Organon. Testo greco a fronte: Le Confutazioni Sofistiche Organon VI [Vol. 6] 884208316X, 9788842083160

Un classico della filosofia riproposto in una nuova traduzione filologicamente rigorosa, accompagnata da un commento aut

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Organon. Testo greco a fronte: Le Confutazioni Sofistiche Organon VI [Vol. 6]
 884208316X, 9788842083160

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Biblioteca Universale

Aristotele Le confutazioni sofistiche

Organon VI a cura di Paolo Fait

Con testo greco a fronte

Editori Laterza

Biblioteca Universale Laterza 599

ARISTOTELE Organon diretto da Mario Mignucci Le confutazioni sofistiche Introduzione, traduzione e commento di Paolo Fait

DI PROSSIMA USCITA

Analitici secondi Traduzione e commento di Mario Mignucci Introduzione di Jonathan Barnes

Aristotele

Le confutazioni sofistiche Organon VI Introduzione, traduzione e commento di Paolo Fait con testo greco a fronte

Editori Laterza

© 2007, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2007

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’aprile 2007 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8316-0

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

a Chiara, Pietro e Carlo

Ringraziamenti

Per l’aiuto e l’incoraggiamento che ho ricevuto da Mario Mignucci negli ultimi anni della sua vita non so trovare parole di ringraziamento adeguate. Spero solo che il libro conservi qualche traccia dello spirito che ha animato le indimenticabili giornate trascorse insieme a lui, Francesco Ademollo e Andrea Falcon a discutere di logica aristotelica. Gran parte del commento è stata scritta mentre ero assegnista presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Padova. Desidero ringraziare Enrico Berti e Cristina Rossitto che, in fasi diverse, hanno diretto la mia ricerca con molta disponibilità. Un grazie di cuore a Fabio Acerbi, Richard Davies, Michael Frede, Beppe Spolaore, Monica Ugaglia e soprattutto ai già ricordati Andrea e Francesco per aver letto e discusso con me parti del lavoro. Per i loro suggerimenti o per stimolanti discussioni e scambi epistolari voglio anche ringraziare: Mauro Bonazzi, Lesley Brown, Börie Bydén, Jacques Brunschwig, Gian Mario Cao, Massimiliano Carrara, Walter Cavini, Riccardo Chiaradonna, Bruno Centrone, David Charles, Paolo Crivelli, Sten Ebbesen, Pierdaniele Giaretta, Alessandro Linguiti, Massimo Mugnai, Tobias Reinhardt, Annamaria Schiaparelli e Franco Trabattoni. Aiuto e conforto di altro genere ho ricevuto da Teresa e Miro Egidi, Maria e Carlo Fait, Claudio Lacca, e, soprattutto, da Chiara, Pietro e Carlo ai quali questo libro è dedicato.

Introduzione

Sesto e ultimo dei trattati aristotelici raggruppati tradizionalmente sotto il titolo di Organon, le Confutazioni sofistiche cercano prima di tutto una classificazione delle argomentazioni ingannevoli usate dai sofisti e dai dialettici disonesti ai danni di un interlocutore ingenuo. Una volta elaborata, esplorando più di una possibilità, tale classificazione, Aristotele spiega, attraverso un ricco dossier di esempi, come essa debba essere adoperata dalle vittime dei sofisti quale «antidoto» per smascherare l’inganno. Nell’ambito della sua ricerca di un criterio soddisfacente di classificazione, Aristotele si sforza di chiarire i meccanismi attraverso i quali ci si inganna nei ragionamenti. In questo suo tentativo, forse non sempre coronato da successo, risiede il principale interesse teorico del trattato, e sarà compito prioritario di questa introduzione fornirne un’esposizione critica. Quando avremo illustrato i principali ingredienti della dottrina della «confutazione apparente» (parr. 1-8) saremo in grado di situare il contributo aristotelico nel suo contesto storico (par. 9) e potremo infine considerare la complessa struttura del trattato, la sua collocazione all’interno dell’Organon e quel poco che si può dire sulla sua cronologia (par. 10). 1. Confutazioni e confutazioni apparenti Il trattato esordisce mettendo in programma un esame delle confutazioni sofistiche, subito identificate come confutazioni apparenti. Prima di concentrarsi sul contributo dell’aggettivo «apparente» è opIX

portuno chiarire il concetto di «confutazione» in generale. Aristotele definisce la confutazione (elenchos) come «il sillogismo accompagnato dalla contraddittoria della conclusione», oppure più comunemente come «il sillogismo della contraddittoria»1. Questa definizione isola, cancellando tutto il contesto, l’ossatura logica di un dibattito che ha luogo tra due interlocutori, un rispondente e un interrogante. All’inizio di tale dibattito il rispondente sceglie una tesi da difendere e lo fa prendendo partito, in un verso o nell’altro, su un quesito posto dall’interrogante: «È il piacere un bene o no?», «È l’universo eterno o no?», «È possibile conoscere e al contempo non conoscere la stessa cosa?» ecc. Fissata la tesi, l’interrogante pone delle domande a cui l’avversario deve rispondere sì o no. In questo modo egli cerca di farsi concedere le premesse dalle quali discende logicamente la contraddittoria della tesi. Le domande possono anche mirare a stabilire premesse di premesse, ossia proposizioni dalle quali conseguano logicamente le premesse della conclusione finale, e l’argomentazione può pertanto raggiungere una certa complessità. Il rispondente deve prestare attenzione a non concedere premesse che, tutte insieme, implichino la conclusione che contraddice la sua tesi, ma è in ogni caso tenuto a dare risposte plausibili e comprensibili ad un pubblico di ascoltatori che può essere più o meno qualificato e competente. Se rifiuta il proprio assenso, deve fornire una giustificazione. La confutazione può procedere anche indirettamente: l’interrogante assume la tesi e mostra che, con altre premesse che il rispondente ha concesso, essa implica conseguenze assurde o impossibili. In questo modo ha provato la contraddittoria della tesi per riduzione all’impossibile. Andrebbero poi distinti almeno due tipi di discussione dialettica, uno volto all’esercizio e uno volto all’esame delle credenze del rispondente, ma per ora ci interessa solo aver reso l’idea di come sia fatto il dialogo di cui la definizione della confutazione fornisce la struttura logica e aver precisato un particolare che da quella definizione non trapela e cioè che il riferimento astratto alla contraddittoria è dovuto alla relazione di contraddittorietà tra la tesi del rispondente e la conclusione dell’interrogante: «Sillogismo della contraddittoria» significa «Sillogismo che ha per conclusione la contraddittoria della tesi». 1 Cfr. SE 1, 165a2-3 (per la prima formulazione) e SE 6, 168a37; 9, 170b1; 10, 171a4-5 (per la seconda), e il commento a 165a2-3.

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Se la confutazione è per definizione un sillogismo della contraddittoria, essa è prima di tutto un sillogismo: Il sillogismo è costituito da alcune cose poste in modo che sia necessario dire qualcosa di diverso dalle cose poste, in virtù delle cose poste (SE 1, 165a1-2).

A parte alcune peculiarità, per le quali rinvio al Commento, questa definizione è equivalente a quella dei Topici (I 1, 100a25-27) e a quella degli Analitici primi (I 1, 24b18-20). Il fatto stesso che vi sia equivalenza, però, può trarre in inganno e perciò richiede subito una precisazione. Leggendo i Topici, le Confutazioni e gli Analitici bisogna evitare un errore commesso fin dall’antichità e diffuso anche in tempi più vicini a noi: quello di credere che le opere logiche di Aristotele possano essere lette secondo una sequenza sistematica che è quella cristallizzatasi nell’Organon, e che vede gli Analitici precedere sia i Topici sia le Confutazioni. Aristotele stesso induce a ordinare le sue dottrine in questo modo quando, all’inizio degli Analitici primi (24a16b15), applica la dottrina generale del sillogismo anche al sillogismo dialettico, che è materia dei Topici. Probabilmente egli crede davvero che questo ordine sia quello corretto, ma chi prova a seguirlo e a leggere i Topici e le Confutazioni alla luce degli Analitici primi si imbatte subito in gravi difficoltà2. I Topici e le Confutazioni, infatti, sono stati scritti prima degli Analitici primi e non conoscono affatto la dottrina dell’opera più matura. Nelle Confutazioni, come nei Topici, Aristotele non considera la possibilità di classificare i sillogismi in base alla quantità e alla qualità delle premesse e della conclusione, né fissa convenzioni per indagare sistematicamente la posizione reciproca dei termini. Non ci sono figure e modi in queste opere e i molti esempi di sillogismo che vi si incontrano non si lasciano imbrigliare facilmente nelle strutture della sillogistica3. 2 Esamineremo alcune di queste difficoltà più avanti, par. 5, quando discuteremo l’applicazione anacronistica del sillogismo analitico ai Topici e alle Confutazioni da parte di Alessandro di Afrodisia. Un esempio meno antico di questo approccio è il commento di Poste, pubblicato nel 1866. Una riproposta recente della stessa idea è in Boger 1998, criticato con buoni argomenti da Hitchcock 2000. 3 In un’occasione Aristotele fa un’osservazione promettente: non c’è sillogismo senza una premessa universale (Top. VIII 14, 164a10-11), ma questo è tutto. Non è facile caratterizzare formalmente il sillogismo dei Topici e delle Confutazioni e non è nemmeno detto che Aristotele in queste opere abbia maturato un interesse per la for-

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Dopo questo indispensabile chiarimento – ma su qualche aspetto di questa difficile questione avrò modo di tornare più avanti, nel par. 5 e nel 10 – possiamo riprendere il discorso. Una volta chiarito in che cosa consista una confutazione in generale possiamo domandarci che cosa sia una confutazione apparente. Ecco una prima risposta: se la confutazione è un sillogismo della contraddittoria, la confutazione apparente, o meglio, meramente apparente, sarà o un sillogismo apparente o un sillogismo reale che però conclude solo apparentemente la contraddittoria della tesi. Aristotele dice qualcosa di più sul sillogismo apparente quando, nei Topici e nelle Confutazioni (2, 165b7-8), definisce il sillogismo eristico. La definizione dei Topici è quella meno contratta e più comprensibile: Ed è sillogismo eristico da un lato quello che parte da premesse che sono apparentemente ma non realmente plausibili e dall’altro quello che parte da premesse plausibili o apparentemente tali, ma è apparentemente sillogismo. [...] Il primo dei due tipi di sillogismo eristico distinti sia detto anche «sillogismo», l’altro, «sillogismo eristico» ma non «sillogismo», poiché sembra sillogizzare ma non sillogizza (Top. I 1, 100b23-101a4).

Come si comprende dal contesto entrambi i tipi di sillogismo eristico distinti in questo passo sono definiti come contraffazioni di quello dialettico, definito poco prima come quel sillogismo che muove da premesse plausibili (endoxa) e cioè dalle cose che sembrano vere a tutti o alla maggioranza o ai sapienti e, di questi, a tutti o alla maggioranza o ai più noti ed illustri (Top. I 1, 100b21-23).

Il primo tipo di sillogismo eristico è quello che deduce da premesse che sembrano endoxa ma non lo sono. La plausibilità di una proposizione, eventualmente anche di una proposizione falsa, consiste, come desumiamo dalla definizione citata, nel sembrare vera a tutti o ai sapienti, mentre la plausibilità apparente di una proposizione è per Aristotele un’apparenza di verità talmente superficiale che chiunque è in grado di smascherare all’impronta la falsità di tale proposima tout court: cfr. Allen 1995. Sulla questione si veda anche Striker 1979, pp. 47-50, seguita da Slomkowski 1997, i quali sostengono che molte delle argomentazioni classificate nei Topici ricadano nella categoria dei «sillogismi da un’ipotesi», ossia quei sillogismi non riducibili al sillogismo analitico discussi brevemente da Aristotele ad APr. I 23 e 44.

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zione4. Ebbene, giocano un qualche ruolo questi sillogismi eristici del primo tipo nella definizione della confutazione apparente? Naturalmente no, perché se una premessa è un endoxon apparente, è falsa, e in quanto tale non rende apparente il sillogismo, che può benissimo avere premesse false ed essere nondimeno valido; e d’altra parte una premessa falsa non potrà mai nemmeno rendere apparente la relazione di contraddittorietà fra la conclusione e la tesi. Il secondo tipo di sillogismo eristico descritto nel passo è invece apparente in quanto sillogismo. È per questa ragione che Aristotele non vuole riconoscergli il titolo. Come un uomo morto non è un uomo e una pistola finta non è una pistola, un sillogismo apparente non è un sillogismo: l’aggettivo cancella il sostantivo. Il secondo tipo di sillogismo eristico è apparente nella relazione di conseguenza necessaria tra le premesse e la conclusione: quest’ultima sembra seguire necessariamente da quelle mentre in realtà non segue. Non c’è dubbio che la presenza di un «sillogismo» siffatto è sufficiente a classificare come apparente la confutazione che lo contiene ed è quindi evidente che questo tipo di argomentazione è l’anima di molte confutazioni apparenti. Non però di tutte, giacché, come abbiamo già anticipato, alcune contengono un sillogismo valido, ma sono apparenti quanto alla contraddizione. La contraddizione tra la tesi e la conclusione è apparente quando una delle due proposizioni sembra negare l’altra in modo che una delle due sia vera e l’altra falsa, mentre in realtà non la nega in questo modo. Questo accade, per esempio, quando il predicato della negazione e quello dell’affermazione siano costituiti da una parola che ha più significati e la negazione sia vera intendendo il predicato in un senso, mentre l’affermazione è vera intendendo il predicato in un altro senso. Il principale scopo dei sofisti e dei dialettici competitivi è la confutazione reale o apparente dell’interlocutore. Quando falliscono questo obiettivo, hanno a disposizione dei ripieghi più o meno dignitosi (elencati nel cap. 3). Anche di questi trattano le Confutazioni sofistiche, ma nell’Introduzione non ce ne occuperemo. 2. La prima classificazione delle confutazioni apparenti Rimasta per secoli un rigido copione dal quale ci si allontanava di rado e solo per qualche sporadica variazione, la prima classificazione 4

Top. I 1, 100b26-101a1. Cfr. Fait 1998a, pp. 24-35.

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delle confutazioni apparenti, esposta nei capp. 4 e 5, è di certo il contributo più celebre e duraturo offerto dal nostro trattato5. Aristotele individua tredici tipi di confutazione apparente e le ripartisce in due gruppi: quelle che dipendono dall’espressione e quelle che ne prescindono. «Dipendere da» traduce la proposizione para con l’accusativo, che ha valore causale. In «x dipende da y», x è l’apparenza e y una cosa atta a suscitarla. Ecco i tredici tipi di paralogismo accompagnati da una descrizione molto sintetica. Aristotele non li definisce, ma si limita ad illustrarli con alcuni esempi. Questo rende a volte difficile caratterizzarli con precisione. a) Confutazioni apparenti dipendenti dall’espressione (cap. 4) – Dipendenti dall’omonimia: sfruttano l’ambiguità di una singola parola. – Dipendenti dall’anfibolia: sfruttano l’ambiguità di una costruzione sintattica. – Dipendenti dalla composizione: sfruttano la possibilità di raggruppare in un certo modo alcune componenti di un enunciato. – Dipendenti dalla divisione: sfruttano la possibilità di dividere in un certo modo alcune componenti di un enunciato. – Dipendenti dalla forma dell’espressione: sfruttano certe caratteristiche (morfologiche, ma non solo) di una parola per dare la falsa impressione che il suo significato appartenga ad una certa categoria. – Dipendenti dall’accento: sfruttano la possibilità di accentare una parola in due modi diversi. b) Non dipendenti dall’espressione (cap. 5) – Dipendenti dall’accidente: sfruttano l’apparente identità tra un oggetto e il suo accidente per indurre ad attribuire ad entrambi tutte le stesse proprietà. – Dipendenti dalla predicazione limitata e non assoluta: sfruttano l’omissione di una qualificazione o di un complemento che limita l’attribuzione del predicato. – Dipendenti dall’ignoranza della definizione della confutazione: sfruttano l’ignoranza delle clausole definitorie della confutazione. – Dipendenti dall’assumere la conclusione prefissata (petizione di principio): assumono surrettiziamente come premessa quel che dovrebbero sillogizzare. – Dipendenti dal conseguente: sfruttano l’erronea inversione del5

Per una storia delle classificazioni delle fallacie si veda Hamblin 1970.

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la relazione di conseguenza necessaria sussistente tra un termine e un altro o tra un enunciato e un altro. – Dipendenti dall’assumere come causa ciò che non lo è: nelle riduzioni all’impossibile, attribuiscono la responsabilità della conseguenza impossibile ad una proposizione che non è responsabile. – Dipendenti dal fare una sola domanda di più domande: sfruttano il fatto di aver ottenuto una sola risposta ad una domanda che esigerebbe più risposte distinte. Aristotele modifica questa classificazione in corso d’opera e in qualche occasione sembra sperimentare delle alternative: alcuni paralogismi potrebbero essere raggruppati sotto un unico titolo, altri suddivisi in maniera un po’ diversa, ma grosso modo il catalogo è questo6. La bipartizione fa leva sulla nozione di espressione (lexis), e solleva due questioni principali: (i) che cosa voglia dire «dipendere dall’espressione» e (ii) se e come si possa caratterizzare positivamente la categoria, definita in modo puramente residuale e negativo, delle confutazioni apparenti non dipendenti dall’espressione. Nella Retorica e nella Poetica la lexis è il rivestimento linguistico di un’argomentazione o di un racconto, la formulazione in parole di qualcosa che viene prima pensato o escogitato7. Sotto questo termine ricadono indistintamente aspetti morfologici, sintattici, semantici, fonologici, ma qui tutte queste componenti sono pertinenti nella misura in cui contribuiscono a generare l’ambiguità, ossia la circostanza che un’espressione, semplice o complessa, significhi più cose. Nei primi capitoli delle Confutazioni l’ambiguità viene presentata come unica causa dei paralogismi linguistici, mentre, procedendo nella lettura, si registra qualche ripensamento, giacché nel corso del trattato Aristotele riconosce, accanto all’ambiguità, alla quale continua a ricondurre l’omonimia, l’anfibolia e la forma dell’espressione, anche il fenomeno della confusione tra due espressioni molto simili ma di significato differente, e tale confusione spiega le tre confutazioni linguistiche rimanenti8. In ogni caso, il ruolo sempre svolto dalla lexis nelle confutazioni apparenti è legato alla funzione simbolica o vicaria delle espressioni linguistiche. In uno dei passi più celebri delle Confutazioni sofistiche Aristotele paragona il ragionamento mediante il linguaggio al computo che si svolge con i sassolini dell’abaco (1, 165a3-17, vedi il Commento). Ciò che accomuna i due casi è che i significati vengono mesVedi Evans 1975. Cfr. Rh. III 1, 1403b15-18 con la nota di Rapp 2002, II, pp. 806-809. 8 Edlow 1977, pp. 21 sgg. 6 7

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si da parte e il ragionamento, come il calcolo, diventa una semplice manipolazione di simboli. Molti secoli dopo Aristotele, Leibniz scoprirà le potenzialità di questo pensare alla cieca e indicherà nella natura simbolica un aspetto importante della formalità della logica9. Aristotele, invece, sebbene colga l’analogia tra ragionamento e calcolo, pensa che la tendenza a non considerare l’«oggetto stesso» sia sempre deleteria e non possa che generare fraintendimenti. Anche negli Analitici primi, del resto, egli è ben lontano dal concepire la possibilità di edificare la logica su un linguaggio formale operante solo grazie a regole grammaticali e sintattiche. Emerge infatti da quell’opera che la veste linguistica dei sillogismi è per lui sempre alcunché di secondario ed egli non si «formalizza» sulle espressioni di fatto usate. †ukasiewicz rende l’idea dicendo che la logica di Aristotele (a differenza di quella degli Stoici) è formale senza essere formalistica, e a dire il vero non è agevole nemmeno comprendere in che senso sia formale, se è vero che gli oggetti logici descritti negli Analitici primi sono sempre i contenuti delle espressioni linguistiche10. Venendo ora al problema (ii), quello di caratterizzare positivamente le confutazioni apparenti indipendenti dalla lexis, possiamo prendere spunto da due riformulazioni antiche della distinzione: secondo la prima, la categoria non linguistica comprenderebbe i paralogismi la cui apparenza dipende «dagli oggetti» (para ta pragmata)11; per la seconda, quella categoria raggrupperebbe i paralogismi la cui apparenza dipende «dal pensiero» (para ten dianoian)12. Le proposte 9 Leibniz riconosce i pericoli del pensiero cieco quando diventa psittacismo (vedi per es. Nuovi saggi sull’intelletto umano 2.21.35; 2.29.11), ma sottolinea anche le potenzialità del ragionamento meramente simbolico: cfr. p. es. Sulla caratteristica, in Barone 1968, I, pp. 175-180: pp. 176-177. 10 †ukasiewicz 1957, pp. 15-19. Per l’idea che il sillogismo non riguardi le espressioni ma i significati, cfr. già Alessandro, In APr. 372.29. Secondo Barnes 1996, pp. 186-187, alcune formulazioni caratteristiche della sillogistica (p. es. «A si predica di tutto B») non intendono formalizzarne il linguaggio, ma descrivono direttamente la struttura semantica delle premesse e della conclusione dei sillogismi. Notiamo qui tuttavia che la mancanza di un approccio formalistico non implica che ad Aristotele sfuggisse l’efficacia di una presentazione schematica dei sillogismi al fine di giudicarne visivamente e meccanicamente la validità. 11 La distinzione para ten phonen/para ta pragmata viene sovrapposta dai commentatori a quella aristotelica, e non senza distorsioni (cfr. Ebbesen 1981, I, p. 35), giacché ha probabilmente origine stoica (Diogene Laerzio, VII 43) e potrebbe aver avuto nella Stoa un significato assai diverso (così congettura Atherton 1993, pp. 434 sgg.). 12 La distinzione para ten lexin/para ten dianoian è usata da Ammonio e da altri nei commenti a Int. 6, 17a34-37 e viene ripresa dallo Ps.-Alessandro, In SE 5.18-20.

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sono entrambe condivisibili se alludono in modi diversi ai significati della lexis. È Aristotele stesso, ad un certo punto, a contrapporre la dimensione meramente linguistica al pragma, all’oggetto stesso (7, 169a40). E poiché a rigore la falsità non sta negli oggetti, è chiaro che c’è in gioco anche la concezione errata di essi che noi ci formiamo. Ma quel che conta è che Aristotele evidentemente ammette che si possano confondere due oggetti, anche di natura astratta, senza alcuna responsabilità della mediazione linguistica, e questo perché ritiene che il pensiero sugli oggetti non sia necessariamente saldato al linguaggio. I due tipi di errore, quello linguistico e quello non linguistico, sono altrettanto capaci di far sembrare valida una confutazione che non lo è, e a questo proposito bisogna opporsi alla tentazione di associare ciascuna delle categorie di paralogismi ad una sola delle due componenti della confutazione: da una parte il sillogismo, che sarebbe il luogo in cui si annidano i paralogismi non linguistici, dall’altra la contraddizione, che sarebbe il ricettacolo dei paralogismi linguistici. In questo falso schematismo cadono gli interpreti che leggono i paralogismi non linguistici come errori logici e quelli linguistici come vizi della relazione di contraddittorietà tra la tesi e la conclusione. Al lettore delle Confutazioni non può sfuggire che, con l’eccezione di un luogo isolato in cui Aristotele si abbandona alla ricerca di simmetrie13, nel trattato non mancano paralogismi linguistici che hanno il difetto nel sillogismo e paralogismi non linguistici che lo hanno nella contraddizione. 3. La riduzione delle confutazioni apparenti all’«ignoranza della definizione» Dopo aver passato in rassegna le specie di confutazione apparente che dipendono dal linguaggio (cap. 4) e quelle che ne prescindono (cap. 5), Aristotele propone una classificazione alternativa (cap. 6). I tredici membri della partizione possono essere tutti ridotti ad uno di essi: l’ignoranza della definizione della confutazione (168a17-20). Ciascuno dei tredici paralogismi offende una clausola della seguente definizione: Per interessanti congetture sul valore del termine dianoia nel presente contesto, cfr. ancora Ebbesen 1981, I, pp. 127-131. 13 SE 6, 169a19-21, luogo addotto da Dorion, pp. 70-71, perché in effetti lega i paralogismi non linguistici al sillogismo, e quelli linguistici alla contraddizione. Ma vedi il commento a quel passo.

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La confutazione è infatti la contraddizione di uno e lo stesso oggetto, non solo di una parola, e di una parola non sinonima, ma della stessa; contraddizione derivante di necessità dalle cose concesse, senza comprendere nel numero ciò che era stato fissato all’inizio, sotto lo stesso rispetto, in relazione alla stessa cosa, nello stesso modo e nello stesso tempo (5, 167a23-27).

Nel passo del cap. 5 da cui è tratta la citazione, questo tipo di paralogismo viene detto dipendere dal trascurare una qualche clausola della formula definitoria. La definizione, come si vede, include anche il sillogismo, ma gli esempi citati sia nel seguito (5, 167a27-35) sia poi nel cap. 26 mostrano che le clausole più importanti sono in realtà solo quelle che costituiscono la definizione della contraddizione. Probabilmente il motivo per cui Aristotele introduce inizialmente questo tipo di paralogismo come distinto dagli altri è il seguente: gli altri paralogismi dipendono da un errore che rimane tale anche a prescindere dal fatto di far apparire valida una confutazione, mentre il paralogismo dell’ignoranza della definizione non contiene alcun errore di questo tipo. Per esempio, è sempre e comunque di per sé sbagliato credere che una certa parola ambigua abbia un solo significato (omonimia) o che un certo accidente sia identico al suo soggetto (accidente) o che una certa premessa sia diversa dalla conclusione (petizione di principio) e così via. Chi invece argomenta: il due non è doppio del tre; dunque il due non è doppio,

e sostiene di aver confutato la tesi il due è doppio,

non erra né nell’inferenza né, in un certo senso, nel sostenere che la conclusione contraddice la tesi. Il suo errore è solo quello di non considerare che la confutazione in cui è impegnato esige che la contraddizione sia dello stesso predicato e in relazione allo stesso oggetto. Soltanto la definizione della confutazione trasforma quindi la reticenza di questo interrogante in un vero peccato di omissione14. Alla luce 14 Questa interpretazione trova conferma a SE 24, 179b34-37 (ma si legga da 179b7), e riesce a spiegare come la fallacia che anche oggi chiamiamo ignoratio elenchi sia nata dal paralogismo aristotelico: cfr. Joseph 1916, p. 590. Si potrebbe contestare che la coppia di enunciati «il due è doppio»/«il due non è doppio», senza un ade-

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della definizione, infatti, gli si farà notare che è tenuto a precisare un termine della relazione di doppio, perché ciò è parte essenziale di una corretta confutazione. Questo tipo di paralogismo ha dunque una funzione molto specifica e il suo uso è limitato a certi casi particolari, ma nel cap. 6 Aristotele sostiene che la definizione della confutazione sia coinvolta anche negli altri paralogismi e che possa perciò offrire la chiave della classificazione alternativa a cui si accennava sopra. L’idea che guida il ragionamento aristotelico resta inespressa nel capitolo, ma può essere ricostruita alla luce di un passo dei Topici (VIII 3, 158b24-34), dove, adducendo un esempio matematico, Aristotele spiega che molte perplessità si chiariscono non appena venga definito l’oggetto su cui si ragiona. Nel cap. 6 Aristotele cerca di usare la definizione della confutazione proprio in questo modo: ogni confutazione apparente diventa secondo lui chiara, nel senso che l’apparenza si dissolve, non appena venga considerata con il metro della definizione. Di qui la conclusione che l’ignoranza della definizione sia presente anche in tutti gli altri paralogismi e l’idea di usare questo tipo di paralogismo come criterio generale. Dal punto di vista psicologico, l’ignoranza della definizione non viene illustrata se non con qualche accenno nel cap. 7, dove è presentata come un’insensibilità ai dettagli, come una visione grossolana dei rapporti logici che devono valere in una confutazione. Non è detto che quei dettagli sfuggano all’attenzione di chi è vittima di una confutazione apparente, ma costui non ne apprezza l’importanza e ritiene che sia irrilevante (para mikron 7, 169b15), per esempio, se i due enunciati contraddittori vengono riferiti allo stesso tempo oppure no. È verosimile che alcune confutazioni apparenti dipendano da tale fattore, e tuttavia, nel momento in cui propone questo tipo di errore a fondamento di una nuova classificazione generale dei paralogismi, Aristotele sembra forzare la mano ed esporsi ad una seria obiezione. Per illustrare quest’obiezione prendiamo a prestito la distinzione tracciata dai logici medievali tra causa apparentiae e causa defectus, una distinzione che Aristotele non è riuscito a rendere esplicita e che invece è indispensabile alla chiarezza15: guato completamento, non è una coppia di contraddittori. Penso tuttavia che Aristotele potrebbe riconoscere questi enunciati come contraddittori, dato che nel De interpretatione (7, 17b29-34) classifica come tali enunciati del tipo «un uomo corre»/«un uomo non corre», che possono essere entrambi veri. 15 La distinzione tra causa del difetto (causa defectus o causa non existentiae) e cau-

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– la causa dell’apparenza di una confutazione è una convinzione errata che ci spinge ad approvare una confutazione come corretta; – la causa del difetto è invece la lacuna o la mancanza che oggettivamente vizia quella confutazione e che viene coperta dalla causa dell’apparenza. Chi per esempio incorre in un’omonimia pensa che il termine ambiguo in questione abbia un solo significato (causa dell’apparenza), e per questo gli sfugge che la confutazione è invalida in quanto in essa ricorre uno stesso termine con significati diversi (causa del difetto). Ora, nel cap. 6 Aristotele lascia chiaramente intendere che l’ignoranza della definizione sarebbe secondo lui causa dell’apparenza di tutti i paralogismi (vedi specialmente 168b15-16; b17-21; 169a2016) e questo sembra molto discutibile. Se è vero infatti che tutti i paralogismi violano in un modo o nell’altro la definizione della confutazione – e queste violazioni sono cause del difetto –, non è affatto plausibile che tutti i paralogismi dipendano dall’ignoranza della definizione anche nel senso che la loro apparenza sia causata da quello specifico fattore, perché esso non è compatibile con le cause di apparenza che Aristotele aveva illustrato nei capitoli precedenti. Consideriamo per esempio il caso dell’omonimia: chi commette questo paralogismo pensa che il termine ambiguo abbia un solo significato e, sulla base di questa opinione errata, ragiona correttamente. Non trascura infatti alcun requisito della definizione, ma pensa erroneamente che siano tutti soddisfatti, compreso quello che vieta l’omonimia. Abbiamo dunque una persona che ragiona bene, ma viene fuorviata da un errore che le fa sembrare soddisfatta una certa clausola della definizione e quindi valida una confutazione invalida. Se invece l’ignoranza della definizione fosse la causa dell’apparenza, la situazione sarebbe quella di una persona che non ragiona correttamente perché, pur sapendo che quel determinato termine è omonimo, non sa che l’omonimia vizia la confutazione ed è perciò vietata. Nel primo caso abbiamo un fraintendimento relativo ad una confutazione particolare, ma un’adeguata conoscenza, almeno implicita, della definizione generale della confutazione. Nel secondo caso la confutazione particolare è compresa correttamente, ma non viene sa dell’apparenza (causa apparentiae) è uno dei più importanti contributi alla chiarezza offerti dalle analisi medievali del nostro trattato. Cfr. Ebbesen 1987, pp. 115-117. 16 Questi passi mi sembrano escludere che «apparente» possa spogliarsi della dimensione psicologica e significare solo «non valido».

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censurata perché non si conosce la definizione generale. Che le due situazioni non possano realizzarsi insieme appare evidente, e perciò non è possibile che l’ignoranza della definizione, come causa di apparenza, agisca in concomitanza con altre cause di apparenza17. La difficoltà, come è evidente, nasce dal fatto che nel cap. 6 Aristotele prende per causa dell’apparenza ciò che è solo causa del difetto dei paralogismi18. Questa confusione può forse essere compresa, anche se non giustificata, alla luce del fatto che anche quando parla dell’invalidità – cioè di argomentazioni «false» o «asillogistiche» – Aristotele pensa sempre ad argomentazioni che sembrano sillogistiche19. Egli non considera mai l’invalidità in quanto tale, in quanto caratteristica indipendente dall’apparenza e riguardante anche argomentazioni del tipo di Le pernici mutano il piumaggio; la marmotta fischia; dunque il Cervino è alto,

che sono del tutto prive di apparenza. Questa particolare enfasi sul concetto di apparenza può forse spiegare perché Aristotele non si accontenti di individuare la semplice causa del difetto: se pensata in modo meramente negativo, infatti, la sua classificazione fondata sulla definizione della confutazione finirebbe per includere anche argomentazioni come quella delle pernici, ed egli vuole invece ottenere una classificazione delle confutazioni apparenti. In conclusione: nel cap. 6, se non mi inganno, Aristotele dovrebbe limitarsi ad usare la definizione come metro per stabilire la semplice causa del difetto delle confutazioni20, ma una evidente riluttanza a descrivere le confutazioni apparenti in modo meramente oggettivo lo spinge a rappresentare in maniera unilaterale la motivazione psicologica di chi commette i paralogismi, al punto di fare dell’ignoranza della definizione la causa dell’apparenza di tutti i tipi di paralogismo. 17 Pace Joseph 1916, p. 590. Un interessante ma non pienamente convincente tentativo di rendere compatibili i due approcci in Pietro Ispano, Tractatus, VII par. 179 (De Rijk 1972, p. 180). 18 Non sostengo che Aristotele non sia in grado di tracciare questa distinzione, vedi p. es. l’uso di paralogismos a 1, 164a21, ma solo che nel cap. 6 egli la trascura. 19 Vedi SE 10, 171a4-5; 18, 176b31-32; 35-36; cfr. anche 8, 169b40-170a1 con il commento. 20 A quest’uso della definizione Aristotele allude a SE 17, 176a36-37.

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4. La premessa falsa «validante» A questo punto potrà forse sembrare che siano state tratte conclusioni affrettate. Ho sostenuto nell’ultimo paragrafo che, se prescindiamo dalla novità introdotta nel cap. 6, le cause dell’apparenza dei paralogismi sono credenze errate che determinano un errore di valutazione delle confutazioni. Il paralogismo dell’omonimia, per insistere sull’esempio più semplice, è commesso da un soggetto che crede che un certo termine non sia omonimo, ed è portato perciò a pensare che la confutazione non contenga alcuna ambiguità e sia valida. Si potrebbe obiettare che questa analisi emerge solo a tratti: è sì all’opera nel cap. 4, dove Aristotele descrive le cause dei paralogismi linguistici come «cose che suscitano l’apparenza», ma in qualche caso sembra smentita. Per esempio, dove parla espressamente della causa dell’apparenza, cioè nel cap. 7, Aristotele assimila ben quattro paralogismi all’ignoranza della definizione (169b9-17), confermando l’approccio del cap. 6. L’analisi della causa dell’apparenza come convinzione falsa che induce in errore un soggetto che ragiona bene trova tuttavia una conferma decisiva nel cap. 8 – un testo importante quanto difficile e trascurato. Qui Aristotele confronta confutazioni sofistiche che sono apparenti con confutazioni sofistiche che sono invece valide (169b18-29). Egli sostiene che una volta conosciute le cause delle confutazioni apparenti avremo anche le cause delle altre confutazioni sofistiche, quelle valide. Il rispondente crede infatti che la confutazione sia valida perché è convinto di aver concesso qualcosa che in realtà non è stato assunto nelle premesse. Ma quel che crede di aver concesso, lo concederà se gli verrà chiesto, e con quella premessa aggiuntiva la confutazione diventerà valida (b30-34). Vale la pena di soffermarsi brevemente sul meccanismo della premessa aggiuntiva. Più avanti nel capitolo Aristotele rende esplicito che l’assunzione supplementare, nel caso dell’omonimia, è che il termine omonimo significa una cosa sola (170a13-17). Un esempio adeguato potrebbe essere il seguente: Il rombo è una figura geometrica; il rombo ha le branchie; dunque una figura geometrica ha le branchie.

Questo sillogismo non è valido ma può diventarlo se venga aggiunta una premessa come «rombo» ha un solo significato, XXII

che chiamerò «premessa falsa validante»21. A 170a15-16 viene detto esplicitamente che anche per tutti gli altri tipi di paralogismo c’è una premessa analoga. Aristotele osserva che la premessa falsa validante è qualcosa che il rispondente crede di aver concesso (169b34) e allo stesso modo si esprime in altre occasioni (6, 168b9-10; 22, 178a20). Dobbiamo cercare di comprendere questa espressione, in verità non molto chiara. Nel capitolo 22, dove la questione della premessa falsa validante è di nuovo discussa, Aristotele afferma che tale premessa viene aggiunta dall’ascoltatore (178a22-23). Le medesime parole sono usate in un passo molto noto della Retorica per descrivere un fenomeno che si verifica con gli entimemi (I 2, 1357a18-19): l’ascoltatore aggiunge mentalmente la premessa mancante (in questo caso vera e ben nota) e quindi inferisce correttamente la conclusione anche se le premesse esplicite non sarebbero sufficienti. Nelle Confutazioni Aristotele si figura probabilmente un rispondente che non presta attenzione al fatto che la premessa falsa validante, che egli ha tacitamente aggiunto, non è stata formalmente assunta come risposta ad una domanda, e perciò crede di averla concessa. Oltre ad essere tacita, l’asserzione si comporta in modo discreto anche nella mente del rispondente, se è vero che in alcune circostanze, come osserva Aristotele, è sufficiente che la domanda sia posta perché chi risponde, fissando un po’ meglio l’attenzione su di essa, si avveda subito del falso (169b34-37). Ma nella maggioranza dei casi l’ammissione tacita sarà confermata anche esplicitamente e perciò non dipende dal fatto che l’interrogante abbia passato sotto silenzio un dettaglio decisivo22. Questa spiegazione «entimematica» della teoria della premessa falsa validante è di gran lunga la più semplice e tuttavia suscita qualche perplessità. Dovremmo per caso concluderne che normalmente anche nei sillogismi validi l’ascoltatore assume mentalmente tutte le possibili premesse (vere) del tipo della premessa falsa validante? È evidente che la risposta deve essere negativa. Quando deduciamo qualcosa dalle opportune premesse diamo per scontate molte verità 21 A tale premessa Aristotele fa riferimento anche nei seguenti altri luoghi delle Confutazioni: 5, 168a11-12; 6, 168a28-33 (in questo caso tale premessa è vera); 169a16-18; 13, 173b12-16; 22, 178a16-28; 32, 182a22-25. 22 Non si dimentichi che Aristotele distingue i veri e propri paralogismi – la cui efficacia ha ragioni relativamente profonde e non dipende solo da una momentanea distrazione – dai meri espedienti sofistici consistenti in una presentazione fuorviante delle domande volta ad occultarne certe implicazioni. Questi ultimi sono discussi a parte nel cap. 15.

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che non devono e non possono essere assunte come premesse: premesse aggiuntive come quelle validanti sono superflue se vere, e indispensabili solo se false. Inoltre, se l’integrazione di queste premesse trasformasse le confutazioni apparenti in confutazioni pienamente valide, perché mai i sofisti si sarebbero dati la pena di escogitare confutazioni apparenti, potendo ottenere gli stessi risultati senza inganno? In una certa misura Aristotele sembra consapevole del fatto che le premesse false validanti rendono valide le confutazioni solo a prezzo di snaturarle. In primo luogo, egli sottolinea che le confutazioni sofistiche valide in virtù dell’aggiunta esplicita della premessa falsa validante non sono «appropriate all’oggetto». Evidentemente non gli sfugge che tale premessa non riguarda l’argomento su cui verte il sillogismo, giacché le cause delle confutazioni apparenti codificate nella premessa validante, cioè l’omonimia, l’accidente ecc., sono generali e non legate ad un dominio specifico, come invece, per esempio, le cause dei paralogismi matematici. Inoltre, e questa è la cosa più importante, egli osserva che quelle confutazioni sono tali solo per l’interlocutore che ha concesso la premessa falsa validante, e non in assoluto, cioè oggettivamente23. Il che significa probabilmente che una confutazione che sia tale in assoluto può dipendere dall’assenso dell’interlocutore solo per le premesse normali e non deve fondarsi sull’assenso a premesse anomale come quelle false validanti. È chiaro comunque che il punto debole dell’analisi aristotelica è la mancanza di una descrizione convincente del modo in cui l’interlocutore aggiunge tacitamente la premessa. Non dovrebbe trattarsi di un’aggiunta, ancorché mentale, ma di una presupposizione del ragionamento. Nell’unico esempio che Aristotele ci presenta, l’analisi è assai più convincente. Ci troviamo a 22, 178a10 sgg. e Aristotele discute un paralogismo dipendente dalla forma dell’espressione che procede così: (a) Non è forse vero che non si può tagliare ed aver tagliato, bruciare ed aver bruciato, e similmente per tutte le cose che si dicono in questo modo, e cioè che appartengono alla categoria del fare? – Sì, è vero. (b) Dunque non si può contemporaneamente fare e avere fatto la stessa cosa? – No, non si può. 23 SE 8, 170a12-19; cfr. 32, 182a21-24. Per contro, a 5, 168a12 la premessa aggiuntiva rende la confutazione «autentica».

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(c) Tuttavia si può contemporaneamente vedere ed avere visto la stessa cosa.

(a) stabilisce induttivamente la conclusione (b), e questa viene subito confutata da (c). Con (a), spiega Aristotele, si induce l’interlocutore a credere di aver concesso che vedere (horan) appartiene alla categoria del fare, come il tagliare e il bruciare. Poiché l’interlocutore, confuso dalla forma dell’infinito attivo «vedere», pensa che il tagliare, il bruciare e il vedere facciano tutti parte della stessa categoria, egli crede di aver ammesso, concedendo (a), che il vedere sia un fare. Al contrario, poiché il vedere non fa parte di quella categoria, non è incluso tra «tutte le cose che si dicono in questo modo» a cui accenna (a), e perciò la sua appartenenza alla categoria del fare non è stata in verità concessa se non tacitamente. Bisogna che l’interrogante domandi in aggiunta se il vedere sia un fare, e solo con questa eventuale ulteriore concessione il rispondente sarà confutato. Come si vede, la richiesta aggiuntiva è indispensabile solo perché falsa: se veramente il vedere fosse un fare e facesse parte delle «cose che si dicono in questo modo», la semplice risposta ad (a) impegnerebbe già il rispondente a concederlo. In questo caso, il solo credere che il vedere sia un fare implica effettivamente il credere di averlo concesso. Ecco allora una illustrazione plausibile del «credere di aver concesso». Purtroppo, però, non vedo come si possa applicare quest’analisi agli altri paralogismi: essa sembra dipendere dalle particolarità del caso specifico. Comunque sia, anche lasciando irrisolti i problemi sollevati, è chiaro che l’analisi psicologica dei paralogismi, quale emerge dai capp. 8 e 22, postula che il rispondente ragioni correttamente e sia confuso dal ritenere soddisfatta una condizione necessaria alla validità del ragionamento che invece non è soddisfatta. Come ho spiegato nel paragrafo precedente, questa analisi presuppone una conoscenza almeno implicita e operativa di che cosa sia una confutazione e non si lascia armonizzare con l’idea, elaborata nel cap. 6, che tutte le confutazioni apparenti siano dovute all’ignoranza della definizione. 5. Le confutazioni sofistiche e la logica formale A rendere ancora più problematica la nozione di confutazione apparente interviene un’idea che in Aristotele non viene mai resa esplicita e che si affaccia solo nei suoi commentatori antichi, spingendo poi la propria onda perturbatrice fino a noi. Alludo alla nozione di forma loXXV

gica. La confutazione è un tipo di sillogismo, cioè un’argomentazione deduttiva, e una lunga quanto ben fondata tradizione ci ha insegnato a spiegare la validità di un’argomentazione deduttiva facendo appello alla sua forma logica. Poiché l’influenza di questa tradizione ha interessato anche l’interpretazione del nostro trattato, bisogna interrogarsi su quale relazione sussista tra sillogismi (o confutazioni) apparenti e forma logica. Se la forma spiega la validità, che ruolo le spetta nello studio delle argomentazioni invalide? Per inquadrare storicamente il problema conviene riprendere dalla definizione del sillogismo eristico dei Topici. L’abbiamo già citata nel primo paragrafo: Ed è sillogismo eristico da un lato quello che parte da premesse che sono apparentemente ma non realmente plausibili e dall’altro quello che parte da premesse plausibili o apparentemente tali, ma è apparentemente sillogismo. [...] Il primo dei due tipi di sillogismo eristico distinti sia detto anche «sillogismo», l’altro, «sillogismo eristico» ma non «sillogismo», poiché sembra sillogizzare ma non sillogizza (Top. I 1, 100b23-101a4).

Per illustrare questo passo, Alessandro di Afrodisia, il più autorevole commentatore di Aristotele dell’antichità, introduce la nozione cruciale di forma. Dichiara infatti che il secondo tipo di sillogismo eristico è «errato per la forma», e cita tra gli esempi due «sillogismi» di seconda figura con entrambe le premesse affermative (In Top. 21.1323); per esempio: Ogni cavallo è un animale; ogni uomo è un animale; dunque ogni uomo è un cavallo.

Alessandro fa uso della dottrina delle figure e dei modi che ha desunto dagli Analitici primi. In quell’opera egli trova tutto il necessario per sviluppare una dottrina ilomorfica del sillogismo. Aristotele, per la verità, non usa in quel trattato la coppia di termini più importante della sua fisica, «materia» e «forma», e solo occasionalmente accenna altrove ad una applicazione dei due concetti al sillogismo. La distinzione tuttavia finisce col dilagare anche nel territorio della logica, sicché Alessandro distingue ormai con metodo la forma di un sillogismo dalla sua materia24. Quest’ultima è data dai termini delle premesse e della 24

Ebbesen 1981, I, p. 95, congettura un’origine stoica di questa distinzione.

XXVI

conclusione, la prima è invece determinata dalla posizione dei termini nelle premesse nonché dalla quantità (universale o particolare) e qualità (affermativa o negativa) delle proposizioni che compongono il sillogismo. L’idea fondamentale è che la materia può variare, mentre la forma permane costante; ciò è segnalato da un prezioso artificio introdotto da Aristotele, l’uso di lettere al posto dei termini concreti. L’errore formale è causato dunque, secondo Alessandro, da un modo sillogistico non valido come quello in seconda figura con premesse universali affermative. A proposito di siffatte argomentazioni, egli rimanda alle Confutazioni come alla trattazione di riferimento, ma si tratta solo di una citazione obbligata e meccanica, perché nessuno dei suoi esempi è riconducibile ad uno dei tredici tipi di confutazione apparente distinti in quel trattato25. E anche quando menziona esempi di sillogismo eristico del primo tipo, quello errato per la materia, lo fa di nuovo in un modo incompatibile con la classificazione delle Confutazioni26. Insomma, Alessandro getta un ponte che dagli Analitici primi va alle Confutazioni, ma si tratta di un ponte campato in aria. Ciò nondimeno con questo ibrido egli inaugura autorevolmente l’interpretazione ilomorfica dei paralogismi, una dottrina acriticamente adottata poi per secoli dai commentatori delle Confutazioni27. 25 Gli esempi di sillogismi in seconda figura con premesse affermative sono stati ispirati forse ad Alessandro da APo. I 12, 77b40-78a6 (altri glossatori citano l’esempio di Ceneo ivi menzionato). L’errore lì descritto da Aristotele assomiglia al paralogismo classificato nelle Confutazioni come dipendente dal conseguente, perché dalle premesse affermative di quel sillogismo in seconda figura si può ottenere la stessa conclusione con un impeccabile sillogismo in Barbara dopo aver operato una conversio simplex illecita della premessa minore. Il paralogismo del conseguente non dipende però da una confusione sulla seconda figura, ma da una confusione relativa alla conversione. 26 Tra i sillogismi eristici del primo tipo Alessandro cita infatti un esempio giocato sull’ambiguità di andreios che vuol dire sia «coraggioso» sia «da uomo [riferito ad un indumento]» (In Top. 21.8-9). Sembrerebbe trattarsi di omonimia, ma se questo è un sillogismo eristico del primo tipo, e pecca solo per una premessa falsa, non può rientrare nelle confutazioni apparenti dovute all’omonimia. L’esempio è quasi certamente di origine stoica e la spiegazione di Alessandro risente forse del trattamento stoico. Per una discussione cfr. Ebbesen 1981, I, pp. 30-32; Atherton 1993, pp. 414424; 449; 459. 27 Ps.-Alessandro, In SE 4.9-28; 6.31-7.1; 7.9-11; 18.30-19.2; 70.22-25; Anonimo, In SE 4.12-22; 29.18-22; 47.3-4. Altri testi in Ebbesen 1981, II, pp. 201-202; 242-243; 282. Vedi inoltre Filopono, In APo. 150.29-151.26. In generale cfr. Ebbesen 1981, I, pp. 95-99. Tra i commentatori moderni, Tricot e Zanatta riprendono la distinzione materia/forma, ma in modo generico e senza vincolarla all’apparato della sillogistica.

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Nonostante i suoi limiti28, il tentativo di Alessandro rimane comunque istruttivo perché chiama in causa una concezione della forma particolarmente importante. La dottrina degli Analitici primi esemplifica nei fatti un’idea di forma logica che ha avuto poi grande fortuna e che possiamo chiamare «schematica» in quanto le argomentazioni che la possiedono sono strutturate in modo tale da esibirla quasi graficamente. Per esempio, Ogni cavallo è un animale; ogni purosangue è un cavallo; dunque ogni purosangue è un animale

esibisce una forma del tipo Ogni B è un A; ogni C è un B; dunque ogni C è un A.

Questo concetto di forma logica è quello che subito balza alla mente quando ci si interroga sul ruolo della forma nella dottrina dei paralogismi. Analizzarlo in modo rigoroso non sarebbe affatto semplice, ma qui ci accontenteremo di saperlo identificare e ci chiederemo solo che ruolo possa interpretare nella dottrina aristotelica delle confutazioni apparenti. Per evitare confusioni useremo la distinzione tra causa dell’apparenza e causa del difetto che abbiamo richiamato sopra, nel par. 3. (a) Qualsiasi concezione schematica della forma, non solo quella peripatetica, è raramente adeguata a spiegare la causa dell’apparenza dei tredici paralogismi. Solo in due o forse tre casi si può sostenere che l’apparenza sia dovuta all’applicazione di uno schema formale fallace29. La ragione sta probabilmente nel fatto che gli esseri umani san-

28 La forzatura dell’interpretazione di Alessandro dipende in buona parte dalla sua lettura sistematica e non cronologica dell’Organon. Ho già osservato nel par. 1 che, dal punto della cronologia relativa, non è lecito attribuire alle Confutazioni la successiva dottrina del sillogismo esposta negli Analitici primi. Vedi anche il par. 10. 29 Oltre al paralogismo del conseguente, che dipende da una concezione errata della conversione delle premesse, e perciò può meritare il titolo di formale, una seconda eccezione è forse costituita dal tipo di confutazione che dipende dal cancellare un complemento del predicato (vedi 5, 166b37-167a20 e cap. 25). Qui sembra applicata una regola formale che ammette contro-esempi (da «S è PQ» inferire «S è P»), ma

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no gestire solo un numero limitato di complicazioni formali di questo tipo; tendono quindi ad evitare l’inutile e insidiosa Spitzfindigkeit delle forme logiche e quando si confondono ragionando, lo fanno per altre ragioni. (b) Una teoria schematica della forma potrebbe invece rivelarsi utile a comprendere la causa del difetto di quelle confutazioni apparenti che dipendono da un sillogismo apparente. È innegabile infatti che un repertorio delle forme valide e invalide che sia esaustivo (tale era la sillogistica agli occhi di Aristotele) può certamente servire a diagnosticare l’invalidità di un’argomentazione. Nelle Confutazioni non troviamo traccia di una dottrina schematica della forma. C’è tuttavia una teoria della forma di genere diverso. Che cos’è infatti la definizione della confutazione se non una descrizione della forma delle confutazioni? Tale definizione è infatti formale se non altro nel senso che è indifferente al contenuto della confutazione, che riesce cioè a comprendere sotto di sé confutazioni di ogni argomento concepibile30. Distinguiamo brevemente anche per questa concezione della forma la causa dell’apparenza dalla causa del difetto. (c) Abbiamo visto (par. 3) che, se ci attenessimo a quel che Aristotele sostiene nel cap. 6, l’ignoranza della definizione della confutazione potrebbe essere addirittura la causa dell’apparenza di tutti i paralogismi. Abbiamo anche osservato, però, che questa dottrina non è compatibile con altre importanti concezioni sostenute nel trattato e che probabilmente qui Aristotele fa confusione. In alcuni casi, tuttavia, niente impedisce che l’ignoranza della definizione della confutazione sia causa dell’apparenza. (d) La definizione della confutazione è perfettamente adeguata alla spiegazione della causa del difetto di tutti i paralogismi, giacché tutti violano una clausola della definizione. Come ho suggerito sopra, Aristotele avrebbe dovuto limitarsi a dire che in generale la definizione della confutazione svolge solo questo compito. Egli tuttavia non mi sembra negare che la definizione svolga anche questo compito. Nelle Confutazioni è dunque all’opera una concezione della forma logica, quella rappresentata dalla definizione della confutazione. In-

si tratta di un errore la cui spiegazione richiederebbe una dottrina della forma ben più comprensiva di quella peripatetica. 30 Solmsen 1929, pp. 70-72, vede nella definizione della confutazione un primo abbozzo di concezione formale dei sillogismi.

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tesa sano modo, essa ha un ruolo principalmente negativo (punto d). D’altra parte, anche una concezione schematica della forma come quella degli Analitici primi potrebbe servire allo stesso scopo (punto b). Aristotele se ne mostra consapevole, per esempio, nella sua analisi dei tipi non concludenti di «segno» retorico ad APr. II 27, 70a2838. Ci si chiede pertanto se, dopo la scoperta del sillogismo analitico, Aristotele possa aver ritenuto che la nuova concezione della forma imponesse una qualche revisione della vecchia dottrina dei paralogismi esposta nelle Confutazioni. Non è facile rispondere a questo interrogativo, e tuttavia l’impressione è che le due concezioni della forma, quella schematica degli Analitici primi e quella non schematica delle Confutazioni, siano incommensurabili. Per limitarci ad un aspetto vistoso, notiamo che nelle Confutazioni è evidente lo sforzo di far corrispondere a ciascuna causa dell’apparenza una clausola della definizione della confutazione che risulta violata. Per esempio, se una causa di apparenza è che un termine omonimo sembra avere un solo significato, la definizione conterrà una clausola che vieta le omonimie, e analogamente negli altri casi. A ben guardare, la definizione della confutazione sembra addirittura strutturata proprio per dispiegare tutta la gamma delle clausole violate dai paralogismi. In questo modo ogni clausola della definizione rispecchia in negativo uno dei tredici fattori di apparenza, ed è evidente che ciò è della massima importanza per una diagnosi metodica dell’errore. Se al posto di una clausola della definizione trovassimo che il paralogismo in questione ha la forma fallace Ogni A è B; ogni D è C; dunque ogni A è C,

non avremmo alcuna informazione circa il tipo di causa dell’apparenza che ci ha spinto ad approvare quella forma. Non è un caso, dunque, se negli Analitici le considerazioni che mettono in relazione i paralogismi con l’apparato della sillogistica sono solo episodiche. Oltre ad APo. I 12, 77b40-78a6, dove gli interpreti hanno visto un’analisi sillogistica del paralogismo del conseguente, si può menzionare un passo nello stesso capitolo (77b27-33) dove Aristotele osserva che l’omonimia concerne sempre il termine medio. Solo due dei tredici paralogismi («petizione di principio» e «falsa causa») vengono nuovamente discussi negli Analitici primi (rispettivamente a II 16 e a II 17), ma dove la nuova trattazione non collima con XXX

la vecchia ciò non è a motivo della nuova logica. È vero invece che negli Analitici diventa centrale il tema della quantificazione, tutt’altro che approfondito nelle Confutazioni, e che Aristotele si sofferma su nuovi tipi di errore indotti proprio dalla quantificazione (APr. I 33; 34). Solo limitatamente a questi errori si potrebbe sostenere che il macchinario delle Confutazioni non sia più adeguato31. 6. Logica o dialogo? Integrare la dottrina aristotelica dei paralogismi in una teoria logica presenta dunque varie difficoltà e questo può far nascere il timore che finché si leggeranno le Confutazioni con gli occhiali del logico formale, peripatetico o moderno che sia, il significato più profondo di quest’opera non potrà che sfuggire. Da questo tipo di disagio più di un lettore ha tratto la conclusione che nelle Confutazioni Aristotele non sia principalmente interessato agli aspetti logici del sillogismo e della confutazione in quanto tali, e che sia proprio questa la ragione per cui la forma logica è rilevante solo occasionalmente. L’analisi del trattato, si sostiene, non dovrebbe prescindere dal fatto che le argomentazioni apparenti sono calate in un gioco dialogico che si svolge tra due interlocutori, un interrogante e un rispondente. Dunque i possibili errori che Aristotele considera pertinenti saranno non solo e non tanto errori di logica, ma infrazioni di certe regole dialogiche. Per esempio il paralogismo della «petizione di principio», che nella sua forma più banale consiste nell’intercalare tra le premesse la conclusione da dedurre, non infrange alcuna regola logica, perché «p, dunque p» è un’inferenza valida. Sarà più corretto, si pensa allora, interpretarlo come la regola dialogica che vieta appunto di chiedere tra le premesse la stessa conclusione che ci si propone di dedurre32. Nonostante la sua apparente plausibilità, la proposta è certamente fuorviante33. È vero che l’oggetto principale del trattato è la confutazione, e questa potrebbe essere interpretata come uno schema di dialogo sottoposto ad un rigido regolamento, ma Aristotele si preoccupa di definirla in modo da astrarre il più possibile dagli aspetti pragmatici ed anche epistemologici dello scambio dialogico. La confutazione è semplicemente «il sillogismo della contraddittoria», dove è Ma confronta APr. I 33, 47b38 con SE 7, 169b14-17. Robinson 1971 e più dettagliatamente Hintikka 1987. 33 Cfr. la pertinente critica che Woods e Hansen 1997 rivolgono a Hintikka 1987. 31 32

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chiaro l’intento di ridurre l’oggetto definito alle due relazioni logiche che lo costituiscono: quella di conseguenza logica tra premesse e conclusione e quella di contraddizione tra conclusione e tesi. Né si può obiettare che il riferimento alla contraddizione introduca un fattore di carattere non strettamente logico, giacché Aristotele non vede alcuna differenza fondamentale tra errori che inducono a immaginare una conseguenza logica dove non c’è, ed errori che inducono a pensare che due enunciati siano contraddittori anche se non lo sono. E quando nel nostro trattato egli parla di confutazioni apparenti vuole bensì isolare una classe più ampia di quella dei sillogismi apparenti – perché non tutte le confutazioni apparenti sono tali per colpa del sillogismo – ma tuttavia una classe costruita estendendo la nozione di sillogismo apparente e unificata dalla presenza di un difetto comune che è il seguente: tutte le confutazioni apparenti non sono conformi, per un motivo o per l’altro, alla definizione della confutazione34. 7. I sillogismi sofistici validi e la dialettica esaminatrice Nelle Confutazioni Aristotele esamina un tipo di confutazione eristica e sofistica che non rientra né nella classificazione dei tredici paralogismi né nella definizione del sillogismo eristico. Si tratta di argomentazioni il cui tratto ingannevole non sta nell’apparente validità, ma nello spacciarsi per dimostrazioni scientifiche senza esserlo. Con tali sillogismi il sofista confuta lo specialista di una disciplina come la matematica, la medicina o l’etica, e acquista un’apparente reputazione di sapienza o di imbattibilità35. Per comprendere la natura di queste confutazioni sofistiche valide bisogna prendere le mosse da un tipo di dialettica, solo implicitamente tematizzato nei Topici36 ma più volte richiamato nelle Confutazioni, di cui le confutazioni sofistiche valide in questione rappresentano una sorta di abuso e di perversione. Si tratta di quella 34 È da notare l’indifferenza con cui Aristotele accomuna «sillogismo e confutazione apparente» a 8, 169b20; 21. Spesso egli passa da un concetto all’altro e nel cap. 18 dimentica ogni riferimento alla contraddizione e si concentra solo sul sillogismo. 35 Più di un luogo delle Confutazioni testimonia chiaramente che le confutazioni sofistiche in generale mirano ad attaccare gli specialisti delle varie arti o i filosofi. I passi più espliciti sono 6, 168b4-10 e 8, 169b27-29. C’è però altra evidenza implicita negli esempi geometrici e medici scelti nel cap. 11 e nelle raccomandazioni di 17, 175a31-35. 36 Probabilmente nei Topici era il tipo di dialettica usato con i polloi nelle discussioni pubbliche. Vedi il commento al cap. 2.

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specie (o parte o applicazione) della dialettica che Aristotele discute solo per accenni e che chiama «esaminatrice», peirastike (2, 165b47, 8, 169b23-29; 11, 171b3-6). Siffatta dialettica si propone di mostrare l’ignoranza di un interlocutore che millanta il possesso di un sapere, e di farlo a partire da premesse concesse dall’interlocutore stesso (2, 165b5). Poiché in generale la dialettica è solo una capacità di argomentare e non ha alcun accesso garantito alla verità, non è facile definire una classe di argomentazioni dialettiche che siano capaci di provare l’ignoranza di qualcuno. Aristotele sostiene che sono tali quelle che muovono da premesse o concetti «comuni» (o «conseguenti»), ossia proposizioni o concetti che si applicano trasversalmente a tutti i campi del sapere, e che sono tali che la loro conoscenza sia condizione necessaria ma non sufficiente di qualsiasi sapere scientifico37. Mostrare che qualcuno è in contraddizione con se stesso sui concetti comuni necessari ai saperi specialistici è un modo pienamente lecito di rendere palese la sua ignoranza, in particolare quando si ha di fronte un soggetto la cui presunzione di sapere e la cui conseguente indisponibilità all’apprendimento rendono impossibile sconfessarlo sulla base dei principi scientifici e impongono il ricorso a proposizioni plausibili accessibili anche al pubblico (è evidente che sarà nel migliore dei casi raro e casuale che i principi dei saperi scientifici siano anche endoxa e che quindi la discussione dialettica e quella scientifica possano procedere di pari passo38). Ma si vuol forse sostenere che tutte le premesse della dialettica esaminatrice devono essere comuni a tutte le discipline? Mancando degli esempi chiari di confutazione esaminatrice, questo interrogativo ha ricevuto varie risposte. Gli interpreti più recenti tendono a rispondere negativamente in quanto pensano che a partire da sole premesse comuni si possa dedurre ben poco39. Essi sottovalutano però la quantità e la varietà di queste premesse e si limitano a ricordare quelle che Aristotele menziona più spesso: i principi di non con37 Cfr. 11, 171b6-7 e 172a21-b1 con relativo commento. Passi importanti sui koina: Platone, Tht. 185b-d; Arist. Metaph. B 1, 995b20-25. Sulla questione dei koina meritano attenzione gli studi di Ryle; vedi in particolare Ryle 1968, pp. 76-77. 38 Assumo qui che non tutti gli endoxa siano koina. Ammetto che si potrebbe dubitarne: se è vero che Aristotele non procede ad un’identificazione tra ciò che è condiviso da ogni settore della realtà e ciò che è condiviso da ogni uomo, bisogna riconoscere che alcuni luoghi fanno pensare ad una convergenza almeno tendenziale. 39 Vedi per esempio Bolton 1990, p. 215; Reeve 1998, p. 232. Io stesso, Fait 2002, pp. 442-444, ho insistito sull’idea che i koina debbano legarsi a qualche contenuto.

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traddizione e del terzo escluso. È vero invece che l’ambito dei concetti comuni è molto più vasto e fornisce materiale per la costruzione di numerose argomentazioni. Anche se Aristotele pretende che le cose comuni si estendano a tutta la realtà, cosa che limiterebbe drasticamente il loro numero, all’atto pratico questa restrizione viene disattesa (si pensi ai topoi dei Topici, a quei luoghi dialettici che non sono quasi mai generalissimi eppure vengono esplicitamente riconosciuti come koina a SE 9, 170a35-36). La difficoltà di concepire una dialettica esaminatrice fondata solo sui koina ha indotto alcuni studiosi a tentare interpretazioni diverse di questi concetti40, mentre invece l’interpretazione tradizionale dei koina come concetti e proposizioni trasversali a tutti i domini di conoscenza può essere ribadita e difesa. L’importante è precisare un dettaglio indispensabile al fine di intenderne l’uso nella dialettica esaminatrice: non solo devono essere comuni le premesse, ma dovranno esserlo anche le conclusioni che da tali premesse vengono dedotte. Solo così quei sillogismi riescono a dimostrare l’ignoranza dell’interlocutore senza che l’interrogante che conduce l’esame attribuisca mai a se stesso un sapere positivo. È proprio questa, per tornare al punto da cui eravamo partiti, la caratteristica che distingue le argomentazioni esaminatrici dai sillogismi sofistici validi. Anche questi ultimi si fondano su premesse comuni e non sono legati ad uno specifico oggetto, e tuttavia fingono di raggiungere risultati scientifici specialistici. Si pensi all’esempio preferito di Aristotele, la quadratura del cerchio di Brisone, ossia un ragionamento valido che tenta di stabilire una conclusione prettamente geometrica in forza di premesse non geometriche. Con un argomento del genere l’interrogante cercherà di mostrarsi più capace dell’esperto di geometria, in questo caso risolvendo un problema che quest’ultimo non è in grado di risolvere. I sillogismi sofistici validi sono dunque una sorta di contraffazione di quelli della dialettica esaminatrice. Ma come si collocano tali sillogismi rispetto alla classificazione dei paralogismi che abbiamo esaminato? Ebbene, a giudicare dai pochi esempi citati nel cap. 11 delle 40 Bolton 1990 arriva a sostenere, a dispetto delle più solide evidenze testuali (vedi infra il commento a 172a36-b1), che i koina di cui si parla nel nostro trattato non sono comuni in senso metafisico (comuni a tutta la realtà) ma in senso epistemico (comuni a tutti gli uomini). Essi sarebbero dunque proposizioni massimamente endoxa e caratterizzerebbero la dialettica esaminatrice, la quale si configurerebbe pertanto come una dialettica speciale, superiore a quella esercitatoria descritta in Top. VIII.

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Confutazioni, non sembra affatto che essi debbano essere ricondotti a qualcuno dei tredici tipi di paralogismo discussi nei capitoli precedenti del trattato. L’esempio della quadratura di Brisone, comunque si preferisca ricostruirlo, non contiene nessuno di questi errori. Diverso potrebbe sembrare l’esempio dell’argomentazione di Zenone contro il moto, ma di questa viene criticata solo l’applicazione medica, che mira a stabilire l’inutilità della passeggiata dopo i pasti. Aristotele sembra insomma ritenere che il semplice tentativo di travestimento scientifico di un sillogismo costituito da concetti comuni, sia sufficiente a renderlo sofistico41. È vero che un difficile argomento del cap. 8 sembra implicare proprio l’opposto: in sintesi Aristotele vi afferma che tutti i sillogismi sofistici validi e non appropriati all’oggetto dipendono da qualcuno dei tredici paralogismi, giacché tali sillogismi sono resi validi dalla premessa falsa validante (secondo il meccanismo che abbiamo esaminato sopra nel par. 4). Nel commento a quel passo42 vedremo che la restrizione del campo della sofistica in atto nel cap. 8 è molto probabilmente generata dall’esigenza di mostrare che i tredici paralogismi consentono di perimetrare completamente i confini di questa falsa sapienza. Il territorio molto più vasto che emerge dal cap. 11 ci fa invece comprendere che quei confini erano stati imposti forzosamente. Insisteremo dunque nel sostenere che la dottrina aristotelica più realistica e meno artificiosa riconosce l’esistenza di una classe di confutazioni sofistiche valide che non commettono, né tacitamente né compensando con premesse aggiuntive, alcuno dei tredici errori della classificazione canonica. Questa conclusione solleva però un nuovo problema. Se non contengono alcun errore, bisognerà ammettere che le argomentazioni sofistiche come la quadratura di Brisone sono dialettiche a tutti gli effetti. Purché siano valide e muovano da premesse plausibili, esse non mancano infatti di alcun requisito definitorio del sillogismo dialettico. A renderle sofistiche non è allora un qualche difetto intrinseco, ma solo l’impiego che ne viene fatto: diventano sofistiche quando si cerchi di scambiarle per dimostrazioni. In questa maniera, però, riuscirà oltremodo difficile demarcare la dialettica dalla sofistica. Per fortuna 41 Stesso pensiero, applicato però a dialettica e retorica insieme, troviamo a Rh. I 2, 1356a25-34, dove la retorica tende a varcare i propri limiti e «indossare la maschera» (hupoduetai) della politica (sul verbo hupoduo cfr. Platone, Grg. 464c-d; Aristotele, Metaph. G 2, 1004b18, e Berti 1997, p. 386). Il concetto è poi ribadito a Rh.I 4, 1359b10-12. 42 L’argomento va da 169b18 a 40. Per un’analisi dettagliata vedi il Commento.

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il problema non nasce come conseguenza della nostra interpretazione, altrimenti ne decreterebbe una rapida confutazione per riduzione all’assurdo: è Aristotele stesso ad avvertirlo (e, come vedremo più avanti, è stato probabilmente segnalato da Platone prima di lui). Lo troviamo formulato in uno dei passi più noti e discussi delle Confutazioni, 34, 183b1-6: Poiché però si pretende in relazione ad essa [alla dialettica], per la sua affinità con la sofistica, che non solo sia capace di condurre un esame dialetticamente ma anche come se sapesse, per questa ragione abbiamo posto quale compito della trattazione non solo quello detto, il saper chiedere ragione, ma anche che, quando rendiamo ragione, difendiamo la tesi nello stesso modo, mediante cose quanto più plausibili.

La vicinanza tra la dialettica e la sofistica spiega perché la prima sia tentata di uscire dai propri limiti e, invece di attenersi al tipo di esame che le compete, cerchi di atteggiarsi a sapiente come se conoscesse l’argomento in discussione43. In generale, dunque, il confine tra dialettica e sofistica è sfumato: esistono argomentazioni dialettiche oneste, quelle che usano solo concetti comuni, che permettono di smascherare gli ignoranti, ma ve ne sono altre che possono essere usate in modo sofistico per screditare gli esperti44. 8. La risoluzione C’è un modo elementare di rilevare la presenza di un paralogismo in un’argomentazione: è quello di riscontrare che le premesse sono vere e la conclusione falsa. Si tratta di un metodo dall’efficacia limitata, giacché non sempre si conoscono in anticipo i valori di verità delle premesse e della conclusione, ma per alcuni scopi pratici potrebbe essere ritenuto sufficiente. Tale lo credevano ad esempio i Pirroniani, Per l’interpretazione del passo vedi il Commento ad loc. A favore della tesi dei confini sfumati si sono espressi vari interpreti (vedi in particolare Grote 1872, I, pp. 94 sgg.). Alcuni hanno addotto come prova dell’indistinzione anche il fatto che Aristotele caratterizza talora la sofistica solo per la scelta di vita (proairesis), il che sembra suggerire che siano determinanti le intenzioni piuttosto che certe specifiche operazioni. Ne discuto nel commento a 165a30-31. Dorion insiste anche sull’esistenza di una zona grigia tra dialettica e sofistica determinata dai rispettivi metodi di organizzare e porgere le domande. Come si vede dal confronto di Top. VIII 1-3 con SE 15, questi metodi differiscono ben poco. 43 44

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che, tra i motivi per cui reputavano inutile lo studio della dialettica, comprendevano il fatto che la falsità o l’assurdità della conclusione è quel che ci basta sapere per condannare l’argomentazione che la deduce45. Poco importa poi comprendere le cause per cui quel ragionamento va abbandonato. Per Aristotele, invece, il falso che si presenta con un’apparenza di verità non va solo riconosciuto come tale, ma anche spiegato. Solo così esso perderà ogni capacità di seduzione (NE VII 15, 1154a22-25; Metaph. G 7, 1012a17-20). La dottrina della risoluzione, alla quale sono dedicati i capp. 18-32, è fondata sull’idea che ci sia sempre una causa dell’apparenza. E quando nell’argomentazione ci sono più errori la risoluzione non consiste nel denunciarne uno qualsiasi (sebbene, qualora l’interrogante rimanga privo di replica, anche questo possa valere come una risoluzione, però pros anthropon, cioè contro l’interlocutore e non contro l’argomentazione) ma nel denunciare l’errore da cui dipende l’apparenza. Il criterio è chiarito nei Topici a proposito di argomentazioni valide con premesse false e viene poi esteso nelle Confutazioni anche alle argomentazioni apparenti. Nei Topici leggiamo che le argomentazioni false «vanno risolte demolendo ciò in dipendenza da cui nasce il falso, giacché chi demolisce una cosa qualsiasi non ha risolto, nemmeno se ciò che ha demolito è falso» (VIII 10, 160b24-25). Aristotele illustra la tesi con questo esempio di argomentazione valida: (A) Chi è seduto scrive; Socrate è seduto; dunque Socrate scrive,

e assume che la conclusione ed entrambe le premesse siano false. A proposito dell’esempio egli osserva: Ebbene, chi demolisce l’asserzione che Socrate è seduto non ha risolto l’argomentazione, per quanto la proposizione sia falsa. Ma non è in dipendenza da essa che l’argomentazione è falsa, perché se capitasse che qualcuno è seduto e non scrive, la stessa risoluzione non si adatterebbe più a quel caso. Dunque non bisogna demolire questa proposizione ma quella che dice che chi è seduto scrive (Top. VIII 10, 160b28-33).

Quel che vuole mostrare è che se una premessa è responsabile della falsità della conclusione la sua eliminazione deve escludere che una 45

Sesto Empirico, Ipotiposi pirroniane II 250.

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conclusione analoga possa riproporsi. È per questo che non basta demolire «Socrate è seduto», perché se sostituiamo quella premessa con «Callia è seduto», e costui è effettivamente in quella posizione e non scrive, la risoluzione non si adatta più al cambiamento, e non potrà più colpire: (B) Chi è seduto scrive; Callia è seduto; dunque Callia scrive.

Ma qui si deve obiettare che lo stesso discorso vale, a parità di ragionamento, anche per l’altra premessa, sicché la demolizione consigliata da Aristotele non si applicherà invece a: (C) Chi è seduto flette le ginocchia; Socrate è seduto; dunque Socrate flette le ginocchia,

per risolvere la quale si può solo osservare che Socrate non è seduto. È evidente però che Aristotele ritiene che la premessa universale «chi è seduto scrive» sia un po’ l’ossatura dell’argomentazione, ciò che la identifica, e che invece premesse come «Callia è seduto», «Corisco è seduto» eccetera, siano casi particolari che, insieme alla premessa universale, generano solo applicazioni diverse di una stessa argomentazione e non argomentazioni nuove. Pertanto (A) e (B) saranno per lui la stessa argomentazione, mentre (C) sarà un’argomentazione diversa. Tale principio potrebbe essere anche convincente se Aristotele ci offrisse un criterio per fissare con precisione il livello di generalità al quale si situa la corretta risoluzione. Si passi, mutatis mutandis, ai sillogismi apparenti e si prenda ancora quello sul rombo che abbiamo già incontrato: (R1) Il rombo è una figura geometrica; il rombo ha le branchie; dunque una figura geometrica ha le branchie.

Si considerino ora le seguenti credenze: (1) «rombo» ha un solo significato nelle premesse di (R1); (2) «rombo» ha un solo significato; XXXVIII

(3) ad ogni parola corrisponde un solo significato. Ciascuna di queste tre credenze può essere considerata il fattore responsabile dell’apparenza di (R1): Chi critica la (1) riesce a risolvere (R1) ma non può dire nulla contro: (R2) Il rombo è assordante; il rombo è una figura geometrica; dunque una figura geometrica è assordante.

Chi punta il dito contro la (2) risolve anche (R2), ma non potrà citare questa risoluzione contro altri sillogismi che contengono sì omonimie ma non la parola «rombo». E se qualcuno infine risolvesse denunciando la falsità di (3)? Ebbene, sarebbe opportuno fargli osservare che è difficile che un’asserzione tanto generale possa avere un qualche effetto diretto su (R1) o su (R2). Ben pochi infatti errano sulla base di una credenza di così ampio raggio. Aristotele invece privilegia la generalità e talora sembra addirittura identificare sillogismi o confutazioni del tutto diversi solo perché appartengono allo stesso tipo di paralogismo. Ritenendo che più si sale di generalità più ci si avvicina all’elemento essenziale delle argomentazioni apparenti, egli sembra arrivare a sostenere che la causa dell’apparenza sia sempre l’elemento massimamente generale46. Il suo approccio potrebbe rivelarsi forse un po’ più credibile se precisato in questi termini: oltre a sapere che «rombo» ha più significati e a saperli distinguere, cosa che basterebbe a risolvere (R1) e (R2), solo chi è in grado di ricondurre questi casi all’omonimia, e sa che questa può presentarsi anche con molte altre parole, potrà dire di avere adeguatamente compreso la causa dell’apparenza. E viceversa non basterà aver classificato l’argomentazione per averla risolta. Come infatti Aristotele non manca di osservare, spesso si riesce a collocare un caso nella categoria generale, per esempio a dire che dipende dall’omonimia, senza riuscire a specificare dove quel tipo di errore si nasconda nel caso concreto (16, 175a27-30). Dunque la risoluzione deve essere la più generale possibile, ma non può saltare i passaggi intermedi. 46 Tra l’altro i suoi principi di classificazione sono talmente generali da tenere insieme casi molto diversi tra loro: cfr. 24, 179b11-12, con rimando a 20, 177b31-33, e soprattutto 33, 182b9-10, dove Aristotele si esprime come se tutte le argomentazioni che dipendono dalla stessa causa fossero la stessa argomentazione (vedi il commento a 182b5-12).

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9. L’eristica prima di Aristotele Nel corso delle Confutazioni Aristotele non distingue nettamente la sofistica dall’eristica: si tratta di due attività che usano le stesse argomentazioni negli stessi contesti competitivi. Differiscono solo, come ci spiega a 11, 171b25-34, perché l’eristico cerca la vittoria fine a se stessa, mentre il sofista vuole trarre dalla vittoria una falsa reputazione di sapienza e con questa guadagnare del denaro47. Non mancherebbero ragioni per dubitare che l’uso aristotelico del termine «sofista» e dell’aggettivo corrispondente possa riferirsi alla grande sofistica del V secolo. Nelle Confutazioni Protagora, Gorgia, Trasimaco e Antifonte sono appena nominati e un legame così stretto tra sofistica ed eristica come quello istituito da Aristotele non sembra attagliarsi a questi pensatori. Affermare che Protagora e Gorgia siano due praticanti dell’eristica significa gettare a mare la testimonianza platonica su queste due figure. Peraltro le notizie che fanno di Protagora il promotore dell’eristica sono tarde (Diogene Laerzio ed Esichio). Insomma, c’è ragione di pensare che il quadro culturale che fa da sfondo alle Confutazioni contempli un tipo diverso di sofista48. Nonostante questi argomenti abbiano una certa verosimiglianza, si può mostrare che nel complesso sono fuorvianti, perché vi è in realtà una forte continuità tra le Confutazioni e alcuni motivi dominanti dell’insegnamento sofistico, in particolare protagoreo. Protagora e altri sofisti. Abbiamo avuto modo di osservare, discutendo la questione dell’arte esaminatrice (par. 7), che in vari luoghi Aristotele allude al fatto che le confutazioni sofistiche sono spesso rivolte contro i competenti, gli esperti, gli scienziati e che vi è addirittura un tipo di argomentazione sofistica il cui unico torto è quello di spacciarsi per dimostrazione scientifica. Ora, quello dell’attacco alle arti è un motivo ben presente nella prima sofistica. Protagora aveva inventato, e trattato per iscritto, un’arte delle antilogie, cioè presumibilmente un’arte di argomentare contro qualunque tesi. La troviamo descritta in una pagina del Sofista platonico (232) come tratto principa47 I due termini «sofista» ed «eristico» hanno storie ben diverse e non erano ricevuti nello stesso modo. Adattando un paragone di Robinson, potremmo accostare «sofista» a «comunista» e «erista» a «razzista». Il primo può essere attribuito con intento denigratorio ma viene anche rivendicato con orgoglio (per esempio da Protagora). Il secondo è sempre connotato negativamente e nessuno lo attribuisce a se stesso. È in Aristotele che i due termini arrivano alla loro massima vicinanza. 48 Questa in sintesi la posizione di Dorion, pp. 32-47.

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le della settima definizione del sofista, quella che lo Straniero di Elea elabora prendendo spunto dalla quinta, nella quale il sofista è identificato con colui che pratica quel tipo di eristica che è finalizzato a lucrare guadagni. Secondo la settima definizione, il sofista è un esperto di antilogie e può insegnare ad altri questa sua capacità. Le antilogie riguardano questioni teologiche, cosmologiche, filosofiche, politiche, e poi tutte le cose concernenti le singole arti, nelle quali si deve «contraddire il singolo esperto in materia» (232d6)49. Su ciò, afferma nel Sofista lo Straniero, si sono addirittura composti e diffusi dei manuali, e qui Teeteto coglie l’allusione agli scritti di Protagora «sulla lotta e sulle altre arti». Considereremo fra breve il seguito di questo brano. Per ora osserviamo, per comprendere che cosa potesse significare contraddire l’esperto, che Aristotele altrove testimonia di come Protagora avesse in particolare preso di mira i matematici, contestando loro l’impiego di figure empiriche nelle dimostrazioni astratte (Metaph. B 3, 998a1-4). Probabilmente i suoi attacchi si rivolgevano anche contro la medicina, come testimonia il trattato, raccolto nel Corpus Hippocraticum, intitolato De arte. Qui si dice, con riferimento più che probabile a Protagora, che vi sono certuni che hanno fatto un’arte di denigrare le arti, diffamando gli specialisti presso gli incompetenti con argomentazioni non corrette50. Anche il richiamo del Sofista all’arte della lotta non è forse così metaforico come potrebbe sembrare; lo mostra questo brano di Plutarco che contiene un inconfondibile marchio protagoreo, il verbo kataballo, e illustra brillantemente una celebre specialità del sofista: rendere più forte l’argomento più debole: Riguardo all’efficacia oratoria di Pericle si ricorda anche una battuta scherzosa di Tucidide, figlio di Melesia. Tucidide apparteneva alla fazione aristocratica, e per lungo tempo si era contrapposto a Pericle nell’agone politico. Un giorno Archidamo, re di Sparta, gli chiese chi valeva di più nella lotta, se lui o Pericle. «Quando riesco a buttarlo a terra nella lotta [ego katabalo palaion]» rispose Tucidide «lui controbattendo [antilegon] di non essere caduto vince e fa cambiare parere agli spettatori» (Plutarco, Vita di Pericle 8.5; trad. Santoni con modifiche). 49 Il passo va confrontato con Phdr. 261a1-262c4, dove Platone compie una generalizzazione e unificazione dell’arte dell’antilogia, riconducendone le forme politiche e giudiziarie sotto la forma filosofica più astratta, che corridponde al metodo con cui Zenone faceva apparire le stesse cose simili e dissimili. 50 De arte, I, vol. VI, p. 2 Littré. Vedi Jori 1996, cap. XIII.

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Anche se le antilogie di Protagora non erano orazioni ma discorsi brevi, ad esse possiamo avvicinare la retorica di Gorgia51, che in modo forse meno violento, ma comunque sempre su un piano agonistico, si contrapponeva anch’essa alle arti. Nel Gorgia il sofista di Lentini racconta che, quando accompagnava suo fratello medico nelle visite, con la sola arte della retorica riusciva meglio dello specialista a persuadere i pazienti a sottoporsi alla terapia. Dall’esempio, Gorgia conclude che la retorica saprebbe vincere, di fronte al pubblico, qualunque competizione con le arti e che in caso di conflitto un profano sceglierebbe di farsi curare piuttosto dal retore che dal medico (456a7-c7)52. Le antilogie di Protagora esemplificano fedelmente il genere aristotelico delle argomentazioni sofistiche che si spacciano per dimostrazioni. Lo vediamo se riprendiamo (da 232e2) la lettura di quella pagina del Sofista che avevamo interrotto. Con la settima definizione lo Straniero cerca di introdurre l’idea che il sofista sia compromesso con il falso e con l’apparenza e a questo scopo insiste sul fatto che, per avere un’arte antilogica capace di contestare tutto, bisognerebbe conoscere tutte le cose (233a3), giacché, altrimenti, come potrebbe uno che non ha conoscenza contraddire, dicendo qualcosa di sensato, uno che conosce? Teeteto è d’accordo e poiché si conviene che sapere tutto è impossibile, lo Straniero introduce la nuova definizione del sofista come detentore di un sapere apparente. C’è nel discorso dell’eleate un passaggio non chiaro. Se infatti «contraddire» significa semplicemente «argomentare contro», allora non è affatto vero che bisogna conoscere tutto; se invece significa «dimostrare il contrario» (come induce a pensare la precisazione hugies ti legon, a 233a6: «dicendo qualcosa di sensato»), allora è vero che soltanto una persona onnisciente saprà dimostrare il contrario su qualsiasi argomento. L’argomento dello Straniero è dunque valido solo se si presuppone che le antilogie si proponessero come dimostrazioni da opporre allo specialista53. Forse tutto ciò potrebbe bastare a convincerci che Protagora ha interpretato una parte decisiva per l’origine e lo sviluppo dell’eristica e che questo ruolo è discernibile anche nella trattazione aristotelica. Con ciò sembrano riacquistare verosimiglianza le testimonianze che 51 Siamo autorizzati in questo accostamento dal già citato passo del Fedro, 261a1262c4, dove Platone avvicina la retorica all’antilogia. 52 Sul rapporto tra medicina e sofistica vedi Jouanna 1992, pp. 119-123. 53 Striker 1996a, p. 8. Ma la Striker non ha ragione di contestare la testimonianza di Platone: l’assunzione dello Straniero circa la pretesa onniscienza dei praticanti dell’antilogia rispecchia fedelmente il loro atteggiamento. Sull’argomento vedi anche Notomi 1999, pp. 96 sgg.

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connettono Protagora all’origine dell’eristica, a partire da Diogene Laerzio (IX 52 [= 80A1 DK]), il quale afferma che il sofista di Abdera aveva dato impulso al genere dei logoi eristici, e cita, per avvalorare la notizia, un verso dei Silli di Timone di Fliunte (fr. 47 Di Marco). È vero che questo non ci autorizza di per sé ad associare a Protagora quelle argomentazioni palesemente e grottescamente capziose che troviamo nell’Eutidemo di Platone e nelle Confutazioni sofistiche. Ancora non abbiamo detto nulla, infatti, che possa indebolire le resistenze di quegli studiosi che pensano che l’eristica clownesca degli anziani fratelli Eutidemo e Dionisodoro, protagonisti dell’Eutidemo (un’eristica che numerosi esempi delle Confutazioni non smentiscono affatto), non abbia riscontro nel movimento sofistico e che sia invece una deliberata deformazione frutto del montaggio tendenzioso dei disiecta membra sophistae in modo da ottenere una caricatura molto distante dalla realtà. Ma se traiamo tutte le conseguenze che derivano dalla natura aggressiva e competitiva dell’antilogia protagorea, non è difficile comprendere come questa pratica possa essere rapidamente degenerata nell’eristica dell’Eutidemo e delle Confutazioni sofistiche. Se infatti lo scopo è la vittoria a tutti i costi, se si deve confutare ogni tesi proposta e specialmente quella vera del competente, se la velocità è un requisito fondamentale, se le argomentazioni devono succedersi una all’altra in sequenze che chiudano all’avversario ogni via d’uscita e se infine l’arbitro che decreta la vittoria è un pubblico profano e indisciplinato, allora diventa del tutto naturale che vengano negativamente selezionate le argomentazioni peggiori. Oltre a collocarsi nel solco della tradizione protagorea, le Confutazioni offrono altri collegamenti interessanti con la tradizione sofistica. Aristotele cita certi maestri di eristica a pagamento, assimilando il loro metodo di insegnamento a quello della retorica di Gorgia (34, 183b36-37) e, soprattutto, resuscita il topos fondamentale degli antichi (cioè dei primi sofisti), la polarità tra legge e natura, cercando di mostrare che in qualche modo esso ancora vive nell’eristica a lui contemporanea (12, 173a7-18). Tutto ciò fa concludere che Aristotele sia consapevole dell’evoluzione storica dell’eristica54 e tenga a sottolinearne gli elementi di continuità con la sofistica del V secolo. 54 Egli osserva per esempio che un tempo vigeva l’obbligo di rispondere sì o no, senza aggiungere precisazioni, e che oggi quell’obbligo non viene più rispettato. Dell’esistenza di questa regola testimonia l’Eutidemo: vedi infra il commento a 175a40b14. Altra interessante storicizzazione dell’eristica a 12, 172b19-21.

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C’è naturalmente il rischio che, lontano dal riconoscere tale linea evolutiva, Aristotele cerchi invece di forzare l’eristica del proprio tempo in un quadro concettuale anacronistico in parte desunto dal Sofista55. Lo stesso pericolo di anacronismo, del resto, sussiste già, come è noto, per lo stesso Sofista. Tuttavia uno stravolgimento della realtà pienamente legittimo in un’opera letteraria rischierebbe di stridere invece in un trattato, sicché non pare irragionevole sostenere che l’eristica del quarto secolo che ci descrive Aristotele sia in piena continuità con la tradizione sofistica precedente. Socrate e i confini della dialettica esaminatrice. Nonostante in Platone «antilogia» sia connotato negativamente, le antilogie protagoree non sono paralogismi, almeno non lo sono per definizione. La loro efficacia contro gli esperti non impone che queste argomentazioni offendano la logica. È probabile al contrario che molte di esse godano di tutti i requisiti definitori del sillogismo dialettico aristotelico. A proposito di Aristotele, ho suggerito sopra (par. 7) che è proprio questa indistinzione il motivo per cui egli sottolinea la pericolosa vicinanza tra la sofistica e la dialettica esaminatrice. Tale vicinanza può indurre infatti il dialettico ad atteggiarsi a sapiente, mentre alla dialettica esaminatrice sarebbe lecito solo condurre un esame nell’ambito delle cose comuni. Anche questo tema sembra trovare una puntuale anticipazione nel Sofista. Dopo le prime cinque definizioni del sofista, lo Straniero ne introduce una sesta (226a10-231c10) che lega il sofista al possesso di un’arte della confutazione. Tale arte purifica le anime dalla loro presunzione di sapere, mettendo in evidenza che l’interrogato ha opinioni contrarie tra loro e ingenerando così in lui un senso di vergogna. Si tratta della «nobile sofistica», nella quale si è visto da sempre un riferimento alla confutazione socratica. Lo Straniero la associa non senza 55 La definizione del sofista di 1, 165a22 e 11, 171b27-29: «il sofista è uno che trae guadagno da una sapienza apparente e non reale» non è (ancora) moneta corrente, ma è ricavata dal Sofista; inoltre a 11, 172b22-25 Aristotele sembra rimaneggiare la quinta definizione di quel dialogo. Si noti per contro che la distinzione tra apparenza e realtà, così problematica nel Sofista, viene assunta nel primo capitolo delle Confutazioni come un dato di fatto, per non dire che manca del tutto dal nostro trattato la questione del falso e del non essere. Va anche osservato che quando, a Metaph. E1, 1026b13-22, Aristotele ricorda che per Platone l’oggetto della sofistica è «ciò che non è», egli, pur alludendo chiaramente al Sofista, non collega questa tesi al problema dell’apparenza e del falso, ma alla problematica dell’accidente, ridotto alla stregua di mero nome; cfr. Classen 1981.

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esitazione alle precedenti definizioni, soprattutto alla quinta, in base alla quale l’arte del sofista è risultata consistere in una eristica lucrativa (e qui si noti che anche la settima definizione, quella ritagliata su Protagora, è un germoglio della quinta). La riluttanza a chiamare «sofista» colui che esercita la confutazione purificatrice viene confessata dallo Straniero con il timore di fare troppo onore ai sofisti volgari (231a3). Donde un celebre paragone: il sofista volgare sta al sofista nobile come il lupo al cane, come l’animale selvatico a quello domestico. Abbiamo poi un brano difficile e allusivo in cui lo straniero sottolinea l’importanza di «fare la guardia» (poiesthai ten philaken) soprattutto alle somiglianze, trattandosi di un genere estremamente sdrucciolevole: «giacché non credo che la contestazione verterà su confini irrilevanti, appena faranno una guardia adeguata» (231a7-b1; cfr. anche 231e4). Lo Straniero gioca sull’ambiguità di horos che può essere una frontiera da difendere o una definizione da sostenere dialetticamente. L’idea generale, comunque, è che chi corrisponde alla sesta definizione del sofista, chi confuta purificando le anime, avrà difficoltà a difendere i propri confini, perché i membri delle altre specie di sofista precedentemente definite gli sono molto vicini (simili) e tenteranno di sconfinare nel suo territorio (identificarsi con lui). Se questo è il significato del passo sembra difficile che Aristotele non lo abbia presente nelle Confutazioni, quando rileva nel già menzionato passo cruciale, 34, 183b1-6, la «vicinanza» tra dialettica esaminatrice e sofistica. La confutazione purificatrice del Sofista non è altro che la confutazione socratica, e, analogamente, per il fatto di poter essere onestamente praticata da chi riconosce di non sapere (11, 172a23-24), anche la dialettica esaminatrice delle Confutazioni sofistiche intende certamente ricalcare il tipo di confutazione praticato da Socrate. È più che probabile, in effetti, che Aristotele si sforzi di distinguere il tipico esame a cui il filosofo ateniese sottoponeva gli interlocutori dalle confutazioni sofistiche che spacciavano argomentazioni dialettiche per dimostrazioni scientifiche. Come Platone, tuttavia, nemmeno Aristotele sottovaluta la difficoltà di questa demarcazione. I Megarici. Come abbiamo osservato, Aristotele avvicina molto gli eristi ai sofisti: questi due tipi usano le stesse argomentazioni, e l’unica differenza è nello scopo che si prefiggono. Gli eristi perseguono la vittoria fine a se stessa, i sofisti cercano invece di usare la vittoria per usurpare fama di sapienza e da ciò trarre guadagno. Analoga è la distinzione tracciata nel Sofista, nell’ambito della quinta definizione. Lo StraXLV

niero vi distingue l’adoleschia, una passione per la disputa, sgradevole alle orecchie dei più, che induce chi la pratica a consumare tempo e patrimonio, dall’eristica lucrativa, che è una vera e propria forma di sofistica. Ebbene, nella categoria dei chiacchieroni venivano relegati dall’opinione comune Socrate e alcuni socratici, sicché è probabile che anche Aristotele, nelle Confutazioni, voglia tenere uno spazio aperto per l’eristica praticata gratuitamente per puro spirito agonistico. In questa categoria potrebbero collocarsi profili intellettuali diversi da quelli di chi Aristotele riconosce come «sofista» e riconduce, come abbiamo visto, alla tradizione di Protagora. A tali profili corrispondono molto bene i Megarici56. È vero che gli studi più approfonditi tendono oggi o a ridimensionare la scuola di Megara, negando che alcuni dei personaggi più importanti le siano mai appartenuti57, o ad attenuarne il carattere istituzionale e dottrinale fino a ridurla ad un gruppo di filosofi accomunati da relazioni di magistero/discepolato58 oppure da una ostentata passione per la dialettica e per l’eristica59. Ma è anche fuori discussione che nella Metafisica (Y 3, 1046b29) Aristotele polemizza esplicitamente con «i Megarici» su un tema, la distinzione tra atto e potenza, sicuramente anche al centro di discussioni dialettiche. Molto difficile, tuttavia, è stabilire chi, tra le figure principali di quella famiglia così poco unita, potesse essere il bersaglio delle polemiche di Aristotele nella Metafisica o avesse fornito materiale per le Confutazioni. Sicuramente molto più anziano di Aristotele è Euclide (m. 365), il fondatore della scuola di Megara, sul quale è attestato un interesse per l’eristica. Non abbiamo però informazioni che offrano un appiglio specifico. Per quanto abbia approfondito i concetti modali e altri temi accennati anche nelle Confutazioni, Diodoro Crono è invece troppo giovane per aver influenzato Aristotele (oltre a non essere stato, probabilmente, un Megarico ma un membro della scuola «Dialettica») e lo stesso vale per Stilpone di Megara (n. 360 circa), nonostante in una testimonianza lo troviamo adoperare un paralogismo che ricorre tra gli esempi delle Confutazioni (cfr. Diogene Laerzio, II 100 = II O 13 Giannantoni con SE 4, 166a11-12). A maggior ragione difficile diventa ipotizzare un’interazione con Aristotele per Alessino di Elide. Brisone di Eraclea, da parte sua, è esplicitamente citato da Aristotele Sulla presenza dei Megarici nelle Confutazioni ha insistito Dorion, pp. 47-49. Sedley 1977. 58 Döring 1989. 59 Cambiano 1977. 56 57

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in più luoghi e anche nel nostro trattato, ma il suo legame con la scuola Megarica è molto labile per ammissione di tutti. Il personaggio più calzante è sicuramente Eubulide di Mileto. Le testimonianze su di lui, che, con molti dubbi degli studiosi, attesterebbero un suo magistero su Demostene (n. 384), non escludono una più piena coincidenza della sua vita con i giorni di Aristotele. Inoltre ad Eubulide è attribuita l’invenzione di alcuni celebri argomenti (il Mentitore, il Nascosto, l’Elettra, il Velato, il Sorite, il Cornuto e il Calvo)60 dei quali almeno il Velato è sicuramente citato anche nelle Confutazioni (24, 179a34; b1-2). Ben testimoniato è poi un suo scritto di carattere denigratorio contro Aristotele (databile tra il 342 e il 335)61. Infine, Temistio e Alessandro di Afrodisia, in opere conservate solo in traduzione araba, accennano ad un attacco sofistico rivolto da Eubulide alla dottrina delle conversioni delle premesse contenuta negli Analitici primi di Aristotele62. Non mancano dunque motivi per ipotizzare un’interazione tra Eubulide e Aristotele. Il fatto però che nelle Confutazioni si incontrino due argomenti che sembrano dei «prototipi» del Sorite e del Mentitore può avvalorare l’impressione che Aristotele scrivesse prima di Eubulide63. Il paragrafo non può terminare senza affrontare, almeno schematicamente, un ultimo interrogativo importante, quello che riguarda l’origine della distinzione tra argomentazioni valide e non valide. È stato notato da più parti, e confermato nelle pagine precedenti, come i termini «antilogia» ed «eristica» non connotino per Platone un tipo di argomentazioni intrinsecamente scorrette, ma un modo scorretto di usare le argomentazioni64, e il caso citato sopra della nobile sofistica dimostra che quello di individuare una linea di confine tra l’antilogia in generale e un uso corretto delle argomentazioni deve essere stato percepito dall’autore del Sofista come un problema di difficile soluzione. 60 Diogene Laerzio, II 108 = II B 13 Giannantoni. La paternità di alcune di queste argomentazioni è comunque oggetto di disputa. 61 Cfr. II B 8-11 Giannantoni. Per i termini cronologici cfr. Döring, p. 105. 62 Temistio, Risposta a Massimo sulla seconda e terza figura, tradotto in Badawi 1968, cfr. p. 166 (testo arabo in Badawi 1971); Alessandro, Sulla conversione delle proposizioni, in Badawi 1971, cfr. p. 66. Queste due citazioni non sono comprese nelle raccolte di Döring e di Giannantoni: le riprendo da Barnes 1999, pp. 27-28. 63 Cfr. Fait 1998b, pp. 135-141. 64 Parzialmente non allineato su questo punto è Kerferd 1981a, cap. 6, il quale nega che in Platone l’antilogia abbia una connotazione peggiorativa. Una buona discussione in Nehamas 1999a, cap. 5.

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I motivi per cui un certo modo di discutere merita la squalifica di «antilogico» o «eristico» variano nei dialoghi da contesto a contesto e non fanno emergere una descrizione unitaria65. Antilogia ed eristica possono infatti connotarsi per diversi atteggiamenti: cercare di prevalere a tutti i costi (Menone 75c-d); condurre la discussione in modo formalistico per inchiodare l’interlocutore alla lettera di quello che dice, del tutto a prescindere da ciò che ha in mente (Repubblica V 454a; Teeteto 164c); saltare passaggi nella divisione di un genere (Filebo 17a). Altre volte ancora, il ragionamento antilogico sembra saldarsi, agli occhi di Platone, ad una visione metafisica da lui avversata, come il mobilismo eracliteo, quasi che le contraddizioni che emergono dai ragionamenti fossero coerenti con un mondo in costante fluire (Fedone 90a)66. Per un rapido confronto con le Confutazioni, che è quel che ci interessa, conta soprattutto osservare che Platone non sembra considerare l’opportunità di distinguere tra argomentazioni valide e argomentazioni meramente apparenti. Tale distinzione non si trova mai esplicitamente tracciata prima di Aristotele e alcuni studiosi – in particolare Richard Robinson in un celebre articolo67– hanno negato che Platone ne avesse addirittura consapevolezza. Essa tuttavia emerge almeno in parte nell’Eutidemo. È vero che in questo dialogo c’è un solo tentativo di risolvere un paralogismo, quello dell’ambiguità (277e3278a6); e potremmo anche concedere per un momento che questo tentativo sia solo embrionale. Ma come è stato osservato68, la messa in scena delle argomentazioni eristiche è costruita in modo tale che il lettore riconosca le fallacie anche quando alcuni dei personaggi non sembrano in grado di vederle. Un tale effetto artistico non può essere ottenuto da un autore che non comprenda a fondo la meccanica di quelle argomentazioni. In qualche altro caso, poi, la risposta di Socrate gioca d’anticipo e scardina la strategia avversaria e ciò dimostra che anche questo personaggio è rappresentato come se avesse piena consapevolezza della causa dell’errore (295b-296d). Anche senza possedere una vera teoria dei paralogismi come quella aristotelica è posCfr. Robinson 1953, pp. 84-87. C’è chi pensa che il mobilismo sia il fondamento metafisico dell’eristica (McCabe 1995; Decleva Caizzi 1996); e chi ritiene invece che la saldatura tra l’eristica e l’antilogia e il mobilismo sia una deformazione platonica priva di fondamento storico (Striker 1996a); Platone vorrebbe enfatizzare con questa saldatura il contrasto con la sua dialettica, ancorata al mondo delle idee (cfr. Nehamas 1999a, pp. 117-120). 67 Robinson 1942; cfr. anche Stewart 1977. 68 Più recentemente e incisivamente in Burnyeat 2002, pp. 57-59. Cfr. anche Kent Sprague 1962; 1977. 65 66

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sibile riconoscerne il tipo una volta che se ne siano compresi alcuni esempi e, come osserva Myles Burnyeat, Platone nell’Eutidemo adotta proprio questo modello pedagogico, che peraltro è ben noto anche ad Aristotele (34, 183b36-37). Non manca poi qualche segnale che testimonia anche lo sforzo teorico da parte di Platone di descrivere e spiegare gli errori. Eudemo di Rodi, l’allievo di Aristotele, sosteneva che Platone fosse stato il primo a introdurre l’ambiguità (to disson) per risolvere le argomentazioni69. Forse Eudemo si riferiva solo al noto passo dell’Eutidemo, e a differenza di Robinson riteneva quell’osservazione di Socrate una scoperta degna di brevetto, ma non è improbabile che Eudemo avesse altre buone ragioni per ritenere che la distinzione dei significati usata per risolvere le argomentazioni fallaci fosse stata da Platone per lo meno avviata. Alcuni passi delle Confutazioni dimostrano infatti l’esistenza di indagini sulle ambiguità precedenti la trattazione aristotelica (cap. 10; 20, 177b7-9), e non è plausibile che Platone ne sia completamente estraneo. C’è poi un altro indizio che induce a pensare che Platone avesse cominciato ad analizzare le confutazioni apparenti. Sembra infatti che sia stato lui a mettere a punto quella serie di clausole che distinguono il tipo di contraddizione e contrarietà che genera una vera incompatibilità70, e cioè, per esempio, contrarietà sotto lo stesso rispetto, in relazione alla stessa cosa ecc., delle quali Aristotele precisa la funzione antisofistica (Int. 6, 17a35-37; Metaph. G 3, 1005b20-22) e delle quali si serve nel nostro trattato, a 5, 167a26, per definire la confutazione. 10. Struttura, unità e cronologia delle Confutazioni sofistiche Le Confutazioni sofistiche sono state redatte in base ad un progetto organico. All’inizio Aristotele fissa un piano (1, 165a34-37) e più volte si sofferma per suggellare la parte svolta e annunciare quella successiva. Non manca poi una dettagliata ricapitolazione finale (34, 183a27-36). Assunta nel primo capitolo l’esistenza del genere delle argomentazioni sofistiche, egli si propone di distinguerne le specie e le parti, cioè le sottospecie, e poi tutto ciò che concorre all’arte. 69 Presso Simplicio, In Ph. 98.1-3; 120.6 sgg. = frr. 37a; 43 Wehrli. Cfr. Kent Sprague 1977, p. 50. 70 Cfr. Sph. 230b7-8; R. IV 436b-437a; e poi Prm. 129a3-e4; Sph. 259c7-d7. Nota che a SE 24, 179b7 sgg. Aristotele critica soluzioni altrui fondate su queste distinzioni.

