Morfologia del semiotico
 8883533909, 9788883533907

Table of contents :
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collana e copyright......Page 2
frontespizio......Page 4
Indice......Page 5
Introduzione......Page 8
Cap. 1......Page 21
Cap. 2......Page 52
Cap. 3......Page 77
Cap. 4......Page 89
Cap. 5......Page 106
Cap. 6......Page 128
Cap. 7......Page 138
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Segnature Collana diretta da Paolo Fabbri e Gianfranco Marrone 32

Copyright © 2006 Meltemi editore, Roma Le traduzioni di Topologia e significazione e Dall’icona al simbolo sono di Silvia Costantini, ampiamente rivedute e integrate da Pier Daniele Napolitani e Roberto Pignoni sulla seconda edizione francese e sull’edizione inglese, e sono tratte da Modelli matematici della morfogenesi, Torino, Einaudi, 1985. Le traduzioni di Psichismo animale e psichismo umano, La danza come semiurgia, L’arte: luogo di conflitto tra forme e forze?, Morfologia del semiotico sono di Antonio Perri, che ha anche rivisto la traduzione di Angelo Fabbri di Locale e globale nell’opera d’arte. Questi cinque saggi sono stati pubblicati in edizione originale in Apologie du Logos, Paris, Hachette, 1991. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico, non autorizzata.

Meltemi editore via Merulana, 38 – 00185 Roma tel. 064741063 – fax 064741407 [email protected] www.meltemieditore.it

René Thom

Morfologia del semiotico a cura di Paolo Fabbri

MELTEMI

Indice

p.

9

Introduzione Paolo Fabbri

23

Topologia e significazione

55

Dall’icona al simbolo

81

Psichismo animale e psichismo umano

93

La danza come semiurgia

111

Locale e globale nell’opera d’arte

133

L’arte: luogo di conflitto tra forme e forze?

143

Morfologia del semiotico

161

Bibliografia

Introduzione Paolo Fabbri

La voce della realtà è nel senso del simbolo. René Thom

I tempi che corrono sono leggeri e le cose più gravi affondano in fretta. Sembra il caso della ricerca di René Thom, il grande matematico e morfologo strutturale ai cui nome e reputazione è legata la Teoria delle Catastrofi (TC). Tocca allora al semiologo riportare oltre la linea di galleggiamento, e avviare a nuova rotta, la figura di prua di un’opera sistematica e singolare, rigorosa e molteplice che si è conclusa con un’Esquisse d’une sémio-physique. Abbiamo qui raccolto un gruppo di testi, pubblicati da Thom nell’arco di vent’anni (1970-1990) e raccolti in libri di vasto respiro scientifico, sotto l’esplicita rubrica di “semiologia”. Con l’eccezione delle ardue “Structures cycliques en sémiotique” (apparso sugli «Actes sémiotiques», vol. V, n. 47-48, 1983)1, questi testi sono la testimonianza completa e la sola raccolta esistente d’una ricerca continuata da questo celebre matematico sui sistemi e i processi di significazione. Oltre le diversioni e le divagazioni, emerge da questi contributi un dispositivo quadro e un orientamento prezioso per la semiotica: la quale, mai come oggi, ha bisogno di una delimitazione autocritica del suo progetto. Alla presente incultura disciplinare, espressa in introduzioni contraddittorie e confuse antologie, non si pone rimedio accumulando speculazioni filosofiche, ma effettuando, nella immediata tradizione degli studi, scelte rese rilevanti da un progetto sistematico. Si deve anticipare sull’avvenire della ricerca per regolare i conti col passato.

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È noto che il progetto di René Thom si colloca “nella grande tradizione filosofica e metodologica delle scienze e in particolare delle scienze umane. In quelle dello strutturalismo (…) (Saussure, Jakobson, Hjelmslev, LéviStrauss, Greimas, Chomsky) di cui lo schema catastrofista approfondisce i fondamenti, fornendo all’impalcatura logicista formale un basamento dinamico che le faceva difetto”. Questo progetto assegna alla semiotica un punto di vista coerente sul senso, e il compito di trasformarlo in significazione, attraverso lo studio morfo-dinamico dell’espressione e dei contenuti dei linguaggi. E si colloca tra i discorsi e le pratiche di senso che sono oggetto delle scienze dell’uomo, a cui si offre non come canone, ma come un Organon, cioè un cantiere di modelli per acquisire e allargare l’ambito dei nostri saperi2. 1. Della collocazione disciplinare della semiotica, il grande topologo Thom, medaglia Fields delle matematiche, ci ha tracciato una mappa accurata, ricca di icone e di legende. Una Carte du tendre delle discipline hard e soft, delle scienze umane e di quelle naturali (cfr. la figura riprodotta alle pp. 6-7). I diagrammi, icone di relazioni, hanno una funzione mnemonica, riflessiva e retorica. Gli elementi della Mappa di Thom (MT) – montagne e colline, mari e torrenti, fiumi e paludi, ma anche città, templi e fortezze, sentieri e viali – sono distribuiti nello spazio costruito dalle coordinate cartesiane che portano in ordinata la Significanza e l’Insignificanza e in ascissa la categoria Vero/Falso. Per Thom, infatti, il progetto conoscitivo verte sul grado di veridicità degli enunciati, ma soprattutto sul loro interesse e rilevanza di senso. Nella MT l’orientamento degli assi segnala delle scelte epistemologiche, assegnando per es. alle scienze sperimentali (alla biologia in particolare!) il massimo di verità e il minimo di significazione. La città della Scienze Umane e delle Arti, costeggiata dal Viale dei Tropi, sorge oltre il Fiume del Senso che

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scorre, al centro del territorio epistemico, dagli alti rilievi del significato (il Paradosso, l’Assurdo) verso i bassopiani, le paludi e al mare dell’insensato (l’Ambiguità e le Letterature postmoderne!). Sulla riva opposta, si leva il Tempio delle Matematiche, collegato con la Rampa della Logica alla Fortezza delle Tautologie e alla palude di La Palice. Mentre il Massiccio della Poesia, a parità di grado di veridicità, è molto più significativo di quello della Realtà! Il semiologo abita attualmente la Metropoli delle Scienze umane e delle Arti, rassegnato a una minor veracità e lieto d’una maggior sensatezza. Ma ha vocazione girovaga e itinerante: quella di seguire tutti i flussi di senso in un campo di vettori dove si distribuiscono “singolarità accidentali”3. Il corredo figurale della MT – epistemologia cartografata – è una condizione evolutiva della sua curiosità. Le carte, come la MT, collocano luoghi e non luoghi, dettano orientamenti e percorsi. Il semiologo, pur accettando il piano di consistenza territoriale della MT e alcuni dei suoi crodi (percorsi obbligati), si riserva quindi di praticare le proprie deterritorializzazioni, di cambiare traiettorie e racconti. E, in primo luogo, di proseguire i lavori di costruzione dei ponti abitati che Thom ha gettato tra le rive del fiume del senso, tra le matematiche qualitative e le discipline della significazione e della cultura. Il progetto scientifico di Thom non mira a un’enciclopedia unificata delle scienze naturali e “innaturali” che, per il senso d’una parte del termine (“ciclo”), sarebbe dotata di un solo centro. Preconizza invece una “ellittopedia”, una figura ellittica provvista di due fuochi: umano e “disumano”. Il morfema “semiofisica”, neologismo e meta-semema, può essere letto allora accentuando un elemento del suo composto: Semio o Fisica. Si può focalizzare cioè una fisica del senso o la significazione dei processi naturali: la fisica e i linguaggi. I saggi raccolti in questa antologia testimoniano che il pensiero semiotico di Thom si è orientato in quest’ultima direzione, verso “la ricerca delle forme si-

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gnificanti”, costitutive d’una “teoria generale dell’intelligibilità” (SF). Per sua esplicita ammissione, la TC, priva di capacità predittiva, non fa parte delle matematiche ma di un’ermeneutica non introspettiva, affiancata da una metodologia. Il dispositivo catastrofista, di delicata applicazione nelle scienze umane, ha valenza fenomenologica e il valore semiotico di una batteria di modelli4. 2. La SemioFisica ha il suo “interesse essenziale nello studio del linguaggio e delle scienze qualitative, non matematizzate, fondate sul linguaggio”. Thom arriva infatti alla semiotica tramite la linguistica e fin dai primi scritti ha intrapreso la descrizione morfo-semantica di nodi verbali attraverso grafi di interazioni attanziali (1980a). Il suo interesse per il linguaggio comune e “naturale” deriva da una profonda insoddisfazione per l’aspetto artificiale del formalismo boolelano e l’assiomatica hilbertiana. E corrisponde all’interesse per una fisica che studi la morfologia macroscopica degli osservabili e al sospetto verso una dimensione della realtà, come quella quantica, dove c’è “rottura di simmetria nell’intersoggettività degli osservatori”. Gli articoli di questa raccolta mostrano come l’approccio “universalista” ai problemi delle lingue naturali abbia condotto progressivamente Thom dalla critica della teoria dell’informazione, attraverso il modello di Peirce, fino alle ricerche sul quadrato semiotico e la narratività condotte da Greimas e dalla sua scuola. Dopo una critica conseguente del concetto di informazione, Thom (1980b) ha intrapreso la verifica del modello trivalente della semiosi di Peirce con particolare attenzione agli aspetti iconici. Ha riassunto la proposizione del segno come rinvio nella frase nucleare ça sent le brulé: ça (primarietà), sent (secondarietà), le brulé (terzietà) e – pur con qualche perplessità sul carattere “puro” del ça – lo ha mantenuto come un valido schema di diffusione delle pregnanze (Thom 1988, p. 211). Lo ha applicato infat-

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ti ad alcuni comportamenti zoosemiotici elementari – l’esperimento di Pavlov, i sistemi deittici nelle api o i segnali d’allarme nelle specie animali superiori – che sono esempi segnici di ben altro rilievo rispetto alle morte metafore degli scacchi e dei semafori. Ragioni teoriche generali – il logicismo, l’accanimento tassonomico, l’irrilevanza linguistica, l’incapacità di porre il problema centrale del logos, la stabilità e del mutamento delle forme significanti – hanno condotto Thom oltre il modello di Peirce. Il punto di convergenza con la semiotica generativa è stato l’approccio alla sintassi come struttura significante (i “concetti grammaticali” di Jakobson) e, in particolare, la semantica dei casi, in Tesnière prima, in Hjelmslev poi. Attraverso le implicazioni d’una teoria energetica degli attanti – attrattori nella costruzione di morfologie di senso relativamente stabili – Thom è giunto alla semiotica di A. J. Greimas. Attraverso la mediazione di J. Petitot (1985), Thom ne ha seguito l’intero percorso genetico: dalla definizione del quadrato semiotico fino alla caratterizzazione d’una teoria narrativa. Nelle Structures cycliques en sémiotique ha ritrattato infatti alcune critiche al modello elementare della significazione (“nella sua veste logica sta tutto l’interesse del quadrato semiotico”, Thom 1990, p. 68) e ne ha dato una traduzione “catastrofista”. Per Thom, infatti, la morfologia canonica del “quadrato” (la coincidentia oppositorum dei termini complessi) esprime l’oscillazione dei valori e si converte in una sintassi attanziale centrata sulla circolazione dell’oggetto-valore. Un Modello Dinamico, descrivibile come circuito di isterisi – struttura ciclica periodica reversibile – e trascritto dalla catastrofe detta Fronce. Per quanto riguarda la componente sintattica della teoria narrativa, essa costituirebbe, per Thom, un primo passo rigoroso verso una tassonomia delle azioni. Classificazione urgente per chi ritiene che forma e forza siano in presupposizione reciproca: “l’atto è bor-

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do della potenza come la forma è il bordo della materia”. L’efficacia descrittiva e le possibilità euristiche del modello di Thom restano da esplorare, poiché, a suo stesso dire, la TC è un metodo puramente qualitativo, senza potere predittivo e possibilità pragmatiche. Va però sottolineato, in Thom e in Greimas, il comune presupposto semiotico d’una visione contrastiva della significazione (un “plesso di differenze”, secondo Saussure) e di una visione “agonistica” delle forze in gioco nel processo di senso. Thom è abitato dal demone dell’analogia controllata. Nel suo uso euristico dei modelli, alla ricerca persistente di isomorfismi, anche la morfologia esterna degli organismi viventi è vista narrativamente, come il risultato di meccanismi interattanziali di regolazione. L’equilibrio variabile delle relazioni tra predatori e prede genera il contorno – la pelle, il guscio o la corazza – il quale sarebbe l’arresto “tattico” dell’estensione organica davanti all’azione ostativa del becco, del dente e dell’artiglio (Thom 1988, p. 139). Si tratta di interazioni di inaspettata complessità, come testimoniano i casi di mimetismo in cui, con un curioso chiasmo zoosemiotico, il predatore affamato si aggira come preda, mentre la vittima si difende mascherandosi da predatore! 3. Questa confluenza di percorsi sulla cartografia malcerta della semiotica enfatizza l’originalità di una SemioFisica che non pretende di spiegare, ma cerca i modi per “rappresentare” la molteplicità e la singolarità naturale di stati, processi e di effetti di senso. Fin dal 1971, Thom aveva proposto, a partire dalla linguistica delle frasi, una teoria generale delle interazioni di oggetti spaziali e dei processi spaziotemporali descrivibili come semantemi complessi (“catturare” “spezzare”, “legare” ecc.). L’ambizioso progetto non si riduce però a “esplorare gli isomorfismi di universi semantici le cui costituzioni hanno una natura linguistica tale che è possibile scomporne i campi

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semantici come spazi, con frontiere rette da schematismi di tipo catastrofista” (AA.VV. 1988, p. 515). Per uscire dalla riflessività e dalla circolarità della semiotica, alla geometrizzazione del senso si affianca l’ipotesi universalista che “le grandi strutture sintattiche (e narrative) derivano dalla struttura formale delle grandi interazioni della regolazione biologica” (Thom 1988, p. 197). A partire da questo fondamento “protonaturale” – la vita e la morte, il cibarsi e la riproduzione, ma anche la veglia e il sogno – Thom costruisce le rappresentazioni delle forme stabili (i “logoi”) e delle loro morfogenesi. A questo punto la TC non basta più, e Thom giudica necessaria “un’altra partenza”. Le nozioni a cui approda – Pregnanza e Salienza – sono costruite sul modello semiotico della presupposizione reciproca tra significante e significato. Thom prende però le distanze dal postulato dell’arbitrario segnico, introducendo un punto di vista dinamico e cercando di tener conto delle costrizioni spaziotemporali specifiche. Saliente (S) infatti è ogni forma discreta che si stacca da un fondo di continuo e a cui fa eco nell’organismo percipiente una discontinuità soggettiva a valore breve e transitorio. Pregnanti (P), per contro, sono le forme intrise d’intense valenze biologiche – fame, paura, desiderio sessuale ecc. – con profondi e duraturi effetti “timici” di attrazione e repulsione. Queste pregnanze si propagherebbero come fluidi continui, investendo e infiltrando le forme salienti. Queste ultime emetterebbero a loro volta altre pregnanze o “effetti figurativi”, destinati anch’essi a nuove salienze, in una polisemia generalizzata. Non si tratta della semiosi illimitata e neppure delle inferenze logiche di Sebeok (2003). La combinatoria di questi fattori (S - S; S - P; P - S; P - P) genera infatti una tipologia di collisioni e di ostacoli, confluenze e scissioni che strutturano l’intera sfera del simbolico. Per Thom, il linguaggio articola una predicatività pregnante degli enunciati con l’indicatività saliente della enunciazione. Anche

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la designazione linguistica è caratterizzata dal modo in cui un significato, associato a un morfema, investe d’una particolare pregnanza le forme salienti dei referenti. Il gioco delle Pregnanze/Salienze si estende dai segnali degli animali sociali alle strutture grammaticali delle lingue; dalle tecnologie, viste come prolungamento degli organi, alla ritualità sociale; dall’attività raziocinante a quella magica e religiosa. Qui, ad esempio, l’assoluta e infinita pregnanza dell’oggetto-valore provocherebbe l’immobilismo delle formazioni sociali oppure il rallentamento apollineo e l’accelerazione dionisiaca dei riti collettivi (Thom 1987). Nell’uomo, queste rappresentazioni cognitive e affettive (“l’affettività sotto forma di piacere o dolore è il motore di propagazione delle pregnanze”, Thom 1988, p. 27) non sarebbero geneticamente prederminate, ma acquisizioni culturali, legate all’organizzazione sociale o familiare delle collettività. 4. Questa posizione mette Thom al riparo dalle fughe in avanti di stampo naturalistico che affliggono la scienza e la filosofia del linguaggio. Per Thom, linguista e semiologo, il cervello deve diventare soggetto (Deleuze): cioè, tra il corpo pregnante dell’organismo e quello del soggetto, c’è un’“ansa simbolica” che permette all’io la liberazione dalle pregnanze (la soggettivazione) e la costruzione delle salienze d’un universo oggettivato. Ma più rilevante ancora per la semiotica è dissipare gli equivoci tra la semiofisica e una fisica del senso. È noto che per Petitot (1985b) la TC avrebbe una portata ontologica: nelle scienze dell’uomo, costituirebbe l’oggettività stessa dei fenomeni studiati, attraverso la schematizzazione matematica delle categorie. L’incontro euforico tra descrizioni semanticamente rilevanti, come la teoria narrativa greimasiana e una TC provvista di pregnanze metapsicologiche, produrrebbero ontologie regionali (Petitot 1994). All’affermazione di Lévi-Strauss “le scienze umane saranno

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strutturali o niente”, Petitot replica che “le scienze strutturali saranno naturali o niente”. Da questa tesi filosoficamente ambiziosa, che usa di Thom come un ventriloquo, il grande semiofisico ha preso invece la distanza e l’agio della sua vocazione scientifica. “Preferisco – scrive Thom – credere a un reale non globalmente accessibile perché di natura stratificata, di cui l’ermeneutica delle TC permetta lo svelamento progressivo delle “fibre” e degli “strati”. E aggiunge: “se è vero che le matematiche si implicano nella fisica (...) sembra davvero dubbio che nel caso delle scienze dell’uomo si possa avere lo stesso grado di implicazione”. Le esigenze e gli obblighi teorici non corrispondono: nelle discipline fisiche – magie geometricamente controllate – obiettività e intersoggettività si identificano; in quelle umanistiche gli spazi di intersoggettività restano sempre da “parametrare”. Allo schematismo speculativo e platonizzante, Thom replica col lessico d’una filosofia naturale caratterizzata da un’“immensa simpatia” per l’Aristotile dei trattati sulla natura. In termini di P/S, il metafisico risale l’albero di Porfirio delle pregnanze verso il motore immobile, fino all’incontro mistico col fluido indifferenziato della pregnanza ultima. Thom vuol ridiscendere invece verso l’esperienza, nella direzione degli effetti figurativi delle Salienze investite5. Non sta a noi decidere se Aristotile sia un topologo qualitativo e la sua dinamica sia una semiofisica, o del valore speculativo di questa “semi-filosofia” che sembra una demiurgia controllata. Ci basta osservare che la teoria di Thom, insistendo sulla “veracità”di ogni interessante analogia dal semantismo geometricamente controllato, prende le debite distanze dall’empirismo sperimentale e dalle tautologie del formalismo. L’audacia dei suoi isomorfismi può sconcertare – come l’analogia tra processi linguistici e embriologia, tra la pronominalizzazione e la gastrulazione – ma, per riprendere le sue parole, “le migliori ipotesi sono meno verosimili”.

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5. Non è agevole determinare le conseguenze delle ricerche di Thom. La sua presenza nelle scienze dure – dalla fisica alla biologia (AA.VV. 1994) è diffusa e sporadica. In semantica linguistica – contro il cognitivismo sintattico e composizionalista – cresce invece l’interesse per una descrizione morfo-dinamica – implementata da modelli connessionisti – delle azioni e della polisemia (Wilgden 1999; Victorri Fuchs 1996; Piotrowski 1997). In semiotica l’influenza problematica di Thom si manifesta o trapela a diversi livelli6: nel dibattito sul minimo epistemologico, dove la nozione di pregnanza e salienza è tradotta in termini di valenze e valori; nella presa in considerazione degli involucri (la pelle) delle forme; nella problematica mereologica delle parti e della loro relazione alla totalità; nella rappresentazione grafica dei modelli, con l’abbandono del quadrato – troppo logico? – e la rappresentazione cartesiana dello spazio sostrato degli attributi. La riflessione semiotica sulle forme e l’esperienza estetica meritano un posto a parte, anche per il possibile incontro con Greimas sulla problematica del gioco e dell’estesia (1988). Come documenta la nostra raccolta, è un fatto saliente che Thom abbia dedicato molta della sua riflessione semiotica alla morfogenesi delle scienze e delle arti. E che vi abbia visto, come Deleuze, il campo privilegiato del dispiegarsi delle forze (“l’arte è ‘spettro’ di un conflitto”) con nuovi effetti conoscitivi e percettivi, determinati da discontinuità catastrofiche e da sottili varianti. Per Thom, infatti, è lo stesso spazio di senso che andrebbe percorso in direzioni opposte: la scienza “scenderebbe” verso una regolazione strutturale delle pregnanze, mentre l’arte ne risalirebbe il corso, liberandoci dalle loro “strettoie”, giocando col simbolismo affettivo e col piacere delle esperienze alternative. Di un immediato rilievo metodologico e descrittivo sono invece le osservazioni morfologiche sulla pittura (le cornici e i

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contorni, i dettagli e i frammenti) e quelle morfo-dinamiche sul balletto e il coreografo “semiurgo”. Nella danza collettiva, dove le pregnanze in lotta trovano l’unità e gli equilibri di un dinamismo generatore, Thom intravede la traduzione di alcune virtualità spaziali della musica: la tensione ritmica e l’intensità passionale. L’esempio del Bolero come moto semio-fisicamente turbolento coincide singolarmente con la nota analisi di Lévi-Strauss sul mitismo di questa musica di Ravel nella conclusione delle Mitologiche. 6. La semiotica della cartografia ci narra di Cartes du tendre a forma di cuore. Forma figurativa del C.O.R., concordantia rerum omnium, contro ogni autismo disciplinare che è il senso stesso della vasta impresa di René Thom. Non sarebbe l’ultimo dei paradossi che il grande matematico e morfologo lasci proprio ai semiologi la parte più cospicua del suo asse ereditario nello studio delle forme significanti. Nella temperie attuale, le scienze dure hanno stornato l’attenzione dalla TC, la biologia genetista tralascia la morfologia e la linguistica è impigliata a un paradigma naturalizzante. Il progetto strutturale di Thom sembra accantonato o dismesso. Per rimetterlo in gioco e ritrovarne la feconda interdisciplinarità, va spostato l’accento nella parola Semio-fisica. Accentuando, come abbiamo fatto, la particella semio-, ritroveremo risposte a domande che abbiamo smesso di fare e persino l’ordine in cui porle. In questi scritti sparsi, dove le oscurità tecniche s’intrecciano a luminose intuizioni, non si trovano confortevoli incertezze, né gravose infallibilità. Nella ricerca sui sistemi e sui processi di significazione: il presente è un’ipotesi al di là della quale non si ancora è riusciti ad andare; le ipotesi più stravaganti sono le più promettenti e sostenibili; i dati sono risposte a domande da porre anche in altri modi; i risultati infine sono errori soggetti a revoca. In-

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somma: niente condizioni trascendentali della significazione e viatici per la scienza, ma strategie e tattiche per la ricerca. Riprendiamo in mano la Mappa di Thom.

1 È possibile leggerne comunque una versione italiana su «E/C», rivista on line dell’Associazione italiana di studi semiotici (www.associazionesemiotica.it/ec). 2 Non senza contrasti: cfr. Fabbri 2001, 2002. 3 Deleuze e Guattari distinguono tra scienze “riproduttive” e “itineranti”. Le prime riproducono uno spazio “striato” con un solo punto di vista; le seconde, discipline del prolungamento, non si limitano all’applicazione e verifica delle prime, ma esplorano spazi lisci e multiprospettici, alla ricerca di singolarità e turbolenze. 4 “Per me il concetto di catastrofe è un concetto di fenomenologia, non un concetto di matematica” (AA.VV. 1988, p. 37) 5 La riflessione su Aristotile è stata condotta da Thom (1988) in collaborazione con Pinchard. 6 Per Aage Brandt ha diretto un Convegno dedicato alla “Semiotica di René Thom” presso il Centro di Semiotica di Urbino nel luglio del 2005.

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Topologia e significazione*

Il Maestro, il cui oracolo è a Delfi, non dice, né nasconde: significa. Eraclito

Il problema della significazione è tornato in primo piano nell’attualità filosofica. Molto vivace all’inizio del pensiero greco – si pensi al logos di Eraclito, ai temi del Sofista e del Cratilo di Platone – riappare oggi dopo una lunga eclisse1 come uno dei maggiori temi del pensiero contemporaneo. Ci si sforza – sotto il nome di semantica, o di semiologia – di costituire in disciplina autonoma una teoria generale del significato e della corrispondenza significato-significante propria a ogni sistema di comunicazione. Ma finora questo sforzo si è trovato relegato alle scienze dette “umane”. Gli scienziati “puri”, fisici, biologi, perfino linguisti di tendenza formalista, sembrano tenersi lontani da un tentativo, intriso di un soggettivismo sospetto. La nozione di significazione sarebbe inaccessibile all’analisi obiettiva? Viziata in partenza dalla sua origine psicologica, deve essere per sempre proscritta dalla visione scientifica? Informazione e significazione Nel recente sviluppo della teoria dell’informazione si potrebbe vedere l’indice di un nuovo orientamento degli scienziati rispetto alla significazione. In effetti la teoria dell’informazione in stile Shannon e Weaver risponde a fini essenzialmente tecnici: si tratta di trasmettere un messaggio prescritto da una sorgente a un ricettore attraver-

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RENÉ THOM

so un canale di caratteristiche date, nel modo più economico e sicuro possibile. La significazione del messaggio è completamente indifferente alla teoria, che non ha bisogno di conoscerla né, del resto, saprebbe definirla. Nel nostro sistema alfabetico, le due parole entrez ‘entrate’ e sortez ‘uscite’ hanno la stessa lunghezza, quindi la stessa quantità d’informazione. Ma chi oserebbe pretendere che abbiano la stessa significazione? Malgrado questa fondamentale lacuna, la teoria dell’informazione ha avuto due grandissimi meriti: identificando informazione e neg-entropia, ha precisato le limitazioni termodinamiche che pesano su ogni comunicazione; inoltre ha attirato l’attenzione dei matematici sugli aspetti geometrici e funzionali del problema della codificazione, vista come corrispondenza di natura molto generale tra spazi funzionali. Sorta dai bisogni della tecnica elettronica, ha così manifestato la possibilità di edificare una teoria con caratteristiche di “morfologia statistica” completamente indipendente dal substrato fisico che le ha dato origine. Biologia e significazione È evidentemente in biologia – la scienza più vicina all’uomo – che ci si poteva aspettare di veder ricomparire la nozione di significazione in due circostanze molto differenti. La prima è nella teoria della percezione, al seguito della Gestalttheorie. Nomi come quelli dei fisiologi Goldestein (1934) e Uexküll (1956) testimoniano – in campi peraltro distinti – lo sforzo fatto per ricostituire le unità significative del comportamento animale o umano. Questi tentativi, spesso segnati da un’analisi sottile e profonda, sono stati condannati per un verbalismo finalista inammissibile: non potendo sfociare in un’interpretazione legata al substrato fisiologico o fisico-chimico, sono rimasti tagliati fuori dal campo sperimentale.

TOPOLOGIA E SIGNIFICAZIONE

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La seconda occasione per reintrodurre la significazione in biologia ci è stata suggerita dai recenti progressi della genetica e della biologia molecolare. Ci si è accorti che la composizione chimica delle molecole di DNA cromosomico svolgeva un ruolo determinante nella comparsa delle mutazioni e – con una estrapolazione più o meno giustificata – si è identificato il patrimonio genetico dell’organismo (più esattamente, il suo genotipo) con la “parola” costituita dalla sequenza lineare dei nucleotidi sulla catena di DNA. La scoperta del “codice genetico” ha permesso di comprendere come questa catena determini la struttura delle molecole biologicamente funzionali, le proteine. Che un meccanismo a carattere alfabetico, simulatore dei meccanismi più elaborati della scrittura umana, possa manifestarsi naturalmente nelle reazioni biochimiche, è oggetto di meraviglia: si può dire senza esitazione che questa scoperta ha costituito lo choc maggiore del pensiero scientifico a partire dalla meccanica quantistica degli anni 192530. Ma i suoi successi hanno posto la biologia molecolare in una posizione epistemologicamente scomoda: fondamentalmente materialista, essa pensa che la struttura degli esseri viventi non sia che una concatenazione molecolare; come spiegare allora – negli stessi termini di interazione molecolare – la stabilità di un organismo già enorme alla sua scala, come un corpo batterico, a fortiori quella di un metazoo come la pulce, o dell’elefante? Da questo punto di vista, è grande il contrasto fra l’esigenza materialista di base e il linguaggio eccessivamente antropomorfo (molecole messaggere, codice e decodificazione di una informazione, demiurgia enzimatica) di cui ha bisogno la descrizione della dinamica vitale. Di queste contraddizioni interne, alcuni specialisti –imbevuti di trionfalismo tecnico – sono appena coscienti. Altri hanno creduto di trovare una soluzione nella teoria dell’informazione che, visibilmente, non era fatta per questo. Non si rileggeranno senza sorridere, fra qualche anno, le pagine dove un biologo di tal fatta si stupisce

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che l’informazione contenuta nel menoma umano sia poco più di mille volte quella dell’umile colibacillo e molto meno di quella del tritone o del grano! Come se la distribuzione dei nucleotidi sulla catena del DNA potesse essere equiprobabile! Come se il mantenimento e la duplicazione del materiale nucleico non esigessero la presenza di un ambiente citoplasmatico che gli è strettamente e specificamente adattato! A questo proposito una sola ipotesi appare plausibile: in ragione dei vincoli imposti dalla possibilità vitale globale del sistema, la catena del DNA deve organizzarsi in segmenti relativamente autonomi e stabili, i segmenti “significativi”, che possono d’altronde presentare una gerarchia di subordinazioni funzionali, proprio come il linguaggio si scompone in frasi, in parole, in lettere. Il “codice genetico” non corrisponde ad altro che al livello più elementare, quello delle lettere nella parola, il livello di “seconda articolazione” dei linguisti. Il genoma si è costituito nel corso dell’evoluzione con una combinatoria di segmenti significativi (che implicano duplicazione, permutazione, separazioni topologiche, ecc.) che simula la combinatoria delle strutture di regolazione globale dell’organismo in via di complessificazione progressiva. Beninteso, questa teoria può essere attualmente solo abbozzata. Ma ciò dimostra quanto sia necessario disporre di una teoria che ristabilisca il legame finora mancante tra dinamica globale e morfologia locale. Una disciplina che cerchi di precisare il rapporto tra una situazione dinamica globale (il “significato”) e la morfologia locale (il “significante”) nella quale si manifesta, non è per l’appunto una “semiologia”? Obiettività e significazione Si presenta qui la nota obiezione formalista: mentre il “significante” appare sotto forma di una morfologia descrivibile fenomenologicamente, spesso riproducibile dal-

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l’esperienza, il “significato”, invece, è accessibile solo con l’introspezione, e ha un’esistenza puramente soggettiva. Del resto, parlare di significazione – come ci proponiamo di fare – in situazioni in cui non esiste nessun ricettore cosciente e pensante non è un intollerabile abuso di linguaggio? A ciò rispondiamo: a. Qualunque cosa si faccia, ogni scienza arriva all’uomo quale ricettore ultimo; in questo senso ogni disciplina scientifica deve essere portatrice di significazione per l’uomo che la impara e la utilizza. Questa esigenza è d’altra parte automaticamente soddisfatta: una teoria inintelligibile, una volta presentata, sarebbe automaticamente eliminata. b. Non si può quindi ammettere che i fattori di invarianza fenomenologica che creano nell’osservatore il sentimento della significazione provengano da proprietà reali degli oggetti del mondo esterno, e manifestino la presenza oggettiva di entità formali legate a questi oggetti, delle quali si dirà che sono “portatrici di significanza”? Questo i poeti l’hanno saputo e detto molto prima degli scienziati: La Natura è un tempio ove pilastri viventi lasciano sfuggire a tratti confuse parole; l’uomo vi attraversa foreste di simboli che l’osservano con sguardi familiari2.

c. Se si ammette il punto b, ed è difficile non ammetterlo, trattandosi di una delle tendenze più primitive dello spirito, bisogna tuttavia saper misurare e valutare queste strutture significanti. Tutta la storia ci insegna quale fonte costante di errori sia stata questa invincibile tendenza dello spirito a ipostatizzare tali strutture, a erigerle a entità oggettive dotate di potere e di effetto. Si pensi per esempio all’interpretazione figurata delle costellazioni che ha portato all’astrologia e a tutte le sue ubbie. Che controllo opporre a questa tendenza onnipresente della mente? Secondo noi non c’è che una possibilità: creare una teoria della significazione, la cui natura sia tale

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che l’atto stesso del conoscere sia una conseguenza della teoria. In altre parole, quando un’apparenza ci sembrerà portatrice di significazione, noi sapremo perché e a quali fattori formali attribuirla. Trascurando quindi provvisoriamente l’aspetto soggettivo della significazione, ci sforzeremo di darne un modello di carattere oggettivo, di natura geometrica e dinamica. E questo modello lo troveremo nell’idea meccanica della risonanza. La nozione di risonanza in dinamica La nozione di risonanza si presenta matematicamente in modo esplicito solo in un caso molto particolare, quello di un oscillatore lineare sottoposto a un impulso di frequenza uguale alla sua frequenza propria. Ma il fenomeno dinamico evocato dalla parola “risonanza” ha una portata molto più generale; tentiamo di darne un’idea essenzialmente qualitativa, limitando al massimo concetti e tecnica matematici. Consideriamo due diapason identici D, D' e supponiamo che D sia fatto vibrare. Se noi avviciniamo D a D', allora D' si metterà a vibrare per risonanza con D; una parte dell’energia cinetica di D si trasferirà così nel diapason D', che vibrerà in maniera sincrona con D. È questo fondamentalmente lo schema tipo di ogni risonanza: si prendano all’inizio due sistemi dinamici completamente indipendenti S, S' che presentino entrambi regimi dinamici stabili R, R'. Avviciniamo i due sistemi per permettere loro di interagire liberamente. In generale il sistema risultante così ottenuto diverrà instabile: invece del semplice prodotto topologico S x S' dei due sistemi, con il regime prodotto R x R' si avrà in generale degenerazione verso un regime comune più stabile, il regime di risonanza. Ciascuno dei sistemi S, S' perde la sua individualità. Avremo allora a che fare con un sistema misto, praticamente non scomponibile.

