Nel labirinto
 978-88-339-2794-7

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Karoly ,

KERENYI NEL LABIRINTO

Gli aspetti simbolici, letterari, mitici e rituali della più straordinaria metafora della riflessione e della ricerca

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•*•* � I Grandi Pensa tori . .. . .



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Nel labirinto- Nei saggi raccolti in questo volume, Kerényi illumina i molteplici aspetti (simbolici, iconografici, letterari, mitici, rituali) attraverso cui prende corpo, così nelle culture preistoriche come in quelle antiche, medievali e moderne, la forma originaria del labirinto: segno enigmatico che ha affascinato e ossessionato il pensiero religioso, ma anche quello filosofico, psicologico, artistico, di ogni epoca. Per Kerényi l'immagine del labirinto va ricercata in una danza rituale e memoriale, viaggio iniziatico giù agli inferi, nel cui buio mistero occorre affondare per apprendere il moto del ritorno, la via della riemersione alla luce. Il viluppo di percorsi spezzati, con cui il mito greco volle raffigurare il misterioso teatro della lotta di Teseo contro il Minotauro, diviene così la più straordinaria e luminosa metafora della riflessione e della ricerca. Karoly Kerényi (1897-1973), ungherese di nascita, è stato uno tra i più illustri interpreti del pensiero mitologico e filosofico antico, e tra i più autorevoli storici delle religioni classiche. Tra le sue opere apparse presso Bollati Boringhieri, in questa collana sono disponibili: Prolegomeni allo studio scientifico della

mitologia, con C. G. Jung (2012), Figlie del sole (2014) e Miti e misteri (2017).

Progetto graf1co: Catoni Associati www.bollat1bonngh1er1.1t

€ 13,00

Karoly Kerényi

Nel labirinto A

cura di Corrado Bologna

Traduzione di Leda Spiller

Bollati Boringhieri

Prima edizione ne «l Grandi Pensatori» giugno 2or6

Per i capitoli 1-3: © Klett-Cotta- ].G. Cotta'sche Buchhandlung Nachfolger GmbH, Stuttgan Per i capitoli 4-6: © The Estate ofKaroly Kerényi, Erlenbach, Switzerland. Pubblicato in accordo conKlett-Cotta - ].G. Cotta'sche Buchhandlung Nachfolger GmbH, Stuttgan Per i titoli originali si veda la Nota sulle fonti © 1983 e 2016 Bollati Boringhieri editore

Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86 Gruppo editoriale Mauri Spagnol ISBN

978-88-339-2794-7

www.bollatiboringhieri.it Stampato in Italia da Press Grafica - Gravellona Toce

(VB)

Anno 2019

Edizione 2018

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INDICE

Introduzione di Corrado Bologna

l

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Studi sul labirinto: il labirinto come disegno-riflesso di un'idea mitologica Appendice

31

Serpenti e topi nel culto di Apollo e di Asclepio

'J

Dal labyrinthos al syrtos: riflessioni sulla danza greca

106

3

Aretusa: figura umana e idea mitologica

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L'origine della religione di Dioniso allo stato attuale delle ricerche

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5

La Signora del Labirinto

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6

Creta sacra

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Nota sulle fonti

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Bibliografia

185

AVVERTENZA BIBLIOGRAFICA l nomi d'autore seguiti da data, citan m nota, rimandano alla Bibliografia alla fine del volume. Nel caso di opere di cui esiste la traduzione italiana, la data indica l'edizione originale, mentre i numeri di pagina rimandano alla traduzione.

Introduzione: Kerényi nel labirinto Corrado Bologna

Noi preferiamo le vie tortuose per arrivare alla veritl. F.

Spesso la filosofia non

è

K.

Nietzsche. Ecce homo

ahro che il coraggio di entrar� in uo labirinto. K.raus,

Pro

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Mundo

l. Nel labirinto la cultura occidentale si aggira fin dalle or1gm1. Anzi: le stesse origini di quella cultura che è possibile definire "occidentale", le sue immagini di identità e di alterità, i segni varie­ gati del suo cercarsi trovarsi perdersi ritrovarsi, i miti che quella vicenda storiografica e ideologica condensano narrativamente, sono conservati nel labirinto. "Essere" e "muoversi" nel labirinto è un binomio che costituisce anzitutto una condizione di esistenza e un progetto di sopravvivenza. E diviene poi una modalità di proiezione simbolica, uno schema di autorappresentazione a cui l'idea del labirinto fomisce la struttura di supporto mitico-figurale. In primo luogo dunque "ci si trova" nel labirinto, ed occorre "muoversi" lungo il percorso in cui esso si distende, "puntando al centro" per poter "risolvere il problema"; e subito dopo "cercando una via d'uscita" per sfuggire alla logica stessa di quella ricerca. Questo è il fondamentale mitologema di origine religiosa, elabo­ rato in forma di racconto e di immagine entro le più antiche civiltà mediterranee e articolato in molteplici varianti attraverso tutta la mitografia antica, medievale e modema. Quel mitologema è stato molte volte, sebbene con vari esiti, analiz­ zato nei dettagli e ricostruito nella coerente totalità del suo senso dalle discipline archeologiche, storico-religiose e storico-letterarie, linguistiche, iconologiche.1 E non sarà dunque neppure necessario rievocarne interamente il movimento narrativo, che è notissimo: e che, oltretutto, rischia di distogliere l'attenzione dal fulcro tema­ tico-figurale (il segno, il mito, l'immagine del Labirinto), per dislo­ carla sulle molteplici "funzioni" letterarie del racconto mitico (i personaggi, l'intreccio delle loro gesta, i presupposti e le conse­ guenze). La minaccia, in altri termini, è di perdere di vista l'unità

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complessiva delle sfaccettature, lasciandosi attrarre dalle vicende delle singole narrazioni inglobate nel mito, o almeno nella forma più completa e complessa che il mito assume. Si rischia, cioè, di seguire le molte "storie" nel loro dipanarsi e intersecarsi, smarrendo il filo continuo che ne fa una sola "storia". E come si vede, ben al di là di un puro gioco di parole questo è già un problema labirintico. Si potrà comunque ricorrere - chi desideri elementi puntuali e sintesi illuminanti - all'ampio respiro di Plutarco, erudito ·quanto moralista e pessimista, il quale in un passo giustamente celebre (Thes., 15-21, pp. 6c-9e) riuscì a coagulare in una sola arcata nar­ rativa le testimonianze antiche, incorporando così in un compatto edificio testuale le più svariate stratificazioni mitiche: quasi a voler restituire l'infinita complicazione della figura-labirinto attraverso le sinuosità e le contraddizioni della scrittura, collage di fonti e di opinioni contrastanti. Oppure si riapriranno i forzieri dei grandi enciclopedisti antichi: Diodoro Siculo (Bibl., I 61 sgg.), Plinio (Nat. hist., XXXVI 85 sgg.), Apollodoro (Bibl., III l ed Epit., I 9 sgg.), Isidoro di Siviglia (Etym. XV 2, 36); o si scaverà tra le pieghe profonde di quei cripto-enciclopedisti sapienziali che sono i poeti eruditi, i quali conservano talora, sotto il ghiaccio mirabil­ mente compresso dei versi, fossili mitografici ed ossature di tradi­ zioni non altrimenti recuperabili dopo il naufragio della cultura antica: Virgilio (Aen., V 588 sgg. e VI 14 sgg.), Ovidio (M et., VIII 151-259), ma anche l'arcaicissimo Omero (Il., XVIII 590 sgg.), con i loro scoiiasti mirabilmente imbevuti di dottrine rare. Ben al di là delle sue valenze puramente religiose, peraltro, il mitologema labirintico disegnò fin dalle origini più lontane una traccia importante nella storia della cultura europea in quanto