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I capisaldi della classificazione delle argomentazioni eristiche e sofistiche sono introdotti nel cap. 3, dove vengono distinti in ordine di importanza i cinque scopi del sofista (di fatto poi ridotti a quattro con la fusione del secondo e del terzo). La trattazione delle specie delle argomentazioni sofistiche comprende i capp. 4-14: SE 4-11: la confutazione apparente e sofistica; SE 12: il falso e il paradosso; SE 13: il far chiacchierare; SE 14: il solecismo. Con il cap. 14 si completa la trattazione del genere e delle sue parti. Ad esso segue la trattazione degli argomenti accessori: SE 15: come interrogare; SE 16: introduzione del tema della risposta e della risoluzione; l’utilità della disciplina; SE 17: la risposta; SE 18-32: la risoluzione; SE 33: diversi gradi di difficoltà delle argomentazioni; SE 34: ricapitolazione e conclusione. Questa struttura mi sembra riproporre in modo riconoscibile, sebbene deformato nelle proporzioni, quella dei Topici. Nel trattato maggiore abbiamo, in estrema sintesi: Top. I: definizione dei concetti e degli strumenti fondamentali della dialettica. Top. II-VII: i luoghi (topoi) dialettici. Top. VIII, suddiviso in VIII 1-3: come interrogare; VIII 4-10: come rispondere, e in particolare: VIII 10: la risoluzione; VIII 11-13: la critica delle argomentazioni; VIII 14: come esercitarsi. Ecco le corrispondenze fra i due trattati: – SE 1-3 corrisponde in parte a Top. I: entrambi definiscono o distinguono i concetti fondamentali della rispettiva disciplina. – SE 4-5 e 12-14 corrispondono a Top. II-VII: elencano gli elementi costitutivi dell’arte. Si noti che anche i tredici paralogismi e gli espedienti per indurre al falso e al paradosso sono pensati da Aristotele come topoi (1, 165a5; 6, 169a18; 12, 173a7; 13, 173a31). – SE 15 corrisponde in modo molto preciso e consapevole a Top. VIII 1-3: il modo e l’ordine dell’interrogazione. L

– SE 17 corrisponde a Top. VIII 4-9: come rispondere alle domande. – SE 18-32 corrispondono a Top. VIII 10: la risoluzione delle argomentazioni. Notare che sia in Top. sia in SE la risoluzione è una parte della risposta (Top. VIII 10 con SE 16, 175a2-3; 34, 183a32-33). – SE 33 corrisponde a Top. VIII 11, 161b34 sgg. – Top. VIII 11-13 è dedicato al giudizio critico che gli stessi dialettici impegnati nella discussione, o forse altri partecipanti con funzione arbitrale, devono fornire, dopo lo scambio di domande e risposte, valutando gli errori dell’interrogante, quelli del rispondente e poi pregi e difetti intrinseci dell’argomentazione. La trattazione corrispondente a SE 33 è più limitata ma inconfondibile: cfr. 33, 183a1426 con Top. VIII 11, 162a3-8. Vi sono anche alcune differenze significative. – Importante differenza di collocazione tra Top. I 2 e SE 16, capitoli che spiegano l’utilità dei rispettivi trattati. La diversa dislocazione è però facilmente comprensibile: a partire dal cap. 4, i capitoli di SE che precedono il cap. 16 offrono insegnamenti su confutazioni apparenti, strategie per indurre in modo apparente al paradosso, alla chiacchiera e al solecismo e su come interrogare in maniera sofistica; tutte queste attività fanno parte dell’arte dialettica e bisogna impadronirsene, ma non sono utili al dialettico e all’aspirante filosofo (pros philosophian). La trattazione che comincia con il cap. 17 riguarda invece la risposta e la risoluzione, e queste sono soprattutto utili a persone che devono difendere la loro reputazione filosofica. – Top. VIII 14 non ha un riscontro preciso in SE, se non nell’esortazione all’esercizio di 16, 175a20-30. – SE 6-11 insistono su problemi di classificazione che non hanno una precisa corrispondenza nei Topici (se non vagamente con Top. I 8 e 9). Nonostante queste differenze, le analogie strutturali tra i due trattati mi sembrano dominare. Se non sono palesi e non balzano all’occhio, è a causa delle enormi differenze di dimensione e di elaborazione tra le parti corrispondenti, differenze dovute al fatto che nei Topici prevale il ruolo dell’interrogante (che ha bisogno di luoghi), perché quello è il ruolo caratterizzante del dialettico, mentre nelle Confutazioni Aristotele privilegia quello del rispondente (che necessita di risoluzioni), perché quello è l’unico ruolo che può essere svolto da una persona onesta in una disputa sofistica71. 71

Che il tema della risoluzione dei paralogismi sia per Aristotele il più importan-

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La struttura che abbiamo individuato paragonando i Topici e le Confutazioni smentisce una divisione del trattato sostanzialmente condivisa dagli interpreti, medievali e moderni: da una parte andrebbero i capp. 1-15, dedicati all’interrogante, dall’altra i capp. 16-34, dedicati al rispondente. Le considerazioni che precedono mi fanno invece ritenere più probabile che la seconda parte cominci alla fine del cap. 14, dove si conclude la trattazione delle specie e delle forme delle argomentazioni sofistiche e cominciano gli argomenti che completano (suntelounta) la trattazione, cioè la domanda e la risposta. In questo modo la struttura della seconda parte delle Confutazioni viene a corrispondere con quella dell’ottavo libro dei Topici. La bipartizione tradizionale che fa iniziare la seconda parte dopo il cap. 15 è stata anche proiettata indietro sulla divisione antica del trattato: il catalogo degli scritti aristotelici di Diogene Laerzio menziona un Peri eristikon in due libri e Paul Moraux72, che identifica correttamente quest’opera con le Confutazioni, pone la cesura tra i due libri alla fine del cap. 15 (dopo il capitolo sulla domanda e prima della trattazione sulla risposta). Quanto ho appena fatto rilevare induce invece a congetturare che il secondo libro della divisione diogeniana dovesse cominciare dopo il cap. 14. È opinione comune che le Confutazioni sofistiche siano per Aristotele il nono libro dei Topici. Vi sono in effetti solidi argomenti a favore di questa tesi, ma non mancano ragioni altrettanto convincenti a favore dell’autonomia del trattato. Consideriamo brevemente gli argomenti in utramque e cerchiamo di risolvere il contrasto. A favore dell’ipotesi «nono libro dei Topici» abbiamo: – La conclusione delle Confutazioni richiama il programma dei Topici e riepiloga tutto il percorso dall’inizio di questo trattato alla fine delle Confutazioni. – Nel De interpretatione (11, 20b26) e negli Analitici primi (II 17, 65b16) Aristotele cita luoghi delle Confutazioni (risp. 169a6 e 5, 167b21-36) collocandoli «nei Topici». – Come tutti i libri dei Topici eccetto il primo, le Confutazioni iniziano con la particella congiuntiva de. te è confermato dal catalogo di Diogene Laerzio, che attribuisce ad Aristotele altre due opere di argomento affine a quello delle Confutazioni: Luseis eristikai in quattro libri (num. 28 nella lista di Diogene) e Diaireseis sophistikai in quattro libri (num. 29 nella lista di Diogene). Si tratta forse di un’unica opera, cfr. Moraux 1951, pp. 50-52. 72 Moraux 1951, pp. 47-50.

LII

– Le Confutazioni si riferiscono talora a luoghi dei Topici come a parti precedenti della stessa opera73. – A Confutazioni 9, 170b5-11 e 11, 172b5-8 Aristotele riconduce le confutazioni sofistiche all’ambito di competenza del dialettico (cfr. anche Rh. I 1, 1355b15-21). Ciò significa che lo studio di questo argomento fa parte della pragmateia dedicata alla dialettica. A favore dell’autonomia si considerino invece questi indizi: – Nelle Confutazioni (2, 165b10) Aristotele si riferisce ai Topici come se si trattasse di un’altra opera: en allois. – Il primo e il secondo capitolo delle Confutazioni contengono alcune definizioni e questo fa pensare all’inizio di una nuova opera, giacché i trattati dell’Organon cominciano tipicamente con una serie di definizioni74. Peraltro tali definizioni erano già state fornite a Top. I 1 (sillogismo scientifico, dialettico ed eristico) e quindi non se ne giustificherebbe la ripetizione se le Confutazioni fossero parte integrante dei Topici. – L’esordio delle Confutazioni ha il respiro e l’inconfondibile tono generale e non tecnico dell’inizio di una trattazione. – A 1, 165a34-37 Aristotele descrive il programma delle Confutazioni come una pragmateia, come un trattato avente senso compiuto. – L’autonomia delle Confutazioni è confermata dall’alto grado di somiglianza strutturale con i Topici che abbiamo rilevato sopra. Questo conflitto di evidenze mostra che con ogni probabilità le Confutazioni furono inizialmente concepite come un trattato autonomo e solo in una fase successiva vennero incorporate, senza troppi aggiustamenti, nei Topici75. Tale procedimento è stato molto probabilmente seguito anche con i due Analitici76 e pure in altre opere non è raro che Aristotele colleghi insieme diversi trattati autonomi in un progetto sistematico di più ampio respiro77.

SE 4, 166a14; 15, 174a18-19 e 174a27; 34, 183b8-9. Burnyeat 2001, pp. 90-94. 75 Brunschwig 1967, p. XX; 1989, p. 501. Brunschwig 1999, p. 90, insiste sull’autonomia dei Topici, ma sembra negare che anche le Confutazioni abbiano avuto una fase autonoma. 76 Cfr. Brunschwig 1981. 77 Vedi Burnyeat 2004, pp. 7-24, e Falcon 2005, pp. 2-16, per le opere di filosofia della natura. 73 74

LIII

Quando furono scritte le Confutazioni sofistiche? Una datazione assoluta non può essere stabilita perché mancano riferimenti cronologici esterni e anche se vi fossero sarebbero neutralizzati da una composizione stratificata. Ci si accontenta dunque di una cronologia relativa. Tutti gli studiosi riconoscono che le Confutazioni furono redatte dopo le Categorie e dopo la sezione dei Topici considerata più antica (Top. II-VII 1-2), e che invece precedono gli Analitici primi. Possiamo distinguere tre fasi: – Categorie; Topici II-VII 1-2. – Topici I, VII 3-5 e VIII; Confutazioni; Analitici secondi (in una prima redazione diversa da quella che leggiamo oggi). – Analitici primi. Questa periodizzazione esclude il De interpretatione, la cui collocazione è assai più ardua. L’argomento più forte a favore di questa sommaria divisione in tre fasi è che Top. I-VII 1-2 non menziona quasi mai il termine sullogismos e il verbo sullogizesthai78. La fase intermedia conosce la definizione del sillogismo e fa di esso il concetto cardinale della dialettica e della scienza, ma non lo classifica secondo le figure e i modi. La terza fase è quella del sillogismo analitico: la dottrina ritenuta la logica matura di Aristotele. Si pensa anche che Top. II-VII 1-2, come le Categorie, sia un’opera composta da Aristotele quando era ancora membro dell’Accademia, cioè prima della morte di Platone. La presenza di dottrine e distinzioni accademiche vi può essere infatti facilmente riconosciuta; si pensi solo all’onnipresente apparato terminologico e concettuale della divisione dei generi. L’assenza dei segnali accademici caratteristici di Top. II-VII 1-2 non basta tuttavia a datare Top. VIII e le Confutazioni ad un’epoca successiva, perché Aristotele potrebbe aver deciso di dedicarsi, in questi ultimi testi, al tipo di dialettica che si svolge fuori dalla scuola e che non dà per acquisite tutte le distinzioni che erano patrimonio esclusivo di un circolo ristretto di filosofi. La mancanza dell’atmosfera accademica potrebbe non dipendere affatto da una maturazione del pensiero di Aristotele dovuta al trascorrere del tempo, ma ad una precisa scelta di impostazione. Resta dunque pienamente valido solo il criterio della scoperta in due tappe del sillogismo. 78 Come fu osservato da Maier 1896/1900, II 2, p. 78 n. 3. Vedi anche Barnes 1981, p. 43 n. 43. L’argomento non riguarda le Categorie, dato che, per il loro tema, non avrebbero comunque motivo di menzionare il sillogismo. L’antichità di quest’opera è dimostrata dalla sua impostazione accademica.

LIV

Nota alla traduzione e al commento La traduzione aspira prima di tutto alla leggibilità. Per questo è stato talvolta necessario interpolare qualche parola che non ha alcun corrispondente nel testo. In secondo luogo, ho ritenuto importante che il lettore ritrovasse subito le nozioni familiari e per tale ragione la traduzione non è innovativa: dove i termini greci possiedono un calco diffuso e ragionevolmente fedele («sillogismo», «eristico», «simbolo», «risoluzione», «paralogismo») me ne sono servito, rinunciando così ad ogni tentativo di ripristinare la freschezza del lessico aristotelico. Starà al lettore tenere a bada i propri pregiudizi. Esigenze di chiarezza mi hanno talora indotto a sacrificare la traduzione uniforme della terminologia. È questo il caso di parole come logos, methodos, onoma. Nel caso dei paralogismi linguistici, infine, non mi è stato quasi mai possibile riprodurre il gioco verbale in italiano e ho dovuto inserire in parentesi quadre la traslitterazione del greco o un sintetico chiarimento. Il commento ambisce a spiegare il testo e a chiarirne la struttura argomentativa. Lo spazio a disposizione non mi ha quasi mai permesso di allargare la discussione a questioni più generali e di discutere approfonditamente la letteratura secondaria, recente e meno recente. Ho cercato di registrare i miei debiti, ma ho solo segnalato le soluzioni e le proposte alternative, spesso senza poterle descrivere o riassumere. AVVERTENZA Il testo greco qui stampato è quello stabilito da W.D. Ross (vedi Bibliografia, sez. 1) modificato in alcuni punti sempre segnalati in una nota alla traduzione.

CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE DI ARISTOTELE 384/383 a.C. Aristotele nasce a Stagira dal medico Nicomaco e da Festide. Probabilmente vive, per un breve periodo, a Pella, essendo il padre diventato medico di corte del re macedone Aminta. 367/366 Si reca ad Atene ed entra nell’Accademia, dove rimane per un ventennio, durante il quale compone e pubblica numerose opere, per lo più in forma dialogica. Queste opere furono dette «essoteriche» in contrapposizione a quelle che Aristotele compose solo per le sue lezioni e i suoi corsi e che vennero perciò dette «esoteriche» perché rivolte agli iniziati. È probabile che almeno alcuni dei trattati che compongono l’Organon siano stati redatti, in forma più o meno definitiva, già nel periodo accademico. 360/358 Probabile data di composizione del Grillo. Forse seguono, a breve distanza di tempo, il trattato Sulle Idee e il trattato Sul Bene. 351/350 Probabile data di composizione del Protreptico, cui seguì, a breve distanza, il trattato Sulla filosofia. 347 Muore Platone; Aristotele lascia l’Accademia e Atene e si reca probabilmente ad Atarneo, invitato dal tiranno Ermia, e, subito dopo, ad Asso, città donata da Ermia ai filosofi accademici Erasto e Corisco per i buoni servigi ottenuti da loro. 347-345/344 Aristotele fonda e dirige una scuola ad Asso insieme a Senocrate, Corisco ed Erasto. Si dedica alla composizione delle opere destinate alLVII

la scuola e cessa probabilmente di comporre scritti per il grosso pubblico. La cronologia di queste opere di scuola o delle loro parti non è più ricostruibile. 345/344-343/342 Aristotele fonda e dirige una scuola a Mitilene in Lesbo. 343/342 Filippo il Macedone sceglie Aristotele, per intercessione di Ermia, come educatore del figlio Alessandro. 341 Ermia è fatto prigioniero dai Persiani e poi ucciso. In questo periodo Aristotele sposa Pizia, sorella di Ermia, da cui avrà una figlia, alla quale sarà dato lo stesso nome della madre. 340 Alessandro, diventato reggente, interrompe i suoi studi. Forse non molto dopo Aristotele si recò a Stagira, avendo ottenuto che Alessandro la facesse ricostruire (era stata distrutta poco prima che Aristotele lasciasse Atene). Forse a Stagira muore Pizia. Aristotele si unisce a Erpilli che gli darà un figlio, al quale, in ricordo del nonno paterno, verrà dato il nome di Nicomaco. 335/334 Aristotele torna ad Atene e fonda il Peripato. 335/334-323 Aristotele tiene i grandi corsi di filosofia e di scienza nel Peripato, elabora e sistema gli scritti esoterici. 323 Muore Alessandro il Macedone, si scatena una reazione antimacedone e Aristotele è minacciato al punto da sentirsi costretto a lasciare Atene. 322 Si reca a Calcide, dove aveva dei possedimenti ereditati dalla madre e qui muore dopo pochi mesi.

ABBREVIAZIONI DK LSJ

Diels – Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker (v. Bibliografia, sez. 5) Liddell – Scott – Jones, A Greek English Lexicon (v. Bibliografia, sez. 5)

Per i classici greci più citati ho adottato le abbreviazioni di LSJ. In particolare: Arist. de An. APr. APo. Cat. Cael. EE GC Int. Metaph. [MXG] NE Ph. Po. Pol. [Pr.] Rh.

Aristotele De anima Analitici primi Analitici secondi Categorie De caelo Etica eudemia De generatione et corruptione De interpretatione Metafisica De Melisso Xenophane Gorgia Etica nicomachea Fisica Poetica Politica Problemi Retorica LIX

SE Top.

Confutazioni sofistiche Topici

Pl. Cra. Cri. Euthd. Grg. Hp. Mi. Men. Phd. Phdr. Phlb. Prm. Prt. R. Sph. Tht.

Platone Cratilo Critone Eutidemo Gorgia Ippia minore Menone Fedone Fedro Filebo Parmenide Protagora Repubblica Sofista Teeteto

I commenti e le traduzioni delle Confutazioni sofistiche sono citati con il solo nome dell’autore e la pagina, vedi Bibliografia, sez. 2. I titoli dei commenti antichi ad Aristotele sono abbreviati secondo la sigla del titolo aristotelico: In Top., In Metaph. ecc., vedi Bibliografia, sez. 4.

TRASLITTERAZIONE DEI CARATTERI GRECI Si è ritenuto opportuno, per l’orientamento di questa serie, fornire una traslitterazione semplificata ma coerente. Su tutte le parole si trascurano le indicazioni degli accenti e delle quantità; lo spirito aspro sopra vocale a inizio di parola si traslittera con una h posta prima della vocale (p. es.: ëma→ hama) e nella pronuncia richiede una aspirazione, mentre si tralasciano sempre lo spirito sopra il ‘rò’ (r) e lo spirito dolce (É). Si tenga infine presente che u si pronuncia come una u francese, ou e ph, rispettivamente, come la u e la f in italiano, g è sempre dura (come in ‘gallo’ e non in ‘gelo’), th e ch sono fricative e quindi vanno pronunciate con una leggera aspirazione. MINUSCOLE a→ b→ g→ gk → gg → gx → gj → d→ e→ z→ h→ y→ i→ k→ l→ m→ n→ j→ o→ p→ r→ s, w → t→ u→ f→ x→ c→ v→

a b g nk ng nch nx d e z e th i k l m n x o p r s t u ph ch ps o

MAIUSCOLE A→ A B→ B G→ G

D E Z H Y I K L M N J O P R S T U F X C V

→ → → → → → → → → → → → → → → → → → → → →

LXI

D E Z E Th I K L M N X O P R S T U Ph Ch Ps O

DITTONGHI ai ei oi au eu ou & ˙ ƒ

→ → → → → → → → →

ai ei oi au eu ou ai ei oi

PERI TVN SOFISTIKVN ELEGXVN

LE CONFUTAZIONI SOFISTICHE

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Per‹ d¢ t«n sofistik«n §l°gxvn ka‹ t«n fainom°nvn m¢n §l°gxvn, ˆntvn d¢ paralogism«n éllÉ oÈk §l°gxvn, l°gvmen érjãmenoi katå fÊsin épÚ t«n pr≈tvn. ÜOti m¢n oÔn ofl m¢n efis‹ sullogismoiÄ, ofl dÉ oÈk ˆntew dokoËsi, fanerÒn. Àsper går ka‹ §p‹ t«n êllvn toËto giÄnetai diã tinow ımoiÒthtow, ka‹ §p‹ t«n lÒgvn …saÊtvw ¶xei. ka‹ går tØn ßjin ofl m¢n ¶xousin eÔ, ofl d¢ faiÄnontai, fuletik«w fusÆsantew ka‹ §piskeuãsantew aÍtoÊw, ka‹ kalo‹ ofl m¢n diå kãllow, ofl d¢ faiÄnontai, komm≈santew aÍtoÊw. §piÄ te t«n écÊxvn …saÊtvw: ka‹ går toÊtvn tå m¢n êrgurow tå d¢ xrusÒw §stin élhy«w, tå dÉ ¶sti m¢n oÎ, faiÄnetai d¢ katå tØn a‡syhsin, oÂon tå m¢n liyargÊrina ka‹ tå kattit°rina érgurç, tå d¢ xolobãfina xrusç. tÚn aÈtÚn d¢ trÒpon ka‹ sullogismÚw ka‹ ¶legxow ı m¢n ¶stin, ı dÉ oÈk ¶sti m°n, faiÄnetai d¢ diå tØn épeiriÄan: ofl går êpeiroi Àsper ín ép°xontew pÒrrvyen yevroËsin. ı m¢n går sullogismÚw §k tin«n §sti tey°ntvn Àste l°gein ßteron §j énãgkhw ti t«n keim°nvn diå t«n keim°nvn, ¶legxow d¢ sullogismÚw metÉ éntifãsevw toË sumperãsmatow. ofl d¢ toËto poioËsi m¢n oÎ, dokoËsi d¢ diå pollåw afitiÄaw: œn eÂw tÒpow eÈfu°statÒw §sti ka‹ dhmosi≈tatow, ı diå t«n Ùnomãtvn. §pe‹ går oÈk ¶stin aÈtå tå prãgmata dial°gesyai f°rontaw, éllå to›w ÙnÒmasin ént‹ t«n pragmãtvn xr≈-

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CAPITOLO 1 Parliamo ora delle confutazioni sofistiche, cioè di quelle che sembrano confutazioni, mentre in realtà sono paralogismi e non confutazioni, cominciando, secondo natura, da ciò che è primo. Che veramente alcune argomentazioni siano sillogismi e altre lo sembrino senza esserlo è manifesto, giacché, come questo avviene per le altre cose in virtù di una certa somiglianza, così avviene anche per le argomentazioni. Infatti certuni sono in buona condizione fisica mentre altri sembrano esserlo perché si agghindano e sono impettiti come offerte tribali; alcuni sono belli per la bellezza, altri sembrano belli perché si truccano. E lo stesso vale per le cose inanimate, giacché alcune di queste sono veramente d’argento e alcune d’oro, mentre altre non lo sono, ma lo sembrano alla percezione: per esempio le cose di litargio e quelle di stagno sembrano d’argento, quelle giallastre sembrano d’oro. Allo stesso modo anche le argomentazioni, qualcuna è veramente sillogismo e confutazione, qualche altra non lo è ma sembra esserlo a causa dell’inesperienza, giacché gli inesperti, come se ne fossero distanti, guardano le cose da lontano. Il sillogismo, infatti, è costituito da alcune cose poste in modo che sia necessario dire qualcosa di diverso dalle cose poste, in virtù delle cose poste, mentre la confutazione è un sillogismo accompagnato dalla contraddittoria della conclusione. Certe argomentazioni invece questo non lo fanno, ma sembrano farlo per molte cause, fra le quali ce n’è una che è il luogo più fertile e diffuso: quello che dipende dalle parole. Poiché infatti non è possibile discutere portando gli oggetti stessi, ma usiamo le parole al posto degli oggetti 3

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meya …w sumbÒloiw, tÚ sumba›non §p‹ t«n Ùnomãtvn ka‹ §p‹ t«n pragmãtvn ≤goÊmeya sumbaiÄnein, kayãper §p‹ t«n cÆfvn to›w logizom°noiw. tÚ dÉ oÈk ¶stin ˜moion: tå m¢n går ÙnÒmata pep°rantai ka‹ tÚ t«n lÒgvn pl∞yow, tå d¢ prãgmata tÚn ériymÚn êpeirã §stin. énagka›on oÔn pleiÄv tÚn aÈtÚn lÒgon ka‹ toÎnoma tÚ ©n shmaiÄnein. Àsper oÔn kéke› ofl mØ deino‹ tåw cÆfouw f°rein ÍpÚ t«n §pisthmÒnvn parakroÊontai, tÚn aÈtÚn trÒpon ka‹ §p‹ t«n lÒgvn ofl t«n Ùnomãtvn t∞w dunãmevw êpeiroi paralogiÄzontai ka‹ aÈto‹ dialegÒmenoi ka‹ êllvn ékoÊontew. diå m¢n oÔn taÊthn tØn afitiÄan ka‹ tåw lexyhsom°naw ¶sti ka‹ sullogismÚw ka‹ ¶legxow fainÒmenow oÈk Ãn d°. §pe‹ dÉ §stiÄ tisi mçllon prÚ ¶rgou tÚ doke›n e‰nai sofo›w μ tÚ e‰nai ka‹ mØ doke›n (¶sti går ≤ sofistikØ fainom°nh sofiÄa oÔsa dÉ oÎ, ka‹ ı sofistØw xrhmatistØw épÚ fainom°nhw sofiÄaw éllÉ oÈk oÎshw), d∞lon ˜ti énagka›on toÊtoiw ka‹ toË sofoË ¶rgon doke›n poie›n, mçllon μ poie›n ka‹ mØ doke›n. ¶sti dÉ …w ©n prÚw ©n efipe›n ¶rgon per‹ ßkaston toË efidÒtow éceude›n m¢n aÈtÚn per‹ œn o‰de, tÚn d¢ ceudÒmenon §mfaniÄzein dÊnasyai. taËta dÉ §st‹ tÚ m¢n §n t“ dÊnasyai doËnai lÒgon, tÚ dÉ §n t“ labe›n. énãgkh oÔn toÁw boulom°nouw sofisteÊein tÚ t«n efirhm°nvn lÒgvn g°now zhte›n: prÚ ¶rgou gãr §stin: ≤ går toiaÊth dÊnamiw poiÆsei faiÄnesyai sofÒn, o tugxãnousi tØn proaiÄresin ¶xontew. ÜOti m¢n oÔn ¶sti ti toioËton lÒgvn g°now, ka‹ ˜ti toiaÊthw §fiÄentai dunãmevw oÓw kaloËmen sofistãw, d∞lon. pÒsa dÉ ¶stin e‡dh t«n lÒgvn t«n sofistik«n, ka‹ §k pÒsvn tÚn ériymÚn ≤ dÊnamiw aÏth sun°sthke, ka‹ pÒsa m°rh tugxãnei t∞w pragmateiÄaw ˆnta, ka‹ per‹ t«n êllvn t«n sunteloÊntvn efiw tØn t°xnhn taÊthn ≥dh l°gvmen.

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ÖEsti dØ t«n §n t“ dial°gesyai lÒgvn t°ttara g°nh, didaskaliko‹ ka‹ dialektiko‹ ka‹ peirastiko‹ ka‹ §ristikoiÄ: didaskaliko‹ m¢n ofl §k t«n ofikeiÄvn érx«n •kãstou mayÆmatow ka‹ oÈk §k t«n toË épokrinom°nou doj«n sullogizÒmenoi (de› går pisteÊein tÚn manyãnonta), dialektiko‹ dÉ ofl §k t«n §ndÒjvn sullogistiko‹ éntifãsevw, peirastiko‹ dÉ ofl §k

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come simboli, riteniamo che quel che risulta per le parole risulti anche per gli oggetti – proprio come ritengono che avvenga per i sassolini quelli che fanno calcoli. Ma non è la stessa cosa: infatti le parole sono finite, così come lo è la moltitudine delle locuzioni, mentre gli oggetti sono infiniti di numero; è necessario dunque che la stessa locuzione e un’unica parola significhino più cose. Pertanto, come in quel caso coloro che non sono abili a muovere i sassolini vengono imbrogliati dai competenti, allo stesso modo, nelle argomentazioni, coloro che sono inesperti della forza delle parole commettono paralogismi sia quando discutono in prima persona sia quando ascoltano altri. Per questa causa, dunque, e per quelle che verranno dette, vi sono un sillogismo e una confutazione apparenti ma non reali. Poiché per alcuni è più vantaggioso sembrare di essere sapiente che esserlo e non sembrarlo – la sofistica infatti è una sapienza apparente e non reale e il sofista uno che trae guadagno da una sapienza apparente e non reale – è chiaro che per costoro è necessario sembrare svolgere il compito del sapiente, piuttosto che svolgerlo e non sembrare. Per limitarsi al punto principale, compito di chi conosce, rispetto ad ogni argomento, è non dire egli stesso il falso su ciò che sa e saper smascherare chi dice il falso. Queste cose consistono l’una nel saper rendere ragione, l’altra nel saper chiedere ragione. È necessario dunque che coloro che vogliono fare i sofisti ricerchino il genere delle argomentazioni dette, perché recherà loro vantaggio. Una tale capacità, infatti, farà sembrare sapiente, ed è appunto questa la loro intenzione. Che dunque vi sia un tale genere di argomentazioni, e che a una tale capacità aspirino coloro che chiamiamo sofisti, è chiaro. Diciamo ora invece quante siano le specie di argomentazioni sofistiche, quante siano di numero le cose di cui si costituisce questa capacità, quante risultino essere le parti della trattazione e tutte le altre cose che concorrono a quest’arte.

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CAPITOLO 2 Vi sono quattro generi di argomentazioni che hanno luogo nel discutere: didattiche, dialettiche, esaminatrici ed eristiche. Didattiche sono quelle che partono dai principi propri di ciascuna disciplina e non sillogizzano a partire dalle opinioni di chi risponde (giacché chi impara deve fidarsi), dialettiche sono quelle che sillogizzano la contraddittoria a partire dalle cose plausibili, esaminatrici sono quelle che partono dalle 5

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t«n dokoÊntvn t“ épokrinom°nƒ ka‹ énagkaiÄvn efid°nai t“ prospoioum°nƒ ¶xein tØn §pistÆmhn (˘n trÒpon d°, di≈ristai §n •t°roiw), §ristiko‹ dÉ ofl §k t«n fainom°nvn §ndÒjvn, mØ ˆntvn d°, sullogistiko‹ μ fainÒmenoi sullogistikoiÄ. per‹ m¢n oÔn t«n épodeiktik«n §n to›w ÉAnalutiko›w e‡rhtai, per‹ d¢ t«n dialektik«n ka‹ peirastik«n §n êlloiw: per‹ d¢ t«n égvnistik«n ka‹ §ristik«n nËn l°gvmen.

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Pr«ton dØ lhpt°on pÒsvn stoxãzontai ofl §n to›w lÒgoiw égvnizÒmenoi ka‹ diafiloneikoËntew. ¶sti d¢ p°nte taËta tÚn ériymÒn, ¶legxow ka‹ ceËdow ka‹ parãdojon ka‹ soloikismÚw ka‹ p°mpton tÚ poi∞sai édolesx∞sai tÚn prosdialegÒmenon (toËto dÉ §st‹ tÚ pollãkiw énagkãzesyai taÈtÚ l°gein), μ tÚ mØ ¯n éllå [tÚ] fainÒmenon ßkaston e‰nai toÊtvn. mãlista m¢n går proairoËntai faiÄnesyai §l°gxontew, deÊteron d¢ ceudÒmenÒn ti deiknÊnai, triÄton efiw parãdojon êgein, t°tarton d¢ soloikiÄzein poie›n (toËto dÉ §st‹ tÚ poi∞sai tª l°jei barbariÄzein §k toË lÒgou tÚn épokrinÒmenon): teleuta›on d¢ tÚ pleonãkiw taÈtÚ l°gein.

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TrÒpoi dÉ efis‹ toË m¢n §l°gxein dÊo: ofl m¢n gãr efisi parå tØn l°jin, ofl dÉ ¶jv t∞w l°jevw. ¶sti d¢ tå m¢n parå tØn l°jin §mpoioËnta tØn fantasiÄan ©j tÚn ériymÒn: taËta dÉ §st‹n ımvnumiÄa, émfiboliÄa, sÊnyesiw, diaiÄresiw, prosƒdiÄa, sx∞ma l°jevw. toÊtou d¢ piÄstiw ¥ te diå t∞w §pagvg∞w ka‹ sullogismÒw, ên te lhfyª tiw êllow ka‹ ˜ti tosautax«w ín to›w aÈto›w ÙnÒmasi ka‹ lÒgoiw mØ taÈtÚ dhl≈saimen. efis‹ d¢ parå m¢n tØn ımvnumiÄan ofl toioiÄde t«n lÒgvn, oÂon ˜ti manyãnousin ofl §pistãmenoi, tå går épostomatizÒmena manyãnousin ofl grammatikoiÄ: tÚ går manyãnein ım≈numon, tÒ te juni°nai xr≈menon tª §pistÆm˙ ka‹ tÚ lambãnein §pistÆmhn. ka‹ pãlin ˜ti tå kakå égayã: tå går d°onta égayã, tå d¢ kakå d°onta: dittÚn går tÚ d°on, tÒ tÉ énagka›on, ˘ sumbaiÄnei pollãkiw ka‹ §p‹ t«n kak«n (¶sti går kakÒn ti énagka›on)^ka‹ tégayå d¢ 6

cose che sembrano vere a chi risponde e che è necessario sappia chi pretende di possedere la scienza (in quale maniera, è stato determinato altrove), eristiche sono quelle sillogistiche o apparentemente sillogistiche che partono dalle cose apparentemente ma non realmente plausibili. Ebbene, delle argomentazioni dimostrative si è detto negli Analitici, delle dialettiche e delle esaminatrici altrove; parliamo ora di quelle competitive ed eristiche.

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CAPITOLO 3 Prima di tutto bisogna apprendere quanti siano i fini che hanno di mira coloro che nelle argomentazioni competono e desiderano la sopraffazione. Questi sono cinque di numero: la confutazione, il falso, il paradosso, il solecismo e, quinto, l’indurre l’interlocutore a chiacchierare (e questo è costringerlo a ripetere più volte la stessa cosa), o, se non la realtà, almeno l’apparenza di ciascuno di essi. Costoro vogliono, infatti, in primo luogo confutare in modo palese, in secondo luogo mostrare qualcosa di falso, in terzo luogo condurre ad un paradosso, in quarto luogo far commettere solecismi (e questo è lo spingere chi risponde a esprimersi in modo barbaro in forza dell’argomentazione) e in ultimo il far dire la stessa cosa più volte.

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CAPITOLO 4 I modi di confutare sono due: delle confutazioni, infatti, le une dipendono dall’espressione, le altre ne prescindono. Le cose che suscitano l’apparenza a causa dell’espressione sono sei di numero; esse sono: omonimia, anfibolia, composizione, divisione, accento, forma dell’espressione. Prova di ciò è quella per induzione e anche il sillogismo, qualora sia assunto un altro e che tanti sono i modi in cui, con le stesse parole e locuzioni, possiamo indicare ciò che non è lo stesso. Dipendono dall’omonimia le argomentazioni di questo tipo: «Apprendono [manthanousin] coloro che conoscono; giacché sono quelli che conoscono le lettere che capiscono [manthanousin] quel che viene loro recitato». «Apprendere» [manthanein] è infatti omonimo e significa sia il comprendere usando la conoscenza sia l’acquisire la conoscenza. E ancora: «I mali sono beni, giacché le cose che devono essere [ta deonta] sono beni e i mali devono essere [deonta]». «Ciò che deve essere» [to deon] è infatti ambiguo e significa sia ciò che è necessario, il che spesso accade an7

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d°ontã famen e‰nai. ¶ti tÚn aÈtÚn kay∞syai ka‹ •stãnai, ka‹ kãmnein ka‹ ÍgiaiÄnein. ˜sper går éniÄstato, ßsthken, ka‹ ˜sper Ígiãzeto, ÍgiaiÄnei: éniÄstato dÉ ı kayÆmenow ka‹ Ígiãzeto ı kãmnvn. tÚ går tÚn kãmnonta ıtioËn poie›n μ pãsxein oÈx ©n shmaiÄnei, éllÉ ıt¢ m¢n ˜ti ı nËn kãmnvn [μ kayÆmenow], ıt¢ dÉ ˘w ¶kamne prÒteron. plØn Ígiãzeto m¢n ka‹ kãmnvn ka‹ ı kãmnvn: ÍgiaiÄnei dÉ oÈ kãmnvn éllÉ ı kãmnvn, oÈ nËn, éllÉ ı prÒteron. parå d¢ tØn émfiboliÄan ofl toioiÄde: tÚ boÊlesyai labe›n me toÁw polemiÄouw. ka‹ "îrÉ ˜ tiw gin≈skei, toËto gin≈skei;" ka‹ går tÚn gin≈skonta ka‹ tÚ ginvskÒmenon §nd°xetai …w gin≈skonta shm∞nai toÊtƒ t“ lÒgƒ. ka‹ "îra ˘ ırò tiw, toËto ırò; ırò d¢ tÚn kiÄona, Àste ırò ı kiÄvn". ka‹ "îra ˘ sÁ f∫w e‰nai, toËto sÁ f∫w e‰nai; f∫w d¢ liÄyon e‰nai: sÁ êra f∫w liÄyow e‰nai". ka‹ "îrÉ ¶sti sig«nta l°gein;" dittÚn går ka‹ tÚ sig«nta l°gein, tÒ te tÚn l°gonta sigçn ka‹ tÚ tå legÒmena. efis‹ d¢ tre›w trÒpoi t«n parå tØn ımvnumiÄan ka‹ tØn émfiboliÄan: eÂw m¢n ˜tan μ ı lÒgow μ toÎnoma kuriÄvw shmaiÄn˙ pleiÄv, oÂon éetÚw ka‹ kÊvn: eÂw d¢ ˜tan efivyÒtew Œmen oÏtv l°gein: triÄtow d¢ ˜tan tÚ suntey¢n pleiÄv shmaiÄn˙, kexvrism°non d¢ èpl«w. oÂon tÚ "§piÄstatai grãmmata": •kãteron m¢n gãr, efi ¶tuxen, ßn ti shmaiÄnei, tÚ "§piÄstatai" ka‹ tÚ "grãmmata": êmfv d¢ pleiÄv, μ tÚ tå grãmmata aÈtå §pistÆmhn ¶xein μ t«n grammãtvn êllon. ÑH m¢n oÔn émfiboliÄa ka‹ ımvnumiÄa parå toÊtouw toÁw trÒpouw §stiÄn. parå d¢ tØn sÊnyesin tå toiãde, oÂon tÚ dÊnasyai kayÆmenon badiÄzein ka‹ mØ grãfonta grãfein. oÈ går taÈtÚ shmaiÄnei ín diel≈n tiw e‡p˙ ka‹ sunye‹w …w dunatÚn tÚ "kayÆmenon badiÄzein" [ka‹ "mØ grãfonta grãfein"]: ka‹ toËyÉ …saÊtvw, ên tiw sunyª tÚ "mØ grãfonta grãfein": shmaiÄnei går …w ¶xei dÊnamin toË mØ grãfvn grãfein: §ån d¢ mØ sunyª, ˜ti ¶xei dÊnamin, ˜te oÈ grãfei, toË grãfein. ka‹ "manyãnei nËn grãmmata e‡per §mãnyanen ì §piÄstatai". ¶ti tÚ ©n mÒnon dunãmenon f°rein pollå dÊnasyai f°rein.

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che nei mali (giacché qualche male è necessario), sia ciò per cui diciamo che le cose buone devono essere [deonta]. Inoltre si conclude che lo stesso uomo siede e sta in piedi ed è malato e sano, giacché proprio colui che si alzava sta in piedi e proprio colui che guariva è sano, ma si alzava il seduto e guariva il malato. «Il malato fa o patisce qualcosa», infatti, non significa una cosa sola, ma a volte significa che chi è ora malato fa o patisce qualcosa, a volte che chi lo era prima fa o patisce qualcosa. D’altra parte guariva sia essendo malato sia il malato, mentre sta bene non essendo malato, ma il malato: non essendolo ora, ma essendo chi lo era prima. Dipendono dall’anfibolia le argomentazioni di questo tipo: «Desiderare che io catturi i nemici» e «Quel che uno conosce, non è questo che conosce?», giacché con questa locuzione può essere indicato come conoscente sia colui che conosce sia la cosa conosciuta. E ancora: «Quel che uno vede, non è questo che vede? Ma vede la colonna, sicché è la colonna a vedere». E ancora: «Quando dici che qualcosa è, dici essere quella cosa? Ma dici che una pietra è, dunque dici di essere una pietra». E ancora: «È possibile dire cose che tacciono?». «Dire cose che tacciono» [to sigonta legein] è infatti ambiguo e può indicare non solo che chi sta dicendo tace, ma anche che tacciono le cose dette. Vi sono tre tipi di argomentazioni dipendenti dall’omonimia e dall’anfibolia. Uno quando la locuzione o la parola significhino propriamente più cose, come «aquila» e «cane». Un altro è quando siamo soliti dire in questo modo. Il terzo quando la parola composta con altre significhi più cose, mentre quando è separata abbia un significato solo. Per esempio «conoscono le lettere»; infatti ciascun membro, sia «conoscono» sia «lettere», ha forse un solo significato, mentre i due insieme significano più cose: o che le lettere stesse hanno conoscenza o che un altro ha conoscenza delle lettere. L’anfibolia e l’omonimia dipendono dunque da questi modi. Dalla composizione dipendono invece argomentazioni come «Potere sedendo camminare» e «Potere non scrivendo scrivere». Infatti, quando uno asserisce come possibile «sedendo camminare», non significa lo stesso se lo prende dividendo o componendo. E similmente, nell’altro caso, se si compone «non scrivendo scrivere», giacché significa che qualcuno ha la possibilità di scrivere non scrivendo. Se invece non lo si compone, significa che quando non scrive costui ha la possibilità di scrivere. E anche: «Impara ora le lettere se è vero che ha imparato1 ciò che sa»; e inoltre «Una sola cosa potendo portare molte cose poter portare». 9

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Parå d¢ tØn diaiÄresin ˜ti tå p°ntÉ §st‹ dÊo ka‹ triÄa, ka‹ perittå ka‹ êrtia, ka‹ tÚ me›zon ‡son: tosoËton går ka‹ ¶ti prÒw. ı går aÈtÚw lÒgow di˙rhm°now ka‹ sugkeiÄmenow oÈk ée‹ taÈtÚ shmaiÄnein ín dÒjeien, oÂon "§g≈ sÉ ¶yhka doËlon ˆntÉ §leÊyeron" ka‹ tÚ "pentÆkontÉ éndr«n •katÚn liÄpe d›ow ÉAxilleÊw". Parå d¢ tØn prosƒdiÄan §n m¢n to›w êneu graf∞w dialektiko›w oÈ =ñdion poi∞sai lÒgon, §n d¢ to›w gegramm°noiw ka‹ poiÆmasi mçllon. oÂon ka‹ tÚn ÜOmhron ¶nioi dioryoËntai prÚw toÁw §l°gxontaw …w êtopon efirhkÒta "tÚ m¢n oÈ katapÊyetai ˆmbrƒ": lÊousi går aÈtÚ tª prosƒdiÄ&, l°gontew tÚ "ou" ÙjÊteron. ka‹ tÚ per‹ tÚ §nÊpnion toË ÉAgam°mnonow, ˜ti oÈk aÈtÚw ı ZeÁw e‰pen "diÄdomen d° ofl eÔxow ér°syai", éllå t“ §nupniă §net°lleto didÒnai. tå m¢n oÔn toiaËta parå tØn prosƒdiÄan §stiÄn. Ofl d¢ parå tÚ sx∞ma t∞w l°jevw sumbaiÄnousin ˜tan tÚ mØ taÈtÚ …saÊtvw •rmhneÊhtai, oÂon tÚ êrren y∞lu μ tÚ y∞lu êrren μ tÚ metajÁ yãteron toÊtvn, μ pãlin tÚ poiÚn posÚn μ tÚ posÚn poiÒn, μ tÚ poioËn pãsxon μ tÚ diakeiÄmenon poioËn, ka‹ tîlla dÉ …w diπrhtai prÒteron: ¶sti går tÚ mØ t«n poie›n ¯n …w t«n poie›n ti tª l°jei shmaiÄnein. oÂon tÚ ÍgiaiÄnein ımoiÄvw t“ sxÆmati t∞w l°jevw l°getai t“ t°mnein μ ofikodome›n: kaiÄtoi tÚ m¢n poiÒn ti ka‹ diakeiÄmenÒn pvw dhlo›, tÚ d¢ poie›n ti. tÚn aÈtÚn d¢ trÒpon ka‹ §p‹ t«n êllvn. Ofl m¢n oÔn parå tØn l°jin ¶legxoi §k toÊtvn t«n tÒpvn efisiÄn. t«n dÉ ¶jv t∞w l°jevw paralogism«n e‡dh ¶stin •ptã, ©n m¢n parå tÚ sumbebhkÒw, deÊteron d¢ tÚ èpl«w μ mØ èpl«w éllå p∫ μ poÁ μ pot¢ μ prÒw ti l°gesyai, triÄton d¢ tÚ parå tØn toË §l°gxou êgnoian, t°tarton d¢ tÚ parå tÚ •pÒmenon, p°mpton d¢ tÚ parå tÚ §n érxª lambãnein, ßkton d¢ tÚ mØ a‡tion …w a‡tion tiy°nai, ßbdomon d¢ tÚ tå pleiÄv §rvtÆmata ©n poie›n.

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Dipendono dalla divisione: «Cinque è due e tre ed è dispari e pari». E anche: «Il maggiore è uguale; infatti è altrettanto e qualcosa di più». La medesima locuzione, infatti, a seconda che sia divisa o composta, non sarà ritenuta significare sempre lo stesso; per esempio: «Io ti feci schiavo essendo libero» e ancora: «Di cento uomini il divo Achille ne lasciò cinquanta» [o «di cinquanta uomini il divo Achille ne lasciò cento»]. Non è facile costruire un’argomentazione dipendente dall’accento nelle discussioni dialettiche non scritte, mentre lo è di più in quelle scritte e in poesia. Per esempio alcuni correggono Omero contro coloro che lo accusano di aver detto assurdamente «ne [hou] marcisce alla pioggia». Risolvono questa difficoltà pronunciando «né» [où] più acutamente. E risolvono la difficoltà relativa al sogno di Agamennone dicendo che non fu Zeus stesso a dire «gli concediamo [dìdomen] di avere gloria», ma ordinò al sogno di concedergliela. Tali sono dunque i casi che dipendono dall’accento. Le argomentazioni che dipendono dalla forma dell’espressione hanno luogo quando ciò che non è lo stesso viene espresso nello stesso modo; per esempio il maschile come femminile o il femminile come maschile o il neutro come uno di questi, o ancora la qualità come quantità o la quantità come qualità o il fare come un patire o la condizione come un fare e così negli altri casi che sono stati distinti prima. È possibile infatti significare per mezzo dell’espressione ciò che non è un fare come se lo fosse; per esempio lo stare bene [hugiainein] viene detto, per la forma dell’espressione, in modo simile al tagliare [temnein] o al costruire [oikodomein]. E però l’uno indica un tipo di qualità o una determinata condizione, l’altro un fare. Allo stesso modo anche negli altri casi. Le confutazioni che dipendono dall’espressione sono costituite da questi luoghi, mentre dei paralogismi che prescindono dall’espressione vi sono sette specie. La prima dipende dall’accidente; la seconda dall’essere detto in assoluto oppure non in assoluto, ma per un certo aspetto o in un certo luogo o tempo o relazione; la terza è quella che dipende dall’ignoranza della confutazione, la quarta è quella che dipende dal conseguente; la quinta è quella che dipende dall’assumere ciò che era stato fissato all’inizio; la sesta il porre come causa ciò che non lo è; la settima il fare di più domande una domanda sola.

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Ofl m¢n oÔn parå tÚ sumbebhkÚw paralogismoiÄ efisin ˜tan ımoiÄvw ıtioËn éjivyª t“ prãgmati ka‹ t“ sumbebhkÒti Ípãrxein. §pe‹ går t“ aÈt“ pollå sumb°bhken, oÈk énãgkh pçsi to›w kathgoroum°noiw ka‹ kayÉ o kathgore›tai taÈtå pãnta Ípãrxein. oÂon "efi ı KoriÄskow ßteron ényr≈pou, aÈtÚw aÍtoË ßterow: ¶sti går ênyrvpow". μ efi Svkrãtouw ßterow, ı d¢ Svkrãthw ênyrvpow, ßteron ényr≈pou fas‹n …mologhk°nai diå tÚ sumbebhk°nai o ¶fhsen ßteron e‰nai, toËton e‰nai ênyrvpon. Ofl d¢ parå tÚ èpl«w tÒde μ pª l°gesyai ka‹ mØ kuriÄvw, ˜tan tÚ §n m°rei legÒmenon …w èpl«w efirhm°non lhfyª, oÂon, efi tÚ mØ ˆn §sti dojastÒn, ˜ti tÚ mØ ¯n ¶stin: oÈ går taÈtÚ tÚ e‰naiÄ t° ti ka‹ e‰nai èpl«w. μ pãlin ˜ti tÚ ¯n oÈk ¶stin ˆn, efi t«n ˆntvn ti mØ ¶stin, oÂon efi mØ ênyrvpow: oÈ går taÈtÚ tÚ mØ e‰naiÄ ti ka‹ èpl«w mØ e‰nai. faiÄnetai d¢ diå tÚ pãregguw t∞w l°jevw ka‹ mikrÚn diaf°rein tÚ e‰naiÄ ti toË e‰nai, ka‹ tÚ mØ e‰naiÄ ti toË mØ e‰nai. ımoiÄvw d¢ ka‹ tÚ parå tÚ p∫ ka‹ tÚ èpl«w: oÂon ı Ö n, leukÒw §sti toÁw ÙdÒntaw: leukÚw êra ÉIndÒw, ˜low m°law v ka‹ oÈ leukÒw §stin. μ efi êmfv pπ, ˜ti ëma tå §nantiÄa Ípãrxei. tÚ d¢ toioËton §pÉ §niÄvn m¢n pant‹ yevr∞sai =ñdion, oÂon efi, labΔn tÚn AfiyiÄopa e‰nai m°lana, toÁw ÙdÒntaw ¶roitÉ efi leukÒw: efi oÔn taÊt˙ leukÒw, ˜ti m°law ka‹ oÈ m°law o‡oitÉ dieil°xyai, sullogistik«w telei≈saw tØn §r≈thsin. §pÉ §niÄvn d¢ lanyãnei pollãkiw, §fÉ ˜svn, ˜tan p∫ l°ghtai, kín tÚ èpl«w dÒjeien ékolouye›n, ka‹ §n ˜soiw mØ =ñdion yevr∞sai pÒteron aÈt«n kuriÄvw épodot°on. giÄnetai d¢ tÚ toioËton §n oÂw ımoiÄvw Ípãrxei tå éntikeiÄmena: doke› går μ êmfv μ mhd°teron dot°on èpl«w e‰nai [kathgore›n]: oÂon, efi tÚ m¢n ¥misu leukÚn tÚ dÉ ¥misu m°lan, pÒteron leukÚn μ m°lan; Ofl d¢ parå tÚ mØ divriÄsyai tiÄ §sti sullogismÚw μ tiÄ ¶legxow parå tØn ¶lleicin giÄnontai toË lÒgou: ¶legxow m¢n gãr §stin éntiÄfasiw toË aÈtoË ka‹ •nÒw, mØ ÙnÒma-

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CAPITOLO 5 I paralogismi che dipendono dall’accidente hanno luogo quando si ritiene che qualsiasi cosa convenga nello stesso modo all’oggetto e all’accidente. Poiché infatti la stessa cosa ha molti accidenti, non è necessario che tutte le stesse cose convengano a tutti predicati e a ciò di cui si predicano. Per esempio: «Se Corisco è diverso dall’uomo, egli è diverso da se stesso, giacché è un uomo». Oppure: se Corisco è diverso da Socrate, e Socrate è un uomo, si dirà che è stato accordato che Corisco è diverso dall’uomo per il fatto che ciò dal quale è stato detto essere diverso ha l’accidente di essere un uomo. I paralogismi che dipendono dal fatto che questo si dice in assoluto oppure per un certo aspetto e non propriamente hanno luogo quando ciò che è detto parzialmente sia preso come se fosse detto in assoluto; per esempio, se ciò che non è è oggetto di opinione, dire che ciò che non è è. Non è lo stesso, infatti, essere qualcosa ed essere in assoluto. O ancora, dire che ciò che è non è ciò che è, se, per qualcuna delle cose che sono, esso non è quella cosa; per esempio se non è un uomo. Non è lo stesso, infatti, non essere qualcosa e non essere in assoluto, ma, per la vicinanza dell’espressione, sembra differire poco anche l’essere qualcosa dall’essere, e il non essere qualcosa dal non essere. Allo stesso modo anche il caso che dipende dal dirsi per un certo aspetto o in assoluto. Per esempio, l’indiano, che è tutto nero, è bianco rispetto ai denti; dunque è bianco e non bianco. Oppure, se entrambi i predicati si dicono per un certo aspetto, dire che allo stesso tempo convengono predicati contrari. Questo tipo di paralogismo è in certi casi facile da vedere per tutti; ad esempio, se l’interrogante, assumendo che l’etiope è nero, chiedesse se è bianco rispetto ai denti, e se dunque è bianco in questo modo, credesse di aver discusso perfezionando sillogisticamente l’interrogazione, che è nero e non nero. In alcuni casi, invece, questo tipo di paralogismo sfugge spesso all’attenzione: in quelli in cui, qualora un predicato si dica per un certo aspetto, sembrerebbe seguirne anche la predicazione in assoluto; e in quelli in cui non è facile vedere quale dei due sia da rendere come attribuito propriamente; una situazione del genere si verifica quando gli opposti convengono allo stesso grado: sembra infatti che o entrambi o nessuno dei due siano da concedere in assoluto; per esempio: se una cosa è per metà bianca e per metà nera, è bianca o nera? I paralogismi che dipendono dal fatto che non si è determinato che cosa sia un sillogismo o che cosa una confutazione2 si verificano a causa della mancanza della formula definitoria. La confutazione è infatti 13

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tow éllå prãgmatow, ka‹ ÙnÒmatow mØ sunvnÊmou éllå toË aÈtoË, §k t«n doy°ntvn §j énãgkhw (mØ sunariymoum°nou toË §n érxª), katå taÈtÚ ka‹ prÚw taÈtÚ ka‹ …saÊtvw ka‹ §n t“ aÈt“ xrÒnƒ. tÚn aÈtÚn d¢ trÒpon ka‹ tÚ ceÊsasyai periÄ tinow. ¶nioi d¢ épolipÒntew ti t«n lexy°ntvn faiÄnontai §l°gxein, oÂon ˜ti taÈtÚ diplãsion ka‹ oÈ diplãsion: tå går dÊo toË m¢n •nÚw diplãsia, t«n d¢ tri«n oÈ diplãsia. μ efi tÚ aÈtÚ toË aÈtoË diplãsion ka‹ oÈ diplãsion, éllÉ oÈ katå taÈtÒ: katå m¢n går tÚ m∞kow diplãsion, katå d¢ tÚ plãtow oÈ diplãsion. μ efi toË aÈtoË ka‹ katå taÈtÚ ka‹ …saÊtvw, éllÉ oÈx ëma: diÒper §st‹ fainÒmenow ¶legxow. ßlkoi dÉ ên tiw toËton ka‹ efiw toÁw parå tØn l°jin. Ofl d¢ parå tÚ tÚ §n érxª lambãnein giÄnontai m¢n oÏtvw ka‹ tosautax«w ısax«w §nd°xetai tÚ §j érx∞w afite›syai, faiÄnontai dÉ §l°gxein diå tÚ mØ dÊnasyai sunorçn tÚ taÈtÚn ka‹ tÚ ßteron. ÑO d¢ parå tÚ •pÒmenon ¶legxow diå tÚ o‡esyai éntistr°fein tØn ékoloÊyhsin: ˜tan går toËde ˆntow §j énãgkhw tÒde ¬, ka‹ toËde ˆntow o‡ontai ka‹ yãteron e‰nai §j énãgkhw. ˜yen ka‹ afl per‹ tØn dÒjan §k t∞w afisyÆsevw épãtai giÄnontai: pollãkiw går tØn xolØn m°li Íp°labon diå tÚ ßpesyai tÚ janyÚn xr«ma t“ m°liti: ka‹ §pe‹ sumbaiÄnei tØn g∞n Ïsantow giÄnesyai diãbroxon, kín ¬ diãbroxow, Ípolambãnomen sai. tÚ dÉ oÈk énagka›on. ¶n te to›w =htoriko›w afl katå tÚ shme›on épodeiÄjeiw §k t«n •pom°nvn efisiÄn: boulÒmenoi går de›jai ˜ti moixÒw, tÚ •pÒmenon ¶labon, ˜ti kallvpistØw μ ˜ti nÊktvr ırçtai plan≈menow. pollo›w d¢ taËta m¢n Ípãrxei, tÚ d¢ kathgoroÊmenon oÈx Ípãrxei. ımoiÄvw d¢ ka‹ §n to›w sullogistiko›w, oÂon ı MeliÄssou lÒgow ˜ti êpeiron tÚ ëpan, labΔn tÚ m¢n ëpan ég°nhton (§k går mØ ˆntow oÈd¢n ín gen°syai), tÚ d¢ genÒmenon §j érx∞w gen°syai: efi mØ oÔn g°gonen, érxØn oÈk ¶xein tÚ pçn, ÀstÉ êpeiron. oÈk énãgkh d¢ toËto sumbaiÄnein: oÈ går efi tÚ genÒmenon ëpan érxØn ¶xei, ka‹ e‡ ti érxØn ¶xei, g°gonen, Às-

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la contraddizione di uno e lo stesso oggetto, non solo di una parola, e di una parola non sinonima, ma della stessa; contraddizione derivante di necessità dalle cose concesse, senza comprendere nel numero ciò che era stato fissato all’inizio, sotto lo stesso rispetto, in relazione alla stessa cosa, nello stesso modo e nello stesso tempo. Nella stessa maniera si definisce anche il dire il falso su qualcosa. Alcuni, tralasciando qualcuno dei punti detti, confutano in apparenza. Per esempio dicendo che la stessa cosa è doppia e non doppia, giacché il due è doppio dell’uno, ma non è doppio del tre. Oppure, se la stessa cosa è doppia e non è doppia della stessa cosa, ma non sotto lo stesso rispetto, giacché è doppia rispetto alla lunghezza e non è doppia rispetto alla larghezza. Oppure se è doppia e non è doppia della stessa cosa, sotto lo stesso rispetto, nello stesso modo, ma non al contempo, per la qual ragione è una confutazione apparente. Ma quest’ confutazione potrebbe essere anche forzatamente inclusa in quelle che dipendono dall’espressione. Le confutazioni che dipendono dall’assumere ciò che era stato fissato all’inizio si verificano in tali e tanti modi quanti quelli in cui è possibile richiedere ciò che era stato fissato all’inizio e sembrano confutare perché si è incapaci di cogliere ciò che è lo stesso e ciò che è diverso. La confutazione che dipende dal conseguente deriva dal ritenere che la conseguenza si converta, giacché quando, essendo questo, necessariamente è quest’altro, si ritiene pure che, essendo quest’ultimo, necessariamente sia anche il primo. Da ciò nascono anche gli inganni nelle opinioni fondate sulla percezione. Spesso infatti il fiele è preso per miele per il fatto che a quest’ultimo consegue il colore giallo. E, poiché quando piove risulta che la terra si bagna, riteniamo anche che quando è bagnata sia piovuto; ma ciò non è necessario. Nei discorsi retorici, le dimostrazioni secondo il segno dipendono dai conseguenti, giacché, volendo mostrare che qualcuno è adultero, si assume il conseguente, cioè che è azzimato o che lo si vede girovagare di notte; ma a molti queste caratteristiche convengono pur non convenendo l’accusa. Allo stesso modo anche nelle argomentazioni sillogistiche, come quella di Melisso volta a provare che il tutto è infinito, la quale assume che il tutto è ingenerato (giacché nulla potrebbe essere generato da ciò che non è) e che quanto è generato è generato da un principio che se dunque il tutto non è stato generato, non ha un principio, cosicché è infinito. Ma ciò non risulta necessariamente, giacché se tutto ciò che è generato ha un principio, non vale anche che se qualcosa ha un principio sia stato generato, così come, 15

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per oÈdÉ efi ı pur°ttvn yermÒw, ka‹ tÚn yermÚn énãgkh pur°ttein. ÑO d¢ parå tÚ mØ a‡tion …w a‡tion, ˜tan proslhfyª tÚ énaiÄtion …w parÉ §ke›no ginom°nou toË §l°gxou. sumbaiÄnei d¢ tÚ toioËton §n to›w efiw tÚ édÊnaton sullogismo›w: §n toÊtoiw går énagka›on énaire›n ti t«n keim°nvn. §ån oÔn §gkatariymhyª §n to›w énagkaiÄoiw §rvtÆmasi prÚw tÚ sumba›non édÊnaton, dÒjei parå toËto giÄnesyai pollãkiw ı ¶legxow, oÂon ˜ti oÈk ¶sti cuxØ ka‹ zvØ taÈtÒn. efi går fyorò g°nesiw §nantiÄon, ka‹ tª tin‹ fyorò ¶stai t‹w g°nesiw: ı d¢ yãnatow fyorã tiw ka‹ §nantiÄon zvª, Àste g°nesiw ≤ zvØ ka‹ tÚ z∞n giÄnesyai: toËto dÉ édÊnaton: oÈk êra taÈtÚn ≤ cuxØ ka‹ ≤ zvÆ. oÈ dØ sullelÒgistai: sumbaiÄnei gãr, kín mÆ tiw taÈtÚ fª tØn zvØn tª cuxª, tÚ édÊnaton, éllå mÒnon §nantiÄon zvØn m¢n yanãtƒ, ˆnti fyorò, fyorò d¢ g°nesin. ésullÒgistoi m¢n oÔn èpl«w oÈk efis‹n ofl toioËtoi lÒgoi, prÚw d¢ tÚ prokeiÄmenon ésullÒgistoi. ka‹ lanyãnei pollãkiw oÈx √tton aÈtoÁw toÁw §rvt«ntaw tÚ toioËton. Ofl m¢n oÔn parå tÚ •pÒmenon ka‹ parå tÚ mØ a‡tion lÒgoi toioËtoiÄ efisin: ofl d¢ parå tÚ tå dÊo §rvtÆmata ©n poie›n, ˜tan lanyãn˙ pleiÄv ˆnta ka‹ …w •nÚw ˆntow épodoyª épÒkrisiw miÄa. §pÉ §niÄvn m¢n oÔn =ñdion fide›n ˜ti pleiÄv ka‹ ˜ti oÈ dot°on miÄan épÒkrisin, oÂon "pÒteron ≤ g∞ yãlattã §stin μ ı oÈranÒw;" §pÉ §niÄvn dÉ √tton, ka‹ …w •nÚw ˆntow μ ımologoËsi t“ mØ épokriÄnesyai tÚ §rvt≈menon μ §l°gxesyai faiÄnontai. oÂon îrÉ otow ka‹ otÒw §stin ênyrvpow; ÀstÉ ên tiw tÊpt˙ toËton ka‹ toËton, ênyrvpon éllÉ oÈk ényr≈pouw tuptÆsei. μ pãlin, œn tå m°n §stin égayå tå dÉ oÈk égayã, pãnta égayå μ oÈk égayã; ıpÒteron går ín fª, ¶sti m¢n …w ¶legxon μ ceËdow fainÒmenon dÒjeien ín poie›n: tÚ går fãnai t«n mØ égay«n ti e‰nai égayÚn μ t«n égay«n mØ égayÚn ceËdow. ıt¢ d¢ proslhfy°ntvn tin«n kín ¶legxow giÄnoito élhyinÒw, oÂon e‡ tiw doiÄh ımoiÄvw ©n ka‹ pollå

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se chi è febbricitante è caldo, non vale anche che chi è caldo necessariamente sia febbricitante. Il paralogismo che dipende dal considerare causa ciò che non è causa si verifica quando ciò che non è causa sia assunto in aggiunta come se da esso dipendesse l’aver luogo della confutazione. Questo tipo di paralogismo si verifica nei sillogismi che conducono all’impossibile. In questi, infatti, è necessario demolire una delle premesse. Se dunque ciò che non è causa sia compreso nel numero delle domande necessarie a far risultare l’impossibile, sembrerà spesso che la confutazione abbia luogo in dipendenza da questo. Per esempio l’argomentazione che l’anima e la vita non sono la stessa cosa. Se infatti la generazione è contraria alla corruzione, anche un tipo di generazione sarà contrario ad un tipo di corruzione; la morte è un tipo di generazione ed è contraria alla vita, cosicché la vita è una generazione e il vivere un generarsi; ma ciò è impossibile: dunque l’anima e la vita non sono la stessa cosa. Questo però non è stato certo sillogizzato, perché l’impossibile risulta anche quando non si dica che la vita è la stessa cosa dell’anima, ma soltanto che la vita è contraria alla morte, essendo quest’ultima una corruzione ed essendo la corruzione contraria alla generazione. Le argomentazioni di questo tipo non sono dunque in assoluto asillogistiche, ma lo sono in relazione alla conclusione prefissata. Spesso tale paralogismo sfugge in uguale misura anche all’attenzione degli stessi interroganti. Le argomentazioni che dipendono dal conseguente e quelle che dipendono da ciò che non è causa sono fatte in questo modo. Quelle che dipendono dal fare di due domande una domanda sola hanno invece luogo quando sfugge che vi sono più domande e, come se ve ne fosse una, viene fornita un’unica risposta. In certi casi è facile vedere che le domande sono più d’una e che non va data una sola risposta; per esempio «È la terra che è mare o è il cielo?» In certi casi è invece meno facile, e, come se vi fosse una sola domanda, o si cede per il fatto di non rispondere a ciò che è stato chiesto, oppure si sembra confutati. Per esempio: «Ma questo e quest’altro sono un uomo?», cosicché se si percuota questo e quest’altro si percuoterà un uomo e non degli uomini. O ancora, dato un insieme di cose di cui alcune sono buone e altre non buone, tutte queste cose sono buone o non sono buone? Qualunque cosa il rispondente dica, può essere ritenuto responsabile di una confutazione apparente o di un’apparente falsità, giacché il dire, di una delle cose non buone, che è buona o, di una delle cose buone, che non è buona, è falso. Talora poi, assunte alcune cose aggiuntive, ne verrà una confutazione autentica. Per esempio se 17

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l°gesyai leukå ka‹ gumnå ka‹ tuflã. efi går tuflÚn tÚ mØ ¶xon ˆcin pefukÚw dÉ ¶xein, ka‹ tuflå ¶stai tå mØ ¶xonta ˆcin pefukÒta dÉ ¶xein. ˜tan oÔn tÚ m¢n ¶x˙ tÚ d¢ mØ ¶x˙, tå êmfv ¶stai μ ır«nta μ tuflã: ˜per édÊnaton.

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áH dØ oÏtvw diairet°on toÁw fainom°nouw sullogismoÁw ka‹ §l°gxouw, μ pãntaw énakt°on efiw tØn toË §l°gxou êgnoian, érxØn taÊthn poihsam°nouw: ¶sti går ëpantaw énalËsai toÁw lexy°ntaw trÒpouw efiw tÚn toË §l°gxou diorismÒn. pr«ton m¢n efi ésullÒgistoi: de› går §k t«n keim°nvn sumbaiÄnein tÚ sump°rasma Àste l°gein §j énãgkhw éllå mØ faiÄnesyai. ¶peita ka‹ katå tå m°rh toË diorismoË. t«n m¢n går §n tª l°jei ofl m°n efisi parå tÚ dittÒn, oÂon ¥ te ımvnumiÄa ka‹ ı lÒgow ka‹ ≤ ımoiosxhmosÊnh (sÊnhyew går tÚ pãnta …w tÒde ti shmaiÄnein), ≤ d¢ sÊnyesiw ka‹ diaiÄresiw ka‹ prosƒdiÄa t“ mØ tÚn aÈtÚn e‰nai tÚn lÒgon μ tÚ ˆnoma tÚ diaf°ron. ¶dei d¢ ka‹ toËto, kayãper ka‹ tÚ prçgma taÈtÒn, efi m°llei ¶legxow μ sullogismÚw ¶sesyai, oÂon efi l≈pion, mØ flmãtion sullogiÄsasyai éllå l≈pion. élhy¢w m¢n går kéke›no, éllÉ oÈ sullelÒgistai, éllÉ ¶ti §rvtÆmatow de› efi taÈtÚn shmaiÄnei, prÚw tÚn zhtoËnta tÚ diå tiÄ. Ofl d¢ parå tÚ sumbebhkÚw ırisy°ntow toË sullogismoË fanero‹ giÄnontai. tÚn aÈtÚn går ırismÚn de› ka‹ toË §l°gxou giÄnesyai, plØn proske›syai tØn éntiÄfasin: ı går ¶legxow sullogismÚw éntifãsevw. efi oÔn mØ ¶sti sullogismÚw toË sumbebhkÒtow, oÈ giÄnetai ¶legxow. oÈ går efi toÊtvn ˆntvn énãgkh tÒdÉ e‰nai (toËto dÉ §st‹ leukÒn), énãgkh leukÚn e‰nai diå tÚn sullogismÒn. oÈdÉ efi tÚ triÄgvnon duo›n Ùrya›n ‡saw ¶xei, sumb°bhke dÉ aÈt“ sxÆmati e‰nai μ pr≈tƒ μ érxª, ˜ti sx∞ma μ érxØ μ pr«ton toËtÒ §stin: oÈ går √ sx∞ma oÈdÉ √ pr«ton éllÉ √ triÄgvnon ≤ épÒdeijiw. ımoiÄvw d¢ ka‹ §p‹ t«n êllvn. ÀstÉ efi ı ¶legxow sullogismÒw tiw, oÈk ín e‡h ı katå sumbebhkÚw ¶legxow. éllå parå toËto ka‹ ofl texn›tai ka‹ ˜lvw ofl §pistÆmonew ÍpÚ t«n énepisthmÒnvn §l°gxontai: katå sumbebhkÚw går

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qualcuno concede che è allo stesso modo che una singola cosa e una pluralità di cose sono dette bianche, nude o cieche. Se infatti cieco è ciò che non ha la vista ma è per natura atto ad averla, cieche saranno le cose che non hanno la vista ma sono per natura atte ad averla. Dunque, quando di due cose una abbia la vista e l’altra non l’abbia, entrambe saranno o cieche o vedenti, il che è impossibile.

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CAPITOLO 6 I sillogismi e le confutazioni apparenti vanno divisi in questo modo oppure vanno ricondotti tutti all’ignoranza della confutazione facendo di questa il principio. È possibile infatti risolvere tutti i modi detti nella definizione della confutazione. Prima di tutto se sono asillogistici: la conclusione deve infatti risultare dalle cose poste così che sia, e non solo sembri, necessario dirla. In seguito anche secondo le parti della definizione, giacché, dei modi che rientrano nell’ambito dell’espressione, gli uni dipendono dall’ambiguità, come l’omonimia, la locuzione e la somiglianza di forma (giacché accade comunemente di significare ogni cosa come se fosse un questo), mentre la composizione, la divisione e l’accento si devono al fatto che la locuzione non è la stessa o la parola è diversa. Si era detto che anche questa, come l’oggetto, deve essere la stessa, se hanno da esservi una confutazione o un sillogismo; se in questione è «mantello», per esempio, non si dovrà sillogizzare con «cappa», ma con «mantello»; infatti è ben vero anche quello, e tuttavia non è stato sillogizzato, ma abbisogna, per chi ricerchi il perché, anche della domanda se i due termini significhino la stessa cosa. Le confutazioni apparenti che dipendono dall’accidente diventano manifeste una volta definito il sillogismo, poiché la stessa definizione deve toccare anche alla confutazione, salvo che bisogna aggiungere la contraddittoria: la confutazione è infatti un sillogismo della contraddittoria. Se dunque non si dà sillogismo dell’accidente, non avrà luogo una confutazione, giacché, se essendo queste cose è necessario che sia quest’altra, e quest’ultima è bianca, non è necessario che essa sia bianca in virtù del sillogismo. Né se il triangolo ha gli angoli uguali a due retti, e ha l’accidente di essere una figura o un primo o un principio, è necessario che una figura o un principio o un primo siano questo. La dimostrazione non lo riguarda in quanto figura né in quanto primo, ma in quanto triangolo. Allo stesso modo anche negli altri casi. Cosicché se la confutazione è un tipo di sillogismo, il sillogismo per accidente non sarà una confutazione. Tuttavia è a causa di questo che gli specialisti e in generale coloro che hanno conoscenza 19

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poioËntai toÁw sullogismoÁw prÚw toÁw efidÒtaw: ofl dÉ oÈ dunãmenoi diaire›n μ §rvt≈menoi didÒasin μ oÈ dÒntew o‡ontai dedvk°nai. Ofl d¢ parå tÚ p∫ ka‹ èpl«w, ˜ti oÈ toË aÈtoË ≤ katãfasiw ka‹ ≤ épÒfasiw. toË går p∫ leukoË tÚ p∫ oÈ leukÒn, toË dÉ èpl«w leukoË tÚ èpl«w oÈ leukÚn épÒfasiw: efi oÔn dÒntow p∫ e‰nai leukÚn …w èpl«w efirhm°nou lambãnei, oÈ poie› ¶legxon, faiÄnetai d¢ diå tØn êgnoian toË tiÄ §stin ¶legxow. Faner≈tatoi d¢ pãntvn ofl prÒteron lexy°ntew parå tÚn toË §l°gxou diorismÒn: diÚ ka‹ proshgoreÊyhsan oÏtvw: parå går toË lÒgou tØn ¶lleicin ≤ fantasiÄa giÄnetai, ka‹ diairoum°noiw oÏtvw koinÚn §p‹ pçsi toÊtoiw yet°on tØn toË lÒgou ¶lleicin. Ofl d¢ parå tÚ lambãnein tÚ §n érxª ka‹ tÚ énaiÄtion …w a‡tion tiy°nai d∞loi diå toË ırismoË. de› går tÚ sump°rasma "t“ taËtÉ e‰nai" sumbaiÄnein, ˜per oÈk ∑n §n to›w énaitiÄoiw: ka‹ pãlin "mØ §nariymoum°nou toË §j érx∞w", ˜per oÈk ¶xousin ofl parå tØn a‡thsin toË §n érxª. Ofl d¢ parå tÚ •pÒmenon m°row efis‹ toË sumbebhkÒtow: tÚ går •pÒmenon sumb°bhke. diaf°rei d¢ toË sumbebhkÒtow, ˜ti tÚ m¢n sumbebhkÚw ¶stin §fÉ •nÚw mÒnou labe›n, oÂon taÈtÚ e‰nai tÚ janyÚn ka‹ m°li, ka‹ tÚ leukÚn ka‹ kÊknon, tÚ d¢ parå tÚ •pÒmenon ée‹ §n pleiÄosin: tå går •n‹ ka‹ taÈt“ taÈtå ka‹ éllÆloiw éjioËmen e‰nai taÈtã: diÚ giÄnetai parå tÚ •pÒmenon ¶legxow. ¶sti dÉ oÈ pãntvw élhy°w, oÂon ín ¬ katå sumbebhkÒw: ka‹ går ≤ xiΔn ka‹ ı kÊknow t“ leuk“ taÈtÒn. μ pãlin, …w §n t“ MeliÄssou lÒgƒ, tÚ aÈtÚ e‰nai lambãnei tÚ gegon°nai ka‹ érxØn ¶xein, μ tÚ ‡soiw giÄnesyai ka‹ taÈtÚ m°geyow lambãnein. ˜ti går tÚ gegonÚw ¶xei érxÆn, ka‹ tÚ ¶xon érxØn gegon°nai éjio›, …w êmfv taÈtå ˆnta t“ érxØn ¶xein, tÒ te gegonÚw ka‹ tÚ peperasm°non. ımoiÄvw d¢ ka‹ §p‹ t«n ‡svn ginom°nvn,

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vengono confutati da quelli che non l’hanno: contro quelli che sanno, infatti, si producono sillogismi per accidente; e costoro, incapaci di distinguere, se interrogati concedono, oppure credono di aver concesso senza averlo fatto. Le confutazioni apparenti che dipendono dal dirsi per un certo aspetto e in assoluto hanno luogo perché l’affermazione e la negazione non sono della stessa cosa. La negazione del bianco per un certo aspetto, infatti, è il non bianco per un certo aspetto, mentre del bianco in assoluto è il non bianco in assoluto. Se dunque qualcuno, avendo l’altro concesso che qualcosa è bianco per un certo aspetto, lo assume come detto in assoluto, non produce una confutazione, ma sembra farlo a causa dell’ignoranza di che cosa sia una confutazione. Più manifeste di tutte sono le confutazioni, precedentemente dette «dipendenti dalla definizione della confutazione». Per questo sono state anche chiamate così: l’apparenza, infatti, si ingenera per la mancanza della formula definitoria, e, dividendo le confutazioni in questo modo, bisogna porre la mancanza della formula definitoria come comune a tutte. Quelle che dipendono dall’assumere ciò che era stato fissato all’inizio e dal porre come causa ciò che non lo è diventano chiare mediante la definizione. La conclusione deve infatti risultare «per il fatto che queste cose sono», proprio ciò che, come si è visto, non si verifica nei casi in cui viene assunto ciò che non è causa, e ancora, «senza comprendere nel numero ciò che era stato fissato all’inizio», proprio ciò che non hanno quelle che dipendono dalla richiesta di ciò che era stato fissato all’inizio. Quelle che dipendono dal conseguente sono una parte dell’accidente, giacché il conseguente è un accidente. Differisce però dall’accidente, perché è possibile assumere l’accidente riguardo ad una cosa sola: per esempio che il giallo e il miele, o il bianco e il cigno, sono lo stesso, mentre ciò che dipende dal conseguente è sempre in più cose. Riteniamo infatti che le cose identiche ad una e medesima cosa siano anche identiche tra loro; per questo ha luogo una confutazione che dipende dal conseguente. Ma ciò non è sempre vero, per esempio non lo è quando sia per accidente. Sia la neve sia il cigno, infatti, sono la stessa cosa del bianco. O ancora – come nell’argomento di Melisso – si assume che essere generato e avere un principio siano la stessa cosa; oppure che lo siano diventare uguale e acquisire la stessa grandezza. Poiché infatti ciò che è generato ha un principio, si ritiene anche che ciò che ha un principio sia generato, come se entrambi, il generato e il finito, fossero identici per il fatto di avere un principio. Allo 21

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efi tå tÚ aÈtÚ m°geyow ka‹ ©n lambãnonta ‡sa giÄnetai, ka‹ tå ‡sa ginÒmena ©n m°geyow lambãnein. Àste tÚ •pÒmenon lambãnei. §pe‹ oÔn ı parå tÚ sumbebhkÚw ¶legxow §n tª égnoiÄ& toË §l°gxou, fanerÚn ˜ti ka‹ ı parå tÚ •pÒmenon. §piskept°on d¢ toËto ka‹ êllvw. Ofl d¢ parå tÚ tå pleiÄv §rvtÆmata ©n poie›n §n t“ mØ diaryroËn ≤mçw tÚn t∞w protãsevw lÒgon. ≤ går prÒtasiÄw §stin ©n kayÉ •nÒw: ı går aÈtÚw ˜row •nÚw mÒnou ka‹ èpl«w toË prãgmatow, oÂon ényr≈pou ka‹ •nÚw mÒnou ényr≈pou: ımoiÄvw d¢ ka‹ §p‹ t«n êllvn. efi oÔn miÄa prÒtasiw ≤ ©n kayÉ •nÚw éjioËsa, ka‹ èpl«w ¶stai prÒtasiw ≤ toiaÊth §r≈thsiw. §pe‹ dÉ ı sullogismÚw §k protãsevn, ı dÉ ¶legxow sullogismÒw, ka‹ ı ¶legxow ¶stai §k protãsevn. efi oÔn ≤ prÒtasiw ©n kayÉ •nÒw, fanerÚn ˜ti ka‹ otow §n tª toË §l°gxou égnoiÄ&: faiÄnetai går e‰nai prÒtasiw ≤ oÈk oÔsa prÒtasiw. efi m¢n oÔn d°dvken épÒkrisin …w prÚw miÄan §r≈thsin, ¶stai ¶legxow: efi d¢ mØ d°dvken éllå faiÄnetai, fainÒmenow ¶legxow. Àste pãntew ofl tÒpoi piÄptousin efiw tØn toË §l°gxou êgnoian, ofl m¢n oÔn parå tØn l°jin, ˜ti fainom°nh éntiÄfasiw, ˜per ∑n ‡dion toË §l°gxou, ofl dÉ êlloi parå tÚn toË sullogismoË ˜ron.

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ÑH dÉ épãth giÄnetai t«n m¢n parå tØn ımvnumiÄan ka‹ tÚn lÒgon t“ mØ dÊnasyai diaire›n tÚ pollax«w legÒmenon (¶nia går oÈk eÎporon diele›n, oÂon tÚ ©n ka‹ tÚ ¯n ka‹ tÚ taÈtÒn), t«n d¢ parå sÊnyesin ka‹ diaiÄresin t“ mhd¢n o‡esyai diaf°rein suntiy°menon μ diairoÊmenon tÚn lÒgon, kayãper §p‹ t«n pleiÄstvn. ımoiÄvw d¢ ka‹ t«n parå tØn prosƒdiÄan: oÈ går êllo doke› shmaiÄnein éni°menow ka‹ §piteinÒmenow ı lÒgow, §pÉ oÈdenÚw μ oÈk §p‹ poll«n. t«n d¢ parå tÚ sx∞ma diå tØn ımoiÒthta t∞w l°jevw. xalepÚn går

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stesso modo anche nel caso delle cose che diventano uguali: se le cose che acquisiscono una e la stessa grandezza diventano uguali, anche le cose che diventano uguali acquisiscono la stessa grandezza, cosicché si assume il conseguente. Poiché dunque la confutazione che dipende dall’accidente rientra nell’ignoranza della confutazione, è manifesto che vi rientra anche quella che dipende dal conseguente. Ma questo va indagato anche in altro modo. Le confutazioni apparenti che dipendono dal fare di più domande una domanda sola consistono nel fatto che non esplicitiamo la formula definitoria della premessa, giacché la premessa è una cosa predicata di una cosa. È la stessa infatti la definizione di un solo oggetto e dell’oggetto in assoluto, per esempio dell’uomo e di un solo uomo, e allo stesso modo per le altre cose. Se dunque una premessa è quella che richiede una cosa predicata di una cosa, una tale domanda sarà anche premessa in assoluto. Poiché poi il sillogismo è costituito da premesse e la confutazione è un sillogismo, anche la confutazione è costituita da premesse. Se dunque la premessa è una cosa predicata di una cosa, è manifesto che anche questo tipo di confutazione apparente ricade nell’ignoranza della confutazione, giacché sembra una premessa senza esserlo. Se il rispondente ha dato la risposta in quanto risposta a una domanda, vi sarà una confutazione, se non l’ha data, ma sembra averlo fatto, sarà una confutazione apparente. Cosicché tutti i luoghi ricadono nell’ignoranza della confutazione: quelli che dipendono dall’espressione, perché è apparente la contraddizione – ciò che per definizione è caratteristica esclusiva della confutazione – mentre gli altri dipendono dalla definizione del sillogismo.

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CAPITOLO 7 Nelle confutazioni apparenti che dipendono dall’omonimia e dalla locuzione l’inganno nasce dal non riuscire a distinguere ciò che si dice in molti modi (alcune cose, infatti, non sono agevoli da distinguere, come l’uno, ciò che è e lo stesso); in quelle che dipendono dalla composizione e dalla divisione dal fatto di ritenere che, composta o divisa, la locuzione non differisca affatto, come avviene nella grande maggioranza dei casi. Allo stesso modo anche nelle confutazioni che dipendono dall’accento: in nessun caso, o comunque non in molti, sembra che l’argomentazione significhi qualcos’altro se pronunciata in modo rilassato oppure teso. Nelle confutazioni che dipendono dalla forma, l’inganno nasce a causa della somiglianza dell’espressione: è 23

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diele›n po›a …saÊtvw ka‹ po›a …w •t°rvw l°getai (sxedÚn går ı toËto dunãmenow poie›n §ggÊw §sti toË yevre›n télhy°w, mãlista dÉ §piÄstatai sunepineÊein), ˜ti pçn tÚ kathgoroÊmenÒn tinow Ípolambãnomen tÒde ti, ka‹ …w ©n ÍpakoÊomen: t“ går •n‹ ka‹ tª oÈsiÄ& mãlista doke› par°pesyai tÚ tÒde ti ka‹ tÚ ˆn. diÚ ka‹ t«n parå tØn l°jin otow ı trÒpow yet°ow, pr«ton m¢n ˜ti mçllon ≤ épãth giÄnetai metÉ êllvn skopoum°noiw μ kayÉ aÍtoÊw (≤ m¢n går metÉ êllou sk°ciw diå lÒgvn, ≤ d¢ kayÉ aÍtÚn oÈx √tton diÉ aÈtoË toË prãgmatow): e‰ta ka‹ kayÉ aÍtÚn épatçsyai sumbaiÄnei, ˜tan §p‹ toË lÒgou poi∞tai tØn sk°cin: ¶ti ≤ m¢n épãth §k t∞w ımoiÒthtow, ≤ dÉ ımoiÒthw §k t∞w l°jevw. t«n d¢ parå tÚ sumbebhkÚw diå tÚ mØ dÊnasyai diakriÄnein tÚ taÈtÚn ka‹ tÚ ßteron, ka‹ ©n ka‹ pollã, mhd¢ to›w poiÄoiw t«n kathgorhmãtvn pãnta taÈtå ka‹ t“ prãgmati sumb°bhken. ımoiÄvw d¢ ka‹ t«n parå tÚ •pÒmenon: m°row gãr ti toË sumbebhkÒtow tÚ •pÒmenon. ¶ti ka‹ §p‹ poll«n faiÄnetai ka‹ éjioËtai oÏtvw, efi tÒde épÚ toËde mØ xvriÄzetai, mhdÉ épÚ yat°rou xvriÄzesyai yãteron. t«n d¢ parå tØn ¶lleicin toË lÒgou ka‹ t«n parå tÚ p∫ ka‹ èpl«w §n t“ parå mikrÚn ≤ épãth: …w går oÈd¢n prosshma›non tÚ t‹ μ p∫ μ tÚ pΔw μ tÚ nËn kayÒlou sugxvroËmen. ımoiÄvw d¢ ka‹ §p‹ t«n tÚ §n érxª lambanÒntvn ka‹ t«n énaitiÄvn ka‹ ˜soi tå pleiÄv §rvtÆmata …w ©n poioËsin: §n ëpasi går ≤ épãth diå tÚ parå mikrÒn: oÈ går diakriboËmen oÎte t∞w protãsevw oÎte toË sullogismoË tÚn ˜ron diå tØn efirhm°nhn afitiÄan.

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ÉEpe‹ dÉ ¶xomen parÉ ıpÒsa giÄnontai ofl fainÒmenoi sullogismoiÄ, ¶xomen ka‹ parÉ ıpÒsa ofl sofistiko‹ g°nointÉ ín sullogismo‹ ka‹ ¶legxoi. l°gv d¢ sofistikÚn ¶legxon ka‹ sullogismÚn oÈ mÒnon tÚn fainÒmenon sullogismÚn μ ¶legxon mØ ˆnta d°, éllå ka‹ tÚn ˆnta m¢n fainÒmenon d¢ ofike›on toË prãgmatow. efis‹ dÉ otoi ofl mØ katå tÚ prçgma §l°gxontew ka‹ deiknÊntew égnooËntaw, ˜per ∑n t∞w peirasti-

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difficile infatti distinguere quali cose si dicano nello stesso modo e quali in modo diverso (si può quasi dire che chi sa fare questo è vicino a cogliere il vero ed è massimamente in grado di rispondere), perché pensiamo che ogni predicato di qualcosa sia un certo questo, e lo sottintendiamo come uno, giacché il certo questo e ciò che è sembrano accompagnare massimamente l’uno e la sostanza. Pertanto anche questo modo va posto tra quelli che dipendono dall’espressione. In primo luogo perché l’inganno nasce più spesso quando si indaga con un altro che quando si indaga per conto proprio (l’indagine con un altro, infatti, procede mediante discorsi; quella per conto proprio non in minore misura mediante l’oggetto stesso). Inoltre, anche per conto proprio capita di ingannarsi, quando si svolga l’indagine sul piano del discorso. Inoltre l’inganno deriva dalla somiglianza, e la somiglianza dall’espressione. Nelle confutazioni apparenti che dipendono dall’accidente l’inganno nasce dal non saper discernere ciò che è lo stesso e ciò che è diverso, ciò che è uno e ciò che è molti; né quali predicati abbiano tutti gli accidenti che ha l’oggetto. Allo stesso modo anche in quelle che dipendono dal conseguente, giacché esso è una parte dell’accidente. Inoltre in molti casi sembra e si ritiene così: se questo non è separato da quello, neanche quello è separato da questo. Nelle confutazioni apparenti che dipendono dalla mancanza della formula definitoria e in quelle che dipendono dalla predicazione per un certo aspetto e da quella assoluta l’inganno sta nel considerare irrilevante. Ammettiamo infatti universalmente, come se il «qualcosa» o l’«in un certo modo» o il «per un certo aspetto» o l’«in questo momento» non significassero niente in aggiunta. Allo stesso modo anche nelle confutazioni apparenti che assumono ciò che è stato fissato all’inizio, in quelle che non sono causa e in quante fanno di più domande una domanda sola, giacché in tutte l’inganno deriva dal considerare irrilevante. Per la causa che abbiamo detto, infatti, non consideriamo attentamente la definizione della premessa né quella del sillogismo.

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CAPITOLO 8 Poiché sappiamo da quante cose dipendono i sillogismi apparenti, sappiamo anche da quante cose dipenderanno i sillogismi sofistici e le confutazioni sofistiche. Chiamo confutazione sofistica e sillogismo sofistico non solo il sillogismo o la confutazione che appaiono tali senza esserlo, ma anche quelli che lo sono, ma sono solo apparentemente appropriati all’oggetto. Tali sono quelli che confutano non secondo l’oggetto e mostrano che chi risponde è ignorante, proprio ciò che, 25

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k∞w. ¶sti dÉ ≤ peirastikØ m°row t∞w dialektik∞w: aÏth d¢ dÊnatai sullogiÄzesyai ceËdow diÉ êgnoian toË didÒntow tÚn lÒgon. ofl d¢ sofistiko‹ ¶legxoi, ín ka‹ sullogiÄzvntai tØn éntiÄfasin, oÈ poioËsi d∞lon efi égnoe›: ka‹ går tÚn efidÒta §mpodiÄzousi toÊtoiw to›w lÒgoiw. ÜOti dÉ ¶xomen aÈtoÁw tª aÈtª meyÒdƒ, d∞lon: parÉ ˜sa går faiÄnetai to›w ékoÊousin …w ±rvthm°na sullelogiÄsyai, parå tosaËta kín t“ épokrinom°nƒ dÒjeien, ÀstÉ ¶sontai sullogismo‹ ceude›w diå toÊtvn μ pãntvn μ §niÄvn: ˘ går mØ §rvthye‹w o‡etai dedvk°nai, kín §rvthye‹w yeiÄh. plØn §piÄ g° tinvn ëma sumbaiÄnei proservtçn tÚ §nde¢w ka‹ tÚ ceËdow §mfaniÄzein, oÂon §n to›w parå tØn l°jin ka‹ tÚn soloikismÒn. efi oÔn ofl paralogismo‹ t∞w éntifãsevw parå tÚn fainÒmenon ¶legxÒn efisi, d∞lon ˜ti parå tosaËta ín ka‹ t«n ceud«n e‡hsan sullogismo‹ parÉ ˜sa ka‹ ı fainÒmenow ¶legxow. ı d¢ fainÒmenow parå tå mÒria toË élhyinoË: •kãstou går §kleiÄpontow faneiÄh ín ¶legxow, oÂon ı parå tÚ mØ sumba›non diå tÚn lÒgon (ı efiw tÚ édÊnaton), ka‹ ı tåw dÊo §rvtÆseiw miÄan poi«n parå tØn prÒtasin, ka‹ ént‹ toË kayÉ aÍtÚ ı parå tÚ sumbebhkÒw, ka‹ tÚ toÊtou mÒrion, ı parå tÚ •pÒmenon: ¶ti tÚ mØ §p‹ toË prãgmatow éllÉ §p‹ toË lÒgou sumbaiÄnein: e‰tÉ, ént‹ toË kayÒlou tØn éntiÄfasin ka‹ katå taÈtÚ ka‹ prÚw taÈtÚ ka‹ …saÊtvw, parå tÚ §piÄ ti, μ parÉ ßkaston toÊtvn: ¶ti parå tÚ "mØ §nariymoum°nou toË §n érxª" tÚ §n érxª lambãnein. ÀstÉ ¶xoimen ín parÉ ˜sa giÄnontai ofl paralogismoiÄ: parå pleiÄv m¢n går oÈk ín e‰en, parå d¢ tå efirhm°na ¶sontai pãntew. ÖEsti dÉ ı sofistikÚw ¶legxow oÈx èpl«w ¶legxow éllå prÒw tina: ka‹ ı sullogismÚw …saÊtvw. ín m¢n går mØ lãb˙ ˜ te parå tÚ ım≈numon ©n shmaiÄnein ka‹ ı parå tØn ımoiosxhmosÊnhn tÚ mÒnon tÒde, ka‹ ofl êlloi …saÊtvw, oÎtÉ ¶legxoi oÎte sullogismo‹ ¶sontai, oÎyÉ èpl«w

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per definizione, è compito dell’arte esaminatrice. L’arte esaminatrice è una parte della dialettica, e quest’ultima è capace di sillogizzare il falso grazie all’ignoranza di chi risponde. Invece le confutazioni sofistiche, se anche sillogizzano la contraddittoria, non rendono chiaro se l’avversario sia ignorante: con siffatte argomentazioni, infatti, si mette in difficoltà anche chi sa. Che li conosciamo con la stessa indagine metodica è chiaro, giacché quante sono le cose che fanno sembrare agli ascoltatori che qualcosa sia stato sillogizzato in virtù di domande poste, altrettante sono le cause per cui ciò sembrerà a chi risponde, così che grazie a queste, tutte o alcune, vi saranno sillogismi falsi. Egli assumerebbe, infatti, qualora interrogato, ciò che, non interrogato, crede di aver concesso. Vanno esclusi naturalmente certi casi in cui accade contemporaneamente di domandare in aggiunta ciò che manca e rendere manifesto il falso; per esempio in quelli che dipendono dall’espressione e dal solecismo. Se dunque i paralogismi della contraddittoria dipendono dalla confutazione apparente, è chiaro che le cose da cui dipendono i sillogismi di conclusioni false saranno altrettante di quelle da cui dipende anche la confutazione apparente. Le confutazioni apparenti dipendono dalle parti di quella autentica, giacché, venendo a mancare qualcuna di queste, la confutazione sarà apparente. Per esempio la confutazione che dipende da ciò che non risulta in virtù dell’argomentazione (quella che conduce all’impossibile); la confutazione che, facendo una sola domanda di due, dipende dalla premessa; la confutazione che dipende dall’accidente in luogo di ciò che è per sé, e quella – parte di questa – che dipende dal conseguente. Inoltre il non risultare per l’oggetto, ma solo per il discorso. Inoltre quella che, invece di prendere la contraddittoria universalmente, sotto lo stesso rispetto, in relazione alla stessa cosa, nello stesso modo, dipende dal considerarla per un aspetto o da qualche altra di queste limitazioni. Inoltre l’assumere ciò che è stato fissato all’inizio, in dipendenza dalla clausola «senza includere nel numero ciò che è stato fissato all’inizio». Cosicché sapremo da quante cose si originano i paralogismi: più di queste non potranno essere, e dipenderanno tutti da quelle dette. La confutazione sofistica non è una confutazione in assoluto ma in relazione a qualcuno, e lo stesso vale per il sillogismo. Se infatti la confutazione che dipende da un termine omonimo non assume che quel termine significa una cosa sola, e quella che dipende dalla somiglianza della forma non assume che significano solo un questo, e le altre nello stesso modo, non saranno confutazioni o sillogismi; 27

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oÎte prÚw tÚn §rvt≈menon. §ån d¢ lãbvsi, prÚw m¢n tÚn §rvt≈menon ¶sontai, èpl«w dÉ oÈk ¶sontai: oÈ går ©n shma›non efilÆfasin éllå fainÒmenon, ka‹ parå toËde.

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Parå pÒsa dÉ §l°gxontai ofl §legxÒmenoi, oÈ de› peirçsyai lambãnein êneu t∞w t«n ˆntvn §pistÆmhw èpãntvn. toËto dÉ oÈdemiÄaw ¶sti t°xnhw: êpeiroi går ‡svw afl §pist∞mai, Àste d∞lon ˜ti ka‹ afl épodeiÄjeiw. ¶legxoi dÉ efis‹ ka‹ élhye›w: ˜sa går ¶stin épode›jai, ¶sti ka‹ §l°gjai tÚn y°menon tØn éntiÄfasin toË élhyoËw: oÂon efi sÊmmetron tØn diãmetron ¶yhken, §l°gjeien ên tiw tª épodeiÄjei ˜ti ésÊmmetrow. Àste pãntvn deÆsei §pistÆmonaw e‰nai: ofl m¢n går ¶sontai parå tåw §n gevmetriÄ& érxåw ka‹ tå toÊtvn sumperãsmata, ofl d¢ parå tåw §n fiatrikª, ofl d¢ parå tåw t«n êllvn §pisthm«n. éllå mØn ka‹ ofl ceude›w ¶legxoi ımoiÄvw ín e‰en §n épeiÄroiw: kayÉ •kãsthn går t°xnhn ¶sti ceudØw sullogismÒw, oÂon katå gevmetriÄan ı gevmetrikÚw ka‹ katå fiatrikØn ı fiatrikÒw: l°gv d¢ tÚ katå tØn t°xnhn tÚ katå tåw §keiÄnhw érxãw. d∞lon oÔn ˜ti oÈ pãntvn t«n §l°gxvn éllå t«n parå tØn dialektikØn lhpt°on toÁw tÒpouw: otoi går koino‹ prÚw ëpasan t°xnhn ka‹ dÊnamin. ka‹ tÚn m¢n kayÉ •kãsthn §pistÆmhn ¶legxon toË §pistÆmonÒw §sti yevre›n, e‡ te mØ Ãn faiÄnetai, e‡ tÉ ¶sti, diå tiÄ ¶sti: tÚn dÉ §k t«n koin«n ka‹ ÍpÚ mhdemiÄan t°xnhn t«n dialektik«n. efi går ¶xomen §j œn ofl ¶ndojoi sullogismo‹ per‹ ıtioËn, ¶xomen §j œn ofl ¶legxoi: ı går ¶legxÒw §stin éntifãsevw sullogismÒw, ÀstÉ μ eÂw μ dÊo sullogismo‹ éntifãsevw ¶legxÒw §stin. ¶xomen êra parÉ ıpÒsa pãntew efis‹n ofl toioËtoi. efi d¢ toËtÉ ¶xomen, ka‹ tåw lÊseiw ¶xomen: afl går toÊtvn §nstãseiw lÊseiw efisiÄn. ¶xomen d°, parÉ ıpÒsa giÄnontai, ka‹ toÁw fainom°nouw, fainom°nouw d¢ oÈx ıtƒoËn éllå to›w toio›sde: éÒrista gãr §stin §ãn tiw skopª parÉ ıpÒsa faiÄ-

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né in assoluto né in relazione all’interrogato. Se invece lo assumono, saranno confutazioni o sillogismi in relazione all’interrogato, ma non in assoluto, poiché non hanno assunto che significhi una cosa sola qualcosa che veramente significa una cosa sola, ma qualcosa che sembra significarla, e lo hanno assunto da questa persona.

CAPITOLO 9 Non bisogna cercare di impadronirsi del numero delle cause delle confutazioni di chi viene confutato senza la conoscenza di tutte le cose che sono. Questo però non spetta ad alcuna arte3, giacché le scienze sono forse infinite, cosicché è chiaro che lo sono anche le dimostrazioni. Le confutazioni, poi, possono anche essere vere, giacché, per tutte le cose che è possibile dimostrare, è anche possibile confutare chi assume la contraddittoria del vero; per esempio, se qualcuno ha posto che la diagonale è commensurabile, si potrebbe confutarlo con la dimostrazione che è incommensurabile. Cosicché bisognerà avere conoscenza di tutte le cose. Alcune confutazioni, infatti, dipenderanno dai principi della geometria e dalle loro conclusioni, altre da quelli della medicina, altre da quelli delle altre scienze. Ma anche le confutazioni false potranno essere ugualmente in infinite scienze, giacché vi è sillogismo falso secondo ciascuna arte: per esempio secondo la geometria quello geometrico e secondo la medicina quello medico. Con «secondo una certa arte» intendo «secondo i principi di quella». È chiaro dunque che non bisogna impadronirsi dei luoghi di tutte le confutazioni, ma dei luoghi di quelle che dipendono dalla dialettica, giacché questi sono comuni a ciascuna arte e capacità. E spetta a chi ha conoscenza studiare la confutazione che concerne ciascuna scienza – sia se sembra senza esserlo sia, se lo è, perché lo è – mentre spetta ai dialettici studiare la confutazione che parte da cose comuni e che non rientra in alcuna arte. Se infatti conosciamo le cose da cui partono i sillogismi plausibili su qualunque argomento, conosciamo quelle da cui partono le confutazioni, giacché la confutazione è il sillogismo della contraddittoria, cosicché la confutazione consiste in uno o due sillogismi della contraddittoria. Sappiamo pertanto quante sono le cose da cui dipendono tutte le confutazioni siffatte. Ma se sappiamo questo, conosciamo anche le risoluzioni, giacché le obiezioni a queste cose sono risoluzioni. Sappiamo poi da quante cose dipendono le confutazioni apparenti – apparenti non per chiunque, ma per un certo tipo di persone, giacché sarebbe un compito infinito in29

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nontai to›w tuxoËsin. Àste fanerÚn ˜ti toË dialektikoË §sti tÚ dÊnasyai labe›n parÉ ˜sa giÄnetai diå t«n koin«n μ Ãn ¶legxow μ fainÒmenow ¶legxow, ka‹ μ dialektikÚw μ fainÒmenow dialektikÚw μ peirastikÒw.

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OÈk ¶sti d¢ diaforå t«n lÒgvn ∂n l°gousiÄ tinew, tÚ e‰nai toÁw m¢n prÚw toÎnoma lÒgouw, •t°rouw d¢ prÚw tØn diãnoian: êtopon går tÚ Ípolambãnein êllouw m¢n e‰nai prÚw toÎnoma lÒgouw, •t°rouw d¢ prÚw tØn diãnoian, éllÉ oÈ toÁw aÈtoÊw. tiÄ gãr §sti tÚ mØ prÚw tØn diãnoian éllÉ μ ˜tan mØ xr∞tai t“ ÙnÒmati §fÉ ⁄ ofiÒmenow §rvtçsyai ı §rvt≈menow ¶dvken; tÚ dÉ aÈtÚ toËtÒ §sti ka‹ prÚw toÎnoma: tÚ d¢ prÚw tØn diãnoian, ˜tan §fÉ ⁄ ¶dvken dianohyeiÄw. efi dÆ tiw pleiÄv shmaiÄnontow toË ÙnÒmatow o‡oito ©n shmaiÄnein^ [ka‹ ı §rvt«n ka‹ ı §rvt≈menow] (oÂon ‡svw tÚ ¯n μ tÚ ©n pollå shmaiÄnei, éllå [ka‹ ı épokrinÒmenow] ka‹ ı §rvt«n [ZÆnvn] ©n ofiÒmenow e‰nai ±r≈thse, ka‹ ¶stin ı lÒgow ˜ti ©n pãnta), otow prÚw toÎnoma ¶stai μ prÚw tØn diãnoian toË §rvtvm°nou dieilegm°now. efi d° g° tiw pollå o‡etai shmaiÄnein, d∞lon ˜ti oÈ prÚw tØn diãnoian. pr«ton m¢n går per‹ toÁw toioÊtouw §st‹ lÒgouw tÚ prÚw toÎnoma ka‹ prÚw tØn diãnoian ˜soi pleiÄv shmaiÄnousin, e‰ta per‹ ıntinoËn §stin: oÈ går §n t“ lÒgƒ §st‹ tÚ prÚw tØn diãnoian e‰nai, éllÉ §n t“ tÚn épokrinÒmenon ¶xein pvw prÚw tå dedom°na. e‰ta prÚw toÎnoma pãntaw §nd°xetai aÈtoÁw e‰nai: tÚ går prÚw toÎnoma tÚ mØ prÚw tØn diãnoian e‰naiÄ §stin §ntaËya. efi går mØ pãntew, ¶sontaiÄ tinew ßteroi oÎte prÚw toÎnoma oÎte prÚw tØn diãnoian: ofl d° fasi pãntaw, ka‹ diairoËntai μ prÚw toÎnoma μ prÚw tØn diãnoian e‰nai pãntaw, êllouw dÉ oÎ. éllå mØn ˜soi sullogismoiÄ efisi parå tÚ pleonax«w, toÊtvn efisiÄ tinew ofl parå toÎnoma. étÒpvw m¢n går ka‹ e‡rhtai tÚ parå toÎnoma fãnai pãntaw toÁw parå tØn l°jin: éllÉ oÔn efisiÄ tinew paralogismo‹ oÈ t“

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dagare quante siano le cose in virtù delle quali le confutazioni sono apparenti per il primo che capita. Cosicché è manifesto che spetta al dialettico essere in grado di impadronirsi del numero delle cose dalle quali si originano, in virtù di cose comuni, una confutazione reale o una confutazione apparente, cioè una confutazione dialettica o apparentemente dialettica o esaminatrice.