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Esempio semplice, ma tipico: consideriamo come sistemi dinamici S, S' due circonferenze, C, C' di coordinate x e y rispettivamente, e di lunghezza unitaria. Su C si prenda un campo di vettori costante di norma X = a, su C' si prenda un campo costante di norma Y = b. Allora sul toro (cioè sul prodotto C x C') si ha un campo costante di pendenza b/a. Un tale campo è topologicamente instabile; se b/a è irrazionale, questo rapporto si trasforma, per perturbazione, in un numero razionale vicino p/q, e il campo di pendenza p/q degenera in un campo che presenta traiettorie chiuse attrattrici e isolate, che capteranno l’evoluzione del sistema composto. Se il rapporto p/q non è razionale semplice, la curva chiusa di pendenza p/q è molto lunga: essa avvolge praticamente il toro C x C' in modo che la nuova evoluzione non risulta molto differente, da un punto di vista termodinamico, dall’evoluzione iniziale: si dice che si tratta di una risonanza sfumata. Invece se p/q = 1, o un razionale semplice, l’attrattore potrà essere cortissimo, cosicché l’evoluzione, molto differente dall’evoluzione non accoppiata, manifesterà in maniera molto forte il carattere sincrono dell’evoluzione ottenuta. Si ha allora una risonanza acuta, molto stabile. Questo esempio mostra a che punto l’effetto di una risonanza possa esser variabile; in alcuni casi si tratta di una risonanza sfumata, abbastanza instabile e fluttuante, che intacca solo debolmente l’autonomia dei due sistemi; in altri, al contrario, ogni sistema perde irrimediabilmente la sua indipendenza a vantaggio di una entità dinamica unica, il sistema risonante. Esiste una gamma quasi continua di risonanze tra i due tipi. Nel caso delle due circonferenze C, C' la risonanza acuta è possibile solo se il rapporto q/p dei periodi è uguale a 1 o a un razionale semplice. Si può pensare che si tratta di un fenomeno a carattere molto generale: due sistemi dinamici S, S' non possono scambiare energia per risonanza se non presentano modi vibratori aventi tratti qualitativi comuni.

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Si può così precisare questo punto: per un’energia globale E, si può ammettere che le caratteristiche vibratorie del sistema S siano interamente definite dal dato, in uno spazio euclideo ausiliario R4 di una figura T(E) funzione di E, lo spettro del sistema.Quando i due sistemi S, S' entrano in interazione, c’è identificazione tra i due spazi R4 associati; nella misura in cui i due spettri T(E), T(E') possono essere sovrapposti, i due sistemi avranno la possibilità d’interagire per risonanza. La risonanza sarà acuta se per una coppia di valori E, E', tali che E + E' = h, energia totale dei due sistemi, i due spettri possono essere esattamente sovrapposti. In particolare, quando i due sistemi S, S' sono identici, si potranno sovrapporre esattamente i due “spettri” per E = E' = h/2, ciò che darà per la risonanza un picco molto acuto. Qui, secondo noi, si deve vedere l’origine delle codificazioni nei fenomeni di trasmissione. Dal momento che ogni interazione si basa in ultima analisi su un fenomeno di risonanza, è importante, se si vuole che l’operazione sia sicura e comporti il minor “rumore” possibile, che le risonanze utilizzate siano molto stabili e acute. Ciò impone l’utilizzazione di dispositivi isomorfi nella sorgente e nel ricettore, e una morfologia ripetitiva del messaggio. Lo schema matematico appena accennato spiega anche il carattere ben fondato dell’analogia, più volte segnalata, del fenomeno della risonanza con l’accordo metrico tra due figure: come una chiave, i cui denti si adattano a quelli della serratura. Allo stesso modo in linguistica strutturale si è assimilata la valenza di un verbo nel senso di Tesnière (1965), come pure la valenza di un atomo in chimica, a un gancio attaccato al “nucleo”. Risonanza e significazione Se si esamina quali sono, nel discorso ordinario, i messaggi dotati di significazione autonoma, balzano subito

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agli occhi gli ordini espressi da un imperativo alla seconda persona del singolare (immediatamente dopo le interiezioni quali “uffa!” o “ahimè!”, il cui contenuto essenzialmente affettivo non si lascia formalizzare). D’altronde, da un punto di vista morfologico – almeno nelle lingue classiche –, l’imperativo è quello che fornisce la forma non declinata del verbo (dic, duc, fac, fer…); anche le grida di allarme degli animali possono essere considerate imperativi. Di fatto, quando ci viene rivolto un ordine del tipo vieni, prendi, ecc. è molto difficile non eseguire quanto ci viene intimato. Il ben noto gioco “Jacques ha detto”3 si basa d’altronde su questo automatismo dell’obbedienza. È quindi legittimo dire che “comprendere” un ordine significa eseguirlo – almeno virtualmente, perché questo inizio di esecuzione può eventualmente essere interrotto. Certamente un’analisi a posteriori può pretendere che la mente comprenda l’ordine e in seguito lo esegua: ma si tratta di un’interpretazione analitica ingiustificata di un processo unitario4. Se consideriamo la totalità delle nostre attività cerebrali come un sistema dinamico, secondo il modello di Zeeman (1965), saremmo portati a supporre che a ogni campo motorio codificato in un verbo corrisponda un modo proprio, un “attrattore” A della dinamica cerebrale. All’ascolto dell’ordine, la dinamica cerebrale subisce uno stimolo specifico s, che la pone in uno stato instabile di eccitazione; questo stato evolve in seguito verso la stabilità per la sua cattura effettuata dall’attrattore A, la cui eccitazione genera, per accoppiamento con i motoneuroni, l’esecuzione motoria dall’ordine. Questa interpretazione, che potrebbe essere tacciata di un behaviorismo un po’ elementare, conserva nondimeno la sua validità anche in situazioni più complesse. Se il tuo interlocutore ti indirizza una frase, e tu vuoi manifestargli di aver capito, gli dici: “Maintenant, je suis fixé”5; fai capire che il tuo stato psichico ha raggiunto una sorta di sta-

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to limite stabile e non si sposterà più anche se il tuo interlocutore ripetesse la frase. “Comprendere” è in qualche modo immunizzarsi contro lo stimolo formato dalla percezione del messaggio, adottare l’atteggiamento appropriato nei confronti della nuova situazione che lo stimolo ci ha rivelato. Quando, sotto l’effetto di un messaggio, la dinamica mentale non presenta attrattori che la catturino fermamente, il messaggio è allora senza grande significazione. Come indica bene l’assimilazione del fenomeno del comprendere a una risonanza dinamica, l’assenza di significazione di un testo non è mai totale: si formano sempre delle risonanze più o meno sfumate, più o meno fluttuanti, ma che non si possono tenere a mente; questa frequente indecisione permette allo spirito, in certi testi poetici, di essere più sensibile all’aspetto propriamente sensoriale, fonetico del testo, aspetto abitualmente represso dall’attrazione del senso nel linguaggio ordinario. Non è impossibile che un messaggio, inizialmente poco significante, lo diventi sempre di più per ripetizione, per un fenomeno di memoria o di facilitazione analoga alla sensibilizzazione osservata nei casi di anafilassi. Nel caso di ordini semplici, come vieni, dài, ecc., il campo motorio che definisce l’esecuzione dell’ordine preesiste nella struttura delle nostre attività motrici, e viene associato dall’educazione al riconoscimento fonetico della parola corrispondente. Nel caso di frasi più complesse, è molto probabile che la comprensione del testo comporti la formazione di un regime stabile che non è stato mai eccitato nel vissuto precedente dell’individuo: formiamo così idee nuove comprendendo frasi che non abbiamo mai sentito prima. In questo caso la risonanza finale non è data come oscillatore preesistente della dinamica neuronale; essa si forma direttamente per risonanza a partire dalle oscillazioni suscitate dalla comprensione delle parole.

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Di conseguenza siamo ricondotti a postulare che la “significazione” esprime la possibilità per un sistema di adottare, sotto l’influenza di perturbazioni esterne, dei regimi correttivi che annullano l’effetto della perturbazione. Generalizzeremo ulteriormente questa interpretazione per renderla ancora più oggettiva. Il logos di una forma o di un sistema Spinoza, all’inizio dell’Etica, afferma che ogni essere tende a perseverare nel suo essere. Questa asserzione, in cui si potrebbe vedere solo un truismo, merita riflessione: affinché un essere, un oggetto – qualunque sia la sua natura – possa accedere all’esistenza, essere riconosciuto esistente, classificato con una parola nella nostra Weltanschauung, occorre che sia dotato di un minimo di stabilità su scala umana. Senza dubbio, grazie ai nostri strumenti d’indagine, questa scala è enorme, e si allarga ogni giorno: nello spazio va dal diametro dell’universo al raggio del protone (10-14 cm); nel tempo, dall’età dell’universo (1010 anni?) alla durata delle “risonanze” (10-23 s) messe in evidenza nelle collisioni di particelle nei grandi acceleratori. Osserviamo allora che ogni essere può venire considerato come una certa forma, un accidente locale su uno spazio substrato E (che non è necessariamente il nostro spazio-tempo ordinario, ma può essere uno spazio astratto le cui coordinate hanno il carattere qualitativo di un “asse semantico”). La stabilità di ogni essere è quindi, in quest’ottica, la stabilità di una forma spaziale, di cui si cercherà un’interpretazione dinamica. Senza voler entrare in dettagli di tecnica matematica abbastanza difficili, si può tuttavia dare un’idea relativamente precisa dei modelli impiegati; l’idea ha natali illustri, cioè il mito della caverna di Platone: vediamo solo la proiezione delle cose su uno schermo piatto, il muro del-

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la caverna, e mai le cose stesse. Se E è lo spazio substrato, lo spazio schermo sul quale appare la forma F da interpretare, si introdurranno “parametri nascosti”, coordinate supplementari che sottendono uno spazio “interno” I. È nello spazio prodotto E x I che ha luogo il processo dinamico propriamente detto, le cui singolarità daranno origine per proiezione su E alla forma F. Ci si può domandare se l’introduzione di un tale spazio I di parametri nascosti, per i quali non esiste, in teoria, nessuna interpretazione sperimentale, non sia totalmente arbitraria. Infatti, ciò che dà la teoria non è un unico spazio I, ma tutta una classe di spazi I dotati di isomorfismi locali; e le caratteristiche topologiche di questo spazio possono variare quando ci si sposta su E. Spieghiamo il nostro modello su un esempio semplice, quello dell’oscillatore lineare: sia m un punto materiale su un asse Oq, il cui movimento è definito da una forza di richiamo proporzionale al prolungamento 1)

q'' = - ω 2q.

L’asse Oq è il nostro spazio substrato E (si dirà anche spazio esterno). Introduciamo come spazio interno I un asse Op, e identifichiamo la coordinata interna ω p con la velocità q' = dq/dt del punto m. Allora l’equazione differenziale del secondo ordine (1) si identifica nel piano Opq con il sistema differenziale del primo ordine p' = ω q, q' = - ω p, le cui traiettorie sono le circonferenze H: p2 + q2 = R2 con centro nell’origine. Se perturbiamo leggermente questo sistema, applicandogli delle forze esterne, modificando la forza di richiamo, ecc. (ma senza introdurre attriti, restando nell’ambito dei sistemi conservativi), il sistema perturbato sarà caratterizzato da una nuova funzione H1 (p, q) vicina a H (p, q). Un teorema classico (come quello di Marston Morse, cfr. Morse

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1934) ci dice che la funzione H1 presenterà anch’essa un minimo quadratico nell’intorno di O, proprio come H, e di conseguenza l’aspetto qualitativo del nuovo sistema, descritto da una famiglia di curve chiuse concentriche, sarà in ogni punto simile a quello del sistema non perturbato. È proprio la natura algebrica della singolarità H = p2 + q2 che assicura l’unità e la stabilità del fenomeno vibratorio, in mezzo a vibrazioni continue dovute all’universo che lo circonda. Ed è qui che ritroviamo Eraclito; la fisica attuale ci offre una visione del mondo del tutto compatibile con il panta réi, la mobilità universale: l’universo non è che un brodo di elettroni, protoni, fotoni, ecc., tutte entità dalle proprietà mal definite in perpetua interazione. Come può questo brodo organizzarsi alla nostra scala, in un mondo relativamente stabile e coerente, molto lontano dal caos quantistico e meccanicistico che la teoria ci suggerisce? Benché certi fisici pretendano che l’ordine del nostro mondo sia una conseguenza ineluttabile del disordine elementare, sono molto lontani dal poterci fornire una spiegazione soddisfacente della stabilità degli oggetti usuali e delle loro proprietà qualitative. (Come potrebbero, d’altra parte, dal momento che i fondamenti stessi della loro teoria sono così poco sicuri?) Io credo che qui sia necessario un certo rovesciamento d’ottica; è illusorio tentare di spiegare la stabilità di una forma con l’interazione di entità più elementari nelle quali essa verrebbe scomposta: come per il nostro oscillatore lineare di cui sopra, la stabilità di una forma, oppure di un vortice nel flusso eracliteo del divenire universale, si fonda in definitiva su una struttura di carattere algebrico-geometrico (come la singolarità quadratica H = p2 + q2), dotata della proprietà di stabilità strutturale nei confronti delle perturbazioni continue che la interessano. È questa entità algebrico-topologica che noi proponiamo di chiamare – ricordando Eraclito – il logos della forma. La descrizione matematica delle strutture algebrico-topologiche suscettibili di servire da logos a una forma spa-

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ziale è un programma immenso di cui i matematici (e pochi di loro) hanno soltanto scritto le prime pagine. La teoria della stabilità strutturale in dinamica qualitativa risale solo a un decennio fa circa e i concetti e i metodi di base sono ancora lontani dall’esser chiariti. Tuttavia, questa teoria embrionale offre già prospettive di sintesi tra i più vari campi scientifici di un grande interesse epistemologico, di cui mi propongo di dare qui un’idea. Descriverò prima, in un linguaggio molto antropomorfo, alcuni fatti molto importanti relativi ai logoi. Un logos, in generale, presenta un carattere contagioso nello spazio substrato E delle forme che definisce. Per esempio, il “logos quadratico” dell’oscillatore lineare manifesta la sua contagiosità con un fenomeno ben noto, quello della propagazione delle onde in un mezzo elastico. Perciò, quando più logoi sono definiti sullo stesso substrato, essi finiscono con l’entrare in conflitto (e qui ritroviamo Eraclito); ma molto spesso, il conflitto tra questi differenti logoi si organizza spazialmente seguendo una configurazione strutturalmente stabile, retta essa stessa da un logos gerarchicamente superiore. Questo fenomeno, che si può descrivere e spiegare algebricamente, può essere qualificato “catastrofe”. Ho potuto fare (Thom 1972) l’elenco di queste catastrofi (dette elementari) che si presentano tra “logoi quadratici” sul nostro spaziotempo a quattro dimensioni: il logos della catastrofe è definito da una singolarità di un potenziale che è più degenere di uno di secondo grado, e la catastrofe dispiega questa singolarità sullo spazio-substrato. Si possono così interpretare la morfologia dell’infrangersi delle onde in idrodinamica, e alcuni fenomeni della morfologia biologica (in embriologia, per esempio). Inoltre, queste catastrofi definiscono dei grafi elementari d’interazione tra i differenti logoi considerati come attanti indipendenti. Di questi grafi si darà un’interpretazione in termini di linguistica strutturale (cfr. tabella 1, pp. 38-39).

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Oltre alle interazioni catastrofiche tra logoi su uno stesso substrato E, si può ugualmente definire la nozione di prodotto topologico tra due logoi di substrati differenti. Se la forma di F1 è definita sul substrato E1 dal logos ?1, F2 definita su E2 dal logos ?2, allora la forma prodotto F1 x F2 è definita su E1 x E2 dal logos prodotto λ1 x λ2. Si dirà che un logos di forma F non è scomponibile se non è possibile considerarlo il prodotto di due logoi definiti su dei sottospazi fattori di una scomposizione del substrato. Sebbene, in generale, un logos di forma F non sia scomponibile, è molto frequente che si possa scomporlo localmente in un tale prodotto di due sotto-logoi, ma questa scomposizione non è valida globalmente. Si dirà che due forme F1 su E1, F2 su E2 sono isologhe6 se hanno gli stessi logoi (se cioè sono descritte dalla stessa struttura algebrico-topologica). L’isologia di due forme si rivela morfologicamente con l’isomorfismo del loro comportamento nelle catastrofi in cui sono implicate. (Ciò ricorda, evidentemente, la prova di commutazione in linguistica). Dobbiamo osservare allora che si possono avere isologie parziali, locali, tra logoi non isologhi, di modo che questo criterio risulta di difficile applicazione7. D’altra parte si pone la questione di comprendere la struttura algebrica interna dei logoi, problema di cui si vedrà la complessità negli esempi che seguono. Il logos degli esseri viventi Non sarebbe ragionevole evidentemente pretendere che gli esseri viventi siano isologhi: il logos di un animale non è quello di un vegetale, il logos dell’uomo differisce da quello del cane. I logoi degli esseri viventi hanno tuttavia alcuni elementi comuni che si esprimono con la quasi universalità di certe funzioni e di certe morfologie (la riproduzione sessuata per esempio). S’impone una prima di-

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1 Tavola delle catastrofi elementari

TABELLA

Nome delle singolarità

Centro organizzatore

Dispiegamento universale

Minimo semplice

V=x2

V=x2

La piega

V=x3

V=x3+ux

La grinza (catastrofe di Riemann-Hugoniot)

V=x4

V=x4+ux2+vx

La coda di rondine

V=x5

V=x5+ux3+vx2+wx

La farfalla

V=x6

V=x6+ux4+vx3+ +wx2+tx

L’ombelico iperbolico

V=x3+y3

V=x3+y3+wxy-ux-vy

L’ombelico ellittico

V=x3+3xy2

V=x3+3xy2+w(x2+y2)-ux-vy

L’ombelico parabolico

V=x2y+y4

V=x2y+y4+wx2+ +ty2-ux-vy

Sezioni notevoli

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TOPOLOGIA E SIGNIFICAZIONE

Grafi elementari d’interazione

Interpretazione spaziale (sostantivi)

Interpretazione temporale (verbi) Sensi distruttivi Sensi costruttivi

Essere, oggetto

Essere-durare

Il bordo, la fine

La fine-finire

La faglia (geologia)

Catturare Spaccare Rompere

L’inizio-cominciare Generare Cambiare-Divenire Unire

La fenditura, il cuneo

Squarciare Fendere

Cucire

La tasca, la squama

Desquamarsi Esfoliarsi Riempire una tasca

Donare Ricevere Svuotare una tasca

La cresta (dell’onda) La volta

Frangersi (l’onda) Sprofondarsi

Ricoprire

L’ago, la picca, il pelo...

Pungere Penetrare

Tappare (un buco) Annientare

Il getto (d’acqua) Il fungo La bocca

Infrangersi (per un getto) Legare Espellere, lanciare Aprire Forare Tagliare, Chiudere (la bocca) pizzicare, prendere

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stinzione tra il logos della specie che determina una struttura dello spazio-tempo, cioè la figura globale costituita dall’evoluzione di un animale di età a estesa alla formazione di uno dei suoi discendenti fino all’età a, e il logos dell’organismo in un dato istante che ne è la sezione temporale. Grosso modo, si può dire che il logos LS della specie è il prodotto del Logos LO dell’organismo per il logos di un oscillatore a traiettoria circolare; questo prodotto non è un prodotto diretto, ma un prodotto twisted, che comporta l’evoluzione di un’onda nello spazio substrato della forma organica, un’onda di crescita che descrive lo sviluppo embriologico, la maturità, la gametogenesi (formazione delle cellule sessuate) e l’evoluzione dei gameti fino alla fecondazione. Noi ci occuperemo ora del logos LO di un organismo animale. Lo spazio-substrato E può essere considerato in prima approssimazione lo spazio R3 ordinario; il campo totale da considerare è un “territorio” T, generalmente molto più vasto dell’organismo stesso. L’organismo è percorso, in quanto forma “metabolica”, da una corrente permanente di materia, di energia, di “significazione”. Ciò permette di definirne un gradiente generale, il gradiente cefalo-caudale (animal-vegetativo dell’embriologia). Un organismo entra generalmente in interazione con altri esseri viventi che si trovano nel suo territorio T, la competizione per lo spazio è una delle forme d’interazione biologica più primitiva. Questa competizione prende allora le forme tipiche delle catastrofi elementari: catastrofi di cattura, di dono, d’ablazione… La zona cefalica dell’animale si specializza come supporto delle catastrofi di ricezione, d’ingestione; essa è circondata ad anello da una zona “ergativa”, portatrice degli organi e dei campi funzionali che preparano le catastrofi di lotta e cattura. La zona caudale è sede delle catastrofi di escrezione, e anche di tutte le catastrofi di diminuzione, di annientamento dell’animale. La preservazione dell’organismo è assicurata da dispositivi regolatori (patrimonio genetico),

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che costituiscono una grande figura geometrica, la figura di regolazione (che è un dispiegamento particolare del logos LO). Si può considerare lo spazio interno I del logos LO come uno spazio delle fasi di un sistema dinamico S (che descriverebbe lo stato metabolico interno istantaneo dell’organismo); allo stato di riposo, non eccitato, dell’animale, ci si può rappresentare questo sistema S come il sistema definito da una palla che rotola in un pozzo di potenziale, con una geografia interna molto piatta e indecisa. Sottoponiamo l’animale a uno stimolo s; allora, il sistema S si stabilizza per risonanza; si scava nel paesaggio un minimo locale q, che capta il sistema S; l’eccitazione di questo modo proprio determina il prodursi di un riflesso r correttore dello stimolo s. Una volta corretto lo stimolo e cessata l’eccitazione, il sistema (S) ritorna al suo stato fluttuante iniziale, il che comporta l’arresto del riflesso (r). Si può dire che, quando lo stimolo s ha fatto scattare per risonanza il riflesso correttore r, l’animale ha “compreso” lo stimolo. Questo meccanismo di risonanza esiste, in linea di massima, solo per le catastrofi di cattura e di ingestione, che sono favorevoli all’organismo; le catastrofi sfavorevoli, in cui l’animale è attaccato da un predatore, costituiranno, talvolta, l’oggetto di riflessi di difesa o di fuga. La formazione della risonanza si accompagna a una morfologia spaziale che le è specificamente associata. Negli animali a psichismo più complesso, esiste nel sistema (S) un sotto-sistema (S') costituito dalle attività nervose; lo scopo essenziale di (S') è fornire una copia che simula lo spazio esterno T, gli oggetti interessanti che vi si trovano (prede, predatori), e la posizione del corpo rispetto a questi oggetti. Per questo i grandi campi funzionali associati alle funzioni biologiche essenziali (mangiare, dormire, ecc.) hanno avuto molto presto una rappresentazione psichica: in quanto interessavano l’immagine del corpo in S'. Un tale sistema, realizzando una copia migliore delle condizioni esterne, permette evidentemente

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una risposta dei riflessi meglio adattata che non un automatismo behaviourista stimolo → risposta di carattere elementare. Questa teoria sottolinea l’importanza attribuita alla rappresentazione spaziale e alla competizione spaziale come forme primitive dell’attività psichica. Un preambolo necessario per far comprendere la struttura fondamentale del logos di un essere vivente. Origine del linguaggio Abbiamo visto che l’immagine mentale del corpo si è trovata molto presto associata alle grandi funzioni regolatrici della fisiologia; non è da escludere che, quasi simultaneamente, certi oggetti importanti dell’universo animale, per esempio le prede e i predatori, abbiano acquisito un’immagine nervosa strutturalmente stabile, diremmo uno status di concetto, se la parola corrispondente esistesse. Un gatto ha certamente un’immagine spaziale e olfattiva del topo, dotata di stabilità strutturale e di un logos parzialmente isologo al logos del topo stesso; perché il gatto ha certamente una conoscenza implicita dei riflessi di fuga del topo e forse anche di altri riflessi fisiologici meno immediatamente importanti per lui. È dunque ragionevole pensare che le prime strutture autonome dell’attività psichica abbiano avuto un logos isologo a quello dell’Io stesso, il logos degli esseri viventi, e che, di conseguenza, il logos degli esseri viventi abbia funzionato da modello universale per la costituzione dei “concetti”. Ma questa stabilità dei logoi si fonda sulla possibilità di adottare in maniera stabile regimi correttivi, di eseguire riflessi regolatori. L’esistenza di catastrofi di regolazione è quindi un corollario indispensabile della costituzione dei concetti. Non si dovrebbe vedere in questa affermazione una conseguenza del carattere vitalista dell’origine dei concetti. Infatti, ogni struttura dinamica che presenta una

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stabilità strutturale molto forte presenta necessariamente discontinuità correttrici delle catastrofi di regolazione. È un fatto profondo di dinamica qualitativa a cui il logos degli esseri viventi ha dovuto adattarsi. Comunque sia, si può ammettere che un concetto di carattere concreto abbia un logos molto simile a quello di un animale; ha uno spazio substrato E di dimensione inferiore o uguale a 3, un territorio, un gradiente cefalo-caudale8; la sua sensibilità strutturale è assicurata da catastrofi di regolazione il cui supporto è essenzialmente nella zona ergativa di questo organismo fittizio e stilizzato. Esso ha anche una zona caudale in cui s’impiantano le catastrofi di diminuzione e di morte. Si può notare che questa descrizione non si applica che a un attante di carattere molto concreto, l’essere vivente per esempio; descriveremo subito dei logoi astratti come i logoi dei verbi. In effetti, l’interazione dei logoi che si esprime nella sintassi con l’aiuto delle categorie grammaticali ha la sua origine, secondo noi, negli schemi d’interazione spaziale legati alle catastrofi elementari. Le strutture elementari delle frasi Se lo consideriamo alla luce del linguaggio animale, il nostro linguaggio sembra avere una doppia origine: da un lato, serve alla ritualizzazione di un certo numero di campi funzionali biologici di origine genetica; così l’uccello canta per segnare il suo territorio e attirare un partner in amore. Dall’altro, negli esseri animali che vivono in gruppo, il linguaggio serve essenzialmente ad avvertire il gruppo di un pericolo avvistato da un individuo (grido d’allarme) o di ogni nuovo accadimento importante per la salvaguardia dell’individuo o del gruppo sociale. È abbastanza ragionevole pensare che il linguaggio umano sia nato piuttosto dal secondo tipo di messaggio, dal bisogno

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di comunicare a qualcun altro il cambiamento dell’ambiente circostante, una “catastrofe” fenomenologica. A partire dal momento in cui si è voluta precisare la natura della catastrofe avvertita, era naturale che la struttura della frase riflettesse la struttura dinamica della catastrofe esterna – o almeno dell’interpretazione dinamica che ne fornisce la percezione. La componente propriamente soggettiva di questa organizzazione dell’esperienza percettiva è spesso molto minore di quanto non si creda. Si consideri per esempio la frase Il giorno finisce, di tipo –––––I…, che rapportiamo al logos della piega, come tutte le catastrofi che descrivono la fine di un essere. Ora, la scienza ci dice che la piega esiste effettivamente come curva di contatto della sfera terrestre con il cilindro dei raggi solari circoscritti alla Terra. La “catastrofe” della fine del giorno è l’attraversamento di questa curva di piega, dall’emisfero illuminato a quello non illuminato. Anche in questo caso ha giocato in pieno la contagiosità dei logoi. Nella misura in cui s’era formato nella mente un dispositivo molto sensibile alle apparenze esterne, era fatale che i cambiamenti discontinui della nostra visione del mondo si organizzassero secondo gli schemi dinamici propri ai conflitti di regimi sullo spazio R3. È proprio ciò che sembra rivelare la lista seguente, ottenuta associando un grafo elementare d’interazione a ogni tipo di frase. 1) Frase di tipo

Questo tipo esprime uno stato. Esempio: Piove. 2) Frase di tipo

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Questo tipo esprime l’inizio o la fine di un essere; il verbo è grammaticalmente neutro (univalente nel senso di Tesnière 1965). Esempio: Il giorno finisce. 3) Frase di tipo soggetto-verbo-oggetto

Questo è il tipo classico di frase transitiva; il soggetto è l’attante che sopravvive alla catastrofe e prevale; l’oggetto, in generale, subisce la catastrofe e ne esce abbastanza malconcio, quando non soccombe. Esempio: Eva mangia la mela. Naturalmente, non sempre un verbo transitivo esprime la cattura o la creazione dell’oggetto; ma creare o distruggere sono le azioni transitive tipo, il cui calco strutturale ha attirato, catturato la struttura delle azioni con geometria meno semplicistica. 4) Catastrofe del tipo dono (verbi trivalenti di Tesnière 1965)

Esempio: Eva dà una mela a Adamo. 5) Catastrofi di tipo ablazione

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Si tratta di uno schema quadrivalente di lotta; l’attante soggetto S, con l’aiuto di uno strumento I, realizza la scissione dell’attante O in due parti E e P, una delle quali può essere catturata da S. Eesempi: Mi ha estorto del denaro con una pistola; Gli ha tagliato la testa con un colpo di sciabola. Si noterà che in questo schema d’interazione, legato all’ombelico parabolico (nella nostra terminologia), è anche quello della riproduzione sessuata. Non si dice, infatti, che la moglie dà un figlio al marito? 6) Un’altra sezione piana della stessa singolarità (ombelico ellittico) porta al diagramma attanziale che viene rappresentato nel grafo seguente:

Qui si hanno quattro attanti: un emittente E, un destinatario D, un messaggero M e un messaggio m. All’arrivo del messaggero M, l’emittente E si scinde ed emette l’attante m, che è catturato dal messaggero M in uno “stato legato” metastabile (M, m); questo sistema complesso si dirige verso il destinatario D il cui contatto provoca la dissociazione del complesso (M, m); il “messaggio” m è catturato da D, e il messaggero M, liberato, si allontana. Esistono evidentemente delle realizzazioni grammaticali di questo schema: per esempio Pierre invia a Jean una lettera per posta. Ne esistono anche numerose realizzazioni in morfologia biologica; in molti casi la funzione del messaggio è di “informare” il destinatario, cioè di “precipitare” il suo logos in un nuovo stato stazionario, una nuova forma. In casi estremi il messaggio può avere per fine quello di “catturare”, distruggere il destinatario. È ciò

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che accade se il messaggio m è un proiettile, quando per esempio il messaggero M un’arma da fuoco. Tutti questi esempi sollevano il seguente problema: fra tutti gli schemi attanziali previsti dalla teoria algebrica, soltanto alcuni sono realizzati nella morfologia biologica o nella sintassi di una frase elementare. Secondo quali criteri si effettua questa scelta? Si deve osservare che la nostra teoria algebrica fornisce agli attanti un “logos quadratico”, cioè la struttura algebrica più grossolana per assicurare la stabilità. È chiaro che in casi concreti in cui il logos degli attanti è più complesso, presenteranno solamente le configurazioni compatibili con la struttura interna a ciascun logos. Da ciò consegue che soltanto alcuni tipi di configurazioni catastrofiche hanno assunto il valore di archetipi; e le strutture sintattiche formano un insieme ancora più ristretto delle strutture attanziali biologiche. Per esempio, una certa sezione della singolarità Coda di rondine porta al grafo

Che si può analizzare così: un regime stabile è condannato a scomparire ma, prima di morire, con una specie di spasmo d’agonia, salta in un regime metastabile che non avrà però miglior sorte. Sembra che nella misura in cui le categorie grammaticali testimoniano un’origine vitalista, questo schema non sia stato incorporato nella figura di regolazione di un concetto: la nostra morte non è forse incomprensibile? Interpretazione dinamica del senso di una frase Tenteremo ora di precisare la dinamica di formazione del senso di una frase. L’elemento centrale è il verbo; il ver-

