Omaggio a Ortega. A cento anni dalle Meditazioni del Chisciotte (1914-2014) 9788868662110

Unendo l'anniversario dei cento anni dalla pubblicazione delle Meditaciones del Quijote(1914-2014) al quarto centen

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Omaggio a Ortega. A cento anni dalle Meditazioni del Chisciotte (1914-2014)
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Filosofie europee

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Filosofie europee Collana diretta da GIUSEPPE CACCIATORE e ANTONELLO GIUGLIANO Comitato scientifico

Fulvio Tessitore (Presidente) Luigi Anzalone, Pablo Badillo O’Farrell, Gabriella Baptist, Giuseppe Bentivegna, Stuart Brown, Giuseppe Cantillo, Francesco Donadio, Domenico M. Fazio, Roberto Garaventa, Sossio Giametta, Matthias Kaufmann, Jean-François Kervégan, Micaela Latini, Michele Lenoci, Giuseppe Lissa, Ian Maclean, Giancarlo Magnano San Lio, Nicola Panichi, Bruno Pinchard, Renato Pettoello, Javier San Martín, Manuela Sanna, Diogo Sardinha, José Manuel Sevilla Fernández, Loris Sturlese Comitato di Redazione

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Omaggio a Ortega

A cento anni dalle Meditazioni del Chisciotte (1914-2014)

a cura di Giuseppe Cacciatore e Clementina Cantillo

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Copyright © 2016 Guida Editori www.guidaeditori.it [email protected] Volume pubblicato con un contributo del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e del Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale dell’Università degli Studi di Salerno In copertina: Honorè Daumier, Don Quichotte (1868), olio su tela, Neue Pinakothek, Monaco

Proprietà letteraria riservata Guida Editori srl Via Bisignano, 11 80121 Napoli

Finito di stampare nel giugno 2016 da Grafica Elettronica srl per conto della Guida Editori srl 978-88-6866-211-0

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Giuseppe Cacciatore e Clementina Cantillo

Introduzione

Nella Spagna del tempo, ancora dolorosamente segnata dagli eventi del 1898, la ricorrenza, nel 1905, dei 300 anni dalla pubblicazione della prima parte del Don Quijote diede impulso ad una serie di iniziative e di studi non limitati esclusivamente all’analisi dell’opera e della figura del suo autore, favorendo una riflessione più generale sulla identità stessa della nazione e della cultura spagnole, come pure sul loro ruolo rispetto all’Europa. Le Meditaciones del Quijote riflettono questa temperie e si confrontano con le posizioni di intellettuali come Unamuno, Azorín, Baroja o l’amico Navarra Ledesma, ma, al tempo stesso, vanno oltre queste, delineando già, per rilevanti aspetti, il peculiare profilo teorico di Ortega. Unendo l’anniversario dei 100 anni dalla sua pubblicazione (1914-2014) al quarto centenario dell’apparizione della seconda parte del Don Quijote (1615-2015) e della morte di Cervantes (1616-2016), ci è parso opportuno promuovere un momento di approfondimento a più voci su uno scritto che «continua a sfidare il lettore»1, non cessando di “provocarne” e “sollecitarne” lo sforzo intellettuale di fronte alla pluralità dei motivi e dei riferimenti teorici, così come dei registri che vi operano. D’altronde, le Meditaciones trovano una delle occasioni della loro origine proprio in una sfida intellettuale, e precisamente in quella polemicamente lanciata da Unamuno agli “europeisti” spagnoli con la pubblicazione, nel 1912, di El sentimento trágico de la vida. Sfida raccolta e intesa da Ortega nel suo signiM. BARRIOS CASARES, Romanzo, teoria e circostanza nelle Meditazioni del Chisciotte, infra. 1

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Omaggio a Ortega

ficato più profondo, in quanto assunzione della responsabilità del pensiero di fronte alle esigenze principali poste dal proprio tempo. Non casualmente, le Meditaciones vengono esplicitamente considerate dal loro autore come la lente particolare attraverso la quale restituire il modo in cui Cervantes vedeva e interpretava la realtà moderna, rivendicandone l’attualità e la produttività per il lettore contemporaneo. Per tali ragioni, in molti dei saggi proposti viene opportunamente dato ampio spazio all’analisi dell’ambiente storico e culturale entro il quale il testo del ’14 prese forma, contribuendo al chiarimento e alla comprensione della sua genesi, dei suoi contenuti e della sua forma espressiva2. Nella sottolineatura degli elementi di continuità, ma anche di “emergenza”, rispetto al contesto, è possibile mostrare il significato e l’originalità dell’operazione che Ortega intese compiere con la pubblicazione del suo primo libro, quasi «cifra esemplare della peculiare natura della relazione – com’è noto, in esso tematizzata – dell’io con la sua circostanza»3. Il «ritorno a Cervantes», riconosciuto come autore dell’unico libro spagnolo veramente «all’altezza dei tempi» e reso necessario di fronte alla situazione di crisi generalizzata, comporta la formulazione della domanda: «Che cos’è la Spagna?» in una direzione che si allarga all’idea stessa di una cultura e di una modernità europee, rispetto a cui emergono alcune questioni centrali, su cui i saggi qui raccolti si soffermano. Come viene osservato, il problema, non nuovo, della «europeizzazione della Spagna» si lega strettamente con quello di una cultura europea attraversata anch’essa da una crisi profonda. Ciò induce Ortega ad una riflessione sulle caratteristiche proprie delle due culture – mediterranea e germanica – considerate non nei termini di una assimilazione dell’una all’altra, bensì di una 2 Si veda, in particolare, il saggio di L. DE LLERA, Testo e contesto nelle Meditazioni del Chisciotte, infra. 3 C. CANTILLO, «Salvar las apariencias»: tra amore e logica, infra.

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Introduzione

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loro possibile produttiva integrazione. Aspetto, quest’ultimo, che rimanda alla questione più generale del rapporto vita-cultura e dei rispettivi strumenti, impressionistico e concettuale, affrontata nella originale delineazione di una prospettiva di pensiero che fa i conti, decretandone l’inadeguatezza, con ogni deriva metafisico-irrazionalistica, ma anche, al tempo stesso, con le pretese della ragione pura o del positivismo4. Com’è noto, la cultura svolge, lungo l’itinerario di pensiero di Ortega, una fondamentale azione di «salvación» nei confronti della vita, di cui rappresenta la “messa in sicurezza” nelle forme stabili (ma non eterne, né date una volta per tutte) delle sue produzioni. Tra queste un ruolo essenziale è svolto dall’arte, cui il giovane Ortega dedicò il proprio precoce interesse in saggi che evidenziano, proprio per quanto riguarda l’utilizzo del termine «salvación», la continuità delle posizioni del ’14 con quelle di un «realismo estetico» di stampo modernista5. D’altronde – ce lo ricorda più di un contributo del volume – nelle Meditaciones Ortega riconosce all’arte una caratteristica «luciferina» proprio nella capacità che le è propria di sottrarre la realtà alla sua immediatezza e alla letteralità del significato attraverso l’atto esemplare della creazione umana. Nella peculiare declinazione di realismo che – producendole in una nuova forma in quanto, simmelianamente, «più che vita» – comprende e “salva” le cose, risiede un’altra tematica centrale dello scritto del ’14, quella del rapporto tra realismo e idealismo, che introduce a sua volta la questione della persistenza nel pensiero di Ortega di una matrice neokantiana anche dopo il 1913, vale a dire dopo il dichiarato superamento di essa alla luce dell’influenza esercitata dalla fenomenologia. Una «oscillazione» che si rivela nell’utilizzo di espressioni poetiche, volte ad indicare 4 Cfr. J. LASAGA MEDINA, Le Meditaciones del Quijote nella genesi della “ragione vitale”, infra. 5 Cfr. G. FERRACUTI, Le radici moderniste delle Meditaciones del Quijote di Ortega y Gasset, infra.

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Omaggio a Ortega

il rapporto tra le cose e le forme della loro umana comprensionesignificazione, quali «selva ideale» o «saetta forestiera», in cui la dinamica di superficie e profondità, pur orientando convincentemente nella direzione della fenomenologia, lascia comunque emergere il ruolo strutturante e ordinatore del concetto, di stampo neokantiano6. Queste ultime osservazioni consentono di porre all’attenzione del lettore altri due punti cruciali che vengono a delinearsi con chiarezza nelle Meditaciones. In primo luogo, si tratta della questione relativa al riconoscimento dei diversi piani di strutturazione della realtà, a cui Ortega perviene con l’apporto della fenomenologia, in particolare attraverso la lezione di Schapp. In secondo luogo, e in maniera strettamente collegata, la consapevolezza della complessità del reale, non riducibile ad una piatta orizzontalità né ad un secco dualismo rispetto al soggetto, conduce il filosofo spagnolo ad un più profondo «ripensamento del concetto di realtà», in cui la ragione moderna «si fa essa stessa problema»7, secondo una direzione successivamente approfondita e determinata nello sviluppo del suo pensiero. Un’idea di realtà complessa che, nelle suggestive pagine delle Meditaciones, si rende chiara attraverso la forma del «realismo poetico», il quale supera l’ambito di una riflessione di carattere meramente estetico o quello di una estrinseca trattazione dei generi letterari e della loro storia per porsi come uno dei principali snodi teorici dell’opera, facendosi “cifra” della stessa relazione “esperienziale” dell’uomo con il «bosco-mondo» cui è costitutivamente legato8. In tale direzione, il romanzo, e in maniera esemplare il Don Quijote, compie una duplice, intrecciata, operazione: «portare la reCfr. M.L. MOLLO, La “selva ideale” del Chisciotte. La traduzione di hyle e morphé nelle Meditaciones, infra. 7 J. SAN MARTÍN, Il Chisciotte come un trattato sulla realtà. A partire dalle Meditazioni del Chisciotte, infra. 8 P. CEREZO GALÁN, Il bosco e la ginestra ardente (Appunti su poesia e realtà nelle Meditazioni del Chisciotte), infra. 6

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Introduzione

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altà quotidiana al livello, che fino ad allora era dominio del mito, del mondo poetico» e, con ciò, grazie allo sguardo “destabilizzante” dell’ironia, «scoprire la realtà quotidiana come ambito della creazione artistica, ossia poetica»9. Si tratta, come detto, di un’operazione eccedente il piano interno della teoria delle forme narrative, in cui queste ultime funzionalmente rimandano ad un nucleo filosofico fondamentale, vale a dire il riconoscimento di una ragione non limitata alla dimensione logico-inferenziale, ma capace di allargarsi a quelle componenti e ai relativi strumenti – in primo luogo la fantasia e la poesia – che ne rivelano la radice vitale10. Il pensiero di Ortega mostra, così, la propria stretta affinità con quello umanistico e, in particolare, vichiano, contribuendo a tracciare la strada di una filosofia in cui si coniugano ragione e storicità, pensiero e vita, scienza e narrazione11. Proprio in ordine a quest’ultima, centrale questione, le Meditaciones rivelano un ulteriore, sostanziale motivo di interesse. Il loro oggetto è il romanzo spagnolo “per eccellenza”, il Don Quijote, e però – si diceva – esse vanno decisamente al di là dell’ambito del romanzo e della sua esegesi, facendosi strumento e “luogo” di un preciso orientamento filosofico (ed è questa la ragione per la quale uno storico, quale Américo Castro, «di salda formazione filologica e di destissimo interesse per le teorie della storia», e certo non «insensibile alla distinzione tra “narrazione” e “descrizione”», non poteva non rimarcare tutta la distanza tra il “suo” Quijote e quello di Ortega12). D’altra parte, il tema stesso della “meditazione”, così come Ortega chiarirà in anni successivi, indica la direzione entro cui si colloca lo scritto del ’14, giacché rinvia alla capacità, tutta umana, di «ensimismarse», abbandonando il terreno sicuro della 9 J. SAN MARTÍN, Il Chisciotte come un trattato sulla realtà. A partire dalle Meditazioni del Chisciotte, infra. 10 Cfr. A. SAVIGNANO, Ortega e il Chisciotte. Prospettive filosofiche, infra. 11 J.M. SEVILLA, Ortega e la filosofia del Sud, infra. 12 Cfr. F. TESSITORE, Ortega, Castro e il Quijote, infra.

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Omaggio a Ortega

superficie e del dato per lanciarsi nelle profondità “acquatiche” e “marine” in cui risiede la vitalità del pensiero, laddove è possibile ricercare l’autentica «chiarezza». Si tratta dell’opera di salvación propria della cultura che, oltre le forme cristallizzate di una verità definitivamente enunciata e conquistata, continuamente riapre, al cospetto della realtà e delle circostanze, la domanda filosofica, e, con essa, la ricerca del logos profondo che qualifica in quanto tale ogni produzione umana e spirituale. Ad una tale infaticabile opera, piuttosto che la forma assiomatica e dimostrativa della scienza – cui, ricordando celebri passaggi dell’opera, corre l’obbligo della «prova» – è congeniale la forma del saggio, in grado di esprimere la natura “aperta”, “dialogante” e “interrogante” di quella ragione vitale che nelle Meditaciones trova un primo, più consapevole momento del suo percorso di fondazione. Infine, quello del ’14 «non è un libro che esaurisca il suo contenuto nell’interpretazione del Quijote, né in una prima approssimazione fenomenologica all’idea di vita, o a quella di profondità, e non è neanche un saggio sulla cultura mediterranea e tanto meno una riflessione sui generi letterari o sul romanzo». Non si identifica esclusivamente con uno solo di questi temi precisamente perché «è tutto questo insieme»13, in una unità nella quale agisce quale elemento connettore uno stile filosofico problematico, aperto al riconoscimento del “plurale”, e che, perciò, continua a mostrare al lettore contemporaneo la vitalità dei propri contenuti e l’innegabile suggestione della propria scrittura*. G. CACCIATORE, Il posto della parola. Lo stile filosofico di Ortega tra meditazione e saggio, infra. * Quando il libro era già in stampa è apparsa, per questi stessi tipi, la nuova edizione delle Meditazioni del Chisciotte (con l’aggiunta dei saggi su Baroja), a cura di Giuseppe Cacciatore e Maria Lida Mollo. Le citazioni dalle Meditazioni contenute nel presente volume sono, perciò, da riferirsi all’edizione Guida del 1986. 13

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Manuel Barrios Casares

Romanzo, teoria e circostanza nelle Meditazioni del Chisciotte A cent’anni dalla sua pubblicazione, Meditazioni del Chisciotte continua a sfidare il lettore affinché realizzi quell’imperativo della comprensione invocato nella sua prefazione, con l’obiettivo di unire i molteplici livelli di significato contenuti nel testo. Questo primo libro, pubblicato da Ortega a Madrid nel 1914 come volume iniziale di una delle raccolte edite dalla Residencia de Estudiantes, rappresenta senza dubbio un’opera singolare, scritta in una prosa brillante, modernista per alcuni ed espressionista per altri, ricca di spunti teorici, ma anche di enunciati meritevoli di un maggiore sviluppo, ricchezza, questa, che motiva una tale disparità di interpretazioni. Ulteriori fattori si sono venuti a sommare alla difficoltà oggettiva di uno scritto in cui Ortega, nel suo più chiaro ruolo di filosofo, appariva dinanzi al pubblico come una sorta di Minerva nata da un giorno all’altro già matura dalla testa di Zeus, senza antecedenti né chiari indizi dell’itinerario intellettuale che lo aveva condotto fin lì. È opportuno ricordare, inoltre, che dopo la Meditazione Preliminare e la Meditazione Prima, sottotitolata “Breve trattato sul romanzo”, avrebbero dovuto far seguito altre due meditazioni su Cervantes e altre sette su argomenti vari, ma il progetto rimase incompiuto1 e proprio l’incompiutezza dell’opera rappresenta un ulteriore motivo di controversia esegetica. Tutto ciò ha contribuito al dibattito su quali fossero le vere chiavi di lettura del libro: in effetti, si tratta di un testo che si presenta prima facie come una rifles1 Per una ricostruzione di questo progetto, si veda l’edizione di E. Inman Fox in J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones sobre la literatura y el arte (la manera española de mirar las cosas), Espasa-Calpe, Madrid, 1987.

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Manuel Barrios Casares

sione filosofico-culturale sul “chisciottismo” del romanzo cervantino, ma che al contempo proietta tale questione nell’ambito di una delucidazione inerente al dibattito sull’essenza della Spagna; inoltre, in non minor misura, compie un accostamento saggistico a concetti fondamentali del pensiero orteghiano come quelli di vita, circostanza o prospettiva, alcuni dei quali hanno trovato, in queste pagine, la loro prima formulazione. È così che in questo testo riconosciamo l’Ortega teorico della vita, l’Ortega teorico del romanzo ma anche – non meno essenziale – l’Ortega teorico della circostanza spagnola, in altre parole, l’Ortega teorico della crisi, colui che iniziava la sua denuncia della sterilità di una vecchia politica nazionale alimentata dai due partiti della Restaurazione, conservatori e liberali, che si limitavano a alternarsi al potere conservando i propri privilegi mentre ignoravano i reali problemi del paese: una situazione di crisi e di delusione che Ortega metteva in relazione con l’inizio della decadenza della Spagna ai tempi di Cervantes e che oggi, osservata a un secolo di distanza, potremmo certamente ricondurre alla situazione attuale. Qual è, dunque, il vero tema di questo libro? Una teoria del romanzo sviluppata a partire dal Chisciotte? Il problema spagnolo? Il tema della filosofia e del suo metodo, del modo di accedere alla pienezza di significato delle cose? Siamo dinanzi a una propedeutica filosofica, a una riflessione estetica, a una proposta pedagogico-nazionale? Non c’è dubbio che un po’ di tutto ciò sia presente in questo libro labirintico, esso stesso selva e bosco, come la produzione di Ortega nel suo insieme, che non si lascia interpretare attraverso uno solo dei diversi cliché con cui la si è voluta classificare. Sin dall’inizio, Meditazioni del Chisciotte si presenta come uno splendido esercizio di filosofia della cultura. Ortega analizza alcuni tratti peculiari della cultura spagnola, descritti sulla scia del romanzo cervantino e propone un nuovo metodo per organizzarli, col fine di porre rimedio alla situazione di crisi in cui si ritrova la nazione. Così contemplata, la «preoccupazione patriot-

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Romanzo, teoria e circostanza nelle Meditazioni del Chisciotte

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tica»2 sembra essere l’asse fondamentale di quest’opera che, in tal senso, risulta coerente con le tesi esposte nei principali interventi pubblici fino a quel momento compiuti dal giovane pensatore, sia attraverso conferenze sia in numerosi articoli di giornale, nei quali l’elaborazione della propria figura intellettuale e quella dei destinatari della sua opera è assunta come compito essenziale per raggiungere un’autentica pregnanza delle idee nello spazio cittadino. In effetti, Ortega aveva intrapreso l’elaborazione del proprio pensiero sul problema spagnolo a partire da un’argomentazione che, prendendo le mosse dalla tesi novantottista sul fallimento secolare della nazione, era giunta a riconoscere nella diagnosi del “rigenerazionismo” di Joaquín Costa un principio indiscutibile: che la Spagna fosse il problema e l’Europa la soluzione. Partendo da quei presupposti, aveva cercato di conferire loro un maggior respiro filosofico. In Vieja y nueva política, testo concepito contemporaneamente alle Meditazioni del Chisciotte, il richiamo orteghiano a un’azione nazionale si spinge chiaramente oltre le tesi rigenerazioniste. La sua idea di modernizzazione appare a Ortega superficiale. Fondamentalmente non distante da Unamuno, il filosofo madrileno non si fida di un programma di mera razionalizzazione che sottovaluti quella vitalità che maggiormente identifica la Spagna. Ortega intensifica il senso di quella necessaria rigenerazione, giungendo al nucleo più profondo del problema rappresentato dalla Spagna. Nel prendere le distanze da Costa non si limita a imputare il motivo del problema alle classi governanti: queste «hanno governato male non per caso – scrive – ma perché la Spagna governata era tanto malata quanto lo erano esse». A ciò aggiunge: «Il male è che non è lo Stato spagnolo ad essere malato solo per errori esterni della po2 J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, Publicaciones de la Residencia de Estudiantes, Serie II, vol. I, Madrid, 1914, p. 59; tr. it. Meditazioni del Chisciotte, a cura di B. Arpaia, introduzione di O. Lottini, Guida, Napoli, 1986, p. 50.

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Manuel Barrios Casares

litica; chi è malata, quasi moribonda, è la razza, la sostanza nazionale, e, pertanto, la politica non è la soluzione sufficiente del problema nazionale perché questo è un problema storico»3. Dunque, in questa cornice di inquietudini politiche e culturali sono vari gli elementi delle Meditazioni del Chisciotte in cui è possibile rinvenire lo sviluppo di istanze precedenti. Tuttavia, ciò non impedisce che la peculiare costruzione storico-filosofica sulla quale si fonda la caratterizzazione orteghiana della realtà culturale spagnola includa, in tale opera, anche una prospettiva originale. È necessario considerare che, almeno a partire dal 1911, il pensatore era immerso in un intenso processo di assimilazione e riorganizzazione delle sue fonti germaniche nell’ottica della formulazione di una propria posizione filosofica. Ortega continuava ad affermare, nel 1911, che «la cultura germanica è l’unica via di accesso alla vita essenziale». Ciò nonostante, sentendosi sempre più distante dalla stretta osservanza neokantiana dei suoi maestri, a quel necessario passaggio per l’Europa aveva aggiunto, come epilogo al suo articolo su El imparcial, una sfumatura decisiva: «Ma ciò non è sufficiente»4. La svolta dal neokantismo alla fenomenologia si determina tra il 1911 e il 19165, anni i quali, più che di formazione, rivelano già un pellegrinaggio filosofico alla ricerca di una voce propria. Nel volgere di diverse decadi, la “ermeneutica venerativa” dei diretti discepoli di Ortega come Julián Marías o Antonio Rodríguez Huéscar, troppo legati alla versione imprecisa fornita dal loro maestro circa i propri rapporti con la fenomenologia, ha finito per occultare del tutto questi stessi rapporti. Alcuni ID., Vieja y nueva política, in Obras completas, Alianza Editorial-Revista de Occidente, Madrid, 1983, vol. I, p. 276; tr. it. “Vecchia e Nuova Politica”, in Scritti Politici, a cura di L. Pellicani e A. Cavicchia Scalamonti, UTET, Torino, 1979, p. 179 e p. 180. 4 ID., Alemán, latín y griego (1911), in Obras completas, I, cit., p. 210. 5 Periodo compreso tra il suo terzo viaggio in Germania e quello in Argentina, si potrebbe dire; o, con maggiore precisione, dall’adesione al gruppo di Hartmann fino al suo corso Sistema de la Psicología. 3

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contributi come quelli di Oliver W. Holmes, Philip W. Silver o Nelson Orringer – sebbene seguano percorsi piuttosto contrastanti – hanno iniziato a delineare questo complesso contesto di influenze6. Ma è stato soprattutto il libro di Pedro Cerezo, La voluntad de aventura, pubblicato un anno dopo il centenario dalla nascita di Ortega, a delineare un nuovo orizzonte interpretativo al quale, in buona parte, continuiamo ancora ad attingere7. In questo florido terreno, reso fertile dall’esegesi di Cerezo, hanno raccolto i propri frutti altri rinomati studiosi di Ortega come José Lasaga, Javier San Martín, Javier Zamora o José Manuel Sevilla, ognuno secondo la propria prospettiva, esplorando nuovi percorsi interpretativi8. A partire dagli anni ottanta, inoltre, è stato possibile accedere a ulteriore materiale inedito, che ha contribuito a migliorare la conoscenza della genesi delle Meditazioni del Chisciotte e del pensiero orteghiano nel suo complesso. Ora è noto, ad esempio, che la “Meditazione Prima” si basa in buona parte su di un testo del 1912, inizialmente dedicato a Baroja e all’agonia del romanzo, e pertanto il suo punto di partenza precede quello delle due prime parti del libro. Ciò chiarisce in parte perché, in un libro dal titolo Meditazioni del Chisciotte, siano così scarse le pagine dedicate alO. W. HOLMES, Human Reality and the Social World: “Ortega’s Philosophy of History”, University of Masschussets Press, Armherst, 1975; PH.W. SILVER, Fenomenología y razón vital: Génesis de “Meditaciones del Quijote” de Ortega y Gasset (ed. orig.: Ortega as Phenomenologist: The Genesis of “Meditations on Quixote”, Columbia University Press, 1978), Alianza, Madrid, 1978; N. ORRINGER, Ortega y sus fuentes germánicas, Gredos, Madrid, 1979. 7 P. CEREZO GALÁN, La voluntad de aventura. Aproximamiento crítico al pensamiento de Ortega y Gasset, Ariel, Barcelona, 1984. 8 Cfr. J. LASAGA, José Ortega y Gasset (1883-1955): Vida y Filosofía, Biblioteca Nueva, Madrid, 2003. J. SAN MARTÍN, Fenomenología y cultura en Ortega, Tecnos, Madrid, 1998; J. ZAMORA (a cura di), Guía Comares de Ortega y Gasset, Comares, Granada, 2013; J.M. SEVILLA, Conquistar lo problemático. Meditaciones de Ortega y Cervantismo, Fénix, Sevilla, 2005; ID., Prolegómenos para una crítica de la razón problemática. Motivos en Vico y Ortega, Anthropos, Barcelona, 2011. 6

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l’opera di Cervantes – sebbene non per questo meno significative. Attualmente è possibile basarsi anche su analisi più esaustive di quanto documentato in alcuni testi, tra i quali: la conferenza del giugno del 1913, Sensación, construcción, intuición, gli articoli Sobre el concepto de sensación, così come altri inediti del 1912, rimasti tali fino al 2007, o come il corso del 191516, Sistema de la Psicología, (inedito fino al 1982, quando fu pubblicato da Paulino Garagorri con il titolo di Investigaciones fenomenológicas). Con questo materiale è possibile ipotizzare una suggestiva ricostruzione della fenomenologia di (non solo in) Ortega y Gasset come quella condotta da Javier San Martín nella sua opera omonima del 20129. Oppure è possibile ricontestualizzare l’intero sistema di relazioni tra Ortega e la fenomenologia (Husserl, Heidegger) a partire dallo studio più scrupoloso del sostrato previo, di taglio nietzscheano e fichtiano, come propone in modo del tutto convincente Pedro Cerezo nel suo studio del 2011, José Ortega y Gasset y la razón práctica10. L’impronta di Simmel, evidenziata da Francisco Gil Villegas in Los profetas y el Mesías. Ortega y Lukács como precursores de Heidegger en el Zeitgeist de la Modernidad (19001929)11, risulta anch’essa decisiva per la comprensione della centralità del nesso vita-cultura in questo giovane Ortega. Alla luce di tali prove, minimizzare l’importanza di questi fattori per insistere sul fatto che il vero nucleo del libro del 1914 sia un tentativo di emancipazione dal criticismo kantiano dall’interno dello stesso paradigma neokantiano piuttosto che una prematura ricezione critica della fenomenologia, come ha fatto un reJ. SAN MARTÍN, La fenomenología de Ortega y Gasset, Biblioteca Nueva, Madrid, 2012. 10 P. CEREZO GALÁN, José Ortega y Gasset y la razón práctica, Biblioteca Nueva, Madrid, 2011. 11 F. GIL VILLEGAS, Los profetas y el Mesías. Ortega y Lukács como precursores de Heidegger en el Zeitgeist de la Modernidad (1900-1929), FCE, México, 1996. 9

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Romanzo, teoria e circostanza nelle Meditazioni del Chisciotte

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cente editore delle Meditazioni, non sembra del tutto opportuno12. Senza dubbio, la mescolanza di elementi a volte di difficile compossibilità è ciò che rende così complessa la lettura di questo libro ma è anche, come suggerito all’inizio, ciò che gli conferisce una ricchezza di sfumature cui è opportuno non rinunciare; ovviamente, non si può risolvere tale complessità attraverso una lettura unilaterale. In definitiva, è necessario sottolineare come Meditazioni del Chisciotte sia uno splendido esempio delle tensioni interne che delineano il percorso del pensiero orteghiano in questa tappa di incipiente maturità: è possibile riscontrarvi tracce della reinterpretazione neokantiana del platonismo, indizi del metodo fenomenologico, aspetti di una proposta di sintesi culturale che raccoglie il lascito della Critica del giudizio kantiana, e al contempo bilancia la tensione tra le influenze nietzscheane e fichtiane, che si alternano nel giovane Ortega, così come manifestazioni episodiche del principio della ragione vitale. Concepita come risposta al chisciottismo tragico unamuniano, l’opera si sviluppa con l’avvio della “Meditazione Preliminare” come fenomenologia mondana, per finire col proporre una nuova filosofia della cultura di taglio al contempo classicista e vitalista. Ortega ricorre alle sue fonti germaniche con l’obiettivo di riscattare il valore della propria tradizione ridimensionando, in tal modo – in chiave più goethiana che nietzscheana – il gusto spagnolo per l’immediatezza sensibile. Per portare a termine tale impresa – e ciò costituisce l’aspetto singolare della ricezione orteghiana della fenomenologia – il metodo di andare alle cose stesse, di considerarle nel loro modo originario di presentarsi, si trasforma in un alleato fondamentale. A questo punto, più che determinare l’esatto rapporto in cui si combinano tutte le influenze teoriche e i suggerimenti raccolti 12 Cfr. J.L. VILLACAÑAS, “Introducción: la primera singladura de Ortega”, nell’edizione critica di J. Ortega y Gasset, Meditaciones del Quijote, Biblioteca Nueva, Madrid, 2004, pp. 9-141.

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da Ortega nel suo primo libro, forse risulterà più convincente il tentativo di sintetizzare gli apporti delle diverse interpretazioni menzionate per rispondere al perché Ortega amalgami questi elementi e a quale scopo obbedisca la loro concomitanza in queste pagine. E per provare a rispondere a una simile domanda, è necessario partire da alcuni dati messi in evidenza, ormai da tempo, dalla ricerca orteghiana. In primo luogo, dall’influenza che nella fase iniziale della genesi di questa meditazione ebbero alcune opere apparse in Spagna nel 1905, in occasione del terzo centenario dalla pubblicazione della prima parte del Chisciotte: in particolare, la Vida de Don Quijote y Sancho di Unamuno, in modo minore La ruta de Don Quijote, di Azorín e, soprattutto, El ingenioso hidalgo Miguel de Cervantes Saavedra, del suo amico e confidente di gioventù, Francisco Navarro Ledesma. Del lavoro di Azorín, anche se prettamente letterario e privo di una dimensione filosofica, Ortega ha valorizzato lo stile descrittivo molto efficace nel riunire e presentare le cose più marginali e insignificanti. Al di là delle successive critiche al costumbrismo degli scrittori della generazione del 98, è proprio in quel preciso tratto azoriniano che Ortega ha ritrovato un’ulteriore conferma, sebbene castizamente indefinita, di quel modo spagnolo di vedere il mondo, perfezionato successivamente in ciò che egli stesso definirà «lo stile cervantino». Meno benevolo è stato il suo giudizio sull’opera di Unamuno: sebbene inizialmente in accordo con l’esortazione unamuniana all’eroismo, la sua eccessiva glorificazione del personaggio del Don Chisciotte apparve, al giovane Ortega, come un’insensata scommessa per vano idealismo, puro utopismo o volontarismo suicida. In tal modo lo esprime in una delle lettere della sua corrispondenza con Navarro Ledesma. Mentre elogia – non senza sfumature – lo studio di Navarro, El ingenioso hidalgo Miguel de Cervantes, proprio per essersi soffermato sull’autore prima ancora che su uno dei suoi personaggi e per aver compreso il nobile gesto di sobrietà con cui Cervantes aveva affrontato alla fine dei suoi giorni l’avversità e il fallimento di molte delle sue illusioni giovanili, al contrario dice di Una-

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muno: «possedeva il segreto per trasformare il libro più simpatico (in senso scientifico) dell’universo, nel libro più antipatico e repellente della terra. D’altro canto, ha confuso l’eroe, l’entusiasmador, con l’energumeno e il libro è proprio ciò: l’opera di un energumeno»13. Riflettendo sull’efficacia di questi diversi approcci all’opera cervantina, il giovane Ortega riuscì ben presto a trovare la propria chiave ermeneutica. Come ha evidenziato con particolare maestria José Lasaga nel suo articolo La llave de la melancolía. El papel de Cervantes en los orígenes de la razón vital 14, questa chiave si evince in una lettera scritta da Ortega alla sua amata il 15 marzo del 1905. In questa, evocando la raffigurazione di Miguel de Cervantes tratteggiata da Navarro Ledesma nel suo libro, le scrive: A proposito, hai letto il Chisciotte? Che vergogna che tu non l’abbia letto! Leggilo molto lentamente, medita sulle tante cose su cui bisogna meditare. Considera che lo ha scritto un uomo che era stato durante quasi tutta la sua vita pieno di buona fede davanti all’esistenza, come te, come me, come tutti noi che abbiamo una propensione e una necessità che ardono, si infiammano per ogni forma di eroismo. Cervantes lo ha scritto quando aveva perso questa buona fede e quando tale amore per l’eroismo aveva smesso di essere attivo (gli restava ancora l’amore passivo che piange sull’impossibilità di essere eroe – chi non ha né quello passivo né quello attivo non piange né ride di questo, non se ne occupa). Copia su un foglio questa frase che scrisse Mme. Stael (sic) senza riferirsi ovviamente al Chisciotte: “La cosa più grande che l’uomo ha compiuto la deve al sentimento doloroso dell’incompiutezza del proprio destino”. Nessuno ha visto in questa frase – nel caso l’avesse letta – la decifrazione del Chisciotte. A me ha consegnato

13 L. ROBLES (a cura di), Epistolario completo Ortega-Unamuno, El Arquero, Madrid, 1987, p. 592 (188). 14 J. LASAGA, La llave de la melancolía. El papel de Cervantes en los orígenes de la razón vital, in «Revista de Occidente», 288, 2005, pp. 39-60.

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la chiave della malinconia che apre completamente l’anima di questo libro15.

Così Ortega inizia a intravedere un senso differente dell’eroismo, quello stesso che successivamente cercherà di infondere ai suoi esperimenti della nuova Spagna: la figura di un eroe ben diverso da quello dipinto da un esacerbato idealismo morale, di un uomo che vuole trasformare la realtà, ma che sa di esserne parte, implicato nelle circostanze che combatte e consapevole persino del limite della sua eroica azione. Non per questo smette di perseguire i suoi intenti, né rinuncia alla sua impresa, alla sua volontà di avventura. Ma neppure si inganna circa la possibilità di fallire. Da questo incontro tra entusiasmo e coscienza dei limiti nasce la proposta classicista di Ortega, che cerca di prendere le distanze allo stesso modo sia dal delirio volontarista di Don Chisciotte sia dal passivo e conformista senso comune di Sancio Panza. Come Hegel, Ortega vede nel romanzo un genere che sfugge all’idealismo della letteratura cavalleresca. Ma è interessante dimostrare come questa chiave di malinconia, riscontrata sulla base della lettura del libro di Navarro Ledesma, farà sì che nella sua interpretazione si consolidi una cruciale sfumatura diversificatrice. Possiamo capirlo meglio accostandoci adesso a quello scritto del 1912, originariamente dedicato a Baroja e all’agonia del romanzo che, come detto in precedenza, è alla base del testo per la “Meditazione Prima” delle Meditazioni del Chisciotte. Iniziamo col sottolineare che nel testo Ortega conferisce all’espressione «agonia del romanzo» un senso unamuniano. Ciò che gli preme non è, pertanto, la questione della morte del romanzo bensì l’analisi dei suoi tratti più caratteristici e, soprattutto, della peculiare tensione dalla quale esso ha origine. Quando, in questo testo, si menziona la forma in cui la produzione romanzesca di J. ORTEGA Y GASSET, Cartas de un joven español, Fundación José Ortega y Gasset-Ediciones El Arquero, Madrid, 1991, pp. 321-322 (Carta 99). 15

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Baroja plasma la suddetta tensione, lo si fa in modo critico. Baroja o Azorín sono per lui «scrittori costumbristas», esponenti di un realismo incapace di superare il tono piatto, grossolano, persino isterico e volgare di una razza spiritualmente impoverita, per cui non riescono a elaborare altro se non un’estetica del romanzo limitata e parziale16. Già un anno prima, in Una primera vista sobre Baroja (1910), nel considerare come fosse nato il romanzo di Cervantes, Ortega era ricorso a un modo di spiegare l’evoluzione letteraria, dall’epica al genere romanzesco, in cui il romanzo si presentava come il risultato della convivenza tra due tipi di letteratura: una cavalleresca, sublime e fantastica, idealista, e una letteratura eroica come prodotto di una cultura d’elite, come frutto di una generosa dedizione agli ideali; descriveva, invece, il romanzo picaresco, quasi in tono nietzscheano, come un genere nato dal risentimento degli uomini volgari: Parallelamente ad esso [al romanzo di cavalleria], ma strisciando sulla terra, si dispiega la letteratura dell’infimo popolo. [...] Il cantore plebeo vede l’uomo con occhi da valletto da camera. Non crea un mondo; da dove conseguirà questi senza vacillare, assediato dalla fame e dall’angoscia, il contadino, l’affamato, il disonorato, ansimanti per la fatica, dall’anima devastata, lo sforzo sovrabbondante per creare esistenze, forme di vita? Copia la realtà che è dinanzi a lui, con fiero occhio di cacciatore furtivo: non dimentica un pelo, una macchia, una crosta, un neo. La copia è critica. E questo è il suo obiettivo; non creare, criticare. È mossa dal rancore17.

Ortega iniziò a manifestare una maggiore attenzione nei confronti dell’opera di Baroja e di quella di Azorín a partire dal 1910-11, precisamente quando, dopo il suo secondo soggiorno a Marburgo, iniziò a maturare il suo cambio di orientamento dal razionalismo al raziovitalismo, includendo in tale modifica i propri progetti per una pedagogia nazionale. 17 J. ORTEGA Y GASSET, Una primera vista sobre Baroja (1910), in Obras completas, Revista de Occidente, vol. II, Madrid, 1963, p. 122. 16

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Si potrebbe dire: troviamo qui un luogo comune nell’opera del difensore della minoranza d’elite. E, tuttavia, proprio a questo punto, facendo un ulteriore passo verso ciò che sarà la sua idea del romanzo e dello stile cervantino nelle Meditazioni – una direzione coerente con la chiave della malinconia già messa in luce – Ortega aggiunge la seguente, decisiva sottolineatura: Nei secoli XV, XVI, XVII, queste due letterature, la amante e la rancorosa, donano proporzioni classiche alla sua interpretazione del romanzo, in ambedue parziale. Il tema dell’amore e dell’immaginazione si accende come uno splendido fuoco d’artificio nel libro di cavalleria. Il tema del rancore e della critica matura nel romanzo picaresco. Il primo romanzo integrale che si scrive, nel mio modo di intendere il romanzo, è il Chisciotte, e in esso si danno un abbraccio momentaneo, nella tregua di Dio che il cuore di un genio offre loro, amore e rancore, il mondo immaginario ed etereo delle forme e quello gravitante, impervio della materia. Cervantes è l’Uomo; né servo né padrone18.

Accentuando la differenza tra entrambi i generi letterari, più di quanto avesse fatto Gyorg Lukács nella sua coeva Teoria del romanzo19, Ortega non rileva una semplice continuità tra l’epica antica e il romanzo moderno bensì una drastica ricomposizione in cui, una volta che l’impresa (epica) smette di essere creduta come qualcosa di reale e si trasforma in avventura immaginaria (nei libri di cavalleria), si recupera in modo ironico, indiretto, forse come volontà: volontà d’avventura. Il romanzo, nel suo aspetto più riuscito, così come lo forgia Cervantes, è la risultante dell’abbraccio tra le opere dell’amore e quelle del rancore, tra ciò che è elitario e ciò che è plebeo, tra l’impresa inverosimile e il prosaico attaccamento alla consuetuIvi, pp. 123-124. L’opera di Lukács fu pubblicata nel 1920, ma redatta negli anni che precedono la Prima Guerra Mondiale. Si veda, a tal proposito, GIL VILLEGAS, op. cit., pp. 69-81. 18 19

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dine. Bisogna riflettere, pertanto, sul fatto che, nel modello concepito da Ortega, il romanzo cervantino non rappresenta semplicemente un esercizio di disincanto critico dinanzi all’idealismo smisurato, fantastico e irrealizzabile della letteratura cavalleresca; suppone anche una correzione della risentita sottomissione realista a ciò che è dato. Nella misura in cui tale correzione presume una certa riconciliazione con la leggerezza e immanenza dello sguardo “volgare”20, essa regola anche l’elitismo orteghiano più di quanto alcuni dei suoi interpreti siano soliti indicare. Ortega riprende quel modello, conforme al proprio sentire classicista, per la sua capacità di creare un’opera equilibrata, che moderi gli eccessi verso l’una o l’altra direzione, allo stesso modo in cui egli cerca di tracciare una filosofia che non cada negli estremi dell’idealismo e del realismo. In tal senso, ritengo pienamente pertinente quanto afferma José Lasaga nell’articolo precedentemente citato: se nella “Meditazione Prima” è ancora possibile osservare occasionalmente alcune tracce di una concezione dell’eroe non molto diversa, in fondo, dalla concezione unamuniana dell’eroismo della volontà, al contrario, nelle due parti preliminari – che, ricordiamo, sono posteriori nella stesura – Ortega elabora una nuova concezione, più personale, che suppone una “critica dello sforzo puro”, cioè, una critica del modello tragico di eroicità di stirpe romantica, comprendendo come il sentiero dei suoi maestri neokantiani – o persino dello stesso Fichte – non risulti, in ultima analisi, così diverso dal volontarismo mistico di Unamuno. In ognuno di questi casi si ha la pretesa di sottomettere il reale ai dettami di un volere incondizionato. La questione spagnola si colloca così in un contesto più ampio, quello di una modernità europea che, aspirando all’impossibile, sia sotto forma della ragione pura sia sotto quella di una volontà di potenza, ha lasciato alle spalle di questa impresa Si anticipa qui un tema sviluppato in La deshumanización del arte, quello relativo al carattere immanente dell’arte contemporanea. 20

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smisurata un fondo nichilista di delusione. Ortega reagisce contro tali astrazioni, facendo sì che l’eroismo di una volontà che si accanisce contro il reale maturi verso l’eroismo della teoria, eroismo di una contemplazione serena, alcionica, delle circostanze che conformano la nostra vita. Così come esistono due figure dell’eroe, nelle Meditazioni del Chisciotte ci sono anche due malinconie: quella del personaggio di Don Chisciotte, che sente di non poter più rendere il mondo conforme ai suoi desideri e la malinconia non risentita dello spettatore (theoros), che lascia che le cose siano, che si avvicinino per mostrare la loro vera intimità. Questo è il nuovo eroe di Ortega: Cervantes; o potremmo anche dire: il romanziere e, per estensione, l’artista che, come si legge in Ensayo de estética a manera de prólogo, è capace di mostrarci le cose nella loro «assoluta presenza», cioè, nel loro essere esecutivo (essendo). Questo nuovo eroe, al contempo spettatore, artista e teorico, è colui che deve insegnarci un nuovo modo di vedere. Volgendo lo sguardo verso l’ambito più vicino attraverso il quale la sua esistenza si apre al mondo, Ortega lascia allora che le virtù e i difetti dell’anima ispanica si intravedano. Lì scopre il valore del nostro gusto eccessivo per l’immediato e il sensibile. Ma anche il suo limite. Non è in quel piano immediato di realtà dove si stanzia la chiarezza cercata dal filosofo. La cultura è lavoro della distanza, chiarimento riflessivo del fondo vitale senza rinunciare ad esso. È necessario coordinare questi due piani della realtà, come recita il classicista proposito orteghiano. Non è l’idea astratta a dover prevalere. Nemmeno il mero sensualismo. L’integrazione cui fa riferimento Ortega raccoglie l’eredità della Critica del giudizio kantiana, ma trasferendo il suo schema conciliatorio verso un nuovo modello di ragione pratica. Ortega costruisce il suo nuovo modello di eroe, così come la sua nuova risposta alla crisi, ridimensionando quel paradigma estetico che dal romanticismo al vitalismo era servito come fattore chiave per indirizzare qualsiasi disamina e risposta alla modernità. Si tratta di ricreare un’estetica spagnola come forma di identità culturale, muovendo con efficacia una critica dei valori che non si esaurisca

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in vaghe proiezioni ideali né in modalità risentite di ripudio dell’esistente. In tal modo, con strumenti di critica presi dall’arsenale nietzscheano, Ortega integra il vitalismo della sua idea di cultura in una proposta riconciliata con la dimensione della volgarità o, per meglio dire, dell’umiltà che implica l’esistenza. Così è possibile replicare a quella domanda dal tono severo del suo maestro neokantiano, Hermann Cohen, con la quale il pensatore madrileno apriva il suo libro: «E se il Don Chisciotte fosse solo una burla?»21. Il modo cervantino di avvicinarsi alle cose sospende l’indole reattiva, risentita della burla, che squalifica il suo oggetto e riesce a spostarlo su una considerazione in cui, senza negare la sua realtà e i suoi limiti, questi è “salvato”, riscattato dall’unilateralità del giudizio puramente negativo, quando si scopre l’intrinseca complessità e contraddittorietà dell’intera esistenza. Si tratta di un movimento che, come in Nietzsche, deriva dall’ironia romantica22. In una delle sue Notas de trabajo scrive Ortega: La suprema ironia del Chisciotte è proprio la sua morte. Tutto è in esso volgare tranne Don Chisciotte, e coloro che si irritano oggi, con una tipica mancanza di alta sobrietà mentale, per il fatto che Cervantes lo abbia fatto morire savio non si rendono conto che era necessario che Don Chisciotte si arrendesse anche al volgarismo23.

21 H. COHEN, Ethik des reines Willens (System der Philosophie, Zweiter Teil), Bruno Cassirer, Berlin, 1904, p. 487. 22 Ciò che si guadagna da questa coscienza ironica è il riconoscimento del fatto che la vita, nella misura in cui non è interamente razionale, è contraddittoria: un’idea che Ortega continuerà a sviluppare secondo molteplici livelli quando parlerà, ad esempio, di scontro con le cose e con sé stesso (si veda Antología y edición de J.L. MOLINUEVO, El estilo de una vida (Notas de trabajo de José Ortega y Gasset, in «Revista de Occidente», 132, 1992, p. 67), o della problematicità dell’esistenza. Cfr. J.M. SEVILLA, Prolegómenos para una crítica de la razón problemática. Motivos en Vico y Ortega, Anthropos-Cuajimalpa, Barcelona-México, 2011, cap. VI: “Tropezar con el otro (Problematología orteguiana del cuerpo y lo social)”, pp. 342-381). 23 Notas de trabajo, cit., p. 55.

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Con l’egualitarismo che la morte presuppone, la propria circostanza e prospettiva ammettono il loro limite, senza che per questo perdano totalmente di valore. Questa riduzione dell’enfasi idealista, che non sfocia nel nichilismo, è ciò che viene reso possibile dalla costante ironizzazione che ricorre nel testo di Cervantes: è ciò che permette allo stesso Don Chisciotte di intravedere fino a che punto il proprio autentico mondo degli alti ideali cavallereschi si sia infine convertito in fiaba, come quando discende nella grotta di Montesinos24, senza che per questo la lezione che si deduce dal romanzo sia il mero monito realista che Hegel ha voluto leggere in esso. È questa ambiguità a mettere in scena allo stesso tempo il teatrino di mastro Pedro, con i suoi pannelli come frontiera tra il mondo fantastico dell’avventura e la dimora di coloro i quali meramente si affannano a vivere, con Don Chisciotte situato al centro di questi due continenti spirituali25. Non si può semplicemente squalificare l’immaginario come illusorio una volta che la stessa realtà ha evidenziato la propria cecità rispetto a una dimensione di alterità ad essa stessa inerente. Ivi, p. 54: «Quando Fausto scende negli inferi, vede lì le “Madri”, che sono le madri delle cose. È altro, ciò che non è il soggetto. Quando Don Chisciotte scende nella grotta di Montesinos non incontra altro che i propri fantasmi: è la grotta di sé stesso – è il suo me ipsum –, e lì scopre di essere un bugiardo. Questo contatto di Don Chisciotte con un sé stesso oggettivato lo fa chanceler e non ritorna a credere del tutto in se stesso». 25 Cfr. l’epigrafe 9 della Meditazione Prima, “Il teatrino di mastro Pedro”, e l’impiego di tutta una costellazione di metafore inerenti al tema della morte di Dio e all’avvento del nichilismo da parte di Nietzsche (p.e., nell’aforisma “L’uomo folle” de La gaia scienza), iniziando dal riferimento a come l’immaginario «ci permette di sfuggire al grave peso dell’esistenza», (Meditaciones del Quijote, cit., p. 167; tr. it. p. 107) fino al momento culminante del seguente passaggio: «Il cavallo di Don Gaifero, nel suo galoppo vertiginoso, lascia dietro la coda una scia di vuoto: in essa si precipita una corrente di aria allucinata che trascina con sé tutto quello che non è ben ancorato alla terra. E là volteggia, rapita nel vortice illusorio, l’anima di Don Chisciotte, leggera come un soffione, come una foglia secca» (ivi, p. 168; tr. it. pp. 107-108). 24

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In tutto ciò si può rilevare come Ortega abbia preso le distanze da Nietzsche rielaborando motivi nietzscheani. Non si tratta del fatto che, come è stato detto in modo inesatto, il filosofo madrileno abbia sostituito l’inattualità delle meditazioni nietzschiane con la circostanzialità di una meditazione attinente al presente26. Si tratta piuttosto del fatto che il prospettivismo orteghiano non ha voluto rinunciare ad ancorarsi a una certa oggettività delle cose, ed è per questo motivo che è ricorso al metodo fenomenologico, come supporto per poter formulare una critica dei valori caduchi che non sfociasse in un’altra delle molteplici aporie nichiliste della volontà pura che hanno caratterizzato una modernità autoproblematica. Dunque, l’incontro con la fenomenologia ha fornito a Ortega uno stimolo inaspettato ma straordinariamente efficace, per portare a termine un simile ridimensionamento del paradigma romantico e nietzscheano di critica della modernità. L’intero gioco di differenze che si evince dall’analisi della coppia superficie-profondità al principio della “Meditazione Preliminare” risulta esemplare in questo senso. Il rimando a un ambito che conferisce una struttura di intelligibilità al vissuto – e ciò esemplifica in modo evidente la metafora del bosco – è qui usato da È una interpretazione molto parziale del senso della critica nietzscheana quella che non percepisce fino a che punto la distanza intempestiva rispetto a ciò che è celebrato dal proprio tempo giochi a favore del proprio presente. Allo stesso modo, in Ortega si ritrova una esplicita negazione della Spagna caduca da intendersi come passo ineludibile per trovare un’altra Spagna ed «edificare una nuova affermazione» (ivi, p. 59; tr. it. p. 50). Dall’altra parte, in linea con il fatto che Ortega continui a manifestare le sue discrepanze rispetto alla fenomenologia husserliana, considerando che la sua ossessione per la posizione della “coscienza di” falsi la sua vocazione di incontro con il mondo, l’elaborazione della sua proposta di una ragione vitale tornerà a ricorrere a motivi nietzscheani. Ancora in queste prime battute, il raziovitalismo orteghiano ha temperato il suo impeto nietzschiano, la sua celebrazione della spontaneità della vita, con un richiamo alla necessità ineludibile di chiarimento concettuale. Sul recupero di Nietzsche, si veda. P. CEREZO, José Ortega y Gasset y la razón práctica, cit., pp. 161 e ss. 26

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Ortega in una singolare combinazione di metodo fenomenologico e filosofia della cultura, per difendere la sua idea secondo la quale ragione e vita non devono opporsi bensì coordinarsi. Questo è ciò che bisogna mettere in luce. Non l’impresa delirante dell’idea o della volontà priva di realtà bensì l’incontro del concetto con il mondo vissuto. Per questo motivo sono lavori di amore e concetto quelli che Ortega compie nelle sue Meditazioni, «gonfio di paura e di tenerezza per le meraviglie del mondo»27. È così che si salvano le circostanze: quando l’affanno per comprenderle è animato da un amore intellettuale, che non nasconde la critica ma che non è mero rancore; quando l’interesse per quelle non le deforma illusoriamente ma le riconosce nei loro limiti, nella loro umiltà e, anche così, sa che vale la pena estrarre da loro un senso, un logos, che costituisce una prospettiva che ci illumina su ciò che ci circonda. In tal modo matura quel primo anelo del giovane Ortega di conciliare mondo sensibile e mondo intellettuale, la razza e la scienza28. La “Meditazione Preliminare” dispiega questo logos a partire da alcuni dei luoghi attraverso cui l’anima di questo giovane spagnolo si andò aprendo al mondo, in concreto, il bosco de La Herrería e il Monastero dell’Escorial. Il bosco: quell’ambito in cui ci sono cose ma che, come tale, non appare mai. Qualcosa che non si limita ad essere un luogo, nemmeno una somma di cose ma che lascia che ci siano e si mostrino altre cose che pur sono lì, più in superficie: gli alberi. Ciò che consente il manifestarsi di ciò che compie atto di presenza per cui possiamo dire che esiste. El Escorial: quell’energumeno ispanico fatto di pietra – grande pietra lirica – monumento al puro J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, cit., p. 135; tr. it. pp. 89-90. O come lo esprime anche in un’altra delle sue Notas de trabajo, cit., p. 53: «Il problema dello stile di Cervantes è lo stesso di quello delle mie salvazioni e della mia futura filosofia – salvare il presente. Senso del presente, di ciò che è transitorio. Come senza l’eternità – senza passato né futuro– il presente non abbia senso, ma come, nonostante ciò, possa conservare il proprio valore indipendente, è qualcosa di più di un vaso in cui l’eterno si va versando. Cerco di riunire l’anima e il corpo – aspiro a Dioniso-Platone». 27

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sforzo, all’ideale senza realtà concrete in cui incarnarsi. Lì si condensa ciò che è la Spagna come realtà: la Spagna, scrive Ortega al termine di questa Meditazione, non è altro che il fallimento di ciò che si è soliti chiamare Spagna (come possibilità). Sottile impresa di salvezza, quella orteghiana: salvare dal fallimento, dalla disfatta, dal naufragio che la Spagna è stata in quanto possibilità, estrarre ancora una volta dalle macerie della tradizione quella possibilità, salvarla da ciò che ha impedito di portarla alla pienezza di significato. A cent’anni di distanza, forse cerchiamo ancora di far sì che gli alberi della nostra fallita realtà spagnola non ci impediscano di scorgere il bosco della sua più splendida possibilità. [Traduzione di Antonella De Laurentiis]

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Giuseppe Cacciatore

Il posto della parola: lo stile filosofico di Ortega tra meditazione e saggio La gamma di significati legati alla parola Meditazione è ampia e diversificata ed ognuno di essi può ritrovarsi nell’uso che ne fa Ortega. Se si apre il capitolo quarto del Vocabolario delle istituzioni indoeuropee di Benveniste – che è dedicato alla radice med e alla nozione di misura – si vedrà che il termine si ritrova nel greco médomai che sta ad indicare il meditare, ma anche il riflettere e l’inventare. Nel passaggio al latino meditor, alla meditazione e alla riflessione si aggiunge l’atto dell’esercitazione1. Non si tratta solo del nesso che l’antica sapienza greca e latina istituivano tra la considerazione e il pensiero (ma non si trascuri il significato fortemente filosofico che assume la derivazione dal greco mélei, aver cura), bensì anche di quello, attestato in Cicerone, legato all’esercizio sia in chiave retorica che in quella pedagogica2. Né va trascurato un ulteriore significato di meditazione che si ritrova nella tradizione filosofica e teologica del misticismo – forte e radicata proprio nella cultura spagnola – nella quale l’ascesi mistica si articola nei tre livelli della cogitatio, della meditatio e della contemplatio (che in questo contesto sta a rappresentare il raccogliersi dell’anima in se stessa)3. Come dicevo innanzi, questi usi e questi significati sono certamente coerenti Cfr. E. BENVENISTE, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, vol. II, Potere, diritto, religione, Einaudi, Torino, 1976, pp. 377 e ss. (titolo originale: Le vocabulaire des institutions indo-européennes, Les Editions de Minuit, Paris, 1969). 2 Cfr. i lemmi “Meditatio” e “Meditor” nel Totius Latinitatis Lexicon, a cura di E. Forcellino, Giachetti, Prato, 1844. 3 Cfr. N. ABBAGNANO, voce “Misticismo”, in Dizionario di filosofia, terza edizione aggiornata e ampliata, a cura di G. Fornero, UTET, Torino, 2001. 1

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con l’uso poliforme e polifonico che ne fa Ortega nella sua opera. D’altronde sono non pochi i saggi orteghiani che recano nel titolo la parola meditazione: Meditaciones del Quijote; Meditación de la técnica; Meditación del pueblo joven; De Europa meditatio quaedam; Meditación de las danzarinas; Meditación de Don Juan; Meditación del marco, ecc., a riprova di uno schema che non è solo formale, ma, come vedremo, filosoficamente sostanziale. Come ha giustamente sostenuto un maestro degli studi orteghiani, Pedro Cerezo Galán, riflettendo proprio sulle Meditaciones del Quijote, se non c’è stile nel pensiero, non può esservi alcun pensiero originale. «Lo stile è la forma generatrice di un campo di esperienze e, pertanto, una forma di saggiare [ecco un’altra parola chiave dello stile di pensiero orteghiano] e sperimentare il mondo. Meditaciones significa, ancor prima di un programma, l’invenzione di uno stile, e, di conseguenza, l’inizio di un nuovo cammino di pensiero»4. Ancora in un saggio recente, Galán sottolinea giustamente come le Meditaciones rappresentino la conquista di uno stile mentale nuovo che supera definitivamente il conflitto tra l’ideale oggettivo della verità e il potere dell’immagine. «Intorno al 1914, questa tensione si rende stabile nel fecondo regime tra il mondo delle impressioni e il potere configurante del concetto, che dà luogo alla sua teoria della verità come a-létheia o rivelazione del senso immanente alla carne stessa dell’immagine»5. Lo stile orteghiano si manifesta così non solo a livello di un esercizio espositivo o didascalico, ma soprattutto a quello della conquista di una progressiva coscienza di sé, di una autoconsapevolezza dietro la quale si legge in filigrana «un nuovo concetto e metodo della filosofia»6. Così, anche se si Cfr. P. CEREZO GALÁN, “Meditaciones del Quijote o el estilo del héroe”, in Id., José Ortega y Gasset y la razón práctica, BibliotecaNueva, Fundación Ortega y Gasset- Gregorio Marañon, Madrid, 2011, p. 73. 5 Cfr. ID., “De camino hacia sí mismo (1905-1914)”, in Ortega y Gasset, Guía Comares, ed. J. Zamora Bonilla, Comares, Granada, 2013, p. 44. 6 Ivi, p. 74. 4

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volesse ricondurre, come sostiene Javier San Martín, lo stile di pensiero dell’Ortega delle Meditaciones alla prima sezione delle Ideen di Husserl, ciò avviene però dentro un progressivo e consapevole programma filosofico di definizione e costruzione di una teoria filosofica della cultura. Lo stile di pensiero che deriva dalla fenomenologia husserliana, la sua applicazione nelle Meditaciones alla determinazione del dualismo tra latente e patente, tra virtuale e reale, si traduce in un primo consapevole abbozzo di teoria della cultura. Insomma la domanda di fondo alla quale l’acuto lettore delle Meditaciones non può sottrarsi è la relazione «tra la dualità che le Meditaciones del Quijote mettono allo scoperto, vale a dire, la dualità tra impressione/interpretazione, Roma/Grecia, cultura mediterranea/cultura germanica, ecc., e quella che ha esposto come propria della fenomenologia, la dualità tra esecutivo/virtuale, realizzato/non realizzato, presenza mediata/presenza immediata»7. Soltanto ponendosi a un così alto livello di riflessione teorica poteva realizzarsi la genesi – come ha efficacemente scritto Julián Marías – «di una vocazione filosofica creatrice»8, anche se non avulsa dalle grandi correnti filosofiche europee del tempo e specialmente da quella tedesca. E la capacità di creare pensieri filosofici originali doveva portare la parola di Ortega dentro uno stile, 7 Cfr. J. SAN MARTÍN, Fenomenología y cultura en Ortega. Ensayos de interpretación, Tecnos, Madrid, 1998, p. 69. Ma sulla presenza della fenomenologia nelle Meditaciones cfr. ID., La fenomenología de Ortega y Gasset, Editorial Biblioteca Nueva, Madrid, 2012, pp. 86 e ss. Come osserva Zamora (“Presentación” a Ortega y Gasset, Guía Comares, cit., pp. 6-7) San Martín, nei suoi accurati e approfonditi studi, è portatore di una interpretazione che mira a considerare il posto di Ortega nella filosofia contemporanea sostanzialmente dentro la tradizione fenomenologica. Ma, osserva Bonilla, proprio l’approdo a una interpretazione della filosofia husserliana come un idealismo trascendentale spinge Ortega ad allontanarsi da essa nello stesso momento in cui la accoglie. 8 Cfr. J. MARÍAS, “Prólogo a la tercera edición” (1984), in J. Ortega y Gasset, Meditaciones del Quijote, Cátedra, Madrid, 20129, p. 10.

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quello cervantino, caratterizzato, fin dal titolo del grande romanzo, dall’ingegno9, dalla facoltà di trovare (invenire) luoghi ed immagini. Era, come osserva ancora Marías, uno stile certamente ascrivibile a un genere filosofico (la meditatio), ma la cui prossimità al tema quijotesco doveva creare non pochi effetti di disorientamento. Sbaglierebbe, tuttavia, chi volesse trovare la filosofia nelle Meditaciones indipendentemente dalle pagine e dalle parti letterarie, come se si potesse arbitrariamente separare la meditazione orteghiana sulla teoria della conoscenza e della realtà dal suo contesto letterario. «E ciò perché tutto il libro è filosofico, e cercare la filosofia in esso è perdere la sua parte maggiore e migliore; soprattutto perdere la sua forma originale e propria, il suo modo peculiarissimo di stare in quel libro»10. Allora si può ben dire che le Meditaciones non è un libro che esaurisca il suo contenuto nell’interpretazione del Quijote, né in una prima approssimazione fenomenologica all’idea di vita, o a quella di profondità, e non è neanche un saggio sulla cultura mediterranea e tanto meno una riflessione sui generi letterari o sul romanzo. Esso è tutto questo insieme e il vero denominatore comune sta, ancora una volta, nella unità dello stile di pensiero e della forma antisistematica affidata – come osserva giustamente Otello Lottini – al saggio, all’articolo, all’intervento breve. «In questa ottica, [Ortega] elabora una strategia linguistica, che dà alla sua scrittura una tensione intellettuale differita, con scansioni discrete e tensioni metaforiche, che si lasciano esplorare come un campo aperto di possibilità e di senso»11. Si tratta, né più né meno, dell’assunto programmatico affidato da Ortega alle famose linee introduttive del libro. «Sotto il titolo Meditaciones, questo primo Sia consentito rinviare a G. CACCIATORE, Formas y figuras del ingenio en Cervantes y Vico, in «Quaderns de Filosofia i Ciència», 37, 2007, pp. 57-70. 10 Cfr. J. MARÍAS, El primer libro de Ortega, introduzione all’ed. citata delle Meditaciones, p. 20. 11 Cfr. O. LOTTINI, «Introduzione» a J. Ortega y Gasset, Meditazioni del Chisciotte, tr. it. di B. Arpaia, Guida, Napoli, 1986, p. 5. 9

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volume annuncia dei saggi di argomento vario pubblicati da un professore di Filosofia in partibus infidelium. Alcuni […] trattano temi elevati; altri, temi più modesti; altri ancora, temi umili; tutti, direttamente o indirettamente, finiscono per riferirsi alle circostanze12 spagnole»13. Il paragrafo 6 della “Meditación preliminar” è, com’è noto, dedicato alla cultura mediterranea e lo sforzo analitico e teorico di Ortega volto a determinare la differenza fra la cultura latina e quella germanica, poggia in modo significativo sul concetto di meditazione. Sicché non desta meraviglia che l’inizio del paragrafo contenga una sorta di Meditatio in nuce (per parafrasare un famoso titolo di un saggio di Croce). Vediamo come si svolge, di metafora in metafora, il ragionamento di Ortega. «La meditazione è il movimento nel quale abbandoniamo le superfici, come coste di terraferma, e ci sentiamo lanciati verso un elemento più tenue, senza punti materiali d’appoggio. Avanziamo aggrappati a noi stessi, mantenendoci in sospensione grazie allo sforzo in un mondo etereo abitato da forme lievi»14. È nell’atto del meditare che si genera quella tensione, quello sforzo «doloroso e integrale», che aiuta l’animo a sostenersi. È nel procedere della meditazione che riusciamo ad orientarci nel groviglio dei pensieri, a separare e distinguere i concetti, a dirigere lo sguardo (la pupilla) in ogni piega del reale. «Così, possiamo andare e venire 12 Osserva opportunamente Marías, nel suo splendido e puntuale commento dell’edizione da lui curata delle Meditaciones, che in questo luogo si manifesta la prima determinazione della circunstancialidad orteghiana. «Sin da subito egli ebbe chiara consapevolezza di ciò che, con certa solennità, avrebbe espresso nel 1932, nel prologo alla prima edizione delle sue Obras: “La mia opera è, per essenza e presenza, circostanziale. Con ciò voglio dire che lo è deliberatamente, poiché senza deliberazione, e finanche contro ogni proposito opposto, è chiaro che l’uomo non ha mai fatto nulla nel mondo che non fosse circostanziale” (OC, vol. VI, p. 349)». 13 Cfr. J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, in Obras completas, tomo I, Taurus, Madrid, 20053, p. 747; tr. it. p. 31. 14 Ivi, p. 773; tr. it. p. 63.

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a nostro piacimento per i paesaggi di idee che ci presentano chiari e luminosi i loro profili»15. La metafora marina è tra le più utilizzate da Ortega – penso ad esempio a quella del naufragio16 – e così anche in questa pagina egli ricorre all’immagine di chi è colpito da un «mal di mare intellettuale» quando s’accorge di non poter affidarsi alla gomena di salvataggio dello sforzo meditativo. La meditazione entra così a contrassegnare la differenza tra la sensualità mediterranea e il concettualismo germanico, tra l’impressionismo delle cose e la chiarezza e distinzione delle idee17. «Il Mediterraneo è un’ardente e perpetua giustificazione della sensualità, dell’apparenza, delle superfici, delle impressioni fugaci che le cose lasciano nei nostri nervi commossi. La stessa distanza che troviamo fra un pensatore mediterraneo e un pensatore germanico la ritroviamo se compariamo una rètina mediterranea con una rètina germanica»18. Ma meditazione e impressione, essenza e presenza, superficie e profondità19 possono, 15 Ibidem; tr. it. p. 64. A tal proposito si possono richiamare le pagine di ORTEGA su Verdad y perspectiva, in Obras completas, tomo II, Taurus, Madrid, 2004, pp. 159-164. Una delle fonti di Ortega è Platone che parla dei filotheámones, gli amici dello sguardo (Symp. 201e). Ma sullo sguardo e la fenomenologia dello sguardo è da consultare il cap. VI de El hombre y la gente, in OC, tomo X, Taurus, Madrid, 2010, pp. 213-233. 16 Mi permetto di richiamare qui un mio saggio: “La ‘zattera della cultura’. Filosofia della crisi in Ortega y Gasset”, sta in G. CACCIATORE, Sulla filosofia spagnola. Saggi e ricerche, Il Mulino, Bologna, 2013, pp. 47 e ss. 17 «Ciò che occorre fare è correggere l’eccessivo predominio dell’impressionismo integrandolo con il concetto. Non dimentichiamo che il possesso si ottiene soltanto con esso: il possesso delle cose e quello di noi stessi» (così Marías, nota 93 del commento a Meditaciones del Quijote, cit., p. 166). 18 J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones, in OC, I, cit., pp. 778-779; tr. it. pp. 7071. «Per un mediterraneo l’essenza di una cosa è meno importante della sua presenza, della sua attualità: alle cose preferiamo la sensazione viva delle cose» (p. 779; tr. it. p. 71). 19 Più innanzi così scrive Ortega: «Di certo c’è una chiarezza tipica delle superfici e una chiarezza tipica della profondità. C’è la chiarezza dell’impressione e la chiarezza della meditazione» (ivi, p. 787; tr. it. p. 81).

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per così dire, anzi devono marciare congiunte verso l’obiettivo del riconoscimento, della convivenza tra due tipologie dell’umano: tra il vedere in superficie del sensuale e il pensare in profondità del meditativo20. «Cos’è il meditare rispetto al vedere? Appena una saetta forestiera ferisce la rètina, tutta la nostra intima, personale energia accorre là e arresta l’irruzione. L’impressione è registrata, civilizzata, pensata – e in questo modo entra a far parte dell’edificio della nostra personalità»21. Dunque Ortega non nega la funzione del concetto che non è quella di sostituirsi all’intuizione, a ciò che il filosofo definisce impresión real, ma quella di fungere come strumento di schematizzazione e di determinazione dei limiti della cosa22. Una volta chiariti i limiti e le funzioni del pensiero e del concetto – che non potrà mai darci la «carne dell’universo» –, Ortega riprende, per meglio chiarirne il senso, a delimitare il significato della meditazione e del meditare. E per farlo riprende il tema della luce, della claridad, o meglio delle sue distinte tipologie: la chiarezza delle superfici e la chiarezza della profondità, la chiarezza dell’impressione e la chiarezza della meditazione. E questa duplicità costitutiva del rapporto tra l’io e il mondo è, per così dire, narrata e sperimentata da Ortega a partire dalla sua pecuOpportunamente Marías riconduce la dialettica orteghiana tra claridad e profundidad alla distinzione proposta da Husserl, in Philosophie als strenge Wissenschaft, tra Tiefsinn e Klarheit, anche se sottolinea la distanza tra il modo in cui Ortega considera il rapporto tra la ragione vitale e le cose e il progetto fenomenologico di ridurre il reale al suo carattere di oggetto (cfr. nota 83 del commento a Meditaciones del Quijote, cit., pp. 157-158). 21 Cfr. J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, in OC, I, cit., p. 781; tr. it. p. 73. 22 «Oggi ci sentiamo molto lontani dal dogma hegeliano che fa del pensiero la sostanza ultima di ogni realtà. È troppo grande il mondo, e troppo ricco, perché il pensiero possa assumere la responsabilità di tutto ciò che vi accade. Ma nel detronizzare la ragione, facciamo attenzione a darle il posto che le compete. Non tutto è pensiero, però senza di esso non possediamo nulla con pienezza» (ivi, p. 785; tr. it. p. 78). 20

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liare eredità della tradizione e della circostanza. «Versano le mie pupille dentro la mia anima le visioni luminose; ma dal fondo di esse si ergono allo stesso tempo energiche meditazioni»23. E qui ritorna – nel linguaggio di una intimità autobiografica – il contrasto tra l’uomo iberico e l’uomo germanico, tra le due diverse eredità che pure hanno fatto parte dell’intera personalità del filosofo che non vuol essere costretto dentro l’una o dentro l’altra. Non obbligatemi ad essere solo spagnolo, se per voi spagnolo significa soltanto uomo della riverberante costa. Non infondete in me il germe della guerra civile; non aizzate l’iberico che mi si agita dentro con le sue aspre, irsute passioni contro il biondo germano, meditativo e sentimentale, che abita la zona crepuscolare del mio animo. Io aspiro a mettere pace fra i miei uomini interiori e li spingo alla collaborazione24.

Nel passaggio dall’esperienza narrativa del riferimento autobiografico alla riflessione filosofica e meditativa, Ortega chiarisce in modo inequivocabile il modo in cui pensa all’idea di claridad, al modo in cui essa conquista progressivamente la sua autonomia nei confronti del concetto che è quello di essere nella pienezza della vita, «luce sparsa sulle cose»25. Anche l’opera d’arte è portatrice di una «missione rischiaratrice, se si vuole luciferina», ma a patto che nei grandi stili artistici – e qui si mostra evidente il nesso 23 Ivi, p. 787; tr. it. p. 81. Muovendo da una accurata analisi comparata del tema dell’intersoggettività tra Husserl e Ortega, Maria Lida Mollo discute l’originale proposta orteghiana della vita dell’altro come realtà radicale, attraverso un consapevole oltrepassamento della centralità dell’io derivante tanto dalla tradizione neokantiana, quanto da quella husserliana (Cfr. M.L. MOLLO, “El otro y su pupila. Notas sobre la teoría de la intersubjetividad en Ortega”, in J. San Martín, T. Domingo Moratalla (a cura di), Las dimensiones de la vida humana. Ortega, Zubiri, Marías y Laín Entralgo, Biblioteca nueva, Madrid, 2010, pp. 81-94. 24 J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, in OC, I, cit., p. 785; tr. it. p. 81. 25 Ivi, p. 788; tr. it. p. 83.

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dialettico tra stile del concetto e stile dell’illuminazione, tra prodotto della forma e contenuto della spontaneità vitale – si mostri «un ambiente stellare o di alta montagna in cui la vita si rifrange vinta e superata, estenuata dalla chiarezza»26. Ed è questa una peculiare forma di meditazione espressa dai grandi stili artistici che la Spagna non ha saputo manifestare, giacché è stata quasi sempre dominata dall’impressione e ha evitato di servirsi del concetto. E tuttavia Ortega è fin troppo fedele alla sua circostanza e non propone che la cultura spagnola abbandoni quella «energica affermazione di impressionismo» che appartiene al suo passato, ma auspica tutto il contrario dell’abbandono: «un’integrazione». «Pura [castiza] tradizione spagnola non può significare altro, nel suo senso migliore, che luogo di sostegno per le esitazioni individuali – una terraferma per lo spirito –. Questo è ciò che non potrà mai essere la nostra cultura, a meno di non affermare ed organizzare il suo sensualismo nella cura della meditazione»27. Ed è proprio il Quijote l’esempio maggiormente rappresentativo di libro che dietro le sembianze del genere comico e burlesco nasconde una insondabile profondità. «Lontano, sola nell’aperta pianura della Mancia, l’allampanata figura di Don Chisciotte si incurva come un punto interrogativo; ed è come un guardiano del segreto spagnolo, dell’equivoco della cultura spagnola […]. Non esiste altro libro capace di tante allusioni simboliche al senso universale della vita, e, tuttavia, non esiste altro libro con meno anticipazioni, meno indizi per la sua stessa interpretazione»28. Così il Quijote è un luogo simbolo della parola letteraria dove può trovare composizione il contrasto tra la luce intermittente del bosco e della superficie e la profondità della meditazione alla quale spinge il romanzo. E il conflitto – come ho scritto in un mio saggio – può tradursi in una relazione virtuosa tra i due livelli, quello della vista e quello del pensiero. «Senza dubbio, la profondità del Chisciotte, Ivi, p. 789; tr. it. p. 83. Ivi, p. 790; tr. it. p. 84. Il corsivo è mio. 28 Ibidem; tr. it. p. 85. 26 27

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come ogni altra profondità, è ben lungi dall’essere evidente. Come esiste un vedere che è un guardare, così c’è un leggere che è un intelligere, o leggere dentro, un leggere pensoso. Solo a quest’ultimo si manifesta il senso profondo del Chisciotte»29. Ma torniamo all’atto del meditare. Esso, per Ortega, come si è visto, è il momento in cui il pensiero del concetto prende il sopravvento, senza mai ottenerlo del tutto, sull’impressione e con questa cerca di realizzare uno status di integrazione, un intreccio simbiotico che caratterizza l’essenza stessa della vita e che solo è in grado di indurci alla ricerca di idee chiare, di verità. «Quasi tutto il mondo è alterato, – sono parole che Ortega pronuncia alla fine dell’ottobre del 1939 mentre era a Buenos Aires – e nell’alterazione l’uomo perde il suo attributo più essenziale: la possibilità di meditare, di raccogliersi dentro di sé per mettersi d’accordo con se stesso e chiarirsi su ciò che crede e su ciò che non crede; ciò che davvero apprezza e ciò che detesta. L’alterazione lo offusca, lo acceca, lo costringe ad agire meccanicamente in un frenetico sonnambulismo»30. E, tuttavia, la possibilità di meditare è ciò che distingue l’uomo dall’animale, è ciò che è definibile come attributo essenziale dell’essere umano. Infatti ciò che caratterizza l’animale, la scimmia ad esempio, è uno stato di continua alteración, di continua inquietudine e allerta verso le cose e gli eventi del mondo esterno, a differenza dell’essere umano che è in grado di sospendere lo stato di alterazione, di distrarsi dall’altro e volgersi verso se stesso. È questo null’altro che l’operazione del pensare e del meditare, «il potere che ha l’uomo di ritirarsi virtualmente e provvisoriamente dal mondo e di mettersi dentro di sé, o detto con uno splendido vocabolo, che esiste soltanto nella nostra lingua: che l’uomo può ensimismarse»31. Ivi, p. 772; tr. it. p. 63. Cfr. ID., Ensimismamiento y alteración, in Obras completas, tomo V, Taurus, Madrid, 2006, p. 534. Il tema è, com’è noto, sviluppato nel primo capitolo de El hombre y la gente. 31 Ivi, p. 536. 29 30

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Con una movenza ontogenetica triadica di sapore vichiano, Ortega descrive l’itinerario che l’uomo percorre per arrivare all’ultimo livello che è quello del pensiero, della meditazione. Il primo, come si è visto, è quello della alteración, del naufragio nelle cose; il secondo è quello del ritirarsi dell’uomo nella sua intimità e nel suo sforzo di formare idee sulle cose, uno stato di vita contemplativa, il theoretikos bios; il terzo vede l’uomo tornare a immergersi nelle cose, per agire nel mondo secondo un progetto, la vita activa, la praxis. «In base a ciò, non è possibile parlare di azione se non nella misura in cui essa sia retta da una previa contemplazione; e viceversa, l’ensimismamiento non è altro che un proiettare l’azione futura»32. Si tratta, come si può ben vedere, di uno dei passaggi della filosofia orteghiana che più lo accumunano al pragmatismo33, proprio per il primato che Ivi, p. 539. Corsivo nel testo. Vedasi la lezione decima di Sistema de la psicología (1915-1916), in OC, tomo VII, Taurus, Madrid, 2007, p. 501; tr. it. in Sistema di psicologia e altri saggi, a cura di M.L. Mollo, Armando, Roma, 2012, p. 117: «La verità è il sentimento dell’evidenza – la credenza, James, la reazione emotiva dell’uomo intero. – La customary connexion di Hume». Sebbene Ortega assuma le Ricerche logiche di Husserl come modello del corso impartito tra l’anno 1915 e il 1916, con l’istanza antisoggetivista e antipsicologista che ne consegue, tuttavia opera un’inversione, più o meno consapevole, che concerne nientemeno che il rapporto tra verità e evidenza. E, infatti, se nella “Sesta Ricerca” Husserl afferma che l’evidenza è un «vissuto di verità» che è come dire che è perché c’è verità che può o non può esserci evidenza, Ortega, invece, nella lezione XIII scrive quanto segue: «La mia visione – la mia percezione visiva – mi dà quelle cose. Ciò che intendo quando penso lo trovo nella mia visione: avverto, dunque, l’identità tra il pensato e le cose date nella mia visione. L’atto nel quale vedo, nel quale trovo quell’identità è l’evidenza. Così come nella visione vedo dei colori, nell’evidenza vedo l’identità tra il pensato e le cose». Fin qui non vi sarebbe altro problema che quello della traduzione nei termini di “pensare” e “cose” di ciò che in termini husserliani è “identità” e “stato di cose”, ma subito dopo Ortega afferma «Ogni verità si fonda su un atto di evidenza» (p. 521; tr. it. p. 139). Ortega mantiene sì l’istanza antisoggetivista ma imprimendo una torsione “raziovitalista” (in queste stesse lezioni appare annunciato il sistema della ragione vitale) alla fenomenologia e, poco più avanti, afferma: «Non è, dunque, un im32 33

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viene accordato all’azione e per il rifiuto di una concezione del pensiero come una facoltà data all’uomo una volta e per sempre. Se così fosse il pensiero e la meditazione smarrirebbero una delle fondamentali condizioni dell’essere umano: il dramatismo34, giacché l’uomo non potrà mai essere sicuro di esercitare in ogni momento la facoltà del pensiero e di possedere per questo la verità, la quale si va facendo, si va costruendo volta per volta grazie a una disciplina che altro non è se non la cultura, qualcosa che l’uomo ha coltivato nel corso dei millenni e che non terminerà mai di elaborare nel corso della storia. «La sorte della cultura, il destino dell’uomo, dipende dalla capacità di mantenere sempre viva questa drammatica consapevolezza nel fondo del nostro essere e, come un contrappunto mormorante nelle nostre viscere, dal sentire bene che ci è sicura soltanto l’insicurezza»35. Ortega, pulso soggettivo ciò che mi muove a dichiarare veri i miei pensieri delle cose, bensì sono le cose a dare garanzia al mio pensiero» (ibidem). Si veda altresì la lezione VII, in cui il sistema della ragione vitale figura tra le scienze fenomenologiche o puramente descrittive, che si distinguono dalle scienze di realtà (come, ad esempio, le scienze fisiche). Tra quelle descrittive figurano alcune ben note come la logica, l’ontologia e la matematica, altre poco note come la “geometria dei colori”, e una per nulla nota che è «quella che io chiamo “sistema della ragione vitale”, il cui problema, alquanto difficile da esporre, non è stato, che io sappia, scoperto finora, intendo scoperto formalmente; germi oscuri e segni di esso stanno circolando per altre scienze o stanno formando quella zona pellucida della conoscenza scientifica così presente negli ultimi tempi sotto il nome di Weltanschauung o idea del mondo, e in una forma ancora più povera e più assurda nel cosiddetto “pragmatismo”» (pp. 479-480; tr. it. p. 91). Si ricordi che la metafora degli Dii consentes appare alla fine della lezione VI dello stesso corso. 34 «La struttura drammatica di ogni forma di dire – conferenza, articolo, saggio, libro – sarebbe stato un requisito imprescindibile, il fattore necessario della sua verità e della sua efficacia comunicativa» (cfr. J. MARÍAS, El primer libro de Ortega, cit., p. 21). 35 J. ORTEGA Y GASSET, Ensimismamiento y alteración, cit., p. 541. Anche in queste pagine vi sono le evidenti tracce della critica di Ortega a ogni concezione lineare e inarrestabile del progresso, tipica di tanta parte della cultura romantica e positivistica ottocentesca.