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CAPITOLO 10 Non vi è, tra le argomentazioni, la differenza che affermano alcuni, e cioè che alcune argomentazioni siano rivolte alla parola, le altre rivolte al pensiero. È assurdo infatti pensare che alcune siano argomentazioni rivolte alla parola, altre rivolte al pensiero e non siano le stesse. Che cos’è, infatti, non essere rivolto al pensiero se non quel che accade quando non si adoperi la parola per ciò su cui l’interrogato riteneva che la domanda vertesse quando ha concesso? Questa stessa cosa è essere rivolto alla parola. Essere rivolto al pensiero è invece ciò che accade quando si usa la parola per ciò a cui pensava quando ha concesso. Ora, se qualcuno, in un caso in cui la parola significa più cose, crede4 che ne significhi una sola (per esempio «ciò che è» e «uno» significano forse molte cose, ma anche l’interrogante ha interrogato5 ritenendo che sia una, e l’argomentazione conclude che tutte le cose sono una), una siffatta argomentazione sarà discussa rivolgendosi alla parola o rivolgendosi al pensiero dell’interrogato6. Se invece qualcuno ritiene che significhi più cose, allora è chiaro che non è rivolta al pensiero. Infatti, l’essere rivolta alla parola e rivolta al pensiero riguarda prima le argomentazioni siffatte, quelle che significano più cose, e poi riguarda qualsiasi argomentazione, giacché l’essere rivolto al pensiero non sta nell’argomentazione, ma nel fatto che il rispondente sia in una certa relazione con le cose concesse. Poi è possibile che tutte queste argomentazioni siano rivolte alla parola, giacché essere rivolta alla parola consiste qui nel non essere rivolta al pensiero. Se infatti non sono tutte, ve ne saranno alcune altre che non sono né rivolte alla parola né rivolte al pensiero. Ma quelli dicono che sono tutte, e dividono dicendo che sono tutte o rivolte alla parola o rivolte al pensiero e che non ce ne sono altre. Tuttavia, di tutti i sillogismi che dipendono dal molteplice, quelli che dipendono dalla parola sono solo alcuni. Infatti è assurda anche l’asserzione che dice che tutti quelli che dipendono dall’espressione sono rivolti alla parola; vi sono invece almeno alcuni paralogismi che non dipendono dal fatto che il rispondente sia con es31

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tÚn épokrinÒmenon prÚw toÊtouw ¶xein pvw, éllå t“ toiond‹ §r≈thma tÚn lÒgon aÈtÚn ¶xein ˘ pleiÄv shmaiÄnei. ÜOlvw te êtopon tÚ per‹ §l°gxou dial°gesyai éllå mØ prÒteron per‹ sullogismoË: ı går ¶legxow sullogismÒw §stin, Àste xrØ ka‹ per‹ sullogismoË prÒteron μ per‹ ceudoËw §l°gxou: ¶sti går ı toioËtow ¶legxow fainÒmenow sullogismÚw éntifãsevw. diÚ μ §n t“ sullogism“ ¶stai tÚ a‡tion μ §n tª éntifãsei (proske›syai går de› tØn éntiÄfasin), ıt¢ dÉ §n émfo›n, ín ¬ fainÒmenow ¶legxow. ¶sti d¢ ı m¢n toË "sig«nta l°gein" §n tª éntifãsei, oÈk §n t“ sullogism“, ı d¢ "ì mØ ¶xoi tiw, doiÄh ên" §n émfo›n, ı d¢ ˜ti ≤ ÑOmÆrou poiÄhsiw sx∞ma diå toË kÊklou §n t“ sullogism“. ı dÉ §n mhdet°rƒ élhyØw sullogismÒw. ÉAllå dÆ, ˜yen ı lÒgow ∑lye, pÒteron ofl §n to›w mayÆmasi lÒgoi prÚw tØn diãnoiãn efisin μ oÎ; ka‹ e‡ tini doke› pollå shmaiÄnein tÚ triÄgvnon, ka‹ ¶dvke mØ …w toËtoÊ tÚ sx∞ma §fÉ o suneperãnato ˜ti dÊo ÙryaiÄ, pÒteron prÚw tØn diãnoian otow dieiÄlektai tØn §keiÄnou μ oÎ; ÖEti efi pollå m¢n shmaiÄnei toÎnoma, ı d¢ mØ noe› mhdÉ o‡etai, p«w otow oÈ prÚw tØn diãnoian dieiÄlektai; μ p«w de› §rvtçn plØn didÒnta diaiÄresin, e‡ tÉ §rvtÆsei° tiw efi ¶sti sig«nta l°gein μ oÎ, μ ¶sti m¢n …w oÎ, ¶sti dÉ …w naiÄ, efi dÆ tiw doiÄh mhdam«w, ı d¢ dialexyeiÄh, îrÉ oÈ prÚw tØn diãnoian dieiÄlektai; kaiÄtoi ı lÒgow doke› t«n parå tÚ ˆnoma e‰nai. oÈk êra §st‹ g°now ti lÒgvn tÚ prÚw tØn diãnoian. éllÉ ofl m¢n prÚw toÎnomã efisi: kaiÄtoi otoi oÈ pãntew, oÈx ˜ti ofl ¶legxoi éllÉ oÈdÉ ofl fainÒmenoi ¶legxoi. efis‹ går ka‹ mØ parå tØn l°jin fainÒmenoi ¶legxoi, oÂon ofl parå tÚ sumbebhkÚw ka‹ ßteroi. Efi d° tiw éjio› diaire›n, ˜ti "l°gv d¢ sig«nta l°gein tå m¢n …d‹ tå dÉ …diÄ", éllå toËtÒ gÉ §st‹ pr«ton m¢n êtopon, tÚ éjioËn: §niÄote går oÈ doke› tÚ §rvt≈menon pollax«w ¶xein, édÊnaton d¢ diaire›n ˘ mØ o‡etai. ¶peita tÚ didãskein tiÄ êllo ¶stai; fanerÚn går poiÆsei …w ¶xei t“ mÆtÉ §skemm°nƒ mÆtÉ efidÒti mÆyÉ Ípolambãnonti ˜ti êllvw l°getai: §pe‹ ka‹ §n to›w mØ diplo›w tiÄ kvlÊei toËto

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si in una certa relazione, ma dal fatto che l’argomentazione stessa contiene una domanda che, proprio lei, significa più cose. In generale, poi, è assurdo discutere della confutazione e non prima del sillogismo, giacché la confutazione è un sillogismo, cosicché bisogna anche discutere del sillogismo prima che della falsa confutazione. Una siffatta confutazione, infatti, è un sillogismo apparente della contraddittoria. Perciò, se vi è una confutazione apparente, la causa sarà o nel sillogismo o nella contraddittoria (giacché bisogna aggiungere la contraddittoria); a volte poi sarà in entrambi. Nella confutazione del «dire cose che tacciono», è nella contraddizione, non nel sillogismo; in quella del «ciò che uno non ha, può darlo» è in entrambi, in quella che dice che la poesia di Omero è una figura perché è un cerchio7 è nel sillogismo. Quella che non è in nessuno dei due è un sillogismo vero. Ma dunque, per tornare al punto da cui il discorso è partito, le argomentazioni matematiche sono rivolte al pensiero oppure no? E se a qualcuno sembra che «triangolo» significhi molte cose, e lo ha concesso non come quella figura di cui l’interrogante ha concluso che ha gli angoli uguali a due retti, avrà quest’ultimo discusso rivolgendosi al pensiero di quello oppure no? Inoltre, se la parola significa più cose e quello non lo sa né lo sospetta, come può questi non aver discusso rivolgendosi al pensiero? E come bisogna interrogare se non proponendo una distinzione? Se qualcuno chiedesse se è possibile o no dire cose che tacciono o se non è possibile in un modo ed è possibile in un altro modo. Orbene, se uno non lo concedesse in nessun modo, e l’altro discutesse, non avrebbe forse discusso rivolgendosi al pensiero? Eppure l’argomentazione sembra appartenere a quelle che dipendono dalla parola. Quello rivolto al pensiero non è dunque un genere determinato di argomentazioni. Invece alcune sono rivolte alla parola; tuttavia non solo non lo sono tutte le confutazioni, ma nemmeno tutte quelle apparenti, giacché esistono anche confutazioni apparenti che non dipendono dall’espressione, per esempio quelle che dipendono dall’accidente e altre. Se poi qualcuno richiedesse di distinguere, dicendo che «dire cose che tacciono» in un senso lo intendo così e in un altro lo intendo così. Ma proprio questo è in primo luogo assurdo: il richiedere. Alcune volte infatti non sembra che la cosa domandata stia in molti modi ed è impossibile distinguere ciò che non si sospetta. Inoltre, che altro sarà l’insegnare? Infatti si renderà manifesto come stia a chi non è esperto né sa né pensa che si dica in altro modo. Perché, che cosa im33

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paye›n; "îra ‡sai afl monãdew ta›w duãsin §n to›w t°ttarsin; efis‹ d¢ [duãdew] afl m¢n …d‹ §noËsai afl d¢ …diÄ." ka‹ "îra t«n §nantiÄvn miÄa §pistÆmh μ oÎ; ¶sti dÉ §nantiÄa tå m¢n gnvstå tå dÉ êgnvsta". ÀstÉ ¶oiken égnoe›n ı toËto éji«n ˜ti ßteron tÚ didãskein toË dial°gesyai, ka‹ ˜ti de› tÚn m¢n didãskonta mØ §rvtçn éllÉ aÈtÚn d∞la poie›n, tÚn dÉ §rvtçn.

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ÖEti tÚ fãnai μ épofãnai éjioËn oÈ deiknÊntow §st‹n éllå pe›ran lambãnontow: ≤ går peirastikÆ §sti dialektikÆ tiw ka‹ yevre› oÈ tÚn efidÒta éllå tÚn égnooËnta ka‹ prospoioÊmenon. ı m¢n oÔn katå tÚ prçgma yevr«n tå koinå dialektikÒw, ı d¢ toËto fainom°nvw poi«n sofistikÒw, ka‹ sullogismÚw §ristikÚw ka‹ sofistikÒw §stin eÂw m¢n ı fainÒmenow sullogistikÚw per‹ œn ≤ dialektikØ peirastikÆ §sti, kín élhy¢w tÚ sump°rasma ¬ (toË går diå tiÄ épathtikÒw §sti), ka‹ ˜soi mØ ˆntew katå tØn •kãstou m°yodon paralogismo‹ dokoËsin e‰nai katå tØn t°xnhn. tå går ceudografÆmata oÈk §ristikã (katå går tå ÍpÚ tØn t°xnhn ofl paralogismoiÄ), oÈd° gÉ e‡ tiÄ §sti ceudogrãfhma per‹ élhy°w, oÂon tÚ ÑIppokrãtouw μ ı tetragvnismÚw ı diå t«n mhniÄskvn. éllÉ …w BrÊsvn §tetrag≈nize tÚn kÊklon, efi ka‹ tetragvniÄzetai ı kÊklow, éllÉ ˜ti oÈ katå tÚ prçgma, diå toËto sofistikÒw. Àste ˜ te per‹ t«nde fainÒmenow sullogismÚw §ristikÚw lÒgow, ka‹ ı katå tÚ prçgma fainÒmenow sullogismÒw, kín ¬ sullogismÒw, §ristikÚw lÒgow: fainÒmenow gãr §sti katå tÚ prçgma, ÀstÉ épathtikÚw ka‹ êdikow. Àsper går ≤ §n ég«ni édikiÄa e‰dÒw ti ¶xei ka‹ ¶stin édikomaxiÄa tiw, oÏtvw §n éntilogiÄ& édikomaxiÄa ≤ §ristikÆ §stin: §ke› te går ofl pãntvw nikçn proairoÊmenoi pãntvn ëptontai, ka‹ §ntaËya ofl §ristikoiÄ. ofl m¢n oÔn t∞w niÄkhw aÈt∞w xãrin toioËtoi §ristiko‹ ênyrvpoi ka‹ fil°ridew dokoËsin e‰nai, ofl d¢ dÒjhw xãrin t∞w efiw xrhmatismÚn sofistikoiÄ: ≤ går sofistikÆ §stin, Àsper e‡pomen, xrhmatistikÆ tiw épÚ sofiÄaw fainom°nhw: diÚ fainom°nhw épodeiÄjevw §fiÄentai, ka‹ t«n lÒgvn t«n aÈt«n m¢n [e‡sin] ofl fil°ridew ka‹ ofl sofistaiÄ,

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pedisce di subire quest’obbligo anche nelle argomentazioni non8 duplici? «Sono uguali le unità e le diadi nel quattro? (Le une ineriscono in questo modo, le altre in quest’altro)», e «Dei contrari vi è un’unica conoscenza oppure no? (Alcuni contrari sono noti, gli altri ignoti)». Cosicché chi fa questa richiesta sembra ignorare che l’insegnare è altro dal discutere, e che chi insegna non deve interrogare, ma rendere chiare le cose egli stesso; l’altro invece deve interrogare.

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CAPITOLO 11 Inoltre il chiedere di affermare o negare non spetta a chi dimostra, ma a chi conduce un esame, giacché l’arte esaminatrice è un tipo di dialettica e non considera colui che conosce ma l’ignorante e presuntuoso. Chi dunque considera le cose comuni secondo l’oggetto è dialettico, mentre chi lo fa in modo apparente è sofistico, e sillogismo eristico e sofistico è in primo luogo quello che è apparentemente sillogistico riguardo alle cose su cui la dialettica è esaminatrice, anche se la conclusione è vera (giacché è ingannevole sul perché), e in secondo luogo lo sono quei paralogismi che, pur non essendo secondo il metodo della disciplina di volta in volta in questione, sembrano essere secondo quell’arte. Le pseudodimostrazioni geometriche, infatti, non sono eristiche (perché in esse i paralogismi sono secondo ciò che è nell’ambito dell’arte) né lo è qualche eventuale pseudodimostrazione geometrica riguardo a qualcosa di vero, come quella di Ippocrate, ossia la quadratura mediante le lunule. Ma il modo in cui Brisone ha quadrato il cerchio, se anche con ciò il cerchio viene quadrato, è sofistico per il fatto di non essere secondo l’oggetto. Cosicché è un’argomentazione eristica sia il sillogismo apparente riguardo a queste cose, sia il sillogismo che appare secondo l’oggetto, anche se è veramente un sillogismo, giacché appare essere secondo l’oggetto, e così è ingannevole e ingiusto. Difatti, come nella competizione l’ingiustizia costituisce una certa specie, ed è un tipo di ingiusto conflitto, così nella controversia l’ingiusto conflitto è l’eristica, perché lì coloro che si propongono di vincere a tutti i costi ricorrono ad ogni mezzo, e lo stesso fanno qui gli eristici. Coloro dunque che hanno per obiettivo la vittoria stessa sono ritenuti uomini eristici e litigiosi, mentre coloro che hanno per obiettivo una reputazione che porti guadagno, sono ritenuti sofisti (giacché la sofistica è, come abbiamo detto, un tipo di arte di guadagno derivata da un’apparente sapienza); perciò i sofisti e i litigiosi hanno in vista una dimostrazione apparente e si servono del35

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éllÉ oÈ t«n aÈt«n ßneken, ka‹ lÒgow ı aÈtÚw m¢n ¶stai sofistikÚw ka‹ §ristikÒw, éllÉ oÈ katå taÈtÒn, éllÉ √ m¢n niÄkhw fainom°nhw , §ristikÒw, √ d¢ sofiÄaw, sofistikÒw: ka‹ går ≤ sofistikÆ §sti fainom°nh sofiÄa tiw éllÉ oÈk oÔsa. ı dÉ §ristikÒw §stiÄ pvw oÏtvw ¶xvn prÚw tÚn dialektikÚn …w ı ceudogrãfow prÚw tÚn gevmetrikÒn: §k går t«n aÈt«n t“ dialektik“ paralogiÄzetai, ka‹ ı ceudogrãfow t“ gevm°tr˙. éllÉ ı m¢n oÈk §ristikÒw, ˜ti §k t«n érx«n ka‹ sumperasmãtvn t«n ÍpÚ tØn t°xnhn ceudografe›: ı dÉ ÍpÚ tØn dialektikØn per‹ tîlla ˜ti §ristikÚw ¶stai d∞lon. oÂon ı tetragvnismÚw ı m¢n diå t«n mhniÄskvn oÈk §ristikÒw, ı d¢ BrÊsvnow §ristikÒw: ka‹ tÚn m¢n oÈk ¶sti metenegke›n éllÉ μ prÚw gevmetriÄan mÒnon, diå tÚ §k t«n fidiÄvn e‰nai érx«n, tÚn d¢ prÚw polloÊw, ˜soi mØ ‡sasi tÚ dunatÚn §n •kãstƒ ka‹ tÚ édÊnaton: èrmÒsei gãr. μ …w ÉAntif«n §tetrag≈nizen. μ e‡ tiw mØ faiÄh b°ltion e‰nai épÚ deiÄpnou peripate›n diå tÚn ZÆnvnow lÒgon, oÈk fiatrikÒw: koinÚw gãr. efi m¢n oÔn pãnt˙ ımoiÄvw e‰xen ı §ristikÚw prÚw tÚn dialektikÚn t“ ceudogrãfƒ prÚw tÚn gevm°trhn, oÈk ín ∑n per‹ §keiÄnvn §ristikÒw: nËn dÉ oÈk ¶stin ı dialektikÚw per‹ g°now ti …rism°non, oÈd¢ deiktikÚw oÈdenÒw, oÈd¢ toioËtow oÂow ı kayÒlou. oÎte gãr §stin ëpanta §n •niÄ tini g°nei, oÎte, efi e‡h, oÂÒn te ÍpÚ tåw aÈtåw érxåw e‰nai tå ˆnta. ÀstÉ oÈdemiÄa t°xnh t«n deiknuous«n tina fÊsin §rvthtikÆ §stin: oÈ går ¶jestin ıpoteronoËn t«n moriÄvn doËnai: sullogismÚw går oÈ giÄnetai §j émfo›n. ≤ d¢ dialektikØ §rvthtikÆ §stin, efi dÉ §deiÄknuen, efi ka‹ mØ pãnta, éllå tã ge pr«ta ka‹ tåw ofikeiÄaw érxåw oÈk ín ±r≈ta: mØ didÒntow går oÈk ín ¶ti e‰xen §j œn ¶ti dial°jetai prÚw tØn ¶nstasin. ≤ dÉ aÈtØ ka‹ peirastikÆ: oÈd¢ går ≤ peirastikØ toiaÊth §st‹n o·a ≤ gevmetriÄa, éllÉ ∂n ín ¶xoi ka‹ mØ efid≈w tiw. ¶jesti går pe›ran labe›n ka‹ tÚn mØ efidÒta tÚ prçgma toË mØ efidÒtow, e‡per ka‹ diÄdvsin, oÈk §j œn o‰den oÈdÉ §k t«n fidiÄvn éllÉ §k t«n •pom°nvn,

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le stesse argomentazioni, ma non per gli stessi scopi, e la stessa argomentazione sarà sofistica ed eristica, non però sotto lo stesso rispetto, ma in quanto ha come scopo la vittoria apparente è eristica, in quanto invece ha come scopo la sapienza apparente è sofistica, e infatti la sofistica è una certa sapienza apparente ma non reale. In certo qual modo, l’eristico è con il dialettico nella stessa relazione in cui l’esecutore di pseudodimostrazioni geometriche è con lo studioso di geometria, perché costui costruisce paralogismi a partire dalle stesse premesse del dialettico, e l’esecutore di pseudodimostrazioni da quelle dello studioso di geometria. Tuttavia l’uno non è eristico, giacché svolge le pseudodimostrazioni a partire dai principi e dalle conclusioni che stanno sotto l’arte, mentre è chiaro che chi applica ad altri argomenti le cose che stanno sotto la dialettica è eristico. Per esempio la quadratura mediante le lunule non è eristica, quella di Brisone invece lo è; e mentre non è possibile trasferire l’una ad altri argomenti, ma, per il fatto che muove dai principi propri, è rivolta solo alla geometria, l’altra invece si rivolge a molte persone: quelle che non sanno che cosa è possibile e che cosa impossibile in ciascun argomento, giacché vi si adatterà. Oppure è anche eristico il modo in cui Antifonte ha effettuato la quadratura. Oppure se uno negasse che fa bene passeggiare dopo i pasti in virtù dell’argomentazione di Zenone, la sua argomentazione non sarebbe medica, giacché è comune. Se dunque l’eristico stesse al dialettico in modo del tutto simile a come l’esecutore di pseudodimostrazioni geometriche sta allo studioso di geometria, non potrebbe essere eristico riguardo a quelle cose. In verità, l’argomentazione dialettica non concerne un qualche genere determinato, né dimostra alcunché, né è come quella che dimostra in universale, giacché né tutte le cose sono in un qualche genere, né, anche se lo fossero, sarebbe possibile che le cose che sono stessero sotto gli stessi principi. Di conseguenza, nessuna delle arti che dimostrano una qualche natura è interrogatrice. Non è possibile infatti concedere una qualunque delle due parti in quanto il sillogismo non si genera sia dall’una sia dall’altra. La dialettica invece è interrogatrice, e però, se dimostrasse, non potrebbe interrogare, e se anche non su tutto, almeno sulle cose prime, giacché, se un interlocutore non le concedesse, essa non avrebbe più qualcosa da cui partire per discutere contro l’obiezione. Essa è anche esaminatrice, giacché l’arte esaminatrice non è come la geometria, ma potrebbe possederla anche uno che non sa. Anche chi non conosce l’oggetto, infatti, può esaminare chi non lo conosce, se è vero che quest’ultimo non concede a partire dalle cose che conosce né dalle cose proprie, 37

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˜sa toiaËtã §stin ì efidÒta m¢n oÈd¢n kvlÊei mØ efid°nai tØn t°xnhn, mØ efidÒta dÉ énãgkh égnoe›n. Àste fanerÚn ˜ti oÈdenÚw …rism°nou ≤ peirastikØ §pistÆmh §stiÄn. diÚ ka‹ per‹ pãntvn §stiÄ: pçsai går afl t°xnai xr«ntai ka‹ koino›w tisin. diÚ pãntew ka‹ ofl fidi«tai trÒpon tinå xr«ntai tª dialektikª ka‹ peirastikª: pãntew går m°xri tinÚw §pixeiroËsin énakriÄnein toÁw §paggellom°nouw. taËta dÉ §st‹ tå koinã: taËta går oÈd¢n √tton ‡sasin aÈtoiÄ, kín dok«si liÄan ¶jv l°gein. §l°gxousin oÔn ëpantew: ét°xnvw går met°xousi toÊtou o §nt°xnvw ≤ dialektikÆ §sti, ka‹ ı t°xn˙ sullogistikª peirastikÚw dialektikÒw. §pe‹ dÉ §st‹ pollå m¢n taÈtå katå pãntvn, oÈ toiaËta dÉ Àste fÊsin tinå e‰nai ka‹ g°now éllÉ oÂa afl épofãseiw, tå dÉ oÈ toiaËta éllå ‡dia, ¶stin §k toÊtvn per‹ èpãntvn pe›ran lambãnein ka‹ e‰nai t°xnhn tinã, ka‹ mØ toiaÊthn e‰nai oÂai afl deiknÊousai. diÒper ı §ristikÚw oÈk ¶stin oÏtvw ¶xvn pãnt˙ …w ı ceudogrãfow: oÈ går ¶stai paralogistikÚw §j …rism°nou tinÚw g°nouw érx«n, éllå per‹ pçn g°now ¶stai ı §ristikÒw. TrÒpoi m¢n oÔn efisin otoi t«n sofistik«n §l°gxvn. ˜ti dÉ §st‹ toË dialektikoË tÚ yevr∞sai per‹ toÊtvn ka‹ dÊnasyai taËta poie›n, oÈ xalepÚn fide›n: ≤ går per‹ tåw protãseiw m°yodow ëpasan ¶xei taÊthn tØn yevriÄan.

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Ka‹ per‹ m¢n t«n §l°gxvn e‡rhtai t«n fainom°nvn. per‹ d¢ toË ceudÒmenÒn ti de›jai ka‹ tÚn lÒgon efiw êdojÒn ti égage›n (toËto går ∑n deÊteron t∞w sofistik∞w proair°sevw)^ pr«ton m¢n oÔn §k toË punyãnesyaiÄ pvw ka‹ diå t∞w §rvtÆsevw sumbaiÄnei mãlista. tÚ går [prÚw] mhd¢n ıriÄsanta keiÄmenon §rvtçn yhreutikÒn §sti toÊtvn: efikª går l°gontew èmartãnousi mçllon: efikª d¢ l°gousin ˜tan mhd¢n ¶xvsi prokeiÄmenon. tÒ te §rvtçn pollã, kín …rism°non ¬ prÚw ˘ dial°getai, ka‹ tÚ tå dokoËnta l°gein éjioËn, poie› tinÉ eÈporiÄan toË efiw êdojon égage›n μ ceËdow, §ãn te §rvt≈menow fª μ

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ma dalle conseguenze. Queste sono tali che se uno le conosce, nulla impedisce che non conosca l’arte, mentre se non le conosce è necessario che la ignori. Cosicché è manifesto che l’arte esaminatrice non è conoscenza di alcunché di determinato. Per la stessa ragione riguarda tutte le cose, giacché tutte le arti impiegano anche alcune cose comuni. Perciò tutti, anche i profani, in certo qual modo adoperano la dialettica e l’arte esaminatrice. Tutti, infatti, fino a un certo punto tentano di sottoporre a giudizio quelli che si professano competenti. Queste cose sono le cose comuni. Queste infatti non le conoscono affatto di meno costoro, anche se dicono cose che appaiono del tutto fuori luogo. Tutti dunque confutano, giacché partecipano in modo privo di arte di ciò di cui la dialettica si occupa con arte, e colui che esamina con arte sillogistica è dialettico. Poiché vi sono molte cose che sono le stesse riguardo a tutte le cose e non sono tali da essere una natura e un genere, ma sono come le negazioni, mentre altre non sono così ma sono proprie, è possibile, a partire dalle prime, condurre un esame su tutte le cose e che vi sia una certa arte, e che non sia come quelle che dimostrano. Pertanto l’eristico non è del tutto nella stessa condizione dell’esecutore di pseudodimostrazioni geometriche, perché non sarà paralogistico a partire da un qualche genere determinato, ma sarà eristico riguardo ad ogni genere. Questi sono dunque i modi delle confutazioni sofistiche. Non è difficile poi vedere che è compito del dialettico studiare queste confutazioni ed essere in grado di effettuarle, giacché l’esposizione metodica che riguarda le premesse comprende tutto questo studio.

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CAPITOLO 12 Anche delle confutazioni apparenti si è parlato. Riguardo al mostrare qualcosa di falso e condurre l’argomentazione verso qualcosa di implausibile (questa era la seconda parte dell’intenzione sofistica), ebbene, in primo luogo, ciò risulta soprattutto dall’interrogare in un certo modo e dal domanda. Interrogare chi non ha determinato alcuna tesi è infatti un modo di perseguire questi scopi, giacché se si argomenta senza un obiettivo si sbaglia di più, e si argomenta senza obiettivo quando non si ha una conclusione prefissata. L’interrogare su molte cose, anche quando sia determinato contro che cosa si stia argomentando, e il chiedere di dire ciò che sembra vero procurano una certa facilità di condurre all’implausibile o al falso 39

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épofª toÊtvn ti, êgei prÚw ì §pixeirÆmatow eÈpore›. dÊnantai d¢ nËn √tton kakourge›n diå toÊtvn μ prÒteron: épaitoËntai går tiÄ toËto prÚw tÚ §n érxª. stoixe›on d¢ toË tuxe›n μ ceÊdouw tinÚw μ édÒjou tÚ mhdemiÄan eÈyÁw §rvtçn y°sin, éllå fãskein §rvtçn maye›n boulÒmenon: x≈ran går §pixeirÆmatow ≤ sk∞ciw poie›. PrÚw d¢ tÚ ceudÒmenon de›jai ‡diow tÒpow ı sofistikÒw, tÚ êgein prÚw toiaËta prÚw ì eÈpore› lÒgvn. ¶sti d¢ ka‹ kal«w ka‹ mØ kal«w toËto poie›n, kayãper §l°xyh prÒteron. Pãlin prÚw tÚ parãdoja l°gein skope›n §k tiÄnow g°nouw ı dialegÒmenow, e‰tÉ §pervtçn ˘ to›w pollo›w otoi l°gousi parãdojon: ¶sti går •kãstoiw ti toioËton. stoixe›on d¢ toÊtvn tÚ tåw •kãstvn efilhf°nai y°seiw §n ta›w protãsesin. lÊsiw d¢ ka‹ toÊtvn ≤ prosÆkousa f°retai t“ §mfaniÄzein ˜ti oÈ diå tÚn lÒgon sumbaiÄnei tÚ êdojon: ée‹ d¢ toËto ka‹ boÊletai ı égvnizÒmenow. ÖEti dÉ §k t«n boulÆsevn ka‹ t«n faner«n doj«n. oÈ går taÈtå boÊlontaiÄ te ka‹ fasiÄn, éllå l°gousi m¢n toÁw eÈsxhmonestãtouw t«n lÒgvn, boÊlontai d¢ tå fainÒmena lusitele›n: oÂon teynãnai kal«w mçllon μ z∞n ≤d°vw fas‹ de›n, ka‹ p°nesyai dikaiÄvw mçllon μ ploute›n afisxr«w, boÊlontai d¢ ténantiÄa. tÚn m¢n oÔn l°gonta katå tåw boulÆseiw efiw tåw faneråw dÒjaw ékt°on, tÚn d¢ katå taÊtaw efiw tåw épokekrumm°naw: émfot°rvw går énagka›on parãdoja l°gein: μ går prÚw tåw faneråw μ prÚw tåw éfane›w dÒjaw §roËsin §nantiÄa. Ple›stow d¢ tÒpow §st‹ toË poie›n parãdoja l°gein, Àsper ka‹ ı Kallikl∞w §n t“ GorgiÄ& g°graptai l°gvn, ka‹ ofl érxa›oi d¢ pãntew ’onto sumbaiÄnein, parå tÚ katå fÊsin ka‹ katå tÚn nÒmon: §nantiÄa går e‰nai fÊsin ka‹ nÒmon, ka‹ tØn dikaiosÊnhn katå nÒmon m¢n e‰nai kalÒn, katå fÊsin dÉ oÈ kalÒn. de› oÔn prÚw m¢n tÚn efipÒnta katå fÊsin katå nÒmon épantçn, prÚw d¢ tÚn katå nÒmon §p‹ tØn fÊsin êgein: émfot°rvw går sumbaiÄnei l°gein parãdoja. ∑n d¢ tÚ m¢n katå fÊsin aÈto›w tÚ élhy°w, tÚ d¢ katå nÒmon

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e se l’interlocutore interrogato afferma o nega qualcuna di queste, lo si conduce verso cose contro le quali vi è facilità di attacco. Ma oggi chi interroga riesce meno di prima a ingannare con tali mezzi, giacché gli viene chiesto che c’entri questo con ciò che era stato fissato all’inizio. Un elemento per giungere a qualcosa di falso o di implausibile è quello di non chiedere direttamente alcuna tesi ma sostenere che si sta interrogando per desiderio di imparare: questo espediente prepara il terreno per l’attacco. Per mostrare qualcosa di falso, il luogo proprio è quello sofistico e cioè il condurre verso cose contro le quali vi è abbondanza di argomentazioni. Si può farlo in modo corretto e in modo non corretto, come è stato detto prima. Di nuovo, per far dire paradossi, esaminare quale scuola di pensiero segua l’interlocutore e poi interrogare su ciò che, agli occhi dei molti, costoro dicono di paradossale, giacché in ogni scuola di pensiero vi è qualche opinione siffatta. Elemento di queste argomentazioni è l’avere raccolto nel repertorio di premesse le tesi di ciascuna scuola. Anche in questi casi la risoluzione adeguata si fornisce rendendo manifesto che l’implausibile non segue in virtù dell’argomentazione; è sempre questo che anche l’interlocutore competitivo vuole ottenere. Inoltre bisogna muovere dai desideri e dalle opinioni manifeste, giacché gli uomini non desiderano le stesse cose che dichiarano di desiderare, ma fanno i discorsi più nobili mentre desiderano ciò che sembra loro vantaggioso. Per esempio dicono che una bella morte è meglio di una vita piacevole e che restare poveri ma giusti è meglio che arricchire in modo malvagio; desiderano però il contrario. Chi si esprime dunque secondo i propri desideri va condotto alle opinioni manifeste, chi invece secondo queste, va condotto a quelle occulte; in entrambi i casi, infatti, affermeranno necessariamente dei paradossi, giacché diranno il contrario o delle loro opinioni manifeste o di quelle non manifeste. Ma il luogo più diffuso del far dire paradossi dipende da ciò che è secondo natura e ciò che è secondo la legge, come anche Callicle è descritto affermare nel Gorgia e come tutti gli antichi credevano valesse, giacché pensavano che la natura e la legge fossero contrarie tra loro e che la giustizia fosse bella secondo la legge, ma non lo fosse secondo la natura. Bisogna allora affrontare chi parla secondo natura mettendosi dal punto di vista della legge e condurre invece verso la natura chi parla secondo la legge, giacché in entrambi i modi risulterà l’affermazione di paradossi. Per costoro il vero era ciò che è secondo 41

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tÚ to›w pollo›w dokoËn. Àste d∞lon ˜ti kéke›noi, kayãper ka‹ ofl nËn, μ §l°gjai μ parãdoja l°gein tÚn épokrinÒmenon §pexeiÄroun poie›n. ÖEnia d¢ t«n §rvthmãtvn ¶xei tÚ émfot°rvw êdojon e‰nai tØn épÒkrisin, oÂon pÒteron to›w sofo›w μ t“ patr‹ de› peiÄyesyai, ka‹ tå sumf°ronta prãttein μ tå diÄkaia, ka‹ édike›syai aflret≈teron μ blãptein. de› dÉ êgein efiw tå to›w pollo›w ka‹ to›w sofo›w §nantiÄa^§ån m¢n l°g˙ tiw …w ofl per‹ toÁw lÒgouw, efiw tå to›w pollo›w, §ån dÉ …w ofl polloiÄ, §p‹ tå to›w sofo›w. fas‹ går ofl m¢n §j énãgkhw tÚn eÈdaiÄmona diÄkaion e‰nai: to›w d¢ pollo›w êdojon tÚ basil°a mØ eÈdaimone›n. ¶sti d¢ tÚ efiw tå oÏtvw êdoja êgein tÚ aÈtÚ t“ efiw tØn katå fÊsin ka‹ katå nÒmon ÍpenantiÄvsin êgein: ı m¢n går nÒmow dÒja t«n poll«n, ofl d¢ sofo‹ katå fÊsin ka‹ katÉ élÆyeian l°gousin.

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Ka‹ tå m¢n parãdoja §k toÊtvn de› zhte›n t«n tÒpvn: per‹ d¢ toË poi∞sai édolesxe›n, ˘ m¢n l°gomen tÚ édolesxe›n efirÆkamen ≥dh: pãntew d¢ ofl toioiÄde lÒgoi toËto boÊlontai poie›n: efi mhd¢n diaf°rei tÚ ˆnoma μ tÚn lÒgon efipe›n, diplãsion dØ ka‹ diplãsion ≤miÄseow taÈtÒ: efi êra §st‹ diplãsion ≤miÄseow diplãsion, ¶stai ≤miÄseow ≤miÄseow diplãsion. ka‹ pãlin ín ént‹ toË "diplãsion" "diplãsion ≤miÄseow" teyª, tr‹w ¶stai efirhm°non, ≤miÄseow ≤miÄseow ≤miÄseow diplãsion. ka‹ îrã §stin ≤ §piyumiÄa ≤d°ow; toËto dÉ §st‹n ˆrejiw ≤d°ow: ¶stin êra ≤ §piyumiÄa ˆrejiw ≤d°ow ≤d°ow. Efis‹ d¢ pãntew ofl toioËtoi t«n lÒgvn ¶n te to›w prÒw ti, ˜sa mØ mÒnon tå g°nh éllå ka‹ aÈtå prÒw ti l°getai ka‹ prÚw tÚ aÈtÚ ka‹ ©n épodiÄdotai (oÂon ¥ te ˆrejiw tinÚw ˆrejiw ka‹ ≤ §piyumiÄa tinÚw §piyumiÄa, ka‹ tÚ diplãsion tinÚw diplãsion, ka‹ diplãsion ≤miÄseow), ka‹ ~˜svn ≤ oÈsiÄa, oÈk ˆntvn prÒw ti ˜lvw œn efisin ßjeiw μ pãyh ≥ ti toioËton §n t“ lÒgƒ aÈt«n prosdhloËtai, kathgoroum°nvn~ §p‹ toÊtoiw. oÂon tÚ perittÚn ériymÚw m°son ¶xvn: ¶sti dÉ ériymÚw perittÒw: ¶stin êra ériymÚw ériymÚw m°son ¶xvn. ka‹ efi tÚ simÚn koilÒthw =inÒw §stin, ¶sti d¢ =‹w simÆ, ¶stin êra =‹w =‹w koiÄlh.

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natura, mentre ciò che è secondo legge è l’opinione dei molti. Cosicché è chiaro che anche loro, come quelli di oggi, cercavano o di confutare l’avversario o di fargli dire paradossi. Alcune delle domande sono tali che entrambe le risposte sono implausibili, per esempio se si debba obbedire ai sapienti o al proprio padre, e se si debbano compiere le azioni utili o quelle giuste, e se sia preferibile subire l’ingiustizia o infliggerla. Bisogna condurre verso le opinioni contrarie a quelle dei molti e a quelle dei sapienti: se qualcuno parla come quelli che si occupano di argomentazioni bisogna condurlo verso le opinioni dei molti, se invece parla come i molti, verso le opinioni dei sapienti, giacché gli uni dicono che chi è felice è necessariamente giusto, mentre per i molti è implausibile che il re non sia felice. Il condurre verso le cose che sono implausibili in questo modo è lo stesso del condurre verso la contrapposizione tra ciò che è secondo natura e ciò che è secondo legge, giacché la legge è l’opinione dei molti mentre i sapienti parlano secondo natura e secondo verità.

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CAPITOLO 13 I paradossi vanno dunque ricercati a partire da questi luoghi, mentre riguardo al far chiacchierare, abbiamo già detto che cosa chiamiamo «far chiacchierare» e a questo mirano tutte le argomentazioni siffatte. Se non fa alcuna differenza dire il nome o la formula definitoria certamente «doppio» e «doppio della metà» significano la stessa cosa. Se dunque il doppio è doppio della metà, sarà doppio della metà della metà; e di nuovo, se si ponga «doppio della metà» al posto di «doppio», sarà detto tre volte: doppio della metà della metà della metà. E «È l’appetito del piacevole? Ma esso è desiderio del piacevole; dunque l’appetito è desiderio del piacevole del piacevole». Tutte le argomentazioni siffatte hanno luogo con quei relativi di cui non solo i generi ma anche essi stessi sono detti in relazione ad altro, e che sono espressi in relazione ad una e la medesima cosa (per esempio il desiderio è desiderio di qualcosa e l’appetito è appetito di qualcosa, e il doppio è doppio di qualcosa, cioè doppio della metà), e tutte quelle cose che, non essendo affatto relativi, hanno la sostanza, cioè ciò di cui sono disposizioni o affezioni o qualcosa del genere, indicata anch’essa nella loro formula definitoria, essendo di essa predicate. Per esempio: il dispari è il numero che ha un medio; c’è un numero dispari, c’è dunque un numero numero che ha un medio; e se il camuso è una concavità del naso, il naso camuso sarà un naso naso concavo. 43

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FaiÄnontai d¢ poie›n oÈ poioËntew §niÄote diå tÚ mØ prospunyãnesyai efi shmaiÄnei ti kayÉ aÍtÚ lexy¢n tÚ diplãsion μ oÈd°n, ka‹ e‡ ti shmaiÄnei, pÒteron tÚ aÈtÚ μ ßteron, éllå tÚ sump°rasma l°gein eÈyÊw. éllå faiÄnetai, diå tÚ tÚ ˆnoma taÈtÚ e‰nai, taÈtÚ ka‹ shmaiÄnein.

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SoloikismÚw dÉ oÂon m°n §stin e‡rhtai prÒteron: ¶sti d¢ toËto ka‹ poie›n ka‹ mØ poioËnta faiÄnesyai ka‹ poioËnta mØ doke›n, kayãper, ˘ PrvtagÒraw ¶legen, efi "ı m∞niw" ka‹ "ı pÆlhj" êrrenã §stin: ı m¢n går l°gvn "oÈlom°nhn" soloikiÄzei m¢n katÉ §ke›non, oÈ faiÄnetai d¢ to›w êlloiw, ı d¢ "oÈlÒmenon" faiÄnetai m°n, éllÉ oÈ soloikiÄzei. d∞lon oÔn ˜ti kín t°xn˙ tiw toËto dÊnaito poie›n: diÚ pollo‹ t«n lÒgvn oÈ sullogizÒmenoi soloikismÚn faiÄnontai sullogiÄzesyai, kayãper §n to›w §l°gxoiw. Efis‹ d¢ pãntew sxedÚn ofl fainÒmenoi soloikismo‹ parå tÒde, [ka‹] ˜tan ≤ pt«siw mÆte êrren mÆte y∞lu dhlo› éllå tÚ metajÊ. tÚ m¢n går "otow" êrren shmaiÄnei, tÚ dÉ "aÏth" y∞lu: tÚ d¢ "toËto" y°lei m¢n tÚ metajÁ shmaiÄnein, pollãkiw d¢ shmaiÄnei kékeiÄnvn •kãteron, oÂon "tiÄ toËto;" "KalliÒph, jÊlon, KoriÄskow". toË m¢n oÔn êrrenow ka‹ toË yÆleow diaf°rousin afl pt≈seiw ëpasai, toË d¢ metajÁ afl m¢n afl dÉ oÎ. doy°ntow dØ pollãkiw "toËto", sullogiÄzontai …w efirhm°nou "toËton": ımoiÄvw d¢ ka‹ êllhn pt«sin éntÉ êllhw. ı d¢ paralogismÚw giÄnetai diå tÚ koinÚn e‰nai tÚ "toËto" pleiÒnvn pt≈sevn: tÚ går "toËto" shmaiÄnei ıt¢ m¢n "otow" ıt¢ d¢ "toËton". de› dÉ §nallåj shmaiÄnein metå m¢n toË "¶sti" tÚ "otow", metå d¢ toË "e‰nai" tÚ "toËton", oÂon "¶sti KoriÄskow", "e‰nai KoriÄskon". ka‹ §p‹ t«n yÆlevn Ùnomãtvn …saÊtvw, ka‹ §p‹ t«n legom°nvn m¢n skeu«n, §xÒntvn d¢ yhleiÄaw μ êrrenow kl∞sin. ˜sa går efiw tÚ o ka‹ tÚ n teleutò, taËta mÒna skeÊouw ¶xei kl∞sin, oÂon jÊllon, sxoiniÄon: tå d¢ mØ oÏtvw êrrenow μ yÆleow, œn ¶nia f°romen §p‹ tå skeÊh, oÂon éskÚw m¢n êrren toÎnoma, kliÄnh d¢ y∞lu. diÒper ka‹ §p‹ t«n toioÊtvn …saÊtvw tÚ "¶sti" ka‹ tÚ "e‰nai" dioiÄsei. ka‹ trÒpon tinå ˜moiÒw §stin ı soloikismÚw to›w "parå tÚ tå mØ ˜moia ımoiÄvw" legom°noiw

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A volte appaiono far chiacchierare senza farlo a causa del fatto che non si chiede in aggiunta se «doppio» significhi qualcosa detto da solo o non significhi nulla e, in caso significhi qualcosa, se la stessa o qualcosa di diverso, ma si asserisce direttamente la conclusione. Però, per il fatto che la parola è la stessa, sembra anche significare lo stesso.

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CAPITOLO 14 Come sia fatto il solecismo si è detto prima. È possibile commetterlo, sembrare senza commetterlo, e commetterlo senza sembrare, come accade se «il ira» [ho menis] e «il celata» [ho pelex] sono maschili, ciò che sosteneva Protagora. Perciò chi dice «funesta» secondo lui commette un solecismo mentre agli altri non pare farlo, mentre chi dice «funesto» sembra, ma non lo commette. È chiaro dunque che ciò si può fare anche con arte, perciò molte argomentazioni, pur non sillogizzando un solecismo, sembrano sillogizzarlo, come accade nelle confutazioni. Quasi tutti i solecismi apparenti dipendono da questa circostanza: il caso non indica né il maschile né il femminile ma il neutro. «Questi» indica infatti il maschile, e «questa» il femminile. Invece «ciò» vuole significare il neutro, ma spesso significa anche uno o l’altro di quelli; per esempio «Che cos’è ciò?» «Calliope», «un legno», «Corisco». I casi del maschile e del femminile differiscono tutti, quelli del neutro alcuni sì e alcuni no. Se si è concesso più volte «ciò», sillogizzano come se si fosse detto «questi», e similmente con altri casi al posto di altri. Il paralogismo nasce per il fatto che «ciò» è comune a più casi, giacché «questo» ora significa «questi» [houtos, nom. masch.] ora «lui» [touton, acc. masch.]. E bisogna che significhi, rispettivamente, «questi» con «è» e «lui» con «essere». Per esempio «Corisco è» [esti Koriskos, pres. ind. + nom. masch.]; «che Corisco è» [einai Koriskon, inf. + acc. masch.]. Allo stesso modo anche per i nomi femminili, e per quelli chiamati «oggetti» che hanno la forma nominativa femminile o maschile, giacché solo quanti terminano in o e n hanno la forma nominativa dell’oggetto, come per esempio «legno» [xulon], «corda» [schoinion]. Invece quelli che non sono così hanno la forma nominativa del maschile o del femminile, e alcuni di questi li riferiamo ad oggetti; per esempio «otre» [askos] è un nome maschile e «letto» [kline] è femminile. Perciò anche con questi «è» ed «essere» differiranno nella stessa maniera. E in certo qual modo il solecismo è simile alle confutazioni che so45

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§l°gxoiw. Àsper går §keiÄnoiw §p‹ t«n pragmãtvn, toÊtoiw §p‹ t«n Ùnomãtvn sumpiÄptei soloikiÄzein: ênyrvpow går ka‹ leukÚn ka‹ prçgma ka‹ ˆnomã §stin. FanerÚn oÔn ˜ti tÚn soloikismÚn peirat°on §k t«n efirhm°nvn pt≈sevn sullogiÄzesyai. E‡dh m¢n oÔn taËta t«n égvnistik«n lÒgvn ka‹ m°rh t«n efid«n ka‹ trÒpoi ofl efirhm°noi: diaf°rei dÉ oÈ mikrÚn §ån taxyª pvw tå per‹ tØn §r≈thsin prÚw tÚ lanyãnein, Àsper §n to›w dialektiko›w. §fej∞w oÔn to›w efirhm°noiw taËta pr«ton lekt°on.

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ÖEsti dØ prÚw tÚ §l°gxein ©n m¢n m∞kow: xalepÚn går ëma pollå sunorçn: efiw d¢ tÚ m∞kow to›w proeirhm°noiw stoixeiÄoiw xrhst°on. ©n d¢ tãxow: ÍsteriÄzontew går √tton proor«sin. ¶ti dÉ ÙrgØ ka‹ filoneikiÄa: tarattÒmenoi går √tton dÊnantai fulãttesyai pãntew: stoixe›a d¢ t∞w Ùrg∞w tÒ te fanerÚn •autÚn poie›n boulÒmenon édike›n ka‹ tÚ parãpan énaisxunte›n. ¶ti tÚ §nallåj tå §rvtÆmata tiy°nai, §ãn te prÚw taÈtÚ pleiÄouw tiw ¶x˙ lÒgouw, §ãn te ka‹ ˜ti oÏtvw ka‹ ˜ti oÈx oÏtvw: ëma går sumbaiÄnei μ prÚw pleiÄv μ prÚw tå §nantiÄa poie›syai tØn fulakÆn. ˜lvw d¢ pãnta tå prÚw tØn krÊcin lexy°nta prÒteron xrÆsima ka‹ prÚw toÁw égvnistikoÁw lÒgouw: ≤ går krÊciw §st‹ toË laye›n xãrin, tÚ d¢ laye›n t∞w épãthw. PrÚw d¢ toÁw énaneÊontaw ëttÉ ín ofihy«sin e‰nai prÚw tÚn lÒgon, §j épofãsevw §rvtht°on …w toÈnantiÄon boulÒmenon, μ ka‹ §j ‡sou poioËnta tØn §r≈thsin: édÆlou går ˆntow toË tiÄ boÊletai labe›n √tton duskolaiÄnousin. ˜tan tÉ §p‹ t«n mer«n did“ tiw tÚ kayÉ ßkaston, §pãgonta tÚ kayÒlou pollãkiw oÈk §rvtht°on éllÉ …w dedom°nƒ xrhst°on: §niÄote går ka‹ aÈto‹ o‡ontai dedvk°nai ka‹ to›w ékoÊousi faiÄnontai diå tØn t∞w §pagvg∞w mneiÄan, …w oÈk ín ±rvthm°na mãthn. §n oÂw te mØ ÙnÒmati shmaiÄnetai tÚ kayÒlou éllå tª ımoiÒ-

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no dette dipendere dal prendere come simili cose che non lo sono, giacché, come con quelle capita di commettere solecismi sugli oggetti, con questi capita di commetterli sulle parole, giacché uomo e bianco sono tanto un oggetto quanto una parola. È manifesto dunque che bisogna cercare di sillogizzare il solecismo a partire dai casi suddetti. Queste sono dunque le specie delle argomentazioni competitive, le parti delle specie e i modi. Non fa poi piccola differenza se le cose che concernono l’interrogazione siano ordinate in un certo modo al fine di nascondere, come nelle argomentazioni dialettiche. Dopo gli argomenti trattati bisogna dunque parlare in primo luogo di queste cose.

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CAPITOLO 15 Ora, per confutare, un mezzo è la lunghezza, perché è difficile tenere l’occhio su molte cose contemporaneamente. Per la lunghezza bisogna usare gli elementi precedentemente trattati. Un altro è la velocità, giacché chi non riesce a tenere il passo è meno capace di prevedere. Poi c’è la collera e il desiderio di sopraffazione, perché tutti, quando sono turbati, sono meno capaci di difendersi. Elementi della collera sono il rendere manifesta la propria volontà di essere ingiusto e l’assumere un comportamento affatto impudente. Inoltre giova porre le domande in modo alternato, sia se uno abbia più argomentazioni per la stessa cosa sia se ne abbia per concludere che sta così e per concludere che non sta così, giacché al rispondente toccherà difendersi contemporaneamente o da più argomentazioni o da argomentazioni contrarie. In generale, poi, tutti gli espedienti per l’occultamento trattati sopra sono utili anche per le argomentazioni competitive, giacché l’occultamento ha per fine il nascondere, e il nascondere ha per fine l’inganno. Contro quelli che negano tutto ciò che possano ritenere utile all’argomentazione, bisogna interrogare in forma negativa, come se si volesse la risposta contraria, o anche ponendo la domanda come se le due risposte fossero indifferenti, giacché quando non è chiaro che risposta si vuole ottenere gli interlocutori fanno meno i difficili. Spesso, qualora nelle domande particolari uno conceda il caso singolare, bisogna indurre l’universale non domandandolo ma usandolo come se fosse stato concesso, giacché a volte i rispondenti stessi pensano di averlo concesso, e sembrano averlo fatto agli ascoltatori perché resta loro in mente l’induzione, come se non potessero esser sta47

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thti, xrhst°on prÚw tÚ sumf°ron: lanyãnei går ≤ ımoiÒthw pollãkiw. prÒw te tÚ labe›n tØn prÒtasin toÈnantiÄon parabãllonta xrØ punyãnesyai: oÂon, efi d°oi labe›n ˜ti de› pãnta t“ patr‹ peiÄyesyai, "pÒteron ëpanta de› peiÄyesyai to›w goneËsin μ pãntÉ épeiye›n;" ka‹ "tÚ pollãkiw pollã, pÒteron pollå sugxvrht°on μ ÙliÄga;" mçllon gãr, e‡per énãgkh, dÒjeien ín e‰nai pollã: paratiyem°nvn går §ggÁw t«n §nantiÄvn ka‹ meiÄv ka‹ meiÄzv faiÄnetai ka‹ xeiÄrv ka‹ beltiÄv to›w ényr≈poiw. SfÒdra d¢ ka‹ pollãkiw poie› doke›n §lhl°gxyai tÚ mãlista sofistikÚn sukofãnthma t«n §rvt≈ntvn, tÚ mhd¢n sullogisam°nouw mØ §r≈thma poie›n tÚ teleuta›on éllå sumperantik«w efipe›n, …w sullelogism°nouw, "oÈk êra tÚ ka‹ tÒ". SofistikÚn d¢ ka‹ tÚ keim°nou paradÒjou tÚ fainÒmenon éjioËn épokriÄnesyai, prokeim°nou toË dokoËntow §j érx∞w, ka‹ tØn §r≈thsin t«n toioÊtvn oÏtv poie›syai, "pÒterÒn soi doke›;" énãgkh gãr, ín ¬ tÚ §r≈thma §j œn ı sullogismÒw, μ ¶legxon μ parãdojon giÄnesyai, dÒntow m¢n ¶legxon, mØ dÒntow d¢ mhd¢ doke›n fãskontow êdojon, mØ dÒntow d°, doke›n dÉ ımologoËntow, §legxoeid°w. ÖEti kayãper ka‹ §n to›w =htoriko›w, ka‹ §n to›w §legktiko›w ımoiÄvw tå §nanti≈mata yevrht°on μ prÚw tå ÍfÉ •autoË legÒmena μ prÚw oÓw ımologe› kal«w l°gein μ prãttein, ¶ti prÚw toÁw dokoËntaw toioÊtouw μ prÚw toÁw ımoiÄouw, μ prÚw toÁw pleiÄstouw μ prÚw pãntaw. Àsper te ka‹ épokrinÒmenoi pollãkiw, ˜tan §l°gxvntai, poioËsi dittÒn, ín m°ll˙ sumbaiÄnein §legxyÆsesyai, ka‹ §rvt«ntaw xrhst°on pot¢ toÊtƒ prÚw toÁw §nistam°nouw^ín …d‹ m¢n sumbaiÄn˙ …d‹ d¢ mÆ, ˜ti oÏtvw e‡lhfen, oÂon ı Kleof«n poie› §n t“ MandroboÊlƒ. de› d¢ ka‹ éfistam°nouw toË lÒgou tå loipå t«n §pixeirhmãtvn §pit°mnein, ka‹ épokrinÒmenon, ín proaisyãnhtai, proeniÄstasyai ka‹ proagoreÊein. §pixeirht°on dÉ §niÄote ka‹ prÚw êlla toË efirhm°nou, §ke›no §klabÒntaw, §ån mØ

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te domandate quelle cose senza una ragione. Nelle argomentazioni in cui l’universale non è significato da un nome ma per somiglianza, si deve approfittarne alla bisogna, giacché la somiglianza spesso resta inosservata. Per ottenere la premessa è utile interrogare ponendola accanto al contrario. Per esempio se si deve ottenere che bisogna sempre obbedire al padre, si chiede «Bisogna dunque obbedire sempre al padre o non obbedirgli mai?» e «Si dovrà ammettere che molte volte molti sono molti o che sono pochi?», giacché, se è vero che l’alternativa è necessaria, apparirà maggiormente che sono molti. Quando poste accanto ai loro contrari, infatti, le cose sembrano agli uomini minori o maggiori, peggiori o migliori. Ma ciò che produce spesso una netta impressione che si sia stati confutati è il trucco più sofistico di chi interroga, e consiste, non avendo sillogizzato nulla, nel non porre l’ultima cosa come domanda, ma nell’asserirla a mo’ di conclusione, come se l’avessero sillogizzata: «dunque non è questo e quest’altro». È sofistico anche, quando la tesi posta sia paradossale, chiedere di rispondere a qualcosa che pare vero, dato che la conclusione fissata all’inizio sembra vera, e formulare la domanda di cose siffatte in questo modo: «Non ti sembra che... ?» Necessariamente, infatti, se la domanda è una di quelle da cui deriva il sillogismo, ne nasce o una confutazione o un paradosso: se l’interrogato la concede, vi sarà una confutazione; se non la concede né ammette che gli sembra vera, affermerà qualcosa di implausibile; se non la concede, ma riconosce che sembra vera, vi sarà una specie di confutazione. Inoltre, come nelle argomentazioni retoriche, anche in quelle confutatorie bisogna considerare le incoerenze rispetto a ciò che lo stesso interlocutore sostiene, o rispetto a coloro che egli riconosce che parlano o si comportano bene, o rispetto a coloro che sono ritenuti tali, o a coloro che sono simili a persone tali, o rispetto alla grande maggioranza o rispetto alla totalità degli uomini. Come spesso anche i rispondenti, quando vengono confutati, fanno una distinzione proprio quando sono sul punto di subire la confutazione, così anche gli interroganti devono a volte far uso di questo espediente contro chi solleva un’obiezione, dicendo, se questa in un senso ha effetto e in un senso invece no, che il rispondente ha assunto la premessa in quest’ultimo senso – come fa Cleofonte nel Mandrobulo. Bisogna anche, rinunciando all’argomentazione, eliminare ciò che resta degli attacchi, e che il rispondente, se se ne accorge prima, obietti in anticipo e preannunci la domanda. A volte poi, quando non si ha 49

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prÚw tÚ keiÄmenon ¶x˙ tiw §pixeire›n: ˜per ı LukÒfrvn §poiÄhse problhy°ntow lÊran §gkvmiãzein. prÚw d¢ toÁw épaitoËntaw prÚw tiÄ §pixeire›, §peidØ doke› de›n épodidÒnai tØn afitiÄan, lexy°ntvn dÉ §niÄvn eÈfulaktÒteron (tÚ kayÒlou sumba›non §n to›w §l°gxoiw), l°gein tØn éntiÄfasin, ˜ti ˘ ¶fhsen épof∞sai, μ ˘ ép°fhse f∞sai, éllå mØ ˜ti t«n §nantiÄvn ≤ aÈtØ §pistÆmh μ oÈx ≤ aÈtÆ. oÈ de› d¢ tÚ sump°rasma protatik«w §rvtçn. ¶nia dÉ oÈdÉ §rvtht°on éllÉ …w ımologoum°noiw xrhst°on.

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ÉEj œn m¢n oÔn afl §rvtÆseiw ka‹ p«w §rvtht°on §n ta›w égvnistika›w diatriba›w, e‡rhtai. per‹ d¢ épokriÄsevw ka‹ p«w xrØ lÊein ka‹ tiÄ, ka‹ prÚw tiÄna xr∞sin ofl toioËtoi t«n lÒgvn »f°limoi, metå taËta lekt°on. XrÆsimoi m¢n oÔn efisi prÚw m¢n filosofiÄan diå dÊo. pr«ton m¢n går …w §p‹ tÚ polÁ ginÒmenoi parå tØn l°jin êmeinon ¶xein poioËsi prÚw tÚ posax«w ßkaston l°getai ka‹ po›a ımoiÄvw ka‹ po›a •t°rvw §piÄ te t«n pragmãtvn sumbaiÄnei ka‹ §p‹ t«n Ùnomãtvn. deÊteron d¢ prÚw tåw kayÉ aÍtÚn zhtÆseiw: ı går ÍfÉ •t°rou =&diÄvw paralogizÒmenow ka‹ toËto mØ diaisyanÒmenow kín aÈtÚw ÍfÉ aÍtoË toËto pãyoi pollãkiw. triÄton d¢ ka‹ tÚ loipÚn ¶ti prÚw dÒjan, tÚ per‹ pãnta gegumnãsyai doke›n ka‹ mhdenÚw épeiÄrvw ¶xein: tÚ går koinvnoËnta lÒgvn c°gein lÒgouw, mhd¢n ¶xonta dioriÄzein per‹ t∞w faulÒthtow aÈt«n, ÍpociÄan diÄdvsi toË doke›n dusxeraiÄnein oÈ diå télhy¢w éllå diÉ épeiriÄan. ÉApokrinom°noiw d¢ p«w épantht°on prÚw toÁw toioÊtouw lÒgouw, fanerÒn, e‡per Ùry«w efirÆkamen prÒteron §j œn efisin ofl paralogismoiÄ, ka‹ tåw §n t“ punyãnesyai pleonejiÄaw flkan«w dieiÄlomen. oÈ taÈtÚ dÉ §st‹ labÒnta te tÚn lÒgon fide›n ka‹ lËsai tØn moxyhriÄan, ka‹ §rvt≈menon épantçn dÊnasyai tax°vw: ˘ går ‡smen, pollãkiw metatiy°menon égnooËmen. ¶ti dÉ, Àsper §n to›w êlloiw tÚ yçtton

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nulla con cui attaccare la tesi posta, bisogna rivolgere l’attacco a cose diverse da quella dichiarata, interpretandole come se fossero quella: è quel che fece Licofrone quando gli fu proposto di tessere l’elogio della lira. Contro quelli che chiedono di sapere a che cosa sia rivolto l’attacco, poiché si ritiene che si debba fornire la causa dell’argomentazione, ma una volta dette certe cose la difesa diventa più facile (il che accade regolarmente nelle confutazioni), si dica che mira alla contraddittoria, che vuole negare ciò che l’interlocutore afferma o affermare ciò che nega9, ma non si dica che mira a concludere che la conoscenza dei contrari è la stessa o che non è la stessa. Non si deve poi domandare la conclusione come se fosse una premessa; e alcune cose non vanno chieste ma adoperate come se fossero riconosciute.

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CAPITOLO 16 È stato detto da dove si traggano le domande e come si debba porle nelle dispute competitive; dopo di ciò bisogna trattare la risposta, come e che cosa si debba risolvere e per che uso siano vantaggiose le argomentazioni di questo genere. Sono utili per la filosofia per due ragioni. In primo luogo, dato che per lo più si generano a causa dell’espressione, ci mettono in una migliore condizione al fine di sapere quanti siano i modi in cui ciascuna cosa si dice nonché quali cose risultino nello stesso modo sul piano degli oggetti e su quello delle parole, e quali invece in modo diverso. In secondo luogo, sono utili alle ricerche condotte per conto proprio, giacché colui che senza rendersene conto è facilmente indotto in errore da altri può spesso subire la stessa cosa a causa di se stesso. Inoltre, in terzo e ultimo luogo, il sembrare esercitato su tutto e di nulla inesperto è utile anche per la reputazione. Chi, infatti, prendendo parte alle argomentazioni, le biasima senza dire niente di preciso sul loro difetto, suscita il sospetto di avere un’aria sdegnata non perché ciò che lamenta sia vero, ma perché lui è inesperto. Come, rispondendo, si debbano affrontare siffatte argomentazioni, è manifesto, se prima abbiamo detto correttamente da dove derivano i paralogismi e abbiamo distinto a sufficienza gli abusi che si commettono nell’interrogare. Non è però la stessa cosa vedere e risolvere il vizio quando si chiede ragione ed essere in grado di affrontarlo rapidamente quando si è interrogati, giacché capita spesso di 51

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ka‹ tÚ bradÊteron §k toË gegumnãsyai giÄnetai mçllon, oÏtv ka‹ §p‹ t«n lÒgvn ¶xei, Àste, ín d∞lon m¢n ≤m›n ¬, émel°thtoi dÉ Œmen, ÍsteroËmen t«n kair«n pollãkiw. sumbaiÄnei d° pote kayãper §n to›w diagrãmmasin: ka‹ går §ke› énalÊsantew §niÄote sunye›nai pãlin édunatoËmen: oÏtv ka‹ §n to›w §l°gxoiw, efidÒtew parÉ ˘ ı lÒgow sumbaiÄnei sune›rai, dialËsai tÚn lÒgon époroËmen.

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Pr«ton m¢n oÔn, Àsper sullogiÄzesyaiÄ famen §ndÒjvw pot¢ mçllon μ élhy«w proaire›syai de›n, oÏtv ka‹ lut°on pot¢ mçllon §ndÒjvw μ katå télhy°w. ˜lvw går prÚw toÁw §ristikoÁw maxet°on oÈx …w §l°gxontaw éllÉ …w fainom°nouw: oÈ gãr famen sullogiÄzesyaiÄ ge aÈtoÊw, Àste prÚw tÚ mØ doke›n dioryvt°on. efi gãr §stin ı ¶legxow éntiÄfasiw mØ ım≈numow ¶k tinvn, oÈd¢n ín d°oi diaire›syai prÚw émfiÄbola ka‹ tØn ımvnumiÄan (oÈ går poie› sullogismÒn), éllÉ oÈdenÚw êllou xãrin prosdiairet°on éllÉ μ ˜ti tÚ sump°rasma faiÄnetai §legxoeid°w. oÎkoun tÚ §legxy∞nai éllå tÚ doke›n eÈlabht°on, §pe‹ tÒ gÉ §rvtçn émfiÄbola ka‹ tå parå tØn ımvnumiÄan ˜sai tÉ êllai toiaËtai parakroÊseiw ka‹ tÚn élhyinÚn ¶legxon éfaniÄzei ka‹ tÚn §legxÒmenon ka‹ mØ §legxÒmenon êdhlon poie›. §pe‹ går ¶jestin §p‹ t°lei sumperanam°nou mØ ˜per ¶fhsen épof∞sai l°gein, éllÉ ımvnÊmvw, efi ka‹ ˜ti mãlistÉ ¶tuxen §p‹ taÈtÚ f°rvn, êdhlon efi §lÆlegktai: êdhlon går efi élhy∞ l°gei nËn. efi d¢ dielΔn ≥reto tÚ ım≈numon μ tÚ émfiÄbolon, oÈk ín êdhlow ∑n ı ¶legxow, ˜ tÉ §pizhtoËsi nËn m¢n √tton prÒteron d¢ mçllon ofl §ristikoiÄ, tÚ μ "naiÄ" μ "oÎ" épokriÄnesyai tÚn §rvt≈menon, §giÄnetÉ ên. nËn d¢ diå tÚ mØ kal«w §rvtçn toÁw punyanom°nouw énãgkh prosapokriÄnesyaiÄ ti tÚn §rvt≈menon, dioryoËnta tØn moxyhriÄan t∞w protãsevw: §pe‹ di-

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ignorare ciò che conosciamo, quando si presenta in modo diverso. Inoltre, come nelle altre discipline un grado maggiore di velocità e lentezza dipende soprattutto dall’esercizio, così è anche nelle argomentazioni, sicché, per quanto la questione ci sia chiara, se siamo fuori allenamento, perdiamo spesso l’occasione opportuna. A volte si verifica ciò che accade nelle dimostrazioni geometriche, giacché anche in quelle talora, dopo aver analizzato, siamo incapaci di effettuare la sintesi all’indietro. Così, anche nelle confutazioni, pur sapendo in virtù di che cosa l’argomentazione risulti stare insieme, abbiamo difficoltà a dissolverla.

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CAPITOLO 17 In primo luogo, dunque, così come diciamo che a volte bisogna scegliere di sillogizzare in modo plausibile piuttosto che in modo vero, a volte bisogna anche risolvere piuttosto in modo plausibile che secondo il vero. In generale, infatti, si deve combattere contro gli interlocutori eristici non in quanto confutano, ma in quanto sembrano confutare. Non diciamo infatti che costoro sillogizzano davvero, e perciò bisogna correggere in modo che non appaiano farlo. Se infatti la confutazione è la contraddittoria non omonima a partire da certe premesse, non ci sarà bisogno di distinguere contro le domande anfibole e l’omonimia (giacché queste non producono sillogismo), ma l’aggiunta di una distinzione non è richiesta per nessun altro motivo se non che la conclusione sembra quella di una confutazione. Dunque non si deve cautelarsi dall’essere confutato ma dal sembrarlo, se non altro perché il porre domande anfibole e domande che dipendono dall’omonimia – nonché tutti gli altri siffatti modi di fuorviare – offuscano anche la confutazione reale e rendono oscuro chi sia confutato e chi non lo sia. Poiché, infatti, alla fine, una volta tratta la conclusione, è possibile dire che l’interrogante non ha negato proprio ciò che si era affermato, se non in modo omonimo, per quanto quello in realtà si sia riferito con il massimo scrupolo alla stessa cosa, è oscuro se si sia stati confutati, giacché è oscuro se si dica il vero ora. Se invece l’interrogante avesse interrogato distinguendo ciò che è omonimo e anfibolo, la confutazione non sarebbe stata oscura. E avrebbe potuto aver luogo ciò che ricercano gli eristici, sebbene oggigiorno di meno e prima di più, ossia che l’interrogato risponda con un «sì» o con un «no». Invece, poiché gli interroganti non pongono bene le domande, è necessario che l’interrogato risponda qualcosa in aggiunta, correggendo 53

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elom°nou ge flkan«w μ "naiÄ" μ "oÎ" énãgkh l°gein tÚn épokrinÒmenon. Efi d° tiw ÍpolÆcetai tÚn katå ımvnumiÄan ¶legxon e‰nai, trÒpon tinå oÈk ¶stai diafuge›n tÚ §l°gxesyai tÚn épokrinÒmenon: §p‹ går t«n ırat«n énagka›on ˘ ¶fhsen épof∞sai ˆnoma ka‹ ˘ ép°fhse f∞sai. …w går dioryoËntaiÄ tinew, oÈd¢n ˆfelow. oÈ går KoriÄskon fas‹n e‰nai mousikÚn ka‹ êmouson, éllå toËton tÚn KoriÄskon mousikÚn ka‹ toËton tÚn KoriÄskon êmouson. ı går aÈtÚw ¶stai lÒgow tÚ toËton tÚn KoriÄskon t“ toËton tÚn KoriÄskon êmouson e‰nai (μ mousikÒn), ˜per ëma fhsiÄ te ka‹ épÒfhsin. éllÉ ‡svw oÈ taÈtÚ shmaiÄnei (oÈd¢ går §ke› toÎnoma), Àste tiÄ diaf°rei; efi d¢ t“ m¢n tÚ èpl«w l°gein KoriÄskon épod≈sei, t“ d¢ prosyÆsei tÚ tinå μ tÒnde, êtopon: oÈd¢n går mçllon yat°rƒ: ıpot°rƒ går ín oÈd¢n diaf°rei. OÈ mØn éllÉ §peidØ êdhlow m°n §stin ı mØ diorisãmenow tØn émfiboliÄan pÒteron §lÆlegktai μ oÈk §lÆlegktai, d°dotai dÉ §n to›w lÒgoiw tÚ diele›n, fanerÚn ˜ti tÚ mØ dioriÄsanta doËnai tØn §r≈thsin, éllÉ èpl«w, èmãrthmã §stin, Àste kín efi mØ aÈtÒw, éllÉ ˜ ge lÒgow §lhlegm°nƒ ˜moiÒw §stin. sumbaiÄnei m°ntoi pollãkiw ır«ntaw tØn émfiboliÄan Ùkne›n diaire›syai diå tØn puknÒthta t«n tå toiaËta proteinÒntvn, ˜pvw mØ prÚw ëpan dok«si duskolaiÄnein: e‰tÉ oÈk ín ofihy°ntvn parå toËto gen°syai tÚn lÒgon, pollãkiw épÆnthse parãdojon. ÀstÉ §peidØ d°dotai diaire›n, oÈk Ùknht°on, kayãper §l°xyh prÒteron. Efi d¢ tå dÊo §rvtÆmata mØ ©n §poiÄei tiw §r≈thma, oÈdÉ ín ı parå tØn ımvnumiÄan ka‹ tØn émfiboliÄan §giÄneto paralogismÒw, éllÉ μ ¶legxow μ oÎ. tiÄ går diaf°rei §rvt∞sai efi KalliÄaw ka‹ Yemistokl∞w mousikoiÄ efisin μ efi émfot°roiw ©n ˆnoma ∑n •t°roiw oÔsin; efi går pleiÄv dhlo› •nÒw, pleiÄv ±r≈thsen. efi oÔn mØ ÙryÚn prÚw dÊo §rvtÆseiw miÄan épÒkrisin éjioËn lambãnein èpl«w, fanerÚn ˜ti oÈden‹ prosÆkei t«n ımvnÊmvn épokriÄnesyai èpl«w, oÈdÉ efi katå pãntvn élhy°w, Àsper éjioËsiÄ tinew. oÈd¢n går toËto diaf°rei μ

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il vizio della domanda; tuttavia, una volta fatte le debite distinzioni, è necessario che il rispondente dica «sì» o «no». Se qualcuno riterrà che la confutazione per omonimia sia davvero una confutazione, in certo modo il rispondente non potrà evitare di essere confutato, giacché per le cose visibili è necessario, quanto alla parola, negare ciò che l’interlocutore ha affermato e affermare ciò che ha negato. Il modo in cui correggono alcuni, infatti, non è di alcuna utilità: dicono che non è che Corisco sia educato e ineducato, ma che questo Corisco è educato e questo Corisco è ineducato. La correzione è inutile, giacché il discorso con cui uno dice che questo Corisco è ineducato (o educato) sarà lo stesso di quello con cui dice che questo Corisco lo è, e sarà proprio quello il discorso che egli contemporaneamente afferma e nega. Ma forse non significa la stessa cosa (giacché nemmeno la parola significava la stessa cosa nel caso precedente), sicché che differenza fa? Se poi renderà uno dei significati dicendo semplicemente «Corisco» e l’altro aggiungendo «il tale» o «questo», è assurdo, giacché non c’è ragione di aggiungere all’uno piuttosto che all’altro: qualunque dei due si scelga, non fa alcuna differenza. Ciò nonostante, dato che resta oscuro se chi non ha distinto l’anfibolia sia stato o non sia stato confutato, e che d’altra parte nelle argomentazioni è lecito distinguere, è manifesto che chi concede non distinguendo la domanda, ma con una risposta semplice e netta, commette un errore, cosicché anche se non viene confutato lui stesso, almeno l’argomentazione è simile ad una confutazione. Capita tuttavia spesso che, pur vedendo l’anfibolia, i rispondenti esitino a distinguere, in quanto, per la frequenza delle domande che propongono cose di questo tipo, vogliono evitare di dare l’impressione di fare i difficili su tutto. Poi, non avendo creduto che l’argomentazione potesse originarsi a causa di quello, si trovano ad affrontare qualcosa di inatteso. Perciò, dato che è lecito distinguere, non si deve esitare, come è stato detto prima. Se non esistesse un tipo di domanda che unifica due domande distinte, nemmeno dall’omonimia e dall’anfibolia nascerebbe un paralogismo, ma o una confutazione o nulla, giacché che differenza c’è tra il chiedere se Callia e Temistocle sono educati e il chiederlo se ai due, pur essendo diversi, fosse stato assegnato un solo nome? Se infatti un nome rivela più di una cosa, chi interroga ha posto più domande. Se dunque non è corretto pretendere di ottenere una sola risposta semplice e netta a due domande, è manifesto che non è opportuno dare una risposta semplice e netta riguardo ad alcun termine omonimo, nemmeno se la risposta è vera in tutti i casi, come pretendono alcuni, 55

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efi ≥reto, KoriÄskow ka‹ KalliÄaw pÒteron o‡koi efis‹n μ oÈk o‡koi, e‡te parÒntvn émfo›n e‡te mØ parÒntvn: émfot°rvw går pleiÄouw afl protãseiw: oÈ går efi élhy¢w efipe›n, diå toËto miÄa ≤ §r≈thsiw. §gxvre› går ka‹ muriÄa ßtera §rvthy°nta §rvtÆmata èpl«w μ "naiÄ" μ "oÎ" élhy¢w e‰nai l°gein: éllÉ ˜mvw oÈk épokrit°on miò épokriÄsei: énaire›tai går tÚ dial°gesyai. toËto dÉ ˜moion …w efi ka‹ tÚ aÈtÚ ˆnoma teyeiÄh to›w •t°roiw. efi oÔn mØ de› prÚw dÊo §rvtÆseiw miÄan épÒkrisin didÒnai, fanerÚn ˜ti oÈdÉ §p‹ t«n ımvnÊmvn tÚ "naiÄ" μ "oÎ" lekt°on: oÈd¢ går ı efipΔn épok°kritai, éllÉ e‡rhken. éllÉ éjioËtaiÄ pvw §n to›w dialegom°noiw diå tÚ lanyãnein tÚ sumba›non. ÜVsper oÔn e‡pomen, §peidÆper oÈdÉ ¶legxoiÄ tinew ˆntew dokoËsin e‰nai, katå tÚn aÈtÚn trÒpon ka‹ lÊseiw dÒjousin e‰naiÄ tinew oÈk oÔsai lÊseiw: ìw dÆ famen §niÄote mçllon de›n f°rein μ tåw élhye›w §n to›w égvnistiko›w lÒgoiw ka‹ tª prÚw tÚ dittÚn épantÆsei. épokrit°on dÉ §p‹ m¢n t«n dokoÊntvn tÚ "¶stv" l°gonta: ka‹ går oÏtvw ¥kista giÄnoitÉ ín parej°legxow. ín d° ti parãdojon énagkãzhtai l°gein, §ntaËya mãlista prosyet°on tÚ doke›n: oÏtv går ín oÎtÉ ¶legxow oÎte parãdojon giÄnesyai dÒjeien. §pe‹ d¢ p«w afite›tai tÚ §n érxª d∞lon, o‡ontai d¢ pãntvw ìn ¬ sÊnegguw énairet°on, ka‹ mØ sugxvrht°on e‰nai ¶nia, …w tÚ §n érxª afitoËntow, ˜tan ti toioËton éjio› tiw ˘ énagka›on m¢n sumbaiÄnein §k t∞w y°sevw, ¬ d¢ ceËdow μ êdojon, taÈtÚ lekt°on: tå går §j énãgkhw sumbaiÄnonta t∞w aÈt∞w e‰nai doke› y°sevw. ¶ti ˜tan tÚ kayÒlou mØ ÙnÒmati lhfyª éllå parabolª, lekt°on ˜ti oÈx …w §dÒyh oÈdÉ …w proÎteine lambãnei: ka‹ går parå toËto giÄnetai pollãkiw ¶legxow. ÉEjeirgÒmenon d¢ toÊtvn §p‹ tÚ mØ kal«w dede›xyai poreut°on, épant«nta katå tÚn efirhm°non diorismÒn. ÉEn m¢n oÔn to›w kuriÄvw legom°noiw ÙnÒmasin énãgkh épokriÄnesyai μ èpl«w μ diairoÊmenon. ì d¢ sunuponooËntew

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giacché questo caso non differisce affatto da quello in cui uno chiedesse se Corisco e Callia sono a casa o no, tanto se lo siano entrambi quanto se entrambi non lo siano. In ambedue i casi, infatti, le premesse sono più d’una; non è infatti che se con una risposta semplice e netta si dice il vero, per questo la domanda sia una, giacché è possibile che sia vero rispondere a domande che chiedono infinite cose diverse dicendo semplicemente «sì» o «no», ma ugualmente non bisogna rispondere con una sola risposta, perché in questo modo si distrugge il discutere. E questo caso è simile a quello in cui alle cose diverse sia posto lo stesso nome. Se dunque non si deve fornire una sola risposta a due domande, è manifesto che anche nei casi omonimi non si deve dire «sì» o «no», giacché chi ha detto queste parole non ha risposto ma ha solo parlato. Tuttavia in qualche modo, tra coloro che praticano le discussioni, viene preteso questo tipo di risposta, perché sfugge che cosa ne risulti. Come dunque abbiamo detto, poiché certe confutazioni non essendo tali sembrano esserlo, nella stessa maniera, anche alcune risoluzioni sembreranno risoluzioni senza esserlo, e diciamo che a volte, nelle argomentazioni competitive e per affrontare l’ambiguità, è meglio presentare queste che quelle vere. Quando ciò che è chiesto sembra vero bisogna rispondere «sia così», giacché in questo modo diventa minima la possibilità di una confutazione accessoria. Se poi si sia costretti a enunciare un paradosso, la cosa più opportuna è aggiungere «pare», giacché così non sembrerà aver luogo né una confutazione né un paradosso. Poiché poi è chiaro in che modo viene chiesto ciò che è stato fissato all’inizio, e si ritiene che le cose vicine alla conclusione debbano essere in ogni caso demolite e che alcune non debbano essere ammesse in quanto l’interlocutore sta chiedendo ciò che è stato fissato all’inizio, qualora qualcuno pretenda qualcosa che risulti di necessità dalla tesi e sia falso o implausibile, bisogna dire la stessa cosa, giacché le cose che risultano di necessità dalla tesi sembrano parte della tesi stessa. Inoltre, quando l’universale non venga assunto con un nome ma mediante un paragone, bisogna dire che non viene assunto come era stato concesso e come era stato domandato, giacché spesso la confutazione nasce anche a causa di questo. Quando si sia privi di queste risorse, bisogna cercare di mostrare che la conclusione non è stata provata in modo corretto, affrontando l’argomentazione alla luce della definizione di cui abbiamo parlato. Quando le parole vengono usate nei loro significati propri, è necessario o dare una risposta semplice o fare una distinzione. Quando 57

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tiÄyemen, oÂon ˜sa mØ saf«w éllå kolob«w §rvtçtai, parå toËto sumbaiÄnei ı ¶legxow. oÂon "îrÉ ˘ ín ¬ ÉAyhnaiÄvn kt∞mã §stin ÉAyhnaiÄvn;" "naiÄ." "ımoiÄvw d¢ ka‹ §p‹ t«n êllvn: éllå mØn ı ênyrvpÒw §sti t«n z–vn;" "naiÄ." "kt∞ma êra ı ênyrvpow t«n z–vn." tÚn går ênyrvpon t«n z–vn l°gomen ˜ti z“Òn §sti, ka‹ LÊsandron t«n Lak≈nvn ˜ti Lãkvn. d∞lon oÔn …w §n oÂw ésaf¢w tÚ proteinÒmenon oÈ sugxvrht°on èpl«w. ÜOtan d¢ duo›n ˆntoin yat°rou m¢n ˆntow §j énãgkhw yãteron e‰nai dokª, yat°rou d¢ toËto mØ §j énãgkhw, §rvt≈menon pÒteron, de› tÚ ¶latton didÒnai (xalep≈teron går sullogiÄsasyai §k pleiÒnvn): §ån dÉ §pixeirª ˜ti t“ m¢n ¶stin §nantiÄon t“ dÉ oÈk ¶stin, ín ı lÒgow élhyØw ¬, §nantiÄon fãnai, ˆnoma d¢ mØ ke›syai toË •t°rou. ÉEpe‹ dÉ ¶nia m¢n œn l°gousin ofl pollo‹ tÚn mØ sugxvroËnta ceÊdesyai ín fa›en ¶nia dÉ oÎ, oÂon ˜sa émfidojoËsin (pÒteron går fyartØ μ éyãnatow ≤ cuxØ t«n z–vn, oÈ di≈ristai to›w pollo›w)^§n oÂw oÔn êdhlon pot°rvw e‡vye l°gesyai tÚ proteinÒmenon, pÒteron …w afl gn«mai (kaloËsi går gn≈maw ka‹ tåw élhye›w dÒjaw ka‹ tåw ˜law épofãnseiw) μ …w "≤ diãmetrow ésÊmmetrÒw §sti", o tÚ élhy¢w émfidoje›tai, mãlista metaf°rvn ên tiw lanyãnoi tå ÙnÒmata per‹ toÊtvn. diå m¢n går tÚ êdhlon e‰nai pot°rvw ¶xei télhy°w, oÈ dÒjei sofiÄzesyai, diå d¢ tÚ émfidoje›n oÈ dÒjei ceÊdesyai: ≤ går metaforå poiÆsei tÚn lÒgon énej°legkton. ÖEti ˜sa ên tiw proaisyãnhtai t«n §rvthmãtvn, proenstat°on ka‹ proagoreut°on: oÏtv går ín mãlista tÚn punyanÒmenon kvlÊseien.

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ÉEpe‹ dÉ §st‹n ≤ m¢n ÙryØ lÊsiw §mfãnisiw ceudoËw sullogismoË, parÉ ıpoiÄan §r≈thsin sumbaiÄnei tÚ ceËdow, ı d¢ ceudØw sullogismÚw l°getai dix«w (μ går efi sullelÒgistai ceËdow, μ efi mØ Ãn sullogismÚw doke› e‰nai sullogismÒw), e‡h ín ¥ te efirhm°nh nËn lÊsiw ka‹ ≤ toË faino-

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invece poniamo certe cose sottintendendo, come quelle che non vengono chieste chiaramente ma in modo incompleto, è da questo che la confutazione dipende. Per esempio: «Ciò che è degli ateniesi è possesso degli ateniesi?» «Sì.» «E così negli altri casi. Ma l’uomo non è degli animali?» «Sì.» «Dunque l’uomo è possesso degli animali». Diciamo infatti che l’uomo è degli animali perché è un animale e che Lisandro è degli spartani perché è spartano, e perciò è chiaro che nei casi in cui è oscuro che cosa venga richiesto non si deve ammetterlo in modo semplice e netto. Quando di due cose, essendo l’una, si ritiene che di necessità sia anche l’altra, ma essendo quest’ultima la prima non sia di necessità, se è stato chiesto quale delle due, si deve concedere quella meno ampia (perché è più difficile sillogizzare da più cose). Se poi l’attacco concluda che una cosa ha un contrario e l’altra no, nel caso in cui questa argomentazione sia vera, bisogna asserire che il contrario dell’altra esiste, ma che non gli è stato posto un nome. Poiché riguardo ad alcune delle cose che asseriscono i molti si può dire che chi non le ammette dice il falso, mentre riguardo ad altre no, come quelle su cui costoro sono in dubbio (giacché se l’anima degli animali sia corruttibile o immortale non è determinato dai molti), ebbene, nei casi in cui non sia chiaro in quale dei due seguenti modi si sia soliti esprimere ciò che è proposto, se come le massime (giacché chiamano massime anche le opinioni vere e le asserzioni universali) oppure come «la diagonale è incommensurabile», sulla cui verità si è in dubbio, uno ha la massima opportunità, riguardo a questi casi, di usare le parole in modo metaforico senza farsene accorgere, giacché, per il fatto che è oscuro in quale dei due modi stia il vero, egli non sembrerà fare il sofista, mentre per il fatto che si dubita, non sembrerà dire il falso: la metafora renderà l’argomentazione inconfutabile. Inoltre il rispondente deve obiettare in anticipo e preannunciare tutte le domande che prevede. Così creerà il massimo ostacolo a chi interroga.

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CAPITOLO 18 Poiché da un lato la corretta risoluzione è la manifestazione del sillogismo falso che avviene mostrando a causa di quale domanda consegua il falso, e dall’altro il sillogismo si dice «falso» in due modi – se ha sillogizzato il falso oppure se, non essendo un sillogismo, sembra esserlo – la risoluzione appena menzionata può essere anche la corre59

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m°nou sullogismoË parÉ ˜ ti faiÄnetai t«n §rvthmãtvn diÒryvsiw, Àste sumbaiÄnei t«n lÒgvn toÁw m¢n sullelogism°nouw énelÒnta, toÁw d¢ fainom°nouw dielÒnta lÊein. pãlin dÉ §pe‹ t«n sullelogism°nvn lÒgvn ofl m¢n élhy¢w ofl d¢ ceËdow ¶xousi tÚ sump°rasma, toÁw m¢n katå tÚ sump°rasma ceude›w dix«w §nd°xetai lÊein: ka‹ går t“ énele›n ti t«n ±rvthm°nvn ka‹ t“ de›jai tÚ sump°rasma ¶xon oÈx oÏtvw: toÁw d¢ katå tåw protãseiw t“ énele›n ti mÒnon: tÚ går sump°rasma élhy°w. Àste to›w boulom°noiw lÊein lÒgon pr«ton m¢n skept°on efi sullelÒgistai μ ésullÒgistow, e‰ta pÒteron élhy¢w tÚ sump°rasma μ ceËdow, ˜pvw μ diairoËntew μ énairoËntew lÊvmen, ka‹ énairoËntew μ œde μ œde, kayãper §l°xyh prÒteron. diaf°rei d¢ ple›ston §rvt≈menÒn te ka‹ mØ lÊein lÒgon: tÚ m¢n går proÛde›n xalepÒn, tÚ d¢ katå sxolØn fide›n =òon.

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T«n m¢n oÔn parå tØn ımvnumiÄan ka‹ tØn émfiboliÄan §l°gxvn ofl m¢n ¶xousi t«n §rvthmãtvn ti pleiÄv shma›non, ofl d¢ tÚ sump°rasma pollax«w legÒmenon: oÂon §n m¢n t“ "sig«nta l°gein" tÚ sump°rasma dittÒn, §n d¢ t“ "mØ sunepiÄstasyai tÚn §pistãmenon" ©n t«n §rvthmãtvn émfiÄbolon. ka‹ tÚ dittÚn ıt¢ m¢n ¶stin ıt¢ dÉ oÈk ¶stin, éllå shmaiÄnei tÚ dittÚn tÚ m¢n ¯n tÚ dÉ oÈk ˆn. ÜOsoiw m¢n oÔn §n t“ t°lei tÚ pollax«w, ín mØ proslãb˙ tØn éntiÄfasin oÈ giÄnetai ¶legxow, oÂon §n t“ tÚn tuflÚn ırçn: êneu går éntifãsevw oÈk ∑n ¶legxow. ˜soiw dÉ §n to›w §rvtÆmasin, oÈk énãgkh proapof∞sai tÚ dittÒn: oÈ går prÚw toËto éllå diå toËto ı lÒgow. §n érxª m¢n oÔn prÚw tÚ diploËn ka‹ ˆnoma ka‹ lÒgon oÏtvw épokrit°on, ˜ti ¶stin …w, ¶sti dÉ …w oÎ, Àsper tÚ sig«nta l°gein ˜ti ¶stin …w, ¶sti dÉ …w oÎ, ka‹ tå d°onta prakt°on ¶stin ë, ¶sti dÉ ì oÎ: tå går d°onta l°getai pollax«w: §ån d¢ lãy˙, §p‹ t°lei prostiy°nta tª §rvtÆsei dioryvt°on: "¶stin êra sig«nta l°-

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zione del sillogismo apparente che manifesta quale tra le domande sia la causa della sua apparenza e, di conseguenza, risulta che le argomentazioni sillogizzate si risolvono demolendo, quelle apparenti distinguendo. Di nuovo, poiché delle argomentazioni sillogizzate, le une hanno la conclusione vera, le altre hanno la conclusione falsa, quelle con la conclusione falsa possono essere risolte in due modi: demolendo una delle cose domandate o mostrando che la conclusione non sta così. Quelle invece con le premesse false, possono essere risolte solo demolendo qualcosa, giacché la conclusione è vera. Di conseguenza, coloro che vogliono risolvere un’argomentazione devono in primo luogo indagare se sia sillogizzata o se sia asillogistica. Poi bisogna esaminare se la conclusione sia vera o falsa, così da risolvere o distinguendo o demolendo, e demolendo o in questo o in quest’altro modo, come si è detto prima. Differisce massimamente risolvere un’argomentazione quando si è interrogato e quando no, giacché il vedere in anticipo è difficile, mentre vedere con calma è più facile.

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CAPITOLO 19 Delle confutazioni che dipendono dall’omonimia e dall’anfibolia le une hanno qualche domanda che significa più cose, le altre hanno la conclusione che si dice in molti modi. Per esempio nell’argomentazione del «che dica colui che tace» la conclusione è ambigua. Nell’argomentazione invece del «comprende colui che conosce» una delle domande è anfibola. E il termine ambiguo in certi casi è vero e in altri non lo è, ma significa una cosa che è vera e una che non lo è. Nelle argomentazioni che hanno il molteplice nella conclusione, non ha luogo una confutazione se non si assume in aggiunta la contraddittoria, come in quella del «che vede il cieco», giacché, come si è detto, senza contraddittoria non c’è confutazione. In quelle che invece hanno il molteplice nelle domande, non è necessario negare in anticipo il termine ambiguo, giacché l’argomentazione non è contro questo ma in virtù di questo. Pertanto, contro la parola e la locuzione duplici, all’inizio bisogna rispondere così: che in un certo senso è e in un certo senso non è, come per esempio che10 in un senso è possibile che dica colui che tace e in un senso no; e le cose che devono essere, certe sono da compiere, altre no, giacché «le cose che devono essere» si dice in molti modi. Se invece l’ambiguità sfugge all’attenzione, bisogna correggere alla fine aggiungendo una precisazione alla domanda: «È dunque11 pos61

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gein;", "oÎ, éllå tÒnde sig«nta". ka‹ §n to›w ¶xousi d¢ tÚ pleonax«w §n ta›w protãsesin ımoiÄvw: "oÈk êra sunepiÄstantai ˜ ti §piÄstantai;", "naiÄ, éllÉ oÈx ofl oÏtvw §pistãmenoi". oÈ går taÈtÒn §stin ˜ti oÈk ¶sti sunepiÄstasyai ka‹ ˜ti toÁw …d‹ §pistam°nouw oÈk ¶stin. ˜lvw te maxet°on, ín ka‹ èpl«w sullogiÄzhtai, ˜ti oÈx ˘ ¶fhsen ép°fhse prçgma éllÉ ˆnoma, ÀstÉ oÈk ¶legxow.

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FanerÚn d¢ ka‹ toÁw parå tØn diaiÄresin ka‹ sÊnyesin p«w lut°on: ín går diairoÊmenow ka‹ suntiy°menow ı lÒgow ßteron shmaiÄn˙, sumperainom°nou toÈnantiÄon lekt°on. efis‹ d¢ pãntew ofl toioËtoi lÒgoi parå tØn sÊnyesin μ diaiÄresin: "îrÉ ⁄ e‰dew sÁ toËton tuptÒmenon, toÊtƒ §tÊpteto otow; ka‹ ⁄ §tÊpteto, toÊtƒ sÁ e‰dew;". ¶xei m¢n oÔn ti kék t«n émfibÒlvn §rvthmãtvn, éllÉ ¶sti parå sÊnyesin. oÈ gãr §sti dittÚn tÚ parå tØn diaiÄresin: oÈ går ı aÈtÚw lÒgow giÄnetai, diairoÊmenow, e‡per mØ ka‹ tÚ "ˆrow", [ka‹] "ÙrÒw" tª prosƒdiÄ& lexy°n, shmaiÄnei ßteron. éllÉ §n m¢n to›w gegramm°noiw tÚ aÈtÚ ˆnoma, ˜tan §k t«n aÈt«n stoixeiÄvn gegramm°non ¬ ka‹ …saÊtvw (kéke› dÉ ≥dh parãshma poioËntai), tå d¢ fyeggÒmena oÈ taÈtã. ÀstÉ oÈ dittÚn tÚ parå diaiÄresin. fanerÚn d¢ ka‹ ˜ti oÈ pãntew ofl ¶legxoi parå tÚ dittÒn, kayãper tin°w fasin. Diairet°on oÔn t“ épokrinom°nƒ: oÈ går taÈtÚ fide›n "to›w Ùfyalmo›w tuptÒmenon" ka‹ tÚ fãnai "fide›n to›w Ùfyalmo›w" tuptÒmenon. ka‹ ı EÈyudÆmou d¢ lÒgow "îrÉ o‰daw sÁ nËn Ö n;" ka‹ pãlin "îrÉ oÎsaw §n Peiraie› triÆreiw §n SikeliÄ& v ¶stin égayÚn ˆnta skut°a moxyhrÚn e‰nai; e‡h dÉ ên tiw égayÚw Ãn skuteÁw moxyhrÒw: ÀstÉ ¶stai égayÚw skuteÁw moxyhrÒw". "îrÉ œn afl §pist∞mai spouda›ai, spouda›a tå mayÆmata; toË d¢ kakoË spoudaiÄa ≤ §pistÆmh: spouda›on êra mãyhma tÚ kakÒn. éllå mØn ka‹ kakÚn ka‹ mãyhma tÚ kakÒn, Àste

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sibile che dica colui che tace?» «No, ma è possibile se si intende “colui che tace” in questo senso». E ugualmente in quelle argomentazioni che hanno il molteplice nelle premesse: «Non è vero dunque che comprendono coloro che conoscono?» «Sì, ma non quelli che conoscono in questo modo», giacché non è lo stesso non poter comprendere, e non poter comprendere da parte di persone che conoscono in questo modo. In generale, anche se in assoluto vi sia sillogismo, bisogna contestare che non è stato negato l’oggetto affermato, ma la parola, sicché non è una confutazione.

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CAPITOLO 20 È manifesto anche come si debbano risolvere le argomentazioni che dipendono dalla divisione e dalla composizione, giacché se la locuzione significa cose diverse divisa e composta, bisogna dire il contrario una volta tratta la conclusione. Tutte le argomentazioni siffatte dipendono dalla composizione o dalla divisione: «Ciò con cui tu hai visto che costui è stato colpito, è con questo che è stato colpito?» e «Ciò con cui è stato colpito, è con questo che lo hai visto colpito?» Questo tipo di domanda ha anche qualcosa delle domande anfibole, e tuttavia dipende dalla composizione. La domanda che dipende dalla divisione, infatti, non è ambigua, giacché, una volta diviso, il discorso non è lo stesso, se non come anche la parola òros [= monte], pronunciata oròs12 [= siero] in base all’accento, significa un’altra cosa. Ma negli scritti la parola è la stessa quando è scritta con le stesse lettere e nello stesso modo (e anche in quelli ora si fa un segno accanto), mentre i suoni non sono gli stessi. Di conseguenza la domanda che dipende dalla divisione non è ambigua. È anche manifesto che non tutte le confutazioni dipendono dall’ambiguità, come invece sostengono alcuni. Il rispondente deve dunque distinguere, giacché non è lo stesso vedere-con-i-propri-occhi uno colpito e l’affermare di vedere uno colpito-con-i-propri-occhi. E c’è anche l’argomentazione di Eutidemo: «Sai tu ora, essendo in Sicilia, che ci sono triremi al Pireo?». E ancora: «È possibile che un buono sia un cattivo calzolaio? Uno che è buono potrà essere un cattivo calzolaio, sicché sarà un buon calzolaio cattivo». «Gli oggetti delle conoscenze buone sono buoni? La conoscenza del male è buona, dunque il male è un buon oggetto di conoscenza. D’altra parte il male è cattivo ed è oggetto di conoscenza, dun63

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kakÚn mãyhma tÚ kakÒn. éllÉ ¶sti kak«n spoudaiÄa ≤ §pistÆmh." "îrÉ élhy¢w efipe›n nËn ˜ti sÁ g°gonaw; g°gonaw êra nËn." μ êllo shmaiÄnei diairey°n; élhy¢w går efipe›n nËn ˜ti sÁ g°gonaw, éllÉ oÈ "nËn g°gonaw". "îrÉ …w dÊnasai ka‹ ì dÊnasai, oÏtvw ka‹ taËta poiÆsaiw ên; oÈ kiyariÄzvn dÉ ¶xeiw dÊnamin toË kiyariÄzein: kiyariÄsaiw ín êra oÈ kiyariÄzvn." μ oÈ toÊtou ¶xei tØn dÊnamin, toË oÈ kiyariÄzvn kiyariÄzein, éllÉ, ˜te oÈ poie›, toË poie›n. LÊousi d° tinew toËton ka‹ êllvw. efi går ¶dvken …w dÊnatai poie›n, oÎ fasi sumbaiÄnein mØ kiyariÄzonta kiyariÄzein: oÈ går pãntvw …w dÊnatai poie›n dedÒsyai poiÆsein: oÈ taÈtÚ dÉ e‰nai …w dÊnatai ka‹ pãntvw …w dÊnatai poie›n. éllå fanerÚn ˜ti oÈ kal«w lÊousin: t«n går parå taÈtÚn lÒgvn ≤ aÈtØ lÊsiw, aÏth dÉ oÈx èrmÒsei §p‹ pãntaw oÈd¢ pãntvw §rvtvm°noiw, éllÉ ¶sti prÚw tÚn §rvt«nta, oÈ prÚw tÚn lÒgon.

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Parå d¢ tØn prosƒdiÄan lÒgoi m¢n oÈk efisiÄn, oÎte t«n gegramm°nvn oÎte t«n legom°nvn, plØn e‡ tinew ÙliÄgoi g°nointÉ ên, oÂon otow ı lÒgow: "îrã gÉ §st‹ tÚ o katalÊeiw ofikiÄa;" "naiÄ." "oÈkoËn tÚ ÑoÈ katalÊeiw' toË ÑkatalÊeiw' épÒfasiw;" "naiÄ." "¶fhsaw dÉ e‰nai tÚ o katalÊeiw ofikiÄan: ≤ ofikiÄa êra épÒfasiw. " …w dØ lut°on, d∞lon: oÈ går tÚ aÈtÚ shmaiÄnei ÙjÊteron tÚ d¢ barÊteron =hy°n.

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D∞lon d¢ ka‹ to›w parå tÚ …saÊtvw l°gesyai tå mØ taÈtå p«w épantht°on, §peiÄper ¶xomen tå g°nh t«n kathgori«n. ı m¢n går ¶dvken §rvthye‹w mØ Ípãrxein ti toÊtvn ˜sa tiÄ §sti shmaiÄnei: ı dÉ ¶deijen Ípãrxon ti t«n prÒw ti μ pos«n, dokoÊntvn d¢ tiÄ §sti shmaiÄnein diå tØn l°jin. oÂon §n t“de t“ lÒgƒ: "îrÉ §nd°xetai tÚ aÈtÚ ëma poie›n te ka‹ pepoihk°nai;" "oÎ." "éllå mØn ırçn g° ti ëma ka‹

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que il male è un cattivo oggetto di conoscenza. Ma la conoscenza dei mali è buona». «È vero dire ora che tu sei nato? Dunque sei nato ora». O forse diviso significa un’altra cosa, giacché è vero dire ora che tu sei nato, ma non che sei nato ora. «Le cose che sei capace di fare nel modo in cui sei capace di farle, le farai così come sei capace? Mentre non la suoni, hai la capacità di suonare la cetra; dunque suonerai la cetra mentre non la suoni». O forse non è di questo che ha la capacita, cioè di suonare la cetra mentre non la suona, ma quando non lo fa ha la capacità di farlo. Alcuni risolvono questa argomentazione anche in altro modo. Se infatti ha concesso che lo fa come è capace, dicono che non consegue che suoni la cetra mentre non la suona, giacché non ha concesso che lo farà in tutti i modi in cui è capace e dicono che non è lo stesso farlo nel modo in cui si è capace e in tutti i modi in cui si è capace. Ma è manifesto che non parlano correttamente, perché la risoluzione delle argomentazioni che dipendono dalla stessa cosa è la stessa, mentre questa risoluzione non si adatterà a tutte le argomentazioni, e nemmeno a tutti i modi in cui possono essere domandate, ma è contro l’interrogante, non contro l’argomentazione.

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CAPITOLO 21 Argomentazioni che dipendano dall’accento non ce ne sono, né scritte né parlate, a parte qualche rara che potrebbe darsi, come per esempio questa argomentazione: «Non è ciò dove alloggi [hou katalueis] la casa?» «Sì.» «Ma “non alloggi” [ou katalueis] è la negazione di “alloggi”?» «Sì.» «Hai detto che ciò dove alloggi è la casa, dunque la casa è una negazione». È chiaro come si debba risolverla, giàcché non significa lo stesso pronunciato più acuto o più grave.