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bo fornisce all’inizio uno spazio d’interazione (di dimensione massima 3) U, come pure delle figure spettrali QS, QO, … QD associate al soggetto, all’oggetto, al destinatario a seconda della valenza del verbo. Il soggetto, in quanto concetto, ha esso stesso uno spazio d’interazione V, come pure delle figure spettrali Q(v) che sono funzioni del suo stato d’eccitazione interna; lo stesso avviene per l’oggetto… A ogni identificazione h di V con U, si trova associata un’entropia d’interazione della forma S (v, h). Se esiste nello spettro di regolazione del soggetto un modo correttivo il cui spettro Q(v) si identifichi abbastanza esattamente con QO per una posizione h data, ci sarà risonanza acuta, che si tradurrà in una sensazione di comprensione… Per i verbi che descrivono spostamenti spaziali possiamo rappresentare le figure spettrali Q con alcuni sottotipi o campi del gruppo degli spostamenti; non è impossibile che anche i verbi astratti come pensare (da pesare), giudicare, ecc. abbiano uno spettro spaziale. Di qui il ruolo dei casi o delle preposizioni in grammatica; per evitare l’ambiguità delle risonanze, quindi delle significazioni, è importante che l’interazione dei concetti evocati dalle parole porti prima possibile al massimo dell’entropia, al fine di evitare gli inutili tentennamenti e perfino gli errori. Si ottiene questo risultato specificando per ogni sostantivo un’eccitazione appropriata che limiti il suo spettro di regolazione: il nominativo (ergativo) eccita tutta la zona ergativa; l’accusativo (oggetto) eccita la zona caudale; il dativo, la zona cefalica di ricezione. L’interpretazione del genitivo è più difficile; nell’espressione X di Y, il concetto Y, marcato, è eccitato in modo generalizzato in uno stato Y', al punto da uscir fuori dalla sua “significazione naturale”; esso entra allora in contatto con X nel suo spazio d’interazione, secondo una catastrofe di regolazione comune che viene eccitata; dopo di che Y' ritorna alla sua significazione naturale Y per abbassamento di eccitazione: la risonanza non prosegue e conduce a un

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nuovo complesso di risonanza che si comporta come un sostantivo. Se queste concezioni sono esatte, dovrebbero imporre una certa universalità delle categorie grammaticali; in particolare, il logos dei verbi è gerarchicamente superiore a quello dei sostantivi di cui organizza i conflitti, e la distinzione verbo-sostantivo dovrebbe avere un carattere universale. I logoi astratti Come la regolazione, l’omeostasi di un essere vivente è assicurata da un sistema di grandi funzioni fisiologiche relativamente indipendenti (alimentazione, respirazione, escrezione, ecc.), così il logos di un concetto concreto può fattorizzarsi localmente come un prodotto di logoi fattori con figura di regolazione più semplice; i concetti così descritti hanno una figura di regolazione aperta relativamente a certe direzioni dello spazio substrato: sono i concetti “astratti”. Nei casi estremi, come per la parola “fine” o “dono” per esempio, lo spettro di regolazione del concetto comporta una sola catastrofe verbale in cui si distingue uno degli attanti. Ci si è spesso chiesti se, nel corso della formazione protostorica del linguaggio, le parole concrete abbiano preceduto quelle astratte o viceversa. Sembra quasi chiaro che l’astrazione sia nata dal bisogno di ridurre allo stato di parola un concetto concreto preesistente in quanto stabile struttura autonoma dello psichismo (come l’idea di topo nello psichismo del gatto). Abbiamo visto che la figura di regolazione di un concetto è una specie di animale stilizzato; immaginiamo che, in seguito all’invasione del campo cerebrale da parte del campo genetico, questo animale stilizzato sia anch’esso atto a riprodursi e provvisto di una gonade (ghiandola genitale); in certe condizioni di

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eccitazione, il concetto fabbricherà un “gamete” portatore del logos del concetto. Questo gamete non è altro che la parola, enunciata dal locutore. Nella mente dell’uditore, la parola, vero seme del concetto, quando incontri un contesto appropriato, germina e scoppia: il logos del concetto si dispiega, e ricostituisce la figura di regolazione del concetto, dunque la sua significazione. Come nella gametogenesi la riduzione a zero del metabolismo dei gametofiti comporta la condensazione del materiale nucleico in geni linearmente ordinati, così il passaggio dall’idea alla parola, per ricostituzione del “centro organizzatore” del logos, ha bisogno della formazione successiva di strutture dinamiche transienti e codificate le quali servono, per biforcazione successiva in una struttura ramificante a forma di albero, a evocare – a eccitare – il campo funzionale motorio corrispondente alla parola. Forse si potrebbero identificare queste strutture transienti ipotetiche con i classemi degli studiosi di semantica. (Talvolta possiamo ricollegarle a un sostantivo astratto, ma è probabilmente un’approssimazione). Restano vestigia di questi classemi in una scrittura ideografica come quella cinese; anche all’origine delle nostre lingue occidentali ci fu probabilmente una corrispondenza biunivoca tra classemi semantici e lettere (o sillabe?) fonetiche; ma il sistema fonetico si è rapidamente rivelato troppo povero per ricomprendere tutti i “classemi”, e i due sistemi sono divenuti rapidamente divergenti. Forse non è del tutto utopico cercare di ricostituire (in termini di campi funzionali generali dell’essere vivente) i valori classematici delle lettere primitive. Conclusione L’invasione del cerebrale da parte del genetico, che è all’origine del pensiero (così giustamente denominato) con-

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cettuale, è un altro aspetto dell’analogia rilevata da Bergson tra organo e strumento. I nostri modelli dinamici portano a una presentazione dell’organogenesi nel corso dell’evoluzione che si può così schematizzare: ogni funzione fisiologica corrisponde a una regolazione “catastrofica” del metabolismo, una vera “onda d’urto” fisiologica; l’organogenesi è una specie di lisciatura retroattiva di questa onda d’urto, il che dà all’organo la sua finalità, poiché il suo funzionamento previene la catastrofe fisiologica (così, respirare con i polmoni previene l’asfissia). L’Homo faber è apparso quando tutte le funzioni di difesa contro le aggressioni esterne sono state trasferite dal piano genetico a quello cerebrale, cosa che ha permesso un’accelerazione enorme del processo evolutivo. Come spiegarsi, nel quadro di una teoria deterministica, una “lisciatura retroattiva”, cioè la possibilità per un evento di influenzare i precedenti (che costituisce il problema epistemologico della finalità biologica)? Se s’immagina che il logos di una specie biologica definisce una figura continua dello spazio-tempo, è normale pensare che le variazioni continue di questa figura nel corso dell’evoluzione si effettuino in conformità a un principio variazionale che esclude le discontinuità, gli angoli di questa figura: ma la lisciatura, così operata, può effettuarsi sia nel verso del passato sia in quello del futuro. Si può applicare questo schema alla formazione di nuove parole; dal momento che frequentemente una parola è utilizzata con una significazione diversa da quella iniziale, ne risulta una tensione sul contorno della figura di regolazione del concetto, tensione che potrebbe romperla; il concetto allora si difende provocando la nascita di una nuova parola che canalizza questa nuova significazione. La formazione di neologismi è così un’illustrazione – difficilmente confutabile – del principio lamarckiano secondo cui la funzione crea l’organo. Essa illustra anche l’enorme accelerazione dei processi evolutivi che ha operato il trasferimento dal genetico al cerebrale.

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Circa il problema generale dei rapporti tra il linguaggio e il mondo, i nostri modelli apportano alcune precisazioni: se il nostro linguaggio ci offre una descrizione relativamente corretta del mondo, ciò avviene perché esso è – sotto forma implicita e strutturale – una fisica e una biologia. Una fisica, perché la struttura di ogni frase elementare è isomorfa (isologa) a quella delle discontinuità fenomenologiche più generali sullo spazio-tempo. Una biologia, perché ogni concetto a carattere concreto è isologo a un essere vivente, un animale. Ma forse l’apporto più interessante della nostra teoria risiede nella nozione di logos di una forma. Si sa, per esempio, che non esiste alcuna definizione accettabile della vita in quanto tale. Sarei tentato di dire che ciò che separa una struttura vivente da una struttura inerte è una proprietà topologica della loro figura di regolazione, del loro logos: con una definizione apparentemente viziosa direi che ciò che caratterizza la vita è l’attaccamento alla vita; ci sono alcune forme a cui è relativamente indifferente scomparire: si tratta delle forme inerti; altre – al contrario – difendono la loro esistenza con astuzia e abilità, qualità umane di cui forse non è illusorio trovare delle definizioni combinatorie: sono le forme viventi. Infine, nel campo stesso della fisica, non mi sembra da escludere che il concetto di logos possa risultare utile; come due forme sono isologhe se sono coinvolte in catastrofi isomorfe, così i linguisti formalisti definiscono la significazione di una parola in base al suo uso, cioè a partire dal sistema delle interazioni con altre parole in frasi significanti; i fisici che aderiscono al modello bootstrap, del resto, sostengono che una particella è interamente definita dal reticolo di interazioni a cui partecipa.

* Pubblicato in origine su «L’Âge de la science», 1968, n. 4. Trad. it. di Silvia Costantini, ampiamente riveduta e integrata da Pier Daniele Napolitani e Ro-

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berto Pignoni sulla seconda edizione francese e sull’edizione inglese, in Modelli matematici della morfogenesi, Torino, Einaudi, 1985, pp. 189-212. 1 Perché agli albori del pensiero filosofico i presocratici, da Eraclito a Platone, ci hanno lasciato tante visioni di una così grandiosa profondità? Si è tentati di pensare che in quell’epoca lo spirito fosse ancora in contatto quasi diretto con la realtà, che le strutture verbali e grammaticali non si fossero interposte come uno schermo deformante tra mondo e pensiero. Con l’arrivo dei sofisti, della geometria euclidea, della logica aristotelica, il pensiero intuitivo è stato sostituito dal pensiero strumentale, la visione diretta dalla tecnica della prova. Il motore di ogni implicazione logica è la perdita in contenuto informazionale: “Socrate è mortale” ci dice meno di “Socrate è un uomo”. Era dunque fatale che il problema della significazione scomparisse davanti a quello della struttura della deduzione. Il fatto che i sistemi formali delle matematiche sfuggano a questa degradazione della “neghentropia” ha generato illusione a questo riguardo, una illusione di cui il pensiero moderno soffre ancora: la formalizzazione – in se stessa, slegata da un contenuto intelligibile – non può essere fonte di conoscenza. 2 Charles Baudelaire, “Correspondances”, in Les Fleurs du mal, Paris, 1857: trad. it. di Attilio Bertolucci, “Corrispondenze”, in I fiori del male, Milano, Garzanti, 1975. 3 In questo gioco si danno al giocatore una serie di ordini semplici, come “alza il braccio destro”, “batti la gamba sinistra”, ecc., alcuni dei quali preceduti dalla menzione “Jacques ha detto”. Soltanto questi ultimi devono essere eseguiti, e il giocatore commette un errore se ubbidisce agli altri. 4 Se, per cattiva volontà nei confronti del nostro interlocutore, non vogliamo obbedire all’ordine, preferiamo assumere un atteggiamento distratto: sentiamo l’ordine, ma non lo comprendiamo. 5 L’espressione francese être fixé equivale a “ci sono”; in questo contesto, vista la discussione che Thom fa nelle righe successive, risulta però intraducibile (N.d.T.). 6 Proponiamo isologo essendo l’aggettivo omologo già utilizzato in modo sovrabbondante. 7 Una analogia – nel senso usuale del termine – deve essere considerata come una isologia parziale. 8 È opportuno osservare in effetti che le preposizioni “avanti” e “dietro” possono utilizzarsi davanti ai sostantivi più astratti.

Dall’icona al simbolo*

L’attività simbolica, il pensiero concettuale, viene di solito considerato come la realizzazione suprema delle capacità umane. Molti filosofi l’attribuiscono all’esistenza di una facultas signatrix di cui soltanto l’uomo sarebbe provvisto e che mancherebbe all’animale. E tuttavia, come vedremo, quando si analizza il simbolismo nei suoi meccanismi elementari, non se ne trova alcuno che non figuri sia nella materia inanimata sia nelle forme più semplici della vita. La comparsa evolutiva dal pensiero razionale, con l’uso del linguaggio nei primi uomini, non rappresenta forse quella brusca discontinuità che così volentieri ci si immagina. Certamente esiste un grosso mutamento nel passaggio dall’animale all’uomo; ma, come si tenterà di mostrare più oltre, questo mutamento è probabilmente dovuto non a un’innovazione strutturale catastrofica dell’organizzazione cerebrale quanto a modificazioni negli stadi dello sviluppo individuale, associate alla presenza di un ambiente sociale che allo stesso tempo protegge ed educa il neonato. Ogni discussione sul simbolismo non può che partire dalla classificazione dei segni – così semplice e profonda – che ci ha tramandato Charles Sanders Peirce; ricordiamo che – secondo questo autore – è possibile distinguere tre tipi di segni: 1. le immagini o icone, che sono rappresentazioni grafiche più o meno fedeli dell’oggetto;

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2. gli indici, che sono entità od oggetti legati all’oggetto simbolizzato e necessari alla sua esistenza. Esempio: il fumo è un indice del fuoco; 3. i simboli: si tratta di una forma arbitraria il cui rapporto con l’oggetto significato deriva da una convenzione sociale, con validità limitata nello spazio e nel tempo. Esempio: una parola è un simbolo, perché la sua forma fonetica non ha nessun rapporto intrinseco con quella dell’oggetto significato (l’“arbitrarietà del segno” secondo Saussure). I filosofi hanno la tendenza a considerare la prima categoria di segni, le icone (o immagini), di natura banale e poco interessante ai fini della teoria del simbolismo. È lecito ritenere che abbiano torto e che un’analisi un po’ sottile dei processi dinamici che intervengono nella produzione delle immagini (la “copia”) ponga problemi di natura fondamentale, che si collocano al cuore stesso della relazione Significato → ← Significante che caratterizza il simbolo nella sua forma compiuta. Genesi dell’immagine In numerose circostanze le immagini fanno la loro comparsa in modo naturale: l’ombra di un uomo sul suolo, l’impronta di un piede sulla sabbia, sono esempi semplici di forme immagini che non sono provviste – salvo circostanze speciali – di valore simbolico. Non è meno importante analizzare la natura dei processi fisici in gioco in questi esempi. La prima osservazione è che l’immagine A' e il suo modello A sono necessariamente forme estese nello spazio. Non si può parlare di “isomorfismo”, di identità di forma, se non si è definito un gruppo di equivalenza che operi sulle forme dello spazio, in altri termini una “geo-

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metria”. In modo più preciso, supponiamo che il modello A sia definito in uno spazio euclideo U (e l’immagine A' in un aperto U'). Allora la corrispondenza A → A' è indotta da una trasformazione geometrica ?: U → U', che nel caso più perfetto è una congruenza metrica (caso dell’immagine speculare e dell’impronta) o una proiezione affine (caso dell’ombra). Si noterà che nessuno dei due aspetti U, U' può essere considerato subordinato all’altro: la corrispondenza è – almeno nel primo caso – invertibile. Questa corrispondenza è indotta da un processo fisico d’interazione, un “accoppiamento” che si esprime con l’uguaglianza metrica ?: U → U'. Il fatto è che, nel caso dell’immagine speculare o dell’ombra, l’elemento d’interazione è la luce, la cui propagazione è perfettamente reversibile (essendo invariante a un cambiamento di verso della freccia del tempo). Il carattere molto regolare di questa corrispondenza si spiega – in ultima analisi – con ciò che il fisico Wigner chiama “l’irragionevole esattezza” delle leggi fisiche. Tecnicamente: se S e S' sono due sistemi dinamici hamiltoniani che ammettono per gruppo di simmetria un gruppo di Lie G, e se li si accoppia con un’interazione hamiltoniana anch’essa G-invariante, allora questi sistemi ammettono integrali primi (almeno locali) nella duale dell’algebra di Lie di G: in questo accoppiamento, gli integrali primi (momenti cinetici) si sommano settorialmente (X + X' = cost); questo permette di identificare lo spazio U relativo a S con lo spazio U' relativo a S'. C’è tuttavia, nella formazione dell’immagine, una irreversibilità fondamentale – benché le leggi fisiche che entrano in gioco siano reversibili. Affinché un’ombra si formi, occorre che il modello sia illuminato da una sorgente luminosa, approssimativamente puntuale. La luce emanata dalla sorgente colpisce prima il modello, poi delimita l’ombra. Allo stesso modo, nella formazione dell’immagine speculare occorre che l’oggetto sia illuminato e che la superficie ri-

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flettente sia perfettamente piana. Narciso, chino sulla fonte, non potrebbe vedere l’oggetto della sua passione se non fosse illuminato dai raggi di Apollo – ma in uno specchio d’acqua perfettamente modellato dall’attrazione terrestre. In questi esempi luminosi l’immagine non è permanente; essa scompare quando scompare il modello (o la sorgente solare). Con l’impronta di una mano sulla sabbia, incontriamo un nuovo fenomeno: la “plasticità” del sistema ricettore. Quest’ultimo, se insufficientemente regolato, può ammettere un numero molto grande di forme di equilibrio. La formazione dell’immagine è uno stimolo irreversibile, che cambia la forma di equilibrio del sistema ricettore, imprimendogli la forma del modello: qui l’immagine si fa memoria. Per la realizzazione dell’impronta occorre quindi che il sistema ricettore presenti proprietà dinamiche del tutto peculiari: una dinamica hamiltoniana che ammetta un grande numero di integrali primi legati a un gruppo di simmetria e possibilità d’interazione temporanea irreversibile. Questo stato dinamico, molto particolare, verrà designato con il nome di “competenza”. Se l’ombra non viene proiettata su uno schermo insensibile, ma su una lastra fotografica sensibile, l’immagine potrà essere fissata per sempre, grazie alla competenza del sistema. Con un sistema ricettore plastico, s’intravede la possibilità che si formino immagini altrettanto stabili del loro modello (come quelle uova di dinosauro della regione di Aix-en-Provence che ci sono note solo per la loro impronta sulla roccia). Ecco allora uno stadio che è raggiunto con la dinamica della vita. Un essere vivente V fabbrica – a una certa distanza da se stesso – un essere V' che gli è isomorfo e che ben presto lo soppianterà. L’aspetto plastico delle dinamiche locali è forse un carattere del metabolismo originale (nel “brodo primordiale”); l’organismo V procede inviando stimoli localizzati (i gameti) che germinano, cioè esplodono in modo controllato nel loro in-

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torno. Il carattere controllato dell’esplosione locale è già visibile nell’emulsione fotografica. Si manifesta ancora più nettamente nello sviluppo embriologico che porta a una struttura isomorfa all’organismo genitore, con una certa traslazione spazio-temporale. A livello molecolare questo meccanismo è realizzato dalla replicazione del DNA, un filamento di cui fabbricherà, agendo da stampo, il filamento duale. In questo caso la dinamica competente è l’insieme dell’ambiente citoplasmatico, che contiene precursori, enzimi, energia chimica, ecc. All’altra estremità della scala della vita, come qualificare la percezione, se non come modificazione di una dinamica competente sotto l’impatto sensoriale della realtà esterna? Già Platone nel Teeteto comparava l’impressione che ci producono gli oggetti percepiti e lo stampo di un solido nella cera. Si noterà che in questo caso il sistema competente (per esempio retina, corteccia visiva, ecc.) ritrova a ogni istante la verginità indispensabile a una competenza totale e permanente – e ciò nonostante esiste una certa plasticità, dal momento che le sensazioni percepite vengono immagazzinate nella memoria. Riassumendo, la formazione di immagini a partire da un modello appare come una manifestazione del carattere irreversibile della dinamica universale: il modello si ramifica in un’immagine isomorfa a se stesso. Ma è molto frequente che questo processo utilizzi un’interazione a carattere reversibile. Qui la dinamica del simbolismo presenta un carattere esemplare. La termodinamica oscilla costantemente tra i due punti di vista: quello conservativo, che si manifesta con la presenza di dinamiche hamiltoniane, con la conservazione dell’energia (il primo principio), e quello eracliteo dello scorrere irreversibile del tempo che si esprime nel secondo principio (aumento dell’entropia); si è potuta ottenere la conciliazione tra i due punti di vista soltanto reintroducendo il Creatore con lo schiocco iniziale delle dita (il big bang di dieci miliardi di

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anni fa…). Nell’interazione significato-significante è chiaro che, trascinato dal flusso universale, il significato emette, genera il significante in una crescita ramificante ininterrotta. Ma il significante rigenera il significato, ogni volta che interpretiamo il segno. E, come è mostrato dall’esempio delle forme biologiche, il significante (il discendente) può ridiventare il significato (il genitore): basta l’intervallo di tempo di una generazione. È per questa sottile oscillazione tra due morfologie, per la sua esigenza simultanea di reversibilità e di irreversibilità, che la dinamica del simbolismo porta in sé (sotto forma locale, e concentrata) tutte le contraddizioni della visione scientifica del mondo, ed è l’immagine stessa della vita. Morte dell’immagine: la pregnanza fisica Si è visto che nelle interazioni tra sistemi estesi l’“irragionevole” esattezza delle leggi fisiche permette talvolta una copia fedele, di una precisione metrica totale, di un oggetto preso a modello. Cosa succede se si perturba appena, con piccole perturbazioni di carattere aleatorio, questo meccanismo d’imitazione perfetta? L’immagine si deforma, si intorbida, diventa confusa. Ma in tale deformazione alcuni caratteri morfologici resistono meglio di altri al rumore dell’interazione: sono le forme strutturalmente stabili, le forme fisicamente pregnanti. Così, nella perturbazione, la forma tende a dislocarsi in elementi localmente stabili, mentre le correlazioni globali, più fragili cedono più facilmente. Il primo stadio di questo processo, però, non conduce necessariamente a una forma irriconoscibile. Al contrario, abbastanza frequentemente, questa perturbazione raggiunge una “stilizzazione” della forma che non ne impedisce il riconoscimento. In effetti, “stilizzare” una forma significa ridurla ai suoi caratteri organizzatori fondamentali, che risultano più evidenti.

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Supponiamo che si tratti di una forma plastica; se tale forma è separata dal suo modello e sottoposta all’usura persistente del tempo, essa non può che seguire il proprio destino di dissociazione, di scomposizione ramificante e proliferante. La forma si degrada sempre più, per una proliferazione di eventi locali aleatori: cessa ben presto di essere riconoscibile. Rimando, a questo proposito, alle esperienze fotografiche di Claire Lejeune (1972), che ha fatto, di questa degradazione “solare” delle immagini fotografiche, un magnifico strumento d’indagine artistica. Nelle forme biologiche si tratta dell’invecchiamento: la forma vitale, staccata dal suo modello genetico, non può che sprofondare sovraccaricandosi di accidenti inutili. La possibilità di una teoria della pregnanza delle forme costituì il dogma fondamentale della Gestalttheorie, che W. Köhler ha difeso con ardore e lucidità. Le idee moderne di dinamica qualitativa (teoria delle catastrofi, stabilità strutturale) possono fornire a quest’idea una giustificazione che le era finora mancata. Ma, forse, il torto della Gestalttheorie fu di non aver distinto due nozioni che in effetti sono molto legate: la pregnanza fisica di una forma, che è la sua capacità di resistere al rumore delle comunicazioni, e una pregnanza “biologica”, definita come la capacità di una forma di evocare altre forme biologicamente importanti – e di essere così facilmente riconosciuta e classificata nell’universo (percettivo e semantico) del soggetto. Si può ritenere che una forma biologicamente pregnante sia necessariamente fisicamente pregnante. In generale è vero, almeno localmente. Ma non dovremmo trarne la conclusione – come ho creduto per qualche tempo – che una teoria del simbolismo possa fondarsi sulla sola pregnanza fisica della forma del messaggio. La verità è che la forma di un segno non può (almeno storicamente) dissociarsi dalla sua motivazione. Un dettaglio fisicamente pregnante non può essere significativo di per sé; risulta in

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effetti dalla teoria della stabilità strutturale che un tale dettaglio è una sorta di “atomo” irriducibile nella trasmissione delle forme. Può quindi generare solo se stesso; al contrario, il carattere significante di una forma è sempre legato alla sua instabilità morfologica che le permette, per trasmissione, di generare, attraverso un dispiegamento, un complesso di forme più semplici. Una delle ragioni che rendono la distinzione tra pregnanza fisica e pregnanza biologica così delicata è la seguente. La pregnanza biologica è legata all’evocazione di organi tipici degli esseri viventi: per un animale il riconoscimento delle prede e dei predatori è un imperativo fondamentale, e da qui nasce una sensibilità preferenziale dell’apparato percettivo nei confronti di queste forme tipiche. Ora, la forma di un organo è sempre più o meno dettata dalla sua efficacia funzionale. Soltanto le forme definite dallo schema “catastrofico” che caratterizza la loro funzione hanno la possibilità di realizzarsi organicamente. Ma l’efficacia funzionale di un meccanismo chiamato a operare nello spazio-tempo è retta anch’essa da un imperativo di stabilità strutturale a carattere fisico, dinamico. Da ciò deriva il fatto che le forme biologiche sono in larga parte sottomesse a un vincolo di pregnanza fisica – della stessa origine, in linea di principio, degli imperativi di stabilità che si incontrano nella comunicazione per accoppiamento spaziale. Tutt’al più il portato organico dell’evoluzione permette la comparsa di forme più raffinate, più sottili, più globali, metricamente caratteristiche, e perciò cariche di maggiore significazione. La differenza risiede nel fatto che la forma biologica suggerisce un’“azione”, laddove la forma fisica stabile non suggerisce altro che se stessa. Per illustrare queste considerazioni, prendiamo l’esempio del simbolismo della freccia. Il segno ← suggerisce, nelle nostre società, il verso da destra a sinistra. Si tratta di una convenzione sociale, o al contrario di un effetto intrinseco legato alla forma stessa della figura?

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Secondo una teoria della percezione dovuta a Harry Blum, ogni percezione di un oggetto implica una ricerca immediata e implicita della miglior presa manuale di questo oggetto. Ora, se si cerca di prendere la punta della freccia, le dita “fittizie” che vi si applicheranno non potranno che scivolare verso sinistra nella vana ricerca di una posizione di presa stabile. Sarebbe questa la spiegazione “biologica” del verso simbolizzato. Si può così ammettere (osservazione di Guy Hirsch) che la freccia mobile in un mezzo fluido incontri una resistenza al movimento molto minore nel suo verso “normale” piuttosto che nel verso opposto: perché le ali della freccia realizzano il contorno di una scia, quando l’asta si propaga in un liquido parallelamente al proprio asse. Ma il contorno di una scia verifica certe proprietà caratteristiche delle forme instabili, secondo la teoria di H. Blum. C’è dunque una coincidenza (tutt’altro che accidentale) tra la pregnanza biologica e la pregnanza fisica. Si sa d’altra parte che gli animali stessi sono soggetti a certe illusioni dell’ottica “classica”, il che sembra mostrare che si toccano in questo caso dei meccanismi di natura molto elementare, intrapsichica, se così si può dire. Forse una delle prove sperimentali più sorprendenti dell’esistenza di forme “archetipe” risiede nell’esistenza, in fisiologia animale, di “attivatori sovranormali” (supranormal releasers). Così, in un uccellino appena uscito dall’uovo, il riflesso di aprire il becco può scattare più efficacemente alla vista di un becco artificiale, di colore rosso, di forma piramidale (il becco “archetipo”) che non alla vista della forma, biologicamente normale, del becco dei suoi genitori. Si potrebbe dunque pensare che la determinazione e la spiegazione teorica di queste forme “archetipe” ci sveleranno il segreto della simbolica umana. Io credo che la risposta sia questa: è esatto sostenere che queste forme svolgono un ruolo importante per la morfologia esterna del segno, nel “come” dell’attività simbolica.

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Ma non ci spiegano il “perché” del simbolo, la sua motivazione iniziale. Come si vedrà più oltre, l’origine del simbolismo è da ricercarsi nei grandi meccanismi di regolazione dell’organismo vivente e della società. Credo che si potrebbe difendere la seguente idea: più un messaggio è “disinteressato”, meno grande è lo stimolo affettivo che lo genera, e più è sottomesso all’imperativo della pregnanza fisica, e manifesta una più accentuata struttura formale d’origine archetipica. Al contrario, se il messaggio è “interessato”, se risponde a una necessità biologica o sociologica urgente, immediata, è molto instabile morfologicamente; la sua forza “eccitata” si complica localmente, talvolta fino al punto di sfidare ogni formalismo, ogni regola di “buona organizzazione” interna. Le regole della sintassi violate così spesso nelle esclamazioni, negli ordini, nella poesia, ne sono un’efficace illustrazione. Si può in effetti ammettere che la regola della sintassi nelle lingue naturali sia la trascrizione temporale di morfologie archetipe sullo spazio-tempo, e trovi dunque la sua origine in un’esigenza di pregnanza fisica. Gli indici Quando si consideri un essere a definito da un nome A (sostantivo) di una lingua naturale, si potrà osservare il fatto seguente: perché l’essere a sussista con la stessa significazione, deve essere la sede di periodiche attività, indispensabili tanto alla sua permanenza fisica quanto alla realizzazione spazio-temporale della sua significazione. Per esempio, un animale, per sussistere, deve dedicarsi a tutto uno spettro di attività fisiologiche: muoversi, mangiare, bere, respirare, ecc. Un oggetto inanimato partecipa anch’esso di una serie di movimenti che ci si aspetta normalmente dalla funzione di questo oggetto: una scopa è destinata a scopare, un’auto a correre, una pietra a ca-

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dere, il fuoco a bruciare, ecc. Così a ogni sostantivo si lega in maniera canonica uno “spettro” di verbi che precisano le attività indispensabili affinché si realizzi la sua significazione. Ora, ciascun verbo descrive una morfologia “archetipo”, in cui intervengono altri esseri oltre a quello dato. Per esempio, mangiare esige una preda, o un alimento; bere, un liquido preso come bevanda e di conseguenza un recipiente contenente il liquido; il fuoco, bruciando, emana del fumo; ecc. Ogni essere che intervenga in tale morfologia (complemento oggetto, complemento indiretto, eccezionalmente soggetto) sarà chiamato un indice a dell’essere a. Nelle lingue classiche, la relazione tra un essere a e il suo indice a si esprime ordinariamente con il genitivo: a di a. Esempio: il fumo del fuoco, il becco dell’anatra, la coda dello scoiattolo… Dal momento che ogni morfologia verbale descrive un processo d’interazione in cui gli attanti entrano in contatto, ne risulta che l’indice è sempre un attante, che è, o è stato, in contatto con il suo oggetto, quando non ne è una parte. (Aggiungo en passant che l’indice, in generale, non occupa il posto dell’attante soggetto nella catastrofe verbale; esistono criteri morfologici precisi nella topologia dell’interazione, che permettono in numerosi casi di evidenziare quale sia l’attante soggetto). Molto spesso, sostituiamo un essere con uno dei suoi indici, conferendo a quest’ultimo un valore simbolico. Nel linguaggio, questo procedimento è all’origine di numerosi tropi (la metonimia, in particolare: la parte per il tutto). Ma ciò che conta è rilevare come nella coppia (a, a) di un essere e di uno dei suoi indici l’indice a non abbia di per sé valore o funzione simbolica. Non sarà così che se 1) l’essere (a) è esso stesso indice di un attante b, preso come soggetto di riferimento, se la catastrofe che lega a a b è di grande importanza (biologica o semantica) per b; 2) se l’essere (b) viene accidentalmente in relazione con (a), la catastrofe verbale che fa di (a) un attante nella ca-

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tastrofe di (b) non è di per sé indispensabile alla stabilità semantica di (b). (In altre parole a non è in se stesso un “indice” di b). Esempio 1: (a) è una gazzella; (b) una tigre. La catastrofe a → b è la predazione, di grande importanza biologica per b. L’indice (a) di a potrà essere una traccia della gazzella sul terreno, o una deiezione, e la catastrofe a → a sarà allora una catastrofe standard di emissione. Se la tigre nota accidentalmente l’indice (a), tutto porta a ritenere che sarà abbastanza profondamente coinvolta, di modo che è legittimo dire che (a) è, per essa, “simbolo di gazzella”. Il “rigetto” si fa “progetto”. Esempio 2: (a) è una bevanda, vino per esempio; (a) la bottiglia che la contiene; (b) un bevitore inveterato. Le catastrofi qui sono evidenti; si noti che la bottiglia vuota conserva un valore simbolico per (b), minore di una bottiglia piena. Le esperienze ben note di Pavlov rivelano che un finto indice (a') può assumere valore simbolico per l’essere animato (b); è sufficiente per questo che la catastrofe a → b sia una catastrofe biologicamente importante (predazione per esempio). Allora a' → a può essere soltanto una semplice contiguità spazio-temporale (il suono di un campanello all’arrivo del cibo). Taluni vedono in questa ipostasi, dalla contiguità spazio-temporale alla causalità, l’indice di un’inferiorità tipica dell’animale rispetto all’uomo. Dimenticano che, secondo l’empirismo di Hume, o secondo la moderna fisica delle particelle elementari, è praticamente impossibile dissociare causalità e contiguità spazio-temporale. Si può vedere, infine, in questa comparsa umile, ma reale, della funzione simbolica, una sorta di lisciamento dell’importanza biologica, o semantica, di una catastrofe. Non è importante, in sé, che (b) s’imbatta accidentalmente in (a), ma se (b) sa che (a) è semanticamente o biologicamente legato ad (a), che è un indice indispensabile di (b),