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Il posto della parola: lo stile filosofico di Ortega tra meditazione e saggio

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dunque, insiste con forza sulla relazione tra azione e contemplazione e lo fa ben sapendo di navigare contro corrente, di mettere in discussione tutta la tradizione logocentrica ereditata dalla filosofia greca e dai suoi sviluppi in quella moderna europea, di rompere i vincoli soffocanti dell’intellettualismo, di combattere il ricorrente tentativo di divinización de la inteligencia legato ai vari nomi di ragione, illuminismo, pensiero, cultura. «Tutta la mia opera – scrive Ortega – sin dai suoi primi balbettii, è stata una lotta contro questo atteggiamento, che secoli fa chiamai bigottismo della cultura»36, cioè contro un modo di presentare tanto il pensiero quanto la cultura come qualcosa che trovava la sua giustificazione in se stesso e questo portava e porta alla conseguenza negativa di dover porre la vita al servizio della cultura. Ma non meno aberrante è stato l’errore opposto, quello della posizione volontarista che, all’inverso, divinizza il momento dell’azione. Per questo Ortega, in anni difficili e tragici per l’Europa e il mondo intero, invita a rompere il circolo magico dell’alterazione. «Sembra sensato che ci diciamo […]: Calma!? Qual è il senso di un simile imperativo? Semplicemente quello di invitarci a sospendere per un momento l’azione, per raccoglierci dentro di noi, passare in rassegna le nostre idee sulla circostanza e forgiare un piano strategico»37. Ma l’atto della sospensione (una epoché di sapore husserliano che in Ortega amplia però il suo raggio di incidenza sulla cultura e la società) riguarda in modo particolare la meditazione, giacché essa, quando è positiva ed autentica, invita a sospendere il giudizio, «allontana inevitabilmente colui che medita dall’opinione ricevuta o dall’ambiente, da ciò che, per motivi più seri di quanto possiate attualmente supporre, merita il nome di “opinione pubblica” [il che mostra quanto Ortega sapesse cogliere con pronta intuizione gli effetti sociali e culturali dell’opinione pubblica] o “volgarità”». L’allontanamento dal volgare senso co36 37

Cfr. ivi, pp. 544-545. Ivi, p. 547.

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mune è lo stesso – ancora una metafora natatoria – che sperimenta colui che si discosta dalla sicura rotta costiera e si affida a quegli itinerari reconditi come lo sono i pensieri insoliti. «Sono questi il risultato della nostra meditazione»38. Conclusivamente, almeno per quanto riguarda il tema della meditazione, vi è una definizione di essa che si può leggere nel testo di una delle lezioni del corso 1930-31, che mi pare possa dare in modo esauriente il senso, a un tempo, filosofico e lessicale, del termine. «La meditazione è, dunque, un cammino che fa la mente dall’aspetto superficiale e aggrovigliato all’aspetto profondo e chiaro»39. Ma questo passaggio non avviene d’un balzo improvviso, esso segue le diverse tappe di avvicinamento e conserva (quasi con movenza hegeliana) la coscienza dei passi compiuti. Ecco perché è necessario «riprodurre costantemente i momenti decisivi del processo intellettuale che man mano nasce con noi»40. I fatti dell’esistenza, come ben sappiamo, non restano per Ortega nella loro fissità, ma si tramutano in un continuo faciendum, in un compito di orientamento tra le tante, diverse possibilità di essere nella realtà e nella storia. La vita, afferma Ortega, è un perenne crocevia e, dunque, per sua stessa essenza, perplejidad. Ma proprio perché la vita è perplessità, essa è, al tempo stesso, creencia41, cosicché se non si manifestasse una qualche perplessità non vi sarebbe credenza e perciò quest’ultima non può essere mai un fatto compiuto, dal momento che l’uomo deve costruirla da se stesso. Cfr. ID., ¿Qué es filosofía?, in Obras completas, tomo VIII, Taurus, Madrid, 2008, p. 235; tr. it. Che cos’è filosofia?, a cura di A. Savignano, Mimesis, Milano, 2013, p. 33 [leggermente modificata]. 39 Cfr. ID., ¿Qué es la vida?, lecciones del curso 1930-1931, in Obras completas, tomo VIII, cit., p. 413. 40 Ivi, p. 414. 41 Cfr. ID., Ideas y creencias, in Obras completas, tomo V, Taurus, Madrid, 2006, pp. 657-686; tr. it. “Idee e credenze”, a cura di L. Rossi, in Aurora della ragione storica, prefazione di L. Pellicani, Sugarco, Milano, 1983, pp. 239-271. 38

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Questo retrocedere dalla situazione perplessa, dalla vacillazione innanzi al bivio verso la nostra interiorità al fine di trovarvi una credenza non è né più né meno che la meditazione, lo sforzo della conoscenza. In vista di ciò che lo circonda, l’uomo si fa un’idea dell’universo e quell’idea significa per lui un piano su cui collocare la sua vita e sotto la cui guida decide ciò che sarà e supera così la perplessità42.

Torna il tema centrale della circostanza che è tale perché offre all’individuo un largo e infinito spettro di possibilità e ciò che rende complicato e terribile il mondo della vita è la facoltà di esercitare la nostra libertà, di decidere ciò che vogliamo essere, di andare a caccia del sentiero giusto. «Ogni meditazione è un’operazione venatoria, thereuma diceva Platone»43. Ma lo stile filosofico di Ortega non si esprime soltanto attraverso la meditazione, esso si affida anche alla forma-saggio. Carlo Bo, storico della letteratura e critico letterario, tra i maggiori francesisti e ispanisti italiani del 90044, ha scritto, quando Ortega era ancora in vita, parole appropriate e chiarificatrici sul suo stile saggistico. «José Ortega y Gasset è il saggista più vivo della Spagna, più vivo ancora oggi nonostante che la sua opera abbia raggiunto – e da molto – una misura esemplare e sopporti il peso del tempo e tale vitalità gli è conservata appunto dalla forza dello stile»45. Il grande critico italiano coglie, a mio avviso, nel segno quando individua la differenza che corre tra Ortega e altri saggisti europei nella capacità di non piegare il saggio alle urgenze e alle passioni del risentimento e di non perdere di vista ID., Estudios sobre la estructura de la vida histórica y social, manoscritto autografo del 1934, in Obras completas, tomo IX, Taurus, Madrid, 2009, p. 178. 43 ID., Obras completas, tomo IX, cit., p. 172 e p. 211. 44 Carlo Bo (1911-2001) ha tradotto in italiano, tra gli altri, Federico García Lorca, Ángel Ganivet, Miguel de Unamuno e lo stesso Ortega. Di quest’ultimo ha tradotto il saggio su Azorín e El Espectador. 45 C. BO, “Introduzione” a J. Ortega y Gasset, Lo Spettatore, Bompiani, Milano, 1949, vol. I, p. 6. 42

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i punti essenziali della sua riflessione interiore, e innanzitutto, il «bisogno della conoscenza», la «compattezza del discorso», la «struttura spirituale del saggio». I saggi di Ortega sono dunque non soltanto occasioni di riflessione sulle circostanze, non sono soltanto spunti di critica letteraria, storica o politica, ma anche e soprattutto il luogo di una parola che non è mai estemporanea ed occasionale, ma elaborazione e riproposizione di un meditare formatosi lungo il percorso interiore del pensiero. Lo Spettatore – sostiene Bo proponendo un confronto tra Ortega e Montaigne – «in una forma assolutamente nuova risponde a quell’antica esigenza dell’uomo che ritroviamo negli Essais»46. Non è allora certo un caso che la parola ensayos47 ricorra già nelle prime righe delle Meditaciones, là dove Ortega, pur annunciando la diversa qualità e intensità dei temi trattati e il loro prevalente riferirsi alle circostanze spagnole, dice dei suoi saggi che essi «sono – come la cattedra, il giornale o la politica – modi diversi di esercitare una stessa attività, di esprimere uno stesso sentimento […]. Il sentimento che mi muove è il più vivo che trovo nel mio cuore. Resuscitando il bel nome che usò Spinoza, lo chiamerei amor intellectualis. Si tratta quindi, o lettore, di saggi di amore intellettuale»48. Il tema è ripreso qualche pagina più Ivi, p. 10. Vi è una profonda differenza, secondo Bo, tra il «critico storico» e il «saggista», giacché se il primo si limita a evidenziare le differenze e a privilegiare il dato della storia, il secondo non giudica poiché la sua scienza particolare è ancora una sollecitazione verso una scienza generale. E aggiunge: «Ortega y Gasset cede alle parole una pronunzia speciale, la pronunzia del movimento verso la conoscenza» (ivi, p. 13). 47 Mi pare appropriata e condivisibile l’analisi lessicale e filosofica del termine ensayo che Julian Marías propone nel suo commento delle Meditaciones. Dall’atto del pesare qualcosa, exagium, si passa per traslato all’exigere ed all’examen. «È nota la tradizione intellettuale del saggio, a partire dal Rinascimento, e la sua fioritura in Spagna dalla generazione del 98 in avanti» (cfr. nota 28, p. 60). 48 J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, in OC, I, cit., p. 747; tr. it. p. 31. E più avanti: «Considero la filosofia come la scienza generale dell’amore; nell’ambito intellettuale essa rappresenta il maggiore slancio verso una con46

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avanti, quando Ortega ribadisce la qualificazione di saggi data alle sue meditazioni e offre una esemplare definizione di saggio che è «la scienza, meno la prova esplicita»49, cioè una forma libera di accostamento all’oggetto trattato, priva dell’obbligo di fornire le prove di quanto viene sostenuto50. Nei saggi che Ortega presenta al lettore «le dottrine, sebbene per l’autore siano convinzioni scientifiche, non pretendono di essere accolte dal lettore come verità. Io offro soltanto modi res considerandi, nuovi modi possibili di guardare le cose»51.

nessione completa […]. Il piacere sessuale sembra consistere in un’improvvisa scarica di energia nervosa. La fruizione estetica è un’improvvisa scarica di emozioni allusive. Analogamente, la filosofia è come una scarica improvvisa di intellezione» (ivi, pp. 752-753; tr. it. pp. 37-39). Inoltre, Ortega fa discendere l’azione essenziale dell’atto amoroso dall’interrogazione sul senso delle cose. «Interroghiamoci sul senso delle cose o, che è lo stesso, facciamo di ognuna il centro virtuale del mondo. Ma non è questo che fa l’amore? Dire di un oggetto che lo amiamo e dire che per noi è il centro dell’universo, luogo in cui si annodano tutti i fili la cui trama è la nostra vita, il nostro mondo, non sono espressioni equivalenti? […]. Platone vede nell’“eros” un impeto che porta le cose a legarsi tra loro; è – dice – una forza d’unione ed è la passione della sintesi. Per questo, secondo lui, la filosofia, che cerca il senso delle cose, va sostenuta dall’“eros”. La meditazione è esercizio erotico. Il concetto, rito amoroso» (ivi, p. 782; tr. it. p. 75). 49 Ivi, p. 753; tr. it. p. 39. 50 Riprende la definizione orteghiana dell’ensayo come scienza meno la prova esplicita, J.M. SEVILLA, Prolegómenos para una crítica de la razón problemática. Motivos en Vico y Ortega, presentación de E. Hidalgo Serna, Anthropos-Cuajimalpa, Barcelona-México, 2011, pp. 306 e ss. Si tratta, per Sevilla, di una «provocazione rivolta all’intelligenza; esortazione al pensare concreto e appello al valore della meditazione». 51 J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, in OC, I, cit., p. 753; tr. it. p. 39.

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«Salvar las apariencias»: tra amore e logica

Se è vero, in generale, che per comprendere adeguatamente un testo non è possibile prescindere dalla conoscenza delle concrete circostanze entro cui esso si colloca e in cui prende forma, questo è vero, in particolare, per uno scritto come le Meditaciones del Quijote. Per rilevanti aspetti esso rappresenta, infatti, un osservatorio privilegiato dello sviluppo del pensiero di Ortega y Gasset, giunto oramai alle soglie della sua maturazione, in cui vengono assumendo configurazione più determinata e consapevole temi e matrici teoriche di cui si era intensamente nutrito. A tale contesto sono stati dedicati studi approfonditi, che hanno chiarito il fitto ordito dell’opera, evidenziando il complesso di elementi e motivi che, in maniera intrecciata, agirono nell’ispirazione orteghiana, a partire da quelli più direttamente provenienti dall’ambiente intellettuale spagnolo a quelli riconducibili al confronto con alcuni momenti e nuclei teorici essenziali della storia della filosofia, e con il dibattito a lui contemporaneo1. Nell’uno e nell’altro caso, lo scritto si fa “cifra” esemplare della peculiare natura della relazione – com’è noto, in esso tematizzata – dell’io con la sua circostanza, in quanto mostra come quest’ultima, da fattore esterno, “ricevuto” in quanto tale dall’autore, si Molti dovrebbero essere i riferimenti bibliografici in proposito. Per comodità del lettore ci si limita a quelli più recenti, rimandando ad essi per le ulteriori indicazioni: P. CEREZO GALÁN, “De camino hacia sí mismo (1905-1914)”, in Guía Comares de Ortega y Gasset, ed. J. Zamora Bonilla, Editorial Comares, Granada, 2013, pp. 21-45; J. ZAMORA BONILLA, “Ahora hace un siglo”, in J. Ortega y Gasset, Meditaciones del Quijote, edición conmemorativa del centenario, Alianza Editorial, Fundación Ortega y Gasset-Gregorio Marañon, Fundación Residencia de Estudiantes, Madrid, 2014, pp. 9-55. 1

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faccia internamente operante in lui, dando vita, nel pensiero che la elabora e riflette su di essa, ad una originale produzione intellettuale. In un periodo fortemente critico per la Spagna, segnata dagli eventi del 1898, le celebrazioni, nel 1905, del terzo centenario della prima parte del Don Quijote costituirono l’occasione non solo per il fiorire di una serie di studi sull’opera e sul suo autore, ma anche, più in profondità, per una riflessione sulla identità stessa della Spagna, e sul suo ruolo rispetto all’Europa. Pur nella comune esigenza di rinnovamento e di rilancio della cultura spagnola, filosofi, letterati e intellettuali diedero vita a prospettive di interpretazione e di lettura diverse, contribuendo a disegnare – per usare il linguaggio orteghiano – l’insieme del quadro di credenze e di nuove idee sul quale si compone l’immagine della cultura spagnola del tempo. Ad essa il giovane Ortega partecipò in maniera intensa manifestando precocemente un interesse peculiare nei confronti del Quijote, indirizzato, in primo luogo, alla visione del mondo e dell’agire che Cervantes, attraverso il personaggio della sua opera principale, aveva inteso esprimere. Come dimostrano documenti di archivio, e in particolare gli scambi epistolari intercorsi a più riprese tra il 1905 e il 1907 da Leipzig e da Marburgo con il padre, con Miguel de Unamuno, l’amico Francisco Navarro Ledesma (intanto tragicamente scomparso) e con la futura moglie Rosa Spottorno, il «chisciottismo di Cervantes» costituisce fin dall’inizio il punto di vista determinato assunto in proposito da Ortega, che vide in esso – come si legge in un noto luogo delle Meditaciones – «una filosofia e una morale, una scienza e una politica»2 di cui lo stile poeJ. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, in Obras completas, Ed. Fundación José Ortega y Gasset. Centro de Estudios Orteguianos, Taurus, Madrid, 2004-2010 (d’ora in poi indicate con la sigla OC, seguita dal numero del volume e delle pagine), I, p. 793. Sull’interpretazione orteghiana della figura di Cervantes cfr. J. SAN MARTÍN, “Ortega y Gasset, Cervantes y Don Quijote”, in Meditaciones sobre Ortega y Gasset, Tébar, Madrid, 2005, pp. 193-232; H. CAR2

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tico è espressione. E, a questo riguardo, non si dimentichi che il progetto originario di Ortega – come si sa, nelle intenzioni programmatiche esteso a una serie di altre meditazioni – avrebbe dovuto prevedere una seconda parte delle Meditaciones, dedicata, per l’appunto, a Como Miguel de Cervantes solía ver al mundo3. È sulla base di tali presupposti che è possibile comprendere adeguatamente anche la portata delle note critiche rivolte da Ortega a Unamuno, ma pure a Navarro Ledesma. A quest’ultimo egli rimproverò di essersi arrestato, ne El ingenioso hidalgo Miguel de Cervantes Saavedra (1905), ad una narrazione, pur se avvincente e documentata, delle vicende biografiche di Cervantes, senza penetrare lo spirito profondo della sua personalità e della sua scrittura. Al primo, mosse obiezioni sostanziali su più piani, prendendo precocemente le distanze nei confronti di un pensiero orientato verso una deriva di «misticismo» e di «barbarie». Già nel 1905, comunicando a Navarro Ledesma le proprie impressioni sulla Vida de Don Quijote y Sancho, il giovane Ortega fa alcune precise considerazioni critiche. Quanto alla figura Ortega, Cervantes y las Meditaciones del Quijote, in «Revista de Filosofía», 30, 2005, 2, pp. 7-34; P. CEREZO GALÁN, “Cervantes en Ortega”, in José Ortega y Gasset y la razón práctica, Editorial Biblioteca Nueva, Madrid, 2012, pp. 35-67; Á. PÉREZ, El roble y el fresno. Cervantes y Ortega, in «Revista de Occidente», 396, 2014, pp. 98-110. Sulle valenze filosofiche della figura del Quijote – da Unamuno, Ortega e Zambrano a Croce e Mann, fino a Schutz – si veda il saggio di G. CACCIATORE, Di alcuni pensieri filosofici sul Chisciotte, in «Rocinante», 2, 2006, pp. 19-27. 3 Per la ricostruzione di tali aspetti, così come di quelli che immediatamente seguono, cfr., oltre i contributi già indicati nella nota 1, H. CARPINTERO, Ortega y El Quijote. Los primeros apuntes, in «Anales del Seminario de Historia de la Filosofía», 23, 2006, pp. 233-247; J. ZAMORA BONILLA, Lecturas que no cesan. Centenario de Meditaciones del Quijote, in «Revista de Occidente», 396, 2014, pp. 5-11; I. FERREIRO LAVEDÁN-F. GONZÁLEZ ALCÁZAR, José Ortega y Gasset. Notas de trabajo. Meditaciones del Quijote, in «Revista de Estudios Orteguianos», 28, 2014, pp. 17-41; A. LÓPEZ COBO, Meditaciones del Quijote (1905-1914), in «Revista de Estudios Orteguianos», 29, 2014, pp. 41-83. PINTERO,

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dell’eroe – centrale nelle Meditaciones e che si nutre anche del confronto con lo scrittore Pío Baroja – egli osserva come l’eroe unamuniano appaia simile ad un «energúmeno» mosso da un’ansia tutta personale a compiere azioni nobili ed elette. Di contro, l’eroe orteghiano – disegnato nelle pagine del ’14, ma che si tratteggia già per opposizione in queste battute e in altri luoghi dello stesso periodo – è per molti aspetti un eroe della quotidianità, impegnato in una continua, difficile opera di relazione con la realtà circostanziale4. L’ulteriore obiezione rende evidente quello che Ortega reputa un limite di fondo dell’approccio di Unamuno, e cioè l’aver considerato Cervantes solo un letterato e uno scrittore, e non un autentico «filosofo spagnolo». In realtà, quest’ultima affermazione sintetizza la critica più generale rivolta da Ortega agli intellettuali e agli scrittori del proprio tempo, vale a dire precisamente il fatto di non aver saputo riconoscere la portata filosofica del pensiero e dell’opera di Cervantes e il suo essere all’altezza dei tempi. I quali, di fronte ad una realtà lacerata e attraversata da una crisi profonda, reclamano – come esemplarmente poi mostrerà la pluralità dei registri che agiscono nelle Meditaciones5 – la forza della immaginazione e del racconto novellistico6, la potenza di un’ironia «simpatica» (nel senso letterale del termine) e al tempo stesso profondamente «intellettuale», in grado di andare oltre la datità della realtà e la letteralità dei significati mettendo a nudo, nella loro fragilità, le forme vuote di una società e di una cultura oramai ridotte a una funSulla figura dell’eroe in rapporto al problema dell’agire cfr. P. CEREZO GALÁN, José Ortega y Gasset y la razón práctica, cit.; J. LASAGA MEDINA, Figuras de la vida buena: ensayo sobre las ideas morales de Ortega y Gasset, Fundación José Ortega y Gasset, Madrid, 2006. 5 Per un’analisi di questo aspetto cfr. J. DE SALAS, Las Meditaciones del Quijote y el problema identitario, in «Revista de Occidente», 396, 2014, p. 50. 6 Si ricordi l’espressione di Ortega a proposito dell’uomo definito come «novelista de sí mismo» (J. ORTEGA Y GASSET, Prólogo para Alemanes, in OC, IX, pp. 137-138). 4

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zione puramente «ornamentale»7. Una operazione che, sola, rende possibile la creazione delle condizioni per l’istituzione di nuove forme. Coerentemente con il suo intenso impegno civile e il forte senso di responsabilità intellettuale, il precoce interesse di Ortega nei confronti del Quijote delinea già con chiarezza l’esigenza filosofico-pratica che darà vita alle Meditaciones, in cui, saldando il “fatto” della «circostanza» spagnola internamente sentita e vissuta con la propria personale «vocazione» di pensiero, si coniugano strettamente riflessione teorica e dimensione pratico-politica, cultura e educazione, etica, estetica e letteratura8. E non è certamente un caso che, nelle pagine indirizzate al “Lector”, Ortega affronti direttamente il tema del ruolo del passato rispetto alle esigenze del presente, sottolineandone la complessità e la delicatezza non solo su un versante più immediatamente politico ma, in maniera più sostanziale, da un punto di vista culturale. Mettere a sedere il passato sul suo «trono» affinché dall’alto «governi le anime», secondo l’atteggiamento proprio del reazionarismo, ottiene, a suo avviso, l’effetto paradossale di svuotarlo del significato che potrebbe e dovrebbe assumere riempendosi della vitalità che sola proviene dalle urgenze dell’oggi. È questa l’unica possibilità per «salvare» la tradizione dalla estenuazione cui la porterebbe la sua sterile e chiusa difesa, ed è una tale consapevolezza (come si è visto, di carattere culturale nel senso più pieno del termine) che ispira anche le pagine della celebre conferenza del 1914, con cui Si ricordi, a tale proposito, la recensione di Antonio Machado alle Meditaciones del Quijote (cfr. il sopra richiamato articolo di A. LÓPEZ COBO, Meditaciones del Quijote (1905-1914), che dedica le pp. 78-85 alla recezione dell’opera). 8 In proposito si vedano le osservazioni di P. CEREZO GALÁN, “Filosofía, política y pegagogía. Tres educadores de la España contemporánea”, in Claves y figuras del pensamiento hispánico, Escolar y Maio Editores, Madrid, 2012, pp. 477-496 e ID., De camino hacia sí mismo (1905-1914), cit. Come si ricorderà Circunstancia y vocación è il titolo di un noto scritto di J. MARÍAS (Revista de Occidente, Madrid, 1982). 7

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Ortega si fece portavoce delle istanze rappresentate dalla Liga de Educación Política Española, Vieja y nueva política, e che, dunque, si lega strettamente alle Meditaciones non solo per evidenti ragioni cronologiche. Incontrandosi con l’originaria «passione dolorosa per la Spagna» nel contesto delle circostanze in cui era maturata, il chiarimento della propria vocazione filosofica spinge, dunque, Ortega ad approfondire il discorso intorno al Don Quijote, espressione dello spirito spagnolo ma anche, per molti aspetti, della stessa modernità europea. È in questa più ampia prospettiva di confronto con la dimensione europea che si colloca un altro tema centrale delle Meditaciones, vale a dire la teorizzazione di una posizione di integrazione tra le culture mediterranea e tedesca, e dei relativi atteggiamenti spirituali, tema anch’esso strettamente legato alla circostanza: quella spagnola, in cui erano vive in varie forme le istanze difensivistiche del senso del “proprio”, e quella dell’esperienza personale di studi in Germania, così importante per la sua formazione. Ma non è il caso di insistere su aspetti ampiamente noti e discussi. Anche se la sua stesura può essere datata tra la primavera del 1913 e l’inverno del 1914, il materiale di archivio sopra sommariamente richiamato mostra come lo scritto sul Quijote abbia avuto una lunga gestazione e una coerente ispirazione pratico-politica. Tra il 1905 e il 1914, pur continuando ad agire quella medesima preoccupazione patriottica, cambiano, però, significativamente gli strumenti teorici di cui Ortega si serve. La critica al positivismo, esplicitata sin dall’inizio della sua riflessione nell’assunzione delle posizioni di Cohen e di Natorp, si approfondisce nella direzione indicata dalle filosofie della vita, mostrandogli la necessità di una teoria e di una cultura che, invece che assoggettarla e mortificarla nella sua forza propulsiva, sappiano porsi – come dirà successivamente – al servizio della vita stessa. In questo senso, le Meditaciones rappresentano il punto di arrivo del percorso di pensiero del giovane Ortega, impegnato nella ricerca di nuovi mezzi di comprensione filosofica della realtà, e, al tempo stesso, il punto di partenza dal quale muovono le sue posizioni più ma-

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ture. Alla luce di tali presupposti, appare ora opportuno richiamarne alcuni nuclei principali, in rapporto al tema proposto. Facendo agire un dispositivo teorico già utilizzato precedentemente a proposito dei concetti di verità e di scienza9, nel Prologo rivolto al “Lector” Ortega dichiara esplicitamente che la propria attività di pensiero prende le mosse da un sentimento interno fortemente avvertito, e precisamente dal sentimento dell’amore, in grado di suscitare quella profonda gioia intellettuale che – spinozianamente – si accompagna al genere più adeguato della conoscenza, in quanto rivela l’intimo, perfetto legame che unisce, in ogni sua parte, tutto ciò che è. Si tratta di un sentimento che, da un lato, rimanda a un ordine e a una struttura rigorosi ed unitari di organizzazione del mondo; dall’altro, si oppone all’odio, non solamente perché rappresenta il suo contrario, ma, più in profondità, perché, con la propria attiva carica di amorevolezza, per l’appunto non oppone odio ad odio, disprezzo a disprezzo, ma è capace di emanciparsi da tali emozioni negative e limitate nella acquisizione della libertà del pensiero, alla quale solamente è possibile la comprensione di quell’unità sostanziale. La filosofia è, allora, scienza universale, alimentata al proprio interno dallo slancio dell’eros di matrice platonica, «divino architetto» in grado di istituire legami tra le cose, e tra queste e le nostre esperienze, così da sottrarle al destino di dispersione al quale sarebbero fatalmente condannate nel loro isolamento. Ad essa, e alla cultura in generale, capace di conferire la forza del significato, Ortega riconosce un’opera essenziale ed insostituibile, quella di «salvación» dei fenomeni, condannati in alcuni tratti del pensiero moderno all’insensata immediatezza dell’empiria, o alla condizione di separatezza di una coscienza cui sfuggono la concretezza della vita e dell’individualità. Di fronte alla forza annichilatrice che «produce sconnessione, […] isola e scinde i legami, atomizza il mondo e polverizza l’individualità», l’amore costituisce «un ampliamento dell’individualità che assorbe in 9

Cfr., in particolare J. ORTEGA Y GASSET, Renan (1909), in OC, II, p. 36.

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essa altre cose» e «le fonde con noi», riconducendole alla sua «salda struttura essenziale»10, che nessun principio estrinseco può adeguatamente cogliere, tanto meno qualsiasi orientamento morale appiattito sul criterio dell’utile o contratto nella rigidità di prescrizioni astratte. Il carattere unificante del pensiero e dei suoi strumenti rappresenta un’esigenza fortemente avvertita da Ortega, ricorrente sin dall’inizio della propria riflessione, in coerenza con quel bisogno di coesione politico-sociale e di appartenenza culturale di cui avvertiva acutamente la mancanza nella Spagna del suo tempo. In La «idea» de Platón (1912) egli, criticando il positivismo, aveva identificato l’idea con il processo dinamico della unificación, definendola come quel «punto di vista» che costituisce la struttura propria delle cose e del mondo mettendoli «in sicurezza» nella scienza. In questo senso, l’idealismo, inteso come la «ricostruzione scientifica del mondo», «indica all’uomo» il «compito divino» e la «dura missione» di «ricostruire virtualmente il mondo». Tale «missione» appella con forza inaggirabile l’uomo spagnolo, rispetto al quale la figura di Cervantes viene indicata «quale testimonianza del fatto che in Spagna non è impossibile l’idealismo», di cui, dunque, è evidente il carattere politico oltre che filosofico11. Il presupposto da cui muove Ortega e che rende possibile l’opera di unificazione del pensiero è ancora quello, di matrice neokantiana, del dualismo, in virtù del quale «L’idea è sempre l’uno di fronte ai molti», così che «abbiamo da un lato il pensiero, il logos, dall’altro le cose sensibili»12. Tuttavia, la «scala amoris» – che, come si ricorderà, nella descrizione fatta da Diotima a Socrate rappresenta nel Simposio il processo ascensionale della conoscenza, dalla percezione sensibile fino alle idee – appare inadeguata al pensiero del ’900, arricchito con la diCfr. ID., Meditaciones del Quijote, cit., p. 749. Cfr. ID., La «idea» de Platón, in OC, VII, pp. 221-231 e J. SAN MARTÍN, Ortega y Gasset, Cervantes y Don Quijote, cit., p. 228. 12 J. ORTEGA Y GASSET, La «idea» de Platón, cit., p. 229. 10 11

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mensione della orizzontalità e complicato in una terza dimensione, che, al di là della separazione tra il soggetto formalistico e le cose, reclama la concretezza della relazione tra l’io e il mondo, in cui quest’ultimo sia effettivamente sentito e vissuto da parte della individualità, e non solo astrattamente costruito. Così, nel testo del 1913, Sensación, construcción e intuición, Ortega, richiamando ancora Platone, ribadisce il carattere di «salvación» delle apparenze da parte del pensiero nella sua capacità di «fissarle in un sistema di connessioni», come poi ripetuto nel citato passo delle Meditaciones, ma denuncia i limiti dell’atteggiamento costruttivistico dell’idealismo neokantiano, individuando nella fenomenologia un mutamento radicale della sensibilità filosofica13. Si tratta di un passaggio cruciale che offre ad Ortega la possibilità di una svolta necessaria per fondare sul piano teorico quella declinazione di senso della filosofia come amore secondo la quale l’atteggiamento del soggetto nei confronti delle cose non passa per la loro violazione e assoggettamento, o per un ingenuo appiattimento su di esse, ma proviene «dalle cose stesse» e dalla stessa relazionalità di cui sono parte14. Di fronte al rischio di cristallizzazione delle teorie e delle forme culturali – manifesto ad Ortega nella rappresentazione della cultura europea, nutrita, dopo «dieci secoli di continuità culturale», della falsa certezza della definitività delle proprie conquiste15 – egli si impegna nella acquisizione di un’idea di ragione non riduttivamente identificata con la sola sfera logica, ma consapevole anche della propria matrice vitale, e perciò capace di pervenire al piano profondo in cui viene costituendosi l’atto istitutore di senso nel suo ineliminabile ID., Sensación, construcción e intuición, in OC, I, pp. 648-649. Secondo l’interpretazione di San Martín, l’influenza della fenomenologia agisce non solo nelle vicine Meditaciones, ma, al di là delle dichiarazioni dello stesso Ortega, anche nella prosecuzione del suo itinerario di pensiero (cfr. J. SAN MARTÍN, La fenomenología de Ortega y Gasset, Biblioteca Nueva, Madrid, 2012). 14 J. SAN MARTÍN, La fenomenología de Ortega y Gasset, cit., p. 93. 15 Cfr. J. ORTEGA Y GASSET, Pidiendo un Goethe desde dentro. Carta a un alemán, in OC, V, pp. 120-123. 13

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rapporto con la circostanza. È questa l’opera di «salvación» appartenente ad una ragione la quale non si arresta alla mera categorizzazione dei fatti ma intende aprirsi alla loro interna comprensione, schiudendosi alla complessità della vita e superandone la vuota opposizione con il pensiero, giacché – come chiarirà successivamente, richiamando il contesto teorico delle Meditaciones –, pur essendo «sostantiva e radicalmente vitale», non per questo essa «è meno ragione»16. In tale direzione, il rispetto del celebre monito, secondo il quale «Io sono io e la mia circostanza, e se non la salvo non salvo neanche me stesso»17, indica, ad un tempo, la posizione di colui il quale comprende e l’atto stesso del comprendere. Per quanto riguarda il primo, coerentemente con quell’esigenza di salvezza, l’atteggiamento del soggetto nei confronti delle cose dev’essere quello dell’«amante» e non del loro inflessibile «giudice». Quanto all’atto del comprendere, in esso risiede il compito della filosofia, non a caso esemplarmente definita attraverso l’immagine platonica della «caccia»18, che ben restituisce il suo essere inesausto «cammino» verso la «pienezza del […] significato», incessante ricerca dell’unità del senso e della sua comprensione19. Si tratta di un processo di chiarificazione che, di contro all’istanza di semplificazione della scienza moderna, complica, giacché abbandona le «coste di terraferma»20 della cultura di superficie per immergersi nella dimensione di quella profondità in cui il senso si istituisce nella sua virtualità e, al tempo stesso, si cela, ma all’interno della quale, solamente, può essere svelato senza per questo alterarne la natura di latenza. Nel delineare la propria idea di conoscenza e di verità, Ortega rinvia, dunque, ad una corretta dinamica tra luce, superficie e profondità. L’idea platonica, lo si è detto, è «punto di vista», “luogo” di una ID., Prólogo para Alemanes, cit., p. 154. Cfr. ID., Meditaciones del Quijote, cit., p. 757. 18 Cfr. PLATONE, Teeteto, 197d-198d; Sofista, 221c-222b. 19 J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, cit., pp. 747 e 761. 20 Ivi, p. 773. 16 17

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visione ordinatrice e strutturante in cui il vedere si misura con l’oscurità perché questa propriamente gli appartiene, così che lo sguardo abituato al buio sopporti poi, senza esserne accecato, anche la chiarezza della luce. Fuor di metafora, si faccia capacità di quella peculiare forma del vedere intellettuale, che, oltre la semplice superficie e tuttavia assumendola in quanto tale, «interpreta vedendo e vede interpretando»21. Riprendendo il discorso iniziale sulla peculiare «gioia intellettuale» che appartiene all’amore in quanto capacità di superare la lacerazione dell’odio, è possibile ora approfondirne la valenza teorica, mostrando l’evoluzione intercorsa nel pensiero di Ortega. L’amore è, platonicamente, amore per la verità, dinanzi alla quale – come si legge in uno scritto del 1909 – la «concupiscenza del proprio cuore individuale» e l’attardarsi sulla «apparenza delle cose» si dissolvono in un inesausto «afán» – nella duplice accezione di sforzo e desiderio – di universale «visione» e «contemplazione». Nelle di poco successive Meditaciones, con il medesimo impianto argomentativo, il puro «afán di contemplare le cose in loro stesse» diventa il «vivo afán di comprendere», quell’«impeto di comprendere le cose» che modernamente «agita» l’uomo nell’opera di ricerca e immissione del senso22. All’interno del quadro dell’attività spirituale – com’è noto, esemplificata dall’immagine del bosco – la conoscenza è, quindi, l’istantanea illuminazione dell’alétheia, ma anche, sempre, comprensione della complessità delle differenti prospettive che nell’atto spirituale vengono aprendosi, ciascuna delle quali mostra il volto degli umani «destini, ugualmente rispettabili e necessari», così come la configurazione della pluralità delle forme e produzioni che costituiscono il mondo della cultura23. Tuttavia, di fronte al moderno emergere della dimensione della differenza e della particolarità, l’eros platonico appare insufficiente. Esso unifica ma non distingue, e così l’intrecciata Ivi, p. 769. ID., Renan, cit., p. 36 e Meditaciones del Quijote, cit., p. 749. 23 Cfr. ID., Meditaciones del Quijote, cit., pp. 764-766. 21

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trama teorica delle Meditaciones, non riducibile ad un’unica matrice, si arricchisce di un’ulteriore componente, quella rappresentata dal pensiero hegeliano, di cui Ortega fin da giovane sottolineò la centralità, pur nella distanza critica, anche di fronte alle istanze della propria contemporaneità24. Con esso Ortega condivide quell’essenziale bisogno di unificazione che il giovane Hegel, in pagine celebri ed intense, aveva posto a fondamento del bisogno di filosofia. Questo stesso bisogno conduce Ortega a richiamarsi in primo luogo all’eros platonico, che è medio tra l’idea e il finito stesso, e, subito dopo, alla logica di Hegel, che suggella la messa in salvo del finito nella dimensione della eternità e totalità dello spirito25. Il concetto hegeliano è universale, ma insieme anche particolare e individuale. Esso pensa la vita riconoscendo nella sua individualità la totalità del vivente, sottraendola con ciò alla sua finitezza e sconnessione, ed elevandola alla eterna dinamicità della vita universale dello spirito. L’esigenza orteghiana di una interna razionalità che conferisca senso e significato alla totalità della realtà e delle produzioni umane trova, dunque, nel nesso tra logica, metafisica e politica un riferimento teorico essenziale consentendogli, al tempo stesso, di giustificare la funzione etico-politica di una prassi filosofica fondata su un agire che responsabilmente assuma il senso della comunità e della collettività sociale. Il riconoscimento di una logica A tale proposito, anche con riferimento alle pagine che seguono, mi sia consentito rinviare a C. CANTILLO, La ragione e la vita. Ortega y Gasset interprete di Hegel, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2012. 25 In un appunto di lavoro si legge: «Il cosmos noetos intravisto da Platone, visto da Plotino, è riscoperto da Hegel. L’intellegibile è un organismo, un corpo sistematico. Tutto in esso è parte della totalità ed è ciò che è in quanto tale. Ogni concetto assoluto lo è in funzione del tutto come sua limitazione o concrezione. Ogni verità è una limitazione funzionale della Verità, […] particolarizzazione interna di questa che è, pertanto, la sostanza di tutte, generalità inclusiva e concreta di esse» (J. ORTEGA Y GASSET, Notas de trabajo, ed. de D. Hernández Sánchez, Fundación José Ortega y Gasset, Abada Editores, Madrid, 2007, p. 172, nota 193). 24

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intrinseca della storia nella processualità della sintesi dialettica fornisce ad Ortega anche lo strumento teorico che rende possibile cogliere la pienezza e l’unità del significato nella particolarità delle singole prospettive storicamente situate, senza che per questo ci si faccia travolgere dalla insensata «massa torrenziale dei fatti storici»26. La logica dimostra scientificamente la dialettica del divenire nel legame costitutivo tra l’essenza e l’apparenza, laddove quest’ultima rappresenta il venire all’esistenza dell’essenza, il manifestarsi della profondità dell’essenza nelle forme ad essa adeguate della superficie, in modo tale che si faccia «essa stessa superficie»27. E proprio la dialettica tra superficie e profondità costituisce uno degli aspetti che interessa maggiormente Ortega, occupato nell’impegnativa lettura della Wissenschaft der Logik almeno tra il 1907 e il 1912. Nel 1907 la medesima fatica aveva compiuto, come si legge in una lettera a Heinz Heimsoeth, Nicolai Hartmann, che dichiarava di aver trovato nella logica hegeliana «un libro di difficoltà disumana», dal quale, però, «si impara ad ogni pagina qualcosa»28, a testimonianza di un clima di intenso lavorio e dialogo intellettuale in cui, agli inizi del Novecento, pensatori quali Ortega, Hartmann, Heimsoeth, compagni e amici a Marburgo, si confrontavano con i limiti del neokantismo alla ricerca di un principio filosoficamente in grado di comprendere la dinamicità e l’interezza della vita e del reale. In un articolo apparso su «La Nación» il 23 maggio 1926, dal titolo Lectura y relectura, (che riprende argomentazioni svolte nel corso tenuto all’Ateneo di Madrid nel 1912, Tendencias actuales de la filosofía poi in parte confluite nel testo delle Meditaciones del Quijote) Ortega conJ. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, cit., p. 752 Si vedano, su ciò, le osservazioni di V. VITIELLO, “Hegel. Lógica/realidad: la superficie y el fondo”, in R. Espinoza (a cura di), Hegel. La transformación de los espacios sociales, Midas, Chile, 2012, pp. 177-202. 28 F. HARTMANN, R. HEIMSOETH (a cura di), Nicolai Hartmann und Heinz Heimsoeth im Briefwechsel, Bouvier, Bonn, 1978, p. 13 (la lettera richiamata è del 1907). 26 27

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fessa «di aver appreso la tecnica del leggere attraverso la grande Logica di Hegel», nel cui potente linguaggio continuamente si istituisce quel gioco tra la letteralità della superficie e il «sottosuolo» dei significati che egli considera essenziale «affinché nel lettore si costituisca un nuovo abito, una nuova pratica nel rapporto con lo scritto»29. Appare, perciò, evidente il contributo che può aver fornito la lettura della Wissenschaft der Logik all’acquisizione, da parte di Ortega, di quel «nuovo abito» necessario alla comprensione profonda dei significati, ma anche, più determinatamente, alla maturazione della consapevolezza della necessità di strumenti concettuali adeguati ad una fondazione scientifica e sistematica della filosofia. All’«ambizione ultima della filosofia», quella di giungere «ad una sola proposizione in cui fosse detta tutta la verità», ha dato voce – si legge nelle Meditaciones del Quijote – «la Logica di Hegel», nella frase: «L’idea è l’assoluto», la quale manifesta il suo «tesoro di significazione» chiarendo al tempo stesso «l’enorme prospettiva del mondo»30. Alla luce del tentativo di fondazione della ragione vitale, gli esiti assolutistici della filosofia hegeliana non potevano, però, non essere respinti con forza da Ortega, come chiariscono le stesse Meditaciones in passaggi immediatamente successivi a quello ora citato. L’opera di Vernichtung dalla quale, per Hegel, scaturisce la realtà in quanto Wirklichkeit nella dialettica di superficie e profondità appare inadeguata ad una relazione d’amore, in cui il compito di «salvación» delle apparenze deve avvenire, lo si è detto, rispettandone la natura e l’irriducibile alterità, mai risolvibile una volta per tutte. Hegel – secondo quanto osservato in seguito da Ortega – ha avuto il merito fondamentale di «pensare con le cose» pensando la ragione nel mondo, ma poi ne ha cancellato la realtà particolare con un atteggiamento di pensiero di tipo «imperialistico»31. Anche la vita, che il concetto, nella sua irCfr. ivi e J. ORTEGA Y GASSET, Hegel. Notas de trabajo, cit., p. 13. J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, cit., pp. 752-753. 31 ID., La Filosofía de la historia de Hegel y la historiología, in OC, V, p. 245. 29 30

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rinunciabile funzione, è chiamato a comprendere, sparisce alla «tremenda distanza» da cui Hegel la guarda, ridotta ad una indistinta «granulosità»32 che, sacrificando le ragioni dell’individuale in nome della affermazione dell’unica ragione assoluta, ne espunge i caratteri di dinamismo e mobilità che la qualificano in quanto problematismo, possibilità, scelta responsabile, agire concreto degli uomini nel tempo e nella storia. Per Ortega la vita non coincide con un unico soggetto, ed essa non può piegarsi a logiche necessitanti che le sono estranee, prendendo, così, congedo dalla inquietudine che costituisce lo stesso atto istitutore di senso della creazione umana e spirituale, e che, pure, Hegel aveva indicato come carattere qualificante la vita dello spirito. Alla sua dinamica appare piuttosto cor-rispondere quel «movimento in cui abbandoniamo le superfici»33 e ci lanciamo in un elemento instabile, che dalla sicurezza apparente della realtà ci conduce al suo fondo, alla ricerca del suo senso riposto, una ricerca in cui, fuor di metafora, consiste il rischio del pensiero. Lo strumento di cui Ortega dichiara di servirsi è, come si legge in pagine note delle Meditaciones, per l’appunto la meditazione, meno «gravosa» rispetto alla fondazione delle idee scientifiche, giacché il suo obiettivo non è quello di dimostrare leggi universali ma di suscitare nel lettore quel medesimo desiderio che costitutivamente alimenta l’amoroso «afán» verso la verità, risvegliando in «animi fratelli altri pensieri fratelli, anche nel caso si tratti di fratelli nemici»34. D’altronde, Ortega stesso, Cfr. anche ID., Hegel y América, in OC, II, pp. 667-679 e En el centenario de Hegel, in OC, pp. 687-704. 32 ID., Hegel y la filosofía de la historia, en OC, VIII, p. 532 (lo scritto, apparso su «El Sol» il 15 dicembre 1931, coincide in parte con il saggio En el centenario de Hegel). 33 ID., Meditaciones del Quijote, cit., p. 773. 34 Ivi, p. 753. Si ricorderà l’espressione di Ortega: «Queste meditazioni, prive di erudizione […], sono mosse da desideri filosofici. Non sono scritti di filosofia, perché la filosofia è scienza. Sono semplicemente dei saggi. E il saggio è la scienza, meno la prova esplicita» (ibidem).

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rivolgendosi nel 1934 ai lettori tedeschi, sente il bisogno di chiarire che «propriamente i miei libri […] non sono libri», ma articoli e saggi, indicandone le ragioni in una scelta consapevole, risiedente nel fatto di essere fino in fondo un «filosofo spagnolo» nel senso chiarito da María Zambrano, secondo la quale egli fu in maniera indissolubile tanto filosofo quanto spagnolo, coniugando le due principali «vocazioni» a cui la sua riflessione corrispose nell’accettazione del proprio «destino» e della propria circostanza35. E non bisogna, inoltre, dimenticare l’intensa attività giornalistica nella quale Ortega si impegnò in particolare proprio nel giro di anni delle Meditaciones, sorretta e contrassegnata da un forte intento educativo e divulgativo. Al di là delle circostanze specifiche è possibile fare qualche considerazione di ordine più generale. Alla luce dei presupposti chiariti, la meditazione filosofica trova nel saggio la sua espressione più adeguata. Esso offre «soltanto modi res considerandi, nuovi modi possibili di guardare le cose», che il lettore è invitato direttamente a «saggiare» in maniera libera ed autonoma36. È dunque la forma del saggio, e non quella assiomatica e dimostrativa della scienza, a rappresentare lo specifico abito mentale in grado di addentrarsi «nei problemi fino in fondo, senza lasciarsi sedurre da soluzioni categoriche e definitive», tenendo «lontane le certezze assolute» per porci di fronte alla inaggirabile necessità della domanda filosofica37. La radicalità dell’indagine, che rivela 35 ID., Prólogo para alemanes, cit., pp. 130, 160-164. A Ortega y Gasset, filósofo español María Zambrano dedicò tre articoli apparsi in «Asomante», 1, 1949, pp. 5-17; 2, 1949, pp. 3-15, e «Cuadernos del Congreso de la libertad y de la Cultura», 3, 1953, pp. 49-53. Sullo stile giornalistico di Ortega cfr. I. BLANCO ALFONSO, “L’articolo filosofico nell’opera giornalistica di José Ortega y Gasset”, in G. Cacciatore, A. Mascolo (a cura di), La vocazione dell’arciere. Prospettive critiche sul pensiero di José Ortega y Gasset, Moretti&Vitali, Bergamo, 2012, pp. 15-36. 36 J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, cit., p. 753. 37 Su ciò si vedano, in particolare, le osservazioni di P. CEREZO GALÁN, “El espiritu del ensayo”, ora in Claves y figuras del pensamiento hispánico, cit., pp. 33-52.

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all’uomo il quale si arrischia nella profondità del significato l’insicurezza della propria condizione, mostra, però, ad un tempo, anche la natura dia-logica del pensiero e della verità stessa, mai definitivamente acquisita e unilateralmente data: «Il logos, nella sua stretta realtà, è umanissima conversazione, diálogos, argumentum hominis ad hominem», e, in quanto tale, richiede «il punto di vista dell’altro, del prossimo», di cui, dunque, si deve ammettere l’esistenza in quanto esistere di un’altra vita, «individuale» e «determinatissima», portatrice di un altro logos, di un altro pensiero38. In questa direzione, «la meditazione» – aggiungiamo: intesa nel suo legame stretto con la dimensione dell’amore, che le consente di valicare l’ambito strettamente individuale e solitario per farsi strumento di comunicazione e veicolazione della verità – diviene uno dei modi o stili di pensiero» più propriamente «filosofici», e «il saggio il suo – probabilmente – più adeguato genus dicendi»39. E, tuttavia, per Ortega la forma propria della filosofia rimane quella del sistema, che rappresenta il «duro obbligo» cui il filosofo, se è veramente tale, non può sottrarsi40. Non casualmente, pur nella netta distanza critica, egli riconosce all’idealismo tedesco di aver apportato alla storia della filosofia un contributo essenziale, vale a dire quello di aver condotto la filosofia «alla coscienza di se stessa» nella consapevolezza di essere «come tale, sistema», in cui le singole conoscenze particolari non stanno astrattamente le une fuori dalle altre, quali frammenti di realtà, ma nella loro unità sostanziale41. L’aspirazione sistematica, esplicitata nelle Meditaciones attraverso l’analizzato richiamo alla Wissenschaft der Logik di Hegel, attraversa con continuità la riflessione di Ortega, dalle poCfr. J. ORTEGA Y GASSET, Prólogo para alemanes, cit., p. 127. J.M. SEVILLA FERNÁNDEZ, “Problemi assoluti. Meditazione sul problematismo filosofico di Ortega y Gasset”, in La vocazione dell’arciere. Prospettive critiche sul pensiero di José Ortega y Gasset, cit., p. 418. 40 J. ORTEGA Y GASSET, Prólogo para alemanes, cit., p. 149. 41 Ivi, p. 145. 38

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sizioni giovanili, ancora segnate dall’influenza del magistero di Cohen, agli anni in cui matura la propria idea di ragione storica. Ed è questa stessa aspirazione a determinare le motivazioni profonde che, oltre l’occasionalità della circostanza della recente apparizione della edizione Lasson, lo spingono ad inaugurare la sua «Biblioteca de historiología» con la traduzione in castigliano, curata da Gaos, delle hegeliane Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte42. La giustificazione filosofica del nesso ragionestoricità costituisce, infatti, un nucleo concettuale fondamentale della teoria della storia di Ortega, la quale – come dirà in Historia como sistema – deve essere «scienza sistematica della realtà radicale della vita», in modo da pervenire alla fondazione del logos interno della realtà storica», senza arrestarsi ad «un pensiero che si applica allo storico»43. Pur nel significato ampio, e non sempre sufficientemente chiarito, che egli attribuisce a termini come scienza e sistema44, l’esigenza giovanile di cogliere l’intrinseca razionalità del pensare e dell’agire umani coniugando – come diceva già nel 1907, fresco di studi in Germania – «punto di vista storico e sistematico» mutuamente interagenti allo stesso modo che la relazionalità propria dei «membri di un sistema»45, continua ad agire negli anni della maturità. La questione teorica che Ortega ci consegna riguarda la possibilità di pensare e strutturare insieme organicamente il sistema con la vita, la giustificazione con la narrazione, il trattato scientifico con il saggio e l’articolo giornalistico. Il saggio La Filosofía de la historia de Hegel y la historiología avrebbe dovuto costituire l’introduzione alla traduzione di Gaos, ma, a causa della eccessiva estensione, fu poi pubblicato separatamente. Cfr. J. ORTEGA Y GASSET, OC, V, p. 236. 43 ID., Historia como sistema, in OC, VI, pp. 63 e 75. 44 A tale proposito si vedano le osservazioni sull’idea di scienza in J. LASAGA MEDINA, José Ortega y Gasset (1883-1955). Vida y filosofía, Editorial Biblioteca Nueva. Fundación José Ortega y Gasset, Madrid, 2003, in particolare p. 29. 45 J. ORTEGA Y GASSET, Anotaciones para una lógica de la realidad, in OC, VII, pp. 113-114. Cfr. pure l’articolo, del 1908, Algunas notas (in OC, I, specialmente p. 201). 42

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Pedro Cerezo Galán

Il bosco e la ginestra ardente. Appunti su poesia e realtà nelle Meditazioni del Chisciotte* Ho già scritto altrove che nelle Meditazioni del Chisciotte, nel porsi alla ricerca dello stile di Cervantes, Ortega trova il suo stesso stile mentale1. Altrettanto gli capita nell’analizzare congiuntamente il saggio come forma mentis e il romanzo come mimesis ironica, cosicché, nel corso della sua disanima, Ortega ci rivela la sua stessa idea di realtà. Come ha dimostrato Javier San Martín2, nelle Meditazioni sono diversi i significati di realtà adoperati, ma ce n’è uno, il più rilevante, che Ortega definisce “realismo poetico” e che oggi merita la mia considerazione. Qual è l’importanza di questo scritto? Risolve semplicemente un problema estetico o comporta una questione ontologica, che riguarda la stessa filosofia di Ortega? 1. Passeggiando per La Herrería

Nella “Meditazione preliminare”, vale a dire quella che contrassegna il limen, o soglia teorica, delle Meditazioni, vi sono due metafore che richiamano fortemente l’attenzione. Non possono essere considerate semplicemente come delle brillanti immagini. L’originale versione spagnola del presente saggio è stata pubblicata, con il titolo El bosque y la retama ardiendo. (Apuntes sobre poesía y realidad en Meditaciones del Quijote), in «Revista de Occidente», 396, 2014, pp. 12-34. 1 Cfr. P. CEREZO GALÁN, José Ortega y Gasset y la razón práctica, Biblioteca Nueva, Madrid, 2011, pp. 45-51. 2 Cfr. J. SAN MARTÍN, “Ortega y Gasset, Cervantes y Don Quijote”, in F. H. Llano Alonso, A. Castro Sáenz (a cura di), Meditaciones sobre Ortega y Gasset, prologo di M. Ortega Spottorno, Tébar, Madrid, 2005, pp. 193-232. *

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Hanno una tale carica simbolica da dare respiro all’intera opera. La prima, quella del bosco della Herrería, nei pressi dell’Escorial, la cui immagine, più volte evocata dallo scrittore dalla solitudine del suo scrittoio, si tramuta in un simbolo bisemico. «Il bosco è una natura invisibile – per questo in tutte le lingue il suo nome conserva un alone di mistero»3. Il mistero del bosco risiede in questa presenza avvolgente e profonda, che rifugge da qualsiasi oggettivazione. Non possiamo stargli di fronte, proprio perché ci troviamo al suo interno. Il bosco ci accoglie e ci avvolge, come un orizzonte circostante che ci accompagna e che si dispiega mentre lo percorriamo. «Il bosco è sempre un po’ più in là del luogo in cui siamo»4 ed è, al contempo, sempre un po’ più vicino, perché ci circonda. «A rigore, da uno qualunque dei suoi punti, il bosco è una possibilità. È un sentiero in cui potremmo addentrarci»5, ovvero, un orizzonte aperto, indeterminato, che invita ad addentrarsi in esso. Ciononostante, non cessa mai di essere la realtà che rende possibili tutte queste potenzialità. «Ciò che del bosco si trova davanti a noi in modo immediato è solo un pretesto affinché il resto rimanga nascosto e distante»6. Nel bosco, dunque, giocano luci e ombre, presenze e latenze, prossimità e lontananze, fattualità e virtualità. Il bosco va percorso a piedi, va vissuto dall’interno, così come fa il boscaiolo, il cacciatore, il pensatore... Potremmo dire che il bosco è vivo e palpita, che si apre ai nostri passi e ai nostri sguardi mentre ci muoviamo in esso. Vi sono sentieri che si perdono nella boscaglia e altri che portano ad un chiarore luminoso, propizio per una rivelazione. Camminando in esso, ci si aprono diverse prospettive secondo la situazione e l’interesse del viandante. «Il bosco è una somma dei J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, in Obras Completas, 10 voll., Taurus, Madrid, 2004-2011, vol. I, p. 764; tr. it. Meditazioni del Chisciotte, a cura di B. Arpaia, introduzione di O. Lottini, Guida, Napoli, 1986, p. 52. 4 Ibidem. 5 Ibidem. 6 Ivi, p. 765; tr. it. p. 53. 3

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nostri possibili atti che, realizzandosi, perderebbero il loro genuino valore»7 e che – cosa ancora più importante – nel raggiungere il loro obiettivo ci aprirebbero a nuove possibilità. Insomma, il bosco è sempre, e in ogni caso, il correlato della mia soggettività vivente. E con ciò troviamo la chiave della metafora: il bosco è il simbolo del mondo8 in quanto presenza aperta, ombrosa, profonda, «un orizzonte di realtà indeterminata offerta alla coscienza in maniera oscura», afferma Husserl9. Non è solo «il bosco vissuto, come realtà concreta radicata nella mia vita»10, bensì il bosco come metafora del mondo della vita. La sua profondità, latenza e invisibilità sono le determinazioni della struttura onnicomprensiva del mondo. Potremmo dire che il viandante “sta-nel-bosco” al modo dell’“essere-nel-mondo”. Questo è il suo destino. Di quale mondo si tratta? Del “mondo della vita”, ovviamente, già sempre dato in anticipo – l’a priori del mondo-della-vita, lo chiama Husserl11 –, in cui l’uomo trova le sue intuizioni spazio/temporali originarie, le sue scoperte primigenie di senso e di valore, a cui sempre, in ultima istanza, deve rimettersi. L’altra metafora è quella della «ginestra ardente» che un bel giorno il viandante incontrò al margine di un sentiero. È normale che nel bosco vi siano ruscelli, orioli, farfalle, sentieri ombrosi, dolci colline, ma veniamo colti di sorpresa da una ginestra ardente, forse provocata da un fulmine. Lo scrittore pensa immediatamente al rovo ardente del Sinai, come una teofania Ibidem. Cfr. P. CEREZO GALÁN, La voluntad de aventura, Ariel, Barcelona, 1984, pp. 239-243. 9 E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, I, a cura di V. Costa, Einaudi, Torino, 2002, § 27, p. 62. 10 J. MARÍAS, Comentario a Meditaciones del Quijote, Universidad de Puerto Rico / Revista de Occidente, Madrid, 1957, p. 285. 11 E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. di E. Filippini, prefazione di E. Paci, Net, Milano, 2002, § 36, pp. 166-169. 7

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rivelatrice. Anche Eraclito aveva affermato che «il Signore, cui appartiene quell’oracolo che sta a Delfi, non dice né nasconde, ma dà segni» (semainei)12. Tramite la ginestra, lo spirito del bosco parla o dà segni, con le sue lingue di fuoco crepitanti. Ortega lo annota nel suo quaderno come fosse una rivelazione fondamentale, così essenziale da soggiacere alla cultura: Ogni impresa culturale è un’interpretazione – chiarimento, spiegazione o esegesi – della vita. La vita è il testo eterno, la ginestra che splende ai bordi del cammino sul quale Dio lancia i suoi richiami. La cultura – arte o scienza o politica – è il commento, è quel modo della vita in cui essa, rifrangendosi in se stessa, si depura e si ordina13.

Qui ci si riferisce alla Vita del bosco come al suo più recondito segreto. Tutto in esso è vivo e freme; vivo ed espressivo. Il bosco ci parla attraverso i molteplici rumori dei suoi ruscelli, il sibilo dell’aria e degli uccelli, lo sfavillio vibrante della luce, ma specialmente oggi con lo schioppettio della ginestra dorata, dove crepitano all’unisono aria e fuoco. Qui risuonano le infinite voci della Vita, pregne di significato. La maiuscola, che qui utilizzo, rafforza questa realtà avvolgente della Vita, nella quale si dà la correlazione tra l’io vivente e la sua circostanza14. Sono voci del logos nascosto del bosco. Occupandosi di loro, interpretandole, accogliendole, l’uomo forgia le sue esperienze fondamentali. Successivamente, riflette su di esse, le fa proprie e le conserva nella memoria, per poterle riconoscere. Di che cosa parla Ortega? Del bosco, del mondo della vita, del logos, della verità disvelante. Questi nomi non indicano tutti la realtà? Diels, B/93. J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, cit., p. 788; tr. it. p. 82. 14 Cfr. ID., Principios de metafísica según la razón vital. Curso de 1932-1933, in Obras completas, vol. VIII, p. 658. 12 13

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2. Saggiando sguardi

Un’altra lezione del bosco è che in esso sono possibili sguardi diversi. Talvolta quello dritto, che si dirige direttamente come una freccia verso qualcosa, ritagliandola sullo sfondo delle altre. In altri casi, quello obliquo, che tiene conto, come di sbieco, del resto che ci avvolge. «Se qualcosa è presente, è co-presente il mondo». Normalmente è uno sguardo verso ciò che è prossimo e immediato a richiamare la nostra attenzione, ma solitamente guardiamo all’orizzonte che si dispiega dinanzi a noi. A volte, è uno sguardo in superficie, che si lascia guidare dall’impressione immediata. Però, se eseguito in maniera riflessiva, è lo sguardo in profondità, che coglie le “strutture” oggettive di un campo di impressioni. Nella “Meditazione preliminare”, l’intera teoria della percezione, dello scorcio, della prospettiva, del concetto, è fondata sull’esperienza del bosco come simbolo del mondo. Per il viandante, l’occhio saggia diversi sguardi secondo gli interessi di volta in volta predominanti. Le interpretazioni sono «modi res considerandi, nuovi modi possibili di guardare le cose»15 in maniera conforme all’esperienza che di essi facciamo lungo il sentiero. Esse non sono una «scienza senza prove», – mi permetto di correggere Ortega –, bensì modi di provare, di gustare, di avvalorare; insomma, di mettere alla prova la condizione umana, nelle varie circostanze e occasioni. Si tratta, in altri termini, di uno sguardo sperimentatore del mondo. Non a caso Ortega ci avverte: «Invito il lettore a provarli da sé; a sperimentare se effettivamente procurano visioni feconde; egli stesso, poi, in virtù della sua intima e leale esperienza, accetterà la loro verità o il loro errore»16. I saggi si legano a fatti, vicende, eventi di vario genere e cercano di condurli «per il cammino più breve alla pienezza del loro 15

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ID., Meditaciones del Quijote, cit., p. 753; tr. it. p. 39. Ibidem.

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significato»17, ovvero, di riconoscere ed evidenziare quei segni e quelle voci, della vita, da cui possiamo estrarre il suo senso. In quale modo? Non si tratta di astrarre, ma di mettere in relazione, di fare mondo: «L’importante è che il tema sia messo in immediata relazione con le correnti elementari dello spirito, con i motivi classici delle preoccupazioni umane»18. Circostanziare e mettere in connessione sono i due movimenti complementari di questo sguardo saggiante e sperimentatore. I saggi di Ortega, insomma, cercano di comprendere il senso delle cose che ci appaiono, a patto di connetterle agli interessi secolari dell’uomo – necessità, desideri, esigenze –, in modo che insieme diano luogo a nuovi significati. «Secondo me – dice Ortega – ogni necessità, se potenziata, giunge a convertirsi in un nuovo ambito di cultura»19. I saggi, dunque, sono esercizi di comprensione che portano ad un’apertura mentale verso l’altro e verso l’alterità, verso il mondo condiviso della vita, in opposizione alla miopia tipica dello sguardo intransigente. Orbene, ciò che Ortega si propone con essi è di fare «esperimenti della nuova Spagna»20, vale a dire, sondare atteggiamenti e interpretazioni relativi alla propria circostanza spagnola che permettano di far luce sulla “possibilità” di una Spagna necessaria. Uno di questi eventi di grande interesse storico, degno di un esercizio di comprensione, è il romanzo princeps di Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, che il viandante della Herrería porta con sé e che ha letto avidamente, come dimostrano le sue lettere giovanili, cercando in esso un indizio per orientarsi: «Una di queste esperienze essenziali è Cervantes, forse la maggiore. Ecco una pienezza spagnola. Ecco una parola da brandire in ogni occasione come fosse una lancia»21. Ivi, p. 747; tr. it. p. 31. Ivi, p. 748; tr. it. p. 32. 19 Ivi, p. 755; tr. it. pp. 41-42. 20 Ivi, p. 762; tr. it. p. 50. 21 Ivi, p. 793; tr. it. p. 89. 17

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Il romanzo di Cervantes è un altro testo profondo e avvolgente, che è indispensabile esplorare per capirne lo stile, ovvero, il suo modo di sentire, di vedere e di comprendere, di “avvicinarsi alle cose”. Improvvisamente, con questo cambio, il viandante del bosco della Herrería si ritrova a camminare in un altro bosco rumoroso e crepitante, come la vita stessa, in un altro testo del mondo, che è il romanzo cervantino. In questo “stile poetico” è racchiuso anche il segreto di una filosofia. «Allora, se fra di noi ci sono coraggio e genio, bisognerebbe intraprendere con grande purezza il nuovo esperimento spagnolo»22. Esperimento di una nuova Spagna, sicuramente, ma non di meno esperimento specifico di una nuova filosofia. 3. Poiesis e mimesis

La cosa più ovvia che viene da dire è che il romanzo è un genere letterario, ovvero, una forma peculiare della letteratura e questa, parlando in modo estremamente generico, un “mundus fictus”, un doppio finzionale del mondo, il cui contenuto materiale è stato ridotto o de-realizzato (“l’arte è essenzialmente irrealizzazione”) e trasposto nella forma libera e autonoma di una “nuova oggettività” estetica. «La sua missione è di suscitare un orizzonte irreale. Per ottenere tutto ciò non c’è altra via che negare la nostra realtà, ponendoci con questo atto al di sopra di essa»23. L’arte derealizza per poter creare e crea per dar luce a nuovi modi di vedere. La finzione è un’azione mimetica della realtà, con cui essa viene ri-creata in modo immaginario. La mimesis non è una mera copia, che potrebbe valere poco, bensì la ri-produzione o ri-deIbidem. ID., La deshumanización del arte, in Obras completas, cit., vol. III, pp. 873-874; tr. it. La disumanizzazione dell’arte, a cura di S. Battaglia, nota introduttiva di E. Berselli, postfazione di E. del Drago, Luca Sossella Editore, Roma, 2005, p. 57. 22 23

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scrizione del contenuto del mondo in nuova forma o modello. «La mimesis è così poiesis, e viceversa»24, un atto di invenzione creativa di un mythos, una trama autonoma e libera, che descrive immaginariamente un nuovo mondo. «Il tratto distintivo della poesia colta – precisa Ortega – consiste nel vivere di se stessa, di non aver bisogno di un terreno su cui poggiarsi, di costituire essa stessa un universo completo. Solo così è pienamente creazione, póiesis»25. Ogni genere letterario è una forma determinata di questa funzione mimetica. Costituisce “una categoria estetica”, ovvero, una funzione canalizzatrice di questo fondo espressivo, generatore di forme, che è la vita dell’immaginazione creatrice. Comunque, è sempre l’uomo il tema essenziale dell’arte. Ed i generi [...] sono ampi sguardi sui versanti cardinali dell’uomo. Ogni epoca porta con sé una interpretazione radicale dell’uomo. [...] Per questo, ogni epoca preferisce un genere determinato26.

Ma l’uomo è sempre un “essere-nel-mondo” che si confronta con la propria circostanza. Ne consegue che la vita poietica dell’immaginazione esprime, in ultima istanza, l’interrelazione dinamica della soggettività vivente con la sua circostanza, nel seno onnicomprensivo della Vita: «Io non sono la mia vita. Questa, che è la realtà radicale, si compone di me e delle cose. Le cose non sono io, né io sono le cose: siamo mutuamente trascendenti, ma entrambi immanenti a quella coesistenza assoluta che è la vita»27. Il romanzo di Cervantes nasce agli inizi dell’età moderna. È soprattutto, insieme al saggio, il suo fratello gemello, generatore P. RICOEUR, La metáfora viva, Europa, Madrid, 1980, p. 63. J. ORTEGA Y GASSET, Una primera vista sobre Baroja (Apéndice), in Obras completas, cit., vol. II, p. 260; tr. it. Lo Spettatore, a cura di C. Bo, 2 voll., Bompiani, Milano, 1949, vol. I, p. 138 26 ID., Meditaciones del Quijote, cit., p. 796; tr. it. p. 93. 27 ID., Principios de metafísica según la razón vital. Curso de 1932-1933, cit., p. 658; tr. it. “Lezioni di metafisica”, in Id., Metafisica e ragione storica, a cura di A. Savignano, Sugarco, Gallarate (VA), 1994, p. 154. 24 25

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di modernità. «Cervantes guarda il mondo dalla vetta del Rinascimento»28, ossia l’epoca in cui la nuova fisica e la psicologia hanno disincantato il meraviglioso mondo del passato. In quest’altro mondo non è più possibile l’avventura. Fiore di questo nuovo e grande indirizzo che prende la cultua è il Chisciotte. In esso declina per sempre l’epica con la sua aspirazione a sostenere un mondo mitico confinante con quello dei fenomeni materiali, ma da esso distinto. Si salva, è vero, la realtà dell’avventura; ma tale salvezza implica la più pungente ironia. La realtà dell’avventura si riduce all’ambito psicologico, forse a un umore dell’organismo29.

4. Il mito, poesia delle origini

Questo significa che con Cervantes inizia una nuova poiesis, che inverte la poesia del meraviglioso. Ne consegue la necessità di considerare il genere epico come pietra di paragone. «Romanzo ed epica sono esattamente il contrario […] Se il tema dell’epica è il passato in quanto tale, quello del romanzo è l’attualità in quanto tale»30. L’epica è dunque la poesia delle origini. Inventa un mythos o un racconto del passato ancestrale, paradigmatico. «Per la Grecia, strettamente poetico era solo ciò che era antico, o meglio, ciò che era primario nell’ordine del tempo»31, vale a dire, l’originario: un tempo fondazionale, con un mondo popolato da archetipi, «oggetti essenziali ed esemplari»: «Insomma, per i greci sono pienamente poetiche solo le cose che furono in principio, non le antiche, ma le più antiche, quelle che contenevano in sé i principi e le cause»32. ID., Meditaciones del Quijote, cit., p. 810; tr. it. p. 110. Ivi, p. 811; tr. it. p. 111. 30 Ivi, pp. 799 e 804; tr. it. pp. 96 e 102. 31 Ivi, p. 800; tr. it. p. 98. 32 Ivi, p. 801; tr. it. p. 99. 28 29

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Il poeta crede in questo mondo, che non trae dalla sua invenzione, bensì dalla cosa stessa. Tutto ciò è veramente bizzarro e sorprendente: la fede semantica del poeta nella verità intrinseca della propria favola [mimesis] intesa come ordine stesso della realtà, proprio perché essa è la meraviglia delle meraviglie. E così vivono il mito tanto il rapsodo che lo recita quanto il pubblico che lo ascolta meravigliato. Questa è la realtà per antonomasia: la pura idealità, il mondo delle essenze e delle norme. La poesia delle origini esprime l’unità trascendentale indivisa della bellezza e della verità nell’ambito dell’essenziale. «[I greci] possedettero – osserva Ortega – un senso razionalista dell’estetica che impediva loro di separare il valore poetico dalla dignità metafisica»33. Come di sfuggita, qui Ortega suggerisce una continuità, almeno nella funzione, tra mito e metafisica in quanto attività che concernono, come poi ha mostrato Georges Gusdorf in Mito e metafisica, l’ordine della fondamentalità34. Non stupisce, pertanto, che Parmenide vincolasse la sua dottrina alla rivelazione oracolare di una dea. Anche la verità filosofica si presenta con l’aura di ciò che è eterno e imperituro. Ma questo mondo reale non può non riconoscere la sua copia sbiadita (una mimesis degradata) nell’apparenza (Platone). La dualità ontologica, pertanto, era inevitabile. Gli eroi, del resto, sono quelle “creature uniche”, a metà strada tra gli dei e gli uomini, che ambivano a ciò che è ideale e puro ed erano in grado di vivere affrontando questo ambito dell’essenziale. Si comprende, pertanto, che la tragedia è, in certo qual modo, un ampliamento dell’epica che si configura quando nella volontà dell’eroe si confrontano entrambi i mondi: quello mitico (poetico/ideale e iperreale) e quello relativo di quaggiù. «L’eroe vuole il suo tragico destino [...] Tutto il dolore nasce dal fatto che l’eroe si rifiuta di rinunciare a un ruolo ideale, un rôle immaginario che ha scelto»35. Ivi, pp. 800-801; tr. it. p. 98. Cfr. G. GUSDORF, Mito y metafísica, Nova, Buenos Aires, 1960. 35 J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, cit., p. 819; tr. it. p. 122. 33

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Dopo questo passato paradigmatico, è sopraggiunta la storia vera e propria, come una caduta. Ma la forza poetica irradiante del mito è tale da divenire «fermento della storia», – ciò che gli è più opposto –, scomponendo o corrompendo, con la «sua levatura poetica», i fatti storici: è il romanzo greco del meraviglioso. «Si tratta sempre – dice Ortega – di un determinato materiale storico che il mito ha dislocato e riassorbito»36. E da qui nasce, estendendosi all’ambito dell’immaginario, e in secoli già disincantati, il romanzo d’avventura. «I libri di cavalleria furono l’ultimo grande germoglio del vecchio tronco epico. [...] Il libro di cavalleria conserva i caratteri epici, salvo la credenza nella realtà di quanto viene raccontato»37. Questo è decisivo: ora non esiste più la fede semantica originaria del mito. Sottolineo il fatto che la realtà si dà a noi attraverso un atto di credenza, ritenendo, cioè, che qualcosa sia vera in virtù del suo modo di “darsi” in persona o tramite rivelazione. «La verità è caratterizzata da una pura illuminazione subitanea che possiede, però, solo nell’istante in cui viene scoperta» (alétheia, apocalipsis)38. Quando si perde la fede nella forza del mito, per l’azione critica del logos che si istituisce come nuovo potere di oggettività, nel mondo cavalleresco perdura ancora la sua immagine spettrale. La passione per la letteratura cavalleresca era ancora viva durante il Rinascimento, come residuo di ciò che era eroico. Doveva proprio essere un esattore delle tasse, disilluso da molti eroismi inopportuni, a porre fine, in letteratura, al regime mitico dell’idealità. 5. La realtà, fermento del mito

In fisica e in psicologia, la realtà concerne la forza di imposizione dei fatti, osservabili e sperimentabili. È il realismo delle cose di Ivi, p. 805; tr. it. p. 104. Ivi, p. 806; tr. it. p. 105. 38 Ivi, p. 769; tr. it. p. 58. 36 37

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questo mondo, quotidiano e abituale. Ma è una realtà sbiadita, carente della mitica dignità di ciò che è esemplare/originario, o, che è lo stesso, di qualsiasi aspetto poetico. Com’è possibile fare arte con una siffatta realtà? Ecco il problema. Ed è a questo punto che avviene un geniale cambiamento in ambito estetico: «La nuova poesia di Cervantes non può essere semplice come quelle greca e medievale»39. Si tratta di un’altra forma di poiesis, nell’età della scienza, dove il mythos non può più pretendere di essere considerato la vera realtà normativa, – la pura idealità –, ma si limita ad essere un racconto immaginario che abbellisce indirettamente la stanza, così come fa Velázquez nel quadro Le filatrici, in cui il tema mitico è introdotto attraverso l’arazzo ricamato dalle ragazze nella loro bottega. Non si tratta, tuttavia, di una mera contrapposizione, – l’ideale esemplare e l’istante fisicamente e psicologicamente reale –, come accade ancora nel duplice piano narrativo del Guzmán de Alfarache di Mateo Alemán, in cui le vicissitudini del picaro vengono duplicate con un sermone edificante; o nell’aldilà celeste, dipinto da El Greco come ornamento sopra le teste dei personaggi addolorati, nella sua opera Sepoltura del Conte di Orgaz. Questo dualismo non soddisfa il gusto moderno di Cervantes. Ma non lo soddisfa nemmeno il realismo incisivo e amaro con cui il romanzo picaresco – formula da lui efficacemente sperimentata –, «lancia uno sguardo», tra il dispettoso e l’insolente, «dal basso verso l’alto alla società»40. Questo realismo estremo, secondo Ortega, non ha dignità poetica in quanto è un semplice capovolgimento dell’eroico, e non può, dunque, sedurre e incantare. Detto in termini orteghiani, «la tendenza realista è quella che più ha bisogno di giustificazioni e spiegazioni, è l’exemplum crucis dell’estetica»41. Nel paragrafo 10 della “Meditazione preliminare”, con il titolo “Poesia e realtà”, Ortega espone il nuovo problema dell’arte. Ivi, p. 810; tr. it. p. 110. ID., Una primera vista sobre Baroja (Apéndice), cit., p. 260; tr. it. p. 138. 41 ID., Meditaciones del Quijote, cit., p. 810; tr. it. p. 109. 39

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Ora che la poesia originaria del mito cessa di essere la realtà per antonomasia, l’altra realtà contendente, quella fisica, naturale e attuale, è carente dell’aura estetica: Adesso dobbiamo conciliare la capacità poetica e la realtà attuale. Si noti tutta l’urgenza del problema. Fin qui giungevamo al poetico grazie ad un superamento e ad un abbandono del circostante, dell’attuale. Di modo che dire “realtà attuale” era come dire il “non poetico”. È, allora, la massima amplificazione estetica che bisogna pensare42.

Come può la nuova realtà giungere a interessarci dal punto di vista estetico? La soluzione di Cervantes nel suo romanzo princeps recita così: in quanto la realtà si presenti come indomita aggressione alla sfera poetica, e, allo stesso tempo, riassorbimento della sua aura. «Don Chisciotte è il punto in cui i due mondi si innestano»43, – il mondo reale e il mondo immaginario dell’avventura. Questo “taglio obliquo” distingue e, allo stesso tempo, intreccia entrambi i mondi, ma non li separa né li confonde. È possibile passare dall’uno all’altro, dalla realtà alla rappresentazione, o da questa alla realtà, come avviene nella locanda dove è rappresentato il teatro dei burattini di mastro Pedro. È sufficiente cambiare atteggiamento e tipo di attenzione. Se si sospende o si fa epoché della rappresentazione, si torna alla realtà, e se questa la si pone tra parentesi entriamo di nuovo nella finzione, con la facilità con cui i bambini passano dal gioco (mimesis ludica) al piano della realtà e viceversa. Il Barocco, – cultura riflessiva e prudente –, sapeva utilizzare ingegnosamente l’artificio del finzionalismo, come ha fatto notare Javier García Gibert a proposito dell’aforisma 251 dell’Oracolo manuale di Gracián, come un gioco di doppia piega, ottenuto attraverso un chiasmo, di modo che se si piega la realtà si dispiega la finzione, e vice42 43

Ivi, p. 809; tr. it. p. 109. Ivi, p. 810; tr. it. p. 110.

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versa44. Ma Don Chisciotte, ancora segnato dalla fede nel meraviglioso e dalla sete di avventura, è incapace di questo artificio, e quindi prende la realtà come finzione e la finzione come realtà. In ciò consiste la sua follia (o, nel caso fosse in grado di adoperare un tale artificio, allora, più che pazzo, sarebbe un giocatore che finge o che gioca al “come se”, secondo i propri interessi). In ogni caso, la soluzione di Cervantes nel suo Don Chisciotte è quella di cercare la «conquista della profondità estetica» attraverso un coinvolgimento di entrambi i piani in una dialettica di allusione/elisione. La burla dello scrittore, o, per essere più precisi, la burla oggettiva del nuovo mondo storico (gen. sogg.) “allude a” ed “elide” il meraviglioso mondo del suo eroe, in modo inverso a quello in cui la follia del cavaliere, a sua volta, “allude a” ed “elide” la realtà effettiva. Si direbbe che Cervantes si limiti a vedere, a ri-descrivere nel suo nuovo mythos il chiasmo di questa doppia ironia intrecciata: Insieme a Don Chisciotte entrerebbe a far parte del reale anche la sua indomita volontà. E questa volontà è pregna di una decisione: è volontà di avventura. Don Chisciotte, che è reale, vuole realmente le avventure. Come dice egli stesso: “Gli incantatori potranno anche togliermi l’avventura, ma il coraggio e l’animo è impossibile”45.

