Nascere. Storie di donne, donnole, madri ed eroi 9788858428238

Questo libro attraversa i cieli stellati della mitologia antica, e prosegue il proprio cammino soffermandosi a Tebe, in

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Nascere. Storie di donne, donnole, madri ed eroi
 9788858428238

Table of contents :
Indice......Page 566
Frontespizio......Page 3
Il libro......Page 562
L’autore......Page 563
Introduzione......Page 4
Nota alla nuova edizione......Page 7
1. L’astuta interlocutrice......Page 12
2. I quattro «temi» del racconto omerico......Page 14
3. I gemelli segreti e il verdetto fatidico......Page 15
4. Ate e l’ermeneutica......Page 22
5. A meno che non esca dal mio fianco......Page 27
6. L’eroe non nasce solo......Page 41
7. Doppi fecali ovvero la sacralità di «questo» e «quello»......Page 44
Parte prima. Il racconto di Alcmena salvata dalla donnola......Page 49
1. Pausania. Apporti, streghe e grida femminili......Page 52
2. Ovidio. Racconti di donne e risa di donnole......Page 56
3. Antiche immagini di Galanthis?......Page 61
4. Libanio. La donnola corre......Page 66
5. Antonino Liberale. Trophós e ministra di Ecate......Page 67
6. Eliano e Istro. Streghe lussuriose e altre corse di donnole......Page 70
1. Variazioni senza tema......Page 76
2. Appunti sul leggio......Page 78
1. Quella sporcizia......Page 84
2. La donna in ginocchio......Page 89
3. Latona, la lupa e il gallo......Page 92
IV. La Nemica......Page 97
1. Legare e sciogliere. Pharmakídes, Moírai ed Eileíthyiai......Page 98
2. La fanciulla e il Fato......Page 102
3. Dee delle doglie e delle membrane......Page 103
V. I Nodi......Page 109
1. «Il parto delle donne non vuole nodi»......Page 110
2. Cornelia senza i lacci delle scarpe......Page 113
3. Frazer e l’età postmoderna......Page 116
4. Donna «incinta», sciolta e legata......Page 118
5. Le metafore del comparatum nella magia analogica......Page 124
1. Astuti nodi e Moírai con le mani alzate......Page 128
2. Basta dire che è già successo......Page 135
3. Risa e beffe......Page 137
1. Genus mustela. Breve intermezzo di storia naturale......Page 143
2. Magia omeopatica?......Page 150
3. La donnola e il mondo del parto......Page 152
4. Madre sollecita e genio domestico......Page 155
5. «Damoiselle belette, au corps long et fluet»......Page 161
6. Dalla bocca e dalle orecchie......Page 166
7. Colei che rischiò di diventare Maria Vergine......Page 179
1. Scivolar fuori......Page 194
2. Affordances. Per un’ecologia dei simboli animali......Page 198
IX. Stonature? Plinio e il parto dalla bocca......Page 207
Parte seconda. Metafore animali e ruoli femminili......Page 212
1. «Se i leoni fossero capaci di parlare, noi non potremmo capirli»......Page 213
2. La foresta di simboli è piena di animali......Page 218
3. L’enciclopedia......Page 223
4. L’identità viene dalle storie che la raccontano......Page 230
1. Strega dissoluta, apparizione di mal augurio......Page 240
2. Semonide. Classificazioni totemiche e sessualità nauseante......Page 246
3. Jongleuresse lussuriosa e donna di bestiario......Page 252
4. Femmina o maschio?......Page 258
5. La donnola astuta che ingannò Dio......Page 261
III. Wilde Frau, ostetrica selvaggia......Page 268
1. La dea-levatrice è una strega......Page 269
a) Curanderas, profesoras, parrucchiere e altre aiutanti da commedia......Page 270
b) I piacula delle obstetrices......Page 275
c) Le sagae di Roma antica. Streghe, mezzane e profetesse......Page 280
d) «In partu obstetrices mille daemonica operantur»......Page 283
e) Scienza femminile e orrore dei cambiones......Page 284
2. La levatrice e il mondo del sesso......Page 289
a) Pronube, cortigiane (di strada o meno) ed estetiste......Page 290
b) Troppo addentro al sesso delle donne......Page 293
3. Sage-femme e cunning woman......Page 294
4. La donna selvaggia e la filatrice......Page 302
1. L’abito nuziale non si addice alla donnola......Page 305
2. La comare, la madrina e la trophós......Page 315
3. La sorella del marito......Page 323
V.  Un’enciclopedia senza le note a piè di pagina......Page 328
Conclusioni......Page 334
I pensieri di Alcmena......Page 335
1. Alcmena in North Carolina......Page 336
2. Mrs. Brown of Falkland......Page 338
3. «Le stesse cose ritornano»......Page 343
4. Alcmena vagabonda......Page 346
5. I pensieri di Alcmena......Page 349
Bibliografia......Page 355
Elenco delle fonti citate......Page 415
Elenco degli argomenti......Page 421
Elenco dei nomi e dei personaggi......Page 429

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Maurizio Bettini

Nascere Storie di donne, donnole, madri ed eroi Nuova edizione

Introduzione

Colligite fragmenta ne pereant. Giovanni 6.12.

Ate, figlia di Zeus, è una dea dai piedi delicati. Non sfiora la terra ma cammina sopra la testa degli uomini, ora sull’uno ora sull’altro: per la loro rovina 1. Nessuno infatti resiste al suo potere, Ate acceca chi vuole: del resto il suo nome significa proprio la condizione in cui l’uomo commette errori tanto assurdi quanto irrimediabili 2. Persino il padre Zeus una volta fu accecato da Ate. Come sono imprevedibili le vicende degli uomini! Specie quando si intrecciano con quelle degli dèi. Perché proprio dall’onnipotenza di Ate, e dall’accecamento di Zeus, derivarono i travagli della povera Alcmena, la principessa greca sedotta da Zeus e poi perseguitata dalla gelosia di Era, che quasi riuscí a farla morire di parto. E non solo questo. Anche i sortilegi di Moírai ed Eileíthyiai, ambigue divinità delle partorienti, si scatenarono contro Alcmena proprio per colpa di Ate e dell’accecamento di Zeus. Fu allora che la donnola, la fanciulla-animale tanto subdola quanto soccorrevole, dovette ricorrere alle proprie astuzie per salvare Alcmena. In ogni caso, è ancora colpa di Ate se la nascita di Eracle fu cosí fortunosa – soprattutto, se Zeus non fosse stato accecato, Eracle non sarebbe stato condannato a servire Euristeo e a compiere per lui le dodici fatiche. Insomma, da quel primo, mitico, misfatto di Ate derivarono tutte quante le vicende che ci accingiamo a raccontare e a studiare nelle pagine che seguono. Tutto cominciò sull’Olimpo, fra gli dèi. Come ogni grande storia che si rispetti, anche quella di Alcmena salvata dalla donnola dispone di un prologo in cielo. Cominceremo con lo sviluppare proprio questo prologo, il quale ci si presenterà (potremmo dire) tutto pieno di uomini: Zeus, innanzi tutto, poi Anfitrione, Eracle, fino a Nectanebo, Alessandro Magno / Dhul-Karnain, Cathbad, Conchobar… Una folla di eroi maschi che si affaccendano attorno a un’unica donna, Alcmena, ovvero una partoriente, in una sequenza di storie che si presentano decisamente centrate sui «padri» e sui «figli», non sulla madre. Dopo di che, nella prima e nella seconda parte del libro gli uomini scompariranno, e la scena sarà tenuta quasi esclusivamente da personaggi

femminili. Ci sarà ovviamente la partoriente, ancora, poi le nemiche che vogliono la sua rovina, ma soprattutto un animale femminile per eccellenza, la donnola, che riuscirà a salvare la donna in travaglio e, attraverso la sua forza di suggestione simbolica, farà sfilare davanti ai nostri occhi una folla di donne dalle caratteristiche e dai ruoli piú disparati: streghe, jongleuresses, cortigiane, levatrici, comari, spose, cognate, filatrici… Personaggi e ruoli fra loro (almeno in apparenza) cosí diversi, ma tutti quanti simbolicamente compatibili con le credenze e i racconti che circolavano intorno all’animale che sarà cosí spesso al centro di questo studio. E gli uomini? Che fine hanno fatto? Sono tutti fuori dalla porta. Una levatrice si affaccia dalla stanza in cui giace Alcmena: «ci dispiace, – dice, – gli uomini adesso devono restare fuori». Non si entra nella stanza di una donna che partorisce. I battenti si chiudono, la levatrice ride. Anfitrione deve restare fuori, e anche Zeus è lontano. La «storia di Alcmena» è una fra le piú venerabili, e insieme fra le piú durature, che siano mai esistite: comincia con il testo piú antico della letteratura occidentale, l’Iliade, e almeno per quanto ne sappiamo si conclude nel North Carolina verso il 1917. Ma è abbastanza dubbio che Margaret Burke, la vecchia nera che raccontò a Elsie Clews Parsons una storia in tutto e per tutto simile a quella di Alcmena, sia stata davvero l’ultima a narrare questa vicenda. Storie come queste non finiscono mai del tutto, anche perché esse confinano spesso con la realtà vissuta – o almeno con quella che si pensa, o si pretende, di aver vissuto. Come notava Francis B. Gummere, con un certo razionalistico distacco, «curious old ideas prevail about behavior on occasions such as childbirth and funeral…» 3. Chissà quante altre volte, e in quante altre parti del mondo, una donna in travaglio avrà accusato delle proprie disavventure una strega, o una suocera, o una rivale gelosa, chiamando la sofferenza con il nome di «sortilegio», la malformazione, o la malattia, con quello di «nodo», la liberazione inaspettata con quello di «donnola», «folletto», «cognata», e chissà quanti altri nomi ancora. Molte partorienti hanno sperimentato nei secoli i timori, o la realtà, della storia di Alcmena. Forse anche adesso, mentre scriviamo, da qualche parte c’è ancora un’Alcmena che chiede alle vicine di guardare sotto il letto, per vedere se ci sono «nodi» e altre maledizioni del genere che le impediscono di mettere fine alle sue doglie. O forse non ne esiste davvero piú nessuna, di Alcmene timorose della

magia del parto. Nel qual caso questo libro costituirebbe, abbastanza inaspettatamente, l’epilogo di una storia millenaria. Non avevo pensato a questo, quando ho cominciato a scriverlo. Ma se è davvero cosí, se la storia di Alcmena salvata dalla donnola non esiste piú come storia raccontata o vissuta ma solo come filo di un libro che la studia, allora significa che negli ultimi decenni la nostra cultura è cambiata davvero: distaccandosi per sempre da una delle innumerevoli radici che l’hanno alimentata per almeno tremila anni.

Nota alla nuova edizione

La Casa editrice Einaudi ripubblica Nascere. Storie di donne, donnole, madri ed eroi, uno dei libri a cui sono piú affezionato e al quale ho lavorato di piú. Questa opportunità mi ha permesso non solo di correggere alcune sviste ed errori che erano rimasti nella prima edizione, ma anche di aggiungere nuovi riferimenti a sostegno delle mie ricostruzioni e, soprattutto, di inserire nel libro un nuovo paragrafo, relativo ad alcune scoperte archeologiche che sembrano fornire riscontri tanto interessanti quanto inattesi del mito che sta al centro della mia ricerca: quello di Galanthis, la fanciulla/levatrice che Era trasformò in donnola per punirla dell’aiuto prestato ad Alcmena in occasione del suo difficile parto. Da quali filoni di ricerca ha tratto alimento Nascere? A distanza di anni penso di poter rispondere almeno in parte a questa domanda. Direi infatti che questo libro si è nutrito in primo luogo di racconti mitologici, in alcuni casi analizzati nella prospettiva del folclore non solo europeo; poi di credenze relative al mondo degli animali – anche per ciò che riguarda il loro sconfinare nella magia e nella medicina popolare; infine di tematiche relative ai gender studies. «Ecco un maschio che ha un interesse particolare per la grossesse», commentò con affettuoso stupore Froma Zeitlin al termine di una mia conferenza parigina sul parto di Alcmena. Credenze, pratiche, divieti, speranze e disperazioni femminili al momento del parto costituiscono una faccia importante delle tematiche di genere, e approfondirle dovrebbe interessare soprattutto agli uomini (i quali, per motivi che nel libro abbiamo cercato di approfondire, sono sempre rimasti ai margini di questa esperienza). Per quanto riguarda invece i racconti mitologici, sono sempre stato persuaso che essi abbiano la capacità di «parlare», ossia di trasmettere molte piú informazioni di quante, almeno a prima vista, i loro intrecci sembrerebbero contenere. I miti rassomigliano infatti a vere e proprie «reti» che, a ogni singola versione prodotta, vengono gettate nelle acque della cultura – per poi portare ogni volta in superficie valori e significati differenti. Peccato anzi che nell’attuale orizzonte degli studi, specie in quello dei classicisti, il folclore occupi cosí poco spazio: in esso infatti, nei racconti e

nelle credenze che i grandi studiosi dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento sono stati ancora in grado di raccogliere, ho trovato spesso conferme e aperture che davano ulteriore sostanza ai racconti mitologici che stavo analizzando. Quanto al mondo degli animali e al ruolo che questi nostri compagni di strada occupano nell’elaborazione culturale, sarà appena il caso di notare che oggi questo tipo di riflessione ha assunto proporzioni impensabili solo vent’anni fa (e dunque siamo lieti di aver messo tali tematiche al centro della nostra ricerca quando esse non ricevevano ancora particolare attenzione da parte degli studiosi). Combinare questi tre filoni di ricerca in una stessa prospettiva, ecco che cosa ho cercato di fare. Nella stesura di queste pagine – che è stata laboriosa, soprattutto per rendere chiara e leggibile una materia che spesso non lo era – mi hanno infine guidato tre principali convinzioni. La prima è che la lente dell’antropologia è indispensabile per addentrarsi in certe pieghe della cultura antica. Questa disciplina infatti insegna in primo luogo a riconoscere e rispettare le diversità che caratterizzano ogni cultura che non sia la propria; in secondo luogo abitua a considerare rilevanti anche aspetti apparentemente marginali, racconti che possono sembrare solo bizzarri, dettagli che tendono normalmente a essere omessi nelle sintesi storico-letterarie, storico-sociologiche o semplicemente storiche che circolano riguardo all’Antichità. Come per esempio, nella fattispecie di Nascere, il fatto che alla fine del racconto la levatrice amica della partoriente venga trasformata proprio in una donnola (e non in un altro animale). Qualcuno potrà credere al fatto che spesso, nelle traduzioni dei testi che andavamo analizzando, o negli studi relativi ai miti che ci interessavano, la «donnola» dei testi greci e romani veniva brutalmente rimpiazzata da un «gatto»? Animale piú vicino all’esperienza occidentale moderna, certamente, salvo che cosí facendo non si capiva piú nulla di quel complesso di miti e di credenze che accompagna la nascita (nientemeno) dell’eroe piú grande del Mondo Antico: Eracle. La seconda convinzione, che continuo a coltivare se possibile con forza ancora maggiore, è la seguente: che la filologia, cosí come la linguistica storica, non sono discipline noiose, da amministrare con pedanteria censoria o, inversamente, da ignorare (come talora avviene da parte di classicisti troppo preoccupati di essere «mainstream» per non risultare in definitiva superficiali). La filologia e la linguistica storica offrono al contrario strumenti

meravigliosi, ancora capaci di aprire scenari culturali di grandissimo respiro, e soprattutto possono e debbono risultare discipline appassionanti. Basta indirizzarle agli obiettivi giusti e di certo anche i piú giovani – lo dico per esperienza – continueranno a trovarle tali. La terza convinzione che vorrei infine ribadire qui corrisponde banalmente a questo: che non bisogna aver paura di farsi capire. Naturalmente non sempre ci si riesce, ma è necessario almeno provarci. Negli studi umanistici qualsiasi argomentazione, qualsiasi ricostruzione, qualsiasi ipotesi può essere formulata in modo tale da essere compresa da parte di chiunque abbia interesse per l’argomento trattato. Non si tratta di «divulgare», banalizzando, come infelicemente si dice: al contrario, si tratta di chiarificare, che è cosa non solo radicalmente diversa ma anche (ovviamente) piú difficile. Soprattutto si tratta di evitare con orrore quella pratica «complicatoria» che molti identificano invece con la ricerca scientifica in campo umanistico, quasi che ciò che si dice acquisisca valore in proporzione alla densità della nebbia che lo avvolge. Chi studia ciò che studiamo noi, non dovrebbe mai dimenticarlo, studia oggetti «belli»: che meritano sempre di essere trattati come tali. Gennaio 2018.

Questo libro nasce da un corso di Filologia Classica tenuto all’Università di Siena nel 1992-93 e da un graduate seminar svoltosi presso l’Università di California, Berkeley, nel 1994. Durante gli anni successivi, parti di questa ricerca sono state discusse in varie università italiane e straniere, fra cui Milano, Bari, Urbino, Freiburg, Würzburg, Johns Hopkins, Berkeley ancora, e l’École des Hautes Études di Parigi. Il mio primo ringraziamento va agli studenti che mi hanno seguito dall’inizio, quelli italiani e quelli del mio platonic seminar di Berkeley, Laura Gibbs, William Jennings, Yasmin Syed, Peter Wyetzner, Alan Zeitlin: soprattutto per aver accolto con immediato entusiasmo (cosa per me molto rassicurante) l’insolito campo di studi che offrivo alla loro riflessione. Nel corso del tempo ho poi ricevuto suggerimenti e aiuto da parte di molti, in particolare Carlo Brillante, Marcel Detienne, Crawford H. Greenewalt jr. (alla cui generosità devo anche alcune immagini inserite qui come illustrazioni), Gianni Guastella, Anthony A. Long, Bernadette Leclercq-Neveu, Francesca Mencacci, Maria Minicuci, Silvia Romani, Giulia Sissa. A Siena, Cristina Clausi e Marta Colanardi mi hanno offerto una preziosa collaborazione nella ricerca bibliografica e nella difficile fase delle verifiche. La Casa editrice Einaudi si è dimostrata estremamente generosa nei confronti di questo libro, e Irene Babboni ha affrontato con entusiasmo e competenza un compito di redazione non semplice. Non credo comunque che sarei mai venuto a capo della mia fatica senza la presenza di Laura Gibbs, sempre prodiga di suggerimenti, di osservazioni, di discussioni, di aiuto concreto, e soprattutto di fiducia in quello che andavo facendo. A Laura questo libro deve esplicitamente la realizzazione della Bibliografia e degli Indici: ma implicitamente deve molto di piú.

NASCERE

Prologo sull’Olimpo

Dunque si racconta che proprio il giorno in cui Alcmena avrebbe dovuto partorire Eracle, nella città di Tebe dalle belle mura, Zeus si rivolse a tutti quanti gli dèi e vantandosi dichiarò quel che segue 1: Ascoltatemi tutti, dèi e dee, vi dirò ciò che il cuore mi detta nell’animo. Oggi Eileíthyia dal doloroso travaglio farà venire alla luce un uomo che regnerà su tutte le genti vicine, uno fra gli uomini che per stirpe e per sangue discendono da me.

1. L’astuta interlocutrice. Zeus però non aveva tenuto conto della straordinaria sagacia di sua moglie Era «dalla mente ingannatrice». La quale gli rispose in questo modo 2: È una menzogna, non compirai le tue parole 3; orsú, dio dell’Olimpo, giurami con giuramento solenne che su tutte le genti vicine regnerà davvero colui che in questo giorno cadrà fra i piedi di una donna, uno fra gli uomini che discendono dal sangue della tua stirpe.

Zeus non comprese l’inganno che si celava dietro le parole della moglie e giurò, come lei gli aveva chiesto, con giuramento solenne. Fu questo il momento in cui la mente di Zeus fu «accecata da Ate» 4: ovvero, come diremmo noi, piú laici, fu allora che Zeus commise il suo terribile errore. Perché subito Era … con un balzo lasciò la cima dell’Olimpo e rapidamente raggiunse Argo di Acaia, dov’era la nobile sposa di Stenelo figlio di Perseo; essa attendeva un figlio, il settimo mese era compiuto; ma Era lo fece venire alla luce prima del tempo e arrestò invece il parto di Alcmena, trattenne le Eileíthyiai. Poi andò ad annunziare a Zeus figlio di Crono: «Zeus, padre, dio della vivida folgore, voglio dirti una cosa: è nato un uomo valente che regnerà sugli Achei, Euristeo figlio di Stenelo della stirpe di Perseo: è della tua stirpe, è

degno di governare gli Achei» 5.

Anche di Euristeo infatti si poteva dire, a buon diritto, che apparteneva alla stirpe di Zeus: suo padre, Stenelo, era figlio di Perseo, e Perseo era a sua volta figlio di Danae e di Zeus 6. Il fatto è che Zeus aveva lasciato in giro un po’ troppa gente che discendeva dal suo stesso sangue. Bloccando il parto di Alcmena, e accelerando quello di Nikippe, moglie di Stenelo 7, Era aveva fatto in modo che la solenne dichiarazione di Zeus di fronte agli dèi si adempisse comunque in modo corretto. Ma cosí facendo, era riuscita insieme a strappare a Zeus il piacere di fare del figlio suo e di Alcmena il signore di tutte le genti vicine. Inutile dire che Zeus, quando si rese conto di essere stato ingannato, fu colto da grande dolore: pieno d’ira afferrò Ate per la testa e la scagliò giú dall’Olimpo, giurando che mai piú la dea che tutti acceca sarebbe ritornata in cielo. Cosí, rapidamente, Ate raggiunse il mondo degli uomini 8. Naturalmente, questo finale della storia implica anche che da quel momento in poi Ate ebbe la possibilità di dedicare tutte le sue attenzioni esclusivamente a noi, poveri mortali. Lo sapeva bene Agamennone, che questa storia di Zeus accecato da Ate la raccontò agli Achei proprio per spiegare a tutti quanti come era potuto accadere che, mentre Ettore devastava le navi dei Greci, lui non aveva fatto nulla per riconciliarsi con Achille 9. Il fatto è che anche lui era stato accecato da Ate. Avviciniamoci alla povera Alcmena. Il testo dell’Iliade, per la verità, non è molto generoso di particolari per quel che riguarda le vicende della madre di Eracle. Un solo verso, per dire che Era «arrestò … il parto di Alcmena, trattenne le Eileíthyiai». Le Eileíthyiai sono le divinità che presiedono al parto 10, mentre la nota dello scoliasta al testo di Omero, ci informa che qui le Eileíthyiai costituirebbero una figura di «metonimia», e sarebbero da intendersi nel comune senso di «doglie» 11. In questo modo il discorso omerico diventa certamente piú normale e naturale (almeno per la mentalità di uno scoliasta) ma anche molto piú povero: è vero infatti che le Eileíthyiai sono le doglie, ma senza cessare di essere contemporaneamente delle dee. Nella rappresentazione omerica, le doglie e le divinità che a esse presiedono formano un’unità difficilmente separabile 12. Comunque sia, quel che ci viene detto è soltanto che le doglie-Eileíthyiai di Alcmena furono trattenute da Era, che cosí facendo arrestò il suo parto, mentre quello della madre di Euristeo fu accelerato. Nient’altro.

Bisognerà pensare che il poeta omerico non aveva interesse a descrivere qui in che modo, esattamente, le Eileíthyiai furono «trattenute», e neppure come fu che il loro blocco, a un certo punto, fu sciolto – perché è certo che Alcmena poté infine partorire, tant’è vero che Eracle fu generato, e fu anzi il piú glorioso di tutti gli eroi greci. Evidentemente non era questo ciò che la Musa ispirava al poeta in quel momento, ma altro: né una dettagliata descrizione delle disavventure di Alcmena rientrava nella moíra secondo cui, con «buona distribuzione» narrativa, questo episodio mitico doveva essere raccontato 13. La storia di Alcmena non è difficile da narrare – come vedremo piú avanti, il retore Libanio era riuscito a raccontarla in poche righe, e perfettamente. Omero avrebbe potuto benissimo farlo, solo che non ha voluto. Ecco perché, per conoscere davvero che cosa accadeva ad Alcmena mentre Era si prendeva gioco di Zeus, dovremo in seguito rivolgerci ad altre versioni del mito, che per nostra fortuna sono molto piú generose dell’Iliade. Il fatto è che, come vedremo, si tratterà di racconti i quali provengono non da un aedo che canta storie sanguinose di eroi maschi ma dalla voce di un narratore che – in piú di una occasione – si dichiarerà esplicitamente come persona femminile. E questo fa una grande differenza.

2. I quattro «temi» del racconto omerico. Se Omero ci lascia un po’ insoddisfatti per quel che riguarda la persona di Alcmena, e dunque dovremo attendere qualche capitolo prima di conoscerne meglio lo sviluppo, gli antefatti mitici delle disavventure toccate alla partoriente meritano comunque molta attenzione. La storia di Alcmena, infatti, si presenta assai singolare fin dal suo prologo in cielo. Vediamo anzi di indicare brevemente i punti salienti del racconto omerico. Sembra infatti chiaro che abbiamo a che fare con quattro temi principali, i quali, intrecciandosi nella narrazione in modo abile e piuttosto divertente, danno vita al finale che conosciamo. Proviamo a elencarli di seguito. Il primo di questi temi consiste certamente nel modo in cui la dichiarazione di Zeus è formulata. La cosa si potrebbe addirittura mettere nei termini di una domanda diretta: ma perché Zeus, al momento di fare la sua solenne proclamazione sull’Olimpo, invece di dire semplicemente «mio figlio» usa una formulazione cosí complicata («uno fra gli uomini che per stirpe e per sangue discendono

da me»)? C’è da sospettare che il padre degli uomini e degli dèi definisca suo figlio in modo cosí arzigogolato perché in questo modo intende mascherarne la vera identità – ovvero, perché agendo cosí si propone di evitare la possibilità che suo figlio sia confuso con qualcun altro che non è nominato. Vedremo che si tratta, verisimilmente, di entrambe le cose. A questo tema se ne lega immediatamente un altro, il secondo, che corrisponde a una domanda assai piú radicale: indipendentemente dal modo in cui è formulata, qual è il significato di questa solenne dichiarazione?; perché, in definitiva, la nascita del bambino deve essere suggellata da questa sorta di «verdetto» prenatale? Il terzo tema corrisponde invece all’abile distorsione cui Era sottopone la dichiarazione giurata dell’incauto marito. La malizia verbale della dea merita veramente di essere misurata da vicino. Il quarto tema infine è piú generale, e coincide con la speciale importanza che viene attribuita da Zeus, e quindi anche da Era, alla determinazione di un certo e specifico giorno che la nascita del bambino deve assolutamente rispettare: colui che nascerà «oggi», dice Zeus, sarà il signore di tutte le genti vicine. La dimensione del tempo, del tempo preciso, gioca insomma una parte fondamentale nell’articolazione del racconto. Colui che, pur dotato degli stessi requisiti, dovesse nascere «domani», ovvero fosse nato «ieri», non avrebbe lo stesso destino. Di questi quattro temi ci occuperemo dunque nei paragrafi che seguono: tornando ad analizzare nel dettaglio il testo omerico ovvero, quando sarà necessario, allargando il nostro orizzonte in una direzione piú decisamente comparativa.

3. I gemelli segreti e il verdetto fatidico. È noto che gli dèi omerici mostrano spesso di essere spinti da motivazioni decisamente umane, in molte delle cose che fanno. E si può ben dire che anche il nostro caso rientra nella regola. Zeus non poteva certo dichiarare, in presenza della moglie Era, che gli sarebbe nato un figlio da un’altra donna: e che, oltretutto, proprio a questo figlio intendeva riservare un destino di gloria. Era è «gelosa» delle donne di Zeus 14. Sappiamo anzi che fra i motivi della gelosia di Era nei confronti di Zeus stava proprio il fatto che egli la escludeva

dalla maternità, piú esattamente, dalla possibilità che fosse lei a generargli «un figlio bello e forte». Il marito preferiva farne nascere da altre donne o, addirittura, metterne al mondo da solo 15. Diventa dunque abbastanza facile affrontare il primo dei nostri temi, ossia la formulazione vaga, parafrastica, usata da Zeus per indicare il piccolo Eracle: «oggi Eileíthyia dal doloroso travaglio farà venire alla luce un uomo che regnerà su tutte le genti vicine, uno fra gli uomini che per stirpe e per sangue discendono da me». Si tratta di un semplice problema di reticenza. Con tutta probabilità, se il contesto della sua enunciazione fosse stato differente – insomma, se Era non fosse stata lí – Zeus avrebbe potuto essere meno reticente e quindi meno ambiguo. Zeus comunque aveva preso le sue precauzioni. I requisiti per l’identificazione del futuro «signore delle genti vicine» sono piuttosto ben definiti. Il bambino che egli intende designare nascerà infatti in un momento preciso, «oggi», e fra tutti i bambini nati «oggi» bisognerà tener conto di quelli che «discendono dal sangue e dalla stirpe» di Zeus. Ma non basta ancora, Zeus è persino piú preciso. Non dice «dalla mia stirpe e dal mio sangue», alla designazione della stirpe e del sangue aggiunge infatti un «da me» (ex emeû). Questo pronome è importante, è come il segno del fatto che Zeus si preoccupa di marcare in qualche modo il contatto diretto, personale che sussiste fra lui e quel bambino. Sarà bene dire, a questo punto, che coloro i quali nel passato hanno voluto leggere questo testo omerico in un altro modo, scrivendo non «da me» (ex emeû) ma «dal mio» (ex emoû), riferito al «sangue» che precede, hanno rischiato di impoverire il testo 16. Zeus non intende che sia una generica faccenda relativa alla «mia stirpe»: lui stesso deve essere messo al centro dell’evidenza, «da me» – anche se questo non significa ancora dire apertamente «mio figlio», è chiaro 17. Il problema della reticenza resta. C’è qualcosa di strano, comunque, in questa formulazione. Come un eccesso di determinazione – una determinazione che, lo sappiamo, si rivelerà del tutto insufficiente, ma non importa. Quando Zeus enuncia la sua definizione del nascituro, non si sa ancora nulla dell’inganno di Era. Lo strano sta proprio in quel «da me». Non sarebbe bastato dire «dalla mia stirpe»? Quanti altri bambini della stirpe di Zeus dovevano mai nascere, «oggi», perché fosse necessario insinuare quell’ulteriore determinazione, «da me»? Il fatto è che quel giorno ne dovevano nascere due, di bambini della stirpe di Zeus, non uno solo. E questo Zeus lo sapeva per forza.

La storia di Alcmena, notoriamente, ha anche dei tratti imbarazzanti. Perché ella aveva sí concepito un figlio da Zeus, ma ne aveva concepito un altro anche da suo marito, Anfitrione. Come narra il poemetto intitolato Lo Scudo: Alcmena, unendosi al dio, e a suo marito, il migliore fra gli eroi, in Tebe dalle sette porte generò due gemelli, ma di diversa indole: sebbene fossero fratelli. Uno inferiore, l’altro molto superiore, potente, saldo, la forza di Eracle: questo dall’unione con Zeus adunatore di nubi, ma l’altro, Ificle, dall’unione con Anfitrione scuotitore di lancia. Stirpe separata, l’uno generato da un uomo mortale, l’altro da Zeus Cronio, signore di tutti gli dèi 18.

I gemelli sono considerati spesso, nella cultura antica cosí come in quella medievale, frutto di un adulterio 19. Cosí accade per questi due, Eracle e Ificle. Due gemelli chiamano due padri distinti, e qui ci sono: Zeus da un lato, Anfitrione dall’altro 20. Zeus dunque sapeva che quel giorno, «oggi», sarebbero nati due bambini. Voleva essere ben sicuro di indicare il gemello giusto, in quella «stirpe divisa» non bisognava commettere scambi di persona. C’erano due padri in gioco, e due figli di valore assai diseguale. Non si poteva correre il rischio, con una designazione troppo sommaria, che fra i due figli di Alcmena fosse prescelto quello sbagliato. Ecco allora che Zeus specifica «da me». E magari fosse finita qui, che sarebbe già abbastanza complicato: con due bambini nati nello stesso giorno e dalla stessa donna, di cui uno figlio di Zeus e l’altro no. Invece c’è dell’altro. Perché a dir la verità anche Ificle, il figlio che Alcmena aveva generato da Anfitrione, aveva un po’ di sangue di Zeus nelle vene: proprio come Euristeo, il figlio di Stenelo e di Nikippe. Zeus era imbattibile nell’arte di aggrovigliare le genealogie. Il padre di Ificle, Anfitrione, era infatti figlio di Alceo, figlio di Perseo, figlio di Zeus. Ma anche Alcmena, la sedotta, era discendente di Zeus: figlia di Elettrione, figlio anche lui di Perseo. A questo punto, credo che il lettore abbia come minimo diritto a uno schema 21:

In casi del genere, la genealogia costringe immediatamente a considerare le cose sotto un differente punto di vista. Zeus aveva sedotto una sua propria bisnipote, Alcmena, che era insieme la moglie di un altro dei suoi bisnipoti, Anfitrione. Quella notte a Tebe aveva proprio combinato un bel pasticcio. Non solo suo figlio Eracle, ma tutti quelli implicati in questa vicenda avevano il suo «sangue» nelle vene e provenivano dalla sua «stirpe». Ificle, il gemello inferiore, era suo discendente addirittura da due parti, per via materna e per via paterna! Aggiungere quel «da me», per indicare Eracle nella sua prudente definizione del nascituro, non era eccesso di determinazione: se mai, era il minimo indispensabile. Dunque Zeus, per quanto reticente, si era preparato bene. Conosceva la rete del suo proprio sangue, sapeva che «oggi» sarebbe nato non un solo bambino «della sua stirpe» ma ne sarebbero nati due 22: e ci teneva a distinguere fra i gemelli, Eracle e Ificle, privilegiando quello piú direttamente (verrebbe voglia di dire: piú recentemente) legato al suo sangue. Seppure con una certa fatica, stiamo entrando nei pensieri di Zeus: del resto si sa che la sua «mente» era particolarmente «complessa» 23. I motivi della complicata definizione che egli dà del nascituro adesso ci appaiono forse piú chiari. Ma l’interpretazione generale del mito ne guadagna se, venuti come siamo a parlare di gemelli, e della necessità di distinguerli, affrontiamo subito il secondo dei temi che avevamo individuato all’interno del racconto. Questo tema l’avevamo definito la «domanda radicale», e suonava cosí: indipendentemente dal modo in cui è formulata, perché questa solenne dichiarazione?; per quale motivo la nascita del bambino viene suggellata da una sorta di esplicito verdetto prenatale? Il fatto che la pubblica dichiarazione di Zeus abbia a che fare, come abbiamo visto, con la necessità di distinguere fra due gemelli, Eracle e Ificle, può aiutarci a capirlo. In una delle sue ultime fatiche, Claude Lévi-Strauss si è lungamente

occupato di gemelli, e soprattutto del problema della distinzione fra essi 24. Sono infatti frequenti i miti sudamericani in cui due gemelli, in base alle circostanze della propria nascita o del loro comportamento, si rivelano di indole e caratteristiche diverse. Molto interessante, dal punto di vista comparativo, si rivela per noi un mito degli Indios del Brasile, quello di Mastro Ata. Si tratta di un tipo molto diffuso, e anche molto antico (fu infatti raccolto già nel secolo XVI ). Dunque Mastro Ata sposa una compaesana, che resta incinta. La donna si mette a vagabondare, e viene messa incinta anche da Sariga, il quale genera in lei un figlio «che in pancia tiene compagnia al primo». La donna viene uccisa da Indios feroci, che prima di mangiarla gettano i gemelli fra i rifiuti, ma un’altra donna li trova, li alleva, e come c’era da attendersi essi vendicheranno un giorno la morte della madre. Una cosa però occorre notare: il figlio di Sariga si rivela invulnerabile, quello di Mastro Ata, invece, vulnerabile. Anche qui i gemelli sono figli di due padri distinti, e anche qui c’è un gemello superiore e uno inferiore, proprio come nel caso di Eracle e Ificle. Altre volte, come accade nel ciclo mitico che porta il nome di Lodge Boy and Thrown-Away, sono proprio le circostanze della nascita che suggeriscono la distinzione fra i gemelli: lasciando prevedere che essi avranno temperamenti opposti 25. Che cosa c’è al fondo di questo tipo di racconti? Secondo Lévi-Strauss, si tratta della necessità, molto sentita anche in America, di ribadire la stessa credenza che abbiamo appena ricordato per il Mondo Antico: i gemelli presuppongono una paternità diversa e separata, e questo bisogna che, in qualche modo, sia subito chiaro. La necessità di distinguere fra i gemelli ha in realtà anche una portata molto piú generale, che verte sulla impossibilità di ammettere che il doppio, l’identico, il perfettamente pari, esista in natura. Negando la gemellarità, attribuendo ai gemelli caratteristiche e indoli differenti, cosí come si attribuiscono loro due padri diversi, si riaffermano in qualche modo i diritti della unicità 26. Il discorso di Lévi-Strauss si fa ancora piú interessante, dal nostro punto di vista, allorché egli riconnette alla necessità di distinguere fra i gemelli, affermandone le reciproche e diverse identità, anche un tipo mitico che contempla proprio una sorta di «verdetto» prenatale sul tipo di quello emesso da Zeus. Esso compare allorché il mito ha a che fare con una distinzione relativamente al sesso del nascituro, per esempio in questa forma: al

momento della nascita qualcuno, riferendosi al bambino, dichiara «se sei femmina vivrai, se sei maschio morirai». Le motivazioni portate dal racconto perché si giunga a una dichiarazione di questo tipo possono essere molteplici: un padre spaventato dalla possibilità che un figlio maschio gli porti via tutto quello che possiede, oppure un oracolo minaccioso, e cosí di seguito. Resta però il fatto che il verdetto pronunziato «prima» della nascita serve in qualche modo a distinguere, a identificare l’essere che dovrà nascere, e che ancora non esiste. Questo tema della condizione posta prima della manifestazione di un bambino, e relativa alla determinazione del suo sesso, ricompare anzi in un mito dei Kutenai, abitanti della zona pedemontana delle Montagne Rocciose. Yaukekam, l’eroe civilizzatore di questa popolazione, da bambino viene mandato dalla nonna. Quando Yaukekam arriva a casa della nonna la vecchia sta dormendo. Al suo risveglio capisce però che nella casa è penetrato un bambino, salvo che, dice la nonna, «nessuno sa se è mio nipote o mia nipote». Allora la vecchia ricorre a uno stratagemma. Lascia in giro un piccolo arco e un piccolo canestro, poi si rimette a letto. Dalla scelta del bambino, a seconda del fatto che egli avrà preferito un giocattolo da maschio o da femmina, trarrà la conclusione appropriata 27. Il problema sta all’incirca cosí: questo «essere» che si reca dalla nonna ha, per il momento, un’esistenza soltanto virtuale. Per poter acquisire la propria identità deve manifestarsi, e farlo secondo certe regole che gli vengono prescritte «prima» della sua manifestazione.

Figura 1. Eracle bambino strozza i serpenti, affresco, I secolo. Pompei, Casa dei Vettii. (© 2018. Foto De Agostini Picture Library / Scala, Firenze).

Il fatto è che il bambino non nato, o non ancora conosciuto, è come se fosse un «gemello di se stesso», deve scempiarsi 28. Da questo punto di vista il verdetto, o la condizione posta al momento della nascita di un bambino ancora sconosciuto, non differisce dalla prova che i due gemelli danno di sé al momento della loro comparsa sulla faccia della terra – dichiarando cosí, apertamente, la loro rispettiva paternità e dunque la loro esatta identità.

Sembrerebbe dunque probabile che la solenne dichiarazione di Zeus, fatta al momento della nascita dell’eroe e attenta a distinguere fra la diversa identità paterna dei due gemelli che stanno per affacciarsi al mondo, rientri anch’essa nella generale categoria del verdetto fatidico: quello che nei miti sudamericani viene emesso al momento di una nascita, per qualche motivo, dubbia o incerta. Anche l’eroe Eracle trova sancita la propria identità nel fatto di corrispondere a una condizione posta preventivamente alla sua nascita. Del resto, che l’identità del gemello Eracle dovesse essere segnata non solo da un verdetto prenatale, quello di Zeus, ma da una vera e propria prova di identità, come quelle registrate dai miti gemellari sudamericani, risulta chiaro da altre varianti del mito. Eliano racconta per esempio che non appena «Eracle fu partorito … subito cominciò ad andare a quattro gambe» 29. Si tratta evidentemente di una tipica prova di eccezionalità fornita dal figlio del dio, che subito lo distingue dai figli degli uomini 30. Una variante del mito relativo alla nascita di Eracle dataci da Ferecide è ancora piú esplicita 31. Si raccontava infatti che, allorquando Alcmena ebbe partorito i gemelli, Anfitrione mise due serpenti nel loro letto «perché voleva sapere quale dei due bambini fosse nato da lui. E quando vide che Ificle fuggiva, mentre Eracle accettava la lotta, capí che Ificle era quello nato da lui» (cfr. fig. 1). Evidentemente il problema dell’identità dei gemelli, e della distinzione della loro paternità, non interessava soltanto a Zeus, colui che aveva emesso il fatidico verdetto: interessava anche all’altro padre, Anfitrione, che volle mettere alla prova le diverse indoli dei gemelli per rompere cosí l’enigma della loro dualità. Anfitrione era il padre minore, se cosí si può dire, però aveva anche lui diritto a sapere come stavano veramente le cose.

4. Ate e l’ermeneutica. Diciamo la verità, Zeus si trova in una condizione non facile. La situazione a cui deve riferirsi è inevitabilmente complessa (due gemelli, entrambi legati a lui in qualche modo, e fra cui bisogna distinguere), mentre il contesto in cui si trova a formulare la sua enunciazione è piuttosto ostile: non poteva che uscirne una formazione linguistica di compromesso, una frase tanto calibrata quanto ambigua 32. Zeus è bravo, ma al momento in cui pronunzia la sua frase almeno un errore l’ha già fatto: si è fidato del tempo.

«Oggi», dice, fiducioso che l’ordine temporale della natura non possa tradirlo. E cosa c’è di meglio della data di nascita per identificare una persona? Anche noi, oggi, facciamo lo stesso sui documenti. Salvo che non è lui il signore delle nascite: è piuttosto Era, la nemica di Eracle. È lei infatti la madre delle Eileíthyiai, sono loro, non Zeus, a decidere quando e se una donna deve portare a compimento il suo travaglio 33. Come si vede, stiamo entrando nel terzo dei temi che avevamo identificato sopra: la risposta di Era, l’abile strategia di distorsione cui la dea sottopone la solenne dichiarazione del marito. Le sventure di Alcmena consistono tutte in una questione di ermeneutica. Era riprende infatti la frase del marito, e gli rivolge la fatidica domanda: è veramente «questo» che intendi dire? La domanda dell’interpretazione. Era infatti chiede al marito di giurare, con giuramento solenne, che ha detto veramente quel che ha detto, e cosí facendo ripete pari pari le parole di Zeus, per chiedere se è disposto nuovamente a sottoscriverle. Cioè, non pari pari, in realtà c’è una piccola differenza: il famoso pronome personale adesso è scomparso, ed è stato sostituito da un aggettivo. Era non dice «uno fra gli uomini che per stirpe e per sangue discendono da te»; nella sua formulazione la frase di Zeus diventa «uno fra gli uomini che discendono dal sangue della tua stirpe» (hoì s s ex haímatos… genéthl s) 34. Zeus non è interprete attento. Non si accorge della piccola differenza fra le due enunciazioni, e giura. Quando Ate si mischia in questioni di ermeneutica, il risultato non può che essere disastroso: pollòn aásth , dice infatti il testo di Omero al momento dell’incauto giuramento di Zeus, il poveretto «molto fu accecato». Come si fa a ben giudicare dell’interpretazione di un testo quando si è sotto l’influsso di Ate? Zeus è proprio distratto. Perché Era ha modificato non solo lo stato civile (per dir cosí) del nascituro, ma anche le modalità della sua nascita. Zeus infatti aveva dichiarato: «oggi Eileíthyia dal doloroso travaglio farà venire alla luce un uomo che regnerà su tutte le genti vicine…» Zeus alludeva a una nascita diciamo usuale, con Eileíthyia, la dea che di queste cose si occupa, impegnata nel «far venire alla luce» il bambino. Vediamo invece come suona l’affermazione di Zeus nella riformulazione che ne dà Era. Adesso il nascituro è diventato «colui che in questo giorno cadrà fra i piedi di una donna…» Che strana espressione. Perché questo povero bambino non può piú essere «portato alla luce» dall’apposita dea, ma è destinato a «cadere fra i

piedi» di sua madre? È abbastanza interessante seguire quello che i commentatori omerici moderni (dello scoliasta antico ci occuperemo piú avanti) 35 notano a questo proposito. Essi sottolineano infatti che si tratta di una espressione semplicemente «naïve», o addirittura «primitiva», per indicare la nascita. Oppure non dicono nulla, magari lasciando intendere, senza compromettersi, che si tratti di un’allusione al parto in ginocchio 36. Eppure su questo tema della «caduta» del bambino, in prospettiva antropologica, ci sarebbe in realtà molto da dire 37. Solo nel vecchio commento di K. F. Ameis e C. Hentze ci si imbatte in un’osservazione molto acuta 38: «questa espressione viene sostituita a quella di Zeus perché la nascita di Euristeo, cosí come Era l’ha escogitata, non viene realizzata con l’aiuto di Eileíthyia». Le Eileíthyiai non possono trovarsi ad assistere Nikippe, la madre di Euristeo, per il semplice fatto che si trovano accanto ad Alcmena, «trattenute», come dice il testo omerico. Ma indipendentemente dalla presenza o meno delle Eileíthyiai al capezzale di Nikippe (l’osservazione potrebbe suonare in questo senso un po’ positivistica), non c’è dubbio che il parto di Nikippe si configuri come qualcosa di molto improvviso e affrettato, realizzato sotto l’incalzare del termine («oggi») fissato da Zeus per la nascita. La donna è solo al settimo mese ma nonostante questo Era fa in modo che il bambino venga «alla luce prima del tempo». Nikippe non si aspetta di partorire, non è preparata e non ha assistenza, ecco perché il bambino le «cadrà fra i piedi». Magari è fuori e si appoggia a un albero, in piedi, colta dalle doglie improvvise. Oppure si è messa a sedere. Chissà. Nella tradizione occidentale c’è comunque un altro celebre bambino destinato a «cadere per terra» al momento della sua nascita, l’Alessandro della tradizione romanzesca (cfr. fig. 2). E anche in questo caso la madre, Olimpiade, è una donna che partorisce sola e senza assistenza. Nectanebo, il mago seduttore che è con lei, si preoccupa infatti di leggere i segni del cielo al momento fatidico, non certo di aiutare la partoriente 39.

Figura 2. Nascita di Alessandro, miniatura. Venezia, Istituto di Studi Bizantini, Greek ms f. 14v. (© Istituto Ellenico di Studi Bizantini e Postbizantini di Venezia).

Torniamo dunque a Era, che è una dea davvero abile e previdente. Come abbiamo visto, ella ha concepito il piano sin nei minimi particolari e non vuole che sia guastato da nulla. Zeus infatti potrebbe dire, a cose fatte: bada che quel che hai realizzato non vale, io avevo detto «un bambino portato alla luce da Eileíthyia», non un neonato caduto fra i piedi di una donna in un parto improvvisato… Ecco che allora, con l’aria di ripetere semplicemente le affermazioni di Zeus per farlo giurare, Era modifica astutamente anche questa

parte della storia: e un bambino «caduto a terra» prende il posto di quello che Eileíthyia doveva «portare alla luce». Sembra di essere in tribunale, con i coniugi che litigano sulla tutela dei figli. L’astuzia di Era è davvero avvocatesca. Ma Zeus è accecato da Ate, e continua a non accorgersi di nulla. Proprio come a certi commentatori omerici, la singolare espressione usata da Era gli sarà parsa una semplice variante stilistica del suo discorso, parole improprie, o addirittura «naïf». Dunque, attraverso l’abile distorsione di Era, nella definizione di Zeus si sono aperte almeno due falle. Una che riguarda le modalità della nascita del bambino designato, un’altra che riguarda la sua genealogia. Adesso, per adempiere il verdetto pronunziato da Zeus, è sufficiente un bambino «caduto fra i piedi di sua madre» e, soprattutto, un bambino che discenda «dal sangue della stirpe di Zeus»: quel famoso «da me» non c’è piú. Questa seconda falla è certo la piú rovinosa. Come sappiamo, infatti, sono molti «coloro che discendono dal sangue della stirpe di Zeus», basta guardare la genealogia. Adesso che Era ha forzato il testo di Zeus, non le resta che approfittare del potere che esercita sulla provincia delle nascite. Anche l’imminente figlio di Stenelo, Euristeo, rientra perfettamente nella categoria «degli uomini che discendono dal sangue della tua stirpe», pensa Era. Basta anticipare a «oggi» la nascita del bimbo settimino, e bloccare invece la nascita dell’altro, quello che Zeus aveva in mente. Ecco insomma che Era, per attribuire a Euristeo (e non a Eracle) un destino di gloria, volge a suo vantaggio la determinazione del giorno fatta da Zeus nel suo verdetto fatidico. Zeus, che era stato cosí bravo a manipolare il tempo quando aveva triplicato la sua notte d’amore con Alcmena, adesso è vittima lui stesso di una manipolazione temporale. E quando Era ritorna sull’Olimpo, per annunziare a Zeus la nascita di Euristeo e designarlo come il futuro signore delle genti vicine, la sua ermeneutica della famosa frase è adesso talmente sommaria, generica, da risultare quasi insultante: «è della tua stirpe, – gli dice, – è degno di governare gli Achei». La complessa definizione di Zeus si è ridotta a due parole, sòn génos, la «tua discendenza». Effetti di Ate. Per la verità, i mitografi posteriori sembrano stare decisamente dalla parte di Era, facilitandone enormemente il compito. O per meglio dire, la loro versione dei fatti appare talmente semplificata che il povero Zeus, riflettendo a posteriori sui suoi sbagli, non avrebbe neppure potuto avere la soddisfazione di dire: sono stato accecato da Ate in un complesso problema

di interpretazione. Secondo loro Zeus avrebbe infatti dichiarato, semplicemente, che «il discendente di Perseo» nato quel giorno sarebbe diventato re di Micene 40. Era come presentare una spada dalla parte dell’impugnatura.

5. A meno che non esca dal mio fianco. Abbiamo ormai analizzato tre dei quattro temi che ci eravamo proposti: adesso comprendiamo meglio perché Zeus abbia racchiuso l’identità del nascituro in una formulazione cosí ambigua e complessa, e perché questa nascita dovesse essere segnata da una sorta di verdetto preventivo; infine, abbiamo cercato di seguire il modo in cui Era, abilmente, riesce a creare una falla interpretativa nella solenne dichiarazione di Zeus, e se ne serve. Non ci resta che affrontare il quarto e ultimo tema proposto, ossia il significato che ha l’indicazione di una data all’interno del verdetto che precede la nascita di un bambino: il problema del tempo preciso. Dunque, il bambino nato «oggi» (non un altro giorno) diventerà un grande eroe. Il verdetto prenatale assume in sé la dimensione cronologica: ecco perché, come vedremo, questa sezione del nostro lavoro si svolgerà spesso sotto la volta stellata dei cieli astrologici. Da parte di Zeus, questa indicazione di un giorno preciso in cui la nascita deve aver luogo viene invocata come strumento capace di determinare l’identità del bambino: niente di strano, lo facciamo anche noi sui documenti, come abbiamo detto. Non lasciamoci fuorviare dalla «mente complessa» di Zeus: nonostante il carattere intricato delle relazioni familiari a cui allude, e l’abile reticenza della sua formulazione, il dio non produce molto di piú di una registrazione all’anagrafe – «nato il giorno tale, figlio di». Salvo che questo atto di nascita è redatto non da un impiegato del comune ma dal signore degli uomini e degli dèi: e come tale, acquisisce immediatamente un significato eccezionale. Sancito da Zeus, quel giorno diventa una data non relativa ma assoluta: è il segno della grandezza e della fortuna. A questo punto, nascere proprio «quel giorno» può costituire una meta appetibile anche per altri. Sappiamo già come andrà a finire. Naturalmente la diversità o l’eccellenza di un certo giorno a scapito di altri, dal punto di vista del destino del nascituro, può essere sancita anche

attraverso mezzi diversi dalla solenne parola di un dio. In primo luogo dal sistema di tradizioni emerologiche che si sono stabilite all’interno di una certa cultura. In Grecia già Esiodo indicava alcuni giorni del mese che erano piú o meno adatti alla generazione di un maschio o di una femmina, con esplicita indicazione del carattere o delle qualità che, nascendo un certo giorno invece di un altro, sarebbero state assunte 41. Mentre Erodoto attribuiva la scoperta di simili forme di emerologia agli Egizi 42. Per quanto ciò possa sembrare sorprendente, ecco che Eracle si affaccia nuovamente all’orizzonte della nostra storia. L’eroe che doveva nascere «quel giorno», infatti, non solo aveva mancato il fatidico appuntamento con il tempo fissatogli dal padre, ma aveva finito per venire alla luce addirittura in un giorno poco raccomandabile: il 4 del mese. Cosí almeno aveva sostenuto Filocoro di Atene, in un’opera che si intitolava proprio Sui giorni. La cosa aveva avuto delle conseguenze molto specifiche sul destino dell’eroe, perché si diceva che «quelli che nascono il 4 del mese faticano solo perché altri possano goderne i frutti». L’espressione aveva addirittura valore proverbiale: «Sei nato il 4 del mese!», per significare coloro che lavorano per altri 43. Eracle insomma non aveva avuto fortuna con la sua data di nascita. Non solo aveva mancato quella che lo avrebbe reso potente, ma era andato a incappare nella data che lo avrebbe necessariamente costretto a lavorare per gli altri. Gli intricati cammini del tempo avevano tutti congiurato affinché l’eroe nascesse – come si dice – sotto una cattiva stella. In materia di influssi e di date, niente comunque come le complicate congiunzioni degli astri è in grado di determinare il carattere buono o nefasto di un certo giorno, o di una certa ora, per venire al mondo. Si può diventare grandi eroi non solo «cadendo fra i piedi di una donna» il giorno indicato da Zeus ma, in culture diverse da quella rappresentata nell’Iliade, nascendo o venendo concepiti con il favore di un’ardua combinazione di segni celesti analizzata da un astrologo. Gli esempi sono ovviamente numerosi, ed è inutile indugiarvi troppo a lungo. Svetonio racconta che, quando Augusto venne alla luce, Ottavio, suo padre, trattenuto dal parto della moglie, arrivò in ritardo in Senato. Quel giorno si deliberava sulla congiura di Catilina e Nigidio Figulo, grande esperto di mantica e di astrologia, «saputa la ragione del ritardo, e conosciuta anche l’ora della nascita, affermò che era nato il padrone del mondo» 44. Vale anzi la pena di segnalare che persino il celebre annuncio che l’angelo fa a Maria può aver a che fare con il nostro tema. Dice

infatti il messaggero del Signore: «Ecco concepirai nell’utero e partorirai un figlio che chiamerai con il nome di Gesú. Egli sarà grande, e sarà chiamato figlio dell’Altissimo, e il Signore Iddio gli concederà il trono di David suo padre. Ed egli regnerà in eterno sulla casa di Giacobbe» 45. Siamo al momento della concezione di Cristo, un evento che sarà ripetuto infinite volte nella pittura europea e che spesso verrà rappresentato tramite l’ingresso di un fiotto di raggi nel corpo della Vergine 46. Come fu acutamente notato da Weiss, però, questo discorso dell’angelo segue molto da vicino il tipico schema dell’oroscopo dato dagli astrologi al momento della concezione 47. Né c’è bisogno di ricordare che fu proprio una stella che, apparsa a Oriente, segnalò ai Magi la nascita del Re dei Giudei 48. Proprio per motivi di oroscopo, si riteneva perciò opportuno annotare precisamente i dati della concezione o della nascita 49. Secondo Goffredo da Viterbo, per esempio, al momento della concezione di Artú da Ygraine e da Uther Pendragon (sotto le mentite spoglie di Gorlois, legittimo marito di Ygraine), si prese puntigliosamente nota di «notte, giorno … e hora» in cui questo incontro si era svolto 50. L’astrologo poteva poi essere direttamente presente al parto, come accadeva per l’appunto in occasione di nascite reali (altrimenti, il compito di scrutare il cielo era delegato semplicemente alla levatrice) 51. A volte possiamo addirittura vederlo raffigurato, questo astrologo-ostetrico: un vecchio barbuto che indica il cielo stellato attraverso una finestra della stanza in cui una partoriente spossata è assistita dalle levatrici 52. Altre volte infine può accadere che non solo l’astrologo sia presente al momento del parto, ma in qualche modo lo diriga: e qui ci avviciniamo al tema che specificamente dovremo trattare 53. Cominciamo con il capostipite dei Sassanidi, Artassare-Ardeshir. In Persia viveva infatti un oscuro ciabattino, di nome Pabecos, che in realtà era anche uno straordinario conoscitore degli astri e dei loro segreti. Attraverso queste sue cognizioni astrologiche, Pabecos aveva scoperto che Sasanos, un soldato, avrebbe potuto generare da sua moglie un figlio destinato a stupenda fortuna. Ma non solo. Pabecos aveva anche individuato il momento preciso del tempo in cui la generazione dell’eroe avrebbe dovuto aver luogo affinché la fortuna del nascituro, Artassare appunto, potesse realizzarsi. La scrupolosa osservanza delle indicazioni dell’astrologo aveva portato alla nascita dell’eroe 54. Ma non si tratta solo di astrologi o di futuri re. Anche nel mondo degli animali – quello rappresentato per noi dalla cultura del Fisiologo, là

dove la zoologia funziona come specchio fantastico delle credenze degli uomini – si teneva conto delle congiunzioni astrologiche per orientare in base a esse la generazione della prole. Nel Fisiologo si legge infatti che lo struzzo, quando deve deporre le uova, guarda in cielo, per vedere se vi è salita stella illa quae dicitur Virgilia. Infatti questo uccello non depone le uova se non dopo che è sorta tale costellazione, cioè a giugno. Quando lo struzzo vede finalmente che la Virgilia (Vergiliae: le Pleiadi) è in cielo, allora scava la terra, vi depone le uova e le ricopre, dimenticando subito il luogo dove le ha sepolte 55. Anche gli animali dunque sono sensibili al tema della coincidentia che sancisce il momento della generazione o della nascita. Dal nostro punto di vista, comunque, molto piú interessanti si presentano quei casi in cui la coincidentia fra la nascita e una certa congiunzione astrale viene realizzata non spontaneamente ma in modo forzato: proprio come nel caso di Euristeo, che venne alla luce «oggi» perché le doglie di sua madre furono accelerate – ovvero nel caso di Eracle, che «non» venne alla luce «oggi» perché le doglie di sua madre furono arrestate. In questo senso, l’esempio di maggior interesse è costituito ovviamente dalla nascita dell’eroe nel Romanzo di Alessandro 56. Eccoci infatti in presenza di un astrologo che dirige direttamente un parto per farlo coincidere con una particolare congiunzione astrale, e per ottenere questo risultato costringe la futura madre a ritardare la nascita del bambino. L’autore del Romanzo ha già raccontato di come l’astrologo Nectanebo abbia predetto a Olimpiade, moglie di Filippo, che ella genererà un figlio dal dio Ammone. E anche di come, avvalendosi dei suoi poteri, il mago abbia sedotto la regina facendole credere di essere in realtà Ammone in persona. La regina concepisce, ed entrambi aspettano adesso il momento del parto. Finito il tempo della gravidanza Olimpiade si sedette dunque sulla sedia ginecologica e cominciò a sentire le doglie. Nectanebo stava lí ad assisterla, nel ruolo – abbastanza inedito, però ricorrente nelle storie che dovremo leggere – di «levatrice-maschio». Ma piú che badare al parto della regina il mago si dedicava a osservare nel cielo il movimento delle costellazioni, e cosí facendo la esortava a non accelerare il parto. Infatti con la sua scienza magica teneva sotto controllo la situazione. E cosí le diceva «donna, trattieniti, e vinci l’impulso che ti viene dalla natura. Perché se partorisci ora, genererai uno schiavo e un prigioniero di guerra o un mostro immane». La donna era afflitta da doglie sempre piú forti, ma Nectanebo le diceva: «sopporta ancora un poco, donna. Perché se partorisci

ora, tuo figlio sarà un gallo evirato». Con queste parole Nectanebo la esortava, insegnandole a chiudere con le mani la via del parto, mentre lui stesso tratteneva le doglie con le sue arti magiche. Finalmente, osservando i cammini dell’universo, Nectanebo vide che tutto il cielo stava in equilibrio perfetto mentre un chiarore, come quello del sole a mezzogiorno, lo inondava. Allora disse a Olimpiade: «lancia adesso il grido della nascita!» E lui stesso fece con il capo un cenno, che consentiva al parto. E le disse: «ecco partorirai un re che sarà il signore del mondo». Olimpiade gridò, piú forte del muggito di una mucca, e generò un figlio maschio, sotto il segno della fortuna. E non appena il bambino fu caduto a terra ci furono fragore di tuoni e balenio di fulmini, tanto che l’intero universo ne fu scosso. In altre versioni del romanzo la scena si presenta piú ampia, e i riferimenti astrologici sono molto piú lunghi e complessi. Cosí accade nella cosiddetta versione A, dove ugualmente Olimpiade si siede sulla «salvifica sedia che fa partorire» mentre Nectanebo «misura i cammini celesti delle stelle» 57. Dopo di che, il mago si volge verso il circolo dello zodiaco, e le dice: … alzati per un po’ dalla seggiola e vai a fare una passeggiata. Perché lo Scorpione sorge e il Sole con la quadriga, che retrocede scorgendo la moltitudine degli animali celesti, esclude assolutamente dal cielo la persona nata in quest’ora. Controlla le tue doglie, nobile signora, per tutto il tempo in cui dura il potere di questa costellazione. Perché il Cancro sorge…

Seguono descrizioni di altre costellazioni e di altre sfavorevoli congiunzioni astrali, insieme con altre esortazioni a Olimpiade a tener duro. Colui che fosse partorito in quest’ora … desta lamenti intorno a sé … Ares ama i cavalli e la guerra, ma ora giace nudo e disarmato sull’adultero letto sotto la luce del sole, a mo’ di esempio. Cosí che sarà disprezzato colui che nascerà in quest’ora. Lascia passare o regina anche questa stella di Ermes nel Capricorno presso il Malfamato 58. Cosí partoriresti un attaccabrighe, assai dotto ma dalla mente bizzarra…

Infine Nectanebo dice alla regina: Ora o regina siedi comodamente sulla sedia che dà buoni servigi, e che le doglie del tuo parto siano di straordinario vigore. Perché Zeus amatore di vergini, chiaro in mezzo al

cielo 59, mostrando il Dioniso Bacchico nutrito nella sua coscia, si trova nell’Ariete Ammone sotto l’influsso dell’Aquario e dei Pesci, e mette sul trono un Egizio, un re conquistatore del mondo. Partorisci in questa ora! Appena detto ciò il bambino cadde a terra e il lampo balenò, il tuono rimbombò, la terra tremò, cosí che l’intero universo ne fu scosso.

Ugualmente ricca di dettagli astrologici, pur se orientati in modo ancora differente, si presenta la versione siriaca del romanzo 60. Ecco dunque un altro grande eroe «cadere tra i piedi di una donna», come diceva il testo dell’Iliade 61. Ma soprattutto, eccolo «cadere a terra» in un momento preciso, «in questa ora». Allo stesso modo di Nikippe (la madre di Euristeo) e di Alcmena, anche Olimpiade si presenta come una donna il cui travaglio viene distolto dal proprio corso naturale per essere accordato con un particolare momento del tempo. La coincidentia non viene stabilita con un certo giorno fissato da Zeus, come nell’Iliade, ma con un particolare momento astrologico identificato dalla scienza del mago. Adesso è il codice dei segni celesti che funge da mappa del destino. A ogni momento il mago è in grado di dedurre dalla natura mitologica dei segni la sorte che toccherà al nato in quell’«ora». Il padre degli uomini e degli dèi, con l’indicazione esplicita del suo volere temporale («colui che nascerà oggi…»), è stato rimpiazzato da un’enigmatica carta celeste, che solo il grande astrologo può decriptare. Colpisce comunque il fatto che Zeus, in qualche modo, resti. Come si è visto è ancora lui che attribuisce all’uomo nato «in questa ora» la caratteristica di essere «un re conquistatore del mondo». Pur se adesso il sommo «amatore di vergini» è divenuto semplicemente un «segno» del cielo. La nascita di Alessandro, marcata com’è da costellazioni e calcoli astrologici, non mancò di entrare nella riflessione filosofica medievale. Per un interessante slittamento di prospettiva, però, Nectanebo appare qui interessato non tanto alla condizione degli astri al momento della nascita dell’eroe, quanto alle congiunture in cui si realizza la sua concezione. Ecco insomma gli astri affacciarsi non la notte del parto e del travaglio ma quella stessa dell’amore – come del resto era già avvenuto, quando Zeus si era unito con Alcmena e le costellazioni si erano come arrestate nel loro cammino, mentre la durata della notte veniva triplicata 62. Quando nasce un eroe il cielo non può restare indifferente, deve in qualche modo manifestare l’eccezionalità di ciò che sta avvenendo nel mondo che giace sotto di lui. Ma

vediamo cosa scriveva Alberto Magno a proposito del mago e di Alessandro: Ippocrate e Galeno dicono che ogni sostanza è legata e congiunta ai pianeti, ai segni e alle complessioni dei quattro elementi. Per questo motivo Nectanebo, il padre naturale di Alessandro, si uní alla madre di lui Olimpiade considerando attentamente il tempo, quando il Sole entrava nel Leone e Saturno entrava nel Toro: voleva infatti che suo figlio prendesse aspetto e poteri da questi pianeti 63.

Il testo greco e latino del Romanzo di Alessandro, almeno cosí come lo possediamo, non sembra contenere tale episodio. Lo incontreremo invece piú avanti, quando parleremo delle versioni arabe di questo racconto 64. È probabile però che Alberto si riferisse qui a un momento precedente nell’intreccio, allorché a Nectanebo, appena giunto a Palazzo, viene richiesto dalla regina un pronostico riguardo al futuro del suo matrimonio con Filippo. Il mago chiede perciò a Olimpiade di rivelargli la genitura sua e del re – ma in realtà, mette a confronto la «sua» propria genitura con quella di Olimpiade, per vedere se «i loro astri coincidessero» 65. In ogni caso, bisogna dire che la pratica di badare alla condizione degli astri al momento di consumare un’unione non doveva suonare né rara né bizzarra alla cultura medievale, per cui non sorprende vedere Alberto Magno spostare il focus dell’astrologia di Nectanebo dal momento della nascita dell’eroe a quello della sua concezione 66. È interessante però che il filosofo si sforzasse di dare un fondamento scientifico alle coincidenze astrologiche volute da Nectanebo. Secondo Alberto insomma l’astrologo sapeva anche di medicina, e il suo comportamento era stato conforme all’insegnamento dei maestri di quest’arte 67. Ma certo la scienza di Nectanebo richiamava anche il maleficio. L’apostolo Tommaso attribuirà infatti ai demoni la stessa cura nella «osservazione dei segni celesti», allorché essi – manipolando il seme altrui – si rivolgono alla procreazione di uomini eccezionali, «desiderando apparire meravigliosi negli effetti che producono» 68. Torniamo al confronto fra la nascita di Alessandro e quella di Eracle. Abbiamo detto che allo stesso modo di Nikippe, la madre di Euristeo, e di Alcmena, la madre di Eracle, anche Olimpiade si presenta come una donna il cui travaglio viene distolto dal proprio corso naturale per essere accordato con una particolare coincidentia temporale. La differenza sta nel fatto che tale coincidenza viene marcata qui dai calcoli dell’astrologo, non da un verdetto

prenatale del sommo Zeus. Come si sarà notato, però, nel racconto della nascita di Alessandro c’è un ulteriore aspetto che lo differenzia da quello della nascita di Eracle: manca il tema del «conflitto» per essere partoriti nella data stabilita, Alessandro non è costretto a competere con un Euristeo che insidia la sua coincidentia. Ma l’universo dei racconti che nella letteratura tardoantica e medievale, a Occidente come in Oriente, si legano alla figura di Alessandro, è talmente vasto che si può incontrare persino una versione della sua nascita che contempla altresí l’elemento del «conflitto» per il privilegio della coincidentia. Si tratta di un racconto proveniente dalla cultura araba, in cui Alessandro porta naturalmente anche il nome orientale di Dhul-Karnain. Lo dobbiamo al grande teologo, erudito e scrittore arabo ad-Damiri, nato a Il Cairo verso l’inizio del 1341 e morto nello stesso luogo nel 1405 69. La sua fama è legata soprattutto all’opera Kitāb Ḥayāt al-ḥayawān (La vita degli animali), una grande enciclopedia zoologica che gli procurò fama sia in Oriente che in Occidente. In quest’opera si legge: C’è una differenza di opinioni riguardo alla discendenza e al nome di Dhul-Karnain. L’autore di Ibtilal-akhyar (L’ultima conquista) dichiara che il nome di Dhul-Karnain era Alessandro, e che suo padre era l’uomo piú dotto della terra nella scienza dell’astrologia. Nessuno aveva osservato i movimenti delle stelle come lui, e Dio aveva esteso la durata della sua vita. Una notte egli disse a sua moglie: «il bisogno di dormire mi ha quasi ucciso. Lasciami solo, che io possa riposare per un po’, e osserva il cielo per me. Quando vedi una [certa] stella sorgere in quel punto – e qui fece segno con la mano verso il luogo in cui la stella doveva sorgere – svegliami, che io possa unirmi a te, e tu concepirai un figlio che vivrà fino alla fine dei tempi». Ora, accadde che la sorella della moglie stesse ascoltando queste parole. Il padre di Alessandro allora si addormentò, e la sorella di sua moglie continuò a osservare le stelle. Quando la stella sorse, lei informò il marito di questa faccenda ed egli si uní a lei, con il risultato che ella concepí al-Khidr, cosí che alKhidr fu il figlio della zia materna di Alessandro. Egli fu anche il suo vizir. Quando il padre di Alessandro si svegliò, vide che la stella era discesa in un segno dello zodiaco diverso da quello che stava osservando, per cui disse alla moglie: «perché non mi hai svegliato?» Ed ella rispose: «ho avuto vergogna». Allora lui le disse: «non sai che ho osservato quella stella per quarant’anni? Per dio, ho sciupato la mia vita senza alcun profitto. Ma al giusto momento un’altra stella sorgerà, seguendo le sue orme, e io allora mi unirò a te, cosí che io possa concepire un figlio che abbia i due corni del sole». Non ci fu da aspettare a lungo perché la stella sorgesse, e in quel momento egli si uní con la

moglie e concepí Alessandro: che dunque fu concepito nella medesima notte in cui fu concepito il figlio della sua zia materna, al-Khidr. In seguito Dio concesse ad Alessandro saldo possesso su tutta la terra: egli conquistò territori, e la sua carriera fu quella che si sa essere stata 70.

Il personaggio di al-Khidr (o al-Khadir) gioca un ruolo importante nella cultura e nelle leggende dell’islam, e si lega direttamente al Corano 71. In quella parte della tradizione che lo vede associato ad Alessandro Magno, per quanto solo parzialmente esplorata, lo vediamo come il compagno di DhulKarnain, comandante della sua avanguardia durante la marcia verso la sorgente della vita. In alcune versioni di questo viaggio egli non solo è il capo dei suoi vizir, in modo simile a quel che si dice anche nella versione che abbiamo riportato, ma è addirittura il personaggio principale, e mette in ombra lo stesso Alessandro 72. In questa versione della nascita di Alessandro data da ad-Damiri, non c’è dubbio che al-Khidr giochi un ruolo identico a quello di Euristeo nei confronti di Eracle. Anche lui «ruba» infatti al proprio avversario il privilegio della coincidentia, e da questo trae i vantaggi che sarebbero dovuti toccare all’altro. Gli strumenti narrativi attraverso cui la storia islamica è raccontata, naturalmente, sono un po’ differenti rispetto a quelli usati nel racconto di Eracle ed Euristeo: alla coincidentia creata dalla parola del dio si sostituisce infatti quella astrologica, come del resto accade nelle versioni greche e latine della nascita di Alessandro, mentre il padre dell’eroe da «dio» diventa un «astrologo» dai poteri sovrumani come quelli di Nectanebo – che però bada questa volta alla condizione degli astri nel momento della concezione dell’eroe, e non della sua nascita 73. Ancora, l’artefice dell’inganno non è qui una dea gelosa del marito adultero e della fortunata madre dell’eroe, che è al corrente della situazione perché dotata anche lei di onniscienza, ma è una sorella della futura madre che (con un trucco quasi da commedia) ascolta non vista le parole dell’astrologo. Il racconto però è assolutamente lo stesso, e i suoi nodi centrali – la coincidentia, l’inganno perpetrato ai danni del padre dell’eroe, la perdita del privilegio da parte del figlio – sono identici. Lo scontro fra Eracle ed Euristeo si è tinto di astrologia, e gli amori del sommo Zeus sono stati sostituiti con concezioni consumate da maghi e da mogli mortali. Ma il mago è distratto, proprio come lo fu Zeus sull’Olimpo, e la donna, naturalmente, è furba come Era. Colpisce, anzi, che Alessandro, in questa versione della sua nascita,

riesca comunque a recuperare almeno parte del privilegio mancato, con un successivo intervento del dio che gli assegna il potere sopra la terra: proprio come Eracle riuscirà a recuperare la distanza che lo separa da Euristeo e, alla fine, a essere addirittura assunto fra gli immortali. Il confronto fra queste due versioni della nascita di un personaggio sovrumano, entrambe centrate sul fallimento di un piano celeste e sulla conseguente nascita decurtata dell’eroe, che avrebbe potuto essere ben piú grande o piú felice di quanto lo sia stato in realtà, ci aiuta forse a formulare una considerazione piú generale. Sembra quasi che il messaggio di questi racconti sia il seguente: gli eroi, in realtà, non sono perfetti, c’è qualcosa – a volte solo un punto, un attimo nell’infinito corso del tempo – che li separa dalla perfezione. Gli eroi non sono come gli dèi. Avrebbero potuto esserlo – ma è accaduto «qualcosa» che glielo ha impedito. Un po’ come Achille che ha perso l’invulnerabilità totale per una distrazione di sua madre, o Titone che non ha ricevuto la vera eternità per una imprecisione di Eos nella sua richiesta. Per trovare un altro esempio di questo meccanismo possiamo restare ad Alessandro. Nelle versioni piú consuete del romanzo, infatti, accade che l’eroe non raggiunga l’immortalità per un motivo ugualmente curioso: al momento in cui passa accanto alla fonte da cui sgorga l’acqua della vita eterna, semplicemente, «non se ne accorge». Chi la riconosce è invece il cuoco del re, Andrea, che vedendo un pesce salato riprendere vita una volta lavato a quella fonte capisce che quell’acqua deve avere poteri straordinari. Il cuoco la beve e ne conserva anche una certa quantità, che a sua volta darà da bere a Kalé, la figlia che Alessandro ha avuto dalla concubina Unna. «Quando venni a saperlo, – racconta Alessandro, – debbo dire la verità, provai invidia per la loro immortalità» 74. Alessandro, l’unico mortale che per la sua nascita e per le sue imprese avrebbe veramente meritato l’immortalità, deve rinunziarci a favore di un cuoco e di una ragazza che la ottiene in cambio dei favori concessi al cuoco medesimo 75. Quella volta Alessandro ha solo sfiorato l’acqua della vita, a profittarne sarà qualcuno che non c’entrava nulla – quella notte l’astrologo dormiva e a profittare del segno celeste sarà una donna curiosa: cosí che, per una manciata di minuti, non sarà piú Alessandro, ma al-Khidr, colui che «vivrà fino alla fine dei tempi». Il destino di Eracle era stato dello stesso tipo: quel giorno, sull’Olimpo, Zeus si era distratto e aveva detto qualcosa che non doveva dire, per cui non sarà Eracle, ma Euristeo, colui che regnerà su tutti i

popoli vicini. L’eroe fallisce la perfezione per un nonnulla. Da questo punto di vista egli rassomiglia molto al Martino del proverbio, quello che «per un punto perse la cappa». È come se l’eroe dovesse avere in sé la scintilla dell’imperfezione, oltre a quella della perfezione. Nei due racconti che abbiamo esaminato, quello di Eracle e quello di Alessandro / Dhul-Karnain, questo tratto fondamentale dell’eroe – la sua imperfezione, accanto alla sua eccezionalità – viene espresso attraverso il meccanismo della fallita coincidentia e dell’usurpazione subita da parte di un altro, certo meno meritevole di lui. Non c’è dubbio che, di questo modo di esprimere la mancata perfezione dell’eroe, faccia parte la categoria dell’ironia. Nel corso del tempo, dunque, i contenuti culturali mutano: ma certe profonde intelaiature di racconto e di pensiero – la coincidentia che attribuisce al nuovo nato la caratteristica di eroe, le doglie della donna messe al servizio della coincidentia, l’esistenza di un volere superiore che tutto questo determina – sembrano durare straordinariamente a lungo. A distanza di piú di mille anni dal testo dell’Iliade, e in un contesto culturale profondamente diverso, la nascita dell’eroe prevede eventi narrativi e percorsi intellettuali profondamente simili. Questo fenomeno risulta perfettamente visibile se ci si rivolge a un mondo che da quello greco omerico è ancora piú lontano di quanto non lo sia quello presupposto dal Romanzo di Alessandro: il mondo dei racconti e della cultura irlandese. Anche qui i paralleli si presentano davvero interessanti. In primo luogo la nascita dell’eroe Conchobar, cosí come è tramandata nella versione piú lunga di questo racconto 76. Dunque vediamo: Assa ha dodici tutori, che vengono uccisi dal druida Cathbad durante una razzia. Lei intende vendicarsi, arma un gruppo di uomini e va a razziare a sua volta le terre del nemico. Adesso cambia nome, è detta Ni-hassa, cioè «Ness», per la sua prodezza e la sua forza. Dopo un certo tempo, accade però che Cathbad la sorprende a una fontana, disarmata, e lei accetta di diventare sua moglie pur di non morire 77. Dunque ora Ness è la moglie di Cathbad. Durante la notte Cathbad ha sete, e chiede a Ness di andare a prendergli dell’acqua: lei torna con una coppa, la offre al marito ma Cathbad si accorge che dentro quella coppa, oltre all’acqua, ci sono due vermi. Cathbad teme che Ness lo voglia uccidere e la costringe a bere l’acqua della coppa: Ness beve, e subito rimane incinta 78. La situazione è resa ancora piú complicata dal fatto che Ness, in realtà, ha un amante segreto, Fachtna Fathach, e il figlio appartiene a lui. Ness e Cathbad si mettono in

viaggio, e a un certo punto le doglie colgono la donna. Cathbad la scongiura di attendere: «Moglie – disse Cathbad – oh se fosse in tuo potere tenere in grembo il bambino fino a domani! Perché allora tuo figlio sarebbe re dell’Ulster, o di tutta l’Irlanda, e il suo nome potrebbe durare in Irlanda per sempre, perché è … dello stesso che sarà venuto alla luce l’illustre bambino la cui gloria e il cui potere si spandono in tutto il mondo, voglio dire Gesú Cristo, il figlio dell’eterno Dio». «Cosí sarà – rispose Ness – a meno che non esca dal mio fianco, il bambino non vedrà la luce per nessun’altra via finché il tempo non sia giunto». Detto questo, Ness si sdraiò su una grande pietra sulle rive del fiume Conchobur e attese fino al giorno seguente. Il bambino nacque con un verme in ciascuna mano, e ancora si mostra la pietra sulla quale Conchobar fu generato.

Il racconto presenta singolari analogie con quello relativo alla nascita di Eracle. Soprattutto sono le due eroine, Ness e Alcmena, che sembrano aver avuto esperienze e disavventure assolutamente parallele 79. La nostra attenzione però è colpita soprattutto dalla presenza di un tema di coincidentia assolutamente esplicito: il bambino-Conchobar, per avere un destino di gloria, deve nascere lo stesso giorno in cui nasce il Redentore. In questo caso il giorno fatidico è dunque segnato non dalla parola di un dio, o da una favorevole congiunzione astrale, ma dal fatto che quel certo giorno corrisponde a quello prescelto per un’altra nascita illustre. Per far sí che Conchobar sia generato proprio quel giorno, la povera Ness è costretta ad accettare che la sua liberazione dalla gravidanza sia spostata fino al mattino successivo. È molto piú sfortunata di Olimpiade, che se l’era cavata con una passeggiata. Data l’immensa fortuna medievale goduta dal Romanzo di Alessandro, nella sua molteplice e intrecciata tradizione testuale 80, è abbastanza probabile che anche la nascita di Conchobar risenta di quel modello esemplare: il druida Cathbad potrebbe ben essere una reincarnazione del mago Nectanebo. Comunque sia, il contesto narrativo in cui la coincidentia si realizza qui appare diverso da quello presupposto dalla storia di Alessandro. Stavolta il mago ha il ruolo di marito legittimo, non di seduttore semidivino: il Nectanebo di turno sarebbe piuttosto un altro, Fachtna Fathach, in collaborazione con i misteriosi vermi bevuti da Ness. Mentre la coincidentia non appare calcolata su base astrologica ma in relazione a un’altra nascita, la nascita per eccellenza, quella di Cristo. Un parallelo forse attestato anche altrove nella cultura irlandese 81.

Le sofferenze di una donna, costretta a ritardare il proprio parto per ottenere la sospirata coincidentia, non finiscono però con Ness. Furono diverse le madri che, in Irlanda, subirono questo destino. Ecco infatti il resoconto della nascita di un altro eroe irlandese, Fiachna Broad-crown: … la notte prima di essere ucciso in battaglia Eogan, re del Munster, si uní alla figlia di un druida per volere del padre di lei. Fu concepito un bambino, e quando il tempo giunse, il druida disse alla figlia che se il parto fosse stato ritardato fino al mattino dopo il bambino sarebbe divenuto il piú potente dell’Irlanda. La ragazza disse al padre che il bambino non sarebbe nato a meno di uscire da uno dei suoi fianchi. Si mise perciò a cavalcioni su una pietra, in mezzo al guado, scongiurando la roccia di trattenere la nascita. Quando finalmente partorí, il giorno successivo, la ragazza morí, e la testa del bambino apparve schiacciata dalla pietra – per questo fu chiamato Fiachna «dall’ampia corona» 82.

Eccoci nuovamente di fronte al tema della coincidentia, e del parto ritardato, al fine di ottenere la supremazia sulla propria terra. Risulta davvero curiosa la formula usata dalla partoriente, qui e nel racconto di Ness, che per indicare la totale chiusura del proprio ventre fa ricorso all’immagine di una «nascita dal fianco» come unica possibilità che l’evento sfugga al suo controllo. Si tratta certamente di un’iperbole, capace di significare, come tale, la totale impossibilità che la cosa possa realizzarsi. Da un punto di vista comparativo, però, è interessante notare che questo tema della nascita «dal fianco» della donna ricorra in diverse culture. La si ricorda per esempio a proposito di Buddha, che sarebbe entrato nel grembo di sua madre attraverso il fianco destro, e dal medesimo fianco destro sarebbe stato generato 83. Allo stesso modo, la nascita «dal fianco» della madre è ricordata in un papiro magico copto, in cui si riporta un incantesimo inteso a facilitare il parto 84. Ma il parallelo piú interessante per le parole usate dalle madri irlandesi ci viene probabilmente dal sistema di credenze relative al mondo animale. Qui infatti l’abitudine di «partorire dal fianco» è stabilmente associata alla vipera. Plinio infatti ci dice che essa «è l’unico animale terrestre che genera uova dentro di sé … il terzo giorno esse si schiudono nell’utero, dopo di che [la madre] ogni giorno ne partorisce uno, nel numero circa di venti. Per questo gli altri, impazienti dell’indugio, sfondano i suoi fianchi (perrumpunt latera) uccidendo la madre» 85. Eliano descrive anzi questo processo nei termini, invero espressivi, dello «sfondamento di una porta» 86. Il parto della vipera –

la madre alla quale i piccoli, crudeli come lei, sfondano i fianchi – costituisce un paradigma di parto innaturale perché pilotato e violentemente condotto «dal di dentro», contro la volontà della madre: con dei nascituri che non sopportando di indugiare nel ventre si aprono una via innaturale per vedere la luce 87. Con la sua singolare dichiarazione – «il bambino non nascerà prima di quel tempo a meno di uscire dal mio fianco» – la partoriente irlandese vuol dire che la via naturale per questa nascita resterà chiusa in ogni modo, il bimbo non nascerà sino al momento stabilito – a meno che non sfondi la porta da solo, aprendo il suo fianco 88. Nelle Vitae dei santi d’Irlanda, questo medesimo tema del parto ritardato per ottenere una determinata coincidentia ritorna: ma stavolta, la carriera che il bambino – nato «quel giorno» a prezzo di tante sofferenze della madre – dovrà percorrere non è quella di un eroe terreno ma, ovviamente, di un valoroso servitore di Dio. Nella Vita sancti Lasriani seu Molaissi il druida degli altri due racconti è sostituito da un profeta, figura assai piú consona al contesto in cui la storia si è trasferita 89. Ma la sostanza non cambia: il profeta chiede infatti alla madre del futuro santo di rimandare il parto fino al giorno seguente, perché cosí «il figlio che da te nascerà sarà onorato da tutti». Il testo è particolarmente curioso, e merita di essere riportato per intero: «Dio le chiuse la vulva (clausit igitur deus vulvam eius) e lei non partorí fintantoché la luce fu restituita al mondo il giorno seguente». Fa una certa impressione vedere il dio cristiano nelle inedite funzioni di Eileíthyia o di Nectanebo, attento a chiudere direttamente ogni possibilità di uscita per il piccolo Lasrianus. Come dicevamo sopra, le culture e le religioni cambiano ma le storie che si narrano, assieme all’intelaiatura di pensiero che esse presuppongono, tendono tenacemente a resistere: qualcuno deve pur svolgere il ruolo richiesto dal racconto! Se Eileíthyia è scomparsa, adesso tocca al dio che viene dalla Bibbia. Anche quel che segue, comunque, si presenta interessante: «tuttavia Dio non ritardò il tempo della nascita del bambino per [attendere] qualche costellazione di corpi celesti, ma per adempiere alla propria volontà» 90. L’esplicita menzione dell’astrologia quale motivazione del parto ritardato torna naturalmente a proiettare l’ombra di Alessandro su queste nascite ritardate d’Irlanda: sacre o profane che siano. Possiamo essere però certi del fatto che anche in Irlanda, indipendentemente da ogni influsso letterario, l’osservazione dei segni astrologici al momento della nascita di un bambino

era perseguita con attenzione 91. In ogni caso bisogna dire che stabilire se la cultura irlandese elaborò autonomamente lo schema della coincidentia e del parto trattenuto, ovvero lo ricevette dall’esterno, è in fondo abbastanza irrilevante. Ciò che conta è che lo stesso insieme di elementi culturali viene organizzato da uno schema di racconto che è identico nella struttura. I racconti circolano con grande facilità, lo hanno sempre fatto e sempre lo faranno: oppure possono nascere indipendentemente in modo simile, per rispondere a esigenze analoghe e combinando elementi culturali che si rassomigliano fra loro. Si può anzi pensare che la pratica di ritardare un parto per motivi di coincidentia, astrologica o di altro tipo, costituisse non solo un tema mitico e letterario ma anche una pratica reale. Sappiamo per esempio che, ancora nel secolo XIX , in certe regioni della Francia si usava scongiurare la levatrice di accelerare, o ritardare, il parto per evitare che il bambino nascesse nelle ore fra le 23 e Mezzanotte: considerate di estremo mal augurio. Dato che per motivi naturali il travaglio tende spesso a iniziare proprio a metà della notte, si può arguire da questo che, nei secoli passati, pratiche per accelerare o ritardare il parto dovessero essere frequenti 92. In effetti, anche la nascita di Fiachna Broad-crown, cosí come quella di sanctus Lasrianus, presuppone l’attesa del «mattino» successivo, e della «luce» del giorno dopo 93.

6. L’eroe non nasce solo. Storie di «identità»: è l’unica definizione che ci viene in mente per definire questi racconti. La preoccupazione di rispettare una certa coincidentia, anche a costo di dolore e sofferenza per la madre, altro non esprime se non esplicita sollecitudine per la futura identità del bambino – che si spera la piú alta, gloriosa, nobile che esista. Il dies natalis, si sa, costituisce un immediato meccanismo di identificazione: sono «io» perché sono nato «questo» giorno, e «questo» giorno è il documento piú immediato della mia identità. Nella cultura romana, il dies natalis corrisponde addirittura alla celebrazione del genius di quella persona: ossia della manifestazione, in forma divina, della sua personalità e del suo stesso principio di vita 94. Il giorno della nostra nascita dice al mondo chi siamo, e ci distingue da chi non

è nato quel giorno: crea insomma la nostra identità, cosí come in generale la creano le diverse circostanze in cui la nascita si è svolta 95. Allorché il dies natalis viene a coincidere con un piano soprannaturale, che indica «quel» giorno come privilegiato su tutti gli altri, il normale meccanismo identificatorio offerto dal giorno della nascita diventa mito, e motiva l’identità del nuovo nato come identità eroica. Per ottenere questa identità eccezionale ogni mezzo è buono, anche la sofferenza di una donna. Come si è visto, infatti, in tutti i racconti che abbiamo esaminato della madre non si tiene alcun conto: che lo voglia o no, deve collaborare al piano dell’identità eroica anche a prezzo della propria vita. È persino ovvio dire che questo atteggiamento corrisponde a tutto un modo «minoritario» di considerare la madre nel generale contesto della generazione e della riproduzione. Puro ricettacolo di seme maschile al momento della fecondazione, e semplice terreno di coltura per la crescita di quel seme durante la gestazione, anche al momento delle doglie e del parto la madre deve sottomettersi alla volontà degli uomini che le stanno intorno 96. Non è lei a dare l’identità a suo figlio, né dal punto di vista biologico né da quello istituzionale: l’identità infatti viene dal padre e dal suo sangue. Come potrebbe desiderare di intervenire sull’identità del figlio al momento della sua nascita? Ma druidi e profeti possono stare tranquilli, il bambino non nascerà – a meno che non dovesse «uscirle dal fianco». Anche il mito della nascita di Eracle è un racconto di «identità», proprio come gli altri. E anzi questa storia, riguardata alla luce dell’Alessandro del Romanzo e dei vari esempi irlandesi di parti ritardati, offre forse una nuova possibilità di lettura. È come se in questo complesso meccanismo narrativo il racconto, piú semplice, di una partoriente che è costretta a rinviare il suo parto per motivi di coincidentia fosse stato diviso in due storie complementari: quella di una donna che è costretta ad «anticipare» il proprio parto per rispettare una certa coincidentia, e quella di un’altra donna che è costretta invece a «ritardarlo» per evitare la medesima. Gli elementi attorno a cui la storia ruota – una data significativa, una nascita, un destino legato alla coincidentia fra questi due eventi – restano gli stessi: ma il modo in cui la storia è realizzata risulta assai piú complesso. La sofferenza di una donna e di un bambino, costretti a ritardare il momento della loro reciproca liberazione per realizzare una certa coincidentia, si trasforma cosí in una sorta di competizione involontaria fra due bambini e due madri, costretti tutti quanti

da una volontà superiore a sfalsare le reciproche date di nascita e di liberazione dalla gravidanza. Il racconto è come raddoppiato. Come abbiamo detto piú volte, lo scopo di tutte queste nascite ritardate o sfalsate – da quella di Eracle a quella di Alessandro, da Conchobar ai santi d’Irlanda – consiste nel desiderio di rafforzare la specifica «identità» dell’eroe, rendendolo diverso da tutti gli altri. La coincidentia di questa nascita con un verdetto divino, con un certo segno celeste, con un certo giorno o una certa ora, con la nascita di un altro grande personaggio, costituisce una via immediata per potenziare la «persona» dell’eroe, proiettandola sulla superficie di uno specchio amplificante. Prima di concludere la nostra analisi vorremmo cercare di approfondire questo aspetto del problema, che ci pare interessante. È possibile infatti realizzare questo medesimo scopo con mezzi ancora differenti da quello della coincidentia con un determinato momento nel tempo. Altre coincidentiae sono state infatti escogitate nei miti e nei racconti. Crediamo che vada in questa stessa direzione, per esempio, un elemento narrativo ricorrente nella mitologia irlandese: spesso l’eroe è generato nello stesso preciso istante in cui è generato anche un animale. L’elenco è abbastanza lungo: un puledro assieme a Pryderi, due puledri con CúChulainn, un cane con Finn, un fratello-pesce con Lleu, e con Lúg dodici démi-frères che si trasformano in foche 97. Questa moltiplicazione delle nascite animali attorno all’eroe può anzi trovare un parallelo nel costume, attestato presso le popolazioni del Nord Europa, di dedicare al bambino appena nato «ogni puledro che fosse stato partorito ovvero ogni arma che fosse stata forgiata contemporaneamente alla sua nascita» 98. L’eroe non nasce solo. La sua nascita proietta ombre, immagini speculari. È come se la sua generazione si presentasse non singola ma multipla, quegli animali nati insieme con lui, o quelle armi forgiate nel preciso istante in cui lui nasceva, finiscono ineluttabilmente per assumere la rappresentanza della sua persona: e quindi espandere la sua identità. Ma non si tratta solo di animali, o di armi forgiate. Molto interessante, da questo punto di vista, si presenta infatti anche la storia irlandese della nascita di Mongan cosí come è narrata nella versione contenuta in un manoscritto del secolo XV 99. Secondo questa versione il dio Manannan prende le sembianze di Fiachna il Bello per unirsi alla moglie di lui: da questa unione nasce l’eroe

Mongan, che dunque viene generato in modo estremamente simile a quello in cui venne generato Eracle. Anche Mongan infatti è un eroe figlio di «due» padri, uno divino e uno umano; anche nel suo caso il padre divino, per concepirlo, aveva assunto le sembianze del padre umano, proprio come Zeus aveva fatto con Anfitrione 100. Ebbene, la stessa notte in cui Mongan venne alla luce accadde che anche la moglie dello scudiero di Fiachna il Bello, An Damh, desse alla luce un figlio, Mac an Daimh. I due fanciulli furono battezzati insieme, e Mac an Daimh diventerà anzi fedele compagno di avventure di Mongan nel corso della vita. Ma sempre quella notte anche Fiachna il Nero, un guerriero che regnava insieme con Fiachna il Bello, ebbe una figlia, Dubh-Lacha (Anatra nera). Mongan e Dubh-Lacha furono subito fidanzati e in seguito si sposeranno. Ecco dunque create all’atto stesso della nascita due coppie, una dello stesso sesso e una di sesso differente, che si intersecano nella persona dell’eroe: Mongan-scudiero e Mongan-moglie. La nascita di Mongan appare subito sdoppiata e rifratta in altre nascite umane, con essa coincidenti: di nuovo l’identità dell’eroe appare come moltiplicata.

7. Doppi fecali ovvero la sacralità di «questo» e «quello». Il motivo degli animali o dei bambini nati insieme all’eroe ci riporta conclusivamente al tema dei gemelli. Per questa via si arriva infatti a capire ancora meglio perché accanto all’eroe Polluce sia stato posto un gemello di origine umana, Castore; cosí come la nascita di Eracle è accompagnata non solo da quella del gemello Ificle, il fido scudiero, ma anche dalla nascita di Euristeo, il rivale. Anche lui figlio di Zeus, seppure da madre diversa, anche lui nato a poca distanza di tempo da Eracle – dunque una sorta di doppio, o di quasi-gemello, ma stavolta ostile all’eroe. Vale anzi la pena di ricordare che al-Khidr, colui che rubò la coincidentia ad Alessandro nelle versioni arabe del romanzo, cumula in sé tutti e due questi ruoli: egli è a un tempo rivale dell’eroe (gli ruba il diritto all’immortalità) e vizir del medesimo 101. Come abbiamo detto, è probabile che tutto questo gioco di rispecchiamenti e di nascite coincidenti serva prima di tutto ad ampliare in qualche modo l’identità dell’eroe: attraverso gli strumenti narrativi della moltiplicazione di personaggi ed eventi che ruotano nell’orbita dell’eroe, il racconto riesce a comunicare qualcosa che sarebbe altrimenti difficile far passare attraverso le

maglie di un intreccio, una qualità del personaggio 102. Ma in cosa consiste, in definitiva, questa qualità dell’eroe? Dove risiede l’ampiezza, per dir cosí, della sua identità? Un aggettivo ci soccorre: «duplice». L’identità dell’eroe – sdoppiato, rifratto, moltiplicato nelle coincidentiae che segnano la sua nascita – è piú ampia di quella di una creatura usuale perché in questo modo all’eroe viene attribuita la capacità di essere contemporaneamente «se stesso» e «qualcun altro». È come se un eroe, al momento della sua nascita, dovesse per forza avere in sé qualcosa di «doppio». Questa duplice natura può essere realizzata in primo luogo nella forma esplicita di una «doppia paternità», come nel caso di Eracle o di Conchobar. Si tratta di una caratteristica talmente tipica dell’eroe mitico che quasi non vale la pena di insistervi. Comunque sia, nella cultura greca è quello che capita non solo a Eracle ma anche a Teseo, nelle varianti che lo vogliono figlio di Egeo e di Posidone 103, a Polluce, figlio di Zeus e di Tindareo 104, e cosí di seguito, fino all’Alessandro della tradizione romanzesca: dove il tema della paternità dell’eroe si fa ancora piú ambiguo e complesso, giocato com’è fra Filippo, marito di Olimpiade, Nectanebo e il dio Ammone 105. Il modello di Alessandro produsse doppie paternità anche a Roma, come nel caso di Scipione Africano (ritenuto figlio di Giove) e Augusto (figlio di Apollo) 106. Anche eroi culturali come Platone e Pitagora ricevettero nel tempo il riconoscimento della doppia paternità, e accanto al loro padre naturale vantarono il dio Apollo come genitore 107. Percorrendo questa via si giunge naturalmente all’eroe dalla doppia paternità per eccellenza, Gesú Cristo: seppure la cultura cristiana si sia in ogni modo sforzata di schermare questa presenza troppo umana del secondo padre 108 (e la cultura pagana e giudaica si sia fatta talora beffe della paternità divina di Gesú) 109. Il fatto è che in una società patrilineare, dove l’appartenenza a un gruppo agnatizio costituisce la prima e piú importante marca d’identità, l’attribuzione di una paternità duplice colloca immediatamente l’eroe al di fuori delle categorie sociali comuni, e sancisce in questo modo il suo carattere straordinario. Se una comunità definisce nome, status sociale, antenati e cosí di seguito attraverso il rapporto con un padre, com’è possibile averne «due»? Ecco che la doppia paternità dell’eroe si costituisce subito come elemento capace di dichiararne l’eccezionalità. Altre volte la duplicità dell’eroe potrà invece essere espressa attraverso la presenza di uno o piú fratelli gemelli, un tema che come sappiamo si ricollega

direttamente a quello della doppia paternità 110. Oppure la nascita dell’eroe sarà accompagnata da quella di altri bambini che, nati contemporaneamente a lui, non hanno con l’eroe dirette relazioni di sangue ma sono comunque destinati ad avere con lui rapporti di matrimonio o di affiliazione, come nel caso Mongan. La stessa coincidentia stellare della nascita dell’eroe, come l’abbiamo vista sin qui, manifesta una sorta di «doppia fedeltà» dell’eroe, a un tempo figlio del proprio padre ma insieme strettamente correlato al sorgere di una certa costellazione, o alla nascita contestuale di un altro bambino divino (il Redentore nella tradizione irlandese). Infine, come abbiamo visto, la nascita di un eroe può essere accompagnata da quella di un animale. Forse quel che stiamo per dire potrà sembrare singolare, o almeno potrà sembrarlo l’esempio che abbiamo scelto per concludere il nostro viaggio nel territorio dell’eroe mitico. Ma crediamo sia proprio da qui – dalla presenza di un «doppio animale» per l’eroe – che si apre il cammino forse piú diretto per comprendere il senso delle storie che ci hanno occupato nella prima parte di questo libro. Quando si legge che un puledro fu generato assieme a Pryderi, due puledri con CúChulainn, un cane con Finn, e cosí via, il primo impulso è quello di inserire questi racconti in una generica area dominata dal fenomeno del cosiddetto totemismo: ovviamente, in questo caso, di carattere individuale 111. Ma credo che in questo caso convenga invece seguire una via diversa, seppure ancora di carattere comparativo – o comunque sia di un totemismo molto sui generis. Da tempo infatti è stato mostrato che presso i Kujamat Diola del Senegal esiste una singolare credenza: a un certo punto della propria vita, un Ajamat Diola può defecare un animale, che subito fugge a ripararsi nella boscaglia 112. Questo animale dalla generazione cosí singolare porta il nome di ewúúm, e dal momento della sua nascita comincia a funzionare come un vero e proprio «doppio» di colui che lo ha generato. Se l’animale si ferisce in qualche parte del corpo, anche l’essere umano soffre – anzi, le sofferenze che le ferite inferte all’animale producono sull’uomo sono molto piú forti di quelle che le ferite inferte sull’uomo possono produrre sull’animale. Non c’è dubbio che, se di totemismo si tratta, abbiamo a che fare qui con un totemismo di carattere non metaforico ma decisamente metonimico 113. Il doppio fecale, comunque, presenta delle caratteristiche molto singolari soprattutto se riguardato dal punto di vista della classificazione sociologica.

Esso incarna infatti realmente «l’altra parte» di un Ajamat Diola. Infatti, non appena lo ewúúm è generato, esso va a rifugiarsi nella zona in cui vivono i parenti «materni» della persona se chi lo ha prodotto è un maschio o una donna non maritata; se invece si tratta di un ewúúm di una donna sposata, il suo rifugio sarà nella zona in cui abitano i parenti «paterni» di lei. In altre parole, lo ewúúm di un Ajamat Diola esplicita la dualità che ogni persona porta in sé, a un tempo appartenente al proprio gruppo agnatizio e a quello cognatizio; ovvero, come nel caso della donna sposata, a un tempo appartenente al nuovo gruppo in cui è entrata come moglie e al gruppo agnatizio da cui proviene. Lo ewúúm animale dei Kujamat Diola realizza insomma la possibilità che una persona possa manifestare contemporaneamente le sue due identità, dividendo la propria duplice appartenenza (paterna e materna, agnatizia e di affinità) nella forma di due «persone» distinte. Nell’invenzione dei Kujamat Diola, la presenza di doppi animali trasforma in realtà il desiderio – ovviamente irrealizzabile – di essere se stessi e insieme qualcun altro, e rende «reale» la possibilità che si possa rappresentare contestualmente identità e alterità in riferimento a una medesima persona. Proprio come l’eroe mitico che, nel contesto di una società patrilinea, riceve una doppia paternità, realizzando cosí quello che le regole della parentela e della filiazione definiscono come impossibile. Ma se i Kujamat Diola si arrestano al piano dell’appartenenza sociologica, l’eroe mitico invece vuole andare ancora piú in alto. La sua aspirazione è quella di combinare insieme natura umana e natura divina, rimanere «se stesso» come uomo e insieme essere «altro» come dio – eppure, attraverso la sua doppia paternità, la sua molteplice e contestuale fratellanza, anche di carattere animale, la sua nascita marcata attraverso una stretta coincidentia con un qualche evento soprannaturale ed esterno, l’eroe mitico di cui ci siamo occupati fin qui manifesta lo stesso impulso a essere contemporaneamente «questo» e «quello» che riscontriamo nella creazione dello ewúúm presso i Kujamat Diola. Possiamo cosí tornare conclusivamente a Eracle, l’eroe dalla cui nascita siamo partiti per questa lunga esplorazione lungo i sentieri del mito. Egli costituisce davvero il prototipo dell’eroe. Figlio di due padri, provvisto di un gemello fedele e di un quasi gemello ostile, Eracle ha esplicitamente in sé natura umana e natura divina – tanto che dopo la morte disporrà di un’ombra

che si aggirerà nell’Ade, come tutti gli altri mortali, e insieme di una vita divina nell’Olimpo 114. Eracle è veramente «questo» e «quello». Si tratta solo di un sogno del pensiero mitico, certo, quel mondo privilegiato in cui l’impossibile diventa praticabile, e l’altro e l’identico, «questo» e «quello», possono convivere e combinarsi in un modo che si presenta a prima vista irrealizzabile. Eppure vale la pena di provarci, e il mito ci prova. Come hanno scritto i fratelli Rees «it is along this knife-edge line between being and notbeing that the god appears» 115.

Parte prima Il racconto di Alcmena salvata dalla donnola

Omero ci ha lasciati a bocca asciutta. Nella sua descrizione di quel che avvenne sull’Olimpo, quando Era riuscí abilmente a ingannare Zeus e trattenne le doglie di Alcmena per impedirle di partorire al momento giusto, il poeta non ci ha raccontato proprio nulla di «lei», la partoriente. Non ci ha raccontato delle sue sofferenze, di come fu vicina alla morte e del modo in cui, a un certo punto, riuscí a partorire: perché certo Alcmena sconfisse finalmente l’ostilità di Era, visto che Eracle fu generato e divenne il grande eroe che tutti conoscono. Tantomeno Omero ha voluto raccontarci qualcosa di colei che aiutò Alcmena a partorire – una ragazza destinata per questo a essere trasformata in una donnola, o direttamente una donnola. Il fatto è che, come dicevamo, l’Iliade è un epos maschile, di guerra e di orgoglio – non ci si mette a parlare di parti, nascite e doglie in un poema cosí. Ma d’ora in avanti sarà diverso. Tra le righe dei testi che leggeremo, infatti, la voce del narratore assumerà spesso i toni del discorso femminile. E nelle storie narrate dalle donne, ovviamente, si parla di certe cose. Eccoci dunque di fronte al «racconto di Alcmena». Ma adesso che ci apprestiamo a riascoltare questo racconto il lettore sappia che si troverà di fronte non a un testo continuo ma a una costellazione di versioni differenti: reportage di viaggio, episodi di grande letteratura, compilazioni di retori e di scoliasti, frammenti 1. Non si tratta di un caso eccezionale. Come piú avanti avremo modo di specificare meglio, è normalmente questa la forma in cui ci si presentano quelle narrazioni antiche che vanno sotto il nome di «mitologia classica». Queste versioni della storia di Alcmena noi le leggeremo e le analizzeremo una per una, nel prossimo capitolo, cercando di mettere in evidenza tutti i possibili aspetti che si presteranno in seguito a farci comprendere meglio il significato del racconto. Le differenze fra una versione e l’altra saranno spesso anche molto forti. Per fare solo qualche esempio, la prima variante che incontreremo, quella di Pausania, prevede che a impedire il parto di Alcmena siano delle «streghe» malefiche, le Pharmakídes, e a liberare Alcmena dalle doglie sia invece una ragazza di nome Historís, vittoriosa su di loro. Al contrario, in versioni come quelle di

Ovidio e di Antonino Liberale, il ruolo di ostacolo alle doglie è svolto da Lucina e dalle Moírai rispettivamente: mentre a sconfiggere queste nemiche di Alcmena è una ragazza il cui nome varia ma che, per punizione di ciò che ha fatto, al termine del racconto verrà trasformata in donnola. Infine, incontreremo versioni in cui è semplicemente una donnola, senza alcuna metamorfosi, a sconfiggere le forze ostili alla nascita. Come si vede, si tratta di uno spettro di racconti che può variare anche molto al suo interno: ma che, come speriamo di mostrare nei capitoli successivi, è costruito tutto quanto sullo stesso, affascinante insieme di significati.

Capitolo primo Il racconto

Pausania aveva avuto la fortuna di vedere addirittura il luogo. Nella sua lunga periegesi attraverso la Grecia, alla ricerca di un passato mitico e glorioso i cui segni erano ancora ovunque ben presenti, egli si recò infatti anche a Tebe, la città «dalle belle mura» dove, come già sappiamo da Omero, Alcmena aveva sofferto le sue pene.

1. Pausania. Apporti, streghe e grida femminili. Ecco dunque il resoconto di quello che si presentò agli occhi del nostro viaggiatore: Alla sinistra delle porte che chiamano di Elettra si ergono le rovine di una casa che, a quel che si dice, fu abitata da Anfitrione dopo che fu esiliato da Tirinto, a causa della morte di Elettrione. Anche la camera da letto di Alcmena è ben visibile fra le rovine. Dicono che sia stata costruita per Anfitrione da Trofonio e Agamede, e che vi fosse stata apposta questa iscrizione: QUANDO ANFITRIONE SI APPRESTAVA A CONDURRE QUI LA SUA SPOSA ALCMENA, EGLI SCELSE PER SÉ QUESTA STANZA. TROFONIO L’ANCASIO E AGAMEDE LA COSTRUIRONO.

Questi sono i versi che, a quel che dicono i Tebani, vi stavano scritti … Ci sono anche delle figure di donne in rilievo, ma le loro immagini sono ormai alquanto indistinguibili. I Tebani le chiamano le «Pharmakídes» [cioè le «streghe»]. Dicono infatti che fossero state mandate da Era per ostacolare il travaglio di Alcmena, per questo loro le impedivano di partorire. Ma Historís, figlia di Tiresia, escogitò un trucco per sconfiggerle. Si avvicinò tanto che le streghe potessero udirla e poi si mise a gridare (ololúxai) che Alcmena aveva partorito. Le streghe, ingannate, se ne andarono, e Alcmena poté finalmente partorire 1.

Pausania aveva un amore tanto ingenuo quanto comprensibile per gli

«oggetti» del mito. Durante il suo viaggio, per esempio, era rimasto molto colpito dalla possibilità di vedere gli avanzi dell’argilla con cui Prometeo aveva fatto il primo uomo, la pietra che Crono ingoiò al posto del figlio appena nato, i resti dell’uovo deposto dalla bella Leda, e via di questo passo 2. Gli oggetti del mito rappresentano la mirabile dimostrazione della sua verità, ovvero la straordinaria prova della sua autenticità – un po’ come quando Bellerofonte si svegliò dal suo sogno e trovò accanto a sé dei finimenti d’oro, a testimonianza della «verità» del sogno che aveva fatto 3. Quei finimenti stavano a significare che Bellerofonte non aveva sognato solo fantasmi, immagini create dalla fantasia: era tutto «vero». Cosí è per la camera da letto di Alcmena. I luoghi del mito corrispondono a ciò che gli studiosi dell’occulto, ed Eric R. Dodds con loro, usavano chiamare «apporto»: l’oggetto che, provenendo dalla sfera del soprannaturale, rende visibile l’invisibile per eccellenza, e nella propria materialità manifesta la sorprendente (ma molto desiderata) verità dell’immateriale. In ogni caso, bisognerà dire che fra i vari apporti del mito a Pausania dovevano particolarmente interessare le camere da letto delle donne di Zeus, visto che egli ricordava non solo quella di Alcmena ma anche quella della sventurata Semele 4. Vero è che in quelle stanze appartate avevano avuto luogo eventi assai drammatici, nonché di straordinaria importanza per la cultura e la religione dei Greci. Per merito della curiosità di Pausania, eccoci cosí di fronte alle rovine del thálamos di Alcmena. Si era svolto tutto là dentro, il dramma della partoriente e il suo insperato lieto fine. Quel luogo è ancora vegliato dalla evanida presenza di alcune immagini: le Pharmakídes, inviate da Era per impedire la nascita di Eracle «quel giorno», sono rimaste imprigionate nel marmo. Nessuno riesce piú a distinguerne le fattezze, ma non importa. C’è infatti una storia che i Tebani tramandano, e questa storia dice il loro nome e quello della ragazza che riuscí a sconfiggerle: Historís, «colei che vuol sapere», «colei che esamina», «che ricerca». Chi era questa ragazza? Il testo ci dice solo che era la figlia di Tiresia, ma il fatto che si trovasse accanto alla partoriente, e che portasse un nome che significava «ricerca» (historía), fa pensare che stesse svolgendo funzioni di levatrice o di aiutante nel parto. Molto spesso infatti, come avremo occasione di vedere piú avanti, le levatrici antiche e moderne sono caratterizzate proprio in base alla loro intelligenza, alla loro astuzia e alla loro capacità di compiere un lavoro di «indagine»

(éreuna) 5. Quanto a quelle immagini nel marmo è probabile che, se c’erano davvero, rappresentassero altro, cosí come le rovine di quella casa saranno appartenute a chi sa chi. Ma non importa che tutte queste cose descritte da Pausania non siano vere. Neppure la storia di Alcmena è vera, tantomeno sono veri i sogni. L’importante è che il mito, come il sogno, abbia un luogo, altrettanto fantastico, in cui ci sia possibile ambientarlo e «vederlo». Al momento in cui vengono narrati da qualcuno, ovvero vengono trasformati in testo, gli apporti lasciati dietro di sé dal mito diventano parte integrante del racconto e lo rendono in qualche modo piú potente. Cosí come si dice che i testi della letteratura, allorché richiamano altri testi, assumono piú forza e piú verità (la Divina Commedia che rimanda all’Eneide di Virgilio, l’Eneide che a sua volta presuppone i poemi omerici), allo stesso modo un mito che può appellarsi a un «luogo» preciso accresce il proprio spessore testuale. A Tebe restavano altre tracce di Alcmena, e ancora di pietra. Altrove Pausania riferisce infatti che Alcmena dopo la morte «divenne pietra» 6. La sua testimonianza stavolta è molto scarna, ma per fortuna conosciamo da altri la sostanza del racconto 7. Si diceva infatti che, dopo la morte del crudele Euristeo, gli Eraclidi fossero tornati a Tebe e si fossero stabiliti nella stessa casa in cui aveva vissuto Eracle (cioè, come sappiamo, presso le porte Elettre). Alcmena, ormai in tarda età, venne a morire, e gli Eraclidi celebrarono le sue esequie. Ma nel frattempo Zeus decise di fare di lei la sposa di Radamanto, e inviò Ermes a rapire Alcmena per condurla alle Isole dei beati. Ermes, ligio ai comandi di Zeus, rapí Alcmena e al posto del suo corpo mise una grossa pietra. Accadde cosí che, quando gli Eraclidi si accinsero a portar via la cassa con la morta Alcmena, si accorsero immediatamente che era molto piú pesante di quanto avrebbe dovuto essere. Per cui la deposero nuovamente, l’aprirono e trovarono la pietra in luogo del corpo della defunta. Allora decisero di togliere quella pietra dalla cassa e di drizzarla nel bosco sacro, nel medesimo luogo in cui si trova anche l’herôion di Alcmena a Tebe. Oltre alla camera da letto e alle rovine della casa, di Alcmena restava dunque anche un kolossós in pietra: metamorfosi di un corpo morto e irrigidito ma, nello stesso tempo, perturbante «doppio» di una psuché volata fra le braccia di Radamanto 8. Ecco dunque che anche Alcmena si è «sdoppiata», proprio come Zeus si era sdoppiato in Anfitrione al momento dell’amore e il piccolo Eracle, nascendo, aveva avuto accanto a sé il proprio doppio nel gemello Ificle. Sembra proprio che, all’interno del mito

di Zeus, di Anfitrione e di Eracle tutti i personaggi tendano a «sdoppiarsi». Se ad Alcmena questa sorte non era toccata in vita, almeno nella morte anche lei aveva trovato il proprio doppio nel kolossós di pietra che (ulteriore, straordinario apporto proveniente da questa vicenda) adesso la rappresentava a Tebe. Questa però è Alcmena vecchia, e addirittura oltremondana. A noi interessa molto di piú la giovane partoriente, quella insidiata dalle Pharmakídes e salvata da Historís. Torniamo dunque al racconto di Pausania. Almeno per ciò che riguarda questi eventi, non c’è dubbio che esso abbia il sapore di una storia locale: «dicono i Tebani…», sembra quasi che il viaggiatore abbia trascritto sul suo taccuino le illustrazioni della guida o le compiaciute rivelazioni di qualche erudito del posto 9. Quello di Pausania è insomma un racconto vivo, come deve esserlo quello di chi ha visto direttamente qualcosa. E anzi, potente nella sua dimensione visuale, perché dotata di uno scenario autentico, questa versione lo è anche in quella sonora. Al momento di ingannare le Pharmakídes, infatti, Historís lancia un grido. Il testo greco usa la parola ololúxai per designarlo, un verbo che si riferisce al «grido» detto ololug . Si tratta di una parola importante. Essa designa, infatti, un grido squisitamente «femminile», contrapposto al grido maschile, che ha un altro nome 10. Ma ancora piú interessante, per noi, risulta il fatto che questo particolare grido fosse specificamente usato per segnalare il momento della nascita di un bambino. Una volta che il parto si fosse felicemente concluso, e il nuovo nato avesse visto la luce, le donne greche si abbandonavano infatti alla ololug , facendo risuonare di queste loro grida i luoghi circostanti e manifestando cosí a tutta la comunità il verificarsi del lieto evento 11. Si tratta di un momento che, anche filtrato attraverso la letteratura, suggerisce ancora un’impressione uditiva di forza sconvolgente. Tanto piú forte ne risulta l’effetto quando si legge che potevano essere addirittura Eileíthyia, dea della nascita, e Láchesis, dea del destino, a lanciare questo grido «dalle loro bocche». Si tratta anzi di un grido che, nel termine greco che viene usato per indicarlo, richiama il rumore delle onde sotto l’urto dei remi 12. Quando un bambino viene al mondo è il destino che grida per bocca delle donne, e quel suono femminile ha il fragore stesso della natura. L’atto di lanciare un grido rituale al momento della nascita costituisce un uso che, ovviamente, non è solo greco. Presso altre popolazioni il grido in occasione della nascita si presenta addirittura codificato a seconda del sesso

del bambino: tante grida se si tratta di un maschio, tante se si tratta di una femmina 13. Frazer, facendo questa osservazione comparativa, trascurava per la verità di registrare che anche in Grecia doveva esistere un codice per segnalare il sesso del bambino attraverso segnali ben definiti. Sorano riferisce infatti quanto segue 14: «la levatrice dopo aver ricevuto il nuovo nato lo posi per terra, poi, dopo aver guardato se è maschio o femmina, ne annunzi il sesso per segni (aposemainét ) come è costume alle donne». Le donne greche dunque avevano il loro «costume» e il loro sistema di segnali per esprimere il sesso del nuovo nato. Possiamo pensare che questo costume fosse parte dell’ololug , e che ne articolasse il grido secondo un «codice» particolare? È possibile. In ogni caso, siamo certi che il «grido» che accompagna il messaggio rivolto alle Pharmakídes da Historís non corrispondeva a una semplice espressione di gioia o eccitazione: l’ololug era un vero e proprio segnale, che come tale manifestava già in sé un senso ben preciso. Per ingannare le Pharmakídes Historís non si era limitata a comunicare un messaggio fatto di «parole» ingannatrici: lo aveva fatto anche scegliendo un tipo di canale informativo che, già per la sua stessa forma sonora, richiamava (falsamente) l’avvenimento di una nascita. Nessun racconto, comunque, è mai perfetto, e anche questo di Pausania non fa eccezione. È ricco di scenari, di voci, però è anche un testo molto breve e ci lascia con alcune curiosità insoddisfatte. Per esempio, possibile che le Pharmakídes, una volta udito il falso annunzio di Historís, si fossero limitate ad «andarsene» senza reagire? E soprattutto, come avevano fatto a impedire il parto di Alcmena? Proprio come Omero, anche Pausania non si preoccupa di spiegarcelo, benché di sicuro i Tebani avessero in proposito le loro idee. Ovidio invece ce lo dice, e anzi, nella sua versione dei fatti, compare per la prima volta un animale di cui dovremo occuparci a lungo: la donnola.

2. Ovidio. Racconti di donne e risa di donnole. Alcmena è ormai una vecchia signora, che di fronte alla nuora Iole, incinta, non trova di meglio che rievocare la terribile esperienza che ella dovette affrontare al momento in cui divenne madre. Data la sua condizione di gestante, è possibile che Iole avrebbe preferito ascoltare una storia un po’

piú fausta di questa, ma cosí andarono le cose: … che almeno gli dèi ti siano propizi e abbrevino gli indugi, quando, ormai finito il tempo, invocherai Eileíthyia, dea delle timorose partorienti. Verso di me, per volere di Giunone, questa dea fu invece maldisposta. Si avvicinava infatti il giorno della nascita di Eracle, l’eroe delle fatiche, ero nel decimo mese, e la gravidanza tendeva il mio ventre: ciò che portavo dentro era tanto grande che avresti potuto dire facilmente che autore di quel peso nascosto era Giove. Non potevo tollerare oltre il travaglio. Persino adesso, mentre ne parlo, un frigido orrore mi afferra le membra, e la memoria è dolore. Torturata per sette notti, per sette giorni, sfinita dalle pene tendevo al cielo le braccia, invocando a gran voce gli dèi Nixi, i gemelli, e Lucina 15. Lei viene ma prevenuta da Giunone, e desiderosa di far dono della mia vita all’iniqua dea. Non appena ebbe udito i miei gemiti si sedé infatti su quell’altare, davanti alla porta, e premendo il ginocchio sinistro con il destro intrecciò fra loro le dita delle mani: cosí arrestò il mio parto. Sottovoce recitava incantesimi, e gli incantesimi trattenevano il mio travaglio già iniziato. Spingo e, pazza, vani rimproveri rivolgo a Giove, desidero morire, i miei lamenti avrebbero commosso le dure pietre. Mi assistono le madri tebane, fanno voti e cercano di confortare il mio dolore. Era vicina a me una delle aiutanti (una ministrarum) 16, una donna del popolo, Galanthis, dai biondi capelli, pronta nell’eseguire i comandi e gradita per i suoi servigi. Ella si accorge che qualcosa sta avvenendo, per colpa dell’iniqua Giunone, e mentre esce ed entra di frequente dalla porta vede la dea seduta sull’altare, con le dita intrecciate sulle ginocchia. «Chiunque tu sia – le dice allora – rallegrati con la padrona! L’Argolide Alcmena ha partorito e, puerpera, il suo voto è stato soddisfatto». Balzò in piedi Lucina, signora dell’utero, e spaventata aprí le mani che teneva congiunte: mentre io, sciolti i legami (vincla), sono liberata dal mio peso. Si dice che Galanthis si fosse messa a ridere, per aver ingannato un nume. Ma la dea crudele, afferratala per i capelli mentre ancora rideva, la trascinò giú, le impedí di rialzare il corpo da terra: le braccia le mutò in zampe anteriori. Resta l’antica prontezza, né il dorso ha perduto l’antico colore. Ma la forma è diversa da quel che era prima. E poiché aveva aiutato una partoriente con bocca menzognera, partorisce con la bocca: e come prima, frequenta le nostre case 17.

Qualcosa del luogo presupposto dal mito sussiste anche qui, ma non molto: c’è un altare, dove siede Lucina con le gambe accavallate, una porta da cui «entra ed esce» la ministra Galanthis. Ma si tratta della normale messinscena di una storia, che inevitabilmente richiede qualche sfondo, non di «apporti» che testimoniano la verità del mito. Ovidio non aveva avuto la

fortuna di vedere i luoghi, era un poeta, non un viaggiatore. In compenso però ci dà una versione della storia che muta radicalmente dal punto di vista del suo narratore e del destinatario a cui è indirizzata: Alcmena, la protagonista, la racconta infatti a Iole, e la storia di Alcmena compare nella forma di un racconto che una donna rivolge a un’altra donna. Eccoci dunque finalmente di fronte a una versione esplicitamente femminile di un racconto cosí femminile: le avventure e le pene del travaglio sono raccontate da colei che lo ha sofferto a un’altra persona femminile che sta per affrontare una prova simile (anche se, ci si augura, non cosí disgraziata). Questa versione di Ovidio sembra essere davvero l’opposto di quella omerica, che appare cosí maschilmente muta (dovremo riparlarne meglio piú sotto) sulla descrizione e l’esperienza del travaglio. La versione ovidiana si presenta ricca di particolari molto importanti per noi. Adesso sappiamo finalmente come avevano fatto Era e le sue complici a bloccare il parto di Alcmena. Ovidio rompe il silenzio di Omero e di Pausania. Era stato sufficiente «intrecciare» le mani e «accavallare» le gambe, sovrapponendo un ginocchio all’altro, e avendo per di piú cura di posare sul ginocchio libero le mani cosí intrecciate. Ecco perché il travaglio della partoriente durava tanto a lungo – «torturata per sette notti, per sette giorni» 18. Dunque le disgrazie e la salvezza di Alcmena si giocarono tutte attorno a un viluppo di «nodi» che, simpateticamente, attanagliarono il ventre di Alcmena. Finché, per la geniale trovata di Galanthis, quelle mani e quelle ginocchia di Lucina si sciolsero, e con loro si sciolsero anche i vincla che stringevano il piccolo Eracle nell’utero materno. Lucina agisce qui come una vera e propria strega, fa gesti che «legano» la partoriente e pronunzia incantamenti che arrestano il parto. Lucina, come tutte le levatrici, conosce bene i segreti delle formule magiche 19. Tutto dipende dall’uso – fausto o infausto – che decide di farne. Un’altra volta, ancora in Ovidio, Lucina era stata assai piú clemente, e la sua scienza di carmina magici era riuscita, se non a salvare la madre, almeno a garantire la nascita del bimbo. Mirra, ormai irrimediabilmente mutata in albero, stenta a dare alla luce Adone. Ma ecco la dea della nascita che si avvicina 20: «la mite Lucina si fermò presso i rami dolenti, avvicinò le mani e pronunziò le parole della puerpera». Questi verba puerpera, le «parole della puerpera», devono essere le formule speciali che la dea usava in occasione del parto 21. Ma quella volta la dea era mitis, non saeva e praecorrupta da Giunone. Per questo le

sue formule di levatrice furono rivolte al bene, e non al male, per questo le sue mani, invece di restare ostinatamente intrecciate sulle ginocchia, «si avvicinarono» alla povera partoriente, cosí come deve accadere quando una dea intende proteggere e favorire la donna in travaglio 22. Torniamo alla storia di Alcmena. Chi è la ragazza Galanthis? Il testo la definisce una ministrarum, «una delle ancelle», si traduce di solito 23. Ma certo non si può pensare che fosse una schiava, perché Ovidio fa esplicitamente presente che ella «proviene dal popolo» (media de plebe): e questa definizione esclude che si tratti di persona di nascita servile 24. Galanthis è una persona di condizione modesta, comparata a quella di Alcmena che è una principessa, però è libera. E che cosa può essere una ministra che non è schiava? Dato il contesto in cui ella compare, bisogna pensare che si tratti di una levatrice, piú esattamente di una «assistente» al parto di Alcmena. Il ruolo di assistente al parto meglio si adatta, infatti, a una persona che è «pronta nell’eseguire i comandi» che qualcun altro le dà: evidentemente la obstetrix vera e propria, o altre donne piú autorevoli che stanno attorno alla partoriente. Dunque se Galanthis è cosí agitata, «entra ed esce dalla porta», è perché sta svolgendo i compiti specifici per cui è stata chiamata. Questi compiti le sono a quanto pare abituali, visto che il poeta la definisce «gradita per i suoi servigi» (officia). Le donne tebane la conoscevano per questa sua attività, e le erano grate per come la svolgeva. La presenza di donne ministrae in occasione di un parto non ci meraviglia di certo. Sorano ci informa dettagliatamente sul fatto che, al momento della nascita, si prevedeva non una sola ostetrica ma una vera e propria équipe, che doveva essere formata dall’ostetrica vera e propria e da tre assistenti, da lui definite hup rétides 25. Nelle traduzioni latine di questo trattato le «assistenti» portano proprio il nome di ministrae 26, e minister è termine tecnico per designare l’«aiutante» per esempio di un medico 27. Dunque il poeta ha fatto ricorso a un termine tecnico perfettamente adeguato, preoccupandosi anche di sottolineare che non si trattava di una schiava ma di una donna libera e descrivendola impegnata nei suoi officia caratteristici. Questa qualifica specifica di Galanthis, la «assistente al parto», costituisce un aspetto importante della storia che stiamo raccontando. E nel corso di questo libro capiterà di ritornare altre volte su questo punto. Dunque Galanthis riesce a sconfiggere la stregoneria di Lucina, dopo di che si mette a ridere. Ride per esser riuscita a ingannare una dea, lei che è

mortale, ride anche mentre il suo corpo viene forzato ad assumere una posizione orizzontale e le sue braccia si mutano nelle zampe anteriori di un animale. Il racconto tebano riferito da Pausania non prevedeva alcuna metamorfosi, tantomeno vi si parlava di animali. La differenza è molto forte. Ovidio comunque non dice esplicitamente di che animale si tratta, gioca con il lettore come se gli proponesse un «indovinello» 28: «poiché aveva aiutato una partoriente con bocca menzognera, partorisce con la bocca: e come prima, frequenta le nostre case». Evidentemente il poeta conta sul fatto che il suo pubblico conosca l’antica diceria secondo cui la donnola «partoriva dalla bocca» 29, tanto da poter identificare facilmente l’animale a cui si attribuiva questa strana natura. Del resto la ragazza porta qui non piú il nome di Historís, come in Pausania, ma quello di Galanthis: in greco il nome della donnola è gal , il richiamo (Gal-anthis) è piuttosto trasparente. Comunque Ovidio lascia ancora altri indizi per facilitare la soluzione del suo enigma. Fa capire qual è il colore del pelo di questo animale (è fulvus, come lo furono i capelli sciolti di Galanthis), e dice esplicitamente che è animale di casa: quale in effetti era la donnola nel Mondo Antico, dove svolgeva funzioni di animale domestico 30. Ma non basta; come la levatrice di Alcmena questo animale è strenuus, pronto, sollecito: del resto l’abbiamo appena vista, Galanthis, mentre «entra ed esce» indaffarata dalla porta di casa e, unica fra le «madri tebane», scorge la dea seduta sull’altare e intuisce i suoi strani maneggi. Sotto i nostri occhi Ovidio fa nascere dunque una piccola donnola dai movimenti rapidi e sicuri, dal pelo fulvo, che «entra ed esce» dalle porte delle nostre case (questo «nostre» evoca in realtà una terribile lontananza culturale!) e che, per sua strana natura, partorisce dalla bocca. E intanto, la donnola-Galanthis «ride». Ride di fronte alla dea, al suo volto stupefatto, e continua a ridere mentre la crudele Lucina la tiene schiacciata per terra reggendola per i lunghi capelli biondi. Di nuovo il racconto, come con l’ololúxai di Pausania, accetta la dimensione sonora, e incorpora delle «voci» nel suo tessuto narrativo. Ovidio è maestro nello scovare ogni possibile analogia fra il «prima» e il «dopo» delle sue creazioni metamorfiche, ama costruire ogni sorta di ponte fra la condizione umana e quella che a essa succede, senza scosse ma per inesorabile trasmutazione. La forma di un arto può essere presagio di un ramo, cosí come il colore di un volto può lasciar presentire il petalo di un fiore. In questo caso le rassomiglianze fra il prima e il poi, fra la donna e l’animale che da lei prende

forma, non sembrano essere solo visive (il colore dei capelli, la rapidità dei movimenti, e via di seguito), ma sono anche sonore. Galanthis, donna beffarda, ride fin che ha forma umana, ride mentre già si sta mutando in donnola. Che cosa intende suggerire, il poeta, che il verso della donnola ha la sua origine mitica in una risata?, ovvero che la donnola, quando lancia il suo verso, pare che rida? A questa domanda non possiamo rispondere adesso. Se il lettore avrà pazienza, del grido della donnola torneremo a parlare piú sotto, e allora ci sarà spazio anche per questa singolare risata della donnadonnola 31.

3. Antiche immagini di Galanthis? Nel corso del 2002, uno scavo promosso dalla Soprintendenza Archeologica per il Lazio ha individuato un importante sito archeologico, posto vicino all’attuale Via Porta San Martino, nel cuore della città di Palestrina, l’antica Praeneste: in un’area cioè che corrisponde a uno dei piú antichi «blocchi» urbanistici di Praeneste 32. In particolare, lungo l’attuale Corso Pierluigi da Palestrina sono stati rinvenuti un deposito votivo e una pavimentazione in lastre di tufo, mentre sotto Piazzale della Liberazione sono state riportate alla luce imponenti strutture murarie in opera quadrata in tufo peperino 33. Gli oggetti rinvenuti nel deposito presentano un notevole interesse per quanto riguarda la nostra ricerca.

Figura 3. Donnola, statuina votiva, terracotta, III -II secolo a.C. Palestrina, Museo archeologico nazionale. (Foto per gentile concessione di Alessandra Tedeschi).

Accanto a ex voto assai comuni e generalmente presenti anche in altri contesti votivi – tra cui alcuni uteri con una resa della superficie anomala e una statuina bronzea raffigurante una divinità femminile, probabilmente Giunone – nel deposito sono stati infatti trovati alcuni materiali assolutamente peculiari: nove statuine femminili in terracotta, rappresentanti l’immagine della devota stante con la gamba destra lievemente flessa, avvolta

in un lungo himation che le copre anche il capo; il braccio destro ripiegato sul petto e poggia sulla spalla sinistra, mentre il sinistro scende lungo il fianco. Questo tipo di statuina votiva è piuttosto diffuso in ambito centro italico 34: in particolare, la parte superiore del corpo trova confronti puntuali con numerose statuine della collezione «Palestrina» al Museo nazionale romano 35. Una peculiarità formale di queste statuine, però, le rende al momento del tutto eccezionali (cfr. fig. 3). Alla base, infatti, esse presentano un innaturale inarcamento del corpo, realizzato evidentemente dagli artefici o modificando una normale matrice di statuina stante o intervenendo direttamente sulla copia prima della cottura. Sia come sia, la caratteristica rilevante è questa: la particolare forma del corpo non consente alle statuine di mantenersi in posizione stante; mentre alcune protuberanze collocate all’altezza delle ginocchia, nel punto in cui il corpo si inarca, consentono loro di reggersi in una posizione semiprona – posizione che è quindi da considerarsi quella privilegiata. Chi o che cosa rappresentano, queste singolari immagini votive? Chi è questa donna semiprona e dal corpo inarcato? Per cercare una risposta, conviene partire dal fatto che, oltre a queste statuine, nel deposito votivo sono stati trovati oggetti che indirizzano immediatamente verso la sfera dei culti femminili, in particolare quella legata al mondo del parto: uteri in terracotta, come abbiamo detto, una statuetta bronzea raffigurante una divinità femminile, forse Giunone. A questo si potrebbe anzi aggiungere che i dati archeologici, nel loro complesso, inviterebbero a credere che anche l’antica aedes Iunonis facesse parte di questo complesso archeologico 36. In ogni caso, è indubbio che i ritrovamenti archeologici mostrano l’esistenza a Praeneste di un contesto sacro, collocato nel cuore della città, che fu sede di culti femminili legati al parto. Per questo Alessandra Tedeschi, l’archeologa che ha lavorato a questo scavo, ha pensato che le nostre statuine potrebbero costituire la prima rappresentazione iconografica, a noi nota, del mito di Galanthis. L’astuta ministra di Giunone, colei che ingannò la propria padrona per favorire il parto di Alcmena, sarebbe colta nel momento in cui la metamorfosi in donnola le fa inarcare il corpo, spinto dalla dea in posizione prona, mentre le braccia si stanno accorciando in brevi zampe. Come racconta Ovidio: «Ma la dea crudele … la trascinò giú, le impedí di rialzare il corpo da terra, inarcandolo, le braccia le mutò in zampe anteriori» 37.

Figura 4. Donnola, statuina votiva, terracotta, III secolo a.C. Licata, Museo archeologico, inv. 947. (Foto per gentile concessione di Concetta Masseria).

A sostegno di questa ipotesi, Alessandra Tedeschi ha messo anche in evidenza il fatto che l’immagine della donnola sembra ricorrere altrove nella tradizione iconografica dell’antica Praeneste 38. Alcune delle raffigurazioni antiche di questo animale, peraltro decisamente rare, sono infatti presenti in una classe di produzioni che è anch’essa del tutto peculiare della città di Praeneste: quella delle cistae, un tipo di recipienti che, molto significativamente, appartengono anch’essi al kósmos femminile. Su di esse, infatti, assieme all’immagine di numerosi altri animali, compaiono anche raffigurazioni della donnola 39. La massima fioritura di queste produzioni si colloca tra il secolo IV e il III a.C. e quindi risulta coeva a quella delle nostre misteriose statuine 40. Se questa ipotesi è giusta, come sembra, possiamo trarre alcune

conclusioni importanti. Da questo ritrovamento, infatti, esce confermata l’importanza del mito di Galanthis, la donna-donnola che soccorse Alcmena al momento del suo parto impossibile. Le scoperte archeologiche confermano con chiarezza che questo racconto non è un semplice prodotto letterario, ma come un fatto religioso, cultuale, votivo – insomma una parte dell’esperienza femminile reale, a Roma, al momento del parto. Galanthis, l’astuta ministra che salvò Alcmena dall’ira di Giunone, pagando il suo beneficio con la perdita della propria forma umana, è diventata una divinità che protegge tutte le partorienti: che a lei si rivolgono offrendole la – singolare – raffigurazione del suo corpo inarcato. Osserviamolo nuovamente, questo corpo. Di fronte ai nostri occhi sta una creatura non piú eretta e non ancora prona, o forse meglio, prona ed eretta nello stesso tempo: si tratta di una donna o di una donnola? Davvero la forma di queste statuine lascia in dubbio l’osservatore, come del resto deve accadere di fronte a una metamorfosi. Se confrontiamo queste immagini con quelle che raffigurano la donnola, la somiglianza balza agli occhi (vedi fig. 12); ma la presenza di attributi «umani» (braccia, ginocchia, himation …) sposta subito la nostra percezione nel campo della persona femminile. Per gli Italiani che chiamano la donnola con il nome, appunto, di «donnola» (ossia «piccola donna»), queste statuine rappresentano l’inattesa concretizzazione di una metafora: di fronte a noi sta una «donnola» che è davvero una «piccola donna». La vicenda archeologica di Galanthis, comunque, non si arresta qui. Nel 2007 infatti Concetta Masseria ha pubblicato un lavoro che si conclude con il rinvio a una statuetta fittile conservata al Museo di Licata, proveniente da «Monte Sant’Angelo, area dell’abitato ellenistico» 41 (cfr. fig. 4). Licata è l’antica Phintias, fondata nel 274 a.C. dal tiranno Phintias. Scavi regolari condotti da qualche anno nella zona stanno riportando alla luce i resti di una città, con case eleganti disposte su terrazzi. Secondo Masseria questa statuina, di un impressionante naturalismo se la confrontiamo con l’immagine di una «vera» donnola in posizione eretta (vedi fig. 12), sarebbe stata oggetto di un culto femminile domestico. Chissà. Una cosa comunque è certa: le ricerche degli archeologi (anzi delle archeologhe) stanno riportando alla luce la traccia non solo di un mito e di un culto, ma di una presenza animale che le fonti ci indicavano concordemente come domestica, quotidiana, assolutamente consueta nel Mondo Antico. Ma di cui sembravano essere state cancellate le

tracce concrete.

4. Libanio. La donnola corre. Andiamo avanti. Anche il retore Libanio, infatti, aveva ripreso la storia di Alcmena. Il racconto è brevissimo ma a dir la verità non manca proprio nulla di quel che è necessario, la sua narrazione è perfetta. Segno che la scuola di retorica sapeva perlomeno insegnare l’arte della sintesi. Dunque: Akalanthís fu trasformata in donnola da Era, per punizione dell’inganno da lei perpetrato. Era voleva infatti impedire a Eracle di uscire dal ventre materno, e aveva ottenuto questo risultato intrecciando le mani sulle ginocchia. Ma ecco che Akalanthís balzò in piedi e si mise a correre, simulando il comportamento della gioia e fingendo che Alcmena avesse partorito, benché non fosse affatto cosí. La dea, colta dalla sorpresa, aprí il ventre di Alcmena: ma Akalanthís dovette scontare con la metamorfosi l’ardire del suo inganno 42.

Finalmente Era scende direttamente in campo. Per compiere l’odioso compito che si prefigge non invia qualcuna delle sue associate, si tratti di Eileíthyia, delle Pharmakídes o di Lucina: va lei direttamente, e soltanto suo è dunque lo smacco per l’inganno subito. Per quello che riguarda invece la donna-donnola, ci accorgiamo che ha cambiato nome ancora una volta. Adesso si chiama Akalanthís, un nome che non richiama piú la «donnola» (gal ) ma se mai un altro animale: il cardellino (akalanthís), il quale non sembra proprio avere alcuna parte nella storia. Se non si tratta di un banale errore della tradizione manoscritta, com’è ben possibile, si può pensare che questa versione del racconto presupponesse un qualche rapporto (a noi ignoto) fra la donnola e il cardellino 43. Meglio comunque limitarsi a sottolineare che anche qui, come in Ovidio e subito sotto in Antonino Liberale, la donna-donnola esprime «correndo» il suo falso messaggio. Di nuovo la corsa e la rapidità dell’azione funzionano come ponte, sembrerebbe, verso l’imminente trasformazione della ragazza in un animale dai movimenti rapidi.

5. Antonino Liberale. «Trophós» e ministra di Ecate. Ovidio non era stato certo l’unico a scrivere di metamorfosi. Già Nicandro, nel secolo II a.C., aveva composto i suoi Heteroioúmena, e anche lui si era interessato della storia di Alcmena e della ragazza-donnola. Il testo di Nicandro purtroppo non ci è arrivato, ma ne possediamo un riassunto in prosa fatto da Antonino Liberale 44: Nella città di Tebe, a Preto era nata una figlia che si chiamava Galinthiás. Questa vergine era una compagna di giochi e un’amica di Alcmena, figlia di Elettrione. Quando Alcmena era sul punto di mettere al mondo Eracle, le Moírai ed Eileíthyia trattennero le sue doglie, per compiacere Era. Se ne stavano dunque sedute, con le mani intrecciate: ma Galinthiás, temendo che i dolori facessero perdere il senno ad Alcmena, corse verso le Moírai ed Eileíthyia, annunziando loro che, per volere di Zeus, ad Alcmena era nato un figlio maschio, e che le loro prerogative (timaí) erano state abolite. Di fronte a questo le Moírai furono colte da grande sorpresa e subito levarono in alto le mani 45: nello stesso istante i dolori abbandonarono Alcmena, e Eracle venne alla luce. Le Moírai provarono dispetto per quello che era avvenuto e privarono Galinthiás della propria natura di donna, perché, pur essendo mortale, aveva ingannato delle divinità. La trasformarono perciò in una donnola astuta, prescrivendole di vivere nelle cavità e assegnandole una vita sessuale ripugnante. Concepisce infatti dalle orecchie e partorisce il nuovo nato facendolo uscire attraverso la gola. Ecate ebbe compassione di lei, per la metamorfosi che aveva subito, e ne fece la sua sacra ministra. Eracle, quando fu grande, non dimenticò la sua gratitudine per Galinthiás, le eresse una statua vicino a casa e le offrí dei sacrifici. I Tebani osservano ancora questo rito e quando la festa di Eracle ha inizio essi sacrificano per prima a Galinthiás.

Quella che in Ovidio era Galanthis, in questa versione porta un nome appena diverso: Galinthiás. Ma l’esplicito richiamo alla «donnola» greca, la gal , è ugualmente molto vivo. Solo che la Galinthiás di Antonino non è un’assistente al parto, come la Galanthis di Ovidio: è una «vergine» amica di Alcmena e sua «compagna di giochi» (sympaíktria) 46. Non meraviglia certo il fatto che la partoriente sia assistita da una «amica» fidata, una compagna con cui si ha confidenza dal tempo dell’infanzia 47. Comunque sia la donna strenua che abbiamo visto sopra, pronta e veloce come una (futura) donnola,

è scomparsa. Della donnola, la Galinthiás di Antonino sembra possedere solo un piccolo segno visibile, vorremmo quasi dire uno scatto: al momento in cui la ragazza si reca a dare il falso annunzio alle Moírai e a Eileíthyia, infatti, la storia la rappresenta mentre «corre». Fanciulla che corre a ingannare le dee, in questo Galinthiás anticipa la sua imminente trasformazione in una donnola pronta e veloce. Sembra non esserci altro. Eppure, come avremo modo di vedere, persino le caratteristiche di Galinthiás che sembrano piú lontane, o meno rilevanti, dal punto di vista della sua trasformazione in donnola – la sua verginità, l’essere una «compagna di giochi» della partoriente – assumeranno piú avanti un notevole significato per l’interpretazione del racconto. Questa versione di Nicandro, riassunta per noi da Antonino, si presenta davvero interessante. Lo è, in primo luogo, per il lettore di Omero, e per chi ricordi quello che era avvenuto nel prologo sull’Olimpo. Lo specifico contenuto dell’annunzio di Galinthiás alle Moírai («… ad Alcmena era nato un figlio maschio, e le loro prerogative erano state abolite…») non è per nulla banale. È come se la ragazza-donnola di Nicandro e di Antonino avesse potuto ascoltare quello che era avvenuto in cielo, quando Zeus aveva formulato il suo incauto verdetto ed Era aveva immediatamente capito come ingannarlo sui tempi e sulle parole della nascita. Dice infatti Galinthiás che quel bambino maschio è nato «per volere di Zeus», e che di conseguenza «le prerogative» (timaí) delle Moírai e di Eileíthyia «sono state abolite» 48. L’inganno della fanciulla-donnola prende qui l’aspetto di un abile gioco del rovescio sull’infelice strategia di Zeus nell’Iliade. Come sappiamo, la sconfitta era stata causata proprio dalla impossibilità, da parte del sommo fra gli dèi, di metter bocca in questioni di nascite e di bambini: una provincia le cui «prerogative» erano possedute tutte da Era e dalle sue associate. Galinthiás nega tutto questo, e pretende invece che il volere di Zeus abbia la possibilità di dettar legge anche nella provincia della nascita, e possa perciò trionfare contro le timaí delle dee. La beffa di Galinthiás corrisponde in qualche modo alla creazione di un «altro» finale per la storia che si era svolta sull’Olimpo: Galinthiás «fa finta» che le cose siano andate veramente come Zeus aveva progettato che andassero, e in qualche modo rimedia lei alle ingenuità del sommo fra gli dèi. L’eleganza di questa soluzione narrativa mette anzi in evidenza un parallelismo che – spartito com’è fra diverse versioni del racconto – potrebbe sfuggire. Sull’Olimpo Era aveva giocato il povero Zeus con un trucco verbale, facendogli accettare per buona una

soluzione che per lui in realtà non lo era affatto e sostituendo una nascita con un’altra: sulla terra, a Tebe, la ragazza restituisce la pariglia a Era, ingannando le dee del fato ancora con un trucco verbale e di nuovo sostituendo una nascita (che in realtà non esiste) a un’altra che esse non volevano. Trucco chiama trucco. Piú avanti dovremo ritornare su questa gara di m tis che si svolge accanto al capezzale di Alcmena 49. Soprattutto, però, il merito di questa versione dataci da Antonino sta nel fatto che essa allunga enormemente il campo della prospettiva: rispetto a Ovidio, la conclusione della metamorfosi è piú imprevista e piú profonda. Ovidio ci lasciava semplicemente in compagnia di un animale domestico, la donnola che frequenta le nostre case 50. Qui invece la storia va ben al di là delle mura di casa, assume anzi sfumature misteriose. La donnola diventa infatti ministra prediletta di una dea per nulla rassicurante, Ecate, che come la donnola frequenta i «buchi» e le «caverne» 51. Dell’animale si sottolinea esplicitamente il suo carattere «ingannatore». Ancora, ci viene detto che Eracle la onorò di una statua e di un culto, e che tutto ciò è ancora osservato dai Tebani, che dedicavano, dunque, un vero e proprio culto a Galinthiás, come sembra essere avvenuto a Palestrina e a Licata 52. La ragazza-donnola è diventata un personaggio soprannaturale, compagna della dea dei trivi e della Luna e onorata a Tebe come una divinità. Anche la diceria sul suo «parto dalla bocca» assume qui connotati molto piú forti che non in Ovidio. Adesso si scopre che la donnola non solo partorisce dalla bocca ma addirittura concepisce dalle orecchie: e che tutta la sua sessualità (il modo «in cui si giace», dice pudicamente Antonino) ha carattere sgradevole, ámorphos. Ecco dunque la fanciulla Galinthiás finita nelle grinfie di Ecate, e ancora piú profondamente colpita dalla metamorfosi. È la sua intima natura, infatti, che è cambiata: la vergine che fu compagna di giochi di Alcmena è adesso un animale astuto e dalla sessualità ripugnante, che segue Ecate nelle notti di luna e riceve a Tebe sacrifici di gratitudine. Strano e complesso personaggio, questa donnola. Soprattutto personaggio indefinibile, da un lato aiutante soccorrevole, dall’altro animale ingannatore, malefico, perverso. È bene dire subito che questa caratteristica della donnola, la sua «ambivalenza», ci accompagnerà per tutte le pagine di questo libro. Piú procederemo nel racconto, piú dovremo accorgerci che la donnola è un animale di luce e di ombre, graziosa compagna, infida presenza. Forse il lettore sarà rimasto colpito dal fatto che la donnola di Ovidio si presentava

come figura molto piú positiva di quella di Antonino: l’animale che «ancora frequenta le nostre case» evoca infatti un’immagine domestica, pacifica, mentre la compagna di Ecate, l’animale dalla sessualità ripugnante, fa pensare a qualcosa di molto piú unheimlich. Crediamo che questo contrasto non sia casuale. Come vedremo, infatti, la donnola godeva a Roma di una reputazione molto migliore di quella che si era guadagnata in Grecia 53. Ovidio, raccontando la propria versione del mito di Galanthis, aveva in qualche modo romanizzato la sua donnola, riscrivendone i contorni secondo la sua percezione culturale, e ne aveva fatto un personaggio molto meno perturbante di quello che non fosse nei racconti greci.

