Meditazioni personali sulla filosofia elementare 9788858774663

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Meditazioni personali sulla filosofia elementare
 9788858774663

Table of contents :
Copertina......Page 1
Occhiello......Page 2
Frontespizio......Page 3
Colophon......Page 4
Sommario......Page 5
Monografia introduttiva di Giannino Di Tommaso......Page 7
Parte I. Lo svolgimento del pensiero di Fichte fino alle Meditazioni personali sulla filosofia elementare......Page 9
1. La Oratio valedictoria......Page 17
2. I Pensieri casuali di una notte insonne......Page 22
3. Determinismo e libertà umana......Page 25
4. Gli Aforismi su religione e deismo......Page 33
5. L’incontro con il pensiero kantiano......Page 48
6. L’incontro personale con Kant e il Saggio di una critica di ogni rivelazione......Page 53
7. Gli scritti di carattere politico......Page 62
8. Il tema del principio del sistema e la filosofia di Reinhold......Page 71
9. La Recensione all’Enesidemo......Page 82
Parte II. Commento alle Meditazioni personali sulla filosofia elementare......Page 89
1. Logica e oggetto della filosofia elementare......Page 92
2. Verso la spiegazione della rappresentazione......Page 108
3. Deduzione delle categorie della relazione......Page 110
4. Passaggio alla seconda parte......Page 116
5. Quantità, sensazione, misura......Page 122
6. Spazio e tempo......Page 132
7. La forza......Page 140
8. Esposizione e forza di esposizione......Page 144
9. «Esposizione» e realtà del Non-Io......Page 150
10. Il ruolo dell’immaginazione......Page 154
11. Spiegazione della sensazione......Page 159
12. Immaginazione produttiva e pensiero......Page 165
13. Il «trasferire realtà» al Non-Io da parte dell’Io......Page 171
14. Causalità e azione reciproca......Page 178
15. Passaggio alla terza parte......Page 183
16. Esposizione e rappresentazione dell’Io......Page 193
17. L’intuizione intellettuale......Page 197
18. Intelletto, giudizio, regolazione......Page 207
19. Dipendenza dell’Io teoretico dall’intelligibile e passaggio alla filosofia pratica......Page 214
20. Intuizione intellettuale e genesi del metodo fenomenologico......Page 223
Ringraziamenti......Page 231
Cronologia della vita e delle opere......Page 233
Nota editoriale......Page 239
Meditazioni personali sulla Filosofia elementare......Page 243
Logica della filosofia elementare......Page 245
Regole logiche......Page 249
Sulla filosofia elementare stessa......Page 263
§ 2) Allora al lavoro, di buona lena e riprendendo dall’inizio......Page 285
Tentativo di rappresentare con le lettere tutto quanto è stato esposto fin qui......Page 353
Proposizioni analitiche......Page 425
Passiamo ora al concetto di causalità......Page 505
Dello spazio......Page 513
Conclusione della seconda parte......Page 523
Passiamo ora, con brio, alla terza parte......Page 525
APPARATI......Page 655
B. Opere di Fichte tradotte in italiano e utilizzate......Page 657
C. Opere di Autori contemporanei di Fichte......Page 659
D. Opere su Fichte utilizzate per il presente lavoro......Page 660
II. Indice dei nomi citati nella Monografia introduttiva......Page 669
III. Indice generale......Page 673

Citation preview

BOMPIANI il pensiero occidentale Direttore

Giovanni Reale

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Johann Gottlieb Fichte Meditazioni personali sulla Filosofia elementare

Testo tedesco a fronte

Monografia introduttiva, traduzione, note e apparati di Giannino Di Tommaso

Bompiani Il pensiero occidentale

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ISBN 978-88-587-7466-3 www.giunti.it www.bompiani.eu © 2017 Giunti Editore S.p.A./Bompiani  Via Bolognese 165 - 50139 Firenze - Italia  Piazza Virgilio 4 - 20123 Milano - Italia  Prima edizione: marzo 2017 Prima edizione digitale: gennaio 2018

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Sommario

Monografia introduttiva7 di Giannino Di Tommaso Meditazioni personali sulla Filosofia elementare

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Apparati655

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MONOGRAFIA INTRODUTTIVA di Giannino Di Tommaso

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Parte I

Lo svolgimento del pensiero di Fichte fino alle Meditazioni personali sulla filosofia elementare

«Senza la libertà non è possibile assolutamente nulla». (J.G. Fichte, Eigne Meditationen) «Non si sarebbe mai dovuto dire: l’uomo è libero, bensì: l‘uomo tende necessariamente, spera, crede di essere libero. La proposizione: l’uomo è libero non è vera». (J.G. Fichte, Practische Philosophie)

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Si possono avere valutazioni diverse e punti di vista perfino contrapposti sul significato e sulla portata del Fondamento dell’intera dottrina della scienza1 di Fichte, ma non si può certo negare che la pubblicazione dell’opera abbia segnato in modo indelebile la sua epoca, inaugurando uno stile filosofico che avrebbe contrassegnato gli anni successivi2. L’impazien1 J.G. Fichte, Grundlage der gesammten Wissenschaftslehre, in Id., Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, a cura di Reinhard Lauth e Hans Jacob, unter Mitwirkung v. M. Zahn, Friedrich Frommann Verlag (Günter Holzboog), Stuttgart-Bad Cannstatt 1965, Reihe I (Werke), Band 2, pp. 249-451 (in seguito citata con l’abbreviazione: Grundlage); tr. it. (Fondamenti dell’intera dottrina della scienza) di A. Tilgher, riv. da F. Costa, in Id., La dottrina della scienza, Laterza, Bari 1971, pp. 65-264. A questa edizione, indicata con la sigla GA, seguita dal numero della serie e del volume, rinvierà il numero tra parentesi che segue la citazione del testo tedesco; tale criterio sarà seguito per tutte le citazioni quando è disponibile la traduzione italiana che potrà, a volte, anche essere modificata senza specifica annotazione. Si è tenuta presente anche la traduzione italiana (J.G. Fichte, Fondamento dell’intera dottrina della scienza) con testo tedesco a fronte, a cura di G. Boffi, Bompiani, Milano 2003, alle cui pagine si può agevolmente risalire poiché riporta quelle della GA. Com’è noto, la Grundlage fu pubblicata dal 14 giugno 1794 a fine luglio/inizio agosto 1795, sotto forma di dispense per gli studenti. 2 Basti ricordare il giudizio di Reinhard Lauth, uno dei massimi studiosi di Fichte, che ha contribuito alla diffusione del suo pensiero non solo con la qualità dei suoi scritti, ma anche perché è stato l’artefice principale della gigantesca impresa editoriale che ha messo a disposizione degli studiosi di tutto il mondo le opere di Fichte, in un’edizione filologicamente accurata e in una veste tipografica impeccabile. Dopo aver rilevato che proprio lo scritto postumo che qui viene presentato vede per la prima volta operante il metodo nuovo che sarà utilizzato nella Grundlage, di quest’opera Lauth dice che con essa «entrava nell’esi-

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za con cui l’opera era attesa, connessa con la fama improvvisa dell’autore e con le anticipazioni che ne erano state fornite, avevano preparato un ambiente altamente ricettivo per le nuove idee che Fichte avrebbe presto comunicato ai suoi uditori e ai suoi lettori. L’anticipazione diretta e più esplicita del contenuto della nuova filosofia era stata affidata al saggio programmatico che doveva servire da orientamento per i suoi studenti, pubblicato giusto prima dell’inizio dei corsi del semestre estivo 1794 e intitolato: Sul concetto della dottrina della scienza3. stenza una delle più grandi opere intellettuali che l’uomo abbia creato e che, ancora oggi, è ricca di realizzazioni che si estendono a perdita d’occhio in tutti gli ambiti della vita umana» (R. Lauth, Genèse du “Fondement de toute la doctrine de la science” de Fichte à partir de ses “Méditations personnelles sur l’Elementarphilosophie”, in «Archives de Philosophie», 34 (1971), p. 79; questo saggio, con il titolo: Die Entstehung von Fichtes “Grundlage der gesammten Wissenschftslehre” nach den “Eignen Meditationen über ElementarPhilosophie”, è ora compreso in Id., Transzendentale Entwicklungslinien von Descartes bis zu Marx und Dostojewski, Meiner, Hamburg 1989, pp. 155-179, qui p. 179. Un giudizio entusiastico sull’opera di Fichte è anche quello espresso a suo tempo da F.J. Molitor, che considera la Grundlage «la manifestazione più grande e di maggior successo nell’ambito del mondo moderno; essa ha provocato uno sconvolgimento totale nell’universo di pensiero dell’epoca, e grazie ad essa è stato fondato un modo di pensare interamente nuovo» (F.J. Molitor, Über die Philosophie der modernen Welt, Frankfurt/Main 1806, p. 29, cit. in R. Lauth, Transzendentale Entwicklungslinien cit., p. 373). Più sobriamente, C. Cesa considera la Grundlage «il libro dal quale bisogna sempre partire per studiare Fichte» (C. Cesa, Nel secondo centenario della «Dottrina della scienza», in «Giornale Critico della Filosofia Italiana», LXXIV (LXXVI)/III, settembre-dicembre 1995, pp. 273-286). Sulla figura di Lauth come interprete di Fichte, come promotore dell’edizione delle sue opere e degli studi fichtiani nel mondo, cfr. il quadro efficace che ne traccia già L. Pareyson nella sua Prefazione a R. Lauth, La filosofia trascendentale di J.G. Fichte, a cura di C. Cesa, Prefazione di L. Pareyson, Guida, Napoli 1986, pp. 7-21; si veda anche M. Ivaldo, Lignes de développement de la pensée transcendantale. La recherche historique et systématique de Reinhard Lauth, in «Archives de Philosophie», 55 (1992), pp. 177-97. 3 J.G. Fichte, Über den Begriff der Wissenschaftslehre oder der sogenannten Philosophie, als Einladungsschrift zu seinen Vorlesungen über

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Come si vede, il corso annunciato avrebbe riguardato una disciplina, la filosofia, che però compare come depotenziata rispetto alla nuova scienza che ne prende il posto e che ha ormai assunto la nuova denominazione di «dottrina della scienza»4. La nuova impostazione dei corsi e della materia in essi svolta era da intendere in modo talmente discontinuo rispetto alla tradizione, che il nome stesso di “filosofia” risultava ormai non più idoneo a rendere pienamente quel che la nuova dottrina della scienza aveva il compito di esibire5. diese Wissenschaft, in GA, I, 2, pp. 107-163; tr. it. (Sul concetto della dottrina della scienza o della così detta filosofia), in Id., La dottrina della scienza, cit., pp. 1-54; d’ora in poi: Ueber den Begriff. Il testo fu pubblicato in occasione della fiera di Pasqua del 1794. Una ricostruzione delle tappe che portarono alla elaborazione di questo scritto è fornita da G. Stelli, La ricerca del fondamento. Il programma dell’idealismo nello scritto fichtiano «Sul concetto della dottrina della scienza», Guerini e Associati, Milano 1995, pp. 83-95. 4 Probabilmente la prima volta che questa locuzione ricorre è in J.G. Fichte, Züricher Vorlesungen über den Begriff der Wissenschaftslehre. Februar 1794 - Nachschrift Lavater. Beilage aus Jens Baggesens Nachlass: Exzerpt aus der Abschrift von Fichtes Züricher Vorlesungen (con testo manoscritto a fronte), hrsg. v. E. Fuchs, Ars Una, München-Neuried 1996, p. 69; tr. it. (Lezioni di Zurigo sul concetto della dottrina della scienza), a cura di M. Ivaldo, Guerini e Associati, Milano 1997, p. 71: «Filosofia sarebbe la scienza in sé, la scienza della scienza in generale – o la dottrina della scienza». Un’altra occorrenza si segnala nella lettera a Reinhold dell’1 marzo 1794 (cfr. GA, III, 2, p. 72), dove peraltro Fichte fa riferimento proprio alle lezioni che sta tenendo a Zurigo ad alcuni eminenti ecclesiastici e diplomatici, «Lavater in testa», e Wissenschaftslehre è contrapposto a sapere per dilettanti e a filosofia (ib., p. 71). La medesima contrapposizione viene riproposta da Fichte nel Sonnenklarer Bericht an das größere Publikum über das eigentliche Wesen der neuesten Philosophie. Ein Versuch, die Leser zum Verstehen zu zwingen, GA, 1, 7, p. 188; tr. it. (Rapporto chiaro come il sole per un più vasto pubblico sull’essenza propria della più recente filosofia. Un tentativo di costringere il lettore a capire, in Id., Scritti sulla dottrina della scienza 1794-1804, a cura di M. Sacchetto, UTET, Torino 1999, p. 489. 5 In Über den Begriff si legge l’orgogliosa rivendicazione del carattere scientifico della filosofia e la proposta di abolirne il nome «che ha portato finora per un senso non esagerato di modestia, il nome di co-

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Il mutamento del nome rinviava, dunque, al mutamento della sostanza della disciplina che per secoli si era chiamata filosofia, e si può comprendere quale profonda eccitazione intellettuale dovesse suscitare, non solo presso gli studenti, l’annuncio dell’imminente esposizione di un pensiero così radicalmente innovativo quale quello che veniva anticipato. Fichte compose lo scritto Sul concetto della dottrina della scienza in un lasso di tempo molto breve, come imponevano le circostanze della sua chiamata e della conseguente presa di servizio all’università di Jena6. La comunicazione relativa noscenza vana, di scienza da amatori, di dilettantismo», a vantaggio del nuovo: Wissenschaftslehre (Über den Begriff, cit., pp. 117-18) (19). Di avviso opposto sarà Schelling che, com’è noto, si pronuncerà per il mantenimento del nome tradizionale (cfr. F.W.J. Schelling, Philosophische Briefe über Dogmatismus und Kriticismus (1795), in Historisch-kritische Ausgabe. Hrsg. im Auftrag der Schelling-Kommission der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, Reihe I, Werke. Hrsg. v. W.G. Jacobs, J. Jantzen u. W. Schieche u. a., Frommann-Holboog, Stut­tgart-Bad Cannstatt 1976 sgg., I, 3, p. 74; tr. it. (Lettere filo­sofiche su dommatismo e criticismo), a cura di G. Semerari, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 35). 6 Per la sua chiamata a Jena, favorita da Goethe e da altre illustri personalità (ma non senza resistenza della parte conservatrice della corte di Weimar cui, naturalmente, non dava troppo affidamento l’autore della Zurückforderung der Denkfreiheit e del Beitrag zur Berechtigung der Urtheile des Publikums über die Französische Revolution), vennero prese informazioni su Fichte. Il Consigliere segreto Ch.G. Voigt, ad esempio, si rivolge in forma riservata a G. Hufeland, professore all’Università di Jena, chiedendogli se, a suo avviso, Fichte «sia abbastanza intelligente da moderare la sua fantasia (o fantasticheria) democratica». Nella lettera inviata il giorno successivo al medesimo destinatario, Voigt precisa che «sul d e m o c r a t i s m o parlerò io stesso con lui [Fichte]» (Lettera di Ch.G. Voigt a G. Hufeland del 20 dicembre 17893, in G. Fichte im Gespräch. Berichte der Zeitgenossen, hrsg. v. E. Fuchs, in Zusammenarbeit mit R. Lauth u. W. Schieche, Stuttgart-Bad Cannstatt 1978 e sgg., Bd. 1, n. 82, pp. 77-78). In proposito cfr. X. Léon, Fichte et son temps. Avec de nombreux Documents inédits, 3 voll., Librairie Armand Colin, Paris 1954, I, pp. 261-66. Quanto a Goethe, questi riconosce che la chiamata di Fichte è avvenuta per «audacia, perfino temerarietà» (cit. in E. Fichte, Johann Gottlieb Fichte: Lichtstrahlen aus

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dovette giungergli intorno ai primi giorni del 17947 e, considerati gli impegni pregressi che Fichte doveva onorare a Zurigo, il tempo che poté dedicare alla stesura dello scritto fu breve, visto che egli accettò la proposta dell’amico Böttiger di farsi precedere a Jena da un programma scritto in lingua tedesca solo nel febbraio 17948. Quello cui ci stiamo riferendo fu certamente un periodo di febbrile attività per Fichte, che doveva conciliare due esigenze diverse e complementari: da un lato, egli doveva rendersi definitivamente chiaro il progetto del sistema che stava elaborando e che ancora non aveva ultimato; dall’altro, doveva preparare una sua concisa presentazione che fosse sì destinata agli studenti, ma che fosse anche già in grado di resistere all’esame severo cui sarebbe stata sottoposta da parte di tutti coloro che attendevano al varco, con diverse intenzioni, la prima vera prova filosofica del giovane e già famoso professore. Anche gli ultimi mesi del 1793 avevano visto Fichte impegnato in modo intenso nella messa a punto del suo sistema e, tra l’inizio di novembre di quell’anno e metà gennaio 17949, aveva elaborato e concluso il testo che qui presentiaseinen Werken und Briefen nebst einem Lebensabriß. Mit Beitragen von Immanuel Hermann Fichte, F.A. Brokhaus, Leipzig 1863, p. 42). 7 Cfr. R. Lauth e H. Jacob, Vorwort a Über den Begriff, cit., p. 98. La chiamata ufficiale all’università di Jena era allegata alla lettera di Böttiger a Fichte del 26 dicembre 1793 (cfr. GA, III, 2, p. 30). Cfr. anche J.G. Fichte im Gespräch cit., 1, n. 82, p.78, nota 1. Di E. Fuchs v. anche, J.K. Lavaters Nachschrift der Züricher Wissenschaftslehre, in Der Grundsatz der ersten Wissenschaftslehre Johann Gottlieb Fichtes, hrsg. v. E. Fuchs e I. Radrizzani, Ars Una, Neuried 1996, p. 60. 8 La proposta di Böttiger era stata avanzata nella lettera di metà gennaio 1794 (cfr. GA, III, 2, p. 53) e Fichte comunica la sua accettazione nella risposta del successivo 4 febbraio. Nella lettera, Fichte dichiara di essere ormai sicuro del successo del suo progetto, anche se ha ancora bisogno di tempo libero per la sua elaborazione (cfr. ib., pp. 54-6). 9 Cfr. Vorwort a J.G. Fichte, Eigne Meditationen über die ElementarPhilosophie, hrsg. v. R. Lauth, H. Jacob, con la collaborazione di H. Gliwitzky e P. Schneider, in GA, II, 3, p. 15.

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mo e che porta il titolo, conferito dallo stesso Fichte, di Meditazioni personali sulla filosofia elementare10. Come indica già il titolo, non si tratta di un’opera destinata alla pubblicazione, ma piuttosto a fare il punto circa la comprensione della filosofia allora in voga e a saggiare la possibilità del suo superamento da parte di Fichte. In questo quadro complessivo, lo scritto offre riscontri dettagliati in relazione al primo punto, e spunti essenziali in relazione al secondo. La reinholdiana ElementarPhilosophie viene assunta come filo conduttore, ma ne vengono denunciate le lacune e prospettata la soluzione che renderà possibile, in un futuro prossimo, l’articolazione del nuovo sistema che Fichte va delineando. Per questo motivo, l’opera riveste un interesse tutto particolare e svolge una funzione insostituibile poiché, essendo destinata a contenere riflessioni che Fichte intendeva utilizzare a fini personali, presenta una specie di dialogo costante del pensatore con sé stesso, con esclusione dei filtri abitualmente utilizzati nelle opere rivolte al pubblico. Insieme all’inconveniente rappresentato da ripetizioni, ripresa di concetti già sviluppati, digressioni che mettono alla prova la capacità del lettore di tener dietro al filo del ragionamento, questa circostanza offre il vantaggio di rendere visibili le incertezze dell’autore, i suoi dubbi e i suoi ripensamenti e consente, così, di inoltrarsi in profondità nel laboratorio in fervente attività che condurrà presto all’inizio della stesura del Fondamento dell’intera dottrina della scienza. In questo senso i Curatori della Gesamtausgabe definiscono le Eigne Meditationen come una «dottrina della scienza in statu nascendi»11. 10 J.G. Fichte, Eigne Meditationen über die ElementarPhilosophie, in GA, II, 3, cit., (d’ora in poi: EM), pp. 21-177. 11 Vorwort alle Eigne Meditationen cit., p. 19. Anche Cesa sottolinea che questo testo, pur costituendo «un documento essenziale della prima sistemazione del pensiero fichtiano», presenta il «disordine di una stesura densa di ripetizioni» (C. Cesa, Fichte e il primo idealismo, Sansoni, Firenze 1975, ora in J.G. Fichte e l’idealismo trascendentale, Il Mulino, Bologna 1992, p. 26). Luca Fonnesu parla dei manoscritti del-

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1. La Oratio valedictoria A loro volta, le Eigne Meditationen sono il risultato di un processo di maturazione del pensiero di Fichte, di cui seguiremo le tappe principali, a partire dal primo discorso pubblico: De recto praeceptorum poeseos et rethorices usu, detto anche Oratio valedictoria o Valeditionsrede, e cioè il discorso di saluto pronunciato in occasione della conclusione dei suoi studi presso la Scuola di Pforta il 5 ottobre 178012. Si tratta delle riflessioni di un giovane che sta per accedere all’università e come tali vanno valutate, anche se Fichte rivendica a sé stesso, e con decisione, l’originalità del metodo di apprendimento che vi illustra. Rifacendosi alla sua esperienza persole Eigne Meditationen e della Practische Philosophie come di «una sorta di “laboratorio” dei concetti della prima dottrina della scienza» (L. Fonnesu, Antropologia e idealismo. La destinazione dell’uomo nell’etica di Fichte, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 15). D’altra parte già Kabitz, che per primo aveva potuto esaminare il manoscritto, che in parte aveva pubblicato, in parte riassunto, aveva dichiarato che in esso si trova «la prima concezione della dottrina della scienza» (W. Kabitz, Studien zur Entwicklungsgeschichte der Fichteschen Wissenschaftslehre aus der kantischen Philosophie, Verlag von Reuther & Reichard, Berlin 1902, p. 98). 12 J.G. Fichte, De recto praeceptorum poeseos et rethorices usu, in GA, II, 1, pp. 5-29; tr. it. a cura di S. Bacin, in Id., Fichte a Schulpforta (1774-1780). Contesto e materiali. Con la traduzione di J.G. Fichte, Discorso sul corretto uso delle regole della poesia e della retorica (1780), Guerini e Associati, Milano 2003, pp. 137-219. Notizie precise ed esaurienti sulla Scuola, sulla sua organizzazione, sui docenti che vi insegnavano e sul clima culturale che vi si respirava nel periodo di permanenza di Fichte, cfr. S. Bacin, Fichte a Schulpforta cit., pp. 13-126. Sugli anni di Fichte a Schulpforta, cfr. I.H. Fichte, Johann Gottlieb Fichte’s Leben und litterarischer Briefwechsel, 2 voll., I.E. v. Seidel’schen Buchhandlung, Sulzbach 1830-31, I, pp. 14-24; 2a ediz. accresciuta, di molto e migliorata, I.A. Brokhaus, Leipzig 1862, pp. 10-17. Utili notizie su questo non semplice, ma fruttuoso periodo di formazione di Fichte si trovano anche in H. Wenke, Schule und Leben. Eine Würdigung des pfortner Alumnus J.G. Fichte, in «Zeitschrift für Pädagogik», 8 (1962), pp. 233-52, in partic., pp. 234-40.

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nale, egli rileva che in molte circostanze, pur avendo dovuto cedere all’evidenza delle ragioni proposte dal suo interlocutore, non era però intimamente convinto della verità cui esse conducevano e, per questo motivo, tali verità restavano incapaci di influire sulla sua sfera emotiva e sulla sua volontà. «Invece, – egli scrive – quando sono stato condotto alla stessa considerazione da altro o facendo altro, ho compreso da solo la cosa molto più chiaramente di prima»13. Di fronte ad argomentazioni stringenti, ma avanzate da altri e da recepire come già definite e definitive, Fichte indica un procedimento diverso, che consiste nella ricerca personale delle ragioni che conducono a un determinato risultato, ragioni che saranno tanto più convincenti, quanto più l’itinerario che esse descrivono è seguito e accettato liberamente e in maniera autonoma. La validità di questo metodo non è ristretta, ovviamente, al campo filosofico, ma comprende «quasi tutte le discipline che vengono impartite ai giovani»14. Fichte adduce l’esempio dei diversi e opposti modi secondo cui un bambino si forma l’idea di Dio e osserva che, a seconda della via seguita, quell’idea sarà più o meno capace di radicarsi nel suo animo e di produrre effetti conseguenti. Seguendo la via tradizionale, ad esempio quella del catechismo, consistente nel fornire definizioni e caratteristiche della divinità, il bambino accetterà e imparerà la lettera di quanto gli viene presentato, ma tale conoscenza resterà fredda e fondamentalmente estranea ai suoi sentimenti. Se, invece, il suo tutore seguirà la via che conduce dall’osservazione della creazione di un nuovo ordine, prima in un ambito ristretto e poi, attraverso domande mirate e senza far trapelare l’intenzione che le guida, orienta l’attenzione del bambino verso un ordine sempre più ampio, questi giungerà a formarsi l’idea di un Autore sommo dell’armonia che regna nell’universo e la convinzione che 13 J.G. 14 Ib.,

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Fichte, De recto praeceptorum cit., p. 20 (190). p. 20 (192).

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accompagnerà quella nozione sarà profonda e ispirerà la sua devozione e il suo rispetto fin dalla tenera età15. Quanto al tema specifico delle regole poetiche e retoriche, prima di esporne l’uso corretto Fichte cerca di determinarne la natura e l’origine, sciogliendo l’alternativa a proposito del loro rapporto cronologico con l’opera d’arte in cui trovano applicazione. La sua tesi è che le regole dovevano essere presenti nella mente dell’autore, e che vengono teorizzate solo successivamente, dopo che i critici ne hanno scoperto l’efficacia nei capolavori poetici e retorici. Il vero poeta non ha appreso le regole prima di conferire dimensione oggettiva alla propria ispirazione, ma quelle nascono insieme con essa e con la sua traduzione in opera d’arte compiuta. Inoltre, così come non è indifferente la modalità attraverso cui il bambino giunge a formarsi l’idea di Dio ai fini del ruolo che tale idea avrà nella sua vita, allo stesso modo non è indiffe15 Cfr. ib., pp. 20-21 (188-90). L’originalità pedagogica rivendicata da Fichte riguarda precisamente la scelta di questa seconda via nel processo di apprendimento, ed egli si meraviglia «di non aver sentito di nessuno che impiegasse questo metodo, benché io stesso un tempo abbia avuto a che fare con diversi precettori privati ed abbia discorso con molti che facevano questo lavoro di professione e con altri che pure se ne erano avvalsi; e sebbene in questo secolo sia apparso un gran numero di libri sull’educazione, per quanti ne abbia scorsi, non ho mai trovato in nessuno un cenno in proposito» (ibidem). Che si tratti di un’idea originale, come sostenuto da Fichte, e che il metodo indicato non sia stato prospettato da nessuno, è messo in discussione, con validi argomenti e puntuali rinvii bibliografici, da S. Bacin, op. cit., pp. 191-193, n. A proposito della conoscenza del pensiero di Rousseau da parte di Fichte e in riferimento ad un altro passo dello scritto in cui è esplicitamente fatto il suo nome (cfr. GA, II, 1, p. 7) (147-48), Bacin ritiene che possa essere piuttosto indiretta (cfr. op. cit., p. 148, n. 17; v. anche pp. 115 sgg.). Cfr. anche R. Preul, Reflexion und Gefühl, die Theologie Fichtes in seiner vorkantischen Zeit, W. De Gruyter & Co., Berlin 1969, pp. 19-24, che ricorda la vicinanza dell’esempio scelto da Fichte (quello del giardiniere che disegna le aiuole, ma anche altri), a quelli usati nell’Emilio, ritenendo probabile, anche se non dimostrabile, la conoscenza diretta di Rousseau (cfr. ib., p. 19, n. 49).

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rente alla loro applicazione la modalità di apprensione delle regole. Se esse vengono pedantescamente insegnate e apprese senza essere intimamente sentite, agiranno allo stesso modo in occasione della loro applicazione, dando luogo a opere sterili, prive di vitalità e di spessore artistico. Se, invece, l’assunzione delle regole avviene come scoperta autonoma e come parte integrante della stessa ispirazione, allora l’opera che ne deriva avrà le caratteristiche di armonia ed equilibrio e sarà apprezzabile e apprezzata sul piano estetico. La conclusione che ne deriva è scontata: «Si comprenderà facilmente da quanto si è detto che il giudizio, ossia le regole, non ha alcun valore senza l’ingegno, né l’ingegno ha alcun valore senza il giudizio, ossia senza le regole»16. Come si vede, ciò su cui Fichte insiste particolarmente e che è destinato ad assumere importanza crescente nel corso della sua evoluzione, è il principio dell’autonomia, che deve accompagnare ogni momento del processo in cui si articola la conoscenza. La partecipazione attiva e consapevole è la prima condizione perché qualcosa possa divenire oggetto del mio sapere e la circostanza che Fichte torni sull’argomento testimonia del ruolo centrale che essa, fin da ora, svolge per lui. La natura umana, alla cui stregua le regole della poesia e della retorica devono essere vagliate, si presenta fondamentalmente unitaria, ma capace di una nutrita serie di va16 J.G. Fichte, De recto praeceptorum cit., p. 27 (190). Fichte tornerà sul tema delle regole per la realizzazione dell’opera d’arte e sosterrà (conformemente al contesto in cui si inscrivono le sue riflessioni), che «esse devono essere interpretate nello spirito e non secondo la lettera», poiché, in questo secondo caso, l’artista «alla fine avrà ottenuto una buona favola, capace di stimolare la curiosità, di intrattenere, di soddisfare, ma dall’artista ci si aspetta qualcosa di più» (J.G. Fichte, Über Geist und Buchstab in der Philosophie. In einer Reihe von Briefen, in GA, I, 6, p. 360; tr. it. (Sullo spirito e la lettera) e Postfazione di U.M. Ugazio, Rosenberg & Sellier, Torino 1989, pp. 73-74). In proposito cfr. C. Amadio, Fichte e la dimensione estetica della politica. A partire da «Sullo spirito e la lettera nella filosofia», Guerini e Associati, Milano 1994, pp. 78 sgg.

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riazioni, dovute sia al processo storico e ai cambiamenti con esso connessi, sia a tutte le altre condizioni in cui gli uomini si trovano a vivere. Al di sotto delle differenze tra popoli lontani e tra individui ugualmente molto diversi, si deve però notare che «la natura degli uomini è tuttavia unica, e tutti i mortali sono legati da certe somiglianze, ovvero, per esprimermi in termini filosofici: negli animi degli uomini sono compresi i princìpi [semina] delle medesime passioni [affectus], ma essi non si sviluppano in tutti allo stesso modo»17. Attraverso questa formulazione vengono garantiti i due aspetti ugualmente essenziali per la natura umana: la sua unitarietà, accomunante la totalità degli uomini al di là delle barriere spaziali e temporali (i semina presenti in ciascuno), ma anche le differenze tra popoli e singoli individui, derivanti dalla diversità con cui i medesimi semina si sviluppano in ciascuno18. Ne risulta, in relazione all’argomento che Fichte sta sviluppando, che le regole poetiche e retoriche, dovendo suscitare commozione e coinvolgere gli animi dei destinatari dell’opera d’arte, non possono essere immutabili nel tempo e nello spazio, ma devono avere carattere storico e adattarsi alle situazioni infinitamente mutevoli. Le medesime ragioni impongono anche che l’autore di un’opera d’arte disponga di una profonda conoscenza dell’animo umano, e a questo fine dev’essere dedicata particolare attenzione, per non lasciarsi sfuggire nemmeno i sentimenti più nascosti degli uomini. Un ruolo centrale e delicato viene svolto, in questo contesto, dall’osservazione, intesa sia come rivolta a sé stessi, sia agli altri19, e «al futuro oratore o poeta si dovrà ri17 Ib.,

p. 7 (144-45). […] tutti rechino nell’animo i medesimi princìpi [semina] di tutte le passioni, si differenziano però per il fatto che nei loro animi quei moti vengono suscitati o placati in maniere diverse, il che dipende, in generale, da quanto abbiamo stabilito prima: dai costumi, dalle leggi, dalle condizioni politiche dell’epoca, infine dalle condizioni climatiche» (ib., p. 25) (208). 19 «Per acquisire tale conoscenza, l’allievo diligente dovrà anzitutto 18 «Sebbene

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chiedere, perciò, che conosca la mente degli uomini non soltanto come impariamo a conoscerla in metafisica, bensì che studi – come si dice – i recessi più riposti dell’animo umano, senza farsi sfuggire nulla di ciò che si cela nell’intimo dell’animo altrui»20.

2. I Pensieri casuali di una notte insonne L’osservazione del proprio animo è praticata da Fichte in modo rigoroso e perfino impietoso, mentre anche l’animo altrui rappresenta per lui un campo di ricerca e di esperienze. Sulla base dell’attenzione rivolta a scrutare la mente e il cuore suo e degli altri anche durante il tormentato periodo universitario21, matura una visione pessimistica dell’uomo e della società del suo tempo, di cui si trovano tracce significativa nel breve scritto Pensieri casuali di una notte insonne, da lui stesso datato Rammenau, 24 luglio 178822. Fichte era di passaggio a casa dei genitori, diretto a Zurigo, dove andava come precettore, in mancanza di altra o analoga occupazione in Germania. Le poche pagine che compongono lo scritto delineano un quadro a fosche tinte della società contemporanea, di cui quasi tutto viene criticato, a partire dalla scarsa considerazione o addirittura dal disprezzo per la vita coniuconoscere sé stesso, ossia riflettere su tutto ciò che sente e desidera, come un indagatore attento, ed osservare precisamente in quale modo viene diretto il suo animo, da che cosa la fantasia trae diletto, senza trascurare nulla. […] In secondo luogo, dovrà aver cura di osservare con la stessa attenzione anche le altre persone intorno a lui» (ib., p. 23) (198-99). 20 Ibidem. 21 Com’è noto, Fichte si iscrisse all’università, ma non concluse gli studi di teologia, interrotti nel 1784 per mancanza di mezzi di sostentamento. 22 J.G. Fichte, Zufällige Gedanken in einer schlaflosen Nacht, in GA, II, 1, pp. 103-110; tr. it. (Pensieri casuali di una notte insonne), in G.A. Fichte, Filosofia della storia e teoria della scienza giovannea, a cura di R. Cantoni, Principato, Milano-Messina 1956, pp. 22-27; d’ora in poi: Zufällige Gedanken.

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gale, a cui viene preferito il libertinaggio e la dissolutezza. In pratica, tutti i vizi vengono evocati e ascritti a individui o a gruppi sociali, mentre le autorità politiche, i ceti nobiliari e lo stesso clero, anziché contrastare la decadenza così manifesta dei costumi, di fatto la promuovono. Le conseguenze che ne derivano sono deleterie per l’intera compagine sociale, anche se alcuni, in particolare i contadini, pagano un prezzo più alto degli altri in termini di povertà e di condizioni di vita ai limiti della sopravvivenza, e sono per di più esposti alle angherie e al dispotismo dei ceti superiori. Il mancato rispetto di tutti i valori, compresi quelli religiosi, produce instabilità e incertezza per un numero molto elevato di cittadini ed è alla base del diffondersi della corruzione. Quando questi fenomeni così negativi si verificano presso un popolo colto e raffinato, tale circostanza ne aggrava gli effetti, anziché mitigarli, producendo «un carattere corrotto, contraddittorio, di modo che le idee sono in eterno conflitto con il cuore e con i costumi, mentre le norme dell’intelletto non divengono infine altro che vuote parole»23. La separazione tra mente e cuore, tra ciò che si giudica doveroso fare e quel che invece realmente si fa, disattendendo le indicazioni della ragione, è all’origine di quella dissociazione tra le convinzioni personali e il comportamento pratico, che spinge a far tacere la coscienza morale e a privilegiare l’utile immediato a scapito del dovere. La dissonanza tra l’intelletto e il cuore comporta una lacerazione all’interno del medesimo soggetto, condannandolo a vivere una vita essa stessa lacerata. Davanti a una situazione reale così sconfortante, Fichte non cede, certo, alla rassegnazione, ma propone una reazione consona al ruolo di intellettuale che ascrive a sé stesso, e 23 J.G.

Fichte, Zufällige Gedanken, p. 103 (22). Per l’analisi del contenuto di questo breve scritto si consenta di rinviare al mio Dottrina della scienza e genesi della filosofia della storia nel primo Fichte, Japadre, L’Aquila-Roma 1986, pp. 88-92.

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cioè la composizione di un libro che, da un lato, metta sotto gli occhi di tutti, a partire dal principe, le condizioni spaventose di vita dei ceti sociali inferiori e l’insopportabile livello di corruzione della società, dall’altro indichi anche i valori cui ispirarsi per risollevarne le sorti 24. Netta risulta la contrapposizione tra il livello di vita dei ceti superiori, la capacità che essi hanno di asservire perfino la giustizia e la religione ai loro fini di guadagno, e la miseria di quelli inferiori, contrapposizione che esprime «il dispotismo dei nobili e l’oppressione dei più umili», e che rende beffarda, oltre che ridicola, l’affermazione secondo cui «la nobiltà sarebbe la protettrice dei diritti del popolo»25. Si è osservato che la condizione personale di Fichte, che non è riuscito a concludere gli studi universitari, che ha perso da tempo il sostegno del suo benefattore e che sta toccando di nuovo con mano le condizioni di povertà della sua famiglia, dalla quale non può, né vuole ottenere alcun aiuto e perciò è costretto a emigrare per poter vivere, non è estranea alla cupa concezione della società descritta in queste poche pagine. E tuttavia, i pensieri che vi sono espressi troveranno conferma e sviluppo in opere posteriori26, a riprova del carattere tutt’altro che «casuale» ad essi attribuito nel corso di una notte «insonne», e certamente anche agitata. 24 Il modello cui egli si ispira sono Les lettres persannes di Montesquieu, ma nel testo vengono citati anche Ch. G. Salzmann, Carl von Carlsberg oder über das menschliche Elend, 6 voll., Carlsruhe 1784-1788, l’opera “Hallo’ glücklicher Abend”, 2 voll., Leipzig 1783, il cui autore (non citato da Fichte ) è Ch. Sintenis. Viene anche citata e favorevolmente apprezzata l’opera di J.H. Pestalozzi, Lienhard und Gertrud. Ein Buch für das Volk, 4 voll., Georg Jakob Decker, Berlin e Leipzig 1781, Frankfurt e Leipzig 1783, anche se Fichte lamenta che l’autore «avrebbe dovuto mettere in luce un poco anche i ceti superiori» (Zufufällige Gedanken, p. 104) (23). Si sa, tuttavia, che Fichte non realizzò il progetto vagheggiato. 25 Zufufällige Gedanken, pp. 103 e 104 (23 e 25). 26 Cfr. X. Léon, Fichte et son temps, cit., I, p. 65.

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3. Determinismo e libertà umana Fichte non ha trascurato nessuna occasione per testimoniare la sua stima e la sua gratitudine a Kant 27, il cui pensiero e la cui fattiva disponibilità nei suoi confronti hanno segnato, come presto vedremo, il suo destino. L’entusiasmo con cui egli saluta il nuovo mondo ideale, resogli accessibile dalla filosofia kantiana, e il sentimento di liberazione che vi connette sono così profondi, da esprimere, insieme, la felicità per la recente conquista, ma anche il sollievo per un pericolo che, una volta scampato, appare in tutta la sua gravità. Se la prima è legata alla tranquillità spirituale «mai sperimentata prima», il secondo è da riferire al sistema precedentemente adottato, la cui prospettiva complessiva è divenuta di colpo angusta e i cui limiti risultano, ormai, inaccettabili. Il sistema, cui Fichte aveva aderito e che ora non riconosce più adeguato, è quello del determinismo, che egli non elabo27 Privatamente, si sa, non rinunciava ad esprimere qualche riserva e qualche osservazione critica, ma sempre con il rispetto dovuto al grande filosofo; cfr. più avanti, in corrispondenza della nota 108. G. Duso, riferendosi agli Aforismi su religione e deismo, invita a non sopravvalutare l’effetto che ebbe su Fichte la conoscenza di Kant, dal momento che i problemi che agitavano il giovane filosofo e i contrasti tra cuore e intelletto, che sperimentava direttamente, costituiscono gli stimoli che spingevano già verso uno sbocco, cui lo studio di Kant fornì un contributo importante (cfr. G. Duso, Contraddizione e dialettica nella formazione del pensiero fichtiano, Argalìa, Urbino 1974, pp. 90-91). L’osservazione è senz’altro pertinente, ma non si può nemmeno sottovalutare quanto Fichte stesso testimonia in più occasioni, in concomitanza e subito dopo la stesura degli Aforismi, circa la portata rivoluzionaria della filosofia di Kant, come peraltro Duso non manca di sottolineare (cfr. ib., pp. 99 sgg.); cfr. ad. es., le lettere n. 62 e 63 a M.J. Rahn, del 12 agosto e di agosto/settembre 1790, in GA, III, 1, pp. 166-68. Non a caso è lo stesso Fichte a rilevare che la filosofia kantiana agisce tanto sulla testa (è «kopfbrechend», rompi-capo), quanto sul cuore, che li colma entrambi e che per lui ha prodotto una feconda rivoluzione nella sua testa e nel suo cuore (cfr. lettera al fratello Samuel Gotthelf del 5 marzo 1791, in GA, III, 1, p. 222).

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ra esplicitamente, lasciando all’interprete il compito di ricostruirlo sulla base di scarsi elementi e di rapidi accenni presenti in alcune opere e nell’epistolario28. Per quanto concerne le opere, il riferimento è alla seconda edizione del suo Saggio di una critica di ogni rivelazione (1793), in cui, interrogandosi sul fondamento della coscienza della nostra attività spontanea o della libertà, riconosce che se l’unica ragione per ammetterla dev’essere la mancanza di conoscenza della causa determinante l’agire, allora la coscienza della libertà sarebbe un’illusione. In questo caso «l’unica vera filosofia e l’unica filosofia conseguente sarebbe quella di Joch, ma allora non vi sarebbe alcuna libertà»29. 28 Lo stesso Immanuel Hermann Fichte confessa la mancanza di documenti che possano aiutare a far luce sugli iniziali orientamenti filosofici del padre e, a proposito del determinismo di Fichte, rinvia anch’egli alle lettere (cfr. I.H. Fichte, Johann Gottlieb Fichte’s Leben cit., I, pp. 26-30). Sul tema del determinismo in Fichte, con riferimento al ruolo che al riguardo avrebbe avuto Spinoza, cfr. T. Valentini, I fondamenti della libertà in J.G. Fichte. Studi sul primato del pratico, Editori Riuniti, Roma 2012, pp. 60 sgg. 29 J.G. Fichte, Versuch einer Kritik aller Offenbarung, in GA, I, 1, p. 139 (in seguito: Versuch einer Kritik); tr. it. (Saggio di una critica di ogni rivelazione), a cura di M.M. Olivetti, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 132-33. Il riferimento di Fichte è al romanzo popolare Alexander von Joch, Über Belohnung und Strafe nach Türkischen Gesetzen, J.A. Lübeck, Bayreuth u. Leipzig 1770, il cui autore è K.F. Hommel (1722-1781). Rappresentante di rilievo del diritto penale di ispirazione illuministica e, dal 1763, ordinario della facoltà giuridica di Lipsia, Hommel si guadagnò la fama di «Beccaria tedesco» per aver tradotto Dei delitti e delle pene, con il titolo: Des Herrn Marquis von Beccaria unsterbliches Werk von Verbrechen und Strafen, Korn, Breslau 1778. La tesi di fondo del suo citato romanzo, legata alla concezione deterministica delle azioni umane, riconduce all’impossibilità di conoscere le cause delle nostre azioni l’illusione soggettiva di essere liberi, cui si richiamano i sostenitori dell’indeterminismo: «libero da costrizione visibile, sono invisibilmente incatenato» (K.F. Hommel, Über Belohnung und Strafe nach Türkischen Gesetzen, Neudruck der 2. Ausgabe von 1772, hrsg. v. H. Holzhauer, Erich Schmidt Verlag, Berlin 1970, p. 28). Quanto al titolo, è certamente da porre in relazione con il fatum maomethanum di cui parla Leibniz nei

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Infatti, l’intero romanzo cui Fichte allude intende dimostrare la tesi secondo cui la libertà è un’illusione e che, «quando crediamo di essere liberi, si tratta di un inganno dei sensi, di un piacevole sogno, di una mera apparenza. […] La parola: Io “voglio” non significa altro che molte piccole ruote, nascoste profondamente nella natura, […] spingono sulla mia anima, affinché essa riceva l’inclinazione verso questa cosa»30. Nel periodo della prima stesura del Saggio di una critica di ogni rivelazione (1791) Fichte ha già superato il determinismo, ma il richiamo a Hommel, che farà anche in altri contesti, serve a indicare quella posizione di pensiero che ritiene pura illusione la convinzione, che gli uomini hanno, di essere soggetti liberi31. Indicazioni più dirette sul determinismo che caratterizzava la visione della vita di Fichte sono fornite, dicevamo, dall’epistolario ed è ben nota la lettera con la quale annuncia all’allora fidanzata Maria Johanne Rahn il suo radicale cambiamento di concezione sul tema della libertà umana e le rivolge l’invito a rendere partecipe anche il padre di §§ 55 e 59 della Teodicea, e del sofisma «della ragione pigra», evocato nel medesimo § 55 e nel § IV degli Scritti di metafisica (cfr. G.W. Leibniz, Scritti filosofici, vol. I, Scritti di metafisica, Saggi di teodicea, a cura di D.O. Bianca, UTET, Torino 1967, risp. pp. 490, 492 e pp. 66-67). 30 K.F. Hommel, Über Belohnung und Strafe cit., p. 26. Sulla conoscenza di quest’opera da parte di Fichte, come fonte letteraria del suo determinismo, richiama l’attenzione H. Nohl, Miscellen zu Fichtes Entwicklungsgeschichte und Biographie, «Kant-Studien», XVI (1911), pp. 373 sgg., in partic. p. 374. Sul tema dell’influenza dell’opera di Hommel su Fichte, cfr. X. Léon, Fichte et son temps, cit., I, pp. 53-54 e il breve articolo, denso di utili indicazioni, di C. Cesa, compreso tra le “Note e Notizie” del «Giornale critico della Filosofia italiana», N.S. VIII (1988), III, pp. 442-44. Cesa ricorda che il rinvio a Joch era presente già nella prima stesura del Saggio di una critica di ogni rivelazione (1791), e rinvia a GA, II, 2, p. 64, n. 31 Ciò vale anche per il riferimento contenuto nella più tarda Erste Einleitung in die Wissenschaftslehre, in GA, I, 4, p. 199; tr. it. (Prima Introduzione) in J.G. Fichte, Prima e seconda introduzione alla dottrina della scienza, a cura di C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 25.

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questo suo profondo mutamento di prospettiva: «Dì al tuo caro padre che nelle nostre ricerche sulla necessità di tutte le azioni umane, per quanto correttamente avessimo condotto i nostri ragionamenti, ci eravamo tuttavia sbagliati, perché avevamo discusso a partire da un falso principio; che io sono ora completamente convinto che la volontà umana è libera, che lo scopo della nostra esistenza non è la beatitudine, bensì solo l’esser degni della felicità»32. Pur non conoscendo bene i dettagli del sistema deterministico che aveva elaborato, notiamo tuttavia il mutamento profondo che è intervenuto e il ruolo centrale riservato, invece, alla libertà della volontà umana, poiché rendersi degni della felicità risulta dipendente dalle scelte liberamente operate. Inoltre, Fichte non omette di ricordare che la nuova convinzione circa la libertà della volontà non consegue dall’aver rilevato errori nei ragionamenti che svolgeva con rigore insieme con il futuro suocero, ma dal principio dal quale quei ragionamenti prendevano le mosse. Non sappiamo quando Fichte abbia aderito al determinismo, anche se possiamo arguire che dev’essere accaduto abbastanza presto, se già nel 1785 il pastore Fiedler33, in una lettera a lui indirizzata, definisce la necessità «l’idolo» di Fichte e di questo idolo non trascura di mettere in evidenza, oltre che il fascino, anche i limiti: «La sua figura è esattamente proporzionata, la sua veste splendida, il suo volto ben disegnato – solo, esso è sordo, muto ed è un ciocco, che è quel 32 Lettera a Maria Johanne Rahn del 5 settembre 1790, in GA, III, 1, p. 171. In una successiva lettera a Achelis, Fichte sottolinea le conseguenze del determinismo sulla morale, che viene «interamente negata. Inoltre, mi è divenuto del tutto evidente che, una volta accettato il principio della necessità di tutte le azioni umane, da esso scaturiscono conseguenze molto perniciose per la società e che la grande corruzione dei costumi dei cosiddetti ceti superiori nasce, in gran parte, da questa fonte» (lettera a Achelis del novembre 1790, ib., pp. 193-94). 33 Fiedler, Karl Gottlob (1752-1820), pastore a Dittersbach e successivamente a Großschirma, non lontano da Dresda.

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che è, è là dov’è, e non può essere altrimenti, perché è così»34. Malgrado queste consistenti riserve, Fiedler lo incoraggia a comporre e a spedirgli il saggio che Fichte, evidentemente, doveva avergli espresso l’intenzione di scrivere sull’argomento, ma di esso non abbiamo altra notizia. Nemmeno sono disponibili ulteriori particolari sulla sua concezione filosofica di questo periodo, che è invece contrassegnato da numerose testimonianze della fiducia del giovane filosofo nella provvidenza divina. Ma il governo delle cose del mondo da parte della provvidenza è ben diverso da quello della necessità e si può cogliere, nel pensiero in divenire di Fichte, il seme di una contraddizione latente, la cui soluzione soltanto gli consentirà il passaggio a un sistema filosofico «migliore». Manifestazioni della sua fede nella provvidenza e della sua volontà di affidarsi ad essa per quanto riguarda le sue vicende personali si possono riscontrare con frequenza nelle lettere di Fichte, in particolare in quelle dirette a Maria Johanne Rahn. Questo orientamento viene in primo piano soprattutto nei momenti di crisi e in quei passaggi difficili della vita – purtroppo non infrequenti per lui35 –, nei quali la 34 Cfr.

Lettera di K.G. Fiedler a Fichte del 28 gennaio 1785, in GA, III, 1, p. 9. Sull’importanza di questa lettera, come documento della direzione di pensiero assunta da Fichte fin dall’inverno 1784-85, ha richiamato l’attenzione già W. Kabitz, Studien zur Entwicklungsgeschichte der Fichteschen Wissenschaftslehre cit., p. 5, che la riporta alle pp. 3* e 4* dell’appendice a questo suo libro. 35 A ragione Philonenko osserva che «Fichte è un uomo che attraversa crisi, nelle quali tutto è rimesso in questione» (A. Philonenko, La liberté humaine dans la philosophie de Fichte, Vrin, Paris 1966, pp. 1314). L’A. prende lo spunto dall’enigmatico e improvviso ripensamento circa il suo rapporto con Maria Johanne Rahn: mentre il 1° marzo 1791 le conferma tutto il suo amore e la invita ad accettarlo con i suoi difetti, il 5 dello stesso mese confessa al fratello che non vuole lasciarsi tarpare le ali dal matrimonio e sottoporsi a un giogo, da cui non sarebbe più possibile liberarsi (cfr. GA, III, 1, rispettivamente, pp. 217-20 e 221-24). Si sa, però, che le crisi profonde non sono solo quelle sentimentali, ma investono anche la vita concreta, oltre che le scelte filosofiche di Fichte.

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provvidenza è fonte di conforto: «In generale – scrive a Pezold36 – definirei molto disperate le mie prospettive, se non mi sostenesse la fiducia illimitata e gioiosa nella provvidenza, la cui guida benevola si mostra in modo così evidente in tutte le mie esperienze di vita»37. Con la medesima pacata certezza confessa a Maria Johanne Rahn: «Io credo in una provvidenza che ci guida e faccio attenzione ai suoi segni»38. E ancora: «Io credo che la provvidenza vegli su di me», e che lo faccia in maniera così scrupolosa e pronta a prestare il suo aiuto, da non ritenere sconveniente di abbassarsi «fino ai nostri piccoli capricci e convenzioni»39. La fede nel governo divino del mondo è tanto radicata, da ispirare il «principio preferito» di Fichte, quello secondo cui «Dio si preoccupa per noi e non abbandona nessun uomo retto»40. La sollecitudine della provvidenza nei confronti degli uomini che la meritano non è, però, da intendere nel senso che si possa attendere passivamente l’intervento divino perché, anzi, la nostra attività è presupposta e a noi compete di fare tutto quanto è in nostro potere per raggiungere gli obiettivi desiderati, anche se poi l’ultima parola spetta, comunque, a Dio, visto che la riuscita dei nostri sforzi «è i n t e r a m e n t e nelle mani dell’Eterno»41. 36 Pezold, Christian Friedrich (1743-1788), professore di logica e teologia a Lipsia. 37 Lettera a Ch. F. Pezold del 26 novembre 1787, in GA, III, 1, pp. 17-18. 38 Lettera a J. Rahn del 2 marzo 1790, ib., p. 73. 39 Lettera a J. Rahn del 15 marzo 1790, ib., p. 83. Subito dopo, a proposito di un’iniziativa propostagli dalla fidanzata, dichiara che «il suo successo, come quello di ogni altra cosa, è rimesso alla provvidenza (Vorsicht), dalla quale soltanto dipendo e che, soltanto, seguirò» (p. 85). 40 Ib., p. 91. 41 Lettera a J. Rahn (forse) del febbraio 1790, ib., p. 57. Sulla concezione della provvidenza da parte di Fichte in questo periodo cfr. R. Preul, Reflexion und Gefühl cit., pp. 96 sgg., in partic. pp. 101-102, dove è presente il riferimento a Christian Bastholm (1740-1819), predicatore di corte a Copenhagen, nelle cui prediche «la componente de-

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A questo abbandono alla saggezza lungimirante della provvidenza, Fichte affianca la sua forte insofferenza per l’inoperosità e l’imperiosa esigenza di agire42, così come confida alla fidanzata: «Ho una sola passione, un solo bisogno, solo un sentimento completo di me stesso, questo: quanto più agisco, tanto più appaio felice a me stesso. […] Io voglio non solo pensare, voglio agire, e meno di tutto voglio pensare a questioni di lana caprina»43. Il tipo di vita che Fichte riterministica si manifesta fortemente» (ib., p. 101), ciò che non impedisce, e anzi forse spiega, il motivo per cui Fichte le consideri «le migliori che esistano» (lettera a J. Rahn dell’8/9 marzo 1790, in GA, III, 1, p. 79). Oltre che nelle lettere alle quali ci siamo riferiti, Fichte cerca di rappresentare l’efficacia della provvidenza anche in forma letteraria, in una novella dal titolo Das Thal der Liebenden, in GA, II, 1, pp. 267-81, risalente probabilmente al 1790, come testimonierebbe l’allusione alla composizione di «novelle (piccoli racconti romantici)» contenuta nella lettera a J. Rahn dell’8 giugno 1790, in GA, III, 1, pp. 131-32. Il contenuto (abbastanza improbabile) della novella, ha l’obiettivo di dimostrare la convergenza tra le vie nascoste della provvidenza e l’agire umano ispirato da nobili sentimenti. Lo sciogliersi dell’intreccio coincide con l’affermazione di Laura /Celestina «ho finito di soffrire. Ho riconosciuto le vie della provvidenza: non erano che bontà» (Das Thal der Liebenden, cit., pp. 179-80). Sulla concezione fichtiana della provvidenza, cfr. anche S. Gnädinger, Vorsehung. Ein religionphilosohisches Grundproblem bei J.G. Fichte, in «Fichte-Studien», 23 (2003), pp. 159-173, secondo il quale «la viva convinzione della realtà effettiva della provvidenza» si può cogliere come una costante in tutti gli scritti di Fichte (ib., p. 159); M. Ivaldo, Fichtes Vorsehungsgedanke, in Fichte und die Aufklärung, cit., pp. 147-165; per il medesimo tema, considerato nel periodo cui ci stiamo riferendo, cfr., in partic., pp. 150-55. 42 Si tratta di quell’orientamento fondamentale di Fichte, che presto troverà espressione nel celebre incitamento, rivolto a tutti gli uomini: «Agire! Agire! Questo è ciò per cui noi esistiamo» (J.G. Fichte, Einige Vorlesungen über die Bestimmung des Gelehrten, in GA, I, 3, p. 67; tr. it. (Missione del dotto), con testo tedesco a fronte, con introduzione, note e apparati a cura di D. Fusaro, Postfazione di M. Ivaldo, Bompiani, Milano 2013, p. 327). 43 Lettera a J. Rahn del 2 marzo 1790, cit., risp. pp.73 e 72. La forte spinta ad agire qui manifestata da Fichte testimonia che la sua convinzione nell’efficacia della provvidenza divina non dispensa l’uomo dalle

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tiene adeguata per sé, prevede una decisa volontà di incidere sulla realtà, con l’obiettivo dichiarato di contribuire a plasmarla secondo il proprio progetto. In questo periodo della vita, il suo personale interesse alla trasformazione del mondo è considerato convergente con quello della provvidenza, e Fichte è persuaso che l’agire umano eticamente motivato, da un lato, e le segrete intenzioni della provvidenza, dall’altro, siano originariamente in accordo e che si integrino in modo armonico. Nel periodo pre-kantiano, Fichte non s’interroga sulla sostenibilità di quell’accordo e non lo sottopone a riflessione, accontentandosi di considerarlo scontato; se avesse voluto spiegarlo razionalmente, avrebbe certamente rilevato che l’onnipotenza divina rischia di annullare, con la sua causalità assoluta, quella finita dell’uomo. Era forse questa ragione che aveva suscitato «qualche preoccupazione» in Fiedler, spingendolo a chiedere all’amico se, per caso, non fosse anch’egli «unus ex illis», cioè uno spinoziano44. Il determinismo possiede l’indubbio fascino connesso con la ferrea consequenzialità nella conduzione del ragionamento e costituisce una sfida per l’acutezza intellettuale di colui che lo adotta. Inoltre, in quanto è in aperta contrapposue responsabilità, che sono anzi proporzionate al livello di grazia che Dio ha riservato a ciascuno e che è diverso da uomo a uomo: «Dio deve anche pretendere di più da coloro alle cui anime egli ha lavorato di più; la loro giustificazione davanti a Dio dev’essere più impegnativa e, se hanno tralasciato stimoli straordinari di Dio all’espiazione, più tremenda dev’essere la loro responsabilità» (J.G. Fichte, An Maria Verkündigung, in GA, II, 1, p. 56). Sull’impegno concreto e fattivo che la provvidenza, in questo scritto, richiede a ciascun uomo, delle cui azioni nobili valuta e promuove l’intenzione etica, cfr. M. Ivaldo, Fichtes Vorsehungsgedanke, cit., pp. 151-52. 44 Lettera di Fiedler del 28 gennaio 1785, cit., p. 9. Fiedler, pur riconoscendo l’intelligenza di Fichte, è abbastanza duro nei suoi confronti e lo assimila agli scettici che, non avendo essi stessi alcuna certezza, vogliono essere grandi riformatori e non lasciano in pace l’uomo onesto e convinto delle proprie idee. Quanto alla conoscenza di Spinoza da parte del giovane Fichte, cfr. la successiva n. 56.

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sizione con l’intima convinzione di ciascuno di essere libero, esso presenta anche il pregio dell’originalità, alimentando ancor più la curiosità della ragione, lusingata dalla propria capacità di dar vita a un sistema così rigoroso da essere inattaccabile. Certamente Fichte ha subito quel fascino ed ha accettato pienamente l’idea della necessità dell’agire e dell’uguale necessità cui è sottoposta la volontà umana. E così, le opposte esigenze dell’intelletto e del cuore si trovano a convivere per un certo periodo nel suo animo, in un equilibrio solo apparentemente stabile, e non potrà restare a lungo disattesa l’esigenza di stabilire una gerarchia e di operare una scelta tra esse. Per giungere alla decisione al riguardo occorrerà un periodo di chiarificazione, al quale darà un contributo risolutivo lo studio della filosofia di Kant, la cui incidenza sul pensiero di Fichte può essere valutata con precisione, a partire dalle sue opere e anche dai riscontri dettagliati offerti dall’epistolario. Quest’ultimo, in particolare, fornisce indicazioni preziose sulla data in cui egli iniziò ad occuparsene, mentre un breve scritto, la cui stesura cade proprio nell’intervallo tra lo studio della prima e quello della seconda Critica, pone in primo piano interrogativi cruciali, la risposta ai quali segna il passaggio al nuovo sistema.

4. Gli Aforismi su religione e deismo Lo scritto in questione è intitolato Alcuni aforismi su religione e deismo (Frammento), e risale all’anno 179045. La religione, cui allude il titolo e sulla quale si riflette è, ovviamente, la religione cristiana, della quale si dice che è fondata su alcuni princìpi presupposti come conosciuti e che, per 45 J.G. Fichte, Einige Aphorismen über Religion und Deismus (Fragment.), in GA, II, 1, pp. 286-91. Il testo era stato pubblicato in Johann Gottlieb Fichte’s Leben und litterarischer Briefwechsel, cit., II, pp. 18-25 e riproposto nella seconda edizione cit. (Leipzig 1862), II, pp. 15-19, sempre con il titolo: Aphorismen über Religion und Deismus. (Fragment.) e con l’indicazione: «Aus dem Jahre 1790». Non è certo che questa

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questo motivo, non hanno bisogno di alcuna indagine critica. L’intero contenuto del cristianesimo deriva dallo sviluppo di quei principi, sviluppo che va tenuto al riparo da ogni mescolanza o contaminazione con elementi di carattere filosofico o speculativo. Non si tratta di una scelta occasionale, ma di una vera e propria regola essenziale, che sono tenuti a osservare i credenti in questa religione. I princìpi del cristianesimo hanno la loro caratteristica peculiare in ciò, che essi concepiscono Dio solo nel suo rapporto con gli uomini e non contengono considerazioni sulla sua natura oggettiva e sulla sua esistenza (EA, 3). Se, malgrado questo limite intrinseco, si volessero comunque istituire indagini in tale direzione, esse risulterebbero estranee alla religione cristiana, che non solo non le richiede, ma le interdice. Il conferimento a Dio di qualità e proprietà fa parte di un universale bisogno umano, ma non appena interviene la speculazione, essa fa subito emergere l’incongruenza e l’insostenibilità di quell’attribuzione: l’essenza eterna e immutabile di Dio non può certo essere contraddetta assegnandole passioni e motivi determinanti ad essa necessariamente estranei. Nella riflessione su Dio, la ragione ne discopre l’alterità e l’assoluta sproporzione rispetto all’uomo, con la conseguenza che, tra l’infinità divina e la finitezza umana non si dà alcun punto di contatto. Si apre, così, un contrasto appadata, annotata sotto il titolo, sia stata apposta da Fichte, così come non è certo che sia sua l’indicazione “Fragment”. Secondo Preul, quest’ultima è un’aggiunta di I.H. Fichte (cfr. R. Preul, Reflexion und Gefühl, cit., p. 108, n. 51). Preul esprime anche il dubbio che non si tratti di un vero e proprio frammento, ma di uno scritto più organico e più ampio. Tali dubbi sono condivisi da R. Lauth nell’articolo: Genèse du “Fondement de toute la doctrine de la science” cit., p. 52 e n. 2, ma sono quasi certamente destinati a restare irrisolti, perché il manoscritto non è più disponibile. La traduzione italiana del breve scritto fichtiano, Alcuni aforismi su religione e deismo (Frammento), è ora disponibile, con testo a fronte e Introduzione di G. Di Tommaso, in Quaderni della Rivista «Il Pensiero», Inschibboleth Edizioni, Roma 2015, pp. 60-83. Gli aforismi sono numerati e a tali numeri, preceduti dalla sigla EA, rinviano le citazioni.