modello astratto della congetturalità,2 della forma stessa del pen­ siero dialettico: di quel pensiero, in altri termini, che supera gli ostacoli aggredendoli, non rimuovendoli o scavalcandoli; che lotta contro l'imprevisto elaborando progetti sempre adeguati alla meta e alla necessità, mai ripetitivi, bensì elasticamente speculari e in­ sieme deformanti rispetto all'oggetto della competizione. A quel pensiero gli antichi diedero il nome di metis:3 capacità di aderire solidalmente alla realtà in maniera complice, camaleontica, ambigua, duttile: quella forza illusionistica, quell'astuzia e plasticità consen­ tono la vittoria appunto là dove nessuna soluzione o scioglimento si farebbe strada nell'intelletto comune. Come Dedalo, l'ingegnoso artefice che lo ideò per celare la verità eccessiva e minacciosa del Minotauro (ma anche !'"altra" verità, altrettanto indicibile e segreta, che si conquista solo con l'attraver­ samento del percorso aggrovigliato e sempre interrotto): come quel Dedalo da cui prende nome (daidalon),4 il labirinto condensa in sé la metis, la congetturalità capace d'inganno e di malizia in cui è

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già implicita la paradossalità, l'estensione della logica stessa su cui poggia "fino al limite" del possibile, e perfino il suo decisivo rove­ sciamento, la svolta conclusiva che consente di "tornare sui propri passi" sani e salvi. E proprio su questo piano il mitologema labirintico si apre a una più larga misura, ad un orizzonte anche filosofico ed ermeneutico, fin dalle origini intriso di sacralità e di pericolosa prossimità alla verità ed alla morte, giacché "morte" e "verità", coincidenti, atten­ dono nel cuore del labirinto l'arrivo dell'eroe dotato di metis, sagace quanto aggressivo, enigmatico perché dialettico. Nella sua filigrana mitico-religiosa traluce allora in tutto lo spessore quella che con Blumenberg5 potremmo senza azzardo eccessivo chiamare "meta­ fora assoluta": una struttura metaforica irriducibile a termini stret­ tamente logici e concettuali, schema antropologico radicale la cui illuminazione consente l'analisi di ampi spazi dell'immaginario col­ lettivo. In quanto metafora "assoluta", il labirinto incarna lo schema dialettico originario, l'arcaica e violenta associazione della dialettica e della morte, che la cultura greca fissò nella relazione inquisitoria di Edipo con la Sfinge e nel mito della morte di Omero il quale, incapace di sciogliere l'enigma terribilmente innocente propostogli da alcuni pescatori nell'isola di Io (banalissimo enigma, si badi: e tanto più tragico nell'esito, quanto più è inessenziale la materia della sfida), "morì per lo scoramento" (Eraclito, fr. 56 Diels-Kranz). Il labirinto evidenzia cioè nella sua stessa forma figurale, in quanto metafora assoluta che si sostanzia di un retroterra religioso e mito­ logico, la struttura del congetturare dialettico, di quel mirare alla fine del processo ermeneutico come al proprio fine, implicito nel viaggio-verso-il-centro e nel viaggio-di-ritorno di Teseo come in tutte le successive varianti del mitologema. Così l'interpretazione, il dis-correre dialettico da una svolta del­ l'argomentazione alla successiva, sempre seguendo un medesimo per­ corso e sempre credendo di variarlo, è il filo d'Arianna che il logos fornisce alla riflessione occidentale. L'arcaica crudeltà dell'enigma, di cui nel mitologema labirintico rimangono molteplici tracce (il Mostro divoratore, i giovinetti immolati, il coraggioso avventurarsi del guerriero-sapiente nel viluppo di percorsi ingannevoli, l'ucci­ sione del Signore del segreto, l'uscita e poi il suicidio del Padre per la dimenticanza del nodo enigmatico delle vele bianche o nere), si cerebralizza nella dialettica, ammorbidisce la sanguinosa durezza delle origini: "la vittoria non viene più colta nell'attimo ebbro dello scherno, ma deve dipanarsi attraverso il groviglio dell'argomenta­ zione" .6 In fondo, "il sapiente è un guerriero che sa difendersi": 7 e Teseo è il prototipo del guerriero-sapiente il quale sa avanzare nel tortuoso cammino di conoscenza e di verità che lo conduce al con­ fronto con lo sfingeo Minotauro, padrone del Centro (così del labi-

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rinto come del sapere): egli è un saggio che sa difendersi perché attacca, e perché ha appreso a trasferire la sapienza tutta in prassi e in azione di conquista. ·La più profonda verità del labirinto è che occorre un sapiente interprete perché il suo nodo enigmatico venga sciolto, e tradotto in un filo dialettico; che quello "scioglimento" è una battaglia, la cui posta è da una parte la morte, dall'altra la conoscenza; e che pertanto il sapiente è un eroe, un combattente, cui si richiede di non lasciarsi ingannare, e anzi di sconfiggere l'inganno con le sue stesse armi: ossia, di ingannare l'inganno smascherandolo e trovando il centro su cui far perno dapprima, la "via d'uscita" poi. In questo senso l'enigma, la divinazione, l'attraversamento del labirinto, il processo misterico-iniziatico, l'argomentazione dialettica del filosofo e la diagonale, accorta strategia del politico, sono ricon­ ducibili ad uno stesso schema archetipico ed ermeneutico. In quel luogo di contraddizioni che è il mitologema labirintico (luogo della contraddizione medesima, anzi, e della contraddizione emblema simbolico-iconografico) dietro le divaricazioni letterarie e le sfumature interpretative, s'intuisce una solida, coerente griglia di senso, metaforica e mitologica insieme. E la dispersione dei sin­ goli tratti, che ha ingannato più di un interprete, può in tal modo venir risarcita dall'individuazione dei grandi nodi problematici at­ traverso cui il mitologema labirintico vive. 2. Appunto a "ricucire" questo percorso slabbrato del mitologema labirintico, e a indicare i punti nascosti di sutura fra il momento mitico-religioso c quello metaforico-filosofico o simbolico-iconogra­ fico si è applicato Karoly Kerényi, nei vari saggi elaborati nell'arco di un ventennio circa, e che qui presentiamo reintegrati in unità. Al primo studio, del 194 1, facciamo seguire interventi occasionali e contributi non specificamente specialistici, nei quali Kerényi ri­ propose arricchite e perfezionate le idee-base esposte nel lavoro inaugurale: ogni scritto è quindi contemporaneamente autonomo e agganciato in una catena di filiazione genetica ai precedenti e ai successivi, con una uniforme densità ermeneutica che si articola distendendosi quasi a volute, o si vorrebbe dire "a spirali", da un saggio all'altro. Da questa coincidenza formale tra il problema e la sua cristalliz­ zazione scientifica e letteraria non si può non venir attratti imme­ diatamente: e questo è già un primo elemento (letterario appunto, o stilistico), che la consuetudine con le pagine di Kerényi a poco a poco ammorbidisce, ma che rimane un tema su cui val la pena di riflettere. E parimenti vale la pena di soffermarsi in una sorta di "foto ai raggi X" del pensiero di Kerényi in cerca delle sue Tadici occulte, e finora scarsamente svelate,8 affondate nel pensiero