6. Eliano e Istro. Streghe lussuriose e altre corse di donnole. Accanto a questa variante di Antonino, credo che possa trovare il suo posto anche un frammento di racconto che propriamente non appartiene alla storia di Alcmena ma di essa potrebbe costituire almeno un’eco. O meglio ancora, un’amplificazione dei tratti negativi dell’animale che emergono dalla variante di Antonino. Si tratta di Eliano, che cosí descrive la natura della donnola e il mondo a cui appartiene: … ho sentito dire che la donnola di terra era un tempo creatura umana (ánthro-pos). Essa aveva appunto questo nome [cioè Gal «Donnola»] ed era una incantatrice e una strega. È giunto alle mie orecchie anche il fatto che era molto incontinente e afflitta da desideri amorosi anormali. Non mi è neppure sfuggito il fatto che l’ira della dea Ecate la trasformò in questo malvagio animale – che questa dea mi sia propizia! Lascio ad altri i miti e il compito di raccontarli. Ma è un animale molto maligno, è noto che le donnole aggrediscono i cadaveri incustoditi per strappare loro gli occhi e inghiottirli. I testicoli della donnola, messi addosso a una donna di sua volontà o senza che lei se ne accorga, le impediscono di concepire e la distolgono dall’atto sessuale. Le viscere di una donnola, preparate al modo di coloro che si intendono di queste cose, se fatte inghiottire con il vino con intenzione di maleficio sono capaci di rompere le amicizie, come si racconta, e di separare relazioni sino a quel momento armoniose 54.

Come dicevamo, questa lunga descrizione della donnola-strega dataci da Eliano può funzionare come una variante – invero molto indiretta – del

racconto di Alcmena 55. Anche in questo racconto infatti, la donnola è il risultato di una metamorfosi, seppure non di una levatrice o di una fanciulla amica della partoriente ma di una «creatura umana» dalle abitudini stregonesche e dalla sessualità ripugnante; mentre Ecate continua a restare nell’orizzonte della donnola, pur se qui funziona da «divinità irata» con l’animale, al posto delle Moírai, e non da sua compassionevole salvatrice, come in Antonino. Le note del racconto di Alcmena vagamente risuonano in questo testo, ma in modo molto imperfetto e lontano. In ogni caso, della storia di cui stiamo seguendo la trama manca qui la parte decisiva: la presenza di una donna che sta per partorire e di una nemica che intende bloccarne le doglie, a cui la donnola si contrappone come amica della partoriente. Un altro tratto però ci colpisce. Fino a questo momento siamo stati abituati a vedere la donnola, o la ragazza-donnola che lotta lei contro delle streghe, Pharmakídes o Moírai che siano, le quali compiono gesti di incantesimo. Qui, al contrario, la donnola è strega lei stessa. Piú sotto analizzeremo specificamente questo testo, quando parleremo delle pericolose inclinazioni della donnola alla stregoneria e alla dissolutezza 56. Questo testo di Eliano ci conferma ulteriormente, dunque, quella caratteristica ambivalenza della donnola, soprattutto di quella greca, di cui abbiamo già avuto occasione di parlare. Nel libro di Eliano, comunque, non poteva mancare una versione della «vera» storia di Alcmena. Eccola: Gli Egizi vengono derisi da molti, perché venerano come divinità vari tipi di animali. Eppure anche i Tebani, che sono greci, venerano la donnola, come sento dire, e dicono che fu la nutrice (trophós) di Eracle. E se non fu proprio la sua nutrice, certo accadde che, quando Alcmena era in travaglio e non riusciva a partorire, la donnola le corse accanto e sciolse i nodi delle sue doglie. Cosí Eracle fu partorito, e subito cominciò ad andare a quattro gambe 57.

La buona ragazza, qualunque fosse il suo nome, è improvvisamente scomparsa. Historís, Galanthis, Galinthiás, Akalanthís, hanno ceduto il passo a una semplice «donnola», la quale non presuppone alcuna trasformazione. È un notevole cambiamento rispetto alle versioni della storia che abbiamo visto sin qui. Ma non basta. Questa versione risulta molto singolare anche perché non c’è alcuna menzione delle stregonerie di Moírai, Eileíthyiai o

Pharmakídes che fossero. Si dice solo che Alcmena non riusciva a partorire, senza neppure alludere alla presenza di una qualche potenza malefica ostile alla partoriente. È molto interessante seguire le trasformazioni che la nostra storia subisce nella versione di Eliano. Si parla ancora di nodi da sciogliere ma, visto che non c’è nessuna strega che incrocia le gambe o le mani, adesso questi nodi sono semplicemente quelli anatomici, se possiamo dire cosí, quelli che chiudono il ventre di Alcmena e le rendono difficile il parto. Ma un tratto di questa versione colpisce piú di ogni altro. Non c’è inganno, in Eliano, né ci potrebbe essere, visto che non appare alcuna potenza ostile da ingannare. Perché i «nodi del ventre» possano sciogliersi è sufficiente che la donnola «corra accanto» alla partoriente: nient’altro. Comincia a farsi strada un pensiero. Piú di una volta abbiamo visto enfatizzato il tratto della «corsa» e del «movimento» nelle storie di trasformazione che abbiamo analizzato sin qui: lo sottolinea Ovidio (dove Galanthis exit et intrat dalla porta), lo sottolineano Antonino e Libanio, usando tra l’altro parole molto simili. Avevamo pensato che questo tratto fisico del personaggio servisse semplicemente da ponte alla metamorfosi, anticipando le future caratteristiche dell’animale. È certo cosí, la donnola è in effetti un animale rapido e dalla corsa veloce, che nei testi antichi è spesso rappresentato nell’attimo di «correre accanto», di passare velocemente vicino agli uomini senza realmente incontrarsi con loro 58. Dunque si spiega bene che anche l’avatar umano della donnola, un attimo prima della metamorfosi, sia rappresentato come dotato della stessa velocità e destrezza che caratterizzeranno il seguito animalesco della sua vita. Ora però ci accorgiamo che la corsa della donnola potrebbe anche avere un potere «in sé»: secondo Eliano alla donnola era bastato «correre accanto» alla partoriente perché i suoi nodi fossero immediatamente «sciolti». Difficile pensare che questo comportamento veloce dell’animale non abbia nulla a che fare con la sospirata rapidità del parto di Alcmena. Ma Eliano ci dà anche un’altra informazione interessante. In seguito alla benefica opera compiuta nei confronti di Alcmena e del suo bambino, la donnola venne considerata nientemeno che la «nutrice» (trophós) di Eracle – o perlomeno, dice Eliano, se non proprio la nutrice almeno colei che aveva fatto nascere il bambino sciogliendo i nodi che lo serravano nel ventre materno. Una specie di levatrice, sembrerebbe, e dunque un personaggio molto simile a quello interpretato (in qualità di donna vera e propria, e non di donnola) dalla

ministra Galanthis in Ovidio. Diventa perciò interessante il fatto che, quattro secoli prima di Eliano, lo storico Istro avesse già narrato la storia di Alcmena praticamente nello stesso modo, senza donne e senza metamorfosi, solo con una donnola che tramite il suo movimento liberava Alcmena dal travaglio: dopo di che l’animale venne considerato la «nutrice» dell’eroe. Purtroppo non possediamo per intero la versione del racconto cosí come Istro la dava: della ricostruzione del dottissimo «Callimacheo» (cosí infatti lo chiamavano, perché scolaro di Callimaco), non ci resta se non lo scarno resoconto che ne danno gli scoli all’Iliade 59. E lo scoliasta, purtroppo, nell’arte della sintesi si dimostra assai inferiore al retore Libanio: Istro dice che mentre Alcmena era in travaglio le Moírai avevano intrecciato le loro mani: ma una donnola, passando presso la partoriente, le sciolse. Eracle nacque, e la donnola fu considerata la sua nutrice (trophós).

A differenza di Eliano, il movimento della donnola non sblocca i nodi anatomici del ventre ma – proprio come l’astuta fanciulla dei racconti di metamorfosi – scioglie quelli intrecciati dalle malefiche mani delle Moírai. L’animale, con il suo semplice passaggio, ha il potere di fare ciò che altrove la donna-donnola realizza tramite le risorse della parola e dell’astuzia. Anche in questo caso insomma la donnola sembra possedere «in se stessa» un potere positivo, la sua sola presenza è capace di annullare i malefici delle Moírai. È come se la donnola fosse, per sua natura, animale capace di facilitare parti difficili e annodati.

Figura 5. Ercole e Uni, specchio etrusco, IV secolo a.C. Firenze, Museo archeologico. (Foto Soprintendenza Archeologica per la Toscana, Firenze).

Come abbiamo visto, Eliano non era sicuro che la donnola fosse davvero considerata la nutrice di Eracle: ciò che gli pareva certo, invece, era che questo animale fosse stato in qualche modo la levatrice dell’eroe. Istro, almeno nello scarno resoconto dello scoliasta, non si faceva invece troppi problemi, e dichiarava che la si riteneva direttamente la trophós di Eracle. Uscita di scena l’astuta Historís, ovvero l’ugualmente astuta donna-donnola Galanthis (o Galinthiás, o Akalanthís), in Eliano e Istro il suo posto viene preso da una donnola dai magici poteri liberatori: che addirittura alcuni

consideravano nutrice dell’eroe. In che senso «nutrice»? L’incertezza di Eliano, che aveva studiato il greco con un bravo maestro, è molto pertinente. Dobbiamo forse pensare a un seguito della storia, in cui la donnola offriva addirittura il proprio latte al bambino? Di questo seguito però non sappiamo nulla, mentre conosciamo altri, avventurosi allattamenti di Eracle bambino 60 (cfr. fig. 5). Forse sarà meglio pensare, con Eliano, che la donnola fosse considerata nutrice di Eracle semplicemente perché aveva presieduto al suo parto, salvando la sua vita e quella di Alcmena. Di questo dovremo comunque occuparci piú avanti 61. In ogni caso, ecco la donnola nell’inatteso ruolo di seconda madre del piú grande fra gli eroi greci. Del resto, come sappiamo da Antonino, Eracle aveva dedicato a Galinthiás una statua, per riconoscenza. Chissà se quella statua raffigurava solo una fanciulla, solo una donnola, o non piuttosto una fanciulla-donnola. Pausania, purtroppo, questa statua non l’aveva vista 62.

Capitolo secondo La Follia di Spagna

Spero che sia stato utile avvertire subito il lettore di quello a cui andava incontro. In caso contrario avremmo anche potuto rischiare che smettesse di leggerci. Tanto vale però ripeterlo adesso: i miti antichi non hanno forma unica e compatta, sono fatti solo di frammenti e di voci separate. La storia di Alcmena salvata dalla donnola non fa eccezione, l’unica cosa da fare per raccontarla è quella di elencare pazientemente tutte le versioni che possediamo, dalla piú ricca alla piú modesta, possibilmente senza saltarne nessuna. Questo abbiamo cercato di fare nel capitolo precedente. Ma che strana forma, per il racconto di Alcmena! Un collage di frammenti e di narrazioni disparate, e quasi sempre diverse l’una dall’altra. Forse il lettore sperava di poter leggere un racconto vero e proprio, invece gliene abbiamo messi sotto gli occhi tanti, che ogni volta ripetevano la stessa cosa in modo variato.

1. Variazioni senza tema. Il problema è che non si può parlare di qualcosa che esiste come «il» racconto di Alcmena. Questo racconto infatti non sta da nessuna parte, ciò che effettivamente leggiamo, e possediamo, sono le sue svariate versioni. Chi ama la musica, e soprattutto chi ricorda la struttura musicale dei celebri Mythologiques di Claude Lévi-Strauss, troverà naturale che a questo punto anch’io paragoni il racconto di Alcmena – insieme di versioni accomunate da un’unica aria di famiglia 1 – a un gruppo di variazioni sviluppate sopra un medesimo tema melodico. Dato che poche melodie sono state tanto variate quanto quella detta la «Follia di Spagna», possiamo scegliere proprio questo esempio come filo mentale per sviluppare la nostra similitudine. Il lettore di miti antichi deve rassegnarsi all’idea che si trova precisamente nello stesso stato di colui che sta seguendo in sala le variazioni sulla «Follia» di Gaspar Sanz, di Marin Marais o di Antonio Vivaldi. E quando finalmente gli strumenti tacciono, e le luci si accendono, non è perché la musica sia davvero

«finita»: semplicemente sono finiti i fogli sul leggio, ovvero il direttore ne ha smarrito qualcuno per strada, ovvero l’antico autore di queste variazioni a un certo punto si era stufato e aveva preferito uscire, piuttosto che inventare altre figure ritmiche e melodiche sul medesimo tema. Ma avrebbe benissimo potuto farlo, perché teoricamente le variazioni sulla «Follia» potrebbero continuare all’infinito. Lo stesso accade per i miti antichi. Le versioni che ne possediamo sono in numero limitato ma si sa che esse potrebbero essere anche molte di piú, addirittura innumerevoli. E ogni versione, ogni porzione o frammento di racconto, funziona come un’autonoma variazione sul tema principale: con un suo ritmo distinto, figure melodiche diverse, accenti, abbellimenti particolari. Nei manuali di mitografia, da Boccaccio a Graves, da Apollodoro a Kerényi, la pluralità dei racconti mitici viene necessariamente ridotta a una sola narrazione. I miti vi compaiono nella forma di storie concluse, per cui in poche pagine si possono leggere le vicende di Andromeda salvata da Perseo, quelle di Zeus che seduce Leda, quelle dei sette comandanti che assediano Tebe… Proprio come se, ogni volta, si trattasse di «un» solo racconto, che si può narrare una sola volta, e una per tutte, nel corso del libro. È vero che la molteplicità delle voci sopravvive talora in formule del tipo «altri dicono invece…», o in scarne note a piè di pagina che citano le cosiddette «fonti» del racconto: resta però il fatto che, combinate insieme in un’unica storia, le differenti versioni di un mito sortiscono lo stesso risultato che si potrebbe ottenere comprimendo in un solo e unico pezzo (in latino si direbbe conflando) una serie di variazioni sulla «Follia di Spagna». Il musicista che compisse un’operazione del genere riuscirebbe al massimo a produrre una ulteriore variazione sul tema, da aggiungere in coda alle altre, ma di sicuro il pezzo ottenuto non rappresenterebbe «la» vera Follia di Spagna. Cosí accade di frequente con i miti quando i mitografi li riprendono e li narrano. Mettendo insieme le molteplici versioni del racconto finiscono al massimo per aggiungere una ulteriore versione alla serie di quelle già esistenti. E non è neppure detto che si tratti della peggiore, visto che i mitografi molto spesso sono dotati di eleganza e di dottrina 2. La similitudine fra le versioni del mito e le variazioni musicali, comunque, si arresta a questo punto. Fra le due esperienze c’è infatti una differenza fondamentale, e facilmente immaginabile. Della «Follia di Spagna» si conosce infatti il «tema»: poche note ripetute, talora puntate, in

una tonalità minore e secondo certi intervalli melodici. Questo tema è quello che ha prodotto tutte le variazioni della «Follia» che sono state create e ancora lo saranno, scritte e non scritte, eseguite una sola volta o migliaia. Ma qual è il «tema» della storia di Alcmena salvata dalla donnola? Nessun autore antico si è preso la briga di riportarlo in testa alla sua narrazione del mito, per poi lanciarsi nella sua, personale, variazione su quel tema. Tantomeno si avrebbe il diritto di rimproverarlo per non averlo fatto, perché in realtà questo tema non esiste esplicitamente da nessuna parte. Esiste nella mente di coloro che hanno narrato quel mito, come nucleo generatore di storie 3, ovvero esiste come insieme di tratti che rendono automaticamente riconoscibile un certo racconto come «racconto di Alcmena» e non come un’altra storia. Sopra abbiamo parlato di una certa aria di famiglia che tiene insieme le differenti versioni, e adesso ci accorgiamo che, avendo scelto di sviluppare una similitudine musicale, probabilmente la parola «aria» significa in questo caso molto di piú di quanto potessimo immaginare all’inizio. Di fronte alla storia che ci interessa, insomma, cosí come di fronte a ogni altro mito classico, noi ci troviamo nella stessa posizione di un ipotetico ascoltatore che stia seguendo alcune variazioni sulla «Follia di Spagna» ma ne ignori rigorosamente il tema: perché il maligno musicista ha eseguito sí le variazioni, ma non il tema. O meglio ancora perché neppure il musicista conosceva il tema, visto che in realtà quel tema non è mai stato scritto da nessuno. Il povero ascoltatore riuscirebbe a ricostruirle, quelle poche note ripetute, talora puntate, in una tonalità minore? Oppure non sarebbe mai in grado di identificare gli intervalli che le separano e la loro esatta successione? Il concerto risulterebbe bello lo stesso, ma di sicuro quell’ascoltatore uscirebbe dalla sala con la curiosità, se non con il rovello, di riuscire in qualche modo a scoprire qual era il tema della «Follia di Spagna». Siccome questa persona mi fa molta simpatia sarei addirittura tentato di darle un nome: potremmo chiamarla Marco. È un uomo alto ed elegante, quando va al concerto si mette sempre una bella farfallina blu. Ma fuori dal teatro piove, e Marco canticchia ostinatamente qualcosa che, a tratti, potrebbe rassomigliare al tema della «Follia di Spagna».

2. Appunti sul leggio.

Ricostruire le note di un tema mai scritto da nessuno è un’impresa non facile. Purtroppo però anche noi siamo usciti dalla sala con un rovello non diverso da quello che tormenta Marco. Le variazioni sul racconto di Alcmena che abbiamo ascoltato sin qui, da Pausania a Istro, sono talmente belle che devono essere state per forza composte seguendo un’immagine musicale altrettanto bella. Vorremmo conoscerla. Se anche non riuscissimo a ricostruire esattamente il tema del racconto di Alcmena – un tema che, come sappiamo, non esiste depositato da nessuna parte – ci accontenteremmo di ascoltarne almeno un’eco, seppure confusa. Se il lettore se la sente di collaborare, nelle pagine che seguono vorremmo provare a inseguire l’eco di questo tema. Fuori continua a piovere. L’intuizione è una gran bella cosa, ma a meno che Marco non sia uno Schubert, o un Rossini, è molto difficile che riesca a indovinare il tema al primo tentativo. Anche se avrà in testa un’idea melodica non confiderà certo che sia quella giusta. Preferirà tornare a casa, aprire il pianoforte e mettersi prima di tutto a suonare certi segmenti delle singole variazioni che gli sembravano simili tra loro. Poi comincerà a prendere appunti sul leggio, con una bella penna stilografica, registrando sul pentagramma le singole frasi individuate e contrassegnandole con un nome o una sigla per distinguerle l’una dall’altra. Faremo anche noi come Marco. Abbiamo le singole versioni, proviamo prima di tutto a scomporle e a riordinarle. Dovranno pur esserci dei passaggi fissi, o perlomeno degli intervalli simili, lungo i quali le singole variazioni finiscono obbligatoriamente per passare. Il tema, ovvero quel che di lui piú probabilmente esiste, non potrà nascondersi se non lí. L’importante è cominciare a individuare questi segmenti e dar loro un nome. Ecco dunque i primi appunti. Un segmento del tema, almeno, è certo: la partoriente. Una donna in travaglio, dal nome di Alcmena, che per qualche motivo non riesce a liberarsi del suo peso. Questa parte del tema la definiremo semplicemente Alcmena, ovvero «la Partoriente». In pratica si tratta di un elemento che non varia, o varia solo in misura minima, passando da una versione all’altra. Nel racconto questo elemento funziona un po’ come la tonica nel tema musicale, il punto fermo della frase di cui si può essere assolutamente certi. Sarà dunque il primo segmento che analizzeremo. Poi viene la parte relativa all’intervento della nemica di Alcmena, colei che le

impedisce di partorire. In questo segmento può starci Era da sola oppure in compagnia di altri personaggi. A volte invece Era non compare per niente, e al suo posto stanno delle sue emissarie dal nome di Eileíthyiai (ovvero Eileíthyia, una sola), Lucina, Moírai, Pharmakídes. Certe volte questo segmento è trascuratamente vuoto, come in Eliano, dove a ostacolare il parto non compare se non (sembrerebbe) una sventurata congiuntura del corpo della partoriente, le cui doglie si bloccano senza alcuna motivazione magica. Questo segmento lo definiremo «la Nemica». Poi viene la parte relativa alla strategia usata dalla Nemica per bloccare il parto: potrà trattarsi di mani incrociate, ovvero di gambe incrociate e di mani (ancora incrociate) posate sulle ginocchia. Insomma di nodi. Dunque daremo il nome di «Nodi» a questa parte del racconto. In Eliano, dove il segmento della Nemica è vuoto, anche questo segmento è vuoto. Possiamo allora azzardarci a dire che, dal punto di vista del racconto, il segmento dei Nodi è subordinato a quello della Nemica, visto che il primo non può esistere senza il secondo. Infine viene la parte relativa alla liberazione di Alcmena. Questo momento della storia ha in realtà due facce, che corrispondono a due diversi segmenti. È bene tenerli distinti. Il primo è costituito dall’«azione» che specificamente è messa in opera per portare a termine la liberazione: il secondo dal «personaggio» che riesce a compiere questo evento. Vediamo intanto il primo segmento. In esso compare normalmente un messaggio falso, che viene comunicato alla Nemica e la costringe a sciogliere i propri Nodi. Questo messaggio può essere dato utilizzando un grido tipico della celebrazione del parto, come in Pausania, ma piú spesso viene dato correndo. Questo, ovviamente, quando l’aiutante della donna in travaglio è una fanciulla. Altre volte, in questo segmento compare invece la sola corsa di una donnola, o addirittura semplicemente il passare di una donnola accanto alla madre in travaglio, che viene cosí liberata. Questo segmento lo chiameremo la «Risoluzione», sperando che lo scioglimento dei Nodi della Nemica coincida anche con la risoluzione di tutta la frase musicale che stiamo cercando. Dal punto di vista dell’economia del racconto, si nota che la Risoluzione si contrappone specularmente ai Nodi. Vediamo ora l’altro segmento, quello relativo al personaggio capace di portare a termine la liberazione. In esso può comparire una ragazza – che si chiama Historís – ovvero una donna destinata a diventare donnola – Galanthis, Galinthiás o Akalanthís – ovvero una semplice donnola. Questo

segmento lo chiameremo la «Liberatrice». Come si vede, si tratta di una fase della storia in tutto e per tutto speculare a quella che abbiamo identificato come la Nemica, fra questi due ruoli (negativo e positivo) sussiste un rapporto di opposizione e di similarità perfettamente bilanciato. Allo stesso modo in cui al segmento dei Nodi si contrappone quello della Risoluzione, cosí alla Nemica di Alcmena si contrappone la sua Liberatrice. Lo stesso rapporto di coppia ben bilanciata che esiste al livello delle due azioni messe in opera, si ritrova al livello dei due personaggi che lo compiono. Quando il ruolo della Liberatrice è giocato non da una normale ragazza (come in Pausania) o da una semplice donnola (come in Istro ed Eliano), ma da una ragazza che si trasforma in donnola, una porzione importante del segmento della Liberatrice è costituita appunto da una metamorfosi. In certi casi a questo evento ne fanno seguito altri che non pertengono direttamente all’azione narrata (Alcmena ha già partorito, Eracle è nato), ma gettano comunque luce, retrospettivamente, sulla natura e sul ruolo della Liberatrice. Può trattarsi di un tangibile dono di gratitudine per lei da parte di Eracle, oppure della sua fama di nutrice dell’eroe, oppure del suo ingresso nella sfera di Ecate. Questi sono dunque i passaggi che contengono almeno un’eco del tema di cui abbiamo seguito sopra le singole variazioni. Sono in tutto cinque, e presentano già una forma ben definita. Attorno all’invariante, Alcmena ovvero la Partoriente, si organizzano infatti quattro segmenti che si contrappongono specularmente l’un l’altro, a coppie: alla Nemica risponde la Liberatrice, ai Nodi la Risoluzione. Credo che, al posto nostro, Marco prenderebbe questi segmenti uno per uno e, ostinatamente, li suonerebbe sul pianoforte per moto retto e per moto contrario, accostando a essi altri nuclei melodici e sforzandosi di vedere se questi nuovi frammenti di melodia si adattano anche al resto dei passaggi che ha individuato. Seguiremo il suo esempio, prenderemo i singoli segmenti, con i nomi che abbiamo dato a ciascuno di essi, e ne faremo altrettanti capitoli in cui farli risuonare quanto basta. Quale musica sarà mai la nostra? Difficile dirlo fin da adesso ma una cosa ci pare sicura. Il tipo di armonia cui faremo ricorso, soprattutto di fronte a certi particolari segmenti melodici (i Nodi, e ancor piú la Liberatrice), sarà tutt’altro che rigido, anzi, decisamente cromatico e allargato. Nella nostra analisi infatti troveranno posto materiali tratti dalla cultura sia greca che

romana, perché siamo convinti del fatto che – di fronte a certe esperienze umane di carattere fondamentale – questi due mondi condividevano credenze o atteggiamenti mentali che facevano parte di un bagaglio molto piú vasto dei limiti cronologici o geografici in cui si sarebbe tentati di restringere ciascuno di essi. Altre volte, soprattutto quando dovremo occuparci della donnolaLiberatrice, il confronto si allargherà anche al folclore europeo e mediterraneo, perché scopriremo che le credenze relative a questo animale sono dotate di una straordinaria tenacità e di un’incredibile diffusione – proprio come lo è il racconto di Alcmena, quel tema della «Follia di Spagna» che alla fine di questo libro ci troveremo a inseguire attraverso la Scozia, la Scandinavia, in Sicilia, fino al North Carolina. Far risuonare queste note significa infatti ricostruire le fila di una narrazione che ha per argomento uno dei grandi momenti dell’esperienza umana femminile, quello del parto e della nascita di un bambino. Il «tema» che in questa narrazione viene sviluppato è dunque tanto transculturale quanto lo è la diffusione della «storia» che intorno a esso si è coagulata. Ecco perché non una sola cultura, o due, ma molte possono contribuire a farcene capire il significato. Uno dei problemi che piú classicamente si pongono agli studi antropologici è costituito dalla cosiddetta comparazione fra culture diverse, ovvero, come sarebbe forse piú opportuno dire, dalla possibilità di stabilire una qualche «continuità interpretativa» fra culture a proposito di un determinato fenomeno. Molte volte si è ripetuto quanto fuorviante possa essere questa pratica, quanto sia invece preferibile analizzare i fenomeni di ciascuna cultura per sé e all’interno dei propri confini. Si tratta ovviamente di osservazioni molto sensate. Ma è anche vero che solo enfatizzando certe continuità interpretative fra culture differenti si possono far emergere differenze o analogie, e soprattutto significati, che altrimenti non sarebbero mai apparsi all’osservazione 4. Come comportarsi? Forse non ci si è preoccupati abbastanza di dire che, comunque la si pensi a proposito della continuità interpretativa, le cosiddette comparazioni non sono tutte uguali, e che esse possono essere iscritte in una doppia scala di variazioni. Da un lato infatti esistono «culture» che sono piú comparabili fra loro (è il caso già ricordato di quella greca e romana) e altre che lo sono molto meno, o che lo sono solo in modo assai metaforico; dall’altro esistono «fenomeni» piú o meno comparabili fra loro – da alcuni che non lo sono affatto ad altri invece che lo sono molto. Le comparazioni non sono tutte uguali. Prendiamo il caso

della nascita. Si tratta di un momento dell’esperienza umana che è dotato di una specifica «continuità biologica», indipendente come tale da confini geografici o etnici 5: per questo motivo le rappresentazioni legate alla nascita si presteranno molto meglio a essere comparate fra loro di quanto non lo siano altre costruzioni esclusivamente culturali. Lo stesso si può dire per le rappresentazioni legate a un certo animale, come nel nostro caso sarà la donnola. Anche passando da una società a un’altra l’animale resta il medesimo, con i suoi tratti zoologici specifici, le sue abitudini, il suo aspetto fisico e cosí via: di conseguenza, esisterà perlomeno una base comune per stabilire delle continuità interpretative a proposito delle rappresentazioni che circolano attorno a uno stesso animale anche in culture diverse. Anche la pratica della continuità interpretativa, dunque, si pone in primo luogo come una questione di «temperamento». Un sí o un no assoluti non servono a molto, mentre vale la pena distinguere di volta in volta a quali fenomeni ci si stia rivolgendo, e da quali culture sono tratti. In altre parole, un conto è analizzare comparativamente le credenze relative a un fenomeno come la nascita all’interno di culture affini, come quella greca e romana, o quella europea medievale, un altro è confrontare fra loro dieci versi della Teogonia di Esiodo e un frammento di mitologia sudamericana. La comparazione, quando la si fa, deve essere come minimo una «comparazione ben temperata» 6.

Capitolo terzo La Partoriente

Almeno secondo i suoi scoliasti, Omero era un poeta molto «decente». Nel libro XIX dell’Iliade, quando si allude al parto di Alcmena, l’espressione usata da Era per descrivere la nascita del bambino Euristeo (non Eracle, come pensa Zeus sotto l’effetto di Ate) è infatti la seguente: «colui che in questo giorno cadrà fra i piedi di una donna» 1. E lo scolio commentava: «il poeta ha usato una metafora buona [?] e decente per descrivere il parto» 2. Eustazio era ancora piú elogiativo nei confronti del poeta: «nell’espressione ‘colui che in questo giorno cadrà fra i piedi di una donna’ il poeta ha definito il parto in modo decente, nobile, vigoroso, chiaro, e mistico quant’altri mai» 3. Un parto, evidentemente, è qualcosa che bisogna metaforizzare: come minimo la sua descrizione non sta bene in un poema epico se non quando è espressa in modo «decente» e addirittura «mistico» – come massimo un uomo, che usa il suo punto di vista maschile per guardare alle cose delle donne, sarebbe imbarazzato o disgustato da una dettagliata descrizione di ciò che accade quando un bambino viene alla luce. E forse lo sarebbe anche una donna. Nel secolo XIII , a Montaillou, la giovinetta Aude Fauré era rimasta traumatizzata dalla vista di una donna che aveva partorito per strada. «Pensavo continuamente – racconterà – a quella sporcizia che emette il corpo delle donne al momento del parto…» 4. Aveva fatto bene Omero, insomma, a celare elegantemente tutta la faccenda dietro una metafora decente. Per motivi diversi, molta gente sarebbe probabilmente pronta a sottoscrivere questa affermazione.

1. Quella sporcizia. Non intendiamo certo suggerire la possibilità estrema che la nostra cultura abbia guardato al ventre femminile – generatore di vita e di liquidi «sporchi» nello stesso tempo – con lo stesso disgusto con cui lo analizzava Francisco de Quevedo 5. O con le parole sprezzanti con cui Michele Psello descriveva il

demonio che tormenta le puerpere: uno spirito che assumeva volentieri l’aspetto di donna perché «è lascivo e gode di umidità immonde» 6. Francamente, si stenta a capire se Psello considerasse piú immondi gli spiriti del male o le puerpere che ne erano tormentate. Il problema è che per i maschi il parto della donna ha in sé qualcosa di impuro, è impuro per le parti anatomiche che coinvolge e ancor piú per i liquidi e per le sostanze che produce. Plutarco, per portare un esempio capace di mostrare quanto la divinità ami gli uomini, anche quando i suoi servigi «siano piú necessari che non decorosi», scrive: … come accade con la nascita dell’uomo, che certo non è cosa amabile e conveniente (euprepés) per via del sangue e delle doglie, eppure gode dell’assistenza di Eileíthyia e di Lochéia 7.

Altrove, parlando dell’amore dei genitori verso i figli, è ancora piú esplicito: … non c’è essere piú imperfetto, misero, nudo, informe, impuro (miarón) dell’uomo visto al momento della nascita. Solo a lui, praticamente, la natura ha assegnato una via non certo pura (kathar n) verso la luce, ma al contrario è coperto di sangue, di sporcizia, piú simile a qualcuno che viene ucciso piuttosto che generato, e per nessuno sarebbe conveniente (eoikós) toccarlo, prenderlo in braccio, baciarlo e abbracciarlo se non per colui che gli è legato da amore naturale 8.

Persino il dolce Plutarco trovava ripugnante, sconveniente, impuro il momento della nascita. Si capisce bene dunque perché la puerpera greca fosse considerata sorgente di impurità, cosí come del resto avviene in molte altre culture 9. I liquidi del parto sono affetti da un potere contaminatorio molto superiore a quello posseduto da altre sostanze corporee peraltro considerate già molto impure: come un informatore cinese ebbe a dichiarare, «la mestruazione vale solo un centesimo della nascita» 10. Cosí non meraviglia che il superstizioso di Teofrasto si rifiutasse di andare al letto di una puerpera per paura di essere contaminato, allo stesso modo in cui si guardava bene dal recarsi presso una tomba o presso un cadavere 11. Non c’è male come compagnia, per la donna che ha partorito. Stando ad alcune testimonianze antiche, in Grecia erano considerate impure anche le donne che avevano

partecipato alla nascita. Alla festa greca degli Amphidrómia, che si teneva il quinto giorno dalla nascita del bambino, «si purificavano le mani le donne che avevano partecipato alla nascita (maí sis)» 12. La maí sis è proprio il «mestiere della levatrice», dunque si parla delle donne che hanno svolto il ruolo di aiutanti al parto. È davvero interessante trovarsi di fronte a questo aspetto, forse per noi inatteso, del mestiere della levatrice: l’impurità che le deriva dal compito che svolge. Si tratta peraltro di un punto di vista condiviso anche fuori dalla Grecia antica, visto che in India, per esempio, le levatrici facevano parte della casta degli intoccabili proprio a motivo del mestiere impuro che svolgevano 13, e da impurità conseguente al parto le levatrici erano affette per alcuni giorni anche nelle tradizioni dell’Europa moderna 14. Riguardo agli Amphidrómia della Grecia antica, il testo che ci informa di questa purificazione delle donne usa una formula molto indicativa per descrivere la loro partecipazione all’evento della nascita: haí synephapsámenai t s maió–seos, letteralmente quelle che hanno «insieme toccato» o «afferrato» l’atto di far la levatrice. Questo verbo potrebbe naturalmente avere un significato solo metaforico, quello di «prender parte» a qualcosa, come spesso ha 15. Ma esso focalizza inevitabilmente l’attenzione sul fatto che, per far nascere un bambino, è necessario «afferrare», si deve per forza «toccare» con le mani – e questo significa contaminazione. Quanto al Figlio di Dio, è naturale che si finisse per auspicare non solo che fosse stato concepito da una vergine, ma anche che fosse stato partorito da una vergine 16. Come immaginare il Figlio di Dio coinvolto in sangue e in umori di questo tipo? Torniamo anzi al racconto di Aude Fauré, la ragazza di Montaillou che era rimasta traumatizzata dalla sporcizia che circonda il bambino alla nascita: «tutte le volte che il prete sollevava l’ostia, all’altare, io pensavo che il corpo di Gesú Cristo era sudicio di quella sporcizia» 17. Non era stata certo l’unica a preoccuparsi di questo problema. Gli gnostici seguaci di Valentino immaginavano infatti il Figlio di Dio che passa «attraverso sua madre come l’acqua in un tubo» 18. Mentre nel tardo Libro di Giovanni Evangelista Gesú, che è stato concepito non nel corpo di una donna ma in quello di un angelo, seppure di nome Maria, racconta: «E quando io scesi giú, entrai in lui attraverso un orecchio e venni fuori attraverso un orecchio» 19. Per il Figlio di Dio un parto maschile, e possibilmente dalle orecchie, resta la cosa migliore, proprio come Atena nata dalla testa di Zeus. Ma di queste orecchie della Vergine Maria dovremo riparlare piú avanti 20.

Per i cristiani, la partoriente è impura non solo nelle speculazioni dei teologi ma anche nella comune pratica dei fedeli. Lo testimonia esplicitamente l’uso popolare di sottoporre la puerpera a un rituale di purificazione, la cosiddetta «escíta n’santo», un atto simbolico che la libera dalla sua condizione di emarginazione 21. Ancora una volta sono i liquidi del corpo femminile, il sangue sparso, che rendono inavvicinabile la donna che ha partorito. Si dice infatti che dopo il parto la donna ha «le vene aperte», proprio come la donna mestruata, e questa apertura verso l’esterno del corpo femminile, l’eccessiva esibizione delle sue capacità riproduttrici, la rendono temibile e inavvicinabile 22. Il rituale della «escíta n’santo» prevede anzi che le mani della donna tocchino «un lembo della veste del sacerdote e, tenendolo ben stretto, non devono lasciarlo fino al momento in cui non si sia giunti all’altare». Questo gesto ne ricorda un altro, e con troppa precisione perché l’analogia sia casuale. Si tratta del gesto compiuto in Palestina dalla donna «affetta da emorragia» che «toccò il mantello» di Gesú: «e all’istante si fermò il flusso di sangue». La puerpera che tiene stretto un lembo della veste del sacerdote chiede dunque che le sue vene si chiudano, che il flusso si arresti, cosí come era avvenuto all’emorroissa del Vangelo 23. La sua impurità deriva dal sangue che ancora la contamina, dal suo corpo aperto, come quello di una mestruata. Tornare «in santo» significa chiudere quel corpo, suggellare finalmente la fonte da cui «tutta quella sporcizia» era scaturita. Naturalmente a chiudere simbolicamente quel corpo femminile che era rimasto aperto devono essere degli uomini. Dunque nessuna meraviglia che la descrizione di un parto entri con difficoltà in letteratura. Proprio come abbastanza rare sono, nella rappresentazione figurata antica, immagini che illustrino scene di nascita in modo realistico 24. Nello stesso modo in cui gli uomini, almeno fino al secolo XVIII , sono restati rigorosamente «fuori» dalla stanza in cui il travaglio aveva luogo 25, cosí la descrizione del travaglio deve restare «fuori» dalla produzione poetica, narrativa o iconografica. Le faccende delle donne rimarranno misteriose persino agli occhi onniscienti di Tomaso Garzoni 26: Quelle facende poi, nella quali [le levatrici] s’adoprano intorno alla donna gravida, perché son di soggetto vergognoso, fia meglio tacerle che inonestamente nominarle; abenché, s’io volessi ancor ragionarne, sarei tenuto per temerario, non l’avendo viste, né

da lor intese, perché si fanno all’oscuro, come i sacrifici della dea Buona 27.

Adesso forse capiamo meglio perché, come altre volte abbiamo sottolineato, nel vero e proprio racconto di Alcmena la presenza degli uomini è cosí scarsa ed evanescente se confrontato con il suo («decente») Prologo in cielo 28. Si tratta di una esclusione che somiglia molto a una autoesclusione, dietro la quale stanno motivazioni culturali e psicologiche insieme. Clellan Stearns Ford, registrando il carattere universale di questa incompatibilità fra i maschi e la stanza del parto, cosí si esprimeva nel suo secco linguaggio di antropologo britannico: «it is probable that a man dislikes to see his wife give birth» 29. All’uomo «non piace» vedere una donna che partorisce – anche il linguaggio di Ford era molto decente. Diciamo che all’uomo non piace vedere il corpo della donna quando esso manifesta – con potenza, con violenza – la capacità di generare e di partorire. Quella capacità che a lui è fisiologicamente negata, tanto che, anche nelle piú esasperate deformazioni patrilinee dell’organizzazione familiare, egli è comunque costretto ad affidare a una donna il compito di proseguire la sua stirpe agnatizia. Piú avanti dovremo vedere che questo «non piacere» può implicare una componente psicologica ulteriore: il sentimento di emarginazione, di inferiorità che questa esclusione induce forse nell’uomo. La scena non gli piacerebbe, è vero, ed essere lí potrebbe addirittura contaminarlo. Però non esserci, e non poterci essere, lo mette talora in imbarazzo. Dopo quello che abbiamo visto, come ci si potrebbe aspettare una vera e propria descrizione letteraria di un parto, quello di Alcmena o quello di Nikippe? Omero era nella norma, e il suo scoliasta, che ne ammirava la decenza, lo era ancora di piú. Ma non si tratta solo del momento del parto. In generale infatti è il ventre della donna, con i suoi organi riproduttivi, che incute imbarazzo: di questi luoghi anatomici si parla sempre in modo reticente, come se fossero avvolti da una «grande nube linguistica» che ancora una volta li confonde in una rete di metafore 30. Per incontrare testi antichi in cui «si parli» esplicitamente del corpo femminile bisogna rivolgersi non alla letteratura ma ai trattati di medicina o di ginecologia, come quello di Sorano. E comunque anche nelle opere dei medici la nube metaforica continua a oscurare e a distorcere l’immagine. I medici ippocratici – che non praticavano l’anatomia – tendevano a costruire le loro teorie riguardo al ventre della donna basandosi su analogie con gli animali o assunzioni di tipo

filosofico, talora molto fantastiche 31. Mentre ancora, secoli dopo, Galeno concepirà l’apparato genitale femminile come l’esatto «rovescio» di quello maschile, una sua immagine in tutto e per tutto speculare: con il pene rivolto all’indentro, a formare il collo dell’utero, i testicoli rovesciati in ovaie, e cosí di seguito 32. In questo modo veniva anzi a costituirsi un tipo di rappresentazione anatomica del corpo femminile destinata a persistere lungamente nella nostra cultura 33. Si descrivono corpi di donne e si pensano corpi di uomini. Il fatto è che al ventre della donna, ove possibile, «non» si guarda. E anche quando vi si guarda, non è affatto detto che l’azione di guardare corrisponda davvero all’atto di vedere.

2. La donna in ginocchio. Dunque non potevamo aspettarci che Omero, Ovidio o Antonino si avventurassero in una dettagliata descrizione del momento in cui Eracle, finalmente, venne alla luce. Metafore decenti. Ma che strana metafora, comunque, quella del «cadere fra i piedi della donna». D’accordo che del parto non si parla se non in modo indiretto, ma questi autori cosí metaforici avranno pur previsto una qualche posizione per la partoriente. Come possiamo pensarla: sdraiata, seduta, in ginocchio? L’espressione omerica non ci dà modo di decidere. Forse Nikippe dobbiamo vederla seduta come Olimpiade, la madre di Alessandro 34: se una donna è seduta, infatti, e non c’è nessuno a raccogliere il suo bambino, questo le «cade fra i piedi» 35. Tale espressione si adatterebbe bene comunque anche a una posizione accovacciata, o addirittura in piedi, meno bene alla posizione sdraiata o in ginocchio. Quanto all’espressione usata da Zeus per indicare il parto di Alcmena, «oggi Eileíthyia dal doloroso travaglio farà venire alla luce un uomo che regnerà su tutte le genti vicine», se possibile è ancora piú decente dell’altra. Come dobbiamo immaginarci la povera Alcmena? Ancora una volta non dobbiamo immaginarcela. O perlomeno, gli autori che ne hanno parlato non sembrano aver voluto immaginarla con troppa precisione. Sul modo in cui le donne greche partorivano abbiamo comunque varie informazioni. Alcune testimonianze assai antiche ci parlano di una posizione in ginocchio. Nell’Inno omerico ad Apollo si dice che al momento del parto «Latona afferrò il tronco di una palma e puntò le ginocchia sulla tenera

erba» 36. Mentre nella Teogonia di Esiodo si racconta che Crono divorava «ogni bambino che dal ventre della sacra madre [Rea] fosse caduto fra le sue ginocchia» 37. Stavolta sono le ginocchia a essere esplicitamente nominate come le parti anatomiche fra cui cade il bambino, non i piedi come nel caso di Nikippe. Rea partoriva in ginocchio, e anche in questo caso la presenza del verbo «cadere» può far pensare a nascite senza assistenza e in condizioni di difficoltà. Quali sono in effetti quelle in cui partorisce la moglie di un marito che divora i propri figli perché non vuole eredi.

Figura 6. Gruppo marmoreo da Sparta, riproduzione di una dea del parto o di una partoriente. (Foto Deutsches Archäologisches Institut, Atene).

Si conosce anche l’esistenza di una rappresentazione della dea del parto, Eileíthyia, che a Tegea la raffigurava in ginocchio. Questa statua era nota anche come «Auge in ginocchio», e veniva posta in relazione con il mito di Auge, madre di Telefo 38. La storia della ragazza era la seguente. Il padre di Auge aveva ricevuto un oracolo secondo cui la figlia avrebbe generato un nipote che un giorno l’avrebbe ucciso. Auge, dunque, per volere paterno era diventata sacerdotessa di Atena, votata alla perenne verginità. Ma un giorno

Eracle, ubriaco, la violentò, e Auge concepí da lui un figlio. Il padre se ne accorse e voleva gettarla in mare, per uccidere lei e il malaugurato nipote, ma un attimo prima di essere afferrata «Auge cadde in ginocchio e partorí Telefo» 39. Eileíthyia che fosse, o povera figlia perseguitata da un padre sciagurato, quella «donna in ginocchio» era simbolo del parto. Di questo momento in cui la partoriente si «inginocchia» presa dal travaglio, forse possediamo anche una rappresentazione figurata vera e visibile anche per noi (e non semplicemente raccontata da Pausania). Si tratta di un gruppo marmoreo di Sparta, che mostra una donna inginocchiata e affiancata da due personaggi maschili di dimensioni piú piccole: tradizionalmente questa statua è interpretata come riproduzione di una dea del parto, o di una partoriente 40. Purtroppo la statua è in parte mutila, ma la posizione è chiara (cfr. fig. 6). Come dicevamo, è possibile che nei casi che abbiamo elencato la donna partorisca in ginocchio solo perché si trova a partorire in condizioni di isolamento o di difficoltà. Di recente è stato anzi suggerito che in Grecia la posizione seduta, su un’apposita sedia ginecologica, fosse quella usuale e fosse molto antica 41. Anche le analisi comparative di Ford danno come posizione piú comune per la partoriente quella seduta, meno comune quella in ginocchio o accovacciata, rara quella in piedi – anche se, almeno fra la metà del secolo XVII e gli inizi del XX , la cultura cinese sembra aver preferito proprio questa posizione di tipo «verticale», con la donna in posizione eretta o semiaccovacciata sull’«erba» (ossia il tappeto di carta assorbente messo a terra per raccogliere i liquidi della nascita) 42. La posizione sdraiata sembra in generale essere sentita come moderna e occidentale 43. Nel mondo greco comunque la posizione sdraiata è ben nota, e potrebbe essere addirittura presupposta dal nome usato per indicare in greco il parto, cioè lóchos 44. Ma era in ogni caso raccomandata nel Corpus Hippocraticum per i parti difficili, e ricordata da Celso 45. Fra le culture che hanno conosciuto la posizione inginocchiata, comunque, va probabilmente compresa anche quella romana, almeno nella sfera della rappresentazione religiosa. Sappiamo infatti che in Campidoglio si veneravano tre divinità inginocchiate, protettori delle partorienti, dette Nixi di. Il loro nome, Nixi, li definisce come dèi dello «sforzo», della «spinta» (nitor), evidentemente quella realizzata dalla partoriente sulle proprie ginocchia per portare a termine il travaglio. È interessante per noi il fatto che questo sforzo,

rappresentato religiosamente dalle divinità che ne portano il nome, fosse realizzato in posizione inginocchiata 46. Per nostra disgrazia però queste divinità romane, i Nixi di, sono figure evanide e poco decifrabili, vorremmo saperne di piú sul loro conto 47. Colpisce comunque il fatto che siano state utilizzate delle divinità maschili per rappresentare il travaglio della partoriente. Si trattava forse di una rappresentazione del tipo couvade, con l’uomo impegnato in una simulazione rituale del parto? 48. Com’è noto, presso molte popolazioni il padre del bambino deve seguire particolari prescrizioni al momento della nascita, e in questa direzione il punto piú estremo è rappresentato dalla effettiva simulazione maschile di un parto, appunto la couvade 49. Forse anche i Nixi di rappresentavano il coinvolgimento maschile nel parto della donna 50. In ogni caso, ecco che il parto in ginocchio ci ha introdotti in un territorio in cui non ci saremmo probabilmente mai aspettati di ritrovarci: la partecipazione maschile al parto della donna. Questo tema costituisce anzi un buon ponte verso il paragrafo successivo, nel quale avremo per l’appunto l’occasione di incontrare un maschio che non si vergogna di recitare il ruolo della partoriente: anche se, mentre svolge la sua funzione, mantiene un imbarazzato silenzio.

3. Latona, la lupa e il gallo. Parlando di donne che partoriscono in ginocchio abbiamo ricordato Latona. La sua storia, per la verità, somiglia talmente a quella di Alcmena che vorremmo introdurla sin da adesso, come frammento melodico un po’ troppo simile al tema che cerchiamo perché la memoria non lo suggerisca immediatamente. Anche in occasione della nascita di Artemide e di Apollo Era aveva infatti tentato di impedire il parto della rivale, non sopportando che Zeus concepisse figli da altre donne. Proprio come nel caso di Alcmena e di Eracle. Stavolta però la gelosia non aveva trasformato Eileíthyia in una Nemica della partoriente, come nel caso di Alcmena; qui non ci sono nodi o sortilegi: Era si era limitata a trattenere l’ignara dea del parto ben lontana dall’isola di Delo, dove Latona era finalmente approdata dopo molta fatica e molti rifiuti. La povera madre era già in travaglio da nove giorni e nove notti, e le sue doglie erano «disperate», ma non riusciva a liberarsi. Per fortuna le altre dee, che assistevano sollecite Latona, a un certo punto inviarono Iride, la

messaggera, per convincere l’assente a raggiungerle a Delo: le promettevano che, se fosse giunta subito, avrebbe ricevuto un dono prezioso. Eileíthyia andò, e Latona partorí 51. La storia è molto simile a quella di Alcmena. Il contesto – la gelosia di Era, il parto bloccato – è in tutto e per tutto lo stesso, anche il ruolo giocato da Eileíthyia è abbastanza analogo. Se nel racconto di Alcmena, per renderla favorevole alla partoriente, bisognava ingannarla, qui è necessario corromperla. Sia detto fra parentesi ma Eileíthyia, in queste due storie, non fa una gran bella figura: perché intervenga bisogna sempre forzare la sua volontà. Il fatto è che Eileíthyia non è mai una divinità molto affidabile. Le donne greche sapevano bene che a volte ella si mostra piuttosto «stordita» nell’esercizio della sua arte 52. Ma di tutto questo parleremo piú avanti, quando analizzeremo il segmento relativo alla Nemica e quello relativo alla Risoluzione. Qui dobbiamo occuparci del ruolo centrale del racconto: la donna in travaglio. Dunque Latona cade in ginocchio e finalmente, con l’arrivo della corruttibile dea, partorisce. Ma la storia si narrava anche in un altro modo. Sembra infatti che Latona, per sfuggire alla gelosia di Era, si fosse trasformata in lupa: e con questo inedito aspetto si fosse recata, in dodici giorni, dalla terra degli Iporborei all’isola di Delo, dove si suppone che avesse poi avuto luogo il parto. Eliano sosteneva addirittura che a Delo era stata posta la statua bronzea di un lupo «per simboleggiare in modo enigmatico il travaglio di Latona» 53. Dunque non una titanessa che afferra la palma, e con la forza delle sue doglie sconcerta la natura, ma una lupa incinta che «per dodici giorni» aveva tentato disperatamente di sfuggire alla gelosia di Era. Questa trasformazione di Latona in lupa aveva poi avuto conseguenze sulla «natura» stessa dell’animale: secondo la credenza, infatti, si riteneva che da quel momento in poi anche la lupa avesse assunto la caratteristica di «partorire in dodici giorni» 54. In una versione questa caratteristica della lupa viene esplicitamente interpretata nel senso di un peggioramento della situazione dell’animale, che acquisisce il poco invidiabile dono di un parto «difficile» 55. In altre sembra invece che la cosa fosse letta come un privilegio goduto dalla lupa, quasi che Latona stessa l’avesse implorato per lei: si sarebbe infatti trattato non di un «travaglio» che dura dodici giorni ma (a quel che si capisce) di una gravidanza di soli dodici giorni – che, di sicuro, è da considerarsi fortunata 56. Comunque sia una cosa è certa: dopo quella volta, la

natura della lupa e del suo modo di partorire non furono piú gli stessi di prima, proprio come accade alla donnola nella storia di Alcmena. Un animale che dolorosamente partorisce «in dodici giorni» (ovvero, che ha la fortuna di avere gravidanze di soli dodici giorni) diventa un modello buono per pensare le avventure di una divinità che, dopo aver sofferto le pene di un travaglio impossibile, riuscí finalmente a partorire. Le caratteristiche naturali (o pretese tali) dell’animale funzionano da specchio alle vicende della donna in travaglio, il mito lega le vicende dell’eroina e l’enciclopedia delle credenze animali in un racconto unico. Alla fine della storia, la natura della lupa non fu piú quella che era prima: ovvero, la natura singolare che veniva attribuita alla lupa, animale materno 57, ha prodotto una storia mitica che spiega se stessa. Le rassomiglianze fra Alcmena e Latona si fanno dunque sempre piú forti. Nella versione piú nota della vicenda, infatti, abbiamo Latona che viene salvata dal suo travaglio tramite un intervento corruttorio su Eileíthyia, proprio come Alcmena viene salvata ricorrendo a un inganno giocato alle spalle delle dee del parto; nella versione meno nota abbiamo invece Latona che per riuscire a partorire si trasforma in animale, proprio come Alcmena riesce a partorire con l’aiuto di un animale soccorrevole. In entrambi i casi, le caratteristiche «naturali» dell’animale saranno sconvolte dal suo coinvolgimento nelle vicende degli uomini e degli dèi: la donnola partorirà d’ora in avanti dalla bocca, la lupa partorirà in dodici giorni (oppure sarà pregna solo per dodici giorni). Davvero gli animali non lasciarono sola Latona, quella volta: perché anche il gallo le fu vicino. Ecco infatti che cosa Eliano (nel suo tipico stile vivace e bizzarro) raccontava a questo proposito: Al sorgere della luna, il gallo viene colto da mania e balza di qui e di là. Anche il sole che sorge non gli sfugge mai, e in quel momento grida in modo straordinario. Apprendo poi che il gallo è anche caro a Latona, e la ragione è che, a quanto dicono, la assistette in occasione del suo duplice e felice parto. Per lo stesso motivo anche adesso un gallo suole stare presso le partorienti quel giorno, e sembra che le faccia partorire con facilità. Se la gallina muore, cova lui le uova, e le fa dischiudere in silenzio. Proprio cosí, non canta, per un motivo mirabile e oscuro. Credo però che sia perché si rende conto che sta compiendo un’opera da femmina e non da maschio. Un gallo che è stato sconfitto da un altro in battaglia o in uno scontro non canta, perché il suo animo è depresso e si nasconde dalla vergogna… 58.

Il gallo porta bene alla nascita, e in questa benefica funzione assisté anche Latona. Le storie di animali intorno alla nascita di Artemide e di Apollo si moltiplicano. Questa funzione positiva del gallo accanto a Latona, cosí come il suo ruolo di aiutante nel parto in generale, si spiegano abbastanza facilmente. Il gallo, come Eliano stesso nota, è strettamente legato alla nascita della Luna e del Sole, che celebra con il suo grido. Ora, quel giorno fatidico in cui Latona partorí, nacquero proprio le due divinità della Luna e del Sole, Artemide e Apollo. Descrivendo la nascita dei figli di Latona, Pindaro si esprimeva in questo modo: «brillarono come il Sole venendo alla luce splendida i due fanciulli gemelli» 59. Quel giorno Apollo e Artemide erano venuti alla luce, proprio come «alla luce» questi due astri sorgono quando il gallo ne celebra ritualmente la comparsa nel cielo. L’animale che da sempre celebra l’apparizione di Luna e Sole nel mondo della natura con la sua «mania» o con il suo canto, era dunque l’animale adatto per assistere anche alla loro nascita mitica. Quanto alla funzione positiva svolta dal gallo presso le partorienti, nella cultura antica sono molto spesso proprio le divinità solari e lunari a svolgere un ruolo dominante al momento della nascita 60. Infine il canto del gallo, il suo grido potente al momento della nascita del Sole, ci fa certo ricordare qualcosa di estremamente legato alla nascita nella cultura greca: la ololug delle donne, quella che Pausania ci ha fatto conoscere in occasione del trucco di Historís e della nascita di Eracle 61; ovvero quella che levarono le dee al momento in cui il fanciullo Apollo dell’Inno omerico «balzò fuori alla luce» 62. La vicinanza del gallo al mondo della partoriente è fortemente sottolineata anche da un altro segmento del racconto di Eliano. Il gallo, ci viene detto, sostituisce la gallina morta nell’azione del covare – in altre parole, il gallo è interprete di una couvade maschile come quelle che abbiamo ricordato sopra, solo che stavolta la parola couvade va presa in senso estremamente letterale 63. Naturalmente, in quanto animale maschio e prode per eccellenza il gallo compie questa operazione con un buffo senso di vergogna e di avvilimento. Infatti «non canta» quando sostituisce la femmina nella piú femminile delle operazioni, proprio come non canta quando è sconfitto in battaglia o in uno scontro con un altro maschio 64. Il gallo che cova rassomiglia terribilmente ai Nixi di, agli dèi maschi romani che simulano lo sforzo del parto: è un equivalente maschio della partoriente,

talmente vicino a lei da assumerne direttamente il ruolo su di sé. La donna in travaglio continua a rispecchiarsi nella «natura» degli animali, e da essa trae forza e conforto. La Partoriente del racconto di Alcmena non è piú sola, ha una sorella, Latona. E questo accrescimento della famiglia, se si può dire cosí, giova alla nostra comprensione della vicenda. In particolare ci aiuta a interpretare meglio le caratteristiche del segmento tematico che qui ci interessa, la Partoriente. Cominciamo a capire che una donna in travaglio, se vuole vincere le potenze divine, stregonesche o comunque nemiche che ostacolano la felice Risoluzione delle sue pene, ha due strade davanti a sé: corrompere (se non ingannare) le sue Nemiche, oppure rivolgersi al favoloso mondo degli animali. La donna che partorisce è una persona liminare, al confine fra la vita e la morte: porta in sé una vita che è sua e una che è nuova, una morte che è sua e una che potrebbe stroncare un’esistenza appena affacciata. La Partoriente è una persona eccezionale perché è una sola persona e due nello stesso tempo, per lo stesso motivo però è in bilico, certo in grave pericolo. Se una donnola le corre accanto, ovvero se essa stessa indossa la pelle di una lupa, o ha un gallo accanto a sé, quel passaggio pericoloso può essere superato.

Capitolo quarto La Nemica

Era la conosciamo. Vederla gelosa di Zeus e ostile alla prole che suo marito genera con altre donne non fa meraviglia. Come abbiamo già detto, il modo in cui si comporta con Alcmena rassomiglia in tutto e per tutto a quello tenuto in occasione della nascita di Apollo, figlio di Zeus e di Latona. Era è una Nemica per eccellenza. Prescindendo per un attimo dalle caratteristiche divine dei personaggi coinvolti in queste vicende mitiche, la situazione si potrebbe illustrare come segue: c’è un maschio in qualche modo diviso fra due donne, una delle quali aspetta un figlio da lui – cosa che, ovviamente, accresce l’ostilità dell’altra, e la trasforma in aperta Nemica della Partoriente. A questo punto la Nemica farà di tutto per impedire quella nascita, e non rinuncerà all’uso della magia per bloccare il parto della rivale. Vedremo piú avanti che la Nemica non è necessariamente una moglie tradita, può essere anche un’amante abbandonata o una suocera crudele. In ogni caso proviamo a metterci nei panni della Partoriente. La donna è in travaglio e il parto stenta a realizzarsi. Evidentemente non è servito a nulla tenere nascosto ai vicini l’avvicinarsi di questo momento, mandare a chiamare la levatrice in tutta segretezza, e con una scusa, per paura della malefica influenza di coloro che «vogliono male» alla donna o del malocchio in genere 1. Che cosa sta succedendo? Forse qualcuno mi ha fatto un maleficio, si dice la donna… E subito pensa a una rivale o altra creatura femminile ostile alla nascita di quel bambino. La Nemica insomma può essere vera, come nella storia di Alcmena o in quella di Latona, o anche immaginata, come ragione incognita di un parto difficile. La Nemica può essere un modo di pensare il parto quando si rischia la morte, o semplicemente un fantasma di paura che si agita davanti agli occhi della Partoriente. In tal senso, la raffigurazione forse piú efficace e paurosa della Nemica della donna ci viene da una storia raccontata da Michele Psello, riferita in questo caso non alla donna che sta per partorire ma alla puerpera 2. Uno stregone armeno viene chiamato al capezzale di una puerpera che delirava senza tregua. Costui minaccia l’ammalata con una spada e le parla in armeno. All’inizio la donna reagisce con insolenza, parlando anche lei in armeno

(lingua che non conosceva), ma lo stregone insiste con i suoi esorcismi finché lei non si placa e si addormenta. Quando si sveglia, racconta di «aver visto un fantasma diabolico o uno spettro, qualcosa come un’ombra con aspetto di donna, con i capelli disciolti e agitati dal vento, che la assaliva» 3. Lo stregone armeno chiamato al capezzale della partoriente era evidentemente riuscito a sconfiggere il demone che voleva la rovina della donna. Probabilmente il demone era concepito come legato allo stregone, una sorta di suo alter ego femminile e come minimo ugualmente «armeno», visto che risponde nella stessa lingua agli scongiuri. Questa storia veramente perturbante doveva far parte delle credenze tradizionali, perché ancora nella Macedonia degli inizi del Novecento la levatrice chiamata in occasione di una nascita usava attaccare una matassa di filo rosso al letto della partoriente «per legare l’Armena» ovvero «per fare in modo che la donna non abbia a soffrire dall’Armena» 4. Ecco che la nemica delle partorienti ha assunto le vesti di un demone che parla una lingua straniera e – invisibile a tutti tranne che alla partoriente o agli stregoni – nel delirio si impossessa addirittura del corpo della sua vittima. Ma vediamo adesso chi sono, propriamente, le Nemiche della povera Alcmena.

1. Legare e sciogliere. Pharmakídes, Moírai ed Eileíthyiai. Lasciamo che davanti a noi sfilino le complici di Era, quelle che con lei condividono il ruolo della Nemica. Ecco per prime le Pharmakídes di Pausania. Di loro non sappiamo molto, ma certo portano un nome parlante: pharmakís in greco significa infatti «strega». La parola phármakon designa il filtro magico, la pozione, e dunque qui la Nemica è qualcuno che frequenta esplicitamente le pratiche della magia 5. Questa versione del nostro racconto insomma ci dice che Era aveva precettato delle «streghe» per impedire a Eracle di nascere. È curioso, ma rispetto a quello che stiamo per vedere questa versione di Pausania sembra quasi moderna. La Nemica non rassomiglia a una divinità, come di solito la si immagina, ma ricorda piuttosto un personaggio di folclore: nonostante gli «apporti» del mito di Alcmena che costellavano i luoghi visitati da Pausania, a Tebe si raccontava una versione della storia che rassomiglia a uno dei racconti nordeuropei che dovremo leggere piú avanti, in cui il ruolo della Nemica è interpretato proprio da una

strega 6. Questa versione di Pausania, che sottolinea esplicitamente il carattere stregonesco delle Nemiche, ci mette di fronte anche a un altro aspetto molto singolare del nostro racconto. Come già sappiamo, e come piú avanti dovremo vedere meglio, la donnola stessa appartiene al mondo di Ecate e della stregoneria. Dunque, in qualche modo la Liberatrice partecipa delle stesse caratteristiche delle Nemiche, è il racconto che, in questo caso, la trasforma in loro avversaria – ma potrebbe anche appartenere al loro seguito. Probabilmente è proprio per questo, perché è una di loro, che la donnola riesce a sconfiggerle. Ecco invece le Eileíthyiai 7. Queste sono indiscutibilmente delle dee, e dotate di una provincia ben precisa: in Grecia esse presiedono al parto, proprio come Lucina a Roma (la Nemica della versione di Ovidio), e quindi si può capire che si trovino accanto a una donna in travaglio. I loro rapporti con Era sono molto stretti, in genere sono considerate addirittura sue «figlie», ed Era, per parte sua, può portare direttamente il nome di «Eileíthyia» 8. Il testo omerico ci ha mostrato del resto come esse fossero ubbidienti ai voleri della moglie di Zeus. Ciò che colpisce però è che, in questo caso, le dee del parto sono lí per ostacolarlo, non per favorirlo. E anzi, il loro ruolo sfuma addirittura in quello di Pharmakídes, di streghe che fanno incantesimi. In via molto generale, si potrebbe ovviamente osservare che, come si dice nel Vangelo di Matteo, avere il potere assoluto su qualche cosa equivale alla capacità non solo di «sciogliere» ma, contemporaneamente, anche di «legare» 9. Chi scioglie può anche legare, e le Eileíthyiai, proprio perché hanno il potere di sciogliere i nodi del parto, possono renderli inversamente piú stretti. Tanto vale però dirlo subito: il fatto è che, quello della levatrice, è un ruolo molto ambivalente, che volentieri sfuma nella cattiveria o addirittura nel malefizio. Può capitare insomma che sia proprio lei (la donna che dovrebbe soccorrere e aiutare) ad assumere il ruolo di Nemica della partoriente. Di questo aspetto della levatrice-strega, soprattutto nel Mondo Antico, dovremo meglio occuparci piú avanti 10. Però possiamo già anticipare una storia dell’Europa ormai moderna che – forse meglio di ogni altra testimonianza – riesce a descrivere la percezione femminile del pericolo (oltre che dell’aiuto) che può venire dalla levatrice a una donna in travaglio. Nel famigerato Malleus maleficarum si riporta infatti la vicenda che una donna molto devota, della diocesi di Strasburgo e proprietaria della locanda Aquila nera, soleva raccontare a tutti i suoi clienti. Trovandosi a partorire, la

donna aveva ricevuto un’offerta di aiuto da parte di una levatrice di cattiva reputazione. Non fidandosi di lei, ella ne chiamò anche un’altra, cosa che provocò l’ira della prima. Quando questa levatrice cattiva fu giunta al capezzale della partoriente, la donna si sentí totalmente paralizzata e incapace di fuggire. Ecco allora che la strega (perché tale ovviamente era) «le metteva qualcosa nel ventre», dicendole che per alcuni mesi sarebbe stata bene ma poi avrebbe cominciato a soffrire. Il marito non voleva naturalmente credere a questa storia, e dava la colpa alle febbri del parto: «voi donne che partorite – le diceva – siete soggette a ogni tipo di illusioni e di fantasmi!» Ma la donna, trascorso il tempo indicatole dalla levatrice-strega, cominciò davvero a star male, e solo la sua devozione riuscí a salvarla 11. Proprio come le dee levatrici che sedevano al capezzale di Alcmena, quella levatrice di Strasburgo era lí non per favorire la nascita ma per far ammalare la partoriente. Illusioni, fantasmi, febbri del parto? Chi sa. Quello del travaglio è un momento rischioso, e il terrore che le Eileíthyiai siano lí per perdere, non per salvare, può sorgere facilmente nell’animo di chi affronta questo arduo passo. Anche il racconto di Alcmena, con le sue dee-levatrici ostili, e addirittura simili a streghe, costituisce uno dei tanti prodotti di questo medesimo insieme di sentimenti e di credenze. Adesso tocca alle Moírai. Anche queste sono dee ma certo di un rango molto alto: non sono semplici levatrici, sono addirittura divinità del fato. Bisogna dire però che anche loro stanno piuttosto bene al capezzale di una partoriente, allorché si attende l’arrivo di un nuovo essere umano. Infatti è al momento della nascita che il destino si gioca una volta per tutte, e dalla massa informe della lana le filatrici dipanano il filo della nuova vita. Inutile ricordare che in molte culture, da Roma antica all’Europa medievale, le divinità del destino e quelle della nascita spesso si fondono 12. Anche nella cultura greca, del resto, Moírai ed Eileíthyiai tendono a formare un gruppo unico 13. Alla nascita di Apollo e Artemide il grido rituale è lanciato da Eileíthyia insieme con Láchesis, ossia la Moíra che prende nome da «ciò che tocca in sorte» 14. Cosí com’è nota la storia mitica di Meleagro alla cui nascita erano presenti appunto le Moírai, che rivelarono il futuro destino dell’eroe 15. Le analogie fra Moírai ed Eileíthyia sono anzi tanto strette che secondo il frigio Olén, il poeta che nei tempi antichi aveva composto un inno a Eileíthyia per gli abitanti dell’isola di Delo, Eileíthyia portava addirittura l’epiteto di «buona filatrice»; proprio come se si trattasse di una «dea del

destino» (Pepr méne) secondo Olén, Eileíthyia era da considerarsi addirittura «piú antica di Crono» 16. Su questo rapporto fra il filare il destino e il momento del parto, si presentano addirittura emblematiche le parole incise sulla stele funebre (secolo III-II a.C.) 17 di Hedíste, una donna greca morta durante il travaglio: «Sui loro fusi le Moírai filarono un destino luttuoso per Hedíste, quando la fanciulla affrontò le doglie del parto…» Il giorno del travaglio è veramente il giorno del destino, non per una sola ma per due persone contemporaneamente. È giusto che vicino al letto, a far da levatrici, ci siano le dee che filano la vita degli uomini 18. Molto spesso i modi di pensare non ci sono comunicati solo attraverso le affermazioni dei poeti e dei filosofi, ma emergono anche da pratiche e oggetti apparentemente insignificanti. Cosí è anche per la stretta unione fra il filare, il destino e la nascita che l’associazione fra Eileíthyia e le Moírai ci ha portato ad analizzare. È possibile infatti che questo complesso di rappresentazioni venisse espresso in Grecia anche in forma di piccole dediche rituali. Dal tempio di Ortheía e dal Menelaíon di Sparta, infatti, sono venuti alla luce numerosi oggetti votivi che presentano un certo interesse da questo punto di vista. Sono di bronzo, hanno forma di fuso e su ciascuna delle sei facce è disposta una serie di piccoli cerchi che varia da uno a sei: la distribuzione di questi cerchietti è tale che la faccia in cui ne sta uno si contrappone a quella che ne ha sei, la faccia con tre a quella che ne ha cinque, la faccia con due a quella che ne ha quattro. Sembra insomma trattarsi di oggetti in cui, abbastanza curiosamente, la natura del «fuso» e quella del «dado» si fondono. In uno di essi, la faccia con tre cerchietti porta la scritta ELEUTHIAS , quella con quattro ORTHIA . Si tratta di oggetti molto inconsueti, che sono stati interpretati come semplici strumenti di gioco ovvero come destinati a un uso oracolare 19. A noi non sembra illogico che alla dea «buona filatrice», Eileíthyia, si dedicassero oggetti a forma di fuso; e che il suo ruolo di dea del destino, del trapasso cruciale, fosse rappresentato attraverso una delle forme simboliche che piú direttamente incarna il caso e la sorte nell’immaginario antico e moderno, quella del dado 20. Secondo il racconto di Er, nella Repubblica di Platone, dopo che l’anima aveva ricevuto da Láchesis il demone che l’avrebbe accompagnata per tutta la vita, toccava a costui il compito di accompagnarla da Clothó: «per far confermare, sotto la mano di lei e il volgersi del moto rotatorio del fuso, il destino (moíra) che aveva avuto

in sorte (lachón)» 21. Volgendosi, il fuso definisce la moíra che a ciascuno è stata assegnata, proprio come nel dado è contenuto il destino della persona 22. Ma restiamo alle Moírai sedute presso il capezzale di Alcmena. Si sarà certo notato che, nella vicenda della Partoriente, anche questo secondo gruppo di divinità (come le Eileíthyiai) si comporta esattamente al contrario di ciò che fa di solito. Filare è un’azione che prevede infatti lo svolgimento di un filo, estratto dai garbugli della lana grezza: chi fila, insomma, tende a far correre, a muovere, a svolgere. Al capezzale di Alcmena invece le Moírai intrecciano le mani, fanno nodi e li tengono ben stretti. Non c’è il fuso che va, il filo che si allunga, la matassa che si scioglie e si alleggerisce a ogni passaggio. Al contrario, tutto è immobile e chiuso, le Moírai tengono strette le loro mani, come dice Antonino, e la nuova vita non riesce cosí a cominciare. Proprio come le Eileíthyiai, che invece di alleviare il parto lo ostacolano, anche le filatrici invece di filare annodano. Il motivo di tutto ciò resta comunque lo stesso, sta nel potere assoluto di «sciogliere e legare»: della propria giurisdizione si può farne l’uso corretto e l’uso contrario. Forse cominciamo a capire che cosa potrebbero significare, in un mondo dove a quanto pare la stregoneria ha preso esplicito possesso della scena, le Pharmakídes di Pausania. In qualche modo esse rappresentano il lato negativo, rovesciato, e quindi crudele, delle divinità del parto e del destino: Pharmakídes potrebbe voler semplicemente dire «Moírai sfavorevoli», «Eileíthyiai cattive» 23, ovvero, come dice Ovidio, Lucina praecorrupta. Il folclore moderno può aiutarci a capire ancora meglio questo lato pauroso, stregonesco, delle dee della nascita. Nella Grecia dell’Ottocento, infatti, la paura delle Moírai cattive era ancora viva. La credenza voleva che esse venissero ad assegnare al bambino la propria sorte la terza notte dalla nascita. Ma in quel periodo la madre non doveva essere lasciata sola, perché le Moírai «sono sempre invidiose della maternità, e potrebbero farle del male». Si cercava anzi di placarle con l’offerta di dolci, miele e vino, vivande che venivano imbandite su un apposito tavolo 24. La paura delle Nemiche, insomma, è durata a lungo sul suolo greco.

2. La fanciulla e il Fato. In ogni caso bisognerà però sottolineare che un conto è sconfiggere delle

Nemiche che portano il nome di streghe-Pharmakídes, ovvero di EileíthyiaLucina, o di Era; un altro è sconfiggere le Moírai. Sconfiggere le Moírai infatti significa addirittura contrastare e vincere il destino, piú potente degli dèi, piú potente dello stesso Zeus. La Galinthiás di Antonino ha questo privilegio, e si capisce che le Moírai siano cosí arrabbiate con lei. Pur nella modestia del suo coraggio, e nella semplicità dei mezzi usati, la ragazza Galinthiás compie un’impresa molto simile a quella di Sisifo, che riuscí a ingannare la morte, oppure a quella di Eracle che la sconfisse per salvare Alcesti. Se il Fato in persona, manifestato dalle Moírai, aveva deciso che quel bambino «non» doveva nascere, o perlomeno non doveva nascere in quel momento, ancora di piú meraviglia il fatto che la ragazza sia riuscita nella sua impresa. Vista in questa luce, ossia come una lotta contro il Fato che aveva già deciso diversamente, l’impresa di Galinthiás assume addirittura connotati eroici. Nello scontro fra il Fato e la Liberatrice, il travaglio della madre e l’apparizione di una nuova vita sulla faccia della terra assumono l’aspetto, quasi allegorico, di una sacra rappresentazione. Proviamo a metterci ancora nella mente della partoriente, e a concepire di nuovo questo mito come un modo per rappresentare le ragioni – recondite e perciò terrificanti – di un parto difficile. Il mio destino è segnato, dice la donna, il mio bambino morirà e anch’io. Spesso la nascita è un dramma, attorno si lotta con ogni mezzo per smentire un destino che ormai sembra segnato.

3. Dee delle doglie e delle membrane. Abbiamo abbandonato troppo presto le Eileíthyiai. Non sono maestose e prepotenti come il destino, ma possono riservarci delle sorprese. Come il testo dell’Iliade ci dice, le Eileíthyiai si identificano direttamente con le doglie della partoriente: Era «arrestò … il parto di Alcmena, trattenne le Eileíthyiai». Mentre lo scolio al passo ci spiega che qui le Eileíthyiai altro non sono se non una metafora per dire «doglie» ( dínes) 25. Dunque le Eileíthyiai sono nello stesso tempo le dee che presiedono a questo momento dell’esistenza (le doglie del parto) e quel momento medesimo, rappresentato in termini religiosi. Il retore Gregorio di Corinto aggiunge da questo punto di vista un’informazione per noi interessante: «i Dori chiamano ‘eileíthyiai’ le doglie ( dínes), per questo una donna che non genera viene detta

aneileíthyia» 26. Dunque non si tratta solo di una metafora poetica, le Eileíthyiai erano veramente un modo per chiamare le doglie. Quando dunque diciamo che le Eileíthyiai erano delle dee levatrici bisogna stare attenti a quello che si accompagna, come immagine mentale, a questa parola: non c’è la nostra idea del «levare» o «liberare» la donna, né quella del «portare alla luce» il nuovo nato presupposta, almeno nella percezione linguistica dei Romani, dal latino Lucina 27. È piuttosto il difficile momento del travaglio e della doglia che con questa parola viene sottolineato. Si sa che senza le doglie il bambino non nasce, è un passaggio tanto doloroso quanto indispensabile: e nella rappresentazione religiosa greca è proprio questo momento cruciale che assume la forma di una divinità. Le Eileíthyiai non sono le divinità della «liberazione», sono quelle del «travaglio». Del resto in Omero le Eileíthyiai sono caratterizzate dall’epiteto mogostókoi «che porta il dolore del parto» 28: proprio come si conviene a delle divinità il cui nome significa «le doglie», e che altre volte vengono definite «le figlie di Era che detengono le aspre doglie» 29. Se questo travaglio-Eileíthyia va a buon fine, allora si potrà anche dire che le Eileíthyiai hanno «portato alla luce» il nuovo nato 30. Le Eileíthyiai sono semplicemente le dee del difficile momento in cui la donna inizia il proprio travaglio: indipendentemente dal loro essere favorevoli o sfavorevoli. Ecco perché nelle storie, come abbiamo visto, una Eileíthyia sfavorevole deve essere o corrotta, come nel caso di Latona, o ingannata, come nel caso di Alcmena. La sua volontà sembra incerta, casuale, per il semplice fatto che esse non rappresentano la fine del processo ma semplicemente il processo 31. Possiamo fare ancora un passo avanti. Possediamo infatti una similitudine dell’Iliade in cui si descrive a cosa corrisponde, nella percezione greca, la specifica caratteristica delle Eileíthyiai. Agamennone infuria fra le schiere nemiche, ma è ferito: … attraversava le schiere degli altri con la lancia, la spada e grandi pietre, finché il sangue ancora caldo gli sgorgava dalla ferita recente. Ma quando la piaga si fu seccata, e il sangue si arrestò, acute pene scesero nell’animo dell’Atride. Come quando un’acuta freccia colpisce una donna in travaglio, aguzza, quella che scagliano le Eileíthyiai che suscitano pena, le figlie di Era che detengono le aspre doglie 32.

I dolori del parto rassomigliano dunque a ferite di freccia. Sembrerebbe che quando una donna è in travaglio ( dínousa), le Eileíthyiai (= le doglie

stesse, personificate) le scaglino contro come delle frecce, che corrispondono ai dolori provati dalla donna durante il parto 33. Analizziamo meglio il rapporto fra i due membri della similitudine, comparatum e comparandum. L’immagine mentale che questo rapporto presuppone è molto interessante. Finché la ferita di Agamennone resta aperta e getta sangue, essa non dà neppure dolore. Ma quando il movimento di fuoruscita si ferma, perché la ferita si asciuga e il sangue si «arresta», allora cominciano le pene. È qui che si inserisce la similitudine con i dolori causati dalle frecce delle Eileíthyiai 34. Viene da pensare che le pene delle Eileíthyiai siano concepite come dolori da ostacolo, come una ferita che vorrebbe gettare sangue ma non ci riesce, e dunque duole. Siamo sempre piú confermati nella nostra idea che le Eileíthyiai rappresentano il travaglio della donna, come del resto i Greci stessi dicevano, non la liberazione. Omero ci permette però di aggiungere un altro dato interessante. Questo travaglio sembra focalizzarsi nella «resistenza» incontrata da qualcosa nel suo uscire fuori. La ferita ricevuta non procura sofferenza ad Agamennone «finché il sangue ancora caldo gli fluiva via dalla ferita recente»: i dolori insorgono allorché «la piaga si fu seccata, e il sangue si fermò». È il blocco, l’arresto che procura pene. Dato che questi dolori di Agamennone sono paragonati a quelli di una donna in travaglio (una similitudine, almeno a prima vista, abbastanza singolare) possiamo ritenere che anche i dolori della partoriente fossero considerati dolori da blocco, causati insomma da un movimento di uscita che incontra resistenza. Ma al di là di quello che si può inferire da questa similitudine, come avranno effettivamente «visto» le doglie, i Greci? Quale poteva essere la loro immagine, o rappresentazione culturale, della fuoruscita di un bambino dal ventre materno? Se vogliamo davvero capire che cosa erano le Eileíthyiai, le doglie fatte dee, bisogna per forza partire da qui. Per fortuna abbiamo delle informazioni in proposito, che ci vengono prima di tutto dalla medicina ippocratica. Colpisce subito il fatto che la rappresentazione del parto presupposta da questi testi sia deformata da un’immagine preconcetta molto simile a quella implicita nella similitudine omerica. Nei testi ippocratici, infatti, non si pensa che sia la madre a spingere fuori il bambino dall’utero, come avviene nei fatti: è il bambino che attivamente si apre la sua via per uscire 35. La madre è vista come un soggetto passivo, tocca al bambino il compito di provocare «violenza e dolore» alla madre «man mano che

avanza» 36. Detto questo ecco una descrizione abbastanza dettagliata di ciò che, secondo i medici ippocratici, avviene alla nascita nel ventre di una donna: … quando per una donna arriva il momento del parto, accade che il bambino si muova e agiti mani e piedi, per cui rompe qualcuna delle membrane interne. Una volta che se ne è rotta una, le altre offrono una resistenza minore. Per prime si rompono quelle che sono in contatto con le piú interne, poi l’ultima. Una volta rotte le membrane, il feto si scioglie dal nodo (desmós), e il bambino avanza (ch reî) agitandosi. Il nodo infatti non ha piú forza quando le membrane hanno ceduto e, eliminate queste, la matrice non può piú trattenere il bambino. In effetti la matrice si attacca alle membrane, allorché esse si avvolgono (helíssontai) attorno al bambino, ma non con grande vigore. Mentre avanza, il bambino forza e dilata la matrice nel suo passaggio, perché è molle. Se le cose vanno secondo natura, il bambino avanza dalla parte della testa: infatti le sue parti superiori sono le piú pesanti se le si pesa a partire dall’ombelico. Quando si trova nella matrice, il bambino diventa capace di rompere le membrane al decimo mese, quando si avvicina il tempo del parto per la madre… 37.

Dunque il bambino è avvolto da membrane che lo imprigionano 38. La sua nascita corrisponde a un’attiva rottura di queste membrane, fatta «agitandosi e muovendo mani e piedi», con conseguente allentamento delle matrici: tale processo esplicitamente presuppone lo scioglimento del nodo che teneva il bambino legato nel ventre. Durante tutto ciò la madre sembra essere vista semplicemente come il luogo fisico, inerte, in cui questo processo di rottura e scioglimento si realizza. Inutile insistere sul fatto che questa descrizione ippocratica non corrisponde affatto a ciò che effettivamente avviene nella circostanza della nascita – ci si è persino chiesti se questo medico ippocratico avesse mai assistito a un parto 39. È fin troppo facile dire che, se anche vi aveva assistito, lo aveva fatto guardando con i suoi occhi di maschio. L’esperienza concreta della donna sembra molto lontana da questa descrizione, è impossibile pensare che una donna non avrebbe messo in evidenza l’importanza che la sua propria spinta ha nel processo del parto. Se dunque il medico ippocratico aveva assistito a una nascita, non doveva essersi molto preoccupato di capire che cosa la donna faceva veramente in una circostanza del genere e che cosa faceva il bambino. Aveva preferito fidarsi del suo sguardo, quello deformato dalle stesse immagini mentali che

abbiamo visto attive nella similitudine omerica. Uno sguardo estremamente presente, per la verità, anche in altre descrizioni del parto, come quelle che ci sono date (con tutta la «decenza» del caso) nei testi letterari. Il tema del nodo del parto, infatti, l’idea che la nascita di un bambino corrisponda allo scioglimento di un legame che lo serrava nel ventre, è una delle piú comuni che si possano incontrare allorché si parla in qualche modo di nascite. Questa descrizione ippocratica ci aiuta anzi a capire finalmente che cosa gli autori antichi avessero in mente tutte le volte che parlano di «nodi» e di «legami» in circostanze del genere. Vediamo solo qualche esempio. Quando Eliano descrive la felice soluzione del parto di Alcmena, dice che, al suo passaggio, la donnola «sciolse i nodi delle doglie» (toús t n dínon lûsai desmoús) 40. E anche l’Alcmena di Ovidio, al momento della sua liberazione, dice «io, sciolti i legami, sono liberata dal mio peso» (vinclis levor ipsa remissis) 41. Il filosofo Cornuto, descrivendo quel che si aspettano le partorienti da Eileíthyia, dichiara che esse invocano la dea «perché sciolga gli stretti nodi (tò esphigménon) del grembo» 42. Mentre ancora Eliano, parlando del parto delle lupe, dice che questi animali «non sciolgono (lúousi) facilmente le loro doglie ( dína)» 43. Dunque le doglie, le dínes, sono qualcosa che deve essere «sciolto», sono dei legami: proprio come accade nel testo ippocratico, dove il bambino deve «sciogliere il nodo» che lo lega nel ventre rompendo le membrane che lo avvolgono. Man mano che si procede nell’analisi di queste rappresentazioni greche del processo del parto, si profila di fronte a noi una conclusione che all’inizio di questo capitolo non avremmo probabilmente immaginato di raggiungere. Guardiamo meglio di che si tratta. Le doglie, come abbiamo visto, sono dei nodi a tutti gli effetti: però sappiamo anche che secondo i Greci le dee Eileíthyiai identificano per l’appunto le doglie in quanto rappresentazione religiosa di questo momento. Dobbiamo dunque pensare che per i Greci non solo le doglie, ma anche le dee-doglie, le Eileíthyiai, avessero in sé qualcosa che richiamava i «nodi»? Un’ipotesi del genere sarebbe estremamente attraente, e potrebbe contribuire molto a spiegare il lato terribile, ambivalente, di Eileíthyia, il suo essere rappresentazione del travaglio, come dicevamo sopra, e non della liberazione da esso. In effetti, è possibile che nel mondo greco fossero circolate rappresentazioni culturali di Eileíthyia che mettevano in evidenza i rapporti

che la dea aveva con gli avvolgimenti in generale. Sappiamo ad esempio che Empedocle definiva ámnios una delle due membrane (quella piú sottile e interna) da cui il feto è racchiuso 44. Secondo uno dei due autori che ci tramandano questa testimonianza, il medico Rufo di Efeso, l’epiteto «Ámnias» riferito ad Eileíthyia deriverebbe proprio da quest’uso della parola ámnios 45. Stando dunque a Rufo, Eileíthyia avrebbe avuto come epiteto «quella della membrana». Non sappiamo ovviamente quanto questa interpretazione risponda a verità e soprattutto quanto fosse condivisa. In ogni caso essa mostra che un legame fra Eileíthyia e una membrana fetale era sentito come possibile. Ma al di là degli epiteti di Eileíthyia, era forse direttamente il suo nome che poteva essere sentito come sinonimo di nodi e di avvolgimenti. È il filosofo Cornuto a metterci su questa strada, il quale una volta gioca esplicitamente sui rapporti di analogia fra il nome di Eileíthyia da un lato, e il verbo eilé dall’altro, definendo Eileíthyia come la dea che «senza posa si volta e rivolta … sulla terra» (apaúst s eiloumén … katà t n g n) 46. Il verbo eilé significa appunto «avvolgere» «legare», e sono davvero molti i termini che, nella lingua greca, partendo da questa radice identificano vari aspetti che pertengono all’atto di legare, annodare, rivoltare e cosí di seguito 47. Certo, il nome della dea Eileíthyia si perde nelle origini della civiltà greca, ed è molto improbabile che Cornuto, con il suo amore per i giochi verbali, ci fornisca l’etimologia autentica di questo nome. Tanto improbabile quanto la possibilità che noi moderni riusciamo a identificarne una che sia assolutamente certa 48. Resta però assai verosimile che i Greci, dimentichi certo delle origini del nome di Eileíthyia, ma ben familiari invece con la rappresentazione culturale delle doglie femminili come nodi da sciogliere, sentissero davvero un legame di analogia fra la dea che identificava il momento dei nodi e un insieme di parole che – come eilé , helísso, eiledón e cosí via – evocava l’immagine del viluppo e del rivolgimento.

Capitolo quinto I Nodi

Che cosa c’è di antitetico a un parto, nella posizione che la Nemica ha assunto? Praticamente tutto. Plinio infatti spiegava: Assistere le partorienti o un malato, quando gli si somministrano medicine, tenendo le mani intrecciate a pettine, è un maleficio. Si tramanda che se ne ebbe la prova la volta in cui Alcmena stava per partorire Ercole. Peggio ancora se si tengono le mani poggiate su uno o entrambi i ginocchi. Lo stesso se si accavallano le gambe nell’uno o nell’altro verso. Per questo i nostri antenati vietarono che si assumesse questa posizione nei consigli dei comandanti o dei magistrati, quasi che questo potesse impedire ogni azione. Vietarono di fare questo anche durante cerimonie religiose o votive 1.

Dunque intrecciare le mani o accavallare le gambe è veneficium, come si esprime Plinio. È un atto che blocca persino le decisioni pubbliche e che va accuratamente evitato nelle cerimonie religiose 2. Questa credenza, secondo cui accavallare le gambe o intrecciare le dita provoca il blocco dell’azione in corso di svolgimento, ricorre in molti contesti culturali. Sir James George Frazer riporta che, in Baviera, al momento in cui la conversazione cade e si interrompe, si usava dire: «qualcuno ha incrociato le gambe» 3. Anche i pitagorici evitavano di «accavallare la gamba sinistra sulla destra», mentre in Aristofane si dice che non era permesso, a banchetto, «incrociare i piedi» 4. Nel Corpus Hippocraticum si ricordava poi esplicitamente il fatto che «mettere un piede sopra l’altro, una mano sopra l’altra» era considerato dai maghi e dai ciarlatani una forma di generale «impedimento» 5. Nel mondo delle credenze, antiche e moderne, si ritiene dunque che il gesto di «chiudere» braccia, mani, dita o gambe possa provocare un’analoga condizione di chiusura nella situazione circostante. Anche noi moderni continuiamo del resto a incrociare le braccia sul petto, o ad accavallare le gambe, proprio nell’intenzione di significare una chiusura nei confronti di un’esperienza che stiamo vivendo: sono per l’appunto quei gesti che vengono definiti «di barriera» 6. Ovviamente a noi manca la convinzione (almeno a livello conscio) che questo gesto possa influire magicamente sulle circostanze

in cui ci troviamo a compierlo. Incrociando le braccia, non pensiamo di poter bloccare un party particolarmente imbarazzante o una difficile seduta di commissione: ma come minimo «significhiamo» in qualche modo un simile desiderio. A questo proposito una scena antica, soprattutto, ci viene in mente. Quella del Lucio di Apuleio che, seduto sul suo lettuccio, attende terrorizzato che spunti l’alba del giorno in cui dovrà essere giudicato per gli omicidi che crede di aver commesso: «con i piedi accavallati e le dita delle mani intrecciate sulle ginocchia, sedevo accovacciato sul mio lettuccio e piangevo a vite tagliata, immaginando già la sentenza e addirittura il carnefice» 7. Il comportamento di Lucio tradisce un disperato impulso alla difesa. Piú o meno consapevolmente, il prigioniero cerca di «impedire» che l’azione temuta abbia luogo: si chiude, intreccia piedi e mani cosí come, secondo la tradizione, occorre fare per bloccare un processo in corso. Ma cerchiamo di non allontanarci troppo da Alcmena e dal suo travaglio. Quel che piú ci interessa, infatti, è che la virtus impediendi di intrecciare mani o accavallare gambe era considerata particolarmente deleteria proprio mentre si assisteva una partoriente. Le Nemiche stavano insomma compiendo un veneficium gestuale molto specifico, e ben noto alla cultura antica 8.

1. «Il parto delle donne non vuole nodi». Fuori dal mondo greco e romano, il divieto di accavallare le gambe quando un travaglio è in corso è ugualmente ben attestato. Frazer (e chi se non ancora lui?) ricorda che in Bulgaria si credeva che una donna, la quale aveva l’abitudine di sedere in questa posizione, avrebbe sofferto molto al momento del parto. Il che ci sembra proprio un abile modo di aggiungere sinistre minacce «superstiziose» a una lezione di buone maniere. Mentre presso i Toumbuluh, nella parte settentrionale di Celebes, si faceva divieto di sedere con le gambe accavallate non alle donne ma al marito di una donna in travaglio 9. Vedendo dei mariti strettamente coinvolti nelle vicende delle loro mogli, qualcuno si starà forse domandando come si comportava Anfitrione mentre la povera Alcmena era in travaglio. Il racconto non si occupa di lui, ma forse possiamo supporre che, se era nei paraggi, stava anche ben attento a quel che faceva 10. Comunque possiamo esser certi del fatto che soprattutto

Galanthis, il personaggio di Ovidio, stava attenta a quello che faceva. Il racconto, come si ricorderà, la rappresenta con i capelli sciolti (oltre che biondi), tanto che Lucina poteva afferrarla proprio per la chioma. Che cosa voleva significare, questo dettaglio? forse che era una donna non sposata? 11. Crediamo che la spiegazione sia un’altra. Nubile o sposata che fosse, Galanthis non avrebbe potuto comunque portare i capelli legati perché, in occasione di un parto, non solo non si dovevano accavallare gambe o intrecciare mani, ma si dovevano anche sciogliere tutti i possibili nodi che circondassero la partoriente. E Galanthis faceva parte delle donne che assistevano al parto, figuriamoci se avrebbe commesso un errore cosí grossolano come quello di tenere i capelli annodati in una acconciatura 12. Ma con questa osservazione siamo giunti ancora piú vicino al cuore del segmento tematico che stiamo esaminando. Ancora Ovidio, stavolta nei Fasti, spiega: «se una donna è incinta preghi con i capelli sciolti, perché [Lucina] sciolga delicatamente il suo parto» 13. Lucina, dea del parto, non sopportava nodi. Come dice Servio «alle cerimonie per Giunone Lucina non si poteva accedere se non dopo aver sciolto ogni nodo» 14. Sembrerebbe dunque che gambe accavallate e mani intrecciate vadano evitate in occasione del parto perché rientrano nella piú generale categoria dei nodi: qualcosa che il mondo delle partorienti – tanto nella concreta esperienza di questo evento, quanto nella sua rappresentazione religiosa e cerimoniale – non può assolutamente sopportare 15. Si sa che, per prima cosa, la donna in travaglio si scioglie la cintura, tanto che nella tradizione letteraria questa espressione può funzionare direttamente da metafora per indicare l’azione di partorire 16. Sempre a questo proposito, si può anzi ricordare che, come l’Ovidio dei Fasti, anche il medico Sorano consigliava di sciogliere i capelli alla partoriente: «non in omaggio alla credenza popolare», si preoccupava però di spiegare, «secondo la quale ‘il parto delle donne non vuole nodi’, ma perché sciogliendo i capelli della partoriente si conferisce benessere alla testa» 17. Evidentemente già al tempo di Sorano dovevano esserci levatrici e gestanti che all’operazione di sciogliere i capelli attribuivano poteri molto superiori alla semplice capacità di procurare «benessere alla testa». Anche Oppiano testimonia abitudini analoghe. In una imbarazzante similitudine fra una donna in travaglio e un cane da caccia in cerca della pista, egli descrive infatti il momento in cui la ragazza, ormai al nono mese e colpita dalle doglie, «scioglie i capelli, scioglie

la fascia dei seni: senza chitone, e tolto il nastro che le cinge la testa, si trascina meschina per la casa» 18. Ecco che di nuovo, secondo il detto popolare riportato da Sorano, il parto delle donne non sopporta nodi. Francamente, dopo aver visto tutte queste testimonianze sui capelli sciolti della partoriente, colpisce molto una pisside attica a figure rosse in cui si rappresenta Latona, seduta sul díphros ginecologico, mentre reggendosi alla palma di Delo è impegnata nel travaglio del parto. I suoi capelli infatti sono legati e raccolti in un’acconciatura 19. Forse è semplicemente avvenuto che il pittore non ha tenuto conto del fatto che «il parto della donna non vuole nodi». Oppure, se si ricorda il lungo travaglio, ben nove giorni, che afflisse la povera Latona, è anche possibile pensare che quei capelli cosí impropriamente «legati» alludano alle difficoltà che la partoriente sta incontrando. Una volta che si erano felicemente liberate dal travaglio del parto, le donne greche offrivano ad Artemide o a Eileíthyia proprio gli indumenti che la giovane sposa di Oppiano si toglie: il nastro che lega i capelli, la veste, la fascia che regge i seni, la cintura, a segnalare l’avvenuto felice scioglimento 20. Talora la puerpera dedicava alla divinità anche i suoi sandali 21, mentre in certi casi venivano offerti anche quelli del marito 22. Questa offerta votiva dei sandali ha certo un significato. Siamo infatti autorizzati a credere che, al momento del parto, anche le calzature venissero slacciate, visto che addosso alla partoriente non si ammettono nodi. Lo fa pensare esplicitamente anche un passo di Servio che abbiamo in parte già riportato. I versi di Virgilio che vengono da lui commentati sono quelli del libro IV dell’Eneide, in cui Didone prepara la propria morte. La regina finge di celebrare una cerimonia magica per recuperare l’amore di Enea o, perlomeno, per liberarsi della sua passione. Il poeta la raffigura dunque vicino all’altare «con un piede sciolto dai legami, la veste slacciata» 23. E Servio, al lemma «con un piede sciolto» (unum exuta pedem), commenta: «… anche alle cerimonie per Giunone Lucina non si poteva accedere se non dopo aver sciolto ogni nodo» 24. Il punto di partenza per il commento di Servio a proposito dei sacra di Giunone Lucina, è dato proprio dal «piede sciolto dai legami» di Didone. In effetti, se alle cerimonie della dea si doveva sciogliere «ogni nodo», questo doveva accadere anche con i lacci delle scarpe, che fra i nodi che si portano addosso erano certo i piú espliciti. Con un po’ di curiosità, i nostri occhi si spostano dunque verso i piedi delle donne.

2. Cornelia senza i lacci delle scarpe. Conosciamo molte donne scalze dai testi letterari classici, e spesso sono impegnate in cerimonie magiche. Una che, in campagna, lotta contro la peste dei capelli d’angelo che si attorcigliano attorno ai rami delle piante 25; un’altra che, ancora in campagna, scaccia i bruchi 26: la maga Medea che compie i suoi sortilegi 27. I nodi, come sappiamo, bloccano, ed evidentemente la cerimonia magica, che certo non vuole nodi, non sopporta neppure scarpe. Ma c’è una donna dalle scarpe slacciate che ci colpisce in modo particolare. Cornelia, la madre dei Gracchi. Sappiamo infatti da Plinio che di questa celeberrima e nobile matrona esisteva una statua posta originariamente nel portico pubblico di Metello, ma che ai suoi tempi era collocata negli edifici di Ottavia: «la statua … rappresenta [Cornelia] seduta, e si distingue perché i suoi sandali non hanno lacci (ammenta)» 28. Non possediamo piú questa statua, ma nelle rovine della porticus di Ottavia ne è stata rinvenuta la base. Si tratta di un grande blocco di marmo, identificato da un’iscrizione di età Augustea perfettamente conservata: CORNELIA AFRICANI F. / GRACCHORUM 29. Ora, gli ammenta sono le strisce di cuoio con cui si legavano i sandali (soleae) 30. Il nome stesso di questi lacci, cioè ammenta, porta in sé il significato del legare: si tratta infatti di un termine connesso alla radice del verbo apio che significa appunto «legare» 31. Quanto alle soleae, sappiamo che venivano chiamate cosí «tutte quelle calzature che coprono solo la parte piú bassa del calcagno, mentre il resto del piede è quasi nudo e legato con stringhe lisce (teretibus habenis)» 32. Dunque la nobile Cornelia aveva sí le soleae ma non le strisce di cuoio che le legavano. Singolare raffigurazione. Quale può essere il senso di questo tratto iconografico? Non possiamo certo pensare che lo scultore si fosse preso la libertà di raffigurare Cornelia come una donna trascurata o disordinata. Non è questa l’idea che i Romani ci hanno lasciato della celebre madre dei Gracchi. Dobbiamo cercare un altro significato per questa singolare iconografia. In un caso del genere Plinio userebbe anzi una parola molto interessante per indicare quello che noi abbiamo definito il significato del particolare che ci ha colpito. Molto

probabilmente infatti egli avrebbe fatto ricorso al termine argumentum: per indicare il valore simbolico che può essere estrapolato (arguere) da un tratto iconografico che, come questo, rende «caratteristica» (insignis) una certa immagine. Proprio Plinio, ad esempio, ci spiega che la presenza di una rana e di una lucertola scolpite nelle spire di certe colonne funzionavano da argumentum del nome dei due scultori, che per l’appunto si chiamavano «Rana» (Batrachos) e «Lucertola» (Saura) 33. Dunque, di che cosa potrebbero essere argumentum i «sandali senza ammenta» di Cornelia? Plinio ci suggerisce il termine antico che possiamo usare per porci il problema. Purtroppo però non ce lo risolve. Probabilmente, dopo tante testimonianze antiche sui nodi da sciogliere in occasione del parto, ci troviamo nella condizione di poter suggerire una risposta a questa domanda. Cornelia aveva avuto un destino singolare. Era nata con gli organi genitali «chiusi», cosa che era considerata di estremo mal augurio 34. Il cattivo auspicio era stato purtroppo confermato dalla vita, perché Cornelia aveva perduto tutti i suoi figli 35. Ciò non le impedí comunque di essere stata madre ben dodici volte, con l’alternanza, come nota Plinio, di sei maschi e sei femmine 36. Ecco dunque che Cornelia, madre prolifica, è insieme la donna che, nei suoi genitali chiusi, manifesta simbolicamente la «difficoltà» e i rischi in cui la condizione di madre può incorrere. L’estrema prolificità di Cornelia viene spesso enfatizzata. Suo figlio Tiberio, rivolgendosi a un effeminato detrattore della madre, gli gridò: «con quale sfacciataggine osi paragonarti a Cornelia? hai forse generato come lei?» 37. Mentre ancora san Girolamo definiva Cornelia «un esempio insieme di pudicizia e di fecondità» 38. La capacità generativa di Cornelia, e la sua funzione di madre per eccellenza, viene sottolineata anche in un altro singolare episodio della sua vita. Si raccontava infatti che il marito Tiberio Gracco una volta avesse trovato in casa due serpenti, un maschio e una femmina. Desiderando sapere quale fosse il significato di questa apparizione, gli fu risposto che, se avesse ucciso il serpente del sesso opposto al suo, cioè la femmina, lui sarebbe vissuto. E Tiberio disse: «uccidete piuttosto il serpente del mio stesso sesso, perché Cornelia è giovane e può ancora partorire». Cosí avvenne, perché di lí a poco Tiberio morí 39. Gracco padre era un ottimo marito: tant’è vero che Admeto, il marito di Alcesti che di buon grado accettò che sua moglie morisse al posto suo, si meritò un rimprovero da Valerio Massimo per non essere stato tanto generoso quanto lo era stato il

suo equivalente romano 40. Comunque la preoccupazione di Tiberio Gracco non era stata tanto per la moglie Cornelia quanto per i figli che lei avrebbe potuto ancora generare: il serpente femmina, vivo, rappresentava un buon augurio per Cornelia in quanto madre. Plinio, narrando l’episodio, lo commenta in questo modo: «questa sí era generosità verso la moglie e sollecitudine verso lo Stato» 41. Delle due preoccupazioni però la seconda era molto piú vera della prima, dare figli allo Stato era, a quanto pare, in cima ai pensieri di Tiberio Gracco. Cornelia è una donna che esiste in relazione ai suoi figli – e questo non fa certo meraviglia in una cultura come quella romana. Ma nel caso di Cornelia questa caratteristica è portata veramente all’estremo. Piú di una volta del resto gli autori antichi sottolineano la sua importanza, per l’appunto, come «madre» dei due famosi Gracchi, Gaio e Tiberio 42. Cornelia è per tutti la «madre dei Gracchi». Dai figli ella finí in qualche modo per prendere il proprio nome: è una donna designata in base a un tecnonimico 43. Torniamo dunque ai sandali senza lacci di Cornelia. Madre dodici volte, donna feconda persino a spese del marito e del serpente maschio, madre dei due celebri figli che fecero tutta la sua gloria, exemplar di fecunditas anche per la tradizione successiva, Cornelia si identificava direttamente con la propria capacità di avere figli. Ma insieme, nei suoi genitali inizialmente chiusi, ella portava in sé il simbolo dei nodi e dei blocchi che possono travagliare una madre partoriente. Forse era questo il motivo per cui la statua menzionata da Plinio la ritraeva con i sandali senza legamenti (ammenta), come una donna che si reca ai sacra di Giunone Lucina. In un orizzonte culturale come quello che abbiamo descritto nei capitoli precedenti, con tutta l’importanza (negativa) attribuita ai nodi in relazione al parto, la scelta di rappresentare Cornelia con le soleae senza ammenta poteva costituire un buon argumentum iconografico per significare che la si voleva onorare proprio come esempio di madre e di donna che partorisce. È stato anzi notato piú volte che lo spostamento di questa statua di Cornelia dal portico di Metello in quello di Ottavia corrispondeva bene al programma augusteo di rivalutazione della maternità 44. La presenza di un tratto iconografico cosí marcatamente «materno» come l’assenza di ammenta, faceva certo rientrare ancor piú esplicitamente questa immagine nei propositi di chi volle darle questa nuova collocazione.

3. Frazer e l’età postmoderna. I nodi legano, nella realtà e nella metafora. Non legano solo in occasione del parto ma anche in differenti occasioni di vita pubblica, religiosa o semplicemente quotidiana: lo abbiamo già visto all’inizio di questo capitolo 45. In altre parole, è bene ricordare che i nodi proibiti al momento del travaglio costituiscono solo un capitolo fra molti altri: nodi nelle assemblee, nei templi, a banchetto, al capezzale di un malato, in occasione di cerimonie magiche… Il tema è invero assai piú generale, e a questo punto dovremmo forse affrontarlo. Ma mi accorgo che, dopo aver passato cosí tanto tempo dietro a nodi e a libri che parlano di nodi, il mio pensiero finisce inevitabilmente per andare a Sir James George Frazer. Fra un minuto cercherò di spiegare meglio perché. Intanto, però, continuo insistentemente a vedere l’immagine del vecchio piú che ottantenne che vive nel suo cottage in Grantchester, vicino a Cambridge: è assistito dalla moglie e da un giovane segretario che gli legge frammenti delle sue opere passate 46. Frazer ne ha scritte circa trecento, fra libri e articoli: il solo Ramo d’oro, suo capolavoro e monumento, si compone di 12 volumi per circa cinquemila pagine. Frazer non vede piú, può solo riascoltare quello che ha scritto dalla voce di un altro, come una musica che gli viene dal passato. Talora ascolta quello che gli altri continuano a scrivere di lui. Per comporre le sue incredibili opere ha lavorato tutta la vita con ritmi da certosino. Cominciava alle 4 del mattino per continuare sino alle 8; poi breakfast dalle 8 alle 9; poi ancora lavoro dalle 9 alle 12; pranzo e sonnellino; altro lavoro dalle 15 alle 18; cena dalle 18 alle 20; altro lavoro sino a Mezzanotte. Era la giornata di un laico sacerdote dell’antropologia. Adesso è vecchio, siede in poltrona e ascolta. Chissà poi se ascolta davvero, e se lo fa, che cosa di preciso ascolta. Custode della lunga giornata di Frazer è stata da sempre la moglie, Lily Grove: francese, esperta di danza e scrittrice di libri per bambini. Per tutto il tempo in cui Sir James si è dedicato alla grande avventura cartacea dei suoi studi – dal matrimonio dei cugini in Australia alle sventure del rex Nemorensis, da Pausania a Ovidio, dal totemismo alla Bibbia – Lily si è occupata dell’andamento della casa, di cui Sir James ovviamente non ha mai saputo nulla, e ancor piú ha vegliato sulla fama del marito, di cui è zelantissima amministratrice. Ha ancora completo dominio su di lui, pur se anche lei ormai è vecchia e non ci sente piú. Si sussurra che persino il

sonnellino pomeridiano del marito fosse stato sottoposto alla sua approvazione, e dipendesse dalla quantità di lavoro prodotto. Ma ora è diverso: Frazer non scrive piú. Fra le tante caratteristiche di questa età postmoderna, conseguenza di un mondo in cui gli argini si sono rotti e tutto è antico o contemporaneo nello stesso modo, c’è anche la seguente: è diventato difficile distinguere certe opere dalla biografia dei loro autori. Molto spesso accade che i libri di una persona ci si presentino piú come parte di una vita che non come contributi a una disciplina o voci di una bibliografia. Questo aspetto della cultura contemporanea presenta una certa rilevanza per noi perché Frazer ha scritto il capitolo in assoluto piú bello sul significato dei nodi nella cultura e nella religione. Ha raccolto un’enorme quantità di materiali e ha dato di questo fenomeno una sua interpretazione: magia simpatetica, o analogica – cosí come i nodi bloccano gli oggetti attorno a cui si stringono, allo stesso modo vengono bloccati i processi a cui questi nodi sono simbolicamente riferiti 47. Sono pagine straordinarie. Per l’esattezza, dopo averle lette e rilette tante volte trovo persino che la pagina 297 di Taboo and the Perils of the Soul meriterebbe di essere recitata ad alta voce per l’efficacia con cui viene descritto che cosa accadeva, a Chittagong, quando una donna non riusciva a partorire. Perché Frazer aveva ancora l’autorità di condurre il lettore da Roma antica a Chittagong nel volgere di poche righe: … la levatrice dà ordine di spalancare porte e finestre, di stappare tutte le bottiglie, di togliere lo zipolo (bung) a ogni botte, di sciogliere le mucche nella stalla, i cavalli nella scuderia, il cane da guardia nella sua casetta, di liberare pecore, pollame, anatre…

Sembra il catalogo di un poema epico. Frazer, come si sa, era anche un grande scrittore 48. E adesso che dovrei fare anch’io un paragrafo sul valore dei nodi in generale, come mezzo per «impedire» e per «bloccare» non solo nella cultura antica ma in quelle che con essa si possono «comparare», le pagine di Frazer stanno lí e io non so bene come comportarmi. Per questo probabilmente l’immagine del vecchio Frazer giunge come un sollievo. Cosa dovrei farne di quelle pagine, riassumerle?, cogliere un esempio di qui e uno di là, come in un prato dove ci sono troppe margherite?, magari senza citare la fonte, perché tanto è un vecchio libro? Arte dell’astuto mosaico. Oppure dovrei aggiungere

altri esempi a quelli che lui dà? Ma sarebbero altre tre o quattro schedine al massimo, non piú di mezz’ora di lavoro prima o dopo il suo breakfast. Marginalia al Ramo d’oro che lui ha già scritto. I grandi libri a volte sono come muraglie, e la nostra età contemporanea ne ha accumulati già tantissimi. Per fortuna oggi piú che mai esiste, accanto ai libri, l’immagine dei loro autori. Il vecchio Frazer in poltrona è un’immagine paterna. A lui e al suo Ramo d’oro, che del resto egli stesso vecchio ama riascoltare, posso dunque rimandare, dichiarando che anche Frazer fa parte a buon diritto del racconto di Alcmena salvata dalla donnola. Di questo racconto infatti ha scritto la versione piú bella per la parte che riguarda il potere dei nodi. E adesso, non mi resta che cercar di seguire la mia via.

4. Donna «incinta», sciolta e legata. Nessuna cultura manifesta l’importanza dei «legami» nel mondo del matrimonio, della concezione e della nascita piú esplicitamente di quanto non accada in quella di Roma arcaica. Qui il ricorrere di nodi e cinture ha quasi la scansione di un «racconto rituale», che per una volta ci compensa della quasi totale assenza di racconti mitologici nel mondo romano. Proviamo dunque a seguire il filo di questa narrazione. Quando a Roma una fanciulla andava sposa veniva legata con una piccola cintura: … la sposa era cinta con un cingillum, fatto di lana di pecora, per questo motivo: come la lana, avvolta in forma di gomitolo, aderisce a se stessa, cosí suo marito le sia cinto e legato. Questo cingillum è annodato con il nodo detto di Ercole, e il marito lo scioglie per buon augurio: che la donna sia fertile (felix) nel procreare bambini, come Ercole che ne lasciò settanta 49.

Questa cerimonia di legamento e scioglimento ha specificamente a che fare con la fertilità di una donna e con la procreazione dei figli: dunque si tratta sempre del nostro terreno. Fissiamo subito il punto che ci sembra piú importante: al matrimonio la ragazza si presenta «legata», e al marito tocca il compito di «scioglierla». Secondo la nostra fonte, questo legame del cingillum avrebbe avuto due fondamentali significati simbolici: da un lato un

auspicio per il vincolo stretto che doveva legare il marito alla moglie, dall’altro, attraverso lo specifico richiamo a Ercole, un omen di fertilità 50. Quanto al significato simbolico dello scioglimento del cingillum, è chiaro che tale atto doveva costituire una metafora del fatto che l’uomo si accingeva a far uscire la ragazza dalla condizione di vergine, per trasformarla in una donna sposata. Anche fuori dal rituale religioso, com’è ben noto, l’immagine dello sciogliere la cintura per indicare la perdita della condizione virginale si usa comunemente sia nei testi greci che in quelli latini: zonam solvere e zó–n n lúein sono espressioni quasi formulari per indicare questo momento 51. Come c’era da attendersi, lo scioglimento del cingillum da parte dello sposo romano aveva anche la sua controparte divina. Nella piú antica tradizione religiosa, infatti, ogni atto significativo della vita umana poteva essere rappresentato da un dio o da una dea. Questi Sondergötter, come furono definiti da Hermann Usener 52, portavano a Roma il nome antico di indigitamenta. Varrone, nella sua frazeriana erudizione, era stato capace di raccogliere tutte le divinità che a Roma riguardavano la vita personale di un essere umano: dalla concezione nel ventre materno sino alla morte – rappresentata dalla dea Nenia: quella appunto delle nenie funebri che in questa occasione prefiche e parenti cantavano vicino al morto. C’erano dèi per ogni cosa, e di questo i Padri della Chiesa, da Arnobio a Tertulliano ad Agostino, si facevano beffe o si scandalizzavano. Per fare solo qualche esempio c’era una dea per la penetrazione della donna al momento del matrimonio (Pertunda o Perfica), ce n’era una che alimentava il feto nel grembo materno (Menia, Alemona o Fluvionia), cosí come (parlando di nodi) sappiamo che esisteva uno specifico dio Nodinus. È una fortuna che i Padri si scandalizzassero tanto di questi antichi dèi, perché cosí, almeno, ce li hanno ricordati. Varrone infatti è scomparso; delle sue meravigliose opere di antiquaria romana non ci è stato tramandato nulla. È come se il Ramo d’oro ci fosse pervenuto solo attraverso le opere scritte dai suoi detrattori. Sarebbe pur sempre qualcosa. Anche il momento in cui il cingillum veniva sciolto, dunque, era rappresentato religiosamente attraverso l’immagine di una divinità specifica, o meglio, attraverso la forma specifica di una divinità maggiore, Iuno Cinxia: «il nome di Iuno Cinxia era considerato santo al momento delle nozze, perché all’inizio del matrimonio avveniva lo scioglimento del cingulus con cui la sposa era cinta» 53. Lo sposo dunque scioglieva la piccola cintura di lana che

legava la sposa, e lo faceva all’interno della provincia, se possiamo dire cosí, di Iuno Cinxia. Attraverso la mediazione della divinità lo sposo e la sposa pensavano religiosamente l’atto della loro unione. La nostra civiltà, che è davvero laica, probabilmente stenta a capire i meccanismi di una cultura che, quando voleva dare un particolare significato a certi momenti della vita, li spostava nella sfera religiosa e dava loro il nome di una divinità. Credo però che tutto questo corrispondesse in definitiva a ciò che noi oggi chiameremmo «emozione», se si vede la cosa dal punto di vista dei partecipanti; ovvero sancita e riconosciuta importanza «sociale» di quel momento, se, come forse è piú giusto, si guarda la cerimonia dal punto di vista della comunità. Rivolgiamoci adesso al nodo che specificamente legava il cingillum. Secondo la nostra fonte, il carattere erculeo di questo nodo avrebbe funzionato come omen di buon augurio per la fertilità della sposa: Ercole infatti aveva concepito settanta figli. È certo possibile che, attraverso questo richiamo mitologico, lo sposo che scioglieva il nodo, ovvero che consumava il matrimonio, tendesse a essere raffigurato come un Ercole 54. Secondo questa interpretazione però il significato simbolico del nodo diviene, per dir cosí, tutto di genere maschile, e si riversa interamente sullo sposo. È la sposa che indossa il cingillum legato con il nodo di Ercole – salvo che questo simbolo sarebbe indirizzato a descrivere (in modo ben augurante) la sola condizione dello sposo: forte come un Ercole, fecondo come un Ercole. Il fatto però che sia la sposa a portare addosso quel nodo di Ercole ci pare un elemento che non può essere trascurato. Vediamo dunque piú da vicino il carattere specifico di questo nodo, al di là delle speculazioni erudite dei grammatici antichi 55. Il nodus Herculaneus è spesso ricordato nella cultura antica 56. Esso era soprattutto considerato come un nodo dei piú stretti. Seneca, esortando il suo interlocutore nelle Epistulae, gli diceva: «fatti coraggio, ti resta un solo nodo da sciogliere! anche se è quello di Ercole» 57. Con il nodo di Ercole erano poi attorcigliati i serpenti nel caduceo di Mercurio 58, mentre il solito Plinio è abbastanza generoso nel descrivercene la natura e i poteri: … bendare le ferite legandole con il nodo di Ercole fornisce una guarigione incredibilmente rapida. Anche l’uso quotidiano di questo nodo nel cingersi si dice che possegga un potere in qualche modo utile. Demetrio infatti ha scritto un libro apposta per indicare che il numero quattro è consacrato a Ercole e per spiegare perché non si devono

bere quattro ciati o sestari 59.

Dunque il nodo di Ercole è un nodo che prevede quattro giri, cosa che può contribuire a spiegare perché era cosí difficile da sciogliere 60. Inoltre ci viene detto che esso possedeva delle virtú protettive molto specifiche, sia nel campo della medicina sia, in generale, proprio nell’atto quotidiano del cingersi. L’importanza religiosa di questo nodo risalta infine dal fatto che i serpenti del caduceo si annodavano fra loro proprio secondo questo modello. Possiamo concludere che la sposa romana, al momento del matrimonio, si presentava cinta da un nodo di valore religioso, che aveva una forte virtú protettiva e che, in particolare, era considerato molto arduo da sciogliere. Lo sposo aveva un compito solenne e non facile. Abbandoniamo il momento del matrimonio, e raggiungiamo direttamente la tappa successiva. Adesso dobbiamo occuparci di donne che hanno concepito, e stanno per mettere al mondo un figlio. Fra i rimedi suggeriti da Plinio per accelerare il parto c’è anche questo: «se l’uomo da cui lei aveva concepito si scioglieva della sua cintura e ne cingeva la donna. Quindi la scioglie, aggiungendo questa formula magica: lo stesso che ti ha legato anche ti scioglierà. Dopo di che se ne va» 61. A questo rimedio popolare ne fa eco un altro di Sesto Placito Papiriense, molto piú tardo e scritto in un latino decisamente sciatto: «per far partorire [?] una donna: se l’uomo si sciolga la cintura e ne cinga la donna e dica: dunque basta, liberati dal travaglio» 62. Il fatto che lo scioglimento di una cintura venga usato in connessione simbolica con l’atto di partorire, certo non ci meraviglia. Ne abbiamo già parlato sopra 63. Quel che c’è di nuovo, adesso, è che si tratta non della cintura della partoriente ma di quella che appartiene a suo marito. L’uso di «legare» la donna incinta con la cintura del marito presenta comunque paralleli nel folclore antico e moderno 64. Le cinture indossate dalla donna potevano anzi essere non del marito ma, in generale, di tipo benedetto, connesse cioè al culto di santi («cordoni di san Francesco o di sant’Agostino») 65. E in questo bisogna dire che rassomigliano terribilmente alle infulae che secondo Tertulliano venivano consacrate nei templi pagani e poi applicate al ventre della donna incinta: «cosí tutti nascono avendo l’idolatria come levatrice – diceva l’apologeta – perché ancora gli stessi uteri, cinti con nastri preparati presso gli idoli, confessano che i loro frutti sono candidati al possesso dei demoni» 66. Spesso lo scorrere del tempo produce conseguenze ironiche:

Tertulliano deplorava come pagano e idolatra un uso che i cristiani avrebbero poi tranquillamente adottato. Sembra comunque probabile che indossare queste cinture benedette durante la gravidanza fosse considerato un rimedio contro l’espulsione prematura del feto 67. Legata dalla cintura, la donna è al riparo da fuoruscite indesiderate. Anche la cintura del marito pliniano, quella che aveva legato la donna, voleva probabilmente alludere al fatto che l’utero, con la concezione, si era chiuso, e il feto era rimasto anche lui legato al suo posto come si doveva. Altre volte comunque Plinio allude a processi magici di legatura per garantire la concezione della donna 68. Mentre dalla cultura antica ci vengono testimonianze esplicite di cinture magiche usate per impedire aborti 69. Quello che piú ci interessa, però, è che da tutte queste indicazioni ricaviamo un’immagine precisa della donna che ha concepito, e che si avvicina al momento del parto. Si tratta di una donna nuovamente «legata», proprio come lo era al momento in cui si era presentata, vergine, al marito che doveva «scioglierle» quella cintura. La donna che ha concepito manifesta simbolicamente questo carattere esibendo una cintura che la cinge: sia essa la cintura del marito, sia essa quella benedetta dal nome di un santo o dalla sua preparazione presso idoli pagani 70. Difficile che il lettore, in tutto questo ricorrere di cinture per donne incinte, non abbia già pensato a parole come l’italiano «incinta», il francese enceinte o lo spagnolo encinta: considerando la possibilità che l’uso di simili espressioni per indicare la donna che ha concepito abbia qualcosa a che fare con questa stabile connessione fra cinture e gravidanza. In effetti sembra proprio di sí – anche se il latino classico non conosce l’uso di incincta come sinonimo di gravida o di praegnas. Isidoro di Siviglia è il primo, e anche l’unico, a testimoniare l’uso del verbo incingo in riferimento alla sfera delle gestanti. Questa attestazione di Isidoro è molto preziosa, perché ci autorizza a pensare che l’uso romanzo di «incinta», e simili altri termini, per indicare la donna che ha concepito fosse in realtà già latino. Salvo che l’interpretazione etimologica che Isidoro ci fornisce di quest’uso è (come altre volte) piuttosto inaccettabile: «incincta cioè senza cintura, perché l’utero non permette di essere troppo premuto» 71. Per Isidoro insomma in-cincta vale «non cinta», e il modello di riferimento è quello della gestante che non sopporta di essere stretta. C’è però una forte difficoltà in questa spiegazione. In latino incingere significa senza eccezioni «cingere», «legare», non certo il contrario 72: per cui l’interpretazione di Isidoro presuppone uno stravolgimento nell’uso corrente

di questo verbo. Non sembra essere questa la via per spiegare perché la parola incincta sia arrivata a designare la donna che ha concepito. In genere si tende a motivare questo singolare mutamento di significato postulando una confusione con il termine antico inciens, che significa appunto «che ha concepito» 73. Questo è probabile, naturalmente. Ma dopo aver constatato tante volte l’uso femminile di indossare cinture durante la gravidanza, credo si possa pensare che il mutamento di significato di incincta sia stato provocato proprio dall’incrociarsi dell’antico inciens con questa tradizione 74. In proposito, possiamo anzi segnalare che nella letteratura greca l’espressione «portare un bambino sotto la cintura» è quasi formulare per indicare la madre che ha concepito e nutrito un figlio nel proprio grembo 75. Se la donna che ha concepito indossa tradizionalmente una cintura, ecco che essa può essere definita la incincta per antonomasia: in questo modo, l’antico inciens riceveva una motivazione linguistica e culturale che ne rafforzava l’uso e il significato. Possiamo tornare là da dove eravamo partiti: al nodo di Ercole e al cingillum della nova nupta. È giunto infatti il momento di riprendere la storia dal principio, e di arrivare se possibile a una conclusione. Dunque una ragazza che si avvicina al matrimonio è legata e protetta dal nodo di Ercole. Lo sposo la scioglie, augurandosi che ella sia fertile nel procreare dei figli, e questo scioglimento del cingillum è un simbolo del fatto che l’uomo si accinge a togliere la verginità alla ragazza. La vergine si presenta come una ragazza «legata», che il nuovo marito ha il compito di «sciogliere» 76. Poi però che cosa accade? Quando la donna concepisce, dopo lo scioglimento del nodo di Ercole al momento del matrimonio, essa viene in realtà «legata» un’altra volta. La donna porta adesso una seconda cintura, reale o metaforica, diversa dal cingulus o cingillum con cui si era presentata alle nozze: comunque, è di nuovo legata da una cintura, è incincta. Finalmente, con la nascita del bambino quei nodi come ben sappiamo si sciolgono – fino alla prossima gravidanza, ossia fino alla prossima cintura e ai prossimi nodi. In questo tipo di rappresentazione simbolica, insomma, il ventre della donna ci si presenta come qualcosa di legato e di sciolto alternativamente 77: e il maschio detiene una straordinaria quantità di potere nel legare o sciogliere questo ventre non suo. Se si dà retta a questi simboli, nell’immaginazione culturale il grembo femminile si configura come un recipiente che viene aperto e chiuso tramite

una cinghia: al maschio va il potere di legarla o di scioglierla. Visto cosí, il grembo femminile rassomiglia piú esattamente a un otre. In effetti, capita spesso di incontrare raffigurazioni magiche dell’utero proprio in forma di otre 78. Anche nella medicina ippocratica l’utero viene esplicitamente paragonato a un askós 79, mentre nella cultura romana questa contiguità fra utero e otre sembra essere addirittura radicata nel linguaggio. In latino infatti la parola per utero, cioè uterus (anche nella forma uterum o uter) si presenta straordinariamente simile a quella che indica l’otre, cioè uter. Pur se si può dubitare della reale origine comune di queste due parole, è difficile pensare che fra esse non venisse stabilito un qualche rapporto nella coscienza di chi le usava quotidianamente 80. L’uter infatti si distingue da altri recipienti proprio per la sua capacità di funzionare come un sacco gonfiabile 81: ma anche dell’uterus femminile si sottolinea spesso, com’è ovvio, il fatto di essere rigonfio 82. Questi modelli simbolici della concezione e della gravidanza, che rappresentano la donna come legata da una cintura, sono rispecchiati anche dalle interpretazioni che di questi stessi fenomeni dava il pensiero medico antico 83. Qui, infatti, per descrivere e interpretare che cosa avvenga nel corpo femminile al momento della concezione, si faceva ugualmente ricorso all’idea-guida di una «chiusura» del grembo. La scienza antica, rappresentata in questo concordemente dal Corpus Hippocraticum, da Aristotele e da Galeno, riteneva che la concezione provocasse la totale chiusura della matrice 84: tanto che neppure «la cosa piú piccola» sarebbe piú potuta passare attraverso di essa, in un senso o nell’altro 85. Per i medici arabi, neanche una sonda sarebbe riuscita a penetrare nell’utero dopo questo momento: i medici medievali rincaravano la dose, neppure un ago sarebbe piú potuto scivolare là dentro 86. Adesso la donna è chiusa ermeticamente, l’orifizio interno è serrato come se fosse chiuso «per natura» 87. Come ben sappiamo, dallo scioglimento di questi nodi che chiudono il grembo dipenderà la sorte, felice o meno, del parto.

5. Le metafore del «comparatum» nella magia analogica. Il segmento dei Nodi, nella storia di Alcmena, lo abbiamo quasi esaurito. Adesso pensiamo di sapere perché le Nemiche della partoriente facevano

proprio il gesto di annodare dita e gambe. Le Eileíthyiai sono esse stesse dei nodi, come sappiamo: mentre il corpo femminile oscilla stabilmente dalla condizione di legato a quello di sciolto, e viceversa. Il gesto del malefizio, di fronte al parto della povera Alcmena, non poteva che assumere forma di Nodi. Ma forse adesso sappiamo anche qualcosa di piú di questo, qualcosa che va al di là della storia di Alcmena e che ha direttamente a che fare con Frazer. A cui il nostro pensiero continua insistentemente ad andare. Ci sembra infatti che la sua olimpica definizione della magia omeopatica, ovvero per analogia, meriti in qualche modo di essere completata. I nodi, si dice, legano anche simbolicamente per una virtú omeopatica. Ciò che conta è il rapporto di «somiglianza» che si stabilisce fra due processi i quali, in realtà, non hanno fra loro alcun rapporto concreto: visto che, com’è ben noto, per Frazer la magia omeopatica altro non era se non una «falsa applicazione dell’associazione di idee» 88. Ma ecco le parole di Frazer riguardo alla magia dei nodi in occasione di un parto: … in tutti questi casi l’idea sembra essere la seguente: stringere un nodo potrebbe «legare» la donna, come dicono nelle Indie orientali. In altre parole potrebbe ritardare e forse impedire il parto, o ritardare la convalescenza della puerpera. In base ai principî della magia omeopatica o imitativa l’ostacolo fisico o l’impedimento di un nodo sarebbe capace di creare un ostacolo o impedimento corrispondente nel corpo della donna.

Cosí come una mano lega quell’altra, si potrebbe dire, allo stesso modo il bambino resta legato nel ventre materno. Tutto ciò è molto probabile. Lo schema interpretativo frazeriano, soprattutto suffragato com’è da dichiarazioni e pratiche dirette delle persone coinvolte in operazioni magiche, sembra resistere all’usura degli anni 89. Resta comunque spazio per porsi una domanda non trascurabile. Perché questo rapporto di analogia può scattare fra i due processi?, quale serie di elementi comuni autorizzano a trasferire a un ventre femminile e a un bambino lo stesso rapporto che unisce una mano all’altra cui è intrecciata, o che unisce il nastro ai capelli che lega? Potremmo anzi cercare di mettere il problema in un altro modo. Le pagine di Frazer sono ricchissime di dettagli sul comparandum, se cosí si può dire: nodi, nastri nei capelli, tappi di bottiglia, zipoli di botti, collari per cani, animali in gabbia, gambe incrociate, lucchetti aperti, porte spalancate… Ma non c’è alcun dettaglio sul comparatum, il ventre della donna. Forse anche Frazer era

un autore molto «decente», come diceva di Omero il suo scoliasta? Frazer suggerisce una straordinaria e ricchissima generalizzazione del comparandum. Per parte nostra, suggeriremmo una complementare «particolarizzazione» del comparatum. Come abbiamo visto, per molte ragioni il ventre della donna può essere considerato un simbolico luogo di legami e di scioglimenti, che assumono valori differenti in relazione alle varie tappe che scandiscono la vita di una donna: dalla perdita della verginità, alla gravidanza, al parto. È un ventre che per tutta la vita è sciolto e legato dagli uomini: in particolare, è un ventre che al momento del parto addensa descrizioni «scientifiche» (il bambino «avvolto» da membrane che deve rompere, serrato da un «nodo» che deve sciogliere), metafore linguistiche («sciogliere i vincula»), religiose (Eileíthyia dea dell’avvolgimento), narrative (come le gambe accavallate delle Nemiche nel racconto di Alcmena), mitologiche e religiose (i «fili» delle Parche), che in una successione potenzialmente infinita rimandano tutte quante alla stessa immagine: il legame, il nodo. D’altra parte, non bisogna dimenticare che è ancora in un legame che ci imbattiamo al momento in cui il nostro sguardo, distogliendosi dallo schermo delle proiezioni simboliche, si rivolge finalmente al corpo della donna: non va infatti dimenticata la presenza di un «cordone» reale nel ventre della partoriente, quello ombelicale. Il quale, al momento della nascita può bruscamente trasformarsi da legame di salvezza per il bambino in nodo pericolosissimo per l’esito del parto, ed è compito della levatrice far sí che, attraverso un taglio tempestivo e appropriato, questo nodo venga felicemente rescisso. Inutile dire che anche nella cultura greca questo taglio era anch’esso avvolto da precauzioni di carattere magico e rituale, come il divieto di tagliarlo con una lama di ferro 90. Prima ancora di essere soggetto alla simpatetica magia dei nodi, insomma, il ventre femminile e il bambino che vi sta racchiuso è in se stesso un luogo di nodi: all’anatomia del corpo femminile, cosí come all’evento della nascita, la rappresentazione culturale assegna un’immagine densa di legami. Se si affronta il problema da questa prospettiva, si vede bene che la magia analogica, la quale mette in relazione i nodi e il parto della donna, rappresenta solo un singolo aspetto di un modello molto piú generale: che va dal definire incincta una donna che ha concepito all’invocare Eileíthyia, dea dei legami e delle membrane, al momento del travaglio. Giungiamo cosí alla conclusione che i modelli della magia analogica,

almeno nel caso dei nodi attorno alla partoriente, non corrispondono affatto a quelli di un pensiero «semplice». Frazer, nella sua visione positivistica della magia, si preoccupava di mettere in evidenza soprattutto gli aspetti di falsa scienza («spurio sistema di leggi naturali») e di inconsapevole pratica («il mago non analizza mai i processi mentali su cui la sua azione si fonda») che questo tipo di azione presuppone 91. Solo che in questo modo la complessità del processo mentale, in base a cui la magia omeopatica funziona, tende inevitabilmente a scomparire. Il pensiero magico si trasforma in un pensiero non solo «sbagliato» ma addirittura povero e monco: il che probabilmente non è. Al momento in cui esso stabilisce le sue connessioni, infatti, lo fa presupponendo una grande quantità di altre immagini e metafore culturali. Tale sostrato di rappresentazioni e di credenze caratterizza l’oggetto che viene investito dal processo analogico come particolarmente adatto a ricevere un simile investimento di pensiero. Solo apparentemente la similarità simbolica della magia si fonda su tratti superficiali – «allo stesso modo in cui intreccio queste dita, cosí possa il tuo bambino restare annodato nel grembo». La similarità simbolica si fonda al contrario su tratti profondi, metafore antiche che fanno già parte del linguaggio e della rappresentazione culturale. I nodi nuocciono al parto perché una lunga serie di metafore e di rappresentazioni culturali caratterizza già il grembo femminile, per parte sua, come luogo di legami. Il malefizio, o il benefizio, può scattare proprio perché l’oggetto a cui esso analogicamente si rivolge contiene già in sé una serie di immagini che, per la loro congruenza, si prestano a stabilire questa analogia. Le invenzioni delle Nemiche, o i malefici che la credenza ha individuato nel tempo come analogicamente pericolosi, sono solo alcune delle metafore che circolano intorno al ventre delle donne e ne definiscono il significato. Ma queste metafore presuppongono tutte le altre e, a loro volta, da altre metafore sono spesso presupposte. Anche i racconti, naturalmente, fanno parte di queste metafore, le tengono vive e le trasmettono nel corso delle generazioni. Per questo la storia di Alcmena, come vedremo, ha potuto compiere nel tempo un cammino cosí lungo.

Capitolo sesto La Risoluzione

Come sappiamo, allo scioglimento della vicenda di Alcmena si arriva in due modi: in alcune versioni accade che una ragazza (Historís, Galanthis, Galinthiás, Akalanthís) inganni le Nemiche, facendo loro credere che Alcmena ha già partorito; in altre accade invece che una donnola corra accanto ad Alcmena, o semplicemente le passi accanto, e questo permette alla donna di liberarsi. Due procedimenti indiscutibilmente diversi, e che meritano di essere trattati separatamente. Nel primo caso incontriamo infatti un inganno, anzi una «astuzia» (sóphisma), come la chiama Pausania parlando del comportamento della fanciulla Historís. Ludwig Laistner dava anzi una definizione molto calzante di questa strategia ingannatoria: parlava di «messaggio menzognero» (trügerische Botschaft) 1. In effetti, si tratta proprio di comunicare un messaggio il cui contenuto è assolutamente falso. Nel secondo caso, invece, la strategia della Risoluzione è realizzata attraverso i poteri, invero abbastanza oscuri, di un animale che semplicemente corre accanto alla partoriente, cosa che sembra già essere sufficiente a risolvere la situazione. In questo capitolo ci occuperemo dunque della prima strategia messa in opera per la Risoluzione, quella che prevede l’astuzia della ragazza e il suo messaggio menzognero. In quello successivo ci dedicheremo invece alla seconda strategia, affrontando un tema che dovrà accompagnarci ancora a lungo nel corso di questo libro: il ruolo e i poteri della donnola.

1. Astuti nodi e Moírai con le mani alzate. Abbiamo già visto come dobbiamo immaginare il momento cruciale della nostra storia: il piccolo Eracle, assieme a suo fratello Ificle, è impegnato attivamente nella rottura delle membrane e nell’allentamento dei nodi – ma questi Nodi non si allentano, anzi, le divinità che dovrebbero favorire questo processo intrecciano gambe e mani. Una Eileíthyia favorevole, come sappiamo, si distingue proprio per il fatto che alla fine concede una qualche forma di soluzione ai legami del grembo. Questa volta invece le divinità del

parto, tramite la posizione che hanno assunto, manifestano esplicitamente il fatto che la doglia-nodo non si scioglierà, il bambino non riuscirà a rompere l’involucro che lo «avvolge» e a liberarsi dal nodo che lo serra nel ventre. Le Nemiche intrecciano Nodi e cosí facendo, come abbiamo visto, evocano una delle metafore piú profondamente radicate nella rappresentazione culturale del parto. Ma non basta, il significato simbolico del loro gesto va probabilmente ancora al di là di questo: i Nodi delle Nemiche esprimono anche la loro volontà di giocare un trucco alla Partoriente, di ingannarla con la loro furbizia. Si sa infatti che nella cultura greca l’immagine del nodo indissolubile, della rete che avvolge e cattura, è una di quelle che piú profondamente esprimono la sfera della m tis. È la rete con cui Efesto intrappola la moglie adultera e il suo amante, è il procedere di Ermes, obliquo, a ritroso, ingarbugliato 2. Le Nemiche, avvolgendo i loro Nodi, intendono dunque giocare d’astuzia: ma la ragazza è piú astuta di loro e riuscirà abilmente a far sciogliere quei nodi di una (insufficiente) furbizia. Fra un minuto vedremo piú in dettaglio il modo in cui l’astuzia della ragazza si realizza. Concentriamoci, intanto, sulle modalità dello scioglimento.

Figura 7.

Nascita di Atena (?), kalyx-krater, IV secolo a.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum. (Foto del Museo / KHM-Museumsverband).

Figura 8. Nascita di Atena, lekythos attica a figure nere, 530 a.C. circa. Copenaghen, Nationalmuseet, Antiksamlingen. (Foto del Museo).

Quando descrive il momento cruciale della sconfitta delle Moírai, Antonino usa questa specifica espressione: «Di fronte a ciò le Moírai furono colte da grande sorpresa e subito levarono in alto le mani» 3. Questa frase potrebbe passare inosservata, e il gesto delle divinità beffate – alzare le mani – potrebbe essere inteso come semplice manifestazione di sorpresa e di disappunto. Lo è, ma il gioco del racconto riserva a questo gesto un significato che è contemporaneamente molto piú profondo. Per questo dobbiamo rifarci all’iconografia delle Eileíthyiai (o di Eileíthyia) che incontriamo nelle raffigurazioni greche dedicate a scene di parto. Dopo quello che abbiamo detto piú sopra, non possiamo certo aspettarci di incontrare molte immagini che raffigurino nascite autentiche: certe cose si raffigurano di rado, cosí come non si descrivono dettagliatamente in letteratura 4. Le nostre fonti iconografiche però riprendono spesso una nascita

mitica, quella di Atena dalla testa di Zeus (cfr. figg. 7 e 8): una scena di parto maschile insomma. Nelle rappresentazioni di questo mito compaiono frequentemente le Eileíthyiai, o figure di divinità femminili che possono essere identificate con esse 5. In queste scene si vede la piccola creatura che fuoriesce, sana e salva, dall’insolito grembo paterno, ovvero Atena già cresciuta e piazzata sulla coscia del dio, mentre attorno a Zeus le Eileíthyiai, le Moírai, o altre divinità femminili assistono all’evento. Ora, è particolarmente interessante vedere come in alcune di queste scene le dee tengano per l’appunto le braccia e le mani sollevate, con le palme rivolte verso l’alto 6. Sembra molto ragionevole pensare che questa specifica postura delle dee costituisca un gesto bene augurante, di nascita fausta, che esprime la buona disposizione delle divinità verso l’evento 7. Non possiamo escludere che queste mani sollevate delle dee indichino contemporaneamente anche un moto di sorpresa di fronte a una nascita cosí singolare 8. Però è necessario tener presente il fatto che, nell’iconografia di Eileíthyia, il gesto di sollevare la mano verso la partoriente svolga un ruolo molto importante (proprio come abbiamo visto fare alla Lucina benevola di Ovidio, quella che «avvicina le mani» alla povera Mirra) 9. La statua di Eileíthyia ad Aígion aveva per l’appunto una mano alzata 10 (cosa che faceva sospettare a Lewis Richard Farnell una sorta di «mesmerismo» antico) 11, mentre alla dea le donne in travaglio chiedevano proprio di intervenire «con mani delicate» 12. Il moto delle mani ha certo un valore simbolico quando si tratta di Eileíthyia o di altre dee della nascita.

Figura 9. Nascita di Minerva, specchio etrusco inciso, 330-310 a.C. Bologna, Museo Civico Archeologico. (Foto del Museo).

Figura 10. Scena di nascita, avorio. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. (Foto Soprintendenza Archeologica delle Province di Napoli e Caserta).

Il gesto di alzare le mani alla nascita sembra essere davvero dotato di una grande tenacità culturale. Forse lo incontriamo addirittura in raffigurazioni preistoriche delle dee della nascita, in connessione con la misteriosa immagine del rospo che tante relazioni ha intrattenuto, nella cultura europea, con il mondo del parto 13. Ma fuori dalla Grecia, in uno specchio etrusco di Bologna, è ancora con le mani alzate e aperte che una figura di donna assiste alla nascita di Minerva dalla testa di Zeus 14 (cfr. fig. 9). Mentre ritroviamo lo stesso gesto in un avorio proveniente da Pompei 15 (cfr. fig. 10). Stavolta la scena di parto è umana e reale, non mitica, e vi si vede la partoriente, seduta, con un’assistente in piedi alle sue spalle: la levatrice è anche lei seduta e, tenendo nella destra una spugna, presta assistenza alla nascita; dietro la partoriente, in piedi, sta una quarta donna, con le braccia aperte e sollevate, «pronta a ricevere il bambino o ad offrire una benedizione» 16. Nella tarda Antichità e nel Medioevo, è con questo medesimo gesto che Nectanebo accompagna la nascita di Alessandro da Olimpiade 17 (vedi fig. 2). Cosí come i demoni – uniche possibili «levatrici» per l’Anticristo – salutano con le mani

sollevate la nascita di questa creatura maledetta dal grembo aperto della madre 18 (cfr. fig. 11). Anche la tradizione del folclore nordeuropeo conserva questo gesto. Una ballata molto diffusa nella tradizione danese racconta una storia che piú avanti dovremo rivedere in dettaglio, perché tante analogie presenta con quella di Alcmena. In essa una partoriente, allo stremo delle forze, «prega tutta la gente di casa di sollevare in alto le mani e di pregare per la sua liberazione…» 19. Anche in questo caso, l’atto di alzare le mani si presenta legato al momento del parto e costituisce un gesto di buon augurio che esprime contemporaneamente la supplica 20. Da un punto di vista piú generale, bisogna anzi notare che presso molte culture il gesto del «sollevare», dell’«innalzare», in particolare il bambino appena nato, si presenta di particolare rilevanza nella simbologia relativa alla nascita. Tanto che la levatrice prende spesso il suo nome, proprio come accade in italiano, dall’azione di «sollevare» il bambino 21.