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rentemente insanabile tra esigenze opposte, ma riconducibili alla natura umana, giacché l’assoluta alterità di Dio rispetto all’uomo, che la speculazione riconosce, stride con il bisogno più radicale della coscienza religiosa, che si rivolge a Dio con animo confidente e aspettandosi da Lui aiuto e comprensione. La concezione di Dio proposta dalla speculazione si pone su un piano diverso da quello su cui si colloca la tenera immagine del Dio del credente, ricca di qualità umane e pronta all’amichevole e perfino paterna disponibilità. Al fine di dare soddisfazione alle aspettative e ai bisogni del cuore e del sentimento, le religioni hanno fatto ricorso a elementi antropomorfici, la cui incidenza è tuttavia diminuita di pari passo con l’evoluzione della cultura e, quindi, con l’emancipazione della ragione (EA, 5-6). Si è passati, così, dalle figure divine intermedie, costituite dai lari e dai penati della religione pagana, ai santi, ai quali fa largo ricorso la religione cattolica. La chiamata in causa dell’antropomorfismo conferma, agli occhi di Fichte, che il bisogno di trovare riscontro a esigenze di carattere umano nella divinità è, sì, radicato nell’essenza dell’uomo, ma si manifesta in epoche storiche in cui la ragione non è ancora capace di riflessione, oppure presso uomini che non si sono ancora innalzati ad essa. Come in relazione ai princìpi fondamentali del cristianesimo, anche a proposito della persona di Gesù e alla sua essenza oggettiva non sono ammesse riflessioni di natura filosofica (EA, 7). Le qualità che gli vengono riconosciute derivano dal cuore e dal sentimento del credente e non dall’intelletto, che le troverebbe in contraddizione con il concetto puramente razionale di Dio. E se a Gesù vengono riconosciute la compassione, la tenera amicizia e la disponibilità nei confronti degli uomini, ciò avviene da parte della coscienza religiosa e non dell’intelletto, che incontra ostacoli insormontabili quando tenta di connettere tali qualità con l’essenza della divinità. Quanto al peccato, Fichte ricorda che tutte le religioni lo accettano come un dato di fatto, così come tutte postulano la

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necessità di una conciliazione per superare la distanza che, a causa del peccato, è stata introdotta tra Dio e l’uomo. Anche il cristianesimo condivide tale presupposto, la cui origine è da ricercare, di nuovo, nella sfera del cuore e del sentimento e non in quella della riflessione46. La coscienza credente considera immediatamente certi e validi i princìpi su cui si fonda la sua fede e, fino a quando resta all’interno dei limiti della sua ingenua certezza, la religione stessa ha vita tranquilla. Quando, invece, si sottopongono al vaglio della ragione i suoi principi, emergono contrasti e difficoltà insormontabili. A riprova, Fichte cita il caso dell’apostolo Paolo, le cui sottili distinzioni in tema di grazia divina presenti nella Lettera ai Romani gli sembrano andare oltre i limiti fissati dal cristianesimo alla riflessione, e rischiano di provocare discussioni laceranti sia tra i credenti, sia nell’animo di ciascuno di essi (EA, 11, nota **). Per sua stessa natura, il cristianesimo è una religione per il cuore e non per l’intelletto, non affida la sua forza al carattere cogente delle dimostrazioni, ma alla delicatezza del sentimento e alla bontà d’animo. L’impietosa conclusione che Fichte trae da tali premesse, è che il cristianesimo è una religione per «anime semplici», che non sono in grado di innalzarsi al pensiero critico47. Per rafforzare e dare legittimità a questa sua valutazione circa la facilità con la quale le anime 46 Si può ricordare, in proposito, che Fichte scrive a J. Rahn che il nostro intelletto «è troppo angusto per essere un’abitazione della divinità; soltanto il nostro cuore è un’abitazione degna di essa» (Lettera a J. Rahn del 6.12.1790, in GA, III, 1, p. 201). Poco oltre si legge che il vero credente non dimostra l’esistenza di Dio, ma la sente (ib., p. 202). 47 Del cristianesimo come «religione interiore», «religione dell’anima», «religione del cuore», Fichte aveva parlato già nello scritto Über die Absichten des Todes Jesu, in GA, II, 1, p. 88. Lo scritto risale probabilmente al 1786 (cfr. il Vorwort di H. Jacob, pp. 69-73), ed è stato tradotto in italiano (Sugli scopi della morte di Gesù), da M. Ravera, in «Filosofia e teologia», 1990, pp. 359-77. Sul tema della religione in relazione a questi testi e al periodo qui trattato dell’evoluzione del pensiero di Fichte, cfr. G. Rotta, La “Idea Dio”. Il pensiero religioso di Fichte fino all’Atheismusstreit, Pantograf, Genova 1995, pp. 68-79.

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semplici si accontentano di espressioni di saggezza popolare, Fichte cita i detti evangelici: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati» e: «non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori»48. Non può sorprendere, allora, che quando la riflessione cerca chiarezza adeguata alle esigenze della ragione, si imbatta piuttosto in una certa indeterminatezza e confusione, che si possono considerare costitutive del cristianesimo guardato con gli occhi della speculazione. A questo punto degli Aforismi (EA, 13) compare il primo riferimento a Kant, chiamato in causa per sottolineare l’analogia tra la sua impostazione metodologica e lo spontaneo arrestarsi degli apostoli davanti ai temi cruciali dell’essenza oggettiva di Dio, della libertà umana, della responsabilità, della colpa e della punizione. Agli apostoli non è stato necessario comporre o studiare un trattato di teologia per convincersi della natura divina di Gesù, perché ne possedevano una certezza immediata e non bisognosa di dimostrazione. Le anime semplici, infatti, non subordinano la loro fede a raffinati sillogismi, ma la concedono spontaneamente e con gioia a quanto sentono vero. Esse si affidano al sentimento e sanno distinguere immediatamente il giusto dall’ingiusto, il buono dal cattivo, senza avventurarsi in speculazioni astratte. Kant, da parte sua, ha proceduto in maniera simile, non oltrepassando i limiti del mondo sensibile per riconoscere la legittimità del concetto di Dio. Nel suo caso, la mancata dimostrazione dell’esistenza oggettiva di Dio, conseguente alla regola di non applicare le categorie oltre i limiti dell’esperienza possibile, non equivale alla sua negazione, ma ne lascia sussistere la possibilità, insieme con quella della fede. Analogamente, anche per gli altri concetti l’impostazione trascendentale, attenta a cogliere le condizioni a priori di possibilità della nostra conoscenza, se rinuncia a esibirne l’oggettività, non per questo ne dichiara l’insussistenza. Di 48 EA,

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12. Il riferimento è a Matteo, 9, 12-13.

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qui l’accordo non intenzionale, ma effettivo e degno di nota, tra Kant e gli apostoli su temi così delicati, a dispetto del notevole intervallo temporale e culturale che li separa. Quando, nella conduzione di un ragionamento, si dà per scontato un risultato e le argomentazioni sono pregiudizialmente orientate alla sua conferma, allora è inevitabile che il percorso sia viziato e che i passaggi obbediscano a sollecitazioni estranee alla correttezza logica. Questo è il caso in cui l’orientamento religioso pretende di fornire alla speculazione contenuti tratti dalla sua sfera, nel tentativo di unificare la speculazione con le esigenze della religione. I risultati che ne derivano sono i castelli in aria del tipo di quelli proposti o dal timido e poco fantasioso Crusius49, che pretende di dar vita a una filosofia religiosa, oppure dai «più coraggiosi e arguti» teologi contemporanei di Fichte, che approdano a una religione filosofica e a un deismo, «che non vale molto nemmeno come deismo» (EA, 14). La riflessione corretta, invece, lascia la ragione libera di svolgersi secondo la sua natura, senza prescriverle condizioni o imporle conclusioni anticipate, e conduce alla elaborazione di una compagine di pensieri tra loro concatenati e in grado di neutralizzare le critiche provenienti dall’esterno. Applicato alle ricerche relative a Dio, la ragione approda a un deismo coerente, i cui caratteri essenziali Fichte espone in modo efficace, compendiando in poche righe un lavorio intellettuale che, a dispetto della brevità della formulazione, dev’essere stato lungo e approfondito50. Il principio su cui si basa la concezione razionale della divinità è quello della necessità assoluta con la quale l’essenza divina eternamente esiste, essendo la necessità l’unica categoria modale che può entrare in gioco in riferimen49 Crusius, Christian August (1715-1775), professore di filosofia e teologia a Lipsia, avversario del determinismo e difensore della libertà del volere. 50 Del medesimo avviso, come già ricordato, è R. Preul, Reflexion und Gefühl cit., p. 109.

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to ad essa. Il mondo, da parte sua, esiste solo come conseguenza del pensiero originario, necessario ed eterno di Dio, senza che la differenza qualitativa tra il pensiero di Dio e la realtà del mondo costituisca un ostacolo all’esistenza di quest’ultimo. Avendo origine dal pensiero necessario di Dio, il mondo ne mutua integralmente il principio fondante, quello di ragione, la cui pervasività è così completa, da non lasciare alcuno spiraglio per la contingenza e tantomeno per la libertà. Come è agevole vedere, il precedente richiamo a Kant e alla sua impostazione trascendentale resta qui inefficace, poiché il principio di ragione viene fatto valere in modo trascendente e applicato a realtà qualitativamente eterogenee. Come conseguenza della sua origine, il mondo è interamente consegnato alla necessità, così come ad essa è sottoposto anche ogni cambiamento che interviene al suo interno. La concatenazione causale è talmente vincolante, da coinvolgere non solo la totalità degli elementi naturali, ma anche gli enti «pensanti e senzienti», a proposito dei quali vale la medesima legge universale. In quanto ugualmente sottoposti ad essa, anche gli uomini sono ciò che sono e come sono e non è possibile che esistano in maniera diversa. Per quanto possa suonare molesto al nostro amor proprio e alla nostra convinzione di essere e di sentirci liberi, anche noi uomini siamo interamente sottoposti alla necessità, e per l’uomo vale che «né il suo agire, né il suo patire possono essere, senza contraddizione, diversi da come sono» (EA, 15, d). Dunque, soggetti alla necessità, insieme con il nostro agire e patire, sono anche i pensieri e i sentimenti, le emozioni e gli slanci, poiché alla base di ciascuno di essi agisce il medesimo meccanismo invisibile, che mutua la sua indefettibile causalità da quella originaria51. 51 Come si può notare, si tratta delle medesime argomentazioni illustrate da Hommel nel suo Alexander von Joch, Über Belohnung und Strafe nach Türkischen Gesetzen, da Fichte trasposte sul piano filosofico.

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Dopo il precedente riferimento al peccato e alla sua origine dal cuore dell’uomo, Fichte torna a considerarlo nell’ambito della religione razionale e ne fornisce una spiegazione in linea con questa prospettiva. Invece che alla sfera morale, il peccato dev’essere ricondotto alla struttura ontologica che ci caratterizza come uomini e che ha la sua ragione ultima nella limitazione connessa con il principio di individuazione. Quest’ultimo, nel circoscrivere positivamente ciascuna esistenza individuale, esclude dalla sua essenza tutto quello che essa non è, conformemente alla nota sentenza: «omnis determinatio est negatio». La limitazione, nella infinita variabilità di gradi e di sfumature che può assumere, è vissuta da ciascuno come negazione ed è alla base della coscienza della nostra finitezza e dello scarto con la pienezza di sé mai conseguita, che la religione chiama peccato. Inoltre, in quanto condizione imprescindibile dell’individualità, la determinatezza produce conseguenze così inevitabili e necessarie, quanto quelle che procedono dalla causalità assoluta. Pretendere di superare quella limitazione e di modificare o neutralizzare le conseguenze che da essa derivano per le altre individualità razionali è tanto insensato, quanto immaginare la loro impossibile disconnessione e indipendenza dalla causa originaria. Viene in questo modo confermato quanto precedentemente emerso, e cioè che la categoria modale che domina nel sistema filosofico razionale è quella della necessità, che non a caso figura con frequenza altissima e in ciascuna delle formulazioni in cui Fichte suddivide il centrale aforisma n. 15. Il quadro complessivo che ne risulta è quello di un sistema rigoroso, dominato da cima a fondo dalla ferrea necessità, che si irradia per l’intero universo, senza peraltro perdere la pur minima energia nel processo di allontanamento dal centro verso la periferia. Se il deismo contraddittorio dei teologici «arguti», ma incapaci di condurre con la dovuta disciplina la propria ragione, è così inconcludente da non meritare nemmeno di essere confrontato con il cristianesimo, il deismo coerente e siste-

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matico pretende, invece, una validità assoluta, e ciò comporta una diretta o indiretta competizione con l’analoga pretesa del cristianesimo. Emergono, così, le condizioni che rischiano di mettere in crisi la coscienza credente che osi avventurarsi sul terreno della pura religione razionale, e diviene tanto più urgente confrontare le due prospettive, al fine di verificare se l’inflessibile coerenza del determinismo riesca ad avere il sopravvento sulla coscienza del credente. La risposta di Fichte è, per la verità, alquanto sorprendente, poiché egli considera il deismo compatibile con il cristianesimo, dal momento che non lo contraddice e non intacca la sua validità soggettiva (EA, 16). Tra l’impostazione filosofica e quella religiosa non sussiste, per Fichte, alcun punto in cui entrino in collisione e il deismo non ha alcun influsso dannoso sulla religione cristiana, cui, anzi, concede l’onore di giudicarla come la migliore religione popolare. Ad una valutazione complessiva e attenta a tutte le diverse implicazioni, il deismo appare addirittura vantaggioso anche per il cristianesimo, poiché esercita un utile influsso sulla moralità e, contrariamente a quanto si sarebbe portati a pensare, spinge perfino all’accettazione della religione cristiana coloro che ne hanno bisogno e che possiedono «solo un po’ di conseguenza e sensibilità» (EA, 16). La compattezza formale del sistema della religione razionale richiede, a chi si accosta ad esso, una solida disciplina intellettuale e una capacità di astrazione e di ragionamento che non sono riscontrabili in tutti gli uomini. Coloro che non sono in grado di soddisfare queste esigenze e sono dotati, invece, di un animo sensibile, sono rinviati, con reciproco profitto, al cristianesimo, che è un sistema religioso meno impegnativo sul piano concettuale, ma capace di offrire piena soddisfazione alle esigenze del cuore. Da parte sua, il deismo conseguente, pur considerando il cristianesimo la migliore religione popolare, comporta una rigidità che non può essere stemperata e che non lascia spazio ai sentimenti e alle inclinazioni sensibili. Una pura religione razionale ha il

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compito di soddisfare esclusivamente i bisogni e le esigenze di carattere speculativo e l’eventuale cedimento a istanze di altro genere comporterebbe la sua vanificazione, così come avviene in quella forma di deismo ambiguo su cui Fichte ha appena ironizzato. Alla luce di queste indicazioni, si profila una rigorosa distinzione di piani, funzionale a evitare il contrasto tra le due prospettive; e così, mentre il deismo obbedisce alla sua ispirazione originaria e procede seguendo con scrupolo i dettami della ragione e i princìpi della logica, evitando di lasciarsi imporre contenuti dalla religione cristiana, quest’ultima favorisce e incoraggia l’elevazione del cuore e dei sentimenti, evitando a sua volta di accogliere al suo interno le istanze provenienti dal campo della speculazione. La distinzione dei piani, auspicata e gradita da entrambe le parti, impedisce che si creino conflitti tra esse e procura una pace, i cui frutti sono equamente ripartiti. Il filosofo da un lato, e il credente dall’altro, vivono indisturbati nel rispettivo mondo, rinunciando a portarsi attacchi reciproci. Quest’ultimo passaggio, che riconduce a due diverse figure di uomini la precedente distinzione che era solo di piani argomentativi, fa emergere un elemento nuovo, destinato a portare scompiglio nella situazione finora considerata armonica. Se è relativamente semplice ottenere l’accordo tra la speculazione e la religione quando ciascuna di esse fa capo a uomini diversi, non altrettanto semplice è ottenere il medesimo risultato quando riguardano lo stesso uomo. In questo caso è molto difficile lasciare convivere punti di vista divergenti sul medesimo oggetto, e ciò è tanto più problematico quando la disparità di vedute concerne il tema più sensibile e delicato, quello della divinità. Si tratta di una situazione in cui il conflitto può essere messo a tacere per un certo periodo, si possono intraprendere azioni per tentare di smussarne gli aspetti più ostinati, ma prima o poi la contraddizione che segretamente cova nel profondo dell’animo individuale verrà alla luce e imporrà una scelta netta.

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Fichte prefigura tale situazione in riferimento all’emergere, «in certi momenti», di una specie di vendetta da parte del cuore nei confronti dell’intelletto e della speculazione, momenti nei quali il cuore avanza l’impellente richiesta di rivolgersi alla divinità con tutta la delicatezza dei sentimenti e con una preghiera struggente che anela ad essere soddisfatta. Questo moto dell’animo, che si rivolge a Dio con fiducia e abbandono e con la convinzione profonda di ottenerne l’aiuto sperato, è però in contraddizione con la visione razionale di Dio e con tutto il sistema che su di essa è fondato. L’intrusione del cuore in una compagine sistematica retta dalla pura razionalità, la mette radicalmente in crisi e l’intero sistema ne risulta compromesso. La spinta che fa rivolgere verso la condiscendenza divina l’animo confidente del credente contrasta, in modo insanabile, con l’imperturbabile serenità e distacco con i quali Dio, secondo la speculazione, guarda le cose del mondo, sicché è evidente che questi due opposti orientamenti non possano a lungo coesistere nella mente e nel cuore del medesimo uomo52. Fichte ne prende atto e, nel capoverso conclusivo degli Aforismi presenta, in modo perfino drammatico e quasi certamente ispirato da motivazioni anche biografiche, la contraddizione che ne risulta e le conseguenze laceranti sul piano della vita individuale. Un uomo diviso tra la convinzione della validità delle conclusioni raggiunte con la ragione e le esigenze più intime del proprio cuore, deve decidere a quale di queste istanze dare la precedenza. Certo, le risultanze della speculazione si impongono con una forza cui la ragione, per quanti sforzi faccia, non può opporre argomentazioni capaci di neutralizzarle, perché non può smentire sé stessa. Tantomeno è possibile scalzare il sistema razionale con argomenti attinti dalla religione cristiana, poi52 Per il contrasto tra fede e ragione in questo periodo della evoluzione del pensiero di Fichte, cfr. L. Pareyson, Fichte. Il sistema della libertà, 2a edizione accresciuta, Mursia, Milano 1976, pp. 73 sgg.

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ché la struttura granitica del sistema respinge come velleitarie tali pretese. Anche se il sostenitore della religione razionale è disposto a riconoscere la consistenza, sul piano emotivo, delle suggestioni provenienti dalla religione cristiana, ritiene tuttavia che esse non siano applicabili alla sua persona. Infatti, chi è convinto, sulla base di argomenti razionali, della validità della propria posizione, non può rinunciarvi per motivi che non siano essi stessi razionali, pena l’accettazione di una evidente asimmetria, che distruggerebbe la correttezza del ragionamento. Il coerente sostenitore del deismo è, tuttavia, egli stesso un uomo che non può sottrarsi ai richiami del cuore e che vive, perciò, scisso tra la fiducia nella sua ragione e gli slanci derivanti dalla sfera sentimentale. Per ottenere la pace e l’equilibrio dovrebbe, allora, rinunciare alla speculazione e affidarsi alla semplicità del cuore. Ma, si chiede Fichte, è egli in condizione di farlo? Può, cioè, decidere di arrestare la speculazione nel punto e nel momento in cui dovesse decidere di farlo? Ancor di più: anche nel caso in cui dovesse risultare in modo inequivocabile che la speculazione è ingannatrice e conduce a false conclusioni può, colui che la esercita, decidere di bloccarla? (cfr. EA, 18). Se si può avanzare il dubbio che nello scritto in esame sia­ no presenti riferimenti a contenuti e a esperienze personali di Fichte, l’ultima domanda, alla quale stiamo per rivolgerci, toglie ogni dubbio e sembra porre davanti agli occhi del lettore il travaglio autentico in cui il giovane filosofo si dibatte proprio nelle settimane e nei giorni in cui sta scrivendo queste pagine53. La precedente domanda circa la possibilità di interrompere la speculazione per salvarsi dal dissidio provo53 Non sembra casuale, a questo riguardo, l’osservazione del figlio che, riferendosi all’epoca della stesura degli Aforismi, li nomina e dice che quel frammento gli sembra «costituire il passaggio tra la precedente visione deterministica e la successiva dottrina del criticismo» (I.H. Fichte, Johann Gottlieb Fichte’s Leben cit., I, p. 143).

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cato dal tentativo del cuore di vendicarsi dell’intelletto viene ora riproposta, radicalizzata e integrata con un elemento sicuramente tratto dall’esperienza vissuta: può, dunque, il filosofo, decidere di arrestare la speculazione «quando questo modo di pensare gli è già naturale ed è già intrecciato con l’intero svolgimento del suo spirito?» (EA, 18, corsivo mio). Malgrado l’apparente coesistenza pacifica tra la religione razionale e il cristianesimo, negli ultimi aforismi è venuta emergendo, con sempre maggiore chiarezza, che i tentativi di conciliazione tra le rispettive, contrastanti esigenze lascia spazio, alla fine, a una contraddizione insanabile e alla necessità di una decisione chiara e definitiva. La posta in gioco, sia sul piano personale, sia su quello filosofico, è per Fichte di vitale importanza, giacché si tratta di decidere se la fiducia nella necessità dell’agire umano, così come implica l’adesione al determinismo, debba essere mantenuta, a dispetto delle robuste rivendicazioni del cuore. La conciliazione che egli ha finora considerato valida si rivela problematica quando la si voglia legittimare sul piano concettuale, e la questione torna ad essere quella della compatibilità tra onnipotenza divina e libertà umana. Per la verità, negli Aforismi la provvidenza non viene neanche nominata, segno che Fichte la considera, forse, parte integrante del modo di pensare del cristianesimo pre-riflessivo e ad esso l’assimila. Il venire in luce del contrasto, pur nella forma dubitativa che contrassegna le ultime righe del testo, fa di questo scritto un documento unico del compiersi di un processo spirituale che porta Fichte a dubitare del sistema di pensiero fino ad allora sostenuto e a disporsi ad abbandonarlo a vantaggio di una prospettiva del tutto nuova54. 54 Proprio per questo motivo, Marco Ivaldo definisce l’attuale posizione di Fichte come «situazione “dialettica” irrisolta», per sottolineare la mancanza della scelta tra i bisogni del «cuore» e le esigenze speculative dell’intelletto (M. Ivaldo, Libertà e ragione. L’etica di Fichte, Mursia, Milano 1992, p. 31; all’esame degli Aforismi sono dedicate le pp. 29-33).

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In una nota esplicativa all’aforisma n. 15, quello che fissa i cardini fondamentali del determinismo coerente, si trova un’osservazione preziosa che chiama in causa Kant sul tema, delicatissimo, della libertà umana com’esso viene affrontato nella Dialettica trascendentale. Abbiamo rilevato che Kant è stato già citato nell’aforisma n. 10 e queste sono, forse, le prime occorrenze del suo nome negli scritti di Fichte. Nel contesto in riferimento, Fichte sostiene la necessità che il ragionamento filosofico proceda con rigore e non si lasci imporre argomenti dall’esterno, e rimprovera a Kant di aver disatteso tale regola, dando luogo a una inconseguenza nello svolgimento del tema della libertà. Secondo Fichte, nella trattazione delle antinomie, Kant introduce surrettiziamente il concetto di libertà, assumendolo dall’esterno, «senza dubbio dalla sensazione» (EA, 15, n.). Se invece, conformemente all’impianto metodologico della Critica, Kant avesse condotto i suoi ragionamenti in maniera rigorosa e si fosse attenuto a quanto dedotto dai princìpi della conoscenza, non si sarebbe imbattuto nella libertà, che egli, peraltro, si limita a giustificare e a spiegare55. Pur riconoscendogli il merito di essere il «più acuto difensore della libertà che ci sia mai stato» (EA, 15, n.), nel periodo in cui scrive Fichte non ritiene ancora che Kant sia riuscito a fondare il concetto di libertà umana in maniera soddisfacente56. È noto, però, che di lì a poche settimane egli 55 È appena il caso di ricordare che quando Fichte rileva questa inadeguatezza nella trattazione del concetto di libertà da parte di Kant, si sta riferendo esclusivamente alla prima Critica, non avendo ancora letto la Critica della ragion pratica. Sui limiti interni alla concezione della «libertà trascendentale», così come viene definita e si configura nella soluzione alla terza Antinomia, cfr. K. Düsing, Ethische und ästhetische Freiheit bei Kant und Schiller, in Friedrich Schiller zum 250. Geburtstag. Philosophie, Literatur, Medizin und Politik, hrsg. v. R. Romberg, Könighausen & Neumann, Würzburg 2014, pp. 73-89, qui pp. 74-77. 56 Noack osserva in proposito che ancora nell’estate 1790 Fichte era fermamente convinto, sulla scorta della visione di Spinoza da lui con-

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cambierà completamente punto di vista e Kant verrà esaltato per essere riuscito ad assicurare fondamenta sicure alla libertà umana, aprendo prospettive impensate, sia sul piano filosofico, sia su quello relativo alla concreta vita degli uomini. Su questo importante mutamento nel giudizio su Kant occorre ora soffermarsi, soprattutto in considerazione del ruolo notoriamente straordinario svolto dal pensiero kantiano nell’evoluzione della biografia intellettuale di Fichte. divisa, del determinismo delle azioni umane, senza sospettare che di lì a poche settimane avrebbe cambiato radicalmente punto di vista (cfr. L. Noack, Johan Gottlieb Fichte, nach seinem Leben, Lehren und Wirken, O. Wigand, Leipzig 1862, p. 78). Noack riconduce all’influenza diretta di Spinoza la conferma del determinismo cui Fichte, nel periodo prekantiano, era giunto per suo conto, tesi già esposta da I.H. Fichte. Questi riporta l’episodio, su cui anche Noack si sofferma, del colloquio con un predicatore sassone che gli parlò della filosofia di Spinoza e che gli diede da leggere un volume che ne conteneva l’esposizione, seguita dalla confutazione da parte di Wolff, che avrebbe dovuto convincere Fichte e salvarlo dai suoi errori (cfr. I.H. Fichte, Johann Gottlieb Fichte’s Leben cit., I, p. 28; L. Noack, op.cit., pp. 30-31). I.H. Fichte riporta anche che lo studio dell’Etica di Spinoza lo coinvolse profondamente (cfr. ib., pp. 28-29), ma di questo non ci sono altre testimonianze e si può ipotizzare che non sia un caso se questi riferimenti a Spinoza e alla conoscenza approfondita del suo pensiero, nonché all’incontro di Fichte con il predicatore sassone, non compaiano nella seconda edizione (Leipzig 1862) del citato Fichte’s Leben und litterarischer Briefwechsel. X. Léon, Fichte et son temps, cit., vol. I, pp. 55-57, condivide la tesi dell’importanza, per Fichte, della dottrina di Spinoza, anche se riconosce, sulla scorta di quanto sostiene W. Kabitz, Studien zur Entwicklungsgeschichte der Fichteschen Wissenschaftslehre cit., p. 6, n. 2, che non ci sono testimonianze sicure di una conoscenza diretta delle opere di Spinoza da parte di Fichte. Ciò che Kabitz esclude, è che Fichte possa avere avuto conoscenza «dettagliata» e di prima mano del pensiero di Spinoza, ma non che tale conoscenza gli sia giunta in maniera indiretta, attraverso le allora frequenti e vivaci discussioni sulla sua filosofia. Si deve peraltro osservare, come fa Lauth, che fino al periodo in cui elabora le Eigne Meditationen «non s’incontra alcuna citazione delle opere di Spinoza – anche se Fichte nel 1800 possedeva un raro esemplare dell’Etica di Spinoza». A giudizio di Lauth, che condivido, neppure l’esigenza del principio del sistema deriva a Fichte da Spinoza, bensì da Reinhold (R. Lauth, Genèse du “Fondement de toute la doctrine de la science” cit., p. 60, n.).

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5. L’incontro con il pensiero kantiano Nella sua irrequieta ricerca di una destinazione consona alle proprie aspettative, Fichte si trova spesso alle prese con problemi economici, ai quali è costretto a dare soluzioni provvisorie, in attesa di tempi migliori. Dopo il periodo trascorso a Zurigo come precettore, tornato in Germania e stabilitosi a Lipsia, deve accettare di impartire lezioni private a un allievo desideroso di apprendere la filosofia kantiana. Egli stesso lo comunica al Dietrich von Miltitz57 in una lettera dell’inizio di agosto del 1790, nella quale lamenta anche di ricavarne un «sostegno molto esiguo», nonché di breve durata58. Il 12 dello stesso mese, in un’altra lettera indirizzata, questa volta, alla fidanzata, le partecipa la medesima notizia, aggiungendo che si è buttato anima e corpo nello studio della filosofia kantiana e che sente chiaramente che testa e cuore ci guadagnano, sebbene anche a Zurigo tale filosofia venga considerata del tutto incomprensibile59. 57 Dietrich

von Miltitz (1769-1853) era il figlio del barone Ernst Haubold (1739–1774), il noto benefattore di Fichte, che, riconosciute le sue qualità eccezionali quand’era ancora bambino, gli assicurò la possibilità di intraprendere gli studi, ciò che le condizioni economiche della sua famiglia non gli avrebbero permesso. La sua morte prematura rese sempre più difficile a Dietrich e alla madre Henriette di provvedere al sostentamento del giovane Fichte, che si trovò, così, nelle note ristrettezze economiche. 58 Lettera a D. v. Miltitz di inizio agosto 1790, in GA, III, 1, p. 165. 59 Cfr. lettera a J. Rahn del 12 agosto 1790, ib., p. 166. Che a Zurigo non si avesse molta considerazione della filosofia kantiana è testimoniato anche da quanto riferisce a Fichte J. Rahn, in una lettera del gennaio 1791 a lui indirizzata e andata perduta. In essa è riportato il giudizio, che doveva essere abbastanza diffuso a Zurigo, secondo cui «occuparsi della filosofia kantiana è un lavoro ingrato» (ib., p. 210, n.). La frase è citata e relativizzata da Fichte nella lettera di risposta del 7 febbraio 1791, dove egli riconosce che quel giudizio è superficiale e può essere valido in riferimento a coloro che si rivolgono alla filosofia di Kant per acquisire fama in campo letterario, ma non è certo lavoro ingrato dal punto di vista della formazione dello spirito (cfr. ib., p. 213).

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La necessità di preparare le sue lezioni private obbliga Fichte a studiare dapprima la Critica della ragion pura, ed è in relazione ad essa che viene espresso anche il giudizio sulla libertà del volere presente negli Aforismi e riportato sopra. La successiva lettura della Critica della ragion pratica produce un cambiamento profondo, che comporta anche un giudizio e un tono ben diversi nei confronti di Kant e del suo pensiero: «Da quando ho letto la Critica della ragion pratica, vivo in un nuovo mondo. Princìpi che credevo fossero inconfutabili mi sono stati confutati, cose che credevo non potessero mai essermi dimostrate, ad es. il concetto di una libertà assoluta, del dovere etc., mi sono state dimostrate e tanto più me ne rallegro. È inconcepibile quale rispetto per l’umanità, quale forza ci dia questo sistema! Quale benedizione per un’epoca in cui la morale era distrutta dalle sue fondamenta e il concetto del dovere era stato cancellato da tutti i vocabolari»60. 60 Frammento di lettera a F.A. Weißhuhn, agosto/settembre 1790, ib., p. 167. Sul profondo impulso ricevuto da Fichte dallo studio della Critica della ragion pratica, cfr. W. Kabitz, Studien zur Entwicklungsgeschichte der Fichteschen Wissenschaftslehre cit., pp. 31-32. Sul medesimo tema, visto in rapporto con il superamento della separazione tra «cuore» e «ragione», ancora persistente negli Aforismi, cfr. M. Ivaldo, Ragione pratica. Kant, Reinhold, Fichte, Edizioni ETS, Pisa 2012, p. 226. Fichte si compiacerà di sottolineare retrospettivamente la forza liberatrice della sua filosofia, affermando, con apparente ossimoro (non a caso ripreso da Pareyson nel titolo del suo fondamentale libro fichtiano), «Il mio sistema è il primo sistema della libertà». Nel medesimo contesto egli stabilisce la nota equazione tra la Rivoluzione francese e la Dottrina della scienza: come la nazione francese «ha spezzato le catene politiche dell’uomo, allo stesso modo, nell’ambito della teoria, il mio sistema strappa via l’uomo dalle catene delle cose in sé e dal loro influsso che finora, in tutti i sistemi filosofici, lo legavano in misura maggiore o minore» (Secondo abbozzo di lettera a J.I. Baggesen (?) dell’aprile/maggio 1795, in GA, III, 2, p. 300). È interessante notare che, a differenza del primo abbozzo della medesima lettera (ib., pp. 297-99), in questo secondo, dopo «finora in tutti i sistemi filosofici», viene eliminata l’aggiunta: «perfino in quello kantiano» (p. 298). M. Gueroult rafforza ulteriormente e consapevolmente il paradosso che in sede fichtiana caratte-

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Il dubbio espresso negli Aforismi circa la derivazione spuria del concetto kantiano di libertà è ora cancellato e la certezza acquisita in relazione alla libertà del volere consente di vedere sotto una luce totalmente diversa anche il concetto di dovere. Libertà e dovere, nel loro indissolubile, reciproco implicarsi quali elementi costitutivi della legge morale, consentono di apprezzare, come prima non sarebbe stato possibile, il valore e la dignità umani. Se la fredda speculazione poteva soddisfare l’orgoglio della ragione nel suo compiacersi della propria autosufficienza, ora è l’uomo nella sua interezza che risulta degno di rispetto. E se una morale basata sulla necessità delle azioni umane svuota di significato il sacrificio di una scelta virtuosa e conforme al dovere, la morale kantiana ha invece conferito al dovere una maestà e un prestigio che, a giusto titolo, possono essere rivendicati come merito di colui che agisce. Anche la fede di Fichte nella provvidenza divina, che lasciava inindagate le modalità secondo cui l’agire dell’uomo si accorda con la direzione che quella segretamente gli imprime, conosce un diverso destino e cessa di essere un problema. L’assoluta libertà della volontà umana, messa in luce da Kant, spazza via anche la necessità di una simile spiegazione e all’uomo viene rivendicato l’onore, ma anche l’onere, di ciò che fa, essendo sua la responsabilità, e quindi l’imputabilità delle azioni che compie. Il messaggio di Kant, che Fichte definisce rivoluzionario, non lo è solo nel senso che muta totalmente la sua precedente concezione filosofica, ma anche in vista della portata dei cambiamenti che provocherà nella vita degli uomini. Quanto al suo precedente sistema, Fichte non ne nega l’indubbio fascino e la capacità di attrazione in forza della rizza il rapporto libertà-sistema già nel titolo del suo intervento commemorativo per il Bicentenario della nascita di Fichte, che suona: La Wissenschaftslehre comme système nécessaire de la liberté, in «Bulletin de la Societé française de Philosophie: Séance du 4 mai 1963», pp. 58-78, ora in Id., Etudes sur Fichte, Aubier-Montaigne, Paris 1975, pp. 1-15.

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sua coerenza, ma è piuttosto la sua incapacità di rispondere alle esigenze del cuore a venire ora in primo piano. Se il determinismo sembra avere buon gioco nel far prevalere le esigenze della ragione su quelle del sentimento, quest’ultimo non cessa di segnalare il suo disagio nella forma della mancata adesione del cuore alle conquiste e ai risultati cui approda la speculazione, mantenendo vive le sue motivazioni specifiche. Alla luce della prospettiva aperta da Kant, viene ridimensionata la forza di convinzione del determinismo, che è ora confrontata con le esigenze, rivelatesi anch’esse sostenibili sul piano concettuale, della libertà umana e della legge morale. La precedente superiorità sul piano razionale, che Fichte attribuiva al determinismo, gli si è ora rivelata basata su un inganno; e se egli stesso se ne è liberato come da una consequenzialità solo formale e apparente, moltissimi ne sono invece ancora vittime. Nei confronti di coloro che «sentono» l’inadeguatezza del determinismo, ma non sono in grado di dimostrarla con argomenti razionali, Fichte rivolge l’invito energico a far valere le sollecitazioni del cuore. Ed è così convinto dello spostamento di piani che è intervenuto, da chiedere perfino scusa alla fidanzata per avere egli stesso, in un passato ancora recente, ragionato solo con fredda razionalità e considerato del tutto irrilevanti le motivazioni provenienti dalla sfera del sentimento. A Maria Johanne Rahn scrive, all’inizio di settembre 1790: «Chiedo anche a te di perdonarmi per averti spesso indotta in errore con simili affermazioni […]. In futuro, presta fede solo al tuo sentimento, anche se non dovessi essere in grado di confutare i sofisti (Vernünftler); essi devono anche essere confutati e lo sono già; evidentemente non capiscono ancora la confutazione!»61. L’accettazione dei 61 Lettera

a Maria Johanne Rahn del 5 settembre 1790, cit., p. 171. Nel contesto Fichte riconosce all’amico Achelis il merito di avere avuto ragione in relazione al tema della libertà umana, anche se questi non era in grado di esplicitarne il perché. Il riconoscimento delle esigenze

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princìpi del determinismo comporta conseguenze che appaiono ora deleterie sul piano pratico, e Fichte constatata con rammarico l’intristirsi del destino individuale cui è andato soggetto un suo caro amico che, avendo da lui mutuato quei principi, peraltro non compresi fino in fondo, e avendoli successivamente modificati, ha esposto la sua vita alla confusione e al disorientamento, fino a perdere la fede62. Lo studio di Kant procede con febbrile determinazione e Fichte apprezza sempre più l’alto messaggio morale del suo pensiero, innalzando la sua ammirazione crescente per il filosofo, fino a fargli maturare la decisione, carica di conseguenze importanti per il suo futuro personale e accademico, di recarsi da lui all’indomani della sfortunata trasferta a Varsavia.

del cuore non va, però, inteso come una rinuncia alla ragione, il cui ruolo resta invece salvaguardato da Fichte anche in questo periodo. Allo stesso modo, non può essere assolutizzato l’influsso che su di lui esercita il pensiero di Kant, come se dopo averlo conosciuto, Fichte fosse diventato un suo «pedissequo imitatore». In tal caso, verrebbe trascurato e considerato inessenziale tutto quanto Fichte aveva faticosamente conquistato negli anni della formazione scolastica e universitaria. Entrambe queste opposte unilateralità sono segnalate da C. De Pascale in relazione all’interpretazione di R. Preul, Reflexion und Gefühl, cit., nel saggio, Fichte und die Aufklärung, in C. De Pascale, E. Fuchs, M. Ivaldo, G. Zöller (hrsg.), Fichte und die Aufklärung, Olms, HildesheimZürich-New York 2004, pp. 20-21. La cautela metodologica che si impone all’interprete deve tradursi in un atteggiamento in grado di ricondurre in un ambito unitario, anche se attraversato da forti tensioni, le spinte diverse o divergenti presenti nel pensiero di Fichte, che vanno valutate nel loro reciproco rapporto e non assolutizzate. 62 «Come siano tristi i princìpi che avevo prima lo vedo, tra l’altro, nell’esempio di un mio carissimo amico che, molto tempo fa li accettò da me senza poterli comprendere completamente e che, attraverso quei princìpi, è stato condotto ad altri che non erano i miei e che nemmeno derivano necessariamente da essi. Attualmente egli non è felice e non trova consolazione alcuna in sé, poiché è un miscredente» (ibidem).

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6. L’incontro personale con Kant e il Saggio di una critica di ogni rivelazione Il viaggio in Polonia, conseguente all’accettazione di un posto da precettore presso la famiglia von Plater di Varsavia, ebbe un esito rapidamente catastrofico per Fichte, il cui francese suonava troppo tedesco all’orecchio delicato della baronessa, alla quale il giovane filosofo non fece, peraltro, una buona impressione, e non soltanto a causa della lingua63. Risolto in modo rapido e anche economicamente vantaggioso lo spiacevole episodio, Fichte si trovò a dover scegliere una nuova destinazione, senza avere al riguardo molte alternative, e nemmeno idee chiare. Decise, allora, di recarsi a Königsberg per incontrare il filosofo che più di ogni altro aveva segnato la sua evoluzione culturale64. Se la frequenza delle lezioni di Kant suscitò in lui piuttosto delusione, per il tono «sonnolento» e per la monotonia che caratterizzava l’espressione del grande vecchio, già indebolito dall’età65, la 63 Fichte

scrive ironicamente a F.A. Weißhuhn che per «Madame dovevo essere un francese, ma io ero tedesco» (lettera dell’11 ottobre 1791, ib., p. 266). Per la vivace descrizione della breve, ma movimentata permanenza a Varsavia, cfr. J.G. Fichte, Tagebuch meiner Osterabreise aus Sachsen nach Pohlen, u. Preussen (1791), in GA, II, 1, pp. 410 sgg. In tutt’altro contesto e qualche anno dopo, Fichte riconoscerà che le proprie conoscenze del francese non sono sufficienti per poterlo utilizzare come lingua abituale di conversazione (cfr. l’abbozzo di lettera a Baggesen (?) dell’aprile/maggio 1795, in GA, III, 2, p. 301). 64 Nel presentare all’ex compagno di studi a Pforta, Gottlob Sonntag, i motivi della sua decisione di recarsi a Königsberg, Fichte definisce la città come il ricettacolo dell’erudizione, e luogo di residenza di «Kant, orgoglio dello spirito umano» (Lettera del 7 luglio 1791, in GA, III, 1, p. 250). Un quadro efficace dell’apparire di Fichte a Königsberg è fornito da Th. v. Schön nella sua Selbstbiographie, citata in Fichte in vertraulichen Briefen seiner Zeitgenössen, hrsg. v. H. Schulz, H. Haessel Verlag, Leipzig 1923, pp. 1-2. 65 «Le sue lezioni non sono così utili come i suoi scritti. Il suo debole corpo è stanco di albergare uno spirito tanto grande. Kant è già molto cagionevole e la memoria comincia ad abbandonarlo» (cfr. lettera a

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frequentazione personale con lui gli restituì in pieno la figura carismatica che le opere gli avevano consegnato66. Nel tentativo di ottenere la fiducia e la stima di Kant, si determinò a scrivere un saggio ispirato alla sua filosofia e, in poche settimane, poté offrirlo alla sua valutazione. Si tratta, com’è noto, del Saggio di una critica di ogni rivelazione67, che Kant lesse in minima parte, ricavandone però una buona impressione68. Fu questo scritto che Kant propose per la stampa al suo editore, rispondendo così in modo indiretto alla richiesta di un aiuto finanziario che Fichte, con estremo imbarazzo, era stato costretto ad avanzargli in una lettera dai toni toccanti, avendo esaurito il gruzzolo ottenuto a Varsavia e trovandosi perciò in grave necessità69. Le vicende connesse con la pubblicazione dell’opera furono abbastanza complicate, giacC.F.G. Wenzel, successiva al 4 luglio 1791, in GA, III, 1, p. 243). Il primo incontro con Kant avvenne il 4 luglio, come Fichte annota nel suo citato Tagebuch, p. 415. 66 Cfr. ibidem, dove alla data del 26 agosto si legge: «pranzato da Kant […]. Ho trovato in Kant un uomo molto gradevole». 67 Versuch einer Kritik aller Offenbarung (1792). Com’è noto, il successo dell’opera portò a una seconda edizione, che apparve per la fiera di Pasqua del 1793. Tale edizione è presentata come «accresciuta e migliorata», e conta due nuovi paragrafi e alcune aggiunte. Sul rapporto del testo fichtiano con il pensiero di Kant e, in particolare, con la sua parte pratica, cfr. G. Rotta, Il «Saggio di una critica di ogni rivelazione» di J.G. Fichte e la filosofia pratica di Kant, «Studi kantiani», III, (1990), pp. 63-89. Un’analisi articolata e approfondita di quest’opera giovanile di Fichte, attenta a segnalare le affinità ma anche le divergenze da Kant, è offerta da M. Ivaldo, Filosofia e religione. Attraversando Fichte, La scuola di Pitagora editrice, Napoli 2016, pp. 85-126. Cfr. anche R. Picardi, Progetto di sistema e concezione etica nel primo Fichte. Dal “Versuch einer Kritik aller Offenbarung” alla Praktische Philosophie, in «Annali dell’Istituto Italiano di studi storici», XVI (1999), pp. 363-425. 68 Si tratta di circa 8 pagine appena. Chi aveva letto quasi interamente lo scritto è il pastore L.E. Borowski (1740-1831), allievo, amico e biografo di Kant, del cui giudizio Fichte non aveva, però, molta considerazione (cfr. la citata lettera a F.A. Weißhuhn, p. 268). 69 Cfr. lettera di Fichte a Kant del 2 settembre 1791, in GA, III, 1, pp. 260-64.

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ché intervenne a bloccarla perfino la censura70 e, quando finalmente l’opera vide la luce, non portava l’indicazione del nome dell’autore. Che si fosse trattato di errore o calcolo da parte dell’editore71, in ogni caso fu questa la circostanza che segnò il destino del libro e, con esso, del suo giovane autore. L’argomento dell’opera, il tono e la terminologia di ispirazione kantiana, il fatto che molti, dopo le tre Critiche, attendessero un’opera di Kant dedicata alla religione, la pubblicazione presso Hartung, che era l’editore di Kant, furono altrettanti elementi che spinsero buona parte dei lettori e dei critici a credere che si trattasse proprio dell’opera di Kant tanto attesa e come tale fu valutata72. I giudizi lusinghieri pronunciati su di essa, pensando che si dovesse alla penna di Kant, non poterono, poi, essere ri70 Fichte

ne ha notizia da una lettera di Johann Friedrich Schultz (1739-1805), del 18 gennaio 1792 (cfr. GA, III, 1, p. 284) e, a sua volta, la comunica al Th. von Schön il 23 dello stesso mese: «[…] nel frattempo ho ricevuto la singolare notizia che la stampa della mia Critica è stata proibita dalla Facoltà di teologia di Halle» (ib., p. 279). Sulle circostanze che portarono alla censura cfr. il Vorwort dei Curatori del Versuch, GA, I, 1, pp. 8-10. 71 L’omissione del nome dell’autore e quella, concomitante, della Prefazione di Fichte, nella quale egli dichiarava di non riconoscersi ancora un livello di maturità che gli consentisse di presentare l’opera come più che un “saggio”, ciò che avrebbe certamente sviato da Kant ogni sospetto di paternità, sembrano elementi sufficienti a far pensare che si sia trattato di una scelta deliberata da parte dell’editore piuttosto che di una svista. Di questo avviso è M.M Olivetti, nella sua Introduzione alla traduzione italiana del Saggio di una critica cit., pp. IX-XI; cfr. anche il Vorwort dei Curatori del Versuch, GA, I, 1, p. 10. 72 A questo proposito si può ricordare il giudizio di Reinhold, il quale, sebbene riconosca la presenza di «prolissità, ripetizioni e altre trascuratezze», che gli impedirebbero di attribuire «interamente» a Kant il libro (ma «l’idea, il progetto e la massima parte dell’effettiva esecuzione sono sicuramente sue»), tuttavia egli ascrive quei difetti all’avanzata età dell’«impareggiabile grand’uomo» e alla conseguente fretta nel licenziare il Saggio. L’impressione su di lui è stata, comunque, straordinaria (cfr. lettera di Reinhold a Baggesen del 22 giugno 1792, in Fichte in vertraulichen Briefen seiner Zeitgenossen, cit., pp. 3-4).

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trattati quando Kant stesso intervenne per dichiarare pubblicamente che l’autore del Saggio era il «Candidat der Theologie Hr. Fichte»73 e così, in brevissimo tempo e grazie anche a un fortunato (o provocato) disguido, egli si trovò di colpo a essere famoso presso il pubblico filosofico di tutta la Germania74. Alla ferma aspirazione di Fichte a raggiungere la notorietà, e con essa, la capacità di influenzare la vita culturale del proprio tempo, di «pagare – com’egli amava dire – il suo posto tra gli uomini mediante le azioni»75, si aprivano, così, improvvise quanto lusinghiere prospettive. Si sa che Fichte stesso non era molto entusiasta di questa sua opera e che ha pronunciato su di essa valutazioni severe76, ma l’avere superato il giudizio della massima autorità filosofica dell’epoca e lo stato di bisogno che lo spingeva a non rifiutare il provvidenziale compenso dell’editore, lo avevano indotto a pubblicarla. Si sa che non tutti i giudizi sull’opera furono positivi e che particolarmente brucianti, perché toccavano la sua dignità di uomo e di studioso, furono per Fichte le accuse contenute nella recensione apparsa nel secondo volume del 1793 della «Neue allgemeine Deutsche Bi73 La dichiarazione di Kant, fatta per dissipare ogni dubbio sulla paternità del Saggio, è datata Königsberg, 31 luglio 1792 e fu pubblicata nell’Intelligenzblatt n. 102 della «Allgemeine Literatur-Zeitung» del successivo 22 agosto. 74 Il Saggio, dopo l’improvvisa notorietà ottenuta per Fichte, fu ben presto dimenticato, sicché, «a voler cercare, nella storia, il contrappasso, si dovrebbe concludere che questo scritto fichtiano ha pagato l’iniziale successo con un oblio che si è protratto fin quasi ai nostri giorni» (C. Cesa, Le origini dell’idealismo tra Kant e Hegel, Loescher, Torino 1981, p. 79, dove vengono indicate anche le ragioni di tale prolungato oblio). 75 Frammento di lettera a Maria Johanne Rahn del 5 marzo 1793, in GA, III, 1, p. 375. 76 Circa l’insoddisfazione espressa più volte da Fichte per il suo scritto, Olivetti la spiega e relativizza la portata delle affermazioni autocritiche, mostrando che esse sono anche funzionali a confermare «la validità delle posizioni successivamente e progressivamente guadagnate» (M.M. Olivetti, Introduzione alla traduzione italiana del Saggio di una critica di ogni rivelazione, cit., p. XXI).

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bliothek». L’autore imputava a Fichte di aver deliberatamente scelto l’anonimato, per provocare l’attribuzione dell’opera a Kant, del quale avrebbe imitato «il metodo, la terminologia, l’espressione e la struttura del periodo», riuscendo ad essere «estremamente ingannevole»77. Inoltre, poiché Fichte ha, a detta del recensore, accuratamente evitato qualsiasi cenno che potesse risvegliare il sospetto che l’opera non fosse di Kant, l’A. insinua che Fichte non abbia fatto sul serio con la sua opera, ma abbia solo voluto mettere alla prova la capacità del pubblico di distinguere, dalle vere opere di Kant, ciò che invece ne imitava solo la terminologia e lo stile78. 77 Versuch einer Kritik aller Offenbarung, Königsberg, 1792. im Verlag der Hartungschen Buchhandl. 182 Seiten, in «Neue allgemeine Deutsche Bibliothek», 2. Bd., 1. Stück, 1-4 Hefte, Kiel 1793, p. 43. La lunga recensione (pp. 3-48) apparve anonima, ma Fichte era sicuro che l’autore fosse il medesimo dell’Enesidemo e suo compagno di studi a Pforta e, successivamente, a Wittenberg, G.E.L. Schulze (cfr. la lettera di Fichte a G. Hufeland dell’8 marzo 1794, in GA, III, 2, p. 81, dove peraltro Fichte confessa di non essere contento della sua recensione all’Enesidemo che, a mente fredda, avrebbe preferito fosse più indulgente). Sulla paternità della recensione al Versuch fichtiano, cfr. il citato Vorwort dei Curatori, p. 13. 78 Cfr. ibidem. Paradossalmente, la diagnosi che tende a demolire l’opera di Fichte s’incontra, in questo caso, con quella tesa al motivo opposto e formulata da Schelling in una lettera a Hegel, nella quale egli non esclude che alla base della composizione dell’opera ci sia un intento satirico. Nel difendere Fichte dall’accusa di Hegel di avere, con la sua Critica di ogni rivelazione, dato una mano ai teologi dogmatici, Schelling ipotizza, infatti, che Fichte lo abbia fatto per spirito di accomodamento «o per divertirsi anche lui con la superstizione e intascare sorridendo il grazie dei teologi» (Lettera di Schelling a Hegel del 4 febbraio 1795, in G.W.F. Hegel, Briefe von und an Hegel, hrsg. v. J. Hoffmeister, Bd. I: 1785-1812, Akademie-Verlag, Berlin 1970, p. 21; tr. it. (Epistolario), a cura di P. Manganaro, vol. I: 1785-1808, Guida, Napoli 1983, p. 115). Sui motivi che spingono Schelling ad attenuare le responsabilità di Fichte, cfr. C. Cesa, La filosofia politica di Schelling, Laterza, Bari 1969, p. 62, n. 23. Sulla diversa valutazione dell’opera fichtiana da parte di Hegel e di Schelling, cfr. l’Introduzione di G. Semerari alla sua citata traduzione italiana delle Lettere filosofiche su dommatismo e criticismo di Schelling, pp. 15-16.

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Queste accuse, che per Fichte hanno il sapore della diffamazione, sono precedute da una critica demolitrice, attenta a evidenziare l’insostenibilità delle dimostrazioni presentate da Fichte, e sono seguite da osservazioni che additano la contraddizione tra le posizioni fichtiane e i princìpi della filosofia kantiana. A conclusione, e come sigillo dell’incompatibilità del Saggio di una critica di ogni rivelazione con il pensiero di Kant, il recensore adduce una citazione di Kant, da cui dovrebbe emergere che questi non avrebbe mai potuto scrivere il Saggio recensito, a meno di un cambiamento radicale nel suo modo di pensare, inspiegabile nel giro di soli due anni79. Lo scopo dichiarato dello scritto fichtiano è quello di stabilire i princìpi generali che rendono razionalmente sostenibile la possibilità della rivelazione, visto che essa è presente in tutti i popoli, anche se in maniera più o meno raffinata sul piano concettuale. Non si tratta, dunque, di giustificare la rivelazione di una religione particolare, il cristianesimo ad es., ma di esporre le condizioni di possibilità della rivelazione in quanto tale80. La via scelta a tal fine è quella offerta 79 Cfr. Recensione al Versuch, cit., p. 47. La citazione in questione è tratta da I. Kant, Kritik der Urtheilskraf, Ak. Ausg. V, p. 441; tr. it. (Critica del giudizio) di A. Gargiulo, riv. da V. Verra, Laterza, Roma-Bari 1982, p. 341. C’è da osservare che Kant, nel passo in riferimento, parla della illegittimità di determinare teoreticamente qualcosa sulla natura e sull’intelletto divino, ma Fichte dichiara ripetutamente, nel Saggio, di basarsi sulla facoltà pratica e di non presumere di esporre conoscenze teoretiche, aventi, cioè, validità oggettiva; cfr., in proposito, la lettera a Hufeland del 28 marzo 1793, in GA, III, 1, pp. 377-80, dove Fichte esprime tutta la sua indignazione nei confronti del recensore e fa allusione alla «noticina» introdotta in occasione della seconda edizione, nella quale ripete che la sua deduzione della rivelazione ha un valore solo soggettivo e non oggettivo (cfr. Versuch einer Kritik cit., p. 48) (41). 80 Gli esempi che Fichte adduce nel corso dell’opera sono, tuttavia, riferiti tutti solo alla religione cristiana. Un utile inquadramento dell’opera nello svolgimento spirituale di Fichte e un’efficace esposizione del suo contenuto sono offerti da H.J. Verweyen nella sua Einleitung a J.G. Fichte, Versuch einer Kritik aller Offenbarung (1792), herausgegeben u. eingeleitet v. H.J. Verweyen, Meiner, Hamburg 1798, pp. VII-LXXII.

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dalla Critica della ragion pratica, che ha accertato la presenza in noi della legge morale, il cui fine ultimo è la realizzazione del sommo bene, inteso come unione sintetica di virtù e felicità. Questa coincidenza può aver luogo soltanto in un essere il cui agire sia ispirato unicamente dalla legge morale, con rigorosa esclusione di ogni elemento proveniente dalla sensibilità, ciò che non consente di considerare quello scopo come raggiunto o raggiungibile da un ente razionale finito quale noi siamo. Nel nostro caso, infatti, il ruolo della sensibilità non può essere annullato e, in relazione a tale aspetto della nostra natura, non siamo in grado di determinare le leggi che la governano. Il sommo bene è allora rimesso alla condizione che le due legislazioni, tra loro diverse e indipendenti (quella che fa capo alla causalità naturale e quella che attiene alla causalità per libertà), siano conciliate81. A tal fine è necessario pensare un essere razionale che, a differenza di noi, abbia il dominio anche sulla legalità di carattere fisico, un essere che «non solo sia esso stesso indipendente dalla natura sensibile, bensì tale che questa, piuttosto, dipenda da lui»82. A sua volta, la natura di tale essere sarà determinata dalla legge morale, sicché la natura di Dio (è di Dio, infatti, che si sta parlando), sarà pienamente coincidente con la legge morale83. Con un passaggio che non mancherà di suscitare critiche, Fichte dichiara che si tratta del «Dio immediatamente ammesso con l’ammissione della possibilità dello scopo finale della legge morale»84. 81 Su

questa esigenza, presente nel Versuch einer Kritik, e sul ruolo della terza Critica kantiana, rivolta all’individuazione dell’unità di sensibile e metasensibile, cfr. M. Ivaldo, I princìpi del sapere. La visione trascendentale di Fichte, Bibliopolis, Napoli 1987, pp. 61-62. 82 Versuch einer Kritik cit., p. 20 (8); cfr. anche pp. 70-72 (64-66). 83 Sul rapporto tra religione e morale nel Versuch, cfr. l’approfondita analisi di G. Rotta, La “Idea Dio” cit., pp. 79-121. 84 Cfr. Versuch einer Kritik, cit., p. 20 (8). È noto che contro l’idea di un Dio morale si rivolgeranno le critiche, perfino irridenti (in partico-

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A Dio vengono riconosciuti gli attributi di totalmente santo, totalmente beato, onnipotente, totalmente giusto, onnisciente, eterno, nonché la funzione di legislatore, sulla base della perfetta congruenza della sua natura con la legge morale85. Proprio in relazione a quest’ultimo carattere, di essere, cioè, in quanto Dio morale, anche legislatore morale, Fichte riconosce che ha luogo una alienazione: «L’idea di Dio come lare nella prima Lettera), del giovane Schelling delle Lettere filosofiche su dogmatismo e criticismo. Tuttavia egli evita di riferirsi a Fichte, chiamando in causa «certi interpreti» del criticismo che non hanno compreso che, nel criticismo, l’idea di Dio «è posta non come oggetto di verità, ma solo come oggetto dell’agire» (F.W.J. Schelling, Philosophische Briefe cit., p. 54) (9). 85 Cfr. Versuch einer Kritik cit., pp. 20-23 (8-11). Hegel, come si è accennato, troverà che Fichte, proprio con quest’opera, ha dato una mano agli interpreti dogmatici di Kant, che utilizzano la Critica della ragion pratica al fine di disattendere i limiti scoperti e fissati dalla prima Critica. Egli riconosce che Fichte stesso «ne fa un uso moderato», ma «una volta che i suoi princìpi sono stati fermamente ammessi, non è più possibile porre alcun termine e argine alla logica teologica», reintroducendo così «nella dogmatica il vecchio genere di prove» (Lettera di Hegel a Schelling di fine gennaio 1795, in G.W.F. Hegel, Briefe von und an Hegel, cit., p. 17) (110). Il rilievo di Hegel sconta, forse, una sottovalutazione della cautela che Fichte richiede al suo lettore e che, non a caso, pone in nota all’inizio del § 2, aggiunto, come si sa, in occasione della seconda edizione: «Se qui ci esprimiamo categoricamente e in seguito con la terminologia della necessità, con ciò non vogliamo affatto dare per oggettivamente valide e necessarie in sé le nostre asserzioni» (Versuch einer Kritik cit., p. 19) (7). Hegel cita per la prima volta questo scritto in uno dei frammenti da Nohl considerati preparatori dello scritto da lui intitolato Religione popolare e cristianesimo, pubblicato ora come testo 12, in G.W.F. Hegel, Gesammelte Werke, Bd. 1, (Frühe Schriften I), hrsg. v. F. Nicolin u. Gisela Schüler, Meiner, Hamburg 1989, pp. 75-77, il riferimento a Fichte è a p. 75; tr. it. (Scritti giovanili) a cura di E. Mirri, Orthotes, Napoli-Salerno 2015, pp. 113-15, p. 113). Sulla sua recezione del fichtiano Saggio di una critica, cfr. C. Lacorte, Il primo Hegel, La Nuova Italia, Firenze 1959, pp. 217-35; E. Mirri, La presenza della Critica di ogni rivelazione negli Scritti teologici giovanili di Hegel, in Filosofia trascendentale e destinazione etica. Indagini su Fichte, a cura di A. Masullo e M. Ivaldo, Guerini e Associati, Milano 1995, pp. 401-418.

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legislatore della legge morale in noi si fonda su un’alienazione di ciò che è nostro, sul trasferimento di qualcosa di soggettivo in un essere fuori di noi, e siffatta alienazione è il vero principio della religione, nella misura in cui questa debba essere utilizzata per la determinazione della volontà»86. L’impatto che hanno su un lettore contemporaneo la frase appena citata e il termine «Entäußerung», «alienazione», come trasferimento di proprietà nostre a «un essere fuori noi» è innegabile, prestandosi ad essere intesa come una formulazione anticipatrice delle posizioni di Feuerbach87. A scoraggiare tale impressione vale, innanzitutto, l’intero pensiero di Fichte, che avrebbe svolto quell’idea in maniera ben diversa se l’avesse pensata nel senso che, dopo mezzo secolo, le conferirà Feuerbach e, dopo oltre due secoli, le daremmo noi. Ma c’è un altro argomento, questa volta interno al passo citato, che indica il senso che Fichte intende conferire alla sua frase e che ha a che fare con il termine Übertragung, il cui uso «tecnico» sarà frequente nelle Eigne Meditationen e il cui significato consiste, in quel contesto, nel conferimento di realtà al lato oggettivo della rappresentazione. Così come in tal caso si crede nella realtà esterna di ciò che viene rappresentato, allo stesso modo il trasferire attributi nostri a Dio produce la fede nella sua esistenza, che non significa affatto dimostrarla teoreticamente88. Quanto al concetto di rivelazione in senso stretto, Fichte si trova a dar conto, in ultima istanza, della possibilità di superare il contrasto tra la dimensione spirituale, e quindi so86 Versuch

einer Kritik, cit., p. 33 (23). al riguardo la nota di M.M. Olivetti alla sua traduzione del Saggio di ogni rivelazione, cit., p. 23, e il rinvio a p. XXVIII della sua Introduzione. Cfr. anche G. Rametta, Fichte, Carocci, Roma 2012, pp.1516, per il quale «l’alienazione fichtiana è, […] conformemente al termine tedesco, più un’esternalizzazione che un’estraneazione» (ib., p. 16). 88 Sul significato di übertragen, su cui ci soffermeremo in seguito, cfr. intanto le utili indicazioni fornite da C. Cesa, J.G. Fichte e l’idealismo trascendentale, cit., pp. 213-215; sul medesimo tema, in riferimento alle Eigne Meditationen, cfr. ib., p. 49. 87 Cfr.

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prannaturale, e quella del mondo sensibile. In tale occasione si riproduce inevitabilmente il problema del rapporto tra divino e umano, e non è un caso che torni in primo piano la questione delle modalità della comunicazione della rivelazione, così come quello della possibilità del passaggio tra i due mondi. In proposito, va ricordato che Fichte, malgrado formulazioni a volte apparentemente dogmatiche, mantiene la sua fedeltà all’impianto critico, riconoscendo in modo inequivoco l’impossibilità di accedere alla conoscenza del mondo sovrasensibile: «Ciò che la critica rendeva vano dal lato della ragione affidata a sé stessa – vale a dire un passaggio al mondo sovrasensibile – non ce lo possiamo aspettare neanche dalla rivelazione; dobbiamo invece rinunciare a questa speranza di una conoscenza determinata del mondo sovrasensibile. Rinunciarvi del tutto, per sempre e qualunque ne sia la fonte»89. Tale definitiva rinuncia riguarda, però, solo la pretesa estensione della conoscenza teoretica al mondo sovrasensibile, ma non comporta – ciò che sta particolarmente a cuore a Fichte – la negazione della possibilità e della razionalità della rivelazione, lasciando alla fede l’ultima parola al riguardo.