Don Chisciotte non è nemmeno un eroe tragico, quindi, quando entra sulla scena del nuovo mondo mercantile, lascia una scia comica di avventura naufragata nell’assurdo. Ma è reale la sua volontà di ciò che è ideale, anche quando la nuova realtà, quella fisica/psichica e storica, si burla dell’idealismo del cavaliere. Derisione che è umorismo, perché non è crudele, salvo nel Palazzo dei Duchi, anzi persino benevola e comprensiva, – il 44 Cfr. J. GARCÍA GIBERT, Medios humanos y medios divinos en Baltasar Gracián, in «Criticón», 73, 1998, p. 67. 45 J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, cit., p. 810; tr. it. p. 110.

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buon umore, venato di malinconia, con il quale l’esattore accetta il suo disincanto nei confronti dell’eroico, senza condannare la sua volontà di avventura. La tensione costitutiva fra i due piani genera, secondo Ortega, un dinamismo poetico. 6. Il romanzo, mimesis ironica

D’un tratto la poiesis di Cervantes si rivela mimesis ironica, nel movimento di rifrazione del mondo ideale, relativizzandolo nelle sue affermazioni e riassorbendolo nella realtà effettiva. Un esempio oggettivo di ironia è, per Ortega, il miraggio, che mostra erroneamente ciò che non c’è se visto in modo diretto, ma che in obliquo esiste come l’immagine di un desiderio. «L’acqua che vediamo non è acqua reale, ma ha qualcosa di reale: la sua sorgente. E quest’amara sorgente da cui scaturisce l’acqua del miraggio è la disperata aridità della terra»46. Una terra assetata fa sgorgare la sua esalazione desiderativa in immagini spettrali, che possono divenire allucinatorie se non sono conosciute come mero miraggio. La poesia del mito era uno sguardo dritto, diretto, ingenuo e sincero, che credeva nella verità del mondo ideale in quanto meraviglioso. Anche il nuovo sguardo della scienza è uno sguardo dritto – forse non meno ingenuo e meravigliato – verso la nuova realtà fattuale dei fenomeni. Entrambi questi sguardi, presi nella loro letterarietà ed esclusività, conducono rispettivamente ad una letteratura dell’amore verso l’idealità o al rancore contro di essa. Ma la realtà può convertirsi in oggetto d’arte – precisa Ortega – solo se la si coglie «obliquamente come distruzione del mito, come critica del mito»47, o, se si vuole, come derisione del miraggio. Per poterlo riassorbire, si richiede all’arte un nuovo sguardo obliquo, indiretto: 46 47

Ivi, p. 811; tr. it. p. 111. Ibidem; tr. it. p. 112.

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Il romanzo realista è questa seconda maniera obliqua. Ha bisogno, quindi, della prima; ha bisogno del miraggio per farcelo vedere come tale. Così, non è solo il Chisciotte ad esser stato scritto in opposizione ai libri di cavalleria, e, di conseguenza, a portarli in sé, ma tutto il genere letterario “romanzo” consiste essenzialmente in quella introiezione48.

La mimesis (finzione) romanzesca, attraverso l’ironia, rifrange l’ideale come illusione, e solo così lo iscrive virtualmente nel potere della realtà, in quanto mero “senso” (sogni, obiettivi, ideali...) di una reale volontà d’essere. Non esiste, dunque, un mondo effettivo del senso, bensì un’unica realtà materiale, che ci viene imposta fattualmente, anche quando dà “segni” significativi all’immaginazione. Sono scorci di “senso”, ma non costituiscono di per se stessi un mondo di idealità. Con ciò rimane anche ironicamente disattivata la collisione ontologica, che eleva la tragedia, tra due mondi separati e contrapposti: «Se l’“idea” trionfa, la “materialità” viene soppiantata e viviamo allucinati. Se la “materialità” si impone, e penetrandone il vapore riassorbe l’idea, viviamo disillusi»49. Per evitare tali mutevoli estremi, bisogna pensare a un nuovo regime di convivenza ironica tra fatticità e senso, come due dimensioni interne all’unica realtà. Questo nuovo regime è istituito dal romanzo: Il primo romanzo integrale che sia stato scritto è, secondo me, il Don Chisciotte e qui momentaneamente, nella tregua che il cuore di un genio offre loro, confluiscono amore e rancore, il mondo immaginario e leggero della forma e quello pesante e duro della materia. Cervantes è l’Uomo: né lacché né signore50.

Ibidem. Ivi, p. 813; tr. it. p. 114. 50 ID., Una primera vista sobre Baroja (Apéndice), cit., p. 260; tr. it. p. 137. 48 49

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7. Realismo poetico

Ogni idealismo, che sia logico o estetico, è ipertrofia del piano del senso, delle forme pure, a tal punto da sostantivarlo e scomporlo. Il realismo poetico, al contrario, mette in risalto quell’altro versante che protende dal senso alla materialità. La realtà di cui stiamo parlando non è dunque la realtà normativa dell’idea (platonica), già decaduta, bensì la realtà materiale nella sua fattualità. Solo questa entra nell’arte, indirettamente o obliquamente, rifrangendo ironicamente il “senso”: «Ecco ciò che chiamiamo realismo: portare le cose a una determinata distanza, metterle sotto una luce, inclinarle in modo che si accentui il lato che digrada verso la pura materialità»51. E a questo punto la nostra attenzione è richiamata da un testo di Ortega alquanto enigmatico: «Questa distinzione è, a mio parere, decisiva: la poeticità della realtà non consiste nella realtà in quanto questa o quella cosa, ma nella realtà come funzione generica»52. Non si tratta, dunque, di un senso “poetico” attribuito a “una” determinata realtà, come per il mito (o anti-poetico, nel caso dell’anti-mito), bensì del senso poetico della realtà in genere o in quanto realtà. «Per questo è indifferente quali oggetti scelga di descrivere il realista. Vanno bene tutti, tutti hanno attorno a loro un alone immaginario. Si tratta di mostrare sotto di esso la pura materialità»53. Orbene, in che senso può essere poetica la nuda realtà nella sua e per la sua materialità? In una nota del testo, Ortega prende come riferimento del realismo poetico la pittura di Velázquez, che non dipinge le forme, come Raffaello o Michelangelo, ma la materialità delle cose, il loro ordito interno. Già in precedenza, ID., Meditaciones del Quijote, cit., p. 813; tr. it. p. 114. Ivi, p. 814; tr. it. p. 115. 53 Ibidem. 51

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ne La voluntad del Barroco, Ortega aveva scritto: «Velázquez dipinge la materia e il potere dell’inerzia»54. Ed ora, nelle Meditazioni, si lascia andare a una confessione di stretto materialismo: «Ma la realtà è un semplice e spaventoso “star lì”. Presenza, abbandono, inerzia. Materialità»55. Si ricordi che questo era il tratto tipico della sensibilità mediterranea: «Per un mediterraneo l’essenza di una cosa è meno importante della sua presenza, della sua attualità: alle cose preferiamo la sensazione viva delle cose»56. Di conseguenza, si può asserire che il reale, nella sua materialità, entra nell’arte come limite della cultura. Resta inteso che in tal caso la materialità denuncia l’insufficienza intrinseca della cultura: «In una parola, l’insufficienza della cultura, di quanto è nobile, chiaro – questo è il senso del realismo poetico. Cervantes riconosce che la cultura è tutto questo, ma, ahinoi, è una finzione»57. 8. La vita come potenza di significato

A prima vista sembra che l’ultimo testo citato si scontri con l’enfasi che la cultura riceve nella “Meditazione preliminare”: «La cultura non è la vita intera, ma solo il momento della sicurezza, della stabilità, della chiarezza»58. Tutto questo vigoroso vortice di riflessioni della vita su se stessa, rendendo ragione di sé e facendo il resoconto storico delle proprie azioni, sembra ridursi a un malinteso. Riflessione come finzione? È cambiata molto l’ottica orteghiana da una meditazione all’altra, anche ammettendo che sono state scritte in tempi diversi?59 Non dimentichiamo che ID., La voluntad del Barroco, in Obras completas, vol. VII, p. 312. ID., Meditaciones del Quijote, cit., p. 814; tr. it. p. 115. 56 Ivi, p. 779; tr. it. p. 71. 57 Ivi, p. 814; tr. it. p. 115. 58 Ivi, p. 786; tr. it. p. 80. 59 Cfr. I. FOX, “Introducción” a Id., Meditaciones sobre la Literatura y el Arte, Castalia, Madrid, 1987. 54 55

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nella “preliminare” Ortega ci mette in guardia contro l’unilateralità del mediterraneismo e cerca di integrare la chiarezza della superficie in una dimensione di profondità: quella del senso della cosa, «l’ombra mistica che il resto dell’universo spande su di essa»60. Si persegue, dunque, una struttura oggettiva per una cultura del concetto. Al contrario, nella “Meditazione prima”, il senso è ridotto a «un alone immaginario attorno» a ogni cosa61. Nella preliminare, inoltre, si afferma che «l’atto specificamente culturale è l’atto creatore, quello in cui estraiamo il logos da qualcosa che era ancora insignificante (illogico)»62. Ora, però, l’atto creatore non estrae il senso, ma lo rende ironicamente finzione. Nella “preliminare”, in sintesi, il senso appare su un piano riflessivo esplicito, e con valore oggettivo, e nella “prima” su un piano pre-riflessivo e soggettivo. Si potrebbe desumere che in un caso si parli di una cultura oggettiva, quella propria del concetto e, nell’altro, di cultura artistica. Ma questo è tutto? Si noti che l’abbraccio ironico tra senso e fatticità è possibile solo se la realtà lo ammette e lo consente. Entrambi i piani non si oppongono più in un dualismo astratto se si lasciano comporre nell’unica realtà effettiva. Indubbiamente la realtà, in quanto materialità, è il limite della cultura, ma ne è anche il fondamento. Dove risiede la suggestione delle forme se non negli stessi segni che ci offrono le cose materiali? Nel testo appena citato, ciò che è po(i)etico designa la “pura materialità”, però in quanto levatrice dell’«alone immaginario» di ogni cosa e, quindi, della materialità trascendentale (sit venia verbo, dal momento che in questo caso è considerato in opposizione all’idealismo trascendentale). E cosa c’è di più antecedente e originario delle forme, se non la stessa gravidanza della materia che le origina? L’aporia inizia a dissolversi se questa materialità trascendentale è pensata come realtà in quanto vita o vita in quanto J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, cit., p. 782; tr. it. p. 75. Ivi, p. 814; tr. it. p. 115. 62 Ivi, p. 756; tr. it. p. 42. 60 61

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realtà. È questo il segreto della filosofia di Ortega. Ciò che è poetico, in quanto qualificazione dell’atto stesso della realtà (in genere), deve essere inteso, a mio avviso, nel senso etimologico forte di poietico (poiesis), ovvero, come gestazione che precede la nascita delle forme. Poietico è l’atto della potenza significativa della Vita, che sta alla base di ogni cultura e che, allo stesso tempo, la riassorbe in se stessa o la giudica e la denuncia per la sua insufficienza. Ma la vita (se ne tenga conto), in quanto coesistenza assoluta, comprende in sé l’interrelazione dinamica della soggettività vivente con la circostanza. Alla potenza e alla fonte primordiale, che è la Vita stessa, le sono dunque immanenti sia la capacità della circostanza di fornire segni, provocare e incitare all’avventura del senso, sia la volontà sperimentatrice dell’io, che la affronta in modo risolutivo per far luce su di essa e sapere a cosa attenersi. La stessa realtà, in quanto poiesis, è il fermento del significato, sia nella mimesis ironica del romanzo che nell’altra mimesis ermeneutica del saggio. La realtà risulta allora un giacimento di mine sotterranee di senso come stimolo alla raccolta di interpretazioni e valutazioni del reale, in virtù degli interessi e dei fini sui quali si fonda la vita. In un appunto di lavoro, Ortega si riferisce a un “realismo trascendente”, che io interpreto come realismo dinamico, aperto temporalmente alla dimensione del possibile e dell’avvenire. Sicuramente la vita, essendo materialità, può generare inerzia e abitudine, ma, in quanto vita, se viene efficacemente stimolata, cerca di superare se stessa. La vita, insomma, è aperta alla cultura, che prima di essere un’abitudine è un esercizio di possibilità e di auto-riflessione. La cultura, quando è autentica, è cultura animi e, molto più radicalmente, cultura vitae, che conferisce alla vita «chiarezza e sicurezza». Tuttavia, per la sua importanza cruciale, si corre il rischio di sostantivarla in maniera venerativa come cosa in sé – il mondo della libera idealità, o il complesso delle norme trascendentali –, ricadendo nuovamente nella fede del mito. Da ciò deriva la severa ammonizione orteghiana:

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Anche la giustizia e la verità, ogni opera dello spirito, sono miraggi che si producono nella materia. La cultura – il lato ideale delle cose – pretende di costituirsi come un mondo separato e sufficiente, in cui possiamo trasferire la nostra interiorità. È un’illusione, e solo considerata come illusione, come un miraggio in terra, la cultura è al posto che le compete63.

Vi è nel testo un tono nietzschiano, volutamente provocatorio, ottenuto tramite un efficace paradosso che comporta l’anfibologia del termine “illusione”. Pensata a partire dalla vita, risulta un’illusione (compito illusorio e morboso) ogni tentativo di innalzare la cultura come la vita stessa, perché, dopo tutto, non è altro che finzione/illusione (mimesis), azione poietica della vita, nella costruzione del senso e del valore. Ponendo la cultura al suo posto, come funzione della vita, è chiarificatrice e orientativa. Ma la vita non è per la cultura. Vive di sé e per se stessa. Ebbene, questo significa che tutto il fittizio è totalmente soggettivo? Non può anche darsi che il fittizio abbia funzione euristica con pretesa oggettiva? Ne Il tema del nostro tempo sembra svelarsi questa incognita: Con questo non voglio dire che tutte quelle grandi cose abbiano un valore fittizio: mi interessa soltanto notare che non ha meno valore quella capacità di infiammarsi per tutto ciò che è apprezzabile: capacità che costituisce l’essenza della vita64.

Inoltre, come si può distinguere il fittizio/soggettivo dal fittizio con pretesa oggettiva? Non vi sarà, dunque, uno spostamento dalla Fenomenologia alla Ermeneutica sociale e pragmatica del senso? Ivi, pp. 812-813; tr. it. p. 113. ID., El tema de nuestro tiempo, in Obras completas, cit., vol. III, p. 602; tr. it. Il tema del nostro tempo, a cura di C. Rocco e A. Lozano Maneiro, Sugarco, Gallarate (VA), 1994, p. 120. 63

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9. Appare l’eroe

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È in questo contesto che viene menzionato l’eroe, che altri non è se non l’uomo, la soggettività vivente che sperimenta il mondo. La volontà eroica non consiste nel conflitto interiore generato dal volere l’ideale anziché la fatticità, ma nell’apertura incessante verso l’altro. Nella volontà di avventura è data «una strana natura bifronte […] la volontà è reale, ma ciò che si vuole è irreale»65. In questo volere, la vita trascende verso l’irreale, verso il non essere, rompendo il circolo ermetico dell’attuale immediato. Tale trascendersi temporale dischiude la vita alla possibilità, alla novità. Eroica è, quindi, la volontà disposta al compito di rinnovare e incrementare la sua esperienza nell’ordine del senso e del valore. La potenza poietica della Vita, con le sue voci di senso, esige un fine ascoltatore ed ermeneuta. In una parola, l’eroe è il poietes, artifex sui, il creatore, e per questo deve rompere con tutto ciò che è abituale e consacrato: Essi aspirano a far prendere alle cose un corso diverso: si rifiutano di ripetere i gesti che l’abitudine, la tradizione e gli istinti biologici li forzano a compiere. Questi uomini li chiamiamo eroi. Perché essere eroi consiste in questo, nell’essere sé stessi66.

L’“unicità” dell’eroe non risiede in ciò che ha di straordinario la sua missione, ma nel modo di plasmare la sua individualità. Non vive come l’eroe tragico nella dimensione di ciò che è essenziale, al cospetto di esigenze assolute e ideali, ma in quella esistenziale che consiste nel rispondere di sé e per sé. La sua unicità è la stessa di chi si vuole radicalmente autonomo, libero per se stesso da qualsiasi pressione o coercizione. La sua «originalità – dice Ortega – è “pratica”, attiva. La sua vita è una perpetua resistenza a quanto è abituale e consueto»67. Certamente la seduID., Meditaciones del Quijote, cit., p. 816; tr. it. p. 117. Ibidem; tr. it. pp. 117-118. 67 Ibidem. 65

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zione di ciò che è facile e abituale stronca alla radice qualsiasi atteggiamento eroico, che si mette alla prova solo in ciò che è arduo e che stimola la sua creatività. Insomma, l’eroe è colui che sperimenta coraggiosamente il proprio essere. «In questa direzione va trovato il vero individualismo: non nell’essere differente quanto nel farsi differente, ecco l’individualità. L’individuo è il potere creatore delle differenze e non è altra cosa che questo»68. La sua autonomia, tuttavia, non è arbitrarietà, in quanto volendo il suo se stesso non vuole altro che la sua determinazione (Bestimmung) più propria ed esclusiva, il suo intimo poter-essere. Egli non vuole un dover essere astratto, ma la sua vocazione. Tra le voci della Vita, emesse dalla ginestra ardente, ce n’è una che lo chiama per nome e lo identifica come autore e attore del suo stesso destino. In essa risiede il segreto particolare ed unico di ogni vita. Non gli ordina nulla; non gli chiede nulla. Gli dice: “sii te stesso”, uomo, né servo né padrone, senza alcun dominio se non quello del concetto, né alcuna schiavitù se non la tua vocazione. Come ha fatto dire Cervantes al suo eroe: «Gli incantatori potranno anche togliermi l’avventura, ma il coraggio e l’animo è impossibile». Questa è la lezione di vita che ancor oggi offrono, in un secolo demoralizzato, le Meditazioni del Chisciotte. [Traduzione di Armando Mascolo]

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ID., La voluntad del Barroco, cit., p. 317.

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Testo e contesto nelle Meditazioni del Chisciotte

1. Il contesto

Le più recenti interpretazioni coincidono quasi unanimemente nel considerare il primo libro di Ortega il preludio della sua filosofia successiva; vale a dire il primo mattone di un unicum nato nel 1914 e conclusosi con la morte del filosofo negli anni Cinquanta. Un punto di vista che si deve in parte accogliere. In primo luogo perché contiene delle verità e, in secondo luogo, perché viene da orteghiani di solida formazione con alle proprie spalle centinaia di pagine sull’opera del filosofo de El Escorial. In altri casi i critici hanno interpretato Meditazioni del Chisciotte avvalendosi di opere molto posteriori a quella del 1914, utilizzando poco i suoi testi e basandosi sull’opera della maturità di Ortega; chiaro è che questo modo di agire decontestualizza il saggio oggetto della nostra attenzione. Sappiamo tutti, per esperienza personale, soprattutto se non godiamo più dell’impeto della vitalità giovanile, che il nostro cammino filosofico, letterario e culturale si evolve attraverso progressi interni e circostanze esterne. Le nuove letture di Ortega, così come l’evoluzione della storia e della società, cambiarono logicamente negli anni la sua prospettiva. Ortega inizia a scrivere i suoi primi articoli quando la generazione modernista – erroneamente detta generazione del ’98 –, * L’orteghismo in Italia vanta eccellenti studiosi, ma la diffusione di questa filosofia si deve soprattutto al prof. Cacciatore che con il suo instancabile impegno ha saputo creare un centro di Ispanismo filosofico a Napoli. All’illustre professore ed amico i miei ringraziamenti più sinceri.

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si stava imponendo nelle letterature peninsulari e, in particolar modo, in quelle madrilene. Nella capitale si affermavano Machado, Azorín, Baroja, Valle-Inclán e, inoltre, Maetzu ed Unamuno. Ortega sapeva che, se voleva avere successo nella cultura spagnola, sarebbe stato obbligato a superarli culturalmente con i suoi articoli, la sua corrispondenza, e, infine, il suo primo libro, Meditazioni del Chisciotte. Doveva tener conto del fatto che la maggior parte di loro erano letterati con interessi filosofici, ma, ad eccezione di Maeztu e di Unamuno, non conoscevano bene i sistemi filosofici che avevano trovato sviluppo in Europa nel corso della seconda metà del XIX secolo e del primo terzo del XX. Per questa ragione, Ortega non voleva confrontarsi con loro con l’esposizione di un sistema filosofico, sia perché la sua preparazione a riguardo non era completa e sia perché in quasi tutta la sua opera scelse un genere che glielo proibiva: il saggio1. Il saggio fu un genere molto diffuso nella Spagna realista e soprattutto in quella modernista. Non risulta strano, dunque, che Ortega si rivolgesse alla cultura precedente con lo stesso genere e con gli stessi contenuti intrecciati e diversificati di letteratura e filosofia, dato che il Modernismo fu una corrente culturale che, a partire dalla ribellione contro la neoscolastica, passò subito alla letteratura, alla filosofia ed alle scienze2. Ortega non gli fu quindi estraneo, poiché quando iniziò a scrivere i suoi primi articoli lo respirò nei contesti europei e spagnoli. L’allora essenzialista spagnolo dedicò due lavori al romanzo di Fogazzaro, Il Santo, che diede avvio e diffuse il Modernismo in Italia, tenendo presente, com’è noto, che Ortega aveva allora A tale proposito ho scritto due articoli: “El ensayo español. 1870-1914”, in A. Albónico, A. Scocozza (a cura di), La prosa no ficcional en Hispanoamérica y en España entre 1870 y 1914, Monte Ávila Editores, Caracas, 2000, pp. 3-55. E a continuazione: “Il saggio in Spagna: 1898-1939”, in M. Porciello, M. Succio (a cura di), Il saggio in Spagna e Ispanoamerica (1914-1945), Arcipelago Edizioni, Milano, 2009, pp. 65-91. 2 Si veda il lavoro L. DE LLERA (a cura di), Religión y literatura en el modernismo español. 1902-1914, Actas, Madrid, 1994. 1

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Testo e contesto nelle Meditazioni del Chisciotte

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gli occhi puntati sulla Germania. Nel primo si legge: «Io sono grato a questo libro; leggendolo ho sentito quel che da molto tempo non avevo potuto gustare: l’emozione cattolica»; per poi continuare, con la sua prosa avvolgente ed attraente, affermando: «Ma questa formula del futuro cattolicesimo, predicata da Il Santo, fa pensare, a noi che viviamo lontani da qualunque Chiesa: se il cattolicesimo fosse così, non potremmo essere un giorno cattolici?»3. Queste frasi meritano almeno un breve commento, perché spiegano in parte il suo carattere ed il suo stile. Carattere provocatorio e stile saggistico, a cui non è per niente facile ribattere perché mescola il suo rifiuto per i cattolici con la sua apertura alle novità. Vale a dire, come ho pure scritto altrove, invoca una religione alla portata di tutti, ma non grazie ad un’elaborazione più semplice, bensì ad un adattamento agli agi della modernità. Perciò Ortega non nutre la speranza che il suo lavoro dia frutti; merita però ferventi simpatie. Nonostante tutto, il filosofo madrileno sente una certa complicità nei riguardi del movimento riformista, non solo per ragioni di moda o di adeguamento ai tempi; Ortega, infatti, possedeva sensibilità culturale e olfatto sufficientemente sviluppato nei confronti di tutto ciò che si presentava come novità, quindi per comprendere la finalità di fondo del Modernismo4. A tal proposito scriveva: «Una Chiesa cattolica ampia e salubre, che mirasse a superare la croce di antinomia fra il dogmatismo cattolico e la scienza, ci parrebbe la più potente istituzione della cultura: questa Chiesa sarebbe la grande macchina dell’educazione del genere umano»5. Una volta ancora, OrJ. ORTEGA Y GASSET, Sobre “Il Santo”, in Obras completas, Alianza Editorial/Revista de Occidente, Madrid, 1982, vol. I, pp. 430-431. 4 L. DE LLERA, “El modernismo religioso y literario: hacia una nueva delucidación”, in L. de Llera, C. Assumma (a cura di), La primera modernidad. El modernismo religioso y literario en España e Hispanoamérica, Planeta, Bogotá, 2012, p. 165. 5 J. ORTEGA Y GASSET, Sobre “Il Santo”, cit., p. 430. 3

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tega misura e giudica il valore del Modernismo dal punto di vista sociologico, per la sua capacità di riformare le coscienze e il comportamento della collettività spagnola che si muoveva tra il vecchio e permanente dilemma della doppia verità, quella scientifica e quella filosofica. Per il nostro pensatore laico, la Chiesa cattolica nel suo lungo percorso storico non era stata capace di superare una dogmatica troppo rigida ed ancorata nel tempo. Bisognava, da un lato, potare l’albero dogmatico, troppo frondoso per il clima intellettuale moderno, dare maggior fluidità alla fede, rendere più flessibile una ideologia sclerotizzata: si rendeva necessario, in sintesi, riformare la letteratura cattolica. Ortega vede nel Modernismo la possibilità di conciliare scienza e fede o, meglio ancora, di aprire l’ideologia alla scienza e, in questo senso, di conciliare tradizione e modernità e, in un certo modo, la Spagna con l’Europa. Come già ho spiegato, il filosofo laico applaude il Modernismo in quanto promotore di una riforma all’interno della Chiesa affinché, superando le incompatibilità, si adattasse alla filosofia e alla scienza moderna. Il problema era, e sarà sempre, proprio questo: qual è il prezzo che la dottrina deve pagare, in ogni momento, per essere accettata dalla cultura laica? Ortega vede nel Modernismo una nuova stagione nella via ascendente del processo culturale. Saluta Il Santo con giubilo, probabilmente anche perché sapeva che Fogazzaro non era riuscito ad esporre di persona a Pio X le sue idee di cattolico laico sulla riforma chiamata modernista e che, per questo, il suo libro era l’unico mezzo per far conoscere le sue idee. D’altra parte, i circoli modernisti milanesi, svizzeri e romani vantavano intellettuali e mezzi sufficienti per far sentire la propria voce, laddove in Spagna, lo spazio concesso alla difesa del riformismo religioso era risultato infinitamente minore6.

L. DE LLERA, El modernismo religioso y literario: hacia una nueva delucidación, cit., p. 166. 6

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L’impulso individualista e soggettivista era una novità generalizzata nel movimento modernista, sia nella sua fase religiosa che in quella letteraria, ma ciò non significa che, come accade con tutte le novità culturali della storia, la generazione precedente non avesse preannunciato idee e sentimenti che anticipavano, in certo modo, la nuova generazione. Per esempio, per quanto riguarda gli errori pratici della Chiesa, il pio sacerdote e potente filosofo italiano Antonio Rosmini, nel suo libro Le cinque piaghe di Santa Madre Chiesa, aveva denunciato decenni prima dell’esplosione modernista i mali che affliggevano la Chiesa universale e quella romana in particolare. Antonio Moroni cita il giudizio di Pietro Pancrazi quando indica lo sforzo smisurato di Fogazzaro per conciliare dogma e filosofia, scienza e fede, libertà e cattolicesimo, arte del verismo (realismo) e idealismo, Darwin e Sant’Agostino7. Quando scrive sul Modernismo, Ortega cita Leroy, Tyrrell, Murri, Blondel, Minochi, Herling e Laberthonnière. Inoltre nel suo articolo su Il Santo scrive: «Il Modernismo non si è accontentato di creare una nuova filologia. La sua potente religiosità gli ha permesso di forgiare nuove soluzioni filosofiche, sociologiche, etiche, politiche e teologiche. Il romanzo di cui parliamo, Il Santo, ci permette, infine, di sperare in una nuova estetica del cattolicesimo»8. Quanto scritto sembra giustificare il fatto che Ortega y Gasset non si preoccupò solamente di combattere l’arte e la filosofia realista del XIX secolo, ma considerò il Modernismo la generazione del cambiamento, la prima del XX secolo, la quale tuttavia era passibile di perfezionamento. Ma in quel momento il cammino si prospettava lungo e impervio. Modernisti erano Rubén Darío, Antonio Machado, Azorín e Baroja9, oltre che A. MORONI, “Introduzione” a A. Fogazzaro, Il Santo, Mondadori, Milano, 1985, p. XXVIII. 8 J. ORTEGA Y GASSET, Sobre “Il Santo”, cit., p. 423. 9 Cfr. M. ROMERO SAMPER, “Pío Baroja, preocupación religiosa y malas pulgas”, in L. de Llera (a cura di), Religión y literatura en el modernismo español. 1902-1914, cit., pp. 193-282. 7

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Unamuno, Maeztu e Juan Ramón Jiménez, questi ultimi interessati tanto alla pura letteratura come al pensiero. Questo avvicinamento dei letterati spagnoli modernisti a quelli europei, forse di maggior spessore speculativo, è espressione anche dell’interesse di Ortega, Juan Ramón Jiménez e Unamuno nei confronti del movimento di ribellione europeo, ma anche, come è normale che accada, a causa di un fenomeno di osmosi ambientale, proveniente da tutta Europa10. Questo fatto rese il nostro Modernismo un movimento meno unificato e più dispersivo rispetto ad altre nazioni europee11, ma sufficientemente chiaro perché Ortega vi riconoscesse un cambio di prospettiva rispetto al pensiero e all’estetica del XIX secolo. È chiaro che Ortega con il suo forte egotismo e con la sua vocazione di salvatore della patria, con l’obiettivo d’imporre un nuovo ritmo alla lenta evoluzione della Restaurazione borbonica, si vedeva obbligato a vincere la battaglia contro la generazione precedente per caratterizzare orteghianamente la nuovissima generazione del 1914, vale a dire la sua. L’oppositore più importante si chiamava Miguel de Unamuno, con prestigio riconosciuto nel campo del Modernismo religioso e letterario12. Ortega doveva scontrarsi, e lo fece con forza e non troppo rispetto, con il rettore di Salamanca. In una lettera giunse a dirgli che non condivideva l’intuizione estetica e il coraggio dello scrittore. Bisognava sapere, studiare, acquisire spirito scientifico, altrimenti l’alternativa non poteva essere altra che quella di tacere13. La battaglia, come vedremo, la vinse il giovane Ortega, J. COZAR CASTAÑAR, Modernismo teológico, modernismo literario. Cinco ejemplos españoles, B.A.C., Madrid, 2002. 11 A. BOTTI, La Spagna e la crisi modernista, Morcelliana, Brescia, 1987. 12 A. CASSANI, “Apuntes sobre el modernismo de Miguel de Unamuno entre España e Italia”, in L. de Llera, C. Assumma (a cura di), La primera modernidad. El modernismo religioso y literario en España e Hispanoamérica, cit., pp. 179-197. 13 E. Robles (a cura di), Epistolario completo Ortega-Unamuno, El Arquero, Madrid, 1987. 10

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senza che per questo il prestigio e la fama di Unamuno diminuissero. Qualcosa di simile alla lotta culturale fra Ortega e i modernisti si verificò fra questi ultimi e la generazione precedente, quella realista. Non c’è dubbio che la battaglia si combatté forse in forma meno radicale, poiché in origine realisti e modernisti scrissero nelle stesse riviste, anche se poco a poco si allontanarono reciprocamente14. Si è ripetuto spesso che i modernisti erano letterati migliori e romanzieri più colti dei romanzieri della generazione precedente. Essere migliori e essere peggiori dipende dal gusto dei giornalisti e del pubblico lettore, ma il sapere di più o di meno no; è una questione più oggettiva e siamo convinti che in base a tale oggettività la generazione di Galdós, Valera ecc. ha poco da invidiare a quella di Darío, Azorín, Baroja ecc. In ogni caso, il rifiuto di Ortega nei confronti della cultura e del pensiero precedente risulta sempre evidente. Rispetto a quest’ultimo tutti concordano sul fatto che, dopo la sua educazione gesuitica nei centri di Bilbao, si allontanò dalla filosofia cattolica, specialmente da quella scolastica; sul socialismo utopico e marxista spagnolo scrisse poco o nulla. Risulta più problematico distinguere circa le sue idee sul krausismo e la Institución Libre de Enseñanza. Non vi è dubbio riguardo l’ammirazione e le buone relazioni personali che lo legavano ad alcuni dei suoi membri; fra gli altri Giner de los Ríos e Costa. Ma è anche vero che in una lettera dice che la filosofia di Sanz del Río nella Spagna del 1908 contava ben poco. Ortega ha scritto a riguardo: Si è parlato del famoso krausismo spagnolo. I krausisti spagnoli erano però quel che si suol dire eccellenti persone e cattivi musicisti. Hanno avuto un’influenza forte e nobile nella vita spagnola, ma della Germania conoscevano solo Krause. Non avevano idee chiare nemmeno su Kant o sui romantici contemporanei di Krause. Capirà il lettore che trovarsi in un deserto con l’eteroclito

F.J. MARTÍN (a cura di), Estudio sobre la política en Azorín, Generalitat, Valencia, 2002. 14

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Krause, così isolato, senza conseguenze né concomitanze, è una scena oltremodo comica15.

Qualche tempo prima in una lettera a M.B. Cossío, si era pronunciato duramente contro la filosofia di Krause: Per me la metafisica nel suo significato rigoroso – per esempio quella di Krause – è più morta che mai. Questo significato consiste nel volere che una realtà stessa – la terra, la vita – sia suscettibile di due elaborazioni intellettuali diverse: una fisica ed un’altra metafisica. Io credo che ci sia una metafisica, ma che bisogna capire che tramite essa esistono problemi non soltanto irrisolti, ma anche insospettati da parte delle altre scienze16.

2. Nuova bibliografia su Meditazioni del Chisciotte

Nel numero 396 del maggio 2014 «Revista de Occidente» ha pubblicato una monografia su Meditazioni del Chisciotte, che vanta contributi quasi tutti di grande valore all’orteghismo spagnolo. Il primo scritto lo firma Zamora Bonilla17. L’opinione di quest’ultimo, in linea con il pensiero orteghiano, è che le Meditazioni siano saggi d’amore intellettuale. «La concettualizzazione della cosa ci permette di distinguerla dalle altre, ma, allo stesso tempo, i limiti del concetto meritano una connessione con il resto del mondo. Non si possono comprendere le cose se si vedono in maniera isolata»18. J. ORTEGA Y GASSET, Prólogo para Alemanes, in Obras completas, cit., vol. p. 21. 16 Lettera di Ortega a Manuel Bartolomé Cossio in «ABC», 1 novembre 1990, intitolata dal quotidiano Filosofía de la naturaleza. 17 J. Zamora Bonilla è conosciuto soprattutto per una magnifica ed esaustiva biografia sul pensatore de El Escorial: Ortega y Gasset, Plaza & Janés, Barcellona, 2002. 18 J. ZAMORA BONILLA, Lecturas que no cesan. Centenario de Meditaciones del Quijote, in «Revista de Occidente», 396, 2014, p. 7. VIII,

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Secondo Zamora Bonilla, Ortega nel 1914 aveva già abbandonato l’idealismo razionalista di Marburgo per conciliare la cultura dei concetti con la cultura della vita, che, tradotto nel suo ambiente madrileno, significava integrare Spagna ed Europa e di conseguenza cultura latina e germanica. Le radici della prima sono aeree, mentre quelle della seconda affondano nelle profondità. Ma questo non vuol dire che non si possa recuperare nulla d’importante dalla cultura spagnola in generale. Con una differenza decisiva, però, rispetto al Chisciotte di Unamuno: l’interesse del rettore di Salamanca era rivolto al protagonista del romanzo, quello di Ortega a Cervantes. Il primo era innamorato del vitalismo avventuriero del Chisciotte, il secondo della grande impresa umanizzante di Cervantes. Zamora Bonilla termina il suo articolo con la seguente frase: Le Meditazioni del Chisciotte cercavano un terreno solido sul quale gettare le fondamenta di un nuovo rinascere della cultura occidentale – di quella spagnola in particolare e di quella europea nel suo insieme. Il tema, che più tardi Ortega definì “del nostro tempo”, era qui solamente accennato. Più tardi sviluppò lo stesso nella sua filosofia sulla ragione vitale e storica, uno dei tentativi più seri del XX secolo di comprendere l’io nella circostanza, l’uomo nel mondo, l’individuo nel suo paesaggio19.

Personalmente condivido il breve articolo di Javier Zamora. Mancano tuttavia citazioni testuali del primo libro di Ortega. Forse il famoso studioso ha già fornito tutte le possibili interpretazioni nei molti congressi e nelle partecipazioni a libri collettanei20. Pedro Cerezo Galán21 scrive che Ortega in Meditazioni gioca con differenti livelli di realtà, ma il più rilevante è quello che deIvi, p. 11. Evidenziamo il suo lavoro introduttivo all’edizione facsimile della prima edizione, pubblicata da Alianza Editorial nel 2014. 21 P. CEREZO GALÁN, El bosque y la retama ardiendo. (Apuntes sobre poesía y realidad en Meditaciones del Quijote), in «Revista de Occidente», 396, 2014, 19

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finisce realismo poetico; prendendo il testo di Ortega sul bosco che circonda l’Escorial afferma che “Ciò che del bosco si trova davanti a noi in modo immediato è solo un pretesto affinché il resto rimanga nascosto e distante” [...] Camminando in esso, ci si aprono diverse prospettive secondo la situazione e l’interesse del viandante [...] Insomma, il bosco è sempre, e in ogni caso, il correlato della mia soggettività vivente. […] la Vita nella quale si dà la correlazione tra l’io vivente e la sua circostanza. Sono voci del logos nascosto del bosco. […] Di che cosa parla Ortega? Del bosco, del mondo della vita, del logos, della verità rivelatrice. Questi nomi non indicano tutti la realtà?22

Ci sembra che Pedro Cerezo Galán si ponga diverse domande alle quali i testi orteghiani rispondono non con eccessiva chiarezza ma sufficiente per distinguere fra il bosco e la verità rivelatrice. È vero che il bosco, per Ortega, ci offre più di una prospettiva, ma la verità rivelatrice risulta essere troppo heideggeriana per essere introdotta nella filosofia del giovane Ortega. Bisognerebbe parlare del binomio vita e cultura, apprezzamento che non sfugge all’esimio ricercatore, perché la prima dovrebbe rappresentare la realtà, la seconda lo sguardo intelligente del soggetto conoscente. Ma se ci soffermiamo un po’, seguendo il consiglio costante di Ortega, ci imbattiamo in un vero problema della teoria della conoscenza. Perché, chi è il primo, la cosa o la persona, la realtà che si presenta o il soggetto che la riceve? Ci sembra inutile discutere sul primo idealismo di Ortega o sul suo oggettivismo successivo, entrambi già presenti nei suoi primi anni di produzione, se non andiamo alla base della conoscenza in Ortega, poiché in molte occasioni, e non sempre in maniera riuscita, si distinguono le forme integrate pp. 12-34. [Il saggio, tradotto in italiano da Armando Mascolo, è stato inserito nel presente volume. Per le citazioni, pertanto, ci si è avvalsi di quest’ultima versione, ndc]. 22 Ivi, pp. 12-13.

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e interdipendenti di elementi che producono la conoscenza: la cosa e il soggetto. Non dico che non esistano e che non siano compresenti; dovremmo però accertarci di quale tipo di realismo o oggettivismo sia quello acclamato da molti interpreti in Meditazioni del Chisciotte. Ortega adotta la posizione di Cartesio e dopo aver compreso la fenomenologia di Husserl ci sembra che stia cercando di risolvere il problema attraverso varie strade, prima tra tutte quella della filosofia della stufa. Vale a dire, se la realtà è vista dall’uomo così com’è (adaequatio intellectus et rei), oppure se è necessario chiedersi se gli organi della percezione riflettono le cose; se gli enti sono così come sono oppure se c’è la possibilità di un altro inganno da parte della res e da parte dell’uomo. Questa domanda Ortega se la fece costantemente, a volte scontrandosi con Cartesio, e credette di risolverla con il vitalismo gnoseologico. Vale a dire, l’uomo non ha tempo di maturare la risposta perché nel momento stesso della nascita si trova irrimediabilmente e spontaneamente di fronte alla vita. Essa è la base di tutto il sapere, è la realtà radicale, il punto di partenza per qualsiasi atto successivo di conoscenza, di percezione e di riflessione. In un secondo momento appare la ragione, l’organo o la qualità che distingue l’uomo dagli altri esseri viventi del pianeta. Questo modo di affermare l’esistenza personale e di affrontarla mi ricorda per certi aspetti Antonio Rosmini e la sua descrizione del sentimento fondamentale. Per il filosofo di Rovereto, l’uomo, sentendosi, percepisce se stesso come esistente. Non si riferisce a un sentirsi concreto, ma a un sentire generalizzato grazie al quale si percepisce come vivente e il vissuto di sé lo apre al mondo. L’individuazione più tardi dell’essere come ideale, reale e morale proviene esattamente dal cosiddetto sentimento fondamentale. Certamente l’essere trino, riflesso della Santissima Trinità, non ha nulla a che vedere con la gnoseologia di Ortega, però non sarebbe esagerato approfondire l’approssimazione all’esistenza di ambedue le filosofie. È necessario ricordare che nel periodo in cui visse Rosmini erano di moda le filosofie idealiste e non quelle esistenzialiste.

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Il professor Cerezo Galán affronta la definizione del genere letterario del romanzo, affermando con Ortega che l’arte è essenzialmente irrealizzazione, vale a dire, nega la nostra realtà e ci colloca al di sopra di essa, perché il romanzo non è la mimesi di ciò che ci circonda, bensì la de-realizzazione di essa al fine di creare o ricreare cose diverse da quelle presenti, come nel Chisciotte, dato che quanto più ci addentriamo nella storia tanto più ci allontaniamo dalla realtà quotidiana. La poesia più del romanzo de-realizza perché non necessita della mimesi, ossia della ricreazione per costruire un genere autonomo. Tuttavia, rimaniamo in parte sorpresi, forse per la mancanza di un passaggio, quando il critico afferma quasi improvvisamente che la realtà per antonomasia è la pura idealità, il mondo delle essenze e delle norme23, sebbene chiarisca che questo mondo vero non può smettere di riconoscere la sua altra copia sbiadita (una mimesi degradata) nell’apparenza. Io direi, in tutta umiltà e con il timore di potermi sbagliare, che per Ortega la realtà radicale è la vita e a partire da essa si possono costruire gli altri livelli di conoscenza, incluso il mito, il romanzo e la poesia. Che senso avrebbe allora il tentativo orteghiano di superare Cartesio e Husserl sebbene le loro filosofie provengano da posizioni differenti? È vero che Cerezo Galán cita un testo molto appropriato di Ortega, che sembra però non combaciare con le espressioni precedenti: Adesso dobbiamo conciliare la capacità poetica e la realtà attuale. […]. Fin qui giungevamo al poetico grazie ad un superamento e ad un abbandono del circostante, dell’attuale. Di modo che dire “realtà attuale” era come dire il “non poetico”. È, allora, la massima amplificazione estetica che bisogna pensare24.

Ivi, p. 20. Le Meditaciones del Quijote sono citate nella nuova edizione di J. ORTEGA Y GASSET, Obras completas, Taurus, Madrid, 2004, t. I, p. 809. 23

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La citazione di Ortega chiarisce altrimenti che si tratterebbe della disgiunzione realismo o idealismo. Differenza radicale alla quale si presta molte volte il civettare culturale e filosofico dello stesso Ortega. Ci ha convinto molto la separazione fra realtà o cosa e idea; citiamo nuovamente un chiaro testo orteghiano: «Se l’“idea” trionfa, la “materialità” viene soppiantata e viviamo allucinati. Se la “materialità” si impone, e penetrandone il vapore riassorbe l’idea, viviamo disillusi»25. Cerezo ricompone molto bene questa dicotomia quando chiarisce: «Per evitare tali estremi, bisogna pensare a un nuovo regime di convivenza ironica tra fatticità e senso, come due dimensioni interne all’unica realtà»26. È vero anche che tornando alla vita come realtà radicale e anticipando in un certo senso Heidegger, Ortega scrive (citato con stupore da Cerezo): «Ma la realtà è un semplice e spaventoso “star lì”. Presenza, abbandono, inerzia. Materialità»27. Condividiamo in buona parte l’opera di questo studioso esperto dell’opera di Ortega. Forse sarebbero stati utili i riferimenti al potere della volontà di passare dal reale all’ideale, dalla vita comune alla cultura. Eduardo Martínez de Pisón analizza alcuni aspetti del periodo orteghiano in oggetto. Ci riferiamo per esempio al “regeneracionismo” e all’importanza del paesaggio in Meditazioni del Chisciotte. Cita Joaquín Costa e Lucas Mallada, preoccupati per i mali della patria e per i mali geografici. È un peccato che il critico non abbia approfittato dell’occasione per distinguere il gruppo “regeneracionista” da quello che è stato chiamato, e continua ad essere chiamato, Generazione del ’98. E una volta sottolineata questa distinzione, non abbia chiarito che è molto più appropriato cambiare il nome della prima Generazione di letteIvi, p. 813. P. CEREZO GALÁN, El bosque y la retama ardiendo, cit., p. 26. 27 J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, in Obras completas, cit., p. 814. 25

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rati del secolo XX, vale a dire, sostituire la denominazione di Generazione del ’98 con quella di Generazione modernista28. Sul paesaggio, argomento collegato anche con il tema geografico, Martínez de Pisón ci ricorda una conferenza di poco successiva a Meditazioni del Chisciotte, intitolata Temas del Escorial che, in realtà, risulta essere la continuazione delle prime pagine del libro del 1914: «Ci porta di nuovo alla catena montuosa del Guadarrama per mostrarci, con sua mano e anche con quella di Giner, da una parte, gli elementi geografici che compongono i suoi poggi e le sue valli, con i quali dialogano le sensazioni e, dall’altro lato, un’idea della sua entità come proiezione dell’uomo sopra ciò che lo circonda». Ortega finisce con il concludere che: «Non c’è io senza paesaggio. Il paesaggio è l’orizzonte della vita, di modo che la fedeltà a noi stessi ha bisogno della fedeltà al paesaggio: Il patriottismo è innanzitutto la fedeltà al paesaggio […] La patria è il paesaggio»29. Fa bene l’autore dell’articolo commentato a occuparsi del paesaggio, sia perché Ortega inizia in questo modo le sue Meditazioni del Chisciotte sia perché il paesaggio modella le circostanze e, pertanto, l’io. Infine, perché il paesaggio non è solo spaziale, ma anche temporale e spiega l’evoluzione dell’uomo con il suo ambiente. Jaime de Salas, noto e profondo conoscitore dell’opera di Ortega, intitola il suo lavoro Las Meditaciones del Quijote y el problema identitario30. Lo stesso autore aveva già pubblicato sull’argomento Ortega lector de Nietzsche: las Meditaciones del Quijote frente a Meditaciones Intempestivas II31. L’opera parte Cito nuovamente il libro da me diretto, Religión y literatura en el modernismo español. 29 E. MARTÍNEZ DE PISÓN, La solución es el paisaje, in «Revista de Occidente», 396, 2014, p. 44. 30 J. DE SALAS, Las Meditaciones del Quijote y el problema identitario, in «Revista de Occidente», 396, 2014, pp. 50-61. 31 In De Orbis Hispani linguis litteris historia moribus, Domus Editoria Europea, Frankfurt, 1994, pp. 877-904. 28

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dal principio che l’uomo viva necessariamente con gli altri e da questa interrelazione nasca la conoscenza, la società e la cultura. Tale intercomunicazione crea la prospettiva: «La nozione di prospettiva, come qualcosa che si acquisisce nella misura in cui l’individuo si unisce a una forma di conversazione collettiva, appare come il concetto generale dell’opera»32. Jaime de Salas applica i termini interdipendenza e prospettiva al sociale, ricordando che poco dopo Meditazioni Ortega avrebbe pubblicato Vecchia e nuova politica. Potremmo dire, con tutte le differenze del caso, sicuramente lecite, che il presente lavoro sul senso della società di Jaime de Salas si collegherebbe bene con quello precedente sul paesaggio di Martínez de Pisón: «Costituisce uno sforzo di comunicazione che avrebbe una dimensione preformativa nella misura in cui oltre che comunicare, crea – o ricrea – il mezzo ideale che sta comunicando […] Il soggetto esce dalle idee, dai concetti, incontrando le caratteristiche della circostanza»33. Salas sottolinea le differenze politiche e soprattutto sociali esistenti fra le circostanze del 1914 e quelle del 2014. Prima, le nazioni e gli uomini che le abitavano erano consapevoli dei punti di riferimento comuni che definivano la propria identità nazionale, ma ora la naturale uscita al mondo attraverso i passi di Guadarrama o la campagna di Ontígola mancherebbe di senso a causa della comunicazione e della globalizzazione. Scrive Jaime de Salas: «Non è che esista un livello più basso intellettualmente parlando, ma vi è la particolarità di vivere in un luogo che, anche se influenza la vita quotidiana, di per sé tende a non offrirci punti di riferimento comuni»34. Nelle ultime pagine l’autore fa riferimento a La ribellione delle masse e alla teoria di “ideas y creencias”. Sebbene siano pagine molto ben ordite, hanno poco a che vedere, a nostro modesto parere, con le Meditazioni del Chi32 J. DE SALAS, Las Meditaciones del Quijote y el problema identitario, cit., p. 51. 33 Ivi, p. 52. 34 Ivi, p. 57.

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sciotte, dato che l’Ortega del 1914 era molto distante, nonostante le sue intuizioni sul futuro, da quello del 1929, trattandosi soprattutto di un filosofo in continua evoluzione, che fece di essa uno dei punti essenziali del suo pensiero. Antonio Gutiérrez Pozo torna sull’argomento in più occasioni nel suo saggio Meditaciones del Quijote como respuestas al nihilismo35. Insiste sull’influenza determinante esercitata sulla filosofia di Ortega da Nietzsche e da Heidegger, poiché se una filosofia è quel che è in considerazione delle sue circostanze, quella di Ortega doveva esserlo in virtù della circostanza nichilista in cui gli toccò vivere […] Intorno al 1912, Ortega era convinto che stesse sorgendo un nuovo tempo dopo il periodo storico costituito dall’idealismo, dal positivismo e dal nichilismo, e che in questo momento di transizione fosse ancora più urgente lo sforzo illuminato dell’autoriflessione36.

L’autore considera il nichilismo come una tendenza permanente della storia dell’uomo. Sebbene si riferisca a Jacobi come al primo filosofo che usò il termine nichilismo, fu di Nietzsche la creazione della teoria contemporanea della negatività essenziale della vita, condensata nell’espressione “Dio è morto” e in proposito ricorda che «Nietzsche considera che questo primo momento nichilista deve essere consumato e completato per andare oltre ad esso, e accedere così ad una nuova esistenza, ad un nuovo mondo»37. Bisogna riconoscere che Dio lo abbiamo ucciso tutti, poiché non ne avevamo più bisogno. L’autore retrocede di alcuni anni per provare a dimostrare che l’idealismo ed il positivismo ottocenteschi conducevano entrambi al nichilismo per vie diverse. Il primo perché costruì una cultura al margine della vita; 35 A. GUTIÉRREZ POZO, Meditaciones del Quijote como respuestas al nihilismo, in «Revista de Occidente», 396, 2014, pp. 80-97. 36 Ivi, p. 81. 37 Ivi, p. 83.

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invece di porsi al servizio della vita, la negò. «La conseguenza fu la separazione funesta fra la cultura da una parte, coi suoi valori e ideali, e la vita dall’altra, con le sue energie e i suoi desideri, che rimaneva incolta e destinata all’infelicità»38. L’idealismo fallì con l’arrivo del positivismo. Quest’ultimo ridusse la vita alla materialità e successivamente al nichilismo. Ortega, secondo Antonio Gutiérrez, si formò attingendo a tre filosofie negative per la vita: L’idealismo allucinato da ideali transvitali che non stimolano i nostri nervi, il positivismo deludente della materia inerte, insignificante, e il pessimismo disperato tanto a causa di questa materia nuda quanto per l’assenza d’ideali commoventi. La conclusione che si ricava da questi tre è che, in un modo o nell’altro, non ci sono veri ideali né mete, e la vita si consuma in un deserto di materia grezza39.

Ortega, come abbiamo già detto all’inizio di questo lavoro, rifiuta il secolo XIX nel suo complesso, sia il positivismo che l’idealismo. Il modo per salvare e salvarsi consiste, secondo il nostro filosofo, nel cambiar la prospettiva; ciò significa creare la sintesi fra la cultura e la vita, fra il realismo, l’idealismo e l’esistenzialismo positivo. Prestare attenzione alle circostanze che ci presenta il mondo circostante. Creare i valori che provengono dal logos dell’idealismo e del platonismo, ma entrambi dipendono dall’affermazione della nostra esistenza. Antonio Gutiérrez scrive che, secondo Ortega, bisogna porre le basi della convivenza tra la cultura (valori e idee) e la vita. Ciò concesso, e dato che Ortega non capisce la sintesi senza una gerarchia, in questa coabitazione la vita è il fattore superiore […] La vita non deve soppiantare i valori; se lo fa, ci porta alla barbarie selvaggia. Bisogna recuperare la fede nei valori e negli ideali moderni, e per questo è necessario rimarcare la loro 38

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Ivi, p. 87. Ivi, p. 88.

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idealizzazione e porli al servizio della vita, perché soltanto così, servendo la vita, recuperano il loro valore40.

L’interpretazione ci sembra ben riuscita e viene corroborata da alcuni testi de Il tema del nostro tempo. Tuttavia crediamo che non si tratti ancora di sintesi fra valori e vita, fra l’essere reale e l’essere morale, come diceva Rosmini in ambito ontologico, ma che per Ortega, a partire dalla gnoseologia, la prima cosa che ci si presenta non è il logos idealista o l’oggettività popolare del realismo in tutte le sue forme. Per il filosofo de El Escorial, la vita come essere qui, come essere immediato della nostra conoscenza, risulta essere la realtà radicale, il primum cognitum, e a partir da essa si può costruire una filosofia, un’estetica e una morale. A partire da questo punto, secondo me, l’uomo può distinguere fra il reale e l’ideale e la relazione fra i due che, secondo l’Ortega del 1914, è l’amore. In questo modo le cose che ci circondano acquisiscono un proprio senso, un logos e un posto nel mondo. Ciò che c’è qui fin dal principio è la vita e, a partire da essa, le cose e il loro senso, grazie al terzo elemento, che è l’amore. Il logos è latente nelle cose ma ha bisogno dell’uomo, dell’amore capace di correlare il reale con l’ideale, di unire la vita con la ragione. Quest’ultima è implicita in ogni cosa come possibilità, o come germe, o come potenzialità che si realizza nella pienezza o perfezione della cosa stessa. Ortega in Meditazioni del Chisciotte scrive: «All’interno di tutte le cose c’è l’indicazione di una possibile pienezza». Prosegue Antonio Gutiérrez: Il senso non è se non l’ideale della cosa. L’ideale raziovitalista è possibilità, la perfezione della cosa all’interno del suo poter essere. Le cose sono quindi binomi che assomigliano esplicitamente alla materia, ma che custodiscono il proprio senso come possibilità implicita, un’imminenza che trascende la propria materialità […] 40

Ivi, p. 89.

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Testo e contesto nelle Meditazioni del Chisciotte

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La realtà non si riduce alla materia; annette l’idealità come possibilità di pienezza41.

E ciò si ottiene, lo ripetiamo, grazie all’amore che, come una specie di demiurgo platonico, mette in contatto il logos con le cose, sebbene in altre occasioni si tenderebbe a dire che il demiurgo, l’uomo con la sua ragione vitale, trae il logos dalle cose. Questa è quindi la nostra interpretazione, dopo aver tentato di completare in parte l’eccellente punto di vista di Antonio Gutiérrez. Concordiamo quando scrive: Si tratta di mostrare mediante l’interpretazione culturale – arte, scienza, politica – la possibile pienezza latente in ogni cosa […] Ortega esige un’attitudine determinata, un certo pathos dal soggetto salvatore: l’amore. Solamente l’amore permette alla soggettività di adottare la disposizione d’apertura e accoglienza delle cose, che fa eseguire il suo progetto di significato42.

Non possiamo dire che questi testi orteghiani non provengano direttamente o indirettamente da Meditazioni del Chisciotte, come han fatto altri interpreti di Ortega che hanno utilizzato in maniera eccessiva le opere della maturità per spiegare questi concetti. Antonio Gutiérrez menziona frequentemente Platone, tante volte citato da Ortega nelle Meditazioni del Chisciotte. Contro il nichilismo del suo tempo, Ortega ragiona sull’amore come contrapposizione alla filosofia di Nietzsche e Heidegger.

Per l’odio, il mondo è un deserto di ideali, semplice materia; per l’amore, una meraviglia santa e sacra, con un eterno potenziale di senso, valori e ideali. Il mondo guardato senza amore è una landa senza senso, qualcosa d’inospitale, e la vita allora non vale la pena di essere vissuta. Quando Platone comprese l’amore come appe41

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Ivi, p. 91. Ivi, p. 92.

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tito di bellezza, come affanno verso la perfezione, intravide che soltanto esso, come scopritore di verità e senso, può fondare un’autentica esistenza umana43.

Probabilmente, non era intenzione dell’autore cristianizzare Ortega; sta di fatto che vi è riuscito. Sappiamo già che l’esperienza del giovane José, prima con i gesuiti di Málaga e poi con quelli di Deusto, lo separò totalmente dal cattolicesimo, che non recuperò più. Tuttavia in un altro momento della sua opera, discorrendo sugli innumerevoli – infiniti – punti di vista esistenti nell’universo, afferma che Dio sarebbe la somma di tutti loro. Probabilmente il filosofo scelse questo esempio comparativo a fini esclusivamente didattici. Ad ogni modo, il vitalismo ottimista di Ortega ed il suo sforzo per giungere a una filosofia, a una politica e a una morale che aiutino a migliorare la società della Spagna e l’identità degli spagnoli, risulta evidente. E Meditazioni del Chisciotte, forse, ha come fine principale il miglioramento delle circostanze, non tanto col fallito Don Chisciotte quanto tramite il suo autore, Miguel de Cervantes. E questa può essere la spiegazione del perché intitolò così il suo primo libro. Infine vorremmo mettere in luce un aspetto importante della circostanza orteghiana e che personalmente finora – forse per distrazione – non ho visto nelle critiche a Ortega sulla sua opera del 1914-1915. Ci stiamo riferendo all’assenza di commenti sulla Prima Guerra Mondiale non solo per l’impatto brutale inflitto a tutta l’Europa, ma anche per la mancanza di riferimenti alle ideologie che la provocarono. Per l’esattezza, si è sempre detto che quel periodo che spazia dalla fine della Grande Guerra all’inizio della Seconda Guerra Mondiale furono gli anni del fallimento di un’Europa che si consumò con la morte e la distruzione. E che quel fallimento della cattiva coscienza individuale e collettiva provocò l’esistenzialismo negativo nei letterati e nei 43

Ivi, p. 93.

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Testo e contesto nelle Meditazioni del Chisciotte

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filosofi, oltre che, naturalmente, negli uomini e nelle popolazioni44. L’ultimo saggio del numero monografico di Revista de Occidente del maggio 2014, su Meditazioni del Chisciotte è firmato da Ángel Pérez con un titolo più consono al primo libro di Ortega: El roble y el fresno: Cervantes y Ortega. All’inizio segnala la possibilità, seguendo l’amico Francisco José Martín, che le interpretazioni abbiano ipertrofizzato la sua lettura. Principio col quale siamo d’accordo. Ricorda inoltre, fattore importante, le intense relazioni epistolari e personali che mantenne con il suo amico e lettore del Chisciotte, Navarro Ledesma45. Inoltre sembra che il suo maestro Hermann Cohen conobbe anche l’opera di Cervantes grazie al suo alunno spagnolo. D’altra parte cita fra la letteratura tedesca G. Simmel, a nostro parere uno dei filosofi che esercitarono maggiore influenza su Ortega46. Un altro argomento interessante di questo suggestivo articolo di Ángel Pérez sta nel considerare difficile lo stile di Cervantes e ancor di più, aggiungerei, nell’applicarlo alla filosofia. Il critico lo dimostra con una citazione di Ortega: Ah, se sapessimo con chiarezza in cosa consista lo stile di Cervantes, la maniera cervantina di avvicinarsi alle cose, lo avremmo esaurito completamente. Perché su queste vette spirituali regna inviolabile solidarietà, ed uno stile poetico porta con sé una filosofia e una morale, una scienza e una politica. Se un giorno venisse qualcuno a rivelarci il profilo dello stile di Cervantes, basterebbe prolungare le sue linee sugli altri problemi collettivi per svegliarci a nuova vita47.

Sulla cultura interbellica e Ortega, si veda L. DE LLERA, “Ortega y Gasset, filosofo mondain o metafisico del ludico”, in G. Morelli (a cura di), Ludus. Gioco, sport, cinema nell’avanguardia spagnola, Jaca Book, Milano, 1994. 45 Su questo argomento si è intrattenuto approfonditamente Jordi Gracia nel suo volume, che commenteremo successivamente, José Ortega y Gasset, Taurus, Madrid, 2014. 46 Cercai di sostenere questa tesi nel libro Ortega y la Edad de Plata de la literatura española (1914-1936), Bulzoni, Roma, 1991. 47 J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, in Obras completas, cit., 44

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Don Chisciotte impazzisce di fronte alle sue circostanze, altera la realtà temporale nella quale vive; la sua pazzia non altera però le certezze sociali e morali della società della sua epoca, è come se il cavaliere errante si fosse separato dal suo mondo per ricrearne uno migliore; consiste nella ricreazione dell’idea che si erge al di sopra della realtà volgare. Come scrive Ángel Pérez, don Chisciotte è pazzo, ma è in grado di comprendere le ingiustizie perpetrate contro i condannati alla galera, è in grado di provare a riscattare il ragazzo Andrés dalla crudeltà del suo padrone ed è capace di altre dimostrazioni di una virtù imperfetta che cerca di incarnarsi nel mondo. Il buon giudizio nel Chisciotte è esattamente la difesa di una struttura di pensiero che funge attivamente nello sfondo della sua visione del mondo. Il don Chisciotte ha radicati in tal modo certi valori che, nonostante la rifrazione prodotta dalla sua pazzia, proiettano un’energia potente e duratura48.

Un’altra importante novità nell’ultimissima bibliografia su Ortega è il volume di Jordi Gracia, José Ortega y Gasset, di circa 700 pagine, a cui i critici dei principali quotidiani nazionali hanno rivolto particolare attenzione. Anche se non ho avuto la possibilità di una lettura approfondita e meditata del corposo volume credo che la sua novità nella storiografia orteghiana consista nell’uso puntuale della corrispondenza di Ortega e nelle erudite spiegazioni della stessa. Pure le varie recensioni che ho avuto l’opportunità di leggere affermano quasi unanimemente che si tratta di un magnifico lavoro biografico ma, forse, poco generoso con il pensiero di Ortega. È indubbio, infatti, che la filosofia orteghiana abbondi di contraddizioni, teorie senza conclusione, provocazioni tendenziose, vocazione indomabile ad essere il primo della classe. Così sicuramente è e neppure posp. 793; tr. it. Meditazioni del Chisciotte, a cura di B. Arpaia, introduzione di O. Lottini, Guida, Napoli, 1986, p. 89. 48 A. PÉREZ, El roble y el fresno: Cervantes y Ortega, in «Revista de Occidente», 396, 2014, p. 106.

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Testo e contesto nelle Meditazioni del Chisciotte

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siamo vedere Ortega come il filosofo puro che crea un nuovo sistema per la Spagna del suo tempo. Tuttavia, se Ortega non fosse esistito, che cosa ne sarebbe stato del pensiero spagnolo, nei suoi campi filosofici, artistici, etici e politici? Sarebbero bastati Unamuno o d’Ors per elevare il livello degli anni Venti e Trenta del secolo scorso? Non erano per vari motivi bastati nemmeno i più giovani, gli appartenenti alla Scuola di Madrid e di Barcellona. Mi riferisco a Joaquín Xirau, Serra Hunter, i più giovani Juan David García Bacca, José Ferrater Mora e se da Barcellona ci spostassimo a Madrid troveremmo il kantiano Manuel García Morente, Xavier Zubiri, sicuramente la mente filosofica spagnola più privilegiata del XX secolo, la sua assistente María Zambrano o lo stesso José Gaos. Nonostante le loro capacità e il loro talento, sarebbero stati capaci di dare impulso alla cultura spagnola nella sua proiezione ispanica ed europea?49 Secondo Jordi Gracia, il programma filosofico di Ortega, così come la sua ritirata dalla politica, entra in crisi attorno al 1929: «Nel primo caso perché emerge un nuovo giocatore imprevisto nel terreno dell’alta filosofia – Martin Heidegger – e nel secondo perché la prospettiva dell’avvento della Seconda Repubblica gli fece deporre le armi nella lotta che aveva combattuto dal 1908 contro la Spagna della Restaurazione». E poco dopo scrive: la prima di queste leggende che la presente biografia dimostra essere false, tuttavia, è quella della sua giovinezza (poiché non ci fu); la seconda delle leggende è quella della sua marginalità politica (perché lottò e fallì tutte e tre le volte che agì come politico);

Jordi Gracia aveva già studiato molto quando pubblicò, con Domingo Ródenas, El ensayo español. Siglo xx, Crítica, Barcelona, 2008. In qualche modo apprezziamo lo sforzo di Jordi Gracia per studiare stavolta veramente José Ortega y Gasset. Sulla cosiddetta Scuola di Madrid e Barcellona: L. DE LLERA (a cura di), El último exilio español en América. Grandeza y miseria de una formidable aventura, Mapfre, Madrid, 1996. 49

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la terza leggenda è quella dell’impotenza filosofica (perché fu filosofo, ma lo fu innanzitutto contro tutti e contro se stesso successivamente); la quarta leggenda non è nulla più che una falsità: non fu mai franchista […] La quinta leggenda è la più difficile da smontare oggigiorno, ma credo che il progressivo conservatorismo ideologico non lo rese alleato né socio né complice dei fascismi50.

Tuttavia l’autore difende Ortega quando afferma che non è peccato non fare un trattato filosofico, dato che i numerosi saggi lo accreditano come filosofo a tutti gli effetti. Sul tema delle cinque leggende che il libro di Jordi Gracia pretende smantellare, la discussione occuperebbe più pagine di quante ne dispongo; mi limito, quindi, da parte mia, ad accettare solo le ultime due. L’ampissima e, in molti aspetti, innovativa biografia dello studioso, presa in parte da quella di Javier Zamora Bonilla e dall’epistolario inedito di Ortega (conservato nella fondazione Ortega-Marañón di calle Fortuny) ha le sue pagine migliori negli anni che precedono le Meditazioni del Chisciotte. Tale parte, probabilmente, passerà alla perenne storiografia su Ortega. Viceversa le molte citazioni, i dati eccessivi ed i commenti estesi possono disorientare in più di un’occasione. Risultano molto esaustive anche le pagine sulla formazione in Germania, perché l’elenco di materie che studiò ed il nome dei suoi maestri non si limitò a Cohen e Natorp. E spiega che la formazione di Ortega non si ridusse al neokantismo e nemmeno alle discipline umanistiche. Questo fattore ci sembra importante perché abbiamo sempre creduto che gli unici filosofi delle Scuole di Madrid e Barcellona che studiarono scienze fossero unicamente Zubiri e García Bacca.

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J. GRACIA, José Ortega y Gasset, cit., p. 14.

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Testo e contesto nelle Meditazioni del Chisciotte

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3. Il testo

Meditazioni del Chisciotte, il primo libro di Ortega, fu anche il primo libro della “Serie II” delle “Publicaciones de la Residencia de Estudiantes”, diretta dal poeta e, a quel tempo amico, Juan Ramón Jiménez, a cui Alberto Jiménez Frau aveva affidato la direzione51. Da qualche tempo Ortega desiderava pubblicare una serie di meditazioni. Il momento giunse nel 1913 quando il filosofo si ritirò a El Escorial per preparare il primo volume che in realtà sarebbe stato l’unico. Consta di due parti: “Meditazione preliminare” e “Prima meditazione”. Come spiega Javier Bonilla, l’intenzione di Ortega era quella di dare un’interpretazione dell’azione leibniziana di Cervantes in rapporto alla visione cartesiana: «Una filosofia dell’unità del mondo dinanzi al dualismo cartesiano». Sembra che Ortega dubitò, nei suoi primi anni di giornalista e saggista, se dedicarsi al romanzo oppure alla filosofia52. Ortega, scrive Zamora Bonilla, seguendo il testo di Meditazioni del Chisciotte, confronta le origini del romanzo in Cervantes con i romanzi del XIX secolo, prendendo la descrizione come l’elemento fondamentale. «Il romanzo, secondo il filosofo, nacque in opposizione all’epica, per parlare del presente, non di un passato leggendario; per mettere l’uomo reale al centro della trama dell’universo poetico, opposto ad un eroe epico estemporaneo; per elevare al mondo dell’estetica la realtà quotidiana»53. Sulla prima edizione di Meditazioni del Chisciotte, la lamentela di Ortega, e il motivo del pubblicarle nella “Residencia de Estudiantes”, si veda il valido e preciso lavoro di J. Zamora Bonilla, Ahora hace un siglo, titolo della lunga Introduzione alla edizione facsimile recentemente apparsa di Meditaciones del Quijote, Alianza Editorial/Residencia de Estudiantes, Madrid, 2014. 52 Vedere F.J. MARTÍN CABRERO, “Filosofía y literatura en Ortega”, in J. Zamora Bonilla, Guía Comares di Ortega y Gasset, Editorial Comares, Granada, 2013, pp. 171-188. 53 J. ZAMORA BONILLA, Ahora hace un siglo, cit., p. 35. 51

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In Meditazioni del Chisciotte, Ortega supera la durezza della vita con l’ironia e l’umorismo o, se si preferisce, con la metafisica, che è un modo concreto per innalzarsi dalla vita ed estraniarsi da essa; vale a dire di superarla. Javier Zamora Bonilla, seguendo la linea di Javier San Mar54 tín , afferma che in Meditazioni del Chisciotte si trova in germe tutta la sua filosofia. Rileggendo il primo libro di Ortega mi è parso di vedere espressioni e anche teorie che sembravano annunciare un’altra opera che ho letto svariate volte: La disumanizzazione dell’arte55. Ma, nonostante ciò, ho creduto che tutti abbiamo una predisposizione naturale e culturale verso certi aspetti della vita e della cultura e che essi possano trarre in inganno. Ortega scrisse La deshumanización del arte nel 1925 (undici anni dopo Meditazioni del Chisciotte), opera rivolta agli avanguardisti spagnoli, di cui nel 1914 quasi nessuno aveva ancora pubblicato nulla, tranne Ramón Gómez de la Serna. In quanto alla fenomenologia, essa ebbe sicuramente un impatto sul giovane Ortega, che pretese però successivamente di creare sempre la propria filosofia cognitiva e la propria metafisica. Già nella prima pagina delle Meditazioni, Ortega annuncia che i temi trattati, tutti, direttamente o indirettamente, finiscono per riferirsi alle circostanze spagnole. […] Mancano completamente di valore informativo; […] In essi, partendo da un fatto – un uomo, un libro, un quadro, un paesaggio, un errore, un dolore –, si cerca di condurlo per il cammino più breve alla pienezza del suo significato. […] in una posizione tale che il sole provochi in essi innumerevoli riverberi. In ogni cosa c’è l’indicazione di una possibile pienezza. Un animo aperto e nobile sentirà l’ambizione di perfezionarla, di

54 J. SAN MARTÍN, Fenomenología y cultura en Ortega: ensayo de interpretación, Tecnos, Madrid 1998. 55 L. DE LLERA, “Introducción a Ortega y Gasset”, in J. Ortega y Gasset, La deshumanización del arte, Biblioteca Nueva, Madrid, 2005, pp. 9-159.

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aiutarla a raggiungere quella pienezza. Questo è amore – l’amore per la perfezione di ciò che si ama56.

Bisognerebbe aggiungere a questo punto di partenza che Meditazioni del Chisciotte non è un lavoro filosofico, né di teoria letteraria o politica. È un saggio dove si toccano argomenti importanti, ma anche altri umili e in cui non è sempre facile seguire una linea nei temi trattati. L’autore discorre sull’amore, sul platonismo ecc. e, certamente, discorre per allertare riguardo all’importanza di Cervantes come guida per la salvezza della Spagna. Perché senza l’amore l’universo per lo spagnolo si è convertito in una cosa rigida, secca, sordida e deserta. L’amore, seguendo il Platone citato tante volte in quest’opera, è come il demiurgo che scese al mondo affinché tutto l’universo vivesse in direzione contraria all’odio, che produce disconnessione. «Noi spagnoli offriamo alla vita un cuore corazzato col rancore, e le cose, rimbalzando su di esso, vengono crudelmente scacciate. C’è attorno a noi, da secoli, un incessante e progressivo crollo dei valori»57. Amare è per Ortega comprendere. Per questo motivo tocca ai migliori spagnoli il compito di comprendere per migliorare. L’amore non è solamente quello religioso, quello che proviene dal credo, bensì quello che nasce dall’intelletto e dalla verità. Invece per noi spagnoli «è più facile infiammarci per un dogma morale che offrire il petto alle esigenze della veridicità»58. Ortega sottolinea al tempo stesso che non ha mai difeso l’immoralità, poiché manca di buon senso, e con un tono platonico afferma che la filosofia non significa erudizione. Le Meditazioni non cercano di essere erudite in questo senso. L’opera non è essenzialmente nemmeno filosofica, perché la filosofia è scienza, mentre le Meditazioni sono saggi e il saggio è la scienza senza la 56 J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, in Obras completas, cit., p. 747; tr. it. pp. 31-32. 57 Ivi, p. 749; tr. it. p. 34. 58 Ivi, p. 750; tr. it. pp. 34-35.

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prova esplicita. «Io offro solamente modi res considerandi, possibili modi per guardare le cose». Non dobbiamo sorvolare su queste indicazioni, perché in esse si racchiudono le intenzioni del saggio chiamato Meditazioni del Chisciotte. Ortega insiste scrivendo: Nelle mie intenzioni, queste idee svolgono un compito meno gravoso di quelle scientifiche: non devono fare in modo da essere adottate da altri, ma vorrebbero semplicemente risvegliare in animi fratelli altri pensieri fratelli, anche nel caso si tratti di fratelli nemici. Pretesto ed appello per un’ampia collaborazione ideologica sui temi nazionali, nient’altro59.

E su tali temi bisogna rivolgersi ai fatti e alle cose apparentemente insignificanti poiché, in queste circostanze, esse rivelano l’intimità di una razza. L’opposto di ciò che fece l’Ottocento spagnolo, che prese in considerazione le grandi questioni sociali dimenticandosi, quindi, di quelle individuali, le uniche dalle quali si può estrarre il logos, la verità. È mia opinione che queste frasi orteghiane debbano più alla politica ed alla filosofia dell’Ottocento spagnolo che alla letteratura. Forse quando scrisse questo dimenticò Pereda, Valera, Galdós ecc. In un momento successivo di Meditaciones Ortega affronta nell’opera l’essere e la sua definizione: Quando ci apriremo alla convinzione che l’essere definitivo del mondo non è né materia né spirito, non è una cosa determinata, ma una prospettiva? Dio è prospettiva e gerarchia: il peccato di Satana fu un errore di prospettiva. Orbene, la prospettiva si perfeziona attraverso la moltiplicazione dei suoi confini e la precisione con cui reagiamo a ciascuno dei suoi livelli. L’intuizione dei valori superiori feconda il nostro contatto con quelli inferiori, e l’amore per ciò che è vicino e insignificante dà realtà ed efficacia al sublime che è in noi. C’è chi considera nulla ciò che è piccolo: 59

Ivi, p. 753; tr. it. p. 39.

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Testo e contesto nelle Meditazioni del Chisciotte

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per essi non sarà grande nemmeno ciò che è grande. Dobbiamo cercare per la nostra circostanza il luogo appropriato nell’immensa prospettiva del mondo, scavando esattamente in ciò che essa ha di limitato, di peculiare. Non bisogna restare perpetuamente in estasi di fronte ai valori ieratici, ma conquistare per la nostra vita il posto che le spetta in mezzo ad essi. Insomma: il riassorbimento della circostanza è il concreto destino dell’uomo60.

Il fatto che questo testo orteghiano sia tanto conosciuto non significa che sia facile da interpretare, soprattutto quando leggiamo che il mondo è una prospettiva. Più facile sarebbe stato se ci fosse stato detto che il mondo è un insieme indeterminato di prospettive, perché prospettiva significa punto di vista. Ma di chi? Potrebbe essere il divino se Ortega fosse stato credente. L’interpretazione che mi rimane, sebbene non ne sia sicuro, è quella di una teoria della conoscenza e non un’ontologia come base del pensiero orteghiano. Ogni punto di vista crea una prospettiva e l’insieme assoluto di tutti quelli che guardano e pensano si avvicinerebbe alla visione globale del mondo. Ogni uomo a partire dal suo sguardo crea la propria prospettiva quando riassorbe le proprie circostanze; bisogna però tenere in conto che se la vita umana è storia ed evoluzione, il punto di vista di ognuno cambierebbe. Per questo non vi è essenza, ma evoluzione. O come direbbe Antonio Machado: «Viandante, non c’è un cammino, il cammino si fa camminando». Per Ortega, tutte le cose partecipano – noi diremmo platonicamente – del logos. Da qui la famosa espressione di Meditazioni del Chisciotte: «io sono io e la mia circostanza, e se non salvo questa non mi salvo io». Si potrebbe dire con Julián Marías che «nel Don Chisciotte si mostra la vita umana libera dagli elementi che normalmente la coprono. Questa è la giustificazione metodica delle Meditazioni del Chisciotte, intese come prima approssimazione ad una teoria metafisica della vita umana»61. Ivi, p. 756; tr. it. p. 43. J. MARÍAS, “Introducción” a J. Ortega y Gasset, Meditaciones del Quijote, Cátedra, Madrid, 20073, p. 28. 60 61

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Le cose non riescono mai ad essere viste nella loro totalità poiché hanno più facce, come per esempio un frutto rotondo. Noi riusciamo a vedere – anche platonicamente – l’apparenza, però non ciò che sta oltre a essa, poiché la realtà totale è incomprensibile. Raggiungiamo solamente ciò che ci offre il nostro punto di vista. Il bosco non si raggiunge mai ed è comunque l’esistenza di un insieme di alberi. Bisogna lavorare ed approfondire per raggiungere ciò, quindi il bosco è tanto reale quanto il ramo o l’albero che tocco. La conoscenza è alétheia, scoperta di ciò che rimane occulto. C’è un oltremondo costituito da strutture di impressioni, che se è latente rispetto al primo, non è per questo meno reale. Affinché questo mondo esista davanti a noi, abbiamo bisogno, è vero, di aprire qualcosa più degli occhi, di compiere atti e sforzi maggiori; ma la misura di questi sforzi non toglie e non dà realtà a quel mondo. Il mondo profondo è chiaro come quello superficiale, solo che esige di più da noi62.

Le apparenze delle cose passano dinanzi a noi, sono realtà superficiali, però reali, perché il superficiale così come il profondo sono due lati dell’oggetto. Risultano essere il primo ed il secondo piano. Dipende da noi arrivare all’ultimo e per questo sono necessarie riflessione e volontà. «Queste realtà superiori sono più pudiche; non piombano su di noi come su di una preda. Al contrario, per manifestarsi ci pongono una condizione: volere la loro esistenza e sforzarci di raggiungerla. Vivono, quindi, in qualche modo sorrette dalla nostra volontà»63. Il paragrafo sesto di Meditazioni, intitolato “Cultura mediterranea”, è già stat0 molto commentato. Ortega si oppone spesso a Menéndez y Pelayo, autore cattolico ottocentesco, quando ricorda la sua divi62 J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, in Obras completas, cit., p. 768; tr. it. p. 58. 63 Ivi, p. 769; tr. it. p. 59.