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allora (a) tende a diventare anch’esso un “indice” di (b), come se la relazione (a) → (b) acquistasse – per l’intervento dell’intermediario (a) – un’importanza intrinseca. È come se la relazione “a indice di a” diventasse una relazione di ordine. Quest’analisi mostra che l’attività simbolica è – alle sue origini – legata in modo essenziale alla regolazione biologica, o più esattamente, come dicevano gli autori antichi che non avevano paura delle parole, alla finalità biologica. Essa lo è in due modi: da una parte c’è un’estensione dell’efficacia dei grandi meccanismi di regolazione (estensione del bacino delle catastrofi favorevoli a (b), diminuzione di quello delle catastrofi sfavorevoli); dall’altra parte, essa postula la possibilità nell’attante (b) di simulare nel proprio psichismo la relazione che lega a al suo indice a, dunque una certa forma di intelligenza. Il fatto che inizialmente – come mostra lo schema pavloviano – questa simulazione sia solo una semplice associazione, non impedisce di considerare che si tratta del primo riverbero, nella dinamica plastica e competente dello psichismo di (b), di un legame spaziotemporale esterno, interpretato non senza ragione come causale. Se la specie canina avesse dovuto, per sopravvivere, passare un gran numero di generazioni nei laboratori pavloviani, avrebbe senza dubbio finito con il reagire differentemente… In ogni caso, il segnale sperimentale a' giunge, grazie all’addestramento, a svolgere lo stesso ruolo di un indice vero e proprio. È già un “simbolo”, perché la relazione interna tra la morfologia di a' e quella di a è arbitraria, e la loro associazione non si è potuta stabilire che attraverso una procedura sperimentale di natura artificiale: la relazione a' → a si acquisisce in (b) alla fine di un processo di addestramento, cioè di una successione di avvenimenti nella quale interviene la volontà di individui diversi dal soggetto, un effetto “sociale”. La si-

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tuazione non è dunque fondamentalmente diversa – all’inizio – da quella del linguaggio. In ogni modo, perché l’addestramento riesca, si deve “rinforzare” l’effetto, facendo leva su grandi regolazioni biologiche: l’alimentazione, la sessualità. Solo queste “catastrofi” fondamentali della finalità biologica hanno nell’animale il potere di generare il simbolo; non è così nell’uomo, dove questa proprietà di “lisciatura”, questa transitività dell’indice, si generalizza anche agli oggetti, a concetti biologicamente indifferenti. Il simbolismo nell’uomo Nell’uomo, come nell’animale, l’attività simbolica ha origine nella regolazione, nell’omeostasi dell’organismo vivente, come pure nella stabilità del corpo sociale. In quanto sistemi organizzati, l’organismo o la società ristabiliscono in seguito a uno stimolo esterno i loro equilibri con l’intervento di “riflessi”, cioè descrivendo nello spazio degli stati del sistema certe traiettorie privilegiate e attrattrici (i “creodi” di C. H. Waddington). Ciascuno di questi attrattori ha un bacino, come ogni corso d’acqua ha il suo bacino idrografico. Ma la regolazione di un tale sistema (organico o sociale) non è mai perfetta – in ragione di vincoli di natura topologica; esistono punti deboli in questa “figura di regolazione”. Per esempio le soglie, frontiera tra i bacini di due riflessi, perché in questi punti l’organismo esita sul riflesso che dovrà utilizzare; inoltre si possono anche avere, nello spazio degli stati, punti eccezionali dove si scatena una catastrofe svantaggiosa per l’organismo, ma d’ampiezza limitata. Infine la stessa figura di regolazione è limitata da catastrofi con effetto letale e irreversibile, la morte. Per un sistema, tutta l’evoluzione biologica (o sociologica) consiste nello strutturare nel modo migliore la propria figura di regolazione, cosicché nell’ambiente dato le ca-

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tastrofi favorevoli all’organismo vedono aumentare il loro bacino, e le catastrofi sfavorevoli lo vedono diminuire. Questa estensione dei bacini si realizza con l’affettività (dolore o piacere) e la simbolica. Si vede immediatamente, di conseguenza, che si avranno due tipi di segni: segni attrattori, tendenti ad aumentare l’efficacia delle catastrofi favorevoli, segni repulsori (inibitori) tendenti alla prevenzione delle catastrofi sfavorevoli. Ogni simbolica ha dunque all’inizio un valore imperativo, a lungo rimasto quasi inconscio, legato al sentimento del sacro, all’ipostasi originale del simbolo che spiegheremo tra breve. Di qui deriva anche l’autonomia semantica e sintattica del verbo nella sua forma imperativa (I!). Ammesso questo, resta da spiegare – ed è questo in linea di principio il fine stesso della “semiologia” – come la motivazione finalista del segno possa generare la propria morfologia, le proprie regola di struttura, interna. È possibile dare a questo riguardo una regola semplice e di grande generalità: il principio del cammino inverso. A dire il vero questo principio non determina la forma propria del segno (icona, indice o simbolo); ma la sua localizzazione spazio-temporale. Non va dimenticato che i segni sono anzitutto forme dello spazio-tempo e che di conseguenza la loro localizzazione spazio-temporale è uno dei primi fattori da prendere in considerazione. Per enunciare questo principio sarà necessario un minimo di vocabolario di topologia differenziale. Sia U lo spazio degli stati di un sistema, che si suppone essere un campo dello spazio euclideo a n dimensioni. Molto spesso, l’insieme dei punti “catastrofici” (in senso usuale) del sistema, punti che portano a una distruzione locale o totale del sistema, forma uno spazio di dimensione (n – k), una sottovarietà di codimensione k. In effetti, la comparsa nell’evoluzione delle catastrofi sfavorevoli o pericolose è di necessità relativamente rara, e se così non fosse l’omeostasi non potrebbe esser preservata.

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Si esprime questo fatto dicendo che tali punti catastrofici formano una sottovarietà J di codimensione finita: si tratta di fatti rari ma non eccezionali. Si consideri allora l’insieme Γi delle traiettorie che vanno a finire in J1. Questo insieme di posizioni iniziali anteriori alla catastrofe forma una specie di cono Γi; allo stesso modo, l’insieme dei possibili esiti della catastrofe forma un cono di traiettorie Γ0. In generale, d’altronde, gli stati finali della catastrofe costituiscono un sottoinsieme ω0 ben definito, compatto, nello spazio U (che esprime il ben noto proverbio: “Bene o male, le cose finiscono sempre per arrangiarsi”): Un fatto importante è l’indeterminazione pratica della catastrofe: una variazione molto debole delle condizioni iniziali può comportare una grande variazione degli effetti, come suole accadere nell’intorno di una soglia, di un punto critico. Esempio: uno scontro a un incrocio stradale. Supponiamo che due strade si incontrino ad angolo retto in un punto O del piano. Si prendano quali assi Ox, Oy del piano gli assi delle due strade. Supponiamo che due veicoli si muovano lungo queste due strade, ciascuno con una coordinata (x, velocità x') e (y, velocità y'). Si avrà collisione se all’istante iniziale t0 si ha x'0/x0 = y'0/y0. L’equazione x'0y0 – x0y'0 = 0 rappresenta dunque il cono Γi d’entrata in catastrofe. Il cono d’uscita Γ0 non può essere descritto in modo semplice, poiché la traiettoria di un veicolo dopo la collisione non può essere precisamente calcolata. Ma l’insieme ω0 degli stati finali sarà intuitivamente ben rappresentato dall’insieme di relitti che cospargono un intorno di O dopo una serie di collisioni. Detto ciò, si consideri l’insieme Γi + Γ0 come immerso nell’insieme delle traiettorie che sfiorano la catastrofe. Questa dinamica globale permette di trasformare in modo continuo un interno τi della base di Γi in un intorno τ0 di ω0 (cfr. figura 1). Sia h: τi → τ0 questa trasformazione.

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Figura 1

D’altra parte, la catastrofe in O implica in generale dei cambiamenti morfologici, spesso irreversibili, per gli attanti che vi sono implicati. Ci sono di conseguenza degli indici, attanti derivati dalla catastrofe o implicati nella sua preparazione… Il principio del cammino inverso si enuncia nel modo seguente: per prevenire una catastrofe sfavorevole, si considera un indice α0 derivato dalla catastrofe; esso si trova dunque in un intorno della varietà W0 degli stati finali. Si riporta allora questo attante, con la trasformazione inversa h-1α0 → τi in un intorno degli stati iniziali, dove lo si realizza “ironicamente”. Per favorire una catastrofe benefica, si realizza ironicamente un attante implicato nella preparazione della catastrofe, sempre nell’intorno di τi. Esempio 1: il segno di “pericolo” nella segnaletica stradale è spesso rappresentato da un teschio; si tratta di una disposizione estetica dell’esito letale della catastrofe. Il segno ordinario di pericolo (punto esclamativo) è la stilizzazione di una situazione instabile come quella di un ago che sta sulla punta. Esempio 2: il segno “ristorante” sulle autostrade è rappresentato da due posate incrociate. Si tratta evidente-

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mente di un indice che predispone alla catastrofe d’ingestione, localizzato sulla strada di accesso al ristorante. Qualche volta non si ha nemmeno la rappresentazione di un indice, ma una semplice “barriera di potenziale” con effetto repulsivo. Se per esempio si ha una buca nella carreggiata, si porrà una leggera barriera “simbolica” alcuni metri prima della buca, in direzione dei veicoli che sopraggiungono. In tutti questi casi la catastrofe fa parte dell’universo semantico degli utenti; l’autorità che installa il segnale si limita a procedere a una simulazione della catastrofe più rigorosa di quella, abbastanza vaga e generale, che è presente nella mente degli utenti, ed è in funzione di questo calcolo che localizza il segnale di avvertimento. Una catastrofe può avere numerosi attanti, tanto anteriori che posteriori. Così la scelta dell’indice rappresentato è abbastanza arbitraria: ci si baserà semplicemente sul carattere più o meno pregnante (fisicamente e biologicamente) della figura scelta. È in questa arbitrarietà che si palesa l’origine dell’arbitrarietà del segno saussuriana. Localizzazione e significazione Il numero delle catastrofi fondamentali da evitare, o da provocare, nella regolazione dell’organismo o della società è relativamente limitato. Così ci si può accontentare di un codice finito di segnali, che mirano a prevenire o a favorire queste catastrofi: siamo dunque portati molto presto a fare la distinzione tra la significazione intrinseca del segno (il tipo di catastrofe evocata) e la sua localizzazione spazio-temporale, che è il campo dello spazio-tempo dove il segno esercita la sua azione imperativa (o talvolta, “performativa”, secondo la terminologia della scuola di Oxford). Perché il segno realizzi pienamente il suo effetto, bisogna che la

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sua focalizzazione sia “ragionevole”, cioè data secondo il principio del cammino inverso: che significato avrebbe un segno di stop in mezzo a un campo di barbabietole? Da questa analisi risulta che l’attività simbolica, se vuole essere efficace, si fonda necessariamente su una simulazione mentale della catastrofe da evitare (o da provocare). Si è visto che una tale simulazione si delinea già nell’animale sottoposto a un addestramento di tipo pavloviano. Uno degli aspetti tipici dello psichismo umano è il carattere “aperto” delle catastrofi da prevenire per mezzo del simbolismo. Nella misura in cui l’organizzazione sociale evitava all’uomo il pericolo delle catastrofi biologiche immediate (come la fame, la guerra, ecc.), la dinamica mentale si è sforzata di prevenire le catastrofi più rare, più straordinarie (di dimensione più elevata, secondo la terminologia di cui sopra). Questo ha richiesto una descrizione con simboli più estesi, più articolati, nella misura stessa in cui si poteva descrivere la catastrofe rara come “collisione accidentale” (geometricamente, intersezione trasversale) di catastrofi più banali. Con il linguaggio ha fatto la sua comparsa la possibilità di una descrizione relativamente precisa – almeno qualitativamente – dei processi spazio-temporali del nostro ambiente. Nella misura in cui il simbolismo si fa esteso, ciascuno dei suoi elementi perde in valore imperativo, e acquista in potere descrittivo; infatti, il valore imperativo può solo essere associato al simbolo globale e si diluisce necessariamente su ciascun simbolo parziale. Il linguaggio ha acquistato così il ruolo di relé sensoriale: esso permette al locutore A di descrivere ciò che vede all’uditore B; anche se B non può vedere in prima persona l’avvenimento descritto, lo può immaginare attraverso il racconto di A. La possibilità di simulazione dello psichismo, originariamente devoluta alle sole catastrofi della regolazione biologica, ha finito così per estendersi a tutti i fenomeni del mondo macroscopico. Questo ha permes-

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so una simulazione sempre più fedele dei fenomeni esterni da parte della mente. Come si è potuto effettuare un tale salto? Dall’animale all’uomo Sui meccanismi evolutivi che hanno permesso la comparsa dell’uomo evidentemente non si possono fare che delle congetture. Ma forse è possibile dare una descrizione leggermente più precisa di quel cambiamento radicale. Per fare ciò bisogna sforzarsi di comprendere lo psichismo animale “dal di dentro”. A mio giudizio, lo psichismo animale si distingue da quello umano per tre aspetti essenziali. 1. L’alienazione nelle cose Su può pensare che la vita psichica dell’animale sia costantemente catturata da certi automatismi (certi “creodi”) legati alla percezione degli oggetti importanti biologicamente, come prede e predatori. Infatti, un’analisi dei meccanismi messi in atto nell’embriologia porta a pensare che, in un modo quasi simbolico, il predatore affamato è la sua preda, si identifica psichicamente con essa. Soltanto quando intravede la sua preda reale, esterna, si produce la catastrofe di percezione. Ridiventa se stesso nel momento stesso in cui si scatena il processo motorio di cattura della preda. Da questo punto di vista, il simbolismo primitivo legato alla predazione si spiega facilmente: se il predatore (B) s’identifica con la sua preda (A) si comprende facilmente come un “indice” di A sia ipso facto un indice di B, senza dover fare intervenire una proprietà transitiva della relazione “indice di”. (Questo può essere vero anche al livello della morfologia organica: quando un animale come la lampreda ha l’estremità della lingua a forma di verme e

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l’utilizza come esca per attirare i pesciolini che sono le sue prede, si può dire che l’esca è qui un indice morfologico del predatore). 2. La discontinuità della soggettività A causa del fascino esercitato dagli oggetti, l’ego dell’animale non è un’entità permanente. L’ego si riforma solo quando cominciano a funzionare i grandi riflessi motori – e forse nella soddisfazione degli istinti. In particolare, l’animale non ha (in generale) una coscienza permanente del proprio corpo, in quanto campo preferenziale dello spazio. (Invece una simulazione interna permanente dello stato meccanico del corpo è indispensabile all’efficacia dei movimenti). In ragione di questo fatto, la distinzione soggetto-oggetto non esiste in lui in modo permanente. 3. La rappresentazione dello spazio geometrico Nell’animale la rappresentazione interna dello spazio non ha per immagine lo spazio euclideo della geometria: il suo spazio è un’unione di carte distinte, ciascuna associata a un ego ben definito e destinata a un comportamento motorio o fisiologico ben determinato (territori per la caccia, per dormire, per l’accoppiamento, per la nidiata, ecc.), e si passa da una carta all’altra attraverso dei segni di riferimento spaziali (visivi od olfattivi) ben definiti. (Beninteso, in certi animali, come gli uccelli migratori, alcune di queste carte possono essere di una portata immensa; ma ciò nondimeno ciascuna di esse è centrata su un punto a vocazione fisiologica ben individuata). Nell’uomo questi tre caratteri si sono evoluti come segue. 1. La fascinazione delle cose è scomparsa dallo psichismo umano; molto verosimilmente l’attività simbolica e la comparsa del linguaggio hanno svolto un ruolo essenziale in questa evoluzione. L’uomo si è liberato dalla fasci-

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nazione delle cose dando loro un nome; lo psichismo umano si è in qualche modo esfoliato; la rappresentazione primitiva dello spazio – semicosciente – si è divisa e ha creato uno (e più) spazi dello stesso tipo: gli spazi semantici, dove si sono installati gli “attanti”: i concetti. La regolazione di questi attanti sul loro spazio semantico fa appello a dei meccanismi di tipo “riflesso”, analoghi alla regolazione dell’organismo stesso. Per mezzo di una esfoliazione più spinta in direzione della superficie, si sono creati gli automatismi del linguaggio, sorta di attanti universali che intervengono nella regolazione dei concetti. 2. Liberato così dalla fascinazione delle cose, l’ego ha potuto costituirsi in modo permanente, prendendo come supporto la rappresentazione del proprio corpo nello spazio. 3. Lo psichismo umano è stato capace di integrare, l’una nell’altra, le carte funzionali primitive per costituire la rappresentazione globale dello spazio della geometria. (Per esempio, la nozione di retta infinita si spiega con l’operazione, indefinitamente ripetuta, di misurare una lunghezza: collocare un metro all’estremità di una lunghezza è la forma purificata e gratuita dell’incollamento fra due carte). Delle alienazioni primitive è rimasto solo un certo sentimento del sacro, legato a certi oggetti (tabù, feticci). Molto tempo dopo la ricostruzione mentale globale dello spazio, l’uomo è stato capace di comprendere che il fondamento dell’identità delle cose è nella loro localizzazione spaziale: “Due cose che occupano simultaneamente due campi disgiunti dello spazio non possono essere identiche”. Questo postulato ha impiegato lungo tempo per imporsi, e il pensiero “primitivo”, o magico, la partecipazione (nel senso di Lévy-Bruhl), hanno rappresentato l’ultimo appiglio per le alienazioni primitive. A partire da questo postulato – di cui l’uomo moderno è a malapena cosciente – si dedurrà facilmente che, dal momento che l’identità di una cosa ha il suo principio

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nella sua localizzazione spaziale, ogni ontologia, ogni semantica passano necessariamente da uno studio dello spazio – geometrico o topologico. Nello sviluppo del bambino, si sa che il periodo da uno a tre anni è critico: se il bambino non sente parlare i genitori (o chi ha intorno) in questo periodo, l’acquisizione del linguaggio e lo sviluppo intellettuale saranno irrimediabilmente compromessi. L’immaturità relativa del neonato umano gli permette di conservare a lungo, molto plastica, molto flessibile, la rappresentazione primitiva dello spazio; i grandi schemi motori si formano tardi, come le prime parole. Non è assurdo pensare che – secondo la legge di ricapitolazione – il bambino passi per un periodo di alienazione primitiva in cui alcuni esseri e oggetti esercitano su di lui una fascinazione totale. La presenza di stimoli verbali esterni legati alla comparsa di questi esseri svolge un ruolo induttore (nel senso dell’embriologia) in questa struttura competente, che è il campo spaziale primitivo. Queste forme estraggono il proprio spazio dallo spazio primitivo per esfoliazione, appoggiandosi allo schema auditivo e articolatorio della parola corrispondente, il che libera il soggetto dalla loro fascinazione. Successivamente, lo stesso schema di esfoliazione, di ramificazione prosegue per questi spazi semantici, cosa che condurrà alla costituzione dello spazio semantico dell’adulto. Nel neonato animale, costretto a spostarsi molto giovane, una tale immaturità del campo spaziale primitivo è impossibile: le attività motorie lo strutturano e lo sclerotizzano prima che l’effetto induttore di un ipotetico linguaggio esterno possa entrare in gioco. Allo stesso tempo, liberato dalla tirannia di queste forme alienanti, lo spazio può diventare il quadro vuoto della geometria, della meccanica. Il gruppo delle traslazioni spazio-temporali opera allora nello spazio semantico: così il linguaggio umano permette la descrizione di un processo lontano (nello spazio e nel tempo) e libera lo spiri-

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to dalla tirannia dell’hic et nunc a cui l’animale rimane sottomesso. Forse in ciò la vita non ha fatto altro che portare al limite uno dei suoi meccanismi fondamentali; a partire dal momento in cui fabbrica un uovo, un organismo vivente ha il progetto di colonizzare lo spazio e il tempo, si sottrae all’hic et nunc. La funzione essenziale dell’intelligenza umana, simulare le leggi, le strutture del mondo esterno, non è altro che il prolungamento – o l’esplicitazione – di questo disegno primitivo. Non è forse assurdo vedere nelle pratiche più elaborate dello psichismo umano – per esempio nella scoperta matematica – un prolungamento diretto di questo meccanismo di creazione simbolica. In effetti, esplorando una nuova teoria, armeggiando con questo nuovo materiale, il matematico può talvolta percepire un’espressione A – o una relazione – che rispunta con insistenza fastidiosa sotto la sua penna; egli sarà allora tentato di introdurre un nuovo simbolo per condensare questa espressione in un simbolo compatto e riprendere così il calcolo su nuove basi. Questa semplice procedura può talvolta condurlo al successo, più spesso egli avrà l’idea di nuove espressioni da condensare, di nuove figure da costruire e da nominare, sospettando a priori le loro proprietà. Introdurre un nuovo simbolo consiste, nel momento in cui si scrive, nel favorire la lacerazione, l’esfoliazione del campo semantico, che sarà il supporto del nuovo attante, e nel liberare così il procedimento mentale da presenze ossessive che lo intralciano. Si sa che verso i diciotto mesi il neonato inizia il suo balbettio. Esso prende coscienza delle sue possibilità di articolazione, e – dicono gli specialisti – forma a questa età i fonemi di tutte le lingue del mondo. I genitori gli rispondono nella loro lingua e dopo un po’ di tempo il bambino non emette più che i fonemi di questa lingua, di cui qualche mese più tardi padroneggerà il vocabolario e la

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sintassi. Io vedrei volentieri nel matematico un eterno neonato, che balbetta di fronte alla natura; soltanto quelli che sanno ascoltare la risposta di Madre Natura arriveranno più tardi ad aprire il dialogo con essa e a impadronirsi di una nuova lingua. Gli altri non faranno che balbettare, mormorare a vuoto – bombinans in vacuo. E dove, mi chiederete, il matematico può sentire la risposta della natura? La voce della realtà è nel senso del simbolo.

* Pubblicato per la prima volta nei «Cahiers internationaux du Symbolisme», nn. 22-23, 1973, pp. 85-106. Trad. it. di Silvia Costantini, ampiamente riveduta e integrata da Pier Daniele Napolitani e Roberto Pignoni sulla seconda edizione francese e sull’edizione inglese, in Modelli matematici della morfogenesi, Torino, Einaudi, 1985, pp. 300-318. Dall’icona al simbolo è l’articolo princeps del mio interesse per la semiotica. In un articolo più recente (Thom 1980a) ho ripreso l’interpretazione “spazio-temporale” della classificazione di Peirce: icone, indici, simboli. 1 Rispettiamo il simbolismo adottato dall’autore, facendo tuttavia rilevare che l’indice i di Γi, τi, ωi va inteso nel senso di “iniziale”, e non come “indice” di un rappresentante di una famiglia di oggetti (N.d.T.).

Psichismo animale e psichismo umano

L’articolo è il testo di una comunicazione presentata al Colloquio dell’UNESCO sull’origine del linguaggio (Parigi 1981). In questa formulazione, un po’ più sviluppata, della teoria delle salienze e delle pregnanze, mi sono soffermato sul tema del passaggio (continuo o discontinuo?) dall’animale all’uomo, proponendo una speculazione sulle origini che avrebbe assunto forma quasi definitiva nei capitoli 1 e 2 della mia Sémiophysique. Sono pochi i problemi che chiamano in causa l’opposizione continuo-discontinuo in modo altrettanto netto e drammatico di quanto avviene per l’origine del linguaggio umano. Il linguaggio umano infatti – ossia le nostre lingue – è nato senza alcun dubbio dai sistemi di comunicazione animali in uso presso i gruppi di primati prima della loro trasformazione in ominidi; ma è possibile definire un confine netto tra quello che fu il linguaggio animale e ciò che è divenuto il linguaggio umano? In questa sede non ho certo la pretesa di fornire una risposta definitiva a una domanda cui dubito potremo mai dare una risposta empiricamente verificabile; più modestamente, la mia ambizione è tracciare una descrizione di tale trasformazione entro una cornice concettuale a mio giudizio originale. Questa descrizione tenderà a sottolineare al tempo stesso il carattere “continuista” del passaggio – concependo il linguaggio umano come tappa di un grande processo evolu-

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tivo, il cui obiettivo è liberare l’eredità genetica dal suo supporto chimico per consentirle di estendersi a tutte le forme geometriche – e un carattere discontinuo – vale a dire la sfaldatura generalizzata delle grandi pregnanze biologiche da cui ha origine il pensiero concettuale umano. Comincerò, dunque, dando una descrizione dello psichismo animale. La funzione simbolica nello psichismo animale: salienza e pregnanza È ovvio che qualunque descrizione dello psichismo degli animali superiori può solo essere frutto di congetture. Ciononostante, non è affatto possibile considerare avventata la concezione che attribuisce agli animali una coscienza simile alla coscienza umana e definita nel modo seguente: la coscienza è una mappa locale dell’ambiente, che contiene l’immagine dell’organismo come ambito privilegiato e nella quale l’apparato sensoriale fornisce le forme degli esseri biologicamente significanti – come le prede, i predatori, i partner sessuali ecc. Poiché ogni organismo ha l’obbligo di “calcolare” i propri spostamenti in funzione di uno scopo che spesso è estremamente preciso e talora difficile da raggiungere, l’esistenza di tale mappa si rivela necessaria. In simili condizioni, alcuni stimoli sensoriali si impongono a causa del loro carattere inatteso e discontinuo: sono figure che si delineano su uno sfondo indifferenziato, come un tintinnio di una campanella o un lampo di luce. Chiamerò dunque salienti questi eventi sensoriali che colpiscono i sensi e salienza (in inglese saliency) il loro carattere di violenta e improvvisa discontinuità. Sebbene questi stimoli salienti possano saturare temporaneamente un apparato sensoriale imprimendosi nella memoria immediata, avranno tuttavia scarsi effetti, a lungo termine, sul comportamento motorio o affettivo

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del soggetto. Al contrario, alcune forme percepite, proprio perché biologicamente significative, eserciteranno sul soggetto effetti (di attrazione o repulsione) provvisti di lunga durata: è il caso delle forme di prede, predatori, partner sessuali ecc. Chiamerò pregnanti queste forme significanti, e pregnanza il carattere a esse associato. Quelle pregnanti, insomma, sono forme che danno origine a un comportamento motore specifico, associato a importanti modificazioni ormonali del metabolismo. Ricordiamo ancora una volta l’esperienza classica del cane di Pavlov: se poniamo dinanzi a un cane un pezzetto di carne accompagnando tale presentazione con un tintinnio di una campanella, dopo un numero abbastanza elevato di repliche di questa esperienza il solo tintinnio della campanella basterà a provocare nel cane un comportamento che manifesti appetito (ad esempio la salivazione). Questo fenomeno può essere interpretato nel modo seguente: una forma saliente – il tintinnio della campanella – ha acquisito per contiguità spazio-temporale con una forma pregnante – il pezzetto di carne – l’identica pregnanza alimentare indottale dalla forma pregnante fonte. Inoltre, il tintinnio della campanella, forma pregnante indotta, potrà comunicare a sua volta la stessa pregnanza a una nuova forma saliente – posto che le sia associata con sufficiente frequenza. Si può pertanto sostenere, con valide ragioni, che una pregnanza si comporta nel campo fenomenico delle forme vissute come un fluido erosivo, infiltrandosi nelle “fratture” del reale che costituiscono le forme salienti. Questa propagazione della pregnanza si realizza, inoltre, in base alle due modalità alternative della contiguità e della similarità – ed è opportuno a riguardo ricordare che nel suo Ramo d’oro Frazer aveva distinto fra due tipi di magia (magia per contatto e magia per similarità, appunto), senza trascurare, in ambito linguistico, il riferimento ai due “assi” saussuriani (sintagmatico e paradigmatico).

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Se tuttavia la pregnanza si propagasse tra le forme salienti in questo modo senza perdere nulla della propria originaria vivacità, ne seguirebbe ben presto una vera e propria catastrofe fisiologica – come ad esempio il caso di un animale che vedesse in qualunque forma esteriore una possibile preda. Di fatto, però, nella forma indotta la pregnanza è in genere meno attiva di quanto non lo sia nella forma che induce la pregnanza; inoltre, essa tende ad affievolirsi nel corso del tempo qualora non venga rinnovata l’associazione con la forma fonte. È pertanto legittimo sostenere che, nella situazione creata dall’esperimento di Pavlov, il tintinnio della campanella è per il cane un segno della carne: si tratta della forma primitiva del rinvio simbolico, che rappresenterò servendomi della notazione A → B: la formula indica che A è segno (che sta) per B. Analogamente designerò con R(A) l’insieme di reazioni psico-fisiologiche suscitate nel soggetto dalla percezione della forma A; se dunque abbiamo A → B, A segno (che sta) per B, allora è legittimo sostenere che R(A) ⊂ R(B), ossia che il primo insieme è incluso nel secondo come suo sottoinsieme (dato che la pregnanza ha meno effetti in A che in B). Del resto il rinvio simbolico soddisfa anche il principio di transitività: A → B e A → C implica A → C. Se in un’ottica comportamentista identifichiamo la significazione di una forma A con l’insieme R(A) delle reazioni che essa suscita, se ne deduce immediatamente che qualora la categoria del rinvio simbolico contenga un ciclo A1 → A2 → … → Ak → A1 tutte le forme Aj faranno parte di un identico insieme di reazioni R(Aj) – e di conseguenza avranno la stessa significazione. In linea di principio, pertanto, nella categoria non vi è alcuna relazione ciclica e vi saranno quindi forme dotate di valore massimo per una data pregnanza: le chiamerò forme fonte di quella specifica pregnanza. Per una tale forma fonte S, pertanto, l’insieme R(S) ha valore massimo; e poiché a partire da S non può essere compiu-

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ta alcuna ricerca simbolica – trattandosi appunto dell’elemento terminale – l’attività connessa a R(S) si manifesta in genere mediante un comportamento motorio (di appetizione o di fuga). Ma c’è un’eccezione: è possibile, infatti, che esista una forma M che l’individuo può emettere e sia “simbolo” di S in senso pieno; in questo caso, alla vista di S l’individuo può a volte emettere (M) – e la forma (M) percepita dagli altri membri della collettività svolgerà lo stesso ruolo di (S). Ecco un esempio tipico: (S) è un predatore (temibile); (M) sarà allora un grido d’allarme il quale, percepito nella collettività, provocherà i riflessi di fuga adatti in casi simili. Mentre la categoria del rinvio simbolico dipende in generale dalle circostanze particolari vissute dal soggetto, una forma simbolo come (M) assume un valore sociale indipendente dall’individuo preso in esame; si può dunque considerare (M) come un propagatore della pregnanza, la cui significazione è appresa dal giovane soggetto grazie a esperienze collettive di fuga o assembramento. In tal modo le forme fonte danno origine – dal punto di vista delle reazioni che suscitano – alla biforcazione simbolica: posto dinanzi a una forma di questa natura, il soggetto può scegliere fra una reazione motoria regolativa immediata di natura egocentrica e l’emissione del corrispondente simbolo (M) – reazione, quest’ultima, di natura sociale e altruista: così, ad esempio, all’avvicinarsi di un predatore il soggetto potrà sia darsi alla fuga sia emettere il grido d’allarme (M) e rischiare per questo di attirare su se stesso l’attenzione del predatore; allo stesso modo, dopo aver scoperto una fonte di cibo, il soggetto potrà senza dubbio tenere per sé questa informazione (e di conseguenza nutrirsi), ma potrà anche optare per un comportamento opposto e attirare l’attenzione della collettività su questa nuova risorsa alimentare mediante un richiamo convenzionale. Se escludiamo il caso dei cicli associati ai simboli – come S1 → M2 → (S) –, le pregnanze si comportano allo stes-

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so modo dei gradienti di funzioni reali P: se A è segno per B, e dunque A → B, allora per una qualunque pregnanza P avremo che P(A) < P(B) e la funzione assumerà il suo valore massimo per la forma fonte S. Nell’animale – e anche fra gli animali superiori – esiste probabilmente soltanto un piccolo numero di pregnanze indipendenti e dunque un piccolo numero di forme fonte. Ci si può chiedere allora se le forme fonte siano innate, codificate geneticamente. Ma se è abbastanza facile valutare in che modo una codifica biochimica possa produrre un gradiente di pregnanza (basti pensare ai ferormoni tra gli insetti), all’opposto è davvero difficile capire in che modo una simile codifica possa specificare la forma geometrica – ossia visiva – destinata a essere la forma biologica normale che svolge il ruolo di forma fonte per una pregnanza data. La forma stessa della specie non è codificata geneticamente, come dimostrano i classici fenomeni di imprinting; la biochimica può infatti codificare soltanto – e in un momento determinato dello sviluppo, il periodo critico – una deformazione della mappa dell’ambiente che conduce alla creazione di un’ “ansa simbolica” tra il corpo del soggetto e il corpo dell’organismo fonte della pregnanza. Quest’“ansa” realizza un’identificazione tra quelli che nella mappa ambientale appaiono come i due “buchi neri” – vale a dire il corpo proprio del soggetto e il corpo dell’organismo “amato” (per servirsi di un termine antropomorfo): si verifica, così, un incontro nello spazio che, in questo momento critico, satura il “buco nero” fonte di pregnanza. Una volta realizzato tale incontro, l’ansa si infrange seguendo un “ciclo di scomparsa” la cui traccia nel corpo del soggetto è soltanto la forma visiva dell’oggetto incontrato, ridotto ormai allo stato di ricordo. Ma non appena la pregnanza ricompare, sotto l’influsso di fattori ormonali, l’ansa simbolica potrà ricostituirsi ogniqualvolta il soggetto si imbatterà in una forma che somiglia anche solo approssimativamente alla forma responsabile del-