7. Gli scritti di carattere politico Si è avuto modo di constatare che agli interessi religiosi e filosofici Fichte affianca un’attenta valutazione dei fenomeni culturali e delle tendenze della società a lui contemporanea. Dedicato espressamente a incidere sulla coscienza dei suoi concittadini è la Zürückforderung der Denkfreiheit, pubblicato in occasione della fiera di Pasqua del 179390. Lo scritto è 89 Versuch

einer Kritik cit., p. 81 (76). der Denkfreiheit von den Fürsten Europens, die sie bisher unterdrückten. Eine Rede, in GA, I, 1, pp. 167-92 (in seguito: Zurückforderung); tr. it. (Rivendicazione della libertà di pensiero dai prìncipi dell’Europa che l’hanno finora calpestata. Discorso), in Id., Sulla rivoluzione francese e sulla libertà di pensiero, a cura di V.E. Alfieri, Laterza, Bari 1966, pp. 1-39. 90 Zurückforderung

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un’appassionata difesa della libertà di pensiero, ma con essa, e come entrambe costitutive essenziali della natura umana, della libertà in generale e della libertà di ricerca in particolare. Il motivo contingente che lo ispira è dato dall’editto del Wöllner del 1788 sulla religione, che reintroduceva la censura in Prussia, impediva la libera manifestazione del pensiero e i cui effetti Fichte aveva potuto sperimentare direttamente nei confronti del suo Saggio di una critica di ogni rivelazione91. Gli interpreti più acuti della filosofia kantiana avevano ben presto compreso quale svolta epocale essa racchiudesse, non solo per il modo di pensare delle persone colte, ma anche per le ripercussioni di carattere generale che avrebbe avuto sul modo di vivere e di essere degli uomini. Fichte fu certamente tra i primi a valutare tale aspetto e a riconoscere le implicazioni rivoluzionarie di quella filosofia, davanti alla quale, una volta compresa, «il mondo stupirà»92. La fi91 Ricordo, en passant, che prima di dedicarsi all’accesa difesa della libertà di pensiero, per un breve periodo Fichte si era schierato a favore della censura, riconoscendo tuttavia che ciò appariva come una presa di posizione contro quelle personalità «che io, insieme con il pubblico, venero profondamente, e che sono quelle che hanno formato il mio spirito con i loro scritti […] Prendo partito contro uomini che sono stati miei maestri. Quando penso a loro, mi tornano in mente le ore felici nelle quali ho imparato, per la prima volta dai loro scritti, a pensare e a ricercare» (J.G. Fichte, Zuruf an die Bewohner der Preußischen Staaten veranlaßt durch die Freimüthigen Betrachtungen und Ehrerbietigen Vorstellungen über die neuen Preußischen Anordnungen in geistlichen Sachen (1792), in GA, II, 2, pp. 187-193, la citazione è a p. 189 e p. 191). 92 Lettera a Niethammer del 6 dicembre 1793, in GA, III, 2, p. 21. Qualche mese prima si poteva leggere il seguente apprezzamento di Kant da parte di Fichte: «O Gesù e Lutero, santi geni tutelari della libertà, […] presto si unirà a voi il terzo, che compì la vostra opera, che spezzò le ultime e più forti catene dell’umanità, senza che essa, senza che forse egli stesso lo sapesse. Noi lo piangeremo; ma voi gli mostrerete lietamente il posto che lo attende in vostra compagnia, e l’epoca che lo comprenderà e lo esporrà con chiarezza ve ne sarà grata» (J.G. Fichte, Beitrag zur Berechtigung der Urtheile des Publikums über die Französische Revolution, in GA, I, 1, p. 255; tr. it. (Contributi per rettifi-

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losofia kantiana, infatti, «eleva l’anima […]. Essa attualmente è ancora un seme di senape, ma diventerà e dovrà diventare un albero, che copra con la sua ombra (beschatte) l’intero genere umano. Essa deve dar vita a una specie nuova, più nobile e più degna»93. Kant è, per Fichte, un pensatore unico, che «è per me sempre più oggetto di meraviglia: credo cha abbia un genio che gli svela la verità, senza mostrargliene il principio»94. La presenza della legge morale, che rende ogni uomo cittadino di un mondo ideale, mentre sancisce in modo indiscutibile la libertà della sua volontà, riconduce all’interno di ogni soggetto la responsabilità delle proprie azioni. La dignità e il valore di ciascun uomo non sono più dipendenti da cause o ragioni esterne ed estranee alla sua essenza, ma fanno tutt’uno con essa; e così come a nessuno e in nescare il giudizio del pubblico sulla rivoluzione francese), in Id., Sulla rivoluzione francese cit., p. 115). Seppure non entusiasti fino a questo punto, anche il giudizio dei giovani Schelling e Hegel, che andavano formandosi nello spirito della filosofia kantiana e che condividevano (con differenti gradazioni) la spinta rivoluzionaria che Fichte le stava imprimendo, va nella medesima direzione, come testimonia anche il loro scambio epistolare tra la fine del 1794 e il 1795. Quanto all’interesse di Hegel per la filosofia di Kant, va forse ricordato che egli si dichiara poco entusiasta dei problemi di carattere teoretico relativi ai suoi princìpi, essendo piuttosto orientato a valorizzarne le ricadute di carattere pratico (cfr. la lettera a Schelling di fine gennaio 1795, in Briefe von und an Hegel, cit., p. 16) (109). Appare perciò utile integrare il giudizio di R. Lauth, secondo il quale Hegel porrebbe le idee di Kant sullo stesso piano di quelle dell’Illuminismo e che il suo interesse sarebbe nella mediazione tra esse (cfr. R. Lauth, Genèse du “Fondement de toute la doctrine de la science” de Fichte cit., p. 54). Sul tema specifico, e anche per sottolineare il diverso orientamento di Schelling rispetto a Hegel, cfr. L. Lugarini, Hegel dal mondo storico alla filosofia. Nuova edizione riveduta e con tre appendici, Guerini e Associati, Milano 2000, pp. 2756; G. Di Tommaso, La via di Schelling al “Sistema dell’idealismo trascendentale”, cit., pp. 11-24. 93 Lettera a Henriette Schütz del 15 gennaio 1794, in GA, III, 2, pp. 50-51. 94 Lettera a Stephani di metà dicembre 1793, ib., p. 28.

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sun caso è concesso di agire contro la natura umana, nessuno può comprometterla attentando alla libertà e all’autonomia morale, che ne costituiscono il nucleo più profondo95. La limitazione della libertà di pensiero, che la censura mette in atto, è un’operazione che minaccia manifestamente non un qualsiasi diritto, ma uno di quelli che Fichte definisce inalienabili, perché indivisibili dalla nostra essenza e la cui lesione costituisce immediatamente violazione della personalità e della razionalità di ogni uomo. L’apparente concessione operata dai difensori del potere politico e della censura, consistente nella sbandierata magnanimità del principe, che lascia che i sudditi pensino quel che vogliono ed esige soltanto che non lo dicano pubblicamente, costituisce un patetico e ingannevole paravento. Infatti, mentre alla possibilità di pensare liberamente ha già provveduto la natura, e perciò non abbiamo bisogno del permesso del principe per pensare quel che vogliamo, la limitazione della partecipazione agli altri di ciò che pensiamo è una ferita mortale proprio per la libertà di pensiero e di ricerca96. Se questa dev’essere 95 La radicalità con la quale Fichte rivendica l’autonomia di ogni uomo, perfino da Dio, si coglie già dalle prime batture della Zurückforderung. Rivolto ai popoli e ai sudditi del principe, egli scrive: «Voi lo sapete […] che non siete proprietà neppure di Dio, ma che egli ha impresso profondamente nel vostro animo, insieme con la libertà, il suo divino sigillo, di non appartenere, cioè, a nessun altro che a voi stessi» (Zurückforderung, cit., p. 172) (11). 96 «La libera indagine di ogni possibile oggetto della riflessione, in ogni possibile direzione e fino all’infinito, è senza dubbio un diritto dell’uomo. […] La ricerca all’infinito è […] un diritto inalienabile dell’uomo» (ib., 183) (26). Su questa convinzione di Fichte può aver influito la conoscenza del pensiero di Lessing, in particolare dello scritto Eine Duplik, del 1778, in cu si legge il celebre passo: «Il valore dell’uomo non sta nella verità che qualcuno possiede o presume di possedere, ma nella sincera fatica compiuta per raggiungerla. […] Il possesso rende quieti, indolenti, superbi. Se Dio tenesse nella sua destra tutta la verità e nella sua sinistra il solo desiderio sempre vivo della verità e mi dicesse: scegli!, sia pure a rischio di errare eternamente smarrito, io mi precipiterei con umiltà alla sua sinistra e direi: Padre, ho scelto; la pura

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garantita – e, che lo debba, scaturisce dal concetto della natura umana e dalla destinazione morale dell’uomo – allora, ciò che la compromette lede irreparabilmente la nostra natura e perciò non può essere accettato. Il principe, che rivendica la legittimità della censura, lo fa contro ogni diritto e contro l’inviolabile sacralità della nostra natura. Se io non ho la possibilità di accedere alle idee altrui, sono necessariamente limitato nella formazione del mio pensiero, poiché non dispongo di tutti gli elementi necessari a tal fine. Uno degli argomenti privilegiati dai partigiani della censura è che, senza un vaglio preventivo di ciò che viene pubblicato, si rischia di consentire la diffusione di errori gravi, che portano nocumento a coloro che, in buona fede, scambiano per verità quegli errori. Il principe si assume, in questi casi, il compito di evitare che cittadini probi e onesti siano trascinati nell’errore da chi ha interesse a diffondere menzogne e perfino a somministrare veleno al loro spirito. Chi fa simili affermazioni parte, però, dal presupposto che non solo ci sia una verità stabilita una volta per tutte, ma che egli stesso ne sia il depositario. Fichte mostra che il concetto di verità oggettiva non ha alcun senso sul piano teoretico97, mentre verità è per te soltanto» (G.E. Lessing, Eine Duplik, Buchhandlung des Fürstl. Waisenhauses, Braunschweig 1778, pp. 10-11). Che Fichte avesse potuto conoscere Lessing (i cui scritti, insieme a quelli di Goethe e Wieland, erano proibiti nella Scuola di Pforta), è testimoniato da I.H. Fichte, il quale ricorda che l’Anti-Göze (1788) gli era stato procurato da un giovane professore (cfr. I.H. Fichte, Fichtes Leben und litterarischer Briefwechsel, cit., I, pp. 22-23, 2a ed. (1862), p. 16). Indicazioni convincenti sul significato della scelta di Lessing nella Duplik, come rifiuto del concetto di una verità cristallizzata ed estranea all’attività dello spirito (in riferimento a Fichte potremmo dire: oggettiva), perciò inadatta alla finitezza umana, sono presenti in G. Duso, Contraddizione e dialettica cit., pp. 45-46. 97 Cfr. Zurückforderung, pp. 179 sgg. (20 sgg.). Nelle Eigne Meditationen, parlando della verità «interna» della filosofia elementare, Fichte aggiunge che «una verità esterna non ha luogo in essa e una simile verità, in linea di principio, non ha affatto luogo» (EM, p. 255).

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sul piano pratico è fin troppo facile vedere che, dietro l’asserito interesse del principe per il bene dei sudditi, c’è piuttosto l’inespresso quanto subdolo proposito di spacciare come verità nient’altro che la propria volontà98. Al principe Fichte ricorda che i sudditi si attendono da lui non bontà, ma giustizia e che a questo soltanto egli è tenuto. Anch’egli, come ogni altro cittadino, è soggetto alla legge e se, sotto quest’aspetto, c’è una differenza dai suoi sudditi, essa sta nel fatto che il principe, nell’esercizio della sua funzione, dev’essere la suprema garanzia del diritto, rispettandone per primo i limiti. Infatti, se è vero che «la legge deve dominare per mezzo del principe», è altrettanto vero che essa «deve dominare il principe stesso nella maniera più rigorosa»99. E proprio in funzione della posizione di particolare responsabilità del principe, Fichte si rivolge a lui con questa invocazione accorata, che in fondo è piuttosto un’intimazione: «Principe, tu non hai diritto di opprimere la nostra libertà di pensiero; e ciò che non hai diritto di fare, non devi mai farlo, quand’anche intorno a te i mondi dovessero precipitare e tu con il tuo popolo dovessi essere seppellito sotto le loro rovine»100. 98 «Vero è […] ciò che voi volete sia vero; falso è ciò che voi volete che sia falso» (Zurückforderung, p. 181) (23). 99 J.G. Fichte, Beitrag zur Berechtigung, cit., p. 369 (259). E ancora: «Il principe, in quanto principe, è una macchina animata dalla legge, senza la quale non ha vita» (ibidem). Sul significato, le implicazioni e le conseguenze di questa concezione del ruolo del principe e dello Stato nella prospettiva di Fichte, cfr. G. Rametta, Politik der Vernunft und Vernunftstaat bei Fichte (1793-1808), in Fichte und die Aufklärung, cit., pp. 229 sgg. 100 Zurückforderung, p. 187 (31). Forse a questa espressione di Fichte si riferisce (non senza ironia) Hegel nel c.d. Frammento di sistema (ora testi 63 e 64 dei GW), quando, caratterizzando l’incapacità della filosofia intellettualistica (e quindi anche di quella fichtiana) di unificare umano e divino, scrive che «è puramente accidentale quale lato scelga la coscienza dell’uomo, quello di temere un Dio che […] si libra onnipotente sopra ogni natura, oppure quello di porsi come puro io al

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Alle decise argomentazioni di carattere pratico, espresse con accenti pieni di partecipazione, si accompagnano nel testo indicazioni che hanno un rilievo anche teorico. Così, ad esempio, a proposito del carattere oggettivo che il principe pretende sia riconosciuto alla verità stabilita dalla censura, Fichte si avvale della distinzione kantiana tra fenomeno e cosa in sé, equiparando la verità così intesa alla concordanza delle nostre rappresentazioni con le cose in sé. Un tale tipo di verità non è, però, mai conseguibile e contraddice apertamente l’intelletto umano e di ogni ente finito, che può sì conoscere gli oggetti, ma solo in quanto siano sottoposti alle leggi della nostra facoltà conoscitiva, e non certo le cose in sé, che dovrebbero essere conosciute a prescindere da quelle leggi101. In un altro contesto, illustrando l’intimo legame tra la libertà di pensiero e la libertà di volere, entrambe costitutive dell’essenza dell’uomo, Fichte dice che la prima è «la condizione necessaria sotto la quale soltanto egli può dire: “Io di sopra del ruinare di questo nostro corpo e dei soli splendenti, al di sopra delle miriadi di corpi celesti e dei sistemi solari tante volte nuovi quanti siete voi, o soli splendenti» (G.W.F. Hegel, Frühe Schriften II, cit., pp. 347-48) (622). L’accenno di Hegel al puro io che si contrappone spavaldamente alla natura fa pensare all’Io fichtiano, che si è impossessato dell’eterno e che leva «orgogliosamente la testa verso le minacciose catene montuose, verso le portentose cascate e verso le nubi in subbuglio che si agitano in un mare infuocato», e che infine esclama «Io sono eterno e sfido la vostra forza» (J.G. Fichte, Einige Vorlesungen über die Bestimmung des Gelehrten, cit., p. 50) (267). 101 Questa posizione anticipa la liquidazione della cosa in sé che avrà luogo nella Recensione all’Enesidemo. Quanto alla «verità oggettiva nel senso più rigoroso della parola», essa contraddice in pieno l’intelletto umano (cfr. Zurückforderung, p. 179) (21); cfr. R.Lauth, Genèse du “Fondement de toute la doctrine de la science” cit., pp. 57 sgg., in partic. p. 58, dove l’A. rinvia a una formulazione parallela contenuta nel Neuer Entwurf für Beantwortung der Frage: Hat der Fürst ein Recht, die freye Untersuchung der Wahrheit auf irgend eine Art einzuschränken?, in GA, II, 2, p. 224. Sulle incertezze che caratterizzano la concezione fichtiana della verità in questo periodo, cfr. G. Duso, Contraddizione e dialettica cit., pp. 140 sgg.

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sono, Io sono un essere autonomo”»102. Come si vede, viene qui anticipata, nel significato che diventerà presto peculiare nel lessico fichtiano, quell’espressione «Io sono» che, nella sua pregnanza, racchiude l’essenza razionale e la volontà libera e autonoma della soggettività autocosciente. Interrogandosi, di lì a poco, circa l’origine della legge in base alla quale valutare la legittimità di una rivoluzione, Fichte fa ancora esplicito riferimento all’Io, aggiungendo qualche ulteriore dettaglio. La legge in questione, se deve avere un valore universale, deve basarsi su princìpi altrettanto universali e, non potendo essere desunta dall’esperienza, resta soltanto un unico «luogo» sicuro in cui cercarla, e cioè «senza dubbio nel nostro Io, poiché fuori di noi è impossibile incontrarla: e, si badi, nel nostro Io in quanto esso non è formato e modificato dalle cose esterne mediante l’esperienza […], bensì nella pura e originaria forma di esso; – nel nostro Io quale sarebbe senza alcuna esperienza»103. Il concetto di Io puro continua a precisarsi nel suo ruolo e nella sua funzione e l’intensa riflessione che Fichte compie su di esso gli farà presto trovare un’adeguata sistemazione. Quanto alla risposta alla domanda relativa alla legittimità della rivoluzione104, essa si basa su due pilastri essenziali: 102 Zurückforderung,

cit., p. 175 (15). Fichte, Beitrag zur Berechtigung cit., p. 219 (65). Si tratta di quel punto matematico, difficile da cogliere e da comunicare, in cui consiste, secondo l’espressione di uno scritto di poco posteriore, il «geheimste Heiligtum», il «santuario più segreto», il recesso più intimo e profondo dello spirito (J.G. Fichte, Über den Unterschied des Geistes und des Buchstabens cit., p. 318) (14). 104 Sul tema della legittimità della rivoluzione in questo testo fichtiano, cfr. le pertinenti osservazioni di G. Rametta, Fichte, cit., pp. 43-55. Sull’importanza decisiva della Rivoluzione francese come evento storico di portata straordinaria, cfr. l’ampio saggio di M. Gueroult, Fichte et la Révolution française, dove sono esaminati a fondo sia la Zurückforderung, sia il Beitrag. Gueroult sottolinea che l’apprezzamento per quell’avvenimento straordinario, mentre «interviene come fattore attivo» nella elaborazione del sistema fichtiano, è strettamente connes103 J.G.

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da un lato, la storicità di ogni costituzione politica, dall’altro, l’infinita perfettibilità dell’umanità, a sua volta fondata sulla progressiva, ma mai definitiva attuazione della legge morale. La costituzione rispecchia le condizioni storiche, politiche, economiche, culturali e perfino climatiche del popolo cui appartiene e, proprio per questo motivo, è soggetta al destino di tramonto, legato all’inevitabile mutare di quelle condizioni generali. Volerla difendere quand’essa si è isolata dallo spirito del tempo e del popolo, divenendo inattuale e non più rispondente alle nuove e mutate esigenze, è impresa non solo vana, ma pericolosa e dannosa. Fichte paragona la forza della rivoluzione a quella di eventi naturali che, al loro verificarsi, manifestano la furia e la forza della natura che, ostacolata, travolge tutto quanto trova sul suo corso105. Se un popolo spinge in modo giustificato per ottenere cambiamenti della costituzione politica divenuti ormai urgenti, chi detiene il potere agirebbe in modo irrazionale se si ostinasse a impedirli e a difendere lo stutus quo: in tal caso la furia repressa si accumula e, ad un certo punto, esplode con la violenza e la ferocia che hanno recentemente devastato e insanguinato la Francia. Il mezzo più adatto ad evitare che si verifichino gli orrori che una rivoluzione necessariamente comporterebbe, risiede nell’intelligenza di chi detiene il potere, e ciò non soltanto nel senso della capacità di comprendere quando sia giunto il so con il concetto che Fichte ha dell’agire. Per lui, infatti, agire è sempre agire concreto, rivolto alla trasformazione della natura, della società, del mondo reale e di quello ideale insieme (cfr. M. Gueroult, Fichte et la Révolution française, in «Revue Philosophique de la France et de l’Étranger», LXIV (1939), rispett. pp. 243 e 236-37; ora in Id., Etudes sur Fichte, Aubier-Montaigne, Paris 1975, rispett. pp. 169 e 162-63). 105 Così come il corso della natura, a lungo ostacolato, «irrompe violentemente e distrugge tutto ciò che trova sul suo cammino», allo stesso modo, quando si impedisce il progresso dello spirito umano, «l’umanità si vendica dei suoi oppressori nel modo più spietato e le rivoluzioni divengono necessarie» (Zurückforderung, p. 170) (7).

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tempo per i cambiamenti non più dilazionabili ma, e soprattutto, agendo in maniera preventiva, e cioè favorendo l’educazione e la formazione culturale dei cittadini. Fichte scrive che per impedire le rivoluzioni violente «c’è un mezzo sicurissimo, ma è l’unico: istruire a fondo il popolo sui suoi diritti e sui suoi doveri»106. Il contrasto con l’oscurantismo dispotico non potrebbe essere più netto: un potere politico intento a difendere i privilegi in cui vive e il cui unico fine è poterli conservare107, avrà tutto l’interesse a mantenere i cittadini nell’ignoranza dei propri diritti, poiché è proprio su tale ignoranza che si fondano quei privilegi. Se il principe volesse davvero promuovere il bene dei sudditi, favorirebbe il loro progresso culturale e la loro autonomia, e ciò si risolverebbe in un miglioramento vantaggioso anche per il principe, che governerebbe cittadini responsabili anziché sudditi disposti sì alla cieca obbedienza, ma molto simili ad animali addomesticati, dominati con il terrore e sempre pronti a ribellarsi.

8. Il tema del principio del sistema e la filosofia di Reinhold L’adesione entusiastica di Fichte alla filosofia kantiana e la serenità che essa gli aveva procurato, con la risposta fornita a domande che il sistema deterministico lasciava invece coesistere con l’insoddisfazione del cuore, non era tuttavia priva di qualche riserva, espressa, come si è già notato, per lo più in lettere private, «a quattr’occhi», come scrive a un amico: «Non sono molto soddisfatto dell’attuale condizione della filosofia critica. […] Secondo la mia intima convinzione, Kant ha solo accennato la verità, ma non l’ha né esposta, né dimostrata. Quest’uomo meraviglioso e unico o possiede una facoltà divinatoria della verità, senza essere egli stesso cosciente dei suoi fondamenti, oppure non ha stimato la sua 106 Beitrag

zur Berechtigung, p. 204 (45). stesso contesto Fichte avverte, però, che «non c’è alcun mezzo per difendere il dispotismo» (ibidem). 107 Nello

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epoca abbastanza per partecipargliela, oppure ancora, non ha avuto il coraggio di strappare in vita la venerazione sovrumana che prima o poi gli doveva essere tributata. Ancora nessuno lo ha compreso, meno di tutti quelli che credono di averlo compreso di più; e non lo capirà nessuno che non arrivi, per la sua propria strada, ai risultati di Kant»108. Kant «possiede la vera filosofia, ma solo nei suoi risultati, non nei suoi princìpi»109, così come afferma in un’altra lettera coeva: «Secondo la mia convinzione, Kant non ha esposto il sistema, ma lo possiede e sarebbe un compito [scoprire] se lo possiede con chiara coscienza, se ha un genio che gli dice la ve108 Lettera

a Niethammer del 6 dicembre 1793, cit., pp. 20-21. Sul tema dei princìpi e dei risultati della filosofia di Kant, Fichte si era espresso già all’inizio dello studio appassionato che le aveva dedicato, mettendone in evidenza la difficoltà «oltre ogni immaginazione […]. I suoi princìpi sono certamente speculazioni da capogiro, che non hanno alcun influsso diretto sulla vita degli uomini, ma le sue conseguenze sono straordinariamente importanti per un’epoca, la cui morale è corrotta fin nella sorgente. Credo che sarebbe un vantaggio per il mondo presentargli chiaramente queste conseguenze» (Lettera a J. Rahn del 5 settembre 1790, cit., p. 171). 109 Lettera a Stephani di metà dicembre 1793 cit., p. 28. Analoga osservazione si poteva leggere nei Beyträge di Reinhold, pp. 264-65; cfr. anche pp. 273-74, dove Reinhold tiene a precisare che non si tratta di un difetto imputabile a Kant, dal momento che egli non ha inteso fornire la scienza della facoltà rappresentativa o di quella conoscitiva. Per Reinhold, inoltre, la Critica della ragion pura doveva presupporre «tacitamente, ma in modo assolutamente necessario», i medesimi princìpi primi su cui si fonda la filosofia elementare (ib., pp. 335-36). Com’è noto, anche Schelling sarà dell’avviso che «Kant ha dato i risultati; mancano ancora le premesse. E chi può intendere i risultati senza le premesse?» (F.W.J. Schelling, lettera a Hegel del 6 gennaio 1795, in Briefe von und an Hegel, cit., p. 14) (107). Sulla recezione del pensiero di Kant da parte di Fichte e Schelling, cfr. il documentato saggio di C. De Pascale, La tenzone nel nome di Kant: gli esordi sistematici di Fichte e di Schelling, in «Philosophia». Bollettino della Società Italiana di Storia della Filosofia, II (1/2010), pp. 11-44; per il medesimo argomento si consenta di rinviare alla Introduzione a F.W.J. Schelling, Sulla possibilità di una forma della filosofia in generale, a cura di G. Di Tommaso, ESI, Napoli 2003, pp. 5-29.

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rità senza comunicargliene i fondamenti, o se ha voluto deliberatamente lasciare alla sua epoca il merito della ricerca autonoma e si è voluto accontentare del modesto merito di aver indicato la strada»110. L’incertezza circa il possesso da parte di Kant del vero principio della propria filosofia ovviamente non rassicurava Fichte, che d’altra parte trovava le obiezioni contro il pensiero di Kant del tutto irrilevanti, dal momento che esse, comprese quelle di Reinhold, si rivolgevano alla lettera piuttosto che allo spirito della sua filosofia. Dall’inizio del 1793, tut110 Abbozzo di lettera a Johann Friedrich Flatt (1759-1821), professore di teologia a Tubinga, del novembre o dicembre 1793, in GA, III, 2, p. 18. Questa allusione alla mancanza, da parte di Kant, di una perfetta comprensione della propria filosofia, ribadita ancora nella Grundlage ( cfr. p. 335) (149), subirà un’amara conferma e accentuazione in senso negativo all’indomani della pubblicazione della celebre Erklärung in Beziehung auf Fichte’s Wissenschaftslehre, nella quale Kant si dissocia, in modo inequivoco e definitivo, dalla Wissenschaftslehre e dagli sviluppi fichtiani della filosofia, suscitando l’irata reazione di Schelling. Questi, in una infuocata lettera a Fichte, afferma che la presa di distanza da parte di Kant «è la più palese dichiarazione che per lui è già giunto il tempo della sua posterità, che (come egli stesso dice una volta di Platone ) lo comprende meglio di quanto egli stesso non si comprenda; e poiché ciascuno può essere interlocutore solo della sua epoca, […], egli ha perduto ogni diritto ad intervenire ulteriormente, ed è filosoficamente morto» (Lettera di Schelling a Fichte del 12 settembre 1799, in GA, III, 4, p. 70; tr. it. in J.G. Fichte, F.W.J. Schelling, Carteggio e scritti polemici, a cura di F. Moiso, Bibliopolis, Napoli 1986, pp. 54-55). Fichte non reagisce pubblicamente, ma risponde privatamente a Schelling (che lo aveva anche invitato a rompere il suo «equivoco» rapporto con Kant, approfittando del fatto che era stato Kant stesso ad avergliene offerto l’occasione), spiegandogli che non è lecito a lui prendere la cosa come «pure dovrebbe esser presa» e, sulla base della sua stima e della gratitudine per Kant, cerca perfino di giustificarlo: «Penso […], a scusa di Kant, che egli fa ingiustizia a sé stesso, e presentemente non conosce più né intende la sua propria filosofia, da lui mai troppo correntemente posseduta» (Lettera di Fichte a Schelling del 20 settembre 1799, ib., p. 85) (58). Una discussione approfondita ed equilibrata della Erklärung di Kant e della sua presa di distanza dalla Wissenschaftslehre è condotta da M. Ivaldo, I princìpi del sapere, cit., pp. 33-44.

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tavia, Fichte ha cominciato a registrare un cambiamento importante, dovuto proprio alla questione del principio della filosofia. In occasione di un «colloquio con un pensatore originale […] mi è venuto un dubbio che concerne, nientemeno, che il principio primo; dubbio che, nelle circostanze attuali, ho dovuto rinviare a tempi migliori e che, se non fosse da rigettare, distruggerebbe l’intera filosofia e al suo posto metterebbe il più aspirituale scetticismo, molto più grave di quello humiano, inconfutabilmente confutato»111. Indipendentemente dall’influenza di Enesidemo, che non aveva ancora letto – e ancora una volta in forma privata –, Fichte paventa il crollo dell’intero sistema critico, nel caso non fosse possibile fugare il dubbio relativo alla solidità del suo fondamento. L’apprezzamento del pensiero di Kant, così come il riconoscimento dei suoi meriti da parte di Fichte contenevano, dunque, una riposta ambivalenza, che nasceva dal riconoscimento di limiti, la cui persistenza comprometteva la stabilità dell’intero edificio dottrinario kantiano. Dire che una filosofia è giusta, ma che manca di un’adeguata fondazione, implica un’oggettiva sospensione del giudizio sulla sua validità complessiva che dev’essere mantenuta almeno per il tempo necessario a fornirle una base sicura. D’altra parte, è vero che lo stesso Kant aveva esplicitamente ammesso questo stato di cose, in occasione della definizione di sistema da lui fornita 111 Abbozzo di lettera a Franz Volkmar Reinhard (1753-1812), professore di filosofia, poi di teologia e, infine, predicatore di corte, del 20 febbraio 1793, in GA, III, 1, pp. 373-74. Il pensatore originale cui Fichte si riferisce è forse il predicatore di corte J.F. Schultz (cfr. la nota n. 7 dei Curatori del volume, R. Lauth e H. Jacob, ib., p. 373), e a lui Fichte alluderà nella Zweite Einleitung in die Wissenschaftslehre für Leser, die schon ein philosophisches System haben, in GA, I, 4, p. 225; tr. it. (Seconda Introduzione) in J.G. Fichte, Prima e seconda Introduzione alla dottrina della scienza, cit., pp. 53-54. Cfr. anche W. Kabitz, Studien zur Entwicklungsgeschichte der Fichteschen Wissenschaftslehre cit., pp. 32-33.

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nel capitolo dedicato all’«Architettonica della ragion pura», nella prima Critica. Se l’architettonica è «l’arte del sistema», e solo «l’unità sistematica è ciò che prima di tutto fa di una conoscenza comune una scienza», occorre intendersi su che cosa sia sistema. In quel contesto Kant spiega che «per sistema intendo l’unità di molteplici conoscenze raccolte sotto un’idea», osservando, poi, che «questo è il concetto razionale della forma di un tutto, in quanto per mezzo di esso l’ambito del molteplice, nonché il posto delle parti tra loro, viene determinato a priori»112. Come si vede, Kant sta parlando del sistema di tutto il sapere umano, le cui parti devono congruire tra loro, costituendo una totalità stabilita a priori dalla ragione. Il compito non è semplice, ma Kant rileva che molto lavoro è già stato fatto e che i materiali necessari, pur nella loro confusione, sono disponibili e sono perciò presenti le condizioni esteriori necessarie alla realizzazione dell’impresa. Kant riconosce a sé stesso di aver portato a termine la parte propedeutica, mentre resta da elaborare la parte che designa con il nome di metafisica113. A conclusione dell’opera egli rivolge ai suoi lettori l’invito a collaborare a trasformare l’ancora stretta via critica in via regia, riuscendo così a ottenere, «prima che finisca il secolo presente», di «condurre l’umana ragione alla piena soddisfazione rispetto a ciò che in ogni tempo, ma finora invano, ha occupato la sua curiosità»114. Si sa che l’invito non cadde nel vuoto e che l’esigenza di dar vita al sistema del sapere umano divenne l’obiettivo degli interpreti di Kant, ansiosi di portare a termine la sua impresa. 112 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, Ak. Ausg., III, B, p. 538; tr. it. (Critica della ragion pura), di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, riv. da V. Mathieu, Laterza, Bari 19714, vol. II, p. 629; d’ora in poi: KdrV. 113 Cfr. ib., pp. 869, 863 (635, 631). Kant afferma il medesimo concetto nella Prefazione alla II edizione della Critica, dicendo dell’opera che «essa è un trattato del metodo, e non un sistema della scienza stessa» (KdrV, B, p. 15) (24). 114 Ib., p. 884 (645).

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Degli studiosi di Kant che risposero con maggiore rapidità ed entusiasmo all’appello, K.L. Reinhold fu tra i primi, ed ebbe il merito di unire lo sforzo di comprendere e riesporre il pensiero kantiano con l’esigenza di fornirgli un fondamento unitario e uno sviluppo coerente115. In questa direzione vanno le sue opere, nelle quali l’esigenza sistematica è essenzialmente connessa con la necessità di trovare il principio primo dell’intera filosofia. Anche per lui la validità della filosofia kantiana è fuori discussione, così come è evidente che con Kant il pensiero umano è stato innalzato ad un’altezza «mai raggiunta da nessuno dei più profondi pensatori» e che egli ha posto le condizioni a partire dalle quali ci si può attendere «una delle rivoluzioni più generali, più rimarchevoli e più benefiche che si siano mai verificate tra i concetti umani»116. Tuttavia, anche per Reinhold, Kant non ha esposto la filosofia vera e propria, che egli chiama Filosofia elementare (cui Fichte, come sappiamo, rivolgerà presto la sua attenzione). Valutando il contributo di Kant al progresso del pensiero e, insieme, delineando il proprio programma, Reinhold scrive: «Per questa scienza, che io chiamo filosofia elementare universale, nella misura in cui serve da fondamento comune a tutta la filosofia teoretica e pratica, la Critica della ragione ha sì posto i materiali, non ha però enunciato l’idea, men che meno il fondamento reale; e se questa scienza dovrà mai realizzarsi, è necessario che la ragione filosofica avanzi sulla via analitica di un passo rispetto a dove è giunta nella Critica della 115 Infatti, come si è rilevato (v. sopra, n. 56), è da Reinhold e non da Spinoza che Fichte riceve la spinta in direzione di una filosofia interamente basata su un unico principio; v. anche più avanti, n. 124. Il ruolo di Reinhold sul pensiero di Fichte, nel periodo in cui matura la Dottrina della scienza, è analizzato G. Alberti, nel suo documentato volume: La Dottrina della scienza di Fichte negli anni di Jena (1794-1799), Edizioni ETS, Pisa 2014, pp. 27-36. 116 K.L. Reinhold, Versuch einer neuen Theorie des menschlichen Vorstellungsvermögen, Praga e Jena 1789, ristampa anastatica, WBG, Darmstadt 1963, risp., pp. 24 e 56.

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ragione; questo passo è poi l’ultimo che essa può compiere sulla via analitica verso i princìpi più elevati. Solo e unicamente attraverso esso è scoperto l’ultimo e autentico fondamento della f i l o s o f i a »117. Reinhold ritiene di aver individuato il principio universalmente valido per il sistema e lo caratterizza come il principio della coscienza, enunciato in questa definizione, posta all’inizio del terzo capitolo del Versuch einer neuen Theorie des menschlichen Vorstellungsvermögen: «Nella coscienza, la rappresentazione viene dal soggetto distinta dal soggetto e dall’oggetto e riferita a entrambi»118. Ogni conoscenza, dal117 K.L.

Reinhold, Über das Fundament des philosophischen Wissens. Nebst einige Erläuterungen über die Theorie des menschlichen Vorstellungsvermögen (1791), a cura di Wolfgang H. Schrader, Meiner, Hamburg 1978, pp. 71-72; tr. it. (Sul fondamento del sapere filosofico, con alcune delucidazioni sulla Teoria della facoltà rappresentativa) in Id., Concetto e fondamento della filosofia, a cura di F. Fabbianelli, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002, p. 105. Nella Prefazione Reinhold mette in evidenza i caratteri della filosofia elementare, intesa come «una scienza dei princìpi comuni a tutte le scienze filosofiche particolari, una scienza nella quale venga formulato in modo completamente determinato ciò che le rimanenti scienze presuppongono nella loro fondazione, una scienza che pertanto deve avere prima di tutte le altre un fondamento stabile, riconosciuto e compreso universalmente come valido» (ib., p., XIV) (64-65). Più avanti, dopo aver ricordato che Kant stesso ha definito la Critica della ragion pura come «propedeutica alla metafisica», Reinhold si dissocia dal «pregiudizio» di quei kantiani i quali ritengono che Kant abbia fornito la «dottrina elementare della stessa filosofia», e osserva che perfino i concetti di natura e di realtà dei giudizi sintetici a priori, su cui Kant basa la sua dottrina, sono ammessi «senza dimostrazione nella qualità di fondamento e presentati mediante esposizioni incomplete senza una determinazione integrale delle loro note» (ib., pp. 62-63; cfr. anche pp. 115-17 e 1129-30) (100; 129-130 e 137). 118 K.L. Reinhold, Beyträge zur Berechtigung bisheriger Missverständnisse der Philosophen. Erster Band, das Fundament der Elementarphilosophie betreffend, J.M. Mauke, Jena 1790, § I, p. 167. Nel § V viene ulteriormente ribadito che «La semplice rappresentazione è ciò che, nella coscienza, si lascia riferire all’oggetto e al soggetto e viene distinta da entrambi» (ib., p. 173).

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la più rudimentale a quella più rarefatta, non può, secondo Reinhold, prescindere da questa struttura originaria e insuperabile dello spirito umano, che costituisce quel fatto indubitabile che può e deve essere posto a fondamento della filosofia. In virtù di questa base solida e intrascendibile, la filosofia assume le caratteristiche di una scienza a tutti gli effetti; anzi, dal momento che deve fornire i princìpi a tutte le altre, avrà qualcosa in più di una semplice scienza e sarà, perciò, «scienza nel senso più rigoroso»119. Il medesimo concetto si può anche esprimere dicendo che la nuova filosofia, che eccede in dignità le altre scienze, cessa di essere filosofia del linguaggio, della religione, della storia ecc., per divenire semplicemente «filosofia della filosofia»120, ovvero, come dirà in un altro contesto, «filosofia senza appel lativi»121, che riassume, nella sua formulazione ellittica, l’essenzialità di tale disciplina e il suo non rinviare ad altro per essere la scienza che è. La diagnosi fichtiana relativa ai pregi incommensurabili della filosofia kantiana e le riserve circa la necessità di una sua fondazione adeguata concordano, in parte, con la valutazione che della medesima filosofia fornisce Reinhold. Fichte legge attentamente i testi reinholdiani, il cui studio approfondisce in occasione della lettura dell’Enesidemo e della stesura della relativa recensione122. Nel maggio 1793 egli aveva ricevuto l’incarico di recensi119 K.L. Reinhold, Über den Begriff der Philosophie, in Id., Beyträge cit., p. 84; tr. it. (Sul concetto della filosofia) a cura F. Fabbianelli, in Id., Concetto e fondamento cit., p. 50. 120 Ib., p. 56 (33). Fabbianelli, nella sua Introduzione alla traduzione italiana da lui curata (cfr. p. XVIII), ricorda che la definizione qui anticipata da Reinhold fu ripresa da Fichte nella Dottrina della scienza. 121 K.L. Reinhold, Über das Fundament cit., p. 133 (138). 122 Nella lettera a Reinhold dell’1 marzo 1794 Fichte gli assicura di essersi occupato a fondo dello studio del suo sistema e, in particolare, della Nuova esposizione dei momenti fondamentali della filosofia elementare contenuta nei Beyträge, ai quali, in occasione della recensione all’Enesidemo, ha dedicato un saggio, e cioè le Eigne Meditationen; cfr. GA, III, 2, p. 78.

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re l’Enesidemo di Schulze, che aveva differito per altri impegni e che legge intorno all’ottobre di quell’anno. La lettura di questo libro provocherà un’altra scossa profonda nell’universo di pensiero di Fichte e lo metterà in crisi. Questa volta, però, la crisi viene vissuta senza giungere all’abbandono del sistema precedente, ma con l’intento di trovare per esso un principio in grado di rafforzarlo al suo interno e renderlo capace di resistere agli attacchi esterni. Ciò non toglie che il disorientamento provato fosse molto intenso, secondo la testimonianza dello stesso Fichte: «Dalla lettura di un deciso scettico – scrive in un abbozzo di lettera a Wloemer – sono stato condotto alla chiara convinzione che la filosofia è ancora molto lontana dalla condizione di una scienza e mi sono visto costretto ad abbandonare il mio proprio sistema e a pensarne uno più sostenibile»123. L’abbandono di cui qui si parla è però da intendere, come già accennato, non nel senso di un radicale mutamento di prospettiva con conseguente adozione di un altro sistema (com’era avvenuto nel caso del passaggio dal determinismo alla filosofia kantiana), ma piuttosto come presa d’atto che la precedente convinzione sulla validità incondizionata della filosofia critica, nonché del suo perfezionamento ad opera della filosofia elementare di Reinhold, non era ben fondata e che occorreva ulteriore, intenso lavoro per innalzare la filosofia a scienza124. Ancora più esplicito quanto scrive nell’ab123 Lettera a Wloemer del novembre 1793, ib., p. 14. Tale convinzione è stata confermata «dalla lettura dei nuovi scettici, specialmente dell’Enesidemo e degli eccellenti scritti di Maimon», come Fichte dichiarerà nella Prefazione alla prima edizione di Über den Begriff, in GA, I, 2, p. 109 (5). Maimon viene citato anche nelle Eigne Meditationen, p. 23, a testimonianza della conoscenza delle sue opere in questo periodo. Sull’argomento cfr. F. Fabbianelli, Antropologia trascendentale e visione morale del mondo. Il primo Fichte e il suo contesto, Guerini e Associati, Milano 2000, pp. 23-25. 124 Quanto ai rispettivi meriti di Kant e di Reinhold in campo filosofico, Fichte li riassume efficacemente in una lettera a Reinhold: «Lei

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bozzo di lettera a Flatt, dove, dopo aver espresso ammirazione per l’Enesidemo («il prodotto più notevole del nostro decennio»), Fichte confessa che quest’opera ha confermato quanto già «presagiva», e cioè, che né i lavori di Kant, né quelli di Reinhold fossero riusciti a conferire alla filosofia la dignità di scienza. Ciò ha scosso dalle fondamenta il sistema fichtiano e, «poiché non è confortevole abitare all’aperto»125, lo ha costretto a riprenderne da capo la costruzione. Dunque, lo scetticismo di Enesidemo non ha suscitato l’adesione di Fichte, che reagisce invece in modo opposto: «Enesidemo ha definitivamente confermato la mia convinzione che la filosofia, nella sua attuale condizione, non sia ancora affatto scienza; ma ha soltanto rafforzato ancora l’altra convinzione, che essa possa, e presto debba, effettivamente divenire scienza»126. E qualche mese prima: «Mi sono convinto che solo mediante lo sviluppo sulla base di un unico principio la filosofia può diventare scienza, ma che allora essa deve ottenere un’evidenza come la geometria; che un tale principio esista, ma che non è ancora stabilito come tale: credo di averlo trovato e, per quanto ho finora portato avanti la mia ricerca, l’ho trovato confermato»127. Quale sia questo principio, prima di vederlo enunciato in scritti pubblicati, possiamo ricavarlo – con le approssimazioni del caso – da quanto scrive a Reinhold: «C’è soltanto un e Kant hanno offerto all’umanità qualcosa che resterà in eterno. Kant, che nella ricerca si debba partire dal soggetto; Lei, che l’indagine debba essere condotta a partire da un principio unico» (Lettera a Reinhold di fine marzo/aprile 1795, in GA, III, 2, p. 282). 125 Abbozzo di lettera a J.F. Flatt del novembre/dicembre 1793, cit., p. 18. 126 Abbozzo di lettera a Reinhard del 15 gennaio 1794, cit., p. 39. Non a caso Gueroult considera l’Enesidemo l’ultimo stimolo dal quale nascerà la dottrina della scienza (M. Gueroult, L’évolution et la structure de la doctrine de la science chez Fichte, Les Belles Lettres, Paris 1930, I, p. 134). 127 Abbozzo di lettera a J.F. Flatt del novembre/dicembre 1793, cit., p. 18.

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unico dato-di-fatto (Thatsache) originario dello spirito umano che fonda la filosofia generale e i suoi due rami, la teoretica e la pratica. Kant lo sa certamente, ma non lo ha espresso da nessuna parte. Chi lo troverà, esporrà la filosofia come scienza. Colui che lo troverà non sarà nessuno di quelli che si sono affrettati a concludere il proprio sistema dopo lo studio della sola Critica della ragion pura; e temo che nessuno di questi lo comprenderà mai»128. Se si pensa che nel periodo in cui scrive questa lettera Fichte era occupato a redigere la recensione all’Enesidemo e a portare avanti le sue Meditazioni personali sulla filosofia elementare, si può comprendere quale tensione spirituale dovesse caratterizzare le sue ricerche, visto che quella ürsprüngliche Thatsache des menschlichen Geistes, quel dato-di-fatto originario dello spirito umano, accettato come fondamento in grado di rendere scientifica la filosofia, verrà presto dichiarato inidoneo, proprio in quanto Thatsache, a svolgere quel ruolo delicato. La Recensione all’Enesidemo occupa un posto chiave proprio a questo riguardo, e in essa si trovano prove evidenti di quel salto qualitativo che sta per consentire a Fichte di uscire definitivamente dai dubbi concernenti la fondatezza e la stabilità del suo sistema e di intraprenderne ormai la costruzione. 128 Lettera a Reinhold del 6 dicembre 1793, cit., p. 21. Notoriamente, per Fichte la comprensione adeguata della filosofia kantiana può riuscire soltanto sulla base dello studio delle tre Critiche. Un ruolo particolare, dopo quello che abbiamo visto riconosciuto alla Critica della ragion pratica, riveste la Critica del giudizio, di cui egli aveva steso un commento analitico, inizialmente pensato per la pubblicazione, ma rimasto inedito. Si tratta del Versuch eines erklärenden Auszugs aus Kants Kritik der Urteilskraft, in GA, II, 1, pp. 325-373, cui lavorò dal settembre 1790 all’inizio del 1791, come si legge in una nota a margine dell’Introduzione (cfr. ib., p. 325, n. *). Fichte non era molto soddisfatto della sua «povera operetta», e confessa che è spinto a pubblicarla per motivi pratici (cfr. lettere a J. Rahn dell’1 marzo 1791 e del 27 dicembre 1790, risp. in GA, III, 1, pp. 217-20 e 203-06). Sul ruolo delle Critiche kantiane nella formazione del pensiero di Fichte, cfr. L. Pareyson, Fichte cit., pp. 76-80.

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9. La Recensione all’Enesidemo Il libro di G.E. Schulze che Fichte recensisce viene abitualmente indicato solo con il nome di Enesidemo, ma il titolo completo suona: Enesidemo o dei fondamenti della filosofia elementare presentata dal Signor Prof. Reinhold di Jena. Con una difesa dello scetticismo contro le pretese della Critica della ragione. La seconda parte del titolo mette in evidenza che il vero obiettivo dello scettico non è tanto (o solo) la filosofia elementare di Reinhold, quanto piuttosto la filosofia critica nel suo complesso, di cui quella elementare era soltanto uno sviluppo. La posta in gioco, allora, non è la confutazione delle teorie di un pur noto professore, ma l’indirizzo di pensiero che sempre più stava guadagnando il primato nel mondo accademico tedesco (tanto che Reinhold lo insegnava ufficialmente nell’Università di Jena), e cioè l’indirizzo impresso alla filosofia da Kant. Se l’impresa dello scettico avesse avuto successo, ciò sarebbe accaduto a scapito della credibilità della filosofia kantiana e avrebbe avuto conseguenze proporzionate alla fama che ormai la circondava, ingenerando la convinzione che ricercare la verità fosse fatica vana129. 129 In

realtà Enesidemo dichiara che lo scetticismo non è il prodotto della «disperazione della ragione nelle sue proprie forze», e che la speranza di giungere al vero è un «elemento costitutivo essenziale dello scetticismo, da cui non lo si può disgiungere senza avere prima provato che la ragione umana non è assolutamente in grado di approdare a nessun risultato, proprio per il fatto che finora non è ancora approdata a nulla» (G.E. Schulze, Aenesidemus oder über die Fundamente der von dem Hrn. Prof. Reinhold in Jena gelieferten Elementarphilosophie. Nebst einer Vertheidigung des Skepticismus gegen die Anmaßungen der Vernunft-Kritik, s.l. 1792, hrsg. v. der Kant-Gesellschaft, Verlag von Reuther u. Reichard, Berlin 1911, pp. 21, 22); tr. it. (Enesidemo o dei fondamenti della filosofia elementare presentata dal Signor Prof. Reinhold di Jena. Con una difesa dello scetticismo contro le pretese della Critica della ragione), a cura di A. Pupi, Laterza, Bari 1971, pp. 120, 122). Un’utile ed efficace ricostruzione dell’impatto dell’opera sui contemporanei è fornita da V. Verra, «Enesidemo» e la problematizzazione della critica, in Id., Dopo Kant. Il criticismo nell’età romantica, Edizioni di Filosofia, Torino 1957, pp. 33-66.

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Contro gli esiti scettici del lavoro di Schulze, Fichte reagisce non certo con la difesa ad oltranza delle posizioni di Reinhold e di Kant, ma con l’attenta distinzione tra le obiezioni di Enesidemo ai due filosofi e quelle rivolte alla possibilità di una filosofia scientifica in generale130. E se le prime dovessero colpire nel segno, non è affatto detto che debbano valere nei confronti della seconda, soprattutto quando si fosse in grado di indicare un fondamento non attaccabile dalla critica scettica. Per questo, già all’inizio della recensione, Fichte allude alla possibilità che in futuro possa essere indicato un fondamento «più alto di quello della rappresentazione»131, che garantirebbe la possibilità e la legittimità della filosofia. Questa affermazione anticipa l’adesione di Fichte alla critica al principio reinholdiano della coscienza, che gli appare «un teorema che si fonda su un altro principio» e che, perciò, è inadeguato a svolgere il ruolo affidatogli da Reinhold 132. 130 Sulla portata della Recensione, cfr. A. Massolo, Fichte e la filosofia, Sansoni, Firenze 1948, pp. 17-27, dove si legge che «La costruzione della filosofia come Wissenschaftslehre ha inizio con la recensione all’Enesidemo di Schulze » (ib., p. 17). L’importanza della Recensione, ben al di là del rilievo abituale di questo genere di scritti, è sottolineata anche da Breazeale, che sostiene, a ragione, che essa «non segnala soltanto una rivoluzione nel suo personale [scil.: di Fichte] sviluppo filosofico, ma segna un autentico spartiacque nella storia dell’idealismo tedesco» (D. Breazeale, Fichte’s Aenesidemus review and the transformation of German idealism, in «The Review of Metaphysics», Vol. 34, (1981), 3, pp. 546). Sulle critiche a Reinhold espresse nella Recensione, cfr. anche P. Salvucci, La costruzione dell’idealismo. Fichte, Quattro Venti, Urbino, 1993, pp. 97 sgg. 131 J.G. Fichte, Rezension: Ohne Druckort: Aenesidemus, oder über die Fundamente der von dem Hrn. Prof. Reinhold in Jena gelieferten Elementarphilosophie. Nebst einer Vertheidigung des Skepticismus gegen die Anmaßungen der Vernunft-Kritik. 1792 (in seguito: Rez. Aenesidemus), in GA, I, 2, p. 43; tr. it. (Recensione: Enesidemo o dei fondamenti della filosofia elementare presentata dal Signor Prof. Reinhold di Jena. Con una difesa dello scetticismo contro le pretese della Critica della ragione), a cura di E. Garulli, «Il Pensiero», XXIII (1982), pp. 97-119, qui p.100. 132 Rez. Aenesidemus, p. 46 (103). Nella lettera a Reinhold dell‘1

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Con la chiarezza circa l’insufficienza del principio della coscienza a fondare la filosofia, ma ancora non in possesso definitivo di ciò che avrebbe potuto e dovuto prenderne il posto, Fichte scrive: «La prima ipotesi inesatta, che indusse a innalzarlo a principio di tutta la filosofia, fu di pensare che si dovesse partire da un fatto. Ora, è vero che dobbiamo disporre di un principio reale e non solo formale, ma un tale principio non deve esprimere proprio un datodi-fatto (Thatsache), può anche esprimere un’azione-in-atto (Thathandlung)»133. La cautela con la quale viene evocata la marzo 1794 Fichte, nel dichiararsi d’accordo con lui circa i caratteri che nel «capolavoro tra i Suoi capolavori», Über das Fundament des philosophischen Wissens, egli ascrive al principio, riconosce però che il principio della coscienza non possiede quei caratteri e perciò non può fungere da fondamento del sistema, essendo esso, secondo Fichte, «un teorema, che viene dimostrato e determinato da proposizioni più elevate» (GA, III, 2, p. 78). Anche Enesidemo si era dichiarato d’accordo con Reinhold sulla necessità di un unico «principio primo di valore universale» per innalzare la filosofia a scienza, ma lo aveva fatto solo in vista della demolizione sistematica del reinholdiano principio della coscienza, da lui portata a termine (cfr. G.E. Schulze, Aenesidemus oder über die Fundamente cit., p. 41) (140); per la confutazione del principio reinholdiano cfr. pp. 45-58 (146-57). Quanto alla valutazione, da parte di Fichte, del ruolo di Reinhold per lo sviluppo della filosofia, essa è, in questo periodo, positiva, malgrado le riserve fatte valere nei suoi confronti: «Dopo Kant, Reinhold acquisì il merito immortale di mettere in guardia la ragione filosofica […] sul fatto che la filosofia intera dovesse essere ricondotta a un unico principio, e che non si poteva trovare il sistema del costante modo d’agire dello spirito umano prima di trovarne la chiave di volta» (Rez. Aenesidemus, p. 62) (114-15). 133 Ib., p. 46 (103-104). Di contro a questa tesi fichtiana sta la solida convinzione di Reinhold, secondo il quale il principio della filosofia elementare, per poter avere validità universale, non deve essere dedotto né dalla filosofia pura, né da quella applicata, in quanto queste sono riconducibili alla filosofia elementare. Con un cinquantennio di anticipo su Feuerbach, e in modo esplicito, Reinhold vede nascere la filosofia dalla non-filosofia: «La ragione della sua [scil.: del principio] necessità deve dunque risiedere al di fuori dell’ambito di tutta la filosofia e non si deve poter sviluppare mediante alcun ragionamento filosofico». Il principio non deve assolutamente aver bisogno di alcun ragionamen-

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Thathandlung è evidente, dal momento che Fichte non può spiegarla né dimostrarla134, così come non può essere ancora esibita con padronanza l’intuizione intellettuale, che è l’atto con il quale l’Io è per sé stesso135. Malgrado le incertezze, è tuttavia indicata la direzione in cui è possibile farne esperienza, nonché il carattere fondamentale che ne è alla base: l’autonomia assoluta. Questa non ha bisogno di essere fondata né in noi né, tantomeno, fuori di noi, e si realizza mediante l’intuizione intellettuale, mediante il principio: «Io sono, e cioè: Io sono puramente e semplicemente perché sono. […] L’Io è ciò che è, e perché è per l’Io»136. Con un ragionamento che anticipa quello più to e «nella misura in cui un tale principio può esprimere solo un factum, deve esso stesso esprimere un factum» (K.L. Reinhold, Über das Bedurfniß die Möglichkeit und die Eigenschaften eines allgemeingeltenden ersten Grundsatzes der Philosophie, in Id., Beyträge, cit., p. 143). 134 Cfr. Rez. Aenesidemus, p. 46 (103-104). 135 Cfr. ib., p. 48 (105). La scoperta del nuovo principio, che dovrà fungere da fondamento per la filosofia, viene collocata da Fichte stesso «verso la fine dell’autunno del 1793» (Lettera a Böttiger dell’8 gennaio, in GA, III, 2, p. 32). Le circostanze esteriori dell’improvviso imporsi a Fichte dell’evidenza dell’Io quale principio della filosofia sono descritte da E. Fichte, Johann Gottlieb Fichte: Lichtstrahlen aus seinen Werken und Briefen, cit., p. 46. Le medesime circostanze vengono ricordate in maniera più dettagliata da H. Steffens, che riferisce del modo intenso in cui il «pensiero originario» sorprese improvvisamente Fichte: «Questo pensiero lo colse con una tale chiarezza, potenza e sicura certezza, che egli non poté abbandonare il tentativo di stabilire l’Io come principio della filosofia, quasi costretto dallo spirito che si era impadronito di lui» (H. Steffens, Was ich erlebte. Aus der Erinnerung niedergeschrieben. Bd. 4, cit. in Fichte im Gespräch, 1, cit., n. 70, p. 64). La vicinanza, anzi, perfino l’identità della Thathandlung con «l’intuizione intellettuale implicita» è stata ripetutamente sottolineata in molti suoi studi da X. Tilliette, che ribadisce energicamente il concetto anche nel volume: Fichte. La science de la liberté, Prefazione di R. Lauth, Vrin, Paris 2003, p. 20. 136 Rez. Aenesidemus, p. 57 (111). Va ricordato che questa netta determinazione dell’essere dell’Io come non riconducibile ad altro e che è solo per l’Io stesso, è tesa a sconfessare la pretesa di Enesidemo che si dia una dimostrazione dell’esistenza assoluta e dell’autonomia dell’Io

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articolato delle Eigne Meditationen, viene operata la distinzione tra l’Io assoluto dell’intuizione intellettuale e l’Io empirico e, di contro all’indipendenza e alla capacità di autoporsi del primo, l’Io intelligente della coscienza empirica, proprio in quanto intelligente, dimostra la sua dipendenza dall’intelligibile137. A sua volta, però, l’intelligibile può uscire dall’indeterminatezza e divenire oggetto di conoscenza solo in quanto sia soddisfatta la condizione necessaria e imprescindibile, costituita dalla capacità di riferimento a sé stesso da parte dell’Io. La pertinenza delle obiezioni di Enesidemo nei confronti dell’inadeguatezza del principio reinholdiano spinge Fichte a radicalizzare il problema del principio e a intravvedere una soluzione che ha nell’autonomia dell’Io il suo fulcro, e nell’atto dell’intuizione intellettuale la modalità attraverso cui l’Io ne diviene consapevole. L’altra obiezione fondamentale di Enesidemo concerne, com’è noto, il tema scabroso della cosa in sé, la cui accettazione è in aperta contraddizione con lo spirito e con la lettera della filosofia critica138. come sussistenti in sé, senza sapere come e per chi potrebbe avvenire tale dimostrazione (cfr. ibid.). Poco più avanti Fichte ribadisce che, in virtù del suo essere solo per sé, l’Io è «auto-ponentesi, puramente e semplicemente auto-sussistente e indipendente» (ib., p. 65) (116). 137 Cfr. ib., p. 65 (116-17). Proprio il contrasto qui prospettato tra l’Io assoluto e l’Io empirico è alla base dell’esigenza del primo di rendere dipendente da sé l’intelligibile in vista dell’unità con sé stesso e spiega la praticità della ragione, come si legge nelle righe successive. In proposito cfr. A. Massolo, Fichte e la filosofia, cit., p. 25. 138 Si ricorderà che già anni prima Jacobi aveva dichiarato che la difficoltà di concepire la cosa in sé «mi ha tenuto occupato lungo tempo allo studio della filosofia kantiana, tanto da dover ricominciare a più riprese per diversi anni di seguito la lettura della Critica della ragion pura, perché restavo ogni volta impigliato in questa difficoltà: non potevo entrare nel sistema senza ammettere quel presupposto, e allo stesso tempo non potevo restarvi, se continuavo ad ammetterlo» (F.H. Jacobi, Über den transzendentalen Idealismus, in Beilage über den transzendentalen Idealismus, appendice a Id., David Hume über den Glauben, oder Idealismus und Realismus. Ein Gespräch, Gottl. Loewe, Breslau 1787; tr. it.

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La tesi di Fichte su tale questione è netta e decisa: solo una totale incomprensione della filosofia kantiana può giustificare la fede nella cosa in sé, che è invece un concetto contraddittorio e privo di senso, giacché colui che ne parla lo fa riferendolo alla facoltà conoscitiva umana, proprio mentre lo dichiara assolutamente estraneo ad essa. Fichte dà atto a Enesidemo della scarsa chiarezza di Reinhold e di Kant su questo tema, ma considera la cosa in sé incompatibile con la filosofia critica: «Il pensiero di Enesidemo, di una cosa che dovrebbe possedere realtà e qualità non solo al di fuori della facoltà rappresentativa umana, ma anche indipendentemente da ogni e qualsiasi intelligenza, nessun uomo l’ha ancora mai pensato, sebbene qualcuno spesso pretenda di averlo fatto, e nessuno è capace di pensarla. Si pensa sempre sé stessi come intelligenza che tende alla conoscenza di questa cosa»139. Sia il tema dell’intuizione intellettuale, sia quello della cosa in sé vengono ripresi nelle Eigne Meditationen, anche se entrambi in modo abbastanza rapido. La relativa indetermi(L’idealismo trascendentale) di C. Lacorte, «Giornale critico della filosofia italiana» (1962), n. 3, p. 334). 139 Rez. Aenesidemus, p. 61 (114). Nella lettera a Reinhard del 18 gennaio 1794, Fichte lo ragguaglia circa i risultati raggiunti nella sua ricerca, gli comunica di avere scritto una recensione all’Enesidemo e gli anticipa che essa «espone, per quanto sia possibile nei limiti di una recensione, i nuovi punti di vista dai quali considero la cosa [scil.: l’attuale stato della filosofia]. Fino a quando si lascia sussistere il pensiero di una connessione della nostra conoscenza con la cosa in sé, che deve avere realtà del tutto indipendente da essa, lo scettico avrà sempre partita vinta. Uno dei primi obiettivi della filosofia è, dunque, dimostrare, facendola toccare bene con mano, la nullità di un simile pensiero» (GA, III, 2, p. 39). Utili notizie su F.V. Reinhard (1753-1812), sui suoi rapporti con Fichte e sulla possibile influenza della sua opera Versuch über den Plan welcher der Stifter der Christlichen Religion zum Besten der Menschen etwarf (1781) sullo scritto fichtiano Über die Absichten des Todes Jesu, sono fornite da C. Cesa, Fichte critico di Reimarus? A proposito di uno scritto giovanile di J G. Fichte, in Studi di storia medievale e moderna per Ernesto Sestan, Olschki, Firenze 1980, pp. 865-883, ora in Id., J G. Fichte e l’idealismo trascendentale, cit., pp. 68 sgg.

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natezza dell’intuizione intellettuale così come compare nella Recensione, verrà integrata con pochi dettagli, ma mantenendo alcune caratteristiche oscillazioni140 e senza giungere alla chiarezza che la nozione riceverà nella Seconda introduzione alla dottrina della scienza (1797-98), dove troverà adeguato sviluppo. Quanto al concetto di cosa in sé, esso viene evocato solo per rimarcarne l’impossibilità, strettamente dipendente dalla spiegazione che viene qui fornita del fatto della conoscenza, che ne conferma la contraddittorietà.

140 Il tono tranquillo, «placido» con cui Fichte tratta il tema così delicato dell’intuizione intellettuale nelle EM si spiega, secondo I. Thomas-Fogiel, con la circostanza che «l’intuizione intellettuale non è una nozione inventata da Fichte, ma una nozione che egli trova già nei suoi due predecessori, Reinhold e Maimon », e dunque non si tratta di una innovazione da lui apportata (I. Thomas-Fogiel, Critique de la représentaion. Ètude sur Fichte, Vrin, Paris 2000, pp. 54-55; alla nozione di intuizione intellettuale sono dedicate le pp. 55-68). In effetti, la storia della genesi dell’intuizione intellettuale e della sua introduzione nel linguaggio filosofico è complessa e, come si è appena ricordato, sia Reinhold, sia Maimon si erano serviti di quella nozione. Alla ricostruzione dettagliata e approfondita di tale storia è dedicato il volume di X. Tilliette, Recherches sur l’intuition intellectuelle de Kant à Hegel, Vrin, Paris 1995. L’autore, dopo aver esposto l’uso che ne fa Kant e il divieto da questi decretato di riferirlo alla facoltà conoscitiva umana (cfr. pp. 13-38), dichiara che fu proprio «il fedele esegeta e discepolo di Kant, Karl Leonhard Reinhold a togliere, per così dire, l’”embargo” kantiano» (p. 39). Di particolare interesse per il tema dell’intuizione intellettuale è il capitolo «L’exorde de Fichte et l’intuition intellectuelle» del volume, sempre di X. Tilliette, Fichte. La science de la liberté, cit., pp. 215-230. Per l’intuizione intellettuale in Reinhold, cfr. la Neue Darstellung der Hauptmomenten der ElementarPhilosophie, in Id., Beyträge zur Berechtigung bisheriger Mißverständnisse der Philosophen cit., pp. 245-54. Sulla presenza dell’intuizione intellettuale negli scritti fichtiani di questo periodo, cfr. Ch. Hanewald, Apperzeption und Einbildungskraft. Die Auseinandersetzung mit der theoretischen Philosophie Kants in Fichtes früher Wissenschaftslehre, De Gruyter, Berlin-New-York 2001, p. 22, n. 44.