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Il

filosofico, etnologico-antropologico e storiografico del primo No­ vecento. Mai fin qui tentato sistematicamente, tale scavo archeolo­ gico (del quale queste pagine non potranno ovviamente che segna­ lare la traccia generale) potrebbe riservare sorprese straordinarie, e consentire ad ogni modo di strappare la lettura della ricerca kerényiana agli scontati e insignificanti schemi fin qui invalsi (irra­ zionalismo, antistoricismo fenomenologico ecc.), proiettandola per lo meno nel suo naturale orizzonte di riferimento: quello della grande cultura europea fra le due guerre. Chi affronti la lettura degli studi raccolti in questo libro seguendo lo stesso progetto fondamentalmente "filologico" che è stato del curatore e che con ogni probabilità Kerényi, avvezzo a manipolare e re-impaginare i suoi studi secondo un'idea-guida sempre nuova, avrebbe amato, s'accorgerà subito che per Kerényi il problema­ labirinto è tutt'altro che un tema di pura riflessione storico-religiosa e scientifica. Le molte pagine kerényiane dedicate al rapporto fra letteratura, arte e mitologia (ad esempio lo scambio epistolare con Thomas Mann, le ricerche sul nesso tra psicoanalisi e scienza mitologica, i saggi su Freud, Jung, Heidegger, Mann stesso, Hofmannsthal, Rilke, Omero e Holderlin)9 indicano come nessun problema per Kerényi fosse mai scevro da coinvolgimenti personali, teorici o estetici. Anzi, in un senso che è profondamente greco, e altrettanto profon­ damente legato al discorso sul labirinto e sull'enigma su accennato, ogni problema è per Kerényi, etimologicamente, qualcosa che si "getta in avanti", un ostacolo da superare con quello stesso stile festivo, gioiosamente ed eroicamente teséico, con cui si affronta il viaggio nel labirinto. Quell"'oscura sorgente della dialettica" che Giorgio Colli ha mostrato a dito nella gemellarità arcaica del pen­ siero filosofico e dell'enigma religioso-misterico riemerge fin dalla primissima pagina kerényiana sul tema labirintico. La ricerca è so­ prattutto mistero da affrontare in senso iniziatico. In greco, il verbo muein, da cui dipende il sostantivo mysterion, accenna al "raggiun­ gimento del centro", al "completamento", prima ancora che all"'ini­ ziazione" come "cominciamento": il mistero che è nel labirinto è fin dall'inizio per Kcrényi il suo centro, la sua fine. f. quel luogo in cui si contiene la conoscenza, il cui possesso richiede morte e rinascita. Il più delle volte, sostenne a chiare lettere Kerényi stesso nella prefazione a Niobe, una questione scientifica si apre strade inattese, così nella mente dell'autore come in quella del lettore: e si tra­ sforma in un labirinto, ne assume le fattezze enigmatiche-dialettiche richiedendo alla pazienza di chi legge di ripercorrere con coraggio le stesse sinuosità di chi ha scritto, "quasi attraversando le svolte e i viluppi di una spirale", per potersi accostare al "punto centrale" .10

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Non sarà difficile, peraltro, pur aderendo alle seduzioni e alla forza suasiva dell'argomentare kerényiano, non ammettere almeno come naturali i dubbi espressi da uno fra i più intelligenti e insieme più costruttivamente critici fra i discepoli di Kerényi, Angelo Brelich: il quale, nel ripensare per intero le basi teoriche del maestro,11 segnalava !"'originario stato di fusione" ( VeMJJobenheit) fra uomo e mondo, fra soggetto ed oggetto dell'ermeneutica, come il rischio di maggior momento nella metodologia kerényiana. E precisamente quel concetto proveniva a Kerényi da un'ampia tradizione culturale mitteleuropea, filosoficamente incentrata nella prospettiva della fe­ nomenologia e riverberata sul piano scientifico nelle scuole di Leo Frobenius e di Walter F. Otto. Anche il ricorso alle testimonianze dei poeti accanto a quelle della tradizione classica, e con il medesimo peso di autorità, notava al­ trove lo stesso Brelich,12 al pari dell'insistenza sull'idea di "contatto" o "familiarità" con la materia di studio, cela pericoli di estetismo, aggravato dal procedimento "rapsodico" della scrittura. Ma a ben vedere, quel che a Kerényi sta davvero a cuore non è l'accertamento filologico dei dati, bensì, mediante un criterio che egli stesso definì "filologia esistenziale", l'accostamento a quel­ l"'uomo segreto" di cui a suo avviso la scienza mitologica deve dive­ nire ricerca ed analisi, e di cui i poeti, prima e meglio degli scien­ ziati, conoscono i tratti. Nel movimento iniziale degli Studi sul labirinto, comunque, è anche possibile intravedere una certa qual volontà di distinguersi dalla metodologia psicoanalitica, e in particolar modo da quello Jung cui Kerényi andò accostandosi appunto nel torno d'anni che vide la nascita della collaborazione nei Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia (1942) ed insieme la gestazione degli Studi sul labi­ rinto (che proprio a Jung sono dedicati). Un identico distinguo, nonostante molte dipendenze teoriche ammesse a chiare lettere, Ke­ rényi lo ribadì implicitamente lungo tutto il libro nei confronti di Otto e di Frobenius, i due grandi maestri della sua gioventù. Non ci dilungheremo qui sui rapporti, variamente intrecciati, di Kerényi con questi due grandi studiosi.13 Quel che si potrà invece rilevare è il distacco sempre più deciso di Kerényi dalle posizioni dei due: quello dalle prospettive di Otto si compirà con forza a par­ tire da Niobe e si maturerà appieno negli anni subito successivi agli Studi sul labirinto, scandendosi in un processo di abbandono fatto di caute distinzioni, di messe a fuoco, di sfumate prese di posi­ zione;14 più lento invece fu l'allontanamento da Frobenius, come mostra anche la persistenza, lungo l'intero arco dell'opera kerényiana, di alcune sue categorie fondamentali. Ad esempio, la persistenza dell'idea di Ergriffenheit: ossia l'enigma­ tico, oscuro "essere afferrati", l'essere dominati e guidati da una