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sione culturale fra chiarezza latina e nebbie germaniche, in difesa soprattutto della storia culturale spagnola. Ortega, formatosi in Germania e non in Francia come la maggior parte della generazione precedente, controbatte scrivendo che la cultura germanica è superiore a quella latina. La prima è quella delle realtà profonde, mentre la seconda la cultura delle superfici. Però, attenzione! In entrambe non esiste una differenza di chiarezza perché sono due dimensioni diverse della cultura europea, senza che nessuna di esse, né le due insieme, raggiungano mai una chiarezza assoluta. Tuttavia, entrambe le razze, quella germanica e quella latina, sono razze impure poiché sono mischiate fra di loro. Oggigiorno si può dire che «per un mediterraneo l’essenza di una cosa è meno importante della sua presenza, della sua attualità: alle cose preferiamo la sensazione viva delle cose»64, al contrario dei tedeschi. Questi tedeschi sono meditatori. I mediterranei guardano, osservano. Di qui il fatto che i tedeschi siano riflessivi, i mediterranei sensuali. Per non perdere il filo di ciò che stiamo dicendo, dobbiamo ricordare che le Meditazioni sono saggi su argomenti importanti, ma anche banali, e ciò che Ortega pretende è la delimitazione del carattere spagnolo e di quello europeo. Per noi in questa prima opera Ortega non pretende, come in altre successive, l’integrazione. È vero che dedica molto spazio per spiegare che ogni cosa è fecondata dalle altre. «Direbbero di sì, che si amano e aspirano a fondersi». Ortega torna subito alla distinzione fra impressione e concetto. La prima ci fornisce la materia delle cose, il concetto contiene tutto quello che quella cosa è in relazione con le altre. Però sì, in Meditazioni anticipa in parte il concetto di ragione vitale. In effetti, la ragione è parte, è una funzione vitale. Oggi ci sentiamo molto lontani dal dogma hegeliano che fa del pensiero la sostanza ultima di ogni realtà. È troppo grande il mondo, e troppo ricco, perché il pensiero possa assumere la re64

Ivi, p. 779; tr. it. p. 71.

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Luis de Llera

sponsabilità di tutto ciò che vi accade. Ma nel detronizzare la ragione, facciamo attenzione a darle il posto che le compete. Non tutto è pensiero, però senza di esso non possediamo nulla con pienezza. […] la sensazione ci dà unicamente la materia diffusa e plasmabile di ogni oggetto; ci dà l’impressione delle cose, non le cose65.

Ortega applica quanto detto alla mancanza d’integrazione della cultura spagnola in quella tedesca, o detto in altro modo alla mancanza di appropriazione da parte degli spagnoli della struttura culturale della Germania. Manca alla cultura spagnola la chiarezza perché è troppo impressionista. La chiarezza non è vita, ma è la pienezza della vita. Di solito, tutto questo è mancato nelle nostre produzioni più pure. Siamo di fronte ad esse come di fronte alla vita. Ecco la loro grande virtù! – si dice –. Ecco il loro grande difetto! – rispondo io –. Come vita, spontaneità, come dolori e tenebre mi bastano i miei, quelli che scorrono nelle mie vene; […] Ora ho bisogno di chiarezza, ho bisogno di un’alba sulla mia vita. E queste opere pure e spagnole sono un semplice ampliamento della mia carne e delle mie ossa e un orribile incendio che ripete quello del mio animo: sono come me, ed io sono in cerca di qualcosa che sia più di me – più sicuro di me66.

In tutta la prima opera di Ortega troviamo in nuce l’idea del volgare e dell’eccelso, del reale e dell’ideale, il cammino dal più basso al più alto. Perché se l’uomo, come dicevo nelle pagine precedenti, ha come punto di partenza la vita, ha il dovere, se vuole perfezionarsi, di passare dalle impressioni ai concetti e questi ultimi devono essere sempre meglio elaborati. Questa volontà dell’uomo di elevarsi al di sopra della vita, che non è solamente biologia – come apprese a Marburgo –, serve per alzarsi al di sopra 65

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Ivi, p. 785; tr. it. p. 78. Ivi, pp. 789-790; tr. it. p. 84.

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Testo e contesto nelle Meditazioni del Chisciotte

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della realtà comune. Si potrebbe dire che qui stia in nuce la sua teoria espressa in Ideas y creencias e pure quelle espresse nei tre volumi fondamentali dell’Ortega che precede la Seconda Repubblica: Il tema del nostro tempo (1923), La disumanizzazione dell’arte (1925) e La ribellione delle masse (1929). Nel primo Ortega si scontra coi problemi filosofici o se vogliamo metafisici dell’epoca, con la sua teoria della ragione vitale e con l’intenzione di superare il realismo ed il soggettivismo. Il secondo pretende dimostrare che l’arte avanguardistica – quella che pubblicava in «Revista de Occidente» e frequentava le “tertulias” di Ortega – era superiore alla precedente, poiché era un’arte che superava ciò che normalmente chiamiamo umano; vale a dire un’arte creativa che non necessitava della realtà, di ciò che si usava chiamare umano, troppo umano. Un’arte per coloro che erano capaci di abbandonare il realismo e crearne un altro da esso indipendente. E infine la terza opera citata suddivideva la società in minoranze e masse, in intellettuali e gente comune. Però attenzione! Non dimentichiamoci che queste opere sono solo un perfezionamento di Meditazioni del Chisciotte, per la semplice ragione che Ortega era cambiato, e le sue circostanze altrettanto.

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Gianni Ferracuti

Le radici moderniste delle Meditaciones del Quijote di Ortega y Gasset 1. L’arte e il salvataggio delle cose

Il sistema di pensiero di Ortega y Gasset ha alla base la nozione di realtà radicale. Con questa espressione non si intende soltanto un principio logico, bensì anche, e prioritariamente, la realtà stessa, che esiste fuori dal pensiero: ignota, e tuttavia esperimentata nella vita concreta, essa è la radice delle idee con cui cerchiamo di conoscerla. Nel pensiero maturo di Ortega dire realtà radicale equivarrà a dire la mia vita, la vita di ciascuno, ma anche allora si tratterà sempre della realtà in quanto tale. Ha scritto Paulino Garagorri: Quando avvertiamo che, se vogliamo guardare la realtà indipendentemente da ogni interpretazione, succede che non possiamo farlo, ci si rende chiaro che l’interpretazione della realtà è inevitabile, ma – a quanto sembra – distinta dalla realtà stessa; cioè, l’unica cosa – che tuttavia è qualcosa – che sappiamo della realtà di per sé, è che ci costringe a interpretarla mentalmente. Ossia, [...] che abbiamo un rapporto previo, non teorico, non intellettuale, con la realtà, un rapporto pre-intellettuale e consistente nel fatto che la realtà ci spinge e ci costringe a intenderla1.

Questo rapporto pre-intellettuale è, appunto, il concreto vivere. Il mistero radicale della realtà compare già nei primi scritti di Ortega, in particolare in Glosas, datato dicembre 1902, quando Ortega non è ancora ventenne, e El poeta del misterio, del 1904. P. GARAGORRI, “Ortega, una reforma de la filosofía”, in Id., Introducción a Ortega, Alianza, Madrid, 1970, pp. 9-144, p. 65. 1

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Gianni Ferracuti

In Glosas, affrontando il tema della critica letteraria e artistica, e il tema dell’imparzialità del giudizio del critico, Ortega si dichiara contrario all’oggettività, che considera un allontanamento dalla vita: «Non parlo delle religioni morte [...]. Parlo della critica che discerne tra le cose che vivono»2. Propone la rinuncia ad affermazioni assolute e astratte come unica possibilità per parlare di ciò che è davvero importante nella vita reale. Oggettività di giudizio vuol dire spersonalizzarsi3 («è un errore di prospettiva»4) e «guardare le cose da lontano, dall’altro lato della vita. Ma è possibile uscire dalla vita?»5. Non è possibile (soprattutto alla luce del pensiero maturo di Ortega); dentro la vita si hanno solo conoscenze parziali, ancorché concrete: «Distanziarsi dalle cose per comprenderle è ciò che si chiama presbiopia. Bisogna uscire loro incontro e scontarsi con esse (chocar con ellas)»6. Il secondo articolo che citavo, El poeta del misterio, è una bella nota su Maeterlink, sul suo teatro dalle valenze mistiche e sull’arte come strumento di penetrazione nel mistero, che ci avvolge e, a volte, si rende quasi palpabile: A volte ci sentiamo inquieti, con un eccesso di chiaroveggenza e un’acutezza della fantasia che è come un incubo a occhi aperti, dalle forme assolutamente inconcrete; sentiamo stimoli che rispondono a urti della nostra anima con i “corpi” delle idee più vaghe, in modo molto simile agli stimoli fisici: c’è nel nostro spi-

2 J. ORTEGA Y GASSET, Glosas, in Obras completas, Alianza, Madrid, 1986, vol. I, pp. 13-18, p. 14 (d’ora in avanti questa edizione delle opere viene indicata con la sigla Oc, seguita dal numero del volume). 3 Ibidem. 4 Ibidem. È certamente rimarchevole l’uso del termine prospettiva, perspectiva, già nel primo saggio di Ortega. Ha scritto Franco Meregalli: «L’intenzione esplicita del diciannovenne era di stabilire in Glosas i principi di una critica letteraria valida; ma, se ne rendesse conto o no, egli andava ben oltre: esprimeva la sua idea della realtà radicale» (F. MEREGALLI, Introduzione a Ortega y Gasset, Laterza, Roma-Bari, 1995, p. 7). 5 J. ORTEGA Y GASSET, Glosas, cit., p. 14. 6 Ivi, p. 15.

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Le radici moderniste delle Meditaciones del Quijote

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rito un turbamento immotivato, un’ansia, che è come l’attesa di “qualcosa” di grande che sta per arrivare, che già arriva, che si avvicina trepidando. [...] “Qualcosa, qualcosa”: è l’unica parola per dire questa cosa ignota, perché è l’unica parola che afferma un’esistenza, senza segnare confini, senza dare un nome7.

Esiste una realtà che non conosciamo, «ci avvolge l’ignoto», e basta un momento di solitudine perché si erga al nostro fianco e «ci assillerà, ci tormenterà, mormorerà intorno a noi come uno sciame di api invisibili, e nel parossismo della sofferenza o del piacere noteremo una chiamata, un suggerimento che ci dà una notizia, che ci ricorda, che ci preavverte che qualcosa sta per succedere»8. In questo regno interiore la conoscenza non è ancora penetrata (né è detto che riesca a farlo); l’interiorità sembra sottrarsi alle leggi fisiche, lasciando intuire una realtà molto più vasta e complessa di quanto ne conosciamo e, soprattutto, una nostra insospettata interazione con essa sotto forma di una «attività analoga a quella intellettuale»: Esistono regioni di mistero nella nostra anima e intorno a noi, che avvertiamo a malapena, simili a meravigliosi arazzi di cui possiamo vedere solo il rovescio dal filato grottesco. Il fatto è che esiste una vita che sta al di sotto della coscienza: in questo oscuro recinto inesplorabile covano istinti che non conosciamo, vi giungono sensazioni di cui non ci rendiamo conto: vi si realizza ogni tipo di operazione fisiologica e psichica di cui percepiamo unicamente il risultato. Tentiamo di trovare la soluzione di un problema e torturiamo invano l’intelletto: disperati abbandoniamo il lavoro e distogliamo l’immaginazione. Quando meno ce l’aspettiamo si fa luce e il problema è risolto. Questo può avere altra spiegazione che ammettere l’esistenza di un’attività analoga a quella intellettuale, a quella cosciente, che si verifica in silenzio al di sotto della coscienza?9. J. ORTEGA Y GASSET, El poeta del misterio, Oc, I, pp. 28-32, p. 29. Ibidem. 9 Ivi, pp. 29-30. Cfr. J. ORTEGA Y GASSET, Psicoanálisis, ciencia problemática 7

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Gianni Ferracuti

Maeterlink, come poeta del mistero, cerca di dare espressione alle «forze primarie, latenti nella materia», intuite per via mistica o immaginativa10. Però tale espressione, pur potendo essere molto suggestiva, è arbitraria come ogni creazione artistica, e non può costituire un sapere. Da qui la conclusione dell’articolo: soddisfatto il godimento estetico, guardarsi dalle allucinazioni del mondo dietro l’apparenza (tras-mundo), che sono vaghe e ci smarriscono nel labirinto delle loro forme imprecise11. Tra il noto e il misterioso non c’è una semplice contrapposizione, ma una relazione dinamica: il noto è la parte di mistero che ha avuto una spiegazione, e dunque ha nel mistero le sue radici primarie. Il noto nasce dalla relazione pre-intellettuale con la realtà radicale e di suo è parziale, ovvero prospettico; dunque ha carattere interpretativo ed è possibile che tale interpretazione – la cultura – possa essere a volte un’alterazione o una falsificazione del reale. In un articolo del 1906, Moralejas, viene appunto (1911), Oc, I, pp. 216-237: «La scienza scientifica è circondata in ogni momento storico da una sorta di atmosfera o alone di formazioni spirituali intermedie che non sono scienza, né sono in assoluto materiale bruto dell’animo» (pp. 216217). Questa zona atmosferica che avvolge la scienza è chiamata mito, «perché il mito non è altro che un contenuto mentale indifferenziato, che aspira a svolgere la funzione di concetto o spiegazione teorica di un problema, ma che non si è liberato abbastanza dall’empirismo sensitivo né dal tono affettivo e sentimentale di tutto quanto è spontaneo in noi. La riflessione, la scienza, sono la purificazione dello spontaneo, dello psichico. Storicamente la scienza viene dal mito o, come ha detto Cohen, è lo sviluppo di ciò che il mito ha di serio attraverso la rimozione del momento soggettivo emozionale» (ivi, pp. 217-218). 10 J. ORTEGA Y GASSET, El poeta del misterio, cit., p. 31. «In tutti i tempi i mistici sono stati ritti sulla frontiera dell’ignoto: sono state le vedette dell’umanità che, issati nel sogno o nell’estasi, lanciano grida di allerta scorgendo le nebbie rosate che annunciano la costa. I sapienti, con tutto il loro armamentario e le loro andature da cammelli stanchi, arrivano alle terre promesse secoli dopo i veggenti. E questa è un’amara burla del fato, perché sapiente potrà esserlo chiunque vorrà, e veggente solo chi sia tale dall’eternità» (ivi, pp. 31-32). 11 Ivi, p. 32.

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formulata l’idea di un fraintendimento che allontani la cultura dalla spontaneità vitale, generando anzi un conflitto con essa:

Secoli e secoli di cultura hanno frainteso a tal punto le necessità umane, soprattutto quelle morali, sempre più facili da deformare, che a volte è sano disfare il cammino e rinnovare in qualche punto la semplicità originaria. Sembra quasi che l’umanità abbia bisogno di prendere periodicamente una dose d’ingenuità per poter continuare a vivere12.

E aggiunge: «Nulla che non sia vivente e organico ci può interessare»13; interesse – s’intende – nel senso di una sfida a coglierlo così com’è, vivente e organico, e misterioso, per portarlo alla luce, vederlo nella chiarezza intellettuale, per illuminare un angolo della vita. È un interesse a capire il significato della realtà vivente, cioè a decifrarne il mistero e a spostare idealmente qualcosa dalla casella dell’ignoto a quella del noto. Con tale operazione la cosa viene salvata. Salvare le cose è un tema molto importante nel primo Ortega: com’è noto, il titolo originariamente previsto per le Meditaciones del Quijote era Salvaciones (salvataggi), e l’uso del termine salvación nei testi precedenti le Meditaciones mostra che il suo significato non coincide con quello del lessico fenomenologico. Orbene, questa concezione della realtà radicale come radicale mistero è fortemente legata alla sensibilità estetica contemporanea; più ancora, il tipo di realismo antiaccademico e antiborghese (antimoderno, se si vuole) con cui Ortega intende studiare il reale si organizza attraverso una lunga meditazione sul realismo modernista, per poi sfociare nel realismo filosofico delle Meditaciones del Quijote14. J. ORTEGA Y GASSET, Moralejas, Oc, I, pp. 44-57, p. 44. Ivi, p. 45. 14 Il modernismo è un movimento artistico e letterario spagnolo corrispondente a ciò che in Italia chiamiamo abitualmente decadentismo. Oggi lo si ritiene un fenomeno epocale, che dalla metà dell’Ottocento giunge fino ai 12 13

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Gianni Ferracuti

In Moralejas l’arte ha appunto una missione salvifica. Il salvataggio consiste nel conoscere il significato della cosa, che si ottiene solo cogliendola in una visione sistematica:

L’arte è dunque un’attività di liberazione. Da cosa ci libera? Dalla volgarità. Io non so cosa penserai tu, lettore, ma per me la volgarità è la realtà di tutti i giorni, ciò che i minuti portano nelle loro giare uno dopo l’altro; il cumulo di fatti significativi o insignificanti, che sono l’ordito delle nostre vite e che sciolti, sparpagliati, senz’altro collegamento che la loro successione, non hanno senso.

giorni nostri, includendo tutte le avanguardie e gli stili dentro una concezione dell’arte come creazione libera e incondizionata. Cfr. G. FERRACUTI, Modernismo, teoria e forme dell’arte nuova, in «Mediterránea», 8, 2010 (volume monografico) www.retemediterranea.it/mediterranea/mediterranea_1-12.htm; ID., contro le sfingi senza enigma: estetismo, critica antiborghese e prospettiva interculturale nel modernismo, in «Studi Interculturali», I, 2014, pp. 164-220 . Sull’inclusione di Ortega nel modernismo cfr. M. MACHADO, “Los poetas de hoy”, in Id., La guerra literaria (1898-1914), Imprenta Hispano-Alemana, Madrid, 1913 [sic], pp. 15-39. Per una panoramica sulla letteratura spagnola del tempo, cfr. G. FERRACUTI, Profilo storico della letteratura spagnola, in «Mediterránea», 22, 2013, pp. 340-479 . Per un’introduzione generale al pensiero di Ortega, cfr. ID., José Ortega y Gasset, esperienza religiosa e crisi della modernità, Il Cerchio, Rimini, 1992 (ora come vol. 15, 2013 di «Mediterránea», ). Sul pensiero giovanile di Ortega e la formazione del suo sistema filosofico, ID., L’invenzione del Novecento. Intorno alle Meditazioni sul Chisciotte di Ortega y Gasset, in «Mediterránea», 17, 2013, pp. 7-153; per la formazione del pensiero politico orteghiano, cfr. ID., Traversando i deserti d’Occidente, Ortega y Gasset e la morte della filosofia, in «Mediterránea», 13, 2012, in particolare i capitoli “Ortega, la fenomenologia e il gran sole del mediterraneo”, pp. 9-44, “Etnia, nazione, democrazia in Ortega”, pp. 45-68. Cfr. ancora: ID., Liberalismo, socialismo, nazione, realismo politico: la polemica Ortega-Romanones, in «Rivista di Politica», 2, 2013, pp. 33-61. Sugli sviluppi posteriori del pensiero di Ortega: ID., Ortega e la fine della filosofia, in G. Cacciatore, A. Mascolo (a cura di), La vocazione dell’arciere. Prospettive critiche sul pensiero di José Ortega y Gasset, Moretti & Vitali, Bergamo, 2012, pp. 163-201 (su cui si veda A. DI SOMMA, Un intellettuale di vocazione. A proposito de La vocazione dell’arciere. Prospettive critiche sul pensiero di José Ortega y Gasset, in «Studi Interculturali», 1, 2014, pp. 229-243 ).

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Ma a sostenere, come il tronco un rigoglioso fogliame, queste realtà di tutti i giorni, esistono le realtà perenni, cioè le ansie, i problemi, le passioni cardinali del vivere dell’universo. A queste arriva l’arte, s’immerge e quasi annega in loro l’artista vero e, usandole come centri energetici, riesce a condensare la volgarità e a dare un senso alla vita15.

Senza la sua connessione con un contesto, la cosa appare priva di significato. Ignorando le loro relazioni con il resto dell’universo, i fatti sembrano un cumulo privo di organicità, e come tali («significativi o insignificanti», si badi) sono «volgarità» e non senso. Però la connessione non sempre si palesa in modo immediato: il più delle volte il fatto o la cosa emergono da un fondo «retro-stante» (trasmundo), così come nelle Meditaciones del Quijote si dirà del bosco, la cui visione immediata è coperta dagli alberi. Per la filosofia, scoprire il contesto è esprimere con una struttura di concetti l’insieme delle relazioni in cui è collocata la cosa; invece l’arte produce l’immagine di questo sistema, per via estetica, cioè irrazionale. Il problema di Ortega consiste nel passare dall’irrazionalità dell’arte (che però è molto efficace nella sua rappresentazione) alla razionalità del discorso filosofico. Che il realismo estetico sia la radice del realismo filosofico lo dimostra il fatto che certe affermazioni relative al primo vengono trasposte nel secondo. Ad esempio, in termini filosofici nelle Meditaciones del Quijote, Ortega scrive, con un palese riferimento alle idee di Moralejas: «L’importante è che il tema sia messo in relazione immediata con le correnti elementari dello spirito, con i motivi classici della preoccupazione umana. Una volta intessuto con essi, risulta trasfigurato, transustanziato, salvato»16. In Moralejas, scrive invece in termini estetici: J. ORTEGA Y GASSET, Moralejas, cit., p. 51. ID., Meditaciones del Quijote (1914), Oc, I, pp. 311-400, p. 312. «Tema» significa qui qualunque cosa, volgare o solenne, di cui si voglia conoscere il significato. 15

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L’arte ci salva [...] da questa coscienza individuale con cui viviamo ordinariamente e che ci fa percepire l’andirivieni dei fenomeni, la nascita e la fine delle cose, il desiderio e l’insuccesso del nostro desiderio; l’arte ci aiuta a emergere, ci innalza fino a quella «coscienza migliore» in cui cessiamo di essere individui e contempliamo solo gli ampi e immutabili stati dell’anima universale17.

Moralejas ci rivela un significato del termine salvación con riferimento all’arte. La radice modernista del realismo filosofico si vede molto bene in un saggio del 1911, Arte de este mundo y del otro, occasionato dal libro di Worringer, Problemi formali dell’arte gotica18. Ortega lo apre con una certa ironia, qualificandosi come uomo spagnolo, e quindi uomo senza immaginazione: Unamuno, Menéndez Pidal, Menéndez Pelayo, Alcántara, Cossío, tutti mostri sacri della cultura spagnola, e persino Costa, un uomo politico, lo hanno detto e ridetto: lo spagnolo è un realista. E così Ortega ripete: Io sono un uomo spagnolo che ama le cose nella loro purezza naturale, che ha piacere di riceverle tali quali sono, con chiarezza, stagliate all’orizzonte, senza che si confondano le une con le altre, senza che io metta nulla in loro; sono un uomo che vuole anzitutto vedere e toccare le cose e che non si compiace di immaginarle: sono un uomo senza immaginazione19.

Questa proclamata assenza di immaginazione è un ricorso retorico e ironico per introdurre con risalto l’atteggiamento opposto, cifrato nell’uomo gotico. Infatti, l’uomo senza immaginazione entra in una cattedrale gotica e viene rapito, strappato alla sua pesantezza materiale e trasportato in un’algarabia di immagini, dove tutto appare e sfuma con incessante rapidità: ID., Moralejas, cit., p. 50. W. WORRINGER, Formprobleme der Gotik, 1911; tr. it. Problemi formali del gotico, a cura di G. Gurisatti, Cluva ed., Venezia, 1986. 19 J. ORTEGA Y GASSET, Arte de este mundo y del otro, Oc, I, pp. 186-205, p. 186. 17

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Le radici moderniste delle Meditaciones del Quijote

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Io non sapevo che dentro una cattedrale gotica abita sempre un turbine; così, appena messo piede all’interno, sono stato strappato dalla mia stessa pesantezza sulla terra – questa buona terra, dove tutto è fermo e chiaro, e si possono palpare le cose, e si vede dove cominciano e dove finiscono. All’improvviso, da mille luoghi, da mille angoli scuri, dai confusi vetri dei finestroni, dai capitelli, dalle chiavi di volta lontane, dagli spigoli interminabili, mi piombarono addosso miriadi di esseri fantastici, come animali immaginari ed eccessivi, grifi, doccioni, cani mostruosi, uccelli triangolari; altri, figure inorganiche, ma che nelle loro accentuate contorsioni, nella loro figura zigzagante, verrebbero presi per animali incipienti20.

Gotico e mediterraneo rappresentano due mondi, due sensibilità la cui differenza è un valore positivo: serve a capire che nessuno dei due riesce a esaurire la realtà e che dunque bisogna integrarli; il pathos materialista del Sud e il pathos trascendentale del Nord sono i due poli, le due forme estreme della sensibilità continentale. Ma nessuno dei due, inteso come pathos, può dirsi pienamente accettabile: «La salute è la liberazione da ogni pathos»21. Su questa premessa s’innesta l’esposizione delle idee di Worringer, secondo cui l’arte nasce quando si supera il semplice progetto di copiare le cose e la creazione artistica si basa su un principio di sim-patia, Einfürung, simpatia, che Ortega riassume così: Un oggetto che ci si presenta dinanzi intanto non è altro che una molteplice sollecitazione alla nostra attività: c’invita a scorrere con i nostri occhi il suo profilo, a renderci conto dei suoi toni, alcuni più forti, altri più delicati, a palpare la sua superficie. Finché non abbiamo realizzato queste operazioni, o altre analoghe, non possiamo dire di aver percepito l’oggetto; esso dunque è il risultato di alcuni stimoli che riceviamo e di alcune attività messe in opera da parte nostra: movimenti muscolari degli occhi, delle mani, ecc. Orbene, 20 21

Ivi, p. 187. Ivi, p. 188.

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se l’oggetto è stretto e verticale, per esempio, i nostri muscoli oculari realizzano uno sforzo di elevazione; questo sforzo è associato, nella nostra coscienza, ad altri movimenti incipienti del nostro corpo, che tendono ad alzarci da terra, e alle sensazioni muscolari di peso, resistenza, gravità. Dunque, dentro di noi si forma, attorno all’immagine bruta dell’oggetto stretto e verticale, una sorta di organismo di attività, di relazioni vitali: sentiamo come se le nostre forze, che aspirano all’alto, vincessero la pesantezza, pertanto come se il nostro sforzo trionfasse. E poiché tutto questo lo abbiamo sentito mentre percepivamo quell’oggetto esterno, e proprio per percepirlo, fondiamo ciò che avviene in noi con la sua esistenza e proiettiamo tutto insieme verso l’esterno, compenetrato in un’unica realtà. Il risultato è che non già noi, bensì l’oggetto stretto e verticale ci sembra dotato di energia, ci sembra sforzarsi di ergersi sulla terra, ci sembra trionfare su forze di segno contrario22.

In sostanza, l’arte produrrebbe forme che, per simpatia, suscitano la sensazione della vitalità organica e rappresentano un’espansione di energie, una liberazione, e una raffigurazione del movimento vitale. In tal senso, si tratta di un’arte naturalista, in quanto rappresenta la vita intesa come una dimensione della natura. La critica mossa da Ortega è che esistono intere regioni dell’arte che sono incompatibili con tale idea: ad esempio l’arte geometrica, che appare rivolta all’obiettivo opposto di non raffigurare il vivente e preferire l’inorganico e l’astrazione: «Non godo io di me stesso, nel disegno geometrico, ma al contrario mi salvo dal naufragio interiore, dimenticandomi di me in quella realtà regolata, chiara, precisa, sottratta alla mutevolezza e alla confusione. Mi salvo in essa dalla vita, dalla mia vita»23. È interessante il richiamo al salvarsi, inteso in un’accezione molto concreta: salvarsi dal naufragio interiore, dallo smarrimento nelle pure emozioni, nell’instabilità degli stati sentimentali. Nel vitalismo confuso, nel misticismo alla Maeterlink, le cose 22 23

Ivi, pp. 192-193. Ibidem.

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sfumano, restano indefinite, e insomma non sono cose: nondimeno, come pathos di segno contrario, l’arte geometrica eccede, facendoci uscire dalla vita. Abbiamo invece bisogno di una via di mezzo: salvare noi dal naufragio interiore e salvare le cose, ovvero salvare noi stessi nelle cose. Neanche l’estetica classica raggiunge questo obiettivo. La sua essenza sta nell’equilibrio tra istinto e intelletto; le cose vi appaiono regolate e stabili all’interno di una grande e avvolgente armonia, ma guardando bene, questa classicità «non si interessa alle cose quali si presentano nella vita, nella loro concreta rudezza, nella loro aspra individualità, bensì a ciò che di normale, giocondo e ben guarnito si trova in ogni essere»24. Va anche detto che Ortega non condivide l’idea di Worringer di pensare che i vari stili artistici si succedano secondo una linea evolutiva, che peraltro culminerebbe nel misticismo gotico: per costruire il suo schema interpretativo, Worringer è costretto a svalutare l’arte mediterranea, che non rientra nei parametri del geometrico o del classico, formulando giudizi francamente inaccettabili, come l’irrilevanza estetica delle pitture rupestri di Altamira, considerate mera imitazione del reale. Per Ortega, le pitture di Altamira sono autentica arte: «In quelle energiche linee e in quelle macchie si rivela una possente volontà artistica; più ancora, un atteggiamento genuino di fronte al mondo, una metafisica che non è l’astrazione dell’indeuropeo, né il naturalismo razionalista classico, né il misticismo orientale»25. Ora, i caratteri che Ortega attribuisce all’uomo mediterraneo li rintraccia tutti nel tipo umano che meglio ne ha conservato la sensibilità: il mediterraneo odierno è per lui lo spagnolo. L’uomo mediterraneo ieri, come lo spagnolo oggi, non sono una razza, né una stirpe, né un’etnia, ma sono anzitutto un modo di entrare in rapporto con la natura, una mentalità, una forma peculiare di sensibilità: 24 25

Ivi, p. 197. Ivi, p. 199.

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L’uomo spagnolo si caratterizza per la sua antipatia nei confronti di tutto ciò che è trascendente; è un materialista estremo. Le cose, le sorelle cose, nella loro rudezza materiale, nella loro individualità, nella loro miseria e sordidezza, non quintessenziate e tradotte e stilizzate, non come simboli di valori superiori [...], questo ama l’uomo spagnolo26.

Le sorelle cose nella loro individualità. Qui c’è, a mio modo di vedere, uno dei passi più importanti dell’opera orteghiana precedente le Meditaciones del Quijote: la cosa individuale, da sola, non ha senso, si perde e dobbiamo salvarla; la connessione generale, la teoria, la scienza, ci dànno il senso delle cose, le loro relazioni fisse, le leggi, formulate attraverso concetti generali. Ovvero, nella legge scientifica, nella formula metafisica, proprio per la loro generalità o universalità, troviamo sì il senso delle cose, ma la cosa singola non c’è. C’è il concetto di albero, ma non c’è l’albero reale e di legno, e l’uno non può sostituire l’altro. Salvare le cose significa che dobbiamo possedere sia il sistema sia la cosa individuale: non l’uno o l’altra, bensì l’uno e l’altra. Parlando in modo ampio, questo tipo di salvezza bifronte richiede sia la scienza tedesca o nordica, sia la concretezza spagnola o mediterranea, «che vuole salvare le cose in quanto cose, in quanto materia individualizzata»27.Questo «materismo» consiste sostanzialmente nell’opinione che non si possano spiegare le cose e il loro significato rinunciando a ciò che esse sono di fatto e concretamente. Ortega ricorda qui che Unamuno non riusciva a concepire la salvezza religiosa dalla morte senza pensarla come un’immortalità della carne e della materia, e fa riferimento sia ai saggi di salvación di Azorín, costruiti sulla valorizzazione artistica delle cose piccole, misere, trascurate, sia a Cervantes. Il tema torna nella descrizione delle cose che abbiamo intorno, nelle Meditaciones del Quijote: 26 27

Ibidem. Ivi, p. 200.

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Le cose mute che ci sono vicine e intorno! Molto vicino, molto vicino a noi, porgono le loro tacite fisionomie con un gesto di umiltà e di desiderio28. Ogni cosa è una fata che riveste di miseria e di volgarità i suoi tesori interiori ed è una vergine che deve essere amata affinché diventi feconda [...] L’importante è che il tema sia messo in immediata relazione con le correnti elementari dello spirito [...]29.

2. Il realismo come verosimiglianza

Renan (1909) e Adán en el Paraíso (1910) sono due saggi molto importanti in questa fase dell’attività orteghiana, e vengono raccolti in Personas, obras, cosas. In particolare il secondo viene citato in Arte de este mundo y del otro, dove viene definito «un saggio di estetica spagnola e quasi una giustificazione teorica della nostra peculiarità artistica»30. In Renan torna l’idea di salvarsi nelle cose dal naufragio intimo: La modestia e la calma supreme, la grande pazienza delle cose, ci offrono una disciplina incomparabile che dobbiamo seguire; ospi-

ID., Meditaciones del Quijote, cit., p. 319. Ivi, p. 312. 30 ID., Arte de este mundo y del otro, cit., p. 190. Un’altra conferma indiretta della loro importanza sta nel fatto che Ortega li ripubblica pur sapendo che contengono alcune formulazioni imprecise, e preoccupandosi di aggiungere al testo qualche nota di rettifica: «Il fatto che Ortega eccezionalmente abbia messo note di rettifica e di dissenso col suo stesso testo di Renan e Adán en el Paraíso sembra indicare che questi testi gli interessano teoreticamente e voleva privarli dei loro errori giovanili. [...] Se ha cura di apporre queste note su alcuni passi da cui dissente qualche anno dopo, e che pure ripudia formalmente, e non fa la stessa cosa con altre idee molto significative, se ne deduce che ad esse continua ad aderire, e che queste idee – le idee conservate senza critica – sono per lui la cosa più importante»: J. MARÍAS, “Ortega. Circunstancia y vocación”, in Id., Obras completas, Alianza, Madrid, 1982, vol. IX, 167-598, p. 464. 28 29

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tiamole nelle nostre stanze spirituali, instauriamo con loro un rapporto di amichevole profondità. Abbracciamoci alle sorelle cose, nostre maestre: sono loro le virtuose, le vere, le eterne31.

E aggiunge, segnalando che tale pedagogia del reale non si esercita solo mediante la riflessione filosofica:

Finché scrisse il Don chisciotte, Cervantes tenne certamente incatenato e muto il suo io personale, e al suo posto lasciò che parlassero con la voce della sua anima le sostanze universali. In modo analogo, Velázquez convertì il suo cuore in una taverna, per poter dipingere quegli uomini ebbri che, messi sulla tela del Museo, perpetuano eternamente la loro sbornia esemplare32.

Gli ubriachi dipinti da Velázquez perpetuano la loro sbornia esemplare. Nel modo e nelle forme proprie all’arte, il pittore ha saputo lasciare che le cose parlassero, ha saputo ascoltarle. Naturalmente, il pittore non si è limitato a copiare la realtà: il realismo come copia lo si trova nell’arte accademica o nel naturalismo ottocentesco; in ambito modernista il realismo è la costruzione di un’immagine che tende ad esprimere sia il visibile sia l’invisibile del reale. Velázquez e Cervantes non hanno imitato la realtà, bensì hanno creato un’immagine verosimile. Il verosimile non è soltanto ciò che sembra vero, senza alcuno sforzo: senza sforzo, ciò che appare della realtà sembra piuttosto un caos di impressioni sensibili. Verosimile è la costruzione di un ordine che governa l’immagine di un quadro o la forma di un’opera d’arte. È un’operazione che richiede amore per la realtà e per il sapere: Amare la verità è sentirsi portato imperiosamente a scoprirla, a inventare nuove certezze, a vincere la concupiscenza del proprio cuore, che si compiace indugiando sulle apparenze delle cose, come un asinello di mugnaio che, preso gusto a mordere la 31

32

J. ORTEGA Y GASSET, Renan, cit., p. 446. Ibidem.

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messe, non si guadagna la giornata se il padrone non lo pungola33.

Qui c’è una traccia dell’amore intellettuale che verrà teorizzato compiutamente nelle Meditaciones del Quijote (appoggiandosi su Platone e Spinoza). Però, da un lato, l’atto d’amore non è di per sé garanzia della veridicità delle nostre osservazioni; dall’altro, l’osservazione è intrinsecamente interpretativa. Ortega lo sottolinea con un’argomentazione paradossale: chiedendosi, sull’onda del ricordo di un testo classico spagnolo, che cosa pensino i centauri: Che mondo penserà il padre Chirone, galoppando sulle praterie verde smeraldo? Al suo torso umano apparteneva un mondo di visioni umane; ai suoi lombi di cavallo un universo equino. I nervi dell’uomo e del cavallo si univano negli stessi centri e le robuste vene facevano sboccare in un solo cuore la teologia dell’europeo e la brama dell’animale da monta. Povero cuore, sempre vacillante tra una puledra e una baccante! Ciò che per una sua metà era vero, era falso per l’altra metà; se entrava in una città e arrivava alla piazza pubblica, le sue labbra dovevano dire: Ecco l’agorà, mentre i suoi zoccoli avrebbero ribattuto: Ecco un ippodromo34.

Il paradosso di Ortega ha un senso molto chiaro: la nostra immagine del mondo, trascurando gli errori materiali di osservazione, è relativa sia al mondo sia alla nostra costituzione fisica e biologica: percepiamo umanamente il reale. Che si pensi il terreno come stadio o come pubblica piazza dipende dall’essere cavalli o uomini, benché evidentemente né l’uno né l’altro pensiero sarebbero possibili se non esistesse un terreno materiale duro su cui poggiare gli zoccoli ovvero i piedi. In questo senso la percezione è interpretativa: non pone la realtà, ma interpreta umanamente una realtà data. Di per sé la terra non è piazza né stadio: 33

34

Ivi, p. 448. Ivi, p. 451

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ciò che essa è, previamente all’interpretazione, è realtà radicale, realtà ignota. Tale realtà radicale, interpretata dall’artista, produce un’immagine verosimile. Ortega ne dà l’illustrazione commentando il cavaliere con la mano al petto del Greco. Di fronte a questo quadro, afferma, ci si sente in presenza non tanto di un singolo uomo spagnolo, quanto di quella realtà chiamata spagnolismo, ispanità, realtà «molto più certa e piena di tutti gli spagnoli che abbiamo visto e trattato veramente»35. Ispanità è però un concetto, non una persona concreta, e in particolare l’uomo che posava per il Greco. Pertanto il quadro non rappresenta la realtà: allora «quella realtà [= l’ispanità] fuori da tutte le leggi, inesplicabile, irriducibile a concetti, indocile ad assoggettarsi alle parole stesse, sarà un’allucinazione collettiva, un sogno secolare e nient’altro?»36. È un’allucinazione l’anima spagnola, quel modo di sentire e di sentirsi nel mondo, unanimemente riconosciuta nel dipinto del Greco? Formulata così la domanda, bisogna dire che quella rappresentazione ci appare vera. È chiaro che l’uomo ritratto nella tela non assomiglia fotograficamente al modello in carne e ossa che posò per il Greco, e in questo senso il ritratto non è vero: non è fotograficamente vero; però, grazie alla sua infedeltà al modello, il quadro ritrae il carattere ispanico in modo tale che riusciamo a riconoscerlo: in questo senso, non è una copia del reale. Non solo, ma tenendo presente la realtà dell’ispanità, possiamo spingerci a dire che, se avessimo conosciuto il modello, avremmo trovato il dipinto molto più reale di lui. Ovvero, esprimendoci con i termini usati da Ortega all’inizio del saggio, il quadro è molto più oggettivo. Eppure, benché in modo infedele rispetto a una resa fotografica, il quadro riproduce il modello e non altri: lo riproduce in un certo modo. Se non lo riproducesse, se l’immagine non avesse alcun punto di contatto col modello, il dipinto non trasmetterebbe alcuna impressione di realtà. Da questo 35

36

Ivi, p. 452. Ibidem.

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punto di vista non si può parlare di falso né di allucinazione. Diciamo almeno che non si tratta di una falsificazione completa, ma di un’alterazione, una modificazione dell’apparenza fotografica. Questa riflessione sul Greco è la descrizione del modo in cui l’arte penetra nel mistero della realtà radicale. Comprendere il mistero e darne una raffigurazione sono cose inseparabili. Anche l’artista si rappresenta il mondo, come il filosofo e chiunque altro, ma la sua rappresentazione ha la peculiarità di essere arbitraria, se la paragoniamo a una resa fotografica. Più ancora: non esiste nessun legame logico, nessun rapporto causale, tra il modello reale e l’immagine dipinta; dovendo procedere a modificare le sembianze del suo modello, il Greco poteva trarne infinite immagini diverse, tutte somiglianti in maggiore o minore misura. Dell’immagine effettivamente dipinta non possiamo dire che sia causata o determinata dalle sembianze del modello, ma solo che, osservando appunto queste, il pittore l’ha elaborata autonomamente e arbitrariamente. Neppure si può dire, se non metaforicamente, che egli l’abbia tratta dal modello. Ortega ha probabilmente ragione: se avessimo incontrato quest’uomo per la strada, forse non gli avremmo fatto caso e ci sarebbe sembrato insignificante. Il Greco, invece, lo ha visto in un altro modo, in modo estetico, lo ha trovato significativo e ha espresso ciò che per lui significava, attraverso un’immagine costruita alterando la mera visione ottica, evitando la copia. Così ha potuto portare in primo piano una realtà psicologica che era, per così dire, diluita nelle fattezze del modello. «La verosimiglianza, precisa Ortega, è somiglianza al vero, ma non si deve confondere con il probabile»37. Il verosimile non è vero e non è falso: se lo prendiamo per vero, cessa di essere quel che è e si converte in errore. Diciamo che è estratto dalla realtà radicale, come scienza arte e religione estraggono le loro verità: non nel senso che scienza, arte, e religione sono tutte verosimili 37

Ibidem.

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e nient’altro, ma nel senso che estraggono dal reale, ciascuna a suo modo, la parte di verità di loro competenza. Si tratta di ordini di verità che non possono essere in contraddizione tra loro e si riferiscono tutti alla realtà unica in cui sono radicati. Tuttavia non esauriscono il reale, rispetto al quale risultano sempre modi umani di conoscere: Dall’arsenale di sensazioni, dolori e speranze umane, Newton e Leibniz estraggono il calcolo infinitesimale; Cervantes, la quintessenza della sua melancolia estetica; Buddha, una religione. Sono tre mondi diversi. Il materiale è lo stesso per tutti; cambia solo il metodo di elaborazione. Alla sua maniera, il mondo del verosimile è lo stesso delle cose reali, sottoposte a un’interpretazione particolare: quella metaforica38.

La metafora ha un valore conoscitivo perché consiste anch’essa in un tentativo di visione unitaria della realtà. La certezza scientifica è oggettiva: ogni fatto nuovo s’incastra perfettamente nelle conoscenze che abbiamo e risulta spiegato dal sistema dei concetti; invece nel quadro del Greco vediamo ritratto qualcosa che, senza quell’immagine, non avrebbe trovato alcuna rappresentazione. Qualcosa che si presenta e si spiega da sé: l’arte prende un frammento del mondo e rappresenta con esso una totalità, un universo: questa è la sua arbitrarietà. Dice Ortega, formulando un concetto spinoziano che tornerà nelle Meditaciones del Quijote, che il procedimento dell’arte è vedere ogni cosa dal versante che dà sull’eternità: Quest’uomo [=Spinoza], facendo uso della chiarezza geometrica, ci dice che ogni cosa, se sappiamo orientarla verso l’eternità, può servirci da formula per esprimere il resto delle cose. Quale stimolo più energico potrà mai ricevere un poeta? L’ufficio dell’artista non è altro che prendere un piccolo frammento della realtà, un paesaggio, una figura, dei suoni, delle parole, e far sì che ci serva a es38

Ivi, pp. 453-454.

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primere il resto del mondo, o almeno certe sue grandi porzioni. Arte è simbolizzazione39.

Nelle Meditaciones del Quijote torna una visione affine, ma riportata sul terreno della filosofia: L’ideale sarebbe fare di ogni cosa il centro dell’universo. E questa è la profondità di una cosa: ciò che contiene come riflesso di tutto il resto, come allusione al resto [...] Non mi è sufficiente avere la materialità di una cosa; ho inoltre bisogno di conoscere il «significato» che possiede, cioè l’ombra mistica che il resto dell’universo versa su di lei. Interroghiamoci sul significato delle cose, ovvero facciamo di ciascuna di loro il centro virtuale del mondo40.

Come si vede, i due brani presentano idee molto simili e testimoniano la lunga e complessa elaborazione teorica che sta dietro le Meditaciones del Quijote, per salvare le cose, non irrazionalmente come fa l’arte, bensì col metodo scientifico e argomentato; partire, come fa l’arte, dalle cose materiali che sono state oggetto di costante attenzione da parte della cultura spagnola, per dar vita a una filosofia che, pur essendo sistematica, non ne perda la concretezza e l’individualità. Una «filosofia spagnola» per così dire, caratterizzata dallo stesso realismo che troviamo nell’estetica e dallo stesso rigore sistematico che le richiede la tradizione occidentale. 3. Il realismo come costruzione

Adán en el Paraíso, pubblicato nel 1910, poco dopo Renan, compie ulteriori passi avanti verso la filosofia delle cose. Ortega prende lo spunto dai quadri di un pittore spagnolo contempora39

40

Ivi, p. 455. ID., Meditaciones del Quijote, cit., p. 351.

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neo, Zuloaga, e vuole chiarire l’origine di alcune emozioni legate a un fatto preciso: la visione dei suoi quadri. Verosimilmente si parla dell’emozione di vedere in un quadro una realtà salvata attraverso la metafora artistica, e ci si chiede: è reale ciò che vi è dipinto? Finora il verosimile non era stato presentato come copia della realtà, ma ci si era concentrati sul suo aspetto di deformazione delle sembianze apparenti. Ora invece Ortega distingue nel quadro due livelli. C’è anzitutto un primo piano costituito da raffigurazioni apparentemente veriste, di tipo fotografico, che copiano le forme reali; poi un secondo piano, in cui le immagini copiate sono organizzate secondo una struttura: Si noti bene: per prima cosa ci ritroviamo con un primo piano di pennellate in cui si trascrivono le cose del mondo esterno: questo piano del quadro non è creazione, è una copia. Dietro di esso intravediamo una sorta di vita rigorosamente interna al quadro: su queste pennellate galleggia quasi un mondo di unità ideali che su di esse poggia e in esse è infuso: questa energia interna al quadro non è tratta da nessuna cosa; nasce nel quadro, vive solo in esso, è il quadro41.

Il primo livello riproduce fotograficamente le cose quali le vediamo. Se si limitasse a questo, il quadro non direbbe nulla di più di ciò che vediamo già nella realtà, e pertanto sarebbe sprovvisto di una sua verità estetica. «Ci sono dunque pittori che dipingono cose e pittori che, servendosi di cose dipinte, creano quadri».42 I veri quadri, la vera arte, non si limitano alla presentazione delle cose, ma creano un’immagine il cui elemento essenziale è la struttura che articola insieme tutti gli elementi dell’opera, costruendo un’unità organica e nuova con tutti i momenti pittorici del quadro:

41

42

ID., Adán en el Paraíso (1910), Oc, I, pp. 473-493, pp. 473-474. Ibidem.

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Ciò che costituisce questo mondo di secondo piano che chiamiamo quadro è qualcosa di puramente virtuale: un quadro si compone di cose; ciò che inoltre vi è in esso, non è più una cosa, è una unità, elemento indiscutibilmente irreale, con cui niente in natura è congruente. La definizione che otteniamo del quadro è forse abbastanza sottile: l’unità tra alcuni pezzi di pittura. I pezzi di pittura, bene o male, potevamo estrarli dalla cosiddetta realtà, copiandola; ma questa unità da dove viene? È un colore, è una linea? Il colore e la linea sono cose; l’unità, no43.

Le cose rette da una struttura: è un’altra idea che tornerà nelle Meditaciones del Quijote, dove svolge un ruolo di primaria importanza. Una struttura, dirà allora Ortega, è come un’entità di secondo grado, che non si presenta immediatamente alla vista: i nostri occhi vedono immediatamente le cose (o piuttosto le nude sensazioni), e solo una ricerca consapevole ci mostra la struttura che le regge. In Adán en el Paraíso Ortega intende in termini di relazione questo carattere per cui ogni singola cosa è una parte dell’universo: a una cosa, dice, è essenziale essere in relazione con le altre. Questo però è un punto che viene rettificato nell’edizione del 1916, che tiene conto delle conquiste teoretiche realizzate con le Meditaciones del Quijote, dove l’esser-parte è inteso in senso ontologico. Non è difficile scoprire l’equivoco nella formulazione di Adán en el Paraíso dove scrive: «Ogni cosa è un pezzo di un’altra più grande, fa riferimento alle altre cose, è ciò che è grazie alle limitazioni e ai confini che esse le impongono»44. Da ciò si deduce, un po’ frettolosamente, che ogni cosa è un complesso di relazioni. Ma la relazione può essere intesa come un mero concetto formulato da noi, ovvero come un nostro modo di mettere in rapporto le cose, il che è inadeguato. Non è che prima esistono le cose e poi esse entrano in relazione tra loro (o le relazioniamo noi concettualmente); piuttosto, esse 43

44

Ibidem. Ibidem.

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sono intrinsecamente e costitutivamente relazionate. Non è in questione l’idea della relazione, ma quella della realtà. Un albero non può consistere in una relazione, ma è una cosa concreta che si relaziona a un’altra. L’albero, senza il terreno, muore, ma non consiste in relazione col terreno. Nelle Meditaciones del Quijote, alla domanda enorme su dove siano i limiti tra le cose, Ortega risponde che li poniamo noi come confini ideali; nella realtà, infatti, c’è un continuum: l’albero comunica col terreno come con l’aria e il sole per il nutrimento, la funzione clorofilliana, ecc. Tornando al quadro si diceva che arte è mettere in relazione le cose dipinte, manifestando così la struttura che le governa e le rende significative. Non si tratta di raffigurare, in chiave neoplatonica, l’aspetto ideale delle cose. L’idea del cavallo è una e una sola, qualunque sia il numero dei cavalli e, soprattutto, chiunque sia il cavallo. Qui, invece, si tratta di prendere una cosa e raffigurarla rendendo palese la sua pienezza di significato. La penetrazione artistica nel mistero radicale, secondo l’estetica spagnola ricostruita da Ortega, ha un carattere di realismo, non di idealismo platonico, anche se è vero che, alla luce di questa impostazione, i termini realismo e idealismo risultano totalmente trasfigurati e rischiano di apparire equivoci; ma questa ambiguità era già stata notata da Baudelaire, parlando della rivoluzione artistica del suo tempo. Dobbiamo separare il concetto di «realismo» dal concetto di «copia fotografica», e questo è uno dei punti principali dell’estetica del modernismo. Scrive Ortega: «Dunque, dipingere bene una cosa non sarà, come supponevamo prima, un lavoro così semplice come copiarla: è necessario accertare in precedenza la formula della sua relazione con le altre, cioè il suo significato, il suo valore»45. Tenendo presenti le nozioni di significato e valore, si capisce perché l’arte era definita in Renan come rappresentazione simbolica: la figura artistica rappresenta il valore, non la cosa pura e semplice, cioè simboleggia la sua unità col contesto, altrimenti inesprimibile. Come 45

Ivi, p. 475.

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valore e come significato, la cosa è dentro un contesto interpretativo della realtà:

La prova che le cose non sono altro che valori, è ovvia; si prenda una cosa qualunque, le si applichino distinti sistemi di valutazione, e si avranno altrettante cose diverse, invece di una sola. Si paragoni ciò che la terra è per un contadino e per un astronomo. [...] Non esiste pertanto quella presunta realtà immutabile e unica con cui comparare i contenuti delle opere d’arte: ci sono tante realtà quanti punti di vista. Il punto di vista crea il panorama. C’è una realtà di tutti i giorni, formata da un sistema di relazioni imprecise, approssimative, vaghe, sufficiente per gli usi del vivere quotidiano. C’è una realtà scientifica costruita attraverso un sistema di relazioni esatte, imposto dalla necessità di esattezza46.

È ovvio che esattezza e inesattezza caratterizzano l’idea della realtà, non la realtà come tale. E l’errore, che Ortega corregge nell’edizione del 1916 del saggio, è appunto la mancata distinzione tra realtà e rappresentazione, perciò definisce irritante la presenza di elementi della concezione kantiana e leibniziana dell’essere nel suo pensiero, contraddittori con la sua stessa nozione di realtà radicale, che non è stata mai accantonata: «Alla fin fine, vedere e toccare le cose non sono altro che modi di pensarle»47. In Adán en el Paraíso, sempre muovendosi sul filo della riflessione estetica, Ortega scrive che ogni arte è necessaria: «Consiste nell’esprimere per suo tramite ciò che l’umanità non ha mai potuto né potrà mai esprimere in altro modo»48. Pertanto si può definire la rappresentazione artistica come espressione della realtà (o di una parte di essa) nel suo significato. La stessa cosa vale anche per le altre discipline umane: scienza, filosofia, morale, religione, esprimono ciascuna ciò che altrimenti non sarebbe Ibidem. Ibidem. 48 Ivi, p. 476. 46 47

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esprimibile. Nell’uomo, sottolinea Ortega, c’è una «necessità radicale di espressione»49, che a sua volta dipende da un problema radicale, un problema tale che tutto quanto l’uomo fa è in funzione della sua soluzione: il problema della vita. «La scienza è la soluzione del primo stadio del problema; la morale è la soluzione del secondo. L’arte è il tentativo di risolvere l’ultimo angolo del problema»50. Di contro all’astrazione della scienza, l’arte rappresenta un metodo di concretizzazione e di individuazione. La biologia e l’antropologia, scrive Ortega con un esempio efficace, non ci dicono chi fu Napoleone, e noi possiamo scoprirlo solo grazie all’opera di un biografo: la biografia è però un genere poetico. Analogamente, la peculiarità delle pietre del Guadarrama non è rivelata dalla mineralogia, ma dai quadri di un pittore che le raffiguri. D’altro canto la scienza è limitata anche sul versante dell’astrazione: le relazioni, in cui si trova inserita una cosa qualunque, sono infinite e non si può trovare una formula che le comprenda tutte. Anche in questo caso l’arte riesce a superare l’ostacolo, non certo esprimendo tutte le infinite relazioni, bensì creando una totalità fittizia, una «quasi-totalità»51. È abituale notare che un’opera d’arte sembra aprire infinite prospettive sul problema della vita: il Don chisciotte è un esempio di questa inesauribile capacità di stimolo. Sembra che il romanzo mostri un ordine talmente profondo da presupporre un’intuizione superiore alle capacità umane. L’artista ha creato una simulazione della totalità, ovvero ha raffigurato la forma della totalità. Certamente l’opera d’arte non contiene la materialità della vita, dato che il dipinto di una pietra non è questa pietra; ma, dice Ortega, essa presenta la forma, cioè una figura in cui vediamo ritratta la vita. A parte le Meditaciones del Quijote, l’integrazione tra realismo estetico e realismo filosofico è pienamente realizzata in un Ivi, p. 478. Ivi, p. 479. 51 Ivi, p. 484. 49 50

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Le radici moderniste delle Meditaciones del Quijote

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saggio del 1914, Ensayo de estética a manera de prólogo52, la cui analisi non rientra nei limiti del presente studio. Mi limito a un breve cenno, sottolineando che nel testo è presente un’interpretazione in chiave realista della fenomenologia, sulla scorta della nozione di «io operante» (yo ejecutivo), che a sua volta permette di concepire la dimensione interna, operante, di ogni singola realtà:

Solo con una cosa abbiamo una relazione intima: questa cosa è il nostro individuo, la nostra vita, ma questa intimità nostra, nel convertirsi in immagine, cessa di essere intimità. [...] Ma la vera intimità, che una cosa è in quanto si sta effettuando (en cuanto ejecutándose), sta a egual distanza dall’immagine dell’esterno e dall’immagine dell’interno. L’intimità non può essere oggetto nostro, né della scienza, né nel pensare pratico, né nel pensare indeliberato. E tuttavia è il vero essere di ogni cosa, l’unico sufficiente e la cui contemplazione ci soddisferebbe in modo pieno53.

Orbene, la teoria del verosimile si completa nel senso che, attraverso la metafora, di cui Ortega formula nel saggio una teoria che rasenta la perfezione dal punto di vista dell’estetica modernista, l’arte coglie proprio questo momento intimo del reale, come se lo vedesse dal suo interno. Ne è un esempio la statua del Pensatore di Rodin. Se la osserviamo, l’oggetto della nostra attenzione non è certo il blocco di marmo, ma neppure lo è la mera forma esteriore, fisica, che il marmo ha assunto a seguito dell’opera dello scultore. Infatti la forma della statua fa riferimento a qualcosa che raffigura ed esprime; in questo caso esprime un evento intimo come il pensare o meditare. Questa statua è un oggetto nuovo inserito nel mondo; la sua allusione al meditare è tale che lo «troviamo subitamente davanti a noi con una presenza talmente piena che potremmo descriverla solo con queste parole: assoluta presenza»54. Vale a dire che non è stato raffiguID., Ensayo de estética a manera de prólogo (1914), OC, VI, pp. 247-264. Ibidem. 54 Ivi, p. 255. 52 53

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Gianni Ferracuti

rato un «egli pensa», ma un «io penso»: «Nel Pensatore abbiamo l’atto stesso del pensare, mentre viene effettuato. Presenziamo a ciò che altrimenti non può mai esserci presente»55. In tal modo, l’arte forse non raggiunge il segreto delle cose, ma suscita in noi l’impressione che l’intimità delle cose sia diventata patente. Ci sembra di essere davanti alle cose stesse nella loro intimità. La costruzione dell’opera d’arte come oggetto estetico resta arbitraria, non scientifica, ma questo riguarda ciò che l’arte non è: non è filosofia. Positivamente, però, crea un oggetto trasparente, produce una forma dell’intimità, servendosi della metafora: l’arte è una conoscenza metaforica che parte da un oggetto reale e lo altera ottenendo come risultato un’immagine che ci sembra rappresentare l’essenza stessa delle cose. E, relativamente all’oggetto dell’opera d’arte, forse è qualcosa di più di un sembrare.

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Ibidem.

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José Lasaga Medina

Le Meditaciones del Quijote nella genesi della “ragione vitale”

1. Che cosa sono e come sono state concepite le Meditaciones del Quijote

L’oggetto intellettuale delle Meditaciones del Quijote, il libro che Ortega pubblica nell’estate del 1914, poco prima dello scoppio della Grande Guerra, è molto complesso e obbedisce a differenti impulsi creativi. Affermare che le MQ1 siano una mera raccolta di saggi è semplicemente falso; affermare che sia la prima sintesi della filosofia di Ortega può essere equivoco. In realtà, questo testo contiene la proposta e il progetto di una filosofia che Ortega sta sviluppando. Da qui la prudenza – che non è un gesto di cortesia, ma una necessità – di presentare le sue “Meditazioni”, non come scienza, ma come saggio2. Va ricordato che Ortega, fino a poco tempo prima della stesura delle MQ (siamo nei primi mesi del 1914), vive immerso nei convincimenti kantiani che ha assimilato durante le prime due 1 D’ora in avanti, il titolo Meditaciones del Quijote sarà reso con l’espressione contratta MQ, così come, del resto, è stato fatto nel testo originale. Inoltre, tutte le citazioni tratte dai testi di Ortega, salvo differente indicazione, sono tratte da Obras completas (Taurus, Madrid, 2004-2010). Il numero romano indica il volume, mentre quello arabo la pagina. Per quanto riguarda, invece, la versione italiana delle citazioni orteghiane, tranne dove è diversamente riportato, è stata utilizzata la seguente traduzione di B. Arpaia, Meditazioni del Chisciotte, Guida, Napoli, 1986 [N.d.T]. 2 MQ, I, 753; tr. it. p. 39: «Queste Meditazioni, prive di erudizione […] sono mosse da desideri filosofici […]. Non sono scritti di filosofia, perché la filosofia è scienza. Sono semplicemente saggi. Ed il saggio è la scienza, meno la prova esplicita».

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José Lasaga Medina

visite in Germania (1905 e 1906-1907). Convincimenti che vanno via via attenuandosi, soprattutto dopo che è entrato in contatto, nella sua terza visita (1911), con la fenomenologia di Husserl e di Scheler3. Questo nuovo modo di rapportarsi alle cose, di aspirare a non abbandonare la realtà concreta nel momento stesso in cui la si conosce, così come fa la scienza o come sostiene il positivismo, è quello che Ortega, anche se in modo implicito, cerca di fare già da qualche anno in articoli come Renan (1909) o Adán en el paraíso (1910)4. Questa novità metodologica di andare fenomenologicamente “alle cose stesse”, è evidente nella “Meditación Preliminar”, tecnicamente la più filosofica delle tre che compongono l’opera; tuttavia, questo saggio né raggiunge l’essenza delle MQ, né costituisce la ragione sufficiente della scrittura dell’intera opera. La parte più viva del lavoro, e la più originale, è quella in cui Ortega nel prologo “Lector” presenta tre concetti – “circostanza”, “salvezza” e “prospettiva” – il cui intreccio, oggi lo sappiamo, costituisce il centro della filosofia orteghiana nella misura in cui sono predicati dell’esistenza umana in enunciati come il seguente: Dobbiamo cercare per la nostra circostanza il luogo appropriato nell’immensa prospettiva del mondo, scavando esattamente in ciò che essa ha di limitato, di peculiare. Non bisogna restare perpetuamente in estasi di fronte ai valori ieratici, ma conquistare per la nostra vita il posto che le spetta in mezzo ad essi. Insomma:

3 Sulla recezione della fenomenologia husserliana nelle Meditaciones del Quijote possono essere oramai considerati dei classici gli studi di PH. SILVER, Fenomenología y razón vital. Génesis de Meditaciones del Quijote (Alianza, Madrid, 1978), in cui è sottolineata anche l’influenza di Scheler; P. CEREZO, La voluntad de aventura, Ariel, Barcelona, 1984 e J. SAN MARTÍN, La fenomenología de Ortega y Gasset, Biblioteca Nueva-Fundación José Ortega y Gasset, Madrid, 2012. 4 II, 64 e 65; tr. it. “Adamo nel paradiso”, in Meditazioni del Chisciotte, cit., p. 214: «Quando Adamo apparve in Paradiso, come un nuovo albero, cominciò ad esistere ciò che chiamiamo vita. Adamo fu il primo essere che, vivendo, si sentì vivere. Per Adamo la vita esiste come problema».

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Le Meditaciones del Quijote nella genesi della “ragione vitale”

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il riassorbimento della circostanza è il concreto destino dell’uomo5.

“Destino concreto”, “limitazione” e rifiuto dei valori e degli ideali “ieratici”, ossia vacui, falsamente solenni, utopici. Siamo probabilmente davanti all’ispirazione più profonda di quell’ethos filosofico che Ortega cerca per le sue meditazioni. Il prologo citato fornisce le chiavi programmatiche e prospettiche della sua filosofia e, allo stesso tempo, giustifica il senso dell’opera come un ritorno a Cervantes: «è quanto meno dubbia l’esistenza di altri libri spagnoli veramente profondi. Ragione di più per concentrare sul Chisciotte la domanda magna: Dio mio, cos’è la Spagna?»6, una Spagna pensata qui come «promontorio spirituale dell’Europa»7, volendo forse suggerire che il destino del suo paese di nascita è inseparabile da quello del Vecchio Continente, la cui cultura ha raggiunto un “livello” che può essere chiamato “modernità”. Del resto, va ricordato che fin dalla sua prima pubblicazione, il messaggio di Ortega è rivolto ai suoi contemporanei e aspira a una europeizzazione della Spagna, proprio perché l’Europa ha raggiunto un livello storico che sembra irrinunciabile. Sebbene ci siano segnali evidenti che la modernità europea sia oramai esausta, se non addirittura malata8. 756; tr. it. p. 43. Ivi, p. 792; tr. it. p. 86. 7 Ibidem. [Promontorio espiritual de Europa]. 8 La vera novità delle MQ consiste nel trasformare la domanda sulla Spagna in una domanda filosofica e, dunque, non solo di carattere storico o politico. Ed è filosofica perché non si rivolge a una presupposta essenza eterna, bensì alla Spagna e alla sua circostanza storicamente intesa. Del resto, ciò che pone il problema da cui scaturisce questa domanda rinvia quanto meno ad altrettanti temi sull’identità del moderno e sulla carenza spagnola di tale identità. La natura di questa carenza ha origine nella filosofia e nella scienza che si è generata durante il processo di maturazione spagnola: «Europa = scienza; tutto il resto è comune al resto del pianeta» (I, 186). Nel testo, da cui è tratta questa 5

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MQ, I,

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Se da un lato, l’oggetto delle MQ è riflettere sulla circostanza spagnola al fine di “salvarla”, il contesto di tale salvezza non può essere altro che il modo d’intendere la cultura. La Spagna della Restaurazione ha portato avanti un’erudizione senz’anima, il cui limite era l’incapacità di andare oltre la superficie delle cose: «applaudivano la mediocrità perché non ebbero l’esperienza della profondità»9. La Grecia e Roma, il concetto e la sensibilità, la cultura germanica e quella mediterranea, Goethe come la controfigura – mai menzionata in questi termini ma la cui presenza aleggia costantemente – di Unamuno e Cervantes. Naturalmente, il nostro passato recente non può essere di nessun aiuto e d’altronde la soluzione proposta da Ortega non è di assimilare, bensì di integrare queste differenze in una nuova proposta di “giurisdizione” per le relazioni tra la vita e la cultura. Ortega riesce in tal modo a vincolare due delle sue principali preoccupazioni: in primo luogo, ripensare, secondo la circostanza più attuale, il tema, già vecchio, della “europeizzazione della Spagna”, vale a dire affrontare quel deficit di modernità di cui soffre la Spagna, un deficit nato durante il Secolo XIX, un periodo disastroso, scandito da ogni tipo di guerra e la cui educazione continua ad essere nelle mani della Chiesa. In secondo luogo, cercare una nuova fonte di ispirazione per la cultura europea, che è caduta anch’essa in una crisi profonda con la fine dell’ottimismo del Secolo XIX. Come vedremo in seguito, la frequentazione di Ortega con i suoi maestri della generazione del ’9810, la prima generazione spagnola la cui sensibilità artistica è già pienamente europea, lo aiuta a capire che sotto la superficie, agghindata dai successi economici, tecnici e del benessere sociale, si nasconde un disagio,

citazione, un articolo apparso in Imparcial nel 1908, il motto trascritto a fronte è la famosa affermazione socratica: «Una vita senza ricerca non è degna per l’uomo di essere vissuta». 9 MQ, I, 772; tr. it. p. 62. 10 Per il rapporto di Ortega con i membri della generazione precedente, si rinvia a V. CACHO VIU, Repensar el noventa y ocho, Biblioteca Nueva, Madrid, 1997.

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Le Meditaciones del Quijote nella genesi della “ragione vitale”

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una furia, un disorientamento che Nietzsche sintetizzò in una sola parola: nichilismo. Ed è per tale ragione che Ortega dedica una serie di meditazioni a Baroja e ad Azorín, oltre alle due dedicate a Cervantes11. La seconda questione alla quale prima si accennava, ossia quella relativa al superamento della crisi di fine secolo, nelle MQ è così intrecciata con quella della “salvezza” della Spagna che quasi non si riesce a distinguerla. Che ruolo ha la “Meditación Primera” rispetto al resto dell’opera? Perché un «Breve tratado de la novela» nel contesto della dottrina della salvezza della circostanza e della tesi che questa si possa risolvere mediante una ridefinizione del rapporto tra la vita e la cultura, il che implica a sua volta una nuova dottrina sulla cultura? La risposta è: perché la teoria del romanzo – ispirata al romanzo che ne ha inventato il genere per la modernità, vale a dire, El ingenioso hidalgo… – è qualcosa di diverso: una nuova concezione dell’ideale che “fonda” proprio quel rapporto vita-cultura, sulla base però di alcuni presupposti che non sono più quelli della ragione pura o del positivismo europeo12. L’elenco delle meditazioni che è apparso sulla copertina della prima edizione delle MQ è il seguente: I. Meditaciones del Quijote. Meditación preliminar; I. Meditación primera (Breve tratado de la novela); 2. Cómo Miguel de Cervantes solía ver el mundo; 3. El alcionismo de Cervantes; II. Azorín: Primores de lo vulgar; III. Pío Baroja: Anatomía de un alma dispersa; IV. La estética de MYO CID; V. Ensayo sobre la limitación; VI. Nuevas vidas paralelas: Goethe y Lope de Vega; VII. Meditación de las danzarinas; VIII. Las postrimerías; IX. El pensador de Illescas; X. Paquiro o de las corridas de toros (II, 842). 12 In una riflessione sulle condizioni in cui nacque la filosofia spagnola del Novecento, García Morente sostiene: «La condizione di carattere generale fu il declino a livello mondiale della filosofia idealista, una decadenza che ebbe il suo suggello durante l’impero del positivismo. Nel 1860 la decadenza della filosofia era una convinzione diffusa; l’idealismo, il grande idealismo tedesco dei primi anni del Secolo XIX – Kant, Fichte, Hegel, Schopenhauer –, aveva dato tutto quello che poteva dare; la filosofia decadde; l’espressione di questa decadenza è evidente nel positivismo che altro non è che la negazione della filosofia». M. GARCÍA MORENTE, “La filosofía en España” (1934), in Obras completas, I, vol. II, Anthropos, Barcelona, 1996, p. 415. 11

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La base di questa postulata connessione tra la crisi di fine secolo e le riflessioni di Ortega sul Quijote ha la sua ragion d’essere nel rapporto tra Ortega e Unamuno e nel dialogo, all’inizio esplicito e successivamente sotterraneo, che essi mantengono da anni. Il dialogo diventa scontro nell’epilogo de El sentimiento trágico de la vida, che sembra scritto espressamente contro l’impresa di modernizzazione nella quale Ortega, che ivi appare ridicolizzato, ripone tutte le speranze spagnole: E voi, baccellieri Carrasco del rigenerazionismo europeizzante, giovani che lavorate all’europea, con metodo e critica... scientifici, voi che create ricchezza, create la patria, create l’arte, create la scienza, create l’etica, create o piuttosto traducete Kultura, voi così uccidete la vita e la morte13.

L’accusa, appena velata, che i giovani si dedicano a fare (traducendo o plagiando) scienza della scienza tedesca, è probabile che abbia ferito molto Ortega. Il quale, non è azzardato supporre, cambiò i suoi piani per il primo libro al quale stava lavorando, e che doveva essere all’altezza delle aspettative che il giovane giornalista aveva risvegliato dopo le sue prime collaborazioni con il giornale di famiglia El Imparcial. Le modifiche consisterono essenzialmente nel posporre due corposi saggi che 13 M. DE UNAMUNO, Del sentimiento trágico de la vida, Ensayos II, Aguilar, Madrid, 1964, p. 1022; tr. it. Del sentimento tragico della vita negli uomini e nei popoli, a cura di M. Donati, SE, Milano, 2003, pp. 284-285. Il baccelliere Carrasco era per Unamuno l’archetipo degli intellettuali “moderni” che ignoravano il problema dello spirito, il cui rappresentante più grande era, agli occhi di Unamuno, Ortega. «Questi intellettuali ti ingannano, non credere a ciò che ti dicono […] allora Sancio […] lasciando il baccelliere Carrasco con la parola in bocca si metterà di nuovo a seguire il suo padrone […] Sancio spera in Don Chisciotte, anche senza rendersene conto; i naturalisti sperano negli spiritualisti infastiditi dai freddi e noti sermoni dell’intelletto rivestito di pietà» (Ensayos I, Aguilar, Madrid, 1964, p. 643; tr. it. “Naturalisti e spiritualisti”, in M. de Unamuno, Della dignità umana ed altri saggi, introduzione di A. Banfi, tr. it. di O. Abate, Bompiani, Milano, 1946, p. 188).

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aveva già sviluppato su Baroja e Azorín14 per concentrare il libro sul binomio Cervantes-Chisciotte. Accettava così il campo di battaglia scelto da Unamuno, il simbolo spagnolo don Chisciotte, ma con l’intenzione di combatterne l’interpretazione, come del resto appare già evidente nel prologo dove precisa che ad interessarlo è il chisciottismo del libro, non quello del personaggio. Nelle Meditazioni del Chisciotte cerco di studiare il chisciottismo. In questa parola, però, si cela un equivoco. Il mio chisciottismo non ha nulla a che vedere con la mercanzia normalmente in vendita sotto questo nome. Don Chisciotte può significare due cose molto diverse: Don Chisciotte è un libro e Don Chisciotte è un personaggio di questo libro. Generalmente, ciò che, nel bene e nel male, s’intende per «chisciottismo» è il chisciottismo del personaggio. Questi saggi, invece, indagano sul chisciottismo del libro15.

Ma se Ortega si disturba a polemizzare con il suo maestro, non è per una questione narcisistica, bensì perché è in gioco “la salvezza” della Spagna e Unamuno si è apertamente dichiarato “antimoderno”. E non un anti-modernismo sterile o dogmatico, bensì ben strutturato da un punto di vista teorico: la metafisica di Unamuno si muove nell’orizzonte della crisi di fine secolo, che è la situazione che Ortega si propone di superare. Cercando di individuare la profondità del romanzo di Cervantes e di dargli un’interpretazione, egli trova il centro che conferisce unità alle Ideas sobre Pío Baroja apparve nel primo volume de El Espectador (1916) e Azorín o primores de lo vulgar nel numero seguente (1917). 15 MQ, I, 760; tr. it. p. 48. Che l’intenzione che soggiace a queste parole non sia solo prendere le distanze da Unamuno ma rifiutare la sua lettura, si conferma quando, poche righe dopo quelle citate, sottolinea il tipo di errore nel quale incorre chi separa il personaggio dal suo romanzo, «seguendo la moda più recente, ci invitano a un’esistenza assurda, piena di gesti affannati» (ibidem). Nessuno aveva pubblicato un’interpretazione del Chisciotte dopo che era apparso, alcuni mesi prima, nel libro, El sentimiento trágico de la vida. Era stato pubblicato in La Lectura nel 1912. 14

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MQ:

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Cervantes scopre nel suo romanzo la struttura dell’ideale moderno, vale a dire, la propria forma – critica e ironica – di idealizzare, distinta da quella ingenua prodotta dal mondo classico. L’era moderna nasce dalla crisi del Rinascimento, per merito di tre contributi: la soggettività cartesiana, la scienza galileiana e il romanzo di Cervantes. La coesione interna dei primi due contributi ha impedito che il terzo potesse allo stesso modo determinare l’orientamento della ragione moderna. L’eredità di Cervantes, tuttavia, non si è persa16: alimentò anzi la grande tradizione del romanzo moderno che, come ha notato Ortega, fu di colpo avviata con il Chisciotte. E più che una questione di ispirazione, si tratta dell’esigenza di rappresentare la vita reale in quanto reale, ma, allo stesso tempo, di estrarne quella componente di idealità che il lettore di romanzi si aspetta. Cervantes aveva scoperto una via di mezzo tra la pura idealità del platonismo estremo, che crede esistano gli eroi, le fate, le principesse, il bene e la giustizia assoluti, e la pura materialità di un mondo ridotto all’ordine dei bisogni economico-biologici. C’è un capitolo in cui Cervantes racconta l’episodio del teatrino di mastro Pedro. Il Chisciotte assiste a uno spettacolo di marionette dove si rappresenta una scena cavalleresca, la liberazione di Melisendra da parte di suo marito don Gaiferos, cavaliere di Carlo Magno, catturata dal “moro di Saragozza”; quando lo spettacolo finisce don Chisciotte crede che lì ci siano la dama, il cavaliere e i nemici che minacciano di ostacolare la liberazione. Il Chisciotte, guidato dai suoi alti ideali, interviene affinché la fuga abbia successo. Sul piano del reale, don Chisciotte distrugge il piccolo teatro e le silenziose marionette. Unamuno aveva dato ragione a don Chisciotte: occorre salvare Melisendra dai suoi in16 MQ, I, 795; tr. it. p. 91: «Nel far scivolare lo sguardo per le vecchie pagine, s’incontra un tono di modernità che ci avvicina davvero al venerabile libro; lo sentiamo così prossimo alla nostra più profonda sensibilità quanto possono esserlo Balzac, Dickens, Flaubert, Dostoievskij». Questo è ciò che Ortega vuol porre in evidenzia ai suoi lettori del 1914.

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seguitori17. Ortega presenta invece ai suoi lettori la scena dal punto di vista di Cervantes: ci sono due mondi, quello della permanenza nella locanda, dove gli uomini, stanchi delle fatiche del giorno trascorrono il tempo a guardare l’umile teatrino; e quello del racconto del cavaliere, che parte per salvare la sua donna. Entrambi sono reali, ma con diverse forme di “realtà”: da un lato la materialità degli uomini e della locanda, dall’altro la virtualità dei personaggi e del loro dramma. Ebbene, la cultura appartiene al piano del virtuale. Don Chisciotte li confonde. E con lo stesso gesto distrugge il mondo virtuale e fallisce in quello materiale18. Cervantes collega entrambi quando stabilisce una ironica gerarchia estetica tra ciò che è dato come apparenza di realtà – le avventure del Chisciotte – e ciò che è dato come allucinazione – ciò che il cavaliere crede che sia reale – dal punto di vista del libro. Così gli ideali della cultura moderna (la verità assoluta, l’opera d’arte perfetta, il bene e la giustizia): «Cervantes riconosce che 17 «“Luce, luce, più luce!”, si dice abbia esclamato Goethe morente. No, calore, calore, più calore, poiché è di freddo che si muore, non di oscurità! La notte non uccide, è il gelo a farlo. Ed è necessario liberare la principessa incantata e distruggere il teatrino di Mastro Pietro» (El sentimiento trágico de la vida, cit., p. 1019; tr. it. p. 282). È difficile trovare una citazione che sia in grado di rivelare con maggiore precisione quel confronto che ricorre nelle MQ attraverso un dialogo silenzioso con El sentimiento trágico de la vida. In questa citazione è inoltre possibile individuare il motivo dell’assoluta identificazione di Unamuno con la volontà di don Chisciotte e l’ironia che Ortega gli dedica quando nella «Meditación Preliminar» ricorre con tono elogiativo alla stessa citazione di Goethe per trasformarla in un simbolo della sua dottrina della conoscenza: «La luce come imperativo» (I, 787-789). 18 La cultura intesa come “realtà virtuale” è un altro, notevole, risultato teorico che Ortega ricava dalla lettura di Cervantes. In uno dei suoi primi saggi, Estética en el tranvía, contenuto in Espectador I, è presente un’efficace descrizione di questa dimensione “virtuale” della cultura (cfr. II, 176 e ss). Un’ulteriore elaborazione di questo concetto di “virtualità” la si trova anche in Ensayo de estética a manera de prólogo (1914). Javier San Martín nel suo già citato libro, Fenomenología de Ortega y Gasset, ha soffermato la sua attenzione su questo importante concetto. In particolare, si veda la parte intitolata «L’esecutivo e il virtuale» (cfr. op. cit., pp. 179 e ss).

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la cultura è tutto questo, ma, ahinoi, è una finzione, racchiusa dalla barbara, brutale, muta, insignificante realtà delle cose»19. Se questo dualismo metafisico è la ferma posizione che Ortega assume nelle MQ, se ne può dedurre che la sua teoria della cultura si fondi sulla necessità di evitare allo stesso modo due errori: cadere nell’allucinazione in virtù della quale gli ideali possono essere reali e si realizzeranno in futuro (tema, questo, che Ortega svilupperà in seguito con la critica all’utopismo); oppure cadere nella negazione di quell’idealità che la cultura apporta alla vita, vale a dire la riduzione della vita alla sua dimensione materiale. Quest’ultimo errore preoccupa Ortega tanto quanto il primo. Per questa ragione termina la sua riflessione sul romanzo come genere della modernità affermando, ironicamente, che Bouvard e Pécuchet, due personaggi della narrativa, seppelliscono la poesia in onore del determinismo20. La cultura degli ideali è stata sconfitta, dimenticata, negata dalla scienza e dall’utilità, e ha cercato rifugio nell’arte “nuova” e nel radicalismo politico. Nell’Europa a cavallo tra Ottocento e Novecento, d’altronde, è questo clima di praticismo e di mancanza di ideali che prevale. Questa situazione portò Unamuno a scrivere El sentimiento trágico de la vida, una sorta di “causa generale” contro la modernità, che si era consegnata a una ragione geometrica che dimentica e distrugge l’uomo in carne e ossa. Ortega, ovviamente, era consapevole che Unamuno – e gli altri esponenti della generazione del ’98 – avevano ragione nel manifestare un sentimento di esasperazione e sfiducia nei confronti dei valori e degli ideali che si sono oggettivati nella visione riduzionista del positivismo. Tuttavia, Ortega non li seguì sulla strada del pessimismo della volontà (Baroja) o della disperazione tragica nei confronti del non senso della morte e del silenzio della religione (Unamuno). 814; tr. it. p. 115. «Una notte al Père Lachaise, Bouvard e Pécuchet seppelliscono la poesia – in onore della verosimiglianza e del determinismo» (MQ, I, 825; tr. it. p. 129). Sono le parole finali delle MQ. 19

20

MQ, I,

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Ciò che Ortega mette in gioco, attraverso la sua lettura di Cervantes, è una nuova concezione dell’ideale che sia in grado di favorire la comprensione della vita fondata su una ragione che non può essere quella postulata dalla scienza e che, da Darwin in avanti, minaccia di assorbire il mondo della vita umana, o, per dirla con una celebre espressione kantiana, il regno della libertà. Oppure considerare l’ideale qualcosa di al di fuori della ragione, come deciso dalla filosofia di fine secolo che considera la vita l’opposto della ragione e vicina all’istinto o alla volontà. Ortega nelle MQ vuole ampliare i registri della ragione. Di Unamuno non lo preoccupano le sue esagerazioni o le sue assurdità, bensì la parte di ragione che ha: la difficoltà in cui il razionalismo ha messo la vita, incapace di render conto di ciò che è più vicino e più urgente per l’uomo; la sua lettura di Kierkegaard, affermata con forza ne El sentimiento trágico de la vida: l’esistenza umana è irriducibile alla ragione21. La vita si alimenta di fede; ma la ragione uccide la fede. Questa è la parola finale di Unamuno sull’argomento: negare una possibile via intermedia, capace di mettere in comunicazione la ragione con la vita; e a partire da questa negazione, una negazione della negazione, Ortega sviluppa la sua ricerca fino al punto di poter definire il tema principale delle MQ come una proposta di un nuovo modello di razionalismo in grado di fare una cultura che serva alla vita senza creare danni, si badi, una cultura e non una religione. Di fronte alla problematicità della vita, la cultura – nella misura in cui è viva e autentica – rappresenta il tesoro dei principi. Si potrà discutere su quale siano i principi sufficienti a risolvere quel problema; ma quali che siano, dovranno essere principi. E per assurgere a principio, qualsiasi cosa deve cominciare col non essere a sua volta un problema. Questa è la difficoltà che incontra la religione e che l’ha sempre mantenuta in polemica con tutte

Si veda J. MARÍAS, Miguel de Unamuno, “Razón y vida”, Espasa, Madrid, 1997, pp. 54 e ss. 21

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le altre forme della cultura umana, prima fra tutte con la ragione22.