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CAPITOLO 22 Poiché conosciamo i generi delle predicazioni, è chiaro anche come dobbiamo affrontare i paralogismi che dipendono dal fatto che le cose che non sono le stesse vengano dette nello stesso modo. L’uno infatti ha concesso, interrogatovi, che non convenga alcuno di questi che significano che cos’è. L’altro ha mostrato che conviene qualche relativo a qualcosa o qualche quantità che sembrano significare che cos’è in virtù dell’espressione13. Per esempio in questa argomentazione: «È possibile fare e avere fatto la stessa cosa simultaneamente?» «No». 65

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•vrak°nai tÚ aÈtÚ ka‹ katå taÈtÚ §nd°xetai." "îrÉ ¶sti ti t«n pãsxein poie›n ti;" "oÎ." "oÈkoËn tÚ t°mnetai kaiÄetai afisyãnetai ımoiÄvw l°getai ka‹ pãnta pãsxein ti shmaiÄnei; pãlin d¢ tÚ l°gein tr°xein ırçn ımoiÄvw éllÆloiw l°getai: éllå mØn tÒ gÉ ırçn afisyãnesyaiÄ tiÄ §stin, Àste ka‹ pãsxein ti ëma ka‹ poie›n." efi dÆ tiw §ke›, doÁw mØ §nd°xesyai ëma taÈtÚ poie›n ka‹ pepoihk°nai, tÚ ırçn ka‹ •vrak°nai faiÄh §gxvre›n, oÎpv §lÆlegktai, efi mØ l°goi tÚ ırçn poie›n ti éllå pãsxein: prosde›tai går toÊtou toË §rvtÆmatow. éllÉ ÍpÚ toË ékoÊontow Ípolambãnetai dedvk°nai, ˜te tÚ t°mnein poie›n ti ka‹ tÚ tetmhk°nai pepoihk°nai ¶dvke ka‹ ˜sa êlla ımoiÄvw l°getai: tÚ går loipÚn aÈtÚw prostiÄyhsin ı ékoÊvn …w ımoiÄvw legÒmenon. tÚ d¢ l°getai m¢n oÈx ımoiÄvw, faiÄnetai d¢ diå tØn l°jin. tÚ aÈtÚ d¢ sumbaiÄnei ˜per §n ta›w ımvnumiÄaiw: o‡etai går §n to›w ımvn moiw ı égnΔw t«n lÒgvn ˘ ¶fhsen épof∞sai prçgma, oÈk ˆnoma. t“ d¢ ¶ti prosde› §rvtÆmatow efi §fÉ ©n bl°pvn l°gei tÚ ım≈numon: oÏtvw går dÒntow ¶stai ¶legxow. ÜOmoioi d¢ ka‹ o·de ofl lÒgoi toÊtoiw, efi ˜ tiw ¶xvn Ïsteron mØ ¶xei, ép°balen: ı går ßna mÒnon épobalΔn éstrãgalon oÈx ßjei d°ka éstragãlouw. μ ˘ m¢n mØ ¶xei prÒteron ¶xvn, épob°blhken, ˜son d¢ mØ ¶xei μ ˜sa, oÈk énãgkh tosaËta épobale›n; §rvtÆsaw oÔn ˘ ¶xei, sunãgei §p‹ toË ˜sa: tå går d°ka posã. efi oÔn ≥reto §j érx∞w, [efi] "˜sa tiw mØ ¶xei prÒteron ¶xvn, îrã ge épob°blhke tosaËta;", oÈde‹w ín ¶dvken, éllÉ μ tosaËta μ toÊtvn ti. ka‹ ˜ti doiÄh ên tiw ˘ mØ ¶xei: oÈ går ¶xei ßna mÒnon éstrãgalon. μ oÈ d°dvken ˘ oÈk e‰xen, éllÉ …w oÈk e‰xe, tÚn ßna: tÚ går mÒnon oÈ tÒde shmaiÄnei oÈd¢ toiÒnde oÈd¢ tosÒnde, éllÉ …w ¶xei prÒw ti, oÂon ˜ti oÈ metÉ êllou, Àsper ín efi ≥reto "îrÉ ˘ mÆ tiw ¶xei doiÄh ên;", mØ fãntow d¢ ¶roito efi doiÄh ên tiÄw ti tax°vw mØ ¶xvn tax°vw, fÆsantow d¢ sullogiÄzoito ˜ti doiÄh ên tiw ˘ mØ ¶xei. ka‹ fanerÚn ˜ti oÈ sullelÒgi-

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«Ma è possibile vedere qualcosa e avere visto nello stesso tempo la stessa cosa sotto lo stesso rispetto». «È qualche patire un fare?» «No.» «E dunque “è tagliato” [temnetai], “è bruciato” [kaietai] “percepisce” [aisthanetai] si dicono nello stesso modo e significano tutti un patire? E di nuovo “dire”, “correre”, “vedere” si dicono in modo simile tra loro. Ma il vedere è un percepire, cosicché è nello stesso tempo un patire e un fare». Se qualcuno, nella prima argomentazione, mentre concede che non è possibile fare e avere fatto simultaneamente la stessa cosa, dice che è possibile vedere e avere visto, non è stato ancora confutato, se non dice che il vedere è un fare, ma un patire, giacché c’è bisogno in aggiunta di questa domanda. Ma l’ascoltatore pensa che ciò sia stato concesso quando il rispondente abbia concesso che il tagliare sia un fare e l’aver tagliato un avere fatto e che tali siano tutti gli altri che si dicono nello stesso modo. Il caso mancante, infatti, lo aggiunge l’ascoltatore stesso come detto nello stesso modo. Quello però non è detto nello stesso modo, ma sembra esserlo a causa dell’espressione. Proprio lo stesso accade nelle omonimie. L’inesperto di argomentazioni crede che in quelle omonime sia negato l’oggetto che era stato affermato, non la sola parola. Ma a costui si deve in aggiunta la domanda se dica il termine omonimo guardando a un solo significato, giacché, se è in questo modo che lo concede, vi sarà confutazione. Simili a queste sono poi queste altre argomentazioni. Si chiede se uno abbia perduto ciò che prima aveva e poi non ha più, giacché perdendo un solo astragalo non avrà più dieci astragali. O forse ciò che uno non ha più e prima aveva, lo ha perduto, mentre la quantità che uno non ha più, o tutte quante le cose che uno non ha più14, non è necessario che altrettante ne abbia perdute. Avendo dunque chiesto su ciò che uno ha, l’interrogante conclude su quante cose ha, giacché dieci è una quantità. Se dunque avesse chiesto da principio: «Forse che chi non ha tutte quante le cose che aveva prima, ne ha perdute altrettante?», nessuno lo avrebbe concesso, ma chiunque avrebbe affermato che ne ha perdute o altrettante o qualcuna di esse. Simile è anche l’argomentazione che conclude che uno può dare ciò che non ha, giacché non ha un solo astragalo. O forse non ha dato ciò che non aveva ma nel modo in cui non aveva, cioè come unico. Il «solo», infatti, non significa che è questo né che è di questa sorta né che è di questa quantità, ma in che modo è in relazione a qualcosa, per esempio che non è insieme a qualcos’altro. È come il caso in cui l’interrogante chiedesse «Forse che qualcuno può dare ciò che non ha?» e, visto che il rispondente dice di no, gli chiedesse poi se qualcuno può dare veloce67

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stai: tÚ går tax°vw oÈ tÒde didÒnai éllÉ œde didÒnai §stiÄn: …w d¢ mØ ¶xei tiw, doiÄh ên, oÂon ≤d°vw ¶xvn doiÄh ín luphr«w. ÜOmoioi d¢ ka‹ ofl toioiÄde pãntew: "îrÉ √ mØ ¶xei xeir‹ tÊptoi ên", μ "⁄ mØ ¶xei Ùfyalm“ ‡doi ên;" oÈ går ¶xei ßna mÒnon. lÊousi m¢n oÔn tinew l°gontew …w ka‹ ¶xei ßna mÒnon ka‹ ÙfyalmÚn ka‹ êllÉ ıtioËn ı pleiÄv ¶xvn: ofl d¢ …w ka‹ ˘ ¶xei ¶laben: §diÄdou går miÄan mÒnon otow c∞fon: "ka‹ otÒw gÉ ¶xei", fasiÄ, "miÄan mÒnon parå toÊtou c∞fon": ofl d°, eÈyÁw tØn §r≈thsin énairoËntew, ˜ti §nd°xetai ˘ mØ ¶laben ¶xein, oÂon o‰non labÒnta ≤dÊn, diafyar°ntow §n tª lÆcei ¶xein ÙjÊn. éllÉ ˜per §l°xyh ka‹ prÒteron, otoi pãntew oÈ prÚw tÚn lÒgon éllå prÚw tÚn ênyrvpon lÊousin. efi går ∑n aÏth lÊsiw, dÒnta tÚ éntikeiÄmenon oÈx oÂÒn te lÊein, kayãper §p‹ t«n êllvn. oÂon efi "¶sti m¢n ˜, ¶sti dÉ ˘ oÎ" ≤ lÊsiw, ín èpl«w d“ l°gesyai, sumperaiÄnetai: §ån d¢ mØ sumperaiÄnhtai, oÈk ín e‡h lÊsiw. §n d¢ to›w proeirhm°noiw oÈd¢ pãntvn didom°nvn fam¢n giÄnesyai sullogismÒn. ÖEti d¢ ka‹ o·dÉ efis‹ toÊtvn t«n lÒgvn: "îrÉ ˘ g°graptai, g°graf° tiw; g°graptai d¢ nËn ˜ti sÁ kãyhsai, ceudØw lÒgow: ∑n dÉ élhyÆw, ˜tÉ §grãfeto: ëma êra §grãfeto ceudØw ka‹ élhyÆw. " tÚ går ceud∞ μ élhy∞ lÒgon μ dÒjan e‰nai oÈ tÒde éllå toiÒnde shmaiÄnei: ı går aÈtÚw lÒgow ka‹ §p‹ t∞w dÒjhw. ka‹ "îrÉ ˘ manyãnei ı manyãnvn, toËtÉ ¶stin ˘ manyãnei; manyãnei d° tiw tÚ bradÁ taxÊ." oÈ toiÄnun ˘ manyãnei éllÉ …w manyãnei e‡rhken. ka‹ "îrÉ ˘ badiÄzei tiw pate›; badiÄzei d¢ tØn ≤m°ran ˜lhn." μ oÈx ˘ badiÄzei éllÉ ˜te badiÄzei e‡rhken, oÈd¢ tÚ tØn kÊlika piÄnein ˘ piÄnei éllÉ §j o. ka‹ "îrÉ ˜ tiw o‰den, μ mayΔn μ eÍrΔn o‰den; œn d¢ tÚ m¢n ere tÚ dÉ ¶maye, tå êmfv oÈd°teron." μ ˘ m¢n ëpan, ì dÉ oÈx ëpanta; ka‹ ˜ti ¶sti tiw triÄtow ênyrvpow parÉ aÈtÚn ka‹ toÁw kayÉ ßkaston: tÚ går ênyrvpow

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mente ciò che non ha velocemente, e, poiché l’interlocutore lo ammette, sillogizzasse che uno può dare ciò che non ha. Ma è manifesto che non ha sillogizzato, perché il dare velocemente non è dare questo, ma dare in questo modo, e uno può dare come non ha; per esempio dare con dolore ciò che ha piacevolmente. Simili sono anche tutte queste argomentazioni. «Può uno colpire con la mano che non ha?» o «vedere con l’occhio che non ha?». Infatti non ne ha uno solo. Alcuni risolvono dicendo che chi ha più di un occhio, o di quel che sia, ha anche un occhio solo; altri risolvono dicendo che anche ciò che qualcuno ha lo ha preso, giacché costui ha dato solo un sassolino e quest’altro, dicono, ha solo un sassolino da costui; altri ancora, demolendo direttamente la domanda, dicono che è possibile avere ciò che non si è preso; per esempio, che avendo preso del vino dolce guastatosi mentre lo prendeva, uno abbia del vino acido. Ma, come si è detto anche prima, tutti costoro non risolvono rivolgendosi all’argomentazione, ma all’uomo, perché se questa fosse una risoluzione valida, ove il rispondente concedesse l’opposto, non sarebbe possibile risolvere, come accade negli altri casi. Per esempio, ponendo che la risoluzione consista nel dire che un caso è mentre un altro non è, se l’interlocutore concedesse che si dice in tutti i casi, l’argomentazione concluderebbe. Se invece l’argomentazione non concludesse, quella non sarebbe la risoluzione. Nelle argomentazioni suddette non diciamo che si forma un sillogismo nemmeno dopo che tutto è stato concesso. Fanno parte di questo tipo di argomentazioni anche le seguenti. «Ciò che è scritto, qualcuno lo ha scritto? Ora c’è scritto che tu sei seduto, che è un discorso falso, ma era vero quando fu scritto. Fu dunque scritto al contempo un discorso falso e vero». Infatti, che ci sia un discorso falso o vero, o un’opinione falsa o vera (giacché la stessa argomentazione c’è anche con l’opinione) non significa questo ma di che sorta. E «Ciò che impara chi sta imparando, è questo ciò che impara? Qualcuno però impara ciò che è lento veloce». Ma allora non ha detto ciò che impara, ma come impara. E «Ciò che uno percorre camminando [badizei], lo calpesta? Ma cammina [badizei] tutto li giorno». O forse non ha detto ciò che percorre camminando [badizei], ma quando cammina [badizei]; né «bere il calice» significa ciò che beve, ma ciò da cui beve. E «Ciò che uno sa, lo sa o avendolo imparato o avendolo scoperto?». Ma quelle cose che ha l’una scoperto e l’altra imparato, entrambe prese insieme non sono state né scoperte né imparate. O forse ciò che sa è tutto , mentre le cose che sa non sono tutte. E che c’è un terzo uomo oltre all’uomo 69

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ka‹ ëpan tÚ koinÚn oÈ tÒde ti éllå toiÒnde ti μ prÒw ti pvw μ t«n toioÊtvn ti shmaiÄnei. ımoiÄvw d¢ ka‹ §p‹ toË KoriÄskow ka‹ KoriÄskow mousikÒw, pÒteron taÈtÚn μ ßteron; tÚ m¢n går tÒde ti, tÚ d¢ toiÒnde shmaiÄnei, ÀstÉ oÈk ¶stin aÈtÚ §ky°syai. oÈ tÚ §ktiÄyesyai d¢ poie› tÚn triÄton ênyrvpon, éllå tÚ ˜per tÒde ti e‰nai sugxvre›n: oÈ går ¶sti tÒde ti e‰nai, Àsper KalliÄaw, ka‹ ˜per ênyrvpÒw §stin. oÈdÉ e‡ tiw tÚ §ktiy°menon mØ ˜per tÒde ti e‰nai l°goi éllÉ ˜per poiÒn, oÈd¢n dioiÄsei: ¶stai går tÚ parå toÁw polloÁw ßn ti, oÂon tÚ ênyrvpow. fanerÚn oÔn ˜ti oÈ dot°on tÒde ti e‰nai tÚ koinª kathgoroÊmenon §p‹ pçsin, éllÉ ≥toi poiÚn μ prÒw ti μ posÚn μ t«n toioÊtvn ti shmaiÄnein.

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ÜOlvw dÉ §n to›w parå tØn l°jin lÒgoiw ée‹ katå tÚ éntikeiÄmenon ¶stai ≤ lÊsiw μ parÉ ˜ §stin ı lÒgow. oÂon efi parå sÊnyesin ı lÒgow, ≤ lÊsiw dielÒnti, efi d¢ parå diaiÄresin, suny°nti. pãlin efi parå prosƒdiÄan Ùje›an, ≤ bare›a prosƒdiÄa lÊsiw, efi d¢ parå bare›an, ≤ Ùje›a. efi d¢ parÉ ımvnumiÄan, ¶sti tÚ éntikeiÄmenon ˆnoma efipÒnta lÊein: oÂon, efi êcuxon sumbaiÄnei l°gein, épofÆsanta mØ e‰nai dhloËn …w ¶stin ¶mcuxon: efi dÉ êcuxon ¶fhsen, ı dÉ ¶mcuxon sunelogiÄsato, [l°gein] …w ¶stin êcuxon. ımoiÄvw d¢ ka‹ §p‹ t∞w émfiboliÄaw. efi d¢ parÉ ımoiÒthta l°jevw, tÚ éntikeiÄmenon ¶stai lÊsiw. "îrÉ ˘ mØ ¶xei, doiÄh ên tiw;" μ oÈx ˘ mØ ¶xei, éllÉ …w oÈk ¶xei, oÂon ßna mÒnon éstrãgalon. "îrÉ ˘ §piÄstatai, mayΔn μ eÍrΔn §piÄstatai;" éllÉ oÈx ì §piÄstatai. ka‹ efi ˘ badiÄzei pate›, éllÉ oÈx ˜te. ımoiÄvw d¢ ka‹ §p‹ t«n êllvn.

24 PrÚw d¢ toÁw parå tÚ sumbebhkÚw miÄa m¢n ≤ aÈtØ lÊsiw prÚw ëpantaw. §pe‹ går édiÒristÒn §sti tÚ pÒte lekt°on §p‹ toË prãgmatow ˜tan §p‹ toË sumbebhkÒtow Ípãr-

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stesso e ai particolari, giacché «uomo» e ogni predicato comune non significano un certo questo ma un di questa sorta15 o un relativo a qualcosa16 o qualcuno come questi. Allo stesso modo anche riguardo a Corisco e Corisco educato: sono la stessa cosa o due cose diverse? L’uno infatti significa un certo questo, l’altro che è di questa sorta, sicché non è possibile esporlo. Non è però l’esporre a generare il terzo uomo, ma l’ammettere che sia proprio un certo questo, giacché non è possibile che, come Callia, sia un certo questo anche proprio ciò che è l’uomo. Né farebbe alcuna differenza se qualcuno dicesse che la cosa esposta non è proprio un certo questo ma proprio una qualità, giacché ciò che è oltre i molti sarà qualcosa di uno, per esempio l’uomo. È manifesto dunque che non si deve concedere che ciò che è predicato di tutti in comune sia un questo, ma che significhi o una qualità o un relativo a qualcosa o una quantità o qualcuno come questi.

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CAPITOLO 23 In generale, nelle argomentazioni che dipendono dall’espressione la risoluzione sarà sempre secondo l’opposto di ciò da cui dipende l’argomentazione. Per esempio, se l’argomentazione dipende dalla composizione, la risoluzione consisterà nel dividere, se dipende dalla divisione, consisterà nel comporre. Ancora, se dipende dall’accento acuto, la risoluzione sarà l’accento grave, se dipende da quello grave, sarà l’acuto. Se dipende dall’omonimia, risolvere significa dire la parola opposta; per esempio, se si afferma la conseguenza che è inanimato, si chiarisca, volendo negare che lo sia, che è animato. Se invece si è affermato che è inanimato, e l’altro ha sillogizzato che è animato, bisogna chiarire che è inanimato. Allo stesso modo anche nel caso dell’anfibolia. Se dipende dalla somiglianza dell’espressione, la risoluzione sarà l’opposto: «Può uno dare ciò che non ha?»; o forse non ciò che non ha ma come non lo ha, per esempio un solo astragalo. «Ciò che uno sa lo ha o imparato o scoperto?». Ma non le cose che sa. E se ciò che percorre camminando lo calpesta, non però quando percorre. Allo stesso modo anche negli altri casi.

CAPITOLO 24 Nei confronti delle argomentazioni che dipendono dall’accidente vi è un’unica risoluzione per tutte. Poiché infatti è indeterminato quando si debba dire che conviene all’oggetto, ove convenga all’accidente, e 71

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x˙, ka‹ §pÉ §niÄvn m¢n doke› ka‹ fasiÄn, §pÉ §niÄvn dÉ oÎ fasin énagka›on e‰nai, =ht°on oÔn sumbibasy°ntow ımoiÄvw prÚw ëpantaw ˜ti oÈk énagka›on, ¶xein d¢ de› prof°rein tÚ "oÂon". efis‹ d¢ pãntew ofl toioiÄde t«n lÒgvn parå tÚ sumbebhkÒw: "îrÉ o‰daw ˘ m°llv se §rvtçn;" "îrÉ o‰daw tÚn prosiÒnta, μ tÚn §gkekalumm°non;" "îrÉ ı éndriåw sÒn §stin ¶rgon, μ sÚw ı kÊvn patÆr;" "îra tå Ùligãkiw ÙliÄga ÙliÄga;" fanerÚn går §n ëpasi toÊtoiw ˜ti oÈk énãgkh tÚ katå toË sumbebhkÒtow ka‹ katå toË prãgmatow élhyeÊesyai: mÒnoiw går to›w katå tØn oÈsiÄan édiafÒroiw ka‹ ©n oÔsin ëpanta doke› taÈtå Ípãrxein. t“ dÉ égay“ oÈ taÈtÒn §stin égay“ tÉ e‰nai ka‹ m°llonti §rvtçsyai, oÈd¢ t“ prosiÒnti μ §gkekalumm°nƒ prosiÒnti te e‰nai ka‹ KoriÄskƒ: ÀstÉ oÈk efi o‰da tÚn KoriÄskon, égno« d¢ tÚn prosiÒnta, tÚn aÈtÚn o‰da ka‹ égno«: oÈdÉ efi toËtÉ ¶stin §mÒn, ¶sti dÉ ¶rgon, §mÒn §stin ¶rgon, éllÉ μ kt∞ma μ prçgma μ êllo ti. tÚn aÈtÚn d¢ trÒpon ka‹ §p‹ t«n êllvn. LÊousi d° tinew diairoËntew tØn §r≈thsin. fas‹ går §nd°xesyai taÈtÚ prçgma efid°nai ka‹ égnoe›n, éllå mØ katå taÈtÒ: tÚn oÔn prosiÒnta oÈk efidÒtew, tÚn d¢ KoriÄskon efidÒtew, taÈtÚ m¢n efid°nai ka‹ égnoe›n fasin, éllÉ oÈ katå taÈtÒ. kaiÄtoi pr«ton m°n, kayãper ≥dh e‡pomen, de› t«n parå taÈtÚ lÒgvn tØn aÈtØn e‰nai diÒryvsin. aÏth dÉ oÈk ¶stai, ên tiw mØ §p‹ toË efid°nai éllÉ §p‹ toË e‰nai ≥ pvw ¶xein tÚ aÈtÚ éjiÄvma lambãn˙, oÂon "efi ˜de §st‹ patÆr, ¶sti d¢ sÒw": efi går §pÉ §niÄvn toËtÉ ¶stin élhy¢w ka‹ §nd°xetai tÚ aÈtÚ efid°nai ka‹ égnoe›n, éllÉ §ntaËya oÈd¢n koinvne› tÚ lexy°n. oÈd¢n d¢ kvlÊei tÚn aÈtÚn lÒgon pleiÄouw moxyhriÄaw ¶xein, éllÉ oÈx ≤ pãshw moxyhriÄaw §mfãnisiw lÊsiw §stiÄn: §gxvre› går ˜ti m¢n ceËdow sullelÒgistai de›jaiÄ tina, parÉ ˘ d¢ mØ de›jai, oÂon tÚn ZÆnvnow lÒgon, ˜ti oÈk ¶sti kinhy∞nai. Àste ka‹ e‡ tiw §pixeire› sunãgein …w édÊnaton sunãgvn efiw [édÊnaton, èmartãnei, kín [efi] muriãkiw ¬ sullelogism°now: oÈ gãr §stin aÏth lÊsiw: ∑n går ≤ lÊsiw §mfãnisiw ceudoËw sullogismoË parÉ ˘ ceudÆw. efi oÔn mØ sullelÒgistai, efi ka‹ élh-

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in alcuni casi sembra e si dice che è necessario, mentre in altri non lo si dice, bisogna dunque affrontare tutte queste argomentazioni nello stesso modo, asserendo, una volta tratta la conclusione, che non è necessario. Occorre però essere in grado di portare un esempio. Tutte le argomentazioni siffatte dipendono dall’accidente: «Sai cosa sto per domandarti?», «Conosci colui che si avvicina?» (o «Conosci colui che è velato?»), «È la statua una tua opera?» (o «È il cane tuo padre?»), «Poche volte poche cose è poche cose?». È manifesto, infatti, che in tutti questi casi non è necessario che ciò che è vero dell’accidente sia vero anche dell’oggetto, giacché solo alle cose indistinguibili e una secondo l’essenza sembrano convenire tutte le stesse cose. Ma, per il bene, non è lo stesso l’essere del bene e l’essere di ciò che sta per essere domandato, né, per colui che si avvicina (o del velato), l’essere di colui che si avvicina e quello di Corisco. Cosicché non si dà che, se conosco Corisco e ignoro colui che si avvicina, conosco e ignoro la stessa persona, né che, se questo è mio ed è un’opera, è una mia opera, ma una mia proprietà o un mio oggetto o qualcos’altro. Nello stesso modo per gli altri casi. Alcuni risolvono distinguendo la domanda. Dicono infatti che è possibile conoscere e ignorare lo stesso oggetto, ma non sotto lo stesso rispetto. Poiché dunque non conoscono colui che si avvicina e conoscono Corisco, dicono di ignorare e conoscere la stessa cosa, ma non sotto lo stesso rispetto. Tuttavia prima di tutto bisogna che, come abbiamo già detto, la correzione delle argomentazioni che dipendono dalla stessa causa sia la stessa; ma questa correzione non sarà valida se si prende lo stesso assioma non per il conoscere ma per l’essere o per lo stare in un certo modo, per esempio: «Se questo è padre ed è tuo...», giacché, se in certi casi quanto dicono è vero – è cioè possibile conoscere e ignorare la stessa cosa –, non ha però nulla a che vedere con questi esempi. Inoltre niente impedisce che la stessa argomentazione abbia più di un difetto, ma la risoluzione non è la manifestazione di un difetto qualsiasi, perché è possibile che qualcuno mostri che è stato sillogizzato qualcosa di falso, ma non mostri ciò da cui il falso dipende: come per esempio l’argomentazione di Zenone che non è possibile il movimento. Cosicché anche se qualcuno tenta di concludere che ciò è impossibile riducendolo all’impossibile17, sbaglia, quand’anche riesca a sillogizzarlo diecimila volte. Questa infatti non è una risoluzione, giacché la risoluzione è, come si è detto, la manifestazione del fatto che un sillogismo è falso mediante l’indicazione della causa in virtù della quale è falso. Se dunque non ha sillogizzato18 – anche se qual73

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y¢w, μ ceËdow §pixeire› sunãgein, ≤ §keiÄnou dÆlvsiw lÊsiw §stiÄn. ‡svw d¢ ka‹ toËtÉ §pÉ §niÄvn oÈd¢n kvlÊei sumbaiÄnein: plØn §piÄ ge toÊtvn oÈd¢ toËto dÒjeien ên: ka‹ går tÚn KoriÄskon ˜ti KoriÄskow o‰de ka‹ tÚ prosiÚn ˜ti prosiÒn. §nd°xesyai d¢ doke› tÚ aÈtÚ efid°nai ka‹ mÆ, oÂon ˜ti m¢n leukÚn efid°nai, ˜ti d¢ mousikÚn mØ gnvriÄzein: oÏtv går tÚ aÈtÚ o‰de ka‹ oÈk o‰den, éllÉ oÈ katå taÈtÒn. tÚ d¢ prosiÚn ka‹ KoriÄskon, ka‹ ˜ti prosiÚn ka‹ ˜ti KoriÄskow, o‰den. ÑOmoiÄvw dÉ èmartãnousi ka‹ ofl lÊontew ˜ti ëpaw ériymÚw ÙliÄgow, Àsper oÓw e‡pomen: efi gãr, mØ sumperainom°nou, toËto paralipÒntew élhy¢w sumpeperãnyai fasiÄ (pãnta går e‰nai ka‹ polÁn ka‹ ÙliÄgon), èmartãnousin. ÖEnioi d¢ ka‹ t“ ditt“ lÊousi toÁw sullogismoÊw, oÂon ˜ti sÒw §sti patØr μ uflÚw μ doËlow. kaiÄtoi fanerÚn …w efi parå tÚ pollax«w l°gesyai faiÄnetai ı ¶legxow, de› toÎnoma μ tÚn lÒgon kuriÄvw e‰nai pleiÒnvn. tÚ d¢ tÒndÉ e‰nai toËde t°knon oÈde‹w l°gei kuriÄvw, efi despÒthw §st‹ t°knou, éllå parå tÚ sumbebhkÚw ≤ sÊnyesiÄw §stin: "îrÉ §st‹ toËto sÒn;" "naiÄ." "¶sti d¢ toËto t°knon: sÚn êra toËto t°knon." éllÉ oÈ sÚn t°knon ˜ti sumb°bhken e‰nai ka‹ sÚn ka‹ t°knon. Ka‹ tÚ e‰nai t«n kak«n ti égayÒn: "≤ går frÒnhsiÄw §stin §pistÆmh t«n kak«n". tÚ d¢ toËto toÊtvn e‰nai oÈ l°getai pollax«w, éllå kt∞ma. efi dÉ êra pollax«w (ka‹ går tÚn ênyrvpon t«n z–vn fam¢n e‰nai, éllÉ oÎ ti kt∞ma: ka‹ §ãn ti prÚw tå kakå l°ghtai …w tinÒw, diå toËto t«n kak«n §stin, éllÉ oÈ toËto t«n kak«n), parå tÚ p∫ oÔn ka‹ èpl«w faiÄnetai. kaiÄtoi §nd°xetai ‡svw égayÚn e‰naiÄ ti t«n kak«n ditt«w, éllÉ oÈk §p‹ toË lÒgou toÊtou, éllÉ e‡ ti doËlon e‡h égayÚn moxyhroË, mçllon. ‡svw dÉ oÈdÉ oÏtvw: oÈ går efi égayÚn ka‹ toÊtou, égayÚn toÊtou ëma. oÈd¢ tÚ tÚn ênyrvpon fãnai t«n z–vn e‰nai [oÈ] l°getai pollax«w: oÈ går e‡ pot° ti shmaiÄnomen éfelÒntew, toËto l°getai pollax«w: ka‹ går tÚ ¥misu efipÒntew toË ¶pouw "dÒw moi ÉIliãda" shmaiÄnomen, oÂon tÚ "m∞nin êeide, yeã".

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cosa di vero –, oppure tenta di concludere qualcosa di falso, la risoluzione è la manifestazione di quella causa. Forse poi niente impedisce che ciò risulti per alcuni casi, salvo che nei casi presenti nemmeno questo deve essere creduto, giacché si sa che Corisco è Corisco, e che colui che si avvicina è colui che si avvicina. Sembra possibile conoscere e non conoscere la stessa cosa: per esempio sapere che è bianca e non sapere che è educata, perché così si conosce e non si conosce la stessa cosa, ma non sotto lo stesso rispetto. Invece di colui che si avvicina e di Corisco19, si sa che è colui che si avvicina e che è Corisco. Sbagliano allo stesso modo di coloro che abbiamo menzionato anche quelli che risolvono asserendo che ogni numero è piccolo. Si sbagliano infatti se, non essendo stata tratta alcuna conclusione, trascurano questo fatto e dicono che è stato concluso qualcosa di vero perché ogni cosa è grande ed è piccola. Alcuni poi risolvono con l’ambiguità i sillogismi che concludono per esempio che è tuo padre o tuo figlio o un tuo schiavo. Tuttavia è manifesto che, se una confutazione è apparente a causa del dirsi in molti modi, bisogna che la parola o la locuzione siano di più cose in senso proprio. Nessuno però dice in senso proprio che questi sia figlio di costui, se il senso è che costui è padrone del figlio, ma la composizione dipende dall’accidente. «È questo tuo?» «Sì.» «Ma questo è un figlio. Dunque questo è tuo figlio». Ma non è tuo figlio perché ha l’accidente sia di essere tuo sia di essere figlio. E che qualcuno dei mali sia un bene, perché la saggezza è conoscenza dei mali. Ma l’essere «questo di questi» non si dice in molti modi, ma nel senso di possesso. Se poi anche si dicesse in molti modi (giacché anche l’uomo lo diciamo degli animali, ma non un loro possesso, e se qualcosa si dice in relazione ai mali come di qualcosa, è dei mali per quella ragione, ma non è questo dei mali), l’argomentazione sembra dunque dipendere dal dirsi per un certo aspetto e in assoluto. Tuttavia è forse possibile che qualcosa dei mali sia buono in modo ambiguo, ma non in questa argomentazione, ma piuttosto se uno fosse schiavo buono di un cattivo. Forse, però, nemmeno così, giacché non vale che, se è buono ed è di questo, sia al contempo buono di questo. E nemmeno dire che l’uomo sia degli animali è detto in molti modi, giacché non è vero che, se talora significhiamo qualcosa esprimendoci in modo incompleto, quell’espressione si dice in molti modi. Infatti significhiamo «dammi l’Iliade» anche dicendo metà del verso, cioè «Canta o dea l’ira».

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ToÁw d¢ parå tÚ kuriÄvw tÒde μ p∫ μ poÁ μ pΔw μ prÒw ti l°gesyai, ka‹ mØ èpl«w, lut°on skopoËnti tÚ sump°rasma prÚw tØn éntiÄfasin, efi §nd°xetai toÊtvn ti pepony°nai. tå går §nantiÄa ka‹ tå éntikeiÄmena ka‹ fãsin ka‹ épÒfasin èpl«w m¢n édÊnaton Ípãrxein t“ aÈt“, p∫ m°ntoi •kãteron μ prÒw ti μ p≈w, μ tÚ m¢n p∫ tÚ dÉ èpl«w, oÈd¢n kvlÊei. ÀstÉ efi tÒde m¢n èpl«w tÒde d¢ pπ, oÎpv ¶legxow, toËto dÉ §n t“ sumperãsmati yevrht°on prÚw tØn éntiÄfasin. Efis‹ d¢ pãntew ofl toioËtoi lÒgoi toËtÉ ¶xontew: "îrÉ §nd°xetai tÚ mØ ¯n e‰nai; éllå mØn ¶sti g° ti mØ ˆn." ımoiÄvw d¢ ka‹ tÚ ¯n oÈk ¶stai: oÈ går ¶stai ti t«n ˆntvn. "îrÉ §nd°xetai tÚn aÈtÚn ëma eÈorke›n ka‹ §piorke›n;" "îrÉ §gxvre› tÚn aÈtÚn ëma t“ aÈt“ peiÄyesyai ka‹ épeiye›n;" μ oÎte tÚ e‰naiÄ ti ka‹ e‰nai taÈtÒn (tÚ går mØ ¯n oÈk efi ¶sti ti, ka‹ ¶stin èpl«w), oÎtÉ efi eÈorke› tÒde μ tªde, énãgkh ka‹ eÈorke›n (ı går ÙmÒsaw §piorkÆsein eÈorke› §piork«n toËto mÒnon, eÈorke› d¢ oÎ): oÈdÉ ı épeiy«n peiÄyetai, éllå t‹ peiÄyetai. ˜moiow dÉ ı lÒgow ka‹ per‹ toË ceÊdesyai tÚn aÈtÚn ëma ka‹ élhyeÊein, éllå diå tÚ mØ e‰nai eÈye≈rhton pÒteron ên tiw épodoiÄh, tÚ èpl«w élhyeÊein μ ceÊdesyai, dÊskolon faiÄnetai. kvlÊei dÉ aÈtÚn oÈd¢n èpl«w m¢n e‰nai ceud∞ p∫ dÉ élhy∞ ≥ tinow, ka‹ e‰nai élhy∞ tinã, élhy∞ d¢ mÆ. ımoiÄvw d¢ ka‹ §p‹ t«n prÒw ti ka‹ poÁ ka‹ pot°: pãntew går ofl toioËtoi lÒgoi parå toËto sumbaiÄnousin. "îrÉ ≤ ÍgiÄeia μ ı ploËtow égayÒn; éllå t“ êfroni ka‹ mØ Ùry«w xrvm°nƒ oÈk égayÒn: égayÚn êra ka‹ oÈk égayÒn." "îra tÚ ÍgiaiÄnein μ dÊnasyai §n pÒlei égayÒn; éllÉ ¶stin ˜te oÈ b°ltion: taÈtÚn êra t“ aÈt“ égayÚn ka‹ oÈk égayÒn." μ oÈd¢n kvlÊei èpl«w ¯n égayÚn t“de mØ e‰nai égayÒn,

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CAPITOLO 25 Le confutazioni che dipendono dal fatto che un dato predicato si dica propriamente oppure non assolutamente ma per un certo aspetto, o in un certo luogo, o in un certo modo o in relazione a qualcosa vanno risolte esaminando se la conclusione, in confronto con la sua contraddittoria, possa subire qualcuna di queste limitazioni. I contrari, infatti, e gli opposti e l’affermazione e la negazione non possono convenire in assoluto alla stessa cosa, ma nulla impedisce che ciascuno convenga per un certo aspetto, o in relazione a qualcosa, o in un certo modo, oppure che l’uno convenga per un certo aspetto e l’altro in assoluto. Di conseguenza, se questo si dice in assoluto e quest’altro per un certo aspetto, non c’è ancora confutazione, e ciò va considerato nella conclusione messa a confronto con la sua contraddittoria. Tutte le argomentazioni siffatte hanno questa caratteristica: «È possibile che ciò che non è sia? Ma è pur qualcosa essendo ciò che non è». Similmente, poi, ciò che è non sarà, giacché non è qualcuna delle cose che sono. «Ma è possibile che la stessa persona contemporaneamente tenga fede al proprio giuramento e spergiuri?»; «È possibile che la stessa persona contemporaneamente obbedisca e disobbedisca alla stessa persona?». O forse l’essere qualcosa e l’essere in assoluto non sono la stessa cosa (giacché, se ciò che non è è qualcosa, non si può dire che è anche in assoluto), né se uno tiene fede a questo tipo di giuramento o lo fa in questo modo, è necessario che rispetti un giuramento (giacché colui che ha giurato di spergiurare rispetta, spergiurando, solo questa cosa, ma non rispetta un giuramento). Né chi disobbedisce obbedisce, ma obbedisce a qualcosa. L’argomentazione è simile anche riguardo ad una stessa persona che contemporaneamente dice il falso e dice il vero, ma, poiché non è facile vedere in quale dei due modi si debba rendere questa persona, se come dicente il vero in assoluto oppure il falso in assoluto, il caso sembra arduo. Niente tuttavia impedisce che costui sia in assoluto falso e per un certo aspetto o su qualcosa in particolare sia invece veridico, e veridico quanto a certe cose, ma veridico no20. Allo stesso modo anche riguardo all’essere in relazione a qualcosa o in un certo luogo o in un certo tempo. Tutte le argomentazioni siffatte dipendono da questo. «È la salute (o la ricchezza) buona? Ma per chi è privo di senno o per chi non ne usa correttamente non è buona. Dunque è buona e non è buona». «È lo stare in salute (o l’aver potere in città) un bene21? Ma in certi casi non è un bene. La stessa cosa, dunque, per la stessa persona è buona e non è buona». O forse nul77

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μ t“de m¢n égayÒn, éllÉ oÈ nËn μ oÈk §ntaËyÉ égayÒn; "îrÉ ˘ mØ boÊloitÉ ín ı frÒnimow, kakÒn; épobale›n dÉ oÈ boÊletai tégayÒn: kakÚn êra tégayÒn." oÈ går taÈtÚn efipe›n tégayÚn e‰nai kakÚn ka‹ tÚ épobale›n tégayÒn. ımoiÄvw d¢ ka‹ ı toË kl°ptou lÒgow: oÈ gãr, efi kakÒn §stin ı kl°pthw, ka‹ tÚ labe›n §sti kakÒn. oÎkoun tÚ kakÚn boÊletai, éllå tégayÒn: tÚ går labe›n égayÒn. ka‹ ≤ nÒsow kakÒn §stin, éllÉ oÈ tÚ épobale›n nÒson. "îra tÚ diÄkaion toË édiÄkou ka‹ tÚ dikaiÄvw toË édiÄkvw aflret≈teron; éllÉ époyane›n édiÄkvw aflret≈teron." "îra diÄkaiÒn §sti tå aÍtoË ¶xein ßkaston; ì dÉ ên tiw kriÄn˙ katå dÒjan tØn aÍtoË, kín ¬ ceudÆw, kÊriã §stin §k toË nÒmou: tÚ aÈtÚ êra diÄkaion ka‹ oÈ diÄkaion": ka‹ "pÒteron de› kriÄnein, tÚn tå diÄkaia l°gonta μ tÚn tå êdika; éllå mØn ka‹ tÚn édikoÊmenon diÄkaiÒn §stin flkan«w l°gein ì ¶payen: taËta dÉ ∑n êdika." oÈ gãr, efi paye›n ti édiÄkvw aflretÒn, tÚ édiÄkvw aflret≈teron toË dikaiÄvw, éllÉ èpl«w m¢n tÚ dikaiÄvw, tod‹ m°ntoi oÈd¢n kvlÊei édiÄkvw μ dikaiÄvw. ka‹ tÚ ¶xein tå aÈtoË diÄkaion, tÚ d¢ téllÒtria oÈ diÄkaion: kriÄsin m°ntoi taÊthn dikaiÄan e‰nai oÈd¢n kvlÊei, oÂon ín ¬ katå dÒjan toË kriÄnantow: oÈ gãr, efi diÄkaion tƒd‹ μ …diÄ, ka‹ èpl«w diÄkaion. ımoiÄvw d¢ ka‹ êdika ˆnta oÈd¢n kvlÊei l°gein ge aÈtå diÄkaion e‰nai: oÈ gãr, efi l°gein diÄkaion, énãgkh diÄkaia e‰nai, Àsper oÈdÉ efi »f°limon l°gein, »f°lima. ımoiÄvw d¢ ka‹ §p‹ t«n dikaiÄvn. ÀstÉ oÈk efi tå legÒmena êdika, ı l°gvn êdika nikò: l°gei går ì l°gein §st‹ diÄkaia, èpl«w d¢ ka‹ paye›n êdika.

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To›w d¢ parå tÚn ırismÚn ginom°noiw toË §l°gxou, kayãper Ípegrãfh prÒteron, épantht°on skopoËsi tÚ sump°rasma prÚw tØn éntiÄfasin, ˜pvw ¶stai tÚ aÈtÚ ka‹ katå tÚ aÈtÚ ka‹ prÚw tÚ aÈtÚ ka‹ …saÊtvw ka‹ §n t“ aÈt“ xrÒnƒ. §ån dÉ §n érxª pros°rhtai, oÈx ımologht°on …w édÊnaton tÚ aÈtÚ e‰nai diplãsion ka‹ mØ diplãsion, éllå fat°on, mØ m°ntoi …d‹ Àw potÉ ∑n tÚ §l°gxesyai divmologhm°non. efis‹ d¢ pãntew o·dÉ ofl lÒgoi parå tÚ toioËto. "îrÉ

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la impedisce che pur essendo buona in assoluto non lo sia per quella persona, o lo sia per quella persona, ma non ora o non qui. «Ciò che non vuole il saggio è male? Ma non vuole perdere il bene, dunque il bene è male». Non è infatti la stessa cosa dire che è male il bene e che lo sia perdere il bene. Allo stesso modo anche l’argomentazione del ladro, giacché, se il ladro è male non è male anche il catturarlo. Dunque non si vuole il male ma il bene, giacché il catturarlo è un bene. E la malattia è male, ma non lo è perdere la malattia. «Non è il giusto preferibile all’ingiusto e il giustamente all’ingiustamente? Ma il morire ingiustamente è preferibile». «Non è giusto che ciascuno abbia il proprio? Ma le cose che un giudice stabilisce, secondo la propria opinione, anche se è falsa, sono per legge imperative. Dunque la stessa cosa è giusta e non è giusta». E «Si deve preferire chi dice cose giuste o chi dice cose ingiuste? Tuttavia è anche giusto che chi ha subìto ingiustizia dica in modo adeguato che cosa ha subìto, e queste erano cose ingiuste». In effetti, non è che, se il subire qualcosa ingiustamente sia da scegliere, anche l’ingiustamente sia preferibile al giustamente, ma in assoluto lo è il giustamente; in questo caso tuttavia nulla impedisce che sia preferibile l’ingiustamente al giustamente. Ed è giusto avere il proprio, non giusto avere l’altrui. Tuttavia nulla impedisce che questo giudizio sia giusto, per esempio se è secondo l’opinione del giudice, giacché se è giusto per costui o in questo modo, non segue che sia giusto anche in assoluto. Allo stesso modo poi, anche se queste cose sono ingiuste, nulla impedisce che sia però giusto dirle, giacché se è giusto dirle non è necessario che siano giuste, come nemmeno se è utile dirle saranno utili. Allo stesso modo anche riguardo alle cose giuste. Di conseguenza, se le cose dette sono ingiuste, non segue che chi ha detto cose ingiuste vince22, giacché dice cose che è giusto dire ma che in assoluto e a subirsi sono ingiuste.

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CAPITOLO 26 Le confutazioni che dipendono dalla definizione della confutazione nel modo precedentemente delineato, vanno affrontate esaminando la conclusione in rapporto alla sua contraddittoria per vedere se sia la stessa cosa, rispetto alla stessa cosa, in relazione alla stessa cosa, nello stesso modo e nello stesso tempo. Non si deve accordare, se all’inizio è stato domandato, che sia impossibile che la stessa cosa sia doppia e non doppia, ma si deve dire che non lo è in quel modo in cui ci si era accordati su che cosa fosse l’essere confutati. Da questo dipendono 79

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ı efidΔw ßkaston ˜ti ßkaston o‰de tÚ prçgma; ka‹ ı égno«n …saÊtvw; efidΔw d° tiw tÚn KoriÄskon ˜ti KoriÄskow égnooiÄh ín ˜ti mousikÒw, Àste taÈtÚ §piÄstatai ka‹ égnoe›." "îra tÚ tetrãphxu toË tripÆxeow me›zon; g°noito dÉ ín §k tripÆxeow tetrãphxu katå tÚ m∞kow: tÚ d¢ me›zon §lãttonow me›zon: aÈtÚ êra aÍtoË katå taÈtÚ me›zon ka‹ ¶latton."

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ToÁw d¢ parå tÚ afite›syai ka‹ lambãnein tÚ §n érxª punyanom°nƒ, ín ¬ d∞lon, oÈ dot°on, oÈdÉ ín ¶ndojon ¬ l°gonta télhy°w. ín d¢ lãy˙, tØn êgnoian diå tØn moxyhriÄan t«n toioÊtvn lÒgvn efiw tÚn §rvt«nta metastrept°on …w oÈ dieilegm°non: ı går ¶legxow êneu toË §j érx∞w. e‰yÉ ˜ti §dÒyh oÈx …w toÊtƒ xrhsom°nou, éllÉ …w prÚw toËto sullogioum°nou, toÈnantiÄon μ §p‹ t«n parejel°gxvn.

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Ka‹ toÁw diå toË parepom°nou sumbibãzontaw §pÉ aÈtoË toË lÒgou deikt°on. ¶sti d¢ dittØ ≤ t«n •pom°nvn ékoloÊyhsiw: μ går …w t“ §n m°rei tÚ kayÒlou, oÂon ényr≈pƒ z“on (éjioËtai gãr, efi tÒde metå toËde, ka‹ tÒdÉ e‰nai metå toËde), μ katå tåw éntiy°seiw (efi går tÒde t“de ékolouye›, t“ éntikeim°nƒ tÚ éntikeiÄmenon): parÉ ˘ ka‹ ı toË MeliÄssou lÒgow: efi går tÚ gegonÚw ¶xei érxÆn, tÚ ég°nhton éjio› mØ ¶xein, ÀstÉ efi ég°nhtow ı oÈranÒw, ka‹ êpeirow. tÚ dÉ oÈk ¶stin: énãpalin går ≤ ékoloÊyhsiw.

29 ÜOsoi te parå tÚ prostiy°nai ti sullogiÄzontai, skope›n efi éfairoum°nou sumbaiÄnei mhd¢n √tton tÚ édÊnaton.

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tutte le argomentazioni seguenti: «Colui che sa che ciascuna cosa è ciascuna cosa, conosce l’oggetto? E similmente chi l’ignora? Ma qualcuno che sa che Corisco è Corisco può ignorare che è educato, sicché conosce e ignora la stessa cosa». «Qualcosa di quattro cubiti è maggiore di qualcosa di tre cubiti? Ora qualcosa di tre cubiti può diventare di quattro cubiti per la lunghezza. Ma il maggiore è maggiore di un minore, dunque la stessa cosa è sotto lo stesso rispetto maggiore e minore di se stessa».

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CAPITOLO 27 Quanto alle confutazioni che dipendono dal richiedere e dall’assumere ciò che è stato fissato all’inizio, se ciò è palese non bisogna concederlo all’interrogante, nemmeno se è plausibile, dicendo23 come stanno le cose. Se invece è nascosto, bisogna, sfruttando il difetto di siffatte argomentazioni, ritorcere la propria ignoranza contro l’interrogante, in quanto non ha argomentato: la confutazione, infatti, deve essere svolta senza l’assunzione di ciò che è stato fissato all’inizio. Inoltre bisogna dire che la si è concessa non perché fosse adoperata come premessa, ma perché l’interlocutore sillogizzasse in relazione a questa: il contrario di quel che accade con le confutazioni accessorie.

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CAPITOLO 28 Anche le confutazioni che concludono a causa del conseguente vanno indicate nel corso dell’argomentazione stessa. Vi sono due tipi di conseguenze: o come l’universale segue al particolare (per esempio l’animale all’uomo), giacché si crede che se questo tien dietro a quest’altro, anche quest’altro tenga dietro a questo, o secondo le opposizioni, giacché se questo segue a quest’altro, anche l’opposto di questo segue all’opposto di quest’altro. Da quest’ultimo tipo dipende anche l’argomentazione di Melisso, giacché egli ritiene che se ciò che è generato ha un principio, ciò che è ingenerato non lo abbia, sicché se l’universo è ingenerato è anche infinito. Ma questo non è vero, giacché la conseguenza è alla rovescia.

CAPITOLO 29 Quanto alle confutazioni che sillogizzano a causa dell’aggiunta di qualcosa bisogna considerare se eliminata quella cosa l’impossibile ri81

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kêpeita toËto §mfanist°on, ka‹ lekt°on …w ¶dvken oÈx …w dokoËn éllÉ …w prÚw tÚn lÒgon, ı d¢ k°xrhtai oÈd¢n prÚw tÚn lÒgon.

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PrÚw d¢ toÁw tå pleiÄv §rvtÆmata ©n poioËntaw eÈyÁw §n érxª diorist°on: §r≈thsiw går miÄa prÚw ∂n miÄa épÒkrisiw ¶stin, ÀstÉ oÎte pleiÄv kayÉ •nÚw oÎte ©n katå poll«n, éllÉ ©n kayÉ •nÚw fat°on μ épofat°on. Àsper d¢ §p‹ t«n ımvnÊmvn ıt¢ m¢n émfo›n ıt¢ dÉ oÈdet°rƒ Ípãrxei, Àste mØ èploË ˆntow toË §rvtÆmatow èpl«w épokrinom°noiw oÈd¢n sumbaiÄnei pãsxein, ımoiÄvw ka‹ §p‹ toÊtvn. ˜tan m¢n oÔn tå pleiÄv t“ •n‹ μ tÚ ©n to›w pollo›w Ípãrx˙, t“ èpl«w dÒnti ka‹ èmartÒnti taÊthn tØn èmartiÄan oÈd¢n ÍpenantiÄvma sumbaiÄnei, ˜tan d¢ t“ m¢n t“ d¢ mÆ, μ pleiÄv katå pleiÒnvn. ka‹ ¶stin …w Ípãrxei émfÒtera émfot°roiw, ¶sti dÉ …w oÈx Ípãrxei pãlin, Àste toËtÉ eÈlabht°on: oÂon §n to›sde to›w lÒgoiw: "efi tÚ m°n §stin égayÚn tÚ d¢ kakÒn, ˜ti taËta élhy¢w efipe›n égayÚn ka‹ kakÒn, ka‹ pãlin mÆtÉ égayÚn mÆte kakÒn (oÈk ¶sti går •kãteron •kãteron), Àste taÈtÚ égayÚn ka‹ kakÚn ka‹ oÎtÉ égayÚn oÎte kakÒn", ka‹ "efi ßkaston aÈtÚ aÍt“ taÈtÚ ka‹ êllou ßteron, §peidØ oÈk êlloiw taÈtå éllÉ aÍto›w ka‹ ßtera aÍt«n, tå aÈtå •auto›w ßtera ka‹ tå aÈtã". ¶ti "efi tÚ m¢n égayÚn kakÚn giÄnetai, tÚ d¢ kakÚn égayÒn, dÊo g°nointÉ ên: duo›n d¢ ka‹ éniÄsvn •kãteron aÈtÚ aÍt“ ‡son: Àste ‡sa ka‹ ênisa aÈtå aÍto›w". ÉEmpiÄptousi m¢n oÔn otoi ka‹ efiw êllaw lÊseiw: ka‹ går tÚ êmfv ka‹ tÚ ëpanta pleiÄv shmaiÄnei: oÎkoun taÈtÒn, plØn ˆnoma, sumbaiÄnei f∞sai ka‹ épof∞sai. toËto dÉ oÈk ∑n ¶legxow, éllå fanerÚn ˜ti mØ miçw §rvtÆsevw t«n pleiÒnvn ginom°nhw, éllÉ ©n kayÉ •nÚw fãntow μ épofãntow, oÈk ¶stai tÚ édÊnaton.

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sulti nondimeno, e a quel punto bisogna rendere manifesto questo fatto, e bisogna dire che si è concessa quella cosa non in quanto sembri vera, ma in quanto utile per l’argomentazione, mentre l’interlocutore non ne ha fatto alcun uso per l’argomentazione.

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CAPITOLO 30 Con le confutazioni che fanno di più domande una domanda sola, bisogna distinguere direttamente all’inizio. Una domanda sola, infatti, è quella per la quale c’è una sola risposta, sicché non bisogna affermare o negare né più cose di una né una di molte, ma una di una. Così come nel caso degli omonimi a volte convengono entrambi i significati o nessuno dei due, cosicché, pur non essendo semplice la domanda, a chi non risponde in modo semplice e netto non tocca di subire nulla, nello stesso modo accade in questi casi. Quando dunque più cose convengano a una, o una a molte, chi concede semplicemente, commettendo questo errore, non incorre in alcuna contraddizione. Vi incorrerà invece quando qualcosa convenga a una cosa e a un’altra no, o più cose siano dette di più cose, e in un modo convengano entrambe ad entrambe, ma nel modo opposto non convengano, cosicché è da questo che bisogna cautelarsi. Per esempio nelle argomentazioni che seguono: posto che una cosa sia buona e un’altra cattiva, si argomenta che è vero dire che queste cose sono un bene e un male e che viceversa non sono né un bene né un male (giacché ciascuna cosa non ha ciascuno dei due attributi), sicché la stessa cosa è un bene e un male, e né un bene né un male. E se ciascuna cosa è identica a se stessa e diversa da un’altra, visto che quelle cose non sono identiche alle altre ma a se stesse, sono anche diverse da se stesse, le stesse cose saranno diverse e identiche a se stesse. Inoltre se la cosa buona diventa cattiva e quella cattiva buona, esse diventeranno le due cose. Ciascuna di due cose disuguali è uguale a se stessa, così le stesse cose saranno uguali e disuguali a se stesse. Queste argomentazioni rientrano anche nell’ambito di altre risoluzioni, giacché sia «entrambi» sia «tutti» hanno più significati, cosicché non consegue di affermare e negare la stessa cosa, se non a parole. Abbiamo visto che questa non è una confutazione, e tuttavia è manifesto che se una sola domanda non diventa domanda di più cose, ma si afferma o si nega una cosa di una cosa, non vi sarà alcuna conclusione impossibile.

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Per‹ d¢ t«n épagÒntvn efiw tÚ aÈtÚ pollãkiw efipe›n fanerÚn …w oÈ dot°on t«n prÒw ti legom°nvn shmaiÄnein ti xvrizom°naw kayÉ aÍtåw tåw kathgoriÄaw, oÂon "diplãsion" êneu toË "diplãsion ≤miÄseow", ˜ti §mfaiÄnetai. ka‹ går tÚ d°ka §n to›w •nÚw d°ousi d°ka ka‹ tÚ poi∞sai §n t“ mØ poi∞sai ka‹ ˜lvw §n tª épofãsei ≤ fãsiw: éllÉ ˜mvw oÈk e‡ tiw l°gei tod‹ mØ e‰nai leukÒn, l°gei aÈtÚ leukÚn e‰nai. tÚ d¢ "diplãsion" oÈd¢ shmaiÄnei oÈd¢n ‡svw, Àsper oÈd¢ tÚ "¥misu": efi dÉ êra ka‹ shmaiÄnei, éllÉ oÈ taÈtÚ ka‹ sun˙rhm°non. oÈdÉ ≤ §pistÆmh §n t“ e‡dei (oÂon efi ¶stin ≤ fiatrikØ §pistÆmh), ˜per tÚ koinÒn: §ke›no dÉ ∑n §pistÆmh §pisthtoË. §n d¢ to›w diÉ œn dhloËtai kathgoroum°noiw toËto lekt°on, …w oÈ tÚ aÈtÚ xvr‹w ka‹ §n t“ lÒgƒ tÚ dhloÊmenon. tÚ går ko›lon koinª m¢n tÚ aÈtÚ dhlo› §p‹ toË simoË ka‹ toË =oikoË, prostiy°menon d¢ oÈd¢n kvlÊei êlla, tÚ m¢n tª =in‹ tÚ d¢ t“ sk°lei, shmaiÄnein: ¶nya m¢n går tÚ simÒn, ¶nya d¢ tÚ =oikÚn shmaiÄnei, ka‹ oÈd¢n diaf°rei efipe›n =‹w simØ μ =‹w koiÄlh. ¶ti oÈ dot°on tØn l°jin katÉ eÈyÊ: ceËdow gãr §stin. oÈ gãr §sti tÚ simÚn =‹w koiÄlh éllå =inÚw todiÄ, oÂon pãyow, ÀstÉ oÈd¢n êtopon efi ≤ =‹w ≤ simØ =iÄw §stin ¶xousa koilÒthta =inÒw.

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Per‹ d¢ t«n soloikism«n, parÉ ˜ ti m¢n faiÄnontai sumbaiÄnein e‡pomen prÒteron. …w d¢ lut°on, §pÉ aÈt«n t«n lÒgvn ¶stai fanerÒn: ëpantew går ofl toioiÄde toËto boÊlontai kataskeuãzein. "îrÉ ˘ l°geiw élhy«w, ka‹ ¶sti toËto élhy«w; f∫w dÉ e‰naiÄ ti liÄyon: ¶stin êra ti liÄyon." μ tÚ l°gein liÄyon oÈk ¶sti l°gein ˘ éllÉ ˜n, oÈd¢ toËto éllå toËton. efi oÔn ¶roitÒ tiw, "îrÉ ˘n élhy«w l°geiw, ¶sti toËton;", oÈk ín dokoiÄh •llhniÄzein, Àsper oÈdÉ efi ¶roito, "îrÉ ∂n l°geiw e‰nai, ¶stin otow;". jÊlon dÉ efipe›n otow, μ ˜sa mÆte y∞lu mÆtÉ êr-

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CAPITOLO 31 Riguardo alle argomentazioni che conducono a dire la stessa cosa molte volte, è manifesto che, se i predicati sono detti in relazione a qualcosa, non si deve concedere che, separati , significhino qualcosa per conto proprio, per esempio che «doppio» senza24 «doppio della metà», significhi qualcosa, perché vi appare contenuto. Anche «dieci», infatti, è nelle parole «dieci meno uno» e anche «fare» in «non fare» e, in generale, l’affermazione nella negazione, ma nondimeno se uno dice che questo non è bianco, non dice che esso è bianco. Forse «doppio» non significa alcunché, come nemmeno «metà». E se proprio si vuole che significhi, non significa però lo stesso anche quando è congiunto. Nemmeno la conoscenza, in una sua specie (per esempio quando si pone che la medicina è una conoscenza), è proprio il predicato comune; quello poi era definito come conoscenza del conoscibile. Invece, riguardo a quelle cose che sono predicate di cose mediante le quali vengono rese manifeste, bisogna dire questo: ciò che viene significato non è lo stesso separatamente e all’interno della formula definitoria. «Concavo», infatti, detto in comune del camuso e dello storto, significa lo stesso, ma nulla impedisce che accanto a «naso» e a «gamba» significhi cose diverse: qui significa «camuso», lì significa «storta». E non fa differenza dire «naso camuso» e «naso concavo». Inoltre non bisogna far passare l’espressione al caso diretto, giacché è falso. Infatti il camuso non è un naso concavo ma è questa cosa qui, cioè un’affezione, di un naso, cosicché non vi è niente di assurdo se il naso camuso è il naso avente una concavità di naso.

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CAPITOLO 32 Riguardo ai solecismi, abbiamo detto prima per quali cause sembrano conseguire; come poi vadano risolti, risulterà manifesto dalle argomentazioni stesse, giacché è un solecismo che vogliono costruire tutte le argomentazioni di questo tipo: «Ciò che dici con verità, questo pure è veramente? Ma dici che qualcosa è un sasso [lithon, acc. masch.]; dunque qualcosa è un sasso [lithon, acc. masch.]». O forse dire «sasso» [lithon, acc. masch.] non è dire «ciò che» [ho, nom. e acc. neutro] ma «chi» [hon, acc. masch.] né dire «questo» [touto, nom. e acc. neutro], ma «lui» [touton, acc. masch.]. Se dunque qualcuno domandasse: «Ma chi [hon ] dici con verità che è, lui [touton] è?», non sembrerebbe parlar greco correttamente, come nemmeno se domandasse: «Ma colei che dici essere, è costui?». 85

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ren shmaiÄnei, oÈd¢n diaf°rei: diÚ ka‹ oÈ giÄnetai soloikismÒw: "efi ˘ l°geiw e‰nai, ¶sti toËto, jÊlon d¢ l°geiw e‰nai, ¶stin êra jÊlon". tÚ d¢ "liÄyow" ka‹ tÚ "otow" êrrenow ¶xei kliÄsin. efi dÆ tiw ¶roito "îrÉ otÒw §stin aÏth;", e‰ta pãlin "tiÄ dÉ; oÈx otÒw §sti KoriÄskow;", e‰tÉ e‡peien "¶stin êra otow aÏth", oÈ sullelÒgistai tÚn soloikismÒn, oÈdÉ efi tÚ "KoriÄskow" shmaiÄnei ˜per aÏth, mØ diÄdvsi d¢ ı épokrinÒmenow, éllå de› toËto proservthy∞nai. efi d¢ mÆtÉ ¶stin mÆte diÄdvsin, oÈ sullelÒgistai oÎte t“ ˆnti oÎte prÚw tÚn ±rvthm°non. ımoiÄvw oÔn de› kéke› tÚn liÄyon shmaiÄnein "otow". efi d¢ mÆte ¶sti mÆte d°dotai, oÈ lekt°on tÚ sump°rasma: faiÄnetai d¢ parå tÚ tØn énÒmoion pt«sin toË ÙnÒmatow ımoiÄan faiÄnesyai. "îrÉ élhy°w §stin efipe›n ˜ti ¶stin aÏth ˜per e‰nai f∫w aÈtÆn; e‰nai d¢ f∫w éspiÄda: ¶stin êra aÏth éspiÄda." μ oÈk énãgkh, efi mØ tÚ "aÏth" éspiÄda shmaiÄnei éllÉ éspiÄw, tÚ d¢ "taÊthn" éspiÄda. oÈdÉ efi ˘ f∫w e‰nai toËton, ¶stin otow, f∫w dÉ e‰nai Kl°vna, ¶stin êra otow Kl°vna: oÈ går ¶stin otow Kl°vna: e‡rhtai går ˜ti ˜ fhmi e‰nai toËton, ¶stin otow, oÈ toËton: oÈd¢ går ín •llhniÄzoi oÏtvw tÚ §r≈thma lexy°n, "îrÉ §piÄstasai toËto; toËto dÉ §st‹ liÄyow: §piÄstasai êra liÄyow". μ oÈ taÈtÚ shmaiÄnei tÚ "toËto" §n t“ "îrÉ §piÄstasai toËto;" ka‹ §n t“ "toËto d¢ liÄyow", éllÉ §n m¢n t“ pr≈tƒ toËton, §n d¢ t“ Íst°rƒ otow. "îrÉ o §pistÆmhn ¶xeiw, §piÄstasai toËto; §pistÆmhn dÉ ¶xeiw liÄyou: §piÄstasai êra liÄyou." μ tÚ m¢n "o" liÄyou l°gei, tÚ d¢ "toËto" liÄyon: §dÒyh dÉ, o §pistÆmhn ¶xeiw, §piÄstasyai oÈ toÊtou éllå toËto, ÀstÉ oÈ toË liÄyou éllå tÚn liÄyon. ÜOti m¢n oÔn ofl toioËtoi t«n lÒgvn oÈ sullogiÄzontai soloikismÚn éllå faiÄnontai, ka‹ diå tiÄ te faiÄnontai ka‹ p«w épantht°on prÚw aÈtoÊw, fanerÚn §k t«n efirhm°nvn.

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Ma dire come «costui» [houtos] la parola «legno» [xulon, neutro], o quante non significano né il maschile né il femminile, non fa alcuna differenza, e perciò nemmeno ne nasce un solecismo: «Se ciò che dici essere, questo è; ma dici che c’è un legno [xulon, acc. neutro], c’è dunque un legno» [xulon, nom. neutro]. Invece la parola «sasso» [lithos], come «costui» [houtos], hanno la forma nominativa del maschile. Se poi uno domandasse «Ma costui non è costei [haute, nom. femm.]?». E poi di nuovo: «Ma come? Costui non è Corisco?». E ancora dicesse: «Dunque costui è costei», non avrebbe sillogizzato il solecismo, e non lo avrebbe sillogizzato nemmeno se il nome «Corisco» significasse proprio costei, se il rispondente non lo ha concesso; ma deve essere oggetto di una domanda aggiuntiva. Se poi non è vero né lo ha concesso, non ha sillogizzato né in realtà né per l’interrogato. Similmente anche nel primo esempio: bisogna che «sasso» [lithon, acc. masch.] significhi «costui» [houtos, nom. masch.] e se non lo significa né lo ha concesso, non si deve asserire la conclusione; però appare risultare in virtù del fatto che un caso dissimile del nome appare simile. «Ma è vero dire che questa è proprio ciò che tu dici essa sia? Dici che sia uno scudo [aspida, acc. femm.], questa è dunque uno scudo» [aspida, acc. femm.]». O forse non è necessario, se «questa» [haute, nom. femm.] non significa «scudo» [aspida, acc. femm.], ma «scudo» [aspis, nom. femm.]. Né se ciò che dici che lui è, questi è, ma dici che lui è Cleone [Kleona, acc.], dunque questi è Cleone [Kleona, acc.], giacché questi non è Cleone [Kleona, acc.], perché si è detto che ciò che io dico che lui sia, «questi» [nom.] è, non «lui» [acc.] è. Infatti non parlerebbe correttamente greco nemmeno chi esprimesse la domanda in questo modo: «Conosci ciò? Ciò è un sasso. Conosci dunque un sasso [lithos, nom.]». O forse «ciò» non significa lo stesso in «conosci ciò» e in «ciò è un sasso», ma nel primo significa «lui», nel successivo «questi». «Ma ciò di cui [hou, gen.] hai conoscenza, lo [touto] conosci? Hai conoscenza di un sasso. Dunque conosci di un sasso [lithou, gen.]». O forse «ciò di cui» dice «del sasso», «ciò» dice «il sasso» e di ciò di cui hai conoscenza è stato concesso che conosci ciò, non di ciò, cosicché non conosci del sasso, ma il sasso. Che dunque siffatte argomentazioni non sillogizzino un solecismo ma appaiano farlo, e perché appaiano farlo e come si debba affrontarle, è chiarito da ciò che si è detto.

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De› d¢ ka‹ katanoe›n ˜ti pãntvn t«n lÒgvn ofl m°n efisi =ñouw katide›n, ofl d¢ xalep≈teroi, parå tiÄ ka‹ §n tiÄni paralogiÄzontai tÚn ékoÊonta, pollãkiw ofl aÈto‹ §keiÄnoiw ˆntew: tÚn aÈtÚn går lÒgon de› kale›n tÚn parå taÈtÚ ginÒmenon. ı aÈtÚw d¢ lÒgow to›w m¢n parå tØn l°jin to›w d¢ parå tÚ sumbebhkÚw to›w d¢ parÉ ßteron dÒjeien ín e‰nai diå tÚ metaferÒmenon ßkaston mØ ımoiÄvw e‰nai d∞lon. Àsper oÔn §n to›w parå tØn ımvnumiÄan, ˜sper doke› trÒpow eÈhy°statow e‰nai t«n paralogism«n, tå m¢n ka‹ to›w tuxoËsiÄn §sti d∞la (ka‹ går ofl lÒgoi sxedÚn ofl gelo›oi pãntew efis‹ parå tØn l°jin, oÂon "énØr §f°reto katå kliÄmakow diÄfron", ka‹ "po› st°llesye;" "prÚw tØn keraiÄan", ka‹ "pot°ra t«n bo«n ¶mprosyen t°jetai;" "oÈdet°ra, éllÉ ˆpisyen êmfv", ka‹ "kayarÚw ı bor°aw;" "oÈ d∞ta: épektÒnhke går tÚn ptvxÚn katƒnvm°non". "îrÉ EÎarxow;" "oÈ d∞ta, éllÉ ÉApollvniÄdhw": tÚn aÈtÚn d¢ trÒpon ka‹ t«n êllvn sxedÚn ofl ple›stoi): tå d¢ ka‹ toÁw §mpeirotãtouw faiÄnetai lanyãnein (shme›on d¢ toÊtou ˜ti mãxontai pollãkiw per‹ t«n Ùnomãtvn, oÂon pÒteron taÈtÚ shmaiÄnei katå pãntvn tÚ ¯n ka‹ tÚ ßn, μ ßteron: to›w m¢n går doke› taÈtÚ shmaiÄnein tÚ ¯n ka‹ tÚ ßn, ofl d¢ tÚn ZÆnvnow lÒgon ka‹ ParmeniÄdou lÊousi diå tÚ pollax«w fãnai tÚ ©n l°gesyai ka‹ tÚ ˆn). ımoiÄvw d¢ ka‹ parå tÚ sumbebhkÚw ka‹ parå t«n êllvn ßkaston ofl m¢n ¶sontai =ñouw fide›n ofl d¢ xalep≈teroi t«n lÒgvn, ka‹ labe›n §n tiÄni g°nei, ka‹ pÒteron ¶legxow μ oÈk ¶legxow, oÈ =ñdion ımoiÄvw per‹ pãntvn. ÖEsti d¢ drimÁw lÒgow ˜stiw épore›n poie› mãlista: dãknei går otow mãlista. époriÄa dÉ §st‹ dittÆ, ≤ m¢n §n to›w sullelogism°noiw, ˜ ti én°l˙ tiw t«n §rvthmãtvn, ≤ dÉ §n to›w §ristiko›w, p«w e‡p˙ tiw tÚ protay°n. diÒper §n to›w sullogistiko›w ofl drimÊteroi lÒgoi zhte›n mçllon poioËsin. ¶sti d¢ sullogistikÚw m¢n lÒgow drimÊtatow ín §j ˜ti mãlista dokoÊntvn ˜ti mãlista ¶ndojon énairª. eÂw går Ãn ı lÒgow metatiyem°nhw t∞w éntifãsevw ëpantaw ımoiÄouw

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CAPITOLO 33 Bisogna anche osservare che, di tutte le argomentazioni, il vedere a causa di che cosa e in quale punto traggano l’ascoltatore in inganno è per alcune più facile e per altre più difficile, nonostante queste e quelle siano spesso le stesse argomentazioni. Bisogna infatti chiamare «la stessa argomentazione» quella che si origina dalla stessa causa. E la stessa argomentazione potrà per alcuni dipendere dall’espressione, per altri dall’accidente, e per altri ancora da qualcos’altro, perché, mutando di volta in volta, non è ugualmente chiara. Come dunque tra le argomentazioni che dipendono dall’omonimia – la quale sembra il tipo più sciocco di paralogismo –, alcune sono chiare anche al primo che capita (e infatti quasi tutti i discorsi ridicoli dipendono dall’espressione: «Un uomo si portava un cocchio [una lettiga] giù per una scala», e «Dove andate? [Dove ammainate?]» «Presso l’albero della nave»; «Quale delle due vacche partorirà avanti?» «Nessuna: partoriranno entrambe dietro»; «È puro borea?» «No davvero: ha ucciso il mendicante ubriaco». «È lui Evarco?» «No davvero, ma Apollonide», e così via per la maggior parte degli altri casi), altre sembrano invece sfuggire anche alle persone più esperte (ne è segno il fatto che spesso si combatte sulle parole, come per esempio se «ciò che è» e «uno» significhino lo stesso in tutti i casi o qualcosa di diverso. Ad alcuni infatti sembra che «ciò che è» e «uno» significhino la stessa cosa in tutti i casi, mentre altri risolvono l’argomentazione di Zenone e di Parmenide affermando che «uno» e «ciò che è» si dicono in molti modi), similmente anche tra le argomentazioni che dipendono dall’accidente e da ciascuna delle altre cause, alcune saranno più facili da vedere e altre più difficili; e cogliere a quale genere appartenga e se sia davvero una confutazione o non lo sia, non è ugualmente facile per tutte. L’argomentazione acuta è quella che rende massimamente perplessi, giacché è il tipo di argomentazione che punge di più. La perplessità è di due tipi: nelle argomentazioni che hanno sillogizzato, si è perplessi su quale premessa si debba demolire; in quelle eristiche, su come sia da prendere la domanda. Di conseguenza, nelle argomentazioni sillogistiche, le più acute stimolano maggiormente alla ricerca. L’argomentazione sillogistica più acuta si ha quando da premesse che hanno la massima apparenza di verità si demolisca qualcosa di massimamente plausibile, giacché, con un’unica argomentazione, si avranno, per trasposizione della contraddittoria, sillogismi tutti simili fra loro. Ogni volta, infatti, da premesse plausibili si demolirà una 89

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ßjei toÁw sullogismoÊw: ée‹ går §j §ndÒjvn ımoiÄvw ¶ndojon énairÆsei [μ kataskeuãsei], diÒper épore›n énagka›on. mãlista m¢n oÔn ı toioËtow drimÊw, ı §j ‡sou tÚ sump°rasma poi«n to›w §rvtÆmasi, deÊterow dÉ ı §j èpãntvn ımoiÄvn: otow går ımoiÄvw poiÆsei épore›n ıpo›on t«n §rvthmãtvn énairet°on. toËto d¢ xalepÒn: énairet°on m¢n gãr, ˜ ti dÉ énairet°on êdhlon. t«n dÉ §ristik«n drimÊtatow m¢n ı pr«ton eÈyÁw êdhlow pÒteron sullelÒgistai μ oÎ, ka‹ pÒteron parå ceËdow μ diaiÄresiÄn §stin ≤ lÊsiw: deÊterow d¢ t«n êllvn ı d∞low m¢n ˜ti parå diaiÄresin μ énaiÄresiÄn §sti, mØ fanerÚw dÉ Ãn diå tiÄnow t«n ±rvthm°nvn énaiÄresin μ diaiÄresin lut°ow §stiÄn, μ pÒteron aÏth parå tÚ sump°rasma μ parã ti t«n §rvthmãtvn §stiÄn. ÉEniÄote m¢n oÔn ı mØ sullogisye‹w lÒgow eÈÆyhw §stiÄn, §ån ¬ liÄan êdoja μ ceud∞ tå lÆmmata: §niÄote dÉ oÈk êjiow katafrone›syai. ˜tan m¢n går §lleiÄp˙ ti t«n toioÊtvn §rvthmãtvn per‹ ì ı lÒgow ka‹ diÉ ë, [ka‹] mØ proslabΔn toËto ka‹ mØ sullogisãmenow eÈÆyhw ı sullogismÒw: ˜tan d¢ t«n ¶jvyen, oÈk eÈkatafrÒnhtow oÈdam«w, éllÉ ı m¢n lÒgow §pieikÆw, ı dÉ §rvt«n ±r≈thken oÈ kal«w. ÖEsti d°, Àsper lÊein ıt¢ m¢n prÚw tÚn lÒgon ıt¢ d¢ prÚw tÚn §rvt«nta ka‹ tØn §r≈thsin ıt¢ d¢ prÚw oÈd°teron toÊtvn^ımoiÄvw ka‹ §rvtçn ¶sti ka‹ sullogiÄzesyai ka‹ prÚw tØn y°sin ka‹ prÚw tÚn épokrinÒmenon ka‹ prÚw tÚn xrÒnon, ˜tan ¬ pleiÄonow xrÒnou deom°nh ≤ lÊsiw μ toË parÒntow kairoË toË dialexy∞nai prÚw tØn lÊsin.

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ÉEk pÒsvn m¢n oÔn ka‹ poiÄvn giÄnontai to›w dialegom°noiw ofl paralogismoiÄ, ka‹ p«w deiÄjom°n te ceudÒmenon ka‹ parãdoja l°gein poiÆsomen, ¶ti dÉ §k tiÄnvn sumbaiÄnei ı soloikismÒw, ka‹ p«w §rvtht°on ka‹ tiÄw ≤ tãjiw t«n §rvthmãtvn, ¶ti d¢ prÚw tiÄ xrÆsimoi pãntew efis‹n ofl toioËtoi lÒgoi, ka‹ per‹ épokriÄsevw èpl«w te pãshw ka‹ p«w lut°on toÁw lÒgouw ka‹ toÁw sullogismoÊw, efirÆsyv per‹ èpãn-

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proposizione altrettanto plausibile, e questo necessariamente renderà perplessi. Massimamente acuta è dunque l’argomentazione che rende la conclusione equivalente alle premesse. Al secondo posto viene quella in cui le premesse sono tutte dello stesso grado, perché anch’essa renderà ugualmente perplessi su quale delle domande sia da demolire. Qui sta il difficile: bisogna demolire, ma che cosa vada demolito non è chiaro. Delle argomentazioni eristiche è massimamente acuta in primo luogo quella di cui è addirittura oscuro se abbia sillogizzato o meno e se la risoluzione dipenda dal falso o dalla distinzione. In secondo luogo, delle altre argomentazioni eristiche, è massimamente acuta quella in cui è chiaro che deve essere risolta con una distinzione oppure con una demolizione, ma non è manifesto con la demolizione o la distinzione di quale domanda si debba risolvere, oppure se la risoluzione debba riguardare la conclusione o una delle domande. Talvolta l’argomentazione che non ha sillogizzato è sciocca, ove le assunzioni siano molto implausibili o false, ma talvolta non merita disprezzo. Infatti, quando manca una di quelle domande sulle quali l’argomentazione è incentrata e dalle quali dipende, il sillogismo che né la assume in aggiunta né sillogizza è sciocco. Quando invece manca una delle domande esteriori, l’argomentazione non va affatto disprezzata alla leggera, ma come argomentazione è adeguata, mentre è l’interrogante che non ha interrogato bene. Così come è possibile risolvere a volte contro l’argomentazione, a volte contro chi interroga e contro l’interrogazione, e a volte contro nessuna delle due cose, allo stesso modo è possibile interrogare e sillogizzare contro la tesi, contro il rispondente, e contro il tempo, quando la risoluzione richieda più tempo di quanto25 l’occasione ne metta a disposizione per la discussione della risoluzione.

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CAPITOLO 34 Quante e quali cose diano origine ai paralogismi nelle discussioni, come potremo mostrare che l’interlocutore dice il falso e fargli enunciare un paradosso, e poi, quante siano le cause da cui consegue il solecismo26, come si debba interrogare e quale debba essere l’ordine delle domande; e ancora a che cosa siano utili tutte le argomentazioni siffatte, e sulla risposta sia in generale sia, in particolare, come si debbano risolvere le argomentazioni e i solecismi: su tutte queste cose sia 91

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tvn ≤m›n taËta. loipÚn d¢ per‹ t∞w §j érx∞w proy°sevw énamnÆsasin efipe›n ti braxÁ per‹ aÈt∞w ka‹ t°low §piye›nai to›w efirhm°noiw. ProeilÒmeya m¢n oÔn eÍre›n dÊnamiÄn tina sullogistikØn per‹ toË problhy°ntow §k t«n ÍparxÒntvn …w §ndojotãtvn: toËto går ¶rgon §st‹ t∞w dialektik∞w kayÉ aÍtØn ka‹ t∞w peirastik∞w. §pe‹ d¢ proskataskeuãzetai prÚw aÈtØn diå tØn t∞w sofistik∞w geitniÄasin, …w oÈ mÒnon pe›ran dÊnatai labe›n dialektik«w éllå ka‹ …w efid≈w, diå toËto oÈ mÒnon tÚ lexy¢n ¶rgon Ípey°meya t∞w pragmateiÄaw, tÚ lÒgon dÊnasyai labe›n, éllå ka‹ ˜pvw lÒgon Íp°xontew fulãjomen tØn y°sin …w diÉ §ndojotãtvn ımotrÒpvw. tØn dÉ afitiÄan efirÆkamen toÊtou, §pe‹ ka‹ diå toËto Svkrãthw ±r≈ta éllÉ oÈk épekriÄneto: …molÒgei går oÈk efid°nai. dedÆlvtai dÉ §n to›w prÒteron ka‹ prÚw pÒsa ka‹ §k pÒsvn toËto ¶stai, ka‹ pÒyen eÈporÆsomen toÊtvn, ¶ti d¢ p«w §rvtht°on ka‹ takt°on tØn §r≈thsin pçsan, ka‹ periÄ te épokriÄsevn ka‹ lÊsevn t«n prÚw toÁw sullogismoÊw. dedÆlvtai d¢ ka‹ per‹ t«n êllvn ˜sa t∞w aÈt∞w meyÒdou t«n lÒgvn §stiÄn. prÚw d¢ toÊtoiw per‹ t«n paralogism«n dielhlÊyamen, Àsper efirÆkamen ≥dh prÒteron. ˜ti m¢n oÔn ¶xei t°low flkan«w ì proeilÒmeya, fanerÒn: de› dÉ ≤mçw mØ lelhy°nai tÚ sumbebhkÚw per‹ taÊthn tØn pragmateiÄan. t«n går eÍriskom°nvn èpãntvn tå m¢n parÉ •t°rvn lhfy°nta prÒteron peponhm°na katå m°row §pid°dvken ÍpÚ t«n paralabÒntvn Ïsteron, tå dÉ §j Íparx∞w eÍriskÒmena mikrån tÚ pr«ton §piÄdosin lambãnein e‡vye, xrhsimvt°ran m°ntoi poll“ t∞w Ïsteron §k toÊtvn aÈjÆsevw: m°giston går ‡svw érxØ pantÒw, Àsper l°getai. diÚ ka‹ xalep≈taton: ˜sƒ går krãtiston tª dunãmei, tosoÊtƒ mikrÒtaton ¯n t“ meg°yei xalep≈tatÒn §stin Ùfy∞nai. taÊthw dÉ eÍrhm°nhw =òon tÚ prostiy°nai ka‹ sunaÊjein tÚ loipÒn §stin: ˜per ka‹ per‹ toÁw =htorikoÁw lÒgouw sumb°bhke, sxedÚn d¢ ka‹ per‹ tåw êllaw èpãsaw t°xnaw. ofl m¢n går tåw érxåw eÍrÒntew pantel«w §p‹ mikrÒn ti proÆgagon: ofl d¢ nËn eÈdokimoËntew, paralabÒntew parå poll«n oÂon §k diadox∞w katå m°row proagagÒntvn, oÏtvw hÈjÆkasi, TeisiÄaw m¢n metå toÁw pr≈touw, YrasÊmaxow d¢ metå TeisiÄan, YeÒdvrow d¢ metå toËton,

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detto da noi quanto precede. Rimane da dire brevemente, richiamandolo alla memoria, qualcosa sul proposito stabilito all’inizio e porre un termine alla nostra esposizione. Ci eravamo proposti di scoprire una certa capacità di sillogizzare su un problema posto a partire dalle premesse più plausibili a disposizione. Questo è infatti il compito della dialettica in se stessa e dell’arte esaminatrice. Poiché però si pretende27 in relazione ad essa, per la sua affinità con la sofistica, che non solo sia capace di condurre un esame dialetticamente ma anche come se sapesse, per questa ragione abbiamo posto quale compito della trattazione non solo quello detto, il saper chiedere ragione, ma anche che, quando rendiamo ragione, difendiamo la tesi nello stesso modo, mediante cose quanto più plausibili. Di questo abbiamo già detto la ragione, dato che è sempre per questo motivo che Socrate interrogava ma non rispondeva: riconosceva infatti di non sapere. È stato chiarito nei discorsi precedenti sia riguardo a quante cose sia a partire da quante premesse si eserciterà tale capacità e donde trarremo queste premesse in abbondanza; in seguito, come si deve porre e come si deve ordinare ogni domanda, e riguardo alle risposte e alle risoluzioni relative ai sillogismi. Sono state poi chiarite tutte le altre cose che fanno parte della stessa indagine metodica delle argomentazioni. Dopo di che si è discusso dei paralogismi, come abbiamo già detto qui sopra. Che dunque il nostro proposito sia stato portato a compimento in modo adeguato, è manifesto, ma non ci deve sfuggire come siano andate le cose con la presente trattazione. In effetti, in tutte le scoperte, quel che in precedenza è stato da altri faticosamente acquisito viene poi fatto progredire un po’ per volta dai successori, e le scoperte iniziali apportano di solito un progresso piccolo, ma molto più utile dell’accrescimento successivo, giacché, come si dice, il principio è certo la cosa più grande di tutto. Per questo è anche la più difficile, perché quanto è forte per la capacità, altrettanto è piccola per la grandezza e quindi difficilissima da scorgere. Una volta trovato quello, è più facile aggiungere e sviluppare ciò che manca, come è capitato anche per i discorsi retorici, e si può dire per tutte le altre arti. Coloro che hanno scoperto i principi hanno progredito assolutamente di poco, mentre i contemporanei oggi rinomati hanno fatto crescere le cose in questo modo perché sono eredi di molti che progredirono parzialmente un po’ per volta, come in successione: Tisia dopo i primi, Trasimaco dopo Tisia, Teodoro dopo costui, e molti hanno apportato molti contributi parziali, perciò non desta sorpresa che l’arte possieda una cer93

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ka‹ pollo‹ pollå sunenhnÒxasi m°rh: diÒper oÈd¢n yaumastÚn ¶xein ti pl∞yow tØn t°xnhn. taÊthw d¢ t∞w pragmateiÄaw oÈ tÚ m¢n ∑n tÚ dÉ oÈk ∑n proejeirgasm°non, éllÉ oÈd¢n pantel«w Íp∞rxen. ka‹ går t«n per‹ toÁw §ristikoÁw lÒgouw misyarnoÊntvn ımoiÄa tiw ∑n ≤ paiÄdeusiw tª GorgiÄou pragmateiÄ&: lÒgouw går ofl m¢n =htorikoÁw ofl d¢ §rvthtikoÁw §diÄdosan §kmanyãnein, efiw oÓw pleistãkiw §mpiÄptein ”Æyhsan •kãteroi toÁw éllÆlvn lÒgouw. diÒper taxe›a m¢n êtexnow dÉ ∑n ≤ didaskaliÄa to›w manyãnousi parÉ aÈt«n: oÈ går t°xnhn éllå tå épÚ t∞w t°xnhw didÒntew paideÊein Ípelãmbanon, Àsper ín e‡ tiw, §pistÆmhn fãskvn parad≈sein §p‹ tÚ mhd¢n pone›n toÁw pÒdaw, e‰ta skutotomikØn m¢n mØ didãskoi mhdÉ ˜yen dunÆsetai poriÄzesyai tå toiaËta, doiÄh d¢ pollå g°nh pantodap«n Ípodhmãtvn: otow går beboÆyhke m¢n prÚw tØn xreiÄan, t°xnhn dÉ oÈ par°dvken. ka‹ per‹ m¢n t«n =htorik«n Íp∞rxe pollå ka‹ palaiå tå legÒmena, per‹ d¢ toË sullogiÄzesyai pantel«w oÈd¢n e‡xomen prÒteron êllo l°gein éllÉ μ tribª zhtoËntew polÁn xrÒnon §ponoËmen. efi d¢ faiÄnetai yeasam°noiw Ím›n, …w §k toioÊtvn §j érx∞w ÍparxÒntvn, ¶xein ≤ m°yodow flkan«w parå tåw êllaw pragmateiÄaw tåw §k paradÒsevw hÈjhm°naw, loipÚn ín e‡h pãntvn Ím«n μ t«n ±kroam°nvn ¶rgon to›w m¢n paraleleimm°noiw t∞w meyÒdou suggn≈mhn to›w dÉ eÍrhm°noiw pollØn ¶xein xãrin.

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ta ampiezza. Della trattazione presente, invece, non è che una parte fosse stata elaborata prima e una parte no: non esisteva assolutamente nulla. E infatti la formazione che davano i maestri a pagamento riguardo alle argomentazioni eristiche è simile a quella della trattazione di Gorgia, giacché gli uni davano da imparare a memoria discorsi retorici e gli altri discorsi per domande, nei quali gli uni e gli altri ritenevano che per lo più ricadessero le argomentazioni di entrambe le parti in causa. Perciò l’insegnamento era rapido per i loro allievi ma privo di arte. Ritenevano infatti di formare offrendo non l’arte ma i risultati dell’arte, come se uno che dicesse di impartire la conoscenza relativa al non soffrire male ai piedi, non insegnasse poi l’arte del calzolaio né in che modo sia possibile procurarsi cose di questo tipo, ma fornisse ogni sorta di calzature. Costui avrebbe fatto fronte alla necessità, ma non avrebbe impartito un’arte. E sugli argomenti retorici esistevano numerose esposizioni e antiche, mentre riguardo al sillogizzare prima non avevamo nient’altro da menzionare, se non che28 noi per lungo tempo ci siamo affaticati con ricerche e tentativi. Se a voi, dopo averla considerata, sembra che per essere stata costituita a partire da una tale condizione di partenza la nostra indagine metodica sia soddisfacente rispetto alle altre trattazioni che sono state accresciute dalla tradizione, resta a tutti voi o29 agli ascoltatori il compito di avere comprensione per le lacune dell’indagine metodica e molta gratitudine per le sue scoperte.

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Note

(166a30-31) Leggo §mãnyanen mss., in luogo di manyãnei Ross. (167a22) Con Boezio, i (Laurentianus 72.15) ometto êllvw Ross (éllå principali mss.). 3 (170a22) Leggo oÈdemiÄaw mss., in luogo di oÈ miçw Ross. 4 (170b20-21) A b20 Ripristino tiw... o‡oito mss., in luogo di tinew... o‡ointo Ross A b21 ometto ka‹ ı §rvt«n ka‹ ı §rvt≈menow mss. 5 (170b22-23) A b22 ometto ka‹ ı épokrinÒmenow mss. A b23 ripristino ofiÒmenow... ±r≈thse mss., in luogo di ofiÒmenoi... efirÆkasi Ross. 6 (170b24-25) Ometto îrÉ e il punto e virgola Ross. 7 (171a10) Leggo kÊklou mss., in luogo di kÊklow Ross. 8 (171a34) Ripristino mØ erroneamente sfuggito a Ross. 9 (174b37) épof∞sai... f∞sai mss. anziché épÒfhsi... fhsiÄ Ross. 10 (177a22) Leggo tÚ mss., in luogo di t“ Ross. 11 (177a25) Leggo ¶stin êra Boezio (¶stin îra u [= Basileensis 54]), Pacius, in luogo di îrÉ ¶sti principali mss., Ross. 12 (177b3) Leggo ÙrÒw Uhlig, in luogo di ˜row Ross. 13 (178a8) Colloco un punto fermo dopo l°jin. 14 (178a32) Leggo ˜son d¢ mØ ¶xei μ ˜sa mss., in luogo di ˜sa d¢ mØ ¶xei √ ˜sa Ross. 15 (178b38) Ometto μ posÚn Ross. 16 (178b39) Leggo prÒw ti pvw con i principali mss. e Boezio. 17 (179b21) Leggo édÊnaton sunãgvn efiw édÊnaton principali mss., in luogo di dunatÒn Ross. 18 (179b24-25) Tolgo le cruces apposte da Ross. 19 (179b32) Ometto ˆn Ross. 20 (180b7) Ometto aÈtÚn Ross. 21 (180b11) Leggo égayÒn mss., in luogo di b°ltion Ross. 22 (180b38) Leggo nikò mss., in luogo di nikçtai Ross. 23 (181a17) Leggo l°gonta mss., in luogo di l°gonti Boezio, Ross. 24 (181b28) Leggo êneu mss., in luogo di ént‹ Ross. 25 (183a25) Ripristino μ mss. espunto da Ross. Cfr. Top. VIII 10, 161a11. 1 2

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(183a30) Leggo soloikismÒw Pacius, in luogo di sullogismÒw mss., Ross. (183b1-3) Leggo proskataskeuãzetai... …w... dÊnatai mss., in luogo di prokataskeuast°on ... ÀstÉ ... dÊnasyai Ross. 28 (184b2) Leggo êllo l°gein éllÉ μ tribª principali mss., in luogo di l°gein μ tribª Ross. 29 (184b6) Ripristino μ mss. espunto da Zeller, Ross. 26 27

Commento

CAPITOLO 1 164a20-165a4. L’esordio introduce le definizioni di alcuni concetti fondamentali, ma soprattutto richiama l’attenzione del lettore su un presupposto basilare della trattazione in programma: l’apparenza è un dato di fatto e nel caso delle argomentazioni si dà, come nelle altre cose, a causa di una certa somiglianza. Aristotele non cerca una giustificazione o una fondazione di questo fenomeno, ma ritiene sufficiente illustrarlo con alcuni esempi introdotti in modo graduale dal più familiare al più inconsueto: prima gli esseri umani, poi gli oggetti inanimati e infine oggetti astratti come il sillogismo e la confutazione. La mancanza di una discussione più approfondita potrebbe stupire il lettore che conosce la discussione dell’apparenza del Sofista di Platone, dove proprio l’analisi di questo concetto fa venire al pettine alcuni nodi concettuali particolarmente intricati: la questione del falso e di ciò che non è (Sph. 236d9 sgg.). Può darsi che Aristotele consideri ormai risolti questi problemi, così come sembra considerarli Platone alla fine del Sofista, ma qui la mancanza di discussione va piuttosto spiegata con la struttura caratteristica dei trattati aristotelici, che non dimostrano ma danno per nota l’esistenza del loro genere/argomento (vedi 165a32-33 e cfr. p. es. Ph. I 2, 184b25-27 e 185a17-19: non è compito della scienza della natura discutere le tesi eleatiche contro il movimento e la pluralità). Una volta chiarita questa impostazione, risulta comprensibile anche la totale assenza del problema del falso e di ciò che non è dal nostro trattato. 164a20-21. ka‹ equivale a un «cioè»: qui le confutazioni sofistiche non sono altro che le confutazioni apparenti. Il termine «paralogismo» con cui Aristotele si riferisce spesso alle confutazioni apparenti (a 8, 169b37 dirà più precisamente «paralogismi della contraddittoria») avrebbe a rigore uno spettro di applicazione più ampio, giacché non denota solo un sillogismo (o una confutazione) apparente, ma anche un sillogismo valido con premesse false (Top. I 1, 101a6-7); o un sillogismo

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valido non appropriato all’oggetto (171b11-12). Qui ad a21 «paralogismo» sembra indicare la consistenza oggettiva della confutazione apparente, ciò che essa si rivela essere una volta dissolta l’apparenza, ma il termine non viene sempre usato per indicare questo aspetto. Per altre considerazioni su «paralogismo» vedi Schreiber 2003, pp. 173-176. 164a27-b21. L’avverbio fuletik«w, «in modo tribale» a27, è hapax legomenon e non è affatto chiaro. Può alludere al modo in cui venivano adornate le vittime di sacrifici offerte dalle tribù ateniesi nelle feste rituali, oppure (secondo un suggerimento di Poste, p. 97) al modo in cui venivano presentati i cori offerti dalle tribù. Ampia discussione in Dorion, pp. 205-206. Su komm≈santew b20, cfr. Pl. Grg. 465b-c, spec. c2-3, dove già incontriamo l’accostamento tra cosmesi e sofistica. 164b27. Guardando come se si fosse lontani non si distinguono le cose autentiche dalle loro contraffazioni e questa miopia è una metafora generale dello stato cognitivo in cui si trovano gli inesperti. Aristotele riprende un’immagine platonica: gli inesperti sono ingannati dall’apparenza perché guardano le cose come da lontano. Nel Sofista (234b5-c7) Platone si serve di questo paragone per illustrare l’apparenza ingannevole della sofistica. Inizialmente (234b5-c2) Platone sembra intendere la distanza come parte del trucco illusionistico (se collocate lontano dall’osservatore, le immagini susciteranno apparenze ingannevoli), mentre nel seguito (234c2-7) emerge che la distanza, divenuta ora anche distanza dalle cose vere, è, come per Aristotele, una metafora generale dell’inesperienza. Una discussione di questi passi in Notomi 1999, cap. 5. 164b27-165a2. La definizione del sillogismo è equivalente a quella che troviamo in altre opere, APr. I 1, 24b18-20 e Top. I 1, 100a25-27, e che potremmo considerare «ufficiale», e tuttavia presenta qualche aspetto singolare meritevole di considerazione (lo stesso potrebbe osservarsi della definizione di Rh. I 2, 1356b1518, che qui però lascio da parte; cfr. Rapp 2002, II, pp. 161-167). (a) A differenza delle altre due, la nostra definizione del sillogismo non menziona il genere del definiendum: non dice cioè che il sillogismo è un’argomentazione (lÒgow) di una certa sorta. (b) Nelle altre definizioni la conclusione deve «seguire di necessità», mentre ora è necessario dirla (Àste l°gein ßteron §j énãgkhw). Poiché questa formulazione atipica ritorna anche a 6, 168a21-22, sembra probabile che sia stata introdotta per una precisa ragione. (c) La definizione sembra ridondante perché usa due preposizioni che normalmente hanno lo stesso significato: §k tin«n e poi diå t«n keim°nvn. Si noti a questo proposito che la maggioranza dei manoscritti più antichi e autorevoli non attesta la lezione diå t«n keim°nvn, mantenuta dagli editori sulla base del ms. B (Marcianus 201), che è il codice migliore. Questa locuzione, che troviamo anche nella definizione di Top. I 1, 100a25-27, sembra equivalente all’espressione t“ taËta e‰nai, che si legge invece nella definizione di APr. I 1, 24b1820, e serve a garantire che le premesse non siano insufficienti (vedi la spiegazione immediatamente seguente, 24b20-21, dove t“ taËta e‰nai = diå taËta sumbaiÄnein; e nota che in tutti questi contesti diã ha valore causale sia con l’accusativo sia

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col genitivo, cfr. Bonitz, Index Aristotelicus 177a38-49). L’omissione di diå t«n keim°nvn potrebbe però sembrare giustificata dalla presenza di §k tin«n, giacché, per dire che la conclusione deriva dalle premesse, Aristotele di solito alterna liberamente le preposizioni diã ed §k e sembra quindi che nella nostra definizione l’espressione diå t«n keim°nvn ripeta inutilmente il concetto già espresso da §k tin«n §sti tey°ntvn. Si osservi poi che diå t«n keim°nvn non ricorre a 5, 167a25 né a 6, 168a 21-23, dove la definizione del sillogismo viene ripresa. Il problema della ridondanza, tuttavia, dipende dal fatto che diamo a §k un valore «derivativo» («a partire da alcune cose poste»). Tale significato sembra infatti l’unico appropriato al contesto e viene adottato dalla quasi unanimità degli studiosi (fanno eccezione Kirchmann, Bonghi e Colli). Se invece supponiamo che la preposizione §k (che in questo caso è accompagnata da e‰nai e non da sumbaiÄnein) indichi qui che il sillogismo è costituito dalle premesse poste (cfr. Rh. I 3, 1359a8-10), non che la conclusione deriva da esse, la clausola diå t«n keim°nvn non è più pleonastica e diventa anzi indispensabile (con lo stesso ruolo che ha nella definizione dei Topici). Se questo è il valore della preposizione, Aristotele non sta definendo nel solito modo, per genere e differenza, ma per composizione delle parti costituenti. Questo diverso tipo di definizione è descritto in generale nei Topici (VI 13, 150a1 sgg.), dove viene espresso mediante tre formule: «ciò che è queste cose» (tãde), «ciò che è costituito da queste cose» (tÚ §k toÊtvn) e infine «questo accompagnato da questo» (tÒde metå toËde). Il terzo tipo è inequivocabilmente esemplificato dalla definizione della confutazione che segue immediatamente quella del sillogismo che stiamo esaminando (165a2-3: «la confutazione è un sillogismo accompagnato dalla contraddittoria della conclusione», sullogismÚw metÉ éntifãsevw toË sumperãsmatow). Questa definizione della confutazione, a sua volta eccentrica se confrontata con quella canonica per genere e differenza specifica («sillogismo della contraddittoria», vedi la n. seguente), ci fornisce un riscontro decisivo per affermare che anche la definizione del sillogismo ha carattere composizionale, ed esemplifica la seconda formulazione dei Topici, «ciò che è costituito da queste cose». In questo modo sono spiegate anche le peculiarità (a) e (b) riscontrate sopra: è chiaro che in una definizione composizionale il genere non viene menzionato, ma d’altra parte con questo diverso tipo di definizione si perde un’informazione importante sul sillogismo, e cioè che è un logos. Aristotele cerca allora di reintegrare tale informazione in modo obliquo, e così precisa che le premesse devono essere poste in modo che sia necessario dire la conclusione (la «necessità del dire» è chiamata in causa in un’altra occasione: APo. I 6, 75a26, ma quel passo non getta luce sul presente; cfr. Fait 2004). Non è chiara la ragione di questa formulazione anomala delle due definizioni. Forse Aristotele ha bisogno di definizioni articolate secondo le parti per ritrovare più facilmente le cause dei vari paralogismi: cfr. 6, 168a23; 8, 169b40-170a1. 165a2-3. Nella n. precedente, la definizione della confutazione presentata in queste righe è stata messa a confronto con quella che ho chiamato canonica: «sillogismo della contraddittoria» (SE 6, 168a37; 9, 170b1-2; 10, 171a1-7; APr. II 20, 66b11), cioè sillogismo avente per conclusione una proposizione che è la contraddittoria di una proposizione data. Il contesto (p. es. APr. II 20, 66b10) ci in-

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segna che quest’ultima proposizione è la tesi che il rispondente ha assunto all’inizio e che l’interrogante deve confutare a partire dalle premesse concesse dall’avversario. La definizione ora in esame «sillogismo accompagnato dalla contraddittoria della conclusione» rovescia la formulazione: la contraddittoria non è più la conclusione rispetto alla tesi, ma la tesi rispetto alla conclusione. Un terzo tipo di definizione della confutazione a 5, 167a23-27 e 17, 175a3637. Per uno studio comparativo di queste tre formulazioni, cfr. Gobbo 1993; 1997. 165a3-13. Una delle più importanti fonti o cause di paralogismi (per il termine tÒpow a5, vedi 4, 166b20-21; 6, 169a18 e la n. a 9, 174a34-39) deriva dalla natura stessa del linguaggio. L’ambiguità è necessaria perché il linguaggio deve esprimere con un numero finito di parole e locuzioni un numero infinito di significati. Il passo offre una chiave di lettura generale delle confutazioni dipendenti dall’espressione (cap. 4): l’impossibilità di «portare gli oggetti stessi» significa che il linguaggio deve svolgere una funzione simbolica, cioè vicaria (un sÊmbolon qui è un contrassegno che sta «al posto di» qualcosa e, come risulta chiaro da Int. 1, 16a3-6; 2, 16a27-28, ha sempre carattere convenzionale). Allo stesso modo procede il computo mediante sassolini o gettoni, che serve proprio per ovviare ai limiti umani di rappresentazione numerica. Chi usa il linguaggio, come chi calcola, manipola simboli senza considerarne i significati e tende a confidare che il piano dei simboli corrisponda a quello della realtà; ma non è così (a10), e da ciò nascono gli errori. Perché questa corrispondenza fra piani viene meno? Perché le parole, come i sassolini, sono necessariamente ambigue. Ma vediamo meglio. Polibio (V 26, 13) e Diogene Laerzio (I 59) offrono indicazioni decisive per chiarire il significato del sofisticato paragone tra linguaggio e calcolo. Diogene riferisce un detto di Solone che assimila gli accoliti dei tiranni ai sassolini o gettoni usati per i calcoli: come questi «significano ora più, ora meno» così quelli sono ora altamente stimati, ora disprezzati. In Polibio troviamo lo stesso paragone arricchito di qualche dettaglio. L’abaco usato dai greci conteneva una serie di colonne rappresentanti diversi ordini di grandezza (p. es. unità, decine, centinaia, migliaia, miriadi). I sassolini, non vincolati alle colonne, potevano essere spostati cambiando valore. La possibilità di riposizionare i sassolini rivelava, come mostrano i due passi citati, il carattere posizionale del sistema di rappresentazione numerica costituito dall’abaco, in quanto il valore di ogni simbolo era determinato dalla colonna occupata sulla tavoletta. Potremmo dire, in sintesi, che i sassolini dell’abaco sono «ambigui». Abbiamo ora un’informazione che Aristotele non ha ritenuto di ricordare, e questo ci permette di rendere esplicita l’analogia istituita nel nostro passo: i sassolini e le parole mostrano la medesima ambiguità, così come i primi mutano di valore secondo la posizione, le seconde cambiano significato col variare dei contesti in cui sono usate. L’ambiguità dei sassolini porta ad escludere la diffusa interpretazione (p. es. Dorion, p. 206) secondo la quale l’analogia tra parole e sassolini verrebbe invece negata («Ma non è la stessa cosa» a10), perché tra sassolini e oggetti numerati vi sarebbe una corrispondenza uno-uno che può estendersi all’infinito senza ambi-

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guità, mentre tra le parole numericamente finite e le infinite cose significate dovrebbe sussistere per forza una corrispondenza uno-molti che invece implica l’ambiguità. Come abbiamo visto, però, non vi è in realtà alcuna corrispondenza uno-uno tra sassolini e cose numerate e, inoltre, se il paragone tra parole e sassolini fosse introdotto per negare una somiglianza, non si comprenderebbe perché venga poi ripreso, nella parte conclusiva del passo (a13-17), per affermare una precisa analogia tra l’inganno computistico e quello sofistico. Il passo va invece spiegato in questo modo: vi è una analogia tra quel che noi uomini crediamo riguardo al rapporto parole/oggetti e quel che credono le persone impegnate nei calcoli riguardo al rapporto sassolini/oggetti. Noi crediamo che quel che accade sul piano delle parole abbia una esatta corrispondenza con quel che accade sul piano degli oggetti significati e parimenti quelli che fanno calcoli pensano che quel che accade sul piano dei sassolini abbia una esatta corrispondenza con il piano degli oggetti computati. È per questo che entrambi ci affidiamo ai simboli, gli uni ragionando con le parole, gli altri manipolando i sassolini. Ma questa corrispondenza con gli oggetti non si dà in nessuno dei due campi («Ma non è la stessa cosa»). A questo punto viene fornita una spiegazione della mancanza di corrispondenza tra le parole (e le locuzioni) e gli oggetti: le prime sono finite, i secondi infiniti. È dunque necessario che le parole (e le locuzioni) siano ambigue, perché bisogna poter dire un’infinità di cose con mezzi espressivi limitati. Questa contrapposizione quantitativa tra linguaggio e oggetti, in sé piuttosto oscura, viene implicitamente illuminata dal caso dei sassolini, nel quale la stessa contrapposizione finito/infinito è più chiara e convincente. Una volta riconosciuta l’ambiguità dei sassolini, infatti, diventa facile comprendere che infiniti numeri possono essere rappresentati riutilizzando ciclicamente e sistematicamente pochi simboli determinati in partenza (nove sassolini) o, detto in altre parole, che si può contare all’infinito senza introdurre infiniti tipi di simboli. È questa intuizione sulla rappresentazione numerica il perno di tutto il paragone e, per inciso, essa è molto importante anche storicamente: ricordiamo che i sistemi di notazione numerica in uso al tempo di Aristotele non conoscevano lo zero e sfruttavano in modo modesto la possibilità di riutilizzare gli stessi simboli in diversi ordini di grandezza. Tale possibilità acquista il suo pieno significato solo in un sistema di notazione posizionale (come quello indoarabico che usiamo oggi), un sistema cioè capace di esprimere ogni numero mediante cifre dotate sia di un valore intrinseco sia di un valore di posizione. È probabile dunque che Aristotele abbia esteso al linguaggio quella contrapposizione finito/infinito che lo aveva colpito nel caso della rappresentazione dei numeri sull’abaco. Ulteriori dettagli in Fait 1996; per due interpretazioni diverse da quella qui proposta, cfr. Lo Piparo 2003, pp. 182-186; Schreiber 2003, pp. 11-18. 165a13-17. Conclusione dell’analogia fra calcolo aritmetico e ragionamento. Come gli inesperti di calcoli vengono ingannati, così gli inesperti nel distinguere i significati delle parole commettono paralogismi. Non sappiamo con precisione come si svolgesse l’inganno aritmetico a cui pensa Aristotele. Se vale l’analisi condotta nella nota precedente, è probabile che gli esperti di calcoli ingannassero gli

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inesperti «riportando» i sassolini su un’altra colonna in modo non corretto. Per un paragone in qualche modo analogo, questa volta tra dialettica e gioco della petteia, cfr. Pl. R. VI 487b1-c4. Sugli ascoltatori (a17), cfr. la n. a 8, 169b31. La «forza» (dÊnamiw) delle parole è il loro valore semantico, cioè il significato, cfr. Pl. Cra. 394a-b; Arist. APr. I 39, 49b3. 165a19-31. Dopo aver ricordato che esistono sillogismi e confutazioni apparenti, Aristotele spiega perché costituiscono il dominio del sofista. Poiché vi sono persone che si prefiggono lo scopo di sembrare sapienti senza esserlo, e costoro sono appunto i sofisti per definizione, bisognerà che sembrino svolgere il compito dei sapienti. Tale compito consiste da un lato nel non dire niente di falso e dall’altro nello smascherare chi dice il falso. Ciò corrisponde al saper rendere ragione (cioè rispondere) e al saper chiedere ragione (cioè interrogare). Dunque l’indagine di questo genere di argomentazioni (cioè dei sillogismi e delle confutazioni apparenti) sarà utile a chi vuole sembrare sapiente, perché con esse egli sembrerà capace di rispondere e interrogare. La definizione del sofista di a21-23, si rifà a quella distillata nel corso del Sofista platonico. Alla fine del dialogo il sofista è definito come un «imitatore del sapiente» (268c1) e qui Aristotele conferma che il sofista dovrà sembrare svolgere il compito del sapiente (cfr. Notomi 1999, p. 44). Anche il tratto caratteristico della venalità emerge continuamente nel Sofista e in altri dialoghi. Blank 1985 raccoglie le testimonianze e si interroga sulle ragioni del disprezzo socratico per questo costume. Non è chiaro se Aristotele ritenga che la definizione del sofista sia comunemente condivisa: «quelli che chiamiamo sofisti» (a33) sottintende un «noi» che non è facile delimitare. 165a30-31. L’esistenza di una dÊnamiw è presupposto fondamentale dello sviluppo di un’arte. Non vi sarebbe né arte né una sua trattazione se non vi fosse una capacità. La distinzione tra capacità (dÊnamiw a30, 33, 35) e intenzione (proaiÄresiw a31; cfr. a28) è importante: non basta avere la capacità per essere sofisti, bisogna anche averne l’intenzione. Il contrasto è sfruttato a Rh. I 1, 1355b15-21 e a Metaph. G 2, 1004b22-25: il dialettico si distingue per la capacità; il sofista per l’intenzione. La ragione di questo modo di caratterizzare la sofistica si fonda sulla grammatica concettuale del termine «sofista»: come «ladro» e altri termini dispregiativi, questo epiteto non può essere attribuito a qualcuno che ha solo una capacità (altrimenti le persone oneste dotate di sufficiente destrezza meriterebbero già per questo il titolo di «ladro»); cfr. Top. IV 5, 126a30-b3. «Dialettico» e «filosofo», invece, si applicano a chiunque abbia anche solo le rispettive capacità. Diventa così possibile attribuire alla sfera di competenza del dialettico anche lo studio dei sillogismi apparenti (9, 170a39-b11; 11, 172b6-7) senza doverlo con ciò qualificare come sofista (cfr. Dorion, p. 212). Lo stesso non vale invece per «retore», giacché non chiamiamo retore solo chi si limita a conoscere gli entimemi apparenti, ma anche chi li usa, e perciò il termine «retore» connota sia la capacità sia l’intenzione (Rh. I 1, 1355b15-21). In quanto sembra suggerire che siano sempre determinanti le intenzioni piuttosto che certe specifiche operazioni, il ricor-

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so a questa distinzione è talora interpretato come negazione dell’esistenza di una precisa linea di confine tra la dialettica e la sofistica (cfr. Striker 1996a, p. 9). Aristotele tuttavia usa la distinzione tra capacità e intenzione solo per mostrare che la conoscenza dei sillogismi apparenti è una parte della capacità dialettica, il che è compatibile con l’eventualità che le argomentazioni dialettiche e quelle sofistiche cadano in due classi disgiunte, e che l’intenzione che caratterizza il sofista sia quella di usare argomentazioni sofistiche, quella del dialettico onesto di usare argomentazioni dialettiche (Reeve 1998, p. 229). Qui l’argomento aristotelico non implica che si possano usare argomentazioni dialettiche con intenzioni sofistiche (pace Striker 1996a, p. 9), il che mi sembra invece implicato da SE 34, 183b1-6 (vedi Introduzione, par. 7). Del resto qui ad a30, 33 e 35 la dÊnamiw in discussione non è quella dialettica in generale ma solo quella sofistica. 165a34-37. Aristotele delinea un piano della trattazione che comincia. Più volte nel trattato egli fa un bilancio della parte svolta e di quella da svolgere e a 34, 183a27-36 fa un sommario di tutto il trattato. Le «specie di argomentazioni» e «le cose di cui si costituisce la capacità» sono esaurite alla fine del cap. 14 (cfr. 174a12-16); le «altre cose che concorrono all’arte» sono trattate nei capp. successivi (15-33). Sulla struttura del trattato, vedi Introduzione, par. 10.