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verità che supera l'intelletto e la stessa ricerca scientifico-problema­ dca, per affondarne le radici e le ragioni nelle profondità buie del non-cosciente. L"'essere afferrati" è dunque essenzialmente un "es­ sere posseduti", un "essere invasi". E non sarà forse estraneo al pensiero di Kerényi un oscuro, profondo legame dell'Ergriffenheit con l'arcaica "rete" ingannevole del grifos greco, entro cui la metis avvolgeva e legava le sue prede, al modo esatto delle spirali e delle mille vie del labirinto. Un simile stato di assoluta soggezione rispetto all'oggetto erme­ neutico è legato all'individuazione di un prototipo simbolico del Weltbild, ossia di una sfera complessiva di esistenza e di realtà. Anche il concetto di "prototipo" (Urbild) eserciterà nel pensiero kerényiano degli anni di studio intorno al tema del labirinto un ruolo scientifico decisivo, in ispecie nell'individuazione sempre più netta d'un rapporto con la "psicologia del profondo" junghiana, che proprio allora (fra gli anni trenta e quaranta) introdusse, con forte insistenza teorica, il concetto e la funzione di "archetipo". E parallelamente, l'interesse per i problemi dibattuti dalla filosofia husserliana si accrebbe in Kerényi, attraverso la frequentazione del gruppo riunito da Leo Frobenius intorno al progetto di una "mor­ fologia culturale" sistematica, dapprima a Monaco di Baviera (dal 1922 al 1925), quindi (a partire da quell'anno)·a Francoforte. Adolf Jensen, ad esempio (un autore i cui risultati Kerényi uti­ lizzò con larghezza anche negli Studi sul labirinto) mantenne alla base del proprio pensiero il concetto di Ergriffenheit, definendola, con terminologia schiettamente tipica di Frobenius, una "sospen­ sione",15 quasi una "messa fra parentesi" fenomenologica, di stampo squisitamente husserliano, della scienza e dei suoi criteri di accer­ tamento della verità. Così per Kerényi l'Ergriffenheit è, nel destino dello scienziato, la radice non-scientifica della scienza, la recondita intentio che muove la sua fatica. Non è lo scienziato a "scegliere" per ragioni strettamente disciplinari il proprio tema di studi: al contrario, "la sensazione fondamentale dell"essere afferrati' è che la verità ci sce­ glie, e non già che siamo noi ad aver scelto la verità. Ma è appunto questa sensazione di 'venire scelti' a indurci nel contempo ad assu­ merci le nostre responsabilità" .16 La complementarità delle posizioni kerényiane rispetto a quelle della filosofia e della ricerca antropologica-etnologica del periodo fra le due guerre è lampante, e permette di toccare il cuore del punto di vista che presiede agli Studi sul labirinto. Né sarà casuale che proprio su "Paideuma", la rivista del Frobe­ nius-Institut sul cui primo numero Jensen pubblicò le sue idee fenomenologiche, al momento della commemorazione del maestro scomparso, Kerényi abbia stampato qualche anno più tardi un'assai

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notevole messa a fuoco delle categorie di "archetipico" e di "cul­ turtipico" che gli derivavano rispettivamente dalla riflessione jun­ ghiana sugli "archetipi" psicologici, articolata come s'è detto già nei primi anni Trenta, e da quella francofortese sulla "morfologia culturale" in campo etnologico (Adolf Jensen, Ewald Volhard, Io stesso Frobenius) e in campo "classicistico-umanistico" (Walter F. Otto, Karl Rheinardt e altri).17 Negli Studi sul labirinto, nel lavoro su Hermes (1943) inserito poi nel 1949 in Miti e misteri accanto, fra l'altro, a un saggio su Immagine, figura e archetipo, del 1946; e soprattutto nell'impor­ tante lavoro teorico Umgang mit Gottlichem (1955) i punti di vista psicologico ed etnografico confluiscono in un ripensamento globale dei problemi di metodo su cui si fonda la ricerca storica. 3. Ancora una volta la contiguità, anzi la solidarietà addirittura genetica, tra la riflessione kerényiana e il complessivo dibattito culturale europeo (nonostante le aspre contraddizioni e le pole­ miche acri, in cui egli stesso non sempre riuscì a vedere la "giusta strada" con equilibrata chiarezza) dimostrano quanto profondo e decisivo sia stato l'apporto di Kerényi, in veste di protagonista di primissimo piano, al grande progetto di quella che in anni recenti Giorgio Agamben, scrivendo di Aby Warburg (un altro grande Padre riemerso solo molto in ritardo dai labirinti del nostro oblio), definiva "scienza senza nome". Quel progetto mirò alla maturazione di una "futura 'antropologia della cultura occidentale' in cui filologia, etnologia, storia e bio­ logia convergano con una 'iconologia dell'intervallo' in cui opera l'incessante travaglio simbolico della memoria sociale"; e in quel progetto radicalmente antropologico, e radicalmente labirintico, il nome di Aby Warburg può stare accanto "a quelli di Mauss, di Sapir, di Spitzer, di Kerényi, di Usener, di Dumézil, di Benveniste e di molti, ma non moltissimi, altri" .18 Ben al di sotto delle presupposizioni di "identità" fittizie Kerényi lanciò un'arcata problematica che s'affaccia alle estreme regioni del sapere modemo in sintonia sostanziale, spesso in straordinaria "risonanza" (per impiegare un termine a lui caro) con le esperienze e con i sondaggi effettuati in tutt'Europa. lndiscutibili la sua origi­ nalità, l'intemperanza magari, talora anche l'insofferenza e l'incom­ prensione per le altrui ragioni; altrettanto certo, però, che Kerényi sta stretto nella prospettiva strettamente "fenomenologica" in cui troppi esegeti e troppi detrattori hanno preteso di !imitarlo. E questo libro pare indicarlo più forse di qualunque altro. Perché se è vero che gli Studi sul labirinto si aprono su una pagina addirittura "mistica" di Romano Guardini, se è vero cioè che il gesto d'avvio denuncia la ripresa del discorso fenomenologico

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intorno al mysterium (si ripensi al mysterium tremendum de Il sacro di Rudolf Otto), alla "sospensione" del giudizio e della ricerca nel­ l'attimo della Ergrifjenheit, non si può rilevare quanto inedito, e sostanzialmente rivoluzionario, sia l'orizzonte referenziale del "mi­ stero-labirinto" kerényiano. Anzitutto, il richiamo a Guardini è un modo traslato per riferirsi su un livello a Gabriel Marcel, cui per li rami rimonta l'osservazione circa la differenza tra "mistero" e "problema", e su un altro livello al Rilke delle Elegie duinesi che Guardini commenta in quel passo. E in quest'ottica, l'apertura del "mistero-labirinto" e del "problema­ labirinto" sul fondale della poetica rilkiana non è troppo distante da quell'interesse che Kerényi mostrerà sempre più intensamente, specie negli ultimi anni della sua vita, per la "filosofia del mito" e per i problemi della "demitizzazione" . L'accostamento ai problemi del linguaggio, e in particolare del "linguaggio mitico", derivava d'altronde in Kerényi per un verso dall'attenzione parallela di Walter F. Otto, per un altro da una prossimità sostanziale del suo pensiero a certe formulazioni heideggeriane e, in senso più lato, proprie della "filosofia dell'esistenza". Non che il pensiero kerényiano possa inscriversi senza residui nel cerchio teorico-problematico della filosofia dell'esistenza: troppo di­ versi sono i presupposti culturali, troppo difformi gli strumenti euristici. Sta di fatto, però, che proprio la strumentazione lessicale­ concettuale, la serie di connotazioni allusive, di giochi di parole, di "termini-valigia" che maggiormente spiccano nel tessuto connet­ tivo degli Studi sul labirinto e in parecchi altri saggi coevi, eviden­ ziano un'impressionante identità rispetto alle categorie-chiave del pensiero esistenzialistico, soprattutto nella formulazione heidegge­ nana. La citazione rilkiana, implicita ancora nell'esordio degli Studi sul labirinto, è spia, peraltro, di una conoscenza diretta e profonda del poeta di Duino, il cui influsso su Kerényi fu pari solo a quello di Hofmannsthal o di Thomas Mano, fra i contemporanei. E a quel­ l'influenza, a quelle passioni letterarie, si lega il condizionamento delle componenti fondamentali dell'intera ermeneutica kerényiana (Nietzsche, Bachofen, la psicologia del profondo, Walter F. Otto). A Rilke Kerényi dedicherà pagine importanti nel '55, in quel saggio che già nel titolo (Geistiger Weg Europas) accenna al mitologema labirintico, al cammino dei "meditabondi pellegrini", e richiama nel contempo la metaforica heideggeriana coeva.19 E sebbene nel libro del 1955 Kerényi non risparmi il proprio sguardo critico nei confronti della posizione heideggeriana, che riconduce sostanzialmente alle sue lontane radici nietzscheane e, per il versante poetico, rilkiane, non è davvero senza ragione se mostra interesse per la lettura di Rilke condotta dal filosofo in A che ser-