Figura 11. Nascita dell’Anticristo, xilografia. Monaco, Bayerisches Staatsbibliothek, Xyl. R, f. 2r. (Foto Bayerisches Staatsbibliothek, Monaco).

Si può dunque affermare che l’astuzia della compagna di Alcmena costringe le Moírai e le Eileíthyiai a compiere, per sorpresa e disappunto,

quel gesto di rituale e tradizionale benevolenza che «tenendo strette le mani» avevano in tutti i modi cercato di non compiere. Ecco perché, come Antonino riferisce, proprio «nello stesso istante» in cui le dee alzarono le mani «i dolori abbandonarono Alcmena, e Eracle poté venire alla luce». Ingannate dall’astuzia della ragazza le nemiche assunsero la posa che vediamo loro assumere nelle scene figurate in cui ha luogo una nascita fausta e facile, quella stessa posa che accompagna spesso la nascita anche nel seguito della tradizione occidentale. Il gesto dell’ostilità si trasforma nel suo opposto, la Nemica è diventata, senza accorgersene, un’amica e le doglie-nodo si sono inaspettatamente sciolte. La sconfitta subita è cosí piena e totale che il corpo stesso della Nemica la manifesta: colei che pareva divinità potente improvvisamente si rivela marionetta, corpo meccanico i cui fili sono comandati dall’astuzia di una ragazza. Questo passaggio è davvero uno dei piú belli della nostra storia. Non foss’altro per il viso attonito del Fatomarionetta, che sciogliendo le mani di scatto e lanciandole in alto, si volge incredulo verso la Partoriente.

2. Basta dire che è già successo. La ragazza, dunque, è piú astuta delle Nemiche. Non a caso nella versione di Pausania essa porta il nome di Historís, la «indagatrice», ed è addirittura figlia dell’indovino Tiresia. Il sóphisma, l’astuzia risolutrice a cui ella fa ricorso, è capace di sciogliere l’astuzia-nodo con cui le Nemiche avevano creduto di vincere la partita. La Liberatrice della nostra storia è anch’essa un’eroina della m tis, una persona dotata di «intelligenza rapida» e di «capacità di raggiungere l’obiettivo» 22. Accanto al letto della Partoriente i due modelli tradizionali dell’astuzia si confrontano, quello dei Nodi con cui le Nemiche cercano di intrappolare la Partoriente e quello della «parola abile» che riesce a farli sciogliere, riportando la vittoria. Ma in che cosa consiste esattamente l’astuzia a cui la ragazza fa ricorso?, come funziona il trucco? Si tratta in verità di un gioco tanto intelligente quanto economico. Per fare in modo che un certo evento possa avvenire, la fanciulla dichiara falsamente «che è già avvenuto»: questa semplice dichiarazione provoca lo sconcerto delle Nemiche e le spinge a compiere un gesto che manifesta la loro meraviglia. Ma dato che il gesto della meraviglia corrisponde a quello

della liberazione dal parto, ecco che il comportamento della Liberatrice permette all’evento di «accadere» realmente. La cosa che piú colpisce, insomma, è che la ragazza non va a cercare lontano il contenuto del suo messaggio menzognero, in certo modo non inventa nulla. Si limita a enunciare ad alta voce l’evento intorno a cui ruota tutta la vicenda, il parto di Alcmena, quello che tutti desideravano che avvenisse e che le Nemiche invece erano lí apposta per impedire. La ragazza grida semplicemente ciò di cui tutti parlavano e che tutti si aspettavano da un momento all’altro di vedere: e che le Nemiche si aspettavano assolutamente di «non» vedere. Per cui restano ingannate. La situazione è assolutamente ironica, l’avvenimento si prende gioco dell’attesa 23. A volte questo messaggio menzognero – cosí elementare e cosí potente – può essere arricchito di qualche particolare che lo rende ancora piú efficace. Galinthiás, la ragazza di Antonino, dichiara non solo che Alcmena ha partorito, ma che ha partorito un «maschio»: cioè proprio quel figlio maschio, futuro signore delle genti circonvicine, che Zeus aveva annunziato solennemente sull’Olimpo e la cui nascita le Moírai erano per l’appunto lí per impedire. Lo schema comunque è sempre lo stesso: infatti è un bambino maschio che nascerà veramente, l’inganno si limita ad anticipare un evento autentico, non inventa nulla. Dato poi che Galinthiás, come sappiamo, non sta semplicemente lottando contro delle streghe o delle Eileíthyiai ma contro le dee del destino in persona, si preoccupa anche di aggiungere che le loro «prerogative» (timaí) sono state abolite: in pratica dichiarando che i poteri del Fato sull’ordine e la natura degli eventi non valgono piú. La qual cosa, ancora una volta, è semplicemente un’anticipazione della verità, perché le Moírai, cadendo nella trappola di Galinthiás e alzando le mani per la sorpresa, annullano esattamente le loro supreme prerogative nel campo di ciò che deve accadere e di ciò che non deve accadere. Il Fato smentisce se stesso. Piú la si ascolta, piú questa versione di Antonino si rivela ricca ed elegante. Altre volte gli abbellimenti che le singole versioni aggiungono al tema fondamentale sono di minor conto. La Historís di Pausania, come sappiamo, accompagna il suo messaggio menzognero con un grido rituale, l’ololug , che era tipico della nascita, e dunque rendeva il messaggio ancor piú credibile. Mentre Akalanthís, la ragazza di Libanio, nel comunicare il messaggio falso si preoccupa invece di «imitare il comportamento della gioia».

Proviamo per un attimo a uscire dal racconto. Anche nella credenza popolare, non solo nelle storie, le forze malefiche riescono spesso a farsi ingannare. Proprio in occasione del parto di una donna, infatti, si usava tradizionalmente giocare una serie di trucchi, invero anche abbastanza buffi, ai demoni o agli spiriti maligni che avessero intenzione di nuocere alla donna. Per esempio si facevano mettere alla partoriente scarpe o vestiti del marito, per fingere che nel letto ci fosse lui e non lei: addirittura le si mettevano vestiti vecchi, e maleodoranti, per allontanare ancor piú l’interesse dei demoni verso la partoriente 24. Queste pratiche folcloriche sembrano rassomigliare molto a proverbi sul tipo dell’italiano «mettiti nei miei panni» o del tedesco in meinen Schuhen (mettiti nelle mie scarpe), che normalmente vengono usati per esprimere l’idea «se tu fossi me». Indossare gli abiti o le scarpe di un altro significa assumerne l’identità: le donne con gli scarponi, o con i vestiti vecchi dei loro uomini, cercano di fare proprio questo, assumere l’identità dei mariti. In ogni caso, è chiaro che la strategia della Risoluzione usata dalla ragazza amica della donna in travaglio rientra perfettamente in questa categoria culturale: quella dell’inganno alle forze maligne in occasione di un parto. È come se nel racconto di Alcmena queste pratiche reali e vissute venissero in qualche modo messe in scena, trasformate in intreccio narrativo. Una volta di piú, si vede come la storia che stiamo analizzando sia profondamente intrecciata ai modelli e alle credenze della cultura tradizionale. Sia che si tratti di scarpe vecchie sia che si tratti di Nemiche ingannate, risulta però davvero singolare questo mischiarsi di beffa e di sofferenza in occasione della nascita di un bambino. Eppure è cosí. Non c’è dubbio che in casi di questo genere ci sia anche da ridere, cosí come abbiamo visto ridere lungamente la Galanthis di Ovidio. Le grosse scarpe vecchie addosso alla donna nella pratica tradizionale, il trucco che sbeffeggia le nemiche nell’invenzione del racconto antico, sono strategie in qualche modo buffe, che introducono la farsa o la commedia nella stanza del parto. Questo tema, il comico, ovvero il riso attorno alla donna in travaglio, merita di essere brevemente sviluppato.

3. Risa e beffe.

L’antica versione latina dei Gynaecia di Sorano 25, descrivendo (sulla scorta dell’originale) le caratteristiche che si richiedono a una buona levatrice, menziona esplicitamente l’opportunità che la obstetrix sia arguta, «spiritosa nel parlare». Evidentemente si pensava che una levatrice «spiritosa nel parlare» facesse meglio il suo lavoro 26. È come se la partoriente, o le donne che l’assistono, dovessero saper fare anche qualcosa di buffo o di divertente per risolvere la situazione. Galanthis, la ragazza di Ovidio, è esplicitamente una donna che assiste al parto, come sappiamo, e gioca tiri beffardi alle nemiche: dopo di che si mette a ridere. A distanza di secoli, una cosa non troppo diversa ci dice ancora Gilles de Bellemère, nelle Quinze Joies de mariage 27, quando ricorda l’arrivo delle commères attorno alla partoriente. Ecco che il pauvre homme del marito (l’occhio di de Bellemère è notoriamente misogino) deve far di tutto per metterle a proprio agio: «la levatrice e le comari parlano e scherzano, e dicono delle buone cose, e si tengono a proprio agio». Dunque nella tradizione «si scherza» attorno alla partoriente. Si tratta di un comportamento femminile che ha certo delle connessioni con la pratica reale dell’ostetricia, antica e moderna: è importante mantenere buono l’umore della donna in travaglio. Secondo Sorano, le tre «assistenti» al parto devono essere in grado di «placare con parole di conforto le ansietà della partoriente» 28. Anche oggi ci si preoccupa ovviamente di garantire un ambiente emotivo favorevole al parto, cosí come, da un punto di vista comparativo e transculturale, la preoccupazione per la buona condizione emotiva della partoriente costituisce un tratto costante in tutto il mondo 29. Apparentemente infatti solo alcune culture dell’Africa meridionale rovesciano questo assioma: qui infatti la levatrice picchia e maltratta la povera partoriente, ritenendo che il dolore che essa prova contribuisca ad accrescere le doglie del parto 30. Ma forse si può sospettare che, in questo ridere attorno alla partoriente ci sia anche qualcosa in piú rispetto alla semplice necessità di mantenere alto il morale della madre – donne «sole», lontano dagli sguardi di uomini e mariti, che parlano delle «loro» cose e praticano i loro secreta mulierum: e ridono. Forse una pratica del folclore greco moderno può aiutarci a capire meglio di che si tratta. Nell’Albania centrale e in Macedonia, la zona (denominata un tempo «Rumelia») dove molti rifugiati greci dalla Bulgaria avevano ricevuto nuova dimora, l’8 di gennaio, festa di San Domenico, è meglio conosciuto come «il giorno della levatrice». Quel giorno si celebra una festa cui solo le donne

sposate e ancora in grado di generare figli possono partecipare. Esse si recano a casa della levatrice per festeggiarla con l’offerta di oggetti utili al suo mestiere (sapone, asciugamani e cosí via), cibo e vino. Ciascuna donna versa dell’acqua con cui la levatrice si lava le mani, anticipando cosí il giorno in cui la levatrice dovrà assisterla nel parto. La cerimonia prosegue poi con il bacio di un oggetto di forma fallica, detto sch ma, che consiste in un porro o in una salsiccia. Le donne lo baciano con fervore e versano lacrime sullo sch ma. La levatrice assiste alla cerimonia nobilmente assisa su una specie di trono, ornata di corone di fiori, cipolle, reste d’aglio, collane di fichi secchi, e cosí via, tenendo una grande cipolla a mo’ di orologio. Segue un banchetto, durante il quale le donne si ubriacano: non è considerato indecoroso farlo, quel giorno. A questo punto la levatrice è portata in giro per il paese su un carro, come fosse una sposa, con ancora indosso tutti gli ornamenti. La si porta alla fonte, dove è abbondantemente spruzzata di acqua, e le donne la seguono, cantando e ballando, spesso vestite in modo bizzarro: i canti e gli scherzi cui si abbandonano sono spesso molto osceni. Inutile dire che gli uomini, quel giorno, stanno tutti chiusi in casa: mala sorte all’uomo che esce per strada e capita nelle mani delle donne! 31. Raccolte attorno alla levatrice del paese, queste donne costruiscono insomma una comunità che per un giorno tiene a distanza gli uomini. Esse manifestano pubblicamente questa loro «chiusura» e unità esibendosi in azioni e gesti rituali che certo la vita di tutti i giorni non avrebbe sopportato. Il comportamento di queste donne può certo essere ricollegato a cerimonie tradizionali della Grecia antica, quali gli Haloia di Eleusi: una festa esclusivamente femminile, in cui le donne ugualmente si scambiavano scherzi osceni, banchettavano con ogni genere di delicatezze e facevano circolare oggetti a forma di organi genitali maschili e femminili 32. Ma l’esplicita presenza di una levatrice rammenta anche quadri di vita come quello descritto da Gilles de Bellemère nelle Quinze Joies de mariage: con il marito pauvre homme da una parte, dall’altra «la levatrice e le comari» che «parlano e scherzano, e dicono delle buone cose, e si tengono a proprio agio» attorno al letto della partoriente. Il folclore greco ci mette insomma di fronte a un altro caso di donne che scherzano assieme alla levatrice. Stavolta siamo informati anche del fatto che l’aggressività di donne e levatrici poteva direttamente ed esplicitamente riversarsi sugli uomini, qualora ne incontrassero uno.

Nella storia di Alcmena, comunque, c’è qualcosa di piú e di diverso rispetto a un generico buon umore attorno alla partoriente, o a una serie di giochi e scherzi attorno a una levatrice. Un conto sono delle donne che tengono a proprio agio una futura madre la quale ne ha indiscutibilmente bisogno, o banchettano nel giorno della levatrice; un altro è una ragazzalevatrice che deride una forza ostile alla donna, giocandole una beffa terribile. È in questa direzione che specificamente dobbiamo andare adesso, con un’altra storia che ci viene dal mondo greco. Nelle Tesmoforiazuse di Aristofane, Mnesiloco, travestito da donna, elenca a un certo punto una serie di malefatte e di furbizie che le donne ammettono di compiere comunemente. Abili adulterî con l’amante, il quale durante la notte viene a grattare alla porta; sesso con schiavi e mulattieri; aglio masticato al mattino per nascondere al marito l’alito che tradirebbe le malefatte notturne, e via di questo passo. Finalmente si giunge al capitolo delle false maternità e dei figli contrabbandati: Conosco un’altra donna che aveva finto di aver le doglie per dieci giorni, finché non ebbe comprato un bambino. Il marito andava di qua e di là per procurarle ciò che era necessario ad affrettare il parto, e intanto una vecchia le portava un neonato dentro una pentola: perché non piangesse gli aveva tappato la bocca con la cera. Appena la vecchia le ebbe fatto un cenno, la donna si mise a gridare: «va’ via, va’ via, marito mio, questa volta sto per partorire!» Il bambino infatti aveva scalciato nella pancia – della pentola. Il marito corre fuori felice, la vecchia toglie la cera dalla bocca del bambino e quello si mette a piangere. Allora la maledetta vecchia, quella che aveva portato il bambino, corre sorridendo verso il marito e gli dice: «Un leone ti è nato, un leone! È il tuo ritratto sputato, in tutto e per tutto come te. Soprattutto il pipino è uguale al tuo, tutto storto come una pigna» 33.

Il sospetto che le donne usassero fingere gravidanze inesistenti, per introdurre nell’oîkos figli presi a prestito, è abbastanza frequente nella cultura attica, e nelle stesse Tesmoforiazuse ricorre altre tre volte 34. Si tratta di una tipica preoccupazione di carattere maschile, che deriva dalla paura che la donna, per nascondere la propria sterilità, e la propria incapacità di

incrementare la stirpe del marito, possa ricorrere a pratiche che inquinino la purezza della famiglia. Lo stesso Aristofane ci racconta della donna che vuole prendersi di nascosto un bambino altrui perché non riesce ad avere figli: ma non può farlo perché «già gli uomini le si tengono stretti accanto» 35. È dunque in questo quadro, fortemente deformato da paure e folclore di tipo maschile, che dobbiamo leggere la storiella del bambino contrabbandato nella pentola dall’astuta vecchia. Chi sarà stata questa vecchia? Dato che ha facile accesso al letto della finta partoriente, si tratta con ogni verisimiglianza di una persona che svolge il mestiere di aiutare le donne in travaglio 36. La pentola che porta ha del resto l’aspetto di un ferro del mestiere, e sarà stata quella destinata a contenere l’acqua calda necessaria per il parto 37. Anche il fatto che si tratti di una vecchia conferma l’idea che abbiamo a che fare con una birth attendant, piú avanti infatti dovremo vedere che spesso questo tipo di personaggio corrisponde esattamente a delle vecchie 38. Dunque eccoci di fronte a una levatrice o assistente della partoriente, lo stesso ruolo svolto da Galanthis nel racconto di Alcmena. E non c’è dubbio che le somiglianze fra questa storiella aristofanesca e il trucco giocato da Galanthis siano impressionanti. In entrambi i casi, infatti, abbiamo a che fare con una levatrice astuta e in qualche modo onnipotente, che manipola e inganna altre persone che ruotano attorno al letto della donna. Anche dal punto di vista della struttura esteriore della storia le rassomiglianze sono forti. Come sappiamo, quando la ragazza Akalanthís di Libanio si reca a comunicare il proprio messaggio menzognero alle Nemiche viene caratterizzata da due tratti complementari: «corre» incontro a loro e «imita il comportamento della gioia». In modo del tutto simile si comportano anche le altre aiutanti di Alcmena. La Galinthiás di Antonino «corre verso le Moírai ed Eileíthyia, annunziando loro che, per volere di Zeus, ad Alcmena era nato un figlio maschio…» Mentre la Galanthis di Ovidio grida a Lucina: «chiunque tu sia rallegrati con la mia padrona…» La vecchia di Aristofane ha un comportamento analogo. Per meglio ingannare lo sciocco e onesto marito che attende fuori dalla porta, infatti, gli «corre incontro sorridendo» e lo invita a «rallegrarsi». La corsa, la gioia, sono tutti tratti che accrescono la verisimiglianza della (falsa) nascita, e in tutte e due le storie l’astuta levatrice si preoccupa di ostentarli accrescendo cosí il pathos e la confusione del destinatario. Anche Aristofane, insomma, ci mette di fronte a una levatrice che «sorride» di gioia e «deride» nello stesso

tempo. L’aiutante della partoriente è una donna astuta che, nell’interesse della sua paziente, si fa disinvoltamente beffe di chi le sta d’intorno. Piú avanti, quando ci occuperemo in particolare del personaggio della comare e della levatrice, dovremo ricordarci di questa caratteristica. Per raccontare ancora un’altra storia – quella di Agnodice, la fondatrice stessa dell’ostetricia femminile – in cui l’astuzia beffarda della levatrice emerge in tutta la sua forza 39.

Capitolo settimo La Liberatrice

Le pagine che abbiamo dedicato alla Risoluzione ci hanno già detto molto sulla Liberatrice, o perlomeno sulla sua versione umana: sappiamo infatti che è una donna astuta, dallo spirito pronto, in grado di cogliere al volo quello che accade attorno ad Alcmena, per cui riesce a farsi beffe delle Nemiche. Come abbiamo visto, l’azione svolta dalla Liberatrice umana di Alcmena (Historís, Galanthis, e via di seguito, a seconda delle varianti) risuona anzi molto bene se messa insieme ad altri racconti di nascita che vedono delle donne o delle levatrici ugualmente impegnate a ridere o a farsi beffe di chi le circonda. Solo che a questo punto anche la nostra analisi, come in un racconto antico di metamorfosi, deve accettare la vertigine della trasformazione. Il mondo umano cede il campo a quello della natura, proprio come la ragazza astuta assumerà d’ora in avanti l’apparenza dell’animale che, in alcune varianti, costituisce il risultato metamorfico della sua punizione, ovvero, semplicemente, la sostituisce nel ruolo di Liberatrice: la donnola. Se finora abbiamo parlato molto di donne, d’ora in avanti parleremo ancor piú spesso di donnole – e il fatto che la successione dei temi ci costringa a questo goffo bisticcio è, come vedremo, tutt’altro che privo di significato nella storia delle nostre rappresentazioni culturali. Ma chi è, poi, questa donnolaLiberatrice? Senza dubbio è venuto il momento di introdurla.

1. «Genus mustela». Breve intermezzo di storia naturale. Niente, naturalmente, può rappresentarla meglio di un’immagine (cfr. figg. 12 e 13). Ma vederla ovviamente non basta, i naturalisti moderni l’hanno infatti lungamente studiata e passo dopo passo hanno descritto nei dettagli la sua natura, le sue abitudini anche piú segrete, le sue affinità e le sue peculiarità morfologiche. L’albero genealogico a cui appartiene è piuttosto ramificato 1. La grande famiglia delle mustelidae comprende infatti tre sub-famiglie, rispettivamente melinae, lutrinae e mustelinae, tutte quante caratterizzate da un corpo lungo e sottile e da gambe decisamente corte. Alle

melinae corrispondono i ghiri, alle lutrinae le lontre, alle mustelinae un gruppo di animali affini e già abbastanza vicini alla nostra idea popolare di donnola. La sub-famiglia delle mustelinae contiene infatti il genus martes, che comprende le martore, e il genus mustela, che è quello piú direttamente interessante per noi. Del genus mustela fa parte infatti la nostra donnola (mustela nivalis), una sua variante piú grossa che in inglese porta il nome di stoat (mustela erminea), e infine la puzzola (mustela putorius), di cui il cosiddetto furetto (mustela furo) rappresenta una variante addomesticata. La specie che ci interessa di piú, dal nostro punto di vista, è la mustela nivalis, nel senso che in Grecia e in Italia è diffusa solo questa, mentre la mustela erminea è assente. È bene dire però che qualche volta, quando parleremo del folclore inglese, francese o tedesco, le credenze che riporteremo potranno essere riferite tanto alla mustela nivalis che alla erminea. Le due specie non presentano alcuna diversità esterna di rilievo 2, dunque ci sentiamo autorizzati a identificarle da questo punto di vista. La mustela erminea si distingue da quella nivalis solo per il fatto che, durante l’inverno, il suo pelame assume colore bianco e trasforma l’animale in quello che la tassonomia popolare definisce comunemente «ermellino». Ancora, la mustela erminea ha un punto nero in cima alla coda, che la mustela nivalis non ha, e soprattutto (ma questo particolare era ovviamente ignoto agli osservatori dei secoli passati) la sua riproduzione appare caratterizzata da un affascinante ed enigmatico meccanismo 3. Infine, la mustela erminea è un po’ piú grossa della mustela nivalis: ma cosa vuol dire «grossa», parlando di una donnola?

Figura 12. Donnola (mustela erminea), nella caratteristica posa «a ometto». (Foto © Scott McKinley).

Meglio dire subito, infatti, che in realtà la donnola è un animale estremamente piccolo. La mustela nivalis – quella che dobbiamo immaginare accanto al letto di Alcmena – ha infatti una lunghezza che oscilla fra i 170 e i 230 millimetri, con un peso che varia dai 35 ai 202 grammi; mentre la mustela erminea ha una lunghezza che oscilla fra i 240 e i 310 millimetri e un peso che varia fra i 140 e i 445 grammi 4. Avranno mai pensato, i lettori moderni di Ovidio, che la povera Galanthis, oltre a perdere totalmente la sua

forma umana, subí anche un’incredibile riduzione di taglia? La donnola è insomma un carnivoro di proporzioni minuscole, grosso piú o meno come i topi di campagna di cui volentieri si nutre e assai piú piccolo di molte delle sue prede, di un coniglio, per esempio. Volendo la donnola potrebbe stare tranquillamente in un taschino. Quanto alla sua forma, Carolyn (Kim) King la descrive efficacemente come un furry tube, un tubo coperto di pelliccia. Il suo corpo si presenta infatti estremamente allungato, le zampe assai corte in proporzione al resto, il collo invece molto lungo, tanto che può piegarsi addirittura ad angolo retto. Ogni particolare della donnola appare rivolto allo scopo di farne un cacciatore capace di agire in spazi angusti e bui. Nessuna parte del suo corpo è piú grossa della testa, per cui, una volta che sia passata questa, il resto segue senza difficoltà. Durante il movimento la donnola appare praticamente priva di ossa. Le sue vertebre sono infatti talmente snodate da permetterle di girare su se stessa nel piú breve degli spazi: «ne ho vista una scivolare in un buco e uscirne cosí rapidamente che la sua coda non era ancora entrata quando già spuntava fuori il naso» 5. Questa specifica capacità di penetrare nelle minuscole tane dei roditori costituisce anzi il «passaporto» evoluzionistico che ha permesso alla donnola di svilupparsi felicemente dai suoi antenati del Pleistocene 6. Un’ulteriore caratteristica della donnola, e del genus mustela in generale, è costituita infine dal fatto che tutti questi animali (e non solo le puzzole, come comunemente si crede) posseggono delle ghiandole anali che emettono esalazioni piuttosto sgradevoli all’olfatto. La funzione di queste emissioni è molto variegata, e probabilmente non ancora completamente indagata: di sicuro, attraverso le emanazioni di queste ghiandole le donnole marcano il territorio, si scambiano informazioni reciproche anche di carattere sessuale, e soprattutto tramite queste stink-bombs si difendono da predatori che possano trovare disgustoso (come in effetti è) il loro odore 7.

Figura 13. Donnola. Da «Smithsonian», febbraio 1997, p. 91.

Come dovremo constatare piú volte nelle pagine che seguiranno, le credenze e le storie antiche che riguardano la donnola sono molto meno lontane dalla sua effettiva natura (il suo aspetto fisico, le sue abitudini, e cosí via) di quanto si potrebbe pensare. Anche le invenzioni che a prima vista sembrano piú fantasiose e bizzarre contengono spesso un frammento di verità, mentre le caratteristiche specifiche di questo animale, anche le piú intime, e quelle che si crederebbero note solo a un ristretto gruppo di scienziati moderni, trovano invece il loro posto all’interno della rappresentazione culturale che della donnola ci giunge dal nostro passato. A questo aspetto della questione dedicheremo piú avanti un paragrafo specifico, e piú volte dovremo ritornarci nel corso del libro, ma vorremmo già dare almeno un esempio di quello che intendiamo. Questo ci aiuterà anzi a uscire dal mondo dei naturalisti scienziati per rientrare in quello delle credenze e delle storie antiche. Ci riferiamo alla voce della donnola. La vocalità del nostro animale contempla grosso modo tre differenti manifestazioni 8: una donnola che si sente a disagio emette un suono basso e sibilante (a low hissing sound); se il pericolo è ancora piú grave, l’animale lancia invece una

serie di latrati o di strida acute ed esplosive (a series of sharp, explosive barks or chirps); all’altro capo della scala, cioè durante l’accoppiamento, quando una madre chiama i suoi piccoli o quando una donnola domestica gioca con un compagno umano di cui si fida, sta infine l’unico verso amichevole emesso dalla donnola: un suono sommesso e trillante (a low-intensity trilling sound). Nasce dunque la legittima curiosità di vedere come Greci e Romani caratterizzavano il verso della donnola. Ecco anzi che in questo modo possiamo riprendere una questione che avevamo lasciato in sospeso qualche capitolo indietro, ossia la «risata» cui si abbandona la Galanthis di Ovidio mentre Lucina la trasforma in donnola 9. Ci eravamo chiesti infatti: perché mai ride, questa donna-donnola? La risposta adesso l’abbiamo. Ovidio sta verisimilmente descrivendo, in forma di risata, quella «series of sharp, explosive barks or chirps» che la donnola emette quando il pericolo si fa grave. Per Ovidio la donnola è un animale «di casa», non dimentichiamolo. Le grida della donnola spaventata – quelle che noi recuperiamo in forma di descrizione verbale dai libri dei naturalisti – dovevano essere per lui poco diverse da quello che è per noi il miagolio di un gatto inseguito da un cane. Ecco dunque l’origine mitica del verso della donnola identificata nelle risate beffarde di una donna. Naturalmente in questa storia ovidiana sta qualcosa di piú di una fedele descrizione naturalistica. All’osservazione dei fatti si mischia la metafora, in altre parole, al grido della donnola viene dato un «senso» culturale che deriva dalla sua assimilazione con una vocalità squisitamente umana. Nell’invenzione letteraria di Ovidio il verso della donnola è un verso beffardo, ovvero la donnola è un animale che ride e deride. Con questo siamo già fuori dalla semplice osservazione naturalistica, il mondo degli animali appare non solo osservato e conosciuto ma anche, contemporaneamente, «costruito». Ecco dunque un bell’esempio di molte delle configurazioni culturali di cui il seguito di questo libro dovrà frequentemente occuparsi. Andiamo avanti nel gioco delle equivalenze fra descrizioni antiche e osservazioni naturalistiche moderne. Abbastanza fortunosamente, infatti, abbiamo qualche informazione sul nome che in latino veniva dato al grido della donnola. Allo stesso modo in cui sappiamo che è proprio del cane latrare seu baubare, dei cagnolini glattire, delle lepri vagire, dei topi mintrire vel pipitare, delle volpi eiulare, e cosí di seguito, sappiamo anche che il verso della donnola era descritto dal verbo drindrare 10. Questa parola

rammenta il suono di un sonaglio, ha in sé qualcosa di squillante. Eccoci evidentemente di fronte alla trascrizione antica del verso amichevole emesso dalla donnola: quel «suono sommesso e trillante» che l’animale lancia in occasione dell’accoppiamento, quando chiama i suoi piccoli oppure, non dimentichiamolo, quando gioca con un compagno umano di cui si fida. Di nuovo, bisogna ricordare che la donnola nel Mondo Antico è un animale domestico. Come noi sappiamo che un gatto contento fa le fusa, i Romani avranno saputo che una donnola, quando gioca con quelli di casa, drindrat come un campanellino. Resta infine il terzo suono emesso dalla donnola, quel «suono basso e sibilante» che l’animale emette quando si trova in difficoltà. Anche di questo terzo suono esistono registrazioni antiche. Certe volte il verso della donnola appare infatti paragonato a uno stridor: dunque proprio un sibilo, uno stridio 11. Capitano persino delle cose curiose, a questo proposito. Una volta Orazio, nelle Epistole, racconta una breve favoletta in cui compaiono una volpe e una donnola. Attraverso un piccolo varco, la volpe è penetrata in una cesta per conservare il frumento: ma ora che ha mangiato non riesce piú a uscire per la medesima via. E la donnola le dice: «si vis … effugere istinc | macra cavum repetes artum, quem macra subisti» (se vuoi fuggire di lí, attraverso questo stretto passaggio non puoi che uscirci magra, come magra ci sei entrata) 12. I commentatori antichi trovavano ragioni di ammirazione in questo verso di Orazio: «mire imitatus est stridorem mustelae», recita infatti lo scolio di Acrone 13 (il poeta ha imitato a meraviglia lo stridio di una donnola). Probabilmente il commentatore si riferiva a quella sequenza di «i» e di «s» che, in effetti, colpisce l’orecchio del lettore in «si vis … istinc», e che allo scoliasta doveva ricordare il «suono basso e stridente» che la donnola emette. Accadde però che questa nota dello scoliasta, male interpretata, e il testo di Orazio ancora peggio capito, nel corso del Medioevo abbiano dato vita alla convinzione che «istinz est vox mustele teste Horatio» (la donnola fa istinz, come testimonia Orazio) 14. Orazio non testimoniava ovviamente niente del genere: però non c’è dubbio che istinz rassomiglia davvero al sibilo emesso dalla donnola. Ecco dunque un bel caso di conoscenza naturalistica che deforma, per una volta, la costruzione letteraria e culturale: non il contrario, come tanto spesso accade. Vediamo adesso che cosa si pensava in Grecia a proposito delle voci della donnola. Eliano le attribuisce il verso dello hypotrízein, lo stesso che altrove attribuisce al gallo 15. Dunque si tratta di un grido molto acuto. Un’altra volta

invece lo stesso Eliano attribuisce alla donnola il verso detto krízein 16. Si tratta di una parola molto piú interessante dell’altra. Essa può essere applicata infatti a un flauto che suoni «acuto» ovvero all’atto di «gridare» 17, cosí come allo «stridio» emesso da un giogo 18. Altre volte incontriamo invece questa parola per descrivere la lingua in cui si esprimono gli Illiri 19, suoni evidentemente acuti e stridenti che paiono a un Greco inarticolati 20. Viene poi detto specificamente krig il verso emesso dai morti, quando battono i denti, mentre altre testimonianze parlano un po’ oscuramente di demoni e fantasmi a questo proposito 21. La connotazione funebre, sinistra, del verso del krízein è ulteriormente enfatizzata dal fatto che krig è uno dei nomi che designano la civetta, nella sua funzione di «messaggera e araldo dei morti» 22. Comunque non sempre krízein è associato a suoni sinistri. I Beoti usavano infatti una loro variante dialettale di questa parola come sinonimo di «ridere» 23, e anche una prostituta che ride sembra essere descritta usando lo stesso verbo 24. Il panorama greco si presenta piú insolito rispetto a quello latino. Se resta sullo sfondo una certa conoscenza reale delle voci emesse dalla donnola, non c’è dubbio che le descrizioni che se ne danno risultino tanto piú sfuocate quanto piú si presentano metaforiche. Le voci della donnola greca hanno tratti quasi inquietanti. Se anche qui si sottolinea il carattere acuto della sua vocalità, assimilandola a quella di un gallo, e se la risata continua a costituirne un possibile referente analogico, accade però che il verso della donnola venga designato tramite un verbo che ha a che fare con la lingua dei morti e con il grido sinistro delle civette. Come già sappiamo, e come piú avanti dovremo vedere meglio, nel mondo greco, a differenza di quello latino, la donnola ha caratteri ambigui, stregoneschi, di tipo insomma «perturbante». Anche la sua voce, ovvero la trascrizione culturale che ne abbiamo, sembra proprio andare nella stessa direzione 25.

2. Magia omeopatica? Adesso sappiamo che genere di animale corre vicino al letto di Alcmena. Conosciamo la sua taglia, le sue caratteristiche, e persino la sua voce. Bisogna dire però che, nella storia di Alcmena, è la «corsa» di questo animale che sembra svolgere un ruolo di primo piano. Come abbiamo visto, infatti, la

Risoluzione può essere realizzata sia attraverso la strategia del messaggio menzognero sia, semplicemente, attraverso il passaggio dell’animale accanto alla Partoriente (cosí come accade in Istro e in Eliano) 26. Non c’è azione verbale, o interazione fra le parole e gli atti, ma solo un comportamento naturale. Questo tratto della corsa lo incontriamo anche in altre versioni, quelle in cui non una donnola, ma una ragazza destinata a trasformarsi in questo animale, realizza la Risoluzione. Ricordiamo la Galanthis di Ovidio, che «exit et intrat» dalle porte di casa, la Galinthiás di Antonino, che anche lei «corre», la Akalanthís di Libanio che ugualmente annunzia «correndo» il suo messaggio menzognero. A meno che non si voglia essere positivisti come Iacopo Perizonio, secondo cui Alcmena riuscí finalmente a partorire solo perché la comparsa della donnola l’aveva «spaventata» 27, bisognerà rassegnarsi all’idea che la corsa del nostro animale costituisce un gesto di valore simbolico, dotato di un potere in qualche modo magico nei confronti della donna. Se Frazer fosse qui, probabilmente direbbe: esiste una magia di tipo omeopatico fra il «correre» della donnola e il «correre fuori» del bambino bloccato. È probabile che sia cosí. Movimento rapido chiama movimento rapido – piú avanti dovremo del resto vedere quanta magia omeopatica di questo tipo ruota (come c’era da aspettarsi) attorno a un passaggio delicato come quello del parto 28. A questo proposito possiamo anzi citare un parallelo che ci pare particolarmente vicino al nostro caso. Secondo Plinio, … i parti difficili si risolvono subito se si scaglia una lancia al di sopra del tetto della casa in cui la partoriente risiede, e la lancia ha ucciso al primo colpo tre esseri viventi come un uomo, un cinghiale e un orso. Il rimedio è ancora migliore se si tratta di una hasta velitaris estratta dal corpo di un uomo 29.

È difficile pensare, anche in questo caso, che non ci sia una forma di magia analogica fra i due processi: da un lato la lancia insanguinata che velocemente supera l’ostacolo della casa per ricadere dall’altra parte; dall’altro il bambino che, anche lui insanguinato, con altrettanta rapidità ci si augura possa superare l’ostacolo che ha di fronte 30. Dunque è molto probabile che l’elemento della corsa svolga una funzione all’interno della nostra storia. A questo punto però ci piacerebbe soprattutto stabilire se è proprio la corsa di una donnola, e non di qualsiasi altro animale,

l’elemento capace di scatenare la magia. Sarebbe stato lo stesso se accanto ad Alcmena fosse passato «correndo» un maiale o una scimmia? Per restare al parallelo con la lancia di Plinio, è ovvio infatti che al di là del valore omeopatico del processo – superamento felice di un ostacolo chiama superamente felice di un altro ostacolo – bisogna interrogarsi anche sul valore della lancia come oggetto culturale, sul significato del sangue di cui deve essere stata bagnata, sui poteri specifici del sangue umano, e cosí di seguito 31. Diventa dunque necessario accertare se la donnola, che corra o che non corra, godesse di speciali relazioni con le donne che hanno concepito. E se sí, quale sia la fonte – metaforica e simbolica – di questa sua virtú. La ricerca del tema della «Follia di Spagna» sta procedendo abbastanza spedita, abbiamo già riascoltato e rivoltato ben quattro dei cinque segmenti di cui sospettiamo che esso si componga. Gli appunti sul leggio sono già fitti, non resta che rivolgere la nostra attenzione all’ultima porzione del tema che andiamo ricercando.

3. La donnola e il mondo del parto. Credo sia necessario cominciare vedendo se esistono possibili connessioni fra il ruolo che la donnola svolge in questo racconto (aiutante di una donna in travaglio) e le sue caratteristiche culturali. In altre parole, questo animale ha relazione con il mondo del parto anche fuori dal racconto di Alcmena? Solo in questo caso, infatti, potremmo essere sicuri che la sua presenza accanto al letto di una partoriente – animale dalla corsa soccorrevole ovvero metamorfosi di una donna-levatrice – non è semplicemente casuale. In realtà, che la donnola abbia speciali relazioni con il mondo delle donne e del parto sembra abbastanza certo. Nella tradizione popolare dell’area romanza la donnola è spesso associata alla fertilità delle donne 32. Mentre nella regione austriaca della Carinzia, di una donna incinta si usa dire che è stata «morsicata da una donnola»: e se si tratta di una gravidanza senza padre legittimo, allora la donna ha ricevuto su di sé «il soffio di una donnola» 33. Simili credenze trovano corrispondenza nell’uso, testimoniato in Montenegro, di offrire una pelle di donnola alla donna incinta. Mentre la pittura rinascimentale registra la presenza di scene di visitazione in cui compare anche la donnola 34. Anche il comportamento della donnola al suo proprio parto viene specificamente menzionato nel folclore.

Per descrivere una donna che grida con particolare intensità in Francia si usa infatti questo proverbio: «crier comme une belette en couches» 35. Ma restando al Mondo Antico, Plinio dice qualcosa di molto piú preciso. Egli spiega infatti che «partoriscono con facilità le donne a cui siano stati somministrati escrementi di anatra in due ciati di acqua, oppure i liquidi che defluiscono dall’utero di una donnola attraverso i suoi genitali» 36. Il rimedio è disgustoso ma chiaro. I liquidi genitali della donnola, nel loro «deflusso» attraverso la vulva dell’animale, influiscono positivamente sul «defluire» del parto. La magia della donnola agisce qui attraverso il «contatto» diretto fra i suoi liquidi e il corpo della donna, non per semplice metafora a distanza: se questo rimedio è ritenuto efficace vuol dire che al nostro animale si attribuiscono virtú positive proprio nel campo del parto umano, cosí come, nella tradizione posteriore, a certe parti del suo corpo si attribuirà il potere di far deporre le uova alle galline 37. I poteri della donnola nel territorio delle nascite emergono anche da una testimonianza, se si può dir cosí, e contrario. In un passo che subito sotto dovremo rivedere piú dettagliatamente, Eliano 38 ci informa infatti che «i testicoli della donnola, messi addosso a una donna di sua volontà o senza che lei se ne accorga, le impediscono di concepire e la distolgono dall’atto sessuale» 39. Dunque i liquidi genitali e la matrice della donnola femmina aiutano a partorire: i testicoli della donnola maschio ottengono l’effetto opposto, impediscono la concezione e sono anafrodisiaci. Il fatto è che al corpo della donnola veniva attribuito in generale un grande potere nel campo dei «legami». È ancora Eliano che ci fornisce questa informazione: … le viscere di una donnola, preparate al modo di coloro che si intendono di queste cose, se fatte inghiottire con il vino con intenzione di maleficio sono capaci di rompere le amicizie, come si racconta, e di separare relazioni sino a quel momento armoniose 40.

Le relazioni fra la donnola e il mondo delle partorienti non si limitano comunque ai poteri del suo corpo. Se dal mondo della medicina tradizionale ci spostiamo a quello della rappresentazione religiosa, scopriamo infatti che questo animale si presenta legato alle divinità della nascita. Ecate, la dea di cui la donnola divenne la «sacra assistente», è profondamente legata al mondo del parto 41. Il coro delle supplici, in Eschilo, la invoca come Artemide Ecate, «perché vegli sul parto delle donne» 42, mentre in testi piú tardi Ecate è

direttamente identificata con Eileíthyia 43. Né può essere considerato del tutto casuale il fatto che nella commedia nuova le donne incinte invochino il nome di Ecate, «la dea che sta di fronte alle loro case» 44. Ecate si presenta dunque come una dea che è ben presente all’orizzonte religioso e alle pratiche cultuali della maternità: a lei era dedicato il sacrificio di un cane (animale anche per altri versi connesso alla sfera del parto) allo stesso modo in cui un cane era sacrificato alle dee della nascita Eilioneia (nome argivo per Eileíthyia), Genita Mana (dea romana della nascita) e Genetyllís 45. Anche la padrona della donnola, insomma, colei che l’assunse al suo servizio dopo la metamorfosi, qualifica questo animale come connesso alla sfera della nascita.

Figura 14. Ichneumon, scena nilotica, mosaico dalla Casa del Fauno di Pompei, I secolo a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. (Foto Soprintendenza Archeologica delle Province di Napoli e Caserta).

Un’ultima corrispondenza prima di chiudere questo paragrafo. Sappiamo infatti che l’icneumone – un animale tipicamente nilotico ed egizio, che si

presenta estremamente simile alla donnola anche se ha taglia maggiore – era considerato sacro a Eracle 46, ed era onorato dagli abitanti di Eracleiopoli in Egitto 47 (cfr. fig. 14). Ma siamo anche informati del fatto che lo stesso animale era considerato sacro alle Eileíthyiai e a Latona 48. In questa trama di rapporti sembra di cogliere delle corrispondenze abbastanza chiare con il racconto di Alcmena o con altre storie mitiche a esso affini: da un lato abbiamo infatti il legame dell’animale con Eracle (proprio come la donnola era considerata «nutrice» dell’eroe), dall’altro quello con le divinità della nascita per eccellenza, le Eileíthyiai, e con una dea che, come sappiamo, era una delle eroine della sfera del parto, Latona. Anche i significati simbolici dell’icneumone, insomma, ci confermano che la donnola aveva un’orientazione religiosa che la spingeva verso il mondo delle Eileíthyiai e delle partorienti.

4. Madre sollecita e genio domestico. Le connessioni fra la donnola e il parto si vanno facendo piú strette. Non si tratta solo della storia di Alcmena e della corsa della donnola presso la partoriente, ci sono anche dei rimedi di magia per contagio e delle rappresentazioni religiose. Ma facciamo un passo ulteriore. Possiamo dire infatti che la donnola possiede le caratteristiche della «buona madre». È stato esplicitamente osservato dai naturalisti moderni che la femmina manifesta un comportamento molto sollecito verso i propri nati, i quali sono accuditi dalla madre con cura particolare 49: la donnola partorisce infatti dei piccoli assolutamente privi di ogni risorsa, ciechi e sordi, in tutto dipendenti da lei per ogni necessità 50. La cura dei piccoli costa alla madre donnola un’enorme quantità di energie e di tempo, tanto piú che il maschio non l’aiuta minimamente in questo compito 51. Da questo comportamento reale dell’animale, che concentra cosí tanta sollecitudine attorno ai propri nati, sono state verisimilmente generate varie credenze che lo caratterizzano nella nostra tradizione: come quella secondo cui la donnola avrebbe la capacità di riportare alla vita i suoi piccoli morti con l’ausilio di un’erba miracolosa. In effetti i piccoli della donnola, per risparmiare la propria energia vitale, passano gran parte del loro tempo in una sorta di ibernazione, rigidi e freddi al tatto. Tale condizione risulta peraltro immediatamente reversibile al

momento in cui la madre fa ritorno 52. È dunque molto probabile che l’osservazione di questo comportamento reale dell’animale – dei piccoli che si direbbero sicuramente morti i quali riprendono improvvisamente a muoversi ed emettono anzi un flebile suono appena la madre fa ritorno – abbia suggerito l’idea che essa li riportasse alla vita con l’ausilio di qualche rimedio magico 53. La donnola ha anche un’altra abitudine molto materna, quella di trasportare con la bocca i propri piccoli per spostarli 54. Questo animale non costruisce infatti il proprio nido ma utilizza residenze altrui, che muta di frequente a seconda delle necessità 55. Durante questi spostamenti i nati della donnola restano del tutto rilasciati e silenziosi (Tragschlaffe definiscono questo stato i naturalisti tedeschi), una condizione che può assumere anche la femmina quando è trascinata per il collo dal maschio 56. Questa abitudine della donnola madre di spostare con la bocca i propri piccoli era stata osservata fin dall’Antichità. Aristotele, parlando dell’opinione di Anassagora e di altri «filosofi della natura» secondo cui la donnola avrebbe partorito dalla bocca, cosí razionalizzava una credenza per lui assurda 57: «questa leggenda viene dal fatto che la donnola … partorisce cuccioli molto piccoli, e li trasporta di frequente con la bocca». L’abitudine della donnola di portare in bocca i propri piccoli, singolare e pittoresca, è spesso ritratta nelle illustrazioni dei bestiari 58. Ma soprattutto questa caratteristica della donnola viene rimarcata anche da altre fonti antiche, diverse da Aristotele. Plinio, distinguendo la donnola selvatica da quella domestica, descrive cosí la seconda: «questa, che si aggira nelle nostre case e ogni giorno, come testimonia Cicerone, sposta i suoi piccoli e muta di sede…» 59. Un passo di Isidoro di Siviglia è altrettanto esplicito. La mustela, ci viene detto, «nelle case, dove nutre i suoi piccoli, li sposta e muta di sede» 60. Notiamo ancora il riferimento alle «case» che si incontra nelle fonti antiche. Per osservare la donnola Cicerone non aveva bisogno di passare giorni e giorni nei boschi, come la scienziata Carolyn King e i suoi studenti. Dunque la donnola manifesta un comportamento molto tenero verso i suoi piccoli, li cura, li riscalda e li porta in giro tenendoli in bocca. Probabilmente potremmo dire che la donnola è nel mito una buona levatrice, o una buona trophós, non solo perché la credenza comune la associava in varia maniera al parto ma anche perché il modo in cui si comportava con i suoi propri piccoli poteva costituire un immediato paradigma simbolico di

maternità. L’animale che, secondo Cicerone e Ovidio, si aggira nelle «nostre» case 61, evoca una caratteristica della donnola che è necessario a questo punto mettere definitivamente in luce: la sua domesticità. Sarebbe un errore trascurare questa visione di interno che Ovidio ci offre. È come se per una volta la letteratura antica (cosí avara di esperienze domestiche) ci mettesse finalmente in grado di guardare dal di dentro la semplice vita di una casa antica, con gli animali che abitualmente la frequentano. Perché la donnola era per l’appunto questo: un animale «di casa». Come abbiamo detto sopra, Plinio distingue esplicitamente fra la mustela che definisce silvestris (o rustica) e l’altra, quella che «si aggira per le nostre case e … caccia i serpenti» 62. Anche il mondo greco distingue fra donnola selvatica (agría) e donnola domestica (enoikídios, katoikídios) 63: la stessa frequenza con cui la donnola è nominata nella commedia di Aristofane (quattordici volte) mostra che nell’Atene del secolo V essa era ben presente alla vita quotidiana greca 64. Difficile dire fino a che punto arrivasse, questa domesticità della donnola antica. I parametri del rapporto uomo/animale, e soprattutto il significato della domesticazione, variano da cultura a cultura, e anche da animale e animale. Sarebbe perciò sbagliato impostare la questione nei semplici termini in cui essa si porrebbe per noi moderni: ossia se la donnola era considerata un pet a tutti gli effetti o semplicemente un cacciatore tollerato per i servigi che svolgeva 65. In effetti, tra breve ci accorgeremo che forse la donnola era qualcosa di piú sia dell’uno che dell’altro. Comunque una cosa è certa: la donnola frequentava stabilmente le case degli uomini, in Grecia come a Roma, proprio come è considerata «almost completely commensal» in alcune zone dell’Egitto moderno 66. Né sono mancati casi moderni di persone che, nel mondo occidentale, hanno addomesticato delle donnole e le hanno felicemente tenute in casa con loro 67. Se si vuole un esempio piú antico, possiamo invece citarne uno che ci viene tramandato dalla curiosità, invero un po’ pettegola, di Giovanni Tzetze. Si tratta della storia del grande amore di una donna, anzi di un’imperatrice, per una donnola maschio. Tzetze racconta infatti di come la moglie dell’imperatore Macomaco amasse a tal punto una «donnola domestica», cui aveva dato il nome di Meclempé, da destinare al suo servizio un’intera schiera di cuochi, vivandieri, scalchi, fornai, e via di questo passo; e da additare le umane prodezze del suo pet ai dignitari di corte

– i quali arrossivano imbarazzati di tanta affezione e in privato, ovviamente, ne malignavano 68. Per quello che riguarda il Mondo Antico, comunque, siamo certi che si andava ben al di là di casi isolati. Possediamo infatti esplicite testimonianze del fatto che questo animale era rappresentato nella Grecia antica come profondamente e comunemente legato all’ambiente familiare. Nella favola esopica la donnola compare infatti come animale «della casa» per eccellenza: Un tale aveva comprato un pappagallo al mercato e lo aveva portato a casa. L’uccello, approfittando della buona disposizione del padrone, balzò sul focolare e si mise a gridare allegramente. Una donnola vedendolo gli chiese chi fosse e da dove venisse. L’altro rispose: «il padrone mi ha appena comprato». E la donnola: «tu, il piú sfrontato degli animali, pur essendo appena arrivato osi gridare in questo modo? A me, che sono nata in casa (oikogen s), i padroni non permettono di emettere alcun suono, e se per caso lo faccio, si arrabbiano e mi cacciano fuori. E tu invece osi gridare quanto ti pare e piace». E l’altro le rispose: «padrona di casa (oikodéspoina), ma tu vattene pur lontano da qui. I padroni infatti non si arrabbiano allo stesso modo per la mia e per la tua voce». La favola si riferisce a un malvagio, che per invidia rimprovera chi gli sta d’intorno 69.

Ecco la donnola indiscutibilmente «nata in casa» e anzi «padrona di casa». Dunque domestica a tutti gli effetti, con un codice di comportamento da rispettare (i padroni non amano il suo grido) 70 e un intruso che minaccia la sua posizione. La donnola si presenta qui come una specie di schiava ligia e sottomessa, legata alla casa alla maniera di qualcuno che vi sia «nato», come ella stessa si definisce. Questo appellativo, oikogen s, trova conferma in un’altra favola della tradizione esopica (del tutto identica alla precedente quanto alla trama), in cui la donnola dichiara di «essere stata partorita in casa dalla madre cacciatrice di topi» e di avere l’abitudine di «dormire accanto al focolare» 71. Questa caratteristica di «nata in casa» della donnola, nonché il modo in cui l’animale si pone nei confronti dei padroni, può essere probabilmente messa in relazione con uno dei nomi che la donnola porta in un dialetto italiano 72: «velia». L’origine di questo singolare appellativo infatti è stata identificata da tempo nel termine latino vernula «schiavetto nato in casa». La donnola sembra dunque essere stata percepita, e rappresentata anche linguisticamente, come una «serva di famiglia», un animale nato e cresciuto in casa come gli schiavi detti appunto vernae in latino. Questo tratto

di domesticità della donnola – la sua frequentazione delle case degli uomini, la sua posizione di «schiava nata in casa» o quel che sia – risulta particolarmente interessante per la comprensione della storia di Alcmena. Bisogna pensare infatti che quando una donnola si avvicina alla Partoriente non si tratta di un animale estraneo, che viene dal bosco o dalla campagna, ma di una creatura che convive con gli uomini. La donnola è insomma un animale «vicino» alla Partoriente nel senso che verisimilmente divide con lei lo spazio dell’abitazione. Animale domestico o non, addirittura, «genio» domestico? Come già sappiamo, e come vedremo ancor meglio piú avanti, nel Mondo Antico venivano attribuite alla donnola anche caratteristiche di tipo soprannaturale: in accordo con una vasta rete di usi e di credenze che legano questo animale al mondo della magia e della stregoneria 73. Sarebbe perciò interessante vedere se per caso la donnola, animale «della casa», non esercitasse anche funzioni di protettore o di aiutante in qualche modo magico all’interno dello spazio domestico. Sappiamo infatti che in Russia la donnola può portare il nome di domovoj, cioè proprio la parola usata comunemente per indicare il genio domestico 74. Mentre una concezione analoga della donnola, ancora come «guardiana» della casa e sua protettrice magica, sembra emergere dalla sua designazione come guarduña, diffusa in aree spagnole, portoghesi e galiziane 75. È come se in queste culture il carattere di oikogen s, di vernula, di oikodéspoina della donnola si sommasse a quello dei suoi rapporti con il mondo soprannaturale: e producesse l’immagine dello «spirito familiare» che protegge coloro che abitano in casa. Si tratta di un elemento che sarebbe certo interessante poter riscontrare anche nel Mondo Antico. Solo che non abbiamo testimonianze in questo senso. Bisogna dire però che il folclore greco moderno ci mette di fronte a una traccia almeno interessante. Ecco infatti come ci si comportava con la donnola, la nuphítsa, nell’isola di Zacinto: … quando una donnola entrava in casa era considerato auspicio favorevole per la famiglia. La chiamavano núph

[sposa] e credevano che non provocasse alcun danno alla

casa, quando si nutriva delle briciole della tavola e talora ci saltava sopra 76.

La donnola spadroneggia nell’ambiente domestico saltando persino sulla tavola. Sembra difficile che fra il tipo di situazione presupposto dalla favola

esopica e questa testimonianza che ci viene da Zacinto non ci sia alcuna relazione. Solo che il tratto dell’auspicio favorevole portato dalla donnola 77, e la sua assoluta libertà di movimento nella casa, fanno pensare che a Zacinto l’animale godesse di una considerazione simile a quella del domovoj russo e della guarduña iberica. La somiglianza fra la situazione presupposta dalla favola antica e il comportamento della Zacinto moderna ci inviterebbe insomma a pensare che quando il pappagallo di Babrio definisce ironicamente la donnola oikodéspoina, «padrona di casa», lo scherzo si fondasse sul fatto che già nella tradizione antica la donnola godeva effettivamente di privilegi simili a quelli che le saranno riconosciuti nella Grecia successiva: privilegi che il gioco della favola momentaneamente le sottraeva a favore di un intruso pappagallo. Se le cose stanno davvero cosí, e anche la donnola antica aveva una funzione simile a quella che aveva a Zacinto, potremmo essere autorizzati a trarre una conclusione davvero interessante, cioè che anche nel racconto di Alcmena la donnola-Liberatrice è un essere che gode nella casa di una posizione privilegiata e, alla maniera di un genio benefico, partecipa del mondo soprannaturale. Dovremo ricordarci di questo tratto soprattutto piú avanti, quando lo vedremo ritornare nelle versioni settentrionali della nostra storia 78. Del resto non è forse vero che, persino nella nostra società laica e moderna, l’equivalente della donnola, il gatto, viene spesso percepito come uno spirito familiare, un’incarnazione animale della vita di casa? 79. Adesso però è opportuno affrontare due ulteriori caratteristiche della donnola che (come speriamo) ci porteranno diritto al cuore del problema che ci interessa, ossia le ragioni del rapporto di questo animale con il mondo delle partorienti. Queste caratteristiche della donnola possono essere individuate nella sua «agilità» e nel suo parto «orale». Il patrimonio di credenze e di racconti da cui emergono per noi queste due nuove immagini della Liberatrice – l’animale sottile e flessuoso, la madre dal parto stravolto – è in verità molto ricco. Ragion per cui nei due paragrafi che concludono questo capitolo dovremo soprattutto dedicarci a tracciare un profilo accurato di queste due nuove immagini della donnola: riservandoci poi il capitolo ancora successivo per stabilire le connessioni fra queste due nuove identità della donnola e l’identità della Liberatrice.

5. «Damoiselle belette, au corps long et fluet». Quando le Moírai ingannate decisero di punire Galinthiás, oltre a trasformarla in donnola le prescrissero «di vivere nelle cavità». La donnola in effetti vive volentieri nei buchi, fra i sassi e nelle mura cadenti 80, e da questa sua abitudine deriva anche il proprio nome in alcuni dialetti sardi 81. Ma non si tratta semplicemente di avere «nei buchi» la propria tana o la propria residenza. Caratteristica della donnola è infatti la capacità di insinuarsi nei buchi e nelle cavità, per poi uscirne con la stessa facilità. Di questa caratteristica naturale della donnola abbiamo già detto in precedenza, parlando dell’anatomia del corpo della donnola cosí come ci è descritto dai naturalisti moderni 82. Ma bisogna dire che di questa straordinaria agilità della donnola all’interno di spazi angusti ci sono molte tracce anche nelle descrizioni antiche. Se la scienziata Carolyn King racconta di averne «vista una scivolare in un buco e uscirne cosí rapidamente che la sua coda non era ancora entrata quando già spuntava fuori il naso» 83, Plinio descriveva per parte sua la donnola come l’unico animale che ha il potere di uccidere il basilisco, il serpente dal veleno cosí potente che distrugge le piante e l’erba non solo al suo passaggio ma addirittura con il suo semplice respiro. La donnola discende infatti nelle «cavità» (cavernae) in cui il basilisco si annida, del resto facilmente riconoscibili per la condizione disgraziata in cui il suolo tutt’attorno è ridotto, e lo uccide 84. La donnola riesce insomma a introdursi nelle cavità in cui si annida nientemeno che un serpente: dobbiamo immaginarla come un animale capace di fare di se stessa l’equivalente, in diametro e capacità di insinuarsi, di un rettile. Forse è per questo che in alcuni dialetti il nome usato per indicare la «donnola» può essere utilizzato per designare proprio i serpenti 85. In un certo senso la donnola rassomiglia a questi suoi nemici tradizionali (cfr. fig. 15). Altre storie favolose si raccontavano sulla capacità della donnola di insinuarsi nelle cavità piú pericolose, e di sgusciarne fuori. Ad-Damiri riferiva che la donnola era considerata nemica del coccodrillo perché scivolava dentro la sua bocca (che il coccodrillo tiene sempre aperta), si insinuava nella pancia, mangiava le interiora del mostro e usciva fuori: una credenza che derivava probabilmente da quella, molto attestata, secondo cui a scivolare nel corpo del mostro sarebbe stato l’icneumone, che del coccodrillo è il nemico tradizionale 86. Il folclore tedesco è ricco di storie che mostrano una donnola nell’atto di

sgusciar fuori dalla bocca di qualcuno, a rappresentare l’anima che abbandona il corpo 87. Anche una celebre storia medievale, quella di Guidone e Tirio nei Gesta Romanorum, rappresenta l’anima dell’eroe mentre entra ed esce dalla sua bocca nella forma di una donnola bianca 88. Addirittura, ci si può imbattere in storie di «utero mobile» che, per entrare e uscire dal corpo della donna, assume la forma di una donnola 89.

Figura 15. Donnola «au corps long et fluet». Da «Smithsonian», febbraio 1997, pp. 82-83.

Altre volte vediamo invece le viverrae, cioè i «furetti», impegnati nella caccia sotterranea ai «conigli» (cuniculi) nelle Baleari. Lo riferisce Plinio 90: … li fanno entrare nelle cavità (cuniculi) che sul suolo presentano molteplici accessi – da qui deriva anche il nome dell’animale – e dopo che (le viverrae) li hanno fatti uscire in superficie li catturano.

Il furetto, come la donnola, ha la capacità di scivolare nei cuniculi sotterranei scavati dai conigli: e ovviamente, anche di venirne fuori. Modernamente, questa incredibile capacità dei furetti di scivolare lungo i cunicoli è stata usata nell’ingegneria civile, per far passare per esempio i fili del telefono lungo i relativi tubi 91. Tanto il favoloso racconto della caccia al basilisco o dell’uccisione del coccodrillo, quanto questo, piú realistico, della

caccia ai conigli o del furetto operaio dei telefoni, si basano su caratteristiche autentiche dell’animale. Abbiamo già detto infatti che la donnola ha una forma a tubo, con zampe assai corte e un corpo molto allungato, con un diametro inferiore a quello della testa 92. I proverbi sottolineano frequentemente la straordinaria agilità e flessuosità della donnola 93, cosí come faceva La Fontaine nel verso che abbiamo usato come titolo per questo paragrafo: «Damoiselle belette, au corps long et fluet» 94. Anche l’inglese moderno mantiene traccia di quest’uso proverbiale della donnola come animale agile e flessuoso per eccellenza, nell’espressione «don’t weasel out of that» (non sgusciare fuori da qui come una donnola) per raccomandare a qualcuno di tener fede a un certo impegno 95. Se nel mondo anglosassone alla donnola si attribuisce la capacità di insinuare la propria testa «attraverso un anello nuziale» 96, in Grecia essa era celebre per la sua capacità di sgusciare attraverso le porte. Diceva un personaggio del comico Apollodoro: «sia pur chiusa la porta con il chiavistello, ma nessun falegname riuscirà mai a costruire una porta cosí forte che un adultero o una donnola non possano sgusciarvi attraverso» 97. Anche i nomi che la donnola porta in alcune lingue sottolineano l’aspetto fisico sottile e sgusciante dell’animale: cosí la donnola può essere chiamata la «puntuta», come avviene nelle lingue e nei dialetti della Finlandia 98, o la «senza vita» 99. Ed è proprio merito di queste sue caratteristiche fisiche se la donnola è una nemica pericolosissima dei pollai o delle piccionaie 100. Riesce infatti a insinuarsi nelle aperture piú minime e insospettate, per poi tornarsene fuori sana e salva. Tanto piú che, nelle sue crudeli abitudini di predatrice, la donnola non pretende sempre di portar fuori le sue prede dal buco in cui è scivolata. Si crede infatti che alle vittime di taglia piú grande la donnola si limiti a succhiare il sangue, senza divorarle 101. In proposito, occorre anzi dire che questa credenza non ha alcun fondamento nel comportamento reale dell’animale: si tratta solo di un’invenzione del folclore, la donnola non avrebbe neppure la possibilità fisica di succhiare il sangue delle sue prede. Non è difficile stabilire comunque da che cosa possa essere nata questa credenza. Da un lato, infatti, la donnola ha l’abitudine di mordere il collo della sua vittima e il suo morso corrisponde a due piccoli, profondi fori, come quelli di un vampiro; dall’altro, la donnola ama leccare il sangue che stilla fuori dalla ferita; infine, essa si abbandona spesso a quella pratica che viene definita overkilling, ossia, in presenza di abbondanza di preda, non si arresta fino a quando non ha fatto strage di tutte le sue vittime

(che ovviamente non è poi in grado di divorare) 102. Da questo insieme di caratteristiche deve essere derivata la leggenda del vampirismo della donnola, che d’altra parte poteva anche spiegare perché la donnola non perda mai la sua taglia di animale dal corpo long et fluet. Questa osservazione potrebbe anzi risultare utile per capire meglio un’altra storia antica (a noi peraltro già nota) in cui la donnola è coinvolta come personaggio. Nel mondo fantastico degli animali, infatti, quelli di cui l’uomo si serve come personaggi per dar vita ai propri racconti e alle proprie fantasie, le caratteristiche fisiche e culturali dei singoli attori svolgono un ruolo spesso importante. Come abbiamo già visto sopra, Orazio nelle Epistole riprende una nota favoletta esopica in cui fa comparire una volpe imprigionata e una donnola che l’ammonisce. Ora, c’è da credere che la scelta della donnola come interlocutrice della volpe in questa circostanza non sia affatto casuale. Attraverso uno stretto passaggio la volpe è penetrata in una cesta dove si conserva del frumento. Ha mangiato a piú non posso ma adesso è ovvio che non riesce piú a uscire per la medesima via. E la donnola le dice «se vuoi fuggire di lí, attraverso questo stretto passaggio non puoi che uscirci magra, come magra ci sei entrata» 103. Il raccontino ha una morale, che in questo momento a noi non importa molto. Ovviamente ci interessa invece la presenza di una donnola, e la sua scelta come interlocutrice della volpe. A motivarla infatti non c’è solo l’«astuzia» della donnola (una caratteristica di cui parleremo piú sotto) che gode a vedere nei guai chi si credeva beato e si compiace di dar consigli tanto sgraditi quanto incontestabili 104. Il fatto è che la donnola è soprattutto maestra nell’entrare e uscire dalle strettoie: per lei uscire da quel buco non sarebbe stato un problema. La donnola che ammonisce la volpe imprigionata «nel buco» è paradigma di quello che la volpe dovrebbe essere per uscirne fuori 105. Non possiamo comunque lasciare questa sezione dedicata ai buchi che la donnola frequenta senza citare un proverbio greco davvero interessante. Quando qualcuno restava muto, infatti, come se avesse perso la voce e non sapesse rispondere, in greco si diceva «ha inghiottito una donnola» (gal n katepepó–kei) 106. Richard Riegler, citando questo proverbio, lo confrontava con quello francese, di significato simile, «avoir un chat dans la gorge» 107, mentre Hermann Urtel ricordava l’espressione fouaynê (letteralmente «infainato») nel senso di «costipato» 108. A questo proposito, va aggiunto anzi che anche nella tradizione medievale la donnola sembra possedere la capacità

di «togliere la voce» 109. L’interpretazione che Riegler dava di questo proverbio greco, e delle altre espressioni simili a esso, fa appello ai poteri malefici della donnola, vista come manifestazione di un demone che tortura gli uomini. Il modello di fondo utilizzato da Riegler sembra essere quello dell’animale come malattia, ovvero rappresentazione fisica, esteriore, della malattia umana: l’animale delle vertigini, il mostro dell’incubo, i vermi del corpo, il temibile «Warengegel» o «Lupambolus», che soffoca i bambini negli attacchi di difterite, e cosí via. Insomma le bêtes noires, come in francese si definivano le malattie – un’espressione metaforica ancora oggi molto viva, come è ben noto, ma certo con un significato ormai lontanissimo dalla credenza che l’aveva generata. La donnola dunque sarebbe una sorta di «animale dell’afonia», quasi un incubo animalesco alla maniera del celebre dipinto di Johann Heinrich Füssli, che invece di gravare sul petto si caccia nella gola del malcapitato. Esistono del resto casi in cui proprio la donnola può rappresentare l’animale dell’incubo 110. Il modello suggerito da Riegler è suggestivo, e i materiali comparativi da lui portati sono come al solito di grande interesse. C’è da domandarsi solo se il proverbio greco – «ha inghiottito una donnola» – evochi davvero quest’aura cupa di orrore da soffocamento animale, quale Riegler la immaginava, o non svolga una funzione semplicemente descrittiva (magari con una punta di scherzo o di fantasia). La comparazione mostra infatti che gli animali possono costituire un normale «schema classificatorio» per i dolori e le malattie, senza per questo presentarsi come paurose incarnazioni delle medesime. Gli Ainu sull’isola giapponese di Hokkaidō, per esempio, distinguono vari tipi di mal di testa e di coliche classificandoli, dal punto di vista percettivo, in base a differenti specie animali: mal di testa dell’orso (come i passi pesanti delle zampe dell’orso), del cervo muschiato (un leggero galoppo), del picchio (come un trapano), del cane (come un morso) e cosí via 111. Gli animali possono costituire insomma categorie buone per pensare la malattia, in un sistema metaforico, senza per questo doverne necessariamente incarnare l’orrore in animali dell’incubo. Qualunque sia, però, l’interpretazione profonda del significato di questo proverbio, in esso ritroviamo la solita capacità della donnola di scivolare nei buchi e negli orifizi: anche umani. Se la donnola è la bestia dell’afonia, e può essere metaforicamente inghiottita dall’afono, è perché la si conosce come animale che scivola nei buchi. Il proverbio greco – «ha inghiottito una donnola» – per

dire che si è persa la voce costituisce un’ulteriore conferma del fatto che la donnola è per eccellenza animale che ha libero accesso ovunque, addirittura nel corpo umano. Giunti alla conclusione di questo paragrafo, non si può però fare a meno di sottolineare una simmetria davvero curiosa. Da un lato infatti la donnola ha la capacità di scivolare nella gola altrui attraverso la bocca; dall’altro essa stessa partorisce la propria prole «attraverso la gola», come dice Antonino Liberale, ovvero «dalla bocca», come dice Ovidio 112. Si tratta di una similarità talmente forte che è difficile pensare che queste due caratteristiche della donnola non abbiano relazione fra loro. Inoltre, in un libro che studia la donnola come aiutante della partoriente, è forse possibile ignorare il modo in cui la donnola stessa partorisce?

6. Dalla bocca e dalle orecchie. Dunque, stando alla credenza antica la donnola partoriva dalla bocca, cosí come si diceva che concepisse dalle orecchie. Si ricorderà che a questo costume alludono Ovidio, che peraltro parla solo del parto dalla bocca, e Antonino Liberale, che aggiunge anche la concezione dalle orecchie. Ma questa credenza era molto piú antica della Roma di Ovidio o della Grecia ellenistica di Nicandro, il poeta da cui Antonino riassumeva. Aristotele infatti spiegava che … secondo alcuni i corvi e l’ibis si unirebbero sessualmente con la bocca, e fra i quadrupedi partorirebbe dalla bocca la donnola. Questo dicono Anassagora e alcuni altri filosofi della natura, ma parlando in modo molto superficiale e senza riflettere … La donnola infatti possiede un utero disposto alla maniera di tutti gli altri quadrupedi: come potrebbe passare l’embrione dall’utero alla bocca? Questa leggenda viene dal fatto che la donnola partorisce cuccioli molto piccoli … e li trasporta di frequente con la bocca 113.

La spiegazione aristotelica della credenza è molto razionale e si fonda, come abbiamo già detto, sull’osservazione delle abitudini della donnola domestica e sulle particolarità della sua riproduzione 114. Ma adesso dobbiamo concentrarci sulle abitudini delle donnole fantastiche, che non solo portano in bocca i loro figli, o a essi dedicano una cura particolare perché si tratta di feti

prematuri, ma addirittura «partoriscono» attraverso quest’organo. La menzione di Anassagora fra coloro che ritenevano vero il parto orale della donnola dimostra che si tratta di una credenza ben attestata. Bisogna comunque dire che il parto orale poteva essere attribuito anche ad animali diversi dalla donnola. Oltre al caso di corvo e ibis, possiamo ricordare la lucertola. Plinio riferisce infatti che «fra i quadrupedi che depongono uova si crede comunemente (vulgo) che partorisca dalla bocca la lucertola, ma Aristotele lo nega» 115. Aristotele non sembra aver mai fatto riferimento a questa credenza, tantomeno pare essersi preoccupato di negarla 116: per cui non è escluso che Plinio la confondesse qui con la critica che Aristotele rivolgeva ad Anassagora e agli altri phusikoí riguardo al parto orale della donnola. Ma indipendentemente dalle fantomatiche critiche aristoteliche cui Plinio allude, la credenza sembra autentica, visto che la vediamo ricorrere anche altrove 117. Sempre nel mondo greco, il parto dalla bocca era poi attribuito anche a un singolare pendant marino della donnola: il galeós (pesce-cane), di cui si diceva non solo che avesse la possibilità di generare per via orale ma anche quella di riprendersi i piccoli nella medesima cavità 118. Le analogie fra il nome della donnola (gal ) e quello del pesce-cane (galeós) sono talmente forti che sicuramente fra i due animali deve esserci stata una circolazione di credenze 119. A proposito della gal , la nostra donnola di terra, si nota però una cosa singolare: Aristotele parla soltanto del parto dalla bocca, non della concezione dalle orecchie. Si può pensare che anche Anassagora si riferisse a questa sola credenza, altrimenti è probabile che Aristotele l’avrebbe riportato. In ogni caso anche Ovidio riferisce solo del parto dalla bocca. Fra gli autori che narrano la storia di Alcmena, è soltanto Antonino, cioè Nicandro, quello che attribuisce alla donnola le due proprietà simultaneamente 120. Di questa credenza sembrano dunque essere esistite due varianti: una piú piena (parto dalla bocca e concezione dalle orecchie) e una piú ridotta (soltanto il parto dalla bocca). Prima di proseguire con il seguito delle testimonianze su concezione e parto della donnola, vorremmo far osservare una cosa: cioè che questo singolare stravolgimento del parto della donnola, dalla vulva alla bocca, in realtà è estremamente «naturale»: almeno stando all’enciclopedia culturale greca in materia di corpo femminile. Da tempo è stato infatti mostrato che, se si vuole comprendere il senso di molte procedure terapeutiche antiche, bisogna presupporre il fatto che secondo la medicina greca la donna avesse

dentro di sé come un «tubo», con una «bocca» a ciascuna estremità. Come ha scritto efficacemente Paola Manuli, la donna è concepita come una «vagina ininterrotta dalle narici all’utero» 121. Per fare un esempio, allo scopo di saggiare la fertilità di una donna si può mettere dell’aglio all’estremità inferiore: se l’odore acuto di questa sostanza sale all’estremità superiore, allora la donna potrà concepire. Evidentemente si pensa che in quel caso il tubo è libero. Analogamente, vengono stabilite strette relazioni fra flusso mestruale e perdita di sangue dal naso, ovvero vomito di sangue 122. Abbastanza coerentemente con la rappresentazione fondamentale del «tubo» femminile, l’utero può essere a sua volta immaginato come un’anfora posta dentro un tubo 123. Mentre ancora coerente con questa immagine «a due uscite» del corpo femminile si presenta l’uso della medesima parola, stóma «bocca», per indicare sia l’orifizio superiore che quello inferiore: cosí come avviene nella medicina ippocratica 124. Questi modelli di rappresentazione del corpo femminile non stavano solo nei trattati di medicina ma facevano certamente parte della cultura comune. Probabilmente già Eschilo, infatti, ci testimonia la credenza secondo cui la perdita della verginità da parte di una fanciulla corrispondeva a un allargamento del diametro del collo. Si tratta comunque di una credenza che compare ancora almeno in Catullo e Nemesiano, e che è testimoniata sia nel folclore antico sia in quello italiano dell’Ottocento 125. Anche in questo caso, evidentemente, si stabilisce un rapporto di simpatia fra i due «colli», se quello inferiore si allarga la stessa cosa accade a quello superiore. A uno stesso ordine di rappresentazioni simboliche può essere probabilmente ricondotta anche la nascita mitica di Pegaso e Crisaore da Medusa: i quali «balzarono fuori» dal corpo del mostro dopo che Perseo ne «ebbe staccato la testa dal collo» 126. Questo rapporto analogico fra i due orifizi femminili, quello superiore e quello inferiore, travalica anzi la cultura greca, e sembra costituire una delle costanti del pensiero simbolico. Ancora nell’Europa moderna questa equivalenza si legava proprio alle superstizioni relative al parto. In Italia, per esempio, si usava scrivere su un pezzo di carta il versetto del salmo LV, «O Signore apri le mie labbra», dopo di che l’inchiostro veniva sciacquato via e la partoriente beveva l’acqua 127. Che il Signore aprisse le «labbra» della partoriente era, metaforicamente, sufficiente a far sí che la nascita fosse facile. Allo stesso modo, ancora nel 1964 negli Stati Uniti circolava la credenza che «se una donna ha la bocca larga, il suo parto sarà facile» 128. A distanza di migliaia di

anni e di chilometri, l’analogia fra le «due bocche» femminili resta la stessa. Il corpo femminile è dunque immaginato come una costruzione a due uscite equivalenti, o in simpatia fra loro. I liquidi che la donna produce possono scegliere l’uscita inferiore oppure, in caso di alterazione o ostruzione del tubo, quella superiore. Ecco perché dicevamo che il parto orale della donnola tutto sommato è «normale»: perché esso presuppone una rappresentazione culturale del corpo femminile che corrisponde a quella che ne aveva la cultura greca e anche quella folclorica successiva 129. La donnola, nella sua anomalia ginecologica, enfatizza le caratteristiche del corpo femminile, le trasporta dal mondo delle rappresentazioni culturali a quello dei racconti e del mito: la donnola è estremamente «donna» nelle sue anomalie. Quando Ovidio, Eliano e Antonino ci dicono che la donnola è la metamorfosi di una ragazza o di una donna, dobbiamo prendere queste affermazioni molto sul serio, anche dal punto di vista della sua (mitica) anatomia. Continuiamo con le nostre testimonianze sulla riproduzione della donnola. Anche Plutarco, come Antonino, riferisce la variante piú piena, quella che contempla sia il parto dalla bocca che la concezione dalle orecchie. In un paragrafo del trattato Su Iside e Osiride dedicato alle credenze egizie sugli animali, spiega infatti che gli Egizi venerano l’aspide, la donnola e lo scarabeo perché in questi animali vedono immagini oscure della potenza divina, come riflessi del sole in stille d’acqua (cfr. fig. 16). Dopo di che spiega: «molti pensano e dicono che la donnola concepisca dalle orecchie e partorisca dalla bocca, e che sia un’immagine dell’origine del linguaggio» 130. Le abitudini riproduttive della donnola sono diventate emblema. L’interpretazione allegorica ha uno straordinario bisogno di utilizzare tutto ciò che, nella tradizione culturale, si presenta in qualche modo eccezionale. Non c’è dubbio che il linguaggio abbia le sue «origini» proprio in bocca e orecchie, in questo senso la donnola costituisce un perfetto precedente, o meglio equivalente, «naturale» di questo fenomeno umano 131. L’interpretazione riferita da Plutarco è proprio agli antipodi di quella aristotelica. Tanto quanto il filosofo tentava di dare una spiegazione razionale della credenza, guardando attentamente cosa facevano le donnole in casa e riferendone nel suo libro, altrettanto i «molti» di cui Plutarco riporta l’opinione si disinteressavano di sapere se le donnole partorissero «davvero» in quel modo inconsueto 132. Accettando la credenza cosí come la ricevevano, si preoccupavano piuttosto di vedere di quale fenomeno umano essa potesse

costituire l’equivalente «naturale». È chiaro che gli eventi naturali piú sono straordinari, piú si presentano pieni di significato.

Figura 16. Affresco con animali, dal Tempio di Iside a Pompei, I secolo a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. (Foto Soprintendenza Archeologica delle Province di Napoli e Caserta).

L’interpretazione linguistica che Plutarco riportava a proposito della donnola è di carattere positivo. Lo stravolgimento anatomico dell’animale funziona infatti come un equivalente del buon funzionamento del linguaggio, che nasce dalla bocca ed entra dalle orecchie. Ma un altro passo, ancora, di Plutarco ci avverte del fatto che in realtà le cose potrebbero andare anche diversamente. Nel suo trattato Sulla loquacità egli afferma infatti che «l’orecchio» dei chiacchieroni «non è in comunicazione con l’anima ma con la lingua. Per questo motivo le parole ascoltate, che gli altri trattengono, nel caso dei chiacchieroni scivolano via» 133. Ecco dunque un altro stravolgimento anatomico che ha a che fare con la comunicazione: ma stavolta si tratta della comunicazione eccessiva. Nel chiacchierone, orecchie e lingua sono connesse l’una all’altra senza mediazioni, a significare l’incapacità di trattenere la parola e la tendenza alla comunicazione indiscreta. Forse non è del tutto arbitrario aspettarsi che – in altre interpretazioni allegoriche del ciclo riproduttivo della donnola – a esso venga

attribuito il potere di simboleggiare il «cattivo» uso del linguaggio. Questa possibilità costituisce una buona introduzione al testo che ci accingiamo a trattare adesso: la Lettera di Aristea a Filocrate 134. Nella finzione di questa Lettera, Aristea racconta della delegazione alessandrina che egli, per ordine di Tolomeo Filadelfo, avrebbe condotto fino a Gerusalemme per acquisire alla Biblioteca del sovrano i libri sacri degli ebrei. A Gerusalemme, Aristea si sarebbe incontrato con Eleazar, sommo sacerdote del Tempio, e da lui avrebbe ricevuto numerose spiegazioni su usi e costumi del popolo ebraico che maggiormente potevano sorprendere o interessare uno straniero. In queste spiegazioni, un ruolo importante è rivestito ovviamente dalle prescrizioni alimentari presenti nel Levitico. Eleazar intende dare ampia giustificazione dell’utilità sociale e morale di questo insieme di divieti (su cui peraltro circolavano, per sua stessa ammissione, anche «spregevoli discorsi») 135, e in questo contesto la donnola gioca un ruolo importante. Prima però sarà bene riportare il testo biblico. Come è noto, nel Levitico si diceva: … sono impuri per te quegli animali che strisciano sulla terra: come la donnola, il topo, la grande lucertola di qualsiasi specie, il geco, la lucertola maculata, la lucertola, la lucertola della sabbia e il camaleonte. Questi sono tutti animali impuri per te fra quelli che strisciano sulla terra… 136.

Gli studi degli antropologi, e in particolare quelli di Mary Douglas, hanno da tempo rivolto la loro attenzione a questo singolare insieme di prescrizioni bibliche, cosí perentorie e cosí enigmatiche nello stesso tempo 137. Indipendentemente dalla loro origine e dalla loro funzione, comunque, questi divieti si prestavano magnificamente a entrare nel meraviglioso meccanismo dell’interpretazione allegorica: e cosí avvenne molto presto 138. Anche l’obbligo di astenersi dal mangiare la donnola divenne come vedremo soggetto di allegorie – non foss’altro perché doveva suonare come minimo bizzarro imporre con tanta determinazione un divieto alimentare riguardo a un animale che, come avrebbe notato esplicitamente Novaziano, a nessuno verrebbe in mente di mangiare 139. Ma adesso dobbiamo tornare al resoconto di Aristea. Anche qui, l’interpretazione dei divieti espressi nella Legge sceglie la via del simbolismo. Dice infatti Eleazar:

… per mezzo di questi animali il legislatore ha significato agli uomini intelligenti che bisogna essere giusti … tutto ciò che ci è consentito riguardo a questi animali e al bestiame è stato stabilito per via simbolica (tropolog n) 140.

Quanto al divieto che specificamente interdice di mangiare la donnola, per interpretarlo Eleazar fa ricorso all’insieme di caratteristiche che le credenze greche avevano sviluppato, ossia la sua natura di animale che concepisce dalle orecchie e partorisce dalla bocca. Solo che accade qualcosa che si presenta, per noi, davvero interessante. Come in Plutarco, infatti, il focus dell’allegoria si concentra ancora una volta sulla «parola». Spiega infatti Eleazar: … stabilendo le singole norme sui cibi, le bevande e i contatti, [la legge] prescrive … di non volgersi all’ingiustizia servendosi del potere della parola (lógos) 141.

Dopo di che prosegue: … anche a proposito degli animali si possono trovare gli stessi principî. Volta al male è la natura della donnola, dei topi e degli altri animali simili … La nascita della donnola … ha caratteristiche contaminanti: concepisce attraverso le orecchie, genera attraverso la bocca. E per questo è impuro un comportamento analogo degli uomini: alle cose che hanno ricevuto attraverso l’udito, hanno dato corpo con la parola, hanno travolto altri nella sventura 142, hanno compiuto una impurità straordinaria e si macchiano essi stessi della contaminazione e dell’empietà. Fa bene il vostro re che elimina simili uomini, come abbiamo appreso 143.

A queste parole Aristea avrebbe risposto cosí: «Penso che tu parli dei delatori, infatti il re infligge regolarmente a loro tormenti e morti dolorose». E Eleazar: «È di loro che parlo, perché la vigilanza volta alla rovina degli uomini è empia…» 144. Dunque la natura malvagia della donnola (una caratteristica di cui sotto dovremo occuparci specificamente), combinata con le prescrizioni del Levitico e con le tradizioni relative alla sessualità dell’animale, ne hanno fatto un emblema della delazione. Ossia del «cattivo» uso del linguaggio, potremmo dire, non solo del suo uso, come si legge nel trattato Su Iside e Osiride di Plutarco. Difficile dire qualcosa in relazione a

questa singolare consonanza fra il testo della Lettera e quello di Plutarco 145. Ma piú ancora dell’analogia testuale, ciò che colpisce è vedere come uno stesso modello di interpretazione allegorica – il parto e la concezione della donnola simboleggiano la circolazione del linguaggio – venga reinterpretato a seconda dei differenti paradigmi di riferimento. Se in Plutarco il passaggio «dall’orecchio alla bocca» costituiva un simbolo in qualche modo neutro della circolazione linguistica, in Aristea questo stesso passaggio – praticato com’è da un animale che la Bibbia condanna come malvagio e impuro – si è trasformato in un linguaggio totalmente negativo. La donnola impura non può che simboleggiare un linguaggio cattivo perché «indiscreto»: e nella sua indiscrezione, specificamente volto alla rovina dei propri simili. Non tutto quello che si ascolta, infatti, deve diventare parola pronunziata, né si deve «dare corpo» di discorso a ciò che mette a repentaglio la vita o la sicurezza di altre persone. La Lettera di Aristea fa risuonare una nota totalmente nuova nella vicenda culturale della donnola, e purtuttavia di importanza fondamentale per la sua ulteriore prosecuzione. La Bibbia, la parola divina, è intervenuta per sancire il fatto che la donnola è un animale «impuro», e di conseguenza niente in lei potrà piú essere buono. D’ora in avanti non si tratterà piú solo di credenze e dicerie ma di un testo (e che testo!) dal quale la donnola riceve una condanna senza appello. Fra la tradizione greco-romana riguardo alla donnola e quella giudaica, tardoantica e medievale, sta questa specie di terremoto biblico che, del nostro animale, farà non piú una creatura al massimo ambigua, o inquietante, ma decisamente impura e malvagia. Ovviamente, dovremo ricordarci di questo brusco intervento al momento di affrontare la donnola del Fisiologo. Ancora un passo, e ancora una lettera. Stavolta si tratta della cosiddetta Lettera dello pseudo-Barnaba, un testo che sembra risalire al secolo II d.C. 146. L’autore, un giudeo cristiano per origini e per cultura, applica anch’egli una lettura allegorizzante delle proibizioni del Levitico 147. Ecco quel che dice a proposito dell’obbligo di astenersi dalla donnola: … ma detesta giustamente anche la donnola. Non diventare simile – dice – a coloro di cui sentiamo dire che per la loro impurità commettono iniquità con la bocca, e non unirti alle donne impure che commettono iniquità con la bocca. Infatti questo animale

concepisce (kúei) con la bocca.

Il riferimento al mondo della parola è assente, in compenso l’interpretazione del divieto è tutta sessuale. L’autore usa qui un verbo abbastanza neutro per indicare i misfatti dell’animale, kúei, «genera» o meglio «è gravida», lasciando cosí aperta la possibilità che la donnola in qualche modo riceva anche il seme maschile per la stessa via 148. Si tratta di una modifica della credenza tradizionale che tornava certo utile all’autore della Lettera, il quale era interessato a stabilire la sua equivalenza fra la donnola e la donna che «commette impurità con la bocca». Ci si potrebbe aspettare che si fosse trattato solo di una innovazione momentanea, destinata a scomparire con il particolare progetto allegorico che l’aveva stimolata. Ma nel mondo delle credenze e delle interpretazioni nessuna innovazione, anche la piú minima o la piú bizzarra, è potenzialmente destinata a restare senza risposta. I tempi sono ormai maturi, infatti, per la cultura del Fisiologo 149. Anche qui ritroviamo infatti le singolari abitudini della donnola, né poteva essere altrimenti. Nel Fisiologo l’intera natura, non l’uno o l’altro suo aspetto, si trasforma in «immagine», in segno che instancabilmente rimanda ad altro per fornire insegnamenti teologici o morali: e per realizzare questo progetto di infinita semiosi, gli animali, con le loro bizzarrie e le loro meraviglie, forniscono la materia privilegiata. Come diceva Novaziano, «negli animali … risiede quasi uno specchio della vita umana, in cui si possano osservare le immagini delle singole azioni» 150. Del resto si sa che «presso Dio non c’è nulla che sia vuoto, nulla che non sia un segno» 151. Cosí è appunto nel Fisiologo, dove ogni animale significa qualcosa – e in cui anche la donnola trova ovviamente il proprio posto. Il linguaggio, la parola torna a costituire il referente di base per la costruzione allegorica del nostro animale, ma stavolta si tratta non del linguaggio umano in generale, o di quello rovinoso della delazione, ma direttamente della parola del Signore. Ecco il testo di una delle redazioni greche: … la legge dice: non mangiare la donnola né ciò che è simile a lei. Il Fisiologo ha detto della donnola che ha questa natura: riceve dal maschio con la bocca, e divenuta gravida partorisce dalle orecchie. Ci sono alcuni che si recano in chiesa e fanno mostra di pietà, ma in realtà la rifiutano. E ascoltano la parola divina e mangiano il pane spirituale, ma appena sono usciti dalla chiesa rigettano dalle orecchie la parola divina, simili alla

donnola impura. Non mangiare la donnola né ciò che è simile a lei 152.

Anche nel caso del Fisiologo il testo del Levitico si incrocia con le credenze greche sull’animale, e il risultato è un’ulteriore crescita dell’abominio che lo colpisce. Ma ci troviamo di fronte pure a un singolare cambiamento di prospettiva. La credenza infatti si presenta del tutto rovesciata, adesso la donnola concepisce dalla bocca e partorisce dalle orecchie. Di questo singolare rovesciamento sembra anzi che almeno qualcuno fra i redattori del Fisiologo sia stato consapevole. In alcune delle versioni greche, infatti, diverse da quella che abbiamo riportato, subito dopo la descrizione del concepimento orale e del parto auricolare si legge questa frase: «bene dunque ha detto che partoriscono dalle orecchie» 153. Come se ci fossero state delle discussioni a questo proposito? È possibile, visto che almeno Isidoro di Siviglia si preoccupava esplicitamente di smentire la versione invertita della credenza 154. In ogni caso, questo rovesciamento delle abitudini riproduttive della donnola, introdotto dal Fisiologo, era destinato ad avere molta fortuna testuale e iconografica 155. Le versioni latine del testo riportano ulteriori, ghiotti particolari, come il fatto che, se la donnola partorisce dall’orecchio destro, il nascituro è un maschio, se partorisce dall’orecchio sinistro è invece una femmina 156. Una volta entrate nel mare delle storie e dei processi semiotici che coinvolgono gli animali, le credenze si modificano a seconda delle necessità di espressione simbolica per le quali debbono essere utilizzate 157. Che cosa avrà spinto i redattori del Fisiologo a capovolgere la credenza tradizionale? Difficile dirlo. La logica che presiede all’organizzazione di quest’opera non è, francamente, delle piú limpide. È possibile però che questo spostamento sia stato provocato non tanto da motivazioni interne alla struttura del testo ma piuttosto esterne, e provenienti dal contesto culturale in cui il Fisiologo si andava formando. In questo rovesciamento, un ruolo importante può averlo avuto l’interpretazione del parto della donnola data dallo pseudo-Barnaba, che nella «bocca» dell’animale metteva in generale la sua «generazione» o la sua «gravidanza», e che sottolineava l’analogia fra la donnola e le donne che «commettono impurità con la bocca» 158. Ecco dunque già una possibile pressione contestuale per spostare dall’«orecchio» alla «bocca» la concezione della donnola, animale impuro. C’è però la possibilità che questa inversione sia legata anche a un’altra, sottaciuta presenza, che

ancora piú fortemente poteva spingere il Fisiologo a rifiutare la possibilità che un animale impuro come la donnola concepisse dalle orecchie: inducendolo cosí a rovesciare la credenza tradizionale. Come vedremo nel paragrafo successivo, infatti, nella tradizione cristiana si affermò ben presto l’idea che la concezione virginale di Maria fosse avvenuta attraverso la «parola» del Signore – fino a produrre la credenza che la madre di Dio avesse concepito il Redentore direttamente attraverso l’orecchio 159. Se era questo l’orizzonte contestuale in cui il Fisiologo si muoveva, com’era possibile mantenere ancora l’idea che la donnola concepisse nello stesso modo in cui Maria aveva concepito il Figlio di Dio dalla parola divina? La donnola, animale condannato dal Levitico, non poteva che rappresentare l’inverso di questo processo: un animale che non concepisce ma partorisce attraverso l’orecchio, e in questo modo simboleggia non la recezione della parola di Dio ma il suo rifiuto. Sul piano testuale, per realizzare questa sua inversione il Fisiologo aveva comunque a disposizione credenze simili, su cui lavorare tramite quel procedimento di transference che è tipico dell’organizzazione di questo testo 160. Per quello che riguarda l’aspetto orale del processo, già nel Fisiologo si dice infatti che la vipera riceve «nella bocca» il seme del maschio 161. Quanto al piano auricolare, il magmatico testo del Fisiologo ci permette addirittura di assistere direttamente alla realizzazione di un ampliamento attraverso un meccanismo di transference. In una delle redazioni greche, infatti, alla frase «ma appena usciti rigettano dalle orecchie la parola divina, simili alla donnola impura» segue quest’altra: «e diventano simili all’aspide sordo che ottura le sue proprie orecchie» 162. Si tratta di una citazione dai Salmi, e in questo modo l’autorità stessa della Bibbia, inglobata nel testo, interveniva per confermarne le costruzioni allegoriche 163. Alle «orecchie» dell’aspide veniva attribuito un ruolo simbolico molto forte: l’aspide infatti si difendeva dalla voce potente dell’incantatore schiacciando al suolo un orecchio e coprendo l’altro con la coda 164. Ecco dunque che la coppia tradizionale – la donnola e il suo nemico, il serpente – viene ristabilita, stavolta nella forma di una bizzarra analogia nel comportamento comunicativo. C’è comunque una logica, benché imperfetta e perversa, in questa inversione della credenza tradizionale presente nel Fisiologo. Il significato dell’animale è ancora connesso, come lo era in Plutarco, alla sfera della

parola. Secondo i «molti» cui Plutarco si riferiva, le abitudini sessuali della donnola avrebbero infatti simboleggiato l’origine del linguaggio: si «ascolta» con le orecchie e si «parla» con la bocca, in un ciclo regolare e continuo. Quello che la donnola simboleggia qui è il meccanismo del linguaggio umano in una situazione di normale scambio linguistico, in cui si dà (dalla bocca) e si riceve (dalle orecchie) come tutti fanno. Nel caso del Fisiologo invece la situazione è rovesciata. Non l’origine del linguaggio umano, ma il rifiuto di quello divino. La donnola, infatti, animale condannato nella Bibbia come impuro, non potrà che significare qualcosa di negativo. Dunque il rigetto del linguaggio inteso nella sua forma piú nobile, quello del Signore: eccola allora gettar fuori dalle orecchie la «parola» che ha ricevuto. Quanto al «riceverla», questa parola, la metafora del cibarsi del pane spirituale della Chiesa costituiva un valore allegorico troppo importante perché il Fisiologo non se ne impadronisse. Nel progetto di interpretazione del mondo che caratterizza questo testo, la donnola offriva la possibilità di rappresentare qualcosa di centrale nella vita cristiana, la recezione della parola divina e il pericolo che essa possa andare dispersa. E il Fisiologo non se l’è certo lasciata scappare 165. Da questo punto di vista, l’interpretazione allegorica di Eleazar, nella Lettera di Aristea, sta un po’ a metà fra Plutarco e il Fisiologo: non l’emblema di un valore positivo, l’origine del linguaggio umano, e neppure il simbolo del comportamento teologicamente piú negativo, il rifiuto della parola divina, ma il cattivo uso del linguaggio umano, volto verso l’indiscrezione e la delazione contro i propri simili.

Figura 17. Donnola che partorisce dalle orecchie; donnola che concepisce dalla bocca, miniatura.

Parigi, Bibliothèque Nationale, ms fr. 14969, f. 46. (Foto della Biblioteca).

In ogni caso, con il Fisiologo la strada è ormai aperta verso la tradizione dei bestiari medievali: in cui il parto e la concezione della donnola – soprattutto nella versione invertita – avranno grande fortuna 166. Le illustrazioni dei manoscritti ci permettono finalmente di vedere il nostro animale impegnato nelle stranezze della sua concezione e della sua nascita. In un manoscritto conservato a Cambridge, due donnole si accoppiano frontalmente (dunque molto decentemente), e l’una inserisce il muso nella bocca dell’altra; sul registro inferiore, una donnola sposta con la bocca uno dei suoi piccoli 167. In un’immagine proveniente da un manoscritto francese (cfr. fig. 17) conservato alla Bibliothèque Nationale di Parigi, contenente il Bestiaire divin di Guillaume Le Clerc de Normandie, a due donnole che si accoppiano frontalmente per la bocca sulla parte sinistra fa da pendant, sulla destra, un’altra donnola che partorisce simultaneamente due piccoli dalle orecchie 168. Questa immagine ci fa anzi riflettere su un tratto che la concezione auricolare della donnola, a differenza di quella orale, in qualche modo implica: la donnola partorisce inevitabilmente gemelli 169. Anche il «rigetto» della parola divina viene efficacemente rappresentato nelle illustrazioni dei bestiari. Nello stesso manoscritto del Bestiaire di Guillaume Le Clerc, la raffigurazione della concezione e del parto della donnola è preceduta da una scena di predicazione, in cui alcuni fedeli volgono le spalle al chierico che parla per intrattenersi con alcuni diavoli dalla testa di animale (cfr. fig. 18). Molto espressivamente le mani (o meglio gli artigli) dei demoni sembrano già aver afferrato questi fedeli che rifiutano di udire la parola del Signore 170.

Figura 18. Allegoria della donnola, miniatura. Parigi, Bibliothèque Nationale, ms fr. 14969, f. 45v. (Foto della Biblioteca).

7. Colei che rischiò di diventare Maria Vergine. Finora non abbiamo avuto modo di parlare dettagliatamente della concezione della donnola, sia essa per le orecchie o per la bocca. Bisogna dire però che, da un punto di vista comparativo, l’impregnamento attraverso

un canale diverso da quello naturale non risulta davvero sorprendente. Le fiabe e i racconti di folclore sono ricchi di episodi in cui donne e fanciulle concepiscono tramite le piú svariate parti del corpo: bocca (inghiottimento di frutti, insetti, vermi, e cosí via); naso (odorando un fiore o altri oggetti); dita o mani (toccando qualche cosa, ricevendo saliva maschile sul palmo), piedi (camminando sopra qualche cosa), ombelico, testa, e cosí di seguito. Altre volte per concepire basta alla donna un generico contatto con la superficie corporea, come fare un bagno, prendere il sole ovvero essere «adombrata», come si dice di Maria nel Vangelo di Luca 171. Mentre il folclore testimonia l’uso di mezzi molto piú grossolani per raggiungere metaforicamente il medesimo scopo: ricevere addosso scarpe vecchie o pezzi di dolce 172. Come notava Edwin Sidney Hartland al termine di una sua celebre (e interminabile) rassegna di impregnazioni diverse da quelle naturali, «the tales of supernatural birth are practically inexhaustible» 173. Per quanto riguarda le credenze sugli animali, è noto poi che nel Mondo Antico circolava quella relativa alle cavalle impregnate dal vento 174. Cosí come dal vento era tradizionalmente impregnato l’avvoltoio. Un uccello di genere solo femminile, che quando temeva di restare senza prole andava contro il vento del sud (ovvero dell’est, se quello del sud non spirava) tenendo aperto il becco: il vento entrava dentro il corpo dell’avvoltoio e lo impregnava, con una gestazione di tre anni 175. La versione di Orapollo era ancora piú ricca di colore: stavolta l’avvoltoio, quando sentiva l’impulso di generare, apriva i propri genitali al vento del nord ed era fecondato da lui per cinque giorni 176. Bisogna comunque dire che la pernice non era da meno, visto che concepiva dall’«aria» smossa in volo dai maschi – e addirittura, dalla loro «voce» 177. Hartland aveva ragione, l’elenco rischia di diventare davvero interminabile. Per cui arrestiamoci su un personaggio che abbiamo appena nominato sopra, la Vergine Maria. Anche lei, infatti, era stata soggetta a una impregnazione come minimo eccezionale, e certo non dissimile da quella di Danae che aveva concepito Perseo ricevendo il seme di Zeus in forma di pioggia. Per la verità Hartland, che nel 1894 aveva pubblicato un lungo studio dal titolo The Legend of Perseus, in cui il mito greco veniva analizzato nella prospettiva comparativa tipica di quegli anni, dapprima si era rifiutato di includere Maria nel gruppo delle storie «parallele» a quella antica, con l’argomento che «this is a question of apologetics not of folklore» 178. Ma in seguito aveva finito per inserire anche Maria nella «inexhaustible list» delle

concezioni soprannaturali elencate nel suo Primitive Paternity del 1909. Evidentemente quindici anni erano stati sufficienti per fargli cambiare idea, anche se il suo atteggiamento rimase prudente e l’attenzione riservata alla concezione di Maria fu piuttosto scarsa 179. Non c’è alcun dubbio che anche Maria vada inserita nella lista delle impregnazioni miracolose. Nel desiderio di allontanare il piú possibile ogni contaminazione dalla Vergine, il Medioevo finí addirittura per attribuire una concezione estranea alle normali regole del sesso persino a tutta la sua lignée. In un inno francese del secolo XIII si racconta quanto segue 180. Dopo la disobbedienza del primo uomo, Dio aveva trasportato l’albero della vita nel giardino di Abramo. Un angelo venne ad avvertire il patriarca che un giorno su quell’albero Dio sarebbe stato crocifisso, ma prima il fiore di quell’albero avrebbe messo al mondo un cavaliere il quale, a sua volta, avrebbe fatto nascere, senza il concorso di una donna, la madre di una vergine che Dio stesso avrebbe scelto per madre. Questa profezia, abbastanza complicata, viene sciolta dal racconto nel modo che segue. Abramo aveva una figlia che un giorno, dal semplice profumo di quell’albero, rimase incinta. Da lei nacque un bambino, Fanouel, destinato a diventare cavaliere, poi re, poi imperatore, e possessore (senza ovviamente che lui lo sapesse) dell’albero della vita che stava nel giardino del nonno Abramo. Un giorno accadde che Fanouel staccasse un frutto da quell’albero, e lo tagliasse con il coltello. Mangiato il frutto Fanouel volle riporre il coltello e se lo asciugò sulla coscia. Nuovo miracolo. La coscia dell’imperatore Fanouel cominciò a ingrossare, e sempre piú cresceva oltre misura, senza che alcun medico potesse spiegarsene la causa. Dopo nove mesi il mistero fu risolto e l’imperatore fu liberato dal suo peso: da quella coscia infatti venne al mondo, «senza intervento di donna», Anna, la futura madre della Vergine 181. La storia finisce qui, ma certo nella mente dell’autore dell’inno sarà stato ben presente il fatto che, a sua volta, anche la concezione di sant’Anna veniva presentata dalla tradizione cristiana (risalente al Protovangelo di Giacomo) come eccezionale. Mentre infatti Gioacchino, il marito di Anna, digiunava nel deserto ormai da quaranta giorni, Anna siede sotto un alloro (dunque un altro albero) lamentando la sua sterilità: ed ecco che le si presenta un angelo del Signore, proprio come accadrà alla figlia Maria, e le comunica che essa finalmente concepirà e partorirà 182. Di miracolo in miracolo, di concezione

pura in concezione pura, eccoci dunque arrivati alla concezione virginale di Maria, a cui tutta la storia di Abramo e del suo albero tende. Nella ligneé di Maria, insomma, nessuno concepisce per via normale. Una volta si tratta di una femmina che concepisce attraverso il senso dell’«olfatto», alla generazione successiva si tratta invece di un maschio che concepisce attraverso quello del «tatto» (per passare poi attraverso una donna che, seduta sotto un albero, e lontana dal marito che digiuna nel deserto, riceve da un angelo l’annunzio della sua concezione). E che cosa dovremmo dire, a questo punto, se scoprissimo che ben prima dell’inno di Fanouel alla Vergine Maria era stata attribuita una concezione attraverso l’«udito»? Dal naso, alla coscia, fino all’orecchio. Il problema era stato posto da Maria stessa. «E come potrà avvenire ciò, se non conosco uomo?» aveva chiesto all’angelo del Vangelo di Luca. L’angelo però non aveva fornito molte spiegazioni. Si era limitato a rispondere «lo Spirito Santo verrà su di te, e la potenza dell’Altissimo ti adombrerà» 183. La domanda di Maria rimaneva senza risposta. «Come potrà avvenire ciò?» La concezione della Vergine e la nascita di Dio dal suo grembo costituivano un enigma, e prima o poi si doveva trovare una qualche soluzione. In altre culture, il problema posto dalla incarnazione del dio in forma umana aveva trovato soluzione proprio facendo ricorso al modello della impregnazione attraverso un canale diverso da quello normale. Cosí avviene nel caso della tradizione irlandese, dove gli appartenenti al mondo divino della Túatha Dé Danann si reincarnano con grande frequenza 184: Étaín per esempio viene trasformata in insetto e poi inghiottita dalla moglie di Étar, che la partorisce. In questo modo Étaín è in grado sia di mantenere la propria natura divina sia di disporre di un padre mortale (è infatti definita «figlia di Étar e generata da lui») 185. Questo tipo di soluzione si prestava bene a risolvere un difficile problema che inevitabilmente si presenta al momento in cui si vuol far nascere un dio in forma umana: da un lato mantenere l’identità divina del personaggio, nonostante sia partorito da una donna mortale; dall’altro garantire però al dio una nascita e una paternità di tipo anche umano 186. Si tratta del tipo di problema a cui Edmund Leach attribuirebbe probabilmente l’aggettivo «metafisico» 187. La domanda di Maria «come potrà avvenire ciò?» poneva la cultura cristiana di fronte a un dilemma molto simile: quale storia mitica era in grado di garantire che Dio, incarnandosi, aveva mantenuto la propria identità divina pur essendo stato partorito da una

donna? 188.

Figura 19. Niccolò Alunno, Annunciazione, tempera a uovo su tela, 1458-60. Firenze, Villa i Tatti, Berenson Collection. (Foto © Paolo De Rocco, Centrica s.r.l., Firenze / Reproduced by permission of the President and Fellows of Harvard College).

Figura 20. Maestro del Retablo dei re cattolici, Annunciazione, olio su tela, xv secolo. San Francisco, Fine Arts Museums, dono della Samuel H. Kress Foundation, 61.44.21. (Foto del Museo).

Figura 21. Annunciazione, XI secolo. Würzburg, Cattedrale, timpano del portale nord. (Foto © FZB-Ateliers, Gerchsheim).

Come abbiamo visto, la spiegazione data dall’angelo nel Vangelo di Luca si prestava male a formulare una risposta. Ma non cosí il Protovangelo di Giacomo, dove si diceva molto piú esplicitamente che Maria avrebbe concepito «dalla parola del Signore» 189. Si trattava di uno spunto molto attraente. Lo vediamo infatti ricorrere anche in uno dei cosiddetti Oracoli sibillini 190, e il tema venne ben presto ripreso nella letteratura cristiana 191. Dunque la causa della concezione era costituita dalla parola del Signore – e di

questo la Vergine Maria era stata informata proprio al momento della annunciazione. Facile stabilire una connessione fra questi due eventi, entrambi giocati sulla parola di Dio: e concludere che la Vergine aveva concepito attraverso le parole divine che il messaggero alato le riferiva 192. La tipica risposta che veniva data al dilemma della nascita umana del Dio, ossia l’impregnazione attraverso un canale diverso da quello normale, si affacciava in questo modo anche all’orizzonte della cultura cristiana: nella forma di una concezione di Maria attraverso l’orecchio proprio al momento dell’annunciazione. Questa fantasia auricolare della concezione di Maria ricevette particolare popolarità attraverso alcuni versi attribuiti a Thomas Becket o a san Bonaventura 193: Ave virgo, mater Christi quae per aurem concepisti Gabrielis nuntio.

L’idea però si era già presentata molto prima. La troviamo infatti in un Sermone di Gaudenzio, vescovo di Brescia, alla fine del secolo IV d.C. 194: «poiché nessun altro è nato da Maria se non colui che, scivolato attraverso l’orecchio materno, riempí l’utero della Vergine». Cosí come ricorre in due Sermoni attribuiti falsamente a sant’Agostino 195: «la madre d’un tratto ebbe timore per il suo parto: Dio parlava attraverso l’angelo e la Vergine veniva impregnata attraverso le orecchie», si dice nel primo. Il secondo è forse piú interessante: «l’angelo pronunziò il suo discorso (sermo) e la Vergine concepí Cristo: o unione compiuta senza impurità, in cui il marito è discorso (sermo) e la moglie orecchio (auricula)». La sessualità di Maria è spostata verso l’alto (la moglie è auricula), tanto quanto astratta e intellettuale è quella del marito: puro sermo. Molte altre testimonianze antiche di questa interpretazione della concezione auricolare di Maria si potrebbero citare, da Efraem il Siro a Zeno da Verona 196. Anche i Vangeli apocrifi presentano attestazioni esplicite di questa credenza 197. Maria ha concepito attraverso l’orecchio, è stato in questo modo che la parola di Dio – a un tempo annunzio e seme di fecondazione – ha realizzato il miracolo della concezione virginale. Questo tema godrà anche di una certa fortuna iconografica nel

Quattrocento e oltre, ad esempio nella Annunciazione di Niccolò Alunno 198 (cfr. fig. 19). La «parola» di Dio è quasi regolarmente un fascio di raggi dorati, che dalla bocca di Dio stesso, o attraverso la mediazione di una colomba, investe come una pioggia d’oro il capo della Vergine 199. La frequente presenza di un libro, la Bibbia, nelle mani della Vergine o depositato al suo fianco, non fa che amplificare la presenza della «parola» del Signore attorno a Maria 200. La fecondazione della Vergine attraverso la parola è, a un tempo, impregnazione miracolosa e acculturazione, miracolo dell’onnipotenza celeste e celebrazione della scrittura. Non mancano comunque testimonianze iconografiche di questa vicenda meno avare di particolari. Un dipinto spagnolo del secolo XV mostra ancora una volta il fascio di luce che, promanando dalla bocca del padre, discende verso il capo della Vergine: ma stavolta lungo i raggi scivola un bambinello, che già porta in spalla la sua croce (cfr. fig. 20). Persino piú curioso il rilievo del secolo XV che si può ancora ammirare sul portale nord della Marienkapelle, a Würzburg (cfr. fig. 21): in esso infatti l’annunciazione a Maria, e la sua concezione auricolare, sono rappresentate in modo davvero esplicito. Vi si vede Maria, inginocchiata di fronte all’angelo, e in alto Dio Padre. Tra il Padre e Maria corre un lungo e flessuoso tubo, che unisce la bocca di Dio all’orecchio della Madonna. Lungo questo tubo scivola ancora una volta un bambino minuscolo 201. Ecco dunque una rappresentazione della concezione auricolare della Vergine che si sforza addirittura di rappresentare concretamente il processo, escogitando un espediente (il tubo) talmente ingenuo da suscitare simpatia. Nel gioco delle interpretazioni allegoriche, il tema della impregnazione auricolare della Vergine verrà spesso presentato in contrapposizione con il tema (ancora auricolare) del peccato originale, che proprio la concezione divina di Maria aveva cancellato dal mondo: da un lato infatti sta Eva, che «nell’orecchio» aveva accolto il suggerimento del demonio, dall’altro sta Maria, che ancora «dall’orecchio» aveva concepito il Salvatore. Zeno, vescovo di Verona, nella seconda metà del secolo IV scriveva: … e poiché con l’abilità delle parole (suasione) il demonio era scivolato nell’orecchio di Eva, ferendola e condannandola alla dannazione, ancora attraverso l’orecchio Cristo entrò in Maria, cancellando ogni malvagità dal cuore della donna: e nascendo da una

vergine, sana la ferita della donna 202.

Anche di questo contrasto fra le due donne e le due orecchie si può ammirare una realizzazione in forma di immagine. Si tratta della rappresentazione di Eva, per opera di Andrea da Orvieto, nella chiesa di Santa Maria delle Grazie a Magione (cfr. figg. 22 e 23). Vi si vede Eva, sdraiata e coperta con una pelliccia 203, mentre il serpente le soffia nell’orecchio destro. La maestà della Vergine che sovrasta Eva reca con sé dei cartigli. Quello in basso a destra riporta proprio le parole dell’inno che conosciamo: GAUDE VIRGO, MATER CHRISTI, QUAE PER AUREM CONCEPISTI, GABRIELIS NUNTIO. Facile stabilire una simmetria fra Eva, che riceve il soffio peccaminoso del serpente nell’orecchio, e la Vergine che riceve, sempre nell’orecchio, la parola di Dio 204.

Figura 22. Andrea di Giovanni da Orvieto, Maestà, affresco, 1371. Magione, Santa Maria delle Grazie.

Dunque l’annunciazione alla Vergine, ossia la trasmissione, tramite l’angelo, della parola di Dio, aveva costituito il modo in cui si era contemporaneamente realizzata la concezione del Salvatore. L’interazione fra narrazione evangelica, anatomia della comunicazione e immagini teologiche – il messaggio dell’angelo, la parola che entra dall’orecchio, la parola divina che feconda la Vergine – produce una interpretazione della concezione di Maria tutta giocata sulla preminenza del «discorso». Come dirà Iacopo

Sannazaro nel suo poema sul Parto della Vergine, dopo che lo spirito fu entrato «per le orecchie» nel corpo della Vergine «il ventre … cominciò a gonfiarsi per le arcane parole (arcano … verbo)» 205. In questa leggenda dell’impregnazione auricolare c’è un’esplicita dichiarazione dell’importanza della «parola» di Dio – arcana, remota, ma contemporaneamente vicina e fatta carne – come origine della salvezza. Solo che per noi, dopo aver letto l’uso allegorico che Plutarco, Aristea e il Fisiologo hanno fatto della concezione auricolare della donnola, questa interpretazione altrettanto auricolare della concezione di Maria suona molto familiare. Anche nel caso della donnola, infatti, si stabiliva esplicitamente un parallelo fra la recezione della parola da un lato e l’impregnazione per via dell’orecchio dall’altro, dichiarando che la donnola simboleggiava il linguaggio – ovvero il suo cattivo uso, come nel caso della Lettera di Aristea e del Fisiologo. Gli elementi in gioco sono proprio gli stessi. Da un lato la recezione della parola attraverso l’orecchio, dall’altro l’impregnazione per la medesima via. Di qua e di là, assistiamo a una celebrazione delle virtú del discorso attraverso l’immagine anatomica della fecondazione di un grembo. Dunque la donnola, sotto i nostri occhi, si trasformerebbe nientemeno che in un avatar della Vergine Maria?

Figura 23. Andrea di Giovanni da Orvieto, Eva, affresco, 1371, particolare della Maestà. Magione, Santa Maria delle Grazie.

Difficile affermarlo. Anche se, almeno in Germania, non mancano rappresentazioni della Madonna con una donnola in braccio 206. Mentre Corrado di Würzburg dichiarava che la donnola costituiva una designazione simbolica di Maria 207. Ma questi legami fra Maria e il nostro animale possono essere spiegati molto piú facilmente in base alla tradizionale inimicizia che la donnola, proprio come Maria, ha con il serpente 208. Nel Medioevo il basilisco, tradizionale avversario della donnola, era divenuto uno dei simboli del demonio 209: e lo scontro fra la donnola e questo malefico animale poteva ben rappresentare il trionfo sul male operato dal Salvatore e dal miles Christi 210. Dunque per spiegare il legame fra Maria e la donnola converrà pensare alla credenza tradizionale che ne fa la nemica dei rettili, piuttosto che invocare la leggenda della concezione auricolare. Ma c’è soprattutto un elemento da tenere in considerazione: la donnola non sembra comparire mai fra i «paralleli naturali» di impregnazioni inconsuete che, fin dall’inizio, i Padri della Chiesa si sono sforzati di citare a

sostegno della concezione virginale di Maria. Per sconfiggere i pagani con le loro stesse armi, infatti, i padri si erano rivolti ai miti e alle leggende dell’Antichità classica, in cui stavano innumerevoli casi di impregnazione soprannaturale 211; ma avevano fatto anche abbondante ricorso al mondo delle credenze sugli animali per trovare delle motivazioni «naturali» all’evento 212. Origene, per respingere lo scetticismo di Celso, farà appello al parallelo della fecondazione aerea dell’avvoltoio, cosí come alla generazione del serpente dalla spina dorsale dell’uomo, delle api dalla carcassa del bue, delle vespe da quella dei cavalli, e cosí di seguito 213. Mentre Lattanzio, alludendo verisimilmente all’avvoltoio e alle cavalle di Lusitania o Cappadocia, chiedeva: … se è a tutti noto che alcuni animali possono concepire dal vento e dall’aria, perché qualcuno dovrebbe trovare incredibile che una vergine fosse stata fecondata dallo spirito di Dio, a cui risulta facile fare tutto ciò che vuole? 214.

Basilio di Cesarea fa anche lui ricorso al parallelo con l’impregnazione miracolosa dell’avvoltoio 215. In Rufino di Aquileia infine si affaccia ancora l’esempio dell’ape: un insetto che, fin da Virgilio, si era presentato come paradigma di animale che partecipa dello «spirito divino», e soprattutto soggetto a una concezione casta e senza unione con il maschio 216. Dunque i Padri non fecero ricorso alla impregnazione della donnola per giustificare in natura la concezione di Maria. Probabilmente era stata la cattiva fama di questo animale (la credenza nella sua stregoneria e nella sua perversione sessuale), e soprattutto la condanna ricevuta nel Levitico, che l’avevano trattenuta sull’orlo di una trasformazione cosí nobile, e le avevano impedito di entrare nello stesso gruppo delle api o dell’avvoltoio 217. A questo proposito è interessante rilevare che Origene, nella stessa opera in cui fa riferimento alla fecondazione aerea dell’avvoltoio come equivalente della concezione virginale di Maria, sosteneva che la donnola era animale amato dai demoni: «vedi a qual punto di malignità possono giungere i demoni, che assumono il corpo delle donnole per rivelare il futuro» 218. Come si sarebbe potuto scegliere un animale del genere per rappresentare la Vergine Maria? 219 . Dunque la distanza fra Maria e la donnola rimase. Eppure, fra la concezione della Vergine e quella della donnola sussiste comunque

un’analogia molto forte, come un campo di attrazione simbolica che non ha mai prodotto una figura allegorica vera e propria ma purtuttavia ne manifesta a ogni momento la possibilità. La sua concezione attraverso l’orecchio, le innumerevoli interpretazioni allegoriche che di questa concezione innaturale facevano una figura della parola e della circolazione del linguaggio, la predisponevano a meraviglia a svolgere il ruolo di equivalente animale di una vergine che, attraverso l’orecchio, era stata impregnata dalla parola di Dio. Questo però non è avvenuto. È come se la donnola avesse in qualche modo rischiato di diventare un simbolo animale di Maria, e di entrare quindi a far parte di un’altra grande storia in cui, ancora una volta, compariva il travaglio di una partoriente e la nascita di un eroe, da Alcmena a Maria, da Eracle a Cristo – ma poi qualcosa glielo aveva impedito. Piú avanti dovremo leggere con calma un racconto relativo alla donnola che però vale la pena di anticipare qui brevemente. Si tratta della favola esopica in cui si dice che la donnola si era trasformata in una donna, e stava per sposare l’uomo che amava – ma poi era passato un topo, e lei non aveva saputo resistere alla tentazione di inseguirlo, perdendo sposo, matrimonio e natura umana. Un grande, proverbiale fallimento, come vedremo 220. Se alla fine di questo capitolo fosse concesso anche a noi cimentarci in un’allegoria, e cristianizzare ai nostri fini la favola esopica, potremmo dire che in essa stava già scritto anche quest’altro fallimento della donnola, stavolta di carattere sacro. Di nuovo essa aveva perduto la sua occasione. Avrebbe potuto diventare Maria, e simboleggiare nientemeno che la concezione del Salvatore attraverso la parola di Dio – invece era finita nell’abominazione del Fisiologo.

Capitolo ottavo Prima identità della Liberatrice

Discolor in curvis conversor quadripes antris Pugnas exercens dira cum gente draconum. Non ego dilecta turgesco prole mariti, Nec fecunda viro subolem sic edidit alvus, Residuae matres ut sumunt semina partus; Quin magis ex aure praegnantur viscera fetu. Si vero prolis patitur discrimina mortis, Dicor habere rudem componens arte medelam 1.

Il tema della «Follia di Spagna» comincia dunque a risuonare sotto le nostre dita. Addirittura, nell’ultima variazione che abbiamo ascoltato le sue note hanno suscitato l’eco inattesa di un inno sacro. Ma è stato solo un attimo, alla donnola non si addicono i canti di chiesa. Comunque conosciamo molto di questa melodia, anche le note piú difficili, quelle della Liberatrice, stanno prendendo forma. Adesso dovremmo anzi essere in grado di stendere queste note una di seguito all’altra, in una frase musicale coerente. Vediamo di ripetere sinteticamente le caratteristiche della donnola che abbiamo esaminato sin qui, per vedere le loro possibili connessioni con il momento del parto e i suoi tratti salienti.

1. Scivolar fuori. La donnola è dunque un animale tradizionalmente vicino al mondo delle donne in travaglio, a loro legata attraverso ricette di magia contagiosa e rapporti con divinità della nascita. Questo elemento costituisce senz’altro una prima connessione fra le due figure. Inoltre alcuni tratti del comportamento reale della donnola, come la cura che essa riserva ai suoi piccoli e l’abitudine di portarli in giro tenendoli in bocca, le attribuiscono le caratteristiche di una madre sollecita; mentre la caratteristica di animale domestico, vicino al mondo umano e nello stesso tempo dotato di poteri soprannaturali, può fare di lei una sorta di spirito familiare o genio domestico. Ecco altri possibili

motivi di connessione fra la donnola da un lato e il suo ruolo di Liberatrice nel racconto dall’altro. È molto probabile però che le connessioni piú forti fra la donnola e il mondo della partoriente risiedano nelle caratteristiche che abbiamo analizzato nei due ultimi capitoli: la sua «agilità» e la natura orale del suo parto. Proviamo dunque a rivedere brevemente questo complesso di tratti culturali nella prospettiva che adesso ci interessa. La donnola ha la virtú di insinuarsi nei buchi e di venirne fuori con la stessa facilità. Nell’immaginario, essa è anche animale capace di entrare e uscire addirittura da un corpo umano, inghiottita in forma di afonia o emessa dalla bocca a rappresentare l’anima che lascia un corpo addormentato, ovvero a rappresentare per l’appunto un utero femminile. La donnola che entra ed esce dai buchi ha dunque tutte le carte in regola per trasformarsi in una metafora simpatetica e ben augurante per il bambino che «scivola fuori» dal ventre materno con la stessa facilità 2. Il contesto è sempre quello dei nodi, che come abbiamo visto è cosí importante nel racconto di Alcmena. Il tratto dell’agilità della donnola, del resto, è esplicitamente sottolineato nella nostra storia: abbiamo visto infatti che la donnola, o la ragazza-donnola, è spesso colta nel gesto di correre presso la partoriente o verso le nemiche, ovvero di entrare e uscire dalle porte di casa. Per favorire il parto viene scelto qui un animale che fisicamente ha la capacità di rappresentare il tratto dello «sgusciare via». Ci pare anzi molto interessante che la favola che abbiamo già piú volte citato, quella della volpe imprigionata nella cesta perché la sua pancia è troppo grossa, e della donnola (l’animale che sguscia fuori dai buchi) che le fa la morale, abbia ricevuto interpretazioni allegoriche che ne facevano proprio una metafora della nascita di un bambino 3. La magia analogica della nascita, secondo le descrizioni di Plinio, offre piú di un parallelo per i rapporti fra la facilità del parto e la capacità di sgusciare fuori. Fra i rimedi che accelerant partum sta per esempio la «spoglia di serpente legata ai lombi» della donna 4. Evidentemente si tratta di qualcosa da cui il serpente è sgusciato fuori, e come tale porta buon augurio. Questo tratto dello sgusciar fuori è esplicitamente evidenziato del resto nel modo in cui la ricetta appare formulata da Trotula de Ruggiero nel trattato Sulle malattie delle donne, il libro di medicina femminile della Scuola medica di Salerno che tanta importanza ebbe nel Medioevo e nel Rinascimento 5. Non solo la spoglia del serpente era un talismano utile per il parto, ma il serpente stesso – animale lungo e flessuoso, capace di entrare e uscire dai buchi con

facilità – costituiva un’apparizione favorevole per la donna in travaglio: «se un serpente si incontra con una donna incinta, la donna partorisce prima che il bambino sia perfetto; e se il serpente si incontra con lei quando è in travaglio, questo accelera la nascita» 6. Il potere di «chiamar fuori» il bambino (evocat) è poi attribuito da Plinio alla membrana della placenta di una cagna, probabilmente perché si trattava di qualcosa che era già uscito fuori da un grembo 7. Anche la pietruzza «espulsa» (eiecta) da un malato di calcoli facilita il parto: come si vede, si tratta ancora di qualcosa che, essendo già stato espulso da un corpo umano, poteva trasmettere per simpatia la stessa capacità al bambino nell’utero 8. Ciò che è sgusciato fuori una volta o che ha la virtú di farlo, meglio se da un corpo o da un grembo, acquisisce dunque la virtú di facilitare la fuoruscita della nascita 9. Per vedere un ultimo esempio di questo gioco di simpatie e analogie, ci si può rivolgere alla cultura cristiana. Anche a santa Margherita veniva infatti attribuita una grande efficacia liberatoria al momento del parto. Secondo la leggenda, la martire del secolo III sarebbe stata inghiottita dal diavolo in forma di dragone, ma per il potere della croce che teneva in mano si credeva che ella fosse uscita indenne e trionfante dalla pancia del mostro. In questo modo si era trasformata nella «rappresentazione simbolica di un parto breve e senza dolore» 10. Come dicevamo, anche la caratteristica piú sorprendente della donnola antica – la sua capacità di partorire dalla bocca – può essere ricondotta al modello della facilità nel parto e della fuoruscita rapida di un bambino. Da questo punto di vista la donnola, animale dal parto facile e diretto, può funzionare nel mito da aiutante simbolica del parto tanto quanto la lupa: l’animale dalla gravidanza rapida che aiutò Latona a superare il proprio travaglio 11. Abbiamo già sottolineato il fatto che questo modello di parto stravolto in realtà si presenta abbastanza «naturale» se riconsiderato dal punto di vista dell’enciclopedia culturale antica (e non solo antica) relativa al corpo della donna: caratterizzato dalla presenza di un tubo, che unisce le due «bocche» in un percorso lineare. Proprio questa analogia fra i due orifizi poteva trasformare la bocca in un luogo dotato di particolari poteri simpatetici nei confronti della fuoruscita dall’altra apertura. Abbiamo già avuto occasione di ricordare l’uso del salmo LV «O Signore apri le mie labbra» per facilitare il parto 12, cosí come la credenza che «se una donna ha la bocca larga, il suo parto sarà facile» 13. La solidarietà fra i due orifizi è

talmente forte che l’apertura di uno dei due poteva influenzare beneficamente quella dell’altro. Forse però possiamo approfondire ancora di piú la nostra analisi, cercando di riconnettere fra loro queste due caratteristiche della donnola che sembrano cosí rilevanti dal punto di vista del suo legame simbolico con il mondo della partoriente. Ci pare infatti che fra la capacità della donnola di entrare e uscire da qualsiasi fessura, nonché di insinuarsi nella bocca altrui da un lato, e il suo parto dalla bocca dall’altro, esista una simmetria troppo evidente perché possa essere considerata casuale. Proviamo anzi ad affrontare la questione citando un parallelo, quello costituito dalla lucertola. Come abbiamo visto, anche a questo animale veniva attribuito il medesimo parto orale assegnato alla donnola 14. I due animali sono legati però anche da altre analogie. Plinio per esempio sostiene che il fiele dello stelio, un tipo di lucertola, se tritato nell’acqua ha il potere di richiamare le donnole 15. Mentre altrove si stabilisce che il corpo di entrambi questi animali ha uno specifico potere curativo nel campo delle malattie degli occhi 16. Del resto in greco antico la lucertola porta il nome di galeótes: si tratta dunque di un termine derivato da quello con cui si designa la donnola, ossia galé. Ma c’è un’analogia ancora piú precisa che lega lucertola e donnola. In greco moderno infatti la parola sulligoûdi significa al singolare «lucertola» e al plurale «mal di gola» 17. Si tratterà anche qui di un animale della malattia, come quelli che abbiamo indicato sopra: e il procedimento metaforico sembra proprio identico a quello che ha prodotto il proverbio greco «ha inghiottito una donnola» per dire che si è persa la voce 18. Certo è interessante che, a rappresentare un disturbo «di gola», venga scelto un animale non solo lungo e sottile, come la donnola, ma a cui veniva ugualmente attribuito un parto orale. La flessuosità e la capacità di insinuarsi nella bocca altrui sembrano dunque associarsi facilmente all’uso della propria come orifizio per la generazione. Il fatto è che la capacità di insinuarsi nel corpo altrui, e quella di far uscire la propria prole in modo insolito ma certo molto diretto, rimandano a un medesimo campo metaforico: la facilità dei passaggi. Fuoruscite rapide – estranee alle strettoie e ai nodi che il bambino doveva attraversare: che si tratti di un parto dalla bocca o del furto della voce, di un serpente sgusciato via dalla propria spoglia o di santa Margherita che esce dal ventre del demonio – possono essere tutte considerate ugualmente di buon augurio per

un parto felice. La donnola, animale au corps long et fluet, capace di entrare e uscire a piacimento dai buchi e dalle strettoie, e nello stesso tempo pronta a lasciar sgusciare dalla bocca la propria prole, poteva ben funzionare da augurio favorevole per un parto facile. Ci accorgiamo però di una cosa: nella costruzione simbolica del nostro personaggio, la donnola-Liberatrice, le caratteristiche fisiche e naturali dell’animale sembrano giocare un ruolo molto importante. La capacità «reale» di insinuarsi nei buchi e di uscirne, la cura orale «effettivamente» dedicata ai propri piccoli, che quindi suggeriva l’idea di un parto dalla bocca, costituiscono un presupposto fondamentale per la creazione della donnola simbolica. A questo argomento che si sta rivelando cosí cruciale – l’animale «vero» e quello delle credenze, i comportamenti reali e i sistemi simbolici che a essi si connettono – sarà dunque opportuno dedicare l’ultimo paragrafo di questo capitolo sulla Liberatrice.

2. «Affordances». Per un’ecologia dei simboli animali. Una rana vede qualcosa che schizza nell’aria sopra la sua testa. La rana si volta e guarda attentamente. Il minuscolo insetto fa un altro movimento brusco, mentre il suo piccolo corpo pulsa nell’aria con un battito d’ali incredibilmente veloce, tracciando un arco sulla testa della rana, quando – in un attimo troppo breve perché un occhio umano possa coglierlo chiaramente – la lingua della rana guizza fuori dalla bocca e afferra la preda 19.

Questa breve storia è diventata un classico da quando, all’inizio degli anni sessanta, nuove vie furono aperte alla neurobiologia dagli studi sulla capacità visiva delle rane 20. I problemi posti da queste caratteristiche dei piccoli anfibi sono ovviamente molto numerosi – e la maggioranza di essi sfugge purtroppo alla comprensione di un profano. Ma ce n’è almeno uno della cui importanza può rendersi immediatamente conto anche il senso comune: perché la rana non scomoda il suo micidiale colpo di lingua per foglie cadenti e granelli di polvere, ma solo per insetti che possono costituire per lei una fonte di nutrimento? 21. Essa dispone evidentemente di una percezione selettiva degli oggetti che ruotano nell’aria intorno a lei ed è in grado di distinguere in un batter d’occhio (o meglio, molto piú rapidamente di cosí) che cosa vale la pena di acchiappare al volo e che cosa no. In altre

parole, tutto ciò che fluttua nel campo percettivo di una rana viene in qualche modo decodificato in base alle «possibilità» di nutrimento che esso offre all’animale, e il suo comportamento consegue a questa particolare decodifica delle informazioni percettive ricevute. Seppure espressa in modo estremamente semplificato, questa spiegazione del comportamento della rana corrisponde alla teoria che James Gibson, e la scuola di «psicologia ecologica» da lui fondata, ha sviluppato riguardo ai meccanismi percettivi in generale 22. Secondo Gibson, la percezione corrisponde infatti alla consapevolezza di quelle che egli chiama affordances degli oggetti, dei luoghi e degli eventi che ci circondano, attraverso la individuazione di informazioni ecologiche. Per Gibson, il comportamento sessuale, quello nutritivo, quello di lotta, quello cooperativo, quello economico, quello politico, e cosí via, dipendono sempre dalla percezione di ciò che un oggetto, un animale, un’altra persona, e cosí via, affords nei nostri confronti (e qualche volta, ovviamente, dalla percezione «sbagliata», di queste affordances) 23. Proprio come nel caso della rana, che acchiappa un insetto al volo ma lascia che la foglia cada in pace, anche la nostra percezione si concentra sulle possibilità che una certa cosa ci offre dal punto di vista dei molteplici bisogni della nostra vita. Sempre dal punto di vista della psicologia ecologica, queste possibilità o affordances che negli oggetti ci si manifestano corrispondono alle «qualità» di questi oggetti. In altre parole, la nostra definizione di un oggetto corrisponde sostanzialmente alle «possibilità» che esso manifesta alla nostra consapevolezza, ovvero all’individuazione dei tratti che lo rendono idoneo a un qualche nostro «progetto». Fra le qualità di una pietra, secondo Gibson, sta anche la sua affordance di oggetto che «si presta a» essere lanciato, o a essere usato per schiacciare qualcosa. Ciò che piú conta, è che queste qualità/affordances degli oggetti, dei luoghi o degli eventi che ci circondano – il loro «prestarsi a» un determinato progetto – possono essere condivise anche da altri individui insieme con noi 24. E dunque tali caratteristiche possono essere trasformate in elementi culturali a tutti gli effetti. Forse il lettore sarà rimasto un po’ disorientato da questo brusco ingresso delle rane nel mondo della donnola, e soprattutto dalla rilevanza di cui le teorie psicologiche sembrano improvvisamente godere in questo paragrafo. Che c’entra tutto questo con la storia di Alcmena e con la donnola-levatrice? Il fatto è che, a nostro parere, la teoria delle affordances di Gibson può essere

trasferita dal livello del comportamento o delle scelte pratiche anche a quello delle scelte metaforiche. In altre parole ci pare che la nozione di affordance, cosí com’è stata elaborata dalla psicologia ecologica di Gibson e da Reed, si presti bene a rispondere a una domanda che sempre si affaccia allorché ci si trova a parlare delle simbologie animali o della simbologia in generale: perché certi animali, o certe piante, e via di seguito, si prestano meglio a veicolare significati simbolici di un certo tipo e non di un altro? Secondo noi si tratta proprio di una questione di affordances, di possibilità offerte alla percezione, ovvero della capacità che un oggetto (come un animale) ha di «prestarsi a» un certo progetto umano – stavolta di carattere simbolico e intellettuale. Prendiamo proprio il caso della donnola. Questo animale, per le sue caratteristiche fisiche e per le abitudini che ha sviluppato, mette a disposizione delle particolari affordances che possono facilmente destinarlo a trasformarsi in oggetto simbolico relativo al mondo del parto: la sua natura di animale lungo e sottile, la sua capacità di entrare e uscire dai buchi con estrema facilità, il rapporto affettivo, visibilmente materno, che intrattiene con i propri piccoli, e cosí di seguito. Da questo punto di vista, anche la credenza relativa al parto dalla bocca della donnola deve essere messa in relazione con una particolare affordance offerta dall’animale: il carattere prematuro dei suoi nati, la particolare cura orale che la madre dedica loro, la sua abitudine di spostarli con la bocca, costituiscono un fascio di affordances che si prestava bene alla creazione della credenza relativa a un fantastico parto dalla bocca. Naturalmente, questa spiegazione in termini di affordances metaforiche che cerchiamo di suggerire presuppone che dall’altra parte – dalla parte dell’uomo, la «nostra» parte – esista un «progetto» metaforico che in qualche modo intende trasformare gli animali in simboli, ovvero che intende «interpretare» le affordances percettive offerte dall’animale per trasformarle in una credenza specifica 25. Ciò che si presuppone, in definitiva, è che fra i vari progetti che l’uomo ha elaborato per coinvolgere l’animale nei suoi piani – la propria alimentazione in primo luogo, la domesticazione e lo sfruttamento del lavoro animale, il piacere che deriva dalla caccia e dalla compagnia dei pets, e cosí via – ci sia specificamente anche quello di utilizzarli per rappresentare simbolicamente certe configurazioni culturali. Ma questo non meraviglia di certo. Tutta la storia culturale dell’umanità è caratterizzata dallo sfruttamento metaforico degli animali e dalla loro

utilizzazione in termini di simboli o categorie intellettuali. Piú avanti dovremo anzi riprendere questo tema, per affrontarlo dal punto di vista della identità che gli animali simbolici, ovvero quelli coinvolti nel progetto che li vuole «buoni per pensare», manifestano attraverso le «storie» che su di loro si raccontano 26. Gli uomini cercano nel loro ambiente animali per pensare proprio come la rana cerca nell’aria il proprio nutrimento: e come la rana, anche noi siamo in grado di distinguere le affordances metaforiche che un certo animale è in grado di fornire ai predatori di simboli, lasciando da parte quelli che mal si prestano al nostro specifico progetto e concentrando la nostra percezione su quelli che vi si prestano meglio. Ciò che intendiamo suggerire, in definitiva, è che esiste una vera e propria ecologia dei simboli animali. La donnola dunque presenta alcune affordances che la rendono buona per rappresentare il parto. Si tratta di caratteristiche fisiche, in primo luogo, ma dato che i processi culturali sono di carattere non certo lineare, e interagiscono l’uno sull’altro in maniera che è poco definire intrecciata, fra le affordances metaforiche della donnola deve essere considerato anche tutto quello che intorno a lei, o su di lei, viene elaborato in altri spazi della cultura a partire dalle medesime affordances naturali. Si tratterà di proverbi come quello greco «ha inghiottito una donnola», delle storie di folclore che vedono una donnola entrare o uscire dal corpo di una persona, e cosí via. Al fondo ci sono i tratti fisici dell’animale, selezionati, ovvero percepiti in base al progetto simbolico che si sta perseguendo. Ma questi tratti non sono ovviamente gli unici che intervengono nella creazione simbolica, gli elementi che cosí si generano possono poi a loro volta interagire l’uno con l’altro e dare vita a configurazioni simboliche sempre piú complesse 27. Il fatto è che, come dicevamo sopra, il processo è duplice: da un lato ci sono le affordances dell’animale, dall’altro il progetto culturale dell’uomo che vuole trasformare (anche) in simboli gli animali che ha intorno a sé. In questo senso il progetto metaforico non si accontenta solo di acchiappare al volo le affordances fisiche degli animali (come la rana che cattura il suo insetto), ma «interpreta, costruisce» a sua volta l’oggetto proiettando su di esso le proprie configurazioni culturali. I Greci volevano un animale che si trasformasse in animale del parto – ed ecco, dall’altra parte, una donnola che permetteva tutto ciò, fino a diventare aiutante di una partoriente mitica, ministra di Ecate e protagonista di un parto orale.

Si affaccia inevitabilmente una domanda: sarebbe stato prevedibile, tutto ciò, sulla sola base del fascio di affordances offerte dalla donnola fin dall’inizio? Sicuramente no. Come dicevamo, la metaforizzazione di un animale, o di qualsiasi altro elemento, prevede la presenza di due partner, l’oggetto da un lato e il progetto metaforico umano dall’altro. E questo fa la differenza. Non credo sia azzardato affermare che al termine di un progetto di metaforizzazione ci si può trovare di fronte a molto di piú di quello che le affordances dell’animale lasciavano prevedere – o anche a molto di meno. Non è affatto detto che certe affordances producano necessariamente un simbolo, o «quel» simbolo: tutto dipende dalla presenza o meno di un progetto intellettuale che intenda impadronirsene, e dal modo in cui questo progetto viene realizzato nell’ambito della immaginazione di una certa cultura. Questo può spiegare perché uno stesso animale, in culture differenti, possa dar vita a simboli diversi e non coincidenti fra loro. Se le affordances metaforiche offerte da un animale si presentano simili fra loro anche in culture diverse, non è detto che sia simile il progetto che intende interpretarle metaforicamente per farne un simbolo 28. L’esistenza di affordances metaforiche di un animale, condizionate dalle sue caratteristiche fisiche da un lato e dalla loro selezione sulla base di un progetto simbolico dall’altro, può essere molto utile anche per affrontare un altro problema che, tipicamente, si presenta quando si ha a che fare con la simbologia animale. Abbiamo detto che, in culture diverse, uno stesso animale può produrre esiti simbolici differenti. Ma a volte capita che, relativamente a uno stesso animale, culture fra loro diverse possano produrre credenze simili. Questo può accadere anche in culture che non sono in alcun modo sospettabili di contatti o di reciproche influenze, come quelle del Vecchio e del Nuovo Mondo. Perché? Ecco che attraverso questo problema della «convergenza» simbolica fra culture lontane torniamo a parlare della donnola, anche se in una prospettiva comparativa molto imprevedibile. Gli Hopi dell’America settentrionale ritengono infatti che consumare la carne di donnola o di tasso giovi al parto delle donne incinte, perché questi animali hanno la capacità di scavare nel suolo una via di scampo quando sono incalzati dal cacciatore. Essi aiutano quindi il bambino a «scendere in fretta», e di conseguenza li si può anche invocare perché cada la pioggia 29. Il medesimo tratto che sopra abbiamo analizzato in dettaglio per spiegare perché la donnola greca possa essere stata scelta per svolgere il ruolo di

aiutante nel parto, ossia la sua capacità di sgusciar via, veniva dunque esplicitamente indicato dagli Hopi come spiegazione del perché mangiare carne di donnola vada bene per le donne incinte. Una stessa affordance ha prodotto credenze simili e configurazioni simboliche che convergono, e questo a distanza di migliaia di chilometri e di migliaia di anni. Dobbiamo pensare che tanto gli Hopi quanto i Greci avessero in mente un progetto simile, trovare un animale che avesse caratteristiche adatte per rappresentare un parto facile: le affordances della donnola hanno soddisfatto sia gli uni che gli altri. Si tratta secondo noi di un tipico fenomeno di «convergenza» nel senso di Aleksandr Gol’denvejzer, ossia della produzione di due configurazioni culturali simili in culture indipendenti sulla base del principio delle «possibilità limitate» 30. Data la serie «parto facile» da un lato, quella «animali» dall’altro, e dato il progetto di far corrispondere simbolicamente il «parto facile» a un «animale», le possibilità offerte dalla serie animale si restringevano immediatamente: perché molti animali (per motivi di taglia, abitudini, credenze, e cosí via) non si prestavano a questo progetto. Questa condizione di «possibilità limitate» era in grado di provocare, come in questo caso è avvenuto, un fenomeno di «convergenza» fra Vecchio e Nuovo Mondo, tanto che la donnola è risultata animale simbolico del parto sia qui che là. Per fare un altro esempio nello spirito di Goldenweiser, che nel suo studio partiva dalla cultura materiale, si può provare a prendere la serie «manici di un vaso» da un lato, la serie «animali» dall’altro, e il progetto di dare la forma di un animale ai manici del vaso. Anche in questo caso, le possibilità vengono drasticamente limitate semplicemente perché molti animali non si prestano a trasformarsi in manici di vaso (non presentano le necessarie affordances). Gli animali che si adattano a questo progetto sono in numero limitato. Di conseguenza potrà accadere che si creino «convergenze» fra culture differenti, e che il manico del vaso assuma la forma di serpente anche in produzioni di ceramica provenienti da popolazioni fra loro lontane e indipendenti. Credo che questa medesima via – l’affordance metaforica da un lato, il progetto culturale e le «possibilità limitate» dall’altro – possa spiegare anche un’ulteriore, singolare convergenza fra Vecchio e Nuovo Mondo sempre all’interno del campo che ci interessa. Cioè il fatto che un animale, il quale con la donnola non ha nulla a che fare almeno dal punto di vista della classificazione zoologica, ma certo le rassomiglia molto in termini di

affordances simboliche, in America venga chiamato a svolgere funzioni simili alle sue: l’opossum. Questo animale è talmente importante nella mitologia mesoamericana, e cosí incredibilmente ricco di credenze e di racconti si presenta il patrimonio culturale che esso porta con sé, che sarebbe follia sperare di trattarne la figura in un paragrafo 31. Qui intendiamo soffermarci solo su due aspetti dell’opossum, il modo della sua generazione e la sua relazione con il mondo del parto. L’opossum è infatti un marsupiale, e il suo apparato riproduttivo si presenta abbastanza singolare. La femmina infatti ha due vagine e due uteri, il maschio dispone di un pene biforcato e di testicoli disposti in modo anomalo. In piú, la femmina ha l’abitudine di trasferire nel marsupio i suoi nati – ovviamente ancora imperfetti – spingendoveli con la lingua. Se dal piano delle caratteristiche fisiche di questo animale si passa adesso a quello delle credenze che lo caratterizzano, si hanno subito delle sorprese interessanti. Nel sud degli Stati Uniti, infatti, si crede comunemente che la copulazione dell’opossum si realizzi attraverso le narici della femmina, e che essa «soffi» l’embrione nel marsupio attraverso il naso 32. Non c’è dubbio che l’opossum delle credenze americane somigli molto alla donnola delle credenze europee 33. Anche in questo caso, però, siamo autorizzati a dire che i due animali offrivano un fascio di affordances metaforiche molto simili fra loro, e che questo ha dato origine a credenze ugualmente simili: anche se ovviamente non identiche. Le analogie fra la donnola e l’opossum si fanno ancora piú interessanti, però, se si tiene conto del fatto che anche l’opossum, proprio come la donnola, è considerato animale legato al mondo del parto. Nella mitologia cristiana del Centro America, esso compare come aiutante della Vergine Maria e del bambino Gesú, a cui portò il fuoco per riscaldarsi. Sappiamo che l’opossum è spesso al centro di miti che lo vedono donatore del fuoco agli uomini. Ma quello che piú colpisce è che la Vergine Maria, in conseguenza dell’aiuto che aveva ricevuto, lo ricompensò rendendo «facile» il suo parto 34. La somiglianza con il ruolo della donnola nel racconto di Alcmena è davvero impressionante. Un animale dal parto anomalo, rovesciato, proprio come la donnola, diventa ugualmente l’aiutante di un’eroina mitica in procinto di far nascere un bambino. E qui ci viene detto esplicitamente quel che sospettavamo a proposito della donnola, cioè che un parto anomalo e rovesciato (stavolta dalle narici) è concepito come un parto «facile».