CAPITOLO 2 165a38-b11. Vengono distinti quattro generi di argomentazioni che hanno luogo nelle discussioni: didattiche, dialettiche, esaminatrici ed eristiche. La contrapposizione è tra il primo e il terzo genere da un lato; e tra il secondo e il quarto dall’altro. Argomentazioni didattiche e argomentazioni esaminatrici. L’argomentazione didattica si distingue per due caratteristiche: i) deve dedurre da premesse che siano principi propri, 165b1; ii) non muove dalle opinioni del rispondente, b2. Per quanto forse in modo troppo sommario, il punto i) enuclea un tratto ben noto della teoria aristotelica della scienza: le premesse che caratterizzano i sillogismi scientifici sono i principi propri, cioè esclusivi di un preciso dominio di conoscenza. Il punto ii) sembra invece deliberatamente introdotto per mettere a fuoco la contrapposizione con le argomentazioni esaminatrici. Queste, infatti, devono dedurre proprio «dalle credenze di chi risponde» (b5). Il fine delle confutazioni esaminatrici è di smascherare l’ignoranza di un rispondente che ha la pretesa di possedere la scienza. Tale scopo sembrerebbe rientrare nei compiti di chi conosce: saper interrogare, smascherando chi dice il falso (1, 165a28); ma contro un interlocutore ignorante e presuntuoso non si può seguire il metodo scientifico, non è possibile cioè confutarlo mediante dimostrazioni, e per una ragione molto precisa: a differenza di chi impara e «deve fidarsi» dell’insegnante (anche assumendo premesse contrarie alla propria opinione), chi pretende di conoscere già l’argomento in discussione riterrà di avere voce in capitolo: non accetterà di dare le risposte suggerite dall’interrogante e, poiché per ipotesi è ignorante, negherà i principi propri della scienza, rendendosi così invulnerabile agli attacchi di chi gli oppone sillogismi scientifici. Bisognerà allora partire dalle sue credenze, e qui Aristotele aggiunge una seconda condizione: tali credenze riguardano

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cose necessariamente conosciute da chi pretende di possedere la scienza (b5-6). Il confronto con un più esplicito passo parallelo 11, 172a21-172b1 (vedine le note) mostra che si tratta delle «cose comuni», che non sono oggetto esclusivo di alcuna scienza. Sulle argomentazioni esaminatrici cfr. Introduzione, par. 7. La rapida descrizione delle argomentazioni esaminatrici si conclude con il rinvio ad un’altra opera («in quale maniera, è stato determinato altrove», b6-7); qui, e poi più sotto a b10 (§n êlloiw), Aristotele non allude, come si è congetturato, ad un trattato oggi perduto, ma ai Topici, e precisamente al passo in cui si menzionano le discussioni che non si svolgono all’interno della scuola, ma negli incontri con la gente comune, i polloi. In queste occasioni, dice Aristotele, per convincere qualcuno a modificare un’opinione errata, si deve interrogarlo a partire dalle sue credenze e non da opinioni che gli siano estranee (Top. I 2, 101a30-34; cfr. anche VIII 11, 161a24-36). Si veda poi Rh. I 1, 1355a24-29, dove Aristotele osserva che, con alcune persone, anche la conoscenza scientifica più accurata non faciliterebbe la persuasione, perché l’argomentare secondo la scienza è proprio dell’insegnamento, che in quel contesto non può essere impartito; bisogna allora convincere partendo dalle cose comuni, «come abbiamo detto anche nei Topici a proposito degli incontri con i molti». (Cfr. Moraux 1968, p. 290 n. 3). Le argomentazioni didattiche sono trattate negli Analitici secondi, che Aristotele cita qui a b9, come altrove, insieme ai primi, semplicemente come Analitici. Argomentazioni dialettiche e argomentazioni eristiche. Con «plausibile» (b4) traduco l’importante e discusso aggettivo ¶ndojow, che qualifica le premesse delle argomentazioni dialettiche. Per definizione endoxa sono «le cose che sembrano vere a tutti o alla maggioranza o ai sapienti e, di questi, a tutti o alla maggioranza o ai più noti ed illustri [§ndÒjoiw]» (Top. I 1, 100b21-23). Nella lingua comune l’aggettivo equivale a «illustre», «famoso», «che ha reputazione», ma nella dialettica aristotelica il termine indica cose che sono degne di essere credute da ogni uomo (o da ciascun sapiente) perché dotate di una plausibilità intrinseca, la quale, tuttavia, non implica la verità (cfr. Fait 1998a). La forza degli endoxa non è dunque misurata dal consenso che di fatto su di essi converge, ma dall’attitudine a suscitarlo. Questa prospettiva risulta confermata dall’analisi delle «cose apparentemente plausibili» da cui muovono invece le argomentazioni eristiche. Dall’unico passo in cui Aristotele affronta questa delicata nozione, Top. I 1, 100b26101a1, risulta che le premesse realmente plausibili, anche quando sono false, non hanno un’apparenza di verità meramente superficiale, mentre quelle apparentemente plausibili manifestano la loro falsità immediatamente agli occhi di chiunque (il passo presenta varie difficoltà, per un’analisi cfr. Fait 1998a, spec. p. 31). Curiosamente, Aristotele non insisterà nel seguito del trattato su argomentazioni eristiche il cui unico difetto sia la plausibilità meramente apparente delle premesse. CAPITOLO 3 165b12-18. Aristotele fissa la serie degli obiettivi del dialettico eristico in una sequenza che va dal più ambizioso al più modesto. La confutazione verrà esaminata nei capp. 4-11; il falso e il paradosso nel cap. 12; il chiacchierare nel cap. 13 (e

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poi nel 31 per la risoluzione) e il solecismo nel cap. 14 (e poi nel 32 per la risoluzione). Alcuni chiarimenti saranno forniti nelle note a quei capp. 165b15. «Chiacchierare» (édolesxe›n). Spesso il dibattito filosofico, in particolare quello socratico, veniva liquidato dal pubblico come «chiacchiera» (p. es. Isocrate, Antidosi 262; Pl. Prm. 135c8-d6). Nel Sofista platonico la chiacchiera (édolesxikÒn) è quella specie di eristica che induce a trascurare i propri affari e dà piacere a chi la pratica, ma suona sgradevole all’orecchio di chi ascolta (225d710). Per Aristotele l’adoleschia è principalmente prolissità o verbosità (Rh. II 22, 1395b26; III 3, 1406a34; cfr. [Arist.] Pr. XVIII 917b4-6) e l’ édolesxe›n un parlare a vuoto. In questo senso il verbo è usato anche a Top. V 2, 130a34; VIII 2, 158a28, mentre nel nostro passo e nei capp. 13 e 31 Aristotele lo ridefinisce (cfr. 13, 173a33) e gli fa designare la ripetizione meccanica delle stesse parole. 165b20. Per quanto «solecizzare» e «solecismo» non abbiano in Aristotele il significato preciso che acquisteranno in seguito (quando il solecismo, come errore sintattico, si contrapporrà al barbarismo, l’errore lessicale; cfr. p. es. Sesto Empirico, Adversus mathematicos I 210), è chiaro che indicano incoerenze di tipo squisitamente linguistico-grammaticale. Solecizzare significa esprimersi in modo rozzo e scorretto in senso ampio, e il caso discusso nel trattato, cioè la cattiva concordanza di sostantivi, aggettivi e pronomi, probabilmente non è che uno dei tanti comportamenti che ricadono sotto questo titolo. Nella Retorica (III 5, 1407b18-20), per esempio, si solecizza quando si scelgono i termini in modo impreciso. La discussione del solecismo in un contesto logico-dialettico non ne modifica affatto la natura di semplice offesa al parlar greco, sicché non convince Flobert 1986 quando sostiene che nelle Confutazioni il solecismo sia una sorta di incongruenza logica. L’errore che commette chi solecizza macchia la sua competenza linguistica, ma non esclude la sensatezza e addirittura la verità di quel che dice (cfr. infra la n. a 14, 174a5-9). Lo dimostra tra l’altro il fatto che nelle discussioni competitive si ricorre al solecismo quando si sono mancati gli obiettivi più ambiti: la confutazione, il falso e il paradosso. La logica è pertinente semmai perché, come negli altri quattro scopi, il solecismo deve essere frutto di un’inferenza.

CAPITOLO 4 165b27-30. Le confutazioni «che suscitano l’apparenza [§mpoioËnta tØn fantasiÄan] a causa dell’espressione» sono sei di numero e di ciò si può dare una prova induttiva e una prova per sillogismo. L’interpretazione di b27-29 è ardua. Suggerisco che tiw êllow (b28) riprenda ériymÒw (b25) e non sullogismÒw (b28). Il passo andrà dunque inteso così: «e sarà una prova anche il sillogismo, se sia assunto un altro numero di confutazioni apparenti dipendenti dall’espressione, e se la conclusione di tale sillogismo sia che questo è il numero dei modi in cui ecc.». Questa interpretazione, secondo la quale l’eventuale prova per sillogismo sarebbe richiesta solo per persuadere chi avesse già un’opinione alternativa sul numero dei paralogismi linguistici, mi sembra meno oscura di quella che nasce se il tiw

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êllow va riferito a sullogismÒw, come ritengono quasi tutti gli interpreti a cominciare da Galeno, il cui De captionibus in dictione prende spunto proprio da questo passo. Ho riscontrato, infatti, solo due eccezioni a questa interpretazione. La prima è rappresentata da Pacius, che (nella sua traduzione ma non nel commento) fa sottintendere a tiw êllow il sostantivo trÒpow. Un êllow trÒpow sarebbe allora un «tipo» o «modo» di confutazione apparente dipendente dal linguaggio, ma diverso dai sei appena elencati. Mi sembra tuttavia che il sostantivo sottinteso non sia immediato e che il possibile riferimento a trÒpoi b23 sia troppo remoto, per tacere del fatto che lì il sostantivo non allude ai sei modi linguistici. La seconda eccezione è Cassin 1995, p. 522 n. 1, che propone, non senza forzatura, di riferire il tiw êllow ad un «altro interlocutore», diverso da quello che viene convinto dall’induzione. Non sono mancati tentativi di dare senso a quel misterioso «altro sillogismo» che si ottiene legando tiw êllow a sullogismÒw; il più approfondito è senza dubbio quello introdotto da Galeno e rielaborato dallo Ps.-Alessandro. Galeno nota che la frase «che tanti sono i modi in cui, con le stesse parole e locuzioni, possiamo indicare ciò che non è lo stesso» non è esattamente la conclusione richiesta, perché dire che i tipi di ambiguità sono n di numero non equivale a dire che le confutazioni dipendenti dall’espressione sono n di numero, ed è questo che bisogna provare. Per tale ragione Galeno ritiene che queste parole esprimano una conclusione diversa da quella del sillogismo che deve fornire la prova ipotizzata da Aristotele. Tale sillogismo «principale» sarebbe: (i) L’ambiguità si genera in n modi; (ii) tutti i paralogismi linguistici dipendono dall’ambiguità; dunque (iii) tutti i paralogismi linguistici si generano in n modi. Con la frase «che tanti sono i modi...» Aristotele citerebbe dunque soltanto la premessa maggiore (i) e la presenterebbe come conclusione di un prosillogismo, lasciando al lettore il compito non banale di scoprire le premesse di questo ulteriore ragionamento. Galeno si incarica di colmare le lacune lasciate da Aristotele, e fornisce una prova sillogistica non solo della maggiore (i) ma anche della minore (ii). Secondo lo Ps.-Alessandro, 23.20-21, tiw êllow sarebbero tanto il prosillogismo della maggiore quanto quello della minore. B. Bydén, nella sua traduzione svedese, modifica un po’ la soluzione dello Ps.-Alessandro: riferisce tiw êllow al prosillogismo della minore (ii) e suggerisce che ka‹ ˜ti tosautax«w... alluda a quello della maggiore (i). Ancorché ingegnose, la lettura galenica e le sue rielaborazioni non convincono, perché peccano di formalismo: in questo contesto è infatti poco probabile che Aristotele si occupi della suddivisione strutturale della prova e si dia la pena di distinguere un sillogismo finale (peraltro una banale ricapitolazione) da uno o più sillogismi preliminari. Si osservi quanto diversamente egli descrive un’analoga prova sillogistica a Top. I 8 (citato qui sotto). Galeno insinua una concezione rigida del sillogismo, come argomento a due premesse, laddove Aristotele è decisamente più flessibile e orientato alla sostanza del discorso. Resta dunque maggiormente verosimile che tiw êllow riprenda ériymÒw e che l’ipotetica prova per sillogismo sia intesa dimostrare soltanto che vi sono n tipi di ambiguità.

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Tuttavia, il modo in cui Galeno reperisce le premesse del prosillogismo per (i) riveste il massimo interesse per la comprensione del nostro passo. Egli costruisce una tavola dei sofismi linguistici fondata su una duplice divisione del genere «ambiguità» (dittÒn): da un lato (a) l’ambiguità può verificarsi o in atto o in potenza o in apparenza; dall’altro (b) essa può riguardare o le singole parole o le locuzioni complesse. Combinando ciascun membro del gruppo (a) con ciascuno del gruppo (b) si ottengono (sebbene con alcune modifiche) i sei modi aristotelici, con la certezza che, se le due divisioni (a) e (b) sono esaustive, anche la classificazione finale sarà completa. La classificazione di Galeno interpreta in modo interessante e per niente scontato il termine «sillogismo», usato qui da Aristotele in un senso piuttosto particolare. Sebbene Galeno si sforzi di ritrovare il significato familiare di «sillogismo», quella che egli propone è in sostanza una classificazione ottenuta combinando in tutti i modi possibili i membri di due diverse divisioni. La conclusione è ottenuta con necessità sillogistica perché la combinazione membro a membro esaurisce tutte le possibilità. Tale accezione di sillogismo, o anche solo l’idea che il sillogismo debba contenere una simile argomentazione, riflette con notevole precisione ciò che ha in mente Aristotele a Top. I 8, capitolo dedicato alla dimostrazione dell’esaustività dei quattro tipi di predicato (i «predicabili»: definizione, genere, proprietà esclusiva e accidente). Qui Aristotele distingue la prova per induzione da quella per sillogismo e quest’ultima ha, mutatis mutandis, la stessa struttura di quella di Galeno. Dice Aristotele: «Un’altra prova è quella per sillogismo: è necessario infatti che ogni predicato di un oggetto si converta con quell’oggetto oppure no. E se si converte sarà definizione o proprietà, giacché se significa l’essenza è definizione, se non la significa è proprietà esclusiva. [...] Se invece non si converte con l’oggetto, allora o è una delle cose che si dicono nella definizione del soggetto oppure no, e se è una delle cose che si dicono nella definizione, sarà genere o differenza (dato che la definizione è costituita da genere e differenza); se non è una delle cose che si dicono nella definizione è chiaro che sarà accidente» (Top. I 8, 103b6-17; cfr. anche, per analoghi procedimenti combinatori, Cat. 2, 1a20-b9; GC II 3, 330a30-b8). Il passo dei Topici che immediatamente precede il brano citato (I 8, 103b3-6; cfr. Brunschwig 1994, p. 78) ci aiuta invece a comprendere come vada intesa la prova induttiva. Si tratta di un procedimento aperto affidato al singolo lettore: via via che farà esperienza si accorgerà che tutti i casi ricadono in uno dei quattro tipi distinti. Sul trattatello galenico si è molto lavorato: vedi Edlow 1977; Ebbesen 1981, II, pp. 1-26; Cassin 1995, pp. 519-533; Dalimier in Dalimier – Pellegrin – Levet 1998, pp. 217-235; Schiaparelli 2002. 165b30-166a6. All’inizio delle Categorie, gli omonimi (tå ım≈numa) sono definiti come cose che hanno in comune solo il nome, mentre qui vari indizi invitano a trattare l’omonimia come proprietà delle espressioni linguistiche, che sono chiamate «omonime» quando hanno più significati. Tuttavia in formulazioni come tÚ manyãnein ım≈numon non è facile decidere se Aristotele intenda dire con chiarezza che la parola manyãnein è omonima o se, meno precisamente, intenda dire che l’azione del manyãnein è qualcosa che può assumere valori diversi. Qualche inter-

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prete ha sostenuto che, tra gli usi di ım≈numon in Aristotele, quello in cui l’aggettivo si applica a oggetti linguistici è raro e marginale, mentre altri assegnano a quest’uso una rilevanza filosofica e lo riconducono a Speusippo, dal quale Aristotele sarebbe stato influenzato. Aristotele sa che le parole possono essere usate in modo «autonimo», per nominare se stesse (cfr. 14, 174a8-9), e possiede un espediente, l’uso dell’articolo neutro, per distinguere la menzione dall’uso. Tuttavia l’espediente è rudimentale perché, a parte i casi di sostantivi maschili o femminili, non permette di decidere efficacemente se il termine sia usato o menzionato. Inoltre Aristotele non si attiene in modo rigoroso a quella convenzione e in qualche caso, pur menzionando i termini, ne concorda l’articolo con il genere (p. es. Po. 20, 1457a28; Top. VI 4, 142b4-6; un es. ricorre forse anche nel presente capitolo a 166a20: tå grãmmata, corretto da Ross in tÚ "grãmmata"). Nonostante i molti casi controversi e le trascuratezze, vi sono passi come 17, 175a36-37; 22, 178a25-28, dai quali risulta chiaramente che l’omonimia è una caratteristica delle parole. 165b31-34. Due sofismi molto simili ricorrono nell’Eutidemo di Platone (276c3-7; 276d7-277b2) e Aristotele li riassume fondendo aspetti dell’uno e dell’altro. Sia Platone (277e3 sgg.) sia Aristotele chiariscono che la chiave di questi argomenti sta nella polisemia del verbo manyãnv (che può significare «comprendo» o «apprendo»). La conclusione dell’argomento manyãnousin ofl §pistãmenoi b31 va letta nel senso paradossale in cui manyãnv significa «apprendo». L’argomento apparente a favore di questa conclusione (tå går épostomatizÒmena manyãnousin ofl grammatikoiÄ) deve allora sfruttare l’altro significato, «comprendo». Gli interpreti dell’Eutidemo intendono gli épostomatizÒmena come cose «recitate» dal maestro (cfr. Gifford 1905, ad 276c3, Hawtrey 1981, p. 60). La domanda volta a stabilire la premessa sarà: «Apprendono/comprendono le cose recitate i bambini che sanno le lettere (grammatikoiÄ) o quelli che non le sanno?» e il rispondente affermerà che manyãnousin ofl grammatikoiÄ, con il verbo manyãnv nel senso di «comprendo». Ma che cosa lo costringe a questa risposta? Non potrebbe invece sostenere che sono i bambini che non conoscono le lettere ad apprendere le cose recitate dal maestro? Altrettanto non obbligatoria suona la risposta di Clinia in queste battute dell’Eutidemo: «“Ebbene, Clinia” disse “allorché il maestro di grammatica vi recitava [épostomatiÄzoi Ím›n], quali bambini apprendevano ciò che vi recitava, i sapienti o gli ignoranti?” “I sapienti” disse Clinia» (276c3-6, trad. Decleva Caizzi). La difficoltà è determinata dalla nostra scarsa conoscenza dei metodi di insegnamento elementare del IV secolo. Forse épostomatiÄzein aveva a che fare con il sillabare o compitare le parole (cfr. Euthd. 277a1-b2): il maestro pronunciava una parola separando i suoni (o forse pronunciando i nomi delle lettere) e solo i bambini che già conoscevano l’alfabeto ricomponevano e comprendevano la parola intera. 165b38-166a6. Di fronte alla domanda posta in assoluto «Il malato è sano o no?» viene spontaneo riferire il soggetto a chi è malato ora e rispondere negativamente. Invece l’argomentazione seguente: Il malato guariva; chi guariva è sano; dunque il malato è sano.

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sembra provare il contrario. Nella premessa «il malato guariva», «il malato» si riferisce a chi era malato prima. Quindi la conclusione («il malato è sano») deve significare che colui che era malato è sano e non contraddice realmente la tesi. L’omonimia non si annida qui nell’argomentazione, ma concerne la conclusione dell’argomentazione in relazione alla tesi che deve contraddire. Ad a4-6 Aristotele nota che è la presenza dell’articolo a causare l’ambiguità; in effetti, senza articolo il participio assumerebbe lo stesso tempo del verbo che lo regge. 166a6-14. L’anfibolia è l’ambiguità di una locuzione complessa, cioè di un sintagma o di un intero enunciato. Gli esempi offerti da Aristotele fanno pensare che essa dipenda dalla possibilità di costruire la frase in modi diversi per ragioni puramente sintattiche (p. es. impossibilità di distinguere il soggetto dall’oggetto, perché sono entrambi all’accusativo, come in tÚ boÊlesyai labe›n me toÁw polemiÄouw a6-7) o per ragioni sintattico-grammaticali (p. es. impossibilità di distinguere il nominativo dall’accusativo in quanto sono formalmente identici, come in toËto gin≈skei a7-8). Talora Aristotele usa émfiÄbolow in un senso più ampio per riferirsi all’ambiguità in generale e quindi anche a quella di una singola parola (p. es. Rh. I 15, 1375b11; Po. 25, 1461a25; Top. VIII 7, 160a29-30); in qualche altro caso il termine non sembra indicare una vera e propria ambiguità, ma piuttosto la vaghezza e la genericità di un discorso che ne consentono interpretazioni opposte (Rh. III 5, 1407a37-39). 166a12-14. îrÉ ¶sti sig«nta l°gein; cfr. Pl. Euthd. 300b-c. Cfr. anche SE 10, 171a8; 19, 177a 21-23. In una lettura sig«nta è accusativo maschile singolare, svolge il ruolo di soggetto dell’infinitiva e significa «la persona che tace», mentre nell’altra lettura è accusativo neutro plurale, svolge il ruolo di complemento oggetto e significa «le cose che tacciono». Nel primo caso colui che tace non può parlare, nel secondo è invece possibile parlare di cose che tacciono. 166a15-16. Nella Retorica (III 2, 1404b6; 31) e nella Poetica (21, 1457b1 sgg.) i kÊria ÙnÒmata sono le parole idiomatiche e si contrappongono alle parole in vario modo artefatte (glosse, metafore ecc.). Aristotele esemplifica le parole ambigue in senso proprio con kÊvn («costellazione del cane», «cane», «pescecane») e éetÒw («aquila di mare», «frontone», «aquila»): si tratta di due risposte a un indovinello che chiedeva «che cosa può essere sia in cielo sia in terra sia in mare?», cfr. Aristofane, Vespe 20-23. Invece una locuzione (lÒgow) che significa più cose in senso proprio è più difficile da immaginare. Potrebbe essere quella in cui l’ambiguità è dovuta ai diversi significati del caso in cui una parola del costrutto si trova declinata: cfr. la discussione a 24, 180a2-22, istruttiva anche se lì Aristotele alla fine nega l’ambiguità del genitivo. 166a17. In che senso ciò che «siamo soliti dire così» (efivyÒtew Œmen oÏtv l°gein) si contrappone a quel che si dice «in senso proprio» (kuriÄvw)? La risposta è nella risoluzione di un problema di critica omerica citata a Po. 25, 1461a27-30. Lì

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Aristotele introduce l’«uso dell’espressione» (¶yow t∞w l°jevw) riferendosi a casi in cui la consuetudine autorizza espressioni imprecise e illogiche, come chiamare «bronzisti» quelli che lavorano il ferro o chiamare Ganimede «il versatore di vino» di Zeus, anche se in realtà versa nettare (cfr. Hecquet-Devienne 1995, p. 67). Nel contesto delle Confutazioni non è facile vedere la necessità di introdurre questo fattore di ambiguità. Probabilmente Aristotele vuole rendere conto di casi come «il malato è sano» (165b38-166a6 e n.), che a rigore sono illogici e devono fare appello ad una certa elasticità dell’uso linguistico. 166a17-21. ˜tan tÚ suntey¢n pleiÄv shmaiÄn˙, kexvrism°non d¢ èpl«w presenta una difficoltà: tÚ suntey°n fa pensare al composto linguistico, ma è ripreso come kexvrism°non, participio che allude a una parte del composto, cioè una parola. Ross, nell’apparato, sospetta allora la necessità di espungere l’articolo, mentre Wallies lo corregge in ti. Supponendo che tÚ suntey°n sia una sola parola nella sua combinazione con altre, non è facile comprendere l’esempio che segue (§piÄstatai grãmmata) e la sua illustrazione, perché è evidente che grãmmata in §piÄstatai grãmmata, può essere nominativo o accusativo, ma significa sempre le stesse lettere e non significa più cose. Sembrerebbe trattarsi dunque di una duplicità puramente sintattica, come in tÚ boÊlesyai labe›n me toÁw polemiÄouw, diversa dall’ambiguità sintattico-grammaticale che si incontra nei casi come tÚ sig«nta l°gein, le cui differenti costruzioni non comportano soltanto un cambiamento dei ruoli sintattici, ma anche cambiamenti del significato di parte del lessico: sig«nta è accusativo maschile singolare del participio di sigçn, e significa «la persona che tace», oppure è accusativo neutro plurale, e significa «le cose che tacciono». Se Aristotele può dire tÚ suntey°n riferendosi alla singola parola combinata con altre è forse perché ritiene che anche i meri ruoli sintattici diventino parte del significato, e che quindi una parola isolata abbia solo un significato lessicale mentre una parola nel contesto della frase significhi anche secondo il caso e gli altri accidenti grammaticali. Per una discussione, vedi Ebbesen 1988, p. 30. 166a23-38. I paralogismi della composizione e della divisione, complementari ma distinti, nascono dalla possibilità di ottenere diversi significati raggruppando diversamente le parole nella frase. Nella Poetica (25, 1461a24-25) Aristotele parla della diaiÄresiw in relazione ai problemi che nascono quando la punteggiatura è incerta. Data la mancanza di solide convenzioni ortografiche e l’uso della scriptura continua, è probabile che questi casi rappresentassero ai suoi tempi un problema serio e frequente (cfr. Rh. III 5, 1407b11-18). Nella Retorica (II 24, 1401a25 sgg.) la composizione e la divisione sono classificate tra i paralogismi, ma con un significato assai più ampio, comprendente casi di composizione delle parti in un tutto che non hanno nulla a che fare con la sintassi del linguaggio. Alcuni interpreti osservano che raggruppare le parole nella frase significa sempre comporne alcune dividendole da altre, sicché o non c’è una solida distinzione tra composizione e divisione (Joseph 1916, p. 582 n. 1; Dorion, pp. 81, 364; Schreiber 2003, p. 92) o la spiegazione corretta di questi paralogismi non è il raggruppamento e va cercata altrove (come fa Schiaparelli 2003, che interpreta la composizione in termini di ambito ampio di un operatore e la divisione in termi-

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ni di ambito ristretto). Il problema è serio, perché niente fa pensare che per Aristotele la distinzione tra composizione e divisione sia fittizia, e d’altra parte l’interpretazione in termini di raggruppamento, pur tendendo ad annullare la distinzione, rimane di gran lunga la più semplice e plausibile. Forse egli applica istintivamente il seguente criterio: una confutazione apparente dipende dalla composizione quando una certa composizione di parole è responsabile di un risultato falso o assurdo in quanto è essa stessa falsa o assurda (es. scrivere non scrivendo), e analogamente per la divisione. Il criterio tuttavia presenta dei limiti: (a) è meno convincente per la divisione, perché la costruzione sintattica di una frase sembra normalmente procedere solo per progressive composizioni, mentre le divisioni sono solo un effetto residuo; (b) in certi casi richiede di riconoscere entrambi i paralogismi in parti diverse della frase, perché una falsità nasce da elementi composti e un’altra da elementi divisi (cfr. «il buon calzolaio cattivo» di 20, 177b15). Si presume che in questi casi l’attribuzione di un paralogismo o dell’altro dipenda dalla maggiore importanza assunta nel contesto da una certa parte della frase. 166a23-30. «Potere sedendo camminare» può essere interpretato componendo: (a) «potere /sedendo camminare/»; oppure dividendo: (b) «sedendo /potere camminare/». In greco kayÆmenon badiÄzein, dove il participio è significativamente sempre senza articolo (cfr. per contro 166a4-6 e la n.), indica la contemporaneità tra lo stare seduto e il camminare, nel caso (a), e la contemporaneità tra lo stare seduto e il poter camminare, nel caso (b). L’interesse della lettura divisa sta nel rispettare il fatto che una possibilità o una capacità sia posseduta mentre non è esercitata. Il passo però non precisa quello che gli studiosi delle concezioni modali aristoteliche si chiedono con maggior insistenza, e cioè se la possibilità di camminare, che è posseduta al tempo t in cui si sta sedendo, sia solo la possibilità di camminare ad un tempo t’ successivo a t (come a Cael. I 12, 281b15-18) o se sia anche possibilità di camminare a t. Vedi Gaskin 1995, pp. 99-101. 166a30-31. manyãnei nËn grãmmata e‡per §mãnyanen ì §piÄstatai. Il testo è stato variamente emendato e interpretato. Secondo Forster, la cui interpretazione riesce a salvare la lezione dei manoscritti, l’enunciato può essere scandito così: (a) «impara ora /le lettere se veramente ha imparato/ ciò che sa», oppure così: (b) «impara ora le lettere /se veramente ha imparato ciò che sa». (a) esprime un significato assurdo a causa della composizione di «impara ora» e «ciò che sa», mentre (b), che non compone quelle espressioni, è tautologico ma innocuo. Forse l’esempio riprende liberamente Pl. Euthd. 277a1-b1, alludendo, nella scansione (a), al sofisma, lì sfruttato da Eutidemo, secondo cui la conoscenza delle lettere sarebbe condizione sufficiente per la conoscenza delle parole e dei discorsi che con le lettere sono composti. Quest’ultimo argomento è ripreso da Aristotele in Rh. II 24, 1401a28-29 tra le fallacie dipendenti dalla composizione e dalla divisione. Il nostro caso, dunque, esibisce la composizione sintattica, mentre parla di un altro tipo di composizione. Per analisi diverse di questo esempio, vedi Dorion, pp. 224-226 n. 43 (e la discussione della sua proposta in Fait 1998b, pp. 142-143); Schreiber 2003, pp. 7072; Schiaparelli 2003, pp. 115-116.

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166a31-32. tÚ ©n mÒnon dunãmenon f°rein pollå dÊnasyai f°rein. Si può intendere: (a) «una sola cosa potendo portare / molte cose poter portare» oppure: (b) «una sola cosa /potendo portare molte cose/ poter portare». La lettura paradossale (a) si ottiene trattando «una sola cosa potendo portare» come un’unità sintattica. Anche qui è possibile ravvisare un’allusione al tipo di composizione discusso nella Retorica: (vedi la n. precedente): si potrebbe pensare a un sofisma come «potendo portare ciascuna cosa [una alla volta], allora può portarne molte [insieme]» (cfr. anche Arist. Pol. V 8, 1307b35-37). Questa peraltro è la spiegazione del nostro caso invocata da molti intepreti. Essa però non può spiegare perché il nostro esempio sia classificato tra le confutazioni «dipendenti dall’espressione», come osserva giustamente Colli, p. 1009, il quale suggerisce di localizzare la composizione fallace in ©n mÒnon dunãmenon, che può equivalere a: (c) «potendo portare una sola cosa» (composizione di ßn e mÒnon) oppure a (d) «potendo solo portare una cosa» (composizione di ßn e dunãmenon). Ciò non è escluso, né può escludersi una combinazione dei casi (a)-(d): «una cosa potendo solo portare / molte cose poter portare» e (b)-(c): «una sola cosa /potendo portare molte cose/ poter portare». Si noti, però, che se il caso sfrutta la distinzione tra (c) e (d) non si tratta più di un esempio di composizione pura e semplice, ma di composizione e anfibolia insieme, perché mÒnon è aggettivo in (c) e avverbio in (d). 166a33-38. «Cinque è due e tre» può essere: (a) «cinque è /due e tre/» oppure (b) «cinque è due / e tre». (b) equivale a: «cinque è due e cinque è tre» e da ciò si ricava che cinque è dispari e pari. a34 «Il maggiore è altrettanto e qualcosa in più» diventa (a) «il maggiore è altrettanto/ e qualcosa in più» oppure: (b) «il maggiore è /altrettanto e qualcosa in più/». Da (a) si ottiene: (a’) «il maggiore è altrettanto» e (a’’) «il maggiore è qualcosa in più» e, ovviamente, (a’) equivale a «il maggiore è uguale». L’esempio «Io ti feci schiavo... » deriva dalla stessa fonte che è modello di Terenzio, Andria 37: feci ex servo ut esses libertus mihi. Sull’esempio «Di cento uomini... » vedi Quintiliano VII 9, 8. Secondo alcuni interpreti il paralogismo della divisione sarebbe chiamato in causa da Aristotele a Int. 9, 19a29 per risolvere un argomento a favore del determinismo, ma la rilevanza di questo tipo di diagnosi per quell’argomento mi sembra discutibile. 166b1-3. Distinguere gli accenti, che al tempo di Aristotele non venivano scritti, può essere utile in due casi: (a) «i discorsi dialettici scritti», probabilmente dialoghi di tipo socratico che circolavano in forma scritta, e (b) discussioni di passi poetici, soprattutto omerici, variamente oscuri, le quali muovevano dall’individuazione di una difficoltà interpretativa cioè un «problema» (prÒblhma) e procedevano alla «risoluzione» (lÊsiw) di tale problema o alla «critica» (§pitiÄmhma) del poeta. I due problemi omerici di accentazione menzionati a 166b3-8 sono ripresi nella Poetica (vedi infra la n. successiva) e in effetti la lista delle confutazioni che dipendono dall’espressione del nostro cap. presenta notevoli affinità con la serie di «risoluzioni» linguistiche elencate da Aristotele in Po. 25: glossa, traslato, accento, divisione, anfibolia e uso dell’espressione (25, 1461a9 sgg.). Accento, divisione e anfibolia ritornano (notevolmente trasformati) come membri

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della lista di SE e anche l’uso dell’espressione viene qui ripreso a 166a17 (vedi la n.). Ciò fa pensare che critica letteraria e discussioni dialettiche avessero vari aspetti in comune; celebre in proposito la discussione del Frammento a Scopa di Simonide in Pl. Prt. 338e sgg. 166b3-9. Il primo verso è Iliade XXIII 328, il secondo si trova oggi a Iliade XXI 297, ma il contesto in cui Aristotele lo colloca è quello di Iliade II 15. I due versi sono citati anche a Po. 25, 1461a21-23, dove entrambe le correzioni sono attribuite a Ippia di Taso. Nel primo verso o (pronome relativo) è pronunciato «più acuto» e inteso come oÎ (negazione), nel secondo diÄdomen (= «concediamo») è corretto in didÒmen (= «si conceda», infinito col valore di imperativo). Sull’accento vedi la n. a 177b3-4. 166b10-19. La parola sx∞ma è al centro di una complessa rete di significati. In generale: (a) sx∞ma indica un tratto formale, nel senso che in fenomeni diversi tra loro può essere identificato lo stesso sx∞ma; (b) pur essendo formale, questo tratto non è essenziale, ma spesso è meramente accessorio. La generalità della formula sx∞ma t∞w l°jevw è dimostrata dal fatto che Aristotele la usa anche per designare atti linguistici (Po. 19, 1456b9 e forse anche Rh. II 24, 1401a1-8), caratteristiche ritmiche del discorso (Rh. III 8, 1408b21) e figure retoriche (Rh. III 10, 1410b28-29). b11-14 non si riferisce al genere grammaticale. L’argomento richiede invece che «maschile», «femminile» e «neutro» fungano da categorie generali che comprendono rispettivamente le realtà maschili, quelle femminili e quelle neutre. Cfr. 14, 174a5-9. b14: Il riferimento più vicino, in realtà assai remoto, è Top. I 9, 103b22-23.

CAPITOLO 5 166b28-36. Il paralogismo che dipende dall’accidente gioca su tre elementi: un oggetto (prçgma), un accidente (sumbebhkÒw), e infine qualcosa, un attributo o proprietà qualsiasi, che appartiene (Ípãrxei) all’oggetto o all’accidente o a entrambi. L’errore consiste nel ritenere che l’oggetto e ogni suo accidente condividano tutti gli stessi predicati. Mignucci 1985, p. 76, Bueno 1988, p. 10, e Dorion, p. 233, sostengono che «accidente» sumbebhkÒw debba significare nel nostro paralogismo «predicato» in generale, dato che il verbo sumbebhk°nai sembra contestualmente usato (166b30; 36; 6, 168b1; 7, 169b6) per indicare la relazione di predicazione in generale: tanto essenziale quanto accidentale. Inoltre, qui a b35-36 ciò che viene detto sumbebhk°nai è che colui dal quale Corisco è stato riconosciuto essere diverso, cioè Socrate, sia un uomo; quindi non un predicato accidentale. Penso al contrario che l’uomo possa, relativamente ad un determinato quadro teorico, essere considerato un accidente di Socrate (cfr. Metaph. A 1, 981a18-20) e che la distinzione tra essenza e accidente debba in qualche modo riguardare il paralogismo, perché Aristotele usa, riferendosi ad esso, la caratteristica espressione katå sumbebhkÒw (6, 168b5, b7; b34), e in un caso (8, 170a4) il sumbebhkÒw si

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contrappone al kayÉaÍtÒ. Non è plausibile che queste formulazioni siano neutrali rispetto all’opposizione essenza/accidente. Penso dunque che anche sumbebhk°nai si riferisca alla predicazione accidentale. Dati un accidente A e un oggetto O, e fatta la convenzione di scrivere il predicato a sinistra del soggetto, per ogni predicato P si possono dare due tipi di paralogismo: (1)

A(O); P(A); dunque: P(O).

(2)

A(O); P(O); dunque: P(A).

Lo schema fallace (1) trascrive una pseudo-legge di transitività: tutti i predicati dell’accidente sono anche predicati dell’oggetto. Qui a b28, e poi a 7, 169b36, il paralogismo dell’accidente comprende sia lo schema (1) sia lo schema (2). Invece, più avanti, a 24, 179a27-29, viene citato solo lo schema (1). Alcuni interpreti antichi e medievali hanno inteso il paralogismo dipendente dall’accidente come una applicazione della transitività della predicazione essenziale che troviamo descritta a Cat. 3, e lo hanno fatto consistere in un’indebita estensione universale della transitività ad ogni tipo di predicazione (schema [1]); su questa interpretazione vedi Ebbesen 1981, I, pp. 224 sgg.; Mignucci 1985, pp. 75-77; Dorion p. 233. Si tratta tuttavia di una lettura troppo restrittiva, come dimostra il fatto che nella discussione del paralogismo, svolta a più riprese nel trattato, Aristotele intreccia predicazione e identità. Egli tende ad associare la predicazione di un accidente ad una sorta di identificazione con l’oggetto, ed essendo l’identità una relazione simmetrica, oltre che transitiva, è evidente che lo schema (2) non è meno pertinente dello schema (1): basterà convertire la prima premessa di (2) per ottenere una struttura transitiva come (1). È chiaro dunque che le differenze sintattiche tra le varie formulazioni del paralogismo non servono a illustrare la natura dell’errore (come sembra cogliere Kapp 1968, pp. 269-272 = 1975, pp. 43-44). La traduzione della predicazione in identità consiste nel «sostantivare» in qualche modo l’accidente: per esempio «il cigno è bianco» è associato a «il cigno è identico al bianco» oppure a «il cigno è identico alla cosa bianca». L’errore non sta nella confusione tra identità e predicazione (fondata per esempio su un equivoco circa il significato del verbo «essere»), ma nella confusione tra proprietà in senso molto lato accidentali (abbiamo visto che anche essere un uomo è una proprietà accidentale), con certe proprietà essenziali che esprimono completamente l’essenza del loro soggetto (si pensi al definiens in una definizione o a un predicato sinonimo del soggetto). Una volta preso l’accidente per qualcosa che esprime completamente l’essenza dell’oggetto, si tenderà a pensare erroneamente che esso debba condividere con l’oggetto tutte le proprietà (cfr. 24, 179a37-39). Nella n. a 24, 179a32-b6 accenneremo al fatto che la relazione che appare sussistere tra oggetto e accidente viene interpretata da alcuni studiosi come la semplice identità e da altri come qualcosa di più forte dell’identità (identità essenziale).

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Veniamo ai due esempi. (I) (a) Corisco è diverso (ßteron) dall’uomo; (b) Corisco è un uomo; dunque: (c) Corisco è diverso da Corisco. (II) (a) Corisco è diverso (ßterow) da Socrate; (b) Socrate è un uomo; dunque: (c) Corisco è diverso dall’uomo. Notiamo che la conclusione di (II) è identica alla premessa (a) di (I) (Dancy 1975, pp. 120-122; Dorion, pp. 236-237). Poiché in un paralogismo le premesse devono sembrare accettabili, mentre la conclusione deve invece essere o sembrare assurda, è chiaro che (IIc) deve avere un significato diverso da quello di (Ia). Un tale risultato si ottiene senza troppe forzature postulando che «diverso» (ßterow) significhi «distinto» in (I) e «separato» in (II). Per esempio, se Socrate è bianco, egli è comunque distinto dalla bianchezza, perché non è identico ad essa. Se invece non è bianco, diciamo che è separato dalla bianchezza. Interpretate in questo modo, le premesse di (I) saranno plausibili e la conclusione assurda. Corisco è infatti distinto dall’uomo (dalla specie uomo), sebbene sia un uomo. Ma non può essere distinto da se stesso. Anche le premesse di (II) diventano plausibili: Corisco è «diverso», cioè in questo caso separato, da Socrate e Socrate è un uomo. Ma la conclusione è assurda, perché se Corisco fosse separato dall’uomo non sarebbe un uomo. Come si vede ciascuna delle due argomentazioni si avvale solo di uno dei due significati assegnati a ßterow; non si può infatti ammettere che il paralogismo giochi sull’ambiguità della parola tra una premessa e l’altra della stessa argomentazione, altrimenti non si potrebbe imputare l’errore al paralogismo che dipende dall’accidente. Cerchiamo ora di chiarire perché si tratti di paralogismi dell’accidente. In (Ia) Corisco è distinto dall’uomo perché non è identico alla specie uomo. Per ottenere legittimamente la conclusione bisognerebbe allora poter interpretare (Ib) come se implicasse l’identità tra Corisco e la specie uomo. Questo sarebbe corretto solo se l’uomo fosse un attributo che esprime completamente l’essenza di Corisco (si pensi a quel tipo assai ristretto di predicazione essenziale distinto sopra). Tra Corisco e l’uomo non vi è invece identità, perché l’uomo è un accidente di Corisco (nel senso ampio di accidente introdotto sopra). Corisco può essere identico solo a quell’individuo umano che lui stesso è. Le stesse considerazioni ora svolte riguardo alla (Ib) valgono anche per la (IIb); con la differenza che nell’argomentazione (II), per scoprire come l’errore si fondi sulla presunta identità tra Socrate e la specie uomo, bisogna guardare alla conclusione (IIc). Affinché questa possa assumere il senso paradossale voluto, bisogna che implichi che Corisco è separato dalla specie uomo e non da un suo membro; altrimenti si tratterebbe del fatto che Corisco è separato da questo o quell’uomo, e la conclusione diverrebbe innocua, perché Corisco è, in effetti, separato da questo o quell’uomo. Paralogismi simili ad (I) e (II) si trovano in Pl. Euthd. 298a-b (cfr. Diogene Laerzio, III 53-54); Gellio, XVIII 13; Dexippo, In Cat. 25.22 sgg., sul quale ultimo cfr. Ebbesen 1981, I, p. 225.

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166b37-167a6. Questo tipo di paralogismo nasce quando si sottovaluta il contributo essenziale che un complemento o una limitazione forniscono al valore di un predicato. Nella letteratura filosofica prearistotelica si trovano varie argomentazioni che potrebbero esservi ricondotte, cfr. p. es. Dissoi logoi 5, 5; Pl. Euthd. 293a8-294a10; Tht. 165a4-c1; vedi anche la n. a 25, 180a32-34. A b38 l’importante espressione tÚ §n m°rei legÒmenon distingue una prima serie di casi, quelli discussi fino ad a6. Aristotele guarda alla relazione tra predicazione assoluta e limitata come se fosse un’opposizione tra universale (essere tutte le proprietà del soggetto) e particolare (essere qualche proprietà). Cfr. anche 7, 169b12; 8, 170a6; GC I 3, 317b6-8; NE VII 6, 1147b20-22. L’esposizione aristotelica e alcuni di questi primi esempi fanno sorgere dubbi sull’opportunità di classificare il paralogismo in esame tra quelli non dipendenti dall’espressione. In primo luogo, attribuendo la responsabilità dell’errore alla «vicinanza dell’espressione» (167a5), Aristotele sembra assimilare questa fattispecie ad alcuni tipi di paralogismo linguistico (così pensa p. es. Dorion, p. 240). Inoltre, l’uso dell’avverbio kuriÄvw come sinonimo di èpl«w (b38) potrebbe indurre a pensare che la presenza di una limitazione o di un complemento alterino il significato «proprio» o «principale» che il predicato avrebbe in assenza di essi (kuriÄvw, in contesti linguistici, ha questo valore). Così, per esempio, in «ciò che non è è oggetto di opinione, dunque ciò che non è è» vi sarebbe differenza di significato tra il primo e il secondo dei due «è» posti in corsivo, e solo nella seconda occorrenza il verbo «essere» sarebbe usato in senso proprio, mentre il significato della prima occorrenza verrebbe determinato dalla presenza del complemento «oggetto di opinione». A proposito del verbo «essere», coinvolto sempre nella prima serie di esempi (167a1-6), si potrebbe anche sostenere che quando dice, qui ad a4: «Non è lo stesso, infatti, essere qualcosa ed essere in assoluto», Aristotele alluda alla distinzione, oggi comune, tra significato esistenziale del verbo «essere» (come in «c’è un fiore nel mio giardino») e significato predicativo («il fiore è rosa»). Alcuni raffronti inducono però a respingere questa interpretazione. In primo luogo qualcuno tra gli esempi che Aristotele considera simili esclude un mutamento di significato: le due occorrenze di «bianco» in «l’indiano, che è tutto nero, è bianco rispetto ai denti; dunque è bianco e non bianco» non hanno significati diversi (cfr. Brown 1986, p. 70 n. 37; 1994, pp. 233-234). Inoltre a 24, 180a13-14, Aristotele attribuisce un esempio problematico alla confusione tra predicazione assoluta e limitata e ciò nel contesto esclude il suo preteso dipendere dall’ambiguità. La frase «per la vicinanza dell’espressione, sembra differire poco anche l’essere qualcosa dall’essere [mikrÚn diaf°rein tÚ e‰naiÄ ti toË e‰nai], e il non essere qualcosa dal non essere» suona assurda, giacché non risulta esservi grande vicinanza tra (p. es.) l’espressione «essere oggetto di opinione» e «essere». Forse Aristotele riferisce le parole citate ad un passaggio intermedio dell’argomentazione in cui vengono usate proprio le espressioni e‰naiÄ ti e e‰nai, e queste possono davvero sembrare equivalenti: (a) se X è oggetto di opinione, X è qualcosa (ti); (b) se X è qualcosa, X è. (c) dunque se X è oggetto di opinione, X è.

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Se in questo genere di argomentazioni la premessa (b) è una presenza regolare, l’affermazione di Aristotele suona meno implausibile. 167a7-21. Aristotele introduce ora un’altra serie di casi che commettono lo stesso paralogismo. Ora si tratta di casi che contrappongono, relativamente ad un solo predicato come «nero», la sua attribuzione assoluta a quella per un certo aspetto, oppure due attribuzioni entrambe limitate. Questo paralogismo presenta difficoltà quando: (i) qualcosa che si dice per un certo aspetto sembra dirsi in assoluto; (ii) gli opposti si dicono allo stesso grado, cosicché non è facile decidere quale dei due si dica in modo assoluto, perché si pensa che quel che vale per l’uno valga anche per l’altro. La difficoltà sta nel fatto che una e solo una delle proprietà opposte deve dirsi in assoluto, ma non si riesce a trovare un criterio per stabilire quale. Aristotele cita l’esempio di un oggetto per metà bianco e per metà nero di cui si debba decidere se sia in assoluto bianco o nero. Nella fattispecie si può forse rinunciare all’idea che l’oggetto abbia un colore in assoluto, però ci sono casi in cui non si può accettare che entrambi gli opposti si dicano in modo limitato; un buon esempio è a 25, 180b3-5 (cfr. Crivelli 2004, p. 148). «Etiope» (AfiyiÄoc a11) indica per antonomasia l’uomo di colore e non è sempre legato alla provenienza geografica. Per una radicata confusione tra sud ed est, potevano essere chiamati etiopi anche gli abitanti della regione dell’Indo (Snowden 1970, pp. 101, 277 n.1), donde la variatio tra l’indiano (a8) e l’etiope (a11). 167a21-35. Il tipo di paralogismo descritto in queste righe riveste grande importanza nella strategia espositiva delle Confutazioni (vedi Introduzione, par. 4). Il concetto di ignoranza della definizione della confutazione è spiegato con quello di «mancanza della formula definitoria», ¶lleiciw toË lÒgou a22 (cfr. 6, 168b1721; 7, 169b10). Cerchiamo di chiarire il pensiero di Aristotele esaminando uno dei suoi esempi (a28-30). Supponiamo che la tesi del rispondente sia che il due è il doppio di uno (o anche che il due è doppio). L’interrogante ottiene che (i) il due non è doppio del tre. Da questa conclusione deduce: (ii) il due non è doppio. È importante osservare che (ii) non è per Aristotele una conclusione vaga o ambigua, e quindi indeterminata quanto al valore di verità, ma (come conferma 26, 181a5-8) un enunciato vero, e chi lo ha dedotto da (i) non ha commesso alcun errore. L’omissione di un complemento non è sempre erronea, anche se (come dimostra il tipo di paralogismo immediatamente precedente) può certamente esserlo. La conclusione (ii) sarebbe un errore se fosse precisata come (iii) il due non è doppio di uno. (iii) non è una conclusione legittima, perché non consegue né da (i) né da (ii). Tuttavia finché non passa da (ii) a (iii), il sofista sembra sfuggire a ogni possibile critica, giacché non ha commesso né indotto a commettere alcun errore. L’inganno

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c’è solo se costui sostiene che la deduzione di (ii) è una confutazione dell’interlocutore, giacché per confutare quest’ultimo egli avrebbe dovuto costruire un’argomentazione conforme alla definizione della confutazione, e tale definizione impone che i due predicati contraddittori siano asseriti in relazione alla stessa cosa. Quindi (ii) non è la conclusione appropriata alla confutazione della tesi, e l’interlocutore deve obiettare che per confutarlo veramente bisogna provare (iii) e non (ii). Se invece costui si ritiene confutato dalla deduzione di (ii), è perché pensa che l’argomentazione che ha subìto abbia le carte in regola per essere considerata una confutazione autentica e, quindi, non sa riconoscere una confutazione: in un certo senso non sa che cos’è una confutazione. Vari interpreti hanno avvicinato il paralogismo che dipende dall’ignoranza della definizione a quello del passaggio dalla predicazione limitata alla predicazione assoluta. In entrambi, infatti, vi sarebbe l’omissione di una clausola. Anche se l’interpretazione dell’ignoranza della definizione qui proposta permetterebbe di distinguere i due paralogismi, è Aristotele stesso a confonderli a 7, 169b12, e a 8, 170a6-8. 167a23-27. éntiÄfasiw toË aÈtoË ka‹ •nÒw [...] prãgmatow ossia parafrasando: «la predicazione contraddittoria di uno e lo stesso oggetto». «Oggetto» è dunque il predicato e non l’intero enunciato contraddittorio. Tale predicato può trovarsi affermato di un certo soggetto (nella tesi dell’avversario), e allora si tratterà di negare quello stesso predicato di quel soggetto. Oppure può trovarsi negato, e allora si tratterà di affermarlo. È evidente che le condizioni di identità formulate per il predicato valgono implicitamente anche per il soggetto (cfr. Int. 6, 17a35). sunvnÊmou a24: nelle Categorie (1, 1a6) sono sinonime le cose che hanno in comune il nome e la formula dell’essenza corrispondente al nome. Qui invece l’aggettivo è usato (come l’italiano «sinonimo») nel modo inverso: sinonime sono parole diverse che significano la stessa cosa (per quest’uso in Aristotele, cfr. Top. VIII 13, 162b37; Rh. III 2, 1405a1). La proibizione di usare termini sinonimi è ribadita a 6, 168a28-31 e sarà esaminata nella n. a quel passo. a26 «Sotto lo stesso rispetto, in relazione alla stessa cosa, nello stesso modo e nello stesso tempo». Le clausole destinate a fissare la costanza dei termini delle relazioni, dei punti di vista e dei riferimenti temporali della contraddizione costituiscono una sorta di nucleo originario del paralogismo dipendente dalla definizione della confutazione. Lo dimostra il fatto che gli esempi che seguono nel testo sono limitati a casi di omissione di queste restrizioni, così come ad esse è limitata la ripresa di questo tipo di paralogismo a SE 26 (vedi anche Rh. II 24, 1401b34-1402a3). È presumibile che Aristotele muova dalle clausole suddette e, prendendole a modello, ne aggiunga altre in modo da ottenere una definizione della confutazione abbastanza generale e comprensiva da contenere anche le clausole relative al sillogismo. In questo modo egli prepara l’argomento del cap. 6, dove svolgerà una riduzione di tutti i tipi di paralogismo a quello dell’ignoranza della definizione. 167a27-28. «Nella stessa maniera si definisce il dire il falso su qualcosa». Il riferimento è forse al secondo obiettivo perseguito dagli eristi, cioè il costringere l’interlocutore a dire qualcosa di falso (2, 165b14 e 19). Se dire il falso è dire, di ciò

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che è P, che non è P, oppure, di ciò che non è P, che è P (cfr. 5, 168a9-11), ha senso imporre anche qui, come nel caso della contraddizione, la precisazione delle clausole «nello stesso rispetto», «in relazione alla stessa cosa» ecc. 167a35. «Ma questa confutazione [toËton] potrebbe essere anche forzatamente inclusa in quelle che dipendono dall’espressione». Se toËton vuole riferirsi alla classe di paralogismi che dipendono dall’ignoranza della definizione nel suo complesso, diventa difficile spiegare per quale motivo tale categoria debba poter essere ricondotta, foss’anche forzatamente, ai paralogismi che dipendono dall’espressione, soprattutto in considerazione del fatto che i paralogismi dipendenti dall’espressione verranno a loro volta ridotti, nel cap. 6, all’ignoranza della definizione della confutazione. Poiché il paralogismo della definizione gioca sulla incompletezza di un predicato, si potrebbe suggerire che un predicato ellittico come «è doppio» possa essere considerato ambiguo e perciò dipendente dall’espressione (Kirwan 1978, p. 42). Aristotele però è contrario a trattare l’ellissi come una forma di ambiguità (24, 180a19-22). Sembra perciò più promettente limitarsi a guardare alla riga precedente (a34), dove viene posto il caso in cui non è rispettata la clausola temporale: i due predicati contraddittori sono asseriti senza la precisazione che devono valere nello stesso tempo. Ammettendo che il toËton si riferisca solo a questo caso, si può congetturare una spiegazione più convincente. Se infatti è indispensabile precisare che i predicati contraddittori vengono riferiti allo stesso tempo, deve essere perché il predicato può riferirsi a due tempi distinti; e poiché per Aristotele, in un enunciato, il verbo significa in aggiunta il tempo (Int. 3, 16b6 sgg.), è evidente che in una violazione come quella descritta il predicato verbale (o la copula) affermato e negato deve poter significare due tempi e quindi può essere visto come un caso di ambiguità e ricondotto alla classe dei paralogismi dipendenti dall’espressione. 167a36-39. Aristotele si riferisce a Top. VIII 13, 162b34-163a13, dove aveva distinto cinque modi di chiedere ciò che si deve sillogizzare (§j érx∞w afite›syai). Nei Topici il discorso è svolto dal punto di vista di chi interroga e quindi chiede ciò che dovrebbe sillogizzare, qui da quello di chi risponde e quindi assume (§n érxª lambãnein). Da §j érx∞w afite›syai abbiamo petitio principii e, ovviamente, «petizione di principio»; ma la parola «principio» è leggermente fuorviante: tÚ §n érxª è, nel gergo dialettico, ciò che all’inizio della discussione era stato fissato come conclusione del sillogismo (cfr. p. es. Top. II 5, 112a20-21; VIII 3, 159a8; 6, 160a5). Secondo Top. VIII 13, la forma più banale di petizione è quella che usa come premessa la stessa proposizione fissata all’inizio, presa alla lettera oppure occultata grazie all’uso di termini sinonimi. Seguono quattro altri tipi: quando si chiede l’universale al posto del corrispondente particolare; quando si chiede il particolare al posto del corrispondente universale; quando si assume la conclusione dividendola tra più premesse; quando la conclusione sia convertibile e si assume la conversa. Queste quattro strategie servono a dare l’impressione che ci sia un’inferenza. Forse l’impressione non è sempre illusoria, ma resta escluso che si tratti mai di un’inferenza sillogistica: ad APr. II 16, 64b31 Aristotele raggruppa tutti questi casi come quelli in cui non c’è affatto sillogismo.

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167b1-20. Il paralogismo nasce dal ritenere che la relazione di conseguenza sia convertibile, che valga cioè anche scambiando di posto antecedente e conseguente. I pronomi neutri usati per denotare gli oggetti tra i quali sussiste la conseguenza stanno, se esaminiamo gli esempi nelle Confutazioni, al posto di cose (come l’uomo, l’animale, il giallo, il miele ecc.) che vengono espresse da termini piuttosto che da interi enunciati. Si può obiettare che nella formulazione di Aristotele («essendo questa cosa, di necessità è anche quest’altra») è sempre comunque implicita una predicazione in atto. Chi dice, cioè, che animale consegue a uomo, accetterebbe sempre una parafrasi che riformuli la relazione concernente termini in una relazione concernente enunciati (p. es. «se x è un uomo, x è un animale»). Aristotele potrebbe però percorrere la strada opposta, e guardare alla relazione di conseguenza tra cose, intesa come una relazione di priorità ontologica (cfr. Cat. 12), come al fondamento di quella tra predicazioni. 167b8-13. Uno dei tre tipi di segno che Aristotele distigue a Rh. I 2, 1357a34-b21 e ad APr. II 27, quello in cui il rapporto tra segno e cosa indicata è come «l’universale in relazione al particolare» (1357b17-21) e che corrisponde a un sillogismo invalido di seconda figura (APr. II 27, 70a34-37), viene qui ripensato come un caso di paralogismo del conseguente (altro esempio retorico più avanti a 167b19-20). Nonostante sia chiaro che questo tipo di segno non è una prova deduttiva valida, nella Retorica è menzionato come uno strumento positivo di cui il retore si può utilmente servire per costruire entimemi. Anche in quell’opera, tuttavia, Aristotele riconosce un topos paralogistico del conseguente e in esso colloca l’esempio, anche qui citato, dell’adultero (Rh. II 24, 1401b23-24). A b13 le «argomentazioni sillogistiche» sono quelle che, a differenza degli entimemi retorici menzionati a b8, mirano sempre alla validità logica. 167b13-18. Gli ipsissima verba di Melisso sono riportati da Simplicio, In Ph. 109.20 sgg. (= 30B2 DK = fr. 4 Reale). Per gli altri passi concernenti il paralogismo di Melisso, vedi Reale, pp. 348-361. Aristotele ricostruisce l’argomentazione in questo modo: (a) Il tutto è ingenerato (giacché nulla si genera da ciò che non è); (b) ciò che è generato è generato da un principio; (c) dunque il tutto non ha un principio; (d) dunque il tutto è infinito. L’errore imputato a Melisso è descritto con queste parole «se tutto ciò che è generato ha un principio, non vale anche che se qualcosa ha un principio sia stato generato». Se ne deduce che l’errore consiste in una conversione di (b): (b’) Ciò che ha un principio è generato. Da (b’) per contrapposizione abbiamo: (b’’) Ciò che è ingenerato non ha un principio. Da (a) e (b’’) la conclusione (c) segue correttamente. In altre occasioni l’errore è presentato in modo diverso. A 28, 181a27-30 (ve-

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di anche Ph. I 3, 186a12-13), il passaggio scorretto è direttamente quello che va da «ciò che è generato ha un principio» (= [b]) a «ciò che è ingenerato non ha un principio» (= [b’’]). Si tratta, come Aristotele spiega, di un altro modo di invertire erroneamente la conseguenza. 167b21-36. Il paralogismo consiste nell’assumere, tra le altre, una premessa ridondante facendo sembrare che essa sia determinante per la deduzione di una conclusione impossibile, conclusione che invece è già deducibile dalle altre premesse; cfr. APr. II 17. Che una premessa sia chiamata «causa» o «responsabile» (a‡tion) non significa che essa sia causa della conclusione, ossia del fatto espresso dalla conclusione (causa in essendo, come dicevano i medievali), ma che è responsabile del conseguire della conclusione (causa in inferendo). Aristotele è più chiaro quando parla di premesse «necessarie» come di premesse imprescindibili in relazione al conseguire della conclusione, ossia, in altre parole, come di premesse la cui eliminazione renderebbe, ceteris paribus, l’argomentazione invalida. Le premesse necessarie sono tutte cause nel senso precisato, ma nel caso della riduzione all’impossibile (vedi la n. a 167b 22-24), a patto che si sia proceduto correttamente, una e una sola fra le premesse deve essere falsa (o impossibile); ed essa è la causa, non solo perché contribuisce al conseguire di una conclusione, ma perché è il fattore determinante del conseguire di una conclusione falsa. Infatti, posto che la deduzione sia corretta, nulla di falso potrebbe seguire da premesse vere. 167b22-24. Il procedimento per riduzione all’impossibile consiste nell’assumere l’opposto contraddittorio della conclusione che si vuole dimostrare per dedurne, con l’ausilio di altre premesse, una conclusione impossibile ed inferire da questo risultato la falsità della premessa assunta e la verità della sua contraddittoria, che è la conclusione desiderata. Sull’uso di questo procedimento in dialettica vedi Gobbo 1997. 167b37-168a16. Il paralogismo che dipende dal fare di due domande una domanda sola nasce dal fatto che una domanda fonde insieme due quesiti. Lo può fare congiuntivamente e allora costringe l’interlocutore a dare una sola e identica risposta a due domande che esigerebbero risposte di segno opposto, oppure disgiuntivamente, e allora pretende risposte diverse dove invece si vorrebbe dare la stessa risposta (false alternative a cui si vorrebbe rispondere «né l’uno né l’altro»). Lo stratagemma in certi casi è scoperto: è la terra che è mare o è il cielo? Poiché fonde due domande, chi porge questo interrogativo costruisce una falsa alternativa e impedisce che la risposta sia «né l’una né l’altro». In altri casi il trucco è meno palese e non è facile per il rispondente uscirne illeso, perché se tace sembrerà arrendersi e se risponde sembrerà confutato qualunque cosa dica (a3-5). L’esempio che segue («Ma questo e quest’altro sono un uomo?») potrebbe forse meglio rientrare nel paralogismo della composizione o nel solecismo. Si noti che qui la distinzione delle risposte, benché necessaria ad evitare il paralogismo, richiederebbe due «sì» e non un «sì» e un «no». In alcuni casi la confutazione diventa autentica se viene aggiunta una premessa (vedi Introduzione, par. 4). Per esempio se il rispondente ammette che co-

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me un predicato si dice al singolare («è cieco» detto di un soggetto individuale), così si dica al plurale («sono ciechi» detto di un soggetto plurale), la confutazione sarà autentica, perché, presa come soggetto una coppia di individui X, Y, di cui X è cieco e Y è vedente, il rispondente non potrà ricusare la domanda «X e Y sono ciechi o non sono ciechi?» (che per lui deve essere altrettanto semplice della domanda «X è cieco o non è cieco?») e dovrà rispondere o che entrambi sono ciechi o che entrambi non lo sono. Il motivo per cui Aristotele illustra l’esempio sostituendo a «cieco» la definizione «ciò che non ha la vista ma è per natura atto ad averla» non è chiaro: forse l’intenzione è quella di escludere l’interpretazione di «non è cieco» che include tutto ciò che non è atto ad avere la vista e rendere così esplicito che non cieco equivale a vedente. Diversa ricostruzione in Geach 1981, pp. 20-21. CAPITOLO 6 168a17-23. Apprendiamo ad a17 che quella che Aristotele ha presentato nei capp. 4 e 5 è una divisione delle confutazioni apparenti. Ora egli pone mano ad un’altra divisione, che consiste nel ricondurle o ridurle tutte ad uno dei tredici tipi precedentemente individuati: l’ignoranza della definizione della confutazione. Ciò avviene mostrando che ogni tipo di confutazione apparente dipende dal trascurare una delle clausole della definizione della confutazione. Aristotele ritiene che in tutti i tredici paralogismi l’apparenza ingannevole si dissolva quando venga individuata e compresa la clausola della definizione che è stata violata. Ho discusso e criticato questa tesi nel par. 3 dell’Introduzione, dove ho sostenuto che Aristotele non sembra distinguere la causa dell’apparenza dalla causa del difetto. Quest’ultima è la lacuna oggettiva che rende invalida una confutazione apparente e può essere descritta come violazione di una clausola della definizione, ma non si dà sempre il caso che l’ignoranza di tale clausola sia la ragione per cui quella confutazione appare valida. Aristotele sostiene invece che l’ignoranza della definizione sia sempre la causa dell’apparenza. L’operazione a cui Aristotele si accinge è una riduzione (énagvgÆ) o una «risoluzione» (énãlusiw a19-20), ossia un processo che consiste nel mostrare come una varietà di fenomeni non sia altro che la differenziazione di un principio generale. Esempi di riduzione paragonabili al nostro caso sono la riduzione dei vari tipi di opposizione (contrarietà, contraddizione ecc.) a quella tra l’uno e i molti (cfr. Metaph. I 4, 1055b26-29) e, negli Analitici primi, la «trasformazione» dei sillogismi in altri sillogismi in base alle rispettive figure e ai rispettivi modi (APr. I 7, 29a30-33). Lì Aristotele parla di riduzione anche quando si tratta della traduzione di argomentazioni deduttive valide, contenenti termini concreti, in sillogismi che esibiscono una forma logica determinata (APr. I 32, 46b40-47a5). Anche nel nostro cap., come in quelle occasioni, Aristotele vuole ridurre certe strutture (trÒpoi 168a20) ad una o più strutture considerate fondamentali (su riduzione e risoluzione in APr. vedi però le precisazioni di Striker 1996c). La riduzione dei paralogismi all’ignoranza della definizione vuole anche essere una «divisione» (168a17; 168b20), cioè una partizione esaustiva a scopo classificatorio (lo si vede più nettamente a 8, 169b40-170a11). A questo proposito, è

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chiaro che le differenze tra i tipi di confutazione apparente già distinti nei capp. precedenti si smarrirebbero completamente se emergesse che diversi paralogismi violano la stessa clausola della definizione e perciò, affinché la riduzione stia a fondamento di una classificazione compatibile con la divisione già stabilita nei capitoli precedenti, non basta mostrare che tutti i paralogismi contravvengono alla definizione, ma bisogna anche provare che la violazione di ciascuna clausola della definizione corrisponde ad uno e (nei limiti del possibile) ad un solo paralogismo. Tenendo presente questo obiettivo, si spiegano forse alcune delle difficoltà del capitolo, come l’introduzione di una nuova distinzione, in seno ai paralogismi linguistici, incompatibile con alcune affermazioni contenute nei capp. precedenti (vedi la n. a 168a23-28), la riconduzione del paralogismo dipendente dal conseguente a quello dipendente dall’accidente, seguita da una loro nuova distinzione (vedi la n. a 168b27-35) e infine la sorprendente e facilmente smentibile affermazione conclusiva in base alla quale i paralogismi linguistici offenderebbero la contraddizione, mentre quelli non linguistici violerebbero le clausole definitorie del sillogismo (vedi la n. a 169a18-21). 168a23-28. Aristotele comincia dai paralogismi linguistici. Non sembra turbato dal fatto che riducendoli ad un paralogismo non linguistico finisce per scardinare la precedente bipartizione. Nel cap. 4 Aristotele aveva lasciato chiaramente intendere che i sei tipi di paralogismo dipendente dall’espressione costituivano sei tipi di ambiguità, in quanto erano «i modi in cui, con le stesse parole e locuzioni, possiamo indicare ciò che non è lo stesso» (165b29-30; cfr. anche 166a35). Ora invece l’omonimia, l’anfibolia, e la forma dell’espressione vengono ancora ricondotte all’ambiguità, ovvero al fenomeno per cui un’entità linguistica, semplice o complessa, è una di numero e ha più di un significato, mentre per gli altri tre paralogismi linguistici, composizione, divisione e accento, non si parla più di un’unica entità linguistica e si fa notare che la diversa suddivisione della frase o la variazione dell’accento danno luogo a due entità linguistiche diverse. Per lo più questo vale solo nel linguaggio parlato, giacché al tempo di Aristotele non si segnavano gli accenti (se non in modo sporadico e rudimentale), non si conosceva l’interpunzione e non si lasciava spazio tra una parola e l’altra; le differenze di accento e di scansione non venivano rappresentate nella scrittura con appositi segni, ma solo nella catena parlata mediante l’intonazione (pause, enfasi ecc.). A causa di tale povertà di espressione grafica, il discorso scritto rimaneva dunque uno e lo stesso, sebbene aperto a più interpretazioni vocali (cfr. Dorion, n. 87, in particolare pp. 247-248). Aristotele, pur non mancando di riconoscere questo fenomeno (cfr. 20, 177b3), privilegia, in generale, ma a maggior ragione nel contesto delle discussioni dialettiche, la dimensione orale del linguaggio e considera la scrittura una codificazione secondaria. È opportuno tuttavia osservare che, a differenza dell’accentazione, la composizione e la divisione non sono sempre distinguibili nemmeno nel parlato, sicché in molti casi avremo emissioni sonore identiche che possono essere suddivise in modi diversi (vedi la n. a 177b1-7). Dunque quali sono le condizioni di identità di una espressione linguistica? La risposta non è affatto semplice. Comunque sia, che cosa può avere indotto Aristotele a questo cambiamento

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nella sua classificazione? Non possiamo escludere che lo animasse il desiderio di localizzare con maggiore precisione la natura dell’errore in questo tipo di paralogismi (peraltro il problema dell’accento e della sua capacità di modificare l’identità delle parole era già discusso in ambiente sofistico, almeno se vale la testimonianza di Dissoi logoi 5, 11-12). Tuttavia, l’esigenza principale, costantemente emergente nel capitolo, è quella di articolare nel modo più uniforme possibile la classificazione distribuendo i vari paralogismi sulle varie clausole della definizione. In questo caso Aristotele sposta tre paralogismi dalla clausola che esclude l’omonimia (intesa in senso lato, comprensivo anche dell’anfibolia e della forma dell’espressione) a quella che esclude la sinonimia: cfr. la n. che segue. Su «un questo», a26, vedi la n. a 7, 169a29-b2. 168a28-31. L’uso dell’imperfetto, ¶dei a28, l’imperfetto che si suole chiamare «filosofico» e che viene adoperato per richiamare qualcosa che è stato precedentemente stabilito, indica che Aristotele si sta riferendo alla definizione della confutazione introdotta nel capitolo precedente (167a23-27). Quando afferma: «si era detto che anche questa [scl. la parola], come l’oggetto, deve essere la stessa», egli riprende la clausola che vieta di confutare per mezzo di termini sinonimi («e di una parola non sinonima, ma della stessa», 167a24-25). Ne è ulteriore prova l’esempio di «cappa» e «mantello», esempio che egli usa regolarmente quando vuole parlare di cose che si distinguono solo per il nome, perché hanno la stessa definizione; cfr. in particolare Top. I 7, 103a9-10: «sono le stesse per numero le cose di cui vi sono più nomi, ma che sono un oggetto solo, come il mantello e la cappa». Il richiamo alla clausola della sinonimia non è una digressione, ma serve a collocare rispetto alla definizione i tre tipi di paralogismo linguistico che non dipendono dall’ambiguità: dopo aver detto che in questi la parola (o la locuzione) non è la stessa, Aristotele continua spiegando che, in base alla definizione della confutazione, anche la parola (o la locuzione) deve essere la stessa, e quindi – il lettore è invitato a concludere – anche questi paralogismi contravvengono alla definizione. Se le cose stanno così, è evidente che Aristotele vuole ricondurre questi tre paralogismi alla sinonimia; ma in che modo? Se sinonime sono parole (o locuzioni) diverse che hanno lo stesso significato, anche le parole diverse per accento o le locuzioni diverse per intonazione, pause e altri fattori potranno essere considerate sinonime, purché abbiano lo stesso significato. In questo modo, per esempio, tratteremo come sinonimi tanto coppie di nomi come «spigola» e «branzino», quanto coppie di nomi come «Eràclito» ed «Eraclìto». Tuttavia i conti ancora non tornano, giacché i paralogismi della composizione, della divisione e dell’accento non sembrano nascere dalla sinonimia, ma semmai dalla falsa sinonimia. Come infatti Aristotele lascia intendere a 7, 169a25-29, chi incorre in quei paralogismi (i) è disposto ad accettare le varianti sinonimiche – quali di norma sono quelle determinate dalle variazioni di accento pausa, intonazione ecc. – ritenendole innocue ai fini della validità dell’argomentazione e (ii) non si avvede del fatto che in quel caso particolare le parole o (le locuzioni) non sono sinonime, perché mutando l’accento la pausa o l’intonazione muta anche il significato. Il problema non sembra nascere con i sinonimi ma solo con i sinonimi apparenti. Per Aristotele, invece, anche se in questi casi i termini usati fossero veramente sinonimi, la definizione della confuta-

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zione verrebbe comunque violata, perché essa proibisce sempre l’uso di termini sinonimi. In altre parole, già nella fase (i) si è commesso l’errore caratteristico di questi tre paralogismi, perché la parola (o la locuzione) non è la stessa, anche se ciò non toglie che nella fase (ii), indipendentemente dalla (i), venga violata un’altra clausola della definizione, dato che anche l’oggetto non è lo stesso (cfr. Schreiber 2003, pp. 89-90). 168a31-33. Sulla domanda supplementare (a32) vedi la n. a 8, 169b20-25 e l’Introduzione, par. 4. «Ricercare il perché» significa non riuscire a comprendere come la conclusione segua dalle premesse, non riuscire cioè a compiere i passaggi logici necessari per dedurla, cfr. Top. VIII 1, 156a15. Nel nostro passo chi cerca il perché è evidentemente quell’interlocutore che non sa integrare da solo la premessa relativa alla sinonimia di «cappa» e «mantello» e che quindi non riesce a svolgere la deduzione (il «perché» non è la causa della conclusione, ma la causa del conseguire della conclusione; vedi anche la n. a 5, 167b21-36). L’esempio risulta più chiaro se non si dimentica che per Aristotele si incorre nei paralogismi linguistici quando si ragiona simbolicamente, senza tenere costantemente presenti i significati delle parole che si usano (vedi Introduzione, par. 2). È evidente, infatti, che se il ragionamento interessasse direttamente o indirettamente i significati, sarebbe irrilevante, per la comprensione dell’argomentazione, che il termine usato fosse «cappa» oppure «mantello». 168a34-b5. Grazie allo sviluppo della definizione del sillogismo, che è parte della definizione della confutazione, le confutazioni apparenti dipendenti dall’accidente diventeranno manifeste, nel senso che la loro apparenza sarà dissolta (a34-38). Aristotele illustra con due esempi come il paralogismo dipendente dall’accidente violi la definizione del sillogismo. Primo esempio. Anche se il predicato «bianco» è qui solo un termine arbitrario, l’argomentazione potrebbe essere qualcosa come: (a) Ciò che è lavato è pulito; (b) il lenzuolo è lavato; (c) dunque il lenzuolo è pulito. (d) Ma il lenzuolo è bianco; (e) dunque il bianco è pulito. Aristotele si esprime come se il paralogismo non dipendesse semplicemente dal derivare (e) da (c) e (d), ma dal derivarla in virtù di (a) e (b). In altri termini il sofista pretenderebbe di imporre la seguente argomentazione: (c*) Necessariamente il lenzuolo è pulito in virtù di (a) e (b); (d) il lenzuolo è bianco; (e*) dunque necessariamente il bianco è pulito in virtù di (a) e (b). Secondo esempio. Il triangolo ha gli angoli uguali a due retti in virtù della dimostrazione D; il triangolo è una figura; dunque la figura ha gli angoli uguali a due retti in virtù della dimostrazione D.

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(Vari interpreti ritengono che l’esempio illustri un errore nella quantificazione della conclusione, in quanto sembra dover concludere che ogni figura ha la somma degli angoli uguale a due retti [cfr. APo. I 4, 73b33-37], ma qui Aristotele non è interessato alla quantificazione). A differenza dell’esempio del bianco, quello geometrico non nasce da un generico sillogismo, ma da un’argomentazione che ha la pretesa di essere un sillogismo dimostrativo (épÒdeijiw b3-4). Una dimostrazione, per Aristotele, deve essere la prova che un predicato conviene per sé al soggetto più generale di cui è vero (che negli Analitici secondi è chiamato il «primo universale»). Per esempio, la proprietà di avere la somma degli angoli uguale a due retti, è dimostrabile del triangolo e non del triangolo isoscele (universale troppo ristretto) né della figura (universale troppo esteso). Aristotele aggiunge che ciò equivale a dire che il predicato della conclusione dimostrata conviene al soggetto «in quanto tale» (APo. I, 4, 73b25-74a3), così è il triangolo in quanto triangolo ad avere la somma degli angoli uguale a due retti in virtù della dimostrazione, e non il triangolo in quanto figura o in quanto primo o in quanto principio (il triangolo è «principio» o «primo» in una serie di figure piane tale che la figura precedente sia contenuta potenzialmente nella successiva, cfr. de An. II 3, 414b21-32). La proprietà necessariamente P in virtù del sillogismo S e la proprietà Q in virtù della dimostrazione D non valgono anche di ogni accidente dei loro oggetti e quindi i due esempi addotti qui da Aristotele esibiscono effettivamente le caratteristiche dei paralogismi dipendenti dall’accidente. Tuttavia essi presentano una vistosa anomalia, in quanto sono strutturalmente diversi dai casi citati nei capp. 5 e 24. Quelli, infatti, non fanno mai germinare il paralogismo su un sillogismo o su una dimostrazione reali, ma causano direttamente un’argomentazione apparente. 168b6-10. Se il paralogismo che dipende dall’accidente è quello usato dai sofisti che cercano di confutare i competenti nelle singole arti (p. es. i medici e i matematici) e in generale le persone dotate di conoscenza (con ogni probabilità i filosofi), è forse perché permette di adattare argomentazioni dialettiche di carattere generale ad oggetti pertinenti ad un preciso ambito scientifico. Nelle Confutazioni Aristotele osserva a più riprese che alcune argomentazioni sofistiche sono tali non in quanto siano confutazioni o sillogismi apparenti, ma in quanto non sono «appropriate all’oggetto» pur avendo l’apparenza di esserlo (8, 169b20-25; 11, 171b11-12). Egli fa riferimento ad argomentazioni valide che si spacciano per dimostrazioni, come la quadratura del cerchio di Brisone. Forse nel nostro passo Aristotele sta cercando di classificare quel tipo di false prove tra i paralogismi dipendenti dall’accidente. Ciò potrebbe ricevere una qualche conferma da APo. 9, 75b37-76a3, e aiuterebbe a comprendere perché Aristotele abbia appena illustrato il paralogismo dell’accidente con un esempio di (pseudo)dimostrazione geometrica. Ma l’evidenza è indiretta e la riflessione sul paralogismo dell’accidente offerta dal presente capitolo è piuttosto eccentrica. È più verosimile che, a parte qualche oscillazione, la posizione più meditata di Aristotele sia che le dimostrazioni apparenti come quella di Brisone non commettono alcun paralogismo (vedi Introduzione, par. 7).

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168b17-21. Le confutazioni apparenti precedentemente chiamate «dipendenti dalla definizione della confutazione» sono quelle che, alla luce della definizione, manifestano la loro apparenza nel modo più palese (così interpreto faner≈tatoi d¢ pãntvn b17; cfr. 168a35; b23). Per questa ragione esse sono «dipendenti dalla definizione» per antonomasia e hanno ricevuto questo nome. In esse l’apparenza dipende dalla mancanza di una formula definitoria e proprio tale caratteristica sarebbe ciò che accomuna tutti i tipi di confutazione nella nuova divisione del cap. 6. 168b23-24. de› går tÚ sump°rasma "t“ taËtÉ e‰nai" sumbaiÄnein. Troviamo la formula t“ taËta e‰nai nella definizione di sillogismo di APr. I 1, 24b18-20, dove viene spiegata dallo stesso Aristotele, ma l’espressione, nel glossario tecnico dialettico, serve più genericamente ad escludere l’introduzione di premesse superflue (Top. VIII 11, 161b30). t“ taËtÉ e‰nai non ricorre nella definizione della confutazione di 5, 167a23-27 né in quella del sillogismo di 1, 164b27-165a3. Poiché tuttavia anche la condizione espressa da questa formula deve trovare un posto nella definizione della confutazione, e più precisamente in quella del sillogismo che deve farne parte, è presumibile che questo compito sia svolto dalla clausola diå t«n keim°nvn, contenuta nella definizione del sillogismo di 1, 164b27-165a2. Si tratta di una formula equivalente a t“ taËta e‰nai. 168b25-26. «Senza comprendere nel numero ciò che era stato fissato all’inizio». Questa clausola rimanda alla formulazione della definizione di 5, 167a23-27 (precisamente a25). Ma se la definizione di confutazione deve letteralmente contenere quella del sillogismo, come si dice p. es. a 168a35-37, questa clausola diventa superflua, in quanto è già compresa in quella definizione laddove esige che la conclusione sia diversa dalle premesse (1, 165a1-2). 168b27-35. Avendo già ricondotto l’accidente alla definizione di sillogismo (168a34-36), Aristotele fa qui del paralogismo dipendente dal conseguente una specie di quello dipendente dall’accidente, in modo da mostrare, indirettamente, che anche il conseguente è riducibile all’ignoranza della definizione della confutazione (169a3-5). I due paralogismi rimangono tuttavia distinti in base alla seguente differenza: mentre il paralogismo dipendente dall’accidente può riguardare solo un oggetto, quello del conseguente ne concerne sempre più di uno (168b28-31). Nel caso dell’accidente abbiamo un oggetto, un accidente e una proprietà (vedi la n. a 166b28-36); nel caso del conseguente abbiamo due oggetti e un accidente. Nei paralogismi che dipendono dall’accidente (almeno secondo un’interpretazione possibile di questo paralogismo, vedi la n. a 179a32-b6) la presunta identità tra l’oggetto e l’accidente induce ad attribuire all’accidente un predicato dell’oggetto o viceversa; in quelli che dipendono dal conseguente la presunta identità tra ciascuno dei due oggetti e l’accidente spinge a identificare i due oggetti tra loro. Così il cigno e la neve saranno identificati tra loro perché entrambi identificati con il bianco. La distinzione tra i due paralogismi sembra un po’ provvisoria, e Aristotele stesso se ne mostra forse insoddisfatto a 169a5. Come egli stesso riconosce, il paralogismo dell’accidente può riguardare un solo oggetto, ma non deve. Egli comprende forse che la nozione di oggetto e quelle di accidente e di proprietà sono

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molto elastiche, sicché non è impossibile esprimere accidenti e proprietà come oggetti (ciò accade, mi sembra, anche nella riformulazione subito seguente del paralogismo di Melisso). 168b35-169a5. Nella sua prima esposizione (5, 167b13-18), l’argomento di Melisso sembrava fondarsi su tre elementi: «il tutto», «avere un principio» e «essere generato»; ora Aristotele ne introduce un terzo, «ciò che è finito» (tÚ peperasm°non b40). Si noti che nella versione precedente non avere un principio implica essere infinito (5, 167b16-17). L’argomentazione è la seguente: (a) Ciò che è generato è identico a ciò che ha un principio; (b) ciò che è finito è identico a ciò che ha un principio; quindi (c) ciò che ha un principio è identico a ciò che è generato. Vanno osservate due cose: 1) la conclusione non dovrebbe essere (c), ma, in base allo schema stabilito sopra, dovrebbe essere piuttosto: (c’) ciò che è finito è identico a ciò che è generato. Evidentemente Aristotele vuole (c) perché è l’inverso di (a). 2) Vi è evidentemente piena identità tra ciò che ha un principio e ciò che è finito, sicché sarebbe stato sufficiente dire che il paralogismo consiste nell’identificare ciò che è generato e ciò che ha un principio. Aristotele sembra dunque duplicare inutilmente un termine e certamente lo fa perché cerca di adattare l’esempio di Melisso al teorema, appena sancito, secondo cui il paralogismo del conseguente chiama sempre in causa più di un oggetto. Qui i due oggetti erroneamente identificati sono: (i) ciò che è generato e (ii) ciò che è finito. (i) e (ii), pur non essendo due oggetti identici, sono identificati con ciò che ha un principio e, di conseguenza, identificati tra loro. Non stupisce che a 169a5 Aristotele esprima il desiderio di ritornare su tutto questo ragionamento. L’argomentazione di Melisso è intrecciata con un’altra: Diventare uguali implica acquisire la stessa grandezza; dunque acquisire la stessa grandezza implica diventare uguali. La conversione qui non vale perché l’acquisire la stessa grandezza riguarda le entità geometriche ma non le quantità numeriche, che pure possono divenire uguali. L’acquisire la stessa grandezza è allora solo una specie del divenire uguali. 169a6-12. Aristotele osserva che la cosa individuale (il singolo uomo) e la cosa in assoluto (l’uomo) hanno la stessa definizione (un’altra versione di questa tesi può essere estratta da Cat. 5, 2a19-26). Pertanto anche definendo una premessa come «una cosa predicata di una cosa» avremo con ciò anche la definizione della premessa in generale, definizione che ricorre nello sviluppo completo della definizione della confutazione. 169a18-21. Come hanno notato molti interpreti, l’identificazione conclusiva dei «luoghi» dipendenti dall’espressione con quelli che non rispettano le clausole della contraddizione e dei luoghi indipendenti dall’espressione con quelli che non rispettano la definizione del sillogismo è forzata e arbitraria. Essa non è solo in

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conflitto con altri capitoli in cui è chiaro che alcuni paralogismi dipendenti dall’espressione vanno collocati nel sillogismo (p. es. 10, 171a5-11), ma con il nostro capitolo stesso, dove si dice che un paralogismo non linguistico, quello dipendente dalla confusione tra valore assoluto e determinato della predicazione, dipende dal fatto che affermazione e negazione non riguardano la stessa cosa; che non è rispettata, cioè, una clausola della contraddizione (168b11-16). Se prendiamo alla lettera la definizione della confutazione di 5, 167a21-27, le clausole relative ai paralogismi linguistici, cioè quella che vieta le ambiguità e quella che vieta i sinonimi (167a23-24) sono collocate nella parte relativa alla contraddizione; anche questo aiuta a spiegare la strana affermazione aristotelica.

CAPITOLO 7 Lo scopo del capitolo non è chiaro. Aristotele indica, per ciascun tipo di confutazione apparente, dove nasca l’inganno (épãth). Probabilmente egli vuole mostrare che gli errori implicati nelle confutazioni apparenti sono riconducibili ad alcune tipiche confusioni di natura più generale. Questi errori, infatti, non si verificano esclusivamente nelle argomentazioni, ma riguardano il pensiero umano in senso più ampio. 169a21-25. Rimane in vigore la partizione, inaugurata nel cap. 6, dei due tipi di confutazione dipendente dall’espressione: da un lato quelle che giocano sull’ambiguità di parole o locuzioni, dall’altro quelle che fanno leva invece sulla supposta irrilevanza delle differenze tra parole o locuzioni (falsa sinonimia). Omonimia e anfibolia, considerate in queste righe, fanno sempre parte del primo tipo, mentre la forma dell’espressione, precedentemente classificata anch’essa come un tipo di ambiguità, viene fatta ora oggetto di una considerazione speciale (vedi la n. a 169a29-b2). La ragione più profonda per cui si incorre nell’omonimia e nell’anfibolia è che non sappiamo distinguere i diversi significati delle parole. Nei casi come i tre citati – l’uno, ciò che è e lo stesso – si tratta infatti di differenze molto sottili. Sugli esempi di ciò che è e dell’uno, cfr. anche 10, 170b21-24 e 33, 182b25-27. 169a25-29. Composizione, divisione e accento costituiscono il secondo gruppo di confutazioni dipendenti dall’espressione: quello che non ha a che fare con l’ambiguità, ma con la falsa sinonimia. Secondo Aristotele in questi casi l’inganno è dovuto al fatto che normalmente le differenze di scansione logica della locuzione o di accentazione delle parole sono semanticamente indifferenti e questo induce a trascurarle sempre. Forse Aristotele non dovrebbe asserire che sono equivalenti, ma che raramente una diversa accentazione dà luogo ad una parola diversa e altrettanto raramente una diversa scansione dà origine ad un altro costrutto sensato. In molti casi, infatti, le alternative sono insensate o sgrammaticate, perciò normalmente si adotta l’unica lettura possibile. «Rilassato oppure teso», a28-29: sul valore di queste espressioni, vedi la n. a 177b3-4.

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169a29-36. L’inganno da cui dipende la forma (scl. la forma dell’espressione) è causato dalla somiglianza tra le espressioni linguistiche. È difficile discernere che cosa si dica nello stesso modo e che cosa in modo diverso (a31, su questo valore di «dirsi di» vedi la n. a 22, 178a4-9) perché le somiglianze linguistiche ci inducono a fare di ogni predicato una cosa individuale (tÒde ti) e ad intenderlo come qualcosa di uno. Questo appiattimento delle categorie, che deriva probabilmente dalla possibilità di nominalizzare ogni tipo di predicato, rende il linguaggio una guida malsicura, e perciò chi è in grado di ristabilire le giuste distinzioni categoriali si avvicina alla conoscenza della verità, va cioè al di là del linguaggio (questo è il senso dell’inciso ad a32-33; per il nesso tra conoscere e saper rispondere cfr. 1, 165a24-28). Se crediamo che i predicati significhino un tode ti, tendiamo a considerarli qualcosa di uno «giacché il certo questo e ciò che è sembrano accompagnare massimamente l’uno e la sostanza» (a35-36). I termini qui introdotti a coppie, ßn e oÈsiÄa, tÒde ti e ˆn, intrattengono tra loro relazioni cruciali per la dottrina aristotelica dell’essere, ma riuscire a ritrovarle in questo passo non è facile. L’uno e la sostanza sembrano essere i termini fondamentali di cui gli elementi della seconda coppia sono effetti caratteristici. L’errata convinzione che il predicato significhi un tode ti induce allora in un errore più profondo, quello di attribuirgli l’unità della sostanza, di cui il tode ti è tratto distintivo. Ma che cosa significa esattamente l’espressione tÒde ti? È condivisa l’idea che questa formula chiave dell’ontologia aristotelica articoli insieme individualità e universalità, e serva per rappresentare il membro individuale di una certa specie e genere, o, come anche si dice, di un certo sortale. Secondo una possibile interpretazione, il pronome tÒde si riferirebbe genericamente ad alcunché possa essere indicato da un dimostrativo, e dunque a qualcosa che abbia il carattere dell’individualità («un questo»); l’aggettivo ti preciserebbe invece che quel questo è di un certo tipo o sorta. Secondo un’altra interpretazione, invece, i ruoli sarebbero invertiti, giacché talvolta tode è impiegato non come dimostrativo ma per alludere, in termini generali, ad un esempio di sortale, come uomo, cavallo, animale ecc. Sarebbe allora il ti l’elemento particolarizzante (cfr. Frede-Patzig 1988, II, p. 15; Burnyeat 2001, p. 49 n. 99). In entrambe le interpretazioni, la proprietà di essere un tode ti non sembra sempre esclusiva delle sostanze; per una rassegna dei passi, cfr. Di Lascio 2004, pp. 35-37. Tutto il passo va confrontato con Cat. 5, 3b10-23, dove Aristotele registra la tendenza a trattare il predicato esprimente la sostanza seconda (specie o genere delle sostanze prime, p. es. «uomo» o «animale») come se significasse un tode ti, mentre in verità significa un poion ti, cioè una qualità, sebbene una qualità di tipo speciale. Nelle Categorie l’errore è indotto dalla «forma della nominazione» (sx∞ma t∞w proshgoriÄaw), e dunque l’analogia con il nostro passo è indiscutibile, essendo anche qui lo sx∞ma dell’espressione all’origine dell’errore (anche se nelle Categorie la confusione riguarda solo i predicati che significano sostanze seconde, mentre qui si estende a tutti i predicati). In entrambi i passi viene espressa l’idea che un aspetto in qualche modo formale del linguaggio induca a ritenere che la cosa significata sia un individuo, e probabilmente la parola schema non indica tanto le caratteristiche morfologiche delle parole (suffissi, terminazioni ecc.), ma soprattutto i modi di significare, cioè i tipi di denotazione e di predicazione in qualche modo riconducibili ad una matrice (cfr. Tabarroni 1991, pp. 187-189).

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169a36-b2. Aristotele offre tre ragioni per classificare la figura dell’espressione tra le confutazioni apparenti che dipendono dal linguaggio. In primo luogo (pr«ton m¢n a37), l’inganno si manifesta più spesso quando si fa un’indagine discutendo con qualcun altro che quando si indaga per conto proprio, e questo spiega la natura linguistica dell’errore, giacché la ricerca con altri avviene mediante discorsi su un oggetto, mentre quando si indaga per conto proprio lo si fa anche («non meno») mediante l’oggetto stesso, si va cioè oltre la mediazione linguistica e si cerca di vedere direttamente come stanno le cose. Inoltre, e questo è il secondo argomento (a40), ci si inganna anche da soli, ma ciò accade quando si conduce l’indagine §p‹ toË lÒgou, cioè sul solo piano linguistico. Tale circostanza, come sappiamo, può verificarsi perché vi è un modo di ragionare – illustrato nel cap. 1 dal paragone tra le parole e i sassolini dell’abaco – in cui non si considerano costantemente le cose significate ma, almeno in certi snodi del ragionamento, si procede manipolando meri simboli. Dunque Aristotele riconosce anche la possibilità di un discorso interiore costituito dalle immagini acustiche delle parole: un discorso immaginato non scevro da quei difetti di ambiguità e oscurità caratteristici del discorso sonoro che si rivolge agli altri (cfr. 16, 175a10-12). Il primo argomento, tuttavia, del quale il secondo sembra una correzione o una precisazione, mostra che Aristotele tende a eleggere l’interiorità a sfera della trasparenza e a confinare invece nello scambio vocale tra due persone ogni occasione di travestimento e di oscurità (Top. VIII 1, 155b7-16; APo. I 10, 76b23-27). Agisce forse su questa idea una qualche influenza del modello del Teeteto platonico (189e-190e) dove, se pure si inaugura l’identificazione di pensiero e discorso, l’elemento fonico, insieme con ogni altro possibile motivo di confusione, viene eliminato dal dialogo interiore, al punto che dopo aver dialogato tra sé e sé risulta impossibile confondersi e opinare il falso. Su questo sfondo, il secondo argomento introduce un’osservazione inedita e importante. Terzo argomento (b1-2): la somiglianza che induce a classificare erroneamente le cose nella stessa categoria nasce dalla somiglianza linguistica. 169b3-9. La duplice motivazione del paralogismo dipendente dall’accidente: (a) non saper discernere ciò che è lo stesso e ciò che è diverso («uno e molti» non aggiunge nulla) (b) non sapere quali predicati condividano tutti gli accidenti con l’oggetto accosta due descrizioni del paralogismo che abbiamo già incontrato: (a) corrisponde a 6, 168b27-35 e (b) corrisponde a 5, 166b28-36. Sul rapporto tra queste due formulazioni (sul quale forse Aristotele si è chiarito le idee in corso d’opera), vedi la nota a 5, 166b28-36. Sul paralogismo dipendente dal conseguente come parte di quello dell’accidente vedi 6, 168b27-35 e n. A b7-9 Aristotele aggiunge che la propensione a questo tipo di errore nasce dal fatto che molti conseguenti, qui caratterizzati come «cose inseparabili da qualcosa», sono effettivamente convertibili, il che spinge a credere che la convertibilità sia una regola universale. Credo infatti che la frase «in molti casi sembra e si ritiene così» non alluda ad una falsa apparenza, ma ai molti casi di convertibilità reale che ci inducono a generalizzare (meccanismo analogo a quello descritto sopra, a 169a27 e 29, per composizione, divisione e accento).

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169b9-17. Gli altri tipi di confutazione apparente sono tutti ricondotti da Aristotele al «considerare irrilevante», §n t“ parå mikrÚn b11, cioè al considerare trascurabili o non decisive certe distinzioni che non necessariamente sfuggono all’attenzione (cfr. APr. I 33, 47b38-40). Questo vale innanzitutto per la «mancanza della formula definitoria», cioè l’ignoranza della definizione, e per la confusione tra predicazione assoluta e predicazione limitata. Entrambe queste confutazioni apparenti nascono dal ritenere che certe clausole come «per un certo aspetto», «in un certo modo» o «in questo momento» non aggiungano nulla al significato di ciò che le precede. È da notare come Aristotele accosti qui una delle clausole omesse nell’ignoranza della definizione («in questo momento») a due clausole che limitano la predicazione («per un certo aspetto», «in un certo modo») e che vengono omesse nel passaggio dalla predicazione assoluta a quella limitata. Egli sembra così fondere due paralogismi che finora aveva tenuti distinti (stesso accorpamento a 8, 170a4-8). Lo stesso accade anche nella petizione di principio, nella falsa causa e nella domanda molteplice (b12-17). Tutti questi paralogismi scaturiscono dal ritenere che certe aggiunte siano ininfluenti e dal conseguente non considerare attentamente la definizione della premessa e quella del sillogismo. Aristotele conferma qui per quattro tipi di paralogismo quella riducibilità alla definizione della confutazione che il capitolo precedente aveva cercato di applicare a tutti i paralogismi. Queste righe precisano in aggiunta che l’ignoranza della definizione va intesa come una mancanza di sensibilità ai dettagli.

CAPITOLO 8 169b18-23. La distinzione, tracciata in queste righe, tra le confutazioni (e i sillogismi) apparenti e quelle sofistiche è una novità, giacché all’inizio del trattato, a 164a20-21, «confutazione sofistica» e «confutazione apparente» indicavano di fatto la stessa cosa. Qui a b21-23 apprendiamo invece che le confutazioni sofistiche includono le confutazioni apparenti, perché, oltre a queste, comprendono anche le confutazioni reali ma inappropriate all’oggetto. La distinzione non è duratura: alla fine del cap. 11 e all’inizio del 12 gli aggettivi «sofistiche» (172b5) e «apparenti» (172b9) qualificano di nuovo le stesse confutazioni. 169b20-25. Perché introdurre qui delle confutazioni sofistiche reali ma inappropriate all’oggetto? Il passo diviene comprensibile alla luce dell’argomentazione complessiva del capitolo: Aristotele si occuperà (a partire da b33) della distinzione tra sillogismi e confutazioni apparenti, come: (A) Il rombo è una figura geometrica; il rombo ha le branchie; dunque una figura geometrica ha le branchie e confutazioni che aggiungono quella che nell’Introduzione, par. 4, ho chiamato «premessa falsa validante», ossia un’asserzione falsa che esprime la ragione per cui un sillogismo come (A) appare valido:

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(B) Il rombo è una figura geometrica; il rombo ha le branchie; «rombo» ha un solo significato; dunque una figura geometrica ha le branchie. Come si comprenderà chiaramente più avanti, nel nostro capitolo Aristotele vuol dimostrare che i sillogismi e le confutazioni sofistiche valide sono le argomentazioni di tipo (B). 169b24-29. Il passo presenta una digressione sulle confutazioni inappropriate all’oggetto, digressione che è funzionale alla soluzione di un problema che si presenterà solo nel seguito e che può essere riassunto così. Aristotele dimostrerà tra breve che le cause delle confutazioni apparenti, cioè invalide, sono le stesse delle cause delle confutazioni sofistiche logicamente valide. Essendo valide, queste ultime pongono un semplice interrogativo: perché dovremmo giudicarle sofistiche? Aristotele anticipa qui implicitamente una risposta (un’altra risposta emergerà alla fine del capitolo): sono sofistiche in quanto non sono appropriate all’oggetto. Per comprendere questa risposta dobbiamo delineare il contesto. Aristotele pensa alla situazione in cui un sofista interroga, per dimostrarne l’ignoranza, un uomo che conosce l’argomento in questione e che dà soltanto risposte vere. L’unico modo di condurre questo rispondente ad una conclusione falsa è ragionare in modo non valido. Tuttavia, come Aristotele sta per mostrare, ogni tipo di confutazione apparente e invalida è equivalente ad una confutazione valida che assume una premessa falsa validante. I due tipi sono equivalenti perché per lo più chi ritiene valido quel sillogismo apparente è disposto a concedere la premessa falsa validante del tipo «“rombo” ha un solo significato», premessa che trasforma un’argomentazione non valida come (A) nell’argomentazione valida (B) (vedi n. precedente). Nel caso del sillogismo invalido è la sua validità solo apparente che ci spinge a giudicarlo sofistico; nel caso invece del sillogismo con la premessa falsa validante, una ragione per considerarlo sofistico è che quella premessa non è appropriata all’oggetto. Le cause delle confutazioni apparenti, cioè l’omonimia, l’accidente ecc., sono infatti generali e non legate ad un dominio specifico, come invece, p. es., i paralogismi matematici. È chiaro infatti che una premessa come «“rombo” ha un solo significato» non appartiene alla disciplina scientifica cui compete il contenuto delle altre premesse. In quanto usa una premessa falsa e non appropriata all’oggetto, l’argomentazione sofistica valida confuta l’uomo di scienza sfruttando un errore che non concerne la sua scienza. Questo quadro spiega il paragone che Aristotele tratteggia qui fra tali confutazioni sofistiche e l’arte esaminatrice (b23-29). Le confutazioni sofistiche in questione sono quelle che cercano di dimostrare l’ignoranza di qualcuno senza procedere secondo l’oggetto e questo, per definizione, è compito dell’arte esaminatrice. Dovremmo concluderne che proprio tali argomentazioni costituiscono l’arte esaminatrice? No, perché quest’ultima è una parte della dialettica, e la dialettica (qui contrapposta alla sofistica) è in grado di sillogizzare una conclusione falsa sfruttando l’ignoranza di chi risponde (Top. VIII 11, 161a24-34). Le confuta-

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zioni sofistiche in questione, invece, anche se sillogizzano, non riescono a smascherare l’ignorante, perché colpiscono anche l’esperto, se non è pratico di dialettica (cfr. 6, 168b4-10). Come suggerisco nell’Introduzione, par. 7, l’arte esaminatrice usa solo premesse comuni e non entra nel merito delle varie discipline specialistiche, limitandosi a stabilire conclusioni comuni che è necessario ma non sufficiente conoscere per possedere una disciplina. In questo modo riesce a smascherare l’ignorante senza molestare gli esperti. Rimane tuttavia un problema: Aristotele si accinge a dimostrare che, una volta conosciute le cause delle confutazioni apparenti, avremo anche le cause di tutte le altre confutazioni sofistiche, che sono quelle valide ma non appropriate all’oggetto. Argomentazioni di questo tipo sono però discusse anche nel cap. 11, e lì è chiaro che si tratta di ragionamenti (per esempio la quadratura del cerchio di Brisone) che non hanno nulla a che fare con le cause dei sillogismi apparenti (omonimia, accidente ecc.) o, quanto meno, lì Aristotele non li mette in relazione con tali cause di apparenza (vedi però, per un barlume di evidenza contraria, la n. a 6, 168b6-10). Ne segue che l’ampiezza del campo delle confutazioni sofistiche valide riconosciuta nel presente capitolo è molto più limitata di quella che emerge dal cap. 11. L’impressione è che qui Aristotele stia cercando, non senza forzature, di delimitare il territorio della sofistica confinandone l’estensione ai tredici paralogismi classificati nei capp. 4 e 5. Nel cap. 11 questo tentativo sembra più realisticamente abbandonato. Ciò che sembra giustificare la restrizione di Aristotele è l’idea che l’uomo di scienza, qui preso a modello di rispondente, conceda solo premesse vere e appropriate all’oggetto. Pertanto l’unico modo di ingannarlo sarà quello di usare argomentazioni solo apparentemente valide in cui, anche se non concede nulla di falso, si riesce a ottenere da lui una conclusione falsa. Aristotele mostra però che tali argomentazioni hanno la stessa forza di quelle che assumono in aggiunta una premessa falsa validante, giacché se il rispondente accetta le argomentazioni apparenti accetterà anche la premessa validante (pur essendo questa falsa e non appropriata all’oggetto). Ecco che allora egli pensa di aver individuato gli unici casi possibili di argomentazione sofistica valida. Ma tutto si regge su un modello di rispondente fortemente idealizzato. 169b30-34. Aristotele svolge l’argomento centrale del capitolo. Esso è strutturato come segue: (a) le cause che danno agli ascoltatori l’impressione che l’argomentazione sia stata svolta con tutte le domande necessarie a dedurre la conclusione sono quelle che danno la stessa impressione al rispondente. (b) Così, mediante queste cause, sarà possibile costruire dei sillogismi falsi. (c) Infatti, ciò che il rispondente crede di aver concesso, lo concederebbe se gli fosse richiesto. I sillogismi falsi sono quelli che contengono una premessa falsa validante (per questa accezione di sillogismo falso, cfr. Top. VIII 12, 162b11-15). Che sia in gioco l’aggiunta di una premessa è infatti evidente dal passo stesso in esame e diventa ancora più esplicito nel periodo successivo, dove si parla di una premessa man-

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cante che viene sollecitata da una domanda supplementare (b35). Più avanti, a 170a12-19, Aristotele dà anche due esempi di domanda supplementare. Abbiamo chiarito l’importanza del meccanismo della premessa falsa validante nell’Introduzione, par. 4, dove abbiamo anche discusso il significato «credere di aver concesso». Tra gli interpreti di questo passo, il meccanismo della premessa validante è sufficientemente compreso solo da Silvestro Mauro, I, p. 587, e in una certa misura da Poste, p. 120, il quale interpreta la premessa validante come una sorta di principio falso o «pseudoassioma» che compensa l’errore e giustifica l’inferenza. Egli riecheggia interessanti interpretazioni medievali delle fallacie sulle quali vedi Ebbesen 1987, pp. 118-119. 169b30-32. parÉ ˜sa går faiÄnetai to›w ékoÊousin …w ±rvthm°na sullelogiÄsyai ammette anche altre traduzioni, che tuttavia non mi sembrano condurre ad interpretazioni divergenti. Per esempio si può tradurre: «quante sono le cose che fanno sembrare agli ascoltatori che qualcosa sia stato sillogizzato come se fossero state poste le domande» (mantenendo la costruzione assoluta del participio, come nella mia traduzione, ma senza assegnare valore causale a …w). ±rvthm°na potrebbe anche riferirsi a ˜sa, e allora il passo andrebbe reso con «le cose che fanno sembrare agli ascoltatori che qualcosa sia stato sillogizzato come se esse fossero state domandate». 169b31. Perché Aristotele chiama in causa gli ascoltatori (to›w ékoÊousin)? Si ricordi che, quando parla dell’apparenza dei sillogismi e delle confutazioni, egli non pensa, se non occasionalmente (p. es. a 5, 167b35-36), a ciò che appare ingannevolmente all’interrogante o al rispondente: il primo è per definizione un sofista o un erista, il secondo è spesso un uomo di scienza o un dialettico. Se costoro non sono nemmeno scalfiti dall’apparenza, poco importa; ciò che conta è quel che appare agli ascoltatori: a chi, verosimilmente, deve decidere della vittoria o della reputazione dei contendenti (cfr. 17, 175a31-35). Ora però Aristotele, volendo fare alcune assunzioni sulla psicologia del rispondente, ridefinisce la situazione immaginando che l’inganno di una confutazione meramente apparente riguardi proprio costui, e postula che gli stessi fattori capaci di generare l’apparenza nel pubblico siano quelli che la generano nel rispondente. Sugli ascoltatori, cfr. anche 1, 165a17; 15, 174a36; 22, 178a20; 33, 182b8. 169b34-37. Non sempre la premessa falsa validante viene concessa, perché in alcuni casi è proprio la reticenza a produrre l’apparenza: basta menzionare la premessa mancante e l’interlocutore si accorge che è falsa. 169b37-40. L’argomento è oscuro. Fanno la prima comparsa i «paralogismi della contraddittoria», che probabilmente non sono altro che i tredici tipi di confutazione apparente illustrati nei capp. 4 e 5. Ma perché ora Aristotele li chiama in questo modo? Leggendo le prime righe del cap. 8 il lettore è portato ad assumere che l’autore, parlando delle cause delle confutazioni apparenti, alluda già ai tredici tipi esposti nei capp. 4 e 5. È ora evidente invece che egli non dà per scontata questa identificazione e inizialmente si riferisce alle confutazioni apparenti in modo indeterminato e generale.