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l’imprinting: questa identificazione simbolica non è altro che la geometrizzazione del desiderio del soggetto. Non vi è alcun dubbio che, a poco a poco, durante i millenni dell’evoluzione, un’eredità puramente chimica sia stata sostituita da un’eredità fondata su forme fonte di natura visiva, geometrica. Perché questa trasformazione si compisse, la vita ha dovuto fare appello ben presto alle esperienze infantili per poter riempire i “buchi neri” delle pregnanze; in tale processo l’evoluzione ha realizzato una scommessa davvero audace, facendo dipendere la realizzazione di istinti fondamentali come quello sessuale da esperienze infantili o giovanili che, senza dubbio, di norma si verificano ma che sono assolutamente necessarie – come ha dimostrato l’esperienza umana ma anche quella di altri animali superiori, se è vero che primati allevati in totale isolamento non sanno compiere l’atto sessuale… Lo psichismo umano Come si distingue lo psichismo umano dalla rappresentazione dello psichismo animale – a un tempo congetturale e schematica – che ho appena tracciato? Si è visto che nell’animale vi sono poche pregnanze, provviste però di una notevole capacità di propagazione e diffusione invasiva. Con l’uomo, al contrario, siamo dinanzi a una proliferazione quasi illimitata delle pregnanze, ma queste ultime sono provviste di una capacità di propagazione estremamente limitata: di fatto ogni concetto è fonte di una pregnanza locale, che può estendersi soltanto a concetti semanticamente vicini – che, servendoci di una terminologia più precisa, chiameremo concetti satellite. In un animale onnivoro, ad esempio, esiste senza dubbio almeno un abbozzo di classificazione tassonomica delle sue prede: in altre parole la pregnanza alimentare si ramifica in una moltitudine di sotto-pregnanze. Possiamo immaginare che

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una simile ramificazione si realizzi sulla base degli schemi geometrico-dinamici delle prede: oggetti rotondi, oggetti allungati, oggetti piatti ecc. – e del resto le lingue umane provviste di classificatori hanno conservato tracce di queste grandi modalità tassonomiche. Inoltre, le normali forme fonte delle grandi pregnanze biologiche (prede, predatori, partner sessuali) sono esseri viventi; è normale dunque attribuire loro le grandi attività regolative della biologia – predazione e sessualità – per portare a compimento le quali sono necessari schemi spazio-temporali ben definiti, che verranno riproposti sotto forma di schemi attanziali nella struttura sintattica di una frase elementare (Thom 1972). La localizzazione – la deissi – rappresenta una delle funzioni principali presente già nei sistemi di comunicazione animale: fra le oche il grido d’allarme usato per un predatore aereo differisce da quello che indica un predatore terrestre, e la danza delle api di von Frisch è in definitiva una forma molto elaborata di deissi. Nell’uomo, tuttavia, si compie un ulteriore passo in avanti: il linguaggio umano utilizza infatti “mappe locali” che non sono più l’orizzonte referenziale comune al locatore e all’allocutore – come accade per la mappa della coscienza – ma sono schemi locali incentrati sull’attante principale (il soggetto delle nostre lingue) del processo descritto da una frase elementare. Si tratta, insomma, di mappe locali incentrate non più sull’asse io – tu ma sull’egli. Non è difficile ritrovare antecedenti biologici di tale fenomeno. In effetti, durante la cattura di una preda, è importante che il predatore anticipi il movimento di fuga dell’animale cacciato – e dunque che riesca a svelare il gradiente cefalo-caudale che determinerà la sua probabile direzione di fuga: così, proprio servendoci dei grandi gradienti epigenetici dell’embriologia (gradiente cefalo-caudale, dorsale-ventrale, destra-sinistra) siamo in grado di definire un isomorfismo tra le mappe locali incentrate sull’io

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e sull’egli. Ora, una frase transitiva di forma SoggettoVerbo-Oggetto (SVO) da un punto di vista semantico realizza la traslazione di una pregnanza proveniente dal soggetto che finisce per investire l’oggetto – e nel caso estremo della predazione si tratta del puro e semplice assorbimento spaziale dell’Oggetto nel Soggetto. Dunque gli schemi archetipi di interazione fra attanti che regolano l’organizzazione sintattica delle nostre frasi si identificano essenzialmente con le modalità di traslazione per contatto di una pregnanza proveniente dal soggetto e destinata a investire l’oggetto, o con la risoluzione di un conflitto fra pregnanze esterne. Quanto ai verbi intransitivi – quelli che Tesnière chiamava uno-valenti o monovalenti –, essi descrivono conflitti tra pregnanze interne a un soggetto al pari della predicazione definita dalla copula – come nella frase “il cielo è azzurro”. Una piccola notazione matematica: nella metafora dell’ansa simbolica infranta, la mappa locale, associata alla forma pregnante memorizzata, si identifica con la cellula stabile associata al punto critico di distruzione dell’ansa. Si tratta, cioè, dello spazio che funge da supporto ai cicli di scomparsa associati a tale punto critico. In che modo allora, nell’epigenesi dell’individuo, è opportuno concepire l’acquisizione del linguaggio? È necessario riconnettere il periodo critico (tra un anno e tre anni) a una specie di dissolvimento generalizzato delle pregnanze biologiche, una “catastrofe generalizzata” che si realizza mediante ramificazione continua. Tale dissoluzione riguarda, a un tempo, le attività fonatorie (il “chiacchiericcio infantile”) e le attività motorie, le cui due ramificazioni si associano all’interazione sociale: ogni volta che un bambino riesce a isolare la forma fonte di una sotto-pregnanza, l’interazione sociale gli fornisce il vocabolo corrispondente che viene associato a essa mediante la biforcazione simbolica. All’inizio l’unica risorsa a disposizione del lattante, nello stato di dipendenza in cui si

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trova, è di attirare l’attenzione dei genitori (anche adottivi, in taluni casi) emettendo dei gridi che rivelino le sue sofferenze e i suoi disagi; questi gridi sono interpretati dall’adulto che si prende cura del bambino sulla base di una griglia di risposte relativamente limitata. Con il chiacchiericcio emerge invece una nuova forma – stavolta ludica – di attività fonatoria, nella quale il bambino ascolta se stesso e prova piacere nel farlo. Al tempo stesso la motilità si sviluppa e diversifica: il tentativo di conseguire un certo tipo d’oggetto o realizzare un dato comportamento verrà sanzionato dalla correlativa ricezione di un messaggio parlato che costituirà l’altra polarità della biforcazione simbolica. Tipico dello psichismo umano è il fatto che la propagazione per traslazione di una pregnanza da una forma all’altra mediante contatto o similarità non è più soltanto una dinamica che governa la vita mentale, ma diviene uno strumento di interpretazione dei fenomeni vissuti. In altre parole, ogni trasformazione del mondo sensibile pone il problema della sua interpretazione sotto forma di propagazione di una pregnanza e da questo punto di vista esiste un continuum di interazioni che va da ciò che, nelle nostre lingue occidentali, è espresso mediante la categoria dell’aggettivo sino alla categoria del verbo. L’aggettivo, infatti (termine-predicato di una relazione predicativa Nome-Predicato), può essere associato a una pregnanza (qualità) che investe un individuo (“Il cielo è azzurro”). Invece nella forma più pura, paradigmatica, di interazione verbale – vale a dire la predazione come in “Il gatto mangia il topo” – è possibile individuare soltanto una morfologia spazio-temporale (l’assorbimento di un attante-oggetto in un attante-soggetto). Forse è legittimo interpretare quest’ultimo tipo di interazione come uno scontro fra “pregnanze individualizzanti”, dal cui conflitto catastrofico possono peraltro derivare scambi, inversioni o l’annientamento in seguito a fusione.

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In effetti, questa interpretazione dell’origine dell’individuo – prodotta dalla presenza di una pregnanza “individuante” che ne investe la forma corporea – è valida non solo per l’essere individuale animato ma anche, in linea di principio, per qualunque concetto che deve essere considerato come un “corpo privo di organi” entro un determinato spazio semantico. La manifestazione della significazione del concetto X obbliga a introdurre altri concetti Y, la cui pregnanza individuante può entrare in conflitto con quella di X – proprio come il topo per il gatto. In altre parole, (Y) designa qualunque attante che interviene nella regolazione (semantica) del concetto X; X e Y pertanto possono entrare simultaneamente in una interazione verbale come attanti, poiché X è generalmente il soggetto (erogativo) dell’azione che lo lega a Y. Chiamerò simili concetti Y satelliti del concetto X (Thom 1980a, pp. 193-208). È verosimile, allora, che la semplice concatenazione di elementi significanti non sia caratteristica del solo linguaggio umano, dato che possiamo rinvenirla anche nei sistemi di comunicazione animale; ma il meccanismo universale di formazione del genitivo – Y di X (per un Y satellite di X) – può senza alcun dubbio essere considerata come un tratto distintivo del linguaggio umano. In questa prospettiva ogni concetto come X sarebbe forma fonte di una pregnanza “individualizzante”, la cui propagazione verrebbe rigidamente limitata e incanalata sui concetti satellite di X. L’accettabilità grammaticale di un’espressione, insomma, finirebbe per essere soltanto una forma degradata – mediante ritualizzazione e automatizzazione – della sua accettabilità semantica. Naturalmente le grandi pregnanze regolatrici della biologia (alimentazione, sessualità) non scompaiono dallo psichismo umano ma vi si manifestano soltanto in un ambiente ormonale favorevole e attraverso l’attrezzatura simbolica del linguaggio: la loro presenza non si rileva più or-

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mai al livello elementare della frase, ma al livello più ampio del discorso e della narratività. In un’ottica ancora più ampia, l’idea di propagazione delle pregnanze è alla base di una teoria generale dei sistemi di intelligibilità del mondo sviluppatisi nel corso della storia dall’umanità. È possibile dunque descrivere in che modo il pensiero magico abbia ceduto il passo (e dato vita) al pensiero scientifico: il pensiero scientifico moderno, infatti, che in virtù dell’assioma cosiddetto di località ammette solo la propagazione per contatto, ha eliminato del tutto l’idea della propagazione delle forme per similarità – postulato implicito del pensiero magico. Tuttavia la propagazione per similarità rimane valida sul piano semantico (poiché costituisce la base dell’analogia), ma anche nei sistemi formalizzati dell’algebra e della logica in cui gli assiomi sono le forme universali. Isolando uno spazio-tempo provvisto di una geometria fissa, la scienza moderna ha raggiunto un traguardo essenziale; è ragionevole pensare che questo sia solo l’inizio, e una migliore conoscenza dei vincoli impliciti che agiscono nei differenti spazi o campi semantici potrà soltanto rafforzare le tendenze mentali dell’uomo a simulare il mondo (e se stesso) – sia pure a prezzo di concomitanti trasformazioni nella struttura del suo linguaggio.

La danza come semiurgia*

Questo testo è stato scritto per un incontro organizzato dal 29 al 31 agosto 1981 dalla Fondazione Portescap (La Chaux-de-Fonds, Svizzera) e intitolato “XXe siècle, le Public, la Danse”. Vi parteciparono eminenti personalità provenienti dall’ambito filosofico, letterario, artistico tra cui, in particolare, René Girard, Michel Serres, Luciano Berio, Maurice Béjart. Poiché non era stato possibile pubblicare gli atti dell’Incontro, qui di seguito si potrà leggere il testo del mio intervento rimasto inedito. Per me quell’evento è stato l’occasione di compiere una breve incursione – in realtà l’unica – nell’universo della coreografia. Immaginiamo, come in un racconto di fantascienza, che un extraterrestre osservi l’umanità come un entomologo osserva formiche e termiti. Si sorprenderà, di certo, scorgendo grandi aggregati di individui i quali – al suono di una fonte sonora – si mettono a oscillare ritmicamente; in altri casi – fatto ancor più enigmatico – l’extraterrestre vedrà che la folla riunita è immobile ma quasi affascinata dalle evoluzioni ritmiche di un ristretto gruppo di persone. Il nostro osservatore, insomma, avrà qualche difficoltà a interpretare fenomeni simili; se dovesse seguire gli insegnamenti di un qualche Darwin extragalattico, cercherebbe di provare che tali manifestazioni procurano alla specie un reale vantaggio selettivo; per avvalorare questa tesi potrebbe invocare il fatto che spesso gli individui dan-

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zano in coppie chiuse formate da un maschio e da una femmina: in tale comportamento si potrebbe intravedere una parata nuziale allo stato embrionale – che peraltro solo assai di rado si concluderebbe con successo. Ma lasciamo il nostro extraterrestre con le sue perplessità. Per noi esseri umani non vi è alcun dubbio che la danza sia essenzialmente un’attività ludica, disinteressata, un’attività legata al rito, al “consumo gratuito” (la dépense di Bataille), alla festa… Ma perché mai questa forma di comportamento, che a priori appare così strana? Credo che per comprendere la danza sia necessario risalire all’origine stessa della significazione e che nella danza si possa trovare la genesi – in statu nascendi – delle strutture più fondamentali del segno; forse, anzi, è possibile fondare su di essa un’estetica. In un articolo precedente (Thom 1980a, pp. 193-208) ho scelto una teoria dell’origine biologica del simbolismo umano fondata su due nozioni: salienza e pregnanza. Nell’articolo sostenevo che una forma sensoriale può esercitare un impatto sull’organismo per due tipi di ragioni. 1. A causa di un carattere intrinseco, oggettivo dello stimolo sensoriale – cioè per il suo carattere brusco, inatteso e discontinuo: un bagliore di luce, un tintinnio di un campanello esercitano, sulle nostre attività neurofisiologiche, ripercussioni immediate che si possono d’altronde commisurare alle perturbazioni che provocano nell’elettroencefalogramma. Conformandomi a un’abitudine sempre più diffusa tra i fisiologi, chiamerò salienza il carattere improvviso dello stimolo. Benché tali forme salienti si inscrivano nella memoria a breve termine, in genere non esercitano effetti a lungo termine sul comportamento del soggetto. 2. Oppure, all’opposto, a causa di un carattere biologicamente importante per il soggetto. Così ad esempio, fra gli animali, le forme delle prede, dei predatori, dei partner sessuali suscitano reazioni immediate e di lunga durata:

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reazioni motorie di attrazione e di repulsione (di evitazione), connesse a trasformazioni profonde e durature dello stato ormonale e affettivo del soggetto (ad esempio il desiderio sessuale, la paura, la rabbia ecc.). Chiamerò forme pregnanti queste forme provviste di significazione biologica, e pregnanza il carattere che è loro associato. Negli animali, la pregnanza è evidentemente legata ai grandi meccanismi regolativi della fisiologia, come la predazione o la sessualità; nell’uomo invece, accanto a tali pregnanze biologiche – che pure sussistono – troviamo un vero e proprio continuum di pregnanze legato al linguaggio, poiché ogni concetto è in un certo senso fonte di una propria pregnanza. L’esperienza più significativa in proposito è quella del cane di Pavlov. Una pregnanza si comporta dunque come un fluido che pervade il campo delle forme vissute servendosi di quei grandi accadimenti morfologici che sono le forme salienti. Ma questo processo di infiltrazione fa perdere alla pregnanza la sua vivacità, sebbene lo si possa considerare come una specie di flusso che muove dalle forme fonte – ossia da quelle forme in cui la pregnanza assume un’intensità massima. Questa gerarchia delle forme pregnanti dipende, in genere, dall’esperienza personale dell’individuo; più in particolare, le forme fonte possono essere determinate dalle esperienze infantili (come il fenomeno dell’impregnazione descritto da Lorentz). Per contro, alcune associazioni possono essere codificate socialmente e valide per tutti gli individui: è quel che avviene quando la forma saliente può essere creata dall’individuo stesso. Così la presenza di un predatore di un certo tipo può essere significata da un particolare grido d’allarme. L’investimento di una forma saliente da parte di una pregnanza è all’origine della predicazione, cioè l’attribuzione di un accidente a una sostanza. Inoltre, tale investimento può essere puramente simbolico – cioè limitato alla soggettività di un soggetto “interpretante” –, come accade nel caso del

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cane di Pavlov; oppure può avere un fondamento oggettivo – allorché la forma saliente, stavolta in quanto individuo, vede modificato il suo stato da parte della pregnanza. In quest’ultimo caso, la pregnanza può modificare la forma esterna producendo un effetto figurativo: la visione di un temuto predatore suscita nel soggetto vero e proprio terrore e lo induce a emettere un grido d’allarme; a sua volta, però, tale grido, percepito dagli altri membri, finirà col suscitare in essi un terrore equivalente. In tal modo il grido d’allarme svolge il ruolo di propagatore della pregnanza “terrore”. È possibile ritenere che l’uso di qualunque linguaggio codificato – e in definitiva di ogni sistema di segni – sia, in linea di principio, subordinato all’estensione e alla propagazione di una pregnanza; ma nell’uomo, accanto alle pregnanze affettive che motivano i nostri discorsi, esistono pregnanze locali connesse a ogni parola (o meglio, a ogni concetto), in grado di definirne la significazione. Come ho già tentato di spiegare altrove, tali pregnanze locali sono esito dello sfaldarsi delle grandi pregnanze biologiche che si verifica con il costituirsi del linguaggio infantile. Ogni pregnanza si propaga nel campo fenomenico delle forme vissute in base alle due modalità della contiguità e della similarità (ossia per metonimia o per metafora). L’uomo interpreta il mondo assimilando le forze naturali a delle pregnanze; ma mentre la propagazione per similarità appare limitata all’universo simbolico, la scienza moderna ha accolto per le proprie “pregnanze” – quelli che in fisica sono chiamati campi – la sola idea della propagazione per contiguità. Ha rifiutato il principio di azione a distanza, considerato “magico”, proprio come l’idea di propagazione per similarità. Così, ad esempio, la luce – che da un punto di vista fisico è solo un caso di campo elettromagnetico – è una pregnanza che irraggia a partire dalle sue forme fonte (come il sole o il fuoco) e si propaga, trasformando in fonti secondari gli oggetti opachi sui qua-

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li si diffonde. In fisica moderna, i campi sono caratterizzati dal loro propagatore – vale a dire dalla modalità matematica di propagazione sullo spazio. Perché si possa definire una “somiglianza” tra due forme è dunque necessaria una geometria dello spazio sostrato – e anche la definizione matematica della propagazione per contiguità dei campi fisici necessita di una geometria locale. Fatte queste considerazioni introduttive, torniamo alla danza propriamente detta. Ogni teoria semiologica della danza deve prendere in considerazione due livelli di organizzazione morfologica: anzitutto quello del singolo ballerino, che percepisce determinate forme musicali e le trascrive in gesti corporei; poi quello dell’insieme dei ballerini considerato come collettività (in seguito parlerò genericamente di “balletto”, anche qualora non mi riferisca a uno “spettacolo” ma, ad esempio, a una danza rituale collettiva), le cui evoluzioni simultanee saranno il riflesso della forma musicale seguendo la quale essi danzano. La natura del rapporto esistente tra questi due livelli osservativi pone un problema teorico generale per le scienze morfologiche: quello dei livelli gerarchici d’organizzazione, già noto in linguistica (la “doppia articolazione”), in biologia e in molte altre discipline facenti parte della fisica macroscopica. Per cercare di spiegare il tipo di rapporto fra i due livelli, pertanto, intendo proporre il modello del “campo generatore” – ispirato alla teoria dei campi in fisica. La danza a livello individuale Prendiamo una forma sonora allo stato puro: una semplice cellula ritmica, come il tic-tac di un orologio. Se questa forma è ripetuta in modo periodico e regolare, l’effetto di salienza della cellula iniziale si attenua ma l’attesa, prodotta dall’estrapolazione del ritmo udito, si esaspera –

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al punto che uno scarto imprevedibile in relazione al ritmo precedente produce effetti particolarmente visibili sull’elettroencefalogramma (l’effetto chiamato P. 300). Proprio per questo, il mugnaio addormentato si sveglia quando il suo mulino si ferma. Non appena una cellula sonora è percepita come una Gestalt autonoma tende a incorporarsi nell’organismo, suscitandovi movimenti sincroni. Si può ritenere che questa disponibilità dell’organismo in relazione alla forma sonora sia dovuta a una specie di pregnanza gestaltica. Peraltro gli incantatori indiani di serpenti riescono a ottenere l’identico effetto su uno psichismo che a priori appare estremamente rudimentale – come quello di un cobra. Dobbiamo considerare questa invasione della motricità da parte della forma come una manifestazione del desiderio di appropriarsi della forma stessa tramite una sorta di predazione; ma si tratta di una presa di possesso chiaramente reversibile e terribilmente ambigua, dato che non si sa bene se è il soggetto a “possedere” la forma che realizza o, al contrario, la forma domina sul soggetto che l’esegue – lo stesso tipo di ambiguità che ritroviamo nella diatesi deponente del verbo latino imitari. Si noterà, d’altro canto, che il carattere di forma ritmica è legato alla nostra percezione quantitativa del tempo. C’è Gestalt solo se viene individuata una specifica correlazione temporale tra i diversi elementi che compongono la forma. È necessaria – in questo come in altri casi – una geometria soggiacente, o meglio una cronometria in grado di definire forme uguali o simili. Perciò non mi stupirei se i movimenti periodici presenti in alcune patologie – come ad esempio tra i malati di Parkinson – potessero essere considerati come fantasmi (sonori) della motricità: in ogni caso anche il semplice tic (nervoso) giustifica questa analogia – dato che il tic è la metà di un tic-tac. A questo punto si pone un problema spinoso, e cioè di sapere, data una forma sonora, quali siano i movimenti che suggerirà. Nella danza classica i movimenti sono ordinati

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in repertori di figure – peraltro in modo vago e qualitativo –, ma non esiste alcuna notazione vera e propria della totalità dei movimenti realizzabili. Secondo quanto mi hanno detto alcuni anatomisti, il numero dei gradi di libertà del corpo umano supera il valore di 200; ma se questo è vero, allora per produrre una descrizione esaustiva dei movimenti del corpo sarebbe necessario uno spazio di dimensione superiore a 200. È chiaro ovunque il motivo per cui i coreografi hanno rinunciato all’idea di creare una notazione precisa dei movimenti eseguiti dai ballerini. È molto probabile, anzi, che in tale ambito troviamo una situazione piuttosto simile a quella della linguistica: l’“arbitrarietà del segno” esiste, ma in una danza socialmente ritualizzata e codificata l’arbitrarietà concessa al ballerino nell’esecuzione di ciascun movimento è assai ridotta dalle convenzioni culturali ereditate dal passato. Eppure, anche in questo caso è possibile un certo “cratilismo”, nel senso che determinati movimenti (in particolare quelli del viso) sono naturalmente legati all’espressione delle emozioni. Inoltre, vi sono danze fondamentalmente imitative, come nei rituali di caccia o nei riti agresti così frequenti nelle società primitive. Ciò significa che, in questi casi, i gesti veicolano una “pregnanza” (ad esempio alimentare) che tentano di propagare – e lo stesso vale per le grandi emozioni umane espresse in modo più o meno suggestivo tramite i gesti e le posizioni del corpo. Il fatto che i tentativi di creare una danza senza musica non abbiano portato a nulla è probabilmente legato all’ipotesi implicita che ogni movimento ritmato del corpo – senza supporto sonoro – ci sembra creato da un “fantasma motore” di carattere patologico. Forse in definitiva non c’è un numero così grande di qualità affettive, parametri pertinenti con cui è possibile caratterizzare il tono affettivo di un gesto o di una posizione: paura, aggressività, gioia, tristezza, piacere, dolore – la gamma dei grandi affetti umani è probabilmente abbastanza limitata. Nonostante l’in-

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certezza che regna su tale argomento, sono propenso a credere che si possa associare a qualunque posizione del corpo umano un “vettore” che ha, come componenti, le intensità dei differenti affetti relativi a tale posizione. Questo vettore H, provvisto di un numero di componenti pari alle coppie di contrari affettivi – gioia-tristezza, piacere-dolore ecc. – definirà il campo collettivo H (x, t) del quale mi accingo a parlare. L’unità del balletto: l’ipotesi del campo generatore1 Questa volta si tratta di capire il sincronismo dei ballerini, ossia la forma globale del balletto. Per comprendere appieno il problema, è bene tornare all’analogia con la “doppia articolazione” in linguistica. Mentre le regole di organizzazione dei fonemi in sillabe sono chiaramente legate a vincoli dettati dalla fonazione, quelle che governano la sintassi delle nostre frasi – ad esempio l’ordine SV (soggetto-verbo), quello SVO (soggetto-verbo-oggetto), quello NCA (nome-copula-aggettivo ecc.) – sono infinitamente più misteriose perché esprimono fattori globali, contestuali, legati alla presenza di situazioni dinamiche semplici (“figure”) che si riflettono nella struttura delle frasi elementari. Per il ballerino, l’analogo dei vincoli fonatori a livello individuale è costituito dagli inevitabili vincoli della meccanica – ossia dalla necessità, presente in ogni istante, di restare in equilibrio; il ruolo della struttura sintattica sarà invece svolto dalla “figura”, quando questa implica la presenza di molteplici ballerini. Per capire l’effetto di un campo globale su una popolazione di individui, è possibile innanzitutto considerare un esempio fisico. L’effetto di un campo magnetico B in un ambiente magnetico è di orientare parallelamente a B le molecole provviste di un dipolo; non appena l’ambien-

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te viene magnetizzato si ottiene subito tale orientamento, che continuerà a sussistere anche ove si annulli il campo B iniziale. A quel punto, infatti, le molecole orientate creeranno un campo B1 opposto al campo iniziale, da cui trae origine la magnetizzazione persistente dell’ambiente. È possibile interpretare questo campo indotto B1 come la risultante di una tendenza dell’ambiente ad attenuare (per l’individuo) l’effetto del campo induttore. Un altro esempio: se passeggiamo ad alcuni chilometri dalle coste dell’Atlantico, in Vandea o in Bretagna ad esempio, osserveremo che tutti gli alberi crescono con il tronco piegato verso oriente: in questo modo, infatti, gli alberi possono ridurre la pressione esercitata su di essi dal vento, che proviene in prevalenza da ovest e rappresenta il campo esterno. Allo stesso modo in semiotica, quando una pregnanza come la paura investe un individuo, produce in lui effetti figurativi che – pur propagandola all’esterno – diminuiscono l’impatto che ha su di lui la pregnanza aggressiva: così il grido d’allarme, gettato dal guardiano di una collettività, lo allevia dalla sua angoscia contribuendo al tempo stesso a propagarla: da ciò nasce quel progressivo diluirsi e indebolirsi della pregnanza nell’ambiente. In questo caso gli effetti figurativi andrebbero imputati a una specie di conflitto tra le esigenze di un “campo” globale e la salvaguardia di una individualità. Ma a volte lo stesso campo può presentare, a seconda dei luoghi che occupa, differenti modalità qualitative che possono entrare localmente in conflitto. Il campo manifesta allora delle “singolarità” spesso provviste di un logos di natura matematica che garantisce la loro individualità e la loro stabilità. Questa è probabilmente l’origine delle strutture sintattiche in linguistica, che è possibile associare alle singolarità di un potenziale conflittuale a cui spetta di regolare la lotta fra diversi attanti. È possibile ipotizzare che per la danza le cose vadano allo stesso modo. Le “figure” descritte da un piccolo nu-

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mero di interpreti nell’ambito di un balletto, pertanto, possono essere considerate come manifestazioni di singolarità locali del campo globale: in un ballo popolare, ogni coppia di ballerini mantiene in vita – al ritmo insistente di un valzer – il suo piccolo ciclone individuale. La descrizione di un balletto formulata in una lingua naturale può essere ricondotta alla sequenza narrativa delle sue figure ed è, dunque, di natura assolutamente discreta; ma l’unità estetica del balletto sarà in definitiva fondata sull’evoluzione di un’entità dinamica nascosta – il campo globale. Si tratta di un vettore H (x, t) che dipende al tempo stesso dalla posizione x del ballerino e dal tempo t. Tale vettore impone al ballerino in posizione (x, t), se non il suo movimento, almeno l’effetto affettivo globale che gli è associato. L’unità del campo variabile H (x, t) può essere considerata come se si trattasse delle vibrazioni di un etere mobile ed elastico, che riempie tutto lo spazio a sua disposizione: tale campo regola le evoluzioni dei ballerini e al tempo stesso è creato dai loro movimenti. Si tratta di un’ambiguità che ha molti punti di contatto con quella del campo fisico – che agisce anch’esso sulle particelle ed è creato da esse. Tutto il problema teorico è allora di riuscire a comprendere cosa costituisce l’unità del campo. Nel caso del ballo da balera, il campo si scompone in una moltitudine di piccoli sotto-campi, ciascuno associato a una coppia; il solo vincolo globale per i ballerini è l’obbligo di non urtarsi – e forse anche una certa dose di emulazione che spinge ciascuna coppia a ricercare la perfezione formale nelle figure cicloniche di valzer da essa descritte. È chiaro, però, che in un balletto l’origine dell’unità del campo è molto più impalpabile, poiché è situata assai più in profondità nella dinamica globale. Da ciò nasce l’effetto estetico: la bellezza del balletto appare legata al carattere irriducibile, non scomponibile del suo dinamismo generatore. Naturalmente questo non significa che non sia-

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no presenti alcune scissioni spaziali e temporali, volute o prescritte dalla trama specificamente narrativa del balletto o dal tono affettivo della musica. Questa unità dinamica è fatta di pregnanze in lotta poiché le pregnanze possiedono una naturale tendenza alla scissione e alla sfaldatura: una fonte primaria induce per contatto una fonte secondaria, che può entrare in competizione con essa. Da ciò deriva una certa spartizione, che si verifica al confine tra l’una e l’altra: le cellule di pregnanza si scindono, si frammentano, si assorbono reciprocamente, si scompaginano in un’incessante dinamica. È possibile rappresentare le evoluzioni di tali pregnanze ricorrendo a metafore idrauliche come, ad esempio, l’esperimento classico di Helmoltz: quando si fa cadere nell’acqua immobile di un lavabo una goccia d’inchiostro di china questa dapprima vi si immerge, poi s’appiattisce dando vita a un sottile velo contornato da una turbolenta voluta che a sua volta si frammenta in tante gocce più piccole, che danno vita ad altre gocce di seconda generazione – e via di seguito. Allo stesso modo, ho assistito con grande emozione al balletto Il bolero di Béjart: in quel balletto la cellula ritmica del Bolero di Ravel, ripetuta indefinitamente, serve a eccitare un oscillatore che a poco a poco sblocca l’uno dopo l’altro tutti i suoi gradi di libertà sino a giungere alla soglia del caos, interrotto bruscamente dalla caduta nell’accordo finale. Vi ho visto un’illustrazione della teoria moderna della turbolenza (teoria detta di Ruelle-Takenan) che trasforma la situazione laminare, calma e ordinata di un fluido in uno scorrere caotico. Ci si può chiedere da dove provenga una simile unità dell’evoluzione dinamica, capace di garantire ad ogni istante il sincronismo dei movimenti dei ballerini. Mi viene in mente una possibile risposta: non è forse il semplice prodotto della musica? Il solo fatto che i tentativi di creare una danza senza musica non abbiano condotto a risultati convincenti dimostra probabilmente che la for-

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ma musicale, forma unidimensionale funzione del tempo m(t), gioca un ruolo essenziale nella variazione nel nostro ipotetico campo H (x, t). Sono noti a tutti, del resto, i tentativi di Xenakis di spazializzare la musica: il balletto ci riesce grazie alla mobile presenza dei ballerini che assumono posizioni e gesti tanto suggestivi. Vi sarebbe molto da dire circa i rapporti fra il determinismo di H e quello di m: ad esempio che m serve ad azionare – nel senso dinamico di un oscillatore soggetto a una forza di trasmissione – il campo H (x, t) provvisto di massa e che resta tale in quanto ha natura spaziale. Se, come abbiamo visto, il campo H si identifica essenzialmente con la propagazione di pregnanze attenuate per diffusione, ove la musica non fornisse una fonte viva di energia, finiremmo col giungere presto all’immobilità della quiete. A tal proposito sono rimasto davvero molto impressionato dalla profondità di alcune osservazioni di Luciano Berio circa i rapporti fra musica e danza: a giudizio di Berio, la forma musicale sarebbe infinitamente più complessa, più “profonda” della forma coreografica perché il sentimento musicale si fonda essenzialmente sulla memoria recente dei ritmi e degli accordi passati che entra in risonanza – o in conflitto – con la sensazione presente. Se la dimensione esterna della forma musicale (vale a dire il tempo) è una, la sua dimensione “interna” – chiama in causa tutta la ricchezza del ricordo – assume un’estensione grandissima, quasi infinita. Nella danza, al contrario, l’effetto di memoria sembra limitato a una durata abbastanza breve: non vi ritroviamo quella componente aritmetica prodotta dall’armonia degli accordi e dalla sovrapposizione dei ritmi, ed essa si manifesta piuttosto come un’illustrazione, una sorta di svolgimento o sviluppo tridimensionale della forma musicale che continua a esserne il centro organizzatore. In tal modo si potrebbe dire che essa realizza alcune delle virtualità spaziali della musica – il che non significa, naturalmente, che l’argomentazio-

