Belgrado, consegnando il Kosovo alla purezza etnica albanese: le donne da cui siamo andati a pranzo o con cui abbiamo bevuto decine di rakia e kafa, erano dipendenti statali fino alla guerra e mantengono tutt’oggi un livello di vita assolutamente decente da un punto di vista economico. Hanno, come loro stesse raccontano, tutti i loro dinari nascosti in casa e aspettano di vedere cosa possa succedere, accettando per ora una vita congelata e passiva. Scopo del progetto in cui lavora Barbara è convincere queste donne, molto spesso meno portatrici di odio e violenza rispetto agli uomini, a scongelare la loro vita, riattivare le loro forze e volere di nuovo un ruolo attivo in una storia che non è giusto continuare solo a subire. La questione, e questo è ciò che più mi ha interessato, non è banalmente umanitaria, ma profondamente socio-politica: UNMIK (la missione ONU in Kosovo) dopo due anni di aiuti e finanziamenti alla maggioranza (o meglio ex-minoranza) albanese, si accorge oggi di aver sempre di più (in particolare dopo la caduta di Milosevic) bisogno di essere riconosciuta come autorità di governo anche dalle minoranze, i cui diritti e doveri sono l’unico possibile mezzo per arginare l’arroganza e la violenza nazionalista della parte molto rumorosa e molto potente della popolazione albanese. Rispetto al mio ultimo viaggio in Kosovo, nel maggio dello scorso anno, è stata questa la più grande differenza che ho potuto osservare: la politica dell’amministrazione internazionale è oggi
fortemente concentrata sul trovare altre vie rispetto a quelle errate degli ultimi due anni, ovvero di quelle che hanno costruito una società di intolleranza e di enorme divario. Stanno, in altre parole, riconoscendo di aver seguito e scelto politiche non adatte o addirittura divergenti rispetto agli scopi dichiarati: hanno per due anni pensato solamente alla legittimazione pacifica della guerra, ovvero ad attuare progetti molto ricchi di assistenza e appoggio alla maggioranza che usciva vincente dalla guerra. Il fatto che oggi questa maggioranza non si comporti da ragionevole classe dirigente, ma da orgogliosa e intollerante vincitrice è la diretta conseguenza non solo della logica di guerra, ma anche della logica dell’umanitarismo di guerra. E non si tratta solo del comportamento della maggioranza albanese: si tratta anche di aver fatto ben poco in questi anni per convincere i serbi ad accettare in modo attivo la necessità di collaborare a una nuova condizione sociale e politica del Kosovo. L’unico modo con cui fino ad oggi i serbi hanno chiesto qualcosa a qualcuno è stato quello della minaccia: «Se gli albanesi continuano a fare così» dicevano «noi ricominciamo a sparare o ancor peggio bruciamo i nostri paesi e ce ne andiamo via tutti». Tutto questo oggi finalmente inizia a essere indicato come conseguenza di una errata strategia politica, anche se rimane pur sempre il dubbio che tale sviluppo fosse in realtà voluto da chi da sempre ha appoggiato le aree più estreme del patriottismo albanese. Non credo, caro babbo, che esista o possa esistere nella storia, e in particolare in quella attuale, una scelta neutrale di puro umanitarismo: troppo spesso ho sentito parlare e qualche volta ho anche creduto alla retorica della diplomazia del buono super partes,
di quella non politica basata sul voler convincere due che sbagliano a convergere in pace. Credo invece molto nelle scelte politiche basate sulla costruzione di una posizione (che in quanto tale non può essere neutra), sulla volontà di distinguere. In realtà era solo di questo che volevo parlarti: della distinzione. La scelta di una posizione, in qualsiasi processo di analisi o di osservazione, nasce dalla volontà di distinguere. La posizione è realmente tale, e quindi non finta come nel caso della posizione neutrale, quando si sviluppa in conseguenza a una suddivisione analitica del reale o di quell’ambito di reale su cui si vuole esprimere un’azione. Ma forse la distinzione è ancor più profonda e non ha a che fare solo con reale e azione: è il principio dello sforzo di conoscenza. Ciò mi è venuto in mente non osservando le enclave serbe, ma leggendo in un bar albanese di Obilic, un libro sull’Ultimo Teorema di Fermat: l’autore tenta di ricostruire la storia dei pensieri matematici che hanno portato all’affermazione e, tre secoli più tardi, alla dimostrabilità del teorema. Uno dei primi paragrafi del libro è interamente dedicato alla costruzione del pensiero matematico della distinzione tra i numeri: razionali, irrazionali, immaginari, primi, periodici, interi. Non ho la più pallida idea di come possa essere dimostrato il teorema di Fermat (e questo sinceramente mi dispiace), ma l’importazione di quel libro ha qualcosa a che fare con gli errori di UNMIK in Kosovo e in generale con l’errore di ritenere quella dell’umanitarismo in quanto tale una posizione utile. Provo a spiegarmi: gli internazionali hanno rovesciato in Kosovo miliardi di dollari convincendo il mondo e in buona parte anche se stessi che l’importante era aiutare il Kosovo dopo la guerra,
convincendosi quindi che questo tipo di aiuto fosse di per sé giusto e utile, solo o semplicemente perché è “aiuto”. Facendo ciò hanno rinunciato a distinguere tra estremisti intolleranti e tolleranti isolati, tra interessi mafiosi filonazionalisti e ricerche di percorsi di nuova cooperazione: hanno giocato con i numeri considerandoli semplicemente numeri, il che impedisce la dimostrazione di qualsiasi teorema. In questi giorni ho cercato di costruire in me e con le persone con cui ho parlato e vissuto una distinzione, quella specifica distinzione necessaria ad analizzare il Kosovo di oggi. Ci sono persone che vogliono vivere in Kosovo a partire dal bisogno di serenità, cooperazione e della fatica di rimettere in discussione errori, paure e miti costruiti in questi anni: queste persone vanno messe davanti o meglio vanno lasciate agire garantendo la punizione di chi ostacolerà il loro lavoro. Nessun pietismo, ma indicazione di una scelta. Credo che lentamente stiano scoprendo di dover fare questa distinzione. Nella lettera dopo il viaggio in Albania ti avevo parlato di “descrizione”. La distinzione è il primo passo di una possibile descrizione, quella che possiamo definire tanto scientifica quanto politica. È un tipo di descrizione che mi piace e che sono sempre spinto a costruire, ma è anche faticoso e così ogni tanto mi riposo: appoggio la testa a un finestrino e lascio che le immagini scorrano in tutta la loro semplice presenza e in tutto il loro potenziale fascino. In quei momenti la descrizione nasce invece dall’emozione e il suo carattere diventa quello più denso che definirei “artistico”. È tutto ciò che mi convince ogni volta a mettermi in viaggio, anche se a volte sto un po’ scomodo come negli autobus albanesi o come in questo corridoio del treno Roma-Padova.
2
La marca delle automobili realizzate dall’industria di Stato jugoslava.
Balcani 2001
Taverna Srpska Strada tra Stolac e Liubinje, cinquanta chilometri a sud-est di Mostar. È sufficiente una delle mille colline dell’Erzegovina per perdere brutalmente i contatti con i simboli e i significati delle ultime case. Il passaggio da Herceg Novi e alla Repubblica Srpska non è solo la sorpresa del cartello bianco di ufficiale benvenuto, ma anche soprattutto la sensazione di diversità che quel cartello in fondo non fa altro che materializzare. La terra è pietra, la pietra è stanca, l’albero è nero e l’orizzonte è montagna. Le auto corrono veloci spaesate tra il vuoto e l’infantile paura a esso legata. L’aria fischia tra le lamiere dei luoghi abbandonati, le case sono singole, sole, inutili. La terra è pietra, la pietra è stanca. Cigolano silenti la rabbia e l’orgoglio della solitudine. Poco più in là una pattuglia della polizia slava ci ferma, come segno di trionfo di chi ha potere di conoscere e non temere il deserto. Il giovane sceriffo della terra serba sfoglia le pagine dei passaporti e copre con il sorriso della temporanea riscossa la tristezza del suo destino, servitore impotente dell’autodistruzione di un ostinato potere. Ci accusa di non avere i visti, noi abbozziamo con timido slavismo la più semplice e forse offensiva delle
difese: non servono i visti per entrare in Srpska (è sufficiente l’onore e l’onere di osservare le pietre). È ovvio che la difesa non può reggere, eppure d’improvviso abbiamo indietro i passaporti e possiamo ripartire. La terra è ancora pietra e sulla linea di asfalto che scorre nello specchietto retrovisore c’è solo un’altra auto: si avvicina e ne posso leggere la targa. Un’auto delle Nazioni Unite aveva interrotto, agendo semplicemente come simbolo, il dialogo sordo del potere stanco con i suoi ospiti. Il piccolo sceriffo aveva ancora una volta applicato la regola del suo potere, fare la corte, lì dove conviene, alle formalità della democrazia (regola in vigore non solo in Repubblica Srpska, sia ben chiaro). Due curve più tardi sul passo dell’ennesima collina, c’è una casa. Ed è semplicemente così: c’è una casa. Quattro pareti di mattoni, un tetto, un piccolo cortile di cemento e il parcheggio impolverato. C’è una casa e quella casa è un ristorante. Moquette verde, stampe sbiadite alle pareti, televisione senza antenna e virata in giallo, cinque tavoli più piccoli, nuvole di tabacco, fiumi di selvaggina e un solo tavolo più grande, appena appena nascosto dagli altri. Ci sediamo, prendiamo due birre: vogliamo arrivare al mare e dobbiamo capire dove siamo. Le birre a volte nella vita, se bevute in uno spazio pubblico, aiutano a capire dove sei. Non ricordo esattamente quali precise o imprecise indicazioni ci dette il cameriere dai capelli neri e impomatati: al primo sorso di Laško la nostra attenzione era tutta per i due proprietari del tavolo più grande (ospiti o clienti sono termini adatti agli eufemismi da snack bar). Due uomini, o forse due cacciatori, o forse due poeti con folte barbe nere, vecchie camice militari e sorridenti occhi di controllo e silenzio. Spengono l’ultima sigaretta dell’aperitivo (che a Ljubinje come a Stolac
non è il gingerino ma la rakia domackae3 e accolgono con un leggero movimento di sedia le portate del loro pranzo. Non era domenica, se non ricordo male era giovedì: loro erano saldamente, ironicamente e intoccabilmente soli. Nessun pranzo speciale e nessuna particolare cerimonia prandiale. Il loro era un tradizionale pranzo di barbuti poeti delle terre di pietra: loro erano quelle pietre e quelle pietre erano tracce inossidabili della loro barbara poesia. I due uomini del tavolo più grande della casa sull’ennesima collina lungo la strada del triste sceriffo srpsko stavano per mangiare uno stinco enorme di maiale selvatico e mezzo capretto a testa. Abbiamo imitato e nascosto il nostro applauso, accesa l’ennesima Drina e ci siamo allontanati come estasiati spettatori dell’eroico, invidiabile ma inarrivabile sacrificio carnale. Poco importa se i due cacciatori corrispondessero perfettamente all’immaginario di “cetnico” e poco importa che prima di arrivare al mare abbiamo dovuto perderci per altre quattro ore tra pietre, pecore, neri cespugli e stracciate bandiere di filmiche frontline; ciò che importa è quello che è successo pochi giorni prima a Podveležje.
Partita a Calcio Non c’è praticamente nient’altro a Podveležje (letteralmente, ai piedi del monte Velež): quattro case, un ristorante, una grande piazza, la moschea e il campo di calcio. O meglio per ora non c’è altro: tra pochissimi giorni al centro della grande piazza ci sarà un piccolo ma
assai evidente monumento ai caduti. Centottantanove uomini sono morti nell’area di quel villaggio, dove i combattimenti si sono alternati nel rispetto delle mutevoli alleanze balcaniche: esercito federale appostato d’assedio alla vallata, truppe bosniache di resistenza, paramilitari croati contro esercito federale prima e contro truppe bosniache poi, esercito serbo contro paramilitati croati e riconquista croatabosniaca contro occupanti serbi. L’impressione, guardando la sagoma e la pianta del futuro monumento, è che a Podveležje non ci sarà un monumento del villaggio, ma un villaggio intorno al monumento. O forse ai monumenti, ricorda sorniona l’ombra della moschea al tramonto. «La pace deve lasciare libertà di espressione ai simboli del dolore e alla venerazione degli eroi: chi ha subito la guerra deve poter riacquistare il diritto di ridisegnare con forza la propria presenza sulla terra del proprio natio e mortale versamento di sangue.» È sull’origine di questo fiume di parole della retorica bellica (pre o post che sia) che si collocano i dubbi sinceri dei nostri viaggi balcanici. Quanto i segni forti della conquistata pace riescono a differenziarsi dai simboli violenti della rivendicata guerra? Lascio per ora sospeso l’interrogativo e torno nella piazza di Podveležje, a pochi minuti dal tramonto del sole oltre i deserti dell’Erzegovina. Sei o sette bambini ci hanno invitato a giocare a calcio contro la loro squadra: abbiamo dato il più alto di noi come portiere e abbiamo accettato la sfida. Inutili e immaginabili le annotazioni sulla nostra prestazione fisica, caratterizzata da un uso non adatto di rakie, Drina4 e pivo. La partita è andata come è andata, grazie alla polvere del terreno di gioco, al freddo del Velež, alla luce dolce e stanca del tramonto, ai sorrisi della
comunicazione tra stranieri, alle scarpe non allacciate del piccolo Maradona bosniaco e al silenzio del paese, dove le pecore tornavano all’ovile e il proprietario del ristorante sporcava l’ultima Drina con le mani del lavoro, salutando con la testa i due camionisti alla guida dei loro mostri motorizzati in partenza verso i sentieri di pietra e gli spazi di vento. La partita è andata come è andata, ma ciò che nessuno di noi potrà dimenticare è stata la fine del primo tempo. Allah hu akbar! Allah è grande, Podveležje è piccolo, il sole è finalmente sceso e il canto del muezzin va rispettato, non tanto per un fascino quasi turistico della religione straniera, ma piuttosto per l’evidente posizione di unici protagonisti al centro della grande piazza. Uno dei bambini ha fermato la palla con le mani una frazione di secondo prima del canto e noi siamo rimasti immobili di fronte a quella esperienza di poetica e popolare teatralità religiosa. Tutti fermi, Allah è grande, il muezzin deve lavorare, l’imam è meglio non farlo incazzare, la polvere continua a ondeggiare intorno a noi. Tutti fermi, perché la valle è grande sotto il Velež, come sono grandi tutte le valli dell’Erzegovina e come forse sono grandi tutte le valli dell’Est. A quanti chilometri è rimasto l’Occidente? Dove è rimasto? Dove si è perso? Era di là, alle spalle della nostra porta, appena dietro all’ultima collina del tramonto. Dove? Dove è rimasto il parroco nervoso ai bordi dei campi da calcio? Lo sguardo infastidito dell’operaio e della sua MS? L’odore della polvere e quello del freddo? Il potere quotidiano del religioso e il significato temporale del rito? Siamo così convinti di aver lasciato tutto ciò nel passato per vivere il futuro? Non abbiamo forse perso qualcosa, rinunciato a qualcosa, costruendoci in realtà un altro passato di nuove e più finte conservazioni?
L’impressione, durante i due minuti del canto di quello sconosciuto muezzin, è che la nostra sia un’epoca storica in cui il potere ha imparato a dipingere di moderno e corretto la sua conservazione, mostrando come antico, antimoderno e perciò ingiusto ciò che di sincero c’è nella terra e nei piedi scalzi. Sono grandi le valli dell’Est, piene di polveri, odori e contraddizioni: il loro spazio non è pieno di luoghi già sfruttati e di ruoli già organizzati, ma di storie. L’Occidente ha dimenticato le storie. A quanti chilometri indietro è rimasto l’Occidente? La ricca terra dove la storia sembra essersi fermata e le storie essere scomparse? Uno, forse due secondi prima della fine del canto, il piccolo Maradona bosniaco aveva un vantaggio su di me: lui sapeva riconoscere l’ultima parola del rito, io no. In quei due secondi ha creato il suo scatto e ha segnato il suo giusto goal. Beffati, emozionati ed ebbri abbiamo reagito e la partita è ripresa. Anche il secondo tempo è andato come è andato: ciò che era cambiato alla fine della sfida, era il nostro sguardo sulla piazza e sui suoi monumenti.
3
Distillato fatto in casa molto diffuso in tutti i Balcani.
4
Marca di sigarette molto diffusa nei paesi ex jugoslavi.
Da Padova a Istanbul 2001
Padova-Istanbul via Belgrado Raggiungere Istanbul attraverso l’Europa e non attraverso l’Unione Europea. Attraversare le strade, le città e le storie che conducono dalle terre della stabilità a tratti annoiata della Mitteleuropa a quelle dell’Islam laico del Vicino Oriente. Diventare così viandanti e viaggiatori in territori, quelli balcanici, che sino ad oggi hanno troppo spesso conosciuto solo missionari di armi, business o compassioni. Raggiungere Istanbul attraverso l’Europa significa incontrare le terre svuotate della Slavonia, la grandezza abbandonata di Belgrado e la sperimentazione umanitaria del Kosovo. Raggiungere Istanbul attraverso l’Unione Europea significa invece percorrere la costiera delle ferie adriatiche, imbarcarsi in un traghetto con aria condizionata e poltrone blu e attraversare la Grecia dei camper tedeschi e dei giovani italiani in marcia verso le discoteche di Paros e Mykonos. Due geografie diverse che segnano non solo il tuo viaggiare, ma anche il tuo rapporto con la storia e con l’altro. Raggiungere Istanbul attraverso l’Unione Europea significa anche muoversi nel privilegio dello spazio senza confini e nel fascino della prima vacanza estiva senza cambi di valuta; mentre raggiungere Istanbul attraverso l’Europa significa incontrare le facce delle sentinelle e dei mercanti degli otto confini che spezzano la direzione del viaggio e scoprire i movimenti folli, veloci ma a tratti anche timidi della confusa diffusione dell’euro e dei suoi simboli.
Sono due scelte diverse e da questa differenza è iniziato il nostro viaggio. Quando siamo partiti da Padova il 18 luglio sapevamo che avremmo trovato il solito blocco di traffico sul famoso passante di Mestre, ma fiduciosi del deserto nell’autostrada Zagabria-Belgrado contavamo di poter arrivare nella capitale serba in una decina di ore, tant’è vero che ci eravamo addirittura permessi di fissare un appuntamento con due amici per le dieci della sera stessa nella hall dell’Hotel Mosca a Terazije, dove resiste nel suo inevitabile anacronismo un enorme, nobile e antico caffè ancora pieno del fumo e delle voci del passato politburo jugoslavo. I calcoli ovviamente erano sbagliati: la coda di tir a Mestre c’era e l’autostrada della Slavonia era come al solito comoda e vuota, l’elemento imprevisto era invece al confine tra Croazia e Serbia. Lì dove l’autostrada si trasforma in una normale statale avvolta da grandi tigli verdi e circondata da campi di terra nera e per lunghi tratti incolta, dove l’autostrada della fratellanza tra i popoli voluta da Tito scompare per lasciare spazio alla necessità e al peso della storia, ovvero a circa quattro chilometri dalla dogana, ad aspettarci c’era un’interminabile coda di Mercedes tedesche con i vetri posteriori anneriti, lunghe antenne sul tetto e le targhe con le sigle delle città uguali a gruppi di due o tre. È in quel luogo che abbiamo incontrato l’imponenza di una delle più grandi e antiche migrazioni economiche della storia europea, ovvero quella dei turchi verso la Germania. Raggiungere Istanbul attraverso l’Europa in luglio significa accompagnare centinaia di famiglie turche nel loro annuale ritorno a casa: ma questo lo impari solo quando sei già in strada, perché non esiste nessun servizio informazioni della rete stradale europea che ti tenga informato sui flussi del controesodo turco-germanico e tantomeno
sulle code di entrata in Serbia. Perché quando viaggi oltre i confini degli Imperi Centrali nulla è più scontato e ogni cosa la devi imparare e conoscere passo dopo passo, città dopo città, strada dopo strada. Così abbiamo aspettato otto ore per ottenere il visto di entrata in quella che nei cartelli stradali, nei timbri e nelle carte intestate continua a chiamarsi Repubblica Federale di Jugoslavia. Otto ore: i turchi aspettano e insieme a loro aspettiamo anche noi, cittadini di una Comunità Europea che ama troppo spesso escludere. L’attesa ovviamente non è l’unico dazio da pagare e possiamo dirigerci verso Belgrado solo dopo aver contribuito lautamente alle casse della nuova democrazia postjugoslava: il pagamento dei visti e dell’assicurazione vengono effettuati ovviamente tutti in euro, unica moneta circolante nel delirio della dogana popolata solo di smog, polvere e container, oltre a vari e non ben identificati amici dei poliziotti di frontiera. La cosa impressionante è che superata la frontiera i turchi sembrano scomparire: le loro Mercedes sono ben più veloci della nostra Alfa e nessuno di loro ha alcuna intenzione di fermarsi lungo il viaggio verso casa, se non negli autogrill, o meglio nei parcheggi degli autogrill dove, dialogando via cellulare o via radio (molte delle loro auto sono infatti dotate di walkie-talkie e antenna) si danno appuntamenti in gruppo. Lasciamo così i turchi e raggiungiamo la notte belgradese. L’entrata in città è impressionante quando fuori dal finestrino scorrono i palazzoni di Novi Beograd, prima di arrivare a uno dei ponti sulla Sava che maestosi ricordano le manifestazioni di regime che nella primavera del 1999 affollavano con concerti i target dei bombardieri NATO di Aviano.
A Belgrado ci fermiamo solo due notti, ospiti di George Buletic, detto Bulice, un enorme ragazzo di venticinque anni amico di Uros, studente e cameriere serbo di Bologna che abbiamo conosciuto in Italia nell’autunno del 1999, quando, scappato dal suo paese per disertare l’esercito di Milosevic, ci aveva chiesto una mano per ottenere un permesso di soggiorno umanitario. Bulice, come troppi dei suoi coetanei belgradesi schiacciati dall’ereditata responsabilità serba e delusi dalla finta libertà post Milosevic, vuole lasciare la Serbia e raggiungere Uros a Bologna. Con lui passiamo una bellissima serata in uno dei barconi lungo il Danubio, dove i giovani dell’underground belgradese si ritrovano suonando il reggae, il dub e il drum and bass della loro resistenza a un destino lento di isolamento: quei barconi, ancorati a pochi metri dallo scheletro del palazzo della Lega dei Comunisti bombardato dalla NATO e oggi acquistato dal proprietario di Pink TV (vecchio amico della famiglia Milosevic oggi libero e democratico businessman della Serbia di Djindjie), sono luoghi pieni di un fascino tutto affidato al dialogo tra la postmodernità della loro musica e la nobile antichità del più grande fiume europeo. Ma con Bulice non abbiamo solo ballato: con lui, nel suo spoglio appartamento di Stari Beograd, abbiamo trascorso qualche ora a parlare della scelta di raggiungere l’Italia. Bulice ha provato a studiare all’Università di Belgrado, ma non appena si è reso conto che nulla dei suoi studi sarebbe poi stato riconosciuto in altri paesi europei, ha smesso e ha iniziato a sognare l’Italia. Per questo da almeno due mesi sta cercando di ottenere il permesso dalla nostra ambasciata per venire a sostenere l’esame di ammissione alla facoltà di Scienze Politiche di Bologna. La cosa è ovviamente tutt’altro che semplice:
«Ho l’impressione» ci racconta, «che nell’ultimo anno in Italia qualcosa sia cambiato, perché voi non avete idea di quanto più difficile e complesso sia diventato ottenere anche solo un visto per invito (che è molto più restrittivo di quello per turismo, perché vincola la persona a tempi e luogo dell’invito). La vera fregatura nel mio caso è che io non solo devo andare a fare l’esame ma poi devo anche rimanere in Italia per aspettare i risultati e all’università dicono che potrebbero comunicarli anche dopo due o tre mesi. Se è difficile ottenere il visto di invito per andare a fare l’esame, ancora di più lo è per il visto turistico necessario a rimanere da voi fino alla consegna dei risultati dell’esame stesso. Fino all’anno scorso poteva bastare la lettera di una persona, parente o conoscente, che garantisse di ospitarci e di sostenerci finanziariamente: adesso chiedono che la lettera sia di un’istituzione o di un’associazione riconosciuta a livello nazionale.» Abbiamo raccontato a Bulice della Legge Bossi-Fini e delle nostre manifestazioni in Italia contro il governo Berlusconi e lui ci ha detto di aver seguito un po’ tutte le lotte italiane: «Abbiamo visto le immagini del grande corteo di marzo a Roma e sappiamo bene anche ciò che è successo a Genova lo scorso anno: sono tutte manifestazioni importantissime, ma intanto noi siamo bloccati qui e qui continuiamo a non valere nulla. Vi assicuro che non è bello.» È questo ciò che si impara attraversando l’Europa in direzione Istanbul: si impara a vedere negli occhi di ragazzi come te la rabbia e la rassegnazione di essere esclusi da un mondo che nello stesso tempo si impone come unico e necessario. Bulice non odia Belgrado: Bulice ama i barconi sulla Sava, ama la loro musica, ama la complicità degli amici con cui è cresciuto, è scappato e ha studiato. Ma Bulice finché rimarrà nella sua città non può fare altro che imparare a odiarla,
perché capitale di un mondo che ieri ha sbagliato e che oggi non conta nulla. Uros una sera a Bologna ce l’aveva detto: «Solo ora che sono in Italia amo di più Belgrado e non vedo l’ora di avere l’occasione di raccontarla, descriverla e consigliarla.» È la mancanza di dialogo con ragazzi come Bulice che costruisce la chiusura elitaria e ignorante della fortezza europea e che conferma quella coatta e pesante di giovani che rinunceranno sempre più a migliorare il loro paese e la loro vita, consegnandole a destini di eterna transizione, utile solo ai facili guadagni dei liberi mercanti. Il racconto e le parole di Bulice continuano a risuonarmi in testa quando la mattina successiva vado all’Ufficio visti dell’ambasciata italiana per ritirare i moduli e la prenotazione per Daliburka detta Daca, un’altra amica jugoslava che ci piacerebbe invitare a Padova in settembre, quando al Festival Itaca proietteremo il film-documentario di cui lei è protagonista. La strada delle ambasciate a Belgrado è costellata di persone che, raggruppate davanti agli ingressi, attendono il loro turno: niente a che vedere con gli stereotipi delle masse di disperati che solcano i sacri confini o che infastidiscono il lavoro dei nostri diplomatici, bensì corrette e silenziose file di dignitose persone che attendono di essere esaminate da più alti controllori. Ai miei occhi sembrano tutti Bulice e per ognuno di loro posso immaginare storie di studenti, lavoratori, musicisti, meccanici e professori che vorrebbero poter avere la libertà di viaggiare e conoscere. Per me il compito ovviamente è molto più semplice: devo solo affacciarmi alla guardiola del carabiniere all’ingresso dell’ambasciata e fargli capire con il semplice uso della voce che sono italiano come lui. A quel punto la strada è in discesa: mi basta spiegare ciò
di cui ho bisogno e in meno di due minuti ho in mano i moduli e il foglietto dell’appuntamento necessari per il visto di Daca. La sensazione lì per lì è di chiaro disagio di fronte alla lunga fila di chi aspetta alle mie spalle il suo turno da normale extracomunitario, ma poi me ne faccio una ragione: in fondo non abbiamo fatto altro che sfruttare la nostra italianità per rendere più semplice la procedura a un’amica che altrimenti avrebbe dovuto passare un’intera giornata a Belgrado solo per avere i moduli e il fogliettino dell’appuntamento. Infatti Daca non è di Belgrado, ma vive a Plementina, villaggio serbo della periferia di Pristina in Kosovo. Ed è lì che, con i moduli per Daca in valigia, ci dirigiamo l’indomani mattina. La Serbia centrale è un mare di campi di mais ancora verde, interrotto ogni tanto da grandi complessi di cementifici, silos alimentari e industrie meccaniche. Lungo l’autostrada si incrociano ancora molte zastava e anche qualche vecchio pastore che tiene le sue pecore vicine alle auto che corrono, quasi a voler controllare il numero di ospiti e viaggiatori. A grappoli ricompaiono i turchi, unici stranieri dell’asfalto serbo, ed è davvero emozionante ritrovarci per puro caso a visitare pochi chilometri fuori dall’autostrada per Niš, il monastero di Ravanica. Con ancora negli occhi le famiglie ottomane accampate nei parcheggi a mangiare würstel di manzo e baklava, abbiamo infatti riconosciuto all’interno della chiesetta ortodossa del monastero la tomba sacra del Re Lazar, l’Aleksander Nevskij della storia serba, il grande eroe della battaglia di Kosovo Polje contro i turchi di Murad. Niente di più fastidiosamente nazionalista e di più storicamente vitale nello stesso tempo. Lazar, i turchi, le candele che friggono dentro la chiesa, le Mercedes tedesche, la sacra tomba, i dinari sulle icone, le preghiere di Allah lungo le autostrade, il
manto dorato che avvolge l’eroe, le vecchie suore. Il confronto con i Balcani si fa denso e il bagaglio di emozioni e curiosità è abbastanza pesante per potersi finalmente immergere nel cuore delle contraddizioni, nella valle dell’antica e nobile sconfitta dell’eroe Lazar: il Kosovo. Lasciamo Poduljevo, l’ultima città serba, accompagnati dai clacson di un lungo corteo matrimoniale e dopo il non-confine con il protettorato internazionale kosovaro dove i poliziotti serbi non mettono il timbro di uscita e quelli cechi ed egiziani della UN Police ci salutano con curiosità, ci ritroviamo nella strada per Pristina nel bel mezzo di un corteo matrimoniale kosovaro, assolutamente uguale a quello serbo, se non fosse per la grande bandiera albanese che apre la lunga fila di auto. Nei trenta chilometri che dividono il confine dalla capitale kosovara sono almeno una decina i cortei nuziali che incontriamo e tutti sono guidati dalla grande bandiera rossa: l’orgoglio albanese è ancora vivissimo e ogni matrimonio è consacrato di fronte alla patria, al cui destino i novelli sposi dedicheranno e offriranno i futuri figli (molti possibilmente). Percorrendo le strade “rebuilded by the European Commission”, come recitano con insistenza i cartelli pubblicitari lungo la carreggiata, arriviamo a casa di Daca verso le nove di sera, dopo aver passato il checkpoint dei soldati KFOR norvegesi e marocchini che controllano e proteggono Plementina, la piccola enclave serba dove vive da sempre la famiglia di Daca. È un po’ tardi e il villaggio è completamente al buio, privato della corrente elettrica come tutte le sere. «La luce tornerà fra circa un’ora» ci dice Momi, il padre di Daca, facendoci accomodare nel loro salotto, dove hanno acceso una lampadina di fortuna alimentata dalla batteria di un’automobile.