Ma non basta. Anche certe parti del corpo dell’opossum costituiscono potenti mezzi di aiuto per la partoriente, proprio come nel caso dei liquidi genitali della donnola. In particolare la coda, a cui si attribuiva la capacità di accelerare la nascita. La coda dell’opossum si dimostrava potente ogni volta che ci fosse da rimuovere un ostacolo: apriva il canale urinario, favoriva il deflusso del sangue mestruale, ammorbidiva la pancia se era costipata. Jacinto de la Serna riassumeva cosí le caratteristiche «superstiziose» attribuite dagli indios alla coda di opossum: «apre i passaggi» 35. Mentre nel Códice Florentino si legge: «apre i passaggi, i tubi, pulisce e purifica» 36. Per questo mangiare un’eccessiva quantità di ossa di opossum poteva addirittura provocare una fuoruscita degli intestini 37. Non possiamo resistere alla tentazione di notare che, ancora una volta, ci troviamo di fronte a una singolare analogia con i poteri del corpo della donnola come sono descritti nelle credenze del Vecchio Mondo. Abbiamo già avuto modo di vedere infatti che, secondo Eliano, … le viscere di una donnola, preparate al modo di coloro che si intendono di queste cose, se fatte inghiottire con il vino con intenzione di maleficio sono capaci di rompere le amicizie, come si racconta, e di separare relazioni sino a quel momento armoniose 38.

Anche la donnola ha insomma il potere di «sciogliere» quello che pareva unito. Arrestiamoci qui – il mondo dell’opossum si presenta infatti ancora piú ampio di quello della donnola, che pure si sta rivelando di dimensioni insospettate, e non possiamo certo permetterci il lusso di esplorarlo piú a lungo. Limitiamoci a notare che l’opossum, animale che concepisce dalle narici e «soffia» la sua prole nel marsupio per la stessa via, si trova al centro di una costellazione metaforica che lo rende una sorta di donnola-Liberatrice mesoamericana. Ancora una volta, si può supporre che questo insieme di analogie mitiche e simboliche fra i due animali possa essere spiegato proprio a partire da un gruppo di affordances metaforiche simili, e dalla presenza di un progetto simbolico ugualmente simile: cosa che limitava automaticamente le possibilità e creava convergenze fra culture distanti. Può essere anzi interessante ricordare in conclusione che il sariga, una delle specie piú diffuse dell’opossum, porta in Argentina il nome di comadreja (piccola comare) 39: ossia uno dei nomi che, come vedremo piú

avanti, nel Vecchio Mondo indicano proprio la donnola 40. In ogni caso, il Vecchio Mondo ricevette del sariga un’immagine centrata proprio sulle sue caratteristiche materne. In una delle sue Favole, Jean-Pierre Claris de Florian, sulla scorta del conte di Buffon (Buffon m’en est garant; qui pourroit en douter?), cosí raccontava la storia del sariga: Du sarigue c’est la femelle; nulle mère pour ses enfants n’eut jamais plus d’amour, plus de soins vigilans. La nature a voulut seconder sa tendresse, et lui fit près de l’estomac une poche profonde, une espèce de sac, Où ses petits, quand un danger les presse, vont mettre à couvert leur faiblesse … 41.

Ma adesso dobbiamo proprio abbandonare i cammini del Nuovo Mondo per ricominciare a seguire le tracce della nostra Liberatrice, la donnola, lungo le vie del Mondo Antico. Per la verità, ci attende, però, un ostacolo che non avevamo previsto prima di adesso.

Capitolo nono Stonature? Plinio e il parto dalla bocca

Queste note della Liberatrice – i suoi legami con il mondo della nascita, la sua capacità di sgusciar dentro e fuori, il suo parto dalla bocca – sembrerebbero dunque risuonare bene se messe assieme a quelle della Partoriente. La donnola si presenta come un animale buono per pensare il parto, nei suoi lati piú favorevoli e bene auguranti, e la ragione di ciò sta nelle affordances metaforiche che la predisponevano a soddisfare questo progetto simbolico della cultura antica. C’è il rischio però che una delle caratteristiche della donnola che abbiamo analizzato piú sopra, e che abbiamo trovato cosí ben consonante con il suo ruolo di aiutante nel parto, possa inaspettatamente trasformarsi in una stonatura. Si tratta del suo parto dalla bocca. Come abbiamo visto, questo tratto costituisce una delle caratteristiche salienti della donnola fantastica, ampiamente documentato nelle fonti antiche e strettamente connesso al racconto di Alcmena, di cui costituisce in qualche modo l’esito mitico. Proviamo però a contrastare questo racconto con quanto ci viene detto relativamente a un altro animale sospettato, come forse si ricorderà, di utilizzare la propria bocca per scopi abbastanza contro natura: il corvo. Aristotele riporta che «secondo alcuni i corvi e l’ibis si unirebbero sessualmente con la bocca» – pur se lui rifiutava ovviamente questa diceria 1. Come altre credenze relative al parto e alla concezione degli animali, anche questa però era destinata a godere di una certa fortuna. Nella tradizione ebraica, per esempio, circolerà addirittura un’eziologia di questa singolare natura del corvo: il quale avrebbe insultato Noè nell’arca, accusandolo di volerlo mandare in missione per godersi sua moglie, e per tale motivo si sarebbe meritato la maledizione del patriarca e il coito orale 2. Ma vediamo la versione che Plinio dava di questo parto orale: … i corvi … si dice comunemente che partoriscano o concepiscano dalla bocca. Ragion per cui le donne incinte, se mangiano un uovo di corvo, partoriscono dalla bocca, e comunque partoriscono con difficoltà se vengono portate in casa uova di corvo. Aristotele lo nega: [i corvi] non fanno di queste cose piú dell’ibis in Egitto, si tratta solo di un modo di baciarsi, quello che si vede spesso fra i colombi 3.

E altrove: … si sa che le donne incinte devono star lontano dall’uovo di corvo, perché se ci passano sopra esso può provocare aborto 4.

Plinio dunque amplia la notizia aristotelica che conosciamo, attribuendo ai corvi non solo l’abitudine di copulare con la bocca ma anche quella di partorire per la stessa via. E soprattutto collega l’uovo del corvo al rischio di procurare aborto. Naturalmente si potrebbe pensare che si tratti di un ampliamento fatto per distrazione, o per scarsa serietà verso le sue fonti. Ma verisimilmente non è cosí. L’uovo del corvo aveva infatti sicuramente cattiva fama. Si può ricordare a questo proposito anche il proverbio greco «uovo malvagio di corvo malvagio», che Eliano riferiva alla credenza secondo cui i figli del corvo mangiano il loro padre 5. Ancora una volta, è anzi possibile che la rappresentazione culturale – il corvo che partorisce dalla bocca – abbia la sua radice in una affordance molto specifica dell’animale. Il corvo infatti si nutre volentieri delle uova di altri uccelli. Per romperle ha per l’appunto l’abitudine di tenerle sollevate nel becco (cfr. fig. 24), un atteggiamento che può ben aver creato la credenza che il corvo generasse le proprie uova facendole fuoruscire da questo orifizio e non da quello naturale. Proprio come la donnola, che tiene in bocca i propri piccoli per spostarli e per questo si è vista attribuire un fantastico parto orale, anche il corvo ha verisimilmente derivato questo medesimo attributo dal fatto che suole tenere nel becco non le uova che genera ma quelle che mangia. Come si vede da Plinio, anche nel caso del corvo, come in quello della donnola, una certa affordance metaforica che poteva essere connessa alla sfera della riproduzione ha fatto di questo animale un simbolo fortemente connesso al mondo delle partorienti. Solo che la connessione stavolta si presenta «sfavorevole», non fausta: partorire dalla bocca produce aborto, e le donne incinte debbono tenersi alla larga dal corvo e dalle sue uova.

Figura 24. Corvo con un uovo nel becco. Da C. SAVAGE, Bird Brains: The Intelligence of Crows, Ravens, Magpies, and Jays, San Francisco 1995, p. 96.

Dunque, sembrerebbe, un animale che partorisce dalla bocca non è un buon compagno per la partoriente: lungi dal farla partorire con facilità, esso infatti rischia di farla «abortire». Allo stesso modo in cui, nella tradizione posteriore, un analogo potere abortivo sarà attribuito alla lucertola, animale a cui, come già sappiamo, nell’Antichità era attribuito ugualmente un parto orale 6. Inoltre, secondo Artemidoro sognare il coito orale con una donna incinta preannunzia aborto «per il fatto che ha ricevuto il seme contro natura» 7. Come si spiega allora il fatto che la donnola, animale che partorisce

dalla bocca, possa invece essere considerata una «buona» aiutante della partoriente? Eppure abbiamo ben visto che questo accade. Per affrontare tale contraddizione nel modo giusto, bisogna tenere a mente una cosa fondamentale: che nel pensiero simbolico legato al mondo degli animali, dei loro poteri e delle loro virtú, la capacità di procurare aborti non sembra essere affatto distante da quella di facilitare il parto, anzi, spesso questi due aspetti coincidono. Prendiamo ancora il caso dell’opossum. Abbiamo visto che la sua coda è un potente ausilio per facilitare il parto – ma essa funziona contemporaneamente anche come mezzo abortivo 8. Far nascere con facilità e far abortire costituiscono le due facce di una stessa medaglia. Ma anche senza ricorrere a paralleli con il Nuovo Mondo, possiamo dire che questa ambivalenza la troviamo testimoniata all’interno delle credenze rappresentate dal medesimo Plinio. Lo stesso animale che, presentato in certe forme, facilita il parto, presentandosi in altre procura aborto: e viceversa. Prendiamo il caso del camaleonte. La sua lingua «legata» alla donna tiene lontani i rischi del puerperio, e l’animale stesso è «salutare» alla partoriente «se si trovi in casa»: ma se viene portato in casa da fuori, è «perniciosissimo» 9. Dunque l’essere dentro o il venire da fuori può mutare radicalmente il valore del camaleonte in relazione al parto. Lo stesso per la pelle di serpente: se la si lega ai lombi della donna, come sappiamo, facilita il parto, e la si può prendere anche nel vino con incenso: ma «se assunta in altro modo, procura aborto» 10. Di nuovo, l’animale abortivo coincide in tutto e per tutto con quello che facilita il parto, è solo questione di presentazione. Del resto abbiamo già visto sopra che il serpente possiede la doppia virtú di far abortire ovvero di facilitare la nascita 11. Questo medesimo principio assume addirittura sottigliezza casuistica nel caso del serpente amphisbaena, quello noto per muoversi indifferentemente in un senso o nell’altro a seconda di quale testa decida di usare fra le due che possiede 12. Ecco come vanno le cose: l’amphisbaena procura aborto, ma se la donna ne ha una morta (non viva) in una pisside, può passare sopra a quella viva tranquillamente; ancora, l’amphisbaena morta e conservata rende facile il parto; la cosa ancora piú mirabile è però che se una donna passa sopra una amphisbaena morta, anche se non ha con sé l’amphisbaena conservata può riuscire a restare incolume, purché subito dopo passi sopra a quella conservata. Sembra proprio che l’amphisbaena «morta e conservata» rovesci i poteri di quella viva o di quella morta ma non conservata. L’amphisbaena viva è abortiva, quella conservata

facilita il parto: se poi i due tipi di amphisbaena vengono in conflitto (quella viva o quella morta non conservata verso quella morta e conservata) sembra che questo secondo tipo riesca a neutralizzare i poteri nefasti del primo. In ogni caso, ci troviamo di fronte ancora una volta a uno stesso animale che può fungere tanto da abortivo quanto da ausilio per facilitare il parto 13. La ragione di questa ambivalenza sta nella natura stessa dei due processi di cui stiamo discutendo, il parto e l’aborto: i quali non sono affatto lontani, o addirittura opposti, ma coincidono – si tratta in ogni caso di provocare la «fuoruscita» di ciò che sta dentro il ventre della donna. Di conseguenza i rimedi magici che a questo scopo vengono usati possono benissimo essere gli stessi, dipende solo dal «modo» in cui il processo magico viene realizzato: dall’essere il camaleonte già «dentro», il che è salutare alla partoriente, o venir «da fuori», il che procura aborto; dall’essere l’amphisbaena viva o dentro una pisside. È una questione di misura, di momenti, di scopi. Né è necessario pensare solo alle fantastiche associazioni su cui si fonda la medicina procurata dagli animali, perché anche la farmacopea usata in generale da ostetriche e levatrici antiche funzionava ugualmente a doppio senso. Molte droghe registrate come abortive nei trattati ginecologici antichi erano probabilmente usate piú per facilitare il parto che non per procurare aborti 14. Dunque non deve meravigliarci troppo il fatto che un animale sospettabile di procurare aborti, perché partorisce dalla bocca, possa contemporaneamente figurare come aiutante nel parto. Si tratta di due facce della stessa moneta, chi è in grado di far abortire sa anche come accelerare la nascita. L’importante è che non si tratti di un animale neutro, lontano dal mondo del parto, o riferito ad altre sfere simboliche che non hanno nulla a che fare con il mondo della donna in travaglio. Questo però non è sicuramente il caso della donnola. Dunque anche questa possibile stonatura, che ci si era presentata invero abbastanza sgradevole, si è risolta in una consonanza. Ma abbiamo già fatto molta strada, e abbiamo ascoltato già molti frammenti della «Follia di Spagna». Adesso dobbiamo fermarci a pensare. Non piú alla donnola soltanto, ma all’intero mondo, a un tempo vero e favoloso, da cui la sua immagine ci giunge. Quello degli animali.

Parte seconda Metafore animali e ruoli femminili

Capitolo primo In Ispagna ci sono troppe Follie

Il mondo degli animali, intendiamo quello della loro vita autentica, oggetto di studio per scienziati e naturalisti, è infinito. Può rendersene conto persino il profano spettatore di documentari Bbc, cosí come l’occasionale lettore dello «Smithsonian» o del «National Geographic». La descrizione del moto delle ali in un colibrí può occupare un intero libro, mentre la ricerca che ha condotto a tale descrizione, come nel caso di Crawford H. Greenewalt, in genere è durata anni 1. E tutto questo riguarda solo il moto di un minuscolo uccello che, in un qualunque giorno di autunno, frulla le sue ali invisibili di fronte alla finestra di un normale giardino di California. Ma quanti uccelli hanno frullato nel frattempo le loro ali? E quanti insetti, o creature ancor piú minuscole, abitano soltanto il giardino in cui il colibrí – «scintillante frammento di arcobaleno» 2 – frulla le sue ali? Il naturalista non è un poeta epico, che pretende di chiudere il mondo intero in una visione prepotente. È piuttosto un alessandrino costruttore di epilli, ovvero un seguace del motto warburghiano «il buon Dio è nel particolare». La sua infinitezza la trova ampliando un frammento di vita, sa bene che la cornice tutt’intorno è talmente ampia che praticamente non esiste.

1. «Se i leoni fossero capaci di parlare, noi non potremmo capirli». Se il mondo degli animali, quello vero, è infinito, bisogna dire però che anche quello delle credenze e dei racconti suscitati nei secoli intorno agli animali lo è altrettanto. E, anche qui, la presupposizione che esista davvero una cornice per tutto questo è decisamente labile. La nostra cultura, cosí come tutte le altre culture umane, fin dal suo inizio si presenta infatti ricchissima di favole, di simboli e di credenze che vedono gli animali al centro dell’attenzione. Dalle similitudini omeriche a Esopo, dai bestiari alla magia, dall’interpretazione dei sogni allo zodiaco, all’arte della profezia, alla fisiognomica, alle rappresentazioni allegoriche della letteratura, alle immagini dipinte o scolpite, la produzione culturale centrata sugli animali si

presenta tanto remota nelle sue origini quanto sterminata. Gli animali sono soggetti inesauribili di fantasie e di significati, a essi si agganciano conoscenze reali e credenze fantastiche nella stessa misura: ci si domanda che cosa sarebbe l’immaginario degli uomini se gli animali non ci fossero. Anche la civiltà contemporanea, che pure si afferma indiscutibilmente laica e scientifica, e certamente ride delle invenzioni dei bestiari (donnole che partoriscono dalla bocca, coccodrilli che perseguitano asini, vipere che mangiano il maschio e sono uccise dalla prole), ovvero le trasforma in oggetto di studio, come stiamo facendo noi – anche questa civiltà moderna si abbandona però senza preoccupazione ai cartoni animati di Walt Disney. E si entusiasma per avventure di Paperi, Topolini, Re Leoni, o piange (ormai da piú di una generazione) per la sorte di Bambi rimasto solo nella foresta. Questa «disneyficazione» del mondo animale, intesa come una «dissignificazione» o quel che sia (il neologismo si presta a vari giochi di parole decostruttivi) 3 accresce ulteriormente il tasso di stereotipicità nell’uso degli animali. Il loro appiattimento visuale sulla società degli uomini cancella ogni possibile risorsa – anche metaforica – della loro autentica natura, e si accontenta di farli parlare come se fossero solo uomini mascherati. Paperi e topi sono assorbiti nella massa della «maggioranza silenziosa», afflitti da problemi di povertà o di eccessiva ricchezza, torturati dai vicini o infelici nell’amore: proprio come gli uomini-animali di Grandville che delle creazioni di Disney costituiscono secondo John Berger l’antenato diretto 4. Basta pensare alla triste immagine di una folla di animali-emigranti che si accalca sulla banchina in attesa di una grande Arca a vapore… Anche nel comportamento quotidiano la «disneyficazione» degli animali sembra fare grandi progressi. Cani e gatti, e tutti gli altri animali di cui ci circondiamo, vengono da noi umanizzati al punto di sottolineare con una gioia spesso imbarazzante tutte le analogie che il loro comportamento rivela con il nostro: salvo restare delusi, rimproverare, addirittura abbandonare l’animale che a un certo punto rivela la sua profonda e irriducibile «alterità» rispetto al nostro mondo 5. Ormai gli animali di cui ci circondiamo ricevono nomi dichiaratamente umani: una pratica che sarebbe risultata bizzarra o addirittura censurabile fino a qualche decennio fa. Gli antropologi non hanno mancato l’occasione per trarre da questo fenomeno le loro conclusioni acutamente comparative. Eccoci di fronte a un rovesciamento completo rispetto a quel «linguaggio bovino» che i Nuer utilizzavano per definire gli uomini: da un

lato una società di pastori che animalizza gli uomini, dall’altro una società urbana, ormai completamente staccata dalla natura, che umanizza i pochi animali che ancora frequenta 6. Non c’è dubbio che cartoni animati e pet marchino in modo indiscutibile l’atteggiamento delle società occidentali (ovviamente quelle piú ricche) nei confronti degli animali. Ma c’è anche da chiedersi: non è per caso «già» stato cosí? Da tempo immemorabile la favola antica aveva «esopizzato» gli animali, appiattendo le caratteristiche della volpe, del lupo, dell’agnello nel progetto morale, o moralistico, di altre «maggioranze silenziose». Mentre si sa bene che non solo i moderni ma anche gli antichi amavano circondarsi di animali da compagnia, da Sibari lussuosa alla Roma di Augusto 7: … si dice che Cesare – riferiva Plutarco – vedendo girare per Roma dei ricchi stranieri che tenevano in braccio cagnolini e scimmie, coccolandoli, domandò se per caso al loro paese le donne non mettevano al mondo bambini 8.

Anche altre culture, diverse da quella occidentale, e persino quelle piú «primitive», manifestano passione e interesse per questo tipo di animali umanizzati. E a essi hanno talora rivolto cure talmente intense e dispendiose da far impallidire le nostre cliniche veterinarie e i pingui scaffali dei negozi per cani 9. Il fatto è che gli animali sono stati da sempre «costruiti» sulla base di categorie umane, tanto quanto gli uomini hanno voluto costruire se stessi sulla base di categorie animali 10. Nella rappresentazione culturale il rapporto delle varie specie fra loro, e quello degli animali in genere rispetto all’uomo, viene costruito sul modello delle relazioni sociali interne alla comunità: contemporaneamente, però, quest’ordine umano animalizzato viene a sua volta proiettato sulla società umana per rinforzarla, spiegarla, criticarla 11. Alla radice di questo atteggiamento sta un paradosso che già Ludwig Wittgenstein aveva identificato con chiarezza: «se i leoni fossero capaci di parlare, noi non potremmo capirli» 12. Gli animali non sono semplicemente muti: sono soprattutto «altro». Di fronte a questi esseri cosí vicini a noi, e contemporaneamente cosí incapaci di comunicarci se stessi e il loro punto di vista, la reazione dell’uomo è quella di «costruirli». Proprio come per secoli la civiltà occidentale ha «costruito» immagini dell’uomo quando, per pigrizia, per disprezzo o semplice mancanza di conoscenza, si è trovata di fronte

qualcuno che apparteneva a un’altra razza o a un continente sconosciuto 13. Solo che con l’uomo, alla fin fine, è possibile comunicare, anche con il piú remoto. C’è sempre speranza di capirsi e di capire. Se volessimo davvero comprendere il significato delle figure tracciate dall’uomo di Cromagnon, basterebbe che (in un dialogo reso impossibile solo dalla storia e dal tempo) noi potessimo chiedergli il perché di quelle immagini 14. Ma non possiamo chiedere al nostro gatto perché si rifiuta di mangiare l’insalata, che invece gli farebbe tanto bene. Uscire dal paradosso di Wittgenstein sembra per ora molto difficile. Le vie che ci si presentano sono dolorose e fantastiche, come quelle sperimentate dai vari «ragazzi selvaggi» che nel corso della storia la civiltà occidentale ha raccolto nelle boscaglie o, perlomeno, ha dichiarato di aver raccolto. Creature umane allevate dai lupi o dalle antilopi, che avevano imparato a comportarsi come i loro genitori-animali e ne comprendevano il linguaggio 15. Oppure si tratta di vie che possono presentarsi tanto appassionanti quanto ardue, come quelle perseguite da coloro che si adoperano a insegnare il linguaggio umano – il «nostro» linguaggio – agli scimpanzé. Una volta Emily Hahn aveva ricevuto l’incarico di scrivere una relazione su un gruppo di psicologi che insegnavano agli scimpanzé come comunicare attraverso le mani o il computer. Esperienza di grande interesse, certo. Eppure l’autrice non aveva vergogna di dichiarare che l’incapacità di parlare con gli animali o di capirli era diventata per lei un incubo, per il profondo senso di rimpianto che la prendeva quando pensava che tutta questa «vita» le rimaneva nascosta. Le pareva di vivere in una «comunità di desolazione», in cui ci si rallegrava ogni volta che una scimmia segnalava «io voglio una banana» 16. Il leone non parla, e comunque, anche se parlasse, noi non potremmo capirlo. Se mai imparasse la nostra lingua non andrebbe al di là di un balbettio, e comunque ci resterebbe la curiosità di sapere se stia veramente parlando o solo obbedendo a un ordine. Di fronte a questa situazione, la reazione dell’uomo è stata ed è quella di proiettare «se stesso» in questa maschera muta, mettendo il cappotto al pechinese ovvero «esopizzando» e «disneyficando» lupi e paperi. Quello che non abbiamo saputo e non sappiamo accettare è la totale alterità dell’animale. La sua appartenenza non tanto a una «natura» diversa o peggio inferiore (come per secoli, sulla base della Bibbia, la civiltà cristiana si è sforzata di dimostrare) quanto a una «cultura» totalmente altra. All’estremo opposto della «disneyficazione» o della «esopizzazione»

degli animali, o del loro appiattimento sulla società dell’uomo in forma di pet, sta quell’atteggiamento che potremmo definire «bestiarizzazione». In altre parole, la trasformazione degli animali nella piú totale e fantastica «alterità» rispetto al mondo umano, l’enfatizzazione delle loro meraviglie, curiosità, eccezionalità, vere o presunte che siano. Di questa tendenza la cultura antica, come tante altre culture sulla faccia della terra, offre esempi infiniti. Non ultima la nostra donnola, animale che partorisce dalla bocca e concepisce dalle orecchie. Bisogna però dire che l’esempio piú visibile, perché estremo, di bestiarizzazione è costituito dalla creazione di animali fantastici: mostri, sfingi, dragoni, unicorni, e cosí di seguito. Non paga di attribuire qualità meravigliose agli animali veri, la cultura umana ha dato vita anche ad animali talmente meravigliosi da risultare direttamente inesistenti. Ma siamo sicuri che la società occidentale contemporanea, laica e scientifica, sia immune da questa inclinazione verso l’animale «meraviglioso»? Discipline come la «criptozoologia», moderna ibridazione fra zoologia fantastica e modelli di cultura scientifica, testimoniano esplicitamente della difficoltà con cui la cultura moderna si rassegna alla perdita degli animali fantastici 17. Ma soprattutto c’è da pensare che buona parte della produzione Bbc nel settore dei documentari sulla natura – gamberi dalla chela a mazza di cui si calcola esattamente l’energia cinetica nello scontro fra due maschi, ghepardi lanciati come frecce sulla traiettoria dell’antilope – non svolga opera fondamentalmente diversa da quella che svolgevano gli antichi bestiari e i favolosi racconti di animali. La nostra fantasia continua a desiderare storie mirabili di animali. Oggi sono storie scientifiche, e costruite con la macchina da presa, ieri erano storie di meravigliosa fantasia, ed erano costruite solo con le parole o con figure fisse. Ma anche le nostre storie di animali, quelle scientifiche, restano tuttavia meravigliose e metaforiche. Tanto è vero che sempre di piú ci preoccupiamo di cogliere gli animali in pose o momenti in cui «non» ci sarebbe mai stato possibile vederli senza l’ausilio della tecnologia moderna 18. E cosa c’è di piú fantastico, di piú metaforico, del vedere qualcosa in un modo radicalmente altro da quello che ci è concesso nella vita normale? Da quello in cui il soggetto non si attende di essere visto, e soprattutto «non lo vuole»? L’obiettivo del documentarista è curioso, indiscreto, spesso cerca solo la bizzarria. Continuiamo a desiderare di essere «sorpresi» dagli animali, dalle loro abitudini e dalle loro sconosciute caratteristiche. E attraverso la finestra della meraviglia scrutiamo un mondo

in cui sospettiamo continuamente che il gambero con la chela a mazza, o la grande balena che drizza la coda di fronte all’imbarcazione dei turisti lungo le coste del Pacifico, abbiano un qualche significato che riguarda direttamente «noi».

2. La foresta di simboli è piena di animali. È come se il nostro bisogno di misurare l’umanità con l’altro per eccellenza, l’animale, non si fosse ancora esaurito. Ci siamo sempre proiettati negli animali, ritagliando i loro contorni in misura piú o meno simile alla nostra, facendone nello stesso tempo mostri di bestialità, degni delle piú atroci punizioni, e creature talmente simili a noi che si fa fatica a credere che sia lecito ucciderli e cibarsene 19. Hanno simboleggiato le nostre passioni, le nostre grandezze e le nostre ingiustizie, abbiamo persino classificato i diversi tipi umani attraverso le specie (vere o presunte) degli animali. Ancora Balzac, nel suo celebre Avant-propos a La Comédie humaine (1842), poteva scrivere: La Société ne fait-elle pas de l’homme, suivant le milieux où son action se déploie, autant d’hommes différents qu’il y a de variétés en zoologie? Les différences entre un soldat, un ouvrier, un administrateur, un avocat, un oisif, un savant, un homme d’État, un commerçant, un marin, un poète, un pauvre, un prêtre, sont, quoique plus difficiles à saisir, aussi considérables que celles qui distinguent le loup, le lion, l’âne, le courbeau, le requin, le veau marin, le brebis, etc. 20.

Ecco che di nuovo, in pieno secolo XIX , la tassonomia animale torna a proiettarsi su quella sociale e pretende di descriverne le differenze. La rigidezza di Balzac – naturalistica e politica insieme – allargava lo spazio della differenza fra uomo e animale solo per ciò che concerneva la femme, questa creatura umana che per l’autore della Comédie non poteva essere ridotta alla semplice femelle du mâle: come invece accadeva nel caso della lionne, di cui il conte di Buffon si liberava con poche frasi allorché dipingeva il ritratto del lion. Quando si vede che «la femme d’un merchant est quelquefois digne d’être celle d’un prince, et souvent celle d’un prince ne vaut pas la femme d’un artiste» 21, non si potrà in buona coscienza ridurre la

donna a una semplice femmina della specie. Nei secoli gli animali hanno dunque continuato a essere il nostro «specchio». Novaziano lo aveva detto esplicitamente: «negli animali … risiede quasi uno specchio della vita umana, in cui si possano osservare le immagini delle singole azioni» 22. Questa superficie rilucente, popolata di ombre evanide o di simulacri talmente consistenti da poter talora gareggiare con la stessa realtà, ha il potere di rimandarci tanto l’immagine che ci attendiamo quanto quella che ci sorprende o ci turba. Gli animali sono infatti abbastanza simili a noi per poter essere oggetto di paralleli e di analogie – abbastanza lontani per poter costruire differenze e identità separate 23: hanno un’anatomia simile alla nostra, salvo che del loro corpo ci cibiamo; hanno voce, ma non parlano; hanno amori e accoppiamenti, ma non costruiscono né parentele né famiglie… L’animale è lontano e vicino, e come tale costituisce una straordinaria fonte di affordances simboliche per la cultura umana e un eccellente mediatore fra l’uomo e l’ambiente che lo circonda. Il fatto è che, se gli animali sono stati, e ancora lo sono, oggetto di svago e meraviglia, sono stati soprattutto oggetti buoni per «pensare» noi e la nostra cultura. Li abbiamo usati per classificare gruppi, individui, rapporti con la divinità, relazioni alimentari, matrimoniali, e cosí via, secondo il cosiddetto modello totemico della classificazione sociale 24. Gli animali servono a pensare, ovvero, come si è sostenuto, servono altrettanto bene a proibire, ossia a classificare moralmente 25. Un’affermazione che suona ovviamente molto familiare ai lettori di Esopo. Tutti gli animali sono buoni per pensare, non solo quelli piú grandi, o piú utili all’uomo, o piú belli. Anche quelli minuti o banali trovano la loro funzione nell’ordinamento in forma animale dell’esperienza culturale 26. L’utilità degli animali sembra anzi risultare piú forte quando ci si trova a operare in quelle zone del pensiero umano che sono piú colpite da interdizioni o reticenze 27. Forse che fino a poco tempo fa non si insegnava ai bambini che i «nuovi nati li porta la cicogna»? 28. Sappiamo bene come ci si comporta di fronte a certi «soggetti vergognosi», come la nascita. Gli animali costituiscono un’ottima scusa per lasciare i bambini fuori dalla camera da letto o dalla stanza del parto. Neppure i mostri, gli animali fantastici e inesistenti, si sottraggono alla regola dell’uso intellettuale degli animali, anzi la confermano. Si tratta di animali buoni per sorprendere, certo, secondo quella tendenza alla bestiarizzazione che sopra abbiamo descritto: ma insieme essi si presentano

talmente estranei alle regole della tassonomia normale delle specie da risultare soprattutto buoni per infrangerla e diventare simboli 29. La creazione di animali fantastici costituisce un fenomeno cosí generale e diffuso che è molto difficile fornirne un’interpretazione che non si serva di un sistema di risposte multiple: le ipotesi si sono dunque moltiplicate. Cosí è stato detto per esempio che gli ibridi e i mostri esistono perché permettono all’uomo di impadronirsi dell’ambiente che lo circonda, attraverso un inatteso gioco di smontaggio e di ricomposizione fantastica di esso 30; oppure si è detto invece che gli animali fantastici servono semplicemente a stabilire un ponte fra l’uomo e la divinità costruita come alterità per eccellenza 31. Non c’è dubbio però che ibridi e mostri trovino una loro funzione anche nella prospettiva che ci interessa, quella degli animali per pensare. In che modo? Crediamo che gli ibridi e i mostri siano buoni per pensare soprattutto perché ibrido e contraddittorio, se non addirittura mostruoso, si presenta talora il mondo delle relazioni sociali in cui siamo immersi. In certi casi l’animale normale non basta. Siamo di nuovo di fronte al gioco delle proiezioni, la società si specchia nella natura e contemporaneamente dalla natura cosí falsificata pretende di ricevere i mezzi per capire se stessa. Il significato della creatura ibrida e fantastica sta in questo, che essa permette di pensare cose molto umane che altrimenti sarebbe difficile concettualizzare. Prendiamo per esempio il caso della Sfinge che affligge Tebe. Questo essere misto di donna, di uccello e di leone, si presta magnificamente a esprimere le ambiguità e le contraddizioni dell’uomo che le sta di fronte, Edipo. Anche lui creatura dalla posizione – stavolta sociale, non naturale – ambigua e complessa, estranea alle regole della cultura: assassino del proprio padre e insieme suo vendicatore, persecutore di se stesso, figlio e marito di una stessa donna, padre e fratello dei propri figli… La Sfinge, con le sue ali dal colore «cangiante» e per ciò stesso «enigmatico», con la sua natura plurima e assurda, esprime nell’ordine naturale tutte le ambiguità e le contraddizioni tassonomiche che Edipo introduce nell’ordine sociale 32. Nel mondo delle credenze e delle storie degli animali, gli ibridi e i mostri non sono dunque strutturalmente, o funzionalmente, diversi dagli altri animali. La loro natura mista enfatizza soltanto un’intrinseca virtú che pertiene a tutti, quella di «far pensare»: salvo che stavolta l’animale è chiamato a rappresentare situazioni che, come lui, sono complesse o ambivalenti. In questo senso, nella scala del pensiero animale la posizione

intermedia fra l’ibrido o il mostro da un lato e l’animale normale dall’altro è tenuta dai «comportamenti» ibridi, contraddittori, anormali, che spesso vengono volutamente (e per noi incomprensibilmente) attribuiti agli animali normali. Storie bizzarre di animali ne abbiamo già viste tante, ma proviamo a ricordare quella che Claudio Eliano racconta a proposito del gallo: … apprendo poi che il gallo è anche caro a Latona, e la ragione è che, a quanto dicono, la assistette in occasione del suo duplice e felice parto. Per lo stesso motivo anche adesso un gallo suole stare presso le partorienti quel giorno, e sembra che le faccia partorire con facilità. Se la gallina muore, cova lui le uova, e cova le uova con i pulcini in silenzio. Proprio cosí, non canta, per un motivo mirabile e oscuro. Credo però che sia perché si rende conto che sta compiendo un’opera da femmina e non da maschio. Un gallo che è stato sconfitto da un altro in battaglia o in uno scontro non canta, perché il suo animo è depresso e si nasconde dalla vergogna… 33.

Questa storia di animali è invero molto umana, e anche molto parlante. Eliano ci mette infatti di fronte a una situazione che è abbastanza difficile descrivere o concettualizzare, quella di un maschio che, per motivi piú forti della sua scelta o dei suoi desideri, si trova da solo ad affrontare il compito di curare dei piccoli senza madre. In pratica, un maschio costretto a svolgere funzioni di femmina. Come reagirà questo maschio? E come si può fare a descrivere quello che gli accade? Ecco allora che si fa ricorso alla storia del gallo, l’emblema stesso della mascolinità, che viene messo a covare delle uova: però si dice anche che lo fa «in silenzio», senza cantare, proprio come se fosse stato sconfitto in battaglia o nello scontro con un altro maschio. Si tratta di una condizione estremamente umiliante per un animale che, anche nella cultura greca, aveva fama di essere estremamente orgoglioso e pugnace 34. Non c’è dubbio che, anche in questo caso, i personaggi animali recitino un canovaccio costruito su categorie culturali che appartengono squisitamente al mondo umano. In Grecia infatti colui che aveva dimostrato viltà in battaglia poteva facilmente essere femminilizzato, o addirittura identificato con un androgino 35. Ma la situazione non è cosí semplice. Questo gallo infatti non si presenta solo come qualcuno che è umiliato dal ruolo femminile che deve interpretare (femminile come quello di un «maschio sconfitto»), ma anche come personaggio generoso, e amante della propria prole. La sua couvade si configura insomma come una vicenda complessa, e

la sua avventura femminile viene analizzata in direzioni simboliche opposte e contrastanti: il gallo che cova è un maschio umiliato e un essere generoso allo stesso tempo. Il fatto è che «far la donna», per un uomo, costituisce non solo una circostanza imbarazzante ma soprattutto una cosa difficile da «pensare». Meglio provarci attraverso la storia di un gallo dalle abitudini bizzarre. Per pensare una condizione cosí complessa e contraddittoria come quella di un maschio/donna non bastava il comportamento di un animale normale, ovvero il comportamento «normale» di un animale: occorreva ancora una volta qualcosa di ibrido, di inaudito, che aiutasse a pensare un insieme ugualmente ibrido, contraddittorio, difficile, di categorie culturali. Oggetti «per pensare» 36. Naturalmente non sono solo gli ibridi o gli animali dal comportamento bizzarro che facilitano lo sviluppo del pensiero, lo sono anche gli animali presi nelle loro caratteristiche piú usuali e addirittura piú stereotipe. Il racconto di tipo esopico ha costruito un intero mondo (molto umano) di forti e di deboli, di sciocchi e di astuti, utilizzando come elementi costruttivi proprio i tipi e le caratteristiche piú usuali degli animali. Un universo di favole remote, la cui origine resta sconosciuta, ma di cui è certa la straordinaria fortuna nel corso dei secoli fino all’era moderna. I favolisti cristiani del Medioevo fecero infatti buon uso della moralità esopica; Maria di Francia ci proiettò il suo mondo di nobili e di cortigiani 37, e cosí via di seguito, fino all’Europa contemporanea 38. Quanto al Fisiologo, in questo caso gli uomini si sono serviti degli animali per pensare nientemeno che Dio e la redenzione. Servendosi delle loro caratteristiche (vere o presunte) si può «parlare» delle cose degli uomini: se si combina un lupo con un agnello si può fare un discorso sull’arroganza dei forti e l’eterna ingiustizia sui deboli; se si fa incontrare un topo con un elefante si può scoprire che persino i giganti hanno le loro incredibili debolezze, e dunque non bisogna mai disperare. Nel corso del tempo le categorie culturali hanno preso veste di animali, presentandosi alla nostra riflessione nella forma di leoni, volpi e gru dal lungo becco. La maschera dell’animale, una volta posta sul viso dell’uomo, si trasformava automaticamente nel suo opposto: «smascherava» la natura vera, definiva, riduceva all’essenziale 39. La lussuria è una lepre bisessuale, il Figlio di Dio un agnello bianco e indifeso, la regalità un leone, l’aristocrazia stupida e arrogante una combriccola di lupi. Gli animali trasmettono significati e messaggi, sono come le parole di un linguaggio, gli elementi di un codice.

Neppure la riflessione zoologica dell’Europa moderna è stata immune da quest’uso metaforico degli animali, studiati o celebrati per la loro capacità di rispondere alle esigenze ideologiche della società. Di volta in volta, gli animali sono stati utilizzati per dimostrare per esempio che Dio aveva dotato tutti gli esseri viventi di una propensione spontanea per la monarchia, come nel caso delle api – delle quali ovviamente fu accolta con riluttanza la scoperta che il loro carismatico re altro non era se non una regina! 40. Con il trascorrere del tempo l’interesse per api e formiche costituí invece una buona risposta all’ossessione per i valori borghesi della frugalità e del duro lavoro. Ancora, con la sentimentalizzazione dei rapporti familiari, i naturalisti prestarono piú attenzione alle virtú parentali del mondo animale: negli animali selvaggi si videro affetto materno, fedeltà maritale, pietà per i vecchi genitori. Mentre gli ornitologi britannici degli inizi del secolo XIX studiarono con particolare passione gli uccelli ancora per le loro rassicuranti relazioni familiari 41. Gli animali hanno avuto la capacità di rispecchiare la nostra condizione umana nelle forme piú semplici e insieme piú complesse, le nostre ideologie e le nostre fantasie. Con gli animali abbiamo giocato, interpretandone versi e movenze («come fa l’asino?» «guarda, sono un gatto»…) nei contesti culturali e sociali piú disparati. La lingua inglese, cosí duttile nel passaggio dai verbi ai sostantivi e viceversa, usa addirittura trasformare in verbi i nomi degli animali – «duck your head, don’t clam up, you are ratting…» 42. Se, come si teme, nella nostra corsa allo sfruttamento della natura riusciremo davvero a distruggere il mondo che ci circonda, mi figuro un mondo vuoto di animali ma proprio per questo pieno di simulacri e di nostalgia. Uomini che guardano fotografie e filmati di animali scomparsi, o che ne costruiscono immagini virtuali su immensi schermi di computer. Se il mondo è davvero una foresta di simboli, come diceva Baudelaire, si tratta però di una foresta piena di animali.

3. L’enciclopedia. Gli animali servono dunque per pensare e per conoscere. Attorno a loro si raccoglie una massa di credenze, di conoscenze, di modelli culturali e

fantastici che non possiamo definire se non con il termine di «enciclopedia» 43. Ciascun animale infatti, e il mondo degli animali nel suo complesso, non corrisponde soltanto a un insieme di nomi e a un dizionario di definizioni verbali, ma trascina con sé un contesto di carattere pragmatico e culturale: che è di volta in volta necessario conoscere per poterne correttamente interpretare il significato. Vorremmo fare un esempio, e il primo che ci viene in mente è costituito ovviamente dalla donnola. Tutte le volte in cui un testo ci mette di fronte a una gal greca o una mustela romana, per comprendere veramente il significato di queste occorrenze non basta conoscere le definizioni che i dizionari danno su questo animale (appartenente alla famiglia dei mustelidi, predatore, di pelo marrone, taglia allungata…), ma è necessario conoscere anche il complesso delle credenze che circolano attorno a lui e i contesti pragmatici in cui lo si incontra. È dunque venuto il momento di parlare, se pur brevemente, dell’enciclopedia degli animali nella cultura antica. Nel mondo greco e romano, infatti, le credenze sugli animali sono molto di piú di una collezione di notizie esatte, assurde o curiose: sono un modo di pensare il mondo. In esse si mescolano sia categorie che noi definiremmo oggettive (osservazioni empiriche, conoscenze reali del comportamento animale, e cosí via) sia modelli di rappresentazione simbolica che rispondono a esigenze molto diverse da quelle della «reale» conoscenza dei fatti. Il risultato di questa combinazione non può ovviamente essere analizzato come se si trattasse di un nucleo di cose «giuste» o «vere» disperse in un mare di trascurabili sciocchezze. Anche le notizie piú bizzarre potevano infatti svolgere una loro specifica funzione culturale: e come tali essere dotate di un significato. Ma qual era questo significato? Ovviamente quello che risultava dalla rete di domande che in antico venivano poste al regno degli animali, gli «altri», i muti – e dunque risposte che in genere gli uomini, come sappiamo, si sono dati da soli. In ogni caso, possiamo esser certi del fatto che queste domande erano quasi sempre molto diverse da quelle che vengono poste agli stessi animali dalla zoologia moderna. La quale, peraltro, solo molto gradatamente si è distaccata dall’antica enciclopedia, e per secoli ha continuato a ritenere che della natura degli animali facesse parte non solo la descrizione dei loro comportamenti o il loro posto nella tassonomia, ma anche il loro significato astrale o morale 44. Potremmo dire, piú esattamente, che nel Mondo Antico gli animali ricevevano il loro specifico (e spesso per

noi bizzarro) «significato» dai peculiari processi semiotici in cui la cultura greca e romana li coinvolgeva – processi in cui oggi non li coinvolgiamo piú. Il campo si presenta ovviamente sterminato, e per descrivere questi processi possiamo procedere solo tramite alcuni esempi. Cercheremo perciò di indicare almeno quattro grandi filoni culturali, particolarmente rilevanti per la cultura antica, in cui gli animali venivano tradizionalmente coinvolti. In primo luogo, si sa che gli animali venivano impiegati nelle operazioni della magia o della medicina, con l’attribuzione di poteri terapeutici a parti del loro corpo: in questo modo, la natura di molti animali entrava a far parte di uno specifico processo semiotico che stabiliva relazioni, pertinenze, equivalenze spesso molto lontane dalla cosiddetta realtà, ma sostanzialmente coerenti con il modello simbolico che perseguivano. Il libro XXVIII della Storia naturale di Plinio il Vecchio, cosí come il XXX, costituisce una miniera inesauribile di informazioni sulla medicina (o la magia) tratta dagli animali: mentre la dottrina greca della sympathia e della antipathia, a cui lo stesso Plinio fa riferimento piú volte, costituisce il fondamento teorico di tali pratiche 45. Forse una lettura dell’Amante della menzogna di Luciano potrebbe invitare qualcuno a screditare, semplicemente, questo tipo di credenze, e a considerarle patrimonio di pochi, maniacali superstiziosi 46. Ma in questo caso faremmo male ad accettare l’illuminato punto di vista di Luciano. Perché ancora Plinio, con una sua aurea frase, ci riporterebbe immediatamente al senso della realtà 47: Presi a uno a uno, i piú saggi rifiutano questo tipo di credenze [il potere di verba et incantamenta carminum]: ma la vita presa nel suo complesso a ogni momento vi presta fede, e non se ne accorge 48.

Il carattere esplicito di questa affermazione è davvero impressionante, e l’enfasi cade ovviamente su parole come «vita», «credeva» e «non se ne accorge». La vita antica, presa in universum, credeva in questo tipo di cose, e ci credeva a un tale livello di cultura diffusa, come diremmo noi, che non se ne accorgeva neppure 49. Molti secoli dopo James Frazer, senza ricordare Plinio, avrebbe emesso lo stesso pacato giudizio sull’effettiva rilevanza della cosiddetta superstizione nella cultura degli antichi 50. Di questo inconsapevole credere della «vita» nelle pratiche «superstiziose», lo stesso Plinio il Vecchio ci fornisce una conferma che è

tanto piú interessante quanto piú, anch’essa, si presenta inconsapevole. Nel libro XXX egli si occupa infatti dei rimedi che dagli animali ha tratto la magia. L’esposizione di questi rimedi è preceduta da un’introduzione che, oltre a una sommaria storia della magia, contiene un’appassionata deprecazione di quest’arte e una dichiarazione della sua sostanziale falsità 51. Sia chiaro – dice Plinio – che [quest’arte] è detestabile, impotente, vana, che purtuttavia possiede alcune ombre di verità: ma in esse agisce l’arte del veneficio, non quella della magia 52.

Queste dichiarazioni iniziali non impediscono però all’autore di enumerare subito dopo ben 854 rimedi tratti dagli animali, di cui moltissimi di natura che è impossibile non definire magica 53. Evidentemente quelle umbrae veritatis erano piú salde di quanto Plinio stesso non fosse disposto ad ammettere 54. La vita antica credeva insomma che gli animali, o parti di essi 55, potessero giovare a curare le malattie dell’uomo. E a questo scopo impegnava gli animali non solo nei processi pratici (medici o magici, è difficile distinguere) del loro utilizzo terapeutico: ma anche e soprattutto nei sofisticati processi semiotici che questo loro utilizzo pratico rendeva necessari. Ecco che allora il corpo del nostro animale, la donnola, può diventare efficace per curare le ferite se trattato con il sale e assunto in una determinata quantità – e ancora piú efficace risultava il corpo del cucciolo di mustela 56. Allo stesso modo, il corpo della donnola era considerato un potente rimedio contro i veleni 57. Il circolo della significazione si manifesta qui in tutta la sua completezza. La donnola, animale che nelle credenze e nelle storie che circolavano su di lei era ritenuta capace di far rivivere i propri cuccioli morti, considerata come sostanza terapeutica diventava buon rimedio per curare i feriti, e ancor piú lo era considerato il corpo di uno dei suoi «cuccioli»; per lo stesso motivo la nemica del basilisco, e l’animale di cui si raccontava che conoscesse un’erba capace di proteggerla dai morsi del serpente, diventava efficace rimedio contro l’avvelenamento 58. Il sistema delle credenze imprime il suo sigillo sul corpo stesso degli animali, che all’interno dell’enciclopedia diventa l’anello di una catena significativa potenzialmente infinita. Continuiamo nella nostra sommaria descrizione dei modelli culturali in cui la cultura antica coinvolgeva gli animali. Oltre che nella medicina e nella

magia, gli animali partecipavano della divinazione. È altrettanto noto infatti che agli uccelli in modo particolare, e agli animali in genere, veniva conferito il potere di manifestare i voleri del fato, di modo che al loro comportamento veniva assegnato valore di presagio. «Non c’è animale che con il suo movimento o con il suo apparire non predica qualcosa», scriveva Seneca 59. E se a qualcuno di essi non si attribuisce valore divinatorio, diceva ancora, non è perché in sé non ce l’abbia: è solo che i segni di cui è portatore «non sono stati ancora interpretati dall’arte divinatoria, e alcuni non lo possono neppure, perché la loro conversatio è troppo remota da noi» 60. I segni emessi dagli animali costituiscono come un linguaggio globale, infinito, di cui solo una parte è stata disciplinata dagli aruspici e, soprattutto, solo una parte può essere inglobata nell’interpretazione, il resto ci sfugge. Quella degli animali è una «conversazione» interminabile, che affronta argomenti comprensibili ma anche incomprensibili, ed è grande come il mondo. Anche Eliano ha una bella metafora per indicare la funzione degli animali fatidici: li considera attori. Descrivendo le caratteristiche del corvo, il quale avrebbe una voce diversa quando scherza rispetto a quella che ha quando è serio, e soprattutto rispetto a quando svolge funzione divinatoria, egli si esprime in questo modo: «quando interpreta (hupokrínoito) i messaggi degli dèi, allora ha una voce sacrale e profetica» 61. Agli animali, insomma, è assegnata una parte nella rappresentazione del mondo, e questa parte consiste nell’interpretare per gli uomini ciò che gli dèi hanno in mente di fare. Questo fondamentale ruolo divinatorio attribuito agli animali li coinvolgeva ovviamente in un ulteriore processo semiotico, che prestava alle loro azioni un valore semantico di volta in volta coerente con gli scopi dell’interpretazione divinatoria. Restiamo ancora in compagnia della donnola. Eccola infatti scrutata, studiata, o semplicemente osservata, mentre «attraversa la strada», «balza sulla mensa» ovvero «passa fra i piedi» degli uomini… 62. Tutto questo ha infatti un «significato», buono o cattivo dipende dalle occasioni e dalle culture. Ancora, i demoni la scelgono come loro messaggera per predire il futuro, il suo grido è enigmatico e chiede l’interpretazione di uno «specialista» 63. La donnola, animale di casa o nemica dei pollai, è contemporaneamente l’ambasciatrice misteriosa del mondo soprannaturale: la sua apparizione suscita sentimenti disparati e per noi moderni – ormai ignari dell’antica enciclopedia che descriveva i confini simbolici di questo animale – del tutto imprevisti.

Già questi due soli codici culturali, quello medico-magico e quello religioso-augurale, sarebbero capaci di trasformare qualsiasi animale, anche quello per noi piú consueto e quotidiano, in una creatura fornita di una densità significativa del tutto inaudita. Ma possiamo continuare. Altre volte infatti la descrizione del regno animale poteva essere intrapresa da un punto di vista moralistico, per dimostrare che in natura esistono già tutte le virtú – ovvero tutti i vizi – che si ritengono proprie dell’uomo. Cosí accade per esempio nell’opera Sulla natura degli animali di Eliano, ovvero nei capitoli della Storia naturale che Plinio dedica al comportamento degli elefanti 64. Parlando di virtú animali, è difficile trattenersi dal ricordare l’edificante epopea che il Mondo Antico costruí attorno all’ape: insetto laborioso, puro, nemico di ogni eccesso e in particolare di ogni lussuria. Tanto che si poteva dire perfetta – e unica, ahimè, fra tutte le rappresentanti del suo sesso – la donna che dall’ape rilevava la propria natura 65. L’utilizzazione degli animali in senso morale costituisce ovviamente un modello in qualche modo ricorrente nella nostra cultura (sopra lo abbiamo visto, per esempio, ben documentato anche nella riflessione zoologica dell’Europa moderna). Tale atteggiamento nei confronti degli animali presenta inoltre molti punti di contatto con la funzione – altrettanto morale – che gli animali svolgono nella favola antica. In cui, come piú avanti dovremo vedere meglio, i vizi e le virtú degli uomini si trasformano in storie costruite attorno alle qualità stereotipe degli animali. Altre volte, infine, alla conoscenza degli animali si poteva delegare semplicemente il compito di stupire, come già sappiamo, di alimentare la fantasia soddisfacendo i piaceri dell’immaginazione: e in questo modo stimolando a pensare la cultura umana nei suoi angoli piú critici o contraddittori. Come quando si dice che la donnola partorisce dalla bocca e concepisce dalle orecchie, che il gallo non canta quando cova al posto della gallina, e cosí all’infinito. In tutti questi casi, però, era comunque necessario creare ulteriori rapporti di senso, attribuendo a ogni animale coinvolto nel processo caratteristiche di comportamento che si adattavano al ruolo che era chiamato a interpretare. In questo senso l’opera di Eliano costituisce certo l’esemplare migliore e piú completo di enciclopedia meravigliosa sugli animali. Ecco che il pesce Scaro diventa non solo un pesce che vive in certe acque e non in altre, ma anche un modello di amante appassionato, anche un po’ scriteriato 66. Mentre gli aironi 67 si presentano come «uomini» a tutti gli

effetti, visto che trattavano i Greci con cordialità e si mostravano indifferenti verso i Barbari – un comportamento che risultava particolarmente vicino al modo in cui i Greci dividevano il mondo 68. Come dicevamo, ogni volta che uno di questi copioni culturali si metteva in opera – medico-magico, divinatorio, morale, meraviglioso-affabulatorio – accadeva anche che un certo animale, o una parte del suo corpo, ricevesse un significato specifico, che andava a far parte dell’enciclopedia culturale complessiva. Forse un ultimo esempio potrà rendere piú chiaro quello che intendiamo dire. Visto che della donnola abbiamo parlato abbastanza, prendiamo stavolta il caso di un animale diverso: quello del lupo. La nostra enciclopedia culturale contemporanea ne fa sostanzialmente un animale feroce con le greggi, talora pericoloso per l’uomo, probabilmente in via di estinzione in certe zone d’Europa, e cosí di seguito. Tutto qui. Proviamo invece a leggere il lupo attraverso i quattro processi semiotici antichi che abbiamo indicato sopra. È sicuro che ai nostri (poveri) dati di cultura diffusa sul lupo, l’enciclopedia antica avrebbe sicuramente aggiunto almeno i seguenti: il potere medicinale dei suoi denti nel rinforzare denti umani che vacillano e nel tener lontano il mal di denti in generale (tanto che si usava tenerne uno legato addosso) 69; il potere magico apotropaico del suo muso una volta disseccato e appeso sulla porta di una villa 70; la credenza divinatoria che, se un lupo attraversava la strada da destra, e lo faceva con la bocca piena, questo costituiva un ottimo auspicio 71; la sua sensibilità veramente umana nei confronti della musica, tanto che l’auleta Pythocares era riuscito a respingerne l’assalto suonando «una melodia sonora e nobile» 72; senza trascurare ovviamente la sua meravigliosa capacità di togliere la voce all’uomo che esso avesse guardato prima di essere visto a sua volta 73, credenza alla quale si legava il noto proverbio «lupus in fabula» 74. Infine, faremmo certo torto all’enciclopedia culturale antica se dimenticassimo il ruolo che il lupo ha in miti come quelli della fondazione di Roma, tanto da far assurgere la «lupa» di Romolo e Remo a simbolo di un’intera civiltà; o a quello, piú modesto ma ugualmente importante, che l’animale svolge come carattere nella favola antica. Come si vede, nell’enciclopedia antica il lupo si presenta fornito di significati piuttosto distanti, e molto piú ricchi e numerosi, rispetto a quelli che esso ha per noi. Ma questo deriva semplicemente dal fatto che il lupo era coinvolto in modelli di pensiero altrettanto distanti da quelli in cui lo coinvolgiamo oggi. Potremmo concludere dicendo che

l’apparizione di un lupo – in un luogo fisico o in un testo – nella cultura antica prevedeva una serie di «reazioni» (di pensiero o di comportamento) che solo in parte coinciderebbero con quelle attuali. Se si vuole, il compito di una ricostruzione culturale coincide proprio con il tentativo di recuperare – attraverso il gioco dell’erudizione e della interpretazione – l’insieme delle «istruzioni» che venivano impartite a un lettore o semplicemente a un uomo antico da un’enciclopedia che non possediamo piú 75.

4. L’identità viene dalle storie che la raccontano. Bisogna dunque rassegnarsi all’idea che è proprio qui, in questa foresta piena di animali buoni per pensare, fra le pagine innumerevoli di un’enciclopedia che da tempo abbiamo smesso di sfogliare, che siamo andati a ricercare il tema della «Follia di Spagna». In Ispagna ci sono tante, troppe Follie, questa è la verità. La donnola, il piccolo animale che del nostro tema costituisce un segmento melodico fondamentale, è appena «uno» di questi infiniti soggetti di pensiero che sono gli animali: operatore fantastico che nel corso del tempo ha stratificato la sua natura immaginaria, e insieme compagna della vita di cacciatori e contadini che delle abitudini reali della donnola sapevano molto. In Ispagna ci sono troppe Follie, proprio come nel cielo ci sono troppi uccelli e sulla terra troppi quadrupedi. E solo il volo di un colibrí, come dicevamo all’inizio di questo capitolo, riempie le pagine di un libro. Anche la donnola infatti raccoglie intorno a sé una quantità di storie e di credenze davvero vasta e la sua enciclopedia – per quanto si tratti di un solo animale – richiederebbe molte pagine se si volesse trascriverla integralmente. E per ora ne abbiamo riportata solo una piccola percentuale. Per esempio, non abbiamo ancora detto nulla della favola esopica che la vuole sposa mancata, fanciulla che ha rinunziato alle sue nozze per dare la caccia a un topo. Una storia che si accompagnava con proverbi e credenze, e addirittura con comportamenti concreti – come quando, vedendola, le si cantavano canzoncine che le promettono al piú presto uno sposo 76. Altre volte invece la donnola fa la parte della sciocca, che si fa ingannare due volte da un pipistrello: la prima volta l’animale, già catturato, riesce a farsi liberare con l’argomento che se la donnola (come ha appena dichiarato) è una cacciatrice

di uccelli, deve lasciarlo andare perché lui è un topo; la seconda invece il pipistrello usa l’argomento inverso: se la donnola dà la caccia ai topi, come ha appena dichiarato, allora deve lasciarlo andare perché lui è un uccello 77. Altre volte ancora la donnola è invece animale non solo sciocco ma stupidamente sanguinario: come quando struscia la sua lingua contro una lima e la consuma tutta per il gusto del suo proprio sangue 78. Una storia che, sia detto per inciso, appare ancora una volta costruita sulla specifica conoscenza di una caratteristica reale della donnola, ossia il gusto che essa effettivamente prova nel leccare il sangue che stilla dalla ferita delle sue vittime 79. C’è dell’altro. Non abbiamo detto nulla del fatto che spesso la donnola è considerata animale parente, che porta il nome di «comare», di «cognata» o di «nuora» 80. O anche bestia maligna che succhia il latte dalle mammelle delle mucche nella stalla 81, che è ghiotta di dolcetti e spesso porta direttamente il nome di una cosa dolce o buona da mangiare («pane-e-latte», «pane-e-formaggio»), che è una «signorina» o una «dama», che è «bellina» 82. Ma non si sa se la si chiama cosí per paura, visto che spesso la donnola è animale talmente potente che non conviene neppure pronunziarne il nome, oppure per prenderla in giro. Potremmo anche continuare. Di sicuro, venire a capo di una donnola immaginaria è impresa almeno altrettanto difficile di quella che si richiede per venire a capo di una donnola vera. E stabilire in tutto questo che cosa è importante, e cosa non lo è, per capire il ruolo della donnola nel racconto di Alcmena, è impresa ancora piú laboriosa. In Ispagna ci sono troppe Follie. Se per andare a caccia di questo tema ci si addentra nella foresta degli animali, si ascolta un numero talmente grande di melodie che si corre il rischio di dimenticare persino le poche note che si erano intraviste all’inizio. Detto in termini piú esatti, il problema che ci si pone è il seguente: stabilire l’«identità» della donnola, stabilirla almeno dal punto di vista che ci interessa, il racconto di Alcmena. Quali sono i tratti veramente pertinenti di questo animale, quelli che la identificano per quello che è e che, nella foresta degli animali buoni per pensare, la rendono diversa da tutti gli altri? Non vorremmo annoiare troppo il lettore con questioni di metodo, ma bisogna dire che ci sarebbe il modo di uscire dagli impicci anche molto facilmente. Come spesso accade nelle poche note in calce al testo di Ovidio, o di Antonino, in cui ci si limita a ricordare l’uno o l’altro frammento di cosiddetto folclore

relativo alla donnola scegliendolo in base a criteri casuali, o di vaga somiglianza con il racconto 83. Cosí però è troppo semplice. Basta ignorare, o fingere di ignorare, che in Ispagna ci sono tante Follie, e la nota a piè di pagina è fatta, o l’interpretazione è scritta. Bisogna anche dire però che mettere a fuoco l’identità di un animale all’interno del mondo simbolico cui appartiene costituisce un problema tremendamente difficile. Se selezionare e ridurre è sicuramente arbitrario, anche il procedimento opposto, quello della amplificatio junghiana 84, risulterebbe altrettanto poco attraente. Si tratterebbe di ammassare credenze o simboli attorno a un animale sulla base di somiglianze casuali o trasversali, e tenute assieme da una rete a maglie larghissime. Ma per far ciò bisogna aver fede in un inconscio che procede secondo regole analogiche ferree, e che mette «lui» ordine, spontaneamente, nelle associazioni che liberamente si vanno «amplificando» attorno all’oggetto. Solo che, almeno noi, questa fede non l’abbiamo. Infine, ugualmente poco attraente ci risulterebbe un procedere opposto e di tipo razionalistico, che tentasse di ricostruire l’identità dell’animale ammassando semplicemente tutte le storie che in qualche misura lo riguardano: per poi costringere le singole caratteristiche verso un unico pivot «ragionevole» a cui tutto dovrebbe essere agganciato. Dubitiamo molto che questa operazione, per quanto attraente, ci permetterebbe davvero di costruire l’archetipo fantastico della donnola. Piú probabilmente riusciremmo solo a produrne un fascinoso miraggio, se fossimo bravi, o a disegnarne la caricatura se fossimo meno bravi. Le credenze e le storie in cui un animale compare sono un materiale fragile, forzarlo non è difficile ma romperlo è ancora piú facile. In realtà, possiamo e dobbiamo pensare che gli animali, all’interno dell’enciclopedia che li ha visti agire per millenni, godano di un’«identità multipla», divisa in elementi che possono anche non combinarsi fra loro e non sempre risultano modulari 85. Gli animali non sono personaggi come quelli, umani, della letteratura o meglio ancora del mito: sempre dotati in definitiva di un’identità riconoscibile, riducibile a tratti elementari che li rendono quelli che sono. Parlando dei vantaggi che le storie del mito offrivano al poeta tragico, il commediografo greco Antifane si esprimeva in questo modo: … la tragedia è un’arte fortunata, perché gli spettatori conoscono l’intreccio già prima che il poeta lo racconti, basta ricordarglielo: appena pronunziato il nome di «Edipo», già

si sa tutto il resto – il padre Laio, la madre Giocasta, le figlie, i figli, che cosa ha sofferto, la sua colpa. Allo stesso modo basta che uno dica «Alcmeone», e con questo si è già parlato anche dei suoi figli, di come egli sia impazzito e abbia ucciso sua madre, e di come Adrasto entri in scena, poi esca, poi rientri ancora… 86.

Edipo e Alcmeone, nomi di personaggi mitici, trascinano immediatamente con loro una storia e un’identità. O meglio, un’identità che viene da una storia che specificamente li riguarda. Al contrario, dire «volpe» o dire «leone» non è automaticamente definire un’identità. Certo, ci sono tratti piú prominenti e frequenti, altri che lo sono meno: la volpe è spesso «furba», il leone è frequentemente «forte». Di sicuro «non saranno mai l’agnello o il capretto ad aggredire il lupo»: però «non è detto che essi debbano sempre aver paura» 87. Cosí come dire «donnola» non significa necessariamente definire l’identità di una creatura «astuta» – perché ci sono dei casi in cui la donnola fa la figura di una stupida. Peraltro nemmeno dire «volpe» significa automaticamente indicare un paradigma di astuzia, perché Orazio ci ha mostrato proprio una volpe stupida a cui una donnola esperta fa la predica. Gli animali non sono «personaggi» veri e propri. Sembra che portino un nome proprio, come Edipo o Alcmeone, in realtà portano un nome comune. Per questo motivo entrano non in una storia sola, come questi due celebri caratteri umani, ma in molte. Crediamo che il punto stia proprio qui: uno stesso animale può figurare al centro di molteplici storie. Inevitabile, a questo punto, soffermarsi brevemente sulle storie animali per eccellenza, le favole antiche. Un mondo che almeno in apparenza si presenta regolare, elementare, e dunque facile da analizzare secondo le regole di una certa grammatica. Bisogna anzi dire che questo tipo di racconto sembra aver suscitato, in coloro che se ne sono occupati, come un miraggio di aurea e aritmetica perfezione – salvo però veder smentito, piú o meno esplicitamente, questo medesimo principio poche righe dopo la sua enunciazione. Una delle piú belle descrizioni del funzionamento della favola antica si deve a Gilbert K. Chesterton. Che nella presentazione a una traduzione inglese delle Favole di Esopo scriveva: … nella favola e nel racconto di folclore i personaggi sono impersonali, prevedibili e familiari … a differenza di quelli del mito devono essere come astrazioni in algebra, come pezzi nel gioco degli scacchi. Il leone deve essere sempre piú forte della volpe, proprio

come per noi due è sempre il doppio di uno. La volpe nella favola si deve muovere di «sbieco», proprio come anche il cavallo negli scacchi si deve muovere «di sbieco» … Ogni cosa è se stessa, e in ogni occasione parla per se stessa … È questa la giustificazione immortale della favola: che noi non potremmo insegnare le verità piú elementari in modo altrettanto semplice se non trasformando gli uomini in pezzi del gioco degli scacchi … In questo linguaggio, come in un grande alfabeto animale, sono scritte le prime certezze filosofiche dell’uomo. Come il bambino impara A come Asino, B come Bue o C come Cavallo, cosí l’uomo ha imparato nella favola animale come connettere le creature piú semplici e piú forti con le verità piú semplici e piú forti … che un topo è troppo debole per combattere un leone, ma troppo forte per le corde che possono trattenere un leone; che una volpe che prende di piú da un recipiente piatto può facilmente prendere di meno da un recipiente profondo; che gli dèi, se hanno proibito al corvo di cantare, non gli fanno però mancare il formaggio … Sono tutte verità profonde, profondamente incise su tutte le rocce su cui l’uomo si sia trovato a passare 88.

Si tratta di un’interpretazione bellissima. Eppure a un certo punto essa si incrina, e diventa contraddittoria. Come può accadere infatti che il leone debba «essere sempre piú forte della volpe, proprio come per noi due è sempre il doppio di uno», e contemporaneamente che il topo possa essere «troppo debole» e «troppo forte» nello stesso tempo? Alla fine della sua similitudine, Chesterton si trova senza volerlo ad affermare esattamente il contrario di quello che diceva all’inizio. I personaggi della favola non possono essere «come astrazioni in algebra, come pezzi nel gioco degli scacchi», semplicemente perché non è possibile «insegnare le verità piú elementari» con un insieme di pezzi fissi e con un unico tipo di gioco. Anche le verità piú elementari sono piú complesse di cosí, e richiedono un insieme di combinazioni molto maggiore. Meglio pensare che gli animali, proseguendo la similitudine di Chesterton, siano sí come i pezzi degli scacchi: ma che pezzi e scacchiera siano utilizzabili per un insieme «molteplice» di giochi, in cui talora il cavallo muove «di sbieco», e la volpe è furba, talora muove «diritto» o «all’indietro», e allora la volpe è sciocca. Il fatto è che la società stessa è molteplice e contraddittoria, nel suo continuo conflitto di valori e nelle sue mutevoli gerarchie di giudizio. Come potrebbe essere «semplice» il gioco delle pedine che di questa stessa società costituiscono la proiezione simbolica? La volpe non può essere sempre furba, semplicemente perché la gente spesso ha idee differenti su che cosa sia in

effetti la «furbizia» e su che ruolo questa caratteristica possa, o debba, giocare nella vita. Anche un recente studio sulla favola di animali sembra incorrere nella stessa ambivalenza di prospettiva: miraggio della semplicità, della regola unica, e implicita ammissione della complessità. Secondo Jawaharlal Handoo, la struttura della favola di animali si baserebbe (almeno in India) su un meccanismo molto semplice 89: l’inversione. Un animale che si presenta debole o insignificante nella realtà (scimmia, sciacallo), nella favola diventa un vincitore; mentre un animale grande e potente nella realtà (elefante, leone), nella fiaba diventa uno sconfitto, e deve cedere il passo ad animali piú deboli. Può essere. Ma come può l’autore distruggere poche righe dopo la sua stessa costruzione affermando che «nel folclore gli animali non sono soggetti a schemi fissi e stereotipi … ma uno stesso animale può apparire grosso, forte e sciocco» in relazione a un altro animale «in differenti situazioni»? 90. Di nuovo la favola di animali suggerisce il miraggio della semplicità, della rassicurante partita a scacchi, ma sono i fatti stessi a distruggere immediatamente questo miraggio e a far emergere la verità. Cioè che la favola di animali fa uso di identità «molteplici», contestuali, ed è vano voler ridurre i caratteri animali del racconto a un personaggio «unico». Il caso della favola, che abbiamo appena analizzato, può prestarsi però a un fraintendimento che è bene chiarire subito. Ci riferiamo all’uso specifico della parola «storia» che da questo momento in poi faremo in riferimento alla donnola e alle molteplici credenze, racconti, designazioni, proverbi e cosí via che in qualche modo la vedono protagonista. Quando affermiamo che un animale si presenta interprete di «storie» molteplici e diverse, non ci riferiamo solo alle favole esplicitamente narrate, come quelle esopiche, o agli aneddoti, o all’epos animalesco dalla Batrachomiomachia alla produzione medievale. Intendiamo anche tutte quelle storie non esplicite che sono però in relazione con proverbi o denominazioni o credenze simboliche: le quali tutte quante presuppongono storie o sono in grado di produrne 91. Se la donnola, nei proverbi, «viene inghiottita» (metaforicamente: vedi p. 184) dall’afono, questa è già una storia che ha lo stesso animale per protagonista. Se la si chiama la «signorina» o la «bella», dietro a ciascuna di tali denominazioni ci sono storie che si raccontano o che si potrebbero raccontare in proposito. A volte la storia che sta dietro la designazione di un animale la conosciamo bene, ed è addirittura una storia lunga e famosa. Come nel caso della volpe

francese, il renard, in cui la designazione dell’animale è realizzata attraverso un nome proprio (Renard) in conseguenza del noto ciclo di avventure del Roman de Renard; cosí come nell’uso moderno di definire «Bambi» i piccoli del cerbiatto in conseguenza di un noto film di Walt Disney 92. Altre volte invece la storia è implicita, o semplicemente contratta. Questo tipo di storie non consiste necessariamente in narrazioni dichiarate. Si tratta di un lampo di fantasia, di un’associazione di immagini che può per esempio spingere una filatrice a pensare che anche la donnola fili volentieri: ecco allora che la donnola entra in una storia – anche di questa parleremo piú avanti – in cui il fuso e la conocchia corrono sotto le sue rapide zampe. Perché esista una storia in cui la donnola è strega non c’è bisogno che ce la racconti Eliano, oltretutto con le buffe reticenze che vedremo. Infinite storie di donnolestreghe vanno assieme alla paura di pronunziarne addirittura il nome, o di incontrarla a mezza via 93. Allo stesso modo, quando la donnola viene considerata animale di mal augurio, ovvero quando la si giudica lussuriosa, maliziosa, e cosí via, sono tutte altrettante storie che circolano attorno a questo animale – compreso, ovviamente, il racconto di Alcmena salvata dalla donnola, che è un’altra storia interpretata dal nostro animale. Come si vede, la nozione di fondo che stiamo utilizzando è ancora quella di enciclopedia, salvo che di questa intendiamo dare adesso un’interpretazione in qualche modo «narrativa», perché ci pare che essa aiuti molto a comprendere il problema costituito dalla «identità multipla» degli animali. Questa identità infatti deriva a ciascuno di essi dal fascio di storie che circolano loro attorno, proprio come l’identità di un eroe mitico, Edipo o Alcmeone che sia, deriva dalla storia mitica che essi hanno interpretato: l’omicida e l’incestuoso, il pazzo e il matricida. L’identità è insomma il prodotto di una «narrazione». Salvo che nel caso degli animali non si tratta di una narrazione sola ma di un fascio, e l’identità che ne risulta ai personaggi si presenta molto piú vasta e variegata rispetto a quella che un eroe come Edipo o Alcmeone riceve dalla storia mitica di cui è protagonista. Ogni animale sta dunque al centro di un numero piú o meno grande di storie che lo riguardano: e come tale possiede un’identità che può facilmente risultare oscillante, dipendente dal ruolo che il narratore decide di assegnargli nel racconto. La volta in cui l’attenzione della storia cade su un pappagallo maleducato ma sicuro della sua voce, la donnola si riduce al rango di querula sostenitrice della pace domestica, come nella favola di Babrio che abbiamo

già citato 94. Da lei potevamo aspettarci che mangiasse agilmente quel pappagallo (cosí come è accusata di mangiarsi i cardellini nella Cena di Trimalchione di Petronio) 95, ovvero che, animale maligno e astuto per eccellenza 96, trovasse un modo altrettanto astuto per far tacere l’intruso. Non era quello che interessava alla storia, per cui la sua identità assume stavolta un’angolatura diversa. Per lo stesso motivo esistono storie in cui la donnola è animale di mal augurio, come in Grecia e altrove 97, altre in cui è invece di buon augurio, come a Roma 98. Sempre allo stesso modo, se l’attenzione della storia si focalizza non sulle astuzie della donnola ma sull’incerta natura del pipistrello, mezzo topo e mezzo uccello, ecco allora la donnola astuta beffata da questo brutto e ambiguo volatile. Stavolta la storia voleva parlare della caratteristica ambiguità del pipistrello, e serviva solo un cacciatore che la facesse rimarcare 99. Poco importa che la donnola contraddica qui la sua identità di animale astuto, alla storia non importava granché di questo. Gli animali non sono soggetti forti, che modificano sistematicamente gli intrecci delle storie in cui compaiono per piegarli alla natura immutabile dei propri attributi: sono piuttosto soggetti deboli, che vivono al centro di nastri di storie svariate, derivando la propria specifica identità dalle scelte del narratore. Questa loro debolezza però non costituisce necessariamente uno svantaggio. Anzi, in questa specifica caratteristica risiede probabilmente il motivo della straordinaria produttività semiotica degli animali. Sant’Agostino, parlando proprio della funzione degli animali come figure dell’interpretazione, ha scritto forse la cosa piú interessante sulla mutabilità dei significati che a essi possono venire attribuiti. Il vescovo d’Ippona si preoccupa di prevenire una possibile obiezione, relativa al fatto che nell’ambito di uno stesso testo biblico (il salmo 103) egli ha interpretato bestiae una volta come sinonimo di «gentes», un’altra come sinonimo di «daemonia et angeli pravaricationis». Ma non c’è da stupirsi, gli animali infatti … significano una volta una cosa una volta un’altra, proprio come è necessario comprendere la posizione di una lettera dell’alfabeto per capirne il significato. Se senti la prima lettera del nome «Dio», e pensi che debba essere messa sempre lí, dovrai cancellarla nel nome «Diavolo». Infatti il nome «Dio» comincia con la stessa lettera con cui si scrive il nome «Diavolo», però non c’è niente di piú distinto di Dio e del Diavolo 100.

Agostino, il linguista, sapeva che un conto è il valore assoluto ovvero paradigmatico di un suono o di una lettera, un altro il suo uso concreto nel sintagma della parola. Proprio questo aspetto della questione era sfuggito a Chesterton, quando paragonava i personaggi animali della favola antica alle lettere dell’alfabeto (A come Asino, B come Bue…) Il mondo degli animali non è un abbecedario, è un discorso. Dunque l’animale vive all’interno di un mondo molteplice, fatto di discorsi che si accavallano ovvero di storie che si intrecciano fra loro. Di sicuro, andare alla ricerca di un’intersezione perfetta fra tutte le storie interpretate da un certo animale sarebbe un’illusione. Sarebbe come cercare la sezione aurea dell’Eneide o la legge prosodica che spiega in un colpo solo il funzionamento di tutta la metrica quantitativa. Abbiamo visto che cosa è capitato a Chesterton quando ha voluto ridurre a un semplice «due è sempre il doppio di uno» il carattere degli animali all’interno della favola antica. E lui si riferiva a un «solo» campo di produzione semiotica (a un solo tipo di storie animali), quello della favola. Certo si possono trovare, però, intersezioni in certo modo principali, che identificano un animale almeno per una «parte» cospicua della propria identità. È quello che abbiamo cercato di fare sinora con la donnola, facendone l’intersezione di storie che la vedevano agire in relazione al momento del travaglio e alla capacità di entrare e uscire dai buchi, alla nascita facile e al suo parto dalla bocca. Il modello che abbiamo usato è stato sostanzialmente quello della «compatibilità»: identificando un certo numero di analogie fra il ruolo che l’animale svolge nel racconto di Alcmena e alcune delle caratteristiche (ovvero delle identità) che la donnola riceve dalle varie storie in cui figura. Le singole compatibilità che venivamo riscontrando ci hanno permesso di raggruppare e interpretare storie differenti in base a singole intersezioni: e di scartare, come poco pertinenti, altre storie che a questo non si prestavano. È bene dire però che le volte in cui ci si è trovati o ci si troverà a dover scartare qualche storia della donnola che non presenta intersezioni con il racconto di Alcmena, è bene farlo senza rimorsi. Questa è infatti la natura del pensiero animale, un mondo in cui convivono identità molteplici per ciascun simbolo o personaggio, e non ne esiste una e soltanto una. Ragion per cui, l’impossibilità di ridurre tutto a un solo principio non è di per sé segno che il modello è insufficiente: anzi. Riuscire a ridurre tutte le identità attestate di un animale a un solo e unico principio

costituirebbe, paradossalmente, la prova che qualcosa non va. Conclusa questa lunga escursione nel mondo degli animali per «pensare», non ci resta che proseguire lungo il cammino che avevamo provvisoriamente abbandonato. Siamo infatti interessati a vedere se altre storie della donnola non possano per caso adattarsi anch’esse al ruolo che questo animale svolge come Liberatrice nel racconto di Alcmena e cosí contribuire a chiarirne ulteriormente il significato. Intendiamo insomma ampliare l’identità della donnola, descrivendo ulteriori elementi dell’enciclopedia che la riguarda: per allargare (se possibile) anche il fascio di corrispondenze che sussistono fra la rappresentazione culturale di questo animale e il suo ruolo di aiutante di una partoriente. Altre storie, abbastanza inconsuete e a prima vista sconcertanti. Come quelle che vogliono la donnola-strega, dissoluta, comare, sorella del marito… Eppure, come ci auguriamo di mostrare, anche queste storie risultano in definitiva molto ben consonanti con la nostra «Follia di Spagna».

Capitolo secondo La donnola è una Liberatrice dal carattere molto complesso

Nella cultura antica e nel folclore, il mondo in cui ancor piú ci addentreremo in questo capitolo, la donnola non è lo stesso animale che conosciamo dall’enciclopedia contemporanea. Per noi si tratta al massimo di un nome, forse di un’immagine sbiadita o di un sentito dire. Chi non abbia qualche personale motivo di consuetudine con la vita in campagna, ovvero non legga gli studi dei naturalisti, probabilmente non ha mai avuto occasione di parlare di donnole nella propria vita. Cosa del tutto naturale, in una civiltà come la nostra. In effetti non saprei spiegare perché io mi sia invece tanto appassionato a questo animale 1. Come diceva Eliano nell’Epilogo alla sua opera Sulla natura degli animali, … so bene che … io sarò mal giudicato per essermi dedicato a questi studi, mentre avrei potuto darmi delle arie, aggirarmi nei palazzi e accumulare notevole ricchezza. Invece io mi dedico a volpi e lucertole, scarafaggi e serpenti… 2.

La passione per le curiosità degli animali in fondo non ha una ragione specifica e immediatamente citabile. O meglio, ne ha una talmente profonda e generale che si può definire solo con parole altrui (per pudore), e in questo caso sono ancora di Eliano: «vorrei possedere conoscenza anche in una sola e unica parte di quello che si può conoscere». In ogni caso, mi auguro che, dopo questo capitolo dedicato in pratica solo alla donnola delle tradizioni antiche e del folclore, il lettore dichiari almeno che è rimasto sorpreso dalla straordinaria quantità di abitudini insolite, di significati e associazioni simboliche, fiabe e credenze, in cui questo animale è stato coinvolto nel passato della nostra cultura.

1. Strega dissoluta, apparizione di mal augurio. Come si ricorderà, Antonino Liberale racconta che «Ecate ebbe compassione [della donnola] per la metamorfosi che aveva subito, e ne fece

la sua sacra ministra» 3. Dunque questo animale apparteneva al seguito di Ecate, dea del parto ma soprattutto dea strega per eccellenza. Ecco anzi che cosa ci dice precisamente Eliano in uno dei testi piú interessanti che possediamo a questo riguardo. Lo abbiamo già riportato sopra, come lontana variante del racconto di Alcmena, e in qualche momento della nostra analisi abbiamo dovuto riproporne alcuni passaggi 4. Adesso è venuto il momento di rivedere in dettaglio questa testimonianza: … ho sentito dire che la donnola di terra era un tempo creatura umana (ánthr

pos).

Essa aveva appunto questo nome [cioè Galê– «Donnola»] ed era una incantatrice e una strega. È giunto alle mie orecchie anche il fatto che era molto incontinente e afflitta da desideri amorosi anormali. Non mi è neppure sfuggito il fatto che l’ira della dea Ecate la trasformò in questo malvagio animale – che questa dea mi sia propizia! Lascio ad altri i miti e il compito di raccontarli. Ma è un animale molto maligno, è noto che le donnole aggrediscono i cadaveri incustoditi per strappare loro gli occhi e inghiottirli. I testicoli della donnola, messi addosso a una donna di sua volontà o senza che lei se ne accorga, le impediscono di concepire e la distolgono dall’atto sessuale. Le viscere di una donnola, preparate al modo di coloro che si intendono di queste cose, se fatte inghiottire con il vino con intenzione di maleficio sono capaci di rompere le amicizie, come si racconta, e di separare relazioni sino a quel momento armoniose 5.

Nel seguito del paragrafo Eliano, dopo essersi augurato che Ares infligga giusta punizione alla stregoneria, si dilunga a narrare le abitudini del pescedonnola, o donnola di mare, descrivendole in tutto e per tutto simili a quelle della donnola terrestre cui si è sinora riferito 6. Il rispecchiamento marino comunque non fa che rinforzare un’immagine piuttosto inattesa, e decisamente perturbante, dell’aiutante di Alcmena. La donnola non solo è una donna libidinosa ma è addirittura una strega, e come tutte le streghe è avida di cadaveri e di parti del corpo umano 7. Eccoci nuovamente di fronte all’ambivalenza della donnola, un animale che, come abbiamo già detto, nel racconto di Alcmena contrasta le stregonerie delle Nemiche pur appartenendo, o forse proprio perché appartiene, alla loro stessa schiera 8. In realtà, anche tale costruzione simbolica della donnola può essere ricondotta ad alcune specifiche affordances che il comportamento effettivo di questo animale offriva al progetto simbolico delle credenze umane. Come abbiamo in parte già ricordato, la donnola usa infatti uccidere le proprie

vittime mordendole sul collo e lasciandovi due fori lunghi e sottili come quelli di un ago. Ancora, essa ama leccare il sangue che sgorga dalla ferita della preda. Da qui la credenza che la donnola succhiasse il sangue delle proprie vittime 9, come il folclore anche moderno frequentemente ci testimonia. In Sicilia, per indicare che qualcuno era affetto da eccessiva magrezza, si usava l’espressione «sucatu di la baddottula» (la baddottula è la donnola), allo stesso modo in cui altrove in Italia si usava dire «succhiato dalle streghe» 10. E sin dall’Antichità si sa bene che le streghe hanno questa inclinazione a succhiare il sangue della gente 11. Siamo poi informati del fatto che la donnola ha l’abitudine di mangiare il cervello della propria preda, tanto che nel caso (frequente) di overkilling può avvenire che essa si limiti a mangiare sistematicamente il cervello delle vittime lasciando intatti i singoli corpi 12. Ma come ben si sa, e come del resto dovremo vedere anche piú avanti, le streghe antiche avevano un particolare interesse proprio per questa parte del corpo umano, che manipolavano volentieri per compiere i loro orribili piacula (sortilegi) 13. Ancora, sappiamo che almeno la donnola settentrionale (mustela erminea) possiede un singolare potere che davvero può avvicinarla al mondo della stregoneria e dell’incantesimo. Essa appare infatti in grado di «mesmerizzare» i conigli. L’animale individuato come preda piomba in uno stato di tremante impotenza, mentre il resto del gruppo (se c’è) si allontana come se niente fosse. Alcuni ricercatori ritengono anzi che molti conigli aggrediti dalle donnole muoiano in realtà semplicemente di terrore, visto che le ferite inferte loro dall’animale non sono poi cosí letali 14. Quanto ai contadini inglesi, queste situazioni – un coniglio incantato da una donnola – non dovevano suonar loro davvero insolite, visto che avevano persino un’espressione specifica per designarle: ecco uno stoated rabbit, dicevano, un «coniglio addonnolato» 15. La donnola dunque ha realmente la capacità di affascinare le sue vittime, come una strega. Ma, a questo proposito, esiste una storia antica che mostra in modo particolarmente chiaro come, nella costruzione culturale, le affordances offerte dalle abitudini reali degli animali e il progetto simbolico della cultura si intreccino anche là dove non lo si sospetterebbe. Una volta il povero Telifrone, nelle Metamorfosi di Apuleio, si trovò a vegliare un cadavere. Purtroppo però questo accadeva in Tessaglia, nel paese della stregoneria e della metamorfosi. Telifrone aveva accettato quel compito con troppa leggerezza, per danaro, e ora che era solo, nella stanza con il

morto, la sua paura cresceva. Soprattutto non voleva addormentarsi, per timore che le streghe rubassero il cadavere dell’uomo o lo sfigurassero nei lineamenti. Cosí era stato infatti ammonito, si sa che le streghe sono sempre a caccia di cadaveri da scempiare. Dunque la notte procedeva, quand’ecco … una donnola scivolò nella stanza e fissò su di me uno sguardo acutissimo. L’incredibile sicurezza di quell’animale cosí piccolo mi turbò l’animo. Alla fine le gridai: «vattene, bestia immonda (impurata bestia), e torna a nasconderti fra i tuoi simili, i topi, prima che io ti faccia sperimentare la mia forza a tambur battente. Vuoi andartene?» L’animale volse le spalle e se ne uscí rapidamente dalla stanza. Ma un attimo dopo un sonno profondo mi inabissò nel baratro, tanto che neppure il dio di Delfi avrebbe saputo distinguere chi fosse piú morto di noi due 16.

Il seguito della vicenda è noto. Telifrone, al suo risveglio, constata con sollievo che il cadavere è intatto. Ma uscito dalla stanza per recarsi a ricevere il compenso, si accorge con angoscia che tutti ridono di lui. Toccandosi finalmente il volto scopre cosí che sono il «suo» naso e le «sue» orecchie che le streghe hanno rubato, per questo il cadavere è intatto. Troppo tardi Telifrone scopre che il morto portava il suo stesso nome, si chiamava come lui «Telifrone». Il guardiano era l’inconsapevole doppio del guardato, preda ideale per delle streghe maligne. Non c’è dubbio che la donnola, con quel suo «sguardo acutissimo», sia una metamorfosi delle streghe insidiose. Anche in questo caso si ha a che fare con uno scempio di cadaveri, proprio la pratica, cioè, che Eliano e Luciano attribuiscono alla donnola come sua abitudine. Ma soprattutto colpisce questa insistenza dell’autore sullo sguardo della donnola, che ipnotizza palesemente il povero Telifrone facendolo piombare in un sonno profondissimo. Eccoci di fronte a uno stoated rabbit di proporzioni maggiori del solito, evidentemente, a un uomo «addonnolato» dallo sguardo dell’animale. L’episodio di Apuleio appare costruito non solo su elementi dell’enciclopedia tradizionale riguardo alla donnola (la sua stregoneria) ma anche su specifiche affordances che la conoscenza delle abitudini dell’animale metteva a disposizione del progetto simbolico e della costruzione narrativa. La donnola-strega che il retore di Madaura, nel suo stile incline al parallelismo e all’allitterazione etimologica 17, mette sotto i nostri occhi, altro non è che una complessa concrezione di caratteristiche reali (la cui conoscenza persino sorprende) e di

proiezioni simboliche. La persistenza dei temi e delle credenze a volte è davvero impressionante. A distanza di secoli, e in culture lontane, si possono infatti trovare nuclei di episodi assolutamente identici. In un dialogo inglese del 1593 18, un contadino racconta infatti la sua angoscia per la stregoneria. Si dice impaurito perché gli appaiono strani animali: una lepre, un gatto, cosí come «an ugly weasell [weasel] runne through my yard». Questa ugly weasell cinquecentesca che «correva» nel cortile del poveruomo ricorda straordinariamente la impurata bestia che «scivolò improvvisamente» nella stanza di Telifrone. I simboli del terrore si riproducono secondo schemi simili. Al fondo di queste analogie testuali, peraltro già sorprendenti, stanno comunque una continuità e una diffusione di credenze sulla stregoneria della donnola che risultano ancor piú impressionanti. La donnola infatti non è strega soltanto nel Mondo Antico, come abbiamo visto da Eliano e Apuleio, ma anche nel folclore europeo: in alcune lingue e dialetti persino il suo stesso nome può essere derivato da quello di «strega» o «incantatrice», a indicare la sinonimia che esiste fra l’essere donnola da un lato e l’essere coinvolta nel mondo della stregoneria dall’altro 19. La comunanza fra la donnola da un lato e il mondo della stregoneria dall’altro è testimoniata persino nel folclore cinese 20. L’antica «Donnola» pharmakís di Eliano è dunque uno dei personaggi piú stabili del fantastico mondo animalesco creato, nel corso del tempo e delle culture, dalla società degli uomini. Adesso che la sappiamo strega, altri tratti della donnola ci divengono piú chiari. Il suo grido, per esempio, che i Greci potevano registrare fra i suoni sinistri, come quelli legati ai morti e alla civetta, ovvero fra le risa acute e sguaiate 21. Ma anche la cappa di paura, di mal augurio, che proprio in Grecia sembra gravare su questo animale, tanto che era ritenuto pessimo segno vedersi attraversare la strada da una donnola. Come già sappiamo, Origene era molto esplicito nello stabilire un legame fra il carattere di mal augurio della donnola da un lato e l’orizzonte del maleficio dall’altro: «vedi a qual punto di malignità possono giungere i demoni, che assumono il corpo delle donnole per rivelare il futuro» 22. Su questo tema della donnola ominosa dobbiamo anzi soffermarci brevemente. Per la donnola greca, basterà rammentare il superstizioso di Teofrasto, che all’apparire di questo animale restava immobile «e non proseguiva sulla sua strada prima che fosse passato qualcun altro o non avesse tirato tre sassi sulla via» 23: ovvero la serie di

cattivi presagi delle Ecclesiazuse 24 in cui la «donnola che attraversa la strada» va insieme a un terremoto frequente e a un fuoco spaventoso. Del resto esisteva in greco il proverbio «hai la donnola» (gal n écheis) per indicare una persona afflitta da cattiva sorte 25. Le stesse reazioni del superstizioso di Teofrasto – aspettare che qualcuno passi o tirare tre pietre – erano prescritte anche in varie regioni della Francia moderna 26. E francamente colpisce il fatto che, di fronte a una donnola che attraversava la strada, anche in Giappone si usasse andare tre passi indietro oppure lanciarle delle pietre 27. Qualcosa di simile accade del resto ancora oggi, dove molte persone non gradiscono che un gatto nero attraversi loro la strada mentre camminano o sono al volante di un’automobile. E si sa che il nostro gatto domestico ha ereditato molte delle caratteristiche simboliche che la cultura tradizionale attribuiva alla donnola 28. La paura suscitata dalla donnola poteva anche creare tabú di carattere linguistico, avvolgendo il nome dell’animale in un’aura di reticenza e di eufemismi. Secondo Erasmo da Rotterdam, nell’Inghilterra dei suoi tempi era considerato di estremo mal augurio per la caccia pronunziare la parola «donnola» 29. Mentre Eugène Rolland testimonia esplicitamente che in Francia «partout on évite de prononcer le nom de la belette ou bien on substitue, à son vrai nom, un nom aimable, caressant» 30. Sappiamo che spesso animali considerati particolarmente temibili ricevevano nomi che suonavano piú rassicuranti per l’uomo 31. Secondo Richard Riegler, alla base di questo comportamento linguistico ci sarebbe addirittura una credenza di carattere generale 32: ovunque l’animale temibile si trovi il suo nome arriva fino a lui, qualora venga pronunziato, e lo chiama per punire chi ha osato farlo. Nessun dubbio sul fatto che anche la donnola del folclore potesse rispondere a queste caratteristiche. La si considerava infatti un animale estremamente vendicativo, capace persino (si diceva) di inseguire un emigrante fino in America per punirlo del torto che aveva subito 33. Dunque, meglio non nominarla troppo. Dato però che il «portar bene» e il «portar male» sono concetti reversibili, esistono al contrario molte aree in cui incontrare una donnola era considerato segno di buon augurio, e non di disgrazia. Cosí accadeva per esempio in Roma antica, come ci è testimoniato da una scena abbastanza divertente dello Stico di Plauto. Si tratta di Gelasimo, il parassita, che dall’apparizione di una donnola trae un pronostico per ciò che a lui risulta piú prezioso nella vita. Un invito a cena 34:

… oggi sono uscito di casa sotto un ottimo auspicio: una donnola ha catturato un topo davanti ai miei piedi. Ho assistito proprio al momento del buon auspicio: infatti, come lei oggi ha trovato di che nutrirsi, cosí spero di poter fare anch’io, in questo modo mi procura un augurio 35.

Non c’è dubbio che il superstizioso di Teofrasto si sarebbe tutt’altro che rallegrato di fronte a un incontro del genere 36. Gelasimo invece è felice. Proviamo a ripensare adesso alle due diverse caratterizzazioni dell’animale nelle varianti del racconto di Alcmena date rispettivamente da Ovidio (la donnola che ancora frequenta le nostre case) e da Antonino Liberale (l’animale ingannatore, malefico, dalla sessualità ripugnante). Non c’è dubbio che le due versioni manifestino un’opposizione di modelli culturali che va al di là del testo specifico di ciascuno dei due autori, ed evochino un modo differente di guardare al nostro animale: uno piú pacifico, uno piú perturbante. La donnola comunque non portava auspici positivi solo nella Roma antica ma anche nel folclore greco moderno di Zacinto e Macedonia, cosí come in numerose altre aree 37. Anche nel mondo delle credenze augurali, insomma, la donnola ci si fa incontro marcata da quella caratteristica che piú volte abbiamo già dovuto mettere in evidenza per definire i contorni simbolici e culturali di questo animale: la sua ambivalenza.

2. Semonide. Classificazioni totemiche e sessualità nauseante. La donnola non era solo una strega, era anche una dissoluta. Come si ricorderà, infatti, Antonino Liberale ci aveva spiegato che le Moírai, per punire Galinthiás della beffa che aveva osato architettare contro di loro, avevano assegnato alla donnola «una vita sessuale ripugnante». E anzi secondo Eliano l’antica «Donnola» trasformata in animale da Ecate era una «persona umana» che «era molto incontinente e afflitta da desideri amorosi anormali», quasi che la sua brama sessuale consistesse in una vera e propria «malattia» (akólastos kaì Aphrodít n paránomon noseî) 38. Mentre abbiamo già visto sopra come, nella Lettera dello pseudo-Barnaba, la donnola fosse stata presa a simbolo della donna che commette impurità «con la bocca», e con cui non bisogna unirsi 39. Davvero queste credenze relative alla sessualità

della donnola si presentano caratterizzate da un’estrema tenacità: ancora nella Grecia del dopoguerra, infatti, la donnola era considerata animale «fornito di un appetito sessuale eccessivo» 40. Né si può dire, ancora una volta, che le rappresentazioni culturali costruite attorno agli animali prescindano completamente dalla realtà dell’osservazione scientifica. Al contrario. I naturalisti moderni ci dicono infatti che il periodo dell’accoppiamento delle donnole dura piuttosto a lungo (da febbraio a settembre), con i due partner che si affrontano trillando incessantemente (verrebbe da dire drindrantes, con i Latini) mentre la femmina, se accetta il maschio, gli salta giocosamente intorno. Dopo di che il maschio l’afferra per il collo e la femmina rimane passiva. Il baculum di cui il pene del maschio è provvisto, e di cui dovremo riparlare piú sotto, assicura una perfetta stimolazione della femmina, e il tutto dura circa tre ore, con intervalli di riposo e accoppiamenti ripetuti. Dopo di che i partner possono decidere di riposare per poi riprendere da capo nei giorni seguenti. Durante questa fase, comunque, la femmina non rifiuta il rapporto con altri maschi diversi dal primo («essa non ha alcuna nobile idea di fedeltà a un solo partner»). Dopo la gravidanza, se il cibo è abbondante la femmina può tornare ulteriormente in calore 41. Un comportamento ancora piú incline alla sessualità è testimoniato dalla mustela erminea, lo stoat. Qui accade infatti che la femmina vada in calore anche mentre sta ancora allattando. In pratica, questa possibilità di andare in calore anche subito dopo il parto combinata con il meccanismo della delayed implantation fa sí che una femmina di mustela erminea sia incinta per tutto l’anno 42. Ma non basta. Se un maschio penetra in un nido dove una femmina sta allattando, non solo impregna la madre ma anche le piccole femmine che, stimolate dall’odore del maschio, lo accolgono con trilli sottili e risatine soffocate (chuckles), con il comportamento tipico cioè delle femmine adulte 43. Come commenta Carolyn King, «if there were a prize for the sexiest animal, the stoat would surely win it» 44. Ancora una volta, le storie e le credenze che circolano attorno agli animali (stavolta la donnola lussuriosa) non ci si presentano come creazioni arbitrarie della fantasia ma piuttosto come costruzioni che partono da specifiche affordances offerte dalle loro abitudini reali. Tali credenze ci riportano peraltro molto indietro nel tempo, addirittura nella Grecia arcaica del secolo VII a.C. Uno dei testi piú insoliti che la cultura greca ci abbia

lasciato, il Giambo sulle donne di Semonide, parla infatti abbastanza diffusamente dell’animale che ci interessa. Sarà bene ricordare, però, che il poeta di Amorgo è un personaggio molto singolare. In un poema destinato probabilmente alla recitazione conviviale 45, Semonide si sforzò infatti di offrire al suo pubblico maschile un’interpretazione del mondo femminile che con buona ragione si può definire di carattere «totemico» 46. E su questo sarà necessario aprire una breve parentesi, prima di vedere specificamente i versi che trattano della donna-donnola lussuriosa. Quello che occorre per capire il procedere di Semonide, naturalmente, non è l’uno o l’altro degli infiniti modelli teorici del totemismo – mistici, sociologici, religiosi, psicologici, psicoanalitici, utilitari, ecc. – che si sono succeduti nel tempo, ma il totemismo proposto da Lévi-Strauss in un saggio ormai classico su questo argomento 47. Sulle tracce degli ultimi lavori di Radcliffe-Brown e di alcune intuizioni di Bergson, Lévi-Strauss aveva infatti dato un’interpretazione molto piú aperta e generale di questo fenomeno: l’utilizzazione di animali, di piante ovvero di oggetti, direttamente per pensare le categorie culturali e classificare il mondo, come abbiamo già visto, secondo le regole di ciò che altrove definisce «logica del concreto» 48. Il totemismo dunque non sarebbe altro se non una manifestazione di quella generale tendenza secondo cui individui e gruppi sociali pensano se stessi e i propri rapporti con il resto dell’universo culturale attraverso l’ausilio di animali, piante e oggetti concreti: «il preteso totemismo non fa che esprimere a suo modo – oggi si direbbe: attraverso un particolare codice – correlazioni e opposizioni che possono venir formalizzate altrimenti» 49. Anche Semonide compie un’operazione di questo tipo. La sua attenzione si rivolge infatti a un insieme sociale ben definito, quello delle donne, e per pensarlo in correlazione e in opposizione con quello dei maschi si serve di una classificazione concreta: il mondo animale. Semonide divide infatti le donne in gruppi distinti, che sono «tipi» e «lignaggi» nello stesso tempo. Le donne egli le concepisce come creature «dalla mente separata», probabilmente intendendo che ciascun tipo si caratterizza in modo «separato» dall’altro, e separato ogni volta da quello degli uomini 50. A creare queste diverse stirpi sarebbe stato Zeus in persona, ed esse appaiono ogni volta «derivate» da un animale (asino, cavallo, donnola, cane, scimmia, ecc.) o da un elemento naturale (terra, mare). Anche il meccanismo linguistico usato per procedere nel catalogo è singolare. Ogni

volta Semonide ripete infatti la formula «quella dalla…» o «quella dal…», secondo un modello di derivazione-interpretazione delle donne che identifica il loro tipo specifico in base a un prototipo animale o naturale. In un caso, quello della cavalla, l’animale addirittura «genera» la donna di cui rappresenta il tipo 51. Le caratteristiche stereotipe che l’enciclopedia culturale antica attribuiva ai singoli animali – come l’eccessivo amore di sé della cavalla, la sciatteria dell’asina, la lussuria della cagna, e via di seguito – servono cosí da paradigma per identificare le caratteristiche di ogni particolare tipo di donne. Si tratta di un modello della cultura misogina destinato a ricomparire nel corso della nostra storia culturale – come del resto c’era da attendersi, dato il lungo permanere da un lato di un atteggiamento ostile nei confronti delle donne, dall’altro dell’uso di categorie culturali animalesche: per cui era in realtà abbastanza facile che gli stessi cliché tornassero ciclicamente a prodursi anche nell’ambito di fasi culturali fra loro molto distanti nel tempo. Comunque, colpisce davvero vedere che in un poema francese del secolo XIII , significativamente intitolato Le blasme des fames (I vizi delle donne), trovi posto anche una lunga lista di similitudini fra donne e animali, usata per categorizzare i singoli vizi tipici dell’altro sesso: la donna è un serpente per il veleno, è un leone per l’imperiosità, una volpe per l’inganno e cosí via 52. Si tratta ancora una volta di un totemismo animale che costruisce il proprio progetto in base a un principio di tipo metaforico, e che allinea tipi femminili da un lato e animali dall’altro, per dedurre la natura dei primi dalle caratteristiche stereotipe dei secondi 53. In Semonide insomma, cosí come nel Blasme des fames, animali e oggetti servono per pensare e classificare il mondo femminile, organizzandolo in una tipologia che si ritiene in grado di spiegare «perché» certe donne si comportino in un certo modo e altre in modo differente. Le diverse specie animali, in quanto fornite di attributi e specificità già riconosciute dalla tradizione, divengono uno strumento tassonomico assai potente per organizzare, da un punto di vista maschile, il caotico mondo femminile. Il panorama semonideo è ovviamente sconsolante. Solo la donna-ape si salva 54: nella totemica classificazione dell’Amorgino si alternano esclusivamente donne lussuriose, infedeli, infauste, e comunque – cosa che il poeta sembra temere piú di ogni altra – fonti di risa e di discredito presso i vicini. Poveri uomini. Le donne li tradiscono e trascurano la loro casa: in piú non possono nemmeno uscire

senza che i vicini si facciano beffe di loro. Il totemismo di Semonide si presenta insomma non solo parziale e misogino, ma anche marcato da un’incredibile inclinazione verso la chiusura paesana 55. Vediamo dunque la descrizione della donna-donnola: … un’altra viene dalla donnola, razza 56 miserevole e portatrice di sciagure. In lei non c’è nulla di bello né di desiderabile, nulla di gioioso o di amabile. Ella è pazza del letto di Afrodite, ma dà la nausea all’uomo che con lei voglia navigare. È ladra e fa molti danni ai vicini, spesso mangia le offerte prima che siano sacrificate 57.

Le rassomiglianze fra la donna-donnola e il suo totem sono molto strette, specie se si leggono questi giambi avendo in mente sia le abitudini reali dell’animale sia le credenze tradizionali che lo riguardano. L’affermazione di Semonide secondo cui questo tipo di donna sarebbe «miserevole e portatrice di sciagure», per cominciare, richiama il fatto che (come sappiamo) nel mondo greco cosí come nel folclore europeo la donnola era considerata spesso animale che porta disgrazia 58. Ancora, il fatto che la donna-donnola sia ladra e faccia danni ai vicini, corrisponde alle abitudini predatrici dell’animale, spesso descritte anche nei testi antichi 59. Del resto il furetto deriva il suo stesso nome, cosí in italiano come in altre lingue e dialetti romanzi, proprio dal latino fur (ladro) 60. Quanto al furto delle offerte «non sacrificate», cioè crude, le donnole, proprio come i nostri gatti, avevano l’antipatica abitudine di rubare la carne lasciata incustodita durante la preparazione 61. Mentre Eliano ci dice che il pesce-donnola, quello che ripete in mare le abitudini della donnola terrestre, è ugualmente un mobóros «mangiatore di carne cruda» 62. Anche dal punto di vista del suo comportamento alimentare, insomma, la donna-donnola è del tutto conforme all’animale di cui riproduce il génos. Vediamo dunque piú da vicino i costumi sessuali della donna-donnola. Nel verso in cui si parla del «letto di Afrodite» il testo presenta un raro aggettivo, al n s, che a torto viene corretto da molti in ad n s 63. Secondo il lessicografo Esichio, infatti, al n s è sinonimo di mainómenos «folle»: mentre ad n s, la correzione che viene proposta, vorrebbe invece dire «inesperto» «incapace». Leopardi, per esempio, traduceva cosí: «giace nel talamo svogliatamente» 64. La traduzione è elegante, ma nasce subito una domanda: l’inesperienza può provocare addirittura «nausea» sessuale?

Francamente ci pare troppo, noia o insoddisfazione sarebbero conseguenze molto piú naturali. In realtà questa correzione non solo non è necessaria ma impoverisce il testo, e addirittura cancella un pezzo di credenza sulla donnola che invece a noi sta molto a cuore. Abbiamo visto infatti che, secondo Eliano, l’antica «Donnola» trasformata in animale da Ecate era una «persona umana» che «era molto incontinente e afflitta da desideri amorosi anormali» (akólastos kaì Aphrodít n paránomon noseî). Dunque la sessualità di quella «Donnola» era una vera e propria «malattia» (noseî), una definizione che si accorda molto bene con la «mania» espressa dall’aggettivo al n s. Del resto anche Antonino dichiara che le Moírai assegnarono alla donnola «una vita sessuale ripugnante (ámorphos)». Perché cancellare tutto questo e fare della donna-donnola una semplice «inesperta» delle cose d’amore? Dunque la donna-donnola di Semonide, manifestazione totemica delle abitudini reali e delle credenze tradizionali relative a questo animale 65, ha una sessualità maniacale, malata. È piú facile che sia un eccesso di lussuria, e non l’inesperienza, a provocare la nausea nel partner che, con metafora maliziosa, Semonide fa «navigare» con lei 66. Tanto piú se questa caratteristica la si vede congiunta alla tradizionale fama di animale maleodorante che, nel mondo greco, accompagna la donnola 67. Non mi pare anzi che venga ricordato, a questo proposito, il fatto che secondo Plinio la donnola ha il potere di uccidere con il proprio odor nientemeno che il basilisco, il terribile serpente che distrugge ogni forma di vita con il suo semplice fiato 68. Nelle credenze tradizionali l’odore della donnola doveva essere considerato davvero temibile. Anche in questo caso ci troviamo comunque di fronte alla trascrizione culturale di una affordance fisica autentica dell’animale. Come già sappiamo, infatti, la presenza di ghiandole anali capaci di emissioni maleodoranti è condivisa da tutti i membri del genus mustela (non dalla sola puzzola come in genere si crede) e dunque molto appropriatamente Semonide attribuisce alla donnola la capacità di produrre cattivi odori 69. E anzi, siamo informati del fatto che uno dei momenti in cui le donnole praticano lo scambio di informazioni olfattive è costituito proprio dall’atto dell’accoppiamento 70. Non c’è dubbio che la misoginia di Semonide sia andata a cercare un equivalente animale appropriato per descrivere una donna tanto lussuriosa quanto disgustosa. Animale puzzolente, dalla sessualità malata, la donnola – nella sua versione umana e femminile – è una partner sessuale molto spiacevole. Difficile non pensare a questo punto alle

caratteristiche stravolte della sua concezione e del suo parto. La donnola ci si presenta come un supporto simbolico a cui vengono attaccate, da angoli diversi, perversioni e stranezze che riguardano specificamente la sua sessualità.

3. «Jongleuresse» lussuriosa e donna di bestiario. Restiamo ancora in tema di costumi sessuali della donnola – anche se la reincarnazione simbolica del nostro animale che ci attende in questo paragrafo ha dei tratti a prima vista sconcertanti. Nei secoli XIII e XIV , infatti, si diffonde l’idea che la donnola costituisca l’equivalente animale del jongleur, ovvero della jongleuresse, in quanto esplicitamente considerati dissolus. Si tratta di un’assimilazione assai interessante dal punto di vista della logica simbolica. Ai giullari si attribuivano infatti vizi assai simili a quelli rimproverati tradizionalmente alla donnola – il furto, la dissolutezza, l’uso di pratiche magiche – senza contare che anch’essi erano dei nomadi, proprio come la donnola, che mutava casa ogni momento 71. Questa assimilazione simbolica negativa fra la donnola e i girovaghi incostanti è esplicitamente menzionata nei bestiari medievali. Il Bestiario Vaticano cosí spiega la natura simbolica della donnola: «significa gli incostanti, gli ingannatori e i bugiardi, che non si possono mai trovare nello stesso luogo e non dicono mai il vero, ma vanno vagando di qua e di là» 72. Ecco dunque una buona radice per la nascita di questa nuova fioritura della donnola simbolica, il giullare vagante. Già Plauto comunque conosceva questa caratteristica della donnola – l’incertezza, il mutar sede – visto che uno dei suoi personaggi, deluso dall’auspicio che crede di aver ricevuto dal nostro animale, dichiara: … d’ora in avanti non mi fiderò piú di una donnola, questo è sicuro, perché non ho mai visto una bestia piú incerta. Lei stessa cambia casa dieci volte al giorno, e io sono andato a prender gli auspici proprio da lei, in una faccenda di vita o di morte 73.

Si tratta ovviamente di costruzioni culturali che si fondano ancora una volta su una specifica affordance fisica dell’animale che, come abbiamo già detto, per il fatto di non costruire il proprio nido ma di utilizzare nidi

preesistenti, ne muta vari nel corso di una sola cucciolata, spostando in continuazione i propri piccoli 74. Per questo non stupisce il fatto che anche in Giappone proprio l’inquietudine e l’incertezza della donnola siano state utilizzate a fini narrativi o morali 75. Di nuovo la convergenza fra culture distanti si motiva in base alle comuni affordances che uno stesso animale offre fisicamente al progetto simbolico della cultura. Ma un’altra caratteristica della donnola deve essere nominata a questo punto, visto che può ben essere messa in relazione con la sua reincarnazione in forma di giullare. Alla donnola infatti viene attribuita spesso la singolare caratteristica di amare la danza, anzi, di danzare sfrenatamente. Si tratta ancora una volta di una credenza costruita su una specifica affordance offerta dall’animale alla fantasia culturale. Piú volte infatti i naturalisti moderni hanno potuto osservare donnole che si esibivano in danze complesse e sofisticate, le quali potevano durare mezz’ora e piú. Ecco una di queste descrizioni: … la donnola correva rapidamente in piccoli cerchi, saltando e contorcendosi, rotolandosi e girandosi di soprassalto, arrampicandosi sopra una cinta di filo spinato e saltando giú, mentre il suo candido petto lampeggiava nel sole della mattina. Nel frattempo quattro gallinelle d’acqua osservavano la sua esibizione, avvicinandosi gradatamente. Ogni tanto la donnola si fermava e guardava intensamente verso di loro. Per tre volte essa balzò verso l’uccello piú vicino, ma a ogni lancio le gallinelle d’acqua fuggivano e la donnola mancava il colpo. Allora la donnola ricominciava da capo la sua danza e le gallinelle d’acqua tornavano ad avvicinarsi 76.

La danza della donnola è cosí ben conosciuta nel folclore popolare che vicino a Manchester esiste persino un ristorante chiamato «The Waltzing Weasel» 77. Questo comportamento della donnola è stato osservato anche in assenza di spettatori, per cui non si sa se esso sia dettato da una vera e propria strategia di caccia ovvero derivi semplicemente dall’irritazione cerebrale prodotta nell’animale da un tipo particolare di parassiti (un’affezione detta Skrjabingylosis) da cui le donnole sono spesso aggredite. Questi vermi si annidano proprio nel cavo della scatola cranica, che arrivano addirittura a forare 78. Pare però probabile che le inclinazioni ballerine della donnola siano semplicemente dovute al gusto del gioco, e non a una pressione meccanica sulle sue cellule cerebrali. Starebbe a dimostrarlo la descrizione di chi ha

avuto in casa una donnola addomesticata, la quale si abbandonava, appunto, a esibizioni spericolate e giocose: … improvvisamente rotolava fuori facendo la ruota come un acrobata che percorre la pista del circo. Si muoveva cosí velocemente che era impossibile distinguere dove cominciava la testa e dove finiva la coda. Sembrava un piccolo pneumatico gonfio che rotolava per la stanza. Qualche volta pensavamo che questo gioco fosse solo un esercizio … altre volte la donnola usava questa danza per mascherare i suoi attacchi 79.

Dunque la donnola è come una ballerina, un’acrobata del circo. Difficile trovare un simbolo migliore per una jongleuresse che, come vedremo fra un minuto, era immaginata proprio come una ballerina acrobatica. Veniamo dunque alla simbologia della donnola-giullare. Essa ci riporta ancora una volta al passo del Levitico, che condannava la donnola come animale da non mangiare 80. E nelle nuove allegorie che da questo passo vengono tratte, la dissolutezza tradizionale dell’animale, a noi ormai ben nota, si intreccia con le sue capacità di danzatrice acrobatica. In una Bibbia istoriale in folio conservata alla Bibliothèque Nationale de Paris, a commento del celebre passo si leggono queste parole: «moustele [signifie] dissolus jongleurs». Dunque alla donnola si continua ad attribuire la caratteristica della dissolutezza, e in quanto animale dissoluto essa può essere simbolicamente rappresentata dai giullari, come lei dissolus 81. La miniatura che, nella Bibbia istoriale, illustra questa interpretazione della donnola come jongleur, rappresenta una donna giovane e bella, vestita di una tunica rosa, ornata con civetteria. I suoi capelli sono lunghi, biondi, sottili come seta e divisi in trecce dorate, senza che alcun velo li nasconda. Il suo atteggiamento esprime mollezza, languore e affettazione: regge uno specchio ovale e lo fissa intensamente 82. Si tratta evidentemente di una donnola-jongleuresse che ha l’aspetto di una cortigiana: ciò che viene sottolineato in questa immagine sembra essere piú la dissolutezza della jonglerie che non il mestiere specifico del giullare. Altre volte, invece, le miniature ci pongono di fronte a donne ugualmente belle, e seminude, che però eseguono esercizi di agilità camminando sulle mani 83. Ecco dunque la donnola acrobata e ballerina che, divenuta jongleuresse, continua però a fare «la ruota» come l’animaletto che giocava nel salotto o che incantava le gallinelle d’acqua (cfr. fig. 25). Colpisce anzi il fatto che questa medesima iconografia – la donna bella e

flessuosa che cammina sulle mani, sorreggendo stavolta sulle gambe piegate una sorta di canestro (cfr. fig. 26) – sia usata per rappresentare Salomè in un festino di Erode scolpito su una delle porte laterali della cattedrale di Rouen 84. Di nuovo, la jonglerie acrobatica e la dissolutezza si combinano in una stessa rappresentazione. Bisogna anzi dire che questo tema iconografico – la danza di Salomè – doveva avere dei referenti molto reali, e ancora una volta legati all’attività delle jongleuresses. La danza di Salomè era divenuta infatti popolare nel Medioevo, e un capitolo di Gualtiero di Orléans proibiva esplicitamente che essa venisse rappresentata dalle saltatrices in occasione di pranzi di ecclesiastici 85. La donnola delle Bibbie istoriali è dunque una jongleuresse flessuosa e seducente come una Salomè che danza alla corte di Erode, o come una saltatrix che ne fa rivivere la mitica danza di fronte a una tavolata di chierici troppo mondani.

Figure 25-26.

Jongleuresses, motivi decorativi della porta laterale della cattedrale di Rouen, da F. D’AYZAC, La belette, étude de zoologie mystique, in «Revue de l’Art chrétien», vol. XXII, 1878, pp. 180 e 206.

Come abbiamo detto, questa reincarnazione della donnola in forma di jongleuresse utilizza una serie di tratti che corrispondono alla tradizionale rappresentazione culturale, nonché ai tratti fisici reali, di questo animale. Oltre alla sua inquietudine, e alla sua passione per la danza, dobbiamo tener conto infatti di un’ulteriore caratteristica della donnola spesso sottolineata dal folclore, il suo carattere giocoso e talora beffardo. Un altro nome della donnola in greco antico, hilaría (allegra) 86, sottolinea esplicitamente questo carattere 87. Mentre sarà opportuno ricordare che la Galinthiás di Antonino Liberale, la fanciulla aiutante di Alcmena che le Moírai trasformeranno in donnola, era proprio una «compagna di giochi» (sumpáiktria) della partoriente 88. Questa caratteristica della donnola, animale giocoso, presenta ancora una volta un carattere che trascende le barriere geografiche e culturali. Alfred Nutt, commentando una storia del folclore irlandese dal titolo Paudyeen O’Kelly and the Weasel, sottolineava che la donnola veniva considerata «un animaletto comico», e tale da poter essere effettivamente «animato da un qualche spirito» 89. Un’altra allusione alla danza della donnola, evidentemente. A proposito di questo carattere divertente del nostro animale, Nutt riferiva anzi questo racconto, ascoltato da un vecchio (che lui considerava «veritiero»): una volta un falco aveva catturato una donnola sotto gli occhi dell’uomo e di suo fratello; il fratello aveva sparato un colpo di fucile e aveva colpito il falco, cosí che l’uccello era caduto a terra con la donnola ancora tra le zampe, incolume; l’animale si era liberato e, venuto di fronte ai due uomini, «aveva abbassato la testa e si era inchinato almeno venti volte», come se li ringraziasse 90. La donnola insomma sa esprimersi alla maniera degli uomini, recita su una piccola scena. Un po’ come piú sotto la vedremo rappresentare la commedia dell’abile commerciante, che attraverso il proprio comportamento astuto ed espressivo convince l’uomo a lasciare libero il cucciolo che ha catturato 91. Ciò che piú colpisce è comunque il fatto che la donnola medievale, pur se adesso si è fatta giullare, continui a essere considerata «dissoluta», come lo era stata per Eliano e prima ancora per Semonide. Continuando nel nostro gioco di analogie a cavallo dei millenni, di fronte a una donnola-cortigiana ritratta in atteggiamento di seduzione, come quella della prima miniatura che

abbiamo ricordato, non si può fare a meno di pensare al passo delle Ecclesiazuse di Aristofane in cui la vecchia, che vuol sottrarre gli amanti alla ragazza, le dice: «canta finché vuoi, e fa l’occhiolino alla finestra, come una donnola…» 92. Anche in Grecia la donnola poteva essere assimilata a una ragazza che seduce. L’inclinazione della donnola verso l’erotismo era comunque destinata a durare sin oltre il Medioevo dei manoscritti illuminati, perché anche nel folclore la donnola è spesso legata alla sessualità e all’amore e come tale utilizzata per proverbi e altre espressioni popolari 93. Sembra chiaro che, nel corso dei secoli e delle culture, la sessualità della donnola è rimasta al centro dell’attenzione – e non riceve certo descrizioni elogiative. Restando ancora alla cultura medievale, dobbiamo però ricordare che proprio da qui ci giunge di nuovo un parallelo interessante per la costruzione totemica del mondo femminile operata da Semonide: e stavolta specificamente centrato sul tema della donna-donnola. Si tratta del Bestiario d’amore di Richard de Fournival, il dotto e letterato francese vissuto nel secolo XIII . Dopo quasi duemila anni, infatti, nel maturo Medioevo di Francia, gli animali e la simbologia che si trascinavano dietro tornarono a presentarsi come strumenti buoni per pensare, ancora una volta, il mondo femminile. Le donne continuano a configurarsi come «razza separata», e gli uomini si affannano a trovare per esse equivalenti naturali in grado di organizzarne e spiegarne le caratteristiche specifiche. Semonide è lontano e sconosciuto, naturalmente, e gli strumenti di cui Richard si serve sono ora quelli del Fisiologo e della tradizione dei Bestiari che da questa fonte era scaturita 94. Ma gli elementi in gioco sono ancora gli stessi, e le fantasie sulla riproduzione della donnola restano in primo piano: Ce ne sono altre [donne] che hanno la testa forata, in modo che tutto ciò che entra loro per un’orecchia ne esce per l’altra, e proprio quando amano si rifiutano. Come la donnola, che concepisce attraverso l’orecchia e partorisce per la bocca. Allo stesso modo si comportano queste donne, le quali, quando hanno udito tante cortesi parole che par loro doveroso amare e che hanno, per cosí dire, concepito attraverso l’orecchia, se ne sgravano per la bocca con un rifiuto e passano volentieri ad altri discorsi, come se temessero di essere catturate. Proprio come fa la stessa donnola che, quando ha partorito, per paura di perdere i suoi cuccioli li porta in un luogo diverso da quello dove ha partorito. E

quest’ultima natura della donnola rappresenta una delle piú grandi disperazioni in amore: che non si voglia sentir parlare di ciò di cui sarebbe piú necessario parlare e che si voglia sempre parlar d’altro 95.

Eccoci di fronte a cose note. Come nel Fisiologo, il parto e la concezione della donnola ricevono nuovamente un’interpretazione linguistica, e sono assimilati al «rifiuto» del discorso: mentre nel Fisiologo si trattava di rigettare la parola divina, qui si tratta piuttosto di respingere quella amorosa. Ciò che soprattutto colpisce, però, è vedere come le credenze relative alla donnola – modificate dal tempo, dalla sovrapposizione dei testi, delle ideologie, delle religioni – tornino a essere utilizzate per costruire totemicamente il sesso femminile: proprio come in Semonide. Quello di Richard è un totemismo cortese, che per fortuna ha dimenticato le durezze dell’Amorgino. Ma dopo duemila anni le donne continuano ad avere natura animale. E «quella che viene dalla donnola», come diceva Semonide, continua a essere un’amante che non dà la felicità. «Quest’ultima natura della donnola – commenta amaramente Richard – rappresenta una delle piú grandi disperazioni d’amore». Non è la «nausea» di Semonide, ma in un certo senso la disperazione è persino peggio.

4. Femmina o maschio? Poniamoci adesso una domanda curiosa – anche se invero coerente con il sistema di credenze che stiamo esplorando: che razza di apparato sessuale poteva essere attribuito a un animale che concepiva dalle orecchie e partoriva dalla bocca? E com’erano, nella credenza popolare, i «maschi» delle donnole? Non ne sappiamo molto, purtroppo. Ma se per farcene un’idea cominciassimo con il prendere a modello gli icneumoni – quegli animali che varie volte abbiamo visto comparire in contesti che richiamavano la donnola 96 –, potremmo forse fare delle riflessioni interessanti. Ancora Eliano, infatti, racconta che: … l’icneumone è maschio e femmina nello stesso tempo, e allo stesso individuo la natura ha concesso il potere di emettere il seme e di generare. Quello sconfitto in combattimento viene assegnato al genere inferiore [!], mentre quelli che vincono montano

i vinti e li inseminano. Come trofeo della sconfitta, quelli che hanno perso riportano la pena delle doglie e il fatto di essere madri e non padri 97.

Non c’è dubbio che Eliano preferisse la paternità alla maternità, e anche che avesse idee ben precise sulla gerarchia fra i sessi. Va detto comunque che in questo caso il mondo degli animali funziona come una proiezione fedele delle categorie sociali e culturali degli uomini. Il maschio sconfitto nella lotta viene femminilizzato (come già abbiamo visto accadere al gallo ancora in Eliano), e ciò che appare messo in rilievo, nella bisessualità dell’icneumone è soprattutto il comportamento omosessuale maschile di tipo «passivo», conformemente alle categorie greche relative all’androginia umana 98. Quello che piú ci interessa, però, è che i Geroglifici di Orapollo attribuivano direttamente alla donnola, e non all’icneumone, un’inclinazione alla bisessualità. Stavolta però in senso complementare rispetto all’esperienza che abbiamo appena visto: non si tratta qui di un maschio che viene femminilizzato, ma di una femmina che viene mascolinizzata. Come si sa, i Geroglifici di Orapollo costituiscono una singolare opera greca (verisimilmente del secolo V d.C.) in cui memorie sbiadite del vero significato dei caratteri egizi, e invenzioni allegoriche di vario tipo, si mescolano in modo spesso inestricabile 99. Il geroglifico che ci interessa sta nel libro II, quello in cui la presenza di materiale egizio originario è praticamente nulla, mentre predomina il ricorso a credenze simboliche provenienti dalla tradizione greca 100. Dunque si dice: … quando vogliono simboleggiare una donna che svolge le funzioni di un uomo (andròs érga), raffigurano una donnola. Essa infatti ha il pene di un maschio, come se fosse un piccolo osso 101.

L’attribuzione alla donnola di organi sessuali ossei deriva da un’osservazione esatta dell’anatomia della donnola. Il pene del maschio di questo animale, infatti, è effettivamente provvisto di un baculum osseo, che garantisce perfetta stimolazione e stabilità durante l’accoppiamento 102. Nel Mondo Antico questa osservazione era già stata fatta dai naturalisti, perché il pene osseo della donnola è rammentato in Plinio 103. Solo che in Orapollo questa caratteristica anatomica reale si è trasformata in una credenza

simbolica relativa alla sessualità dell’animale. Per comprendere il significato di questa singolare interpretazione bisogna ricordare che, nel mondo greco, le donne che praticavano sesso con altre donne avevano fama di utilizzare a questo scopo un pene posticcio. Tale oggetto portava il nome di ólisbos, e se ne parlava in questo modo: «si tratta di un pene di cuoio, di cui si servono le donne milesie, come tribadi e svergognate. Se ne servono anche le vedove» 104. Un’altra volta, la possibilità di permettere alle donne di praticare il sesso fra loro viene respinta con queste sdegnate parole: … suvvia età moderna, legislatrice di inusitati piaceri, tu che hai inventato nuove vie per la lussuria maschile concedi la stessa facoltà anche alle donne, e che esse abbiano pure rapporti fra loro come gli uomini: e applicando a se stesse l’artificio di impudichi strumenti, queste equivoche mostruosità prive di seme, dormano insieme, donna con donna, come fanno gli uomini; quel nome che raramente giunge all’orecchio (mi vergogno perfino a pronunciarlo), il nome del dissoluto tribadismo, trionfi pure liberamente 105.

Dunque si sussurrava che le tribadi utilizzassero di questi «apparecchi» per favorire il rapporto d’amore. Prive dell’organo maschile, le tribadi se ne applicavano uno posticcio. Ecco dunque il contesto in cui la donnola diviene simbolo della «donna che svolge le funzioni di un uomo». Il baculum osseo di cui il maschio della donnola è anatomicamente provvisto viene reinterpretato come se si trattasse di un ólisbos, un pene aggiuntivo e posticcio. In altre parole, secondo Orapollo, è come se la donnola disponesse di un genitale femminile e insieme di un pene osseo, che in qualche modo si aggiunge al primo. Dunque anche la donnola, e non solo l’icneumone, si presenta in qualche modo bisessuale. La bisessualità è una caratteristica che le credenze antiche riferiscono anche ad altri animali. In particolare, questa marca viene attribuita con una certa enfasi alla lepre e alla iena, due animali dalla sessualità ambigua che, per altri versi, presentano dei punti di contatto con la donnola. Per quanto riguarda la lepre, la fonte che citano Varrone e Plinio è Archelao 106: «Archelao dice che … i singoli individui hanno entrambi i sessi (vis) e possono generare senza maschio». Archelao aggiungeva anzi un particolare ancor piú curioso: «tante quante sono le cavità corporali escrementizie della lepre, altrettanti sono i suoi anni di vita: in effetti ne hanno in numero differente». Ora la lepre è animale molto lascivo, come si sa, oltretutto tra i

pochi capace di superfetazione 107: la sua bisessualità sembrerebbe dunque un aspetto di questa generale inclinazione alla libido sessuale 108. Vediamo ora la iena. Questo animale era ritenuto ermafrodito, maschio o femmina a seconda delle circostanze 109: ma si diceva anche che, nel linguaggio del sogno, la iena indicava una donna-strega (pharmakís), proprio come pharmakís era definita la «Donnola» nel racconto di Eliano 110. Stregoneria e bisessualità si presentano come caratteristiche che tendono in qualche modo ad associarsi, allo stesso modo in cui la bisessualità sembra implicare un eccesso di libido. Torniamo dunque alla donnola. Che come sappiamo è animale molto lascivo, allo stesso modo della lepre bisessuale, ma che nello stesso tempo è coinvolta nel mondo della stregoneria, proprio come la iena, animale ermafrodito per eccellenza. Dobbiamo dunque credere che anche alla donnola – la tribade di Orapollo, la parente degli icneumoni bisessuali – si attribuisse la capacità di cambiar sesso, di generare e di inseminare, a seconda delle circostanze? È possibile, anche se per i Greci la donnola è sicuramente femmina: porta un nome femminile, gal , e le storie in cui l’abbiamo vista coinvolta sin qui, cosí come altre che vedremo piú avanti, ne fanno regolarmente la metamorfosi di una donna. D’altra parte, però, la sessualità di questo animale è cosí stravolta che vien fatto davvero di chiedersi quanto essa sia realmente femminile. La stessa origine mitica della donnola, nella storia di Alcmena, rende esplicita questa assenza di femminilità nel suo corpo: sappiamo infatti che, per punire Galinthiás, le Moírai «la privarono della sua natura di donna (koreía)» 111. La donnola è dunque una femmina alla quale è stata sottratta la propria «femminilità» e alla quale è stato assegnato un modo di riproduzione del tutto abnorme. Anche un maschio potrebbe tranquillamente assolvere compiti materni alla maniera della donnola: per concepire dalle orecchie e partorire dalla bocca, infatti, non è necessario essere specificamente femmina e avere un apparato genitale femminile. La donnola ci si presenta insomma come un animale tendenzialmente femmina che, però, della femmina non ha i tratti anatomici e genitali. Come tale la sua sessualità può restare perlomeno ambigua, e sfociare nel comportamento da maschio della tribade.

5. La donnola astuta che ingannò Dio.

Eliano non aveva dubbi nel definire il carattere della donnola: per lui si trattava di un animale «molto maligno» (epiboulótatos) 112. Non è il solo a considerarla in questo modo. Antonino la definiva «astuta» (dolerá) 113, mentre Isidoro dice della donnola che è di «ingegno subdolo» 114. Possiamo anzi aggiungere che in greco questo animale poteva portare anche il nome di kerdó–, cioè esattamente la «astuta» 115, mentre anche gli scrittori di fisiognomica insisteranno su questa stessa caratteristica dell’animale 116. La furbizia della donnola ritorna naturalmente nelle espressioni proverbiali, dove frequentemente la donnola costituisce un paradigma di astuzia. Cosí in Grecia l’espressione «donnola di Tartesso» (con riferimento al furetto) si usava per definire «i malvagi e gli svergognati» 117. Mentre nel folclore francese l’espressione «fine (= rusée) comme une belette» si usa per indicare una donna astuta, e l’espressione bécole (donnola) è sinonimo di «donna intrigante e insinuante» 118. Le corrispondenze fra il Mondo Antico e il folclore europeo moderno si presentano ancora una volta impressionanti. Nel manuale onirocritico di Artemidoro, infatti, «la donnola indica una donna astuta (panoûrgon) e di carattere malvagio» 119. Anche il suo muso lungo e sottile entra nel gioco delle rappresentazioni simboliche, e per il tramite della fisiognomica popolare a una persona che ha viso affilato si attribuisce il tratto dell’astuzia «da donnola» 120. Inutile sottolineare ancora una volta che anche questo complesso di caratteristiche attribuite alla donnola nel folclore antico ed europeo corrisponde alla natura reale del comportamento di questo animale, che è effettivamente astuto e ingannatore 121. Per esempio, che dire della sua capacità di simulare addirittura la morte, giocando il cosiddetto sham-dead trick all’avversario, quando si vede di fronte a un pericolo grave? 122 . Non c’è dubbio che anche nella storia di Alcmena il tratto dell’astuzia giochi un ruolo molto importante. In tutte quelle versioni in cui la Liberatrice è una ragazza destinata a trasformarsi in donnola, il messaggio menzognero con cui inganna le Nemiche richiede infatti notevole astuzia. La ragazzadonnola, insomma, appare di per sé già dotata di un ingegno subdolo (seppure volto a fin di bene) che presagisce la sua trasformazione in una donnola dolerá. Ma anche là dove la Liberatrice non è destinata alla trasformazione, il tratto dell’astuzia emerge con forza. Torniamo per un attimo a Pausania, la versione che vedeva le Pharmakídes ingannate dalla figlia di Tiresia. Qui la fanciulla escogita esplicitamente una «astuzia»

(sóphisma) con cui ingannare le nemiche. E porta un nome, Historís, che diventa per noi sempre piú interessante. Esso significa infatti intelligenza, capacità di osservare e ricercare. Non basta, anche la sua discendenza la spinge verso l’intelligenza. Suo padre è infatti il piú celebre degli indovini, Tiresia. Colui che conosceva talmente bene la vita che sapeva persino chi provava piú piacere nel rapporto sessuale, se il maschio o la femmina (era stato non solo uomo ma anche donna) 123, e che, com’è noto, aveva capito perfettamente chi era Edipo anche quando Edipo si ostinava a non capire se stesso. Nel racconto di Alcmena, quando il messaggio menzognero non è escogitato da una fanciulla destinata a trasformarsi in donnola, il tratto dell’intelligenza e dell’astuzia appare enfatizzato esplicitamente per altre vie. Potremmo dire in questo modo: il diventare «donnola», nelle varianti che prevedono la metamorfosi, funziona come l’«equivalente» del chiamarsi Historís, dell’avere Tiresia per padre e dell’escogitare espliciti sophísmata per ingannare le nemiche. La donnola è insomma un paradigma, o emblema, di intelligenza e di astuzia. Che la donnola sia animale intelligente e astuto per eccellenza è sottolineato anche da racconti provenienti da altre tradizioni, diverse da quella greca. Ecco infatti una sua singolare impresa secondo il racconto arabo che ad-Damiri attribuiva a Abd al-Latif al-Baghdadi 124. Era accaduto che un uomo aveva catturato il piccolo di una donnola e lo aveva messo in una gabbia. Quando la madre ebbe visto ciò, scomparve e ritornò subito dopo con un dinar in bocca, gettandolo di fronte all’uomo a significare che voleva riscattare il suo piccolo: ma l’uomo non cedette e lo trattenne. La donnola allora scomparve di nuovo ma subito tornò con un altro dinar per l’uomo. Fece questo ancora varie volte, finché le monete raggiunsero il numero di cinque. Quando la donnola vide che l’uomo non liberava ancora il suo piccolo, scomparve nuovamente e tornò con uno straccio, a significare che la sua riserva era finita. Ma l’uomo non le prestò attenzione. Quando la donnola ebbe visto il trattamento che riceveva si rivolse verso le monete che aveva portato come per prendersene indietro una: al che l’uomo, temendo che lei si riprendesse tutti i dinar, liberò il piccolo. In questo racconto la donnola fa non solo la parte della madre sollecita (come del resto potevamo aspettarci) 125 ma anche quella della brava mercantessa. Mostra di sapere bene come si trattano gli affari – se il venditore non accetta di vendere per un certo prezzo, a volte conviene abbassare

l’offerta invece di alzarla, cosí l’altro capisce che è venuto il momento di cedere. Meglio vendere a cinque dinar che non a quattro! O addirittura perdere l’affare. L’intelligenza della donnola qui è fuori discussione 126. Cosí come lo è la sua totale assenza di paura di fronte all’uomo, di nuovo un tratto che il reale comportamento dell’animale offre, come affordance, all’elaborazione simbolica del racconto. Quando la donnola ha i piccoli, infatti, essa non mostra alcun timore negli incontri con l’uomo 127. In questo racconto colpisce poi il rapporto della donnola con il mondo dell’oro o del danaro. Si tratta di un tema sfruttato ampiamente dal folclore, che fa spesso della donnola un animale sospettato di rubare oro e argento 128, la considera accumulatrice di danaro 129 e le attribuisce spesso la funzione di guardiana di tesori 130. Anche questa credenza ha tutta l’aria di essersi sviluppata a partire da una specifica affordance offerta dal comportamento reale dell’animale. Sappiamo infatti che la donnola, allorché si trovi ad aver ucciso molte prede, le nasconde per conservarle, praticando ciò che si chiama scientificamente caching. Era abbastanza tipico per esempio trovare un tesoro composto da una quindicina di topi, con i tipici segni del morso sul collo, ammucchiati in un covone di grano, quando ancora si usava farne 131. Anche a distanza di tempo, la donnola conserva perfettamente la memoria del luogo in cui ha nascosto la sua scorta 132. Ma, naturalmente, se la preda è abbondante la donnola preferirà nutrirsi di carne fresca 133, e abbandonerà il suo tesoro. Gli antichi se ne erano già accorti. Nel suo commento alle Georgiche di Virgilio, Servio, riferendo ai corvi l’abitudine di «abbandonare le cose che hanno nascosto», continua cosí: «si dice che anche le donnole abbiano la stessa abitudine» 134. Ma restiamo al tema dell’astuzia della donnola, che è poi quello che ci riguarda direttamente. Ancora piú interessante di quello della donnola mercantessa risulta infatti per noi un racconto ebraico che vede la furba donnola alle prese, nientemeno, con Dio e il suo angelo della morte. Ma prima è necessario fare una piccola premessa che riguarda (forse un po’ inaspettatamente) il mare. Il quale, nell’immaginazione culturale, si costruisce un po’ come un grande specchio metaforico del mondo emerso: popolato non tanto da animali o piante specifiche degli abissi ma piuttosto da doppi, controfigure, equivalenti del mondo emerso. Cosí, per quello che riguarda i pesci, eccoci di fronte al pesce-cane, al pesce-tordo, al pesce-merlo, al pesce-ragno, al pesce-

martello, al pesce-sega, al pesce-spada, e cosí via all’infinito. Quasi ogni pesce porta un nome costruito metaforicamente su un animale o comunque su un elemento proveniente dal mondo emerso 135. Poteva mancare un pescedonnola? No di certo, almeno per quello che riguarda la cultura greca e romana. A Roma conosciamo infatti l’esistenza di una mustela marina, il cui fegato era anzi usato come rimedio contro l’epilessia 136: proprio come buon rimedio contro l’epilessia era considerato anche il fegato della mustela terrestre 137. La Grecia si presenta piú ricca di rispecchiamenti. Eliano, parlando della donnola terrestre, gal , ci testimonia infatti l’esistenza di una gal di mare che di quella originale conserva molte caratteristiche 138: anche il pesce donnola infatti attacca gli occhi dei cadaveri, come fa la donnola di terra, e vive fra le pietre (proprio come Antonino Liberale diceva che le Moírai avevano prescritto alla donnola «di vivere nelle cavità») 139; allo stesso modo, gli esperti di filtri e malie sanno che, con il corpo del pesce-donnola, si possono compiere sortilegi, proprio come avviene con il corpo della donnola di terra 140. Ma accanto al pesce-gal , dobbiamo ricordare di nuovo l’esistenza del pesce-galeós, quel quasi omonimo della gal terrestre che, come lei, aveva fama di partorire dalla bocca 141. Il pesce-galeós è anzi talmente prossimo alla gal che alcuni evitavano di cibarsene in quanto animale «impuro» («lo ritengono impuro perché partorisce dalla bocca») 142: proprio come sappiamo che animale impuro è stata lungamente considerata anche la donnola 143. Di nuovo terra e mare sembrano corrispondersi perfettamente, e il mondo subacqueo si rivela niente piú che uno specchio di quello emerso. La gal greca e la mustela romana si sono affacciate sulla distesa delle acque e quel grande specchio ci ha rinviato l’immagine che era lecito attendersi: quella di un animale (marino) anche lui buono per fare sortilegi e per combattere l’epilessia, nonché dotato di strane e impure abitudini riproduttive. Nel caso della gal greca, lo specchio ci rinvia addirittura «due» immagini distinte, come se in quel rispecchiamento le abitudini riproduttive dell’animale e i suoi legami con il mondo della stregoneria si fossero separati e rifratti differentemente. Si scopre dunque con sorpresa che, la volta in cui la donnola si affacciò allo specchio marino della tradizione ebraica, le cose andarono molto diversamente. E con questo torniamo all’astuzia della donnola. Si narrava dunque che quando Dio ebbe creato l’angelo della morte, questi vide le creature e chiese a Dio che gli fosse dato il permesso di

ucciderle. Dio glielo accordò, con l’eccezione dei discendenti dell’uccello Milham «che non doveva gustare il sapore della morte». Messe dunque in salvo le creature che non dovevano morire, Dio disse all’angelo di gettare nel mare una coppia di ciascuna specie creata, dopo di che avrebbe avuto potere su tutto il resto. L’angelo fece quel che Dio gli ordinava e gettò in mare una coppia per ciascuna specie creata. Quando la volpe vide quello che stava facendo cominciò a piangere e a lamentarsi. L’angelo le chiese perché piangesse, e la volpe gli rispose che piangeva per il suo amico, che l’angelo aveva gettato in mare. L’angelo gli chiese di mostrargli dov’era l’amico della volpe, e lei, spostatasi sul bordo dell’acqua, gli indicò la propria immagine riflessa. L’angelo credette di aver già gettato in acqua la volpe e cosí questo animale si salvò e fuggí via. Lungo la strada la volpe incontrò la donnola e le raccontò quello che era accaduto. La donnola fece altrettanto e cosí anche lei si salvò. Questa è la ragione per cui nel mare non ci sono né volpi né donnole 144. Conosciamo già l’associazione fra volpi e donnole, entrambi animali molto furbi, e non stupisce vederli dividere qui lo stesso ruolo. Nella tradizione talmudica, comunque, questa singolare storia di astuzia era interpretata dalla sola donnola 145, che dunque si prendeva da sola tutto il vanto per questo inganno straordinario. Stavolta era avvenuto che «il Signore del mare» aveva richiesto di avere anche lui degli animali nel suo regno come in quello terrestre. Questo gli era stato concesso, e allora il Signore del mare aveva lanciato in acqua una coppia per ciascuna specie animale – salvo la donnola, che lo aveva ingannato mostrandogli la propria immagine riflessa. Ecco dunque perché in mare ci sono tutte le specie animali che ci sono in terra, con aspetto piú o meno mutato, ma non c’è un equivalente per la donnola 146. La donnola è proprio un animale illusionista. Anche in questo caso, come nella storia di Alcmena, riesce infatti a far ritenere vero quello che non lo è, e la tecnica adottata si presenta molto simile a quella usata dalla ragazzadonnola in Grecia: dà infatti per «già accaduto» quello che non lo è ancora, e in questo modo riesce a sconfiggere il suo avversario. Il Signore del mare si convince che in acqua esiste già una donnola, e invece si tratta solo della sua ombra, del suo riflesso. Ancora una volta gli avversari scelti dalla donnola sono molto prestigiosi, e la donnola ebraica può ben figurare accanto alla Galinthiás di Antonino. Se questa aveva ingannato nientemeno che il Fato, la donnola ebraica era riuscita a ingannare direttamente la morte e i voleri di

Dio, ovvero il Signore del mare. Alla caratteristica dell’astuzia e dell’intelligenza di questo animale, cosí enfatizzata anche in culture diverse da quella greca, se ne ricollega infine un’altra, a essa abbastanza simile, che ugualmente gioca un ruolo importante nella nostra storia. Ricordiamo per un attimo il comportamento di Galanthis, la ragazza-donnola di Ovidio: «la fanciulla si accorge che qualcosa sta avvenendo, per colpa dell’iniqua Giunone … mentre esce ed entra di frequente dalla porta». Galanthis, la svelta ragazza che «entra ed esce» dalle porte, ha dunque la capacità di «accorgersi» di qualcosa che gli altri non hanno rilevato. È un tratto che richiama strettamente la capacità di «ricercare» di «indagare» che sta nel nome di Historís, la figlia di Tiresia (historeîn). Ora, uno dei tratti piú tipicamente sottolineati della donnola, nella tradizione popolare europea, è proprio quello della sua «curiosità». Proverbi del tipo «sei curioso come una donnola» ricorrono frequentemente in diverse lingue e dialetti dell’area romanza. Al paradigma della donnola ci si riferisce volentieri per designare qualcuno che non si fa i fatti propri, e che vuol sapere ciò che non dovrebbe 147. Ancora una volta, è molto probabile che lo spunto per questa credenza, la curiosità della donnola, sia dato da una specifica affordance fisica dell’animale, ossia il fatto che di frequente, specie quando va a caccia, la donnola assume una posizione eretta sulle zampe posteriori, per scrutare con piú attenzione 148. Si tratta di una delle pose piú tipiche di questo animale (cfr. fig. 12), e a cui la lingua tedesca riserva anzi una descrizione molto efficace: er macht Männchen (fa l’ometto) 149. E con questa donnola-ometto ritta sulle zampe di dietro, che scruta con curiosità quello che accade intorno a lei (l’arrivo di un topo?, i malefizi delle Nemiche intorno alla partoriente?), interrompiamo per un momento la melodia della nostra Liberatrice. Abbiamo bisogno di fermarci di nuovo a pensare.