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Parte II

Commento alle Meditazioni personali sulla filosofia elementare

«La libera indagine di ogni possibile oggetto della riflessione, in ogni possibile direzione e fino all’infinito, è senza dubbio un diritto dell’uomo. […] La ricerca all’infinito è […] un diritto inalienabile dell’uomo» (J.G. Fichte, Zürückforderung der Denkfreiheit) «C’è un mezzo sicurissimo, ma è l’unico, per impedire le rivoluzioni violente: istruire a fondo il popolo sui suoi diritti e sui suoi doveri» (J.G. Fichte, Beitrag zur Berichtigung der Urtheile des Publikums über die Französische Revolution)

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Le Eigne Meditationen über ElementarPhilosophie sono la prima parte di un manoscritto di Fichte, conservato nella Biblioteca statale di Berlino, la cui continuazione porta il titolo Practische Philosophie1. La presente traduzione concerne quella prima parte, vale a dire le Eigne Meditationen in senso stretto, che costituiscono un’opera di carattere spiccatamente teoretico. In essa convergono in maniera diretta le riflessioni svolte da Fichte sulla filosofia kantiana e, in particolare, sulla piega che Reinhold le aveva conferito mediante l’elaborazione della sua ElementarPhilosophie. Lo scritto, come si sa e come il titolo stesso indica, non era destinato alla pubblicazione e Fichte gli aveva attribuito la funzione di riflessione, a fini personali, sui concetti principali del nuovo indirizzo di pensiero. Le numerose occasioni in cui Fichte si rivolge a sé stesso, con osservazioni che riguardano il suo proprio modo di procedere, esprimendo ora scoraggiamento, ora incitazione a continuare sulla via intrapresa, ora perplessità sui risultati raggiunti, testimoniano il carattere strettamente personale dello scritto. Nel corso del lavoro, tuttavia, l’approfondimento dei concetti porta gradualmente l’autore a mutare l’intenzione originaria e a prendere una direzione che oltrepassa l’intento di partenza per svolgere il compito, non preventivato, di presentare il suo pensiero in una fase delicatissima, che è quella della genesi della dottrina della scienza2. 1 Cfr. R. Lauth e H. Jacob, Vorwort alle Eigne Meditationen über die ElementarPhilosphie, cit., p. 4. Sul ruolo importante di questo scritto per la ricostruzione del pensiero di Fichte, in particolare della Grundlage, cfr. V.  Serrano Marín, Reflexiones acerca del papel de las “Eigne Meditationen” para la formáción del sistema transcendental de Fichte, in «Daimon. Revista de Filosofia», 9 (1994), pp. 40 sgg. 2 La composizione dello scritto fu iniziata nell‘ottobre 1793 e com-

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1. Logica e oggetto della filosofia elementare Lo scritto si apre con una breve trattazione della logica della filosofia elementare, e il pur breve paragrafo serve a mettere in luce alcune questioni di fondo, oltre che a dare l’indicazione circa il contenuto della disciplina che forma l’oggetto dell’indagine. Quest’ultima riguarda l’individuazione delle regole fondamentali secondo le quali si presentano, e devono presentarsi a noi, tutti i contenuti del nostro animo. Quelle regole non vengono date come sicuramente esistenti, ma di esse si dice che «possono esserci», mentre anche la loro conoscenza è presentata in termini ipotetici («se possono essere conosciute») (EM, p. 245). Di conseguenza, l’indagine in cui consiste la filosofia elementare condivide inizialmente il carattere ipotetico del suo oggetto, che sarà superato solo una volta che la filosofia elementare sarà stata compiuta3. Tutto quello che accade, non può che accadere in un animo, e ciò significa che tutto deve essere riferito all’unità sinpletata «qualche giorno prima» del 15 gennaio o, «al più tardi, a metà gennaio 1794» (R. Lauth e H. Jacob, Vorwort alle Eigne Meditationen, cit., p. 15). I Curatori precisano, sulla base di testuali riscontri, che lo scritto fu composto in parallelo con la stesura della Recensione all‘Enesidemo (cfr. ib., pp. 7-8). Per l’importanza delle Eigne Meditationen in vista della composizione della Grundlage e della sua comprensione, oltre alla già riportata definizione di R. Lauth, che le considera «dottrina della scienza in statu nascendi» (v. sopra, in corrispondenza della n. 11), cfr. la Présentation di I. Thomas-Fogiel alla traduzione francese, da lei curata, in collaborazione con A. Gahier, di J.G. Fichte, Méditations personnelles sur la Philosophie élémentaire, Vrin, Paris 1999, pp. 9-15. 3 Su che cosa Fichte intenda per filosofia elementare e sulla sua progressiva presa di distanza dal medesimo concetto reinholdiano, cfr. A. Seliger, Freiheit und Bild. Die frühe Entwicklung Fichtes von den Eignen Meditationen bis zur Wissenschaftslehre nova methodo, Ergon, Würzburg 2010, pp. 36-39. Che tuttavia già il titolo delle sue Meditazioni personali, che richiama la filosofia elementare, denoti l’accettazione di quel concetto, è sottolineato da I. Thomas-Fogiel, Critique de la représentaion, cit., p. 19.

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tetica del soggetto, e questa è anche la condizione basilare perché una qualsiasi cosa sia oggetto per noi. Si potrebbe dire, in termini kantiani, che l’Io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni, altrimenti queste, almeno per me, non sarebbero. A sua volta, la rappresentazione «Io penso» dev’essere ricondotta all’unità originariamente sintetica dell’appercezione che la produce e che, in quanto è, insieme, analitica e sintetica, esprime e garantisce l’unità e l’identità dell’autocoscienza4. Le ulteriori condizioni, perché qualcosa diventi oggetto per noi, devono procedere dall’unità del soggetto ed essere non solo coerenti tra loro, ma consentire anche che tutto ciò che accade in noi, a qualsiasi titolo (conoscenza, desiderio, intuizione, concetto, idea), «concordi» con esse. Al fine di portare alla luce quelle condizioni, si può procedere o mediante astrazione, ricavandole dalle concrete manifestazioni nel nostro animo, oppure, quando esse non dovessero presentarsi direttamente nei contenuti cui danno luogo, possono essere dedotte a partire dalle condizioni già emerse e sulla base delle leggi dell’Io, che però sono ancora da determinare. La filosofia elementare non è una manife4 Il riferimento è, naturalmente, al celebre § 16 della KdrV, B, pp. 108 sgg. (132 sgg.). W. Kabitz, Studien zur Entwicklungsgeschichte cit., p. 58, esprime delle perplessità a proposito della funzione attribuita da Fichte all’unità dell’appercezione, che in sede kantiana è riferibile solo alla rappresentazione e non, come Fichte aggiunge subito dopo, anche al desiderio. Credo che l’intento di Fichte, in questo contesto, sia quello di fornire una spiegazione di «tutto ciò che può accadere in noi», nel senso, intendo, di «tutto ciò che può essere oggetto della nostra coscienza», sia che esso ricada nell’ambito della filosofia teoretica, sia in quello della filosofia pratica. In questo senso credo vada inteso quel che scrive K. Hammacher, Kategorien der Existenz in Fichtes Eignen Meditationen über Elementarphilosophie, in K. Held e J. Hennigfeld  (a cura di), Kategorien der Existenz, Festschrift für Wolfgang Janke, Würzburg 1993, p. 89, a proposito del significato più esteso conferito da Fichte alle condizioni trascendentali della conoscenza rispetto a quello che ad esse veniva riservato dalla filosofia critica.

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stazione immediata del nostro animo, non è un suo prodotto spontaneo che si presenta tra gli altri, ma è piuttosto il risultato di una riflessione sulle condizioni originarie secondo cui agisce il nostro spirito, lungi dall’esserne, però, essa stessa condizione. Il suo obiettivo è portare in luce quelle leggi, seguendo regole certe, ma per farlo deve servirsi di quelle medesime regole che non sono ancora state dimostrate come vere. Prende forma, così, un circolo logico che si configura nell’impossibilità di andare alla ricerca delle leggi dell’Io «se non secondo queste stesse leggi»5. A proposito del circolo in questione, Fichte sostiene che, lungi dal rendere impossibile la prosecuzione dell’indagine, esso risulta essere l’ambito intrascendibile entro cui questa può e deve svolgersi6. L’esigenza di rigore della filosofia elementare, che parrebbe compromessa dall’impiego di regole non preventivamente dimostrate, viene salvaguardata dalla consapevolezza che quelle regole non sono casuali e arbitrarie, ma godono già del credito che deriva loro dall’essere accettate come valide dalla logica, la quale possiede un suo grado riconosciuto 5 EM, p. 247. Su questo aspetto e sulla conseguenza che ne deriva per la limitazione dell’ambito della nostra conoscenza, cfr. V. Scala, Dubbio sapere e fede nell’evoluzione del pensiero di Fichte (Diss.), RomaL’Aquila-Viterbo 2012, pp. 207-208. 6 Ovviamente Fichte non rivaluta come procedimento corretto l’errore logico che va sotto il nome di circolo vizioso nell’argomentazione, ma si riferisce esclusivamente alla condizione tipica dell’ente razionale finito, cui non è consentito oltrepassare la struttura all’interno della quale, soltanto, può conoscere e agire. Più avanti nel testo, parlando del nesso che lega tra loro quantità e qualità, Fichte si rende conto del pericolo di spiegare ciascuna delle due a partire dall’altra e precisa: «Nella filosofia elementare non deve, però, aver luogo alcun circolo. — Noi non dimostriamo affatto una cosa a partire dall’altra» (EM, p. 385, n. a). Sulla funzione del circolo in questo scritto di Fichte, cfr. G. Duso, Contraddizione e dialettica cit., pp. 188 sgg., mentre il ruolo fondamentale della contraddizione nella Grundlage viene evidenziato da Duso nel denso saggio Absolutheit und Widerspruch in der Grundlage der gesammten Wissenschaftslehre, in Der Grundsatz der ersten Wissenschaftslehre Johann Gottlieb Fichtes, cit., pp. 145-57.

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di scientificità. La soluzione che si prospetta per uscire dalla manifesta difficoltà, è quella, inusuale, di giungere alla dimostrazione della logica a partire dalla filosofia elementare. Infatti, se le regole della logica non possono essere dimostrate all’interno della logica stessa, possono esserlo dalla filosofia elementare, una volta che sia stata pienamente realizzata e sia emersa la sua verità interna. L’apparente semplicità della formulazione rinvia ad una articolazione interna abbastanza complessa, che chiama in causa il rapporto tra la logica e la filosofia elementare. Quest’ultima ha certamente bisogno di seguire la logica per potersi affermare come vera; la logica, da parte sua, rinvia necessariamente a un fondamento che, da sola, non può darsi e che unicamente la filosofia elementare può fornirle7. Fichte descrive il processo di fondazione della logica da parte della filosofia elementare dicendo che questa svolge quel compito, «sviluppando ogni volta la proposizione di cui essa avrà bisogno in quella successiva, in modo che, dunque, ogni proposizione, in sé materiale, divenga la condizione formale della seguente. Ciò darebbe luogo a una catena che non può essere spezzata. — Ma, allora, una logica formale non sarebbe possibile prima della filosofia elementare e sarebbero invece possibili unicamente considerazioni aforistiche sul suo modo di procedere» (EM, p. 249). Per comprendere meglio quanto espresso da Fichte in questo contesto, è opportuno riferirsi, su suo stesso implicito invito, al passo corrispondente delle Lezioni di Zurigo, di poco posteriori. In una nota inserita successivamente nel testo delle Eigne Meditationen egli scrive: «Sembra che nelle lezioni il principio Io sono 7 Un ragionamento analogo verrà sviluppato nello scritto Sul concetto della dottrina della scienza, ovviamente non più in riferimento alla filosofia elementare, ma alla dottrina della scienza; cfr. Über den Begriff der Wissenschaftslehre, § 6, pp. 137-140 (38-42). A proposito del circolo che viene a stabilirsi nel rapporto indicato fornisce utili indicazioni W. Janke, Fichte. Sein und Reflexion - Grundlagen der kritischen Vernunft, Walter de Gruyter & Co, Berlin 1970, pp. 92-93.

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sia effettivamente dedotto in modo sbagliato. — Credo che debba essere senz’altro dimostrato, ma all’interno del circolo, e cioè così: in quanto è un principio formale, a = a giunge alla coscienza; da ciò si può risalire ad esso come principio materiale, che non giunge alla coscienza. — E viceversa: dal contenuto ammesso del medesimo principio, si può ora dedurre la sua esattezza formale»8. Se ci riferiamo alle citate Lezioni, troviamo una formulazione che, oltre a introdurre la nuova definizione della filosofia, chiamata per la prima volta “dottrina della scienza”9, distingue il suo piano specifico da quello della logica formale in un modo che può essere utile per comprendere il passaggio delle Eigne Meditationen che qui interessa. Scrive, dunque, Fichte: «Io sono Io afferma la dottrina della scienza. A = A dice la logica. La logica riceve l’autorizzazione di sostituire A = A a Io = Io, poiché quel possibile A è qualcosa nell’Io. Se Io sono Io è dimostrato, allora è vero che A = A»10. 8 EM, p. 251, n. Sono diverse le note delle Eigne Meditationen aggiunte in un secondo tempo da Fichte e sono ispirate dalla sua presa di consapevolezza della mancanza di assolutezza dell’Io che, in quanto Io intelligente, rivela la sua dipendenza dal Non-Io. Al riguardo cfr. F. Moiso, Natura e cultura nel primo Fichte, Mursia, Milano 1979, p. 52. Buzzi indica puntualmente le note chiaramente posteriori alla stesura del testo, cfr. F. Buzzi, Libertà e sapere nella “Grundlage” (1794-95) di J.G. Fichte. Sviluppi fichtiani del problema deduttivo kantiano, Morcelliana, Brescia 1984, p. 291, n. 2. 9 Cfr. sopra, nota 4 della Parte I. 10 J.G. Fichte, Züricher Vorlesungen, cit., p. 93 (80). Al riguardo è opportuno ricordare che a Zurigo ebbe luogo l’incontro con Fichte di cui il poeta danese Jens Immanuel Baggesen (1764-1826) riferisce a Reinhold nella lettera dell’8 giugno 1794. L’incontro si svolse sulle scale di casa di Baggesen (che conia, per l’occasione, l’espressione: Treppenphilosophie, filosofia sulla scala) tra il 26 e il 31 ottobre, e fu seguito da una visita a Fichte il successivo 7 dicembre. Nel corso dei due colloqui Fichte lo mise a parte della sua scoperta, ancora da approfondire, concernente l’Io come principio della filosofia, suscitando nel suo interlocutore un’intensa emozione (cfr. J.G. Fichte im Gespräch cit, 1, n. 63, pp. 59-60). Tale emozione, tuttavia, lasciò presto il posto a una visione

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Il principio della logica formale A = A è quello che giunge alla coscienza e che esprime il principio di identità; quel che invece quella formula non esprime direttamente, in quanto non giunge alla coscienza, è il principio della filosofia elementare: Io sono Io. A differenza di quello della logica formale, il principio Io sono Io è un principio materiale che, per questo motivo, non è innalzato a consapevolezza, pur essendo condizione di possibilità del principio A = A. Quest’ultimo è espressione di un legame logico che, in quanto tale, non può sussistere senza la legittimazione che gli deriva dalla condizione materiale della sua possibilità. La verità formale è subordinata, dunque, alla verità materiale dell’identità dell’Io con sé stesso11, e se questo legame originario non sussistesse e non fosse riconosciuto nella sua validità assoluta, non potrebbe essere giustificato il rapporto di identità di un possibile A con sé stesso (cfr. ibidem). Tra la filosofia elementare e la logica si configura, allora, un rapporto che equivale a quello tra il contenuto della proposizione materiale, che non giunge alla coscienza, e il suo corrispettivo, che giunge alla coscienza nella forma di rapporto logico. La proposizione materiale fonda quella formale, costituisce la sua condizione di possibilità, dando inizio a un processo nel quale ogni proposizione materiale precedente fonda quella formale successiva, in una concatenazione il cui legame logico è sempre fondato su quello reale e soggiacente della filosofia elementare12. molto critica del pensiero di Fichte, così come lo stesso Baggesen la presenta a Reinhold nella lettera del 25 dicembre 1795, riportata ibid., pp. 210-219. Notizie dettagliate sulla genesi e sul contenuto delle Lezioni sono fornite da E. Fuchs, oltre che nella sua Introduzione alla citata edizione delle Züricher Vorlesungen, pp. 7-51, anche nel saggio J.K. Lavaters Nachschrift der Züricher Wissenschaftslehre, cit., pp. 56-73. 11 Credo che debba essere inteso in questo senso l’espressione «validità reale», utilizzata da Fichte nella Recensione all’Enesidemo e riferita al principio di identità (Rez. Aenesidemus, p. 44) (101). 12 Com’è noto, il tema del rapporto tra la logica e filosofia elementare,

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Torna allora in primo piano la caratteristica essenziale della filosofia elementare, che deve abbracciare la totalità delle manifestazioni dell’attività originaria dell’Io, sia quando agisce, sia quando è passivo. In quanto è riflessione sull’agire e sulla passività dell’Io, la filosofia elementare non è né sensazione, né intuizione, né volere, ma è riflessione sul modo in cui sensazione, intuizione e volere devono essere pensati. Ogni sua proposizione esprime, dunque, un pensiero, e poiché ogni pensiero è, a sua volta, espressione della regola secondo cui agisce il nostro spirito, dalla proposizione è possibile ricavare la regola. La proposizione materiale della filosofia elementare è la condizione formale dell’esattezza della proposizione della logica, così come si è visto nel caso del principio di identità. Tutto dipende, allora, dall’esattezza con cui procede la filosofia elementare e, più precisamente, dal contenuto dei suoi pensieri. Si tocca qui quella che Fichte definisce la questione vera e propria (cfr. EM, p. 253, n. a), perché la determinazione della materia della filosofia elementare è l’elemento discriminante tra l’impostazione dogmatica e quella idealista. Fichte chiarisce il proprio punto di vista difendendo Reinhold dall’accusa di Maimon13 di aver ammesso l’esistenza delle cose a presto divenuto tema scottante del rapporto tra la logica e la dottrina della scienza, sarà ripreso in più contesti da Fichte, a partire dallo scritto Sul concetto della dottrina della scienza. Si tratta di quel delicato coimplicarsi delle due discipline, che a sua volta s’inquadra nel più radicale e onnicomprensivo problema dell’introduzione alla dottrina della scienza. Su quest’ultima complessa tematica, esaminata nel corso dell’intero arco della produzione di Fichte, cfr. l’esauriente e documentato lavoro di F. Ferraguto, Filosofare prima della filosofia. Il problema dell’introduzione alla dottrina della scienza di J.G. Fichte, Olms, Hildesheim - Zürich - New York 2010. 13 In relazione al passo cui ci stiamo riferendo, Kabitz suggerisce di leggere «Enesidemo» al posto di «Maimon» riportato dal manoscritto, p. 1 verso, (cfr. W. Kabitz, Studien zur Entwicklungsgeschichte cit., p. 62, n. 2). R. Lauth e H. Jacob rinviano a S. Maimon, Streifereien im Gebiete der Philosophie, W. Vieweg, Berlin 1793, pp. 177 sgg., in partic. p. 212 n. 3 e p. 230 n. (cfr. GA, II, 3, p. 23, n. 2).

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partire dalla loro pensabilità. Le cose di cui parla Reinhold, ricorda Fichte, sono sempre fatti del nostro spirito, non cose in sé, oggettivamente esistenti. La questione da chiarire, nel suo caso e in quello della filosofia elementare, non riguarda il rapporto della rappresentazione con la cosa in sé, bensì il rapporto della rappresentazione con l’agire originario dello spirito, dal momento che oggetto della filosofia di Reinhold «non è la cosa in sé, bensì la rappresentazione della cosa»14. La distinzione è decisiva, perché nel caso dei fatti della coscienza viene ad essere eliminato ogni riferimento a termini esterni all’attività dell’Io, e tutto si gioca tra il suo agire originario e le rappresentazioni che esso produce. Riuscire a cogliere quelle manifestazioni dell’attività dell’Io, indipendentemente e prima della loro commistione con elementi empirici, consentirebbe di riscontrare, nel nostro Io, la presenza di un’intuizione interna pura, «che chiarisca e dimostri il pensare» (ibidem, n.). Se tale intuizione fosse riscontrabile, verrebbe allora meno anche l’obiezione di Enesidemo, che addita una difficoltà insormontabile proprio nella necessità di trovare un impossibile punto di contatto tra le rappresentazioni e le cose. La materia dei pensieri della filosofia elementare è costituita dai processi del nostro spirito, tradotti in concetti ed espressi in proposizioni. L’organizzazione coerente di tali proposizioni, secondo regole rigorose, dà luogo alla costruzione della filosofia elementare ma, ancora una volta, si fa avanti la figura del circolo, poiché il metodo utilizzato non è noto e nemmeno riconosciuto come valido, e può diventarlo solo a compimento dell’intero lavoro. Solo in questo caso, infatti, il metodo si sarà dimostrato affidabile e se ne potrà ottenere una comprensione adeguata, come una delle ultime parti della filosofia elementare. Da questa intrinseca limita14 EM,

p. 253. Su questo importante aspetto insiste F. Moiso, Natura e cultura nel primo Fichte, cit., pp. 41-42, che mette anche in rilievo il passo compiuto da Fichte in direzione del superamento della contrapposizione kantiana tra soggetto e oggetto.

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zione deriva che «Non posso dimostrare alcuna proposizione della mia filosofia elementare a un altro, se questi non ha esaminato la mia filosofia elementare fino alla fine e non è d’accordo con i suoi risultati» (EM, p. 255). Tale circostanza implica una conseguenza importante per la filosofia elementare, la cui validità può essere riconosciuta solo quando sia stata realizzata integralmente e possa vantare una evidenza interna, che la faccia risultare vera. Il tipo di dimostrazione che si può dare di essa consiste, allora, nella condivisione dei suoi risultati e si comprende che, in questo caso, si debba parlare di adesione a ciò che si presenta come vero piuttosto che di dimostrazione. A chi pretenda una dimostrazione della verità di tale filosofia si può rispondere soltanto additando quella verità interna, che non può essere esibita come si trattasse di una verità oggettiva o esterna, ma dev’essere colta con un atto intuitivo, in cui ha luogo una comprensione immediata e auto-evidente15. Nella nota riferita a Enesidemo, come si è visto, era stata ventilata la possibilità di una intuizione interna, ovviamente non sensibile, che renderebbe possibile il rapporto tra l’intuizione e il pensiero, senza necessità del riferimento problematico alla cosa in sé. Ora Fichte si mette alla ricerca di questa intuizione e si chiede se si diano intuizioni intellettuali pure. Si tratta di una domanda che, da un lato disattende il noto divieto kantiano di parlare di intuizione intellettuale in riferimento a un intelletto finito quale è quello umano16, dall’altro è coerente con l’impostazione data alla filoso15 «Una verità esterna non ha luogo in essa [scil.: nella filosofia elemen-

tare] e una simile verità, in linea di principio, non ha affatto luogo» (EM, p. 255). Il passo è già stato citato nella nota n. 97 della Parte I, in riferimento all’analoga tematica affrontata nel contesto della Zurückforderung. 16 Sul concetto di intelletto intuitivo in Kant e sui suoi sviluppi in Hegel, cfr. K. Düsing, Intuitiver Verstand und spekulative Dialektik. Untersuchungen zu Kants Theorie und zu Hegels metaphysischer Umgestaltung, «Il Pensiero», LV, 2016, di prossima pubblicazione. Sul divieto kantiano di rivendicare all’uomo la facoltà dell’intuizione intellettuale,

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fia elementare, cui viene riservata l’indagine relativa ai processi originari che hanno luogo nello spirito umano17. Per questo loro carattere, quei processi devono essere colti nella loro sorgiva spontaneità e quindi prima del loro mescolarsi con elementi empirici18. Perciò Fichte dichiara che «le forme della facoltà rappresentativa, delle quali stiamo parlando, sono intuìte in modo puramente intellettuale» (ibidem). In questa sua funzione di apprensione immediata delle forme pure della rappresentazione, l’intuizione intellettuale sembrerebbe coglierle nella loro origine. In realtà, quell’intuizione si rivolge, invece, a un contenuto che è già stato tradotto nell’attività del pensiero, e pertanto non è la forma ricercata nella sua assoluta e incontaminata purezza. Fichte tiene a sottolineare che i primi e originari facta del nostro spirito non si presentano in quanto tali e nella loro purezza, bensì solo come risultato di un processo induttivo attraverso cui giungiamo fino ad additarne la necessità: «I primi e più elevati facta stessi non giungono alla coscienza; il fatto più elevato che giunge alla coscienza è quello di Reinhold. — Il compito è solo di fare un esperimento, dal quale deve giungere alla coscienza che quei fatti si sono verificati in precedenza. — Il procedimento riflettente certamente deduce e trae conclusioni, ma da ciò non consegue il factum, bensì solo la sua necessaria accettazione» (ibid., p. 257). Nel riconoscere a Reinhold il merito di essere risalito fino nonché per i relativi rinvii testuali e bibliografici, si consenta di rinviare al mio Dottrina della scienza cit., pp. 40-42. 17 Reinhold aveva definito intellettuale quell’intuizione «la cui materia, secondo la sua costituzione oggettiva, è determinata dalla semplice facoltà rappresentativa» (L. Reinhold, Beyträge zur Berechtigung cit., p. 245; cfr. anche p. 249). 18 Nel Beitrag zur Berechtigung der Urtheile des Publikums über die Französische Revolution, p. 219 (65) Fichte aveva parlato dell’Io considerato nella sua purezza, e cioè preso «nella pura e originaria forma», ovvero del «nostro Io quale sarebbe senza alcuna esperienza» (cfr. sopra, in corrispondenza della nota n. 103 della Parte I).

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al gradino più elevato che fosse possibile raggiungere nel processo di retrocessione verso il principio da cui procede l’attività dello spirito umano, viene contestualmente rilevato che quel risultato non può essere definitivo, dal momento che il principio della coscienza rinvia, a sua volta, a fatti dello spirito che, pur non essendo possibile esibire nella loro concreta esplicazione, devono però essere postulati per giustificare l’esistenza di quelli intuibili19. Poiché questi ultimi non sono fondati su loro stessi e sono bisognosi di altro che li sostenga e li giustifichi, rinviano di necessità a qualcosa di più profondo da cui sono prodotti, e questi fatti ultimi devono essere ammessi, pur non potendoli rendere oggetti di esperienza. Prima di passare ad esporre la filosofia elementare stessa, Fichte si chiede se essa debba essere fondata su uno o più fatti del nostro spirito. In procinto di iniziare il suo tentativo, si dichiara aperto all’accettazione di ogni risultato che dovesse scaturire dalla sua ricerca: dalla sua piena riuscita, all’analisi dei motivi dell’eventuale fallimento, fino alla sua impossibilità e al conseguente abbandono del piano20. Il lettore sa, allora, di assistere a un esperimento, in cui è in gioco il senso e la riuscita dell’impresa che si sta tentando, cosicché il carattere «eigen», «proprio», nel senso di personale, del titolo dev’essere inteso anche nel senso di autentico e sincero, di un vero esperimento compiuto senza ancora conoscerne l’esito, 19 Sulla

inadeguatezza del principio reinholdiano della coscienza a fungere da fondamento per il sistema, Fichte si esprime anche nella lettera a Stephani di metà dicembre 1793 (cit., p. 28): «Dal nuovo punto di vista che mi sono conquistato, le nuove controversie sulla libertà appaiono molto spassose; e appare curioso che Reinhold voglia rendere la rappresentazione l’elemento generico di ciò che avviene nell’anima umana. Chi lo fa, se è conseguente, non può sapere nulla della libertà, dell’imperativo pratico e deve divenire fatalista empirico!». 20 Cfr. EM, p. 261. Anche nella Grundlage torna l’incertezza di Fichte circa il raggiungimento effettivo degli esiti, ad es., della filosofia teoretica, ma è agevole notare che in quest’opera il dubbio è utilizzato piuttosto come espediente retorico (cfr. Grundlage, p. 286) (102).

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così come confermano anche i numerosi commenti rivolti a sé stesso e ricorrenti nello scritto. L’incertezza, manifestata a proposito dell’unicità o della pluralità dei fatti dello spirito da assumere come principio del sistema, non impedisce a Fichte di individuare non nella rappresentazione, ma nell’Io, il primo principio, quello da cui prende le mosse la filosofia elementare21. Si fa subito chiaro, però, che la consapevolezza dell’Io implica la rappresentazione, mettendo così in luce un circolo nell’argomentazione e la conseguente necessità di trovare una via d’uscita. Lo sblocco della situazione aporetica non viene ottenuto con il ritorno al principio reinholdiano della coscienza, di cui Fichte certifica l’inadeguatezza nella Recensione all’Enesidemo, ma ribadendo la centralità dell’Io, del quale si dice: «“L’Io è suscettibile di intuizione”; “Intuisci il tuo Io”; “Tu sei consapevole del tuo Io”» (EM, p. 263). Esplicitando la concatenazione concettuale che lega insieme le tre formulazioni citate, emergono i caratteri che descrivono la natura della conoscenza che l’Io ha di sé e che ha, nell’autoreferenzialità, la condizione di base e il contrassegno capace di tradurre l’immediatezza propria dell’intuizione nella forma della consapevolezza di sé. Il poter essere intuìto non dice solo che l’Io è suscettibile di intuizione, ma implica l’esercizio dell’attività intuente, senza la quale l’intuibilità resterebbe solo virtuale. L’attività intuente, a sua volta, non può che essere quella dell’Io che intuisce l’Io suscettibile di essere intuìto. In tal modo si chiarisce anche il senso e la praticabilità dell’invito a intuire il proprio Io, che intanto può essere formulato, in quanto ciò che viene richiesto è alla portata di ognuno che sia capace di dire a sé stesso e di sé stesso «Io». Il risultato al quale si accede, una volta realizzata l’intuizione postulata, consiste nella consapevolezza che l’Io ha di 21 Sul motivo di questa scelta cfr. V. Serrano Marín, Reflexiones acerca del papel de las “Eigne Meditationen”, cit., pp. 45-46.

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sé nell’atto di intuire sé stesso. Tale consapevolezza esprime l’eccedenza rispetto alla semplice intuizione, giacché il livello della coscienza che viene evocato comporta quello dell’autocoscienza e quest’ultima, nella sua assolutezza, conferisce all’operazione l’auto-sussistenza che compete all’Io nell’atto di porre sé stesso. Si tratta di un risultato conseguito in modo immediato e di cui non si può dimostrare la genesi, così come non si può dimostrare il modo in cui diveniamo consapevoli dell’intuizione. Fichte ritiene talmente importante tale proposizione, da considerarla valida malgrado l’impossibilità di dimostrarla: «Chi diviene effettivamente consapevole del suo Io mediante questa intuizione, conferma a sé stesso la verità di questa proposizione, quand’anche non sia in grado di spiegarsela» (EM, p. 265). Non solo, ma se si volesse tentare di renderne conto in maniera discorsiva, si farebbe qualcosa che è addirittura contrario alla filosofia elementare (cfr. ib., p. 267, n. a). Il tipo di indagine che Fichte sta conducendo non concerne il «che cosa» sia l’Io, né riguarda la determinazione della sua essenza. All’Io si giunge in maniera immediata e da parte di ciascuno, e ciascuno deve già sapere per proprio conto quel che esso è, altrimenti non potrà mai scoprirlo, né alcuno potrà mai spiegarglielo. Non si tratta, dunque, di pensare l’Io, ma di intuirlo, e lo scambio tra queste due diverse attività è fonte di confusione per la filosofia elementare. Per chiarire ulteriormente il proprio punto di vista, Fichte caratterizza l’esigenza di pensare l’Io come un postulato, il cui accoglimento conduce a produrre l’intuizione richiesta. L’acquisizione così ottenuta assicura la consapevolezza di sé da parte di ciascun Io, ma tale consapevolezza rimane circoscritta all’interno della soggettività. Questa non esaurisce la sua funzione nel rifermento esclusivo a sé stessa, ma comprende anche conoscenze che riguardano il mondo esterno, di cui l’Io è consapevole e della cui esistenza è convinto. Parte integrante del compito della filosofia elementare è anche giustificare l’origine e la legittimità della convinzione dell’e-

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sistenza di cose esterne al di fuori di noi, nonché di altri esseri umani22. Il rinvio, ora emerso, al mondo esterno introduce un elemento ulteriore che, come si è visto, è necessario giustificare, ma che, insieme, costituisce un ingrediente indispensabile per la spiegazione del processo della conoscenza. Infatti, anche con le caratteristiche appena evidenziate, l’auto-posizione dell’Io è insufficiente a farlo uscire dalla rimarcata autoreferenzialità immediata e, a tal fine, è richiesto un secondo principio, che introduce il momento dell’opporre rispetto al semplice porre sé stesso da parte dell’Io, e quindi chiama in causa un elemento esterno rispetto alla sua pura attività. Il NonIo, che in tal modo si annuncia, mostra da subito la sua essenzialità nel rapporto con l’Io e, anzi, si rivela condizione di possibilità della consapevolezza di sé da parte di quest’ultimo. «Per divenire consapevoli del proprio Io, lo si deve poter distinguere da qualcosa che sia Non-Io. Pertanto, deve essere possibile divenire consapevoli anche di un Non-Io. […] Per poter pensare un Io, devo necessariamente pensare un NonIo»23. Il momento della posizione dell’Io costituisce, allora, 22 «Scopo

di una filosofia elementare è proprio quello di mostrare come ciò [scil.: la certezza del proprio Io] concordi con la convinzione dell’esistenza di cose esterne e, mediante queste, anche con l’esistenza di enti razionali esterni» (EM, p. 265). Si allude, qui, alla questione del riferimento dell’Io ad altri enti razionali e alla conseguente necessità della fondazione della pluralità dei soggetti, un tema che, notoriamente, diverrà ben presto centrale nell’economia del pensiero di Fichte, tanto che, secondo Philonenko, «il problema dell’intersoggettività è la questione capitale della prima filosofia di Fichte». Inoltre, sempre secondo questo illustre interprete, «Fichte ha costruito tutta la sua prima filosofia al fine di risolvere il problema dell’esistenza degli altri» (A. Philonenko, La liberté hamaine dans la philosophie de Fichte, cit., risp. pp. 21 e 24). Sull’argomento cfr. A Masullo, Lezioni sull’intersoggettività. Fichte e Husserl, a cura di G. Cantillo e C. de Luzenberger, Editoriale Scientifica, Napoli 2005, pp. 31-86; C. Cesa, J.G. Fichte e l’idealismo trascendentale, cit., pp. 189-233. 23 EM, p. 273. Illuminante, anche in direzione della confutazione

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il primo gradino per la costruzione della filosofia elementare, che resterebbe tuttavia insufficiente senza l’integrazione contestuale, coeva e immediata della proposizione successiva. Il secondo principio non è, dunque, risultato di una costruzione artificiale, ottenuta per via di argomentazioni24, ma una constatazione alla portata di qualunque Io, perché senza la sua efficacia l’Io stesso non potrebbe porsi. Dunque, l’imporsi del Non-Io si verifica non come conseguenza di un ragionamento o come esito di una deduzione per mezzo di concetti, ma mediante un’esperienza diretta e immediata. L’atto con il quale l’Io istituisce la distinzione tra sé e tutto quanto esso non è, cioè tra sé e il Non-Io, non è un atto razionale, ottenuto per via di un ragionamento al termine del quale l’Io si riconosca distinto da quel che esso non è, ma è un atto immediato che, per questa sua natura, coinvolge solo l’intuizione. Io e Non-Io, in quanto parimenti essenziali, risultano bisognosi l’uno dell’altro per poter essere quel che sono. Il Non-Io si trova, così, in una posizione di uguale dignità nei confronti dell’Io, finora considerato assoluto: «Entrambe le intuizioni, quella dell’Io e quella del Non-Io, sembrano nedello scetticismo, quanto scrive Moiso a chiarimento di questa parte dello scritto fichtiano: «In questo modo le obiezioni scettiche contro il criticismo debbono cadere, perché il nesso Io-Non-Io costituisce la premessa di qualsiasi pensiero; ciò vale nei confronti di Enesidemo, le cui critiche alla fattualità e all’empiricità del Saz des Bewußtseins debbono cadere quando si mostri che le operazioni di distinguere e porre in relazione sono a loro volta fondate in condizioni necessarie di ogni manifestazione di coscienza» (F. Moiso, Natura e cultura cit., p. 46). 24 «Il secondo principio non può essere dedotto, ma dev’essere presupposto come principio fondamentale» (EM, p. 271). Si tratta, a ben vedere, dell’anticipazione di quanto, con maggior forza, verrà esposto nella Grundlage, dove è esplicitamente ammesso e teorizzato che il secondo principio non può essere dedotto, ricavato per via di argomentazioni dal primo (cfr. Grundlage, p. 265) (82). Sulla impossibilità, nelle pagine delle EM cui ci stiamo riferendo, di dedurre il secondo principio dal primo, cfr. le pertinenti osservazioni di F. Buzzi, Libertà e sapere nella “Grundlage” cit., pp. 290-91; alle EM sono dedicate le dense e interessanti pp. 290-98.

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cessarie allo stesso modo, nessuna presuppone l’altra, nessuna si può dimostrare a partire dall’altra. [...] Entrambe quelle necessità non sono il risultato di un ragionamento, ma sono immediatamente certe» (EM, 273). Senonché, il testo contiene una riserva che manifesterà in seguito tutta la sua portata corrosiva, giacché soltanto «sembra» che tra Io e NonIo ci sia equilibrio, mentre le cose, come vedremo, stanno in modo ben diverso25. In linea con quanto finora emerso, anche la distinzione tra l’Io e il Non-Io è una distinzione immediata che, come tale, è affidata all’intuizione. A sua volta, le intuizioni dell’Io e del Non-Io, in quanto esperienze dalle quali risulta la rispettiva determinazione dei due termini, costituisce il contenuto materiale dal quale è possibile trarre la regola logica che esprime i rapporti vigenti al suo interno. E così, l’identità dell’Io con sé stesso e la sua opposizione al Non-Io costituiscono la base su cui si fonda il principio di identità. Il fondamento della logica formale, il principio di identità, non ha un’origine a partire dalla logica, ma la ricava da esperienze originarie e immediate e dalla loro traduzione sul piano formale. Il secondo principio racchiude un problema la cui soluzione richiede un passaggio articolato, giacché comprende in sé, in una formulazione unitaria, la presenza di termini tra loro opposti. Se nella coscienza Io e Non-Io sono opposti, occorre rendere intelligibile la compatibilità della loro coesistenza nella medesima, identica e indivisa coscienza. Per raggiungere tale obiettivo occorre unificare gli opposti e tale richiesta, formulata in questi termini e in questo contesto, risulta per ora inattuabile, come Fichte osserva in una nota successiva alla stesura del testo, nella quale scrive che Io e Non-Io «devono essere unificati, e tale unificazione non rien25 Che

l’asimmetria tra i due termini sia riscontrabile, Fichte lo osserva in nota (introdotta, forse, successivamente): «A, però, può essere senza Non-A. — –A non è condizione di A, perché questo contraddice apertamente il primo principio» (EM, p. 269).

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tra affatto nella filosofia teoretica. Unificare l’Io con il NonIo? Ciò accade solo in quanto l’Io è un Io rappresentante e non un Io esistente assolutamente» (EM, p. 275). Prima di giungere a maturare questa convinzione, Fichte ha operato una serie di tentativi, che a nostra volta seguiremo, limitandoci a riportarne solo il nucleo centrale dell’argomentazione, che peraltro ritorna in più occasioni.

2. Verso la spiegazione della rappresentazione Innanzitutto va chiarito che il quadro generale all’interno del quale vengono esperiti i tentativi di unificazione tra l’Io e il Non-Io è quello della rappresentazione, e che Io e Non-Io sono presi in considerazione solo ed esclusivamente in quanto riferiti alla rappresentazione. Ciò significa che tutti e due i termini sono intesi non come esistenti secondo lo status ontologico riconosciuto a ciascuno di essi dalla coscienza, ma come entrambi elementi costitutivi della rappresentazione. Ognuno dei due, in quanto oggetto di rappresentazione, occupa, all’interno di essa, uno «spazio» contiguo a quello occupato dall’altro, continuando in tal modo a mantenere la propria fisionomia e la propria identità con sé stesso. Il nucleo centrale della dimostrazione della possibilità di unificare Io e Non-Io risiede nella necessità, ancora tutta da verificare, di individuare un terzo termine, la cui natura dev’essere tale, che in esso Io e Non-Io siano identici ma, insieme, anche opposti. Indicati Io e Non-Io con le lettere A e B, il problema che si pone è quello di trovare un termine C, nel quale essi siano, insieme, identici e opposti. Il termine C è identico ad A in quanto è opposto a B, ed è identico a B in quanto è opposto ad A. C, in quanto tale, è in parte identico ad A, in parte identico a B, e per il fatto di essere solo parzialmente identico a ciascuno dei due, esso è anche differente da ciascuno di essi. Quello di differenza è il concetto che emerge in questo contesto e indica una identità solo parziale, che però non si dilata fino a divenire opposizione.

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Il differente non è, dunque, identico, ma nemmeno opposto, e si colloca in un ambito in cui sussiste una comunanza tra i termini che vi sono compresi, comunanza che però non è completa, altrimenti darebbe luogo all’identità, ma non è nemmeno così vacua da condurre all’opposizione tra i medesimi termini. Differente è, allora, né identico, né opposto; in quanto è l’uno, non è l’altro, e viceversa. Si comprende, in tal modo, come il termine C possa essere identico e insieme opposto ad A, identico e insieme opposto a B. A e B, in virtù della loro identità con C, si trovano ad essere a loro volta identici e insieme opposti e, per questo loro carattere, possono costituire il contenuto della rappresentazione restando, all’interno di essa, ciascuno identico a sé, ma anche differente dall’altro. Come si vede, il tentativo di Fichte di unificare gli opposti segue una strategia che, escludendo la relazione diretta, dalla quale conseguirebbe il reciproco annullamento, fa piuttosto ricorso alla mediazione di un terzo termine, C, nel cui ambito A e –A siano unificati26. Ma l’unificazione degli opposti in un terzo termine, pur segnando un loro avvicinamento, non coincide con il riconoscimento della loro identità, bensì soltanto con la diminuzione della distanza che li separa. Infatti, l’identità autentica, quella che viene perseguita, non è l’identità indiretta, raggiunta con l’interposizione di un termine medio, ma quella che esibisce la medesimezza dei termini stessi, e non nella comparazione, ma in sé e per sé. Ecco perché l’identità, in C, di A e –A, non è quella ricercata: Io e Non-Io sono sì riconosciuti omogenei, ma solo in quanto «existentia in conscientia» (EM, p. 305). L’elemento accomunante è il loro essere oggetto del sapere, e ciò significa che la loro uguaglianza è solo derivata e conseguente all’uguaglianza della coscienza in e con sé stessa, nella quale entrambi sono contenuti, mentre resta fermo il divario qualitativo che con26 –A subentra a B nella designazione dei termini costitutivi della rappresentazione, e credo che ciò avvenga perché la nuova formulazione esprime in modo più diretto e immediato l’opposizione ad A.

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tinua ad opporli in quanto Io e Non-Io. Il principio reinholdiano della coscienza chiarisce, infatti, che in esso non solo la rappresentazione è riferita al rappresentante e al rappresentato, ma che viene anche distinta da entrambi, sicché l’oggetto rappresentato continua a essere distinto dall’oggetto in quanto correlato della rappresentazione. In tal modo Io e Non-Io mantengono la loro reciproca opposizione, e si rende necessario un percorso diverso per produrre la sintesi unificatrice. Qualche pagina prima, articolando con un ulteriore termine la mediazione tra gli opposti, Fichte aveva portato in luce la possibilità della coincidenza di identità e opposizione tra l’Io e il Non-Io, e aveva formulato una domanda che, in quel contesto, resta senza adeguato approfondimento, ma fornisce una indicazione circa la direzione in cui cercare l’unificazione degli opposti. Il porre in relazione l’Io e il Non-Io presuppone che l’attività che svolge questo ruolo debba possedere requisiti tra loro apparentemente contrari, dovendo essa porre e opporre nel medesimo tempo. Non si può trattare di una qualsiasi attività dell’Io e perciò Fichte si chiede: «si tratta per caso dell’unità sintetica dell’appercezione?» (EM, p. 297). E cioè, quella duplice attività, per poter essere identica e opposta, deve procedere da una funzione originariamente unitaria e che, solo in quanto identica a sé stessa, è capace di comprendere in sé sia il porre sia l’opporre e, quindi, sia l’Io, sia il Non-Io. Viene così adombrata la funzione unificatrice dell’autocoscienza che, nel medesimo atto nel quale riferisce sé a sé stessa, insieme distingue però da sé quel che è a lei opposto, rimanendo identica a sé.

3. Deduzione delle categorie della relazione Nel medesimo contesto, Fichte cerca di portare in luce le categorie, a partire da quelle della relazione. La rappresentazione in quanto tale può essere considerata, in rapporto al suo contenuto, sia come espressione dell’Io, sia del Non-Io. Come contenuto mentale prodotto dell’attività dell’Io, essa

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è qualcosa di puramente soggettivo, come correlato oggettivo del termine di cui è rappresentazione, essa presenta invece una natura che rinvia alla dimensione oggettiva. Come estensione della soggettività, la rappresentazione ne è manifestazione o modificazione, cioè un accidente, la cui sostanza è l’Io; come correlato di un elemento oggettivo, essa ne è l’effetto, mentre questo è la causa. In tal modo vengono in luce le categorie della sostanza e della causalità, mentre l’azione reciproca risulta dall’inserimento di un ulteriore termine medio, x, tra la rappresentazione, l’Io e il Non-Io. «Si prenda un terzo termine, che sia identico e opposto, vale a dire differente dalla rappresentazione. Esso sia identico e opposto all’Io e sia identico e opposto al Non-Io. — Sia identico alla rappresentazione in quanto è identico all’Io (e in quanto opposto al Non-Io); sia identico alla rappresentazione in quanto è identico al Non-Io / E in quanto opposto all’Io. — Se questo dev’essere possibile, allora esso deve essere opposto a sé stesso» (EM, p. 281). La caratteristica di x di essere, insieme, identico e opposto a sé, fa di esso l’espressione e la manifestazione della categoria dell’azione reciproca. Una volta ottenute le categorie della relazione, Fichte passa a quelle della qualità osservando, in nota, che tra esse si presenta per prima quella della limitazione. Questa si ricava dal concetto, già guadagnato, della differenza: «Il concetto originario di differenza, che qui viene dato per primo», è quello della limitazione (EM, p. 295). Infatti, la limitazione consiste nell’essere, due cose opposte, unificate in una terza, che non deve però essere identica né all’una, né all’altra, così come non dev’essere opposta né all’una, né all’altra. In questo modo hanno luogo una identità e un’opposizione non assolute, ma determinate che, prese nella loro unione, esibiscono una realtà parziale e un’altrettanto parziale negazione. Realtà e negazione non sono presenti nella loro assoluta purezza, poiché nella limitazione «la negazione è un non-essere determinato, / è un negare una realtà determinata e non l’esistenza in generale» (ibidem).

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Grazie alla limitazione, Io e Non-Io coesistono nella rappresentazione, e in essa sono anche in azione reciproca. Si tratta di un’osservazione importante, perché apre alla possibilità, per l’Io e per il Non-Io, di agire l’uno sull’altro, in virtù dell’appartenenza a questa comune dimensione. I caratteri precedentemente emersi dell’Io e del Non-Io, assoluta attività e assoluta passività 27, vengono ora integrati e all’Io si riconosce la capacità di essere anche passivo, al Non-Io quella di essere attivo. Questo passo ulteriore nell’indagine viene reso possibile dalla constatazione che «mediante C, dunque, A e Non-A entrano in azione reciproca, e comunque si limitano reciprocamente (in C)» (EM, p. 299). Perché l’Io possa essere limitato dal Non-Io che su di esso agisce, occorre che sia dotato della capacità di accogliere l’azione modificatrice derivante da quest’ultimo e, a tal fine, viene postulata la «ricettività dell’Io (in base alla richiesta causalità del Non-Io)» (ibid.). Le pagine dedicate alla giustificazione della possibilità dell’incontro tra il soggettivo e l’oggettivo sono alquanto tormentate e presentano varianti del medesimo problema di fondo, con diversi e reiterati tentativi di soluzione. È evidente che i due termini, in quanto opposti, se riferiti immediatamente l’uno all’altro, subiscono il reciproco annullamento e la reciproca distruzione. Occorre, perciò, pensare il loro rapporto come mediato da un terzo termine e, come si è visto, la funzione mediatrice viene svolta dalla rappresentazione. In essa convivono il momento soggettivo, che ha innalzato la sensazione a contenuto della coscienza, e il momento oggettivo, costituito dall’aspetto per cui la rappresentazione è correlato di un oggetto esterno. La rappresentazione, in quanto tale, pone in relazione i termini opposti, facendo in modo che essi non si annullino reciprocamente. La rappresentazione C è identica all’Io, in quanto espressione del suo momento soggettivo, è identica al Non-Io, in quanto momen27 «L’Io

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ha spontaneità, mentre il Non-Io no» (EM, p. 303).

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to corrispondente all’oggetto esterno. In quanto è identica all’Io, essa è opposta al Non-Io, in quanto è identica al NonIo, essa è opposta all’Io. In quanto identica all’Io e al NonIo essa contraddirebbe sé stessa e, se fosse realtà o negazione, si sopprimerebbe. Ma la rappresentazione non è né realtà, né negazione, bensì «limitazione di entrambe ed è pensabile solo in relazione con esse» (EM, p. 315). Per pensare la rappresentazione occorre, allora, fare attenzione al punto di vista di volta in volta assunto e, con questa cautela necessaria, si evita la contraddizione che la dissolverebbe. Considerati quali contenuti opposti all’interno della medesima rappresentazione, Io e Non-Io mantengono in essa la rispettiva fisionomia, vale a dire, la loro identità con sé stessi. Questo vuol dire che, allora, essi devono reciprocamente limitarsi, essendo la rappresentazione la dimensione unitaria e comune nella quale trovano collocazione. Poiché l’Io e il Non-Io sono entrambi limitati, non sono presenti nella loro assolutezza, e ciascuno di essi rinuncia a riempire di sé l’intera rappresentazione a vantaggio della presenza dell’altro, che lo limita. La limitazione reciproca tra Io e Non-Io implica che ciascuno di essi agisca sull’altro, dando luogo al già segnalato rapporto di azione reciproca. Il Non-Io agisce sull’Io mediante la rappresentazione e questi, a sua volta, reagisce, modificando il Non-Io, sempre attraverso la rappresentazione. L’Io, in quanto ricettività, accoglie il contenuto che gli viene offerto dalla sensibilità, e in questo movimento esso viene modificato dal Non-Io. Nella medesima operazione con la quale recepisce il contenuto fornitogli dalla sensibilità, l’Io elabora la materia che gli viene offerta e non l’assume nella sua datità immediata, rendendola contenuto della rappresentazione. Il tipo di conciliazione tra Io e Non-Io che viene raggiunto sulla base della limitazione e dell’azione reciproca, è sempre all’interno della rappresentazione o della coscienza e pertanto i due diversi tipi di intuizione continuano a restare non assimilati. La funzione del limite, di costituire la li-

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nea di congiunzione degli opposti, resta in realtà inefficace, dal momento che la relazione, come Wirkung dell’Io sul Non-Io come sostanza e del Non-Io sull’Io come causa, non può essere spiegata con il riferimento al limite, in quanto l’indisponibilità del principio di ragion sufficiente impedisce che la relazione possa essere dedotta a partire dalla limitazione. «Realtà e negazione, scrive Moiso, non appaiono […] mai realmente insieme in nessun punto, la contraddizione è semplicemente rinviata all’infinito, e in nessun punto avviene una vera sintesi delle due intuizioni che spieghi la rappresentazione»28. A differenza di quanto avvenuto con il principio di identità e con quello di non contraddizione, quello di ragion sufficiente non è ancora stato fondato adeguatamente, e perciò esso non è abilitato a garantire la correttezza logica dei passaggi compiuti mediante il suo utilizzo. La registrazione di tale mancanza provoca un duro contraccolpo nel processo di avanzamento della ricerca, giacché Fichte si rende conto che, non disponendo di una ragione sufficiente, di «una causa per pensare quello che devo pensare» (EM, p. 317), è compromesso il procedimento sintetico, essendo insicura ogni conclusione, a prescindere dalla validità delle premesse. Fichte si chiede, ora, se la scelta di fondare la filosofia elementare su un solo principio piuttosto che su una pluralità di essi possa essere stata alla base del risultato deludente cui è giunto, o se questo sia dovuto al mancato approfondimento della conoscenza dell’Io. Egli deve anche avere avuto un dubbio a proposito del ruolo del Non-Io e della necessità del suo coinvolgimento nella costruzione della filosofia elementare, dubbio che peraltro respinge decisamente: «No, senza Non-Io non ho alcuna comparazione» (ibidem), e circoscrivere la filosofia all’Io sarebbe impresa del tutto sterile. Tuttavia, prendere le mosse dall’Io teoretico ha comportato la conseguenza di vederlo contrapposto in modo asso28 F.

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Moiso, Natura e cultura nel primo Fichte, cit., p. 50.

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luto al Non-Io, e tutti i tentativi di conciliazione esperiti al fine di spiegare il factum, e cioè l’incontro tra essi, non potevano che fallire. La presa di consapevolezza di questa risultanza spinge Fichte a ipotizzare una soluzione diversa, che debba prevedere l’indispensabile principio di ragion sufficiente e consentire il passaggio a una dimensione diversa da quella nel cui ambito si collocano le considerazioni svolte finora. L’Io teoretico, nel mostrare la sua imprescindibilità dal Non-Io rivela, insieme, la sua dipendenza da esso, vanificando in tal modo la pretesa assolutezza di quell’Io dal quale si era partiti. Il risultato è che «Io e Non-Io sono essi stessi assolutamente condizionati. — Sì, l’Io» (ibidem). Il sottolineare che anche l’Io è condizionato esprime la presa d’atto, da parte di Fichte, della inadeguatezza dell’Io teoretico a fungere da principio per l’intera filosofia, e dalla medesima presa d’atto scocca la «scintilla» che fa balenare la necessità del passaggio, attraverso il principio di ragion sufficiente o l’imperativo categorico, alla filosofia pratica e alla conseguente fondazione della filosofia elementare in una diversa e più comprensiva dimensione. Con le parole di Fichte: «con il puro principio formale non riesco ad andare avanti, esso mi spinge all’infinito, senza rendere possibile il factum. — Devo dunque avere un principio incondizionato, assoluto, un’unità suprema, / che potrebbe forse essere il principio di ragione / — e, infine, l’imperativo categorico» (ibidem). Fino a quando non si arrivi a un tale principio, si succederanno proposizioni a proposizioni, verranno individuati altri fatti della coscienza, ma l’obiettivo finale resterà disatteso. Si potranno ripetere i tentativi di conciliazione mediante un terzo termine che unisca i due opposti, ma l’unificazione sarà solo apparente e provvisoria. Scrive Fichte: «A e –A devono essere collegati in C. Tuttavia, C è opposto a sé stesso e dev’essere collegato in D, ma D dev’essere a sua volta collegato in E e così via. In tal modo il factum non viene mai spiegato, fino a quando non mi imbatto in un’unità, che non sia

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di nuovo opposta. — Devo pertanto ricercare nella mia coscienza un fatto che mi metta in condizione di istituire il collegamento. C sarebbe questo incondizionato / — e ciò conferirebbe alla ricerca un nuovo andamento» (ibidem). L’unità di cui occorre andare alla ricerca è ora un’unità assoluta, che non deve contenere, come quelle finora sperimentate, l’opposizione. Il termine C che viene utilizzato, in questo contesto non designa la rappresentazione, ma l’incondizionato che deve essere a fondamento dell’intera costruzione e che, per questo motivo, riesce a conferire alla ricerca un modo di procedere del tutto diverso da quello finora seguito.

4. Passaggio alla seconda parte Pur avendo rilevato l’inadeguatezza del tentativo di unificazione degli opposti attraverso il loro comune riferimento a un terzo termine, Fichte sembra restio ad abbandonare questo stile di ragionamento e va ancora una volta alla ricerca del termine mediatore in grado di collegarli, ma non è improbabile che sia proprio il carattere sterile del tentativo che lo porta a chiedersi «perché ti scoraggi?» (EM, p. 321) e che gli consiglia di ricominciare la ricerca da capo. E, in effetti, Fichte riprende le riflessioni già svolte in precedenza a proposito della capacità dell’Io di intuire sé stesso (cfr. ib., pp. 263-65) e le articola in un nuovo contesto, partendo dalla constatazione che, nella coscienza, l’Io è opposto al Non-Io. Illustrando il postulato in cui consiste il factum, e cioè la compresenza di Io e Non-Io nella coscienza, nella forma dell’opposizione, Fichte precisa che, sulla base di tale factum, è possibile divenire consapevoli del proprio Io. La consapevolezza in questione non è suscettibile di dimostrazione, ma deve essere attinta direttamente e immediatamente dall’Io interessato, e chi non dovesse essere in grado di farlo, non può certo aspirare a filosofare, né aspettarsi che qualcuno gli spieghi che cosa sia l’Io e che cosa sia la consapevolezza che l’Io ha di sé. Si tratta, infatti, di una intuizione e non

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di un pensiero, e perciò può essere conseguita solo mediante un’esperienza immediata e diretta. Parlando, poi, della coscienza, precisa che anche nel suo caso non si tratta di pensarla, «bensì soltanto di come ci sentiamo [wie es uns […] zu muthe ist], immediatamente, quando ci rappresentiamo l’Io. – Come ci sentiamo [wie es uns […] zu Muthe ist] quando intuiamo il nostro Io, questa è la coscienza di cui si parla qui e di nient’altro» (EM, p. 321). Conformemente alla richiesta inderogabile che Fichte rivolge a colui che vuole seguirlo in filosofia, anche qui si esige la partecipazione attiva del lettore, e non soltanto sul piano strettamente teoretico, ma su quello che abbraccia, con l’individuazione dello stato d’animo, il «come ci si sente» nella situazione specifica nella quale l’Io sperimenta la consapevolezza di sé. Si può forse anticipare su questa base che la comprensione del principio – in questo caso: del principio della filosofia elementare – non può avvenire esclusivamente sul piano intellettuale, ma coinvolge anche una sfera apparentemente estranea e a lungo considerata pregiudizievole per la filosofia, quella del sentire29. Dunque, il principio non va solo pensato, ma dobbiamo noi stessi renderci oggetto di os29 Non a caso, fin dalle prime battute dello scritto, Fichte pone in rilievo che tra le condizioni rigorosamente teoretiche che sono alla base dell’unità soggettiva autocosciente e che costituiscono la filosofia elementare, è presente anche la Begehrung, il desiderio. Naturalmente il sentire e tutta la sfera emotiva con esso connessa sono argomento di pertinenza della filosofia pratica, ed è nel suo ambito che viene preso in considerazione da Fichte che, infatti, una volta concluse le Eigne Meditationen, passerà alla Practische Philosophie. D’altra parte, come già per Kant, anche per Fichte la separazione tra filosofia teoretica e filosofia pratica è in funzione dell’analisi approfondita dei rispettivi domini, ma non può, né deve essere dimenticato che l’Io, al quale si rivolgono sia la filosofia teoretica, sia quella pratica, è sempre il medesimo, indiviso e indivisibile Io, le cui attività possono comprendere, in misura maggiore o minore, le diverse componenti, ma nessuna delle due sarà mai assente, anche in presenza della prevalenza schiacciante, e perfino apparentemente esclusiva, dell’altra.

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servazione per noi stessi, attenti a cogliere lo stato d’animo che accompagna l’intuizione del principio. Questo dev’essere reso oggetto di una comprensione che non si limiti ai contenuti puramente mentali, ma restituisca anche lo stato emotivo che corrisponde al «come ci sentiamo» nell’eseguire l’atto con il quale intuiamo il nostro Io30. La consapevolezza di noi stessi, completata dalla coscienza dello stato d’animo che l’accompagna, costituisce il contenuto concreto del postulato che è alla base della possibilità di filosofare, e Fichte chiarisce con energia che soltanto da tale base tutto può e dev’essere spiegato e che al di fuori o al di là di essa non è possibile filosofare. Come in precedenza era stata chiamata in causa, oltre all’intuizione dell’Io, anche quella del Non-Io, lo stesso viene fatto qui, ma questa volta viene postulato che si possa divenire consapevoli del Non-Io (cfr. EM, p. 323). E se, a proposito di quel che è l’Io, ciascuno deve sperimentarlo direttamente in sé stesso, il Non-Io viene invece determinato in modo esclusivamente negativo, come ciò che l’Io non è, e cioè come il suo assoluto contrario. Tornando al principio che esprime il factum («nella coscienza l’Io è opposto al Non-Io»), Fichte riconosce che vi è presente il tipo di intuizione che esso stesso richiede poiché, per far emergere l’opposizione, è indispensabile che l’Io intuisca sé stesso, ma insieme distingua da sé, opponendolo a sé, il Non-Io. Di conseguenza, in essa sono ugualmente contenuti i concetti di realtà e quello di negazione e, come accadeva già nella prima parte, anche i princìpi di identità e di non contraddizione. Essendo l’Io e il Non-Io assolutamente indeterminati, anche i concetti di realtà e di negazione da essi ricavati non possono che essere del tutto forma30 Questa componente extra-concettuale della immediatezza della Thathandlung viene sottolineata anche da Gueroult, il quale scrive che, nella coscienza che la realizza, «l’attività originaria non è concepita, ma vissuta, colta istantaneamente e direttamente» (M. Gueroult, L’évolution et la sctructure de la doctrine de la science chez Fichte, cit., p. 189).

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li (cfr. ibidem). Il factum in questione è, però, tale da superare la loro irrelata opposizione, in quanto questa ha luogo all’interno dell’orizzonte comprensivo della coscienza, che abbraccia realtà e negazione e le connette in unità. La coscienza può espletare questo ruolo unificatore solo in quanto è, a sua volta, unità e comunica questo carattere alla realtà e alla negazione, fungendo da termine medio che ne fa emergere l’identità parziale. In quanto riferita a entrambi i termini opposti, la coscienza non può essere né identica, né opposta a uno dei due, perché allora sarebbe opposta o identica all’uno o all’altro, ciò che ne contraddice la funzione. Essa dev’essere, allora, sia identica, sia opposta a ciascuno dei due, il che significa che è differente da ciascuno di essi. Il concetto della differenza, che qui viene ribadito, dice che qualcosa è, contemporaneamente, identico e opposto a qualcos’altro, salvaguardando così sia ciò per cui i due termini si oppongono, sia ciò per cui sono identici. Riportato al caso della realtà e della negazione, la loro differenza non annulla interamente la loro identità e la loro opposizione, ma le lascia sussistere nella forma di realtà limitata che, per esser tale è, sì, realtà, ma non la realtà nella sua assolutezza, ed è, sì, negazione, ma anche questa non in modo assoluto. Realtà e negazione trovano, allora, concreta espressione nella limitazione e il limite costituisce, insieme e in maniera indivisa, il punto di congiunzione degli opposti, ma anche il punto a partire dal quale l’opposizione ha inizio31. La conseguenza che Fichte ne trae per la coscienza, è che questa, in quanto punto di congiunzione di termini opposti e limitati, non può che essere a sua volta limitata. La limitazione della coscienza è ricavata nel modo indicato, ma sarà confermata dopo un ulteriore percorso e come 31 «Nel punto in cui è il limite, inizia il contrario. — Ogni confine è duplice. Dunque, il contrario inizia da entrambi i lati. Riconosco il limite semplicemente con il subentrare della realtà opposta» (EM, p. 357).

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esito della chiamata in causa e della successiva giustificazione della quantità. Fichte riconosce, in un primo momento, che la categoria della limitazione rinvia di per sé stessa alla quantità, che però non è ancora stata dedotta formalmente. Tuttavia, essa viene ammessa provvisoriamente come terzo termine capace di superare la contraddizione nella quale si trova la coscienza nel dover essere realtà e non realtà, negazione e non negazione: «poniamo che questo terzo termine sia la quantità e la cosa è risolta» (EM, p. 327). Ora, però, incombe il compito di giustificare la quantità, e questo passaggio è particolarmente importante non soltanto in quanto chiama in causa quella categoria ma, e soprattutto, perché approfondisce un tema già precedentemente emerso e che riguarda la dimensione del sentire, la cui essenzialità viene confermata in modo univoco. Poiché realtà, negazione e limitazione non sono ancora riuscite a raggiungere l’obiettivo di rendere possibile la spiegazione del factum, Fichte postula la necessità della presenza, nel nostro spirito, di qualcosa di diverso e ulteriore rispetto alla realtà, e tale da essere in grado di ricondurre l’Io a sé stesso. La consapevolezza, come ritorno in sé da parte dell’Io alla quale ci si riferisce qui, non concerne soltanto il livello della coscienza di sé che è alla base della coscienza di altro e la rende possibile, ma quella che colora emotivamente quella consapevolezza in quanto, insieme con la cosa, la coscienza sente anche l’Io. Fichte scrive: «Seconda intuizione. – Si sente la propria egoità, ora più, ora meno» (ibidem). Nella intuizione di un qualsiasi contenuto empirico, con la coscienza che se ne ha, e intrecciata con essa, si ottiene, insieme, una consapevolezza dello stato emotivo dell’Io intuente, la cui misura varia a seconda delle circostanze. Ci sono situazioni nelle quali la consapevolezza che l’Io ha del suo stato è molto acuta e, nella coscienza della cosa, questa passa in secondo piano rispetto alla coscienza di sé; e ci sono occasioni opposte, in cui il livello di consapevolezza di sé è talmente attutito e blando, che l’Io quasi si perde e oblia sé stesso nella

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coscienza della cosa32. Probabilmente è a questo stato di cose che Fichte si riferisce quando scrive, in modo che verrà chiarito subito dopo: «[…] potrei costruire la cosa solo nell’Io? — Allora si dovrebbe contrapporre l’intuizione dell’Io all’intuizione dell’Io stesso, — e in tal modo verrebbe fuori la quantità» (ibidem), salutando con esultanza («gioia su gioia!») il risultato intravvisto. Quel che viene cercato è sempre il terzo termine tra realtà e negazione e se ci dev’essere qualcosa d’altro, oltre alla realtà, « l’Io deve poter essere opposto all’Io stesso e, a partire dall’opposizione dell’Io1 all’Io2, deve risultare, se possibile, il terzo termine» (EM, p. 329). La formulazione, ancora alquanto oscura, viene chiarita postulando, innanzitutto, che l’opposizione dell’Io con sé stesso sia possibile nella coscienza e, una volta acquisita questa possibilità, si passa a vederla concretamente operante. Fichte invita a prendere in considerazione il ricordo di una sensazione provata e a comparare l’Io che ricorda la sensazione con l’Io che attualmente lo pensa. I termini della comparazione sono i due Io, a prescindere dal rispettivo contenuto che ne accompagna la consapevolezza. Ebbene, tra l’Io del ricordo e quello che attualmente lo pensa c’è, evidentemente, un diverso grado di chiarezza della rispettiva consapevolezza. Continuando l’esperimento, Fichte chiede all’interlocutore: «Rappresentati il tuo Io e opponilo al Non-Io; prosegui e ti accorgerai, così, che l’opposizione diviene più chiara. Per mezzo di che cosa distingui l’intuizione del tuo Io di due minuti fa dall’attuale? — Per mezzo della quantità» (ibidem). Ecco che, allora, la quantità si configura come il terzo termine a lungo ricercato, ed essa consente alla realtà di sopportare una distinzione al suo interno, senza dar luogo 32 Più

avanti nel testo Fichte esemplificherà questa condizione mostrando che essa è quella nella quale l’Io si abbassa fino disperdersi nel Non-Io: «–A sarebbe A disperso nel tempo, nello spazio, e nella sensibilità, ciò che poi è anche vero» (EM, p. 577).