Sorseggiando dell’ottima rakia, leggiamo insieme a Daca e ai genitori i moduli dell’ambasciata: la nostra vergogna perciò che è richiesto di allegare ai moduli, si incrocia con la preoccupazione di Daca e con l’incertezza dei genitori, non ancora convinti del viaggio che Daca, la più giovane dei loro tre figli, vorrebbe fare in Italia. «Da Plementina stanno scappando tutti» ci spiega Momi, «ma per noi che non possiamo lavorare perché exoperai dell’industria statale serba, è importante che i nostri figli ci diano una mano qui a Plementina, anche se è difficile.» Daca, che da tre anni lavora come traduttrice serbo-inglese per organizzazione umanitarie italiane e francesi, rassicura il padre e si preoccupa molto di più dei moduli dell’ambasciata. «Il passaporto posso anche riuscire a farlo entro agosto, anche se devo andare prima a Niš per tutti i documenti, il vero problema è questa storia dei soldi. Io non ho 450 euro da mostrare in frontiera per poter entrare e tantomeno posso avere una MasterCard o aprire un bonifico bancario in Italia: io guadagno meno di trecento euro al mese e la pensione dei miei è ancora più bassa. Mi sembra davvero assurdo o quantomeno io non lo capisco. Chi può avere quei soldi qui sono solo gli internazionali e i mafiosi.» Non nascondendo la nostra vergogna per l’importanza che il denaro ha nelle nostre terre, spieghiamo a Daca che proveremo a trovare noi una soluzione parlando con l’ambasciata e pochi minuti dopo nel villaggio ritorna la luce. Mama e Baba (madre e nonna) di Daca scattano in piedi e nell’arco di cinque minuti il tavolo è imbandito di ogni ben di dio: i nostri ospiti avevano preparato la cena per il nostro arrivo, ma non volevano servircela in un salotto reso freddo dalla luce di una piccola e fioca lampadina. Sorridiamo a tanta semplice nobiltà e rendiamo onore alla mensa, riscoprendo i veri sapori di pollo, peperoni, pomodori,
formaggio, pane e sliva, prodotti della vita contadina a cui Momi e la moglie sono stati consegnati dopo essere stati licenziati, perché serbi, dalla centrale elettrica di Obilic´. Due amici ci aspettano l’indomani sera nella penisola calcidica e purtroppo possiamo fermarci a Plementina una notte sola, per poi risalire in auto, superare Pristina (dove un amico ci racconta che verrà a breve costruita una copia in miniatura della Statua della Libertà) e raggiungere in meno di un’ora il confine con la Macedonia, dove il nostro passaporto viene questa volta controllato da poliziotti UN slovacchi e statunitensi. La Macedonia man mano che scendi verso sud assomiglia sempre di più a un paese mediterraneo, con grandi colline segnate dal caldo e dagli incendi, con vallate semi deserte e piccoli villaggi isolati. La strada è grande e completamente vuota: sono scomparsi anche i turchi, che preferiscono passare per Sofia ed Edirne evitando così di attraversare la non amata Grecia e snobbando totalmente la piana kosovara così inutilmente fiera di essere ritornata terra di Islam. La strada è grande e completamente vuota e come in Serbia i prezzi al casello sono differenziati: gli occidentali se vogliono possono anche usare la loro Grande Moneta, ma pagano esattamente il doppio. Accettiamo la punizione e ci immergiamo nella valle del Vardar, oltre Veles in direzione Gevgelija: siamo a pochi chilometri dalla regione del Pirin, nel triangolo tra Macedonia, Grecia e Bulgaria, o meglio tra le tre Macedonie, teatro delle guerre balcaniche del lontano 1912, prova generale della Prima guerra mondiale e di molte, troppe altre battaglie. Ancora storia, ancora Balcani: la cosa inizia già a pesare, a rendersi un po’ antipatica e darti quasi la sensazione di non poterne uscire. Ed è proprio qui, nel cuore della valle del Vardar e nel profondo imbuto della storia balcanica,
che la modernità sceglie di stupirti: tu non ci pensi proprio per nulla, ma dopo Gevgelija, alto si erge sul confine greco-macedone il cartello “Welcome to the European Union”! Eh già! Qui, nel bel mezzo della steppa macedone, a pochi chilometri dai soviet bulgari e a duemila chilometri dai finanzieri italiani di Villa Opicina, rincomincia l’Unione Europea. Raggiungere Istanbul attraverso l’Europa significa insomma scoprire che tra l’Unione Europea e l’Unione Europea esiste un altro pezzo di Europa lungo duemila chilometri. E significa anche scoprire che quei duemila chilometri non sono vuoti o distrutti o selvaggi, ma sono vivi e sin troppo pieni di storie, volti e racconti. Accettiamo il nostro destino di privilegiati, ci inseriamo nella corsia per gli europei e entriamo in Grecia, sotto lo sguardo stupito del poliziotto ellenico, abituato a vedere in quella frontiera solo orientali extracomunitari. Inutile dire che oltre quel confine la geografia non cambia, le colline sono ugualmente arse dal caldo, le case si contano a vista e l’autostrada è una grande striscia semi deserta costeggiata da scheletri di lamiera e da campi di olivi e di grano già raccolto. In Grecia acceleri, superi Salonicco e la sua enorme e distrutta zona industriale, costeggi l’Egeo e i villaggi del turismo povero della Calcidica (Paros e Mykonos sono ancora molto lontane) e imbocchi l’unica strada della Tracia, altro deserto di colline gialle e vento caldo, altra terra di separazione, storia e guerre. Finché, trenta chilometri oltre Alexandroupolis, incontri l’ultimo grande, secco, inevitabile confine: quello greco-turco. Qui la nostra targa europea non ci serve a nulla, sia perché la Turchia non è Unione Europea, sia perché tutti i turchi a quel confine sono ancora a bordo della loro Mercedes tedesca. All’inizio fai fatica a trovare
simpatica la Turchia: forse perché hai aspettato otto ore alla frontiera croato-serba per colpa dei turchi, forse perché i soldati che ti accolgono oltre il ponte sull’Evros non sono affatto sorridenti e forse anche perché al confine nessuno ti spiega come devi fare per ottenere i cinque o sei timbri necessari al tuo ingresso nel serio e ordinato Stato di Atatürk. Poi però in poche ore sei a Istanbul e inizi sin da subito a navigare nel fascino della sua euro-asiatica orientalità. Onur, un amico rasta turco conosciuto nella primavera scorsa a Parigi e incontrato una sera a Taksim, il quartiere moderno di Istanbul, ci ha raccontato come la città sia vista dalla maggior parte degli europei (quelli dell’Unione, per intenderci) come territorio di diversità ed esotismi. «Arrivano qui e vedono le moschee, sentono i muezzin, scoprono i mercati, le spezie e i tappeti orientali e si sentono subito in un altro mondo. Il problema è che quello che vedono è la copertina preconfezionata di quell’altro mondo che già si aspettavano di incontrare.» Come dire: noi occidentali siamo talmente abituati a comprare pacchetti preconfezionati che anche l’altro, il diverso, ci deve essere venduto come stereotipato e facile da consumare nel suo fascino da favola. Il giudizio è forse un po’ secco e un po’ generalizzante, ma rappresenta sicuramente una tendenza che nella enorme metropoli turco-bizantina non è così difficile da notare. I turisti a Istanbul sono tutti tra Sultanahmet, la zona dei monumenti, dei musei e dei pub, e Taksim, il quartiere dei negozi, dello struscio e dei locali in o alternativi che siano. Oltre questi due luoghi solo turchi, almeno tredici milioni di turchi. Le strade di Beyazit, il mercato di Tohalke, i quartieri che costeggiano le antiche mura, la zona che si affaccia sul porto mercantile, le strade dei meccanici di Aksaray sono territori in cui la socialità, l’interazione, il mercanteggiare si sviluppano e si
intrecciano in modi davvero altri rispetto alle regole e alle forme della quotidianità urbana occidentale. Perdersi tra le vecchie case di legno e i mille negozi e laboratori della microeconomia di strada, incontrare gli occhi e i saluti di decine di bambini abituati a giocare e a vivere fuori dalle mura domestiche, sfiorare improbabili facchini che trasportano a mano pesanti pacchi su piccoli carrelli, confondere i mille negozi uguali che vendono scarpe nella via delle scarpe, pentole nella via delle pentole e libri nella via dei libri, provare a riconoscere le parole urlate dai venditori ambulanti di angurie, pomodori o riso pilaf, entrare in ristoranti dove uomini soli mangiano veloci la zuppa di fagioli e le kofta con lo yogurt, stupirsi tra le donne coperte di chador neri e gli “spacciatori” non certo timidi di preservativi e viagra, venire trascinati, corteggiati e infastiditi da decine di inviti e saluti. Tutto ciò non ha nulla a che fare con i tappeti e i narghilè e non può essere visto né nella nobile e antica bellezza di Aya Sofia, né di fronte all’emozione del muezzin del tramonto di Sultan Ahmet Camii (la Moschea Blu): l’unico modo è camminare e capire che il confronto con l’altro inizia solo lì dove iniziano a scomparire i riferimenti della tua normalità e dove sai che devi e puoi rinunciare alla finta sensazione di sicurezza a cui ci hanno abituato. «Credo invece» concludeva Onur quella sera, «che Istanbul sia una città capace di cambiare in continuazione, grazie alla ricchezza delle sue diverse origini e dei suoi diversi popoli. Una delle facce di Istanbul è quella dell’Oriente. Ma qui è solo l’inizio dell’Oriente e l’inizio della fine dell’Occidente: penso che molti dei turisti che vengono qui preferiscano accorgersi dell’inizio dell’Oriente, ma non abbiano nessuna intenzione di sperimentare la fine dell’Occidente.»
Così non ci resta che sorridere quando, dopo una bellissima giornata passata sulla sponda asiatica di Istanbul, riattraversiamo il grande ponte sul Bosforo e ci accorgiamo che lì dove la strada scende sulla sponda europea un piccolo e timido cartello sulla destra della carreggiata annuncia “Welcome to Europe”.
Istanbul – Sofia La mia Zeta5 è finita già da molto, ma comunque ne ringrazio l’amaro odore, come ringrazio il marmo del tavolo a cui siedo, il vetro del bicchiere svuotato dal suo ouzo, l’ultima cicala della notte calcidica, la lampadina appesa tra due pali di legno e il deserto di colline e pastori che uguale attraversa il confine tra Macedonia e Macedonia, tra Macedonia e Grecia, tra Balcani ed Europa, tra Europa e Europa, tra Est e Ovest, tra Sud e Nord, tra una novella turca a Skopje e un mito ellenico a Salonicco. Su quel confine invito tutti coloro che pensano che la società attuale sia naturale. È solo passando attraverso quel confine che il cantilenare ventoso del muezzin di metà pomeriggio sulle colline di Istanbul riesce a essere voce di altre conoscenze e luogo intangibile di contatto, e non simbolo di inevitabili distanze, turistiche esoticità o preoccupanti minacce. Il minareto a sud-ovest della Suleyman Cani è uno dei più alti di Istanbul e probabilmente uno dei più alti di tutta la civiltà ottomana e sunnita. Il suo modernissimo altoparlante sputa tutt’altro che sacro l’inno ad Allah direttamente nel cortile dell’università. Oggi primo di agosto, il vuoto e il silenzio dell’Ateneo, ex Ministero della guerra, fa da grancassa, da
silenzioso e naturale amplificatore del richiamo ieratico. Tutto intorno Istanbul riecheggia di un diffuso sussurrare e ricorda il nervosismo di un mercato, dove il vociare non è preghiera di santità ma luogo di socialità. A distanza il quadro simbolico sembra comporsi senza alcuna esitazione: l’urlo dell’imam e del suo dio controlla il sapere universitario così come pochi decenni fa ispirava i palazzi e gli uomini di guerra; intorno decine di moschee brulicano coccolando il mercanteggiare di spezie e altri umani vizi. Nulla potrà mai contraddire la logica del quadro, se non due scelte: o una silente pudica e cieca tolleranza, di cui il mondo potrà non accorgersi, o il nostro viandare oltre i confini di tour, turismi e altri trabocchetti. È assolutamente artificiale che io mi senta bene tra i banchi di lacum e quelli di tegami di latta, tra le neospose tabardate di nero e sudati maschi oranti, tra l’odore vero del pesce e i bambini quasi addormentati dai sacchetti di colla. Mentre dovrebbe essere normale se io mi sentissi bene nei ristoranti di Sultanahmet e nelle birrerie di Taksim. È la ricerca dell’artificialità che può far vivere la distanza, non il ripetersi del normale o il fingersi dell’esotico. Nel frattempo ho abbandonato l’università e circumnavigato la Suleyman e mi sono appoggiato al muro esterno del suo cortile a Oriente. Qualcuno ha accesso la fontana per irrigare il prato: questo luogo non assomiglia a una chiesa cattolica e permettiamogli di non assomigliarvi, perché solo qui i bambini turchi possono giocare con l’acqua e solo qui il grande chador nero diventa meno caldo e pesante. Non penso che l’imam della Suleyman possa starmi simpatico, come so che sono pochi i parroci con cui
posso andare d’accordo. Penso però di aver imparato un pezzo di vita che preferivano mostrarmi da lontano e non raccontarmi. Non altre parole ora, a fianco al masticare ritmico di un’intera famiglia, che schiaccia pistacchi con i denti lasciando che la moschea assomigli per loro anche oggi a se stessa. Non altre parole ora, di fronte al dondolio cigolante di un’antica Skoda bianca che sculetta nel ciottolato dei santi Cirillo e Metodio nel centro di Sofia. La donna delle pulizie dell’hotel Mariot, una fantastica signora con un’enorme permanente nera che le copre almeno metà del volto e che ricorda la frangia triste della spenta signora Markovic moglie dell’ex boss di Belgrado, è uscita in questo mio piccolo terrazzo per pulire il tavolino bianco su cui ora posso scrivere. Intanto qui, sotto e sopra questo terrazzo di fine Ottocento, scorre una parte di quell’Oriente di cui ho scoperto fascino e bellezza solo camminando. Sono l’irregolarità e la sua densità i segni vivi dell’estetica orientale postsovietica. Non parlo dei vialoni stalinisti e dei loro palazzi di cemento grigio, di cui i poteri avevano fatto spettacolare sfoggio, ma parlo dei quartieri centrali risparmiati dalle esigenze di distruzione bellica e ristrutturazione postbellica; dei quartieri dove le tracce dell’Ottocento si incrociano con i segni delle nobili monarchie decadenti dei primi Novecento, con le caratteristiche urbane e topografiche di un ordine statale scomparso e con le insegne di una postmodernità quasi autoironica. Una signora, che ai miei occhi ricorda la sorella di madame Mariot, avanza nel ciottolato dei santi Cirillo e Metodio in direzione opposta rispetto alla Skoda bianca: anche lei però è costretta a sculettare tra una piastrella e l’altra, mantenendo un faticoso equilibrio grazie ai due meloni bianchi comprati allo Zhenski market oltre il Boulevard Dimitrov. Pochi minuti fa
questa stessa signora aveva attraversato la nostra piccola ulica esattamente tra il Club Galerie e l’enorme muro senza finestre che si erge oltre l’hinterhof del dentista. Nel frattempo alla mia destra continua lenta la discussione tra un poliziotto della MBP bulgara e il meccanico delle auto Lada Politia, appartati dietro un cancello nero che introduce a un viale di vetusti poteri segreti. Di là passano solo auto russe o cecoslovacche. Romeno, rom o ungherese è invece il ragazzo che con un bastone bianco rovista con velocità e rabbia nella spazzatura tra l’optika e l’apteka. Fa freddo oggi a Sofia e il cielo è di un grigio talmente perfetto da far invidia a qualsiasi aggettivo mitteleuropeo. Fa freddo e molte signore indossano il cappotto dell’autunno, lasciando appena intravvedere i colori estivi di gonne e magliette. È a loro che dedico il mio veloce transitare bulgaro, attraverso una città i cui segreti il mio mondo preferisce non solo snobbare ma addirittura coprire e stuprare, con casini di sesso e denaro, di cui la maggioranza porta come prefisso di modernità e progresso il segno del nuovo confuso potere: Euro.
5
Altra marca di sigarette balcaniche.
Italia 2001
Piazza Duomo, Padova Parlo proprio di azione e non-azione ma ne parlo qui, seduto sul muretto di Piazza del Duomo a Padova, luogo e terra di ritrovo della Padova bene (direbbero attempati testi di storia). Questa di fronte a me è realtà e il mio spaesamento è diretta testimonianza della realtà stessa. Tento una spiegazione: preferirei questa notte poter perdere il mio corpo in strade sconosciute di quartieri mediterranei o confondere la mia presenza in affollati sudari metropolitani, ma la realtà mi consegna inerme a questa piazza. E in questa piazza si muove, formicola e soprattutto si ripete il normale, o meglio quella forma di sociale mostrarsi che in quanto non disturbante viene a ragione vissuta come normale. Io, e molti altri forse simili a me, non possiamo fare altro che accettare questo normale, ovvero tollerarlo, rassegnarci, evitando qualsiasi tipo di azione. Loro riempiono la piazza, caratterizzano la città e determinano il mio sociale; l’unica via di opposizione a noi concessa è la fuga, sia essa isolamento, emarginazione o viaggio. Molto spesso di fronte a ciò tento, cerco e organizzo il viaggio; altrettanto spesso idealizzo il viaggio. La maggior parte delle volte mi emargino. Ma ora ascoltandomi capisco che il mio atteggiamento pseudorivoluzionario nei confronti del fichettismo web-impiegatizio della ricca provincia nord italica altro non è che una riproduzione della tolleranza rassegnata di cui poco fa mi lamentavo. Noi pseudorivoluzionari del movimento di culturale indignazione non facciamo in realtà altro
che rassegnarci senza conoscere. Dovrei insomma tentare la partecipazione estetica, edonistica e mondana al mondo dei manichini medioborghesi, dovrei provare a immergermi nella cura della mia apparenza per conquistare l’evidente bellezza del femminile attillato, dovrei affidarmi a costosi eccitanti e a locali scintillanti, dovrei evitare eticità e ideologiche distrazioni (o esitazioni). Dovrei indossare la tua cintura leopardata per capire la ragione del tuo acquisto e dovrei poter sfiorare i glutei abbronzati della tua seducente amante per poter giustificare gli euro del tuo cocktail notturno. Dovrei conoscere il miglior lucidatore di BMW per sperare di vedere al mio fianco le cosce lisce della tua bionda padovana di Svezia. Immergermi in questa dominante e replicante normalità mi permetterebbe di capirla e non di tollerarla? È insomma evidente ciò che dovrei e soprattutto (viva la libertà!) potrei fare per accedere all’appartenenza, all’inserimento nel normale. E invece non lo faccio. Non partecipo a feste in cui la sinuosità femminile si accompagna a danze di champagne, non partecipo a weekend in collina e non godo di abbigliamenti di costosa eleganza. Non lo faccio e, purtroppo per voi o forse per me, c’è alla fine dei conti un motivo molto chiaro: non sopporto, né fisicamente né idealmente, l’utilizzo del denaro in modo squilibrato e consumistico. È questa posizione pesantemente politica e radicalmente (in)utile che mi impedisce di partecipare al normale, a quel normale che ora, in questa fase di tempo e storia, non cambieremo facilmente. Per questo almeno non partecipo: mi appollaio qui su questo muretto, vi guardo, a tratti ho addirittura la sensazione di invidiarvi, a volte mi lascio quasi persuadere della smaccata evidenza del vostro ridere e apparire, ma alla fine non riesco a immergermi in voi e tantomeno a capirvi.
A questo punto, pensavo, potrei anche decidere di non tollerarvi. Voi trascorrete la vostra vita a guadagnare per le vostre auto, i vostri glutei abbronzati e le vostre nottate di chimica eccitazione: io ideologicamente credo che voi siate il motore della ricchezza di questa moderna urbe nord italica, ma anche (forse a vostro malgrado, vista la vostra moderata tolleranza) del dolore di meno (o più) moderne urbe non italiche. In altre parole vi capisco ma non vi accetto: abbiate il coraggio di dire la stessa cosa degli invasori d’oltre confine, perché voi li capite ma non li accettate. La strada si fa stretta, buia e complessa e non oso proporre alcuna soluzione, temendo di raggiungere radicalità della cui violenza faticherei a prendere la responsabilità. Preferisco solo indicare alcune vie di uscita oltre questi muretti e queste piazze, mentre sculettanti le vostre abbronzate muscolature parcheggiano l’Audi nera luccicante del vostro normale successo: tenteremo, forse ubriachi, forse scrittori o forse amanti, di raggiungere le terre delle necessarie marginalità, cercheremo di disturbare la vostra vincolata stanzialità, di sporcare il vostro equilibrio con racconti (in)utili di altri mondi e altre velocità. Inorganizzabile viandare e scomodo raccontare: questa la nostra non tolleranza in una terra a cui tuttavia vogliamo comunicare, perché o spera di cambiare o è destinata solitaria e responsabile ad avere paura. Inorganizzabile “viandare”. Lì dove non c’è agenzia in grado di suggerire o risolvere, lì dove non esiste itinerario consigliabile; ovvero quel viaggiare che non evita, ma vuole.
Michela & Fatjon Il cielo a Genova era quasi del tutto grigio, ma le case si ostinavano ad arrampicarsi nelle colline oltre il mare e io non mi sono accorto che le luci dei lampioni di ferro, l’odore delle nuvole e lo sguardo di una prostituta giovanissima dei carrugi erano regali di cui la mia vita non può continuare a privarsi. Che io acceleri o rallenti questo viaggio non posso ancora accettare di trattenere il sapore dell’emozione e il bisogno della fuga: è poco utile emozionarsi di punti lontani dal nostro vivere? È poco utile fuggire se non stiamo bene? Vorrei essere rimasto ancora delle ore al bar del porto nuovo a Genova con Fatjon e Michela: per continuare ad ascoltare il loro domandarsi, il loro crescere, il loro tentare di capire. Semplicemente perché avrei voglia di interrogare di più anche me attraverso loro. Quando mi escludo dal mio viaggiare finisco per farmi del male. Michela è una ragazza italiana, genovese per la precisione, di sedici anni e da più di un anno è la giovane fidanzata di Fatjon, anche lui sedici anni e anche lui genovese, nato però a Lezhë in Albania. Fatjon è fuggito da Lezhë a quattordici anni, imbarcandosi su un gommone, viaggiando sulla prua dello scafo, attraversando tutta l’Italia e fermandosi, solo per caso, alla stazione di Genova. Michela studia al liceo linguistico, Fatjon vive in una comunità; Michela però vorrebbe fare la fisioterapista e Fatjon inizierà il 16 novembre una scuola professionale per idraulici. Ma c’è di più: Michela non ama più Genova e vorrebbe andarsene, mentre Fatjon sa solo che fino al giorno in cui compirà diciotto anni tutto ciò che può e deve fare è rimanere a Genova. Michela vorrebbe conoscere l’Albania, Fatjon non ha mai imparato a
raccontarla. Avrei forse io potuto raccontare qualcosa a Michela dell’Albania, di Valona, di Tirana o della strada che una notte di molti mesi fa mi portò a perdermi nelle montagne prima di Kukes. Michela vorrebbe imparare anche l’albanese e forse vorrebbe, così come vogliono i ragazzi di sedici anni, sposare Fatjon e continuare a proteggerlo da una città che non ama e da una vita che non conosce. Cosa avrei potuto io spiegare a Michela? Dirle che probabilmente lei non sposerà Fatjon come io non ho mai più vissuto con Eva? Al bar del porto, poco prima di cena, ha iniziato a piovere, ma Michela e Fatjon erano già scomparsi. Piano piano il volto di Michela si gira a cercare quello di Fatjon, lui sorride e lei debole torna a tremare: io ciò non lo potrò testimoniare, se non continuando ad amare l’emozione. Forse perché Fatjon sa che suo padre non potrà fare altro che il pastore e Michela per poter frequentare il suo ragazzo albanese ha dovuto presentarlo a sua madre; o forse perché lui spera un giorno di poter portare sua madre a Genova e lei sogna di poter capire cosa sia il mondo da cui lui ha voluto fuggire. Poco prima di lasciarmi solo al nostro tavolo, entrambi mi hanno guardato e non so quanto io possa capire cosa loro abbiano visto. Non c’è dubbio che il mondo dovrebbe semplicemente ascoltare mille volte di più le voci e gli occhi di Michela e Fatjon, piuttosto che essere spappolato dall’idiozia di patinati sorrisi o finti dolori. Ma a volte faccio fatica a capire quanto sia riuscito io ad ascoltarli. Esattamente per lo stesso motivo per cui faccio fatica a capire se sto bene. Non ho filmato il dialogo tra Fatjon e Michela e non darò alcuna testimonianza visiva del loro incontro. So però che è il loro vivere che darà al mondo la possibilità di essere raccontato: io nel frattempo spero di imparare sempre più a camminare lungo la
banchina di un porto, facendo scivolare i miei piedi sulle pietre bagnate e il mio sguardo oltre il mare. Perché sarà forse lungo quella banchina che potrò essere narratore per nessuno ed emozione per qualcun altro.
Manifestazione a Cosenza e Vasile Il sole ha accompagnato per tutto il giorno la nostra festa nel cuore del nuovo Sud ribelle. La città ha applaudito alle danze di un popolo che ha già vissuto la rabbia e che oggi lancia il suo urlo di gioia. Non ci avrete più piegati sotto i vostri inutili manganelli e la nostra o vostra retorica di rivolta, trovo oggi nella convinzione di contenuti e conoscenze la strada di una sfida che non percorriamo contro il mondo, ma insieme ai suoi volti: ho visto i balconi riempirsi di quarantenni danzanti e le finestre mostrarsi aperte e sorridenti al suono della nostra giustizia e delle loro pallide e cieche prepotenze. Non abbiamo attraversato Genova, Firenze e Cosenza per amore di copertine o di ripetute estetiche rivoluzionarie, ma per seria e tremante emozione di rabbia e imbarazzo. Lo squilibrio perverso del mondo arricchito e marcito ci imbarazza e per questo danziamo, progettiamo, raccontiamo e costruiamo. Non abbiamo segnato i nostri spazi di storia con proclami di utopie patinate, ma abbiamo conosciuto con i nostri occhi e i nostri corpi i volti delle ingiustizie nascoste dalle perfette prime pagine di democrazia e libertà. Facce, storie e cammini come quelle di Vasile.
L’ho incontrato per la prima volta quasi due mesi fa: era venuto da solo alla CGIL per raccontare e chiedere aiuto. Io ero lì per puro caso o meglio per l’ostinata tendenza a inventarmi percorsi di cui poi a volte mi stanco. Vasile si è seduto di fronte a me in un ufficio in cui anch’io sedevo per la prima volta. Gli ho puntato addosso la telecamera, chiedendogli di raccontare in video la storia per cui aveva deciso di venire quella sera in CGIL. Un’inquadratura secca e praticamente vuota: il volto rigido da diciannovenne già pieno di passato, gli scaffali dell’ufficio pieni di cartelle sullo sfondo e i capelli biondo cenere tagliati corti. La voce di Vasile a tratti quasi scompare e le parole superflue si spengono da sole prima della fine della frase, ma il racconto è chiarissimo e l’immagine si riempie da sola di rabbia e dignità. Non cambio mai inquadratura ma ascolto: «Sono in Italia da quando avevo quindici anni. Ci sono arrivato attraverso l’Austria, prima con un pullman e poi a piedi. Sono andato subito a Roma perché lì viveva già una sorella ben più grande di me e sposata con un romeno da qualche anno. Non sono stato sempre con loro, ho dormito anche in centri di accoglienza e ho lavorato in decine di posti diversi.» Il racconto accelera, tralasciando pezzi di passato che il ricordo fatica a riassumere e che l’urgenza del presente rende inutili. «Circa un anno fa mi sono trasferito a Padova insieme a mio fratello. Anche lui alla fine aveva dovuto lasciare la Romania e aveva scelto anche di portare con sé i nostri genitori. Mio padre infatti ha subito un brutto incidente e ha una pesante lesione al cervello: non potevamo certo lasciarli soli a casa.» Qui il racconto si ferma in poche parole di emozione per regalare un piccolo tributo al padre: «Era un uomo di quasi cento chili e lavorava in una delle miniere più grandi e importanti della Romania. Oggi pesa meno di
sessanta chili e non riesce nemmeno a portare in casa i sacchetti della spesa. A volte invece beve, perché è triste e allora diventa pazzo. Nient’altro.» Un respiro e poi Vasile riprende. «Così sono arrivato a Padova e abbiamo trovato un piccolo appartamento di nemmeno quaranta metri quadrati dove viviamo tutti e quattro, pagando un milione e duecentomila lire al mese. Dobbiamo assolutamente trovare un’altra casa dove vivere, perché lì è impossibile. Ho visitato tutte le trentadue agenzie immobiliari di cui ho trovato gli indirizzi, ma voi le case agli immigrati non le volete dare.» E questo lo sapevo già e lo sanno anche la maggioranza degli impomatati benpensati di una città che continua a trascinarsi perfetta. Ciò che non sapevo è che: «Mio fratello già lavorava per alcune cooperative di imballaggio, traslochi e altri servizi simili – settori esternalizzabili alla produzione li definiscono sindacalisti o legislatori. Così ho trovato subito anch’io lavoro. Tutto a cottimo, pagato solo per le ore di lavoro, senza ferie, malattie o altri privilegi di cui non ho mai avuto diritto. Sette euro all’ora lordi. Lavoravo un po’ dappertutto, ma le due aziende più grandi a cui la cooperativa ci offriva più spesso erano Pittarello e Aprilia (due attori protagonisti del miracolo economico veneto). Poi però ho compiuto diciotto anni e sono iniziati i problemi: in poche parole dovevo trovare il modo per convertire il permesso da minorenne in permesso regolare. Sono stato anche a Roma un paio di volte a parlare con operatori e giudici. Le cose andavano veramente troppo lente e io ero sempre più vicino alla clandestinità. Finché nel giugno scorso è uscita la legge per la regolarizzazione: d’improvviso mi conveniva essere clandestino e lavorare in nero, dopo tre mesi avrei ottenuto un permesso grazie alla sanatoria. Ho chiesto al presidente della cooperativa di aiutarmi nella pratica e
di compilare tutto ciò che era necessario per l’assunzione. Mi ha detto che non c’era problema. Ho continuato a lavorare all’Aprilia e a Pittarello, ho continuato a vivere in quaranta metri quadri al piano terra e ho continuato a sperare che mio padre non si ubriacasse troppo spesso. A fine settembre il capo mi chiama e mi dice che, come per tutti gli altri stranieri della cooperativa, anche per me valeva una regola imprescindibile: per avere la richiesta di regolarizzazione da parte sua dovevo dargli duemila euro, settecento di INPS e i restanti di spese amministrative non meglio specificate, e che i soldi mi sarebbero stati trattenuti dalla busta paga di settembre, ottobre e novembre. «Tutti gli altri hanno accettato il ricatto e io invece sono venuto qui. Ho sbagliato?» Estorsione in pieno regime di democrazia: il governo emana un decreto che dà il potere ai datori di lavoro, se lo desiderano, di regolarizzare la posizione dei loro servetti-clandestini e i datori di lavoro quantificano monetariamente il loro desiderio. Niente di più lineare. Sta di fatto che quel giorno mi sono ritrovato per caso di fronte a una delle storie di questa democratica linearità e che ho deciso insieme alla CGIL e a Cristina De Ritis di provare a bloccarne il destino di inevitabilità e a evitarne la silenziosa scomparsa. Cristina ha ascoltato la storia di Vasile e ha deciso di proporla per la trasmissione di Rai3 in cui sta lavorando. Contemporaneamente la CGIL ha offerto consulenza sindacale e legale e abbiamo elaborato un piano o qualcosa di simile. Vasile è tornato nella sede della cooperativa indossando una telecamera nascosta, che gli abbiamo installata nel salotto dei miei, e ha raccolto le prove evidenti e indubitabili dell’estorsione.