Eppure, per Ortega, il problema non è solo connesso alla questione della ragione. Ortega comprende che il fenomeno “vita” deve essere pensato evitando gli estremi nei quali sono incorsi da un lato gli “spirituali” come Unamuno: la vita umana è lotta, domanda, aspirazione di immortalità; e dall’altro, i “materiali”: la vita è volontà o istinto (Schopenhauer) o un fenomeno che emerge dalla materia ed è soggetta alle sue leggi (Darwin). A Ortega manca in questa riflessione la conoscenza del pensiero di Dilthey, il quale gli avrebbe aperto la strada a una interpretazione di tipo storicistico della cultura, facendogli risparmiare il passo nietzschiano che fa ne El tema de nuestro tiempo23, al fine di dare maggiore consistenza filosofica alle intuizioni delle MQ, vale a dire che la ragione consiste nell’essere una funzione della vita; la cultura quindi deve servire alla vita e non opporsi a essa. 2. La spinta creativa del triennio 1914-1916 nell’opera di Ortega

Alla pubblicazione delle MQ seguono immediatamente due avvenimenti, uno di carattere storico e l’altro biografico, che avranno effetti teorici, e conseguenze per il loro futuro, piuttosto rilevanti. Il primo è lo scoppio della Grande Guerra appena una settimana dopo la pubblicazione del libro. L’altro è lo scontro di Ortega con i suoi amici del Partido Reformista, che lo porterà ad abbandonare la militanza nel partito e a rinnegare la politica, determinandone così un primo ritiro. Inoltre, la Liga de Acción Política Española, fondata nel 1913 come strumento di trasformazione della Spagna, MQ, I, 789; tr. it. p. 83. J. ORTEGA Y GASSET, El tema de nuestro tiempo, tr. it. Il tema del nostro tempo, a cura di C. Rocco e A. Lozano Maniero, Sugarco, Milano, 1985 e ripubblicato dalla stessa casa editrice nel 1994. 22 23

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si era dissolta come nebbia in una mattina d’estate. Abbandona anche la direzione della rivista España, che aveva contribuito a creare come organo degli intellettuali “rigenerazionisti”, ossia di quelli che oggi chiamiamo generazione del ’14, il cui leader naturale era stato proprio l’Ortega che propose loro nella conferenza Vieja y nueva política (marzo 1914) un piano di intervento nella vita pubblica. La lunga citazione ripresa proprio da Vieja y nueva política che Ortega inserisce nella “Meditazione preliminare” e più precisamente nel paragrafo 5 intitolato “Restaurazione e erudizione”, destinato a segnare le distanze dal modo di intendere e praticare la cultura della generazione dei Galdós, Valera, Menéndez Pelayo, rivela il proposito che le MQ possano servire come una filosofia che fondi e spieghi gli sforzi dei riformatori espressi in quell’atto pubblico: un’articolazione tra ragione teoretica e pratica. Come è noto, si tratta di un postulato centrale dell’Illuminismo che Ortega ha ereditato dai suoi maestri neo-kantiani e che tuttavia è nell’aria che si respira in Europa, almeno a partire dal 1848: unità tra teoria e prassi. Le idee sono in grado di cambiare il mondo. La ragione come strumento di emancipazione dell’umanità. Se è vero che Ortega, come abbiamo visto, aveva già cominciato a sospettare della ragione idealizzante, sarà con lo scoppio della guerra europea che inizierà a mettere in discussione la presunta armonia tra ragione e realtà. Si può dire che nel 1915 riconosce il fallimento del suo progetto di rigenerazione della Spagna basato su una filosofia considerata come «pedagogia politica». Questa potrebbe essere la ragione ultima per la quale il progetto di scrivere il seguito delle meditazioni già pubblicate, e annunciate nella quarta di copertina del libro, fu abbandonato. Tuttavia, non c’è propriamente una rottura nei contenuti, bensì nella forma di presentarli. Non è lo stesso offrire al lettore una meditazione unta con lo spirito di «salvezza» rispetto a una confessione scritta «a voce bassa»24. Infatti, troviamo pubblicate alcune delle medi24

II, 161. Questo è lo spirito che sostiene Ortega per il suo spettatore. Nella

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tazioni già scritte, come quelle dedicate a Baroja e Azorín, nei primi numeri di El Espectador, la nuova pubblicazione che Ortega dà alle stampe nel 1916 e che si trasforma in un ponte che collega l’opera inaugurale, quali sono le MQ, con la produzione degli anni Venti, il cui testo più importante sarà El tema de nuestro tiempo25. La filosofia si va liberando della sua funzione pedagogica. Non è che Ortega rinunci a concepire il compito del pensiero come “salvezza della circostanza”, bensì questa funzione viene ora concepita esclusivamente come ricerca della verità senza pregiudicare la sua utilità pratica. La filosofia, se vuole essere autenticamente tale, deve essere svincolata dalla politica. Il testo che apre il primo numero di Espectador I, all’interno di una sezione che porta il significativo titolo Confesiones del Espectador, è intitolato Verdad y perspectiva. Qui si legge: «Da mezzo secolo, in Spagna e fuori dalla Spagna, la politica – cioè la subordinazione della teoria all’utilità – ha pervaso completamente gli spiriti». La conseguenza di questa situazione, alla quale già aveva fatto riferimento nelle MQ, è che «la guerra ha sorpreso l’europeo senza nozioni chiare sulle questioni ultime, quelle che soltanto un pensiero puro e inutile può chiarire». E, ultimo ma non meno importante, afferma che «l’impero della politica è, quindi, l’impero della bugia». Se intendiamo che questa è la caratteristica di tutta la politica, anche di quella “nuova”, Ortega ha appena compiuto la rottura con l’ideale dell’illuminismo. E anticipando uno dei temi che avrebbe riscosso successo alcuni decenni dopo, sottolinea il rifiuto verso una ragione esclusivamente strumentale o di mezzi. «Il secolo scorso si è impegnato esclusivamente nell’accumulare strumenti: è stata una nota introduttiva afferma «è un’opera intima, per lettori intimi che non aspira né desidera il “gran pubblico”» (II, 155). 25 L’altro importante libro del decennio è España invertebrada (1921). S’avverta che ora appaiono separatamente gli sforzi pratici della rigenerazione spagnola e quelli teorici, la relazione vita/ragione, mentre nelle MQ, invece, si presentavano uniti.

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cultura di mezzi» (II, 159)26. Al contrario, egli crede che è nella pura teoria che l’uomo trova l’orientamento per i suoi problemi. E questo è il risultato della posizione teorica sostenuta nelle MQ, vale a dire il prospettivismo. «Il punto di vista individuale mi sembra l’unico punto di vista dal quale si può guardare il mondo nella sua verità» (II, 162)27. Si guarda intorno e vede e sente la guerra: «in questa guerra non si è ancora sentita una sola parola spirituale» (II, 172). Tutto ciò lo predispone contro il Secolo XIX, il secolo filisteo per eccellenza. Da qui scaturisce questa terza confessione dello spettatore: «Niente affatto moderno e molto secolo XX». L’atteggiamento di pura teoria e di rifiuto di ogni forma di politica, che abbiamo visto cristallizzarsi nello spirito dello “spettatore”, ha la sua origine nel primo tentativo di Ortega di comprendere il significato nascosto della guerra appena scoppiata. In una conferenza che tiene presso l’Ateneo de Madrid, nell’aprile del 1915, intitolata Meditación del Escorial, isola con precisione il motivo che ha incubato la malattia europea. Cervantes continua a rimanere la guida, sicché questa nuova meditazione può essere letta come una continuazione di quelle precedenti. Ricordiamo che riguardo a El Quijote, non era interessato al personaggio, bensì al suo inventore. Ora mentre interroga il monumento dell’Escorial, si interroga sull’intenzione di chi ne ispirò l’opera, Filippo II. E conclude: Il Monastero dell’Escorial è uno sforzo senza nome, senza dedica, senza trascendenza. È uno sforzo enorme che si riflette su se stesso, disprezzando tutto ciò che possa esservi all’infuori di esso. Satanicamente, questo sforzo adora e canta se stesso. È uno sforzo consacrato allo sforzo (II, 661).

26 27

ID., “Verità e prospettiva”, in Il tema del nostro tempo, cit., pp. 141-142. Ivi, p. 145.

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Satanicamente, perché l’errore di Satana è stato un errore di prospettiva28, come Ortega aveva indicato nelle MQ. E se si tratta di uno sforzo senza nome, cioè senza concetto, allora, in accordo con la dottrina del concetto lì esposta29, l’Escorial fonda una sorta di cultura dello sforzo puro, la cui critica, come abbiamo visto, sarebbe stata portata a termine da Cervantes. Fin qui sembra che Ortega stia ripetendo le analisi che aveva fatto sui mali della Spagna. Tuttavia, in un passaggio insperato, che non è inusuale nella sua forma di affrontare i grandi temi, proietta l’analisi della volontà, l’ultima ratio alla quale avevano fatto ricorso nella loro disperazione di fine secolo tanto Unamuno quanto Baroja, sull’idealismo tedesco: In Kant, accanto al pensiero si affermano i diritti della volontà – accanto alla logica, l’etica. Ma in Fichte la bilancia pende dal lato del volere, e prima della logica mette l’impresa. Prima della riflessione, un atto di coraggio, una Tathandlung: questo è il principio della sua filosofia (II, 664).

Ortega stabilisce espressamente la connessione con il Quijote quando ricorda che il suo maestro Cohen gli segnalò in un’occasione che la parola di Fichte per esprimere l’idea centrale della sua filosofia era la stessa di quella che usa il traduttore tedesco per rendere le avventure del cavaliere errante. Quantunque non accusi l’idealismo tedesco di aver spinto la modernità verso un utopismo i cui mali sarebbero stati raccolti nel XX secolo30, è MQ, I, 756; tr. it. p. 43: «Dio è prospettiva e gerarchia: il peccato di Satana fu un errore di prospettiva». Ortega sembra suggerire che tutti gli errori specificamente intellettuali sono di prospettiva: credersi più di quello che si è. 29 Ivi, p. 782; tr. it. p. 75: «Il “senso” di una cosa è la forma suprema della sua coesistenza con le altre, è la sua dimensione profonda». 30 Cosa che farà invece in termini molto duri nel suo testo autobiografico, che non riuscì a pubblicare in vita ma che concepì e scrisse per una riedizione della traduzione tedesca di El tema... “Prólogo para alemanes”. Si veda l’accusa che rivolge ai filosofi postkantiani, e in particolare a Hegel, di «mancanza di 28

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chiaro che individua l’ingrediente comune tra la crisi spagnola del XVII e quella europea dell’inizio del XX: una cultura degli ideali allucinati. Ma il problema è solo suggerito, così come suggerita è la soluzione cui punta: Cervantes aveva composto nel suo romanzo “la critica dello sforzo puro”. «Ma dove può arrivare lo sforzo puro? Da nessuna parte, o meglio, da una parte sola: alla malinconia» (ibidem). A cui si potrebbe aggiungere: quando sono nazioni intere a essere consegnate al narcotico dello sforzo puro, di una volontà non formata dal concetto, si arriva alla malinconia facendo un giro per la guerra. Nel maggio del 1916 Ortega parte per l’Argentina invitato dall’Istituto Cultural. Il viaggio dura sei mesi. Ritorna cambiato. Anche la Spagna è cambiata. L’artefatto politico della Restaurazione funziona sempre peggio. Nel 1917 entra in crisi e Ortega ritorna alla politica con un celebre articolo, Bajo el arco en ruina che lo costringe ad abbandonare El Imparcial, il periodico su cui aveva scritto fin dalla sua fondazione. Da quella crisi e dalla sua collaborazione con Urgoiti nasce El Sol, il quotidiano che a partire dalla sua nascita, nel 1917, accompagnerà tutte le avventure politiche orteghiane, fin quando un altro famoso articolo, quello contro la monarchia e a favore della repubblica, El error Berenguer, lo costringerà nuovamente a dimettersi, lasciandolo in questa occasione anche senza risorse. Mi permetto di ricordare questi aspetti biografici per sottolineare l’unità produttiva che rappresentano gli anni tra il 1914 e 1916. Ortega non ritornerà a pubblicare saggi filosofici fino all’uscita de El Espectador III nel 1921. Dello stesso anno è la lezione inaugurale che Ortega menziona come punto di partenza del suo secondo libro filosofico, il già citato El tema de nuestro tiempo (1923), nel quale prova a risolvere alcune delle aporie e delle perplessità intorno al concetto di vita e alla sua relazione con la cultura che erano rimaste in sospeso nelle MQ. Senza successo, a mio parere. veracità» (IX, 138; tr. it. “Prologo per i tedeschi”, in Il tema del nostro tempo, cit., p. 37 e anche le osservazioni nella IX, 146 e 147; tr. it. pp. 46-47).

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3. Il recupero delle Meditaciones del Quijote di Ortega all’inizio della “seconda navigazione”

Da quanto detto nel paragrafo precedente, ne consegue che, nonostante il cambiamento che si verifica intorno alla relazione tra teoria e politica, le tesi che formano il nucleo delle MQ non cambiano negli anni immediatamente successivi. Ciò che dà continuità al pensiero di Ortega dal 1914 è il suo carattere “circostanziale”. Nel suddetto anno Ortega arriva al “confine” della sua posizione originale. Cerezo chiarisce che nelle MQ il suo autore ci dà i nomi di una filosofia, un «campione esecutivo», aggiunge, ma non, servendosi di un’espressione di Marías, la stessa filosofia, non l’articolazione di un programma né l’esposizione sistematica delle sue idee. Il fatto è che Ortega «era sul confine della ragione vitale, il cui fondamento metafisico nel razio-vitalismo arriverà più tardi con El tema de nuestro tiempo»31. Altrove ho dissentito da questa opinione, sostenendo che Ortega retrocede, nell’opera menzionata, a una considerazione naturalistica della vita32, intesa come “vita spontanea” senza che alla fine sia chiaro, come invece alcuni critici sostengono, se sia caduto in un biologicismo più o meno nascosto33. Fu Gaos a proporre la lettura de El tema de nuestro tiempo come una sorta di “errore” nello sviluppo della razón vital che si 31 P. CEREZO, “De camino hacia sí mismo (1905-1914)”, in Ortega y Gasset, Guía Comares, ed. J. Zamora Bonilla, Comares, Granada, 2013, p. 44. Marías era giunto alla medesima conclusione: «si può, pertanto, rintracciare nell’opera degli anni 1914-1916 l’inequivocabile esercizio della ragione vitale... Ma la prima formulazione della sua teoria è di alcuni anni successiva: una lezione universitaria del 1921, redatta e pubblicata nel 1923 con il titolo El tema de nuestro tiempo» (Sur, Buenos Aires, 1983, p. 61). 32 Cfr. Los nombres de una filosofía: razón vital o razón histórica, in «Revista de Occidente», Madrid, ottobre 2005, pp. 5-25. Da dove retrocede? Dal significato dell’idea di vita presente nelle MQ, soprattutto nel “Lector”. 33 M. BENAVIDES, De la ameba al monstruo propicio: raíces naturalistas del pensamiento de Ortega y Gasset, Universidad Autónoma de Madrid, Madrid, 1988.

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allontana dall’ispirazione originaria presente nelle MQ. In un suo lungo saggio, La profecía en Ortega, Gaos analizza, in primo luogo, la rivendicazione di originalità rispetto a Heidegger che Ortega fa in un’ampia nota di Carta a un alemán: Pidiendo un Goethe desde dentro (1932). Dopo aver esaminato i pro e i contro – concede a Heidegger l’aver mostrato a Ortega che la vita deve essere interpretata da un punto di vista biografico, storico e in chiave ontologica – Gaos conclude, tuttavia, che il suo maestro ha ragione. È indiscutibile che ne Las Atlántidas (1924) venga chiaramente affermato il senso biografico, umano, della vita e non quello biologico come sembra ne El tema de nuestro tiempo: «Pertanto, mi sembra, infine, completamente fondata la rivendicazione fatta da Ortega». Più avanti criticherà il suo maestro ma ciò che ci interessa è quello che aggiunge in nota: «credo persino di aver preceduto in parte [nella sua interpretazione] lo stesso Ortega. Ricordo una conversazione nella quale sostenevo che la sua filosofia era nelle Meditaciones, lui mi rispose che la sua filosofia era ne El Tema, allora risposi, a mia volta, ed è probabile che abbia contribuito a farglielo pensare»34. Gaos ha presente il «Prólogo a una edición de Obras» edito da Calpe nel 1932, nel quale, in effetti, Ortega avvia un’auto-interpretazione della sua opera che conferisce alle MQ un ruolo fondativo. È importante sottolineare che si tratta del primo scritto che esce dalla sua penna, dopo la pausa che gli impose l’attività politica alla quale si consegnò per due anni a partire dalla fine del 1930. Del resto, tra il ritorno dal suo secondo viaggio in Argentina, nel gennaio del 1929, e la sua immersione nella politica, Ortega tiene una serie di corsi universitari, nei quali inizia quello che battezzerà come la “seconda navigazione”, il più noto dei quali è ¿Qué es filosofía? In essi presentava una nuova idea della vita umana, tematizzata ormai senza ambiguità come la realtà meta34 “La profecía en Ortega”, in J. GAOS, Los pasos perdidos. Ensayos sobre Ortega, a cura di J. Lasaga, Biblioteca Nueva-Fundación Ortega-Marañón, Madrid, 2013, p. 65.

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fisica o radicale che cerca la filosofia. Questa svolta dall’antropologia alla metafisica è la sostanza della “seconda navigazione” e ciò che induce Ortega a recuperare l’idea di vita presente nelle MQ come la chiave di volta che sostiene la sua metafisica della vita umana e posticipare quella de El tema de nuestro tiempo. Siffatti temi come la sensibilità vitale per spiegare il funzionamento delle generazioni, la contrapposizione tra valori vitali e culturali, che riflette una significativa impronta nietzschiana, o la dottrina del punto di vista come somma o integrazione delle prospettive, dall’inequivocabile sapore leibniziano, spariscono nella metafisica degli anni Trenta. Io sono io e la mia circostanza. Questa espressione, che compare nel mio primo libro e che condensa in ultimo grado il mio pensiero filosofico, non significa soltanto la dottrina che la mia opera espone e propone; piuttosto, la mia opera è un caso esecutivo della stessa dottrina. La mia opera è, per essenza e presenza, circostanziale (V, 93).

Ci porterebbe molto lontano esaminare ciò che vuole dire quest’ultimo suggerimento in relazione a uno dei temi più dibattuti nelle letture che si fanno dell’opera di Ortega, ovvero la mancanza di un sistema nella sua filosofia. In questa sede ci interessa collocare le MQ nel complesso della sua filosofia, il che è strettamente legato al concetto di “vita” che lì si sostiene. E accavallando quel primo significato del termine vita e quello presente nei testi del decennio degli anni Trenta, scrive: Ebbene, la mia vita consiste nel fatto che io mi trovo costretto ad esistere in una circostanza determinata. Non v’è vita in astratto. Vivere è esser caduto prigioniero in un ambiente inesorabile. Si vive qui e ora. La vita è, in questo senso, assoluta attualità. Ho scorto e formulato questa idea fondamentale quando la filosofia europea e in particolare quella dei miei maestri più immediati sostenevano il contrario e si ostinavano nell’idealismo tradizionale che io ho smascherato come utopismo, vale a dire, l’esistenza fuori da ogni luogo e tempo (ibidem).

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La vita come assoluta attualità, come realtà metafisica fu quasi pensata nelle MQ, quasi però. Senza dubbio, la formula «io sono io e la mia circostanza…» invita a pensare che il primo “io” sia “la nostra vita”, e che questa vita è intesa come esistenza individuale, il che è facile da dimostrare. Ma Ortega non cercava una filosofia prima. Questo è il nocciolo della questione. Insisteva su una filosofia della cultura. Voleva “superare” il pessimismo di fine secolo35 e la sua volontà senza oggetto, e ridare alla ragione un nuovo compito – al di là del fallimento della ragione moderna in una qualsiasi delle sue versioni, idealista o positivista – per definire, con una nuova forma di interpretazione, il rapporto della ragione con la vita. Ecco il motivo per cui Ortega non arriva fino alla radice del conflitto tra ragione e vita, anche se lo intravede. Crede, nelle MQ, che sia una questione di metodo e di approccio, ma non mette in discussione l’ottimismo illuministico, di leibniziana memoria: l’armonia prestabilita tra ragione e vita; il mondo non è razionale, ma almeno si lascia razionalizzare. Il senso è quello che la ragione sia in grado di scoprire, nascoste nella materialità inospitale del reale, le forme dell’ideale estetico, etico, di verità, che possa estrarne il logos. Questo implica che la realtà, che è la vita, privata di ogni interpretazione, sarebbe in qualche modo pre-logica; in ogni caso non sarebbe “anti-logos”, vale a dire irrazionale. La questione, che era già presente seppur non tematizzata nelle MQ, consiste nel fatto che la vita umana si sostiene sulle sue stesse produzioni, siano tecniche o simboliche; ossia che essa è realizzabile solo come “storia” e non come “natura”. Ortega lo afferma nel difendere una essenziale continuità tra la vita e la cultura: 35 Altri temi da cui Ortega prende spunto per il suo “spettatore” sono l’amore e la gioia, a cui dedica due delle Confesiones iniziali de El Espectador I: Leyendo El Adolfo, libro de amor (II, 168 e ss), Cuando no hay alegría (II, 175 e ss).

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Ogni impresa culturale è un’interpretazione – chiarimento, spiegazione o esegesi – della vita. La vita è il testo esterno, la ginestra che splende ai bordi del cammino sul quale Dio lancia i suoi richiami. La cultura – arte scienza o politica – è il commento, è quel modo della vita in cui essa, rifrangendosi in se stessa, si depura e ordina36.

La mia conclusione è quindi che le MQ siano un libro tanto geniale quanto confuso37. Con qualche goccia di Dilthey avrebbero raggiunto il centro della metafisica orteghiana riassunta nella formula ragione vitale o storica. Con un po’ meno Unamuno, Ortega avrebbe avuto un po’ più di serenità per enfatizzare meno la “vitalità primaria” e altre sciocchezze nietzschiane. Tutti gli elementi erano già nella testa di Ortega: la vita come realtà individuale, la “necessità” della cultura per trascendere la mera vita animale, gli errori del Secolo XIX, il crollo del mito del progresso, il sospetto sulla dimensione eccessiva del sociale, che costituisce, d’altra parte, un precedente della caratterizzazione del Secolo XX come una “ribellione delle masse”, il riconoscimento della soggettività come una limitazione della condizione umana e la relativa denuncia delle pretese di “oggettività” come soggettivismo, almeno per quanto riguarda le questioni della vita umana. Ma non riuscì a vederne la configurazione in una tesi metafisica, espressa in termini tanto semplici quanto veritieri: la vita umana di ciascuno costituisce quell’assoluto che la filosofia cerca; la realtà radicale o prima, punto di partenza di qualsiasi pensiero che si ritenga filosofico. La continuità dell’opera di Ortega, come egli stesso ha voluto sottolineare, è nel carattere circostanziale del suo pensiero. Ma il tema che impose la circostanza non fu quello di un sistema MQ, I, 788; tr. it. p. 82. Confuso non perché Ortega pensi confusamente bensì perché volle affrontare troppi argomenti in una sola volta senza soffermarsi troppo su ognuno di essi. 36 37

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proprio di una filosofia prima, bensì quello di comprendere quella modernità che mancava agli spagnoli. E fu altrettanto circostanziale il motivo per cui, al momento di assimilarla, fallì e rivelò le sue più profonde carenze. Il filo conduttore che articola dal principio alla fine la filosofia di Ortega e che fu imposto dalla circostanza non è altro che la crisi della modernità, la cui prima e lucida esposizione la offrì nelle MQ grazie a un romanzo scritto agli albori dei tempi moderni da uno sconosciuto di nome Miguel de Cervantes. [Traduzione di Roberto Colonna]

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María Lida Mollo

La “selva ideale” del Chisciotte. La traduzione di hyle e morphé nelle Meditaciones

Cavaliere dell’eterna giovinezza, sui cinquanta ha dato retta a quell’idea che in cuore gli pulsava, una mattina a luglio se n’è andato alla conquista di ciò che è bello, giusto, e dell’onesto: davanti, il mondo torvo coi suoi stupidi giganti, e sotto, quel suo afflitto ed eroico Ronzinante. […] Tu hai ragione, è di certo Dulcinea la più bella donna al mondo, di certo lo urlerai sulla faccia dei mercanti, e tu sarai disarcionato, malmenato. Però tu, invincibile eroe di sitibondi noi, tu come fiamma eterna brucerai dentro quella pesante tua ferraglia, e Dulcinea si farà sempre più bella… Nâzim Hikmet, Don Chisciotte

Accogliendo l’invito di un autorevole studioso di Ortega, che ha declinato la sua interpretazione in chiave fenomenologica, fino al punto di segnalare la corrispondenza tra le quattro sezioni di Idee I1 e i primi quattro paragrafi della “Meditazione preliminare” – intesi a mo’ di introduzione alla teoria della cultura di cui si fa 1 J. SAN MARTÍN, Fenomenología y cultura en Ortega. Ensayos de interpretación, Tecnos, Madrid, 1998, p. 69. Dello stesso autore si veda La fenomenología de Ortega y Gasset, Biblioteca Nueva, Madrid, 2012, in part. pp. 177 e ss.

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María Lida Mollo

portatore il primo libro di Ortega –, decidiamo però di spingerci più avanti, innanzitutto verso il paragrafo 5 intitolato “Restaurazione e erudizione” ove compare il sintagma “selva ideale” riferito a un libro-scorcio per eccellenza, vale a dire, Don Chisciotte della Mancia. Se, però, l’affinità semantica tra selva e sylva, da una parte, e hyle, dall’altra2, appare sufficientemente legittimata dalla via già battuta da autori come Bruno – per il quale rappresentava uno dei modi di ribadimento dell’istanza antiaristotelica3 – e Vico – e riguardo a questi diviene molto difficile resistere al riferimento, sia pure solo nella forma dell’accenno, all’Ingens sylva di Paci, al «dualismo tra natura e spirito che ha scelto l’uomo come campo di lotta» nonché al ruolo che gioca l’immagine come tramite attraverso cui la natura si fa storia4 – cercheremo, tuttavia, di esibire non solo legami tra autori e affinità semantiche, ma anche parentele fenomenologiche5. P. CHANTRAINE, Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des mots, Éditions Klincksieck, Paris, 1977, p. 1155: «Il lat. silva ha preso tutto il senso di hyle ma non esiste parentela tra i due termini». 3 G. BRUNO, De la causa, principio et uno, “Dialogo quarto”, in Opere italiane di Giordano Bruno, testi critici e nota filologica di G. Aquilecchia, introduzione e coordinamento generale di N. Ordine, vol. I, Utet, Torino, 2002, pp. 700-702: «La materia dumque di Peripatetici dal prencipe, e dell’altigrado ingenio del gran Macedone moderatore, non minus che dal Platon divino et altri, or chaos, or hyle, or sylva, or massa, or potenzia, or aptitudine, or privationi admixtum, or peccati causa, or ad maleficium ordinata, or per se non ens, or per se non scibile, or per analogiam ad formam conoscibile, or tabula rasa, or indepictum, or subiectum, or substratum, or substerniculum, or campus, or infinitum, or indeterminatum, or prope nihil, or neque quid, neque quale, neque quantum; tandem, dopo aver molto con varie e diverse nomenclature (per definir questa natura) collimato: ab ipsis scopum ipsum attingentibus, femina vien detta […] Dove era in potenza non solum remota, ma etiam propinqua la destruzzion di Troia? In una donna». 4 Cfr. E. PACI, Ingens sylva, introduzione di V. Vitiello, Bompiani, Milano, 1994, pp. 17 e 59. 5 Del resto, che lo spostamento della physis nel tempo mitico – così come fa Vico nella Scienza nuova, quando vede in Ercole il fondatore della coltura dei campi e del tempo – ponga una questione capitale, quella che coinvolge origine, 2

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Queste ultime sono del “lignaggio” – giusto per iniziare a pregustare la metaforica orteghiana – di quelle che, da un lato – nella sezione terza di Idee I, in particolare la parte riguardante “Le strutture generali della coscienza pura” – stringono la coscienza del tempo con hyle sensibile e morphé intenzionale e, dall’altro – ad esempio nel paragrafo terzo della “Meditazione preliminare” intitolato “Ruscelli e rigògoli” – legano due suoni «che non sono soli» alla profondità di una percezione temporale. A rendere lecito il congiungimento tra uno dei paragrafi stilisticamente più riusciti delle Meditaciones con Idee I, in particolare col paragrafo 83 “Afferramento dell’unitaria corrente dei vissuti come ‘idea’”, è il concetto di orizzonte. Termine, questo, che, in quanto orizzonte del vissuto, non indica soltanto – come lo stesso Husserl avverte – l’orizzonte della temporalità fenomenologica secondo le dimensioni dell’impressione, della ritenzione e della protenzione, «ma anche differenze nei modi di datità di nuova specie»6. E le differenze sono del tipo di quelle che intercorrono tra un vissuto osservato e il suo orizzonte di vissuti non osservati o, in altre parole, tra il vissuto «afferrato nel modo dell’“attenzione”, ed eventualatto e passaggio atemporale dal caos al tempo, è un punto che ha spinto qualcuno ad andare oltre, oltre Vico ma insieme a Hegel, per porsi un’altra questione dell’inizio, quella della nascita dell’autocoscienza trascendentale. In proposito vedasi V. VITIELLO, La favola di Cadmo. La storia tra scienza e mito da Blumenberg a Vico, Laterza, Roma-Bari, 1998, p. 103: «All’inizio della storia troviamo Ercole, non Giove. E prima del tempo storico non v’è che il Caos della selva nemea, l’ingens sylva del Senza-tempo. Il passato ucronico di una natura non ancora educata dall’eroe, non ancora tratta a civiltà. Una natura, una physis, che nessun conato ancora spinge all’ordine. Una natura altra, ferina, un “passato” che non si inquadra nella storia ideale eterna – nell’ordo temporum – che ne sta fuori e la limita. Vico allontana nel tempo mitico – nel tempo di un racconto che non può essere storia, perché narrazione di un passato mai stato presente – non solo questa ucronica physis (il che s’intende da sé), ma anche l’atto che diede origine al tempo. Il passaggio dal caos al tempo avviene in un istante che è fuori del tempo. Non prima, fuori». 6 E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, I, a cura di V. Costa, Einaudi, Torino, 2002, p. 207.

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mente con chiarezza crescente» e il suo «orizzonte di disattenzione di sfondo con le relative distinzioni di chiarezza e oscurità, di momenti che risaltano e di momenti che non risaltano»7. Ebbene, a questa differenza nei modi di datità, Ortega ha dedicato, come dicevamo, uno dei suoi brani più belli: Se dal canto del rigògolo sulla mia testa e dal suono dell’acqua che fluisce ai miei piedi lascio scivolare l’attenzione su altri suoni, mi imbatto di nuovo in un canto di rigògolo e in un rumoreggiare d’acqua che si affanna nel suo aspro alveo. Ma che succede a questi nuovi suoni? Ne riconosco senza dubbio uno come il canto di un rigògolo, però gli manca splendore, intensità; non dà all’aria la sua pugnalata di sonorità con la stessa energia, non riempie lo spazio come l’altro, piuttosto si lascia cadere, falso e timoroso. Riconosco anche il nuovo mormorìo del ruscello, ma dà pena ascoltarlo. È una fonte malata? È un suono simile all’altro, però più interrotto, più singhiozzante, meno ricco di risonanze interiori, come spento, confuso; a volte non ha abbastanza forza per farsi sentire; è un povero, debole rumore che si perde nel cammino8.

Suoni che, come questo, si lasciano cadere falsi e timorosi rientrano, secondo Ortega, nel novero delle «mere impressioni», quelle che per Husserl sono «i vissuti di sfondo di attualità». E tanto le prime quanto i secondi hanno come punto di riferimento l’io, rispetto al quale sono «situati nello sfondo a diversi gradi di lontananza»9, o – nelle parole di Ortega – coinvolti in un atto di interpretazione ideale e lanciati lontani da me, che «li ascolto come lontani»10. Ibidem. J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, in Obras completas, tomo I, Taurus, Madrid, 2004, pp. 767-768; tr. it. Meditazioni del Chisciotte, a cura di B. Arpaia, introduzione di O. Lottini, Guida, Napoli, 1986, p. 57. 9 Cfr. E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, I, cit., p. 210. 10 J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, cit., p. 768; tr. it. p. 57. 7

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Quanto strette siano poi le parentele tra il sintagma orteghiano “selva ideale” e le nozioni husserliane di hyle sensibile e morphé intenzionale, se cioè esse siano di primo, secondo o terzo grado, dipenderà proprio da quale statuto Ortega attribuisca alla sensazione, da come egli intenda il concetto di sintesi e quello di funzione, o meglio ancora da quanto radicale sia stato il suo congedo dal neokantismo – così fortemente annunciato nella conferenza del ’13 Sensazione, costruzione e intuizione – o, in altri termini, dal mantenimento o meno dell’assimilazione della materia sensibile a caos. Se, infatti, da un lato, al livello di Idee I, Husserl intende per “funzione” la maniera in cui le noesi animano l’elemento materiale e si intrecciano in sintesi in cui viene unificato il molteplice11; dall’altro, Ortega attribuisce la funzione di sintesi al concetto. Certo, sarebbe quantomeno riduttivo e ben lontano da un tentativo di rendere omaggio al primo libro di Ortega, limitarne la ricchezza di versanti – da quello poetico-metaforologico a quello che si interroga sul destino della Spagna – al confronto con Husserl e con Cohen, o alla riproposizione di temi già ampiamente trattati dalla letteratura critica. È per questo che il sintagma “selva ideale”, così come la metafora della “saetta forestiera” riferita all’impressione e quella dell’“organo” riferita al concetto saranno sì occasione di confronto con la fenomenologia e il neokantismo, ma solo nella misura in cui un simile confronto si mostri capace di tenere il passo di Ortega sulla nuova via indicata al lettore spagnolo, quella che richiede uno «sforzo doloroso e integrale», nonché l’abbandono delle «superfici, come coste di terraferma» e che ci fa sentire lanciati verso un elemento più tenue, vale a dire, la meditazione12. Ma andiamo per ordine, e cominciamo dall’inizio, o meglio dal “pre-inizio”, decisamente neokantiano, per poi passare a re11 Cfr. E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, I, cit., p. 217. 12 J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, cit., p. 773; tr. it. p. 63.

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gistrare la permanenza di un certo costruttivismo che, lo diciamo subito, convive, per quanto bizzarro e destinato a finire sia il connubio, con rilevanti elementi di affinità con la fenomenologia husserliana, intesa in senso lato, o più precisamente come una costellazione in cui, oltre al fondatore, spiccano le figure di due membri della Società filosofica di Gottinga: Wilhelm Schapp e il suo impiego del concetto di illuminazione [Erleuchtung]13 e Heinrich Hofmann, per le cui Untersuchungen über den Empfindungsbegriff Ortega scrisse la recensione del 1913, Sobre el concepto de sensación, la cui prima parte è dedicata ad una decostruzione della concezione della sensazione come “elemento” psichico in Ebbinghaus e Wundt. Interessa notare che in tale contesto Ortega non esita a segnalare una affinità tra Ebbinghaus e Natorp sul concetto di sensazione intesa come “sensazione pura”, e quindi come oggetto ideale costruito dalla riflessione che, essendo valido solo sul piano esplicativo della genesi psichica, esige una rettifica14. Ciononostante, sulla matrice neokantiana di quello che abbiamo appena definito “pre-inizio” c’è totale accordo. Basti leggere Adán en el paraíso, il saggio del 1910 dove finanche chi intenda seguire Ortega nelle sue dichiarazioni di congedi e di accoglimenti rimane colpito da affermazioni di questo tenore: «La prova del fatto che le cose non sono altro che valori, è ovvia; si 13 W. SCHAPP, Beiträge zur Phänomenologie der Wahrnehmung (Gottinga, 1910), B. Heymann, Wiesbaden, 1976, in part. p. 176, ove afferma che l’illuminazione è «il contatto con le idee che si compie nel comprendere» e le idee, dal canto loro, appartengono a un mondo che non è quello della sensibilità. 14 J. ORTEGA Y GASSET, Sobre el concepto de sensación, in Obras completas, tomo I, cit., p. 625; tr. it. “Sul concetto di sensazione”, in Id., Sistema di psicologia e altri saggi, Armando, Roma, 2012, p. 160: «Secondo Hofmann, questo concetto di sensazione è necessario alla psicologia genetica, ma è privo di senso per la psicologia descrittiva. (È curioso, tuttavia, che il più strenuo difensore della psicologia puramente descrittiva – Natorp – si avvalesse di un concetto simile di sensazione nella sua Introduzione alla psicologia del 1888. Io spero che la nuova edizione, il cui secondo tomo non è ancora apparso, offra in qualche modo una rettifica)».

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prenda una cosa qualunque, le si applichino diversi sistemi di valutazione e si otterranno altrettante cose diverse al posto di una sola», e poco più avanti: «Vedere e toccare le cose non sono, dopo tutto, che maniere di pensarle»15. Affermazioni assai gravi per chi non solo di lì a breve, per la precisione nel 1913, avrebbe stigmatizzato la mossa di riassorbimento dell’Estetica nell’Analitica, ma lo avrebbe fatto, più che con l’intento ermeneutico di recuperare la vera anima di Kant e l’autonomia delle parti in cui si articola la Critica della ragion pura, con quello di celebrare la scoperta fenomenologica di un nuovo territorio di oggetti e di un suolo più originario rispetto alla verità e al valore. Ciò per quel che attiene al corno della critica al costruttivismo; quanto, invece, a quello che ha di mira l’empirismo, è sempre l’intuizione, la husserliana Anschauung, la “funzione” cui ricorre Ortega per ribadirne il superamento cui però si lega un ritorno, ma anche un sostanziale ampliamento, del concetto di passività16. 15 ID., Adán en el paraíso, in Obras completas, tomo II, Taurus, Madrid, 2004, pp. 59 e 60; tr. it. “Adamo nel paradiso”, in ID., Meditazioni del Chisciotte, cit., pp. 207 e 208. 16 Si veda la conferenza del 1913 intitolata Sensación, construcción e intuición che Ortega pronuncia al IV Congreso de la Asociación Española para el Progreso de las Ciencias, in ID., Obras completas, tomo I, cit., p. 651; tr. it. Sensazione, costruzione e intuizione, in ID., Sistema di psicologia e altri saggi, cit., in part. p. 188: «Quando affermo che “un quadrato rotondo è impossibile” non intendo dire che il quadrato rotondo sia un concetto né tanto meno una rappresentazione; e, tuttavia, qualcosa sarà pur stato il quadrato rotondo per me, dacché ho potuto formulare rispetto ad esso il giudizio in cui viene dichiarata la sua impossibilità. Per l’idealismo, il soggetto del giudizio è un puro problema, una x che diventa qualcosa di determinato, nel senso della determinazione verità, solo grazie alla predicazione. Ma anche ammettendo ciò, qualcosa di perfettamente chiaro incombeva su di me prima di concludere il giudizio. Quel qualcosa potrebbe non essere una verità determinata, potrebbe pure non essere una verità, così come non lo era il quadrato rotondo. Ma da ciò non deriva altro che la certezza che v’è un piano più profondo e originario di quello della verità o della non verità costruttive, di quello dell’essere e del non essere […]. L’intuizione è una funzione ancora più originaria di quella per

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Eppure, che il congedo dal neokantismo abbia i caratteri dell’incompiutezza e dell’ambiguità lo tradisce, tra le altre cose, l’esergo delle Meditazioni del Chisciotte, ovvero, la citazione tratta dall’Ethik des reinen Willens, il secondo libro del System der Philosophie di Hermann Cohen, in cui questi si chiedeva: «Ed è forse il Don Chisciotte solo una farsa?»17. D’altra parte, non può passare inosservato che un corso come quello che Ortega tenne al Centro de Estudios Históricos nel 1915-1916 – corso, questo, che, grazie all’edizione di Paulino Garagorri intitolata Investigaciones psicológicas, avrebbe impresso una svolta nella letteratura secondaria (basti pensare alla Voluntad de aventura di Cerezo Galán) ridefinendo i rapporti tra Ortega e la fenomenologia – porti il titolo di Sistema de la psicología. mezzo della quale costruiamo l’essere o il non essere. Ritorna in questo modo la passività di cui parlava l’empirismo. Ma con quale diverso significato! Per l’empirismo, la passività era sinonimo di sensazione e non vi era un contenuto più originario di quello sensibile. L’intuizione, invece, comprende tutti i gradi intellettuali». 17 H. COHEN, Etica della volontà pura, a cura di G. Gigliotti, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1994, p. 350. Sulla volontà pura, che a sua volta implica il pensiero come intenzione morale e l’affetto come slancio dell’animo, si veda il saggio di G.P. CAMMAROTA, Etica della volontà pura e critica dello sforzo puro. Cohen e Ortega y Gasset, in «Rocinante», 8, 2014, pp. 21-39. D’altra parte, la critica dello sforzo puro, oltre ad essere un elemento di affinità tra Cervantes, Ortega e Cohen, riappare ne El tema de nuestro tiempo, allorquando Ortega traccia uno schema per meglio definire la doppia serie di imperativi che devono governare quelle che non a caso vengono chiamate “attività”, vale a dire, il pensiero, la volontà e il sentimento. Ebbene, nell’affermare la necessità di completare gli imperativi oggettivi con quelli soggettivi sul piano della volontà, Ortega non si limita a ribadire il ben noto anticulturalismo ma sembra riprendere le contrapposizioni coheniane volontà pura vs. sforzo puro, azione pura vs. atto isolato, nonché la co-implicazione tra pensiero e affetto, soprattutto quando sostiene che «una morale geometricamente perfetta, ma che ci lascia freddi, che non ci incita all’azione, è soggettivamente immorale» (J. ORTEGA Y GASSET, El tema de nuestro tiempo, in Obras completas, tomo III, Taurus, Madrid, 2005, p. 586; tr. it. Il tema del nostro tempo, a cura di C. Rocco e A. Lozano Maneiro, Sugarco, Varese, 1994, p. 101).

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Ma al di là dei riecheggiamenti e della volontà di sistema che, secondo quanto emerge dal Prólogo para alemanes, è una lezione appresa a Marburgo18 che, tuttavia, convive con la scrittura saggistica di un filosofo per così dire “viandante” e, sotto molti aspetti nietzscheano e simmeliano, è ora il caso di incentrare l’analisi sulle Meditazioni del Chisciotte, sul progetto di integrazione che muove questo primo libro e su quei passaggi che non solo riprendono motivi neokantiani e fenomenologici, ma che proprio nella loro ambiguità e apparente incoerenza preannunciano quella dialettica aperta e chiasmatica che anima ciò che lo stesso Ortega avrebbe rivendicato come sua originale postura filosofica. Naturalmente, ci riferiamo al raziovitalismo, anticipato dalla metafora degli dii consentes19, e riproposto, allorquando si era trattato di fare le presentazioni con il lettore tedesco che lo leggeva da un pezzo, nel riferimento al dualismo del Gingko Biloba, il titolo della composizione poetica di Goethe, contenuta nel Divano occidentale-orientale, che prende il nome da un albero originario dell’Oriente, con foglie che possono apparire allo stesso tempo una e due20. Vero è che il raziovitalismo fa la sua apparizione nella lezione VII di Sistema de la psicología, quando Ortega annovera il «sistema della ragione vitale» tra le «scienze fenomenologiche e 18

J. ORTEGA Y GASSET, Prólogo para alemanes, in Obras completas, tomo

IX, Taurus, Madrid, 2009, p. 136; tr. it. “Prologo per i tedeschi”, in Il tema del no-

stro tempo, cit., p. 35: «Cohen spinse verso una presa di contatto intimo con la filosofia difficile e, soprattutto, rinnovò la volontà di un sistema, che è la caratteristica specifica dell’ispirazione filosofica». 19 Ivi, p. 160; tr. it. p. 64. Il riferimento è alla lezione Las tres grandes metáforas, tenuta a Buenos Aires nel 1916. 20 Ivi, pp. 150-151; tr. it. p. 52: «Nel 1913 ho scritto il mio primo libro intitolato Meditaciones del Quijote» [segue il riferimento al neokantismo e alla fenomenologia] e poi «di fronte a tutto questo idealismo, di fronte a tutta questa filosofia della cultura e della coscienza, la mia reazione è radicale e inequivocabile: “Tanto la vita sociale quanto le altre forme della cultura ci vengono date sotto forma di vita individuale” […]. Ma questa realtà radicale che è la propria vita non consiste in “coscienza”, in Bewusstsein, ma in un radicale dualismo unitario, come il Gingko Biloba di Goethe che è uno-due».

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puramente descrittive, quali sono la logica, l’ontologia, la matematica e quali sono altre scienze poco conosciute e altre che sono ancora da creare». Tra quelle poco conosciute, egli menziona la geometria dei colori e, tra quelle ancora da creare, proprio il «sistema della ragione vitale»21. Sembra che Ortega, quando parla di se stesso, non solo non sia di aiuto per districare il nodo in cui si intrecciano i cosiddetti due idealismi, ma anzi complichi ulteriormente i termini della questione, giacché se da un lato, nel 1915-16, presenta il sistema della ragione vitale come una scienza fenomenologica, dall’altro, nel 1934, cita le pagine delle Meditaciones del Quijote scritte nel 1913 come prova di un doppio superamento, sia del neokantismo sia della fenomenologia. Eppure ancora all’Ortega che parla di se stesso intendiamo ricorrere come ulteriore testimonianza della precocità e della portata del progetto di integrazione, intesa come una nuova visione del mondo. Ci riferiamo al passo di una lettera del 1906 indirizzata a Rosa Spottorno, all’epoca la sua fidanzata, su cui ha già richiamato l’attenzione Cerezo22. Poiché in me, ad esempio, lottano costantemente due mondi; quello subconscio, sentimentale, che prende forma dalla decantazione della mia razza e quello intellettuale, quello studiato e pensato, formato dalla scienza moderna […]. Nelle mie meditazioni voglio unire quelle due tendenze contrapposte in una formula, in un’anima, in una concezione del mondo, in grado di riconciliare entrambe. Finora non l’ho trovata; è possibile che muoia nel cercarla, ma se la trovo avrò inventato il segreto magico in grado di ri-creare il popolo spagnolo23.

J. ORTEGA Y GASSET, Sistema de la psicología, in Obras completas, tomo Taurus, Madrid, 2007, p. 479; tr. it. “Sistema di psicologia”, in ID., Sistema di psicologia e altri saggi, cit., p. 91. 22 P. CEREZO GALÁN, “Cervantes, el español ‘profundo y pobre’”, in ID., José Ortega y Gasset y la razón práctica, Biblioteca Nueva, Madrid, 2011, p. 46. 23 S. ORTEGA (a cura di), Cartas de un joven español, El Arquero, Madrid, 1991, pp. 461-462. VII,

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Davvero molti sono i motivi presenti nel passo appena citato che sarebbero confluiti nelle Meditaciones del Quijote. Basta sfogliare le pagine della “Meditazione preliminare” per riconoscere nei paragrafi, innanzitutto quelli che vanno dal sesto al quindicesimo (6. “Cultura mediterranea”, 7. “Ciò che disse a Goethe un capitano”, 8. “La pantera o del sensualismo”, 9. “Le cose e il loro senso”, 10. “Il concetto”, 11. “Cultura – Sicurezza”, 12. “La luce come imperativo”, 13. “Integrazione”, 15. “La critica come patriottismo”), il compimento della promessa fatta in gioventù. E, in effetti, è lecito affermare che se la “Meditazione prima” – con sus ensayos de varia lección sui generi letterari, sulle novelle esemplari cervantine, sul personaggio di Elena e di Madame Bovary, sui libri di cavalleria, sul romanzo,… – risponde all’intento di salvazione dichiarato nel prologo “Lettore”, vale a dire, quello per cui «partendo da un fatto – un uomo, un libro, un quadro, un paesaggio, un errore, un dolore –, si cerca di condurlo per il cammino più breve alla pienezza del suo significato»24, la “Meditazione preliminare” pone quale premessa metodologica la via dell’integrazione tra cultura germanica e cultura mediterranea, che vuol dire tra cultura della profondità e cultura della superficie. Il nostro intento è allora quello di fare un rapido percorso attraverso i paragrafi che vanno dal sesto al quindicesimo della “Meditazione preliminare” per poi recuperare l’inizio, i primi cinque paragrafi, da cui, tra le altre cose, emerge che la superficie è un primo livello di realtà e la profondità il senso che si nasconde dietro di essa, «la sua seconda vita virtuale». Ebbene, nel paragrafo sesto, intitolato “Cultura mediterranea”, ritroviamo quei due mondi cui faceva riferimento la lettera, ma ora sotto forma di «cultura delle superfici» e «cultura delle realtà profonde». Ciò, però, aveva presupposto una sostituzione, quella dell’antitesi chiarezza-confusione proposta da Menéndez Pelayo con l’antitesi superficie-profondità. E s’avverta che una simile sostituzione è strettamente funzionale all’integrazione, 24

J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, cit., p. 747; tr. it. p. 31.

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nel senso che quelle che appaiono come due dimensioni della cultura europea, la cultura germanica della profondità e quella mediterranea della superficie, sono anche e innanzitutto le due dimensioni delle cose. In poche parole – ma su questo torneremo al momento di analizzare i primi paragrafi –, per avere una cosa occorre una sintesi, una messa in forma delle sensazioni materiali ad opera di un atto che punta a cogliere il senso, il lato invisibile, intimo e profondo che si annuncia nella superficie. Nel settimo paragrafo, poi, ritroviamo un termine assai problematico e per così dire scivoloso come quello di “razza”. Il capitano che accompagna Goethe è italiano e quello che gli dice è di non pensare, di avere una «confusione nella testa»25. Lungi quindi dall’essere la chiarezza un tratto distintivo dei “latini”, sarebbe la confusione la caratteristica propria di una tale “razza caos”. E qui si rendono possibili almeno due rimandi, uno al sintagma “selva ideale” presente nel quinto paragrafo cui abbiamo alluso all’inizio, l’altro al paragrafo quindicesimo, “La critica come patriottismo”, in cui si chiarisce che «ogni razza è, in definitiva, un tentativo di un nuovo modo di vivere, di una nuova sensibilità». “Razza”, quindi, assimilata a “popolo” e popolo inteso a sua volta come «uno stile di vita» consistente «in una certa modulazione semplice e differenziale che va organizzando la materia intorno»26. Non solo, c’è poi un’affermazione che riesce in parte ad attenuare la diffidenza che il termine “razza” può suscitare nel lettore contemporaneo: «Spagnolo – scrive Ortega – è per me una promessa che raramente si è realizzata». Nel paragrafo tredicesimo intitolato “Integrazione”, la profondità del Chisciotte fa del primo romanzo moderno il terreno ideale per cercare una parola che «faccia luce sul destino della Spagna», e così alla “promessa” si affiancano parole come “destino” e “missione”, che ben mostrano come quello di razza sia un compito da realizzare, qualcosa di profondamente dinamico cui ben si addice la meta25

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Ivi, p. 778; tr. it. p. 69. Ivi, p. 792; tr. it. p. 87.

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fora della nuvola, quella stessa metafora che Wilhelm von Humboldt, autore a lui ben noto, aveva impiegato per le lingue27. Scrive Ortega:

Sfortunata la razza che non si ferma all’incrocio prima di proseguire il cammino, che non si pone il problema della propria interiorità, che non sente l’eroica necessità di giustificare il suo destino, di fare chiarezza sulla sua missione nella storia! L’individuo non può orientarsi nell’universo se non attraverso la sua razza, perché è immerso in essa come la goccia nella nube passeggera28.

“Spagnolo” allora non è nulla di statico e proprio per questo è suscettibile di essere salvato. A questo punto occorre richiamare l’attenzione non solo sulla necessità della sintesi della materia in una forma, sulla “selva ideale”, sul caos formalizzato, sull’impressione “civilizzata”, ma anche sulla necessità di recupero dell’atteggiamento innanzi all’originario, con la consapevolezza che la messa in forma deve altresì essere in grado di preservare un residuo non formalizzabile di caos iletico o, nelle parole di Ortega, «Dalle macerie tradizionali è urgente salvare la sostanza primaria della razza, il modulo ispanico, quel semplice tremore di fronte al caos»29. Qui, però, tocchiamo una questione che è al limite tra un non solo salutare ma addirittura “salvifico” mantenimento della forza vitale del caos e quello che nel paragrafo undicesimo, “Cultura–Sicurezza”, appare come una condanna al fallimento delle conquiste culturali. E, infatti, in esso leggiamo che

W. VON HUMBOLDT, Saggio sulle lingue del nuovo continente, in ID., Scritti sul linguaggio (1795-1827), a cura di A. Carrano, presentazione di F. Tessitore, Guida, Napoli, 1989, p. 94: «[le lingue] simili alle nuvole, la cui forma svanisce e si perde in una nebbia confusa allorché ci si trova nel loro mezzo». 28 J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, cit., p. 791; tr. it. p. 86. 29 Ivi, p. 793; tr. it. p. 88. 27

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Una cultura impressionista è condannata a non essere una cultura progressiva. Vivrà in modo discontinuo, nel corso del tempo potrà offrire grandi figure ed opere isolate, ma tutte ferme allo stesso punto. Ogni geniale impressionista riprende il mondo dal nulla, non da dove un altro geniale antecessore lo ha lasciato. Non è questa la storia della cultura spagnola? Ogni genio spagnolo è tornato a partire dal caos, come se nulla, prima, fosse esistito30.

È esattamente questo il punto in cui entra in scena Goya, un genio spagnolo al quale Ortega si era già dedicato e al quale si sarebbe ancora dedicato. E di certo non appare affatto facile avere una visione nitida di quel che egli pensa di questo artista dalla «psicologia adamitica», di questo primo uomo «senza età, né storia». Eppure, l’atteggiamento ambiguo che Ortega manifesta nei confronti di Goya può essere ricondotto al fatto che questi «rappresenta – come forse la stessa Spagna – una forma paradossale della cultura: la cultura selvaggia, la cultura senza ieri, senza progressione, senza sicurezza; la cultura in perpetua lotta con l’elementare, in quotidiana contesa per il possesso del terreno che occupa. Insomma, cultura di frontiera»31. Per questo sarebbe potuto essere «pittore degli uros o tori selvatici». L’analogia tra Goya e l’arte mediterranea preistorica delle grotte di Altamira era già apparsa in un saggio del 1911 intitolato Arte de este mundo y del otro. In esso, Ortega, in contrasto con la teoria di Worringer espressa in Formprobleme der Gotik (1911), secondo cui l’evoluzione dell’arte sarebbe parallela all’evoluzione della persona umana, e pertanto partirebbe da linee geometriche e solo in un momento successivo sarebbe caratterizzata dal realismo, rivendica per i pittori delle grotte di Altamira un «realismo aggressivo e vincente»32, «un genuino atteggiamento di fronte al Ivi, p. 785; tr. it. 79. Ivi, p. 786; tr. it. p. 79. 32 ID., Arte de este mundo y del otro, in OC, tomo I, cit., p. 445; tr. it. Arte di questo mondo e dell’altro, in Meditazioni del Chisciotte, cit., pp. 247-248: «Gli artisti spagnoli che tremila anni fa ricoprirono le pareti di una caverna con fi30 31

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mondo» e, ben lontano da ogni forma di mimetismo (come quello attribuito da Worringer), una vera e propria metafisica, ma che non è «astratta come quella dell’indoeuropeo, né è simile al naturalismo razionalista classico o al misticismo orientale»33. Si aprono qui nuove possibilità per le “razze caos”, non più e non solo condanna alla ripetizione senza memoria di un impressionismo incapace di trattenere il dileguare delle sensazioni, ma addirittura un atteggiamento innanzi al mondo su cui fondare una metafisica concreta. C’è, però, un’altra possibilità che, d’altra parte, ribadirebbe l’urgenza dell’integrazione mostrando come il progetto di salvazione non riguardi soltanto il lato mediterraneo ma anche quello germanico. In altre parole, la cultura mediterranea, quella delle superfici propria degli uomini sensuali, rivela non solo il suo carattere di insostituibilità ma anche la virtualità di istallarsi in un piano originario, in quella situazione “adamitica” da primo uomo che ben si concilia con la messa tra parentesi della tradizione operata dall’epoché husserliana. Certo può sembrare alquanto contraddittoria l’analogia tra la cultura mediterranea e la fenomenologia di un filosofo “germanico” come Husserl. Ma il fatto è che i due tipi di uomini, i «meditativi» e i «sensuali» del paragrafo nono intitolato “Le cose e il loro senso”, potrebbero trovare una forma di integrazione nella figura del fenomenologo. Certo si tratta pur sempre di una fenomenologia declinata in chiave orteghiana, che comporta la convivenza di motivi neokantiani, come ad esempio la funzione connettiva attribuita al gure di bisonti – esattamente urus o tori d’Europa – aspirano ad inaugurare la storia dell’arte. E si dà il caso che la loro opera trasudi attraverso i millenni un realismo aggressivo e vincente. I magnifici tori, dalla nuca rigonfia e chiomata, quei superbi quadrupedi la cui vista meravigliò Cesare quando entrò in Aquitania, e dei quali rimangono solo alcune centinaia di esemplari in due fattorie dello zar di Russia, sopravvivono immortalati da mani ferme, guidate da cuori violentemente amanti del reale nell’affresco preistorico di Altamira. Goya, nei suoi disegni sulla tauromachia, è un misero discepolo di quei pittori iberici». 33 Ibidem; tr. it. p. 248.

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concetto definito come «rito amoroso», con il modo di guardare della meditazione intesa come «esercizio erotico». Convivenza, potremmo dire, tra due forme di sintesi34, una, quella del concetto, che pone ordine e inserisce le cose in una struttura; l’altra, quella della meditazione, prendente le mosse dalle superfici, che fa leva sulla capacità insita in ogni cosa di alludere alle altre. Anche qui ci troviamo di fronte a un caso di oscillazione tra neokantismo e fenomenologia, in cui, però, l’insistenza sul termine “concetto” sembra far pendere l’ago della bilancia dal lato di Marburgo. Eppure, in questo stesso paragrafo, sono i riflessi a riportare l’equilibrio – pur manifestandosi in un’articolazione del campo in centro e periferia di matrice natorpiana35 – richiamando altri confronti, che di certo farebbero piacere a chi, come Philip Silver, ha impostato la sua analisi del rapporto tra Ortega e la fenomenologia prevalentemente su un confronto con Merleau-Ponty 36, anche se qui meriterebbero di essere richiamati i passaggi che il fenomenologo francese dedica ai riflessi37 più che 34 E tra due concetti di cultura, che hanno spinto Javier San Martín a parlare delle Meditaciones del Quijote come di un libro-crocevia, cfr. J. SAN MARTÍN, Meditaciones del Quijote, un libro de encrucijada, in «Revista de Filosofía», 10, 2014, pp. 127-143, in part. p. 138, dove, dopo aver segnalato l’influenza che esercitano i Beiträge di Schapp e le Ideen di Husserl, afferma «qui si annuncia tutta una nuova filosofia della cultura, che, da cultura superiore, si trasforma in ritorno tattico che occorre fare per appropriarsi della vita spontanea e renderla sicura». 35 Cfr. P. NATORP, Einleitung in die Psychologie nach Kritischer Methode, Mohr, Freiburg, 1888, p. 13. Sulla distinzione natorpiana tra contenuto di coscienza e coscienza di quel contenuto e sulla sua influenza in Ortega non si può non rimandare a N. ORRINGER, Ortega y sus fuentes germánicas, Gredos, Madrid, 1979, pp. 82 e ss. 36 P. SILVER, Fenomenología y razón vital, Alianza, Madrid, 1978. 37 M. MERLEAU-PONTY, Il visibile e l’invisibile, a cura di M. Carbone, tr. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano, 1994, p. 272: «Non c’è coincidenza del vedente e del visibile. Ma ciascuno attinge all’altro, prende o sopravanza sull’altro, si incrocia con l’altro, è in chiasma con l’altro. In che senso questi chiasmi molteplici fanno tutt’uno: non nel senso della sintesi, dell’unità originariamente sintetica,

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al cogito che «deve scoprirmi in situazione» e al corpo come «nostro mezzo generale per avere un mondo» della Fenomenologia della percezione38. Senza dimenticare Eugen Fink39, con il quale Ortega ebbe un colloquio assai lungo, di cui è lo stesso Husserl a dare notizia40. Ritornando a Ortega, riportiamo pure un passaggio lungo che non solo introduce il “riflesso” ma che riproduce una situazione tipicamente fenomenologica, quella cioè in cui realtà e apparenza si costituiscono all’interno di decorsi fenomenici41. ma sempre nel senso dell’Uebertragung, del sopravanzamento, quindi dell’irradiamento d’essere». Vedasi anche ID., L’occhio e lo spirito, tr., intr. e note di G. Invitto, Edizioni Milella, Lecce, 1971, p. 46: «Perché meditare ora sui riflessi, sugli specchi? Questi duplicati irreali sono una varietà delle cose, sono effetti reali come i rimbalzi di una palla. Se il riflesso rassomiglia alla cosa stessa, è perché esso agisce sugli occhi pressappoco come farebbe una cosa. Esso inganna l’occhio, genera una percezione senza oggetto, ma che non inficia la nostra idea del mondo. Nel mondo c’è la cosa stessa, e c’è fuori di essa quella altra cosa stessa che è il raggio riflesso, e che si trova ad avere con la prima una corrispondenza regolata, due individui dunque, legati di fuori dalla causalità. La somiglianza della cosa e della sua immagine speculare non è per esse che una denominazione esteriore, essa appartiene al pensiero. L’ambiguo rapporto di somiglianza è nelle cose un chiaro rapporto di proiezione». 38 ID., La fenomenologia della percezione, tr. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano, 2003, pp. 21 e 202. Su questo aspetto cfr. V. COSTA, Il movimento fenomenologico, La Scuola, Milano, 2014, pp. 70-76: “Merleau-Ponty: l’arco intenzionale e il corpo che abita il mondo”. 39 E. FINK, L’oasi del gioco, a cura di A. Calligaris, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008, p. 37: «L’immagine riflessa del pioppo esiste in quanto riflesso, vale a dire in quanto determinato fenomeno di luce, in quanto cosa reale, e comprende in sé il pioppo “irreale” del mondo dei riflessi […]. L’intera dottrina platonica dell’essere […] opera sempre con copie di copie, come ombre e riflessi, e spiega così la formazione del mondo». 40 Cfr. E. HUSSERL, Brief an G. Albrecht (26/11/1934), in Id., Briefwechsel, Hua, Dokumente, IX, hrsg. von K. und E. Schuhmann, Springer, Dordrecht, 1994, p. 111. 41 Su questo aspetto, vedasi V. COSTA, Husserl, Carocci, Roma, 2009, p. 36: «Così, se diciamo che qualcosa è solo un’illusione, lo diciamo perché l’esperienza ci suggerisce di abbandonare una precedente posizione di realtà. Per

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Quando apriamo gli occhi […] c’è un primo istante in cui gli oggetti penetrano convulsi nel campo visivo. Sembra che si allarghino, si stirino, si disuniscano come se fossero di una corporeità gassosa tormentata da una raffica di vento. Ma poco a poco subentra l’ordine. Per prime si acquietano e fissano le cose che cadono al centro della visione, poi quelle che occupano i bordi. Questo acquietarsi e questa fissità dei contorni provengono dalla nostra attenzione che le ha ordinate, che ha teso, cioè, fra di esse una rete di relazioni. Una cosa non si può determinare e delimitare se non in relazione ad altre. Se continuiamo a prestare attenzione a un oggetto, questo si andrà determinando sempre più, perché troveremo in esso più connessioni e riflessi delle cose circostanti. L’ideale sarebbe fare di ogni cosa il centro dell’universo. Questa è la profondità: ciò che in qualcosa è riflesso, allusione alle altre cose. Il riflesso è la forma più sensibile di esistenza virtuale di una cosa in un’altra. Il “senso” di una cosa è la forma suprema della sua coesistenza con le altre, è la sua dimensione profonda. No, non mi basta possedere la materialità di una cosa, ho bisogno di conoscerne il “senso”, cioè l’ombra mistica che il resto dell’universo spande su di essa42.

D’altra parte, sul riflesso Ortega sarebbe ritornato in un’altra meditazione, quella della cornice – che è una delle tracce del magistero simmeliano43 – in particolare nel passaggio in cui spiega il predominio della cornice dorata, fatta da una materia, la porporina, che dà maggior quantità di riflessi, i quali a loro volta esempio, quando vediamo qualcosa nella nebbia, e crediamo di trovarci di fronte a un uomo. Avvicinandoci, però, la nostra esperienza si arricchisce, nuove manifestazioni si fanno avanti e motivano un cambiamento del nostro modo di intendere ciò che si manifesta, cosicché abbandoniamo la precedente credenza e diciamo di trovarci di fronte a un manichino». 42 J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, cit., p. 782; tr. it. p. 75. 43 Cfr. G. SIMMEL, “La cornice del quadro. Un saggio estetico”, in M. Mazzocut-Mis (a cura di), I percorsi delle forme. I testi e le teorie, Mondadori, Milano, 1997, in part. p. 211, dove si sofferma sul ruolo della cornice nel sottolineare la condizione di chiusura e di autosufficienza dell’opera d’arte, ma anche nel propiziare l’apertura, l’offerta e il dono.

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hanno la virtualità di interrompere e di delimitare, compiendo in questo modo la funzione racchiudente e garante della visibilità propria della cornice44. Scrive Ortega: Il riflesso non è di ciò che riflette né di ciò che si riflette, ma è piuttosto qualcosa tra le cose, uno spettro senza materia. Per questa ragione, per il fatto che non ha forma né è forma di nulla, non riusciamo a ordinarne la visione ed esso ci abbaglia. Così, la cornice dorata, con i suoi acuti fulgori, inserisce fra il quadro e l’ambiente reale una striscia di puro splendore. I suoi riflessi, agendo come minute daghe eccitate, tagliano incessantemente i fili che, senza volerlo, tendiamo fra il quadro irreale e la realtà circostante45.

Sempre nel paragrafo nono, la virtualità connettiva del concetto è strettamente legata al suo non essere una cosa, ma ciò che è tra le cose, vale a dire, un limite46. “Cosa virtuale”, “natura sche44 Sulla cornice come soglia tra luogo e spazio, tra finito e infinito, cfr. F. MASI, I modi della figura. Tre studi per un’estetica eidologica, Guida, Napoli, 2011, in part. p. 43. Si veda altresì P. SPINICCI, Simili alle ombre e al sogno. La filosofia dell’immagine, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, p. 21: «La cornice è una freccia che indica un luogo e promette una visibilità: si fa garante del fatto che nello spazio che racchiude si possa vedere una scena, un paesaggio, un volto. Ma proprio questo è il punto: forse vediamo un volto dipinto solo perché sappiamo leggere la promessa di una cornice e perché abbiamo imparato a comprendere lo stile in cui l’immagine è scritta». 45 J. ORTEGA Y GASSET, Meditación del marco, in Obras completas, tomo II, cit., pp. 435-436; tr. it. Meditazione della cornice, in Meditazioni del Chisciotte, cit., p. 31. 46 In questo preciso punto Ortega fa riferimento a Hegel, per il quale, «i limiti sono nuove cose virtuali che s’interpolano e s’interpongono fra le cose materiali, nature schematiche la cui missione consiste nel marcare i confini degli esseri, avvicinarli per farli convivere e, insieme, distanziarli perché non si confondano e annichilino» (J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, cit., p. 783; tr. it. p. 76). La fonte, com’è stato già segnalato da Hernández Sánchez, è Phänomenologie des Geistes. Vedasi G.W.F. HEGEL, La fenomenologia dello spirito, tr. it. di E. De Negri, intr. di G. Cantillo, Edizioni di Storia e Lette-

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matica”, limite che garantisce il rispetto reciproco tra le cose, quella non invadenza che consente la loro connessione amorosa, ma anche – secondo quanto emerge dal paragrafo immediatamente successivo – il legame, a sua volta un contenuto schematico “spettrale”, che ne impedisce il dileguare o la fuga. Il riferimento è al passo del Menone in cui Socrate paragona le opinioni vere non incatenate da un ragionamento di causalità [aitías loghismò] alle statue di Dedalo, che se non venivano legate fuggivano di notte dai giardini, per poi affermare che «la differenza tra scienza e retta opinione sta, appunto, nel collegamento»47. Così Ortega, trovando una mediazione tra l’etimologia latina di per-ceptio e quella che Hegel aveva “imposto” al tedesco, Wahrnehmung, nella Fenomenologia, può scrivere che «se restituiamo alla parola percezione il suo valore etimologico – in cui si allude a prendere, afferrare –, il concetto sarà il vero strumento o organo della percezione e dell’afferramento delle cose»48. Nulla di più dissimile dalla posizione di Husserl, finanche del primissimo Husserl, quello che nella Filosofia dell’aritmetica aveva rilevato, contro Kant, la presenza di collegamenti contenutistici in cui «non c’è traccia di una qualche attività sintetica»49. Il che comportava, come il percorso husserliano avrebbe reso sempre più evidente e con sempre maggiore consapevolezza, che la sensibilità non ha nulla di caotico e che la forma non dipende dalla messa in forma dell’intelletto. Ma con ciò il rapporto tra senratura, Roma, 2008, p. 3: «la diversità è piuttosto il limite della cosa, essa è là dove la cosa cessa». Cfr. D. HERNÁNDEZ SÁNCHEZ, Estética de la limitación. La recepción de Hegel por Ortega y Gasset, Ediciones Universidad de Salamanca, Salamanca, 2000, p. 145. Sulle ragioni che avrebbero spinto Ortega a ricorrere alla Fenomenologia dello spirito anziché alla Scienza della logica, cfr. C. CANTILLO, La ragione e la vita. Ortega y Gasset interprete di Hegel, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2012, pp. 59-60. 47 PLATONE, Menone, 97 d-98 a. 48 J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, cit., p. 784; tr. it. p. 78. 49 E. HUSSERL, Filosofia dell’aritmetica, a cura di G. Leghissa, Bompiani, Milano, 2001, p. 83.

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sibilità e intelletto riceveva un’impostazione completamente diversa: «alla via kantiana che va dal giudizio all’esperienza si contrappone il cammino che dall’esperienza conduce al giudizio, seguendo un percorso delineato dall’articolazione degli oggetti esperiti»50. Una via che appare chiara nelle Ricerche logiche, a cui si affianca altresì il convincimento che la percezione è percezione di cose e non di immagini racchiuse nella soggettività51. E sebbene la nozione di “messa in forma” sia, a detta dello stesso Husserl, una formula inappropriata, che ancora persiste al livello di Idee I, seppur riferita alla noesi52, e che verrà poi superata in virtù di quella di sintesi passiva, Ortega, mostra, in particolare nel paragrafo tredicesimo della “Meditazione prima”, intitolato “La poesia realista”, un’indecisione che gli impedisce non solo di liberarsi dalla nozione di caos iletico e di “immagine mentale”, ma anche di cogliere fino in fondo il senso del correlativismo noetico-noematico, che in lui non assume la forma di una traiettoria unitaria di un atto bipolare indirizzato verso un telos, come è quello intenzionale, ma di due movimenti in cui delle volte prevale l’uno e delle altre quello ad esso contrario. Un’altra citazione si rende qui necessaria: Si sa che l’azione del vedere consiste nell’applicare ad una sensazione un’immagine che già possediamo in precedenza. Un punto oscuro in lontananza è visto da noi successivamente come una torre, come un albero, come un uomo. Si dà così ragione a Platone, il quale spiegava la percezione come risultante di qualcosa che va dalla pupilla all’oggetto e di qualcosa che viene dall’oggetto alla 50

p. 140.

P. SPINICCI, Sensazione, percezione, concetto, il Mulino, Bologna, 2000,

Ivi, p. 137. V. COSTA, Husserl, cit., p. 57: «A margine della sua copia d’uso di Idee I, laddove aveva parlato della noesi come di una “messa in forma” che introduce l’intenzionalità in quelle morte materie che sono i dati sensibili, Husserl annota che si tratta di un “modo discutibile di esprimersi”». Cfr. E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, I, cit., p. 215. 51

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pupilla […]. Ci sono distanze, luci e inclinazioni, dalle quali il materiale sensibile delle cose riduce al minimo la sfera delle nostre interpretazioni. Una forza di concrezione impedisce il movimento delle nostre immagini. La cosa inerte e aspra sputa da sé tutti i “sensi” che tentiamo di darle: sta lì, davanti a noi, affermando la sua muta, terribile materialità di fronte a tutti i fantasmi. Ecco ciò che chiamiamo realismo: portare le cose a una determinata distanza, metterle sotto una luce, inclinarle in modo che si accentui il lato che digrada verso la pura materialità53.

Diviene a questo punto chiaro come il mantenimento della nozione di caos iletico, ma anche i residui di una impostazione fisiologica dell’esperienza incentrata sul concetto di sensazione separata dal senso, decidano in anticipo la propensione orteghiana per una sintesi esterna e soggettivistica, per una «missione di chiarezza» dal sapore trascendentalistico, per un concetto di «interpretazione» che, a differenza di quello husserliano, non sembra – almeno per ora – potersi tramutare successivamente in sintesi interna ai fenomeni che l’atto noetico esplicita in una direzione di senso che si è costituita passivamente. Che la separazione tra «senso» e «materialità delle cose» – scoperta, questa, che Ortega fa camminando per la campagna di Montiel con Don Chisciotte e Sancho54 – non sia solo un ostacolo per l’accoglimento pieno della fenomenologia ma che, al di là di sintesi interne ed esterne, passive e attive, confluisca nella postura del raziovitalismo è giustappunto ciò che fa delle meditazioni orteghiane qualcosa in più di una mera ricezione e traduzione in chiave letteraria di due correnti filosofiche tedesche. Quel che però costituisce un elemento d’accordo tra Ortega e Husserl, in particolare quello delle Lezioni sulla sintesi passiva, è il convincimento sulla tendenza insita nella percezione di anJ. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, cit., p. 813; tr. it. p. 114. Ivi, p. 812; tr. it. pp. 112-113. Sul binomio cavaliere-scudiero, cfr. G. CACCIATORE, Sulla filosofia spagnola. Saggi e ricerche, il Mulino, Bologna, 2013, in part. p. 44. 53

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dare oltre se stessa, «sulla pretesa di fare qualcosa che, per la sua stessa essenza, non è in grado di fare»55. Per questo Ortega può affermare, nel paragrafo quarto della “Meditazione preliminare” intitolato “Oltremondi”, che uno degli insegnamenti che ha tratto dal bosco è che Quando l’uomo che ha fede afferma di vedere Dio nella campagna fiorita e nei curvi contorni della notte, non si esprime in modo più metaforico di quanto farebbe dicendo di aver visto un’arancia. Se non esistesse altro che un vedere passivo, il mondo si ridurrebbe ad un caos di punti luminosi. Ma oltre al vedere passivo esiste un vedere attivo, che interpreta vedendo e vede interpretando; un vedere che è guardare. Platone seppe trovare per queste visioni che sono sguardi una parola divina: le chiamò idee. La terza dimensione dell’arancia non è che un’idea, e Dio è l’ultima dimensione della campagna56.

L’esempio dell’arancia, insieme all’impulso insito nella percezione di saltare la sua ombra, era già apparso nel paragrafo secondo, “Profondità e superficie”. Lì Ortega intendeva ribadire l’esistenza di varie specie di chiarezza, rivendicando per l’invisibile la forma di chiarezza più alta in quanto offrentesi ad un vedere attivo, alla stregua del bosco nascosto dagli alberi. Se in questo contesto, l’impossibilità di vedere congiuntamente il «diritto e il rovescio» rimanda ad un vedere “interpretante”, negli scritti preparatori Para un diccionario filosófico, in particolare alla voce “appercezione”, la scomposizione della percezione in due atti, quello della pura visione e quello dell’interpretazione, porta Ortega a fare un’incursione nella storia della filosofia attraverso le figure di Leibniz, Kant, Herbart e Wundt. A guidarlo è l’idea che alla pura visione, a quella non riflessa, si offre soltanto un’immagine parziale di un oggetto che a rigore non abbiamo da55 E. HUSSERL, Lezioni sulla sintesi passiva, tr. it. di V. Costa, a cura di P. Spinicci, Guerini, Milano, 1992, p. 33. 56 J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, cit., p. 769; tr. it. p. 59.

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vanti, o, secondo l’esempio e le parole che sceglie, «un’immagine caricaturale della tazza»57. È chiaro che Ortega, a partire da un’impostazione psicologistica, non solo afferma il carattere decisivo dell’«atto secondo» dell’interpretazione, ma mostra di mantenere una nozione di datità come sensazione, mancando in questo modo di coglierne la doppiezza che proprio la fenomenologia husserliana le aveva riconosciuto: da un lato sensazione, dall’altro oggetto intenzionale. Ci troviamo nuovamente innanzi ad un caso di affermazione di dualismo, che fa parte dello stile di pensiero orteghiano, di contro allo statuto che assume il doppio nella fenomenologia. E, infatti, un po’ più oltre, dopo aver richiamato la distinzione leibniziana tra petites perceptions e apperceptions, egli riprende l’esempio della tazza: «volendo risolvere l’immagine della tazza in immagini parziali, avvertiremmo che non si arriva mai ad uno stato di coscienza in cui non esista quella dualità tra il meramente sentito e il percepito. Si tratta di due forme irriducibili di coscienza: il “sentire” e il “percepire”»58. Vero è che questa, come quella precedente, è una citazione tratta da un testo non datato, incompleto e postumo che vide la luce nell’edizione di Garagorri delle Investigaciones psicológicas, assieme ai primi testi orteghiani sulla fenomenologia. E, tenendo conto della consapevolezza che manifesta Ortega circa la rilevanza – e il superamento, ad essa legato, dell’impostazione fisiologica – che il tema della sensazione riceve nella fenomenologia, tanto nella 57 J. ORTEGA Y GASSET, Para un diccionario filosófico, in Obras completas, tomo VII, cit., p. 354; tr. it. Per un dizionario filosofico, in ID., Sistema di psicologia e altri saggi, cit., p. 207: «La percezione, che sembra essere la forma più semplice di coscienza, si scompone […] in due diverse forme di coscienza ancora più semplici: la “visione” propria o pura e l’interpretazione di ciò che è stato visto come rappresentante di un oggetto. La percezione è la risultante di entrambi gli atti psichici. Ma in tale risultato ha la meglio l’atto secondo, quello che si dirige all’oggetto, quello in cui ci rendiamo conto dell’oggetto. La pura “visione”, invece, passa inosservata nella percezione: non ci rendiamo conto del fatto di vedere un’immagine caricaturale della tazza». 58 Ivi, p. 355; tr. it. p. 209.