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a contraddizione. Infatti, due realtà che si distinguono tra loro per diversa grandezza, differiscono per questo motivo, ma non si distruggono reciprocamente. Applicato al rapporto tra A e –A in C, questo significa che la rappresentazione può accogliere una quantità maggiore o minore di Io o di Non-Io, senza per questo farsi dissolvere dalla contraddizione. La conquista della quantità consente la riscoperta, insieme con la differenza, del limite, mentre il necessario riferimento della rappresentazione all’Io e al Non-Io, e di questi tra loro e alla rappresentazione, riporta in primo piano le categorie della relazione.

5. Quantità, sensazione, misura Il risultato più importante che viene raggiunto in questo contesto e che avrà rilievo anche successivamente, è connesso con la scoperta della quantità a partire dall’Io. Infatti, se l’Io è quantità determinata, ciò implica che abbia in sé anche la negazione, e questo sembra contrastare con la sua proprietà essenziale, che è quella di essere realtà con esclusione della negazione. Abbiamo però scoperto sopra che l’Io può avere una serie di gradazioni quanto alla sua presenza in C e che, di conseguenza, anche l’Io che è sostanza della rappresentazione mutevole nella quantità è, a sua volta, diverso dall’Io di un’altra rappresentazione. Da quanto precede abbiamo anche appreso che la differenza tra l’Io della rappresentazione «a» e l’Io della rappresentazione «b» è data dalla quantità, vale a dire dal grado di chiarezza con la quale l’Io intuisce sé stesso insieme con il contenuto empirico dell’intuizione. Naturalmente la possibilità di istituire tale gradazione è subordinata alla presenza, nell’Io, di una continuità che lega insieme le due diverse intuizioni e che, comparandole, consente di registrarne la diversa chiarezza. Affinché sia possibile il porre in relazione, occorre che ci sia un termine unitario che, scorrendo tra quelli da riferire, mantenga però l’identi-

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tà con sé stesso. Nel caso in questione, i termini da porre in relazione sono due Io che intuiscono due contenuti diversi e che, per questo motivo, intuiscono anche sé stessi in maniera diversa. L’elemento che può fungere da unità dalla quale procede la possibilità del porre in relazione i due Io non può che essere, a sua volta, un Io, ma questo non può coincidere con uno degli Io da relazionare, bensì deve comprenderli entrambi e costituire il loro dinamico punto di congiunzione. Evidentemente, l’Io così configurato eccede i caratteri di ciascuno degli Io intuenti per assumere quelli che si era visto competere all’Io originario, la cui natura è assoluta realtà. Qui Fichte compie un passo avanti nella determinazione di quella natura, confermando, da un lato, che l’Io originario è assoluta realtà e che non ha negazione, ma aggiungendo, dall’altro, che esso è tuttavia «suscettibile di negazione» (EM, p. 335). Si tratta di un’aggiunta di non poco conto, che apre la via per la comprensione della modificabilità dell’Io quale si manifesta nelle sue diverse intuizioni, e del contemporaneo mantenimento della sua identità con sé stesso. Dell’Io originario, quello del primo paragrafo, non è possibile dire molto, dal momento che esso è assoluta realtà, cui si contrappone l’altrettanto assoluto Non-Io. Il fatto che esso sia ora considerato suscettibile di negazione, potrebbe far pensare che ciò avvenga ad opera del Non-Io. Si è però avuto modo di constatare che l’assolutezza di entrambi i termini rende impossibile una loro diretta interazione e quindi, in questo contesto, l’annuncio della presenza della negazione nell’Io dev’essere spiegata diversamente. L’indicazione che viene fornita riconduce l’origine della negazione dell’Io all’interno dell’Io stesso: «l’Io viene limitato unicamente dall’Io» (ibidem), ed è in tale direzione che siamo invitati a trovare la risposta. La limitazione, si è visto, può essere interpretata anche come opposizione e i due Io da porre in relazione, prima di essere collegati, sono tra loro opposti. In quanto opposti, essi sono anche differenti e la loro differenza è di carattere

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quantitativo e perciò è soggetta a misura: uno dei due Io ha un grado di chiarezza maggiore, l’altro minore. La possibilità di misurare tale differenza risiede nel fatto che entrambi quegli Io sono espressione limitata di una illimitata attività originaria consapevole di sé, che in ciascuno dei due si è determinata, passando immediatamente ad assumere altre configurazioni. La precisazione che interviene, e che Fichte invita a non sottovalutare, toglie ogni dubbio circa la causa della limitazione: «Mediante l’intuizione è […] dato solo che l’Io è limitato dall’Io, e non che esso è limitato dal Non-Io» (ibidem). Nell’intuizione l’Io coglie un contenuto determinato e questo costituisce il correlato oggettivo dell’intuizione. Nella medesima intuizione, però, l’Io coglie altrettanto necessariamente sé stesso, ma si coglie come modificato da ciò che si presenta come il correlato oggettivo della rappresentazione che esso se ne forma. Tale modificazione corrisponde a come l’Io si sente nell’atto di compiere quella determinata intuizione ed è diverso dal modo in cui l’Io si sentirà nel momento successivo, in occasione di una nuova e diversa intuizione. Quel che è in gioco, in relazione alla limitazione, è proprio il sentirsi limitato dell’Io ed è ora chiaro che la consapevolezza della limitazione dipende dall’Io stesso. La descrizione di questo processo viene ripresa in una delle numerose riproposizioni della medesima tematica e apporta un contributo notevole alla sua chiarezza complessiva, tesa soprattutto a eliminare alle radici la convinzione della coscienza comune di un’azione causale svolta dalle cose e posta a base della rappresentazione. «Se un Ax è dato nella ricettività, esso limita certamente lo AS(ostanza) e, a tale riguardo, è = –A. Ma è lo stesso Ax che limita. La causa, considerata come reale, appartiene alla filosofia trascendente» (EM, p. 371). Nella terminologia qui adoperata da Fichte, Ax sta per l’Io misurabile, vale a dire per l’Io empiricamente determinato. Esso, in quanto tale, è oggetto di consapevolezza dello A identico a sé stesso e permanente, quindi dell’Io in-

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teso come sostanza e, per questo motivo, lo modifica. Dunque, alla base della modificazione dell’Io stabile e permanente non c’è direttamente l’oggetto, ma l’Io empirico, che sente sé stesso modificato in modo corrispondente all’oggetto di cui è consapevole, ed entrambi – l’Io consapevole e l’oggetto di cui è consapevole – formano il contenuto della consapevolezza dell’Io sostanza. Pensare a un oggetto che modifichi immediatamente l’Io significherebbe applicare in maniera illegittima la categoria della causalità, facendola agire tra due realtà eterogenee, essendo l’Io inassimilabile al NonIo, ciò che Fichte esprime dicendo, come si è visto, che in tal caso la causa sarebbe trascendente33. Nella complessa realtà della rappresentazione, i termini che la costituiscono possono combinarsi tra loro in una serie infinita di rapporti. Poiché la misura della rappresentazione dev’essere determinata, essa può essere mutuata solo dalla realtà. La maggiore o minore identità di C ad A determina il corrispondente grado di realtà della rappresentazione e anche la necessità della sua relazione con questo termine. A sua volta, il grado maggiore o minore di identità ad A, e quindi il corrispondente grado di realtà, sempre della rappresentazione, determina la misura della sua identità con –A e il corrispondente grado di negazione, nonché la necessità del riferimento di C a –A (cfr. EM, p. 347). La misura di questi rapporti può essere ottenuta facendo riferimento all’attività dell’Io, che deve necessariamente accompagnare la rappresentazione. Se tale rapporto di identità tra A e C viene fissato e considerato dal punto di vista logico, esso si presenta come stabile e costante, ma darebbe luogo a un’astrazione. Diverso dev’essere invece il modo di valutarlo, dal momento che si tratta di un rapporto reale, che costantemente si modifica e variamente si struttura, a seconda delle diver33 La medesima posizione viene confermata più avanti nel testo, dove si legge esplicitamente che «–A non può causare immediatamente nulla in A» (EM, p. 413, corsivo mio).

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se intuizioni che si succedono nel flusso dell’attività dell’Io. Ferma restando la struttura di base, che coinvolge i termini già evidenziati e ne richiede la presenza, il loro diverso combinarsi dà luogo a una infinità di rappresentazioni diverse e, di conseguenza, anche realtà e negazione si rapportano tra loro secondo uno spettro virtualmente infinito di proporzioni possibili. Inoltre, trattandosi di un rapporto reale, realtà e negazione sono ricomprese nell’ambito più ampio costituito dalla realtà e dalle opposizioni quantitative che hanno luogo al suo interno, con il risultato che allora «–A non è affatto 0, ma una grandezza negativa»34. Nel nesso di implicazione reciproca che lega tra loro gli elementi costitutivi della rappresentazione, è possibile stabilire alcuni punti fermi, il primo dei quali è dato dal termine di riferimento per l’individuazione della misura dell’identità di C ad A. Si è rilevato che ciò a cui si rivolge la misura non è la singola rappresentazione, ma il flusso dell’attività dell’Io che è alla base di ciascuna di esse. Il punto di riferimento stabile non è dato dall’Io determinato, impegnato nella singola rappresentazione e che, in quanto tale, è mutevole, bensì dall’Io determinabile, che permane identico a sé stesso pur nel variare delle rappresentazioni. Il rapporto tra l’Io che permane identico e la rappresentazione è, allora, quello che vige tra la sostanza e l’accidente. Inoltre, nei confronti di C, A costituisce la realtà e la rappresentazione gli è subordinata, essendo essa dipendente dal rapporto con l’Io ai fini della propria realtà. A, in quanto riferito a C, è necessario, mentre quest’ultimo, in riferimento ad A, è contingente. Fichte spe34 Ib., p. 339, n. d. Ciò significa che A e –A non sono in opposizione assoluta, ma si trovano sulla medesima linea di continuità, di cui A costituisce il polo positivo, –A quello negativo. Si tratta di un cambiamento di prospettiva rispetto a quanto affermato qualche pagina prima, là dove si legge: «Ma A non dev’essere = 0 (altrimenti sarebbe = NonIo)» (ib., p. 307). In questo caso non ci sarebbe continuità, ma opposizione assoluta, come viene segnalato a p. 353: «grandezze opposte s’incontrano solo nello 0».

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cifica che il tipo di relazione indicata può anche essere designato come rapporto tra determinante e determinato, anche se rinvia l’uso di questi termini a quando li avrà definiti compiutamente. Quanto al rapporto di C con –A, esso varia con il variare dell’identità della rappresentazione con l’Io, il che determina anche il variare della presenza, in C, del Non-Io, secondo un rapporto inversamente proporzionale. Inoltre, poiché C deve necessariamente riferirsi ad A, viene in luce anche il rapporto di identità di A con –A, ma all’interno di A. Nella rappresentazione, quale termine medio che unisce l’Io e il Non-Io, ha luogo una identità tra i due termini, che peraltro continuano ad essere tra loro opposti se presi al di fuori della relazione. L’identità in questione può riguardare solo la quantità e non la qualità, essendo Io e Non-Io assolutamente opposti da quest’ultimo punto di vista. Approfondendo il tema della quantità, diviene chiaro che essa può essere applicata solo ad A e a –A in quanto riferiti a C. Presi nella loro assolutezza, essi sono, invece, illimitati e non suscettibili di misura. Quel che ora è necessario spiegare è come C, che dal punto di vista della quantità è limitato, possa essere il risultato di due termini che sono, invece, entrambi illimitati. In una annotazione relativa alla questione che qui interessa, Fichte scrive: «L’Io in sé (al di fuori della rappresentazione), è illimitato e così pure il Non-Io. L’assoluto Non-Io sarebbe allora Dio. Non appena vogliamo accogliere l’illimitato in C, gli dobbiamo conferire quantità e dunque limiti, e non resta più alcun incondizionato» (EM, p. 359, n. a). La mancanza di limiti dell’Io e del Non-Io fa sì che essi si fronteggino con uguale assolutezza e sembra non lasciare margini ad alcuna mediazione. Non solo, ma il NonIo assoluto, identificato con Dio e considerato come assolutamente altro rispetto all’Io, resta eternamente inattingibile, poiché ogni tentativo di formarsene una rappresentazione è destinato a stravolgerne l’essenza, per la necessità di imporgli quantità e limiti al fine di poterlo accogliere in C.

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La possibile conciliazione torna ad essere la compresenza, nella coscienza, dell’Io e del Non-Io, in quanto termini che concorrono alla costituzione della rappresentazione, questa sì, risultata suscettibile di quantità e di misura: «Dunque C, come qualità è = A. C, come quantità è = –A» (ibidem). Alla luce di queste considerazioni, Fichte si chiede come sia possibile giungere al concetto della quantità senza intuizione e spiega che la risposta è contenuta nella proposizione sintetica: in C = A = –A, poiché in essa è già implicito che C sia limitato (cfr. ibidem). La formula appena riportata risulta bisognosa di fondazione poiché, se è vero che la rappresentazione è, insieme, uguale all’Io e al Non-Io e che dev’essere necessariamente determinata, non è ancora stato spiegato il motivo ultimo da cui discende quella necessità. Il passo in avanti in questa direzione avviene in due momenti. Dapprima Fichte ricorda che, conformemente al principio di non contraddizione, dalla premessa che in C, A = –A, segue che in C, A è limitato da –A e che perciò ha quantità. Poi afferma: «che ciò provenga dall’intuizione, viene ammesso. È però quella sintesi primaria che, ovviamente, devo presupporre» (EM, p. 359). Questo secondo punto è di un’importanza difficilmente sopravvalutabile, giacché chiama in causa la natura dell’intuizione originaria e ad essa fa risalire la prima sintesi, quella a partire dalla quale sono rese possibili tutte le successive. Quella sintesi non può essere esibita mediante un procedimento discorsivo da cui scaturisca una dimostrazione, ma può essere invece solo presupposta. In una nota a margine si legge, in riferimento alla proposizione sintetica sopra richiamata, che essa «deriva dall’intuizione, ma dalla primissima. Nella coscienza A e –A vengono opposti» (ibidem, n.). L’intuizione originaria, quella prima tra tutte, che in quanto tale dà inizio alla serie e ne costituisce il fondamento, fornisce in maniera immediata la sintesi di Io e Non-Io; il successivo passaggio alla coscienza vede infranta quell’unità e già operante l’opposizione, con il contestuale bisogno del suo superamento.

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In vista di fornire una giustificazione adeguata al rapporto tra l’Io e il Non-Io nella rappresentazione, Fichte riconosce che in essa l’Io risulta limitato dal Non-Io e ripropone la complessa dialettica che, nella rappresentazione, li vede insieme opposti e contigui. Come già emerso in precedenza35, la rappresentazione è necessariamente riferita all’Io ed è da esso dipendente quanto alla sua qualità. Tale dipendenza si fonda sulla stabilità dell’Io e sulla corrispondente mutevolezza della rappresentazione, che si conferma accidente dell’Io. Quanto alla sua quantità, la rappresentazione è invece dipendente dal Non-Io, dal quale viene limitata. A sua volta, il rapporto della rappresentazione con il Non-Io si conferma basato sulla relazione, ma nella sua specificazione di effetto rispetto alla causa. Il Non-Io si configura, infatti, come determinante la rappresentazione dal punto di vista della sua esistenza, e quindi come sua causa. Ne discende una natura bifronte della rappresentazione, che infatti manifesta una duplice essenza, in funzione del duplice riferimento ad A e a –A (cfr. EM, p. 363). Malgrado tutti i tentativi finora esperiti, resta ancora il problema di fondo, che concerne, a proposito della rappresentazione, «la differenza tra esistenza nel pensiero / ed esistenza nell’intuizione […]. L’esistenza di C nell’intuizione, vale a dire l’esistenza effettivamente sentita di una rappresentazione, dipende da –A. Ma l’esistenza nel pensiero, la possibilità dell’unificazione di A con –A, dipende da A? E come sarebbe possibile questo? In tal caso ci sarebbe, ancora una volta, un circolo» (ibidem). Se è ormai acquisito che l’essere accidente di A fa della rappresentazione un suo contenuto di pensiero e che l’essere effetto di Non–A la rende oggetto concreto di intuizione, rimane ancora inesplicato il processo che conduce all’incontro di A e di –A. Fichte rinvia la risposta a tale questione, ma registra anche il persistere di una contraddizione irrisolta. 35 «

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A è sostanza di C, Non-A è causa di C» (ib., pp. 290-91).

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Gli ulteriori approfondimenti in questa direzione conducono ad affinare le caratteristiche della rappresentazione nel suo duplice riferimento ad A e a –A. L’efficacia, in C, delle prime due categorie della relazione nel regolare i rapporti della rappresentazione con l’Io e con il Non-Io e la coincidenza, sempre nella rappresentazione, della duplice natura di accidente di A ed effetto di –A, apre la strada per la terza categoria della relazione, che si rivela attiva nel produrre reciprocità d’azione tra i due termini. Anche in questo caso, tuttavia, la questione principale, la spiegazione del factum, resta disattesa, poiché tutto si svolge sul piano dell’egoità: «Com’è la conclusione? Così: in C, A è necessariamente. Ma A è esso stesso necessariamente A, e quindi tutto C, in A, è necessariamente così» (EM, p. 369, corsivo mio). Il posto per il –A risulta, allora, interamente occupato dall’egoico e resta disattesa la richiesta unificazione con esso. E tuttavia, se C deve aver luogo, occorre che l’illimitatezza di A sia interrotta, limitata, e ciò compete – nella forma indiretta anticipata sopra – comunque al –A. Questo termine rientra ora in gioco come limitazione di A, come Ax che, in quanto tale, è oggetto della ricettività di A illimitato. L’oggetto della consapevolezza di A illimitato è, però, = –A e così Ax limita l’Io sostanza. Questo, a sua volta, in quanto illimitato, accompagna ogni singola rappresentazione, ma non si esaurisce in nessuna di esse, trascende ogni determinatezza di C, cosicché «resta costantemente qualcosa di A, che non giunge in C, e cioè la sostanza alla quale C è riferito» (EM, p. 371, corsivo mio). L’infinità dell’Io come permanente punto di unificazione delle diverse rappresentazioni emerge in tutta la sua portata, e comincia così a trasparire l’elemento dell’attività, o meglio: dell’auto-attività dell’Io, anche se per il momento la sua definizione è ancora solo provvisoria e Fichte la indica come un’attività che si svolge nell’Io secondo leggi riconosciute come necessarie (cfr. EM, p. 369). L’approfondimento successivo consente di confermare che l’auto-attività può essere intesa nel modo ipotizzato, e cioè come «la facoltà di

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reagire su sé stessi, ovvero di agire secondo le leggi della nostra propria essenza, a esclusione di qualsiasi altra» e, in questo senso, può essere conferita all’Io. Così intesa, essa però non è vera e propria azione reciproca, dal momento che all’azione dell’Io su stesso non corrisponde una reazione, ma solo la produzione di un effetto, di una modificazione in sé stesso da parte dell’Io (cfr. ibidem). Ciò che viene acquisito è il riconoscimento dell’auto-attività come parte integrante dell’essenza dell’Io, nonché il carattere necessario della sua esplicazione. Come tale, e conformemente alla sua natura originaria, l’Io mantiene la sua identità con sé stesso come legame permanente nel dinamico variare dell’attività e dei suoi oggetti. Su questo meccanismo dello spirito umano il filosofo non può, né deve intervenire per trasformare l’Io empirico in oggetto, essendo questo un compito già assolto dalla natura e a noi compete solo osservarlo: «qui non si tratta affatto di trasformare, bensì solo di osservare le cose come sono. Noi siamo spettatori nel teatro del nostro spirito» (EM, p. 371). Se considerata nella sua purezza, a prescindere dal contenuto determinato che assume di volta in volta, l’attività dell’Io sarebbe vuota e perciò astratta. A evitare tale limite ingombrante ha tuttavia già provveduto la natura del nostro spirito, che fornisce con necessità all’Io-sostanza i contenuti da collegare e da mantenere insieme, a dispetto del mutare delle limitazioni sperimentate. In effetti, l’attività dell’Io può essere limitata in una infinità di modalità e proporzioni diverse e tali diversità corrispondono ad altrettante modificazioni dell’Io. Il corrispettivo della limitazione dell’Io costituisce la materia fornita dalla ricettività, la cui connessione è garantita dalla struttura unitaria dell’Io, che conferisce a tutte le modificazioni la sua qualità. Il risultato delle limitazioni dell’attività dell’Io sono le sue diverse rappresentazioni, ma resta ancora da giustificare come esse possano essere distinte dall’Io. Fichte tematizza la possibilità della distinzione delle rappresentazioni l’una dall’altra, facendo emergere il ruolo ri-

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spettivo dell’Io e del Non-Io in questa operazione. Le rappresentazioni da distinguere sono C1 e C2, l’Io che le accompagna sarà, rispettivamente, A1 e A 2. Ognuno degli Io cui si riferiscono le rappresentazioni ne ha una consapevolezza determinata, e tale diversa consapevolezza rende diverso anche l’Io considerato in due diversi momenti. D’altro lato, A1 e A 2 sono accomunati dal fatto di essere entrambi Io, con una qualità della propria essenza diversa in un caso rispetto all’altro. La diversa rappresentazione modifica in modo corrispondentemente diverso l’Io, e la registrazione di tale diversità forma la coscienza che l’Io ha di sé stesso in quel preciso momento. La comparazione tra le due diverse coscienze, operata sulla base della continuità dell’Io-sostanza, consente di prendere atto, contemporaneamente, della diversità della coscienza e della rappresentazione corrispondente. Perché possa essere apprezzata anche la diversità delle rappresentazioni, occorre rivolgersi ad esse, osservando che, oltre ad essere accidente di A ed effetto di Non-A, esse devono racchiudere in loro stesse un ulteriore elemento, che consenta di distinguere C1 da C2, e tale elemento è la quantità. La misura della prima rappresentazione non è identica alla misura della seconda, e su questo si basa la loro opposizione. Il risultato complessivo rende conto del fatto che, allora, «queste rappresentazioni sono opposte: a) per quanto concerne la limitatezza; b) per quanto concerne la determinazione di A in esse» (EM, p. 377). L’opposizione riguarda la loro quantità mentre, per quanto concerne la qualità, esse sono uguali. La loro differenza quantitativa costituisce il discrimine che consente di registrare anche il limite che separa C1 da C2, e di distinguere le due rappresentazioni.

6. Spazio e tempo All’interno della rappresentazione continua, dunque, a sussistere un’opposizione per quanto riguarda la limitatezza di A e –A che essa contiene. Infatti, i due termini sono

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sì presenti come limitati, ma ciascuno lo è in una forma che resta opposta a quella dell’altro giacché, come Fichte mette in luce, esse hanno a che fare, rispettivamente, con il tempo e con lo spazio: A ha una limitazione nel tempo, –A nello spazio. Per giungere alla determinazione di questi concetti, è indispensabile riprendere in esame la quantità, la cui caratteristica è quella di essere limitata da entrambi i lati, da ognuno dei quali è sempre possibile aumentarla o diminuirla, aggiungendo o togliendo quantità più grandi o più piccole. Emerge, in tal modo, che la quantità non può essere pensata senza pensare insieme con essa, e come sua parte costitutiva, l’estensione, il cui pensiero si fa avanti nell’atto di aumentarla o diminuirla. Una quantità inestesa sarebbe, perciò, una contraddizione. L’ulteriore determinazione dell’estensione conduce a chiedersi se il suo concetto non presupponga, allora, lo spazio (cfr. EM, p. 377). Anche il tempo viene pensato come esteso, e Fichte si domanda, in nota, se tempo e spazio siano specie del genere estensione e risponde in modo decisamente negativo, sottolineando che sono piuttosto opposti e precisando che «estensione è spazio. Il tempo è un’estensione di ciò che non è nello spazio» (ibidem). Malgrado questa loro opposizione, tempo e spazio, in quanto intuizioni entrambe riferite all’estensione, comprendono necessariamente le intuizioni, già incontrate, di realtà e quantità e sorgono, anzi, dal loro collegamento. Considerare la quantità come concetto, e non soltanto come intuizione, significa pensarla sulla base del principio di opposizione, e ciò dà luogo al concetto di illimitatezza, nei due sensi opposti dell’infinitamente grande e dell’infintamente piccolo, cui si giunge necessariamente continuando ad opporre più e meno. Ai fini della possibilità di pensare la quantità, dev’essere presupposta l’intuizione dell’estensione e la filosofia elementare deve dimostrare che, senza di essa, la quantità si contraddice e che l’intera operazione dello spirito umano, quella espressa dalla formula: C = A = –A, non sarebbe possibile. «La grandezza, pensata come realtà / e la si

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deve pensare necessariamente così, se non deve contraddire sé stessa, / è un’estensione illimitata. / Ogni estensione è costante (continua). È un’illimitatezza limitabile da ogni parte» (EM, p. 383, n. a). Così caratterizzata, la quantità è continua, nessuna quantità è la più grande o la più piccola, essendo sempre possibile aumentarla o diminuirla. Il nesso tra la quantità e la realtà è così indissolubile, che Fichte ritiene che anche l’incondizionato implicherebbe una quantità, che nel suo caso sarebbe illimitata, restando in dubbio se esso debba o no avere estensione36. La misura della quantità, in quanto a sua volta quantità limitata in maniera contingente, può essere divisa all’infinito e mostrare anch’essa l’essenza infinitamente limitabile dell’estensione. La caratteristica della quantità, di essere infintamente grande e infintamente piccola, richiama la caratteristica dell’Io come sostanza, che è quella di trascendere infinitamente l’Io empirico: così come quello non potrà mai essere esaurito nell’Io determinato, allo stesso modo qualcosa della quantità non potrà mai essere accolto nella rappresentazione. Questa, infatti, potrà comprendere in sé sempre e solo quantità determinate, mai l’infinitamente grande o l’infinitamente piccolo (cfr. ibidem). Le altre forme della quantità vengono ricavate collegando ogni volta la quantità con le categorie della qualità. Messa in relazione con la realtà, la quantità è illimitata e, in quanto tale, quantitas substantia; posta in relazione con la negazione, è quantitas accidens; posta in relazione con il limite, è la quantitas effectus. Quest’ultima ha luogo quando la quantitas accidens è limitata da –Q, dal contrario o dalla nega36 Oltre all’osservazione contenuta nella nota al testo (cfr. la successiva n. 66), si deve aggiungere qui che interrogarsi su questi (o altri) caratteri dell’incondizionato oltrepassa, evidentemente, l’ambito della filosofia trascendentale. Quanto al rapporto di coimplicazione reciproca di quantità e realtà, Fichte osserva giustamente, in nota, che ciò potrebbe dar luogo a un circolo, che in tal caso sarebbe vizioso (cfr. EM., p. 385, n. a; v. sopra, n. 6).

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zione della quantità, vale a dire dall’infintamente piccolo37. Questo è espressione del limite estremo verso cui la quantità può spingersi prima di svanire, e perciò è limite che, a sua volta, non è più suscettibile di essere diminuito. Il termine che Fichte impiega per designarlo è quello di monade, quantitas monas, e in essa fa consistere –A (cfr. EM, p. 391). L’evocazione della monade porta inevitabilmente in primo piano l’Io, che della monade possiede i caratteri, essendo inesteso e illimitato e tuttavia pensato come punto38, ma viene subito precisato che non è questo l’argomento ora in discussione. Quel che deve essere raggiunto è ancora l’uguaglianza di A e –A nella rappresentazione e, a tal fine, viene presa in considerazione la rappresentazione stessa in quanto effetto di –A. Viene, cioè, tematizzata la rappresentazione sotto il rispetto per cui essa è uguale al Non-Io. Come Fichte ha chiarito nel punto precedente, la quantità come effetto è «una continuità effettivamente limitata»; ora specifica che è limitata da –A. L’estensione, in sé illimitata, giunge alla rappresentazione solo in quanto limitata, ma per esservi accolta anche nella sua limitatezza, deve già esser presente lo spazio, che è «necessario a priori», ed è altrettanto «necessario a priori che l’effetto di –A sia nello spazio» (EM, p. 395). Quest’ultima indicazione implica il riconoscimento della necessità della materia nello spazio, come grandezza continua ed estesa. A questo punto Fichte considera conclusa la parte della spiegazione della rappresentazione che consisteva nel render conto della possibilità della presenza, in essa, di –A come ef37 Per chiarezza, è forse è utile riportare la ricapitolazione di questi caratteri della quantità che Fichte fa nella pagina successiva: «Se la quantità non deve contraddire sé stessa e l’ipotesi, allora dev’essere pensata come sostanza. Ma la quantità, come sostanza, è una continuità illimitata; come accidente, una continuità limitabile; come effetto, una continuità effettivamente limitata, la cui causa è il punto» (ib., pp. 393-95). 38 In realtà Fichte chiarisce in nota che l’Io è «l’esatto contrario» dell’estensione illimitata (EM, p. 391).

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fetto. Poiché, però, la rappresentazione è anche accidente di A, bisognerà passare a spiegare le modalità della presenza di quest’altra sua componente essenziale. Se il primo momento corrispondeva alla spiegazione di ciò che Reinhold considerava proprio della ricettività, ora occorrerà prendere in considerazione la spontaneità dell’Io39. Tuttavia, prima di passare ad essa ed esaminare la forma di spontaneità che si manifesta nel dinamismo proprio del pensiero, occorre fare chiarezza a proposito della intuizione interna, che non è ancora stata spiegata. Continuando il bilancio schematico che sta proponendo e valutando da un’altra prospettiva il cammino percorso e quello che resta ancora da fare, Fichte registra che, malgrado tutti i tentativi operati, il problema continua a restare quello di partenza, e cioè come sia possibile che, in C, A sia = –A. Finora è stata conseguita solo la prima media39 Il riferimento a Reinhold è alla sua Neue Darstellung der Hauptmomenten der Elemetarphilosophie, § XVI, in cui si legge: «La facoltà rappresentativa consiste, dunque, in due elementi costitutivi essenzialmente diversi ed essenzialmente uniti; il primo è la ricettività, con la quale s’intende la facoltà di ricevere la materia in una rappresentazione; il secondo, è la spontaneità, con cui si intende la facoltà di produrre nella materia la forma della rappresentazione». Nella spiegazione di questo enunciato, Reinhold chiarisce in modo rigoroso la netta distinzione tra le due componenti, specificando che la ricettività, come parte passiva della facoltà rappresentativa, è una facoltà meramente passiva, che perciò non può essere intesa come sensibilità, in quanto «nella sensazione viene intesa già una rappresentazione, che non è possibile senza forma e, di conseguenza, senza produrre; per questa ragione non si può affatto intendere con sensibilità la pura ricettività dell’animo» (K.L. Reinhold, Neue Darstellung der Hauptmomenten der Elemetarphilosophie, in Beyträge cit., pp. 190-91). Sul tema della ricettività della facoltà rappresentativa Reinhold si era già espresso in un altro scritto: «Con ricettività della facoltà rappresentativa si deve intendere la facoltà di essere affetti. La facoltà di essere affetti costituisce un elemento essenziale della facoltà rappresentativa, solo quanto e nella misura in cui esso è indispensabile alla rappresentazione in generale» (Versuch einer neuen Theorie des menschlichen Vorstellungsvermögens, Zweites Buch, Theorie des Vorstellungsvermögens, Jena 1789, § XXIII, p. 279).

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zione, quella per la quale C = –A, mentre resta ancora da dimostrare come C sia = A, per poi passare al livello successivo e spiegare come C sia contemporaneamente = A e –A. Attualmente c’è una domanda importante che rimane ancora senza risposta, ed è quella che concerne la metamorfosi che il Non-Io deve subire per poter divenire = Io, e cioè, nei termini utilizzati da Fichte: «Ma come fa –A a divenire = A in C?» (EM, p. 399). Esplicitata, questa domanda porta alla questione soggiacente e relativa al rapporto tra la materia e la forma. Infatti, se la materia proviene da –A, non si può dire la stessa cosa per quanto concerne la forma e, senza la forma, nessun contenuto materiale può divenire = A. La rappresentazione di C come –A riporta l’intero processo all’interno dell’Io, che in questo modo intuisce sé stesso modificato in maniera determinata e quindi fa esperienza dell’intuizione interna. Tra questa e il pensiero sussiste un legame di continuità ed è per questo che occuparsi dell’intuizione interna e renderla oggetto di riflessione significa pensare, come concisamente riassume Fichte: «Rendere –A 2 = A significa pensare» (EM, p. 401). In tale formula, infatti, –A 2 esprime il contenuto oggettivo della rappresentazione che, in quanto elevato a consapevolezza e in virtù di essa (e quindi non in maniera immediata), è reso omogeno ad A, che lo pensa e, essendo le rappresentazioni molteplici, le distingue, sempre utilizzando le forme del pensiero. In tale occasione Fichte ricorda la diversa estensione del principio di non contraddizione e delle categorie: mentre il primo conserva la sua validità anche nel mondo intelligibile, le seconde possono svolgere la loro funzione ordinatrice degli oggetti solo nell’ambito dell’esperienza possibile40. Tornando al tema della rappresentazione, il lato per cui 40 «Il

principio di non contraddizione si estende fino al mondo intelligibile, ma non si estendono ad esso le categorie per la connessione dei suoi oggetti. Nel mondo intelligibile abbiamo solo A opposto a –A» (EM, p. 401, n. b).

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essa è effetto di –A la fa collocare nello spazio, quello per cui è accidente di A, nel tempo. Ora, se si pone che C nomini non più la rappresentazione, ma l’intuizione esterna, allora si istituisce una necessaria dialettica tra l’intuizione interna e quella esterna, che implica la chiamata in causa dell’elevazione a potenza, nel senso della riflessione sulla riflessione. La formula che qui Fichte utilizza è la seguente: C1 (= –A) in C2 = A e che, esplicitata, indica che l’intuizione esterna, in quanto effetto di –A, viene intuita e in tal modo diviene intuizione interna (= C2) che, in quanto tale, è sentita, cioè è = A. La conversione dell’intuizione esterna in intuizione interna fa sì che la rappresentazione che ne deriva sia a sua volta rappresentata e diventi oggetto di consapevolezza41. Quel che rende problematico questo risultato è la circostanza che ora abbiamo, sì, l’intuizione interna di un’intuizione esterna, e cioè la rappresentazione come effetto di –A e come accidente di A, ma in quanto è entrata in gioco l’elevazione a potenza, esse sono «confuse», perché sono entrambe, a pari titolo, contenuto di coscienza, sebbene a diversi livelli. Il chiarimento di quella «confusione» comporta una descrizione dettagliata del movimento che ha luogo nell’animo e che sfocia in quel risultato. Devo di necessità riferire la modificazione del mio animo, che intuisco nel tempo, a un determinato oggetto esterno, che considero sua causa. In tale processo, al fine di evitare l’errore della coscienza comune, che fa dipendere la modificazione dall’influsso diretto di una causa esterna che produrrebbe la rappresentazione, Fichte tiene a precisare che il qualcosa di determinato cui si attribuisce quella funzione, è un qualcosa «che io però semplicemente penso, è causa» (EM, p. 405). Si tratta, cioè, di qualcosa che viene solo pensato come causa; se lo considerassimo capace di produrre la 41 Fichte ritrascrive la formula precedente, che aveva giudicato “contraddittoria”, in questa variante: «–A (= C1) sia = A in C2», della quale dice che «è da dimostrare» (EM, p. 403).

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rappresentazione come effetto reale, gli conferiremmo il carattere di una causa reale, che sarebbe però, come si è visto (v. sopra, p. 124 e rinvio a EM, p. 371), trascendente, per il fatto che avrebbe luogo tra realtà eterogenee42. Tra il Non-Io e L’Io non può aver luogo nessuna causalità diretta e immediata, anche se la coscienza comune fa risalire l’origine dell’intuizione interna ad un oggetto esterno, cui attribuisce causalità. In effetti, tra le due intuizioni c’è una innegabile correlazione, come testimonia anche la circostanza che la durata della sensazione interna è subordinata a quella dell’esterna e dura quanto quella. Anche per questo motivo, per la coscienza comune la relazione che sussiste tra le due non può che essere quella di causa ed effetto, innalzata a regola universale: «Ne segue che –A assoluto produce la sensazione esterna; la sensazione esterna –A1 produce la sensazione interna — e, di rimando, la sensazione interna produce l’intuizione esterna, mentre il concetto positivo di realtà è trasferito da A a –A» (EM, p. 405). Solo che, nel processo appena descritto si nasconde un problema che, se non è rilevante per la coscienza comune, lo è certamente per il filosofo, che deve riuscire a trovare la spiegazione, razionalmente sostenibile, dell’interazione tra Io e Non-Io e che, a tal fine, è indotto a ricercare un terzo termine tra sensazione esterna e sensazione interna, ovvero tra l’attività e la passività. 42 L’attuale posizione verrà da Fichte mantenuta e sarà da lui presentata con estrema chiarezza nella Zweite Einleitung cit., p. 239 (68), in cui testualmente si legge: «Fino a che Kant non dichiari espressamente e con queste stesse parole, che egli deduce la sensazione da un’impressione della cosa in sé […], fino ad allora non crederò quel che quegli interpreti ci riferiscono di Kant. Se però egli fa questa dichiarazione, riterrò la Critica della ragion pura piuttosto l’opera del più strano dei casi che non di un’intelligenza». Com’è noto, poco tempo dopo Kant sconfesserà, nella maniera più drastica, e per Fichte anche più dolorosa, la sua filosofia nella celebre e già richiamata Erklärung in Beziehung auf Fichte’s Wissenschaftslehre, Ak. Ausg, XII, pp. 370-71; tr. it. (La «dichiarazione» di Kant contro Fichte), in C. Cesa, Le origini dell’idealismo tra Kant e Hegel, cit., pp. 246-48.

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Infatti, alla sensazione esterna viene riconosciuta attività, tanto da essere capace di modificare la passività della sensazione interna, suscitandola e facendo emergere la consapevolezza di entrambe, mediata l’una, immediata l’altra. In questa prospettiva, al Non-Io viene riconosciuta la funzione di causalità assoluta, dunque di altrettanto assoluta attività, mentre la passività assoluta compete alla ricettività sulla quale l’attività si esercita. Messa in questi termini, la questione ripropone, però, una contrapposizione assoluta e, come tale, non suscettibile di mediazione. Infatti, all’assolutezza del Non-Io e della sua attività, fa da riscontro la passività dell’Io, anch’essa assoluta, con conseguente paralisi e necessità di uscirne.

7. La forza L’indicazione che Fichte fornisce a tal fine è quella di considerare C, che nel caso specifico designa la materia, non come accidente di A assoluto, ma dell’intuizione interna: «Come starebbero le cose se C non fosse affatto accidente di A absolutum, ma solo accidente dell’intuizione interna?» (ibidem). La descrizione del processo nel quale deve emergere il risultato anticipato è la seguente: –A, cioè la materia (che qui, ripetiamo, è indicata con C), agisce sulla sensibilità producendo l’effetto C1, che corrisponde alla sensazione esterna. Questa non sarebbe nemmeno come sensazione esterna, se non fosse avvertita e quindi se non fosse trasformata in sensazione interna, cioè consaputa e quindi elevata a un livello superiore = C2. La rappresentazione così ottenuta, anziché essere respinta verso la sua causa, diviene piuttosto oggetto di ulteriore riflessione, che la innalza ad un livello ancora superiore = C3. Nella dimensione propria dell’attuale potenza, si verifica l’assunzione di un’attività di A come oggetto della consapevolezza del medesimo A, con il risultato di trasformarla in –A, vale a dire in una attività che viene limitata e sulla quale si riflette.

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Come risulta evidente, qui attività e passività non sono sterilmente contrapposte, restando ciascuna quello che era al di fuori del rapporto, ma danno luogo a un gioco di azioni e reazioni che descrive il dinamismo attraverso cui si articolano, limitandosi, l’attività dell’Io e quella del Non-Io e la relativa passività. Nei termini fichtiani: « A è limitato da –A in C3 e, a sua volta, limita –A in C3. – C3 è una passività A» (EM, p. 413). Quest’ultima passività di A, proprio in quanto si contrappone alla sua attività e la limita, per un meccanismo che verrà spiegato in seguito e del quale si anticipa solo il carattere necessario, viene trasformata in realtà, in analogia con la sostanza di cui è accidente. In attesa della spiegazione, si impone però una domanda cruciale: «come può la forza A trasformare in una realtà la sua passività?» (ibidem). La prima, provvisoria risposta è data dal fatto che, affinché ciò si verifichi, è indispensabile che ci sia una rappresentazione successiva rispetto a quella in cui viene registrata la limitazione. Questa condizione dello spirito, quando diviene a sua volta oggetto di riflessione, compie quella presa di distanza che conferisce all’attività limitata il carattere di realtà, e di realtà esterna. Retroagendo nella catena che ha condotto alla terza potenza, l’oggetto della sensazione interna acquista realtà, e poiché quell’oggetto è l’effetto di una causa pensata come esterna, la realtà dell’effetto viene retrocessa alla causa, considerata come materia nello spazio. La precedente necessità di individuare un termine medio tra l’attività e la passività è, nel frattempo, andata a buon fine e i risultati che sono stati indicati, sono resi possibili solo dall’intervento di quel termine medio, riconosciuto nella forza43. Il concetto di forza, infatti, consente di rendere dinamico il rapporto, altrimenti statico, tra attività e passività, permettendo che l’infinita possibilità di loro combinazioni dia luogo al molteplice strutturarsi del rapporto tra l’Io 43 «La “forza” è l’x in cui tutto si unisce. — Passività e attività — unite, danno luogo alla forza» (EM, p. 409).

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e il Non-Io. La forma essenziale di tale rapporto è quella che consiste nel conferimento di realtà al Non-Io da parte dell’Io, e la realizzazione che ne consegue prende il nome di intuizione. Fichte esprime in modo sintetico il processo in questione: «L’interazione tra A e –A si svolge così: –A annienta in A. — A realizza in –A. Pertanto, A trasferisce la sua propria realtà a –A» (ibidem). Nelle righe precedenti era stato stabilito che A, in quanto sostanza, possiede, come suoi accidenti, sia l’attività, sia la passività. Tale premessa rende comprensibile il movimento indicato nell’ultima citazione, poiché –A annienta, con la sua attività, parte di quella di A, trasformandola in passività. La passività che l’Io scopre in sé stesso come effetto, non diviene morto e dimenticato residuo, ma ad essa viene conferita realtà, e precisamente quella realtà che l’Io avverte sottratta a sé stesso nella forma di attività neutralizzata. Il conferimento della realtà avviene certamente da parte dell’Io, ma il contenuto cui essa viene attribuita è l’effetto dell’attività del Non-Io, che è all’origine della passività dell’Io. L’operazione appena descritta comprende, in forme diverse, combinazioni in proporzioni sempre variabili tra l’attività e la passività, presenti in gradi diversi nella sensazione. La quantità della sensazione, o meglio, la misura della passività in essa presente, è desumibile dalla sua forza. Si tratta ora di vedere la modalità attraverso cui si può giungere alla sua quantificazione. Innanzitutto viene confermato che la egoità in quanto tale, AR nella designazione di Fichte, è dotata di un’attività illimitata. Attività illimitata non significa che l’Io sia onnipotente, ma esprime semplicemente il carattere spontaneo e costante secondo cui si esprime l’agire dell’Io, così come ciascuno può sperimentare direttamente in sé stesso. L’attività illimitata dell’Io viene limitata da un’attività esterna, nei confronti della quale oppone una resistenza che è proporzionale alla forza con cui quest’ultima si manifesta. Poiché il grado della sensazione non può essere misurato in ciò che la provoca, né è possibile misurare la forza

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quand’essa è quiescente, è necessario che lo sia piuttosto nel soggetto che prova la sensazione, così come suona la conclusione di Fichte: «Orbene, una tale misura deve trovarsi in A e non in –A» (EM, p. 417). L’attività originaria, spontanea e illimitata dell’Io, nel suo essere limitata in un punto qualsiasi, vede trasformata una parte di sé, equivalente alla forza dell’influsso che la limita, in passività. La quantità di passività generata equivale alla differenza tra l’attività illimitata e quella che resta dopo la limitazione. Di conseguenza, la sua misura non può essere stabilita secondo nessun metro esterno, ma soltanto dall’Io, nella sua qualità di unico termine in condizione di registrare quella differenza. Ricondotto al suo nucleo centrale, il movimento descritto equivale alla misura che l’Io esercita nei confronti di sé stesso, e cioè «A misura sé stesso». Non a caso Fichte annota, in relazione alla necessità che la misura si trovi in A, che «questa misura è, ovviamente, […] l’esposizione (Darstellung)» (EM, p. 417, n. a), dando un segnale sul carattere cruciale del passaggio qui presentato con l’introduzione del termine «esposizione», che avrà un ruolo delicatissimo per l’intero scritto. Prima di passare alla sua illustrazione, Fichte sviluppa, però, ulteriormente la precedente dinamica, fornendone dettagli istruttivi ai fini della sua comprensione complessiva. Che cosa si debba intendere per «misura» di sé stesso da parte dell’Io è spiegato nelle righe che seguono ed essa è identificata con la realtà, con l’esistenza e, più in generale, con l’essere dell’Io. La consapevolezza che l’Io ha di sé stesso si traduce nel modo in cui egli avverte di essere, e questo sapere di sé ha necessariamente delle gradazioni, corrispondenti alle circostanze nelle quali si trova. L’unica condizione perché l’Io possa sapere di sé è, ovviamente, che si dia la rappresentazione, ma a ciò ha già provveduto la natura, rendendola manifestazione necessaria dell’essenza dell’Io, che qui emerge con decisione. L’Io, si è visto, è originariamente forza e la caratteristica della forza è quella di estrinsecarsi; nel caso specifico, ciò significa che la forza, esprimendosi,

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produce, insieme, l’essere e la consapevolezza che l’Io ne ha. E poiché la manifestazione della forza è mutevole, lo è anche l’essere dell’Io, la cui coscienza di sé stesso e del proprio essere è in certe circostanze più intensa, in altre meno. La continua variazione di intensità con la quale l’Io fa l’altrettanto continua e mutevole esperienza di sé avviene, tuttavia, sulla base di una identità di fondo dell’Io con sé stesso, che permane al di là di tutte le sue modificazioni empiriche. Perciò Fichte opera qui un’importante distinzione tra determinante e determinato: il primo è l’Io assoluto, identico a sé e permanente, il secondo è l’Io empirico, soggetto a continui cambiamenti e rinviante all’Io assoluto come garanzia della continuità della sua identità con sé stesso. La distinzione appena operata si presta anche ad essere trascritta nella forma del rapporto tra sostanza e accidente: l’Io assoluto esce dalla sua indeterminatezza, assumendo un contenuto e dando vita, come suo accidente, all’Io empirico. Il rapporto sostanziale tra i termini (Io assoluto e Io empirico) rende chiaro che non si tratta di una duplicazione che intervenga tra essi, ma piuttosto della coesistenza, nel medesimo, identico Io, di aspetti complementari, facenti capo a un’unica indivisa essenza. L’attività originaria dell’Io nella sua purezza, quella che non giunge mai a manifestarsi compiutamente e in una forma stabile, essendo invece assoluta irrequietezza, costituisce la condizione di possibilità per ogni manifestazione dell’essere dell’Io, posto davanti a sé stesso e riflesso in sé come contenuto della consapevolezza di sé.

8. Esposizione e forza di esposizione L’apparente semplicità dell’enunciazione non può, tuttavia, far passare sotto silenzio una domanda che s’impone con tutta la sua rilevanza e concerne le modalità in cui si realizza la determinazione – o piuttosto: l’autodeterminazione – dell’Io assoluto. A parte l’accenno, che sarà approfondito successivamente, alla forza immaginativa quale elemento in-

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termedio tra l’assolutezza e l‘accidentalità dell’Io, è il meccanismo radicato nell’essenza intima dell’Io quello che, messo in luce, può fornire una risposta soddisfacente alla domanda appena formulata. Ci troviamo, qui, al cospetto dell’attività originaria dell’Io, quella che consente al soggetto non solo di essere, ma di essere per sé, in un circolo in cui, come deve, il punto di partenza si converte in punto di arrivo e viceversa. Nel corso di questo movimento circolare risulta che la forza dell’Io, attività in continua esplicazione, è causa dell’essere dell’Io di cui è, insieme, effetto, con l’impossibilità di separare con una linea netta la causa dall’effetto, che invece risultano intimamente compenetrati. L’azione complessa appena descritta è quella che avviene al livello più profondo dell’essenza dell’Io e «si chiama Darstellen, esporre, porre sé stesso da sé stesso nell’esistenza, e la forza si chiama Darstellungskraft, forza di esposizione»44. 44 EM, p. 421. Sul significato del termine Darstellung, che rendo con «esposizione», cfr. C. Cesa, Introduzione a Fichte, Bari 1994, p. 20; v. anche M.M. Olivetti, Introduzione alla sua traduzione italiana del Saggio di una critica di ogni rivelazione, cit., pp. LV-LVIII. Olivetti ricostruisce gli intrecci semantici tra Darstellen e Vorstellen e non ritiene soddisfacente la traduzione più frequente del primo termine con «esibizione», adottata sulla base dell’equiparazione stabilita da Kant nella Critica del giudizio, tra Darstellung e exhibitio (cfr. I. Kant, KdU, p. 192) (34). Nella sua traduzione, egli rende con «rappresentazione» entrambi i termini, riportando tra parentesi quello tedesco ricorrente. Sul concetto di Darstellungskraft, inizialmente assimilato a quello di Einbildungskraft, cfr. W.H. Schrader, Empirisches und absolutes Ich. Zur Geschichte des Begriffs Leben in der Philosophie J.G. Fichtes, Stuttgart-Bad Cannstatt 1972, pp. 186-87, n. 23. A. Seliger, Freiheit und Bild, cit., riporta un passo di G. Cecchinato, Fichte und das Problem einer Ästhetik, Ergon, Würzburg 2009, p. 48, n., in cui l’autrice rinvia all’uso del termine Darstellung nella Critica del giudizio. La Seliger, condividendo il rinvio, osserva tuttavia che nel contesto delle Eigne Meditationen si è prodotto uno spostamento di significato, che ha portato a riconoscere nella Darstellung «uno dei princìpi più elevati della ElementarPhilosophie» (A. Seliger, Freiheit und Bild, cit., p. 60 e n. 112. Il rinvio è a I. Kant, KdU, p. 351) (215).

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Al fine di conferire una valenza semantica più pregnante al termine che designa una realtà così complessa (ricordiamo, ad es., che è in gioco l’appena citata attività dell’Io, che è insieme causa ed effetto della propria esistenza), Fichte fa ricorso ad un altro termine, Darsetzung, ma chiarendo, tuttavia, che l’importante è che si percepisca nel prefisso “Dar-” l’efficacia di un’attività assolutamente autonoma e procedente da sé stessa (cfr. ibidem). Si tratta, allora, di un atto con il quale l’Io pone sé davanti a sé stesso, ciò che potrebbe, a ragione, evocare il concetto di Vor-stellung. E, in effetti, la rappresentazione viene chiamata in causa, ma in un primo momento solo per evidenziarne la differenza, e anzi l’opposizione, rispetto alla Darstellung. Infatti, in quest’ultima quel che viene presentato, posto davanti a sé da parte dell’Io, è unicamente l’Io stesso come attività nella sua originaria purezza45; la Vorstellung, la rappresentazione, invece, pone anch’essa qualcosa davanti a sé, ma nel suo caso la posizione concerne alcunché di estraneo al rappresentare stesso. L’esposizione, essendo attività originaria dell’Io presa nella sua sorgiva purezza, è a sé stessa trasparente e perciò non può mai divenire oggetto della coscienza empirica, costituendo piuttosto essa stessa la coscienza pura. In quanto la rappresentazione è invece rivolta all’oggetto e ha, quindi, un contenuto empirico, essa è diretta verso il Non-Io e lo rappresenta come reale. La distinzione appena stabilita lascia però fuori quadro un elemento essenziale ai fini delle possibilità della facoltà rappresentativa. Se essa non fosse a sua volta ancorata alla facoltà espositiva, la consistenza delle sue rappresentazioni si vanificherebbe in una dispersione senza confini e quelle si alternerebbero nella coscienza senza lasciare traccia. Al fine di evitare questo esito deludente, Fichte osserva che la facoltà rappresentativa è una limitazione di quella espositiva, precisando tuttavia che essa «non [è] una sua specie, ma l’esatto 45 «L’esposizione non giunge mai alla coscienza empirica, bensì essa costituisce soltanto la coscienza pura» (EM, p. 423).

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contrario» (ibidem). La ragione di questa differenziazione, a causa della quale non si è ancora realizzata l’uguaglianza di A e –A, sta nell’orientamento di fondo della rappresentazione, che è focalizzata sull’oggetto, opponendosi, così, alla purezza dell’esposizione. In modo conciso ed efficace: «Esposizione è posizione dell’Io, rappresentazione è posizione del –Io. — Il metodo della posizione è simile, — l’oggetto è diverso» (EM, p. 423). La differenza tra esposizione e rappresentazione non esclude, tuttavia, una superficie comune sulla quale esse non sono opposte, ma identiche e ciò consente di compiere un ulteriore passo nella chiarificazione dei rispettivi ambiti, con l’avvertenza, qui solo anticipata, che nella parte finale della filosofia teoretica verrà prospettata la coincidenza tra esporre e rappresentare46. Seguendo lo schema utilizzato nel testo, 46 Parlando del soggetto assoluto, Fichte affermerà che esso «rappresenta sé stesso, cioè espone, agisce» (EM, p. 635). Come si vede, per illustrare la natura del soggetto assoluto, è necessario far ricorso a termini che esprimono attività, dinamismo. Infatti, la difficoltà di cogliere l’Io assoluto sta proprio nel fatto che, nel com-prenderlo, lo strappiamo all’unità vivente in cui soltanto può essere quel che è, privandolo dell’intima mobilità che ne è la caratteristica essenziale. Questo significa anche, come si riscontra nelle Eigne Meditationen e negli altri testi coevi, che le analisi che vengono compiute da Fichte sono consapevoli astrazioni di momenti specifici della vita dell’Io, compiute solo ai fini dell’esposizione, mentre la sua vita reale consiste nel fluire costante, irrequieto e consapevole di sé. Pienamente rispondenti alle intenzioni fichtiane è la seguente, efficace sintesi fornita da Edith Düsing: «Fichte intraprende una esposizione dell’interazione tra le diverse facoltà dell’Io non solo statica, ma piuttosto - e oltre ad essa - intraprende la determinazione genetica della connessione interna del dispiegarsi dell’Io. Secondo Fichte, nessuna facoltà può essere considerata, in modo sensato, isolata nella sua attività per sé; nessuna può essere tematizzata senza intimo riferimento a quel che compete alle altre facoltà; piuttosto, ogni facoltà possiede uno status e una funzione interamente determinati in vista del dispiegamento di tutte le altre» (E. Düsing, Intersubjektivität und Selbstbewußtsein. Behavioristische, phänomenologische und idealistische Begründungstheorien bei Mead, Schütz, Fichte und Hegel, Dinter, Köln 1986, p. 187).

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Fichte scrive che «A, / la forza esponente, = –A, / la facoltà rappresentativa, in C», e annota che questa è «la proposizione più importante» (EM, p. 423 e n. a). Interrogandoci a nostra volta sul motivo dell’osservazione, rileviamo, innanzitutto, che con C si intende, qui, il concetto e che, dunque, nel concetto, l’esposizione è identica alla rappresentazione. Il concetto, notoriamente, è risultato dell’attività unificatrice dell’Io, in virtù della quale il molteplice di rappresentazioni diverse viene sussunto in un’unità funzionale47. Condizione di possibilità di tale unificazione è la soggiacente ed efficace identità con sé stessa della coscienza, in quanto originaria coscienza di sé. Se la coscienza, con la sua attività centrifuga, si estende sulla molteplicità, la compenetra e la fa convergere in un concetto, ciò può avvenire solo grazie al punto di riferimento unitario e mobile cui è necessariamente legata la sua attività centripeta, che ritorna costantemente in sé come consapevolezza che l’Io ha di sé. Attività centrifuga e attività centripeta sono originariamente e indissolubilmente connesse quali elementi costitutivi essenziali della medesima attività originaria, e il concetto ne fornisce il «concreto» riscontro. Infatti, l’attività centrifuga dell’Io, proprio mentre vivifica la molteplicità empirica cui si riferisce, la offre alla rappresentazione per mezzo del suo contemporaneo ritornare in sé come attività centripeta. La facoltà rappresentativa, a sua volta, non si comporta passivamente, come uno specchio che solo registri la variegata composizione di quanto gli viene esibito, ma rinvia a un fuoco unitario da cui essa medesima scaturisce. Si tratta dell’unità originaria e sempre diveniente dell’Io che, nel suo necessario manifestarsi come attività pura, si determina come determinata dalla rappresentazione proprio nell’atto di cogliere l’identità accomunante la molteplicità degli elementi empirici fissata nel concetto. 47 Più avanti Fichte scrive che quando pensa il Non-Io, «l’Io riconduce all’identità un molteplice differente, esso cerca ciò in cui il differente è identico» (EM, p. 593).

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La forza di esposizione dell’Io può essere allora vista, in questo contesto, come la sostanza che, articolandosi, dà vita anche all’attività rappresentativa come suo accidente. Quel che in quest’ultima ha luogo, conserva, sostanzialmente, parte della sua natura originaria, poiché l’esposizione trascende infinitamente l’attività determinata del rappresentare in cui, pure, s’incarna. Pur non esaurendo le potenzialità dell’esposizione, la rappresentazione ne costituisce, però, un momento essenziale, poiché in essa si verifica l’innalzamento alla coscienza del Non-Io che, ostacolando l’attività dell’Io, viene sussunto sotto la categoria modale della realtà. Si tratta dell’atto con il quale l’Io esponente trasferisce, per via mediata, la sua realtà al Non-Io e, con il medesimo atto, conferma la dipendenza originaria del Non-Io dall’Io, insieme con il proprio ruolo fondante. L’attribuzione all’Io della capacità di esposizione significa riconoscergli il pregio esclusivo di porre, senza ulteriore fondamento: «Pono me existentem, ergo existo. Non cogito ergo sum»48. La posizione dell’esistenza dell’Io da parte dell’Io non ha bisogno di rinviare a null’altro che la giustifichi, ma ha immediatamente in sé stessa la propria ragion d’essere e il proprio fondamento. Non occorre, perciò, nemmeno seguire la via di Cartesio e incappare nelle sue stesse difficoltà nel tentativo di ricavare l’essere dal pensiero, giacché l’essere basta a sé stesso e, riferito all’Io, fa tutt’uno – come si è visto – con l’essere consapevole49. L’io così ottenuto è, però, 48 EM, p. 425. Sul significato di questo porre e sui problemi con esso connessi, cfr. R. Lauth, Die konstituierende Momente des Setzens in Fichtes erster Wissenschaftslehre, in Der Grundsatz der ersten Wissenschaftslehre Johann Gottlieb Fichtes, cit., pp. 121 sgg. 49 Preziose indicazioni sulla portata del cogito di Cartesio in riferimento a Fichte sono contenute nel saggio di F. Fabbianelli, Descartes, Fichte e la filosofia, in «Teoria», XX (2000), 2, N.S. X/2, pp. 47-68; un rapido cenno al tema dell’intuizione intellettuale, come «uno dei segni di riconoscimento del trascendentalismo» che caratterizza le speculazioni di Cartesio e di Fichte, si trova a p. 52.

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un Io assoluto e ne discende la necessità di porlo in relazione anche con l’assoluto Non-Io, ciò che, per ora, viene riservato all’ambito della filosofia morale.

9. «Esposizione» e realtà del Non-Io A questo punto dello scritto, Fichte propone di riprendere il tema dall’inizio e di farlo mediante proposizioni analitiche, le cui contraddizioni e relative soluzioni conducano a proposizioni sintetiche. La parte del testo cui Fichte conferisce il titolo di «Proposizioni analitiche» inizia da quelle fondamentali che già conosciamo: «1. L’Io è posto nell’Io da sé stesso. — Il Non-Io non è posto da sé stesso, ma dall’Io. 2. L’Io è realtà per l’Io. — Il Non-Io, per l’Io, è negazione. — Che significa questo? Entrambi sono posti, ma non entrambi da sé stessi» (EM, p. 425). Anche in questo contesto l’obiettivo resta quello di unificare i termini contrapposti e il processo attraverso cui viene perseguito ricalca quello già noto, che fa riferimento alla quantità e in essa vede la possibilità di conciliazione tra Io e Non-Io. L’applicazione delle categorie della relazione porta poi al risultato, ugualmente già sperimentato, che rende la rappresentazione accidente di A ed effetto di –A. Ottenuto in maniera più rapida rispetto al percorso precedente, è il riconoscimento che momento costitutivo essenziale della natura di –A è la sua necessaria tendenza ad annientare qualcosa in A 50. L’annientamento di qualcosa dell’Io da parte del Non-Io indica che questo interviene a turbare l’equilibrio mobile dell’Io, a distruggere la sua intimità con sé e a costringere l’Io a registrare e ad accogliere in sé qualcosa di opposto. Poiché l’Io, da parte sua, tende a realizzare qualcosa nel Non-Io, si accende la contraddizione tra il realizzare e l’annientare, la cui composizione avviene nella rappresentazio50 «L’essenza di –A consiste, però, nel sopprimere e nell’annientare qualcosa. –A dovrebbe, quindi, annientare qualcosa in A» (EM, p. 437).

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ne, per l’occasione indicata con la lettera x. Quel che conta, per quanto concerne il tema dell’esposizione, è che in questo suo realizzare, in quanto riferito a –A e non a sé stesso, l’Io non si comporta come esponente, ma come rappresentante. La contraddizione rilevata fa sì che A e –A siano, rispettivamente, alla base dell’intuizione e della sensazione e che la sensazione, in quanto effetto del Non-Io, provochi una passività nell’Io. La domanda cruciale che Fichte pone a questo punto è la seguente: «Ma ora, come sorge da questa passività, una intuizione di una materia nello spazio? – Non è forse questa la domanda più difficile di tutte? – Ma la risposta a tale domanda sarebbe anche l’opera più meritoria della filosofia elementare» (EM, p. 441). Quel che tale domanda mette in gioco è il principio stesso in base al quale qualcosa di materiale possa essere tradotto in dimensione spirituale, divenendo oggetto di consapevolezza per l’Io. Per questo la domanda è impegnativa, ma ancor più importante e meritoria sarebbe la risposta, che darebbe un contributo determinante alla filosofia elementare e al suo tentativo di individuare le leggi fondamentali secondo cui agisce il meccanismo del nostro spirito. L’inizio di risposta che Fichte abbozza, fa riferimento alla natura auto-attiva dell’Io, alla sua forza di esposizione e al riconoscimento all’Io stesso del potere di «far essere qualcosa mediante la propria forza» (ibidem). Viene così ricondotta all’interno dell’Io ogni istanza relativa a ciò che è suscettibile di essere indicato come reale. La limitazione determinata che l’Io sperimenta viene costantemente superata dalla sua attività infinita e riferita, come effetto, a una causa considerata esterna e reale, cioè collocata nello spazio. Ma l’origine e il carattere di realtà riconosciuta al Non-Io risiede nell’Io stesso che, in virtù del necessario equilibrio da mantenere tra i due termini, intanto può procedere al conferimento della realtà al Non-Io, in quanto ne sottrae a sé medesimo un’identica quantità: «l’essere che viene a mancare a lui stesso, l’Io lo trasferisce al Non-Io» (ibidem). La quantità complessiva di

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realtà resta, dunque, costante, mentre quel che varia sono solo le parti attribuite, rispettivamente, all’Io e al Non-Io. La caratteristica in virtù della quale l’Io compie l’atto di trasferire realtà, ha a che fare con la sua essenza e non è ulteriormente spiegabile: l’Io trasferisce perché trasferisce, in virtù della sua autonomia. Tale autonomia è talmente radicale, che può perfino rinunciare a sé stessa, interrompendo il filo che la lega alla rappresentazione e astenendosi, così, dall’essere un’attività continua. Ovviamente, l’interruzione dell’attività non riguarda la direzione che si esprime nell’esporre sé stesso, essendo questa necessariamente continua com’è continua la coscienza, ma solo quella che si rivolge alla rappresentazione. Fichte ribadisce che, affinché ci sia realtà, è necessaria la sensazione, ma questa non è condizione sufficiente, dal momento che l’Io può decidere, pur in presenza della sensazione, di non trasferire. In tal caso è, sì, presente la materia che si fa avanti per essere accolta dalla ricettività dell’Io, ma se essa non è fatta oggetto e illuminata dall’attenzione dell’Io, resta in ombra e non viene rappresentata. Con le parole che, peraltro, Fichte stesso ritiene «improprie», in quanto si prestano a una possibile interpretazione dogmatica: «la materia di a [scil.: della rappresentazione] esiste sempre», mentre «il trasferire la realtà, il rappresentarla, dipende in ogni momento dalla potestà propria» (EM, p. 495). Quello di cui si sta parlando, è il processo mediante il quale l’Io proietta fuori di sé, conferendogli consistenza oggettiva, l’effetto della necessaria limitazione della sua attività. Infatti, se l’attività che espone potesse esprimersi senza incontrare alcun ostacolo, la componente centripeta di quella medesima attività tornerebbe in sé assolutamente pura e, quindi, altrettanto assolutamente vuota. La limitazione che l’esposizione deve incontrare per rendere possibile il factum, è quella che dischiude l’ambito del Non-Io e questo, una volta ricevuto il contrassegno dell’esistenza, costituisce il mondo della coscienza comune, a proposito del quale «non si deve mai dimenticare che il –A viene considerato come stabile e

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indipendente dall’Io pensante» (EM, p. 615, n. b). La dinamica che si dispiega in quest’atto è essenziale alla natura umana ed è verificabile anche in condizioni patologiche, come rileva Fichte: «Tutto ciò che è estraneo al suo Io, l’uomo lo proietta sempre fuori di sé, come insegna l’esperienza, ad esempio, del malato con la febbre» (ibidem). Naturalmente le allucinazioni del malato con la febbre, da questi ritenute reali, non hanno alcun riscontro nell’ambito della realtà, come invece sempre ha e deve avere il normale esercizio dell’Übertragen51. Considerato il ruolo di primo piano che in questo modo viene riconosciuto al trasferire la realtà, Fichte tiene a sottolineare una distinzione importante, che senza nulla togliere alla funzione essenziale che quell’operazione svolge, non deriva, tuttavia, con necessità dalla natura originaria dell’Io, ma avviene solo in funzione della sintesi. L’esporre, che abbiamo visto costituire l’essenza dell’Io, per sua struttura interna si rivolge esclusivamente all’Io stesso e la sua attività originaria costituisce la coscienza pura. Proprio a causa della purezza dell’attività esponente, da essa non può essere de51 Con il termine Übertragen Fichte designa l’atto con il quale l’Io avverte sé stesso limitato dal Non-Io e gli conferisce una realtà corrispondente alla limitazione esperita. A tale realtà compete, allora, un’esistenza nello spazio e nel tempo, vale a dire considerata indipendente dall’Io stesso che se la rappresenta. Anche in relazione al trasferire ha luogo la coincidenza di direzioni opposte della medesima attività: a quella centrifuga, consistente nel consegnare alla dimensione oggettiva il corrispettivo della limitazione della propria attività da parte dell’Io, fa da contraltare quella centripeta, che dall’esteriorità oggettiva torna in sé rappresentandosela ed essendo consapevole di rappresentarsela. Sul tema dell’Übertragen cfr. ib., pp. 405, 493; sulla sua identificazione con il rappresentare cfr. ib., p. 541. Al trasferire che ha luogo in dimensione teoretica, corrisponderà, nella filosofia pratica, un trasferire non più della realtà, ma dello «Streben überhaupt», del tendere in generale («movimento, scopo, organizzazione»), nella materia senziente (cfr. J.G. Fichte, Practische Philosophie, in GA, II, 3, pp. 262-63). Com’è noto, il termine verrà utilizzato, con maggiore parsimonia ma con la medesima accezione, anche nella Grundlage, cfr., ad es., pp. 315-317, 323-24, 440) (131, 133, 138-39, 249).