Poi con Vasile abbiamo trascorso un’intera giornata lasciandogli raccontare di nuovo la sua storia durante una bellissima spesa al supermercato dietro casa sua. A quanto pare ora tutto è andato per il verso giusto: il video è stato trasmesso in diretta su Rai3, i dirigenti della cooperativa sono stati arrestati, Vasile ha riavuto i suoi duemila euro, l’avvocato sta seguendo le sue pratiche di regolarizzazione e la CGIL gli sta cercando un nuovo lavoro. Non so se questa lenta città troverà il coraggio di aprire le porte di uno dei suoi palazzi alla famiglia di Vasile e non so nemmeno quanti altri nobili imprenditori della democrazia berlusconiana stiano consumando il loro surplus in piscine o automobili di lusso, rimanendo impuniti nonostante il loro sia a tutti gli effetti un reato di estorsione. Non so quanti altri possono avere il coraggio di Vasile, spero solo di non perdere mai la consapevolezza dell’esistenza di Vasile e di rimanere in qualche modo disponibile a raccoglierne le storie per cercare di cambiarle. Senza mai smettere di ascoltare. Se voi invece preferite Il Gazzettino, Domenica In e Piazza Duomo, sappiate almeno che in questa vostra cecità e disonestà risiede buona parte dei motivi di quelle ingiustizie che poi trovate anche il tempo di compatire.
Albania 2002
Carcere Tirana «Tremo anch’io spesso di notte, quando capisco di aver sbagliato e di non poter più spiegare.» I suoi occhi ti guardano, perché sanno di poter ancora guardare, nonostante lo spazio a loro concesso sia quello piccolo e lento del carcere femminile 325 di Tirana. I suoi occhi ti guardano, perché sanno di poter nascondere e insegnare ciò che già a vent’anni non può più essere spiegato. Azzurri, fermi, perfettamente incollati all’iride del tuo osservarla. Non ha bisogno di vergogna ed è come se raccontasse: «Abbiamo solo quattro squadre di pallavolo qui dentro e non sempre nella stessa squadra giocano le stesse donne: io invece sì, perché io so qual è la mia squadra e non ho nessuna intenzione di cambiarla. Sto al centro del campo, ma quando si tratta di schiacciare, di affondare il colpo, le altre la passano sempre a me: io salto, mi sembra quasi di volare e nove volte su dieci vinciamo. Io salto e mi sembra quasi di volare. Ma so che da qui non me ne vado.» Un lungo edificio, alto al massimo due metri, tutto bianco e con il tetto piatto: lì dentro ci sono le stanze, strette camere di otto o dieci metri quadrati, dove dormono e vivono tre o quattro prigioniere, come le chiama la signora Fatima, direttrice educativa del 325. Tra l’edificio e le mura di recinzione ci sono non più di cinque metri: pochi, ma sufficienti per un piccolo giardino di piante, erba, fontane e panchine, e per il campo di pallavolo.
«All’inizio, quando è arrivato Antonio dall’Italia, non ci voleva giocare nessuno in questo campo. Eravamo abituate a stare negli angoli ad aspettare ciò che è inutile aspettare: accovacciate e circondate da sigarette, non facevamo altro che parlare e ricordare. Ora siamo più di venti a giocare e anche se abbiamo solo quattro squadre, la cosa importante è che a vincere sia la mia.» E ride. Quando ridono dentro a un carcere donne e uomini sembrano bambini: ma è solo colpa del tuo guardare non del loro essere. «E tu la sai la mia storia?» mi chiede, mentre sarte, pallavoliste e secondine danzano scatenate nell’aula dei laboratori di artigianato e delle lezioni di inglese. «La sai la mia storia?» La pelle trema e il corpo vorrebbe fermarsi. Azzurri silenti e sorridenti ti guardano e tu sei già fermo. «Non te la racconto la mia storia» ti confida voltandosi e giocando con i capelli tinti di biondo e lunghi sul collo. «Non te la racconto perché già l’ho fatto decine di volte con psicologi, educatori, giudici, avvocati e guardie: ora, se permetti, preferisco danzare e godermi questo cielo fantastico oltre il nostro muro bianco.» Ed è lì che il corpo inizia a viaggiare: il mercato enorme dell’ex Uzina Dinamo, gli ultimi cinque operai del cuore siderurgico di un ex Stato, l’odore acre e vivo del formaggio di capra chiuso in un garage, gli ombrelloni di vimini del bar Oasi, il parcheggio di profughi curdi, iracheni, cingalesi e macedoni, il sorriso di fatica e umanità del loro piccolo grande ospite, la sfrontata sicurezza dei giovanissimi ciclisti tiranesi, il segno del tempo sul volto del tredicenne venditore di borse in pelle, le labbra carnose della bionda signora egiziana all’entrata del bazar, i gomitoli di cavi elettrici tra pali e finestre, tra tetti e terrazze, i neon vuoti e pesanti della UNYT (University of New York in Tirana), le urla di giovanissimi testimoni del
sogno occidentale all’uscita di scuola, la storia salvata nelle piccole case gialle di terra e legno lungo la ruga di kombinat e la violenza del futuro tra i palazzi fucsia, verdi e bluette dell’Hawai All Spa, construction and development. «Palazzi bluette? Io non li ho mai visti. Ma io non sono di Tirana e non ci ho mai abitato a Tirana prima di arrivare qui.» Si accende finalmente una sigaretta, mentre ai suoi piedi fila e cuce la vecchia settantacinquenne colpevole dell’unico omicidio a lei concesso dalla vita e dal kanun (il codice comportamentale della tradizione albanese), quello del marito. «Però se vuoi posso farti vedere una foto.» Gramsh, paese di quindicimila anime nelle montagne al centro dell’Albania: circa a metà strada tra Elbasan e Korca, ovvero in un luogo che il mondo delle terre ricche non è tenuto conoscere. A Gramsh c’è un boulevard come in tutte le città albanesi. Alla fine del boulevard c’è una piccola piazza, intorno alla quale esistono solo tre cose: i palazzi block dello zio Enver (di Don Enver, suggerisce puntiglioso l’amico Jergji), le palafitte di legno e vimini del mercato di frutta e verdura, e il grande centro commerciale dei veri signori di Gramsh, i fratelli Kosturi. Ma bastano cinquanta metri per superare la piazza e voltare a sinistra oltre il campo da calcio dell’unico liceo comunale. «È lì, dopo la curva, che mio fratello ha scattato questa foto.» Cubana o comunque tropicale si erge nel cuore di Gramsh l’unica moschea psichedelica dell’intero Islam: il minareto è viola, la cupola è blu, le finestre sono verdi e gialle. Immobile davanti a lei, seduto sul tavolino di uno dei mille bar della folle transizione albanese, suo cugino. «A quattordici anni ha attraversato da solo le montagne verso la Grecia. Poi è tornato, perché era ancora solo e oggi non so dove sia o dove andrà.»
Forse ancora una volta in viaggio: tra i tramonti sopra la valle dello Shkumbini, sulla cresta dei pendii tra una mucca, un pastore, una Harley-Davidson e l’ombrellone nelle strade fuori Elbasan dove i tir rubano spazio e aria alle biciclette cariche di galline e pecore, di fronte agli occhi di Ellison mentre fa suonare di infantile purezza la batteria rock del teatro comunale, tra le braccia e il seno di donna Zana, nella valle verdissima del lago artificiale sopra le terme di zolfo e silenzio o lungo le sponde di questo lago dove da ore e ore quattro pescatori aspettano disoccupati un qualsiasi segnale dalle acque immobili. «Poco importa dove sia o dove andrà: lui quantomeno è libero o così almeno gli hanno detto.»
Uzina Dinamo Non ero mai stato all’Uzina Dinamo e mi ci ha portato l’ottobre scorso Antonio Pirrone, Virgilio disilluso della nostra ennesima discesa agli inferi. Si era fatto tardi, il mercato dell’Uzina riposava nelle sue poche ore di calma e sopra Tirana rimaneva spazio solo per l’arancione di un tramonto che è forse ancora padre delle mille galassie di Valona. Molte volte nei miei pellegrinaggi verso est ho scoperto tracce di realtà inaspettatamente utili alla comprensione di tanti angoli nascosti del ricco e ipocrita funzionare. Come quando sei su una scala mobile e il fatto di salire senza far fatica ti piace, ma ti rendi conto che esiste sotto di te un meccanismo e una meccanica che ti guida e non riesci a capirne o scoprirne i veri motivi del suo funzionare.
In uno dei capannoni dismessi dell’Uzina Dinamo la comunità di Capodarco ha gestito tra il marzo e il luglio 1999 un campo profughi per gli esuli della grande guerra umanitaria kosovara. Oggi in quella stessa struttura non ci sono più i profughi kosovari, tutti rapidamente rientrati agli ordini dei generali occidentali atterrati dai loro perfetti bombardieri di pace, ma una ventina di curdi, palestinesi, iracheni e cingalesi in fuga verso ovest. Che ci fanno costoro a Tirana? Semplice: la polizia albanese accuratamente addestrata dai padri di Schengen, ha interrotto il loro viaggio prima dell’ultima tappa Durazzo-Bari e ha dato loro la possibilità di rimanere come improbabili richiedenti asilo in appositi centri in terra albanese. Sono queste nuove prigioni ai margini dell’Europa la nuova frontiera dello sviluppo democratico, che contiene l’umana invasione senza doversi macchiare di violenze o di sgradite immagini di dolore e preservando il suo “mondo fatto di soli privilegi”, come recita uno degli spot di questo nuovo Natale.
Durazzo 2002 Sono abbastanza annoiato da questo ripetitivo interrogarmi: ha senso ciò che ho fatto? Ha valore? Come posso farlo crescere e conoscere? Che senso ha farlo conoscere o che senso ha farlo? Dove mi porterà? Cosa cambierà? Cosa è? Mi arrovello e mi annoio e non so se sia normale. Il passato scorre e il presente sembra solo confermarlo: ho scelto di non essere una cosa sola in un luogo solo, ma ho paura di diventare una cosa, sola in molti luoghi.
Potrei continuare. Potrei continuare a dubitare e a descrivermi. Per fortuna la nave inizia a muoversi e la mano assorbe dall’aria e dal viaggio il bisogno di raccogliere altro. La fila di palazzoni mai terminati della futura Rimini dell’altro Adriatico, i mercantili addormentati, vecchi e nuovi bunker del porto di finanzieri e clandestini e questo mare che lento mi riporta da quella parte del reale che sento ancora diverso dal mio voler vivere. Non so perché l’Albania sia venuta in contatto con la mia vita e non ricordo di aver mai saputo nulla della sua storia fino a due anni or sono: eppure questa notte, questo viaggio di ritorno e silenzio diventa pesante e inatteso. Ricomincia strisciante il dubbio: dove sta, se esiste, il punto di incrocio tra dubbio e viaggio? Può davvero il viaggio e il suo racconto essere ancora sufficiente per dare sapore e valore al mio vivere? Ciò che voglio è incontrare storie o è viverci a fianco? Torno in Italia con almeno quindici vite di ragazzi albanesi incise in altrettante ore di nastro magnetico: trascorrerò giorni e settimane ad ascoltarne le voci e a rivederne le forme. I pastori della montagna di Elbasan, Aziz e il suo voler fuggire, i ciclisti facchini del mercato di Tirana, le pecore legate al manubrio delle biciclette, il batterista rom di sei anni e gli occhi di una ventenne detenuta nel carcere femminile 325 di Tirana. Trasformerò voci e forme in un film di nemmeno un’ora e traccerò il mio rapporto con loro solo attraverso ciò che una lente mi ha concesso di ricordare. Ricordare? Sentirò? Vivrò?
Trascorrerò ancora la maggior parte dei miei giorni tra l’asfalto monotono della mia città natale e riempirò le ore di finte importanze, inevitabilmente legate al conoscere e riconoscere regole e sistemi. E solo in questi potrò trovare uno, due o massimo dieci strade, dove portare su schermi bianchi o liquidi, grandi o piccoli, gli immobili sorrisi di ragazzi, bambini, viaggiatori e nonni che in dieci giorni ho conosciuto, una volta per sempre. Una volta e basta. Loro vivono e io vorrei forse farlo di più? Ma il mare ora cresce e Durazzo si allontana: di fronte rimane il buio della notte e l’ultima pagina di questo lungo diario si piega al vento di un altro viaggiare. In questo dondolio che minaccioso cresce sul pontile dell’Adriatico, saluto nel mio dubitare e nel mio sorridere, le tracce di incontri e squadri che questa falsa professione mi ha consigliato di trasformare anche in numeri. E consegno la mia incertezza con il profumo di un mare che per fortuna è ancora spazio di incontri e sogni i cui protagonisti sono gli uomini scalzi di un’altra storia.
Nord Est Italia, nave Kawkab 2002-2003
Il primo incontro con i marinai della Kawkab Dicembre 2002 Ed è già tempo di Natale. Le vostre città si riempiono del grande Bene e il consumo diventa padre spirituale della carità, occupando prepotente anche il posto di Dio. Un anno fa o giù di lì, era proprio il giorno di Natale, quando sono salito per la prima volta sulla nave Kawkab. C’era anche Barbara e avevamo voglia di scappare dalle vetrine del Bambin Gesù. Valentina ci aveva raccontato la storia di quella nave mercantile egiziana e dei suoi abbandonati ospiti o prigionieri. Abbiamo passato dentro la Kawkab gran parte di quel pomeriggio, ascoltando il racconto del barbuto capitano fumante e provando a immaginare la vita dentro a quell’enorme albergo arrugginito, ormai incapace di navigare. Poi per quasi un anno non ci siamo più tornati: oggi pomeriggio faremo il quarto sopralluogo del film con cui cercheremo di ascoltare e raccogliere la tristezza, la dignità e il fascino del mondo Kawkab. Nessun reportage e nessuna inchiesta. La Kawkab è una nave enorme di oltre duecento metri, con tantissime braccia meccaniche, cinque silos, oltre venti cabine per i marinai, il ponte di comando di almeno cento metri quadri, due cucine, due sale da pranzo, trenta o quaranta metri di scafo, cinque piani
di motore e un unico difetto: non naviga da quasi due anni. La Kawkab, infatti, è sotto sequestro per bancarotta fraudolenta del proprietario e galleggia immobile lungo una banchina abbandonata e quasi scomparsa del porto mercantile di Marghera. Dentro la Kawkab vivono otto marinai, quattro egiziani e quattro indonesiani, incollati al destino quasi insopportabile di quell’eterna sosta. Aspettano che la nave venga rivenduta e che siano così restituiti a loro un anno di stipendi. Nessun reportage, nessuna inchiesta. Esistono persone e storie dentro alla Kawkab che nella loro marginalità sfidano non solo il cieco benessere delle sviluppate terre, ma anche il loro pietismo svelandone il vero spirito. Gli ospiti-prigionieri della Kawkab sono la materializzazione del tipo più gradito di straniero. Poveri, in difficoltà, ma in attesa di ripartire: sfogo perfetto di compassioni distaccate. Nanno, Asnir e gli altri non hanno il permesso di vivere o soggiornare in altro luogo se non nella loro nave, possono muoversi solo all’interno del comune di Venezia, non hanno alcun permesso di lavoro e vivono grazie agli aiuti di Caritas, Croce Rossa, parrocchie e volontari che regalano loro gli avanzi del vicino mercato ortofrutticolo. In cambio il mondo fa di tutto per non conoscerli, per non avere né il tempo né il bisogno di ascoltare le voci e i silenzi di viaggiatori in sosta, testimoni di mondi scomodi e osservatori troppo originali delle nostre terre. Da quell’angolo nascosto di uno dei mostri sacri e arrugginiti del miracolato progresso chimico occidentale, da quell’albergo abbandonato, ancorato dentro e fuori dal nostro territorio, dalla prua immobile di una nave affidata da mesi allo stesso orizzonte, dal loro status di ospiti
necessari ma non accolti si presentano nobili, saggi e disperati osservatori del nostro accelerato e natalizio successo. Nello stesso tempo il loro potersi offrire come ricettari perfetti di doni e rattristati sguardi, costituisce un forte filtro (questo il meccanismo perverso della pietà) di protezioni tra il loro essere e il nostro conoscere. I poveretti della Kawkab sono vuoti manichini da aiutare, ma è il loro rimanere nella nave che maggiormente ci rassicura: nessuna contaminazione ci sporcherà e questi pressanti ospiti potranno rimanere nei loro appartamenti, quartieri e negozi ben lontani dai nostri giardini. Viaggiatori di passaggio, profughi, migranti: presenze che devono scorrere, passare e non partecipare. I marinai della Kawkab sono perfetti: in fondo sono quasi dei turisti e aiutandoli li manteniamo lontani, senza correre il rischio che si confondano con la nostra vita. Guai a loro e a tutti gli altri se dovessero pensare seriamente di chiedere asilo in queste terre: il termine stesso lo dice, “asilo” mostra chiaramente il loro pericoloso voler essere presenza, che non è più transito, migrazione o fuga, ma è volontà di residenza e di crescita, ancor di più del quasi accettabile “soggiorno” (o meglio “permesso di soggiorno”). I marinai della Kawkab devono ripartire e solo allora potremo ascoltare le loro storie. Prima sono solo in attesa: non chiedano per carità nessun diritto di asilo (è di ieri la notizia dell’espulsione di un’intera famiglia birmana in fuga da una condanna a morte nel loro paese, a cui le nostre terre non hanno riconosciuto nessun diritto d’asilo). Contro tutto questo nessuna inchiesta e nessun reportage, bensì il loro raccontarsi in un film che scopre persone e che si affida al loro poterci vedere e osservare da un punto di vista che noi non avremmo
mai. Facciamoci guardare e forse riusciremo anche ad ascoltare e quindi a raccontare. All’interno della Kawkab resiste ancora una grande sala da pranzo, dove nessuno più mangia da mesi e dove i cinque lunghi tavoli sono ancora ordinatamente coperti dalle tovaglie di plastica lavabile. Tutti gli otto ospiti-prigionieri della nave hanno allestito piccole e quasi impossibili cucine nelle loro cabine, utilizzando le stufe elettriche come fornelli, dove due o tre pentole rimangono ore e ore a riscaldare il riso e le zuppe di pranzi dettati non più dalla fame, ma dalle poche ore di elettricità che il gasolio della Caritas offre alla nave ogni giorno. Nella grande e buia sala da pranzo, nelle ore di crepuscolo che precedono quelle serali, ovvero prima di riaccendere il generatore che regala qualche minuto di luce tra le nove e le undici di sera, siamo stati invitati dall’equipaggio e dal suo nobile capitano Louis, a raccontare l’idea del nostro film e ad ascoltare brevi appunti del loro racconto. Di fronte a un’improvvisata lampada a olio, a due grissini e una bottiglia di vino, c’eravamo tutti: io, Francesco, Andrea, Guido, il fotografo, il capitano Louis, il capo ingegnere Asnir, il suo figlio Priyatno, detto Nanno, il giovanissimo steward egiziano, due macchinisti, uno indonesiano come Asnir e un egiziano come lo steward, e il cuoco silente, triste e intimidito dal freddo e dall’assurdità della sua o forse di tutta la storia. Francesco ha raccontato per oltre un’ora le nostre idee, cercando nelle poche parole dell’inglese internazionale quelle più vicine all’etica e al linguaggio del nostro progetto: ho sentito spesso negli incontri che precedono le riprese dei nostri lavori, frasi come «il film deve nascere anche da voi», «noi abbiamo bisogno di collaborare con voi», «la regia di questo film in fondo è anche vostra», e credo
sinceramente che nella loro semplicità siano il punto di partenza più onesto di chi vive con uguale importanza il rapporto con la realtà da una parte e con la propria creatività dall’altra. La realtà è per noi un costruirsi ricco continuo di vite, storie e pensieri, i cui protagonisti sono persone che ci ostiniamo a voler incontrare: a queste persone spetta il ruolo centrale di poter diventare narrazione, mentre a noi spetta quello di provare a capirne significati ed emozioni, intrecciandoli con quella capacità di raccontare e fotografare che ogni volta cerchiamo di far crescere. Qualche giorno fa, a chilometri di distanza dalla Kawkab, in una sala congressi dell’università Sapienza di Roma, Guglielmo Sguizzato, autore e regista di Rai3, teorizzava ad alta voce e in modo a tratti fastidiosamente epico i modi e le forme del racconto video in bilico tra fiction e realismo documentaristico. Il suo intervento tendeva a essere una sorta di anatema di difesa di fronte al proliferare dei racconti della reality tv, ma conteneva due principi che mi piace qui appuntare come bagaglio teorico con cui salire ogni giorno la scaletta della Kawkab. Il primo è sintetizzabile nella consapevolezza del rapporto causale tra etica e linguaggio: nel filmdocumentario diventa ancora più chiaro come in ogni forma di narrazione video e cinematografica, sia la scelta della posizione etica (ovvero della posizione dell’io nel rapporto umano e sociale con l’altro e con gli altri) a determinare il peso e l’effetto dello sviluppo estetico. In altre parole lo stesso linguaggio formale avrà risultati diversi a seconda delle finalità sociali e culturali dell’autore, e ancor più del produttore, ed è disonesto nascondere ciò attraverso studi testuali che tendano a restituire centralità solo ai modi del discutere o del narrare.
Il secondo principio è invece riassumibile in una constatazione di carattere quasi storico sull’evoluzione del realismo televisivo, quello che per capirci meglio conduce dritto dritto al Grande Fratello di inizio millennio. Ciò che distingue la tv verità e ancor più il cinema del reale dai vari tipi di reality show è il rapporto tra persone e fatti: il cinema del reale pone al centro della sua narrazione le persone e la dignità del loro vivere, racconta storie ed emozioni che il mondo può scoprire o contenere solo grazie a loro; il reality show invece insegue a tal punto l’epifania dell’evento e la spettacolarizzazione del fatto da potersi anche permettere di inventarne o addestrarne i protagonisti. Nel primo caso la realtà è seguita con il necessario rispetto negli spazi e nei tempi del suo costruirsi, nel secondo caso alla realtà vengono offerti, spesso anche a caro prezzo, spazi e tempi preconfezionati per potersi mostrare. Il primo racconto è ascoltabile, il secondo è vendibile: per questo e non per altro (e qui torniamo al rapporto etica-linguaggio) il secondo è oggi molto più diffuso e accessibile. Ma fermiamoci qui e torniamo sulla Kawkab. Non so quanto Asnir o Mohamed abbiano seguito il discorso di Francesco, ma sono certo che il capitano Louis lo abbia fatto dalla prima all’ultima parola, tenendo incollati gli occhi stanchi e arrossati sul volto di tutti noi. «Noi siamo davvero disponibili a collaborare in questo vostro film e le porte della mia nave saranno per voi sempre aperte. Ma voi dovete capire subito la prima cosa: noi dobbiamo risolvere la nostra situazione, riavere gli stipendi arretrati e poter tornare non a mani vuote dalle nostre famiglie. In questa lotta ci aspettiamo di essere aiutati da tutti voi.»
In altre parole: sappiate che questo film è per noi prima di tutto un altro pezzo della nostra lotta. Il secondo messaggio viene invece da Asnir, l’ingegnere capo impeccabile nella sua eleganza e gentilezza. «Ci sono altre due cose che vi dobbiamo chiedere: la prima è di portarci quando potete candele e batterie perché qui è quasi sempre buio, e la seconda è di prometterci che alla fine ognuno di noi avrà una cassetta del film da portare alle nostre famiglie. Non certo per fingere di essere famosi (e qui si concretizza fortemente la differenza tra dignità della storia e spettacolo dell’evento), ma per poter mostrare ai nostri parenti ciò che stiamo vivendo e che loro non riescono ancora a capire o immaginare.» Il terzo messaggio invece, in un ordine fatto soprattutto di rispetto e urgenza, viene da Elwan, il secondo ingegnere: «Qualcuno qui va a letto appena si spegne il generatore, qualcuno verso mezzanotte e qualcuno ancora più tardi: ma sappiate che c’è anche chi ormai non riesce più a dormire.» Per fortuna che tra loro c’è anche Nanno, il figlio ventiseienne di Asnir: è seduto a capotavola, con gli oblò alle spalle e il cellulare sempre in tasca: «Non mi ha mai chiamato nessuno» racconta sempre sorridente, «ma ogni quattro o cinque giorni la mia ragazza mi spedisce un messaggio da Jakarta. Io li conservo tutti e me li leggo dieci-quindici volte al giorno. Ma non le rispondo mai!» «Perché?» «Perché non ho soldi.» «Tieni, usa il mio» scatta spontanea la mia generosità caritatevole e ingenua. «No grazie! Anche se avessi soldi cosa potrei scriverle? Ti voglio bene e non ho la più pallida idea di quando potrò tornare, oppure che non ho una lira per vivere e che non posso fare nulla per lei? Sarebbe stupido e inutile.» Già! Ma io non ci avevo pensato. Lui, Nanno, continua a ridere e sorridere e io ancora mi chiedo quando e se inizierò a capire i significati di quel suo
apparire felice e gentile. Ride anche Asnir, suo padre, quando Nanno racconta che suo fratello più piccolo quest’anno ha dovuto lasciare il collegio e quindi anche l’università perché il padre non poteva più mandare i soldi a casa. Ride e io mi rendo conto quanto ancora non avessi capito con chi stavo parlando: Asnir è un ingegnere capo, ha studiato per almeno quindici anni e ha gestito con il suo lavoro e la sua scienza navi da oltre settemila kilowatt, oltre a una famiglia di sei figli, tutti destinati a studi universitari. Quanto rimane di tutto ciò nel piccolo marinaio indonesiano di Marghera che poveretto non ha nemmeno da mangiare? È per questo che non mi interessano la miseria e la disperazione della Kawkab, ma le sue storie e la sua lotta. Come io posso imparare a conoscere Asnir, così Asnir può, raccontandosi, riscoprire il vero se stesso e non continuare a rispecchiarsi nella figura del piccolo marinaio indonesiano utile solo ad attrarre compassione. O meglio: che Asnir continui pure a sfruttare la carità riproducendo il suo ruolo di sofferente, ma che possa anche ritrovare nello stesso tempo lo spazio e il luogo dove raccontare che tutto ciò è, per palese ingiustizia, qualcosa di altro da se stesso. Altrimenti il vero Asnir non può che morire. E intanto Nanno sorride: «Lo sai qual è il maledetto motivo per cui sono arrivato qui? Io non ero mai stato in Italia e nemmeno in Europa e quando mio padre mi ha detto che c’era una nave a Venezia dove potevamo imbarcarci ho subito accettato. Avevo infatti un sogno: potermi comprare la maglietta originale della Juventus. E invece guarda dove sono finito.» Un giorno di qualche mese fa, Nanno è entrato in un negozio che, come dice lui, «si chiama Kappa ed è vicino a Rialto», e ha chiesto al commesso il prezzo della maglietta originale della Juventus. «Sai qual è stata la cosa più divertente? Che io non avevo in tasca
nemmeno un centesimo di euro e lui di sicuro pensava che io fossi uno dei ricchi turisti asiatici che comprano di tutto a Venezia. È pensando questo che ho trovato il coraggio di entrare in quel negozio.» Per dovere di cronaca la maglietta della Juventus nel negozio Kappa di Rialto costa ottantacinque euro, un po’ meno di un terzo dello stipendio mensile che spetterebbe a Nanno e che né Nanno né Asnir ricevono da oltre dieci mesi. Ma per fortuna che è di nuovo Natale. E il giorno della vigilia di Natale, che per sette ottavi dell’equipaggio Kawkab altro non è che martedì 24 dicembre (solo il capitano Louis è cattolico), organizzeremo tutti insieme un pranzo nella sala grande della nave. Lo faremo soprattutto perché per l’equipaggio è un piacere trascorrere del tempo in allegria con pezzi di quel mondo esterno in cui si sono ritrovati prigionieri e anche perché per noi è importante avere sempre più occasioni di conoscenza e reciprocità. Ma sarà, e qui sarebbe stupido negarlo, anche un modo per fuggire dall’evidenza di ipocrisie e opulenze a cui il mondo interno (quello in cui siamo nati) non può rinunciare. Esattamente come il Natale di un anno fa, quando con Barbara e Valentina entrai per la prima volta nella Kawkab. Per fortuna, infatti, che è di nuovo Natale. Nanno l’altro giorno ci ha accompagnati fino alle scale e dopo le scale fino alla banchina e dopo la banchina fino alla macchina. Lo fa ogni volta perché ha capito di essere l’ospite a cui noi ci rivolgiamo con più attenzione e perché rispetta probabilmente norme di cortesia che io semplicemente non conosco. E quando Nanno scende dalla nave e rimane fermo e sorridente sulla banchina strisciando sul cemento le ciabatte di plastica e tela, la Kawkab diventa grandissima e quasi materna: è alta almeno trenta volte Nanno e lunga forse oltre duecento volte Nanno,
ma ora serve solo come ventre vuoto dove Nanno e gli altri possono e devono dare rifugio a speranza e rabbia, contemporaneamente. «Ma lo vedi dove siamo?» chiedo a Nanno perdendomi tra vecchi silos abbandonati, cantieri navali e enormi gru gialle e rosse riflesse sul canale immobile. «Certo che lo vedo! È un anno che sono qui tutti i giorni. Per un po’ ti sembrerà impossibile ma tutto ciò per noi è diventato normale. È il mio mondo e mi ci muovo come se lo conoscessi da tempo. So benissimo come entrare alla Fincantieri, so quali sono le navi con gli equipaggi più simpatici, quelli che qualche pollo e qualche sigaretta ce la possono regalare e so anche a memoria la strada per il centro commerciale o per il supermercato: ovviamente non ci vado per comprare qualcosa, ma solo perché li dentro fa più caldo. Quando nella nostra nave non c’è il generatore, vado lì, mi siedo e mi scaldo. Non faccio altro: mi scaldo.» A Nanno credo non possa interessare il peso simbolico del suo sfruttare i centri commerciali come puro riscaldamento. E d’altronde a nessuno dei normali fruitori dello stesso centro commerciale potrà mai venire in mente di rimanervi dentro solo per riscaldarsi. Eppure ho l’impressione che proprio nell’interpretazione quasi semiotica del gesto di Nanno e nell’analisi critica ma non distaccata della routine dei normali fruitori del commerciale, si possa trovare lo spazio almeno mentale per capire il mondo un po’ più a fondo. Quello che non so è quanto spazio ancora ci possa essere e quanto senso possa avere trasformare il gesto di Nanno in una sorta di consapevole guerriglia semiotica di echiana memoria. Credo, piuttosto, ci sia oggi l’urgenza più viva di spazi e modi per la costruzione concreta di alternative. Il flusso informativo indipendente può e deve crescere, i
racconti che scoprono le facce nascoste ma reali delle storie, le testimonianze che svelano i nodi più sporchi e ingiusti del ricco e ipocrita funzionare, devono e possono essere diffusi sempre di più. Ma diventa contemporaneamente necessario imporre che tutto ciò cambi. Oggi in Italia non saprei come permettere a Nanno e agli altri di avere una vita dignitosa e umana nei mesi di attesa che li separano dalla nuova partenza: so benissimo cosa sarebbe per loro necessario, ma con quali pratiche e insieme a chi si potrebbe concretamente ottenerlo? Dovrebbero cambiare troppe cose che non hanno a che fare solo con la Kawkab, ma con tutto l’insieme delle regole di difesa e controllo del flussi immigratori.