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vono i poeti? dove, parafrasando Rilke, Heidegger parlava della "mancanza di fondamento", o "abisso", e aggiungeva che "l'età a cui manca il fondamento sta appesa sull'abisso", completando poi il discorso con l'attivazione di una vera e propria metaforica labi­ rintica e teséica: "Posto che in genere a quest'epoca così vuota sia ancora riservata una qualche svolta, questa potrà prodursi e aver luogo solo se il mondo si capovolgerà, cioè se si capovolgerà a partire dall'abisso." "Nell'epoca della notte del mondo", conclude Heidegger, quasi fornendo un manto verbale-concettuale alla idea ed al mitologema messo in poesia da Rilke, "l'abisso del mondo dev'essere riconosciuto, vissuto e patito fino alla fine". Un eroe è però necessario, e sarà il poeta, l'antico "uomo della metis", il Teseo "signore dell'enigma del labirinto", assoggettato ormai alla legge cruda del tempo: "Perché ciò avvenga, tuttavia, è necessario che ci sia chi scende giù nell'abisso, fino in fondo." 20 Come per Heidegger, e già per Rilke e prima ancora per Holderlin, anche per Kerényi il viaggio nell'abisso è impresa del poeta. E parimenti dello scienziato "afferrato" dal mistero dei problemi, che del poeta è simile e fratello "La legittimazione dell'ermeneuta - scriveva Kerényi nel 1963 non risiede mai nel mysterium, nell'inesprimibile cui non si deve dare espressione: bensì nell"oracolarità'. Quasi tutte le grandi crea­ zioni dello spirito celano in sé qualche cosa del genere: qualcosa di non pienamente espresso, di 'oracolare', che è già in certo modo determinato per l'umanità futura. Ecco dunque che cosa occorrerà portare alla luce dandogli forma distesa nella lingua di coloro che oggi sono qui con noi (ma per il poeta essi erano già posteri). Ecco qual è il vero e specifico compito ermeneutico, il compito su­ premo."21 Non dissimile suonava la chiusa del primo capitolo, Il cammino spirituale delPEuropa, nel libro dallo stesso titolo: "f. inconcepibile che si prosegua su quel cammino, nel quale un poeta s'è avventu­ rato in profondità. A questo noi siamo fermi: ad una poesia inter­ rotta. Interrotto non è invece (e non volge neppure a termine) il cammino spirituale dell'Europa." 22 Verso quel luogo in cui risuona il pianto della Jeune Parque di Valéry; verso quell'abisso ove i limiti della voce sono velati dalle lacrime e il linguaggio si congela nel deserto del silenzio, mira il di­ scorso del poeta-scienziato-filosofo Kerényi, lettore ed esegeta di poeti, di scienziati e di filosofi. Con non troppo lontano movimento concettuale e sintattico lo stesso Paul Valéry (un altro grande poeta­ scienziato-filosofo del Novecento) parlava di quel luogo labirintico come della sede dell"'ineffabile", della "sorgente delle lacrime": giac­ ché "le nostre lacrime sono l'espressione della nostra impotenza a esprimere" .23 -

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Il viaggio labirintico verso l'abisso mira a quella sorgente delle lacrime che è anche la scaturigine radicale del senso e del linguag­ gio. Quel cammino è spirituale perché accetta e conduce fino in fondo la grande sfida iniziatica di morire-per-rinascere. Questo in­ tende Kerényi quando scrive, negli Studi sul labirinto, che "per risvegliare la realtà mitologica del labirinto dobbiamo immaginar­ celo dentro di noi, e trasferirei in esso". A differenza di Heidegger, tuttavia, e su un piano che è insieme filosofico e storico-religioso, oltre che letterario, Kerényi riafferma la sua fiducia umanistica quando asserisce che il mondo della mito­ logia è "un mondo dell'uomo": un mondo, cioè, "totalmente orien­ tato sull'uomo". E in dimensione davvero polemica con Heidegger, "l'uomo è da considerarsi in una condizione dell'essere aperti, aperti verso fuori, condizione cui non corrisponde l"esser gettati' (Gewor­ fenheit), bensì l"esser fusi' (Verwobenheit)".24 Walter F. Otto e Leo Frobenius, accanto al Rilke riletto attraverso Guardini con cui s'aprono gli Studi sul labirinto, consentono a Kerényi di riallac­ ciarsi direttamente alla ricerca fenomenologica ed esistenzialistica, superando o scavalcando però Heidegger, in una direzione finora mai a sufficienza posta in luce, ma che sempre più si rivela decisiva per chiarire l'intero pensiero kerényiano. Pensiero che poggia, di fatto, sugli scarni, esili e fondamentali Studi sul labirinto: in essi infatti la risposta a Heidegger è limpida, diretta: nell'idea di Gewor­ fenheit Kerényi sembra selezionare e riscattare quella di "progetto" (Entwurf). Un "progetto", un "lanciarsi-in-avanti" verso il "pro­ blema" ed il "mistero" è infatti il viaggio labirintico della ricerca: ed è viaggio iniziatico perché il suo progetto tende all'uscita, al completamento che è nell'affondarsi-nella-morte per riemergere, "de­ mortalizzati", dalle sue oscure spirali. La linea infinita della nascita-morte-rinascita, che del labirinto costituisce l'idea portante, è anche il supporto figurale della sapienza misterica ribadita da Kerényi. Espressione filosofica, figurativa, di danza o di segno, sono soltanto successive e differenti configurazioni espressive di un'idea, che è quella appunto dell'"infinità della se­ quenza vita-morte-vita, che sempre si ripete" come la linea a spirale cui è affidato il compito di ex-primere visivamente il "significato" profondo e "muto". "Attraverso la morte, fin dentro la morte", cantava Euripide, che Kerényi cita e commenta. L'essenziale è la profetica/poerica cer­ tezza che quel viaggio è un passaggio, un attraversamento: un poros, appunto; e che, in fondo, come oscuramente sa "la Vita stessa", una soluzione si troverà, una via d'uscita c'è pur sempre. Su questa certezza, ottimistica perché umanistica, si chiode lo studio principale di questo libro, con il leggero, giocoso passo