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dotta la direzione dell’Io che si rivolge a –A. D’altra parte, il trasferire realtà a –A, si è visto, è di competenza esclusiva dell’Io e quindi, in qualche modo ancora da determinare, la sua attività originaria dovrà pur combinarsi con il trasferire. Se l’attività esponente dell’Io fosse costantemente ed esclusivamente diretta verso l’Io, non ci sarebbe mai un momento nel quale essa si incontrerebbe con il Non-Io, con la conseguenza che allora il factum originario non potrebbe mai aver luogo. Poiché, invece, quello è, appunto, un factum, nel quale si realizza con certezza la conciliazione tra l’Io e il Non-Io, allora la deviazione dell’attività dell’Io verso il NonIo avviene con altrettanta certezza, non per necessità derivante dalla natura esponente dell’Io, ma in funzione della necessità della sintesi. In altri termini, se la sintesi deve avvenire, allora l’Io deve trasferire, e resta il compito di dimostrare questa necessità e la natura del trasferire (cfr. EM, p. 443).

10. Il ruolo dell’immaginazione Secondo uno schema ormai consueto, la realtà della sintesi richiede un termine medio tra gli opposti e, in questo caso, considerata la spontaneità con la quale viene conferita realtà oggettiva a –A, il medio è identificato nell’immaginazione, che ha nella spontaneità la sua riconosciuta essenza. Sebbene scaturisca dall’Io, la spontaneità è tuttavia libera, si esprime in modalità che non è l’Io a decidere e perciò si configura, nei suoi confronti, come –A. L’immaginazione, agendo secondo la propria natura, può farlo in un duplice modo: o in maniera rispettosa della legalità, e come tale si rivela elemento costitutivo essenziale del pensiero ed è all’origine dei concetti; oppure, in maniera eslege, e quindi totalmente libera e imprevedibile. Per mezzo dell’immaginazione che si comporta come spontaneità regolata da leggi, si apre la prospettiva della coscienza, che viene vista consistere nell’opposizione dell’Io al Non-Io, avente luogo in un prodotto dell’immaginazione (cfr. EM, p. 445). Anche se in

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modo solo anticipato e non ancora adeguatamente giustificato, il prodotto dell’attività dell’immaginazione si configura come il termine medio nel quale Io e Non-Io convergono e si compenetrano52. I punti fermi che Fichte stabilisce a conclusione della precedente trattazione sono particolarmente utili per consentire di delineare un quadro provvisorio della ricerca. Innanzitutto, un unico oggetto non è sufficiente a giustificare la coscienza53. Essendo questa dinamismo costante e inarrestabi52 Al tema dell’immaginazione Fichte si rivolgerà in modo approfondito nella Grundlage, ma anche nelle Lezioni Über den Unterschied des Geistes, und des Buchstabens in der Philosophie sono presenti, com’è noto, frequenti e importanti indicazioni sulla sua natura e la sua funzione: «Io dico che l’immaginazione produttiva crea il materiale della rappresentazione, che essa è l’unica plasmatrice di ciò che si presenta nella nostra coscienza empirica, che essa è la creatrice di questa stessa coscienza»; e ancora: «Spirito in generale è ciò che, di solito, si chiama immaginazione produttiva» (Ueber den Geist und Körper überhaupt, in GA, II, 3, p. 316) (12). Sulla concezione dell’immaginazione produttiva nel primo Fichte cfr. K. Düsing, Subjektivität und Freiheit: Untersuchungen zum Idealismus von Kant bis Hegel, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 2002, pp. pp. 89-110; C. De Pascale, Il razionale e l’irrazionale. La filosofia critica tra Hamann e Schopenhauer, Edizioni ETS, Pisa 2014, p. 94. Per il rapporto dell’immaginazione produttiva con l’intuizione intellettuale in quanto accomunate dall’identica funzione di connettere Io e Non-Io, cfr., della stessa Carla De Pascale, Das Problem der Vereinigung: intellektuelle Anschauung und produktive Einbildungskraft, in Der Grundsatz der ersten Wissenschaftslehre Johann Gottlieb Fichtes, cit., pp. 193-204, in partic. pp. 198-203. Cfr. anche A. Philonenko, Über die schöpferische Einbildungkraft bei Fichte, ibid., pp. 158-177; sul medesimo tema cfr. anche W. Janke, Fichte. Sein und Reflexion cit., pp. 145-161. 53 Nelle righe che seguono è però presente un’affermazione che contraddice quanto appena detto a proposito dell’impossibilità di essere consapevoli di un unico oggetto, poiché alla domanda: «Se fosse fornita la materia ad un’unica rappresentazione, avrebbe forse luogo una coscienza?», Fichte risponde: «Certamente, almeno dal punto cui siamo giunti finora» (ib., p. 447). Come spiegare questa evidente incongruenza? Credo che nel primo caso Fichte stia parlando della coscienza come flusso costante e inarrestabile, in vista del quale la presenza di un uni-

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le, richiede un altrettanto mutevole riscontro come oggetto della consapevolezza. Una ulteriore, irrinunciabile condizione per l’esplicarsi dell’attività della coscienza, in parte collegata a quella precedente, è che essa disponga sempre di un Non-Io di cui essere consapevole, ma che contestualmente debba esserlo di sé stessa. In sostanza, l’attività della coscienza può essere tale solo in quanto sia consapevole di sé, ma a tal fine è necessario che sia consapevole di altro. Coscienza di altro e coscienza di sé si implicano in modo necessario e nessuna delle due può essere pensata senza l’altra. Poiché nella coscienza devono congruire l’elemento soggettivo = A e quello oggettivo = –A, e cioè il principio da cui procede la consapevolezza e il suo contenuto, l’opposizione tra i due termini viene assunta nell’immaginazione. Quest’ultima mostra sempre più chiaramente la propria funzione imprescindibile, rivelandosi come la sorgente dalla quale gli elementi della sensibilità ricevono una legge necessaria. Quale sia questa legge necessaria non è ancora emerso e la sua individuazione può avvenire sulla base di un esame approfondito del fatto della conoscenza, mentre la parte della teoria della conoscenza che ha competenza su questa materia riguarderà le modalità in cui molteplici sensazioni e molteplici intuizioni vengono poste in relazione e combinate tra loro. Tuttavia, quel che può essere fin d’ora affermato con certezza è che, nell’esame che sta per iniziare, la base per co oggetto rappresenta soltanto un momento dileguante, subito superato dalla presenza di un altro oggetto e così via. Nel secondo contesto, si parla della possibilità della coscienza intesa come puntuale consapevolezza del contenuto di una rappresentazione, e non si può certo negare che si possa avere questo tipo di consapevolezza, istantanea e fissata solo con un atto di astrazione. Che debba essere così sembra confortato dalla seguente affermazione, che si trova qualche pagina dopo: «Se le rappresentazioni, le intuizioni etc. devono essere modificazioni di questo A, allora A deve trasferire ad esse anche la sua unità. — Trasferire questa unità significa pensare. / Senza pensare è possibile la coscienza di una singola rappresentazione, non la coscienza continua, vale a dire, l’unità e la totalità della coscienza» (ib., pp. 469-71, corsivo mio).

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ogni possibile sviluppo è data dalla originaria coimplicazione e dal necessario reciproco riferimento dell’Io e del NonIo, dei quali Fichte dice: «nell’Io, – Io e –Io sono posti l’uno mediante l’altro» (EM, p. 447); osservazione con la quale egli ribadisce che il piano su cui ci stiamo muovendo non è quello metafisico, ma, appunto, quello della conoscenza. Fichte ritiene giunto ora il momento di chiarire, dopo gli elementi che hanno a che fare con la dimensione della sensibilità, quelli che attengono all’intelletto, e per questo nomina esplicitamente il pensiero e il concetto. Non essendo sufficiente la semplice costatazione di fatto dell’esistenza di una molteplicità di oggetti, Fichte ricorre al postulato della coesistenza, in A, di una molteplicità di –A contrapposti e da unificare, al fine di rendere possibile l’esame delle leggi che ne consentono l’assunzione nella coscienza, secondo quanto richiesto dalla teoria della conoscenza. La molteplicità degli oggetti permette di conseguire il duplice obiettivo di offrire all’immaginazione, in quanto necessaria, il materiale su cui applicare le leggi derivanti dall’intelletto, ma anche, in quanto libera, di scegliere gli oggetti su cui applicarle, decidere quali e quante leggi applicare sull’oggetto prescelto, se applicarle a questo o quell’altro, in questo o in quell’ordine54. Restano ora da chiarire le modalità e i criteri che consentono di distinguere gli oggetti esterni, la cui molteplicità è stata acquisita per consentire all’immaginazione di svolgere il suo compito e salvaguardarne la duplice essenza di attività legale e eslege. Se il contenuto della rappresentazione non può provenire direttamente dal Non-Io, diverso è il caso della sensazione empirica, che attinge da esso il suo contenuto e obbedisce a leggi fisiche. La sensazione, però, ha un ambito limitato, come Kant ha insegnato, e il molteplice sensibile si presenta nella sua indeterminata e confusa datità. Perché 54 Cfr. EM, p. 449. «Si può dimostrare a priori che nel Non-Io dev’esserci un molteplice, altrimenti non avrebbe luogo empiricamente una libertà dell’immaginazione, che è legale a priori» (ibid., p. 457).

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possa essere conferito un ordine al molteplice indifferenziato, non è sufficiente la sensazione, ma occorre l’intervento di quella legge necessaria precedentemente evocata, la cui applicazione introduce per la prima volta individuazione e distinzione degli oggetti. L’esempio che Fichte adduce è particolarmente istruttivo e riguarda l’esperienza della visione contemporanea della scrivania e della sedia, esperienza nella quale si ha a che fare con due oggetti e non con uno, come ci si potrebbe aspettare dal fatto che si trovano nel medesimo spazio. Le affezioni che derivano da quei due oggetti sono, insieme, uguali e opposte, nel senso che riguardano colori, forme, posizione nello spazio che derivano e sono valide per entrambi, ma per ciascuno di essi in modo differente. Questo aspetto non ha rilievo per la sensibilità, che si limita ad essere affetta dalle qualità sensibili della scrivania e della sedia, ma ne ha invece per l’intelletto, che collega in unità separate quelle riferite alla scrivania e quelle riferite alla sedia, distinguendole tra loro e non confondendo quel che compete all’una con quel che rientra nel concetto dell’altra. L’allusione al concetto non è stata casuale, poiché l’unificazione degli elementi del molteplice è opera del pensiero, e soltanto il suo intervento segna la costituzione dell’oggetto, con la conseguente posizione dei sui contorni. Con le parole di Fichte: «Per quale motivo collego tali elementi proprio a un unico corpo e non a molti? Come giungo alla limitazione nello spazio? Che consideri l’intero grande proprio così e non più piccolo, che lo limiti proprio con questa superficie e non con alcun’altra, è certamente affare della sensazione. — Ma, in linea di principio, io lo p e n s o come un intero (perché non lo intuisco come tale)» (EM, p. 453). La funzione costitutiva del pensiero viene allora in primo piano, ed è rafforzata dalla conclusione che Fichte trae dal precedente ragionamento e dalla necessità di pensare l’oggetto come intero. Infatti, intero è un concetto che, con quello correlativo di parte, compete alla quantità, cioè a una categoria del pensiero. Non solo, ma a differenza dell’intero

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matematico, che può avere un’esistenza solo interiore, l’intero reale è invece collocato nello spazio e nel tempo, ha limiti ugualmente reali e gli ineriscono accidenti che richiedono l’applicazione di un’altra categoria, quella di sostanza, che ne disvela la relativa auto-sussistenza.

11. Spiegazione della sensazione Alla differenza tra gli oggetti fa da contraltare quella tra le sensazioni55. Per il loro carattere empirico, delle sensazioni non si può stabilire nulla a priori, ma poiché ai fini della libertà dell’immaginazione si è dovuto ammettere la molteplicità del Non-Io, questa ha ora ripercussioni sul rapporto con l’Io, nel senso che, alla differenza tra le sensazioni, corrisponde quella tra i loro oggetti, con la conseguenza che la molteplicità «sembra» debba essere trasferita dall’Io al NonIo, senza però cessare di essere dipendente dall’Io. Il principio di carattere generale che Fichte ne ricava concerne quella che egli chiama la «legge della rappresentabilità in generale», che formula in questi termini: «tutto ciò che dev’essere empiricamente assunto nella nostra facoltà rappresentativa, deve avere qualcosa di opposto, che sia dato anche empiricamente» (EM, p. 457). La differenza (o anche l’opposizione) che rende possibili le nostre rappresentazioni introducendo tra esse la possibilità di discernerle, non è solo prodotto della nostra facoltà conoscitiva, ma deve avere un suo corrispettivo reale nel contenuto empirico della sensibilità. La differenza tra le sensazioni è, per Fichte, sinonimo di una loro almeno parziale opposizione, il che dovrebbe consentire l’applicazione, anche nel loro campo, del metodo finora seguito, che procede, appunto, per opposizioni e successive sintesi. Se le cose stessero in questi termini, si dovrebbe poter istituire una «genealogia a priori per ogni concetto empirico» (EM, p. 459, n. a), ed effettivamente Fichte 55 «Le

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sensazioni devono essere differenti» (EM, p. 457).

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imbocca questa via, salvo rendersi conto abbastanza presto che l’opposizione tra le sensazioni è del tutto diversa da quella che ha luogo in meccanica tra le forze e abbandonare il proposito. La constatazione che le sensazioni sono opposte è confermata dall’esperienza, che ci presenta sensazioni piacevoli e spiacevoli, del bagnato e dell’asciutto, del duro e del morbido e così via. Ma ora Fichte si chiede se la nostra definizione di tali sensazioni come opposte corrisponda al rapporto che sussiste tra esse o sia piuttosto dovuto all’uso linguistico (cfr. EM, p. 457). Inizialmente egli propende per la prima ipotesi e stabilisce, come condizione di rappresentabilità a priori, la proposizione: «Che a ogni sensazione dev’esserne opposta una qualche altra» (EM, p. 459). In precedenza era stato chiarito che la differenza corrisponde a una opposizione parziale. Ora tale equazione viene fatta valere in riferimento alle sensazioni, ciascuna delle quali risulterebbe impossibile se non fosse differente e cioè, almeno in parte, opposta a un’altra. Anche in relazione allo spazio e al tempo, opposti tra loro, solo il contenuto di ciò che li limita può dar luogo, all’interno di ciascuno di essi, a opposizione, mentre questa è del tutto assente nello spazio e nel tempo considerati in sé. In questo contesto ha luogo un’osservazione interessante, anche se alquanto enigmatica, circa la condizione di fondo che ci consente di ritagliare un qualcosa di determinato dal quadro generale in cui è inserito e trasformarlo in oggetto di conoscenza. Il testo di Fichte dice: «È facile dimostrare intuitivamente che noi notiamo qualcosa empiricamente solo in quanto ne sentiamo l’assenza in altre cose» (ibidem). Se guardiamo un papavero che svetta su un biondo campo di grano, avvicinandoci e concentrandosi su di esso, siamo rapiti dal rosso porpora dei suoi petali, dalla loro elegante leggerezza, dai loro contorni armoniosi e tondeggianti, dalla capsula striata e liscia alla base del calice, ma questa nostra piacevole visione implica una circostanza alla quale abitualmente non facciamo attenzione, e cioè il fatto che quei colori

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e quelle forme si distinguono, anzi: si differenziano e perfino si oppongono a tutti gli altri colori e forme circostanti. Il loro essere oggetto della nostra apprensione è reso possibile dalla «negazione» del resto del contesto, a vantaggio di ciò di cui isoliamo i contorni e che, per questo motivo, si staglia sulla restante totalità, ora insignificante, assorbiti come siamo a notare la presenza circoscritta del papavero sullo sfondo di un’assenza per noi non rilevante. Nel gioco tra primo piano e sfondo si esercita il diverso interesse, che ha il potere di trasformare qualcosa di imponente in una evanescenza e qualcosa di apparentemente insignificante in una presenza per noi importante. Nel medesimo quadro si colloca anche l’ulteriore constatazione di Fichte relativa alla funzione selettiva della sensibilità e della facoltà conoscitiva in generale, nei confronti degli oggetti di conoscenza. La sensibilità, per quanto concerne ciascuno dei nostri sensi, ha limiti ben precisi, all’interno dei quali questi riescono ad avvertire i segnali specifici per ciascuno di essi. Ciò vuol dire che ci possono essere segnali che la nostra sensibilità non può recepire perché oltrepassano o non raggiungono le sue soglie, con il seguente risultato, che Fichte considera un ottimo argomento a sostegno della filosofia critica: «Ci potrebbero essere ancora più cose in natura, ma noi non le sentiamo» (EM, p. 459, n. a). Se la sensazione è tale solo in quanto opposta, occorre esaminarne il meccanismo d’azione e, in tal caso, stimoli opposti, a e b, agiscono in contemporanea su A, limitandolo da due lati ugualmente opposti. Il problema che si pone, essendo la limitazione una passività, è come sia possibile una doppia passività nell’Io. La limitazione deriverebbe dalla intuizione portata a rappresentazione, e sarebbe quest’ultima a limitare l’esposizione, cioè l’essenza autentica dell’Io (EM, p. 465). Questa, però, secondo la legge già incontrata, trasferisce su –A tutta la realtà che perde nella limitazione. Essendo la limitazione, in questo caso, doppia, essa trasferisce allora non soltanto la realtà, ma anche la negazione e, ponendole in rela-

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zione, istituisce tra esse il corrispettivo del legame che in precedenza l’Io aveva con il Non-Io (cfr. EM, p. 465). La com­ presenza di realtà e negazione dà luogo a una realtà non assoluta ma limitata, nella quale –A come totalità è opposto a –A come sua parte. Tornando alla sensazione, essa rivela una caratteristica nuova: ciò che riesce a suscitare in noi un’affezione, è ciò stesso che può anche, in altre circostanze, non suscitarla. Con le parole di Fichte: «nulla è sentito che, a volte, non sia anche non sentito»56. L’esempio che Fichte adduce è riferito alla caratteristica della luce di provocare in noi un’affezione, ma di essere anche in grado di non provocarla, essendo pure tenebra. Come si vede, il quadro comincia ora a prendere un’altra configurazione, dal momento che questo e gli altri esempi proposti da Fichte mettono in rilievo che gli opposti, in realtà, si trovano sulla medesima linea di cui sono gli estremi, ma non ha luogo tra essi uno scarto che vada nella direzione di introdurre grandezze negative. Su questo punto torneremo presto, dopo aver però dedicato una rapida riflessione a uno spunto capace di gettare luce su un aspetto della natura essenziale dell’Io. Abbiamo appena osservato che quel che è sentito può anche non essere sentito e da tale constatazione Fichte trae la seguente conseguenza: «Il non-sentire è la condizione di ogni sentire». La condizione, perché io possa vedere e ammirare la bellezza del papavero del precedente esempio, è che io non sia occupato a guardare, poniamo, il campo di grano o la spiga che è giusto accanto al papavero. La facoltà passiva del sentire dev’essere libera, se si vuole che essa possa esercitare la sua passività attivando il meccanismo della sensazio56 EM, p. 465. Riferendoci all’osservazione di Fichte appena citata («ci potrebbero essere ancora più cose in natura, ma noi non le sentiamo»), potremmo intendere quest’ultima espressione sia nel senso che il medesimo stimolo, sentito in certe condizioni, non lo è in altre, sia nel senso che le manifestazioni del medesimo stimolo che non giungono o oltrepassano la soglia della sensibilità, non sono da noi avvertite.

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ne e dei gradi successivi della conoscenza; se quella passività fosse già in qualche modo «occupata» da un sentire diverso, trasmetterebbe questo alla sensazione e ignorerebbe l’altro. L’ultima citazione continua così: «Il non-sentire non è, in real­tà, sensazione alcuna, bensì l’assenza di un’altra sensazione». Il Non-sentire corrisponde alla condizione nella quale l’Io è “in attesa”, vale a dire, non è alla ricerca attiva di stimoli, ma solo nella condizione di recepirli, se e quando si presentano. Si potrebbe anche dire che è la condizione di apertura originaria e di ascolto, nella quale l’Io è riflesso in sé stesso, in uno stato che è, sì, di passività, ma pronto a far scaturire da sé l’attività che lo stimolo in arrivo sollecita. Poiché, però, la vita dello spirito è in continua evoluzione e sempre in atto di sorpassare sé stessa, la condizione descritta è solo ideale, e nella realtà il non-sentire corrisponde all’assenza di un’altra sensazione. A conclusione dei passi riportati, Fichte si pone alcune domande specifiche, che traducono quella posta in precedenza: le sensazioni sono effettivamente opposte tra loro o questa è solo una caratteristica derivata dall’uso linguistico? Le domande sono le seguenti: «L’oscurità si può sentire? — Il colore nero si può pur vedere; l’oscurità è = –luce o = 0 luce? L’oscurità ha una quantità? — Credo di no. L’asciutto ha una quantità? No» (EM, p. 467). Il precedente impianto, che considerava le sensazioni opposte tra loro e che affidava proprio all’opposizione, nella sua forma attutita di differenza, la possibilità di distinguerle, comincia ora a traballare, poiché emerge quanto sopra anticipato, e cioè che tra i termini opposti delle sensazioni vige una continuità che, pur vedendoli come estremi della linea che li collega, li rende passibili di innumerevoli combinazioni, nessuna delle quali bisognosa, però, di oltrepassare il limite che le trasformi in grandezza negativa. Nel caso della luce e delle tenebre la situazione è sufficientemente chiara: la massima intensità della luce contiene la minima quantità di oscurità (= 0), e viceversa nel caso dell’oscurità nei confronti della luce.

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Fichte ne prende atto, e questa volta integra l’opposizionalità delle sensazioni con un’aggiunta significativa: «Ogni sensazione è limitata e può esserlo solo dal suo contrario, / ma sfortunatamente questo non dev’essere una grandezza negativa, bensì 0» (EM, p. 467). La sensazione, in quanto affezione del soggetto, in rifermento ad esso è già di per sé un qualcosa di negativo e un’altra sensazione, per quanto anch’essa negativa, lo è sempre nella stessa direzione della prima; per questo motivo l’opposizione si ferma all’altro estremo della linea, dove, come si è visto, si trova lo zero, non una grandezza negativa. Se dovessimo riscontrare un tale tipo di grandezza nei confronti del carattere già negativo della sensazione, occorrerebbe che questo contrario fosse positivo, cioè realtà, ma questa è soltanto nell’Io, non nel Non-Io: «di conseguenza, scrive Fichte, nella sensazione non ci sono grandezze opposte, ma puri 0» (ibidem). A differenza di quel che si verifica in dinamica, dove le forze contrastanti si compongono, dando luogo a opposizioni reali, nel campo della sensazione gli opposti hanno entrambi una natura positiva, come si può verificare nel caso delle sensazioni del caldo e del freddo, da noi opposti solo in relazione alla temperatura del nostro corpo. Inoltre, la sensazione in quanto tale non potrebbe nemmeno avvertire gli opposti, essendo la sua affezione ogni volta solo puntuale e mancando, perciò, di continuità, come Fichte mette in evidenza in nota: «Non si potrebbe enunciare la proposizione: nella sensazione c’è continuità (poiché nello spazio e nel tempo dev’esserci necessariamente continuità)? Ogni sensazione dev’essere limitata, dev’essere limitata da una sensazione 0; la sensazione 0 non è rappresentabile, lo è soltanto una diversa da 0» (EM, p. 469, n. a). In effetti, quella che per noi si presenta come ovvia continuità nella serie delle sensazioni, non deriva dalle sensazioni stesse, ma dall’attività che le sintetizza e le unifica, facendole apparire continue. La limitazione di una sensazione da parte di un’altra = 0 è un’operazione che non può essere portata a compimento nell’ambi-

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to della sensibilità, essendo invece frutto di un ragionamento, che ovviamente oltrepassa i suoi limiti. Come già era emerso in precedenza, viene qui confermato che le singole rappresentazioni sono senz’altro possibili e possono divenire oggetto di consapevolezza, solo che a tal fine sono indispensabili le forme del pensiero e la loro funzione unificatrice, forme a loro volta radicate nell’autocoscienza originaria, senza la quale esse sarebbero, sì, rappresentazioni, ma non dell’unico e identico Io. L’attività cui ci riferiamo è quella che dipende dalla funzione unificatrice di A. Con le parole di Fichte già riportate (v. nota 53): «Se le rappresentazioni, le intuizioni etc. devono essere modificazioni di questo A, allora A deve trasferire ad esse anche la sua unità. — Trasferire questa unità significa pensare. / Senza pensare è possibile la coscienza di una singola rappresentazione, non la coscienza continua, — vale a dire, l’unità e la totalità della coscienza» (EM, pp. 469-71). Il modo in cui il pensiero conferisce la sua unità alle rappresentazioni consiste nell’applicare ad esse le sue forme, le categorie, la cui unità strutturale poggiante sull’Io penso e, da ultimo, sull’unità originariamente sintetica dell’appercezione, fa sì che le rappresentazioni siano riferite all’identico Io e non a una pluralità di coscienze, ciascuna limitata e circoscritta alla singola rappresentazione in atto. Come si vede facilmente, l’impianto fondamentale della Critica per quanto concerne il rapporto tra Estetica e Analitica trascendentali viene mantenuto e, più particolarmente, la funzione dell’Io penso integralmente salvaguardata. Oltre a questo, tuttavia, è implicitamente salvaguardata la funzione dell’appercezione originaria che, in quanto unità analitica e sintetica insieme, garantisce l’identità pur nel suo continuo divenire.

12. Immaginazione produttiva e pensiero La chiamata in causa del pensiero sposta il piano della trattazione e consente di porre in evidenza caratteristiche

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della sensazione che questa non possiede in quanto tale, ma solo perché correlata, nei modi che vedremo, con il pensiero. Innanzitutto emerge la contraddittorietà di sensazioni simultanee, poiché x e –x si annullerebbero e darebbero luogo a una sensazione = 0. Anche sensazioni isolate e di diversa intensità, se fossero simultanee, consentirebbero di avvertire soltanto la loro differenza. Da qui la conclusione che le sensazioni possono essere solo successive, così come la loro apprensione. Ora, il rapporto di più sensazioni tra loro dev’essere un rapporto necessitato e occorre individuare la fonte di tale necessità, non potendo questa, per ovvie ragioni, risiedere nella ricettività, che si limita a fornire sensazioni isolate. Sensazioni diverse, se non fossero collegate, darebbero luogo a diversi contenuti di coscienza e se questa, invece, deve rimanere identica a sé stessa, deve poterle collegare in virtù di un elemento comune. Poiché un tale elemento è presente sia nelle sensazioni simultanee, sia in quelle successive, l’indagine riguarderà la loro differenza all’interno dell’uguaglianza. Nel caso delle sensazioni simultanee, è indifferente che noi ci rivolgiamo prima a x e poi a –x, poiché in questo caso, come dice Fichte, «la serie temporale viene prodotta dalla spontaneità» (EM, p. 475), e cioè dall’immaginazione. In relazione alle sensazioni successive, invece, il collegamento non può essere arbitrario, e cioè stabilito dalla spontaneità, ma x precede necessariamente –x. Questo tipo di rapporto tra le sensazioni deve essere ascritto al loro contenuto, vale a dire al NonIo, ma con questo la successione necessaria verrebbe ricondotta al loro lato oggettivo, e cioè proprio a ciò che abbiamo in precedenza escluso per il fatto che le sensazioni non sono dotate di capacità di sintesi, che è facoltà esclusiva del pensiero. Al fine di verificare la validità della risposta appena fornita, è possibile una specie di controprova empirica, consistente nel tentativo di vedere se sia possibile invertire, con l’immaginazione, la successione delle sensazioni. Evidentemente una tale prova riuscirà nel caso delle sensazioni simultanee e si dimostrerà impossibile per le sensazioni successive, rinfor-

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zando la precedente apparenza che sia il Non-Io a determinare la necessità del collegamento tra le sensazioni. La qualità di questa verifica, basandosi su elementi di fatto, non soddisfa Fichte, disposto ad ammettere nella sua filosofia un unico factum, quello originario. E tuttavia, la presenza del Non-Io quale elemento che dimostra la sua imprescindibilità nel processo che ordina le sensazioni, lo induce a chiedersi se non sia possibile ricondurre questo fatto secondario a quello originario, nel quale la presenza del Non-Io è comunque ammessa. Le gradazioni crescenti o decrescenti della presenza del Non-Io nelle sensazioni sarebbero proporzionali all’oggettività o all’arbitrarietà del collegamento tra esse, in modo tale che « là dove anche la serie temporale è determinata, c’è più Non-Io che là dove essa è libera» (EM, p. 475). Le diverse combinazioni possibili delle sensazioni tra di loro, in relazione allo spazio e al tempo, danno luogo ai collegamenti propri delle categorie della relazione. Infatti, la successione necessaria delle sensazioni esprime il rapporto tipico tra la causa e l’effetto; la simultaneità delle sensazioni quello dell’azione reciproca, mentre la permanenza nel tempo dà luogo al rapporto tra la sostanza e l’accidente. L’analisi che segue nel testo fichtiano ha ora l’obiettivo di chiarire questi rapporti, portando in luce le funzioni che li giustificano e che sono attive dietro ciascuno di essi. Innanzitutto s’impone l’approfondimento della distinzione tra le sensazioni successive e quelle simultanee, essendo quella fornita in precedenza solo un inizio di spiegazione, come tale bisognoso di integrazione. Il fatto che l’Io possieda le rappresentazioni sia del mutevole, sia del permanente impone di chiarire se queste stesse rappresentazioni siano, a loro volta, simultanee o successive. Che le rappresentazioni siano simultanee significa che l’Io è occupato in una rappresentazione stabile e immutabile, il cui oggetto ha le stesse caratteristiche e che, d’altra parte, il medesimo Io ha a che fare con una molteplicità di accidenti mutevoli, il cui corrispettivo ha le medesime caratteristiche, dando luogo a una patente contraddizio-

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ne. Che le rappresentazioni siano, invece, successive, significa che l’Io è disperso in una pluralità di rappresentazioni sempre cangianti, ognuna delle quali sorge scacciando un’altra, per subire immediatamente dopo lo stesso destino, escludendo così la possibilità di una rappresentazione di un che di stabile in generale e dando luogo a una rinnovata, evidente contraddizione. La conclusione che Fichte ne trae è che allora, essendo il tempo l’ambito nel quale esse si contraddicono, tali rappresentazioni non devono essere nel tempo, anche se questo genera un’altra contraddizione che urge risolvere, dal momento che le rappresentazioni possono essere solo nel tempo. Quest’ultima contraddizione ci consente di intravvedere un nuovo territorio, che Fichte preannuncia con la necessità di fornire ad essa una duplice risposta: «1) La vera unificazione di queste due rappresentazioni contraddittorie ha luogo nell’essenza dell’Io che, però, non è nel tempo; tale essenza è proprio il pensiero. 2) La rappresentazione non è necessariamente né simultanea, né successiva, bensì può essere l’una cosa — e l’altra, può andare da “a” a “b”, e da “b” ad “a”, e ci conduce, quindi, alla simultaneità e all’azione reciproca» (EM, p. 481). Con la prima risposta siamo indirizzati alla natura essenziale dell’Io, al pensiero, che come tale è fuori dal tempo, a differenza dell’immaginazione, la cui funzione consiste proprio nel far descrivere al punto, in cui si concentra l’attività dell’Io, la linea del tempo57. Quanto alla natura dell’Io, nella quale le rappresentazioni opposte possono coesistere senza generare contraddizione, è indispensabile precisare che non è in questione l’Io empirico, quello rappresentante o rappresentabile, ma la sua essenza originaria e identica a sé stessa, che Fichte qui designa come «Io realitas» o «Io noumenon» (EM, p. 481, n. a) e che presto verrà indicata con il termine Darstellungskraft, reso con «forza di esposizione», il cui ruolo centrale nell’economia dell’opera abbiamo già anticipato. 57 «L’immaginazione rappresentante, rappresentativa, è vincolata alla legge di collocare le sue rappresentazioni nel tempo» (EM, p. 481).

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Si era già visto (cfr. EM, pp. 419-21) che la forza di esposizione consiste nella capacità, tipica ed esclusiva dell’Io, di porre la propria attività originaria e non ancora differenziata davanti a sé stesso e di esserne consapevole. Un tale atto non è frutto di rappresentazione e, per questo, non è collocato nel tempo. Il carattere atemporale dell’esposizione, ovvero dell’Io nella sua purezza, consente di tenere unite nell’identica coscienza le rappresentazioni opposte, il cui rispettivo carattere peculiare (l’essere l’una accanto all’altra o l’una dopo l’altra) non dipende da esse medesime, ma dall’attività spontanea dell’Io che si manifesta come pensiero. Si potrebbe allora concludere all’identità di pensiero ed esposizione, ma si farebbe il grave errore di confondere la parte con il tutto. Infatti, il pensiero è uno dei modi di esplicarsi dell’attività originaria dell’esposizione, ma non la esaurisce. Se il pensiero è spontaneità, la forza di esposizione è ciò da cui tale spontaneità si origina, ciò che la sostiene e ne permette l’infinitamente irrequieta esplicazione, la fonte dell’attività che si identifica con l’attività del pensiero, ma la trascende in quanto capace di assumere infinte altre guise. Quando la forza di esposizione, di sua propria e assolutamente libera iniziativa e potestà, prescrive alla facoltà rappresentativa di collocare una rappresentazione in un determinato punto del tempo, allora essa si dispiega come attività del pensiero, libera dai vincoli temporali cui invece l’immaginazione è assoggettata. Il prodotto del pensiero, in questa sua funzione di guida dell’immaginazione, si concretizza nella possibilità, conferita a quest’ultima, di raccogliere in unità i pensieri, altrimenti isolati, di sostanza e accidente, elevando quel rapporto a relazione la cui necessità non è desumibile dai suoi termini reali, ma dal pensiero stesso: «l’immaginazione pensa accidens e sostanza congiunti (congiunti sinteticamente nel tempo), e questa unificazione è un puro pensiero e non è contenuta in nessuna intuizione» (EM, p. 483). In riferimento al rapporto sostanza-accidente, il pensiero può scorrere indifferentemente dall’una all’altro e viceversa,

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prefigurando la relazione dell’azione reciproca, che deve essere ancora adeguatamente fondata. Nel bilancio provvisorio che Fichte abbozza a conclusione di questo ragionamento, spicca il mancato conseguimento dei concetti puri delle categorie della relazione e l’attenzione si sposta di nuovo in direzione della simultaneità, la quale deve dar conto dell’azione reciproca. Infatti, questa postula l’identità dello spazio e quella del tempo per potersi esercitare, ma abbiamo finora sperimentato che la sensazione, l’apprensione e l’immaginazione possono dar luogo solo alla successione. Unicamente per l’intelletto e per la ragione può esserci simultaneità; e se questa dev’essere riscontrata anche nel Non-Io, è necessario che sia pensata e trasferita su di esso a partire dalla sostanzialità che l’Io è e sperimenta in sé stesso. In tal modo si opera quella che Fichte definisce qui una «nuova negazione» (EM, p. 485) del Non-Io: dopo quella che segna la sua trasformazione in rappresentazione, la simultaneità costituisce un’ulteriore «negazione» del Non-Io, intesa come passaggio con il quale si verifica il suo innalzamento nella sfera del pensiero. Anche questo risultato è però inadeguato a fondare in maniera definitiva e valida il concetto della simultaneità, sicché Fichte continua a procedere verso tale obiettivo con rinnovati tentativi che riprendono, in parte, argomenti già utilizzati. Ciò da cui non si può prescindere è, comunque, il carattere successivo delle sensazioni, che impone al pensiero un ordine che esso non può mutare a piacimento. La ragione di tale impossibilità va ricercata nell’ostacolo che il corrispettivo oggettivo della sensazione pone in modo inaggirabile al pensiero, come mostra l’esempio della barca che discende la corrente del fiume, le cui posizioni non possono essere modificate arbitrariamente o invertite dal pensiero58. Ciò fa emergere l’imprescindibilità del riferimento al 58 L’esempio della barca qui introdotto da Fichte rinvia alla kantiana Seconda analogia dell’esperienza, cfr. KdrV, B., p. 169-70 (204-05).

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Non-Io quando si tratta di vedere all’opera le categorie modali e conduce a riproporre la presenza, nel medesimo Io, di accidenti opposti. Per il fatto di essere opposti, tali accidenti sono in un unico tempo e in esso si limitano. Ma l’Io non potrebbe sentirli come accidenti opposti, e perciò mutevoli, se alla loro base non ci fosse una sensazione riferita a qualcosa di stabile e permanente, sul quale esso proietti la propria identità nel tempo e che possa essere designato come sostanza. Il punto cui siamo giunti è, manifestamente, una contraddizione, e precisamente tra a, che dev’essere permanente nella sensazione, e –a, che deve essere mutevole, sempre nella sensazione, con la necessità di «trarsi fuori» da una tale situazione contraddittoria.

13. Il «trasferire realtà» al Non-Io da parte dell’Io In quella che Fichte qualifica come ripetizione delle argomentazioni già svolte e che considera una «spiegazione effettiva» (EM, p. 493, n.), vengono inizialmente ripresi i termini della precedente contraddizione, ma ora concentrata in un’unica rappresentazione, quella della sostanza = a, che dev’essere insieme permanente e non permanente. Una così stridente contraddizione non può restare irrisolta, pena la vanificazione di quanto con essa logicamente correlato, e Fichte ne intraprende la soluzione, chiedendosi se alla base di essa non sia da ravvisare un’ambiguità nel concetto stesso di rappresentazione. «Rappresentare significa trasferire la realtà dell’Io a un Non-Io dato mediante la sensazione, e ciò avviene mediante l’immaginazione — Il Non-Io è dato in modo determinato e, in questo caso, l’Io si comporta passivamente. — Anche l’Io è dato. — Ma il trasferire è un’azione dell’Io scaturita esclusivamente dalla sua natura, dalla sua realtà. L’Io trasferisce perché trasferisce, l’azione in questione non si può riferire a nient’altro, essa è puramente e semplicemente in forza di sé stessa, e l’abbiamo chiamata “potestà propria” (Eigenmacht), spontaneità. — Potrebbe dunque altrettan-

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to bene significare: 1) la potestà propria dell’Io nel trasferire la realtà ad a è permanente. 2) Il trasferire non è permanente» (EM, p. 493). La lunga citazione era necessaria per avere il quadro adeguato di un’altra componente decisiva della funzione dell’Io, già incontrata, che va sotto il nome di trasferire, übertragen, e che è essenziale non solo per l’Io stesso, ma anche per lo strutturarsi del Non-Io. Infatti, se è vero che rappresentare è un atto che riguarda la coscienza e quindi l’interiorità dell’Io, è altrettanto vero che esso è in un duplice rapporto con il Non-Io, e cioè come apprensione di contenuto recepito dalla sensibilità e come conferimento di realtà a quel contenuto, conferimento che può provenire solo da parte dell’Io. Fermo restando il ruolo attivo dell’immaginazione in entrambi quei momenti, nel primo di essi l’Io è passivo, limitandosi ad essere ricettivo; e tuttavia, già in questa sua funzione e indissolubilmente legata con essa, emerge la sua natura originariamente attiva e specificantesi come presa di consapevolezza della rappresentazione, sul cui corrispettivo oggettivo esso proietta la realtà. Continuare a indagare questo meccanismo significa scontrarsi con ciò che non può essere ulteriormente spiegato, in quanto l’attività del trasferire realtà al Non-Io è una funzione inerente all’essenza dell’Io, non riconducibile ad altro, né da altro deducibile. Perciò Fichte scrive che l’Io «trasferisce perché trasferisce», volendo in questo modo indicare che la catena delle possibili deduzioni si arresta qui in modo definitivo. L’originaria potestà propria dell’Io (Eigenmacht), racchiude in sé il privilegio che nessuna facoltà dell’Io, per quanto importante, può detenere, e cioè la capacità di libera autodeterminazione a procedere in un modo o in un altro e, nel caso specifico, a rappresentare o a non rappresentare. La libertà che abbiamo già incontrato (v. sopra, p. 152) come libertà di trasferire e di non trasferire, è qui riferita alla rappresentazione e indica che la potestà propria dell’Io può anche rinunciare a rappresentare. E poiché la contraddizione dalla quale erava-

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mo partiti concerneva la rappresentazione della sostanza, che deve insieme essere permanente e mutevole, con la precisazione relativa alla potestà propria dell’Io, che può scegliere di rappresentare e anche di non rappresentare, si compie un passo avanti verso la sua soluzione, che però si presenta sotto forma di una nuova contraddizione, quella tra la Eigenmacht dell’Io, che è permanente, e il trasferire, che non è permanente. La contraddizione enunciata sopra assume così un contenuto ancora più determinato, ma con esso emerge anche l’esigenza che venga trattato solo nella terza parte dello scritto, quella nella quale l’Io rappresentante diviene oggetto per l’Io assoluto e, nella sua veste di Non-Io del tutto speciale, potrà fornire indicazioni che il Non-Io tout court non è in grado di dare e, sempre in quella parte, potranno trovare adeguata deduzione le categorie della modalità (cfr. EM, p. 495). Nel frattempo occorre evitare una possibile confusione, che potrebbe derivare dallo scambio della potestà originaria e propria dell’Io con il pensiero, prestandosi la libertà di quest’ultimo di disporre delle rappresentazioni ad essere interpretata come esercizio della Eigenmacht dell’Io. Come si è visto (v. sopra, p. 169), i piani su cui queste diverse attività si svolgono sono però ben diversi, e mentre la potestà propria dell’Io ne incarna l’essenza originaria e profonda, il pensiero ne è, piuttosto, una delle possibili specificazioni, e come tale si riferisce a quella come alla sua suprema condizione. L’attività del pensiero è certo autonoma, ma all’interno di limiti ben precisi e determinati, che sono quelli costituiti dalla capacità, ad esso riconosciuta, di ordinare le rappresentazioni e i concetti, di «disporli nella serie temporale»59. In59 EM, p. 497. Una successiva definizione del pensiero ribadisce queste sue caratteristiche e aggiunge quelle nuove, emerse nel frattempo: «Pensare significa assegnare mediante la facoltà del giudizio, che è vincolata, a ciascun elemento determinato il proprio posto nello spazio e nel tempo, conformemente a quelle leggi o ai concetti di sostanzialità, causalità e azione reciproca. N.B. Ogni sensibile viene pensato come accidente, come causa e come effetto e in azione reciproca con tutto nello spazio» (ibid., p. 523, n. a).

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sieme a queste caratteristiche positive, ne viene però indicata un’altra che limita in modo drastico il potere del pensiero, ed è quella che gli preclude la possibilità di porre il Non-Io. Nel medesimo passaggio è però contenuta un’osservazione che vale la pena riportare nel suo contesto: «Pensare significa, manifestamente, porre mediante potestà propria. — Ora, tale potestà propria non può porre alcun Non-Io (l’Io sì)» (EM, p. 497). La distinzione introdotta con la possibilità di porre l’Io, allude a una differenza tra il livello della coscienza comune, capace di ordinare nel tempo i concetti e le rappresentazioni, e la coscienza filosofica, in grado anche di istituire, in maniera intenzionale e libera, la riflessione sull’Io. Nell’esercizio della propria attività, oltre alle rappresentazioni di cui è di volta in volta cosciente, l’Io è consapevole anche di una struttura che permane e che sottende la molteplicità dei contenuti della coscienza. Oltre alle rappresentazioni a, b, c, d, ciascuna delle quali, come mutevole contenuto di consapevolezza, lascia il posto alla successiva, è presente nell’Io la certezza della loro continuità e connessione, alla quale corrisponde una sostanza, che è stabile e permanente. Fichte si chiede se tale sostanza possa a sua volta essere oggetto di sensazione e, com’era da attendersi, conclude che «il permanente non viene sentito, ma solo pensato» precisando, nella pagina successiva, che «la “sostanza” non è una sensazione, bensì un concetto» (EM, risp. pp. 497-501). L’elemento accomunante il mutevole è il suo poter essere sentito, ma questa caratteristica non può essere esperita come tale, cioè come «poter essere sentito in generale», ma solo in ciascuno dei momenti in cui qualcosa di determinato si offre alla sensibilità, rendendo reale quel che era solo possibile. E tuttavia, la permanenza della sostanza, nel suo essere realizzata, vale a dire nel suo essere convertita in un elemento suscettibile di assumere un contenuto determinato anche se ancora indifferenziato, corrisponde al concetto kantiano di materia in generale, come Fichte non manca di ricordare (cfr. EM, pp. 497-99).

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Poiché la materia, come già la sostanza, pur non potendo essere sentita come tale, è tuttavia assunta come sostrato del mutevole sentito, offre lo spunto per chiedersi se ad essa non possa accompagnarsi anche un concetto di sostanza spirituale, esprimente «il permanere in ogni tempo». E cioè, considerato che la sostanza consiste nel suo «poter essere sentita», è necessario che a tale virtualità e alla sua possibilità di divenire reale faccia riscontro un potere o una disposizione nell’Io, che sia altrettanto costante nel «poter sentire» quanto richiede il permanente «poter essere sentito». Si stabilisce, così, una correlazione strutturale tra la sostanza, intesa come realizzata, e il potere dell’Io di pensarla sempre come permanenza sottesa alla mutevolezza delle rappresentazioni. Da parte sua, il potere in questione dell’Io coincide con il sentire, vale a dire con la sua apertura originaria, la sua disponibilità a ricevere quel che «può essere sentito»; e solo l’incontro di queste due opposte e correlative virtualità, che ha luogo ogni volta nella concreta apprensione di un contenuto determinato, avvertito come esterno e innalzato a interiore consapevolezza, produce l’adeguata attuazione di entrambe. Quel che non è stato evidenziato, è che, come sempre, il motore di tutto il movimento descritto è costituito dall’Io e dal suo trasferire realtà al Non-Io, alla materia che, in virtù di questo trasferire, è sostanza. Tutto ciò che avviene nell’ambito della materia è espressione del rapporto di sostanzialità, la cui caratteristica è la mutevolezza continua degli accidenti, di contro alla permanenza e all’invariabilità della sostanza. Anche in questo caso Fichte rende esplicita la sua ispirazione con un richiamo a Kant e alla sua Prima analogia dell’esperienza, e più particolarmente alla formula da lui utilizzata «Gigni de nihilo nihil, in nihilum nil posse reverti»60. 60 KdrV, B, p. 164 (198). Gentile ricorda, in nota alla sua traduzione italiana, che la fonte della citazione kantiana è Persio, Satira III, vv. 83-84. Fichte usa la formula più sbrigativa «nil fit, nil perit» (EM, p. 499).

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Si è già avuto modo di notare che la sostanza non è una sensazione, bensì un pensiero e ora tale caratteristica viene approfondita con la specificazione che si tratta del prodotto di una riflessione scaturente dall’iniziativa autonoma dell’Io. In tal caso, però, si tratta di un livello di pensiero ulteriore rispetto a quello della coscienza comune, al quale non saremmo ancora autorizzati ad innalzarci. La posizione di Fichte è particolarmente interessante anche dal punto di vista del metodo che sta adottando nel portare avanti la sua indagine. Innanzitutto egli precisa che l’esigenza di disporre di una materia stabile e di un sostrato che non muta nel variare incessante delle rappresentazioni appartiene già alla coscienza comune, di cui si sta descrivendo la storia. In realtà, la funzione che Fichte considera peculiare del filosofo critico è quella di osservare il modo di procedere della coscienza non filosofante, descriverlo nelle sue tappe essenziali ed esporlo a coloro che intendono ripercorrere quell’itinerario. Con le sue parole: «Siamo necessitati ad avere qualcosa di permanente (questa è la storia dello spirito non-filosofante, e la filosofia non fa che raccontarla, essa riflette)»61. Inoltre, la medesima coscienza che non si è ancora innalzata alla filosofia, ha un’ulteriore necessità derivante dalla sua natura, quella di doverla rendere conforme alla propria ricettività, di proiettare sulla materia il proprio sentire e di trasferire su di essa realtà. In tutto questo processo la funzione del filosofo si svolge nelle modalità appena ricordate, e cioè senza prendere parte alle operazioni che lo spirito non filosofante svolge, e rimanendo in una posizione di osservatore neutro, che si limita a raccontare quanto si dispiega davanti ai suoi occhi. Perciò Fichte scrive che «qui non c’è ancora alcun prodotto dell’arte» e che «alla filosofia la sua via è indicata solo nella terza parte» (EM, p. 501). 61 EM, p. 501. Si ricorderà che qualche pagina prima, in un contesto in cui era ugualmente in gioco la facoltà dell’Io di trasferire realtà, Fichte aveva fatto riferimento alla «storia dello spirito umano» (ibid., p. 465).

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Conformemente all’impostazione complessiva delle riflessioni che Fichte sta sviluppando, è rigorosamente escluso che la sostanza, presentata nei termini appena considerati, sia da intendere come un concetto metafisico o, come egli direbbe, appartenente alla filosofia trascendente. La sostanza è strettamente collegata con l’esperienza della coscienza comune e, come chiarisce Moiso: «La sostanza che qui è definita non ha quindi nessun tratto metafisico (non è il permanere al di là del tempo, applicabile a realtà spirituali), ma solo sostanzialità, cioè unità di sostanza e accidente, per cui il permanere non è mai disgiunto (nella coscienza comune) dalle mutazioni nel tempo»62. Soltanto nella terza parte dello scritto, con l’istituzione della riflessione sulle leggi del pensare, si indagherà sul rapporto di sostanzialità e si giungerà alla separazione tra sostanza e accidente, che la coscienza comune pensa, invece, uniti (cfr. EM, p. 501). Per ora, prima di passare alla causalità e allo spazio, Fichte ribadisce le caratteristiche essenziali della materia, il suo permanere identica al di là delle trasformazioni accidentali che continuamente si verificano nel suo ambito, il suo non poter mai essere oggetto di sensazione, l’essere soltanto il risultato «di un’astrazione a partire dalla condizione del sentire in generale» e il suo essere, pertanto, solo un pensato63. Tuttavia, a tale pensato viene conferito il carattere della realtà, anche se si continua ad escludere che possa essere sentito. Ovviamente, un concetto del genere presenta connotati che non coincidono con quelli che ogni concetto di conoscenza deve possedere, dal momento che al suo contenu62 F.

Moiso, Natura e cultura cit., p. 138. p. 503. Si tratta, come si vede, di un’anticipazione di quanto sarà affermato nella Grundlage, dove si legge: «Ora, questa determinazione di voi stessi, voi la trasferite immediatamente su qualcosa fuori di voi; ciò che propriamente è un accidente del vostro Io, voi lo trasformate in accidente di una cosa che deve essere fuori di voi, […] di una materia che deve essere estesa nello spazio e che deve riempirlo» (Grundlage, p. 440) (249). 63 EM,

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to logico non corrisponde un contenuto reale, dando luogo a un concetto «vuoto» secondo la celebre definizione kantiana64. Un tale concetto, sempre nella terminologia di Kant, va sotto il nome di noumeno, e Fichte si chiede se alla materia non si debbano riconoscere anche i limiti conoscitivi propri dei noumeni. La materia è, sì, un pensato, ma come corrispettivo della sensibilità considerata nella sua totalità e non come sensazione particolare ed è pertanto, a sua volta, un pensato. Pur essendo un pensato, alla sensibilità in generale non si nega realtà; allo stesso modo, alla materia – che ne è il correlato oggettivo – non dev’essere ugualmente negata una forma di realtà. Insistendo su questo punto, Fichte osserva che se il concetto di cane si fonda su una sensazione particolare, quello di materia si fonda sulla sensazione in generale e, così come il primo porta unità in un molteplice, altrettanto fa la materia, solo che nel suo caso il molteplice da unificare è più esteso e complesso. Si tratta, allora, di una differenza quantitativa e non qualitativa ed è per questo che Fichte conclude che essa, come differenza, «non è così grande» (EM, p. 505).

14. Causalità e azione reciproca Al concetto di causalità Fichte dedica un paragrafo specifico, nel corso del quale intende metterne in luce la struttura necessaria, partendo dal nesso temporale tra a (la causa) e –a (l’effetto). Il primo punto fermo è che tra i due termini dev’esserci successione e non simultaneità, in quanto 64 Il riferimento, com’è chiaro, è al divieto kantiano di privilegiare la sensibilità o l’intelletto, dal momento che «senza sensibilità nessun oggetto ci sarebbe dato, e senza intelletto nessun oggetto pensato. I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche» (KdrV, B, p. 75) (94). Questo «assioma kantiano», ricorda Tilliette, non sarà mai disatteso da Fichte (cfr. X. Tilliette, Fichte. La science de la liberté, cit., p. 20).

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quest’ultima non è suscettibile di essere sentita e perciò è solo pensata e imposta dalla «necessità dell’unità dell’appercezione» (EM, p. 505). In analogia con quanto avvenuto con il concetto di sostanza, di cui si possono sentire solo gli accidenti e tuttavia viene realizzata, allo stesso modo la causalità potrà essere pensata in quanto riferita al tempo e l’azione reciproca allo spazio. A tal fine è però necessario disporre di punti fermi in relazione sia al tempo, sia allo spazio, giacché il rispettivo ordine non può essere lasciato alla discrezionalità dell’arbitrio o «all’immaginazione priva di vincoli» ma, seguendo il suggerimento di Kant65, «che dipendano da qualcosa di esterno a noi, — e cioè dal Non-Io» (EM, p. 509). Approfondendo l’accenno a Kant, Fichte osserva che l’ordine in questione non può certo essere attribuito allo spazio e al tempo considerati in sé, ma solo alle cose che sono in essi. La successione del tempo è certo qualcosa di soggettivo e legato all’essere una dopo l’altra delle sensazioni, ma noi le attribuiamo un carattere oggettivo e la realizziamo in tale dimensione, poiché è la materia, come correlato oggettivo delle nostre sensazioni, a riempire il tempo e anche lo spazio. La realizzazione del tempo, e cioè il conferimento ad esso della dimensione oggettiva, suscita in Fichte un pensiero improvviso, che val la pena di riportare «Credo che si proceda sempre con la triade: Io — termine medio — Non-Io. Nell’intuizione il tempo è — egoico, — nel concetto diviene non-egoico. — Ma il concetto è egoico. (Tutto ciò che è spontaneo è egoico, tutto ciò che è necessario è non-egoico). — Così, nella filosofia morale il concetto è, di nuovo, non-egoico. — In questo modo, già nella filosofia teoretica ci si innalza verso la libertà. — Senza la libertà non è possibile assolutamente nulla. — O voi fatalisti, quale imbarazzo per voi!»66. 65 Il

rinvio è alla KdrV, B, pp. 111-12 (136).

66 EM, p. 509, n. a. «Qualcosa di più elevato diviene soggettivo, non ap-

pena quel che finora era soggettivo diviene oggettivo» (ibid., p. 511, n. a).

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I gradi, che lo spirito attraversa nella progressione che deve condurlo all’Io puro, comportano una correlativa trasformazione della natura di ciò che di volta in volta è considerato appartenente all’Io o al Non-Io. In particolare, il tempo, che nell’intuizione è considerato egoico, e quindi appartenente all’Io, a un livello superiore, quello del concetto, diviene invece qualcosa di oggettivo e come tale non egoico e quindi necessitato e non libero. In tal modo, tra libertà e necessità si istituisce una relazione che non è né di opposizione, né di identità, ma di complementarità, in virtù della quale il dominio della libertà, nell’ambito della filosofia teoretica, si restringe a mano a mano che ciò che apparteneva all’Io viene inglobato nel Non-Io. Si tratta di un esito apparentemente paradossale, ma appropriato alla dimensione teoretica nella quale ci muoviamo e che lascia comunque presagire che il sedimentarsi di elementi egoici in forma oggettiva non resterà infruttuoso nella prospettiva degli sviluppi successivi. Il riempimento del tempo e dello spazio da parte degli accidenti è ordinato secondo il nesso causale in una dimensione che, di colpo, si amplia fino a comprendere la totalità dell’universo. Il concetto di materia precedentemente acquisito mostra ora il suo caratteristico dinamismo, mentre il suo permanere come sostanza avviene dando luogo a una costante e irrequieta trasformazione, che coinvolge la totalità dei suoi accidenti. Questi sono soggetti a mutare forma in ogni momento e ciò avviene, sottolinea Fichte, «indipendentemente dalla nostra apprensione» (EM, p. 511) e secondo un meccanismo per il quale, dato a, segue necessariamente b, e così via all’infinito. Stante questa necessità dei rapporti e fissata la legge che li regola, sarà possibile tanto risalire ad a partendo da b, quanto aspettarsi c quando b si verifica. b, considerato come cauCfr. anche quanto si legge a p. 547: «là dove l’Io è reso Non-Io (rappresentato), il Non-Io si fa avanti al posto dell’Io. Quale utilità per la filosofia morale!».

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sa, deve avere al proprio interno qualcosa, il produrre, che rende non solo possibile, ma necessario l’effetto c. Il produrre, però, non può essere afferrato con i sensi. Essendo b un accidente appreso mediante la sensazione, quella medesima sensazione non può, a sua volta, produrne un’altra secondo la sua materia, ma può determinarla secondo la forma, nel senso che «non appena comincia a, per l’intelletto è già determinato, stabilito b, etc.» (EM, p. 513). Il quadro che si delinea corrisponde al processo attraverso cui lo spirito, avendo realizzato il suo Io senziente, trasferisce la propria essenziale irrequietezza e mobilità agli accidenti della sostanza, considerando anche questa inserita in un movimento senza tregua, in cui «la causa agisce incessantemente, nulla è uguale a sé stesso, neppure per un solo istante» (ibidem). La materia, secondo quanto è risultato in precedenza, costituisce il riempimento dello spazio, nel quale essa si dispiega in ogni direzione, così come esteso in ogni direzione è lo spazio. In virtù della sua caratteristica di fondo, che è il suo scorrere costante e il suo continuo mutare, si comprende come la materia sia, altrettanto stabilmente, causa ed effetto insieme di tutti i mutamenti che intervengono in essa. Affinché possa comportarsi nel modo indicato, è necessario riconoscere operante nella materia una sua qualità non ancora emersa, vale a dire l’impenetrabilità. In quanto costitutivo essenziale della materia, tale carattere non può essere ricavato dall’esperienza e Fichte lo riconduce all’attività autonoma e spontanea dell’Io. Nel contesto in riferimento egli scrive che «l’atto particolare della potestà propria riguardo a questa categoria è proprio quello di porre la materia come impenetrabile, altrimenti non sarebbe per nulla un concetto originario, ma derivato» (EM, p. 515). La categoria cui Fichte allude è quella dello spazio, mentre la salvaguardia della impenetrabilità come concetto originario, e quindi appartenente alla materia in maniera necessaria, viene attribuita alla potestà dell’Io, che trasferisce alla materia il principio che l’Io sperimenta direttamente in sé stesso.

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Nello spazio riempito dalla materia in perenne trasformazione, ogni pur minimo elemento materiale è in relazione di causalità con quello che segue ed è a sua volta effetto di quello che lo precede, costituendo una serie necessaria e interamente governata dal nesso causale. Poiché ognuno degli infiniti elementi materiali è nella relazione descritta, ognuno di essi si trova all’interno di una serie temporale distinta. La circostanza, però, che ogni elemento materiale sia connesso causalmente con tutti gli altri, riconduce le serie temporali virtualmente infinite a un’unica serie, comprensiva di tutte le serie. Considerata attentamente, la situazione che si prospetta è tale da consentire un significativo approfondimento del rapporto di causalità. Poiché questa estende la sua efficacia a ciascun membro della totalità del reale, ogni singola parte di esso è, direttamente e indirettamente, in azione reciproca con ciascuna delle altre. L’immagine che ne deriva è quella di un «perpetuum mobile, in cui ogni ruota ingrana su tutte e tutte su ciascuna» (EM, p. 517), corrispondente a un universo in cui non solo le galassie sono in reciprocità d’azione, ma al medesimo rapporto obbedisce ciascun singolo corpuscolo che le compone. E se la causalità ha reso più chiaro il concetto di azione reciproca, la conoscenza approfondita di quest’ultima consente, a sua volta, una migliore comprensione della causalità, mentre entrambe rendono conto della necessità dei rapporti meccanici vigenti nello spazio pieno di materia. A conclusione della parte dedicata allo spazio, Fichte offre un rapidissimo sunto dell’itinerario percorso, che gli serve a giustificare il motivo per cui, nella deduzione delle categorie della relazione, ha iniziato con la sostanza, quale unica base possibile cui ancorare il mutamento continuo, che trova nel rapporto causa-effetto e nell’azione reciproca le proprie leggi inderogabili e sulla cui base è possibile la costruzione scientifica dell’universo.