Capitolo terzo Wilde Frau, ostetrica selvaggia

Abbiamo descritto fin qui una serie di caratteristiche che alla donnola vengono attribuite dall’enciclopedia e dalle storie che la riguardano. Sappiamo per esempio che la donnola è considerata alternativamente una strega, una dissoluta, un’astuta. Che relazione possono avere queste caratteristiche con il ruolo che la donnola svolge nel racconto di Alcmena? Se una convergenza immediata possiamo vederla per ciò che riguarda il tratto dell’astuzia – l’animale che ingannò persino Dio può ben ingannare la Nemica della Partoriente – bisogna però riconoscere che con la stregoneria e la dissolutezza ci troviamo piuttosto in difficoltà. Queste note tipiche della donnola, cosí come le abbiamo ascoltate nelle pagine precedenti, sembrerebbero proprio stonare con il resto della melodia, o perlomeno non sembrano avere con lei alcuna particolare consonanza. Almeno in apparenza, l’essere strega o dissoluta non sono qualità che possano riguardare il mondo di colei che assiste la partoriente. Tali stonature possono però rivelarsi inaspettatamente consonanze, e addirittura arricchire la melodia che stiamo cercando, se giunti a questo punto proviamo a inserire nella nostra storia un personaggio di cui la Liberatrice potrebbe essere considerata, a buon diritto, una proiezione mitologica: la levatrice. Questo personaggio potrà non solo aiutarci a integrare nella storia i tratti stonati, ma anche a farci comprendere meglio il valore culturale dell’astuzia che caratterizza la nostra Liberatrice. Siamo autorizzati a coinvolgere nel racconto questo ulteriore carattere, la levatrice, perché secondo Ovidio la ragazza Galanthis svolgeva esplicitamente il ruolo di assistente al parto (una ministrarum). Mentre secondo Istro ed Eliano la donnola era considerata trophós di Eracle, probabilmente proprio nel senso, come già sopra si diceva, di levatrice o seconda madre dell’eroe 1. Dunque la donnola, secondo alcune varianti del racconto di Alcmena, è l’esplicita trasformazione di una levatrice. Ma anche quando questa natura di levatrice dell’amica di Alcmena non viene cosí esplicitamente sottolineata dal racconto, non c’è dubbio che il ruolo della Liberatrice coincida in tutto e per tutto con quello di una donna che «aiuta» la partoriente a porre fine al suo travaglio, che è tipicamente il ruolo di una

levatrice. La quale è proprio una «femme-qui-aide» 2, una donna che «porta aiuto» 3, come suonano alcune delle definizioni di questa figura. Proviamo perciò a vedere se, attraverso la funzione di levatrice svolta dalla Liberatrice, non possa emergere qualche possibile connessione fra le caratteristiche «stonate» della donnola (il suo essere strega e dissoluta) e la funzione che essa svolge nel racconto di Alcmena.

1. La dea-levatrice è una strega. Lei è la strega, che quando le fanciulle giacciono supine si stringe loro addosso premendole, e insegna loro per la prima volta a «portare», e ne fa donne di buon «portamento» 4.

Cominciamo dalla stonatura piú stridente: la donnola-strega. Come sappiamo, si tratta di un tratto tipico, profondo, relativo alle credenze su questo animale: di quelli che hanno tanto una diffusione geografica amplissima quanto una durata estremamente lunga. Abbiamo visto infatti che non si tratta solo di Eliano o di Apuleio, la donnola si porta addosso l’accusa di stregoneria nelle culture piú diverse e nei contesti cronologici piú disparati 5. Si tratta dunque di un tratto importante, che non possiamo davvero permetterci di ignorare. Ecco allora la domanda che dobbiamo porci: il mondo della stregoneria, rappresentato per noi dalla donnola-strega, può avere contiguità con quello della levatrice? Che questa contiguità esista esplicitamente nella cultura antica emerge per la verità dalla storia medesima che stiamo analizzando. Le Nemiche, infatti, sono divinità della nascita, divinità-levatrici, che si comportano in questo caso proprio da «streghe». Le Eileíthyiai, le Moírai, la stessa Lucina, Era, divinità tipiche del mondo del parto, compiono rituali stregoneschi, intrecciando mani e gambe in occasione della nascita. In un caso le Nemiche portano esplicitamente il nome di Pharmakídes, cioè «streghe», la stessa parola usata da Eliano per definire «Donnola», la strega pharmakís, prima della sua trasformazione in animale. Le dee levatrici possono insomma risultare tanto dee fauste quanto streghe malefiche, dipende dalle occasioni e dalle scelte dei narratori. La Lucina delle Metamorfosi di Ovidio, come abbiamo già sottolineato, manifesta esplicitamente questa ambivalenza: a

volte è colei che, mitis, pronunzia i verba puerpera e fa partorire la donna con facilità; altre volte, come nella storia di Alcmena, recita invece carmina, «incantesimi che … trattengono il travaglio» 6. Inutile infine ricordare la fondamentale ambivalenza di Ecate, divinità legata alla nascita, come abbiamo visto, ma insieme dea-strega per eccellenza 7. Il legame fra queste due sfere, la magia e la pratica dell’ostetricia, sembra dunque garantito nell’universo della religione e dei racconti tradizionali. Questa risposta potrebbe forse esserci già sufficiente. Una donnola-strega si adatta molto bene a svolgere il ruolo di levatrice nel racconto di Alcmena perché streghe sono, nel Mondo Antico, le stesse dee del parto. Però abbiamo deciso di farci una domanda ulteriore: quale riscontro possono avere questi tratti mitici delle dee-levatrici nella figura «reale» della maîa greca o della obstetrix romana? Rispondere non è facile, semplicemente perché non è facile identificare l’immagine della levatrice o dell’ostetrica antica. Proviamo intanto a spiegare perché, concedendoci una breve digressione. a) Curanderas, profesoras, parrucchiere e altre aiutanti da commedia.

Fra noi e la maîa, o la obstetrix, stanno infatti due possibili barriere, o meglio due schermi deformanti, che possono falsarne i contorni: la prima barriera corrisponde a un certo pregiudizio etnocentrico, modernistico, che può spingerci a rendere troppo uguale, ovvero troppo diversa, la figura della levatrice antica rispetto all’idea che le società moderne occidentali si fanno di questo personaggio; la seconda barriera corrisponde invece a un possibile pregiudizio genero-centrico, ossia alla possibilità che di questa figura si dia un’immagine troppo deformata da sovraimpressioni della cultura maschile. Il pregiudizio etnocentrico si presenta simile a quello che a volte impedisce ai medici occidentali di comprendere il valore delle birth attendants nelle culture tradizionali 8, e contro cui varie ricerche nel campo della medicina sociale hanno recentemente cercato di reagire 9. Questo atteggiamento potrebbe spingerci a considerare le antiche maîai e obstetrices quali semplici «donne di mezza età o anziane, analfabete per mancanza di un’educazione regolare, che praticano l’ostetricia come occupazione parttime» 10. Donne che hanno scelto questa attività per «motivi di tradizione familiare, vocazione soprannaturale, esperienza onirica…», insomma delle levatrici non professionali, simili a quelle che ancora si incontrano in tanti

paesi diversi da quelli occidentali. Personaggi che possono essere spesso rispettati, persino temuti, non solo per le proprie capacità tecniche ma anche per il possesso di poteri esoterici 11. È certo però che facendo del Mondo Antico un paese popolato di curanderas e non di profesoras, per usare la distinzione corrente in certe zone dell’America latina fra levatrici tradizionali e levatrici colte 12, si commetterebbe un errore. Il fiorire della medicina femminile ippocratica, infatti, mostra che, ad Atene, già nel secolo V a.C. stava nascendo la professional midwife come anche noi la intendiamo 13. Questo tipo di medicodonna, seppure costretto a rimanere confinato nella periferia della professione a causa del proprio genere, era comunque destinato a svolgere un ruolo professionale che può essere considerato «qualificato» anche secondo i parametri dell’etnocentrismo moderno. Non si può escludere che già Platone attestasse l’esistenza di dottori donna nell’Atene a lui contemporanea 14, mentre il monumento di una donna dal nome di Fanostrate, databile alla metà del secolo IV a.C., la identifica come maîa e iatrós, dunque «levatrice» e «dottore» nello stesso tempo 15. Quanto al mondo romano, almeno nel bacino orientale del Mediterraneo le iscrizioni funebri ci informano a sufficienza sull’esistenza di donne che superarono il semplice stato della levatrice (maîa) per assumere il titolo di ostetrica (iatrós gynaikeîos); e qualcosa del genere possiamo arguire anche per la parte occidentale 16. Il processo di trasformazione del ruolo professionale delle levatrici doveva comunque essere già molto avanzato alla fine del secolo I d.C. se il medico Sorano poteva scrivere il suo celebre trattato di ginecologia destinandolo a una classe di levatrici professionali di cui egli cosí descrive le qualità: … colei che intenda diventare ostetrica dovrà essere fornita di istruzione elementare, avere uno spirito pronto, una buona memoria … L’istruzione elementare le permetterà infatti di acquisire l’arte anche attraverso il ricorso alla teoria; la prontezza di spirito, le permetterà di seguire con facilità quel che le viene detto o quel che accade; la memoria, di ricordare ciò che ha appreso… 17.

La levatrice perfetta, inoltre, quella che ha raggiunto la pienezza dell’arte, è definita cosí da Sorano:

… colei che ha acquisito delle conoscenze teoriche e una solida esperienza oltre alla propria competenza professionale. Piú particolarmente, definiamo levatrice perfetta colei che si è esercitata in tutte le parti della terapeutica … quella che è capace di dare delle prescrizioni, di vedere il generale e il particolare, di trarre le giuste decisioni da queste osservazioni 18.

E cosí di seguito. Come si vede, abbiamo a che fare con una vera e propria scuola medica indirizzata alle levatrici 19. Dunque il Mondo Antico ha ampiamente conosciuto l’esistenza di profesoras. Quelle a cui Sorano raccomandava di non essere «superstiziose» 20, e a cui veniva richiesta la conoscenza di nozioni mediche piú che elementari. Ovviamente, però, pensare che le levatrici antiche fossero tutte come le ostetriche auspicate da Sorano sarebbe ingenuo. La cultura antica si estende nell’arco di numerosi secoli, e lo spazio geografico in cui essa si è sviluppata è grande: esso comprendeva non solo i grandi centri di cultura ma anche i piccoli villaggi, non solo le signore dell’aristocrazia cittadina ma anche le donne povere delle città e delle campagne. D’altra parte, è probabile che nei casi di parti meno complicati ci si limitasse a una assistenza generica e tradizionale, fornita da parenti o da altre figure di questo tipo, come avviene in molte culture 21. Di questo fenomeno abbiamo anzi svariate testimonianze. Nelle Ecclesiazuse di Aristofane, Prassagora giustifica con il marito la propria assenza notturna in base al fatto che una «amica del vicinato», sul punto di partorire, l’ha mandata a chiamare in fretta e furia. Dunque sono le amiche e le vicine che, almeno in prima istanza, compiono la funzione di assistere la partoriente 22. Si tratta evidentemente di un dovere a cui una donna non può sottrarsi, e che fa parte del sistema di prestazioni e contro-prestazioni che caratterizzano la solidarietà di tipo amicale 23. Come abbiamo visto, anche la Galinthiás di Antonino Liberale è un’«amica di infanzia della partoriente» 24. La Galanthis di Ovidio è invece una ministra, una «aiutante» ben nota alle donne tebane per gli officia che presta loro 25. Nell’Inno omerico ad Apollo, intorno a Latona partoriente stanno le vicine di casa che può avere una dea, cioè le altre dee dell’Olimpo 26. Come abbiamo già visto, infine, alla festa ateniese degli Amphidrómia, che si teneva il quinto giorno dalla nascita del bambino, «si purificavano le mani le donne che avevano partecipato alla nascita (maí sis)» 27. Chi saranno state queste donne? Di sicuro erano

considerate in qualche modo prossime alla schiera familiare, se venivano a purificarsi in una festa di famiglia come gli Amphidrómia. La stessa in cui si portava correndo il bambino intorno al focolare e gli si dava il nome: mentre amici, parenti e congiunti gli inviavano dei doni. Anche gli scritti del Corpus Hippocraticum conoscono poi donne diverse dalla maîa per l’assistenza alle donne in travaglio. Sono le «curatrici (akestrídes) che assistono le partorienti», evidentemente figure tradizionali di birth attendants 28. A Roma, accanto alla obstetrix, vediamo ricordata la figura della assestrix: purtroppo la incontriamo solo nei frammenti di una togata di Afranio dal titolo Fratriae, le «cognate» 29, ma dal contesto risulta abbastanza chiaramente che questa assestrix era stata chiamata ad assistere una donna incinta 30. Il verbo adsidere, a cui adsestrix (o assestrix) fa riferimento, significa propriamente «assistere un malato» 31, e Plinio lo usa esplicitamente per indicare l’assistenza a una partoriente 32. Peccato che questa commedia di Afranio non ci sia pervenuta intera, altrimenti le nostre conoscenze in materia di aiutanti al parto nella società romana sarebbero migliori 33. Le donne che circolano attorno alle partorienti da commedia costituiscono per noi un soggetto davvero interessante. Come abbiamo già visto, nelle Tesmoforiazuse di Aristofane 34 è una vecchia senza particolare qualifica che ha accesso alla stanza della donna: ed è ancora una vecchia che assiste la giovane Glicerio nell’Andria di Terenzio. Stavolta ci viene anzi detto esplicitamente che questa Lesbia, «ubriacona e malaccorta» com’è, non sembra affatto la persona ideale a cui affidare una donna al suo primo parto 35. Evidentemente, la scelta della levatrice poteva variare a seconda dei casi e delle situazioni, come dicevamo. Nel Truculento di Plauto incontriamo invece una parrucchiera ad assistere nei propri intrighi la cortigiana Fronesio, che finge una gravidanza 36. Mentre nella Cistellaria il ruolo di procurare un bambino alla cortigiana è svolto da una mezzana (lena), che all’epoca di questa sua impresa doveva però essere una semplice cortigiana anche lei, amica della donna che cercava un figlio da far passare per suo 37. Come nel caso della vecchia delle Tesmoforiazuse, possiamo supporre che anche queste donne, la parrucchiera e la cortigiana, avessero accesso al letto della (falsa) partoriente in qualità di donne che fingevano di aiutarla nel parto. Altre volte, invece, anche la commedia plautina fa riferimento a vere e proprie obstetrices, che esigevano anzi una parcella piuttosto alta 38. Il Mondo Antico sembra dunque aver conosciuto sia la levatrice

professionale sia quella occasionale ovvero tradizionale. A questo punto, si potrebbe essere tentati di proiettare anche qui la classica distinzione fra levatrici professionali da un lato, e birth attendants tradizionali dall’altro, come due mondi separati: su un versante le levatrici preparate dai dottori maschi e simili a quelle moderne; su un altro versante le levatrici popolari, amiche, parenti, donne educate dalla semplice tradizione e senza alcuna preparazione specifica. Ma questi due tipi di levatrice possono essere separati cosí nettamente nel Mondo Antico? È ancora in corso infatti un interessante dibattito sulla quantità di scienza femminile che il Corpus Hippocraticum, relativamente alla medicina sulle donne, avrebbe recepito e fatto proprio 39. Benché la discussione non possa certo considerarsi conclusa, appare comunque improbabile che la medicina degli uomini, una volta sviluppato questo interesse per il controllo del corpo della donna, abbia elaborato tutta da sola i propri paradigmi e le proprie esperienze. Se nel Corpus Hippocraticum traspaiono spesso le tipiche assunzioni maschili sul corpo femminile (l’immagine della donna come campo da arare, la prescrizione del sesso come panacea per ogni tipo di malattia femminile, l’utero errante, e cosí via) 40, è anche vero che spesso i medici ippocratici mostrano di aver consultato donne in questa materia, e aver ottenuto da donne esperte informazioni sulle conoscenze femminili riguardo a temi come i tempi della concezione e la durata della gravidanza 41. Soprattutto, al female lore si dovrà un elemento essenziale alla medicina per le donne, sia ippocratica che successiva: la massa delle ricette necessarie alla terapia effettiva 42. Allo stesso modo in cui secoli dopo, nella formazione della scuola medica, i rimedi proposti dalle mulieres salernitanae saranno frequentemente accolti dai medici maschi del Collegio (secolo XI ) 43. Bisognerà anzi mettere in evidenza il fatto che nella tradizione medica antica (Galeno e soprattutto Plinio) vengono frequentemente citate opinioni di donne relativamente a questioni di medicina femminile 44. In definitiva, appare molto probabile che nello sviluppo della medicina per le donne, e dunque nella formazione progressiva di una classe di ostetriche professionali educate dalla medicina dei dottori maschi, la tradizionale scienza femminile sul corpo delle donne abbia giocato un ruolo fondamentale, fornendo esperienze, informazioni e ricette. Dunque, proprio quelle levatrici tradizionali a cui la levatrice professionale si opporrebbe, hanno paradossalmente contribuito alla

formazione delle proprie antagoniste. In realtà, bisogna rassegnarsi all’idea che la figura della levatrice nel Mondo Antico, soprattutto rispetto alle nostre categorie moderne, risulti estremamente cangiante: non si può tracciare una linea netta di demarcazione fra quella scientifica e quella folclorica, cosí come riesce difficile distinguere una volta per sempre fra quanto di maschile e quanto di femminile si trovi nei testi di medicina antica per le donne. Si tratta di uno spettro continuo, i cui estremi sono forse netti (l’ostetrica di Sorano da un lato, le vecchie della commedia dall’altro) ma il cui corpo centrale non può che apparire molto sfumato. Torniamo dunque al tema principale che ci occupa: la donnola. Come si ricorderà, avevamo pensato di introdurre nel nostro racconto il personaggio della levatrice perché, attraverso di esso, speravamo di poter interpretare alcune caratteristiche tradizionali del nostro animale – la sua stregoneria, la sua dissolutezza, la sua astuzia – che parevano stonare con il ruolo di levatrice o di trophós che questo animale svolge nel racconto di Alcmena. Adesso dobbiamo cercare di mantenere la promessa fatta. Dunque proviamo a chiederci: si può affermare che la levatrice antica fosse a volte considerata una «strega»? Dopo di che, ci chiederemo anche se essa potesse essere considerata dissoluta e astuta. b) I piacula delle obstetrices.

Testimonianze interessanti sulla confidenza che le antiche levatrici avevano con filtri e pozioni magiche emergono in primo luogo da un celebre passo del Teeteto di Platone 45. La madre di Socrate, Fainarete, era una levatrice (maîa), e del lavoro della levatrice, cioè della maieutica, Socrate si sentiva com’è noto un singolare interprete. Praticava infatti la maieutica sugli uomini, non sulle donne, e la sua provincia era costituita «non dai corpi in travaglio, ma dalle anime» 46. Nel lungo sviluppo di questa similitudine, fra la madre ostetrica e il figlio filosofo maieutico, il Socrate di Platone ci dà anche alcune informazioni interessanti sul modo in cui la maîa era vista dalla cultura greca del suo tempo. Fainarete viene in primo luogo definita gennaía «nobile», dunque si trattava di un personaggio rispettato dalla comunità e fornito di un certo prestigio. Da questo punto di vista diventa anzi interessante una riflessione

sul nome che la levatrice porta in greco: maîa. Quando è usato come termine allocutivo, infatti, questo sostantivo implica sempre un atteggiamento di rispetto verso la persona a cui è rivolto. Lo si usa solo per una donna che ha già raggiunto o superato la mezza età e che, come tale, può muoversi liberamente in pubblico e ha assunto un ruolo di importanza nella propria casa 47. Al contrario, rivolgersi a una donna anziana chiamandola graûs, cioè «vecchia», era considerato insultante 48. Dunque la levatrice porta un nome che la designa già come donna non piú giovane, autorevole, rispettata. Viene in mente la parola francese matronne, ugualmente usata per indicare la levatrice, e ugualmente costruita sui parametri della classe di età e della rispettabilità 49. Continuiamo con la descrizione platonica. Tipico della levatrice, secondo Socrate, era il fatto di essere in qualche modo fuori dal mondo del parto e della procreazione 50: «nessuna donna ancora capace di concepire e di partorire fa la levatrice per altre donne». In effetti, portare il nome di maîa sembra implicare, come abbiamo visto, almeno il raggiungimento della mezza età e quindi della menopausa. La ragione di ciò, secondo Socrate, risiederebbe invece nel fatto che Artemide, dea del parto, era dea vergine per eccellenza, che non aveva mai partorito ella stessa. Questa notizia di Platone, soprattutto per il legame fra Artemide e la levatrice, risulterà per noi interessante anche piú avanti. Per ora limitiamoci a sottolineare il fatto che, nella gran parte delle culture tradizionali, le levatrici sono effettivamente reclutate fra donne che hanno già raggiunto una certa età, e spesso si trovano nel periodo successivo alla menopausa 51. Detto questo, Socrate prosegue: … le levatrici, somministrando pozioni (pharmákia) e pronunziando incantesimi (epáidousai) riescono a risvegliare le doglie e, se lo vogliono, a renderle piú miti, e a far partorire le donne che hanno difficoltà nel parto; e procurano aborti se lo ritengono necessario 52.

Dunque le levatrici, anche quelle come la «nobile maîa» Fainarete, praticano l’arte della pozione e dell’incantesimo, e si servono di questi mezzi magici sia per facilitare il parto sia per procurare aborti. Anche Sorano, che delle levatrici aveva come sappiamo un alto concetto, si preoccupava comunque di raccomandare che la levatrice non fosse superstiziosa: «un sogno, dei presagi, una pratica segreta, un rito volgare, non devono farle

dimenticare quello che veramente è utile» 53. Un’altra allusione alle magie delle levatrici 54. È soprattutto Plinio che ci dà informazioni molto interessanti riguardo alle stregonerie delle levatrici. Sta descrivendo i poteri medicinali posseduti dal corpo umano, e viene a parlare di quelli attribuiti al corpo delle donne. Le pratiche che si compiono attraverso il corpo delle donne – dice – si avvicinano piuttosto al carattere soprannaturale dei prodigi (ad portentorum miracula): per tacere degli aborti divisi membro a membro per compierne nefandezze, dei sortilegi (piacula) fatti con il sangue mestruale e di tutti gli altri che non solo le levatrici (obstetrices) ma anche le stesse prostitute (meretrices) ci hanno tramandato 55.

Dunque le levatrici, cosí come le prostitute, praticavano piacula con membra di feti abortivi, sangue mestruale e «altre cose» che, sempre provenienti dal corpo femminile, Plinio non nomina. Non c’è dubbio che siamo nel pieno campo della stregoneria. Piaculum è una parola che Plinio usa all’inizio dello stesso libro XXVIII, per dichiarare che vi elencherà auxilia, non piacula, «rimedi medici, non orribili sortilegi» 56. Dei piacula ha appena dato ampi (e raccapriccianti) ragguagli: utilizzo di cervello di bambino, di viscere umane, e cosí via, ossia proprio il tipo di pratiche tradizionalmente attribuito alle streghe antiche come le vediamo descritte da Orazio o da Lucano 57. Ecco dunque le levatrici accusate di praticare la magia nera e coinvolte nello smembramento di cadaveri. Vale certo la pena di sottolineare, a questo punto, che di attaccare i cadaveri era tradizionalmente accusata anche la donnola. Le prime analogie fra i nostri due personaggi – la donnola-strega e la levatrice-strega – cominciano a comparire. Continuiamo con Plinio. In questo orribile cimitero del corpo, devastato dalla magia, non sorprende veder campeggiare il sangue mestruale. Plinio, com’è noto, considerava questo liquido straordinariamente mostruoso (nihil facile reperiatur mulierum profluvio magis monstrificum), e a esso attribuiva ogni genere di incredibili poteri, come far inacidire il mosto, isterilire le messi, spuntare i coltelli, e cosí via 58. Altrove, Plinio dà un esempio di ciò che, secondo lui, prostitute e levatrici facevano manipolando questo umore per i loro scopi: «neppure le donne sono immuni da questo loro malanno (malum suum). Esso provoca aborto se spalmato, o se una donna incinta solo vi passi sopra» 59. Si tratta probabilmente di un meccanismo di simpatia: dato

che con la gravidanza le mestruazioni si arrestano, il sangue mestruale ha il potere di farle riprendere, provocando quindi aborto. Dopo di che Plinio continua: … quanto a ciò che Laide ed Elefantide hanno tramandato, contraddicendosi fra loro, riguardo ai poteri abortivi del carbone tratto dalla radice del cavolo o del mirto e spento in questo sangue … e tutte le altre mostruosità (monstrifica) che hanno divulgato in modo contraddittorio – visto che l’una dice che si procura la fecondità con gli stessi mezzi con cui l’altra dichiara che si procura la sterilità – è meglio non credervi 60.

Il sangue mestruale continua a produrre mostruosità sul corpo delle donne (anche se Plinio si mostra scettico su alcune di queste pratiche). Il mestruo è liquido tanto orribile quanto onnipossente, e le donne pretendono di servirsene per procurare aborti o concezioni. Subito sotto, Plinio ricorderà che ancora Laide riteneva che questo liquido potesse curare dal morso dei cani rabbiosi 61. Chi sono queste due donne, Laide ed Elefantide? Sotto dovremo riparlarne. Ma dato che Plinio le nomina a proposito di pratiche relative al sangue mestruale, e Laide per ben due volte in relazione a questa aborrita sostanza, dobbiamo pensare che esse facessero parte del gruppo di obstetrices e meretrices nominato pochi paragrafi prima a proposito dei sortilegi (piacula) fatti con il sangue mestruale 62. Dello stesso gruppo doveva far parte anche la Sotira nominata altrove da Plinio a proposito dell’uso del mestruo per la cura di febbri terzane e quartane: lo si doveva mettere «sotto i piedi del malato. Meglio se a sua insaputa[!]» 63. Arrestiamoci un momento per fare un confronto. Abbiamo visto il carattere stregonesco che Plinio attribuisce alle pratiche abortive di levatrici e prostitute. In pieno cristianesimo, Giovanni Crisostomo si abbandonerà a un catalogo di nefandezze femminili che rassomiglia abbastanza alle descrizioni pliniane 64. Dopo aver accusato di omicidio gli uomini che si accompagnano alle prostitute, perché di fatto costringono queste donne ad abortire, Crisostomo se la prende anche con loro, le cortigiane, che pur di rimanere belle non si arrestano di fronte a nulla: «incantamenti, offerte votive, filtri e migliaia di cose del genere sanno escogitare…» Dopo di che tocca di nuovo a quei mariti che costringono ad abortire non solo le prostitute ma anche le loro mogli:

… si preparano stregonerie (pharmakeíai) 65, non per il grembo di una prostituta ma per quello di una donna che subisce ingiustizia: e attacchi innumerevoli, e invocazioni demoniche, e necromanzie…

Ecco di nuovo la stregoneria mischiarsi esplicitamente alle pratiche segrete delle donne, persino alla loro cosmesi e al loro desiderio di apparire belle. Ma quel che è peggio, nel boudoir di prostitute e mogli corrotte dai mariti, stavolta fanno capolino persino demoni e morti evocati dagli inferi. Plinio non era arrivato a tanto, o perlomeno non lo aveva detto esplicitamente. Dunque le levatrici praticano la magia: smembrano feti e hanno commercio con il piú mostrifico dei prodotti del corpo femminile, il mestruo. La presenza cosí insistita del sangue mestruale in questo campo di attività della levatrice-strega costituisce ovviamente una spia del carattere decisamente maschile che condiziona queste notizie pliniane. Plinio in particolare sembra subire come una fascinazione da parte del liquido mestruale. Il lungo catalogo del libro VII in cui ne elenca le mostruose meraviglie procede con una scansione epica: un epos maschile di orrore e di disgusto per il piú femminile degli umori 66. Solo che non si tratta unicamente dei fantasmi pliniani, anche la Fainarete di Socrate possedeva la scienza dei filtri e degli incantesimi, e se ne serviva non certo per compiere piacula orribili quanto per svolgere il suo normale lavoro di levatrice 67. Le rappresentazioni della levatrice-strega si intrecciano e si moltiplicano, terrori e proiezioni dell’immaginario maschile sembrano fondersi con pratiche reali e condivise anche da «nobili levatrici». Questo però non deve sorprenderci. Anche l’immagine della strega, proprio come quella della levatrice, che con essa del resto confina, si presenta infatti caratterizzata da un’estrema ambivalenza culturale. Da un lato sappiamo bene quanto la stregoneria attribuita alle donne sia stata semplicemente il risultato di una costruzione – sia che si trattasse di una vera e propria falsificazione, sia che si trattasse di un ruolo effettivamente assunto dalla donna per reagire alla condizione in cui si veniva a trovare all’interno della società. Dall’altro lato, però, non si può dimenticare il fatto che il Mondo Antico credeva effettivamente alla magia e praticava quest’arte. Ricordiamo ancora le parole di Plinio il Vecchio: … presi a uno a uno, i piú saggi rifiutano questo tipo di credenze [il potere di verba et

incantamenta carminum]: ma la vita presa nel suo complesso a ogni momento vi presta fede, e non se ne accorge 68.

La fiducia e la pratica nei rimedi magici era inconsapevole, cultura diffusa, comune. Di questa fiducia nelle pratiche magiche le donne, come gli uomini, partecipavano, e spesso ne erano le operatrici piú qualificate. In tema di medicina femminile anche gli scritti del Corpus Hippocraticum mostrano consistenti tracce di ricette magiche 69, mentre un’ulteriore lettura di Plinio il Vecchio non farebbe che ampliare all’infinito il nostro patrimonio di ricette magiche nel campo del parto e della medicina femminile in generale. Quando dunque incontriamo delle levatrici-streghe che praticano filtri e sortilegi sulle partorienti o sulle donne in genere, bisogna sapere che dietro queste rappresentazioni può esserci sí la paura degli uomini verso la scienza delle donne, e il loro agguerrito armamentario di pregiudizi: ma anche che tutto ciò corrispondeva contemporaneamente a un orizzonte di fede nella magia che, come dice Plinio, era largamente condiviso dalla cultura antica. c) Le sagae di Roma antica. Streghe, mezzane e profetesse.

Andiamo avanti. Roma, almeno nel suo periodo piú arcaico, è un po’ avara di testimonianze su questo possibile carattere stregonesco della obstetrix. Qualcosa, però, si può forse dire. Esisteva infatti una categoria di donne-indovine che da sempre è sospettata di aver a che fare con il mondo delle levatrici: le cosiddette sagae 70. Ma a quanto pare nessuno si è effettivamente preoccupato di disegnare i contorni di questi personaggi. Proviamo a farlo noi. Per come le conosciamo, le sagae praticano in primo luogo il mestiere della mezzana 71, e in quanto tali a esse è attribuita la conoscenza dei gusti maschili in materia di sesso: «sono dette sagae le donne che indagano i piaceri sessuali degli uomini…» 72. Il loro ruolo però può essere associato anche a quello (meno screditato) della conciliatrix, cioè della pronuba 73: colei che «procurava le mogli ai mariti e i mariti alle mogli» 74. Evidentemente la saga è una donna che «conosce» le altre donne, oltre a conoscere i gusti degli uomini, e come tale è in grado di favorire i contatti fra maschi e femmine. I suoi servigi non erano gratuiti ma esigevano un prezzo 75. Il ruolo piú caratteristico della saga, comunque, è quello di maga,

strega o profetessa: capace tanto di praticare la defixio di un malcapitato e di far scendere il cielo sulla terra, quanto di predire il futuro 76. A questo suo ruolo di strega e profetessa si riferisce specificamente il nome stesso che porta in latino. Saga è infatti legato a sagire «conoscere per intuizione». Il significato di sagire, cosí come il legame fra la saga e il tipo di conoscenza che essa incarna, ci è spiegato da Cicerone: … sagire significa sentire in modo acuto (sentire acute). Da qui il nome delle vecchie sagae, dette cosí perché vogliono sapere molto (quia multa se scire volunt), e i cani 77 detti sagaces 78.

Dunque le sagae sono viste come una sorta di sensitive, la loro conoscenza deriva da capacità istintive, non razionali. Ma questa conoscenza delle sagae sensitive ha sempre molto a che fare con le caratteristiche della magia. Anche le streghe sono dette da Petronio plussciae 79, con una singolare formazione linguistica che sottolinea proprio il «saper di piú» degli altri. Le sagae sono donne che sanno in un modo diverso da quello in cui gli altri sanno. Infine, anche un altro tratto colpisce in questa testimonianza di Cicerone: le sagae sono dette anus, sono cioè delle vecchie. Vediamo dunque se possiamo tirare qualche conclusione dalle notizie che abbiamo raccolto fin qui. Nessuno ci dice esplicitamente se a Roma le sagae esercitassero o meno il mestiere della obstetrix, è vero, ma certo esse hanno con le levatrici molti punti di contatto. Da un lato sappiamo infatti che esse erano «vecchie», cosí come la tradizione – tanto secondo Platone quanto secondo le ricerche degli antropologi – richiede che siano le levatrici. Ancora, le sagae erano profetesse, come lo erano le piú antiche dee romane della nascita, cioè le Carmentes: dee delle partorienti e, nello stesso tempo, divinità capaci di conoscere il passato e il futuro 80. Non basta, questo tratto del «sapere», dell’essere saga, ricorda infatti in modo impressionante la caratteristica di «sapienza» che molte lingue moderne attribuiscono alla levatrice: definendola proprio sage-femme, wise woman. La levatrice è una donna che «sa» 81, che è fornita di un sapere specifico e particolare. E una saga, con il nome che porta, sembra proprio appartenere alla stessa famiglia. Infine viene il suo ruolo di mezzana o di pronuba, la sua conoscenza dei gusti sessuali degli uomini. Questa caratteristica sembrerebbe estranea al mondo delle levatrici, ma non è cosí. Torniamo al passo del Teeteto, relativo alla

maîa, che abbiamo visto sopra. Secondo Platone, infatti, le maîai non solo aiutano le partorienti ma anche «sono le pronube piú abili, perché conoscono quale donna piú si adatti a ciascun uomo per generare i figli migliori» 82. Dunque è possibile che il mestiere di pronuba facesse parte della sfera di attività propria delle levatrici. A questo punto, appare probabile che le sagae, le sensitive di Roma, cosí come svolgevano molte delle funzioni parallele tradizionalmente proprie delle levatrici, potessero esercitare anche quella principale di aiutare le partorienti: ovvero si occupassero in generale del corpo e dei problemi delle donne. Se possiamo citare un parallelo moderno per questo tipo di donna, credo che il migliore sia costituito dalla Queen Mab del Romeo e Giulietta di Shakespeare. Mercutio la introduce con queste parole, «she is the fairies’ midwife», Mab è la levatrice delle fate. E la descrizione prosegue in questo modo: Questa Mab è proprio quella stessa che nella notte intreccia le criniere dei cavalli; e nei loro crini sozzi e unti fa dei nodi fatati, che una volta strigati pronosticano molte sciagure. Lei è la strega, che quando le fanciulle giacciono supine si stringe loro addosso premendole, e insegna loro per la prima volta a «portare», e ne fa donne di buon «portamento» 83.

Queen Mab, la levatrice, è una vecchia strega (hag) che rassomiglia a un incubo erotico 84: e che trasforma le ragazze in «donne di buon portamento» insegnando loro a bear – nel duplice senso di sostenere un rapporto sessuale e di generare un figlio. Nella descrizione di Mercutio – personaggio notoriamente ostile al sesso femminile – la vecchia Queen Mab sembra governare il corpo delle donne da entrambi i punti di vista, quello erotico e quello della generazione. Ed è una vecchia strega. Ma la saga-mezzana ci ha condotto sul limitare di un tema che dovremo affrontare solo piú avanti: quello del rapporto fra la levatrice e la sessualità. Adesso dobbiamo continuare con la strega, e Queen Mab costituisce un buon punto di passaggio verso gli sviluppi successivi della nostra storia.

d) «In partu obstetrices mille daemonica operantur».

Il legame fra le levatrici e la stregoneria era infatti destinato a emergere con prepotenza nella società europea. Nel 1494 un domenicano di Breslau, impegnato nella lotta contro la stregoneria, eloquentemente scriveva: «in partu obstetrices mille daemonica operantur similiter et partientes» 85. Levatrici e partorienti hanno commercio con il diavolo, sono streghe. Le parole di Plinio sui piacula delle levatrici sembrano quasi riecheggiare in questa frase – ma adesso c’è il diavolo dietro i sortilegi delle levatrici: e soprattutto, c’è l’ombra sinistra della tortura e del boia. Il famigerato Malleus maleficarum di Heinrich Institor (Krämer) e Jakob Sprenger riserverà una specifica attenzione alle levatrici, donne che sorpassano tutte le altre in malvagità 86. Le affermazioni in questo senso sono molto esplicite. Come recitava una delle confessioni estorte alle streghe: «nessuna donna provoca maggior danno alla fede cattolica della levatrice» 87. Era anzi convinzione di Institor e Sprenger che «il numero di queste [le streghe-levatrici] è tanto grande, come è stato accertato nelle loro confessioni, che si ritiene che non vi sia villaggio in cui non si trovi che ne esista una di questa razza» 88. L’elenco dei crimini commessi dalle levatrici-streghe prevede malefici di ogni sorta, dettati dal desiderio di compiacere il demonio inviandogli anime non battezzate, ovvero dal desiderio di procurarsi pasti cannibalici e materiale per filtri e unguenti utilizzando le misere membra dei bambini 89. Ancora una volta, i paralleli con le malefatte attribuite alle levatrici antiche appaiono molto esplicitamente. Come si ricorderà, Plinio ricordava infatti «gli aborti divisi membro a membro per compierne nefandezze, i sortilegi (piacula) fatti con il sangue mestruale e tutti gli altri che … le levatrici … ci hanno tramandato» 90. Nell’Europa medievale e rinascimentale processi e testimonianze moltiplicano storie orripilanti ed effetti di terrore 91. Naturalmente non tutte le levatrici erano considerate creature diaboliche. Institor e Sprenger prevedono anche l’esistenza di levatrici che svolgono il loro lavoro in modo conforme alla fede, lontano da sortilegi e malefizi 92. Ma accanto a queste esistono le levatrici-streghe, diaboliche, perverse. Questa ambivalenza manifestata dagli autori del Malleus 93 ricomparirà pari pari anche nell’opera enciclopedica di Tomaso Garzoni, che ugualmente distingue fra le levatrici buone e quelle cattive:

Ove anco la comare lo lava, lo stropiccia … e dolcemente lo bascia, alleggerendo la pena della madre, che per allegrezza del nuovo parto tutta si racconsola. Sí come avviene il contrario quando la cattiva comare non l’aiuta a tempo, o non sa fare il mestiero, e che la stenta in un periglio sí grande … Fra gli altri lor diffetti ce n’è uno gravissimo: ché qualche volta ammagliano i fanciulli, come streghe che sono, e gli fascinano in modo che, con dolore estremo delle madri e con furore infinito de’ padri, passano miseramente di questa vita. E altre come maledette furie infernali gli amaccano il cervello, o gli succhiano il sangue, o gli sorbiscono il fiato, con pietà immensa veramente di quelle povere e infelici creature 94.

Bisogna però dire che questa doppia immagine della levatrice, donna che porta salvezza alla madre o furia malefica che distrugge la vita del bambino, corrisponde abbastanza bene a quella che abbiamo già evidenziato sopra a proposito delle levatrici antiche, sia umane che divine: fin dal Mondo Antico, infatti, la rappresentazione che della levatrice ci viene data suscita l’immagine di una figura duplice, ambigua, soggetta a scivolare nel mondo della magia ovvero a restare entro i limiti del comportamento lecito. Questo semplice fatto mostra quanto sia improprio sostenere che il legame fra magia e levatrici inizi solo con l’epoca moderna 95. Certi modelli culturali sono molto piú antichi e radicati di quanto una considerazione storica limitata potrebbe far credere. Il momento della nascita, proprio per il suo carattere di esperienza estrema, dolorosa, a rischio di morte, evoca superstizioni e terrori di ogni genere 96: allo stesso modo in cui il misterioso mondo della partoriente, precluso agli uomini e lasciato alla cura delle donne per le donne, suscita nei maschi sospetti e paure. Ecco allora che in una cultura, la quale conosce la magia come orizzonte possibile per le esperienze di vita, la donna che opera nel mondo della partoriente può assumere facilmente i contorni della maga. Per questo la levatrice può diventare strega anche senza aspettare il Concilio di Trento. e) Scienza femminile e orrore dei cambiones.

Le connessioni fra il mondo della stregoneria e quello delle donne che operano attorno alla partoriente, ci riportano a una sfera piú generale. Quella della scienza femminile, la padronanza che le donne possono avere di un sapere di cui gli uomini ignorano le regole, e che quindi temono. Si tratta di

un argomento già ben presente nel Mondo Antico. Non ci riferiamo solo a quei «discorsi delle donne» che esse riservano solo a se stesse e che, almeno secondo l’Hippolytus di Euripide, esse non rivelano agli uomini 97. Pensiamo piuttosto alla temuta maestria femminile nell’arte del veneficium a Roma, che condusse a processi e condanne in qualche modo analoghi a quelli subiti dalle «streghe» dell’Europa medievale e moderna 98. Ovvero alla farmacia di erbe che le sacerdotesse di una divinità femminile per eccellenza, Bona Dea, possedevano per trarne filtri e medicamenti 99. Filtri meno temibili e spaventosi dei veneficia, si può pensare, ma comunque arcani e sconosciuti agli uomini, come tutto ciò che riguardava il culto della Bona Dea. Parlando di scienza femminile, colpisce anzi il fatto che nella cultura europea successiva l’equazione fra la strega e la levatrice derivi in buona parte dal fatto che la levatrice era depositaria di una sua scienza particolare, e che questa scienza poteva facilmente essere rovesciata in conoscenza stregonesca 100. Anche questo tipo di legame fra la strega e la levatrice, insomma, quello stabilito attraverso il possesso di una scienza temuta e in genere ignota agli uomini, è di quelli di lunga durata. La scienza femminile antica aveva soprattutto prodotto una vastissima farmacopea nel campo sia degli abortivi che degli anticoncezionali 101: per la Grecia ce lo testimonia già Platone, quando afferma che la maîa era capace anche di procurare aborti con pozioni e incantamenti. Che la levatrice sia tanto colei che fa nascere i bambini quanto colei che procura gli aborti, naturalmente, è un tratto di carattere trans-culturale che pertiene stabilmente alle funzioni della levatrice 102. Anche Sorano riporta, per criticarla, questa abitudine 103, mentre Plinio, come abbiamo visto, ricorda l’uso abortivo del mestruo da parte di levatrici e prostitute 104: e anche altre volte fa menzione di ricette abortive consigliate da donne che si occuparono di medicina femminile 105. La produzione di abortivi e anticoncezionali doveva essere pratica molto antica anche a Roma, come altrove, e fin dall’inizio l’autorità sembra essersi interessata a questo problema 106. È interessante però notare che sullo sfondo della legislazione romana in questo campo si incontra, ancora una volta, la magia. Il fatto è che le droghe somministrate alle donne, anticoncezionali o abortivi che fossero, erano pur sempre dei medicamenta, indistinguibili dalle pozioni magiche 107. Secondo la legislazione romana, chi ne distribuiva in giro poteva procurare «cattivo esempio» (incoraggiando cioè altri all’uso di

rimedi magici) ed essere punito per questo: ricevendo la pena dell’esilio se apparteneva alle classi superiori, quella delle miniere se apparteneva alla classe inferiore. La pena diventava capitale se la persona cui il medicamentum era stato somministrato moriva 108. Marciano, commentando la Lex Cornelia Sullæ de sicariis et veneficis (la base della legislazione romana posteriore in fatto di magia), ripete affermazioni analoghe, citando il caso di una donna che era stata mandata in esilio con un decreto del Senato per aver somministrato un anticoncezionale a un’altra donna che ne era morta 109. È possibile che questa donna esiliata fosse una obstetrix? Non possiamo escluderlo, anzi pare probabile. A questo proposito abbiamo infatti una testimonianza interessante. In un commento di Labeone alla Lex Aquilia, troviamo il corrispondente civile dell’azione penale prescritta dalla Lex Cornelia. Ed ecco cosa scriveva Labeone: … allo stesso modo, se una levatrice (obstetrix) somministra un medicamentum e una donna ne muore, Labeone distingue cosí: se glielo ha dato con le sue mani, è come se l’avesse uccisa; se invece lo ha dato alla donna perché lo prendesse da sola, ha luogo un’azione in factum. Se qualcuno con la violenza o con la persuasione dà un medicamentum a qualcuno per bocca o clistere, ovvero lo unga di un venenum nocivo, ricade sotto la Lex Aquilia, allo stesso modo in cui vi ricade la levatrice che ha somministrato il medicamentum 110.

I medicamenta della obstetrix saranno stati anticoncezionali e abortivi 111. Ma come abbiamo detto, l’orizzonte cui la legislazione romana in questo campo si rivolge è specificamente quello magico, e le droghe della levatrice appaiono messe sullo stesso piano del malum venenum con cui qualcuno viene «unto» per procurarne la morte. Le testimonianze sulle levatrici-maghe insomma si moltiplicano, anche la legislazione romana si era preoccupata di definirne il possibile campo di azione. C’è un ultimo punto che vorremmo comunque mettere in evidenza prima di concludere questo paragrafo. In un capitolo precedente abbiamo visto che fra le specialità delle donne che aiutano al parto, almeno nei sospetti che esse suscitano, sta anche quella di contrabbandare bambini. Lo abbiamo visto fare alla vecchia delle Tesmoforiazuse, alla parrucchiera del Truculento, e cosí via 112. Si tratta di una pratica che forma una coppia perfetta con l’altra, ugualmente tipica delle levatrici, di procurare aborti: la stessa donna infatti

può togliere dal mondo un figlio in arrivo, ovvero metterne al mondo uno che di per sé non è mai arrivato. Inutile dire che entrambe queste pratiche erano particolarmente temute da padri e mariti. L’aborto privava la famiglia di un rampollo; mentre sostituire un bambino, inserirne surrettiziamente uno nella linea agnatizia, poteva costituire un atto in qualche modo simile a un adulterio, un procedimento cioè che alterava con l’inganno la purezza del sangue maschile 113. Ora, colpisce il fatto che, se la capacità di procurare aborti confina strettamente con la stregoneria, anche la pratica di sostituire i bambini può assumere forti connotati stregoneschi. Crediamo insomma che anche questo aspetto della donna che aiuta la partoriente possa avere qualcosa a che vedere con l’immagine della strega. Nelle credenze e nelle immaginazioni antiche, infatti, le streghe erano considerate avide di bambini per i loro rituali, come sappiamo per esempio da Orazio, e cercavano di procurarsene in ogni modo 114. Mentre in Grecia si raccontava che Gelló, il fantasma di una fanciulla morta anzi tempo e divenuta a tutti gli effetti un demone, andava in giro di notte a caccia di bambini 115. Del comportamento delle streghe faceva anzi parte, esplicitamente, l’abitudine di fingere e simulare parti mai esistiti, proprio come fa la cortigiana del Truculento di Plauto o la moglie astuta delle Tesmoforiazuse di Aristofane. Ce lo dice esplicitamente Orazio, insinuando che Canidia avesse invocato Lucina per un «parto non vero», cioè avesse simulato una gravidanza 116: salvo poi sostenere, in una palinodia del suo epodo precedente, che in realtà «la levatrice aveva lavato panni rossi del sangue» di Canidia 117. Dunque Canidia, orribile strega, simulava parti che non aveva avuto. Ma è soprattutto un confronto con Petronio, e con la cultura posteriore, che può allargare il senso di queste corrispondenze che stiamo stabilendo fra la strega e la levatrice che smercia bambini. Nel Satyricon si narra infatti la terribile storia del bimbo rubato dalle streghe e sostituito con un vavato stramenticius, probabilmente un «fantoccio riempito di paglia» 118. Con questo tema del bambino scambiato, il breve e orripilante racconto della Cena petroniana costituisce un primo esempio di ciò che fiabe e rituali, nel corso del Medioevo, ci faranno conoscere con molta dovizia di particolari. Ci riferiamo al diffuso terrore che le streghe sostituiscano i bambini con changelings, ovvero cambiones 119, in altre parole, all’idea che molti figli nati nelle case degli uomini fossero in realtà stati sostituiti o scambiati con altri, diversi, e contrabbandati dalle streghe. Una

credenza che poteva servire a spiegare perché molti figli, dopo la nascita, subissero malformazioni o malattie 120. Il terrore dei cambiones, nel corso del Medioevo, ci è documentato anche da specifici rituali: in alcune località della Francia, per esempio, le donne si recavano in un determinato luogo, lasciavano giú il proprio bambino «scambiato» e scongiuravano il diavolo di restituir loro quello originale 121. Dunque il commerciare bambini, lo scambiarli, il sostituirli fa parte tanto dell’orizzonte della strega quanto di quello della donna che assiste la partoriente. Ecco un ulteriore tratto delle corrispondenze che, nella rappresentazione culturale, potevano sussistere fra streghe e levatrici. Possiamo dunque concludere che anche le note della donnola-strega sono piuttosto ben consonanti con la melodia generale. Proprio in quanto aiutante della partoriente, un animale che ha fama di stregoneria si conforma perfettamente alle esigenze imposte dal ruolo che svolge. Nella cultura che sta dietro il racconto di Alcmena una simile coincidenza di caratteristiche doveva risultare solo naturale. Strega infatti poteva essere considerata anche la levatrice, e dunque un animale che, nelle molte credenze che circolavano intorno a lui, comparisse non solo nel ruolo di levatrice ma anche in quello di strega andava benissimo per rappresentarla. Dato che la struttura dei miti si capisce solo lentamente, specie quando sono antichi e radicati nel tessuto culturale come il racconto di Alcmena, forse adesso possiamo integrare meglio nel racconto due ulteriori caratteristiche della donnola: è sempre il modello della levatrice-strega ad aiutarci. Questi due aspetti ruotano attorno a contraccezione da un lato, aborto dall’altro. Abbiamo visto che la conoscenza di pozioni contraccettive faceva tradizionalmente parte della scienza femminile nel campo del sesso e della sessualità delle donne 122. Però sappiamo anche che, tra le credenze magiche relative alla donnola, era ricordato proprio il potere contraccettivo di alcune parti del suo corpo. Come diceva Eliano, … i testicoli della donnola, messi addosso a una donna di sua volontà o senza che lei se ne accorga, le impediscono di concepire e la distolgono dall’atto sessuale 123.

Eliano ricorda questo potere della donnola proprio nel capitolo in cui descrive le sue caratteristiche di strega. Dunque la donnola, strega e levatrice,

attraverso il suo stesso corpo faceva direttamente parte della scienza della contraccezione: cosí come faceva parte, attraverso i liquidi che fluivano dai suoi genitali femminili, della medicina relativa alla facilità del parto. Un analogo discorso vale per la possibilità di procurare aborti: la levatrice, lo sappiamo, è tanto colei che fa nascere i bambini quanto colei che ne procura la perdita. Questo ci permette di tornare a quanto dicevamo sopra sulla contiguità fra queste due sfere anche nel campo delle credenze simboliche sugli animali: a proposito della amphisbaena, o del camaleonte, rimedi potenti tanto nell’uno che nell’altro campo, ovvero a proposito del corvo e della donnola stessa che, per il suo parto orale, potrebbe anche essere sospettata di portare aborto. Il modello della levatrice ci fa vedere che questi due aspetti della medicina delle donne, facilitare le nascite o limitarle, si integrano perfettamente nella figura di colei che di questa medicina è la depositaria principale. La donnola, animale che favorisce il parto perché capace di sgusciar fuori e dentro con enorme facilità, ovvero che (potrebbe) interrompere la gravidanza per le sue abitudini orali, continua a funzionare bene come modello animale della levatrice.

2. La levatrice e il mondo del sesso. Vediamo adesso un ulteriore segmento melodico che, a quanto ci era parso, stonava nella melodia della Liberatrice: il tratto della «dissolutezza» che caratterizza la donnola, la sua «mania» per il letto di Afrodite ovvero la sua sessualità perversa o ripugnante. Siamo autorizzati a pensare che anche queste caratteristiche possano far parte dell’immagine della levatrice cosí come le rappresentazioni culturali del Mondo Antico ce la tramandano? Per quanto ciò possa parere strano, sí. La nostra cultura moderna non ci induce certo a vedere l’ostetrica e la levatrice nella luce di donne eccessivamente compromesse con le pratiche sessuali: ma nel Mondo Antico, e non solo qui, le cose sembrano essere andate in modo diverso. Un primo punto di aggancio fra la dissolutezza della donnola e la (possibile) dissolutezza della levatrice, potrebbe essere ovviamente costituito dalle caratteristiche stregonesche che, come abbiamo visto, spesso si accompagnano al mestiere di levatrice. Nel Mondo Antico, infatti, la strega ha spesso i caratteri della dissolutezza 124: cosí come nel Medioevo e nei

secoli successivi la pratica di una sessualità abnorme e perversa fa tradizionalmente parte dei rapporti fra Satana e le streghe 125. È stato anzi efficacemente messo in luce che nel Malleus la condanna delle streghe si accompagna spesso all’esplicita sottolineatura della loro inclinazione alla libidine. Le donne sono caratterizzate da sessualità insaziabile: «per questo» cadono in possesso del demonio, sino al punto di desiderare di avere rapporti sessuali con il principe del male 126. Se dunque la levatrice è una strega, potremmo dire, e la strega è una dissoluta, allora la levatrice può essere dissoluta… Ma con argomenti di questo tipo non riusciremmo ad andare molto lontano. Per fortuna possediamo anche spunti e testimonianze di carattere molto piú specifico. Proviamo a pensare che la levatrice è persona che per mestiere e professione partecipa alle cose del sesso, e ne conosce i dettagli. Pratica e maneggia il sesso delle donne, di cui conosce umori e segreti, è esperta in aborti e metodi contraccettivi ma è esperta delle cose d’amore anche in senso piú generale. È specificamente questa la porta attraverso cui si può accedere a un campo di testimonianze molto piú interessanti riguardo al rapporto fra la levatrice e le pratiche della sessualità. a) Pronube, cortigiane (di strada o meno) ed estetiste.

Come abbiamo già visto, secondo Platone le maîai «sono le pronube piú abili, perché conoscono quale donna piú si adatti a ciascun uomo per generare i figli migliori» 127. A questo si aggiunge quanto sopra dicevamo a proposito delle sagae: pronube e mezzane, e anche (probabili) levatrici. Ma vediamo di nuovo il nostro Plinio. Egli ci informa del fatto che le ostetriche (qui nella loro accezione piú nobile: obstetricum nobilitas) si occupavano anche di rimedi relativi alle malattie degli organi sessuali 128. Fin qui niente di strano, sappiamo già quanto il contributo della medicina delle donne sia stato importante per la compilazione dei repertori di ricette. E non stupisce che le obstetrices avessero competenza proprio sugli organi della riproduzione. Ma Plinio non si ferma qui. Come sappiamo, infatti, egli associa «levatrici» e «prostitute» nella categoria di coloro che praticano piacula con sostanze provenienti dal corpo delle donne e dal mestruo in particolare. Anche in questo caso il noto principio «dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei» risulta molto eloquente. Possiamo approfondire, comunque. Nominando due donne

che usarono il mestruo come abortivo 129, egli cita i nomi di Laide e di Elefantide. Ora Laide è ricordata da Plinio assieme a una donna definita esplicitamente obstetrix, cioè Salpe 130. Dobbiamo pensare che fosse anche lei una obstetrix? È possibile, però è certo che Laide è tipico nome di prostituta 131, cosí come di sicuro lo è Elefantide: spesso le etere avevano infatti nomi di animali 132. Quanto a Elefantide, questa donna ci è nota anche da altre fonti. A lei si attribuiva infatti la redazione di un’opera relativa alle figure del coito, che le procurò una certa popolarità anche a Roma – ovviamente presso ambienti e personaggi dediti alla dissolutezza 133. La si considerava addirittura quale emula della mitica Astyanassa, la schiava di Elena e Menelao che per prima avrebbe scoperto la varietà delle posizioni del coito 134. Ecco dunque le ostetriche in compagnia di prostitute e di etere dissolute, che fecero del piacere una scienza. Leggendo il catalogo pliniano, certe volte ci capita persino di essere in dubbio se ci troviamo di fronte a ostetriche o a prostitute, come nel caso di Laide. Possiamo continuare. Di Salpe, la obstetrix che assieme a Laide consigliava il solito mestruo come rimedio contro i cani rabbiosi 135, Plinio ci dice anche che raccomandava il seme dell’asino per favorire il coito, e prescriveva di strusciarlo sulle parti pertinenti 136. Ma era ancora Salpe che consigliava il sangue di tonno come preparato depilatorio con cui mantenere piú a lungo la bellezza degli schiavetti da vendere al mercato 137. Si tratta di un genere di preparati a cui i mangones, i mercanti di schiavi, ricorrevano di frequente, desiderando che «la lanugine venisse il piú tardi possibile agli adolescenti» 138. Ecco dunque un altro lato, abbastanza inatteso, dei saperi delle levatrici: la cosmesi. La scienza di queste donne si rivolge al corpo percepito non solo come soggetto di malattia o organismo di riproduzione, ma anche come oggetto di bellezza e di piacere. Un campo in cui Giovanni Crisostomo, come abbiamo visto, sospettava l’ingerenza della stregoneria e dei malefici 139. La scienza cosmetica delle levatrici giungeva fino al mercato sessuale degli adolescenti, a quanto pare esse erano pronte a mettere le loro conoscenze al servizio del piacere proprio allo stesso modo di cortigiane quali Elefantide o la mitica schiava Astyanassa. Potevano essere prostitute o cortigiane loro stesse? Abbiamo visto che Plinio ci lascia in dubbio su questo, e si tratta di un fatto già molto significativo. Certamente non possiamo attenderci che fossero prostitute delle donne come Fainarete, la «nobile levatrice» madre di Socrate, o l’attica

Phanostrate, maîa kaì iatrós (levatrice e medico): tantomeno che lo fossero le numerose obstetrices romane che le iscrizioni ci mostrano sposate e onorate dai propri figli 140. Ma come abbiamo detto il mondo delle donne che aiutano al parto, e che posseggono la scienza per farlo, è molto complesso e variegato. Gli intrecci della commedia, per esempio, ci forniscono spunti interessanti in questa direzione. Abbiamo già visto che quando la cortigiana Fronesio del Truculento di Plauto si trova nella necessità di fingere una gravidanza, colei che le fornisce il bambino è una «parrucchiera», una tonstrix 141. La donna, come Plauto stesso ci dice, è facilitata in questo suo compito truffaldino dal fatto che «va di famiglia in famiglia a prestare servizi», e mentre svolge queste sue attività in diverse case ha modo di vedere se c’è un bambino disponibile per la finzione 142. La parrucchiera del Truculento rassomiglia dunque a una levatrice part-time di tipo tradizionale, una ragazza che una cortigiana può chiamare a casa propria per diversi tipi di necessità. Marziale, però, ci descrive una tonstrix che fa esplicitamente la prostituta da strada, e questa coincidenza di funzioni in uno stesso ruolo può essere molto indicativa 143. Ancora in Plauto, nella Cistellaria, il compito di procurare il bambino è svolto invece da una donna che all’epoca del servigio svolto doveva essere una cortigiana, amica della falsa partoriente 144. La parrucchiera del Truculento o la cortigiana della Cistellaria partecipano comunque di una caratteristica che è bene sottolineare. Sono delle donne sole, che si mantengono con i vari mestieri che svolgono (fra cui quello di aiutare le donne per i loro bisogni): e che nella rappresentazione culturale possono praticare anche la prostituzione. Probabilmente si tratta di donne che lavorano molto «sulla strada», e i servizi che offrono appartengono a questa sfera. È comunque il retore Alcifrone, in due delle sue Lettere degli agricoltori 145, colui che ci offre lo spunto piú interessante. Nella prima di queste lettere, il vecchio Aníketos scrive a Phoebiáne accusandolo di essersi preso tutti i suoi averi, e poi di avergli preferito un altro. Si tratta, evidentemente, della tipizzata descrizione di una cortigiana, avida e traditrice, capace di approfittare della semplicità di un campagnolo proprio come la Fronesio del Truculento plautino. Fin qui nulla di strano. Ma nella lettera successiva ecco per noi una sorpresa. Aníketos si reca a casa di Phoebiáne, tenta di baciarla, ne è rifiutato. Phoebiáne, raccontando la scena, si descrive sul punto di uscire per andare a prestare aiuto a una sua vicina che sta per partorire, dopo aver preso con sé tutti i ferri del mestiere. Dunque Phoebiáne

era una levatrice che praticava questo mestiere con una certa regolarità, se possedeva un kit di strumenti professionali (tà pròs téchn n): ma ci viene presentata anche come una donna avida e pronta a concedersi per danaro, indistinguibile in questo da una qualunque cortigiana. b) Troppo addentro al sesso delle donne.

Si ha dunque ragione di credere che le levatrici antiche fossero considerate coinvolte nelle cose del sesso da una molteplicità di punti di vista differenti. Esperte dell’apparato riproduttivo, capaci di far concepire, abortire, nascere, le levatrici conoscevano però il sesso anche nella sua forma di piacere e di dissolutezza, venivano nominate assieme alle prostitute e in qualche caso potevano essere cortigiane loro stesse. Questa la rappresentazione che della obstetrix o della maîa si poteva dare attraverso quel tortuoso groviglio di deformazioni maschili e di pratiche reali che ce ne restituiscono oggi l’immagine. Anche questo tratto della levatrice, il suo «eccessivo» contatto con la sfera del sesso e del corpo femminile, è di quelli di lunga durata. Ancora ai tempi del Malleus: … le levatrici vengono condannate perché sono donne, e come tali inclini a sottomettersi sessualmente al diavolo. Ma esse possiedono altresí la expertise sessuale che permetteva loro di controllare uomini e donne. Esse assumono il controllo non solo sopra le proprie funzioni riproduttive (in quanto «streghe» che si ribellano alle regole imposte dal mondo degli uomini), ma anche su quelle delle loro vittime … La principale ragione per cui le levatrici erano temute e denunziate era chiaramente la loro conoscenza, o almeno la loro pretesa conoscenza, di mezzi e tecniche relative a prestazioni sessuali, procreazione e prevenzione della procreazione 146.

La levatrice frequenta il sesso in tutte le sue possibili manifestazioni. Per questo costituisce un tipo di donna facilmente contaminata, o contaminabile, dalla sfera che per abitudine frequenta, e dalle pratiche di cui è esperta. Possiamo dunque concludere che anche il secondo segmento apparentemente stonato della donnola-Liberatrice – la sua sessualità eccessiva e perversa – è in realtà piuttosto ben consonante con il ruolo di aiutante della Partoriente che l’animale svolge nel racconto di Alcmena.

Anche la levatrice, infatti, si presenta come un personaggio molto compromesso con il mondo del sesso, e spesso nelle sue forme piú perverse e negative. Ecco allora che una donnola dalla «vita sessuale ripugnante» e dalla sessualità «insaziabile» può costituire una proiezione animale ben compatibile con la maîa o con la obstetrix: proprio come la donnola-strega ne rappresentava una altrettanto buona per la levatrice maga ed esperta in ogni genere di filtri.

3. «Sage-femme» e «cunning woman». Se la donna fosse una creatura pensante, essa, che fa la cuoca da millenni, avrebbe dovuto scoprire le piú grandi realtà della fisiologia, e impadronirsi della medicina 147.

Come avevamo anticipato, il personaggio della levatrice può aiutarci a comprendere meglio anche un elemento che – a differenza di stregoneria e lussuria – si presenta non come una possibile stonatura, ma come un’immediata consonanza fra le caratteristiche culturali della donnola e il ruolo che essa svolge nel racconto di Alcmena: la proverbiale «astuzia» dell’animale, accompagnata com’è da una certa tendenza alla giocosità e a una notevole malignità. Queste caratteristiche della donnola appaiono infatti rispecchiate, nel racconto di Alcmena, dalla esplicita allusione al tema dell’intelligenza che sta nel nome e nella paternità di Historís, la «indagatrice» figlia di Tiresia; ovvero dall’abile messaggio ingannatore escogitato dalla ragazza-donnola nelle altre versioni del racconto. Come abbiamo già detto, la ragazza del racconto di Alcmena è veramente un’eroina della m tis 148. Anche la risata della donnola di Ovidio, il suo godere della beffa giocata ai danni della Nemica, corrisponde certo bene alla divertita malignità che, come sappiamo, il folclore attribuisce a questo animale. Pensiamo però che il personaggio che da un po’ di tempo a questa parte abbiamo coinvolto nella nostra storia, la levatrice, possa aiutarci ad andare avanti su questa via. Ci viene infatti il sospetto che non solo la ragazzalevatrice della storia di Alcmena sia astuta, per ragioni che pertengono alla struttura del racconto, ma che le levatrici in generale possano essere considerate abili e astute. In altre parole, è probabile che la donnola astuta costituisca un buon equivalente animale per la furba Galanthis del racconto perché, nello stereotipo culturale, le donne che aiutano altre donne nel parto

possono essere considerate altrettanto «astute». Platone, nel passo del Teeteto che abbiamo già piú volte ricordato, sottolinea il fatto che le levatrici non solo «conoscono» meglio di ogni altra le donne ma sono «molto sapienti» (pansophoí) nell’arte di combinare unioni e matrimoni 149. Seguendo tacitamente Platone, sulla via del parallelo fra il filosofo e la maîa, Cornuto sosterrà anzi che è tipico delle levatrici compiere un lavoro di éreuna, ossia di «ricerca» 150. Questa definizione comunque ricorda molto da vicino il nome di Historís, la «Indagatrice» che salvò Alcmena liberandola dal parto bloccato. Non c’è dubbio però che Aristotele sia molto piú esplicito, e molto meno metaforico, nel riconoscere le doti di intelligenza della levatrice: … tagliare il cordone ombelicale richiede da parte della levatrice una certa dose di riflessione che le impedisca di commettere errori riguardo all’obiettivo da raggiungere (ouk astóchou dianoías). Perché non solo deve essere capace di affrontare parti difficili e portare abile aiuto alla paziente, ma deve anche essere di intelligenza abbastanza rapida per affrontare tutte le situazioni che si presentano (pròs tà sumbaínonta anchínoun) e tagliare il cordone ombelicale del bambino 151.

La levatrice insomma è dotata di due caratteristiche essenziali alla definizione della m tis greca: la anchínoia e la eustochía 152. Allo stesso modo in cui la dea greca del parto e delle nascite, Eileíthyia, può portare l’epiteto di praúm tis, «dalla benevola astuzia» 153. Eileíthyia è esplicitamente un personaggio della m tis, proprio come la maîa è una donna abile, accorta, pronta. E queste doti intellettuali le sono ufficialmente riconosciute anche dalla cultura maschile. Ma i legami fra la levatrice da un lato e l’astuzia, o l’intelligenza, dall’altro, non finiscono qui. Un po’ tutte le lingue e le culture europee infatti sembrano partecipare di questo modello della levatrice come «donna che sa» ovvero «donna astuta». In francese infatti la levatrice porta tuttora il nome di sage-femme, cosí come in inglese ha avuto quello di wise woman 154 o addirittura di cunning woman, per l’appunto donna «astuta» 155. E dobbiamo certo ricordare le sagae, le «sensitive» che, a Roma, svolgevano probabilmente anche il mestiere di levatrici. Anche questo tipo di donne si presentava fornito di un’astuzia o intelligenza di carattere particolare. Al di fuori della cultura europea, è poi interessante scoprire che anche in Cina i

dottori maschi potevano designare la levatrice con un nome equivalente a quello di clever woman 156. Mentre Trotula de Ruggiero, il medico donna della Scuola salernitana autrice dell’opera Sulle malattie delle donne, fu nota tra i contemporanei come mulier sapiens 157. Sembrerebbe insomma che la levatrice – ovvero l’ostetrica – si sia portata addosso una marca di intelligenza o di sapienza che la contraddistingue nel corso del tempo e nel variare delle culture. Le coincidenze sono davvero singolari. Alla radice di questa rappresentazione c’è probabilmente un motivo tanto preciso quanto ovvio: cioè il fatto che la levatrice è in possesso di una scienza precisa, una scienza che, a giudizio degli uomini, prevede una grande abilità e destrezza 158. Come diceva ancora il filosofo Cornuto a proposito delle Eileíthyiai, le dee levatrici, «i preparati ginecologici (toketoí) delle donne sono astuti (polútropoi) come i desideri degli amanti» 159. Gli amanti, si sa, sono capaci di qualunque astuzia per raggiungere l’oggetto del loro desiderio – e polútropos è addirittura l’epiteto che in Omero caratterizza l’eroe astuto per eccellenza, Odisseo. Il fatto che l’intelligenza della levatrice, o in certi casi addirittura la sua astuzia, sia esplicitamente sottolineata addirittura nel nome che la definisce, può essere ancora una volta spiegato come tipico prodotto dei conflitti di genere: a partire cioè dagli atteggiamenti di una cultura maschile che per definizione considerava le donne intellettualmente inferiori ovvero (cosa che è lo stesso) attribuiva loro doti di pericolosa, irrazionale furbizia o sensibilità. Di conseguenza, il fatto che la levatrice possedesse gli strumenti intellettuali per svolgere il proprio mestiere, nonché una scienza particolare relativamente al corpo delle donne, era sottolineato in modo esplicito: oppure veniva spostato nel campo della furbizia e della sensibilità tipica delle donne. La levatrice, donna che esercita una professione autonoma e di grande importanza, viene definita come donna (eccezionalmente) saggia o intelligente, astuta o sensitiva, cosí come «astuti» sono i suoi preparati. Il sospetto, o la meraviglia, verso dottori delle donne in possesso di una scienza nonostante l’inferiorità del genere cui appartengono, ne ha fatto agli occhi di tutti delle sages-femmes 160. Credo che questo complesso di tratti – il sospetto o la meraviglia dei maschi per la scienza delle donne, l’astuzia attribuita alla sage-femme – emerga con particolare chiarezza dallo stesso mito di fondazione, se possiamo dir cosí, dell’ostetricia femminile. Racconta infatti Igino 161 che gli antichi non avevano ostetriche, perché i dottori maschi non volevano che

«servi o donne» apprendessero l’ostetricia. Fin qui niente di sorprendente: sappiamo infatti che la sfiducia verso ostetriche e levatrici manifestata dai dottori maschi era destinata a durare a lungo nei secoli, seppure in modo intermittente 162. Dunque non meraviglia che anche i medici maschi di Igino manifestassero tanto sospetto per la medicina femminile. Ma vediamo cosa accadde. Dato che i medici erano solo maschi, pare che le donne si rifiutassero di farsi vedere da loro, per la vergogna 163, cosicché morivano. Una fanciulla, di nome Agnodice, fu presa allora dal desiderio di apprendere la medicina. Si tagliò i capelli, si vestí da uomo e andò a imparare la professione nientemeno che dal medico Erofilo. Dopo di che si mise a visitare le donne in abito maschile. E quando queste rifiutavano di farsi vedere credendola un uomo, Agnodice si tirava su la veste e mostrava i genitali, cosí che le donne si rassicuravano. La clientela cresceva e i medici uomini cominciarono ad accusare Agnodice di essere un falso medico, un adultero che seduceva donne le quali si fingevano malate solo per farsi corrompere da lui. I giudici dell’Areopago stavano per condannare Agnodice – e lei, di nuovo, dovette tirarsi su la veste e mostrare a tutti i genitali. A questo punto i medici maschi l’accusarono anche di piú, ma le donne insorsero e difesero il loro medico. Da quel giorno l’esercizio dell’ostetricia fu assegnato alle donne (cfr. fig. 27).

Figura 27. A. Feyaux, Agnodice, incisione, da A. DELACOUX, Biographie des sages-femmes celèbres, Trinquart, Paris 1833. Londra, Wellcome Institute Library. (Foto della Biblioteca).

Che questo racconto abbia scarsa possibilità di avere fondamenti storici, appare certo 164. Si tratta di una costruzione letteraria o di folclore che rassomiglia a novelle posteriori sul tipo del Processo di Sant’Eugenia. Anche in questo testo ricorre infatti il tema della ragazza che, sotto mentite spoglie maschili, cura una donna, ma alla fine è costretta a svelare il proprio sesso per

evitare di essere condannata per accuse ingiuste 165. Resta comunque il fatto che il racconto di Agnodice si presenta per noi molto interessante. La prima ostetrica, la mitica fondatrice dell’ordine, per affermare i propri diritti alla professione è costretta a sottomettersi al travestimento e al giudizio in tribunale: da cui riuscirà a uscire miracolosamente salva proprio esibendo quel sesso che secondo la legge ateniese la escludeva dalla professione. Agnodice è un’ostetrica che, per essere tale, ha bisogno di beffare i dottori maschi. E questo ci interessa molto. Il tratto che piú immediatamente attira l’attenzione è ovviamente il gesto di mostrare i genitali. Oltrettutto Agnodice lo compie piú di una volta, sia, correntemente, nei confronti delle pazienti femmine per rassicurarle; sia, in occasione del processo, nei confronti dei giudici maschi, per dimostrare qual è il sesso cui appartiene. Si tratta di un gesto a cui in greco corrisponde un verbo preciso, anasúromai: che significa proprio «esporre il proprio corpo» sollevando i vestiti 166. Non c’è dubbio che questo comportamento costituisca in primo luogo un modo per dichiarare l’«identità» sessuale della persona che lo compie. Fra l’abito maschile indossato da Agnodice e il sesso a cui ella in realtà apparteneva si era creata una tensione, una contraddizione – il gesto di sollevare la veste rimette le cose a posto e cancella ogni dubbio sull’identità della persona che lo compie. In questo senso vale anzi la pena di citare un parallelo singolare del racconto di Agnodice. Poco prima della morte di Alessandro, nella città araba di Abai era avvenuto che Eraide, moglie di Samiade, fosse presa da un male strano e del tutto incredibile. All’inizio si manifestò nella forma di un’infiammazione al basso ventre e di un gonfiore ma poi, man mano che il tempo passava e i medici tentavano invano di curare la donna, la tumefazione si aprí e dai genitali femminili di Eraide spuntò un pene con i testicoli. A quel tempo il marito di Eraide, Samiade, era in viaggio. Quando tornò, si accorse che la moglie gli si rifiutava. Cercò di convincerla, e cercò di convincere anche il padre di lei che però, per imbarazzo, non volle fornire spiegazioni sul comportamento della figlia. Allora Samiade citò il suocero in tribunale, dove i giudici dibatterono a lungo il seguente problema: se una donna dovesse seguire i voleri del proprio padre o quelli del proprio marito. Quando i giudici ebbero finalmente stabilito che una donna doveva seguire i voleri del marito, Eraide, con un gesto coraggioso, aprí l’abito che la camuffava e si mostrò a tutti, chiedendo se si voleva costringere il marito a vivere con un maschio. I giudici furono stupefatti, e da quel giorno Eraide

cambiò i propri abiti femminili in quelli di un giovane uomo 167. Dal punto di vista della struttura, questo episodio è del tutto identico a quello di Agnodice. Anche in questo caso il disvelamento del sesso serve a certificare l’identità, dimostrando a tutti che il comportamento seguito da una certa persona non violava le regole imposte al proprio sesso (frequentazione intima di donne da parte di un «uomo», rifiuto di prestazioni sessuali a un uomo da parte di una «donna») ma, al contrario, le rispettava in pieno: visto che in realtà quella persona apparteneva al sesso opposto. E anche qui il disvelamento dei genitali avviene di fronte a un tribunale. Agnodice ed Eraide sembrano una l’immagine speculare dell’altra: una giovane donna vestita da uomo che esibisce i suoi genitali femminili, un giovane uomo vestito da donna che esibisce i suoi genitali maschili. Sullo sfondo, dei giudici i quali emettono decisioni che sembrano logiche ma che poi, al momento del disvelamento, sono precipitosamente costretti a rimangiarsi. Ma restiamo con Agnodice. Bisogna dire infatti che in Grecia l’anasúromai, il gesto di mostrarsi, se compiuto specificamente da parte di una donna offre un’ampia valenza di significati antropologici 168. Rivolto a uomini, tale comportamento sembra avere lo scopo di confonderli e di «svergognarli», intendendo questa parola nel suo significato etimologico piú pieno: far provare loro vergogna sia per qualcosa che abbiano compiuto, sia per quello che vedono svelarsi di fronte a loro. Da questo svergognamento dei maschi le donne traggono spesso la propria vittoria. Gli esempi non mancano 169. Secondo Plutarco, le donne licie compirono il gesto dell’anasúromai davanti a Bellerofonte, non riuscendo a convincerlo a far ritirare l’inondazione che Posidone aveva inviato per sostenere i diritti dell’eroe: di fronte a questo comportamento Bellerofonte, «per la vergogna», si ritira, e l’inondazione con lui 170. Lo stesso gesto compirono le donne persiane accogliendo dei soldati sconfitti in battaglia, gridando loro: «dove fuggite, codardi?, certo non potete cacciarvi qua dentro, da dove foste generati». Di fronte a ciò i persiani, anche loro «presi da vergogna», ripartirono all’attacco 171. Nell’Italia del Rinascimento lo stesso gesto compie Caterina, la fiera contessa di Forlí 172. Anche la tradizione irlandese conosce questo tipo di storie, come nel caso del giovane CúChulainn. L’eroe minaccia Emain, in cui si trova Conchobar, e il re ordina che gli si mandino incontro «le donne nude»: allorché le donne sollevano i loro vestiti, ovvero mostrano i loro seni, CúChulainn, confuso, nasconde il volto e viene afferrato dagli

uomini di Conchobar 173. Di certo questo specifico significato dell’anasúromai fa parte anche del racconto di Agnodice. Il gesto della donna-ostetrica perseguitata – oltre a dimostrare il proprio sesso e metterla al riparo dalle accuse di seduzione verso le pazienti – avrà avuto anche l’intenzione di «far vergognare» i dottori maschi e di confonderli 174. Rivolto a donne, il gesto di mostrare i genitali femminili sembra invece avere tutt’altro significato. Come comportamento intra-femminile quest’atto ha infatti radici rituali e religiose molto profonde. Come si sa, infatti, proprio sollevando le vesti la mitica Baubó era riuscita a far ridere Demetra, afflitta per la perdita della figlia Persefone 175. Pare probabile che, fra i molti possibili significati del gesto compiuto da Baubó, ci sia anche quello di instaurare una forma di «complicità», un’intesa femminile, che conduce all’accettazione dell’una donna da parte dell’altra. Baubó si solleva le vesti e la dea ride, manifestando cosí l’accettazione del rapporto con lei e il ritorno alla vita. In questo senso, il gesto di Baubó getta ulteriore luce sul racconto di Agnodice. Abbiamo visto infatti che l’ostetrica sotto mentite spoglie maschili mostrava il proprio genitale alle pazienti, per «rassicurarle». Si tratta evidentemente di un gesto che – ancora una volta, al di là della necessità di «identificare» Agnodice come appartenente al sesso femminile – avrà avuto lo scopo di stabilire una solidarietà di tipo femminile: e di rassicurare, tranquillizzare donne che, proprio come Demetra, erano afflitte dal dolore e prive di fiducia nel rapporto con gli altri. Del resto sappiamo che Baubó aveva rapporti, se non con il mondo delle levatrici, almeno con quello delle nutrici 176. E come vedremo fra poco, le connessioni fra questi due personaggi sono in verità abbastanza strette 177. Dunque Agnodice è una donna-levatrice che mostra i propri genitali a donne, per rassicurarle, e a uomini, per svergognarli. Si tratta certo di una persona coraggiosa, poco inibita, avventurosa. Ovviamente ci colpisce il fatto che la donna che cura le donne sia considerata un personaggio astuto e beffardo, la quale, per esercitare il proprio mestiere, si traveste e inganna gli uomini prendendosi gioco delle loro regole. Credo anzi che questo aspetto della personalità di Agnodice possa gettare un po’ di luce anche sul nome che essa porta, invero alquanto misterioso. Normalmente si pensa che «Agnodice» abbia il significato di «Casta di fronte al giudizio» 178. Salvo che in questo caso Igino avrebbe dovuto scrivere «Hagnodice», non «Agnodice». Naturalmente si potrebbe attribuire questa grafia a una semplice sciatteria

dell’autore, o della tradizione manoscritta, se non possedessimo una glossa di Esichio che spiega: «agnódikos: colei che ignora il giusto» 179. Un nome trasgressivo, «Colei che ignora il giusto», si adatta certo bene a una donna che i medici accusano di essere un impostore e che gli Areopagiti stanno per condannare. Agli occhi degli uomini, Agnodice è una donna che viola le regole del díkaion, e come tale merita non di essere promossa al rango di medico delle donne ma piuttosto di essere punita per le trasgressioni che commette. Anche nella propria mitica fondatrice, Agnodice, le levatrici hanno dunque una donna trasgressiva e astuta, che si fa beffe dei severi dottori maschi. Come dicevamo sopra nel caso della vecchia delle Tesmoforiazuse – un’altra aiutante della partoriente che si fa beffe dei maschi 180 – l’esclusione degli uomini dalla stanza del travaglio può spiegare questa inclinazione dei racconti a trasformare le levatrici in personaggi ambigui, beffardi, pronti a prendersi gioco degli altri. Agnodice si prende gioco di mariti e dottori maschi, travestendosi, per lo stesso motivo per cui mostra i genitali alle proprie pazienti femmine: poiché è solidale con loro, può stabilire con le donne, e soprattutto con il loro corpo, un legame di solidarietà e di intimità che gli uomini non potranno mai avere. E questo agli uomini non piace. Non ci si può fidare di donne cosí. La scienza che le levatrici hanno delle altre donne, visto che esclude gli uomini, non può che essere una scienza astuta e beffarda.

4. La donna selvaggia e la filatrice. Dunque la donnola ci appare ormai non solo come una buona Liberatrice perché ha la capacità di entrare e uscire da qualsiasi buco. Le coincidenze e le motivazioni sono piú complete e profonde di quanto ci aspettassimo. Il ruolo della donnola nel racconto di Alcmena si giustifica anche dal punto di vista della sua oscura partecipazione al mondo della stregoneria, della sua sessualità eccessiva nonché della sua astuzia di cunning woman o sagefemme. Dobbiamo accorgerci che la donnola rappresenta, nel mondo naturale, l’equivalente simbolico di una donna che pratica la scienza delle donne, nei suoi lati buoni e in quelli inquietanti. La Liberatrice del racconto di Alcmena si configura insomma come una sorta di proiezione mitica della levatrice –

strega, dissoluta, astuta – nel mondo favoloso degli animali. Si tratta di una conclusione che crediamo importante, e da cui dovremo ripartire per proseguire nella nostra ricerca del tema della «Follia di Spagna». Alla fine di questo capitolo, non ci resta perciò che trascrivere, quasi come un motto, il nome che la levatrice portava in alcuni dialetti dell’Oberpfalz: wilde Frau (donna selvaggia) 181. Questo nome singolare sarà certo espressione della paura che la levatrice, per i motivi che abbiamo detto, poteva incutere ai timorosi fruitori delle sue arti. Ma è inutile ripetere cose note. Quello che colpisce, nella wilde Frau tedesca, è piuttosto il fatto che in alcuni dialetti tedeschi delle Alpi italiane la donnola porti proprio il nome di Freula willa ovvero Swil-vraüle (cioè ragazza selvaggia) 182. La levatrice e la donnola, insomma, avevano nomi praticamente identici: sembra di rileggere la variante ovidiana del racconto, in cui una levatrice «si trasforma» esplicitamente in donnola. La cultura tedesca ci offre per la verità lo spunto per sottolineare ulteriori coincidenze fra questi due personaggi. In alcuni dialetti settentrionali, infatti, la levatrice portava il nome di norne, ossia Norne, l’antica divinità germanica del fato e della nascita: e celebre come dea filatrice 183. Si tratta di una configurazione culturale molto simile a quella che abbiamo visto sopra a proposito delle Moírai (signore del destino, dee filatrici e divinità della nascita nello stesso tempo), di Eileíthyia detta «la buona filatrice», e cosí di seguito 184. Solo che ancora nel folclore tedesco, cosí come del resto in quello greco moderno e in quello dei Balcani, anche alla donnola si attribuiva una singolare passione proprio per la filatura. Tanto che, in occasione di una festa di nozze, nella Grecia dell’Ottocento le si offriva materialmente di che filare 185, mentre in Germania la contadina che voleva tenersela amica, perché non facesse danni, le cantava «donnola donnola, ti darò da filare se lascerai in pace casa mia!» Cosí come la donna al telaio, filando con la sinistra, cantava «wisula wisula, span oder entran!» (donnola donnola, fila o fila via!) 186. Dunque la levatrice-Norne e la donnola spartivano una singolare passione per la filatura, come si conviene a delle brave dee del fato e della nascita. Le coincidenze fra i modelli del folclore europeo relativamente alla donnola e al mondo della nascita da un lato, al ruolo che questo animale svolge nel racconto di Alcmena dall’altro, continuano a moltiplicarsi in modo davvero impressionante. Adesso scopriamo che quest’animale-levatrice (e levatrice anche negli aspetti per noi meno prevedibili di questo ruolo, come la

stregoneria, la sessualità trasgressiva, e cosí via) del mondo delle levatrici possedeva gli attributi non solo umani ma anche mitologici e divini, come la prerogativa della filatura. Queste ulteriori connessioni che stiamo scoprendo ci invitano a proseguire ancora lungo il nostro cammino e ad affrontare ulteriori storie che riguardano la donnola. In altre parole, siamo decisi a vedere se il ruolo di aiutante nel parto che la donnola svolge nel racconto di Alcmena sia ancora una volta «compatibile» con altre storie che hanno come protagonista il nostro animale. Stavolta però il lettore avrà la sorpresa di vedere la donnola non coinvolta in faccende di stregoneria e di sesso ma, tutto al contrario, in scene di vita familiare. Saranno storie, per la verità, di carattere spesso linguistico, «nomi» che la donnola porta in molte lingue e culture dell’area europea, che la vedono partecipare al mondo degli uomini nella forma di una «creatura femminile» e spesso di una «parente femmina», secondo le regole di un meccanismo che proietta sull’animale un vasto gruppo di «ruoli sociali femminili» derivati dal mondo umano. Credo sia inutile ribadire l’importanza che il nome di un animale riveste all’interno della sua rappresentazione culturale, perché le ricerche dei linguisti e dei folcloristi dell’Ottocento, e anche del Novecento, lo hanno già mostrato con grande chiarezza. Il nome dell’animale presuppone un’immagine, delle azioni, dei racconti 187. Ci auguriamo che quanto stiamo per vedere confermi questa regola generale. Ma assieme a queste storie di parole che riguardano la donnola incontreremo anche proverbi e racconti veri e propri.

Capitolo quarto Comare donnola

In un gran numero di lingue, dall’albanese al basco al portoghese al serbo-croato, e cosí via, la donnola porta un nome derivato da quello della «donna» 1: proprio come accade con «donnola» in italiano. La donnola è dunque vista come una donna, una creatura umana di sesso femminile. L’intersezione di questa nuova storia della donnola con il racconto di Alcmena, e con l’identità che in esso l’animale assume, appare immediata. Ci accorgiamo adesso che la donnola è una donna non solo in questo racconto, dove essa costituisce il risultato della metamorfosi di una fanciulla in animale, ma anche in altre «storie» che tradizionalmente la riguardano in molte culture. Il racconto di Alcmena costituisce evidentemente «una» di queste storie, che risponde a un modello piú generale: proprio come nel caso delle altre storie greche che descrivono la donnola (le vedremo subito sotto) come animale che «era stato donna», salvo poi ritornare animale per un errore commesso; ovvero come nel caso delle credenze che, attribuendo alla donnola lo stravolgimento di un parto orale, enfatizzano la rappresentazione greca del corpo femminile come caratterizzato dalla presenza di un «tubo» con due uscite 2. Il nome di «donna» che la donnola porta in cosí tante culture, ci fa vedere adesso che questo animale è stato esplicitamente «pensato» come donna e non solo in Grecia ma anche in molte altre parti d’Europa: per cui il folclore della partoriente era assolutamente autorizzato a vederla come una creatura umana femminile.

1. L’abito nuziale non si addice alla donnola. Della donna la donnola sembra condividere anche i lati piú stereotipati, da immagine femminile amata dai maschi. Per esempio si dice che è vanitosa e ama sentirsi lodare: se le si dice «bella» si pavoneggia, fa smorfie, mostra la sua gioia; se le si dice «brutta», allora si nasconde fra i sassi, soffia e getta veleno 3. La vanità che il folclore attribuisce alla donnola trova riscontro anche nelle numerose designazioni del tipo «bella» che essa riceve in varie

lingue e dialetti: come il francese belette, le numerose varianti di area italiana tratte ugualmente dal latino bellus, lo spagnolo mono «graziosa» e cosí di seguito 4. Anche il greco antico conosce del resto il nome hilaría per la donnola, a indicare questa volta non la sua bellezza ma la sua gaiezza o simpatia 5. Mentre nella Grecia moderna, quando si incontra una donnola la si saluta in questo modo: «Salve donnola mia!» 6. È interessante anzi che questo atteggiamento degli esseri umani verso il nostro animale, considerato una bella ragazza da vezzeggiare, abbia una sorta di rovesciamento nell’uso di corteggiare, chiamandole «donnole», delle donne vere 7; mentre da Roma antica ci viene una testimonianza epigrafica relativa a una fanciulla di nome Mustela, cioè «donnola» in latino 8. La donnola è un animale grazioso ed elegante, che sta bene in braccio a una bella donna. Medb, l’eroina irlandese del Táin Bó Cúailnge (La grande razzia), sembra avere una martora sulla spalla 9, mentre abbiamo già ricordato le Madonne della Germania meridionale che tengono in braccio una donnola. Difficile non pensare, a questo punto, anche al celebre ritratto di Cecilia Gallerani (cfr. fig. 28), l’amante di Lodovico Sforza, dipinto da Leonardo 10: anche qui, la grazia dell’ermellino rivaleggia con quella di colei che lo tiene in braccio 11. È stato anche supposto che la presenza di questo animale, in braccio a Cecilia, volesse alludere al fatto che la donna era incinta, con un riferimento al rapporto che sussiste fra la donnola e la gravidanza se non direttamente al mito di Galanthis 12.

Figura 28. Leonardo da Vinci, Dama con l’ermellino (ritratto di Cecilia Gallerani), olio su tavola, 1488-90. Cracovia, Czartoryski Muzeum. (© 2018. Foto Archivio Scala, Firenze).

Ma non si tratta solo di grazia, di vezzeggiamento o di vanità femminile 13. Nelle rappresentazioni culturali, la donnola è infatti talmente donna che, una volta, di questa condizione aveva affrontato addirittura l’esperienza piú solenne: il matrimonio. Eccoci di fronte a un’altra storia della donnola che ulteriormente scava nel suo essere donna e approfondisce i legami che esistono fra questo animale e il sesso femminile. In numerose lingue infatti la donnola è definita proprio con il nome di «sposa» o

«sposina» 14. Anche il greco moderno usa comunemente questo termine: la donnola si chiama oggi nu(m)phítsa cioè, appunto, «sposina» 15. Si tratta di un termine forse non ignoto al greco piú antico, perché ricorre già negli scoli bizantini ad Aristofane 16. Varie storie si incrociano in Grecia con questa della donnola «sposina». In primo luogo un proverbio che con la faccenda della sposa non sembrerebbe per la verità avere nulla a che fare: ou prépei galêi krok tón «alla donnola non si addice il krok tós» 17: cioè una particolare veste color zafferano usata dalle donne greche il giorno delle nozze 18. Alla donnola, dunque, non si addice «l’abito da sposa», è questo che il proverbio intendeva dire. Per fortuna conosciamo una favola esopica che di questa espressione proverbiale costituisce la spiegazione e l’equivalente perfetto. Anzi, potremmo dire che questa favola esopica costituisce la storia per eccellenza della donnola-sposa. Si tratta di un racconto famoso: … la donnola si era innamorata di un uomo giovane e bello, e aveva chiesto ad Afrodite di trasformarla in donna per poterlo sposare. La dea aveva avuto compassione per i suoi sentimenti, e l’aveva trasformata in una bella ragazza. Il giovane non appena l’ebbe vista si innamorò e la portò a casa con sé. Mentre i due sposi erano già nel talamo, Afrodite, volendo sapere se la donnola, oltre ad aver mutato natura, avesse mutato anche carattere, mise un topo in mezzo alla stanza. E lei, dimentica della sua condizione presente, saltò giú dal letto e si mise a inseguire il topo per mangiarselo. La dea si arrabbiò, e la riportò alla sua antica natura 19.

Dunque la donnola è sí una «sposa» ma lo è nel senso di sposa «mancata». Le sue nozze sono fallite, la donnola innamorata ha perso il suo sposo ed è ritornata a dare la caccia ai topi 20. Il tipico schema della morale esopica – un animale non deve cercare di essere quello che non è – sembra avere sfruttato qui le credenze che già assimilavano la donnola a una giovane creatura femminile umana. Di questa storia esopica infatti esistono molte versioni, nelle aree geografiche piú disparate, con diversi animali come protagonisti: la volpe, il castoro, il topo e via di seguito 21. Ma non c’è dubbio che, nel caso della favola greca, la protagonista della storia, la donnola, si prestasse particolarmente bene al ruolo che le era stato assegnato, in quanto già per proprio conto presentava caratteristiche di «creatura umana femminile». Per lo stesso motivo, nelle varianti moderne della favola esopica la donnola verrà sostituita da una gatta (cfr. fig. 29), animale oggi molto piú

familiare come possibile incarnazione animale di una donna o di una fanciulla 22.

Figura 29. Arthur Rackham, La gatta si fa sposa, litografia, da V. S. VERNON JONES, Aesop’s Fables, New York 1912. Collezione privata.

Se la donnola era stata una volta sposa, e aveva fallito nella sua nuova identità, doveva per questo aver conservato un certo rancore per la perdita che aveva subito. Ecco infatti intervenire altre storie, che sottolineano il carattere di sposa non solo mancata ma anche ostile e gelosa, della donnola.

Nel folclore greco vigeva infatti quest’uso in occasione delle nozze di una fanciulla. Si mettevano miele e profumi in un piatto, nella stanza in cui si teneva il corredo, dopo di che si invitava la donnola ad accettare l’offerta e a non portare via le cose della sposa: «infatti si pensava che le donnole odiassero le spose». Poi le si cantava questa canzoncina: «ti faremo d’oro, tutta d’oro e d’argento, ti daremo un uomo con cui potrai sposarti, potrai avere la tua casa ed essere una massaia» 23. La donnola detesta le spose, e soprattutto è credenza diffusa che si accanisca contro la biancheria contenuta nel baule del corredo. Un comportamento estremamente esplicito, perché il baule del corredo costituisce uno dei simboli principali delle nozze 24. Inutile dire che questa storia della donnola che detesta le spose si incrocia perfettamente con quella narrata dalla favola esopica. La donnola ha fallito il suo matrimonio, e ora è ostile alle ragazze prossime al matrimonio: per placarla, le si dice che «le verrà trovato un marito», che potrà essere una «moglie» come tutte le altre 25. È curioso perciò rilevare come in altre aree culturali la donnola non solo non sia considerata ostile alle spose ma, addirittura, funzioni come custode del patto matrimoniale. Forse in armonia con altre storie della donnola che la vedono come animale «giusto», che restituisce al legittimo proprietario il danaro che gli è stato ingiustamente sottratto 26. La storia della donnola custode del matrimonio viene dalla tradizione ebraica, dove è estremamente popolare: Un giovane salva una ragazza che era caduta in un pozzo, e si impegna a sposarla. Come testimone del patto viene scelta una donnola, che compare sull’orlo del pozzo proprio al momento dell’impegno. Ma poi il giovane dimentica la sposa promessa e contrae un altro matrimonio, mentre la sposa abbandonata si ammala di epilessia. I due figli che nascono dalle recenti nozze del traditore, però, muoiono in circostanze misteriose, uno cadendo in un pozzo, l’altro morso da una donnola. Allora il giovane si ricorda dell’impegno preso, torna alla casa della ragazza e la sposa. Da questo momento in poi la giovane donna riacquisisce il suo stato normale 27.

Non c’è dubbio che la donnola svolga qui la funzione di fedele custode del patto matrimoniale, assumendo il ruolo che, in un racconto greco, è svolto dall’animale che in Grecia simboleggia per eccellenza le virtú femminili: l’ape 28. Non si può escludere la possibilità che questa inversione della

funzione della donnola costituisca un esplicito «rovesciamento» della storia della donnola che odia le spose 29. Ma è anche possibile che questo racconto ebraico ci metta di fronte a una reincarnazione della donnola-comare o levatrice, un personaggio che (come sappiamo) aveva anche il ruolo di combinare matrimoni 30. La storia della donnola-sposa mancata non la troviamo solo in Grecia, patria del racconto esopico, ma ricorre anche altrove e con caratteristiche solo leggermente diverse. Nel folclore bulgaro la donnola non è una sposa che ha fallito direttamente il giorno delle nozze, e dunque non ha mai neppure sperimentato la vita matrimoniale, ma è una giovane moglie, pigra o maleducata, che per punizione è stata trasformata in donnola. Questi racconti portano di nuovo in primo piano un elemento che abbiamo già incontrato sopra, la passione della donnola per la filatura. In un caso infatti la ragazza rifiuta la filatura e finge di dedicarsi a questa attività solo quando i suoceri sono presenti; in un altro, ella si dedica invece ossessivamente al fuso e alla conocchia, anche quando le viene ordinato di fare altro, e non mostra alcun rispetto allorché si trova di fronte ai suoceri. In entrambe le versioni, comunque, la suocera la maledice e la condanna a essere una «sposina che fila» 31. In questi racconti bulgari è come se la favola esopica della sposa fallita si incrociasse con un’altra storia della donnola, quella della sua passione per la filatura. Questa confluenza non fa naturalmente che rafforzare l’identità della donnola come donna e come sposa, perché la filatura, cosí come gli oggetti che a essa sono connessi, costituisce uno strumento simbolico di primaria importanza per esprimere l’alleanza matrimoniale e la condizione della buona moglie. Basta pensare all’uso, ampiamente testimoniato dal folclore, di offrire una conocchia a una ragazza come dono di fidanzamento 32. Rifiutando la filatura, ovvero dedicandosi a essa in modo ossessivo e privo di riguardo verso i suoceri, la ragazza-donnola rifiuta il suo statuto di sposa: per questo merita di essere trasformata in una «filatrice gelosa» 33. Continuando, nel folclore francese la donnola è direttamente simbolo di amore infelice, tanto che «morire di mal d’amore» si dice «mourir du mal de la furette» 34. Mentre in Sicilia, quando si incontrava per strada una donnola, le si cantava questa canzoncina: Baḍḍottula, baḍḍottulina,

non tuccari la gaḍḍina, ca eu ti maritu quanto prima. Si si’ fimmina, ti dugnu lu figghiu di lu re, si si masculu, ti dugnu la reggina.

Se la Sicilia è vicina alla Grecia, per contiguità geografica e culturale, il Veneto è assai piú lontano. Eppure anche a Verona si usava cantare questa filastrocca alla donnola, per scongiurare il pericolo che aggredisse il pollaio: Donoleta, donolina, no magnar la me galina, no magnarmela mai pi che te ssercarò ’l marí: te ssercaria ampo ’l piú belo, sse no te maggnessi gnan el pondinélo 35.

La storia della donnola-sposa mancata è estremamente diffusa. La si incontra anche lontano dall’area mediterranea, in Germania, dove la gelosia della donnola appare talora sottolineata esplicitamente nel nome che porta: Eiferl 36. Mentre ancora in tedesco si incontra il proverbio «eifersüchtig wie ein Wiesel» (geloso come una donnola) 37. Altre denominazioni sottolineano ulteriormente il suo carattere di ragazza nubile: in Campania è detta tsítola, cioè «zitola, zitolella», a Potenza mannachedda cioè «monachella» 38. E di certo una monachella non ha marito. Tanti anni fa Hugo Schuchardt si poneva questa domanda: «ma di chi è propriamente la sposa, o la moglie, la donnola?» 39. Il dubbio espresso da Schuchardt era piuttosto positivistico, e non so proprio che risposta si attendesse per questa sua domanda: a me pare chiaro che la donnola non è la moglie o la sposa «di nessuno». La sua storia è quella dell’eterna fidanzata, della sposina le cui nozze si rinviano all’infinito. Meglio ancora, la donnola è una di quelle zitelle di una volta che quando sentiva parlare di matrimonio (altrui) si inacidiva e diventava gelosa. Una figura ormai sempre piú remota, e semidimenticata fuori dalle aree piú tradizionali della nostra cultura, eppure soggetto un tempo di infinite battute e storielle. La zitella costituiva infatti un tipico bersaglio sociale di donne sposate, fanciulle imbarazzate dai suoi umori, uomini di ogni età. «Ne volessi!», gridava la Perpetua dei Promessi Sposi pensando ai mariti che non

aveva potuto avere. La zitella era una figura contraddittoria, inadeguata alle rigide scansioni sociali del tempo femminile: perpetuava l’attesa di un’occasione che tutti sapevano non sarebbe venuta piú, ovvero continuava a sospirare, piú o meno in segreto, sul ricordo di un amore mancato. Soprattutto, nonostante il trascorrere del tempo conservava la civetteria di una fanciulla. Anche la donnola aveva avuto un’occasione – ma l’aveva persa per colpa di un topo. E ora gli uomini si divertono a cantarle canzoncine sulle sue nozze, per prenderla in giro: ma anche la temono, come una parente vergine e inacidita, quando in casa c’è una ragazza che si sposa e i doni sono ammucchiati nella stanza. Queste ulteriori storie della donnola – la sposa mancata, la zitella gelosa – aprono sempre nuovi punti di vista sulla nostra, singolare Liberatrice. La quale è sí una donna a tutti gli effetti, e come tale a lei la partoriente può rivolgersi con fiducia come a un equivalente animale molto stretto della propria femminilità. Ma, nello stesso tempo, questo animale-donna rivela in altre storie che lo riguardano anche pericolose inclinazioni verso le gelosie di una zitella nei confronti delle ragazze che vanno spose. Sembra esserci una curiosa contraddizione fra il ruolo di aiutante della partoriente che la donnola svolge nel racconto di Alcmena e la sua vicinanza al mondo del parto, da un lato, e questa singolare gelosia che essa manifesta verso le spose dall’altro: tanto che le ragazze e i parenti della sposa dovevano cercare di ingraziarsi i voleri della donnola gelosa attraverso doni e canzoncine. La donnola è una «ragazza che non va sposa» – e contemporaneamente è colei che aiuta le madri. Com’è possibile ciò? Se si vuole provare a sciogliere questo singolare nodo nell’intreccio del nostro racconto, credo che si debba ricordare un tratto culturale che era già emerso sopra nel corso della nostra analisi. Raramente infatti la donna che aiuta a partorire altre donne viene considerata sotto il punto di vista del suo proprio, personale ruolo di madre riproduttrice. Il Socrate di Platone lo aveva dichiarato esplicitamente: «nessuna donna ancora capace di concepire e di partorire fa la levatrice per altre donne» 40. L’analisi comparativa conferma le parole di Socrate: accade molto spesso infatti che le donne che aiutano a partorire siano già anziane e lontane dal periodo della fecondità 41. Altre volte invece le levatrici si configurano come delle zitelle (tradizionalmente, anche nel meridione italiano la levatrice si connotava come donna nubile) 42, ovvero si presentano come delle vergini: si ricorderà che la mitica archegeta delle

levatrici, Agnodice, era proprio una puella virgo 43. È come se la donna, in quanto levatrice, dovesse entrare nel ruolo di chi fa nascere i bambini «degli altri», non i propri. Essere madre non è cosa da levatrici. Queste considerazioni che stiamo svolgendo, e soprattutto la menzione di Agnodice, levatrice-vergine, possono anzi condurci a sfiorare un aspetto della figura divina piú importante fra quelle che in Grecia compaiono vicino alle partorienti nel momento del travaglio: Artemide. Nessuna divinità, infatti, appare piú lontana di Artemide dal matrimonio e dal sesso, eppure è proprio lei che le partorienti invocano nel momento cruciale 44. Artemide era dea vergine per eccellenza e però svolgeva, nello stesso tempo, funzioni di levatrice. La cultura greca percepiva questo carattere eccentrico di Artemide. Ecco infatti il modo in cui il Socrate di Platone giustificava la già citata affermazione secondo cui «nessuna donna ancora capace di concepire e di partorire fa la levatrice per altre donne»: la ragione di ciò, diceva, sta nel fatto che Artemide, dea del parto, è dea vergine per eccellenza, che non ha mai partorito ella stessa 45. La cultura greca sapeva dunque di aver messo nel ruolo di massima levatrice una dea che presentava contemporaneamente la massima lontananza rispetto alla sfera del matrimonio e del sesso 46. Proprio come la donnola, Artemide non ama i matrimoni. E le spose greche lo sanno bene. Nel rituale dedicato ad Artemide Katagogís, infatti, a Cirene, le spose «pagavano una multa (zamía) ad Artemide» prima di salire sul letto nuziale 47. Questo rituale fa parte di un complesso di pratiche e di credenze molto piú ampio dell’orizzonte che ci riguarda 48. Ma risulta comunque di straordinario interesse il fatto che le spose o le donne incinte dovessero pagare una «multa» ad Artemide, proprio come se la loro condizione di prossime madri – quella per la quale si aspettavano un aiuto dalla dea – in qualche modo risultasse offensiva nei confronti della divinità. Questa condizione psicologica della sposa e della futura madre appare ancora piú chiara in un frammento di Menandro fortunosamente (e un po’ malamente) conservatoci nella nota di uno scoliasta: «le donne incinte invocano Artemide e le chiedono scusa perché non sono piú vergini» 49. Dunque c’è come una «vergogna» della donna incinta nei confronti della dea che essa invoca: e la consapevolezza che la dea del parto per eccellenza paradossalmente disapprova quello che sta avvenendo. Ad Artemide si paga una multa per sposarsi e per partorire, ad Artemide si chiede scusa al momento di dar la vita

a un nuovo essere vivente. È come se in occasione del parto il modello della verginità e quello della riproduzione venissero a conflitto per la donna greca: il suo passato di fanciulla pura e il suo presente di madre che sta per essere invasa di liquidi che (come sappiamo) sono «indecenti», si scontrano. E Artemide – la dea vergine per eccellenza che pure amministra le nascite – sta lí a testimoniare questa contraddizione. La partoriente sa che ad Artemide bisogna chiedere «scusa» per quello che accade. Il fatto è che la protezione di questa dea, in realtà, fa paura 50. Proviamo dunque a guardare la donnola attraverso l’immagine di queste levatrici lontane per definizione dalla loro propria maternità: donne anziane, zitelle o vergini, siano esse aspiranti ostetriche o addirittura divinità. Non è affatto sorprendente che la donnola sia contemporaneamente una sposa fallita, una donna che non può diventare madre, e un’aiutante nel parto. Anzi in questa sua ambivalenza simbolica l’animale rivela un’ulteriore congruenza con le sue referenti umane. Questa zitella gelosa delle ragazze spose, che pure aiuta e protegge le partorienti, ma al momento delle nozze esige doni e canzoncine per essere placata, può addirittura rassomigliare a una versione comica, o perlomeno popolare, della terribile dea vergine e levatrice dei Greci. Che proprio come la donnola esige «multe» e «scuse» dalle ragazze che hanno abbandonato la sua schiera per diventare madri.

2. La comare, la madrina e la «trophós». Andiamo avanti con i nomi della donnola. Stanno per raccontarci altre storie, e ancora di tipo familiare. In altre lingue dell’area europea, infatti, dallo spagnolo al bulgaro, da alcuni dialetti della Germania al sardo, la donnola porta il nome di «comare» 51. Si tratta verisimilmente di una denominazione che presuppone ancora la caratteristica «umana femminile» dell’animale, ma che in questo caso prevede l’esistenza specifica di una o piú storie in cui la donnola è vista non solo come una donna ma precisamente come una «comare»: dunque una donna legata da vincoli di parentela spirituale nei confronti di chi la chiama cosí. Ma in questo caso le storie della donnola-comare potrebbero essere direttamente storie di vita, come le chiamano gli antropologi. Conosciamo infatti culture europee in cui il comparaggio con gli animali

era praticato realmente, e la parentela spirituale con l’animale veniva esplicitamente stabilita per ottenerne il favore. Sappiamo per esempio che nell’Irlanda del secolo XVII vigeva il singolare costume di stabilire un rapporto di parentela spirituale con i lupi: «prendono i lupi per compari e li chiamano chari Christ [amici in Cristo], pregano per loro e augurano loro il bene, in questo modo credendo che non verranno attaccati da loro» 52. Un costume che trova riscontro nei numerosi episodi in cui i santi d’Irlanda mostrano di avere rapporti privilegiati con i lupi: come nel caso di san Molva, che accoglie questi animali «in ospitalità», fa cuocere per loro un vitello e istituisce addirittura un banchetto annuale per onorarli 53. La ripetizione cerimoniale di questo banchetto per i lupi fa pensare all’istituzione di un legame stabile e forte fra l’uomo e questi animali, quasi un rituale alimentare di famiglia, come quelli che proprio la parentela (o la parentela spirituale) prevedono. Un analogo rapporto di ospitalità viene stabilito da san Moyling con le volpi 54: e anche con questi animali, sempre in Irlanda, si usava stabilire parentela spirituale. Le si prendevano infatti come sponsor dei propri figli, sperando che la relazione di parentela spirituale (gossipred) cosí stabilita creasse un rapporto di amicizia con loro. Alle volpi si facevano persino dei mezzi-guanti, perché le loro zampe stessero al caldo, e si depositavano questi doni vicino alle loro tane 55. L’uso di prendersi la volpe per comare è attestato anche in Sicilia, dove questo animale può portare il nome di «comare Giovanna» 56. A questo proposito, è bene ricordare che proprio l’uso di stabilire una qualche parentela spirituale con volpi o lupi è probabilmente in grado di spiegare perché questi animali portino spesso i nomi di comare o «compare» in diverse lingue e dialetti 57. Di fronte a fenomeni di questo tipo, la nostra cultura moderna e occidentale si ritrae forse con un sorriso di imbarazzo – oppure, colta dal vortice dell’alterità, si precipita a ipotizzare che i nostri antenati, pastori irlandesi o contadini siciliani, conservassero ancora vive le tradizioni del cosiddetto totemismo animale. Credo che entrambi questi atteggiamenti siano da superare. Si tratta invece di un problema di tassonomia o, se si preferisce, di costruzione dell’identità delle specie animali rispetto a quella umana 58. Le tassonomie animali che utilizziamo quotidianamente sono infatti costruite su una rigida opposizione fra uomo e animale, per cui, di fronte a un «lupo compare» o a una «volpe comare» restiamo sconcertati come di fronte alla «vacca sacra»

degli indiani. Ma una volta che ci si abitua a pensare che la nozione di specie è una costruzione culturale e che, con il variare delle culture, varia anche la «distanza» fra uomo e animale nei loro reciproci rapporti, «compare lupo» non sarà piú una bizzarria o un personaggio fiabesco, ma semplicemente la manifestazione di un rapporto fra uomo e specie animale costruito «diversamente» rispetto a quello che utilizziamo noi. Ma torniamo alla nostra donnola, la quale poteva anche lei essere presa realmente per comare. In una formula magica sarda usata per allontanarla dal pollaio, questo animale è invocato infatti con il nome di «comare mia». Nella spiegazione che dà di questa espressione, Giuseppe Calvia spiega che la donnola non farà alcun danno alla famiglia se ella diventerà comare della padrona di casa 59. Si tratta di una testimonianza molto preziosa, e non solo perché attesta esplicitamente l’uso di prendere a comare anche la donnola, che in cosí tante lingue e dialetti ne porta il nome. Essa ci dà anche un punto di vista, esplicita il termine di relazione in base al quale la donnola viene detta comare: si tratta della padrona di casa, la donnola è sentita specificamente comare di una «donna». E questa donna viene sentita (o immaginata) come «sposata», altrimenti l’appellativo di comare – che presuppone l’esistenza di «figli», per la donna di cui si diventa comare – non avrebbe senso. Potremmo meglio dire cosí: esiste una storia della donnola in cui essa è sentita come soggetto di una parentela spirituale con una donna – e, di questa storia, fanno necessariamente parte anche i figli di questa donna. Queste denominazioni della donnola e di altri animali come comare o compare, mostrano che la nuova parentela cristiana, quella in Dio, era diventata strumento buono per pensare anche i rapporti con gli animali: ovvero che gli animali, con la loro ricchezza di caratterizzazioni simboliche e di storie raccontate, erano diventati uno strumento buono per pensare anche i rapporti sociali che la cultura cristiana aveva instaurato nella comunità. Perché non bisogna certo pensare che l’uso di stabilire forme di parentela metaforica con gli animali sia limitato al caso del comparaggio. Anche il Mondo Antico, cosí come tante altre culture, conosce numerosi nomi parentali per gli animali: il cristianesimo non ha fatto che aggiungere nuove denominazioni, ispirate al modello della parentela spirituale, a un modello culturale antichissimo 60. Il ricorrere della parentela animale, sia essa stabilita in forme spirituali o in forme di parentela sociale tradizionale, costituisce un problema molto grande, e non intendiamo certo affrontarlo qui 61. A noi

interessa la storia che vede la donnola intervenire come comare animale nel mondo cristianizzato. Questo tratto presenta la possibilità di una «intersezione» con il racconto di Alcmena, e con la specifica identità della donnola che a questo proposito stiamo cercando di costruire? Pensiamo di sí, la definizione della donnola come comare si presenta del tutto compatibile con il ruolo che questo animale svolge nel racconto di Alcmena 62. Ancora una volta, è il ruolo della «levatrice», con cui la comare presenta molti punti di contatto, che ci permette di integrare anche questa nuova storia della donnola (la comare) nel nostro racconto. Al momento del parto di una donna, infatti, nel mondo cristiano europeo sono proprio le comari quelle che intervengono come aiutanti della madre in travaglio. Ancora Gilles de Bellemère ci dice: … si approssima il momento del parto … c’è grande preoccupazione per procurare ciò che è necessario a comari, nutrici e levatrice … vengono comari da tutte le parti … la donna e le comari parlano e scherzano… 63.

Lo stesso ci vien detto nelle Ténèbres du mariage: «Quando il bambino sta per arrivare, bisogna la levatrice avere, e di comari un gran numero chiamare» 64. La comare è fondamentale al momento del parto. Si tratta evidentemente di donne del vicinato, legate alla partoriente da autentica parentela spirituale ovvero definite comari in modo piú generico, per designare donne legate a lei da rapporti di confidenza. È possibile però che la qualifica di comare che ricorre in relazione alla donna che aiuta nel parto nasconda anche qualcosa di piú specifico: come se la partecipazione di una donna alla nascita di un bambino avesse per ciò stesso il potere di stabilire un rapporto di parentela spirituale con la madre e con il nuovo nato. In questo senso esistono spunti molto interessanti. In alcune lingue romanze per esempio il nome per la levatrice e quello della comare tendono a identificarsi 65. Allo stesso modo ci viene detto che ancora nell’Inghilterra del secolo XVII le donne che avevano assistito alla nascita erano in seguito considerate gossip, parenti spirituali, del nuovo nato 66. Che cosa significa tutto ciò? Alcune ricerche nel campo della parentela spirituale nell’Italia meridionale ci mettono in grado di comprenderlo 67. Spesso infatti era proprio la levatrice, in Francia come in Italia, colei che

portava il bambino in chiesa il giorno del battesimo, in sostituzione della madre ancora relegata in casa dalla quarantena postpuerperale. Si è anzi riscontrato che nei registri battesimali di una comunità dell’Italia meridionale – San Marco dei Cavoti, nel Sannio – quando compare la levatrice non si fa cenno alcuno a sponsores spirituali. La levatrice teneva il loro posto. L’assunzione della funzione di «madrina» da parte della levatrice costituisce certo un fenomeno transculturale visto che a Chia, in Perú, la donna che ha fatto partorire la madre assume il titolo di madrina de parto nei confronti del bambino 68. Questa omologia fra levatrice da un lato e madrina dall’altro ha radici profonde, che partono dal rituale stesso del battesimo cosí come è concepito nella tradizione cristiana. Il battesimo è in effetti una «seconda nascita» e spesso, nel descriverne in modo simbolico la natura e il funzionamento, si usano immagini che rimandano al ventre materno: come se il bambino nuovamente uscisse dal grembo di una madre (grembo della Vergine, grembo della Chiesa) a una nuova vita spirituale 69. Di conseguenza la madrina, colei che funge da «madre spirituale» e «fa nascere cristiano il bambino», nei gesti rituali che è chiamata a compiere presso il fonte battesimale spesso si comporta come una levatrice. Si tratta infatti di «tenere», «sorreggere», «tirare con le mani» il bambino. Un gesto in particolare sembra avere un peso decisivo: «tirare, con le proprie mani, il bambino fuori dal fonte battesimale» 70. Una vera e propria operazione maieutica. Dunque al battesimo la madrina del bambino (che è poi la comare della madre) agisce come una levatrice: inversamente accade che, molto spesso, la levatrice svolga lei il ruolo di madrina al fonte battesimale, divenendo perciò madrina del bambino e comare della madre. L’incrocio di queste due pratiche culturali porta all’identificazione fra il ruolo di madrina (comare) e quello di levatrice, la levatrice diventa una madrina (e comare) per eccellenza. Questa funzione centrale della levatrice – «unica madrina … madre mistica di tutto il paese» 71 – lascia segni profondi nell’atteggiamento che, in una piccola comunità come San Marco, i paesani adottano nei suoi confronti. Qui … i bambini alla cui nascita [la levatrice] aveva assistito la chiamavano «zi patina» [signora madrina, titolo di rispetto attribuito solo ai parenti spirituali di grado molto elevato] e la consideravano loro reale parente spirituale … ancora oggi la si considera madrina di numerosi bambini e commare – ma di tipo particolare – dei loro genitori.

Adeguati erano pure i comportamenti che i paesani mettevano in opera nei confronti della levatrice: … il rispetto, l’uso del «voi», il fare doni e, dato di particolare interesse, il considerarla, chiamarla e trattarla come una madre spirituale 72.

Dunque la levatrice realmente è una comare: essa è «chiamata» con questo appellativo e «trattata» con lo stesso rispetto e lo stesso onore che si deve a una parente spirituale. Di conseguenza, il fatto che in molte aree europee la donnola porti il nome di «comare» si inserisce molto bene nel modello mitico che la vede agire come aiutante di una partoriente. Come abbiamo visto, siamo informati del fatto che la donnola è sentita specificamente comare di una «donna», la padrona di casa. Metamorfosi di una levatrice nella cultura greca, il nostro animale porta adesso un nome piú adatto al nuovo contesto cristiano in cui la sua simbologia si trova a operare – ma questo non la allontana dal mondo della nascita e delle donne che aiutano a partorire le altre donne. La donnola, animale-comare in alcune culture, starebbe bene al capezzale di una partoriente tanto quanto la donna-donnola Galanthis che, in qualità di assistente al parto, aiutava le matres di Tebe 73. Il modo in cui la sua identità era pensata, e le storie che questa denominazione prevedevano, continuavano a farne una donna legata a un’altra donna da un rapporto costruito attorno a un bambino e alla sua nascita. Le testimonianze antropologiche sulla levatrice-madrina che abbiamo appena visto, possono aiutarci finalmente a capire un frammento del mito di Alcmena che ci era rimasto finora abbastanza oscuro. Alcune fonti, infatti, ci dicono che la donnola era considerata trophós, «nutrice» di Eracle 74. È possibile che questo rapporto privilegiato fra la donnola ed Eracle portasse con sé anche dei significati di carattere religioso, e avesse a che fare con la specifica identità dell’eroe, che poteva essere stata in qualche modo segnata dalle caratteristiche della sua trophós animale. Eracle in effetti viene al mondo uccidendo serpenti, i nemici della sua nutrice donnola, ed è considerato un distruttore di rettili per eccellenza 75. Ma come dobbiamo interpretare esattamente questo ruolo di trophós svolto dalla donnola nei confronti dell’eroe? Eliano ci metteva già sulla buona strada interpretando quel trophós come riferito al ruolo di aiutante nel parto svolto dalla donnola

nella vicenda di Alcmena. In effetti questi due ruoli, la nutrice e la levatrice del bambino, talora nella cultura antica tendono a sovrapporsi. In greco, se la parola trophós sembra significare solo «nutrice», la parola maîa significa invece tanto «nutrice» quanto «levatrice» 76. I due ruoli potevano sovrapporsi anche per motivi di carattere funzionale, nel senso che, dopo il parto, la madre e il figlio rimanevano sotto le cure della levatrice: la quale dunque agiva non solo come colei che aiutava nel parto ma altresí come custode del bambino dopo la nascita 77. Anche sul piano della rappresentazione religiosa il ruolo della nutrice e quello della levatrice tendevano a sovrapporsi, tanto che Artemide, la dea del parto, poteva essere invocata come kourotróphos «perché aveva scoperto come curare i bambini e quali cibi si adattano alla natura dei bambini» 78. Mentre le numerose statuette votive di bambini e di divinità kourotróphoi che venivano offerte a Eileíthyia nei suoi santuari mostrano chiaramente che la dea levatrice era concepita – in modo del resto assolutamente comprensibile – anche come dea nutrice e tutelare dei piccoli che ella aveva portato alla luce 79. Ma è soprattutto la figura della madrina che, mediando fra la nostra cultura e quella antica, può aiutarci a capire perché un animale che aveva aiutato, e in misura determinante, nel parto una donna poteva essere considerato nutrice del nuovo nato. Se infatti si volesse cercare un equivalente della «madrina» cristiana nella cultura antica, non c’è dubbio che il candidato migliore sarebbe proprio la «nutrice». Inutile dire che le due figure presentano anche notevoli divergenze: la nutrice è in genere una schiava, la madrina non lo è; la nutrice ha funzione di balia, la madrina non ne ha; e cosí via. Inoltre, anche quando queste due figure coincidono, la loro sovrapponibilità si realizza sulla base di modelli sociali e antropologici profondamente diversi. Questo non impedisce però che, nel gioco delle rappresentazioni culturali, molto spesso la nutrice antica funzioni proprio come una madrina. Vediamo brevemente i tratti salienti di queste due figure dal punto di vista delle analogie che presentano. In primo luogo la nutrice svolge il ruolo di seconda madre nei confronti del piccolo che alleva: sappiamo che ella influisce non solo sulla formazione del suo carattere ma (si pensa) anche su quella del suo corpo e della sua fisionomia, veicolando rassomiglianze attraverso il latte che dona al piccolo 80. Inoltre, le testimonianze letterarie ed epigrafiche sono concordi nel dire che al figlioccio la nutrice antica restava legata anche ben oltre il periodo

della nutrizione. Sappiamo infine che alla nutrice veniva delegato un ruolo molto specifico e delicato, ossia la protezione magica del piccolo nei confronti dei numerosi influssi malefici cui si trovava esposto: tanto che spesso, nel mito come nella letteratura, la nutrice appare descritta come esperta in arti e rimedi magici 81. Queste stesse funzioni le ritroviamo però delegate, nella cultura cristiana, proprio alla madrina. Anch’essa infatti è a tutti gli effetti una seconda madre del bambino che le è stato affidato, e a lui trasmette ugualmente – anche se per via mistica – tratti e rassomiglianze di carattere 82. Sempre come nel caso della nutrice, il legame di relazione parafamiliare stabilito con il figlioccio dura tutta la vita e si manifesta in comportamenti molto specifici, codificati nelle attese della comunità, e spesso improntati a grande affettività 83. Quello che piú colpisce, comunque, è che alla madrina sia devoluta anche la funzione della protezione magica del bambino, proprio come nel caso della nutrice. La madrina è ritenuta responsabile di alcune malattie del figlioccio e garante della sua salute: tocca alla madrina preparare il sacchetto magico che, fino a qualche decennio fa, i bambini portavano ancora su di sé in numerose culture subalterne; è lei che dona gli altri amuleti contro le malattie infantili e il malocchio; tocca alla madrina curare questi malanni quando le precauzioni magiche non siano state sufficienti 84. Queste singolari analogie fra madrina e nutrice antica si fondano evidentemente su un modello culturale elementare e comune – la necessità di dare al bambino una seconda madre, quella di raddoppiare la presenza femminile attorno a lui. È come se la maternità non potesse e non dovesse essere vissuta dalla donna in solitudine (come invece accade spesso oggi) e si sentisse l’obbligo di allargarne le funzioni a una seconda madre, con cui il bambino stabiliva legami di carattere complementare o, talora, addirittura alternativi 85. Non possiamo proseguire piú oltre su questa via, che ci porterebbe un po’ troppo fuori strada rispetto alla prospettiva del nostro studio. Comunque è chiaro che la trophós antica costituisce una figura sociale e culturale molto piú prossima alla «madrina» del mondo cristiano successivo di quanto si potrebbe pensare a prima vista. Torniamo dunque al problema che ci occupa, la donnola trophós di Eracle. Dopo quello che abbiamo visto, possiamo immaginare che questo animale fosse considerato nutrice dell’eroe per gli stessi motivi per cui, nell’Europa moderna, sarebbe stato definito «madrina»

del bambino che aveva aiutato a nascere: gli stessi motivi in base ai quali è chiamato «comare» in molte lingue e dialetti di area europea. Siamo ancora all’interno del rapporto fra madre naturale, bambino e una seconda madre a cui – nel parto come nell’allattamento, nell’educazione, nella protezione magica, e cosí di seguito – viene delegata una parte non trascurabile nella messa al mondo e nella crescita del piccolo. La donnola, colei che ha salvato madre e figlio in occasione di un parto disperato, ha svolto funzione di aiutante magica, di protettrice, di seconda madre. Proprio come una madrina al fonte battesimale, o come l’aiutante-madrina al rituale magico della passat, la cura dell’ernia infantile 86. La trophós, come la madrina, è un modello buono per pensare una figura femminile che, pur non essendo madre naturale, ha fatto per noi qualcosa che è forse persino di piú di quanto nostra madre stessa non abbia fatto.

3. La sorella del marito. Vediamo adesso il nome della donnola in greco, che come sappiamo è gal . Questa parola presenta infatti una singolare analogia con il nome che ancora in greco è attribuito alla «sorella del marito»: cioè gál s (in Omero gálo s). Si tratta di una parola antica, piuttosto rara, il cui uso conosciamo essenzialmente dall’Iliade e dai commentatori antichi di questo testo. Per dare un esempio del suo significato, possiamo dire che, nella casa di Priamo, Elena, la moglie di Paride, usa l’appellativo di gál s per le sorelle di suo marito, come Laodice 87: però non è ricambiata con la stessa espressione 88. Si tratta insomma di un termine «non reciproco», che la donna maritata rivolge alle sorelle del proprio marito – donne piú o meno della sua generazione che appartengono alla casata in cui la sposa è entrata – ma dalle quali è definita semplicemente «sposa» o «donna» 89. Potremmo anche dire cosí: si definisce gál s la «sorella del marito», ma non si definisce gál s la «moglie del fratello»:

Dunque in greco antico la donnola porta un nome, gal , che somiglia moltissimo a quello della «sorella del marito»: gál s. Questa analogia,

peraltro già sottolineata in passato 90, potrebbe risultare anche del tutto casuale: e priva di interesse. Salvo che, ancora una volta, esistono storie molteplici che vedono la donnola indossare il ruolo di parente femmina. In altre lingue, infatti, la donnola porta il nome di «zia» «cugina» «nuora» 91 ed esplicitamente «cognata»: in lituano la donnola è anzi cognata (mosza) nel senso specifico di «sorella del marito» 92. Comprendiamo adesso che il comparaggio della donnola, quale lo abbiamo visto nel paragrafo precedente, costituiva solo la manifestazione di una struttura piú vasta, quella della donnola come parente femmina. Vale per la donnola quello che sopra dicevamo in generale: la parentela spirituale è qualcosa che, seppure in modo massiccio, si aggiunge semplicemente a un panorama di parentela che si manifesta anche con ruoli diversi da quelli della comare. Stando cosí le cose, ci riesce difficile escludere dall’identità della donnola anche la sua caratterizzazione, nella Grecia antica, in termini di «sorella del marito». Se in molte lingue la donnola porta un nome di parentela – in certi casi addirittura quello di «sorella del marito» – e in greco antico ne ha uno che è praticamente identico a quello usato per la «sorella del marito», bisogna arrendersi all’evidenza. Il termine gál s «sorella del marito», quello richiamato da gal , è oltretutto un termine molto interessante. Ciò che soprattutto colpisce, infatti, è il punto di vista, la prospettiva specifica da cui il termine gál s veniva usato. Perché esso potesse essere impiegato, infatti, era necessario che esistesse una donna, la quale avesse un «marito» a sua volta dotato di «sorelle». Si tratta dunque di un termine di uso specificamente «femminile» e, soprattutto, di uso femminile dal punto di vista di una donna «sposata». Chi chiamava la donnola gal , dunque, si poneva nella posizione di una donna sposata che chiama un animale con il nome che darebbe alla sorella del marito:

Siamo proprio nelle stesse condizioni che abbiamo visto sopra a proposito della donnola chiamata comare: anche questo appellativo implica infatti il punto di vista di una donna e particolarmente di una donna «sposata». L’analogia è davvero interessante; nonostante lo scarto della distanza geografica e temporale il campo di referenza resta il medesimo. Ben prima

della storia in cui la donnola interpreta la parte della comare, ne era esistita un’altra in cui questo animale già occupava il ruolo di parente femmina di un’altra donna – una storia in cui il matrimonio della donna in questione svolgeva una parte fondamentale. A una conclusione non dissimile si giunge se guardiamo verso la gal -gál s dal punto di vista del bambino che nasce. Per lui, la gál s della madre è ovviamente una «zia»: ma abbiamo visto che è proprio questo appellativo che definisce ancora la levatrice in culture tradizionali 93. «Sorella del marito» della partoriente, o «zia» del nascituro, la gal -gál s mantiene dunque caratteristiche che la mettono nella stessa casella che può essere occupata anche dalla levatrice. Di nuovo, dunque, questa ulteriore caratterizzazione della donnola come sorella del marito si presenta del tutto compatibile con il ruolo che essa svolge nel racconto di Alcmena. Che la vede nel ruolo di una donna particolarmente vicina a un’altra donna, «sposata» e prossima al momento del parto. Dobbiamo anzi pensare che in Grecia la sorella del marito facesse parte delle donne del vicinato, delle comari chiamate al capezzale della donna in travaglio? Non abbiamo storie veramente esplicite in questo senso, ma certo è difficile escluderlo. Come sappiamo, le analisi comparative condotte sulla figura delle birth attendants concordano nell’indicare il fatto che, molto spesso, esse corrispondono a donne parenti della partoriente, mentre abbiamo già avuto modo di parlare delle donne che partecipavano agli Amphidrómia 94. Per quanto riguarda poi specificamente le cognate, il loro ruolo rituale accanto alla partoriente è ben testimoniato nell’Italia meridionale contemporanea 95. Un’altra testimonianza comparativa si presenta molto interessante. In India, fra i paria (dalit) del Tamil Nadu, quando una donna sta per partorire i suoi parenti vanno dalla levatrice e la pregano cosí: «Cognata-piú-anziana, la donna ha le doglie a casa!» 96. Tornando alla «sorella del marito» nel mondo greco, di sicuro sappiamo che nella casa di Priamo le galó i facevano parte del gruppo di compagne abituali della donna sposata (assieme alle «mogli» dei fratelli del marito, dette einatéres) 97. Dalla gál s la donna riceve liberamente visite, come nel caso di Iris che prende le sembianze di Laodice, la gál s, per recarsi da Elena 98. Mentre le galó i costituiscono a loro volta una meta prevista per le sue uscite. Per una donna, andare a trovare le galó i ha addirittura lo stesso significato socialmente riconosciuto che ha recarsi al tempio. Quando Ettore va dalla moglie, Andromaca, e non la trova nella sua stanza, si chiede «se non

sia andata dalle galó i o dalle einatéres dal bel peplo, o al tempio di Atena» 99. Lo scolio a questo verso commenta cosí 100: «elenca i motivi per cui è necessario uscire per le donne oneste». Soprattutto, però, sono proprio le galó i e le einatéres che sostengono la cognata al momento del funerale e del lutto, come accade ad Andromaca in occasione della morte del marito Ettore 101. Francamente ci meraviglieremmo del fatto che la gál s non prestasse soccorso alla moglie del fratello anche in occasione del travaglio e del parto. Le galó i sembrano costituire un elemento troppo importante nell’orizzonte familiare e sociale di una donna sposata per non partecipare attivamente, oltre che alle morti, anche alle nascite. Eustazio, speculando sull’etimologia della parola, alluderà esplicitamente al fatto che la gál s costituiva un naturale punto di riferimento e di aiuto per la donna: … il nome gál s deriva da gála (latte) per la pace e la dolcezza che viene dalla vicinanza per via di parentela; oppure dal verbo kaleîn (chiamare), perché è soprattutto lei fra le parenti che viene invocata dalla donna 102.

Un altro interessante caso di stretta unione fra parenti femmine all’interno di un solo gruppo familiare ci è dato poi da Callimaco. Se Artemide guarda con occhio mal disposto, dice il poeta, le disgrazie affliggono la casa e le donne muoiono di parto: … ma ricca di grappoli è la terra di coloro verso cui [Artemide] guarda ben disposta e lieta, fioriscono le generazioni dei quadrupedi, bene si accresce l’oîkos. Né si va al sepolcro prima di aver raggiunto un’età assai tarda né la famiglia (génos) è colpita dalla discordia, che pure sconvolge case ben solide. Attorno a una sola tavola dedicata agli dèi siedono galó i e einatéres 103.

Dunque è proprio la concordia fra le «cognate», mogli di fratelli e sorelle dei mariti che simboleggia il fiorire dell’oîkos sotto l’occhio benevolo di Artemide 104. Difficile pensare che questa «concordia» non dovesse dar prova di sé anche nel momento in cui qualcuna delle donne di casa, ora piú che mai sotto l’occhio vigile di Artemide, dea delle nascite, attraversava il momento che era considerato piú importante per la vita dell’oîkos familiare. Come nel caso della donnola-comare, anche la donnola - sorella del marito si presenta dunque come un simbolo buono per pensare l’aiutante

della Partoriente. Le molteplici «identità» dell’animale, come possiamo ricavarle dalle innumerevoli storie in cui esso compare, continuano a mostrarsi convergenti con il ruolo che la donnola svolge nel racconto di Alcmena. È come se questo animale avesse il potere di raccogliere innumerevoli fasci di luce provenienti da direzioni divergenti e di farli convergere verso un unico fuoco. Ma prima di passare all’ultimo capitolo di questo libro – dove non si incontreranno piú né donnole né animali, ma solo ombre e riflessi della loro antica presenza – sarà bene che ci fermiamo ancora una volta a pensare.

Capitolo quinto Un’enciclopedia senza le note a piè di pagina

Fra tutti i frammenti melodici che abbiamo ascoltato finora – la «Follia di Spagna» dispersa nelle sue innumerevoli variazioni – non c’è dubbio che il tema della Liberatrice, la donnola, sia quello piú rappresentato: e soprattutto quello piú cromaticamente sfumato ed enigmatico. Questo animale cosí piccolo e apparentemente insignificante si presenta infatti interprete di un numero davvero grande di storie, e molto spesso ciascuna di esse accenna ancora ad altre, in un gioco di rispecchiamenti e di allusioni a cui sembra difficile assegnare un confine. Eppure, con una pazienza che talora sarà sembrata caparbietà, abbiamo cercato di seguire il piú possibile tutte le storie che si sono affacciate al nostro orizzonte, per verificare se e quanto ciascuna di esse si mostrava «compatibile» con il ruolo che la donnola svolge nel racconto di Alcmena. In pratica, per vedere se era possibile costruire un’«identità» della donnola che fosse capace di definirla come animale buono per pensare il parto. Adesso che siamo giunti quasi alla fine del nostro lavoro, possiamo voltarci indietro, per vedere quali contorni ha assunto l’animale che ci ha seguiti, ovvero che abbiamo inseguito, fin qui. Eccoci dunque di fronte a una creatura lunga e sottile, capace di entrare e uscire da ogni buco, e come tale simile ad altri talismani che favoriscono analogicamente una nascita. Il suo parto innaturale, ma diretto e senza nodi, accresce questa sua natura bene augurante, mentre la sua caratteristica di madre sollecita e di animale domestico la rendono una creatura vicina e protettiva. Ma ecco la donnola farsi improvvisamente ambigua, temibile come una strega, e insieme dedita alla lascivia e a un uso distorto della sessualità. Storie che ci hanno lasciato perplessi finché ci siamo accorti che anche la levatrice, ossia la contropartita umana della Liberatrice del racconto, portava tradizionalmente con sé analoghe accuse di stregoneria e di lussuria. Poi la donnola ha tirato fuori la sua astuzia, la sua natura birichina, caratteristiche che ancora il mondo delle levatrici (donne che talora deridono, ma che sempre si presentano come cunning women) ci ha permesso di integrare nel nostro racconto. Infine sono emerse le storie che ce la rappresentavano non solo come donna ma come sposa mancata, e poi comare

e addirittura sorella del marito: una classe di persone in cui abbiamo potuto riconoscere i tratti di un mondo femminile autentico, ancora una volta quello delle donne che assistono la partoriente nel momento piú difficile. La sposa mancata ci ha messo infatti di fronte al paradosso della levatrice che, pur dedicando la vita a far nascere i bambini, è personalmente lontana dal mondo del matrimonio; la comare ci ha riportato ancora alla levatrice, di cui è spesso una sostituta o un’omonima; la sorella del marito ci ha introdotto in un mondo familiare in cui sono le donne parenti quelle che tradizionalmente portano aiuto alla donna in travaglio. Di volta in volta l’identità della donnola – le intersezioni fra il fascio di storie che la riguardano – ci è apparsa focalizzata, o meglio focalizzabile, nella direzione della nascita. Naturalmente in tutti i racconti e le credenze che abbiamo analizzato c’è anche molto di piú di questo, anzi, infinitamente di piú. Non intendiamo affermare che ogni volta le storie che venivano raccontate sulla donnola intendevano alludere alla sua funzione di aiutante o levatrice. Assolutamente no, la «Follia di Spagna» non è una musica a chiave o il Gioco delle perle di vetro (Hermann Hesse, 1943). Quando la contadina tedesca chiama la donnola «filatrice», ovvero Eliano si ritrae con timore di fronte alla donnolapharmakís, nessuno dei due intende oscuramente alludere al fatto che la donnola fu un dí protettrice delle nascite come una levatrice-Norne, ovvero che è una obstetrix sospettata di stregoneria. Ciascuno sta parlando di quello di cui sta parlando, cioè del fatto che la donnola ama filare e che un tempo essa fu una strega. Quello che vogliamo suggerire è qualcosa di diverso. Cioè che, per come ci si è mostrato fin qui, il mondo delle credenze sulla donnola possiede una coerenza interna, una struttura: e come tale si può legittimamente pensare che la scelta di questo animale come Liberatrice nel racconto di Alcmena abbia costituito non il risultato di un’azione casuale ma il prodotto di una pressione del senso, un senso che emergeva da gran parte delle storie che circolavano sulla donnola. Fra le molte «uscite» che questo complesso di credenze e di racconti permetteva, c’era anche quella che ne faceva un animale vicino alla Partoriente: e questa uscita era in sintonia con tutte le altre. La donnola costituisce un animale buono per pensare il parto perché la sua immagine – anche al di là di una percezione conscia e analizzabile in tutti i suoi dettagli da parte di chi la utilizzava – era in grado di produrre immediatamente un fascio di tratti simbolici che con il parto hanno una relazione privilegiata: il corpo long et fluet che scivola fuori da

qualunque passaggio, i filtri e le stregonerie delle levatrici, la connotazione marcatamente sessuale, e impura, che spesso caratterizza il mondo di questi personaggi femminili, la presenza al parto di donne parenti o comari, e cosí via. Messa in relazione con una nascita, la donnola brucia in una sola fiamma un fascio di elementi significanti la cui descrizione richiederebbe, anzi, ha richiesto, un discorso molto lungo. Quando diciamo che nelle varie storie attorno alla donnola c’è molto di piú della sua possibilità di pensare il parto, intendiamo anche che ciascuna storia ha un senso e un orientamento che la rendono diversa dalle altre. Cosí la donna-donnola di Semonide intende denigrare e deridere l’altro sesso attraverso la classificazione animale, convincendo l’uditorio maschile che è meglio stare alla larga dalle donne; la donnola - sposa fallita della favola esopica ha invece come obiettivo quello di comunicare un messaggio morale («non si può andare contro natura»); la donnola-comare, o sorella del marito, sembra invece avere un obiettivo anche pratico: quello di stabilire una solidarietà fra la padrona di casa e l’animale che si aggira attorno al pollaio. E cosí di seguito. L’insieme dei racconti che riguardano questo animale si ritaglia e si riorganizza a seconda delle esigenze. Allo stesso modo è possibile immaginare che le varie storie che circolavano attorno alla donnola avessero anche un orientamento di genere, maschile e femminile, e ce ne fossero di quelle che rappresentavano piú il mondo degli uomini e altre che rappresentavano piú il mondo delle donne. Questa possibilità appare ancora piú probabile se si pensa che la donnola, in molte delle sue storie, ha una caratteristica marcatamente femminile, è una donna lei stessa, nelle sue metamorfosi, nei nomi che porta: potevano non esserci storie femminili da una parte, storie maschili dall’altra, per un animale cosí marcato nel suo genere? Possiamo ipotizzare perciò che la storia della donnola-Liberatrice, e la sua funzione di aiutante nel parto, fosse piuttosto di orientamento femminile: cosí come quelle che ne fanno una comare, una sorella del marito, e cosí di seguito. In questo è abbastanza emblematico l’episodio della vecchia Alcmena che racconta a Iole la storia sua e della donnola: si tratta infatti di un racconto di donne fra donne, proprio come piú avanti dovremo vedere che questa medesima storia, anche nelle sue versioni settentrionali, si presenta marcatamente femminile. Dall’altra parte staranno invece storie come quelle della donnola dissoluta. Non a caso la incontriamo anche nel giambo misogino di Semonide di Amorgo, e dunque possiamo

essere sicuri del fatto che questo tipo di storia fosse amato dai maschi. La donnola era qui talmente donna da presentare i tipici vizi che gli stereotipi maschili attribuivano alle rappresentanti dell’altro sesso. Quanto alla storia della donnola-strega, è possibile che anch’essa avesse orientamento maschile, però non ci stupiremmo affatto se essa fosse condivisa anche dalle donne. È molto affascinante pensare che questo diverso orientamento interno alle storie della donnola poteva riflettersi anche nella specifica identità che abbiamo cercato di costruire per lei, quella di aiutante nel parto: quando a utilizzare questo simbolo era una donna, gli elementi che emergevano saranno stati quelli della solidarietà e della facilità della nascita; quando a utilizzarlo erano degli uomini, potevano invece emergere elementi come quello della dissolutezza (le levatrici «troppo addentro al sesso delle donne») o dell’astuzia beffarda. Ancora una volta, però, dobbiamo sottolineare il fatto che questi elementi comunicano fra loro, che sono compatibili l’uno con l’altro anche se appaiono costruiti in prospettive diverse. Proprio come i due universi di pensiero, quello maschile e quello femminile, ugualmente comunicano fra loro e si incrociano in una produzione discorsiva che è a un tempo conflittuale e condivisa, analoga e diversa. Sono queste medesime caratteristiche che incontriamo anche nell’uso del linguaggio simbolico. Abbiamo introdotto una dicotomia nel nostro discorso, quella fra maschile e femminile. Proviamo adesso a introdurne un’altra, quella fra «noi» e «loro», noi che studiamo queste storie e loro che le hanno prodotte o che le usavano. Di fronte a una donnola fantastica, quella delle storie che su di lei si raccontano, il nostro ruolo non può essere che questo: cercare di «capirla». L’insieme di elementi simbolici su cui infatti queste storie sono costruite, per noi è perduto per sempre, e faticosamente emerge da un’operazione erudita, fitta di argomentazioni, di dubbi e di note a piè di pagina. Ma non è stato cosí per tutti coloro che di questo linguaggio simbolico possedevano il lessico e la grammatica, e di fronte alla necessità di rappresentare o concettualizzare qualcosa ricorrevano immediatamente al proverbio animale o al racconto di metamorfosi. Per coloro che partecipavano ancora di questa cultura, una donnola fantastica non era qualcosa da «capire» ma piuttosto da «pensare». Quando Semonide dichiara che la donna-donnola è lasciva e portatrice di sciagure, per il poeta e per il suo pubblico non è necessario un articolo pubblicato in riviste come «Hermes» o «Arethusa» che sia in grado di

spiegare il significato mal augurante dell’animale o la sua mania erotica. Non occorrono paralleli o citazioni (cfr. il superstizioso di Teofrasto che lancia tre pietre alle donnole; vedi Eliano e l’uso del verbo noseîn in relazione alle tendenze sessuali della donnola…) Chi parla e chi ascolta partecipa di un’enciclopedia che non prevede note a piè di pagina semplicemente perché contiene già tanto i simboli quanto gli strumenti per decodificarli. Ed è questa medesima enciclopedia che, il giorno in cui qualcuno ha voluto raccontare la storia di Alcmena e i rischi corsi alla nascita dal piú grande eroe della Grecia, ha suggerito con la medesima flessibilità il ricorso a una donnola-levatrice. Il sapere condiviso, i cliché, le immagini codificate, convergevano nel fare di questo animale uno strumento simbolico buono per pensare il parto, ovvero per farne l’interprete ideale della storia in cui Alcmena non riusciva a partorire Eracle. A volte fa una strana impressione pensare al lavoro dell’antropologo o del filologo. In pratica siamo gente votata a mettere ossessivamente delle note a piè di pagina a un’enciclopedia che non ne aveva, e in questo modo pensiamo di riacquistarne l’uso e il significato. Semonide, con la sua donna-donnola, e la contadina tedesca che scaccia la «filatrice» da sotto casa, ci si fanno incontro e ci parlano: rivolgendosi a noi essi usano le loro immagini animali e noi, per rispondere, usiamo i nostri cliché eruditi e le nostre argomentazioni. Sarà vero che riusciamo a comunicare, oppure si tratta solo di un miraggio? Peggio ancora, di una convenzione? Credo che l’importante sia desiderare davvero di capire, che la volontà di ascoltare quello che gli «altri» (le nostre «fonti»?, i nostri «materiali»?) ci dicono venga davvero anteposta al gusto di redigere delle note a piè di pagina – il «nostro» gioco, la «nostra» enciclopedia. Disgraziatamente infatti è facile convincersi del fatto che noi siamo in grado di capire gli altri molto meglio di quanto loro stessi non si capissero, e pretendere di farlo. A questo punto si rischia davvero di non capire piú niente. L’unico antidoto che conosco contro questo veleno del Besserwissen (sapere di piú), comunque, sta in una frase: noi possiamo al massimo «capire» i loro simboli, loro invece li «pensavano». Li hanno creati, la nostra enciclopedia con le note a piè di pagina può solo cercare di registrarli e di interpretarli. Anche la piú spericolata o decostruttiva delle interpretazioni viene inevitabilmente al seguito di una creazione culturale che è stata eseguita da altri, e non da noi 1. La contadina tedesca che scaccia la «filatrice» dal pollaio, o Semonide di Amorgo con il suo mondo di donne

totemizzate, hanno un vantaggio incolmabile su ciascun possibile interprete. Sono venuti prima, hanno pensato. Noi li studiamo. E cosí dicendo salutiamo anche la nostra Liberatrice. Nell’ultimo capitolo di questo libro, infatti, incontreremo altre varianti della storia di Alcmena, lontane, disperse in aree in cui non ci saremmo neppure aspettati di trovarle. Saranno varianti cosí simili a quelle già note che anche in esse sarà facile riconoscere immediatamente le note della «Follia di Spagna». Però la donnola non ci sarà piú. A svolgere il ruolo della Liberatrice saranno personaggi solo di tipo umano, il piccolo animale birichino esce di scena. Eppure spesso ci sembrerà di vederlo ancora sgusciare da sotto il letto della Partoriente.