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ritmato di danza, e il gesto inciso sulla lastra tombale, che invita ad affondarsi nell'abisso "giù, giù fino all'Orco, con passo lento!". Ma per riemergere, rinati. 4. La qualità tutta contraddittoria, da "uomo della metis", del pensiero di Kerényi, è luminosa nelle pagine di questo libro. Come ha scritto Furio Jesi rievocando l'antica immagine dell'astro­ nomo che attraversa con la testa una prima sfera cristallina della cosmologia tolemaica per immergersi "a suo rischio notturno nello stellato, al di là" (immagine intesa solitamente come la raffigura­ zione di un "protagonista dell"arte di domandarsi'"), di fronte al complesso dell'opera kerényiana viene da chiedersi "se egli non sia piuttosto un protagonista dell"arte di pronunciare': non necessaria­ mente oracoli (e Kerényi, anche negli istanti di maggiore, esplicita intransigenza, non volle configurarsi in oracolo), ma parole di con­ traddizione".25 Per questo il labirinto, signum contradictionis, è il blasone anche esistenziale, oltre che scientifico-culturale, sotto il cui segno Kerényi volle muoversi. E non senza ragione anche Mircea Eliade ha spesso assunto il labirinto a pietra di paragone e schema ermeneutico, oltre che euri­ stico, per la propria vita e la propria opera: "Un labirinto è la difesa a volte magica di un centro, di una ricchezza, di un significato. Penetrare in esso può essere un rituale iniziatico, come si vede grazie al mito di Teseo. Questo simbolismo costituisce il modello di qualsiasi esistenza la quale, attraverso una quantità di prove, avanza verso il proprio centro, verso sé stessa, l'Atman, per usare il termine indiano.. A più riprese ho avuto coscienza di uscire da .

un labirinto, o di trovare il filo. Mi ero sentito depresso, oppresso, smarrito... Non mi ero detto, naturalmente: 'Sono perso nel labi­ rinto', ma alla fine ho avuto l'impressione di essere uscito vitto­ rioso da un labirinto. f. questa un'esperienza che tutti hanno cono­ sciuto. Ma bisogna anche dire che la vita non è fatta di un solo labirinto: la prova si ripropone." 26 Ma il labirinto di Kerényi è soprattutto nel linguaggio: nella lingua di Kerényi, che da sempre fa impazzire i traduttori nelle vorticose spirali delle metafore, delle allusioni, e dei giochi di parole, si disten­ dono stratificazioni molteplici, spesso contraddittorie, in forma di incrostature, di vene, di faglie. La tettonica semantica e linguistica, cui s'è accennato in parte a proposito della relazione ipotizzabile con Heidegger, è nel pensiero kerényiano di grande complessità. Qui si desidera solo chiamare e fissare l'attenzione del lettore su qualche tratto portante, soprattutto quelli in cui affiorano le radici culturali più profonde, amalgamate e omogeneizzate dall'ironia e dal senso della distanza.

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L'idea di mistero serve a Kerényi soprattutto per introdurre con cautela l'altra, centrale negli Studi sul labirinto, della coppia arche­ tipo/prototipo. Sull'affinità dell'archetipico con un'idea piuttosto hegeliana che junghiana della storia dello spirito si potrebbe discu­ tere a lungo. Sta di fatto che Kerényi medesimo, già in apertura del suo discorso, lega il momento archetipico ad una maggiore pros­ simità al "mondo delle idee", piuttosto che a un'immagine energe­ tica-psicologica inconscia, che gli pare dominante nel pensiero junghiano.27 L'archetipo kerényiano (questo è un punto decisivo, che l'esegesi nÒn ha ancora illuminato a sufficienza) è più prossimo alla "forma originaria" del pensiero fenomenologico di estrazione alla lontana hegeliana, che non alla meccanica e alla dinamica energetiche, tutto sommato positivistiche, della prospettiva di uno Jung. Se precursori e compagni di strada si vorrà trovare per Kerényi, occorrerà cer­ carli piuttosto sul fronte della morfologia letteraria di un André Jolles (le Forme semplici [Einfache Formen] sono del 1930) o, al più, su quello della mitologia archetipica applicata da un Northrop Frye alla critica letteraria o sull'altro della "tipologia" della funzione-ambiguità nel linguaggio poetico proposta nel 193 O, e riveduta nel 1947 e poi nel 1953, da William Empson. 28 E straordinaria la vicinanza ermeneutica dell'idea di Jolles circa un radicamento delle "forme semplici" letterarie nel linguaggio, che ne viene plasmato in varie "modalità del discorso", e circa la "dispo­ sizione mentale" che determina le singole "visioni del mondo", con le ricerche kerényiane sul mito quale forma di relazione con la realtà (e non di "maniera di pensare").29 Delle "forme semplici del labirinto" Kerényi parla esplicitamente a più riprese, fissandone la nascita in epoca preistorica. E ciò si lega in modo diretto all'idea che le forme, come la mitologia e come la sua espressione linguistico-comunicativa, abbiano una vita, scandita secondo tappe assimilabili a quelle dell'esistenza umana, e corrispon­ denti sul piano delle grandi forme, o figure, o configurazioni sto­ riche, a cicli storico-culturali. Questo quadro che dall'evoluzionismo trae solo una generica terminologia riconduce di nuovo alla teoria delle "aree culturali" di Leo Frobenius e alla sua morfologia di "im­ magini del mondo" di ogni cultura. Per il Kerényi degli Studi sul labirinto, la "mitologia vivente" rappresenta il momento di espressività dei mitologemi: e la cosa è di rilievo speciale nel caso del mitologema labirintico, legato proprio all'idea della vita e della rinascita dalla morte. Ma il mito­ logema, vivo nella preistoria (allorché parlava con risonanze imme­ diate), muore con lenta agonia nei periodi storici a noi più prossimi: e come è possibile riconoscere un "tempo della vita" per il momento della sua espressività piena (che è anche la vita della Mitologia),