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ne coreografica non possa arricchire notevolmente la forma musicale, come si è visto a proposito del Bolero. Inoltre, la bidimensionalità del piano su cui si muovono i ballerini consente una combinatoria di figure (ad esempio delle figure di volteggio) che non è consentita dall’unidimensionalità della musica. Continua dunque a esservi una netta opposizione fra musica – arte dell’implicito – e danza – arte d’espressione –, ed è facile capire perché quest’ultima abbia bisogno della prima come fonte d’immaginario figurativo: la danza, infatti, in virtù della sua stessa espressività, esaurisce da sé le proprie risorse. Il campo globale H (x, t) è così, in ogni istante, descrizione della forza espressiva del balletto; in qualunque momento esso ha le proprie onde di salienza, i suoi urti, i suoi nodi di interazione… Il coreografo è un “semiurgo”, se mi si consente questo neologismo greco: egli infatti immagina mentalmente un campo globale, che a sua volta regolerà localmente il movimento di ogni singolo ballerino. L’armonia finale del balletto risiede perciò nella struttura dinamica profonda che garantisce l’unità delle evoluzioni del campo. L’estetica potrebbe forse essere concepita nel modo seguente: posta dinanzi a una data forma esteriore, la mente – perenne ermeneuta – cerca di immaginare il meccanismo che la genera. Il sentimento del bello, insomma, è sentimento di un significante senza significato – un significante alla ricerca del suo significato: è il tentativo di ricostruire il significato, ma senza mai poterlo esplicitare (perché ogni esplicitazione ucciderebbe il bello…). In tal modo si potrebbe comprendere l’unità – sempre presentita, ma mai concepita chiaramente – tra lo sforzo d’integrazione della conoscenza scientifica e la scoperta mai conclusa della bellezza nell’impresa dell’artista. La sola differenza è che l’artista costruisce il proprio materiale – e, per gioco, “finge” un campo che l’organizza – laddove nella natura fisica – o nell’universo platonico delle forme matematiche – la forma è già data. L’artista dunque, agendo

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come agisce, fa ritorno a quello stadio della prima infanzia in cui si organizza il linguaggio umano, in cui le pregnanze originarie si frantumano aderendo al supporto della forma sonora delle parole. Nel caso della danza, l’artista non farà altro che utilizzare le indefinite possibilità di significazione delle forme spaziali. Parlare di segni, in questo contesto, impone di abbandonare la definizione rigida datane da Saussure. Ha, dunque, ragione Jean Grize2 quando rileva come nella danza, in cui significante e significato coincidono, non ci sia più segno nel senso saussuriano classico. Si potrà osservare, tuttavia, che vi sono altri due casi assai noti in cui la distanza fra significante e significato si annulla. Anzitutto il caso dei sistemi formali: in tali sistemi, infatti, come Hilbert aveva ben compreso, ogni segno si identifica con la lettera che lo rappresenta – e scompare dunque ogni traccia di referente esteriore. Ma lo stesso avviene nelle attività ludiche in cui l’uomo spesso costruisce sistemi privi di altri referenti diversi da se stessi: un pezzo del gioco degli scacchi ha forse un’altra significazione che non si identifichi con esso? Ebbene, è evidente che la danza partecipa al tempo stesso della formalizzazione (le figure sono imposte o vincolanti) e del gioco (è un’attività disinteressata). La formula appena evocata – un significante senza significato estrinseco – ricorda senza dubbio la celebre definizione di Kant: l’opera d’arte come oggetto provvisto di una finalità senza fini. Se decidiamo di chiamare “rinvio simbolico” l’associazione Significante → Significato, quando essi coincidono si potrà considerare in un certo senso la “derivata” del rinvio simbolico quale supporto del sentimento estetico: in altre parole l’opera d’arte, oggetto concreto, sarebbe provvista di un referente “astratto” – vale a dire l’unità del dinamismo del campo generatore. Potremmo così spiegare il famoso paradosso di Aristotele, secondo cui un campo di battaglia è orribile ma un quadro che lo rappresenta può es-

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sere bello: persino quando vi è imitazione, infatti, il vero referente dell’opera d’arte non è l’oggetto imitato ma la dinamica che compatta l’oggetto rappresentato – ossia il soggetto, il tema – nell’opera d’arte. Nell’opera d’arte ritroviamo una qualità olistica che la rende simile agli organismi viventi: basta squarciare una pittura, mutilare una scultura e dai frammenti che restano la bellezza scompare. Ci si può dunque chiedere quale sia l’origine di una simile unità; un morfologista ingenuo potrebbe dire: “è il contorno che limita l’opera a costituirne l’unità: non vi è quadro senza cornice, né danza senza una pista o una scena che limiti le evoluzioni dei ballerini”. Senza dubbio la bellezza, perché possa nascere, ha bisogno di una frontiera (reale o immaginaria) che separi l’opera d’arte dal mondo esteriore. Proprio come la definizione del sacro ha bisogno di una delimitazione spaziale che lo distingue dal mondo profano, così il bello esige sempre che si tracci una frontiera attorno all’oggetto. Ma una simile condizione, pur necessaria, non è sufficiente. Per riuscire a generare il bello, infatti, è necessario – sia pure all’interno di una cornice come quella che ho appena definito – identificare varie forme, la cui interazione dinamica costituirà un campo limitato dalla cornice o contorno; l’evoluzione di tali forme sarà poi governata da una singolarità organizzatrice estremamente complessa e raffinata. Sarei, anzi, addirittura indotto a credere che all’origine del sentimento del bello vi sia proprio il carattere indicibile, ineffabile di tale struttura dinamica intravista solo mentalmente. Se dinanzi a noi ci fosse solo la cornice – senza nulla dentro – la dinamica organizzatrice si rivelerebbe banale: come, ad esempio, quella che dalla mina di una matita fa “nascere” sulla carta un punto, e poi la linea. L’investimento di una forma saliente da parte di una pregnanza – che si tratti di un fenomeno oggettivo o soggettivo – dipende forse in primo luogo dal carattere ben individuato della forma saliente. Un bagliore di luce, un

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tintinnio di un campanello sono altrettante forme bene individuate, perché provviste di un inizio e di una fine chiaramente delimitati. Se, al contrario, la forma presenta contorni imprecisi e un’organizzazione interna poco strutturata – o costruita in modo troppo meccanico – sarà difficile che una pregnanza possa investirla. Di conseguenza ci si può chiedere se non esista una sorta di pregnanza originaria e indifferenziata, il cui unico carattere sarebbe quello di assegnare l’individualità a una forma spaziale. Il solo tratto figurativo di tale pregnanza, insomma, sarebbe il contorno che separa l’interno dall’esterno, la figura dallo sfondo – laddove l’interno sarebbe “marcato” in opposizione all’esterno, termine “non marcato” (nel senso che il termine “marcato” ha in Jakobson). Questa pregnanza originaria potrebbe in tal modo assumere due forme: una forma propagativa indifferenziata, come la luce (ritroviamo in questo contesto il concetto di “bianco” cui ha fatto cenno Michel Serres nel suo intervento); e la forma compatta, limitata, dell’individuo che si staglia su di uno sfondo. La capacità di una forma di giungere all’individuazione può manifestarsi anche nelle forme sonore: così, durante la seconda guerra mondiale, la sirena che segnalava l’inizio allerta era un suono modulato sinusoidalmente in frequenza e in intensità, provvisto di un carattere particolarmente angosciante; al contrario, il segnale di fine allerta, costituito da tre intervalli continui, appariva molto rassicurante. Quest’ultimo richiamava alla mente l’identità inalterata, mentre il primo sembrava dissolvere l’individuo in un flusso senza limiti. Nello stesso ordine di idee, il saggio di Michel Random, che ha partecipato al Colloquio con una comunicazione sulla danza con moto circolare dei dervisci, e sulla sua giustificazione teologicomistica, lascia intendere che la forma del cerchio – in quanto figura del movimento – tende a dissolvere l’individualità del ballerino in un’entità collettiva che l’assorbe. Gli elementi che appaiono in un quadro (una mano, un vi-

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so, un fiore reciso ecc.) sono, in genere, individualità incomplete che aspirano alla propria compiutezza; ebbene, forse succede lo stesso per le singole figure del balletto. In ogni caso, non credo si possa sempre ricollegare l’unità dinamica del balletto al sacrificio dionisiaco caro a René Girard di cui ci ha parlato nel suo intervento; c’è posto anche per la bianchezza apollinea del chiaro di luna – per un bianco non arrossato dal sangue delle vittime. Tutte queste forme incomplete, in effetti, trovano la loro integrità nella visione globale del campo. Vediamo, allora, che questa visione della danza ci conduce a una teoria estetica: per la mente che esplora i limiti dell’universo semantico sino ai confini della significazione – là dove lo scarto fra significante e significato viene meno – l’opera d’arte fa vibrare le fonti di organizzazione più preziose e più profonde all’origine del senso. Per questa mente sempre in ascolto, la cui sensibilità è al massimo della tensione, ogni “semiurgo” è un demiurgo.

* Una traduzione italiana di questo intervento, realizzata da Isabella Pezzini, è uscita sul supplemento ad «Alfabeta», n. 78, del novembre 1985 (pp. VVI). Il testo tradotto, però, è chiaramente una trascrizione dell’intervento di Thom e differisce in molti punti da quello, preparato per la pubblicazione, che appare alle pp. 118-130 di Apologie du Logos. Nella presente traduzione, di Antonio Perri, si è ritenuto opportuno attenersi al testo francese di Thom, utilizzando e rivedendo la traduzione italiana esistente nei punti in cui coincide. 1 Questa ipotesi del campo generatore continuo può senza dubbio essere applicata anche al metabolismo degli esseri viventi. Molti autori, infatti, ricordando il carattere regolamentato e ordinato dei flussi molecolari nella cellula e fra le cellule, hanno parlato di un “balletto delle molecole” all’interno della materia vivente. 2 Questa osservazione è stata formulata nel corso del colloquio da Jean Grize, logico e professore presso l’Università di Neuchâtel.

Locale e globale nell’opera d’arte*

Questo è il primo articolo che ho dedicato all’estetica. Il testo riprende il contenuto di una conferenza pronunciata al Centro d’arte contemporanea di Ginevra il 22 aprile 1992 in occasione di un’esposizione organizzata da M.me Adelina von Fürstemberg sul tema “De la catastrophe” [Sulla catastrofe]. Inizialmente a cura del Centro, il testo è in seguito uscito sulla rivista «Le Débat». Nella parte conclusiva dell’articolo delineo sommariamente un metodo d’interpretazione dell’opera pittorica fondato sulla scomposizione del quadro in regioni dominate da un centro dal quale irraggia una pregnanza. Non ho mai sentito dire che in seguito questo metodo sia stato messo in pratica da un qualche critico d’arte; senza dubbio in quell’ambito si è ritenuto che lo sforzo necessario per comprendere le basi del metodo da me proposto era ingiustificato rispetto ai risultati offerti dalla sensibilità artistica immediata: opinione che, per quanto mi riguarda, mi guarderò bene dal contraddire. Che cosa bisogna pensare del confronto fra diversi tentativi artistici e alcune procedure scientifiche contemporanee, sul modello di quanto è avvenuto, ad esempio, a proposito delle “catastrofi”? Evidentemente la speranza è di trovare, al di là delle attività a priori così diverse dello scienziato e dell’artista, un’origine comune: e dove potremmo trovare questa origine, se non in un immaginario

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comune che ispirerebbe e dirigerebbe al tempo stesso le loro rispettive creazioni? Ma confronti di questo genere si possono ritenere giustificati? Preferirei non avventurarmi in un simile ambito, se non con estrema prudenza. Si tratta qui di gettare un ponte fra la scienza e l’arte; e sia chiaro che questo passaggio può essere percorso seguendo due direzioni: dall’arte alla scienza o, al contrario, dalla scienza all’arte. Conosco qualche esempio di percorsi nel primo senso: si tratta, di solito, di artisti creatori che hanno messo a punto una “ricetta” personale che consente loro di realizzare un certo tipo di opere d’arte, con un determinato materiale, un certo stile, un certo insieme di forme preferenziali… Allora sono tentati di cercare nelle grandi immagini della scienza attuale una sorta di illustrazione, se non una giustificazione dei loro processi creativi. La scienza d’oggi non è certo priva di temi di notevole potere evocativo: si pensi – a livello macro –, alla nascita dell’universo (il “Big Bang”) seguita dalla “fuga” delle galassie oppure – stavolta a livello micro – al confinamento di un plasma – scopo della fusione nucleare – e a quello dei quark, responsabile, secondo alcuni, della stabilità della materia. Tutti argomenti, questi, senz’altro molto suggestivi. Anche la teoria delle catastrofi, del resto, ha esercitato un notevole influsso terminologico – circostanza che le ha garantito una discussa notorietà. Ma quello che colpisce negli esempi a me noti è il fatto che l’artista abbia scoperto il suo (o i suoi) processi di creazione come frutto (o frutti) della propria personale evoluzione. Soltanto a posteriori egli ha cercato nella scienza una razionalizzazione del proprio modo di fare, poi presentato – a se stesso oltre che al suo pubblico – come una giustificazione. Ma così facendo non è forse vittima – vittima volontaria a volte – di un’assimilazione forzata? Perché in fondo l’arte non ha alcun bisogno della scienza. La bellezza si impone da sé, indipendentemente da ogni riferimento culturale razionalizzante.

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È per questo che io, al contrario degli artisti che cercano di trovare nella cultura scientifica un corrispettivo delle loro iniziative creatrici, vorrei percorrere il ponte in senso opposto ed esporre la perplessità dell’uomo di scienza dinanzi all’enigma della bellezza. Si può fondare, si potrebbe anche solo immaginare una teoria “scientifica” dell’estetica? Ebbene, ritengo che la teoria delle catastrofi – nel suo aspetto più generale, quello più filosofico – possa contribuire a chiarire il problema della genesi dell’arte. Da questo punto di vista, anzi – in modo davvero molto imperialista – sarei tentato di dire che non esiste un’arte “catastrofista” opposta a una che potremmo definire “continuista” o apollinea; al contrario, ogni arte è nella sua essenza catastrofista. Cos’è dunque la teoria delle catastrofi, nella sua accezione più generale? È essenzialmente una teoria del dinamismo universale: ogni cosa esiste, in quanto cosa unica e individuata, solo nella misura in cui è in grado di resistere al tempo – o meglio a un certo lasso di tempo. Ogni esistenza è l’espressione di un conflitto fra l’effetto erosivo e degradante della durata (tutto scorre, diceva il presocratico Eraclito) e un principio astratto di permanenza (di genesi) che garantisce la stabilità della cosa – quel che io chiamo, seguendo Eraclito, il suo logos. Le entità più permanenti e stabili sono di natura spaziale e materiale: il protone, secondo le teorie più recenti, avrebbe una durata di vita dell’ordine di 1050 anni (molto più dell’età attribuita all’universo, 1014 anni). La geometria del nostro spazio-tempo è anch’essa considerata permanente (benché le entità che la realizzano siano sconosciute). Il tempo presenta la particolarità, forse unica fra tutti gli spazi presi in esame dalla scienza, di essere simultaneamente supporto di una geometria (definita dalla “misura” del tempo, l’eguaglianza delle durate) e spazio “assiologico” orientato fondamentalmente nel senso Passato → Avvenire, dove la transizione è contrassegnata dalla discontinuità del Presente. Ser-

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vendomi di un linguaggio molto antropomorfo – ma provvisto di una precisa interpretazione matematica – dirò allora che ogni logos è un sistema di “valori” in grado di generare uno spazio assiologico; tali valori sono definiti localmente su uno spazio-sostrato di natura (almeno relativamente) geometrica, ad esempio lo spazio-tempo. Mi limito a citare un solo esempio tipico: in linguistica ciò che garantisce l’unità morfologica di una frase significante è il dato della sua significazione – oggetto di un sistema di valori – stabilizzato da un logos che garantisce la relazione fra il significante e la struttura sintattica (sintagmatica) dei fonemi nel sostrato fonico temporale. Le entità meno stabili devono evidentemente far ricorso, per mantenersi, alla presenza di unità più stabili. Se è vero che in un certo senso ogni entità si localizza in un sostrato – come minimo di un potenziale che “assiologizza” questo sostrato: si pensi al modo in cui la teoria del luogo naturale di Aristotele spiega il peso – esso ha spesso carattere non spazio-temporale, ed è definito da qualità astratte adeguatamente topologizzate. Gli oggetti corrispondenti, pertanto, se intesi come entità estese, non sono localizzati: come i “campi” della fisica sono entità ubique che si propagano nello spazio comune (per esempio l’energia, la cui forma più degradata si propaga come calore), nel campo delle qualità soggettive esistono analoghe qualità attive che ho proposto di chiamare pregnanze. Queste pregnanze, che sono inizialmente i “valori fondamentali” della regolazione biologica (la fame, la paura, l’amore, ecc.) investono le forme spaziali (forme dette salienti) che possono in seguito propagarle per contiguità spazio-temporale: del resto, secondo Frazer, propagazione per contatto e propagazione per similarità sono le due principali modalità dell’azione magica… (Voglio qui ricordare, incidentalmente, il risultato dell’esperienza classica del cane di Pavlov: la pregnanza alimentare della carne si investe nella forma “saliente” del tintin-

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nio della campanella, che suona ogniqualvolta al cane affamato viene presentata la carne). Quando tali pregnanze biologiche investono un animale, producono in lui degli effetti visibili, detti “effetti figurativi”; questi effetti, percepiti da un altro individuo appartenente alla stessa specie, potranno far sì che il soggetto percettore subisca il dominio della stessa pregnanza: così il grido d’allarme lanciato da un animale alla vista del predatore propaga la pregnanza “paura” all’interno della comunità. Fenomeni simili si estendono anche alle pregnanze soggettive che investono oggetti inanimati percepiti da un soggetto: per un uomo affamato ogni oggetto che somigli a un alimento diventa alimento… La determinazione esplicita dei logoi che garantiscono la stabilità degli esseri è un problema immenso: con la sola teoria delle catastrofi elementari (i sette tipi di catastrofi spazio-temporali) si ottengono le combinazioni più semplici che regolano i conflitti stabili nello spaziotempo, ma il riferimento agli spazi assiologici e ai “potenziali” consente di tenere conto della natura finalistica assunta dalle reazioni di regolazione. Nel suo aspetto più azzardato e – bisogna ammetterlo – del tutto ignorato dalla comunità scientifica attuale, la teoria delle catastrofi ambisce a rendere conto almeno dei tratti più generali dell’epigenesi (embriologia) degli esseri viventi e della stabilità del loro metabolismo. Ma se prestiamo fede alla terza critica di Kant, l’unità dell’opera d’arte avrebbe l’identica natura teleologica dell’unità organica dell’essere vivente e sarebbe soggetta alle stesse procedure mentali (il giudizio riflettente). Se dunque le pretese della teoria delle catastrofi nel campo della biologia sono fondate e se Kant ha ragione nella sua analisi, si dovrebbe poter affrontare il problema dell’unità dell’opera d’arte con i metodi della teoria delle catastrofi… Ebbene, in questo scritto tenterò di affrontare – sia pure sommariamente – proprio tale progetto.

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C’è un primo punto a proposito del quale l’estetica soddisfa in pieno la metodologia catastrofista: il fatto che l’estetica sia una morfologia. Essa, infatti, si occupa di oggetti spazio-temporali, che sono prodotti materialmente nel caso delle arti plastiche (pittura, scultura), o sono provvisti solo della dimensione temporale (musica, poesia); da questo punto di vista, anzi, l’estetica è avvantaggiata rispetto a molte scienze umane – come la psicologia o la sociologia – del tutto incapaci di spazializzare i loro oggetti. Ma se si tratta astrattamente del bello, ci si porranno in proposito due problematiche fondamentali per la costituzione dell’opera d’arte: quella del contorno e quella del frammento. C’è, tuttavia, un punto essenziale a proposito del quale l’estetica si allontana da una disciplina scientifica morfologica: essa rifiuta sistematicamente la ripetizione, tutti i suoi oggetti di studio sono degli hapax e dunque ogni copia finisce per essere immediatamente eliminata dal campo di studi. Se volessimo fare della ripetizione il criterio di “stabilità strutturale” (aspetto essenziale nella teoria delle catastrofi), saremmo indotti a dire, in ambito artistico, tale criterio di stabilità è puramente e semplicemente non pertinente: infatti gli aspetti ludici e onirici, così frequenti nell’opera d’arte, vanno messi in relazione proprio con questa volontà di originalità a ogni costo (è possibile che nella storia dell’umanità non vi siano stati due sogni vissuti in modo assolutamente identico…). Questa difficoltà essenziale nell’affrontare “catastroficamente” l’opera d’arte può essere parzialmente risolta se si osserva: - anzitutto che l’unità dell’opera d’arte va cercata meno nell’esigenza di stabilità che in quella di “ottimalità”: il fatto che l’effetto estetico sia estremamente sensibile a variazioni anche minime della forma dell’oggetto mostra che in questo caso non è in gioco la “robustezza” dell’oggetto artistico; - inoltre, che nell’arte la ripetizione è assolutamente lecita, a livello del dettaglio, del sotto-soggetto: alcune arti

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anzi, come la musica, hanno una morfologia costituita essenzialmente da una combinatoria discreta che verte su un numero finito di elementi (le note della musica classica). L’estetica dunque pone, in modo essenziale, il problema del rapporto fra locale e globale; ed è a questo titolo che essa può legittimamente interessare il topologo che in matematica ha continuamente a che fare con tale rapporto. Ma questo problema, in ambito estetico, si ramifica in due problematiche specifiche: quella del contorno, del “bordo” dell’oggetto, e quella del frammento – ossia del dettaglio, del “sotto-soggetto”. Il problema del contorno Ci si chiederà anzitutto se non sia essenziale che il bello sia concentrato, individuato in begli oggetti. La bellezza è concepibile anche in forma non localizzata, come semplice ambiente o atmosfera? A questo proposito, possiamo farci guidare da due analogie. Anzitutto se, accettando la tesi kantiana, il sentimento del bello ha la stessa natura della finalità biologica, allora si osserverà che ogni essere vivente è necessariamente separato dal mondo esterno – inanimato – da una membrana o “parete” continua: nel caso dei vertebrati, ad esempio, la pelle. La vita insomma, in un certo senso, è indistinguibile dal proprio “effetto figurativo” fondamentale: quello che separa la forma spaziale dell’individuo dallo sfondo esteriore inerte. In secondo luogo, è possibile tentare un confronto fra l’opposizione estetica bello-non bello e quella sacro-profano dell’antropologia. A volte si sostiene che vi siano società nelle quali tale opposizione assume un carattere assoluto: così gli arpedonatti1 dell’antica Grecia realizzavano, seguendo alcune sofisticate prescrizioni geometriche, il tracciato della parete che avrebbe dovuto separare l’interno del tempio (lo spazio sacro) dallo spazio profano del

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mondo esterno. Ma è difficile credere che la distinzione fosse conservata in modo permanente: così l’artigiano primitivo spiegava l’efficacia del proprio lavoro sia attribuendola all’intervento di potenze magiche sia alla propria abilità (un risultato fallimentare, del resto, poteva essere interpretato come effetto della violazione di un tabù). La stessa ambiguità è presente anche in ambito estetico: la bellezza può essere legata a un’ottimalità funzionale, come nel caso di alcune opere d’arte in senso tecnico (ponti, viadotti, hangar, ecc.); mentre negli esseri viventi la bellezza dell’organismo è indiscutibilmente legata alla perfezione “biologica” della sua forma – che deve, cioè, conformarsi a una sorta di canone ideale della specie. In ogni caso, l’essere è effettivamente dotato di un contorno netto e l’effetto estetico è il risultato della sola forma (spaziale) del contorno: l’interno non ne è parte. Ma l’ottimalità funzionale non è un concetto facile da definire, e sarebbe difficile dimostrare che il “canone ideale” della specie realizza effettivamente questo optimum2. Si può, tuttavia, formulare il principio secondo cui l’oggetto d’arte esige un contorno, come la cornice che circonda un quadro; ma questo contorno è in genere trasparente, e lascia vedere l’interno. Persino nel caso in cui non esista alcun contorno materiale, come quando si parla della bellezza di un paesaggio, si può comunque pensare che lo spettatore delimiti la propria visione con una cornice fittizia, suscettibile di essere inglobata nel suo campo visivo. Ad esempio, è difficile parlare della bellezza di un panorama scoperto guardandosi attorno dalla cima di una montagna: saremo sempre indotti a compiere scelte locali, privilegiando determinati azimut. Anche se la cornice è assente, insomma, verrà sempre creata per necessità psicologica – necessità che del resto può essere fluttuante e instabile, frutto di un’attenzione istantanea e mobile. In ogni caso lo sfondo, la parete, non è in grado da solo di creare l’opera d’arte, anche se i rettangoli di

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Mondrian hanno potuto indurci a crederlo. Come vedremo, infatti, la parete funziona come un filtro che globalizza e in massima parte trasforma profondamente gli effetti locali dei dettagli ivi contenuti. È interessante, a questo proposito, confrontare la bellezza con il suo opposto, la bruttezza. Ci si può chiedere se anche il brutto – proprio come il bello – abbia bisogno di individuarsi in oggetti delimitati. Senza dubbio esistono cose brutte, ma sono tali perché si tratta di realizzazioni incomplete, difettose, di un “canone ideale” suggerito dall’elaborazione concettuale dell’oggetto (come nel caso di un animale che sia prodotto di un’embriologia imperfetta o mostruosa); al contrario, credo che la bruttezza ambientale, la bruttezza di un’atmosfera, sia più facile da concepire rispetto alla bellezza delocalizzata: basti pensare all’orrore diffuso dei nostri moderni paesaggi urbani per convincersene. Senza dubbio potremmo realizzare quadri bruttissimi associando soggetti che sarebbero bellissimi presi uno a uno e isolatamente. Al contrario, ci si può spiegare come effetto di contorno il paradosso di Aristotele: un campo di battaglia è ripugnante ma un quadro che lo rappresenta può essere magnifico. In questo caso l’effetto della cornice è di trasformare una pregnanza negativa (di repulsione) in una pregnanza positiva, che ci attrae. Nel suo recente libro Francis Bacon. La logica della sensazione, Gilles Deleuze ha dato numerosi esempi di questo fenomeno: una figura intrinsecamente brutta diventa fonte di bellezza per il solo fatto di essere circondata da uno sfondo piatto provvisto di bordo netto. Utilizzando il lessico degli studiosi di termodinamica, si potrebbe dire che nell’opera d’arte il contorno ha lo stesso ruolo della “parete riflettente” del corpo nero: la parete, infatti, riflette le pregnanze provenienti dagli oggetti, fonte situata all’interno ma a volte ne rovescia il segno… Ciò detto, non si dovrebbe essere indotti a immaginare che l’opera d’arte sia rigidamente limitata dal suo con-

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torno; proprio come un animale, il cui organismo è limitato dalla pelle, è tuttavia provvisto di un territorio molto più esteso in cui si svolgono le sue attività, così un oggetto d’arte è fonte di un’aura di bellezza che riempie di sé tutto il suo intorno (ubbidendo peraltro a leggi assai ingegnose, dato che la propagazione di tale aura è lungi dall’essere isotropa). Agli scettici che dubitassero di tutto questo chiedo solo di riflettere a quanto, nei musei e nelle esposizioni, l’effetto di un quadro possa essere influenzato dalla presenza di quadri vicini. Il problema dei frammenti Nell’osservare un quadro (o più in generale un’opera plastica), la mente inizia col distinguere il contorno dell’opera; poi, in uno sforzo d’analisi, ci si sforza di discernere al suo interno dei centri, dei soggetti investiti di una certa pregnanza. Lo spazio totale dell’opera finisce così per essere ritagliato in campi parziali che sono le zone di irraggiamento di un centro (o, più in generale, di una configurazione locale di dettagli presa come individuo). Si può pensare che questa frammentazione derivi da una sorta di proliferazione del contorno verso l’interno, proliferazione più rapida quando nessun dettaglio particolare attira l’attenzione. È essenzialmente il conflitto fra queste pregnanze, governato dal logos di una “catastrofe” (forse più che elementare!), a garantire l’unità dell’opera d’arte: il suo effetto estetico, la sua “bellezza” saranno legati all’accordo più o meno perfetto tra questa frammentazione percettiva e un modello ideale ottenuto sottoponendo lo spazio del quadro a una partizione astratta, definita da una struttura di carattere algebrico – un logos “catastrofista”, appunto. A questo proposito ci si potrà chiedere se la bellezza sia un carattere globale dell’opera d’arte o se essa sia necessa-

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riamente già presente localmente nei frammenti o nei dettagli; si tratta di un problema molto simile a quello della definizione della vita, proprietà olistica di un organismo che tuttavia troviamo già presente nella più infima delle sue cellule. La risposta alla domanda è affermativa ma ha bisogno di una precisazione: se il “logos” globale dell’opera richiede in un certo campo una pregnanza negativa (repulsiva), allora la fedeltà a questa pregnanza locale – che è una bruttezza locale – diviene, su scala globale, una forma di bellezza. Anche il termine “frammento”, che ho utilizzato in questa sede, merita di essere ulteriormente chiarito: infatti, non bisogna confondere un “centro”, un “sotto-soggetto”, isolato dall’analisi percettiva di un quadro, con il frammento che risulterebbe – come i frammenti di statue antiche – da una catastrofe di frammentazione successiva del materiale. Questa catastrofe, infatti, darebbe luogo a una dissezione, una frattura di natura accidentale e arbitraria. Eppure, anche in questo caso, non è raro che la bellezza globale resti percettibile. Idealmente, un quadro perfetto dovrebbe essere come certe funzioni analitiche dei matematici, di cui si può ricostruire l’interezza anche conoscendone solo una piccolissima parte; a partire da un frammento, l’esperto dovrebbe poter ricostruire buona parte del quadro, se non la sua totalità: come i paleontologi che, alla maniera di Cuvier, hanno potuto ricostruire lo scheletro intero di un animale fossile sulla base di un unico osso. Proprio nell’accordo – ossia nella compatibilità – tra le differenti estrapolazioni condotte a partire dai frammenti possiamo dunque ritrovare uno dei criteri più espliciti della bellezza. È evidente che questa teoria dell’effetto estetico di un’opera d’arte solleva numerose questioni: 1. ci sono vincoli sul numero dei “sotto-soggetti” e sulla loro organizzazione configurativa (sintattica) nello spazio del quadro?