Diario di una giornata sulla Kawkab (scritto con Francesco Cressati, coautore del documentario Marghera Canale Nord) 1 febbraio 2003 Siamo arrivati sulla banchina della Kawkab alle dieci o forse dieci e mezzo. È la prima volta che arriviamo così presto al mattino: la luce è più dolce, il freddo più intenso. Intorno continua il nulla. La grande novità è che la scala con cui solitamente saliamo a bordo è sollevata e non c’è nessun pontile o passaggio che collega la grande nave egiziana alla terraferma. Captain Louis cammina lungo il ponte verso prua, ci saluta come al solito e anche tutti gli altri si avvicinano al bordo per accoglierci: dietro a Louis corre Elsayed, improvvisamente attivo e obbediente dopo gli ultimi giorni di forte contrasto con tutto l’equipaggio, e insieme iniziano a sciogliere la scala di corda del pilota che precipita sul lato di acciaio rosso e blu della nave
fino a toccare terra. Sono semplicemente due corde legate tra loro da una ventina di scalini di legno. Captain con dieci passi ci raggiunge a terra, si toglie i guanti, sputa per terra e ci dà la mano. Sorride oggi Louis, ma ha la barba incolta e gli occhi sempre più annebbiati da una patina di bianco, quasi stessero invecchiando. Ci spiega che la scala in realtà la sollevano tutte le sere verso le ventidue per evitare che qualcuno possa salire nella notte: per la prima volta la prigione diventa ai nostri occhi ingenui anche bastione di difesa, in una terra che non accoglie e si nasconde. Tra le urla di Awi e le risate di Nanno e Saad, che dall’alto ci osservano, Louis ci invita a provare la scala del pilota e noi accettiamo: Francesco va per primo e sale prudente e inesperto. Captain capisce e veloce lo raggiunge, gli si mette dietro a poca distanza per dargli la sensazione di maggiore sicurezza e prima che siano arrivati in cima decido anch’io di salire. Captain non può più seguirmi da dietro e così la salita è lenta e solitaria. Nulla di eroico, semplice approccio a un mondo che non ci appartiene. Arrivato in cima, mentre Asnir ripete mille volte di stare attento, mi accorgo che Louis mi ha aspettato sospeso sul parapetto e negli ultimi tre scalini mi sostiene da dietro per assicurarsi che tutto vada bene fino all’ultimo. Il tempo di salutare tutti e di raccogliere gli applausi per l’eroico abbordaggio e siamo già raccolti intorno al fuoco di poppa. Fuoco?! Qualche brace di un ex fuoco su cui è appoggiata una piccola grata di ferro che sostiene una teiera annerita e un pentolino più nuovo per il latte. Asnir scatta per andare a prendere della polvere di Nescaffè nella sua cabina, ma lo fermiamo e chiediamo del tè. Allora è Elsayed ad andare in cucina per portare due bicchieri di vetro, due bustine di tè e il contenitore dello zucchero. Rimaniamo per almeno un quarto d’ora intorno al
fuoco chiacchierando e poi ci accorgiamo che in realtà non abbiamo ancora visto né Mohamed né Kimo: chiediamo dove sono e ci portano sull’altro lato della nave, dove riscaldati dal sole di questa incredibile giornata primaverile di febbraio, i due stanno sistemando le corde che reggono una delle scialuppe di salvataggio della nave. Come al solito non si tratta certo di un lavoro urgente (difficile pensare che quella scialuppa possa essere utile nei prossimi giorni), ma di uno dei cento lavoretti che tutti si ostinano a fare per confermare il proprio ruolo, per distrarre la mente e per illudersi di poter evitare il degrado strutturale della nave. Kimo e Mohamed ci salutano e continuano il loro lavoro, mentre noi torniamo tra il fumo e il freddo del finto falò: io e Asnir ci accorgiamo che i carboni non scaldano quasi più nulla, spostiamo il tutto e risistemiamo meglio i due pentolini. Intorno un po’ alla volta tutti prendono una delle brioche che io e Francesco abbiamo portato per la colazione e dopo cinque minuti tè e latte sono pronti. Asnir versa del Nescaffè nel suo latte e Saad, che come al solito prende la teiera dal fuoco a mani nude, riempie i nostri bicchieri per il tè. Chiedo a Nanno di poter andare in bagno e lui mi accompagna nella sua cabina: è una stanza pulita e dignitosa, con un grande letto ordinato, un piumone molto spesso e un divano con due coperte di lana. Da pochi minuti nella Kawkab è stato acceso il generatore, e la cabina di Nanno inizia a essere intiepidita dalla stufetta elettrica appoggiata ai piedi del letto. Esco dal bagno e trovo Nanno seduto alla sua piccola scrivania di fronte all’unica foto di tutta la stanza: lui e Augustina, la sua bellissima fidanzata ventitreenne, ritratti nella casa dello zio di Nanno. Mi fa vedere la foto e subito dopo altri oggetti appoggiati sul tavolo: un’agenda con gli indirizzi delle agenzie marittime con cui ha lavorato, il libro sul
quale prendeva appunti durante le lezioni di italiano nella scuola comunale per stranieri, l’attestato di frequenza della stessa scuola e tutti i certificati di idoneità per la navigazione. Dall’abilitazione al pronto soccorso medico, il certificato di esperto sulla sicurezza a bordo, dal diploma di ingegneria navale al tesserino sanitario. Sono tutti simili graficamente, l’unica cosa che cambia è la foto: Nanno a diciotto anni, Nanno a venti con i baffi, Nanno a ventidue con i capelli lunghi, Nanno in bianco e nero, Nanno a colori. Già lo avevo notato con le foto degli altri marinai, ma non credevo fosse così evidente anche con Nanno, quello che tra gli otto riesce a sopportare meglio la situazione in cui si trovano a vivere: guardando quelle foto la prima cosa che vedi è il volto di un’altra persona, una persona piena di quella storia e quella dignità che la Kawkab gli ha portato via, consegnandogli in cambio attesa, paura e vecchiaia. Usciamo dalla cabina e ci imbattiamo nelle risate folli e un po’ imbarazzate di Awi, che nella sala tv sta guardando una di quelle trasmissioni sul wrestling trasmesse da Italia 1 e commentate da Dan Peterson: ride, prende in giro i finti lottatori e un po’ anche se stesso. Non dice altro Awi, ma il suo ingenuo sarcasmo non è mai fermato da vergogna o timidezza. Francesco mi chiama da fuori: avevamo promesso a Kimo di accompagnarlo in biblioteca e non sapendo a che ora chiude è meglio essere lì prima di mezzogiorno. Kimo si è cambiato, ha finito di sistemare la scialuppa e ci fa subito notare un bella cintura di cuoio con un evidente medaglione di ottone: «È la cintura della marina militare egiziana!» Poco dopo in macchina, mentre raggiungiamo Mestre, ci racconta che ha servito la marina militare per oltre sei anni durante la guerra degli anni Settanta tra Egitto e Israele, combattendo nel Mar Rosso.
Il motivo per cui Kimo vuole andare alla biblioteca comunale del parco della Bissuola è indice della difficoltà che i marinai hanno nel rapporto con il territorio in cui in qualche modo cercano di sentirsi ospiti: da qualche settimana aveva deciso di cercare un vocabolario di russo-italiano, per poter comunicare meglio con una sua nuova amica moldova, conosciuta qualche settimana fa a Mestre. Non sapendo come trovarlo ha chiesto ai volontari della mensa Caritas di aiutarlo e uno di loro, Guido, gli ha detto di raggiungerlo alla biblioteca della Bissuola, dove lui lavorava e dove l’avrebbe aiutato. Arrivati lì ci siamo, purtroppo, accorti che “my friend Guido” altro non era che il portiere dell’edifico comunale dove era ospitata, tra gli altri servizi, anche la biblioteca e che nulla sapeva sulla presenza o meno di un dizionario russoitaliano in quella sede. Di fatto non solo abbiamo saputo che in quella biblioteca non esisteva il dizionario, ma abbiamo anche realizzato che le biblioteche hanno i dizionari solo per consultazione, ma non per prestito. Kimo ha capito insieme a noi la situazione, è rimasto un po’ deluso della freddezza del suo amico Guido, e ha subito reagito con la maturità e la saggezza di un uomo di sessant’anni, di grande esperienza e intelligenza: «Qui non valgo nulla e mi illudo sempre di poter ottenere delle cose come se fosse normale» sembrava pensare. «Io non ho proprio capito perché ce l’avete con gli arabi: nemmeno il permesso di muovermi liberamente ho in questo paese» ci ha detto poco dopo. Di fronte all’evidenza dei fatti abbiamo accompagnato Kimo in una libreria nel centro di Mestre e gli abbiamo regalato un piccolo dizionario tascabile di russo-italiano, dopo aver concordato con lui che il prezzo non era eccessivo e che era un regalo che non gli pesava troppo ricevere. Il viaggio in auto
con Kimo è stato al di là dell’avventura dizionario un momento di conoscenza e forse anche confessione del vecchio Kimo: ci ha raccontato di come lui stia cercando di tenersi il più calmo possibile per essere di aiuto agli altri, tutti più giovani e inesperti di lui, di come abbia cercato di dialogare con Elsayed («Ti ammazzo qui o ti ammazzo quando torniamo in Egitto, ma prima o poi ti ammazzo! Mi ha detto una volta completamente fuori di sé… Ma io lo so che lui ha perso la testa; è come tutti i ragazzi ignoranti in Egitto: credono che l’Italia, l’Europa siano un paradiso dove è facile vivere e poi finiscono per impazzire di dolore e solitudine.»), del suo rapporto di amicizia con Saad («Lui ha sempre fatto il contadino ed è la prima volta che lavora in una nave: così non sa una parola di inglese e conosce solo il dialetto del suo paese. Cerco di aiutarlo, facendogli da traduttore, perché so che l’unica cosa che vuole è raccogliere un po’ di soldi per la sua pensione: quasi tutti in Egitto non hanno contributi pagati e pochi sono quelli che possono mettersi qualcosa da parte per il futuro. Auguro a lui e ai suoi tre figli di farcela.»), della stima per Louis, un amico prima che un capitano, del suo strano rapporto con la chiesa cattolica («Loro mi aiutano, mi danno qualche soldo ogni tanto, ma non lo dico agli altri, perché non voglio che pensino che sto diventando cattolico. Per me il Dio è unico e se la comunità islamica qui non mi aiuta, io accetto volentieri l’aiuto dei cristiani.») e della tensione all’interno della nave («Tutti sempre pensano che un altro possa avere trovato qualche modo per ottenere dei soldi, come ora penseranno che io sono venuto con voi per farmi una mangiata al ristorante o per farmi dare dei soldi… dobbiamo evitare di cadere in questi meccanismi e stare tutti uniti»). Verso l’una e un quarto siamo tornati sulla nave e appena saliti a bordo abbiamo sentito il generatore spegnersi: in cucina già tutto era stato fatto. Due
teglie di riso erano state cotte in due modi diversi (pilaf da Mohamed e alla turca con il latte da Saad), il pollo regalato all’equipaggio dal comandante del mercantile cinese Man Hai il giorno prima (e conservato nel freddo della notte in una pentola di acqua e sale all’aperto) era stato arrostito nel forno e Elsayed già stava lavando le poche pentole usate. Nella Kawkab, abbiamo scoperto, non si mangia tutti insieme: Awi ha mangiato da solo nella sua stanza, Nanno da solo nel salone, Mohamed ed Elsayed con Francesco anch’essi nel salone ma dopo Nanno, Asnir e il capitano sul ponte, Kimo, Saad e il sottoscritto a poppa sotto il sole della primavera di gennaio. Intanto Francesco nel suo diario scrive… È ora di pranzo alla Kawkab, come sempre i marinai preparano riso in abbondanza, ma oggi c’è pure un pollo da dividere. Io consumo il mio pasto all’interno della nave, nella sala comune. Si mangia in silenzio, fa così freddo che il cibo va consumato in fretta. Con me ci sono Nanno, Awi, Elsayed e Mohamed. Fumando una sigaretta le parole riprendono a uscire, l’atmosfera è davvero distesa e per la prima volta ho la sensazione di essere sulla nave da tanto tempo, il tempo che si misura in giorni, non più in ore. All’inizio sembra di parlare per scaldarsi, io e Nanno, come ci piace fare ogni tanto, parliamo di pallone. Mohamed legge una vecchia copia di un quotidiano egiziano. Gli chiedo spiegazioni sull’alfabeto arabo e in pochi minuti la conversazione coinvolge un po’ tutti. Parliamo di lingue e dialetti, dello slang egiziano e della parlata di Sumatra. Conosco l’Africa ma non so nulla dell’arcipelago Indonesiano (sedicimila isole e decine di lingue completamente diverse) e sono molto colpito dai racconti di Awi e Nanno. Mi raccontano poi delle donne per i marinai, le prostitute che a Bangkok come a Manila si muovono su piccole barche per
raggiungere i marinai all’interno delle navi ormeggiate in porti grandi come città. Andrea è altrove, forse con Kimo e Saad. È un buon segno, riuscire a staccarsi e a vivere anche separati il tempo che scorre sulla nave, facendosi coinvolgere di volta in volta dagli otto marinai. Da un po’ non si vede Louis, il capitano. Sono circa le due e mezza, fuori c’è una giornata da favola e decido di uscire. Incontro Kimo che, a stomaco pieno, controlla il lavoro fatto sulla scialuppa di salvataggio qualche ora prima. Mi spiega accuratamente i meccanismi e il funzionamento in caso d’allarme e mi invita a salire. La scala è ripida, c’è molta ruggine e grasso che serve per ammorbidire corde e funi. Mi affaccio dalla scialuppa, quindici metri sotto di me il mare. Vedo passare numerose canoe, sportivi della domenica che salutano cordiali. Kimo mi mostra l’equipaggiamento della scialuppa: razzi, scatolette di grassi e glucosio, cuscinetti d’acqua potabile. Tutto è al suo posto, come se la Kawkab fosse pronta a salpare. Scesi dalla scialuppa, Kimo e Saad mi lavano le mani… gasolio, polvere di sapone e acqua ghiacciata. Le mie mani sono lisce, le loro… bisogna vederle, o meglio stringerle, macigni di carta vetrata, insensibili e fortissime. Una voce mi chiama, è Andrea. Non lo vedo da più di un’ora ormai. Mi saluta dalla cima di una delle gru scarica-container. Lo raggiungo, con lui ci sono Nanno e Awi. Per la prima volta ci portano a visitare l’interno di uno dei cinque cargo, il quarto. La pancia della balena. La discesa è di quelle a cui ormai ci stiamo abituando ma stavolta siamo immersi nel buio. Nanno ha con sé solo una torcia. In un paio di minuti raggiungiamo il fondo. C’è uno spot molto famoso, fatto dalla Nike, in cui alcuni calciatori celebri giocano
in un antro scuro prendendo a pallonate le pareti fino a sfondarne una: un immenso getto d’acqua invade lo spazio, e lo spot finisce. Quell’enorme spazio buio è un cargo. Quello della Kawkab è freddissimo e la luce di una torcia non è elegante come quella patinata dello spot Nike. Eppure lo spazio vuoto, l’eco della voce e la luce del cielo che filtra da una botola lassù restituiscono al cargo un fascino sinistro. Purtroppo non abbiamo un pallone. Torniamo all’aria aperta e raggiungiamo Asnir a poppa. Ha molto freddo e si scalda sul fuoco. Chiediamo del capitano, ma Louis è ancora fuori. Forse si fida di noi, forse ha capito lo spirito della storia che vogliamo raccontare e lascia che ognuno trascorra la giornata come se io e Andrea non fossimo a bordo. Sono ormai le sedici, io e Andrea facciamo per andarcene, ma poi ci ricordiamo della nave cinese che ha attraccato nella stessa banchina della Kawkab qualche centinaio di metri più in là. Vogliamo andarla a vedere e Nanno e Elsayed ci accompagnano per fare due passi. Il sole va a tramontare, c’è una luce bellissima. Arriviamo in prossimità di Man Hai, questo il nome del gigantesco cargo cinese che sta scaricando quintali di carbone dai suoi container. Quando la gru è lontana passiamo di corsa per evitare la polvere nera. Nanno mi spiega la struttura modulare della nave leggendo le sigle scritte sull’esterno, ma ormai i discorsi si mischiano, si scherza e le risate di Nanno perdono cortesia ma guadagnano calore e verità. Di nuovo sulla Kawkab, le cinque passate. Il tempo scorre circolare, ipnotico. Cominciamo a entrare in quella bolla sospesa e apparentemente immobile che è lo spazio-tempo della nave. Asnir chiede uno strappo a Mestre, vuole fare due passi in un centro commerciale e poi cenare alla Caritas. Ci racconta che quando è solo, lontano dalla nave, non parla con nessuno. Asnir
non lo dice esplicitamente ma capiamo come senta un’ostilità densa venire dai pochi chilometri che gli è concesso percorrere. Montiamo in macchina e lasciamo la nave. Il capitano non è ancora tornato.
Tate Modern 6.3.2003 Settimo piano della Tate Modern. Di fronte a me la skyline dell’oltre Tamigi, la cupola di Saint Paul, i grattacieli di Barbican e, più a ovest, le case neogotiche o liberty di fine Ottocento. Il cielo è ricco di profondità, segnato dall’alternarsi di nuvole scure, cielo azzurro e raggi di luce. Ho trascorso tutta la giornata dentro a questo luogo di incredibile piacere ed entusiasmante interazione. Padova è lontanissima e lo sarà sempre di più: la mente respira, il mondo comunica, i segni e gli squadri tornano a essere suggerimenti. Nel piccolo quaderno nero che in questi anni ho usato nei più confusi modi, ho segnato tutti gli appunti e gli spunti delle varie sezioni in cui mi sono perso e fermato. Ogni spunto è collegato alla storia della Kawkab e anche queste poche righe lo vogliono essere. Il 23 marzo, tra meno di tre settimane, inizieremo la nuova e più lunga fase delle riprese e diventano in me sempre più chiari quali debbano essere le caratteristiche narrative ed estetiche del film: farò di tutto per poterne parlare il più a lungo possibile con Andrea e Francesco e per arrivare all’inizio delle riprese con una condivisione pressoché totale delle idee. Kawkab non può essere un lavoro come Berlino o Chioggia e per questo deve partire da
un livello di complessità, previsione e presunzione più alto. Poi ne sarò bastonato e deluso, ma questo, anche questo sarà normale.
Tate: appunti per Kawkab sul piccolo diario nero I colori di Rothko sono quelli, o tra quelli, che mi immagino dominanti nella Kawkab. Intendiamoci: sono le tonalità e i timbri di colori, non i colori in sé. Qui tutto è rosso e bordeaux. Nero e grigio. La Kawkab è anche marrone e bianca. Ma lo stesso spessore, la stessa profondità è ciò che vorrei entrasse nel film. Colori che sembrano spenti a causa della loro compattezza e che in realtà sono segni indelebili. Come la ruggine: non la voglio metallica ma colorata. È un po’ come portare i colori di Almodóvar dentro alle ventottomila tonnellate di freddo della Kawkab. Rothko è questo. Come lo sono anche le sue forme. Pezzi di parete uniforme dei corridoi, il legno marrone e cupo compatto delle porte, il metallo della cucina. Quadri di colore non colorato che per pochi secondi fermano la storia e accompagnano i rumori. Come la linea tra il blu e il rosso della parete esterna dello scafo. Rischio la pesantezza? Rischio la pesantezza. Perché è rischiando che si può evitarla. Come Rothko. Come pensieri registrati fruscianti in DAT e appoggiati sui loro volti. Non è una mia invenzione. È la vita nella Kawkab.
Tutto ciò, insieme a una o più delle sculture sporche e concrete di Joseph Benys, mi porta a credere necessaria una intera giornata di riprese dedicata ai quadri e alle sculture della Kawkab. Benys ovviamente ci porta in cucina e lentamente nell’olio e nel grasso di ogni passato luogo sulla nave. In un percorso di curiosa e putrida scoperta: come quando la prima volta ho aperto il frigo della common room. Muovendomi piano verso un taglio di Fontana, lenti movimenti in avanti ad avvicinare l’oggetto quel poco e timido che è sufficiente per ascoltare meglio. Piano la camera si avvicina a una pentola e a un volto. E ad altri quadri mi avvicino nello stesso modo. Room: NATURE INTO ACTION «[…]a guiding principle was the need to make such paintings as instinctively as possible so that the work of art became a record of their spontaneous action.» (Un principio guida era il bisogno di dipingere nel modo più istintivo possibile, affinché il lavoro artistico diventasse una registrazione delle loro azioni spontanee.) Anche io mi muovo guardando. Il filmare deve tener conto di questo muoversi. Deve secondo me e comunque può. HAMMERS
and CUSTOMS in SENEGAL (Martelli e dogane
in Senegal) Documentary film 1910 «However the self awareness displayed by those under scrutiny and glimpsed observing the film makers subverts the supposed objectivity of the film.» (Film documentario 1910. Comunque la consapevolezza di sé dimostrata da coloro che sono
messi sotto esame e intravista osservando i film maker, sovverte la supposta obiettività del film stesso.) Tale sovversione è una chiave importante nella relazione narrazione-film del reale. Ma deve essere appunto una sovversione d’improvviso, dove lo spettatore scopre lo sguardo del regista ed entra con lui in quel reale. Questa forma improvvisa di sovversione è ciò che trasforma l’intervista in appunto, quasi pensiero. Questi primi vecchi documenti antropologici ed “esotici” conservano e trasmettono il fascino originario di film reale: la scoperta di ciò che è lontano e quindi è nascosto per lo spettatore. È evidente in essi il viaggio del regista: viaggio fisico di ricerca di un mondo non accessibile nella normalità del supposto (saggiamente supposto) spettatore. Tale fascino originario è oggi spezzato e reso difficile da un unico semplice fattore: l’abbondanza di telecomunicazione. Abbiamo l’impressione di aver già visto tutto. È un’impressione perché ci sono mondi e modi che vengono nascosti. E il fatto che sia un’impressione deve essere motore stesso del film del reale (ma qui il passaggio alla fiction si delinea come possibile) che è chiamato a viaggiare oltre e in sfida all’impressione stessa. Non è vero che avete già visto tutto e io mi rimetto in viaggio per insistere sul nascosto. In questo modo il fascino originario è riconquistabile e rinnovabile: deve pervenire nel messaggio la presenza della volontà di scoperta, conoscenza e ascolto dell’autore. Seduto per terra nella grande sala Perceiving Body mi guardo perfettamente inquadrato in uno dei cubi di specchio appoggiato al centro della sala da Robert Morris. Nel centro di questo quadrato sono finalmente solo in questa grande nave.
Tutti i marinai della Kawkab sono inevitabilmente soli. E soli dovremmo seguirli. Mettendoli insieme creiamo della stupida artificialità. Seguiamoli uno alla volta (Kimo e Nanno per più tempo) e lasciamo che siano loro a incontrare gli altri. Ogni tanto d’improvviso, la sovversione che diventa appunto, non intervista. BRUCE NAUMAN
«My work comes out of being frustrated about the human condition. And about how people refuse to understand other people. And about how people can be cruel to each other.» «It’s not that, I think I can change that, but it’s just such a frustrating part of human history.» («Il mio lavoro nasce dall’essere frustrato dalla condizione umana. E dal fatto che le persone rifiutino di capire gli altri. E ancora da come le persone possano essere crudeli gli uni con gli altri. Non è esattamente questo, penso di poterlo cambiare, ma è davvero una parte frustrante della storia umana.») Da ciò nasce il lavoro di un artista: nulla di più semplice. Di fronte all’immancabile Giacometti Quatre Figurines sur Base. Ritorno al pensiero della solitudine. Come in Giacometti La Place, le figure sono singoli esseri umani sulla pietra levigata della terra. Asnir da solo sulla banchina assomiglia a loro. Per provare a recuperare l’estetica è fondamentale restituire la pesantezza e la preponderanza del piano, nel nostro caso la banchina che deve andare a coprire quasi due terzi e più dello schermo, lasciando una fascia di cielo dove si muove l’uomo Solo. Il passaggio al primo piano del volto deve poi essere secco e
diretto, possibilmente non aiutato da alcun movimento di immagine o di musica. Ciò permetterebbe forse di recuperare e superare (non in meglio) Giacometti. «In Giacometti’s figures, each isolated in it’s own space, Sartre saw a visualisation of his own ideas of loneliness and ultimate absurdity of the human condition.» (Nelle figure di Giacometti, ognuna isolata nel proprio spazio, Sartre vedeva una possibile visualizzazione dei suoi concetti di solitudine e di profonda assurdità della condizione umana.) Se solo Sartre fosse potuto salire sulla Kawkab… Nel video di Mark Dickenson, l’artista, nonché protagonista unico, cerca di indossare tutti i vestiti del suo guardaroba. Il tutto è girato intelligentemente all’interno di un piccolissimo bagno pubblico. La camera non è fissa ma segna i sia pur minimi (e necessariamente sempre più ristretti e costretti) movimenti dell’autore. Ne risulta un minimale esercizio di creazione dell’attesa: banalmente, come andrà a finire? Due appunti per la Kawkab: 1) le cabine sono spazi stretti da girare o con quadri o, e per me preferibilmente, con leggeri movimenti disposti a seguire i movimenti; 2) vestirsi o spogliarsi nella fredda Kawkab è un’impresa che implica sia indossare molti vestiti, sia l’attrarre l’attenzione dello spettatore sulla finalità e quindi sul plot dell’azione. DAVANTI ALLE FOTO DI GÜENTHER FÖRG
Il campo per le colonie estive infantili di Marina di Chiavari. L’abbiamo già visto tutti? Non credo! Ecco la rinascita del fascino originario.