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Ora egli argomenta che se si riesce a mostrare che i paralogismi della contraddittoria dipendono dalla confutazione apparente e cioè, verosimilmente, che i paralogismi già noti altro non sono che confutazioni apparenti, allora è chiaro che le cause delle confutazioni apparenti sono il nucleo fondamentale della disciplina e ci daranno automaticamente le cause delle confutazioni sofistiche valide (qui a b39 chiamate « i sillogismi di conclusioni false»: vedi la n. seguente). 169b39. I «sillogismi di conclusioni false» sono «i sillogismi falsi» di b33 e quelli a cui si fa riferimento ancora prima a b26. Si tratta dei sillogismi che contengono la premessa falsa validante. Anche le conclusioni sono false, perché la situazione dialettica più comune lo esige: nella maggior parte dei casi un interrogante eristico cercherà di dedurre una conclusione falsa per confutare una tesi vera. Lo stesso presupposto valeva sopra a b26. 169b40-170a11. Assumendo che ogni tipo di confutazione apparente deve violare una clausola della definizione della confutazione Aristotele riesce contemporaneamente a mostrare quanti tipi di confutazione apparente possono esistere e a far vedere caso per caso che coincidono con i paralogismi noti (a1-9). A questo punto può concludere che non potranno esistere altri tipi di paralogismo oltre a quelli menzionati (a9-11). 169b40-170a1. «Le confutazioni apparenti dipendono dalle parti di quella autentica giacché, venendo a mancare qualcuna di queste, la confutazione sarà apparente». A rigore il semplice mancare di un requisito definitorio non renderebbe la confutazione apparente, ma solo invalida, il che avrebbe l’infelice conseguenza di far rientrare nelle confutazioni apparenti anche argomentazioni invalide prive di ogni apparenza. Aristotele intende invece solo affermare che, quando in una confutazione che sembra valida manca un requisito definitorio, essa sarà meramente apparente (vedi Introduzione, par. 3). 170a12-19. Il paragrafo ritorna sulle confutazioni sofistiche (chiamando «sofistiche» ora solo quelle valide e non anche quelle apparenti), per dire che sono bensì confutazioni in relazione all’interrogato (e in questo si distinguono dalle apparenti, che non sono affatto confutazioni), ma non in assoluto, cioè in realtà (cfr. anche 32, 182a 23-24 e per una distinzione analoga, APo. I 10, 76b27-30). Aristotele intende probabilmente offrire una seconda ragione per considerare sofistiche queste confutazioni (la prima era che non sono appropriate all’oggetto). Le confutazioni «normali» non possono infatti assumere come premesse fatti o presunti fatti relativi al significato dei termini e alle caratteristiche strutturali del ragionamento. Tali elementi devono essere presupposti come condizioni di sfondo, perciò una confutazione che assume la premessa falsa validante non è più una confutazione normale, anche se può essere una confutazione contro la persona che l’ha concessa.

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CAPITOLO 9 170a20-34. Per avere una conoscenza esaustiva delle confutazioni, per conoscere cioè quanti e quali siano i fattori (contenutistici, non solo formali) che le producono, bisogna conoscere tutti i loro possibili contenuti, cioè tutta la realtà. Ma questo (toËto a22), cioè il dominio completo delle confutazioni basato sulla conoscenza di tutte le cose, non è compito di alcuna arte, perché le scienze sono forse infinite e quindi lo saranno anche le dimostrazioni. L’argomento sfrutta implicitamente un leitmotiv della speculazione aristotelica, l’idea cioè che non esista una scienza capace di conoscere singolarmente infiniti casi (cfr. per esempio Metaph. B 4, 999a27-29; APo. I 24, 86a6; vedi anche più avanti nel presente capitolo, 170b5-8, con Rh. I 2, 1356b31-35). Assumendo l’infinità delle scienze, e quindi delle dimostrazioni, Aristotele esclude che possano diventare l’oggetto di una singola scienza universale, una sorta di scientia scientiarum capace di compendiare in sé le premesse di tutte le confutazioni (la lezione oÈ miçw ¶sti t°xnhw a22 Ross [«non spetta ad un’arte sola»], in luogo di oÈdemiÄaw ¶sti t°xnhw [«non spetta ad alcuna arte»] mss., non cambia il senso del ragionamento). Il seguito del passo (a23-30) argomenta a favore dell’asserzione iniziale, dell’asserzione cioè che per conoscere tutte le confutazioni bisogna conoscere tutti gli enti. Le confutazioni vere (quelle che dimostrano la contraddittoria di una tesi falsa) richiedono il possesso della relativa scienza, sicché per dominarle tutte bisognerà conoscere tutte le cose (a23-27). Fin qui si potrebbe ancora pensare che, a differenza di quello delle confutazioni vere, lo studio delle confutazioni false non richieda un sapere infinito e che quindi possa essere intrapreso con successo, ma Aristotele fa osservare (a30-34) che anche queste confutazioni concernono argomenti che rientrano in qualche modo nell’area di competenza delle varie scienze. Pertanto – egli ci invita a concludere – se le scienze sono infinite, anche le confutazioni false potranno essere infinite. Il riconoscimento dell’infinità delle scienze (a22; a31), per quanto attenuata da un «forse», suona paradossale sulla bocca di Aristotele. Nel presente contesto, tuttavia, una simile affermazione può avere anche solo valore dialettico e del resto la si trova anche ad APo. I 32, 88b6-10. 170a34-39. Alla luce dell’argomento precedente, è chiaro che non bisogna cercare di impadronirsi dei luoghi di tutte le confutazioni, ma di quelli di competenza della dialettica, che sono comuni a tutte le discipline (a34-35). Questo è il compito del dialettico che deve invece lasciare allo specialista della singola scienza la conoscenza della confutazione vera o apparente nell’ambito di quella disciplina (a36-38). Sulla complessa nozione di «luogo» si vedano in particolare Rh. II 26, 1403a18 sgg. per la definizione: «luogo è ciò in cui ricadono molti entimemi»; i frr. 122a, 122b e 123 Fortenbaugh per l’importante testimonianza di Teofrasto; Top. VIII 14, 163b20 sgg. e le analisi di Slomkowski 1997, cap. 2. Aristotele considera i luoghi come enunciati universali di carattere più o meno generale. Qui essi sono evidentemente identificati con «ciò da cui dipendono»

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le argomentazioni. Ci si è molto interrogati sulla natura dei topoi aristotelici. Sono premesse del sillogismo o sono regole di inferenza o schemi argomentativi esterni al sillogismo? Servono a giustificare la conclusione o solo a selezionare le premesse? Lasciando da parte queste ardue problematiche, mi limito ad osservare che nel presente contesto niente esclude che i luoghi possano fungere da premesse delle argomentazioni (cfr. anche Top. VIII 14, 163b28 sgg.), sebbene sia chiaro che non tutte le premesse dell’argomentazione possono essere luoghi, ma solo quelle che ne costituiscono, per così dire, l’ossatura e, nel caso dei luoghi comuni, solo quelle condivise da un certo numero di argomentazioni (sulla questione cfr. De Pater 1965, cap. 2; Brunschwig 1967, pp. XXXVIII sgg.; Primavesi 1996, cap. 3; Slomkowski 1997, cap. 2; cito un esempio di topos nella n. che segue). Ad a34-35 troviamo una contrapposizione fra luoghi dialettici e luoghi «di tutte le confutazioni»: questi ultimi includono chiaramente i principi delle singole scienze. Oltre ai luoghi comuni vi sono dunque anche luoghi propri e ciò non suscita perplessità, se riconosciamo che il luogo non è altro che una premessa. 170a39-b3. L’argomentazione che va da a39 fino a b8, e sarà poi ricapitolata a b811, vuole spiegare perché il dialettico debba impadronirsi dei luoghi comuni. La ragione è che le capacità costitutive della sua competenza (confutazione, obiezione, risoluzione, confutazione apparente) discendono a cascata dal possesso dei luoghi comuni. Aristotele inizia tuttavia la serie dalla conoscenza dei «sillogismi plausibili» (¶ndojoi sullogismoiÄ), ossia dai sillogismi che hanno premesse plausibili, e non è del tutto chiaro come tale possesso si connetta a quello dei luoghi comuni. È probabile che i luoghi comuni stessi, che, come abbiamo visto, non sono altro che premesse, debbano essere plausibili. Se poi sono comuni, conterranno in sé, come casi specifici, molte altre premesse plausibili. Inoltre, dovranno accompagnarsi ad altre premesse plausibili necessarie per l’argomentazione. Per esempio (cfr. Top. II 8, 113b27-28), «se ad un membro di una coppia di contrari conviene un membro di un altra coppia, all’altro membro della prima coppia converrà l’altro membro della seconda coppia». Questo è un luogo plausibile che può essere usato direttamente nell’argomentazione o specificato in una premessa plausibile come «se il piacere è bene, il dolore è male». Ora, se l’obiettivo del dialettico è quello di concludere che il dolore è male, sarà necessario che anche la premessa «il piacere è bene» sia plausibile, altrimenti non riuscirebbe ad ottenerla dal rispondente. Dalla capacità di produrre sillogismi plausibili deriva la capacità di costruire confutazioni (a40), giacché le confutazioni sono «uno o due sillogismi della contraddittoria» (b2). Questa limitazione numerica è un po’ oscura. Forse serve a mettere in conto la possibile esistenza di (almeno) un prosillogismo, ossia un secondo sillogismo volto a dimostrare una delle premesse del primo sillogismo, quello che conclude la contraddittoria della tesi. Forse allude anche al fatto che il numero dei sillogismi contenuto in una confutazione è limitato e quindi sempre dominabile dal dialettico. 170b2-b5. Quando il dialettico interpreta la parte del rispondente il suo compito è quello di evitare la confutazione trovando la risoluzione dell’argomentazione,

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demolendo cioè con un’obiezione la premessa falsa da cui l’argomentazione dipende (vedi Introduzione, par. 8). Nei Topici, Aristotele riconosce in varie occasioni che i luoghi, lungi dall’essere sempre verità assolute ed evidenti, devono talora essere stabiliti per induzione e spesso sono vulnerabili alle obiezioni (p. es. IV 4, 124b35 sgg; 6, 128a38-b9; e Slomkowski 1997, pp. 59-61, che cita altri esempi). Stando così le cose, è chiaro che uno studio sistematico e critico dei luoghi comuni porterà con sé la conoscenza delle obiezioni e quindi delle risoluzioni. 170b5-8. Uno studio dei sillogismi plausibili farà ottenere anche una conoscenza delle cause delle confutazioni apparenti. L’assunzione qui implicita è che le premesse o le cause delle confutazioni apparenti ingannano perché assomigliano alle premesse delle confutazioni dialettiche, cioè perché sembrano endoxa senza esserlo. Aristotele infatti precisa che non si deve tenere conto di ciò che appare a chiunque, ma solo ad un certo tipo di persone (b6), perché sarebbe un compito infinito esaminare ciò che potrebbe apparire al primo che capita. Qui egli sembra alludere al fatto che gli endoxa sono credenze condivise e non comprendono le infinite e imprevedibili concezioni dei singoli individui. Un notevole passo parallelo, Rh. I 2, 1356b30-1357a1, mostra come la preoccupazione sia quella dell’inconoscibilità scientifica degli infiniti particolari. 170b8-11. Aristotele ricapitola l’argomentazione sulle competenze della dialettica iniziata a 170a39. Ecco una possibile parafrasi di questo oscuro periodo: è manifesto che spetta al dialettico conoscere, mediante le premesse comuni, la confutazione (reale o apparente), la quale altro non è (b10 ka‹ esplicativo) che la confutazione dialettica (reale, apparente o esaminatrice). In altre parole, grazie al possesso delle premesse comuni il dialettico sarà in grado di svolgere le operazioni che definiscono la sua capacità.

CAPITOLO 10 170b12-14. Aristotele confuta in questo capitolo una divisione delle argomentazioni (lÒgoi) proposta da «alcuni» non meglio identificati. Non si tratta di una bipartizione dei paralogismi, come hanno invece sostenuto alcuni interpreti, ma di una classificazione delle argomentazioni in generale (vedi gli opportuni chiarimenti di Hecquet-Devienne 1993, pp. 184-185). «Argomentazione» (lÒgow) equivale in tutto il capitolo a «confutazione» (¶legxow), come si evince a 171a1-2; 2526, ma confutazione intesa in un senso più lato di quello tecnico aristotelico (cioè senza insistere sul fatto che la confutazione è un sillogismo). «Parola» (ˆnoma) va preso, sia dal punto di vista di Aristotele sia da quello degli avversari, in un senso abbastanza lato da comprendere potenzialmente tutti i paralogismi linguistici, anche quelli che non risiedono in una parola singola (cfr. ad esempio 171a17-22, dove rivolto alla parola è un caso già noto di anfibolia, cioè di ambiguità riguardante più parole). La diãnoia è quello che oggi si dice l’intenzione del parlante, ciò a cui egli dirige il pensiero quando usa una parola, cfr. Top. I 18, 108a22-24. Ma chi sono questi «alcuni»? Sarà opportuno, prima di seguire l’argomentazione aristotelica nei dettagli, riferire brevemente sui tentativi finora compiuti di

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far emergere questi pensatori dall’anonimato. Poste, p. 123, li ha identificati con i teorici altrettanto anonimamente menzionati a 20, 177b7-9, i quali sostengono che tutte le confutazioni dipendono dall’ambiguità (dittÒn), e sulla base di un frammento parzialmente guasto di Eudemo di Rodi (presso Simplicio, In Ph. 97.30-98.1 = 37a Wehrli, ma cfr. anche 115.26-116.2; 120.8-10; 243.1-3) – in cui il discepolo di Aristotele afferma che «Platone introducendo l’ambiguità risolse molte difficoltà» – ha suggerito che il bersaglio di Aristotele, qui come nel cap. 20, fosse Platone stesso o un platonico. Cherniss 1944, p. 58 n. 47, ritenendo troppo generico e quindi non significativo il riferimento di Eudemo a Platone, ha proposto invece il nome di Speusippo, seguito in ciò con convinzione da Tarán, che ha stampato tutto il cap. 10 e il brano 20, 177b7-9, come frr. 69a e 69b della sua raccolta dei frammenti di Speusippo. Non solo Aristotele vi criticherebbe il nipote di Platone, ma lo farebbe, secondo Tarán, pp. 74 sgg., con argomentazioni deboli finalizzate a ridimensionare il proprio debito nei confronti della dottrina speusippea. Se i corollari relativi alla presunta malafede aristotelica appaiono del tutto gratuiti, l’indicazione di Speusippo rimane una congettura plausibile (nonostante le riserve espresse da Barnes 1971, p. 67, e da Dorion, pp. 261-268). Nella misura in cui le testimonianze ci permettono di collegare in modo non generico la figura di Speusippo alla divisione dicotomica (caratterizzata come un metodo classificatorio e definitorio che procede individuando di volta in volta l’identità, la differenza o la somiglianza fra ogni coppia di oggetti), abbiamo un riscontro piuttosto preciso della presenza di questo filosofo nel nostro capitolo, dove la critica aristotelica – impugnandone continuamente la pretesa esaustività – sembra impegnata anche a colpire la divisione avversaria sul piano metodologico. Si noti a questo proposito che la coppia rivolto alla parola/rivolto al pensiero viene impiegata dallo stesso Aristotele a Top. I 18, 108a18-37, sebbene non con l’intento di fornire una divisione, e che anche nel presente capitolo la nozione di argomento rivolto alla parola, opportunamente ridimensionata, rimane per Aristotele un concetto legittimo. Già Platone sembra servirsi di idee sostanzialmente equivalenti (Sph. 218c1 sgg.; Euthd. 295c4 sgg.), senza però, a quanto è dato vedere, impegnarsi in una divisione. Se Speusippo è soltanto il candidato più plausibile, è però quasi certo che il capitolo documenta una disputa interna all’Accademia platonica, che fu punto di intersezione di uno specifico interesse per l’ambiguità nelle argomentazioni da un lato (come dimostra la testimonianza di Eudemo e soprattutto Pl. Euthd. 277e3 sgg.) e per la divisione dall’altro. Corretta potrebbe essere anche l’identificazione dei personaggi menzionati a 20, 177b7-9 (che sostenevano che tutte le confutazioni dipendono dal ditton) con quelli qui criticati, perché (a) a 170b36-38 appare chiaro che con la categoria «rivolto alla parola» gli avversari di Aristotele vorrebbero comprendere tutti i paralogismi linguistici; (b) analizzando lo stesso passo, 170b35-40, vedremo che i paralogismi linguistici dipendono per costoro dal dirsi in più modi, cioè dall’ambiguità; infine (c) a 171a25-27 emerge che per gli avversari quella categoria dovrebbe comprendere tutte le confutazioni apparenti. Cfr. infine anche Diogene Laerzio, IX 52, dove si dice che Protagora, «trascurando il pensiero (tØn diãnoian éfeiÄw) argomentò rivolgendosi alla parola

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(prÚw toÎnoma) e diede origine al genere ora diffuso delle argomentazioni eristiche». È del resto probabile che la nostra divisione abbia qualche precedente in una rudimentale distinzione, tracciata in seno alla sofistica, tra piano meramente verbale e piano concettuale, cfr. per esempio Senofonte, Cinegetico 13, 6. Piuttosto vicina alla contrapposizione qui in esame è poi quella fra la lettera e il contenuto di un discorso o di un testo, cfr. p. es. Metaph. A 3, 985a4. 170b12-35. Aristotele si propone di dimostrare che le categorie «rivolto alla parola»/«rivolto al pensiero» non separano stabilmente due classi di argomentazioni, perché si adattano, mutando le circostanze, ai medesimi logoi, nel senso che una stessa argomentazione può essere rivolta alla parola o rivolta al pensiero. Egli comincia la sua demolizione fissando un’interpretazione rigida della distinzione: un’argomentazione è rivolta al pensiero se e solo se l’interrogante ha usato un termine nel senso in cui lo intendeva il rispondente; è invece rivolta alla parola se l’interrogante lo ha usato in un senso diverso (b16-19). La critica (170b19-35) si articola poi in due fasi (cfr. pr«ton b26... e‰ta b28). La prima fase termina a b26; la seconda va da b26 a b35. Nella prima fase (b16-26) Aristotele considera argomentazioni ambigue, che contengono cioè «parole che significano più cose», e mostra che in una situazione possibile, quella in cui l’ambiguità non è sospettata nemmeno dall’interrogante, tali argomentazioni possono essere rivolte al pensiero (se l’interpretazione dell’interrogante e quella del rispondente coincidono) oppure rivolte alla parola (se le rispettive interpretazioni divergono). Per le difficoltà testuali di queste righe, vedi la n. a 170b20-25. La seconda fase dell’attacco aristotelico (b26-35) generalizza la critica a tutte le argomentazioni, comprese quelle che non dipendono dall’ambiguità. Tutte possono essere rivolte al pensiero, perché la categoria «rivolto al pensiero» non definisce una proprietà intrinseca e stabile delle argomentazioni, ma solo una condizione del rispondente in relazione alle premesse che ha concesso (il suo intendere cioè i termini in un modo piuttosto che in un altro). Ogni argomentazione, dunque, può essere o non essere rivolta al pensiero (b28-30) perché anche se non c’è alcuna espressione ambigua il rispondente può interpretare i termini in modo diverso dall’interrogante. A questo punto (b30-35) Aristotele mostra che ogni argomentazione può essere o non essere rivolta alla parola. In base alla divisione stessa proposta dagli avversari, se un’argomentazione non è rivolta al pensiero, è necessariamente rivolta alla parola. Quindi se un’argomentazione può essere o non essere rivolta al pensiero, può anche essere o non essere rivolta alla parola. Si potrebbe obiettare che la critica aristotelica non sarebbe efficace se i sostenitori della distinzione abbracciassero una forma estrema di convenzionalismo linguistico, come quella descritta da Ermogene all’inizio del Cratilo di Platone, o quella di Diodoro Crono, che, riducendo il significato all’intenzione del parlante, sosteneva che l’ambiguità delle parole fosse impossibile in quanto non è possibile intendere più cose contemporaneamente (Aulo Gellio, XI 12, 1-3 = II F 7, 1-9 Giannantoni). Se fossero dei convenzionalisti estremi, i sostenitori della distinzione in esame potrebbero coerentemente affermare che interessante non è l’ambiguità linguistica in sé, fenomeno privo di fondamento, ma il fraintendimento tra i parlanti.

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Tuttavia, come diventa esplicito a b35-38, i sostenitori della distinzione vorrebbero comprendere nella loro categoria «rivolto alla parola» tutti i paralogismi linguistici e questi corrispondono per loro alle argomentazioni che dipendono dall’ambiguità (vedi la n. 170b35-40). Riconoscono pertanto l’importanza dell’ambiguità delle parole stesse. Sulla base di questo presupposto, la critica aristotelica va giudicata pertinente e punta il dito contro una reale confusione. Anche se non sono convenzionalisti estremi, gli avversari potrebbero però ribattere che, per ottenere un paralogismo, è sì necessario che qualche espressione sia ambigua in sé, ma non è sufficiente, perché bisogna che tale espressione sia usata per generare un qualche equivoco tra gli interlocutori e tale equivoco è appunto un’argomentazione «rivolta alla parola». La distinzione, riveduta e corretta, manterrebbe in questo caso la sua validità. Aristotele è pienamente consapevole della possibilità di questa linea di pensiero e in parte la accetta, ma per ridimensionarla nelle righe seguenti con un attacco più sottile e persuasivo: vedi 170b35-40 con la n. 170b20-25. Nel testo trasmesso dai manoscritti abbiamo due volte il verbo al singolare (o‡oito b20, ofiÒmenow b23) mentre i soggetti sono due, l’interrogante e il rispondente. Inoltre a b23 il testo reca ±r≈thse, verbo che non può riguardare anche il rispondente. Ross mette i verbi al plurale, e corregge ±r≈thse in efirÆkasi. Seguendo un suggerimento epistolare di Jacques Brunschwig, preferisco invece espungere ka‹ ı §rvt«n ka‹ ı §rvt≈menow b21 (la cui presenza in quella posizione sembra frutto di un’intrusione) e ka‹ ı épokrinÒmenow b22. L’argomento di Aristotele è incentrato dunque sull’interrogante. Se questi crede che la parola abbia un solo significato, potranno verificarsi due situazioni: (a) il significato che l’interrogante assegna alla parola è identico a quello assegnatole dal rispondente. (b) il significato che l’interrogante assegna alla parola è diverso da quello assegnatole dal rispondente. Nel caso (a), l’argomentazione sarà rivolta al pensiero; nel caso (b), sarà rivolta alla parola. Tale duplice possibilità rimane aperta sia che il rispondente sappia che la parola è ambigua sia che non lo sappia. Il tiw soggetto della frase successiva (b25) è ancora un interrogante. Questa volta uno che sa che la parola ha più significati. 170b21-24. Il nome di Zenone (b23), che ricorre nei mss., è stato espunto da vari editori come probabile glossa incorporata nel testo. Il carattere ipotetico dell’esempio aristotelico giustifica l’espunzione, anche se è comunque ovvia l’origine eleatica dell’argomentazione immaginata a favore del monismo. L’esempio non è certamente scelto a caso, perché Aristotele ritiene che Parmenide, pensatore arcaico, non avesse compreso che ciò che è si dice in molti modi (vedi Ph. I 2 e 3; Metaph. N 2, 1088b35 sgg.), proprio come l’interrogante nella situazione qui esaminata. Più difficile è ricostruire nei dettagli questa argomentazione a favore del monismo. A Metaph. A 5, 986b28-30 il logos di Parmenide ci viene sinteticamente riferito così: oltre a ciò che è, ciò che non è non è nulla; dunque tutte le cose sono una. Negli stessi termini lo formulava Teofrasto, mentre Eudemo (fondandosi

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però probabilmente su Ph. I 3, 186a25; 186b4) aggiungeva la premessa «ciò che è si dice solo in un modo» (Simplicio, In Ph. 115.11 = 28A28 DK). Ricordando che questa argomentazione è frutto dell’interpretazione aristotelica e non trova esatto riscontro nei frammenti del poema parmenideo, indico brevemente come potrebbe essere ricostruita. Parmenide assegnava al verbo «essere» un solo significato; chiamiamo questo significato: «l’Ente parmenideo». Un enunciato come «X è», che esprime l’idea che X esiste, verrebbe interpretato nell’argomentazione come «X è l’Ente parmenideo». Si supponga di poter dire anche «Y è»; è chiaro che si dovrà interpretare anche questo enunciato come «Y è l’Ente parmenideo». Dunque X e Y sono una e la stessa cosa, perché se fossero diversi, si potrebbe dire che Y non è X. Ma poiché X è l’Ente parmenideo, Y non sarebbe l’Ente parmenideo, e perciò non sarebbe nulla (questo è il senso della premessa «oltre a ciò che è, ciò che non è non è nulla»). Dunque tutte le cose sono una, cioè l’Ente parmenideo. Con questa argomentazione (a cui allude anche a SE 33, 182b25-27) Aristotele si confronta nella Fisica, dove attacca l’assunto dell’univocità di ciò che è e dell’uno (Ph. I 2), e mostra che, anche se tale assunto viene concesso, l’argomentazione implica una teoria della predicazione inaccettabile (Ph. I 3). 170b35-40. Gli avversari rifiutano di riconoscere l’esistenza di argomentazioni che non siano né rivolte alla parola né rivolte al pensiero, al che Aristotele obietta (éllå mØn b35) che non tutti i sillogismi che dipendono dal «dirsi in più modi» (parå tÚ pleonax«w b35-36) sono rivolti alla parola. La pertinenza dell’obiezione dipende dal presupposto che gli oppositori riconoscano l’esistenza di una categoria di argomentazioni che dipendono dal dirsi in più modi e che identifichino questa categoria con quella delle argomentazioni rivolte alla parola. Se Aristotele mostra che queste due categorie non coincidono, sarà difficile per gli oppositori sostenere che alcune argomentazioni che dipendono dal dirsi in più modi sono rivolte al pensiero, e la divisione sarà scardinata. Aristotele contesta in effetti agli oppositori la loro assurda affermazione secondo cui tutti i paralogismi linguistici (parå tØn l°jin b38) sono rivolti alla parola e i paralogismi linguistici sono qui quelli che appena sopra sono stati descritti come dipendenti dal dirsi in più modi (parå tÚ pleonax«w b35-36). L’importanza di questo riconoscimento da parte degli avversari è già stata sottolineata nella n. a 170b12-14. Si affaccia però ora anche una semplice ipotesi genetica: tanto Aristotele quanto i filosofi qui criticati muovono da una nozione, probabilmente non ben definita, di ambiguità (scoperta da Platone a quanto riferisce Eudemo) e cercano di rielaborarla: l’uno, con la sua divisione dei paralogismi linguistici, gli altri con la nozione di argomentazione rivolta alla parola. Le due teorie sono in competizione, vogliono occupare lo stesso spazio e di fatto, in un senso preciso che viene chiarito nel seguito immediato, si sovrappongono solo parzialmente. Aristotele continua (b38-40) spiegando perché non tutti i paralogismi linguistici sono rivolti alla parola: ve ne sono alcuni che non dipendono dalla condizione del rispondente in relazione all’argomentazione, ma dal fatto che quest’ultima contiene una domanda che possiede più significati. Questa affermazione non è chiarita in modo sufficiente nel testo, ma forse un po’ di luce riesce a fil-

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trare dalla digressione che segue (171a1-11), dove viene denunciata una grave carenza della classificazione avversaria: essa parla di confutazioni senza prima chiarire la nozione di sillogismo, e il sillogismo, insieme alla contraddizione, è il nervo della confutazione. Aristotele precisa che la causa di una confutazione apparente può essere nel sillogismo, nella contraddizione o in entrambi (cfr. anche SE 19). Lasciando alle note seguenti il compito di spiegare alcuni difficili dettagli della digressione, consideriamo qui l’esempio di confutazione apparente la cui causa è nel sillogismo: (i) La poesia omerica è un kuklos; (ii) ogni kuklos è una figura geometrica; dunque: (iii) la poesia omerica è una figura geometrica. La causa dell’apparenza è nel sillogismo perché il termine ambiguo che genera il paralogismo è il termine medio (come Aristotele dice ad APo. I 12, 77b2733, trattando lo stesso caso con i termini tecnici della sillogistica). In questo esempio si vede chiaramente che l’ambiguità non viene sfruttata per creare un equivoco tra l’interpretazione del rispondente e quella dell’interrogante, ma tra le due occorrenze della stessa parola ambigua all’interno delle premesse. Questo paralogismo, infatti, può confondere anche una persona sola. Mi sembra che a 170b39-40, quando precisa che alcuni paralogismi hanno una pluralità di significati nella domanda stessa, Aristotele pensi confusamente a questi casi (egli avrebbe dovuto forse parlare di domande, al plurale, ma è chiaro che ha in mente il fenomeno descritto). Si potrebbe far rientrare questo paralogismo nella categoria di quelli rivolti alla parola immaginando p. es. che l’interrogante interpreti la (i) con kuklos nel senso di «cerchio», mentre il rispondente intendeva quel termine nel senso di «ciclo». Aristotele tuttavia non può aver pensato a una simile possibilità, perché in quel caso avrebbe dovuto riconoscere che il sillogismo è valido (kuklos nelle due premesse avrebbe lo stesso significato). Se passiamo ora alle confutazioni apparenti nelle quali la causa dell’apparenza risiede invece nella contraddizione, non sarà difficile scorgere la differenza e capire perché, contrariamente al caso precedente, sia giusto riconoscerle come argomentazioni rivolte alla parola proprio nel senso definito dagli avversari. Il rispondente ha sostenuto una tesi, diciamo «S è P», e l’interrogante ha dedotto validamente la contraddittoria: «S non è P». Notiamo in particolare che né «S» né «P» sono termine medio del sillogismo (si perdoni la menzione di un concetto assente dalle Confutazioni), ciò che distingue questo caso da quello precedente. I termini «S» e «P» hanno pertanto lo stesso significato nelle premesse e nella conclusione del sillogismo, che per ipotesi è valido. Uno dei due termini, diciamo «S», ha nella conclusione un significato diverso da quello che aveva nella tesi, ma a chi non si accorge che «S» cambia significato da un enunciato all’altro sembrerà che la confutazione sia valida. È chiaro che per descrivere questo tipo di confutazione apparente, è indispensabile assumere che l’interrogante abbia usato il termine «S» in un senso diverso da quello nel quale lo aveva concesso l’interrogato. 171a1-11. ˜lvw non modifica êtopon (e quindi non si deve tradurre «è del tutto assurdo»), ma introduce una digressione di carattere più generale che si conclu-

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de a 171a12, dove Aristotele riprende il filo del discorso; cfr. Bonitz, Index Aristotelicus 505b56. Sul significato della digressione come completamento del ragionamento che precede, si veda la n. precedente. Visto che sta parlando in generale, gli interpreti si chiedono perché in questa nuova discussione Aristotele non menzioni anche i paralogismi che non dipendono dall’espressione. Il problema non si pone affatto nell’interpretazione della digressione suggerita nella n. precedente. Aristotele vuole offrire un chiarimento strettamente pertinente alla demolizione della divisione degli avversari. 171a8. Cfr. sopra 166a12-14. Di questo paralogismo, si parla di nuovo più avanti, a 171a18-23, dove Aristotele sembra riconoscere che si tratti di un’argomentazione rivolta alla parola, ciò che conferma l’idea che le argomentazioni che egli è disposto a riconoscere come rivolte alla parola sono quelle che hanno l’ambiguità nella contraddittoria e non nel sillogismo. 171a9. Il paralogismo ritorna nel cap. 22, 178a36 sgg. ed è classificato come paralogismo dovuto alla forma dell’espressione. Ciò che uno non ha, può darlo? No. Ma se uno non ha un sassolino solo, può dare un sassolino solo? Sì. Dunque ciò che uno non ha, può darlo. La causa dell’apparenza è in entrambi (cioè sia nella contraddizione sia nel sillogismo), almeno se intendiamo, con Pacius, p. 499, e Poste, p. 124, le due possibilità come non simultanee. Vi sono almeno due modi alternativi di interpretare la domanda «Ciò che uno non ha, può darlo?»: (a) «La cosa individuale, il questo che uno non ha, può darla?», (b) «Il di questa sorta o di questa quantità o il relativo che uno non ha, può darlo?». La domanda viene normalmente intesa nel senso (a) e la risposta è ovviamente negativa, ma la conclusione, se intesa nel senso (a), non segue dalla premessa che parla di un sassolino solo, perché «sassolino solo», a differenza di «sassolino», non denota un questo, ma il termine di una relazione (cfr. 22, 178b1). La causa dell’apparenza è dunque nel sillogismo. Alternativamente, può capitare che l’interrogante ha dimostrato correttamente «Ciò che uno non ha, può darlo» nel senso corrispondente a (b), ma che il rispondente lo nega nel senso corrispondente ad (a). Se il paralogismo si genera in questo modo, la causa dell’apparenza è nella contraddizione. 171a10. Attribuito ad Omero fino all’età di Aristotele, il ciclo epico era formato da vari poemi, tra i quali l’Iliade e l’Odissea, tenuti insieme dal legame più o meno stretto con la guerra di Troia, cfr. anche APo. I 12, 77b27-33. 171a12-27. Aristotele cerca ora di dimostrare che le argomentazioni rivolte al pensiero non costituiscono un genere determinato. Il primo attacco (a12-16) considera le argomentazioni matematiche. Ad APo. I 12, 77b27-33, un passo che può forse indicare dove stia la forza dell’esempio del triangolo, Aristotele osserva che le

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matematiche sembrano esenti dai paralogismi dovuti all’ambiguità, «perché è sempre il medio ad essere ambiguo, [...] e queste cose [scl. gli oggetti matematici] è possibile come vederle col pensiero; nelle argomentazioni invece sfuggono all’attenzione. “È il kuklos una figura?” Se lo si disegna, è chiaro. “Ebbene, è l’epica un kuklos?” È evidente che non lo è». Una dimostrazione geometrica dovrebbe dunque rientrare a pieno titolo in quelle rivolte al pensiero, mentre gli oppositori non sono in grado di garantirle questa collocazione, giacché, se presa alla lettera, la divisione lascia sempre al rispondente confutato la possibilità di affermare che intendeva un’altra cosa, e che quindi l’argomentazione è rivolta alla parola e non rivolta al suo pensiero. Nemmeno le argomentazioni che ne avrebbero maggiore titolo possono dunque rientrare stabilmente nella classe «rivolto al pensiero». Il secondo attacco (a17-23) tiene conto della possibilità di applicare la distinzione «rivolto al pensiero»/«rivolto alla parola» alle argomentazioni che contengono un’ambiguità e cerca di mostrare che, anche in questo ambito, la categoria «rivolto al pensiero» non è utilizzabile: presa un’argomentazione che sarebbe naturale considerare rivolta alla parola (quella del «dire cose che tacciono», a20) Aristotele mostra che, nel caso in cui l’interrogato non veda l’ambiguità, e nel caso in cui, anche dopo che l’interrogante gli abbia chiarito la necessaria distinzione, si rifiuti di riconoscerla insistendo nel dare una sola risposta recisa (cioè «no», tanto in un senso quanto nell’altro, a21), sarebbe giusto considerare l’argomentazione come rivolta al pensiero (l’interrogativa ad a21-22 è retorica). È possibile comprendere pienamente la conclusione generale che viene tratta a 171a23-27 solo se si osserva che qui Aristotele impugna (come ha già fatto a 170b31-32), la pretesa esaustività della divisione avversaria (Hecquet-Devienne 1993, p. 191 n. 33). Se, come egli ha appena dimostrato, non esiste un genere determinato di argomentazioni rivolte al pensiero, allora, per salvare la divisione, bisognerebbe che rientrassero tutte nell’unico altro genere possibile, quello rivolto alla parola. Ma, anche riconoscendo l’esistenza di alcune argomentazioni rivolte alla parola, ciò è comunque falso, giacché la categoria «rivolto alla parola» non solo non può comprendere tutte le confutazioni (ricordiamo che «argomentazione», in tutto questo capitolo, equivale a «confutazione»), ma non esaurisce nemmeno l’ambito delle confutazioni apparenti, dato che non include quelle extralinguistiche. Dal ragionamento di Aristotele si evince che l’intenzione degli avversari era quella di far coincidere tutte le argomentazioni apparenti con quelle rivolte alla parola, identificate a loro volta come quelle dipendenti dall’espressione (vedi la n. a 170b12-14). Ci saremmo forse aspettati che Aristotele ripetesse qui che la categoria «rivolto al nome» non comprende nemmeno tutte le confutazioni apparenti di natura linguistica, visto che lo ha dimostrato sopra (170b35-40). Ma per ridurre all’assurdo la tesi di qualcuno la cosa migliore è insistere direttamente sulle conseguenze che sono assurde per lui. 171a28-171b2. Questo brano finale è sembrato ad alcuni una digressione metodologica sulla differenza fra dialogo dialettico e dialogo didattico, mentre forse è piuttosto il tentativo di colmare una lacuna nella demolizione della categoria delle argomentazioni rivolte al pensiero che Aristotele ha svolto nelle righe precedenti. In effetti il secondo attacco (b17-22) si limitava a mostrare che in certe si-

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tuazioni, quelle in cui il rispondente non riusciva a vedere l’ambiguità, un’argomentazione rivolta alla parola sembra passare in modo bizzarro alla categoria alternativa. Ma se prendiamo invece un’argomentazione rivolta alla parola in cui l’interrogante anticipi la distinzione dei significati, la sottoponga all’interrogato e quest’ultimo si renda conto che deve variare la sua risposta secondo i due diversi significati, allora abbiamo un caso in cui l’argomentazione in se stessa è potenzialmente paralogistica, perché contiene termini ambigui, e diventa valida solo in virtù di un chiarimento tra interrogante e interrogato, seguito da un accordo circa il significato da attribuire ai termini ambigui. Qui diventa difficile negare che si tratti di un’argomentazione rivolta al pensiero, perché il tratto definitorio di questo tipo di argomentazioni – ovvero la condizione che l’interrogante assuma le premesse nel senso in cui l’interrogato le ha concesse – diventa un elemento non accessorio di una siffatta argomentazione. Insomma, la classe delle argomentazioni rivolte al pensiero rinascerebbe come quella delle argomentazioni rivolte alla parola che sono state riconosciute come tali e corrette. Aristotele sembra consapevole di questa obiezione e vede che l’esistenza di argomentazioni di questo genere è legata ad un presunto dovere dialettico dell’interrogante di anticipare le possibili distinzioni di significato (171a28). Egli ribatte però osservando che è assurdo pretendere la distinzione dei significati da parte di chi interroga, perché (a) l’interrogante stesso può non percepire l’ambiguità (a30-31) e (b) anche se costui la percepisce, può imporla all’interlocutore che ne è ignaro soltanto rendendogliela chiara, ossia insegnandogliela (a31-34). Ma ciò finisce con lo snaturare anche il dialogo dialettico in generale, trasformandolo in un dialogo didattico (per il quale cfr. 2, 165b1-3). Se infatti si deve anticipare una possibile distinzione nelle argomentazioni ambigue (e perciò sofistiche), bisognerà farlo («subire», paye›n a35, vale: «subire l’obbligo di distinguere») anche in quelle non ambigue («non duplici»), cioè in quelle genuinamente dialettiche (a34-37). Ma in questo modo, il rispondente dialettico, che dovrebbe scoprire da solo la possibile obiezione, riceve sempre il suggerimento dallo stesso interrogante. Chi impone all’interrogante questo dovere di distinguere non conosce dunque la differenza fra dialogo dialettico e dialogo didattico. Il punto di snodo di tutto il difficile ragionamento è in queste parole «Perché, che cosa impedisce di subire quest’obbligo anche nelle argomentazioni non duplici?» (a34-35). Qui Aristotele vuole escludere un’obiezione di questo tenore: «il dialettico deve sì distinguere le argomentazioni sofistiche, ma non ha questo dovere per le argomentazioni dialettiche in generale». Aristotele invece afferma che se si deve distinguere nelle argomentazioni sofistiche, bisogna farlo anche in quelle dialettiche, e la dialettica diventerà insegnamento. 171a35-171b2. Aristotele cita due domande seguite da una precisazione offerta dallo stesso interrogante. La precisazione non rivela un’ambiguità o un’oscurità che va chiarita onde evitare un paralogismo, ma una distinzione importante per fornire la risposta esatta. Nel caso della prima domanda «Sono le unità e le coppie uguali nei quattro?», a35-36, la distinzione – qualcosa del tipo «osserva che nei quattro le unità sono quattro mentre le coppie sono due» – offre al rispondente un genere di aiuto che in una discussione dialettica non dovrebbe essere fornito.

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La domanda successiva (a36-38) «Dei contrari vi è un’unica conoscenza oppure no? (alcuni contrari sono noti, gli altri ignoti)» esige una risposta negativa: non di tutti i contrari vi è conoscenza, quindi non di tutte le coppie di contrari vi sarà un’unica conoscenza.

CAPITOLO 11 171b3-5. Il passo riprende la conclusione del capitolo precedente, ma sembra anche annunciare il tema di tutto il cap. 11. L’esaminatrice peirastikÆ, sottinteso arte o capacità, è una specie di dialettica, e precisamente la dialettica impiegata per confutare interlocutori che millantano un sapere che non possiedono. Una descrizione più precisa a 172a21. 171b6-7. Le cose comuni (tå koinã, contrapposto a tå ‡dia o ofikeiÄa) sono quelle che trascendono un singolo genere o ambito di conoscenza e interessano tutta la realtà. Si tratta di termini della massima universalità, come l’essere, l’uno, l’identico ecc. (cfr. già Pl. Tht. 185b-d) oppure piuttosto di proposizioni costituite da quei termini, cioè in primo luogo gli assiomi (éji≈mata), come il principio di non contraddizione e quello del terzo escluso, e poi i topoi della dialettica (SE 9, 170a35-36), che in qualche misura vengono adoperati da tutte le discipline scientifiche. Che il dialettico studi le cose comuni «secondo l’oggetto» suona quasi un controsenso, giacché i due concetti accostati sembrano tra loro incompatibili. Probabilmente Aristotele allude al possesso di una metodologia appropriata e distintiva che fa del dialettico una sorta di specialista delle cose comuni (cfr. Top. VIII 12, 162b7-11). Il capitolo nel suo sviluppo non contraddice questa possibilità, ma la precisa mostrando che il dialettico non è specialista di un qualche oggetto specifico. 171b7-12. Aristotele distingue ora due tipi di sillogismo eristico (o sofistico; l’equivalenza dei due aggettivi, se applicati ad argomentazioni, verrà dichiarata sotto a b30-31): il primo è quello che appare sillogistico, cioè logicamente valido, ma non lo è. Un simile sillogismo va giudicato eristico anche se ha la conclusione vera, giacché, se non la deduce realmente dalle premesse, è ingannevole quanto alle ragioni della sua verità. Nonostante la formulazione un po’ ambigua, è chiaro che Aristotele non vuol sostenere che il sillogismo è ingannevole perché ciò che è espresso dalle premesse non è causa di ciò che è espresso dalla conclusione, ma perché non è causa del conseguire della conclusione. Questo primo tipo di sillogismo eristico riguarda «le cose su cui la dialettica è esaminatrice». Di quali cose si tratta? Probabilmente dei koina citati poco prima. Aristotele ritaglia così in qualche modo un ambito alla dialettica e lo contrappone alle regioni del sapere specialistico, sulle quali aleggia invece la minaccia del secondo tipo di sillogismo eristico, quello che, senza esserlo, cerca di spacciarsi per dimostrazione scientifica. A differenza della classificazione dei sillogismi eristici di Top. I 1, 100b23101a4 e SE 2, 165b7-8, dove le distinzioni vertevano direttamente sulle caratteristiche logiche ed epistemologiche del sillogismo, la bipartizione in esame è in-

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centrata sugli ambiti di applicazione: da una parte il territorio della dialettica, in cui il difetto determinante è l’invalidità logica, dall’altra parte la serie degli ambiti scientifici, in cui il difetto determinante non riguarda la validità logica, che può esserci o non esserci, ma l’inadeguatezza ai metodi e alle procedure specifici della disciplina. 171b12-13. Aristotele illustra ora la natura del secondo tipo di argomentazioni eristiche contrapponendo due tipi di ragionamento fallace riguardanti la matematica: le pseudodimostrazioni geometriche, che, anche se difettose, si svolgono more geometrico e perciò non sono eristiche, e le argomentazioni che invece non sono secondo l’oggetto e per questa ragione sono eristiche. Una pseudodimostrazione (ceudogrãfhma) è una dimostrazione geometrica viziata da un errore che nasce tipicamente da un disegno errato, p. es. «circoscrivere i semicerchi non come si deve o tracciare certe linee non come dovrebbero essere tracciate» (Top. I 1, 101a15-16). Poiché per Aristotele anche certe indicazioni desunte dal disegno possono essere assunte come premesse e giocare un ruolo nella prova, egli può affermare che una tale argomentazione contiene «premesse appropriate alla scienza ma non vere» (101a14). In realtà, ogni disegno concreto è imperfetto, ma le premesse di una deduzione geometrica valida non fanno leva sugli aspetti scorretti del disegno e perciò non assumono niente di falso, cfr. APo. I 10, 76b39-77a4. Oltre che sui diagrammi scorretti, si può congetturare che le pseudodimostrazioni giocassero su costruzioni non determinate dai dati e su confusioni artatamente indotte dalla complessità del disegno (Top. VIII 1, 157a2). Nel tradurre ceudogrãfhma con «pseudodimostrazione» e non, più letteralmente, con «pseudofigura», ho tenuto conto del fatto che l’errore grafico deve accompagnarsi sempre ad una confusione concettuale, cfr. Heath 1949, pp. 76-78. Euclide ha probabilmente trattato siffatte dimostrazioni false in un’opera perduta intitolata Pseudaria «Fallacie» (Proclo, In Eucl. 70.1-18). Alessandro di Afrodisia (In Top. 23.22-25.9) cita due esempi: il primo conclude che la somma di due lati di un triangolo è uguale al terzo, il secondo che la somma di due lati è addirittura minore del terzo. Come congettura Acerbi, in corso di stampa, gli esempi di Alessandro potrebbero risalire agli Pseudaria di Euclide. 171b14-15. «Né lo è [scl. eristica] un’eventuale pseudodimostrazione geometrica riguardo a qualcosa di vero». La precisazione è dovuta evidentemente al fatto che le pseudodimostrazioni hanno di solito una conclusione falsa, come i due esempi di Alessandro citati sopra (cfr. lo scolio edito in Ebbesen 1981, II, pp. 182-183). 171b15-16. oÂon tÚ ÑIppokrãtouw μ ı tetragvnismÚw ı diå t«n mhniÄskvn. La quadratura del cerchio (costruzione di un quadrato uguale al cerchio) era uno dei problemi geometrici più noti e studiati già nel V secolo. Aristotele non lo riteneva ancora risolto né era sicuro che fosse in via di principio risolubile (cfr. Cat. 7, 7b31-33), ma ad APo. I 9, 75b37-41 e qui a 171b14-15 e a b17 egli parla del risultato della quadratura come di qualcosa di vero, sebbene raggiunto con procedimenti errati. Secondo l’interpretazione a mio avviso più naturale la ≥ (b15) vale «o, in altre

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parole» (per questo significato della particella vedi Pl. Prt. 313a2; Phdr. 249a2; Men. 95b2; Phd. 85d3; R. I 335a6; V 349e12-13, passi che riprendo da Verdenius 1958, p. 220), e la pseudodimostrazione attribuita dunque a Ippocrate di Chio (attivo ad Atene nella seconda metà del V sec.) non è altro che la fallace quadratura del cerchio che sfruttava la quadrabilità di certe lunule, ossia figure delimitate da due archi di cerchio con la convessità rivolta nella stessa direzione. L’attribuzione è tuttavia problematica, perché in base alle ricostruzioni antiche il ragionamento matematico è macchiato da errori ritenuti indegni del talento di Ippocrate, ed è stata addirittura contestata (Lloyd 1987) perché le testimonianze più antiche, desunte principalmente dal commento di Simplicio al passo della Fisica in cui Aristotele allude probabilmente alla stessa quadratura (Ph. I 2, 185a14), non sarebbero abbastanza esplicite nell’imputare a Ippocrate la convinzione di aver quadrato il cerchio. Diels (cfr. 42 3 DK [I, p. 395.34]) espunge μ ı tetragvnismÚw ı diå t«n mhniÄskvn ritenendola una glossa desunta da 172a3, dove la quadratura mediante lunule è citata in contrapposizione a quelle di Brisone e di Antifonte. Ross (1936, p. 464 e 1949, p. 491) approva l’espunzione, ma poi conserva la frase nella sua edizione delle Confutazioni (1958, vedi però l’Index verborum alla voce tetragvnismÒw). Diels e Ross ritengono comunque che la glossa rispecchi l’intendimento di Aristotele e non pensano perciò che l’espunzione possa eliminare l’attribuzione aristotelica della quadratura mediante lunule a Ippocrate. L’ipotesi della glossa viene invece colta da Lloyd 1987, p. 125, come un’opportunità di neutralizzare una testimonianza scomoda per la reputazione di Ippocrate: tolta la glossa, egli resta bensì l’autore di una non meglio precisata pseudodimostrazione, ma non della quadratura errata. Un altro modo di mettere il grande geometra al riparo dal nostro passo (senza accusare Aristotele di calunnia o di incompetenza) è sembrato quello di interpretare la ≥ come se introducesse un secondo esempio e non solo un’esplicitazione del primo, con il risultato che «quella di Ippocrate» sarebbe una pseudodimostrazione diversa dalla quadratura mediante le lunule (la soluzione è considerata e scartata da Heath 1921, p. 185; 1949, p. 34, ma adottata da Mueller 1982, p. 151 n. 20, e da Dorion, p. 283; vagliati costi e benefici di ogni possibilità, Lloyd 1987, pp. 109 e 125, sembra considerarla il male minore). Tuttavia, né questa soluzione né l’espunzione mi sembrano convincenti, perché, come ho già osservato, l’enunciato precedente («né lo è [scl. eristica] qualche eventuale pseudodimostrazione geometrica riguardo a qualcosa di vero») mostra che di regola le pseudodimostrazioni miravano ad una conclusione falsa, sicché difficilmente il lettore avrebbe potuto identificare, senza un ulteriore chiarimento, una pseudodimostrazione di Ippocrate con conclusione vera. L’idea stessa di pseudodimostrazione con conclusione vera sembra chiamata in causa proprio per rendere pertinente l’esempio della quadratura. Comunque sia, dal lungo resoconto di Simplicio (In Ph. 55.25-69.34) emergono due versioni principali della quadratura mediante lunule. La prima (56.1-57.24), che Simplicio riprende dal commento perduto di Alessandro di Afrodisia (cfr. Simpl. In Ph. 60.18-21), consta di due tappe: (a) quadratura della lunula il cui arco minore è un quarto di circonferenza (ha come corda il lato del quadrato inscritto) e quello maggiore una semicirconferenza;

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(b) quadratura complessiva di: tre lunule il cui arco maggiore è una semicirconferenza e quello minore un sesto di circonferenza + un semicerchio. Sottraendo al quadrato ottenuto in (b) i quadrati corrispondenti alle tre lunule, che si suppongono quadrate in (a), si ottiene un poligono equivalente al semicerchio rimanente e quindi, poiché tutti i poligoni sono quadrabili, si pensa di aver quadrato il cerchio. L’errore consiste nell’assumere che ciascuna delle lunule menzionate in (b) sia equivalente a quella quadrata in (a): questo non è vero perché, se anche l’arco maggiore è in tutti i casi una semicirconferenza, quello minore delle tre lunule introdotte in (b) è un sesto di circonferenza, mentre quello della lunula quadrata in (a) è un quarto. Un accenno, ad APr. II 25, 69a33, ad una quadratura del cerchio più lunule (al plurale) induce a congetturare che Aristotele fosse a conoscenza di questo tentativo di dimostrazione. La seconda versione è più autorevole, perché risale al secondo libro della Storia della geometria di Eudemo di Rodi, dal quale Simplicio (In Ph. 60.22-68.32) afferma di riportare brani alla lettera inserendo qui e là alcune sue integrazioni. Eudemo riporta, attribuendole a Ippocrate, le dimostrazioni di quattro quadrature: (i) quadratura di una lunula il cui arco maggiore è uguale a un semicerchio; (ii) quadratura di una lunula il cui arco maggiore è maggiore di un semicerchio; (iii) quadratura di una lunula il cui arco maggiore è minore di un semicerchio; (iv) quadratura di un cerchio più una lunula. L’errore di Ippocrate consiste nel ritenere di aver dimostrato universalmente, nel credere cioè che i casi (i), (ii) e (iii) esauriscano ogni possibile lunula e che quindi si possa quadrare il cerchio sottraendo al quadrato equivalente alla figura composta da un cerchio + una lunula (ottenuto in [iv]) il quadrato corrispondente alla lunula stessa (ottenuto in uno dei passi [i]-[iii]), e quadrando il poligono risultante. Come nella versione della quadratura ripresa da Alessandro, si ritiene di poter definire univocamente la lunula solo in base al suo arco maggiore, mentre in verità, dato un arco maggiore, si possono costruire infinite lunule variando l’arco minore (per non dire che in [ii] e [iii] anche l’arco maggiore viene determinato ad hoc). Con le sue dimostrazioni Ippocrate ha dunque quadrato solo tre particolari esempi, non ogni lunula. Il suo tentativo avrebbe avuto accidentalmente successo se una delle lunule quadrate in (i)-(iii) fosse stata equivalente alla lunula in (iv), ma questo caso non si dà. Entrambe le versioni della quadratura del cerchio, quella che risale ad Alessandro e quella che risale a Eudemo, commettono lo stesso tipo di errore perché fondano la conclusione su una assunzione meno generale del dovuto (mi riferisco alle ipotesi che si fanno sull’arco minore della lunula). Si tratta dell’errore esattamente opposto a quello commesso nella quadratura di Brisone, nella quale almeno una delle assunzioni è più generale di quello che si addice alla conclusione da dimostrare. 171b16-18. Alle pseudodimostrazioni Aristotele contrappone la quadratura di Brisone. Quest’ultima, infatti, non procede secondo l’oggetto e dunque, se anche riesce a quadrare il cerchio, va biasimata come sofistica. Aristotele fa soltanto un’altra, non molto più informativa, allusione alla quadratura del cerchio di Bri-

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sone ad APo. I 9, e purtroppo anche le versioni che dell’argomento ci forniscono i commentatori hanno carattere almeno parzialmente congetturale (per i testi vedi i frr. II S 10-11 Giannantoni). Dai due accenni di Aristotele si evince almeno che l’argomentazione brisoniana era per lui corretta quanto a validità formale e verità delle premesse, e conteneva invece un errore di tipo metodologico. Lo dimostra la frase, efi ka‹ tetragvniÄzetai ı kÊklow b17 che nel contesto non esprime, come potrebbe sembrare, un generale scetticismo sulla quadrabilità del cerchio (così p. es. Colli), ma la convinzione che Brisone riesca in un certo senso a quadrare il cerchio; e lo conferma APo. I 9, 75b37-41, dove la citazione di questa quadratura serve a illustrare l’idea che la verità delle premesse non basti a far conoscere scientificamente la conclusione. Veniamo alla struttura dell’argomentazione. Secondo lo Ps.-Alessandro (76.16-20) e l’anonimo parafraste (29.38-30.7), Brisone considerava il quadrato inscritto in un cerchio dato e quello circoscritto e, in base al principio comune e per di più falso: (a) se due cose sono maggiori di una stessa cosa e minori di una stessa cosa, sono uguali fra loro, concludeva che il cerchio e il quadrato intermedi al cerchio inscritto e a quello circoscritto, devono essere uguali tra loro. Il principio (a) è comune, giacché si applica non solo alle figure ma anche ai numeri, ai tempi ecc.; è d’altra parte falso, perché tra il quadrato circoscritto e quello inscritto possono collocarsi più quadrati intermedi («intermedi» in senso lato). Già il vero Alessandro di Afrodisia (la cui ricostruzione dell’argomento brisoniano ci è trasmessa da Filopono, In APo. 111.20-31 = II S 10, 31-43 Giannantoni) faceva assumere a Brisone il principio (a); tuttavia, a differenza dello Ps.Alessandro e dell’Anonimo, pensava che inscritte e circoscritte al cerchio fossero figure lineari in generale e non quadrati in particolare. Se è pertinente la critica che Proclo rivolge alla versione di Alessandro (è sempre Filopono a riferirla: In APo. 112.1-20 = II S 10, 43-64 Giannantoni), di far coincidere la quadratura di Brisone con quella di Antifonte (per la quale vedi sotto la n. a 172a7), dobbiamo concludere che le figure lineari inscritte e circoscritte fossero per Alessandro poligoni i quali, raddoppiando via via il numero dei lati, si approssimano al cerchio dall’interno e dall’esterno. In questo caso la ricostruzione di Alessandro sembrerebbe coincidere con quella di Temistio (In APo. 19.6-17 = II S 10, 8-21 Giannantoni), che però ha probabilmente il merito esclusivo di assumere come principio comune: (a’) se due cose sono maggiori di tutte le stesse cose e minori di tutte le stesse cose, sono uguali fra loro, che, a differenza di (a), è un principio vero e quindi si sposa meglio con l’interpretazione aristotelica di questa quadratura. Va detto però che né Alessandro né Temistio rendono esplicito il progressivo raddoppiamento dei lati delle figure inscritte e circoscritte; l’unico appiglio in questo senso viene dall’obiezione di Proclo. Quest’ultimo, sempre presso Filopono (In APo. 112.20-25 = II S 10, 64-68 Giannantoni) suggerisce poi una sua ricostruzione alternativa della quadratura di Brisone fondata sul principio comune:

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(a’’) se di una cosa c’è il maggiore e il minore, c’è anche l’uguale. Il principio (a’’) prescrive che se una figura lineare circoscritta è maggiore del cerchio e una inscritta è minore, ci sarà anche una figura lineare uguale al cerchio. Nonostante le proteste di Filopono, che ne rileva il carattere non costruttivo e riporta una sofisticata obiezione geometrica, la versione di Proclo è quella che meglio corrisponde all’analisi aristotelica della quadratura di Brisone, in quanto prescinde completamente da considerazioni geometriche ed è tutta giocata su un principio comune, cosicché può essere applicata di sana pianta anche ad altri argomenti. Insistendo sulla pertinenza della versione di Proclo, Mueller 1982, p. 162, suggerisce che il principio (a’’) dia voce ad un’intuizione sulla natura del continuo, e cioè che non ci siano «buchi» tra le aree delle figure rettilinee intermedie a due figure rettilinee date. Forse però Brisone si limitava a considerare quella che potremmo chiamare la «grammatica logica» di termini come «maggiore», «minore» e «uguale», e a far osservare che se nel caso di una figura circoscritta deve aver senso affermare che è maggiore del cerchio e di una figura inscritta deve aver senso affermare che è minore, ciò assicura una commensurabilità tra figure rettilinee e cerchio che implica necessariamente la possibilità dell’eguaglianza (cfr., per ragionamenti di questo tipo, Pl. Prm. 161d7-8; Arist. Ph. VII 4, 248a24-25). 171b18-20. Il passo ricapitola la distinzione tra i due tipi di sillogismo sofistico. «Riguardo a queste cose» (per‹ t«nde) si riferisce agli argomenti su cui la dialettica è esaminatrice menzionati a b9. Le cose della dialettica, a cui è dedicata la presente trattazione, sono dette «queste» in contrapposizione a «quelle» argomento delle scienze (cfr. per‹ §keiÄnvn 172a11). 171b20-34. Aristotele sa che l’idea, appena introdotta, che un sillogismo valido possa nondimeno esser biasimato come eristico può suonare strana, e questo giustifica la spiegazione e la breve digressione che segue nel testo. Quel sillogismo è eristico perché sembra appropriato all’oggetto e perciò è ingannevole e anche ingiusto (b21). Quest’ultimo concetto offre ad Aristotele un’occasione di chiarimento: in che senso nelle argomentazioni si può distinguere il giusto dall’ingiusto? Aristotele applica il concetto di ingiustizia alla sfera delle argomentazioni svolgendo un paragone tra le competizioni in generale (§n ég«ni b22) e le controversie (§n éntilogiÄ&): come l’ingiustizia nella competizione ha una specie che si chiama combattimento sleale (édikomaxiÄa, termine coniato qui per l’occasione), ed è definita dal comportamento di individui che vogliono vincere a tutti i costi e quindi combattono senza esclusione di colpi, così anche nella controversia (éntilogiÄa) c’è quella specie, e consiste nel porre la vittoria come obiettivo supremo. Chi combatte in questo modo è l’uomo eristico. Se poi la vittoria non è fine a se stessa, ma serve a procurarsi una reputazione di sapienza volta a fare denaro («come abbiamo detto» riprende la definizione del sofista di 1, 165a21), abbiamo il comportamento che definisce l’uomo sofistico. Presumibilmente, la vittoria serve alla reputazione perché quest’ultima nasce dall’imbattibilità e dalla capacità di prevalere sugli esperti accreditati nelle varie discipline.

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Aristotele sembra rilevare un’analogia tra due campi fra loro separati: le competizioni e le controversie, ma «competizione» (ég≈n) è un termine molto generale e sembrerebbe che le controversie (tutte o una loro parte) ne fossero una specie. Forse allora Aristotele opera una divisione trasversale (del tipo maschio/femmina in un genere animale) di un unico genere, quello della competizione, per ritrovare poi un’analoga suddivisione all’interno delle sue specie. Se il combattimento sleale divide le competizioni in generale, dividerà anche quelle speciali competizioni che sono le controversie. Il passo riecheggia in parte i termini di una delle divisioni del Sofista platonico, quella che porta al quinto tentativo di definizione del sofista (225a). Per riprendere solo i termini della divisione platonica che ritornano anche nel nostro passo aristotelico, la sofistica (sofistikÆ) è una specie dell’eristica (§ristikÒn), che a sua volta è una specie della controversia (éntilogiÄa) e rientra nel combattimento (maxhtikÒn), che è una specie della competizione (égvnistikÆ). Se i punti di contatto sono incontestabili (e si consideri che il termine éntilogiÄa non è usato altrove nelle Confutazioni), sussistono però anche alcune notevoli differenze: Aristotele p. es. non fa della sofistica una specie dell’eristica (l’altra specie di eristica per Platone era la chiacchiera [édolesxikÒn], che in Aristotele assume un altro significato) e soprattutto introduce un’importante distinzione non considerata dalla divisione platonica: discrimina cioè tra giusto e ingiusto, tra combattimento leale e combattimento sleale. È evidente che, accanto a quelle sleali, egli vuole aprire uno spazio alle controversie che invece, pur essendo competitive, rispettano le regole del gioco. Si tratta ovviamente delle discussioni dialettiche o almeno di una loro parte, e questo significa che la dialettica aristotelica non è forse del tutto priva di una componente agonistica, come altri testi farebbero invece pensare (Top. VIII 5, 159a30-33; 11, 161a19-24 e sgg.; cfr. Brunschwig 1986). Sulla giustizia nelle argomentazioni, vedi, per altro verso, Pl. Tht. 167e-168a. 171b34-172a1. Aristotele introduce una proporzione che però ha validità solo parziale, e sembra importante più per la differenza tra i due rapporti confrontati che per la loro somiglianza. La proporzione è la seguente: l’individuo eristico sta al dialettico come chi esegue pseudodimostrazioni geometriche sta allo studioso di geometria. L’eristico infatti costruisce i suoi paralogismi partendo «dalle stesse premesse» del dialettico e l’autore di pseudodimostrazioni geometriche «dagli stessi principi e dalle stesse conclusioni» del geometra (qui Aristotele è un po’ impreciso, perché alcune delle premesse usate nelle pseudodimostrazioni dovranno essere false). Le pseudodimostrazioni, però, non sconfinano mai dal settore della geometria, mentre le argomentazioni che rientrano nel campo della dialettica possono applicarsi anche alle altre cose («altre» rispetto ai koina di cui si occupa la dialettica); in questo caso saranno eristiche. Dunque l’uomo eristico non è del tutto simile a chi traccia pseudodimostrazioni, e la differenza riflette, come diventerà chiaro più avanti, quella tra il dialettico e lo specialista di geometria. La difficile frase «chi applica le cose che stanno sotto la dialettica ad altri argomenti è eristico» sembra relegare nella sofistica ogni argomentazione dialettica applicata ad al-

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tri argomenti, non solo argomentazioni dialettiche in qualche modo fallaci o difettose. Cfr. Introduzione, par. 7. Una difficoltà di traduzione: §ristikÒw e dialektikÒw, al maschile, potrebbero sottintendere un soggetto umano o un lÒgow. ceudogrãfow può essere solo una persona, gevmetrikÒw solo un logos. Ma dopo una riga gevmetrikÒw diventa gevm°trhw, la persona. Il passaggio dall’arte alla persona che la possiede e al tipo di argomentazione usata da questa persona sembra indifferente e non crea comunque gravi ambiguità. 172a2-7. La quadratura mediante lunule (vedi la n. a 171b15-16) non può essere trasferita ad altro argomento, perché, sebbene contenga un errore, si fonda sui principi della geometria e dunque si rivolge a questa disciplina; la quadratura di Brisone si adatta invece anche ad altre discipline (èrmÒsei a7 va riferito agli ambiti disciplinari, non alle persone destinatarie dell’argomentazione, cfr. Apo. I 9, 75b39-76a3 e Dorion, p. 289 n. 173), sicché potrà essere rivolta a molte persone: quelle che non conoscono «che cosa è possibile (tÚ dunatÚn) e che cosa impossibile in ciascun argomento», che non sanno discernere, cioè, che cosa rientri e che cosa esuli dalle capacità di un’arte (un’arte è definita appunto da una specifica capacità, dÊnamiw). La versatilità delle argomentazioni come quella di Brisone deriva dal loro essere costituite da concetti comuni, come più esplicitamente viene asserito riguardo al terzo esempio (per il secondo, cioè la quadratura di Antifonte, vedi la n. seguente): quale prova dell’inutilità della passeggiata digestiva si adduce l’argomento di Zenone che nega la possibilità del moto. Questo non è un ragionamento medico, giacché è comune e si applica perciò a molte circostanze (la ragione medica della prescrizione è che se si passeggia i cibi non rimangono in superficie sulla bocca dello stomaco: APo. II 11, 94b13-16). 172a7. Una quadratura del cerchio fu proposta anche da Antifonte (sull’identità di questo autore si dibatte ancora, cfr. Pendrick; Gagarin 2002 e la discussione di queste due opere in Bonazzi 2004). Essa è citata anche a Ph. I 2, 185a14-17, dove è opposta alla quadratura mediante «segmenti» (cioè, con ogni probabilità, sempre quella mediante le lunule) quale esempio di argomentazione che non muove dai principi della geometria. Il contesto della citazione nella Fisica (illustrazione della tesi che il fisico non può confutare la negazione eleatica del movimento, così come il geometra non ha argomenti contro chi «distrugga i principi della geometria», 185a2) ha orientato gli interpreti a sostenere che questa quadratura non fosse solo estranea alla geometria, ma radicalmente incompatibile con i suoi principi. Secondo i commentatori antichi (per i testi vedi F 13 Pendrick), Antifonte inscriveva nel cerchio un poligono regolare e costruiva su ogni lato un triangolo isoscele con vertice sulla circonferenza. In questo modo otteneva un altro poligono inscritto, con il doppio dei lati. Ripetendo l’operazione otteneva poligoni che via via si approssimavano alla circonferenza. Fin qui il suo procedimento è geometricamente corretto e interessante, tanto che è stato paragonato al metodo di esaustione di Eudosso; però Antifonte era convinto che, procedendo in questo modo, si arrivasse in un numero finito di passi alla coincidenza dei lati del poligono con i piccoli archi che li sottendono. Qual è precisamente il principio geometrico violato? Per Alessandro (presso Simplicio) si tratterebbe dell’assunto secondo cui un cerchio e una

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retta tangente si incontrano in un punto. Simplicio obietta che questo non è un principio assunto ma un teorema dimostrato e riporta, dopo alcune sue considerazioni confuse, l’opinione di Eudemo, secondo il quale la quadratura violerebbe il principio dell’infinita divisibilità delle grandezze geometriche. Accettando la diagnosi eudemea, vari interpreti hanno descritto la posizione di Antifonte come una forma di atomismo geometrico e ben si capisce come una simile concezione valga a demolire radicalmente la geometria. Più che alla quadratura di Brisone, che assume principi comuni ma veri, la quadratura di Antifonte va forse accostata all’argomento di Zenone qui di seguito citato: l’una falsifica i fondamenti della matematica, l’altro quelli della fisica. 172a9-15. Se la proporzione citata sopra fosse valida in tutto e per tutto, l’uomo eristico non sarebbe in grado di adattare i propri argomenti alla geometria e alle altre discipline, e dovrebbe attenersi alla sfera della dialettica; questo non accade in virtù di certe caratteristiche delle scienze non possedute dalla dialettica. Nel preciso senso in cui è definita negli Analitici secondi, una scienza ha sempre un genere soggiacente, che è l’oggetto di cui tratta (p. es. il numero per l’aritmetica); di questo genere dimostra certe proprietà «per sé» (p. es. il pari e il dispari). Il sillogismo dialettico invece non riguarda un genere determinato né dimostra alcunché (scl. alcuna proprietà per sé del genere). Inoltre l’argomentazione dialettica «non è nemmeno come quella che dimostra in universale» toioËtow oÂow ı kayÒlou a13. Questa oscura locuzione è stata interpretata variamente: (a) secondo alcuni (Ps.-Alessandro, 93.29; Pacius, p. 503) alluderebbe alla filosofia prima di cui si occupa la Metafisica; questa è in effetti una disciplina universale distinta dalla dialettica. Il passo tuttavia non giustifica un riferimento così preciso, sebbene nemmeno lo escluda; cfr. comunque Owen 1986, p. 190. (b) La maggioranza degli interpreti ritiene invece che il termine «universale» si riferisca all’universalità dei principi e dei teoremi di ciascuna scienza, e lo faccia o nel senso specifico di APo. I 4 (Waitz, Dorion) o, più genericamente, in relazione all’idea che la conoscenza scientifica riguarda gli universali. Sebbene sia priva di riscontri, l’ipotesi non può essere esclusa. (c) Anche se si respinge l’ipotesi (a), è però comunque probabile che qui «universale» abbia il valore forte di universalità assoluta, massima generalità. Se questo è vero, una terza ipotesi (Owen 1986, p. 190) può essere suggerita da un passo degli Analitici secondi che è parte di un brano per molti versi vicino a quello che stiamo analizzando: «Tutte le scienze comunicano fra loro mediante le cose comuni e la dialettica comunica con tutte le scienze, così come comunicherebbe con esse quella scienza che cercasse di dimostrare in universale le cose comuni, come per esempio che ogni cosa o la si afferma o la si nega, o che togliendo uguali a uguali si ottengono uguali, o altre cose siffatte. La dialettica non si occupa di cose determinate in questo modo, né di un qualche genere unico» (I 11, 77a2632). Anche il nostro passo, dunque, potrebbe accennare al fatto che la dialettica non si oppone solo alle discipline specialistiche, ma anche ad un’ipotetica scienza universale delle cose comuni. Lasciamo aperta la questione e continuiamo la lettura. La prima delle due ragioni introdotte subito di seguito spiega perché la dialettica non riguardi un ge-

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nere determinato: la totalità degli enti non costituisce un genere (cfr. Metaph. B 3, 998b22), mentre – deve aggiungere il lettore – la dialettica per statuto deve occuparsi di tutti gli enti. La seconda ragione (anche se tutti gli enti costituissero un genere, comunque non ricadrebbero tutti sotto gli stessi principi, a14-15) rinforza la prima. Sull’impossibilità che gli stessi principi siano sufficienti alla dimostrazione dei teoremi di tutte le scienze, cfr. APo. I 32. 172a15-17. Nessuna scienza che dimostri una qualche natura pone domande, mentre la dialettica lo fa, e questa è una conseguenza (Àste a15) e un segno del fatto che non dimostra nulla. Chi dimostra non interroga, perché non può costruire un sillogismo per la stessa conclusione tanto nel caso che il rispondente affermi quanto nel caso che neghi una o più premesse («non è possibile concedere una qualunque delle due parti» della contraddizione, cioè affermazione o negazione, sì o no, che sono le due risposte possibili a una domanda dialettica; cfr. la distinzione tra premessa dialettica e premessa scientifica ad APr. I 1, 24a22-25 e ad APo. I 2, 72a8-11). La ragione è che il sillogismo non si genera sia dall’una sia dall’altra (a17): ad APo I 11, 77a32-35, passo parallelo a quello in esame, Aristotele rimanda ad un luogo degli Analitici primi, molto probabilmente si tratta di APr. II 4, 57a36-b17, dove ha creduto di dimostrare che, se p è la congiunzione di due premesse e q la conclusione, non è possibile che p, dunque q e non-p, dunque q siano entrambi sillogismi validi (vedi Patzig 1968, pp. 196-203; Geach 1981, pp. 20-27). Naturalmente questo argomento riguarda anche i sillogismi dialettici, ma mentre questi possono essere molti per una stessa conclusione, per un teorema della scienza c’è normalmente una sola dimostrazione (vedi tuttavia APo. I 29 e II 16-17). Perciò, mentre il dialettico può lasciar cadere la risposta contraddittoria a quella desiderata e cercare un’altra linea di attacco, chi dimostra si vede bloccata, in caso di diniego da parte dell’interlocutore, l’unica via aperta per ottenere un sillogismo scientifico. 172a17-21. Se invece la dialettica dimostrasse non potrebbe porre in forma interrogativa almeno i suoi propri principi, perché se l’interlocutore li negasse, sollevando un’obiezione, il dialettico non avrebbe principi ulteriori da usare per dimostrare la negazione di tale obiezione. Per Aristotele i principi di una scienza devono essere assunti e non sono dimostrabili (APo. I 9, 76a16-25). Dunque uno scienziato non può, in quanto tale, discutere con chi nega i principi della scienza (Ph. I 2, 184b25-185a5; VIII 3, 253b2-4). L’unica via per persuadere chi rifiuta i principi è proprio la dialettica, che, per la sua capacità di mettere alla prova (§jetastikÆ), può trovare premesse endoxa anche per la deduzione dei principi (Top. I 2, 101a36-b4). Se la dialettica potesse dimostrare non potrebbe quantomeno esercitare su se stessa questa capacità di discutere i principi.

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172a21-36. La scansione logica del passo è molto oscura. Aristotele espone in primo luogo un secondo segno che, accanto alla vocazione interrogatrice della dialettica, ne rende evidente il carattere non dimostrativo; questo segno è la sua capacità di esaminare. L’arte esaminatrice non è come la geometria (o come qualunque altra scienza dimostrativa) perché può essere posseduta ed esercitata anche da un ignorante nei confronti di un altro ignorante. La ragione che spiega questa situazione paradossale è che le domande e le risposte non vertono su contenuti esclusivi della scienza, ma sulle «conseguenze», tå •pÒmena, cioè concetti o proposizioni la cui conoscenza è condizione necessaria ma non sufficiente del sapere scientifico. Le conseguenze, sono proposizioni formate da predicati che conseguono nel modo in cui un termine più generale consegue ai subordinati: p. es. uomo consegue a Callia, animale a uomo, sostanza ad animale ecc. fino alle cose che conseguono a tutto, come l’essere e l’uno (cfr. Top. IV 6, 127a26-28). Come risulterà chiaramente nel seguito, conseguenze per antonomasia sono i koina, le cose comuni. (Si noti che anche gli assiomi, che sono koina, sono definiti come condizioni necessarie del conoscere: APo. I 2, 72a16-17; cfr. Metaph. G 3, 1005b15.) Fatte queste assunzioni, Aristotele deduce tre conseguenze. Prima conseguenza: è chiaro che l’arte esaminatrice non ha un oggetto determinato. Egli ha detto, infatti, che le domande e le risposte non riguardano cose proprie della scienza. Seconda conseguenza: l’arte esaminatrice riguarda tutte le cose, giacché tutte le arti adoperano anche alcune cose comuni. La conclusione si ricollega a quanto precede se si assume anche l’identità, non esplicitamente asserita, tra conseguenze e cose comuni. Se da una parte l’arte esaminatrice si occupa delle conseguenze e le conseguenze sono le cose comuni e d’altra parte tutte le arti adoperano cose comuni, l’arte esaminatrice riguarderà tutte le arti; quindi riguarderà tutte le cose. Terza conseguenza: il terzo «perciò» introduce un più lungo periodo, tematicamente unitario, che si protrae da a30 ad a36; vanno dunque eliminate le parentesi in cui Ross chiude il brano da Àste a27 a §paggellom°nouw a32, perché tagliano a metà il ragionamento. Aristotele ha già espresso, ad a21-24, l’idea che la dialettica esaminatrice possa essere esercitata anche dall’ignorante grazie all’uso di cose comuni necessarie ma non sufficienti al sapere. Ora elabora un pensiero connesso ma leggermente diverso: non solo un ignorante può diventare dialettico, ma, pur senza addestramento, tutti adoperano già in qualche misura la dialettica, perché tutti cercano di confutare chi si professa sapiente, e lo fanno usando cose comuni, la cui conoscenza è compatibile con l’ignoranza. «Queste cose» (a32) – richiamo non chiaro che Waitz scioglie correttamente come «le cose che adoperano tutti» – sono le cose comuni, conosciute altrettanto bene anche da chi è estraneo alla scienza. Dunque, continua Aristotele, tutti confutano, giacché partecipano in modo istintivo e casuale di ciò di cui la dialettica si occupa invece con arte. Più precisamente, il dialettico mette alla prova con arte sillogistica: le sue argomentazioni richiedono cioè capacità di vedere i nessi logici e di seguire lunghe argomentazioni, mentre al profano sono accessibili solo ragionamenti elementari (Rh. I 2, 1356b25-1357a18).

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In sintesi, la dialettica non si misura con la natura di un qualche oggetto normalmente ignoto agli uomini, ma sviluppa in modo sistematico certe conoscenze che, ad un livello embrionale, sono già condivise da tutti. Troviamo lo stesso argomento nell’esordio della Retorica a 1354a1-8; a 4, 1359b12-16, Aristotele dirà che dialettica e retorica non sono discipline di oggetti ma solo di discorsi. 172a36-b1. Poiché esistono cose comuni che si applicano a tutto pur rimanendo le stesse, abbiamo una classe determinata di proposizioni conoscendo le quali possiamo esaminare ogni argomento. È questa la circostanza che rende possibile la costituzione di un’arte esaminatrice. D’altra parte, poiché le cose comuni non hanno una natura determinata, ma sono come le negazioni, l’esaminatrice non sarà un’arte come quelle che dimostrano. Ad a36 taÈtå è sicuramente la lezione corretta: la variante taËta, attestata da alcuni mss. e adottata da Bolton 1990, p. 217 (ma già dallo Ps.-Alessandro), variante che darebbe «queste cose [i koina] sono molte riguardo a tutte le cose», non consente di spiegare plausibilmente il paragone con le negazioni immediatamente successivo. Le cose comuni sono «come le negazioni» (a38) perché sono eterogenee. I termini generali negati, infatti, in quanto si predicano con verità di tutte le cose tranne quelle che ricadono sotto il termine negato, non hanno una natura determinata. Cfr. Peri ideon, fr. 118, 3 [p. 378b3-5] Gigon (= Alessandro, In Metaph. 80.1820): «il non uomo si predica del cavallo, del cane e di tutte le cose all’infuori dell’uomo» e perciò non può esserci un’idea platonica negativa, p. es. del non cavallo, perché sarebbe formata da cose diverse ed eterogenee. Cfr. anche Top. 128b8-9 e Owen 1986, p. 190 n. 33. Alla luce di questi rilievi, è chiaro che le cose comuni sono chiamate così perché comuni ai vari settori della realtà (sono le stesse per tutte le cose), e non perché condivise da tutti gli uomini, nonostante sia pur vero che tutti gli uomini conoscono i koina. Aggiungo però che all’atto pratico non è detto che i koina siano sempre comuni a tutta la realtà, dato che tra gli esempi preferiti di Aristotele ci sono casi di «comuni» che hanno un’applicazione più limitata, come il principio «uguali sottratti a uguali danno uguali», principio che si applica solo alle quantità. Molti dei «luoghi» comuni trattati nei Topici, inoltre, sono comuni solo nel senso che trascendono i limiti di alcune discipline. La stessa argomentazione di Zenone, infine, è detta comune, ma non si applica alle realtà immobili. Qui però Aristotele non tiene conto di queste limitazioni e insiste sulla generalità assoluta dei koina. Sulla loro estensione universale si fonda infatti la possibilità che una sola ed unica arte, l’arte esaminatrice, metta alla prova gli ignoranti in tutte le discipline. 172b5-8. Che il dialettico debba saper mettere in pratica anche le confutazioni sofistiche deriva dal fatto che alla dialettica compete tutto ciò che riguarda il trovare le premesse per una conclusione data (cfr. Top. VIII 14, 164b3-4). Dunque lo studio dei vari tipi di argomentazione non è mai esclusivamente teorico e fine a se stesso.

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CAPITOLO 12 172b9-16. Conclusa la trattazione delle confutazioni apparenti o sofistiche, Aristotele passa a trattare i successivi obiettivi che si prefigge chi discute agonisticamente. Il secondo obiettivo menzionato nel cap. 3 era quello di dedurre una conclusione falsa dalle premesse concesse dall’interlocutore; il terzo, quello di condurre ad una conclusione paradossale. Ora invece i due obiettivi sono fusi insieme in una «seconda intenzione della sofistica». A b10 Aristotele non impiega il termine parãdojon, ma l’aggettivo êdojon, «implausibile», che è il contrario di ¶ndojon, «plausibile»; in questo capitolo, tuttavia, êdojon equivale esattamente a parãdojon: si confrontino b29 e b34. parãdojon ricorre in Top. I con il significato approssimativo di «contrario all’opinione della maggioranza» (10, 104a1012; 11, 104b19-24); dal presente capitolo si evince che vale anche il caso opposto: un’opinione dei molti può essere paradossale agli occhi dei sapienti (cfr. 173a14). È verosimile che, come ciò che è endoxon o adoxon, anche ciò che è paradoxon possa esserlo in due sensi: in assoluto oppure per una persona o per un gruppo (Top. VIII 5, 159a38-b1). A b10-11 incontriamo una formula che con piccole variazioni ritorna più volte nel capitolo: tÚn lÒgon égage›n/êgein efiw... «condurre l’argomentazione verso...». Ripresa forse dal Gorgia platonico (461c1-5, 482e3, 494e7), questa espressione indica prima di tutto l’interrogare il rispondente in modo da portare il discorso su certi aspetti vulnerabili del suo punto di vista generale, della sua posizione filosofica, della sua ideologia politica ecc. (cfr. tÚ êgein prÚw toiaËta prÚw ì eÈpore› lÒgvn b26). Ciò può anche avvenire ponendo direttamente delle domande o facendo scivolare il discorso mediante associazioni di idee. Laddove però Aristotele dice che bisogna condurre l’argomentazione verso qualcosa di implausibile (tÚn lÒgon efiw êdojÒn ti égage›n), è chiaro che il «condurre» deve indicare un passaggio deduttivo, giacché la proposizione falsa o paradossale deve essere sempre frutto di un’inferenza (sia poi tale inferenza reale o meramente apparente). Che una deduzione o un tentativo di deduzione sia sempre implicato è ammesso esplicitamente a 172b33-35. Le conduzioni al falso e al paradosso hanno luogo in tre situazioni: (i) non è stata fissata una tesi iniziale e l’interrogante domanda liberamente nella speranza di ottenere una risposta alla quale conseguano falsità e paradossi. (ii) è stata fissata una tesi iniziale ma l’interrogante, anziché confutare quella, introduce nuovi argomenti nella speranza di ottenere una risposta facilmente attaccabile. (iii) l’interrogante chiede l’assenso ad una premessa tale che se il rispondente l’accetta, sarà confutato e se la nega dirà un paradosso (cfr. 15, 174b12-18 e la n.). Una variante di questo procedimento è quella in cui il falso e il paradosso sono una conseguenza della tesi e il rispondente dovrà o riconoscere il paradosso o, se lo nega, respingere per contrapposizione la tesi (cfr. 17, 176a27-35 e la n.). Nei casi (ii) e (iii) appare evidente come la conduzione al falso e al paradosso siano il secondo obiettivo del sofista perché sono una soluzione alternativa e di ripiego rispetto alla confutazione (una discussione di tutta la questione in Cavini 1993, pp. 66-78).

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172b16-24. Il falso e il paradosso si ottengono soprattutto interrogando in un certo modo. Ai topoi di carattere contenutistico sono anteposte in questo caso alcune regole tattiche su come proporre le domande (per la distinzione, cfr. Top. VIII 1, 155b3 sgg. e SE 15). La prima regola è di non stabilire alcuna tesi (keiÄmenon solitamente equivale a «tesi», cfr. p. es. Top. VIII 5, 159b7, prokeiÄmenon a «conclusione», cfr. 159b14), perché così l’interlocutore, non potendo misurare le proprie risposte col metro della compatibilità con la tesi, risponderà in modo più ingenuo e meno calcolato. Se anche c’è una tesi, è utile fare molte domande, in modo da disporre di ampio materiale, e poi si deve pretendere che l’interlocutore risponda francamente dicendo quello che pensa (b16-19). Questa richiesta di sincerità ha una ragione sottile. Aristotele, infatti, distingue il caso di chi rifiuta di ammettere una premessa plausibile perché la crede falsa da quello di chi non la concede solo per sfuggire alla confutazione (cfr. Top. VIII 4, 159a18-24; 9, 160b17-22). In questo secondo caso sembra riconosciuta a chi risponde una certa licenza di asserire paradossi o falsità, giacché si suppone che lo faccia solo per non subire la confutazione. L’esplicita richiesta di sincerità serve appunto a eliminare questa attenuante: si chiede all’interrogato di rispondere secondo il proprio pensiero per evitare che poi si giustifichi dicendo che ha riconosciuto quei paradossi soltanto per difendere la tesi (lo stesso espediente anche a 15, 174b14). (Si noti che, poiché considera sofistica questa richiesta di sincerità, Aristotele sembra giudicare legittimo un certo opportunismo dialettico. Egli lascia dunque cadere un importante requisito della concezione socratica della confutazione. Come infatti testimoniano vari luoghi platonici [Grg. 500b5-7; Cri. 49c-d; Prt. 331c; R. I 346a3; 350e5], per Socrate la risposta deve esprimere la sincera opinione dell’interrogato e, in almeno due casi, Socrate rifiuta all’interlocutore il diritto di rispondere contro le proprie opinioni anche dove questi riconosce che lo fa solo per non contraddirsi [Grg. 495a5-9; Tht. 154c-d]. Cfr. Vlastos 1983, pp. 35-37.) Quando c’è una tesi, i rispondenti contemporanei di Aristotele (meno ingenui di quelli di un tempo) hanno buon gioco a far notare che le domande poste non hanno niente a che vedere con la tesi. A b21 Aristotele sembra ripetere la prima regola: un «elemento costitutivo» della conduzione al falso e al paradosso consiste nel non stabilire direttamente alcuna tesi ma nel dire che si interroga per imparare (a questa giustificazione ricorreva anche Socrate, cfr. Pl. Grg. 489d; Hp. Mi. 364e, 369d-e). Dicendo che la tesi non va stabilita «direttamente» (eÈyÁw b22), Aristotele allude al fatto che in questo modo si attende che l’interlocutore enunci qualcosa di facilmente attaccabile e poi lo si confuta facilmente su quel punto come se quella fosse la sua tesi. 172b25-28. Dopo avere legato insieme i due distinti scopi del falso e del paradosso, Aristotele sembra ora separarli di nuovo introducendo un topos esclusivo della conduzione al falso. Il riferimento ad una precedente trattazione (b27-28) è senza dubbio a Top. II 5 (in particolare 111b32-33), dove si discutono metodi leciti e illeciti di spostare l’obiettivo della discussione. Lì apprendiamo che a volte, invece di confutare direttamente la tesi, l’interrogante a cui non sia stata concessa una premessa indispensabile può dirigere l’attacco contro la negazione di que-

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sta premessa; in altri casi la tesi viene da lui sostituita con una seconda tesi la cui confutazione implica la confutazione della tesi originaria. Questi procedimenti possono rivelarsi (a) logicamente validi, (b) solo apparentemente tali o, infine, (c) né apparentemente né realmente validi. Il caso (c) è per Aristotele estraneo alla dialettica e sembra consistere nella arbitraria sostituzione della tesi con un’altra tesi più facilmente attaccabile. I tre casi (a), (b) e (c) sono tutti già sofistici per il semplice fatto che l’interrogante impegnato in una confutazione non ha il diritto di cambiare, nel corso della discussione, l’obiettivo fissato all’inizio. Nei Topici, come nel nostro passo, Aristotele vuole comunque distinguere il caso (a), in cui almeno si ragiona correttamente, da (b) e (c). Perché questo topos si attaglia esclusivamente al mostrare qualcosa di falso? Anche se non è riuscito a demolire la tesi, in tutti questi casi l’interrogante ha cercato di mostrare qualcosa che il rispondente ha negato. È forse questa la caratteristica per cui il topos non è adatto alla conduzione al paradosso. 172b29-35. Aristotele offre un topos per la conduzione al paradosso: si tratta di scoprire a quale «scuola di pensiero» – g°now – l’interrogato appartenga (p. es. se l’interrogato sia un eracliteo, un seguace di Protagora ecc.), in modo da portare il discorso sulle posizioni di quel circolo che sono in conflitto con le opinioni dei molti. Per mettere in atto questa strategia bisogna avere a disposizione nel proprio archivio di premesse le «tesi» di ciascuna scuola. A Top. I 14 Aristotele aveva spiegato che si devono raccogliere e schedare ordinatamente le premesse dialettiche, tra le quali ricorrono le opinioni di sapienti illustri. Evidentemente questo vale anche per le tesi, dove il termine qui non indica la proposizione scelta all’inizio dal rispondente, ma solo quelle opinioni di filosofi importanti che sono paradossali perché invise ai molti (per questo speciale significato di y°siw, vedi Top. I 11, 104b19-28). La «risoluzione adeguata anche in questi casi» (b33-35), che consiste nel mettere in chiaro che la conclusione paradossale non consegue logicamente in virtù dell’argomentazione, è parimenti appropriata, come si evince dall’«anche» e dal «sempre» della frase successiva, alle altre argomentazioni paradossali. Come anticipato nella n. a 172b9-16, dunque, la conduzione al paradosso contiene sempre un momento deduttivo (e lo stesso discorso varrà anche per il falso). Si noti che la risoluzione delle conduzioni al falso e al paradosso non sarà poi oggetto di uno speciale capitolo della sezione delle Confutazioni dedicata alla risoluzione. Ciò fa pensare che per Aristotele le risoluzioni delle argomentazioni falsidiche e paradossali siano identiche a quelle delle confutazioni apparenti che hanno la causa dell’apparenza nel sillogismo. Per una diversa spiegazione della mancanza di una trattazione delle risoluzioni, cfr. Dorion, pp. 63-68. Questo interprete ritiene che il cap. 12 non sia incentrato su procedure precipuamente sofistiche, ma riguardi anche la dialettica onesta. «Anche l’interlocutore competitivo» (b35): anche l’erista pretende che vi sia conseguenza logica e perciò sarà vulnerabile a questo tipo di risoluzione. 172b36-173a6. Il contrasto tra le opinioni professate e quel che intimamente si desidera va sfruttato in entrambe le direzioni. L’interlocutore che esprime con

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franchezza una visione egoistica va condotto alle applicazioni o alle conseguenze più radicali della propria posizione, cioè a quelle più inconfessabili. A quel punto gli sarà difficile evitare l’imbarazzo. Abbiamo un’efficacissima drammatizzazione di questo caso nel Gorgia di Platone. Gorgia e Polo vengono confutati perché, quando il loro punto di vista è portato a certe conseguenze paradossali, si vergognano di dire quello che pensano. Callicle li rimprovera ma viene costretto da Socrate ad una degradazione progressiva della propria tesi. Callicle sostiene con baldanza una forma assoluta di edonismo e resiste bene anche quando Socrate gli paragona la vita felice da lui propugnata a quella di un uccello che evacua mentre mangia o a quella di chi si gratta la scabbia, ma quando Socrate fa balenare il paragone con la vita dei cinedi, cioè con la forma più infame e degradata di vita dedita al piacere, il suo coraggio viene meno e le risposte cominciano a tradire irritazione ed impazienza (Grg. 494e-495b). La strategia opposta consisterà probabilmente nello spingere il tipo di interlocutore che si attiene con zelo alla morale convenzionale verso affermazioni più radicali, fino al punto in cui la sua ipocrisia divenga manifesta perché non c’è più alcun contatto tra quello che dice e la realtà comunemente riconosciuta dei sentimenti morali (portarlo p. es. a sostenere che si farebbe uccidere piuttosto che raccontare una bugia). 173a7-18. Quella tra la fÊsiw, cioè la natura, e il nÒmow, inteso non solo come legge scritta, ma anche come consuetudine o convenzione, è una delle contrapposizioni fondamentali della cultura del V secolo e assume forme assai articolate e diverse nei vari autori; si veda Guthrie 1971, cap. 4. Aristotele cita qui il Gorgia e di certo ha presente (ma vedi la n. successiva) l’esposizione della polarità legge/natura che Platone affida al discorso di Callicle (482e5-484c3). La legge è espressione della moltitudine dei deboli che per suo tramite riescono a dominare i più forti. Essa vuole parti uguali per tutti, mentre secondo la natura è giusto che chi vale di più abbia di più, come succede tra gli altri animali e tra gli stati. Secondo la legge la cosa peggiore è commettere ingiustizia, secondo la natura è subirla. Anche la natura ha per Callicle il suo concetto di giusto (483d1, 484b1, c1), perciò quando Aristotele dice ad a11-12 che la giustizia, dal punto di vista della natura, non è una bella cosa, intende probabilmente la giustizia nell’accezione comune, che implica un’idea di equità. Giustamente Dorion, p. 306, rimprovera quegli interpreti che pensano, per riflesso condizionato, che Callicle non possa essere citato qui se non perché applicava il topos sofistico legge/natura. Secondo Dorion, Callicle sarebbe invece citato a testimonianza del fatto che quel topos è ple›stow, cioè importante. Ma nel Gorgia Callicle non dice questo. Egli afferma piuttosto che la legge e la natura «nella maggior parte dei casi» (…w tå pollã) sono contrarie tra loro (482e5), ed è questa l’affermazione che Aristotele parrebbe citare a suffragio del fatto che il topos sia ple›stow, dove però l’aggettivo deve valere «massimamente diffuso». Con ciò si spiega anche la menzione di «tutti gli antichi»: essi giudicavano valido quel topos (sumbaiÄnein a24) perché credevano nell’universale contrarietà tra legge e natura. Aristotele si affida alla testimonianza di Callicle e degli antichi perché lui non crede nella realtà di quella contrapposizione né probabilmente ci credono più i suoi contemporanei. Egli cerca di ricondurre questa opposizione al

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contrasto, a lui invece più familiare, tra i molti (fautori della legge) e i sapienti (fautori della natura). Questo è già evidente ad a15: «per costoro», cioè per i dialettici antichi (cfr. a23-24) o forse per i sapienti antichi, la verità era la natura mentre la legge coincideva con l’opinione dei molti; ma la riduzione diventa più esplicita nel seguito: se la contrapposizione tra legge e natura è riconducibile a quella tra molti e sapienti e se d’altra parte la nozione di paradosso è definita da quest’ultimo contrasto, Aristotele può concludere (Àste d∞lon a16) che c’è consonanza tra antichi e moderni: anche quelli cercavano di confutare o far dire paradossi (sull’alternativa tra confutare e far dire paradossi vedi più avanti 15, 174b12-18 e Cavini 1993, p. 78). 173a19-30. Aristotele descrive ora un modo di formulare le domande che, contravvenendo alla regola dialettica che autorizza solo le domande di conferma, quelle a cui si possa rispondere con un sì o con un no, pone all’interlocutore un dilemma tra la posizione dei molti e quella dei sapienti. Una tale domanda riesce a sfruttare qualunque risposta ai danni del rispondente: bisogna obbedire al padre o ai sapienti in caso di conflitto? (per questo dilemma vedi Aristofane, Nuvole 1331 sgg.; 1420 sgg.). Bisogna preferire il giusto o l’utile? (a21). È meglio subire o commettere l’ingiustizia? (a21-22). A proposito di quest’ultimo dilemma, si veda in particolare la discussione con Polo nel Gorgia, 469c sgg. A quella discussione (spec. 470b1-471e1) si riconnette nel nostro passo la spiegazione che segue il går a25: l’opposizione tra commettere e subire ingiustiza contrappone i molti, secondo i quali è implausibile che il re sia infelice, anche se è ingiusto, ai sapienti, che pensano invece che solo il giusto possa essere felice. Aristotele ribadisce poi (a27-30) che il punto di vista della legge equivale all’opinione dei molti e quello della natura all’opinione dei sapienti. Stranamente, però, in questo modo la legge finisce col sostenere che è meglio commettere ingiustizia e la natura che è meglio subirla, e Aristotele sembra così rovesciare la posizione di Callicle nel Gorgia; lì era ovviamente la legge a dire che è meglio subire ingiustizia e la natura che è meglio commetterla (483a5-b4).

CAPITOLO 13 173a31-33. Cfr. supra 3, 165b16-17: far chiacchierare = costringere l’interlocutore, in forza di un’argomentazione reale o apparente, a ripetere la stessa cosa più volte. 173a33-40. Le argomentazioni che mirano a questo scopo partono dalla sostituzione di una parola con la formula definitoria (lÒgow) e sfruttano la peculiarità di certe definizioni, ossia il fatto che menzionano il definiens nel definiendum. P. es., se è sempre lecito sostituire «doppio» con «doppio della metà», si potrà sostituire anche l’occorrenza di «doppio» all’interno di «doppio della metà», ottenendo «doppio della metà della metà». Si può obiettare che «doppio della metà» è più l’espressione di un complemento implicito che non una vera definizione di «doppio»; è vero che per Aristotele i relativi (tå prÒw ti) come il doppio «sono detti

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proprio ciò che sono in relazione a qualcosa», perciò è comunque necessario esprimere il correlativo per definirli correttamente, ma non sembra che ciò sia sufficiente. Normalmente si tende a pensare al doppio come relativo ad una quantità fissata (p. es. il doppio di due, di cinque ecc.) ma la concezione aristotelica richiede che si rapporti precisamente il relativo al suo correlativo, ed entrambi dovranno appartenere alla stessa categoria; p. es. il doppio è doppio della metà, la conoscenza è conoscenza del conoscibile ecc. Il secondo esempio è analogo al primo: se definiamo l’appetito (§piyumiÄa) come «desiderio (ˆrejiw) del piacevole» e in questa stessa definizione sostituiamo «desiderio» con «desiderio del piacevole», che è la definizione del desiderio, otteniamo «desiderio del piacevole del piacevole». 173b1-11. Aristotele distingue due tipi di termini che possono essere sfruttati per indurre a chiacchierare. Il primo tipo è costituito da relativi che soddisfino due condizioni: (a) sono relativi sia la specie sia il genere (nell’es. precedente, sia l’appetito, §piyumiÄa, sia il desiderio, ˆrejiw) e (b) la specie e il genere hanno lo stesso correlativo (il piacevole). La condizione (a) esclude i relativi katå g°now discussi a Cat. 8, 11a20 e Top. IV 4, 124b15 (citato opportunamente da Waitz): si tratta di predicati che sono relativi non in quanto tali ma perché i loro generi sono relativi: per esempio musica e grammatica in quanto tali non sono relativi, perché non sono musica di qualcosa o grammatica di qualcosa. Sono però specie del genere conoscenza, e questo è un relativo, giacché è conoscenza del conoscibile. È chiaro che se la specie non fosse anch’essa un relativo (nell’esempio, se l’appetito non fosse a sua volta un relativo), non avremmo la ripetizione. Il significato della condizione (b) è ovvio: se il correlativo del genere e quello della specie non fossero lo stesso – e per lo più sono diversi –, non ci sarebbe ripetizione della stessa parola. Il secondo tipo è descritto in un brano (b5-7) che Ross pone tra croci ed è probabilmente corrotto, ma che comunque, alla luce degli esempi che seguono, può essere in qualche modo compreso e tradotto (fa difficoltà che oÈsiÄa, al singolare, debba concordare con i pronomi plurali œn b6, e toÊtoiw b8, e debba nel contesto assumere il valore generico di «soggetto»). Si tratta dei termini come il dispari, che contengono nella definizione il soggetto di cui normalmente sono predicati o a cui sono apposti. Il dispari è definito come il numero avente un medio (il medio è l’unità che resta dividendo il numero a metà), e perciò da «numero dispari» si può ottenere per sostituzione «numero numero avente un medio». 173b12-16. Incontriamo ancora l’idea, esaminata nell’Introduzione, par. 4, secondo cui un’argomentazione è apparente in quanto manca di una domanda aggiuntiva. In questo caso bisognerebbe, prima di trarre la conclusione, chiedere al rispondente se (p. es.) «doppio» significhi qualcosa se preso da solo e, in caso affermativo, se abbia lo stesso significato che ha nell’espressione «doppio della metà». La risposta che l’interlocutore dovrebbe dare a questa domanda è rivelata con sufficiente chiarezza a SE 31.