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15. Passaggio alla terza parte Il passaggio alla terza parte, più volte preannunciato, avviene con uno spostamento di piano, rispetto alle precedenti, di cui diremo dopo aver rapidamente osservato che essa presenta, in maniera accentuata, i difetti nell’esposizione che, per la verità, abbiamo imparato a conoscere dallo studio delle parti già esaminate. Il fatto che essa contenga il lato più innovativo e ancora in via di definizione del pensiero di Fichte, è testimoniato anche dalle continue ripetizioni e riproposizioni di argomenti già svolti, da direzioni intraprese e poi abbandonate, da sviluppi fatti intravvedere e che restano però disattesi. Lo spostamento di piano cui facevo riferimento consiste nell’assumere, come oggetto delle osservazioni del filosofo, non più contenuti esterni alla coscienza, ma questa stessa in quanto consapevole della sua rappresentazione. Con le parole di Fichte: «la facoltà rappresentativa stessa verrà considerata come Non-Io» (EM, p. 523). Siamo allora in presenza di quella distinzione, già annunciatasi in precedenza, tra la dimensione della coscienza comune e quella della coscienza filosofica, con quest’ultima che assume a suo oggetto i modi necessari di operare della prima. Al fine di introdurre il nuovo argomento, Fichte ricapitola il processo conoscitivo nei termini in cui è stato esposto in precedenza: in analogia con quanto avviene a partire dalla sensazione esterna, che produce l’impressione, trasformata dall’immaginazione in intuizione, a sua volta innalzata a concetto, possiamo ipotizzare che anche la sensazione interna fornisca elementi su cui l’immaginazione può operare, e tali elementi sono il sensibile in generale, il tempo e lo spazio. Questi contenuti sono presenti nella coscienza così come sono emersi nel corso della deduzione delle categorie, sono perciò accompagnati dalle categorie modali e rappresentano l’impalcatura legale della natura, intesa come il perpetuum mobile nel quale consiste l’universo. Se nella seconda parte Fichte si era manifestamente ispi-

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rato alle kantiane analogie dell’esperienza, qui si accenna rapidamente allo schematismo trascendentale, partendo da quanto già stabilito in precedenza a proposito della sensazione in generale, che non può certo essere una sensazione come le altre, né un’intuizione, ma è piuttosto un concetto e, anzi, nemmeno un semplice concetto, bensì «un’immagine pensata del modus di sentire che l’immaginazione produce con spontaneità, uno schema» (EM, p. 527). Della produzione di queste intuizioni interne è responsabile l’immaginazione, che agisce però in maniera, oltre che spontanea, inconscia e al riparo da ogni iniziativa arbitraria. Per questo motivo, si può divenire consapevoli di quelle intuizioni interne a condizione di non restare nell’ambito della coscienza comune, ma innalzandosi alla coscienza critica e sottoponendole, per suo tramite, a riflessione. L’operazione descritta comporta l’innalzamento di un livello nella scala dei gradi del pensiero, che ora, mediante l’immaginazione, si rivolge alle intuizioni interne come alle forme che strutturano e determinano i contenuti empirici. Fichte si compiace di osservare che il termine «forme» sia perfettamente appropriato a designare quell’elemento costitutivo di ogni conoscenza, che deve essere presente in tutte, ma senza mai poter essere colto separatamente da ciascuna di esse. Ciò cui dà luogo l’immaginazione mediante il suo operare limitato soltanto alle intuizioni interne è, invece, un creare, nel senso che il risultato cui approda ha il difetto di non trovare riscontro nell’intuizione. I gradi del pensiero riguardano le relazioni che le cose hanno con il nostro intelletto e non sono, perciò, rapporti sussistenti tra le cose. Essi servono a distinguere e a ordinare le conoscenze nell’intelletto, nel caso specifico secondo le categorie della modalità, la cui deduzione era stata anticipata qualche pagina prima67. Nel contesto cui ci stiamo riferendo, 67 Cfr. EM, p. 495. Anche in questo caso Fichte segue lo svolgimento della Critica che, nella parte iniziale dei postulati del pensiero empiri-

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questo significa che le intuizioni prodotte dalla spontaneità ricevono un grado di realtà corrispondente al livello del grado del pensiero interessato, e la loro differenza è data dalla «maggiore o minore vincolatezza della potestà propria in in quest’atto» (EM, p. 529). La gamma di tale vincolatezza attraversa la serie di sfumature che vanno dal possibile, all’esistente, al necessario, dei quali si fornisce una definizione sulla base dell’accordo, rispettivamente, con la sensazione interna, con quella esterna e con entrambe insieme. In una delle numerose ricapitolazioni fatte in vista di un nuovo passo avanti, Fichte ricorda le acquisizioni più recenti, a partire dal sentire e dalla riconduzione della molteplicità che esso comporta nell’unità di una coscienza. Passa quindi all’intervento dell’atto mediante il quale l’Io trasferisce realtà e al ruolo delle categorie della relazione, che conferiscono alla natura la sua caratteristica struttura legale, giungendo infine ad affermare che «l’Io è azione originaria» (EM, p. 533). Introdotta in modo così conciso, tale affermazione rischia di rimanere enigmatica e richiede, perciò, una contestualizzazione che ne faccia emergere il vero significato. Il senso complessivo delle tappe appena ricordate del processo estremamente complesso che conduce alla visione del mondo come totalità strutturata, in perpetuo movimento e ordinata secondo leggi necessarie, ha a suo presupposto il riconoscimento del ruolo che compete all’Io e alla sua capacità di ordinare i fenomeni proprio secondo quelle leggi. Spazio e tempo, sostanza e accidente, causa ed effetto, azione reciproca non sono, come la filosofia critica ha dimostrato, ricavati dall’osservazione dei fenomeni, ma sono costitutivi di essi e alla base dell’unificazione in virtù della quale avviene la loro determinazione. L’efficacia delle leggi del co in generale, chiarisce che tali categorie «hanno questo di particolare, che non accrescono minimamente, come determinazione dell’oggetto, il concetto al quale sono unite come predicati, ma esprimono soltanto il rapporto con la facoltà conoscitiva» (KdrV, B, p. 186) (224).

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nostro intelletto nel regolare la totalità della natura rappresenta la conquista essenziale in relazione alla dimostrazione della continuità con il Non-Io o, nei termini in cui Fichte si è espresso in precedenza, dell’identità dell’Io con il Non-Io. Quella portentosa evoluzione mediante la quale sensazioni isolate e irrelate sono progressivamente unificate in concetti, innalzate in dimensione che conferisce loro significato, trasformate in fenomeni comprensibili e inseriti in un universo ordinato secondo leggi universali e necessarie, in virtù delle quali ogni più piccolo elemento materiale è in azione reciproca con il restante universo, è opera esclusiva dell’Io. Senza tale sua funzione, che introduce regolarità e legalità e trasforma il caos in cosmo, non si potrebbe parlare di natura, sia perché non ci sarebbe la natura, sia perché non ci sarebbe nessuno a poterne parlare. Ecco, allora, il motivo di fondo che rende comprensibile l’affermazione che stiamo illustrando: «l’Io è l’azione originaria»: senza tale sua attività, la trasformazione del caos non sarebbe possibile e, ancor più radicalmente, non sarebbe addirittura possibile nemmeno registrare il caos come tale. La coscienza comune, nel suo essere totalmente immersa nell’esperienza, costituisce la prova del factum originario, della continuità dell’Io con il mondo, ma si tratta di una prova inconsapevole e immediata, e come tale può essere valutata solo a un livello ulteriore di pensiero. L’uso delle leggi, al fine di porre ordine nella natura, consente di raggiungere il duplice obiettivo di individuare il posto che compete alle cose nell’economia generale e collocarvele, togliendole da quello sbagliato e permette a noi di assumere il giusto orientamento nel mondo. Tale duplice funzione non è, tuttavia, sufficiente a esaurire le potenzialità proprie dell’essenza dell’Io, poiché la nostra vita non si svolge in maniera irriflessa e tale da essere circoscritta all’interno della natura, essendo noi capaci di trascenderla, di riflettere su di essa e anche su noi stessi. Nel quadro di queste riflessioni, Fichte affida a una nota il seguente «pensiero occasionale»: «Io devo portare alla giu-

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stizia la natura / materiale, non quella razionale. Là dove la trovo già giusta, in accordo con il mio concetto necessario di giustizia, presuppongo che sia effettivamente razionale. — Enti razionali fuori di me, che possono annunciarsi solo in questo modo. Qui puoi vedere la base del diritto di coercizione, della morale, e così via. — Se qualcosa, che prima non lo era, diviene razionale e giusto, diviene libero. — Da qui discende anche il diritto dei bambini, l’educazione popolare e, — inoltre, il diritto di ribellione contro prìncipi ingiusti. I prìncipi sono ingiusti quando non trattano in modo razionale ciò che, con ogni verosimiglianza, potrebbe diventarlo» (EM, p. 533, n. a). Nel confronto con la realtà, all’Io spetta di valutarla secondo il criterio della sua corrispondenza alla giustizia che, in questo contesto, non può significare che armonia, ordine e razionalità che devono regnare tra gli elementi che costituiscono il mondo nella sua totalità68. Nel caso di sua incongruenza con la giustizia, la realtà dev’essere modificata e resa adeguata al suo concetto, eliminando gli aspetti irrazionali che ne ostacolano l’inserimento nella compagine strutturata e in evoluzione che l’operare umano costantemente produce come cultura69. 68 Il ruolo efficiente della giustizia, anche in relazione alla verità, era stato evidenziato nella Rivendicazione della libertà di pensiero: «Oltre a questa verità riferentesi al mondo sensibile ne esiste ancora un’altra, in un senso infinitamente più alto della parola: qui infatti noi non conosciamo sulla base iniziale della percezione la costituzione data delle cose, ma dobbiamo noi stessi produrla mediante la più pura e la più libera auto-attività in conformità ai concetti originari del giusto e dell’ingiusto. Ciò che è conforme a questi concetti è vero per tutti gli spiriti e per il Padre degli spiriti» (Zurückforderung, pp. 179-80) (21). 69 Si tratta del concetto che verrà presentato come fine ultimo del tendere in generale nella Practische Philosophie, che consiste nel «rendere il Non-Io dipendente dall’Io» (Practische Philosophie, cit., p. 241). In un altro contesto del medesimo scritto Fichte aggiunge che la subordinazione del Non-Io all’Io significa «non ammettere alcuna modificazione dal Non-Io e, quindi, trasformare in Io lo stesso Non-Io» (ib., pp. 263-64). In riferimento ai primi scritti, C. De Pascale osserva

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Ma nello specificare i momenti della precedente identità dell’Io e del Non-Io si fanno avanti aspetti non ancora emersi che, se mettono in dubbio proprio tale identità, aprono nel contempo nuove prospettive. L’identità in questione è stata conseguita riconoscendo l’efficacia delle leggi dell’Io sulla realtà del Non-Io, mentre ora sembra riaprirsi tra i due termini una divaricazione che, anticipando un’osservazione successiva, suona così: «la questione, in fondo, è quella kantiana: come può l’Io prescrivere una legge al Non-Io?»70. La risposta a tale importante interrogativo, subito avanzata, fa pernio sul fatto che quella legge è prodotta dall’Io, ma Fichte è costretto a riconoscere che «non siamo ancora a questo punto» (ibidem). Tornando al nostro contesto, a porre in crisi l’identità che sembrava raggiunta è qui la constatazione che Io e Non Io «sono ancora sempre due, costituiscono una dualità» (EM, p. 535), disattendendo l’indispensabile requisito dell’identità anche numerica. Il superamento dell’ingombrante ostacolo all’unità di Io e Non-Io è, allora, un compito che resta ancora da attuare e costituisce, anzi, quello «più elevato della filosofia» (ibidem). Affinché l’ambizioso obiettivo possa essere realizzato occorre, per Fichte, che sia soddisfatta una condizione nuova e molto impegnativa, e cioè che «le cose» siano «determinazioni adeguate del nostro Io puro»71. che «Fichte ha proclamato la necessità - e dunque anche la possibilità di un accordo, prima, e di un’armonia, poi, tra l’Io finito e l’Io infinito (all’interno dell’Io), tra quella parte dell’uomo che è materiale e dunque soggetta alla finitezza delle cose terrene e la sua parte spirituale, intellettiva, infinita» (C. De Pascale, Vivere in società, agire nella storia. Libertà, diritto, storia in Fichte, Guerini e Associati, Milano 2001, pp. 25-26). 70 EM, p. 577. Si noterà che la questione non concerne se, ma solo come l’Io possa prescrivere una legge al Non-Io. 71 EM, p. 535. Sul significato del termine «adäquat» in questo contesto cfr. H.G. von Manz, Die Funktion praktischer Momente für Grundelemente der theoretischen Vernunft in Fichtes Manuskripten „Eigne Meditationen über ElementarPhilosophie“ und „Practische Philosophie“ (1793-94), R. Lauth zum 75 Geb., in «Fichte -Studien», n. 9

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Perché la realtà possa raggiungere lo stadio in cui il NonIo diventi determinazione di volta in volta adeguata del puro Io non è, evidentemente, sufficiente l’incontro che ha luogo nell’atto conoscitivo tra soggettivo e oggettivo, ma è richiesto un grado di compenetrazione maggiore tra i due termini, conseguibile solo nell’ambito del dispiegarsi dell’attività pratica dell’Io. Riprendendo il tema della giustizia enunciato in precedenza, il testo lo collega direttamente alla necessità che le cose siano determinazioni conformi ai concetti dell’Io, affidando alle nostre mani l’attuazione della giustizia. Questa, però, non si realizza di colpo, ma solo progressivamente, ed è indispensabile saper cogliere quel che è razionale quando esso ancora non si è affermato come tale e nella sua piena validità, e creare le condizioni perché ne sia promosso lo sviluppo, come nel caso dei bambini o dei popoli, la cui educazione coincide proprio con l’affermarsi di una razionalità in divenire. L’obiettivo finale di una tale opera dovrebbe condurre a quel che Fichte esprime in forma ottativa: «regni la giustizia!», aggiungendo, però, subito dopo: «questo è il caso di Dio»72. Riservata a Dio e al suo regno la realizzazione istantanea e compiuta della giustizia, agli uomini resta l’opera faticosa di conferirle forma e vita in questo mondo, il che comporta che essa non possa essere conseguita in un periodo storico definito, ma che abbia impegnato e impegni ciascun Io, visto che il diritto, la morale e, in generale, la cultura sono (1997), p. 97. Il medesimo concetto è espresso da Fichte in modo conciso ed efficace nella Practische Philosophie: «Lo scopo del tendere in generale è di rendere il Non-Io dipendente dall’Io» (p. 265, cfr. anche pp. 264-65). 72 EM, p. 535. L’accettazione di tale prospettiva comporterebbe quel che Fichte definisce «uno spinozismo, ma uno del tutto diverso, vale a dire, non uno spinozismo teoretico, speculativo, ma morale» (ibidem). Sul tema dello «spinozismo morale», anche in riferimento alla Practische Philosophie, cfr. F. Fabbianelli, Antropologia trascendentale e visione morale del mondo, cit., pp. 101-106.

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il prodotto dell’attività ininterrotta dell’umanità intera73. I progressi nell’ambito della cultura si traducono in graduale innalzamento della natura verso la soggettività, poiché gli oggetti elaborati al fine di renderli adatti a soddisfare bisogni umani hanno assunto la forma che l’Io ha conferito loro mediante il lavoro e che essi trattengono in maniera stabile, tanto da poter costituire il «vero fondamento» del diritto di proprietà74. L’adeguatezza della realtà oggettiva alla razionalità implica, allora, il fare concreto ed effettivo dell’Io, 73 Su tale processo di perfezionamento continuo e in vista del raggiungimento di un fine, al riparo dalla nota accusa hegeliana di «cattiva infinità», cfr. G. Rametta, Fichte, cit., p. 47 sgg., in partic. p. 49. Quanto all’accusa di Hegel, appare pienamente convincente la seguente tesi di Ivaldo: «L’osservazione critica di Hegel scambia […] per un difetto quella che è una qualità della filosofia trascendentale: il dover-essere non esprime affatto una sintesi non-riuscita, ma il modo fondante in cui l’infinito si presenta nel finito e il finito si rapporta all’infinito – in chiave pratica, e in definitiva etico-pratica» (M. Ivaldo, Ragione pratica, cit., p. 304, n. 28). Si può solo aggiungere che quanto verrebbe definito «cattivo» (ovviamente non in senso morale, ma nel senso inteso da Hegel), non è solo l’infinitezza di un processo astrattamente considerato, ma anche la sua base sostanziale, costituita dallo sforzo continuo di uomini vivi e concreti, che nella realizzazione dei loro fini ripongono il senso della loro vita, pur essendo consapevoli che non potranno mai attingerli integralmente. Sui limiti della interpretazione hegeliana del pensiero di Fichte cfr., ancora di M. Ivaldo, I princìpi del sapere, cit., pp. 2733. Quale sia la posizione di R. Lauth a proposito delle critiche di Hegel a Fichte si comprende già dal titolo del suo lungo e documentato Hegels Fehlverständnis der Wissenschaftslehre in «Glauben und Wissen», prima parte, in «Revue de Métaphysique et de Morale», 1 (1983), pp. 1-34; seconda parte, ib., 3 (1983), pp. 298-321. 74 Il riferimento è al Beitrag zur Berechtigung, p. 267 (130-31). Qui Fichte spiega che il lavoro umano conferisce alla cosa elaborata una forma stabile, derivante dalla sua intenzione intelligente e plasmatrice e, per questo motivo, è all’origine del diritto di proprietà. Egli anticipa in tal modo la celebre concezione del lavoro che, qualche anno dopo, Hegel enuncerà dapprima in alcuni scritti jenensi ed esporrà in forma definitivamente matura nella sezione «Autocoscienza» della Fenomenologia dello spirito, anche se... “dimenticherà” di menzionare il contributo di Fichte.

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sicché la filosofia pratica si configura come l’ambito nel quale i fini che egli si propone divengono realtà oggettiva75. La libertà umana trova, così, il suo naturale campo di esplicazione, dando un senso preciso alla categorica affermazione di Fichte già incontrata, che vede la libertà alla base di tutto (cfr. EM, p. 509, n. a). Nel frattempo, occorre riprendere il tema dell’unità di Io e Non Io, dal momento che l’Io si rappresenta sì l’unità, ma come identità del Non-Io con sé stesso, e non con l’Io. Nei termini in cui il problema si poneva all’inizio della trattazione, se si è chiarito il senso in cui la rappresentazione è effetto del Non-Io, resta ancora da chiarire che cosa voglia dire che essa è accidente dell’Io. Nell’ambito della materia è del tutto scontato che un suo accidente equivalga a una sua modificazione, poiché la materia può, in ogni momento, essere modificata. Se si applica lo stesso criterio all’Io, ci si accorge, però, che quel ragionamento non vale, essendo l’essenza dell’Io refrattaria a ogni modificazione proveniente dall’esterno e non c’è nulla al mondo che possa modificarla. Non solo, ma l’Io, ovviamente non in quanto empirico, bensì in quanto Io puro, non può modificare nemmeno sé stesso, poi75 Si tratta del processo di razionalizzazione della natura che Fichte, come nota R. Picardi, partendo dal radicarsi dell’imperativo categorico nell’assolutezza dell’Io, presenta come «componente costitutiva ed ineliminabile del supremo scopo finale morale dell’uomo» (R. Picardi, Il concetto e la storia. La filosofia della storia di Fichte, Il Mulino, Bologna 2009, p. 85; il rinvio della nota 51 è alla Grundlage, p. 396 (206), ma l’accordo dell’oggetto con l’Io, che questi esige in forza della sua assolutezza e di cui si parla in questo contesto, si può considerare come traduzione, su un altro registro, dell’adeguatezza delle cose al nostro Io richiesta dalle EM). Il medesimo processo, presentato nella prospettiva di quel testo, è descritto nella Recensione all’Enesidemo nei termini seguenti: «[…] poiché l’Io non può rinunciare al suo carattere di assoluta auto-sussistenza, sorge una tendenza a far dipendere da sé l’intelligibile, al fine di portare all’unità l’Io stesso che rappresenta l’intelligibile e l’Io che pone sé stesso. È questo il significato dell’espressione: la ragione è pratica» (Rez. Aenesidemus, p. 65) (117).

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ché «l’Io è quel che è, e non è più Io non appena è qualcos’altro» (EM, p. 537). Questa definizione, apparentemente tautologica, esige una integrazione, e Fichte la fornisce dicendo che l’Io (empirico) è una rappresentazione di sé stesso (Io puro). Le determinazioni dell’Io empirico, come contenuto della rappresentazione, omologano l’Io stesso al NonIo, dando luogo a quella condizione nella quale il Non-Io è nell’Io e per l’Io, mentre l’Io puro continua ad essere assolutamente opposto al Non-Io. Il conferimento di realtà e sostanzialità al Non-Io poteva aver suscitato la convinzione che l’oggettivazione di quelle categorie nel Non-Io potesse costituire l’elemento di prova per testimoniare l’identità tra i due termini. Di qui l’importante precisazione di Fichte, che ribadisce, volgendosi esplicitamente contro Enesidemo, che realtà e sostanzialità non derivano affatto dall’oggettività, né possono essere da essa ricavate, ma appartengono alla sfera della spontaneità dell’Io. Pur non avendo ancora dimostrato come avvenga il trasferimento della realtà da parte dell’Io, si può tuttavia affermare che si tratta di una modalità implicita nello stesso pensiero, come testimonia il fatto che non possiamo pensare diversamente da come pensiamo. Ora, in riferimento a realtà e a sostanzialità, sorge la domanda: se esse non sono ricavate dall’esperienza e quindi non possono essere intuite sensibilmente, devono forse essere intuite intellettualmente quando sono pensate dall’Io? Come si vede, viene di nuovo evocata l’intuizione intellettuale, ma riferita a categorie della modalità e della relazione, e anche in questo contesto resta ancora lontana dalla raffinata elaborazione successiva. Quanto alla domanda posta, non essendo sicura la risposta circa l’intuizione intellettuale, viene piuttosto trasformata in quest’altra: «in che modo l’Io, che è semplice, può produrre, ciononostante, tali concetti?» (EM, p. 539).

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16. Esposizione e rappresentazione dell’Io Fallito il tentativo di trovare una soluzione soddisfacente per quanto concerne il tema dell’identità di Io e Non-Io, si rende necessaria un’altra mediazione, che serva a collegare i termini altrimenti ancora stabilmente opposti. In analogia con quanto aveva fatto a proposito della materia, di cui aveva segnalato il «poter essere sentita» (Empfindbarkeit) da parte dell’Io, ora viene individuato, come terzo termine tra gli opposti, che deve svolgere la stessa funzione attribuita a suo tempo alla quantità, la «rappresentabilità» (Vorstellbarkeit), vale a dire la disposizione a divenire oggetto della rappresentazione, disposizione che ora accomuna il Non-Io e l’Io, in quanto quest’ultimo venga inteso come contenuto della rappresentazione e non come il rappresentante. Quando l’Io rappresenta sé stesso, l’oggetto della rappresentazione è l’Io stesso e disponiamo, così, di tutti gli elementi di cui abbiamo bisogno per chiudere il cerchio della conoscenza: l’oggetto conosciuto, la coscienza che ne è consapevole, l’autocoscienza come consapevolezza della coscienza di esserne consapevole. Ma si tratta, effettivamente, di un circolo che racchiude al suo interno solo ed unicamente il sapere, la conoscenza, e quindi coincide con la filosofia teoretica, senza alcun passaggio al dominio della pratica. Poiché il rappresentare è funzione esclusivamente teoretica, bisogna che il suo fuoco sia rivolto a quell’attività originaria dell’Io che, per il suo essere ancora pura e non determinata in questa o quest’altra forma che può assumere, le contiene in sé tutte, comprese quelle che attengono al dominio della pratica. L’indicazione è allora di orientare la rappresentazione sull’esposizione, la quale ultima fornirà gli elementi per il passaggio auspicato e necessario alla filosofia pratica (cfr. EM, p. 541). Ancora una volta la semplicità del compito è solo apparente e nasconde, in verità, una difficoltà molto rilevante, che avevamo già riscontrato in occasione della descrizione (cit. sopra, pp. 146-147) del rispettivo modo di procedere della

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rappresentazione e dell’esposizione: «Esposizione è posizione dell’Io, rappresentazione è posizione del –Io. — Il metodo della posizione è simile, l’oggetto è diverso». In quel contesto avevamo tuttavia sottolineato che, insieme con la differenza evidenziata, le due attività disponevano di una superficie comune, essendo l’esposizione la sostanza di cui la rappresentazione è accidente. Ora viene chiesto alla rappresentazione di svolgere il proprio compito in riferimento non più all’oggetto, ma a quell’attività che costituisce l’essenza dell’Io, colta, però, prima di una sua concretizzazione che la circoscriva e la renda identificabile per la stessa attività conoscitiva. Se l’esposizione è l’attività autonoma che pone sé stessa davanti a sé stessa, ma alla purezza dell’attività del porre corrisponde l’uguale purezza di quella che è posta, allora siamo in presenza di un atto che possiamo sì postulare, che dobbiamo sì porre alla base e come condizione della possibilità dell’autocoscienza, ma quell’atto non potrà mai uscire dalla purezza che lo caratterizza. L’attività originaria dell’Io, sorpresa quando ancora non ha assunto una forma definita, si sdoppia come attività centripeta, che deve cogliere, presentare, esibire a sé stessa l’altra parte di sé che, in quanto attività centrifuga, si dirige all’esterno, verso l’infinito, fermo restando che le due attività, pur esplicantisi in direzioni opposte, sono la stessa, identica e simultanea attività originaria. Nel suo ritornare in sé come direzione centripeta, l’attività dell’Io non può che registrare l’assoluta trasparenza di quella parte di sé che doveva cogliere e può pertanto espandersi all’infinito e all’infinito tornare in sé, senza che da quel duplice movimento scaturisca una conoscenza determinata. Poiché verso la fine dello scritto Fichte tornerà su un caratteristico accostamento tra rappresentare ed esporre, entrambi riferiti al soggetto assoluto (cfr. EM, p. 635), ci disponiamo ad assistere agli sviluppi che segnano il passaggio dall’attuale alla successiva posizione. Riprendendo il filo delle argomentazioni relative alla necessità che l’Io venga rappresentato, si presenta subito la con-

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traddizione tra rappresentante e rappresentato. I tentativi compiuti per superare la contraddizione chiamano in causa e svolgono argomenti relativi alla rappresentazione della rappresentazione, e cioè al processo che ha luogo in noi nel momento in cui non consideriamo la rappresentazione come oggetto attuale della nostra coscienza, ma torniamo su una rappresentazione già avuta. In questo caso, facciamo esperienza non di una rappresentazione attualmente vissuta, bensì di una rappresentazione precedente e riattualizzata grazie alla spontaneità del nostro spirito. Il ruolo di spontaneità del pensiero viene in primo piano, dando a Fichte l’occasione di riconoscere la portata determinante, proprio di tale spontaneità, in relazione alla creazione poetica, di cui è indicata quale «unica causa». Chiedendosi, poi, se la forza poetica non sia soggetta ad alcuna legge, egli risponde: «a nessuna, tranne che a quella di non contraddizione, perché essa è una forza dell’identico Io» (EM, p. 555). Nonostante le circostanziate precisazioni tendenti a superare la contraddizione ricordata, Fichte deve alla fine osservare che la sua «intera deduzione ha questo inconveniente, che non si vede come –A, come sostanza avente causalità e azione originaria, sia uguale ad A» (ibidem): il che equivale ad ammettere che resta ancora del tutto senza risposta non la questione di come una rappresentazione possa essere rappresentata, ma quella ben più complessa: «come può il rappresentante essere rappresentato?» (ibidem). Quest’ultima formulazione riconduce il problema ai termini sopra riscontrati, del rapporto tra la rappresentazione e l’esposizione76. In aggiunta alla opposizione persistente, anche l’unificazione nel pensiero di A e –A presenta notevoli problemi, e proprio a causa della impossibilità, già emersa, di pensare A. 76 In

proposito è utile tenere presente l’affermazione della Practische Philosophie, p. 236, secondo cui «Il nocciolo della questione è che l’Io, come intelligenza, è esso stesso Non-Io nei confronti dell’Io esponente».

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Chiedere aiuto all’intuizione ai fini della determinazione di A in vista del pensiero non è una via praticabile, dal momento che l’intuizione, conformemente alla sua natura, non produce la coscienza. Inoltre, alla successiva, esplicita domanda che Fichte si pone, se cioè debba far ricorso all’intuizione per rendere pensabile l’Io, la risposta è netta: «No, l’Io non intuisce sé stesso che mediante l’intuizione intellettuale nell’Io sono. Nell’Io mi penso, l’Io non si intuisce affatto, ma si pensa» (EM, p. 559). Non ci sono allora alternative al concentrarsi sul pensiero e, visto che non è ancora stato fatto, è necessario chiarire che cosa esso realmente significhi. Quel che emerge, in prima battuta, è la differenza che il pensiero assume a seconda che venga riferito al Non-Io o all’Io. Nel primo caso esso colloca nello spazio e nel tempo, mediante la spontaneità dell’Io, il contenuto particolare oggetto del pensiero. Nel caso dell’Io, pensare significa determinare il suo rapporto con il Non-Io sulla base delle categorie modali. Come si vede, anche se in forza di tali categorie, il pensiero dell’Io non è sganciato da quello del Non-Io, e perciò continua a non poter essere pensato nella sua purezza. La conclusione provvisoria cui Fichte approda è che allora «A, per il momento, non può essere pensato altrimenti che in relazione con –A»77. Il contraccolpo di questo riconoscimento è notevole, poiché sembrerebbe escludere la possibilità di soddisfare l’esigenza avanzata sopra circa la rappresentazione dell’esposizione. E, in effetti, coerentemente con queste premesse, dopo aver ricapitolato i termini del problema, Fichte scrive: «Ogni pensiero ha luogo grazie alla spontaneità, e quindi anche il pensiero dell’Io pensante. / Che qualcosa di pensante sia pensato significa che qualcosa è rappresentato me77 EM,

p. 559. Il medesimo concetto è espresso a p. 561: «Dunque, A non può essere pensato che come pensante –A», e sarà ripetuto nella pagina successiva: «È del tutto esatto che l’Io debba essere pensato in relazione con il Non-Io rappresentato».

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diante la spontaneità, come agente con spontaneità, cioè viene alla coscienza (autocoscienza). Ecco la dimostrazione che senza la rappresentazione del Non-Io, non è possibile alcuna coscienza dell’Io; dunque, siamo precisamente nel punto in cui Kant colloca la sua dimostrazione»78.

17. L’intuizione intellettuale L’obiettivo resta quello di pensare l’Io come rappresentante e, a tal fine, sembrerebbe necessario che esso fosse intuìto. Nel caso dell’Io, non si tratta, però, di una intuizione sensibile, in quanto esso non è dato in tale forma di conoscenza, né si presenta mai una sensazione cui corrisponda l’Io. Sorge allora, di nuovo, la necessità di verificare se non sia possibile pensare, in relazione all’intuizione di sé stesso da parte dell’Io, che abbia luogo una intuizione non sensibile, ma intellettuale. In una pagina d’importanza fondamentale per il concetto di intuizione intellettuale così come la intende Fichte sul finire del 1793/inizio 1794, sono presenti significative oscillazioni, che si concludono però con una parola apparentemente definitiva su tale delicata questione. Alla domanda se l’Io possa essere intuìto intellettualmente, Fichte risponde inizialmente di sì, escludendo, però che si stia parlando di questo. E tuttavia, ripropone la medesima domanda, riferita questa volta all’Io rappresentante, chiedendosi contestualmente che cosa voglia dire intuire intellettualmente e come lo si possa distinguere dal pensare. Com’era da attendersi in considerazione di quanto riscontrato a proposito dell’esigenza di rappresentare l’esposizione, l’intuizione intellettuale viene significativamente identificata con l’attività mediante cui l’Io espone sé stesso e definita nei modi che ricalcano quelli utilizzati per quest’ultima. Nel dettaglio e seguendo da vicino il testo di Fichte: «L’Io che espone sé stesso è intuìto intellettualmente, cioè l’in78 EM,

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tuìto è insieme l’intuizione. Qui non c’è passività, è intuìta un’azione e quest’azione è l’intuizione»79. Abbiamo evidenziato sopra la duplice direzione nella quale l’attività esponente dell’Io si muove e, in quel contesto, era emerso che la direzione centripeta – che accompagna in maniera indissolubile quella centrifuga e viceversa – ritorna in sé stessa nel tentativo che compie in ogni istante di cogliersi in quanto attività centrifuga. Si è però osservato che la trasparenza assoluta, che contraddistingue entrambe le direzioni dell’agire originario e puro dell’Io, rende vano quel tentativo, poiché l’assolutamente indeterminato non può essere nemmeno intuìto. Come emerge chiaramente dalle righe che stiamo commentando, qui non c’è alcuna passività, ma solo attività, con la situazione apparentemente paradossale nella quale intuente e intuìto vengono a coincidere. Ma tale coincidenza è talmente perfetta, la sovrapponibilità delle due attività (centrifuga e centripeta) è così totale e senza scarti, da non dar luogo ad alcuna discrepanza e ad alcuna eccedenza, sicché all’attività centripeta non si presenta nulla da registrare come «oggetto» della propria consapevolezza. Essa dovrebbe, infatti, divenire cosciente di un’azione, di un’attività 79 EM, p. 567. La stretta connessione tra l’attività dell’esporre, la natura e il ruolo dell’immaginazione che si esprime attraverso l’esporre, e l’intuizione intellettuale fa trasparire l’ulteriore elemento costitutivo di questo delicato e complesso movimento, rappresentato dal concetto di libertà. L’attuale definizione dell’intuizione intellettuale, in quanto essa è pensata come attività che, nell’intuire, rende sé stessa oggetto, rappresenta un passo avanti rispetto alle pagine iniziali, nelle quali Fichte si chiedeva ancora: «Non ci sono anche intuizioni intellettuali pure?» (ibid., p. 255), riservando ad esse, in tale eventualità, la funzione di cogliere i modi di agire originari del nostro spirito. I caratteri dell’intuizione intellettuale in questa fase del pensiero di Fichte sono analizzati con precisione da F. Moiso, Natura e cultura cit., pp. 43-47, e indicazioni pertinenti sul significato di quella nozione si trovano in C. Cesa, De la Philosophie élémentaire à la Doctrine de la Science, in «Les Cahiers de Philosophie», N° hors-série, Le Bicentenaire de la Doctrine de la Science de Fichte (1794-1994), Lille 1995, pp. 21-24.

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in corso di dispiegamento, di un agire in atto, la cui caratteristica è, però, la totale assenza di determinatezza. L’attività pura che dovrebbe essere oggetto di consapevolezza, lascia proseguire infinitamente e nel vuoto l’attività che dovrebbe intuirla, non offrendole alcun ostacolo che possa consentirle di rilevarla. Qui, infatti, non è in gioco qualcosa, un oggetto comunque determinato, ma l’attività originaria dell’Io, che è priva di colore e di qualsiasi altro elemento identificativo che non sia l’assoluta purezza e indeterminatezza. Per meglio far comprendere ciò di cui sta parlando, Fichte introduce un esempio: «Vengono intuite determinazioni nell’Io puro, ad esempio, la legge morale»80. Già una volta Fichte aveva parlato di «intuizioni intellettuali pure» (EM, p. 255), e anche nel nuovo contesto sembra che si debba pensare a una pluralità di esse, corrispondente alle determinazioni dell’Io puro. La legge morale è introdotta solo a dimostrazione che possono esistere in noi, a priori, intuizioni puramente intellettuali delle quali siamo consapevoli, così 80 EM,

p. 567. Com’è noto, il medesimo esempio sarà ripreso nella Zweite Einleitung, per illustrare (questa volta con successo, e quindi con esito opposto rispetto alle EM), la realtà dell’intuizione intellettuale attraverso la presenza in noi della legge morale (cfr. GA, I, 6, p. 219) (123). Riferendosi a questo legame e chiedendone la ragione, Janke fornisce una convincente spiegazione del mutuo implicarsi di legge morale e intuizione intellettuale e della capacità della prima di fornire certezza alla seconda (cfr. W. Janke, Fichte: Sein und Reflexion cit., pp. 17-18). Chiare indicazioni sul mutuo implicarsi di intuizione intellettuale e coscienza della legge morale sono fornite dall’A. anche nel saggio: Intellektuelle Anschauung und Gewissen. Aufriß eines Begründungsproblems, in «Fichte-Studien», 5 (1993), pp. 21-55; per il riferimento alla Zweite Einleitung, cfr. pp. 22-34). Sul tema della legge morale come prova della realtà dell’intuizione intellettuale cfr. G.V. Di Tommaso, Dottrina della scienza e genesi della filosofia della storia cit., pp. 55-58. Alla luce di queste considerazioni si capisce più chiaramente quel che Fichte intendeva quando, nel passo già citato, in cui dichiarava la necessità di disporre di «un principio incondizionato, assoluto, un’unità suprema», aggiungeva che esso «potrebbe forse essere il principio di ragion sufficiente / — e, infine, l’imperativo categorico» (EM, p. 317, corsivo mio).

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come a priori siamo consapevoli di quella legge. A differenza di quanto farà nella Zweite Einleitung, nelle EM Fichte considera, però, la legge morale piuttosto il risultato di un pensiero e perciò inadatta a fungere da effettivo riscontro per la realtà dell’intuizione intellettuale: «No, questo non è proprio così. Quell’intuizione intellettuale è pensata e si chiama idea» (EM, p. 567). L’intuizione di cui si va alla ricerca dovrebbe essere in grado di cogliere l’Io nella sua attività rappresentante, ma non in quanto rappresentante questo o quello, bensì nella sua purezza e prima che si converta in un rappresentare determinato. In altri termini, preso atto che l’Io non può essere pensato indipendentemente dal Non-Io, si tratta ora di vedere se sia invece possibile intuirlo intellettualmente. In questione è allora, ancora una volta, la verifica della possibilità di una simile intuizione, e cioè: «giunge essa alla coscienza? Oppure è semplicemente pensata, e perciò ricavata con il ragionamento?» (ibidem). Questa duplice domanda pone il problema cruciale che è indispensabile affrontare per chiarire il tema complesso dell’intuizione intellettuale, giacché pone esplicitamente l’alternativa tra la sua esperienza nella forma della consapevolezza che ne ha la coscienza, o il suo statuto di operazione necessaria ai fini della coscienza, ma solo dedotta secondo le leggi del pensiero e non oggetto di possibile esperienza. In considerazione di quanto finora emerso, certamente quell’intuizione non potrà competere alla coscienza empirica, ma, eventualmente, solo a quella pura. L’inconveniente che caratterizza la coscienza pura è già stato rilevato, e l’Io che la costituisce è quello che può dire a sé stesso e di sé stesso «Io sono», ma non appena cerca di oltrepassare la puntualità di tale coscienza, necessariamente l’abbassa a coscienza empirica. Sorge, allora, il problema, che persisterà anche nelle fasi successive della evoluzione del pensiero di Fichte, e che riguarda la risposta da dare a coloro che chiedono la dimostrazione dell’intuizione intellettuale. Gli argomenti che Fichte addurrà saranno certamente più raffinati sul piano ar-

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gomentativo, ma rispecchieranno il nucleo centrale della posizione attuale: «Ma in che modo puoi dimostrare questa coscienza pura a chi te la nega? — Tale coscienza non si deve dimostrare né a noi, né ad alcun altro mediante qualcosa di diverso. Chi non la possiede è negato per la filosofia» (ibidem). Come si vede, viene qui ribadito il requisito essenziale del principio della filosofia, che deve essere basato sull’autoevidenza e sulla motivata impossibilità di giustificarla in maniera discorsiva. Tornando al cuore dell’argomento relativo alla possibilità di intuire il rappresentante nell’atto di rappresentare, Fichte riconosce che di quell’atto non diveniamo consapevoli, che di esso non c’è alcuna intuizione intellettuale, che si tratta piuttosto di un pensiero e che risaliamo ad esso per via argomentativa. L’ambito conoscitivo dell’intuizione in generale viene confermato e viene anche ribadito che, certo, l’intuizione giunge alla coscienza, ma solo mediante il pensiero e senza di esso non c’è modo di divenirne consapevoli. La circostanza che noi possiamo comunque pensare un Io attivo sembrerebbe aprire le porte alla sua presa di coscienza come tale, e che il concetto dell’Io così raggiunto sia poi quello del quale andavamo alla ricerca. La risposta di Fichte, al riguardo, è decisa e fedele allo spirito, oltre che alla lettera del pensiero di Kant, che non a caso viene evocato: «Un concetto senza intuizione è vuoto, dice Kant. Che cosa ne consegue per il caso presente? — L’Io, in quanto tale, non è affatto intuìto (empiricamente), ma è solo pensato. Esso intuisce, ma non è intuìto; e con questo sia posta fine alla confusione»81. Con questa – quasi spazientita – conclusione, Fichte chiarisce definitivamente a sé stesso la sua attuale posizione circa la possibilità di intuire l’Io. Tale possibilità è decisamente esclusa poiché, se è chiaro e riconosciuto il ruolo attivo che l’Io svolge in quanto intuente, del tutto sfuggente è invece quello dell’Io che dovrebbe essere intuìto, poiché esso è atti81 EM,

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p. 569; per il riferimento a Kant, cfr. sopra, n. 64.

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vità talmente pura da sottrarsi a ogni determinazione e, conseguentemente, a ogni tentativo di coglierla. L’intuizione sarebbe, in questo caso, priva di contenuto e risulterebbe, perciò, semplicemente vuota82. La posizione cui Fichte giunge a questo punto del suo tentativo di render conto della possibilità di cogliere sé stessa in atto da parte dell’autocoscienza pura, può anche essere tradotta in questi termini: l’attività pura che deve intuire sé stessa come contenuto dell’intuizione, resta inevitabilmente e sempre dalla parte dell’attività intuente. Per meglio dire: essa si sposta in tale posizione ogni volta che si dispone a cogliere sé stessa come contenuto della consapevolezza di sé. Se l’attività intuente dev’essere caratterizzata come quella che ritorna in sé in quanto si sa, e tuttavia il suo sapere sé implica necessariamente il riferimento a sé stessa come oggetto del sapere, è evidente che si sta presupponendo quel che dev’essere dimostrato83. 82 Quando Fichte, nel 1797-98, tornerà a parlare di intuizione intellettuale, riterrà di poterlo fare senza incorrere nel divieto kantiano appena ricordato, grazie anche a una diversa valutazione del modo di accedere all’attività originariamente pura in cui consiste l’essenza dinamica dell’Io. Restano valide, anche all’epoca della Seconda introduzione alla dottrina della scienza, l’indeterminatezza e la purezza assolute dell’agire originario dell’Io, ma tali caratteri non vengono considerati come sintomi di astrazione e di mancanza di consistenza, bensì come predicati imprescindibili di un’attività reale, senza la quale non sarebbe possibile non solo l’intuizione intellettuale, ma la stessa intuizione empirica. Com’è noto, nel nuovo contesto si riconoscerà che l’intuizione intellettuale non si presenta mai nella sua assoluta purezza, ma sempre e soltanto in concomitanza con quella empirica (cfr. Zweite Einleitung cit., pp. 217 sgg.) (44 sgg.). 83 Sulle difficoltà e sui problemi in cui si imbatte Fichte nei suoi ripetuti tentativi di esporre la struttura dell’autocoscienza ha richiamato l’attenzione D. Henrich, nel capitolo «Fichtes “Ich”» del suo Selbstverhältinisse. Gedanken und Auslegungen zu den Grundlagen der klassischen deutschen Philosophie, P. Reclam jun., Stuttgart 1982, pp. 57-82. In tale scritto, com’è noto, Henrich riprende gli argomenti fatti valere nel volume Fichtes ursprüngliche Einsicht, Frankfurt a.M. 1967. Sulle difficol-

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Inoltre, il movimento attraverso cui si realizza il ripiegamento dell’autocoscienza su di sé, ricade sempre all’esterno del confine che delimita l’attività consapevole di sé e, non riu­scendo a superarlo, non si ricongiunge con essa. Il ritornare in sé stessa da parte dell’autocoscienza prende, allora, l’aspetto che trasforma l’intuizione in riflessione, e lo scarto – per quanto minimo – tra l’attività riflettente e quella riflessa è sufficiente a far sì che gli specchi, che si riflettono l’uno nell’altro, non siano perfettamente paralleli, provocando il riprodursi e il moltiplicarsi all’infinito di un’unica immagine. Per poter essere colta in modo autentico, occorrerebbe disporre dell’unica immagine risolutiva, quella che chiude l’intera serie, ma questo obiettivo è spostato all’infinito e resta perciò non solo disatteso, ma mai conseguibile. In seguito Fichte rielaborerà e risolverà in modo differente questo problema, ma nelle EM, come si vede, sta imboccando una diversa direzione, conformemente all’esigenza di dare risposta alla tuttora inevasa questione dell’identità di A e –A84. tà che rendono ardui e solo falsamente concludenti i tentativi di cogliere sé stessa da parte dell’autocoscienza, cfr. G. Ryle, The concept of mind, Hutchinson’s University Library, London 1949; tr. it. (Lo spirito come comportamento), a cura di F. Rossi Landi, Laterza, Roma-Bari 1982. Nel paragrafo intitolato «Evasività sistematica di “Io”» (ib., pp. 195-98)(167170), egli spiega l’impossibilità di cogliere sé stesso da parte dell’Io, in quanto l’atto che dovrebbe esibirlo arriva sempre troppo tardi, soggiacendo al destino di «un’eterna penultimità» (ib., p. 195) (168). Sulle posizioni di Ryle e di Henrich, cfr. le acute osservazioni di K. Düsing, Selbstbewußtseinsmodelle. Moderne Kritiken und systematische Entwürfe zur konkreten Subjektivität, W. Fink Verlag, München 1997, pp. 114-18. 84 Sulla delicata tematica dell’autocomprensione originaria dell’autocoscienza e sul rischio che nella sua attuazione e descrizione abbia luogo il paventato circolo nel ragionamento, o quella che egli definisce «iterazione infinita», ha scritto pagine limpide K. Düsing, C’è un circolo nell’autocoscienza? Uno schizzo delle posizioni paradigmatiche e dei modelli di autocoscienza da Kant a Heidegger, in «Teoria», XII/1 (1992), pp. 3-29, in partic. pp. 3-4. Al medesimo tema l’A. dedica anche il saggio: Strukturmodelle des Selbstbewußtseins. Ein systematischer Entwurf, in «Fichte-Studien», 7 (1995), p. 7-26.

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Il risultato conseguito manifesta ora la sua ripercussione diretta sull’indagine in corso: se il proposito di pensare il rappresentante nell’atto di rappresentare si è rivelato inattuabile in conseguenza della inattingibilità dell’Io che dovrebbe essere intuìto, sarà forse opportuno vedere se non sia più fruttuoso il tentativo di pensare l’Io nelle diverse modalità del suo rapporto con il Non-Io. E poiché ogni riferimento del Non-Io all’Io può avvenire solo attraverso la coscienza (anche l’intuizione, se non è pensata, non è consaputa e quindi non è per l’Io, e cioè, semplicemente, non è), proprio essa sarà il nuovo obiettivo cui tende la ricerca e, nel testo che riportiamo, è indicata con il termine x: «Che cosa, propriamente, deve essere pensato? L’Io e il Non-Io uniti, e dunque l’Io rappresentante il Non-Io. — Questo è pensato mediante un certo concetto x. Ora, questo concetto x, il cui oggetto è l’Io rappresentante il Non-Io, è l’oggetto della nostra riflessione. — La confusione risiedeva nel fatto che io non sapevo mai esattamente su che cosa propriamente dovessi riflettere» (EM, p. 573). Dopo gli sforzi di attingere l’Io puro, è divenuto però chiaro che questo tentativo è sterile e non consente alla ricerca di avanzare e per questo motivo Fichte, prendendo atto di quanto è emerso, si dispone a pensarli uniti nella coscienza. Quel che è unito nella coscienza sono il pensante e il pensato, spontaneità attiva l’uno, pura passività l’altro. Pensare la conciliazione di questa contraddizione comporta, ancora una volta, la necessità di risalire a un concetto intermedio, che non sia diverso dall’attività e dalla passività, ma li comprenda entrambi. Analizzando quel che avviene nella coscienza quand’essa pensa un pensiero determinato, si scopre che la sua auto-attività si rivolge a un contenuto ugualmente determinato e lo pensa. Il pensiero che ne risulta è certamente effetto della spontaneità dell’Io, ma solo in quanto questa si è auto-imposta di determinare la propria attività, circoscrivendola a questo pensiero specifico piuttosto che a qualsiasi altro degli infiniti possibili. La limitazione che l’auto-attività liberamente si prescrive, corrisponde a un suo intervento su sé

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stessa, che si traduce in una forma indotta di passività. Il processo descritto viene così presentato da Fichte: «i n x s o n o pensat i si ntet ica mente i l pensa nte e i l pensat o . — Questi si contraddicono in ciò, che l’uno è pura auto-attività, l’altro, a tale riguardo, è pura passività. Queste due cose devono essere unite in una terza, e questa sarebbe una passività che si procura a sé stessi, una reazione a sé stessi; sarebbe una determinazione, un’affezione dell’auto-attività da parte dell’auto-attività, e quindi coscienza, / Io penso» (EM, p. 575). La soluzione che sembra raggiunta è, tuttavia, solo apparente, dal momento che, se è vero che la coscienza presenta i due termini uniti, non lascia ancora emergere quell’elemento intermedio che, in quanto punto di congiunzione degli opposti, ne giustifichi la continuità e quindi l’unità. Proprio di questo medius terminus, invece, abbiamo bisogno e, non potendo svolgere questo ruolo l’attività ricavata analiticamente dai termini in gioco, esso dev’essere piuttosto aggiunto in maniera sintetica, quale conciliazione della contraddizione cui danno luogo quegli opposti. Per un istante sembra che tale funzione possa essere svolta dall’intelligenza che, in quanto capace di consapevolezza, è in grado di cogliere anche il Non-Io. Si fa subito chiaro, però, che le sue caratteristiche (spontaneità, indipendenza, capacità di esser consapevole di altro) continuano ad essere circoscritte all’ambito dell’Io e tale unilateralità pregiudica la sua capacità di fungere da termine medio, ciò che porta Fichte a dichiarare, come già ricordato, che «la questione, in fondo, è quella kantiana: come può l’Io prescrivere una legge al NonIo? Risposta: perché la produce; ma noi non siamo ancora a questo punto» (cfr. sopra, p. 188). La risposta sarebbe soddisfacente se fosse stato chiarito come il produrre sia anche prescrivere, ma la circostanza che ci stiamo riferendo ancor sempre al produrre dell’Io indica che il passaggio ulteriore non è, a questo livello, ancora compiuto. La ragione del permanere del dislivello è documentabile attraverso le categorie cui si accede e che sono, a loro volta,

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riconducibili solo all’Io rappresentante. Infatti, scrive Fichte, «Se penso soltanto il rappresentante in sé, indipendentemente dal rappresentato, ottengo intelligenza, libertà, necessità assoluta. — Ma possibile, effettivo, ipoteticamente necessario valgono per le cose» (EM, p. 583). Queste ultime determinazioni restano non attinte quando la riflessione esclude dal suo ambito il legame del rappresentante con il Non-Io o, più precisamente, quando, come nel caso presente, non si pensa la rappresentazione stessa, ma il rappresentante (cfr. ibidem). Tra le determinazioni dell’Io e quelle confacenti al Non-Io continua a restare l’esigenza di un termine medio che possa renderle congruenti, e che non è stato individuato per il fatto che la riflessione si è collocata su un grado di pensiero più elevato. Tali termini medi sono indicati nella forza, nell’agire e nella legge e vengono giustificati nel corso del successivo tentativo, che assume la rappresentabilità quale elemento comune a Io e Non-Io. In virtù dell’estensione della rappresentabilità all’Io, i due precedenti gruppi di determinazioni ricevono la loro specifica connotazione in riferimento, rispettivamente, all’Io e al Non-Io, con il risultato finale che sintetizza l’intero processo: «Uniti sinteticamente, Io e Non-Io sono pensabili come agenti con forza e secondo leggi» (ibidem). Se nella coscienza è pensato l’Io che pensa il Non-Io, esso dev’essere inteso come reale, e cioè, come per ogni altro oggetto del pensiero, gli deve essere trasferita realtà. Ovviamente, l’Io da realizzare non può essere quello esponente, cioè quello che si riferisce a sé stesso come attività pura, ma quello di cui stiamo parlando, vale a dire, l’Io che pensa il Non-Io. Solo a questo, in quanto Io empirico, può essere trasferita realtà, perché pretendere di conferirla all’Io che pensa sé stesso significherebbe applicare i concetti puri in assenza delle corrispondenti intuizioni, dando luogo all’uso trascendente delle categorie, notoriamente illegittimo 85. 85 Fichte spiega in nota: «Qui si trova la ragione dei richiami di Kant contro l’uso trascendente delle pure forme del pensare. Si voleva rife-

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Identificato l’Io destinatario del trasferimento di realtà, sorge il problema di individuare, nell’Io, la facoltà dalla quale muove il trasferire. Fichte registra una provvisoria incertezza al riguardo, indicando dapprima la facoltà di esposizione, ma lasciando il campo ancora aperto ad altri due possibili «candidati» a svolgere quella funzione, e cioè all’A che pensa o, addirittura, al –A (cfr. EM, p. 589). Superando rapidamente il dubbio e tornando al significato che compete al realizzare «l’Io pensante nella sua funzione di pensare –A» (ibidem), emerge che nel nuovo contesto non può più essere la facoltà che svolgeva quel ruolo in precedenza, e cioè l’immaginazione, a svolgerlo anche ora, in quanto il trasferire avviene ad opera dell’Io che espone, cioè ad opera della ragione. Il resto della spiegazione delle implicazioni connesse con la determinazione del pensante in quanto pensante, comporta l’acquisizione di un punto di vista che allude con chiarezza alla dimensione della filosofia pratica, in direzione della quale la trattazione si orienta sempre più decisamente.

18. Intelletto, giudizio, regolazione Abbiamo già notato in precedenza che il pensiero avviene con spontaneità e che questa può essere affetta solo da sé stessa, con un atto che è altrettanto spontaneo. Nel contesto in cui siamo, che è quello che ha a che fare con il realizzare, la spontaneità determina sé stessa; ma determinare sé stessa come spontaneità e farlo spontaneamente significa auto-determinarsi, darsi una legge a partire da sé stessa e farlo con piena autonomia. La legge che la spontaneità si dà è, allora, quella dell’autonomia, che si traduce nella legge fondamentale del pensiero evocata poche righe prima: «Io sono quel che sono», equivalente alla legge della non contraddizione. rire tali forme all’Io, in quanto pensa in generale. — Ma questo è fuori discussione. — Tale relazione ha luogo solo in quanto l’Io pensa il NonIo» (EM, p. 587). Il richiamo a Kant è, come segnalano anche i Curatori delle EM, alla KdrV, B, p. 253 (308).

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Quella medesima legge, letta con l’accentuazione del legame tra l’essere e il dover essere: «Io sono quel che sono», esprime la necessità assoluta che vige tra l’essere e la ragion d’essere e per questo, considerata dal punto di vista pratico, esprime con chiarezza l’imperativo categorico86. Lasciando per ora cadere l’accenno alla filosofia pratica, Fichte si rivolge, invece, a chiarire un equivoco, nel quale si è caduti realizzando l’Io come pensante in generale piuttosto che come pensante –A. In effetti, parlando della legge che l’Io dà a sé stesso, era stato chiamato in causa il concetto di autonomia. Fichte ricorda che l’autonomia compete al puro pensare, alla pura spontaneità che, nella loro generalità, non hanno a che fare con alcun contenuto empirico. Invece, nel pensiero determinato, cioè quando l’Io pensa –A, nel farlo deve seguire una regola, che non si dà da solo in quanto Io che pensa –A, bensì la riceve. Perciò il concetto adeguato a esprimere la condizione nella quale si svolge il pensiero, che è poi la dimensione dell’intelletto, è quello che consente di parlare di «conformità alla legge, / non di conformità autonoma alla legge; nomia, e non autonomia» (EM, p. 591). Nel processo mediante cui l’Io costituisce la sua esperienza, un ruolo determinante e costante è svolto dal suo conferire una regola ai contenuti di volta in volta acquisiti. Ciò vale in riferimento a quanto riscontrato in precedenza in occasione dell’unificazione del dato sensibile mediante spazio, tempo e categorie, e vale ora che, nella regolazione, sono emerse le nuove categorie della pensabilità, della ricettività e della spontaneità. Queste sono anche le categorie mediante le quali può essere pensato l’Io che, essendo totalmente differente da qualsiasi altro ente naturale, richiede forme e stile di pensiero adeguati alla sua essenza per poter essere pensato. La capacità di unificare viene esercitata anche al livello attua86 Il riferimento è alle EM, p. 317 dove, come si è visto, il principio di ragion sufficiente è accostato all’imperativo categorico.

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le, ma qui non è più in questione l’unificazione del molteplice sensibile, bensì quella già conseguita mediante l’uso delle categorie. Questo produce una oscillazione tra le funzioni attribuite all’intelletto e quelle attribuite alla facoltà di giudizio, che troverà la sua adeguata risposta nelle parti corrispondenti della Grundlage87. La conferma del riconoscimento all’Io assoluto della capacità di realizzare l’A che pensa il –A consiste nella realizzazione dell’A cogitatum che, in quanto facoltà del giudizio, assume la funzione intermedia tra l’Io che gli fornisce la regola, e –A, che secondo quella regola dev’essere ordinato. Per questo motivo esso è limitato, per così dire, sia verso l’alto, sia verso il basso, e cioè sia nei confronti della ragione, sia nei confronti di –A. Ad esso compete, come facoltà del giudizio, collegare soggetto e predicato e, a tal fine, occorre che –A sia già determinato e questa determinazione risulta condizionante per il giudizio. Scrive Fichte al riguardo: «Il giudizio vale solo a condizione di una certa determinazione. Esso è condizionato da –A. La formula secondo la quale si giudica è, in sé, non condizionante. Il giudizio tiene fermo il condizionato alla condizione ed è perciò (condizionante)» (EM, p. 599). Come si vede, il carattere condizionante del giudizio è a sua volta subordinato alla condizione espressa da –A, che per tale motivo risulta esso determinante, mentre la regola mediante la quale si giudica non «muta la costituzione interna, ma mette solo ordine» (ibidem). Questa caratterizzazione, notevolmente restrittiva, della funzione del giudizio, viene rapidamente integrata con il riconoscimento che ad esso appartengono anche l’unire, l’imporre una legge, un 87 Mi riferisco alla definizione dell’intelletto come «una facoltà spirituale in riposo, inattiva; un puro ricettacolo di ciò che è stato prodotto dall’immaginazione» (Grundlage, p. 374) (184). Per il rapporto tra intelletto e facoltà del giudizio, cfr. ib., p. 381 (191). Sul ruolo dell’intelletto, anche per l’esame dell’analoga funzione attribuitagli da Hegel, sia consentito il rinvio al mio L’immaginazione trascendentale nel primo Fichte, «Il Pensiero», XXVI (1985), n. 1, p. 84.

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sussumere sotto una legge88, mentre la regolazione apparterrebbe solo all’ultima delle tre azioni. A questo punto della trattazione le oscillazioni già segnalate a proposito del ruolo di intelletto e giudizio, dei loro rapporti reciproci e con i rispettivi contenuti, diviene evidente e l’esposizione si fa incerta agli occhi dello stesso Fichte che, nel giro di poche pagine si trova a dichiarare: «Non siamo affatto là dove credevamo di essere», «Procediamo con maggior precisione», «Questa sintesi è pedanteria. Genera proposizioni equivalenti ed è già completa», «Ma qui, non ci smarriamo di nuovo?», «Non significa niente», «Tutto è ancora molto oscuro» (EM, pp. 599-605). Non sarebbe certamente corretto sopravvalutare la portata di queste espressioni, trattandosi di riflessioni che l’Autore riserva rigorosamente a sé stesso e, tuttavia, non si possono nemmeno ignorare come indice di una chiarezza concettuale non ancora raggiunta. L’interprete deve allora continuare a svolgere il suo compito, ma senza pretendere di sostituire, con argomentazioni proprie, quel che il testo manifestamente non contiene, ed è quel che ci apprestiamo a fare. Uno degli argomenti di rilievo in queste pagine è rappresentato dal rinnovato tentativo di dedurre le categorie della modalità. A tal fine la categoria dell’effettività viene ricavata ponendo in relazione la ricettività dell’Io con il Non-Io. Come si è già visto in precedenza, alla sensazione prodotta nell’Io viene trasferita realtà da parte dell’Io, e quel che in tal modo è realizzato, è considerato effettivo. La possibilità risulta, invece, dal riferimento al Non-Io della spontaneità del pensiero e dell’intuizione. In questo caso non si tratta di trasferire realtà al Non-Io, ma solo di applicare ad esso la regola mediante cui viene pensato. Dalla congruenza della regola con il pensato discende la sua possibilità; in caso contrario 88 Con le parole di Fichte: «Nella regolazione c’è un riunire, una regola, un ordinare sotto la regola, questo è il suo concetto completo» (EM, p. 601).

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non c’è pensabile e non c’è nemmeno la sua possibilità. La deduzione della necessità è svolta ponendo in relazione la regola del pensiero con il Non-Io: poiché ciò che è fornito dalla sensazione deve adattarsi alla regola per essere sentito e pensato, quel che è effettivo ed è offerto dalla sensazione, risulta anche necessario. Fichte si affretta a circoscrivere alla filosofia teoretica la validità di tale conclusione, e presto sarà costretto a riconoscere che «questa proposizione è però trascendente, assoluta. In questo mondo molte cose effettive sono contingenti» (EM, p. 611). La medesima conclusione impedisce anche di trovare un posto per il contingente, che non può certo essere presente in un mondo dove tutto è necessario. L’inadeguatezza delle soluzioni raggiunte spinge ad approfondire la deduzione e, procedendo in tale direzione, si stabiliscono nuovi punti fermi o se ne confermano altri già noti. A proposito della necessità dell’accordo dell’effettivo con la regola, poiché è la spontaneità a riconoscere se quello si adegua a questa, è evidente che per essere pensato, l’effettivo debba congruire anche con le forme del pensiero e non solo con quelle della sensibilità89. D’altra parte, data la spontaneità con la quale il pensiero agisce, gli è anche consentito applicare le sue forme in maniera del tutto arbitraria e svincolata dal legame con la realtà e, nella fantasia può, ad esempio, fingere che sia effettivo quel che è impossibile. Fichte esclude che le finzioni appartengano a questo livello del pensiero, poiché qui è preso in considerazione soltanto quel che è pensabile, in quanto riconosciuto come possibile in una sensazione data. Nel rapporto della regolazione con il Non-Io quel che viene regolato non è –A in generale, ma sono piuttosto –Aa e 89 Cfr. EM, p. 609-11. Questo concetto viene a ribadire quanto si legge a p. 607: «Potrebbe esserci qualcosa che sia certamente sensibile, ma non pensabile. Una cosa del genere non giunge alla coscienza», ciò che serve anche a escludere, di passaggio, la possibilità della conoscenza della cosa in sé.

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–Ab, vale a dire elementi del molteplice sensibile, tra i quali viene stabilito un nesso. Come viene subito ribadito, il nesso non è certo dato dalla sensazione, e nemmeno può essere ricavato dall’analisi di uno dei termini, ma è frutto della regolazione, del pensare secondo una regola che connette –Aa con –Ab. O la connessione tra questi termini concorda con la regola, oppure è insussistente come connessione. Inoltre, nel mutare del molteplice cui la regola è applicata, essa rimane costante e stabile e, applicata al caso specifico, impone la sua universalità e dà vita a una connessione cui viene trasferita realtà. Per il fatto di essere perfettamente aderente alla regola, il nesso diviene «necessario come la sua regola» (EM, p. 617) e si rivela identico ad essa. In quanto l’A assoluto trasferisce realtà sulla regola, le conferisce il carattere della sostanzialità, mentre i termini mutevoli –Aa e –Ab, i diversi contenuti delle sensazioni, sono solo contingenti, potendo mutare essi stessi e il loro rapporto reciproco. A conclusione di queste riflessioni e a chiarimento di quanto precede Fichte osserva: «Ora, però, la regola è stata trasferita al nesso mediante il pensiero del nesso secondo la regola e / quando tale pensiero viene di nuovo pensato e quindi realizzato, / la regola è stata trasferita e realizzata proprio mediante il pensiero del pensiero. Il nesso in sé è perciò considerato come la regola e –Aa e –Ab in sé, pensati al di fuori del nesso, sono considerati come contingenti, cioè il nesso è necessario, mentre ciò che è connesso è contingente». (EM, p. 619). L’intervento della riflessione (il pensiero del pensiero) coglie la regola nella sua concreta applicazione e nella sua identità con il nesso che costituisce. A pensarci bene, abbiamo allora davanti agli occhi un’unità preziosa, della quale peraltro eravamo alla ricerca: la coincidenza tra la regola (prodotta e fatta valere dall’Io) e ciò che era da regolare (il molteplice empirico) consente di dire che in x, cioè nella regolazione, A = –A. Ma la contraddizione, che il riconoscimento di questa identità con –A comporta per A, ci segnala che siamo obbligati a nuovi svi-

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luppi, dei quali inizialmente non sappiamo se si collochino nell’ambito della filosofia teoretica o siano già oltre, nel dominio della pratica. Risolto il dubbio e riconosciuta la pertinenza alla parte teoretica90, si procede con una distinzione all’interno dell’Io tra l’Io attivo e quello passivo (indicati da Fichte con Aa e Ap), distinzione finalizzata a dimostrare che alla coscienza appartiene, oltre all’identità del rappresentato e quella della rappresentazione, anche l’identità del rappresentante. La distinzione in questione avviene, questa volta, tra l’Io attivo e l’Io passivo, con la precisazione che nel caso dell’Io, anche la passività, in quanto consegue dall’attività che si rivolge a sé stessa, è ugualmente attività, e non a caso il termine medio è quello di auto-attività (cfr. EM, p. 623). Tra i due Io (inutile ricordare che si tratta, come sempre, di una dualità all’interno del medesimo identico Io e che la distinzione viene operata solo ai fini dell’esposizione), il primo è libero nei confronti del secondo, mentre questo è subordinato al primo. La loro unione è costituita dalla legge che li collega come loro termine medio, legge che l’Io attivo dà a sé stesso, ma anche all’Io passivo. L’attività con la quale l’Ap applica la legge ricevuta costituisce il suo modo di rapportarsi al Non-Io, mentre l’Aa applica a sé stesso una legge di cui è anche l’autonoma fonte, senza alcun rapporto con il NonIo. Per questa ragione la legge è, per Aa, una produzione del tutto spontanea e libera e, pur segnando come termine medio la connessione tra i due Io, è insieme anche ciò in cui essi sono opposti. L’esame dell’Ap mette in luce che anch’esso, in quanto A, è attivo nei confronti di –A, anche se non è tale rapporto che è qui in questione, quanto piuttosto la produzione delle forme dell’intuizione e delle categorie derivanti dalla spontaneità dell’Io. L’unica legge che Aa deve rispettare in tale pro90 «Tale contraddizione appartiene ancora alla filosofia teoretica? Credo di sì, perché la coscienza non è ancora stata dedotta» (EM, p. 621).