Iraq 2003
Diario da Baghdad Nell’aprile 2003, a due settimane dall’entrata vittoriosa dell’esercito americano a Baghdad, ho accompagnato un convoglio di aiuti umanitari da Amman alla capitale irachena. La guerra di invasione era finita, ma doveva ancora iniziare quella all’interno del paese, che sarebbe continuata per anni e anni, mietendo centinaia di migliaia di vittime civili e militari. 23 aprile Stiamo probabilmente sorvolando la Palestina, Israele e forse il Libano, siamo per fortuna molto alti e posso sentirmi ancora lontano. Mi imbarazza questo venire catapultato all’improvviso in terre di così immensa storia, di tanta prepotente civiltà e di tale “fastidiosa” attualità. I giornali che ho comprato, sfogliato durante il viaggio, non fanno altro che parlare e spiegare l’Iraq e il Medio Oriente: ayatollah, profeti, imam, curdi, sciiti, Kerbala, Kirkuk, Barzani e Talabani, nomi del nuovo veloce inutile sapere occidentale, elementi cronachistici narrativi del nuovo momentaneo interesse. Leggo e provo a imparare, chiedo spiegazioni o idee a Bruno che a fianco a me continua il suo normale viaggio di professionista dell’aiuto. Sorride e si entusiasma solo quando può ricordare volti, luoghi e luci che ha fotografato ma non mi spiega quasi nulla. Ha ragione: continua a dirmi che vedremo incontreremo parleremo. È semplice e onesto: la
conoscenza inizia lì dove il corpo può uscire dal territorio della normalità. «Alla vostra destra Tel Aviv e Giaffa.» Lo avevo immaginato: siamo sopra Israele, sopra la Palestina. E ciò che forse ancora peggio è che stiamo per atterrare ad Amman, Giordania. Entro nell’altro mondo, non ne ho alcun diritto e l’unica mia difesa è il rispetto. La terra qui sotto è marrone come mi avevano detto le voci del sapere, ma ci sono ampi spazi di terra verde e rossa, molto rossa, e già questo non me lo aveva detto nessuno. Atterrati. 25-27 aprile Giornata dedicata in gran parte al viaggio AmmanBaghdad. Cinquecentocinquanta chilometri di deserto attraverso Giordania e Iraq. In Giordania abbiamo viaggiato solo di notte, per buona parte ho dormito ma ricordo con onirico disorientamento la sosta in un bar ristorante giordano a pochi chilometri dal confine: sedie di plastica verde, tavoli con tovaglie rosse, pareti azzurre, una grande tenda gialla e un oblò-finestra che permetteva di intravedere la cucina dove erano accavallate sul fornello una decina di vecchie pentole di metallo. Un solo ospite oltre a noi inzuppava il pane in una zuppa di carne accompagnandolo con una insalata di pomodori, cetrioli e cipolle. Oriente, Turchia, Albania, Mediterraneo: il viaggio verso l’Iraq sembrava sempre meno esotico e sempre più percorribile, comprensibile. Il corpo esce dalla sua normalità ma non rinuncia a riconoscere e a unire i territori, gli odori e le voci del suo migrare. Nella sala una piccola televisione trasmetteva un film indiano con sottotitoli in arabo, ammagliante e affascinante come un incrocio tra Buñuel e Dino Risi, come giustamente ha sottolineato Bruno. Poi di nuovo sonno, fino al vuoto campo profughi UNHCR allestito durante la guerra in attesa delle fughe mai iniziate dei civili iracheni. Qualche chilometro più a est, verso la grigia alba del deserto, inizia la coda di auto prima della frontiera con
l’Iraq, la scomparsa frontiera con ciò che era l’Iraq. A tre anni dal mio primo viaggio in Kosovo ritrovo di nuovo le auto senza targhe e le Mercedes con targa tedesca: sono gli ex fuggitivi che tornano nel paese liberato e che accettano subito, riproducendola o forse creandola, l’utile anarchia. L’attesa non è per entrare ma per uscire: la polizia giordana è l’unica forma di controllo dell’ingresso del nuovo non-Stato. L’ambasciata irachena ad Amman prova ancora a esercitare il suo potere (o forse fascino) imponendo un infondato obbligo di visto e chiedendo per ogni permesso cinquantadue dollari. Gli americani dicono che è necessario, tutti i falchi o avvoltoi della cooperazione anglosassone si tuffano nella rispettosa fiducia, riempiendo le tasche dell’ambasciata di zio Saddam e alla fine i due soldatini del Texas abbandonati ai piedi del ritratto del dittatore a Trebil Border sorridono e non chiedono affatto alcun visto. I giordani invece provano a mantenere una qualche forma di filtro e sta a loro chiedere o meno il visto iracheno: così capita che lo chiedono agli occidentali (anche se non a tutti) ma non ai giordani. Certo, direbbe qualcuno, i giordani non hanno mai avuto bisogno del visto iracheno; ma che cos’è oggi l’Iraq? La domanda rimane. Anche attraverso il deserto. Una lunga interminabile e noiosa autostrada a sei corsie percorre sempre dritta e piatta i cinquecento chilometri verso Baghdad. Vuota, silenziosamente vuota. Gli unici ospiti della grande autostrada di zio Saddam sono le grandi Jeep Cherokee con le scritte adesive tv e i simboli delle ONG, i camion o pullmann dei primi businnes di import-export e le auto senza targhe stracolme di valigie e famiglie. Intorno solo sabbia e qualche pastore beduino con le sue pecore di lana e polvere. Continuo a dirmi che presto avrei visto la verde area del fiume: invece oltre al deserto avanza la nebbia. Il cielo diventa sempre più giallo, il calore sempre più umido e compaiono a tratti piccoli nuclei di
case piatte, grigie e apparentemente vuote. E i fiumi? E la mezzaluna verde? Sono sfortunato, è una brutta giornata e devo accontentarmi di accorgermi della fine del deserto solo con la comparsa delle prime palme. Piegate dal vento di scirocco segnano sole i confini con l’Eufrate. Superiamo il ponte, lasciamo scorrere l’antico fiume e dopo nemmeno cinque chilometri ritorna identico a se stesso il deserto. Nebbia e deserto. Non so se mi sono addormentato proprio in quel tratto, non lo so perché dopo cinquecento chilometri di deserto il sonno è disorientamento, inevitabile, non certo riposo. Non so e non ricordo, ma so che per me quel deserto entrando a Baghdad non è finito. Sì, certo: sono stato sfortunato, era una giornata di brutto tempo e di vento caldo, ma resta fortissima l’impressione spettrale di continuità tra il nulla dell’autostrada e la morte di Baghdad. La strada si riempie solo di magazzini svuotati, di cancelli chiusi, di capannoni abbandonati, di camion, pullman e carri armati abbandonati, di persone dondolanti nel vento, di cartelli impolverati, di sacchetti di plastica e di rifiuti fumanti. Poi iniziano a comparire abitanti e case, ma il deserto continua. E la guerra? Le carcasse di carri armati, contraeree e blindati militari iracheni ci sono un po’ ovunque; ci sono anche i palazzi bombardati. Ma non è questa la guerra a Baghdad. La guerra è il deserto, è quello che le televisioni hanno riassunto con le immagini perfettamente utili del “saccheggio”. La guerra a Baghdad è il deserto. Il deserto è entrato a Baghdad. Luca e Stefano, i due esperti di emergenza con cui viaggio, probabilmente ora riderebbero, anche se come sottofondo del loro pragmatico cinismo rimane il silenzio della notte di Baghdad, noiosamente interrotta dalle mitragliate serali a cui tutti sono abituati. Luca e Stefano ridono perché vogliono giustamente evitare i sensazionalismi dei narratori di guerra, ma anche perché fanno parte
di uno dei due mondi esterni che traggono vita e necessità dal deserto di Baghdad: gli operatori umanitari come loro due da una parte e i giornalisti come Pietro e Michele dall’altra. Due mondi che riempiono le hall degli alberghi nel vuoto, nella polvere e nell’attesa di una città a cui Saddam e Bush hanno regalato morte e libertà come facce della stessa medaglia. Il deserto dell’anarchia: negozi sbarrati, case abbandonate, scuole e musei distrutti, venditori di sigarette e banconote, semafori spenti, cemento bruciato, parchi distrutti, piazze desolate e il cielo che lento e puzzolente si abbassa marrone sul vagare di auto e persone. A tratti le strade si bloccano in ingorghi di traffico impazzito e i clacson riempiono di nulla e vana protesta la confusione del deserto. Tutte le scuole sono chiuse e gli ospedali sono stracolmi non solo e non tanto di malati o feriti, ma di persone che inventano lo scorrere del tempo frequentando l’ultimo dei luoghi di socialità possibile. Uomini e bambini stanno fermi a guardare in piedi lungo le strade, improvvisando giochi e commerci. Tutti i ministeri, centri culturali e uffici pubblici sono stati sistematicamente svuotati, distrutti, bruciati. Saccheggio? Quello del magazzino di cibo della banca o della fabbrica di ventilatori è un saccheggio, quello del ministero è un’azione di desertificazione della società, il pubblico, il sociale, il comune non deve più esistere, perché la libertà è nell’individuo e l’individuo può iniziare libero il suo viaggio senza storia, tra le sigarette di contrabbando, i marciapiedi di cambio valuta e la paura del nuovo vicino armato, occupante di una casa che ha perso il suo scomparso padrone. Saddam è scomparso, la felicità della fine di un regime feroce e dittatoriale è affidata alla desertificazione, alla (s)civilizzazione della società. Gli americani? Quasi inesistenti, come i due marines al finto confine con la Giordania in mezzo al deserto, lasciano che la città si corrompa, si corroda, si svuoti di se stessa. Non so e
non saprò mai con certezza quanto l’esercito USA abbia aiutato o provocato i saccheggi, ma so con certezza che ora loro sorridono. Giovanissimi marines stazionano davanti a dei palazzi svuotati, giocando con i bambini e incollando alle immagini del potere sconfitto quella loro della facile vittoria. L’anarchia è la soddisfazione del conquistatore, la sua moneta è la prova della sua conquista. A Baghdad circola finalmente il dollaro, che viene scambiato con i dinari iracheni, lasciando che nelle mani dei nuovi banchieri di strada Lincoln e Washington si stringano per qualche attimo con il volto dello zio Saddam, in un connubio ancora una volta vincente tra dittatura e libertà. I marines presidiano le loro caserme e i loro giornalisti, ma nulla devono e possono fare per governare la città. Il governo del nuovo Iraq sarà cosa loro e il primo passo del loro lavoro di amministratori è concedere alla città la libertà di non essere nulla. Pullman di antenne paraboliche e cellulari satellitari arrivano da Amman e si preparano a regalare agli iracheni il brivido della comunicazione globale. Intanto poche ore più tardi nel vuoto silente della sera di Baghdad una ragazza viene violentata in un’auto sotto gli occhi impotenti di tre italiani disarmati, da troppi anni abituati a contare sulla polizia. La polizia c’era a Baghdad, oggi non può continuare a essere perché simbolo di uno sconfitto regime. Al suo posto marines, parabole e stupri. Chissà se Luca e Stefano riderebbero anche di questo. Ieri sera lungo le rive del Tigri, tra cinque carri armati di marines, di fronte ai palazzi dello zio, un manager della guerra si è concesso un’ora di sano relax, tuffandosi nel suo pure american jogging. Aveva anche la t-shirt della maratona di San Francisco. Dolcissimo. Vivono nel loro mondo sempre e comunque e condividono con il deserto di Baghdad
solo il traffico, che costringe anche i loro autisti a ritardare meeting e interviste. Perché rispettare la cultura e la civiltà di Babilonia e non fare lo stesso di quella western professional? Rispetto entrambe, ma mi piacerebbe che il mondo influente (perché vendibile) degli spettatori sapesse che oggi a Baghdad esistono entrambe e che la seconda vive in un mondo parallelo e sculettante che ha non solo il potere ma anche il diritto (sebbene informale e autoproclamato) di raccontare e aiutare la prima. Qualcuno ha vinto e qualcuno ha perso. Questo è il risultato di qualsiasi guerra e se chi ha vinto poi aiuta i connazionali liberati di chi ha perso, ciò non modifica né l’esistenza della logica di guerra né l’inferiorità della cultura sconfitta. Se avessi più tempo per rimanere in questa terra di sculettanti vincitori e disorientati sconfitti, vorrei poter cercare nei villaggi fuori da Baghdad la sua vera faccia: quasi il cinquanta per cento degli abitanti originari della capitale se ne sono andati lasciando case e uffici. Per paura delle bombe? Certo, ma forse ancora di più per paura del futuro e del suo presente. È insopportabile per un essere umano realmente libero diventare un sofferente inferiore a cui la futura libertà viene venduta gratuitamente dal generoso sculettare del vincente. Ho trascorso oggi circa un’ora imbottigliato nel nuovo traffico del deserto di Baghdad respirando la benzina delle taniche e la sabbia dello smog: per fortuna che al mio fianco c’era Sabah, un simpatico cinquantenne iracheno. «Saddam ha distrutto l’Iraq, ora Bush e gli americani si fanno i fatti loro. Questo lo so molto bene, come so anche che tutti i saccheggi che abbiamo visto sono stati aiutati da americani e kuwaitiani. So tutto, ma io cosa posso fare? Devo chiedere un’altra guerra contro gli americani? Hai qualche idea tu?» Sprezzante e a tratti spensierata
ironia. La differenza tra Bush e Sabah è che Bush può pensare di fare un’altra guerra, se gli serve. Nel frattempo nella folla di Al Fanar, dove sono ancora bloccato in attesa di un amico, si parla della politica locale ovvero di quella del governo americano, come a Padova si parla del sindaco: la normalità si adagia alla storia e sorride sculettante al crescere di meeting, impegni, appuntamenti e scadenze. Poco dopo ho attraversato il cuore della grande città, quella nascosta nelle strade minori, nei negozi chiusi, nei marciapiedi dei nuovi commerci di finta libertà. Tre case ogni quattro sono o distrutte o abbandonate, il novantacinque per cento dei negozi sono chiusi, le famiglie rimaste si nascondono ed escono solo per salutare il mister dai capelli lunghi. Una città stuprata, svuotata di se stessa e della sua vita, come se dal nulla ora possa rinascere la libertà. Dal nulla non nasce nulla, dalla violenza nasce solo violenza. Pesante e ancora ghignante si appoggia il pensiero unico: «È normale che due settimane dopo la guerra la città sia devastata. Date tempo al tempo e la vita riprenderà.» Ho visto molte città nei Balcani a cui era stato previsto un futuro lento di nuova libertà e che si sono invece addormentate nel loro destino di dipendenza dall’aiuto. A Baghdad in pochi giorni è stato regalato lo stesso destino. Le auto scorrono, si muovono, uomini e figli lungo i marciapiedi, isole di sigarette e whisky hanno sostituito negozi e ristoranti: tutto intorno solo scheletri, finestre aperte, grate di ferro e terrazze sgretolate. Cammino tra un’isola e l’altra, raccogliendo saluti ripetuti e sorrisi di finta speranza. Non sono vite, ma attese di vita. L’unico momento di quotidianità che incontro è una partita a calcetto nel cortile di quella che forse era una scuola.
M’incollo con la telecamera in vetrine coperte di scotch di ristoranti e alimentari, scoprendo il vuoto e il passato. Più del cinquanta per cento della Baghdad centrale è scappata e il pensiero va ai racconti rumiziani di stupri civili come Sarajevo e Vukovar. Lì la battaglia è stata violenta e combattuta, qui è stata rapida e non certo militare: pochissimi sono i segni di pallottole o granate. La violenza è stata affidata o meglio concessa ai saccheggi. «Il fenomeno dei ladri scatenati non è un grande problema», m’interrompe in serata il buon Sabah, «il vero problema sarebbe se sunniti e sciiti iniziassero a combattere l’uno contro l’altro.» Non ho voglia e bisogno di alcun pessimismo, ma sento il bisogno di annotare quantomeno un’emozione, quella di una città ferita e tagliata, capace solo di essere spazio utile a poteri mafiosi pronti ad altre forme di conflitto, interno, etnico o religioso che sia. «Non c’è governo, non c’è polizia, non c’è alcun tipo di controllo o servizio» continua Sabah, «questo è il pericolo oggi.» Ma è solo questione di tempo dicono. E infatti, mi spiega Sabah, «Bush ha detto che ci vorranno due anni. Dobbiamo aspettare.» Ero incollato a uno degli ex ristoranti della via commerciale di Baghdad, quando alle spalle mi raggiunge un ragazzo con la maglietta della nazionale italiana di calcio. M’invita a entrare con lui nella sala deserta del ristorante. Timidamente lo seguo, fingendo di capire cosa sta succedendo e intercalando il mio curioso disorientamento con banali riferimenti a vip del calcio italiano, uniche parole in comune tra noi due. Pochi passi e capisco di essere in compagnia del guardiano armato del ristorante: vive lì da molti giorni, barricato da solo a difesa della nuda proprietà, fornito di un tavolo, due sedie, un divano, un mitragliatore, uno specchio e qualche bottiglia d’acqua.
Qual è il punto esatto di passaggio tra la giusta difesa di una proprietà in un momento di pericolo e l’organizzazione di nuclei armati extra legalità? Non so se esista tale punto, ma so che i due casi sono tra loro inevitabilmente tangenti. Cammino per quasi tre ore perdendomi un paio di volte e il panorama non cambia mai. Agenzie di viaggio, fruttivendoli, uffici di cambio, banche, gelatai, compagnie aeree, hotel, negozi di elettrodomestici, discoteche, caffè, simboli di una città che è stata città: tutto è chiuso, abbandonato e violentato, le uniche pause evidenti sono gli alberghi e i ristoranti con le Jeep bianche del mondo sculettante e vincente parcheggiate all’entrata. Sabah mi ha parlato più volte dei suoi vicini di casa raccontandomi non senza rabbia la loro partecipazione ai saccheggi delle banche. Il vicino di casa è il primo nemico nella balcanizzazione. Tutto ciò però non può essere imputato a caratteristiche culturali o etniche, ma a delle responsabilità storiche ben chiare. Lasciare agire il potere e la mentalità del disonesto genera l’isolamento frustrante dell’onesto e lo sgretolarsi della convivenza comune. “Lasciare agire” è la messa in pratica di una scelta, non è un fortuito status quo. 28-29 aprile La tesi di Mohamed, l’autista ingegnere giordano che mi ha accompagnato in tutto il viaggio, è che il regime di Saddam era per l’ottanta per cento buono e per il venti per cento cattivo: secondo lui un chiaro esempio di bontà è l’autostrada che unisce il confine giordano con Baghdad. È l’opinione di un ingegnere ed è una quantificazione su cui mi riesce difficile sia esprimere un giudizio sia essere d’accordo. Ho visto i quartieri periferici e i paesi più piccoli dell’Iraq rurale e faccio fatica a credere che il regime di Baghdad fosse “buono” come dice Mohamed. Ma ciò che vorrei provare a capire e raccontare è che l’aggressione della
coalizione (come viene definito, in un impeto propagandistico d’ipocrita multilateralismo, l’esercito americano) non ha nulla a che vedere con il venti, il cinquanta, l’ottanta o il cento per cento della cattiveria del regime. Mohamed ha un’altra tesi anche a questo proposito, ma prima di provare ad affidarmi nuovamente a lui, voglio ricordare un’immagine che ho incollata in mente. Sembra una favola ma non lo è: se la coalizione avesse voluto restituire “bontà” distruggendo la “cattiveria” avrebbe attuato o permesso la distruzione di cose “cattive” proteggendo quelle “buone”. Sembra una favola ma non lo è: l’ottanta per cento delle scuole sono state saccheggiate, il novanta per cento dei ministeri bombardati, i magazzini di cibo aperti e consegnati alle bande, le banche di risparmio regalate (per poi dichiarare illegali le banconote rubate), mentre l’unico grande edificio pubblico salvato da qualsiasi tipo di danno e mantenuto in ottime condizioni non è quello della salute o dell’irrigazione o dell’educazione, ma quello del petrolio. Lungo il grande viale Palestina ci sono tre ministeri: Giochi Olimpici, Irrigazione e Petrolio. Il primo è carbonizzato, il secondo abbandonato a saccheggi e incendi, il terzo splendente e protetto da almeno cinque carri armati. È stato Abdal Al Raman a portarmi lungo il viale Palestina. Abdal è un dottore in economia e programmazione dell’ex Ministero dell’Istruzione (anch’esso completamente devastato). L’ho incontrato in uno dei pochissimi negozi aperti di Tunisi street, la via delle botteghe artigianali di alluminio, vetro e acciaio. Il negozio era aperto ma assolutamente vuoto, utilizzato da Abdal e alcuni amici come luogo di ritrovo nonché di sorveglianza. Abdal è un sunnita dirigente dei ministeri e di conseguenza accusabile dalla
coalizione di collaborazionismo con il regime, ma volendo ingenuamente accettare le regole non rispettate del pluralismo, i suoi amici Alì e Shabki sono sciiti, nonché liberi imprenditori e il secondo Alì è addirittura cristiano. Sembrava il salotto di un fastidioso talk show democratico, ma era semplicemente un piccolo garage fino a poche settimane fa adibito a negozio di un vetraio sciita di Baghdad. Di fronte alla videocamera mi hanno raccontato centinaia di cose e molte di queste Mohamed non ha potuto tradurmele sul posto. Le capirò quando avrò le traduzioni complete, ma ci sono però due elementi molto chiari del loro racconto, oltre alla gita al Ministero del Petrolio, che posso ricordare anche ora: da una parte molti sono gli esempi che anche loro possono testimoniare di collaborazione o addirittura partecipazione dei soldati americani ai vari saccheggi; dall’altra mi hanno spiegato che molti dei negozianti e residenti della zona stanno decidendo di organizzarsi in gruppi di autodifesa contro le bande di ladri che dominano la notte di Baghdad. Ed ecco un altro punto di passaggio di cui non conosco l’esatta collocabilità storica, ma di cui temo il funzionamento logico e tattico: dove finisce l’autodifesa e dove inizia l’ordine paramilitare? Continuo a non dare risposte, ma mi ostino a utilizzare le tesi di Mohamed, il mio autista, traduttore, ma soprattutto ingegnere giordano, quasi totalmente filo Saddam (quantificherebbero i coalizzati): lui dice che gli iracheni non hanno fatto altro che utilizzare gli americani per far cadere il regime, evitando qualunque opposizione civile e disertando in massa anche le operazioni militari, ma si sono anche ben riforniti di armi leggere distribuite a molte famiglie e gruppi. Una parte relativamente piccola viene usata oggi dai banditi ignoranti e
superficiali, sostenuti o tollerati dai coalizzati anglosassoni, una seconda parte, molto più grande, è conservata in attesa di vedere quanto sincera è la promessa di Franks, Bush e Powell di lasciare presto il paese alla sua gente. Devo dire che questa seconda tesi di Mohamed mi convince un po’ più della prima e a dire il vero ci sono un paio di cose che mi aiutano a seguire il convinto ragionamento del pericoloso ingegnere giordano. Dopo la visita al Ministero del Petrolio, sono tornato a trovare Mohamed Alì, il ragazzo che protegge uno dei ristoranti abbandonati di Al Matma, quartiere commerciale e residenziale della Baghdad “bene”. Ero con Mohamed e ho potuto chiedere ad Alì di raccontare meglio, molto meglio, ciò che mi aveva accennato in inglese due giorni prima. Fuori fa già molto caldo e ogni auto che passa suona il clacson per salutare la mia videocamera. Così decidiamo di entrare. Al Fumarak era probabilmente un signor ristorante, ma oggi è un contenitore di polvere, sabbia e mosaici di finto oro. Alì ha una piccola branda, qualche vestito, una televisione, un frigo pressoché vuoto e un telefono non funzionante: tutto intorno solo il passato e l’attesa. Lui ha ventitré anni, e questo l’avevo già capito, da sette mesi controlla quel ristorante per conto del fuggitivo proprietario siriano, e anche questo più o meno l’avevo intuito. Ciò che non sospettavo è che il ventitreenne studente del college politecnico di Baghdad avesse combattuto come volontario contro gli americani (diciamo che allora non erano ancora i gentili e puliti coalizzati di oggi) nei giorni della presa della sua città: «Eravamo una ventina di studenti, ci siamo presentati in caserma e abbiamo detto che eravamo pronti a combattere. I generali ci hanno rifiutato dicendo che non servivamo alla loro guerra. Così ci siamo organizzati da soli e siamo andati il 9 aprile ad accogliere gli americani sulla strada dell’aeroporto. Eravamo una ventina o forse meno, ne abbiamo
ammazzati almeno sette, forse anche di più, ma di quei sette sono sicuro perché abbiamo ancora le loro orecchie. Poi loro hanno iniziato a sparare con i tank: un mio compagno è stato colpito allo stomaco da un piccolo missile, ha fatto appena in tempo a guardarmi e poi è esploso. Capito? Quel proiettile del carro armato americano lo ha perforato ed è esploso dentro. Io ho fatto almeno in tempo a scappare e poi sono svenuto per lo shock. Gli altri per fortuna mi hanno portato all’ospedale Al Kindi. La nostra battaglia è durata un pomeriggio, alcuni di noi sono morti ma presto ci siamo nascosti perché abbiamo capito che la linea dei comandi iracheni era di non opporre resistenza. Farlo noi da soli era una follia. Ora aspettiamo, siamo in molti: se gli americani non se ne vanno come promesso saremo costretti a cacciarli noi. Siamo molti, molti di più di loro e loro non hanno più ministeri da bombardare.» Alì è stato all’ospedale Al Kindi un solo giorno e poi gli americani hanno preso la città e sono iniziati i saccheggi: «Mi hanno tolto la flebo, mi hanno buttato per terra e si sono rubati il mio letto. Non so chi fossero perché ero ancora sotto shock. Vuoi sapere se c’erano anche gli americani o i kuwaitiani? Non lo so. Mi hanno detto di sì, ma non lo so. Posso solo dirti che ho visto i soldati americani aprire il free market (quello che era per gli stranieri) e far entrare la gente lasciando che rubassero tutto.» E quest’ultima cosa Alì l’ha raccontata anche di fronte alla camera, il resto per sicurezza ha voluto ricordarlo a camera spenta. Il libero mercato, il free market? Ma allora è vero che i coalizzati sono buoni: hanno regalato alla gente ciò che doveva essere per gli stranieri e che quindi era negato ai poveri iracheni. Questo è il pensiero del lineare e fedele texano, a cui il milanese da bene non potrebbe che aderire. Io preferisco non commentare e tornare al punto cui
eravamo partiti: autodifesa o reazione paramilitare? Transizione passiva o infuocata attesa di anarchia? Alternative che auguro a tutte le libere e liberate democrazie di questo fantastico pianeta. Alì ha ovviamente una risposta molto chiara. Ma non mi affiderò certo a un estremista paramilitare per giudicare la Grande Storia. 30 aprile Intanto inesorabile la libertà avanza: antenne satellitari, Marlboro e whisky sono finalmente disponibili. Peccato che abbiano costi talmente sproporzionati rispetto alla passata normalità irachena, che gli unici acquirenti sono solo i più veloci dei saccheggiatori, ovvero quelli vicini a chi ha aperto le porte, a chi ha detto qui potete entrare e qui no. Riassumendo: il dottore in economia dipendente del ministero si organizza insieme agli amici artigiani in gruppi di autodifesa fumando Sumer a cinquecento dinari al pacchetto, mentre il mafioso Alì Babà, che ha seguito bene le istruzioni per entrare tra i primi al Ministero dell’Economia, scorrazza oggi per le strade ubriaco di whisky e fumando Marlboro a cinquemila dinari al pacchetto. Signori e signore la libertà è servita, fatene quello che volete, ma non avvicinatevi alle nostre basi e al “vostro” Ministero del Petrolio. E Saddam? Nessuno a Baghdad mi ha tessuto le lodi di Saddam e nessuno mi ha negato la tragedia di aver vissuto sotto il suo dominio. Alì, il paramilitare, mi ha raccontato delle manie sessuali e delle follie omicide di uno dei figli di Saddam e Sabah mi ha descritto il dolore di decine di amici che hanno visto figli torturati o che non hanno nemmeno visto figli uccisi. Ma Saddam e i suoi figli per ora sono vivi e al sicuro, gli iracheni stanno perdendo anche ciò che non avevano, guadagnando un futuro vagante tra la passiva transizione e la violenta ribellione. Ho visto ospedali, mercati, strade e case in cui non c’è nulla se
non una grandissima forza di volontà di medici, donne e uomini. In quelle strade, in quelle case, in quegli ospedali le antenne paraboliche e le Marlboro non servono. Servono aiuti organizzati da esperti iracheni e internazionali, non certo marines californiani: invece ancora non si sa se le Nazioni Unite ed ECHO (l’agenzia umanitaria della Comunità Europea) potranno entrare in Iraq e agire concretamente. Tutti i medici che abbiamo incontrato mi hanno assicurato che le epidemie questa estate raddoppieranno, perché nessuno ha pensato a spruzzare i disinfettanti necessari e perché non esiste più alcun controllo della qualità dell’acqua (il cui esame era stato sfortunatamente affidato al Ministero dell’Irrigazione e non del Petrolio). Alcune organizzazioni hanno iniziato a entrare e a lavorare, ma ancora non sanno cosa potranno realmente fare. Ancora non si sa se il Ministero per la Salute da poco riaperto (in una nuova sede ovviamente) sotto l’egida del governatore generale Garner, avrà capacità operativa o meno, ma si sa che controllerà l’attività delle ONG rigorosamente suddivise tra americane ed europee. Nel frattempo Saia Ramin, una bambina ricoverata il 13 aprile all’ospedale di Kerbala per l’esplosione di una piccola bomba (forse cluster) con cui stava giocando, avrebbe bisogno di aiuto ora.
Moldova e Tunisia 2003
Moldova Belts, ore 22.15 Il vuoto è incolmabile. Le strade, le piazze, i palazzi, i campi diventano sempre più grandi, antichi e vuoti. Un vecchio sidecar con una famiglia infangata, donne scalze con zeppe e fazzoletto solide piantatrici di fiori, trattori di ruggine e patate dimenticati ristoranti di legno e merletti eserciti di formiche in campi di cipolle pastori sdraiati sul ciglio d’erba. Danzano ragazzine attillate alte e bionde basi americane di ruski disco music. A decine gli studenti affollano la coda per telefonate e chat di internazionali sogni di fuga. La vodka è fredda.
Un lei e cinquanta di ebbra distrazione dall’inevitabile immobile normalità. Boccali di birra per coppie di nero vestite. Gli uomini parlano le donne guardano aspettando che l’alcool dia sorriso o follie al silenzio dell’immobile (r)esistenza.