Conclusioni

I pensieri di Alcmena

Nella prefazione ai suoi Carmina Gadelica, Alexander Carmichael descriveva una serata di storie, in Irlanda, alla fine dell’Ottocento 1. Quando ancora la tradizione secolare era viva, e forse nessuno sospettava che, tra breve, l’arte del cantastorie irlandese si sarebbe bruscamente ridotta alla disperata solitudine di Seán O’ Conaill: costretto a recitare i suoi racconti a un macigno, mentre pascolava il suo gregge, per non dimenticare un patrimonio che aveva appreso negli anni 2. Dunque, nella descrizione di Carmichael la scena si presentava come segue: un fuoco di torba in mezzo alla stanza, la casa piena zeppa di gente, mentre le ragazze stavano accoccolate tra le ginocchia dei padri, o dei fratelli, e i ragazzi si appollaiavano ovunque potevano arrampicarsi. La famiglia del padrone di casa, assieme alla gente del vicinato, si dedicava a vari lavoretti domestici, come intrecciare ramoscelli di erica per ricavarne funi con cui legare la paglia, fare cestini, oppure filare e cucire, mentre la conversazione procedeva spedita. Il forestiero fu naturalmente invitato a sedere accanto al padrone di casa, un posto di rispetto che qualcuno si preoccupò subito di cedergli. E fu lui, Carmichael, che secondo il costume chiese al proprio anfitrione di raccontare una storia: «First story from the host, | story till day from the guest…» La storia risultò «piena di imprevisti, di pathos e di azione», e il narratore procedeva «semplicemente eppure con grande efficacia, a volte con una certa drammaticità | tenendo avvinta l’attenzione dello straniero per tutto il tempo del racconto» 3. Chissà quante migliaia di volte questa stessa scena si era ripetuta nei secoli. Storie e temi, naturalmente, variavano. Ma piú di una volta il pubblico domestico sarà stato affascinato dalle gesta di Oisín, a noi meglio noto come Ossian, e dal suo viaggio nella terra della Giovinezza. Storie «vere», fatti «veri», a cui il cantastorie credeva con la stessa forza con cui, nell’Ottocento, i lettori di giornali credevano alle imprese delle forze britanniche in Oriente 4: mentre Delargy, in pieno secolo XX , poteva ancora testimoniare dell’orrore che afferrò un cantastorie della contea di Kerry quando qualcuno del pubblico

(ormai avvezzo a una diversa, piú laica cultura) osò mettere in dubbio la storia di Oisín, e le meraviglie a cui l’eroe aveva assistito nella terra della Giovinezza 5. Altre volte, naturalmente, sarà toccato a vicende e avventure differenti, sul tipo di quelle di cui abbiamo parlato nella prima parte di questo libro. Impregnazioni soprannaturali, per esempio, o nascite miracolose, come quelle di Conchobar o CúChulainn. Ovvero anche nascite dolorose, come quella di Fiachna Broad-crown: con la povera madre che trattiene il parto fino al momento della coincidentia favorevole per la nascita. Se abbiamo evocato questo lontano mondo della narrativa orale irlandese – mondo perduto per tutti, nostalgicamente inseguito nei libri di coloro che a questi racconti hanno dedicato la loro vita di studiosi – non è solo per rammentare che, banalmente, anche quelle storie di nascite irlandesi costituiscono pur sempre un lontano parallelo per il racconto di Alcmena: e dunque per chiudere in una specie di anello la nostra ricerca sulla storia di Alcmena della madre di Eracle. Non intendiamo fermarci in Irlanda. Il motivo per cui abbiamo iniziato questo capitolo, ricordando ciò che avveniva nella terra forse piú tenacemente attaccata alla propria tradizione di narrativa popolare, sta soprattutto nel bisogno di mutare atmosfera, per introdurre il lettore alle ultime versioni della nostra storia. Da questo momento in poi, infatti, non avremo piú a che fare con brani di poesia esametrica, frammenti di eruditi greci, glosse di scoliasti, ma con trascrizioni di racconti decisamente orali. Paradossalmente, man mano che si allontana dalle sue origini la storia di Alcmena si fa sempre piú «racconto», e lo scenario in cui dobbiamo immaginare le versioni che seguiranno è appunto quello della narrazione domestica, quando ancora esisteva: le figlie in braccio ai padri, i ragazzi arrampicati fin dove è possibile salire mentre colui che racconta dà fondo al proprio repertorio e a tutte le risorse dell’esperienza. Ecco il mondo in cui la storia di Alcmena conclude la propria vicenda. In queste sue estreme reincarnazioni, vedremo che anche il nostro racconto conferma in pieno le caratteristiche tipiche della trasmissione orale: estrema variabilità delle forme, estrema fissità dell’intelaiatura fondamentale.

1. Alcmena in North Carolina. Nel secondo decennio del Novecento un’antropologa americana, Elsie

Clews Parsons, raccolse un certo numero di racconti in Guilford County, North Carolina. Li pubblicò nel 1917, facendoli precedere da una prefazione in verità alquanto sconsolata: «nella collezione che segue vediamo l’arte del racconto popolare nello stadio piú estremo della sua disintegrazione» 6. Fra i suoi informatori c’era anche Margaret Burke, una donna nera di ottantasette anni, o perlomeno cosí dicevano i suoi documenti. La donna affermava infatti che, per garantire la sua condizione di libera, le era stata attribuita l’età di ventun anni quando ne aveva solo dieci. Questa comunque la storia che la vecchia raccontò: Un tale va a casa di un altro tale per passarci la notte. Quello della casa dice: «Ti racconto che mi succede». Una donna impediva a sua moglie di partorire – l’aveva sistemata (fixed her). Nel mondo capitano un mucchio di cose strane. Il giorno dopo gli dice cosa deve fare. Manda un servo a casa del vicino per prendere del fuoco. Ma una donna che se ne stava seduta vicino al focolare gli chiede: «Come sta la padrona?» «Bene, come ci si poteva aspettare. Ha avuto un bel bambino». Allora lei si alza e tira giú un sacco dall’angolo del camino. Dal sacco salta fuori qualcosa. Poi lei dice: «Dio è piú forte del diavolo». Quando il servo tornò a casa, la padrona aveva avuto un bel bambino, questo è sicuro 7.

Che ci fa Alcmena in North Carolina? E come faceva, la vecchia Margaret Burke, a conoscere il nostro racconto? Perché non c’è dubbio che anche in questa storia si sentano risuonare distintamente le note della «Follia di Spagna», quelle che abbiamo ascoltato (e a lungo inseguito) nelle pagine che precedono. È vero, l’arte del narratore è povera e la versione che ci offre è come scheletrita. Ma le funzioni ci sono tutte: una Partoriente che ha il parto bloccato, una Nemica che l’ha stregata, dei nodi che magicamente ritardano la nascita, un personaggio liberatore che pronunzia il solito messaggio menzognero e inganna la Nemica. Anche i pochi mutamenti si presentano interessanti. Stavolta il segmento dei nodi appare realizzato in un modo che si presenta piú naturalistico e piú perturbante insieme: nel sacco infatti era rinchiuso «qualcosa», forse un animale, che simulava il bambino bloccato nel ventre materno e «balza fuori» al momento in cui il sacco viene aperto. Contrariamente al solito, poi, la liberatrice è un uomo: però è ancora uno di casa, un servo, proprio come la Galanthis di Ovidio era una ministra e la donnola un animale domestico 8.

Purtroppo Parsons non si preoccupò di fornire spiegazioni e neppure paralleli per questo racconto. Per lei la storia di Margaret Burke era solo una di quelle «conservate meglio» e anche «molto ben conosciute» 9. Già, ma da chi? E come? Per fortuna siamo in grado di suggerire una possibile pista, che però ci porta ugualmente lontano dal Mondo Antico: la Scozia. Nella classica raccolta delle ballate inglesi e scozzesi curata da Francis James Child, infatti, ne compare una scozzese, Willie’s Lady, che si presenta in tutto e per tutto simile – ancora una volta – al racconto di Alcmena 10. Anche qui c’è una donna dal parto bloccato, una strega che ha fatto il sortilegio, un messaggio menzognero che provoca la liberazione della partoriente, e cosí di seguito. Fra un minuto racconteremo piú dettagliatamente questa versione della storia, ma per intanto vogliamo ribadire il fatto che l’Alcmena di Margaret Burke ha davvero buone probabilità di essere di origine scozzese. Il North Carolina infatti, cosí come altri stati americani a sud del New England (New York, Pennsylvania, Virginia, South Carolina) ha costituito uno dei principali centri della immigrazione scozzese nel Nuovo Mondo 11. Anche il folclore e la poesia popolare serbano testimonianza di questa massiccia presenza, tanto che nel South West degli Stati Uniti è stato possibile raccogliere un notevole gruppo di ballate che trovano riscontro in quelle scozzesi pubblicate da Child 12. È dunque probabile che anche questa storia fosse giunta in North Carolina sulla bocca degli emigranti scozzesi, forse in forma di ballata o forse in quella di semplice racconto di folclore. Come sotto si vedrà meglio, infatti, nell’isola di Arran, ancora in Scozia, una storia del tutto simile a quella narrata in Willie’s Lady circolava nell’Ottocento nella forma di «fatto realmente accaduto» 13. Ecco dunque la storia di Alcmena che, dalla Scozia, varca l’Atlantico e si diffonde lungo le pendici dei monti Appalachi. Per poi finire – racconto popolare allo «stadio piú estremo della sua disintegrazione» – nel repertorio di Margaret Burke 14. Ma è tempo di vedere Willie’s Lady.

2. Mrs. Brown of Falkland. «Non esistono ballate scozzesi superiori nel loro genere a quelle recitate nell’Ottocento da Mrs. Brown of Falkland». Questa l’opinione che Francis James Child aveva dell’arte di colei alla cui cura dobbiamo la trasmissione della nostra ballata, Willie’s Lady 15. Stiamo parlando della Scozia, verso la

fine del secolo XVIII . Quale differenza dal povero mondo di Margaret Burke e dell’antropologa Parsons! Adesso ci troviamo in un ambiente sociale di benestanti e di persone colte, che vivono però ancora molto a contatto con le tradizioni e con la vita delle campagne. Il paese attraversa un periodo di grande cambiamento. La cultura tradizionale, fondata sull’oralità e sulla improvvisazione poetica, sta infatti per cedere il passo a quella scritta (e inglese) che la distruggerà: e che entro pochi decenni la ridurrà a un oggetto di ricerca per filologi e antiquari 16. Ma nel 1783 l’arte dell’improvvisazione poetica è ancora ben viva, tanto che questo singolare mondo di transizione – a un tempo scritto e orale, anglicizzato eppure ancora molto legato alla cultura nazionale – ha fatto pensare a qualcuno che gli scozzesi colti di quegli anni avessero come una mente «bicamerale»: che essi «sentissero» in Scots e «pensassero» in English 17. È proprio questa la congiuntura storica in cui incontriamo un personaggio di grande importanza per il seguito della nostra storia: Anna Gordon, meglio conosciuta come Mrs. Brown of Falkland, la piú celebre improvvisatrice dei suoi tempi. Colei che trascrisse per William Tytler la versione di Willie’s Lady che Child pubblicò nella sua raccolta di ballate. Anna Gordon, futura Mrs. Brown of Falkland, era figlia di un professore di Humanities (e in seguito di greco), Thomas Gordon, e di Lillian Forbes. Fu la madre che le portò in dote l’arte della ballata, perché tutta la famiglia Forbes coltivava la musica e la poesia. La formazione poetica di Mrs. Brown è realizzata per via interamente materna, e soprattutto è di carattere esclusivamente orale. La sua principale maestra era stata infatti la zia, Anne Forbes, poi Mrs. Farquherson, una donna che «dopo il matrimonio aveva passato i suoi giorni fra le greggi e gli armenti di Allan-a-quoich, il possedimento di suo marito» 18. La zia Anne «aveva una memoria molto forte, ed era capace di ricordare tutti i canti che aveva sentito dalle balie e dalle vecchie del vicinato» 19. E da lei, oltre che da una serva a lungo vissuta nella casa materna, Mrs. Brown aveva ricevuto il proprio repertorio. Che ella peraltro non ripeteva meccanicamente ma, come ogni buon cantore orale, variava e riproduceva con grande libertà. Il padre era compiaciuto di queste doti: «la mia figlia piú giovane … ha ricevuto in dono dal cielo una memoria buona come quella di sua zia, e vi ha stivato praticamente tutto il suo patrimonio di canti» 20. Thomas Gordon usava metafore piuttosto statiche e

concrete per descrivere il talento della figlia. In realtà ciò che Mrs. Brown possedeva era piuttosto la «sostanza» della ballata, e di questa sostanza ella si sentiva libera di produrre variazioni talora considerevolmente distanti l’una dall’altra 21. Il repertorio straordinario e le doti artistiche di Mrs. Brown attirarono ben presto su di lei l’attenzione dei poeti, come Walter Scott, e degli eruditi, come Robert Jamieson e i Tytler, i quali si resero subito conto del fatto che Mrs. Brown custodiva nella sua memoria una ricchezza che si sarebbe ben presto dispersa. Fra questi eruditi c’era anche William Tytler, che nel 1783 ricevette da Mrs. Brown un manoscritto con quindici ballate. Di essa faceva parte la nostra Willie’s Lady: Willie si è sposato, ma la giovane moglie non piace a sua madre: che è una strega della peggiore specie. E cosí, quando la moglie di Willie concepisce un figlio e sta per partorire, la suocera le fa un sortilegio e le impedisce di liberarsi del suo peso. Willie è disperato, ma ecco comparire lo spiritello Billy Blind, il quale gli spiega come deve fare perché la moglie possa partorire. «Vai al mercato – gli dice – e compra un pane di cera. Dagli la forma di un bambino, mettigli due occhi di vetro, poi va da tua madre tenendolo in braccio e invitala al battesimo di tuo figlio: ma sta bene attento ad ascoltare quel che lei dirà!» Willie segue il consiglio di Billy Blind, va al mercato a comprare la cera, costruisce il fantoccio e si reca dalla madre. La quale esce in questa lunga sequela di esclamazioni: chi ha tagliato i nove nodi incantati che erano in mezzo ai riccioli della lady? chi ha tolto via i pettini di mal augurio che pendevano dalla chioma della lady? chi ha tolto il groviglio di caprifoglio (woodbine) 22 che stava fra il suo padiglione (bower) 23 e il mio? chi ha ucciso la capra che correva sotto il letto della lady? chi ha sciolto la sua scarpa sinistra, e ha lasciato libera la lady? Willie ascolta queste imprecazioni, esegue tutto ciò che la madre ritiene sia già stato eseguito, e cosí «gli nasce un gran bel bambino» 24.

Questa riduzione in prosa fa molta ingiustizia alla bellezza della ballata, nonché alle doti di Mrs. Brown. Non c’è dubbio però che Alcmena, prima che il North Carolina, abbia visitato anche la Scozia. Le note della «Follia di Spagna» continuano a risuonare sotto le nostre dita, anche a cosí tanta distanza di secoli e di chilometri. Naturalmente si tratta di una ulteriore, appassionante variazione sul tema del nostro racconto. Stavolta la Nemica

non è una donna (o meglio una dea) gelosa del proprio marito, che manda delle dee streghe a punire la rivale, ma è una suocera che detesta la nuora. Però è ancora una strega. Quanto al segmento dei Nodi esso presenta un’amplificazione quasi epica: dapprima semplici nodi nei capelli (e sappiamo bene che la partoriente deve lasciarli sciolti) 25; poi pettini di mal augurio (altri oggetti che bloccano i capelli) 26; poi una pianta dai poteri magici, il woodbine, che porta nel suo stesso nome la malaugurata capacità di «legare» 27; poi il diavolo stesso che, in forma di capra, si aggira sotto il letto della Partoriente, evidentemente per vegliare di persona sulla riuscita dell’operazione 28; e per ultima la scarpa (ovviamente sinistra) che era legata, un oggetto che ancora una volta ci risulta molto familiare: sappiamo bene infatti quale religione circolasse attorno alle scarpe, in occasione del parto, e quale sollecitudine si ponesse nel far sí che la partoriente le tenesse sciolte 29. Anche la Liberatrice appare mutata, ma probabilmente molto meno di quanto potrebbe sembrare a prima vista. Stavolta è una creatura soprannaturale, Billy Blind, un «servizievole spirito familiare» che appartiene alla tradizione inglese e scozzese e che svolge funzioni benefiche di aiutante 30. Però è sempre qualcuno che si presenta legato alla casa, come Galanthis o come la donnola. Non solo, l’apparizione di uno spirito domestico nel ruolo della Liberatrice ci ricorda il fatto che la donnola, nel folclore europeo, ma forse già in quello della Grecia antica, svolgeva proprio il ruolo di animale della casa e di genio domestico, protettore della vita familiare. È come se la donnola continuasse a proiettare fino in Scozia alcuni raggi delle sue molteplici identità. Per liberare la donna in pericolo anche Billy Blind ricorre al solito schema del messaggio menzognero: però questa volta l’inganno non è realizzato semplicemente attraverso le parole, o il grido della nascita, ma presuppone l’esistenza di un bambino fittizio. Viene quasi da pensare alla tradizione antica e medievale dei cambiones, i changelings, quei bambini «di scambio» che proprio le streghe usavano sostituire ai bambini veri nelle case degli uomini 31: ovvero agli espedienti di magia analogica che si usavano in occasione del parto 32. Nella duttile mente di Mrs. Brown – vera narratrice orale, che delle storie che narra possiede una matrice generativa, non una forma fissa – il nostro racconto ha dunque assunto la struttura narrativa tipica della ballata scozzese: è divenuto una delle numerose storie di «opposizione familiare» caratteristiche di questo genere letterario, dove una triangolazione fra i due

personaggi principali e il terzo, quello che in genere funge da chiave per lo sviluppo della narrazione, produce un intreccio di familial thwarting 33. Il mondo della mitologia greca, che del racconto di Alcmena faceva una storia di conflitto fra uomini e dèi, è lontano: adesso la Partoriente è chiusa dentro una famiglia umana, che però, nelle sue latenti e implose ostilità, si presenta ben piú temibile di quanto non lo fosse la dichiarata inimicizia soprannaturale di Era. Ma nonostante la profonda caratterizzazione scozzese ricevuta dalla nostra storia, si ripropone la domanda che prima ci facevamo quando l’abbiamo incontrata in North Carolina: che ci fa Alcmena in Scozia? Ovvero, come ci è arrivata? L’ultimo capitolo di questo libro si sta inaspettatamente trasformando in una sorta di inchiesta, ma ben presto vedremo che la ricerca del colpevole non può e non deve procedere troppo avanti. Per intanto, si potrebbe forse pensare che qualche responsabilità l’avesse il padre di Mrs. Brown, Thomas Gordon, professore di Humanities e poi di greco. Il quale potrebbe ben aver fatto leggere alla figlia un po’ di Ovidio, se non averglielo raccontato. Ma si tratta di una tentazione da respingere, e per due motivi: il primo è che Mrs. Brown stessa ha sempre escluso ogni possibilità di derivazione scritta delle sue ballate, attribuendone l’origine solo alla zia Anne e alla serva di cui abbiamo già parlato 34. Il secondo, forse piú decisivo, consiste nel fatto che in realtà questa ballata aveva già avuto una circolazione ancora piú vasta fuori della Scozia di Mrs. Brown, soprattutto nella Danimarca contemporanea e dei secoli precedenti. Dunque la storia di Alcmena circolava liberamente fra Scozia e Danimarca (e altre regioni, come subito sotto vedremo) nella forma di una ballata o di un racconto popolare. Ma prima di andare avanti, e vedere queste altre varianti del nostro racconto, sarà bene fare un’ultima osservazione. In North Carolina, come abbiamo visto, il narratore del racconto di Alcmena era una «donna». In Scozia è ancora una donna, anzi, una donna che ha appreso l’arte di raccontare da altre donne in una sorta di catena, e dunque rappresenta una tradizione narrativa tutta «femminile» 35. Ci sembra proprio di essere tornati all’inizio della nostra storia, quando l’Alcmena vecchia di Ovidio raccontava questa vicenda alla nuora Iole che stava per partorire. Piú volte, nel corso di questo libro, abbiamo avuto modo di sottolineare il carattere «femminile» del nostro racconto, del suo contenuto e dei modelli culturali a cui spesso fa riferimento. Siamo lieti che Mrs. Brown, un attimo prima di salutarci, ci offra l’opportunità di confermare questa nostra convinzione.

Quella di Alcmena salvata dalla donnola (o della moglie di Willie salvata da Billy Blind, e via di questo passo) è una storia di donne, raccontata da donne ad altre donne perché se ne mantenga la tradizione. E del resto la zia Anne Forbes, poi Mrs. Farquherson, non aveva forse «appreso i suoi canti dalle balie e dalle vecchie del vicinato?»

3. «Le stesse cose ritornano». In Danimarca ballate simili a Willie’s Lady sono già registrate in manoscritti dei secoli XVI e XVII , ma non mancano versioni raccolte oralmente nell’Ottocento 36. Le attestazioni sono molto numerose, e la nostra storia appare qui realizzata secondo due tipi fondamentali, a seconda che si impieghi o meno l’artificio del fantoccio di cera. Vediamo dunque quello che accade nelle ballate del primo tipo: Peter ha sposato una donna che non piace a sua madre, la quale è una terribile strega. La prima notte di nozze la sposa concepisce due gemelli, dopo di che si reca dalla suocera a chiedere quanto a lungo dura la gravidanza. La suocera le risponde cosí: Quaranta settimane Maria ebbe Cristo nel ventre e cosí dev’essere per ogni donna di Danimarca. Quaranta settimane tenni mio figlio nel ventre ma tu terrai il tuo per otto anni.

Le quaranta settimane sono passate e Peter, disperato, chiede aiuto a sua sorella Ingerlin. Tramite l’artificio del bambino di cera, che Ingerlin presenta alla madre facendole credere che la nuora abbia già partorito, la ragazza scopre che la madre ha incantato tutta la casa tranne il baule della sposa, che essendo di sorbo rosso, non può essere incantato 37. Il baule viene rimosso e al suo posto viene messo il letto della sposa, che finalmente partorisce. Stavolta non ci sono Nodi che bloccano la partoriente, solo un sortilegio della strega. E la Liberazione avviene ricorrendo ai poteri del sorbo rosso. Vediamo adesso le ballate del secondo tipo. La giovane sposa è stata stregata dalla suocera, e non riesce a partorire. Stremata da un’attesa interminabile alla fine chiede di essere portata a casa

dei genitori. Otto anni sono passati, e la poveretta, nonostante che la suocera tenti di trattenerla in tutti i modi, riesce finalmente a raggiungere la propria famiglia. Ma ormai è in punto di morte, ha solo il tempo di distribuire le sue cose a chi resta, dopo di che due gemelli vengono estratti dal suo ventre: Il primo figlio balzò in piedi e si spazzolò i capelli: «Di sicuro io ho già compiuto otto anni». Il secondo balzò in piedi, bello e rosso: «Di sicuro vendicherò la morte di mia madre».

Questa seconda classe di ballate si presenta piú lontana dal racconto di Alcmena. È come se la storia comparisse solo per metà, con la soppressione del personaggio della Liberatrice e conseguente finale tragico della vicenda. La prima classe invece presenta la struttura che ci è familiare: una Partoriente, una Nemica, un Sortilegio, una Liberatrice che riesce a sconfiggere la Nemica ricorrendo al solito espediente del messaggio menzognero. Ma non c’è dubbio che tutte le innumerevoli versioni danesi della storia sembrino talora chiudersi, con sorprendente omogeneità, verso le caratteristiche del «nostro» racconto di Alcmena. La Nemica per esempio può assumere le vesti non solo di una suocera, di una madre o di una matrigna, ma anche di una rivale: nella forma di una precedente amante del marito 38. Eccoci dunque ritornati alla struttura antica, la partoriente perseguitata dai sortilegi di una «gelosa», come Era. Ancora, la partoriente dà in questo caso alla luce due gemelli, proprio come Alcmena: e appena nati, questi figli prodigiosi sono già pronti a compiere imprese eccezionali, come Eracle 39. Quanto alla Liberatrice, le somiglianze con la donnola del racconto antico sono davvero interessanti se teniamo conto delle storie di folclore che circolavano su questo animale. Come abbiamo visto infatti il ruolo della Liberatrice è svolto qui da una «sorella del marito» 40: e sappiamo bene che la donnola, in greco, portava proprio il nome di «sorella del marito», gal -gál s 41. Altre volte invece, in versioni diverse da quella che abbiamo riassunto sopra relativamente alla moglie di Peter, questo ruolo è svolto da una cunning woman del villaggio 42: dunque una donna «astuta», una donna «che sa», strega o levatrice secondo un paradigma di cultura tradizionale che conosciamo bene – e che abbiamo visto interpretato dalla donnola «astuta», «strega» e «comare-levatrice» in altre storie che la riguardano 43. In queste

varianti settentrionali del nostro racconto, scozzesi e danesi, è come se i singoli attori che di volta in volta svolgono il ruolo della Liberatrice costituissero altrettante rifrazioni della sua immagine originale: la donnola. Se Billy Blind, come abbiamo visto, realizzava l’identità dell’animale che la voleva animale domestico e genio familiare, la sorella del marito della ballata danese porta invece alla ribalta l’identità della gal , la donnola - sorella del marito; mentre la cunning woman fa emergere l’identità della donnola-astuta, comare e levatrice. Queste regolarità sono davvero impressionanti. La storia ha mutato attori, ma le funzioni profonde tendono a rimanere le stesse. La possibilità di vedere la nostra storia (in un certo senso) dal suo epilogo, ossia a migliaia di anni dalla sua forma piú antica, ci permette di riconoscere con chiarezza quale simbolo potente costituisca questo piccolo animale, la donnola, per pensare il mondo del parto e i rischi che gli sono connessi. Ma le analogie con le versioni piú antiche del racconto di Alcmena non finiscono qui. Esistono infatti varianti danesi della seconda classe in cui la Partoriente, peraltro all’approssimarsi di un finale che è tragico e non lieto, prega tutta la famiglia di «sollevare in alto le mani e di pregare per la sua liberazione», proprio invocando lo stesso gesto augurale che, in Antonino, le Nemiche eseguivano sotto l’effetto del messaggio menzognero 44. In queste versioni danesi, insomma, è come se il racconto di Alcmena riprendesse uno straordinario vigore, e rimettesse in movimento sotto i nostri occhi una serie di tratti che abbiamo visto attivi nel racconto o nella sua forma antica o nelle proiezioni che la complessa figura della Liberatrice – la donnola sorella del marito - strega - astuta - comare – ci aveva permesso di elaborare. Come in un romanzo «le stesse cose ritornano». E come vedremo, continueranno a ripresentarsi con una puntualità davvero sconcertante. La domanda comincia a essere un po’ abusata, e francamente proviamo un certo imbarazzo nel proseguire questo capitolo nella forma di un’inchiesta. Ma proviamo un’ultima volta. Com’era dunque arrivata, Alcmena, in Danimarca? Con molta sicurezza, R. C. Alexander Prior metteva Ovidio all’origine di questa straordinaria fioritura di storie nell’area danese 45. È possibile, naturalmente, né ci sentiamo di escluderlo. Ma certo se, attraverso le preziose note di Child e i contributi degli altri folcloristi dell’Ottocento, allarghiamo ancora lo spettro della comparazione, la possibilità che all’origine di questo fiume di storie ci sia una sola sorgente, e letteraria, si trasforma sempre piú in un miraggio evanescente.

4. Alcmena vagabonda. Il nostro racconto infatti lo incontriamo non solo in Svezia e in Norvegia, sempre in forma di ballata, ma anche in paesi piú distanti dalla Scandinavia. Francis James Child lo riportava come corrente a Vestravia, nei pressi di Strasburgo 46: storia di una concubina abbandonata da un conte che perseguitava nel modo consueto la moglie incinta dell’uomo fedifrago. Questa volta il blocco del parto viene realizzato gettando una brocca nel pozzo del palazzo, ma la liberazione dell’incantesimo avviene sempre tramite l’artificio del messaggio menzognero. Storie ugualmente di questo tipo sono registrate in Romania e Valacchia (con gravidanze che durano fino a vent’anni, stavolta provocate direttamente da mariti offesi) 47, mentre un racconto di folclore ci riporta ancora nella penisola scandinava, in Norvegia: e ambienta il nostro in un mondo favoloso di nani. Adesso si tratta di una donna mortale che è tenuta prigioniera sulle montagne perché deve assistere la moglie del nano, che è in travaglio. La nana non riesce a partorire perché il marito siede sulla seggiola con le mani intrecciate sulle ginocchia – e quando gli uomini siedono cosí, nessun parto può aver luogo. Allora la donna ricorre al solito trucco di gridare «ha partorito!» e il nano, meravigliato, lascia la sua posizione 48. Eccoci riportati allo specifico tipo di Nodi che Lucina e le Moírai avevano utilizzato per bloccare il parto di Alcmena, cioè le mani sulle ginocchia: quel veneficium delle dita intrecciate che abbiamo visto ricorrere di frequente sia nella cultura antica che nel folclore 49. Nell’Ottocento, una storia di questo tipo era poi riportata, come fatto «realmente accaduto», nell’isola scozzese di Arran: la Nemica è sempre un’amante abbandonata, ma i Nodi questa volta hanno assunto la forma di un chiodo piantato nella trave del tetto che la strega, appena ricevuto il messaggio menzognero, estrae tra le imprecazioni 50. Infine ancora nell’Ottocento una folclorista tedesca, Laura Gonzenbach 51, raccolse oralmente in Sicilia tre storie che contenevano anch’esse il racconto di Alcmena: la Nemica, i Nodi, e cosí via. Si tratta di racconti di struttura abbastanza complessa ma che culminano tutti quanti in una sequenza che, ancora una volta, ci riporta alla nostra storia. Eccoli. Nel primo, dal titolo La principessa e il re Chicchereddu,

… una principessa è condannata da una maledizione a viaggiare senza sosta finché non incontri il re Chicchereddu. Dopo aver guarito ben tre principi affetti da mali incurabili, e aver rifiutato ogni volta le nozze che le venivano offerte, la principessa incontra finalmente il re Chicchereddu. Il re si innamora di lei, la sposa e la principessa concepisce un bambino. Ma quando il parto si approssima la crudele madre di Chicchereddu, che è una strega, si siede vicino alla finestra, «si mette le mani fra le ginocchia schiacciandole l’una sull’altra» e lancia questa maledizione: «la principessa non metterà mai al mondo un bambino prima che io abbia abbandonato questa posizione». Cosí sedeva, senza mangiare e senza bere, mentre la povera principessa soffriva pene amare e non riusciva a partorire. Allora il re Chicchereddu chiama un contadino e gli dice: «vai in tutte le chiese della città, offri ricchi doni e ordina a tutti i sagrestani di suonare le campane a morto. Poi vai a metterti sotto la finestra dove siede mia madre. Quando ti chiederà ‘per chi suonano le campane?’ devi dire che il re Chicchereddu è morto. Allora lei, per il dolore, si metterà le mani nei capelli e mia moglie sarà liberata dal sortilegio. Dopo che questo sarà avvenuto va di nuovo in tutte le chiese della città, e ordina ai sagrestani di suonare il Gloria. Poi torna sotto la finestra di mia madre. Quando lei ti chiederà ancora ‘perché le campane suonano a distesa, ora che mio figlio è morto?’ tu le dirai: ‘la moglie di re Chicchereddu ha partorito un figlio’. Il contadino va e fa tutto quello che gli è stato ordinato. Quando la strega sente che suo figlio è morto, si mette le mani nei capelli, per strapparseli. In quello stesso istante la principessa partorisce. E quando la vecchia strega, dopo aver sentito le campane del Gloria, scopre che la principessa ha partorito, sbatte cosí a lungo la testa nel muro che ne muore 52.

Nel secondo racconto, Il re Cardiddu, … la moglie del re è entrata nella stanza in cui non doveva entrare. Per punirla, una strega le affida compiti sempre piú difficili, ma la ragazza è aiutata dal marito. Finalmente i due scappano insieme, ma la strega «mette le mani fra le ginocchia» e scaglia contro la sposa la consueta maledizione: la moglie del re Cardiddu non partorirà finché lei non abbandonerà quella posizione. Il re chiama un servitore fedele, gli ordina di mettere in opera il solito trucco delle campane a morto e delle campane a Gloria, e la vecchia prima solleva le mani per batterle insieme, dalla contentezza che prova nel sapere che il re è morto; poi però, scoperta la ragione del Gloria, si precipita a sbattere la testa contro il muro 53.

Nel terzo racconto, Autumunti e Vaccaredda, lo scenario regale è scomparso. Adesso la storia si svolge nella casa di un gigante e di una gigantessa, entrambi mangiatori di carne umana: Il gigante ha per servitore un giovane, Autumunti, che in realtà è un principe, a cui è molto affezionato: la gigantessa ha per serva una ragazza, Vaccaredda, a cui è ugualmente affezionata. Per questo motivo non li hanno mangiati. I giovani si innamorano e fuggono insieme, ma la gigantessa, che è anche una strega, scaglia la maledizione su Vaccaredda: la ragazza non partorirà finché la gigantessa «non sciolga le mani che ha intrecciato sulla testa». Allora Autumunti chiama un fedele servitore di suo padre e gli ordina di mettere in opera il solito trucco delle campane. Quando la gigantessa sente che Vaccaredda è morta, si toglie le mani dalla testa per battersele sul petto, dal dolore, e cosí la ragazza partorisce. Ma quando il servo le spiega perché le campane suonano il Gloria, la gigantessa muore per la rabbia 54.

Nei primi due racconti i Nodi tramite cui la Nemica blocca il parto si presentano nella loro forma piú antica: mani intrecciate fra le ginocchia, come in Ovidio e in Plinio (ma anche come nel racconto norvegese che abbiamo appena visto). Nel terzo racconto invece le mani sono intrecciate sopra la testa, e il loro brusco scioglimento provoca evidentemente quel movimento di «mani sopra la testa» che abbiamo già incontrato nella versione di Antonino: e che fa rassomigliare la gigantessa a una Moíra beffata, ovvero a una dea della nascita che compie (senza volerlo) il gesto ben augurante che conosciamo. A compiere l’azione della Liberatrice stavolta è direttamente il marito, anche se con l’ausilio di un servo fedele. Questo mutamento di ruoli è molto interessante. Dalle torbide combinazioni della Scozia e della Scandinavia, dove il marito svolge un ruolo passivo, se non addirittura ambiguo, e ha bisogno come minimo dell’aiuto di qualcun altro per risolvere la faccenda, siamo passati a una situazione molto piú lineare e positiva: dove il marito sta dichiaratamente dalla parte della moglie contro la madre, ed è perfettamente in grado di escogitare il trucco del messaggio menzognero senza bisogno di consiglieri e di aiutanti. È come se questi racconti siciliani testimoniassero molta piú fiducia nel marito da parte della moglie, e molta meno angoscia da familial thwarting di tipo scozzese. La fantasia del narratore si è poi sbizzarrita nella realizzazione del messaggio menzognero, che adesso corrisponde a un doppio gioco di

campane. In questo tratto cogliamo specificamente il tono della riscrittura mediterranea e siciliana della nostra storia. La campana infatti svolge qui il ruolo (del resto tradizionale) di segno e di messaggera per eccellenza all’interno della comunità. Il primo scampanio, quello che provoca la Liberazione, è a lutto, e il gesto di «sollevare le mani» è realizzato per compiere il rituale femminile, insieme antico e mediterraneo, di percuotersi il petto o di strapparsi i capelli in occasione della morte di un congiunto 55. La sorpresa delle Moírai ha ceduto cosí il passo alla lamentazione funebre, ma il risultato non cambia. Il secondo scampanio, quello del Gloria, è invece di gioia, e certo non sarà sfuggito il fatto che la voce della campana dà veste cristiana all’antico segnale sonoro della nascita, la ololug delle donne greche e in particolare quella di Historís. Ma oltre che molto siciliani, gli scenari sono anche estremamente fantastici. La Partoriente è entrata in un mondo di re, regine, giganti e gigantesse, e prima di affrontare la prova suprema del parto bloccato deve superare sventure e avventure degne di Psiche (i compiti interminabili, la maledizione del vagabondaggio). Però i tratti della sua storia non sono mutati. Difficile dire se queste varianti siciliane del racconto debbano di piú alle sue origini classiche o alla straordinaria fortuna che la storia di Alcmena ha avuto nel Nord Europa. Che i Normanni abbiano portato con sé in Sicilia anche la tradizione dei loro racconti, è molto probabile 56. E abbiamo appena visto che in Norvegia circolava una variante del racconto in cui il blocco della Partoriente era realizzato proprio attraverso l’espediente delle mani intrecciate sulle ginocchia. La scelta, insomma, è nientemeno che fra la Grecia antica e il folclore scandinavo.

5. I pensieri di Alcmena. Dunque è come se la geografia del racconto di Alcmena fosse impazzita, disperdendosi nei paesi piú disparati. Alcmena è diventata una vagabonda, dalla Scozia alla Danimarca alla Romania alla Sicilia, e cosí di seguito, con una rapida visita persino in North Carolina. Eppure la sua storia continua a mantenere una fedeltà davvero impressionante verso i tratti piú antichi e piú tradizionali. La Partoriente è spesso perseguitata da una donna gelosa, la Liberatrice è una «persona di casa» dai poteri soprannaturali (come la donnola domestica e genio di casa), ovvero una sorella del marito, una

cunning woman: mentre al momento della liberazione le mani continuano a sollevarsi, come la volta in cui le Moírai furono beffate dalla ragazza Galanthis. «Le stesse cose ritornano». Solo che non sappiamo piú che domande porci. L’inchiesta si conclude con un non liquet, è impossibile trovare un’unica fonte, ovvero un unico responsabile, per questa fioritura di varianti. Quando ci si trova a dover scegliere fra la Grecia e la Scandinavia, per identificare la cosiddetta origine di un racconto, si capisce che è meglio rinunziare. Ma francamente non ci sentiamo delusi da questa conclusione. La storia di Alcmena salvata dalla donnola ci appare infatti come un racconto dotato di un vigore talmente eccezionale che chiedersi soltanto se tutto ciò viene da una fonte letteraria, oppure no, ci sembra non solo inutile ma addirittura dannoso. È una domanda banale, troppo semplice, che guasta la bellezza e l’importanza di ciò che stiamo leggendo. Debbono pur esserci delle domande piú interessanti da porsi. Oltretutto le risposte che potremmo dare a questo tipo di interrogativo – qual è la fonte antica di queste storie? – non potrebbero mai essere sufficienti. Sarà bene per esempio ricordare che il motivo delle «mani sopra la testa», che abbiamo già incontrato in Danimarca e ora ritroviamo in Sicilia, non sta in Ovidio, ma solo in Antonino Liberale. Dovremmo forse concludere che i poeti danesi di ballate, e i contadini siciliani intervistati da Gonzenbach, avessero ampliato lo spettro delle loro fonti letterarie aggiungendo Antonino alla memoria di Ovidio? La strada è chiaramente sbagliata. Non resta che smettere di farsi domande e cominciare a pensare la cosa piú ovvia. Cioè che il racconto di Alcmena salvata dalla donnola è per l’appunto quel che è, un racconto. Il quale, come tutti i racconti, è stato a lungo «raccontato», in forma scritta e in forma orale. E anzi, è ben possibile che in molti casi esso sia stato ricreato inconsapevolmente nella mente dei narratori, per un fenomeno di «convergenza» narrativa fra racconti indipendenti fin troppo comune nella tradizione narrativa orale 57. Le due tradizioni, quella scritta e quella orale, in tutte le loro ramificazioni e convergenze, si saranno certo incontrate molte volte lungo la via (quasi tremila anni, da Omero a Margaret Burke, sono davvero tanti) ma la presunzione della nostra cultura – irrimediabilmente scritta, inevitabilmente portata a proiettare ovunque la potenza e la superiorirità dei caratteri dell’alfabeto – non deve arrivare al punto di voler attribuire a qualsiasi racconto una natura o un’origine ugualmente scritte. Dietro la fortuna della

nostra storia non può stare qualcosa che è, inevitabilmente, una piccola cosa, cioè l’autorità di uno scrittore, chiunque egli sia. Altri sono i motivi che hanno fatto della storia di Alcmena un racconto di successo e di grandissima diffusione. Questa è una grande storia perché si collega a un momento della vita delle persone – delle donne – che è altrettanto grande: la nascita di un bambino, il parto. Le storie sono prima di tutto di vita, poi di narrazione. La solennità di questo momento nella vita delle donne, e la paura che il parto non avesse luogo, trovavano nella storia della Nemica e dei Nodi una proiezione di grande potenza: cosí come trovavano nella figura della Liberatrice – donnola - ministra - sorella del marito - levatrice o cunning woman – un personaggio di speranza e di sollievo. La nostra storia ha avuto tanta fortuna perché è una storia molto umana. E i racconti, o i frammenti di racconto (nodi, mani intrecciate, mani sollevate…) si conservano tenacemente nella memoria e nella tradizione narrativa quando si agganciano a un insieme di sentimenti di carattere altrettanto permanente: capaci cioè di ripresentarsi stabilmente all’interno di qualsiasi comunità, una generazione dopo l’altra. In una cultura di tipo tradizionale, sia essa la cultura antica o quella scozzese o quella danese, il periodo della gravidanza e della nascita di un bambino (momenti oggettivi di crisi e di difficoltà) suscita attorno a sé ogni genere di attese, di paure e di conflitti. Specie quando la donna vive questa esperienza in un ambiente che non è quello in cui è stata allevata ma quello in cui è stata introdotta dal matrimonio. Questo insieme di sentimenti lo ritroviamo «dentro» il racconto di Alcmena, nelle varie forme che ha assunto: conflitti con il marito o padre del bambino, con il suo passato sconosciuto, con la sua famiglia (la suocera-strega); paura della stregoneria o dei demoni che – come la terribile «Armena» delle partorienti bizantine o macedoni – si impossessano del corpo della partoriente e la torturano fino alla morte 58; e insieme speranza che nella casa in cui la donna vive ci sia qualcuno – la cognata, un folletto servizievole, un’amica, una levatrice… – che la possano aiutare a superare questo terribile momento di crisi. I personaggi che ruotano attorno alla partoriente, come abbiamo visto, si ripresentano a turno piú o meno sempre gli stessi: rivali gelose, suocere-streghe da un lato, cognate, esseri soprannaturali o cunning women dall’altro (ovvero «donnole» a un tempo cognate, streghe o astute comari). Questa ciclica fissità – «le stesse cose ritornano», come abbiamo detto – si spiegherà certo in base al fatto che

nel corso dei secoli le varie versioni del racconto si sono incontrate e combinate fra loro: ma ancor piú bisognerà tenere conto del fatto che questo era anche «oggettivamente» l’orizzonte sociale e culturale della partoriente, che «cognate» e cunning women saranno state davvero al suo capezzale per aiutarla; mentre il gesto delle «mani alzate» faceva parte dei comportamenti bene auguranti alla nascita tanto quanto quello delle mani intrecciate (cosí come ogni altro tipo di nodo) era ritenuto portatore di malefici. Ancora una volta, dobbiamo cercare di allargare la nostra idea di «racconto» e attribuire a questa parola il significato di una costruzione culturale che va molto al di là di un semplice intreccio e di una struttura narrativa. Dentro un «racconto» come il nostro ci sono non solo intrecci e storie, ma anche ruoli familiari, comportamenti codificati, paure e speranze. Proviamo a usare questa formula: non piú «il racconto di Alcmena» ma piuttosto «i pensieri di Alcmena». Se la prendiamo da questo punto di vista, la storia di Alcmena non contiene piú in sé solo la Liberatrice, i Nodi e cosí via, ma tanti altri frammenti di storie o storie simili o fatti che si pretendono reali, di cui la tradizione ci ha serbato memoria. Un pulviscolo di costumi e di racconti di cui la storia di Alcmena costituisce una coagulazione estremamente fortunata (e, come tale, degna talora di essere ritenuta «vera») 59 ma che possono presentarsi anche in modo indipendente o parziale nel corso della tradizione. Le iscrizioni relative al culto di Asclepio, a Epidauro, ci hanno tramandato la storia di due gravidanze prolungate, per tre e cinque anni, fortunatamente risolte per l’intervento del dio 60. Cosí come già Apuleio raccontava la storia della strega che incantò il ventre della moglie del suo innamorato perché questa aveva osato prenderla in giro: e ora la poveretta era incinta già da dieci anni, «come se fosse un elefante» 61. Allo stesso modo O’Donovan aveva registrato, in Irlanda, il caso di Conchobar Anabaid, ovvero Conor l’Abortivo, detto cosí perché trattenuto nel grembo di sua madre per due anni tramite sortilegio (anche se il suo cognomen avrebbe dovuto indicare se mai il contrario) 62. Come dobbiamo considerare storie di questo tipo? Frammenti dispersi della storia di Alcmena, ovvero «credenze» e «superstizioni» indipendenti da essa? Niente di tutto questo: si tratta verisimilmente di altri prodotti e di altre proiezioni di quello stesso nucleo psicologico e sociale che sopra abbiamo cercato di descrivere: la paura del parto, il conflitto nella casa del marito, il terrore della stregoneria, i rituali della nascita. Anche questi frammenti sono parte dei «pensieri di Alcmena». La stessa cosa possiamo

dire per una storia del folclore tedesco dell’Oberpfalz in cui le note del nostro racconto risuonano in forma molto allontanata, eppure, nello stesso tempo, molto vicina: Una contadina, ormai prossima al parto, stava attraversando un momento molto difficile del travaglio. Ma ecco che uno studente, il quale si trovava per caso alla masseria, chiede il permesso di dare un’occhiata nella stanza: entrato, vede un ragno che sta proprio sopra la partoriente. Su consiglio dello studente il marito della donna toglie il ragno da dove sta, però nel farlo gli spezza la zampa destra. Il parto avviene, ma piú tardi, a casa, lo studente trova sua madre senza una mano 63. A questo punto lo studente scopre che il bambino appena nato dalla moglie del contadino era in realtà il settimo, e che gli altri erano tutti morti perché la levatrice si era accordata con sua madre, una strega, perché fossero battezzati nel nome del diavolo. Lo studente fa battezzare il piccolo da un santo prete e anzi gli fa da padrino 64.

La vicinanza di questa storia a quella di Alcmena è solo parziale. C’è un parto bloccato, ma non c’è messaggio menzognero o inganno: incontriamo solo una persona che «capisce» (lo studente ha cultura) e identifica nel ragno la causa del blocco. Forse si potrebbe avvicinare ancor piú questo racconto al nostro ipotizzando che il ragno operi il suo maleficio attraverso la «rete» che intesse – un insieme di nodi – anche se di questo nel racconto non si parla. Ma non importa, la vera vicinanza di questa storia tedesca al racconto di Alcmena sta piuttosto nel fatto che la partoriente si sente ancora una volta minacciata, tradita, da forze che non è in grado di controllare. Stavolta è la levatrice stessa che la inganna (eppure dovrebbe essere la sua salvatrice), la quale è d’accordo con la strega: proprio come le dee levatrici di Alcmena (Lucina o Moírai) erano in realtà le Nemiche della partoriente. Anche questa storia fa parte dei «pensieri di Alcmena», delle sue paure che chi le sta d’intorno per aiutarla voglia in realtà la sua rovina e la morte del bambino che porta. Siamo sempre piú convinti del fatto che il racconto di Alcmena non è semplicemente quello che ci danno le fonti antiche o ci testimoniano le sue reincarnazioni moderne. È qualcosa di piú, è un racconto vissuto, una storia psicologica e sociale oltre che narrativa. In questo sta la ragione della regolarità dei tratti morfologici con cui si presenta, e della sua straordinaria fortuna nella cultura dei secoli precedenti. E ancora in questo, crediamo, starà anche la ragione della sua scarsa

presenza, o addirittura della sua scomparsa, all’orizzonte della nostra cultura. Oggi il parto viene vissuto in modo molto diverso rispetto al passato, e Alcmena, fortunatamente, ha pensieri diversi. Come dicevamo all’inizio, forse non ne esiste davvero piú nessuna, di Alcmene timorose della magia del parto, e questo libro costituisce semplicemente l’epilogo di una storia millenaria. Ma questo non ci dispiace. Il racconto è bello, e seguirne le vicende fin qui ha costituito per noi un compito appassionante: però tornare a viverlo, ristabilire la storia psicologica e sociale di Alcmena in un modo diverso da un libro o da un’interpretazione, non ci piacerebbe davvero. Di Alcmena amiamo il suo racconto, cosí come amiamo ascoltare le note della «Follia di Spagna» nelle sue infinite variazioni. Ma abbiamo paura dei suoi pensieri.

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1963 Léxikon Historikòn kaì Laographikòn Zakýntou, Ek toû ethnikoû typographeíou, Athens.

Elenco delle fonti citate

Achille Tazio, Introductio in Aratum Agostino: – De civitate Dei; – De doctrina christiana Alcifrone, Epistulae agricolarum Ammiano Marcellino, Rerum gestarum libri Anonymi medici libellus Anthologia Latina Anthologia Palatina Antonino Liberale, Metamorphoses Apollodoro, Bibliotheca Apollonio Rodio, Argonautica Apuleio, Metamorphoses Aristofane: – Acharnenses; – Aves; – Ecclesiazusae; – Lysistrata; – Pax; – Plutus; – Ranae; – Thesmophoriazusae; – Vespae Aristotele: – De generatione animalium; – De mirabilibus auscultationibus; – Historia animalium; – Problemata Arnobio, Adversus nationes Arriano, Anabasis Artemidoro, Oneirocritica Atenagora, Legatio pro Christianis Ateneo, Deipnosophistae Basilio di Cesarea, Hexameron Bestiario Vaticano Brunetto Latini, Li Livres dou tresor Callimaco: – In Delum;

– In Cererem Camden, Britannia Camerarius il Giovane, De sexu Plantarum Cassiano, Geoponica Catullo, Carmina Celso, De medicina Censorino, De die natali Chaucer, Canterbury Tales. The Miller’s Tale Cicerone: – De divinatione; – Pro Cluentio Clemente Alessandrino, Protrepticus ad Hellenos Columella: – De agricultura; – De re rustica Corpus Hippocraticum Corpus inscriptionum latinarum ad-Damiri, Kitāb Ḥayāt al-ḥayawān (La vita degli animali) Digesta (o Pandectae) Diodoro Siculo, Bibliotheca historica Diogene Laerzio, Vitae Philosophorum Dione Cassio Cocceiano, Historia romana Dione Crisostomo, Orationes Edictum perpetuum Eliano: – De natura animalium; – Varia historia Eratostene, Catasterismi Erodoto, Historiae Eschilo: – Agamemnon; – Choephorae; – Eumenides; – Supplices Esiodo: – Theogonia; – Opera et dies Euripide: – Andromache; – Hecuba; – Hippolytus; – Iphigenia Taurica; – Medea; – Rhesus Evangelium secundum Lucam Evangelium secundum Marcum

Evangelium secundum Matthaeum Fedro, Fabulae Fisiologo (Physiologus) Frontino, Stratagemata Gellio, Noctes Atticae Giamblico, De vita Pythagorica Giovenale, Saturae Girolamo, Epistulae Giulio Valerio, Res Gestae Alexandri Macedonis Giustino, Historia Philippica Goffredo di Monmouth, Historiae Regum Britanniae Gregorio di Tours, Historia Francorum Guillaume Le Clerc de Normandie, Le bestiaire divin Igino: – Astronomica; – Fabulae Inno omerico: – In Aphroditem; – In Apollinem Inscriptiones Graecae Kalevala Lattanzio, Divinae institutiones Les blasme des fames Lettera dello pseudo-Barnaba Lettera di Aristea a Filocrate LeviticusLivio, Ab urbe condita Longo Sofista, Daphnis et Chloe Lucano, Pharsalia Luciano: – Dialogi mortuorum; – Philopseudes; – Piscator; – Timon Macrobio, Saturnalia Madame d’Aulnoy, La chatte Blanche Marziale, Epigrammata Marziano Capella, De nuptiis Philologiae et Mercurii Nemesiano, Eclogae Omero: – Batrachomiomachia; – Ilias;

– Odysseia Oppiano, Cynegetica Orazio: – Ars poetica; – Carmina; – Epistulae; – Epodon liber; – Saturae Origene, Contra Celsum Ovidio: – Amores; – Ars amatoria; – Fasti; – Heroides; – Metamorphoses; – Tristia Palladio, Opus agriculturae Panchatantra (Libro di istruzione) Pausania, Graeciae descriptio Petronio, Satyricon: – Cena di Trimalchione Pindaro: – Nemea; – Olympia; – Paeanes; – Pythia Platone: – Charmides; – Respublica; – Theaetetus Plauto: – Amphitruo; – Asinaria; – Cistellaria; – Curculio; – Mercator; – Miles gloriosus; – Pseudolus; – Stichus; – Truculentus Plinio, Naturalis historia Plotino, Enneades Plutarco: – Alexander; – Amatorius; – De amore prolis; – De curiositate;

– De facie lunae; – De fortuna Romanorum; – De garrulitate; – De Iside et Osiride; – De mulierum virtutibus; – De sollertia animalium; – De superstitione; – De vitioso pudore; – Gryllus sive Bruta animalia ratione uti; – Lacaenarum apophthegmata; – Lycurgus; – Pericles; – Quaestiones naturales; – Quaestiones Romanae; – Romulus; – Theseus; – Tiberius et Caius Gracchus Porfirio, Vita Pythagorica Priapea Prisciani codex Sancti Galli Prisciano, Euporiston Properzio, Elegiae Pseudo-Esiodo, Aspis Semonide, Giambo sulle donne (o Frammento) Seneca: – Consolatio ad Helviam; – Consolatio ad Marciam; – De beneficiis; – Epistulae ad Lucilium; – Naturales quaestiones Servius Auctus: – ad Aeneidem; – ad Eclogas; – ad Georgica Sexti Placiti Papyriensis de medicina ex animalibus liber Solino, Collectanea Sorano, Gynaecia Strabone, Geographica Svetonio: – Augustus; – Divus Iulius; – Tiberius; – Vespasianus Teocrito, Idyllia Teofrasto, Characteres Terenzio, Eunuchus

Tertulliano: – Ad nationes; – Apologeticus; – De anima Thesaurus Linguae Latinae Tibullo, Carmina Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium Varrone: – De lingua Latina; – De re rustica; – Menippeae Virgilio: – Aeneis; – Georgica Vita sancti Lasriani seu Molaissi

Elenco degli argomenti

aborto adsestrix, vedi levatrice adulterio affordance afonia afrodisiaco aironi Albania Alcmena: – in Danimarca; – in North Carolina; – in Scozia; – in Sicilia allegoria Amphidrómia, festa greca anasúromai androgino animali (credenza sugli –) annunciazione: – Gabriele ape Arran, isola astrologia astuzia: – della donnola; – della levatrice; – kerd – m tis avvoltoio ballata basilisco battesimo bestiari birth attendants bisessualità Braurónia, festa attica Bulgaria cadaveri

camaleonte cane capellicardellino (akalanthís) cassowary (animale mitico) castoro cavallo cervo chiave chiocciola cigno Cina Cirene civetta coccodrillo cognata/«sorella del marito» (gál s): – glores colomba comare concezione: – anticoncezionali; – attraverso il soffio/vento; – dalla bocca; – dall’orecchio conciliatrix, vedi saga coniglio cordone ombelicale cortigiane, vedi prostitute corvo cosmesi couvade cunning woman dado Danimarca data di nascita Delo demoni, Vedi anche magia analogica destino destra/sinistra dies natalis, vedi data di nascita divieto alimentare divinazione doglie donna: – genitali; – impurità della –; – tubo;

– utero. Vedi anche concezione; parto donnola: – astuta, ; – dissoluta; – Freula willa o Swil-vraüle (ragazza selvaggia); – gal – genio domestico; – grido della –; – hilaría (allegra); – mustela (o mustela nivalis); – mustela erminea (o stoat); – mustela marina; – nei buchi; – nome della –; – nuphítsa; – piccoli della –; – strega; – succhia il sangue Vedi anche cognata; comare doppio drindrare Egitto Eileithyíaion (tempio di Delo) einatéres enciclopedia culturale epos animalesco ermafrodito eroe, vedi nascita dell’eroe etere, vedi prostitute fenice filatura, vedi nodi Finlandia foca «Follia di Spagna» Francia Ftia, regione storica greca furetti (viverrae) gal , vedi donnola gallina gallo gál s, vedi cognata gambe accavallate gatto geco gelosia gemelli, vedi doppio

Germania ghiro Giappone ginocchia giullare gnostici Grecia moderna grido iatrós (dottore) ibis ibridi icneumone idra di Lerna iena incubi India Inghilterra Irlanda Isole dei beati jongleuresse kolossós krig (verso emesso dai morti) latte lepre levatrice: – adsestrix; – anziana; – astuta; – impurità della –; – maîa; – obstetrix; – strega Lex Aquilia de damno iniuria dato Lex Cornelia Sullae de sicariis et veneficis lithotomia (taglio attraverso cui è possibile asportare un calcolo) lógos lontra lucertola lupo Macedonia magia analogica: – carmina magici; – incantesimi;

– medicina; – veneficia; – verba puerpera (parole della puerpera) maîa, vedi levatrice mangones (mercanti di schiavi) mangusta mani: – alzate; – intrecciate marsupio martora Mastro Ata, mito indio matrigna Menelaíon, tempio di Sparta menopausa messaggio menzognero mestruo metafora m tis mezzana (lena), vedi saga Milham, uccello mitologico ministra Mondo: – Antico; – Nuovo; – Vecchio mostri mula mustela, vedi donnola nascita dell’eroe nodi (cingillum): – nel corpo della donna; – nel parto. Vedi anche parto Norvegia nuphítsa, vedi donnola nutrice (trophós) Oberpfalz (Alto Palatinato) obstetrix, vedi levatrice dínes (doglie) ólisbos (pene aggiuntivo) ololug (grido femminile) omosessualità opossum: – sariga orecchio, vedi concezione; parto Ortheía, tempio di Messene

panda pannicolo parentela: – animale; – spirituale paria (dalit) parola divina parrucchiera parto: – accelerato; – bloccato; – cesareo; – dalla bocca; – dall’orecchio; – impurità del –; – maschile; – ritardato. Vedi anche concezione; donna; nodi partoriente paternità pernice Persia pesci pet: – household –; – name phármaka pharmakís (strega) piacula (sortilegi) pipistrello Pleiadi (Vergiliae), costellazione prostitute proverbi: – a bit of a stoat (un corteggiatore particolarmente insistente); – bécole (donnola: «donna intrigante e insinuante»); – crier comme une belette en couches; – Damoiselle belette, au corps long et fluet; – «dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei»; – «donnola di Tartesso» (furetto, per «i malvagi e gli svergognati»); – don’t weasel out of that (non sgusciare fuori da qui come una donnola); – eifersüchtig wie ein Wiesel (geloso come una donnola); – fine comme une belette (donna astuta); – «hai la donnola» (gal n écheis, hai sfortuna); – «ha inghiottito una donnola» (gal n katepep kei, ha perso la voce); – «il buon Dio è nel particolare»; – «l’abito nuziale non si addice alla donnola»; – lupus in fabula; – «mettiti nei miei panni» (in meinen Schuhen, mettiti nelle mie scarpe); – mourir du mal de la furette (morire di mal d’amore);

– «non c’era neanche un gatto»; – ou prépei galêi krok tón (alla donnola non si addice il krok tós, l’abito da sposa); – «sei curioso come una donnola»; – «sei nato il del mese!»; – sucatu di la baddottula (succhiato dalle streghe), ; – «uovo malvagio di corvo malvagio» puledro Purgatorio puzzola ragno rana renard riccio risata Romania rospo Rumelia, storica regione balcanica saga: – conciliatrix; – mezzana (lena); – pronuba sage-femme Sardegna scarabeo scarpe scimpanzé Senegal serpente: – amphisbaena; – aspide; – verme; – vipera sessualità Sfinge Sicilia sorbo rosso «sorella del marito», vedi cognata. sostituzione dei figli Spagna stoat, vedi donnola Strasburgo. strega, vedi donnola; levatrice; pharmakís striges, mitico uccello notturno struzzo suocera Svezia

taboo talpa Tamil Nadu, stato dell’India tecnonimia Tessaglia topo totemismo tribade triplicazione trophós, vedi nutrice utero, vedi donna verginità vergogna vezzeggiamento viverrae, vedi furetti volpe wise woman Zacinto, isola zibellino

Elenco dei nomi e dei personaggi

Nota. I nomi dei personaggi mitologici greci e delle figure piú note non sono stati segnalati perché di facile intuizione. Abbott, George Frederick Abramo, patriarca biblico Acetes Achille Achille Tazio Acrisio Acrone, Elenio Admeto, marito di Alcesti Adone Adrasto, re mitologico Aedus, santo Afranio, Lucio Afrodite, dea dell’amore Agamede Agamennone Agatia di Mirina, detto Scolastico, poeta e storico bizantino Agnodice, prima donna medico dell’antica Grecia Agostino, Aurelio, vescovo di Ippona Ainu, popolo Akalanthís, donna-donnola Alberto Magno, vescovo e filosofo tedesco Alceo Alcesti Alciati, Andrea Alcifrone, scrittore greco Alcmena Alcmeone Aldhelmus (Aldelmo di Malmesbury) Alemona, divinità italica Alessandro III, detto Magno, re di Macedonia Alinei, Mario Alunno, Niccolò di Liberatore, detto Ameis, Karl Friedrich Ammiano Marcellino Ammone, divinità egizia Amorgino, vedi Semonide Anassagora, filosofo presocratico An Damh, personaggio mitologico irlandese

Andrea, cuoco, personaggio letterario Andrea di Giovanni da Orvieto Andromaca Andromeda Anfitrione Aníketos, personaggio letterario Anna, madre di Maria Antifane, poeta greco Antigono di Caristo Antonino Liberale Apollo, dio del sole e di tutte le arti Apollodoro Apollodoro di Caristo Apollonio Rodio Apostolio, Michele Apuleio, Lucio Arachnos Archelao Archiloco Ares, dio della guerra Arianna Aristarco di Samotracia Aristea, inviato del re d’Egitto Aristide di Locri Aristofane Aristone, padre di Platone Aristotele Armena, demone Arnobio di Sicca Arriano, Flavio Artassare-Ardeshir, capostipite dei Sassanidi Artemide, dea greca della caccia: – akalanthís; – Kallíste; – Katagogís; – Lochia, protettrice del parto; – Lusíz nos Artemidoro di Daldi Artú, leggendario sovrano della Britannia Asclepio Assa, vedi Ness Astyanassa, mitica schiava greca Ate, dea della colpa e della vendetta Atena, dea della sapienza: – Zosteria Atenagora, filosofo ateniese Ateneo di Neucrati Audubon, John James

Auge, sacerdotessa di Atena Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano, imperatore romano Aulnoy, Marie-Catherine Le Jumel de Barneville, contessa d’ Autumunti, personaggio letterario Auxesia, dea greca della fertilità Averroè (Abū al-Walīd Muḥammad ibn Aḥmad ibn Rushd) Babrio, favolista romano Bacco, vedi Dioniso Bächtold-Stäubli, Hanns al-Baghdādī, Muwaffaq al-Dīn Muḥammad ‘Abd al-Laṭīf ibn Yūsuf Balzac, Honoré de Barbier de Montault, Xavier Basilio di Cesarea, detto il Grande Baubò, mitica moglie di Disaule Beda il Venerabile, monaco e storico inglese Belardinelli, Anna Maria Bellemère, Gilles de Bellerofonte (o Ipponoo) Berger, John Peter Bergson, Henri-Louis Billy Blind, personaggio letterario Bione di Boristene Bitone, figlio della sacerdotessa Cidippe Boccaccio, Giovanni Boll, Franz Bolo di Mende, alchimista e filosofo greco Bona Dea, antica divinità laziale Bonaventura da Bagnoregio (Giovanni Fidanza), santo Borthwick, Edward Kerr Böttiger, Karl August Brahmā, divinità indiana Buddha (Siddhārtha Gautama) Buffon, Georges-Louis Leclerc, conte di Burke, Margaret Caco, mostro mitologico Calabi, Francesca Callimaco Calvia, Giuseppe Camden, William Camerarius, Joachim, detto il Giovane Camilla, personaggio virgiliano Canidia, strega oraziana Cardiddu, personaggio letterario Carmentes, divinità romane Carmichael, Alexander Archibald Carna, vedi Crane

Carradora, strega ovidiana Castore Castricio, Tito Caterina, contessa di Forlí, vedi Sforza Riario, Caterina Cathbad, personaggio mitologico irlandese Cathfaidh, personaggio mitologico irlandese Catilina, Lucio Sergio Catullo, Gaio Valerio Celio Aureliano Celso, Aulo Cornelio Celso, filosofo greco Censorino, grammatico romano Cerda, Juan Luis de la Cesare, Gaio Giulio Chantraine, Pierre Charbonneau-Lassay, Louis Chaucer, Geoffrey Chesterton, Gilbert Keith Chicchereddu, personaggio letterario Child, Francis James Cicerone, Marco Tullio Cinara, personaggio letterario Cirillo di Alessandria, patriarca di Alessandria Cirillo, vescovo di Gerusalemme Clemente Alessandrino (Tito Flavio Clemente) Cleobi, figlio della sacerdotessa Cidippe Clitennestra Clothó, una delle tre Moírai Columella, Lucio Giunio Moderato Conall Cernach, divinità celtica Conchobar, detto Conor l’Abortivo, eroe mitologico irlandese Cornelia, madre dei Gracchi Cornuto, Lucio Anneo Corrado di Würzburg Crane (o Carna), personaggio ovidiano Cratino, commediografo greco Crisaore, mostro mitologico Crono, titano padre di Zeus Crusius, Otto CúChulainn, eroe mitologico irlandese Damia, dea greca della fertilità ad-Damiri, Kamāl ad-Dīn Muhammad ibn Mūsà ibn ‘Isà Danae David, re d’Israele Degani, Enzo Deichtire, personaggio mitologico irlandese Deirdre, personaggio mitologico irlandese

Delargy, Hugh James Deleuze, Gilles Demetra, dea delle messi Demetrio Falereo Demostene Dhul-Karnain, vedi Alessandro III Didone, personaggio virgiliano Diehl, E. Dilling, Walter J. Diodoro Siculo Diogene Laerzio Diogeniano Dione Cassio Cocceiano Dione Crisostomo Dionisio, Elio Dioniso, dio del vino e della vendemmia Dioscoride, Pedanio Disney, Walter Elias Dodds, Eric R. Donato, Elio Douglas, Mary (Margaret Mary Tew) Drabble, P. Dubh-Lacha, sposa di Mongan Ecate, dea trivia: – Artemide Ecate Vedi anche Artemide Kallíste Eco, Umberto Edipo Efesto, dio del fuoco Efrem il Siro Egeo Eileíthyia, dea della nascita Eileíthyiai, divinità della nascita Eilioneia, vedi Eileíthyia Eleazar, personaggio biblico Elefantide, levatrice romana Elena di Troia (o Elena di Sparta) Elettra Elettrione Eliano, Claudio Emain, personaggio mitologico irlandese Empedocle, filosofo e politico di Akragas Émpousa, demone mitologico greco Enea Ennio, Quinto Ennodio, Magno Felice, vescovo Eogan, personaggio mitologico irlandese Eos, personificazione dell’aurora

Epignomo, personaggio plautino Er, personaggio platonico Era/Giunone, dea del matrimonio: – Giunone Lucina; – Iuno Cinxia; – Iuno pronuba Eracle Eraclidi, discendenti di Eracle Eraide, personaggio letterario Erasmo da Rotterdam (Desiderius Erasmus Roterodamus) Eratostene Erbse, Hartmut Ercole, vedi Eracle Erisittone Ermes, dio messaggero degli dèi Erode, detto il Grande, re di Giudea Erodoto Erofilo Eschilo Esichio di Alessandria Esiodo Esopo Étain, mitica eroina irlandese Étar, personaggio mitologico irlandese Ettore Euriclea Euripide Euristeo Eustazio di Tessalonica Eva, personaggio biblico Fachtna Fathach, padre di Conchobar Fainarete, madre di Socrate Fanostrate Fanouel, personaggio letterario Farnell, Lewis Richard Farquherson, Anna Forbes Fauré, Aude Federico II di Hohenstaufen, imperatore Fedro Ferecide Festo, Sesto Pompeo Fiachna Broad-crown, eroe mitologico irlandese Fiachna il Bello, personaggio mitologico irlandese Fiachna il Nero, personaggio mitologico irlandese Filippo II, re di Macedonia Filocoro di Atene Filostefano di Cirene

Fisiologo, personaggio letterario Finn, eroe mitologico irlandese Flavio Giuseppe (Yosef ben Matityahu), storico romano Florian, Jean-Pierre Claris de Fluvonia, divinità romana Folia, strega oraziana Forbes, famiglia Forbes, Anna, vedi Farquherson, Anna Forbes Forbes, Lillian Ford, Clellan Stearns Fozio Francesco d’Assisi Frazer, James George Fronesio, personaggio plautino Frontino, Sesto Giulio Fulgenzio, Fabio Planciade Füssli, Johann Heinrich Gabriele, arcangelo Galanthis, donna-donnola Galeno Galinthiás, donna-donnola Gallerani, Cecilia Gargantua, personaggio letterario Garzoni, Tomaso (Ottaviano) Gaudenzio di Brescia, vescovo Gelasimo, personaggio plautino Gellio, Aulo Gellò, fantasma mitologico greco Genetyllís, dea greca della nascita Genita Mana, dea romana della nascita Gesú Cristo Geyer, Fritz Giacobbe, patriarca biblico Giamblico di Calcide, filosofo Gibson, James J. Gilgamesh, leggendario eroe sumero Gioacchino, padre di Maria Giocasta Giosia, biblico re di Giuda Giovanni Crisostomo, arcivescovo e teologo Giovanni da Capua Giove, vedi Zeus Giovenale, Decimo Giunio Girolamo, Sofronio Eusebio, teologo Giulio Valerio Giunone, vedi Era Giustino, Marco Giuniano

Glicerio, personaggio letterario Goffredo da Viterbo Goffredo di Monmouth Gol’denvejzer, Aleksandr Borisovič Gonzenbach, Laura Gordon, Anna, detta Mrs. Brown of Folkland Gordon, Thomas Gorlois, mitico duca di Cornovaglia Gossen, H. Gracchi, fratelli Gracco, Gaio Sempronio Gracco, Tiberio Sempronio Gracco, Tiberio Sempronio, padre dei Gracchi Grandville, Jean-Jacques (pseudonimo di Jean Ignace Isidore Gérard) Graves, Robert Gray, L. H. Greci, popolo Greenewalt, Crawford Hallock Gregorio di Corinto Gregorio di Tours Greig, Gavin Grimm, Jacob Ludwig Karl Gros, Rita M. Grose, Francis Grove Frazer, Lily Gua, scimpanzé Gualtiero di Orlèans Guattari, Pierre-Félix Guglielmo di Rennes Guidone, personaggio letterario Guillaume Le Clerc de Normandie Hagnodice, vedi Agnodice Hahn, Emily Haly Abbas (‘Alī ibn ‘Abbās al-Majūsī) Handoo, Jawaharlal Hanson, Ann Ellis Hartland, Edwin Sidney Hassing, Debra Hediste, donna greca Hegelochos (Egeloco), attore tragico greco Hentze, Carl Héritier, Françoise Hesse, Hermann Historís, figlia di Tiresia Hopi, popolo Huldah, personaggio biblico Huzul, popolo

Ificle, gemello di Eracle Igino, detto l’Astronomo Illiri, popolo Ingerlin, personaggio letterario Institor (Krämer), Heinrich Iole, nuora di Alcmena Iporborei, popolo Ippocrate Ipponatte Ireneo di Lione, vescovo e teologo Iride, messaggera degli dèi Iris, vedi Iride Isabella Plantageneta, regina di Sicilia e imperatrice Iside, divinità egizia Isidoro di Siviglia Isillo di Epidauro Istro, detto il Callimacheo Jacoby, Felix Jamieson, Robert Jungwirth, R. Kaimakis, Dimitris Kalé, figlia di Alessandro e Unna Karam, popolo Kelloggs, coniugi Kelloggs, Donald Kerényi, Károly al-Khidr (o al-Khadir), personaggio del Corano King, Carolyn (Kim) Kujamat Diola, popolo Kutenai, popolo Labeone, Marco Antistio Láchesis, una delle tre Moírai La Fontaine, Jean de Laide, levatrice romana Laio Laistner, Ludwig Lámia, demone mitologico greco Laodice Laqueur, Thomas Walter Lasrianus (Laisrén mac Nad Froích), santo Latini, vedi Romani Latini, Brunetto Latona, divinità madre di Apollo e Artemide Lattanzio, Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio Placido

Laudice Leach, Edmund Ronald Leda Leonardo da Vinci Leone Arciprete Leopardi, Giacomo Lesbia (Clodia Pulcra) Lessing, Gotthold Ephraïm Lévi-Strauss, Claude Libanio Licasto Licenio, personaggio letterario Livio, Tito Lleu, personaggio mitologico irlandese Lloyd, Geoffrey Ernest Richard Lochéia, vedi Artemide Lochia Longo Sofista Lonie, Iain M. Loraux, Nicole Lucano, Marco Anneo Luciano di Samosata Lucilio, Gaio Lucina, dea romana del parto Lucio, personaggio letterario Ludovico Sforza, detto il Moro, duca di Milano Lúg Sámildanach, divinità celtica Mac an Daimh, personaggio mitologico irlandese Macario Macrobio, Ambrogio Teodosio Magi, personaggi biblici Malinowski, Bronisław Manannan, divinità celtica Mannán mac Lir, eroe mitologico irlandese Manuli, Paolo Marais, Marin Marciano, Elio Margherita di Antiochia Maria di Francia, poetessa Maria Vergine Marziale, Marco Valerio Marziano Capella, Minneo Felice Masseria, Concetta Massimiliano Sforza, duca di Milano Mastro Ata, personaggio mitologico brasiliano Mater Matuta, dea romana protettrice di donne e partorienti Mau, August Medb, mitica eroina irlandese

Medea Medusa Megilla, personaggio letterario Mela, Pomponio Meleagro Melenik, A. Menandro Menelao Menia, divinità romana Mercurio, vedi Ermes Mercutio, personaggio shakespeariano Meroe, personaggio letterario Metabo, personaggio virgiliano Metello, Quinto Cecilio Micyllus (Moltzer), Jacob Mirra, personaggio ovidiano Mnesiloco, personaggio letterario Mnesiteo, medico ateniese Moírai, dee del destino Molva, santo irlandese Mommsen, Theodor Mondeville, Henri de Mongan, personaggio mitologico irlandese Mosè Moyling, santo irlandese Mrs. Brown of Folkland, vedi Gordon, Anna Murdock, George Peter Mustiola, santa Nakatsukasa, Tetsuo Napier, James William Nectanebo, astrologo Nemesiano, Marco Aurelio Olimpio Nenia, dea romana dei canti funebri Nereidi, divinità marine Ness, madre di Conchobar Nicandro di Colofone Nigidio Figulo, Publio Ni-hassa, vedi Ness Nikippe Ninfe, divinità della natura Nixi di, dee romane della nascita Nodinus, divinità romana Noè Nonio Marcello Normanni, popolo Norne, divinità germaniche del destino Vedi anche Moírai Novaziano, antipapa

Nuer, popolo Nutt, Alfred Trübner O’Conaill, Seán Oddone di Cheriton Odisseo O’Donovan, John Offermanns, Dieter Ogibwa, popolo Oisín (o Ossian), mitico poeta irlandese Olén, poeta frigio Olimpiade, regina di Macedonia Omero Oppiano Orapollo, scrittore egiziano Orazio Flacco, Quinto Origene Oribasio Orlando, Francesco Oro, personaggio di Properzio Ossian, vedi Oisín Ottavia Turina minore, sorella di Ottaviano Augusto Ottavio, Gaio Ovidio Nasone, Publio Pabecos, mitico personaggio persiano Paley, Frederick Apthorp Palladio, Rutilio Tauro Emiliano Panfila, personaggio letterario Paolo, Giulio Paolo Diacono Paolo Egineta Papathomopoulos, Manolis Parche (o Parcae), vedi Moírai Paride Parrasio Parsons, Elsie Clews Pausania Pegaso, mitico cavallo alato Penelope Perizonio, Iacopo Perpetua, personaggio manzoniano Persefone, divinità ctonia regina degli Inferi Perseo Pertunda (o Perfica), divinità romana Peter, personaggio letterario Petronio Arbitro, Gaio Phanostrate, levatrice e medico

Pharmakídes, streghe/divinità Philumenos medicus Phintias, tiranno di Agrigento Phoebiáne, personaggio letterario Pier Damiani, cardinale Pindaro Pingiatoglou, Semeli Pitagora Pizia, sacerdotessa di Apollo Placito Papiriense, Sesto Platone Plauto, Tito Maccio Plinio Secondo, Gaio, detto il Vecchio Plotino Plutarco Polemone Polluce Polluce, Giulio Porfirio Porfirione, Pomponio Posidone, dio del mare Prassagora, personaggio letterario Preto, tebano Priamo Prior, R. C. Alexander Prisciano, Teodoro Proca, personaggio ovidiano Prometeo Properzio, Sesto Aurelio Pryderi, personaggio mitologico irlandese Psello, Michele Psiche Psuedo-Agostino Pseudo-Alberto Magno Pseudo-Attanasio Pseudo-Barnaba Pseudo-Callistene Pseudo-Esiodo Pseudo-Galeno Pseudo-Luciano Pythocares Queen Mab, personaggio shakespeariano Quevedo y Villegas, Francisco Gómez de Rabano Mauro Radamanto, semidio Radcliffe-Brown, Alfred Reginald

Rashī (Shĕlōmōh ben Yiṣḥāq) Ray, John al-Rāzī, Abū Bakr Muḥammad ibn Zakariyyā’ Rea, antica divinità della terra Reed, Edward S. Rees, Alwyn Rees, Brinley Reinach, Salomon Remo Renard, Marcel Rhoikos Richard de Fournival Riegler, Richard Rolland, Eugène Romani, popolo Romolo Roscher, Wilhelm H. Rose, H. G. Ross, David John Athole Rossini, Gioacchino Rueff, Jacob Rufino di Aquileia Rufo di Efeso Rutebeuf (o Rustebuef), poeta francese Saffo Sagana, strega oraziana Salisbury, Joyce E. Salomè, sorella di Erode il Grande Salpe, levatrice romana Sambia, popolo Samiade, personaggio letterario Sannazaro, Iacopo Sanz, Gaspar (pseudonimo di Francisco Bartolomé Sanz Celma) Sariga, personaggio mitologico brasiliano Sasanos, mitico personaggio persiano Sassanidi, dinastia Sbordone, Francesco Schreiber, Theodor Schubert, Franz Peter Schuchardt, Hugo Schuster, M. Scipione Africano, Publio Cornelio Scipione Emiliano, Publio Cornelio Scott, Walter, Sir Scribonio, mathematicus Sedulio Semele

Semonide di Amorgo Sempronia, sorella dei Gracchi Seneca, Lucio Anneo Serna, Jacinto de la Servio (o Servius Auctus) Sforza Riario, Caterina, contessa di Forlí Shakespeare, William Sisifo Socrate Solino, Gaio Giulio Sorano di Efeso Sotira, levatrice romana Sperber, Dan Sprenger, Jakob Stadler, Hermann Steier, A. Stenelo Strabone Strattis Svetonio Tranquillo, Gaio al-Tawḥīdī, Abū Ḥayyān Tedeschi, Alessandra Telefo Telifrone, personaggio letterario Teocrito Teofrasto di Efeso Teopompo Terenzio Afro, Publio Tertulliano, Quinto Settimio Florente Teseo Textoris, Joannis Ravisii Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury Tiberio, Claudio Nerone, imperatore romano Tibullo, Albio Tindareo Tiresia Tirio, personaggio letterario Titone Tolomeo II Filadelfo, re d’Egitto, Tommaso, apostolo Tommaso d’Aquino, teologo e filosofo Tommaso di Cantimpré Toumbuluh, popolo Trofonio, personaggio mitologico omerico Trotte de Salerne, personaggio letterario Trotula de Ruggiero Túatha Dé Danann, mitico popolo irlandese

Turpilio, Sesto Tytler, famiglia Tytler, Alexander Fraser Tytler, William Tzetze, Giovanni Ugo di San Vittore Unna, concubina di Alessandro Urquhart, Thomas Urtel, Hermann Usener, Hermann Karl Uther Pendragon, mitico sovrano della Britannia Vaccaredda, personaggio letterario Valenciennes, Herman de Valentino, filosofo egiziano Valerio Massimo Van Thiel, Helmut Varrone, Marco Terenzio Veia, strega oraziana Venanzio Fortunato, vescovo Viramma, levatrice di Karani Virgilio Marone, Publio Vivaldi, Antonio Von Staden, Heinrich Wackernagel, Jacob Wagner, Roy Walcot, Peter Weiss, Johannes Willie, personaggio letterario Wissowa, Georg Wittgenstein, Ludwig Joseph Wüst, E. Yaukekam, personaggio mitologico kutenai Ygraine, mitica madre di Artú Zeno, vescovo Zenobio, filosofo greco Zeus, dio del cielo e sovrano degli dèi Zirkle, Conway

1. Omero, Ilias 19.91 sg. 2. Vedi «aá », in CHANTRAINE 1968. Vedi ADKINS 1987, pp. 43 sgg. 3. GUMMERE 1907, p. 298.

1. Omero, Ilias 19.101-5. 2. Omero, Ilias 19.107-11. 3. Da notare la singolare ambiguità dell’espressione impiegata da Era, pseust seis: si tratta di un termine raro (cfr. EDWARDS 1985, p. 250, ai vv. 107-9), usato per insinuare che Zeus «si rivelerà un bugiardo». Era se ne esce con questa affermazione per punzecchiare Zeus e costringerlo a confermare la sua dichiarazione (in modo da farlo cadere in trappola): ma non c’è dubbio che in questo modo viene contemporaneamente anticipato quello che effettivamente avverrà. L’affermazione di Zeus sarà infatti realmente «falsificata» dall’intervento di Era. 4. Omero, Ilias 19.113: aásth . 5. Omero, Ilias 19.115-24 (cfr. CIANI 1990, pp. 811 sg.). 6. Per uno schema genealogico, cfr. p. 8. 7. Il nome della donna è riportato in Apollodoro, Bibliotheca 2.4.5 (FRAZER 1995). 8. Omero, Ilias 19.125 sgg. 9. Omero, Ilias 19.78 sgg. Gli scoli ai vv. 101-2 (ERBSE 1975, vol. IV, p. 599) esprimono una curiosa preoccupazione: come faceva Agamennone a conoscere una conversazione che si era svolta sull’Olimpo? La risposta era che evidentemente questa storia apparteneva alla conoscenza comune. 10. Le Eileíthyiai sono definite «figlie di Era» in Ilias 11.270 sg. e in Esiodo, Theogonia 922 (WEST 1966). In Omero si parla tanto di Eileíthyia al singolare quanto di una pluralità di Eileíthyiai, e in altre versioni del mito, come vedremo, il loro ruolo è svolto o accompagnato da altre divinità, Moírai o Pharmakídes. Cfr. PAPATHOMOPOULOS 1968, p. 134; soprattutto BAUR 1899-1901 e PINGIATOGLOU

1981. Per Eileíthyia nella poesia latina PETERSMANN 1990.

11. Omero, Ilias 19.119, e gli scholi ad locum (ERBSE 1975, vol. IV, p. 603). 12. Su Eileíthyia come rappresentazione religiosa delle «doglie» cfr. pp. 110-11. 13. Per il cantare katà moîran, cfr. Omero, Odysseia 8.496 sgg.; SVENBRO 1984, pp. 38-41. 14. Cfr. Diodoro Siculo, Bibliotheca historica 4.9.4, dove Era è esplicitamente definita zelotupoûsa, «gelosa» di Alcmena. Sull’antropomorfizzazione degli dèi in Omero, cfr. le classiche pagine di FINLEY 1962, pp. 160-65. 15. La gelosia di Era nei confronti del marito adultero è descritta due volte nell’Inno omerico III, In Apollinem 90-106 (per la nascita di Apollo da Latona) e 300-62 (per la nascita di Atena dal solo Zeus). Cfr. PIZZOCARO 1994, pp. 53-58; DETIENNE 1989, pp. 29-40. Il tema della «moglie gelosa» e della «rivale perseguitata» è comune a molte tradizioni: cfr. NUTT 1897, p. 56 e n. 1. 16. Cosí per esempio nello scolio a Omero, Ilias 19.105b (ERBSE 1975, vol. IV, p. 599). Sulle discussioni dell’esegesi antica riguardo a questo verso cfr. l’apparato di Erbse ad locum; per l’interpretazione dell’espressione ex emeû, cfr. la nota di F. A. Paley in LONG 1871, p. 255, v. 105; EDWARDS

1985, pp. 250-51.

17. Lo scolio a Omero, Ilias 19.105c (ERBSE 1975, vol. IV, p. 600) faceva già notare espressamente che un problema di «ambiguità», e dunque un rischio per i propositi di Zeus, restava comunque anche in questa espressione: essa infatti «designa figli e discendenti» allo stesso tempo. 18. Pseudo-Esiodo, Aspis 48-56. Per l’interpretazione di homà phronéontes, v. 50, cfr. Omero, Ilias 5.440. 19. Cfr. MENCACCI 1996, pp. 10-14. 20. A dir la verità, se si dovesse dar credito alle credenze tradizionali si potrebbe persino sospettare che, nel caso di Alcmena, dolori e ritardi nel parto avessero qualche cosa a che fare con il suo (peraltro involontario) tradimento coniugale: visto che presso numerose popolazioni si riteneva che proprio l’adulterio potesse essere causa di parto difficile, e anzi, in caso di travaglio eccessivamente laborioso, la povera donna poteva essere sottoposta a interrogatorio e costretta a confessare la sua presunta colpa. Fino a quel momento, si credeva, il parto non poteva aver luogo: cfr. E. S. Hartland, Birth. Introduction (Hastings, ERE, II, pp. 635-43, in particolare p. 638b). Naturalmente è inutile ricordare che, nel caso di Alcmena, la storia è costruita in modo tale da far risultare la totale innocenza della donna. 21. Lo abbiamo ricavato dalle genealogie date da Apollodoro, Bibliotheca 2.4.5 (FRAZER 1995). La genealogia dei discendenti di Perseo non varia in modo sostanziale a seconda delle differenti fonti mitografiche: le differenze piú macroscopiche si riscontrano nella maggiore o minore distanza parentale fra Alcmena e Anfitrione. Cfr. RACCANELLI 1986-87, soprattutto pp. 126-61. 22. Usiamo l’espressione «rete del sangue» nel senso datogli da GUASTELLA 1985. 23. Ankulométes, dalla mente «complessa» «tortuosa», è uno degli epiteti che definiscono Zeus nei poemi omerici: cfr. per esempio Omero, Ilias 2.205; Odysseia 21.415, ecc. In tema di adulterî e di figli clandestini, si può anzi ricordare che Era, lamentandosi della nascita di Atena dalla sola testa del marito, si rivolge a Zeus chiamandolo schétlie (sciagurato) poikilomêta dove poikilométes significa «dalla mente enigmatica, difficile da decifrare» (Inno omerico III, In Apollinem 322). 24. LÉVI-STRAUSS 1993, pp. 50 sgg. 25. LÉVI-STRAUSS 1993, p. 56. 26. Sintetizzando molto, il ragionamento di Lévi-Strauss è il seguente: nella mitologia sudamericana, i gemelli in realtà «non» sono uguali, perché come sappiamo sono figli di padri differenti; di piú, i gemelli non esistono neppure, perché in molte culture essi, appena nati, vengono immediatamente scempiati, con l’uccisione di uno dei due. A questo punto, i gemelli diventano buoni per «pensare» tutte quelle dualità che paiono perfette ma in realtà sono composte da elementi fra loro differenti, come nel caso della coppia Luna-Sole, per esempio, oppure Bianchi-Indiani: tutti binomi composti da elementi che paiono fra loro identici ma che in realtà non lo sono, e non potrebbero mai esserlo. Quando dunque si creano delle storie mitiche in cui proprio una coppia di

gemelli viene posta all’origine delle due stirpi, come per esempio quella dei Bianchi e quella degli Indiani, lo si fa per enunciare una verità molto complessa: per affermare che Bianchi e Indiani costituiscono sí una dualità perfetta, come lo sono i gemelli, ma sottolineando contemporaneamente il fatto che in realtà non è cosí – perché di dualità perfette non ne esiste alcuna, come mostra ancora il caso dei gemelli. Secondo Lévi-Strauss, comunque, questa visione dei gemelli non corrisponde a quella delle culture di tipo indoeuropeo, dove spesso la coppia gemellare costituisce realmente una duplicazione dell’identico. Cfr. MENCACCI 1996, pp. 56-107. 27. Dal punto di vista del racconto, è inutile sottolineare il fatto che questo stratagemma della vecchia ricorda straordinariamente quello usato da Odisseo, a Sciro, per riconoscere Achille nascosto fra le donne. 28. LÉVI-STRAUSS 1993, p. 56. 29. Eliano, De natura animalium 12.5. 30. Sull’eccezionalità manifestata dall’eroe subito al momento della nascita cfr. REES e REES 1961, pp. 223-24, 241, 244-51. Dal punto di vista comparativo, è molto interessante confrontare lo schema della concezione, nascita e imprese postnatali dell’eroe elaborato dai fratelli Rees, partendo dai racconti irlandesi, con le medesime funzioni come sono realizzate a proposito di Eracle: le coincidenze fra i due modelli sono impressionanti. In una tarda versione bizantina della nascita di Alessandro Magno (MITSAKIS 1967, pp. 26-27; per la tradizione greca del Romanzo di Alessandro, vedi sotto, nota 56) l’eroe, appena nato, parla e profetizza alla madre le sue future imprese: su questo episodio del racconto come segno di «elezione» cfr. JOUANNO 1995, p. 272. 31. Pherekydes, 3, F 68 (F. JACOBY 1961, vol. II, 79) = Apollodoro, Bibliotheca 2.4.8 (FRAZER 1995); scoli a Pindaro, Nemea 1.65. Per una singolare applicazione animale del principio dell’identificazione prenatale, vedi Physiologus Latinus (CARMODY 1941, Y, p. 34) dove si dice che la donnola, la quale partorisce dalle orecchie, produce maschi dall’orecchio destro e femmine da quello sinistro. In questo caso almeno il sesso del nascituro diventa prevedibile. Per la donnola nel Fisiologo, vedi Parte prima, par. VII .6. 32. Pensiamo per esempio alle riflessioni sul «doppio senso» svolte in FREUD 1972, particolarmente pp. 326-28; impossibile utilizzare ormai questa categoria freudiana senza il riferimento all’opera di Francesco Orlando, in particolare ORLANDO 1982, pp. 3-28. 33. Per le Eileíthyiai come «figlie di Era», vedi sopra, nota 10. 34. Omero, Ilias 19.111. Per l’interpretazione di questo verso e i suoi «piled up genitives» cfr. EDWARDS

1985, pp. 250-51. Nella critica omerica la discrepanza di espressione fra questo v. 19.111

e il v. 19.105 è stata talora intesa come una difficoltà testuale da «sanare», e si è persino proposto di uniformare il v. 19.111 sul v. 19.105 correggendone, ovviamente a torto, il testo: cfr. soprattutto la lunga discussione di HEYNE 1802; MONTBEL 1830, pp. 157-58.

35. Per la partoriente, vedi oltre, Parte prima, par. iii.1. 36. LONG 1871, p. 255: «a primitive expression for delivering by quick travail»; LEAF 1902, p. 326: «a naïve expression = be born»; EDWARDS 1985, p. 250: «come to birth … a kneeling position for childbirth is indicated at Hymn. Ap. 117-18». 37. In molte culture infatti la nascita si identifica effettivamente con una «caduta», a cui si contrappone spesso, dal punto di vista rituale, il «sollevamento» del bambino fatto dal padre, che in questo modo ne riconosce la legittimità; per cui non si può escludere che anche nel mondo greco arcaico agisse lo stesso tipo di modello simbolico. Sulla nascita come «caduta» cfr. BELMONT 1980, pp. 705-6. Anche in Esiodo, Theogonia 460, si dice che Crono divorava «ogni bambino che dal ventre della sacra madre [Rea] fosse caduto fra le sue ginocchia». 38. AMEIS e HENTZE 1878, vv. 19, 110. 39. Per le versioni greche del Romanzo di Alessandro cfr. sotto, nota 56. Sia in queste sia nelle versioni latine, Olimpiade partorisce seduta: vedi Giulio Valerio, Res Gestae Alexandri Macedonis (KÜBLER 1888, p. 6) e l’arciprete Leone, Historia Alexandri Magni (HILKA e STEFFENS 1979, p. 9), dove il bambino cade ugualmente a terra. Per le raffigurazioni della nascita di Alessandro nei manoscritti del romanzo cfr. ROSS 1985, in particolare pp. 347 sgg. D. J. A. Ross nota come nel seguito della tradizione iconografica, la scena di parto sul díphros viene man mano abbandonata a favore della posizione sdraiata, piú familiare ai lettori europei. 40. Diodoro Siculo, Bibliotheca historica 4.9.4; Apollodoro, Bibliotheca 2.4.5 (FRAZER 1995). 41. Esiodo, Opera et dies 782 sgg. Questi versi di Esiodo sono stati spesso considerati la prima attestazione di credenze «astrologiche» nella letteratura greca: cfr. SINCLAIR 1932, p. 84, ai vv. 78889. 42. Erodoto, Historiae 2.82. 43. Philochoros 328, F 85 (F. JACOBY 1961, vol. IIIB, 123). 44. Svetonio, Divus Iulius 94.5. Vedi anche le predizioni del mathematicus Scribonio alla nascita di Tiberio, in Svetonio, Tiberius 14. Per l’importanza dell’astrologia nel mondo romano cfr. BOUCHÉ-LECLERCQ

1963, pp. 542 sgg. Secondo Svetonio, Augustus 94, il Senato romano aveva

decretato che tutti i bambini nati nell’anno in cui sarebbe nato Augusto dovevano essere uccisi, e che i futuri padri avevano impedito la pubblicazione del decreto: altra favolosa coincidentia per la nascita dell’eroe (e simile alla congiuntura in cui Cristo si trovò a nascere). Per quanto riguarda poi la diffusa credenza popolare secondo cui «ciascun uomo ha la sua stella nel cielo», da cui espressioni quali «nascere sotto una buona o cattiva stella», cfr. CUMONT 1922, pp. 92-93. 45. Evangelium secundum Lucam 1.31 sg. 46. Sull’impregnazione attraverso l’orecchio, cfr. pp. 184-87. 47. J. Weiss, comunicazione orale a Franz Boll, in BOLL 1950, p. 332.

48. Evangelium secundum Matthaeum 2.1 sg. Sulla stella dei Magi cfr. CONYBEARE 1925, p. 193; sulla discussione agostiniana di questa nascita di Cristo «per decreto delle stelle» (un tema che impegnò Agostino in numerose delle sue opere perché sembrava aprire la strada all’astrologia) cfr. THORNDIKE

1923, vol. I, pp. 518-19. Nella tradizione ebraica si narravano altre storie simili a quella

della stella di Gesú: cosí nella notte in cui nacque Abramo, gli astrologi e i savi di Nimrod videro arrivare da Oriente una grande stella che, percorso il firmamento in lungo e in largo, divorò le altre quattro stelle poste agli estremi. Cfr. GINZBERG 1913, pp. 34-36. 49. È noto il dibattito che, da sempre, ha travagliato le discipline astrologiche: se a determinare il destino della persona fosse la posizione degli astri al momento della concezione oppure al momento della nascita: cfr. BOUCHÉ-LECLERCQ 1963, pp. 372 sgg.; KIECKHEFER 1993, pp. 162-69; FLINT 1989, pp. 92-101. 50. Goffredo da Viterbo, Pantheon XVIII (Migne, PL, 198, 1005). 51. Cfr. BLUMENFELD-KOSINSKI 1990, p. 15. Per i problemi specificamente posti dalla «genitura» di futuri monarchi vedi in generale BOUCHÉ-LECLERCQ 1963, pp. 438 sgg.; KIECKHEFER

1993, pp. 162-69; FLINT 1989, pp. 92-101. Per la levatrice astrologa, che scruta il

cielo cosí da trovare la stella che porterà fortuna al bambino, cfr. R. Jungwirth, Hebamme (HDA, III, p. 1594). 52. Cfr. l’incisione di una scena di parto in Jacob Rueff, De conceptu et generatione hominis, Frankfurt 1580, citato da FORBES 1966, p. 114. 53. GUNDEL e GUNDEL 1966, p. 129, sostiene che in Properzio, Elegiae 4.1.99 sgg. (il discorso dell’astrologo Oro) sarebbe attestata la pratica di inibire il parto per farlo coincidere con una favorevole congiunzione astrale. Ma questo non è esatto, perché ai versi in questione Oro dice semplicemente di aver consigliato a Cinara, che tardava a partorire, di fare un sacrificio a Giunone. 54. Agatia, Historiae 2.27.1 sgg. Cfr. QUESTA 1989. 55. Physiologus Latinus (CARMODY 1939, B, p. 27). 56. Pseudo-Callistene, Historia Alexandri Magni 1.12.1 sgg. (recensio L, VAN THIEL 1983); vedi anche CENTANNI 1991, p. 23. La tradizione greca del Romanzo di Alessandro è notoriamente complessa e tormentata. Essa consta della cosiddetta recensio vetusta, secolo III-IV d.C., edita a suo tempo da KROLL 1958; della recensio detta B, secolo V d.C. (BERGSON 1965); e della recensio L, secolo VII-VIII d.C.(?), curata da Helmut Van Thiel e a cui ci riferiamo in questo caso. Altre due versioni bizantine del romanzo non presentano particolare interesse per l’episodio del parto trattenuto: cfr. TRUMPF 1974 e MITSAKIS 1967. 57. Pseudo-Callistene, Historia Alexandri Magni 1.12.1 sgg. (recensio L, VAN THIEL 1983). Vedi ROSS 1985, pp. 347 sgg. Purtroppo il testo è molto corrotto e spesse volte di difficile comprensione. Un ottimo contributo all’interpretazione e alla stessa costituzione del testo in BOLL

1950, pp. 351-56; per i miracoli al momento della nascita di Alessandro vedi JOUANNO 1995. 58. La «Scimmia», secondo BOLL 1950, p. 353. 59. Per l’interpretazione di questo passo vedi BOLL 1950, p. 354. 60. WALLIS BUDGE 1889, pp. 11 sg. Secondo KROLL 1958, p. X , questa versione della storia avrebbe contenuto molte aggiunte provenienti «ex mente hominis Persae aut Syri». 61. Per la posizione della partoriente, cfr. pp. 92-95. Possediamo numerose raffigurazioni della nascita di Alessandro, con la madre seduta sul díphros, o sedia ginecologica, e il bambino a terra: cfr. ROSS 1985, pp. 347 sgg., e vedi qui fig. 2. Dato che questa nascita è di tipo «egiziano», secondo David John Athole Ross il bambino è appoggiato a terra su rotoli di papiro come era costume presso gli Egizi. 62. Cfr. Diodoro Siculo, Bibliotheca historica 4.9.2; Pherekydes, 3, F 13c (F. JACOBY 1961, vol. I, 63-64); Plauto, Amphitruo 271-83; Properzio, Elegiae 2.21; Ovidio, Amores 1.13.45-46; Lattanzio Placido, Commentaria in Statii Thebaida 9.424 e 12.301 (JAHNKE 1898); ecc. Nella tradizione medievale, il motivo delle «tre notti» venne trasferito anche alla nascita di re Artú (che già presentava molte analogie con la nascita di Eracle): cfr. il cosiddetto Gesta regum Britanniæ (attribuito a Guglielmo di Rennes, 1235/54 circa; FRANCISQUE-MICHEL 1862), vv. 2923-27: il corrispettivo episodio in Goffredo di Monmouth (Historiae Regum Britanniae 137) non presenta questo motivo, che è stato aggiunto da Guglielmo. Cfr. TATLOCK 1950, pp. 313-18; R. MORRIS 1982, p. 25, e R. MORRIS 1985. 63. Alberto Magno, De animalibus XXII.7 (in STADLER 1920, 1352): «Ypocras etiam dicit ut ibidem Galienus, quod omnis substantia sit legata et coniuncta in planetis et signis et nexibus quattuor elementorum. Et ideo Nectanebus naturalis Alexandri pater cum matre sua Olympiade tempus observans coivit Sole Leonem intrante et Saturno in Taurum, e quibus planetis suum filium volebat recipere figuram et potestatem». Cfr. SCANLAN 1987, ad locum; l’influenza dei segni astrologici al momento della nascita è ampiamente sviluppata anche nello pseudo-Alberto Magno, De secretis mulierum (LEMAY 1992, pp. 27-32, 78-95). 64. Per la versione araba della nascita di Alessandro, vedi Prologo sull’Olimpo, par. 5. 65. Pseudo-Callistene, Historia Alexandri Magni 1.4.7 (recensio vetusta = recensio L 1.4); Giulio Valerio, Res Gestae Alexandri Macedonis 1.4, dove la narrazione di questo episodio, limitata a una brevissima frase nelle versioni greche, appare appena piú lunga; ecc. Da notare anzi che già Agostino, in polemica con gli astrologi, si richiamava un po’ oscuramente alla vicenda del vir doctus che aveva scelto una certa ora per congiungersi con la moglie al fine di generare un figlio meraviglioso (De civitate Dei 5.7.1). Secondo THORNDIKE 1923, vol. I, p. 516, questo passo di Agostino costituirebbe una «inaccurate allusion to the story of Nectanebus». 66. Si diceva per esempio che anche l’imperatore Federico II, per consumare il suo matrimonio

con Isabella, avesse atteso che gli astrologi gli comunicassero qual era il momento piú propizio: cfr. KIECKHEFER

1993, pp. 157-69. Per la concezione di Artú in Goffredo da Viterbo vedi Prologo

sull’Olimpo, par. 5. 67. La fonte data da Hermann Stadler in apparato è pseudo-Galenus, De spermate 14 (Alberto Magno, De animalibus XXII.7, in STADLER 1920, 1352). Cfr. anche THORNDIKE 1923, vol. I, pp. 562-63. 68. Tommaso d’Aquino, De potentia 6.8 (BAZZI e CALCATERRA 1953, p. 181): «et tamen possibile est quod per talem modum [scil. allorché i demoni raccolgono il seme maschile in qualità di demoni succubi, per poi trasferirlo nel grembo femminile in qualità di demoni incubi] homines fortiores generentur et maiores, quia demones volentes in suis effectibus mirabiles videri, observando determinatum situm stellarum, et viri et mulieris dispositionem possunt ad hoc cooperari». L’importanza delle influenze che possono agire sul momento della concezione appare anche dalla tradizionale credenza secondo cui, ancora per un meccanismo di coincidentia, l’influsso di un’immagine o di una visione può segnare per sempre l’apparenza fisica del nascituro. Cfr. BETTINI

1992, pp. 221-22, sui casi in cui la madre, al momento del concepimento, resta

«impressionata» da un’immagine esterna e quindi partorisce un figlio che non rassomiglia ai genitori ma a questa potente visione. 69. Cfr. KOPF 1965; SPIES e RANKE 1981. 70. JAYAKAR 1908, pp. 48 sg. 71. Corano 18.60-82. 72. Su tutto questo vedi «al-Khidr», in GIBB e KRAMERS 1967, p. 232. 73. Per la concezione dell’eroe, vedi Prologo sull’Olimpo, par. 5. 74. Pseudo-Callistene, Historia Alexandri Magni 2.39 sgg. (recensio L, VAN THIEL 1983). Anche Gilgamesh perde per una disattenzione la pianta della giovinezza: cfr. PETTINATO 1992, pp. 227 sgg. 75. Cuoco e ragazza non ebbero peraltro grande giovamento da questa loro fortuna: Kalé si trasformò infatti in una Nereide, ovvero demone femminile del folclore greco: vedi il classico studio di LAWSON 1909, pp. 130-73; mentre Andrea fu mutato in demone marino. Cfr. pseudo-Callistene, Historia Alexandri Magni 2.41 (recensio L, VAN THIEL 1983). 76. Questa versione della nascita di Conchobar è riportata in un manoscritto del secolo XV (Stowe ms n. 992), pubblicata e tradotta in K. MEYER 1884. Si tratta di una versione piú recente di quella, piú breve, raccolta in The Book of Leinster, 106a-107b (BEST, BERGIN, O’BRIEN e O’SULLIVAN NUTT

1954, pp. 400-4); cfr. GUYONVARCH 1959, con indicazioni bibliografiche. Cfr. anche

1897, pp. 72 sgg.; REES e REES 1961, pp. 216 sgg.

77. REES e REES 1961, p. 235, nota che questo incontro alla fontana richiama il diffusissimo

racconto di folclore in cui un mortale sorprende una ragazza-cigno alla fontana, le ruba le vesti da cigno e ne fa sua moglie. Cfr. HARTLAND 1891, pp. 255-332. 78. I vermi costituiscono frequentemente causa di gravidanza nella letteratura irlandese: anche la nascita di CúChulainn e quella di Conall Cernach erano attribuite alla ingestione di vermi da parte della futura madre. Cfr. HARTLAND 1894, vol. I, pp. 116 sgg.; HARTLAND 1909, vol. I, pp. 9 sgg. Sul tema delle impregnazioni soprannaturali, vedi oltre, Parte prima, par. vii.7. 79. Infatti, in alcune versioni del mito anche Alcmena sembra aver subito lutti e razzie proprio da parte dello stesso uomo che diventa suo marito (cfr. BETTINI 1993): e anche Alcmena porta un nome che, come Ni-hassa cioè Ness, indica la «forza» (Alk-mene). Allo stesso modo, le due donne vengono messe incinte da qualcuno diverso dal proprio marito (Zeus in un caso, i vermi e l’amante segreto nell’altro), ed entrambe si trovano ad affrontare i dolori di un parto ritardato. Interessante pure l’analogia fra Eracle che, appena nato, strozza i serpenti, e Conchobar che nasce con un verme in ciascuna mano. Le similarità però si fanno ancora piú strette se si pensa che ness, in irlandese, è uno dei nomi che indicano la «donnola»; cfr. GUYONVARCH 1959, p. 58, n. 7, che segue uno spunto di THURNEYSEN 1921, p. 273. Come vedremo subito sotto, infatti, la donnola ha un ruolo di grande importanza nel mito di Alcmena. Per ness con il significato di «donnola» in irlandese, vedi JOYNT 1941. Vedi anche WINDISCH 1886, p. 76. Le fonti sono costituite da Prisciani codex Sancti Galli, in cui ness è glossato con mustella, mus longa (citato da ZEUSS 1871, p. 49); STOKES 1868, p. 126. Cfr. VENDRYES 1960, n. 11 (con meno dati). Questi parallelismi fra la storia di Alcmena e quella di Ness, che possiamo indicare qui solo di sfuggita, meriterebbero di essere ulteriormente approfonditi. 80. Un brief survey delle molteplici fonti e trasformazioni dell’Alessandro medievale in CARY 1956, pp. 9-74. 81. Il rapporto fra la nascita di un eroe e l’avvento del Cristo pare ricorrere infatti anche nel Bran’s Journey to the Land of the Women (MAC MATHÚNA 1985, n. 48) a proposito della nascita di Mongan. Cfr. NUTT 1897, pp. 13 sgg.; CARNEY 1955, p. 282; soprattutto MAC CANA 1972. 82. O’GRADY 1892, vol. I, p. 314; vol. II, p. 354; REES e REES 1961, p. 220. 83. HARTLAND 1894, vol. I, pp. 130 sg. 84. Citato da WORRELL 1905. Anche in questo testo si specifica che il fianco deve essere il destro. Esiste un’analogia fra tale incantesimo e una espressione simile usata «in the Mishnah of the Babylonian Talmud»: in questo caso tale espressione è interpretata da Rashī, il commentatore, nel senso di un parto realizzato tramite uso di «droghe» o «incantesimi: cfr. WORRELL 1905. 85. Plinio, Naturalis historia 10.170: «terrestrium eadem sola intra se parit ova … tertia die intra uterum catulos excludit; dein singulis diebus singulos parit, XX fere numero; itaque ceteri tarditatis impatientes perrumpunt latera occisa pariente». 86. Eliano, De natura animalium 15.16; cfr. anche 1.24. Pure la thalattía belón

(ghianda di

mare) partorisce allo stesso modo; cfr. Eliano, De natura animalium. Secondo Erodoto, Historiae 3.109, i piccoli della vipera alla nascita divorano la madre; la stessa credenza è ripresa nel Fisiologo, vedi per esempio Physiologus Latinus (CARMODY 1941, Y, p. 12): «cum autem creverint filii eius in utero matris sue, non habens illa sinum unde pariatur, tunc filii adaperiunt latus matris suae, et exeunt occidentes matrem». 87. Anche all’Anticristo, che si credeva generato per parto cesareo, si attribuiva una nascita «per sfondamento» del ventre materno simile a quella della vipera: e, almeno a partire da Rabano Mauro, sull’analogia di nascita fra queste due creature del male si speculerà ampiamente. Cfr. BLUMENFELD-KOSINSKI

1990, pp. 120 sgg., in particolare pp. 135 sg.

88. È possibile che questa formula – «uscire dal fianco della madre» – alluda alla pratica del parto cesareo. Sulle molteplici vicende che hanno caratterizzato questa dolorosa pratica vedi BETTINI

2015.

89. PLUMMER 1910, vol. I, p. CXXII ; vol. II, pp. 131 sg. 90. PLUMMER 1910, vol. II: «non tamen ideo Deus tempus pariendi puerum propter aliquam corporum celestium costellacionem expectavit, set ut beneplacitum suum adimpleret». 91. Per l’importanza dell’astrologia al momento della nascita in Irlanda cfr. L. H. Gray, Birth. Celtic (Hastings, ERE, II, p. 645). Dopo che la nascita era avvenuta, la madre «aspettava un’ora favorevole per il bambino», probabilmente per l’assegnazione dell’oroscopo. Allo stesso modo, il druida Cathfaidh osservò i segni delle stelle, le nuvole e la condizione della luna subito dopo la nascita di Deirdre. 92. GÉLIS 1984, pp. 273 sgg. Anche oggi, peraltro, è pratica corrente negli ospedali anticipare i parti per evitare di farli coincidere con giorni poco graditi, non piú per motivi di coincidentia emerologica ma per ragioni di tipo semplicemente organizzativo. Le opportunità che possano spingere a ritardare un parto (ovvero a desiderare che sia ritardato) possono ovviamente essere di tipo molto diverso fra loro: per esempio, nella Lysistrata di Aristofane (v. 743: vedi lo scolio ad locum), Lisistrata invoca Eileíthyia, dea delle nascite, affinché ritardi il suo parto fino al momento in cui non abbia raggiunto un luogo «religiosamente adatto» (hósios) per questo scopo, cioè un luogo che non rischi di essere contaminato da tale evento. 93. Una storia simile a quella di Lasrianus viene infine raccontata anche a proposito di sanctus Aedus (PLUMMER 1910, vol. I, p. CX ; vol. II, p. 3). Di nuovo un profeta indica il momento ideale per la nascita del futuro santo, dicendo: «se il bambino, che la madre ha nel grembo, nascerà domani al mattino, sarà grande presso Dio e gli uomini, in cielo e in terra: il suo nome e la sua memoria resteranno per sempre in Irlanda». Una fanciulla al servizio della partoriente riferisce alla madre le parole del profeta e lei, ubbidiente, fa la stessa dichiarazione fatta anche dalla madre di Fiachna Broad-crown: «a meno che non esca dal mio fianco, non uscirà dal mio ventre finché quell’ora non

sarà giunta». Quel che segue appare solo una variante cristianizzata della storia di Fiachna Broadcrown, con la madre che si siede sopra una roccia e il bambino con la testa «schiacciata» dalla pressione. 94. Cfr. Birt, Genius (Roscher, GRM, I.2, pp. 1613-25); MATTERO 1992. 95. Che le circostanze della nascita siano fondamentali nel determinare il destino di una persona è ciò che emerge dal classico saggio di BELMONT 1971, pp. 181-92. 96. Nella cultura antica, l’idea che la donna svolga la funzione di puro ricettacolo per il seme maschile ci è testimoniata almeno a partire da Eschilo, Eumenides 658 sgg. Cfr. LESKY 1950, p. 54; LLOYD

1987, pp. 86 sgg. Cfr. anche VERNANT 1966b; DEMAND 1994: alla lettura di questo libro, a

cui si farà frequente riferimento nel nostro studio, debbo numerosi spunti e informazioni. 97. REES e REES 1961, p. 231; cfr. NUTT 1897, p. 42. 98. CHADWICK e CHADWICK 1968, pp. 219 sgg.: a proposito dei doni degli dèi in occasione della nascita di Achille e di CúChulainn. 99. Il testo in K. MEYER 1897, pp. 42 sgg.; REES e REES 1961, pp. 213 sgg. 100. Sulle analogie fra i due miti vedi le infelici considerazioni di O’BROIN 1960-61; e le giuste critiche di MAC CANA 1972. 101. Per la versione araba della nascita di Alessandro, vedi Prologo sull’Olimpo, par. 5. 102. In una precedente versione di questa ricerca (BETTINI 1996b) avevo anzi suggerito la possibilità che questo ampliamento dell’identità dell’eroe avesse qualcosa a che fare con il meccanismo narrativo, frequente nei racconti di folclore, che porta il nome di «triplicazione» (PROPP 1966, pp. 102 sgg.; cfr. anche OLRIK 1973; molto materiale in USENER 1903, pp. 1-48, 161208, 321-64). Si tratta della nota forma narrativa secondo cui nella fiaba di magia i fratelli sono sempre tre (due intelligenti, uno sciocco), tre sono gli aiutanti (un cane, un gatto, un serpente), tre gli oggetti o gli aiutanti magici, tre gli impedimenti, tre i tentativi, e cosí via (MELETINSKIJ 1977, pp. 132 sgg.). Ora, è importante notare che la triplicazione funziona come un meccanismo di «enfasi», di «potenziamento» (cfr. MELETINSKIJ 1977). Allorché si tratta di mettere in evidenza l’eccezionalità dell’eroe, la fiaba fa ricorso a questa specifica forma letteraria perché per sua natura – la sua natura di racconto – essa ha bisogno di tradurre in forma di «discorso narrativo» quelli che, da un punto di vista strutturale, sono semplicemente degli «attributi» del soggetto, come la sua eccezionalità. Per comunicare, la fiaba non può limitarsi a enunciare le caratteristiche dei personaggi, ha bisogno di «raccontarle». È possibile che anche la moltiplicazione delle nascite intorno all’eroe, e in definitiva lo stesso meccanismo della coincidentia cronologica, partecipino della medesima funzione svolta nella fiaba dalla triplicazione. Anche in questo caso il mito, o il racconto, si trova di fronte alla necessità di tradurre in forma narrativa una «qualità» dell’eroe, la sua eccezionalità, e di farlo fin dal momento in cui egli viene partorito: ecco allora che questo attributo

dell’eroe è tradotto in forma narrativa rifrangendo e moltiplicando la sua nascita in una serie di coincidentiae. 103. Apollodoro, Bibliotheca 3.15.7; Igino, Fabulae 37. 104. Secondo il mito, Zeus – sotto le spoglie di un cigno – si unisce a Leda, e la stessa notte a lei si unisce anche Tindareo: da Zeus sarebbero stati concepiti Polluce ed Elena, da Tindareo Castore e Clitennestra. La situazione varia a seconda delle fonti: cfr. Apollodoro, Bibliotheca 3.10.7; Igino, Fabulae 77; Pindaro, Nemea 10.79 sgg. 105. Per la diceria che Alessandro fosse figlio di Ammone cfr. Arriano, Anabasis 3.3.2; 7.30.2; per la nascita da Nectanebo, vedi sopra, Prologo sull’Olimpo, par. 5. Secondo GRANT 1952, p. 176, la storia di Nectanebo padre di Alessandro sarebbe una riscrittura della piú antica leggenda che lo voleva figlio di Ammone. 106. Per Scipione cfr. Livio, Ab urbe condita 26.19.7; per Augusto cfr. Svetonio, Augustus 94. 107. Per Platone cfr. Diogene Laerzio, Vitae Philosophorum 3.2; Origene, Contra Celsum 1.37. Per Pitagora, cfr. Porfirio, Vita Pythagorica 2; Giamblico, De vita Pythagorica 2.4-7. Cfr. anche GRANT

1952, pp. 173-74.

108. Cfr. SCHREINER 1995, pp. 17-52; sui problemi posti dalla paternità di Gesú vedi BAUER 1909, pp. 39-40; SCHOEPS 1949, pp. 71-74, citato da GRANT 1952, p. 170. 109. Celso, probabilmente attingendo a fonti giudaiche, spiegava la concezione virginale di Maria sostenendo che ella aveva in realtà per amante un centurione romano di nome Pantera (Origene, Contra Celsum 1.39). Cfr. SAINTYVES 1908, p. 260; GRANT 1952, p. 177; WARNER 1976, p. 35 e n. 4. 110. Per la doppia paternità, vedi Prologo sull’Olimpo, par. 3. 111. Sul problema del totemismo nel dibattito contemporaneo, vedi Parte seconda, par. ii.2. Per la categoria di «totemismo individuale» vedi LÉVI-STRAUSS 1964b, p. 65. 112. SAPIR 1977. 113. SAPIR 1977, p. 5. 114. Omero, Odysseia 11.601-4; Luciano, Dialogi mortuorum 11. Sulla critica alessandrina a proposito di questi versi omerici (ritenuti interpolati) e soprattutto sulle osservazioni che essi suscitarono a proposito dell’esistenza di due anime nell’uomo (Plutarco, De facie lunae 29.944-45; Plotino, Enneades 4.3.32; 4.4.1; ecc.) cfr. BOUFFIÈRE 1956, pp. 404-9. 115. REES e REES 1961, pp. 235-37: «Perché è lungo il sottile discrimine fra essere e non essere che Dio appare».

1. Le fonti di questo racconto mitico sono raccolte nel commento di Felix Jacoby a Istro, 334, F 72 (F. JACOBY 1961, vol. IIIB, pp. 185-86; F. JACOBY 1954, vol. I, p. 659, vol. II, p. 523). Secondo Jacoby, le differenti versioni che possediamo non possono essere ricondotte tutte a Istro il Callimacheo. Per Istro, schiavo e allievo di Callimaco, come fonte del nostro racconto, vedi Parte prima, par. I .6.

1. Pausania, Graeciae descriptio 9.11.1-2. 2. FRAZER 1994, p. 46. 3. Pindaro, Olympia 13.65-78; cfr. Pausania, Graeciae descriptio 10.38.13, in cui si racconta come l’immagine onirica di Asclepio avesse lasciato dietro di sé una tavoletta contenente una lettera; vedi anche la storia di Laudice (Giustino, Historia Philippica 15.4.2-4) che sognò di essere impregnata da Apollo e di ricevere un anello da dare al proprio figlio: al risveglio l’anello del sogno venne ritrovato nel suo letto. Cfr. DODDS 1958, pp. 125-26; BRILLANTE 1991, pp. 95-96 e 147; vedi anche OGLE 1919. 4. Pausania, Graeciae descriptio 9.12.3-4. 5. Per le levatrici, vedi Parte seconda, par. III .1. Molto inopportunamente CELORIA 1992, p. 189, propone di considerare il nome Historís come una corruzione testuale: «the name is perhaps a corrupted fossil of a lost name of a weasel [íktis, marten] or a yellowish bird [íkteros]». 6. Pausania, Graeciae descriptio 9.16.7. 7. Antonino Liberale, Metamorphoses 33.4-5 = Pherekydes, 3, F 84 (F. JACOBY 1961, vol. I, 83); cfr. PAPATHOMOPOULOS 1968, p. 145. 8. Sul kolossós, cfr. il classico studio di VERNANT 1966a; BETTINI 1992, p. 15, con altra bibliografia. 9. Per l’uso di tradizioni locali da parte di Pausania vedi PELLIZER 1993, p. 298, e CALAME 1990. 10. Cfr. già BÖTTIGER 1837, pp. 84-85. Lo studio di Karl August Böttiger, ispirato dalla discussione di un frammento di Lessing, costituisce il primo lavoro sul racconto di Alcmena e su molti dei temi di cui ci occupiamo in questo libro. 11. Inno omerico III, In Apollinem 119; Callimaco, In Delum 255-58; Teocrito, Idyllia 17.64. 12. Pindaro, Paeanes 12.16: la parola usata è rhóthos; cfr. BONA 1988, p. 245. 13. Cfr. FRAZER 1898, vol. V, p. 46, ad Pausaniam 9.11.3; BÖTTIGER 1837, p. 79, anticipando di un secolo il comparatismo di Frazer, pensava già a un grido cerimoniale, secondo il modello delle «halbwilden Nationen». Cfr. anche Kummer, Geburt (HDA, III, pp. 418-19). 14. Sorano, Gynaecia 2.10.5. 15. Sul difficile problema costituito dai Nixi di, vedi oltre, Parte prima, par. iii.2 e par. iv.3, nota 43. 16. Sulla interpretazione di una ministrarum, v. 306, vedi sopra, Parte prima, par. I .2. 17. Ovidio, Metamorphoses 9.281-323: 281Incipit Alcmene: Faveant tibi numina saltem Corripiantque moras tum cum matura vocabis

Praepositam timidis parientibus Ilithyiam, Quam mihi difficilem Iunonis gratia fecit. 285Namque laboriferi cum iam natalis adesset Herculis et decimum premeretur sidere signum, Tendebat gravitas uterum mihi, quodque ferebam Tantum erat, ut posses auctorem dicere tecti Ponderis esse Iovem; nec iam tolerare labores 290Ulterius poteram; quin nunc quoque frigidus artus, Dum loquor, horror habet parsque est meminisse doloris. Septem ego per noctes, totidem cruciata diebus, Fessa malis tendensque ad caelum bracchia magno Lucinam Nixosque pares clamore vocabam. 295Illa quidem venit, sed praecorrupta meumque Quae donare caput Iunoni vellet iniquae; Utque meos audit gemitus, subsedit in illa Ante fores ara dextroque a poplite laevum Pressa genu et digitis inter se pectine iunctis, 300Sustinuit partus; tacita quoque carmina voce Dixit et incoeptos tenuerunt carmina partus. Nitor et ingrato facio convicia demens Vana Iovi cupioque mori moturaque duros Verba queror silices; matres Cadmeides adsunt 305Votaque suscipiunt exhortanturque dolentem. Una ministrarum, media de plebe, Galanthis, Flava comas, aderat, faciendis strenua iussis, Officiis dilecta suis; ea sensit iniqua Nescio quid Iunone geri; dumque exit et intrat 310Saepe fores, divam residentem vidit in ara Bracchiaque in genibus digitis conexa tenentem Et: Quaecumque es, ait, dominae gratare; levata est Argolis Alcmene potiturque puerpera voto. Exsiluit iunctasque manus pavefacta remisit 315Diva potens uteri; vinclis levor ipsa remissis. Numine decepto risisse Galanthida fama est; Ridentem prensamque ipsis dea saeva capillis Traxit et e terra corpus relevare volentem

Arcuit inque pedes mutavit bracchia primos. 320Strenuitas antiqua manet nec terga colorem Amisere suum; forma est diversa priori. Quae quia mendaci parientem iuverat ore, Ore parit; nostrasque domos, ut et ante, frequentat.

Può essere interessante ricordare che REES e REES 1961, pp. 207-12, hanno suggerito l’ipotesi secondo cui la tradizione della narrativa orale irlandese avrebbe scelto il tipo di storie da raccontare – battaglie, amori, nascite, ecc. – in relazione all’occasione specifica della narrazione. Purtroppo siamo mal informati rispetto ai contenuti della narrazione popolare antica, e ancora peggio lo siamo riguardo ai contesti e alle occasioni di queste narrazioni. Sarebbe davvero interessante sapere per esempio che tipo di storie si raccontavano le matres, le levatrici, le donne parenti e cosí via che andavano a visitare una partoriente: forse Ovidio, con Alcmena che racconta a Iole storie di «nascite», ci dà un’immagine autentica della pratica antica? 18. Il tempo normale per la dilatazione dell’utero è calcolato in 13-14 ore per le primipare, 8-9 per donne che abbiano già partorito: BECK 1962, pp. 464-67. 19. Per le levatrici e le formule magiche, vedi Parte seconda, par. III .1.b. 20. Ovidio, Metamorphoses 10.510 sg.: «constitit ad ramos mitis Lucina dolentis | admovitque manus et verba puerpera dixit». 21. PETERSMANN 1990. Il latino usa altre volte l’espressione verba con l’aggiunta di un aggettivo per designare le «parole» che pertengono specificamente a una certa fase (socialmente riconosciuta) dell’esistenza e non ad altre: cfr. Festo, De significatione verborum (LINDSAY 1978, p. 174): verba nupta, «parole che si addicono solo a una donna sposata e non a una vergine»; verba praetextata (pp. 283-84), «parole pudiche» (come quelle che si addicono ai giovani che portano ancora la praetexta) o anche «parole oscene» (come quelle che vengono gridate alla sposa dopo la deposizione della praetexta). Cfr. anche Svetonio, Vespasianus 22; Gellio, Noctes Atticae 9.10; ecc. 22. Per le mani alzate, vedi Parte prima, par. iv.1. 23. «Une des mes servantes» traduce LAFAYE 1928, vol. II, p. 103; BÖMER 1977, p. 361, nota che l’acconciatura dei capelli di Galanthis non è quella di una schiava ma di una donna libera: però non si pronunzia sulle specifiche funzioni svolte dalla ragazza nella casa di Alcmena. 24. In Ovidio l’espressione media de plebe ricorre di frequente, e ovviamente indica sempre non una condizione di carattere servile ma l’appartenenza al «popolo» semplice: cfr. Metamorphoses 3.583 (Acetes, un Etrusco compagno di Bacco e figlio di un pescatore); 5.207 (soldati); Fasti 20 (un

dio scherzosamente definito come «di origini popolari»); cfr. anche Tristia 1.1.88 e 2.351. 25. Sorano, Gynaecia 2.5.82 sgg. 26. Sorani gynaeciorum translatio latina Muscionis 1.65 (in V. ROSE 1882, pp. 22-23): «ministrae cum obstetrice quot sunt necessariae?» Cfr. anche 1.66 (p. 24): «ministrae sine quassatione manibus apertis in deorsum uterum deducant». 27. Minister come adiutor medici è usato in Celso, De medicina 7.7.4b; in opposizione a medicus: 7.19.7; 8.10.2b; 7.7.14c; ecc. Cfr. anche Prisciano, Euporiston 3.1 (in V. ROSE 1882, p. 224): «Victoria [una obstetrix] artis meae dulce ministerium». 28. Vedi in proposito il lungo enigma di Aldelmo, tutto centrato sulla natura e le caratteristiche bizzarre della donnola, qui nell’epigrafe, Parte prima, cap. VIII (e nota 1). 29. Per la donnola che partorisce dalla bocca, vedi Parte prima, par. VII .6. 30. Sul carattere domestico della donnola, vedi Parte prima, par. VII .4. 31. Per il grido della donnola, vedi Parte prima, par. VII .1. 32. Cfr. QUILICI 1980, pp. 202 sgg. 33. Per una descrizione dettagliata del monumento e per l’inquadramento tipologico dei materiali della stipe cfr. TEDESCHI 2002, pp. 80-84 e schede XV, 1-32. 34. Alcuni esemplari provengono da contesti prenestini, in particolare cfr. PENSABENE 2001, pp. 291-305, nn. 1-112, soprattutto nn. 56 e 109; il tipo è datato dall’autore al secolo IV-III a.C. 35. Per la questione cfr. PENSABENE 2001, p. 304. 36. Anche se, come fa piú volte rilevare TEDESCHI 2007, l’impossibilità di connotare meglio lo Iunonarium di un’epigrafe prenestina (Corpus inscriptionum latinarum XIV.2867) e la consistente posteriorità rispetto al contesto archeologico rinvenuto, inducono a essere prudenti nella formulazione di ipotesi identificative. 37. Ovidio, Metamorphoses 9.316-19: «dea saeva … | traxit, et e terra corpus relevare volentem | arcuit, inque pedes mutavit bracchia primos». 38. TEDESCHI 2007. Ringrazio l’autrice per avermi messo a disposizione i risultati della sua ricerca, forniti dei necessari riferimenti bibliografici, e le relative immagini. 39. Cfr. BORDENACHE-BATTAGLIA e EMILIOZZI MORANDI 1979, ciste 32.I.1.119-20 e 9.64-65, tav. LXXIII. 40. Gli studi sugli atelier produttori hanno accertato che le produzioni vengono già avviate nella prima metà del secolo V a.C. con ciste realizzate con tecniche e materiali misti (cfr. JURGEIT 1986, pp. 119 sgg.; cfr. anche BORDENACHE-BATTAGLIA 1992, pp. 147-62) e proseguono tra il secolo V e il IV a.C. con la comparsa di ciste realizzate solo in lamina bronzea con i fregi incisi sul corpo e sul coperchio, produzione che perdura sino al secolo III a.C. e nella quale rientrano le ciste 9 e 32 (BORDENACHE-BATTAGLIA e EMILIOZZI MORANDI 1979) prese in considerazione in questo

paragrafo. 41. MASSERIA 2007. 42. Libanius, Narrationes 8 (FOERSTER 1903, 39, 6-15). 43. L’interpretazione di questo mutamento di nome in Libanio è resa piú difficoltosa dal fatto che il nostro passo sembra in qualche modo intersecarsi con tre difficili versi di Aristofane, Pax 1077-79, e in particolare con l’espressione kaì h

k d n akalanthìs epeigomén

tuphlà tíktei, «e

quella campanella [?] del cardellino nella fretta fa dei piccoli ciechi». Il problema sta in primo luogo in questo strano modo di connotare il cardellino, «campanella, sonaglietto», anche dal punto di vista sintattico; ma soprattutto mette in imbarazzo il fatto che, nella tradizione proverbiale greca, sia un cane, e non un cardellino, che nella fretta fa i piccoli ciechi (sul proverbio greco e i suoi paralleli cfr. TOSI

1991, p. 706). Una soluzione l’ha tentata BORTHWICK 1968a, che propone un parallelo proprio

con il mito di Alcmena e il testo di Libanio. E. K. Borthwick pensa che Aristofane, con akalanthís, si riferisca in realtà a una donnola: questa espressione funzionerebbe qui come gioco di parole con l’aggettivo akalós «tranquillo, calmo», e sarebbe da riferire alla donnola sul modello dei vari nomi vezzeggiativi o apotropaici che l’animale porta in numerose lingue (su questo vedi oltre, Parte seconda. par. II .1 e IV .2). In altre parole, questo verso di Aristofane sarebbe una testimonianza del fatto che ad Atene nel secolo V circolava già una versione del mito in cui il ruolo dell’aiutante era esercitato da Akalanthís «whether she is to be regarded as human or animal». Per quanto intelligente, questa interpretazione non soddisfa del tutto. In primo luogo, chi ci assicura che akalanthís fosse un nome per «donnola»? A quanto ne sappiamo, questo nome indica concordemente il «cardellino» in greco, e l’unica possibilità per riconnetterlo alla donnola sono delle congetture sul fatto che si tratti di una derivazione dall’aggettivo akalós «tranquillo, calmo» (che peraltro, come vezzeggiativo per una donnola suonerebbe abbastanza strano). Soprattutto, mentre nel caso della akalanthís di Aristofane si tratta di un parto accelerato, nel racconto di Alcmena abbiamo a che fare con un parto ritardato. Ancora, nel racconto di Alcmena non è l’aiutanteAkalanthís che partorisce, ma Alcmena. Il problema è insomma dei piú imbrogliati. Né aiuta a chiarirlo, ma semmai a complicarlo ulteriormente, la misteriosa allusione a una Artemis akalanthís fatta da Aristofane in Aves 871 (nessuna spiegazione in DUNBAR 1995, p. 511). In realtà, credo che ci si debba rassegnare ad accettare il testo di Aristofane per quello che è, senza cercare di trasformare in una donnola il cardellino che vi è nominato: si tratta semplicemente di un proverbio di tipo animale che questa volta (per motivi di invenzione momentanea del poeta o in base a una tradizione che non conosciamo) vede il «cardellino» al posto della «cagna» come interprete del cliché «se si partorisce in fretta, si fanno cuccioli ciechi». Da questo punto di vista, si può forse notare che il cardellino aveva fama di uccello prolifico (Plinio, Naturalis historia 10.175: «omnia animalia quo maiora corpore, hoc minus fecunda. Singula gignunt elephanti, cameli, equi; acanthis

duodenos, avis minima»), proprio come la cagna o la gatta nella cultura contemporanea. Per cui non meraviglia vedere un cardellino impegnato in un motto proverbiale in cui esso compie lo stesso «misfatto» commesso da altri animali prolifici. 44. Antonino Liberale, Metamorphoses 29; cfr. PAPATHOMOPOULOS 1968, ad locum. Cfr. anche BORTHWICK

1968b.

45. Sul tema delle «mani sollevate» alla nascita, vedi Parte prima, par. VI .1. 46. Difficile identificare chi fosse il Preto indicato come padre di Galinthiás: non sembra comunque probabile che sia il fratello dell’eroe Acrisio: cfr. PAPATHOMOPOULOS 1968, p. 134. 47. Per la partoriente e la comare, vedi Parte seconda, par. III .3. 48. Per timaí kataléluntai, PAPATHOMOPOULOS 1968, p. 136, n. 13, richiama lo stesso Antonino Liberale, Metamorphoses 3.4, ed Esiodo, Theogonia 904 (dove si dice che Zeus aveva attribuito alle Moírai «la piú alta tim »). 49. Per questa gara di m tis, vedi Parte prima, par. VII .6. 50. Per la donnola che frequenta le case romane, vedi Parte prima, par. I .2. 51. Cfr. Euripide, Medea 397: «tu [Ecate] che risiedi nei recessi (muchoîs) del mio focolare». 52. Cfr. par. 3. Sul culto tebano di Galinthiás e sul rapporto di Galinthiás con Ecate vedi MASSERIA

2007 e MASSERIA 2015.

53. Per la donnola che porta bene, non male, vedi Parte seconda, par. II .1. 54. Eliano, De natura animalium 15.11. 55. Su questo vedi anche BORTHWICK 1968b. 56. Per le inclinazioni della donnola alla stregoneria e alla dissolutezza, vedi Parte seconda, par. II .3.

57. Eliano, De natura animalium 12.5. 58. Per l’agilità della donnola, vedi Parte prima, par. VI .5, la donnola come animale che «corre accanto», oltre ai passi di Istro ed Eliano citati nel testo, cfr. Plauto, Stichus 460; Teofrasto, Characteres 16; Plutarco, De curiositate 8 (519d): «quando la donnola ‘corre accanto’, è piú prudente nascondere la roba da mangiare»; ecc. 59. Scholia ad Iliadem 19.119 (ERBSE 1975, vol. IV, p. 603); cfr. anche Eustazio, ad Iliadem 19.117 (VAN DER VALK 1971-87, vol. IV, p. 297) = Istros, 334, F 72 (F. JACOBY 1961, vol. IIIB, 185-86; F. JACOBY 1954, vol. I, p. 659; vol. II, p. 523). Cfr. anche Clemente Alessandrino, Protrepticus ad Hellenos 2.34. Sembra chiaro che Eliano derivava direttamente dalla versione di Istro, che a sua volta, nell’ampliare il breve racconto dell’Iliade, «surely made use of a local tradition, rooted in faith and cult» (F. JACOBY 1961, vol. I, 659). 60. Da parte di Era, e contro la sua volontà: cfr. Diodoro Siculo, Bibliotheca historica 4.9.6; Igino, Astronomica 2.43; Eratostene, Catasterismi 4; Achille Tazio, Introductio in Aratum 24: cfr.

RENARD

1964, con un’analisi anche dei documenti figurati.

61. Per la levatrice e la nutrice, vedi Parte seconda, par. IV .2. 62. Un’ultima, inaspettata versione del nostro racconto potremmo incontrarla in una dedica epigrafica

(Corpus

inscriptionum

TELEPHVS.ET.PRISCVS.P.D… )

latinarum

XI.3573:

IVNONI.HISTORIAE

|

se fosse possibile accettare l’interpretazione di RENARD 1953, che un

po’ troppo ingegnosamente riferiva questa iscrizione al mito di Galanthis. In realtà, come lo stesso Marcel Renard dichiarava in una nota addizionale al suo lavoro, la lettura della -E finale in HISTORIAE

azzardata.

almeno oggi non è verificabile, e quindi l’interpretazione di Renard risulta ancora piú

1. Con «aria di famiglia» ci riferiamo alla celebre formulazione di WITTGENSTEIN 1967, pp. 4647, n. 65. 2. Il problema costituito dalle cosiddette varianti è cruciale (da sempre) negli studi sul mito e sulla letteratura orale: cfr. DETIENNE 1983, pp. 35-58. Impossibile non ricordare, a questo proposito, il celebre Finale di LÉVI-STRAUSS 1974, pp. 589-658; sulla nozione di «mitologia» e «mito» vedi ora le riflessioni di CALAME 1996, pp. 9-55. 3. In questo senso, ci avviciniamo alle riflessioni sulla natura dei miti svolte da SPERBER 1996, pp. 42-44. Secondo D. Sperber, la produzione mitica prevederebbe infatti tre diversi momenti: dei «récits, c’est-à-dire des représentations publiques», registrabili e osservabili; delle «histoires mentales, c’est-à-dire, des représentations mentales», che possono essere espresse in forma di «récits» o essere costruite a partire dai «récits»; e infine le concatenazioni causali «récits-histoiresrécits…» 4. Di questo rinnovato interesse per la continuità interpretativa costituisce un ottimo esempio GOODY

1997. In questa ricerca gli atteggiamenti iconoclasti o antiteatrali, le assenze di mitologia o

le resistenze verso la narrativa sono analizzati in culture molto diverse fra loro (Grecia, Roma, Asia, Africa, Europa moderna ecc.) per giungere alla conclusione che, indipendentemente dai contesti locali, tali fenomeni hanno in comune una stessa «contraddizione cognitiva» inerente all’interazione umana (vedi per esempio Parte prima, par. VI .1): il fatto cioè che la rappresentazione pretende di essere l’oggetto senza esserlo, e dunque si presenta come una costruzione intrinsecamente ambivalente e contraddittoria. Vedi anche le considerazioni teoriche finali di GOODY 1997, pp. 23870. 5. L’espressione «biological continuity» è di GOODY 1997, p. 226. 6. Il riferimento è alla formula «humanisme bien tempéré» messa in valore da TODOROV 1991.

1. Omero, Ilias 19.110. 2. Scholia ad Iliadem 19.110 (ERBSE 1975, vol. IV, p. 601). Nel testo dello scolio la parola soph s è messa fra cruces da Hartmut Erbse. 3. Eustazio, ad Iliadem 19.110 (VAN DER VALK 1971-87, vol. IV, p. 297). 4. LE ROY LADURIE 1982, pp. 532-33; LAURENT 1989, p. 182. 5. DE QUEVEDO 1959, pp. 135-62. 6. Michele Psello, De daemonibus (Migne, PG, 122, 861-62; ALBINI e ALBINI 1985, pp. 552-54; GAUTIER

1980, pp. 133-37). Cfr. anche PIZZARI 1989. A proposito di questo luogo specifico del

testo, cfr. SVOBODA 1927, p. 31, il quale fa notare che nella dottrina aristotelica (Problemata 4.28.880a) è il seme che si forma al caldo e all’umido, proprio come il «demone sessuale» di Psello gode di questa condizione. Sulla demonologia di Psello in generale vedi MALTESE 1995, pp. 139-56. 7. Plutarco, Amatorius 15 (758). 8. Plutarco, De amore prolis 3 (496c). 9. BOEHM 1905, pp. 11-12 (con materiali interessanti); THOMSON 1954, pp. 204-10; PARKER 1983, pp. 48-53. È noto che la fine di questo periodo di impurità della puerpera coincide spesso con il quarantesimo giorno: cfr. Censorino, De die natali 11.7 (a proposito della Grecia); vedi ROSCHER 1909. A Roma non sembra esserci traccia di questa scansione tessaracontadica (ossia dei quaranta giorni) per il tempo di purificazione della puerpera (KÖVES-ZULAUF 1990, pp. 222-24, con ulteriore bibliografia). Per le prescrizioni in materia date dal Leviticus 12.1-8 (cfr. anche Evangelium secundum Lucam 2.22), cfr. l’ampia discussione di MILGROM 1991, pp. 742-48. 10. AHERN 1975, p. 194. 11. Teofrasto, Characteres 16.10. 12. Scholia a Platone, Theaetetus 160e (C. F. HERMANN 1873, p. 240); Apostolio 2.56 (LEUTSCH 1965, vol. II, p. 278). Cfr. Suda, s.v. «Amphidrómia» (ADLER 1928, vol. I, p. 153, n. 1722). Cfr. anche PARKER 1983, p. 51. 13. COSMINSKY 1976, p. 237. 14. R. Jungwirth, Hebamme (HDA, III, p. 1595). 15. Cfr. per esempio Pindaro, Olympia 10.97; ecc. 16. Sulla concezione virginale di Maria, vedi Parte prima, par. VII .7; sul puerperio di Maria cfr. SCHREINER

1995, pp. 44-51.

17. SCHREINER 1995. 18. Ireneo, Adversus haereses 7.2 (SIMONETTI 1993, p. 316). 19. Libro di Giovanni Evangelista 10 (in CRAVERI 1969, p. 576): si tratta di un testo medievale, di impostazione manichea e dalla tradizione assai avventurosa e complessa. 20. Per le orecchie della Vergine, vedi Parte prima, par. VII .7.

21. SIGNORINI 1987; PALUMBO 1991, pp. 189-209. 22. Cfr. SIGNORINI 1987 e l’interpretazione di PALUMBO 1991, pp. 191-93. 23. Questa la bella interpretazione di PALUMBO 1991, pp. 192-93; cfr. Evangelium secundum Marcum 5.25-29. 24. LORAUX 1981, p. 39; PINGIATOGLOU 1981, p. 16; una lista alle pp. 87-88, n. 237. Sulle «realistiche» raffigurazioni di scene di parto, in gesso, provenienti dal tempio di Afrodite a Cipro, ancora PINGIATOGLOU 1981, pp. 91-92, n. 243; vedi anche alcune immagini in GOUREVITCH 1988; FRENCH

1986, pp. 76-77; per il mondo greco soprattutto DEMAND 1994, pp. 87-88 e 122-26.