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così la vicenda di quel lento agonizzare e spegnersi, "ammutolen­ dosi" e "perdendo senso" può venir storiograficamente scandita in un "tempo dell'agonia" e in un definitivo "tempo della morte". Questa vicenda di vita e morte del segno-labirinto e del mitolo­ gema che gli dà senso è un perfetto esempio di Entwicklungsge­ scbichte. L'idea di un'evoluzione e di un de�adimento del mitolo­ gema labirintico è d'altronde esplicitamente espressa da Kerényi, che usa il termine Entwicklung proprio là dove allude allo scadere dell'idea mitologica (e in seguito filosofica) nel puro gioco infantile della civiltà dei consumi. Ma a ribadire che non di un'evoluzione di stampo naturalistico si tratta, bensì di una sostanziale storia delle idee e delle culture che le incamano, Kerényi insiste sulla valenza semantica profonda di quella vita e di quella morte del mitologema e del segno: "una vita piena è anche pienezza di significato, così come un significato pieno è anche pienezza di vita", egli scrive. Il senso è la vita del segno, così come l'essenza lo è della mito­ logia e del mitologema. Ma il labirinto non può, per sua natura, svuotarsi di senso e di vita: proprio perché è un mitologema di vita e di rinascita, ad ogni morte anch'esso rinasce, specularmente nella forma come nel contenuto. L'ultima sua rinascita, paradossale, avviene nel tempo della vita. E per paradosso supremo, è precisa­ mente l'attività scientifica a darle l'avvio: il ricercatore deve sapere che gli è consentito di lavorare solo su materiali del tempo della morte, e anziché presumere di poter leggere nel tempo della vita e nel senso originario dovrà, nuovo eroe teséico della mitis, trovare una via d'uscita indicando dove risiede il vero enigma, riportando la vita nel cuore del labirinto, proprio nel momento in cui ne con­ stata e ne produce la morte. La stessa forza evocativa, la stessa energia vitale che il mitologema labirintico esercitò sul poeta, lo scienziato dovrà provarla, abbandonandosi al mistero. Lungi dal richiamarsi letteralmente al mysterium di Rudolf Otto, il mysterion kerényiano si pretende movimento ermeneutico, immersione nel­ l'archetipico attraverso cui lo scienziato potrà restituire i prototipi nelle loro dimensioni autenticamente storico-religiose (ossia cultur­ tipiche).30 5. S'è detto: "movimento" ermeneutico. E quest'immagine del moto di danza, dell' "infinità" verso cui e attraverso cui la linea si protende e riceve senso, nel mitologema e nella forma labirintici, sostanzia l'intero lavoro degli Studi sul labirinto, e degli altri saggi

che abbiamo qui raccolto. "Il movimento è l'origine della linea; e nell'istante in cui ha ori­ gine, esso è già compiuto: in altri termini, è unitario e organico,

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e quando si articola lo fa secondo un ritmo naturale. E tale movi­ mento è in sé autonomo quanto al senso; "come ogni manifesta­ zione musicale dell'uomo", esso è "dotato di senso", pulsa ritmica­ mente per sua natura. Anzi, come altrove Kerényi stesso dichiara, è la mitologia medesima a farsi movimento dei materiali che con­ tiene e per così dire trasporta: essa è "qualcosa di immobile e di mobile nel contempo; è qualcosa di materiale e niente affatto sta­ tico: bensì suscettibile di mutamento". Come mostrano i saggi sulla danza qui raccolti, la danza è non solo una chiave euristica per aprire il tesoro-trabocchetto labirin­ tico. La danza è piuttosto canale espressivo dell'Essere che, "con la sua verità, parla attraverso la forma, il gesto, il movimento": così Otto in uno studio sulla Figura umana e la danza, che Kerényi ricorda. Ma dove Otto scrive das Sein, Kerényi già pensa probabil­ mente, con termine heideggeriano, a das Seiendes, a quell'"ente" cioè che traduce il greco on nascondendo quello che Heidegger definisce l'enigma dell'essere. Meno incredibile, seppur infinitamente più significativo anche ri­ spetto alla posizione globale di Kerényi nei confronti di Nietzsche, è l'assoluto silenzio circa le molte, vibranti e spesso tumultuose pagine che il filosofo dedicò al medesimo tema, al pari di quelle sul labirinto come "forma esistenziale", e sul "Minotauro della coscienza" che lacera e strazia annidandosi nei "labirinti della cono­ scenza". E dire che si tratta di pagine che avrebbero potuto offrire a Kerényi infiniti spunti di riflessione, proprio perché in esse Nietz­ sche trascina il labirinto nella sfera del "significato", strappandolo alla rinsecchita gestione degli archeologi e degli storici delle reli­ gioni classiche del suo tempo, e invece offrendolo rinnovato al pensiero contemporaneo. Ma tant'è: anche i silenzi hanno un loro senso. Nel caso della danza, in particolare, Nietzsche si soffermò sull'idea di "ritmo" come "costringimento" a "mettersi in conso­ nanza", e so quella di "danza" come terapia contro la perdita della "giusta tensione e armonia dell'anima": e questa impostazione po­ trebbe rispecchiarsi in quella kerényiana senza troppo scarto falsi­ ficativo.31 Labirinto e danza appaiono dunque legati in Kerényi da una soli­ darietà tematico-archetipica, semantica, formale e figurale. Attra­ verso la forma, attraverso il gesto e attraverso il movimento si esprime anche il mitologema labirintico. E di esso, pertanto, la danza rappresenta l'essenza e il senso radicali, nel concetto come nelle sue rappresentazioni figurali. t: questo un elemento di assoluto rilievo nella riflessione scientifica (e, per Kerényi, anche filosofica e miste­ rica) intorno al labirinto. t: la prima volta, con Kerényi, che tale nocciolo viene condotto alla luce e illuminato in filigrana con tanta

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precisione ed ampiezza: e già solo questo renderebbe prezioso il libro che il lettore ha fra le mani. Ma c'è di più. L'ornamento figurale labirincico, scrive Kerényi, è una Linienreflex, un "disegno-riflesso", secondo la traduzione proposta da Angelo Brelich, di un'"idea" mitologica. Come una traccia mnestica, il disegno-riflesso riflette appunto e in maniera del tutto naturale, spon­ taneamente, nello specchio enigmatico del proprio inafferrabile mo­ vimento spiraliforme il "prototipo" che in esso è racchiuso, come un nocciolo potenzialmente pronto a germogliare, e in sé in attesa, proteso-verso l'espressione. A far sospettare che la linea kerényiana vada complessivamente ri­ pensata in un'ottica storico-culturale, e a far auspicare che presto giunga il momento in cui si potrà abbandonare lo stadio dell'apolo­ getica o della detrazione, si vuole allegare qui per lo meno il nome di Emst Robert Curtius. Che è il nome senza dubbio meno atteso, da chi abbia finora acco­ stato Kerényi con il sospetto con cui si guarda ai grandi eterodossi, agli irregolari troppo pericolosamente aperti al contributo di com­ petenze e di interessi disparati, senza neppure la garanzia accade­ mica dell""interdisciplinarietà". Laddove Curtius, in quel suo capo­ lavoro scientifico32 che a tutt'oggi costituisce il caso più clamoroso di summa storico-culturale e di tentativo sistematico d'una storia delle idee di larghissima latitudine, appare ancora il monstrum della più raffinata ed ortodossa cultura accademica europea, }'"intocca­ bile" delle discipline storico-letterarie. Ma più in profondità, straordinaria è la serie di riferimenti con­ cettuali, anche terminologici, tematici e problematici, che nel lavoro di Curtius riconducono a un'area ideologica e ad una svolta epi­ stémica che vedono protagonista Kerényi stesso. Fin dal primo capitolo, dedicato alla letteratura europea, Curtius descrive il suo oggetto ermeneutico nei termini di una "storia di forme culturali". La storia culturale è storia anzitutto di forme e di generi, che sono fenomeni culturali e letterari nello stesso tempo: "la letteratura europea è diacronicamente coestensiva alla cultura europea", scrive infatti Curtius (p. 20). E tale coestensione, come mostra poi lo sviluppo dell'opera, è ben più che puramente cro­ nologica. Il disegno di Curtius è quello di un'archeologia del sapere occiden­ tale condotta mediante l'analisi dei sistemi formali, delle grandi strutture retorico-letterarie, della topica e degli stessi generi come mediatori del procedimento di tradizione e sviluppo culturale, e come grandi contenitori vuoti, o strutture significanti libere capaci di accogliere e di trasmettere contenuti culturali sempre diversi.