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CAPITOLO 14 173b17-22. Sembrerebbe che di fronte agli errori di grammatica l’unica autorità fosse la comunità dei parlanti greco, e che quindi non esistesse una «verità» che trascende ciò che a questa sembra corretto. Con l’esempio delle correzioni di Protagora, che andavano contro l’uso comune, Aristotele mostra invece che possono trovarsi contrapposte diverse percezioni della correttezza grammaticale e che dunque l’opposizione tra realtà e apparenza ha la sua legittimità anche in tale contesto. Protagora aveva suddiviso i nomi in maschili, femminili e skeÊh (Arist. Rh. III 5, 1407b6-8). Alla lettera l’ultimo termine significa «utensili» e per estensione «oggetti inanimati», ma qui vuol dire «nomi che significano oggetti». Il sofista usava questa classificazione, insieme con altre, come quella dei vari tipi del discorso, per esaminare criticamente le opere dei poeti e giudicare quando avevano poetato correttamente e quando no (Pl. Prt. 338e-339a). L’esordio dell’Iliade, a cui si riferisce qui l’esempio dell’«ira funesta», era stato bersaglio anche di un’altra critica del sofista, questa volta fondata sulla classificazione dei tipi di discorso: dicendo «canta o dea», con l’imperativo, Omero avrebbe erroneamente rivolto alla Musa un comando invece di una preghiera. Sui due esempi si può allora fondare una congettura circa il significato della Ùryo°peia protagorea: non una teoria generale del linguaggio o della grammatica, ma una critica dei poeti fondata su criteri di razionalità e coerenza (Fehling 1965). La determinazione del genere grammaticale di m∞niw e pÆlhj si presta a due diverse interpretazioni (Dorion, p. 312): (a) Protagora fondava la propria critica su distinzioni di significato: per esempio l’ira di Achille è un sentimento di natura virile e quindi gli aggettivi, i participi, l’articolo e i pronomi che le si riferiscono andrebbero posti al maschile, nonostante l’uso comune. A favore di questa ipotesi sembrerebbe testimoniare più avanti 173b39-174a5, dove viene probabilmente ripresa la tripartizione di Protagora. Lì apprendiamo che la classe dei nomi chiamati skeÊh non si identifica con la categoria morfologica dei nomi neutri, in quanto contiene anche parole con terminazione maschile e femminile. In questa classe dunque Protagora raggruppava in primo luogo nomi di oggetti inanimati, in qualche misura anche a prescindere dalla loro desinenza. Un’indicazione, per quanto non probante, dell’importanza della realtà significata dai nomi per determinarne la classificazione ci viene anche dalla parodia di Aristofane (Nuvole 658-93 = 80C3 DK), in particolare dove si sostiene che dicendo tØn kãrdopon («la madia») si dà un nome maschile ad un oggetto femminile e perciò bisognerebbe dire tØn kardÒphn. Se la correzione si basasse su un criterio puramente formale, sarebbe più naturale cambiare l’articolo. (b) Protagora pensava invece che la concordanza in un costrutto dovesse obbedire a criteri morfologici e che i nomi con una certa desinenza dovessero appartenere tutti allo stesso genere grammaticale. A favore di questa lettura si è addotto Po. 21, 1458a7 sgg. dove Aristotele, assegnando sommariamente le lettere finali dei nomi ad un genere grammaticale, dice che i nomi in s e quelli in j sono maschili. Si può allora sostenere che la modifica del genere grammaticale di m∞niw e pÆlhj sia indotta da un’analogia di tipo morfologico. Anche il semplice fatto che Aristotele citi le due correzioni protagoree nel-

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l’ambito di una discussione del solecismo può far ritenere che le concordanze in gioco siano più quelle delle parole tra loro che non quelle tra le parole e le realtà significate (vedi la n. a 174a5-9). L’ipotesi (a) sembra nel complesso preferibile, ma non possiamo nemmeno escludere soluzioni intermedie, come quella suggerita da Gomperz 1903, I , pp. 357 e 467, per pÆlhj, «elmo», il cui genere sarebbe secondo lui modellato da Protagora su alcuni termini in j, tutti maschili, che designano altre parti dell’armatura: y≈raj «pettorale», pÒrpaj «scudo», stÊraj «puntale della lancia». 173b22-25. Stabiliti questi preliminari sulla distinzione tra solecismo reale e apparente, Aristotele trae due conseguenze: (i) è possibile che il solecismo (Aristotele non precisa se reale o apparente) sia procurato con arte e cioè intenzionalmente, mediante un artificio. (ii) in molti casi il solecismo sembrerà la conclusione di un sillogismo valido senza esserlo veramente, come accade nel caso, trattato nei capitoli precedenti, delle confutazioni apparenti. Probabilmente Aristotele vuol far seguire (ii) da (i), nel senso che l’arte di spingere l’interlocutore al solecismo, di cui (i) afferma la possibilità, consiste nel dedurli artatamente dalle domande poste. Con l’affermazione (ii) il discorso prende però una nuova strada: iniziando il capitolo, Aristotele aveva mostrato che il solecismo stesso può essere apparente, mentre (ii) dice che spesso ad essere apparente è il sillogismo che lo deduce. I due fenomeni, solecismo apparente e sillogismo apparente, sono indipendenti, perché la conclusione di un sillogismo apparente è normalmente un solecismo reale. Non si comprende allora a quale scopo Aristotele abbia esordito insistendo sull’apparenza del solecismo stesso. 173b26-39. Il passo presenta difficoltà di vario genere. Non potendo riprodurre in italiano l’accusativo con l’infinito, ho traslitterato il greco in parentesi quadre. Ad espedienti occasionali ho fatto ricorso anche per tenere distinti nominativo e accusativo dei pronomi maschili. pt«siw, che rendo secondo l’etimologia con «caso», per Aristotele può valere genericamente «flessione», perché non si limita alle forme declinabili (alle quali il termine si è successivamente specializzato) e investe molti altri tipi di flessione: è infatti anche la coniugazione del verbo, il grado dell’aggettivo, l’avverbio formato col suffisso -vw, la derivazione del paronimo e altro ancora. Si tratta in generale della modificazione regolare di una forma di parola considerata fondamentale. Inoltre la pt«siw è normalmente la parola stessa modificata, e solo di rado indica la terminazione caratteristica o la categoria grammaticale corrispondente alla modificazione. Fatte queste precisazioni, diciamo che, comunque, nel nostro passo la pt«siw corrisponde al caso grammaticale. Il tipo di argomentazione che Aristotele analizza qui in astratto è illustrato da alcuni esempi (ma non da tutti) nel cap. 32. In una domanda che contiene una subordinata oggettiva lo stesso pronome ricorre due volte, una al nominativo, l’altra all’accusativo. La differenza di caso sfugge perché si è usato un pronome neutro che non distingue nominativo e accusativo e così, se si procede alla sostitu-

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zione meccanica del pronome con un sostantivo maschile o femminile senza fare gli opportuni aggiustamenti sintattici, si finisce col porre tale sostantivo al nominativo o all’accusativo in entrambe le occorrenze. Ad indurre in errore è la mancanza di differenza del neutro, che viene estesa agli altri generi. Il risultato è che una di queste occorrenze sarà un solecismo. Si deve presumere che in tutto il brano Aristotele usi il verbo «significare» per indicare una relazione tra parole. Una parola significa l’altra quando sta per l’altra, e può essere da quest’ultima sostituita. È in questo senso che il pronome neutro significa il maschile o il femminile. Ci si chiede se ad Aristotele sia chiaro che il pronome neutro, anche se indifferenziato, può significare due casi, il nominativo e l’accusativo, intesi come funzioni sintattiche. A questo proposito ricordiamo che egli manca di una terminologia tecnica per i vari casi («genitivo», «dativo» ecc., ma per il nominativo vedi 31, 182a3, e qui sotto il termine kl∞siw) e quando deve esprimere il caso in astratto si serve della declinazione del pronome otow; per esempio il genitivo è una parola che significa katå tÚ toËtou, «secondo il di questo» (cfr. Delamarre 1980, pp. 324-335). Ora, a b36 egli dice che toËto a volte significa otow, a volte toËton e che dopo ¶sti significa il primo, dopo e‰nai il secondo. Sta usando il pronome per mostrare come un’unica forma del neutro è comune a due funzioni sintattiche o sta semplicemente segnalando che, nell’ottica del paralogismo, toËto a volte deve essere sostituito da un nominativo maschile e altre volte da un accusativo maschile? L’ipotesi che queste indicazioni per la sostituzione possano essere sintomo di una concezione sintattica dei casi grammaticali è avallata dal fatto che Aristotele osserva che nel neutro alcuni casi non sono morfologicamente differenziati (b32), lasciando così intendere che non sono lo stesso caso, e che la forma toËto è comune a più casi (b35). Kapp 1968, p. 282, pensa che la distinzione di funzioni sintattiche del neutro sia testimoniata anche a 32, 182a26-27, ma vedi infra il commento a quel luogo. 173b39-174a5. Solo i nomi che terminano in -on hanno il nominativo degli skeÊh, e sono al riparo dal solecismo in quanto non presentano differenze tra nominativo e accusativo. Gli altri nomi di questa classe, pur designando oggetti inanimati, hanno il nominativo maschile o femminile, che è diverso dall’accusativo, e si prestano perciò al solecismo. Aristotele non confonde gli skeÊh, con i neutri; se li cita a questo punto è probabilmente perché la categoria inventata da Protagora (vedi sopra, n. a 173b17-22) ha avuto un certo successo e può dare origine a qualche confusione, tanto più in quanto gli skeÊh sono nomi che è naturale sostituire con pronomi neutri e quindi, quando sono maschili o femminili, offrono più facilmente occasione di solecismo. Egli parla di legÒmena skeÊh perché sa che la classificazione è diffusa, ma forse anche perché non la considera ben definita e vuole prenderne le distanze. Indiscutibilmente gli skeÊh di Protagora sono uno strano ibrido: raggruppano in primo luogo i nomi di una certa classe di significati, ma forse hanno anche delle peculiarità morfologiche specifiche, sebbene non riscontrabili in tutti i casi. Aristotele sembra infatti riconoscere che la terminazione in -on sia il loro no-

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minativo caratteristico. Come Protagora intendesse trattare gli altri casi, non è dato sapere. kl∞siw, b40, indica la forma usata per chiamare o nominare, cioè il nominativo (cfr. APr. I 36, 48b41). 174a5-9. C’è una certa somiglianza, dice Aristotele, tra il solecismo e la confutazione che dipende «dal prendere come simili cose che non lo sono»; però il solecismo riguarda il piano meramente verbale, mentre quella confutazione riguarda gli oggetti significati (non viceversa, come sostiene erroneamente Dorion). Nonostante qui Aristotele la descriva (non senza una certa efficacia) come un solecismo sugli oggetti, la confutazione che dipende «dal prendere come simili cose che non lo sono» è semplicemente la ben nota confutazione causata dalla forma dell’espressione (cfr. 22, 178a4-5). La forma dell’espressione assomiglia al solecismo perché può anch’essa giocare sulla confusione dei casi grammaticali (4, 166b11-12), tuttavia il solecismo è un’incongruenza a livello delle parole perché concerne solo il costrutto linguistico e perciò non implica un’asserzione falsa. Non è detto infatti che esprimendosi male non si possano dire cose corrette. Il paralogismo dovuto alla forma dell’espressione ha luogo invece quando la forma delle parole induce ad attribuire una categoria errata agli oggetti stessi. Perciò l’errore nasce sì dal linguaggio, ma implica anche qualcosa di falso riguardo alla realtà. Chi per esempio dice «la groviera» incorre in un solecismo, ma non commette alcun errore materiale sul noto formaggio. Chi invece, di fronte a nomi come «Enea» o «Epaminonda», proiettasse la forma del nome sulla natura del nominato e pensasse che si tratti di donne, commetterebbe un «solecismo sugli oggetti», ossia un paralogismo che dipende dalla forma dell’espressione. Sebbene discutibile e forse non del tutto rigorosa, la distinzione qui tracciata è fondamentale per la comprensione del solecismo. Dimostra innanzitutto che esso non è un controsenso logico ma un vero e proprio errore grammaticale. Non è chiaro se questa distinzione sia posta a commento della classificazione protagorea dei nomi: vero è che se quella classificazione concerne le cose significate, essa sembra più utile a evitare il paralogismo della forma dell’espressione che il solecismo. 174a10-16. Aristotele fa il punto della situazione: rispetto al piano di lavoro prospettato a 1, 165a34-37 la parte ormai svolta comprende tutte le specie di argomentazione sofistica; ora comincia la parte ausiliaria dedicata all’interrogazione (per la collocazione di questa parte nell’opera, cfr. Introduzione, par. 10). Come nella dialettica, cfr. Top. VIII 1-3, organizzare e porgere le domande in modo opportuno serve a nascondere all’interlocutore che cosa seguirebbe dalle sue eventuali concessioni e a fargli abbassare la guardia.

CAPITOLO 15 Rassegna di espedienti che riguardano il modo di porre e organizzare strategicamente le domande. I vari suggerimenti hanno molto in comune con quelli discussi

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a Top. VIII 1, capitolo a cui Aristotele allude a 14, 174a14-15, e poi cita a 15, 174a18 e 27. Dorion, pp. 63-68 (cfr. anche Dorion 1990), pensa che, per l’affinità che dimostra con la dialettica onesta, questo cap., come anche il 12, non offra regole prettamente sofistiche, ma si rivolga al dialettico in generale. Poiché a 16, 175a19 il contenuto del cap. 15 è descritto come tåw §n t“ punyãnesyai pleonejiÄaw, che normalmente si traduce «gli abusi che si commettono nell’interrogare», Dorion cerca un significato positivo di pleonejiÄa che renda compatibile questo celebre termine con la sua interpretazione del capitolo. Il risultato non convince. Egli ha ragione quando sottolinea che la dialettica e la sofistica hanno molto in comune, ma mi sembra inverosimile che il presente cap. non sia tagliato specialmente per il sofista. 174a17-19. La lunghezza dell’argomentazione è normalmente determinata dal fatto che le premesse sono a loro volta conclusioni di altre premesse e che oltre alle premesse necessarie si assumono anche premesse supplementari. Ma se è ragionevole che le argomentazioni dialettiche raggiungano una certa lunghezza (Rh. I 2, 1357a7-17), qui si suggerisce evidentemente di cercarla anche dove non sarebbe strettamente necessaria e di ottenerla anche con mezzi non leciti, p. es. inserendo premesse non indispensabili. «Gli elementi precedentemente trattati» sono discussi a Top. VIII 1, in particolare a 157a1-5. 174a23-26. Alternare le premesse significa separare le due premesse di un sillogismo intercalando quelle di almeno un altro sillogismo. Quest’ultimo può avere la stessa conclusione o una conclusione contraddittoria. In questo intreccio, diventa difficile per il rispondente tenere separati i fili dei diversi ragionamenti e difendersi o da più attacchi (se le premesse convergono tutte alla stessa conclusione) o da attacchi opposti (se le premesse vanno in direzioni contrarie). Cfr. Top. VIII 1, 156a23-26; APr. II 19, 66a37. 174a26-29. L’«occultamento della conclusione» si ottiene organizzando le domande in modo tale da non far trapelare i nessi logici dei quesiti tra loro né le intenzioni di chi interroga. In questa maniera il rispondente non riesce a vedere l’importanza delle proprie concessioni per la deduzione della conclusione prefissata, cioè della contraddittoria della sua tesi, e abbassa la guardia. Aristotele discute l’occultamento a Top. VIII 1 (a quel capitolo è il rimando di a27). Lì ne riconosce il carattere competitivo (e dunque non dialettico) e adduce, per giustificarne l’uso, la necessità di fare i conti con l’interlocutore (Top. VIII 1, 155b2628). Egli pensa a quei rispondenti che guastano le discussioni negando ad oltranza premesse plausibili solo perché sono utili alla confutazione della tesi che stanno difendendo. Nel nostro passo Aristotele afferma che l’occultamento è utile anche nelle argomentazioni competitive perché serve a nascondere e il nascondere serve all’inganno. Naturalmente il nascondere crea solo una condizione propizia all’inganno, ma non è un inganno di per sé. Il dialettico, infatti, usa normalmente l’occultamento allo scopo non ingannevole di ottenere il riconoscimento di premesse plausibili. Il sofista lo userà invece per insinuare più facilmente un inganno sofistico (seguo qui Dorion, p. 319).

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174a30-33. Poiché la domanda dialettica è di solito una domanda di conferma («Non è vero che... ?»), se l’interrogante propone la negazione della risposta che desidera ottenere, l’opponente penserà di dover dire il contrario e darà la risposta voluta dall’altro. Altrimenti, si può dare al quesito la forma di una domanda aperta a entrambe le risposte. Questo occulterà le preferenze dell’interrogante (Top. VIII 1, 156b6-9). 174a33-37. L’induzione dell’universale dai particolari (per la quale cfr. Top. I 12, 105a13-16) non ha la forza di un’inferenza direttamente tratta dall’interrogante (come accade per la conseguenza sillogistica, cfr. Top. VIII 2, 158a7-13), ma necessita del consenso di chi risponde (Top. VIII 2, 157a21-22), giacché questi potrebbe sempre avanzare un’obiezione (157a34-35; 157b31-33). L’interrogante eristico adopera la premessa universale senza averla domandata. Il rispondente crederà talvolta di averla concessa (forse perché ha aggiunto mentalmente i passaggi necessari a inferire l’universale) e il pubblico, ricordandosi le domande sui casi particolari e immaginando che fossero finalizzate all’induzione, penserà che questo procedimento (culminante nella domanda universale) abbia davvero avuto luogo. Sull’impressione del rispondente e del pubblico di aver concesso qualcosa che in realtà non è stato domandato, cfr. Introduzione, par. 4. 174a37-40. La differenza tra induzione e somiglianza è spiegata a Top. VIII 1, 156b10-17 (cfr. Smith 1997, pp. 116-117). L’induzione coinvolge sempre due universali, perché da premesse particolari del tipo x è A ed è B; y è A ed è B; z è A ed è B; ecc. si induce la premessa universale: Tutti gli A sono B. L’argomento per somiglianza procede invece senza specificare, per mancanza di un termine adeguato, il primo universale; da xèB yèB zèB ecc. si conclude: tutti i casi siffatti sono B. Ma come stabilire quali siano i casi «siffatti»? A Top. VIII 2, 157a21-33, Aristotele osserva che bisogna fissare la caratteristica che accomuna tutti i casi realmente simili inventando se necessario un nome, perché altrimenti c’è lo spazio per imporre come simili casi che non lo sono (o lo sono in modo irrilevante), e come dissimili casi che sono invece simili nell’aspetto rilevante. È a queste situazioni che Aristotele pensa quando dice che spesso la somiglianza resta nascosta

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(a39-40). L’interrogante fraudolento, può sfruttare queste situazioni sia per insinuare false somiglianze sia per negare somiglianze reali. 174b8-11. Un analogo espediente sofistico è descritto a Rh. II 24, 1401a3-5. 174b12-18. Il passo può essere chiarito alla luce della terminologia e delle relazioni logiche fissate a Top. VIII 5: il keiÄmenon è la tesi stabilita dal rispondente (159b7), il prokeiÄmenon è la conclusione che l’interrogante deve dedurre dalle premesse concesse dell’interrogato, e consiste nell’opposto del keiÄmenon (159b14). Se il keiÄmenon è implausibile, il prokeiÄmenon sarà invece plausibile e viceversa (159b4-5). Ora, nel nostro passo il keimenon, la tesi, è appunto paradossale, cioè implausibile (parãdojon, è qui sinonimo di êdojon: si confrontino b16 e 17). Il prokeimenon, la conclusione, sarà invece plausibile, e infatti Aristotele lo qualifica come dokoËn, qui sinonimo di ¶ndojon, (cfr. Top. VIII 5, 159b18). L’interrogante dovrà dunque dedurre una conclusione plausibile e, in base a un principio fissato a Top. VIII 5, 159b8 sgg., dovrà farlo a partire da premesse almeno altrettanto plausibili; questo è il senso di tÚ fainÒmenon éjioËn épokriÄnesyai b12-13, dove anche fainÒmenon, come prima dokoËn, è sinonimo di ¶ndojon. In uno scambio dialettico di questo genere, l’artificio scorretto consiste nel porre una domanda «siffatta», cioè plausibile, e chiedere al rispondente di dire sinceramente quello che personalmente crede (questo è lo scopo della formulazione «non ti pare che... ?», b14). In effetti, essendo costui obbligato, se vuole evitare la confutazione, a negare una premessa plausibile, non sarà chiaro al pubblico che lo fa solo per difendere la tesi (cfr. Top. VIII 9, 160b17-22) e sembrerà invece sostenere in propria persona un’opinione paradossale. E se cerca di uscire dal dilemma tra accettare la confutazione o rispondere paradossalmente dicendo che crede ma non concede, il risultato sarà comunque molto simile ad una confutazione. Cfr. anche 12, 173a16-24; 17, 176a23-35. Quest’interpretazione, per la quale cfr. Cavini 1993, p. 79, si allontana da quelle di Ps.-Alessandro, Pacius, Waitz e Dorion, i quali pensano invece che il keimenon paradossale di b12 non sia la tesi ma la conclusione che l’interrogante si propone di dedurre. 174b19-23. Cfr. Rh. II 23, 1398b21-26. 174b23-27. Così come i rispondenti obiettano operando distinzioni, l’interrogante deve cercare di distinguere l’obiezione del rispondente e dire che in un senso è valida e in un senso non lo è. Cleofonte, citato perché discuteva in questo modo, è con ogni probabilità un personaggio di un dialogo di Speusippo intitolato Mandrobulo, cfr. Diogene Laerzio, IV 4-5 (= test. 1 Tarán). Prima che Bywater 1883 chiarisse la questione, questo Cleofonte veniva identificato con il poeta omonimo citato da Aristotele nella Poetica e nella Retorica. Si veda, con l’articolo di Bywater, l’ampia discussione in Tarán 1981, pp. 239-245. 174b28-30. Chi interroga ha subìto un’obiezione. Ebbene, se questa è devastante, non deve continuare a svolgere la stessa linea argomentativa, perché diventerà

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presto chiaro che il suo attacco è fallito. Dovrà invece passare subito ad un altro argomento, come se la domanda colpita non fosse mai stata posta. Chi risponde dovrà invece rendere evidente che l’attacco c’è stato e che è stato respinto. 174b30-33. In certi casi, in mancanza di argomenti contro la tesi, bisognerà reinterpretare la tesi in modo da trasformarla in una proposizione più attaccabile. In questo spirito, Licofrone, dovendo fare l’encomio della lira (lo strumento musicale), per il quale non aveva argomenti, fece invece quello della costellazione della Lira (Ps.-Alessandro, 118.30-119.3; Dorion cita a parziale conferma Rh. II 24, 1401a15-16). Per le scarse testimonianze su Licofrone, vedi 83 DK. L’espressione §ke›no §klabÒntaw b31, che traduco con «interpretandole come se fossero quella» (§klambãnein si incontra in Aristotele nel senso di «interpretare un’espressione in un certo senso», cfr. p. es. Top. VI 14, 151b10), è in realtà ambigua. Potrebbe significare anche «abbandonata quella» (cfr. Bonitz, Index Aristotelicus 229a1-3). 174b33-38. «Causa», b34-35, è la causa finale, lo scopo per cui si pongono certe domande, ciò che si vuole dimostrare. Se l’interrogante lo dichiara, facilita troppo il compito all’avversario; dovrà quindi usare una descrizione generica come «la contraddittoria di ciò che l’interlocutore afferma» senza dire a quale affermazione si riferisca (p. es. «la conoscenza dei contrari è la stessa»). 174b38-40. La stessa regola, giustificata dal fatto che se si propone la conclusione in forma di domanda il rispondente può sempre rispondere negativamente, si trova anche a Top. VIII 2, 158a7-13 e in sé non ha nulla di sofistico. L’altro suggerimento, quello di assumere certe premesse come concordate (b39-40), si connette a quanto Aristotele ha detto sopra a 174a35.

CAPITOLO 16 175a1-16. Aristotele elenca i vantaggi dello studio delle argomentazioni apparenti. Aveva fatto lo stesso a Top. I 2 riguardo ai vantaggi della dialettica, ma nelle Confutazioni questo tema non è collocato all’inizio. Di ciò non manca una buona ragione: lo studio delle confutazioni apparenti è stato fin qui lo studio della capacità di produrle (cfr. 11, 172b6-7), e ovviamente questa competenza non è utile al filosofo. Per contro, la parte di questa disciplina che riguarda la risoluzione è di beneficio anche a chi si occupa di filosofia, cioè, grosso modo, a chi vuole apprendere le discipline teoretiche, matematica, fisica, teologia e quelle pratiche, etica e politica. Il primo vantaggio consiste nella distinzione dei significati dei termini. Come è noto si tratta per Aristotele di uno strumento di enorme portata, giacché la distinzione del pollax«w legÒmenon è uno dei tratti più pervasivi e caratterizzanti della sua filosofia. Il secondo vantaggio si connette a quanto Aristotele osserva a 7, 169a40-b2: pur ritenendo che il veicolo della conoscenza sia un pensiero individuale mono-

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logico e trasparente, egli riconosce che, con il linguaggio, a volte ci si inganna anche da soli. Il terzo vantaggio è legato ad una dimensione pubblica della dialettica sulla quale Aristotele insisterà anche nel prossimo capitolo (175a31-34). Ad a5 Aristotele aveva annunciato solo due utilità filosofiche, quindi la menzione di una terza utilità giunge inattesa. Dorion, pp. 326-327, suggerisce che la terza utilità non entri nel conto iniziale perché non riguarda direttamente la filosofia. Probabilmente ha ragione, perché la terza utilità è chiaramente introdotta come un vantaggio meno importante. Tuttavia nelle liste Aristotele è spesso trascurato (Dorion stesso cita Top. I 2, 101a26-b4, dove Aristotele annuncia tre utilità della dialettica e poi ne aggiunge una quarta). 175a17-20. Aristotele introduce la sezione dedicata alla risposta. Gli «abusi che si commettono nell’interrogare» sono gli espedienti trattati nel capitolo precedente. 175a20-26. Anche questa breve riflessione sull’opportunità dell’esercizio non è collocata a caso: il destinatario del trattato è un dialettico onesto e non si esercita a escogitare paralogismi, ma solo a risolverli. Sulla difficoltà di risolvere le argomentazioni «all’impronta» vedi anche 18, 177a6-8. 175a26-30. Nel procedimento geometrico dell’analisi si assume come noto il risultato: una costruzione da eseguire (analisi problematica) o la validità di una proprietà (analisi teorematica). Dall’assunzione del risultato si traggono inferenze fino ad arrivare a qualcosa di noto. In termini un po’ grossolani la sintesi consiste nell’invertire il processo deducendo il risultato cercato dalla conseguenza nota portata alla luce dall’analisi. L’analisi, limitiamoci qui per semplicità a quella teorematica, non è una dimostrazione (giacché, come osserva Aristotele ad APo. I 12, 78a6-13, la verità del demonstrandum non può essere accertata solo dalla verità di alcune sue conseguenze) ma può servire come procedimento euristico per individuare qualcosa di noto che possa essere il punto di partenza della dimostrazione. Il reperimento del principio della dimostrazione mediante l’analisi non garantisce tuttavia che la successiva sintesi sia facile e meccanica, cosicché capita di trovarsi nella situazione, a cui allude qui Aristotele, in cui si sa quale deve essere il principio della dimostrazione, ma non si è in grado di individuare un percorso a ritroso dal principio al demonstrandum. La descrizione canonica del processo di analisi e sintesi è in Pappo Collezione VII 1-2. Discussioni moderne in Hintikka e Remes 1974; Knorr 1986, cap. 8; Behboud 1994; Menn 2002; Berti 2004, pp. 89-126. L’analogia tra dimostrazioni geometriche e confutazioni sofistiche è offuscata dai termini usati da Aristotele: a causa di ovvie associazioni etimologiche, si pensa infatti che énalÊsantew a28 debba corrispondere a dialËsai a30, e che sunye›nai a28, vada invece con sune›rai a30. Dunque la sintesi geometrica (suntiy°nai) corrisponderebbe alla connessione dell’argomentazione (suneire›n) e l’analisi geometrica (énalÊein) alla dissoluzione dell’argomentazione (dialÊein) cioè alla risoluzione del vizio. In questo caso, però, la difficoltà nei due campi sarebbe opposta: il matematico sa effettuare l’analisi ma non la sintesi, mentre il dialettico non allenato sa che cosa tiene insieme l’argomentazione (= sin-

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tesi) ma non sa risolverla (= analisi). Pacius, p. 510, non arretra di fronte a questa inversione e sostiene che il paragone vada letto proprio in modo invertito. Qualcun altro ne fu invece disturbato, come dimostra l’omissione di dialËsai nei mss. u (Basileensis 54) e T (Laurentianus 72, 12), che nasce evidentemente dal tentativo di ripristinare il parallelismo tra suntiy°nai e suneire›n. Vedi anche il suggerimento di Poste, p. 141, di correggere dialËsai in kvlËsai. È probabile, tuttavia, che il richiamo etimologico dei verbi usati sia accidentale e perciò fuorviante, e che l’analogia vada invece spiegata così: quando non siamo esercitati sappiamo individuare in termini generali la causa di un certo paralogismo (ossia la ragione per cui l’argomentazione appaia connessa nelle sue parti – suneire›n), ma non sappiamo applicare con precisione quel principio al caso concreto che dobbiamo risolvere – dialÊein. P. es. ci rendiamo conto che la confutazione dipende dall’omonimia, ma non sappiamo dire in quale termine questo errore si annidi. In questo senso la nostra condizione è ragionevolmente simile a quella del geometra che ha trovato il principio mediante l’analisi, ma non riesce a trasformarlo in una sintesi. Anche se qui è sicuramente sinonimo di lÊein («risolvere», definito in questo contesto come «manifestare la causa del falso»), il verbo dialÊein è più generico (ma cfr. Sesto Empirico, Ipotiposi pirroniane II 229) e significa «dissolvere», «scomporre», con associata un’idea di distruzione; qui è usato in contrapposizione a suneire›n, che significa «connettere», «concatenare» (cfr. Top. VIII 3, 158a37), «tenere insieme». Un’argomentazione «sta insieme» se le sue premesse si connettono per dare luogo ad una conclusione. Ovviamente se ciò da cui dipende la connessione è un principio falso, l’argomentazione sarà sofistica.

CAPITOLO 17 175a31-40. Aristotele sta offrendo i suoi suggerimenti a soggetti che conoscono veramente gli argomenti su cui vengono interrogati dai sofisti. Sarebbe un errore se persone di questo tipo cercassero ingenuamente di far trionfare la verità scientifica sull’argomento che si sta discutendo di fronte ad una controparte scorretta e ad un pubblico profano. Aristotele ricorda allora che gli avversari non cercano una discussione leale ma solo l’apparenza e che dunque bisogna distinguere solo per smascherare i loro trucchi, non certo per cercare di spiegare come stanno le cose. La risoluzione plausibile (§ndÒjvw a33) è quella efficace perché tutti la capiscono, anche se a volte è falsa e non è mai scientifica. L’affermazione che i sillogismi plausibili vanno talora preferiti a quelli veri, a cui potrebbe riferirsi il «diciamo» ad a31, si trova a Top. VIII 12, 162b16-30. Aristotele offre poi un argomento generale (a33-40): le distinzioni dei termini omonimi e delle anfibolie non riguardano mai le vere confutazioni, che non ne hanno bisogno, ma solo quelle apparenti, e perciò dobbiamo servircene soltanto perché ci muoviamo nella sfera dell’apparenza. 175a40-b14. Il passo, tutt’altro che scorrevole, può essere forse riassunto come segue: anche se non fosse convinto di tutta questa necessità di badare alle apparen-

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ze, il lettore dovrà almeno considerare questo fenomeno: molte confutazioni contenenti termini omonimi, costruzioni anfibole o qualcuno degli altri elementi che spesso sono occasione di inganno, possono rimanere comunque sostanzialmente corrette se chi le propone non vuole o non può giovarsi di questi elementi per ingannare. Perciò, anche quando l’opportunità d’inganno viene effettivamente sfruttata, se il rispondente ha atteso la conclusione e solo a quel punto distingue e precisa, gli ascoltatori resteranno con il sospetto che egli metta in evidenza dei difetti irrilevanti soltanto per evitare una confutazione pertinente. Ecco perché non basta saper risolvere con una distinzione ma bisogna anche giocare d’anticipo in modo da non sembrare confutati. La risoluzione va dunque operata qualificando le risposte nel corso dell’argomentazione (prosdiairet°on a39: «distinguere in aggiunta alla risposta»; prosapokriÄnesyai b11, cfr. Pl. Euthd. 296a1). Si dirà p. es. «sì, se per “x” si intende la tal cosa; no, se si intende la tal altra». Aristotele argomenta poi (b6 sgg.) che solo se l’interrogante si premurasse di fare lui stesso in anticipo le debite distinzioni potrebbe pretendere dall’interlocutore una risposta semplice e netta. Questo invece non avviene e perciò bisogna che il rispondente aggiunga le opportune precisazioni alla risposta. Che gli interroganti eristici del passato cercassero di impedire al rispondente di aggiungere alcunché al proprio assenso o diniego (b8-9) è testimoniato da Platone Euthd. 296a-d. Diogene Laerzio, II 135, racconta invece che Menedemo rifiutò questo vincolo quando il campione dell’eristica Alessino tentò di imporglielo, il che conferma il successivo abbandono della regola qui notato da Aristotele. Si veda anche Aulo Gellio, XVI 2. Nel tradurre §pe‹ b12 con «tuttavia» seguo un suggerimento di Brunschwig 1999, p. 94. 175b15-27. Non sempre si può rimediare alle confutazioni apparenti con una distinzione. Se qualcuno pretende che ciò che a parole si presenta come una confutazione lo sia sempre veramente (anche se si fonda su termini omonimi), in un certo senso sarà impossibile per il rispondente evitare di essere confutato, perché l’unico modo di difendersi sarà eliminare l’ambiguità distinguendo i termini omonimi. Ma questa strada non è percorribile nel caso degli oggetti visibili, per i quali, sostiene Aristotele, è necessario che la contraddizione verta sullo stesso nome. Perché? Una congettura è che qui giochi il fatto che gli individui visibili, cioè le sostanze del mondo sensibile, sono infinite di numero e quindi, per i limiti espressivi del linguaggio, non possono essere nominate tutte univocamente (cfr. 1, 165a10-12). Comunque sia, Aristotele critica la proposta, avanzata da certi dialettici o teorici della confutazione, di correggere mediante un pronome dimostrativo, perché anche il pronome è ambiguo. P. es. due soggetti si chiamano entrambi «Corisco» e uno è educato mentre l’altro è ineducato. Il rispondente afferma che Corisco è educato, ma l’interlocutore, riferendosi all’omonimo, lo costringe a concludere che Corisco è ineducato. Ebbene, non ci si libera di questa scialba confutazione usando un pronome dimostrativo, perché, se si riformula il discorso sostituendo «questo Corisco» a «Corisco» in entrambe le occorrenze, o anche in una sola, l’ambiguità rimane intatta, in quanto l’espressione «questo Corisco» può sempre riferirsi a entrambi gli individui (l’esempio è variamente interpretato. Ps.-Ales-

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sandro, Waitz e altri lo collegano all’esempio di Corisco velato, 24, 179b1-3; l’interpretazione qui adottata segue quella di Dorion). È evidente che Aristotele non sostiene qui l’inefficacia dell’uso del pronome dimostrativo accompagnato da un gesto ostensivo, ma l’inutilità della semplice aggiunta del pronome alla confutazione considerata come mero oggetto linguistico (fatta quindi astrazione dal contesto). La correzione proposta è dunque inutile solo contro chi definisce la confutazione in modo puramente formalistico e trascura gli aspetti pragmatici. 175b28-38. Nonostante la limitazione relativa agli oggetti visibili appena descritta, Aristotele ricorda (il rimando di b38 è a Top. VIII 7) il diritto del rispondente di distinguere le ambiguità, anche se ciò dovesse creare un continuo inciampo alla discussione e in molti casi si rivelasse inutile. Il rispondente che si fa dei riguardi per timore di sembrare poco collaborativo commette un errore e ne paga le conseguenze. Una degenerazione della pratica di distinguere sistematicamente suggerita qui da Aristotele è testimoniata in un passo (citato da Dorion) della Retorica ad Erennio (II 16): l’autore vi menziona criticamente certi dialettici i quali, riscontrando ambiguità dappertutto, interrompono fastidiosamente gli altri con precisazioni e poi, quando tocca a loro parlare, non riescono nemmeno a pronunciare il loro nome per timore di usare espressioni ambigue. 175b39-176a18. Aristotele cerca di dimostrare che il rispondente ha il diritto e il dovere di distinguere anche le parole o le costruzioni ambigue che non possono dare origine a paralogismi in quanto, in tutti i loro significati, l’enunciato che le contiene mantiene lo stesso valore di verità. Anche in questi casi l’interrogante non può pretendere che l’interlocutore conceda haplos, cioè con un «sì» o con un «no» cumulativi. Qui Aristotele non rinnova, anzi contraddice, un suggerimento che aveva dato nei Topici (VIII 7, 160a17-34) – cioè di non stare a distinguere anche nei casi in cui la risposta è la stessa con tutti i significati –, ma lì dettava le regole di un dialogo cooperativo in cui il rispondente era tenuto a collaborare, mentre qui si tratta di discussioni in cui non è mai il caso di abbassare la guardia. L’espressione «come pretendono alcuni» (a6) si riferisce alle richieste di certi interroganti che cercano di indebolire le difese del rispondente esortandolo a dare una risposta netta nei casi in cui non c’è pericolo. Non mi sembra plausibile che con quel «alcuni» Aristotele voglia riferirsi indirettamente anche a se stesso e smentire la regola più rilassata dei Topici (così invece Dorion, pp. 30-31 e 334; Brunschwig 1999, pp. 89-91; Crivelli 2004, pp. 179-180). Per giustificare la necessità di distinguere sempre la risposta, Aristotele assimila il caso dell’ambiguità delle espressioni linguistiche al paralogismo che dipende dal fare di più domande una domanda sola (paralogismo di natura non linguistica e nettamente distinto da quelli dell’ambiguità). Credo che nel caso del paralogismo delle domande molteplici la necessità di dare più risposte distinte sembri ad Aristotele maggiormente evidente perché il soggetto della frase contiene più di un nome (p. es. «Callia e Temistocle»), mentre le ambiguità riguardano un’espressione unica e quindi presentano una maggiore unità, per quanto meramente linguistica. Comunque sia, Aristotele argomenta che se Callia e Te-

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mistocle presi insieme avessero lo stesso nome, diciamo «Callia», chi chiede «Callia è educato?» formulerebbe una domanda equivalente a «Callia e Temistocle sono educati?». Aristotele pensa dunque che chi pone una domanda contenente un termine con più significati, ponga la congiunzione delle domande relative a ciascuno dei significati (perché non invece la disgiunzione? Nel Medioevo se ne discuteva. Per un’analisi recente, vedi Crivelli 2004, pp. 178-179). Un logico contemporaneo (o stoico o medievale) potrebbe suggerire che, come un enunciato congiuntivo è un enunciato unico ed è vero se e solo se sono veri tutti i suoi congiunti e falso negli altri casi, anche la domanda ambigua o multipla sia un interrogativo unitario a cui si deve dare una risposta affermativa se affermativa è la risposta che si vuole dare a ciascuna delle domande che la compongono e negativa in ogni altro caso. Aristotele è pronto ad accettare che un «sì» o un «no» ad una domanda multipla equivalga ad un «sì» o ad un «no» a tutte le domande che la compongono, ma probabilmente troverebbe insensato rispondere «no» nel caso in cui si vuole negare l’assenso solo ad alcune delle domande componenti. In questa circostanza, infatti, è più arduo riuscire a concepire la domanda multipla come una domanda unica. Le righe che seguono (a6-13) sviluppano il ragionamento sulle domande multiple spiegando perché vadano sempre distinte anche se non generano un paralogismo. Anche se tutte le domande compendiate in una ammettono la stessa risposta, esse non costituiscono ancora una sola domanda. Altrimenti si potrebbero anche riassumere infinite domande in una sola e a tutte si potrebbe fornire una sola risposta, ma questo minerebbe i presupposti del discutere (a10-11). L’argomento di Aristotele può essere forse sviluppato così: anche se la domanda ammette una sola risposta vera, se essa non ha una struttura semantica unitaria («una cosa di una cosa»), la risposta non ha un significato determinato e non corrisponde ad un preciso pensiero. Perciò se si ammette in via di principio una risposta semplice ad una domanda non semplice, bisognerà ammettere che si possono compendiare in una sola risposta anche infinite domande, il che rende evidente che si risponde a vuoto (vedi a16) e non si discute. Si confronti il passo con Metaph. G 4, 1006b7-11, dove Aristotele sembra ragionare in modo simile. Cfr. anche Int. 11, 20b25-26, dove Aristotele cita le righe qui in esame (b6-13). In modo analogo si deve ragionare con le espressioni ambigue (a14-18): la compresenza di più significati sotto un’unica parola fa sì che chi fornisce una sola risposta dica qualcosa senza veramente rispondere; in sostanza, che parli a vuoto. Per un illuminante passo parallelo, dove Aristotele insiste sulla necessità di distinguere i significati anche quando l’esito dell’argomentazione non cambia, vedi Cael. I 11, 280b1-6. «Sfugge che cosa ne risulti» (a17-18), cioè la rovina della discussione, cfr. Brunschwig 1999, p. 83 n. 1. 176a19-27. Aristotele ribadisce che le risoluzioni plausibili sono preferibili a quelle vere, ma ora lascia intendere chiaramente che il rispondente può avvalersi, contro i paralogismi, anche di strategie scorrette. Ciò è confermato dagli stratagemmi che seguono. «Sia così», ¶stv a24 e «pare» doke› a26, sono formule di risposta con le quali si cerca di compromettersi il meno possibile con ciò che non si può tuttavia ne-

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gare, giacché rifiutando il consenso si rischierebbe di subire una confutazione accessoria. Attenuando con queste espressioni il proprio assenso, sarà più facile ritrattare le concessioni quando sarà chiaro dove conducono. Se ne veda l’uso in Pl. R. I 346c4; Grg. 504d4; Pr. 331c4. 176a27-35. Le forme della petizione di principio sono state distinte a Top. VIII 13, 162b34-163a13. In generale l’interrogante non ha diritto di chiedere come premessa della confutazione la stessa conclusione fissata all’inizio o alcunché di troppo «vicino» cioè simile ad essa. Di fronte a queste richieste il rispondente deve rifiutare l’assenso. Dopo questa premessa generale, Aristotele considera il caso in cui il rispondente viene posto di fronte al dilemma tra subire la confutazione e dire qualcosa di falso o paradossale: lo si interroga su una conseguenza falsa o implausibile (= paradossale) della tesi (a31), in modo che non abbia scampo tra: (a) accettare la conseguenza falsa o implausibile per fedeltà alla propria tesi; (b) negare tale conseguenza, negando però anche la tesi e subendo così la confutazione (giacché, se si nega una conseguenza della tesi, si deve negare, per contrapposizione, anche la tesi). Ebbene, anche in questa situazione, come nel caso generale, bisognerà che tale conseguenza sia diversa dalla tesi se si deve evitare la petizione di principio. Aristotele suggerisce che, trovandosi in difficoltà, si denunci (anche arbitrariamente?), la mancanza di questo requisito, sostenendo che le conseguenze assurde non sono diverse dalla tesi perché sono ritenute parte della tesi stessa (a32-33). a33-35: in mancanza di un nome, l’universale è introdotto mediante un paragone. Se l’universale è esemplificato dall’individuo x, si parlerà de «i casi simili a x». La mancanza di un universale rappresenta un’occasione di contestazione; cfr. la n. a 15, 174a37-40. 176a36-37. Probabilmente si tratterà di citare la definizione della confutazione (cfr. 5, 167a23-27), contestando che non è soddisfatta dalla confutazione appena subita. Il contesto fa pensare che Aristotele stia suggerendo una critica capziosa, ma di per sé il consiglio è privo di malizia. 176a38-b7. A 24, 180a8-22 Aristotele cercherà di mostrare che il genitivo non è ambiguo tra, p. es., un significato possessivo e uno partitivo. Il genitivo di norma è solo possessivo; se lo si usa per esprimere la specificazione, dicendo, p. es., «l’uomo è degli animali», lo si fa secondo Aristotele omettendo qualche cosa nella frase, giacché bisognerebbe dire «l’uomo è una specie degli animali». Ciò non genera un’ambiguità, cioè una moltiplicità di significati propri (kuriÄvw a38, cfr. 24, 179b39-180a4), e quindi non richiede una distinzione. Genera semmai un’oscurità e richiede l’esplicitazione della parte omessa. 176b11-13. La conclusione dell’attacco è che X ha un contrario mentre Y non lo ha, e dunque che X non può essere il genere di Y o viceversa (cfr. Top. IV 3, 123b30-37). Anche se ciò corrisponde a verità, il rispondente obietterà che Y ha un contrario, ma è privo di nome. 176b14-25. Il volgo, ofl polloiÄ, non manca di solide certezze, ma su certe questio-

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ni, specie di carattere scientifico e filosofico, non ha le idee chiare, e versa in una condizione di dubbio. Le massime (definizione a Rh. II 21, 1394a21-25) sono giudizi universali che esprimono il sapere della moltitudine: hanno principalmente natura pratica e morale e, per il contesto in cui vengono impiegate, possono contenere espressioni metaforiche. Le affermazioni della scienza e della filosofia (p. es. «la diagonale del quadrato è incommensurabile con il lato») tendono invece a bandire le metafore a beneficio dell’esattezza e della chiarezza (cfr. APo. II 13, 97b3739). Di fronte ad un’asserzione che dovrebbe essere rigorosa e di cui non conoscono bene la verità, i molti non sanno se si stia parlando con esattezza o se invece con le licenze ammesse nelle massime (nella cui fattispecie tendono impropriamente ad includere tutti i giudizi universali, b18-20). In questi casi chi argomenta riuscirà a traslare il significato delle parole senza che la cosa possa essere criticata (perché nelle massime la metafora non è proibita) e senza che si noti che la metafora introduce delle falsità (perché non si conosce abbastanza l’argomento). Per una strategia in parte analoga, cfr. Top. VIII 3, 158b11-15. La riflessione svolta in queste righe sembra utile sia al rispondente sia all’interrogante.

CAPITOLO 18 176b29-36. Aristotele enuncia la definizione generale della risoluzione di un sillogismo falso e mostra che in essa rientra anche quella del sillogismo apparente, perché anche quest’ultimo è una sorta di sillogismo falso («la risoluzione appena menzionata», b33, rimanda indietro alla «corretta risoluzione» di b29, cfr. Dorion, p. 336), e lo è in virtù di un’ambiguità dell’attributo «falso» («il sillogismo si dice «falso» in due modi», b31). L’aggettivo può infatti essere usato metonimicamente e allora il motivo per cui il sillogismo viene detto «falso» è che la sua conclusione è falsa nel senso ordinario (b29-30), oppure può essere usato nel senso di «inautentico», «spurio», e allora si riferisce direttamente all’intero sillogismo (b32-33). Il sillogismo apparente, infatti, non è propriamente un sillogismo (cfr. Top. I 1, 101a1-4). Anche la rassegna dei modi in cui un sillogismo può essere detto «falso» di Top. VIII 12, 162b3-24, comprende, insieme ad altri, i due casi ora distinti. In quel trattato, tuttavia, il sillogismo falso ma valido è caratterizzato dalla falsità delle premesse e non da quella della conclusione (162b11-15). Nelle Confutazioni invece abbiamo una situazione più confusa: a 8, 169b33 e 39, nonché qui a 176b31, il sillogismo falso valido è definito dalla falsità della conclusione, mentre un po’ oltre, a 176b38 e a 177a1, vengono distinti due tipi di sillogismo falso: quello falso per la conclusione e quello falso per le premesse. Le risoluzioni dei sillogismi apparenti avvengono per distinzione di casi (e qui evidentemente la distinzione non concerne solo i paralogismi linguistici; cfr. anche 6, 168b9) o di significati, quelle dei sillogismi validi avvengono per demolizione di una premessa, e si demolisce quando si nega o si ritira l’assenso. 176b36-177a8. Le argomentazioni valide possono avere la conclusione vera o falsa. Quelle con la conclusione falsa possono essere risolte in due modi: demolen-

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do una premessa o dimostrando che la conclusione è falsa (¶xon oÈx oÏtvw b40). Invece le argomentazioni valide con la conclusione vera possono essere risolte solo demolendo una premessa, e ciò è possibile perché il vero può seguire logicamente dal falso. Segue (a2-6) l’indicazione di una procedura metodica (cfr. Top. VIII 12, 162b24-30): di fronte ad un’argomentazione verificare in ordine se è realmente sillogistica e in caso affermativo se la conclusione è vera o falsa. Così si può decidere se distinguere o demolire, e nell’ultimo caso, se demolire «o questo o quest’altro», cioè se demolire una premessa o la conclusione stessa. a6-8: sulla difficoltà della risoluzione all’impronta vedi 16, 175a20 sgg.

CAPITOLO 19 177a9-15. Il capitolo considera le risoluzioni di due delle argomentazioni che dipendono dall’ambiguità, cioè omonimia e anfibolia. È importante distinguere tra (a) le omonimie e anfibolie che interessano la conclusione e la sua contraddittoria e (b) quelle che interessano una premessa dell’argomentazione (cfr. già 10, 171a1-11). Il difficile passo a14-15 può essere sciolto così: quando la domanda contiene un’ambiguità, in alcuni casi è vera la risposta affermativa e in altri quella negativa, ma in entrambi i casi l’espressione ambigua ha un significato la cui adozione rende la risposta vera e un altro la cui adozione la rende falsa. 177a15-20. Quando l’ambiguità è nella conclusione (§n t“ t°lei a16), bisogna riferirla, per avere confutazione, alla contraddittoria. Quando invece l’ambiguità è nelle domande si può prescindere dal riferimento alla contraddittoria perché l’argomentazione non conclude contro il termine ambiguo (prÚw toËto), che è contenuto nella contraddittoria, ma in virtù del termine ambiguo (diå toËto), che è contenuto nelle premesse. a17-18: tÚn tuflÚn, «il cieco», in tÚn tuflÚn ırçn può essere soggetto o complemento oggetto. 177a20-32. Aristotele distingue una risoluzione tempestiva, che si opera, giocando d’anticipo, appena formulata la domanda ambigua, da quella tardiva che viene invece espressa solo alla fine perché l’ambiguità era inizialmente sfuggita. Nel caso del sig«nta l°gein, dove l’ambiguità è nella tesi e nella conclusione, il rispondente può già distinguere quando stabilisce la tesi, ma potrà anche operare la distinzione quando l’interrogante ha tratto la conclusione (notare la particella illativa êra ad a25) facendo leva sull’altro significato della locuzione ambigua. Analogamente si farà in quelle argomentazioni che hanno l’ambiguità nelle premesse (a26-30). L’esempio del sig«nta l°gein a21 è già stato discusso nella n. a 4, 166a12-14, anche se qui probabilmente l’ambiguità non è quella tra sig«nta come accusativo maschile singolare e come accusativo neutro plurale, ma tra il participio accusativo maschile in funzione di soggetto e lo stesso in funzione di predicato: che il tacente dica di contro a parlare di un (altro) uomo che tace. Solo così si compren-

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de la risoluzione suggerita da Aristotele: oÎ, éllå tÒnde sig«nta a26, dove il pronome maschile all’accusativo singolare esclude che l’eccezione che ammette una risposta affermativa sia quella delle cose che tacciono. Per il successivo esempio di d°on (a23), parola ambigua tra il significato di «cosa doverosa» e quello di «cosa ineluttabile», vedi 4, 165b34-38. L’ultimo esempio (a27-30), già menzionato all’inizio (a13) come caso di ambiguità nelle premesse, viene richiamato ora per illustrare la risoluzione tardiva. Nonostante l’uso dell’aggettivo émfiÄbolon (a14), esso è probabilmente fondato sull’omonimia del solo verbo §piÄstasyai. Il verbo sunepiÄstasyai è raro, per cui la ricostruzione è necessariamente congetturale. Secondo Waitz, II, p. 565, §piÄstasyai può significare: (a) «conoscere pienamente» o (b) «sapere a memoria (anche senza aver compreso)». sunepiÄstasyai significa invece «comprendere». Perciò comprendono quelli che conoscono nel senso (a) ma non necessariamente quelli che conoscono nel senso (b). L’argomentazione sarà allora qualcosa del tipo: Quelli che conoscono comprendono; Tizio conosce le parole di Eraclito; dunque Tizio comprende le parole di Eraclito. Se supponiamo che Tizio sappia a memoria le parole di Eraclito ma non le comprenda, l’esempio esibisce effettivamente la caratteristica di avere l’ambiguità nelle premesse, giacché «conoscere» ha il significato (a) nella prima premessa e il significato (b) nella seconda. L’interrogato avrebbe dovuto distinguere i due significati di «conoscere» appena proposta la seconda premessa. Non lo ha fatto e allora deve distinguere in ritardo, quando l’interrogante conclude la negazione della premessa maggiore: «Dunque non è vero [oÈk êra] che quelli che conoscono comprendono?». Nei capitoli che seguono Aristotele preciserà che anche il paralogismo della petizione di principio, quello del conseguente e quello della domanda molteplice possono essere risolti tempestivamente: 28, 181a22-23; 30, 181a36-37. Gli altri vanno invece risolti una volta tratta la conclusione: 20, 177a 35; 24, 179a30; 25, 180a24-25; 26, 181a2-3.

CAPITOLO 20 177a33-b1. Nelle confutazioni che dipendono dalla composizione e dalla divisione la risoluzione si opera, una volta tratta la conclusione, dicendo il contrario, cioè dividendo se l’avversario ha composto e viceversa. Le prime due domande sono varianti della premessa generale la cui insidia si rivela più avanti, a b10-12: «ciò con cui vedi che è stato bastonato» può riferirsi al bastone («ciò con cui è stato bastonato») o ai tuoi occhi («ciò con cui tu vedi»). Argomentazioni come queste hanno, secondo Aristotele, una qualche somiglianza con l’anfibolia ma non sono anfibole perché non sono ambigue (vedi n. seguente). A dire il vero non è chiaro dove stia la somiglianza: per parlare di anfibolia bisognerebbe che alcune parti della frase giocassero diversi ruoli sintattici, mentre nei due esempi citati nessuna parte della frase assume un altro valore sintattico se composta o divisa.

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177b1-7. La divisione non è una forma di ambiguità perché la frase divisa non è identica a quella composta. Lo dimostra il paragone con l’accento: due parole che differiscono per l’accento sono identiche solo nella scrittura, in quanto formate dalle stesse lettere nello stesso ordine, ma i suoni non sono gli stessi. Gli accenti al tempo di Aristotele non si scrivevano (anche se a b6 egli testimonia che la prassi comincia a prendere piede). Un discorso analogo andrà dunque fatto per la divisione, ma dove sta precisamente l’analogia? Nel caso dell’accento, l’identità dell’iscrizione (stesse lettere nella medesima sequenza) non implica l’identità della parola. Nel caso della divisione, la stessa sequenza di parole non implica l’identità della frase. L’analogia secondo me si ferma qui e non suggerisce l’idea che anche la divisione nasca da un’insufficienza dello scritto a rappresentare i suoni pronunciati. Schreiber 2003, p. 64, sostiene per contro che la composizione e la divisione delle parti del discorso sono rese esplicite dalla intonazione e dalle pause della frase pronunciata, così come la pronuncia di una singola parola ne rende esplicito l’accento. È evidente invece che l’opportunità di distinguere la composizione dalla divisione intonando la frase in un certo modo non si offre regolarmente, anche perché altrimenti i paralogismi della composizione e della divisione sarebbero infrequenti nelle discussioni orali come lo sono quelli dell’accento. Molte volte, l’unico modo di chiarire la sintassi è quello di cambiare l’ordine delle parole o di inserire particelle connettive. Sulla questione vedi anche Dorion, p. 343 n. 298. 177b3-4. Accentata in modi diversi, la sequenza di lettere orow dà origine a due parole diverse. Di che parole si tratta? Galeno (De captionibus XIV 591 e 592 Kühn = 9.5 e 10.2-3 Gabler) comprende l’esempio come un caso di diversa aspirazione: ˆrow con lo spirito dolce, «monte», di contro a ˜row con lo spirito aspro, «termine». Contro questa interpretazione va osservato che nelle altre occasioni in cui Aristotele menziona la prosƒdiÄa, egli non sembra comprendervi l’aspirazione. L’unico caso apparente, quello di o contro oÎ, viene distinto dal fatto che oÎ è «più acuto» e non dal fatto che o sia aspirato (4, 166b6; 21, 178a2, pace Dorion, p. 341 n. 294). Le Confutazioni presentano una concezione molto semplificata della prosƒdiÄa: non solo essa non include l’aspirazione, ma sembra constare interamente nella distinzione tra accento acuto e grave (Ùje›a contro bare›a prosƒdiÄa 23, 179a15), determinata oppositivamente dall’intensificazione e dal rilassamento del tono della voce (7, 169a28-29). Si tratta di un’opposizione relativa (cfr. ÙjÊteron contro barÊteron =hy°n 21, 178a2-3), in cui l’accento acuto e quello grave esauriscono le possibilità e dunque l’eliminazione dell’uno implica la presenza dell’altro (nota che a 21, 178a3, o perispomena viene esplicitamente considerata «più grave» di oÎ ossitona). Non senza buone ragioni, dunque, Uhlig (nella sua edizione di Dionisio Trace, pp. 170-171), seguito da LSJ s. v. prosƒdiÄa, da Jannaris 1902, p. 76, e da altri, ha sostenuto che le due interpretazioni vocali in questione siano ˆrow, «monte», e ÙrÒw, «siero». Queste due parole venivano peraltro citate in contesto grammaticale quando si parlava di differenze di accento, come è testimoniato da uno scolio a Dionisio Trace (p. 171.1 Hilgard) e dal fatto che la coppia compare nel-

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la lista di omografi redatta da Filopono anche sulla base di materiale più antico (vedi p. es. pp. 36 e 81 Daly). Fatta l’opzione per ÙrÒw, la correzione del testo operata da Ross (e‡per mØ ka‹ tÚ "ˆrow", [ka‹] "ÙrÒw" tª prosƒdiÄ& lexy°n), sebbene piuttosto invasiva per l’espunzione del secondo ka‹ e la faticosa giustapposizione dei due orow, è giustificata dal fatto che il testo dei principali mss. (e‡per mØ ka‹ tÚ "ˆrow" ka‹ "ÙrÒw" tª prosƒdiÄ& lexy°n shmaiÄnei ßteron) potrebbe essere interpretato solo in questo modo: ciò che (tÚ), a seconda dell’accento, viene pronunciato come ˆrow e come ÙrÒw «non significa qualcos’altro» (shmaiÄnei ßteron), cioè «non è ambiguo» (così Pickard-Cambridge). Purtroppo, però, una tale interpretazione di shmaiÄnei ßteron non sembra avere riscontri (e pare smentita a 21, 178a2-3: oÈ går tÚ aÈtÚ shmaiÄnei ÙjÊteron tÚ d¢ barÊteron =hy°n). 177b8-9. Possibile riferimento alla tesi contro cui Aristotele ha polemizzato sopra nel cap. 10. Tarán fa di questo passo il fr. 69b della sua raccolta di frammenti speusippei. 177b12-13. Questo paralogismo, che ha dato filo da torcere agli interpreti, è menzionato anche a Rh. II 24, 1401a26 e anche lì è attribuito a Eutidemo. Deve essere stato molto noto se Aristotele si accontenta di un così rapido richiamo. Non ricorrendo nell’Eutidemo platonico, si presume che derivi da una raccolta di sofismi opera di Eutidemo. La versione della Retorica è la più sintetica: «sapere che c’è una trireme al Pireo, giacché si sa ciascuna cosa». Probabilmente «ciascuna cosa» non si riferisce a due oggetti di conoscenze distinte (così p. es. Rapp, II, p. 782), ma, in modo incongruo, a «al Pireo» e a «che c’è una trireme»: si sa stando al Pireo, e si sa che c’è una trireme. In questo modo il caso di uno che, stando al Pireo, sa che (da qualche parte) c’è una trireme diventa inopinatamente quello di uno che (da un luogo non specificato) sa che c’è una trireme al Pireo. La versione delle Confutazioni «Sai tu ora, essendo in Sicilia, che ci sono triÖ n;) remi al Pireo?» (îrÉ o‰daw sÁ nËn oÎsaw §n Peiraie› triÆreiw §n SikeliÄ& v ha due elementi in più: l’avverbio temporale «ora» e la collocazione del soggetto in Sicilia. L’interrogante potrebbe giocare sull’avverbio «ora» riferendolo anche all’informazione, altrimenti priva di specificazione temporale, «ci sono triremi al Pireo». Ne verrebbe: «tu sai ora, essendo in Sicilia, che ci sono ora triremi al Pireo», attribuzione di conoscenza verosimilmente infondata (Schiaparelli 2003, p. 117). Poiché però così si perde ogni nesso con la versione della Retorica, è necessario trovare un’altra soluzione. Ps.-Alessandro, 145.30-146.8 (seguito da Dorion, p. 344 n. 301), pensa che «in Sicilia» possa comporsi con «ci sono navi» e «al Pireo» con «tu sai», dunque «Sai tu, stando al Pireo, che ci sono triremi in Sicilia?». Questa costruzione della domanda, tuttavia, mi sembra troppo forzata. Forse la domanda non vuole direttamente offrire possibilità di scansioni alternative e serve solo, sollecitando una risposta negativa, a stabilire che se il rispondente è in Sicilia non può sapere che ci sono navi al Pireo. L’argomento di Eutidemo potrebbe allora continuare con una seconda domanda: «Ma al Pireo tu sai che ci sono triremi?» (éllÉ o‰daw sÁ nËn §n Peiraie› oÎsaw triÆreiw;). Il ri-

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spondente, collegando «al Pireo» con «tu sai» e ritenendo che ora gli venga prospettato un ipotetico cambiamento della propria collocazione dalla Sicilia al Pireo, risponderebbe di sì. L’interrogante a questo punto potrebbe comporre «al Pireo» con «che ci sono triremi» e «dimostrare» che, contrariamente a quanto ha appena asserito, il rispondente ritiene di sapere, sempre stando in Sicilia, che ci sono triremi al Pireo. In questa ricostruzione l’argomento è, se non altro, tutt’uno con quello della Retorica. Forse, infine, Aristotele ha in mente il paralogismo della Retorica, ma la domanda che cita, anziché riferire una premessa usata alla lettera in quel sofisma, compendia tutti gli elementi del paralogismo, compresa l’ipotetica ubicazione del rispondente in Sicilia, che l’interrogante stabiliva separatamente. 177b10-20. L’esempio del «buon calzolaio cattivo» (b13-15) è complessivamente chiaro: una brava persona, calzolaio incapace, viene presa per un cattivo soggetto ma bravo calzolaio. L’esempio può essere accostato al più noto caso di Int. 11, 20b35-37 in cui dal fatto che un tale è buono ed è un calzolaio si conclude che è un buon calzolaio. In quel testo, tuttavia, la composizione non è un’erronea costruzione sintattica della frase. Stranamente, anche l’esempio successivo b16-20 non nasce da una costruzione sintattica: il male è cattivo ed è un oggetto di conoscenza, dunque è un cattivo oggetto di conoscenza. Qui la composizione non è strettamente linguistica, e sembra piuttosto quella composizione accidentale di cui si parlerà a 24, 180a4. 177b21. μ «o forse» ricorre spesso d’ora in poi come la formula con cui Aristotele introduce la risoluzione dei vari paralogismi. In origine si tratta della particella che precede il secondo membro di una interrogativa disgiuntiva, ma in assenza di un primo membro introdotto da pÒteron, il carattere interrogativo si muta in quello di una cauta affermazione. Vedi Bonitz, Index Aristotelicus 313a1 sgg. 177b22-34. (i) Farai le cose di cui sei capace e come sei capace? (ii ) Non suonando hai la capacità di suonare; (iii) dunque suonerai non suonando. La risoluzione consiste nel dividere: non hai la capacità di suonare non suonando, ma, mentre non suoni, hai la capacità di suonare. Aristotele critica una risoluzione alternativa che non censura la composizione «suonare non suonando», ma l’interpretazione della (i): il rispondente ha concesso che farà ciò di cui è capace «come è capace» o «nel modo in cui è capace», e ciò implica che lui suonerà in un modo in cui è capace di suonare, ma questo modo di suonare non è necessariamente quello espresso da (ii) cioè non suonando. Il rispondente avrebbe dovuto concedere che farà ciò che è capace di fare in tutti i modi in cui è capace e allora l’argomentazione sarebbe stata valida. La risoluzione può rivelarsi efficace contro l’interrogante (che dava per scontato che «nel modo» volesse dire «nell’unico modo»), ma non risolve l’argomentazione. Prima di tutto si applica solo a questo caso e non a tutti gli altri esempi che dipendono dallo stesso fattore. Inoltre, non trova nemmeno applicazione contro

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tutti i modi possibili di formulare le domande, giacché basterebbe proporre la (i) lasciando cadere la clausola sul modo di essere capaci, e il paralogismo resterebbe in piedi. L’errore è nell’intendere la (ii) nel senso composto.

CAPITOLO 22 178a4-9. La confusione dovuta alla forma dell’espressione (cfr. 4, 166b10-19) nasce dal fatto che certe cose che «non sono le stesse», cioè simili nel modo rilevante, vengono «dette nello stesso modo», cioè con espressioni linguistiche che si somigliano (nota però che più avanti nel capitolo, a14; a22-24, «essere detto nello stesso modo» assume un significato opposto). L’elenco dei tipi o generi delle kathgoriÄai, qui considerato già noto, si trova a Top. I 9, 103b22-23. Come dimostra quel passo, il sostantivo kathgoriÄa può richiedere traduzioni diverse in contesti diversi. In sintesi, esso vale «predicazione» (o, secondo il contesto, «tipo di predicazione») nei casi in cui: (a) la kathgoriÄa sia il modo in cui un predicato è attribuito ad uno dei soggetti di cui è vero e (b) non è escluso che con qualche altro di quei soggetti il modo sia diverso (Top. I 9, 103b20; cfr. Frede 1987, pp. 32-39). Per esempio la virtù è nel genere della qualità rispetto a Socrate, perché è una qualità di Socrate, ma è nel che cos’è rispetto al coraggio, perché è il genere del coraggio. KathgoriÄa vale invece «predicato» (o, secondo il contesto, «tipo di predicato») se il modo di attribuirsi è quello caratteristico di quel predicato, e può essere definito a prescindere dal soggetto a cui viene fatta l’attribuzione in quella circostanza (il passo cruciale in proposito è Top. I 9, 103b29 con l’analisi di Frede 1987, p. 35). P. es., anche quando il colore si predica del bianco, esprimendone il che cos’è, esso resta pur sempre una qualità. Nel nostro passo la traduzione più corretta di kathgoriÄa è probabilmente «predicazione»: lo suggerisce il fatto che, come a Top. I 9, 103b27 sgg., anche qui ad a6-8 il genere del che cos’è (tiÄ §sti) non riguarda solo le sostanze, ma raccoglie entità eterogenee e perciò non può indicare altro che un tipo di predicazione (cfr. Ebert 1985, p. 128). La situazione descritta ad a6-8 è la seguente: il rispondente ha concesso, su sollecitazione dell’avversario, che a un certo soggetto non convenga alcun predicato della classe dei che cos’è (ti toÊtvn ˜sa tiÄ §sti shmaiÄnei a6-7: «alcuno di questi che significano che cos’è», e non «qualcuno di questi che significano che cos’è». Per un’occorrenza della stessa costruzione che esige una traduzione analoga, cfr. Metaph. H 3, 1043b22); l’interrogante ha dimostrato allora, allo scopo di confutarlo, che al soggetto appartiene qualche predicato di un’altra classe, p. es. un relativo o una quantità, che sembra un che cos’è per la forma linguistica. La descrizione del paralogismo nei termini di una confusione tra che cos’è e altri tipi di predicazione sembrerebbe, nelle intenzioni di Aristotele, del tutto generale, mentre in realtà non comprende né tutti i casi finora incontrati né quelli immediatamente seguenti. Stride soprattutto il passaggio all’esempio che segue («Per esempio in questa argomentazione», a9) perché, giocando su una confusione tra il fare e il patire, esso non illustra affatto la descrizione che precede. Non

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è impossibile però che l’esempio, anziché riferirsi alla situazione descritta alle righe a6-8, rimandi più indietro ad a5-6, e intenda così illustrare come il possesso della classificazione delle kathgoriÄai sia utile per affrontare quei paralogismi. In questa prospettiva ho rafforzato l’interpunzione di Ross, mettendo un punto fermo tra l°jin e oÂon, come già Strache – Wallies. Mentre a 4, 166b10-19 Aristotele chiamava in causa anche altre categorie in senso lato, come quelle delle entità maschili, femminili e neutre, qui egli sembra volersi attenere ai dieci tipi di predicato/predicazione di Top. I 9. Nel corso del presente capitolo, quella classificazione è declinata più sommariamente con i consueti pronomi interrogativi/indefiniti tiÄ §sti, poiÒn, posÒn, prÒw ti o dimostrativi tÒde, toiÒnde, tosÒnde. Quasi tutti gli esempi giocano su una delle dieci classi, anche se alcuni non sono immediatamente riconducibili ad alcuna di esse, come la categoria del modo (…w), citata alle righe 178a38; b5; b6, e la categoria del «da cui» di 178b34. Inoltre, una delle categorie ha un ruolo predominante. Nella grande maggioranza degli esempi, infatti, si parte da una domanda in cui compare il pronome relativo al neutro, ˜. L’interrogato dà la sua risposta pensando che il pronome si riferisca a un certo questo (tÒde ti, su questa formula vedi la n. a 7, 169a29-36) e subito l’altro gli cita un contro-esempio come «dieci dadi» o «un dado solo», che non significano un questo ma una quantità e un relativo. La grande varietà di esempi che ricadono in questo schema, spiega almeno in parte la restrizione che abbiamo incontrato a 6, 168a25-26; 7, 169a34; 8, 170a15, dove l’errore della forma dell’espressione sembra esclusivamente quello di trattare tutti i predicati come se significassero un certo questo. Non si tratterà dell’unico errore, ma sicuramente del più frequente. Quest’ultima considerazione ci aiuta a comprendere la descrizione del paralogismo nei termini della confusione tra predicati che significano che cos’è e predicati di altro tipo. Se la prima classe di predicati è correlata a quella dei soggetti che indicano un certo questo – in quanto assumere che un predicato indichi che cos’è equivale ad assumere che il suo soggetto significhi un certo questo – allora la descrizione generale di a6-8 risulta più pertinente. 178a9-16. Il brano introduce due argomentazioni molto simili. La prima viene rapidamente descritta ad a9-11: «vedere» (ırçn) sembra erroneamente denotare un fare per la desinenza dell’infinito attivo, ma non possiede una proprietà del fare, ossia l’impossibilità di fare ed avere fatto la stessa cosa. Pertanto l’interrogante chiede se sia possibile fare e contemporaneamente avere fatto la stessa cosa e, dopo aver ottenuto una risposta affermativa, obietta che è possibile vedere ed avere visto la stessa cosa. La seconda argomentazione (a11-15) è più tortuosa: la tesi del rispondente è che nessun fare è un patire. L’interrogante si fa concedere che percepire (afisyãnesyai) è un patire e che vedere invece è un fare. Ma, poiché vedere è un percepire, segue che un fare è un patire. Il confronto tra presente e perfetto, ırçn e •vrak°nai (a9-10) è un celebre test con il quale Aristotele, a Metaph. Y 6, 1048b18-36, distingue i movimenti (kinÆseiw, p. es. costruire una casa) dalle attività (§n°rgeiai, p. es. vedere qualcosa). Per i primi c’è incompatibilità tra presente e perfetto, per le seconde c’è compatibilità (se non addirittura implicazione: la questione è oggetto di dibatti-

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to). Non è possibile infatti contemporaneamente costruire una casa e averla costruita, mentre è possibile contemporaneamente vedere qualcosa e averlo visto. Nonostante sia possibile un’interpretazione temporale della distinzione (le attività sono azioni che possono continuare dopo il loro completamento, mentre i movimenti sono azioni che una volta compiute non possono continuare), è però chiaro che essa vuole fare perno su una differenza di aspetto (le attività sono sempre, fin dal primo istante del loro esercizio, complete e compiute in se stesse; i movimenti invece non lo sono). Nel nostro passo, tuttavia, il test non riguarda la celebre distinzione tra movimenti e attività (per la quale si veda almeno Ackrill 1965, Rijksbaron 1989, Natali 1991, Burnyeat, in stampa), ma individua una presunta caratteristica generale del fare non soddisfatta dal vedere. Ad a19 leggiamo che il vedere è un patire (cfr. de An. II 7) e ciò, se il patire è strettamente correlato al fare, solleva un problema, perché l’incompatibilità tra presente e perfetto vale anche al passivo: non è possibile contemporaneamente patire e avere patito la stessa cosa (vedi anche Dorion, p. 352) e perciò il vedere non dovrebbe rientrare nemmeno in quella categoria. Altro problema: ad a9-11 non c’è corrispondenza tra fare e aver fatto la stessa cosa, cioè la stessa azione (accusativo interno), e vedere e avere visto la stessa cosa, cioè, p. es. Teeteto o un colore (accusativo esterno). Burnyeat, in stampa, a cui si deve questa osservazione, suggerisce di tradurre poie›n con «agire su qualcosa», ristabilendo così il parallelismo. 178a16-28. Il passo illustra quella strategia della premessa falsa aggiuntiva che rende valide le argomentazioni sofistiche, sulla quale ho già insistito nell’Introduzione, par. 4 e nelle note al cap. 8. Chi, nella prima argomentazione sul vedere, non ammetta in aggiunta che il vedere è un fare non è stato ancora confutato. Tuttavia l’interlocutore o l’ascoltatore pensano che quella premessa sia stata concessa, perché la ritengono implicita nelle concessioni realmente fatte. L’espediente qui consiste nell’abbozzare una lista (a21-22) come: «Non è vero che non si può tagliare ed aver tagliato, bruciare ed aver bruciato, e similmente per tutte le cose che si dicono in questo modo?» (dove con «dirsi in questo modo» non si allude, come sopra ad a4, a una mera somiglianza linguistica, ma a una vera comunanza di tipo di predicazione). Il caso problematico, cioè il vedere, non sarà incluso esplicitamente nella lista, e tuttavia il rispondente e l’ascoltatore lo riterranno implicitamente menzionato insieme a tutti gli altri casi che si dicono realmente nello stesso modo, perché la forma linguistica li induce a ritenerlo uno di questi. 178a29-31. La prima argomentazione è introdotta in modo molto contratto. Conviene probabilmente togliere le virgolette apposte da Ross: la premessa è formulata in discorso indiretto, mentre il går a30 («giacché chi perde») svela riassuntivamente perché la domanda sia ingannevole. Il seguito ci permette comunque di ricostruire l’argomentazione in questi termini: (a) – Ciò che qualcuno aveva e non ha più, lo ha perduto? – Sì. (b) – Ma chi aveva dieci astragali e ne ha perduto uno, aveva dieci astragali e non ha più dieci astragali. (c) – Dunque ha perduto dieci astragali.

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In (a) la risposta è corretta e si riferisce a ciò che uno aveva, cioè in questo caso a una sostanza. Invece in (b) e nella conclusione (c) il pronome è stato sostituito da un’espressione che denota una quantità. Se l’interrogante, in luogo di (a), avesse chiesto se chi non ha tutte quante le cose che aveva, ne ha perdute altrettante, la risposta sarebbe stata negativa. Un approfondimento dell’analisi richiederebbe di considerare attentamente il ruolo della negazione. Si pensi ad una somma di denaro, p. es. dieci dracme: «avere dieci dracme» implica averle tutte, ma «non avere dieci dracme» non implica non averne alcuna ed è compatibile con averne qualcuna. Così «perdere dieci dracme» implica perderle tutte, ma «non perdere dieci dracme» non implica averle tutte ed è compatibile col perderne qualcuna. La negazione davanti a un termine di quantità si comporta come la negazione davanti a un quantificatore universale. 178a36-b7. Nuova argomentazione: – Può uno dare ciò che non ha? – No. – Ma uno può dare un astragalo solo pur non avendo un astragalo solo. L’espressione «un astragalo solo» non denota ciò, in questo caso una sostanza, ma un relativo: una realtà che è definita dal non stare insieme ad altro. Seguono alcuni esempi (b1-7) analoghi, anche se non molto ben congegnati. Che cosa vuol dire p. es. «avere qualcosa velocemente»? 178b8-23. – Può uno colpire con la mano che non ha? – No. – Ma non ha una mano sola e può colpire con una mano sola. Come nell’esempio precedente, «una mano sola» non significa un questo, quindi non denota una mano. A questo punto (b10) Aristotele considera, per respingerle tutte insieme, tre risoluzioni alternative di alcuni dei casi legati all’aggettivo mÒnow. La prima risoluzione (b10-11) consiste nel sostenere che chi ha più di un X ha anche un X solo. La seconda (b11-13) si concentra su un caso non precedentemente introdotto e ricostruibile in questi termini (seguo Waitz, II, p. 569): – Se uno prende X, egli ha X? – Sì. – Ma può prendere un sassolino solo, pur non avendo un sassolino solo (ne ha già altri). La risoluzione proposta consiste nel dire che ciò che uno ha coincide effettivamente con ciò che ha preso, perché si deve intendere «avere» nel senso di «avere da qualcuno», cioè ricevere (questo è probabilmente il senso delle parole …w ka‹ ˘ ¶xei ¶laben b12). La terza risoluzione (b14-16) insiste anch’essa sull’esempio della seconda e nega che chi prende X abbia X, perché potrebbe capitare di prendere vino dolce e, supponendo che inacidisca mentre lo si prende, avere vino acido. Aristotele sottolinea che questa risoluzione demolisce direttamente la domanda, mentre la

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risoluzione da lui proposta consiste nel restringerne la validità alla categoria appropriata. Tali risoluzioni potranno essere rivolte all’uomo, cioè all’interrogante, ma non sono risoluzioni dell’argomentazione («come si è detto anche prima» rimanda a 20, 177b33-34; cfr. anche 33, 183a21-22). Il test per valutare la bontà di una risoluzione consiste nell’assumere tra le premesse l’errore a cui essa si oppone e vedere se in questo modo l’argomentazione diventi valida. In caso affermativo quella risoluzione coglie il punto determinante, in caso negativo non è pertinente. In via di principio un paralogismo dipende da una sola causa (24, 179b17-26) la cui manifestazione è la risoluzione. Altri eventuali errori (p. es. ulteriori ambiguità nelle domande) possono essere imputati all’interrogante – ecco la risoluzione «rivolta all’uomo» – ma non valgono a diagnosticare l’errore cardinale dell’argomentazione. Le righe b19-21 illustrano il test con un esempio in cui la risoluzione proposta consiste nel distinguere soggetti a cui una proprietà si attribuisce da altri a cui non si attribuisce. Per valutare tale risoluzione si dovrà verificare se l’assumere che quella proprietà si dica di tutti i soggetti renda valida l’argomentazione. 178b24-36. Un’altra manciata di esempi. b24-29. – Ciò che ora è scritto è ciò che prima qualcuno ha scritto? – Sì. – Ora c’è scritto un discorso falso; – prima qualcuno ha scritto un discorso vero; – dunque un discorso falso è un discorso vero. In «ciò che è scritto» il pronome deve riferirsi a un questo, e in effetti un discorso, cioè un enunciato dichiarativo, è un questo, in contrapposizione al discorso vero e al discorso falso che sono di questa sorta. Si ricordi che per Aristotele gli enunciati non sono «datati» una volta per tutte ma vengono valutati diversamente se pronunciati in momenti diversi. Possono perciò mutare valore di verità. Questo esempio dimostra che essere un questo non è un tratto esclusivo delle sostanze, perché il discorso e l’opinione non sono sostanze (Cat. 5, 4a10-b18). Evidentemente qui la lista dei pronomi non ha un preciso significato ontologico. b29-31. Ricordando che taxÊ vale come aggettivo e come avverbio, ricostruisco l’argomento così: (a) – Ciò che uno impara, è questo ciò che impara? – Sì. (b) – Un tale impara veloce(mente) (taxÊ); (c) – quel tale impara un lento (una cosa lenta); – dunque quel tale impara un lento veloce. L’errore è pensare che in (b) e in (c) si parli di un unico e identico oggetto di apprendimento. Invece in (b) «impara veloce(mente)» non indica che cosa impara, ma in che modo impara. b31-34. Nella traduzione non è stato possibile rendere sempre badiÄzein, che è transitivo, con lo stesso verbo italiano. Si noti che anche qui l’uso di un certo pronome non è riservato ad una categoria ontologica, giacché ciò che si percorre

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camminando non è una sostanza ma, verosimilmente, un luogo. Nel secondo esempio, «bere il calice», «il calice» non è ciò che si beve ma ciò da cui si beve (nell’analisi aristotelica «calice» non assume per metonimia il significato di «contenuto del calice»). b34-36. Ciò che uno sa lo ha o imparato o scoperto, ma due cose di cui una l’abbia scoperta e l’altra imparata non sono state, se prese insieme, né scoperte né imparate. L’esempio sembra esulare dalla dottrina dei generi dei predicati, ma probabilmente nell’idea di tå êmfv (due cose prese insieme) c’è il riferimento alla relazione reciproca, come abbiamo visto sopra, n. a 178a36-b7, nel caso di mÒnow. 178b36-39. L’argomento del «Terzo uomo» viene citato da Aristotele in altre tre occasioni: Metaph. A 9, 990b17; Z 13, 1039a2-3 e in un frammento del trattato intitolato Peri ideon riportato, forse non proprio alla lettera, da Alessandro nel suo commento al passo della Metafisica (In Metaph. 84.23-85.3 = fr. 118, 3 Gigon, [381a1-21]; cfr. l’edizione dei frammenti a cura di Harlfinger, stampata in Leszl 1975). La versione del Peri ideon presenta innegabili somiglianze con il celebre regresso del Parmenide platonico (132a1-b1), che nella letteratura ha preso appunto il nome aristotelico di «Terzo uomo». Platone non usa l’esempio dell’uomo ma quello del grande, e sicuramente la sostituzione aristotelica non è priva di significato, ma è ampiamente condivisa l’idea che si tratti dello stesso argomento. Non sappiamo se Platone considerasse valido il regresso del Terzo uomo, ma è molto probabile che tale lo ritenesse Aristotele. Per questa ragione, desta molta perplessità trovare l’argomento classificato tra le argomentazioni che dipendono dalla confusione semantica tra tÒde ti e toiÒnde ti. Ci si aspetterebbe che Aristotele lo presentasse come una conseguenza assurda di una cattiva ontologia (la teoria delle idee) e non come il frutto nefasto di una cattiva semantica. Se consideriamo per un attimo la versione del Peri ideon, scopriamo senza difficoltà che l’errore semantico non può giocarvi alcun ruolo: «Il “terzo uomo” è dimostrato anche in questo modo. Se ciò che è predicato con verità di una certa pluralità di cose è anche altro dalle cose di cui si predica, separato da esse – giacché questo credono di dimostrare coloro che pongono le idee; infatti la ragione per cui, secondo loro, c’è una cosa come l’uomo in sé è questa: che l’uomo è predicato con verità degli uomini particolari, che sono una pluralità, ed è altro dagli uomini particolari –, se ciò è così, vi sarà un terzo uomo. Se infatti predicato è altro da quelli di cui è predicato, sussistendo per conto proprio, e se l’uomo è predicato sia dei particolari sia dell’idea, ci sarà un terzo uomo oltre quello particolare e l’idea. Allo stesso modo ce ne sarà anche un quarto, predicato di questo, dell’idea e dei particolari; allo stesso modo poi anche un quinto e così all’infinito». Il lungo inciso è un riassunto dell’argomentazione dell’«Uno oltre i molti» già discussa da Alessandro (In Metaph. 80.8-15). Tale argomentazione vuole dimostrare l’esistenza delle idee ed è dalla sua conclusione che prende le mosse il regresso. L’argomentazione del Terzo uomo ha un punto oscuro, un salto logico: non si capisce perché l’idea di uomo, appena si vede riconosciuto lo status di entità separata, si metta in fila con gli uomini particolari come se fosse uno di loro. Proprio in questo passaggio non chiaro verrebbe la tentazione di collocare un’even-

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tuale confusione semantica tode/toionde: i singoli uomini sono dei questi mentre l’idea non lo è, e si tende a fare confusione per la forma linguistica del predicato «uomo». Ovviamente, se la fallacia si annidasse qui, sarebbe giusto dire che il Terzo uomo non è valido. È chiaro tuttavia che questo non può essere il punto in cui localizzare l’errore, perché la ragione per cui l’idea dell’uomo si allinea con i singoli uomini per ricevere insieme ad essi il predicato uomo, è che le è stato riconosciuto lo status di entità separata, e questa deriva dall’argomentazione platonica dell’Uno oltre i molti, non dalla semantica. Se c’è un errore semantico esso va dunque cercato a monte del regresso del Terzo uomo e precisamente nella stessa argomentazione dell’Uno oltre i molti che offre la premessa fondamentale al Terzo uomo ma ne è ben distinta. Qualcuno potrebbe sostenere che l’uno oltre i molti è in effetti un’argomentazione semantica in quanto postula un’idea dove c’è il nome comune «uomo», e lo fa giocando sul fraintendimento del corretto modo di significare di un nome comune come «uomo», del quale si pensa che debba significare un individuo come se fosse un nome proprio (un celebre appiglio testuale per un «uno oltre i molti semantico» in Platone R. X 596a-b). L’interpretazione sarebbe discutibile, ma anche se volessimo concederla, resta comunque chiaro che, se per Aristotele l’«uno oltre i molti» commettesse una confusione semantica, egli dovrebbe criticare quell’argomentazione e non quella del Terzo uomo, che è invece, come emerge dal testo, un’argomentazione ben distinta dall’«uno oltre i molti» e soltanto provocata da quello. Dire che l’errore è nel Terzo uomo significa solo indebolirlo, ingenerando l’ingiusto sospetto che il regresso in verità nasca per colpa di una cattiva semantica e non a causa della tesi platonica della separazione delle idee. Cherniss 1944, p. 291, ha sostenuto che la fallacia contenuta nella versione del Terzo uomo del nostro passo è precisamente l’errore che sta alla base dell’«uno oltre i molti» platonico. L’affermazione appare discutibile: a parte il fatto che l’«uno oltre i molti» non sembra far leva su una confusione semantica, osserviamo che non ogni premessa falsa qualifica l’argomentazione in cui ricorre come paralogismo o confutazione sofistica. Il falso delle argomentazioni sofistiche deve essere estorto all’interlocutore sfruttando la sua incapacità di fare distinzioni e carpendo in qualche modo la sua buona fede. L’argomento dell’«uno oltre i molti» sembra invece un argomento filosofico «serio» (cfr. Owen 1986, p. 228). Per una corretta interpretazione delle righe che seguono nel testo, è importantissimo riconoscere che il Terzo uomo del Peri ideon si colloca piuttosto male nel contesto dei paralogismi che dipendono dalla forma dell’espressione. Vari interpreti hanno condiviso questo imbarazzo, che chiamerò «difficoltà preliminare» e riprenderò in considerazione sotto nella n. a 179a3-10. Lo Ps.-Alessandro, per esempio, pensa, nel suo commento al nostro passo, che il nostro Terzo uomo non possa essere il regresso che altrove Aristotele considera valido, e identifica la nostra versione con un altro Terzo uomo attribuito ai sofisti, un argomento che troviamo già presso Alessandro, In Metaph. 84.7-16. In modo analogo, Di Lascio 2004, pp. 42-43, cerca di ricostruire una versione sofistica dell’argomentazione diversa da quella del Peri ideon. Per ora comunque atteniamoci alle parole di Aristotele: mettiamo per un momento da parte il Peri ideon e, poiché Aristotele non allude né qui né in Metaph.

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Z 13 alla necessità di eventuali altre premesse, cerchiamo di rendere cogente il Terzo uomo solo sulla base della confusione semantica. Terzo uomo semantico (1) L’espressione «uomo» significa un tode ti. (2) L’ uomo è un tode ti [da 1]. (3) L’uomo non è identico a nessuno degli uomini particolari di cui si predica [da 2]. (4) L’uomo è un uomo [da 2]. (5) L’uomo si predica di Kurtz, Popescu..., uomo [da 3 e 4]. A questo punto la matrice è definita: se l’uomo predicato in (5) significa a sua volta un tode ti abbiamo un terzo uomo; con le stesse manipolazioni possiamo dedurne un quarto e così via. (3) e (4) corrispondono alle premesse che, a partire da Vlastos 1954, ricorrono nella letteratura come «Non-identità» e «Autopredicazione». In questa ricostruzione tali premesse non sono assunzioni indipendenti ma conseguenze di (2), derivano cioè dal fatto che «uomo» è un tode ti. La (3) deriva dal fatto che quando si pensa che un predicato comune sia un tode ti non lo si identifica affatto con qualcuno dei particolari di cui si predica. Molto più difficile è spiegare come (4) possa essere implicata da (2). Probabilmente bisogna fare appello alla circostanza che un tode ti è sempre un individuo di una certa sorta (vedi la n. a 7, 169a29b2). Ma se l’universale uomo è un individuo, dovrà avere anche lui una sorta, e questa non potrà essere che l’uomo. Questo è il punto più oscuro e qui non posso approfondirlo. Si noti comunque che, se questo è il modo con cui si arriva all’affermazione «l’uomo è un uomo», l’autopredicazione è puramente casuale, giacché non è stata ottenuta come applicazione di un qualche schema o principio generale del tipo «A è A». La risoluzione consiste nel riconoscere che «uomo» e ogni predicato comune non significano un questo ma un toionde, cioè un di questa sorta. Può sembrare strano che l’uomo, un ente che nelle Categorie è stato classificato come sostanza (seconda), venga collocato qui tra le qualità, ma qualcosa di analogo accade anche nelle Categorie: le sostanze seconde, contrariamente alle apparenze linguistiche, non indicano un tode ti ma un poion ti, sebbene di tipo speciale, distinto dai comuni casi di qualità come il bianco (5, 3b10-23). 178b39-179a3. Quello che Aristotele introduce qui è un nuovo argomento dipendente dalla forma linguistica nettamente distinto dal Terzo uomo. Già due volte nel capitolo (178a29, b8), infatti, Aristotele ha introdotto una serie di esempi dicendo che sono ˜moioi, cioè simili ai precedenti; è probabile che qui l’avverbio ımoiÄvw svolga lo stesso ruolo (Di Lascio 2004, p. 44). Alla domanda se Corisco e Corisco educato siano la stessa cosa, l’interrogato risponderà che non lo sono, volendo con ciò sostenere che, sebbene non siano due sostanze separate, sono in un certo senso distinti tra loro. Se però costui ritiene che l’espressione «Corisco educato» significhi un questo, dovrà riconoscere che sono separati, giacché non c’è modo per due questi di essere distinti senza essere separati. La risoluzione è che «Corisco educato» non significa un questo, ma un di questa sorta e quindi non può essere esposto, cioè separato.

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Questa interpretazione di «esporre», §ky°syai, è stata contestata alla luce delle difficoltà che emergono più avanti. Tuttavia, in almeno tre passi della Metafisica, A9, 992b10; M9, 1086b10; N3, 1090a17, tale verbo è chiaramente connesso alla separazione delle idee dai particolari. Non è detto che in questi passi il verbo significhi esattamente il separare, ma si tratta comunque di un «estrarre» che implica sempre la separazione di ciò che viene estratto. Non direttamente rilevanti sembrano invece gli usi logici e matematici del verbo §ktiÄyhmi (cfr. Di Lascio 2004, p. 57 n. 98; Mariani 2005, p. 194 n. 6) e soprattutto fuorviante appare il parallelo, suggerito da Ross 1949, pp. 413-414, con APr. I 41, 49b33-50a3. 179a3-10. Aristotele ritorna sul Terzo uomo per precisare che non è l’esporre a generarlo, ma il riconoscere che sia un certo questo. Dunque si è indotti a pensare che l’esposizione non c’entri affatto con tale argomento o che ne sia una componente innocua. Vari interpreti (p. es. Waitz, II, p. 570; Bonitz, Index Aristotelicus 231b53-61, Arpe 1941, pp. 175-176; Cherniss 1944, p. 288) hanno letto in queste righe l’idea che qui l’§ktiÄyesyai non impegni alla separazione di un predicato comune ma solo ad un suo «isolamento». Ad a1-3, però, l’esporre implicava il separare e l’obiezione successiva (a5-8) sembra asserire che per evitare il Terzo uomo non serve a nulla sostenere che l’§ktiy°menon non è un questo. Si tratta allora di interpretare coerentemente le tre occorrenze del verbo §ktiÄyhmi contenute nel brano: a3 e a5-6. White 1971 raccoglie l’idea che §ktiÄyesyai abbia un significato neutrale rispetto alla separazione e per questo sia incolpevole del Terzo uomo e legge il passo in questo modo: a) a 179a3, dove dice che non è possibile esporre Corisco educato, Aristotele sta dando voce ad un punto di vista sull’esposizione, incompatibile con il proprio, secondo il quale, per evitare il regresso del Terzo uomo, sarebbe necessario rinunciare anche all’esposizione (nel senso più debole) dei predicati comuni. Aristotele confuta questa tesi nelle righe successive, affermando che non è l’esposizione a generare il Terzo uomo ma il farne un certo questo. b) Dove dice «né farebbe alcuna differenza se qualcuno dicesse che la cosa esposta non è proprio un certo questo ma proprio una qualità» Aristotele continuerebbe, secondo White, a spiegare il proprio punto di vista, negando che l’esposizione implichi il tode ti e dunque la separazione platonica. Se qualcuno sostenesse che l’esposto non è un tode ti, ma un poion, ciò non creerebbe alcun impedimento (così White interpreta «non farebbe alcuna differenza»), nel senso che non renderebbe l’esposizione vana o nulla, perché vi sarà comunque un «uno oltre i molti» di carattere innocuamente aristotelico. White ricorda al proposito che l’espressione «uno oltre i molti» può avere una connotazione platonizzante, ma non deve, giacché talvolta Aristotele impiega la formula alludendo ai propri universali in re (e lo fa anche con la preposizione parã, usata qui ad a7). La soluzione di White, anticipata in alcuni tratti da Poste, p. 71, è divenuta un punto di riferimento, ed è stata sostanzialmente accolta da Dorion, pp. 362363, e con vari distinguo da Di Lascio 2004, pp. 52-53, Sharma 2005, p. 147. Presenta tuttavia alcuni difetti e impone qualche forzatura al testo. Ad essa si può obiettare (cfr. Mariani 2005, p. 192):

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(i) che il legame tra §ktiÄyhmi e la separazione delle idee è attestato in misura ragionevole nella Metafisica (cfr. la n. precedente). (ii) Che alle righe a1-3 non c’è alcun segnale che Aristotele stia introducendo un punto di vista altrui. (iii) Che ad a5-7 è strano che Aristotele esprima come un’ipotesi all’ottativo, mettendola in bocca ad un ipotetico personaggio, una considerazione che corrisponde al proprio punto di vista. (iv) Che oÈd¢n dioiÄsei non indica l’assenza di ostacolo rispetto alla possibilità di fare l’ekthesis, perché ciò che è lasciato implicito è troppo complesso e questa formula, usata in assoluto, sembra piuttosto significare «è irrilevante» «non aiuta» (vedi p. es. APo. I 20, 82a30-32). Quindi è molto più probabile che Aristotele stia puntualizzando l’inefficacia di un’obiezione. Considerati questi rilievi, sembra che l’idea di interpretare tutto il passo imponendo anche con la forza un coerente valore neutrale ad §ktiÄyhmi non sia poi così felice. Se assumiamo invece che Aristotele sia consapevole di quella che (nella n. a 178b36-39) ho chiamato «difficoltà preliminare», che sappia cioè che nel bagaglio di informazioni del suo lettore il Terzo uomo non è un paralogismo linguistico ma, come nel Peri ideon, un regresso valido derivante dalla postulazione di idee separate, possiamo dare di tutto questo difficile brano una lettura in cui §ktiÄyhmi mantiene lo stesso valore forte, pregiudicante la separazione, in tutte e tre le occorrenze, ed eliminare al contempo le contraddizioni. Consapevole della «difficoltà preliminare», Aristotele si sarà figurato un’obiezione di questo tipo: perché dovremmo imputare al Terzo uomo un errore semantico come quello che si commette con il paralogismo della forma dell’espressione, dato che sappiamo che invece è una riduzione all’assurdo valida, derivante dalla separazione degli universali (del tipo di quella del Peri ideon)? All’obiezione che ho così ricostruito Aristotele offre una risposta che si può parafrasare come segue. Non è l’esposizione a generare il Terzo uomo, ma questo non perché l’esposizione sia irrilevante o innocua (dato che implica la separazione), ma perché essa non costituisce l’unico modo di originare il regresso. C’è in effetti un altro modo di generarlo, ed è la confusione linguistica che induce a prendere un termine esprimente un toionde per un termine che esprime un tode ti. Entrambe queste mosse, esposizione e confusione linguistica, inducono a fare del predicato comune un tode ti, e allora proprio in quest’ultimo passaggio va localizzato l’errore cardinale del Terzo uomo. Esposizione e confusione semantica sono allora due inneschi possibili della stessa argomentazione e perciò è corretto considerare come una «variante» del Terzo uomo anche un regresso che prende le mosse dalla confusione semantica, ciò che risponde all’obiezione. Aristotele nega all’esposizione l’«esclusiva» sul Terzo uomo perché nella sua dottrina l’identità di un paralogismo è data dall’identità della causa (cfr. 33, 182b9-10), e questa può presentarsi identica in argomentazioni anche molto diverse tra loro. Tale causa deve rendere conto nello stesso modo di tutte le argomentazioni analoghe, mentre nel nostro caso né la confusione semantica né l’esposizione hanno questa prerogativa. Nella n. a 178b36-39, ho ricostruito la struttura del Terzo uomo che parte dalla confusione semantica; quello che muove invece dall’esposizione differisce sol-

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tanto nella premessa (1) («L’espressione «uomo» significa un tode ti»), che ora recita: (1*) «Si può esporre (separare) l’uomo comune dai particolari uomini di cui esso si predica». In tutto il resto le due versioni sono uguali. Che oÈ tÚ §ktiÄyesyai d¢... sia l’inizio della risposta a un’(implicita) obiezione è confermato dal fatto che la negazione è coordinata alla successiva negazione oÈdÉ e‡ tiw tÚ §ktiy°menon... a5, che introduce la risposta di Aristotele ad una seconda obiezione, questa volta esplicita nel testo. Tale ulteriore obiezione nasce dall’insoddisfazione provocata dalla risposta aristotelica alla precedente, e cioè dall’affermazione secondo cui il Terzo uomo sarebbe fondato sul riconoscere che l’esposto è un questo. Possiamo parafrasarla così: chi subisce il Terzo uomo nella versione comune, quella che muove dalla esposizione (o dalla separazione: si pensi sempre alla versione del Peri ideon), non fa alcuna concessione circa la natura categoriale dell’esposto/separato: potrebbe perciò sostenere che è una qualità e non un tode ti. Anche questa obiezione scaturisce dalla difficoltà di adattare le affermazioni di Aristotele alla descrizione più comune del Terzo uomo (si continui a pensare a quella del Peri ideon). Quest’ultima non usa il concetto aristotelico di tode ti e si limita all’esposizione/separazione dell’universale. Come è possibile allora che il regresso nasca proprio dal fare dell’uomo un tode ti? La replica di Aristotele è che anche se non si riconosce apertamente che l’esposto è un tode ti, esso, in quanto viene separato dai molti, sarà comunque un’unità capace di innescare il regresso del Terzo uomo (il «giacché ciò che è oltre i molti sarà qualcosa di uno», a7, va inteso dunque in senso platonico, non, come vorrebbe White, in senso aristotelico). Accanto alla versione del Terzo uomo specializzata contro chi espone o separa le idee, Aristotele riconosce dunque una equivalente versione universale dell’argomentazione, che si rivolge a tutti gli interlocutori che vanno soggetti a confusioni semantiche. È molto probabile che a quest’ultima versione Aristotele alluda, pur senza offrire chiarimenti, anche a Metaph. Z 13, 1038b34-1039a3, dove in questione non è la separazione platonica ma una confusione semantica in cui possono incorrere tutti. 179a4-5. Di questa difficile frase accetto il restauro di Ross oÈ går ¶sti tÒde ti e‰nai, Àsper KalliÄaw, ka‹ ˜per ênyrvpÒw §stin. Il testo tràdito suona: oÈ går ¶stai tÒde ti e‰nai ˜per KalliÄaw ka‹ ˜per ênyrvpÒw §stin, e potrebbe essere tradotto così: «non ne verrà, infatti, che siano un certo questo proprio ciò che è Callia e proprio ciò che è l’uomo». Per una difesa di questa lezione, ma con una diversa traduzione, vedi Sharma 2005. Il går si riferisce probabilmente a tÚ ˜per tÒde ti e‰nai sugxvre›n a4, e spiega perché riconoscere che l’uomo è un questo, che è la mossa fatale dell’argomentazione, non sia una concessione corretta. In queste righe ricorre in diverse posizioni la caratteristica espressione ˜per. In alcuni casi il pronome indica il genere (l’uomo è hoper animale). Spesso però hoper X significa «proprio ciò che è X». Nel nostro passo la sua funzione è quella di evitare un preciso equivoco: mentre l’uomo è anche Callia o qualunque altro singolo uomo, e perciò in un certo senso è un tode ti, l’espressione «proprio ciò che è l’uomo» rende chiaro che si intende l’uomo universale. Analogo discorso per formule come hoper poion o hoper tode ti. Per esempio un oggetto bianco potrebbe essere un qualificato ma non è proprio ciò che è un qualificato. Il colore bianco invece lo è.

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179a7-8. L’articolo neutro davanti al maschile ênyrvpow rappresenta un’anomalia. Ricorre anche sopra, a 178b37, ma lì indica certamente la menzione del termine, mentre qui non avrebbe senso menzionare una parola. Se nella frase precedente si interpreta tÚ parå toÁw polloÁw come soggetto e ßn ti come predicato, l’articolo neutro in tÚ parå toÁw polloÁw richiama tÚ §ktiy°menon a5-6, e forse in questo modo può aver determinato per attrazione anche tÚ ênyrvpow. White 1971, in ogni caso, individua un’altra ricorrenza di tÚ ênyrvpow non citazionale a Metaph. Z 4, 1030a1. Non può essere escluso, tuttavia, che tÚ parå toÁw polloÁw ßn ti vada preso come un tutto. In questo caso si tratterebbe di una formula nota da mettere tra virgolette: il «qualcosa di uno oltre i molti», ovvero l’«uno oltre i molti» (Mariani 2005, p. 191).

CAPITOLO 23 Il capitolo tenta di mostrare che ciò che risolve un’argomentazione apparente è sempre l’opposto di ciò da cui tale argomentazione dipende. La tesi è molto fragile se «opposto» vuol dire qualcosa di più forte di «contraddittorio». Gli opposti esemplificati sono composto/diviso, acuto/grave, animato/inanimato, che cosa/in che modo, singolare/plurale, dove/quando. Il terzo esempio è solo un caso particolare dato che non è certo una regola che i significati dei termini omonimi siano opposti tra loro, il quarto e il sesto non sono veramente opposti.