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versione originale husserliana quanto nelle declinazioni di Gottinga – basti pensare al già citato Sobre el concepto de sensación – non è azzardato ipotizzare che la voce “appercezione” avrebbe potuto comprendere quantomeno un “intermezzo” sul movimento di “girare attorno” ad un oggetto e su quello di “avvicinarvisi”, su “cose visive” e su “cose reali” e soprattutto su un esito delle ricerche hofmanniane, foriero di altre grandi conquiste, vale a dire, la non corrispondenza «ma anzi la relativa indipendenza tra la base fisiologica e l’immagine»59. In realtà, è lo stesso Ortega ad avvertire il lettore che quello che gli sta offrendo è «uno schema conciso di ciò che potremmo chiamare la dottrina classica dell’appercezione. Ad essa deve limitarsi l’esposizione di un dizionario in cui non possono rientrare le discussioni della scienza viva» e aggiunge «non chiuderemo, però, questa nota senza avvertire che i problemi basilari della psicologia stanno subendo negli anni in corso una siffatta modificazione che nessuno, che nutra interesse per essa, può sottrarsi all’obbligo di correggere le dottrine classiche con le riforme recentissime»60. A riprova, poi, che la frequentazione orteghiana della fenomenologia non solo non finisca nel ’29, come egli stesso fece credere ai suoi discepoli diretti, ma anzi gli consenta di stringere sempre di più la curva del movimento circolare della sua “strategia di attacco”61, o in altre parole di focalizzare con maggiore ni59 J. ORTEGA Y GASSET, Sobre el concepto de sensación, in Obras completas, tomo I, cit., p. 638; tr. it. in ID., Sistema di psicologia e altri saggi, cit., p. 176. Sul peso che il testo di Hofmann ebbe nell’elaborazione husserliana di una terza via rispetto a quella dei gestaltisti e degli strutturalisti, ossia, quella della costituzione, cfr. V. COSTA, L’estetica trascendentale fenomenologica. Sensibilità e razionalità nella filosofia di Edmund Husserl, Vita e Pensiero, Milano, 1999, pp. 193-194. 60 J. ORTEGA Y GASSET, Para un diccionario filosófico, cit., p. 363; tr. it. p. 217. 61 Ci si riferisce qui alla metafora delle rose di Gerico, che Ortega impiega sia nelle Meditaciones del Quijote sia in ¿Qué es filosofía? per mostrare la virtualità del movimento circolare rispetto a quello lineare, l’efficacia di un attacco indiretto rispetto ad uno diretto.

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tidezza una questione, come quella di profondità e superficie, su cui si erano incentrate le Meditaciones, troviamo, dopo l’arancia e la tazza, la “mela fraudolenta” del corso El hombre y la gente. Per gustare quel peculiarissimo intreccio tra ironia, acutezza e precisione descrittiva, in cui consiste lo stile orteghiano, vale la pena di cedere il passo ad un’altra citazione lunga. Una mela è, per esempio, una cosa. Preferiamo supporre che sia la mela del Paradiso e non quella della discordia. In questa scena del Paradiso, scopriamo già un problema curioso: la mela che Eva presenta a Adamo è la stessa che Adamo vede, osserva e riceve? […]. Ogni cosa corporea ha in effetti due facce. Ma, come nel caso della luna, noi abbiamo presente solo una di queste. Sorpresi, ci rendiamo conto di qualcosa che, una volta capito, è di una grande ingenuità. E cioè: che quanto a vedere, quanto a ciò che si chiama vedere in senso stretto, nessuno ha mai visto la cosa che viene denominata mela, perché essa ha – a quel che sembra – due facce, delle quali però non ne è presente mai più di una. Inoltre se ci sono due esseri che la vedono, nessuno ne vede la stessa faccia, ma un’altra più o meno diversa. Posso certamente girare intorno alla mela o farla restare nella mia mano. In questo movimento mi si vanno presentando aspetti, cioè facce diverse della mela, ciascuna in rapporto di continuità con la precedente. Mentre sto vedendo, effettivamente vedendo, la seconda faccia, mi ricordo di quella che ho visto prima e la sommo a questa. È chiaro però che la somma di ciò che ricordo e di ciò che realmente vedo non mi consente di vedere insieme tutti i lati della mela. Questa dunque – come unità totale, come entità cui mi riferisco quando dico “mela”, – non mi è mai presente. Non mi è presente con radicale evidenza, ma solo – tutt’al più – con un’evidenza di second’ordine: quella che scaturisce dal mero ricordo, in cui si conservano le nostre esperienze anteriori riguardo ad una cosa. Ne segue che alla presenza effettiva di ciò che è solo parte di una cosa si va unendo automaticamente il resto di essa. Questa porzione non ci è presentata, bensì ci è compresentata e compresente. Vedete già la luce che ci offre questa idea del compresente – della compresenza annessa alla presenza di una cosa – per chiarirci la maniera in cui

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appaiono nella nostra vita le cose ed il mondo in cui le cose si trovano. L’idea è dovuta al grande Husserl62.

Il passo è tratto dalla lezione “Estructura de ‘nuestro’ mundo”, ove Ortega si sofferma su due delle quattro leggi strutturali, nel senso che definiscono non le cose del mondo ma la sua struttura. Ebbene, mentre la prima stabilisce che il mondo «si compone di poche cose presenti e di moltissime latenti», la seconda «ci dice che il mondo in cui dobbiamo vivere possiede sempre due termini e organi: la cosa o le cose che vediamo chiaramente ed uno sfondo dal quale esse si staccano»63. Ritorna in questo modo quel concetto di latenza e di invisibilità a cui erano state dedicate le prime pagine della “Meditazione preliminare”, tuttavia ora non solo si riconosce all’invisibile una sua peculiare forma di manifestazione, ma gli s’aggiunge anche un concetto tratto direttamente da Husserl, ovvero, quello di compresenza, il quale, a sua volta, si porta dietro quello di sfondo e di orizzonte. E così, «la struttura del mondo risulta un poco più complicata, poiché di esso abbiamo ora tre piani o termini: in primo luogo, la cosa che c’interessa, poi l’orizzonte sul quale la cosa appare, infine l’al di là latente»64. S’avverta la corrispondenza tra il passo appena citato e il seguente, tratto da un testo che Ortega ben conosceva: «tutto ciò che è attivamente presente alla coscienza e, correlativamente, l’attivo aver-coscienza, il dirigersi-su, l’occuparsi-di, è sempre circondato da un’atmosfera di validità mute e occultate ma implicitamente fungenti, da un orizzonte vivente»65. ID., El hombre y la gente, in Obras completas, tomo X, Taurus, Madrid, 2010, pp. 175-176; tr. it. L’uomo e la gente, a cura di L. Infantino, Armando, Roma, 2005, pp. 67-68. 63 Ivi, pp. 177-178; tr. it. pp. 69-70. 64 Ivi, p. 178; tr. it. p. 70. 65 E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. di E. Filippini, prefazione di E. Paci, Net, Milano, 2002, p. 177. 62

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Come appare evidente, al caos iletico si sostituisce ora in Ortega una nozione di campo sensibile in cui il rapporto profondità-superficie viene dinamizzato, in virtù di un concetto di temporalità intesa come struttura di rimandi motivazionali. Ed è così che il presente si stacca per contrasto dallo sfondo anticipando non ciò che è assente ma ciò che è com-presente. Il ruolo che gioca la temporalità in questa riabilitazione della sensibilità è già emerso dalle riflessioni con cui Ortega aveva circuito quell’oggetto che aveva dato origine niente di meno che al peccato originale. Certo che il linguaggio non è prettamente husserliano; per esserlo bisognerebbe sostituire il termine “ricordo” con quello di “ritenzione”, “presenza effettiva” con “impressione originaria”, “somma” con “sintesi passiva”, “unione automatica” con “anticipazione protenzionale”. Quel che conta è che, seppure per una via del tutto originale, Ortega sia infine riuscito a sciogliere parte delle ambiguità presenti nel suo primo libro ridefinendo l’opposizione tra passivo e attivo che, allora, aveva trovato una formulazione poetica nel sintagma “selva ideale”. Possiamo, quindi, concludere che, anche alla fine del suo percorso, la frequentazione «del grande Husserl» lo abbia portato a ridefinire l’atto interpretativo, non più inteso come una messa in forma del caos, bensì come trasformazione della tendenza passiva in attesa cui l’io aderisce. Al posto quindi di un vedere e di un udire passivi e di un vedere e di un udire attivi, troviamo la nozione di sfondo e quella di orizzonte, che, tra le altre cose, hanno la virtualità di radicare l’intenzionalità d’atto in un’inclinazione generata dall’apparire stesso, un apparire intrinsecamente legato, connesso, associato, dinamico e temporale, o, in altre parole, un apparire che non è caos e che per ciò stesso – giusto per mantenere la metaforica orteghiana – non si pone come un selvaggio davanti al concetto civilizzatore.

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Javier San Martín

Il Chisciotte come un trattato sulla realtà. A partire dalle Meditazioni del Chisciotte Nelle pagine che seguono, proverò ad esporre alcune delle idee che stanno alla base dell’ultima delle tre parti che formano Meditazioni del Chisciotte, la “Meditazione prima (Breve trattato sul romanzo)”. Nelle non molte pagine in cui si articola il testo di Ortega, viene offerto un punto di vista sull’imperituro libro di Cervantes che non può lasciare indifferenti i filosofi. In esse, viene evidenziata la profondità filosofica del Chisciotte, profondità che i discepoli di Ortega, Gaos e Marías, seppero cogliere, a differenza della mia generazione, che era stata fuorviata da una lettura antipedagogica del Chisciotte, così come veniva fatta nelle scuole, e dall’anti-orteghismo sviluppatosi durante il franchismo. Intendo suddividere il lavoro in cinque sezioni. Nella prima, traccerò la cornice generale come risposta ad un “compito” lasciatoci da Ortega, che riguarda sia se stesso sia il Chisciotte. Nella seconda, metterò in evidenza l’intertestualità delle Meditazioni, che, d’altra parte, costituisce un passaggio imprescindibile per interpretare la parte del libro dedicata al Chisciotte. Nella terza, illustrerò la struttura di questa stessa meditazione per poi passare ad esporre, nella quarta parte, i tre concetti di realtà che Ortega scopre nel Chisciotte, e ciò nella consapevolezza che è attraverso tali concetti che egli ci fornisce l’indizio, che poi avrebbe raccolto Gaos, del tema del Chisciotte: la ragione e la realtà, tema filosofico per eccellenza. Infine, e in sintesi, dirò in che senso il Chisciotte è una metanarrazione sulla modernità, carattere, questo, che lo rende poco atto alla scuola, proprio per essere troppo moderno.

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1. Nell’anno del Centenario delle Meditazioni, per esaurire il nostro debito

Il 1914 è un anno oltremodo rilevante per la filosofia spagnola, in quanto è l’anno della pubblicazione delle Meditazioni del Chisciotte, oltre a rappresentare la data di fondazione di quella che successivamente si sarebbe chiamata “Escuela de Madrid”, attorno a cui si concentrarono alcuni dei più importanti filosofi che ha dato la Spagna. Quello stesso anno, inoltre, richiama la data di pubblicazione della seconda parte del Chisciotte, avvenuta nel 1615, e, come vedremo, non è solo un dato cronologico ciò che lega il capolavoro cervantino alle Meditazioni orteghiane. Vorrei iniziare confessando il debito che noi filosofi abbiamo con le Meditazioni del Chisciotte, e in generale con Ortega, anche se si tratta di un debito che stiamo pagando man mano e con grandi difficoltà. Parimenti, abbiamo un debito con Cervantes, in quanto autore del Chisciotte, il quale, d’altra parte, non è un libro che rientri tra i nostri compiti filosofici. Visto che Cervantes non è un filosofo, sembrerebbe che non vi sia motivo di occuparsi di lui, come non v’è motivo di occuparsi di Baltasar Gracián, un gesuita difficilmente assimilabile ai filosofi convenzionali, benché sia stato un autore molto caro a Schopenhauer e a Nietzsche, che non è dir poco. Questi autori ci pongono un cargo1, vale a dire, ci hanno lasciato un capitale, in questo caso intellettuale, di cui non abbiamo usufruito, eppure è lì, a generare interessi e, di conseguenza, a far aumentare il nostro debito. Termine proveniente dal lessico della contabilità tradizionale delle società religiose o ricreative dell’epoca moderna (e forse anche medievale), vale a dire, capitoli religiosi, confraternite, società di campagna, o quelle più moderne di cacciatori, che sono note all’Autore per i suoi studi di etnostoria sulla Navarra. Il cargo erano le entrate che riceveva il Presidente o la Giunta Direttiva, e il descargo la presentazione della documentazione delle spese, che in genere veniva fatta ogni anno. 1

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È per questo che io concepisco tutte queste occasioni di interesse rivolte alla filosofia spagnola come una resa dei conti, come una sessione di descargo, in questo caso, di un encargo circa il Chisciotte che Ortega ci ha lasciato ormai da cent’anni. Nel paragrafo quindicesimo di Meditazioni del Chisciotte, “La critica come patriottismo”, l’ultimo della “Meditazione preliminare”, egli afferma che Cervantes è la pienezza spagnola: una parola da brandire come una lancia: Se un giorno venisse qualcuno a rivelarci il profilo dello stile di Cervantes, basterebbe prolungare le sue linee sugli altri problemi collettivi per svegliarci a nuova vita. […]. Questi furono i pensieri suscitati da una sera di primavera nel bosco che cinge il Monastero dell’Escorial, la nostra grande pietra lirica. Furono loro a farmi risolvere a scrivere questi saggi sul Chisciotte2.

E conclude il paragrafo con un’evocazione profondamente metafisica e poetica. Si tratta, a mio avviso, di una delle espressioni più poetiche di Ortega, che, d’altra parte, non può non farmi venire in mente la tesi di Eugen Fink circa il rapporto tra l’essere umano e il mondo3. Scrive, infatti, Ortega: L’azzurro del crepuscolo aveva inondato tutto il paesaggio. Le voci degli uccelli giacevano addormentate nelle loro gole minute. Allontanandomi dalle acque che scorrevano, entrai in una zona di silenzio assoluto. E il mio cuore uscì allora dal fondo delle cose, come un attore che avanza sulla scena per dire le ultime drammatiche parole. Paf… paf… Cominciò il ritmico martellare e attraverso di esso mi si infiltrò dentro un’emozione tellurica. In alto, una

J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, in Obras completas, tomo Madrid, 2004, pp. 793-794; tr. it. Meditazioni del Chisciotte, a cura di B. Arpaia, introduzione di O. Lottini, Guida, Napoli, 1986, p. 89. 3 Per Fink, l’essere umano deve essere definito in primo luogo dal suo rapporto col mondo, rapporto, questo, che implica un comportamento. In effetti rapporto si dice Verhältnis, e comportamento Verhalten. 2

I, Taurus,

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stella batteva al medesimo tempo, come se fosse un cuore siderale, gemello del mio e, come il mio, gonfio di paura e di tenerezza per le meraviglie del mondo4.

Mi domando se qualcuno abbia mai fatto suo questo incarico o se almeno abbia provato a farlo. Ci troviamo a cent’anni da queste parole così belle, eppure bisogna dire che almeno due hanno cercato di farsi carico di esse, seppure tale tentativo non abbia avuto continuità tra di noi, che non abbiamo saputo raccogliere il loro seminato, dacché, per una ragione o un’altra, a un certo punto decidemmo di slegarci da loro, e così siamo rimasti. Mi riferisco ai due allievi di Ortega, José Gaos e Julián Marías, che hanno provato a rispondere a questo incarico lasciatoci da Ortega, e anche se non lo fecero nei termini ideali in cui egli l’aveva originariamente annunciato, seppero, tuttavia, dare una risposta a quest’osservazione delle Meditazioni del Chisciotte. A distanza di un secolo non è superfluo fare un bilancio. E, in proposito, non ci si può esimere dal menzionare, ancora una volta, la parte di responsabilità che la mia generazione ha avuto nel sancirne la damnatio memoriae. A dire il vero, neanche quella precedente – ad eccezione di Pedro Cerezo e, in una certa misura, José Luis Abellán – fece molto; ma soprattutto la mia, quella che ha ricoperto la maggior parte delle cattedre negli ultimi vent’anni, si è mostrata totalmente cieca e sorda innanzi a questo incarico. Il fatto è che non soltanto non ci si assunse, né si cercò di farlo, l’incarico segnalato da Ortega, ma non si lesse neanche Ortega, e ancor di meno le stesse Meditazioni del Chisciotte. Nell’Università Complutense di Madrid, venne celebrato, se non erro nel 1994, un grande Seminario sulle Meditazioni che riscosse un certo successo; occorre, infatti, dire che dal 1983 è cominciata una nuova epoca, sebbene il recupero di Ortega sembri procedere con una preoccupante lentezza. Tuttavia, considerato in prospettiva e paragonato a quel che avevamo prima di quella data 4

ID., Meditaciones del Quijote, cit., p. 794; tr. it. pp. 89-90.

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(il 1983, che era appunto la data del Centenario della nascita di Ortega) siamo andati un bel po’ in avanti. Vero è che ancora non possiamo dire che le Meditazioni del Chisciotte costituiscano un vademecum di ogni studente di filosofia di lingua spagnola, diversamente da come, a mio avviso, dovrebbe essere. Ciò vale per Ortega; ma come stanno le cose con Cervantes o con il Chisciotte, ovvero, con ciò a cui punta l’incarico di Ortega? Credo che tutto sia come prima. Né il ricco saggio di Marías su Cervantes5 – che, a mio giudizio, è uno dei suoi libri migliori – né quelli di Gaos6, scritti dal Messico, che, inoltre si iscrivono nella linea apertasi con gli scritti giovanili sul Quijote desde Ortega7, sono stati colti come un’occasione per cambiare le cose. E ciò perché, tra i membri della mia generazione, praticamente nessuno si è occupato di questi temi nelle aule universitarie, e ciò nonostante sia quel che Ortega ci mostra sia quello che ci induce a vedere nel Chisciotte arrivi al cuore stesso della filosofia. 2. L’intertestualità delle Meditazioni

Prima di entrare nel vivo del tema che intendo sviluppare, credo sia utile gettar luce su un requisito preliminare, ovvero, l’interJ. MARÍAS, Cervantes clave española, Alianza, Madrid, 1990. J. GAOS, El Quijote y el tema de su tiempo (1947), in Obras completas, tomo IX, UNAM, México, 1992, pp. 463-475 e ID., El tema del Quijote (1966), in Obras completas, tomo IV, a cura di F. Salmerón, UNAM, México, 2000, pp. 51-98. 7 F. SALMERÓN, Los estudios cervantinos de José Gaos, in «El Colegio Nacional», 45, pp. 369-385, in part. p. 370 e ss. Il testo si trova anche in ID., Escritos sobre José Gaos, El Colegio de México, México, 2000, pp. 259-292. Per quel che riguarda l’interesse di Gaos per il Chisciotte, vedasi la nota 3 di J. PIÑERO VALVERDE, “El primer ensayo de José Gaos sobre el Quijote”, in Tus obras los rincones de la tierra descubren, Actas del VI Congreso Internacional de la Asociación de Cervantistas, a cura di A. Dotras Bravo, Centro de Estudios Cervantinos, Alcalá, 2008, pp. 611-622. 5

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testualità delle Meditazioni del Chisciotte. Il problema dell’intertestualità è stato studiato da Imman Fox in un articolo apparso nella rivista «Insula» nel 1984 che va sotto il titolo Revelaciones textuales sobre las Meditaciones de Ortega, e in cui vengono pubblicate le sue scoperte sul contesto della “Meditazione prima (Breve trattato sul romanzo)”. Si trattava di uno studio volto a giustificare l’esito cui era giunta la sua riflessione sul Baroja autore di romanzi, ed è giustappunto per ciò che egli avverte il bisogno di porsi la domanda “Cos’è un romanzo?”. Appare dunque chiaro che, nell’intertestualità della “Meditazione prima”, il referente non è né Cervantes né il Chisciotte, bensì Baroja. In effetti, alla sezione dedicata al “Breve trattato sul romanzo” viene dato il titolo “L’agonia del romanzo”; e ciò in riferimento all’interpretazione che Ortega dà degli sforzi che fece Baroja per creare romanzi, che, però, a suo parere, si concluderebbero con il fallimento artistico della sua novellistica. A Marías, invece, sfuggiva questa intertestualità e, per ciò stesso, egli non disponeva delle chiavi interpretative che possediamo adesso. La svolta da Baroja a Cervantes è dovuta alla pubblicazione, nel 1912, de El sentimiento trágico de la vida di Miguel de Unamuno. In tale opera, gli europeisti, ovvero coloro che miravano all’adozione della cultura europea al fine di modernizzare la Spagna, ricevevano l’appellativo di bachilleres carrascos, vale a dire, persone cieche rispetto alla sfera ideale. Com’è noto, la missione del baccelliere Carrasco è stata quella di restituire il giudizio a don Chisciotte, per farlo tornare a casa; il che avrebbe portato Alonso Quijano alla morte. Innanzi all’insulto e alla sfida di Unamuno, Ortega cambia il progetto precedente, che assumeva Baroja come punto di riferimento, e adatta il testo che era stato originariamente approntato per argomentare il suo giudizio su Baroja, aggiungendo due paragrafi, uno sui generi letterari, intesi come espressione di una visione del mondo; l’altro, sui romanzi esemplari di Cervantes, in cui egli percepisce due serie molto diverse, che poi saranno i due intenti teorici su cui si basa la struttura della “Meditazione prima” sul romanzo. Il primo paragrafo

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sui generi letterari risponde ad una nuova visione della cultura – la cui intertestualità ci è ormai nota – che si fa strada nella “Meditazione preliminare”. Quanto all’intertestualità in rapporto ad Unamuno, vi sono alcuni paragrafi della “Meditazione preliminare”, come ad esempio “La luce come imperativo”, che acquisiscono senso soltanto se si tiene presente il dibattito che con lui intrattiene Ortega circa il senso dell’Europa, e, pertanto, circa il senso della Modernità. Due degli articoli che costituiscono la gran parte della polemica sono: Sobre los estudios clásicos (OC I, 116-119) e Teoría del clasicismo8, pubblicato in due tempi, in cui si parla di una “filosofia della cultura”. Ed è per questo che la domanda che soggiace al nuovo progetto delle Meditazioni non è altra che “cos’è la cultura?”. Per questo stesso motivo, nel prologo alle Meditazioni, “Lettore…”, compare una definizione esplicita di cultura: l’atto specificamente culturale è quello che crea senso, quello attraverso il quale estraiamo il logos da ciò che è ancora insignificante (illogico). Ebbene, senza tener conto dell’intertestualità, si perde il contesto interpretativo. Marías, ad esempio, non fa alcun commento di questi brani oltremodo decisivi del prologo “Lettore”, e ciò nonostante in essi vi sia il nucleo dell’orteghismo, che non consiste nel prospettivismo spaziale, bensì in quello culturale. Il secondo elemento fondamentale dell’intertestualità – che non era noto neanche a Fox – è l’importanza che ricopre la figura di Wilhelm Schapp nel superamento del dualismo cartesiano. Descartes aveva fondato la modernità sulla divisione della realtà in due piani o ambiti, quello del cogito come res cogitans, e quello della realtà materiale come res extensa. Tutto appartiene o ad un piano o all’altro, e ciò sarà vero finché non venga scoperto – filosoficamente – che la realtà è molto più complessa di quello schema così puro; il quale si sarebbe rivelato come una falsifica8

Cfr. Obras completas, tomo I, pp. 116-119 e 120-126.

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zione della realtà. Ed è qui che si trova l’intertestualità di Schapp, il quale studiò con Husserl intorno al 1907 e pubblicò la sua tesi9, ma non senza segnalare di non essere in grado di stabilire cosa appartenesse a Husserl e cosa appartenesse propriamente a lui stesso. Nel 1984, venne pubblicato il tomo XXIV dell’Husserliana che raccoglie le lezioni del semestre invernale 1906-1907, a cui senza ombra di dubbio prese parte Schapp. In esse, v’è un brano molto interessante che merita di essere riportato per intero10: Se si vuole, si può dare il nome di psicologia a tutta la fenomenologia, a tutta la matematica, ad ogni scienza a priori, una nomenclatura che però non cancellerebbe la differenza radicale tra a priori e a posteriori né tantomeno la necessità di una psicologia come scienza naturale delle esperienze vissute degli individui psichici. È, inoltre, chiaro che su questa stessa strada si trova l’appa-

9 W. SCHAPP, Beiträge zur Phänomenologie der Wahrnehmung (1910), mit einem Vorwort zur Neuauflage von Carl Friedrich Graumann, V. Klostermann, Frankfurt a. M., 20044. 10 Wem es Vergnügen macht, der mag nun die gesamte Phänomenologie und die gesamte Mathematik und jede apriorische Wissenschaft Psychologie nennen, eine Nomenklatur, die aber die radikalen Unterschiede des Apriori und Aposteriori nicht aufheben würde, so wenig als die Notwendigkeit einer Psychologie als Naturwissenschaft von den Erlebnissen psychischer Individuen. Es ist auch klar, dass auf demselben Wege die scheinbare Psychologisierung der physischen Naturwissenschaft liegt, da alle Seinszusammenhänge auf ein „Bewusstsein“ zurückweisen, in dem sie sich phänomenologisch konstituieren oder konstituieren können. Hört aber Bewusstsein dabei auf, menschliches oder sonst ein empi risches Bewußtsein zu sein, so verliert das Wort allen psychologischen Sinn, und schließlich wird man auf ein Absolutes zurückgeführt, das weder physisches noch psychisches Sein im naturwissenschaftlichen Sinn ist. Das aber ist in der phänomenologischen Betrachtung überall das Feld der Gegebenheit. Mit dem aus dem natürlichen Denken stammenden, vermeintlich so selbstverständlichen Gedanken, dass alles Gegebene entweder Physisches oder Psychisches ist, muss man eben brechen (E. HUSSERL, Einleitung in die Logik und Erkenntinistheorie. Vorlesungen 1906/1907, a cura di U. Melle, Martinus Nijhoff, Dordrecht, 1984, p. 242).

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rente psicologizzazione della scienza naturale fisica, poiché tutte le connessioni d’essere rimandano ad una “coscienza” in cui si costituiscono o possono costituirsi. Se, però, la coscienza cessa di essere umana o almeno di essere una coscienza empirica, la parola perde qualsiasi senso psicologico ed infine si rimanda ad un Assoluto che non è un essere fisico né psichico nel senso delle scienze naturali. Questo, invece, per la considerazione fenomenologica è innanzitutto il campo della datità. Bisogna allora rompere con l’idea, apparentemente così ovvia, derivante dal pensiero naturale, che ogni dato è o fisico o psichico (Hua 24, 1906/1907, 242).

Questo terzo livello, quello della datità e del senso – nell’ottica di Schapp, le idee – è proprio quello che Ortega chiamerà la prospettiva, la mitologia, perché le cose ci si danno sempre in quel senso, in quella mitologia, nella cornice di una cultura. Nello stesso quindicesimo paragrafo della “Meditazione preliminare”, Ortega parla della razza come del soggetto di quella cultura: «ogni razza è, in definitiva, un tentativo di un nuovo modo di vivere, di una nuova sensibilità», che «suscita nuovi usi e istituzioni, nuova architettura e nuova poesia, nuove scienze e nuove aspirazioni, nuovi sentimenti e nuova religione»11. Avremo modo di vedere come proprio in ciò consista il cambiamento che Ortega introduce nella definizione del genere letterario. Quest’ultimo, infatti, lungi dall’essere qualcosa che possa essere scelto liberamente, risponde ad una visione epocale. I generi letterari sono «vere categorie estetiche», l’epopea, ad esempio, è un vero «contenuto [fondo] poetico sostanziale»12, che ha alle spalle un’intera concezione del mondo, il che implica una concezione dell’uomo. I generi letterari, quindi, espongono una concezione dell’uomo. Ogni epoca porta con sé un’interpretazione radicale dell’uomo, «o meglio, non la porta con sé, ma è quella stessa in11

12

J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, cit., p. 792; tr. it. p. 87. Ivi, p. 796; tr. it. pp. 92-93.

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terpretazione. Per questo, ogni epoca preferisce un genere determinato»13. Naturalmente, tutto ciò presuppone un’antropologia filosofica profonda, che comporta l’idea secondo cui l’uomo è fatto dalla sua cultura e che quest’ultima varia a seconda delle epoche. Il passaggio ulteriore consiste nel tentativo di vedere se sia possibile scoprire, dietro le variazioni radicali, categorie che possano includere tutti, ovvero, se vi sia o meno un’antropologia, dacché se gli uomini fossero radicalmente diversi non vi sarebbe spazio per l’antropologia, per una antropologia comune, ma soltanto per le antropologie. Ciò che Ortega sta cercando di dire è che il genere letterario è coerente con una mitologia, con una cultura, con un uomo, con una nozione di realtà. 3. La struttura della “Meditazione prima”, “Breve trattato sul romanzo”

In questa parte delle Meditaciones, ad Ortega interessa approfondire cosa sia il genere “romanzo”, nella misura in cui si tratterebbe del prodotto proprio della Modernità – l’epoca del Chisciotte – o ancor di più, il prodotto del Chisciotte. Per iniziare, Ortega introduce un paragrafo sulle novelle esemplari di Cervantes, nelle quali, a suo giudizio, sono distinguibili due tipi, giacché mentre in una delle serie vengono narrati accadimenti imprevisti, che quindi oltrepassano la sfera della vita quotidiana; viceversa, nell’altra, compaiono personaggi che appartengono a quest’ultima sfera. Con ciò Ortega intende segnalare le due grandi epoche della storia dei generi letterari, vale a dire, l’epoca dell’epica e l’epoca del romanzo. Una tale bipartizione trova un riflesso nella struttura stessa della “Meditazione prima”: la prima parte, i paragrafi che seguono al primo e al secondo, dal terzo all’ottavo, sono de13

Ibidem; tr. it. p. 93.

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dicati all’epoca dell’epica, mentre la seconda parte, a partire almeno dal paragrafo undicesimo, è dedicata all’epoca del romanzo. Tra le due parti della “Meditazione prima”, troviamo i paragrafi nono e decimo che illustrano il passaggio da un’epoca all’altra, dall’epoca dell’epica a quella del romanzo. Ed è proprio il Chisciotte, il romanzo del Chisciotte, ed in particolare il personaggio don Chisciotte, a segnare il passaggio da un’epoca all’altra. Su questo punto, vorrei inserire una breve riflessione circa questo tema orteghiano, prendendo spunto da Gaos. Ortega chiarisce molto bene che nel XIX secolo si assiste al trionfo o alla maturazione del romanzo14. E tuttavia, secondo quanto abbiamo appena affermato, la descrizione orteghiana del romanzo prende le mosse dalla differenza tra due serie di novelle esemplari. La prima, a cui ascrive El amante liberal, La española inglesa, La fuerza de la sangre, Las dos doncellas, ha al centro temi verosimili, per cui lo scrittore non deve caricare troppo i racconti, ma solo lasciarsi guidare dagli avvenimenti, giacché i personaggi sono in se stessi forti. Nell’altra serie, troviamo El celoso extremeño e Rinconete y Cortadillo, i due ragazzetti farabutti di Siviglia. In questi romanzi i personaggi sono volgari, in se stessi privi di interesse e proprio per questo ciò che conta è la capacità dell’autore di rivestirli di poesia. Abbiamo così una finestra sulle due epoche, ognuna delle quali ha un suo proprio genere letterario; laddove il genere della prima non è in senso stretto quello del romanzo, e, infatti, quest’ultimo è proprio della seconda epoca, che inizia allora ma che trionferà come genere letterario solo nel XIX secolo. Ebbene, Gaos, in linea con Ortega e con l’intento di rispondere al compito che il maestro aveva assegnato ai suoi discepoli, espone un’idea che mi sembra oltremodo interessante: l’epoca del romanzo non è la modernità. Il romanzo, di fatto, non 14

J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, cit., p. 799; tr. it. p. 96.

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trionfa nella modernità, giacché la sua maturazione, secondo quanto afferma lo stesso Ortega, avviene soltanto nel XIX secolo, ovvero, alle soglie dell’età contemporanea. A trionfare nella modernità è il teatro. Sappiamo bene che la modernità è l’epoca della rappresentazione. Tutte le opere fondamentali di quest’epoca barocca e classica, ad eccezione del Chisciotte, sono teatrali. Il teatro è il genere della modernità per eccellenza15. Inoltre, v’è un dato, che merita ulteriori approfondimenti, secondo cui lo stesso Chisciotte ha alle spalle numerose opere di teatro che venivano rappresentate in Italia e alle quali assistette Cervantes durante il suo soggiorno italiano. D’altra parte, la forma attraverso cui la letteratura raggiunge il popolo è proprio il teatro ed è da qui che scaturisce l’obbligo per gli autori, basti pensare a Lope de Vega, di fornire ai teatri un numero altissimo di opere, fino a raggiungere, come egli stesso fece, la cifra di milleottocento pezzi teatrali. Orbene, il riferimento alle novelle esemplari offre ad Ortega la chiave di quelle due epoche, ed è per questo che l’interpretazione orteghiana appare incentrata su una filosofia della storia che individua i concetti di realtà imperanti prima e dopo il Rinascimento, in piena Modernità. Nella “Meditazione prima”, troviamo, nella prima parte, l’analisi dell’epoca dell’epica, in cui domina il mito, mentre nella seconda viene studiata l’epoca del romanzo, in cui domina la realtà quotidiana. Come già detto, vi sono due paragrafi di transizione dalla prima alla seconda parte, il nono e il decimo, che prendono spunto dal teatrino di mastro Pedro (cap. XXVI della seconda parte del Chisciotte): una sorta di metafora dell’unione tra il mitico e il quotidiano. Ed è il personaggio di don Chisciotte a porre in connessione quei due mondi. Tale è la funzione che riveste il paragrafo decimo; che non è se non la funzione del Chisciotte: portare la realtà quotidiana al livello che fino a quel momento era dominio del mondo mitico, il mondo poetico (solo nella sfera mitica esisteva la poesia) 15

J. GAOS, El tema del Quijote, cit., p. 99.

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ma non senza scoprire un nuovo continente per la poesia, cioè scoprire la realtà quotidiana come ambito di creazione artistica, ossia, poetica. Proprio in ciò consiste il romanzo. 4. I tre approcci al concetto di realtà

La struttura della parte delle Meditazioni appena analizzata, nel segnalare la contrapposizione tra epoca del mito ed epoca del romanzo, porta ad un ripensamento del concetto di realtà. Ortega, in quella stessa “Meditazione”, opera tre approcci al concetto di realtà. Il primo di essi emerge quando si constata l’ambiguità della parola “realismo”. In effetti, nell’epoca del mito o della poesia epica, ciò che è massimamente reale è l’ordine presente nel mito, poiché quell’ambito, quello cantato nell’epica (nel nostro mondo, il mondo divino) è quello che dà, fonda e domina la realtà, e per ciò stesso è massimamente reale. Si potrebbe persino dire che sia la realtà fondante. Una situazione analoga è ravvisabile in Platone, per il quale la vera realtà è nel mondo mitico, nel mondo delle idee. Ed è questo il motivo per cui si parla di un realismo esagerato, per il quale la vera realtà è nel mondo fondante. Il mito è fermento della realtà, secondo quanto afferma Ortega. Il che è un modo per dire che la realtà è soggetta alla realtà mitica, in quanto quest’ultima è massimamente reale. Che il mito sia fermento della realtà significa che il mito trasforma la realtà allo stesso modo in cui il lievito trasforma l’impasto. Ma per comprendere l’epoca del mito e, pertanto, il genere letterario “poesia epica”, occorre analizzare con una certa precisione il “luogo” del mito, sebbene il suo “luogo” non sia un luogo come il nostro, così come il suo tempo non è il nostro tempo. In altre parole, il passato del mito non è il nostro passato, poiché il suo tempo è un altro tipo di tempo, nonostante in esso vi siano le fonti stesse del nostro tempo. In realtà, esso è l’origine del tempo. Le fonti del nostro tempo non sono dunque nel nostro tempo. I greci lo chiamavano Cronos.

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Nello spiegare le peculiarità del mito, Ortega farà man mano delle considerazioni decisive circa la nozione di realtà e ciò perché, nel passaggio dall’epoca del mito, o dalla poesia epica, al romanzo, avviene uno slittamento all’interno della nozione di “realtà”, giacché il reale non è lo stesso nei due diversi momenti. Con ciò, ci troviamo innanzi ad un secondo approccio alla nozione di realtà, la realtà così com’è stata declinata nella modernità. Un possibile modo per cogliere la problematicità della nozione di realtà è quello che fornisce il cap. XLV della prima parte del Chisciotte, quello in cui il barbiere, al quale, secondo quanto si narra nel cap. XXI, don Chisciotte aveva sottratto il bacile, convinto che si trattasse dell’ambito Elmo di Mambrino, ne richiede la restituzione e, visto che don Chisciotte continua a sostenere che si tratta dell’Elmo di Mambrino, chiede ai suoi accompagnatori di confermare che si tratta del suo bacile e non di un elmo. Gli accompagnatori di don Chisciotte, però, proseguendo nella burla dell’opinione del pazzo della Mancia, dicono che è l’Elmo di Mambrino e il povero barbiere così risponde: Che Dio m’aiuti! –disse allora il barbiere burlato. –Com’è mai possibile che tanta gente dabbene affermi che questo qui non è un bacile, ma è un elmo? Una cosa questa, si direbbe, da fare intontire tutta una Università, per dotta che fosse. Basta: se è vero che la catinella è un elmo, anche la bardella dev’essere sella da cavallo, come ha detto questo signore16.

Il povero barbiere non può se non esigere tutta un’università per risolvere il problema della realtà, e ciò perché, con esso, si delinea un problema di enorme portata: per il pazzo, il recipiente, il bacile, è l’Elmo di Mambrino, per il barbiere è il suo 16 M. DE CERVANTES, Don Chisciotte della Mancia, tr. e note di A. Giannini, introduzione di J.L. Borges, premessa di R. Paoli, illustrazioni di G. Doré, Bur, Milano, 20137, p. 490.

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bacile, ma come è possibile un tale disaccordo, se anche per tutti gli altri si tratta dell’elmo? Cos’è il reale? Occorre tutta un’Università per rispondere. Ebbene, Ortega prende le mosse da quello che il reale è per noi, nella nostra epoca, ma noi siamo figli di un’età rancorosa, che elimina la profondità del mondo per ridurla a ciò che è in superficie. E così rimpiccioliamo la realtà. E ciò altro non è che un peccato cordial, del cuore, dunque d’amore, poiché da lì in avanti realtà sarà solo ciò che entra in noi attraverso i sensi. L’Europa è intrisa di positivismo, a differenza del mondo classico cantato dal rapsodo, in cui dominava il mito e perciò la realtà poteva essere fatta fermentare dal mito. Lì si trovava anche l’origine dei racconti greci quasi romanzeschi, che cioè non erano romanzi, ma realtà storica corrotta (fermentata) dal mito. Ciò che il rapsodo canta è ciò che allora era veramente reale. Mettendo a confronto i due mondi, vediamo che il precedente ci sembra irreale, mentre il nostro mondo storico ci appare reale. Viviamo quindi molto nettamente la contrapposizione tra mondo mitico e mondo storico. Quello è irreale, ma in esso è possibile ciò che nel mondo reale è impossibile, e per ciò in esso sono possibili le avventure e, con esse, i libri di cavalleria. Il mondo reale storico è controllato dalla meccanica celeste planetaria, che, a sua volta, è controllata dalla scienza, che fa le veci di “polizia dell’Universo”. Ma né la scienza né la meccanica celeste fanno presa sul mondo del mito. Con il secondo approccio al concetto di realtà, ci si para davanti la realtà scientifica che controlla la scienza. Si tratta di una realtà che non ammette pieghe, allusioni, ironie, raddoppiamenti; essa è infatti quanto c’è di più simile alla realtà pensata da Descartes. Ecco apparire il problema: il problema del realismo. I libri di cavalleria possono portare a credere nella realtà del narrato; e, senza dubbio, in ciò consiste la follia di don Chisciotte. Ma ora si tratta di un problema più generale, soprattutto nell’età mediatica, dacché ora è diventato un problema sapere quando il mondo rappresentato attraverso i mezzi di comunicazione sia un mondo

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finto che ci può venir offerto come realtà reale. Con la finzione, così come accadeva nel XVI secolo, possiamo perdere l’ancoraggio nella realtà e, con esso, la capacità di distinguere tra due stati: quando stiamo nella realtà e quando stiamo nella finzione. Tale era il problema che ponevano i libri di cavalleria alla fine del XVI secolo. Cervantes avverte che ad essere in gioco è proprio il problema della realtà e così crea un personaggio che esibisce perfettamente fino a che punto la realtà sia diventata un problema. E ora, al fine di spiegare la meccanica dei libri di cavalleria, che godettero di immensa fortuna alla fine del XVI secolo, Ortega riprende ancora una volta il concetto di realtà, e in questo modo ci fornisce il terzo approccio alla realtà. Eppure, non si tratta solo di un altro approccio, ma di un passo ulteriore. Nel secondo approccio, infatti, egli ha accettato il concetto di realtà così come era imposto dall’epoca, vale a dire, una realtà dipendente dai sensi: reale è ciò che entra dentro di noi attraverso i sensi, secondo un concetto di realtà imperante nel positivismo, che è proprio quello che ha appiattito il mondo, eliminando dalla realtà ognuno dei sensi che fino ad allora erano considerati come reali e che provenivano dal mito. Ebbene, ora, Ortega imprime una torsione radicale alla definizione del reale e cerca la nostra nozione volgare di realtà, che, poi, articola, in due momenti: nel primo, che potrebbe dirsi teorico, il reale è un certo modo in cui le cose accadono, che ci è familiare. Reale è allora ciò che si comporta secondo le aspettative, coincidendo con ciò che è previsto. Ed è così che se gli avvenimenti vanno in una direzione opposta a ciò che è stato previsto, diciamo che non ci sembra vero. Ed è proprio qui che si incastra l’avventura, spezzando o rompendo la realtà prevista. Da una definizione di realtà secondo una prospettiva “teorica” (reale è ciò che risponde a quanto è stato previsto), Ortega passa ad una nuova definizione del reale secondo una prospettiva pratica: reale è ciò che possiamo fare, reale è l’ambito delle nostre possibilità, poiché la vita è l’insieme delle possibilità, di ciò di

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cui prendiamo coscienza intorno ai trent’anni, quando ci chiediamo se la vita sia proprio questo. Reale è l’insieme delle possibilità che ho nel mondo, il resto è irreale. Ed è proprio l’avventura a permetterci di liberarci da quelle sbarre che ci impone la realtà, dal peso della realtà, da una realtà che, a trent’anni di età, viene già definita come insuperabile. È proprio qui che risiede l’importanza dell’avventura. Possiamo ora analizzare i paragrafi nono e decimo. Cominciamo col chiederci cosa rappresenti il Chisciotte nel suo contrapporsi ai libri di avventura, ai libri di cavalleria. Ortega ci ha già fornito un’indicazione con l’invito a cercare la struttura latente del Chisciotte, dietro ognuno degli episodi, perché gli episodi o aneddoti sono simili agli alberi del bosco, che è sempre oltre. Il Chisciotte è sempre più delle sue avventure. Vi sono, però, degli episodi in cui appare con maggior rilievo la struttura avventurosa. L’episodio dell’Elmo di Mambrino, della prima parte, sarebbe uno di essi. Un altro, stavolta della seconda parte, è il teatrino di mastro Pedro, che Ortega commenta nel paragrafo nono. Lì abbiamo un esempio del modo in cui opera la dualità realtà-avventura, o mondo convenzionale (che segna la nostra realtà)-mondo del mito (mondo dell’avventura). Bisogna sottolineare l’importanza di questo episodio che ben evidenzia la complicazione della realtà, con l’esempio tipico del barocco: la realtà del nostro mondo non è la realtà cartesiana, che è piana ed estesa, res extensa, giacché la realtà, come ben illustra il teatrino di mastro Pedro, include pieghe che non possono essere più lontane dalla definizione cartesiana di realtà, quella per cui tutto è o res extensa o res cogitans. Occorre altresì segnalare la profondità temporale che possiede il tema del teatrino di mastro Pedro. Il tema del teatrino, infatti, è una trasformazione del racconto del Conte Lucanor, l’Infante Juan Manuel, e del “Retablo de las maravillas”, un magnifico intermezzo di Cervantes, in cui si gioca con la finzione e con la realtà. In entrambi i casi, un personaggio marginale risolve la situazione di confusione che si era creata nell’episodio. Cer-

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vantes trasforma questi pezzi al fine di offrirci plasticamente, in un episodio di una bellezza letteraria straordinaria, la complicazione della realtà e il ruolo di don Chisciotte come mediatore tra i due mondi, il mondo reale quotidiano, e il mondo finto della rappresentazione o, in quel momento specifico, il mondo epico, il mondo della cavalleria. Su questa scia, si comprende anche il recupero del senso e del posto che detiene Velázquez, che nei suoi quadri fa lo stesso, vale a dire, porta la realtà ordinaria all’interno del quadro, così come Cervantes porta la locanda ordinaria fin dentro il racconto. L’episodio serve a mostrare ciò che fa del Chisciotte un accadimento epocale, ovvero, il fatto di superare il mondo dell’epica e dei suoi epigoni, i libri di cavalleria, e di ricreare la realtà quotidiana come corpo poetico. Tale è il proprium del romanzo. Il personaggio di don Chisciotte è un soggetto in parte normale e in parte malato. La sua malattia consiste nell’incapacità di distinguere il reale dalla finzione, oppure nella capacità di interpretare la realtà a partire dal mondo della cavalleria. Proprio per ciò, per il suo carattere giudizioso, entra nell’episodio come uomo sano di mente, ma nel momento in cui viene toccato dal mondo della cavalleria, e quindi al riapparire della pazzia, svolge il ruolo di mediatore tra i due mondi, ma non senza trascinare il mondo della cavalleria, il mondo della finzione, verso ciò che ha di reale. E in quel preciso momento il mito crolla, seppure continui ad essere presente. Abbiamo così, in una forma plastica, la dualità del personaggio don Chisciotte, da una parte è normale, e ci offre grandi insegnamenti, discorsi meravigliosi, da cui traspare il modo in cui Cervantes vede il mondo; dall’altra, abbiamo la malattia, anch’essa reale, giacché don Chisciotte è un personaggio reale del romanzo e la sua malattia non può che essere reale; eppure è attraverso di essa che entra in rapporto con il mondo del mito, con il mondo delle cavallerie, portandolo verso la realtà. È questo il modo in cui Cervantes, alla stregua di Velázquez, conquista per l’arte, per la poesia, la realtà quotidiana conven-

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zionale e, con ciò, apre tutto un continente nuovo per l’arte, un continente che fino ad allora non rientrava nel dominio dell’arte. Con la collocazione di don Chisciotte tra il mondo epico e il mondo convenzionale, Cervantes riesce a fare un’opera poetica facendo della realtà convenzionale un campo poetico nuovo. Ciò che in principio è antipoetico, essendo i suoi tratti estranei alla poesia (Cervantes pone Sancio come polo opposto alla poesia, ma basta riferirsi al personaggio Maritornes e diventa difficile concepire qualcosa di più brutto), si trasforma in opera d’arte; secondo Ortega, in poesia, ma non senza prima passare per la critica degli elementi finti che circondano la realtà. Nell’episodio dei mulini a vento, don Chisciotte si concentrerà sugli elementi mitici che fungono da chiave interpretativa dei mulini e, ancora una volta, finirà per terra. Non è possibile sostantivare gli ideali come fa don Chisciotte, e fare di essi una realtà autonoma. Tale idealismo è il modello della Modernità. E in effetti, Ortega scorge nell’episodio dei mulini a vento la critica radicale di ogni idealismo utopico e illusorio, di quell’idealismo che, con l’illusione di superare la realtà stretta che ci fa sentire prigionieri intorno alla terza decade della nostra vita, ci conduce verso un mondo illusorio. 5. Il Chisciotte come meta-narrazione della modernità

La riflessione sui tre tipi di realtà segnalati da Ortega (quella mitica, quella scientifica e quella ordinaria) mi venne in mente mentre interpretavo l’Ordinanza del 1920 con cui veniva stabilito l’obbligo di leggere il Chisciotte nelle scuole, che, d’altra parte, aveva spinto Ortega a scrivere un testo bellissimo. Nel testo ministeriale si afferma che il Chisciotte è la Bibbia della Modernità. Cosa poteva significare una tale denominazione? Con ogni probabilità, chi redasse l’ordinanza aveva letto le Meditazioni del Chisciotte. Ortega sarebbe stato d’accordo su quella definizione del Chisciotte, ma non nel senso di dare ai bambini lezioni di

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modernità con il Chisciotte, giacché quest’ultimo è troppo moderno per essere assimilato dai bambini. Cosa intese dire Ortega con il suo commento? Che il Chisciotte più che moderno è supermoderno in quanto è una riflessione sui concetti di realtà che vengono alla luce nella modernità. E infatti disponiamo di almeno due concetti di realtà: quello secondo cui è reale solo ciò che ci è dato attraverso i sensi e che fonda la scienza, e quello relativo alla realtà pragmatica della nostra vita, ma questa è tremendamente variabile poiché dipende dalle nostre possibilità. A queste due nozioni di realtà, bisogna aggiungere la realtà premoderna costituita da ciò che è fondamentale, da ciò che risiede nel regno del metafisico e che si evidenzia soltanto nel genere letterario dell’epica. È proprio questo l’aspetto che avrebbe sviluppato Gaos nei suoi scritti su Cervantes. Nella sua ottica, il Chisciotte è, nella sua totalità, il prodotto di un’epoca in cui il concetto di realtà si è sfumato. La realtà fondante è, in misura maggiore o minore, sparita. E giacché è evidente che la vita umana non è fatta di quella dualità di res extensa e res cogitans, allora è altrettanto evidente che con la realtà cartesiana non possiamo andare molto lontano. V’è un’altra realtà, ma quella realtà non è altra che la realtà della vita, una realtà volubile, così come ce la fa vedere l’episodio dell’Elmo di Mambrino. La ragione è connessa alla legittimità. Avere ragione è come confessare di essere in possesso di alcuni argomenti, di avere legittimità per un’affermazione in cui quel che si dice è come si dice. Nella ragione il reale ci viene dato così com’esso è. Razionale è ciò che ha il titolo di legittimità. Ebbene, occorre la filosofia tutta per dirimere la questione su cosa sia il razionale, cosa possegga dei titoli di legittimità per presentarsi come reale. Il Chisciotte è proprio un gioco sui limiti della ragione nel darci il reale; e ciò perché il reale si tramuta continuamente in un’altra cosa, al punto che passa ad essere irreale ciò che prima si credeva fosse reale. Il più delle volte ad agire sono gli incantatori, i quali rappresentano il preludio del genio maligno di Descartes, chiaramente previsto nel Chisciotte.

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Nell’episodio delle ricotte, che a parer mio è uno dei più divertenti del libro, è Sancio che ricorre ai demoni per giustificarsi dicendo di non essere stato lui a mettere le ricotte nella celata:

La prese don Chisciotte e senz’avvedersi di quel che c’era dentro, se la calcò in capo; ma poiché la ricotta venne in tal modo a essere premuta e strizzata, cominciò il siero a colare per tutta la faccia e la barba di don Chisciotte, il quale n’ebbe tale sussulto che disse a Sancio: Che sarà mai, o Sancio, che pare che mi si rammollisca la testa o mi si squaglino le cervella o ch’io sudi tutto da capo a piedi? E se sudo, davvero che non è per paura. Senza alcun dubbio, terribile è l’avventura che ora sta per accadermi. Dammi, se ce l’hai, con che mi possa pulire, poiché il sudore profuso mi acceca. Sancio non disse verbo: gli porse un panno e, in pari tempo, porse grazie a Dio che il padrone non si fosse accorto di nulla. Si nettò don Chisciotte e si tolse la celata per vedere cos’era quel che gli dava un’impressione di freddo alla testa e al vedere quell’intruglio bianco dentro la celata, lo accostò al naso e, avendolo annusato, esclamò: Per la vita della mia signora Dulcinea del Toboso, ma son ricotte queste che mi hai messo qui dentro, traditore, brigante, malcreato d’uno scudiero! Al che con gran posatezza e dissimulando, Sancio rispose: – Se sono ricotte, me le dia vossignoria, ché io me le mangerò…Ma, no: se le mangi il diavolo, ché dev’essere stato lui a mettercele. Potevo io aver l’ardire di sporcare l’elmo di vossignoria? L’avete trovato, sì proprio, chi si azzarderebbe! In fede mia, signore, per quel che Dio mi fa capire, anch’io ci devo avere degli incantatori che mi perseguitano come creatura e membro di vossignoria: avranno essi messo costì cotesto sudiciume per muoverla ad ira e far sì che, al solito, mi pesti l’ossa. Però questa volta davvero che l’han fatta bassina; perché fido sul buon senso del mio signore, il quale vorrà riflettere che non ho ricotte io, né latte né altra cosa consimile e che se le avessi le avrei piuttosto messe nello stomaco che nella celata17.

M. de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, 757-758. 17

II

parte, cap.

XVII,

pp.

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Ci troviamo ancora una volta innanzi ad un discorso sulla realtà. Sancio, che per il momento è sano di mente, attribuisce ai demoni, nel caso si tratti di ricotte, l’averle messe nella celata; prima il diavolo e poi gli incantatori che, se le hanno messe, sono stati senz’altro loro. Ma neanche è certo che ce le abbiano messe, poiché, se fossero state ricotte, Sancio, secondo il suo stile, le avrebbe mangiate. Tutto il gioco del Chisciotte è il gioco della ragione e della realtà. La ragione procede con molta sicurezza nelle questioni di scienza, della res extensa, ma non così nelle questioni della vita ordinaria, in cui, appena ci distraiamo, sorgono i problemi di definizione e le domande sulla virtualità della ragione di cogliere il reale. Con una parola profondamente orteghiana, Gaos giunge a individuare il “tema del Chisciotte” nella ragione e nella realtà. Da Ortega, egli aveva appreso che il Chisciotte ci pone sulla traccia dei tre tipi di realtà con cui la filosofia deve necessariamente confrontarsi. Ortega, dal canto suo, ha optato per una filosofia che pone la realtà innanzitutto nel mondo umano, ovvero, lì dove vi sono sempre brecce di rottura della realtà, sebbene soltanto nella follia si verifichi il crollo; ed è proprio quello che accadrebbe nell’epoché husserliana se fosse reale e non soltanto virtuale, così come a ragione la definì Ortega in ¿Qué es filosofía? E tuttavia, anche nella vita quotidiana vi sono momenti in cui crollano frammenti di realtà, ad esempio, con l’inadempimento delle aspettative dei trent’anni, giacché possono divenire irreali alcuni dei progetti che per me erano la mia stessa vita. E posso anche avere un progetto che considero pienamente reale – così come lo era per Sancio riuscire ad avere il governo di un’isola – pur non essendo tale. Il Chisciotte è la bibbia della modernità per il semplice fatto che è una meta-narrazione sulla modernità, in cui viene messo in discussione il concetto di realtà allorché la ragione si fa essa stessa problema. Ecco il motivo della sua “troppa” modernità. Non v’è dubbio che chi redasse l’ordinanza del 1920 aveva letto

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Il Chisciotte come un trattato sulla realtà

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qualcosa di Ortega, così com’è evidente che non conosceva bene il rapporto che intrattiene il Chisciotte con la modernità. La mia generazione fu quella che patì la lettura antiorteghiana del Chisciotte nella Scuola, e purtroppo venne così vaccinata contro la lettura del Chisciotte. Gli anni Sessanta, a loro volta, ci vaccinarono contro la lettura di Ortega. Nondimeno, le Meditazioni del Chisciotte, che ci aprono alla modernità del Chisciotte, ci aprono altresì alla filosofia spagnola, che è molto radicata nella vita ordinaria, la sola in cui la vita abbia senso. [Traduzione di Maria Lida Mollo]

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Armando Savignano

Ortega e il Chisciotte. Prospettive filosofiche*

La fantasia di Cervantes concepisce in immagini la vana illusione e il disinganno dell’uomo storico, cioè di Alonso Chisciano, il mitico protagonista che rappresenta lo stesso dramma esistenziale patito dal lettore. Questo primo romanzo moderno è una risposta non solo alla decadenza spagnola vissuta dallo stesso Cervantes, ma anche alla necessità di sottrarsi alla censura dell’Inquisizione, che perseguitò il geniale scrittore. Non è casuale che il libro, intriso di ironia, sovente tende a mostrarci il contrario di ciò che vuole che noi intendiamo. Cervantes non ricorre al discorso razionale e alla riflessione astratta poiché filosofa metaforicamente e fa ricorso all’ironia. In tal modo copre di ridicolo chi, dimenticando il senso dell’esistenza, riduce il molteplice all’identico e pensa aprioristicamente. Nell’unità tra parola e cosa gli umanisti colsero l’elemento comune al linguaggio immaginifico e alla conoscenza ingegnosa, la quale non è sinonimo di follia bensì rappresenta la facoltà che indaga sulla verità delle cose. È superfluo rilevare che per Vico l’ingegno è «l’unico pudore di tutte le invenzioni» e che per Baltasar Gracián rappresenta una creazione fantastica esprimente «la corrispondenza che si trova tra gli oggetti». L’Europa lesse il Chisciotte senza scoprirne il suo vero significato filosofico. Il fraintendimento dell’umanesimo di Cervantes scaturisce dall’aver dimenticato la funzione rivelatrice e speculativa del linguaggio retorico. Cervantes non parte dall’identificazione razionale della realtà, ma da un capovolgimento dell’identità lo* Per le citazioni ci riferiamo a J. ORTEGA Y GASSET, Obras completas, Alianza Editorial/Revista de Occidente, Madrid, 1963-1983, voll. 12. Il numero romano indica il volume, l’arabo la pagina.

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Armando Savignano

gica inventando un nuovo genere: il romanzo, attraverso cui si espresse con un linguaggio ingegnoso, metaforico, creativo e storico. Nell’ultimo capitolo del libro, Don Chisciotte si sveglia dal sogno della ragione astratta e, riconoscendo il proprio inganno, ritorna ad essere un uomo storico. Ma quantunque il protagonista muoia pentito delle sue folli azioni, il suo scudiero Sancio, tutti gli altri personaggi e noi, lettori europei, continuiamo a non capire che l’idea rappresentata dalla fantasia di Cervantes e la realtà significata nella geniale metafora del Chisciotte-libro e del Don Chisciotte-personaggio costituiscono anche l’illusione e la caduta drammatica della nostra storia quotidiana1. 1. La volontà di avventura

Ortega è debitore di molte suggestioni, tra gli altri anche ad Unamuno, a tal punto da poter dire che nelle Meditazioni del chisciotte (1914) il suolo era costituito dalla fenomenologia; il sottosuolo era formato dal connubio tra l’oggettivismo eidetico della nuova scienza della natura e il naturalismo dell’attitudine

Non si sono esaurite le prospettive ermeneutiche al fine di penetrare il senso profondo di questa opera immortale. In occasione del quarto centenario della pubblicazione a Madrid nel 1605 della prima parte del capolavoro di Cervantes è quanto mai significativo esaminare la rilettura operata in Spagna nel XX secolo e che non casualmente è stata denominata la «tercera salida de Don Quijote». A tal fine ho esaminato, dal punto di vista filosofico, le prospettive ermeneutiche di: Miguel de Unamuno, che situa Don Chisciotte tra idealismo etico e tragedia; José Ortega y Gasset, che ne fa l’archetipo della volontà di avventura; Ramiro de Maeztu, che ne individua la figura del disincanto spagnolo; Américo Castro, che ricostruisce il pensiero e la visione del mondo di Cervantes; Salvador de Madariaga, che propone una lettura psicologica e politica; María Zambrano, che pone in luce l’ambiguità di Cervantes e l’enigma chisciottesco (cfr. A. SAVIGNANO, Don Chisciotte. Illusione e realtà, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005). Sul capolavoro di Cervantes, cfr. J. CANAVAGGIO, Don Chisciotte. Dal libro al mito, Ed. Salerno, Roma, 2006. 1

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Ortega e il Chisciotte. Prospettive filosofiche

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vitale; l’avversario, che si opponeva alla salvezza della Spagna mediante l’apporto della cultura e della vita, era rappresentato precisamente da Unamuno, il cui libro sul sentimento tragico della vita (1913) fu quanto meno uno stimolo polemico per il giovane Ortega2. Questi riscontrava, invece, importanti convergenze ideali, politiche, filosofiche nei celebri saggi su En torno al casticismo (1895). Come sempre Ortega tenta di assimilare da Unamuno quanto giudica congeniale con la prima fase della propria (di Ortega) evoluzione intellettuale. Solo in questa prospettiva si può considerare l’affermazione di Abellán secondo cui il primo libro orteghiano rappresenta una «risposta intellettuale alla filosofia di Unamuno e non può essere compreso profondamente se non alla luce di quella»3, a condizione di non passare sotto silenzio, ovviamente, che il pensatore basco rappresenta non l’unico, ma uno degli interlocutori con i quali il filosofo di Madrid si confronta alla ricerca di una via originale e autonoma. Come emerge dalla corrispondenza con Unamuno negli anni marburghesi, Ortega considerava il capolavoro di Cervantes come il romanzo per eccellenza e Don Chisciotte «l’unico filosofo spagnolo»4. 2. La salvezza nella circostanza

Le Meditazioni del Chisciotte evidenziano: a) una critica alla concezione di Unamuno quale emerge nel celebre commento alla Vida de Don Quijote y Sancho (1905) e nell’opera fondamentale Cfr. M. DE UNAMUNO, Filosofia e religione, a cura di A. Savignano, Bompiani, Milano, 2013, che contiene oltre al celebre libro del 1913 anche il Trattato dell’amore di Dio. 3 J.L. ABELLÁN, “Ortega ante la presencia de Unamuno”, in Ortega en la filosofía española, Madrid, 1966, p. 99. 4 Cfr. M. DE UNAMUNO, J. ORTEGA Y GASSET, Epistolario, in «Revista de Occidente», n. 19, 1964, p. 14. 2

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Del sentimento trágico della vita (1913); b) la presenza invece dell’Unamuno dell’opera del 1895; c) una singolare vicinanza e sovente convergenza tra l’Unamuno “purista’’ e le suggestioni che Ortega mutuava dalle prospettive neo-kantiane marburghesi e fenomenologiche5. Delle due fasi, nelle quali in genere si scandisce il rapporto Unamuno-Ortega anche in ordine al tema chisciottesco, si può rilevare come in un primo periodo (fino al 1909) Ortega critica le tesi espresse in En torno al casticismo, forse a causa soprattutto dell’influsso di H. Cohen, mentre l’incontro con la fenomenologia sembra indurlo ad una presa di distanza dalle opere unamuniane del 1905 e del 1913 e a ritornare invece agli scritti del 1895. Eppure dal 1902 al 1904, durante il primo viaggio in Germania, Ortega sembra attratto dall’Unamuno purista, dal quale si distacca momentaneamente (cfr. Teoría del clasicismo, 1907) giacché ritiene che il classicismo sia in grado di contribuire meglio del “purismo” in ordine anche ad un più equilibrato sviluppo della cultura europea. Ma, come dicevamo, fu verso il 1912-1914 che Ortega, assumendo un’attitudine più critica e meno intellettualistico-culturalista verso l’esperienza marburghese a causa soprattutto dell’apertura alla fenomenologia, ritorna all’Unamuno purista in opposizione alle opere della maturità del 1905 e del 1913. L’opera En torno al casticismo palesa, in effetti, una certa consonanza con alcune istanze fenomenologiche così come furono accolte da Ortega, giacché: a) i fenomenologi preferiscono la calma, la riflessione, ciò che nell’Unamuno purista si configura come istanza di pace e progresso della scienza, mentre nella celebre Vida de don Quijote (1905) siamo dinanzi ad una visione della conoscenza come guerra fede-ragione; b) I fenomenologi di Gottinga e Monaco sono attenti al dato concreto, al contorno più immediato, ciò che nell’Unamuno del 1895 corrisponde alN.R. ORRINGER, El Umamuno casticista en Meditaciones del Quijote de Ortega, in «Caudernos Salmantinos de Filosofía», X, 1983, pp. 37-54. 5

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l’intrastorico; c) Fenomenologi come Schapp, ben noto ad Ortega, sostengono l’inseparabilità tra concetto-impressione per la conoscenza a cui corrisponde nel purista Unamuno l’integrazione tra idealismo e materialismo. Il ritorno da parte di Ortega all’opera unamuniana, En torno al casticismo, può essere in qualche modo spiegato con l’intento di quegli anni di equilibrare ed armonizzare l’intellettualismo e il culturalismo marburghesi con l’impressionismo spagnolo. Per tale scopo, Ortega vedeva come un ostacolo la concezione di Unamuno formulata nelle due opere della maturità. La fenomenologia, intesa come “sistema aperto” (I, 316), fu adottata da Ortega dal 1914 al 1916, allorché si cimentò con l’elaborazione dell’originale teoria della vita umana nel fondamentale libro, Meditaciones del Quijote (1914), il cui progetto programmatico si estendeva al primo volume de El Espectador (1916)6 e proseguiva, come ha osservato Garagorri (XII, 335), nel corso su Investigaciones psicológicas (1915)7, come si evince anche dalle critiche a Wundt8, a cui Ortega contrappone le vedute husserliane sulla “psicologia”, intesa come «scienza di realtà intenzioGli stessi termini “meditazione”, “spettatore”, che cerca di «contemplare la vita mentre fluisce dinanzi a lui» (II, 18), risentono dell’influsso della fenomenologia. 7 Di quel corso, a cui forse presenziò in parte anche M. De Unamuno (cfr. J. ORTEGA Y GASSET, La evolución del Ateneo de Madrid, in OC, VIII, 372), sono state fornite contrastanti letture da Orringer, che sottolinea la coesistenza dinamica di neokantismo e fenomenologia; e da Cerezo Galán, che parla del decisivo ruolo di Husserl connesso al definitivo abbandono della “prigione neokantiana”. Ma infine non sembra impossibile una conciliazione tra queste due prospettive ermeneutiche. 8 Esse furono espresse nella pubblicazione, nel 1916 (II, 61-66), di una parte del corso su Investigaciones psicológicas. In quel saggio, Ortega suggerisce inoltre di evitare, contro Natorp, l’espressione «contenuto di coscienza», da cui deriva «tutta la sterilità della psicologia moderna» (II, 65-66). Sull’apertura alla fenomenologia, cfr. J. SAN MARTÍN, La fenomenología de Ortega y Gasset, Biblioteca Nueva, Madrid, 2012. Cfr. J. ORTEGA Y GASSET, Sistema di psicologia e altri saggi, a cura di M.L. Mollo, Armando, Roma, 2012. 6

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nali», culminante nella “noologia” (Kant), ovvero in una scienza del senso (XII, 427), ritenuta imprescindibile per il «sistema della ragion vitale» (XII, 392). Con le meditazioni chisciottesche, il filosofo spagnolo ha conseguito viva consapevolezza della peculiarità unica ed irriducibile della vita umana, anche se il suo modo d’essere gli appare sotto forma di eroismo e tragedia, la cui espressione è affidata al romanzo9. Dei molteplici approcci ermeneutici con cui è stata analizzata quest’opera – unanimemente ritenuta fondamentale nell’evoluzione del pensiero orteghiano10 – prediligiamo il significato filosofico con speciale riferimento al tema della vita in rapporto alla circostanza, che dev’essere salvata attraverso un rinnovato rapporto con la cultura, senza eludere la decisiva questione della verità (alétheia), intesa come verità vitale e prospettiva. Benché incompiuto, da questo primo libro è possibile arguire uno schema sufficientemente organico, basato sull’insinuazione di una teoria metafisica del reale (mutuata anche da W. Schapp). Così il “Proemio” contiene la celebre definizione della Cfr. J. MARÍAS, “Comentario a ‘Meditaciones del Quijote’”, in J. Ortega y Gasset, Meditaciones del Quijote, Universidad de Puerto Rico, Madrid, 1957, p. 25. Sulle fonti per la teoria del romanzo, cfr. il fondamentale libro di N. R. ORRINGER, Ortega y sus fuentes germánicas, Gredos, Madrid, 1979, pp. 169-205. 10 Riguardo alle fonti ed agli influssi di questo libro, è solo il caso di menzionare che esso è stato considerato «un miscuglio impreciso di Scheler, Simmel e, soprattutto, Cohen» (C. MORÓN ARROYO, El sistema de Ortega, Alcalá, Madrid, 1968, pp. 107, 144 e 153). L’impostazione è stata giudicata «molto simile a ciò che Husserl denomina “mondo vitale”» (PH. SILVER, Ortega as Phenomenologist. The genesis of Meditations on Quixote, Columbia University Press, New York, 1978, p. 103), trattandosi di una “fenomenologia mondana” sulla base della teoria dell’esecutività (ivi, pp. 107 e 148). N. R. Orringer insiste sulle suggestioni mutuate dall’esperienza marburghese coniugata con le istanze fenomenologiche, ponendo inoltre in evidenza l’apporto, per la teoria della verità e della prospettiva, dell’opera di W. SCHAPP, Beitraege zur Phaenomenologie der Wahrnehnung, Halle, 1910 (N. R. ORRINGER, Ortega y sus fuentes germánicas, cit., pp. 133-168). 9

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vita come l’io interagente con la circostanza con l’imperativo di salvezza di entrambe. La “Meditazione preliminare” sviluppa una critica alla circostanza personale di Ortega e alle condizioni della Spagna del suo tempo. Infine, la “Meditazione Prima” delinea un’originale concezione del romanzo affrontando il delicato tema della verità. L’ordine ideale-oggettivo deve inserirsi nella carne delle cose (I, 353) che stanno intorno (circostanza) all’uomo, perché «io sono io e la mia circostanza, e se non salvo quella non salvo neppure me stesso» (I, 322)11. In contrasto col culturalismo neokantiano, la circostanza (circum-stantia) è costituita ora dalla «cose mute che sono nel nostro contorno più prossimo» (I, 319), da quelle realtà apparentemente più semplici ed insignificanti che costituiscono la vita quotidiana di ciascuno (II, 28). Infatti la realtà è «la somma infinita di piccole cose e se Dio, nel crearle, le avesse disdegnate, forse non avrebbe creato il mondo, ma 11 Sulla nozione di “circostanza”, nella prima parte di quella celebre formula, Ortega dipende da Husserl, che affermava: «io sono io, il vero uomo, un oggetto reale come altri nel mondo naturale. Eseguo atti coscienti che sono accadimenti della stessa realtà naturale, nel cui ambito essi appartengono a questo soggetto umano» (E. HUSSERL, Ideen, I, in «Jahrbuch für Philosophie und Phaenomenologische Forschung», I, 1913, p. 58). Per la seconda parte incentrata sulla salvezza della circostanza, Ortega è debitore di M. DE UNAMUNO, En torno al casticismo, in OC, pp. 295-296, dove afferma: «salvando gli altri, ci salviamo in una redenzione reciproca». Sottolinea la valenza fenomenologica della “circostanza”, assimilata etimologicamente alla Umgebung husserliana, P. CEREZO GALÁN, La voluntad de aventura, Ariel, Barcelona, 1984, p. 226, contrariamente a J. MARÍAS, Ortega I: circunstancia y vocación, Alianza Editorial, Madrid, 1984, p. 385, in cui rileva l’irriducibilità sia alla Umwelt husserliana sia al significato biologico di Uexküll. Quest’ultimo influirà su Ortega (II, 149, VI, 308, VIII, 77) verso gli anni venti in connessione all’accentuazione del carattere biologico della vita. Il concetto di “circostanza” è stato accostato a quello di Milieudinge (Scheler) da C. MORÓN ARROYO, El sistema de Ortega, cit., pp.151-154; ne ha rilevato il nesso con quello di Naechste Umgebung (Schapp), N. R. ORRINGER, Ortega y sus fuentes germánicas, cit., p. 142, nota 4. Erronea risulta invece l’interpretazione avanzata da S. RAMÍREZ, La filosofía de Ortega, Herder, Barcelona, 1958, p. 250.

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avrebbe fatto un discorso» (XII, 132). Con singolari analogie rispetto all’attitudine naturale, pre-riflessiva di Husserl, che si riferisce al «contorno immediato che entra nel mio campo di coscienza» e il cui «sapere non ha nulla del pensiero concettuale» (Ideen, I, § 27), Ortega sottolinea l’indole pratico-operativa della vita circostanziale, in cui il primo io della celebre formula è esplicativo della mutua trascendenza tra io-circostanza nell’immanenza della mia vita. In questo contesto bisogna collocare l’allusione a quella “terza metafora” al fine di superare l’attitudine idealistica e realistica nell’intento di intraprendere un nuovo ed originale itinerario. Alludendo a Platone, infatti, il filosofo spagnolo mostra la necessità di ricercare «un equo regime tra il soggetto e l’oggetto, che forse conseguiremo con quelle divinità che gli antichi denominavano Dii consentes, dei quali dicevano che potevano nascere o morire soltanto insieme» (XII, 388)12. Ma la circostanza, non meno dell’io, dev’essere “salvata” conferendole “senso” (I, 323) mediante la riflessione che si attua nella creazione culturale. Infatti, «l’assunzione della circostanza è il destino concreto dell’uomo» (I, 322). Il concetto assurge così ad elemento indispensabile, giacché costituisce il nucleo della filosofia, concepita come «scienza generale dell’amore» (I, 28), anche se Ortega in questa fase preferisce esprimersi nella forma saggistica osservando che le meditazioni chisciottesche non sono «filosofia, che è scienza, sono semplicemente dei saggi (ensayos). Ed il saggio è la scienza meno la prova esplicita» (I, 318). Con Schapp e Husserl, ma in polemica con Unamuno, egli rivenSulle fonti per tale concezione della storia della filosofia, basata sul superamento delle due metafore del realismo e dell’idealismo, Ortega si richiama a Platone, attraverso Hartmann e P. NATORP, Einleitung in die Psychologie nach Kritischer Methode, Mohr, Freiburg i. Br., 1888, p. 11. Ha espresso in termini poetici l’uscita dalla prigione neo-kantiana e il superamento delle due grandi metafore, A. MACHADO, Campos de Castilla (1907-’17), in Id., Obras Completas, Editorial Plenitud, Madrid, 1967, p. 839. 12

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dica l’apporto imprescindibile, per la situazione spagnola del suo tempo, del concetto al fine di conseguire sicurezza. La cultura ci offre oggetti già pietrificati, che furono una volta vita spontanea e, oggi, grazie al lavoro riflessivo, sembrano liberati dallo spazio e dal tempo, dalla corruzione e dal capriccio. Formano come una zona di vita ideale ed astratta muovendosi nella nostra esperienza personale sempre rischiosa e problematica (I, 320).

L’atto specificamente culturale è «creativo, in cui estraiamo il logos da qualcosa che è insignificante (illogico)» (I, 321), cioè dalla vita spontanea. «La vita umana, l’immediato, la circostanza sono nomi diversi per una medesima cosa: quelle porzioni di vita da cui non è stato ancora estratto lo spirito rinchiuso al loro interno, il logos» (I, 328). Nonostante l’infelice assimilazione dell’insignificante all’illogico, Ortega ribadisce con vigore, di contro alla Weltanschauung razionalistica ma anche in opposizione alle tentazioni irrazionalistiche, che la vita esecutiva rappresenta il «testo eterno» di cui la cultura ne è il commento, l’interpretazione (I, 337), mediante l’insostituibile apporto del logos, della ragione, che per la prima volta viene caratterizzata come ragion vitale, sebbene siamo ancora in una fase di transizione dal culturalismo neo-kantiano ad un’impostazione in cui la cultura è posta al servizio della vita. Tuttavia Ortega mette in guardia dall’idolatria della teoria come se dovessimo «prima filosofare e poi, se è il caso, vivere. Credo piuttosto il contrario; l’unica cosa che affermo è che sulla vita spontanea si deve aprire, di tanto in tanto, la sua chiara pupilla, la teoria» (II, 18). Insomma, con accenti fichtiani, «vita e speculazione non possono che determinarsi mutuamente» (XII, 392 e III, 108), fino a porre la questione, con Fichte e Husserl, se pensare la vita non rappresenti «un lusso superiore e un viverla in modo superlativo» (VII, 349). La vita non può in ogni caso prescindere dall’apporto della ragione. «Di fronte alla problematicità della vita, la cultura, nella

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misura in cui è autenticamente vita, rappresenta il tesoro dei principi» (I, 358). Giammai il concetto ci darà ciò che ci offre «l’impressione, cioè la carne delle cose. Ciò non riguarda l’insufficienza del concetto, ma il fatto che ad esso non spetta tale compito» (I, 353). La cultura rappresenta un momento di sicurezza, di fermezza e di chiarezza, attraverso lo strumento concettuale che, lungi dal sostituirsi alla spontaneità vitale, ha il compito di assicurarla (I, 355). Alla riflessione spetta il compito di chiarire, conferire sicurezza, giammai di eliminare totalmente il senso strutturalmente problematico e precario del vivere. Perciò, «ogni lavoro culturale è un’interpretazione – chiarimento, spiegazione, esegesi – della vita» (I, 357). Insomma, il concetto non rappresenta «la pienezza della vita [...] Alla fine ed all’inizio, la vita si presenta come un problema mai solubile o, non a limine, risolvibile» (I, 358). Di qui la critica ad ogni attitudine utilitaristica in nome della teoria (I, 312-313), che consente di istituire un rapporto dinamico tra vita esecutiva e ricerca intenzionale di senso13. La vita come principio di cultura si chiama felicità. Ma il secolo XIX, che ha quasi divinizzato la chimica industriale e le urne elettorali, ha purtroppo dimenticato che «la felicità è una dimensione della cultura» (II, 89) relegando in secondo piano l’imperativo di autenticità verso se stessi. Diversamente dalla tappa neo-kantiana, ora è «colto quell’uomo che prende possesso di tutto se stesso. Cultura è fedeltà verso se stessi, è un atteggiamento di religioso rispetto verso la nostra vita personale» (II, 161). Più che un mondo separato dalla vita, la cultura è, dunque, ineAl seguito di PH. SILVER, Ortega as Phenomenologist, cit., p. 125, Cerezo Galán sottolinea che Ortega, pur avendo criticato la riduzione fenomenologica, tuttavia non l’ha rinnegata, avendo riconosciuto la possibilità di contemplare la vita nella sua esecutività rifiutandone però la rappresentazione. Perciò, la filosofia orteghiana «continua ad essere, almeno fino al ’29, nonostante l’enfasi sull’esperienza originaria del mondo della vita, una filosofia riflessiva» (P. CEREZO GALÁN, La voluntad de aventura, cit., p. 250). Sulla celebre teoria della «vita esecutiva», si veda la mia “Introduzione” a J. Ortega y Gasset, Che cos’è la filosofia? Mimesis, Milano-Udine, 2013. 13

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Ortega e il Chisciotte. Prospettive filosofiche

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rente alla vita circostanziale, di cui deve farsi carico per salvarla mediante l’elaborazione di teorie (Filosofia) onde conferirle senso e significato, volgendo in tal modo la vita naturale in libertà e spontaneità creatrice (I, 321-322)14. La vita circostanziale, che rappresenta il dato originario, non può eludere la decisiva questione della verità, che è una verità vitale fondata sull’evidenza. «La pura illuminazione subitanea che caratterizza la verità si dà solo nell’istante del suo scoprimento. Perciò il termine greco aletheia significò originariamente la stessa cosa di apocalipsis, cioè scoperta, rivelazione, propriamente disvelamento, togliere il velo» (I, 335-336)15. Sulla teoria del concetto, cfr. J. MARÍAS, “Comentario a ‘Meditaciones del Quijote’”, cit., pp. 275-290. A. RODRÍGUEZ HUÉSCAR, Perspectiva y verdad, Revista de Occidente, Madrid, 1966, pp. 85-95. 15 Su tale originale teoria della verità, cfr. le osservazioni etimologiche di J. MARÍAS, “Comentario a ‘Meditaciones del Quijote’”, cit., pp. 246-253, in cui, al seguito di Ortega, rivendica anche la priorità rispetto ad Heidegger (ivi, p. 247). Ma, come ha rilevato N.R. ORRINGER (Ortega y sus fuentes germánicas, cit., pp. 133-137), tale impostazione è insostenibile alla luce dell’influsso di Schapp nelle meditazioni chisciottesche. È indubbio che «la lettura di Heidegger aiuterà Ortega ad apprezzare i contributi di Schapp alla sua filosofia e a sottolineare, a partire dal ’29, dottrine già insinuate nel ’14. Giacché Heidegger ed Ortega sembrano coincidere su molte idee in cui si nota, almeno in Ortega, la traccia di Schapp» (ivi, p. 165). Infatti, mentre quest’ultimo parla di Offernbarung, Ortega allude al Phainomenon; mentre Schapp si richiama alla Erleuchtung, Ortega si riferisce alla “illuminazione subitanea”» (ivi, p. 153). Ciò nonostante, sussiste una divergenza tra i due: Schapp concepisce la verità (aletheia) come contatto della mente con le cose, Ortega la radica nella preoccupazione per la vita concreta e circostanziale. Non è da sottovalutare, inoltre, l’influsso di N. HARTMANN, Platos Logik des Seins, in «Philosophische Arbeiten», 3, 1919, come ha mostrato N.R. ORRINGER, Ser y no-ser en Platón, Hartmann y Ortega, in «Nueva Revista de Filología Hispánica», 28, 1980, pp. 60-86. Sulla concezione della verità, cfr. A. RODRÍGUEZ HUÉSCAR, Perspectiva y verdad, cit., pp. 200-253. Sottolinea il contributo husserliano, P. CEREZO GALÁN, La voluntad de aventura, cit., pp. 247-248, per il quale la verità attiene radicalmente alle cose stesse la cui rivelazione-illuminazione costituisce il fondamento oggettivo dell’evidenza. 14

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Armando Savignano

La circostanza, che denota anche una limitazione spaziotemporale, è agli antipodi di ogni «idealismo mucillaginoso» (I, 321) e di ogni positivismo provinciale, che pretende ridurre il mondo alla mia circostanza. Per la prima volta il mondo è configurato come “orizzonte” ed è contrapposto alla mentalità razionalistica mediante il noto ricorso alla metafora del bosco (I, 330-331), i cui alberi non permettono di vederlo; il bosco non è però la somma degli alberi, né la loro totalità, bensì costituisce una struttura variabile di primi piani e profondità, che configurano precisamente un orizzonte prospettico; il bosco, inoltre, non rappresenta qualcosa di chiuso – come quel mondo chiuso del razionalismo – ma una possibilità (I, 331). Il mondo come orizzonte è articolato prospetticamente in presenza e latenza, come aveva già rilevato Husserl (Ideen, I, §§ 27 e 28). D’altronde, la connessione tra superficie-profondità, per la cui percezione il concetto costituisce «l’organo normale» (I, 349), è funzionale alla costituzione del senso, che implica uno sguardo attivo, interpretativo, insomma una visione essenziale. Proprio dal riconoscimento ed accettazione della mia circostanza limitata e storicamente situata emerge l’unica possibilità di salvarla, ma insieme ad altre, giacché la ricerca del senso è frutto di connessione e di comunicazione (I, 351).