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2. Una volta ottenuta questa configurazione, che dire delle pregnanze legate a ciascun “centro” e dei loro modi di propagazione? 3. Come definire su scala globale, olistica, il “logos” che garantisce l’unità dell’opera d’arte e l’efficacia del suo effetto estetico? Propongo qui qualche elemento di risposta. 1. Sarei tentato di dire che in ogni opera d’arte esiste una possibilità di analisi di questo genere – analisi che dovrebbe a sua volta consentirci di interpretare, in modo pertinente, l’organizzazione morfologica dell’opera. In altre parole ciò significa che, in qualunque opera c’è un aspetto semi-concettuale, assai simile al linguaggio (donde il problema antropologico: nell’evoluzione degli ominidi, l’arte preesiste al linguaggio oppure quest’ultimo la precede?). Da questo punto di vista, non esiste un’arte “stocastica”: anche i prodotti dell’action painting non sono arbitrari, dal momento che qualunque azione materiale è soggetta ai vincoli della meccanica e della fisica. Ma non esiste neppure arte (totalmente) astratta, sprovvista di elementi figurativi – salvo forse la musica, che è la sola arte a disporre di una notazione discreta. Eppure, anche in musica vi sono soggetti e temi. Così, nei quadri più banalmente rappresentativi – quelli delle vite dei santi: san Giorgio che abbatte il drago, san Dionigi che trasporta la propria testa… – il soggetto ha la natura grammaticale di una frase nucleare; anche in Marcel Duchamp ritroviamo il titolo di un quadro che ha la forma di un perfettivo grammaticale: La Mariée mise à nu par ses celibataires, même [La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche]. Per quadri come questi, il cui tema è del genere di una frase nucleare, il numero degli attanti è inferiore a quattro ed è necessario ritrovare tali attanti come centri locali del quadro. Possono esservi allora dei quadri zerovalenti che non implicano, cioè, la presenza di nessun attante identificabile? È possibile, certo – ad esempio quando il quadro rap-

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presenta un guazzabuglio quasi-indefinitamente ramificato (è il caso di Pollock); le menti superficiali insisteranno a parlare di “caos”. Ma in dinamica qualitativa è noto che tali strutture caotiche sono talvolta generate da meccanismi deterministici molto semplici, tanto da indurmi a pensare – da matematico ingenuo – che l’effetto estetico sia legato alla semplicità intrinseca della legge generatrice. La sensibilità estetica, insomma, sarebbe un “rivelatore di leggi”, funzione la cui importanza biologica è evidente ai fini della sopravvivenza della specie. Restano i quadri che rappresentano folle (scene di mercato, di festini ecc.), ossia un altissimo numero di attanti presunti. In casi simili può esservi un’organizzazione gerarchica in gruppi tra loro in competizione, oppure che creano una raffigurazione astratta – effetto di simmetria in grado di moltiplicare le configurazioni stesse. Inoltre, possiamo avere una competizione fra propagazioni di pregnanze, anche se le pregnanze in questione non sono individuate in elementi attanziali ma vengono raffigurate mediante grafi ramificati intrecciati come i capillari di una circolazione sanguigna. O ancora, può esservi lotta fra una pregnanza antropomorfizzata in un personaggio e una pregnanza fisica non individuata – come il fuoco, o l’acqua… Insomma, il carattere attanziale di qualunque rappresentazione pittorica mi sembra un postulato necessario all’intelligibilità dell’arte. Se ne potrebbe trarre in ogni caso una tassonomia dei soggetti pittorici a seconda della valenza (il numero dei centri in conflitto) e del carattere individuato o meno di tali pregnanze in conflitto. Si noterà che quando il tema generale è di natura discorsiva (un racconto), il soggetto affrontato rappresenta in un certo senso l’acme della narrazione (per il mito di san Giorgio, san Giorgio nell’atto di trafiggere il drago). In questa fase catastrofica dell’azione, gli attanti sono necessariamente investiti con forza della loro pregnanza costitutiva, ereditandone dunque gli effetti figurativi particolarmente espressivi. In scultura,

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spesso, il tema essenziale è l’investimento di un attore da parte di una pregnanza (come nel caso del Pensatore di Rodin…); la riuscita dell’opera consiste, allora, nella rappresentazione ottimale di effetti figurativi. 2. La seconda questione mi costringe a passare in rassegna l’insieme delle pregnanze. In prima approssimazione, si può dire che le pregnanze possono essere ordinate in una tabella organizzata attorno a due assi: un asse orizzontale definito dall’opposizione Oggettivo vs Soggettivo, e un asse verticale definito dall’opposizione Diffusione rapida e indifferenziata vs Diffusione rigidamente canalizzata e controllata. Si ottiene così lo schema seguente:

Diffusione libera

Oggettivo

Soggettivo

Diffusione di un fluido in un ambiente: ad es. il calore

Pregnanze biologiche (fame, paura, amore…)

Campi della fisica: Colori propagazione lineare Pregnanze concettuali della luce, ad es. Traiettoria dei corpi materiali in dinamica

Diffusione controllata

Forme geometriche: quadrato, cerchio, cubo, cono, piramide…

Segni: forme significanti codificate

Un “centro”, nell’analisi percettiva, è un’evenienza morfologica che fa appuntare su di sé lo sguardo – ad esempio una macchia di colore; si tratta di ciò che ho definito una forma saliente. Di per sé, una simile forma può essere investita da più di una pregnanza; la scelta della pregnanza destinata a investirla si imporrà per un effetto figurativo immediato (se si tratta di un nudo femminile, si penserà immediatamente alla pregnanza sessuale). Ma in quadri più moderni e più astratti ci potrà essere dubbio o

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ambiguità; a quel punto sarà l’esame percettivo globale del quadro a proporre uno “schema concettuale d’interpretazione”, il cui centro è un attante che determinerà la pregnanza destinata a investire quel medesimo centro. Una forma, di per sé, suscita sempre un’interpretazione meccanica, un “campo di forze”. Tale campo di forze può essere d’origine soggettiva: così, secondo la teoria di Harry Blum, il riconoscimento di una forma non è altro che la scelta di una strategia motrice ottimale in grado di afferrare – manualmente – quella forma; ma può anche essere di natura oggettiva, se descrive le forze che l’oggetto è in grado di emettere o subire. Tuttavia, la forma geometrica in sé non ha potere di contagio. Un oggetto geometrico – come un cerchio, un triangolo, un cono – può esser descritto ma non ha alcun potere evocativo o suggestivo. Anche in questo caso solo in musica la forma ha potere di pregnanza: una cellula ritmica o melodica, percepita nel corso di un testo musicale, sussiste nella mente sotto forma di ricordo degli istanti trascorsi e di anticipazione di quelli futuri. Questo aspetto puramente mnemonico della similarità geometrica tra forme sembra giocare un ruolo assai limitato nelle arti plastiche, mentre è essenziale per la comunicazione scritta e il pensiero formale dei matematici e dei logici. Non appena il centro è provvisto di una certa pregnanza, si verifica se l’artista ha tentato di rappresentare l’irraggiamento di questa pregnanza con mezzi oggettivi, meccanici o fisici. Nei casi più semplici, questa azione può essere rappresentata da uno strumento: così, nelle più antiche rappresentazioni del mito di san Giorgio la dimensione orizzontale e quella verticale del quadro sono assiologizzate, rispettivamente, in base alle opposizioni città vs natura e bene vs male. L’azione trionfatrice dell’eroe situato nell’angolo superiore sinistro è simbolizzata allora dalla sua lancia, collocata in diagonale e che taglia in due

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il drago, situato nell’angolo inferiore destro3. La pregnanza è dunque individuata in uno strumento localizzato. Ma l’essenza più caratteristica e specifica dell’arte consiste nel riuscire ad accoppiare in modo permanente delle pregnanze fisiche (la luce, ad esempio) e delle qualità soggettive (ad esempio la gioia). È, ad esempio, la situazione tipica della poesia, in cui le simmetrie temporali del significante fonico (essenzialmente musicale) servono a eliminare l’ambiguità del significato; in questo caso la pregnanza soggettiva, per potersi propagare, si serve di una pregnanza fisica. Del resto, la maggior parte dei grandi stili pittorici possono essere interpretati come variazioni di questo accoppiamento fra pregnanze soggettive e pregnanze oggettive: ad esempio, l’impressionismo ha assegnato alla propagazione della luce aspetti al di là della fisica ripresi dalla diffusione psicologica delle emozioni; mentre, all’opposto, il cubismo, trasformando gli esseri più pregnanti (Les demoiselles d’Avignon) in aggregati di cilindri e di coni, ha cercato di “contenere” al massimo questa pregnanza, se non addirittura di cancellarla. L’epoca moderna ha rimesso in discussione la naturalità degli effetti figurativi di una pregnanza: la psicoanalisi della Traumdeutung ha investito di pregnanza sessuale un gran numero di oggetti (funghi, ombrelli ecc.) la cui pregnanza concettuale ne era del tutto sprovvista. Interviene qui l’aspetto ludico e onirico dell’arte, soprattutto moderna: ogni quadro è un enigma, proprio come il sogno, e risolvere un enigma diviene parte integrante del piacere estetico. Ma non bisogna dimenticare che la pittura si è servita di figure ambigue a partire dal Rinascimento (Arcimboldo). Vi sarebbe molto da dire sul tema delle variazioni stilistiche degli effetti figurativi. Mi limiterò a due sole osservazioni: anzitutto le interpretazioni figurative di una data morfologia non sono arbitrarie, e anche in questo caso i grandi schemi archetipi sviluppati dalla teoria delle catastrofi elementari hanno qualcosa da dire in proposito.

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Inoltre l’ambiguità di una figura può dare il via al dialogo che s’instaura fra spettatore e quadro – in base al modello detto dei punti omoclini di Poincaré in dinamica: quando curva attrattiva e curva repulsiva, provenienti da un punto fisso, si incontrano, si verifica un notevole aumento nella complessità della dinamica, la quale crea un’infinità di cicli vicini. 3. Per quanto riguarda il “logos” globale dell’opera d’arte, mi limiterò a fornire una descrizione – a un tempo azzardata e schematica – dei meccanismi mentali che conducono all’impressione di bellezza dinanzi a un quadro. Per adattare un simile modello alla scultura basterebbero, credo, pochi ritocchi, mentre per la poesia e la musica la teoria dovrebbe essere notevolmente diversa, a causa del carattere fondamentalmente temporale del sostrato di tali arti. Di fronte a un quadro la mente, per mezzo di un’analisi percettiva, cerca di mettere in evidenza dei centri locali di pregnanza (ci) che in seguito organizza in una struttura globale di tipo discorsivo (un “racconto”). Immaginiamo, per semplificare, che questa struttura discorsiva possa essere rappresentata da una sezione bidimensionale di una “catastrofe”, descritta a sua volta da un potenziale singolare V provvisto di uno spazio di dispiegamento U. A partire dal momento in cui la mente ha concepito tale schema globale d’intelligibilità del quadro, definito da una classe di applicazione h del quadro T in U ~ (relativamente a un insieme di catastrofe universale K ), essa cerca di realizzare la miglior~configurazione possibile per la contro-immagine h-1 (K ); a tal scopo, la mente risolverà – in forma interiorizzata e inconscia – un problema di ottimalità che consiste nel trovare per l’applicazione h un rappresentante “armonico”, tenuto conto della forma del contorno – ossia del bordo di T – e delle eventuali interpretazioni “assiologiche” delle sue coordinate (orizzontale e verticale).

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~ Sia H questo rappresentante armonico, e J = H-1 (K ) l’insieme di catastrofe così definito. Postuliamo allora che esista in J un unico punto O (centro organizzatore della struttura discorsiva), situato sullo strato di codimensione due (il più degenerato di K). Si può allora definire una dinamica di retrazione per deformazione g del quadro T su O, che mantiene invariante il grafo J e converge verso O. Inoltre, postuliamo che J sia attrattivo per questa dinamica g, nel senso che quasi ogni traiettoria di g, da un punto del contorno, finisce rapidamente nelle vicinanze di J. Il principio alla base del mio modello è il seguente: il flusso di retrazione g trasporta le pregnanze emerse dai centri (ci) verso J quindi verso O che costituisce il pozzo finale di questa dinamica di ritrazione. Si può ritenere infatti che in O il fluido (g) si irradi ortogonalmente dal quadro (T) per andare a colpire il centro della retina dello spettatore… L’idea centrale del modello, insomma, è che noi non vediamo “esteticamente” un quadro se non attraverso un filtro fornito da uno schema di intelligibilità costruito a priori e che offre una sorta di partizione ideale – ottimale – del quadro. Il carattere estetico del quadro (T) è misurato dalla somma totale dei “fluidi-pregnanze” trasportati da (g) in O e originati da centri attanziali (ci), che alla fine colpisce l’occhio dello spettatore. Il più importante problema teorico, a questo punto, consisterebbe nel valutare “quantitativamente” l’ammontare della pregnanza di un centro fonte (ci), e di calcolare la cinetica del suo scorrimento nel quadro (T). In generale non sembra possibile sostenere l’esistenza di uno scorrimento isotropo, a causa dei valori assiologici delle coordinate; inoltre, se la pregnanza dispone in (ci) di un individuo da essa investito, l’intensità della somma risultante di (ci) sarà – all’incirca – proporzionale al potere espressivo degli effetti figurativi che suscita nell’individuo-centro. Infine, il carattere animato dell’individuo o la possibilità di qualificarlo in senso concettuale, possono contri-

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buire a limitare la propagazione della pregnanza sottoponendola a vincoli di direzione o di focalizzazione (si pensi ancora una volta alla lancia di san Giorgio). E non è tutto: bisogna anche tener conto del fatto che una pregnanza nata da un centro (ci) cessa di agire non appena incontra un’altra pregnanza originata da un altro centro (cj) di intensità superiore; ne emerge l’esistenza di uno strato di conflitto (una sorta di linea-frontiera) F che separa i domini di influenza degli attanti (ci) e (cj). Si avrà una buona rappresentazione delle pregnanze trasportate in O dal flusso (g) solo a condizione che la linea-frontiera (F) coincida (o sia molto vicina) con un ramo del grafo ideale J – poiché è proprio in prossimità di J che si concentra il flusso (g), vettore delle pregnanze. In tal modo si può dare conto del fenomeno – a priori sorprendente – dell’estrema sensibilità che mostra l’effetto estetico di una pittura dinanzi a trasformazioni metriche anche minime del quadro: affinché tutto l’effetto del conflitto sia preservato e trasmesso allo spettatore, infatti, è necessario che la frontiera “percettiva” F coincida con un ramo del grafo “intelligibile” J. Si obietterà a questo modello che, se l’idea di una propagazione di pregnanze a partire da forme fonte è tutto sommato accettabile – e potrebbe, ne sono certo, trovare numerosi riscontri nell’ambito della letteratura relativa alla critica pittorica –, è vero, tuttavia, che non abbiamo alcuna consapevolezza cosciente dei grafi (J) e (F) di cui essa postula l’esistenza. La stessa obiezione, del resto, è stata mossa alla teoria della percezione di Harry Blum, che ipotizza la costruzione inconscia di uno scheletro (matematicamente, un cut-locus) all’interno del contorno apparente di un oggetto. Questa critica, però, non ha impedito di portare alla luce – mediante alcuni esperimenti – l’esistenza mentale di tale grafo-scheletro; ma i grafi J e F postulati dalla mia teoria sono, in definitiva, di natura analoga a quello di Blum.

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Un altro aspetto interessante del modello è la possibilità di spiegare le manifestazioni di rigetto e d’incomprensione da parte del pubblico dinanzi a un nuovo stile pittorico. Se, infatti, in seguito a un cambiamento delle convenzioni relative agli affetti figurativi di una pregnanza, uno spettatore è incapace di attribuire tale pregnanza al centro considerato, gli sarà impossibile costruire uno schema intelligibile pertinente. Guarderà quindi il quadro servendosi di uno schema più banale e non pertinente: di conseguenza, l’effetto estetico ne risulterà distrutto (e lo spettatore potrà addirittura avere l’impressione che ci si prenda gioco di lui…). Conclusione Se il modello che ho presentato in queste pagine può sembrare decisamente speculativo (e al tempo stesso di una semplicità quasi ingenua), se ne può in ogni caso ricavare l’idea che il bello appare solo in relazione a uno schema intelligibile di tipo discorsivo. Nella teoria della narratività, ad esempio, è noto che il tema di un racconto può essere interpretato nel modo seguente: uno squilibrio iniziale (la “colpa”, la “mancanza”) viene alla fine compensato dalla restaurazione dell’equilibrio raggiunta grazie alla performance dell’eroe – nel nostro caso l’artista creatore. Non si può evitare di pensare che l’idea di offerta, di sacrificio rituale, sia forse la migliore metafora in grado di caratterizzare la creazione artistica. Come ha scritto un altro presocratico, Anassimandro: “Ogni essere, per il solo fatto di esistere, commette l’hybris, l’ingiustizia metafisica per la quale verrà un giorno punito con il ritorno all’indefinito, all’apeiron”. In una simile visione, l’obiettivo principale di ogni vita dovrebbe essere proprio la descrizione di questi “ritorni all’equilibrio”. Costruendo un simulacro di tale ritorno, forse potremo evitarlo: di qui il carattere “propi-

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ziatorio” e “apotropaico” di molte opere d’arte, che tentano di riconciliarci con il Tutto nel quale siamo chiamati a fonderci; ma anche, all’opposto, le opere di sfida in cui l’artista, come Prometeo, si sforza di rivelarci i meccanismi dell’universo, inquietanti e minacciosi. Dinanzi a questa visione della creazione artistica è mai possibile che lo scienziato – tenacemente aggrappato alla scissione castratrice fra il Soggetto e l’Oggetto – non provi un senso di inferiorità? Senza dubbio scienziato e artista cercano entrambi di spostare sempre più oltre i limiti dell’intelligibile ma lo scienziato non ha la libertà ludica dell’artista, assoggettato com’è alla regola imperativa di dover essere compreso. La scienza non può fare altro che proseguire nel suo compito di esaminare obiettivamente i fenomeni; progredisce accumulando fatti, ma sul piano delle idee il suo percorso rammenta quello di Sisifo… Quanto all’arte, essa non progredisce ma manifesta, al cospetto del mondo, il voler-essere ininterrotto dell’Uomo.

* La traduzione italiana di questo intervento, di Angelo Fabbri, è uscita in «Alfabeta», n. 44, del gennaio 1983 (pp. 19-22). Si è ritenuto opportuno apportare leggere modifiche a quella traduzione (in particolare aggiungendo l’introduzione dell’Autore e alcune note assenti nella versione originale), sulla base del testo edito in Apologie du logos (pp. 101-117). 1 Nell’antichità classica, in Egitto, gli arpedonáptai erano dei funzionari cui spettava misurare, dopo ogni piena del Nilo, l’estensione e la ripartizione delle terre i cui confini erano stati ricoperti di fango e melma; in Grecia, invece, questo appellativo era attribuito a ministri religiosi cui spettava misurare con delle cordicelle (arpedonaí) dimensioni e ubicazioni delle pareti dei templi (N.d.T.). 2 In questo paragrafo, che colpisce per la sua incoerenza, ho invano tentato di chiarire un problema di cui all’epoca non riuscivo ancora a cogliere le implicazioni in modo distinto. Oggi forse sono in grado di dar conto un po’ meglio dei concetti che allora mi sforzavo di trasmettere. a. Ciò che accomuna il sacro al bello è che entrambi fungono da intermediari tra salienza e pregnanza. Ecco perché il sacro implica sempre un elemento di localizzazione: è sempre da qualche parte. Se talora prevede l’esistenza di un bordo o confine netto (il muro di un tempio), mentre altre volte a essere salienti sono degli oggetti sacri, si tratta solo di casi specifici – non generali, dunque, né necessari. In genere, infatti, il sacro irradia attorno a sé un’atmosfera indefinita.

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b. Propongo pertanto di considerare il sacro come il prolungamento, nell’uomo, della fascinazione animale – come l’uccello “stregato” dal serpente, insomma (a questo proposito, cfr. la conclusione che ho scritto per Labeyrie 1987). L’oggetto (o il luogo) sacro esercita sul soggetto umano una pregnanza di intensità infinità, a un tempo attrattiva e repulsiva. Questa forza infinita immobilizza il soggetto dinanzi alla forma fonte. c. Questa situazione estrema del sacro potrà dar luogo a ulteriori sviluppi: da una parte, diminuendo l’intensità della sua pregnanza (attrattiva o repulsiva); dall’altra, consentendo al soggetto, posto dinanzi alla forma fonte, di esercitare una qualche attività. Chiamerò quest’ultimo asse “efficacia” vs “inefficacia”. Dal lato dell’efficacia repulsiva, il sacro si degrada dapprima in magia, poi in scienza; dal lato dell’inefficacia attrattiva, il sacro si degrada in arte. I prototipi dell’efficacia attrattiva e dell’inefficacia repulsiva, in definitiva, potrebbero incarnarsi in quegli oggetti profani costituiti, rispettivamente, dall’alimento e dall’escremento – due categorie fondamentalmente biologiche. In esse risiede l’ambiguità che si è notata tanto nell’opera dell’artigiano quanto in quella dell’artista: a partire dal momento in cui la potenza del sacro non è più sufficiente a fissare il soggetto nell’immobilità del “terrore sacro” (lo awe), l’uomo può agire sulle forme fonte nel tentativo di trarne profitto. Farà questo canalizzando le forze cosmiche (o demoniache) in direzione dello scopo perseguito: ecco dunque il compito del mago. Non diversamente, il fisico canalizza il flusso d’energia in questo o quel conduttore o canale. Quanto all’artigiano, costui comunica ai propri strumenti la sua energia al fine di fabbricare questo o quell’oggetto desiderato; ma l’effetto utile del suo operato avrà luogo soltanto in accordo con le grandi leggi del mondo, manifestazioni dell’ordine cosmico. L’artista, infine, si appropria di un oggetto banale e ne modifica la forma con l’intento di trarne non un’efficacia esterna, ma un puro piacere dei sensi. Ma non vi è forse un accordo (almeno parziale) fra il piacere dei sensi e l’efficacia funzionale? La cosa è abbastanza evidente per quanto riguarda la forma degli esseri viventi, ed è legittimo pensare che tracce di tale accordo restino negli oggetti creati dall’artista. 3 Questo riferimento all’iconografia di san Giorgio è tratto da Petitot 1974.

L’arte: luogo di conflitto tra forme e forze?

Scritto in occasione di un Colloquio organizzato il 25 gennaio 1984 dal dr. Marcel Bessis presso il Centre du Kremlin-Bicêtre, a Villejuif, e dedicato al tema “L’arte e la scienza”, questo testo è già stato pubblicato nell’opera a cura di Jacques-Louis Binet, Jean Bernard e Marcel Bessis, La création vagabonde, Hermann, Paris 1986. Ne presento qui una versione riveduta, che recupera il testo originale eliminando le ripetizioni rispetto ad altri saggi e articoli. Il contenuto del testo, in sostanza, differisce poco dalle opinioni presentate nel saggio Locale e globale nell’opera d’arte (cfr. supra, pp. 111-132), fatta eccezione per la terminologia più classica e meno “alla Thom” – aspetto, quest’ultimo, che dovrebbe rendere il saggio un po’ più accessibile (almeno lo spero). Assieme a molti altri storici dell’arte, René Huyghe (1971) si è perfettamente reso conto che qualunque ragionevole teoria dell’arte obbliga a tener conto simultaneamente delle forme e delle forze. Ma una simile ontologia dualista induce subito a porsi una questione iniziale: dobbiamo considerare primarie le forme o le forze? E quali delle due saranno allora derivate (o secondarie)? Una linea di frattura nella storia della filosofia In Parabole e catastrofi (Thom 1980b, p. 105) scrivevo: “non c’è alcuna ragione di pensare che la forza abbia in li-

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nea di principio uno statuto ontologico più profondo di quello della forma. Se si è attribuito in generale alla forza uno statuto ontologico più profondo di quello della forma, ciò è forse dovuto a una specie di antropocentrismo ingenuo che dipende dal fatto che agiamo sugli oggetti esterni tramite le forze che applichiamo ad essi con l’aiuto dei nostri muscoli”. Oggi sarei forse meno certo di tale anteriorità delle forme sulle forze. Già nell’ultimo capitolo di quel libro-intervista, del resto, con l’introduzione dei concetti di salienza e pregnanza (1980b, pp. 114-115) emerge l’ineluttabilità delle pulsioni – e dunque delle forze. Da sempre, insomma, il problema dell’anteriorità delle une sulle altre rappresenta una delle linee di frattura essenziali che percorrono la storia della filosofia, una delle scissioni più permanenti della philosophia perennis. La forma è un’entità visibile, ma in linea di principio statica. Quanto alla forza, si tratta di un’entità invisibile che a volte produce effetti dinamici e visibili: così la forza è essa stessa legata in modo essenziale alla causalità e all’irreversibilità del tempo. In merito a tale definizione delle rispettive caratteristiche delle forme e delle forze, possiamo formulare una distinzione fra due grandi tipi di filosofia perfettamente simbolizzata dalla coppia Platone-Aristotele: da un lato, vi sono i pensieri della forma, essenzialmente “statici”, cui appartiene tra l’altro il platonismo; dall’altra, i pensieri della forza, essenzialmente “dinamici” – sul modello del Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer, delle “entelechie” di Driesch, dell’evoluzione creatrice di Bergson o della corrente vitalista in biologia, che rinasce sempre a dispetto delle continue condanne. Nell’ambito scientifico il problema si pone in modo diverso. Probabilmente il positivismo, rifiutando la causalità, si ricollega alla filosofia della forma ma è impossibile che la scienza, nella sua accezione più generale, rinneghi la cau-

L’ARTE: LUOGO DI CONFLITTO TRA FORME E FORZE?

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salità poiché questa rappresenta uno strumento necessario al controllo sperimentale (sublata causa tollitur effectus) e alla predizione del futuro. Perciò la scienza si è da sempre sforzata di definire – se non addirittura di addomesticare – il mondo delle forze a partire dall’osservazione delle forme. In meccanica classica, la formula di Newton F = mg consente, in un certo senso, di realizzare il programma cartesiano: ridurre ogni cosa alla figura e al movimento. Quanto alla meccanica quantistica, essa risolve il problema in modo radicale identificando forma e forza mediante l’identificazione di particella e campo; ma questa soluzione va a discapito dell’intelligibilità complessiva della teoria – e del determinismo classico – che continua a sussistere anche soltanto in forma statistica. Credo perciò che i concetti di salienza e pregnanza – che sono, in un certo senso, gli antenati gestaltisti della forma e della forza – possano rinnovare la problematica insita in tale rapporto. Salienze e pregnanze: lo statuto particolare del linguaggio Nell’animale esistono poche pregnanze fondamentali, provviste però di un grande potere invasivo. I loro investimenti, inoltre, sono labili e reversibili: così un’associazione pavloviana scompare dopo un certo periodo di tempo se non viene opportunamente “rafforzata”. Nell’uomo, invece, esiste un numero grandissimo di pregnanze, ma il loro potere di propagazione (e la loro capacità di investimento) è rigidamente controllato dai meccanismi del linguaggio. Ogni concetto associato a un nome del linguaggio è portatore di una pregnanza – la sua significazione – la quale normalmente investe le forme salienti che sono i referenti del concetto. La propagazione di tali pregnanze concettuali è severamente limitata dal funzionamento sintattico: così il genitivo grammaticale è uno dei meccanismi

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della propagazione poiché una pregnanza, in stato di “eccitazione”, contamina un altro concetto – sia pure a prezzo di una parziale distruzione del concetto fonte. Nel genitivo “X di Y” (la cartella di Paolo), la pregnanza “eccitata” di Y (Paolo) investe X (la cartella di Paolo), determinandolo; normalmente si tratta di una localizzazione spazio-temporale di X da parte di Y. La predicazione, o in altre parole l’attribuzione di una qualità e una sostanza, può essere analizzata come l’investimento di una forma saliente da parte di una pregnanza. Mentre, tuttavia, nella situazione biologica del condizionamento pavloviano l’investimento è puramente soggettivo, vale a dire relativo a un soggetto interpretante, nel caso della predicazione esso concerne i cambiamenti qualitativi del mondo esteriore considerati obiettivi. La stessa cosa accade per la causalità: dati due fenomeni A e B tali che (A) sia la causa di (B), se (A) e (B) sono due fenomeni distinti e non contigui saremo indotti a sostenere che l’effetto causale di (A) verso (B) è dovuto alla propagazione di un’entità invisibile – una “influenza” – che emana da (A) ed investe (B). Questa entità sarà considerata come una pregnanza oggettiva, e la maggior parte degli agenti fisici sono di tale natura: è il caso della luce, che emana dalle forme fonte – le fonti luminose appunto – trasformando gli oggetti che investe e sui quali si diffonde in forme secondarie. Ma anche il linguaggio presenta pregnanze dello stesso tipo: in una frase transitiva semplice o nucleare – quella formata da soggetto, verbo, oggetto – il soggetto emette una pregnanza che investe l’oggetto, producendo su di esso un effetto figurativo che in genere è favorevole al soggetto. Quanto al verbo, si tratta del tramite quasi obbligatorio attraverso cui si propagano le pregnanze “oggettive” che emanano dal soggetto. L’esempio archetipico (la causalità a tergo di Aristotele) è quello della collisione fra due corpi solidi: quando un corpo mobile (X) incontra un corpo fisso (Y), nella collisione una parte del mo-

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mento cinetico viene trasferita da (X) verso (Y) – una circostanza espressa linguisticamente mediante la frase “(X) urta (Y)”. Il verbo transitivo significa dunque essenzialmente l’effetto sull’oggetto (Y) della pregnanza emessa dal soggetto (X): ma questo effetto è il risultato di un conflitto fra la pregnanza emessa dal soggetto – destinata a investire l’oggetto – e la stabilità caratteristica di quest’ultimo – stabilità che può essere a sua volta spiegata ipotizzando la presenza di una pregnanza individuante. Il senso del verbo è la constatazione di un conflitto e la descrizione del suo esito. Se in linguistica tali conflitti sono raffigurati mediante un piccolo numero di grafi di interazione – le strutture sintattiche –, le cose non andranno altrimenti in ambito estetico: infatti, scopo dell’opera d’arte è fornire la descrizione di una configurazione conflittuale e dinamica infinitamente varia. Verso una teoria dell’estetica? L’attività artistica è un prolungamento naturale dell’acquisizione del linguaggio. Ora, uno degli aspetti essenziali di quest’ultimo è proprio la comparsa delle strutture sintattiche: ogni discorso si scompone in frasi semanticamente autonome e ogni frase è essa stessa una concatenazione di parole (ossia una struttura attanziale) governata da una struttura algebrica in forma di albero (un “gradiente”). È necessario distinguere fra le arti plastiche, che producono opere materiali, e le arti di natura uditiva e temporale, come la musica e la poesia, per le quali il livello pertinente d’organizzazione è quello del racconto, del discorso globale1. Per quanto concerne le arti plastiche, sono incline a dire che ogni opera è la realizzazione spaziale di uno schema intelligibile rappresentato da una frase nucleare: questo fatto è evidente per i quadri figurativi nel senso più in-

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genuo, rappresentazioni iconiche del contenuto significato da una frase del tipo “San Giorgio che uccide il drago”. L’arte consiste, dunque, nel rappresentare delle forze mediante delle forme, esprimendo la propagazione delle pregnanze soggettive o oggettive attraverso i loro effetti su forme salienti particolarmente espressive. È qui che interviene l’analogia con il formalismo della teoria delle catastrofi. Nell’algoritmo della teoria, infatti, è la pregnanza che genera la salienza: la discontinuità fenomenica dell’ambiente – ossia la catastrofe – è conseguenza di una singolarità, di un potenziale, di un gradiente. In questo modo ho spiegato l’origine delle strutture sintattiche della frase nucleare, nate in seguito a una ritualizzazione mentale delle catastrofi più frequenti sullo spazio-tempo (la predazione, ad esempio, che si esprime mediante una cattura topologica: la preda inghiottita dal predatore). La formazione dei concetti e il linguaggio, pertanto, non sono possibili se non grazie a una rigida canalizzazione delle pregnanze, che garantisce la fissità del concetto. Nell’arte, al contrario, l’uomo si sforza di risalire dal linguaggio al dinamismo primitivo che lo ha generato; ma per far ciò deve cercare di distruggere la canalizzazione concettuale delle pregnanze biologiche primitive. Ecco allora che l’arte, poiché è capace di svelare dinamismi originari, è davvero uno strumento di conoscenza – come ha scritto René Huyghe. Ma tutto questo non basta a spiegare l’estetico nella sua totalità; infatti, bisogna ancora dar conto di due difficoltà: 1. ogni processo naturale, ogni forma assunta dalla realtà esteriore non è necessariamente bella. In base a quale criterio decideremo allora che tale o talaltra forma esteriore è bella? 2. nell’opera d’arte, l’effetto estetico è estremamente fragile. È sufficiente anche una minima variazione nel disegno, nel colore, o nella geometria dell’opera per distruggerlo quasi del tutto. Siamo in presenza, insomma, di un carattere estremamente “metrico” dell’opera d’arte,

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tale che non vi è alcuna opera in grado di resistere a una deformazione – sia pure un omeomorfismo topologico2. Per rispondere a tali questioni, possiamo definire due origini della bellezza. Un primo criterio – interno alla forma naturale – è relativo al carattere “estremo” [“extrémal”] della dinamica che ha prodotto la forma, senza peraltro che sia facile definirlo. Per gli esseri viventi ogni spazio ha un ideale formulato con maggiore o minore precisione, che ogni rappresentante delle specie viventi realizza con maggiore o minore approssimazione. Quando si tratta di forme della natura inanimata, bisogna probabilmente tenere conto del carattere a un tempo eccezionale e “puro” delle dinamiche generatrici: i “giochi della natura” sono spesso apprezzati come fonti di bellezza, soprattutto se impregnati di ambiguità antropomorfa. Basti pensare alle forme, spesso davvero spettacolari, assunte dalle stalattiti e stalagmiti che vediamo visitando le grotte. Eppure una forma brutta o insignificante può senza alcun dubbio costituire il tema di un quadro magnifico. È, questo, il famoso paradosso di Aristotele: un campo di battaglia non è bello ma un quadro che lo rappresenta può benissimo esserlo. Ed è a questo punto che interviene il secondo criterio: la mimesis, l’imitazione della natura. La bellezza insomma nasce dal conflitto natura-cultura: per convenzione culturale, l’opera d’arte si inscrive in un quadro che costituirà, per la riproduzione del reale, una condizione limite per ogni particolare problema di ottimizzazione. Altrove (cfr. supra pp. 111-132) ho tentato di definire in che modo si costituiva tale criterio di ottimizzazione, in funzione di uno schema d’intelligibilità scelto a priori. Questo criterio chiama essenzialmente in causa propagazioni di pregnanze a partire dai centri attanziali che le irraggiano: pregnanze oggettive come la luce, ovvero pregnanze soggettive veicolate da pregnanze oggettive che

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le simbolizzano. In questa sede, pertanto, non tornerò sull’argomento, se non per ribadire che la raffigurazione di una pregnanza soggettiva da parte di una pregnanza oggettiva – la gioia simbolizzata da un cielo luminoso, la tristezza da uno sfondo scuro – costituisce un elemento essenziale dello stile pittorico. Forse ci si stupirà di ritrovare proprio in questo contesto la vecchia idea dell’arte imitazione della natura; ma dopotutto, cos’altro è un’imitazione se non una simulazione spaziale? Ebbene, la conoscenza è fondamentalmente simulazione interiore del mondo esterno (adaequatio rei et intellectus): e i materiali plastici si prestano a conservare tale simulazione di forme, proprio come la memoria umana. Ma c’è di più. Nel conflitto più tipico della sintassi – quello che ha luogo nella frase transitiva SVO – scopriamo che nell’oggetto c’è conflitto tra la pregnanza emanante dal soggetto, che lo investe, e i suoi meccanismi interni che ne garantiscono la specifica “regolazione” – ovvero la sua stabilità. Si può dire che tali meccanismi, nello spazio degli stati interni del soggetto, siano la manifestazione di una pregnanza che ho denominato “pregnanza individuante” dell’oggetto. Le due pregnanze in conflitto però non sono della stessa natura: una è esogena, e rappresenta il nemico; l’altra invece, quella endogena, garantisce la regolazione intrinseca dal “sé” – prendendo a prestito la terminologia degli immunologi. Chi parla, dunque, chi crea sperimenta nell’opera d’arte proprio questo conflitto. Ma tale conflitto è lo stesso che la vita combatte indefinitamente, ogniqualvolta dei meccanismi interni di difesa neutralizzano un attacco proveniente dall’esterno. In ogni predicazione, anche la più banale, (come il paradigmatico “il cielo è azzurro”) viene messo in questione l’essere e la frase esprime l’esito finale del conflitto: questa lotta elementare per la sopravvivenza è, spesso, incarnata dall’opera d’arte e viene “sentita” per empatia dallo spettatore.