Moldova-Tunisia Estate 2003 Si intrecciano nel ricordo visivo di questa estate le colline verdi di frutteti e patate della pianura moldova con gli orizzonti secchi delle montagne di pietra berbera nel sud della Tunisia. Terre, strade e mondi lontani e a tratti completamente opposti, uniti nell’arena della nostra attenzione pubblica solo dal loro essere serbatoio di centinaia di migranti, operai tessili del vicentino e colf o badanti delle scomparse famiglie nordiche. La Tunisia e la Moldova sono buchi neri da cui escono in fuga ospiti sgraditi, a cui non abbiamo quasi mai chiesto nemmeno di raccontare il mondo della loro vera vita: quasi non avessimo bisogno di conoscere e ci bastasse difenderci. Si è parlato molto quest’anno delle contraddizioni degli interventi umanitari e dell’industria degli aiuti,
distorsioni preoccupanti di una solidarietà internazionale sempre più stritolata e a tratti tristemente asservita alle campagne militari e mediatiche degli eserciti della “democrazia” occidentale: in questo contesto fa ancora più piacere scoprire, tra le case troglodite di Matmata e i boschi di ciliegi sulle rive del Dniestr, due progetti di solidarietà ben lontani dalle prime pagine dell’umanitarismo di emergenza e ben radicati a un lavoro di sviluppo comunitario di lungo periodo. In Moldova e in Tunisia non c’è stata nessuna guerra in grado di occupare qualche risicato spazio di telegiornale, quasi non esistono immagini di sofferenza a cui poter affidare la crescita di compassione negli animi di sinceri ma impotenti donatori e gli unici nemici dello sviluppo sembrerebbero essere il passato comunista e il deserto: perché allora avventurarsi in anni e anni di lavoro che mai potrà realmente portare a una crescita di visibilità? Perché ostinarsi tra le case bianche e azzurre di Tataouine o tra i palazzi immobili e squadrati di Chisinau? Le risposte stanno proprio dietro alla superficie mediatica delle ingiustizie e delle violenze che riempiono sempre di più le terre, i paesi e i popoli rimasti oltre la “cortina di cartamoneta” (come ama definirla Aldo Bonomi) della nostra ricchezza: è lo sgretolarsi lento e strutturale delle società e delle comunità, paesi come Kerchaou o Cantemir, Djama Sidi Smar o Straseni, che costituisce la base di potenziali violenze e conflitti, a cui la solidarietà internazionale potrebbe reagire solo con il carrozzone emergenziale dell’aiuto infermieristico. Ma, seconda domanda fondamentale, da dove nasce questo lento sgretolarsi comunitario, questo deformarsi della società di origine in “comunità maledetta” da cui è importante solo fuggire? Siamo davvero così sicuri che la causa di questo difficile sopravvivere siano i due nemici ufficiali, il passato comunista e il deserto? Queste due cause non rischiano di essere coperture di
uno sgretolamento sociale ben più complesso, le cui radici non sono da cercare esclusivamente dentro i confini storici e territoriali di Moldova e Tunisia? Credo che sia proprio a partire da queste scomode domande che siano nati, sia pur attraverso percorsi separati e diversi, i due progetti di ICS e Alisei che ho avuto la possibilità di seguire e inseguire quest’estate tra giugno e agosto. In Moldova ICS, in partenariato con il Consiglio dei Giovani Moldovi, ha inventato e sta in questi mesi facendo decollare il progetto YASEM (Youth Against Social Exclusion in Moldova), il cui principale scopo è sostenere una rete di ragazze e ragazzi ventenni di tre città diverse, Chisinau, Cahul e Beltsy, già impegnati in associazioni locali di solidarietà e assistenza sociale: una rete che permetta ai ragazzi di confrontarsi su metodi e linguaggi di intervento sociale, anche grazie alla collaborazione con operatori di associazioni italiane che in questi mesi si stanno impegnando in periodi di scambio e formazione in Moldova. Alisei sta invece ormai portando a termine, insieme all’Unione Tunisina per la Solidarietà Sociale, un progetto di sostegno agricolo e comunitario all’oasi di Kerchaou, paese di circa duemila persone a cinquanta chilometri dalla città di Tatuouine, nel sud della Tunisia: un percorso che ha intrecciato l’intervento per la riattivazione di pozzi e di distribuzione dell’acqua, con la costruzione di un centro di appoggio alla vita comunitaria, in cui i cittadini di Kerchaou hanno sviluppato, anche qui in collaborazione con associazioni e gruppi di volontari italiani, diverse attività di formazione e comunicazione creativa capaci di coinvolgere le diverse generazioni e i diversi gruppi della comunità. Due percorsi differenti di sostegno allo sviluppo che partono però, a mio avviso, da tre principi comuni: la collaborazione come alternativa alla donazione, lo
scambio come opposto dell’aiuto, il tempo e la conoscenza come antidoti alla velocità e all’ansia del successo. Tre principi che sostengono due progettualità il cui scopo principale risulta essere in fondo quello di suggerire la riscoperta di dignità e capacità di quei territori e di quelle tradizioni, da cui fuggire non è una soluzione, ma un rischio. Quelle stesse dignità e capacità in cui è altrettanto sbagliato chiudersi e da cui può essere invece di grande importanza partire per attivare dialoghi con storie e luoghi lontani, in cui non è sempre necessario fuggire. Il passato non può essere per la Moldova solo tempo buio di una dittatura da dimenticare, ma è anche bagaglio di esperienze e modi che non possono essere cancellati e che possono invece essere migliorati; così come il deserto non è nemico dei contadini di Kerchaou, ma è terreno naturale da cui imparare a ricevere l’acqua e di cui continuare a conoscere i colori, le tracce e i silenzi. Sasha di Cahul ha studiato per cinque anni psicologia e pedagogia e da circa un anno lavorava al centro per bambini disabili della sua città: a fine giugno ha invece deciso di licenziarsi. I motivi sono essenzialmente due: la rigidità e lo stile antiquato dei dirigenti del centro con cui non riusciva a dialogare per creare nuovi modi di intervento e la quasi totale ininfluenza del suo stipendio, circa trenta euro al mese. «Io sono profondamente innamorato del mio lavoro come operatore psicosociale» mi ha raccontato Sasha, «ma mi rendo conto che in questo mondo non ha alcuna importanza: la mia famiglia vive molto meglio con i soldi di parenti emigrati in Europa che con il mio stipendio di giovane altruista. L’unica cosa che oggi mi dà la forza di rimanere qui è la speranza di trovare nella collaborazione con altri ragazzi che fanno il mio lavoro e con associazioni italiane ed europee come ICS il coraggio di insistere in azioni che so
quanto sono fondamentali per la società moldova, ma che sembrano invece dover scomparire. È davvero meglio per la Moldova che io venga a fare il muratore a Treviso?» Sasha sta lavorando in questi mesi, insieme ad altri tredici ragazzi, nei percorsi di formazione di YASEM e sta scoprendo linguaggi e modi di azione che da tempo sognava di poter incrementare: «Ho usato il video per conoscere e avvicinarmi ai senza fissa dimora qui a Cahul, come Olga e Ala stanno facendo con i bambini di strada a Beltsy, Slava con la solitudine degli anziani a Straseni o come Maxim e Lilja faranno tramite il teatro con ragazzi e ragazze omosessuali a Chisinau: sono percorsi nuovi, in cui non poco conta la collaborazione e il dialogo con i gruppi italiani che stanno partecipando con noi allo YASEM.» Non so quanto durerà l’entusiasmo di Sasha, ma quello che è certo è che se prima o poi dovesse decidere di scegliere la strada dell’emigrazione, sarebbe una grande sconfitta per tutta la Moldova e un grande successo per chi preferisce che questo sia il destino di Sasha e di molti altri illusi sognatori. Nel frattempo lui continuerà a muoversi nelle vie di Cahul e lungo le colline e le campagne che segnano tutto il territorio della piccola repubblica postsovietica. Un po’ come il cammino lento e dondolante del vecchio Bel Guacem che in Tunisia mi ha guidato a vedere i suoi nuovi campi di sorgo che quest’anno, grazie al nuovo pozzo, hanno dato un raccolto di trenta o quaranta volte superiore a quello degli altri anni: «Tra poche settimane porterò questo raccolto al mercato di Djerba» mi ha raccontato tra l’arancione della sabbia e il verde dei melograni, «e con quei soldi potrò restituire il credito del pozzo, nonché comprare nuove pecore e almeno un altro mulo forte come quello» mi confida indicando il suo mulo che pascola sotto una grande palma da datteri. I datteri saranno pronti dopo l’autunno, ma i fichi a Kerchaou sono già buonissimi e sono Lazhar e Amor a farmeli assaggiare
in una pausa prima dell’installazione nel centro di Alisei del primo laboratorio di internet della storia dell’oasi. A metà agosto, infatti, i volontari del gruppo italiano Prodigi (un’associazione italiana attiva sul fronte delle diseguaglianze digitali), hanno donato al centro cinque computer, portati dall’Italia e predisposti, con software libero Linux, per la connessione in rete: «Dicono che in internet c’è tutto il mondo e che tutto il mondo può entrare in internet» raccontava Lazhar. «In realtà in nessun motore di ricerca esiste nulla sulla nostra Kerchaou: da oggi invece, grazie a questi cinque computer e alle conoscenze che i Prodigi ci stanno trasmettendo, il mondo se vuole può conoscere Kerchaou, il nostro paese e il nostro centro, questa piccola grande casa del deserto in cui tutta la comunità sta portando e costruendo i suoi sogni.» Quella stessa comunità che, mentre i computer del centro si connettevano per la prima volta con la rete globale, festeggiava i nuovi sposi assiepata nel campo dove venti cavalieri si sfidavano in una corsa di festa e tradizione: a dimostrazione che globale e locale possono essere i poli di un dialogo e non necessariamente di una fuga. Si intrecciano ancora i ricordi dei grappoli di ciliegie nelle mani dei bambini lungo la provinciale per Cahul con il tramonto rosso e blu sul tetto dello ksar arabo di Ouled Soltane, i sorrisi dei bambini di Beltsy di fronte alla videocamera di Olga con lo stupore dei ragazzi di Kerchaou incollati ai monitor del centro, la rabbia e il sogno di Sasha con la gioia e la tenacia di Bel Guacem e Lazhar.
Senegal, Burkina Faso, Ghana 2004
Senegal – Prima Tappa Lettera da Dakar e Touba Cari mamma e papà, cosa stiamo facendo qui in Senegal? Cristina dice sempre che stiamo facendo un viaggio nella musica senegalese… Io sinceramente ci credo poco e credo che stiamo incontrando una decina di musicisti che hanno tra loro tre cose in comune, oltre all’essere tutti in Senegal: la quotidianità con cui vivono la musica, la dignitosa povertà delle loro condizioni di vita e il loro legame con la tradizione musicale dell’Africa occidentale. Mi piace confondere le idee e lasciare che i nomi prendano il posto delle descrizioni, sperando che i loro suoni suggeriscano già qualcosa: Baye Moussa, Hadjm, Max, Ndiru, Pakata, Oumar Jom, Falou, Badou, Ziggy, Djali. Il viaggio, il nostro quantomeno, è iniziato a Dakar, dove appena arrivati siamo stati catapultati da Stefano e Vania, amici che da oltre tre anni lavorano con gli artisti che stiamo raccontando, all’interno di una casa piccola, viva, buia e un po’ sporca di uno dei mille quartieri popolari della capitale: una corte quadrata, circondata da cinque stanze di nove metri quadri l’una, abitata da almeno quattro nuclei familiari più qualche amico-ospite e sovrastata da un terrazzo di polvere e cemento in mezzo a palazzoni di tre quattro piani e strade di sabbie. Per noi era riservata una delle
cinque stanze, quella di Ndiru, il giovane bassista dei Music Fall, il gruppo che in quei giorni si era trovato in quella casa per incidere con Stefano i loro primi tre pezzi. Due giorni di prove senza sosta, con sei, sette, a volte dieci persone dentro una stanza di nove metri quadri schiacciata sotto il terrazzo di cemento nel sole di Dakar: un inizio a pieno ritmo, senza il tempo di chiedere, pensare e forse neanche di capire. Grandi piatti di ottimo riso al pesce, mangiati per terra nella stessa stanza delle prove, l’acqua del rubinetto raffreddata con un sacchetto di ghiaccio da venticique CFA, i materassi di gommapiuma, il bagno comune, la doccia con i grandi secchi di plastica cinese, il tabacco mauritano e ore, tantissime ore di tam tam, acuti e cori. Non c’è il tempo di domandarti se va bene, se ti piace, se sei accettato, se accetti: ti infili dentro la stanza, saluti tutti, improvvisi il francese come lingua di scambio e lasci che il tuo strumento, la videocamera, si intrecci ai loro. O così, o scappi. Poco dopo però, la sosta: scopri che sul terrazzo alla sera fa quasi freddo, che ci sono due vecchi sedili di una Opel Corsa abbandonati in un angolo e che le voci, i suoni della città rallentano uno alla volta, facendosi eco e accompagnando l’odore dell’oceano verso l’inizio della notte. È questa la più grande differenza con il nostro mondo: i canti, le voci, i tamburi, la musica non sono disturbo della quiete pubblica. Se non ci fosse il rincorrersi delle note da una finestra all’altra, se i canti religiosi dei Baye Fall non si confondessero con l’altoparlante del muezzin, allora sarebbe il caso di preoccuparsi. Ma d’altronde il meccanismo è molto semplice: più le stanze sono piccole e affollate, più il mondo esterno sarà invaso dalla loro vita e dai loro suoni. Se invece sono grandi e comode, il mondo esterno rimarrà vuoto e silenzioso. Non è questione di meglio o peggio, è una questione di osmosi, fisicità delle cose.
Voi sapete bene cosa a me piace di più. Siamo rimasti a Dakar tre notti, dormendo le prime due in quattro sul materasso matrimoniale di Ndiru (come si fa? È semplice, basta girare il materasso e stendersi lungo il lato corto: i piedi rimangono fuori, ma il corpo riposa lo stesso), e prendendo invece una stanza in più per l’arrivo di Cristina, che dopo dodici ore di aereo aveva diritto a una ospitalità più gradevole e meno inutilmente eroica. Giovedì mattina, con ancora nelle orecchie i ritmi degli djembe di Papis, negli occhi il volto del canto tremante di Hadjm e nel naso l’odore balsamico del caffè tostato con i semi di garofano e la cannella, abbiamo lasciato Dakar, seguendo la scia dei mille car-rapid colorati direzione Touba. Touba è la città sacra dei Mouride, la congregazione islamica fondata da Ahmadou Bamba nei primi del Novecento come base di sostegno popolare della sua contestazione-contrattazione con il potere francese. È una sorta di Lourdes o Medjugorje, un villaggio di poche anime diventato il centro di ampi e oppiacei business religiosi, di cui tutto il mondo è pieno. Al centro di Touba c’è la grande moschea mausoleo di Bamba, sovrastata da un minareto enorme, che molto ricorda i nostri campanili tardo gotici e che qui chiamano Lamp Fall. Fall è il nome di una famiglia di capi Mouride molto importante, a cui diede il nome, sempre agli inizi del 1900, Ibrahima Fall, seguace e socio di Bamba che ebbe la geniale idea di inventare una setta religiosa che fosse in grado di unire due caratteristiche apparentemente inconiugabili: essere utilmente al servizio del mouridismo e dei suoi capi Marabout (da me blasfemamente ribattezzati Farabout), senza gravare i fedeli di eccessive e fastidiose regole. I Baye Fall, seguaci di Ibrahima Fall con cui abbiamo avuto diversi contatti, vista la passione spirituale di Stefano e Vania
(che si fanno tra l’altro chiamare Moustapha e Seinabou Fall), dicono che Ibrahima, il loro capo supremo, abbia ottenuto da Ahmadou Bamba per loro il diritto a non dover rispettare alcuni canoni fondamentali dell’Islam (le cinque preghiere, la moschea, l’astemia, il velo e altre noiose regole arabeggianti), in cambio di due semplicissime cose: cantare il nome di Allah con la sola voce dei cori Zykkr e mettere a disposizione delle giornate di lavoro per il proprio Marabout. Devo dire che tra le varie furbizie religiose che ho incontrato in vita mia, questa è sicuramente una delle più scaltre… Mentre scrivo è venuto a trovarmi Husejn, uno dei ragazzi con cui siamo stati sia a Dakar che a Touba e mi ha raccontato estasiato i quattro giorni passati a Khelcom, il campo di lavoro dove i Farabout portano migliaia di Baye Fall a lavorare per loro: «È stato bellissimo, il corpo è spezzato e felice, ore e ore a lavorare nei campi di arachidi in mezzo alla foresta e sotto il sole, cantando e sudando. La mattina presto ci svegliavano e ci portavano con i grandi camion a lavorare nei campi fino a sera tardi, quando tutti i fratelli Baye Fall accendevano i fuochi e si continuava a cantare per ringraziare Dio. Davvero geniale, Andrea: se tu fossi venuto avresti avuto delle bellissime immagini.» Faccio fatica a distinguere nella mia mente le immagini di Husejn dall’iconografia classica delle piantagioni di schiavi, ma mi rendo conto di essere di fronte a un geniale equilibrio su cui poche famiglie di Fall e Mbacké (le uniche due famiglie a cui appartengono tutti i Marabout senegalesi) stanno costruendo il loro, per ora ancora piccolo, impero economico e politico. Ma questa è analisi: il racconto con la camera è altra cosa, è il dialogo tra due giovani Baye Fall in mezzo all’enorme cucina a cielo aperto delle Yaye Fall (le donne) che cucinano per il Magal (la festa), è il
viaggio di Baye Moussa nei car-rapid, sono i canti Zykkr nella notte folle del giovedì sera, i bambini che pregano, le mogli che si truccano e il sonno di migliaia di fedeli addormentati per terra intorno all’enorme moschea del Lamp Fall. I profeti dei Baye Fall sono Ibrahima, Bamba, Gesù Cristo e Bob Marley, un po’ come i rasta men, ma con la forte distinzione tra Cher Ibrahim e Hailè Selassiè, il vero errore, secondo loro, dei fratelli rasta.
Senegal, appunti in versi Ora, sull’airbus A330 dell’Air France posso scegliere: film cartoni video music solo music un altro film giochi solitari giochi finto comunitari telegiornali (non so di che paese) telegiornale francese documentari stile BBC un altro film ordinare un altro whisky un concerto stile MTV-unplugged l’itinerario del viaggio canzoni giapponesi
jazz americano etno-afro un film di Woody Allen. Raramente apro il finestrino. E bevo. Normale, no? Ore 10.00, Dakar Ora, Potrei incollare l’obiettivo a questo scheletro di gatto che cerca, con il volto nell’immondizia povera, del cielo sul tetto sporco e storto di Dakar. Cosa avrei fatto? Estetizzazione voyeuristica della miseria. Forse. «Ma il gatto è davvero lì ed è davvero uno scheletro sul tetto sporco di Dakar.» Ma io non descrivo, io voglio raccontare. Perché se non ho tempo descrivo e vendo le immagini per il solo merito di aver viaggiato. Altrimenti la descrizione non basta, è copertura di giudizi affrettati.
La storia del gatto. Oggi c’è ancora il sole a Dakar, ma il cielo è più azzurro, meno sporco di sabbia. Il vento è sceso e il mare è sottofondo ai primi rumori timidi della città: voci, passi, un martello e un gallo. Sul tetto della famiglia di Nadiru, uno dei gatti del quartiere, magro, molto magro e impaurito, festeggia. Ha ottenuto un intero sacchetto con i resti di ben due pranzi di riso al pesce per dieci persone. Un regalo di Allah o la distrazione di Nadiru? Poco importa, bisogna mangiare in fretta e godersi la solitudine del tetto e la tranquillità del mattino. La città ancora dorme. Pochi si svegliano. Il riso è stato offerto alla famiglia e agli artisti Baye Fall ospiti della casa, da Stefano e Vania, due italiani che si fanno chiamare Tafà e Nabu, e che danno lavoro ai musicisti fall, registrando le loro canzoni. Ore 20.30, Somone, Senegal
Ora il muezzin insiste. L’oceano continua a scorrere Friggono le sue onde. Ora il muezzin incupisce. I grilli chiamano l’estate. Il vento muove le tende. Ora il muezzin canta. Tamburi di fuochi per turisti o di battesimi Baye Fall. Ora il muezzin trema. Voci nasali wolof nel soggiorno, il commento francese della televisione. Ora il muezzin si allontana. Canti di donne e inni illallah uccelli acuti dalle lunghe code. Ora il muezzin insiste. Di nuovo
Lettera dal Gambia Cari mamma e papà, abbiamo lasciato Brufut la mattina dopo la Grande Lezione di Ismael, mentre lui iniziava lento e indisturbato il suo lavoro quotidiano: l’acqua del pozzo per lavarsi, l’acqua della vicina per bere, la doccia e una buona colazione. Alla colazione noi eravamo probabilmente già al porto di Banjul: tutti i trasporti creano attese in Africa e tutte le attese creano commerci. Se le stazioni dei car-rapid e delle Peugeot 7places di tutte le città
piccole e grandi sono piene di donne e bambini che mostrano ai finestrini delle auto sacchetti di arachidi, frutta, fazzoletti di carta, carote, profumi, saponi, sigarette, acqua, potete ben immaginare cosa possa essere lo scalo dell’unico ferry boat che collega le due sponde del fiume Gambia. A Banjul per andare a nord e ancor di più a nord per tornare a Banjul, salire con l’auto sul piccolo ferry può significare attendere anche tre, quattro o cinque ore: passano non più di otto auto e massimo tre camion per volta ed è l’unico modo per passare, ovvero l’unico modo per andare da Banjul a Dakar. Prima del cancello di ferro, che divide le auto che stanno per salire da quelle che devono ancora aspettare, c’è di tutto, quasi una piccola città: decine di banchetti di legno, donne cariche di stoffe, venditori di improbabili chincaglierie cinesi, bambini talibé che per lavoro chiedono la carità suscitando costantemente discussioni tra chi critica e chi supporta i loro Marabout, finti parcheggiatori, procacciatori di affari per i negozi, barbecue di pollo, fegato o pesce, enormi camion dondolanti, Jeep airconditioned di toubab e ong, suonerie di cellulari e pseudocellulari, calzetti, magliette e cappellini taiwanesi, incensi, tabacchi e succhi di zenzero, sacchetti d’acqua da dieci CFA, ghiaccioli viola di bissap, urlatori e oratori, cambiamonete e consiglieri, bigliettai e sintonizzatori di radio. Mi viene in mente Paolini e la laguna di Venezia: se arrivi a Malamocco e non c’è il vapore, l’unica cosa che puoi fare è aspettare, questo è ciò che cambia il tempo del vivere tra la terra ferma e la laguna. A Banjul, sulle rive del grande estuario che porta le acque del fiume Gambia nel cuore dell’Atlantico, i tempi sono gli stessi di Malamocco, ma gli spazi sono tutt’altro: pieni, caldi, brulicanti di voci, sudori, sguardi, mani e sorrisi. Sono tanti gli africani, vivono nelle strade e se c’è da aspettare non solo aspettano, ma magari anche si fermano.
Il ferry boat comunque prima o poi parte, lascia le piroghe lungo le coste, si infila tra i due o tre grandi mercantili del porto e inizia a borbottare, gasolio e pistoni, sulle acque veloci dell’estuario. L’aria è densa, il cielo è pesante, ma il vento dell’oceano allontana le zanzare e regala respiro alle decine di corpi che riempiono tutti gli spazi della nave. A venti, forse venticinque chilometri dal porto nord di Banjul, lasciate alle spalle le mille bancarelle di legno della Città dell’Attesa e percorso l’ultimo tratto di asfalto, terra e buchi, si arriva alla frontiera improbabile tra Gambia e Senegal. Ci dovrebbero essere due dogane e due stazioni di polizia, ma a quanto pare da queste parti si evitano gli sprechi, e una delle due è sempre chiusa. Un poliziotto gambiano all’andata ci aveva chiesto di aprire tutte le valigie, pur limitandosi a guardare e non permettendosi di toccare, al ritorno tutto è andato liscio e ci siamo rinfilati nelle piste di terra e polvere della brousse senegalese fino alle grandi saline di Mbour e di nuovo nella laguna di Somone.
Burkina Faso, appunti in versi Ore 13.50, Ouagadougou Ora il caldo è immobile la piccola radio a pile ha finito la musica, le biciclette blu Peugeot seguono la terra, rincorrono le moto. La lamiera delle pentole striscia, la paglia quasi scricchiola
e le piccole foglie del nostro albero sono l’unico vento di questo caldo. Le figlie si sdraiano sul legno ridono e parlano di me, in djola mi salutano, chiamando un mio sguardo felice di padre. S’incolla a me il volto straniero e sincero di un vecchio ciclista che diventa film, sullo sfondo sabbia della casa di fronte. Ora la voce unica del telegiornale rallenta il caldo e lo zenzero rimbalza ancora sul mio palato silenzioso. Ore 17.30, Bobo-Dioulasso Ora Madò porta mia figlia a vedere la danza. Le donne sotto il mango colorato discutono. Ridono. Anche loro. Ridono tutti qui. Naser dice che se continuano a ridere finiranno tutti per essere rinchiusi nelle case per matti. Naser vive a Ouaga, Tanguin Ouaga. Noi invece siamo a Bobo. E la terra è rossa a Bobo. Le donne
sotto il mango verde discutono sulla terra rossa. L’unica seduta su una sedia blu ha gli occhiali a punta stile anni Cinquanta e un fazzoletto con fiocco rosa in testa. Ora la ascoltano, non ridono più e la danza probabilmente è già iniziata. Ore 16.15, Bobo Dioulasso Ora dicono che devo imparare il djolà. Il guardiano ballerino del centro ha indicato la luna calò e poi le stelle lolò la casa bou il cane ubu. Suoni quasi monosillabici che rinnovano ogni giorno in me
la lotta contro la mia cultura, quella perversa e radicata che incolla questi popoli all’inferiorità della nostra chiusa superiorità. Mi ritrovo a dover scuotere la testa cercando la luna, calò e le stelle, lolò. Ore 17.00, Bobo Dioulasso Ora la polvere si alza, è nuvola di fumo, si stacca dalle scarpe, veloci, e si incolla rossa nel sudore e nella bocca, secca. Sono decine e decine in questo campo di sabbia e silenzio. Un albero, dieci arbusti, tutto il perimetro è muro, rosso come la terra. Sotto l’albero motorini, biciclette
una panca e un grande pneumatico bucato. I corpi tonfano sulla terra, pelle tesa di ossa e muscoli, l’acqua è un bidone blu o una signora che accucciata, aspetta la pausa per vendere. Ore 17.36, Bobo Dioulasso Ora due impiegati sulla panca discutono sbriciolando arachidi sulla sabbia confabulando soluzioni per campionati lontani. L’odore di pioggia si avvicina in fila lungo il muro il pubblico è di uomini e motorini. I corpi urlano, corrono, lottano rotolano, ridono, sfidano: il loro suono è l’unico, oltre al tintinnio cupo dell’acciaio che smonta i tir del parcheggio vicino. Nuvole bianche e vento fresco, in Costa d’Avorio piove, gli alberi si gonfiano, i corpi cadono, rotolano, scontrano e non si fermano. Impeccabili tailleur grigi
gli impiegati continuano a sbriciolare arachidi e parole di calcio. Ore 00:00, Bobo Dioulasso Ora la buvette dietro casa sfida la notte, lascia la radio vibrare di voci e note, affida al vento alte frequenze e non interroga il nostro sonno. Ma l’aria è fresca e so che rimarremo circondati dal buio della città, dal tremare dei motorini che uno a uno dondolano tra le buche della terra. Rap, base ripetuta, insistita, cori all’american boys, il fratello jamaicano sembra essere scomparso, Kaya Man preferisce non ascoltare. Non c’è armonia di improbabili mie Afriche, ma l’intreccio costante di soluzioni, trattative, furbizie e sorrisi: la musica segnale di vita o di arroganza? La base elettronica non cambia, cresce la voce quasi maghrebina, quasi araba, e la piccola teiera di latta prepara nella corte l’unica alternativa alle emissioni radio. Nulla è silenzio, tutto scorre (nulla è fascino)
e questa notte non fa nemmeno caldo.
Ghana – L’Africa del calcio Domenico: «We are looking for diamonds and then we sell them. But we do it since old time.» Irvin: «You have the right telephone number.» (Domenico: «Cerchiamo diamanti e poi li vendiamo. Ma lo facciamo da tanto tempo.» Irvin: «Avete il numero di telefono giusto.») APPIAH
guadagna un milione e duecentomila euro
l’anno. Domenico parlando con Opelele e Batiz, due giocatori di Intermillas che l’agenzia di Domenico AFM (African Football Management) sta cercando di piazzare in Italia e in Polonia. «I want to make money on you. We need to build the houses for the academy. We are making business on you. And also you, you need your money.» («Voglio fare soldi su di voi. Dobbiamo costruire le case per l’accademia. Stiamo facendo del business su di voi. E anche voi, voi avete bisogno dei vostri soldi.») Il calcio è essenzialmente business. Domenico non è uno schiavista, ma utilizza la regola numero uno del capitalismo: ridurre le spese di produzione per accrescere i guadagni. Lo fa in due modi e per due motivi. 1) L’Africa è meno cara e di conseguenza o SOPRATTUTTO i giocatori non solo costano poco, ma addirittura non costano. Sono i presidenti dei club locali a pagare perché Domenico prenda i giocatori.
2) Ritmi, modi, stili e tempi sono meno stressanti che in Europa. E questo per uno come Domenico è guadagno. I giocatori? Sono la comunità che meglio rappresenta in questo momento storico la classe proletaria povera che non ha nessuna voglia di incazzarsi, ma semplicemente sogna la ricchezza. È la quintessenza della vittoria dell’imperialismo occidentale, mai come ora sulla cresta dell’onda dal punto di vista culturale in queste terre di assoluta non resistenza. Non raccontiamoci palle: Non ho visto e credo che difficilmente vedrò entusiasmanti spontaneismi, colorate ingenuità o purezze calcistiche. Ho visto ragazzi che non studiano, non lottano, e non sognano se non l’unico fottuto Eden artificiale: il calcio in Europa (o al massimo in Asia e in Nord Africa che pagano di più).