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José M. Sevilla

Ortega e la filosofia del Sud

temos, todos que vivemos, Uma vida que é vivida E outra vida que é pensada, E a única vida que temos É essa que é dividida Entre a verdadeira e a errada.

Fernando Pessoa

Questo studio orteghiano1, che qui, insieme agli altri compagni d’avventura, contribuisce a un omaggio alle meditaciones del quijote (1914)2, testimonia di come i miei sforzi teoretici e i miei interessi filosofici si siano incentrati, nelle ultime due decadi, sulla ricerca di una interrelazione tra le filosofie di Ortega e di Vico. Da tale ibridazione intellettuale tra umanesimo retorico, storicismo filosofico e raziovitalismo scaturisce la mia concezione di una filosofia problematista3. Ed è questa la prospettiva 1 Il presente lavoro nasce dalle idee intorno a cui ha ruotato la mia conferenza intitolata Ortega y una filosofía sureña. Afinidades y contrastes, nel contesto delle Jornadas de homenaje a José Ortega y Gasset en el centenario de Meditaciones del Quijote 1914-2014 (Università di Sevilla, 26-27 febbraio 2014). Citiamo le Obras completas di Ortega dall’edizione di Alianza-Revista de Occidente (Madrid, 1983 ss., 12 t.) come eA, seguito dal numero del tomo e dal numero della pagina; e a seguire l’edizione di Taurus (Madrid, 2004 ss., 10 t.) come eT. 2 D’ora in avanti, in nota, nella formula abbreviata mq. Con le sigle tnt citiamo El tema de nuestro tiempo e con pA il prólogo para alemanes. 3 Cfr. J.M. SEVILLA, prolegómenos para una crítica de la razón problemá-

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José M. Sevilla

a partire dalla quale intendo affermare che, nonostante da meditaciones del quijote emerga, in prima battuta, un punto di vista critico di Ortega rispetto alla mediterraneità, ad uno sguardo più approfondito, questi si presenta segnatamente come un pensatore del Sud. Pietre angolari della sua filosofia sono le note prese di posizione che appaiono sin da meditaciones del quijote: prospettivismo, circostanzialismo, problematismo e raziovitalismo. E a mo’ di modello di ragione, com’è noto, Ortega offre lo stile “mattinalista” della ragione vitale e storica, che, in concreto, viene ad essere ragione problematica e narrativa. Tali elementi contenutistici, costitutivi della filosofia orteghiana, richiedono l’articolazione tra ragione vivente, vita della ragione e filosofia vivibile come i tre piedi del tripode su cui – secondo la nostra interpretazione – s’erge la prospettiva di una filosofia del Sud in Ortega, che in meditaciones del quijote ha un modo di procedere caratterizzato da intenzionalità dialettica e spirito di integrazione. Ancor di più, sono tre aspetti che propiziano una condizione meticcia e meridionale [sureña] della filosofia, che è anche quella di un filosofare a sud del pensiero4. tica. motivos en Vico y Ortega, Anthropos, Barcelona, 2011; e ID., Aportes para mi propia crítica, in «Cuadernos sobre Vico», 27, 2013, pp. 78-83, e in italiano in «Bollettino del CSV», XLI, 2, 2011, pp. 76-81. 4 Quando già avevo elaborato il testo della sopracitata conferenza sivigliana, venni a conoscenza del fatto che nelle xi Jornadas internacionales de Hispanismo Filosófico (Granada, 20-22 marzo 2013), con il lemma «Filosofías del Sur» - ma con un programma su autori andalusi – la conferenza inaugurale pronunciata dal filosofo Pedro Cerezo Galán era stata intitolata Al Sur del pensamiento: mediterranismo y Latinidad. Non sono riuscito né ad ascoltare né a disporre del contenuto del suo testo in quanto era ancora inedito. Il prof. Cerezo partecipò altresì alle Jornadas di Siviglia dell’anno successivo e lì avemmo occasione di avvertire e di compiacerci pubblicamente delle nostre affinità e concordanze riguardo al tema. Ringrazio il prof. Cerezo per il suo interessamento e per la cortesia di avermi fornito successivamente una copia della sua conferenza di Granada, ancor prima che fosse pubblicata negli Atti. Dopo aver letto il testo, non ho voluto farne uso per una rielaborazione del mio, ma sì riferirmici e citarlo in alcuni passaggi al fine di rafforzare con la sua riconosciuta autore-

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Ortega e la filosofia del Sud

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1. Filosofia vivibile

Se non fosse vivibile – nel senso di un modo di esistenza umana esercitata secondo ragione e posta tra l’evidenza del dubbio e l’ansia di verità – la filosofia sarebbe relegata all’ambito delle cose passive. Ma com’è possibile considerarla “passiva” quando la sua condizione è frutto della volontà dell’uomo, tanto quanto o forse ancor di più di quanto lo sia dell’intelletto? Parafrasando Ortega, potremmo dire che la filosofia è una dimensione profonda ed elevata della realtà che esiste in quanto la si vuole, poiché l’uomo non si accontenta soltanto dell’accumulazione di fatti e di cose, bensì esige da se stesso di estrarre da essi il loro «vigore essenziale». Diviene allora necessario volere la loro esistenza. Una volontà di filosofia che l’uomo avverte per rendere quanto più possibile piena la propria vita e che si traduce nello sforzo di comprendere l’intimità di ciò che è in lui e nel suo contorno. Ma non con il presunto e puro desiderio contemplativo di passivi voyeurs metafisici (di philotheamones o amici del guardare, come li chiamava Platone nella Repubblica)5, bensì pungolati da un’interiorizzazione vitale affinché – così come scrisse il granadino Ángel Ganivet ancor prima di Ortega – l’uomo sappia a cosa attenersi6. Tale interiorizzazione del problematismo del reale fa volezza le mie tesi. Mi sono sentito intimamente vicino al modo in cui l’autore realizza – nei paragrafi 2 e 3 – una rigorosa argomentazione della latinidad, inserendo nella difesa di essa la riabilitazione che Ernesto Grassi fa dell’umanesimo retorico rinascimentale, che Cerezo – nel paragrafo 4 e ultimo, che fa leva sulla preminenza simbolica dello stile umanistico di pensiero – fa rientrare nella definizione di un «umanismo latino» – dalla profonda tradizione ispana – che, come «metodo del pensiero», non soltanto è contrario ma, allo stesso tempo, «complementare» all’altro metodo, ossia al razionalismo; laddove entrambi i metodi non sono assunti come «modelli generali della filosofia» bensì come «stili mentali». A ciò s’aggiunge la segnalazione di due stili: uno per le scienze della natura e l’altro per le scienze dello spirito. 5 Repubblica, 475 d e 476 a-b. 6 Cfr. infra n. 45

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José M. Sevilla

della rètina filosofica la condizione di un attivismo che «interpreta vedendo e vede interpretando» frammenti della vita o «orbite di realtà»; dimensioni dell’esistenza, soggette alle lenti di uno sguardo pensante: «un intelligere o leggere dal di dentro» e, dunque, tentativo di comprendere, razionalizzare e criticare una realtà di cui l’uomo fa parte7. Tale è, secondo Ortega, la lettura di genere filosofico, e, più concretamente, della specie di «meditazione» a cui nel suo primo libro sottopone il Chisciotte. La filosofia deve essere vivibile, la scelta di un cammino in cui non è dato di rinunciare a pensare la verità senza provare a viverla; e, infatti, «la vita senza verità non è vivibile», ma – completando il precetto orteghiano di prólogo para alemanes (1934) – «senza uomo non c’è verità»8. È da qui che scaturisce l’esigenza di chiarezza, di gettar luce sulle cose. Una chiarezza, questa, che, pur non essendo la nuda vita, tuttavia ne costituisce la «pienezza», come ben si comprende dal capitolo XII di meditaciones del quijote9; una lampada di archai che illumina le dense tenebre «della problematicità della vita» e che costituisce la cultura. Cultura allora come sinonimo di chiarezza nella vita, «dilatazione» della realtà circostante, conquista di ciò che è problematico e aumento del mondo umano. Tale volontà luciferina richiede uno strumento preciso di chiarificazione; una funzione che Ortega attribuisce al concetto: essere «luce sparsa sulle cose»10. Ma non ci illudiamo, perché il sogno culturalistico di meditaciones del quijote va al di là dello stringente afferrare del concetto kantiano. Piuttosto – e procediamo pure con fluire mediterraneo – nel rammemorare l’antica nozione di lógos, Ortega libera il concetto inmq, eA I, pp. 336, 340; eT I, pp. 769, 772; tr. it. meditazioni del Chisciotte, a cura di B. Arpaia, introduzione di O. Lottini, Guida, Napoli, 1986, pp. 59, 63. 8 J. ORTEGA Y GASSET, prólogo para alemanes (1934), in eA VIII, p. 40; eT IX, p. 148 (d’ora in avanti pA); tr. it. prologo per i tedeschi, in il tema del nostro tempo, a cura di C. Rocco e A. Lozano Maneiro, Sugarco, Varese, 1994, p. 49. 9 Cfr. eA I, p. 358; eT I, pp. 788-789; tr. it. pp. 82-83. 10 ibidem; eT, p. 788; tr. it. p. 83. 7

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Ortega e la filosofia del Sud

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catenato alla pura funzione trascendentale affinché illumini l’interiorità della vita e la arricchisca di prospettive mondane poste oltre la mera spontaneità11. 2. La circostanza dell’io

Abbiamo appena annunciato che la filosofia non può ridursi ad un atteggiamento contemplativo della vita, ma deve essere un sapere attivo in e per essa; congiunzione di principi che definiscono il concetto fondamentale di sureñidad della filosofia e di svolta verso la chiarezza del meriggio: non dunque pretesa di illuminare (e a volte – come fa Heidegger – forzatamente abbagliare) un presunto Essere occulto nelle essenze delle cose, bensì chiarezza dell’essere qualcosa che salta agli occhi nella realtà della mia vita. Eppure lì, dove apparentemente ha luogo la fusione di due principi, paradossalmente v’è un motivo di confusione. Da un lato, Ortega distingue tra pensiero mediterraneo (chiarezza impressionista) e pensiero germanico (chiarezza concettuale); e, dall’altro, propone che la vita, nel suo senso più radicalmente ontologico, divenga l’obiettivo della filosofia del «nostro tempo». Tale è infatti il proclama, nel 1923, de El tema de nuestro tiempo. E qui ha inizio la nostra interpretazione del modo in cui il nuovo pensiero meridionale [sureño] di Ortega emerge a partire da una fusione e da una confusione, essendo congiuntamente il figlio bastardo della devozione verso il concetto e di un’esigenza di vivere la vita. Un’affezione tra entrambe le dimensioni rispetto a cui cerca un equilibrio produttivo, che, però, non può essere quietista – giacché è il prodotto della circostanza e della storicità – bensì un equilibrio attivista, alla stregua del movimento del fu11 Come opere complementari, leggo mq alla luce de El tema de nuestro tiempo (1923) e viceversa (così come ho provato a fare nel mio libro Conquistar lo problemático. meditaciones del quijote de Ortega y cervantismo, Fénix, Siviglia, 2005; e così ho continuato a fare).

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José M. Sevilla

nambolo sul filo sopra il vuoto, in cui la ragione si gioca la vita (e viceversa)12. Giambattista Vico, nel libro I della sua Scienza nuova, ci ha insegnato che la verità è un’estrazione (astrazione) ideale delle molteplici certezze umane nella storia degli uomini. Ortega, dal canto suo, sostiene che tutto ciò che c’è non è altro che un insieme di parti della realtà, o meglio, «non esistono se non parti in realtà». Eppure, innanzi a quella molteplicità del reale, il filosofo chiarisce che «il tutto è l’astrazione delle parti». La loro idea. La verità. Il tutto è addirittura l’“eternità” sotto la cui specie si guardano le cose isolate e alla deriva sotto l’intemperie ontologica. E tuttavia, quel tutto astratto è intimamente connesso alla coscienza soggettiva moderna e, in concreto, kantiana. Sicché, al fine di conservare la profondità estrattiva dell’intelligere, ma senza le remore del razionalismo idealista, Ortega introduce, proprio in meditaciones del quijote, la nozione di prospettivismo (che più tardi sarebbe stata la struttura principale de El tema de nuestro tiempo): ogni vita offre una prospettiva di ciò che chiamiamo mondo, ed è attraverso la moltiplicazione ed integrazione delle prospettive su ciò che c’è che l’io individuale che io sono si definisce man mano in rapporto alla mia realtà circostante; in questo modo, è solo attraverso l’immediatezza di ciò che mi circonda, che a sua volta mi costituisce in parte, che posso inserirmi in un posto dentro il tutto. L’atteggiamento prospettivista emergente nella fenomenologia di meditaciones del quijote si apre, di diritto più che di fatto, al raziovitalismo: ed è così che la proposizione del 1914 «io sono io e la mia circostanza» assume il punto di vista dell’io che è vita individuale e concreta, ossia Condivido l’affermazione presente nella già citata relazione di Cerezo Al sur del pensamiento: «In seguito all’equilibrio dinamico tra impressione e concetto – o superficie e fondo –, rappresentato dalle meditaciones, nella sua opera riecheggerà nuovamente una dimensione inconfondibilmente mediterranea e iberica, propria della sua metafisica della «ragione vitale» (§ 1 “La sensibilidad mediterránea”). 12

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Ortega e la filosofia del Sud

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dell’«io vivente», come coesistenza tra il mio io-coscienza razionale e il mondo. Il che, anni più tardi, sarebbe stato esplicitato nel corso Vida como ejecución (1929-30): «La mia vita, lo ripeto, è io e la mia circostanza»13. E per un io intelligente uno dei «modi di esistere» è proprio quello filosofico, quello di «capire e pensare la circostanza». Al punto che la nota formula che assume il problematismo della realtà sotto il modo della coesistenza, viene posta con totale chiarezza attraverso l’affermazione secondo cui «la mia vita», il vivente, è il mio io-coscienza che coesiste indissolubilmente con la mia circostanza, ossia con il mondo. In questo modo, la proposizione orteghiana formulata nel 1914 acquisisce un rango più elevato di costituzione ontologica nella sua riformulazione del 1930, vale a dire, quando Ortega precisa il valore integrale di tutti gli elementi in gioco: «La mia vita è io e la mia circostanza, con cui esisto coesistendo»14. Lo stile mediterraneo di pensiero di Ortega, problematico e critico verso se stesso, scaturisce dalla rivitalizzazione di quella formula. Qual è allora il “tema del nostro tempo” nelle meditaciones del quijote? Non è altro che quello di «cercare per la nostra circostanza il luogo appropriato nell’immensa prospettiva del mondo, scavando esattamente in ciò che essa ha di limitato, di peculiare». Vale a dire, la necessità di assimilare l’evento e la contingenza particolare: «il riassorbimento della circostanza è il concreto destino dell’uomo». La vita come accettazione della circostanza implica quindi l’imperativo di «salvare» il mio mondo per salvare me stesso. Il tema del nostro tempo nelle meditaciones del quijote è quello di «cercare […] il senso di ciò che ci circonda». L’impresa di ogni cultura diviene in questo modo salvifica, giacché salva l’immediatezza nel significato o, detto in altri termini, «riassorbe» la dimensione topologica di ogni ambito della vita – data nella sua 13 eT VIII, p. 223 e 49 (testo non incluso in eA, che Garagorri pubblicò in ¿qué es conocimiento? Alianza-Rev. de Occ., Madrid, 1984). 14 Ivi, p. 223. Cfr. pA, § 5, in eA VIII, p. 56; eT IX, p. 162. Cfr. prolegómenos para una crítica…, cit., pp. 292-293.

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José M. Sevilla

mera e spontanea presenza – in una dimensione semantica della stessa. Un imperativo che, in fin dei conti, si riduce a «cercare il senso di ciò che ci circonda»; ma non secondo la soluzione elaborata dal «carattere moderno» interessato a cercare la salvezza nelle «grandi cose», bensì, piuttosto, a partire dallo sguardo gettato sulle cose piccole, sull’umiltà delle cose minute che ci circondano e dove c’è un lógos da scoprire15. 3. Ragione vivente

Com’è noto, la proposta orteghiana di riassorbimento della circostanza si oggettiva in una dialettica tra vita e ragione. Dalla congiunzione tra pensiero mediterraneo e germanico nasce il rampollo orteghiano della «ragione vitale». Eppure, una tale dialettica vitale della ragione non può essere unicamente un presupposto o una contraddizione non risolta. 1) È chiaro che, da un lato, Ortega richiede il riposizionamento e la centralità della vita, ovvero, che la ragione acquisisca senso dall’immediatezza di ciò che è spontaneo. 2) Ma è altrettanto chiaro che, dall’altro lato, all’immediatezza dell’immagine e dell’impressione, Ortega oppone il carattere mediato del concetto, la sua virtualità mediatrice nella realtà; e in alcuni di quei «cerchi d’attenzione che traccia» il suo pensiero (tale è la definizione che ricevono le «meditazioni») contrappone come categorie antagoniste (capp. VII e VIII), non soltanto in senso geografico-storico ma anche filosofico-culturale, quelle del «pensatore mediterraneo» e del «pensatore germanico»16. 3) Nondimeno, nell’assumere la propria circostanza, Ortega si sente erede di entrambi i tipi e – secondo quanto egli stesso afferma – spinge i suoi «uomini interiori» «alla collaborazione»17; forse per placare la sua anima eA I, pp. 322-323; eT I, pp. 756-757; tr. it. pp. 43-44. Cfr. eA I, p. 347; eT I, p. 779; tr. it. p. 70. 17 mq, eA I, p. 357; eT I, p. 787; tr. it. p. 81. 15

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mq,

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Ortega e la filosofia del Sud

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scissa – o forse per equilibrare quelle due anime che, secondo Goethe18, s’annidano nel petto. Per ciò stesso, sebbene egli stabilisca una gerarchia tra i due modi di comprendere la costituzione della realtà, la «chiarezza dell’impressione» e la «chiarezza della meditazione», tuttavia riconosce che entrambi sono modi di chiarezza. Si comprende in questo modo come il «concetto» sia per Ortega la chiarezza cui aspira la vita dell’uomo quando questa vita, nella sua pura vitalità, è problematismo duro e radicale. Orbene, la ben nota «missione di chiarezza» (germanista) che Ortega attribuisce al concetto, risponde altresì ad un’esigenza per così dire “mediterranea” riguardo alla vita, in quanto non è una missione che concerna soltanto la “vita pensata”, ma anche la “vita vissuta” – come nei versi di Pessoa19. Ed è questo il motivo per cui la ragione vivente non consiste per Ortega in una pretesa e idealizzante ragione della vita, bensì, al contrario, in una esecutiva «vita come ragione», e, a sua volta, ragione come un organo e funzione della vita. Esplicita «ragione vivente e drammatica»20 (poiché la vita è dramma, puro problematismo). Qualche volta egli fa un’equiparazione: «ragione vitale o vivente»21. Il participio «vivente», lungi dal definire una presupposta essenza direttrice della vita, denomina la ragione nell’atto stesso di viversi e, a sua volta, la vita concreta nell’essere ragione. La ragione vivente è animo, anima e mente; una ragione che ha un corpo, respira e parla. Dal canto suo, l’aggettivo «vitale» qualifica la ragione come soggetto che ha come principio la vita e, come missione, quella di svelare «le basi della vitalità». L’idea di «ragione vitale» ha un nervo concettuale germanico (non soltanto del vitalismo) che le conferisce il significato di ratio appartenente alla vita, mentre la nozione di «ragione vivente» ha un Faust, I, v. 1112. Cfr. F. PESSOA, “Tenho tanto sentimento”, in Cancioneiro (in Autopsicografía, Mondadori, Madrid, 1998, p. 16). 20 Goethe sin Weimar (1949); in eA IX, p. 589; eT X, p. 32. 21 Come nelle lezioni del corso 1933-34. Cfr. eT IX, p. 49. 18

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peso maggiore di mediterraneità, di immediatezza e di presenza esecutiva: un lógos che vive, e per ciò stesso è drammatico; una ragione problematica alla stregua della vita. Qualche volta, come nella nona lezione di En torno a Galileo (1933), Ortega rende esplicita la felice denominazione di «ragione vivente», che era stata finanche destinata come titolo di un’opera annunciata22. La splendente ragione vitale e storica nasce dal meticciato di germanismo e mediterraneità; dalla seconda, in quanto la ragione è vista come vita concreta e storia; e dal primo perché l’idea di «ragione vitale e storica», seppur ostile verso il razionalismo e l’idealismo (così tedeschi), non cessa, tuttavia, d’essere un’astrazione, una proposta di modello ideale che Ortega introduce nel dibattito sulla crisi della ragione. Tale è il motivo per cui negli ultimi anni ho insistito sulla necessità di stabilire – al fine di accertare quel che si presenta come una verità generica (vale a dire, che la ragione è storica) – che la ragione problematica e narrativa è, in concreto, ciò che in astratto sarebbe la ragione vitale e storica23. Concretezza, questa, che costituisce e caratterizza una filosofia del sud [sureña] o meridionale o mediterranea, come dir si voglia. 4. inserimento nella Polemica della scienza spagnola

Tutta la decostruzione che Ortega realizza circa il valore della latinità e della mediterraneità costituisce un terzo momento che eA V, p. 135; eT VI, p. 480. Cfr. il cap. VIII di Historia como sistema (1935; 1941), in cui Ortega annuncia in una nota il titolo del suo «prossimo» libro: Sobre la razón viviente (eA VI, p. 38; eT VI, p. 70; tr. it. Storia come sistema, in Aurora della ragione storica, a cura di L. Rossi, prefazione di L. Pellicani, Sugarco, Milano, 1983, p. 225). 23 Mi permetto di rimandare, oltre che al già citato prolegómenos…, anche ai miei Ragione narrativa e ragione storica. Una prospettiva vichiana su Ortega y Gasset (Guerra, Perugia, 2002) e El espejo de la época. Capítulos sobre G. Vico en la cultura hispánica (La Città del Sole, Napoli, 2007). 22

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può agevolmente essere inserito – una volta inteso come «il problema della Spagna» – all’interno della storia della «polemica della scienza spagnola», che, d’altra parte, va a coincidere con la discussione impersonata principalmente da Unamuno e Ortega24, comprendente tanto un dibattito sociostorico circa la condizione e le caratteristiche di una presunta filosofia spagnola quanto un confronto filosofico circa il problema della Spagna e dell’europeizzazione come soluzione. In tale contesto, bisognerebbe capire come meditaciones del quijote rappresenti un approfondimento di un tema cruciale della polemica. Ed è proprio da qui che acquista senso l’atteggiamento battagliero con cui un filosofo del sud, che manifesta la volontà del rigore concettuale proprio dello spirito germanico, pur senza abbandonare il modo di pensare sub specie meridionalis, avanza affermazioni sulla «latinità» come una «dorata illusione», «pretesto» e «ipocrisia» dei popoli mediterranei che, innanzi alla mancanza di produzione scientifica, trovano banale consolazione nel credersi «eredi dello spirito ellenico». Per ciò stesso, e supportato da un breve esercizio historiológico, Ortega cambia espressione e concetto: «cultura latina» al posto di «cultura mediterranea»25. Ebbene, se l’Europa, secondo Ortega, si costituisce a partire dall’uomo germanico («gotico») nel Medioevo, così come dirà anche successi24 Un primo momento è quello che ha inizio con l’articolo di Masson de Morvilliers nella Encyclopédie métodique nel 1782 e con le risposte di Cavanilles (1874), Denina (1876) e Forner (1876); un secondo momento, ormai nel XIX secolo, è quello che dà il nome alla polémica de la ciencia española capeggiata dal filosofo krausista Gumersindo de Azcárate e dallo storico delle idee Marcelino Menéndez Pelayo; e un terzo momento, che è quello rappresentato da Unamuno e Ortega. Cfr. J.L. ABELLÁN, Las grandes polémicas de la cultura española, Fundación Juan March, 3-12 maggio 1994 (www.march.es/conferencias/anteriores); P. CEREZO, Ecos de la polémica sobre la Ciencia española, Discurso in Homenaje a marcelino menéndez pelayo, nella Real Academia de Ciencias Morales y Políticas (Madrid, 2007), in http://www.racmyp.es/docs/homenajes/H8/H8-2.pdf; e il clásico di E. Y E. CAMARERO, La polémica de la ciencia española, Alianza, Madrid, 1970. 25 mq, eA I, pp. 341-342; eT I, pp. 773-775; tr. it. pp. 64-66.

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vamente in altri suoi scritti sull’Europa, appare chiaro che in meditaciones del quijote sta identificando lo spirito germanico con l’“europeizzazione” (e spirito mediterraneo con españolidad), e – seppure egli non sia affatto vicino, anzi tutt’altro, rispetto alla pretesa ontologica autoidentitaria e nazionalista tedesca di Heidegger – equipara l’eredità della filosofia greca all’austero ma chiaro pensiero germanico26. La prospettiva orteghiana si incentra ora su una questione precisa: invertire l’accusa di nebulosità addossata al germanismo contro quella «tipicamente ammessa» esaltazione di chiarezza del latinismo, e così del «mediterranismo». Come abbiamo prima accennato, la sua critica a questo presupposto deve essere intesa entro la cornice della storicizzazione della polemica della scienza spagnola, che ha come referente anche Marcelino Menéndez Pelayo e la sua contrapposizione tra «nebbie iperboree» e «chiarezza latina», che è proprio quella che Ortega inverte. Questi, infatti, invita il lettore a domandarsi se le «genti meridionali» abbiano lasciato cadere «su tutte le cose» quella «domestica illuminazione» esaltata dal poligrafo cantabrico; o – così come si sosteneva nei momenti precedenti della polemica – se in Spagna sia esistita una produzione scientifica specifica e rilevante nel concorso europeo. La sua risposta è tagliente: paragonata alla «scienza germanica» (compresa anche la filosofia) la «cultura mediterranea» non potrebbe opporre «prodotti propri». La chiarezza filosofica è, per l’Ortega di meditaciones del quijote, un tratto dello stile di pensiero germanico che, secondo lui, non riescono a condividere neanche i geni meridionali dall’alta produzione ideologica. Ebbene, quando Ortega scrive che «non bisogna, quindi, cercare nel pensiero la chiarezza latina», al posto di intendere la sua frase come una sentenza decisamente dispregiativa e discriminatoria, bisognerebbe assumerla come una “critica patriottica” (“critica come patriottismo” è, infatti, il Ivi, eA I, p. 343; eT I, p. 776; tr. it. p. 67: «I pensieri nati in Grecia prendono la strada della Germania». 26

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titolo del cap. 15), di un patriottismo meridionale ma dotato di «prospettiva», affinché il concetto entri nel pensare del sud in modo da completare – che non vuol dire espellere – l’impressione, la sensazione, l’intuizione. Il concetto senza impressione, senza «le cose materiali», svanirebbe in una pura fantasmagoria spiritualista. Pertanto, la critica orteghiana al pensiero del sud, esteriore, caldo, fantasioso, passionale e corporeo, in confronto a quello del nord, interno, freddo, riflessivo ed eidetico, appare in fondo come un discorso in partibus infidelium, ossia, a favore dello spirito meridionale; vale a dire, a favore di quel modo di pensare che, se ben diretto, Ortega considera capace di collocare la ragione al posto che le spetta nel nostro tempo: insieme alla vita; definendo grazie ad essa il suo compito organico e funzionale. «La ragione non può, non deve aspirare a sostituire la vita»27. In questo modo, sebbene Ortega riconosca nella storia l’esistenza di un pensiero «relativamente mediterraneo» che addirittura vanta alte vette di genialità nelle sue idee (paragonabili alla filosofia tedesca, come, ad esempio, il pensiero rinascimentale italiano, la moderna filosofia soggettivistica di Descartes, la figura «rappresentativa dell’intelletto mediterraneo»: Vico), nondimeno l’eccezionalità ricade soltanto sulla dimensione della chiarezza concettuale. Egli, infatti, afferma senza ritrosie che «Leibniz o Kant o Hegel sono difficili, ma chiari come un mattino di primavera; Giordano Bruno e Descartes forse non sono ugualmente difficili, ma, in compenso, sono confusi». E, a proposito dell’autore della Scienza nuova: «non gli si può negare genio ideologico; ma chi si addentri nella sua opera apprende da vicino la nozione di caos»28. Potremmo continuare, ma un tale confronto è già stato analizzato in un’altra occasione e in un’altra sede29. Quel che ora bisogna chiedersi è se Ortega, in quanto auIvi, eA I, p. 353; eT I, p. 784; tr. it. p. 77. Ivi, eA I, p. 345; eT I, p. 777; tr. it. p. 69. 29 Cfr. J.M. SEVILLA, El espejo de la época..., cit., IV. . 1. “Vico y Ortega y Gasset: afinidades y contrastes”, pp. 471-486 e pp. 205-208. 27

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tore meridionale, non stia in verità contribuendo a una critica di se stesso (come ad esempio quella realizzata da Croce); o se, invece, una volta sbiaditi i tratti forti espressi in occasione della sua querelle, quel che rimane non sia una richiesta di rigore concettuale affinché l’impressionista filosofia del sud segua il modello dell’essenzialista filosofia del nord. Eppure, non può trattarsi di ciò, poiché Ortega richiede in termini inequivocabili e in modo insistente e costante un modello di ragione vitale, storica e narrativa – propria della tradizione culturale meridionale – che è l’esatto contrario della «ragione fisica e pura», i cui epigoni sono stati, senza dubbio, Kant e Hegel, condottieri della filosofia “spettrale”. 5. mediterraneità e germanismo

Quando in meditaciones del quijote Ortega confronta la chiarezza del concetto con la chiarezza dell’impressione, lo fa calando nella dimensione della circostanza un binomio tipologico di due culture, due stili di pensiero o modi di guardare la realtà (quello proprio del nord e quello proprio del sud), la cui dialettica vitale costituisce la cultura europea, l’uomo europeo, la filosofia occidentale e persino il divenire stesso costitutivo dell’Europa. Ma costituisce anche l’essere particolare dello stesso Ortega, che si dibatte tra i suoi «due uomini interiori» alla ricerca di un difficile equilibrio tra il suo patriottismo circostante e la sua germanofilia culturale. Alcuni anni prima della tipologia esposta in meditaciones del quijote30, Ortega aveva stabilito una distinzione tipologica tra «uomo mediterraneo» e «uomo gotico» – persino in una 30 In Arte de este mundo y del otro (1911), le notas in «El Imparcial», luglio e agosto del 1911, a proposito di un libro di W. Worringer. Cfr. eA I, pp. 186-204, in part. 199 e ss; eT I, pp. 434-450, in part. pp. 446 e ss.; tr. it. Arte di questo mondo e dell’altro, in meditazioni del Chisciotte, cit., pp. 231-255, in part. pp. 248 e ss. Cfr. infra, n. 31.

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linea seriale storica – tramite la contrapposizione tra due tipi di anime: «mediterranismo» e «anima gotica»31. Già allora, così come avrebbe fatto anche in seguito, più che alimentare un abisso di differenza tra i poli, Ortega – non estraneo all’esercizio della dialettica hegeliana32 – cercava di spezzare la dicotomia tra cultura germanica e cultura mediterranea con l’avvicinamento dei poli al loro punto d’attrazione. Se, infatti, da un lato ascrive alla prima la filosofia rigorosa (sinonimia tra «chiara» e «concetto») e alla seconda il dominio sull’arte (trionfo della chiarezza delle «impressioni»), dall’altro, appare evidente il tentativo di superare una tale antitesi mediante l’uso dei binomi che abbiamo prima indicato (ora slittati nei nuovi domini dell’«ideale» e del «sensuale»), i quali tendono ad equilibrare la bilancia: se il «pensatore mediterraneo» non pensa in modo così chiaro come il «pensatore germanico», nondimeno, paragonato a questi, vede più chiaramente33. Una tale «potenza visiva», capace di trattenere 31 Nell’estendere la sua tipologia della storia dell’arte alla contrapposizione tra «stile geometrico» proveniente dal Nord e «stile vitalista» proveniente dal Sud, Ortega distingue «le due forme estreme della “patetica” continentale: il pathos materialista o del Sud, il pathos trascendentale o del Nord» (eA I, p. 188; eT I, p. 436; tr. it. p. 235), e cerca una sintesi tra le due anime, sebbene l’analisi distintiva gli risulti metodologicamente necessaria per saggiare (a proposito del libro e delle tesi di Worringer) tanto un’estetica o patetica della Spagna, quanto – così come avrebbe inteso fare alcuni anni dopo – una meditazione filosofica della Spagna elaborata come in mq. Cfr. il suo articolo El “pathos” del Sur (in «El Imparcial», il 2 marzo 1911). Cfr. infra, n. 35. 32 Non è un caso che sia stata segnalata la ricezione – innegabile seppure ambigua – di Hegel da parte di Ortega (da N. Orringer, R. Flórez, A.-E. Pérez Luño, D. Hernández Sánchez, C. Cantillo, ecc.) e l’attrazione che sente il filosofo spagnolo per la dialettica che, negando, afferma e supera. Cfr. A.-E. PÉREZ LUÑO, “Hegel y Ortega. Meditación sobre los presupuestos historiográficos de la filosofía del derecho”, in F.H. Llano Alonso & A. Castro Sáenz (a cura di), meditaciones sobre Ortega y Gasset, Tébar, Madrid, 2005, pp. 523-567, in part. p. 542; e C. CANTILLO, La ragione e la vita. Ortega y Gasset interprete di Hegel, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2012, in part. p. 24. 33 mq, in eA I, p. 347; eT I, p. 779; tr. it. p. 71.

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in poche «visioni» o di far apparire mediante immagini e di presentare in modo immediato innanzi alla rètina ciò che v’è di sostanziale in un ente, è proprio ciò che risplende nella Divina Commedia o nel Chisciotte. Se per il filosofo settentrionale ciò che conta è l’essenza delle cose, il tratto distintivo del mediterraneo, invece, è dare preminenza alla presenza e all’attualità di queste: «alle cose preferiamo la sensazione viva delle cose» – afferma Ortega con animo proteso alla descrizione fenomenologica. Non si tratta dunque di una dicotomia di tipi ideali, uno dei quali illumina l’arte e l’altro chiarifica il pensiero come filosofia; piuttosto, si scoprono due diverse modalità di «mentalità» che si rispecchiano tanto nella filosofia quanto nell’arte: quella dell’anima mediterranea (realista, naturalista, immanente) e quella dell’anima gotica (formalista, geometrica, trascendentale) destinate ad un incontro inaggirabile: quello dei diversi modelli ontologici che Ortega cerca di integrare in una dialettica vitale. Si tratta di una sintesi che esprime nella ragione narrativa il salto che effettua il pensiero mediterraneo dall’astrazione alla concretezza, alla stregua dell’artista; ma anche la volontà di sistema che spinge il pensiero germanico a trovare il modo in cui, come scrisse Felice Battaglia, «nel fenomeno si manifesta l’universalità e questa si realizza in quello»34; una sintesi, dunque, di storia e ragione, come quella cui puntava lo sforzo speculativo di un pensatore meridionale come Giambattista Vico, che aveva stretto in un legame indissolubile il certo e il vero, la filologia e la filosofia. A rigore, non bisognerebbe parlare di differenza di chiarezza, bensì di dimensione culturale o creatrice. Su questo punto disponiamo di un contributo innovativo: entrambi i sensi nell’apprensione di realtà – quello superficiale (imputabile all’impressione) e quello profondo (attribuito al concetto) – che propiziano e che costituiscono due diverse dimensioni culturali, III,

F. BATTAGLIA, Corso di filosofia del diritto, Foro Italiano, Roma, 1943, v. p. 169 (citato da PÉREZ LUÑO, op. cit., p. 567). 34

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sono visti da Ortega come i due lati di una stessa cultura europea, e, infatti, egli postula senza ambagi la loro integrazione35. È il suo “cuore” mediterraneo ad imporre alla sua condizione di filosofo la necessità di ibridare – in quanto complementari – entrambe le dimensioni. Un atto, questo, reso possibile dal lato meridionale del pensiero, il solo che sia capace di piegare, attraverso l’immaginazione e l’ingegno, la ragione al servizio della vita. Di fatto, la frequentazione con il pensiero metaforico e il raziovitalismo integrazionista si concretizza nell’intento orteghiano di articolare in una stessa realtà l’immediatezza e la mediatezza: individualità e universalità, metafora e concetto, immagine contratta e idea astratta, particolare e generale, storia e filosofia. In sintesi: integrazione di vita e ragione. Ragione vivente, secondo quanto prima affermato. La cultura non è la vita, eppure le creazioni e i valori culturali sono un prodotto della vita e per la vita; sono funzioni vitali e, pertanto, richiedono una logica anch’essa vitale: una dialettica delle esperienze vitali che, seppur libera dal panlogismo idealista assoluto, non per questo cada nella trappola delle pure intuizioni vitaliste. Il concetto – secondo la citazione di Ortega prima richiamata – sebbene non sia la vita, tuttavia presuppone un cambiamento nella sua espansione. Se, infatti, è mq, in eA I, p. 359; eT I, p. 790; tr. it. p. 84. «Da questo intento di integrazione scaturisce tutto il programma fenomenologico di meditaciones, che mira al superamento di ogni páthos morboso, sia di quello impressionista del sud sia di quello trascendentalista del nord», afferma Cerezo nel paragrafo 1 del già citato Al sur del pensamiento, affermazione, questa, che condivido pienamente. S’avverta che ne El “pathos” del Sur (poi confluito in personas, Obras, Cosas, 1916) Ortega ricorda di «aver peccato una volta», quando «alla sapienza concettuale dei germani opponevo la sapienza meridionale del mio cuore» (eA I, p. 499; eT II, p. 82). «Ma quando io parlo di europeizzazione non desidero in modo alcuno che accettiamo la forma tedesca della cultura […]. Eppure, tale forma della cultura è suscettibile di essere superata o, quantomeno, di consentire che l’ampiezza umana si arricchisca affiancandole un’altra parimenti feconda e progressiva» (eA I, p. 501; eT II, p. 84). E, in polemica con Unamuno, dichiara di ambire ad «una cultura spagnola, con uno spirito spagnolo» e non con unamuniano «pathos del Sud» (ibidem). 35

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vero che la nuda vita consiste in spontaneità e problematismo, è altrettanto vero che la meditazione orteghiana considera il concetto come incremento di quella «vitalità», mai come una sua riduzione o diminuzione (come invece accade nei razionalismi astratti). Per Ortega, e in piena coerenza con la sua dottrina prospettivista, ogni concetto è un punto di vista sull’universo; ogni nuovo concetto apre una finestra verso una nuova prospettiva della realtà multilaterale. Ancor di più, secondo la logica della ragione vitale, un concetto è sempre la reazione di una vita individuale che si erge e che trascende la propria «spontaneità vitale», ma senza la volontà di negarla e senza la pretesa di superarla teleologicamente, bensì col solo intento di spingersi un po’ più lontano o un po’ più dentro il suo universo particolare, incrementandolo, conoscendolo meglio. In questo modo, Ortega non avverte alcuna difficoltà nell’inserire, all’interno della tradizione dell’impressione, l’aumento di chiarezza offerto dal concetto. Piuttosto, lo fa con l’obiettivo di superare, assimilandolo, il germanismo filosofico in un destino nuovo e particolare, figlio di entrambe le necessità. È a partire da qui, da questa condizione sureña del suo filosofare, la quale si nutre della visione tedesca con l’intento di superarla attraverso la dialettica mediterranea, che assume forma la sua dottrina prospettivista dotata di una dimensione gnoseologica che si mantiene attiva ed effettiva dopo il 1923, e di una dimensione ontologica definitivamente orientata verso la realtà radicale della «vita» e verso la concretezza dell’individuale e dello storico. Le lezioni essenziali del 1929-31, su ¿qué es filosofía? e su ¿qué es la vida? ne sono una prova. Ciò che in filosofia viene chiamato «soggetto» ha cessato di essere un’idea (come nell’idealismo settentrionale) o una cosa (come nel realismo meridionale), per divenire un essere che vive nella circostanza, sforzandosi di afferrare le cose ma non secondo la trascendentalistica pretesa di apprenderne l’Essere, bensì concependo lo stesso essere come ciò che in esse si impone allo sguardo (e quindi come ciò che è ovvio, evidente, certum).

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6. il “mediterranismo” integratore di Ortega innanzi alla piega germanica

Per riuscire ad integrare entrambe le dimensioni, Ortega ha bisogno di passare dal livello delle categorie culturali e storiche a quello della definizione di due modalità esistenziali, ormai estranee alla geografia e alla geopolitica. La nuova tipologia supera quelle precedenti in quanto concepisce modi di pensare, che vengono, a loro volta, rappresentati da due tipi di uomini: «i meditativi» e «i sensuali»36. Ne El Espectador V (1926) egli spiega chiaramente che «Nord e Sud non sono porti nei quali si possa arrivare: sono gesti remoti e ultrareali, che definiscono rotte e creano direzioni»37. Tale è il nuovo senso che avrebbe permesso di cogliere non una polarizzazione tra un pensiero del Nord e uno del Sud, bensì due stili del filosofare quali «rotte» o «direzioni» a nord o a sud del pensiero. Due stili, questi, che, ad uno sguardo approfondito, esibiscono una genealogia della modernità con due idee diverse di filosofia (o forse la filosofia, e persino la modernità, hanno una natura bifronte). Il pensiero latino e mediterraneo, che affonda le radici nello stoicismo senechista, l’ideale di sapienza, l’umanesimo e la filosofia pratica, appartiene alla stirpe di Eraclito; mentre il pensiero germanico, devoto al platonismo e all’aristotelismo, conseguenze dell’ideale socratico della filosofia come scienza, della contemplazione della verità e del problema dell’essere, continua l’eredità di Parmenide. Due stili filosofici, Socrate e Seneca, due ragioni contrapposte da María Zambrano38. Cultura, vita civile, realtà socio-storica, sono gli ambiti attraverso cui circola un pensiero filosofico che assume come proprio compito la tensione tra il particolare e l’universale. L’orizzonte della filosofia meridionale funge da cornice dell’umanesimo retoeA, I, p. 349; eT I, p. 781; tr. it. p. 73. eA II, p. 434; eT II, p. 550. 38 M. ZAMBRANO, El pensamiento vivo de Séneca, Cátedra, Madrid, 1992. 36 37

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rico e civile, che parte dall’esperienza della realtà umana, e non dal suo concetto astratto; che, tenendosi lontano da ogni forma di essenzialismo, dota di un fondamento nuovo l’individuale e i processi di concretizzazione storica dell’universale. Di fatto, una parte centrale del pensiero filosofico meridionale avviene – ad esempio nella filosofia retorica, morale, giuridica, politica, estetica, ecc. – con la scoperta dell’individualità moderna in quella intimità – secondo quanto afferma Pietro Piovani e secondo quanto ci ricorda Fabrizio Lomonaco39 – che sa come trovare la base universale del suo essere individuale. Dalle riflessioni storiche, giuridiche, morali, civili, scaturisce, in stile meridiano, una nuova visione del rapporto indelebile tra idealità e storicità. Rispondendo all’impegno teoretico di riunire entrambe le dimensioni, Ortega troverà in Dilthey il suo grande appiglio: la torsione dello sguardo verso la congiunzione tra l’esperienza vissuta e il concetto di vita. Ben poca cosa, oltre che illusoria, sarebbe il concetto senza l’impressione e, inversamente, l’impressione senza il concetto equivarrebbe ad una mera mancanza di senso. Nel suo prólogo para alemanes Ortega narra con senso biografico il valore dei suoi contributi e riconosce di essersi trovato «installato» sin da meditaciones del quijote in ciò che solo alcuni anni dopo avrebbe preso in Germania il nome – a suo giudizio erroneo – di «filosofia dell’esistenza», e che nel suo approdo era più di quello giacché la sua condizione mediterranea – lo ribadiamo – lo condusse non verso «quell’equivoco “pensare esistenziale” – che, ad esempio, è l’occupazione di Heidegger – bensì verso ciò che, poco tempo dopo, il nostro autore avrebbe denominato «filosofia della ragione vitale», di una ragione che, senza cessare di essere tale, «è essenzialmente e radicalmente vitale»40, 39 P. PIOVANI, il pensiero filosofico meridionale tra la nuova scienza e la Scienza Nuova (1959), ora ne La filosofia nuova di Vico, a cura di F. Tessitore, Napoli, 1990. Cfr. F. LOMONACO, El Bollettino del Centro di Studi Vichiani, in «Cuadernos sobre Vico», 25-26, 2011-2012, pp. 150-151. 40 pA, eA VIII, p. 47; eT IX, p. 154; tr. it. p. 56.

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inerente al trambusto di un io che deve affrontare le circostanze. Quella circostanza, contorno o mondo, non è tanto il mondo naturale quanto il mondo umano: è la comunità, la vita sociale, la cultura, il «mondo civile»41 e la storia. L’agorà, dunque, quale condizione d’apertura dell’«uomo mediterraneo» e del pensiero australe, dove la filosofia, come in Grecia, nasce nella piazza. Come disse Luis Araquistáin, i filosofi mediterranei «sono stati più uomini della piazza pubblica che del sancta sanctorum».42 7. Filosofia del sud

Vediamo come Ortega avanzi verso quel terzo momento sempre più definito di una sintesi configuratrice di (e da) un pensare del sud. meridies in cui la chiarezza della luce si riferisce alla verità della filosofia civile che, apertasi nel lucus del bosco, risplende nell’agorà, nel diritto, nell’etica e nei rapporti sociali, così come nella storia, nella cultura e nella civiltà dei popoli. Cultura latina, pensiero meridionale, ragione mediterranea, sono nomi di luoghi in cui la ragione vivente43 filosofa a sud del pensare, o filosofia del sud, o “a partire dal Sud”, denominazioni, queste, che – come abbiamo argomentato in altra sede44 – non aspirano ad alcun tipo di particolarismo, bensì ad una posizione inaugurale di un modo di pensare situato, localizzato, fatto “da” un posto concreto. Il “da” indica, pertanto, la topologia del discorso filosofico – che non è dotato soltanto di temporalità e storicità, bensì anche di spazialità –; ma inoltre, e in particolare, segnala una posizione In italiano nel testo, n.d.t. L. ARAQUISTÁIN, El pensamiento español contemporáneo, Losada, Buenos Aires, 1962 (1968 ed. citata), p. 13 e cfr. p. 14 e p. 83). 43 Riprendo qui alcuni nuclei tematici del mio meditazione salernitana sulla filosofia ispanica. Una presentazione del libro di G. Cacciatore, Sulla filosofia spagnola. Saggi e ricerche, in «Rocinante», 8, 2014, pp. 83-96, in part. pp. 90-94. 44 ibidem. 41

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del pensiero (potremmo dire – con Cerezo – «a sud del pensiero»45). Appare ovvio non soltanto che v’è una tradizione e storia della filosofia del sud, meridionale, bensì anche che esiste uno «stile mentale» o modo del pensiero del sud, uno stile proprio che scaturisce dalla particolarità delle sue circostanze, eppure nello stesso tempo complementare allo stile razionalista nordico, che, a sua volta, scaturisce dalle proprie. Vero è che definire l’innegabile valore di uno «stile mentale» del sud a partire dalla latinità e dal mediterranismo («il clima-sud del pensiero», di cui parla Cerezo), «non significa che in e dal sud non sia possibile pensare in altro modo; e, infatti, uno stile mentale non è un destino naturale»46. Tuttavia, occorre ricordare che il pensiero del Sud esiste, così come la filosofia nel Sud è sempre esistita, seppur seguendo le vie della storicità dell’individualità della vita e della ragione concreta e, al posto di astrarsi e distrarsi con le essenze, sceglie di lasciarsi impressionare dalle cose e dalle parole. A quella filosofia del sud non è estranea la tradizione ispanica, né tantomeno quella italiana, che dai tempi dell’Umanesimo retorico rinascimentale fa leva sulla preminenza della parola, la facoltà originale della fantasia, la filosofia dell’ingegno, il pensiero metaforico, la centralità dell’individuo, e il primato della storia. Una tradizione, questa, in cui spiccano le figure italiane di Bruni, Poliziano, Salutati, Pontano, Valla, Alberti… fino ad arrivare al genio di Vico; o quelle spagnole di Nebrija, Herrera, Vives, Laguna, Cervantes… fino ad arrivare all’ingegno di Gracián. Ma bisogna anche ricordare la tradizione ispanica dell’erasmismo, dei medici-filosofi, del tacitismo; nel XIX secolo quella del liberalismo, il krausismo, così come una molteplicità di filosofie della storia; e, all’inizio del XX secolo, la filosofia ispanica che sfocia nelle filosofie della vita e in alcune forme di esistenzialismo, così come testimoniato da letterati quali Azorín e Ba45

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P. CEREZO, Al sur del pensamiento: mediterranismo y latinidad, cit. Cfr. ivi, fine del testo.

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roja, e da filosofi quali Ganivet, Unamuno, Ortega, Santayana, Zambrano. La ragione vivente del senechismo tragico di Ganivet, con il quale spunta la nozione di raziovitalismo47; l’esistenzialismo tragico di Unamuno e il suo «uomo di carne e ossa»; il peculiare pragmatismo mediterraneo di Santayana; il non meno originale storicismo orteghiano; la svolta zambraniana (e prima ancora machadiana) della filosofia che approfondisce la ragione vitale nel senso della «ragione poetica», figlia del lógos del Manzanares, di quel lógos che emerge dalle cose concrete, particolari e circostanti48; i sentieri che imbocca in America latina la filosofia della circostanza e dell’esistenza, con Gaos, e con i messicani Zea e Ramos, la filosofia della liberazione di Dussel o il «pensamiento fronterizo» («Border thinking») dell’argentino Mignolo, incentrati sul compito di riuscire ad ottenere una filosofia in concordanza con le loro particolari circostanze e in conformità con le proprie prospettive49. La specificità di quella meridionalità del pensiero si radica proprio nell’intento che la ragione abbracci la vita in quanto vita (realtà) e vitalità (radicalità). Il che non significa che, stanchi di salire sulle vette delle astratte idee per vedere la realtà immersa Cfr. P. GARAGORRI, Unamuno, Ortega, Zubiri en la filosofía española, Plenitud, Madrid, 1968, p. 250; cfr. N. GONZÁLEZ CAMINERO, Unamuno y Ortega. Estudios, Pub. Univ. Pontificia de Comillas, Madrid, 1987, p. 316. In una lettera di Ángel Ganivet al suo amico Francisco Navarro Ledesma (25 maggio del 1893), l’autore di idearium español scrive: «L’importante non è conoscere, bensì sentire, soffrire, vivere (o come dir si voglia) per sapere a cosa attenersi. Fin quando non entriamo dentro le cose o le cose non entrino dentro di noi, non si può dire che le conosciamo, benché siano passate mille volte per l’intelletto». Cfr. Epistolario di A. Ganivet, Librería Gral de Victoria Suárez, Madrid, 19192, p. 58 pubblicato da Navarro con le lettere a lui indirizzate (https://archive.org/details/epistolari00gani). 48 Cfr. mq, in eA I, p. 322; eT I, p. 757; tr. it. p. 44. 49 Sempre a partire da una dimensione sureña del pensare che, nel caso di Dussel, si pone come liberazione dal pensare dell’essere (o eurocentrismo), per farlo a partire dal non-essere (o periferia esclusa). Cfr. E. DUSSEL, Filosofía de la liberación, FCE, México, 2001. 47

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nella nebbia, la discesa nelle gole della vita rappresenti una nuova promessa di salvezza; piuttosto si tratta del tema del tempo che ci è proprio. In tal senso, si possono riprendere alcune proposte meridionaliste attuali di «pensiero vivente», come ad esempio quella di Roberto Esposito, per definire la filosofia italiana oggi. Dall’analisi di essa e dal confronto con altre tradizioni culturali emerge la particolare attenzione che rivolge all’esternalità della filosofia: ossia, la ricerca di uno spazio esterno proprio nel problematismo delle realtà umane, nel mondo circostante che la ragione astratta e pura ha abbandonato; o anche, ad esempio, la proposta di Dussel di pensare a partire dalla periferia come esercizio per uscire dal corpo eurocentrico e «colonialista» della filosofia moderna, e in questo senso pensare a partire dalla negatività50. A proposito di queste idee, ricordiamo che nel cap. III di Kant. Reflexiones de centenario (1929), distinguendo tra i due modi costitutivi dell’uomo europeo, l’«anima tedesca e l’anima meridionale», Ortega analizza di nuovo il fatto – tanto sociologico e storico quanto, indelebilmente, filosofico – dell’«uomo moderno». Mentre l’anima germanica parte dalla coscienza del suo proprio e solipsistico io; viceversa, l’anima meridionale parte dalla coscienza dell’alterità, di dover affrontare ciò che è altro (il Mondo) e l’Altro (gli altri uomini, il «tu» e il «lui») prima di scoprire il suo «io». Nell’opera succitata, si narra senza ambagi di come, al contrario del modello germanico di uomo europeo, nato dalla visione della soggettività esperita nella più assoluta solitudine e nel freddo «isolamento metafisico», il meridionale «risveCfr. R. ESPOSITO, pensiero vivente. Origini e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino, 2010. Su questo tema, cfr. G. PEZZANO, il bio-pensiero “meridionale” come ravvivamento della filosofia, in www.academia.edu (p. 2, n. 3). Cfr. R. ESPOSITO, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino, 2004. Di Dussel, oltre alla già citata Filosofía de la liberación, vedasi política de la liberación, Trotta, Madrid, 2007 (t. I) e 2009 (t. II) e, completando la volontà di sistema, para una Ética de la liberación latinoamericana, Siglo XX, Buenos Aires, 1972, 2 voll. 50

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glia» al calore della «piazza pubblica»: «egli è, sin dalla nascita, uomo di agorà, e la sua impressione originaria ha un carattere sociale». E Ortega sentenzia che «l’anima meridionale ha sempre avuto la propensione a fondare la filosofia sul mondo esterno»51. In altre parole, mentre il pensatore settentrionale vede il mondo indirettamente, riflesso in modo obliquo sulla sua coscienza individuale (e quindi lo percepisce come un «fatto di coscienza» o idea), al meridionale appare problematico quell’«Io-Coscienza» estraneo al mondo; e al posto di vivere recluso nel suo soggettivismo, nel suo pensiero puro cercando la chiarezza della luce riflessa nello specchio, preferisce pensare direttamente ed esternamente la realtà vivente, portare fuori la filosofia nella piccola piazza o nelle colonne di un giornale e lasciarsi colpire in faccia dalla luce del sole. «Ai nostri tempi, l’agorà dei nostri filosofi è stata la stampa giornalistica», secondo la testimonianza dell’intellettuale e saggista Luis Araquistáin52. Il cammino del pensiero del sud va, dunque, dall’esperienza radicale dell’alterità alla conquista dell’intimità attraverso il riconoscimento dell’Altro, e quindi passa a penetrare nei propri inferi cercando di «comprendere il fatto dell’Io». Il suo unico e vero problema risiede, a giudizio di Ortega, nell’abitudine ad interpretare quell’io «da fuori»: «Ecco perché in tutta la filosofia puramente meridionale s’è costruito l’Io in modo simile al corpo e in unione con esso»53. Persino Descartes, che, insieme a Kant, è in cima alla filosofia moderna, conserva una certa mediterraneità del pensiero quando concepisce l’io insieme alla corporeità, rapportando il pensiero all’estensione. In Kant, invece, la soggettività è ormai la realtà totale centrifugante che «ha abolito il eA IV, p. 33; eT IV, p. 263. L. ARAQUISTÁIN, El pensamiento español contemporáneo, cit., p. 13. «In Spagna» – scrive l’intellettuale repubblicano e socialista nella sua opera iniziata nel 1937– «la filosofia o è socialmente nulla o è una faccenda della strada» (ivi, p. 14). 53 eA IV, p. 35; eT IV, p. 264. 51

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Fuori»54; dalla cui prospettiva nasce l’idealismo, un tentativo sbagliato che «una nuova filosofia» deve avere la missione di superare. Vincolare nuovamente la ragione alla vita implica, dunque, ricongiungere la realtà esterna all’io cogitante; far sì che la filosofia faccia ritorno alla problematicità delle cose umane; in altre parole, implica l’esternalizzazione della filosofia. E così, secondo Ortega, al pensatore meridionale sarebbe mancato di penetrare nell’internalità della coscienza; orbene, se la filosofia di quest’ultima non è altro che il pensiero che pensa se stesso, «goffa» nel rapporto con il mondo materiale e «poco perspicace» tanto nell’«intuizione del prossimo» quanto nella convivenza sociale (l’Altro è visto principalmente come un «alter ego»), allora quella modernità “germanica” non «vede con chiarezza il tu», senza il quale l’io non è realmente nel mondo55. «Così come l’io tedesco vive sentendo se stesso, l’io del Sud consiste principalmente nel guardare il tu. Separato da questi, resta vuoto», giunge a dire Ortega nel 1924 nelle sue Reflexiones de centenario kantiano56. Ed è così che, con i nuovi modi di pensare questi problemi della vita partendo dalla vitalità di essa come metodo, non meraviglia che oggigiorno vedano la luce saggi di esternalità come la bio-etica, la bio-politica, la bio-economia, ecc., e persino proposte di un «bio-pensiero meridionale»57.

eA IV, p. 38, 36; eT IV, p. 267. Su questa questione rimando al mio inciampare nell’altro. (Appunti per un’ontologia del corpo secondo José Ortega y Gasset, in G. Coccoli et al. (a cura di), La mente, il corpo e i loro enigmi. Saggi di filosofia, Stamen, Roma, 2007, pp. 193-214; e anche il cap. VI del già citato prolegómenos… 56 eA IV, p. 37; eT IV, p. 276. 57 Come quella di Pezzano, che afferma che il nostro tempo richiede «un vero e proprio biopensiero, al quale proprio la filosofia “meridionale” ha sempre cercato di dar vita» (op. cit., p. 2); sebbene l’autore non arrivi a dire “bio-filosofia”. 54 55

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8. Santayana e Ortega

La ragione è ciò di cui ha bisogno l’uomo per vivere umanamente. Ortega, e in diverso modo Santayana prima e Zambrano poi, lega ragione e vita in un intimo vincolo sincretico di termini, che giunge sino alla conversione in un’unica realtà: quella dell’«essere reale ed esistente per se stesso» che è un essere individuale – e, a detta di Santayana – «mente vivente»58. L’umanismo orteghiano, affine a quello di Santayana, è precisamente l’umanismo della ragione vivente e storica (vale a dire, della ragione umanizzata, per dirla con spirito zambraniano; o della «ragione civile», propria della tradizione meridionale italiana, consapevole di sé e delle sue possibilità nella vita sociale, civile e storica); è l’umanismo della ragione problematica e narrativa, tutto il contrario del riduzionista e astratto ontologismo essenzialistico. Volontà di chiarezza legata ad un senso della vita spontanea e immediata è ciò che costituisce il modo di pensare determinato da una ragione meridionale – che alcuni interpreti denominano direttamente ragione mediterranea, in linea con la categorizzazione dell’antropologo francese Serge Latouche – che si regge su una razionalità derivante dall’esperire la vita nei suoi molteplici vissuti. Tale è il caso, ad esempio, di un pensatore «mediterraneo» per definizione come George Santayana, che, quando era ormai una figura di spicco a Harvard, rifiutò tanto l’idealismo tedesco – «ispirato all’astratta razionalità protestante» – quanto la sua «derivazione puritano-americana»59, per dispiegare «una sapienza pratica, mondana, fatta tanto di prudenza (frónesis) quanto di astuzia (métis)», che, in linea con la sua eredità stoica, facesse «del ragionevole» la sua virtù, rifiutando gli eccessi della ragione pura. Questo fattore meridiano, che Nynfa Bosco chiama 58 G. SANTAYANA, Vida de la razón, tr. di A. De Kogan, a cura di J. Beltrán Llavador, Tecnos, Madrid, 2005, p. 159. 59 G. PATELLA, Belleza, arte y vida. La estética mediterránea de George Santayana, PUV, Valencia, 2010, p. 175.

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il «carattere greco» del pensatore ispanico che scrisse in inglese, si definisce come la vocazione e la rivendicazione di una «razionalità vitale, saggia e prudente, una forma di sapienza pratica, mondana, decisa, da contrapporre al corpo idealista». Si definisce, quindi, come appello a un pluralismo dei valori e a una molteplicità di tradizioni e, a detta di Giuseppe Patella, «equilibrio tra il corporeo e il mentale, il naturale e lo spirituale, segnato da un uso della ragione al servizio della vita» (arte, cultura, morale e civiltà): ricerca dell’«armonia nella diversità», di ciò che c’è di comune nelle differenze60. Convergenza, integrazione, equilibrio, complementarietà: la stessa «filosofia vitale» di Santayana espone, come abbiamo visto in modo simile a Ortega, il programma secondo cui una molteplicità di prospettive (teoretiche) possono articolarsi entro una prospettiva (razionale e vitale) più comprensiva. Idealismo e materialismo, platonismo e naturalismo, germanismo e mediterranismo, possono essere articolati in modo complementare, senza che occorra ridurli ad un’uniformità che limiterebbe le loro specificità. Assumere le diverse prospettive per «renderle complementari» – così come afferma Santayana. Un’impresa che sarebbe impossibile senza volontà d’avventura, o filosofia vitale o prospettivismo integrazionistico. O in altri termini, senza lo stile sureño della ragione vivente capace di pensare esternamente61. Ivi, pp. 159, 158 e 162. S. LATOUCHE, Le Défi de minerve. Rationalité occidentale et raison méditerranéenne, La Découverte, Parigi, 1999; N. BOSCO, invito al pensiero di George Santayana, Mursia, Milano, 1987; E. PACI, Follia e verità in Santayana, in «Revue Internationale de Philosophie», XVII, 63, 1963, p. 53. Per le citazioni, vedasi G. PATELLA, op. cit., p. 158, n. 9, pp. 157-158 e p. 164. Cfr. anche N. BOSCO, il realismo critico di George Santayana, Edizioni di Filosofia, Torino, 1954; J. BELTRÁN LLAVADOR, Celebrar el mundo: introducción al pensar nómada de George Santayana, PUV, Valencia, 2002 (2° ed. 2008) e V. CERVERA SALINAS-A. LASTRA (a cura di), Los reinos de Santayana, Universitat de València, Valencia, 2002 (cfr. in particolare il lavoro di M. TORREVEJANO, pp. 47-58). 60 61

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Potremmo dire in consonanza con Santayana e con Ortega che, a differenza del razionalismo esacerbato e della sua ragione pura e unilaterale, la filosofia vitale e il raziovitalismo presentano l’equilibrio di una ragione ragionevole oltre che ragionante, non assoluta – come quella in cui culmina l’idealismo della filosofia settentrionale – bensì quella che, partendo dalla spontaneità della vita e assumendo la sua problematicità, si sente ad ogni momento radicata e immersa nel mondo vitale, storico e circostante. Una filosofia sureña è, dunque, una condizione del pensiero ragionevole e prudente, dell’essere filosofo e del parlare da gran sapiente – come, dopo essere stato sconfitto dal baccelliere Sansón Carrasco, dice Don Chisciotte a Sancio62. La ragione che possiede la vita e che, secondo quanto scrive il pensatore sureño nel volume introduttivo di the Life of Reason (1905-06): «non è facoltà di fantasticare bensì arte di vivere»; o, come dirà più oltre: la «ragione è una funzione umana» e «una forma di vita»63. È ben noto il proclama orteghiano secondo cui la ragione è un organo e una funzione della vita (la ragione che rende conto della vita e la vita che funziona come ratio: è uno dei tanti punti in comune con Santayana). Ed è qui che risiede il motivo per cui la ragione non può separarsi dal modo narrativo che la costituisce; e ciò perché se è vero che la ragione è «una forma e funzione della vita», è altrettanto vero – come afferma Ortega ne El tema de nuestro tiempo – che la vita è «peculiarità, cambiamento, sviluppo; in una parola: storia»64. D’altronde, la vita della ragione è, per Santayana, un «romanzo» di sapere; mentre per Ortega la ragione è narrativa: «una narrazione che spiega o «Tu sei un gran filosofo, Sancio – rispose don Chisciotte; – tu parli da gran sapiente» (M. DE CERVANTES, Don Chisciotte della mancia, trad. e note di A. Giannini, introduzione di J.L. Borges, premessa di R. Paoli, illustrazioni di G. Doré, Bur, Milano, 20137, Parte II, cap. LXVI, p. 1193). Cfr. J. VILLALOBOS, “Una excusada apuntación de Don Quijote sobre la condición de filósofo”, in J.M. Sevilla, Conquistar lo problemático, cit., pp. 9-36, in part. p. 11. 63 G. SANTAYANA, Vida de la razón, cit., pp. 152, 156-157. 64 tnt, in eA III, p. 198; eT III, p. 612; tr. it. p. 132. 62

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una spiegazione che consiste nel narrare»65. La filosofia che, come un vento, svolta dal nord verso il sud del pensiero, non si slega neanche per un momento dalla ragione; piuttosto, quest’ultima si rivitalizza, si storicizza e si narra. Ancor di più, in virtù del loro ricongiungimento, diviene chiaro che così come senza vita non v’è ragione, allo stesso modo la ragione diviene necessaria per la vita, per la sua chiarificazione grazie alla quale l’uomo sa a cosa attenersi. Nel 1905, Santayana annuncia che «la vita della ragione è il felice matrimonio di due elementi – impulso e ideazione – che, se fossero completamente svincolati, ridurrebbero l’essere umano alla brutalità e alla follia»66. La «ragione non è indispensabile per la vita» quando l’uomo vive senza necessità di comprendere e senza ansia di cultura. Tuttavia, pur non essendo necessaria per la vita animale e istintiva, senza di essa la vita umana non sarebbe vivibile. Così, in modo simile a Ortega, afferma Santayana che la ragione non è necessaria per «vivere in qualsiasi modo», vale a dire, nel caso in cui si viva istintivamente un’esistenza bruta e non una «nella e per la mente»67. A differenza del mero e nudo vivere, la ragione presuppone un’eccellenza della propria vita che conferisce unità ad ogni esistenza umana in virtù di «una mente innamorata del bene»68, ossia per la volontà di verità, per l’ansia di chiarezza. Ortega, in meditaciones del quijote, è più sbrigativo: «Non tutto è pensiero, però senza di esso non possediamo nulla con pienezza»69. O, se65 J. ORTEGA Y GASSET, prospecto del instituto de Humanidades (1948), in eA VII, p. 18; eT VI, p. 539. Cfr. Ragione narrativa e ragione storica, cit., cap. 2.1. 66 G. SANTAYANA, Life of Reason, in the Essential Santayana, a cura di M.A. Coleman, Indiana U.P., Bloomington, 2009, p. 284: «The subject of this work, its method and antecedents», e alcune righe prima: «la ragione richiede, di conseguenza, la fusione tra due tipi di vita, che generalmente vengono lasciate nel mondo quasi completamente separate»: una la «life of impulse», l’altra la «life of reflection» (ibidem). 67 ID., Vida de la razón, cit., p. 148. 68 Ivi, p. 130. 69 mq, in eA I, p. 354; eT I, p. 785; tr. it. p. 78.

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condo la spiegazione che fornisce più tardi in prólogo para alemanes: «La vita senza verità non è vivibile. […] Senza uomo non c’è verità, ma senza verità non c’è uomo»70. Estratto del senechismo più mediterraneo – che impregna Ganivet e Zambrano, ma che lambisce con forza anche Santayana e Ortega –, il precetto sureño di una filosofia vivibile implica una vita che si faccia interpretazione e comprensione di se stessa. Sapienza pratica e prudenza. Elementi intimi del sud della filosofia, intrecciati con l’umanesimo retorico dei nostri classici spagnoli e italiani della modernità, come Gracián o Vico: «prudentia civilis vitae»71 – scrive il napoletano – ed eloquenza o «sapienza che parla»72, il vincolo naturale tra «il cuore e la lingua»73 da cui emerge la filosofia, legame rivendicato da Vico per analizzare i problemi, le trasformazioni e i mutamenti a cui sono sottoposte le res humanae. Altrettanto fa il gesuita spagnolo al fine di ben dirigere il saper vivere, giacché «non si vive se non si sa»74. Si tratta, dunque, di una ragione problematista e pratica, che avanza e retrocede attraverso tentativi, impostazioni e saggi. Alla stregua della vita. Abbiamo parlato di matrimonio tra la vita spontanea e la vita riflessa, modalità della «vita dell’impulso» e della «vita della pA, in eA VIII, p. 40; eT IX, p. 148; tr. it. p. 49. G. VICO, De nostri temporis studiorum ratione (1708), VII, in Opere, a cura di A. Battistini, Mondadori, Milano, 1990, 2 voll., I, p. 130. 72 ID., Le accademie e i rapporti tra filosofia e eloquenza (1737), in Opere, cit., I, p. 408. La stessa considerazione circa l’eloquenza come sapienza che parla appare già nell’ultimo cap. (XV) del De nostri, in cui si legge: «nam quid aliud est eloquentia, nisi sapientia, quae ornate copioseque et ad sensum communem accomodate loquatur?» (cfr. Opere, cit., I, p. 210). Si tratta di una massima classica, dalla tonalità rinascimentale e barocca e dalle radici latine in Cicerone, Quintilliano e Orazio, che è la chiave di volta delle institutiones oratoriae di Vico. 73 Ivi, p. 406. All’inizio del suo discorso, Vico si riferisce al verso socratico – che si trova in Petrarca (trionfo d’amore, I, 101) – che esprime quel «natural legame». 74 B. GRACIÁN, Oráculo manual y arte de prudencia (1647), XV e CCXLVII, in Obras completas, Biblioteca Castro-Turner, Madrid, 1993, 2 voll, II, p. 198 e p. 285. 70 71

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riflessione», che anche Santayana si era sforzato di unire già nel 1905. Appare evidente, considerate le notevoli corrispondenze tra entrambi i pensieri, la necessità di un confronto ampio tra i principi, le idee e le formulazioni delle filosofie meridionali di Santayana e di Ortega. Ricordiamo che le critiche che Ortega elabora intorno alla latinità e alla mediterraneità di Vico – per fare un esempio – si incarnano negli epiteti con cui il pragmatista e puritano William James descrisse il pensiero del suo collega a Harvard: «representative of moribund Latinity» e decadentismo mediterraneo75. 9. La bussola che punta verso il meridione. Riepilogo

Riepilogando, abbiamo sostenuto che il cambiamento di rotta verso il sud della filosofia ruota attorno a quella condizione sureña di guardare al modo dell’individualità e dell’esistenza, di vedere la realtà non più sub specie aeternitatis, bensì sub specie instantis, data – come afferma Ortega – «sotto l’aspetto della vita individuale, dell’immediato»76. Lo sforzo di questa nuova navigazione dirige la prora verso una filosofia-continente della dimensione vitale, storica, prospettivista da cui deriva77. Flusso narrativo di una «ragione vitale» o «ragione vivente» che è l’asse di quel pensiero sureño su cui si regge la filosofia di Ortega. Eppure, quella stessa e necessaria ragione vitale non è un mero atteggiamento risolutorio, bensì, al massimo – e secondo l’espressione di Zambrano – ragione-mediatrice78. Lungi dall’esCfr. the Correspondence of William James, v. 9, 1899-1901, U.P. of Virginia, 2001, p. 180 e R.B. PERRY, the thought and Character of William James, Oxford U.P., London, 1936, 2 voll., II, p. 252. 76 mq, in eA I, p. 321; eT I, p. 755; tr. it. p. 42. 77 tnt, X, in eA III, p. 201; eT III, p. 614; tr. it. p. 135. 78 Contro la «ragione pura», una «ragione dolcificata»; la «ragione come misura tra i contrari», la «ragione misura e armonia» (M. ZAMBRANO, El pensamiento vivo de Séneca, cit., pp. 16-17 e p. 45). 75

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sere una garanzia di sicurezza, la ragione è essa stessa, in quanto viva, anche una realtà problematica. E per ciò stesso, non soltanto la vita ma anche la ragione dà da pensare, sebbene ora sia possibile farlo a partire da un altro punto cardinale del pensiero. Innanzi a questo problema, il vantaggio di partenza del pensiero meridionale risiede nel fatto che esso affonda le proprie radici nei modi di vedere più chiaramente la vita e di viverla, allorché estrae dalla matrice umanistica latina (e quindi dalla romanitas)79 la dignità raziovitale secondo cui la filosofia stessa deve essere una realtà vivibile, giacché altrimenti sarebbe una specie di impostura o di realtà farsesca. Se, da un lato, «la vita è la ragione in corso» (secondo la frase di Aristotele che Santayana assume come suo lemma), dall’altro, la ragione è la vita che interpreta il suo stesso dramma e che rende conto di se stessa, con la narrazione e la pretesa di chiarezza. La prospettiva mediterranea di Santayana e l’orientamento orteghiano verso la coppia di realtà bifronti sono veramente affini e forniscono un’ulteriore conferma dell’immagine della filosofia sureña di Ortega come esercizio di integrazione e meticciato, caratteristico dell’ingiuriata mediterraneidad. Tale animo, presente già nel patriotismo con perspectiva di meditaciones del quijote, evidenzia altresì come lo stesso Ortega trasformi la sua stessa circostanza («ciò che è più vicino») in una prospettiva; il problema della Spagna e l’accettazione «senza riserve» del «mio destino spagnolo»80 vengono così trasformati in moti di entusiasmo per un esistente che desidera «vivere con autenticità», seppur in lacrime, come nel Chisciotte dice il moresco esiliato Ricote al Sancio ex governatore dell’isola: «Dovunque noi si sia rimpianAlfonso Castro ha segnalato questo vincolo tra il germanico e la grecità in parallelo a quello tra il mediterraneo e la romanitas. Cfr. A. CASTRO SÁENZ, La idea de romanitas y de ius romanum en Ortega. Germanismo, helenismo y mediterraneidad en las Meditaciones del Quijote, in F.H. Llano Alonso-A. Castro Sáenz (a cura di), meditaciones sobre Ortega y Gasset, cit., pp. 341-371. 80 pA, in eA VIII, pp. 54 e 55; eT IX, pp. 161-162; tr. it. pp. 65-66. 79

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giamo la Spagna»81. Tale preoccupazione era presente ancor prima di scrivere meditaciones del quijote, così come emerge dai suoi articoli pubblicati ne «El Imparcial» raccolti poi in Arte de este mundo y del otro, nel primo dei quali afferma: «Sono un uomo spagnolo che ama le cose nella loro naturale purezza, a cui piace riceverle così come sono, con chiarezza»82. Tale concezione, allorché slitta verso la contrapposizione in meditaciones del quijote tra mediterraneidad e germanismo, si traduce nella ricerca di sintesi tra l’«anima mediterranea» e l’«anima gotica»83. Scrive nel 1911: «Io chiamo questo contenuto ultimo del nostro animo mediterranesimo, e sollecito per l’uomo mediterraneo, il cui rappresentante più puro è lo spagnolo, un posto nella galleria dei tipi culturali»84. Si comprende in questo modo come ciò che appare inizialmente definito con un senso spregiativo, sarà poi riassorbito, alcune decadi dopo e una volta che il suo pensiero sarà maturato, sotto un aspetto ricostruttivo della filosofia che è il nostro tempo ad esigere. La dicotomia tra «cultura latina» e «cultura germanica», o attualizzata nei termini di mediterranismo e germanismo, è la distinzione tra due fasi di una dialettica che è in attesa del terzo momento superatore e sintetico. Se, da un lato, secondo Ortega, la cultura latina è superata dal germanismo85, dall’altro, anche M. DE CERVANTES, Don Chisciotte della mancia, cit., Parte II, cap. LIV, p. 1085. eA I, p. 186; eT I, p. 434; tr. it. p. 233. 83 Cfr. n. 30, 31 e 35 supra. 84 In Arte…eA I, p. 199; eT I, p. 446; tr. it. p. 248. E aggiunge: «L’uomo spagnolo è caratterizzato dalla sua antipatia verso tutto ciò che è trascendente; è un materialista estremo» (ibidem). Definire l’uomo meridionale come «amante delle cose sensibili, nemico di ogni trascendenza, ivi compresa la ragione, che servì al greco come mediatrice con il mondo» (eA I, p. 201; eT I, p. 447; tr. it. p. 250) assumerà un senso più positivo allorché Ortega elaborerà quell’«introduzione alla vita essenziale» (eA I, p. 209; eT I, p. 454) di cui ora intuisce soltanto la necessità. 85 Che in proposito non è «altro che l’assorbimento del latinismo da parte dei germani nel corso del Medioevo», ragion per cui «i popoli romanici non 81

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Ortega e la filosofia del Sud

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quest’ultimo deve essere superato; secondo una necessità assimilabile a quella di una svolta verso la radicalità della vita che deve aver luogo nella cultura, nel pensiero e nella filosofia europei. In ¿qué es filosofía? (1929) è possibile cogliere l’inevitabilità di questo superamento in termini dialettici: «Nella storia ogni superamento implica assimilazione: bisogna compenetrarsi di ciò che si cerca di superare, rintracciare dentro di noi ciò che vogliamo abbandonare. Nella vita dello spirito si supera solo ciò che si conserva»86. Se, secondo quanto afferma lo stesso Ortega, l’idea di soggettività, assunta come radice della modernità (germanista), diviene vespertina innanzi all’aurora della nuova ragione vitale e storica, allora quel nuovo clima mattinalista è proprio quello che rende possibile il momento della filosofia meridionale in una «nuova epoca» in cui «La Spagna potrebbe allora risorgere pienamente alla vita ed alla storia»87. «Nuova epoca» significa che, lungo l’asse della filosofia, l’idea di soggettività o del primato della coscienza cede il posto all’idea della vita. L’assalto alla ragione intellettualista e pura, madre di ogni idealismo e utopismo, che Ortega postula nel suo manifesto epocale del 1923 allorché proclama che è giunto il momento in cui la ragion pura deve essere sostituita dalla ragione vitale «all’interno della quale si collochi la prima, che acquisterà così mobilità e forza di trasformazione»88, segna una radicale proposta di stile mattinalista che annuncia quella nuova stagione del pensare, ora sì di mediterranismo con prospettiva. Del lemma di questo nuovo hanno nulla di meglio né di più serio da fare che riassorbire il germanismo» (eA I, p. 209; eT I, p. 454). Il che sarebbe stato ricordato da Ortega nel 1934 al momento di spiegare che «era necessario per la mia Spagna assorbire la cultura tedesca» (pA, in eA VIII, p. 24; eT IX, p. 133; tr. it. p. 31). 86 eA VII, pp. 369-370; eT VIII, p. 313; tr. it. Che cos’è la filosofia? a cura di A. Savignano, Mimesis, Milano-Udine, 2013, p. 124. 87 eA VII, p. 369; eT VIII, p. 313; tr. it. p. 124 88 tnt, eA III, p. 200 (e cfr. p. 201); eT III, pp. 614-615; tr. it. p. 135.