25. Hartland, Birth. Introduction (Hastings, ERE, II, pp. 635-43). Cfr. anche BLUMENFELDKOSINSKI

1990, p. 91 (con bibliografia a proposito dell’esclusione dell’uomo dalla stanza del parto

fino al secolo XVIII ); LAURENT 1989, p. 182; DONEGAN 1978, p. 23; LAGET 1978, pp. 135-36. 26. Sia detto per inciso, ma abbiamo il sospetto che l’esclusione degli uomini dalla stanza del travaglio, almeno nella coscienza comune, sia durata fino a pochi anni fa e non soltanto fino al secolo XVIII . E probabilmente è ancora in parte cosí. Non a caso l’importanza emotiva che la presenza dell’uomo può avere per la donna che deve partorire viene spesso sottolineata dalla moderna letteratura sul parto e la nascita (cfr. per esempio KITZINGER 1979, pp. 8, 13, 25, ecc.), per reagire evidentemente a una tendenza contraria, e viene incoraggiata nella prassi degli ospedali. 27. Tomaso Garzoni, Discorso CXXX, Delle comari e delle balie, o balii, o nutrici, in GARZONI 1996, vol. II, p. 1341; nella nota ad locum dei curatori viene citato Joannis Ravisii Textoris, Theatrum poeticum atque historicum sive Officina: De obstetricibus (1600), vol. II, p. 15. 28. Per la versione omerica, vedi Prologo sull’Olimpo, parr. 1-4 . 29. FORD 1964, pp. 56 sg. Dalle tavole quantitative che stanno in fondo all’opera di Ford, risulta che all’uomo è vietato assistere al parto in 45 culture contro una. 30. LAQUEUR 1990, p. 27. 31. DEMAND 1994, p. 57. 32. Galeno, De usu partium (in KUHN 1964, pp. 628-29). Cfr. anche LAQUEUR 1990, pp. 26-28. 33. LAQUEUR 1990, pp. 70-98. 34. Per Olimpiade, vedi Prologo sull’Olimpo, par. 5. 35. Per il bambino che «cade fra i piedi della donna», Prologo sull’Olimpo, par. 4. 36. Inno omerico III, In Apollinem 116-17. Sulla posizione inginocchiata della partoriente cfr. WELCKER

1833; PLOSS 1905, pp. 13, 42; SAMTER 1911, pp. 6-10; WILLETTS 1962, p. 169, n. 147

(con bibliografia relativa a numerose statuette di donne inginocchiate che sarebbero da identificare come Eileíthyiai); BACK 1922, pp. 162-67; ZANCANI MONTUORO e ZANOTTI-BIANCO 1951, p. 14 e n. 3, tav. VI. Vedi anche il commento di CÁSSOLA 1975, p. 495. Callimaco, In Delum 206, modifica la posizione di Latona, che adesso non è piú «in ginocchio» ma «siede»: a questo proposito MOST

1981 ha sostenuto che tale trasformazione sarebbe stata operata consapevolmente da Callimaco sotto l’ispirazione della scienza ginecologica di Erofilo, e anzi, con una esplicita intenzione parodica (ma vedi Prologo sull’Olimpo, nota 39, sulla posizione seduta come comune). 37. Esiodo, Theogonia 460. Cfr. WEST 1966, ad locum: «Hesiod probably thought of Rhea as giving birth in a kneeling posture». 38. Pausania, Graeciae descriptio 8.48.7. Cfr. il commento di FRAZER 1898, vol. IV, pp. 436-37, che inseriva queste testimonianze nel suo abituale schema evolutivo: esse ci permetterebbero di inferire che, nella Grecia piú antica, le donne partorivano in ginocchio. Cfr. anche BAUR 1899-1901, pp. 474-75; PINGIATOGLOU 1981, p. 42. Per la posizione in ginocchio della donna greca, sentita come «piú arcaica» delle altre, sono stati suggeriti già in passato numerosi riscontri comparativi: WELCKER

1833, p. 190, attingendo alle relazioni etnografiche accessibili ai tempi suoi, la ricordava

come tipica delle donne in Abissinia (LUDOLF 1681, libro I, cap. XIV : «parturientes in genua procumbunt atque ita infantes enituntur»); lo stesso in PLOSS 1905, pp. 13, 42; SAMTER 1911, pp. 14-15. 39. Apollodoro, Bibliotheca 3.9.1; 2.7.4. Cfr. Diodoro Siculo, Bibliotheca historica 4.33.7-12; Strabone, Geographica 13.1.69; Pausania, Graeciae descriptio 8.4.9; 8.47.4; 8.48.7; 8.54.6; 10.28.8; ecc. Cfr. anche PINGIATOGLOU 1981, p. 81. 40. MARX 1885; SAMTER 1911, pp. 9 sgg.; WELCKER 1833, pp. 188 sgg.; PETERSMANN 1990, con ulteriore bibliografia a n. 25; PINGIATOGLOU 1981, p. 135, con discussione; Semeli Pingiatoglou non identifica il personaggio femminile e pensa che si tratti di una scena influenzata da modelli orientali. Per altre possibili raffigurazioni di partorienti in ginocchio cfr. Erodoto, Historiae 5.82 (statue di Damia e Auxesia). 41. CLAY 1989, p. 235. Per la sedia ginecologica cfr. GOUREVITCH 1988. Altri materiali e una serie di indicazioni bibliografiche utili in SORANOS D’ÉPHÈSE 1988, pp. 123-31; in relazione alla descrizione del díphros ginecologico fatta da Sorano, Gynaecia 2.3.20 sgg. 42. FURTH 1987, p. 17. Le carte imbevute dei liquidi natali venivano diligentemente raccolte dalla levatrice per essere poi gettate in un corso d’acqua che doveva essere ampio e corrente: in assenza di questo, le carte venivano seppellite, ma non bruciate, perché altrimenti anche il bambino sarebbe bruciato: AHERN 1975, p. 197. Per l’uso egizio di appoggiare il bambino neonato su rotoli di papiro, vedi Prologo sull’Olimpo, nota 61. 43. FORD 1964, p. 58. 44. Sull’etimologia del nome lóchos, «parto», da tenere separato da lóchos, «imboscata», cfr. LAMBERTERIE

1975. Il nome per la sedia ginecologica in greco è lochídion, gunaikeîos díphros,

maiotikòs díphros, díphros locheîos: cfr. HUSSON 1986. Affascinante, ma probabilmente poco fondata, l’analogia stabilita da LORAUX 1981, p. 41, fra lóchos «imboscata» e lóchos «parto» nel

quadro della equivalenza culturale fra la morte in battaglia per l’uomo e quella di parto per le donne (che costituisce com’è noto la tesi di questo bel saggio di Nicole Loraux). 45. Ippocrate, De mulierum affectibus 1.68 (LITTRÉ 1961-78, vol. VIII, pp. 142 sgg.); Celso, De medicina 7.29. Cfr. anche SAMTER 1911, p. 15. 46. Nonio, De compendiosa doctrina (LINDSAY 1964, p. 80): «enixae … a Nixis, quae religionum genera parientibus praesunt». Festo, De significatione verborum (LINDSAY 1978, p. 182): «Nixi di appellantur tria signa in Capitolio … genibus nixa, velut praesidentes parientium nixibus». Per il problema costituito da Ovidio, Metamorphoses 9.294 (dove la tradizione manoscritta oscilla fra nixosque pares, nexusque pares, nexusque partus, ecc.) vedi MAGNUS 1904, pp. 344-45, in apparato ad locum, e la nota di BÖMER 1977, ad locum; da non dimenticare anche le due misteriose statuine (mikroì andriantískoi) che Teseo dedica a Cipro nel contesto di un rituale legato alla morte di Arianna per parto (Plutarco, Theseus 20.7: vedi sotto nota 49). 47. A cominciare dal testo di Ovidio, Metamorphoses 9.294, che come abbiamo detto si presenta incerto (cfr. la nota precedente). Sui Nixi di, vedi soprattutto PETERSMANN 1990, e qui pp. 94-95, 117, nota 43. 48. Cosí PETERSMANN 1990. 49. Vedi la classica analisi di HARTLAND 1894, vol. I, pp. 400-18; cfr. anche Hartland, Birth. Introduction (Hastings, ERE, II, pp. 635-643). Secondo un’interpretazione ricorrente di questo costume, lo scopo del rituale sarebbe quello di attrarre l’attenzione di possibili spiriti malefici per allontanarne l’influenza dalla partoriente vera: cfr. per esempio FORD 1964, p. 63. Nel Mondo Antico, testimonianze relative alla couvade stanno in Apollonio Rodio, Argonautica 2.1009 sgg.; Strabone, Geographica 3.4.17; Diodoro Siculo, Bibliotheca historica 5.14. Si ricordi anche lo strano rituale che si compiva ad Amatunte per ricordare il doloroso travaglio di Arianna abbandonata: «un giovinetto sdraiato (kataklinómenos) si lamenta e si comporta come fanno le donne che partoriscono» (Plutarco, Theseus 20.7). Il problema della couvade (fino a quello posto dalla stessa esistenza di queste pratiche in quanto costume specificamente definibile) costituisce uno dei loci classici dell’interpretazione antropologica: cfr. RIVIÈRE 1974; R. M. Gros, Couvade (in Eliade, ER, IV, pp. 132-33, con bibliografia). Materiali anche in BERTOCCHI 1995. SPERBER 1996 ha utilizzato proprio alcuni studi sulla couvade come materiali per una meta-discussione sui differenti tipi di «spiegazione» in antropologia: la «generalizzazione interpretativa» a proposito di DOUGLAS 1975a, p. 65, «la couvade come prova di paternità», e di LÉVI-STRAUSS 1964a, p. 215: «il padre non assume il ruolo della madre ma quello del bambino»; la spiegazione «strutturalista» a proposito di MENGET

1988: «relazione di continuità fra couvade e proibizione dell’incesto»); ecc. A proposito

della couvade, vale infine la pena di notare che i dati offerti dal folclore spesso non sembrano essere stati valorizzati come meriterebbero: cfr. i testi raccolti da HAND, CASETTA e THIEDERMAN 1981,

vol. I, pp. 540 sgg., da cui risulta che in molte altre forme la donna cerca di «dividere» con il marito le pene del travaglio, rendendole cosí piú lievi. Sulla couvade del gallo, vedi Parte prima, par. III .3. 50. C’è comunque un aspetto della posizione inginocchiata che occorre mettere in evidenza. Almeno in Grecia, l’abbiamo vista legata a situazioni eccezionali e caratterizzate da grande emotività. Inoltre, essa si presenta in qualche modo come la piú simbolica. Non si può infatti negare che la posizione in ginocchio, oltre a permettere una spinta efficace da parte della donna, le attribuisse contemporaneamente anche una positura di supplice, e potesse assumere valore in qualche modo religioso (cosí SAMTER 1911, pp. 19-20, che pensava a un contatto con la Madre Terra e con la sede dei morti). La partoriente inginocchiata è, contemporaneamente, una donna che esercita la «spinta» che divinità come i Nixi di rappresentano simbolicamente, e una donna che fa aderire al terreno le sue ginocchia, segnalando cosí la sua totale, piena soggezione alle divinità che presiedono a quel difficile momento. Sulla posizione inginocchiata del supplice nell’iconografia greca e romana, cfr. GHEDINI 1996. Non possiamo neppure escludere che nel gesto di inginocchiarsi compiuto dalla partoriente si celassero anche altri, possibili significati. Plinio, Naturalis historia 11.250, descrive cosí il valore simbolico delle ginocchia: «secondo la tradizione popolare, nelle ginocchia è insita una sorta di religione. Sono queste infatti che i supplici toccano, verso di esse tendono le mani, e le adorano come se si trattasse di altari, forse perché contengono il principio vitale. Infatti, in ciascuna articolazione delle due ginocchia, la sinistra e la destra, nella parte anteriore, sta un’identica apertura, simile a quella boccale: se la si trapassa ferendola, lo spirito abbandona il corpo, come quando si recide la gola» (cfr. Servius Auctus, ad Aeneidem 3.607: «i physici dicono che le singole parti del corpo sono consacrate alla divinità, come le orecchie alla memoria … le ginocchia alla misericordia, per cui i supplici le toccano»). Le ginocchia contengono insomma nientemeno che la vita. Un’idea che pare del resto confermata dal frequente legame stabilito fra le «ginocchia» da un lato e la «forza» dall’altro, in molte espressioni (anche omeriche) che segnalano proprio come la perdita della forza corrisponda a uno «sciogliersi» o «indebolirsi» delle ginocchia: mentre la buona salute, l’età giovanile e fiorente, sono segnalate al contrario dal carattere «vigoroso» di queste articolazioni (Omero, Ilias 4.413; 17.569, ecc.; Esiodo, Theogonia 910; Orazio, Epistulae 13.3; ecc.). Cfr. ONIANS 1951, pp. 174-99. Colei che si inginocchia, dunque, preme quella famosa «cavità» descritta da Plinio sulla superficie del suolo e pone in contatto con la terra la sua vitalitas. Data la struttura per definizione aperta del linguaggio gestuale, è difficile stabilire cosa questo potesse significare esattamente: ma certo doveva avere un senso per chi, come la partoriente, stava per dare la vita a un’altra creatura rischiando in certi casi la propria. Se la «forza» e la «vita» stanno nelle ginocchia, puntare direttamente queste a terra, e non altre parti del corpo, poteva significare un accrescimento simbolico di forza e di vigore per lo sforzo intrapreso. La donna in ginocchio era contemporaneamente una supplice, una partoriente che, stando in ginocchio,

meglio esercitava la sua spinta, e infine una persona che manifestava anche simbolicamente l’impegno di tutta la sua vitalitas e di tutta la sua forza nel momento cruciale del travaglio. 51. Inno omerico III, In Apollinem 91-119. Pausania, Graeciae descriptio 1.18.5, riferisce l’opinione che il culto di Eileíthyia sarebbe iniziato a Delo in seguito a questo intervento della dea in favore di Latona, e che dall’isola il culto si sarebbe diffuso in Grecia. In alcune versioni del mito Artemide, nata per prima, svolge la funzione di levatrice nei confronti della madre (Apollodoro, Bibliotheca 1.4.1; Servius Auctus, ad Aeneidem 3.73; cfr. Servius Auctus, ad Eclogas 4.10), manifestando cosí fin dal momento della nascita la sua connessione con il mondo delle partorienti. Su Artemide dea levatrice, vedi Parte seconda, par. IV .2. 52. Cfr. il frammento del comico Teopompo, Teisamenos 60 (KASSEL e AUSTIN 1989, vol. VII, p. 735): «ma Eileíthyia riceve il perdono dalle donne quando si comporta da stordita (katapléx) nella sua arte». 53. Eliano, De natura animalium 10.26; di questa statua si dava comunque anche un’altra interpretazione: un lupo avrebbe aiutato a scoprire l’autore di un furto sacrilego. Su questa seconda versione cfr. MAINOLDI 1984, p. 27. 54. Aristotele, Historia animalium 6.35 (580a); Filostefano, 3.32 (in MÜLLER 1851-70); Antigono di Caristo, Mirabilia 61 (KELLER 1877); Eliano, De natura animalium 4.4; 10.26; Plutarco, Quaestiones naturales 38. Per il rapporto fra Latona e i lupi cfr. anche Antonino Liberale, Metamorphoses 35 (e la nota di PAPATHOMOPOULOS 1968, ad locum). 55. Eliano, De natura animalium 4.4. 56. Plutarco, Quaestiones naturales 38; vedi anche Aristotele, Historia animalium 6.35 (580a). 57. La lupa ha connotazioni materne, come mostra il fatto che, nella tradizione mitica, vi sono casi di eroi nutriti da una lupa: oltre a Romolo e Remo, si possono ricordare Parrasio e Licasto; cfr. Plutarco, De fortuna Romanorum 36 (320). Cfr. anche MCCARTNEY 1925. 58. Eliano, De natura animalium 4.29. 59. Pindaro, Paeanes 12.14-16. 60. Vedi per esempio DELATTE 1914, pp. 86 sgg.; AUBERT 1989, pp. 441 sgg. Una traccia piuttosto oscura del ruolo svolto al momento del parto non dal canto del gallo ma da quello della gallina sta anche nella cultura romana: cfr. il commento di Donato a Terenzio, Phormio 708 (WESSNER 1902-908): «Gallina cecinit: obstetricum est, cum †cidonia [qua domo? cosí in V] gallina canat, superstitem marito esse uxorem» (La gallina ha cantato: le levatrici dicono che, se in casa canta una gallina, la moglie sopravviverà al marito). Sulle credenze relative alle galline appena hanno fatto l’uovo cfr. Plinio, Naturalis historia 10.116. 61. Vedi il racconto di Pausania, Parte prima, par. I .1. 62. Inno omerico III, In Apollinem 119.

63. Per la couvade, vedi cap. iii, nota 49. 64. Sul significato antropologico di questa femminilizzazione del perdente, vedi qui Parte seconda, par. I .1 e par. II .4. Per casi di violenza sessuale sul maschio vinto, cfr. le pernici, e gli stessi galli, in Plinio, Naturalis historia 10.100.

1. Tale era la prassi in Macedonia ancora agli inizi del Novecento; cfr. ABBOTT 1903, p. 123. L’uso di mandare a chiamare la levatrice di nascosto, per evitare malocchio, stregonerie, e cosí di seguito, è ampiamente documentato nelle tradizioni europee; cfr. R. Jungwirth, Hebamme (HDA, III, p. 1595). 2. Il timore che la donna, subito dopo il parto, possa essere assalita da demoni malefici o altre creature minacciose è di carattere transculturale: cfr. FRAZER 1918, vol. III, pp. 427-77. 3. Michele Psello, De daemonibus (Migne, PG, 122, 857-60; ALBINI e ALBINI 1985, pp. 435-59; e GAUTIER 1980). Cfr. anche PIZZARI 1989. A proposito di questo luogo specifico del testo, cfr. SVOBODA

1927, pp. 29-53.

4. A. Melenik, un informatore citato da ABBOTT 1903, p. 124. George Frederick Abbott, che evidentemente non aveva presente il passo di Psello, definiva questa menzione dell’Armena un’espressione «of obscure meaning» e assicurava che anche la gente del luogo non aveva la minima idea riguardo a «who this lady is». 5. Per questi filtri, vedi Parte seconda, cap. III , nota 106. Le poche notizie disponibili su questi personaggi in E. Wüst, Pharmakides (Pauly-Wissowa, XIX.2, pp. 1839-40). Porta fuori strada l’ottimo articolo di BORTHWICK 1968b: lo scolio ad Apollonio Rodio, Argonautica 3.861, si riferisce piú verisimilmente a delle pharmakídes con la minuscola, cioè a delle streghe in generale, che non a queste streghe per antonomasia del nostro racconto. 6. Per questi racconti della strega, vedi Conclusioni, par. II . 7. Su Eileíthyia e le Eileíthyiai cfr. OLMOS 1986; il lavoro piú completo è PINGIATOGLOU 1981. 8. Per Era «madre» di Eileíthyia, e i rapporti fra queste due divinità in generale, vedi i materiali raccolti nella nota di PAPATHOMOPOULOS 1968, p. 135. 9. Evangelium secundum Matthaeum 16.19: «E ti darò le chiavi del regno dei cieli. E tutto ciò che avrai legato in terra sarà legato anche in cielo: e tutto ciò che avrai sciolto in terra sarà sciolto anche in cielo». 10. Per la strega, vedi Parte seconda, par. III .1.b. 11. INSTITOR e SPRENGER 1977, pp. 248-49. Sulle levatrici streghe del Malleus, vedi qui Parte seconda, par. III .1.d. 12. Cfr. in particolare BELMONT 1971, pp. 175-80, a proposito di Moírai greche, Parcae romane e Norne della tradizione germanica. Sulle Carmentes romane, vedi Parte seconda, par. III .1.c; per il Medioevo, vedi la classica ricerca di HARF-LANCNER 1989, pp. 20-41. Sulle «fate madrine» nella letteratura folclorica, cfr. THOMPSON 1932, F 311, 1 (Fairy god-mother); F 312 (Fairy presides at child’s birth); F 316 (Fairy lays curse on child); F 361, 1 (Fairy takes revenge for not being invited to feast); A 463, 1 (The Fates); M 301, 12 (Three fates, ‘norns’, prophesy at child’s birth). Altra bibliografia utile in M. Schuster, Wiesel (Pauly-Wissowa, XVI, pp. 2128-30).

13. Sui rapporti fra le Moírai e Eileíthyia vedi ancora PAPATHOMOPOULOS 1968, p. 135, e soprattutto PINGIATOGLOU 1981, pp. 95-97. 14. Pindaro, Paeanes 12.16-17. Nell’Inno (peana) di Isillo (fine del secolo IV a.C.; Inscriptiones Graecae IV.950, v. 50) Láchesis porta direttamente il titolo di maîa agauá, «nobile levatrice». Cfr. PINGIATOGLOU

1981, p. 165.

15. Apollodoro, Bibliotheca 1.8.2-3; Igino, Fabulae 171; ecc. La presenza delle tre Moírai al momento della nascita era ancora viva nel folclore macedone, e costituiva anzi la premessa per racconti di tipo «edipico» in cui qualcuno, che voleva sfuggire il fato assegnatogli dalle Moírai, si trovava immancabilmente a compierlo: cfr. ABBOTT 1903, pp. 126-34. 16. Pausania, Graeciae descriptio 8.21.3; cfr. BAUR 1899-1901, pp. 462 e 472. Sul rapporto fa destino e filatura cfr. ONIANS 1951, p. 303; sulla filatura, vedi qui Parte seconda, par. IV .2. 17. PEEK 1955, n. 1606, e cfr. DEMAND 1994, p. 126. 18. Si tratterà solo di una coincidenza, ma il medico Sorano (Gynaecia 3.5) indicava come ideale il numero «tre» per le levatrici che assistevano al parto, e tre erano pure le Moírai, tre le Eileíthyiai: cfr. BAUR 1899-1901, p. 502. 19. PINGIATOGLOU 1981, pp. 56-59, 74; si rammenti anche un «piccolo fuso» come offerta votiva a Eileíthyia anche nell’inventario dei doni votivi dello Eileithyíaion di Delo. 20. Cfr. BETTINI 1982, pp. 99-101. 21. Platone, Respublica 620e. 22. Interessante a questo proposito l’espressione metaforica usata da Euripide in Rhesus 183: en kúboisi daímonos (esponendo la vita nei dadi del destino). 23. W. Roscher, Pharmakides (Roscher, GRM, III, p. 2276), pensava che Pharmakídes e Moírai fossero in realtà la medesima divinità. 24. Cfr. RODD 1892, pp. 106-13. 25. Scholia ad Iliadem 19.119 (ERBSE 1975, vol. IV, p. 602); sulle Eileíthyiai, vedi anche Prologo sull’Olimpo, nota 10. 26. Gregorio di Corinto, Scholia in Hermogenis librum peri methodou deinotetos 13-14 (in WALZ

1834, vol. VII.2, p. 1141). Cfr. USENER 1895, p. 299, che analizza proprio Omero, Ilias

19.119. Secondo l’interpretazione di Hermann Usener, Eileíthyia rappresenterebbe qui «non solo ciascun parto individuale ma anche ciascun travaglio individuale» (questa interpretazione deve essere valutata all’interno delle categorie di «Begriffsbildung» e di «Augenblicksbegriff» usate da Usener nella sua analisi delle divinità dell’attimo). 27. Varrone, Antiquitates Rerum Divinarum, fr. 100 (CARDAUNS 1976, vol. I, 68). Probabilmente si tratta in realtà di una paretimologia; cfr. ERNOUT e MEILLET 1967, s.v. Cfr. anche PETERSMANN

1990.

28. Omero, Ilias 11.270; 16.187. Lo scolio ad Iliadem 11.270b (ERBSE 1975, vol. III, p. 175) ci informa del fatto che Aristarco insisteva sull’accentuazione parossitona di questa espressione (mogostókoi) in quanto le Eileíthyiai non «soffrono» esse stesse le pene (come accadrebbe se si accentuasse mogóstokoi, proparossitono) ma le provocano. Su questo composto, abbastanza singolare dal punto di vista linguistico, vedi la nota al v. 11.270 in HAINSWORTH 1993, p. 255. 29. Omero, Ilias 11.269-71. 30. Omero, Ilias 19.103; 16.187-88, ecc. 31. Sul carattere ambivalente di Eileíthyia, dea che può esercitare un influsso tanto negativo quanto positivo sulla nascita, vedi PINGIATOGLOU 1981, pp. 87 e 164 per le testimonianze epigrafiche. 32. Omero, Ilias 11.264-72. 33. Per le frecce delle Eileíthyiai cfr. per esempio Teocrito, Idyllia 27.28. Per i dolori del parto in Grecia (il modo di trattarli e quello di chiamarli) cfr. H. KING 1988b. 34. Lo scolio ad Iliadem 11.267a (ERBSE 1975, vol. III, p. 174) fa notare che l’espressione omerica corrisponderebbe alla dottrina medica (iatrikós): «fino a questo momento, cioè fino al momento in cui il sangue continua a fuoruscire, le ferite sono infatti libere da infiammazione». 35. Cfr. DEMAND 1994, pp. 19 e 49. In base a questo pregiudizio, si è anzi cercato di spiegare il fatto che nel Corpus Hippocraticum i casi di parto difficile sono piú frequentemente attribuiti alla presenza di feti femmina (si ritiene che il bambino maschio, essendo piú forte, spinga di piú). 36. Ippocrate, De mulierum affectibus 1.1 (LITTRÉ 1961-78, vol. VIII, p. 10): il verbo usato per il movimento del feto nel ventre materno, sia in questo passo sia nella piú lunga descrizione che riportiamo nel testo, è ch ré . Sorano (Gynaecia 2.6) non sembra presupporre lo stesso modello di passività materna: egli pone infatti l’accento su come la partoriente deve respirare e sullo «sforzo» (enteinómenai) delle donne in travaglio. Plinio (Naturalis historia 7.42) raccomanda che la partoriente trattenga il respiro, e giudica letale sbadigliare durante il parto; cfr. FRENCH 1986, p. 75. Anche l’Alcmena di Ovidio (vedi qui Parte prima, par. I .1 e cap. I , nota 17) sottolinea il suo niti, il suo impegno a «spingere» il bambino; cosí come Nixi di (vedi Parte prima, par. III .2 e qui sotto nota 43) si chiamavano a Roma le divinità del parto. 37. Ippocrate, De natura pueri 30.1 sgg. (LITTRÉ 1961-78, vol. VII, pp. 530 sgg.). 38. Che il bambino sia «legato» dalle membrane è detto chiaramente anche da Ippocrate, De septimestri partu 1 (LITTRÉ 1961-78, vol. VII, p. 436). Sulle membrane femminili vedi SISSA 1992, pp. 99-100. 39. I. M. Lonie, in DEMAND 1994, p. 192, n. 98. Cfr. DEAN-JONES 1994, p. 212: almeno in un caso, i medici ippocratici sembrano essere a conoscenza del meccanismo delle contrazioni. 40. Eliano, De natura animalium 12.5; per questo testo, vedi Parte prima, par. I .6.

41. Ovidio, Metamorphoses 9.314; per questo testo, vedi qui Parte prima, par. I .1 e cap. I , nota 17. 42. Cornuto, Theologiae Graecae compendium 34 (LANGE 1881, p. 73). 43. Eliano, De natura animalium 4.4. Gli esempi possono continuare. Il grammatico Nonio forniva una sua (falsa) etimologia della parola enixae, usata a proposito delle donne che hanno partorito, proprio richiamando l’idea del nexus, ossia del «legame», che caratterizza il parto, De compendiosa doctrina (LINDSAY 1964, p. 80): «enixae dicuntur feminae … sed elegantior intellectus, ut ex hoc dictae esse credantur, quod vinculis quibusdam pericli, quibus implicarentur, fuerint exsolutae: nexum enim dicimus aptum et conligatum. Plautus in Amphitryone id probat dicens [488]: uno ut labore exsolveret [absolvat codd.] aerumnas duas». Mentre è singolare il ricorrere, nella tradizione, della confusione fra nixus «sforzo», «doglia» e nexus «legame» quando si parla di parto. Questa confusione tocca anche le tre divinità romane del parto di cui abbiamo già parlato sopra: i Nixi di «gli dèi dello sforzo, del travaglio», quelle tre statue inginocchiate che venivano onorate sul Campidoglio (vedi qui Parte prima, par. III .2). È curioso infatti che nella tradizione manoscritta di Ovidio, proprio nell’episodio di Alcmena (Metamorphoses 9.294), la grafia di questi di oscilli proprio fra nixi, nexus ecc. (vedi cap. III , nota 46). Per parte sua, Isidoro di Siviglia sottolinea il fatto che il bambino viene concepito e formato in modo «attorcigliato» nel grembo materno (Etymologiae 11.1.109: «denique complicatum gigni formarique hominem…») Quando si tratta del parto, dall’idea dello «sforzo» si scivola facilmente in quella del «nodo». Ancora oggi, del resto, in tedesco si dice Entbindung «scioglimento» per definire il parto. Nel prossimo capitolo, a ulteriore conferma di questa rappresentazione metaforica del parto come fuoruscita del bambino dagli «attorcigliamenti» del ventre, vedremo da quanto timore superstizioso, e da quante forme di rituale, fossero colpiti i nodi in occasione della nascita. 44. Empedocle, fr. 31 B 70 (DIELS e KRANZ 1960, vol. I, 337, 21). Il frammento è discusso da H. KING

1986b, che interpreta questa testimonianza in relazione ad amníon, «vaso che contiene il

sangue sacrificale». 45. Rufus 229 (in DAREMBERG e RUELLE 1879, p. 166, nota 11); cfr. Polluce, Onomasticon 2.223 (BETHE 1900). 46. Cornuto, Theologiae Graecae compendium 34 (LANGE 1881, p. 73). 47. Dal punto di vista comparativo, eilé

sembra essere lo stesso del latino volvo «far ruotare»

«arrotolare» e cosí via (vedi CHANTRAINE 1968, pp. 319-20). Alla stessa famiglia radicale appartengono poi parole come eilú «arrotolato») ed elíss

«ripiegare», «avvolgere», hélix (detto di qualcosa che è

«far girare», eíl sis «turbine di vento», l’avverbio eil dón «in giro», e cosí

di seguito, sempre con parole che indicano l’azione di «far girare», «avvolgere», «attorcigliare». A volte il verbo eilé

può riconnettersi direttamente al significato di «legare», con uno sviluppo

semantico del tutto comprensibile: cfr. per esempio Apollonio Rodio, Argonautica 1.129, 2.1249, 4.181, ecc. Esichio, Lexicon (LATTE 1953, vol. II, p. 28) riporta la parola eílea con il significato di «morso [per il cavallo], legame, museruola, collare». Sorano, Gynaecia 2.6.115, spiega come alla partoriente debbano essere tolti gli indumenti che la stringono e debbano essere sciolti i capelli, e per indicare la «fascia» pettorale femminile usa proprio la parola peri-eíl sis. Anche qui, si tratta di qualcosa che «lega» o «avvolge». Ancora piú interessante risulta la parola eileós o ileós, che nell’Ippocrate, Aphorismi 3.22 (LITTRÉ 1961-78, vol. IV, p. 496), significa «ostruzione intestinale»: dato che Eileíthyia identifica, come sappiamo, dei «dolori» addominali, e che essi corrispondono proprio a una difficoltà di espulsione, il fatto che una parola della famiglia di eilé indichi proprio la «ostruzione intestinale» può costituire un parallelo interessante. Su eilé

e le parole connesse alla

radice el- vedi CHANTRAINE 1968, pp. 319-20. 48. L’etimologia di Eileíthyia è stata dibattuta a lungo. Da un lato SCHULZE 1892, pp. 259-63, aveva insistito sul rapporto con la radice eleuth- «venire» (Eileíthyia come «la dea che viene»): tale ipotesi è stata ulteriormente ampliata da HEUBECK 1972, ed è accettata fra gli altri da BURKERT 1971, pp. 57-58, 83, 265, 269, e da PINGIATOGLOU 1981, pp. 11-12; dall’altro lato si è avuto invece buon gioco nel sottolineare sia che il culto della dea risale alla civiltà minoica, come dimostrano i ritrovamenti nella grotta di Amnisos, sia che il nome di Eileíthyia è testimoniato nelle tavolette micenee (ereutija), sia infine che tale nome presenta somiglianze con altri nomi di origine sicuramente non greca; cfr. WILLETTS 1958 e soprattutto NILSSON 1950, pp. 518-24, che riferisce le opinioni che in proposito gli sono state espresse personalmente da Jacob Wackernagel; cfr. PINGIATOGLOU

1981, pp. 30 e 49-52. Né il dizionario etimologico greco di Hjalmar Frisk (FRISK

1954), né quello di Pierre Chantraine (CHANTRAINE 1968), prendono posizione sull’una o l’altra di queste possibili interpretazioni etimologiche. Per altre interpretazioni di Eileíthyia vedi anche PUHVEL

1961, p. 165; PALMER 1961, p. 238, che stabilisce una relazione con eleútheros.

1. Plinio, Naturalis historia 28.59: «Adsidere gravibus, vel cum remedia alicui adhibeantur, digitis pectinatim inter se implexis veneficium est, idque compertum tradunt Alcmena Herculem pariente; peius si circa unum ambove genua; item poplites alterni genibus imponi. Ideo haec in consiliis ducum potestatiumve fieri vetuere maiores velut omnem actum impedientia; vetuere vero et sacris votisve simili modo interesse». Il testo pliniano è ripreso anche nel cosiddetto Anonymi medici libellus 6.203. Sulla diffusione di questa credenza in Germania e nel folclore europeo cfr. H. Bächtold-Stäubli, Beine kreuzen, verschränken (HDA, I, pp. 1012-16). Da aggiungere che BROWNE 1852, cap. V , p. 23, dava come ancora attuale al tempo suo (XVII secolo) il fatto che «to sit crosslegged, or with our fingers pectinated or shut together, is accounted bad». Il gesto negativo di intrecciare le dita, in contrapposizione a quello (positivo) di «serrare i pollici», era analizzato già da SITTL

1890, p. 124. Sulle credenze relative alle «dita» (fra cui quella riportata in Plinio) si può

vedere in generale anche Gross, Finger (RAC, VII, pp. 924-25).

Per quello che riguarda l’iconografia, da tempo è stato segnalato un disco d’argento, proveniente dal governatorato russo di Perm, in cui è raffigurata una figura virile, seduta, con la gamba destra piegata e le mani congiunte posate sul ginocchio con i pollici protesi in fuori; cfr. REINACH 1912. Difficile stabilire se questa immagine possa essere ricollegata in qualche modo alla credenza testimoniataci da Plinio: cfr. MAYER 1919. Di significato diverso il cosiddetto «gesto di Demostene», consistente nello stare eretti tenendo le mani incrociate davanti a sé; cfr. SETTIS 1975: anche se questo gesto, indicando comunque impotenza, incertezza, esitazione, e cosí di seguito, implica ugualmente una condizione di «chiusura» verso l’esterno. Cfr. anche NEUMANN 1965, pp. 64-65, 124, 130, 132, ecc. Da notare che nei testi letterari latini lo stare compressis manibus, ovvero manus compressas tenere, è espressione proverbiale per designare il blocco di ogni attività (cfr. per esempio Livio, Ab urbe condita 7.13; Lucano, Pharsalia 2.292; ecc.). 2. Come spiegava infatti Servio, nel suo commento ad Aeneidem 4.517 sgg., in sacris nil solet esse religatum (è costume che nelle celebrazioni religiose non vi sia nulla di legato). Sul rapporto fra i «nodi» in generale e il gesto di accavallare le gambe o di intrecciare le dita, vedi qui Parte prima, par. V .1. 3. FRAZER 1911b, p. 299. Cfr. H. Bächtold-Stäubli, Beine kreuzen, verschränken (HDA, I, pp. 1012-16). Sul tema dei «silenzi improvvisi» nella conversazione cfr. BETTINI 1996c. 4. Aristophanis Nubes 983; Plutarco, De vitioso pudore 8 (532c); DEONNA e RENARD 1994, p. 111. 5. Ippocrate, De morbo sacro 2 (LITTRÉ 1961-78, vol. VI, p. 356). Sarebbe stata questa, secondo

l’interpretazione superstiziosa della «malattia sacra» che i medici ippocratici combattevano, una delle cause che provocavano l’epilessia. Per questo motivo i maghi, i purificatori, gli impostori, i ciarlatani e tutta la disprezzabile genia che aveva trasformato l’epilessia in «morbo sacro», consigliavano di non assumere tale posizione. Il parallelo era già citato da ROHDE 1916, vol. II, p. 403, n. 3; ripreso da FRAZER 1911b, p. 298. Per bibliografia recente su questo passo ippocratico, cfr. la bella nota (pp. 91 sg.) in ROSELLI 1996. 6. D. MORRIS 1978, pp. 133 sgg. 7. Apuleio, Metamorphoses 3.1.2: «complicitis denique pedibus ac palmulis in alternas digitorum vicissitudines super genua conexis sic grabattum cossim insidens ubertim flebam, iam forum et iudicia, iam sententiam, ipsum denique carnificem, imaginabundus». 8. In questo senso si può forse stabilire una simmetria fra il divieto superstizioso di accavallare le gambe in occasione di un parto, e il precetto ippocratico secondo cui la donna, per facilitare la concezione, dopo il rapporto sessuale doveva star ferma e accavallare le gambe. Questo gesto produce il «blocco» di una fuoruscita: nel caso del parto, il blocco ha effetti deleteri; nel caso della concezione, esso ha invece effetti benefici, perché trattiene il seme nell’utero. Cfr. Ippocrate, De mulierum affectibus 1.11 (LITTRÉ 1961-78, vol. VIII, p. 46). Cfr. anche DEAN-JONES 1994, p. 173. Sulla chiusura dell’utero al momento della concezione, vedi qui Parte prima, par. V .5 e cap. V , nota 84. 9. FRAZER 1911b, pp. 295 sg. Fuori dal parto, l’abitudine di sedere con le gambe accavallate poteva costituire invece una posizione di buon augurio: Francis Grose, in un’appendice di superstizioni a GROSE 1790, p. 44, ricordava che «it is customary for women to offer to sit crosslegged to procure luck at cards for their friends. Sitting cross-legged with the fingers interlaced was always esteemed a magical posture» (citato da BÖTTIGER 1837, pp. 88-89, n. 49). 10. Per le prescrizioni rituali che colpivano il marito, e non solo la moglie, al momento del parto, cfr. pp. 101-102, nota 49. 11. Cosí sembra suggerire BÖMER 1977, p. 361. 12. Forse si può anche ricordare che nelle rappresentazioni figurate della nascita di Atena dalla testa di Zeus (vedi Parte prima, par. VI .1), le Eileíthyiai che stanno a fianco di Zeus portano spesso i capelli sciolti sulle spalle, semplicemente adornati da un pólos o da una tainía che circonda la testa: cfr. PINGIATOGLOU 1981, p. 16, con bibliografia e riferimenti iconografici. 13. Ovidio, Fasti 3.257: «si qua tamen gravida est, resoluto crine precetur, | ut solvat [scil. Lucina] partus molliter illa suos». Su questo costume ampia bibliografia in BÖMER 1958, vol. II, pp. 158-59. Cfr. poi l’amuleto del British Museum riportato in GOUREVITCH 1988, in cui la partoriente è rappresentata con i capelli sciolti. Vedi anche le indicazioni di DEMAND 1994, p. 123. Interessante il fatto che, nei testi cristiani, sia ricordato l’uso di «sciogliere i capelli» ai battezzandi, cosí come

quello di far loro sfilare anelli e altri ornamenti: cfr. HECKENBACH 1911, pp. 111-12. Lo scopo dichiarato è quello di evitare che essi «portino con sé qualcosa di estraneo nell’acqua»: ma dato che il rito del battesimo è spesso assimilato a una nascita a tutti gli effetti (per il battesimo, vedi qui Parte seconda, par. IV .2), e comunque costituisce un delicato processo rituale, si può pensare che anche questo divieto dei vincoli e nodi al battesimo rispetti l’antico precetto secondo cui «è costume che nelle celebrazioni religiose non vi sia nulla di legato». Per il generale valore apotropaico dell’atto femminile di sciogliere i capelli cfr. per esempio Plinio, Naturalis historia 28.87. 14. Servius Auctus, ad Aeneidem 4.518: «et ad Iunonis Lucinae sacra non licet accedere nisi solutis nodis». 15. Questo medesimo campo metaforico fornisce immagini a numerosi altri rituali e comportamenti. A Roma, per esempio, si usava offrire una chiave alle donne «per significare la facilità del parto» (Epitome di Paolo a Festo, De significatione verborum, in LINDSAY 1978, p. 49: «clavim consuetudo erat mulieribus donare ob significandam partus facilitatem»). Sul simbolismo della «chiave» nella gravidanza vedi DELATTE 1914; A. JACOBY 1926, p. 208; GOUREVITCH 1988; AUBERT

1989. Il costume romano di offrire proprio una chiave alle partorienti colpisce

particolarmente se si tiene conto dell’abitudine, cosí spesso registrata da antropologi e folcloristi, di aprire tutti i lucchetti e le serrature di casa in occasione di un travaglio (LIEBRECHT 1879, pp. 32223); FRAZER 1911b, pp. 294 sg.; SAMTER 1911, pp. 125-26, ecc. In Svezia si usava anzi chiedere alla levatrice, in caso di parto difficile, se aveva pregato la Vergine Maria di concederle «la chiave» con cui aprire il grembo della partoriente; dopo di che, su suggerimento della levatrice, la partoriente recitava questa preghiera: «Vergine Maria, dammi la tua chiave, per aprire il mio grembo e partorire il mio bambino»: LIEBRECHT 1879, p. 360; SAMTER 1911, p. 125, n. 1. 16. Cfr. per esempio Callimaco, In Delum 209 e 222 (di Latona). Questa connessione immediata, fra la condizione di partoriente e l’atto di sciogliersi la cintura, spiega il motivo per cui Eileíthyia portava proprio l’epiteto di Lusíz nos, «colei che scioglie la cintura» (ovvero «che ha la cintura sciolta»): Teocrito, Idyllia 17.60; Cornuto, Theologiae Graecae compendium 34 (LANGE 1881, p. 73); Orphei hymni 2.7 (ABEL 1885); cfr. BAUR 1899-1901, p. 497, n. 95. Lo stesso epiteto aveva anche Artemide, divinità protettrice delle partorienti: cfr. lo scolio ad Apollonio Rodio, Argonautica 1.288 (WENDEL 1935, p. 33), «le donne che partoriscono per la prima volta si sciolgono la cintura e la offrono ad Artemide. Per cui ad Atene esiste un tempio di Artemide Lusíz nos». Possediamo anzi una raffigurazione di una scena del genere: cfr. la lékythos attica a figure bianche in cui si vede Artemide di profilo, con una torcia nella mano destra sollevata, un arco e una freccia nella sinistra; di fronte a lei, una donna si scioglie la cintura (cfr. LIMC, II.1, p. 676; II.2, fig. 721a). Per Athena Zosteria, protettrice dei guerrieri ma anche della donna che partorisce, e custode, a capo Zoster, di Latona che partorisce, cfr. SCHMITT 1977, p. 1064. Sulle donne greche e la cintura cfr. anche

LORAUX

1981, pp. 45-46.

17. Sorano, Gynaecia 2.6.115. 18. Oppiano, Cynegetica 1.495 sgg. 19. La pisside viene da Eretria, 340-330 a.C.; cfr. PINGIATOGLOU 1981, p. 20 e tav. VIII. 20. Anthologia Palatina 6.200, 201, 271, 277, ecc. Vedi anche lo scolio ad Apollonio Rodio, Argonautica 1.288, riportato supra (nota 16). Cfr. BAUR 1899-1901, pp. 496 sgg.; WEINREICH 1909, pp. 9 sgg. Soprattutto HECKENBACH 1911, pp. 79-81. Un ampio catalogo di iscrizioni che accompagnavano doni votivi a Eileíthyia in PINGIATOGLOU 1981, pp. 50 sgg.: in esso ricorrono frequentemente oggetti che «legano» (anelli, braccialetti, fasce, nastri, ecc.). 21. Anthologia Palatina 6.201. 22. Anthologia Palatina 271; cfr. BAUR 1899-1901, p. 496. 23. Virgilio, Aeneis 4.517 sgg.: «unum exuta pedem vinclis, in veste recincta». 24. Per questi nodi sciolti, vedi Parte prima, par. V .1. 25. Cassiano, Geoponica 1.35.3 (BECKH 1962, p. 78); cfr. Palladio, Opus agriculturae 1.35.3. 26. Plinio, Naturalis historia XVII.266. 27. Ovidio, Metamorphoses 7.182. Sulla ragione dei molti taboos e incantesimi che implicano piedi scalzi vedi FRAZER 1911b, pp. 310-11: dato che, nel corso della storia dell’uomo, le calzature sono state per lungo tempo «legate» ai piedi con lacci, esse rientrano tradizionalmente nella magia dei nodi. 28. Plinio, Naturalis historia 34.31: «[statua posita fuit] Corneliae Gracchorum matris, quae fuit Africani prioris filia. Sedens huic posita soleisque sine ammento insignis in Metelli publica porticu, quae statua nunc est in Octaviae operibus». Cfr. Plutarco, Tiberius et Caius Gracchus 25.4 sg. Sul personaggio di Cornelia vedi l’ampio saggio di PETROCELLI 1994, pp. 21-70; per i problemi posti dall’esistenza di questa sua statua, vedi qui Parte prima, par. V .2. 29. Corpus inscriptionum latinarum VI.31610. Cfr. COARELLI 1978; LEWIS 1988; KAJAVA 1989; PETROCELLI 1994, pp. 62-68. Sui problemi linguistici posti dall’iscrizione, vedi sotto, nota 44. 30. Cfr. Epitome di Paolo a Festo, De significatione verborum (LINDSAY 1978, p. 11): «ammenta, quibus, ut mitti possint, vinciuntur iacula, sive solearum lora; ex Graeco, quod est ‘hammata’, sic appellata, vel quia aptantes ea ad mentum trahant». 31. Cfr. ERNOUT e MEILLET 1967, s.v. «ammentum». 32. Questa la definizione di Castricio in Gellio, Noctes Atticae 13.22.5: «omnia enim ferme id genus quibus plantarum calces tantum infimae teguntur, cetera prope nuda et teretibus habenis vincta sunt, ‘soleas’ dixerunt». Cfr. Isidoro, Etymologiae 20.34.11. 33. Sull’uso e il significato di argumentum vedi BETTINI 1996a.

34. Plinio, Naturalis historia 7.69: «quosdam concreto genitali gigni infausto omine Cornelia Gracchorum mater indicio est». Cfr. anche Solino, Collectanea 1.67. 35. Cfr. Seneca, Consolatio ad Marciam 16.3 sgg.: «Duodecim illa partus duodecim funeribus recognovit»; Seneca, Consolatio ad Helviam 16.6: «Corneliam ex duodecim liberis ad duos fortuna redegerat; si numerare funera Corneliae velles, amiserat decem, si aestimare, amiserat Gracchos». 36. Plinio, Naturalis historia 7.57: «plerumque alternant [scil. matres generantes mares et feminas] sicut Gracchorum mater duodeciens». MOMMSEN 1879 interpretava questa testimonianza di Plinio in modo rigido: come se a Tiberio (che Mommsen considerava il primogenito) si fossero succeduti undici altri figli alternativamente femmine e maschi: cfr. PETROCELLI 1994, pp. 28 sg. 37. Plutarco, Tiberius et Caius Gracchus 25.6. 38. Girolamo, Epistulae 54.4: «pudicitiae simul et fecundidatis exemplar». 39. Plinio, Naturalis historia 7.122: «Gracchorum pater anguibus prehensis in domo, cum responderetur ipsum victurum alterius sexus interempto: ‘Immo vero – inquit – meum necate, Cornelia enim iuvenis est et parere adhuc potest’. Hoc erat uxori parcere et rei publicae consulere; idque mox consecutum es». Cfr. anche Plutarco, Tiberius et Caius Gracchus 1.4 sgg.; Cicerone, De divinatione 1.18.36; Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium 4.6.1. 40. Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium 4.6.1. 41. Plinio, Naturalis historia 7.122: «Hoc erat uxori parcere et rei publicae consulere». 42. Seneca, Consolatio ad Helviam 16.6; Plutarco, Tiberius et Caius Gracchus 4; ecc. Emblematico in questo senso l’episodio, narrato da Plutarco (8.7), in cui Cornelia rimprovera i figli perché la gente «continuava a chiamarla la suocera di Scipione e non la madre dei Gracchi» (la figlia Sempronia aveva infatti sposato Scipione Emiliano). Inutile ricordare poi il celebre motto «questi sono i miei gioielli»: Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium 4.4.1. 43. Sui meccanismi antropologici della tecnonimia, cfr. LÉVI-STRAUSS 1964a, pp. 211 sgg. 44. LEWIS 1988; KAJAVA 1989; DIXON 1988, pp. 71 sgg.; PETROCELLI 1994. L’iscrizione posta sul basamento ha una formulazione abbastanza strana: CORNELIA AFRICANI F. GRACCHORUM. Crea difficoltà l’assenza della parola mater prima del genitivo Gracchorum: normalmente ci si aspetta se mai che una donna sia «qualificata» attraverso il genitivo del nome del marito (tipo Hectoris Andromache), non attraverso quello dei figli. Si noti che, secondo Plutarco, Tiberius et Caius Gracchus 25.4 sg., il testo dell’iscrizione sarebbe stato piú normalmente «a Cornelia, madre dei Gracchi». LEWIS 1988, per spiegare questo singolare uso epigrafico suggerisce la possibilità che nella porticus di Octavia stessero altre statue di madri famose. Cfr. anche KAJAVA 1989, che sottolinea il fatto che, in ogni caso, l’uso di un plurale eliminava ogni possibilità di equivoco. Per la possibilità che sia intervenuta una «riscrittura» di questa dedica, cfr. COARELLI 1978; KAJAVA 1989. Per la verità esistono però altri casi in cui il nome dei figli, al genitivo, viene usato per qualificare la

madre: e proprio riferiti a Cornelia. Vedi infatti Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium 6.7.1: «Tertia Aemilia, Africani prioris uxor, mater Corneliae Gracchorum», parallelo addotto da DEGRASSI 1931, pp. 3, 72, e criticato da LEWIS 1988, forse attribuendo un peso eccessivo agli argomenti stilistici. Cfr. anche Girolamo, Commentarii in Sophoniam prophetam. Prologus (Migne, PL, 25, 1337 C), «Corneliam Gracchorum id est, vestram, tota Romanae urbis turba miratur», parallelo felicemente addotto da PETROCELLI 1994, p. 66. Abbiamo visto del resto che questa donna era specificamente identificata dal suo essere «la madre dei Gracchi», tanto da far pensare che, nel suo caso, fosse stato impiegato un vero e proprio meccanismo culturale di tecnonimia. 45. Per i vari nodi, vedi qui Parte prima, par. V .1; su questo tema si segnala BELPOLITI e KÁNTOR

1996: in particolare BOLOGNA 1996, pp. 182-216.

46. FILBY 1970. Cfr. ACKERMANN 1987, pp. 306-7. 47. FRAZER 1911b, pp. 293 sg., e FRAZER 1929, vol. III, pp. 60 sg. (a Fasti 3.257): vedi qui Parte prima, par. V .5. 48. Che l’etnografia costituisca un genere letterario è un’idea che torna a farsi strada fra gli antropologi contemporanei: vedi per esempio BOYARIN 1992, p. 4, a proposito di FABIAN 1990. Per quel che riguarda l’etnografia antica cfr. invece ONIGA 1995, pp. 11-36. Per le doti di scrittore di Frazer, cfr. MALINOWSKI 1971, p. 190: «Frazer è dotato del potere dell’artista». Cfr. anche VICKERY

1973.

49. Epitome di Paolo a Festo, De significatione verborum (LINDSAY 1978, p. 55): «Cingillo nova nupta praecingebatur, quod vir in lecto solvebat, factum ex lana ovis, ut, sicut illa in glomos sublata coniuncta inter se sit, sic vir suus secum cinctus vinctusque esset. Hunc Herculaneo nodo vinctum vir solvit ominis gratia, ut sic ipsa felix sit in suscipiendis liberis, ut fuit Hercules, qui septuaginta liberos reliquit». Cfr. Varrone, Menippeae 187: «novos maritus tacitulus traxim uxoris solvebat cingulum» (il tatto e la dolcezza degli sposi di una volta?: cosí CÈBE 1980, pp. 877-79). Nonio, De compendiosa doctrina (LINDSAY 1964, p. 7): «cingillum a cingendo, quod incingulum plerumque dicitur». Ancora secondo Varrone, De lingua Latina 114: «cinctus et cingillum a cingendo, alterum viris, alterum mulieribus attributum». Sulla cerimonia descritta dall’Epitome di Paolo, cfr. già le osservazioni di ROSSBACH 1843, pp. 277 sg.; KÖVES-ZULAUF 1990, pp. 204 sgg.; sul significato del verbo suscipere (che in questo passo di Paolo-Festo ha il valore generico di «concepire dei figli»), vedi l’ampia ricerca di KÖVES-ZULAUF 1990, pp. 27 sgg. 50. Per quel che riguarda il primo di questi due valori simbolici, ossia l’auspicio per uno «stretto» vincolo fra i coniugi, esso doveva certamente far parte del senso complessivo del rituale. Secondo la testimonianza di Agostino, De civitate Dei 4.11, nel momento in cui si scioglieva la cintura alla Vergine si invocava la dea Virginensis e il dio Iugatinus (quello che «congiunge i

coniugi»). La presenza di Iugatinus come dio specificamente invocato al momento dello «scioglimento», fa pensare che a quest’atto rituale fosse effettivamente associato – quasi per un meccanismo antifrastico – l’auspicio di una stretta «unione» fra i coniugi. Anche l’immagine del «gomitolo» si presenta coerente con le metafore normalmente usate per indicare l’unione fra i coniugi: cfr. per esempio la hedera ovvero la lenta vitis che implicat arbores in Catullo, Carmina 61.33 sgg. e 106 sgg. a simboleggiare l’unione fra i coniugi. 51. Omero, Odysseia 11.245; Euripide, Iphigenia Taurica 204; Teocrito, Idyllia 27.55; Plutarco, Lycurgus 15.5.6; Catullo, Carmina 2.13, 61.51 sg., 67.28; Ovidio, Heroides 2.115; ecc. Catullo, Carmina 67.28, definisce questa cintura della ragazza direttamente zonula virginea; cosí come parthení

è definita la z n

in Omero, Odysseia 11.245. Di conseguenza, le vergini non ancora

adulte dovevano essere «non cinte» (ámitroi): cfr. Callimaco, In Dianam 14.43, e scolio (PFEIFFER 1953, II, 59). Secondo BORNMANN 1968, p. 13, ad locum, l’uso di mítr nel senso del piú comune z n

sarebbe tipicamente ellenistico. Dopo le nozze, questa «fascia virginale» poteva essere offerta

alle dee del parto: vedi qui cap. V , nota 16. Sulla cintura virginale cfr. SCHMITT 1977, pp. 1063 sg.; LORAUX

1981, pp. 45-46. SISSA 1992, p. 66 e n. 69, suggerisce la possibilità che i racconti mitici in

cui la perdita della verginità corrisponde allo «scioglimento» in acqua della fanciulla o alla sua seduzione da parte della corrente di un fiume, si fondino sull’ambiguità metaforica del verbo lúein: a un tempo «sciogliere» la cintura della verginità e «sciogliere» in acqua. Per paralleli dal folclore moderno in Europa (cfr. SAMTER 1911, p. 123), in Norvegia la sposa, per restare incinta piú facilmente, subito dopo il matrimonio doveva sciogliere la cinghia della sella. 52. USENER 1895. 53. Epitome di Paolo a Festo, De significatione verborum (LINDSAY 1978, p. 55): «Cinxiae Iunonis nomen sanctum habebatur in nuptiis, quod initio coniugii solutio erat cinguli, quo nova nupta erat cincta». Cfr. Arnobio, Adversus nationes 3.25.30: «unctionibus … superest Unctia, cingulorum Cinxia replicationi»; Marziano Capella, De nuptiis Philologiae et Mercurii 2.149: «Cinctiam mortales puellae debent in nuptias convocare, ut … et cingulum ponentes in thalamis non relinquas». Su Iuno Cinxia cfr. RADKE 1965, p. 92, che interpreta la funzione della dea come connessa sia all’azione di «cingere» la cintura della sposa sia a quella di «scioglierla»; su questo cfr. anche KÖVES-ZULAUF 1990, p. 205, n. 554. Agostino, De civitate Dei 4.11, riporta che al momento dello scioglimento della cintura (cum virgini uxori zona solvitur) venivano invocati il dio Iugatinus e la dea Virginensis; vedi anche 6.9. Ancora KÖVES-ZULAUF 1990, p. 204 (sulle orme di ROSSBACH 1843, pp. 274 sgg., 381 sgg.), ricorda come l’azione di legare il cingillum fosse probabilmente svolta dalla madre della sposa: di conseguenza, il ruolo di Iuno Cinxia corrisponderebbe qui a quello di Iuno pronuba. 54. Cfr. KÖVES-ZULAUF 1990, p. 204.

55. Cosí invitava a fare già ROSSBACH 1843, pp. 278 sg. 56. Le testimonianze sono raccolte in HECKENBACH 1911, pp. 104-7. Da notare che in Virgilio, Aeneis 8.260, Ercole afferra Caco e lo «annoda» (corripit in nodum complexus). 57. Seneca, Epistulae ad Lucilium 87.38: «bonum animum habe: unus tibi nodus, sed Herculaneus restat». La difficoltà del nodo di Ercole era proverbiale: cfr. Apostolio 8.64a (LEUTSCH 1965, vol. II, p. 448), e OTTO 1890, pp. 162 sg. 58. Macrobio, Saturnalia 1.19.16 (a proposito dei serpenti nel caduceo di Mercurio): «parte media voluminis sui in vicem nodi, quem vocant Herculis, obligantur». Cfr. Atenagora, Legatio pro Christianis 20; Cornuto, Theologiae Graecae compendium 16 (LANGE 1881, p. 23), il quale sottolinea espressamente che il nodo da cui i serpenti sono avvinti è «di difficile scioglimento» (dúslutos). Secondo BROWNE 1852, cap. V , p. 23, dal nodo di Ercole sarebbe derivato il «true lovers’ knot … still retained in presents of love among us». 59. Plinio, Naturalis historia 28.64: «volnera nodo Herculis praeligare, mirum quantum ocior medicina est. Atque etiam quotidiani cinctus tali nodo vim quamdam habere utilem dicuntur: quippe cum Herculaneum prodiderit numerum quoque quaternarium Demetrius condito volumine, et quare quaterni cyathi sextariive non essent potandi». Sulle ligaturae come rimedio alle malattie in generale cfr. Agostino, De doctrina christiana 2.20.30 (SIMONETTI 1994, p. 455 ad locum). Per il valore apotropaico dei nodi cfr. WOLTERS 1905, pp. 1-22. 60. Una descrizione del modo in cui si fa il nodo di Ercole in Oribasio, De laqueis (DAREMBERG e BUSSEMAKER 1851, pp. 253-54). 61. Plinio, Naturalis historia 28.42: «partus accelerat hic mos, ex quo quaeque conceperit, si cinctu suo solutus feminam cinxerit, dein soluerit adiecta praecatione evinxisse eundem et soluturum, atque abierit». Il testo è difficile e abbastanza incerto. Se si accetta quello che abbiamo appena riprodotto (codici VR), come fa l’edizione curata da ERNOUT 1947, allora il soggetto sembra essere eundem, cioè a dire il cinctus; se invece si accetta quello dei veteres, cioè se vinxisse, allora il soggetto è il vir. Cfr. già SAMTER 1911, p. 126. 62. Sexti Placiti Papyriensis de medicina ex animalibus liber 17.12: «ut mulier concipiat. Homo vir si solvat semicinctium tuum [ossia suum?] et eam praecingat et dicat ‘ergo desinas; explica te laborantem’». Il testo è visibilmente scorretto: cfr. HECKENBACH 1911, p. 79. 63. Per la cintura e la partoriente, vedi qui Parte prima, par. V .1. 64. Per le credenze medievali, cfr. le Interrogaciones fiende in confessione de superstitione simplicium 2.85 (in USENER 1889, vol. II): «mulieres [que] cingunt se cingulis virorum». Per il folclore tedesco cfr. SAMTER 1911, p. 127. Vedi anche W. J. Dilling, Girdle (Hastings, ERE, VI, p. 229): «The application of the girdle during pregnancy and labour forms a curious ethnological problem».

65. Per la cintura di san Francesco cfr. HARTLAND 1894, vol. II, p. 226; per la «corrigia S. Augustini vel funis S. Francisci» in Spagna, cfr. l’annotazione di Juan Luis de la Cerda in WASZINK 1947, p. 443; cfr. anche KITTREDGE 1928, pp. 114-15, nn. 87, 88. 66. Tertulliano, De anima 39.2: «ita omnes idololatria obstetrice nascuntur, dum ipsi adhuc uteri infulis apud idola confectis redimiti genimina sua daemoniorum candidata profitentur…» Cfr. WASZINK

1947, pp. 442 sgg. Nel testo di Tertulliano, almeno ciò che segue viene considerato una

citazione da Varrone, Antiquitates Rerum Divinarum, fr. 101 (CARDAUNS 1976, vol. I, 68). 67. Vedi per esempio la lettera di inventario delle sacre reliquie del convento di Bristow, Inghilterra, 1536, relativa alla «cintura della nostra Signora di Bruton»: FORBES 1966, pp. 124-25. Cfr. AVELING 1872, pp. 1-10, 22-23, 86, 90-91. 68. Plinio, Naturalis historia 30.142, ricorda per esempio l’uso di due crini strappati dalla coda di una mula durante il coito dell’animale, e «legati fra loro» durante il coito della coppia umana. 69. Prisciano, Euporiston (V. ROSE 1882, pp. 350-51): «De muliere quae saepius abortat … lanam de ove quam lupus comederit collige ‘et fac eam tribus sororibus lavari, carminari, pectinari et filari, et texant inde cingulum, et per novem menses ad ventrem mulier eum deportat, ita ut numquam eum in aliquo loco deponat, nec faciet abortum’»: (riguardo a una donna che abortisce spesso … raccogli la lana da una pecora mangiata dal lupo e falla lavare, cardare, pettinare e filare da tre sorelle, e ne tessano una cintura. La donna la porta sul ventre per nove mesi, tanto da non deporla mai in nessun luogo, e non abortirà). Per l’uso di cinture a scopo antiabortivo nel mondo moderno, cfr. FORBES 1966, pp. 124-25. Tutto ciò che trattiene è comunque utile per impedire alla donna di subire un parto prematuro o abortivo: cfr. per esempio Plinio, Naturalis historia 9.70, in cui il pesce echineis, la remora che trattiene le navi e le fa andare piú lentamente, ugualmente impedisce alle donne incinte di abortire. 70. Dopo quello che abbiamo visto sul pericolo dei nodi nella circostanza del parto, pare probabile che la gestante al momento culminante del travaglio si togliesse quella cintura che la qualificava come donna legata: in base a quel costume, da noi analizzato sopra, secondo cui l’atto di partorire coincideva direttamente con quello di sciogliersi la cintura. Del resto Plinio dice esplicitamente che il marito, dopo aver legato la moglie con la propria cintura, la «scioglieva», pronunziando la frase «quello che ti ha legato anche ti scioglierà». Come abbiamo detto (p. 132), la cintura funziona anche come rimedio per evitare perdite e aborti, e quindi deve essere tenuta dalla donna incinta fin quando esiste questo pericolo: poi, come nel caso della cintura del marito che viene sciolta dopo essere stata legata, bisogna che sia tolta di mezzo. Plinio ci offre un’ulteriore applicazione di questo meccanismo mentale: «anche nell’erba si trovano dei piccoli vermi, che legati al collo mantengono il feto nell’utero; ma al momento del parto debbono essere rimossi, altrimenti non permettono che il parto avvenga»: Plinio, Naturalis historia 30.125. I vermi «legati» come

cordicelle mantengono il feto nel ventre, ma è chiaro che, come ogni nodo che si rispetti, il parto non li sopportava. Una volta giunto il momento fatidico, nodi e cinture dovevano finalmente sciogliersi. 71. Isidoro, Etymologiae 10.151: «incincta, id est sine cinctu, quia praecingi fortiter uterus non permittit». 72. Cfr. per esempio Afranio, 182 (RIBBECK 1873): «stantem nobiscum incinctam toga». Ovidio, Fasti 5.675: «incinctus tunica mercator»; Livio, Ab urbe condita 8.99; ecc. Cfr. Thesaurus Linguae Latinae, s.v. «incingere» (VIII.1.911-12); Nonio, De compendiosa doctrina (LINDSAY 1964, p. 47) attesta che la parola cingillum appariva piú frequentemente nella forma incingulum. 73. Vedi BUECHELER 1965, vol. III, pp. 27 sg., sulla scorta di FORCELLINI 1940, s.v. «incingo». Questa ipotesi è stata avanzata varie volte: cfr. la discussione di SOFER 1930, pp. 138-39. Per l’uso e il significato di inciens cfr. Epitome di Paolo a Festo, De significatione verborum (LINDSAY 1978, p. 87, 2): «gravida est, quae iam gravatur conceptu; praegnans velut occupata in generando quod conceperit; inciens propinqua partui, quod incitatus sit fetus eius». Cfr. Svetonio, Differentiae sermonis (ROTH 1871, 313, 16): «praegnans commune animalium est, gravida hominum, inciens in partu, feta post partum». 74. In questo senso già SCHWYZER 1929, p. 22, n. 1. 75. Inno omerico V, In Aphroditem 255 e 282; Eschilo, Choephorae 992, e Eschilo, Eumenides 607; Euripide, Hecuba 762. Cfr. LORAUX 1981, p. 45. 76. Nella cultura greca e romana la verginità corrisponde a una generale immagine di chiusura del corpo femminile: anche se questa rappresentazione, almeno nella medicina greca, non sembra spingersi sino al punto di presupporre l’esistenza di una specifica barriera anatomica (il pannicolo), che la penetrazione maschile deve infrangere; cfr. SISSA 1992, pp. 60 sgg. Questa interpretazione è stata criticata da HANSON 1990, pp. 324-30; cfr. anche DEAN-JONES 1994, pp. 50 sgg. 77. Sulla simmetria fra il corpo «chiuso» della giovinetta e quello, ugualmente «chiuso», della madre che ha concepito, cfr. SISSA 1992, p. 150. La funzione simbolica della cintura nella vita della donna è stata piú volte rilevata: secondo H. KING 1983, p. 120, l’uso della cintura «reflect[s] the stages of a Greek woman’s life». La stessa osservazione, sempre per la donna greca, già in SCHMITT 1977, p. 1063. Strano però che per entrambe queste studiose lo scioglimento nuziale della cintura dal nodo Erculaneo avrebbe fatto parte del rituale «greco», non di quello romano. 78. DELATTE 1914. 79. Ippocrate, De mulierum affectibus 1.61 e 2.160 (LITTRÉ 1961-78, vol. VIII, pp. 124 e 350). Cfr. DEAN-JONES 1994, p. 65: «the askós seems intuitively more likely to have been the general image of the womb, as the Hippocratics have to imagine it having the capacity to expand to contain the foetus in pregnancy». Si rammenti anche la scena delle Thesmophoriazusae di Aristofane in cui la «bambina» rapita dal parente di Euripide si trasforma inaspettatamente in un askós pieno di vino

(vv. 689 sgg.). Cfr. LORAUX 1992. L’askós è metafora usata per indicare il ventre in generale: cfr. Archiloco, fr. 112 (in TARDITI 1968); Euripide, Medea 670; Plutarco, Theseus 3. Sulla sopravvivenza di «traditional images of the uterus» in scritti ginecologici piú sofisticati vedi HANSON

1990, pp. 320-24.

80. Per quanto riguarda uterus, ERNOUT e MEILLET 1967, s.v. «uterus», propongono raffronti con altre lingue indoeuropee (sanscr. udaram, «ventre», ecc.); mentre per quanto riguarda uter, suggeriscono (s.v. «uter») la possibilità di un prestito dal greco hudría, forse con una mediazione etrusca. 81. Cfr. per esempio Orazio, Saturae 2.5.98: «crescentem tumidis infla sermonibus utrem»; ecc. 82. Cfr. per esempio Plauto, Truculentus 199: «uterum … numquam extumere sensi». Cfr. anche Ovidio, Metamorphoses 9.280 e 387; ecc. 83. Cfr. HANSON 1990, pp. 324-25, con molte testimonianze: soprattutto riguardo all’immagine di «apertura e chiusura delle labbra» per descrivere l’attività dell’utero di una donna matura, e riguardo a quella dell’utero come «vaso rovesciato». 84. Ippocrate, Aphorismi 5.51 (LITTRÉ 1961-78, vol. IV, p. 550), e Ippocrate, De generatione 5.1 (vol. VII, p. 476); Aristotele, Historia animalium 7 (583b), e Aristotele, De generatione animalium 2 (739a); Galeno, De usu partium 14.3 (KUHN 1964, p. 146). Cfr. SISSA 1992, pp. 44 sg., 146 sg.; LAURENT 1989, pp. 83-98. Per i testi ippocratici vedi anche DEMAND 1994, p. 57. L’immagine del «sigillare un vaso» per dire che si è fecondata una donna ricorre anche nello pseudo-Callistene, Historia Alexandri Magni 1.8 (recensio L, VAN THIEL 1983); cfr. anche Plutarco, Alexander 2: Filippo ha sognato di sigillare la «natura» di sua moglie Olimpiade, e questo significa che sua moglie è incinta «perché non si sigilla un vaso vuoto». Il passo è di particolare interesse perché Filippo, nel sogno, non solo ha «sigillato» il genitale della moglie ma lo ha addirittura cucito con filo di Biblo. Nell’interpretazione, il filo di Biblo diviene metafora del «seme» paterno, identificato come egiziano. Dunque il seme maschile «cuce» il ventre della donna. 85. Galeno, De usu partium 14.3. 86. Cosí scrivevano al-Rāzī e Haly Abbas, citati da LAURENT 1989, p. 83; cfr. anche pseudoAlberto Magno, De secretis mulierum (LEMAY 1992, p. 66). 87. Dialogue de Placides et Timéo, citato da LAURENT 1989, p. 84. 88. «Misapplication … of the association of ideas»: FRAZER 1906, pp. 53 sgg., dove viene sviluppata la celebre teoria dei due tipi di magia: omeopatica o per similarità, contagiosa o per contatto. 89. FRAZER 1911b, p. 296. Il mago chiamato presso la partoriente in pericolo tra gli «Hos of the Togoland in West Africa» pronuncia queste parole: «il bambino è legato nel grembo, per questo la donna non riesce a partorire»; dopo di che, il mago taglia un «nodo» che ha precedentemente stretto

attorno a mani e piedi della donna. 90. Sorano si prendeva gioco di simili prescrizioni (cfr. Gynaecia 2.11.7). Per quanto riguarda questo taglio, si può notare che la hárp , tipico coltello della levatrice, è rappresentata nelle mani di Eileíthyia su un píthos a rilievo del secolo VII a.C. proveniente da Tenos (OLMOS 1986, p. 686). La statua di Era che compare nella storia di Cleobi e Bitone avrebbe avuto nelle mani un coltello: WELCKER

1833, n. 37, ha suggerito la possibilità che si tratti del coltello della levatrice, e che Era

sia qui rappresentata come maîa e omphal tómos; cfr. PINGIATOGLOU 1981, p. 94. Sulla ritualizzazione del taglio del cordone ombelicale cfr. BELMONT 1980, pp. 702-3, e anche BELMONT 1981, pp. 1211-12. 91. FRAZER 1906, pp. 53 sgg.

1. LAISTNER 1889, vol. II, pp. 320 sg., 334-35, 380-81. 2. DETIENNE e VERNANT 1974, pp. 49-52, 83-98. 3. Per Antonino Liberale, vedi qui Parte prima, par. I .5. 4. Per la partoriente «indecente», vedi Parte prima, par. III .1. 5. Un catalogo si trova in PINGIATOGLOU 1981, pp. 14-19; cfr. anche OLMOS 1986, pp. 686-91. 6. Per queste tavole e altre, cfr. OLMOS 1986. 7. Cfr. BAUR 1899-1901, p. 505; PINGIATOGLOU 1981, p. 18 e n. 19; OLMOS 1986, p. 697. La relazione tra il gesto delle Moírai nel racconto di Antonino Liberale, e le raffigurazioni antiche delle dee della nascita con le mani alzate, è stata stabilita da tempo: cfr. FARNELL 1896, p. 614 e nota; soprattutto PAPATHOMOPOULOS 1968, p. 135. 8. Cfr. le tavole in PINGIATOGLOU 1981 e OLMOS 1986. 9. Ovidio, Metamorphoses 10.510-11; vedi qui Parte prima, par. I .3 e cap. I , nota 20. 10. Pausania, Graeciae descriptio 8.23.5. Cfr. SITTL 1890, p. 322; WEINREICH 1909, pp. 10 sgg.; GRUPPE 1906, vol. II, p. 860; SAMTER 1911, pp. 11 e 122; BAUR 1899-1901, pp. 470-71. 11. FARNELL 1896, p. 614. 12. Anthologia Palatina 6.244. 13. Cosí secondo GIMBUTAS 1982, pp. 174-81. 14. GOUREVITCH 1988, p. 48. 15. Cfr. FRENCH 1986, pp. 76-77. 16. FRENCH 1986, p. 76. 17. ROSS 1985, pp. 347 sgg. 18. BLUMENFELD-KOSINSKI 1990, p. 135 (con figure), 126 sgg.: un diavolo con «outstretched arms». 19. Cfr. CHILD 1882, p. 83: per questo testo, vedi qui, Conclusioni, par. 3. 20. A questo proposito si può forse ricordare anche la posizione dell’Alcmena di Ovidio, Metamorphoses 9.293, quando, sopraffatta dalle sofferenze, invoca l’aiuto di Lucina: «tendendo al cielo le braccia». Questo gesto è chiaramente di supplica, ma non è escluso che esso costituisse anche una sorta di mimesi del gesto che le dee si ostinavano a non compiere verso di lei. 21. BELMONT , p. 705. 22. Per la anchínoia, «intelligenza rapida», cfr. Platone, Charmides 160a; Aristotele, Historia animalium 7.10 (587a): vedi DETIENNE e VERNANT 1974, pp. 293-95. Per la levatrice astuta, vedi qui Parte seconda, par. III .3. 23. ROSSET 1984, pp. 21-27: «le geste de l’esquive et le geste fatal ne sont qu’un seul et même geste, comme la mystérieuse route d’Héraclite, qui à la fois monte et descende» (a proposito dei vani

tentativi di Edipo di allontanarsi dal suo destino; o del ragazzo della favola esopica, Aesopica 363 (PERRY 1952), che era condannato a morire per la ferita infertagli da un leone e perciò fu rinchiuso per la vita in una stanza – morí ferendosi per il gesto di rabbia che rivolse contro un leone dipinto sul muro). 24. SAMTER 1911, pp. 90-97. 25. Sorani gynaeciorum translatio latina Muscionis 1.5 (in V. ROSE 1882, p. 6): «non iracunda nec turbulenta, compatiens, solida, pudica, arguta, prudens, animosa, nec avara». 26. Nel testo corrispondente di Sorano, Gynaecia 1.3, non c’è niente del genere. 27. Gilles de Bellemère, Les Quinze Joies de mariage, citato da LAURENT 1989, p. 170. 28. Sorano, Gynaecia 2.5. 29. Cfr. per esempio PRINCE e ADAMS 1978, pp. 121 sgg.; MACFARLANE 1978, pp. 28 sgg.; FORD

1964, pp. 60 sg.

30. FORD 1964, pp. 60-61. 31. MEGAS 1958, pp. 53-54. Cfr. DEMAND 1994, p. 118. 32. Scolia a Luciano, Dialogi meretricum 7.4 (RABE 1906, pp. 279-81). Su questa festa cfr. OLENDER

1990, p. 95.

33. Aristofane, Thesmophoriazusae 502 sgg. 34. Aristofane, Thesmophoriazusae 338-39, 407-8, 564-65. Sul tema del «baby smuggling» ad Atene cfr. la bella ricostruzione di POWELL 1988, pp. 354-57, che discute le numerose testimonianze in nostro possesso. Cfr. anche DEMAND 1994, pp. 22, 68-69. Il tema ricorre spesso nella commedia attica e negli adattamenti romani del teatro greco, come il Truculentus e la Cistellaria di Plauto (sui quali vedi qui Parte seconda, parr. III .1.a, e III .2.a). Cfr. HENDERSON 1987. 35. Aristofane, Thesmophoriazusae 407-8. Anche a Roma la preoccupazione riguardo alla possibile sostituzione dei figli era viva: vedi per esempio Giovenale, Saturae 6.601-2. Interessante poi la complessa strategia di custodi e di sorveglianza che circondava a Roma il parto della vedova (Edictum perpetuum 118), proprio allo scopo di evitare il rischio che i figli venissero sostituiti. Cfr. THOMAS

1987.

36. HENDERSON 1987, p. 123, la definisce una nurse: è possibile, ma nel testo non c’è nulla che lo lasci presupporre. 37. Anche Sorano, Gynaecia 2.2, registra esplicitamente l’acqua calda fra le cose che è necessario preparare in vista del parto: e la presenza di «acqua calda» fa notoriamente parte del folclore sulla partoriente. 38. Per le levatrici vecchie, vedi qui Parte seconda, parr. III .1.c, e IV .2. 39. Per Agnodice, vedi Parte seconda, par. III .3.

1. Ne diamo una versione semplificata prendendo da SLEEMAN 1989, p. 13. Per esempio, il genus mustela, di cui specificamente ci occupiamo, comprende in realtà dalle tredici alle sedici specie (depending on who you ask). Cfr. C. KING 1989, p. 7. Carolyn King, che ha dedicato la sua vita di scienziata allo studio della donnola, rappresenta una delle maggiori autorità in questo campo: cfr. CONNIFF 1997. 2. C. KING 1989, p. 7. 3. Noto come «delayed implantation»: l’embrione arresta il suo sviluppo per 9-10 mesi, salvo poi riprendere regolarmente il ciclo. Cfr. C. KING 1989, pp. 131-37, 201-2. 4. Riportiamo i dati di SLEEMAN 1989, p. 13; cfr. la tavola di C. KING 1989, p. 44, con una tipologia molto piú raffinata ma con lo stesso ordine di valori. 5. C. KING 1989, pp. 4-5, 18-21. 6. C. KING 1989, p. 236. 7. C. KING 1989, pp. 118-23. 8. C. KING 1989, p. 23. 9. Per il racconto di Galanthis, vedi qui Parte prima, par. I .2 e cap. I , nota 17. 10. Svetonio, Pratum de naturis rerum, fr. 161 (REIFFERSCHEID 1971, p. 250; il testo è abbastanza incerto, vedi l’apparato di REIFFERSCHEID 1971, ad locum). Cfr. Corpus Glossariorum Latinorum 1965, vol. I, pp. 92 e 93; Anthologia Latina 792: «velox mustelaque drindrat». Tutto questo componimento della Anthologia è dedicato ai versi degli animali, la prima parte agli uccelli, la seconda ad animali di varia natura, e costituisce un documento linguistico di grande interesse per il latino. Per la lingua inglese, una lista ancor piú lunga di versi di animali si può trovare per esempio nella traduzione di Gargantua et Pantagruel fatta da Sir Thomas Urquhart (RABELAIS 1934, libro III, cap. XIII ): alla donnola viene attribuito lo squeaking. 11. Cfr. lo scolio di Porfirione citato a cap. VIII , nota 12. 12. Orazio, Epistulae 1.7.29-34. Cfr. Babriu, 86 (PERRY 1965) e il racconto esopico Aesopica 23 (PERRY 1952), in cui il colloquio è fra due volpi; vedi anche Dione Crisostomo, Orationes 47.20. La favola ha avuto notevole fortuna: da un breve accenno in Girolamo, Epistulae 79.3, si ricava che in altre versioni il ruolo dell’animale con la pancia piena poteva essere svolto dal topo; in Gregorio di Tours, Historia Francorum 4.9, la medesima storia è narrata a proposito di un serpente scivolato dentro una bottiglia di vino, dal cui collo non riesce piú a uscire una volta «inflatus vino» (colui che lo ammonisce è il padrone del vino); ancora una volpe e una donnola in Cirillo vescovo, Speculum Sapientiae 11 (GRÄSSE 1880, pp. 85-86); altri paralleli in COSQUIN 1887, 156-63. La storia è ripresa da La Fontaine nelle Fables 3.17: stavolta è la donnola ad aver mangiato troppo, tanto che non riesce a uscire dal buco, ed è un topo che le fa la morale. Sulle fonti antiche di questa favola cfr. HAUTHAL 1861, vol. II, p. 411, ad Epistulas 1.7.32, con una discussione in apparato.

13. HAUTHAL 1861, vol. II, p. 411. 14. Aynardus, Excerpta ex glossis, in Corpus Glossariorum Latinorum 1965, vol. V, p. 620. Cfr. BLATT

1957, s.v. «mustela».

15. Eliano, De natura animalium 7.8 (donnola) e 7.7 (gallo). 16. Eliano, De natura animalium 9.48. 17. Esichio, Lexicon (LATTE 1953, vol. II, p. 530): krízei: oxú auleî; krízein: kekragéna. 18. Omero, Ilias 16.470. 19. Aristofane, Aves 1521. 20. Un’immagine sonora assai simile è usata da Erodoto, Historiae 4.183, per descrivere i trogloditi etiopi: i quali, poiché «parlano una lingua diversa da tutti gli altri», sono detti «stridere (tetrígasi) come pipistrelli». Cfr. BETTINI 1986, pp. 229-31. 21. Scholia a Aristofane, Aves 1521 (DÜBNER 1855). Suda, s.v. «krig » (ADLER 1928, vol. III, p. 188, n. 2415); Esichio, Lexicon, s.v. «krig » (LATTE 1953, vol. II, p. 530). Cfr. DEGANI 1985, pp. 257-58. 22. Ipponatte, fr. 57 (DEGANI 1983). Sull’accentuazione, krig

per il grido e krig per il nome

dell’uccello, cfr. la nota di Degani, ad locum; cfr. anche DEGANI 1985, pp. 257-58. 23. Strattis, fr. 49 (KASSEL e AUSTIN 1989, vol. VII, p. 646). 24. Menandro, fr. 699 (KÖRTE 1959, con la nota ad locum). La fonte del frammento, Eustazio, ad Iliadem 24.272 (VAN DER VALK 1971-87, vol. IV, p. 904), glossa questo verbo semplicemente con «produrre un’eco» (poión tina chon apoteleî). 25. Per il valore augurale del grido della donnola, vedi qui Parte seconda, cap. II , nota 35. 26. Per Istro ed Eliano, vedi Parte prima, par. I .6. 27. GRONOVIUS 1731, vol. II, p. 931, ai vv. 14.4. 28. Vedi qui Parte prima, par. V .1, e cap. IX . 29. Plinio, Naturalis historia 28.33-34. 30. KÖVES-ZULAUF 1990, p. 235, n. 52. Vorremmo anzi aggiungere che il valore magico della lancia potrebbe trovare un’interessante analogia con il mito romano. Quando Metabo, il padre di Camilla, si trovò di fronte alle acque infuriate del fiume Amasenus, per mettere in salvo la figlia la legò a una lancia e la scagliò di là dal fiume (Virgilio, Aeneis 11.539-66). Anche nel mondo della ballata scozzese il marito deve scagliare una freccia quando il momento della nascita si avvicina: cfr. Leesome Brand e Sheath and Knife, sono citate in WIMBERLY 1928, p. 359. Probabilmente anche qui si intende facilitare il parto per via di simulazione; questa l’interpretazione di WIMBERLY 1928, p. 359. 31. Alla bibliografia citata da KÖVES-ZULAUF 1990, si aggiunga quella ulteriore in MENCACCI 1991.

32. SCHOTT 1935, pp. 17-19. Sul rapporto fra la donnola, il mondo del parto e il mito di Alcmena alcuni spunti già in LESSIAK 1912, pp. 125-28 (la donnola come simbolo della matrice e del genitale femminile), citato da RIEGLER 1912, p. 175. 33. RIEGLER 1925 (HDA, IX, p. 584). 34. MOCZULSKA 2009. 35. SCHOTT 1935, p. 19; cfr. ROLLAND 1908, vol. I, p. 53. 36. Plinio, Naturalis historia 30.124: «facilius enituntur quae fimum anserinum cum aquae duobus cyathis sorbuere aut ex utriculo mustelino per genitale effluentes aquas». 37. Tommaso Cantimpratense, Liber de natura rerum 4.77 (BOESE 1973, p. 152): «il testicolo sinistro della donnola, legato al collo di una gallina, facilita la deposizione delle uova». Sui poteri dei testicoli della donnola, vedi la nota successiva. 38. Eliano, De natura animalium 15.11; per questo testo vedi Parte prima, par. I .6. Talora si crede che fra i due testicoli della donnola ci sia una differenza, e il destro favorisca la concezione, il sinistro la impedisca; cfr. WINKLER 1990, p. 81, che cita Cyranidi (Kyranides: una raccolta di opere magico-mediche in greco raccolte nel IV secolo) 2.7. Il rimedio dato da Eliano è registrato anche da Trotula de Ruggiero, De passionibus mulierum, cap. XI . De impedimento conceptionis et de his quae faciunt ad impregnationem (BOGGI CAVALLO e CANTALUPO 1994, p. 78). 39. Ad-Damiri attribuisce questo potere alle due zampe anteriori della donnola (JAYAKAR 1908, p. 423). Alberto Magno, De animalibus XXII.122 (STADLER 1920, 1415) lo attribuisce invece al calcagno dell’animale, purché le sia strappato quando è ancora vivo. Quest’uso di parti del corpo della donnola per evitare la gravidanza è testimoniato anche nel folclore europeo, cosí come lo è quello di appendere una testa di donnola a un albero per impedire che porti frutto; cfr. RIEGLER 1925 (HDA, IX, pp. 587-88); una curiosa lista di ricette in JÜHLING 1900, pp. 249-50. 40. Eliano, De natura animalium 15.11: vedi Parte prima, par. I .6. 41. PINGIATOGLOU 1981, p. 93. 42. Eschilo, Supplices 676. Esichio, Lexicon, s.v. «Kallíst » (LATTE 1953, vol. II, p. 402), sembra testimoniare un’equivalenza fra Ecate e Artemide Kallíste, che aveva ugualmente giurisdizione sulle donne e sul parto; cfr. PINGIATOGLOU 1981, p. 93. Sui rapporti fra Artemide ed Ecate nella sfera della nascita, cfr. per esempio Schreiber, Artemis (Roscher, GRM, I.1, pp. 571-73); FARNELL

1896, p. 444. Su Artemide levatrice, vedi qui Parte seconda, par. IV .1.

43. EUSEBIUS 1954, 3.11.32, e soprattutto 4.23.7. 44. WILAMOWITZ-MOELLENDORFF 1931, vol. I, p. 170; PINGIATOGLOU 1981, p. 93. 45. Per il sacrificio del cane a Ecate, Genita Mana ed Eilioneia, cfr. Plutarco, Quaestiones Romanae 52 (277b). Sul sacrificio del cane, cfr. SCHOLZ 1917; WILAMOWITZ-MOELLENDORFF

1931, vol. I, pp. 169-70; MAINOLDI 1984, pp. 51-59. La variante Eilioneia per Eileíthyia è attestata solo in questo passo; cfr. FRISK 1954, vol. I, p. 465, s.v., che dubita possa addirittura trattarsi di un errore. Ma Plutarco cita esplicitamente come fonte Sokrates 310, F 4 (F. JACOBY 1961, vol. IIIB, p. 16): il cane viene sacrificato a Eilioneia dià t s rhaist n s t s locheías. Su Genita Mana cfr. BETTINI

1978; per il sacrificio del cane a Genetyllís, vedi Esichio, Lexicon, s.v. «Genetyllís» (LATTE

1953, vol. I, p. 369). Il cane ha tradizionalmente rapporti con il mondo della nascita: sappiamo per esempio che il latte di cagna e la placenta del medesimo animale erano ritenuti un aiuto per facilitare il parto (per il parto della cagna, vedi qui Parte prima, cap. I , nota 43). Per quanto riguarda Ecate, bisogna inoltre notare che non solo la nascita ma anche la fertilità aveva relazioni con questa divinità. Essa si presenta infatti come dea kourotróphos, specializzata cioè nella procreazione e nell’accrescimento della vita: è lei che ha il potere di incrementare l’abbondanza di ogni tipo di bestiame, cosí come a lei è assegnato il compito di far crescere tutti coloro che hanno visto la luce. Cfr. Esiodo, Theogonia 440 sgg.; Orphei hymni 1.8 (ABEL 1885), dove Ecate è invocata come kourotróphos; Ennio, Scenica 121 (in VAHLEN 1903). 46. Scholia a Nicandro, Theriaká 190 (SCHNEIDER 1856, p. 16), dove però l’ichneím n è considerato erroneamente una «specie di aquila». 47. Strabone, Geographica 17.39; Clemente Alessandrino, Protrepticus ad Hellenos 34. 48. Eliano, De natura animalium 10.47. L’icneumone è un carnivoro viverriforme, che dei mustelidi presenta le principali caratteristiche: il corpo allungato, gli arti piuttosto corti, le unghie non retrattili e soprattutto le ghiandole anali (sulla morfologia dei mustelidi, vedi qui Parte prima, par. VII .1); sugli ichneumones cfr. KELLER 1909, vol. I, pp. 158-60; H. Gossen, Ichneumon (PaulyWissowa, suppl. VIII, p. 233). Cfr. anche l’ampia nota di PEASE 1958, vol. I, pp. 470-71, ai vv. 1110; GOW 1967, pp. 195-97. Per la sua inimicizia con l’aspide e con il coccodrillo, proprio come la donnola è nemica giurata del basilisco, vedi qui Parte prima, par. VII .5. 49. Cfr. BREHM 1883, p. 53, citato da SCHOTT 1935, p. 10: «estremamente tenera nel comportamento verso i figli». 50. Cfr. C. KING 1989, p. 137; SLEEMAN 1989, p. 59; GEORGE e YAPP 1991, pp. 66 sgg. 51. C. KING 1989, pp. 142, 205. 52. C. KING 1989, pp. 137-38. 53. Cfr. GEORGE e YAPP 1991, p. 67; BARING-GOULD 1894, pp. 398 sgg. Per la credenza in questione, diffusa nel Medioevo, cfr. Ugo di San Vittore, De Bestiis et aliis rebus 2.18 (Migne, PL, 128, 63); Brunetto Latini, Li Livres dou tresor I.181; La belette, cap. XLIII , in CHARBONNEAULASSAY

1975, p. 320; cfr. ROLLAND 1908, vol. VII, p. 126. Cfr. anche Tommaso Cantimpratense,

Liber de natura rerum 4.77 (BOESE 1973, p. 152): «proinde et super omnem medicorum artem dicuntur [scil. mustele] esse perite, ita ut, si mortuos suos fetus invenerint, per herbam naturaliter

notam faciunt redivivos». Per la presenza di questa credenza nell’Eliduc di Maria di Francia, cfr. MCCASH

1994, con interessanti osservazioni sulle analogie simboliche fra il cervo e la donnola.

54. C. KING 1989, pp. 139-40. 55. C. KING 1989, pp. 136-37. 56. C. KING 1989, p.139. 57. Aristotele, De generatione animalium 6 (756b); Anassagora, 59 A 114 (DIELS e KRANZ 1960, vol. II, 31, 20). 58. Cfr. GEORGE e YAPP 1991, pp. 67-68, con molti riferimenti iconografici; HASSIG 1995, pp. 29-39. Sul lavoro di Debra Hassig, vedi qui Parte prima, cap. VII , nota 166. 59. Plinio, Naturalis historia 29.60: «mustelarum duo genera … haec autem quae in domibus nostris oberrat et catulos suos, ut auctor est Cicero, cottidie transfert mutatque sedem, serpentes persequitur». L’opera di Cicerone a cui Plinio si riferisce è sconosciuta: si tratta forse degli Admiranda citati altrove da Plinio, Naturalis historia 31.12 e 51. 60. Isidoro, Etymologiae 12.3.3: «mustela … in domibus, ubi nutrit catulos suos, transfert mutatque sedem». Le parole usate da Isidoro mostrano la sua dipendenza dal passo di Plinio citato alla nota precedente, ovvero una comune dipendenza dal Cicerone ricordato in Plinio, Naturalis historia 29.60. Per l’abitudine della donnola di spostare in continuazione i propri piccoli, cfr. anche Plauto, Stichus 499 sgg.; vedi qui Parte seconda, par. II .1. 61. Per Cicerone cfr. nota 59. Ovidio, Metamorphoses 9.323. 62. Plinio, Naturalis historia XXIX.60; per la mustela rustica, XXXVIII.162. Sulla mustela come animale domestico a Roma, e la sua successiva sostituzione da parte del gatto, oltre ai tradizionali lavori di KELLER 1909, vol. I, pp. 164-71, e HEN 1874, pp. 398-406, vedi PLACZECK 1888; Orth, Katze (Pauly-Wissowa, XI.1, pp. 52-57); TOYNBEE 1973, pp. 87-90. Che donnole e gatti fossero tenuti ben distinti in Grecia, almeno nel secolo II d.C., è mostrato da Plutarco, De sollertia animalium 2 (959e); curioso invece che in Apostolio 5.21 (LEUTSCH 1965, vol. II, pp. 336-37) le abitudini attribuite al gatto (aílouros) da Eliano, De natura animalium 14.44, vengono riferite sia a questo animale sia alla donnola: e oltretutto sono registrate a spiegazione di un proverbio che tipicamente riguarda la donnola (vedi qui Parte seconda, par. IV .1). 63. Per la donnola selvatica (agría), vedi Aristotele, Historia animalium 6.37 (580b) e 9.6 (612b); Strabone, Geographica 3.2.6; scholia a Nicandro, Theriaká 196 (SCHNEIDER 1856); Rufo di Efeso, fr. 79 (in DAREMBERG e RUELLE 1879, p. 8). Per la donnola domestica (enoikídios) cfr. Aristophanis Historiae Animalium Epitome 2.387 (LAMBROS 1960, vol. I, p. 112); Dioscoride, De materia medica 2.25 (WELLMANN 1907-14, vol. I, p. 130); Philumenos medicus, De venenatis animalibus 33.1.1 (WELLMANN 1908); cfr. Palladio, Opus agriculturae 4.4. Il problema delle distinzioni antiche fra i vari tipi di donnola, e le corrispondenze che si possono individuare con i vari

mustelidi delle classificazioni scientifiche piú moderne, era stato già affrontato da Iacopo Perizonio, in una lunga nota erudita e naturalistica alla Varia Historia di Eliano (GRONOVIUS 1731, pp. 93133, ai vv. 14.4): «Antequam homines satis distinguere possent animalia, tunc ubique quae non multum diversi erant generis, uno eodemque designabantur vocabulo. Sic ergo etiam mures [?], mustelae, feles, una hac voce gal s fuerunt primo appellati … At vero posteaquam homines animalia haec melius distinguere coeperunt, tunc singulis propria dederunt nomina…» Piú modernamente, vedi KELLER 1909, vol. I, p. 165, e soprattutto Steier, Mustela (Pauly-Wissowa, XVI.1, pp. 902-8). Per Teocrito, Idyllia 15.28 (le donnole «pigre»), in aggiunta alla nota di GOW 1965, ad locum, cfr. anche GOW 1967, pp. 195-97; per il problema generale della tassonomia popolare riguardo a piante e animali, cfr. CLARK 1988: «un albero è un albero se un numero sufficiente di parlanti in una certa lingua la pensa cosí…» Per gli animali in particolare, vedi anche SPERBER

1975, pp. 12-13.

64. Questo dato in BENTON 1969. 65. Che la donnola fosse lo household pet della Grecia classica lo ha sostenuto BORTHWICK 1968a, p. 138, sulla scorta di KELLER 1909, vol. I, pp. 164-65. Contro E. K. Borthwick, BENTON 1969 si è invece mostrata fermamente convinta del fatto che le donnole fossero «tolerated, but … not beloved» dai Greci, i quali permettevano loro di aggirarsi per casa solo perché cacciavano gli animali dannosi. Il pet dei Greci sarebbe stato il gatto. Il problema della distribuzione del gatto domestico in Grecia, e della presenza o meno di donnole domestiche nell’area greca, magno-greca ed egizia, è stato a lungo dibattuto: cfr. HOPKINSON 1984, pp. 166-67. Non credo comunque che giovi molto a risolvere il problema l’impostazione che ne ha dato LLOYD-JONES 1976, p. 76, secondo cui «what civilised human being could prefer the weasel, with its foul smell and thievish habits, when a cat is available?» I termini in cui la domanda è posta sono perentori: nel senso che, chiunque pensasse che i Greci preferivano le donnole ai gatti, li accuserebbe per ciò stesso di essere degli «incivili» – ma come si fa a pensare che i padri della cultura occidentale fossero degli «incivili»? 66. OSBORN e HELMY 1980, pp. 405-9. 67. C. KING 1989, pp. 6-7; SLEEMAN 1989, p. 99. In questo senso vale anzi la pena di notare che nella società contemporanea almeno il furetto, se non la donnola, sembra godere di una certa fortuna domestica, e viene usato come pet da un crescente numero di persone: cfr. STEINBERG 1996. 68. Giovanni Tzetze, Historiarum variarum Chilias 5.524-46 (LEONE 1968, pp. 187-88). La donnola in questione sembra comunque essere stata un maschio, visto che nel testo è designata da pronomi al genere maschile. 69. Aesopica 244 (PERRY 1952). 70. È possibile che questa scarsa simpatia per il grido della donnola sia da mettere in relazione

con il carattere sinistro e perturbante che a esso veniva attribuito in Grecia: vedi qui Parte prima, par. VII .1

e Parte seconda, par. II .1.

71. Babrius 135 (PERRY 1965). Stavolta il disturbatore della pace domestica non è un pappagallo ma una pernice, che è stata appena comprata e portata a casa dal padrone. 72. Cosí in alcune zone nei pressi di Roma: BÖHRINGER 1935, p. 72; per l’interpretazione cfr. ALINEI

1986, p. 167; per il rapporto dominus/verna cfr. piú recentemente NIELSEN 1991. Cogliamo

l’occasione per sottolineare che il lavoro di Alinei appena ricordato, cosí come gli altri lavori dell’autore citati in bibliografia, sono risultati di enorme importanza per lo svolgimento del nostro studio, soprattutto dal punto di vista della ricerca linguistica, folclorica e comparativa sulla donnola; inoltre, si deve ancora a Mario Alinei l’aver riportato l’attenzione degli studiosi moderni sui lavori di Richard Riegler, ai quali si fa spesso riferimento nel nostro studio. 73. Per la strega, vedi Parte seconda, par. III .1.b. 74. ALINEI 1986, p. 167. 75. ALINEI 1986, p. 74. Sulla donnola come spiritello o Poltergeist, cfr. RIEGLER 1925 (HDA, IX, p. 585). 76. ZOE 1963, p. 317. La scena descritta richiama una pratica di divinazione domestica comune nella Grecia antica e definita oikoskopikón: cfr. Suda, s.v. «oionistik » (ADLER 1928, vol. IV, p. 627, n. 1634), «se sul tetto compare una donnola o un serpente»; cfr. anche Suda, s.v. «propheteía» (ADLER 1928, vol. IV, p. 242, n. 2923). Tale pratica divinatoria ricorre anche nel folclore greco moderno (LAWSON 1909, p. 327). Pure in Macedonia l’apparizione di una donnola era considerata di buon augurio: cfr. ABBOTT 1903, pp. 108-9. 77. In zone della Grecia in cui l’apparizione della donnola è considerata di cattivo augurio, il buon auspicio è portato invece dal serpente che entra in casa. LAWSON 1909, p. 328: «for it is the guardian-genius watching over its own». 78. Per il genio domestico nelle leggende settentrionali, vedi qui, Conclusioni, par. 2. 79. Curioso anzi che DE GUBERNATIS 1872, p. 62, secondo cui il gatto sarebbe appunto da considerarsi «the familiar genius of the house», riconnettesse a questa credenza l’espressione familiare italiana «non c’era neanche un gatto» per indicare una casa vuota. Sul carattere soprannaturale del gatto, vedi qui Parte seconda, par. II .1. 80. SLEEMAN 1989, p. 68. 81. SCHOTT 1935, pp. 64-66; ALINEI 1986, pp. 187, 209. Cfr. anche questa osservazione citata da C. KING 1989, p. 5: «it is the image of a serpent»; SLEEMAN 1989, pp. 13-14. 82. Per il corpo della donnola, vedi qui Parte prima, par. VII .1. 83. C. KING 1989, pp. 4-5, 18-21. Per la donnola che «scivola dentro», vedi qui Parte prima, par. VII .1.

84. Plinio, Naturalis historia 8.78. Molto diffusa la credenza secondo cui la donnola farebbe uso di una certa erba che la difende dal veleno del serpente: per la cultura antica cfr. per esempio Plinio, Naturalis historia 8.98 e 16.132 (ruta), per quella medievale cfr. per esempio Alberto Magno, De animalibus XXI.11 (STADLER 1920, 1327). 85. RIEGLER 1981b, p. 335. 86. Cfr. JAYAKAR 1908, p. 421. Per l’icneumone vedi Eliano, De natura animalium 8.25: «quando [il coccodrillo] giace addormentato l’icneumone … gli scivola nella gola e lo soffoca»; Plinio ancor piú espressivamente aveva detto «scagliandosi nella sua gola come una freccia» (Naturalis historia 8.90). Per altre versioni medievali cfr. per esempio Physiologus Latinus (CARMODY 1941, Y, pp. 38 e 39); Oddone di Cheriton, Fabulae 18 (HERVIEUX 1893-99, vol. IV, p. 192). Per l’inimicizia tradizionale fra icneumone e coccodrillo, che in Egitto dava luogo a diversi raggruppamenti sociali e culti animali, cfr. Diodoro Siculo, Bibliotheca historica 1.87; Strabone, Geographica 17.39; ecc. Cfr. anche KELLER 1909, vol. I, pp. 158-60. Per rappresentazioni figurate della lotta dell’icneumone con l’aspide, vedi IMHOOF-BLUMER e KELLER 1889, tavv. XVI, V-VI, XXIII e X; vedi anche tavv. I e XXV). Vedi qui Parte prima, par. VII .5. 87. RIEGLER 1925 (HDA, vol. IX, pp. 585-86); E. H. MEYER 1891, pp. 63-64; DUNCAN 1924, pp. 51-53. 88. Cfr. Gesta Romanorum 172 (OESTERLEY 1872, 565), in cui il tema dell’anima-donnola si unisce con quello della donnola guardiana di tesori (su cui vedi qui Parte seconda, par. II .5) e nemica del serpente: Guidone e Tirio infatti, una volta entrati nella cavità in cui hanno visto infilarsi la donnola bianca, vi scoprono un draco dal ventre squarciato e pieno d’oro. 89. E. H. MEYER 1891, p. 64: altre forme ricorrenti sono quella del serpente, animale che, come abbiamo visto, «sguscia fuori e dentro» con facilità, e del rospo (tipica rappresentazione dell’utero femminile in molte tradizioni). Sull’utero mobile, una credenza già ricorrente nel mondo greco, cfr. DEMAND

1994, pp. 35-36, 55-57, 97-99, 103-7, e passim.

90. Plinio, Naturalis historia 8.218: «iniciunt eas in specus, qui sunt multifores in terra – unde et nomen animali – atque ita eiectos superne capiunt». Plinio vuol dire che dalla parola cuniculus «cunicolo, galleria» deriverebbe la denominazione cuniculus «coniglio» per l’animale. Sulle viverrae cfr. KELLER 1909, vol. I, pp. 163-64. 91. SLEEMAN 1989, p. 33. 92. Per l’anatomia della donnola, vedi qui Parte prima, par. VII .1. 93. SCHOTT 1935, p. 67. 94. La Fontaine, Fables 3.17. Si tratta della stessa favola narrata da Orazio, Epistulae 1.7.29 sgg. (vedi qui Parte prima, cap. VII , nota 12). 95. Questo proverbio si fonderà anche sulla cattiva reputazione che la donnola in generale ha

nella tradizione inglese, dove essa sembra comunemente considerata «cruel, voracious and cowardly»; cfr. THOMAS 1983, pp. 58, 64; cfr. anche C. KING 1989, p. 5, e SLEEMAN 1989, pp. 1012. Da notare che la donnola, nella tradizione anglosassone, è normalmente sentita animale «maschio», non «femmina» come nella tradizione greca antica, latina o romanza. 96. SLEEMAN 1989, p. 14. 97. Apollodoro di Caristo, fr. 6 (KASSEL e AUSTIN 1989, vol. II, p. 491). 98. HAKO 1956, pp. 12-20; ALINEI 1986, p. 190. 99. ALINEI 1986, pp. 190, 211. 100. Varrone, De re rustica 3.10.4; Columella, De agricultura 8.14.9; Palladio, Opus agriculturae 1.24.2. 101. BÖHRINGER 1935; SCHOTT 1935, pp. 11-12. 102. Su queste caratteristiche del comportamento della donnola cfr. C. KING 1989, pp. 82-84. 103. Orazio, Epistulae 1.7.25 sgg.: vedi qui Parte prima, cap. VII , nota 12. La donnola assume un atteggiamento di superiorità nei confronti della volpe anche in Cirillo vescovo, Speculum Sapientiae 8 (GRÄSSE 1880, pp. 80-82). 104. Sulla donnola astuta, vedi qui Parte seconda, par. II .5. 105. Cfr. anche la versione bizantina del Physiologus graecus riportata da SBORDONE 1936, p. 77, dove si parla della lotta che la donnola svolge con il pontikós, e della sua tecnica di soffocarlo nel «buco» (trûpa) tramite un eccesso di cibo. 106. Aristofane, fr. 732 (KASSEL e AUSTIN 1989, vol. III.2, p. 371). 107. RIEGLER 1981a, p. 318. 108. URTEL 1913. 109. Pseudo-Alberto Magno, Liber secretorum de virtutibus herbarum, lapidum et animalium quorundam (BEST e BRIGHTMAN 1973, p. 56): «se un cane mangia il cuore di una donnola con i suoi occhi e la sua lingua, perde la voce». 110. RIEGLER 1981a, p. 318, che cita TOBLER 1911, p. 19; per la donnola come animale delle malattie, vedi RIEGLER 1925 (HDG, IX, 583-84). 111. SHEPARD 1996, p. 48. Per il problema di rappresentare metaforicamente il dolore, vedi GAROFALO

1998.

112. Per il parto dalla bocca, vedi qui Parte prima, par. I .2 e cap. I , nota 17. 113. Aristotele, De generatione animalium 6 (756b); Anassagora, 59 A 114 (DIELS e KRANZ 1960, vol. II, 31, 20). Anche secondo Eliano, De natura animalium 10.29, l’ibis concepisce e partorisce dalla bocca. Per il corvo, vedi qui Parte prima, par. IX . La stessa critica scientifica viene applicata da Aristotele (De generatione animalium 6) anche alla credenza che le femmine dei pesci siano fecondate dalla bocca: cfr. SISSA 1983, p. 103. MATTIOLI 1557, p. 223, nei suoi Discorsi sul

libro II di Dioscoride, ancora deriderà l’Encelio «huomo altrimenti dotto, il quale al cap. LIV del libro III della natura dei minerali, seguitando egli forse piú il vulgo, che Aristotile et altri buoni auttori, scrive assai inconsideratamente, che le sepie, le loligini, le locuste, et le squille marine usano il coito per bocca, et per bocca parimenti partoriscono: et il medesimo disse pure egli dei corbi, et delle galline salvatiche, cosa veramente piú da ridere che da farvi sopra veruna consideratione». 114. Per la donnola domestica e i suoi piccoli, vedi qui Parte prima, par. VII .4. 115. Plinio, Naturalis historia 10.187: «Quadripedum ova gignentium lacertas ore parere, ut creditur vulgo, Aristoteles negat». 116. Aristotele parla della lucertola nel De generatione animalium 5.33 (558a), e si limita a dire che «le uova della lucertola si schiudono da sole nel terreno». Cfr. SAINT-DENIS 1951, p. 152, ad locum. 117. Nelle cosiddette «gemme gnostiche», probabilmente in relazione simbolica con la circolazione della «parola», anch’essa generata dalla bocca, come nel caso delle credenze relative alla donnola che si vedranno sotto. Cfr. C. W. KING 1887 1887, p. 107; ELWORTHY 1895, pp. 321-25. In questo stesso campo sarebbe di grande interesse ricostruire nel dettaglio la simbologia proposta da Andrea Alciati come emblema dedicatorio per Massimiliano, duca di Milano, «super insigni Ducatus Mediolanensis»: vi si vede un bambino che esce dalla bocca di un serpente, mentre i distici che accompagnano l’emblema rimandano alla nascita di Alessandro cosí come l’autore l’avrebbe vista rappresentata su alcune monete (dum se Ammone satum, matrem anguis imagine lusam | divini et subolem seminis esse docet): cfr. ALCIATUS 1551, p. 7. 118. Aristotele, Historia animalium 24 (565b); Ateneo, Deipnosophistae 8.294e; Eliano, De natura animalium 1.17; 2.55; Plutarco, De sollertia animalium 33 (982a); Artemidoro, Oneirocritica 1.79 (che attribuisce il parto dalla bocca anche a vipera e colomba). Cfr. THOMPSON 1947, pp. 3942. Sul rispecchiamento terra/mare nel caso della donnola, vedi qui Parte seconda, par. II .5. 119. Secondo BOCHART 1712 (coll. 1033 sgg. = Hierozoicon 3.35), all’origine delle credenze relative al parto orale della donnola ci sarebbe stata proprio una confusione fra gal e galeós, idea variamente ripresa negli studi successivi: cfr. per esempio LAUCHERT 1889, p. 22. L’elenco degli animali che partoriscono oralmente può essere ulteriormente accresciuto: in contesti etnografici certo molto lontani dal nostro, nelle tradizioni dell’Estremo Oriente, il parto orale viene per esempio attribuito alla femmina del coniglio (DUMOUTIER 1897, p. 419). Cfr. anche HARTLAND 1909, pp. 151-55. 120. Questa discrepanza impedisce di credere che Nicandro possa essere considerato qui la fonte, ovvero l’unica fonte, di Ovidio. D’altronde si sa che i rapporti fra le Metamorfosi di Ovidio e Nicandro non sono mai di stretta dipendenza; cfr. LAFAYE 1904, pp. 54-56. Oscura la spiegazione di PAPATHOMOPOULOS

1968, p. 137, secondo cui Ovidio avrebbe trascurato tale dettaglio perché non

ha lo stesso gusto di Nicandro per questo genere di cose (?); il rimando di Manolis Papathomopoulos a Nicandro, Theriaká 130, è comunque poco pertinente. BÖMER 1977, p. 360, lascia in sospeso la questione delle differenze fra la versione di Ovidio e quella di Nicandro. 121. MANULI 1980, p. 399, e MANULI 1983, p. 157; HANSON 1984; H. KING 1988a, pp. 22 sgg.; cfr. anche LORAUX 1992. 122. Ampia documentazione dal Corpus Hippocraticum e da altri testi di medicina antica in H. KING

1988a; cfr. anche HANSON 1990, p. 328.

123. H. KING 1988a, p. 23. 124. Cfr. SISSA 1992, pp. 44-45, e pp. 55-60 per le belle osservazioni sulla parola gast r, «utero» e «ventre» nello stesso tempo. 125. Cfr. Eschilo, Agamemnon 245, dove a Ifigenia, che sta per essere sacrificata, viene riferita l’oscura espressione ataúr tos in relazione con una «voce pura»: l’aggettivo ataúr tos significa «non sposata, vergine», e la «voce pura» potrebbe essere messa in rapporto con la credenza che dopo la perdita della verginità il collo si allarga. Tale credenza emerge comunque chiaramente in Catullo, Carmina 64.376 sg.; Nemesiano, Eclogae 2.11 sgg.; vedi ARMSTRONG e HANSON 1986, con altre testimonianze di grande interesse. Cfr. ancora HANSON 1990, p. 328. 126. Esiodo, Theogonia 280-81. 127. FORBES 1966, p. 80. 128. HAND, CASETTA e THIEDERMAN 1981, vol. I, n. 526. 129. Che i racconti sugli animali i quali partoriscono dalla bocca facciano parte dello stesso campo metaforico in cui rientra anche l’identificazione immaginaria fra le due «bocche» femminili è stato già suggerito da SISSA 1992, p. 60. Un altro caso di analogia fra rappresentazioni del corpo femminile e credenze sul mondo degli animali può essere costituito dalla vipera, la cui femmina «divora» il maschio nello stesso momento in cui ne riceve il seme; cfr. SISSA 1992, p. 57: «corpo femminile le cui due bocche funzionano in sincronia». Sulla vipera, vedi qui, Prologo sull’Olimpo, par. 5. 130. Plutarco, De Iside et Osiride 74 (381a). Purtroppo non ci sono osservazioni utili a questo proposito nel commento di GRIFFITHS 1970, p. 55. 131. Secondo Eliano, De natura animalium 10.28, sarebbero invece le ali dell’ibis a costituire un simbolo perfetto del linguaggio: questo uccello «nella sua apparenza (eîdos) rassomiglia alla natura del linguaggio: infatti le penne nere possono essere paragonate al linguaggio taciuto e rivolto verso l’interno; quelle bianche al linguaggio proferito e ascoltato, quasi si trattasse di un servo e di un messaggero di quel che sta dentro». 132. Cosí come avverrà nel caso del Physiologus (su cui vedi qui Parte prima, par. VII .6), «the influence of Bolos … had completely conquered that of Aristotle»: GRANT 1952, p. 118.

133. Plutarco, De garrulitate 1 (502d). Per il collegamento fra udito e cervello cfr. Aristotele De generatione animalium 2.6 (744a). Cfr. anche PETTINE 1992, p. 126. 134. La datazione di quest’opera è discussa, ma essa sembra senz’altro anteriore al testo plutarcheo: per un résumé del dibattito critico vedi l’introduzione di CALABI 1995, pp. 27-29. I termini massimi di oscillazione sono dati dal secolo III a.C. (Tolomeo Filadelfo come ispiratore della missione a Gerusalemme) e dal I d.C. (parafrasi della Lettera data da Flavio Giuseppe). HADAS 1951, p. 54, collocava l’opera fra il 145 e il 125 a.C.; la data piú bassa è quella proposta da L. HERMANN

1966. Francesca Calabi, nella sua introduzione, propende per una datazione alta. Questa

breve opera (legata com’è a due temi importanti quali la Biblioteca di Alessandria e la traduzione biblica dei Settanta) godette di una straordinaria fortuna, orientale e occidentale, fino al Rinascimento e oltre: cfr. la bella ricerca di CANFORA 1996. 135. Lettera di Aristea 144. 136. Leviticus 11.49-51. La traduzione che abbiamo dato nel testo ricalca quella inglese di MILGROM

1991, p. 644. La parola ebraica holed è tradotta però da Milgrom con rat (ma, nella nota a

p. 671, si spiega come essa possa significare anche «donnola» e «talpa»). I Settanta (Leviticus 1.29) traducevano comunque con gal

«donnola», cosí come nella Vulgata (Leviticus 1.29) essa era

tradotta con mustela «donnola». È dunque con una donnola, e non con un topo, che avranno a che fare i cristiani quando vorranno giustificare questi divieti alimentari. Anche nella tradizione islamica si discusse se fosse lecito o meno mangiare la donnola: per le differenti opinioni vedi JAYAKAR 1908, pp. 422-23. Vale poi la pena di notare che nella Bibbia compare anche la forma femminile corrispondente al maschile holed, cioè huldah: Huldah è il nome della profetessa mandata a consultare dal re Giosia, come viene narrato in Regum 4.22.14 e Paralipomenon 2.34.22. 137. Com’è noto, DOUGLAS 1975b, p. 93, ha sostenuto che l’origine dell’interdetto alimentare biblico da cui è colpito «ciò che striscia» sulla terra va verisimilmente ricercata nel fatto che il tipo di locomozione attribuito a questi animali impuri – «strisciare», ebraico sherec, tradotto con swarming sia nel testo citato di Douglas che in MILGROM 1991, pp. 718-36 – costituisce una «forma indeterminata di movimento» che contrasta con la classificazione fondamentale degli animali secondo tipi precisi e dalle caratteristiche ben individuabili. La classica interpretazione di Mary Douglas, infatti, prevede che alle origini della «impurità» di alcuni animali stia proprio il loro carattere ibrido, il loro «nonfit» rispetto alla classe cui appartengono: dotati di zoccoli ma non ruminanti, che vivono nell’acqua ma privi di lische e scaglie, e cosí di seguito; cfr. anche Deciphering a Meal, in DOUGLAS 1975a, pp. 249-75. Com’è noto questa tesi di Douglas ha prodotto grande discussione fra gli antropologi: ricordiamo solo TAMBIAH 1969, BULMER 1967, BULMER 1986, SPERBER 1975, ecc. Cfr. ancora DOUGLAS 1990. Sulla nozione di contaminatio e «contaminazione», anche in rapporto con le opinioni di Mary Douglas, cfr. GUASTELLA 1989, pp.

25-35. Per una critica specifica alle interpretazioni bibliche di Douglas, e una rassegna delle principali teorie recenti dei biblisti a proposito della «ethical foundation of the dietary system» del Levitico, cfr. MILGROM 1991, pp. 718-36. 138. DOUGLAS 1975b, pp. 75-83. Molto spesso, peraltro, l’interpretazione dei moderni non sembra essersi allontanata troppo da questo originale impulso all’allegoria, come nota Mary Douglas. 139. Novaziano, De cibis iudaicis 3.17 (DIERCKS 1972): «quis autem cibum mustelae cibum faciat? Sed furta reprehendit» (cfr. CICCARESE 1995, p. 382, n. 23). La stessa interpretazione allegorica del divieto alimentare (per mustelam, furtum) anche in Beda, In Pentateucum Commentarii, Explanatio in tertium librum Mosis (Migne, PL, 91, 345). Che la donnola, almeno nella cultura greca, fosse già colpita da un’implicita interdizione alimentare appare chiaro da testimonianze come quella di Plutarco, De sollertia animalium 2 (959e), in cui la pratica di cibarsi di «gatti e donnole» viene ricordata per i periodi di carestia; interessante poi che il mitico Erisittone, giunto agli estremi della sua fame insaziabile, e dopo aver divorato tutti gli animali di casa, finisca per cibarsi anche del «gatto, di cui i topi hanno paura» (Callimaco, In Cererem 110: su cui vedi qui Parte prima, cap. VII , nota 65). 140. Lettera di Aristea 148-50. 141. Lettera di Aristea 162. Per l’interpretazione divinatoria di questo divieto in Origene, Contra Celsum 4.93, vedi qui Parte prima, cap. VII , nota 218. 142. Cosí interpreto il kakoîs hetérous enekúlisan del testo (166): «hanno coinvolto nel male» traduce invece CALABI 1995, p. 113; «have entangled others in evils» in HADAS 1951, p. 165. 143. Lettera di Aristea 163-66. 144. Lettera di Aristea 167. 145. Che Plutarco conoscesse la Lettera di Aristea non è escluso: vedi CANFORA 1996, pp. 7-8. Ma certo bisognerà tener conto anche del fatto che da un lato Plutarco sta riferendo credenze di provenienza egizia, dall’altro la Lettera fu composta ad Alessandria d’Egitto: e dunque questa coincidenza nell’interpretazione linguistica del parto della donnola potrebbe essere stata provocata dalla conoscenza indipendente di credenze analoghe. 146. Epistula Barnabae 10.8 (PRIGENT 1971); cfr. CICCARESE 1995, un lavoro di grande utilità per chi intenda affrontare l’intricato mondo dell’allegoria giudaica e cristiana relativamente a questo tema. Cfr. anche LAUZI 1988. 147. CICCARESE 1995, pp. 382-83. 148. CICCARESE 1995, p. 385. 149. Com’è noto il Physiologus ha solo l’apparenza di un testo elementare, mentre si tratta in realtà di un testo assai complicato: non è chiaro infatti né come si sia formato né dove né quando, né

chi sia il misterioso «Fisiologo» a cui spesso si allude, e cosí via. Purtroppo sono ancora abbastanza scarsi gli studi dedicati non all’origine dell’una o dell’altra credenza raccolte nell’opera ma alla comprensione della natura specifica del Physiologus (qualche osservazione in LAUCHERT 1889, pp. 40-66, e in ZAMBON 1975, pp. 17 sgg.; piú recentemente TREU 1981). Ancora piú ingarbugliata e difficile si presenta la questione della tradizione manoscritta di quest’opera, che consiste in una recensio estremamente aperta, in cui ciascun redattore si è sentito libero di aggiungere e togliere a proprio piacimento. Per quanto riguarda la tradizione greca, dopo SBORDONE 1936 che distinse i manoscritti in tre redazioni differenti che pubblicò separatamente (la prima, 1-145, la secunda o byzantina, 149-256, la tertia o pseudo-basiliana, 259-99), ulteriori progressi sono stati fatti per quello che riguarda la redazione che Francesco Sbordone ritenne la piú antica (la prima). Essa è stata infatti ulteriormente distinta in cinque redazioni fra loro diverse: le prime due sono state pubblicate da OFFERMANNS 1966, in cui le versioni G e M sono riportate l’una di fronte all’altra; le altre tre da KAIMAKIS

1974, che le pubblica anche lui in sequenza sinottica (cfr. la rapida messa a punto di

Dimitris Kaimakis). Per le versioni latine di quest’opera, le redazioni dette Y e B sono pubblicate in CARMODY

1941 e CARMODY 1939. La versione detta B-Is (la versione B con riferimenti a Isidoro,

Etymologiae) si può leggere in MORINI 1996. Per le altre traduzioni antiche del Physiologus – etiopica, armena, siriaca, araba – vedi LAUCHERT 1889, pp. 144-49, e l’ampia discussione in B. Perry, Physiologus (Pauly-Wissowa, XX.1, pp. 1074-130). 150. Novaziano, De cibis iudaicis 3.12 (DIERCKS 1972): «Ita in animalibus per legem quasi quoddam humanae vitae speculum constitutum est, in quo imagines actionum considerent». 151. Ireneo, Adversus haereses 1.4.21 (ROUSSEAU e DOUTRELAU 1965): «nihil vacuum neque sine signo apud Deum». 152. Physiologus graecus 21 (OFFERMANNS 1966, p. 82). Quando si ha a che fare con testi come il Physiologus, la decisione di scegliere una versione piuttosto che un’altra risulta sempre ardua. Ci si trova infatti nella condizione di dover scegliere fra criteri spesso contrastanti, in grado di giustificare la scelta dell’uno o l’altro testo solo sulla base di motivazioni parziali: lingua, datazione, ambiente in cui una certa versione sembra essere stata prodotta, chiarezza o lunghezza del testo, presenza o assenza di certi motivi, presenza o meno di citazioni bibliche, e cosí di seguito. Di conseguenza, quando si sceglie di utilizzare una specifica redazione del Physiologus occorre come minimo dichiarare prima il motivo o il criterio in base al quale lo si fa. In questo caso abbiamo deciso di partire dalle versioni greche e di privilegiare il criterio della semplicità, traducendo nel testo la versione che Dieter Offermanns ha pubblicato fondandosi sul manoscritto G (Pierpoint Morgan ms n. 397): riservandoci però di riportare nel corso della discussione alcune delle differenze piú significative che emergono dal confronto con altre redazioni. Da notare che, nella tradizione greca, il capitolo sulla donnola compare solo nella redazione prima di SBORDONE 1936, mentre è

ignorato nelle due successive. 153. Cosí il Physiologus graecus, versione S s, p. 66, in KAIMAKIS 1974. In altre versioni (W e AIEPD fs, pp. 66a-67, in KAIMAKIS 1974) il kal s della versione che abbiamo riportato, «bene», compare invece nella forma kak s «male», mentre scompare contestualmente la congiunzione hóti: di conseguenza, l’osservazione «bene dunque ha detto che partoriscono dalle orecchie» si trasforma in «male dunque partoriscono dalle orecchie». 154. Isidoro, Etymologiae 12.3.3: «falso autem opinantur qui dicunt mustelam ore concipere, aure effundere partum» (sbaglia chi dice che la donnola concepisce dalla bocca e partorisce dalle orecchie). 155. Su Isidoro cfr. la nota precedente. La doppia possibilità del parto della donnola, orale ovvero auricolare, non sembra aver preoccupato troppo i compilatori delle varie versioni di Physiologi, o raccolte consimili, che possediamo. Per quanto riguarda la tradizione greca, le due versioni compaiono una accanto all’altra in Timoteo di Gaza 39 (BODENHEIMER 1949, p. 40): «la donnola partorisce attraverso l’orecchio, altri invece dicono attraverso la bocca». Per quella latina, la versione del Physiologus Latinus nota come B-Is, dove i materiali tradizionali del Physiologus sono accresciuti con estratti dalle Etymologiae di Isidoro (cfr. MORINI 1996, p. 64), l’affermazione che la donnola «per aures vero generat» è tranquillamente seguita dalla frase di Isidoro: «Falso autem oppinantur qui dicunt mustelam ore concipere, aure effundere partum». Anche Ugo di San Vittore, De Bestiis et aliis rebus 2.18 (Migne, PL, 128, 63), riporta le due diverse versioni una accanto all’altra, senza commentarle. Per il problema delle Recognitiones Pseudoclementinae 8.25.3-6 (in REHM

1965, vol. II, pp. 231-32), dove ugualmente si riscontra l’inversione della credenza

tradizionale, vedi la discussione in CICCARESE 1995, pp. 389-91. Il testo delle Pseudoclementinae risulta di estremo interesse, perché in questo caso la difformità del parto della donnola viene utilizzata per dimostrare il dominio assoluto esercitato dal creatore sulla sua opera: egli ha esplicitamente voluto che sulla terra ci fossero anche animali in grado di generare senza accoppiarsi; cfr. LAUZI 1988, p. 548. Per la reinterpretazione di questa credenza in Pier Damiani, De bono religiosi status 17 (Migne, PL, 145, 777-78), che ne fece simbolo di quei fratelli capaci sí di obbedire (il parto dall’orecchio) ma non di digiunare (il concepimento dalla bocca), cfr. LAUZI 1988, pp. 555-56; su quest’opera di Pier Damiani cfr. FRUGONI 1980. 156. Cosí nel Physiologus Latinus (CARMODY 1941, Y, p. 34). Questa dialettica destra/sinistra nella generazione ricorda antiche interpretazioni della differenza sessuale come quella di Anassagora, 59 A 107 (DIELS e KRANZ 1960, vol. II, 30, 25), secondo cui erano femmina i feti concepiti nella parte sinistra dell’utero, maschi quelli concepiti nella parte destra; cfr. LLOYD 1993. Un’interessante eco del mondo culturale del Physiologus si riscontra poi in RABELAIS 1934, p. 6, quando si dice che Gargantua era stato partorito «dall’orecchio sinistro» della madre. Questa nascita

miracolosa dell’eroe sembra in qualche modo ispirata alle storie dei bestiari sulla donnola; cfr. LEFÈVRE

1985, p. 224, che vi vede anche una possibile parodia della nascita miracolosa di Cristo. E

certo il fatto che Gargantua sia generato non solo dall’«orecchio» della madre, ma addirittura da quello «sinistro», da cui sarebbero in realtà generate le femmine, sancisce fin dall’inzio la singolarità del personaggio e la sua posizione al di fuori delle regole. Sulla dialettica destra/sinistra, cfr. almeno HERTZ

1978, pp. 129-57.

157. Per questi processi semiotici, vedi qui Parte seconda, par. I .3. Nella tradizione araba rappresentata da ad-Damiri, per esempio, si affermerà addirittura che «Aristotele asserisce in Nu’ūt al-hayawān [Descrizioni degli animali] e al-Tawhidi asserisce in Al-Imta’ wa’l-Mu’anasah [Piacere e intimità] che la femmina della donnola è impregnata attraverso la bocca e partorisce da [sotto] la coda» (JAYAKAR 1908, p. 422). Ecco ancora un altro orifizio, ugualmente improprio, attribuito al parto delle donnole. 158. Cosí CICCARESE 1995, pp. 386-87; al contrario SBORDONE 1936, p. 278, sostiene che sia stato lo pseudo-Barnaba a derivare dal Physiologus. In ogni caso, si potrà notare che di questa relazione fra i due testi si può forse indicare una traccia linguistica: là dove la Epistula Barnabae 10.8 dice che la donnola t i stómati kúei, la recensione prima del Physiologus graecus (OFFERMANNS 1966, p. 82; KAIMAKIS 1974, pp. 66-67) risponde con énkuos ginomén . Sulla donnola del Physiologus, oltre al breve accenno di LAUCHERT 1889, p. 22, cfr. anche TREU 1963. 159. Per la concezione tramite l’orecchio della Vergine, vedi qui Parte prima, par. VII .7. 160. Cfr. DIEKSTRA 1985. 161. Questo collegamento era stato già suggerito in SEEL 1960, p. 110. Sulla vipera, vedi Prologo sull’Olimpo, par. 5. 162. Physiologus graecus 21 (KAIMAKIS 1974, pp. 66b, che corrisponde grosso modo a quella riportata da SBORDONE 1936, pp. 76-78). 163. Psalmi 57.5. Cfr. i paralleli elencati da SBORDONE 1936, p. 78, nel suo apparato. 164. Cosí nel Physiologus Latinus (CARMODY 1939, B, p. 26), in cui la parte sull’aspide si presenta molto piú sviluppata. Cfr. anche la secunda e tertia recensione del Physiologus graecus (SBORDONE 1936, pp. 222-28 e 276-78 rispettivamente). Sulle credenze relative all’aspide vedi in particolare SCHWAB 1984. 165. Si sa che il Physiologus, nel perseguire il suo progetto allegorico della natura, non va troppo per il sottile quando si tratta di riadattare un simbolo o una credenza ai propri fini. Anche nel caso del riccio, per citare uno dei molti esempi possibili, il Physiologus riprende le credenze tradizionali che circolavano sull’animale per darne una reinterpretazione cristiana decisamente inattesa. Gli antichi infatti consideravano il riccio un animale astuto, per il modo in cui utilizzava le proprie spine al fine di procurarsi abilmente il cibo, «infilando» i frutti che non riesce a portare in bocca: vedi ad

esempio Plinio, Naturalis historia 8.133: «praeparant hiemi et irenacei cibos ac volutati supra iacentia poma adfixa spinis, unum amplius tenentes ore, portant in cavas arbores». Ma nel Physiologus, la semplice presenza di queste «spine» è in grado di suscitare una interpretazione in termini diabolici. Il riccio diventa cosí l’avversario spirituale, sempre in agguato per portar via con sé, infissi sulle sue spine, i nostri frutti spirituali: «tunc spinosus diabolus dispergens omnes fructus tuos spiritales figat illos in spinis suis et faciat te escam bestiis, et fiat anima tua nuda, vacua, et inanis, sicut pampinus sine fructu» (CARMODY 1939, B, p. 13). Il testo del Physiologus subisce insomma la deriva delle esigenze allegoriche, imposte dal messaggio cristiano che intende esprimere, per cui si fa portatore di inattese reinterpretazioni e modifiche delle credenze antiche. Anche nel caso della donnola, il Physiologus riprende le credenze tradizionali sulla riproduzione di quest’animale reinterpretandole ugualmente nella direzione imposta dall’esigenza allegorica del testo. Sulle difficoltà e le contraddizioni intrinseche alla soluzione scelta dal Physiologus, cfr. CICCARESE

1995, pp. 385-88. Solo la sapienza infinita del Fisiologo in persona potrebbe comunque

spiegare perché KAIMAKIS 1974, pp. 159-60, commenta la sezione del testo relativa alla donnola intitolandola Die Katze (!), ammassando materiali relativi sia alla gal (cioè Plutarco, De Iside et Osiride 74 (381a), ecc.) che all’aílouros, cioè il «gatto». 166. Cfr. GEORGE e YAPP 1991, pp. 67 sg., e soprattutto il capitolo dedicato alla donnola in HASSIG

1995, pp. 29-39: purtroppo questo lavoro, utilissimo per la parte iconografica, è spesso cosí

superficiale e confuso nell’uso delle fonti e della letteratura secondaria da risultare talora sconcertante. Gli studi sui bestiari sono estremamente numerosi: vedi ORLANDI 1985; utilissimo CLARK

e MCMUNN 1989, pp. 205-14.

167. Cfr. la nota precedente. 168. Sul Bestiaire di Guillaume Le Clerc, cfr. LAUCHERT 1889, pp. 144-49. 169. Un tipo di nascita che, come sappiamo, nelle credenze antiche è di per sé segno di sessualità distorta e irregolare. Per i gemelli, vedi qui Prologo sull’Olimpo, par. 3. 170. Cfr. HASSIG 1995, pp. 29-39. 171. Evangelium secundum Lucam 1.35. 172. HARTLAND 1894, vol. I, pp. 71-102; HARTLAND 1909, pp. 1-29. Anche J. G. Frazer dedicò alcune pagine di The Golden Bough (FRAZER 1914, pp. 96-107) al tema della nascita dalla Vergine; in Italia se ne occupò invece COCCHIARA 1965. Per la nascita di Petit Poucet, cfr. SAINTYVES 1923, pp. 322-26; della donna che era rimasta incinta prendendo un bagno si occupava già l’inesauribile curiosità di BROWNE 1852, cap. V , p. 16, criticando Averroè. Su questo medesimo tema nella cultura irlandese, dove spesso l’impregnazione miracolosa (come nel caso della moglie di Étar che inghiotte Étaín in forma di insetto per poi partorirla), si combina con la dottrina del rebirth, cfr. la bellissima analisi di NUTT 1897, pp. 48-96. Per la concezione di Ness attraverso l’inghiottimento dei vermi, e

la nascita di Conchobar, vedi qui Prologo sull’Olimpo, par. 5. 173. HARTLAND 1909, p. 28. 174. Omero, Ilias 16.150-51; Virgilio, Georgica 3.272; Plinio, Naturalis historia 8.67; Agostino, De civitate Dei 21.5; Lattanzio, Divinae institutiones 4.12.1 sgg., ecc. Il concepimento tramite «soffio» è credenza antica: cfr. ONIANS 1951, pp. 118-22. 175. Eliano, De natura animalium 2.46; Aristotele, De mirabilibus auscultationibus 3 (835a); Origene, Contra Celsum 1.37; ecc. Cfr. THOMPSON 1936, pp. 82-87. Plinio, Naturalis historia 30.130, attribuisce alla «penna vulturina subiecta pedibus» il potere di aiutare le donne nei parti difficili. 176. Orapollo, Hieroglyphica 1.11. Eliano, De natura animalium 10.12, ci informa che gli Egizi consideravano l’avvoltoio sacro a Era, che adornavano il trono di Iside con penne di avvoltoio e scolpivano ali di avvoltoio all’entrata dei loro templi. Su questo tema degli animali impregnati dal vento vedi la curiosa e dettagliata rassegna di un naturalista, ZIRKLE 1936, che oltre a cavalli, avvoltoi, ecc., registrava (e corroborava con una lunga e hartlandiana lista) anche la categoria delle «donne». L’interesse di Conway Zirkle per queste credenze antiche è suscitato dal fatto seguente: quando Joachim Camerarius il Giovane pubblicò il primo lavoro che sosteneva scientificamente l’esistenza della sessualità delle piante (De sexu Plantarum, 1694), si trovò di fronte alla necessità di dimostrare che il vento poteva portare il polline da un fiore all’altro; per farlo, Camerarius si appellò proprio ai passi degli autori classici in cui si parlava di animali fecondati dal vento. 177. Plinio, Naturalis historia 10.102: cfr. Aristotele, Historia animalium 9.8 (613b); Ateneo, Deipnosophistae 9.389ef; Varrone, De re rustica 3.11.4. 178. HARTLAND 1894, vol. I, p. 104. 179. HARTLAND 1909, p. 20; anche FRAZER 1914, pp. 96-107, si mostrò abbastanza indifferente verso la possibilità di inserire i dati relativi alla Vergine Maria nel contesto comparativo delle sue ricerche sulla nascita virginale. L’assunto soggiacente alla ricerca di Hartland e di Frazer su questo tema era quello che simili credenze potevano essere frutto solo di superstizione, primitivismo e ignoranza, e che la teologia delle culture piú progredite, anche quando faceva affermazioni tutto sommato simili, non aveva niente a che fare con credenze di questo tipo: cfr. LEACH 1969, pp. 95, 103-4. L’interesse di Hartland e Frazer per questo tema va letto nel contesto delle ricerche svolte in Australia e Polinesia dagli antropologi di quel periodo, da cui fu originata la nota «credenza antropologica» secondo cui Trobriandesi e aborigeni australiani non avrebbero stabilito alcuna connessione fra la concezione e il rapporto sessuale: su questo specifico tema cfr. anzi le polemiche considerazioni di Edmund Leach. Sul dibattito creato da Leach, e su altri aspetti del problema da lui suscitato, interessanti considerazioni in D’ONOFRIO 1997b. L’argomento della verginità di Maria aveva comunque provocato svariate tensioni, all’inizio del secolo, fra antropologi e folcloristi da un

lato, apologeti dall’altro: vedi per esempio il capitolo Birth Legends in CONYBEARE 1925, pp. 186234; in Italia, anche COCCHIARA 1965, pp. 49-50, si preoccuperà di sottolineare almeno la «originalità» della concezione cristiana in questo campo. 180. Il testo dell’inno in LE ROUX DE LINCY 1836, pp. 24-29; cfr. LIEBRECHT 1856, p. 69; COCCHIARA

1965: in entrambi il testo è attribuito a H. de Valenciennes. La curiosa fantasia di

questa invenzione aveva stimolato l’interesse di Jacob Grimm (GRIMM 1888, vol. IV, p. 1449), che nel capitolo relativo alla «creazione» metteva insieme questo nostro testo, la creazione di Brahmā e un episodio del Kalevala come esempi di «nascita dalla coscia». 181. Sulle relazioni simboliche che intercorrono fra la concezione da un lato e i poteri degli alberi (specie il melo) dall’altro, vedi per esempio COCCHIARA 1965; COCCHIARA 1978. Interessanti esempi serbi sono raccolti in POPOVA 1987; in generale, sui poteri degli alberi nell’impregnazione cfr. FRAZER 1911a, pp. 56-57 e 316-18. 182. Protoevangelium Jacobi 2.4, 4.1 (in AMANN 1910, pp. 189-93). Sulla madre di Maria nella tradizione antica e medievale cfr. SCHREINER 1995, pp. 4-10. 183. Evangelium secundum Lucam 1.34-35. Questo scambio di battute fra la Vergine e l’angelo ha suscitato le esegesi piú diverse, soprattutto a proposito dell’espressione «non conosco uomo»: vedile riassunte in FITZMYER 1981, pp. 348-51. Per l’espressione «ti adombrerà», Fitzmeyer suggerisce che essa denoti semplicemente la «God’s presence to Mary» ed esclude, forse un po’ troppo recisamente, che ci sia qualsiasi possibile allusione ad uno hieròs gámos: ma nella cultura antica l’«ombra» può assumere il valore simbolico della capacità di generare; cfr. BETTINI 1992, pp. 54-55. Sull’assenza di ombra interpretata come «impotenza» nella letteratura psicoanalitica, cfr. RANK

1978, pp. 74 sgg.

184. È il caso di Lúg Sámildanach, Étaín, Finn, Mannán mac Lir, ecc.: cfr. NUTT 1897, p. 93. 185. NUTT 1897, pp. 48-56, con riflessioni generali di grande interesse; REES e REES 1961, pp. 228-29. 186. Cfr. NUTT 1897, p. 55. Sulla doppia paternità dell’eroe, vedi qui Prologo sull’Olimpo, par. 3. 187. LEACH 1969, pp. 107-8: quando la credenza in qualcosa come la «nascita virginale» ha a che fare non certo con stupidità o ignoranza, ma con «positions of extreme philosophical sophistication». 188. La questione potrebbe essere formulata anche in un altro modo, e certo molto prossimo ai problemi affrontati dalla teologia cristiana: come costruire una storia in cui Dio figuri come «padre» e come «figlio» contemporaneamente? A questa domanda la cultura irlandese aveva risposto sempre attraverso il meccanismo della reincarnazione in forma di impregnazione sovrannaturale. Cosí nel caso della nascita di CúChulainn, a un tempo «figlio» del dio Lúg e reincarnazione del medesimo,

tanto che può essere contemporaneamente considerato «padre» e «figlio»; cfr. NUTT 1897, p. 55. Sulle versioni della nascita di CúChulainn cfr. D’ARBOIS DE JUBAINVILLE 1903, pp. 229-30; EVEN 1952; NUTT 1897, pp. 55 e 72; REES e REES 1961, pp. 43 e 214, per l’analisi delle varie versioni della nascita di CúChulainn. 189. Protoevangelium Jacobi 11.2: «Ed ecco un angelo del Signore stette di fronte a lei e disse ‘non temere Maria, hai trovato grazia davanti al Padrone dell’universo, e concepirai dalla sua parola’ (ek lógou autoû)». Sul significato di lógos e l’importanza di questo testo per la fortuna successiva della concezione auricolare di Maria, vedi AMANN 1910, pp. 41, 222-25. A differenza del Vangelo di Luca, il Protoevangelium Jacobi sembra preoccupato non solo della concezione virginale ma anche del parto virginale. Maria chiede infatti esplicitamente: «e io partorirò come tutte le altre donne?» A questa domanda l’angelo risponde: «la potenza del Signore ti adombrerà». Le celebri parole dell’angelo vengono dunque utilizzate qui in modo diverso rispetto all’Evangelium secundum Lucam: non per rispondere alla domanda «come concepirò?» ma per rispondere a quella «come partorirò?» Di conseguenza la simbologia dell’ombra sembra funzionare qui come immagine della protezione divina dalla impurità del parto, e non come metafora della impregnazione. 190. Oracula Sibyllina 8.469 (GEFFCKEN 1967); cfr. J. MARTIN 1946, pp. 390-401, in particolare p. 395. 191. Soprattutto dai poeti: Sedulio, Ennodio, Venanzio Fortunato: cfr. HIRN 1909, pp. 294-97. 192. Questa interpretazione era respinta con veemenza dallo pseudo-Attanasio, Sermo in annuntiationem deiparae (Migne, PG, 28, 925D-928A): «la voce dell’angelo … non era essa stessa la hupóstasis del figlio né divenne essa stessa carne … bestemmiano coloro che dicono che la voce stessa dell’arcangelo era la hupóstasis della Parola di Dio». Cfr. J. MARTIN 1946, p. 395. 193. «Ave Vergine, madre di Cristo, | che dall’orecchio hai concepito | all’annunzio di Gabriele»: cfr. HIRN 1909, p. 297 e n. 16. 194. Gaudenzio, Sermo 13 (Migne, PL, 20, 934A). Cfr. J. MARTIN 1946, p. 392. Secondo BAUER 1909, p. 53, non ci sono attestazioni relative alla concezione tramite l’orecchio prima del secolo IV . 195. Pseudo-Agostino, Sermo 121.3 (Migne, PL, 39, 1988) e 123.1 (Migne, PL, 39, 1991). 196. Cfr. J. MARTIN 1946, p. 392; una ulteriore raccolta di fonti su questa interpretazione del concepimento di Maria in LUCIUS 1904, pp. 422-28; BAUER 1909, p. 53; HIRN 1909, pp. 294-98. 197. Vangelo dell’infanzia armeno 5.9 (in CRAVERI 1969, p. 157): «Nel medesimo istante che la santa Vergine diceva queste parole e si umiliava, il Verbo di Dio penetrò in lei attraverso l’orecchio, e la natura intima del suo corpo, da esso animata, venne santificata in tutti i suoi organi e i suoi sensi e purificata come l’oro dentro il crogiuolo»; Libro di Giovanni Evangelista 10 (in CRAVERI 1969, p. 576): «Quando mio Padre deliberò di mandarmi nel mondo, inviò prima di me un angelo di nome Maria, per ricevermi. E quando io scesi giú entrai in lui attraverso un orecchio e venni fuori

attraverso un orecchio». 198. Cfr. STEINBERG 1987. 199. Per il fascio di luce, vedi per esempio Tertulliano, Apologeticus 21.7-9: «questo raggio di Dio … scivolato (delapsus) in una vergine, e nel suo grembo fattosi carne…» Nelle righe precedenti Tertulliano spiega in termini filosofici la sua similitudine fra il raggio di sole e l’emanazione divina, che trattiene in sé tutte le caratteristiche di Dio proprio come il raggio e il sole da cui esso promana sono inseparabili. 200. Il motivo del «libro» al momento della annunciazione sembra essere attestato solo a partire dal secolo XIII , ed è caratteristico del mondo cristiano occidentale. A esso si contrappone quello della Vergine raffigurata nell’atto di filare (ispirato alla descrizione dei Vangeli apocrifi), assai piú antico (dal secolo IV ) e caratteristico del cristianesimo orientale: cfr. WASOWICZ 1990. 201. Cfr. J. MARTIN 1946, pp. 398-99; COCCHIARA 1965; STEINBERG 1987, pp. 17-19 (anche per l’interpretazione del «piccolo Gesú» che corre lungo il tubo, in cui si devono riconoscere probabilmente influssi delle dottrine gnostiche dei seguaci di Valentino); SCHREINER 1995, pp. 4451. 202. Zeno, Tractatus 1.13.10 (Migne, PL, 11, 352A-B); cfr. J. MARTIN 1946, p. 392; GULDAN 1966, p. 27. 203. Cfr. Genesis 3.21: «fecit quoque dominus deus Adae et uxori eius tunicas pelliceas, et induit eos». 204. Cfr. GRONDONA 1991, p. 26. 205. Cfr. SANNAZARO 1988, pp. 163-69 e 188-93. 206. Cfr. PANZER 1956, pp. 3-6; altri esempi in M. Schuster, Wiesel (Pauly-Wissowa, XVI, pp. 2128-30, un po’ troppo propenso a stabilire paralleli «mitologici» fra la Galinthiás del mito greco e la Vergine Maria della tradizione tedesca). 207. J. MARTIN 1946, p. 398. 208. Cosí esplicitamente Corrado di Würzburg, in J. MARTIN 1946, p. 398. Per la donnola e il serpente, vedi qui Parte prima, cap. VII , nota 84. 209. Cfr. per esempio Rabano Mauro, Allegoriae in universam Sacram Scripturam (Migne, PL, 112, 874B); RUSSELL 1984, p. 67. Sulla donnola e il basilisco, vedi qui Parte prima, par. VII .5. 210. Questa interpretazione dello scontro fra la donnola e il basilisco compare nei bestiari medievali e nelle loro raffigurazioni: HASSIG 1995, pp. 31-33. 211. In particolare la nascita di Platone non dal padre Aristone ma dal dio Apollo: Origene, Contra Celsum 1.37; Girolamo, Adversus Iovinianum 1.42 (Migne, PL, 23, 275). Secondo Diogene Laerzio, Vitae Philosophorum 3.2, Apollo in una visione avrebbe ordinato ad Aristone di mantenere pura la moglie fino alla nascita di Platone; Girolamo riporta questa leggenda come se Platone

dovesse tutta la sua «saggezza» al fatto di essere direttamente «nato da una vergine». Per la nascita miracolosa di Pitagora, vedi qui Prologo sull’Olimpo, nota 107. Cirillo di Gerusalemme, Catechesis 12.27 (Migne, PG, 33, 766), raccomanda ai catecumeni di utilizzare i paralleli della mitologia classica – la nascita di Atena dalla testa di Zeus, quella di Dioniso dalla coscia, e via di seguito – quando siano dei pagani a mettere in dubbio la questione della verginità di Maria. Su questo tema cfr. USENER 1889, vol. I, pp. 69-80; CONYBEARE 1925, pp. 196-98; GRANT 1952, pp. 173, 210; WARNER

1976, pp. 35-36. Interessante che Girolamo, Adversus Iovinianum 1.42, citi, oltre ai

paralleli classici per il parto virginale di Maria (Atena nata dalla testa di Zeus, Dioniso, Platone, Pitagora, ecc.), anche la nascita di Buddha partorito dal fianco di una vergine; cfr. la discussione in GRANT

1952, pp. 173-74.