CAPITOLO 24 179a26-31. Dato un oggetto e dato un accidente non è definito quali dei predicati dell’accidente siano anche predicati dell’oggetto: in alcuni casi l’inferenza sembra a tutti valida; in altri casi è chiaro che non lo è. La risoluzione è una per tutti i paralogismi e consiste nel dire che l’inferenza non è necessaria (va espressa appena tratta la conclusione e non prima proprio perché l’errore sta nell’inferenza). Alcuni interpreti credono che la condanna si estenda così a tutti i casi di inferenza dall’accidente all’oggetto, compresi quelli che Aristotele ha dichiarato validi (Joseph 1916, pp. 587-588; Dorion, p. 366). In realtà Aristotele dice che tutti i paralogismi dipendenti dall’accidente (prÚw ëpantaw a27 e a30, che rimanda a toÁw parå tÚ sumbebhkÚw a26) vanno risolti in questo modo, non che la risoluzione si estende a tutte le inferenze. Il rispondente deve risolvere la confutazione che ha subìto: costui sa che è un paralogismo e che dipende dall’accidente, mentre per il pubblico profano (che non sa che partito prendere sulla conclusione) potrebbe essere una confutazione valida. La risoluzione consiste nel dire che l’inferenza non è necessaria, trovando tra i predicati dell’accidente un esempio (tÚ "oÂon" a31) che sia però palesemente falso dell’oggetto. In questo modo sarà chiaro che l’inferenza non è valida. Secondo altri interpreti (Peterson 1969, pp. 115 sgg.), le inferenze dichiarate valide restano tali, anche se non in virtù della regola che attribuisce all’oggetto ogni

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predicato dell’accidente. Questi autori fanno osservare che un’argomentazione deduttiva valida può applicarsi a più di una forma logica o, altrimenti detto, che la conclusione può derivare dalle premesse in virtù di diverse regole di inferenza. Pertanto, se un’argomentazione valida deve avere almeno una forma valida, non è però detto che un’argomentazione che ha una forma invalida sia essa stessa invalida, perché può avere anche altre forme, tra le quali almeno una valida. Aristotele tuttavia non sembra fare appello, né qui né altrove, ad una pluralità di forme logiche o di regole di inferenza: queste righe ci dicono piuttosto che per lui l’attribuzione all’oggetto di un predicato dell’accidente, sebbene sia nella sua formulazione universale invalida, resta nondimeno in certi casi valida. L’inferenza dal predicato dell’accidente al predicato dell’oggetto non può servire come regola per trarre una conclusione altrimenti incerta, ma quando le premesse e la conclusione sono vere l’inferenza è valida. 179a32-b6. L’idea che l’oggetto e l’accidente condividano tutte le stesse proprietà (già isolata a 5, 166b28-30 come fonte del paralogismo) ci spinge, per esempio, a credere che se colui che si avvicina è sconosciuto alla persona s, ed è Corisco, anche Corisco sia sconosciuto a s, mentre Corisco è conosciuto da s e quindi la stessa cosa sarà conosciuta e non conosciuta dalla stessa persona. In realtà, spiega Aristotele, solo le cose che sono indistinguibili e una secondo l’ oÈsiÄa condividono tutte le stesse proprietà, ma questo non è il caso di Corisco e di colui che si avvicina. Discuteremo meglio questo e gli altri esempi dopo aver commentato brevemente la spiegazione generale del paralogismo. (i) L’indistinguibilità e unità secondo l’ oÈsiÄa corrisponde, lo si capisce ad a39b2, all’identità di essenze: essenza è ciò che Aristotele chiama «l’essere per X», tÚ X e‰nai con X al dativo (prosiÒnti e‰nai, KoriÄskƒ e‰nai ecc.): dativo di interesse e e‰nai esistenziale (ho tradotto «l’essere di X» solo per ragioni idiomatiche). (ii) È implicito che l’indistinguibilità e unità secondo l’oÈsiÄa si contrappone a una relazione più debole, e generalmente gli interpreti assumono che si tratti di quella relazione altrove chiamata «identità per accidente» o «identità derivata dall’accidente» (Top. I 7, 103a23-39; Metaph. D 9, 1017b27-28). Nelle Confutazioni Aristotele vi allude solo a 6, 168b34-35, dove, sebbene non in modo chiaro, egli parla di identità «per accidente». (iii) Qualche interprete distingue due condizioni per la condivisione dei predicati: giacché solo alle cose (a) indistinguibili secondo l’essenza e (b) che sono una sembrano convenire tutte le stesse cose. Le condizioni da soddisfare sono (a) identità di essenza o di definizione – che potrebbe sussistere anche tra cose numericamente diverse, per esempio tra due uomini; e (b) identità numerica. Per quanto non illegittima, la distinzione non ha alcuno sviluppo nel presente contesto; forse è più economico ipotizzare, in analogia con una frequente associazione sinonimica tra identità e unità, che la clausola (b) ripeta la clausola (a): si veda p. es. 7, 169b4 e si consideri che la formula «uno e lo stesso» è sovente, in greco come nelle lingue moderne, soltanto un’endiadi. Questa possibilità si sposa bene con l’eventualità che katå tØn oÈsiÄan modifichi sia édiafÒroiw sia ©n oÔsin. a37-39 meriterebbe un confronto serrato con Ph. III 3, 202b12-22. Vi sono due modi correnti di interpretare l’essenza aristotelica: si può pensare che essa costituisca a tutti gli effetti un oggetto (concezione oggettuale) oppure che

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si limiti a specificare un modo di essere di un oggetto (concezione aspettuale). Secondo la concezione oggettuale un’essenza definisce sempre uno e un solo oggetto. Secondo la concezione aspettuale, invece, un solo oggetto può essere caratterizzato da più essenze. Quest’ultima interpretazione avvicina molto l’essenza al moderno «senso» (Frege) o alla «intensione» (Carnap) di un’espressione linguistica e avvicina il paralogismo dipendente dall’accidente alla nota tematica dei contesti «referenzialmente opachi» (enunciati in cui la sostituzione di espressioni che si riferiscono alla stessa cosa ne muta il valore di verità). La concezione aspettuale dell’essenza sostiene che Corisco e colui che si avvicina sono lo stesso individuo, ma caratterizzato da due essenze diverse. Secondo alcuni fautori di tale interpretazione, la diagnosi aristotelica del paralogismo consisterebbe nel negare il principio di indiscernibilità degli identici, in quanto asserirebbe che gli identici, come Corisco e colui che si avvicina, non condividono tutte le proprietà (in particolare quella di essere conosciuto da s). L’indiscernibilità verrebbe circoscritta ad una relazione più forte dell’identità, cioè a quell’identità che non riguarda solo l’oggetto sottostante, ma anche le essenze che lo specificano, e questa è una relazione intercorrente tra entità che differiscono al massimo per il nome che le designa, oppure tra un definiendum e il suo definiens. Pur con diverse impostazioni e argomentazioni, aderiscono all’interpretazione aspettuale Peterson 1969; Pelletier 1978; Williams 1985; Dahl 1997; 1999; Shields 1999, cap. 6. La concezione oggettuale dell’essenza, la cui versione più celebre è quella dei «composti accidentali», argomenta invece che Corisco e il velato non sono lo stesso identico oggetto, in quanto l’essenza del velato costituisce un oggetto diverso da Corisco, anch’egli costituito dalla propria essenza peculiare. Non essendo identici, è corretto asserire che Corisco e il velato non godono dell’indiscernibilità. Dunque quella che la concezione aspettuale considerava una relazione più forte dell’identità è invece, nell’interpretazione oggettuale, l’identità tout court. L’identità accidentale, invece, in questa prospettiva, non è affatto identità tout court, ma una più debole relazione di «stessità» che ovviamente non implica indiscernibilità. Questa interpretazione è stata introdotta da Matthews 1982 e da Lewis 1982 e 1991. Non è facile operare una scelta tra queste due linee interpretative e forse gli esempi si adattano, con forzatura variabile, ad entrambe. Nelle spiegazioni dei casi propenderò per l’interpretazione oggettuale e più avanti vedremo che alcune considerazioni di Aristotele sono in conflitto con l’interpretazione aspettuale. Si tratta però di schermaglie non decisive, perché la distinzione delle essenze è un metodo diffusissimo nelle opere aristoteliche e andrebbe esaminato caso per caso (per interpretazioni non allineate né a quella aspettuale né a quella oggettuale, cfr. Mignucci 1985; Spellman 1990). Corisco e colui che si avvicina L’argomentazione va ricostruita a partire dall’interrogativo «Conosci colui che si avvicina?» La risposta è «No», perché si deve assumere che colui che si avvicina sia ancora troppo lontano. È vero che la risposta più naturale a questa domanda sarebbe «Non lo so», ma qui dobbiamo attenerci ai dati del problema. Quella di essere colui che si avvicina è considerata una proprietà accidentale (cfr. APr. I 27,

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43a36; Porfirio, Isagoge 7.21) e viene attribuita senza tener conto della sua natura altamente instabile e relativa. Dobbiamo desumere la struttura del paralogismo da queste parole «Cosicché non si dà che se conosco Corisco e ignoro colui che si avvicina, conosco e ignoro lo stessa persona»; integrando le parti mancanti, otteniamo la seguente argomentazione: Colui che si avvicina (a s) non è conosciuto da s; Corisco è colui che si avvicina (a s); dunque Corisco non è conosciuto da s. Ma Corisco è conosciuto da s. Dunque la stessa persona è conosciuta e non è conosciuta da s. La tesi assunta dal rispondente era che non è possibile conoscere e non conoscere la stessa cosa, e l’esempio di Corisco deve provare il contrario. «Non è lo stesso [...] per colui che si avvicina [...], l’essere di colui che si avvicina e quello di Corisco. Cosicché non si dà che, se conosco Corisco e ignoro colui che si avvicina, conosco e ignoro la stessa persona». La considerazione dell’essenza è pertinente in quanto conoscere qualcosa significa conoscerne l’essenza. È anche chiaro che ignorare colui che si avvicina vuol dire, in questo contesto, non sapere che è Corisco. Il modo più semplice di ottenere il significato richiesto consiste nel postulare che colui che si avvicina sia l’oggetto Corisco-chesi-avvicina, la cui essenza comprende Corisco e la proprietà di avvicinarsi. Se non sa che è colui che si avvicina, s conosce Corisco, ma non conosce Corisco-che-siavvicina, mancandogli di questo oggetto una proprietà essenziale. Corisco e Corisco-che-si-avvicina sono allora due oggetti distinti. Bisogna dunque preferire l’interpretazione oggettuale? Non è detto, perché quando dice che «Non è lo stesso [...] per colui che si avvicina [...] l’essere di colui che si avvicina e quello di Corisco», Aristotele sembra alludere ad un solo oggetto con due essenze, come vuole invece l’interpretazione aspettuale. Ma come esprimere, in questa interpretazione, la premessa «s non conosce colui che si avvicina»? Forse con: «s non sa che colui che si avvicina è Corisco». Sostituendo in essa «colui che si avvicina» con «Corisco» otteniamo «s non sa che Corisco è Corisco», che equivale a «s non conosce Corisco» (cfr. 26, 181a8-11). Aristotele sembra tuttavia ostile all’interpretazione aspettuale a 179b26-33; vedi il commento. Il caso della Domanda futura (a33; a39-b1) è analogo a quello di colui che si avvicina e tale è anche quello del Velato (a34-b2), che sarà piuttosto discusso nella filosofia ellenistica. Probabilmente fu escogitato da Eubulide di Mileto e una sua variante era nota come «l’Elettra» (Luciano, XIV 22). Se ne occupò Diodoro Crono, fu discusso da Epicuro (De natura XXVIII, fr. XIII, col. IX sup., rr. 15-18 Sedley [= Sedley 1973, p. 52]) e affrontato in un trattato da Crisippo (Diogene Laerzio, VII 198). Si noti tuttavia che qui il Velato è citato come esempio secondario (cfr. Fait 1998b, p. 139, dove ho considerato la possibilità che derivi da una glossa), e che la risoluzione in cui Aristotele lo incasella non considera affatto i problemi epistemologici che probabilmente lo hanno reso interessante ai filosofi delle generazioni successive: cfr. p. es. Sesto Empirico, Adversus mathematicos VII 408-410.

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Il Cane e il padre Già presente nell’Eutidemo platonico (298d8-e5), il paralogismo viene qui spiegato a 179b4-5 e poi ripreso a 179b14 e a 180a4-7. Il cane è tuo; Il cane è padre; dunque il cane è tuo padre. L’assurdità della conclusione deriva dal fatto che il padre è un relativo, e i relativi, per definizione, «sono detti proprio quello che sono di qualcos’altro» (Cat. 7, 6a36-37; b4). Per un relativo essere di qualcosa o di qualcuno (il genitivo è equivalente al pronome possessivo) è dunque una caratteristica essenziale, mentre per il cane essere di qualcuno è una caratteristica accidentale. Tra il cane e il padre e tra il cane e ciò che è tuo vi può essere solo identità accidentale (180a6), mentre nella conclusione, laddove l’esser tuo si correla al padre, i due termini devono richiamarsi essenzialmente e pertanto non basta che siano accidentalmente identici. L’esempio della statua è analogo. I numeri L’argomentazione non viene resa esplicita, ma dalla breve ripresa dell’esempio sotto a b34-35 si capisce che la conclusione deve essere: ogni numero è piccolo, e la premessa: poche volte poche cose è poche cose. L’argomentazione può essere ricostruita così: (i) 2 è un numero piccolo (NP); (ii) 4 è NP; (iii) 4 è 2x2; (iv) 4 è un NPxNP; (v) NPxNP è NP; (vi) 4x4 è NPxNP; (vii) 4x4 (=16) è NP; (viii) 16x16 è NPxNP; (ix) 16x16 (=256) è NP (x) 256x256 è NPxNP (xi) …….

da (i) e (iii) da (ii) e (iv) da (ii) da (v) e (vi) da (vii)

Da qui si può continuare all’infinito. L’argomentazione dimostra che ogni numero è piccolo (anche i numeri che non sono prodotti di numeri piccoli, saranno sempre più piccoli di un qualche numero che è piccolo in quanto prodotto di numeri piccoli). Attenendoci alla diagnosi in termini di identità che abbiamo visto all’opera negli esempi precedenti (e che tuttavia non è l’unica), diciamo che l’errore sta nel confondere l’identità meramente accidentale tra NP e NPxNP, asserita al passo (v) sulla base del fatto che NP e NPxNP sono accidentalmente identici a 4, con una piena identità fra essere NPxNP e essere NP. Tale identità, che acqui-

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sta la forza di una generalizzazione, viene poi usata nei passi successivi per dedurre, passo dopo passo, la proprietà di essere NP dal mero fatto di essere NPxNP. Diversa la risoluzione proposta da Joseph 1916, p. 587: 6 sono pochi; 36 sono 6 (gruppi di sei); dunque 36 sono pochi. L’errore starebbe nel fatto che per 36 è accidentale essere sei (gruppi di sei). La ricostruzione di Joseph non sembra adeguata in quanto in essa si equivoca palesemente sul fatto che «pochi» può significare poche unità o poche sestine e questo rende problematica la classificazione del paralogismo. Per una discussione e un confronto con l’argomento del Sorite, al quale il nostro paralogismo è stato talora apparentato, cfr. Fait 1998b, pp. 136-138. 179b7-15. Tre critiche vengono ora rivolte ad un’altra risoluzione dell’esempio di colui che si avvicina, risoluzione che vorrebbe ricondurlo all’ignoranza della definizione della confutazione. Chi conosce Corisco e colui che si avvicina conosce e non conosce la stessa cosa, ma non sotto lo stesso rispetto; e questo non è impossibile. Abbiamo visto che Aristotele sostiene che nei paralogismi dell’accidente un sillogismo sembra valido ma non lo è e pertanto la risoluzione consiste nel dire, dopo che è stata tratta la conclusione, che non vi è conseguenza necessaria (179a30-31). La risoluzione alternativa, invece, non contesta la deduzione, ma vede l’errore nel confronto tra la tesi e la conclusione. L’errore potrebbe essere chiarito all’inizio, quando viene proposta la tesi, (cfr. 26, 181a1-8); in questo senso costoro «distinguono la domanda». Prima critica. La risoluzione alternativa non riesce a comprendere in un’unica spiegazione tutti i casi di questo paralogismo («come abbiamo già detto», b11, rimanda a 20, 177b31-33). Può essere valida per gli esempi concernenti il conoscere, ma non per quelli connessi all’essere, o allo «stare in un certo modo» cioè all’essere in relazione con qualcosa: vedi l’esempio seguente del padre (b14), che è un relativo. Se si applica l’«assioma» a questi altri domini, la risoluzione alternativa si rivela impotente (éjiÄvma è qui verosimilmente una premessa generale, coinvolta mutatis mutandis in tutti i casi del paralogismo). 179b15-26. Seconda critica. Anche se forse mette in rilievo un errore nell’argomentazione, quella alternativa non è una risoluzione, perché la risoluzione non deve mostrare solo che una conclusione è falsa, ma anche spiegare la ragione dell’errore. Aristotele cita l’argomento di Zenone contro il movimento, osservando che non si può dire di averlo risolto se ci si limita a mostrare che la conclusione è falsa. A b21 Bekker e Ross emendano un testo che può essere difeso: sunãgein …w édÊnaton sunãgvn efiw édÊnaton. Dicendo (con i mss. A [Vaticanus Urbinas 35] e B [Marcianus 201] e con Boezio) che non basta dimostrare che la conclusione di Zenone è impossibile riducendola all’impossibile, Aristotele pensa alla reazione di chi si appella alle conseguenze assurde che facilmente derivano da una tale conclusione (cfr. Top. VIII 9, 160b18-19). Segue (b23) un richiamo, mediante il caratteristico imperfetto, alla definizio-

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ne della risoluzione (Top. VIII 9, 160b22-39; SE 18, 176b29-33) e qui incontriamo un altro problema testuale: Ross mette fra cruces efi ka‹ élhy¢w μ ceËdow. Una diversa interpunzione riesce forse a dare un senso al testo stampato da questo editore (che è comunque più autorevole delle varianti): «(a) se dunque non ha sillogizzato – anche se una conclusione vera – [efi oÔn mØ sullelÒgistai, efi ka‹ élhy¢w], (b) oppure tenta di concludere qualcosa di falso [μ ceËdow §pixeire› sunãgein], la risoluzione è il chiarimento di quella causa». A giustificazione di questa scansione (che spezza con una virgola l’alternativa forse fuorviante tra élhy¢w e ceËdow), ricordo che la definizione della risoluzione (SE 18, 176b31-33) distingue in effetti i due casi (a) e (b), cioè l’inconclusività logica, che non è meno grave se la conclusione è vera (cfr. 11, 171b10), e la falsità della conclusione, che richiede la demolizione di una premessa. Pickard-Cambridge, ad loc. e Dorion, p. 377, tentano invece di emendare il testo. 179b26-33. Terza critica alla risoluzione alternativa. Fin qui Aristotele ha provvisoriamente concesso (b15-16) che la risoluzione alternativa sia valida per alcuni casi, quelli relativi al conoscere, e invece in realtà non si può dire neanche questo (pace Schields 1999, p. 166), perché nemmeno l’argomento di Corisco e colui che si avvicina può essere assimilato al caso in cui s conosce e non conosce la stessa cosa, ma non sotto lo stesso rispetto. La risoluzione alternativa vorrebbe ricondurre il paralogismo di colui che si avvicina al seguente contrasto: (a) s sa che Corisco è Corisco (parafrasi di «s conosce Corisco», cfr. 26, 181a811); (b) s non sa che Corisco si avvicina (parafrasi di «s non conosce colui che si avvicina»). Il caso dovrebbe essere analogo a quello di una persona ben individuata di cui s sa che è bianca ma non sa che è educata, nel senso che quella persona è educata e s è del tutto all’oscuro di quella sua proprietà. Ma l’analogia non sussiste, perché nell’esempio di Corisco s non ignora completamente la proprietà di avvicinarsi (si suppone che qualcuno si stia avvicinando a s e che s sia almeno in grado di dire, di costui, che si sta avvicinando). Egli conosce entrambe le proprietà: ...è Corisco e ...si avvicina, ma non sa attribuirle ad un identico soggetto. La situazione è dunque ben diversa da quella che autorizzerebbe la risoluzione alternativa. Questa obiezione, quale ne sia la forza, sembra militare contro l’interpretazione aspettuale dell’essenza a cui ho accennato sopra. 179b34-37. «Grande» e «piccolo» sono termini relativi e dunque ogni cosa sarà grande rispetto a qualcosa e piccola rispetto a qualcos’altro. Questa risoluzione del paralogismo dei numeri (179a35; vedine la ricostruzione sopra) è identica, nel ricondurre l’errore all’ignoranza della definizione della confutazione, a quella criticata nel paragrafo precedente. Questo tipo di paralogismo consiste nell’omettere qualche elemento (per esempio la dichiarazione che i predicati contraddittori sono asseriti sotto lo stesso rispetto), ma non esclude che il sillogismo sia valido (vedi sopra a 179b7-16). Aristotele ribatte che invece la conclusione non è stata tratta correttamente.

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179b38-180a7. Qualcuno risolve i paralogismi come quello del cane e della statua affermando che il pronome possessivo (o il genitivo) è ambiguo. Per comprendere l’obiezione di Aristotele a questa proposta, bisogna assumere che l’ambiguità giochi in questo modo: nel corso dell’inferenza il possessivo conserva il suo significato indipendentemente dalle parole con cui si accompagna, ma nella conclusione, pur correttamente dedotta, esso riceve, per colpa dell’ambiguità, un valore semantico diverso. In quest’ottica la conclusione del paralogismo del cane dice «è tuo (nel senso di “tua proprietà”) padre», mentre noi, a causa dell’ambiguità, la intendiamo nel suo significato assurdo «è tuo (nel senso di “tuo padre”) padre». L’obiezione di Aristotele è che l’ambiguità deve consistere in una molteplicità di significati letterali, il che non si verifica quando, come in questi casi, non si riesce ad attribuire uno dei significati in concomitanza con certe parole. Nessun parlante, infatti, potrebbe dire in senso proprio «questi è figlio di quello», quando intende che quello è il proprietario di questi, mentre se «di quello» volesse dire «proprietà di quello», l’enunciato dovrebbe poter essere naturalmente interpretato come «questi è un figlio (non importa di chi) ed è proprietà di quello». In verità, l’obiezione di Aristotele potrebbe essere aggirata assumendo che il possessivo cambi significato dalla premessa («questo cane è tuo») alla conclusione («questo cane è tuo padre») e che l’errore stia nell’inferenza. Per Aristotele la composizione del tuo e del padre dipende invece dall’accidente, nel senso che l’inferenza che ha condotto a tale composizione commette il paralogismo dell’accidente (non segue che è tuo figlio perché ha l’accidente di essere tuo e di essere figlio, a4-7). Il passo andrebbe letto in parallelo a Int. 11, 20b31 sgg. 180a8-14. È la volta di un altro sofisma, che non è però un’ulteriore illustrazione del paralogismo dell’accidente (pace Dorion), ma un caso che potrebbe rivelarsi problematico in quanto sembra mostrare che il genitivo è ambiguo, ciò che Aristotele ha cercato di negare nel paragrafo precedente. Ecco l’argomentazione: La saggezza è conoscenza dei mali; dunque la saggezza è dei mali. Ma la saggezza è un bene; Dunque qualcuno dei mali è un bene (t«n kak«n ti égayÒn). La risoluzione alternativa sostiene che in «la saggezza è dei mali» il genitivo non abbia il significato che ha il genitivo nella conclusione «qualcuno dei mali è un bene». La prima risposta di Aristotele consiste nel negare che vi sia ambiguità perché il genitivo usato per dire «questo di questi» significa solo possesso e con questo valore la conclusione del paralogismo sarebbe priva di senso (l’espressione «questo di questi», a9, serve a rendere in generale l’idea del genitivo, vedi la n. a 14, 173b26-39). Se anche volessimo concedere che il genitivo è molteplice e non ha solo valore possessivo – giacché «l’uomo è degli animali» (cfr. 17, 176b4-5) ma non come possesso (éllÉ oÎ ti kt∞ma), e parimenti nel nostro caso se qualcosa è dei mali non per questo è possesso dei mali (éllÉ oÈ toËto t«n kak«n b13) – il problema dipende allora dall’omissione del termine che determina il genitivo («possesso», «parte», «specie», «conoscenza») e quindi, più che all’ambiguità, il paralogismo

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andrà ricondotto al tipo di confutazione che inferisce il dirsi in assoluto dal dirsi con una limitazione (a14): l’inferenza fallace va da «questo è X di questi», «la saggezza è conoscenza dei mali» (predicazione limitata) a «questo è di questi», «la saggezza è dei mali» (predicazione assoluta). 180a14-18. Aristotele insiste sul problema dell’ambiguità del genitivo: una diversa argomentazione con conclusione analoga a quella della precedente («qualcuno dei mali è un bene»), sembra provare meglio la pertinenza dell’ambiguità. Seguendo in parte Dorion, p. 382, tento la seguente ricostruzione. Indicando uno schiavo che è buono, si dice qualcosa come: Questo è lo schiavo buono di un cattivo; dunque questo è il buono di un cattivo. Nella premessa, il complemento «di un cattivo» esprime il correlativo del relativo schiavo; la conclusione asserisce invece che c’è una parte buona di un cattivo (questo è un esito simile a quello della precedente argomentazione) e dunque il genitivo sembra cambiare significato diventando partitivo. Con qualche esitazione, Aristotele ribatte che il richiamo all’ambiguità non è giustificato, giacché nella premessa abbiamo una mera giustapposizione dei termini «buono» e «di un cattivo»: non c’è un buono di un cattivo, ma solo qualcosa che è buono ed è schiavo di un cattivo. Pertanto non si può sostenere che il sintagma «buono di un cattivo» cambi significato dalla premessa alla conclusione. 180a18-22. Ritorna il tema dell’ambiguità del genitivo tra significato possessivo e significato partitivo. Non è detto, afferma ora Aristotele, ritrattando la precedente concessione (a11), che se usiamo il genitivo in assoluto con un significato partitivo, ciò non sia in verità dovuto all’ellissi (che si dà perché quando diciamo che l’uomo è degli animali tralasciamo di precisare che l’uomo è specie degli animali), e l’ellissi non è una forma di ambiguità. Probabilmente l’ellissi non è ritenuta un tipo di ambiguità (cfr. 17, 176a38-b7) perché il ricorso ad essa è giustificato solo dove non dia adito a dubbi (come quando, per dire «dammi l’Iliade», si usa metà del primo verso: «Canta, o dea l’ira» anche se non contiene riferimenti specifici a quel poema); dove invece la comprensione non è assicurata non si tratta di ambiguità, ma di oscurità (17, 176a40; b6). A proposito di questi paralogismi si osservi infine che, oltre a Platone nell’Eutidemo, anche i Megarici, in particolare Stilpone, avevano costruito sofismi sfruttando le difficoltà del genitivo (Diogene Laerzio, II 116). Cfr. Atherton 1993, pp. 334-335.

CAPITOLO 25 180a23-31. Cfr. 5, 166b37-167a20. Come per altri paralogismi Aristotele suggerisce una linea di indagine: bisogna confrontare la conclusione con la tesi per capire se in un caso il predicato sia preso in assoluto e nell’altro con una limitazione, oppure se sia preso in entrambi i casi con limitazioni diverse. In queste circostanze la contraddizione, o il conflitto tra contrari o tra opposti, non rispetta le

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condizioni fissate dalla definizione della confutazione. Le limitazioni di un predicato riguardano l’aspetto, il luogo, il modo, e la relazione. 180a32-34. La prima argomentazione («È possibile che ciò che non è sia?») non sembra riprendere l’esempio di 5, 167a1 («ciò che non è è oggetto di opinione»), come sostenuto da qualche interprete, ma muove da «ciò che non è non è» interpretata come «ciò che non è è ciò che non è», per dedurne che ciò che non è è qualcosa, e concludere che ciò che non è è. Questa interpretazione è suggerita dalla frase éllå mØn ¶sti g° ti mØ ˆn b33, che fa congetturare che ciò che non è sia qualcosa proprio non essendo, cioè essendo ciò che non è. Questo paralogismo è menzionato anche a Metaph. Z 4, 1030a25-26; Rh. II 24, 1402a4-5, MXG 979a25 sgg.; b4 sgg., dove è parte di un’argomentazione attribuita a Gorgia. La seconda argomentazione era già stata presentata a 5, 167a3-4. La risoluzione di entrambe è formulata più sotto, a 180a37-38. 180a34-b7. L’argomentazione dell’uomo che dice il vero e il falso, introdotta a 180b2, è la più interessante, perché assomiglia al celebre argomento del Mentitore, la cui prima formulazione è attribuita a Eubulide. Alcuni interpreti congetturano che il nostro paralogismo ne sia una versione a pieno titolo (già Rüstow 1910, pp. 49-53, e da ultimo e con i migliori argomenti Crivelli 2004, pp. 139151); altri ne dubitano. Ad a32-36 Aristotele presenta una serie di esempi; ad a36-b2 offre le relative risoluzioni. Segue fino a b7 una breve discussione del paralogismo più noto, che chiameremo del Falso. Poiché quest’ultimo è detto da Aristotele simile a quelli che lo precedono, e due di essi, che chiameremo paralogismi dello Spergiuro e del Disobbediente, hanno una marcata somiglianza con quell’argomento, è ragionevole cercare di ricostruirli tutti nello stesso modo. Lo Spergiuro. – È possibile che la stessa persona osservi il giuramento e contemporaneamente spergiuri? – No. Si supponga però che qualcuno giuri di spergiurare, che per esempio un testimone corrotto giuri di rendere una falsa testimonianza sotto giuramento. Nel momento in cui spergiura in tribunale, e con l’atto stesso di spergiurare, quella persona onora il giuramento disonesto, perciò contemporaneamente tiene fede e non tiene fede al giuramento. Il Disobbediente. – È possibile che la stessa persona obbedisca e disobbedisca alla stessa persona nello stesso momento? – No. Si consideri però il caso di qualcuno che ingiunga ad un domestico o a un dipendente di non obbedirgli se gli ordinerà di compiere una certa azione (si pensi all’ordine impartito da Ulisse per ascoltare il canto delle sirene). Poi gli ordina di compiere l’azione e il domestico si rifiuta. Nel momento in cui disobbedisce, obbedisce all’ordine precedente, quindi obbedisce e disobbedisce contemporaneamente. Nello Spergiuro sono coinvolti almeno due giuramenti: quello di spergiurare e quello oggetto di spergiuro e nel Disobbediente sono coinvolti almeno due ordini: quello di disobbedire e quello a cui si disobbedisce. In effetti, l’ordine di disobbedire rimane sospeso e non può essere valutato se non arriva un successivo comando e lo stesso vale per il giuramento di spergiurare. Si può congetturare che anche nell’argomentazione dell’uomo che dice il vero e il falso siano coinvolte almeno due asserzioni: quella con cui si afferma di di-

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re il falso e un’asserzione falsa qualsiasi. Se considerato analogo al giuramento di spergiurare e all’ordine di disobbedire, infatti, il semplice enunciato «io dico il falso» è in sé incompleto e indeterminato e attende necessariamente altre asserzioni senza le quali non ha senso dire che è vero o che è falso. Possiamo allora ricostruire la terza argomentazione come segue. Il Falso. – È possibile che la stessa persona dica il falso e dica il vero contemporaneamente? – No. Si consideri però una persona che afferma (f1) Io dico il falso, e poi asserisce almeno un enunciato falso e nessun enunciato vero. Nel momento in cui fa l’asserzione falsa rende vero (f1), perciò dice il falso e dice il vero contemporaneamente. Inizialmente Aristotele parla di un uomo che dice il vero e dice il falso contemporaneamente (b2-3). Poi però riformula la conclusione del paralogismo nei termini di una persona al contempo falsa e veridica (b5-7). Probabilmente sceglie di esprimersi così perché il paralogismo non contempla il caso di un enunciato contemporaneamente vero e falso, ma quello di una persona che, rendendo vero (f1) con l’asserzione di un altro enunciato che sia falso, si impegna (sebbene con almeno due enunciati distinti) a dire contemporaneamente il vero e il falso. La risoluzione che Aristotele prospetta per questo paralogismo è analoga a quella dei due paralogismi affini dello Spergiuro e del Disobbediente (a38-b2). Se tengo fede al giuramento spergiurando non segue che in assoluto ho tenuto fede ad un giuramento, perché l’averlo osservato spergiurando limita la natura di questo giuramento. Se obbedisco disobbedendo non posso dire di aver obbedito in assoluto, perché lo ho fatto in un modo limitato, cioè appunto disobbedendo. Posso invece dire che ho spergiurato o che ho disobbedito in assoluto. Così, l’uomo che, dopo aver asserito (f1), dice qualcosa di falso, dice il vero solo dicendo il falso, perciò in assoluto non si può dire che abbia detto il vero (b5-7). Invece la sua asserzione falsa è tale in assoluto. Aristotele afferma che nel caso del Falso la risoluzione non riesce evidente come nei paralogismi precedenti, perché non si sa bene se interpretare come assoluto il dire il vero o il dire il falso (b3-5) e questo può dare l’impressione di essere di fronte a un dilemma non risolubile. Tuttavia si tratta solo di un’impressione, perché, come emerge subito dopo (b5-7), anche il Falso va assimilato agli altri casi. Tale impressione di simmetria tra il dire il vero e il dire il falso nasce probabilmente dal fatto che, nelle condizioni sopra precisate, l’enunciato (f1) sembra vero a tutti gli effetti e senza limitazioni. Ecco perché nelle righe successive Aristotele passa, come abbiamo già rilevato, dal dire il vero all’essere veridico. Lo schema risolutivo delle tre argomentazioni del Falso dello Spergiuro e del Disobbediente è lo stesso che riconosciamo nel primo paralogismo relativo all’essere – vedi la n. precedente – e in altri come quello dell’inconoscibile che è conosciuto perché si sa che è inconoscibile (Metaph. Z 4, 1030a33-34) o come quello che nasce dal detto di Agatone che è verosimile che accada l’inverosimile: un tale accadimento sarà inverosimile in assoluto e sarà invece verosimile soltanto per il fatto che è inverosimile (Rh. II 24, 1402a8-28). Sarebbe opportuno cercare di approfondire l’analisi aristotelica, giacché, come tale, essa non è molto esplicativa: si potrebbe insistere sulla priorità logica, in questi casi, di un tipo di atto

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(spergiurare, disobbedire, dire il falso) rispetto all’altro tipo (tener fede, obbedire, dire il vero); oppure si potrebbe sottolineare che un certo atto è almeno in parte snaturato dal particolare modo in cui viene svolto. Per un tentativo, vedi Zaslawski 1986, pp. 177-184. Altrove (Fait 1998b, pp. 139-140) ho assimilato il paralogismo del Falso a quello dell’etiope che è nero quasi dappertutto e bianco solo relativamente ai denti, e ho sostenuto che il soggetto immaginato dall’argomentazione asserisca molte cose false (sufficienti a garantirgli la taccia di persona falsa), e una sola verità, cioè (f1). Il motivo per cui questa persona va considerata falsa in assoluto sarebbe che le sue asserzioni false sono preponderanti rispetto all’unica verità che dice. Così però l’argomentazione diventa piuttosto banale (cfr. 5, 167a10) mentre Aristotele non la considera tale. Sembra dunque che l’avvicinamento al caso dell’etiope sia fuorviante e che sia invece più opportuno interpretare, come sopra, alla luce di altri esempi più sottili. A questo punto siamo in grado di confrontare la nostra ricostruzione del Falso con il Mentitore. Osserviamo innanzitutto che nelle discussioni moderne il paradosso del Mentitore è spesso concentrato in un unico enunciato: (f2) Io sto dicendo il falso in questo istante. Chi asserisce (f2) dice il vero se sta dicendo il falso e dice il falso se sta dicendo il vero. Caratteristica essenziale di (f2) è l’autoreferenzialità. Si può tuttavia costruire il paradosso anche con due enunciati che si riferiscono l’uno all’altro e allora non dobbiamo parlare di autoriferimento ma di circolo vizioso. Per esempio: (f3) Tutto ciò che asserisce (f4) è vero. (f4) Tutto ciò che asserisce (f3) è falso. Abbiamo visto che il paralogismo aristotelico si costruisce con almeno due enunciati: (f1) e un qualche enunciato falso. Questi enunciati non generano un circolo vizioso, perché se (f1) si riferisce all’altro enunciato, la cosa non è reciproca. Tuttavia, nonostante siano in gioco più enunciati e non siano circolari, non si può ancora escludere l’autoriferimento che genera il Mentitore (pace Spade 1973, pp. 302-304). Anche in certe formulazioni antiche di questo paradosso, infatti, l’enunciato (f1), che si intende come riferito a tutte le asserzioni del parlante (entro limiti stabiliti dal contesto), non assume autonomamente un valore di verità ma lo riceve da almeno un altro enunciato falso qualsiasi. Così per esempio Aulo Gellio, XVIII 2, 9-10, esprime il paradosso in questi termini: cum mentior et mentiri me dico, mentior an verum dico? Anche qui è chiaro che (f1) non è l’unico enunciato in causa e che contestualmente ad (f1) bisogna asserire almeno una falsità qualsiasi. Né si tratta dell’unico caso: Mignucci 1999, pp. 56-61, argomenta che addirittura nessuna versione antica del paradosso si fonda esclusivamente su un unico enunciato proferito. Se il Falso è una versione del Mentitore, bisogna che anche l’enunciato (f1) rientri nell’ambito degli enunciati il cui valore di verità decide quello di (f1) stesso. In quel caso, chi con (f1) afferma di dire il falso dovrebbe riferirsi a tutte le proprie asserzioni, compresa (f1). Avremmo allora una versione autentica del Mentitore perché, se viene emesso almeno un enunciato falso a piacere (e nessun enunciato vero), (f1) diventa vero, ma diventando vero si falsifica.

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Dobbiamo dunque concluderne che Aristotele volesse annoverare anche (f1) tra gli enunciati il cui valore di verità decide quello di (f1) stesso e avesse perciò in mente una versione del Mentitore? La mia risposta a questo difficile quesito è negativa, perché la risoluzione aristotelica del Falso non si adatta al Mentitore. Se infatti (f1) è vero e falso (e non solo falso come nella ricostruzione fin qui proposta), in base a quale criterio sarà falso in assoluto e vero non in assoluto come pretende la risoluzione di b5-7? La risposta corretta è che non c’è alcun criterio. Per poter sostenere che il paralogismo aristotelico introdotto a b2 – quello che abbiamo chiamato il Falso – sia una versione del Mentitore, Crivelli 2004, pp. 149-151, esclude che la risoluzione di b5-7 sia riferita a quel paralogismo, e pensa che il filosofo, lungi dal risolverlo, ne riconosca la natura antinomica e arrivi ad ammettere che cagiona una limitazione del principio di bivalenza (ogni enunciato è in assoluto vero o in assoluto falso). Crivelli fonda la propria tesi su un buon parallelismo tra b3-5 e quanto Aristotele aveva affermato a 5, 167a15-20, ma su una forzata reinterpretazione delle righe b5-7, che crede di poter neutralizzare riferendole non al caso in discussione ma ad un altro, più banale, paralogismo. 180b7-14. Gli esempi, piuttosto semplici, si riferiscono a limitazioni di relazione, di tempo e di luogo. Alcune cose buone non sono tali per qualcuno (relazione) o in determinati momenti. Aristotele lo spiega alle righe b13-14 dove affaccia la risoluzione. 180b14-21. Ciò che il saggio non vuole è male; il saggio non vuole perdere il bene; dunque il bene è male. «Il bene è male» è qui considerato un’indebita semplificazione di «perdere il bene è male». Il bene in assoluto non è male, il bene perduto invece lo è. Analogamente per gli esempi successivi del ladro e della malattia: in assoluto il ladro è male ma il ladro catturato non è male e chi desidera prenderlo non desidera il male; la malattia in assoluto è un male ma la malattia eliminata non è male. 180b21-23. In assoluto ciò che è giusto è meglio di ciò che è ingiusto e ciò che avviene giustamente è meglio di ciò che avviene ingiustamente. Ma morire giustamente (cioè meritandolo) non è meglio di morire ingiustamente. La risoluzione è a b28-31. Come osserva Dorion, p. 388, Aristotele sta usando qui un luogo spesso citato nei Topici, quello delle inflessioni: p. es. se A è preferibile a B, fare qualcosa A-mente è preferibile al farlo B-mente. 180b23-39. L’esempio di b23-26 e risolto a b31-34 sottintende il fatto che un giudice abbia tolto a qualcuno qualcosa che gli appartiene di diritto. Dunque la sentenza in assoluto non è giusta, ma lo è secondo l’opinione del giudice. L’esempio introdotto a b26-28 e risolto a b36-39 (frainteso da Ross, seguito da Dorion, p. 389) comincia chiedendo se si debba preferire uno che dice cose giuste o uno che dice cose ingiuste (b26-27). Va da sé che si sceglierà il primo. Se-

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nonché l’altro racconta le ingiustizie che ha subìto, e cose che in assoluto sono ingiuste possono essere giuste a dirsi da parte di chi le ha subìte (b27-28). Si potrebbe allora concludere che anche quello che dice cose ingiuste dice cose giuste (a dirsi) e quindi potrebbe vincere il confronto. Aristotele spiega (b36-39) che ciò che è giusto a dirsi non è giusto in assoluto. Non si può dire, dunque, che chi dice cose ingiuste in un confronto come quello ipotizzato possa vincere il confronto.

CAPITOLO 27 181a17-21. Quando, in una petizione di principio, l’assunzione della conclusione come premessa è avvenuta perché l’identità tra la conclusione e ciò che è stato chiesto non è palese (cfr. Top. VIII 13, 162b36 sgg.), si dovrà sostenere che non la si è concessa perché venisse usata come premessa, ma come una nuova conclusione da dedurre. Nonostante l’unanimità di interpreti e traduttori non sia dalla nostra, prÚw toËto non può significare contro questa, perché nessun interrogante argomenterebbe contro la propria conclusione. Argomenterà in relazione a questa, e cercherà di farlo a favore di questa. Il parej°legxow non è una confutazione sofistica (che secondo Pacius, p. 372, starebbe a ¶legxow come paralogismÒw sta a sullogismÒw), ma una confutazione accessoria o sostitutiva che Aristotele menziona raramente (17, 176a25; Top. II 5, 112a8) e che ha luogo: (a) quando il rispondente nega una premessa rilevante se non cruciale per la confutazione della tesi e l’interrogante argomenta allora a favore di quella premessa. (b) quando l’interrogante non confuta direttamente la tesi ma una proposizione con la quale ha sostituito la tesi mediante un procedimento apagogico (cfr. Top. II 5, 112a5 secondo Pacius e Brunschwig) o induttivo (ivi, secondo i mss. e Waitz), con l’idea che la demolizione della proposizione sostitutiva implicherà anche la demolizione della tesi. I due casi (a) e (b) possono essere reali o solo apparenti, configurando così quattro possibilità oltre le quali c’è poi anche un altro tipo di parej°legxow né reale né apparente (così interpreto êllvw parejel°gxesyai a Top. II 5, 112a8, una frase secondo me generalmente fraintesa, e invece fondamentale per capire che anche i quattro casi precedenti sono tipi di parej°legxow). La situazione descritta nel nostro passo è in effetti il contrario del caso (a): lì l’interrogante deve sillogizzare qualcosa che gli è stato negato. Nel caso presente deve invece sillogizzare qualcosa che gli è stato concesso. Questa giustificazione addotta dal rispondente che non ha notato la petizione di principio non suonerà pretestuosa nella misura in cui la differenza tra conclusione e premessa assunta farà sembrare verosimile che l’interrogante volesse contrattare con il rispondente la sostituzione della conclusione da provare con una variante.

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CAPITOLO 30 181a39-b18. Se più predicati convengono ad uno stesso soggetto o un predicato conviene a più soggetti, chi risponde in modo semplice e netto, cioè con un unico sì valido per tutti i casi, commette l’errore descritto a 17, 175b39 sgg., che potrebbe riassumersi dicendo che la sua risposta non è determinata, ma almeno in essa non vi sarà alcun conflitto. I casi critici sono invece i seguenti: (a) la domanda contiene due soggetti, e all’uno il predicato conviene, all’altro non conviene, ˜tan d¢ t“ m¢n t“ d¢ mÆ b6. (b) In un’unica domanda più predicati vengono riferiti a più soggetti pleiÄv katå pleiÒnvn b7. Nel caso (b) l’attribuzione dei molteplici predicati ai molteplici soggetti può essere intesa in un modo che dà origine ad attribuzioni vere oppure in un modo che dà origine ad attribuzioni false, ka‹ ¶stin …w Ípãrxei émfÒtera émfot°roiw, ¶sti dÉ …w oÈx Ípãrxei pãlin. Gli esempi che seguono illustrano questa possibilità. Primo esempio (b9-13): se X è un bene e Y è un male è giusto dire (i) che X e Y sono (rispettivamente) un bene e un male, ma è anche possibile dire (ii) che non sono né un bene né un male, perché X e Y presi insieme non sono né un bene né un male. Risultato assurdo: la stessa cosa (X e Y) è dunque un bene e un male e contemporaneamente né un bene né un male. Secondo esempio (b13-15): X e Y sono identici a se stessi, perché X è identico a X e Y è identico a Y. Ma è anche vero che X e Y sono diversi da se stessi, perché X è diverso da Y e Y è diverso da X. Dunque sono identici e diversi da se stessi. Terzo esempio (b15-16): X che è un bene diventa un male e Y che è un male diventa un bene. X e Y diventano dunque un male e un bene, ma presi insieme non possono diventare un male e un bene. Quarto esempio (b16-18): come il secondo, ma con l’uguaglianza al posto dell’identità. 181b19-24. Aristotele riconosce che per questi casi si potrebbe anche invocare come solvente l’omonimia, perché «entrambi» o «tutti» hanno più significati: un significato distributivo («ciascuno»), e un significato collettivo («tutti insieme») – cfr. Pol. II 3, 1261b20-30, che attesta anche l’esistenza di paralogismi più espliciti. Dorion si chiede dove queste parole ricorrano nei nostri esempi. Forse sono sottintese nella formulazione riassuntiva che Aristotele ne fornisce e tuttavia non è agevole risolvere gli esempi con questa distinzione. Nelle ultime righe Aristotele sembra concludere che l’omonimia può essere sì pertinente, ma che un modo più tempestivo di risolvere queste argomentazioni è di non ammettere predicati multipli o soggetti multipli.

CAPITOLO 31 181b25-33. Risoluzione delle argomentazioni che sembrano costringere l’interlocutore a ripetere più volte la stessa cosa (cfr. SE 13). Aristotele precisa che cosa il rispondente deve evitare di concedere; la stessa cosa potrà essere fatta valere

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anche come risoluzione, ossia come manifestazione del fatto che l’argomentazione non è valida. Non si deve ammettere, dice Aristotele, che l’espressione contenuta in un’altra, come «doppio» in «doppio della metà» abbia un significato quando è separata da quel contesto. Gli esempi che dovrebbero illustrare questa risposta paiono bizzarri: come si può affermare, per esempio, che «dieci» (alla lettera «dieci cose») non significa niente separato da «dieci meno uno»? Evidentemente Aristotele vuol far notare che se è vero l’enunciato «ci sono dieci cose meno una», non è giusto dedurne che, poiché è stata usata l’espressione «dieci cose» e questa deve avere un significato, ci sono anche dieci cose. In questa accezione di «significare», è corretto dire che «dieci cose» non significa nulla. 181b33-35. In via subordinata si può ammettere che l’espressione che è parte di un tutto abbia un significato, ma non può essere lo stesso significato di quello che assume nel tutto. Così «conoscenza», che indica un genere, si modifica quando è nella definizione di una specie come la medicina, e perciò nelle parole «la medicina è la conoscenza di questo e quello» il significato di «conoscenza» è diverso da quello dell’espressione isolata. Peraltro (b36 §ke›no dÉ..., argomento supplementare e non spiegazione dell’asserto precedente), la conoscenza in generale è in relazione con il conoscibile in generale e non con un conoscibile specifico come l’oggetto della medicina. 181b36-182a3. Aristotele considera ora la risoluzione che si applica alla seconda categoria di termini che si prestano alle argomentazioni in esame, quelli come il dispari e il camuso, cfr. 13, 173b5-11. Alla stregua del precedente esempio di «conoscenza», Aristotele procede mostrando che «concavo» ha un significato diverso, quando preso in generale, da quelli che assume rispettivamente accanto a «naso», dove significa «camuso» e a «gamba», dove significa «storta». Gli interpreti sono perplessi, perché non vedono come questa distinzione possa impedire la trasformazione di «naso camuso» in «naso naso concavo» (Waitz, II, p. 578; Poste, p. 160; Dorion, p. 398), ma Aristotele sta facendo acutamente notare che l’equazione giusta non è «camuso» = «naso concavo», ma «naso camuso» = «naso concavo», perché nel contesto «naso____» «concavo» e «camuso» hanno lo stesso significato. 182a3-6. Stupisce il fatto che Aristotele lasci per ultimo l’argomento più forte, fornito dalla semplice constatazione che il camuso non è un naso ma una proprietà riservata ai nasi. Tuttavia ricordiamo che i problemi sollevati dal camuso, che qui non sembrano così insormontabili, ritornano a Metaph. Z 5, 1030b28-1031a1 (vedi la n. di Frede – Patzig 1988, II, pp. 82-84), dove assumono la forma di una formidabile aporia metafisica irrisolta, e portano Aristotele a negare che le categorie diverse dalla sostanza, trovandosi nella condizione del camuso, possano avere una vera e propria definizione dell’essenza. CAPITOLO 32 182a7-15. Il capitolo discute esempi che, giocando sulle caratteristiche grammaticali del greco, non possono essere restituiti in italiano. Il lettore della traduzione dovrà ricostruirne il senso a partire dalle indicazioni in parentesi quadre.

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Tutti gli esempi sono variazioni della stessa struttura, che basterà esaminare una volta per tutte. (a) Ciò che dici con verità, questo pure è veramente? îrÉ ˘ l°geiw élhy«w, ka‹ ¶sti toËto élhy«w; (b) Ma dici che qualcosa è un sasso [lithon, accusativo]; f∫w dÉ e‰naiÄ ti liÄyon (c) dunque qualcosa è un sasso [lithon, acc. masch.]. ¶stin êra ti liÄyon. Il solecismo sta nella conclusione, che è sgrammaticata in quanto ha il predicato nominale all’accusativo. L’errore è dovuto al fatto che i due pronomi neutri in (a), ˜ e toËto sembrano dover essere sostituiti dalla stessa parola, e poiché la prima occorrenza è (correttamente) all’accusativo, si pensa che debba esserlo anche la seconda. Aristotele precisa che liÄyon in (b) non corrisponde in verità al pronome relativo neutro ˜ che troviamo nella (a), ma al maschile ˜n; d’altra parte liÄyon in (c) non corrisponde al neutro toËto di (a) ma all’accusativo maschile toËton. Se ora si volesse riscrivere (a) con i pronomi precisi, si otterrebbe îrÉ ˘n élhy«w l°geiw, ¶sti toËton; che è evidentemente scorretta. La spiegazione è tortuosa e, in più, Aristotele è impreciso quando sostiene che il pronome ˜ in (a) è sostituito da liÄyon in (b), perché a quel pronome viene in realtà sostituito tutto il contenuto proposizionale e‰naiÄ ti liÄyon. Il sospetto di trascuratezza si rafforza se si esaminano le successive ripetizioni della premessa (a). 182a15. jÊlon dÉ efipe›n otow. Formulazione piuttosto oscura che alcuni manoscritti hanno semplificato in oÏtvw. Il pronome serve probabilmente a significare in astratto il nominativo. Aristotele sceglie il maschile perché così differenzia il nominativo dall’accusativo. Il senso è: a differenza del maschile liÄyow, sostituire jÊlon al posto che deve essere occupato da un nominativo non richiede un’espressione diversa dall’accusativo, quindi non ne deriva un solecismo. 182a18-27. Aristotele presenta un esempio artificioso che non riproduce lo schema generale, ma che gli serve come modello per spiegare come si debba impostare la risoluzione. Chiediamo all’interlocutore se costui sia costei. Egli risponde di no. Supponiamo però che Corisco sia una donna. Indicando questa donna si dice: – Ma questi è Corisco? – Sì. – Dunque costui è costei. La conclusione non segue dalle premesse, perché manca la domanda aggiuntiva. – Costei è Corisco? Solo con quest’ultima concessione il sillogismo è valido e il rispondente è responsabile del solecismo. Troviamo ancora una volta la richiesta della domanda aggiuntiva che abbiamo esaminato nell’Introduzione, par. 4. Senza la premessa aggiuntiva l’argomentazione è invalida sia in assoluto sia in relazione a chi risponde, mentre se il rispondente aggiunge quella premessa, l’argomentazione è valida solo relativamente a lui.

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Analogamente a questo esempio, anche lo schema generale del solecismo descritto sopra (n. a 182a7-15) manca di una premessa che è la seguente: «liÄyon [acc.] significa otow [nom.]?» Se il rispondente dice di sì, la responsabilità del solecismo è sua. L’apparenza del solecismo dipende dal fatto che casi dissimili sembrano simili, che si pensa cioè che anche per i sostantivi maschili e femminili, nominativo e accusativo abbiano la stessa forma. Pace Kapp 1968, p. 283, Aristotele non sta pensando qui ai pronomi o ai sostantivi neutri. 182a27-b5. Segue una serie di esempi che differiscono dai precedenti in quanto non sono tutti innescati da un pronome neutro che induce a credere che nominativo e accusativo abbiano sempre la stessa forma, ma operano direttamente con pronomi maschili o femminili. L’ultimo esempio gioca sulla confusione tra accusativo e genitivo.

CAPITOLO 33 182b6-12. Le argomentazioni apparenti possono essere più o meno facili da risolvere. Questo vale anche per quelle di genere diverso (p. es. quelle che dipendono dall’omonimia sono considerate le più banali, b13-14) ma qui Aristotele è soprattutto interessato a mostrare che spesso vi sono diversi livelli di difficoltà anche nelle argomentazioni che ricadono nella stessa suddivisione, e che egli chiama «le stesse», precisando che le argomentazioni che dipendono dalla stessa causa devono essere considerate la «stessa argomentazione». Egli intende certamente «lo stesso tipo di argomentazione» e vuole ribadire il principio secondo cui le argomentazioni della stessa classe devono essere risolte nello stesso modo (cfr. 24, 179b11, con rimando a 20, 177b31-33) e con questa precisazione bisogna leggere anche il seguito: a persone diverse, due argomentazioni concrete appartenenti allo stesso tipo appaiono non di rado di tipo diverso (ad alcuni sembrano dipendere dall’espressione, ad altri dall’accidente ecc.) perché cambiando secondo il mutare dell’argomento in questione (diå tÚ metaferÒmenon ßkaston b12, cfr. 16, 175a22-23), la vera causa può presentarsi in modo più o meno riconoscibile. Come nota Pacius, si tratta del fenomeno osservato a 24, 179b7 sgg., spec. b38180a22, dove per alcuni casi è proprio in questione l’alternativa tra paralogismo dell’accidente e quello dell’ambiguità. Diversamente interpreta Dorion, p. 401, secondo il quale Aristotele alluderebbe a diverse formulazioni di una stessa argomentazione particolare. 182b13-31. Per mostrare come allo stesso tipo di paralogismo possano appartenere casi banali e casi difficili, Aristotele prende come esempio l’omonimia e aggiunge che negli altri paralogismi la situazione sarà analoga. ımoiÄvw b27 risponde a Àsper oÔn b13. Egli presenta alcuni banali giochetti verbali e calembours, e a questa rassegna fa seguire il caso difficile e controverso di «ciò che è» e dell’«uno», dei quali alcuni sostengono l’univocità, mentre altri affermano la polivocità, appellandosi a

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questa caratteristica per risolvere l’argomentazione di Parmenide (vedi la n. a 170b21-24). Chi siano questi pensatori contrapposti non viene detto; Aristotele è notoriamente un sostenitore della posizione polivocista e la risoluzione dell’argomento parmenideo sembrerebbe farina del suo sacco. C’è chi pensa che egli non si citi perché vuole prendere qui le distanze da tale risoluzione (Tarán 1981, p. 75), ma nel presente contesto egli intende solo sottolineare la difficoltà della questione e per questo non è strano che la presenti in modo neutrale. Se i destinatari del suo testo fossero membri dell’Accademia, la presentazione neutrale potrebbe spiegarsi con il desiderio di non accentuare, in questa sede, certe spaccature interne. Il primo esempio ridicolo (b15-16) gioca probabilmente sull’ambiguità di diÄfrow che significa «cocchio» e «lettiga». Il secondo esempio (b17) è imperniato sull’ambiguità di st°llomai «parto» o «ammaino». Il terzo sul significato temporale e spaziale di ¶mprosyen. Il quarto fa leva sull’ambiguità di kayarÒw, che può significare «puro» oppure «innocente». Al secondo significato pensa chi dà la risposta che si legge nel testo: il vento si macchia di una colpa perché ha ucciso un viandante ubriaco, che era evidentemente all’addiaccio. L’ultimo esempio gioca sul nome EÎarxow, che può essere inteso come eÔ érxÒw, «buon comandante». Nella risposta c’è forse un altro gioco poiché ÉApollvniÄdhw deriva da épÒllumi, che significa «perdere», «far perire» (così suggerisce Dorion). 182b32-183a13. L’argomentazione acuta è quella che rende massimamente perplessi. La perplessità (époriÄa) è una sorta di paralisi mentale imputabile a una situazione di stallo che rende impossibile prendere partito in un verso o nell’altro. Etimologicamente l’aporia è una mancanza di vie d’uscita e Aristotele la paragona ad un vincolo (Metaph. B 1, 995a31-32), il cui scioglimento è appunto la lÊsiw, cioè la risoluzione. Una chiara descrizione a NE VII 3, 1146a21-27: per sembrare abili, i sofisti vogliono confutare con argomentazioni che concludano un paradosso, e «quando ci riescono, il sillogismo che ne risulta genera perplessità; infatti il pensiero è legato quando non vuole acquietarsi, perché non gli piace la conclusione, e non riesce a procedere oltre, perché non è in grado di risolvere l’argomentazione». Nel caso delle argomentazioni più acute «sillogistiche», che Aristotele considera ottime argomentazioni dialettiche a tutti gli effetti, bisognerà ritrattare una premessa concessa (o, caso estremo, rinunciare alla tesi) e la perplessità deriva dal non sapere quale scegliere, perché sono tutte equivalenti. Nel caso delle argomentazioni eristiche, che possono essere o non essere sillogistiche, la difficoltà nasce invece dal non comprendere come si deve rispondere alla domanda (alla lettera «come si debba esprimere ciò che è proposto», una formulazione non chiara e variamente interpretata): se quel che è chiesto sia cioè da concedere o se si imponga invece qualche distinzione. Le argomentazioni più acute del primo tipo, in quanto appunto gettano in uno stato di aporia, stimolano alla ricerca. Tra le argomentazioni acute in generale Aristotele distingue poi due casi: quelle massimamente acute e quelle acute ad un grado inferiore.

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Per quanto riguarda le argomentazioni sillogistiche, massimamente acute sono quelle che hanno tutte le premesse massimamente plausibili («premesse che hanno la massima apparenza di verità» = premesse massimamente endoxa) e confutano una tesi a propria volta massimamente plausibile. In questo modo, dice Aristotele, si ottengono più sillogismi tutti equivalenti. Vediamo come. Nei Topici (VIII 14, 163a29-36) e negli Analitici primi (II 8-10) Aristotele identifica e studia la regola generale nota come «conversione del sillogismo»: dato un sillogismo, dalla negazione della conclusione presa con una delle premesse segue logicamente la negazione della premessa restante. Negli Analitici primi Aristotele si chiede anche se l’argomentazione «conversa» abbia sempre la struttura di un sillogismo, se cada cioè in uno dei modi validi riconosciuti in quell’opera, ma nel nostro trattato tale questione è prematura. È evidente che Aristotele allude anche qui alla conversione del sillogismo, sebbene l’espressione metatiyem°nhw t∞w éntifãsevw non sia del tutto chiara. Nei passi paralleli, Top. VIII 14, 163a3334 metalabÒnta tÚ sump°rasma e APr. II 8, 59b1 metatiy°nta tÚ sump°rasma, Aristotele sembra infatti indicare con i due verbi un mutamento di qualità della conclusione, da affermativa in negativa o viceversa. Ma perché questo mutamento dovrebbe riguardare la contraddittoria? Forse il verbo metatiÄyhmi ha qui un altro significato e si riferisce al fatto che la conclusione negata viene trasferita tra le premesse o che si scambia di posto con una premessa. Di qui la traduzione adottata «per trasposizione della contraddittoria». La negazione (o contraddittoria) della conclusione non è altro che la tesi sostenuta dal rispondente, e perciò, dato che questa tesi è plausibile al grado superlativo, la conversione di un sillogismo massimamente acuto genera un altro sillogismo massimamente acuto. Fin dal Medioevo gli interpreti si tramandano un esempio efficace. Se la tesi massimamente plausibile è che Medea non ama i propri figli, la confutazione acutissima consiste in questo sillogismo: Ogni madre ama i propri figli; Medea è una madre; dunque Medea ama i propri figli. Le premesse sono massimamente plausibili e demoliscono una tesi altrettanto plausibile. Possiamo ora convertire il sillogismo ottenendo altri due sillogismi massimamente acuti: Ogni madre ama i propri figli; Medea non ama i propri figli; dunque Medea non è una madre. Medea non ama i propri figli; Medea è una madre; dunque qualche madre non ama i propri figli. Gli interpreti si sono chiesti se le conclusioni dei sillogismi massimamente acuti debbano essere giudicate massimamente implausibili – in base al principio generale che se p (la tesi) è massimamente plausibile non-p (la conclusione) è massimamente implausibile – o se invece, derivando da premesse plausibili, siano anch’esse plausibili, in base al principio che le premesse sono simili alla conclusio-

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ne (p. es. Dorion, p. 404, sulla scorta di Tricot, p. 131, ma vedi anche gli esempi citati da Cavini 1989, p. 29). Aristotele non riconosce quest’ultimo principio in termini generali e sembra semmai incline a valutarlo caso per caso (Top. VIII 11, 162a19-23). Insiste invece sul primo principio: il plausibile contraddice l’implausibile; vedi in particolare Top. VIII 5, 159b4-5. Qui ad a3, dove si legge che l’argomentazione massimamente acuta «rende la conclusione equivalente alle premesse», bisogna dunque intendere l’equivalenza solo per il grado: le premesse sono tanto plausibili quanto la conclusione è implausibile. Su tutta la questione vedi Cavini 1989, pp. 27-28. Il sillogismo acuto ad un grado inferiore è quello che ha le premesse ugualmente plausibili (con grado di plausibilità non necessariamente massimo). La difficoltà è tutta nella scelta della premessa da sacrificare. Questo tipo di sillogismo dialettico è meno problematico del precedente perché non mette in gioco la tesi e perché non è limitato a gradi superlativi di plausibilità. Per quanto riguarda i logoi eristici, il più acuto è quello che non lascia trapelare la propria eventuale invalidità, in modo tale che il rispondente non sa se deve demolire una premessa (perché il sillogismo è valido) oppure operare una distinzione (perché c’è un’ambiguità). Il caso subordinato (il più acuto all’interno della classe residua) è invece quello dove è chiaro se il sillogismo sia o meno valido, ma non si sa quale proposizione sia da demolire o distinguere. 183a14-20. Caso contrario a quello del sillogismo acuto: quando le premesse di un sillogismo apparente («non sillogizzato») sono false e implausibili l’argomentazione è sciocca. Se invece mancano delle premesse, il giudizio potrebbe essere diverso. Se la premessa mancante è il nervo imprescindibile del ragionamento, allora l’argomentazione non vale nulla, se invece manca soltanto una premessa complementare e ausiliaria («esteriore»), l’argomentazione in se stessa non deve essere disprezzata. La critica va semmai riservata all’interrogante, che non ha interrogato bene. Cfr. Top. VIII 11, 162a3-11. 183a21-26. Come il rispondente può operare i) una risoluzione dell’argomentazione, ii) una risoluzione che non colpisce l’argomentazione ma l’interrogante o il suo modo di interrogare, iii) una risoluzione che non colpisce né l’una né l’altro, così anche l’interrogante ha queste opzioni: i) confutare la tesi, ii) non confutarla ma attaccare il rispondente e infine iii) appellarsi al fatto che una confutazione della risoluzione richiederebbe un esame più lungo del tempo a disposizione (sulle obiezioni che richiedono troppo tempo, cfr. Top. VIII 10, 161a9-12). CAPITOLO 34 183a27-b1. Aristotele stila un indice piuttosto preciso del trattato che sta giungendo alla conclusione: i paralogismi, il falso e il paradosso, il solecismo, l’interrogazione, l’ordine delle domande, l’utilità delle argomentazioni eristiche, la risposta e la risoluzione. Dopo di che inizia l’epilogo con il richiamo del proposito iniziale. A questo punto (a37) egli ripete l’esordio dei Topici, il che manifesta che l’epilogo riguarda l’insieme di Topici e Confutazioni sofistiche.

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Nel preambolo dei Topici Aristotele si proponeva di trovare un metodo che rendesse capaci di sillogizzare a partire da premesse endoxa su ogni problema posto. Qui egli riformula il proposito come quello di trovare una capacità di sillogizzare sul problema a partire da premesse più endoxa possibile. La novità, cioè la richiesta della massima plausibilità delle premesse, non introduce affatto un cambiamento importante rispetto all’esordio dei Topici (questa è la controversa tesi di Bolton 1990, spec. p. 200, contro la quale ritengo valide le obiezioni di Brunschwig 1990, pp. 252-256; cfr. anche Devereux 1990, p. 281 n. 44). È solo che ora Aristotele considera che non su tutti i problemi si può sillogizzare a partire da premesse plausibili allo stesso grado (cfr. Top. VIII 11, 161b34-38) e questa è una limitazione che vale per ogni tipo di dialettica ed è già contemplata nel primo libro dei Topici, segnatamente a I 3. La capacità di trovare sillogismi è il «compito della dialettica in se stessa» (a39), compito che equivale a quello di interrogare (183b4). La capacità di rispondere, infatti, non è automaticamente compresa nella disciplina. Il rispondente ha bensì un compito preciso nelle discussioni non competitive, e a Top. VIII 5, 159a32-37, Aristotele afferma di essere lui il primo a determinare quale sia tale compito, ma qui nel seguito egli ha in mente un rispondente che si difende da un interrogante che lo esamina, e se il compito di mettere alla prova in modo onesto un ignorante che presume di sapere fa parte della dialettica, la stessa dialettica non può riconoscere ad un tale rispondente il compito di difendere la tesi mediante risposte e obiezioni plausibili, perché si tratterebbe necessariamente di una difesa volta a occultare una condizione di ignoranza, e quindi di una difesa ingiusta. Poiché però a volte chi conduce l’esame fa il sofista e cerca di confutare anche il competente, è corretto dare al rispondente la possibilità di difendersi dialetticamente e quindi inserire tale capacità nel dominio della dialettica (questo è quel che leggo in b1-6; vedi la n. seguente). 183b1-6. Il passo è importante e difficile: il testo tràdito è stato giudicato corrotto e la difesa che ne tenterò lascia comunque aperte alcune questioni. Un primo problema è dato dall’oscurità sintattica della costruzione proskataskeuãzetai prÚw aÈtØn [...] …w oÈ mÒnon pe›ran dÊnatai labe›n dialektik«w éllå ka‹ …w efid≈w. Se proskataskeuãzetai (o prokataskeuãzetai) è verbum curandi, al medio, non può essere costruito con …w e l’indicativo e si impone una correzione come quella di Ross, che legge prokataskeuast°on [...] Àste. L’unica possibilità di difendere il testo mi sembra quella di intendere il verbo alla stregua di un verbum dicendi (come «sostenere», «argomentare», «pretendere») al passivo. Ma è lecito interpretarlo in questo modo? Sebbene normalmente kataskeuãzv, con o senza prefisso, non regga una dichiarativa, possiamo citare qualche passo in cui invece ammette tale costruzione: Arist. Top. VII 2, 153a4, kataskeuãsai ˜ti ÙrismÒw; Filone di Alessandria, De aeternitate mundi 48, prokataskeuãsaw ˜ti. La mia traduzione, che non si discosta molto da quelle di Pacius, Poste (Addendum), Pickard-Cambridge, Forster, Smith 1997, p. 176, e altri, si aggrappa a questi riscontri, che mi sembrano comunque sufficienti a respingere (con la maggioranza degli studiosi) la correzione di Ross e ripristinare il testo dei mss. Un secondo problema è quello sollevato da Grote 1872, II, p. 129, il quale ri-

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tiene che …w efid≈w non possa modificare pe›ran labe›n senza generare un controsenso e congettura la caduta di un doËnai (o Íp°xein), prima di …w efid≈w. Con questa integrazione tutto si chiarirebbe, giacché pe›ran labe›n dialektik«w farebbe ora riferimento al compito dell’interrogante che conduce l’esame e doËnai (oppure Íp°xein) …w efid≈w a quello del rispondente che «concede» o «sostiene» l’argomentazione. La congettura è stata ripresa da Dorion e accolta poi anche da altri studiosi (Brunschwig 1999, pp. 99-101; Gourinat 2002, p. 487). Ma dove sta il controsenso? Secondo Dorion, il testo non emendato direbbe che ci si attende (proskataskeuãzetai, «on attend de plus») dalla dialettica anche la capacità di esaminare come se sapesse – il che sarebbe assurdo. L’integrazione di Grote si rivela a mio parere inutile una volta chiarito il senso generale del passo. Condurre un esame in modo dialettico (dialektik«w) significa mantenersi nei limiti dell’arte esaminatrice, ossia argomentare su cose comuni e a partire da premesse comuni (cfr. Introduzione, par. 7). Condurre un esame …w efid≈w significa invece usare argomentazioni come la quadratura del cerchio di Brisone, argomentazioni che pretendono, pur non essendo appropriate all’oggetto, di stabilire un risultato scientifico (in questo senso chi le usa si atteggia a efid≈w). Anche queste argomentazioni partono da premesse comuni e non è facile estrometterle dalla dialettica perché sono valide e muovono da premesse plausibili. È per questa ragione che Aristotele riconosce qui la vicinanza (geitniÄasiw), tra la dialettica e la sofistica; una vicinanza che (contrariamente a quanto suggerisce Dorion) è una vera e propria affinità e non solo una contiguità spaziale. Ho suggerito nell’Introduzione, par. 9, che questo modo di esprimersi derivi dal Sofista di Platone e precisamente dal problema di distinguere il cane dal lupo, cioè la sofistica di nobile lignaggio dalla sofistica eristica. Questa interpretazione generale induce a dare a proskataskeuãzetai un senso diverso da quello proposto da Dorion: a causa dell’affinità con la sofistica, si pretende, si sostiene che la dialettica sappia esaminare come se sapesse. In altre parole, non si tratta di una aspettativa legittima, ma di una pretesa ingannevole e il soggetto di questa pretesa è il sofista o il dialettico che sconfina nella sofistica. È a causa di questa pretesa degli interroganti che Aristotele ha aggiunto alla trattazione una discussione del compito del rispondente. 183b6-8. «La ragione di ciò è stata spiegata». Vari interpreti (Pacius, Waitz) localizzano, a mio avviso correttamente, tale spiegazione a SE 1, 165a25, dove Aristotele afferma che compito di chi sa è rispondere senza dire niente di falso. Da questa descrizione del compito si deduce che l’esperto non può rifiutarsi di rispondere e che un rifiuto si giustifica solo, come nel caso di Socrate, con un’ammissione di ignoranza. Tuttavia, se gli esperti sono obbligati a rispondere anche agli interroganti disonesti, non devono però entrare disarmati nella fossa dei leoni e perciò è opportuno che la dialettica si preoccupi anche di loro. Completamente diversa è l’interpretazione di Dorion: la spiegazione della «ragione di ciò» andrebbe individuata a 17, 175a31-35, dove Aristotele raccomanda di preferire la risoluzione plausibile a quella secondo verità. Nel testo di 183b3 come emendato da Grote – aggiunge Dorion – Aristotele esprimerebbe quest’idea dicendo che il dialettico deve rispondere «come se sapesse», …w efid≈w, e questo Socrate non lo poteva accettare; ecco perché non rispondeva. Anche a

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prescindere dalla congettura di Grote (per la quale vedi la n. precedente), tale ricostruzione non convince: il motivo per cui Socrate non rispondeva è che in piena sincerità riconosceva di non sapere, e ciò non dice nulla su quel che invece egli avrebbe fatto se avesse ritenuto di sapere, mentre (comunque si voglia interpretare quell’…w efid≈w a b3) la situazione a cui allude Aristotele è proprio questa: il rispondente, qui come a 17, 175a31-35, è uno che conosce l’argomento in discussione e vorrebbe rivendicare la propria conoscenza, ma senza la dialettica è impotente di fronte al sofista. 183b8-15. Aristotele riassume qui i Topici. «Riguardo a quante cose sia a partire da quante premesse si eserciterà tale capacità» (b9) allude ai problemi dialettici e alle premesse dialettiche (Top. I 4 e10-11) e implicitamente alla divisione dei predicabili (Top. I 4-9), che vale sia per i problemi sia per le premesse; «donde trarremo queste premesse in abbondanza» (b10) si riferisce agli strumenti e ai topoi (Top. I 13-18 e II-VII). Confronta b9-10 con Top. I 4, 101b11-13. «Come si deve porre e come si deve ordinare ogni domanda e riguardo alle risposte e alle risoluzioni relative ai sillogismi» rimanda a Top. VIII 1-10; «le altre cose che fanno parte della stessa indagine metodica delle argomentazioni» potrebbero essere quelle discusse a Top. VIII 11-14. 183b15-34. Alla luce di questo riepilogo Aristotele considera chiaro che la disciplina è stata trattata in modo soddisfacente, e tuttavia egli non ritiene che questo sia il proprio merito maggiore. Tale merito potrà essere apprezzato solo considerando da quali condizioni di partenza egli abbia sviluppato interamente quest’arte. Allo scopo, Aristotele espone in generale la propria concezione della nascita e dello sviluppo di un’arte. Egli pensa che il sapere progredisca in modo cumulativo, ma sottolinea la necessità di uno scatto iniziale (Brunschwig 1994, pp. 72-73) che consiste nella scoperta di principi che diano fondamento alle esperienze fortunosamente e casualmente consolidate nel tempo ma incapaci di un progresso sistematico. La scoperta del principio è la cosa più difficile e importante, perché è piccolo e poco appariscente, mentre il progresso successivo è assai più facile e procede per accumulazione. Dopo aver delineato questo schema generale (per il quale vedi anche Metaph. a 1, 993a30-b19; NE I 7, 1098a22-26), Aristotele rivolge l’attenzione alla retorica, con l’intenzione di mostrare che anche gli autori più celebri in quella disciplina hanno avuto un ruolo solo nella seconda fase, quella cumulativa: la vera e propria scoperta della retorica risale a maestri sconosciuti, poi vennero Tisia, Trasimaco di Calcedonia e Teodoro di Bisanzio e così via. Nessuno stupore, dunque, se la disciplina ha raggiunto una certa dimensione. Tra le opere perdute di Aristotele vi è una Texn«n sunagvgÆ, cioè un repertorio di arti retoriche in cui egli riassumeva e spiegava le dottrine dei vari tecnografi (frr. 123-134 Gigon). Cicerone (De inventione II 2, 6 = fr. 123 Gigon) afferma che quest’opera iniziava con Tisia, «primo inventore». Nel nostro passo, invece, anche Tisia sembra avere dei predecessori. In effetti varie fonti lo fanno allievo di Corace, figura dal profilo più sfumato (le testimonianze sui due sono raccolte in Radermacher B II). Nel suo perduto Sofista (frr. 39, 1-3 e 40 Gigon) Aristotele assegna l’invenzione della retorica a Empedocle. L’attribuzione è assai

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discussa sia perché non se ne vede una ragione chiara sia perché comunque non può essere armonizzata con la successione che parte da Tisia. Al di là di questi dubbi, è probabile che Tisia sia stato il primo a scrivere una techne. Trasimaco fu autore di un manuale intitolato Grande arte, introdusse espedienti per muovere la pietà (Rh. III 1, 1404a12-15), impose ritmo poetico alla prosa. Per le testimonianze, Radermacher B IX. Anche Teodoro fu autore di un trattato; in esso divideva il discorso in numerosissime parti (Pl. Phdr. 266d; Arist. Rh. III 13, 1404a12-15). Cfr. Radermacher B XII. 183b34-184a8. Al contrario delle arti retoriche, la presente trattazione non ha potuto contare su alcun lavoro preparatorio. Aristotele rivendica dunque la propria assoluta originalità, ma subito sente il bisogno di rispondere ad un’implicita obiezione: prima di lui, i maestri di eristica già esercitavano un insegnamento a pagamento (e forse, potremmo aggiungere, si servivano di trattazioni scritte). Aristotele risponde che la loro non è un’arte perché è simile a quella di Gorgia. Sia i maestri di eristica sia Gorgia facevano mandare a memoria agli allievi, rispettivamente argomentazioni eristiche per domande e risposte e discorsi retorici. Fornivano così dei modelli o dei clichés, e questo modo di procedere, obietta Aristotele, consente un insegnamento rapido, ma è privo di techne, giacché può tutt’al più offrire i prodotti finiti della techne, come chiarisce l’esempio del calzolaio. L’Eutidemo platonico mette in scena molto precisamente questo tipo di didattica delle argomentazioni eristiche: i due anziani fratelli Eutidemo e Dionisodoro promettono un insegnamento molto rapido (273d9) e in effetti i loro trucchi subito contagiano Ctesippo (300c-e; cfr. Burnyeat 2002, p. 60). Le argomentazioni non sono analizzate con l’aiuto di una dottrina delle fallacie, ma vengono insegnate mediante modelli che lo stesso allievo potrà facilmente applicare a nuovi casi. Si pensi a come anche oggi impariamo per lo più a scrivere in prosa: acquisiamo passivamente certi stilemi e li adattiamo alle diverse necessità espressive. E riusciamo a farlo istintivamente anche se siamo digiuni di stilistica. I discorsi retorici di cui si costituiva la pragmateia di Gorgia non dovevano essere lunghe orazioni ma brevi argomenti adattabili a diverse situazioni, cioè nuclei tematici altamente flessibili (cfr. Natali 1986, che cita pertinenti paralleli in Isocrate). Non è escluso tuttavia che questi argomenti venissero composti insieme, in modo da formare delle orazioni esemplari. Anche qui la versatilità dei logoi viene naturalmente sfruttata dagli allievi senza la mediazione di un modello teorico. Si noti che Aristotele riconosce che questi autori procedevano così nella convinzione che in queste argomentazioni «ricadessero» gli argomenti di discussione più frequenti e significativamente impiega lo stesso verbo §mpiÄptv che normalmente usa per la relazione tra le singole argomentazioni e i topoi (VIII 14, 163b22-23; cfr. Rh. II 25, 1403a19). A Topici VIII 14, 163b17-19, scopriamo che lo stesso Aristotele consiglia di imparare a memoria, evidentemente per intero, le argomentazioni più usate (mentre le righe che seguono suggeriscono un uso più parsimonioso e razionale della memoria). Sembra quindi chiaro che anche quelli di Gorgia e dei maestri di eristica fossero topoi. Una testimonianza aristotelica trasmessaci da Cicerone (Bruto 12, 46-47= fr. 125 Gigon) ce ne offre una conferma: Protagora aveva allestito rerum inlustrium disputationes, cioè argomentazioni su temi notevoli, quae nunc communes appellantur loci e lo stesso aveva fatto Gorgia.

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Se dunque Aristotele contrappone il proprio metodo a quello di Gorgia e degli eristi non è semplicemente perché questi non possedessero affatto la nozione di topos, ma forse perché ne possedevano una troppo concreta (come suggerisce Solmsen 1929, pp. 166-170) e soprattutto perché le loro trattazioni mancavano di un’impalcatura sistematica come quella dei Topici e delle Confutazioni: non muovevano cioè da una classificazione dei tipi di problema e dalla corrispondente ripartizione dei luoghi, o da una classificazione dei tipi di paralogismo, ma consistevano in semplici liste prive di un principio di organizzazione. Invece per Aristotele è solo quella visione sistematica con cui si possono considerare tutte le opportunità argomentative a disposizione che fa fare il salto di qualità e trasforma una pratica in una techne. Gli interpreti si chiedono perché Gorgia, maestro di retorica, sia chiamato in causa proprio qui, in un confronto con la dialettica. Per giunta, giacché ne giudica il metodo privo di techne, sembra stranamente che Aristotele voglia tenere il sofista fuori dalla successione dei tecnografi dei quali poco sopra ci ha detto che hanno sviluppato la retorica. Questo non deve tuttavia indurci a misconoscere l’importanza di Gorgia per la storia della retorica, che è peraltro indipendentemente attestata. Dobbiamo considerare piuttosto che la rivendicazione di Aristotele sulla dialettica ha delle ripercussioni sulla retorica di cui è bene tenere conto. All’inizio della Retorica egli infatti imposta la propria trattazione sulla base della relazione di «antistrofia» tra la retorica e la dialettica (sulla quale cfr. Brunschwig 1994), e uno degli aspetti più salienti di tale complessa relazione è che istituisce una corrispondenza tra entimema retorico e sillogismo dialettico. Ora, se Aristotele sostiene di avere inventato l’arte di quest’ultimo, è probabile che egli voglia estendere la rivendicazione anche alla retorica incentrata sull’entimema. È questa la ragione per cui, se non esita a riconoscere un contributo a tecnografi quali Tisia, Trasimaco e Teodoro – perché il loro lavoro non si sovrappone al suo –, non può concedere altrettanto a Gorgia. Come dice nella Retorica (I 1, 1354a11-18), infatti, egli ritiene che i trattatisti che lo hanno preceduto abbiano considerato solo questioni accessorie, come la mozione degli affetti (vedi Trasimaco a Rh. III 1, 1404a12-15; Pl. Phdr. 267c), e abbiano invece trascurato completamente la cosa più importante, cioè l’entimema e il metodo per reperirlo. È evidente che invece Gorgia si è occupato dell’inventio (anche se non dell’entimema inteso come sillogismo) e dunque se si dovesse riconoscere un qualche valore tecnico al suo contributo retorico, ciò ridimensionerebbe molto la portata della scoperta aristotelica. 184b1. Respinta l’obiezione alla propria originalità, Aristotele ribadisce il contrasto, già affermato a b34-36, tra la retorica e la «presente trattazione» qui chiamata del «sillogizzare». Nel passo ora in esame, proprio come alle righe b34-36 a cui esso si riallaccia, tale disciplina è solo quella trattata nei Topici e nelle Confutazioni e di certo non comprende gli Analitici, come invece spesso si sostiene dimenticando che tutto il capitolo 34 si limita a tirare le somme dei Topici e delle Confutazioni, non di tutto l’Organon (cfr. Dorion 2002). Prima di Aristotele, dunque, «riguardo al sillogizzare» non ci sarebbe stato niente. Se identifichiamo il «sillogizzare» con la dialettica, una dichiarazione tan-

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to perentoria suscita qualche dubbio, tanto più che sembra smentita anche da alcune affermazioni dello stesso Aristotele. Nel suo Sofista (fr. 39 Gigon), oggi perduto, Aristotele afferma che la dialettica fu inventata da Zenone. Metaph. M 4, 1078b27-30 accredita Socrate come scopritore della definizione universale e delle argomentazioni induttive; entrambi questi contributi metodologici mantengono un ruolo anche nella concezione aristotelica della dialettica. A Metaph. A 6, 987b31-33, descrivendo il metodo di Platone come «indagine nelle argomentazioni», Aristotele afferma che prima di Platone i filosofi non conoscevano la dialettica e avvalora l’idea che la palma spetti al suo maestro. I Topici testimoniano diffusamente di un importante apparato concettuale, quello della divisione, che sicuramente non è stato sviluppato da Aristotele, ma da Platone, e che indubbiamente configura un tipo di dialettica. Inoltre potremmo chiamare in causa l’antilogia e fare i nomi di Zenone e di Protagora. Infine, per riavvicinarci al nostro trattato, ricordiamo che Aristotele ha dedicato il cap. 10 alla confutazione di una classificazione alternativa dei logoi e che non mancano critiche a certe risoluzioni dei paralogismi sostenute dai predecessori. Poiché anche nella mente di Aristotele le immagini della dialettica sono più d’una, sembra che la sua rivendicazione si giustifichi solo se presa alla lettera: nessuno prima di lui aveva compreso che il nucleo della dialettica, e cioè di quell’attività entro certi limiti innata e istintiva (cfr. 11, 172a31-36) che consiste nell’attaccare interrogando e nel difendersi rispondendo, è il sillogismo. Nei Topici Aristotele ha definito il sillogismo e ha elaborato un metodo per trovare le premesse sillogistiche di una conclusione data. Egli non vuole ovviamente sostenere che prima non si sillogizzasse, ma solo che non si sapeva descrivere in modo consapevole questa attività, e con tale lacuna non era possibile fare della dialettica un’arte. Se Aristotele si riferisce a questo specifico contributo, la sua rivendicazione pare legittima: l’induzione e la definizione socratiche, la divisione platonica non possono accampare un’analoga pretesa, perché sviluppano solo parti accessorie della dialettica ma non ne individuano il nucleo centrale. Lo stesso vale per l’antilogia di Zenone e di Protagora: essi hanno posto l’accento sulla contrapposizione di logoi, ma non hanno mai reso esplicito che questi logoi devono essere sillogismi. Non è un caso se nel cap. 10 ricordato sopra, Aristotele, criticando certi teorici che lo hanno preceduto con una classificazione dei logoi, lamenta che costoro discutono della confutazione senza fare alcun riferimento al sillogismo (171a1-2). Aristotele stesso ha scritto i libri più antichi dei Topici senza quasi mai usare il termine «sillogismo» e il verbo «sillogizzare», e prima di scoprirne la definizione può aver pensato che lo specifico della dialettica in generale fosse la capacità di contrapporre argomentazioni, senza comprendere ancora come queste argomentazioni fossero strutturate. A quello stadio, l’attribuzione a Zenone della scoperta della dialettica non deve essere stata del tutto arbitraria. Dopo aver messo a fuoco la centralità del sillogismo, tuttavia, egli avrà maturato la convinzione che i suoi predecessori non capissero fino in fondo che cosa stavano facendo. 184b3-8. Il passo, assai noto, fu addotto da Jaeger 1912, p. 145, come importante riprova del fatto che i trattati di Aristotele erano destinati a degli ascoltatori. Ross (1937, p. 17 n. 4) obietta che ci sono in gioco due categorie di destinatari,

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giacché yeasam°noiw (b3) si riferisce ai lettori mentre ±kroam°nvn (b6) indica gli ascoltatori. Dorion, p. 419, osserva che yeasãmenoi possono essere anche gli spettatori/ascoltatori. Per contro, dobbiamo aggiungere che ékoÊein può anche significare «leggere» (Schenkeveld 1992), come p. es. a NE VII 3, 1147b8-9 (sulle potenziali conseguenze di questo significato di ékoÊein per la comprensione della fruizione dei trattati aristotelici, cfr. Burnyeat 2001, p. 115 n. 60). In pãntvn Ím«n μ t«n ±kroam°nvn l’espunzione di ≥ da parte di Zeller, seguito da Ross, non sembra giustificata: se si ritiene che la particella introduca una glossa, bisogna espungere anche t«n ±kroam°nvn, come avrebbe preferito Wallies (Strache – Wallies, apparato); altrimenti si deve conservarla. ≥ può forse significare «o, in altre parole» e in tal caso Aristotele si rivolge con il «voi» ad un’unica categoria di persone, prima chiamate yeasãmenoi e poi ±kroam°noi. In alternativa, e più probabilmente, ≥ avrà valore disgiuntivo e allora Aristotele deve avere in mente due categorie di persone: da un lato i yeasãmenoi ai quali si rivolge con il «voi» e dall’altro gli ±kroam°noi. È probabile che una categoria designi gli ascoltatori presenti ad una lettura del trattato e l’altra categoria denoti i lettori del trattato. Poiché la seconda persona plurale è più adatta agli ascoltatori (Verdenius 1985, p. 21), non possiamo escludere che, paradossalmente, i yeasãmenoi siano gli ascoltatori e gli ±kroam°noi siano i lettori. Poiché tutte le combinazioni restano aperte, preferisco attenermi alla traduzione più consolidata.

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Indici

Indice dei luoghi citati

ARISTOTELE Cat. 1, 1a6: 120 2, 1a20-b9: 109 5, 2a19-26: 130 5, 3b10-23: 132, 195 5, 4a10-b18: 192 7, 6a36-37: 203 7, 6b4: 203 7, 7b31-33: 151 8, 11a20: 167 Int. 1, 16a3-6: 102 2, 16a27-28: 102 3, 16b6: 121 6, 17a34-37: XVI 6, 17a35: 120 6, 17a35-37: XLIX 7, 17b29-34: XIX 9, 19a29: 114 11, 20b26: LII APr. I 1, 24a16-b15: XI I 1, 24a22-25: 159 I 1, 24b18-20: XI, 100, 129 I 1, 24b20-21: 100

I 7, 29a30-33: 124 I 27, 43a36: 202 I 32, 46b40-47a5: 124 I 33, 47b38-40: 134 I 36, 48b41: 171 I 39, 49b3: 104 I 41, 49b33-50-a3: 196 I 33, 47b38: XXXI n II 4, 57a36-b17: 159 II 8, 59b1: 218 II 16, 64b31: 121 II 17, 65b16: LII II 19, 66a37: 172 II 20, 66b10: 101 II 20, 66b11: 101 II 25, 69a33: 153 II 27, 70a28-38: XXX II 27, 70a34-37: 122 APo. I 2, 72a8-11: 159 I 2, 72a16-17: 160 I 4, 73b33-37: 128 I 6, 75a26: 101 I 9, 75b37-41: 151-154 I 9, 75b37-76a3: 128 I 9, 75b39-76a3: 157 I 9, 76a16-25: 159

245

I 10, 76b23-27: 133 I 10, 76b27-30: 138 I 10, 76b39-77a4: 151 I 11, 77a26-32: 158 I 11, 77a32-35: 159 I 12, 77b27-33: XXX, 146 I 12, 77b40-78-a6: XXVII n I 12, 78a6-13: 176 I 20, 82a30-32: 197 I 24, 86a6: 139 I 32, 88b6-10: 139 II 11, 94b13-16: 157 II 13, 97b37-39: 182 Top. I 1, 100a25-27: XI, 100 I 1, 100b21-23: XII, 106 I 1, 100b23-101a4: XII, XXVI I 1, 100b26-101a1: XIII n, 106 I 1, 101a6-7: 99 I 1, 101a14: 151 I 1, 101a15-16: 151 I 2, 101a30-34: 106 I 2, 101a36-b4: 159 I 2, 101a26-b4: 176 I 4, 101b11-13: 222 I 7, 103a9-10: 126 I 7, 103a23-39: 200 I 8, 103b6-17: 109 I 9, 103b22-23: 115, 188 I 9, 103b20: 188 I 9, 103b27: 188 I 9, 103b29: 188 I 11, 104b19-28: 164 I 12, 105a13-16: 173 I 18, 108a18-37: 142 I 18, 108a22-24: 141 II 5, 111b32-33: 163 II 5, 112a5: 212 II 5, 112a8: 212 II 5, 112a21-22: 121 II 8, 113b27-28: 140 IV 3, 123b30-37: 181 IV 4, 124b15: 167 IV 4, 124b35: 141

IV 5, 126a30-b3: 104 IV 6, 127a26-28: 160 IV 6, 128a38-b9: 141 V 2, 130a34: 107 VI 4, 142b4-6: 110 VI 13, 150a1: 101 VI 14, 151b10: 175 VII 2, 153a4: 220 VIII 1, 155b3: 163 VIII 1, 155b7-16: 133 VIII 1, 155b26-28: 172 VIII 1, 156a15: 127 VIII 1, 156a23-26: 172 VIII 1, 156b6-9: 173 VIII 1, 156b10-17: 173 VIII 1, 157a1-5: 172 VIII 1, 157a2: 151 VIII 2, 157a21-22: 173 VIII 2, 157a21-33: 173 VIII 2, 157a34-35: 173 VIII 2, 157b31-33: 173 VIII 2, 158a7-13: 173, 175 VIII 2, 158a28: 107 VIII 3, 158a37: 177 VIII 3, 158b11-15: 182 VIII 3, 158b24-34: XIX VIII 3, 159a8: 121 VIII 4, 159a18-24:163 VIII 5, 159a30-33:156 VIII 5, 159a32-37: 220 VIII 5, 159a38b1: 162 VIII 5, 159b4-5: 174, 219 VIII 5, 159b7: 159, 163 VIII 5, 159b8: 174 VIII 5, 159b14: 163, 174 VIII 5, 159b18: 174 VIII 6, 160a5: 121 VIII 7, 160a17-34: 179 VIII 7, 160a29-30: 111 VIII 9, 160b17-22: 163, 174 VIII 9, 160b18-19: 204 VIII 9, 160b22-39: 205 VIII 10, 160b24-25: XXXVII VIII 10, 160b28-33: XXXVII VIII 10, 161a9-12: 219

246

VIII 10, 161a11: 97 VIII 11, 161a19-24: 156 VIII 11, 161a24-34: 135 VIII 11, 161b30: 129 VIII 11, 161b34: LI VIII 11, 161b34-38: 220 VIII 11, 162a3-11: 219 VIII 11, 162a19-23: 219 VIII 12, 162b3-24: 182 VIII 12, 162b7-11: 150 VIII 12, 162b11-15: 136 VIII 12, 162b16-30: 177 VIII 12, 162b24-30: 183 VIII 13, 162b37: 120 VIII 13, 162b34-163a13: 181 VIII 13, 162b36: 212 VIII 14, 163a33-34: 218 VIII 14, 163b17-19: 223 VIII 14, 163b20: 139 VIII 14, 163b28: 140 VIII 14, 164a10-11: XI n VIII 14, 164b3-4: 161 VIII 14, 163b22-23: 223 Ph. I 2, 184b25-27: 99 I 2, 184b25-185a5: 159 I 2, 185a2: 157 I 2, 185a14: 152 I 2, 185a17-19: 99 I 2, 185a14-17: 157 I 3, 186a12-13: 123 I 3, 186a25: 145 I 3, 186b4: 145 III 3, 202b12-22: 200 VII 4, 248a24-25: 155 VIII 3, 253b2-4: 159

de An. II 3, 414b21-32: 128 Metaph. A 1, 981a18-20: 115 A 3, 985a4: 143 A 5, 986b28-30: 144 A 6, 987b31-33: 225 A 9, 990b17: 193 A 9, 992b10: 196 a 1, 993°30-b19: 222 B 1, 995b20-25: XXXIII n B 3, 998a1-4: XLI B 3, 998b22: 159 B 4, 999a27-29: 139 G 2, 1004b18: XXXV n. G 2, 1004b 22-25: 104 G 3, 1005b15: 160 G 3, 1005b20-22: XLIX G 4, 1006b7-11: 180 G 7, 1012a17-20: XXXVII D 9, 1017b27-28: 200 E 1, 1026b13-22: XLIV n Z 4, 1030a1: 199 Z 4, 1030a25-26: 208 Z 4, 1030a33-34: 209 Z 13, 1038b34-1039a3: 198 Z 13, 1039a2-3: 193 H 3, 1043b22: 188 Y 3, 1046b29: XLVI Y 6, 1048b18-36: 189 I 4, 1055b26-29: 124 M 4, 1078b27-30: 225 M 9, 1086b10: 196 N 2, 1088b35: 144 N 3, 1090a17: 196

Cael. I 11, 280b1-6: 180 I 12, 281b15-18: 113

NE I 7, 1098a22-26: 222 VII 3, 1146a21-27: 217 VII 3, 1147b8-9: 226 VII 6, 1147b20-22: 118 VII 15, 1154a22-25: XXXVII

GC I 3, 317b6-8: 118 II 3, 330a30b8: 109

Pol. II 3, 1261b20-23: 213 V 8, 1307b35-37: 114

247

Rh. I 1, 1354a1-8: 161 I 1, 1354a11-18: 224 I 1, 1355a24-29: 106 I 1, 1355b15-21: 104, LIII I 2, 1356b15-18: 100 I 2, 1356b25-1357a18: 160 I 2, 1356b30-1357a1: 141 I 2, 1356b31-35: 139 I 2, 1357a7-17: 172 I 2, 1357a18-19: XXIII I 2, 1357a34-b21: 122 I 3, 1359a8-10: 101 I 4, 1359b10-12: XXXV I 4, 1359b12-16: 161 I 15, 1375b11: 111 II 21, 1394a21-25: 182 II 23, 1398b21-26: 174 II 24, 1401a1-8: 115 II 24, 1401a3-5: 174 II 24, 1401a15-16: 175 II 24, 1401a25: 112 II 24, 1401a26: 185 II 24, 1401b23-24: 122 II 24, 1401b34-1402a3: 120 II 24, 1402a8-28: 209 II 24, 1402a45: 208 II 25, 1403a19: 223 II 26, 1403a18: 139 III 1, 1404a12-15: 224 III 1, 1403b15-18: XV n III 1, 1404a12-15: 223 III 2, 1404b6: 111 III 2, 1404b31: 111 III 2, 1405a1: 120 III 5, 1407b6-8: 168 III 5, 1407b11-18: 112 III 5, 1407b18-20: 107 III 8, 1408b21: 115 III 10, 1410b28-29: 115 III 13, 1404a12-15: 223 Po. 19, 1456b9: 115 20, 1457a28: 110

21, 1457b1: 111 21, 1458a7: 168 25, 1461a9: 114 25, 1461a21-23: 115 25, 1461a24-25: 111 25, 1461a27-30: 111 Peri ideon fr. 118, 3 Gigon: 161, 193 Sophistes fr. 39 Gigon: 225 fr. 39 1-3 Gigon: 222 fr. 40 Gigon: 222 Technon sunagoge fr. 123 Gigon: 222 fr. 124 Gigon: 222 PSEUDO-ARISTOTELE Pr. XVIII 917b4-6: 107 MXG 979a25: 208 979b4: 208 ALTRI AUTORI ALESSANDRO DI AFRODISIA In APr. 372.29: XVI n In Metaph. 80.8-15: 193 80.18-20: 161 84.7-16: 194 84.23-85.3: 193 In Top. 21.8-9: XXVII n 21.13-23: XXVI 23.22-25.9: 151

248

PSEUDO-ALESSANDRO In SE 4.9-28: XXVII n 5.18-20: XV n 6.31-7.1: XXVII n 18.30-19.22: XXVII n 23.20-21: 108 70.22-25: XXVII n 76.16-20: 154 93.29: 158 118.30-119.3: 175 145.30-146.8: 186

BRISONE frr. II S 10-11 Giannantoni: 154 fr. II S 10, 43-64 Giannantoni: 154 fr. II S 10, 8-21 Giannantoni: 154 fr. II S 10, 64-68 Giannantoni: 154

ANONIMO De arte I: XLI e n

DEXIPPO In Cat. 25.22: 117

ANONIMO Dissoi logoi 5, 5: 118 5, 11-12: 126

DIODORO CRONO II F 7, 1-9 Giannantoni: 143

ANONIMO In SE Paraphrasis 4.12-22: XXVII n 29.18-22: XXVII n 29.38-30.7: 154 47.34: XXVII n ANONIMO Rhetorica ad Herennium II 16: 179 ANONIMO Scholia In Dionysii Thracis Artem Grammaticam 171.1 Hilgard: 185 ANTIFONTE F13 Pendrick: 157 ARISTOFANE Nu. 658-693: 168 V. 20-23: 111

CICERONE Brutus 12, 46-47: 222 De inventione II 2, 6: 222

DIOGENE LAERZIO Vitae philosophorum II 59: 102 II 100: XLVI II 108: XLVII n II 116: 207 II 135: 178 III 53-54: 117 IV 4-5: 174 VII 43: XVI VII 198: 202 IX 52: XLIII, 142 EPICURO De natura fr. XIII col. IX rr. 15-18: 202 EUBULIDE fr. II B 13 Giannantoni: XLVII n EUDEMO DI RODI fr. 37a Wehrli: XLIX, 142 fr. 43 Wehrli: XLIX FILONE DI ALESSANDRIA De aeternitate mundi 48: 220

249

FILOPONO In APo. 111.20-31: 154 112.1-20: 154 112.20-25: 154 150.29-151.26: XXVII n

PLATONE Cra. 394a-b: 104

De vocabulis quae diversum significatum exhibent secundum differentiam accentus 33: 186 81: 186

Euthd. 273d9: 223 276c3: 110 276c3-6: 110 276c3-7: 110 276d7-277b2: 110 277a1-b1: 113 277a1-b2: 110 277e3-278a6: XLVIII 277e3: 142 293a8-294a10: 118 295b-296d: XLVIII 295c4: 142 296a1: 178 296a-d: 178 298a-b: 117 298d8-e5: 203 300c-e: 223

GALENO De captionibus XIV 591 Kühn: 185 XIV 592 Kühn: 185 GELLIO Noctes Atticae XI 12, 1-3: 143 XVI 2: 178 XVIII 2, 9-10: 210 XVIII 13: 117 ISOCRATE Peri antidoseos 262: 107 LUCIANO XIV 22: 202 MELISSO fr. 30B2 DK = 4 Reale: 122 OMERO Il. II 15: 115 XXI 297: 115 XXIII 328: 115 PAPPO Collectio VII 1-2: 176

Cri. 49c-d: 163

Grg. 456a7-c7: XLII 461c1-5: 162 464c-d: XXXV n 465b-c: 100 469c: 166 482e3: 162 482e5: 165 483a5-b4: 166 483d1: 165 484b1: 165 489d: 163 494e-495b: 165 494e7: 162 495a5-9: 163 500b5-7: 163 504d4: 181 Hp. Mi. 364e: 163

250

369d-e: 163 Men. 75c-d: XLVIII 95b2: 152 Phd. 85d3: 152 90a: XLVIII Phdr. 249a2: 152 261a1-262c4: XLI n, XLII n 267c: 224 Phlb. 17a: XLVIII Prm. 129a3-4: XLIX n 132a1-b1: 193 135c8-d6: 107 Prt. 313a2: 152 331c: 163 331c4: 181 338c: 115 338e-339a: 168 R. I 335a6: 152 I 346a3: 163 I 346c4: 181 I 350e5: 163 IV 436b-437a: XLIX n V 454a: XLVIII VI 487b1-c4: 104 X 596a-b: 194 Sph. 218c1: 142 225a: 156 225d7-10: 107 226a10-231c10: XLIV 230b7-8: XLIX n

231a3: XLV 231a7-b1: XLV 231e4: XLV 232: XL 232d6: XLI 232e2: XLII 233a3: XLII 233a6: XLII 234b5-c7: 100 234b5-c2: 100 234c2-7: 100 236d9: 99 259c7-d7: XLIX n 268c1: 104 Tht. 154c-d: 163 164c: XLVIII 165a4-c1: 118 167e-168a: 156 185b-d: XXXIII n, 150 189e-190e: 133 PLUTARCO Per. 8.5: XLI POLIBIO V26, 13: 102 PORFIRIO Intr. 7.21: 202 PROCLO In Eucl. 70.1-18: 151 PROTAGORA 80A1 DK: XLIII 80C3 DK: 168 QUINTILIANO Institutio oratoria VII 9, 8: 114

251

SENOFONTE Cyn. 13,6: 143

SPEUSIPPO test. 1 Tarán: 174 fr. 69a Tarán: 142 fr. 69b Tarán: 142, 186

SESTO EMPIRICO P. II 250: XXXVII n

STILPONE DI MEGARA fr. II O 13 Giannantoni: XLVI n

M. I 210: 107 VII 408-410: 202

TEMISTIO In APo. 19.6-17: 154

SIMPLICIO In Ph. 55.25-69.34: 152 56.1-57.24: 152 60.18-21: 152 60.22-68.32: 153 97.30-98.1: 142 98.1-3: XLIX 109.20: 122 115.11: 145 115.26-116.2: 142 120.6: XLIX 120.8-10: 142 243.1-3: 142

TEOFRASTO fr. 122a Fortenbaugh: 139 fr. 122b Fortenbaugh: 139 fr. 123 Fortenbaugh: 139 TERENZIO Andria 37: 114 TIMONE DI FLIUNTE Sill. fr. 47 Di Marco: XLIII

Indice del volume

Ringraziamenti Introduzione

VII IX

Cronologia della vita e delle opere di Aristotele

LVII

Abbreviazioni

LIX

Traslitterazione dei caratteri greci

LXI

LE CONFUTAZIONI SOFISTICHE

1

Note

97

Commento

99

Bibliografia

227

Indice dei luoghi citati

245

Biblioteca Universale Laterza

ultimi volumi pubblicati

510. 511. 512. 513. 514. 515. 516. 517. 518. 519. 520. 521. 522. 523. 524. 525. 526. 527. 528. 529. 530. 531. 532. 533. 534.

Gentile, E., Il mito dello Stato nuovo Luperini, R., Il dialogo e il conflitto. Per un’ermeneutica materialistica Schmitt, J.-C., Il gesto nel Medioevo Vovelle, M., La mentalità rivoluzionaria. Società e mentalità durante la Rivoluzione francese Luperini, R., Pirandello Filoramo, G. (a cura di), Ebraismo Mannheim, K., Le strutture del pensiero Hegel, G.W.F., Lezioni di estetica. Corso del 1823. Nella trascrizione di H.G. Hotho Colarizi, S., L’opinione degli italiani sotto il regime. 1929-1943 Schmitt, J.-C., Religione, folklore e società nell’Occidente medievale Capovilla, G., Pascoli Filoramo, G. (a cura di), Cristianesimo Löwith, K., Storia e fede Ferrone, V., I profeti dell’illuminismo. Le metamorfosi della ragione nel tardo Settecento italiano Zunino, P.G., Interpretazione e memoria del fascismo. Gli anni del regime Lanzillo, M.L., Voltaire. La politica della tolleranza Bravo, A. - Bruzzone, A.M., In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945 Héritier, F., Maschile e femminile. Il pensiero della differenza Terzoli, M.A., Foscolo Broszat, M., Da Weimar a Hitler Fichte, J.G., La destinazione dell’uomo Miglio, B., I Fisiocratici Rorty, R., La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, ironia e solidarietà Surdich, L., Boccaccio Bretone, M., I fondamenti del diritto romano. Le cose e la natura

535. 536. 537. 538. 539. 540. 541. 542. 543. 544. 545. 546. 547. 548. 549. 550. 551. 552. 553. 554. 555. 556. 557. 558. 559. 560. 561. 562. 563. 564. 565. 566. 567. 568. 569. 570. 571. 572. 573. 574.

Marcuse, H., Davanti al nazismo. Scritti di teoria critica 1940-1948 Plessner, H., I limiti della comunità. Per una critica del radicalismo sociale Filoramo, G. (a cura di), Buddhismo Frege, F.L.G., Senso, funzione e concetto. Scritti filosofici Oestreich, G., Storia dei diritti umani e delle libertà fondamentali Alessi, G., Il processo penale. Profilo storico Lord Acton, Storia e libertà Filoramo, G. (a cura di), Hinduismo Savarese, N., Il teatro euroasiano Ernst, G., Tommaso Campanella. Il libro e il corpo della natura Marshall, T.H., Cittadinanza e classe sociale Cambi, F., L’autobiografia come metodo formativo Spaemann, R., L’origine della sociologia dallo spirito della Restaurazione Hegel, G.W.F., Lezioni sulla filosofia della storia Benevolo, L. - Albrecht, B., Le origini dell’architettura Jellinek, G., La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino Santoianni, F. - Striano, M., Modelli teorici e metodologici dell’apprendimento Fichte, J.G., Discorsi alla nazione tedesca Strauss, L., La critica della religione in Spinoza Schino, M., La nascita della regia teatrale Galetti, P., Uomini e case nel Medioevo tra Occidente e Oriente Taylor, A.J.P., Bismarck. L’uomo e lo statista Giardina, A., L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta Peroni, R., L’Italia alle soglie della storia Firpo, M., Artisti, gioiellieri, eretici. Il mondo di Lorenzo Lotto tra Riforma e Controriforma Volpi, F., Il nichilismo Bedeschi, G., Storia del pensiero liberale Fraschetti, A., La conversione. Da Roma pagana a Roma cristiana Pontremoli, A., La danza. Storia, teoria, estetica nel Novecento Löwith, K., Jacob Burckhardt. L’uomo nel mezzo della storia Weber, M., Dalla terra alla fabbrica. Scritti sui lavoratori agricoli e lo Stato nazionale (1892-1897) Tessari, R., Teatro e avanguardie storiche. Traiettorie dell’eresia Setta, S., L’Uomo qualunque. 1944-1948 Luperini, R., Verga moderno Nietzsche, F., I filosofi preplatonici Guarino, R., Il teatro nella storia. Gli spazi, le culture, la memoria Fraschetti, A., Roma e il principe de Saussure, F., Scritti inediti di linguistica generale Fisichella, D., Joseph de Maistre pensatore europeo Del Corso, L., La lettura nel mondo ellenistico

575. 576. 577. 578. 579. 580. 581. 582. 583. 584. 585. 586. 587. 588. 589. 590. 591. 592. 593. 594. 595. 596. 597. 598.

Ghisalberti, C., Istituzioni e società civile nell’età del Risorgimento Paduano, G., Il teatro antico. Guida alle opere Spaemann, R., Persone. Sulla differenza tra «qualcosa» e «qualcuno» Losurdo, D., Controstoria del liberalismo Connors J., Alleanze e inimicizie. L’urbanistica di Roma barocca Canfora, D., Prima di Machiavelli. Politica e cultura in età umanistica Muntoni, A., Lineamenti di storia dell’architettura contemporanea Alonge, G. - Carluccio, G., Il cinema americano classico Ocone, C. - Urbinati, N. (a cura di), La libertà e i suoi limiti. Antologia del pensiero liberale da Filangieri a Bobbio Firth, R., Noi, Tikopia. Economia e società nella Polinesia primitiva Comand, M. - Menarini, R., Il cinema europeo Givone, S., Dostoevskij e la filosofia Bertetto, P. (a cura di), Metodologie di analisi del film Fazio, M., Regie teatrali. Dalle origini a Brecht La Penna, A., La cultura letteraria a Roma Habermas, J., Il pensiero post-metafisico Benevolo, L., L’architettura nell’Italia contemporanea. Ovvero il tramonto del paesaggio Caroli, R. - Gatti, F., Storia del Giappone Alonge, R. , Il teatro dei registi. Scopritori di enigmi e poeti della scena D’Angelo, P., L’estetica italiana del Novecento. Dal neoidealismo a oggi Böckenförde, E.W., Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all’Europa unita Molinari, C., Teatro e antiteatro dal dopoguerra a oggi Pastoureau, M., Medioevo simbolico Tassi, I., Storie dell’io. Aspetti e teorie dell’autobiografia