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José M. Sevilla

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stile ci aveva fatto dono Gracián: «Non basta la sostanza, occorre anche la circostanza»89. [Traduzione di Maria Lida Mollo]

B. GRACIÁN, Oráculo manual y Arte de ingenio, § XIV, in Obras Completas, cit., II, p. 197. 89

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Fulvio Tessitore

Ortega, Castro e il Quijote*

1. Tema complesso, assai difficile, questo qui sopra enunciato. A questa valutazione fanno contrasto le poche pagine estemporanee che qui seguono. Poco più che osservazioni eccentriche di un antico lettore di Ortega e di un appassionato studioso di Castro, al quale ho dedicato, da tempo, diversi scritti, qualcuno di non poco impegno, altresì vantandomi di avere procurato la traduzione italiana di un grande libro dello storico spagnolo, El pensamiento de Cervantes (1926). Questo ricordo non è l’espressione di vanità, peraltro inammissibile per chi ricorda e condivide una fulminante notazione di Ortega: «l’ansia di mettersi in evidenza annulla tutte le virtù». Piuttosto è l’occasione per spiegare meglio il significato di queste pagine, nella loro eccentricità ed estemporaneità, lo ripeto deliberatamente. Cervantes, a partire dall’importante, originale libro del 1925 (ristampato nel 1972, con resistenza e non pochi interventi correttivi, non tutti apprezzabili, se non come testimonianza di una difficoltà avvertita dallo stesso autore), è stato un interesse costante di Américo Castro, tale da coprire l’intera maturità della Per confronto e verifica delle dotte e acutissime interpretazioni del Castro e di Ortega ho utilizzato la seguente edizione di El ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha, a cura di F. Rodríguez Marín, Espasa-Calpe, Madrid, 19626 in 8 volumi, e mi sono avvalso della tr. it di F. Carlesi, a cura di C. Segre e D. Moro Pino, Mondadori, Milano, 1974. Per la letteratura secondaria sia per Ortega, sia per Castro mi permetto rinviare ai miei lavori di argomento ispanico, che si leggono oggi nei miei Contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, 7 voll., Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1995-2007 e in specie ai voll. I e III degli Ultimi contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2011. *

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Fulvio Tessitore

sua riflessione. A parte non pochi scritti “minori”, a Cervantes Castro ha dedicato almeno tre grandi libri non solo per quantità di pagine: il già citato Pensamiento, poi Hacia Cervantes (1957), Cervantes y los casticismos españoles (1967), riuniti con Otros estudios cervantinos in una raccolta del 2002. E non ricordo il ricorso di Cervantes in tanti altri libri, tra i quali importante il De la edad conflictiva (1961), dove l’autore del Quijote ha una rilevanza particolare. È dunque evidente che bisognerebbe scrivere (come in parte, solo in parte è stato fatto) una particolare monografia sul “Cervantes di Castro”, da cui emergerebbe l’interpretazione rigorosa dell’intera opera storiografica e filologica dello studioso illustre. E ciò chiarisce la prima difficoltà cui accennavo quanto al tema qui proposto, pur come semplice nota di lettura. Le ricerche cervantine di Castro sono non solo da periodizzare nella loro autonomia e in connessione con l’evoluzione dell’interesse dello studioso dalla filologia romanza alla storiografia, ma anche da seguire nelle non poche aggiunte, miglioramenti e variazioni, che egli stesso ha sottolineato con forse eccessiva enfatizzazione e compiacimento. Credo, infatti, nella sostanziale continuità (non sto dicendo uniformità) delle sue interpretazioni di Cervantes, rispetto alle quali le Meditaciones di Ortega e il confronto con queste acquistano, certo, una significazione molto specifica, forse, assai rilevante, per riconoscimento dello stesso Castro, e, tuttavia, da non considerare se non come i termini di un confronto (non dico comparazione) per differenza, sia quanto a interesse sia quanto a motivazione nell’avvicinare il grande classico nelle ragioni dei ricorrenti ritorni. Iniziamo col ricordare i due tratti determinanti della lettura orteghiana, le cui Meditaciones del Quijote sono dallo stesso Castro ricordate, quasi all’inizio della “Introduzione” del Pensamiento, come una delle «poche indagini degne di nota, cioè tali da modificare la nostra concezione del Quijote», negli ultimi trent’anni anni precedenti la prima edizione del 1925. Castro dice:

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Ortega, Castro e il Quijote

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Questa vera e propria penuria intorno al Cervantes, per quanto paradossale, deriva dal clima feticistico che si è venuto a creare in proposito, nonché, a un tempo, dal timore di peccare di esoterismo. Una zelante sentinella veglia affinché nessuno osi varcare i confini del canone critico consentito, sotto pena di essere dileggiato come esoterista. Il principio del ne varietur è oggi il più diffuso tra quanti si occupino di questi problemi1.

Dunque, Ortega e Castro hanno violato (insieme con MorelFatio, Toffanin e Menéndez Pidal) i “confini” segnati. Come e perché? 2. Quali sono i nuclei della interpretazione di Ortega? Uno dei determinanti va cercato nella “Meditazione prima” che, con la “Preliminare”, compongono il libro del 1914. Ad essa bisogna avvicinarsi senza trascurare, tutt’altro, la dichiarazione di apertura: «Queste Meditazioni, prive di erudizione – anche nel senso buono che si può attribuire alla parola –, sono mosse da desideri filosofici», pur se non ambiscono ad essere «scritti di filosofia, perché la filosofia è scienza. Sono semplicemente dei saggi. Ed il saggio è la scienza, meno la prova esplicita»2. Si tratta del sollecito riconoA. CASTRO, El pensamiento de Cervantes, Hernando, Madrid, 1925, p. 9; tr. it. Il pensiero di Cervantes, introduzione e cura di M. Cipolloni, con mia “Presentazione”, Guida, Napoli, 1991, p. 79. D’ora in poi si cita con PC, indicando prima le pp. della I ed. spagnola e poi quelle della tr. it. 2 J. ORTEGA Y GASSET, Meditaciones del Quijote, 1914 di cui seguo l’“edición facsímil”, commemorativa del centenario, stampata da Alianza Editorial d’intesa con la “Fundación J. Ortega y Gasset-G. Marañon”, Madrid, 2014. Questa edizione comprende anche un II vol. di varianti, a cura di J.R. Carriazo Ruiz, precedute da un’ampia “Introduzione” di J. Zamora Bonilla, pp. 9-56. Ho altresì visto l’ed. a cura di P. Garagorri, Alianza Editorial, Madrid, 1981, che presenta alcuni “Anejos” (pp. 125-167), tra cui molto importanti le “Variaciones sobre la circunstancia” (pp. 125-142). Qui si cita p. 14; tr. it. Meditazioni del Chisciotte, a cura di B. Arpaia, introduzione di O. Lottini, Guida, Napoli, 1986, p. 39. D’ora in poi si cita con MQ seguita dalle pagine della I ed. spagnola (sopra cit.) e quelle della tr. it. 1

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Fulvio Tessitore

scimento del modo di lavorare del grande scrittore, quasi sempre infastidito da tutto quanto possa soltanto rallentare l’enunciazione rapida della propria fulminante, intelligentissima intuizione. Del che le nervose “Meditazioni” sono un grande esempio. Il Chisciotte è un romanzo, forse il primo straordinario romanzo della modernità, di fronte all’altro (genere ultimo), quello dell’epica. Ossia il campo di ricerche privilegiate del grande maestro di Castro, Ramón Menéndez Pidal, cui il Pensamiento è dedicato «in occasione del suo 25º anno di docenza universitaria». Qual è la differenza radicale tra epica e romanzo? Preliminarmente Ortega precisa che per lui accettare la teoria dei “Generi letterari” non significa accogliere «vuoti sistemi, strutture formali». «I generi letterari sono le funzioni poetiche, le direzioni verso cui gravita la creazione estetica»3. La quale, osserva poco dopo a precisazione e rafforzamento dell’argomentazione, ha sempre in vista «il tema essenziale dell’arte», che è l’uomo, in quanto «ogni epoca porta con sé una interpretazione radicale dell’uomo. O meglio, non la porta con sé, ma è quella interpretazione»4. La quale così acquista un valore “esemplare”, nel senso che la parola ha nelle Novelas ejemplares, le quali esprimono il secolo XVII, in cui si colgono «i frutti» della «semina spirituale del Rinascimento», accettando, tuttavia, «senza difficoltà, la Controriforma». Di tale «fenomeno, in sé straordinario», Ortega precisa subito la valenza: «questo secolo di trionfi cattolici non impedisce la formazione di grandi sistemi razionalisti, formidabili muraglie erette contro la fede». Ammonimento che va rivolto a «coloro i quali, con invidiabile semplicismo, scaricano sull’Inquisizione tutta la colpa del fatto che la Spagna non sia stata più meditativa (más meditabunda)»5: un fulminante accenno a una diversa interpretazione della spagnola ipseidad, per dirla con Castro, che all’idea di Ortega fu tutt’altro che insensibile. p. 141; tr. it. p. 92. Ivi, p. 142; tr. it. p. 93. 5 Ivi, pp. 143-144; tr. it. p. 94. 3

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MQ,

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Ortega, Castro e il Quijote

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Alla luce di tutto ciò, imprescindibile, si capisce meglio che cosa caratterizza il “genere” romanzo, rispetto all’epica. Questa ha per tema «il passato in quanto tale». Nell’epica «si parla di un mondo che fu e si concluse, di un’età mitica la cui antichità non è un passato come qualsiasi altro tempo storico remoto». Esso «fugge da ogni presente», e, in barba ad ogni possibile distesa «rete di tradizioni genealogiche non riesce a coprire la distanza fra lo ieri mitico e l’oggi reale»6. Sono affermazioni determinanti per intendere la contrapposizione tra passato epico e il romanzo del presente. Si svela (mi pare evidente) la ermeneutica ontologica di Ortega, non a caso mai benevolo con l’ermeneutica filologica di Menéndez Pidal, considerata un laborioso, straordinario, pazientissimo lavoro di archivio, che lascia intatta la questione. La quale era rappresentata dalla «lontananza essenziale (ejemplar lejanía) di ciò che è leggendario», liberando «gli oggetti dell’epica dalla corruzione». In altri termini (e viene detto sbrigativamente poche frasi dopo) «non serve, al contrario è un danno per il vero intendimento del passato leggendario», l’impegno storico dell’ermeneutica filologica per trasferirsi nel passato distante non perciò falsandolo, al contrario per comprenderlo nella sua «distinta specificità». Il che, detto in altri termini, non interessa Ortega, che teme e rifiuta ogni possibile commistione tra cose diverse, le quali vanno dette nella loro diversità. Conviene «mettere all’asta – aggiunge spassionato Ortega – i giudizi su Omero espressi dalla filologia di cento anni fa»7. Poco oltre8, con l’implicito chiarissimo riferimento a Unamuno, Ortega, con non minor severo giudizio, dichiara di non capire «come uno spagnolo, maestro di greco, abbia potuto affermare che la comprensione dell’Iliade è facilitata dall’immaginare la lotta fra i ragazzi di due villaggi castigliani per 6 Ivi, p. 148; tr. it. p. 96. Su ciò rinvio al mio Ortega y Gasset su R. Menéndez Pidal (2007), ora nei citati Ultimi contributi…, vol. I, pp. 165-176. 7 MQ, pp. 149-150; tr. it. p. 97. 8 Ivi, p. 157; tr. it. p. 101.

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il possesso di una leggiadra contadinella». Si può capire il consiglio, per esempio, di Madame Bovary, di tener mente al «tipo di una provinciale che pratica l’adulterio», perché «il romanziere esaurisce il suo compito quando è riuscito a presentarci in concreto ciò che è stato già conosciuto»9. E l’arcaismo di Omero? «L’arcaismo è la forma letteraria dell’epica» e tale deve restare nella sua distante essenza. «L’epica, e l’arte greca in generale […] fino al momento della sua decadenza, non riesce a separarsi dall’utero mitico». «Fra il mondo epico e ciò che ci circonda non c’era comunicazione, mezza porta o spiraglio che fosse. Tutta la nostra vita col suo oggi e col suo ieri appartiene a una seconda tappa della vita cosmica»10. Il cui genere è il romanzo. «Il tema del romanzo è l’attualità in quanto tale», parrebbe da dire qualcosa di ancora più forte e netto del “presente” rispetto al passato, che, tenuto distinto, non significa annullare la memoria. Lo si coglie bene – a giudizio di Ortega – se si considera il tipo di storia che caratterizza questo passato e questo presente attuale. Nel primo caso il «fermento della storia» viene dal mito, incompatibile con ogni tentativo di veridicità. «Provate ad avvicinare la storia veridica di un re, di Antioco, per esempio, o di Alessandro, a questi materiali incandescenti. La storia veridica comincerà a bruciare di quattro lati, consumando quanto v’era in essa di normale e consuetudinario», senza intaccare «la storia meravigliosa di un magico Apollonio, di un miracoloso Alessandro», che resta «fulgida come un diamante»11. Ma «questa storia meravigliosa non è storica», è un «romanzo greco» come s’è voluto dire sfidando «l’equivoco», alla ricerca di apparentamenti o vicinanze. «Il romanzo greco non è altro che storia corrotta, divinamente corrotta dal mito, […] è il rappresentante di un mondo diverso dal nostro. Se il nostro è il reale, il mondo mitico ci sembrerà irreale»12. Ivi, pp. 157-158; tr. it. pp. 101-102. Ivi, pp. 152-153; tr. it. pp. 98-99. 11 Ivi, pp. 160-161; tr. it. p. 103. 12 Ivi, p. 161; tr. it. p. 104. 9

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Se questo, con nettezza, è il negativo, ciò che non è, del romanzo moderno (quello di Cervantes), qual è di esso il positivo, il genere proprio di esso al positivo? La risposta arriva subito, con l’abituale chiarezza: Il “libro di immaginazione” (come i “libri di cavalleria”, praticati dal Quijote) «narra; ma il romanzo descrive. La narrazione è la forma in cui per noi esiste il passato, e bisogna solo narrare ciò che avvenne; vale a dire, ciò che non è più. Si descrive, invece, ciò che è attuale»13. Orbene, non credo di caricare il discorso di Ortega, che nella semplicità della chiarezza mai disperde la densità della dottrina. E perciò mi pare utile e possibile avanzare un paio di osservazioni relative al mondo della filosofia tedesca di Dilthey e intorno a Dilthey, ben praticato da Ortega, sia pure ritenendo erroneamente – ma ai suoi tempi, comunemente – Dilthey un neo-kantiano. La narrazione qui presentata sembra un ripensamento del rankiano compito dello storico di riferire le cose «wie es eigentlich gewesen sind», letto quasi come l’anticipazione di un criterio del positivismo, non a caso respinto dal neo-kantismo di Windelband e di Rickert, non diversamente da Ortega, che ben lo conosceva. Forse, però, il saggista spagnolo non sapeva che la descrizione (Darstellung) è il proprium della storicistica “narrazione” rankiana, fondata sull’humboldtiana Aufgabe der Geschichtschreiber14, a sua volta in linea con la kantiana Darstellung, che serve a illustrare (ossia comprendere) non a spiegare. D’altra parte, la specificazione fornita del passato mitico induce l’intelligentissimo Ortega ad aprire lo scrigno della descrizione, affidata al genere del romanzo (da Stendhal a Balzac, al Manzoni) che non è errato considerare il milieu della narrazione rankiana e storicistica. «Nel romanzo – dice Ortega – ciò Ivi, p. 164; tr. it. p. 105. Per il riferimento a W. von Humboldt rinvio a quanto ne ho scritto, da ultimo nei Parerghi e Paralipomeni allo Historismus (2014) nelle «Memorie della Classe di Scienze storiche, filologiche e filosofiche dell’Accademia Nazionale dei Lincei», s. XI, vol. XXXV, fasc. 2, pp. 371-493. 13

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che ci interessa è proprio la descrizione, perché, a ragione, non ci interessa ciò che è descritto. Non badiamo agli oggetti (ossia all’empirica cosalità positivistica) che ci si pongono innanzi, e preferiamo fare attenzione al modo in cui vengono presentati», dove la differenzazione sta a indicare che la “descrizione” del “romanzo moderno” non prescinde, al contrario, è caratterizzata dalla partecipazione sensata dell’osservatore, che può essere, è non solo il lettore ma anche il romanziere. Un tema questo non assente, al contrario, ben presente, in Ortega15, il quale, non a caso, poche frasi dopo, in qualche misura rompe “l’esser dato” di un accadere inteso come l’oggettivazione del fatto nella sua cosalità. In altre parole la “descrizione” di Ortega è assai prossima alla comprensione (Verstehen) diltheyana, che non è spiegazione. Se approfondissimo un poco la nostra comune nozione di realtà (noción vulgar de realidad), forse scopriremmo che non consideriamo reale ciò che effettivamente accade, ma un certo modo, a noi familiare, in cui le cose accadono. In questo senso, quindi, il reale non è tanto ciò che è visto quanto ciò che è previsto16.

Ed allora, è troppo ardito – pur consapevoli dell’effervescenza intellettuale di Ortega – scorgere in queste frasi la considerazione della necessaria funzione conoscitiva del futuro, del giudizio di previsione, kantianamente fondamentale nella conoscenza riflessiva e non determinante di valenza diltheyana? Interrogativo che mi pare di poter avanzare, sia pure come possibile sollecitazione di un discorso non generico, alla luce di quanto subito dopo scrive Ortega, buon conoscitore di Kant. «L’avventura rompe come un cristallo l’oppressiva insistente realtà. È l’imprevisto, l’impensato, il nuovo. Ogni avventura è un nuovo nascere del mondo, un processo unico. Non deve esser interes15

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Cfr. MQ, pp. 164, 188-189; tr. it. pp. 105 e 119. Ivi, p. 166; tr. it. p. 106.

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sante?»17. Certamente è, diciamolo orteghianamente, «la seconda tappa della vita cosmica», rispetto a quella della narrazione epica. Se questi sono, come sono, i tratti del “genere” romanzo, che cos’è, nello specifico, il romanzo del Quijote, secondo Ortega? In Cervantes «Il piano immaginario» studiato nella fenomenologia dell’“avventura”, si allarga, in virtù della «profondità estetica» del grande scrittore, acquista una «terza dimensione», conquista una «pluralità di termini», che conciliano «poesia e realtà», «la capacità poetica e la realtà attuale»18. «Il possibile [...] si infiltra nel reale come l’avventura nel verismo di Cervantes». «Fiore di questo nuovo e grande indirizzo che prende la cultura» (che è «in tutta la sua ampiezza il mondo interno, il me ipsum, la coscienza, la soggettività», scoperte dal Rinascimento) «è il Chisciotte. In esso declina per sempre l’epica con la sua aspirazione a sostenere un mondo mitico confinante con quello dei fenomeni materiali, ma da esso distinto»19. Il romanzo di avventura, il racconto, l’epica, sono quelle maniere ingenue di vivere le cose immaginarie e significative. Il romanzo realista è questa seconda maniera obliqua. Ha bisogno, quindi, della prima; ha bisogno del miraggio per farcelo vedere come tale. Così, non è solo il Chisciotte ad essere stato scritto in opposizione ai libri di cavalleria, e, di conseguenza, a portarli in sé, ma tutto il genere letterario “romanzo” consiste essenzialmente in quella introiezione.

In tale direzione va la “cultura” di Cervantes: «La cultura – il lato ideale delle cose – pretende di costituirsi come un mondo separato e sufficiente, in cui possiamo trasferire la nostra interiorità. È un’illusione, e solo considerata come illusione, come un miraggio in terra, la cultura è al posto che le compete»20. La Ibidem. Ivi, p. 171; tr. it. p. 109. 19 Ivi, pp. 174-175; tr. it. p. 111. 20 Ivi, pp. 175-176 e 178-179; tr. it. pp. 111-113. 17

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cultura è una finzione racchiusa nell’insignificante realtà delle cose. Si può dire, come dice Ortega, che è un atto di eroismo: «la volontà è reale, ma ciò che si vuole è irreale» (la querencia es real, pero lo querido es irreal). Ne discende ancora qualcosa di sconosciuto all’epica. «Gli uomini di Omero appartengono allo stesso mondo dei loro desideri. Qui [nel Quijote] c’è, invece, un uomo che vuole riformare la realtà. Ma non è egli stesso una parte di quella realtà? Non vive di essa, non ne é una conseguenza? Come è possibile che ciò che non è – il progetto di un’avventura – governi e componga la sua dura realtà?»21. È l’eroica determinazione di sfidare l’invisibile. Ad apertura della “Meditación preliminar”, Ortega lo dice con una immagine letterariamente stupenda, del bosco, che, nel suo racconto, è quello che lambisce l’Escorial di Filippo II. Cos’è il bosco, forse gli alberi che vedo in un bosco? «Il vero bosco è fatto dagli alberi che non vedo. Il bosco è una natura invisibile». Uno dei «luoghi di eccellente silenzio – che non è mai silenzio assoluto –» che ci procuriamo, «il martellare del cuore, i battiti del sangue alle tempie, il ribollire dell’aria che ci invade i polmoni», nel che si configura l’eroismo del vivere. «Ogni battito del cuore sembra essere l’ultimo. Il nuovo battito salvatore che sopraggiunge sembra sempre una casualità e non garantisce il successivo»22. È la vita che spinge a sfidare il silenzio della vita. È la tragedia e la commedia dell’eroismo, è «la tragicommedia» del Quijote secondo Ortega. Ed allora, che cos’è di fronte e di contro il Quijote di Castro, oppositore di Ortega, che fu una presenza determinante nella sua formazione23? Ivi, p. 186; tr. it. p. 117. Cfr. ivi, pp. 67-68; tr. it. pp. 51-52. 23 Si veda il mio Due interpretazioni della storia di Spagna. R. Menéndez Pidal e A. Castro, in «Memorie della Classe di Scienze storiche, filologiche e filosofiche dell’Accademia Nazionale dei Lincei», s. IX, vol. XXIV, fasc. 1, Roma, 2009, ora nei cit. Ultimi contributi, vol. I, pp. 177-314. 21

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3. Se la risposta di Ortega è, come s’è visto, difficile al di là della eleganza letteraria, quella di Castro alla difficoltà aggiunge la complessità. Non solo sul piano dell’estensione tematica (che già s’è detta), ma anche nell’articolazione degli strumenti interpretativi, lontani dalle preoccupazioni denunciate da Ortega, con la sicurezza tipica del grande saggista. Castro era, già nel 1925, uno storico di salda formazione filologica e di destissimo interesse per le teorie della storia. Insomma uno scienziato che non avrebbe mai pronunciato la frase di Ortega secondo cui «la filosofia è idealmente il contrario della nozione, dell’erudizione», e ancor meno dichiarare il privilegiamento del “saggio”, che «è la scienza meno la prova esplicita»24. Sono negazioni e scelte di Castro che non vanno dimenticate o trascurate dinanzi a motivazioni, interessi, esigenze non lontane da quelle di Ortega e dello stesso Castro lettore di Cervantes, e, tanto meno, dinanzi al ricorrere di idee simili, spesso assai vicine, almeno nelle motivazioni polemiche. Una prima, tutt’altro che secondaria, complessità delle interpretazioni cervantine di Castro è rappresentata dalla necessità imprescindibile di dare ad ognuna di esse una precisa periodizzazione. Gran libro di ricerca e di “prove”, tutt’altro che saggio brillante e acuto, El pensamiento de Cervantes del 1925, giustamente, è stato presentato in contrapposizione «alla sconsolata visione dell’Idearium, al soggettivo percorso della Ruta, alla polemica scrittura delle Meditaciones e alla brillante riscrittura della Vida»25. Ossia, nell’ordine, contro Ganivet, Azorín, Ortega, Unamuno, nel quale, acutamente, sono, in qualche misura, riassunte tutte le articolate letture del “romanzo”, ricordate nella “Introduzione”, senza trascurare La psicología del Don Quijote y el quijotismo di S. Ramón y Cajal26. El pensamiento27 è, tutto inMQ, pp. 19, 32; tr. it. pp. 37, 39. M. CIPOLLONI, “Introduzione” a PC, cit., p. 31. 26 Cfr. ivi, p. 30 nota 25. 27 Cfr. ivi, pp. 25 e 14. 24 25

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sieme, un libro di affilata filologia testuale, di puntuale letteratura critica, di raffinata e prudente Kulturgeschichte. A dimostrarlo, anche giudicando dall’esterno, basta scorrere l’indice che elenca i temi trattati con la dovuta estensione, nessuno escluso: «L’orientamento letterario», la «[Pluralità della coscienza narrativa] e la critica della realtà [narrata]», «L’errore e l’armonia come temi letterari», «La natura come principio divino e immanente», le «Idee religiose», «La morale» e ancora «Altri temi» del grande romanzo, niente risparmiando. La serialità degli argomenti citati suggerisce subito la domanda, all’apparenza di pura curiosità, cos’è questo Pensamiento, un libro di filosofia, una storia della cultura spagnola ed europea tra Umanesimo e Rinascimento, un libro di letteratura? La semplice lettura di qualche pagina, pur scelta a caso, acuisce la curiosità della domanda e conferma la complessità dell’opera. Certo il Quijote è “un romanzo” nel senso indicato da Ortega; certo neppure Castro è insensibile alla distinzione tra “narrazione” e “descrizione”, egli che, più tardi, nel 1956, tematizzò la distinzione tra “Descripción”, “Narración” e “Historiografía”28; anche Castro vede riassunti nel Quijote gli elementi da analizzare per definire “la realtà storica” della Spagna dopo la “Reconquista”. E però tutto questo e altro mira a una finalità distante e diversa da quella di Ortega, addirittura diversa persino da quanto lo stesso Castro andrà cercando quando – dopo le varie elaborazioni e rielaborazioni del gran libro del ’45, España en su historia – troverà proprio in Cervantes la convincente spiegazione del “casticisimo”, pilastro e soluzione di continuità nella storia della Spagna moderna, a mio credere enfatizzato dallo stesso Castro. Il libro del 1925 non è l’espressione di un nobile pensiero ideologico, o, se lo fosse, si compone nel rifiuto di ogni opzione, sia eteronoma sia intimistica, risolventesi in un sistema chiuso, fosse pure quello del “casticismo”. Castro lo dichiara subito programmaticamente, chiudendo la densa “Introduzione”, che è una 28

Cfr. il mio già citato Due interpretazioni…, pp. 285 e ss.

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serrata critica delle linee prevalenti delle consolidate letture di Cervantes prima del 1925. «Ci troviamo dunque di fronte a un Cervantes che, pur essendo sprovvisto di intelletto e di cultura, è, nondimeno, inconsciamente geniale»29. Sulla base di questo pregiudizio, il Chisciotte era collocato in solitudine rispetto al resto dell’opera di Cervantes, rendendo difficile capire se egli disponesse di una personale concezione della vita. Per contrasto – come si è potuto vedere soltanto scorrendo l’indice – Castro tenta «uno studio comparato dell’opera di Cervantes», indagando, anche se con costretta selezione, le fonti di Cervantes per concentrarsi «sulla visione ideale di Cervantes, sul suo atteggiamento nei confronti della realtà che lo circonda e sul significato morale che egli proiettava sui personaggi partoriti dalla sua fantasia»30. Una pagina importante del libro lo precisa, non a caso dopo il granitico esame dell’idea di natura, nella descrizione della quale Cervantes, a giudizio di Castro, ha chiamato a sostegno Erasmo attraverso la mediazione di Montaigne. Un grande contemporaneo di Cervantes, Michael de Montaigne, avvertì con forza il problema della natura relativa dei nostri giudizi e giunse quasi al punto di perdersi in un mare di scetticismo. […] Cervantes lascia il problema aperto e irrisolto e, da autentico genio qual è, porta la questione, in tutta la sua complessità, al centro della propria arte; tale arte presuppone sia una profonda visione del mondo, sia una meditata percezione dei grandi risultati e delle ardite costruzioni del Rinascimento; Cervantes, se da un lato riconosce l’esistenza di questi mirabili edifici, dall’altro, sorride melanconico sulla loro efficacia. La realtà delle cose si estenua davanti alla nostra critica fino a svanire e tutto finisce per risolversi, sul piano intellettuale, in un’impressione di relativismo; moralmente predominano invece l’energica rassegnazione e la melanconica vittoria su se stessi, giacché al di fuori di questo ridotto della coscienza, nei momenti di tragica crisi, tutto si fa in29 30

PC, p. 86. Ivi, p. 91.

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certo e problematico. Nel corso del XVI secolo spagnolo abbiamo potuto seguire – conclude Castro – lo sviluppo dei temi umanistici. In questa prospettiva, quel secolo ci si propone dotato di una struttura più sistematica e sembra essere meno lontano dalle contemporanee letterature dell’Italia e della Francia. Cervantes ci si mostra, pienamente, come una delle più splendide fioriture dell’Umanesimo rinascimentale. Allo stesso tempo, possiamo anche apprezzare, partendo da nuovi elementi, lo sviluppo della sua grande originalità31.

Questa pagina trova il proprio centro nel riferimento alla “realtà oscillante” che consente, anzi richiede l’esercizio di una pluralità di giudizi, quasi nel senso della relatività dei giudizi di valore. Ciò consente di intendere perché, ritornando sul libro agli inizi degli anni ’70, poco prima della morte, Castro lo giudica con severità eccessiva. Se è comprensibile qualche cedimento dell’intento letterario e filologico alla necessità di alcune concettualizzazioni che diano ordine alla pluralità riscontrata nelle idee di Cervantes e intorno a Cervantes, ossia il ricorso a fattori sistematizzanti quali Umanesimo, Rinascimento, Controriforma, Barocco, più tardi abbandonati; tuttavia va detto che, anche prima dell’abile miscelarsi in estetica dell’interesse filologico testuale con l’impegno storiografico, la ricerca di elementi strutturali (mai, tuttavia, strutturalistici, ossia risolventisi in totalità monistica e anti-umanistica: la dialettica tra soggettivo e oggettivo, tipica della esemplarità cervantina avvertita da Castro con precipua sensibilità), il riferimento a concetti categoricizzanti non ha mai una funzione di generalizzante astrazione. Già nel 1925 queste traduzioni esplicative, sistematizzanti del pensiero di Cervantes non disperdono, al contrario rafforzano la loro identità e legittimazione ideal-reale, gli elementi storicizzanti che garantiscono la concretezza, direi persino i contenuti materiali di questi stessi concetti. La concettualizzazione categoriale non 31

Ivi, p. 388; tr. it. pp. 497-498.

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perde la “situazionalità” delle idee e le loro costellazioni, ciò che Castro chiama, nella prima edizione, «la critica della realtà», e che, nella seconda edizione, arricchisce e precisa come «la pluralità della coscienza narrativa», che definisce ciascun’epoca nella sua dimensione di campo di forze diverse, contrastanti e tuttavia convergenti nel processo articolato di passaggio dal vecchio al nuovo, colla mediazione del presente. Basti qui riprendere una sola affermazione di Castro a proposito del Rinascimento, che è il contesto epocale principale della riflessione di Cervantes. «Se riteniamo che il Rinascimento […] si limiti a riprodurre, in virtù di un frivolo esercizio di dilettantismo, un certo tipo di bellezza antica, il concetto di Rinascimento finisce per dissolversi tra le nostre mani»32. Senza negare la novità intervenuta successivamente all’acquisita consapevolezza storiografica colla continuata rivisitazione dell’edizione del 1948 (1962 e 1966) dell’opera “sulla realtà storica della Spagna”, già antica era la facoltà di miscelare Kulturgeschichte e storia delle idee. Già nel 1925 la prima è lontana dalla Geistesgeschichte coi suoi processi emanatistici di una realtà innata che si rivela. Il che si vede quando, ritornando al confronto con Ortega, emerge un altro elemento dell’opera del 1925, ossia la ricerca dei fattori storici giustificativi di un progetto riformatore nell’interpretazione della storia di Spagna: la configurazione della realtà etico-politica della Spagna contemporanea in contrasto con le tentazioni e predicazioni mitiche di questa storia e del suo modo di essere praticata da tanta antiquata storiografia33. Dopo l’opera del 1948, in specie nel libro del 1961 De la edad conflictiva, la chiave di lettura della specificità spagnola viene ricercata nell’incidenza del casticismo. Ma questa centralità enfatizza e radicalizza la lettura anteriore, la quale, dinanzi alla «vera e propria penuria di lavoro di riflessione intorno a Cervantes»34 si domandava – e questa domanda Ivi, p. 273. Cfr. F. TESSITORE, Due interpretazioni, cit., p. 299. 34 PC, pp. 8-9; tr. it. p. 79. 32 33

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diventava il problema fondante della ricerca –, qualora «tutto questo fosse sparito», «se lo sviluppo della nostra critica letteraria sarebbe stato normale», ossia coerente con il cammino del resto d’Europa? Il che avrebbe consentito di rilevare che «Cervantes poneva importanti problemi, letterari e umanistici, ma di natura del tutto comprensibile e perfettamente spiegabile nell’ambito della storia spagnola»35. Ciò Castro fa con la sua monografia e successivamente con le indagini sulla realtà storica di Spagna. Ancora più chiaramente, riassumendo il lungo percorso partito dal libro del 1925, si sottolinea che l’intento è il metodo contrario alle ipotesi erudite36, a favore della riconduzione di «Cervantes alla sua epoca e riordinandolo con tecnica filologica»37. Castro istituisce un confronto con un gran contemporaneo di Cervantes, Michael de Montaigne, già sopra ricordato, che serve a indicare ancora una volta la tipicità della Spagna dentro ma non contro l’Europa. E bisogna rinviare alla lettura articolata della pagina importante38. In essa, non a caso, compaiono i temi fondanti la ricerca dell’orientamento letterario di Cervantes, che per Castro fu tutt’altra cosa di un «ingenio lego»39. Infatti, a suo giudizio, «la scarsa attenzione che noi riserviamo alla nostra storia intellettuale»40 non ha permesso di scorgere i problemi posti da Cervantes in piena età moderna, in pieno siglo de oro, che segnò la svolta decisiva della vita degli spagnoli ormai coscienti della propria “ipseidad”, del loro “nosotros”. La «grande originalità di Cervantes» consiste nell’aver posto la chiave dei suoi prodotti artistici nel «sistema della doppia verità»41. Con la specificazione che Cervantes «ha collocato il Don Chisciotte sul Ivi, p. 9; tr. it. p. 80. Ivi, p. 386; tr. it. p. 495. 37 Ivi, p. 387; tr. it. p. 496. 38 Ivi, p. 386; tr. it. p. 495. 39 Ivi, p. 388; tr. it. pp. 497-498. 40 Ivi, p. 19; tr. it. p. 90. 41 Ivi, p. 27 e cfr. pp. 39 e 259; tr. it. p. 100. 35

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versante poetico, schierando Sancio dalla parte della storia»42, una collocazione che acquista tutta la sua significanza quando si ricordi che Cervantes riprende, condivide e modifica la visione classica, acutizzata nella trattatistica italiana del XVI secolo43, del rapporto tra storia e poesia, secondo il quale la poesia tratta delle cose in modo prevalentemente universale, mentre la storia le tratta in modo particolare. Una distinzione che in Cervantes diviene contrasto, giacché egli oppone «la verità universale e quella particolare»44. Ciò implica un delicato rapporto tra vero e verisimile, che Castro trova ben espresso in un brano del Persiles: «È privilegio della storia che qualsiasi cosa si scriva per lei possa assumere il sapore di verità che la caratterizza, cosa che non accade con le favole, che per questo devono dare alla propria azione tanta puntualità e precisione e tanta verosimiglianza che, a dispetto della menzogna che crea dissonanza nell’intelligenza, finiscono per formare una vera armonia»45. Ma non basta. Bisogna aggiungere che il rapporto per il nostro autore tra il possibile e l’impossibile, il verosimile e l’inverosimile, «non sono qualcosa di puramente oggettivo, ma qualcosa che dipende dal rapporto tra oggetto e soggetto, cioè da un elemento ideale e soggettivo»46. L’indagine minuziosa, testuale ma non erudita, condotta con scaltrito gusto comparativo tra i testi di Cervantes e quelli di Erasmo e di altri umanisti e rinascimentisti italiani; la analitica ricognizione delle idee di Cervantes sulla religione e sulla morale47, su una miriade di temi specifici (il volgo e il saggio, le armi e le lettere, gli spagnoli, l’elemento picaresco eccetera)48, servono a chiarire i prinIvi, p. 30; tr. it. pp. 103-104. Cfr. ivi, p. 29; tr. it. p. 102. 44 Ivi, p. 38; tr. it. p. 111. 45 Ivi, p. 41; tr. it. p. 115. 46 Ivi, pp. 41-42; tr. it. pp. 115-116 47 Cfr. ivi, pp. 240-329; 321-383; tr. it. pp. 331-492. 48 Cfr. ivi, pp. 210-239; tr. it. pp. 295-330. 42 43

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cìpi di Cervantes, così come ideologicamente fondatamente centrale è il convincimento che «Cervantes sia un razionalista che conosce i limiti delle possibilità di strutturazione razionale». «Dinanzi all’eccesso razionalista sorge la reazione del vitale e dello spontaneo, in certo modo come il particolare si oppone all’universale nel piano della fantasia»49. Ciò discende dalla dottrina naturalistica accolta e rielaborata da Cervantes, che Castro sintetizza a valle di una accurata ricognizione in una pagina importante50. L’intento cervantino della armonizzazione51 nasce dalla «novità straordinaria», tipica del grande spagnolo, secondo il quale «le cose possono essere al tempo stesso elmo e bacinella e vivere come tali»52. Se la critica della realtà è il risultato dell’“esperienza”, questa «è in effetti un mezzo di riconoscimento gradito a Cervantes»53 fino a ritenere che per «tentare di riappropriarsi del reale serve l’impiego della esperienza»54, a condizione di porsi la domanda su quali «elementi intervengono in questo processo di certificazione della realtà»55. Questi elementi sono «l’uso continuo della critica, la fiducia nell’esperienza e nella ragione e l’esplicitata convinzione che le cose presentino molteplici aspetti e che, in definitiva, è alle discussioni degli uomini che spetta il compito di stabilire la verità»56. Tutto ciò poggia sull’idea di Umanesimo che Castro precisa ritenendola tipica anche dei concetti di Cervantes, i quali non hanno per base l’idea che «l’Umanesimo voglia dire soltanto studio dei classici greci e latini e “spirito antiquario”, mentre, in realtà, Umanesimo significa valorizzazione ed esaltazione di tutto ciò che è umano, cioè dell’uomo e della sua ragione, a cui viene subordinato tutto il Ivi, p. 61; tr. it. p. 136. Ivi, p 171; tr. it. pp. 254-255. 51 Ivi, pp. 145 e ss.; tr. it. pp. 226 e ss. 52 Ivi, p. 88; tr. it. p. 168. 53 Ivi, p. 89; tr. it. p. 169. 54 Ibidem; tr. it. pp. 168-169. 55 Ivi, pp. 88-89; tr. it. p. 168. 56 Ivi, p. 109; tr. it. p. 189. 49 50

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resto»57. È un metodo nuovo di osservare il mondo. «L’umanesimo rinascimentale parte da se stesso», e guadagna la materia che alimenta la sua speciale filologia nell’antichità, nei selvaggi, nei mori, o in qualsiasi altra zona dell’umano58, con la specificazione tipicamente cervantina che «ha costruito […] il consueto contrasto tra un mondo ideale e universale e la concreta realtà che lo circondava»59, condividendo con Montaigne la convinzione dirimente secondo la quale «vi sono cose che non sono per questo mondo, nonostante che non abbiano possibilità di essere comprese se non dentro questo mondo». È qui, commenta Castro, «la tragedia del Cervantes»60. La conclusione della lunga indagine, qui assai succintamente riferita, è che «la verità non può nascere se non dalla critica dell’esperienza». Convinto come Montaigne «della relatività nei nostri giudizi, Cervantes non si perse nello scetticismo tentatore anche di Montaigne», perché «già aperto e presente era il problema, che egli con rara genialità poneva integro al centro della sua indagine; e che allo stesso tempo suppone una profonda visione del mondo», che deriva dalla grande costruzione rinascimentale dinanzi alla quale Cervantes si pose «con ammirazione, però anche con un sorriso melanconico»61. La realtà si estremizza dinanzi alla nostra critica e, mi chiedo, forse per risolvere intellettualmente l’impressione di relatività62, per accettare “la relatività morale”63, il relativismo dell’elmo e della bacinella, che diventano il «baciyelmo»64? E tuttavia l’inganno resta dinanzi ai nostri occhi. Questa certamente è la strada per la individuazione della centralità del cinismo? Un ritorno alla crisi del 1895-96, alla storia mitica e allucinata della Ivi, p. 84; tr. it. p. 164. Ivi, p. 205; tr. it. p. 290. 59 Cfr. ivi, p. 209; tr. it. p. 294. 60 Ibidem. 61 Ivi, p. 308; tr. it. p. 497. 62 Ibidem. 63 Ivi, p. 307; tr. it. p. 496. 64 Ibidem. 57

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generazione del ’98, dalla quale Castro è partito per individuare la realtà storica di Spagna? Se fosse così sarebbe qualcosa di peggio di una conversione. Sarebbe la dichiarazione di un fallimento tale da non giustificare nulla o quasi dell’impostato, imponente lavoro di scavo filologico-testuale e d’interpretazione storiografica sorretto da un difficile, talvolta persino penoso sforzo di concettualizzazione, provocato a sua volta proprio dalla necessità di sistemare, lontano da ogni concessione a ogni tipo di metafisica storica o di filosofia della storia. Negando ciò si vuol forse concludere col sostenere un piatto continuismo nel lavoro di Castro? No, decisamente no. 4. Queste ultime riflessioni riportano di nuovo a Ortega, all’altro grande problema delle Meditaciones, specialmente di quella “preliminare”, la quale si chiude sull’affermazione secondo cui sul Chisciotte può concentrarsi, va concentrata «la domanda magna: Dio mio, cos’è la Spagna? […] cos’è questa Spagna, questo promontorio spirituale dell’Europa, questa specie di prua dell’animo continentale?»65. Le domande retoriche appaiono giustificate ed impellenti perché il Chisciotte è forse tra «le esperienze essenziali» che riguardano la maggiore «possibilità spagnola» di «cantare all’inverso», di quanto fatto fino ad allora, «la leggenda della storia di Spagna», della quale, al contrario, va individuato il verace “luogo” dove «il povero cuore della nostra razza batte in modo puro e intenso»66. «Il popolo – dice Ortega – è uno stile di vita», nel caso spagnolo diventato un “problema” (molto più tardi di Ortega, ma non lontano da lui, un altro saggista parlò della «España como problema», qualcosa di ben più forte e radicale del “problema della Spagna”67). Per Ortega «il problema della p. 129; tr. it. p. 86. Ivi, pp. 133-134; tr. it. pp. 87-88. 67 Cfr. P. LAÍN ENTRALGO, España como problema, Aguilar, Madrid, 1962. 65

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cultura spagnola» vuol dire sentire «la Spagna come una contraddizione», una «contraddizione reale come ciò che rende davvero problema un problema». Che non può essere affrontato, e tanto meno da un maestro del prospettivismo, se non si attingono i “princìpi” fondanti della “cultura”, che Ortega intende burckhardianamente quale uno degli elementi della Universalgeschichte e però a condizione di vedere in essa, antiburckhardianamente, «ciò che è stabile contro ciò che vacilla, ciò che è fisso contro ciò che è fugace, ciò che è chiaro contro ciò che è oscuro»68. Un plesso di questioni che apre la via singolare di Ortega partendo dalla condizione negativa dei princìpi ultimi per decifrare il positivo da conquistare. La cultura spagnola è una parte della “cultura mediterranea” (come va detto riformulando la classica distinzione tra cultura latina e cultura germanica), la quale lascia completamente irrisolto il problema delle «parentele etniche fra gli uomini che vissero e vivono sullo sponde del mare interno», del cui “intelletto”, una «figura molto rappresentativa è Giambattista Vico», al quale non si può negare genio ideologico; ma chi si addentra nella sua opera apprende da vicino la nozione di caos69, che è, tuttavia, la condizione che consente di capire ciò che è per Ortega la confessione dei «limiti del germanesimo», da cui è nato il principio dell’assoluto. Per un mediterraneo l’essenza è meno importante della sua presenza, della sua attualità: alle cose [i mediterranei] preferiscono «la sensazione viva delle cose»70, l’esperienza attiva delle cose prima del pensiero che pensa le cose per evitare che il pensiero le fossilizzi nel formalismo di categorie e concetti astratti. «Vedere è come una saetta estranea» che «ferisce la cornea», in tal modo mettendo in moto «tutta la nostra intima, personale energia», che fa entrare «a far parte dell’edificio della nostra personalità»71 la pp. 90 e ss.; tr. it. pp. 80 e ss. Ivi, pp. 97-99; tr. it. pp. 68-69. 70 Ivi, p. 104; tr. it. p. 71. 71 Ivi, p. 108; tr. it. p. 73. 68

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pluralità delle cose viste, la «rete di relazioni» in virtù delle quali la singola cosa «si determina e delimita […] in relazione alle altre»72. Il vedere non è solo qualcosa di «passivo», «esiste un vedere attivo che interpreta vedendo e vede interpretando», un vedere che è un «guardare» le visioni «che sono sguardi» da designare, come fece Platone, con una «parola divina»: idee. Sono nuovi livelli di realtà sempre più profondi, più suggestivi, la cui esistenza è un atto di volontà, lo sforzo per raggiungerli che trasforma il significato stesso della verità, la quale, secondo il nome greco, alétheia, il cui significato, simile a quello della parola più tarda apocalipsis, vuole dire «scoperta, rivelazione, svelamento», possiamo dire evenienza del nuovo73. Affermazioni nelle quali è impossibile non sentire l’eco (negli anni delle Meditaciones non lontane) delle tesi del Dilthey storicista, il quale il tema del vedere rankianamente discuteva con il suo amico conte York. Questa rilevanza del vedere la conosceva anche Hegel, osserva Ortega, che da ciò ricavava il ruolo del “concetto” come ciò attraverso cui «le cose materiali», schematiche devono marcare «i confini degli esseri, avvicinarli per farli convivere»74. Una funzione importante che però – nel sottolineare i limiti delle cose nel doppio senso di ciò che le distingue e di ciò che ne dà la misura limitata in un gioco di reciproche limitazioni tra di esse – fa correre il rischio, che Ortega avverte e intende evitare, di finire in un «contenuto schematico»: «il concetto non è che uno spettro ancora meno di uno spettro», il «carattere spettrale» della «ragione», che «aspira a sostituire la vita», configurando una «opposizione» con la vita, «tanto usata oggi – aggiunge Ortega – da chi non ha voglia di lavorare», fino a far sospettare che «la ragione» non sia «una funzione vitale e spontanea simile al vedere o al toccare»75. Se così fosse, quando ciò succedesse, si Ivi, pp. 109-110; tr. it. p. 75. Ivi, pp. 81-82; tr. it. pp. 58-59. 74 Ivi, p. 112; tr. it. p. 76. 75 Ivi, pp. 113-114; tr. it. p. 77. 72 73

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perderebbe «la carne delle cose» non più produttiva del nuovo e la ragione si trasformerebbe in un «organo, un apparato per il possesso delle cose». Ciò, purtroppo, s’è verificato oggi tanto che non «ci sentiamo molto lontani dal dogma hegeliano che fa del pensiero la sostanza culturale di ogni realtà», trascurando che «è troppo grande il mondo, e troppo ricco, perché il pensiero possa assumere la responsabilità di tutto ciò che vi accade»76. Col che Ortega non intende «negare la ragione», bensì darle il posto che le compete, contro ogni «impressionismo» che tradisca la complessità del vedere la molteplicità della realtà, la realtà delle cose della vita. Nella realtà «non esistono altro che parti; il tutto è l’astrazione delle parti ed ha bisogno di esse»77. Se ciò si trascura, come è stato trascurato, la cultura diventa «impressionistica» ed è «condannata a non essere una cultura progressista»78. Esemplare il caso della cultura spagnola. Citando il Kant dell’Antropologia, Ortega ricorda la definizione kantiana della Spagna come «terra degli antenati», e traduce l’immagine nella condizione di chi, come gli spagnoli suoi contemporanei, non è «proprietario della propria terra». La quale è di quanti, nati prima, continuano a goderne e la governano ancora. I contemporanei sono oppressi, non fosse altro che psicologicamente, da un particolare tipo di reazionarismo fatto dal peso della tradizione che non consente di trattare «il passato come un modo della vita» dal quale, paradossalmente, nel celebrarne la morte, nasce nuova vita. «La morte di ciò che è morto è la vita», l’«iniettare il sangue» della vita «nelle vene dei morti», così da vivere la tradizione non come un peso. In Spagna «l’incapacità di mantenere vivo il passato è il vero segno distintivo della reazione»79. La «tradizione nazionale» è per gli spagnoli il «progressivo annichiIvi, p. 116; tr. it. p. 78. Ivi, p. 41; tr. it. p. 43. 78 Ivi, p. 117; tr. it. p. 79. 79 Ivi, pp. 49, 50-51; tr. it. pp. 46-47. 76 77

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limento della Spagna come possibilità»80, ossia del nuovo e del divenire parti di un passato vissuto appunto come passato, fruttuosamente morto. Agli spagnoli è venuta meno la possibilità di vivere il passato come passato ed essi devono, andando contro la propria tradizione e le leggende della tradizione, cercare disperatamente i pochi “luoghi” (Ortega dice la «mezza dozzina» di luoghi) «dove il povero cuore della nostra razza batte in modo puro e intenso. Una di queste esperienze essenziali è Cervantes, forse la maggiore»81. Cervantes e il Quijote insegnano «l’amore» che «lega» «cosa a cosa, ogni cosa a noi in una salda struttura essenziale», che consente di vivere la novità e la continuità della vita storica, senza contrasti, fondando la “relazione” che è la vita. L’amore è per Ortega la forma vivente della relazione, ciò che dà senso alla relazione in quanto fa «considerare parte di noi stessi» tutto ciò che si vive, che si è vissuto. Nella Spagna oppressa dal peso della tradizione come passato non morto, «l’intima dimora degli spagnoli fu [ed è] occupata dall’odio […]. Muovendo guerra al mondo», al proprio mondo con un sentimento che è l’annichilimento dei valori irrigiditi e incapaci di impedire «la fusione, sia pure transitoria», delle cose, le cose del passato «col nostro spirito»82, la Spagna è rimasta legata all’epoca della Restaurazione, quella in cui non si volle riconoscer la profondità del Chisciotte cosicché «il cuore della Spagna giunse a dare il minor numero di battiti», perché «la Restaurazione significa l’arresto della vita nazionale»83. «La vita spagnola si ripiega su se stessa, si svuota. La Restaurazione fu questo vivere il vuoto della propria vita». Significa cadere «in un profondo letargo» e non esercitare «altra funzione vitale se non quella di sognare di vivere». Ortega ricorda Calderón, traducendone i versi famosi («la vida es sueño y los sueños sueños son») in una efficace perifrasi: quanto sucIvi, p. 133; tr. it. p. 88. Ivi, pp. 132-133; tr. it. pp. 88-89. 82 Ivi, p. 16 e cfr. p. 17; tr. it. pp. 32-33. 83 Ivi, p. 84; tr. it. pp. 60-61. 80 81

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cede in un sogno «è l’immagine di una vita in cui, di reale, c’è solo l’atto che la immagina»84. Cervantes, che visse il Rinascimento in contrasto con la vita contemporanea di Spagna, che pur interpretò nella profonda intimità come pochi perché, sulle «vette spirituali» da lui raggiunte, «regna inviolabile solidarietà, ed uno stile poetico porta con sé una filosofia e una morale, una scienza e una politica»85. Ortega, in tal senso chiude «l’ultima annotazione» dell’appello al “Lettore” con cui iniziano le Meditaciones: il lettore scoprirà […] perfino negli angoli più nascosti di questi saggi, i battiti della preoccupazione patriottica. Chi li scrive e coloro cui essi sono diretti sono nati spiritualmente nella negazione della Spagna caduca. Ma la negazione da sola è un’empietà. L’uomo pio e onorato contrae, quando nega, l’obbligo di edificare una nuova affermazione. […] E noi, avendo negato una Spagna, ci troviamo su un onorevole sentiero in cerca di un’altra: la nuova Spagna86.

Parole che sono l’epigrafe della “generación del ’98” e il viatico della “generación del ’14”. La strada così aperta è forse quella imboccata anche da Castro col suo grande libro del 1925? Dirlo, riducendo a questo l’intenzionalità politicamente polemica dell’acuta, minuta e intelligentissima analisi filologico-testuale, sarebbe più che riduttivo, sbagliato, spingendo a forza – la forza ottusa dell’ideologismo – su un sentiero “interrotto” anche le imponenti ricerche cervantine successive al 1925, cui è tempo di guardare, pur brevemente.

Ivi, pp. 85-86; tr. it. p. 61. Ivi, p. 134 e cfr. pp. 132-133; tr. it. p. 89. 86 Ivi, pp. 58-59; tr. it. p. 50. 84 85

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5. Nelle pagine che, già nel 1925, a valle di siffatte ricostruzioni e conclusioni cervantine, Castro aveva dedicato al secolo d’oro della letteratura, la cultura della vita spagnola, non manca la consapevolezza che si tratta di un «mondo oscillante»87, tipico della Spagna in Europa, tanto da rendere necessario, come Castro farà, la revisione profonda del tutto carente peculiare rapporto della Spagna con il resto d’Europa. Certamente è la strada che va verso l’individuazione della centralità del “casticismo” ma non è, come si è detto, una strada di ritorno all’indietro. E infatti le nuove indagini, nonostante le apparenze e l’avvicinamento ai temi sul destino della Spagna dell’Ortega del 1914 cui sopra si è accennato, compiono un passo innanzi nel senso che, anche a proposito di Cervantes e del Quijote, Castro accentua (meglio arricchisce) il precedente impianto di critica testuale e di cultura dell’arte nella direzione di una più matura e allenata connessione di filologia e storiografia. Ciò anche e soprattutto in ragione di un profondo esame della struttura etica e socio-culturale dell’etnia spagnola e della storia vissuta. Qui la ripresa del “casticismo” unamuniano non segna tanto la dimensione ideologica (pur nel senso nobile della parola), quanto una configurazione strutturale nuova in considerazione della dimensione multiculturale, pluralistica e multilaterale della vita svoltasi per secoli nella Penisola iberica, studiata con dedizione e piena cognizione storiografica nella già citata opera del 1948 España en su historia nelle revisioni di essa compiute nel 1953 e nel 1962. Castro è preoccupato, fin quasi da essere dominato, dal contrastato convivere e dall’animato confronto tra «cristianos, moros y judíos» (sottotitolo del libro or ora citato nella prima edizione) e dallo spezzarsi traumatico di questa convivenza con l’affermarsi del “predominio castigliano”, conclusa vittoriosamente la Reconquista, con l’espulsione dei “moros” e dei “judíos” con la conseguente distinzione tra “cristianos viejos” e “cristianos nuevos” (ossia i “judíos” convertiti, nei quali Castro include Cervantes e Teresa de Ávila, per dare un altro 87

PC,

p. 181; tr. it. p. 255.

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esempio ben incidente dallo storico a lungo trattato). In coerenza con questa dichiarata convinzione, ritengo che il “casticismo” di Castro non conceda nulla o quasi nulla a dimensioni razzistiche, fermandosi piuttosto sui profili culturali, etici, comportamentali, il che – nel mentre esclude ogni avvicinamento della sua storiografia a temi strutturalisti tipo quelli delle «Annales», o marxisti – importa una riconsiderazione e revisione della Kulturgeschichte seguita nel Pensamiento de Cervantes in direzione di una sempre più forte considerazione della “historia de las ideas” decisamente storicizzante più che filosoficizzante; così da mettere in crisi ogni concessione “categoricizzante” a favore di una sempre più marcata configurazione “epocalizzante” di uomini e cose. Lo si vede bene se si guardi, come si deve, al fondamentale saggio Cervantes y el Quijote a nueva luz, scritto prima del 1966 (ossia a ridosso della grande opera storica già citata), che apre il libro, egualmente importante, del 1966 Cervantes y los casticismos españoles, su cui bisogna fermarsi non poco, guardando bene i tre nuclei tematici di esso e di un paio di saggi, uno precedente il ’60 e uno successivo del ’67, legati fino a fare quasi tutt’uno. «Sería extraño buscar la razón última del estilo y del sistema literario cervantinos en abstracciones como el Renacimiento, el Barroco o la Contrarreforma, o imaginándolo nada más que como un “terciario franciscano que acudía a todos los actos de la congregación, y tenía su meditación y disciplinas”»88. «Solo sirve para acumular confusiones sobre confusiones, continuar hablando en abstracto de Contrarreforma, de Renacimiento, de Manierismo, etc.»89. «La costumbre iniciada en Alemania de instalar la obra de arte o de literatura dentro de categorías que la “ex-pliquen”, o A. CASTRO, “Cervantes y el Quijote a nueva luz”, in Id., Cervantes y los casticismos españoles (1966), che qui si cita dal vol. II della Obra reunida, Cervantes y los casticismos españoles y otros estudios cervantinos, a cura di F. Márquez Villaneuva, Trotta, Madrid, 2002, p. 64. D’ora innanzi si cita con CC e l’indicazione del saggio trattato. 89 CC, p. 93. 88

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sea, que la saquen de su existir único y extrañable, esa costrumbre responde a la tendencia a sobreponer el conocimiento abstraído (actitud científica) a la “re-vivencia” de la frágil e inquietante singularidad de lo artisticamente intuible (actitud menos respetable). Se aspira a demostrar, no a mostrar»90. Ciò che deve ancora interessare è la «montañosa selva de la realidad humana», la cui comprensione impone un duplice rifiuto: non trascurare la «forma multidimensional» quale è stata espressa da grandi opere come il Quijote, e non seguire nell’interpretazione di queste “forme” categoriali che, assolutizzandole, si convertono in una riduzione della multidimensionalità. «El arte de Cervantes no es evasivo; no se contenta con el anhelo o la ensoñación, ni se posa sin más sobre lo archisabido». «En el Quijote todo existe, o como realidad imaginada o como realidad de experiencia funcionalmente estructurable con aquella»91. «A Cervantes no le basta ni la “suficiente” soledad del poeta lírico, ni la segura existencia de la figura típica, condenada a existir encerrada en sus “tipos”»92. Però attenzione il rifiuto della tipologia assolutizzante (che coinvolge anche, e forse eccessivamente, la concettualizzazione riassuntiva di fenomeni culturali complessi (come Umanesimo, Rinascimento, Barocco) i quali, tuttavia, per la loro stessa complessità, richiedono un principio ordinatore dominante, non implica il disperdersi della conoscenza in una fenomenologia di fatti e di idee capace di smarrire, nel segno della pluralità, le ricchezze della realtà vissuta e viventesi. Per questo Castro cerca di individuare, al posto delle assolutizzanti formulazioni manualistiche, figure che possono riflettere la libera e vitale relatività della esistenza, delle esistenze nella loro specificità ma anche nella contestualità o ambientazione fisica, che ne fanno il contenuto e insieme danno ad esso il carattere e l’espressione di Ivi, pp. 64-65. Ivi, p. 89. 92 Ivi, p. 92. 90 91

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un’epoca e dei comportamenti dei soggetti dell’epoca. È questo il significato e il valore di “modi” (uso l’espressione in senso tecnico-filosofico) quali «vividura» o la «morada vital», che Castro formula in essi traducendo l’esigenza della sua storiografia esistenzializzante (non sto dicendo esistenzialistica), che deve raffigurare il «vivir desviviéndose» della Spagna «conflictiva» per il suo «casticismo», e molto altro della sua ricca, lunga, astrusa storia. Ed è in questo quadro che Castro guarda «in nuova luce» il suo Quijote, senza abbandonarsi, al contrario attingendo allo studio analitico del pensiero di Cervantes. Una prima rappresentazione è data per contrasto rispetto alle letture spagnole del XVI secolo le quali «además de ser una forma de arte, aquella literatura poseía una dimensión social, aireaba los anhelos y las reacciones críticas de una minoría postergada, sin otros respiradores para su angustia y sus juicios»93. A questo fa contrasto l’arte cervantina che Castro ha già indicato nel rifiuto dell’evasività che mette a rischio l’esperienza funzionale al rapporto tra immaginazione e realtà. Castro vivificò una visione «inerte y encantada» attraverso Cervantes e i suoi personaggi, i quali, a iniziare dal Quijote – profondamente cervantino e però non identificabile con Cervantes a riprova della già accennata multidimensionalità del rappresentato e del rappresentare – «manejan el vivir como fluente, movido por simpatías y disconformidades. Estas figuras individualizadas son como “microcosmos” movidos concéntricamente, respecto de un “macrocosmos” positivo o negativo»94. «La tensión literaria del Quijote es consecuencia de haber logrado el autor que los problemas se transformaran en motivos de vida, en lugar de ser expresados en proposiciones lógica o didácticamente formuladas»95. In questo senso, a giudizio di Castro, «Cervantes enfocó humana y cristianamente el conflicto entre las castas». AffermaIvi, p. 67. Ivi, p. 135. 95 Ibidem. 93

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zione importante che testimonia come anche l’insistenza, quasi ossessiva, sulla conflittualità del “casticismo”, sia sempre temperata da una preoccupazione e da una capacità storicizzante, dove, ancora una volta, nel caso specifico dell’esemplarità del Quijote per la storia di Spagna, si ritrovano intatti, maturati e sviluppati, i grandi frutti raccolti dall’eccezionale Pensamiento de Cervantes del 1925. Essi son riassunti elegantemente nelle pagine del ’60 con l’affermazione, lucida e importante, che conferma quanto ho qui scritto: «Cervantes se inventó un cielo espiritual e inteligentemente cristiano; en él las personas valdrían por lo que eran; y no por lo que resultaran ser después de “espulgarles el linaje”». La «vivencia» di Cervantes e del Quijote si riassume e riassume tutta la realtà investigata nella sua pur rilevata connessione con l’immaginazione, configurante, però, una utopia positiva, concreta. «Cervantes no concibe su obra como una ideal utopía, sino como un despliegue de legítimas posibilidades, de energías antes no utilizadas en la literatura, de la acción combinada de una voluntad cargada de razones, y de un imaginar inteligentemente y poeticamente estructurado»96 in una straordinaria «forma secularizada de espiritualidad religiosa»97. Il processo di secolarizzazione cervantino fa incontrare Castro con un tema che diviene in lui dominante (così come lo era stato nello humboldtiano Historismus delle origini): il rapporto tra mondo interiore e mondo esteriore, che si configura come nuova possibilità e modalità di sistemare le idee fondanti della storiografia di Castro e della sua costante, continua lettura e rilettura di Cervantes. Si tratta di definire le forme e il senso della personalità che fanno il mondo e sono il mondo nella contraddittoria convivenza di un «sueño-farsa» e del suo farsi reale con l’innervarsi del vivere. 96 A. CASTRO, “Apendice” a ID., Sobre lo precario de las relaciones entre España y los Indios (1966), ora in CC, pp. 237-238. 97 ID., Cervantes y el Quijote, in CC, pp. 106 e ss. Poco più avanti ho fatto riferimento ancora a Humboldt per cui rinvio di nuovo alla nota 14.

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Riprendendo, forse anche senza ricordarlo, un fulminante confronto con El Greco suggerito da Ortega, anche Castro riassume il pensiero di Cervantes nella «máxima proeza de reducir a uno los dos planos del Entierro del conde de Orgaz; los armonizó especularmente de tal forma que la ensoñación ilusoria pareciera incluida en la realidad de este mundo». E per la «estructura del Quijote nada vale como un absoluto más allá o un absoluto más acá». Al contrario «se relativizan el uno y el otro» (donde il richiamo dell’eccezionale dipinto di El Greco) «en la más magnánima tregua de Dios que conoce la literatura de Occidente. Aquella tregua, por supuesto, dejaba en sombra sin eludirlos, los “laberintos de dificultosa salida”»98. Ossia il far «reales como cuestionables los propósitos y las metas del propio existir», dinamicizzando «el proceso existencial de la figura individualizada» in «una alternancia de ensanchamientos y atracciones»99, come Castro afferma in un altro testo di questi stessi anni, nel quale la complessità di questo necessario convivere di relatività (e non relativismo come indifferentismo etico) e assolutizzazione si realizza senza cedere nulla della dinamicità del vivere. «La vida – lo que aparece en Cervantes como presencia, tensión, acción y sentido del alma – no es pensable estética y esencialmente». Affermazione specificata precisando che «la razón de la vida historiable – las conexiones de forma y valía – no se hacen presentes cuando el proceso y los resultados del vivir son enfocados cartesianamente o hegelianamente»100. La soluzione cervantina, la soluzione del Cervantes di Castro, opta, decisamente, per una diversa scelta. «Mas lo autentico, y no ficticio ilusorio, fue la firmeza del alma, del taller de la vida, en donde un verbum “apetitivo” se dejó encarnar por un verbum formativo»101. Ivi, p. 106. Ivi, p. 237. 100 Ivi, p. 244. 101 Ibidem. 98

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«El Quijote, por vez primera, plantea y desarolla el problema del hacerse de la personalidad en un simultáneo dentro y fuera del sí mismo», perché «el problema en el Quijote no es el de si es o no fácil lograr lo que se desea, sino si la persona puede llegar a ser quien quiere, debe y merece ser “en esto nuestro detestable siglo”». Dove la già affermata capacità di stare nel proprio secolo contestandolo, specifica il senso, il significato e il valore del cristianesimo secolarizzato del Cervantes quale Castro lo intende e che a me ricorda – non sembri un fuor d’opera – quello storicistico dell’ultimo Meinecke sulla via della religione dello storicismo. «El único señor que no engañaba, era leal con sus súbditos y no “espulgaba” linajes, era el señor del cielo. Cervantes se sabía bien esa lección, pero no encontraba la ciudad de Dios adecuadamente reflejada en la realidad espiritual de cada día»102. Piuttosto «fue así armonizando lo relativo de las circunstancias con lo absoluto del alma, de lo inalienable, no como esencia estética, sino como sostenido dinamismo». «Aquel “raro inventor” entregó al futuro de Occidente la forma literaria cuyo tema iba a ser el vivir como empresa ineluctablemente arriesgada y problemática»103. Insomma, il Cervantes y el Quijote a nueva luz diviene El Quijote, taller de existencialidad (1967). Il centro della storiografia di Castro e dell’europeità di Cervantes nella europeizzazione della Spagna, tema di Castro come di Ortega104. 6. Il breve saggio del 1967 è insieme un rapido riassunto e un lucido approfondimento di una lunga riflessione, che qui innanzi si è cercato di riferire, sia pure per sommi capi rispetto all’uber-

Ivi, p. 119. Ho trattato il tema di Castro cui qui si allude in un vecchio saggio La storia come continuità e rottura (1976) ora nei citati Contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, vol. III, pp. 298-317 (su Castro, pp. 313-317). 103 ID., “Apéndice”, cit., pp. 245 e cfr. ivi, pp. 65, 89 e ss. 104 Devo fare riferimento ai miei scritti su Ortega e Castro, che ora sono, quasi tutti, riuniti nei voll. I e III dei miei Ultimi contributi, già citati (cfr. pp. 165-330 del vol. I e pp. 129-156 del vol. III). 102

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tosa rappresentazione del Castro. Al fine di precisare il valore, la funzione esistenziale del Quijote, lo storico ritorna sull’idea delle “forme letterarie” e ne rileva i limiti rispetto alla corposità delle dimensioni artistiche, che rischiano di sfigurarsi fino a disperdere le intenzionalità e la assiologia quando le forme espressive finiscono per scadere nella forma sistematica d’una realtà fissa e univoca. Ossia precisamente il contrario dell’esistenzialità, che è forma di «azioni individuali, non di qualcosa di fisso e di preesistente»105. Il contrario si dà quando il risultato indica le “possibilità” «multimediali»106, che, come nel gran romanzo di Cervantes, «funzionano verso dentro e verso fuori»107, al fine di «fundir armonicamente los datos de la experiencia objetiva con los de su experiencia subjetiva, con sus vivencias de su vida»108. Per Castro la conclusione è quella di rintracciare un concetto che, ben più che quello di “forma”, esprima compiutamente il «dinamismo interior», non «un esquemático formalismo»109. Questo concetto è quello di «disposición»110, assai vicino alla “circonstanza” orteguiana, che riassume tutta la visione della «experiencia de la vida», già precisata, non a caso, nell’importante saggio del 1960 su Españolidad y europeización del Quijote, da Castro ricercata al fine di «expresar en forma estructurada y plausible el alzarse y derrumbarse de unas vidas humanas, como un proceso interior y en contexto con un conjunto de circunstancias»111, ancora una volta rilevando con decisione proprio in virtù della «disposición/circunstancia», come «el curso dinámico del vivir, haciéndose en enlace con el mundo en torno, es irreductible a conceptuaciones quietas y cerradas»112. ID., El Quijote, taller de existencialidad (1967), in CC, p. 254. Ivi, p. 259. 107 Ivi, p. 255. 108 Ivi, p. 269. 109 Ivi, p. 258 e cfr. pp. 249, 257, 268. 110 Ivi, p. 25. 111 ID., Españolidad y europeización del Quijote (1960), in CC, p. 279. 112 Ivi, p. 285. 105

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Ed allora si impone la domanda: qual è storicamente la «disposición/circunstancia» del Quijote? Castro non esita a rispondere che, per coglierla e intenderla, abbisogna «una nueva filosofía». E però per concepire questa

fue necesario esa virada en redondo del pensamiento europeo para que se percibiera que, tras las capas de homicida o de desilusión, yacía en el Quijote un nuevo y enérgico intento de expresar la realidad del vivir, como un proceso dinámico, angustiado y siempre problemático. Según he hecho ver en La realidad histórica de España y en Hacia Cervantes, las posibilidades para aquel nuevo modo de literatura yacían en la misma tradición del pensamiento español, de un pensamiento cuya raigambre he puesto de manifesto al sacar a luz la textura islámico-semítica de la vida española113.

Quali sono, dunque, i caratteri di questa «nueva filosofía»? Per Castro, non ignaro del (e non isolato dal) contesto della cultura filosofica del XIX secolo114, per stabilirli bisogna domandarsi qual è la storia di Spagna cui bisogna guardare, assumendo, polemicamente, «un nuevo punto de partida»115. L’importante tematica centrata nella connessione tra «ipseidad» e europeizzazione della Spagna è di certo comune a Ortega e lo è, in specie, nella dimensione polemica contro una lettura mitica e ideologica della storia spagnola. «El español no supo manejar su historia (es inútil cerrar los ojos o falsificarla burdamente) y se ha dejado aplastar por ella. De ahí su aldeanismo, su retraso económico e intelectual, su posición aislada en Occidente»116. Non molto lontano da Ortega vanno altresì, nello specifico, le due esplicazioni del problema. S’è visto l’intento di Ortega da Castro richiamato prevalentemente per il cosiddetto Ivi, pp. 290-291. Cfr. ivi, pp. 281 e ss. 115 ID., Como veo ahora el Quijote (1971), in CC, p. 360. 116 ID., Cervantes y el Quijote, cit., p. 92. 113

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«tibetizarse» della Spagna, in conseguenza dell’espulsione di “moros” e di “judíos”, con conseguente chiudersi nella percezione «de los limpios de sangre». Da qui l’erroneità di quanti, storici o non storici, ritengono e hanno ritenuto «que España estuvo siempre a tono con Europa». Invero, commenta Castro «ni lo estuvo ni lo está», richiamando Ortega, il quale, con chiarezza, vide «– oponiéndose tácitamente a los modos usuales de juzgar a España – que en donde la Contrarreforma “fue nociva, no lo fue por ella misma, sino por su coincidencia con algún otro vicio nacional [...] causó daño definitivo, precisamente en el país que la emprendió y dirigió”». La Contrarreforma coincidió con una enfermedad terrible que se produjo en nuestro país, coincidendo, de modo sorprendente, con la [época] del concilio de Trento, órgano de aquella. Esta enfermedad fue la hermetización de nuestro pueblo hacia y frente al resto del mundo, fenómeno que no se refiere especialmente a la religión ni a la teología ni a las ideas, sino a la totalidad de la vida117.

Per Castro, tuttavia, il discorso non può fermarsi qui, è più complesso e riguarda una precisa concezione della esperienza vissuta, dove è presente l’insegnamento di Dilthey118 fino a tingere di sé i princìpi della storiografia del maestro spagnolo, interprete di Cervantes dentro il quadro di questa storia da perseguire e perseguita tenacemente in nuova luce. Nel saggio del 1960 Castro ricorda il Quijote119, precisamente ciò che «respondió don Quijote» a una domanda intrigante di un «labrador: “Yo sé quién soy y sé que puedo ser”», e commenta: «El ID., Más sobre el pasado de los españoles (1966) [già introduzione alla ed. de La realidad de la historia di España, con aggiunte], in CC, p. 182; e cfr. ID., La Celestina como contienda literaria (1965), in CC, p. 419; Cervantes y el Quijote, cit., p. 125, nonché Españolidad…, cit., p. 290. 118 ID., El Quijote taller de existencialidad, cit., p. 274 nota, ed anche La Celestina…, cit., p. 410. 119 M. DE CERVANTES, Don Quijote, cit., I, 5, vol. I, p. 138 (tr. it. p. 52). III

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“puedo ser” significa “puedo hacer y valer tanto como los grandes personajes”, citati nell’interrogazione «quien no hace más que otro, no vale más que otro si no hace más que otro, hacer significa “dotar a algo de una dimensión de valía”»120. Seguendo Cervantes (che il “secondo” Castro innova rispetto al “primo” del Pensamiento «pensado hace unos cuarenta años, y publicado hace treinta y cinco»121), lo storico ritiene di dovere sottolineare come «el móvil atraente» della vita, che «es la preocupación de mantenerse siendo-valiendo como uno que se sabe que es y vale! Este modo de representarse la realidad del hombre como un hacerse» è la vera conquista della modernità e di Cervantes che «no era ni poco inteligente, ni ignorante, ni tampoco privado de conciencia de lo que hacía»122. In tal senso, come insegna la «nueva filosofia» inaugurata nel XIX secolo dalle correnti delle filosofie della vita – che Castro richiama anche nelle pagine cervantine degli anni ’60 non meno che ne La realidad histórica de España del 1948 – l’attenzione va portata sul «fluir vital», sulla «realidad cambiante»123 che vengono fuori dal Quijote, consentendo all’interprete di ritrovarvi gli «antecedentes hispano-semíticos» grazie ai quali può sostenere che «la morada vital» dell’opera è quella per cui «todo es desliz y corrimiento», perché la «realidad del hombre» è «transiente e indetenible preocupación, no […] una esencia». La realidad del hombre civil es un proceso que acontece entre un motivo eficiente y un motivo final. Presenta, come riesgo común y unificante, una negación: la necesidad de despreocuparse, de no estar preocupado. La preocupación es un mal, existe en el vacío creado por la carencia de aquello que se persigue; algo buscado y no poseído. Lo único bueno, firme y seguro es dirigirse “hacia Dios

Ivi, I, 18, vol. II, p. 95 (tr. it. p. 162), nonché I, 1, vol. I, pp. 54 e ss. (tr. it. pp. 22 e ss.). 121 A. CASTRO, Españolidad y europeización, cit., p. 296. 122 Ibidem, dove ritorna la polemica del Pensamiento contro Cervantes «ingenio lego». 123 A. CASTRO, La Celestina…., cit., p. 410. 120

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con obras útiles para la vida futura” [come insegnava il musulmano Ibn Hazan]124.

Or bene, non è compito di questa breve riflessione accertare la fondatezza delle proposte di Castro, di certo assai suggestive, originali, acute al di là della loro stessa fondatezza storiografica, che, peraltro, non intendo contestare. Ciò che conta qui è segnalare l’importante lettura del Cervantes “dentro” la Spagna e “fuori” di Spagna nel contesto d’una ricercata, auspicata europeizzazione, che risolva finalmente mitiche “ipseidades” serrate in una impossibile, antistorica “limpieza de sangre”. Contro tutto questo, con nobile e positiva intenzionalità etica e storica, Castro lottò, in spirito orteghiano anche quando diversamente da Ortega, e grazie a questo impegno, lucido e generoso, egli innovò la lettura della storia di Spagna e respinse le interpretazioni tralatizie del Cervantes, quali che siano state e ancora siano le reazioni, specie della cultura spagnola, almeno quella ancora chiusa in un ideologismo conservatore quando non reazionario. I saggi cervantini fin qui seguiti lo dichiarano, con consapevole tenacia. Lo que fuera de España se resolvió en ideas claras sobre el hombre y la naturaleza, quedaría fuera del ámbito de la cultura española […] lo que sí le quedó muy dentro fue la conciencia de su difícil existir, no como algo genético y por encima del tiempo, sino como resultado particularísimo […] de sentirse trifurcado come hispanocristiano, hispano-judío e hispano-musulmán. Lo que fuera de España existía como contraste y desnivel entre el noble y el pedrero, el rico y el pobre, el sabio y el ignorante, en una disposición vertical y autorizada por los siglos, para el español valía como radical conflicto entre modos de existir, de estar constituido el último tejido de su vida125.

124 Cfr. CC, pp. 299, 301, 303, 305, che sono di vari saggi già citati tutti compresi nel volume complessivo fin qui seguito. 125 Ivi, p. 310 e cfr. p. 312.

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«Cervantes llevó a cabo la proeza de alejarse literariamente de la angustiosa y estrechada realidad de su España, sin perder contacto con ella»126. «Don Quijote entabló singular combate con la España de su tiempo, ¿sin nunca incurrir en la ingenuidad de sacar a don Quijote de su papel de intermediario, de “entreverado loco”?»127. È «muy difícil separar en don Quijote lo que en él hay de absurdo e insensato, del latente propósito de hacerlo instrumento para dar aire a finalidades de otro modo imposible de expresar en aquella España». Tuttavia, una figura literaria surgió como una potente afirmación, dialécticamente coordinada con unas circunstancias tendentes a destruirla. La existencia de un ser humano fue estructurada literariamente como un existir y un hacerse, ineluctablemente trabados con las resistencias que dificultaban tal propósito. El invento genial consistió en situar en las páginas de un libro un loco, que lo era y no lo era, frente a una sociedad mal preparada para juzgarlo y quitárselo de encima128.

A la larga algunos europeos de alta calidad, a favor de profundas mutaciones intelectuales entre los siglos xVII e xIx, comenzaron a percatarse de que en las narraciones o descripciones de la vida de los mortales, importaba menos lo vivido que la figura de quien lo vivía […]. La concepción cervantina de la vida como una irregularidad llena de saltos y contradicciones, afectada más por el incalculable mundo en torno que por las ideas o categorías ya establecidas, posibilitó obras hoy admirables.

E Castro cita La certosa di Parma, L’idiota, Fortuna e Giacinta129. In nome di queste grandi esperienze europee e spagnole, lo storico può confidare nella «posibilidad de un equilibrio entre Ivi, p. 315. Ivi, p. 342. 128 Ivi, p. 371 e cfr. pp. 251, 367. 129 Ivi, p. 372. 126 127

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Ortega, Castro e il Quijote

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las fuerzas del poder y del deber ser», avvalendosi del Discurso de las Armas y las Letras magistralmente pronunciato da don Quijote, per concludere così: «Si ambos hubieran podido armonizarse, España se habría orientado hacia Occidente y no hacia la aislada soledad de su sí mismo»130. A rompere questa solitudine, che aveva portato entrambi gli studiosi fuori della loro terra, Ortega e Castro pensarono costantemente e operarono tenacemente forti delle loro diverse Meditaciones del Quijote, che sono entrambe un grande documento della grande cultura spagnola nella e per la grandezza dell’Europa. A ciò serve – a me è servito – tornare su queste pagine eleganti, fascinose, generose, profonde, nobili per valore intellettuale e civile eticamente coltivato, non ideologicamente strumentalizzanti per la loro rigorosa scientificità, appunto per capire e vivere meglio la grandezza della libertà europea, quella fatta di rispetto e non di imposizioni, di senso del “limite” e non di aspirazione all’“assoluto”. La libertà della Storia progressiva, non quella negata dalle ottusità dei conservatori e dei reazionari. I veri nemici della “tradizione” della storia, che, mentendo, dicono di servire131.

Cfr. ivi, pp. 310, 312, 343, 345, 371 e pp. 251, 367, 372, 375. Ringrazio il Dott. Armando Mascolo che con pazienza ha curato l’editing di questo lavoro. 130 131

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Indice

05 11 31 49 67 91

Introduzione Giuseppe Cacciatore e Clementina Cantillo

Romanzo, teoria e circostanza nelle Meditazioni del Chisciotte Manuel Barrios Casares

Il posto della parola: lo stile filosofico di Ortega tra meditazione e saggio Giuseppe Cacciatore «Salvar las apariencias»: tra amore e logica Clementina Cantillo

Il bosco e la ginestra ardente. Appunti su poesia e realtà nelle Meditazioni del Chisciotte Pedro Cerezo Galán Testo e contesto nelle Meditazioni del Chisciotte Luis de Llera

125 Le radici moderniste delle Meditaciones del Quijote di Ortega y Gasset Gianni Ferracuti

151 Le Meditaciones del Quijote nella genesi della “ragione vitale” José Lasaga Medina

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Omaggio a Ortega

175 La “selva ideale” del Chisciotte. La traduzione di hyle e morphé nelle Meditaciones María Lida Mollo

203 Il Chisciotte come un trattato sulla realtà. A partire dalle Meditazioni del Chisciotte Javier San Martín

227 Ortega e il Chisciotte. Prospettive filosofiche Armando Savignano 239 Ortega e la filosofia del Sud José Manuel Sevilla

275 Ortega, Castro e il Quijote Fulvio Tessitore

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Filosofie europee

José Ortega y Gasset, Meditazioni del Chisciotte e altri saggi, a cura di Giuseppe Cacciatore e Maria Lida Mollo

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