Il divertimento sta nel tifo, nella tensione emotiva, nella musica allo stadio e nelle figure che gravitano intorno alle partite senza far parte del mondo del calcio in sé: tassisti, parrucchieri, vescovi, imam e venditrici di banane. Folklore: che qui per fortuna è ancora molto più vivo e più ricco che in Europa. Per due motivi: 1) sono più caldi e socievoli; 2) sono più poveri e liberi. Ma nel calcio, all’interno del mondo calcio, non c’è nulla di straordinariamente diverso e affascinante. Ci sono centinaia di figli dei quartieri poveri che provano l’unica forma di rivincita che gli viene in mente: cercare di diventare ricco come pochissimi altri. È triste, ma è la maledetta realtà e questo bisogna raccontare. Il resto è colore, diversità, emozione di un mondo che ha almeno la musica per sorridere, ma che ha smesso di arrabbiarsi, lottare o sognare: il mondo della maggioranza povera del mondo. Non pretendo di dire a qualcuno che si deve svegliare, ma so di poter mostrare che
l’unico sogno che ha è un finto sogno, fatto per distrarre e rintontire. Le conseguenze sono liberi affetti. In cifre. Un giocatore di vent’anni in Burkina guadagna, solo se gioca in prima divisione, circa venticinquemila CFA al mese. E probabilmente solo se gioca in una delle prime cinque squadre della prima divisione. 25.000 CFA sono 37 euro. Se riesce ad approdare a una squadra di serie C1 in Italia guadagna come minimo 1500 euro al mese. 1500 diviso 37 fa 40,5. Ovvero guadagnerebbe 40,5 volte in più dello stipendio burkinabè. In Ghana non conosco esattamente le cifre, ma so che Appiah da quando è in Italia, anzi da quando le cose gli vanno bene in Italia (ossia circa due o massimo tre anni) ha comprato tre case e ha cambiato la vita ad almeno cinquanta persone intorno a lui. IO:
«Mi piacerebbe poter andare con Stephen il giovane a vedere il suo quartiere, la sua casa, la sua quotidianità. Magari mercoledì mattina.» DOMENICO:
«Attento. Questo vuol dire mostrarti la sua vergogna, la sua povertà.» Domenico vuole fare un film su se stesso. Questo permette una significativa quantità di spudoratezza nel suo raccontarsi. Siamo alle solite. Un maestro prende anche in Ghana cinquanta euro al mese.
Al fast food per internazionali abbiamo pagato dieci euro a testa, forse un po’ meno. Un piatto di riso e pollo per occidentali costa due euro. Un giocatore delle quattro squadre più forti può arrivare a centocinquanta-duecento euro massimo al mese. Non si può parlare di mese. Il salario è cinquanta-sessanta euro. I premi partita possono salvarti. Arrivano a cinquanta-sessanta euro a partita, se vinci. Poi ci sono le partite speciali – così le chiama Irvin – e allora se vinci hai anche centocinquanta euro. In Ghana girano più soldi, molti più soldi che in Burkina, ma la situazione per le classi povere è la stessa. E i giocatori fanno sempre parte della classe più povera. In seconda, terza divisione non prendono nulla. Nelle squadre di media e bassa classifica in prima divisione non vanno oltre i sessanta euro al mese, che comunque è più di quanto prende un maestro. Ma se giochi a calcio, non vai a scuola. Domenico vedrà in questi cinque giorni oltre centocinquanta giocatori o forse più, ma poi ne sceglie solo tre e di questi forse uno verrà venduto. Ma quell’uno vedrà qualche soldo solo dopo anni di gavetta in chi sa quale paese dell’Europa dell’Est. Polonia, Romania, ex Jugoslavia o in quale difficilissimo paese della Padania più profonda. Cologna Veneta, Ospedaletto Lodigiano, Montebelluna, Adria. Il nostro film parlerà di questo: squilibri, soldi, divari e uno strano, difficile amalgama di ingiustizie,
elitari sogni e business.
Ghana – L’Africa del calcio 2 Forse per il modo con cui sono arrivato qui o forse perché sono loro i protagonisti attivi del calcio, più dei giocatori, i manager confusi, apprendisti e filobianchi del calcio locale, non possono essere esclusi dal racconto. E se escludessi totalmente i giocatori della nazionale? Loro sono la punta dell’iceberg. La classe è la marea di ragazzi, le loro famiglie, i quartieri, nonché le tracce, gli intrecci, il lavoro dei manager che hanno la costante paura di non controllare. Non conoscere tutte le mosse per poter trovare il diamante. Non mi interessa avere un eroe o finto eroe che fa il grande campione, mi interessa il mondo intorno a lui. Domenico, Salim, Dodo e Irvin sono il mondo del calcio, come lo sono Stephen, Ernest e mille altri. Poi c’è Neel che è lo scarto: il mondo del calcio produce l’iceberg, ma anche e soprattutto gli scarti. Non è facile decidere perché il tempo scorre sempre. Ma in questo momento le Black Stars (la nazionale ghanese) sono la cosa meno interessante. Diventano sempre più un pretesto, come lo è il folklore intorno a loro: il tifo africano è più colorato e vivo, ma non ha nulla di più affascinante del tifo italiano, se non la diversità. Ma non voglio esotismi. Voglio la realtà.
La realtà sono Domenico, Salim, Irvin, Stephen Jr., Ernest, Louis. Non gli stadi e i tamburi. Non vedo l’ora di parlarne con Madò, Francesco, Andrea e Laszlo.
Ghana, appunti in versi Ore 16.30, Accra Ora le eliche sul tetto accelerano, vento artificiale di apocalittiche citazioni, inutile foga di immobili accelerazioni. Inizio a svegliarmi, a digerire la notte di viaggio e attese, a capire che questa è Accra e che qui devo decidere. Oltre la città, verde, l’oceano all’orizzonte è grigio. La terra arancione. Jesus, god, we trust, peace e Coca-Cola. Ecco la terra dell’oro di religiosa memoria, la meta faticosa di improbabili ritorni alle origini.
Grassi americani neri dondolano negli hotel. Pedicure, manicure, communication e Fanta Lemon. Jesus is with us send a fax. Fogne e canali, strade segnate dalla pioggia, pelle umida e gocce di sudore, pubblicità di religiosi commerci e di commerciali religioni. Sei squadre hanno giocato sotto il sole equatoriale dell’una, Domenico dice di aver scelto, i miei occhi ancora si appannano. L’unica certezza il rispetto. È che qui devo decidere. Venice-Ouaga, le vie improbabile del reggae, Stephen e le Black Stars, President Ismael e il viaggio verso il Mali, Sotigui e il moderno foot business. Ripeto intrecci e invenzioni nella mia mente di viaggiatore, cerco soluzioni e speranze nella mia mente di insoddisfatta tensione. Ma anche qui l’Africa non riposa i suoi rumori e solo
io sorrido nella mia mente di padre. Ore 15.00, Accra Ora non so chi odiare, loro per avere e essere tutto ciò, o me per non saperli conoscere senza voler subito fuggire. Bianchi, libanesi, asiatici e qualche nero, ricchi sollazzatori di privilegi dominanti minoranze inevitabili padroni. Palme, piscine, sedie a sdraio, creme, birre, fontane, chalet svizzeri braccioli, cocktail, ombrelloni e arie condizionate. «L’altra Africa», sorride Domenico entrando al Labadi Beach Hotel. «Bisogna saper frequentare il potere.» Io no. Semplicemente no. Penso a mamma Agnès, a presidente Ismael a Vincent e Pakata, alla famiglia Djeli e qui non riesco a stare. Il troppo è il segno dell’ingiustizia.
Il Ritorno Ore 8.30, Parigi-Roma Ora le nuvole sono un tappeto bianco nel cielo azzurro. Non c’è traccia d’Italia o Europa qui sotto ma tutt’intorno. dentro quest’ultimo aereo sì. Cambia tutto, scompaiano i bambini, scompare la pelle, scompaiano gli sguardi e le mani. Adulti, cinquanta-sessant’anni, puliti lavoratori dell’efficienza mirabili intelletti dell’utilità. Leggo o sfoglio i giornali, il mondo è di nuovo di corsa, strabordante di importanze preciso di priorità e prestigi. Il cammino riprende diverso, marcia veloce di competizioni, il corpo è tirato, teso,
conosce il peso della necessità e dell’incertezza. Storie raccolte nel sole e nella terra, e occhi sbarrati, in giornate di attesa e domande, ora devono servire. Se rimangono, loro, le storie, respiri di vita e viaggio, non sono utili alla marcia veloce di necessità e competizioni. Il corpo lo sa ed è teso, schiacciato. Scompaiano i bambini, scompare la pelle, il mondo è di menti, titoli e cognomi. Non c’è pace per chi ha cercato le differenze. Il racconto e l’azione sono le uniche difficili e amare alternative al silenzio della rabbia al silenzio delle evidenze.
Italia 2004
Laboratori di Realtà Ho passato tre serate a guardare la televisione. Era molto tempo che non mi capitava. Ne sono rimasto impaurito e terrorizzato. Molto di più di quanto potessi immaginare. Nausea di imbarazzo e tremante paura all’idea del nulla a cui possa arrivare la vita della mia vicina di casa che, lo posso assicurare visto quanto è piccolo il loculo romano in cui per ora vivo, tiene acceso Canale5 per tutto il giorno. Non mi vergogno affatto della banalità della mia sensazione, proprio perché di tale sensazione si tratta. Sento nella pelle che contenuto e forma della stragrande maggioranza dei minuti televisivi hanno raggiunto un livello davvero preoccupante di impoverimento culturale e di inebetimento di massa. Ho avuto in queste tre sere una chiarissima e corporalmente insostenibile sensazione di schifo. Il mio corpo mi ha chiesto di chiudere gli occhi. Esiste poi, in questo mio tentativo di purificazione anche un lato analitico, anch’esso caratterizzato da una inevitabile banalità: la caratteristica primaria di tutti o quasi i contenuti televisivi è evitare di raccontare la realtà. Tutto deve essere venduto tramite spettacolarizzazione, stereotipizzazione, distrazione, mitizzazione o altre forme di approccio che evitino di porre l’individuo in una relazione dialettica e conoscitiva e che, invece, lo portino a un
destino preumano di passività, in cui attendere fortune e distrazioni o tentare di comprarle. È quanto mai necessario, se vogliamo uscire dall’era buia del berlusconismo maturo e dilagato, ribellarsi al vuoto della finzione (che domina, con meccanismi di monopolismi culturali imperiali, anche il mondo del cinema) e proporre alla gente spazi di confronto con il reale, che vadano dal racconto al luogo reale. È quanto mai necessario percorrere questa strada, prima che si arrivi a convincersi che non esista più.
Chioggia, Alba Chioggia, ore 07.35 Quando parti, o ancora meglio quando sei già partito e sai di essere partito, scoprire di avere delle radici non fa paura. A tratti rilassa. È bella, silenziosa e dondolante l’alba a Chioggia. Sarà grazie alla radio accesa di un vicino che trasmette classici acuti di lirici tenori, o semplicemente grazie all’acqua e alla luce dolce, arancione e bianca del primo sole. Sembra ancora vecchia e addirittura ancora povera, a volte. La zia guarda sempre il cielo, ascolta sempre il vento e dice sempre di riconoscerne i segni, di capirne i significati: deve aver fatto brutto tempo, l’aria viene da terra, le nuvole da est non arrivano. È la laguna a fermarle, perché la laguna può anche fermare le nuvole. Il mondo è pieno di Chioggie. Di pescatori e contadini, di falegnami e pastori, di vinai e fumatori di
pipa. Ci sono terre dove il cielo è leggero, colline verdi, quartieri densi, lagune immobili: il mondo è pieno di Chioggie. Ma io, o forse “e io” ho la mia. La tua Chioggia funziona più o meno così: da bambino la vivi come naturale, quasi necessaria, da adolescente diventa pesante, a diciassette anni scappi, a ventidue torni con la puzza del folklore sotto il naso, verso i trenta inizi a capire. Alla fine succede che inizi a invecchiare. C’è del vento strano questa mattina, ha ragione la zia, deve aver fatto brutto tempo da qualche parte, verso terra.
Tunisia 2005
Kerchaou Omar, il più timido e silenzioso dei ragazzi, ha proposto al laboratorio la necessità di avere anche un personaggio di rottura, un simbolo di instabilità, la personificazione storica e sociale della debolezza umana, di fronte al baratro tra deserto e sogni parabolici. Omar ha proposto di inserire anche il suo omonimo Omar Agrebi, quarantenne padre di famiglia e umile guardiano di un cantiere che dopo una sfortunata esperienza di emigrazione ed espulsione, continua con disperata convinzione (o convinta disperazione) a sognare nella fuga l’unica speranza di futuro per sé e per i suoi figli. Omar (il nostro Omar) è stato chiarissimo, quasi limpido: nonostante la sfortuna passata, nonostante i suoi quattro figli, Agrebi vuole solo ed esclusivamente una cosa dalla sua vita, emigrare. È questa assoluta fiducia in una soluzione disperata che colpisce l’attenzione di Omar: esistono le migrazioni progettuali come quelle dei figli di Amar o i desideri e fascini di adolescenti libertà, ma sono l’emigrazioni di ignoranza e abdicazione (l’assoluto: “io parto” così magistralmente raccontato da Troisi) che costituiscono secondo Omar il volto profondo del fenomeno di più intensa innovazione nella cultura di Kerchaou. Ed è tutt’altro che casuale l’origine della proposta: Omar fa parte del gruppo di venti ragazzi di Kerchaou che pochi anni fa ha perso migliaia di dinari per essersi
affidati ciecamente (abdicazione) a fasulli venditori di visti. La proposta di Omar è stata accettata dagli altri quasi con rispetto, ma subito hanno sentito necessaria l’introduzione di un quinto personaggio, contraltare (in una classica ricerca dell’equilibrio etico) del significato affidato ad Agrebi. Abdallah Leboudi, operaio saldatore nei pozzi d’acqua, è testimone di un’esperienza di emigrazione simile a quella di Agrebi per volere storico, ma radicalmente opposta per eredità morale. In altre parole, Leboudi espulso nel 1995 dalla Francia non ha più alcuna intenzione di partire, convinto dall’umiliazione subita allora che il suo posto nel mondo sia nella terra dove può essere se stesso. I ragazzi semplificano magistralmente il tutto dicendo che Agrebi è «avec l’emigration» e Leboudi «contre l’emigration.» Il che pone con chiarezza la stessa domanda anche a noi, critici testimoni delle terre di accoglienza ed espulsione: siamo contro o a favore dell’emigrazione? O meglio: siamo contro o a favore dell’emigrazione vista da qui, dalla terra dove siamo scesi per sostituire la relazione di accoglienza/espulsione con quella di collaborazione? Come convivono in ciò che stiamo facendo le due volontà politiche sottese al progetto, quella locale e governativo di dare ai ragazzi alternative alla fuga e quella militante e ideale di superare il disequilibrio originario? Quando ripenso al vuoto, al buio, all’immobilismo delle serate di Tataouine, faccio fatica a respingere l’idea della necessità di fuga. Mi sembra impossibile contrastare l’evidenza del desiderio di evasione, la naturale tensione al cercare altro. Non si tratta
esclusivamente di bisogno di alterità, ma di essere spettatori di fascini distanti ideati e impossibili. Gli abitanti di Kerchaou non sono destinatari diretti delle illusioni in vendita, perché necessità delle illusioni è quella di essere osservate come potenzialmente raggiungibili. Creare consumatori non è un’operazione che preveda la completa accessibilità al consumo, ma è tensione per la quale sono necessarie condizioni minime di disponibilità al consumo. Io produttore di BMW devo poter immaginare acquirenti non che siano necessariamente proprietari di denari sufficienti, ma a cui non sia impedito indebitarsi follemente per realizzare il sogno della BMW. E meno istintivamente: io produttore o proprietario televisivo non posso immaginare spettatori che dispongono quotidianamente di una realtà molto simile alla fantasia da me irradiata, bensì spettatori che potrebbero accedere a una realtà simile a quella fantasia solo se almeno riuscissero, solo se almeno potessero, solo se almeno arrivassero… È questo “solo se” la benzina del mercato postmoderno. Tornando agli abitanti di Kerchaou, loro non vengono calcolati come destinatari delle illusioni, semplicemente perché la probabilità di un loro accesso alle illusioni è profondamente bassa: eppure pur essendo esclusi anche dal calcolo clientelare, non vengono esclusi dal flusso delle illusioni stesse. Le subiscono pur non essendone interessanti destinatari. La forza del mercato sta nel sapere sfruttare il “solo se” anche degli esclusi. La fuga apparentemente impossibile degli abitanti di Kerchaou verso l’illusione non è ostacolata dal mercato che, anzi, è sempre pronto a accogliere nuovi indebitati consumatori.
La fuga è ostacolata solo dalla politica, perché sa di dover faticare fortemente per reagire alle devastanti conseguenze che il mercato è disponibile a produrre sulle vite degli abitanti (dis)illusi. La fuga è ostacolata. E ciò determina nella storia la necessaria tensione, quella fondamentale tensione, capace di produrre paura, cambiamento, frustrazione, reazione e conflitto. Gli ostacoli alla fuga: l’inesplosione dell’energia, il contenimento dell’onirico. Questo tappo, questo coperchio sul bollore del desiderio è l’alleato apparentemente innaturale della produzione di illusioni. Riempire corpi, menti e ormoni di bisogni d’esplosione è in realtà azione incompleta senza la parallela creazione di ostacoli e coperchi all’esplosione stessa. Ciò che mi lascia tuttora esterrefatto, ma che continua giorno dopo giorno a dominare anche la mia stessa piccola vita, è la diffusa mancanza di rabbia. Io vorrei esplodere, vorrei fuggire, vorrei ballare, vorrei lottare, urlare, esprimere, raggiungere, diventare, congiungere. Io non posso materialmente ottenere e concretizzare, perché solo alcuni altri possono. Ma io non m’incazzo o quantomeno non organizzo il mio essere incazzato. Reprimo e attendo, organizzando tutt’al più lo sforzo, la fatica del progetto. Del progettare. Io esattamente come l’abitante di Kerchaou: siamo entrambi vittime disorganizzate e illuse di un sistema che nel frattempo fa perfettamente a meno di noi, spettatori del suo ininterrotto flusso di successo. E quando mi confronto con l’abitante di Kerchaou mi rendo conto di avere una principale differenza: io non ho comunità, il mio mondo è principalmente cerebrale. Per l’abitante di Kerchaou tutto invece si gioca
all’interno di una fitta rete di litigi, attese, pretese, redditi, posizioni, ruoli, affetti, compiti. Per me è tutto o principalmente legato al mio pensarmi, al mio giudicarmi. Io difficilmente avrò problemi economici seri, ma dovrò dimostrare cosa sono diventato. L’abitante di Kerchaou vuole invece raggiungere la mia condizione economica, convinto di poter in questo modo diventare altro. Io darò conto soprattutto a me, lui alla sua comunità. Ma di entrambi il mondo potrà non accorgersi, perché entrambi inseguiamo. Di entrambi il mondo potrà non accorgersi se entrambi continueremo semplicemente a seguire. Il motivo per cui mi metto spesso in viaggio verso Kerchaou è per proporre al suo abitante di non continuare semplicemente a inseguire. Incominciare a creare, a costruire fuori dal flusso. Propongo all’abitante di Kerchaou di interrompere il flusso e di scoprire che non c’è nulla da rincorrere, perché quel nulla verso il quale entrambi tendiamo ci appare pieno, ma è profondamente nulla. Smettiamo di rincorrere il nulla e camminiamo. Se l’emigrazione può essere cammino è umana. Se è inseguimento è vittima del flusso, è altro da sé. È disumana. Se il pensiero-azione può essere cammino è umano, se è rincorsa di moduli d’apparenza è figlio del flusso, è pezzettino dell’alienazione, è consumo. Sì, consumo. Solo il cammino ha dignità, ma per imparare a camminare o per difendere la dignità del camminare è necessario opporsi al flusso.
Niger 2006
Il racconto nasce dal viaggio che ho fatto all’interno del progetto “Sviluppo e gestione sostenibile dei flussi migratori provenienti dall’Africa” finanziato dalla DGCS del MAE e coordinato dal CeSPI e dalla SID. Molte delle storie qui raccontate hanno fatto parte del documentario “A sud di Lampedusa”.
Da Niamey al deserto Maggio 2006 Camminare con una temperatura media di quaranta gradi come a Niamey, capitale del Niger, a fine aprile, è fisicamente impossibile. I corpi e le vite si fermano. I più giovani resistono e si ostinano orgogliosi in mille piccoli sfortunati commerci. Le strade soffocano, la polvere si infila negli occhi e loro continuano ad accendere fuochi, friggere cialde di farina e acqua, arrostire polli, bollire riso, trasportare paglia, fieno e grandi pneumatici di camion. Dondolano le bacinelle verdi e gialle sulle teste immobili di bambine dalle piccole trecce di capelli e sabbia. Ti fissano, ti squadrano e nobili continuano il loro trasporto, il loro lavoro. Mentre noi continuiamo a costruire giustificazioni alle nostre lotte. Videocamere che denunciano, raccontano, testimoniano. Ricercatori, progetti, budget, aerei che portano e aerei che tornano.
Sorvolano il deserto. Dall’oblò il deserto sembra piccolo. Sembra una spiaggia rosa, interrotto di tanto in tanto da piccole ombre di nuvole e vento. Sabbia, come quella con cui giocava mia figlia pochi giorni fa al Circeo. In Italia. A cinque, forse diecimila chilometri da qui. E pesano tutti. Uno a uno. Diecimila chilometri che dividono popoli, storie e città a distanze storicoeconomiche siderali. Qui in Niger quasi tutti vivono con meno di un euro al giorno. Al Circeo la Coca-Cola che abbiamo bevuto per digerire l’abbacchio di Pasqua, prima di portare Agnese a giocare con la sabbia, costa un euro e mezzo. Qui Agnese avrebbe il venticinque per cento di probabilità di morire entro il 2009. Però giocherebbe tutti i giorni con la sabbia. La sabbia delle strade, non del deserto. La sabbia con cui sono costruite le case. La sabbia dove i bambini crescono, imparando a evitare i motorini e a disinteressarsi della plastica. Sacchetti, sacchettini, borse, borsette. Tutto è di plastica e la plastica è ovunque. Anche lungo la strada che taglia la brousse fino al deserto. Ed è lì, quando arrivi al deserto e pensi che lungo quell’orizzonte lineare, immobile, tutto sia ormai finito, è esattamente lì che invece scopri Agadez. Città di intrecci, mercanti, traffici, dove il business del turismo per riscaldare gli inverni occidentali convive senza immodestia con quello ormai esperto del trasporto di clandestini verso gli eldoradi occidentali. Agadez mi ricorda Atoz. Il guardiano della biblioteca, il luogo dove tutto ha parola, ha voce: Dalla A alla Z. A to Zed. Tutto trova un significato, ogni viaggio può cominciare. Gli esotismi della teina bertolucciana si confondono improbabili con la pelle sporca di sabbia di moderni nomadi delle migrazioni transfrontaliere. Clandestini. Mentre la trentenne
biondina francese attende profumata il principe Tuareg, i passeur segnano gli spazi del loro controllo nel parcheggio rovente della gare routière. Da lì partono i taxi brousse verso sud e i camion o i pick-up verso nord. Nord. A nord del Niger c’è la Libia. E a nord della Libia c’è l’Italia. L’Europa. Il Nord. In mezzo ci sono il deserto e il mare. Qualche volta sono loro a vincere. Ma comunque vale sempre la pena tentare. Anche solo il deserto, perché la grande maggioranza dei nigerini non puntano all’Europa. Conoscono il deserto, ma temono il mare. La Libia è già sufficientemente conveniente: «Ci sono più turisti che ad Agadez. E comunque anche i libici sono più ricchi» mi ha spiegato uno degli artigiani Tuareg scaricati alla dogana di Agadez dal pick-up che ho avuto la fortuna di filmare. Un puzzle di secchi persone e turbanti. Nuova icona della migrazione globale dopo la scomparsa o meglio la decadenza dei gommoni schipetari (albanesi). Simbolo immediato dell’ennesimo spettacolo del dolore, adatto a condire i telegiornali provinciali delle società del consumo. Quando il pick-up carico di “clandestini” è entrato nell’inquadratura nulla ha potuto il filtro della mia autocritica contro l’istinto dell’emozione giornalistica da avanspettacolo. Esattamente come nel 2001 lungo le spiagge di Valona. La puerile soddisfazione di aver riprodotto il simbolo diffuso della notizia. Ma poi per fortuna la realtà mi schiaffeggia. I “clandestini” non erano altro che giovani artigiani di ritorno dalla stagione turistica in Libia. È abbastanza probabile che qualcuno di loro abbia venduto gioielli, anelli, sorrisi a mia madre in gita turistica tra rovine romane e tende berbere. E così il viaggio, la terra che si mischia alla pelle, il calore respirato del corpo iniziano a regalare i loro frutti: la realtà, vergine e complessa, si sostituisce allo
spettacolo. E io, regista viaggiatore dedicato alla scoperta della diversità, divento obiettivo di confluenza della luce. Dietro alle immagini del grande esodo il vostro potere nasconde con complicità di colonnelli maghrebini, commissari nigerini e falsi o impotenti funzionari, la gestione di vite umane e flussi economici. Migliaia di cittadini nigerini da secoli abituati alla migrazione sahariana diventano facili prede di espulsioni di massa: vengono prelevati, arrestati e spogliati di ogni bene dalla polizia libica finanziata dall’Italia, per poi essere consegnati nella più totale miseria prima alla polizia nigerina (prossimo destinatario di fondi italo-europei per i piani securitari saheliani) e poi all’immensità silente della brousse immobile e infuocata. E queste espulsioni diventano numeri nelle mani dei funzionari del Viminale per dimostrare ad annebbiate opinioni pubbliche (spettatrici di se stesse) la vigoria delle misure di resistenza contro l’esodo dei dannati. Numeri da lanciare sul mercato della politica. Numeri contro vite, corpi, muscoli, sguardi, fatiche, sorrisi, amori. Solo incrociando i loro veri cammini lungo orizzonti infiniti di sabbia bianca, il mio obiettivo ha potuto raccogliere la profonda verità del loro vissuto. Il mio o meglio il nostro ruolo diventa così molto chiaro: grazie a coloro che abbiamo incontrato lungo le tracce antiche di carovane precoloniali e preglobali, siamo ora in grado di restituire complessità al nulla massificato del logos televisivo. E possiamo farlo grazie alla potenza del segno visivo di cui anche il televisivo si nutre: l’immagine digitale. Attraverso il fascino immediato (abituato) di epiche rappresentazioni dell’esodo (le immagini dei roboanti Mercedes del deserto) possiamo attrarre l’attenzione dell’opinione pubblica, permettendole però anche di arrivare a conoscere la voce e il volto di chi pensava fosse solo un numero.
Questo processo di costruzione dell’impersonale ci porterà spero a chiarire caratteristiche delle migrazioni africane che di molto complicano la narrazione superficiale dei “poveri in fuga”. Alcune di queste caratteristiche già rimbalzano nella mente: la dimensione quantitativa limitata dell’esodo, la consapevolezza della fatica materiale del viaggio, il senso individuale del limite, la rabbia per l’assenza di alternative e la denuncia delle violazioni dei diritti umani basilari da parte di forze militari finanziate dai governi europei. Elementi che in gran parte raccontano i protagonisti diretti dei viaggi: migranti, transitanti, nomadi, passeur e altri ancora.
Andata, ritorno. E di nuovo andata. «Certo che le conosciamo le difficoltà, i pericoli, i rischi! Esiste una grande comunicazione tra chi decide di partire! Io avevo anche un amico, un ivoriano, che sapeva tutto, ma è partito lo stesso ed è morto. Capito? Morto! Semplicemente morto!» lo sguardo di Alid si alza, si riempie di rabbia, incolla gli occhi alla telecamera, il silenzio diventa palpabile, diventa più forte di un urlo, più disperato di un pianto, più dignitoso di un pianto. «Morto! Così, semplicemente. Prendi una barca, decidi di partire e poi muori. Fine. Stop. Certo che le conosciamo le difficoltà, sappiamo tutto! Ma anche se ti hanno raccontato le difficoltà che troverai in un altro luogo o in un altro tempo, alla fine puoi decidere di affrontarle lo stesso. E sai perché? Lo sai?» di nuovo silenzio, «Lo sai? Perché per quanto puoi immaginare le difficoltà e i rischi futuri, conosci troppo bene quelli presenti e passati. E per lasciare la merda che hai qui sei disposto anche a rischiare tutto.
Funziona così il cervello umano: nessun timore per difficoltà future può essere maggiore del dolore per difficoltà presenti! Prova tu a restare per venticinque anni nel cortile di casa o sul marciapiede di una strada senza riuscire a fare nulla, senza guadagnare neanche un centesimo. Niente, di niente!» Silenzio. «Niente!» Gli occhi rimangono incollati dritti verso i miei, protetti dall’obiettivo della telecamera. Alid è secco, immediato, spietato. Lo dice anche: «Io forse sarò troppo duro, ma non sono pessimista, sono realista!» Un anno fa è tornato a Niamey, la capitale del Niger, grazie a un programma di “rimpatri volontari” finanziato dalla Commissione Europea e gestito dall’Unione Giovani Imprenditori Nigerini: era emigrato in Algeria, aveva lavorato lì per due anni e forse ogni tanto aveva anche pensato di attraversare il Mediterraneo. Poi quei mille euro per rientrare e provare ad aprire un CyberCafè: «Mille euro sono nulla. Il Niger sarà anche il paese più povero del mondo, ma voi non avete idea di quanto sia diventato più caro negli ultimi anni. Sarà anche a causa della svalutazione del franco, che ne so io… sta di fatto che oggi rischi di arrivare a fine giornata che non ti bastano i soldi per il pane. Capito? Lavori tutto il giorno sotto questo caldo infernale e non hai in tasca nemmeno i soldi per una pagnotta!» E di nuovo silenzio. Alid ha accettato, ma oggi se ne pente, perché non vede futuro per il suo cyber e perché davvero quei soldi puzzano di più di presa per il culo che di reale sostegno. Ma intanto Alid in Europa non ci è arrivato e la rabbia, il grido del suo silenzio rimane ben chiuso tra
le quattro mura del suo caldo e vuoto cyber nella periferia di Niamey. Certo, se anche fosse arrivato lo avremmo rapidamente espulso, ma intanto sarebbe stato un altro fastidioso “disperato” sbarcato sulle nostre coste. E ogni “disperato” di un qualsiasi sbarco è un peso morale potenzialmente sempre esplosivo per la democratica Europa. Insomma è necessario espellere Alid e gli altri, ma se riusciamo addirittura a non farli nemmeno arrivare diventa tutto più facile. Perché? Perché ci togliamo il peso di quella noiosa parte dell’opinione pubblica che insiste cristianamente o umanitariamente a preoccuparsi per questi “poveri disperati”. E allora come fare? Certo, si potrebbe provare ad aiutare realmente lo sviluppo locale sostenendo politiche di autosviluppo decentrato e svincolato dal controllo delle classi dirigenti corrotte della stragrande maggioranza degli Stati africani. Sarebbe corretto. Ma davvero assai complicato politicamente, perché quegli stessi poteri corrotti sono purtroppo anche gli unici ad avere i controlli reali delle risorse naturali ed energetiche che le nostre multinazionali hanno bisogno di sfruttare per poter garantire ai nostri cittadini i loro piacevoli standard di comodità. Quindi? Semplice: rafforziamo i governi e i loro poteri, finanziando cospicuamente gli apparati di polizia e dando a loro il compito di bloccare Alid e compagni ben prima delle nostre coste. Perfetto. Così otteniamo due piccioni con una fava: blocchiamo i “disperati” ben lontano dalle gracchianti coscienze delle nostre opinioni pubbliche e rafforziamo il potere di classi dirigenti capaci di tenere silenti e immobili le coscienze e le eventuali ire dei loro popoli. Ovvero: invece di sperare che le condizioni delle popolazioni migliorino, è più semplice sperare che esse non possano lamentarsene.