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Probabilmente nell’arte non figurativa la situazione è più complessa: in tali opere, infatti, spesso è difficile identificare le pregnanze antagoniste in centri attanziali ben localizzati. Quasi sempre tali pregnanze si manifestano mediante forme che si ramificano, intrecciate fra loro (è il caso di Pollock, o di Tobey): anzi, mi piace vedere proprio in quelle forme un’eco delle mie “catastrofi generalizzate”. Altre volte invece i vettori delle pregnanze sono elementi non localizzati, come gli orientamenti dei colori. Ma lo schema eracliteo della lotta è sempre presente e persino il rettangolo bianco di Mondrian continua a racchiudere in sé la lotta fra le direzioni verticali e orizzontali dei bordi del quadro. Allontanandosi dallo schema canonico (o attanziale) delle strutture sintattiche, l’arte non figurativa ha tentato di far recedere i limiti dell’intelligibile – l’identico compito che si è preposta la scienza; e in grande misura è riuscita nel suo intento. L’arte appare così come una tra le componenti essenziali della spinta evolutiva grazie alla quale l’uomo è riuscito a evadere dalla sua primitiva alienazione nelle forme pregnanti. L’uomo, infatti, si è sbarazzato del fascino che le cose esercitavano su di lui trasformandole in concetti, dando loro dei nomi; allo stesso modo l’artista si libera del carattere troppo automatico delle concatenazioni di pregnanze ricorrendo al gioco, rappresentandole mediante forme plastiche. Una simile attività ludica geometrizza, oggettiva le pregnanze biologiche e di conseguenza le allontana dal nostro io: aumenta in tal modo l’autonomia dello psichismo il quale, libero ormai dalla fascinazione delle pregnanze, potrà trarre dal gioco della rappresentazione una fonte inesauribile di piacere.

1 Non è superfluo osservare che lo haiku giapponese realizza in un certo qual modo l’ideale dell’oggetto poetico a frase unica. 2 Questa estrema sensibilità dell’effetto estetico alla deformazione non può non evocare un’analogia: si tratta degli spettri dei fisici, i quali spesso presentano picchi estremamente acuti. Chissà, forse è possibile vedere nell’opera d’ar-

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te plastica una sorta di “spettro” di un gioco di forze, di tendenze, di pregnanze. Bisogna ricordare, del resto, che in dinamica generale posizione e momento costituiscono grandezze duali: l’oggetto fondamentale sarebbe pertanto un conflitto di tendenze, mentre il suo duale si identificherebbe con il suo spettro – vale a dire con un oggetto esteso in senso spaziale. In tal modo finiremmo con l’imbatterci nella mia idea fondamentale, che vede nell’opera d’arte l’immagine di un morfismo delle forze nelle forme.

Morfologia del semiotico

Questo articolo si interroga su quale sia l’ambito della semiotica come scienza e, adottando un’interpretazione massimalista, propone un criterio esclusivamente morfologico di definizione del semiotico. A partire dalle nozioni di salienza e pregnanza, vengono descritti i tratti generali dell’attività semiotica e sono passati in rassegna i vincoli essenziali che agiscono sul costituirsi del semiotico: l’individuazione come condizione necessaria della pregnanza; il problema degli spazi sostrato (geometrici e assiologici); la propagazione delle pregnanze come principio di intelligibilità dei fenomeni; il processo stesso di individuazione e la delimitazione delle pregnanze. La conclusione delinea sommariamente la problematica fondamentale posta dal rapporto tra la natura e il senso della natura – o meglio, detto in altri termini, tra la morfologia del semiotico e l’intelligibilità del mondo. Introduzione Ogni scienza ha il dovere di delimitare il proprio oggetto: è questo il primo imperativo metodologico. Perciò, nella misura in cui la semiotica aspira a conquistarsi uno statuto di vera e propria scientificità, è importante che conosca e riconosca quali fenomeni sono di sua competenza e quali, invece, le sfuggono. È ovvio che in quest’ope-

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ra di delimitazione si potranno adottare sia interpretazioni massimaliste sia interpretazioni minimaliste; ecco perché sceglierò da subito di assumere un punto di vista massimalista, proponendo un criterio esclusivamente morfologico di definizione del semiotico: c’è “semiosi” in ogni processo morfologico di trasferimento (spazio-temporale) Sorgente-Messaggio-Ricevente – o meglio, tutti questi processi partecipano del semiotico. Utilizzando uno schema fondato sulla teoria delle catastrofi, tale definizione potrebbe essere rappresentata come in figura 1:

Naturalmente, quanto ho appena affermato si presta a ovvie obiezioni. Vi sono infatti processi di trasferimento puramente fisici per descrivere i quali – almeno a priori – non si sarebbe disposti ad accogliere un’interpretazione semiotica: così, ad esempio, quando, in seguito a un crollo, da una scogliera si stacca una roccia che si schianta sopra una casa situata più in basso, nessuno immaginerà che un simile evento possa essere argomento di semiosi. Eppure in tale processo – come vedremo meglio in seguito – vi sono elementi dinamici presenti anche in qualsiasi processo di comunicazione – in particolare, la differenza di livello di energia potenziale (in questo caso l’altezza) che pone il soggetto emittente al di sopra dell’oggetto ricevente. Ecco un altro esempio: il sole coi suoi raggi inonda abbondantemente la terra con la propria energia – e anche in questo caso si tratta di un processo che a prima vista non ha nulla di semiotico; tuttavia, interpretandolo semioticamente, lo si potrà considerare come un “dono” – e questo indurrà molti a rispondere con un contro-dono: donde l’origine dei culti solari. È chiaro, pertanto, che, anche nei casi in cui non vi è semiosi propriamente detta, un’interpretazione semiotica si impone in modo più o meno naturale e può condurci a

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spiegare molti fatti antropologici. Così un criterio essenziale (e aprioristico), in grado di definire il carattere semiotico di un trasferimento, è l’intenzionalità del soggetto emittente – che vuole indurre il ricevente ad “assorbire” il contenuto del messaggio: in tal senso, qualunque processo di dono, ove ci si limiti a prendere in esame ciò che i tedeschi chiamano Gift, è per sua natura un processo semiotico. Ma se interpretiamo semioticamente la distruzione della casa causata da una roccia caduta dalla scogliera, dovremo fare appello all’effetto di un’intenzionalità malvagia che si è servita della roccia come di uno strumento: donde la comparsa del pensiero “magico”. Non è difficile, insomma, scorgere l’immenso interesse che una semiotica assume ai fini dell’interpretazione del pensiero magico e di quello religioso; ecco perché mi sforzerò di dimostrare che anche il pensiero scientifico è ricoperto da una membrana semiotica di cui non può disfarsi – pena la rinuncia alla sua pretesa di rendere il mondo intelligibile. Per conseguire il mio scopo, restringerò l’interpretazione iniziale postulando che un trasferimento è semiotico soltanto a condizione che il soggetto-emittente e il destinatario-ricevente siano esseri animati (viventi), e l’invio del messaggio risponda a un’intenzionalità del soggetto emittente – vale a dire che il soggetto possieda un universo mentale in grado di simulare il mondo esterno e possa, in tal modo, rappresentare a se stesso l’effetto del suo messaggio sul ricevente. In tal senso la semiotica è sempre legata alla vita e al pensiero perché i fenomeni semiotici devono avere un’intenzionalità. Vedremo, tuttavia, che la semiotica, pur situandoci da subito (e a priori) nella psiche di un soggetto interpretante – in apparenza nel senso in cui lo intende Peirce – tende a perdere questo suo carattere essenzialmente mentale, riaccostandosi a processi di trasmissione puramente fisica. Ora, dato che da un punto di vista idealista qualunque esistenza è situata nella coscienza di un soggetto anima-

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to, si finisce ben presto col rendersi conto che questa esigenza di rappresentazione psichica non è, in definitiva, davvero essenziale da un punto di vista ontologico. A tal fine è importante piuttosto definire due nozioni che ho introdotto in un mio precedente articolo (Thom 1980a): quelle di salienza e pregnanza. Salienza e pregnanza Chiamo forma saliente qualunque forma che colpisce l’apparato sensoriale di un soggetto in virtù del suo carattere brusco o imprevisto: così un bagliore di luce, un tintinnio di un campanello sono tipiche forme salienti. È opportuno, tuttavia, notare sin d’ora che una forma può essere saliente per un’irregolarità di ritmo o una rottura di simmetria, ma anche in virtù di una discontinuità sensoriale: perciò, ad esempio, il fatto che il mugnaio si svegli perché il suo mulino si è fermato, testimonia del carattere saliente assunto dall’interruzione del rumore. Una forma saliente può saturare momentaneamente l’apparato sensoriale del soggetto inscrivendosi nella sua memoria a breve termine, ma in genere non influirà sul suo comportamento a lungo termine. Chiameremo pertanto “salienza” (in inglese saliency) il carattere che definisce tali forme. Alcune forme, all’opposto, hanno per il soggetto un’importanza biologica immediata: è il caso, nel mondo animale, delle forme delle prede, dei predatori, dei partner sessuali. Forme simili saranno definite pregnanti, e il termine “pregnanza” designerà la qualità a esse associata. Tali forme inducono importanti modificazioni nel comportamento motorio o affettivo del soggetto, con cambiamenti ormonali a lunga durata nella sua fisiologia; è inoltre possibile classificarle in forme attrattive o repulsive.

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Il rinvio simbolico e la propagazione delle pregnanze Cominciamo col ricordare la notissima esperienza del cane di Pavlov: quando si porta della carne a un cane si fa al tempo stesso tintinnare una campanella; dopo alcune ripetizioni di questa associazione, il solo tintinnio della campanella è sufficiente a far salivare il cane. È possibile interpretare questo fatto nel modo seguente: la pregnanza alimentare connessa alla carne si comunica alla forma saliente costituita dal tintinnio della campanella. Inoltre, questa forma indotta (fonte secondaria) potrà “contaminare”, per contiguità spazio-temporale, una seconda forma saliente trasmettendole la pregnanza. Bisogna dunque considerare la pregnanza come una specie di fluido invasivo, che si infiltra nel campo fenomenico delle forme vissute servendosi di quelle fenditure del reale che sono le forme salienti1. Indicherò servendomi della notazione A → B il fatto che la forma saliente A richiama per associazione la forma saliente B: si dirà allora che A rinvia simbolicamente (Granger 1979, pp. 152 sgg.) a B. In ogni singolo istante, qualunque soggetto possiede un insieme di rinvii simbolici che costituisce quella che in algebra è chiamata una categoria. Il rapporto di rinvio è transitivo: se A richiama B – e dunque si ha A → B – e B richiama C – ciò che possiamo esprimere con B → C – allora A richiamerà C e avremo dunque A → C. Con un semplice ragionamento, del resto, si può dimostrare che questa categoria non contiene alcun ciclo tale che A → B → C → … → X → A. In altre parole, il rinvio simbolico è caratterizzato dal fatto che esiste un insieme finito di funzioni reali V tali che V(A) < V(B) se A → B. Queste funzioni V possono essere considerate come misura delle pregnanze: l’intensità di una pregnanza si indebolisce progressivamente quanto più si passa a una forma indotta e può addirittura scomparire dopo un po’ di tempo se l’associazione non viene rafforzata.

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La pregnanza, insomma, assume valore massimo nelle forme fonte. In ogni istante, la categoria del rinvio simbolico dipende dallo stato del soggetto (ormonale o affettivo): ad esempio, un soggetto affamato vedrà forme di alimenti in una qualunque forma saliente che somigli anche soltanto un poco a del cibo. E tuttavia esistono alcune componenti fisse del rinvio simbolico – se con tale espressione si intende dire che un qualunque rinvio simbolico X → Y ha una validità costante e intersoggettiva (almeno all’interno della collettività cui il soggetto appartiene). Questo vale per molte forme salienti che possono essere create – ossia emesse – dal soggetto (come delle grida, ad esempio): in casi simili, insomma, siamo dinanzi a un’alternativa di origine sociale. Così, ad esempio, un membro di una collettività animale, dopo aver percepito un temibile predatore, può scegliere tra due strategie: o gettare un grido d’allarme – che consente di mettere in stato di allerta tutto il gruppo di cospecifici nelle vicinanze ma che rischia di attirare l’attenzione del predatore sul soggetto stesso – o, al contrario, cercare di sfuggire personalmente al predatore, sparendo quanto più possibile dal suo universo percepito. Tutto ciò dimostra che, in origine, la comunicazione sociale aveva valore altruistico: essa si realizzava a danno dell’emittente e a favore del ricevente (al contrario di ciò che accade in generale nelle nostre società cosiddette avanzate). In un certo senso, l’emissione di un grido d’allarme può essere interpretata come la creazione, lungo il flusso generale della pregnanza del terrore (la paura del predatore), di un piccolo ciclo formato dall’emissione stessa che inverte l’orientamento della freccia di rinvio: grido d’allarme ´ predatore. L’uso di un simile grido d’allarme può essere considerato dunque un “propagatore” della pregnanza “terrore” all’interno della collettività. Il fluido della pregnanza invade perciò il campo delle forme percepite secondo le due modalità della propaga-

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zione per similarità e della propagazione per contatto – aspetto, questo, che ricorda l’opposizione saussuriana tra asse paradigmatico e asse sintagmatico, nonché quella di Frazer tra magia per contatto e magia per similarità. Si può notare, del resto, che la propagazione per similarità si fonda in modo essenziale sulla geometria dello spazio ambientale euclidiano: solo quest’ultima, infatti, consente di definire alcune forme come uguali o simili. In un certo senso, il mondo della salienza è quello della geometria: ciò vale, ad esempio, per il movimento dei corpi solidi ma in generale per propagare una forma non vi è mezzo più efficace dei supporti fisici come le vibrazioni dell’aria o dell’“etere” elettromagnetico, dinamiche invarianti definite a partire dal gruppo cui appartiene la geometria dello spazio ambientale. Tali supporti fisici, del resto, sono i vettori dell’iconicità – la quale è un caso particolare del rinvio simbolico2. A tal riguardo ci si può chiedere da dove derivi, nei sistemi di segni molto ritualizzati come il linguaggio umano, l’unicità del significato per un significante dato. In effetti, nella categoria del rinvio simbolico, ogni forma significante A ha, in linea di principio, come significato ogni altra forma B, C, … tale che A → B, A → C …: ci troviamo pertanto dinanzi a una polisemia generalizzata. Ma nell’istante stesso in cui esiste una freccia d’emissione provvista di orientamento opposto, X → A, tale freccia inversa è localizzata su una forma-tipo X con significazione funzionale (altrimenti il riflesso provocato da A nella collettività sarebbe non pertinente). Il risultato di questo stato di cose è una ritualizzazione inversa A → X, priva di qualunque stadio intermedio e senza alcun effetto a posteriori diverso da quello comportamentale – almeno in linea di principio. Una simile caratterizzazione fornisce un’interpretazione del linguaggio umano che lo contrappone ai sistemi di comunicazione animale. Nell’animale, il numero delle grandi pregnanze è estremamente limita-

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to, poiché queste ultime sono legate alla regolazione biologica (la fame, la paura, il sesso…); ciononostante esse appaiono molto labili e invasive e spesso le forme fonte che investono sono una sorta di “buchi neri” non codificati geneticamente ma saturati dalle prime esperienze infantili (il fenomeno dell’impregnazione). Anche nell’uomo esistono le grandi pregnanze, ma svolgono un ruolo soltanto al livello più generale del comportamento globale: nell’età critica, compresa fra uno e tre anni, infatti, i “buchi neri” delle pregnanze subiscono una dissociazione generalizzata, legata a una ramificazione delle pregnanze indotte dalla potenza del significante (della parola appresa, cioè). Ogni forma fonte, così come ogni concetto, diviene fonte della sua stessa pregnanza; ma la capacità di propagazione di tale pregnanza è davvero molto limitata e controllata: per un qualunque concetto X essa raggiunge soltanto i suoi concetti satellite Y – ossia quelli per i quali il genitivo Y di X ha senso. Tra X ed Y si crea allora un legame verbale implicito, che esprime sintatticamente uno schema d’interazione spazio-temporale di tipo canonico – il che spiega il carattere povero ed estremamente ritualizzato delle costruzioni sintattiche. In un certo senso, per una simile pregnanza specifica (π) esiste ormai una sola forma saliente competente, quella della parola (Mπ) che la significa nel linguaggio. Le grandi pregnanze della biologia fanno pertanto la loro comparsa solo al livello discorsivo della narratività globale. E ciò basta a concludere la descrizione dei tratti generali dell’attività semiotica. Le forme del semiotico Se qualunque forma saliente potesse essere investita da una qualunque pregnanza, allora è evidente che i soli vincoli relativi alla categoria del rinvio simbolico deriverebbero dalla storia anteriore del sistema – vale a dire

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dai primi contatti con le forme fonte e dai contatti ulteriori che inducono fonti secondarie a partire da fonti primarie. In questo caso la struttura del rinvio simbolico si identificherebbe con la “memoria” lasciata nel sistema dall’irraggiarsi delle forme fonte in virtù del solo gioco di forme messe in moto dalle forze naturali; pertanto i soli vincoli esistenti, per una morfologia del semiotico, sarebbero quelli relativi alle forme naturali; in condizioni simili, la speranza di riuscire a individuare dei criteri propriamente morfologici del semiotico sembrerebbe del tutto vana. Ma in realtà non c’è alcun dubbio che dei vincoli esistano: dato un tipo di pregnanza, alcune forme non sono competenti; quanto alle forme che invece lo sono, l’investimento della pregnanza può manifestarsi attraverso effetti figurativi (modificazioni di forma o di comportamento) che, a loro volta, possono essi stessi avere degli effetti sulle modalità di propagazione della pregnanza per contatto: in tal modo vengono alla luce vincoli sintagmatici, in conseguenza del fatto che alcuni elementi sono investiti da una pregnanza. L’individuazione Tra i vincoli essenziali che agiscono nel costituirsi del semiotico ve n’è uno che non è possibile affatto mettere in dubbio: si tratta dell’individuazione. Col principio secondo cui le sole forme salienti adatte a ricevere una pregnanza sono forme “individuate” ci riferiamo al fatto che le forme – proprio in quanto dotate di natura spaziale – sono topologicamente delle masse sferoidi (cellule) provviste di una superficie ben individuabile e hanno una morfologia interna strutturata anche se a volte poco o niente affatto visibile. Così, ad esempio, una forma sonora sarà individuata meglio in misura proporzionale al

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suo essere provvista di un inizio e una fine nettamente distinti, e il suo grado di individuazione sarà tanto maggiore quanto più la morfologia interna del segnale così costituito si dimostrerà organizzata – ossia evidenzierà una certa varietà di parametri espressivi (frequenza, timbro, altezza), senza essere, peraltro, né troppo regolare né caotica. Quanti hanno conosciuto i segnali d’allarme della seconda guerra mondiale ricorderanno che il segnale d’inizio allerta era costituito da un urlo di sirena modulato sinusoidalmente in frequenza e in intensità; ebbene, questa regolarità interna della forma produceva un effetto davvero molto “pregnante” d’angoscia, perché legato alla dissoluzione di qualsiasi forma di individuo percepibile. All’opposto il segnale di fine allerta, un intervallo continuo ripetuto tre volte, aveva una morfologia assolutamente rassicurante. La presenza di forme individuate in masse sferoidielementi è uno dei fatti più misteriosi delle teorie morfologiche. È necessario innanzitutto osservare che la presenza di elementi sferoidali ben distinti – ossia metricamente ben calibrati – è assolutamente eccezionale nelle morfologie della natura inanimata. Naturalmente capita di ritrovare per terra dei sassolini di dimensioni più o meno regolari, e le nostre spiagge nascondono ciottoli che spesso evidenziano una certa uniformità morfologica; ma in questi casi siamo in presenza di effetti derivanti da una “catastrofe generalizzata”, esito dell’erosione che ha investito un materiale in origine omogeneo. Se in un ambiente ritroviamo delle masse sferoidi, queste ultime sono quasi sempre prodotte da un meccanismo di suddivisione di tale ambiente – i cui risultati sono peraltro del tutto imprevedibili: e dato che lo spazio tridimensionale topologicamente più semplice è lo sferoide, non c’è da sorprendersi che ci imbattiamo in simili suddivisioni dello spazio (in genere, le facce di queste masse poliedriche sono pentagoni o esagoni). Quan-

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do i fisici si occupano di morfologia – come accade in teoria dei cristalli e degli ambienti ordinati – si imbattono solo in casi del tutto eccezionali in masse sferoidali: il concetto di “rottura della simmetria” (symmetry breaking) conduce infatti alla nozione di difetto di un ambiente ordinato – e tali “difetti” assumono quasi sempre l’aspetto di curve (dislocazione dei cristalli, curve di disinclinazione nelle nematiche, coniche omofacciali delle smettiche ecc.) piuttosto che di superfici delimitanti sferoidi ben identificabili. In effetti, ciò che caratterizza l’individuo è il fatto di essere delimitato da una superficie-membrana di natura asimmetrica: da un lato c’è l’interno dell’individuo, la vita o ciò che è significante; dall’altra c’è il mondo esterno, la morte o l’insignificante. Questo carattere fondamentalmente asimmetrico della membrana biologica non si ritrova peraltro nelle superfici delimitanti di natura fisica – come quelle che separano, ad esempio, due sistemi di organizzazione cristallina. D’altro canto i morfologisti, che si occupano di teoria biologica, finiscono col dover affrontare una serie di problemi connessi all’individualità delle entità che studiano; infatti tra la molecola – entità il cui carattere connesso è chiaramente espresso nel filamento del DNA, mentre la natura cellulare appare già visibile nella configurazione terziaria di una proteina – e la cellula nel suo complesso, le organizzazioni citoplasmatiche (ossia sopramolecolari) non presentano alcun aspetto individuale: vi si ritrovano membrane, tubuli, sacculi, ecc. – vale a dire tutto un complesso di oggetti geometrici che, se si prescinde da alcuni piccoli organuli come il centriolo, sfidano qualunque forma di individuazione. Autori che hanno sviluppato prospettive filosofiche diversissime, in effetti – come Arthur Köstler e François Jacob – con le rispettive nozioni di holon e di intégron hanno entrambi fatto appello a un misterioso principio di individuazione. In fisica, insomma, è possibile rinvenire il principio della formazione di entità cellulari solo

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ed esclusivamente nel fenomeno della nucleazione – vale a dire non appena si manifesta una fase più stabile nell’ambito di una fase in via di disintegrazione. È ciò che avviene, ad esempio, quando facciamo bollire dell’acqua: da subito essa contiene piccole bolle di vapore acqueo che, inizialmente instabili, finiscono per ingrandirsi e agglomerarsi sino a occupare tutta la superficie del fluido. In questo caso la formazione di cellule “debolmente individuate” è conseguenza del conflitto tra le due pregnanze in competizione – liquida e gassosa. È probabilmente legittimo ricondurre l’individuazione a una specie di pregnanza gestaltista indifferenziata m, cui spetterebbe il ruolo della “marca” in linguistica (nel senso attribuito al termine da Jakobson)3, o della “vita” in biologia. L’unico effetto di una simile pregnanza indifferenziata è probabilmente di individuare alcune cellule che in seguito potrebbero ricevere l’investimento di pregnanze più specifiche, acquisendo, di conseguenza, tratti figurativi particolari. In questo modo il fenomeno del cane di Pavlov può ricevere una spiegazione: si tratterebbe dell’investimento di una forma saliente da parte di una pregnanza in modo conforme con la modalità generale della regolazione biologica. Ogni pregnanza biologica generale competerebbe a una stessa forma m, perché tale forma sarebbe essa stessa l’immagine astratta della pregnanza “vita”. E se possiamo davvero riconoscere la traccia evanescente di una cellula m, addirittura nel punto della geometria, questo fatto pone il problema della classificazione degli spazi (detti spazi sostrato) entro cui si propagano le pregnanze. Spazi sostrato Si potrebbe probabilmente classificare gli spazi sostrato in due categorie: da una parte gli spazi geometrici –

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il prototipo dei quali è lo spazio euclideo –, caratterizzati da modalità uniformi e isotrope di propagazione di una pregnanza m che esplode a partire da punti fonte provvisti di una localizzazione qualsiasi; dall’altra gli spazi assiologici, che sono spazi entro i quali si sviluppano molteplici pregnanze antagoniste. Questi spazi sono provvisti di luoghi naturali, verso cui le pregnanze indirizzano gli individui competenti e presso i quali si localizzano le forme fonte. Investimento oggettivo o investimento soggettivo In linea di principio, è possibile affermare che la propagazione di una pregnanza sia il principio stesso di intelligibilità dei fenomeni: del resto la propagazione per contatto è la sola variabile accolta dalla scienza moderna. Simile trasferimento per contatto di una pregnanza da un corpo attivato (e individuato) a un corpo passivo è anzi il modello stesso di ogni interazione intelligibile: non a caso le configurazioni sintattiche delle lingue umane sono state delineate proprio a partire da queste forme di interazione per contatto. Un problema di grande importanza è dunque riuscire a capire in che modo tale modello di propagazione delle pregnanze possa applicarsi ai fenomeni esterni. Da questo punto di vista è opportuno distinguere l’investimento soggettivo di una forma saliente da parte di una pregnanza – come nel caso del cane di Pavlov – da un investimento oggettivo – come nel caso dell’illuminazione di un corpo opaco da parte della pregnanza emessa da una fonte luminosa. Le pregnanze della fisica si chiamano campi, e sono caratterizzate dal loro propagatore – vale a dire dalla loro modalità matematica di propagazione nello spazio-tempo: alcune investono gli individui come un fotone investe un atomo. L’energia è la forma indifferenziata di pregnanza, e si conserva quantitativa-

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mente; quanto alla probabilità, si tratta di una particolare forma di pregnanza associata a un certo tipo di eventi: la propagazione di tale pregnanza da un evento A a un evento B è sintomo di una causalità che da A si dirige verso B. Ecco allora che con la nozione di probabilità – nozione al tempo stesso soggettiva e oggettiva – siamo in possesso di un concetto che partecipa tanto dell’investimento soggettivo quanto di quello oggettivo; è verosimile pertanto ritenere che l’evoluzione della razionalità umana sia uno sforzo permanente di riuscire ad adeguare, in modo sempre più perfetto, le pregnanze soggettive alle pregnanze oggettive: è il caso dell’eliminazione della propagazione per similarità ridotta alla comunicazione mediante l’uso di simboli geometricamente rigidi (in senso spaziale o temporale); del controllo nella diffusione delle pregnanze per contatto di tipo sintattico fra individui (attanti); e infine del controllo matematico della propagazione per contatto dei campi fisici. Delimitazione delle pregnanze Ma il problema più difficile continua a essere quello dell’individuazione: è un problema che si pone in fisica fondamentale dove, nella meccanica quantistica, qualunque campo è individuato a partire da particelle che, d’altro canto, sono spesso non localizzate e indiscernibili4. In biologia, un’infezione come quella legata ai virus fagi si propaga da batteri ospiti a batteri ospiti, per moltiplicazione degli individui; ma a volte l’infezione si “delimita” integrandosi ai cromosomi dell’ospite (fagi temperati o lisogenici); la sporulazione di un batterio può, del resto, essere considerata come una delimitazione di quella particolare pregnanza vitale che è lo spazio microbico. Circa l’origine generale dell’individuazione delle pregnanze – problema quanto mai oscuro – è possibile soltanto formulare delle congetture. Forse la causa dell’individuazione potrebbe essere il conflitto: in effetti, se una

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pregnanza a si scontra con una pregnanza b, la prima, invece di diluirsi o indebolirsi, può preferire la rinuncia alla propagazione. In tal modo a si localizza all’interno di globuli individuati ma: potremmo dire, insomma, che la pregnanza b, in virtù della sua “pressione”, “confina” o “delimita” a entro tali individui ma. Le particelle ma possiedono infatti una membrana che le delimita, e in virtù della quale l’estensione di a non va oltre il contatto o assume, comunque, una portata molto ridotta. Nella teoria del quadrato semiotico di A. J. Greimas (cfr. Thom 1983), ad esempio, è possibile considerare il quadrato come un processo che, a partire da una coppia a, b di pregnanze antagoniste, individua tali pregnanze in due attanti ma, mb poste alle due estremità dell’asse di opposizione, localizzando, tra i limiti esterni dei due, un “oggetto di valore” che rappresenta il meccanismo alla base del conflitto. In antropologia esiste addirittura una pregnanza universale: quella del sacro o di Dio. Non a caso l’attività che consiste nell’investire il sacro in oggetti materiali è una delle funzioni essenziali del sacerdote: nel dogma dell’eucaristia, ad esempio, ritroviamo nella sua forma più densa e complessa il problema dell’individuazione di una pregnanza universale – anche se in quel caso, a dire il vero, questo ruolo è equamente suddiviso tra il pane e il vino. A mo’ di conclusione Si è visto che moltissimi “errori” compiuti dalla mente umana nel suo cammino verso la conquista dalla razionalità derivavano dall’aver considerato “semioticamente” una situazione non semiotica. Ecco allora che, adottando un lodevole atteggiamento di catarsi, alcuni eruditi – fra cui il biologo francese A. Danchin – ripetono incessantemente lo stesso motto: “il reale non parla”. Eppure per noi il bisogno di comprendere rimane intatto – e ciò significa

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innanzitutto soddisfare il nostro bisogno di vedere: in Euclide perciò il punto geometrico era chiamato stigmè – ossia il contrassegno visibile di un punto. Insomma, abbiamo bisogno di elementi irriducibili cui attribuire un’individualità – e a volte addirittura un’intenzionalità. Eppure di recente si sta delineando una tendenza che va contro questa riduzione all’elemento: in logica, la nozione di categoria provvista di topoi ha ormai preso il posto della nozione di insieme composto da elementi; in geometria algebrica e analitica, assistiamo alla tendenza a sostituire il “punto” con un ideale massimale (o primo) di un’algebra di funzioni. E non è tutto: ritroviamo l’identica tendenza anche in fisica quantica: secondo tale teoria, infatti, il “comune” punto scompare, a beneficio di una nozione astratta di operatore. Tuttavia una simile tendenza, abbastanza costante nella scienza moderna, non è priva di inconvenienti: spesso, infatti, crea un’ontologia del tutto superflua e fantomatica su cui opera un formalismo quasi sempre elegante ma che a stento lascia scorgere la realtà nascosta dietro le formule. Nascono così gli operazionalismi ciechi, che costituiscono il fondamento essenziale della “filosofia scientifica” contemporanea. Contro tale tendenza, la teoria delle catastrofi rappresenta forse il solo formalismo – basato sul primato del continuo e del conflitto – in grado di conciliare l’intelligibilità con una parziale riaffermazione dell’importanza attribuita all’individuazione. Se ne può trarre una conclusione: proprio grazie a un’analisi fondamentalmente introspettiva dei vincoli semiotici dell’organizzazione percettiva del reale potremo, al tempo stesso, salvare l’intelligibilità del mondo e riuscire a raggiungere un “realismo” che, malgrado tutto, continui a rappresentare il fine ultimo della scienza.

1 Diremo allora che la forma saliente è investita dalla pregnanza (cfr. Thom 1988, p. 21).

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2 Il contatto, invece, presuppone come struttura dello spazio di sostrato una semplice topologia. Se ammettiamo che l’investimento di una forma saliente da parte di una pregnanza rappresenta l’antenato della “predicazione” nelle nostre lingue, riusciremo anche a capire che l’opposizione significante ´ significato si costituisce a partire dall’opposizione geometria → topologia ben nota ai matematici. Per maggiori dettagli cfr. il mio Les réels et le calcul différentiel, in Thom 1990, p. 331. 3 Devo a una comunicazione di R. Shapiro questa preziosa osservazione circa la possibilità di identificare marca e pregnanza. 4 È davvero sorprendente constatare che con il modello detto “dei quark” la fisica moderna si è nuovamente trovata dinanzi il problema della delimitazione. Allo stesso modo, in tecnologia nucleare, il problema essenziale è oggi quello della “delimitazione d’un plasma” (ossia di un gas ionizzato).

Bibliografia

Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

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Stampato per conto della casa editrice Meltemi nel mese di febbraio 2006 presso Arti Grafiche La Moderna, Roma Impaginazione: www.studio-agostini.com