212. La questione della concezione virginale, e del «miracolo» in generale, ricevette risposte differenti da parte dei Padri: per Tertulliano la stessa innaturalità dell’evento soprannaturale era prova della sua divinità, e dunque della sua verità; Origene tendeva invece ad affrontare la questione in modo piú filosofico ed elaborato, utilizzando spesso lo strumento dell’allegoria (il miracolo è importante perché «significa» qualche altra cosa), anche se talora inclinava ad ammettere l’esistenza del miracolo per sé. Nel seguito del pensiero cristiano, la possibilità di interpretare l’evento soprannaturale piuttosto in accordo con le leggi della natura, che non contro di esse, tenderà a prevalere. Su questa appassionante questione cfr. soprattutto GRANT 1952, pp. 180-220; per l’atteggiamento di Origene di fronte alla magia nel Contra Celsum, cfr. THORNDIKE 1923, vol. I, pp. 432-61. 213. Origene, Contra Celsum 1.37, 4.57. 214. Lattanzio, Divinae institutiones 4.12.2. 215. Basilio di Cesarea, Hexameron 8.6. 216. Rufino di Aquileia, Commentatio in Symbolum 11.9 (Migne, PL, 21, 350B); oltre all’ape, Rufino rammenta anche il caso della fenice, che «nasce senza coniuge … e succede sempre a se stessa nascendo o rinascendo», quello della nascita di Atena dalla testa di Zeus, di Dioniso dalla coscia, e cosí di seguito. Cfr. Virgilio, Georgica 4.198 sgg.; BETTINI 1986, p. 208. 217. Singolare il fatto che HASSIG 1995, pp. 29-39, fondi parte della sua interpretazione simbolica della donnola nei bestiari proprio sul fatto che questo animale sarebbe stato «a figure of the Incarnation» e «an appropriate figure of the perpetual virgin» (pp. 31-32). Ma di questa valenza simbolica della donnola Debra Hassig non produce alcuna testimonianza, e rimanda solo a LEFÈVRE 1985, p. 224: la quale però non parla di questo. Che la donnola, «a causa della sua supposta possibilità di concepire per mezzo dell’orecchio» dovesse «divenire l’allegoria della Vergine Maria» era già stato peraltro sostenuto da KERÉNYI 1972, p. 149: ma ancora una volta senza citare alcun testo a riscontro, e forse riecheggiando le affermazioni di M. Schuster, Wiesel (Pauly-Wissowa,

XVI, pp. 2128-30), su cui vedi qui Parte prima, cap. VII , nota 206. Che «il topos della mustela influenza persino … la verginità e il parto di Maria» ha sostenuto anche LAUZI 1988, p. 549, ma con il solo sostegno di uno dei due passi dello pseudo-Agostino che ci sono già noti: vedi qui Parte prima, par. VII .7. 218. Origene, Contra Celsum 4.93. Da notare che questo riferimento di Origene al carattere demoniaco della donnola è fatto all’interno di un paragrafo in cui si cerca di giustificare la lista di animali impuri redatti da Mosè nel Levitico interpretandola come una condanna di quelli utilizzati a scopi divinatori («nella sua lista degli animali [Mosè] ha dichiarato impuri tutti quelli che gli Egizi e gli altri uomini considerano adatti alla divinazione»). A torto THORNDIKE 1923, vol. I, p. 460, pensa che Origene intenda riferirsi qui al parto orale della donnola. Origene alluderà semplicemente alla «divinazione domestica» praticata in base all’apparizione di questo animale: su cui vedi qui Parte prima, cap. VII , nota 76. 219. Nel campo della spiritualità, la punta massima raggiunta dalla donnola sembra essere stata segnata dalla credenza che l’ermellino (il nome che le viene dato quando la sua pelliccia assume il color bianco dell’inverno) simboleggiasse i bambini morti prima di ricevere il battesimo. In Francia infatti essi portano proprio il nome di hermines; cfr. DUNCAN 1924, p. 53; RIEGLER 1925 (HDA, IX, p. 585). Questo processo si realizzò probabilmente attraverso la mediazione delle credenze sulla donnola quale «animale dell’anima» (vedi qui Parte prima, par. VII .5). Ma come si vede, anche nella sua versione piú candida il nostro animale non sembra essere riuscito a entrare completamente nel mondo dei giusti: per quanto essa simboleggi anime particolarmente gentili, come quelle dei bambini, si tratta pur sempre di anime escluse dalla salvezza e dal Paradiso. Di questa credenza possediamo forse una rappresentazione iconografica, pur se essa non sembra essere stata riconosciuta. Una miniatura italiana del secolo XV , che rappresenta scene del Purgatorio, si presenta in questo modo (Xavier Barbier de Montault, Traité d’iconographie chrétienne, citato da CHARBONNEAU-LASSAY

1975, vol. I, p. 322): in una prima scena le anime stanno fra le fiamme; in

un’altra esse si trovano in una piscina, spintevi da un vescovo; in una terza due donnole succhiano il seno a una giovane donna, sdraiata e nuda. Eccoci verisimilmente di fronte a dei delicati hermines (Louis Charbonneau-Lassay si limita a identificare nelle donnole degli «agents symboliques … de purification spirituelle»). 220. Vedi qui Parte seconda, par. IV .2.

1. PITMAN 1925, p. 82: «Quadrupede dai colori cangianti, mi aggiro nelle sinuose cavità | ingaggiando battaglia con la malefica stirpe dei serpenti. | Non mi gonfio per la progenie del marito diletto, | né il mio ventre fecondo partorisce la prole, | al modo in cui le altre madri ricevono il seme; | ma dall’orecchio si impregnano le mie viscere per la gravidanza. | Se poi i miei piccoli vanno a rischio di morte, | si dice che io possegga per ciò un naturale rimedio, composto con arte». 2. Per il tema dello «scivolare fuori» del bambino visto come segno positivo di parto facile, basta ricordare le espressioni che si usano in riferimento alle moderne tecniche di «parto naturale»: cfr. per esempio PICCONE 1994: l’esperienza di Laura, «Elisa è scivolata fuori alle quattro…»; quella di Christiane, «Mi sono accovacciata. Ho sentito il bambino scendere … e poi l’ho visto scivolare fuori…» 3. Cosí nella morale che ne trae lo Speculum Sapientiae 3.11 (GRÄSSE 1880, pp. 85-86): «nunquam nosti, quod stricta naturae janua parvulus nudusque homo vix cum maternis stridoribus liber egreditur in hunc mundum». Lo stesso era avvenuto nella tradizione esegetica del midrash; cfr. SCHWARZBAUM

1979, pp. 211-12.

4. Plinio, Naturalis historia 30.129. Per le superstizioni del folclore moderno che continuano questa credenza antica, cfr. MCDANIEL 1948, p. 16, libro assai curioso, e spesso bizzarro. 5. Trotula, De passionibus mulierum (BOGGI CAVALLO e CANTALUPO 1994, p. 84): nella circostanza di un parto difficile si consigliava infatti che «similmente la donna venga cinta con una pelle di serpente, da cui il serpente sia uscito (exivit)». Il serpente è uscito dalla sua spoglia, ci si augura che il bambino faccia altrettanto. Su Trotula de Ruggiero, cfr. BENTON 1985; BERTINI 1989. 6. Pseudo-Alberto Magno, Liber secretorum de virtutibus herbarum, lapidum et animalium quorundam (BEST e BRIGHTMAN 1973, p. 92). 7. Plinio, Naturalis historia 30.123: nello stesso paragrafo, Plinio dice anche che «bere latte di cagna favorisce la maturazione del feto». Per il sacrificio del cane a Ecate, Eilioneia e Genita Mana, vedi qui Parte prima, par. VII .4. 8. Plinio, Naturalis historia 28.42. L’efficacia di questa pietruzza risultava piú forte se era stata estratta con uno strumento di ferro. Per la pratica della lithotomia, cfr. Celso, De medicina 7.26.3. 9. Un altro soggetto interessante è poi costituito dai vermi. Che bevuti con il vino passito facilitano l’«espulsione» (pellunt) della placenta, semplicemente applicati fanno maturare la suppurazione mammaria e la «aprono» (aperiunt), mentre bevuti con vino mielato «chiamano fuori» (evocant) il latte. Ve ne sono poi altri che, legati attorno al collo, trattengono il parto: ma al momento decisivo debbono essere «sciolti», altrimenti la donna non riesce a partorire (Plinio, Naturalis historia 30.125). La stessa ambivalenza riguardo al parto è registrata da Timoteo di Gaza 57d (BODENHEIMER 1949, p. 50), a proposito del guscio della chiocciola: legato al ventre della donna ne «trattiene» il contenuto fino al momento del parto; ma impedisce l’uscita del bambino

durante il travaglio. La chiocciola ha una forma tortuosa, e come tale sembra funzionare alla maniera di un «nodo». Tornando ai vermi, bisogna anzi ricordare che essi sono animali capaci di scivolar dentro e di insinuarsi, tant’è vero che sono spesso visti come causa – magica e soprannaturale – di concezione da parte della donna (vedi qui il racconto di Ness, pp. 27-28). Per lo stesso motivo per cui riescono a insinuarsi, i vermi sono però anche capaci di «sgusciar fuori». 10. LAURENT 1989, p. 194; BLUMENFELD-KOSINSKI 1990, p. 10. Interessante la pratica (attestata nei papiri magici greci) di mettere sulla coscia della partoriente una tavoletta con su scritto «esci dalla tua tomba, Cristo ti chiama»; cfr. AUBERT 1989, p. 439. 11. Per Latona, vedi qui Parte prima, par. III .3. 12. Vedi Parte prima, par. VIII .1. 13. Vedi Parte prima, par. VII .6. 14. Per la lucertola, vedi qui Parte prima, par. VII .6. 15. Cfr. Plinio, Naturalis historia 2.73, che lo stesso potere attribuisce al fiele del camaleonte, animale simile alla lucertola (28.117). 16. Plinio, Naturalis historia 29.129-31. Sul fatto che la donnola attacca gli occhi dei morti, vedi qui Parte seconda, par. II .1: cosí come si vedrà che proprio gli «occhi» della donnola svolgono un ruolo importante nel racconto di Telifrone in Apuleio (Parte seconda, par. II .1). 17. PHILLIPS 1956. 18. Per il proverbio «ha inghiottito una donnola», vedi Parte prima, par. VII .6. 19. REED 1988, p. 110. 20. MATURANA, LETTVIN, MCCULLOCH e PITTS 1960. 21. REED 1988, p. 110. 22. GIBSON 1979; sulla teoria delle affordances di Gibson, vedi ECO 1997, pp. 137-38. 23. REED 1988, p. 116. 24. INGOLD 1988, Introduction, p. 13. 25. Ci riferiamo qui alla distinzione fra «croyances intuitives» e «croyances réflexives» sviluppata da SPERBER 1996, p. 123. Le croyances intuitives sono tali «en ceci qu’elles sont typiquement le produit des processus perceptuels et inférentiels spontanés et inconscients»: al contrario, le croyances réflexives sono «des interprétations de représentations, enchâssées dans le contexte validant d’une croyance intuitive». Il primo tipo di croyances si presenta naturalmente molto piú stabile, anche in culture fra loro diverse; il secondo tipo offre invece una molto maggiore variabilità; sul problema in generale dei «cognitive constraints» che intervengono nella produzione di rappresentazioni culturali (problema oggi molto dibattuto da cognitivisti, antropologi, psicologi e cosí via) si possono vedere le considerazione finali di GOODY 1997, pp. 238-60. 26. Per l’identità degli animali simbolici, vedi qui Parte seconda, par. II .3.

27. Su questa interazione fra tratti naturali e credenze nella creazione della simbologia animale, cfr. LÓPEZ AUSTIN 1993, pp. 235-36. 28. Su questo tema del variare delle credenze in culture diverse, da collocarsi sul piano delle croyances réflexives e non intuitives (ossia a livello delle interprétations di queste croyances intuitives), cfr. SPERBER 1996. 29. LÉVI-STRAUSS 1964a, p. 73; LÉVI-STRAUSS 1966, pp. 219 sgg., 258, n. 14. Per un racconto mitico incentrato sulla donnola (probabilmente) in Colombia, cfr. MCDOWELL 1994, pp. 175-81 (The Tale of the Weasel). 30. GOLDENWEISER 1968; sul suo modello (ripreso da Bronisław Malinowski, George P. Murdock e dallo strutturalismo in genere) e sui presupposti teorici del «senso delle possibilità», cfr. REMOTTI

1990, pp. 206-15; HÉRITIER 1993, p. 116, fornisce un’affascinante applicazione di questo

principio alla «convergenza» che si crea fra le teorie della generazione elaborate nell’ambito di culture differenti. Ai colloqui con Françoise Héritier, sempre generosa di stimoli e contributi intellettuali, debbo il primo impulso a pensare in questa luce anche il problema del simbolismo animale. 31. Dopo gli studi di Claude Lévi-Strauss nei suoi Mythologiques, vedi il ricchissimo e affascinante LÓPEZ AUSTIN 1993. 32. LÓPEZ AUSTIN 1993, p. 235. 33. Con la consueta acutezza, questo singolare «problema di mitologia comparata» era già stato posto all’attenzione degli studi da LÉVI-STRAUSS 1966, pp. 219 sgg., 258, n. 14. 34. LÓPEZ AUSTIN 1993, pp. 215 e 233. 35. J. de la Serna, Manual de ministros de indios, citato da LÓPEZ AUSTIN 1993, p. 227. 36. Códice Florentino, ms 218-20, Biblioteca Palatina - Biblioteca Medicea Laurenziana, citato da LÓPEZ AUSTIN 1993, p. 227. 37. LÓPEZ AUSTIN 1993, p. 227. 38. Eliano, De natura animalium 15.11: vedi Parte prima, par. I .6. 39. LÉVI-STRAUSS 1966, p. 226. 40. Per la comadreja, la «comare», ecc., vedi Parte seconda, par. IV .2. 41. Jean-Pierre Claris de Florian, La mère, l’enfant et les sarigues, in Fables (FLORIAN 1796, vol. VIII, pp. 247-49). Cfr. LÉVI-STRAUSS 1966, p. 219.

1. Aristotele, De generatione animalium 6 (756b); Anassagora, 59 A 114 (DIELS e KRANZ 1960, vol. II, 31, 20). 2. GASTER 1915, p. 364; GINZBERG 1913, pp. 38-39. 3. Plinio, Naturalis historia 10.32: «ore eos parere aut coire vulgus arbitratur (ideoque gravidas, si ederint corvinum ovum, per os partum reddere, atque in totum difficulter parere si tecto inferantur). Aristoteles negat: non Hercule magis quam in Aegypto ibim, sed illam exosculationem, quae saepe cernitur, qualem in columbis esse». 4. Plinio, Naturalis historia 30.130: «ovum corvi cavendum gravidis constat, quoniam transgressis abortum per os faciat». Spesso in Plinio ricorre questo tema del «passar sopra» a qualcosa in relazione ai poteri abortivi: cosí per il mestruo, per la vipera e per la iena (28.80, 30.128, 28.103). Evidentemente l’utero femminile può essere piú facilmente minacciato da «sotto», dove sta la sua apertura, e quindi la donna incinta deve stare attenta a ciò su cui passa «sopra». Questo tipo di credenza (la condizione della donna influenzata dal «passar sopra» un certo oggetto) trova riscontro nel folclore: cfr. HARTLAND 1894, vol. I, pp. 126 sg. 5. Eliano, De natura animalium 3.43. 6. DELRIO 1599-1600, pp. 38-40; per il parto orale della lucertola, vedi qui Parte prima, par. VII .6.

7. Artemidoro, Oneirocritica 1.79. 8. LÓPEZ AUSTIN 1993, p. 226. 9. Plinio, Naturalis historia 28.14: «lingua adalligata pericula puerperii; eundem salutarem esse parturientibus, si sit domi, si vero inferatur, perniciosissimum». 10. Plinio, Naturalis historia 30.129. 11. Per il serpente, vedi qui la citazione da pseudo-Alberto Magno, Parte prima, par. VIII .1. 12. Eliano, De natura animalium 9.23; Nicandro, Theriaká 372. 13. Curioso a questo proposito che l’ibis, animale che secondo Eliano, De natura animalium 10.29, «concepisce dalla bocca e partorisce allo stesso modo», e appare sempre associato al corvo che procura aborti (vedi qui Parte prima, cap. IX ), secondo Plinio, Naturalis historia 30.142, possa invece fungere da rimedio per «trattenere il parto». In questo caso si tratta di frizionare il corpo con la cenere dell’animale assieme a grasso d’oca e olio di iris. Sulla «bocca» come luogo di concezione e di aborto nello stesso tempo vedi il caso di Deichtire che concepisce dalla bocca e abortisce nello stesso modo: cfr. le interessanti osservazioni di DONIGER O’FLAHERTY 1980, p. 169. 14. DEMAND 1994, p. 20.

1. GREENEWALT 1990. 2. John James Audubon, citato da GREENEWALT 1990, p. 2. 3. Le espressioni disnification ovvero disneyfication si devono alla fantasia di BAKER 1993, pp. 174-78. 4. BERGER 1977. 5. SHEPARD 1996, p. 150; su questo ambivalente atteggiamento nei confronti dei pets, cfr. soprattutto SERPELL 1986, pp. 19-47. 6. TAPPER 1988, p. 56; sulla tribú dei Nuer in Sudan, vedi EVANS-PRITCHARD 1951. 7. Sul rapporto fra uomini e animali individuali nella società greca e romana, cfr. BODSON 1994, pp. 63-76; per i Sibariti, cfr. Ateneo, Deipnosophistae 12.518f-519b. 8. Plutarco, Pericles 1.1; cfr. Ateneo, Deipnosophistae 12.518f: vedi BODSON 1994, p. 76. 9. SERPELL 1986; SHEPARD 1996, pp. 140-52. Sull’eccessivo amore dei sovrani e dei potenti per i loro animali vedi già le amare considerazioni di Flavio Giuseppe, De bello Iudaico 1.32; e la ripresa in Giovanni Tzetze, Historiarum variarum Chilias 5.524-46 (LEONE 1968, pp. 187-88), in cui si narra anche dell’amore della moglie del Monomaco per una donnola domestica (vedi qui Parte prima, par. VII .4). 10. TAPPER 1988; DOUGLAS 1990. 11. DOUGLAS 1990. 12. In BLOCH 1977, p. 283. 13. Si rammentino i visual labels che noi attacchiamo agli oggetti, rendendoli cosí invisible; vedi la discussione in SHEPARD 1996, p. 9. 14. INGOLD 1988, Introduction, p. 29. 15. NOSKE 1989. 16. Emily Hahn è citata da SHEPARD 1996, p. 145. NOSKE 1989, p. 167, riporta la paradossale avventura dei Kelloggs, due ricercatori marito e moglie che nel 1931 tentarono di allevare il loro figlio Donald con uno scimpanzé di nome Gua per facilitare nell’animale l’apprendimento del comportamento umano. Ma fu Donald a adottare piuttosto il comportamento dello scimpanzé: chiedeva il cibo emettendo latrati, mentre il mondo espressivo gestuale di Gua inibí in Donald l’apprendimento del linguaggio fin quando rimase con lui. 17. Sulla criptozoologia, cfr. MARTUCCI 1997. 18. BERGER 1977. 19. Sul perché queste attitudini ambivalenti verso gli animali possano coesistere in una stessa cultura vedi le osservazioni di BAKER 1993, pp. 167-72, che ne fa un problema di contraddizioni interne al common sense; interessante anche la breve analisi di BERGER 1971, che focalizza il problema in termini di opposizione fra individuo/specie nel mondo animale: mentre il singolo

animale muore, la specie è in qualche modo immortale e resta sempre la stessa (un leone, qualunque esso sia, è sempre «il leone»); questa dialettica culturale fra immortalità di specie e mortalità individuale avrebbe influito pertanto sul trattamento che gli animali hanno ricevuto dagli uomini: essi potevano essere adorati «e» uccisi, cosí come il contadino può affezionarsi al suo porco «e» ucciderlo per mangiare. Per capire in particolare l’atteggiamento verso gli animali nel pensiero antico, un utilissimo strumento è costituito dai saggi raccolti in CASTIGNONE e LANATA 1994. SALISBURY

1994 ha suggerito la possibilità che ci sia stata una sorta di «oscillazione» e di crisi nei

confini uomo-animale attorno al secolo XII : non credo che questo sia dimostrabile. 20. In BALZAC 1976, p. 8: «La Società non fa forse di un uomo, secondo l’ambiente in cui egli svolge la sua attività, tanti uomini diversi quante varietà esistono in zoologia? Le diversità fra un soldato, un operaio, un amministratore, un avvocato, un ozioso, un saggio, un uomo di stato, un commerciante, un marinaio, un poeta, un povero, un prete sono, benché piú difficili da distinguere, altrettanto importanti di quelle che contraddistinguono il lupo, il leone, l’asino, il corvo, lo squalo, il vitello

marino

[foca],

la

pecora,

ecc.»

(in

www.classicitaliani.it/verga/critica/balzac_trad_Pozzi.htm). 21. BALZAC 1976, p. 9: «La moglie di un mercante potrebbe talvolta essere moglie di un principe, mentre spesso quella di un principe non vale quella di un artista». 22. Novaziano, De cibis iudaicis 3.12 (DIERCKS 1972): «Ita in animalibus per legem quasi quoddam humanae vitae speculum constitutum est, in quo imagines actionum considerent». Vedi qui Parte prima, par. VII , nota 139. 23. WILLIS 1974, p. 9: «La peculiarità distintiva degli animali è che, essendo a un tempo vicini all’uomo ma estranei a lui, insieme imparentati con lui ma inalterabilmente non uomini, presi come oggetti del pensiero umano sono capaci di alternare la contiguità della metonimia alla distanza della metafora. Questo significa che, come simboli, gli animali hanno la rara capacità di rappresentare insieme tanto gli aspetti esistenziali quanto quelli normativi dell’esistenza». Cfr. anche THOMAS 1983, p. 40; SHEPARD 1996, pp. 58-59. 24. Per totemismo, vedi qui Parte seconda, par. II .2. 25. TAMBIAH 1969, il cui saggio mostra un esempio di classificazione animale «multipla» all’interno di una stessa comunità, il villaggio di Baan Phraan Muan, in Thailandia: le regole di etichetta, quelle di matrimonio, di parentela, di alimentazione ecc. si distribuiscono in modo armonico attorno a un determinato «set» di animali. Cfr. TAPPER 1988, p. 51. 26. Cfr. LÉVI-STRAUSS 1964b, pp. 91-102 e 104, contro le interpretazioni «utilitarie» del totemismo animale. 27. TAPPER 1988, p. 51. 28. Sul complesso rapporto fra animali, tabú, rimozione, e cosí via vedi il sempre affascinante

saggio di LEACH 1964. 29. SPERBER 1975. 30. Cfr. SHEPARD 1996, p. 189, a proposito della capacità che gli ibridi hanno di stimolare il pensiero attorno a oggetti, persone, relazioni ecc. che fino a quel momento erano state date per scontate. 31. Cfr. LEACH 1964, p. 39. Piuttosto singolare la tesi di SALISBURY 1994, pp. 138-59, secondo cui ci sarebbe stata una crescita di ibridi nel corso del tardo Medioevo in relazione alla crescente paura che i confini fra uomo e animale si stessero riducendo (la convinzione che il tardo Medioevo conosca un maggiore avvicinamento fra uomo e animale costituisce la tesi centrale di questo libro). 32. BETTINI 1983; nell’Antichità un analogo aspetto fisico «enigmatico» era attribuito anche a Esopo, creatura mostruosa ma, insieme, propositore e solutore di enigmi: cfr. Vita Aesopi, versione G, in PERRY 1952, p. 98; FERRARI 1997, pp. 98, 210: «se fosse un uomo pazienza, ma è un enigma, un mostro fra gli uomini». 33. Eliano, De natura animalium 4.29, per cui vedi qui Parte prima, par. III .3. 34. Sulla pugnacità del gallo secondo la cultura greca vedi ancora Eliano, Varia historia 3.28; e le osservazioni di LORAUX 1997, pp. 31-32. 35. Su questo tema, cfr. per ultimo BRISSON 1997, pp. 57-60. 36. La celebre formulazione è di LÉVI-STRAUSS 1964b, p. 126. 37. SALISBURY 1994, pp. 117-33. 38. Per esempio, ABRAMOWSKA 1991 ha documentato la fortuna della favola di animali in Polonia dal Medioevo a oggi, riportando anche un’appendice moderna di fumetti politici ispirati a temi animaleschi. Per una descrizione del modo alquanto complesso in cui l’Europa moderna, agli inizi della sua storia, si è riappropriata della tradizione esopica, vedi PATTERSON 1991. 39. BERGER 1977. 40. In Inghilterra tale scoperta rimase soggetta a controversie almeno fino al 1740: cfr. THOMAS 1983, pp. 62-63. 41. THOMAS 1983, pp. 63-64. 42. SHEPARD 1996, pp. 82-86. 43. Sulla nozione di «enciclopedia», contrapposta a quella di «dizionario», cfr. soprattutto ECO 1984, pp. 106-29. La nozione di enciclopedia costituisce ovviamente un’astrazione: di cui Eco mette in risalto la natura di «postulato semiotico» e di «ipotesi regolativa», il carattere non ordinato, la differente competenza che se ne ha a seconda degli strati sociali o culturali da cui si proviene, e cosí di seguito. Da un punto di vista grafico, secondo Eco il modello della enciclopedia non corrisponderebbe dunque a quello dell’«albero» ma piuttosto a quello del «rizoma» formulato da Deleuze e Guattari; cfr. ECO 1984, p. 112.

44. Per quanto riguarda lo sviluppo degli studi naturali nell’Inghilterra moderna, e il rifiuto progressivo della enciclopedia tradizionale sugli animali, cfr. THOMAS 1983, pp. 64-75, in particolare p. 67: fu John Ray (1678) il primo a rifiutare esplicitamente di tenere in considerazione, nei suoi studi naturali, «geroglifici, emblemi, moralità, favole, presagi o tutto quello che appartiene alla teologia, all’etica, alla grammatica e a qualsiasi altra forma di apprendimento umano». Ben diversa invece era stata la struttura di summae zoologiche precedenti come l’Ornithologia (ALDROVANDI 1599-1603) o lo Hierozoicon (BOCHART 1712). 45. Plinio, Naturalis historia 20.1 e 28; 24.1; 28.84 e 147; 37.59; cfr. THORNDIKE 1923, vol. I, pp. 84-88. Com’è noto, si tratta di un principio sviluppato in particolare da Bolo di Mende, Perí sumpatheiôn kaì antipathei n (Sulle simpatie e antipatie), nel secolo III a.C., ma che rimonta alla piú remota Antichità: sull’influenza di questo modello di pensare per ciò che riguarda i rapporti con il mondo soprannaturale, l’incredibile ecc., cfr. le osservazioni di GRANT 1952, pp. 9-10. 46. Luciano, Philopseudes, soprattutto 6 sgg. 47. Plinio, Naturalis historia 28.10. 48. Per l’uso di vita in questo senso, cfr. Plinio, Naturalis historia 28.35; cfr. anche 30.10: «aeque ac nihil in vita mirandum est» (al mondo). A Plinio questo punto del «credere» sembra stare molto a cuore. «Oggi crediamo – dirà poco piú sotto – che le Vestali possano trattenere sul luogo con una precatio gli schiavi fuggitivi che non siano ancora usciti dalla città: ma se si accetta anche una sola volta questo modo di pensare … allora bisogna ammettere che sia cosí in ogni caso» (28.13). E ancora: «i nostri antenati hanno creduto continuamente a cose del genere, e anche alle cose piú difficili fra queste…» (28.13). E ancora: «non c’è nessuno che non tema di essere colpito (defigi) da incantesimi maligni. A questo si riferisce il fatto che ciascuno, dopo aver sorbito un uovo, ne rompe … o ne perfora il guscio. Da qui derivano le imitazioni degli incantesimi amatori che hanno fatto Teocrito fra i Greci, Catullo e piú recentemente Virgilio fra noi» (28.9). L’abitudine di rompere il guscio dell’uovo subito dopo averlo sorbito (DEONNA e RENARD 1994, pp. 113-17), una tipica pratica quotidiana, comune a «ciascuno» (quisque), dà proprio l’impressione di essere una di quelle credenze a cui «la vita presa nel suo complesso a ogni momento … presta fede, e non se ne accorge». Secondo Plinio, addirittura la letteratura che si ispirava alla magia, come Catullo o Virgilio, era assai piú vicina al livello delle credenze comuni («non c’è nessuno che non tema di essere colpito da incantesimi maligni») di quanto non potremmo pensare noi. 49. Plinio, Naturalis historia 28.21, dà anche un interessante esempio di come una pratica «superstiziosa» potesse essere prodotta una prima volta e poi diffondersi: Cesare, dopo una disavventura sul carro (gli si era rotto l’asse durante il trionfo: cfr. Svetonio, Divus Iulius 37; Dione Cassio, Historia romana 3.21) aveva preso l’abitudine di garantirsi la sicurezza del viaggio ripetendo tre volte un incantesimo (carmen), «cosa che sappiamo oggi fare la maggior parte della

gente». 50. FRAZER 1931. 51. Plinio, Naturalis historia 30.1-18. Sulla magia in Plinio, e il suo mal definito atteggiamento verso questa pratica (hard to determine), cfr. THORNDIKE 1923, vol. I, pp. 58-99, ma si tratta in genere piú di un riassunto dell’opera che non di una vera e propria interpretazione; LIEBESSCHUETZ 1979, pp. 132-33. 52. Plinio, Naturalis historia 30.17. 53. Plinio, Naturalis historia 30.82-85, per un’enumerazione di amuleti; cfr. anche 30.31 e 42, sul trasferimento del mal di testa baciando il naso di un mulo e il trasferimento del dolore dai praecordia a un cagnolino premuto sulla parte dolente; ecc. 54. Sulla «magia di trasferimento» in particolare, cfr. THORNDIKE 1923, vol. I, pp. 58-99. 55. Cioè membratim, in Plinio, Naturalis historia 28.140. 56. Plinio, Naturalis historia 29.60: «ex ea inveterata sale denari pondus in cyathis tribus datur percussis aut ventriculus coriandro fartus inveteratusque et in vino potus, et catulus mustelae etiam efficacius». 57. Plinio, Naturalis historia 29.105: «contra toxica mustela vulgaris inveterata drachmis bina pota». 58. Per la donnola che fa rivivere i propri cuccioli, vedi qui Parte prima, par. VII .4; per la lotta con il basilisco, vedi par. VII .5. 59. Seneca, Naturales quaestiones 2.32.5. 60. Seneca, Naturales quaestiones. 61. Eliano, De natura animalium 2.51. Il corvo sembra in effetti agire come profeta consapevole di ciò che dice. Secondo Plinio, Naturalis historia 10.33, i soli corvi «comprendono il significato degli auspici che danno» («corvi in auspiciis soli videntur intellectum habere significationum suorum»). Questa asserzione è motivata da Plinio in base al comportamento dei corvi al momento in cui «gli ospiti Medi» furono uccisi: vedi Aristotele, Historia animalium 9.31 (618b), dove l’affermazione suona un po’ diversa, e diverso è pure il nome delle persone a cui l’aneddoto viene riferito. Vedi anche Cicerone, De divinatione 1.39.85. 62. Per la donnola sulla mensa, vedi qui Parte prima, par. VII .4; per la donnola che attraversa la strada o passa fra i piedi, vedi Parte seconda, par. II .1. 63. Per la donnola e i demoni, vedi qui Parte prima, par. VII .7; per il grido della donnola, par. I .3, cap. I , nota 17, e par. VII .1. 64. Eliano, De natura animalium, passim; Plinio, Naturalis historia 8.1-35. In questo senso, di particolare interesse si presentano il Gryllus sive Bruta animalia ratione uti e il De sollertia animalium di Plutarco, operette volte a dimostrare che gli animali non sono da considerarsi dei bruti,

puri strumenti nelle mani dell’uomo, ma esseri dotati di qualità morali: vedi SANTESE 1994, pp. 162-68. 65. Sulle credenze relative alle api, cfr. BETTINI 1986, pp. 206-11; sulla «donna-ape» del giambografo Semonide, e sulla sua misogina classificazione del sesso femminile, vedi qui Parte seconda, par. II .1. 66. Eliano, De natura animalium 1.2. 67. Eliano, De natura animalium 1.1. 68. Sulla definizione dello hell nikón, «greco» (a partire da Erodoto, Historiae 8.44), cfr. MOGGI

1992; NIPPEL 1996.

69. Plinio, Naturalis historia 11.166 e 28.257. 70. Plinio, Naturalis historia 28.157. 71. Plinio, Naturalis historia 8.83. 72. Eliano, De natura animalium 11.28. 73. Plinio, Naturalis historia 8.80. 74. BETTINI 1996c. 75. Per il problema delle «istruzioni» impartite dall’enciclopedia, cfr. ECO 1984, pp. 124-27. 76. Per le nozze della donnola, vedi qui Parte seconda, par. IV .2. 77. Aesopica 172 (PERRY 1952). 78. Aesopica 59 (PERRY 1952); vedi anche Aesopica 93, in cui è invece una vipera che tenta di mordere la lima. 79. C. KING 1989, pp. 82-83. 80. Per la comare, cognata, ecc., vedi qui Parte seconda, par. IV .2. 81. ALINEI 1986, pp. 154-58, 201. 82. Per questo pattern di vezzeggiamento per la donnola, vedi qui Parte seconda, par. IV .1. Sulla donnola «pane-e-latte» o «pane-e-formaggio» e il nome latino (mustela) di questo animale, cfr. BETTINI

1995.

83. Particolarmente superficiale il commento di FORBES IRVING 1990, pp. 205-7, la cui interpretazione del mito è insieme razionalistica e di buon senso: la versione «umana» e quella «animalesca» del personaggio della Liberatrice sarebbero «both rationalizations of the transformation story», mentre la metamorfosi sarebbe a sua volta il risultato della fortuita analogia fra il nome del personaggio, Galinthiás (o Galanthis), e quello della donnola, gal ; piú orientato verso liste di generici paralleli il commento di CELORIA 1992, pp. 189-90. 84. HILLMAN 1992, pp. 7-25. 85. Sul fatto che gli animali della favola antica non possedevano «stock characteristics», cfr. SALISBURY

1994, p. 108, che riprende DALY 1961, p. 19: in base alla tesi storicistica che persegue,

Joyce E. Salisbury sembra interpretare questa mutabilità di funzioni in relazione al mutare dei rapporti fra l’uomo e determinati animali nel corso del tempo; molto piú interessante la discussione in JEDRKIEWICZ 1989, pp. 239-40. 86. Antifane, Poiesis, fr. 189 (KASSEL e AUSTIN 1989, vol. II, pp. 418-19). 87. JEDRKIEWICZ 1989, p. 240. 88. CHESTERTON 1911. 89. HANDOO 1990, pp. 37-42. Pur fondandosi solo su alcuni esempi indiani, l’autore attribuisce carattere «universale» al principio da lui descritto. 90. HANDOO 1990, p. 40. 91. Per questo meccanismo a proposito delle designazioni degli animali, cfr. RIEGLER 1981b, p. 346; RIEGLER 1910. Sul rapporto fra la creazione di «storie» e l’esistenza di cliché, come i tropi, i calembours, i proverbi, i nomi propri ecc., cfr. ŠKLOVSKIJ 1929, pp. 208-9; cfr. anche PERRY 1952, p. IX . 92. Il caso del renard mette esplicitamente sotto i nostri occhi il processo narrativo che ha portato alla designazione dell’animale: l’antico nome francese della volpe (goupil, dal latino vulpecula) scompare a vantaggio di quello imposto dalla nuova storia relativa all’animale: cfr. BATTAGLIA

1980, p. 241.

93. Per la strega, vedi qui Parte seconda, par. II .1. 94. Per la favola di Babrio, vedi Parte prima, par. VII .4. 95. Petronio, Satyricon 46.4. 96. Per la donnola astuta, vedi qui Parte seconda, par. II .5. 97. Per la donnola di mal augurio, vedi Parte seconda, par. II .5. 98. Per la donnola di buon augurio, vedi Parte seconda, par. II .1. 99. Questa favola costituisce una delle tante manifestazioni della tipica ambiguità classificatoria del pipistrello; su questo carattere, cfr. SPERBER 1975. Esistono comunque anche proverbi centrati sul carattere «stordito» della donnola (cfr. SCHOTT 1935, p. 68) e la credenza romana (vedi qui Parte seconda, par. II .5) della donnola che «dimentica» dove ha nascosto i suoi beni. 100. Agostino, Enarratio in Psalmum 103.22 (Migne, PL, 37, 1375-76).

1. Vorrei ricordare a questo proposito FORMA 1983-84, tesi di laurea seguendo la quale prese forma non solo il mio interesse per questo tema ma anche una parte del dossier utilizzato in questa ricerca. 2. Eliano, De natura animalium, Epilogo. 3. Per il racconto di Antonino Liberale, vedi qui Parte prima, par. I .5. 4. Per la strega in Eliano, vedi Parte prima, par. I .5. 5. Eliano, De natura animalium 15.11. 6. Per la donnola astuta, vedi qui Parte seconda, par. II .5. 7. Cfr. TUPET 1976, pp. 82-86, e TUPET 1986, pp. 2659, 2661-64. Vedi anche l’episodio di Telifrone in Apuleio (qui Parte seconda, par. II .1) e le testimonianze di Plinio il Vecchio (Parte seconda, par. III .1.b). Che la donnola avesse la tendenza ad attaccare i corpi dei defunti, tanto che bisognava custodirli per evitare che ne facesse scempio, lo sappiamo del resto anche da Luciano (Timon 21) e dalla tradizione talmudica (LEVYSOHN 1858, p. 93). Riguardo all’aggressività della donnola si ricordi anche la curiosa storia narrata da Eliano, Varia historia 14.4, a proposito di Aristide di Locri: che sarebbe morto per il morso di una «donnola di Tartesso». 8. Per le Nemiche nel racconto di Alcmena, vedi Parte prima, par. IV . Per il rapporto fra la donnola e il mondo della stregoneria cfr. RIEGLER 1925 (HDA, IX, pp. 586-87). Da segnalare che nella vecchia dissertazione di JOSEF V. GROHMANN, Aberglauben und Gebräuche aus Böhmen und Mähren, Prague-Leipzig 1864, citata da GRÉGOIRE 1949, pp. 144-46, il carattere «demonico» della donnola, testimoniato dal folclore e dalle tradizioni germaniche, veniva interpretato in base al presunto legame dell’animale con lo Sturmgott indoeuropeo. 9. C. KING 1989, pp. 82-83; per la credenza che la donnola succhiasse il sangue, vedi qui Parte seconda, par. I .4. 10. Cfr. RIEGLER 1910, in cui tentava anzi di ricostruire un originario «mito» della donnola che sarebbe stata la stessa cosa della frau Holle del folclore tedesco. Cfr. ancora RIEGLER 1912. 11. Basti ricordare la classica storia del piccolo Proca in Ovidio, Fasti 6.131 sgg., a cui le striges succhiano il sangue nella culla. Cfr. OLIPHANT 1913-14. 12. C. KING 1989, p. 83. 13. Per i piacula delle obstetrices, vedi Parte seconda, par. III .1.b. 14. C. KING 1989, p. 78. 15. C. KING 1989. 16. Apuleio, Metamorphoses 2.25: «Sic desolatus ad cadaveris solacium perfrictis oculis et obarmatis ad vigilias animum meum permulcebam cantationibus, cum ecce crepusculum et nox provecta et nox altior et dein concubia altiora et iam nox intempesta. Mihique oppido formido cumulatior quidem, cum repente introrepens mustela contra me constitit optutumque acerrimum in

me destituit, ut tantillula animalis prae nimia sui fiducia mihi turbarit animum. Denique sic ad illam: Quin abis, inquam, inpurata bestia, teque ad tui similes musculos recondis, antequam nostri vim praesentariam experiaris? Quin abis? Terga vortit et cubiculo protinus exterminatur. Nec mora, cum me somnus profundus in imum barathrum repente demergit, ut ne deus quidem Delficus ipse facile discerneret duobus nobis iacentibus, quis esset magis mortuus. Sic inanimis et indigens alio custode paene ibi non eram». 17. Vedi per esempio l’espressione «teque ad tui similes muscolos recondis», che gioca sull’analogia con il nome (sottinteso) della donnola, «mustela». Sui rapporti di analogia e contiguità fra la donnola e il topo nella cultura romana, vedi BETTINI 1995. 18. Riferito da KITTREDGE 1928, p. 174. Dalle «confessioni» delle streghe, nell’Inghilterra di fine Cinquecento, risulta che frequentemente la donnola stava fra i familiari delle medesime: vedi per esempio HUTCHINSON 1966; ALINEI 1986, pp. 163-67. 19. ALINEI 1986, pp. 163-67. 20. DORÉ 1970, p. 114: le «belettes transcendantes», come «les renards transcendants», sono metamorfosi diaboliche, e le streghe frequentano volentieri questi animali. 21. Per il grido della donnola, vedi qui Parte prima, par. VII .1. 22. Origene, Contra Celsum 4.93; per questo testo, vedi qui Parte prima, cap. VII , nota 218. 23. Teofrasto, Characteres 16. Sul lancio dei sassi, HUTCHINSON 1966; BORTHWICK 1968b. 24. Aristofane, Ecclesiazusae 791 sgg. 25. Apostolio 5.26 (LEUTSCH 1965, vol. II, p. 339) e Diogeniano 3.84 (LEUTSCH 1965, vol. I, p. 230). Cfr. CRUSIUS 1887, pp. 414-15. Su tutto questo cfr. BORTHWICK 1968b. 26. SCHOTT 1935, pp. 12-14; ALINEI 1986, pp. 150-51. 27. Debbo questa informazione alla cortesia del professor Tetsuo Nakatsukasa del Dipartimento di Studi Classici dell’Università di Kyoto. 28. Sulle ben note caratteristiche stregonesche e inquietanti del gatto, cfr. per esempio HOVEY 1955, pp. 86-101. 29. Erasmo, Adagiorum Chilias, prima parte, Centuria II, Prov. 73 (VANDERA 1703, vol. II, p. 170): «Mustelam habes … unde nunc etiam apud quosdam gentes, nominatim apud Britannos, infelix omen habetur, si cum paratur venatio aliquis mustelam nominet, cuius etiam occursus vulgo nunc habetur inauspicatus». Cfr. SCHOTT 1935, p. 24; DUNCAN 1924, p. 61; per la tabuizzazione dei nomi degli animali in occasione della caccia alla volpe, ancora in Inghilterra, cfr. LEACH 1964. 30. ROLLAND 1908, vol. VII, p. 124; URTEL 1913, pp. 210-12. Per l’etimologia della parola latina mustela, che verisimilmente è stata prodotta dallo stesso pattern di paure e di vezzeggiamento per l’animale, cfr. BETTINI 1995. 31. Cfr. RIEGLER 1981b, p. 340.

32. RIEGLER 1981b. 33. SLEEMAN 1989, p. 101. Per il tema della vendetta delle donnole, cfr. le credenze degli Huzul citate da FRAZER 1912, p. 275. 34. Plauto, Stichus 459-63: «Auspicio hodie optumo exivi foras; | mustela murem abstulit praeter pedes; | quom strena opscaevavit spectatum hoc mihist. | Nam ut illa vitam repperit hodie sibi, | ita me spero facturum: augurium hac facit». 35. Anche in Ammiano Marcellino, Rerum gestarum libri 16.8.2, non sembra che la donnola evochi particolari paure: di fronte alla «comparsa» della mustela ci si limita a dire che si deve ricorrere a uno «specialista». Sia il caso di Plauto che quello di Ammiano fanno parte del tipo che a Roma rientrava fra i cosiddetti pedestria auspicia, ossia segni da animali che si muovono sul terreno. Cfr. Epitome di Paolo a Festo, De significatione verborum (LINDSAY 1978, p. 287): «pedestria auspicia nominabant, quae dabantur a vulpe, lupo, serpente, equo ceterisque animalibus quadrupedibus». Dal corrispondente passo di Festo (p. 286), sembra potersi ricavare che questo tipo di incontri avveniva sulla via; cfr. l’auspicio del tipo enódion registrato in Suda, s.v. «oionistik » (ADLER 1928, vol. IV, p. 627, n. 163). Nella Grecia antica la donnola rientrava anche fra i soggetti della cosiddetta «divinazione domestica», ossia l’analisi dei segni che si manifestavano nella casa, oikoskopikón; cosí Suda, s.v. «Xenokrát s» (ADLER 1928, vol. III, p. 494, n. 43), in un paragrafo in cui viene registrato il presagio offerto dalla comparsa «sul tetto … di una donnola o di un serpente»; cfr. Suda, s.v. «propheteía» (ADLER 1928, vol. IV, p. 242, n. 2923): presagi «dal grido di topi e donnole». Per lo stesso costume nel folclore greco moderno, cfr. LAWSON 1909, p. 327; ZOE 1963, p. 317. 36. Plauto, Stichus 499-502: Gelasimo, dopo aver compreso che Epignomo non ha alcuna intenzione di invitarlo a cena, rovescia completamente il significato augurale del suo incontro; la donnola è un animale «instabile», che cambia posto ai suoi piccoli in continuazione, come ha potuto fidarsi di un simile presagio in una questione di importanza capitale? Sull’abitudine della donnola di spostare in continuazione i propri piccoli, vedi qui Parte prima, par. vi.4 e Parte seconda, par. ii.3. 37. Per il folclore di Zacinto e Macedonia, vedi qui Parte prima, par. VII .1; per la Haute Bretagne, il Poitou, la Norvegia ecc., vedi SCHOTT 1935, pp. 12-13; per altre regioni in cui l’apparizione della donnola è benaugurante, vedi RIEGLER 1925 (HDA, IX, p. 594). 38. Per la donnola in Eliano, vedi Parte prima, par. I .6. 39. Per lo pseudo-Barnaba, vedi Parte prima, par. VII .6. 40. HUTCHINSON 1966, che stranamente non metteva in relazione questa informazione, da lui raccolta personalmente, con il materiale antico. 41. C. KING 1989, pp. 127-29; SLEEMAN 1989, pp. 53-55. 42. Per la delayed implantation, vedi qui Parte prima, cap. VII , nota 3; C. KING 1989, pp. 131-35.

43. C. KING 1989. 44. C. KING 1989, p. 135: la lingua inglese conosce anzi un proverbio ispirato a queste caratteristiche sessuali della mustela erminea: «a bit of a stoat» per designare «a particularly persistent human suitor». 45. Cfr. PELLIZER e TEDESCHI 1990, pp. XXVI-XXXIV . 46. Cfr. il noto saggio di LORAUX 1978. 47. LÉVI-STRAUSS 1964b, che costituisce com’è noto anche una delle piú celebri storie della questione; sullo sviluppo della nozione di totemismo, R. Wagner, Totemism (in Eliade, ER, XIV, pp. 573-76). È comunque interessante il fatto che il «totemismo» (categoria proposta da MCLENNAN 1867-70: nell’Ottocento!), mostri oggi un’insospettata vitalità, nonostante che la sua morte sia stata annunziata piú volte. Per alcuni studiosi infatti la nostra società sarebbe entrata addirittura in una fase «neototemica», soprattutto a motivo dello sviluppo delle teorie ecologiche che tendono fortemente ad avvicinare, se non a identificare, uomo e animale. Sulla buona salute del totemismo e gli sviluppi recenti di questa categoria, cfr. WILLIS 1990, Introduction, pp. 1-7. Si è persino arrivati a sospettare che il grandioso impegno economico profuso per la preservazione del panda fosse dovuto al fatto che il WWF ha scelto proprio questo animale come suo simbolo (o «totem»?): BAKER

1993, p. 180.

48. LÉVI-STRAUSS 1964a, pp. 151-78; sugli animali per pensare, vedi qui Parte seconda, par. I .2. 49. LÉVI-STRAUSS 1964b, p. 125. 50. Il problema non è di facile soluzione: cfr. LORAUX 1978, p. 61; LLOYD-JONES 1976, ad locum; discussione in PELLIZER e TEDESCHI 1990, pp. 119-20. 51. Semonides, fr. 7, 1 sgg. (PELLIZER e TEDESCHI 1990, p. 57); cfr. LLOYD-JONES 1976. Su questo metaforico «generare» dell’animale, ovvero «venire» da esso, cfr. LORAUX 1978, pp. 58-60. 52. Le blasme des fames, cc. 69-88 (cfr. FIERO, PFEFFER e MATHÉ 1989, pp. 124-25). Per Li Bestiaires d’Amours di Richard de Fournival, vedi qui Parte seconda, par. III .3. 53. Non c’è dubbio che le analogie che sussistono fra l’invenzione di Semonide da un lato e la classificazione di tipo totemico dall’altro siano molto forti. In culture diverse da quella greca, si ricorre spesso infatti ad animali proprio per identificare i due «sessi», maschile e femminile, in contrapposizione fra loro; mentre il rapporto di filiazione fra l’animale e il gruppo che da esso viene individuato – il procedimento linguistico «quella dal…» – costituisce un altro tratto ricorrente di questo tipo di classificazione. Cfr. LÉVI-STRAUSS 1964b, pp. 15, 26, 36, 54. 54. Semonides, fr. 7, 80 sgg. (PELLIZER e TEDESCHI 1990, pp. 83-95). LORAUX 1978, pp. 6267; BETTINI 1986, pp. 207-10. 55. Cfr. LORAUX 1978, pp. 65-69. Per i concetti di «onore» e «vergogna» fra Grecia antica e Grecia contadina del dopoguerra, vedi le belle pagine di WALCOT 1970, pp. 45-46, 57-62: fra i testi

antichi analizzati Semonide non compare. Il lavoro di Peter Walcot si ispira spesso al classico CAMPBELL

1964, pp. 267-76.

56. Sull’interpretazione di questo termine (génos), vedi la nota di LLOYD-JONES 1976, ad locum; PELLIZER

e TEDESCHI 1990, ad locum. Nel caso della donna-donnola il paradigma «totemico» usato

da Semonide risulta particolarmente esplicito: non solo la donna che ha queste caratteristiche «viene da» la donnola, ma costituisce anche uno specifico génos, a un tempo «discendenza» e «tipo». 57. Semonides, fr. 7, 50 sgg. (PELLIZER e TEDESCHI 1990, pp. 50-56). 58. Per la donnola che porta disgrazia, vedi supra. 59. Per le abitudini predatrici della donnola, vedi Parte prima, par. vii.5; cfr. anche SCHOTT 1935, pp. 11-12. Questa caratteristica predatoria della donnola è notata frequentemente: cfr. per esempio Petronio, Satyricon 46.4; Plutarco, De curiositate 9 (519d); Luciano, Piscator 34; Aristophanis Historiae Animalium Epitome 2.337 (LAMBROS 1960, vol. I, p. 109). Cfr. anche Steier, Mustela (Pauly-Wissowa, XVI.1, p. 905); come si è già visto, questa caratteristica sarà utilizzata anzi dagli autori cristiani per giustificare allegoricamente perché il Levitico vietasse di mangiare questo animale: si rammenti l’espressione di Novaziano, «per mustelam … furta reprehendit», citata a p. 218, nota 139. 60. BÖHRINGER 1935, p. 69. 61. Cfr. Aristofane, Vespae 363. Guardata dal punto di vista della donna, e non dell’animale, quest’abitudine può corrispondere a un’accusa di «empietà». VERDENIUS 1968, p. 145, richiama Terenzio, Eunuchus 491: «e flamma petere te cibum posse arbitror»; Catullo, Carmina 59.1-3 («bononiensis Rufa»), «saepe quam in sepulchretis | vidistis ipso rapere de rogo cenam». Cfr. anche la nota di LLOYD-JONES 1976, ad locum; PELLIZER e TEDESCHI 1990, p. 135. Si aggiunga che Plauto, come insulto, usa bustirape! (Pseudolus 351). 62. Eliano, De natura animalium 15.11; per la donnola astuta, vedi infra, par. 5. 63. Cfr. PELLIZER e TEDESCHI 1990, p. 134. 64. PELLIZER e TEDESCHI 1990. 65. Sull’amore come manía, cfr. i pochi riscontri di VERDENIUS 1977, p. 6. Non si capisce perché alcuni studiosi si siano pervicacemente rifiutati di vedere questo rapporto fra la descrizione di Semonide e le credenze tradizionali sulla donnola. Esemplare in questo senso MEIER 1967: per lui la donna-donnola di Semonide sarebbe solo un perfetto esempio di «isteria femminile», in cui desiderio sessuale e frigidità si sommano. 66. Cfr. ALONI 1993, p. 56; cfr. anche p. 125 e nota: «e riduce alla nausea l’uomo che la … naviga». Per il tema della nausea suscitata da una partner femminile spiacevole, cfr. Plauto, Mercator 576: «adveniens vomitum excutias mulieri»; Plauto, Asinaria 894-95: «… an foetet anima uxoris tuae … nauteam | bibere malim, si necessum est».

67. Sul cattivo odore della donnola, cfr. Aristofane, Acharnenses 254-56, e Plutus 693. Cfr. TAILLARDAT

1965, p. 48, che ritiene «proverbiale» la comparazione «puzzare come una donnola»;

BORTHWICK

1968a, p. 138; DEGANI 1987, pp. 86-87.

68. Plinio, Naturalis historia 8.78: «Necant illae simul odore moriunturque, et naturae pugna conficitur». 69. Bisogna dunque notare che aveva torto Perizonio (in GRONOVIUS 1731, pp. 931-33, ai vv. 14.4), che intendeva la gal di Semonide come una designazione generica e poco precisa (per Perizonio, vedi Parte prima, cap. VII , nota 63); DEGANI 1987, pp. 86-87, propende per uno specifico riferimento alla «puzzola». 70. C. KING 1989, pp. 120 e 144; SLEEMAN 1989, pp. 56 e 89. 71. D’AYZAC 1878; sulla donnola come animale instabile, vedi Parte prima, par. vii.3. Sui giullari, cfr. il classico FARAL 1910 (sul nomadismo dei giullari, pp. 33-34; sulla loro cattiva reputazione, pp. 63-70); sull’enigmatica figura dell’antico scurra, anche lui (forse) un professional jester, cfr. CORBETT 1986, p. 5. 72. Cfr. HASSIG 1995, p. 32. 73. Plauto, Stichus 499-502. 74. Per la donnola e i suoi cuccioli, vedi Parte prima, par. vii.3. Anche i maschi della donnola, comunque, si spostano molto frequentemente: cfr. C. KING 1989, p. 145. 75. SHOEKI 1992, pp. 41, 45. 76. Citato da C. KING 1989, p. 79. 77. C. KING 1989, p. 80. 78. C. KING 1989, pp. 79-80 e 189-97. 79. P. Drabble, citato da C. KING 1989, p. 6. 80. Per il divieto alimentare, vedi qui, Parte prima, par. vii.3. 81. Per la cattiva reputazione delle jongleuresses, considerate alla stregua di cortigiane, cfr. FARAL

1910, p. 64.

82. D’AYZAC 1878. 83. D’AYZAC 1878. 84. D’AYZAC 1878. 85. Gualtiero di Orléans, Capitula 17 (Migne, PL, 119, 739); cfr. FARAL 1910, pp. 63 e 274. 86. Per hilaría, come nome per la donnola, vedi Parte seconda, par. ii, nota 115. 87. BÖHRINGER 1935, p. 15. 88. Per la donnola di Antonino Liberale, vedi Parte prima, par. i.5. 89. Alfred Nutt, in HYDE 1890, p. 185. 90. Che la donnola possa davvero sopravvivere all’attacco di un rapace, e anzi uccidere il suo

aggressore cadendo a terra con lui, è ancora una volta testimoniato dalle osservazioni dei naturalisti: cfr. C. KING 1989, pp. 79 e 185; SLEEMAN 1989, p. 77. 91. Per la donnola come abile commerciante, vedi Parte seconda, par. ii.5. 92. Aristofane, Ecclesiazusae 924. Il verbo usato da Aristofane, parakúptein, indica proprio l’ammicco, specie dalla finestra, fatto dalla donna per sedurre l’uomo. Cfr. Aristofane, Pax 980 sgg. Su questo tipo di verbi e su questo modello della seduzione femminile, cfr. BETTINI 1992, pp. 173 sgg. 93. RIEGLER 1925 (HDA, IX, pp. 584-85). 94. Per la donnola nel Physiologus, vedi Parte prima, par. vii.6. 95. FOURNIVAL 1957; FOURNIVAL 1987, pp. 47-49: diversamente dal Fisiologo, Richard de Fournival si fonda sulla credenza secondo cui la donnola concepisce dall’orecchio. 96. Per gli icneumoni, vedi Parte seconda, par. ii.4. 97. Eliano, De natura animalium 10.47. 98. Per il gallo, cfr. pp. 82-85. Sull’ermafroditismo antico e i suoi modelli culturali, cfr. per ultimo BRISSON 1997, pp. 41-65. 99. Cfr. BOAS 1950, pp. 17-43. Un utile panorama degli studi sui Geroglifici, soprattutto dal punto di vista della loro straordinaria fortuna rinascimentale, in RIGONI e ZANCO 1996, pp. 5-73. 100. BOAS 1950, pp. 29-31. 101. Orapollo, Hieroglyphica 2.36. 102. C. KING 1989, pp. 124-27. 103. Plinio, Naturalis historia 11.261. 104. Suda, s.v. «ólisbos» (ADLER 1928, vol. III, p. 518, n. 169). L’ólisbos viene normalmente riferito alla pratica della masturbazione femminile in generale, non specificamente all’amore lesbico: cfr. Aristofane, Lysistrata 109 e fr. 332, 13 (KASSEL e AUSTIN 1989, vol. III.2, p. 187); Cratino, fr. 355 (KASSEL e AUSTIN 1989, vol. IV, p. 294); cfr. Saffo, fr. 95 (LOBEL e PAGE 1955, p. 5); Erodoto, Historiae 6.19. 105. Pseudo-Luciano, Amores 28 (CAVALLINI 1991, p. 75). Anche la lesbica Megilla dichiara alla donna con cui intende fare all’amore di avere «qualcosa al posto del pene»: Luciano, Dialogi meretricum 5.4 (RABE 1906): ma non è affatto detto che si tratti di una protesi. Sulla teoria secondo cui le donne potevano avere clitoridi di dimensioni superiori alla norma, che provocavano un’eccitazione sessuale di tipo virile, cfr. Sorani gynaeciorum translatio latina Muscionis 2.25.76 (V. ROSE 1882, p. 106); Celio Aureliano, Gynaecia 113 (DRABKIN e DRABKIN 1951); Paolo Egineta, Epitomae medicae libri septem 112.21-27 (HEIBERG 1921-24). 106. Plinio, Naturalis historia 8.218; cfr. Varrone, De re rustica 3.12.4. Sulla bisessualità della lepre vedi anche Polluce, Onomasticon 5.73, e soprattutto Eliano, De natura animalium 2.12. Per le

risonanze di questa credenza nel mondo cristiano, cfr. Epistula Barnabae 10.6 (PRIGENT 1971, p. 153): secondo Barnaba, il divieto di mangiare la lepre, espresso nel Levitico, corrispondeva a quello di praticare la pederastia (pp. 152-53). Per la fortuna soprattutto cristiana di questo tema cfr. LAUZI 1988; per quella medievale SALISBURY 1994. Sulla bisessualità nel Mondo Antico vedi il recente studio di BRISSON 1997 (con un petit bestiaire associato al mito di Tiresia, pp. 115-27); vedi anche Parte seconda, cap. iv, nota 20. 107. Aristotele, De generatione animalium 7-9 (773b); Plinio, Naturalis historia 8.218. Cfr. MENCACCI

1996, pp. 14-21.

108. Un parallelo interessante, sia dal punto di vista della lepre sia da quello della donnola, potrebbe anzi essere costituito dalle credenze sambia relative al cassowary: un grande uccello, incapace di volare e simile allo struzzo, che si presenta come «una femmina selvaggia e mascolina, che ha la capacità di partorire dall’ano». In questo caso, inversioni e spostamenti nel modo della generazione si associano esplicitamente alla bisessualità dell’animale. Cfr. LAQUEUR 1990, p. 19. I Sambia sono una tribú della Nuova Guinea che crede che l’ingestione del seme sia una tappa necessaria per diventare maschi, e praticano la fellatio con altri maschi come parte di un periodo di transizione verso l’età adulta (cosí Thomas W. Laqueur); su questo tipo di rituali, cfr. HÉRITIER 1993. Sulle caratteristiche enigmatiche ed eccezionali che i Karam della Nuova Guinea attribuiscono al cassowary (non viene classificato fra gli uccelli, è soggetto a speciali regole di caccia, è considerato «sorella e cugino incrociato» degli esseri umani, ecc.), vedi BULMER 1967, che non parla però della sessualità di quest’uccello. 109. Cfr. Aristotele, Historia animalium 6.42 (579b) e De generatione animalium 3.6 (757a), che rifiuta la credenza; Ovidio, Metamorphoses 15.408-10; Plinio, Naturalis historia 8.44 e 105; Physiologus graecus (SBORDONE 1936, pp. 85-86) e Physiologus Latinus (CARMODY 1939, B, p. 18; CARMODY 1941, Y, p. 37); Orapollo, Hieroglyphica 2.69, ecc. Anche questa credenza viene ripresa dalla Epistula Barnabae 10.7 (PRIGENT 1971, pp. 152-54), secondo cui il divieto di accostarsi alla iena, espresso nel Levitico, corrisponde allegoricamente a quello di «praticare l’adulterio e l’omosessualità». Vedi la lunga nota di PRIGENT 1971, pp. 152-55, che informa anche sulla posizione rabbinica e giudaica a proposito di questo animale, e LAUZI 1988. Per le credenze arabiche, vedi JAYAKAR 1908, p. 211. 110. Artemidoro, Oneirocritica 2.12. 111. Antonino Liberale, Metamorphoses 29.3; per Antonino Liberale, vedi Parte prima, par. i.5. 112. Eliano, De natura animalium 15.11. 113. Antonino Liberale, Metamorphoses 29; per questo racconto, vedi Parte prima, par. i.5. 114. Isidoro, Etymologiae 12.3.3: «ingenio subdola». 115. Artemidoro, Oneirocritica 3.28: «da alcuni la donnola viene chiamata kerd e hilaría»; lo

stesso in Suda, s.v. «gal » (ADLER 1928, vol. I, p. 506). Si sa che kerd è nome attribuito alla volpe (Pindaro, Pythia 2.78; Eliano, De natura animalium 7.47). Cfr. WHITE 1975, p. 178. Il testo di Artemidoro è discusso. RIEFF 1805, p. 419, propose per primo di espungere la frase che contiene queste due definizioni della donnola, considerandola una glossa interpolata; quanto a hilaría, BERNHARDY

1853 (Suidae Lexicon, p. 1066) proponeva di correggere questa espressione in

aílouros, ossia il nome greco del gatto. Echi di questo vecchio dibattito filologico ancora in LIDDELL, SCOTT

e JONES 1966, s.v. «hilaría», secondo cui questa parola costituirebbe un pet-name

della donnola e una interpolazione. Piú recentemente BORTHWICK 1968b, p. 201, n. 1, ha invece proposto di vedere in questa espressione un’allusione al «word play» fra gal e gal nós creato involontariamente dall’attore Hegelochos recitando l’Orestes di Euripide (cfr. Aristofane, Ranae 304): questo perché in Esichio, Lexicon (LATTE 1953, vol. I, p. 360), si incontra la glossa gal nón: hilarón. Ma l’ipotesi convince poco; nella piú recente edizione teubneriana di Artemidoro (PACK 1963) l’editore si limita a espungere kaì hilaría, mantenendo nel testo quello che precede. A dir la verità, risulta curioso questo accanimento filologico contro una testimonianza cosí interessante, tanto piú che queste due designazioni della donnola, kerd e hilaría, si presentano del tutto giustificabili dal punto di vista delle credenze che nel folclore circolano attorno a questo animale. Che la donnola possa essere detta «la furba» non è certo strano, visto che tale era comunemente considerata; quanto al fatto che kerd fosse anche uno dei nomi per la «volpe», ancora nulla di sorprendente: nella tassonomia popolare, capita spesso che uno stesso nome possa indicare piú animali: RIEGLER 1981b. Mentre che la donnola sia detta hilaría, corrisponde bene alle caratteristiche comiche e giocose che a questo animale venivano attribuite: vedi Parte seconda, par. ii.4. L’espressione kerd per indicare la donnola apre anzi un’ulteriore possibilità di interpretazione, se pure piú remota: dato che kérdos significa anche «guadagno», sarebbe teoricamente possibile che la denominazione kerd

per il

nostro animale alludesse alla sua fama folclorica di «guardiana di tesori» (su cui vedi Parte seconda, par. II .5); vedi anche Aesopica 333 (PERRY 1952). 116. Polemone 1.21 (FOERSTER 1893, 176): «mustela multum mala quamvis debilis sit rapax versuta oppugnatrix». Una caratterizzazione simile anche a proposito dell’icneumone: «ichneumo malignus fugax protervus oppugnator patiens sordidus perniciosus»; e anche a proposito dello zibellino: «simor [mustela zibellina] malignus infirmae potentiae prudens versutus ad se ipsum necandum proclivis». 117. Macario 2.90 (LEUTSCH 1965, vol. II, p. 152) e Diogeniano 3.71 (LEUTSCH 1965, vol. I, p. 228). Cfr. Steier, Mustela (Pauly-Wissowa, XVI.1, p. 905). 118. SCHOTT 1935, pp. 67-68, con altri esempi. 119. Artemidoro, Oneirocritica 3.28. Il folclore greco moderno mantiene vivo questo significato simbolico della donnola: secondo ZOE 1963, p. 317, il termine nuphítsa, cioè donnola, è sinonimo di

panoûrgos. 120. SCHOTT 1935, p. 68: «personne futée qui a le nez pointu». 121. SCHOTT 1935, pp. 10-11; BREHM 1883, vol. II, pp. 53 sgg.; BÖHRINGER 1935, pp. 11-12. Nei racconti di animali, la donnola risulta astuta anche nelle tradizioni del Centro America: cfr. MCDOWELL

1994, pp. 175-81, per il racconto in cui la donnola, fingendosi esperta di medicina,

cerca di divorare il cervo. 122. Cfr. C. KING 1989, p. 121. Anche questa affordance offerta dalla donnola la troviamo riutilizzata nei racconti di folclore; cfr. Fedro, Fabulae 4.2.10-19: la donnola vecchia che, dopo essersi avvolta nella farina, si «abbandonò negligentemente» in un luogo oscuro fingendosi una preda per i topi. 123. Esiodo, Melampodeia, fr. 275 (in MERKELBACH e WEST 1967); cfr. Eustazio, ad Odysseam 10.494 (DINDORF 1962, 1665, 43 sg.); Fulgenzio, Mythologia 2.8. 124. Cfr. JAYAKAR 1908, p. 421. La storia era già stata ripresa da BOCHART 1712 (col. 1029 = Hierozoicon 3.35) che la attribuiva a «Abdollatif Bagdadensis». 125. Per la donnola come madre sollecita, vedi Parte prima, par. vii.4. 126. Cfr. l’altra favola di astuzia della donnola narrata dallo stesso ad-Damiri (JAYAKAR 1908, p. 420 sg.): una donnola maschio insegue un topo fin sopra un albero e questi, per poterle sfuggire, si attacca con la bocca a una foglia di cui aveva mangiato una parte. La donnola chiama allora la sua compagna femmina e quando questa raggiunge la base dell’albero recide la foglia da cui il topo penzolava cosí la compagna, in terra, acchiappa il topo. La cooperazione e l’aiuto reciproco fra donnole sono stati effettivamente osservati: cfr. C. KING 1989, p. 78. 127. C. KING 1989, pp. 77 e 141. 128. Cfr. lo stesso ad-Damiri (JAYAKAR 1908, p. 421). 129. Vedi per esempio la storia irlandese Paudyeen O’Kelly and the Weasel in HYDE 1890, pp. 73-91, in cui la donnola costituisce la manifestazione animale di una vecchia hag che ha accumulato danaro per tutta la vita. 130. RIEGLER 1925 (HDA, IX, p. 585); DUNCAN 1924, p. 36. 131. C. KING 1989, pp. 83-84; SLEEMAN 1989, pp. 34 e 73-75, riferisce anche la credenza di folclore secondo cui la donnola userebbe addirittura nascondere rospi e rane vivi. 132. C. KING 1989, pp. 84 e 142. 133. C. KING 1989, p. 84. 134. Servius Auctus, ad Georgica 1.414. 135. Il sistema delle denominazioni ittiche, anche nelle lingue classiche, funziona come una vera e propria semiotica connotativa: cfr. la bella ricerca di GUASPARRI 1996. 136. Plinio, Naturalis historia 32.112. Per la mustela marina, cfr. anche Ennio, Varia 34 (in

VAHLEN

1903); Plinio, Naturalis historia 9.63; ecc. Cfr. SAINT-DENIS 1947, s.v.

137. Plinio, Naturalis historia 30.90. Per le magie tratte dai pesci, cfr. TUPET 1976, pp. 67-68. 138. Eliano, De natura animalium 15.11. Sul pesce gal , vedi THOMPSON 1947, pp. 38-39. 139. Per il racconto di Antonino Liberale, vedi Parte prima, par. i.5. 140. Veneficia con il corpo della donnola sono testimoniati da Plinio, Naturalis historia 28.162 e 29.103; ecc. 141. Per il parto orale, vedi Parte prima, par. viii.1. 142. Eliano, De natura animalium 9.65. 143. Per la donnola nella tradizione cristiana, vedi Parte prima, par. vii.6. 144. GASTER 1915, pp. 365 sg.; GINZBERG 1913, pp. 40 sg., dove però la donnola diventa un cat: cfr. comunque la sua nota 188 (V. Notes to Volumes 1 and 2: From the Creation to the Exodus, p. 57). 145. LEVYSOHN 1858, pp. 91 sg. Questa versione della storia doveva essere ben radicata. Se ne trova un’allusione infatti anche in BIALIK e RAVNITZKY 1992, p. 773: «i nostri maestri ci hanno insegnato che tutto ciò che esiste sulla terra ferma esiste anche nel mare, eccetto la donnola». 146. Vedi già BOCHART 1712 (coll. 1028 sg. = Hierozoicon 3.35). 147. Cfr. già BÖHRINGER 1935, pp. 11-13; SCHOTT 1935, p. 67; vedi soprattutto C. KING 1989, p. 75; SLEEMAN 1989, p. 16. 148. BÖHRINGER 1935, p. 12. 149. C. KING 1989, p. 75. Vedi qui fig. 12. In realtà, questa espressione si usa in tedesco un po’ per tutti gli animali quando si drizzano sulle zampe posteriori.

1. Per la trophós di Eracle, vedi Parte prima, par. i.3; per la comare, la nutrice e la trophós, vedi Parte seconda, par. iv.2. 2. VERDIER 1979, pp. 93-100, La femme-qui-aide. 3. Terenzio, Andria 299.1 (WESSNER 1902-908): «quae opem tetulerit, obstetrix dicitur». 4. SHAKESPEARE 1984, atto I, scena IV . 5. Per la donnola accusata di stregoneria, vedi Parte seconda, par. ii.1. 6. Per il racconto di Ovidio, vedi Parte prima, par. i.2 e cap. I , nota 17. 7. Allo stesso modo, Iside è alternativamente definita «levatrice» e coinvolta in pratiche di magia uterina: cfr. AUBERT 1989, p. 429. 8. Cfr. COSMINSKY 1976, pp. 75-99. 9. Su questo punto vedi i saggi raccolti in MONGAY MAGLACAS e SIMONS 1986. 10. Questa la definizione che di solito si dà delle birth attendants non professionali nelle culture tradizionali. Cfr. COSMINSKY 1986, come COSMINSKY 1976; vedi anche il racconto della vocazione all’ostetricia di «Juana» (Guatemala), in WEIGLE 1982, pp. 127-28. 11. COSMINSKY 1976. 12. COSMINSKY 1976: le curanderas messicane vengono descritte come «part-time street vendors or dirty old crones». 13. DEMAND 1994, p. 132. 14. Platone, Respublica 454d2. Cfr. DEMAND 1994, p. 67, soprattutto la n. 95, p. 132. L’interpretazione di questo passo di Platone non è comunque pacifica, e mi pare anzi che il vedervi una testimonianza riguardo all’esistenza di dottori donna sia piuttosto azzardato. Sulla difficoltà di distinguere la maîa dalla iatrína, cfr. MANULI 1983, pp. 186-87; SORANOS D’ÉPHÈSE 1988, p. 94. 15. POMEROY 1977. Cfr. DEMAND 1994, pp. 132, e 121 sgg., con un commento a una serie di scene di travaglio o di nascita nella tradizione funeraria attica o atticizzante. Vedi anche DEANJONES

1994, pp. 31-33. Sulla storia di Agnodice, la «prima» levatrice, e il dibattito relativo alla sua

storicità, vedi Parte seconda, cap. iii, nota 164. 16. FRENCH 1986, pp. 69-84. 17. Sorano, Gynaecia 1.3.4 sgg. 18. Sorano, Gynaecia 1.4.1 sgg. 19. «L’enseignement de Soranos n’est pas destiné à former des auxiliaires médicales, simples exécutantes des décisions du médecin … il se propose de former des spécialistes à part entière»: MALINAS

1988, che attribuisce alle levatrici di Sorano persino un’indipendenza maggiore rispetto a

quella di cui godono in molti paesi moderni e in Francia. 20. Sorano, Gynaecia 1.4.25 sgg. 21. Che le birth-attendants siano normalmente delle female relatives o delle vicine di casa è del

resto un tratto, ancora una volta, di tipo transculturale: FORD 1964, pp. 55, 59. Nella Cina fra i secoli XVII

e XX , solo le donne dell’aristocrazia si rivolgevano a ostetriche professionali, mentre le madri

comuni ricorrevano all’aiuto di vicine di casa, parenti, donne anziane, ecc.: FURTH 1987, p. 17. 22. Aristofane, Ecclesiazusae 528 sgg. Anche Arianna in travaglio è assistita dalle donne del luogo: cfr. Plutarco, Theseus 20.5; cfr. anche Longo Sofista, Daphnis et Chloe 3.15, dove Licenio è chiamata a compiere un’analoga funzione di assistenza a una vicina. 23. Non è chiaro perché HENDERSON 1987, p. 122, consideri questa donna una midwife: è solo un’amica. 24. Anche in Grecia ci si potrebbe aspettare che la suocera fosse frequentemente nominata in questa veste, cosí come accade altrove, invece non è cosí: cfr. DEMAND 1994, pp. 15 sgg. 25. Per il racconto di Ovidio, vedi Parte prima, par. i.2 e nota 17. 26. Per l’Inno omerico ad Apollo, vedi Parte prima, par. iii.2. 27. Per gli Amphidrómia, vedi Parte prima, cap. iii, nota 12. 28. Ippocrate, De carnibus 19 (LITTRÉ 1961-78, vol. VIII, p. 614). 29. Afranio, Fratriae, fr. 6 (DAVIAULT 1981, p. 172): «dimittit adsestricem, me ad sese vocat». 30. Afranio, Fratriae, fr. 5 (DAVIAULT 1981, pp. 170-71). 31. Cfr. Nonio, De compendiosa doctrina (LINDSAY 1964, p. 103); cfr. anche p. 220: «adsestrix femininum est ab eo quod est assessor». Per il verbo assidere (ad-sidere) cfr. la definizione di E. Diehl in Thesaurus Linguae Latinae (II, 877): «maxime usitatum de assidendo aegris vel lugentibus»: vedi per esempio Celso, De medicina 3.4.7: «… aegri vires subinde assidens medicus inspiciat». ROMANO 1991, p. 97, che ugualmente definisce assideo «termine tecnico per indicare la veglia presso il malato», rimanda anche a Seneca, De beneficiis 6.16.5: la bella descrizione del medicus amicus che «inter sollicitos assidet». 32. Plinio, Naturalis historia 28.59: «adsidere gravibus, vel cum remedia alicui adhibeantur…» 33. In uno dei frammenti di Afranio, Fratriae (DAVIAULT 1981, p. 172), infatti, qualcuno dice: «(la donna) manda via la levatrice (adsestrix), e fa chiamare me» (dimittit adsestricem, me ad sese vocat). Chi parlava? Difficile dirlo. In un altro frammento (DAVIAULT 1981, p. 183) viene ricordata una nutrix, e può certo trattarsi di lei. Nel qual caso il ruolo della birth attendant sarebbe svolto da una vecchia legata da antica consuetudine con la partoriente. Però c’è un’altra possibilità. La togata portava il titolo di Fratriae, come abbiamo detto, e Nonio, De compendiosa doctrina (LINDSAY 1964, vol. III, p. 894) testimonia esplicitamente che in latino «si chiamano fra loro fratriae le mogli di due fratelli», cfr. l’Epitome di Paolo a Festo, De significatione verborum (LINDSAY 1978, p. 80); Corpus Glossariorum Latinorum 1965, vol. VII, p. 562. Dato che l’intreccio della commedia ruotava attorno alle «mogli di due fratelli», cioè due «cognate», non si può escludere che una delle due, incinta e prossima al parto, chiamasse l’altra ad aiutarla, preferendola alla adsestrix.

34. Per Aristofane, vedi Parte prima, par. vi.3. 35. Terenzio, Andria 228 sgg.: «temulenta … et temeraria». 36. Plauto, Truculentus 405-9, su cui vedi qui Parte seconda, parr. iii.1.a e III .2.a. 37. Plauto, Cistellaria 120 sgg. 38. Plauto, Miles gloriosus 697: «tum obstetrix exspostulavit mecum, parum missum sibi». Cfr. FRENCH

1986, pp. 71-73; anche DEMAND 1994, p. 67 e soprattutto n. 95.

39. Vedi soprattutto DEMAND 1994, pp. 63 sgg. e 130 sgg., che fa il punto sulla questione e riporta le opinioni degli studiosi precedenti (Paola Manuli, Goffrey E. R. Lloyd, Ann Ellis Hanson); lo stesso in DEAN-JONES 1994, p. 27 e n. 81. 40. DEMAND 1994, p. 64, che riprende anche lavori precedenti. Per le tensioni fra dottori maschi da un lato e dottori donna dall’altro, vedi Parte seconda, parr. iii.1 e 3. 41. DEMAND 1994, p. 68; DEAN-JONES 1994, p. 29. 42. DEMAND 1994, pp. 64 sg. 43. BOGGI CAVALLO e CANTALUPO 1994, p. 9. 44. LLOYD 1987, p. 63, n. 11. 45. Platone, Theaetetus 148 sgg. 46. Platone, Theaetetus 150d. 47. Cfr. HENDERSON 1987, p. 108. 48. HENDERSON 1987, p. 110. 49. Nelle tradizioni europee, la levatrice viene spesso indicata con nomi che indicano onore o reverenza: cfr. R. Jungwirth, Hebamme (HDA, III, p. 1589); vedi anche Parte seconda, par. iv.2. 50. Platone, Theaetetus 149b. 51. FORD 1964, p. 36; COSMINSKY 1986. 52. Platone, Theaetetus 149d. 53. Sorano, Gynaecia 1.4; cfr. LLOYD 1979, pp. 169 sg. 54. Cfr. anche Sorano, Gynaecia 2.11.7 sgg. («superstizioni» delle levatrici riguardo al taglio del cordone ombelicale). 55. Plinio, Naturalis historia 28.70. 56. Plinio, Naturalis historia 28.8. 57. Cfr. TUPET 1976, pp. 82-86, e TUPET 1986, p. 2664. Vedi anche qui Parte seconda, cap. ii, nota 7, e DANESE 1992, pp. 215-19. 58. Plinio, Naturalis historia 7.64 sgg., e anche 19.176. Cfr. AUBERT 1989, p. 431. DEAN-JONES 1994, pp. 227 sgg., ha insistito sulla tesi, peraltro non nuova, che la mestruazione femminile non avrebbe costituito taboo nella Grecia classica, mentre lo sarebbe divenuta nell’età alessandrina e nel periodo romano. Nei termini di Mary Douglas, il fenomeno dovrebbe essere spiegato in relazione

alla maggiore o minore minaccia sociale che la donna porta all’uomo nei diversi momenti storici; mentre il particolare orrore «romano» per il sangue mestruale viene ovviamente interpretato in relazione alla maggiore libertà di cui la donna avrebbe tradizionalmente goduto a Roma rispetto alla Grecia. Almeno la parte di interpretazione sociologica di questa tesi, se non i suoi stessi dati storici, appare però difficilmente difendibile. 59. Plinio, Naturalis historia 28.80. Sul tema del «passar sopra» una certa sostanza che procura aborto, vedi Parte prima, cap. ix. 60. Plinio, Naturalis historia 28.79 sgg. 61. Plinio, Naturalis historia 28.82. La ragione di ciò sta nel fatto che il mestruo veniva considerato capace di provocare la rabbia nei cani (7.64). 62. Plinio, Naturalis historia 28, 70; vedi Parte seconda, par. iii.1. Il personaggio di Laide ci è noto solo da Plinio (28.81-82): che fosse un’ostetrica lo pensano anche Kind, Lais (Pauly-Wissowa, XII.1, p. 516), e LLOYD 1987, p. 63, n. 11. 63. Plinio, Naturalis historia 28.83. 64. Giovanni Crisostomo, In Epistulam ad Romanos Homilia 25 (Migne, PG, 60, 627). 65. La parola vale tanto «abortivo» quanto «pozione magica»: vedi Parte seconda, cap. III , nota 106. 66. Plinio, Naturalis historia 7.63 sgg. 67. Per l’uso di analgesici in occasione del parto, cfr. H. KING 1988b. 68. Plinio, Naturalis historia 28.10; per questo testo, vedi qui Parte seconda, par. I .3 e cap. I , nota 49. 69. DEMAND 1994, pp. 42 sgg. 70. Cfr. FOWLER 1899, p. 292; SCARBOROUGH 1979, p. 18; FRENCH 1986, p. 73. Ma nessuno di questi autori sembra essersi preoccupato di ricostruire la figura della saga, o di motivare perché essa potesse essere in contatto con il mondo del parto. 71. Tibullo, Carmina 1.5.59; Marziale, Epigrammata 11.49.7 sg. 72. Nonio, De compendiosa doctrina (LINDSAY 1964, p. 33). Il grammatico gioca evidentemente sul rapporto fra saga e sagax detto del cane, esplicitamente nominato subito dopo. Vedi infra Cicerone, De divinatione 1.31.65; per sagax, vedi qui par. III , nota 78. 73. Lucilio, 271 (MARX 1904): «aetatem et faciem ut saga et bona conciliatrix». 74. Cfr. l’Epitome di Paolo a Festo, De significatione verborum (LINDSAY 1978, p. 54): «conciliatrix dicitur, quae viris conciliat uxores et uxoribus viros». Altre volte la conciliatrix rassomiglia a una mezzana, seppure non professionista (come nel caso di Plauto, Miles gloriosus 1410: «ancilla conciliatrix»). 75. Turpilio, fr. 8 (RIBBECK 1873): «non ego hoc per sagam pretio conductam, ut vulgo solent».

76. Orazio, Carmina 1.27.21 sg.; Ovidio, Amores 3.7.27 sg.; Columella, De re rustica 11.1.22; Frontino, Stratagemata 1.11.12; Apuleio, Metamorphoses 1.8. In questo senso, figura in qualche modo simile alla saga può risultare la vecchia perimáktria ricordata da Plutarco, De superstitione 3 (166a), cui fa ricorso il superstizioso terrorizzato da un sogno; cfr. Polluce, Onomasticon 7.188 (BETHE 1900). Piú avanti, Plutarco descrive la scena del medesimo superstizioso che si spalma di fango (perimassómenos) mentre le «vecchie, come dice Bione, gli attaccano e gli legano addosso tutto quel che capita, come fosse un attaccapanni». Per le vecchie che operano purificazioni e trattano filtri nell’Atene della commedia antica, cfr. HENDERSON 1987, p. 122. 77. In Plauto, Curculio 110b, si dice della vecchia lena: «sarebbe stato piú giusto che fosse un cane: infatti ha un naso sagax». 78. Cicerone, De divinatione 1.31.65: «sagae anus, quia multa scire volunt». Cfr. l’Epitome di Paolo a Festo, De significatione verborum (LINDSAY 1978, p. 427): «saga quoque dicitur mulier perita sacrorum, et vir sapiens, producta prima syllaba propter ambiguitatem evitandam». 79. Petronio, Satyricon 63.9. 80. Nel loro legame con il destino e con la profezia, le Carmentes ricordano da vicino le Moírai che assistono in Grecia al parto e alla nascita: vedi qui Parte prima, par. iv.1. Per il potere divinatorio delle Carmentes: Macrobio, Saturnalia 1.7.20; Servius Auctus, ad Aeneidem 8.336; Tertulliano, Ad nationes 2.11; Plutarco, Romulus 21; ecc. Cfr. Georg Wissowa, Carmenta (Roscher, GRM, I.1, pp. 851 sgg.). Le Carmentes avevano anche relazione con la posizione del bambino nell’utero (Varrone in Gellio, Noctes Atticae 16.6.4; Ovidio, Fasti 1.617 sgg.): cfr. BELMONT 1971, pp. 142 sgg.; BETTINI 1986, pp. 164-66. 81. Sulla sage-femme, vedi qui Parte seconda, par. iii.3. 82. Platone, Theaetetus 150. 83. SHAKESPEARE 1984, atto I, scena IV . Cfr. CHIARINI 1954, p. 45. 84. Cfr. SHAKESPEARE 1984, atto I, scena IV . 85. In R. Jungwirth, Hebamme (HDA, III, pp. 1589-90), con molti materiali sui rapporti fra la levatrice e la strega. 86. INSTITOR e SPRENGER 1977. Il Malleus si occupa esplicitamente delle levatrici-streghe: parte I, questione II; parte II, questione XIII e parte III, questione XXXIV (rispettivamente pp. 12728, 248-55, 446-51 della trad. it.). Cfr. BLUMENFELD-KOSINSKI 1990, pp. 105 sgg. 87. INSTITOR e SPRENGER 1977, pp. 127-28: «come lo hanno raccontato a noi delle streghe pentite»; p. 249: «come è apparso dalla confessione di quella serva convocata a Brisach». Cfr. BLUMENFELD-KOSINSKI

1990, p. 115.

88. INSTITOR e SPRENGER 1977, p. 448. 89. INSTITOR e SPRENGER 1977, pp. 248-55; cfr. BLUMENFELD-KOSINSKI 1990, pp. 108-9.

90. Plinio, Naturalis historia 28.70; per questo testo, vedi qui Parte seconda, par. iii.1.b. 91. FORBES 1966. Sul rapporto fra la levatrice e la strega nel Medioevo, vedi in particolare GREEN

1983, pp. 39 sgg., con molte distinzioni e osservazioni, anche di carattere problematico,

rispetto al quadro che delle levatrici comunemente si dà nel mondo medievale; cfr. anche SCHMITT 1982. 92. INSTITOR e SPRENGER 1977, p. 448, in cui si rileva l’opportunità di «affidare le mansioni di levatrice solo a quelle che hanno giurato». 93. BLUMENFELD-KOSINSKI 1990, p. 109. Cfr. anche GREEN 1983. 94. Tomaso Garzoni, Discorso CXXX, Delle comari e delle balie, o balii, o nutrici, in GARZONI 1996, vol. II, p. 1342. 95. Cosí GÉLIS 1984. 96. GUMMERE 1907, p. 298; FORBES 1966, p. VIII . 97. Euripide, Hippolytus 293 sgg.; cfr. Ippocrate, De mulierum affectibus (LITTRÉ 1961-78, vol. VIII, p. 126, 5); Sorano, Gynaecia 1.2.4. Cfr. DEMAND 1994, p. 62; discussione critica in DEANJONES

1994, p. 4. Per la donna-pharmakeútria, cfr. MANULI 1983.

98. Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium 2.5.3: processo per veneficium intentato alle matrone, accusate di aver ucciso i mariti; vedi GAGÉ 1963, p. 137; MONACO 1984, p. 2023; CANTARELLA 1996. 99. Cfr. Macrobio, Saturnalia 1.12.26: «in aede eius omne genus herbarum sit, ex quibus antistites dant plerumque medicinas». Su Bona Dea come divinità della salute per le donne, cfr. WISSOWA

1912, p. 218; BROUWER 1989, pp. 346-47.

100. BLUMENFELD-KOSINSKI 1990, p. 109. 101. Cfr. RIDDLE 1992, pp. 16 sgg., 81 sg., 91 sg.; AUBERT 1989, p. 427, n. 8, con molti dati interessanti. Per l’Europa medievale e rinascimentale, cfr. BLUMENFELD-KOSINSKI 1990, pp. 11017. 102. COSMINSKY 1976, p. 237. Vedi per esempio BLUM 1965, p. 76. 103. Sorano, Gynaecia 1.4. Per l’atteggiamento di Sorano verso l’aborto, cfr. NOONAN 1966, pp. 18-19. 104. Per il mestruo, vedi qui Parte seconda, par. iii.1.b. 105. Cfr. Plinio, Naturalis historia 20.226 (Olimpiade e l’uso abortivo della malva). Per Olimpiade in Plinio, cfr. anche 28.246 e 253. Essa è indicata fra le fonti di Plinio per i libri 20 e 28. Cfr. Deichgräber, Olympias (Pauly-Wissowa, XVIII.1, p. 185). 106. Secondo Plutarco, Romulus 22, la legge di Romolo permetteva al marito di ripudiare la moglie «per filtri che riguardavano i figli» (epì pharmakeíai tékn n, ma il testo è discusso): cfr. la dettagliata analisi storica e giuridica di NARDI 1971, pp. 16-29.

107. Cfr. NOONAN 1966, pp. 25 sgg. L’indistinzione fra droga, pozione magica e veleno è caratteristica della terminologia antica, greca e romana, a questo proposito. Espressioni come phármaka (e i suoi derivati), venenum, medicamentum, possono essere usati in tutti questi sensi senza particolari riserve: cfr. PHARR 1932. 108. Paolo, in Digesta 49.19.38.5. Cfr. il commento di NOONAN 1966, pp. 26 sg., che segue PHARR

1932, pp. 272-73.

109. Digesta 48.8.3: «sed ex Senatus consulto relegari iussa est ea, quae non quidem malo animo, sed malo exemplo medicamentum ad conceptionem dedit, ex quo ea, quae acceperat, decessit». Per l’interpretazione di ad conceptionem come «contro la concezione», cfr. NOONAN 1966, p. 26. 110. Digesta 9.2.9.1. 111. Cfr. Cicerone, Pro Cluentio 11.32 (medicamenta come «abortivi»). Cfr. Digesta 48.19.38.5; NOONAN

1966, pp. 26 sgg.; RIDDLE 1992, pp. 63 sgg., che ridiscute il tema dell’atteggiamento

romano verso la limitazione delle nascite. 112. Per Aristofane e Plauto, vedi qui Parte prima, par. vi.3 e Parte seconda, par. iii.2.a. 113. Per la sostituzione dei bambini a Roma, vedi Parte prima, cap. VI , nota 35. Per i terrori dell’adulterio, cfr. BELTRAMI 1998. 114. Vedi l’azione di Canidia, Sagana, Veia e Folia in Orazio, Epodon liber 5. 115. Che le streghe colpiscano soprattutto i bambini fa parte della tradizione piú antica: per Gelló (il fantasma che provocava la morte prematura dei piccoli ed era identificato con Lámia ed Émpousa) cfr. Zenobio 3.3 (LEUTSCH 1965, vol. I, p. 58); Esichio, Lexicon, s.v. «Gell » (LATTE 1953, vol. I, p. 368); scholia ad Theocritum 15.40, ecc. Anche il demone detto Lámia era considerato una ladra di bambini: Orazio, Ars poetica 340; scholia a Aristophanis Vespas 1035 (DÜBNER 1855), ecc. Cfr. anche OLIPHANT 1913-14. 116. Orazio, Epodon liber 5.5: «si vocata partibus | Lucina veris fui». Cfr. TUPET 1976, pp. 29697. 117. Orazio, Epodon liber 17.50. 118. Petronio, Satyricon 63. 119. HARTLAND 1891, pp. 93-134; raccolta di testi in HANSEN 1901, pp. 66-69, 86-87. 120. FORBES 1966, p. 128. 121. SCHMITT 1982. 122. Cfr. RIDDLE 1992. 123. Eliano, De natura animalium 15.11: vedi Parte prima, par. i.6. 124. Vedi per esempio la Meroe di Apuleio, Metamorphoses 1.7-8; la sua Panfila a 2.5, ecc. Si ricordi anche la descrizione della pharmakís di Eliano: vedi qui Parte seconda, par. iii.1.

125. Cfr. per esempio SOMMERS 1926, pp. 81-109. 126. BLUMENFELD-KOSINSKI 1990, p. 114. Inutile dire che, anche in questo caso, l’Europa posteriore ci ripropone modelli di lunga durata. La convinzione che le donne fossero caratterizzate da sessualità sfrenata, e da libidine molto superiore a quella dei maschi, faceva parte del misoginismo antico, da Esiodo ad Alceo sino a Ovidio: Alceo, fr. 347 (LOBEL e PAGE 1955); Esiodo, Opera et dies 582 sgg.; Ovidio, Ars amatoria 1.281-341, e cosí via. 127. Platone, Theaetetus 150. 128. Plinio, Naturalis historia 28.67. 129. Plinio, Naturalis historia 28.81. 130. Plinio, Naturalis historia 28.82. 131. Cfr. Geyer, Lais (Pauly-Wissowa, XII.1, pp. 513-16). 132. Cfr. O. Crusius, Elephantis (Pauly-Wissowa, V.2, pp. 2324-25). 133. Svetonio, Tiberius 43; Marziale, Epigrammata 12.43.4; Priapea 4: cfr. O. Crusius, Elephantis (Pauly-Wissowa, V.2, pp. 2324-25). 134. Suda, s.v. «Astuánassa» (ADLER 1928, vol. I, p. 393, n. 4261). 135. Plinio, Naturalis historia 28.82. 136. Plinio, Naturalis historia 28.262; cfr. anche 32.140. 137. Plinio, Naturalis historia 32.135. 138. Plinio, Naturalis historia 30.40. Si noti che dal nome del «mercante di schiavi», mango (cfr. Mela, in Digesta 50.16.207), deriva il verbo mangonicare: usato sia nel senso generale di «abbellire la merce» (Plinio, Naturalis historia 8.168), in relazione alla cattiva fama che i mangones godevano in qualità di commercianti, sia in particolare in quello di «abbellire il corpo» (23.26: «mangonicata corpora»; 32.135: «ita pueros mangonicavit Salpe obstetrix»). Cfr. anche l’interessante frammento di Varrone in Nonio, De compendiosa doctrina (LINDSAY 1964, p. 263): «alii ita sunt circumtonsi et terti [ossia tersi] atque unctuli, ut mangonis esse videantur servi». 139. Per Giovanni Crisostomo, vedi qui Parte seconda, par. iii.1.b. 140. FRENCH 1986, p. 72; anche Fanostrate, la levatrice maîa e iatrós, sembra essere stata sposata: cfr. POMEROY 1977. 141. Plauto, Truculentus 405 sgg.: vedi qui Parte seconda, par. iii.1.a. 142. Plauto, Truculentus. Cfr. Mau, Barbier (Pauly-Wissowa, III.1, pp. 3-4): siamo informati del fatto che i barbieri romani avevano degli aiutanti, detti appunto circitores, i quali andavano di casa in casa per svolgere servizio a domicilio. 143. Marziale, Epigrammata 2.17. 144. Plauto, Cistellaria 120 sgg. 145. Alcifrone, Epistulae agricolarum 2.6-7.

146. BLUMENFELD-KOSINSKI 1990, p. 116. 147. NIETZSCHE 1977, p. 144. 148. Per la m tis di Galanthis, vedi qui Parte prima, par. i.5. 149. Per Platone, vedi Parte seconda, par. iii.1.b. 150. Cornuto, Theologiae Graecae compendium 16 (LANGE 1881, p. 23). 151. Aristotele, Historia animalium 7.10 (587a). 152. Vedi DETIENNE e VERNANT 1974, pp. 293-95, a cui si deve l’analisi in questa prospettiva del passo di Aristotele. Per il comportamento dei sette saggi, che combinano «astuzia» e «saggezza» in una forma di superiore sapienza, vedi R. P. MARTIN 1993. 153. Pindaro, Olympia 6.43. 154. Cfr. Oxford English Dictionary: di wise woman viene segnalato sia il senso di «female magician, soothsayer, witch, sorceress» che quello di «midwife». 155. OAKLEY e HOUD 1990, pp. 11 sgg. 156. FURTH 1987, p. 17. 157. BOGGI CAVALLO e CANTALUPO 1994, p. 10; cfr. però BERTINI 1989, p. 100; anche p. 105 per Rutebeuf (Rustebuef) che in Li diz de l’erberie definí la sua Trotte de Salerne «la plus sage dame qui soit enz quatre parties du monde». 158. Platone, Theaetetus 149a-e, definisce con il nome di téchn MANULI

il sapere della levatrice: cfr.

1983, pp. 186-87.

159. Cornuto, Theologiae Graecae compendium 34 (LANGE 1881, p. 73). 160. Su questo aspetto della levatrice, e la sua relazione con i numerosi nomi che la vogliono donna «saggia», cfr. già R. Jungwirth, Hebamme (HDA, III, p. 1588). 161. Igino, Fabulae 274.10-13 (H. G. ROSE 1963), nella serie Quis quid invenerit: «antiqui obstetrices non habuerunt, unde mulieres verecundia ductae interierant; nam Athenienses caverant ne quis servus aut femina artem medicam disceret. Agnodice quaedam puella virgo concupivit medicinam discere, quae cum concupisset, demptis capillis habitu virili se Herophilo cuidam tradidit in disciplinam. Quae cum artem didicisset, et feminam laborantem audisset ab inferiore parte, veniebat ad eam, quae cum credere se noluisset, aestimans virum esse, illa tunica sublata ostendit se feminam esse, et ita eas curabat. Quod cum vidissent medici se ad feminas non admitti, Agnodicem accusare coeperunt, quod dicerent eum glabrum esse et corruptorem earum, et illas simulare imbecillitatem. Quod cum Areopagitae consedissent, Agnodicem damnare coeperunt; quibus Agnodice tunicam allevavit et se ostendit feminam esse, et validius medici accusare coeperunt, quare tum feminae principes ad iudicium venerunt et dixerunt: vos coniuges non estis sed hostes, quia quae salutem nobis invenit eam damnatis. Tunc Athenienses legem emendarunt, ut ingenuae artem medicinam discerent».

162. Ancora Henri de Mondeville (per citare un esempio fra molti) raccoglierà in una sola categoria «analfabeti, barbieri, giocatori, cortigiane, mezzane, levatrici, vecchie, giudei convertiti e saraceni che s’impicciano tutti a parlare di medicina»: citato da LAURENT 1989, p. 172, con altri esempi. Come ha scritto BLUMENFELD-KOSINSKI 1990, pp. 15 sgg., e soprattutto 91 sgg., ad altro proposito, «la marginalizzazione delle levatrici va vista nel piú ampio contesto delle attitudini misogine nella professione medica durante il Medioevo, e nella società in generale» (il riferimento è all’esclusione delle levatrici dalla pratica del parto cesareo). Sulle tradizionali tensioni fra dottori maschi da un lato, medicina femminile dall’altro, vedi in particolare H. KING 1986a. Può essere interessante il fatto che un’identica situazione di tensione si è verificata nella società cinese fra il secolo XVII e gli inizi del XX : FURTH 1987, pp. 16-19. 163. Per il pudore della donna antica come ostacolo alla pratica medica, cfr. GOUREVITCH 1968. Per questo tema nel Corpus Hippocraticum, cfr. i riferimenti di DEMAND 1994, pp. 65-66. Lo stesso tema ricorre anche in Trotula de Ruggiero, De passionibus mulierum, cap. XVII , De difficultate partus (BOGGI CAVALLO e CANTALUPO 1994, p. 84), in cui si consigliava addirittura di non guardare in faccia la partoriente: «Che la donna sia condotta per casa a passi lenti e coloro che l’assistono non la guardino in faccia (non respiciant eam in voltum), perché le donne provano vergogna per questo durante il parto e dopo il parto». 164. Cfr. VON STADEN 1989, pp. 38 sgg. e n. 11 (con riferimenti bibliografici); fautrice della verità storica del racconto POMEROY 1977, pp. 59-60, e MOST 1981, p. 194, n. 14; contro giustamente Heinrich Von Staden e anche H. KING 1986a. 165. Cfr. BONNER 1920, pp. 253 sgg. 166. Cfr. Erodoto, Historiae 2.60; Teofrasto, Characteres 11.2, ecc. A proposito del giudizio negativo che gravava esplicitamente su questo gesto (una «vergogna», aischún ) quando fosse compiuto da una donna, cfr. i riferimenti in OLENDER 1990, pp. 103-4. 167. Diodoro Siculo, Bibliotheca historica 32.10.2 sgg. Su questo episodio vedi BRISSON 1997, pp. 32-39. 168. Cfr. BONNER 1920, che interpreta piuttosto in direzione apotropaica e di fecondità, secondo i paradigmi correnti nelle opere di Salomon Reinach a cui fa esplicito riferimento. Su questo gesto vedi ancora MOREAU 1951; OLENDER 1990, pp. 93-95 e 103-4, con molti riferimenti testuali e interpretativi; H. KING 1986a, che analizza questo tema con estrema lucidità. 169. Riportati soprattutto da BONNER 1920. 170. Plutarco, De mulierum virtutibus 9 (248b). 171. Plutarco, De mulierum virtutibus 5 (246a) e Lacaenarum apophthegmata 4 (241b); Giustino, Historia Philippica 1.6.14; ecc. Secondo H. KING 1986a, questo gesto rivolto dalle donne persiane ai soldati in rotta avrebbe i seguenti significati: «siete come donne», «siete come bambini»,

«noi stiamo facendo le donne» (cioè svolgiamo la funzione riproduttiva che ci compete) rispetto a degli uomini che «non fanno gli uomini». 172. GUICCIARDINI 1990, p. 104 (a p. 165, «Consiglio feminino esser talora di gran valore»), già citato da BONNER 1920. 173. Nella versione del Book of Leinster (BEST, BERGIN, O’BRIEN e O’SULLIVAN 1954) le donne sollevano i vestiti, mentre nelle versioni piú antiche esse mostrano il seno; vedi CATALDI 1996, p. 72. Vedi anche BONNER 1920, p. 260. 174. Suggestiva l’interpretazione di H. KING 1986a, secondo cui, tramite il gesto dell’anasúromai, i dottori maschi di Atene sarebbero stati assimilati a «soldati» vili e incapaci di proteggere le loro donne, sul tipo di quelli dei racconti citati sopra. In effetti, nel testo di Igino si dice che le donne rimproverarono i loro mariti dicendo: «vos coniuges non estis sed hostes». 175. Vedi su questo l’eccellente OLENDER 1990; ARTHUR 1998, pp. 228-30; sulla relazione fra questo gesto di Baubó e l’episodio di Agnodice, vedi H. KING 1986a, pp. 62-63. 176. OLENDER 1990, pp. 99-100. 177. Per le levatrici e le nutrici, vedi qui Parte prima, par. iv.2. 178. BONNER 1920, p. 258; interpretazione ripresa da H. KING 1986a, p. 54. 179. Esichio, Lexicon (LATTE 1953, vol. I, p. 25): agnódikos: agnooûsa tò díkaion; cfr. Fozio, Lexicon 211 (in THEODORIDIS 1982, 28); Anecdota graeca 24.5 (BACHMANN 1828); nell’edizione di Igino di H. G. Rose, l’«Agnodice» della tradizione è sistematicamente corretto in «Hagnodice». Sulla difficile condizione del testo di Igino, in pratica pervenutoci solo attraverso l’edizione del Micyllus (C. IULII HYGINI AUGUSTI LIBERTI, Fabularum Liber, a cura di Jacob Micyllus (Jakob Moltzer), Basileae 1535), cfr. H. J. ROSE 1963, pp. XVI-XX : «Hyginus enim ad nos olim uno codice servatus, nunc ne uno quidem pervenit». 180. Per le Thesmophoriazusae di Aristofane, vedi qui Parte prima, par. vi.3. 181. LAISTNER 1889, vol. II, p. 383, che cita SCHÖNWERTH 1857, vol. I, p. 155; su questo carattere della levatrice, cfr. anche R. Jungwirth, Hebamme (HDA, III, p. 1588): «das scheiche, wilde Weib». 182. RIEGLER 1981b; soprattutto ALINEI 1986, p. 165. 183. LAISTNER 1889, vol. II, p. 383. Sulle Norne, cfr. BELMONT 1971, pp. 175 sgg. 184. Su Eileíthyia «la filatrice», vedi qui Parte prima, par. iv.2. 185. DUNCAN 1924, p. 47; RIEGLER 1910. Sui rapporti fra la donnola e la filatrice vedi soprattutto ALBERT-LLORCA 1991, pp. 59-267. 186. SCHOTT 1935, pp. 19 sgg.; RIEGLER 1910; Wiesel (HDA, IX, p. 591): la contadina sbatte due pezzi di ferro, va al confine del campo, e dice: «Ich werde dir zu spinnen geben damit du mein Haus in Ruhe lässt».

187. Per quello che riguarda la donnola in particolare, vedi la ricchissima ricerca di ALINEI 1986.

1. ALINEI 1986, pp. 156-57, 202. 2. Per il corpo femminile come un «tubo», vedi qui Parte prima, par. vii.6. 3. RIEGLER 1925 (HDA, IX, pp. 595 sgg.). 4. SCHOTT 1935, pp. 32 sgg. A queste lingue se ne possono anzi aggiungere altre, piú lontane, come l’albanese, il bulgaro, il danese, in cui il nome della donnola è ugualmente tratto dalla nozione di «bellezza»: ALINEI 1986, pp. 176 sgg. e 203 sgg. Sulla donnola «bella» e l’abitudine di vezzeggiarla, vedi anche FLECHIA 1876, pp. 47-52. 5. Per il nome hilaría della donnola, vedi Parte seconda, cap. ii, nota 115. 6. DUNCAN 1924, p. 47. Anche in Irlanda «a countryman who meets a weasel will doff his hat and address it as ‘little lady’»: HUTCHINSON 1966. 7. Geoffrey Chaucer, Canterbury Tales. The Miller’s Tale, 3233-34: «Fair was this yonge wyf, and therwithal | As any wezele hir body gent and smal»; cfr. BORTHWICK 1968a, p. 136, n. 3, che credo per una svista cita Aristofane, Acharnenses 254-56, come prova che in «classical Athens gal was used as a compliment for pretty, nubile girls». 8. Corpus inscriptionum latinarum X.5646: cfr. VAN THIEL 1971, p. 112. La parola mustula sta forse alla fine di un graffito pompeiano, Corpus inscriptionum latinarum IV.1405: cfr. VÄÄNÄNEN 1937, p. 173. In questo senso, diventa interessante l’esistenza di una «sancta Mustiola», festeggiata a Chiusi il 13 luglio (Bibliotheca Sanctorum 1967, pp. 581-685, s.v. «Mustiola» e «Ireneo»). 9. CATALDI 1996, p. 78. Nella traduzione inglese di KINSELLA 1969, p. 96, si legge squirrel: «It was then he shot a sling-stone south across the ford and killed Medb’s squirrel as it sat close to her neck. Hence comes Méthe Tog, Squirrel Neck, as the name of that place». In Irlanda, l’unica specie di donnole presente è costituita dalla mustela erminea, lo stoat: SLEEMAN 1989, pp. 16-18. 10. Per la mustela erminea, vedi qui Parte prima, par. vii.1. 11. Anche il carattere elegante, e talora prezioso, del pelo della donnola e dell’ermellino avrà certo svolto un ruolo importante nella scelta di questo animale come ornamento della bellezza femminile: per il valore attribuito alle pellicce di ermellino nel Medioevo e oltre, vedi HASSIG 1995, pp. 37-38; C. KING 1989, p. 41. 12. MOCZULSKA 2009. 13. È possibile che, in generale, il vezzeggiamento nei confronti della donnola rispondesse alla necessità di reagire al terrore superstizioso che questo animale cosí ominoso, come abbiamo visto, poteva suscitare: questa è almeno l’interpretazione tradizionale. Cfr. SCHOTT 1935, pp. 50 sgg.; ALINEI

1986, pp. 150-51.

14. ALINEI 1986, pp. 154-56, 200; vedi anche qui Parte seconda, par. iv.3. 15. SHIPP 1979, p. 175. Il greco antico gal sopravvive solo in alcuni dialetti dell’Asia Minore ed è stato ovunque soppiantato da nuphítsa.

16. Scholia a Aristophanis Nubes 169, e a Aristophanis Plutum 693 (DÜBNER 1855). Cfr. anche ZIELINSKI

1889, pp. 156-57.

17. Il proverbio compariva nel commediografo Strattis, fr. 75 (KASSEL e AUSTIN 1989, vol. VII, p. 657). Cfr. Zenobio 2.93; Diogeniano 3.82; Plutarco 2.1; Macario 2.91 e Apostolio 5.25 (LEUTSCH 1965, vol. I, pp. 56, 229, 336; vol. II, pp. 152 e 339 rispettivamente); in particolare Apostolio 5.21 (LEUTSCH 1965, vol. II, p. 336-37). Un possibile parallelo segnalato in CRUSIUS 1887, p. 417, n. 16. Cfr. anche ROHDE 1888, pp. 303-5. 18. Cfr. PERLMAN 1983, pp. 125-26: questo indumento giocava un ruolo importante anche nella festa attica dei Braurónia. 19. Cfr. Aesopica 50 (PERRY 1952) e Babrius 32 (PERRY 1965): la relazione fra il proverbio e questa favola esopica è esplicitamente stabilita da Zenobio (vedi sopra nota 17). Secondo l’interpretazione di ROHDE 1888, la favola corrisponde alla verità fondamentale secondo cui «non si può mutare la propria natura», e in questo senso ha un parallelo nell’altra favola esopica, Aesopica 107 (PERRY 1952), in cui la volpe, per volere di Zeus, diviene il re degli animali; un’allusione a questo tipo di storia anche in Pindaro, Olympia 11[10].19 sgg.: nessun animale può mutare le proprie «caratteristiche innate» (tò gár | emphués). Si tratta di un tipo di racconto diffuso in tutto il mondo: cfr. THOMPSON 1932: J 1908 («Absurd attempt to change animal nature»), J 502 («Animal should not try to change its nature»), U 120 («Nature will show itself»). Ancora ROHDE 1888 segnala un parallelo nordamericano (Ogibwa) in cui stavolta si tratta di un marito castoro; M. Schuster, Wiesel (Pauly-Wissowa, XVI, p. 2128), segnala un parallelo cinese, in cui compare invece una volpe; in forma non piú narrativa, ma onirocritica, il rapporto fra la donnola e il matrimonio compare anche in ad-Damiri (JAYAKAR 1908, p. 423), secondo cui sognare una donnola per un uomo non sposato significa matrimonio con una ragazza. Sempre a proposito della favola esopica sul matrimonio della donnola, si può poi segnalare un’altra storia, derivata dal Panchatantra indiano, assai simile alla nostra, che ha goduto di molta fortuna. Si tratta della fanciulla-topo che voleva contrarre matrimonio ma, dopo aver passato in rassegna tutti i possibili partner, non trovò di meglio che sposare un altro topo. Per le versioni medievali di questo diffusissimo racconto, vedi per esempio Giovanni da Capua, Directorium humanae vitae 65 (HERVIEUX 1893-99, vol. V, p. 239), e Oddone di Cheriton, Fabulae 63 (HERVIEUX 1893-99, vol. IV, pp. 234-36); cfr. la stessa storia anche nella tradizione ebraica: BERECHIAH 1967, pp. 58-61, e lo straordinario commentario a questo racconto in SCHWARZBAUM 1979, pp. 167-74. Sempre riferita alla donnola la storia compare anche nel folclore armeno: cfr. PERMJAKOV 1979, p. 211. 20. La forza simbolica della donnola in quanto sposa mancata doveva essere davvero forte. In Eustazio, ad Odysseiam 10.494 (STALLBAUM 1825, vol. I, 1665), è riportata questa singolare storia riguardo a Tiresia: quando Tiresia era ancora femmina, Arachnos fece all’amore con lei. Dopo di

che, andò in giro a vantarsi di essersi addirittura unito ad Afrodite. La dea si arrabbiò, per cui trasformò Arachnos in donnola e Tiresia in topo. Questa fantasia presenta molti punti in comune con la favola esopica: il contesto è ancora quello di un rapporto d’amore, la dea che si adira e opera la trasformazione è ancora Afrodite. Su questa versione del mito di Tiresia, vedi BRISSON 1997, pp. 112-15, che però non tiene conto del racconto esopico. 21. Per altre versioni della favola esopica, vedi sopra nota 19. 22. Cfr. per esempio GUICCIARDINI 1990, p. 105 (a p. 167, «piú facilmente mutarsi forma che natura»); o la favola La chatte Blanche di Madame d’Aulnoy, in DE GUBERNATIS 1872, pp. 60-61. 23. RODD 1892, p. 163; ABBOTT 1903, pp. 108-9, testimonia l’abitudine di mescolare direttamente dolcetti alla biancheria del corredo; LAWSON 1909, pp. 327-28; DUNCAN 1924, p. 47; BORTHWICK

1968b, p. 203, n. 1. Utilizzando in modo superficiale la voce Wiesel di M. Schuster

(Pauly-Wissowa, XVI, pp. 2128-30), FORBES IRVING 1990, p. 206, è giunto alla sorprendente conclusione che «the weasels are protectors of young brides». 24. ALBERT-LLORCA 1991, pp. 259-67. 25. Bisogna anzi dire che, nel suo odio per le donne sposate, la donnola rassomiglia forse a un altro personaggio del folclore greco, le Ninfe o Nereidi; su cui cfr. LAWSON 1909, p. 139: anche se questi demoni hanno connotazioni e attributi decisamente piú paurosi e maligni di quelli attribuiti alla donnola. 26. Ancora nel folclore greco: cfr. ALBERT-LLORCA 1991, p. 261. 27. BIALIK e RAVNITZKY 1992, p. 540; la storia era già stata ripresa da BOCHART 1712 (col. 1028 = Hierozoicon 3.35). 28. Ci riferiamo al mito di Rhoikos, in cui l’eroe si impegna a sposare una ninfa prendendo un’ape a testimone: quando lo sposo viene meno alla sua promessa, l’ape (o la ninfa) lo acceca. Cfr. BETTINI

1986, pp. 208-9.

29. Per le relazioni di inversione e di simmetria che si possono riscontrare nei miti di popoli fra loro vicini, cfr. LÉVI-STRAUSS 1978, pp. 276-94. 30. Per la levatrice che combina matrimoni, vedi qui Parte seconda, par. iii.2.a. 31. Cfr. ALBERT-LLORCA 1991, pp. 260 e 264. 32. Di queste conocchie di fidanzamento, provenienti soprattutto dall’Italia meridionale, se ne possono vedere numerosi esempi conservati a Roma presso il Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari. 33. Su questi racconti bulgari e l’importanza simbolica della filatura per la vita della donna, vedi la bella analisi di ALBERT-LLORCA 1991, pp. 259-67. Sull’attività del «filare» e le sue differenze sociologiche rispetto a quella del «tessere», cfr. PANTELIA 1993; sulla filatura in Grecia e in prospettiva comparativa, vedi anche BRULÉ 1990, pp. 76-78.

34. ROLLAND 1908, vol. VII, p. 147. 35. «Donnola, donnolina, | non toccare la gallina, | che io ti marito quanto prima. | Se sei femmina ti do il figlio del re, | se sei maschio ti do la regina»: SCHOTT 1935, p. 21; «Donnoletta, donnolina, | non mangiar la mia gallina, | non mangiarmela mai piú, | che ti cercherò marito: | ti cercherò anzi il piú bello, | se non ti mangi neppure il pulcino»; BÖHRINGER 1935, pp. 22-24. 36. RIEGLER 1925 (HDA, IX, pp. 592-93). 37. Cfr. RIEGLER 1926, pp. 234-35. 38. SCHOTT 1935, p. 44; BÖHRINGER 1935, p. 65. 39. SCHUCHARDT 1912, p. 162. 40. Per le levatrici in Platone, vedi qui Parte seconda, par. iii.1.b. Sorano, Gynaecia 1.4, descrivendo la levatrice ideale, sottolinea il fatto che non è necessario che si tratti di una donna che ha già partorito, come invece molti ritengono, né che sia giovane d’età. 41. Per le levatrici anziane, vedi qui Parte seconda, parr. iii.1.c e IV .1. Anche nella Francia del secolo XVII era molto raro che a esercitare la funzione di levatrice fosse una donna ancora capace di generare: cfr. LAGET 1978, p. 139. Per il carattere «non sessuato» delle levatrici, cfr. le osservazioni di DALADIER 1979; LORAUX 1981, p. 44. 42. Debbo questa informazione all’amica Anna Maria Belardinelli, Università di Bari. 43. Igino, Fabulae 274; cfr. qui pp. 343 e 356, nota 161. 44. FARNELL 1896, pp. 442-49; DEMAND 1994, pp. 87 sgg. 45. Per questa equivalenza fra la vergine e la donna in menopausa, cfr. SISSA 1992, p. 27, che ricorda il caso della Pizia vergine sostituita da una donna di età superiore a cinquant’anni (Diodoro Siculo, Bibliotheca historica 16.26; ecc.). 46. Questa contraddizione interna alla figura di Artemide era rilevata da Schreiber, Artemis (Roscher, GRM, I.1, p. 573), che metteva in evidenza il «Widerspruch» fra il ruolo di «Geburtshelferin» di Artemide e «das Wesen der Letotochter», ossia «das Vorbild unbefleckter, die Ehe scheuender Jungfräulichkeit». La spiegazione data da Schreiber era naturalmente di tipo evoluzionistico, molto simile a quella di FARNELL 1896, pp. 442-49; cfr. anche DEMAND 1994, pp. 87 sgg. 47. Supplementum Epigraphicum Graecum 1938, vol. IX, pp. 72, 84-91. Cfr. PERLMAN 1989. 48. Per quel che segue mi fondo soprattutto sull’interessante saggio di PERLMAN 1989. Gli studi e i materiali su arkteía e Braurónia sono in numero sterminato: vedi la classica raccolta di BRELICH 1969; una messa a punto nella sezione «Ourserie» della rivista «Dialogues d’histoire ancienne», e in particolare BRULÉ 1990. 49. Menandro, Andria, fr. 35 (KÖRTE 1959, 26) = scholia ad Theocritum 2.66b (WENDEL 1914); per la traduzione di questa testimonianza cfr. EDMONDS 1957, vol. III B, 560, 40). Curiosa la nota di

FARNELL

1896, p. 443: «Artemis Lochia would require no such apologies».

50. Sulla protection redoutable di Artemide (perché Zeus «ha fatto di lei un leone per le donne, permettendole di uccidere quelle che vuole»: Omero, Ilias 21.483), cfr. LORAUX 1981, p. 47. 51. ALINEI 1986, pp. 156-58, 201. 52. Cfr. la Britannia (1586) di William Camden, citata da PLUMMER 1910, vol. I, p. CXLII , n. 8, e da GAIDOZ 1887, p. 197. Cfr. anche GOMME 1908, pp. 276 sgg.; BAMBECK 1973; SÉBILLOT 1984, vol. V, pp. 43-59; ALINEI 1983. 53. PLUMMER 1910, vol. I, p. CXLII ; vol. II, p. 217. 54. PLUMMER 1910, vol. II, pp. 202 sg. 55. GOMME 1908, p. 278. 56. PITRÉ 1889, p. 449; GUASTELLA 1884, pp. 113 sgg., una storia di «comar Giovannuzza», la volpe. 57. Cfr. soprattutto RIEGLER 1981b, RIEGLER 1981a, e RIEGLER 1912. Cfr. anche ALINEI 1981 e ALINEI 1983; ROLLAND 1908, vol. VIII, p. 113; anche GUASTELLA 1884, pp. 113 sgg. 58. Su questo appassionante tema vedi CLARK 1988; SHEPARD 1996, pp. 104-10. 59. Giuseppe Calvia, citato da ALINEI 1986, p. 157. 60. Per il folclore europeo, cfr. RIEGLER 1910 (HDA, VIII, pp. 864-901), utile per la grande quantità di dati offerti; un’interessante analisi specifica in D’ONOFRIO 1997c. 61. Cfr. soprattutto i lavori di Richard Riegler e di Mario Alinei citati in bibliografia. Questo filone di studi lega ancora strettamente le proprie interpretazioni al cosiddetto totemismo, sostenendo la «sopravvivenza» di tale categoria nel folclore europeo; ma vedi qui Parte seconda, par. ii.2. Per una diversa prospettiva sul problema della parentela animale – gli animali come strumento usato per classificare e identificare gli uomini da vari punti di vista – cfr. CLARK 1988; SHEPARD

1996, pp. 104-10.

62. Piú volte è stata avanzata l’ipotesi che fra il nome «comare» usato per definire la donnola e il mito di Alcmena ci sia una relazione, ma sempre nei termini di una qualche «influenza» del mito sul nome della donnola: per la polemica a questo proposito fra Schuchardt e Riegler, cfr. ALINEI 1981; cfr. anche BORTHWICK 1968a, p. 136 e n. 3. 63. Gilles de Bellemère, Les Quinze Joies de mariage, citato da LAURENT 1989, p. 170. Sull’importanza di parenti e comari al momento della nascita, cfr. anche LAGET 1978, pp. 133-40. 64. Les ténèbres du mariage (secolo XV ), citato da LAURENT 1989, pp. 170-71. 65. ALINEI 1981, p. 377; FINE 1994, p. 85. 66. OAKLEY e HOUD 1990. 67. In quel che segue utilizziamo la brillante ricerca di PALUMBO 1991, pp. 165 sgg.; cfr. anche

FINE

1994, pp. 83 sgg.; materiali utili sullo stretto rapporto fra la madrina e la levatrice nelle

tradizioni europee anche in R. Jungwirth, Hebamme (HDA, III, pp. 1599-1602). Il problema della parentela spirituale, in Europa e nell’America latina, è uno dei piú studiati dagli antropologi. Per un quadro generale, oltre a FINE 1994 e alle indicazioni di PALUMBO 1991, pp. 106-16, vedi il complessivo

SIGNORINI

1981,

uno

degli

studiosi

che

maggiormente

ha

contribuito

all’interpretazione di questo fenomeno. Una brillante interpretazione strutturale del comparatico, sul modello dell’«atomo di parentela» lévi-straussiano, in D’ONOFRIO 1991 e D’ONOFRIO 1997a. 68. Distinta da una madrina de agua, cioè di battesimo: cfr. FINE 1994, p. 86; per la Francia premoderna, cfr. LAGET 1978, pp. 137-38. 69. BELMONT 1980; BELMONT 1981. 70. Una cosa analoga avviene in occasione del rituale magico della «passata», che anch’esso simula una rinascita del bambino e rassomiglia a un battesimo: PALUMBO 1991, pp. 168 sgg. 71. PALUMBO 1991, p. 206. 72. PALUMBO 1991, p. 179; vedi anche Parte prima, par. i.5 e cap. V . sul significato antropologico del «trattare» e «chiamare» un parente a San Marco. Usi analoghi sono testimoniati in Sardegna, bassa Gallura; in CUCCIARI 1985, p. 188, la levatrice porta il nome di «nonna» o «zia». 73. Che la donnola porti in spagnolo il nome di comadreja era già stato notato da BORTHWICK 1968a, p. 136, n. 3, ma senza sviluppare questa osservazione. 74. Per la donnola come nutrice di Eracle, vedi Parte prima, par. i.6. Questa figura della donnola «nutrice» potrebbe trovare interessanti riscontri nel ruolo che la mangusta svolge nella tradizione indiana; per esempio, in una storia del Panchatantra questo animale compare proprio come custode di un neonato che salva dall’attacco di un serpente, ed è ingiustamente ucciso dalla madre del bambino che lo prende, sbagliando, per l’aggressore. Nella tradizione medievale questa storia circola con una trasformazione: la mangusta è diventata un cane; per una discussione, vedi SCHMITT 1982. 75. Cfr. M. Schuster, Wiesel (Pauly-Wissowa, XVI, p. 2129), che rimanda a Pindaro, Nemea 1.42-49; da segnalare anzi le analogie specifiche fra il basilisco, il mitico serpente che solo la donnola è in grado di distruggere, e l’idra di Lerna, il mostro ucciso da Eracle: entrambi questi animali infatti possiedono un fiato talmente avvelenato che è capace di uccidere chi ne sia investito (cfr. Plinio, Naturalis historia 8.78; Igino, Fabulae 30: per il basilisco cfr. p. 158). Sulla «potenza» esercitata dagli influssi degli animali nella cultura greca, cfr. BAYET 1971, pp. 45-49; BRELICH 1958, pp. 305-7. 76. Euriclea, nutrice di Odisseo, è piú volte chiamata maîa nel corso del poema (cfr. per esempio Odysseia 2.372); cfr. anche Polluce, Onomasticon 3.41 (BETHE 1900). 77. FRENCH 1986, p. 78. 78. Diodoro Siculo, Bibliotheca historica 5.73.4.

79. PINGIATOGLOU 1981, pp. 91-92. 80. Gellio, Noctes Atticae 12.1.14 sgg.; per una discussione, vedi BETTINI 1992, pp. 222-23. Cfr. anche Mnesiteo in Oribasio, Collectiones medicae. Libri incerti 32.5 (in RAEDER 1964, p. 125); Sorano, Gynaecia 2.19.85; cfr. anche SORANOS D’ÉPHÈSE 1988, pp. XIII-XV . 81. Sulla figura della nutrice antica, cfr. MENCACCI 1991. 82. PALUMBO 1991, pp. 129 sg., 167. 83. PALUMBO 1991, p. 130. 84. PALUMBO 1991, pp. 129, 167 sg.; FINE 1984, pp. 84 sg. 85. Per la nutrice antica, cfr. MENCACCI 1991; per il ruolo di seconda madre svolto a Roma dalla zia materna, in particolare nel rituale di Mater Matuta, cfr. BETTINI 1986, pp. 77-112. 86. PALUMBO 1991, pp. 168 sgg. 87. Omero, Ilias 3.121. Oltre ai passi omerici citati di seguito in nota, per il significato di gál s, cfr. Polluce, Onomasticon 3.32 (BETHE 1900); Esichio, Lexicon, s.v. «gélaros» (LATTE 1953, vol. I, p. 367); scholia ad Iliadem 3.123 (ERBSE 1975, vol. I, p. 581); Eustazio, ad Iliadem 6.378 (VAN DER VALK

1971-87, vol. III, p. 335). Secondo il grammatico Elio Dionisio (SCHWABE 1890, p. 113) gál

s avrebbe significato non solo «sorella del marito» ma anche «moglie del fratello»: se la testimonianza è credibile si tratterà comunque di un ampliamento di tipo analogico. Su gál s e il rapporto con il latino glores, cfr. BENVENISTE 1976, p. 193; per i termini di parentela omerici in generale, vedi PHELPS GATE 1971. 88. Laodice si rivolge infatti a lei chiamandola númpha phíl : Omero, Ilias 3.130. 89. Sul carattere dissimmetrico di gál s, e sul significato di númpha in questo contesto, cfr. la nota di Eustazio, ad Iliadem 3.121 sgg. (VAN DER VALK 1971-87, vol. II, p. 617). Secondo il commento di LEAF 1902, ad locum, questo appellativo indicherebbe specificamente la «moglie del fratello» ma non ci sono prove di questo. Al contrario, in Odysseia 4.743 Euriclea si rivolge a Penelope chiamandola númpha phíl

, ossia usando lo stesso appellativo con cui Laodice si rivolge

alla cognata Elena: dunque il termine sembra indicare la «sposa» dal punto di vista femminile, ma nient’altro. Cfr. anche Euripide, Andromache 140, dove Andromaca è chiamata númpha, ancora al vocativo, dal coro formato dalle donne di Ftia. Cfr. anche ANDÒ 1996, che acutamente suggerisce di vedere in númph > l’appellativo con cui si designa la donna quando si vuole nominarla in relazione alla sfera del sesso e della procreazione. 90. Cfr. SCHRADER e NEHRING 1929, vol. II, p. 655. Cfr. ALINEI 1986, p. 192; SZMERÉNYI 1977, dove la stessa idea è ripresa ma rovesciando la prospettiva (sarebbe stata la «donnola» a dare il nome alla «cognata»). 91. SCHOTT 1935, p. 45. 92. BÖHRINGER 1935, p. 82.

93. Vedi qui Parte seconda, par. iv.2. 94. La festa familiare ateniese in cui si purificavano le donne che avevano partecipato al parto: vedi Parte prima, par. iii.1. 95. PALUMBO 1991, p. 174: sono le cognate che «avevano assistito al parto» coloro che mettono insieme i doni con cui compensare la levatrice, la quale non riceveva danaro per i suoi servigi. 96. Testimonianza di Viramma, levatrice di Karani, in RACINE e RACINE 1997. 97. Sulle einatéres, cfr. Polluce, Onomasticon (BETHE 1900); scholia ad Iliadem 22.473c.1 (ERBSE 1975, vol. V, p. 353); Eustazio, ad Iliadem 6.378 (VAN DER VALK 1971-87, vol. III, p. 337), ecc. Cfr. BENVENISTE 1976, p. 193. 98. Omero, Ilias 3.121. 99. Omero, Ilias 6.378. 100. Scholia ad Iliadem 6.378a (ERBSE 1975, vol. II, p. 196). 101. Omero, Ilias 22.473. 102. Eustazio, ad Iliadem 6.378 (VAN DER VALK 1971-87, vol. III, p. 335). 103. Callimaco, In Dianam 127. 104. Per il significato di thuorós, «mensa amicale, soprattutto quella dedicata agli dèi», cfr. lo scolio a Callimaco, In Dianam 134 (PFEIFFER 1953).

1. Abbiamo in mente un appassionante dibattito sul tema dell’interpretazione, in particolare dei testi letterari: cfr. ECO 1990; ECO 1995.

1. CARMICHAEL 1972, pp. XXII sg. Vedi REES e REES 1961, p. 11. 2. DELARGY 1945, p. 186. 3. CARMICHAEL 1972, pp. XXII sg. 4. MACLEAN 1860, vol. I, p. XIII . 5. DELARGY 1945, p. 182. 6. PARSONS 1917. 7. PARSONS 1917, p. 180, n. 19: «Man went to a man’s house to stay all night. Man of house said, ‘I tell you my case’. Woman was keeping his wife from having a child – fixed her. (Heap cu’ious things in de worl’). Told him next morning what to do. Sent servant to neighbor’s house after fire. Somebody settin’ at chimey ask, ‘How is the mistress?’ – ‘Well as she could be expected of. She had a fine son’. She reached up the chimney-corner an’ pulled down a sack. Out popped something. She said, ‘God’s above the Devil’. When he [the servant?] got back, she did have a fine son, sure enough». 8. Per la ministra di Ovidio, vedi qui Parte prima, par. i.2; per la donnola come animale domestico, pp. 176-78. 9. PARSONS 1917, p. 169. 10. CHILD 1882, pp. 81-88. KITTREDGE 1928, p. 442, n. 80, cita l’articolo di Elsie Clews Parsons (Tales from Guilford County, 1917) fra i paralleli della ballata raccolta da Francis James Child. 11. Cfr. GOWER 1976; vedi anche GOWER 1960 e GOWER 1964. Per orientarsi nel mondo degli studi sulla ballata è di grande utilità RICHMOND 1989; vedi anche DUGAW 1995. 12. GOWER 1976; cfr. anche MCCARTHY 1991, pp. 97-108. 13. Per l’isola di Arran, vedi qui Conclusioni, par. 4. 14. Credo sia dunque da modificare la drastica affermazione di COFFIN 1977, p. 28, secondo cui «Willie’s Lady has not been collected from oral tradition in the New World»: come ballata non sarà stata raccolta, ma come racconto di folclore sí. 15. CHILD 1882, p. VII . 16. BUCHAN 1972, pp. 62-73. 17. MUIR 1936, citato da BUCHAN 1972, p. 68. 18. Cosí spiegava Thomas Gordon, il padre di Mrs. Brown, ad Alexander Fraser Tytler, citato da BUCHAN

1972, p. 63.

19. Ancora Gordon a Tytler, citato da BUCHAN 1972, p. 63. 20. Lettera di Gordon a Tytler, in BUCHAN 1972, p. 64. 21. BUCHAN 1972, p. 65. 22. Nel testo originale woodbine cioè woodbind, pianta che ha il potere di «legare».

23. Nel testo originale bower, parola ormai disusata che indica «a lady’s chamber». 24. CHILD 1882, n. 6; cfr. anche p. 81. A proposito di questo manoscritto di Tytler, Child pensava che esso fosse andato perduto, ma nel 1966 ne è stato segnalato il ritrovamento presso Aldourie Castle (Scozia): BUCHAN 1972, p. 71. 25. Per i capelli sciolti, vedi qui Parte prima, par. v.1. 26. Per il pettine nel folclore, vedi PROPP 1972, pp. 549 sgg.: «l’eroe fugge buttando un pettine». 27. Sui poteri del woodbine, ovvero woodbind, la pianta che «lega», vedi WIMBERLY 1928, pp. 355-56. 28. WIMBERLY 1928, p. 357, e p. 358 per un’ulteriore variante della storia raccolta da Gavin Greig: qui non si tratta di una capra ma di una volpe. 29. Per le scarpe «sciolte», vedi qui Parte prima, par. v.2. 30. CHILD 1882, p. 67, stabilisce confronti con l’olandese belewitte e il tedesco bilwiz. Il personaggio di Billy Blind compare almeno altre tre volte nelle ballate scozzesi di Child, e svolge funzioni di «serviceable household demon, of a decidedly benignant disposition». Le osservazioni di Child sono riprese senza aggiunte da WIMBERLY 1928, pp. 94, 200 e n. 4, 355-56; e da KITTREDGE 1928, p. 113; una singolare interpretazione di Billy Blind sta in ONIANS 1951, pp. 509-10. 31. Per i cambiones, vedi qui Parte seconda, par. iii.1.e. 32. WIMBERLY 1928, p. 356. 33. Sulla struttura tipica della ballata scozzese, cfr. BUCHAN 1972, pp. 74-76, per la «sostanza» della ballata. Un tentativo di analisi morfologica proppiana in BUCHAN 1991. 34. Vedi BUCHAN 1972, pp. 65-67. 35. BUCHAN 1972, pp. 64, 76. 36. CHILD 1882, pp. 82-83. 37. I poteri del red rowan nella protezione contro i malefici sono ben noti: cfr. FRAZER 1913, p. 266; WIMBERLY 1928, p. 356; REES e REES 1961, p. 91. 38. CHILD 1882, p. 83. 39. Cfr. REES e REES 1961, pp. 241, 244-51. Per le imprese degli eroi appena nati, vedi qui Prologo sull’Olimpo, p. 3. 40. CHILD 1882, p. 82; cfr. anche la versione inglese di JAMIESON 1814. 41. Per la donnola come «sorella del marito», vedi qui Parte seconda, par. iv.3. 42. CHILD 1882, p. 83. 43. Per questi aspetti della donnola, vedi qui Parte seconda, parr. ii.1, II .5 e III .1.b. 44. Per il messaggio menzognero, vedi qui Parte prima, par. vi.1, Parte seconda, par. ii.5 e Conclusioni, par. 1. 45. PRIOR 1860, vol. II, pp. 364-70.

46. «In diocesi Argentoratensi»: CHILD 1882, p. 85. 47. CHILD 1882. 48. LAISTNER 1889, vol. I, p. 235, e vol. II, p. 381; cfr. LIEBRECHT 1879, p. 322; H. BächtoldStäubli, Beine kreuzen, verschränken (HDA, I, pp. 1012-16). 49. Per le mani sulle ginocchia, vedi qui Parte prima, par. v.1. 50. NAPIER 1879, pp. 117-18. Secondo James Napier, l’uso del chiodo come strumento magico era molto diffuso in Scozia. 51. GONZENBACH 1870. 52. Von der Königstochter und dem König Chicchereddu, 12, in GONZENBACH 1870, pp. 64-73. 53. Der König Stieglitz (Cardiddu), 15, in GONZENBACH 1870, pp. 93-103. 54. Von Autumunti und Vaccaredda, 54, in GONZENBACH 1870, pp. 344-50. 55. DE MARTINO 1958, pp. 111-63 e 195-235. 56. Cfr. GONZENBACH 1870, pp. LII-LIII . 57. Dato che la storia di Alcmena ha la sua versione letteraria piú nota e piú diffusa nell’opera di Ovidio, come altro caso interessante di possibile «convergenza» fra un racconto ovidiano e la tradizione orale moderna si può citare quello fra l’episodio di Proca (Fasti 6.131 sgg.) e una storia di folclore romagnolo; cfr. OLIPHANT 1913-14. Proca è un bambino di cinque giorni, a cui le striges succhiano il sangue dal petto, lasciandogli sul viso le tracce dei loro artigli. Il bambino deperisce e assume il colorito della foglia secca. La nutrice chiede aiuto alla ninfa Crane (o Carna, v. 101; cfr. v. 107), che scaccia le streghe toccando tre volte la soglia e gli stipiti con un ramo di corbezzolo (arbutus), con acqua, e poi offrendo alle streghe le viscere di un porcellino di due mesi. Infine mette un ramo di spina alba sul davanzale della finestra. Il parallelo moderno è dato da una storia proveniente dalla Romagna toscana, in LELAND 1892, pp. 107 sgg. Anche qui, incontriamo un bambino che deperisce giorno dopo giorno; la madre va a chiedere aiuto a Carradora, una strega che sapeva tanto nuocere quanto aiutare. Carradora prima le fa mettere un coltello sul davanzale, poi prende «corbezzolo» e «spine» e le lega agli stipiti e alla finestra. Infine si procura le viscere di un maialino e pronunzia una frase estremamente simile a quella che sta in Ovidio. 58. Per l’Armena, demone nemico della partoriente, vedi qui Parte prima, par. iv.1. 59. Come nel caso dell’isola scozzese di Arran, vedi qui Conclusioni, par. 2. In una società di tipo tradizionale il nostro concetto di finzione, ovvero di «sospensione dell’incredulità», si applica molto piú difficilmente alle storie: vedi quanto scrivono REES e REES 1961, p. 20, a proposito delle storie che si narravano in Irlanda alla fine dell’Ottocento (ritenute «vere» tanto quanto lo erano i reportage giornalistici sulle imprese della British Army nelle colonie). 60. Inscriptiones Graecae IV.121, vv. 1-22: cfr. AUBERT 1989, p. 440, n. 46; DEMAND 1994, p. 93.

61. Apuleio, Metamorphoses 1.9. 62. O’DONOVAN 1843, pp. 117-18. 63. Si tratta di un tema ben noto al folclore, a cominciare dalla favola del lupo mannaro in Petronio (Satyricon 62, dove la stessa ferita inferta al lupo viene ritrovata il giorno dopo sul collo del soldato). Su questo motivo cfr. in particolare RIEGLER 1981a. 64. SCHÖNWERTH 1857, vol. I, p. 202, citato da LAISTNER 1889, vol. II, pp. 378-87.

Il libro

Q

UESTO LIBRO ATTRAVERSA I CIELI STELLATI DELLA MITOLOGIA ANTICA, E

prosegue il proprio cammino soffermandosi a Tebe, in Beozia: qui la futura madre di Eracle, AIcmena, soffre doglie terribili, finché una

fanciulla non riesce a ingannare le nemiche della partoriente e a permettere la nascita dell’eroe. Solo che la liberatrice di Alcmena, rea di aver sconfitto la divinità, viene trasformata in una donnola. Perche proprio in una donnola? Per rispondere a questa domanda Maurizio Bettini compie un viaggio attraverso i mondi dei racconti e delle credenze antiche sugli animali: per scoprire che queste ultime costituiscono non una collezione di incomprensibili bizzarrie, ma una vera e propria enciclopedia simbolica che aiutava a «pensare» la realtà umana attraverso le figurazioni di una fantasia millenaria. Seguendo le tracce leggere della donnola – animale dal corpo sottile, soggetto di infinite storie, nomi, credenze che spesso la ricollegano al mondo femminile – Nascere, che è insieme racconto ed esplicita riflessione di metodo, viene popolandosi man mano di streghe, levatrici, prostitute, spose mancate e spose infelici, conducendo il lettore dalla Grecia antica a Roma, dall’lrlanda medievale alla Scozia, e su su fino alla Scandinavia e al North Carolina degli inizi di inizio Novecento. Il racconto di Alcmena, storia femminile per eccellenza, ha varcato secoli e oceani per riproporre intatti i medesimi contenuti, le speranze e i timori di uno dei momenti centrali nell’esperienza femminile.

L’autore Maurizio Bettini (1947), classicista e scrittore, insegna Filologia classica all’Università di Siena. Tra i suoi ultimi libri pubblicati: Vertere. Un’antropologia della traduzione nella cultura antica (2012), Elogio del politeismo (2014), Il dio elegante. Vertumno e la religione romana (2015), Radici. Tradizione, identità, memoria (2016), A che servono i Greci e i Romani? (2017). Per Einaudi dirige la collana «Mythologica». Collabora alle pagine culturali di «la Repubblica».

Dello stesso autore Il ritratto dell’amante Nascere Le orecchie di Hermes In fondo al cuore, eccellenza Il mito di Elena (con C. Brillante) Il mito di Narciso (con E. Pellizer) Le coccinelle di Redún Il mito di Edipo (con G. Guidorizzi) Il mito delle Sirene (con L. Spina) Voci Il mito di Circe (con C. Franco) Vertere Con l’obbligo di Sanremo Il mito di Enea (con M. Lentano) Il mito di Arianna (con S. Romani) Il dio elegante A che servono i greci e i romani?

© 2018 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino La casa editrice, esperite le pratiche per acquisire tutti i diritti relativi al corredo iconografico della presente opera, rimane a disposizione di quanti avessero comunque a vantare ragioni in proposito. In copertina: Giorgio Vasari, Ercole strozza i serpenti mandati nella sua culla da Giunone, olio su tavola, 1556-57. Firenze, Palazzo Vecchio, sala di Ercole. (© 2018. Foto Scala, Firenze). Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo cosí come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.einaudi.it Ebook ISBN 9788858428238

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Frontespizio Il libro L’autore Introduzione Nota alla nuova edizione Prologo sull’Olimpo 1. L’astuta interlocutrice 2. I quattro «temi» del racconto omerico 3. I gemelli segreti e il verdetto fatidico 4. Ate e l’ermeneutica 5. A meno che non esca dal mio fianco 6. L’eroe non nasce solo 7. Doppi fecali ovvero la sacralità di «questo» e «quello» Parte prima. Il racconto di Alcmena salvata dalla donnola I. Il racconto 1. Pausania. Apporti, streghe e grida femminili 2. Ovidio. Racconti di donne e risa di donnole 3. Antiche immagini di Galanthis? 4. Libanio. La donnola corre 5. Antonino Liberale. Trophós e ministra di Ecate 6. Eliano e Istro. Streghe lussuriose e altre corse di donnole

3 562 563 4 7 12 12 14 15 22 27 41 44 49 52 52 56 61 66 67 70

II. La Follia di Spagna

76

III. La Partoriente

84

IV. La Nemica

97

1. Variazioni senza tema 2. Appunti sul leggio 1. Quella sporcizia 2. La donna in ginocchio 3. Latona, la lupa e il gallo 1. Legare e sciogliere. Pharmakídes, Moírai ed Eileíthyiai 2. La fanciulla e il Fato 3. Dee delle doglie e delle membrane

76 78 84 89 92 98 102 103

V. I Nodi

109

VI. La Risoluzione

128

VII. La Liberatrice

143

VIII. Prima identità della Liberatrice

194

IX. Stonature? Plinio e il parto dalla bocca Parte seconda. Metafore animali e ruoli femminili I. In Ispagna ci sono troppe Follie

207 212 213

1. «Il parto delle donne non vuole nodi» 2. Cornelia senza i lacci delle scarpe 3. Frazer e l’età postmoderna 4. Donna «incinta», sciolta e legata 5. Le metafore del comparatum nella magia analogica 1. Astuti nodi e Moírai con le mani alzate 2. Basta dire che è già successo 3. Risa e beffe 1. Genus mustela. Breve intermezzo di storia naturale 2. Magia omeopatica? 3. La donnola e il mondo del parto 4. Madre sollecita e genio domestico 5. «Damoiselle belette, au corps long et fluet» 6. Dalla bocca e dalle orecchie 7. Colei che rischiò di diventare Maria Vergine 1. Scivolar fuori 2. Affordances. Per un’ecologia dei simboli animali

1. «Se i leoni fossero capaci di parlare, noi non potremmo capirli» 2. La foresta di simboli è piena di animali 3. L’enciclopedia 4. L’identità viene dalle storie che la raccontano

110 113 116 118 124 128 135 137 143 150 152 155 161 166 179 194 198

213 218 223 230

II. La donnola è una Liberatrice dal carattere molto complesso

240

III. Wilde Frau, ostetrica selvaggia

268

1. Strega dissoluta, apparizione di mal augurio 2. Semonide. Classificazioni totemiche e sessualità nauseante 3. Jongleuresse lussuriosa e donna di bestiario 4. Femmina o maschio? 5. La donnola astuta che ingannò Dio

1. La dea-levatrice è una strega a) Curanderas, profesoras, parrucchiere e altre aiutanti da commedia b) I piacula delle obstetrices c) Le sagae di Roma antica. Streghe, mezzane e profetesse

240 246 252 258 261

269 270 275 280

d) «In partu obstetrices mille daemonica operantur» e) Scienza femminile e orrore dei cambiones 2. La levatrice e il mondo del sesso a) Pronube, cortigiane (di strada o meno) ed estetiste b) Troppo addentro al sesso delle donne 3. Sage-femme e cunning woman 4. La donna selvaggia e la filatrice

IV. Comare donnola

1. L’abito nuziale non si addice alla donnola 2. La comare, la madrina e la trophós 3. La sorella del marito

283 284 289 290 293 294 302

305 305 315 323

V.  Un’enciclopedia senza le note a piè di pagina Conclusioni I pensieri di Alcmena

328 334 335

Bibliografia Elenco delle fonti citate Elenco degli argomenti Elenco dei nomi e dei personaggi

355 415 421 429

1. Alcmena in North Carolina 2. Mrs. Brown of Falkland 3. «Le stesse cose ritornano» 4. Alcmena vagabonda 5. I pensieri di Alcmena

336 338 343 346 349