Il cerchio è chiuso! Ah no… manca una cosa. Siccome in Europa esiste un’altra minoranza ancora più fastidiosa di testardi che vanno a ficcare il naso anche nei paesi più lontani, è necessario inventarsi qualcosa per provare a tenere buoni anche loro: ed ecco i programmi di rientro volontario, progetti vendibili come “alternative civili e democratiche ai rimpatri forzati” e nello stesso tempo come “piccole ma significative iniziative allo sviluppo locale”. E inoltre, visto che ci siamo, affidiamo questi progetti alle ONG, incubatrici di quelle minoranze fastidiose, chiedendo loro in cambio una sorta di silenziosa condivisione delle “necessarie politiche securitarie contro l’esodo di massa verso le nostre coste”. Boom! Tutto ciò è quello che ho iniziato a capire grazie all’incontro con Alid a Niamey, ma che sempre di più si è chiarito lungo il viaggio che ci ha portati dalla capitale a Dirkou, l’oasi che costituisce l’ultima tappa nel deserto del Tenerè prima dell’entrata in Libia. «Chi ha mai pensato di andarci in Italia?» scuote la testa Ibrahim a pochi metri dalla stazione di Agadez, dove poche ore prima è stato scaricato dal camion libico pagato con i soldi italiani per espellere potenziali migranti. «Io lavoravo a Sabah come macellaio da quasi un anno. E non era la prima volta. Qui in Niger oggi lavori e domani chissà. Così ogni tanto decidiamo di andare a fare una o due stagioni in Libia. Lì sono ricchi e la loro moneta vale ben di più.» Come la Svizzera o la Germania per noi italiani. «Anche lui» continua Ibrahim indicando un suo compagno di sventura più giovane e silenzioso. «Lui stava a Tripoli da due anni e faceva il contadino per un ricco proprietario. Lavoratori, niente di più. Come i nigerini fanno da almeno trenta-quarant’anni. Ma ora non si può più. Ti prendono per strada e siccome sei nero, africano come loro, ma africano nero, allora ti
portano nei maledetti campi di deportazione, ti caricano nei camion e in sei giorni di viaggio infernale lungo il deserto ti scaricano qui ad Agadez. Senza niente. Non puoi prendere i tuoi vestiti, i tuoi soldi, i tuoi oggetti personali. Niente. Sei arrestato ed espulso. Tutto ciò che ti rimane è questo foglio.» Ibrahim ci mostra il lasciapassare del consolato nigerino, quello con cui il Niger toglie alla Libia la responsabilità di identificare la nazionalità di origine dell’espulso e nello stesso tempo l’autorizza a scaricarlo nel territorio nigerino. Ingenuo io gli chiedo se lui abbia capito perché ciò succede: «È semplice: l’Italia non vuole avere africani che sbarcano a Lampedusa e finanzia la Libia per bloccarli prima. La Libia per adempiere al suo compito risparmiando fatiche e costi (ovvero guadagnandoci. N.d.A.), arresta noi lavoratori nigerini, ci carica su un camion e ci molla in mezzo al deserto. Poco importa alla Libia e ancor meno all’Italia se a essere espulsi siano persone che come noi non hanno mai pensato di prendere una barca. Intanto facciamo numero anche noi… E poi un po’ di mano d’opera gratis allo Stato libico non dà certo fastidio!» «Come mano d’opera gratis? Che significa?» chiedo io. «Quando ti arrestano qualche volta ti fanno anche lavorare per loro. Gratis ovviamente. Io per tre giorni ho lavorato insieme ad altri otto per costruire un nuovo commissariato di polizia a pochi metri dal campo di deportazione dove ero imprigionato. Stavo lavorando anche quando mi sono venuti a prendere e mi hanno caricato nel camion per l’espulsione!» Il racconto di Ibrahim è ben chiaro nel mio cervello quando l’indomani lasciamo Agadez e iniziamo ad attraversare il Tenerè. Settecento chilometri di lenta dissoluzione del paesaggio: dalla brousse alla steppa, dalla steppa alle rocce, dalle rocce alle dune, dalle dune all’immobile nulla della sabbia. Trecentosessanta gradi di orizzonte piatto. Un’unica linea bianca tra la
sabbia e il cielo. E il sole lì in alto, fermo. Perpendicolare sopra la tua testa. Inevitabile. Bollente. Settecento chilometri lungo i quali incontriamo una decina di camion Mercedes verdi stracolmi di sacchi e persone. Non so se sia stato un caso o meno, ma molti di più erano quelli che tornavano verso Agadez che non quelli in direzione Libia. Mentre noi percorrevamo curiosi il viaggio di andata, di fronte ai nostri occhi scivolavano pesanti e lenti i viaggi di ritorno. Alcuni sono anche ritorni volontari, ma molti sono i “viaggi organizzati”, quelli che Stefano, sarcastico, definisce i “Pisanu Express” in omaggio al ministro degli Interni a cui il Cavaliere e il Colonnello diedero nel 2004 il compito di organizzare i programmi per le espulsioni. E d’altronde a Dirkou, ultima tappa del nostro viaggio, il quadro si completa chiaramente. Il capo della Polizia, quasi addormentato dal caldo irrespirabile del suo ufficio di fango e tolla, ci fa vedere un foglio un po’ sdrucito dove un preciso agente del suo commissariato ha riportato la cifra degli espulsi transitati a Dirkou nei primi tre mesi del 2006: 1.450 cittadini nigerini. Io non sono un grande esperto di statistiche, non sono un ricercatore, preferisco viaggiare e filmare: ma ho come l’impressione che seimila nigerini all’anno sia un numero di gran lunga maggiore dei nigerini che sbarcano a Lampedusa o a Malta ogni anno. Il quadro è drammaticamente completo. E mentre scandalizzato un alto dirigente del Ministero degli Esteri nigerino ce lo conferma nel suo ufficio di Niamey, risuonano ancora i silenzi di Alid, si intrecciano alle parole di Ibrahim e dei molti altri viaggiatori africani da noi incontrati: «Possono cercare di fermarci in mille modi, ma alla fine se nulla cambierà nei nostri paesi noi continueremo a partire, attraversando frontiere, posti di blocco, deserti e mari. Ci espellono? Poco importa. Se non ci ammazzano, possiamo ripartire.»
Perché come sentenzia irremovibile Yossuf, ragazzo nigeriano incontrato a Dirkou dove attende l’occasione di ripartire dopo ventuno giorni di terrificante prigione libica e successiva espulsione: «Io voglio viaggiare. Non voglio rimanere ad aspettare nelle paludi della povertà. Voglio muovermi, conoscere altre terre, guadagnare, tornare e ripartire. Questa per me è vita!»
Nord Est Italia, presidio San Pietro 2006-2007
Racconti collegati alla realizzazione di PIP 49 e de La Mal’ombra a San Pietro di Rosà (VI) 2006 – San Pietro A San Pietro di Rosà da oltre quattro anni, anzi a volte credo si tratti addirittura di almeno una decina di anni, qualche scriteriato difensore dell’umana dignità cerca di opporsi non solo o forse non tanto alla costruzione di una enorme Zincheria gialla nel cuore del centro abitato, ma soprattutto al destino infame della terra veneta, immortalata, devotamente immortalata sull’altare del profitto e del portentoso sviluppo delle meravigliose e magnifiche sorti. «Siamo nati campagna e campagna dovremo morire.» Sembra l’apoteosi del conservatorismo o ancor peggio, di una sua moderna versione in salsa leghista. Rivendicazioni paleovenete? Assolutamente no. Ricerca disperata e perdente di una dignità calpestata da chilometri di asfalto, cemento, conti correnti e tir. Tir a doppio rimorchio. Come quelli che ogni minuto solcano il centro di Rosà, come quello di decine di altri ex paesi della regione. Tra Municipio e Duomo. Lì dove una volta c’era solo la piazza, il bar e le chiacchiere; chiuse, campanilisti, conservatrici, ripetitive, annebbiate, a tratti addirittura fastidiose ma pur sempre chiacchiere. Oggi più nessuna chiacchiera. Silenzio. Il tempo è denaro. Lavora. Accelera. Tir.
Io in più di venti giorni di produzione a San Pietro, ho visto solo una volta degli esseri umani camminare lungo le strade del paese e della zona intorno. Giuro, non è retorica e purtroppo nemmeno poesia: erano tre donne e una bambina africane. Sembravano degli errori. Erravano lungo una strada per automobili. Per macchine. Erravano. Esattamente come Clelia, Bacicia, Nino, Ilda, Daniele, Lorenzo, Adriano, Thomas, Stefano. I presidianti. Loro vorrebbero che la crescita industriale si fermasse. Quella stessa crescita industriale che ha dato loro la possibilità di uscire dai fienili, di superare la pellagra, di mandare i figli a scuola e i nipoti all’università. Non la accettano più. Ma perché? Perché inquina? Forse. Sì. Anche. Ma soprattutto perché ha bisogno del pensiero unico. Dell’uomo piatto, asservito, incriticabile. Dell’uomo a una dimensione, per tornare fedelmente a Marcuse. Dell’uomo mafioso, per accreditare le accuse veementi e sincere di Lorenzo e Daniele. Non accettano in altre parole che l’unico parametro di confronto con la vita, ripeto, CON LA VITA, sia quello del profitto, dell’utilità, del calcolo. Non accettano la tecnica. Ricercano errando la qualità perversa e magnifica dell’inutile. Istintivamente la cercano nella tradizione, ovvero in tutto ciò che esisteva prima del trionfo utile della tecnica. Ma non è nostalgia. È istintivo, immediato riferimento. Referenza quasi. Non è riconducibile la lotta del Presidio di San Pietro a una rivendicazione ambientale o a una vertenza civile. Sarebbe riduttivo, mediato, semplificato. Per questo non è riducibile la narrazione della lotta di San Pietro a un’inchiesta sulle (per altro palesi) illegittimità dietro e sotto la Zincheria. Il linguaggio dell’inchiesta schiaccerebbe il cuore pulsante del disagio di San Pietro.
Ma allora quale spazio e modo comunicativo poter usare? La domanda diventa pesante nell’angusta realtà commerciale attuale. Così tende a radicalizzarsi: perché dover comunicare il disagio umano di San Pietro? Davvero lo crediamo razionalmente spiegabile? Io credo sia necessario, storicamente necessario tentare di farlo pervenire alle migliaia, centinaia di migliaia di altre persone che vivono la stessa claustrofobica condizione. Ma non credo che possa essere ridotto a una spiegazione, a una precisa descrizione fattuale. Credo abbia bisogno di una sublimazione artistica. Il piano sequenza dell’uccisione del coniglio da parte di Clelia nel suo cortile credo possa far parte di questa sublimazione. Ma so anche che nel film finale, mio malgrado, quel piano sequenza non verrà montato. 22 marzo 2007 – La rabbia di Daniele Daniele guarda con gli occhi quasi immobili. Occhi grandi, spalancati, attenti, ma anche silenziosamente stanchi. Lo dice: «Sono stanco, fisicamente non so per quanto tempo ce la potrò ancora fare.» Da almeno sei mesi si sveglia tutte le mattine alle cinque per andare presto al lavoro. «Così alle quattro, massimo cinque del pomeriggio ho finito e posso dedicarmi al Presidio.» Riunione, udienze, avvocati, conferenze. La vita sembra non aver spazio e tempo per altro. Dalle cinque alle cinque. Sono dodici ore di lavoro. È normale da queste parti: non è il padrone che lo chiede, è normale farlo. Insomma è come se il padrone lo chiedesse, però non lo ordina. Dodici ore al giorno come operaio metalmeccanico, impegnato in complicate e delicate lavorazioni del metallo: frese,
saldatrici, trucioli, enormi macchine di alta precisione, rumore, rumore e ancora rumore. Quando andiamo a trovarlo in fabbrica Daniele è sporco, le mani nere, le unghie rotte, la barba incolta, la tuta blu larga, sdrucita e annerita, le guance segnate dalla fuliggine del sudore meccanico e gli scarponi di cuoio e grasso. Sembra proprio un operaio, uno di quelli che sembrano non esistere più. Operaio specializzato, 1.700 euro al mese, informatizzazione e alta tecnologia. Certamente. Ma operaio. Ignorante mi permetto di scherzare: «Siete quasi più informatici che metalmeccanici!» Daniele seccamente mi smentisce: la fatica è fatica, non ha nulla a che fare con il lavoro di ufficio. E le sue mani inequivocabili iniziano a ossessionarmi: ci ritorno sempre con lo sguardo, le osservo, le seguo muoversi, prendere oggetti, stringere bottiglie. Sono mani da operaio e lo saranno sempre di più. Di un operaio nell’era della scomparsa degli operai. Di un operaio nel territorio della ridefinizione dell’operaio: piccolo imprenditore specializzato. Il popolo delle partite Iva con le mani sporche e callose. Lavora nel grasso, solleva i pesi, respira le polveri, è assordato dai motori. E cammina lento in un fango pesante dove padronato e minaccia funzionano ancora, o forse ancor meglio: «In dodici anni di lavoro ha sbagliato solo una volta a tagliare un pezzo: 1.400 euro di danni. Niente rispetto al fatturato dell’azienda, un piccolo sassolino nella scarpa. Ma Daniele è una testa calda, è uno che non dovrebbe troppo impicciarsi di alcune cose. Noi lo rispettiamo molto come operaio» ci dice inquietante Vanni, il figlio del padrone di Daniele, «e capiamo anche le ragioni della sua rabbia. Ma se si calmasse un po’, sarebbe per tutti più semplice.» 1.400 euro di danni, un nulla. Ma subito Daniele viene convocato dal padrone che non gli chiede i soldi, ma che gli suggerisce di fare
qualche ora in più gratis per aiutare la “nostra” azienda a recuperare i soldi. La mafia nelle teste: ha ragione Lorenzo. Ma non nelle teste di tutti: un collega di Daniele non accetta e propone che un giorno tutti gli operai si fermino mezz’ora in più gratuitamente per coprire il danno di Daniele ed evitare che sia solo lui a dover pagare. Stimabile solidarietà. Stimabile solidarietà? Non credo proprio che rientrasse nei doveri di Daniele coprire quel danno: forse in altri mondi gli operai avrebbero solidarizzato con Daniele chiedendo semplicemente che fossero rispettati i suoi diritti. Forse. Ma qui, a Rosà di Vicenza, non esistono gli operai: esistono giovani lavoratori coinvolti nei grandi successi della piccola impresa nordestina, e a questi successi è bene che partecipino con responsabilità. Con la testa sulle spalle, pensando al loro lavoro e non occupandosi di troppe altre cose. Come quella storia della Zincheria. Mi manca l’aria se ripenso alle parole di Vanni, il figlio del padrone. Gli abbiamo chiesto il permesso di poter filmare Daniele al lavoro e lui quando ha saputo che il film era sulla Zincheria, ha candidamente chiesto di poterne parlare con il padre, perché «noi vi rispettiamo, ma chi ce lo dice a noi che dietro poi non possa esserci lo zampino della Zincheria?» Lo zampino della Zincheria? Cosa significa? Me lo spiega sereno e limpido Lorenzo: «Significa che se poi la Zincheria sa che l’azienda di Vanni ha collaborato a un film sul Presidio, può decidere di boicottarla, mettendola in cattiva luce con la Confindustria di Vicenza.» Come ha già fatto con altri amici del Presidio: e così è meglio stare zitti. Ogni mattina Daniele si sveglia nella sua spoglia stanza di figlio. Sono tutte di legno scuro le molte porte di casa Pasinato: dietro quelle porte la stanza di Daniele sembra un buco nero, un errore del tempo, un frigorifero in cui la storia si è fermata. Non c’è nulla in
quella stanza che non possa essere ricondotto all’adolescenza di Daniele. Tutto è fermo al 1990, quando Daniele aveva sedici anni. Sedici anni fa. 1990. I poster, le audiocassette, i modellini di Ferrari, il copriletto, lo stereo. Tutto esattamente come sedici anni fa. Immobile, non vissuto, congelato. Perché? Semplice: perché dopo Daniele ha iniziato a lavorare. Sveglia alle cinque, cinque e mezza: caffellatte, pane, marmellata e il freddo della brina quando l’alba è ancora crepuscolo. In quella stanza Daniele non vive più da sedici anni. Si veste e dorme. Null’altro. A dire il vero una cosa nuova c’è. Ma è rotta: è la fotocopiatrice con cui Daniele faceva i volantini per il Presidio. Perché è il Presidio l’unica altra cosa successa a Daniele da quando ha iniziato a lavorare. È il Presidio che, come lui spesso ripete, lo ha salvato dall’alienazione, dall’angoscia, dalla banalità della apparente perfezione: lavoro, soldi, famiglia e una bella casa tutta per te dove stare. Stare. Ce l’ha la nuova casa Daniele: gliel’ha costruita suo padre a Stroppari, pochi chilometri da San Pietro, in mezzo agli stessi campi, alle stesse nebbie, agli stessi capannoni. «Ma lui non ci va» sospira il padre, «così ogni tanto io, quando porto a passeggio il cane, passo per aprire le finestre, per cambiare l’aria, a togliere la polvere. E ogni volta rimango a guardare quel vuoto, quelle stanze pronte per una nuova famiglia mai arrivata.» Daniele ha scelto di lottare per la giustizia, di complicarsi la vita per provare a mettere in discussione poteri ben più grandi di lui e non poteva affiancare a ciò la scelta di andare a vivere in una nuova casa, di “metter su famiglia”, di fermarsi. Daniele ha scelto di non rimanere a guardare, non poteva contemporaneamente scegliere di stabilirsi. Non so quanto davvero sua madre e suo padre lo abbiano capito. Di sicuro condividono la sua rabbia, ma quanto sono disposti a condividere anche la sua scelta?
«Quando Stefano è stato quasi ucciso» mi racconta avvicinandosi un po’ perché altri non sentano, «io sono stato davvero male. Sentivo bruciare il cuore, la testa mi tremava: non potevo accettare che tanta violenza e prepotenza vivesse intorno a me senza che nulla, davvero nulla fosse in grado di scalfirla. Stavo male, impazzivo dalla rabbia e dall’angoscia. E ci ho provato, te lo assicuro, ci ho provato a parlare con i miei. Mi sedevo a tavola, la sera, a cena, e con gli occhi gonfi e rossi cercavo di far uscire quella sensazione di implosione, di inaccettabile impotenza. Ma non appena parole di rabbia uscivano dalla mia bocca, mia madre mi aggrediva, dicendomi di star zitto e di non lasciare che tutte quelle cose rovinassero la mia vita, il mio futuro, la mia famiglia.» E allora scappava, lasciandosi alle spalle la madre impaurita e il padre silente. Scappava e andava a perdersi in una piccola birreria lontana da San Pietro: «Dove non conoscevo nessuno, dove nessuno poteva chiedermi nulla, dove sapevo di trovare una perfetta sconosciuta per sfogarmi.» E così, come spesso succede da queste parti, la ragazza di quella birreria è forse la persona che di più conosce il mondo che si agita irrefrenabile dentro al corpo di Daniele. Trema, scatta, pensa: Daniele pensa sempre al Presidio, costantemente teso verso la vittoria. Per lui tutto il resto deve attendere. Tutto è sospeso, finché non ci sarà la vittoria. E allora, ingenuo, gli chiedo: «Qual è la vittoria, Daniele? Qual è il punto di arrivo?» La prima risposta è forse la più ovvia: «Quando avrò la certezza che la Zincheria non potrà mai lavorare.» Poi però si ferma un po’, apre gli occhi, li incolla verso il vuoto, si guarda dentro e aggiunge: «Sai, Andrea, in fondo però io penso che abbiamo già vinto: per quattro anni abbiamo dato voce alla cosa più importante al mondo, il bisogno di giustizia.» E inizia, commosso ma forte, a raccontarmi di quando le vecchiette vedove e pensionate del paese gli davano venti, trenta a volte
cinquanta euro per sostenere il Presidio, guardandolo negli occhi per ricordargli che: «Questo è davvero tutto ciò che posso darvi, di più è impossibile.» Aver rispettato loro e non aver temuto preti, sindaci, assessori, deputati, industriali e camorristi uniti nella gestione arrogante della connivenza di controllo politico e privilegi economici: questa è la vittoria del Presidio. E Daniele me lo ha spiegato meglio di chiunque altro. La Malombra – Maggio 2007 A poco meno di un anno dalla fine delle riprese di PIP 49 per Feltrinelli-Rai Cinema, stiamo per iniziare le riprese del film lungo sulla storia di San Pietro e su ciò che essa rappresenta nel Veneto, nell’Italia di oggi, nonché nelle nostre vite. È come riprendere un pensiero che ho dovuto lasciar sopito, in disparte. E non solo per motivi produttivi. Un pensiero che non è facilissimo né automatico poter riuscire a intrecciare con gli altri di cui mi occupo, su cui lavoro. Essenzialmente perché a San Pietro tutto sembra molto vicino a me e molto immobile. Due condizioni da cui sono sempre un po’ scappato, cercando o subendo il fascino di soggetti altri e viaggianti, distanti e mobili. A San Pietro nessuno vuole partire e tutti potrebbero essere miei parenti, amici o conoscenti. E allora perché? E allora cosa? Perché a San Pietro ho trovato la voglia e il coraggio di far prevalere l’essere umano rispetto all’essere economico. Una scelta di alterità alla ricchezza tout court che assomiglia alla condizione di emarginazione dalla ricchezza che conduce i viaggi di molti miei protagonisti.
Perché ho vissuto la mia crescita e la mia maturità nel cuore di un mondo la cui efficienza e il cui successo ho sempre sentito altri rispetto al mio pensiero, al mio sentire. Raccontare la convivenza fisica e mentale con questa alterità “utile” è ciò che vorrei. Cosa? Le soggettività profonde e dense di persone che non accettano di lasciare in silenzio la paura di avere a pochi metri da casa quintali di scorie tossiche sepolte sotto terra. «Io li ho visti che scaricavano nelle terre. Tutte le notti. Per settimane e settimane.» E cosa c’hanno messo lì sotto? Perché nessuno vuole farcelo capire? Finché non lo capiranno, non lasceranno che il mondo rimanga uguale a se stesso e alla sua disgraziata scelta di sacrificarsi al dio denaro. Le soggettività della scelta difficile di essere umani. Scelta piena di dolori, di fatiche, ma anche di insolite energie. In un’atmosfera che racconta le tensioni emotive, le attese, le memorie e la speranza.
Lampedusa 2009
Mia figlia mi ha accompagnato a Lampedusa. Non ricorderà molto di questo viaggio. Anche se sono sicuro che fra qualche decina di anni sarà contenta di esserci stata, perché allora Lampedusa sarà un punto importante della storia lenta e profonda dell’umanità. Non lo sarà certo per la banalità omologata del suo turismo, né per la schiacciante velocità imprenditoriale che ne sfrutta i proventi. Lo sarà grazie a quelle piccole e coloratissime barche di legno che ora giacciono immobili e magnifiche in mezzo a una vallata di pietre e sole e che nei mesi scorsi sono state le armi con cui gli emigranti africani hanno vinto alcune battaglie della guerra impari che si combatte alle porte d’Europa. Verdi, blu, rosse. Di legno. Segnate dal sole e dal salso. Immobili sulla terra lontana dall’acqua. Nascoste al mare. Tenute distanti dagli sguardi inebetiti di turisti, spettatori e infimi politicanti della propaganda razzista e meschina. Ma solenni ed eterne nel mare nobile e vivo della storia. Con quelle piccole imbarcazioni uomini e donne hanno sfidato la legge apparentemente immutabile del grande squilibrio tra privilegi e miserie. Non ho mai creduto che esista in loro alcuna forma di coscienza e rivendicazione politica collettiva. Ma è innegabile che ciò che stanno facendo con i loro corpi è tentare di
rompere il confine materiale e solido dell’ingiustizia economica globale. Loro erano e sono semplicemente destinati a non partecipare al banchetto minoritario e osceno della ricchezza nord-occidentale. Invece hanno deciso di non accettare come immutabile questa esclusione e hanno dichiarato guerra all’invarcabile confine. Lo hanno fatto con delle barche non per distruggere o affondare il nemico, ma per poter sperare di partecipare al suo opulento banchetto. Il cimitero delle loro barche nella piccola valle di pietra di Lampedusa è il primo inconsapevole monumento che la storia tributa alla grandezza umana della loro sfida all’ordine mondiale. Individualmente, confusamente e senza alcun progetto comune, ma lo stanno facendo. Il compito di noi narratori è quello di accompagnare questo monumento e le storie che esso contiene, per riconoscerne il valore e il significato storico e per sottrarlo alla miopia delle ciarlatane propagande della politica massmediatica. Verdi, blu, azzurre, rosse. Di legno. Segnate dal sole e dal mare. Immobili, appoggiate stanche e nobili sulle pietre di Lampedusa.
Pochi mesi dopo Come un uomo sulla terra il documentario che ho realizzato tra febbraio e settembre di quest’anno, e che nasce proprio dalla forte e chiara esigenza di narrare i silenzi nascosti dalle propagande xenofobe,
sta riscuotendo molto interesse nel piccolo ma non del tutto irrilevante mondo del cinema realista italiano. Credo che, avendo la forza di insistere, il documentario possa aprire una piccola breccia nella rassegnata distrazione tipica di questa era e del nostro paese ancora di più. E sono contento di sentire che la forza del film non stia solo nella sua capacità di scoprire fatti sconosciuti (di essere scoop), ma anche nella sua volontà di essere sguardo di dignità, spazio di ascolto. Ho lavorato cocciutamente sulla forza espressiva dei volti, soli ma vivi, utilizzando l’impossibilità di capire la loro lingua come stimolo per farne emergere significati puramente visivi, estetici. Gad Lerner ha detto alla presentazione del film a Milano che il cinema ha la possibilità di avvicinare gli spettatori all’individualità degli esseri umani, alla loro dignità di singoli, di storie, di volti, sottraendo così i personaggi al destino televisivo di venire stereotipati e quindi annullati. Per questo il cinema è oggi lo strumento di narrazione che maggiormente può aiutare l’Italia a superare le derive razziste, volute e alimentate da chi gestisce e accresce il proprio potere, sfruttando l’immortale leva della paura per l’altro e della conseguente lotta tra poveri. Per questo ho voluto che uno “scoop” come quello di Come un uomo sulla terra non fosse dato in pasto al potere annichilente del linguaggio televisivo, ma fosse in qualche modo superato nella limitatezza della sua natura di “prodotto con scadenza” dalla universalità e dall’umanità dello sguardo cinematografico. Con mille possibili e necessarie critiche, penso di esserci riuscito.
Ora la sfida sta tutta nel riuscire a convincere uno dei ben presidiati fortini della distribuzione di massa a partecipare a questo percorso di dignità e di responsabilità umana, superando le paure e le autocensure della piccola politica italiana. Ci proverò con tutto me stesso, non nascondendomi che questa sfida mi restituisce il piacere di un’avventura politica e non solo artistica o professionale, che da alcuni anni andavo cercando. E di cui molti di noi trentenni dell’Italia berlusconiana abbiamo sempre più bisogno.
Intensità (finale) Nell’insoddisfabile ricerca di un centro gravitazionale. Esistono due dimensioni dell’intensità: quella geografica e quella intima. In entrambe, se trovi il tempo per viverle, hai la sensazione di esistere. Intorno dominano (bastardi) impegni, distrazioni e atavici sensi di colpa (eternamente rinnovabili). Interpreto la mia vita come fatica per cogliere, comprendere e creare
dimensioni di intensità. Vivendo l’emozione di attraversare confini geografici e di vibrare limiti intimi. Sono fatiche di mente di tempo e di spazio.
Ringraziamenti
Ho fatto molti dei viaggi qui raccontati con amici e amiche molto importanti per la mia vita. Ho paura di dimenticarne alcuni, ma non posso non tentare di nominarli tutti e non posso non ringraziarli. Lo faccio in ordine di tempo e luoghi: Marcello Anselmo, Elisabetta Segre, Barbara Chiarenza, Cristha Cocciole, Nicola Bortolini, Laszlo Rinaldi, Stefano Collizzolli, Francesco “scepparo” Cressati, Andrea Pennacchi, Gustav Hofer, Andrea Bevilacqua, Valentina Longo, Maria Cristina De Ritis, Stefano Liberti, Ferruccio Pastore, Luca Manes. Grazie a Maddalena Grechi e a nostra figlia Agnese, che ha iniziato a viaggiare con noi ancora prima di nascere. Grazie ai tanti amici con cui ho condiviso l’esperienza di ICS (Consorzio Italiano di Solidarietà) e di toniCorti, associazioni con le quali ho fatto molti dei viaggi qui raccontati. Un grazie ai compagni di viaggio con cui ho ideato l’intero progetto FuoriRotta e con cui ho condiviso molte avventure negli ultimi anni, Matteo Calore, Simone Falso e Francesco Bonsembiante. Grazie a Roberto Giordani e a Montura Editing per aver creduto in tutto ciò. Grazie a Marco Lovisatti per la sua fraterna amicizia e per aver disegnato con la sua arte molti dei miei viaggi. Grazie a mio padre e mia madre per avermi fatto capire che “rimanere sempre a casa” era davvero un peccato.
Infine questo libro (e tanto altro nella mia vita) non esisterebbe senza il grande contributo di Archontoula Skourtanioti, che con pazienza e intelligenza ha trascritto decine e decine di pagine dei miei quaderni di viaggio. I disegni sono di Marco Lovisatti a partire da frame tratti dalle immagini da me girate durante i viaggi fuori rotta. L’idea grafica è stata curata, insieme a Marco, da Simone Falso.