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Ed è un disegno che dietro Io schenno della sistematicità e della

volontà di sistemazione di una massa imponente di dati nasconde il clesiderio di fissare le forme-chiave, le originarie idee dello "spi­ rito dell'Europa" nel suo kerényiano "cammino": ossia nel loro divenire espressioni concrete, fonne, generi, canoni, e singoli pro­ dotti della storia artistico-culturale europea. Ed è esplicito quanto un simile progetto di filologia onnicompren­ siva sia prossimo nei presupposti radicali, se non negli esiti specifici, a quello di un Frobenius e della sua scuola francofortese e all'altro, parallelo, di Kerényi, maestro senza allievi nelle sue private fatiche. Modello epistémico di una storia della cultura totalizzante, capace cioè di portare alla luce anche gli strati profondi delle fonne cul­ turali, le modalità di conservazione-trasmissione e di permanenza­ trasformazione, in una parola della "continuità" e delle infrazioni che introducono nel suo flusso "svolte" o "variazioni". Ma fatti salvi i contenuti specifici su cui Curtius, Frobenius, Ke­ rényi si applicano, ed anche l'assenza, sul fronte etnografico e storico-religioso, del ricorso all'idea di "storia", non torna forse ad affiorare l'idea di una scienza morfologico-culturale come grande sforzo di d-fondazione del sapere europeo? E questa scienza non dipende, direttamente o no, dalla proposta epistemologica hegeliana, magari anche dal suo fallimento?

6. Ma si torni indietro d'un passo, per riprendere il filo del di­ scorso interrotto all'idea di danza e alle sue implicazioni di genere epistemologico. :f: ancora l'analogia fra danza, musica e mitologia, lanciata da Kerényi medesimo a farcisi incontro. Le storie narrate intorno a Hainuwele - dice Kerényi - sono "variazioni sullo stesso tema", nel senso strettamente tecnico-compositivo: e sono equipa­ rabili alle varianti/variazioni filosofiche, pittoriche, mitologiche (e perché no? anche filologiche), e musicali, per l'appunto. La stessa idea è espressa anche in un saggio coevo alla seconda edizione degli Studi sul labirinto: !'"affinità" fra mitologia e musica "non è affatto metaforica", bensì "sostanziale", ed illumina "quel che distingue la mitologia dalla scienza e dalla filosofia". Sotto il fluire dei mitologemi, degli accordi, anche della ricerca scientifica nel suo scandirsi metodologico e nel suo darsi oggetti di riflessione sempre nuovi eppure sempre uguali, s'individua "un tema comune variato all'infinito".33 Le varianti di un mitologema, poi, se espresse al modo in cui I'"idea" si traduce in "movimento" (ad esempio nel mitologema labirintico), possono "risvegliare in noi qualcosa che ci si muove­ contro" come realtà divina, incomprensibile dunque se non in ter­ mini di figure e avvenimenti divini o di simboli religiosi". Ed è

INTRODUZIONE allora, in quell'aureo punto dell'"essere afferrati", che noi "abbiamo in mano il nocciolo del problema". "Siamo giunti al centro e lo possediamo", scrive intenzionalmente Kerényi, cui non sfuggiva mai (fors'anche perché nel tedesco lui, ungherese per lingua materna, si aggirava come un pellegrino in cerca, come un esiliato malin­ conico) nessuna sfumatura, né gioco semantico, né allusione etimo­ logica, al di là del valore "scientifico" delle parole. E si ribadisce così, in una delle sue infinite variazioni sul tema, l'identificazione Ri­ kerényiana sempre implicita, in questo libro e altrove, Teseo =

cercatore. Qui c'è ancora Walter F. Otto, e c'è già il Thomas Mann del

Doktor Faustus (quel Mann che per ottenere "materiali" nella composizione del suo romanzo si rivolse al filosofo-musicologo Adorno). Ma c'è anche tutto il nuovo e il rivoluzionario che il mitologema labirintico generò, nel suo affiorare in Kerényi come mysterion e come ainigma. Non sarà fuori tema accennare al fatto che il più cospicuo esempio di analisi del mito che la disciplina etnologica moderna offra, le

Mythologiques di Claude Lévi-Strauss, culminano in un testo che è esplicitamente scandito secondo una ripartizione musicale, quel Le cru et le cuit nella cui Ouverture viene tematizzato - sebbene in un quadro referenziale e con presupposti teorici abbastanza lon­ tani da quelli di Kerényi - il "carattere comune del mito e del­ l'opera musicale", consistente nel fatto "che essi costituiscono dei linguaggi che trascendono, ciascuno a modo suo, il piano del lin­ guaggio articolato, pur richiedendo, come questo linguaggio e con­ trariamente alla pittura, una dimensione temporale per manifestarsi". Per Lévi-Strauss mitologia e musica sono "macchine per soppri­ mere il tempo", e "in linea di diritto, se non sempre di fatto, fun­ zione emotiva e linguaggio musicale sono coestensivi"; non siamo lontani dall'idea di Kerényi che "l'intera mitologia greca poteva venir danzata", che quella danza può "svelare" il segreto del mistero residente sullo sfondo dell'Idea, e che in essa "si cela (ma cieco e inconscio) un forte anelito, che è poi l'anelito verso la vita, comune a tutti gli esseri viventi". L'Ergriffenheit come partecipazione emo­ tiva e commossa emerge dallo sfondo oscuramente fenomenologico che è alle radici dello strutturalismo: e infatti, nell'ultima battuta del­ l'Ouverture, è proprio Lévi-Strauss ad auspicare che il lettore "possa essere trasportato (in virtù del movimento che lo allontanerà dal libro) verso la musica che è nei miti, quale l'ha preservata il loro testo integrale: e cioè, oltre che con la sua armonia e il suo ritmo, con quella segreta significazione che ho laboriosamente ten­ tato di conquistare, non senza privarla di una potenza e di una maestosità riconoscibili dalla commozione che essa infligge a chi la

INTRODUZIONE

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sorprende nel suo primo stato: annidata in fondo a una selva di im­ magini e eli segni, e ancora pregna dei sortilegi grazie ai quali può commuovere: giacché così non la si comprende".34 7 . Scienza e Arte "fuse insieme", protese a cogliere il "manifestarsi del contenuto del mondo": le due posizioni non appaiono troppo distanti: "Nelle più intime profondità dell'uomo e abissali, là dove in ciascuno di noi il mondo è risorto e continuamente risorge come mondo che si fa spiritualmente trasparente", si potrà individuare "il luogo psichico in cui si fanno rivelazioni" le "realtà spirituali senza luogo e senza tempo", ossia le Ideen. Ma che cosa distingue queste idee dalle strutture maestose e potenti, se non il fatto che lo scienziato strutturalista non sa contenere il rimorso per aver stemperato e sfatato i sortilegi grazie ai quali la mitologia può an­ cora commuovere, e abbandona da solo il lettor � al suo viaggio ai "tristi tropici", a quell'immersione verso la musica che è nei miti che si sentirà risuonare sorpren