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duzione è quella dell’identità e, quand’essa è rispettata, quel che viene pensato conformemente ad essa dà luogo a ciò che è assolutamente possibile, anche se solo nell’ambito del pensiero e non della realtà. Aa ha la capacità di rendere suo oggetto l’Ap, riflettendo sulla spontaneità con la quale esso agisce. Questa riflessione della spontaneità su sé stessa la rende contenuto di consapevolezza, vale a dire, lascia emergere il potenziale di intelligenza che è presente nell’Io e, con essa, la possibilità della coscienza. L’intelligenza, quale carattere essenziale e necessario dell’Io, gli consente di sperimentare la propria libertà sul piano ideale, pensando tutto ciò verso cui dirige liberamente la propria spontaneità, con l’unico limite rappresentato dal principio di non contraddizione: «Qualcosa è assolutamente possibile, vale a dire è per l’Io pensante — non in sé. Qualcosa è assolutamente impossibile per l’Io pensante — e cioè contraddice il principio A = A» (EM, p. 631).

19. Dipendenza dell’Io teoretico dall’intelligibile e passaggio alla filosofia pratica La capacità di Ap di connettere gli elementi del molteplice sensibile (–Aa e –Ab) obbedisce a una regola che è solo in A e che, come si è visto, ad es., a proposito del nesso di causalità, deriva dalla sua natura. Per questo motivo la regola in questione e tutte quelle del medesimo genere sono necessarie e tali da informare di sé l’operare dell’intelligenza, che assume la veste di legislatrice e stabilisce anche i limiti dell’effettività. La scoperta dell’intelligenza quale costitutivo essenziale dell’Io, comporta la necessità di ridefinire i caratteri di quest’ultimo, ora non più adeguati a quelli dell’Io absolutum. L’assolutezza dell’Io del primo paragrafo risulta ora intaccata dalla necessità del riferimento al Non-Io, conseguente alla determinazione dell’Io come intelligenza, la quale, presupponendo l’intelligibile, in realtà ne dipende e rende da esso dipendente anche l’Io. Un esito, questo, che aveva già provo-

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cato il passaggio alla seconda parte dello scritto e che continua a stridere con l’assolutezza del primo principio, ponendolo in contraddizione con tutto quanto lo svolgimento filosofico finora seguito, sicché diviene urgente trovare un’adeguata conciliazione. Una soluzione possibile sembrerebbe essere quella che, riconoscendo la capacità dell’intelligenza di rendere sé stessa oggetto della propria riflessione, considera risolta la sua opposizione al Non-Io in quanto anch’essa può essere oggetto di consapevolezza. Che la soluzione sia solo apparente viene indicato da Fichte nella circostanza che il principio: Io sono Io, circoscritto all’ambito esclusivo della filosofia teoretica, è incapace di dar luogo e di esprimere la personalità o, come specifica in nota, la «sussistenza assolutamente necessaria» (EM, p. 633, n.), per la quale è invece indispensabile il rinvio alla dimensione pratica. Inoltre, il necessario riferimento alla consapevolezza che l’Io ha di ciascuno dei princìpi enunciati, fa sì che anche la riflessione sull’Io si trovi nella medesima dimensione, «perché anch’Io sono unicamente per me. — Tutto è soggettivo, e non c’è proprio nulla di oggettivo. Nondimeno, come intelligenza, sono comunque dipendente, mentre l’Io è indipendente. — Ma qualcuno me lo dimostri!» (EM, p. 635). Una svolta in direzione del superamento dell’impasse attuale è quella intrapresa con la relativizzazione del ruolo dell’intelligenza all’interno nell’economia complessiva dell’Io, e a tal fine è decisivo il ruolo di predicato che le viene ascritto. Di contro all’assolutezza del Non-Io come predicato assoluto, deve poter essere affermato un Io altrettanto assoluto, «cioè un soggetto che, a sua volta, non possa essere predicato. (Un tale soggetto rappresenta sé stesso, cioè espone, agisce)» (ibidem). Ovvio che l’intelligenza non possa essere innalzata essa medesima a soggetto, come viene chiarito nella pagina successiva, dove il carattere di predicato dell’intelligenza viene sottolineato in modo inequivoco, con l’affermazione, anche se provvisoriamente problematica, secon-

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do cui posso dire che «io ho intelligenza, — ma non: io sono intelligenza»91. Si va facendo strada, come si vede, la consapevolezza che ormai le categorie della filosofia teoretica stiano mostrando i loro limiti e che il passaggio alla filosofia pratica non possa essere differito ancora a lungo. Infatti, tra i predicati riferiti al soggetto assoluto abbiamo visto comparire, oltre al rappresentare sé stesso, cioè all’esporre, lo Handeln, l’agire, e con esso l’esigenza implicita del riferimento a un fondamento, ancora non identificato, in cui si connettano in modo convincente i predicati in attesa della loro corrispondente sostanza, per ora indicata solo come «unità». L’attività dell’Io, più volte osservata nel conferire una regola a –A, viene recuperata in questo contesto e, sulla base della sua origine dalla natura essenziale dell’Io, le viene riconosciuta necessità interna, con la conseguenza che «Questo ci condurrebbe, intanto, a qualcosa di più elevato, — a un Io assolutamente necessario, all’Io pratico» (EM, p. 639). Ora, se l’Io è in grado di prescrivere al Non-Io una regola, significa che può circoscriverlo, determinarlo, fissarlo in qualche modo. Se ciò avviene attraverso una regola scaturente direttamente dall’essenza dell’Io, è coerente dedurne che allora l’attività spontanea dell’Io possieda «in sé stessa e indipendentemente da –A, un qualcosa di fissato e di determinato» (ibidem). Nella natura dell’Io si vedono, dunque, convergere predicati che ne sostengono l’assolutezza, mentre all’intelligenza è riconosciuta non solo la caratteristica di dar vita idealiter, cioè nel pensiero e non nella realtà, a un intero mondo e di determinare i limiti dell’esperienza, ma anche il pregio di fornire quel sostrato al –A assoluto che non ricadrà mai all’interno di un’esperienza possibile (noumeno). 91 EM, p. 639. «Se però resta ancora un’altra possibilità, questo sarebbe un segno che noi dobbiamo essere ancora qualcosa di diverso dalla pura intelligenza, — e questo qualcosa sarebbe l’unità» (ibidem).

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La regola, che scaturisce con necessità dalla natura dell’Io, dev’essere applicata al Non-Io e, per esso, ha necessità incondizionata, che è poi il carattere trasferitogli dall’Io. In virtù del trasferimento della regola a –A, questo contiene qualcosa di incondizionatamente necessario che, come sconfinato mondo dell’oggettività, è contrapposto all’intelligenza. Come era già emerso qualche pagina prima, questa oggettività, che si contrappone alla soggettività, ha proprio in tale opposizione il suo contrassegno necessario e per questo non può essere soggetto. Fichte spiega anche che «Non si tratta affatto di Dio, bensì di una materia morta, ma eterna, necessaria e indipendente, come è stato mostrato occasionalmente. Il soggetto assoluto è però Dio, perché è valore assoluto (Valenz)» (EM, p. 635, n.). La considerazione del –A come incondizionato, conseguente all’estensione del valore dell’incondizionato delle idee a –A, danno luogo alle antinomie e al conseguente conflitto tra posizioni filosofiche differenti. L’empirista, sulla base dell’impossibilità di esaurire l’esperienza e giungere così ad una qualsiasi legge universale e necessaria, ritiene inattingibile l’incondizionato; lo spiritualista, che riesce ad innalzarsi alle idee, resterà tuttavia anch’egli deluso quanto alla possibilità dell’effettivo conseguimento del medesimo incondizionato. Entrambi hanno ragione e torto nel contempo e occorre perciò trovare la soluzione per il loro conflitto, soluzione equivalente alla conciliazione di una nuova contraddizione tra A e –A. Rilevato che la distinzione kantiana tra fenomeno e cosa in sé non è risolutiva del problema, ma semplicemente lo sposta in avanti, Fichte ritiene ormai mature le condizioni per il passaggio alla filosofia pratica, cui è stata più volte rinviata l’attesa soluzione: «Dobbiamo continuare il nostro percorso e giungere al principio. Dunque, A è opposto ad A, opposizione che può essere risolta solo se A non è pura intelligenza, bensì anche una facoltà pratica. — La rappresentazione di questa facoltà pratica scioglie il nodo» (EM, p. 643).

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Il persistere di A come intelligenza comporta quello dell’opposizione con il Non-Io e della relativa dipendenza da esso, con la conseguenza che allora l’Io, privo del pregio dell’assolutezza, non può fondare l’intera filosofia. Nemmeno l’intuizione intellettuale, nei termini in cui è stata presentata in precedenza, può svolgere tale ruolo, e ciò spinge ancor più in direzione della filosofia pratica, attraverso un iter che, ancora una volta, parte dall’essenza dell’Io e dalla sua funzione legislatrice nei confronti del Non-Io. La legge che l’Io, in quanto intelligenza, ha in sé stesso e applica al NonIo, scaturisce necessariamente dalla sua essenza e, con altrettanta necessità, dev’essere applicata al Non-Io. Considerata nella sua destinazione naturale e obbligata, essa è diretta verso l’esterno. Indagata più a fondo e in funzione della sua provenienza, essa rivela di precedere l’intelligenza, in quanto il suo fondamento reale è costituito dall’autonomia assoluta dell’Io, cioè da quella attività originaria che non si è ancora specificata in alcuna delle funzioni che può svolgere nell’ambito complesso e variegato dell’agire umano. L’unico principio cui quella legge deve conformarsi è quello di non contraddizione, e l’analisi della funzione legislatrice dell’intelligenza mostra un risvolto sorprendente, anche se preparato dalla sua precedente riconduzione all’autonomia originaria dell’Io: «A, come intelligenza, dà a sé stesso una legge; il legiferante è, allora, la non-intelligenza». La spiegazione di questa formulazione, apparentemente paradossale, è fornita da Fichte in nota: «Cioè, l’intelligenza non si dà la legge, nella misura in cui è intelligenza» (EM, p. 645, n. a). Infatti, come tale, essa la applica soltanto, comprende la legge ritrovandola nel Non-Io come risultato del suo trasferimento ad esso, ma non ne è l’autrice: l’intelligenza, come predicato dell’Io, non lo esaurisce, secondo quanto riscontrato in precedenza, là dove si osservava che io posso dire soltanto: «io ho intelligenza, ma non: io sono intelligenza» (EM, p. 639, primo corsivo mio). Non essendo solo intelligenza ed avendo escluso che la legge possa essere suo pro-

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dotto, ne segue che «in A ci dev’essere ancora qualcosa di assolutamente legiferante» (EM, p. 645). Il rinvio a questo momento, non ulteriormente deducibile e compreso nella natura più profonda dell’Io, comporta il riferimento al principio assoluto da cui siamo partiti, all’identità originaria di A con sé stesso. A come intelligenza non coincide, però, con A, e questa differenza impone, per essere colmata, l’individuazione di un terzo termine che, collegandoli, esprima la continuità che ne è alla base. Il compito appare tanto più complicato, per il fatto che l’origine della legge che l’Io trasferisce al Non-Io, provenendo dalla non-intelligenza, è necessaria, mentre l’intelligenza è contrassegnata dalla libertà, e la questione che ora si pone concerne la possibile conciliazione tra necessità e libertà. L’opposizione tra i due termini non ha più l’aspetto di una contraddizione da risolvere sul piano teoretico, ma ha piuttosto una portata pratica, alla quale, in effetti, Fichte fa riferimento: «Sorge quindi la domanda su come i due termini debbano concordare. — Ciò condurrebbe, senza dubbio e del tutto correttamente, al campo pratico» (EM, p. 647). Il passaggio successivo, che fa di nuovo pernio sul carattere legiferante di A, non si presenta come risolutivo, ma conduce tuttavia a un’esigenza che va nella direzione auspicata poiché, trattandosi di una legge che dev’essere applicata a –A, implica la necessità di una libertà pratica, capace, cioè, di dimostrare la sua efficacia non solo nell’ambito circoscritto dell’intelligenza, ma in quello comprensivo di –A. A questo punto l’unico ostacolo che resta concerne la necessità di dimostrare che l’Io non è solo intelligenza, ma è anche pratico. Perciò Fichte ritiene di avere ora in mano il bandolo a lungo cercato ed esulta: «Ma fermiamoci! Dal momento che l’Io dà a sé stesso la legge, sia pure solo speculativa, non è esclusivamente intelligenza, ma anche pratico, esponente sé stesso. — (A = A)» (EM, p. 649). Proprio quella funzione, che è stata a lungo al centro delle riflessioni compiute da Fichte nel corso di questa terza

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parte dello scritto, quella di essere l’Io la fonte della legge, manifesta una rilevanza finora insospettata e tale da consentire il cambio di prospettiva necessario per la conclusione della filosofia teoretica e per il passaggio alla pratica. In realtà, la funzione legislatrice dell’intelligenza ha mostrato il necessario rinvio della legge a –A cui doveva essere applicata. L’eccedenza dell’Io come sostanza, nei confronti dell’intelligenza come suo predicato, comprende in sé una caratteristica ora emersa nella sua più autentica connotazione: stante la sua funzione di dare a sé stesso la legge, quest’atto originario dell’Io ha in sé un significato non più solo teorico, ma è, a tutti gli effetti, un agire che, secondo la sua natura, si dispiega in dimensione pratica. Anche l’esporre sé stesso da parte dell’Io si configura, certo, come un atto intelligente, ma non confinato o esaurentesi esclusivamente in questa dimensione, bensì dotato di un carattere essenzialmente pratico. La prospettiva che si è aperta è quella che deve portare alla scoperta di una facoltà di desiderare, la quale concilia, possedendone i rispettivi principi, ragione teoretica e ragion pratica. Mentre l’Io intelligente conferma ancora la sua dipendenza da qualcosa di esterno, e cioè da –A, l’Io pratico è capace di autodeterminarsi e, in questo modo, è insieme agens e patiens92. Questi due aspetti dell’identico Io sono certamente opposti ma, in quanto predicati della medesima 92 Può essere utile richiamare in questo contesto il ragionamento svolto da Fichte nella Recensione Creuzer là dove, riferendosi alla determinazione da parte di sé stessa dell’originaria auto-attività dell’Io, egli rileva che in questo caso non è applicabile il principio di ragion sufficiente, poiché si tratta di un’azione unica, semplice e totalmente isolata, nella quale il determinare coincide con l’essere determinato e il determinante con il determinato (J.G. Fichte, Rez. Ch.A.L. Creuzer, Skeptische Betrachtungen über die Freyheit des Willens mit Hinsicht auf die neuesten Theorien über dieselbe, Heyer, Giessen 1793, in GA, 1, 2, pp. 10-11); tr. it. in R. Picardi, Le prime due recensioni filosofiche di Fichte, «Il Cannocchiale» 1-2 (1996), pp. 293-313; la Recensione Creuzer occu

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sostanza, hanno il pregio di poter congruire, superando l’opposizione tra teoretico e pratico. L’incontro che viene finalmente giustificato tra A e –A, ha luogo in virtù di una legge che procede da A e a cui –A si conforma, creando le condizioni per l’esplicazione della libertà. La sua attuazione nel mondo oggettivo è, però, subordinata al superamento dell’eterogeneità tra l’Io e il Non-Io, superamento di cui è stata qui percorsa la prima tappa. L’unione tra i due termini è tuttavia possibile solo sulla base di un’unità che non sia il risultato di una coincidenza e di un incontro «come se fossero, per così dire, reciprocamente indipendenti, – bensì per il fatto che in –A c’è una determinazione conforme a una legge, che Apr dà a sé stesso»93. A sua volta, la legge che l’Io pratico dà a pa le pp. 300-306, la citazione è a p. 303). Nelle pagine che precedono la sua traduzione italiana (293-300), Picardi ricostruisce, in modo rapido ma efficace, il contesto in cui maturano e sono stese questa recensione e quella a F.H. Gebhard, Über die sittliche Güte aus uninteressiertem Wohlwollen, (Sul bene morale da una benevolenza disinteressata), C.W. Ettinger, Gotha 1792. Il ruolo sovraordinato dell’auto-attività, dell’assoluta spontaneità dell’Io rispetto alla libertà di determinarsi per un’azione morale o per una immorale, senza che ciò implichi contraddizione, è evidenziato da K. Düsing, Spontaneität und sittliche Freiheit bei Kant und Fichte, in Geist und Willensfreiheit. Klassische Theorien von der Antike bis zur Moderne, hrsg. von E. Düsing, K. Düsing u. H.D. Klein, Königshausen & Neumann, Würzburg 2006, pp. 107-126, in part. p. 121. Sull’importanza di questa recensione nella prospettiva della formazione della dottrina della scienza, cfr. M. Ivaldo, Ragione pratica cit., pp. 224-241; cfr. anche F. Fabbianelli, Antropologia trascendentale cit., pp. 107 sgg. 93 EM, p. 653. Questa allusione a una unificazione che interviene tra termini che non sono originariamente opposti, che non giungono a «coincidere» partendo da una estraneità reciproca, né «s’incontrano» come se provenissero da diversi ordini di realtà, rafforza la precedente indicazione fornita nelle prime pagine della seconda parte dello scritto, e precisamente in quella annotazione a margine, p. 359, n. a (qui già citata a p. 128), dove, in riferimento alla proposizione sintetica: in C = A = –A, si legge che essa «deriva dall’intuizione, ma dalla primissima (allerersten). Nella coscienza A e –A vengono opposti». Alla luce di quanto emerso nel corso dello scritto e anche delle rifles-

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sé stesso, trae origine da A, ma è recepita dall’Io pratico grazie alla sua omogeneità con A. D’altra parte, l’Io pratico è anche omogeneo con –A e, grazie a questo carattere essenziale, può agire su di esso e conformarlo ai suoi scopi. In questo modo viene fondata la possibilità dell’incontro tra Io e NonIo nell’ambito della filosofia teoretica. Al fine di convalidare tale risultato e renderlo spiegabile anche dal punto di vista della filosofia pratica, Fichte inizierà un nuovo itinerario, il cui orientamento sarà stabilito dal Begehrungsvermögen, dalsioni finali, si può concludere che l’unificazione tra gli opposti è possibile solo in quanto i termini da unificare sono già originariamente uniti, e lo sono in quella «primissima» intuizione, che precede, condiziona e rende possibili tutte le altre. La coscienza comune non può certamente risalire ad essa e si accontenta di quanto direttamente esperisce e che in lei si presenta come opposizione tra l’Io e il Non-Io. Al filosofo, invece, al quale compete di spiegare la condizione di possibilità della congruenza tra i due termini, compete di postulare quella intuizione come il factum nel quale l’unità dei termini opposti è già operante. Senza voler stabilire improbabili nessi e derivazioni solo fantasiose ancorché suggestive – esclusi già per il semplice fatto che le EM non erano pubblicate – si può osservare che l’andamento di pensiero qui proposto da Fichte richiama quello che, non molto tempo dopo, sarà adottato da Schelling nelle Lettere filosofiche su dommatismo e criticismo. Questi, nella terza e quarta Lettera, osserva che Kant, con la sua domanda: come sono possibili i giudizi sintetici a priori? è partito dal punto in cui gli opposti sono già fissati come tali, e perciò alla facoltà conoscitiva resta precluso il conseguimento dell’unità assoluta. Il motivo, spiega Schelling, è che, nella Critica, il limite ultimo dal quale la facoltà conoscitiva prende le mosse, è proprio quella sintesi. In tal caso resta, però, disattesa una condizione irrinunciabile per la pensabilità della sintesi, e cioè, che questa sia preceduta da «un’assoluta unità che, nella sintesi stessa, cioè quando vien dato qualcosa di opposto, una molteplicità, diventa un’unità empirica» (F.W.J. Schelling, Philosophische Briefe cit., p. 63) (22). Se si tiene conto della circostanza che l’altra condizione per la pensabilità della sintesi è che essa concluda a una tesi, si comprende come la ragione teoretica debba lasciare irrisolto il suo problema fondamentale: rimanendole sconosciuta la tesi assoluta, e pertanto non assumendola come punto di partenza, essa non può conseguire la sintesi, che pure è il suo scopo.

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la facoltà di desiderare, con il conseguente spostamento del centro di gravità a vantaggio di quest’altra parte essenziale della filosofia94.

20. Intuizione intellettuale e genesi del metodo fenomenologico In una delle pagine iniziali delle Eigne Meditationen, volendo determinare il proprium della filosofia elementare, Fichte scrive che ad essa «appartengono […] due cose: esatta osservazione ed esatta comprensione di questa osservazione. — A proposito del punto 1, che cosa dev’essere osservato? — Osservare è empirico. — Non ci sono anche pure intuizioni intellettuali?» (EM, p. 255). In modo probabilmente non casuale, troviamo qui riuniti due dei numerosi aspetti profondamente innovativi che lo scritto presenta, e non soltanto in riferimento all’evoluzione del pensiero di Fichte, ma anche in rapporto al destino della filosofia classica tedesca negli anni cruciali che concludono il XVIII secolo. Si tratta, come si vede, del tema dell’intuizione intellettuale e di quello concernente il metodo della nuova, incipiente impostazione filosofica, entrambi presenti nelle forme ancora incerte, ma ormai in via di maturazione, che caratterizzano questo periodo della formazione di Fichte. Per quanto concerne l’intuizione intellettuale, si è visto che la sua nozione viene evocata nella Recensione all’Enesidemo, per indicare una Thathandlug, un’azione-in-atto capace di auto-fondarsi e di sussistere in modo autonomo, ciò che non riusciva al principio reinholdiano della coscienza, in quanto esso è, invece, una Thatsache, un dato-di-fatto, come 94 Il procedimento metodologico che qui Fichte inaugura, e che tra breve metterà in pratica con piena padronanza nella Grundlage, consistente nella esposizione del duplice, complementare itinerario che la filosofia percorre nella parte teoretica e in quella pratica, farà presto scuola e, come vedremo tra breve, sarà adottato sia da Schelling nel Sistema dell’idealismo trascendentale, sia da Hegel nella Fenomenologia dello spirito.

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tale sempre bisognoso di fondazione. Poiché i contorni di questa azione-in-atto del tutto nuova non sono ancora chiari, Fichte esprime in quel contesto la speranza che gli sia permesso «di arrischiare quest’affermazione, che a questo punto non può essere né spiegata, né dimostrata»95. Ovviamente, la direzione seguita dall’intuizione intellettuale non potrà essere la medesima di quella dell’intuizione empirica, e se questa si rivolge al molteplice dell’esperienza possibile, quella si indirizza piuttosto all’Io, anch’esso preso nella sua assolutezza e non in quanto Io empirico96. L’Io sono, dunque, non viene inteso quale enunciazione della coscienza empirica, ma come espressione dell’identità originaria dell’autocoscienza con sé stessa. La formulazione più esauriente che l’intuizione intellettuale riceve nel testo in riferimento è la seguente: «Se l’Io dell’intuizione intellettuale è perché è, ed è ciò che è, allora esso è, in questa misura, auto-ponentesi, assolutamente autonomo e indipendente»97. Le Meditazioni personali forniscono un valido riscontro al modo in cui l’intuizione intellettuale viene presentata nella Recensione all’Enesidemo ma, come si è visto dalla citazione già riportata, di essa Fichte parla al plurale. Tale tipo di intuizione, a differenza di quella empirica, può procedere solo dall’Io considerato nella sua purezza e, nelle modalità che resteranno per un po’ problematiche, sarà anche l’Io nella sua purezza ad esserne il mobile contenuto. Nel resto dello scritto, l’accezione «oggettiva» dell’intuizione intellettuale, quella che la vedrebbe indirizzata a cogliere un contenuto diverso dall’Io, e cioè le forme originarie dell’agire del nostro spirito, viene notevolmente mitigato. Fichte tiene anche a distinguere in modo netto l’intuizione di sé stesso da 95 Rez.

Aenesidemus, cit., p. 46 (104). soggetto assoluto, l’Io, non viene dato mediante l’intuizione empirica, ma posto mediante quella intellettuale» (ibid., p. 48) (105). 97 Ibid., p. 65 (116). A proposito dell’Io della coscienza empirica Fichte scrive che esso, invece, «in quanto intelligenza, non esiste se non in relazione a un intelligibile» (ibidem). 96 «Il

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parte dell’Io, dall’operazione di riflessione su di sé compiuta per mezzo del pensiero98. Come si vede, l’intuizione intellettuale è ben presente e attiva nelle Meditazioni personali e di essa viene anche enunciato il contrassegno che verrà mantenuto, vale dire il fatto che «L’Io che espone sé stesso è intuìto intellettualmente, cioè l’intuìto è insieme l’intuizione»99. Malgrado ciò, essa non è ancora posseduta da Fichte in modo del tutto soddisfacente, tanto che egli si chiede esplicitamente, nelle pagine conclusive dello scritto: «Posso fondare su quel principio [scil.: Io sono] l’intera filosofia? E’ sufficiente l’intuizione intellettuale?» (EM, p. 645). Se si pensa al fatto che questa non compare nella Grundlage100 e che Fichte tornerà a parlarne solo nella Zweite Einleitung101, si può supporre che la risposta a entrambe le domande sia, per il momento, negativa. Nel frattempo, di quella nozione s’impossesserà il giovane Schelling, che la svolge sì autonomamente, ma certamente a partire dall’orizzonte descritto da Fichte nei testi pub98 In

un passo, già citato sopra, si legge: «L’Io non intuisce sé stesso che mediante l’intuizione intellettuale nell’Io sono. Nell’Io mi penso, l’Io non si intuisce affatto, ma si pensa» (EM, p. 559). 99 Ibid., p. 567; cfr. F. Moiso, Natura e cultura cit., pp. 159-60; sul tema della coincidenza di intuente e intuìto nell’intuizione intellettuale, cfr. A. Seliger, Freiheit und Bild, cit., pp. 62-64. 100 Sul tema e sulle implicazioni dell’assenza dell’espressione di intuizione intellettuale nella Grundlage cfr. A. Philonenko, La liberté humaine dans la philosophie de Fichte, cit., p. 81. Da parte sua, Tilliette attribuisce l’assenza dell’intuizione intellettuale in quest’opera, oltre che alla non ancora completa padronanza del concetto da parte di Fichte, alla circostanza che forse egli «non ha intravisto subito l’importanza e la portata del ricorso alla coscienza pura» (X. Tilliette, Bulletin critique de l’idéalisme allemand, «Archives de Philosophie», 37 (1974), n. 3, p. 438). 101 Il ruolo determinante dell’intuizione intellettuale per l’esposizione del 1797-98 della dottrina della scienza e per il conseguente superamento dell’impostazione logica presente nella Grundlage è illustrato in modo esemplare da L. Pareyson, Fichte. Il sistema della libertà, cit., pp. 245-48 e 260-61.

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blicati in quel periodo102. Così, l’intuizione intellettuale si preparava ad essere uno dei concetti più dibattuti nell’ambito non solo filosofico, divenendo un elemento di aggregazione, ma spesso anche di dispute accese e perfino pretesto per inimicizie. Di non minore interesse sono gli spunti metodologici innovativi presenti nelle Eigne Meditationen e che porteranno, nella Seconda Introduzione, all’esplicita teorizzazione e distinzione delle due serie nel procedere in filosofia e alla concreta applicazione del metodo che, nel giro di un decennio, sarà perfezionato e consacrato con il predicato di fenomenologico103. Nei mesi, per lui cruciali, dell’autunno 1793 e dell’inizio del 1794, Fichte si trovò confrontato con la necessità di elaborare un metodo nuovo, richiesto dall’urgere di esigenze ignote alla filosofia tradizionale e derivanti dal mutamento dell’oggetto dell’indagine filosofica. Questo è ormai divenuto l’Io stesso, e cioè un che di vivo, di attivo e 102 Schelling, pur osservando che l’espressione è riconducibile a Kant, riconoscerà tuttavia a Fichte il merito di aver introdotto l’intuizione intellettuale nel suo peculiare uso filosofico (cfr. F.W.J. Schelling, Zur Geschichte der neueren Philosophie. Münchener Vorlesungen (1827), in Schellings Werke, hrsg. v. M. Schröter, Becksche Verlagsbuchhandlung, München 1965, 1, 5, p. 217; tr. it. (Lezioni monachesi sulla storia della filosofia), di G. Durante, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 117). Per il tema dell’intuizione intellettuale in Schelling si consenta di rinviare al mio: La via di Schelling al “Sistema dell’Idealismo trascendentale”, Napoli 1995, pp. 121-162. 103 La rivendicazione della paternità del metodo fenomenologico da parte di Schelling nei confronti di Hegel è nota, così come l’asprezza che la caratterizza (cfr. F.W.J. Schelling, Zur Geschichte der neueren Philosophie cit., p. 166) (77). Solo che, proprio mentre accusa Hegel di plagio nei propri confronti, Schelling omette di indicare il suo debito nei confronti di Fichte, il cui contributo alla nascita della nuova impostazione metodologica in filosofia non è certo irrilevante. Su questa tematica cfr., di chi scrive, Alle origini del metodo fenomenologico, in Logica ed esperienza. Studi in ricordo di Leo Lugarini, a cura di G. Cantillo, G. Di Tommaso, V. Vitiello, Bibliopolis, Napoli 2008, pp. 297-315.

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dotato di consapevolezza, per cogliere il quale tutti i metodi precedenti risultano inadeguati. Per poter seguire e comprendere la sua natura irrequieta e in costante divenire, non è più sufficiente la riflessione oggettivante, incapace di rispettare e di assumere la vitalità che caratterizza l’Io, ma occorre una modalità di riferimento ad esso che ne condivida e valorizzi il dinamismo e sia in grado di rispecchiarne l’essenziale agilità. In apertura dello scritto Fichte dichiara, come si è visto, che oggetto della filosofia elementare è la riflessione sul modo d’agire e patire del nostro spirito, con la precisazione che non si tratta di pensare direttamente la sensazione, l’intuizione e il volere, ma il modo in cui li si deve pensare (EM, p. 251). Poco dopo, alla filosofia elementare viene riconosciuto, come carattere irrinunciabile, la citata «esatta osservazione», nonché la sua «esatta comprensione». È evidente dal contesto che l’osservazione ha ad oggetto il modo di agire del nostro spirito e che l’esattezza dell’osservazione deve procedere dal medesimo spirito, nella sua qualità di intelligenza riflettente e comprendente, prefigurando così chiaramente la richiamata distinzione tra le due serie operanti nella Zweite Einleitung104. Più avanti Fichte ribadisce l’atteggiamento osservativo cui è tenuta la filosofia elementare e, in riferimento all’attuale punto di vista, conferma che si tratta «di osservare le cose come sono» e, affinché non ci siano dubbi su quel che intende, aggiunge: «Noi siamo spettatori nel teatro del nostro spirito»105. Al filosofo compete, allora, di riflettere sull’atti104 Com’è noto, nella Seconda Introduzione Fichte insisterà nel dire che nella dottrina della scienza ci sono «due serie ben distinte di agire spirituale: quella dell’Io che il filosofo osserva e quella delle osservazioni del filosofo» (Zweite Einleitung, cit., p. 210) (36), e imputerà precisamente al mancato rispetto della rigorosa separazione di ciò che compete all’una e all’altra di tali serie la ragione di molte delle incomprensioni cui è andata incontro la dottrina della scienza. 105 EM, p. 371. La metafora, già ricordata, colloca il filosofo in una

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vità che si svolge nel nostro spirito, con l’imparzialità e l’acutezza dello spettatore attento a non farsi sfuggire elementi importanti nella storia dello spirito non-filosofante106. La filosofia elementare riflette su questa storia e «non fa altro che raccontarla». Anche in questo diverso contesto (cfr. EM, p. 501) l’accento cade sull’osservazione e sulla successiva restituzione di quanto osservato, e entrambi questi momenti sono ugualmente essenziali per la riuscita del nuovo tipo di filosofia. Nella parte conclusiva dello scritto è poi presente il riferimento al «per noi» che, come si sa, Hegel assumerà come lo Standpukt della coscienza filosofica che sta semplicemente a guardare la coscienza naturale nel suo sforzo di elevarsi alla scienza, e che nel contesto fichtiano in riferimento posizione peculiare, essendo egli spettatore non di un qualsiasi fenomeno reale, ma del meccanismo d’azione del nostro (e cioè: anche suo) spirito, così come indicato fin dalle primissime pagine dello scritto. Per un illuminante chiarimento sulla differenza di livello tra l’osservare della coscienza comune e quello del filosofo, cfr. Grundlage, p. 314-15 (13031); cfr. anche ibid., 364-65 (175). 106 Sulla presenza in Fichte di questa tendenza a ripercorrere la storia della coscienza, tendenza che tanta importanza avrà in Hegel (ma anche in Schelling), cfr. C. Cesa, Contraddizione e Non-Io: Problemi fichtiani, “Teoria”, VIII (1988), pp. 68-69, ora in Id., J.G. Fichte e l’idealismo trascendentale, cit., pp. 123-24. Cesa chiarisce che questo non deve essere certo inteso nel senso che Fichte sia stato precursore di Hegel, ma che quest’ultimo, «malgrado le polemiche, ha ripreso non pochi spunti da Fichte» (ib., p. 123, n. 11). In proposito, cfr. K. Düsing, Einbildungskraft und selbstbewußtes Dasein beim frühen Fichte, in K. Held e J. Hennigfeld  (a cura di), Kategorien der Existenz, cit., pp. 6176; dello stesso A. v. anche Hegels «Phänomenologie» und die idealistische Geschichte des Selbstbewußtseins, in. «Hegel-Studien», 28 (1993), pp. 103-126. Si veda inoltre il volume di A. Bugliani, La storia della coscienza in Fichte (1794-1798), Guerini e Associati, Milano 1998; per il riferimento alla metafora del teatro del nostro spirito, cfr. ibid., p. 95. Gli spunti che vanno in direzione della scoperta e dell’uso del metodo fenomenologico da parte di Fichte sono evidenziati e illustrati anche nel capitolo «Dialettica e fenomenologia» del volume di P. Salvucci, Dialettica e immaginazione in Fichte, Argalìa, Urbino 1973, pp. 7-75.

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introduce in modo esplicito la prospettiva del filosofo che, «in quanto intelligenza», non attribuisce ciò che appartiene alla sfera della sua osservazione a quello che appartiene all’oggetto osservato107. Confondere le due dimensioni è pregiudizievole per la filosofia e Fichte lo annota già ora, con qualche anno di anticipo sulla Seconda Introduzione, osservando che la mancata distinzione è causa, appunto, di «confusione»108. L’abilità nel mantenere separate l’osservazione e il suo oggetto consente al filosofo di svolgere adeguatamente il proprio compito e di applicare in modo corretto un metodo che Fichte inaugura nella Grundlage, e che Schelling e Hegel presto adotteranno anche sotto quest’altro importante aspetto109. Ovviamente, l’appartenenza delle Eigne Meditationen alla Vorgeschichte del metodo fenomenologico non è da intendere nel senso che Fichte possedesse già in modo adeguato e pieno tale metodo, ma unicamente che – considerando le cose retrospettivamente e alla luce dell’evoluzione che, da questo punto di vista, il suo pensiero seguirà nel giro di po107 Il «für uns, per noi» nell’accezione metodologica, e cioè nel senso del «per noi, in quanto intelligenze», ricorre nelle EM, p. 639. L’espressione viene usata, com’è noto, anche da Schelling, cfr. F.W.J. Schelling, System des transzendentalen Idealismus, Ak. Ausg., I, 9/1, pp. 4041; tr. it. (Sistema dell’idealismo trascendentale), di M. Losacco, riv. G. Semerari, Laterza, Bari 1965, pp. 20-21, oltre che, come si è ricordato, da Hegel. 108 EM, p. 265. Parlando della necessità di rappresentare la coscienza (indicata con x), al fine di cogliere insieme l’Io e il Non-Io, egli nota che «Ora, questo concetto x, il cui oggetto è l’Io rappresentante il NonIo, è l’oggetto della nostra riflessione. — La confusione risiedeva nel fatto che io non sapevo mai esattamente su che cosa propriamente dovessi riflettere» (ibid., p. 573, citato sopra, p. 204). 109 Tilliette evidenzia alcuni motivi di continuità nella concezione della storia dello spirito umano tra i tre grandi pensatori e riconosce che Hegel è senz’altro l’erede di Fichte e di Schelling (cfr. X. Tilliette, Geschichte und Geschichte des Selbstbewußtseins, in «Annalen der internationalen Gesellschaft für dialektische Philosophie - Societas Hegeliana», 1983, pp. 92-99, qui, p. 94).

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chi anni –, potrebbe non essere azzardato ipotizzare che gli spunti richiamati e presenti nello scritto autorizzino a pensare che essi possano costituire i primi germi dai quali comincia a venire in luce il nuovo atteggiamento filosofico. Che questo sia il risultato di sforzi convergenti di menti geniali, non può che accrescerne il pregio, in vista del quale trovano anche la loro giustificazione le legittime rivendicazioni del ruolo personale avuto da ciascuno110.

110 A questo proposito mi sembra appropriato riportare un passo, tratto da uno scritto del compianto Claudio Cesa, che vuole essere anche un rispettoso e riconoscente omaggio al grande studioso della filosofia classica tedesca e, insieme, il segno di un indirizzo culturale pienamente condiviso e dello stile di un pensatore sempre attento a rilevare le differenze, ma a non permettere che esse offuscassero la visione dell’intero. In riferimento alle polemiche, spesso dure, tra gli studiosi di Fichte, Schelling e Hegel, Cesa scrive che essi «hanno spesso (soprattutto negli ultimi anni) ricercato i rapporti polemici tra uno scritto e l’altro dei tre pensatori, dimostrando, per esempio, che in quella pagina Fichte ha voluto rettificare Schelling, o Schelling criticare Hegel; ma non si è andati, purtroppo, molto più avanti in queste indicazioni, e si è trascurata completamente una ricerca di tipo “sinottico”; tutta l’attenzione è caduta sui motivi di divergenza, dimenticando la larghissima base comune, che pure esisteva» (C. Cesa, Fichte e il primo idealismo, cit., p. 56).

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R ingraziamenti

Un pensiero memore e grato al compianto Professor Giovanni Reale, il cui interesse per questa traduzione e per il ruolo delle Eigne Meditationen nello svolgimento del pensiero di Fichte costituì l’argomento di un lungo, intenso e per me istruttivo colloquio, di cui conservo intatto il piacevole ricordo. A Lui un grazie ad memoriam, per aver accolto questo lavoro nella prestigiosa Collana da Lui diretta. Alla Casa Editrice Frommann-Holzboog, alla quale si deve la pregevole J.G. Fichte–Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, un sentito ringraziamento per aver concesso di porre a base della presente traduzione, a titolo gratuito, il testo dell’edizione critica del manoscritto fichtiano e di riprodurlo come testo a fronte. Ringrazio sinceramente la Staatsbibliothek di Berlino per aver consentito l’accesso al manoscritto delle Eigne Meditationen über die ElementarPhilosophie di Fichte e per aver autorizzato la riproduzione di alcune pagine (qui, pp. 241 e 242), che consentono anche al lettore italiano di formarsi un’idea del manoscritto fichtiano e di apprezzare le notevoli difficoltà che i Curatori dell’edizione critica hanno dovuto affrontare e superare, per consegnare agli studiosi di Fichte un testo impeccabile nella sua precisione e completezza. Un grazie riconoscente alle amiche e agli amici Carla De Pascale, Marco Ivaldo, Daniela Mancini, Giovannino Pettinaro, Vincenzo Vitiello che, in modi e con competenze diverse, mi hanno sostenuto, più di quanto sanno, nel corso del lavoro. Un ringraziamento speciale a Emmy; alla sua amorevole dolcezza devo infinitamente più di quanto potrei dire.

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Cronologia della vita e delle opere

1762  Il 19 maggio nasce a Rammenau, non lontano da Bischofswerda, in Sassonia, Johann Gottlieb Fichte, primo di otto figli di una modesta famiglia (il padre, Christian, era tessitore di nastri). 1774  Il 4 ottobre viene ammesso alla prestigiosa «Scuola» di Pforta, per svolgervi gli studi liceali. 1780  Il 5 ottobre, a conclusione degli studi, pronuncia il discorso di congedo De recto praeceptorum poeseos et rethorices usu. Si iscrive alla facoltà di Teologia presso l’università di Jena, che abbandona dopo due semestri. 1781-84  Il 25 ottobre si iscrive all’università di Lipsia e, dal 1783, a quella di Wittenberg. Il venir meno del sostegno economico degli eredi del suo benefattore, il barone von Miltitz (morto nel 1774), lo costringe a interrompere gli studi. 1785-89  Si guadagna da vivere come precettore e, nel 1788, pubblica alcune recensioni. Nello stesso anno si trasferisce a Zurigo, dove giunge nel settembre del 1788, come precettore presso la famiglia Ott. Conosce e frequenta dotti e personalità di rilievo di Zurigo e ha l’opportunità di conoscere Maria Johanne Rahn, che diventerà sua moglie. 1790  Il 28 marzo lascia Zurigo per far ritorno in Germania e, a Lipsia, si guadagna da vivere ancora come precettore. L’esigenza di introdurre al pensiero di Kant un suo occasionale allievo, lo induce a studiarne approfonditamente le opere, ricavandone una profonda impressione e un nuovo e decisivo orientamento filosofico. Alla fine dell’estate di quell’anno risale la stesura di un breve, ma importante scritto: Alcuni aforismi su religione e deismo.

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1791  La ricerca di un posto da precettore lo porta a Varsavia, dove però resta solo pochi giorni, a causa dell’impressione negativa che di lui ricava la baronessa von Plater, impressione che Fichte ricambia cordialmente. Decide allora di recarsi a Königsberg, spinto dal desiderio di conoscere Kant (e di farsi conoscere da lui) e stende qui, in poche settimane, il testo del Saggio di una critica di ogni rivelazione, che sottopone al giudizio di Kant. Nell’autunno si trasferisce a Krakow, ancora una volta come precettore. 1792  Alla fiera di Pasqua appare, anonimo, il Saggio di una critica di ogni rivelazione, che viene pressoché unanimemente considerato dalla critica come opera di Kant e, certo anche per questo, lodato e positivamente recensito. Quando Kant interviene per riconoscere a Fichte la paternità dell’opera, il giovane filosofo era ormai famoso in tutta la Germania. Recatosi a Danzica, tra la fine del 1792 e l’inizio del 1793, completa la stesura della Rivendicazione della libertà di pensiero dai prìncipi dell’Europa che l’hanno finora calpestata. 1793  In aprile viene pubblicato il primo fascicolo del Contributo per rettificare il giudizio del pubblico sulla Rivoluzione francese, e vede la luce la seconda edizione del Saggio di una critica di ogni rivelazione. La notorietà acquisita con la pubblicazione dei suoi scritti aveva messo Fichte in condizione di pensare ormai al matrimonio e, tornato a Zurigo nell’estate, il 22 ottobre 1793 sposa Maria Johanne Rahn. Studia a fondo l’Enesidemo di Schulze e ne scrive una importante recensione, in parallelo con la stesura delle Meditazioni personali sulla filosofia elementare che qui presentiamo, e che furono composte tra l’inizio di novembre di quell’anno e la metà di gennaio del 1794. 1794  Conclusa la stesura delle Eigne Meditationen, passa subito alla elaborazione della Practische Philosophie. Nei primi giorni dell’anno gli giunge la chiamata all’Università di Jena, alla cattedra lasciata libera da Reinhold, in procinto di trasferirsi a Kiel. Tiene a Zurigo un ciclo di

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lezioni per una stretta cerchia di amici e di dotti, le cosiddette Lezioni di Zurigo sul concetto della dottrina della scienza. Spinto dall’esigenza di preannunciare agli studenti l’argomento delle sue lezioni, compone in breve tempo lo scritto programmatico: Sul concetto della dottrina della scienza o della cosiddetta filosofia, che esce per la fiera di Pasqua. Giunto a Jena il 18 maggio, il 23 vi tiene la sua lezione inaugurale. Dopo qualche giorno inizia anche le lezioni pubbliche sulla Missione del dotto e, in parallelo con lo svolgimento delle lezioni, lavora alla stesura del Fondamento dell’intera dottrina della scienza, il cui primo sedicesimo egli può offrire “pro manuscripto” a Goethe, il 21 giugno. La prima e la seconda parte dell’opera (§§ 1-4) escono per la fiera di S. Michele (29 settembre). 1795  Lo sfortunato epilogo del suo tentativo di condurre allo scioglimento le Burschenschaften, le potenti organizzazioni studentesche, è seguito da incresciosi episodi e minacce contro la sua persona, i suoi familiari e la sua casa, spingendolo ad abbandonare provvisoriamente Jena e a ritirarsi, a fine aprile, a Osmannstädt. Tra fine luglio e inizio agosto pubblica la terza parte (§§ 5-11) della Grundlage e la Prefazione all’intera opera. Rientra a Jena in ottobre e vi tiene un corso sul diritto naturale. 1796  Svolge un corso di filosofia morale e, a marzo, esce il primo volume del Fondamento del diritto naturale. 1797-1798  Pubblica, a puntate, il Saggio di una nuova esposizione della dottrina della scienza, con le celebri Prima e Seconda Introduzione alla dottrina della scienza; l’opera è interrotta in conseguenza del divampare, in ottobre, della polemica sull’ateismo. A marzo del 1798 era uscito il Sistema di etica. 1799  Il 29 marzo minaccia di dimettersi dall’Università; la minaccia è presa come effettiva richiesta di dimissioni, subito accettate. A luglio si trasferisce a Berlino, dove tiene discorsi presso una loggia massonica e scrive La destinazione dell’uomo, che esce nel gennaio successivo.

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1800 Redige Lo stato commerciale chiuso e diversi saggi in difesa della propria filosofia. Dopo un periodo di amicizia e collaborazione con Schelling, tra i due iniziano a manifestarsi dissapori. 1801  A fine marzo pubblica il Rapporto chiaro come il sole. 1802 I crescenti contrasti con Schelling portano alla definitiva rottura con l’amico di una volta. Alla fine dell’anno, Fichte conclude una nuova esposizione della Dottrina della scienza. 1804 Tiene tre corsi privati sulla dottrina della scienza e, fino a marzo 1805, una serie di conferenze pubbliche sul «Carattere filosofico dell’epoca». 1805  Fallita la candidatura all’Accademia delle Scienze, svolge un ciclo di lezioni private. Viene nominato professore a Erlangen, dove tiene conferenze dal titolo: De moribus eruditorum. Espone nuovamente la dottrina della scienza e, in autunno, torna a Berlino. 1806  Ciclo di conferenze su Avviamento alla vita beata. In febbraio pubblica Sull’essenza del dotto e in aprile I tratti fondamentali dell’epoca presente. Sempre a fine aprile, esce l’Introduzione alla vita beata. La sconfitta dei prussiani da parte di Napoleone nella battaglia di Jena (14 ottobre), spinge Fichte a lasciare Berlino e a trasferirsi, seguendo il governo e la corte, a Königsberg. 1807  Tiene lezioni sulla dottrina della scienza presso l’università di Königsberg, approfondisce lo studio di Machiavelli e si dedica a studi di carattere politico. A fine agosto torna a Berlino e lavora al progetto di una nuova università, di cui era prevista l’istituzione. Dal 13 dicembre inizia a tenere, nella sede dell’Accademia, i famosi Discorsi alla nazione tedesca. 1808 I Discorsi, terminati il 20 marzo, sono raccolti in volume e pubblicati a fine maggio. Nel frattempo, a marzo, era stato nominato membro dell’Accademia Bavarese delle Scienze. A luglio si ammala seriamente (disturbi alla vi-

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sta, mano e gamba quasi paralizzate), e deve sospendere le sue attività. 1809  Lenta ripresa dalla malattia e, l’11 dicembre, tiene la lezione inaugurale dei corsi della nuova università di Berlino: Introduzione alla filosofia. 1810  Il 20 maggio è nominato professore all’università di Berlino, della cui facoltà filosofica diviene Decano nell’agosto successivo. 1811  Da gennaio ad aprile espone nuovamente la Dottrina della scienza. La fama e il rispetto che lo circondano portano il Senato accademico, il 17 luglio, a eleggere Fichte Rettore dell’università di Berlino. 1812  Dall’inizio dell’anno e fino a marzo espone, ancora una volta, la Dottrina della scienza. In seguito ai frequenti e spesso aspri contrasti con il Senato accademico su questioni amministrative e disciplinari, il 16 aprile Fichte si dimette dalla carica di Rettore. 1813  Chiede di essere arruolato come cappellano militare nella guerra contro i francesi e continua anche a tenere i suoi corsi universitari. 1814  Impegnato, con la moglie, nell’assistenza ai malati, come lei contrae il tifo; ma mentre lei guarisce, Fichte muore, a pochi giorni dal contagio, il 29 gennaio.

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Nota editoriale

Le Eigne Meditationen über ElementarPhilosophie furono scritte da Fichte nel periodo compreso tra l’autunno del 1793 e il 15 gennaio 1794 e non erano destinate alla pubblicazione. Rimaste tra le opere postume, furono parzialmente pubblicate per la prima volta da W. Kabitz, Studien zur Entwicklungsgeschichte der Fichteschen Wissenschaftslehre aus der kantischen Philosophie. Mit bisher ungedrückten Stücken aus Fichtes Nachlass, Berlin 1902. L’edizione critica dell’opera integrale è avvenuta nell’ambito della J.G. Fichte, Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, promossa da Reinhard Lauth† e Hans Jacob†, Reihe II, Nachgelassene Werke, Band 3, hrsg. v. Reinhard Lauth u. Hans Jacob, unter Mitwirkung von Hans Gliwitzky u. Peter Schneider, Friedrich Frommann Verlag (Günter Holzboog), Stuttgart-Bad Cannstatt 1971, pp. 21-177. Tale edizione è condotta sulla base del manoscritto che porta il medesimo titolo e che è conservato nella Deutsche Staatsbibliothek di Berlino, con la collocazione: I, 22. I numeri di pagina riportati a margine, sia del testo tedesco, sia della traduzione italiana, rinviano alla Gesamtausgabe. Le note di Fichte sono indicate con lettere minuscole e collocate a piè di pagina, così come quelle del curatore, indicate con i numeri. Queste ultime tengono conto, quando presenti, delle indicazioni fornite dai Curatori del testo. Si è ritenuto di seguire le soluzioni adottate dai Curatori per l’interpretazione delle parole di dubbia comprensione, senza ogni volta segnalarlo, per non appesantire la lettura. Per il medesimo motivo si è anche evitato di segnalare le proposte di lettura di parole abbreviate o incomplete, nonché le numerose modificazioni/ integrazioni introdotte nella punteggiatura. Il carattere Fraktur (gotico) utilizzato dai Curatori per contrassegnare modificazioni, anche minime, apportate al testo originale, è stato reso in italiano con carattere normale, mentre sono rese in corsivo, nella traduzione italiana, tutte le parole francesi o latine, che nell’originale sono in carattere normale. Le parole di incerta lettura sono riportate tra

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i segni “〈” e “〉”, come nell’edizione tedesca. Le suddivisioni del testo e la distribuzione dei capoversi sono state rispettate. Come si può constatare, Fichte fa ricorso a un elevato numero di varianti nella scrittura di «Nicht-Ich»: «NichtIch», «Nichtich», «Nicht=Ich» «Nicht Ich» e la medesima cosa fa con «Non-A» (che presenta anche la variante «Non. A»). Tali differenze non hanno alcun rilievo dal punto di vista del significato e per questo sono state uniformate, nella traduzione italiana, e rese, rispettivamente, con «Non-Io» e «Non-A». Per quanto concerne i termini «Sa(t)z» e «Grundsa(t)z», non è agevole rispettare rigorosamente la corrispondenza con «proposizione» e con «principio», «principio fondamentale», in quanto a volte il primo termine è anche impiegato nel significato del secondo. Là dove il contesto lo giustificava/richiedeva, si è tradotto con «principio» anche «Sa(t)z». Le difficoltà, spesso ardue, del testo, si ripropongono per la traduzione, che si è scelto di rendere il più possibile fedele all’originale. Quanto alla terminologia, si è cercato di rispettare quella fichtiana, ormai consolidata. Nella resa di alcuni termini, per i quali, anche per la specifica carica semantica che Fichte conferisce loro, è difficile trovare il preciso corrispettivo italiano, si è ritenuto utile fornire una giustificazione/chiarimento nei contesti in cui ricorrono per la prima volta. Data la destinazione strettamente personale dell’opera, Fichte non l’ha corredata dell’indice, che conseguentemente non compare nell’edizione critica. Tuttavia, poiché lo scritto presenta alcune suddivisioni e relativi titoli, si è pensato di riunirli in modo da ricavarne un indice approssimativo, che va perciò preso con questa avvertenza e nella misura in cui può fornire un utile orientamento. Delle Eigne Meditationen esiste una traduzione francese: J.G. Fichte, Méditations personnelles sur la philosophie élémentaire. Présenté, traduit et annoté par Isabelle Thomas-Fogiel (Traduction en collaboration avec Anne Gahier), Vrin, Paris 1999, pp. 41-192, che ho, ovviamente, tenuto presente per la traduzione italiana.

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La prima pagina del manoscritto delle Meditazioni personali sulla Filosofia elementare conservato alla Staatsbibliothek di Berlino (cfr. infra, pp. 244-250).

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Le pagine 3v-4r; 42v e 43r del manoscritto (cfr. infra, pp. 274-280 e 606-616).

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Johann Gottlieb Fichte Meditazioni personali sulla Filosofia elementare [1793/94]

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Eigne Meditationen über ElementarPhilosophie.

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Logik der ElementarPhilosophie. Ihr Begrif. Es kann gewiße GrundRegeln, allgemeine Regeln geben, die bei allem, was im Gemüthe vorgeht, vorkommen.a — Denn: alles muß zur subjectiven Einheit aufgenommen werden; es geht in einem Gemüthe vor; alles muß also zu dieser subjectiven Einheit aufnehmbar seyn. u. darin wenigstens, u. in den Bedingungen derselben, (wenn sich solche finden sollten) muß alles übereinstimmen. 2.) Diese Bedingungen, wenn sie erkannt werden können, machen eine ElementarPhilosophie aus.b Unter ihnen steht alles, was in uns vorgehen kann, Erkenntniß, u. Begehrung, Anschauung, Begriff, Idee. 3.) Sie kommen entweder wirklich zu unserm Bewußtseyn in verschiedenartigen Aeußerungen unsrer Vermögen; u. sind dabei durch Abstraktion aufzufinden; oder es läßt sich auf sie nur durch das Vorhandenseyn der übrigen schließen.c — Wir schließen: nach welchen Gesetzen? — Doch das ist keine Frage. Nach denen des Ich.

a 

[am Rande der Seite ohne Bezugsvermerk] Grundsaz der Einheit des Ich. b  [am Rande der Seite ohne Vermerk] Begriff der ElementarPhilosophie das wäre 〈vielmehr〉 der Begriff der Logik. — c  [am Rande der Seite ohne Vermerk] Ihre Quelle. 1 L’espressione ElementarPhilosophie proviene, com’è noto, da Rein­ hold e doveva designare per lui una filosofia dotata di dignità scientifica. Con questa denominazione Reinhold intende la propria teoria filosofica come «l’unico sistema dei princìpi possibile, sul quale dev’essere edificata tanto la filosofia teoretica, quanto quella pratica, tanto la filosofia formale, quanto quella materiale» (K.L. Reinhold, Über die Möglichkeit der Philosophie als strenge Wissenschaft, in Id., Beyträge zur Berechtigung bisheriger Missverständnisse der Philosophen, cit., p. 344). In un altro testo egli de-

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Meditazioni personali sulla Filosofia elementare

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Logica della filosofia elementare Il suo concetto. Ci possono essere certe regole fondamentali, generali, che si presentano in tutto ciò che accade nell’animoa. — Infatti, tutto dev’essere innalzato all’unità soggettiva e ciò accade in un animo; tutto, dunque, deve poter essere innalzato a questa unità soggettiva e, almeno in questa e nelle sue condizioni (se se ne dovessero trovare), tutto deve concordare. 2) Queste condizioni, se possono essere conosciute, costituiscono una filosofia elementareb, 1. Tutto ciò che può accadere in noi: conoscenza e desiderio, intuizione, concetto, idea è subordinato a quelle condizioni. 3) Esse, o si presentano effettivamente alla nostra coscienza in svariate manifestazioni delle nostre facoltà e vi si possono rintracciare mediante astrazione, oppure si possono dedurre solo dalla presenza delle altrec. — Noi deduciamo: secondo quali leggi? — Ma che domanda! Secondo quelle dell’Io.

a

 [a margine della pagina, senza segno di rinvio] Principio dell’unità dell’Io. b  [a margine della pagina, senza rinvio] Concetto della filosofia elementare, che sarebbe piuttosto il concetto della logica. — c  [a margine della pagina, senza rinvio] La loro origine. finisce la filosofia elementare come «una scienza dei princìpi comuni a tutte le scienze filosofiche particolari, una scienza nella quale venga formulato in modo completamente determinato ciò che le rimanenti scienze presuppongono nella loro fondazione, una scienza che pertanto deve avere prima di tutte le altre un fondamento stabile, riconosciuto e compreso universalmente come valido» (K.L. Reinhold, Über das Fundament des philosophischen Wissens. Nebst einige Erläuterungen über die Theorie des menschlichen Vorstellungsvermögen (1791), cit., p. 344); (p. 64).

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johann gottlieb fichte

4.) Die Untersuchungen der ElementarPhilosophie; die Reflexionen die sie anstellt, sind selbst etwas das in unserm Geiste vorgeht;a ja sie sind etwas von einer bestimmten Art; ein Denken; sie steht demnach unter den Bedingungen des Geschlechts, u. der besondern Art; u. kann nicht richtig seyn, ohne daß vorher schon gefunden sey, was sie sucht. (Daher der nothwendige Zirkel unsers Geistes. Wir können nach den Gesetzen deßelben nicht anders, als nach diesen Gesetzen selbst suchen. [)] 5.) Dies würde Regeln für diese Untersuchung nöthig machen, die am besten nicht stillschweigend angenommen, sondern ausdrüklich entwikelt werden.b — Diese Regeln selbst nun kann man nicht wieder beweisen; sondern man muß sie |  auf gut Glük ankommen laßen. Zum Glük aber ist die Logik, unter die sie gehören, schon eine feste Wißenschaft; u. höchstens nur über das, was in der Anwendung auf ElementarPhilosophie besonders zu beobachten ist, könnte ein Widerspruch entstehen. — Um auch diesem zu entgehen beweise man etwa umgekehrt die Logik, aus der ElementarLeh-

a

  [am Rande der Seite ohne Vermerk] Bedingung.  [am Rande der Seite ohne Vermerk] Logik der ElementarPhilosophie. b

2  La figura del circolo torna spesso in quest’opera e in altri scritti di Fichte e designa l’ambito intrascendibile all’interno del quale si svolge l’umana esperienza. È ovvio che l’accettazione di tale struttura non significa affatto che Fichte riabiliti in qualche modo il cosiddetto circolo vizioso, che è e resta per lui un imperdonabile errore logico, come mette in evidenza più avanti, a p. 385, n. a. In proposito cfr. Monografia introduttiva, Parte II, n. 6. 3  Qui Fichte allude al principio reinholdiano secondo il quale «non si può pensare sulle leggi del pensiero se non secondo queste leggi», da lui ricordato nella Rez. Aenesidemus, GA, I, 2, p. 43 (101). 4  Siamo in presenza del capovolgimento del rapporto di fondazione tra logica e filosofia elementare (presto tra logica e dottrina della scienza), che caratterizza l’impostazione fichtiana. L’accettazione della validità delle leg-

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meditazioni personali sulla filosofia elementare, 21-22

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4. Le ricerche della filosofia elementare, le riflessioni che essa compie sono esse stesse qualcosa che si verifica nel nostro spiritoa, sono anzi qualcosa di una specie determinata, un pensare. La filosofia elementare sta, quindi, sotto la condizione del genere e della specie particolare e non può essere esatta senza che prima sia stato già trovato ciò che essa cerca. (Da qui il circolo necessario del nostro spirito2. Noi non possiamo andare alla ricerca delle sue leggi, se non secondo queste stesse leggi) 3. 5) Ciò renderebbe necessarie, per questa ricerca, regole che, auspicabilmente, non siano tacitamente accettate, bensì esplicitamente sviluppateb. — Orbene, tali regole non si possono, a loro volta, dimostrare, ma le si deve | far dipendere dalla buona sorte. Per fortuna, però, la logica, sotto la quale esse stanno, è già una scienza solida. Al massimo, potrebbe sorgere una contraddizione solo su quel che si deve osservare in modo particolare nell’applicazione alla filosofia elementare. — Per sfuggire anche a questa contraddizione, si dimostri, all’inverso, la logica a partire dalla dottrina elementare4.

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 [a margine della pagina, senza rinvio] Condizione.  [a margine della pagina, senza rinvio] Logica della filosofia elementare. b

gi logiche, in attesa della loro fondazione da parte della dottrina della scienza, è provvisoria, come esplicitamente affermato tra breve nel § 6 di Ueber den Begriff der Wissenschaftslehre. Nella Grundlage Fichte tornerà sull’argomento e considererà il circolo che ne deriva «inevitabile e liberamente ammesso» (Grundlage, p. 296) (74). W. Kabitz Studien zur Entwicklungsgeschichte der Fichteschen Wissenschaftslehre aus der kantischen Philosophie, cit., p. 60, osserva opportunamente che la posizione espressa in Ueber den Begriff è già matura nelle Eigne Meditationen. Si può aggiungere che, su questo punto, c’è consonanza tra Fichte e Reinhold, per il quale «L’autentica filosofia elementare non può essere fondata né è autorizzata a fondarsi in nessun modo sulla logica; questa invece dev’essere fondata su quella. Il concetto del pensare può essere determinato completamente solo attraverso la scienza della facoltà rappresentativa» (K.L. Reinhold, Ueber das Fundament, cit., p. 121) (132).

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re. Man gehe einmal synthetisch, einmal analytisch. Wenn die Resultate von beiderseits Verfahren übereinstimmen, so giebt das ein gutes Vorurtheil für die Wahrheit. Logische Regeln.a NB. Die Logik überhaupt ist selbst etwas im menschl. Geiste. Eine ElementarPhilosophie muß auch sie begründen. Wie kann sie dies nun thun. — Etwa, daß sie jedesmal den Saz den sie für den künftigen Saz brauchen wird, sich entwikle: daß also jeder Saz, an sich materiell, die formelle Bedingung des folgenden werde. Das gäbe eine undurchbrechliche Kette. — Aber dann wär eine formelle Logik vor der ElementarPhilosophie vorher nicht möglich; sondern bloß aphoristische Betrachtungen über ihre Art zu verfahren.b Jezt werde einmal vorläufig untersucht, ob es warschein-

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 [am Rande der Seite ohne Vermerk] Die Logik ist schon eine angewandte Wesenlehre. Ihr Objekt ist eine Abstraction vom möglichen Objekte des denkens. Sie betrachtet die Formen des Geistes in ihrer höchsten Allgemeinheit. — Bedarf es für die ElementarPhilosophie einer besondern 1.) Die ElementarPhilo[so]phie steht ihrer Form nach unter der allgemeinen Logik. wie diese wieder unter jener; da ist ein Zirkel. 2.) Sie bedarf nur gewißer Erinnerungen, die aus ihrem Objekte folgen. b  [links neben dem Text ohne Vermerk] Die erste Bemerkung ist wichtig. ElementarPhilosophie nimmt die Logik in ihr Gebiet nicht auf. Das zweite ist richtig. 5 

Il termine qui introdotto, «Wesenlehre, dottrina dell’essenza», può essere inteso come la forma di denominazione intermedia tra l’attuale «filosofia elementare» e l’incipiente «dottrina della scienza». In questo senso Cesa

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Si proceda una volta sinteticamente, una volta analiticamente. Se i risultati di entrambi i procedimenti coincidono, ciò offre un’indicazione attendibile per la verità. Regole logichea N.B. La logica in generale è essa stessa qualcosa nello spirito umano. Una filosofia elementare deve fondare anche la logica. Come può farlo? — Ad esempio, sviluppando ogni volta la proposizione di cui essa avrà bisogno in quella successiva, in modo che, dunque, ogni proposizione, in sé materiale, divenga la condizione formale della seguente. Ciò darebbe luogo a una catena che non può essere spezzata. — Ma, allora, una logica formale non sarebbe possibile prima della filosofia elementare e sarebbero invece possibili unicamente considerazioni aforistiche sul suo modo di procedereb. Ora si deve innanzitutto verificare se sia verosimile che

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 [a margine della pagina, senza rinvio] La logica è già una dottrina dell’essenza applicata5. Il suo oggetto è un’astrazione a partire dall’oggetto possibile del pensiero. Essa considera le forme dello spirito nella loro somma generalità. — La filosofia elementare necessita di una logica particolare. 1) La filosofia elementare è compresa, secondo la sua forma, nella logica generale, come questa, reciprocamente, è compresa in quella; qui ha luogo un circolo. 2) La filosofia elementare necessita solo di certi richiami alla memoria, che conseguono dal suo oggetto. b  [a sinistra, accanto al testo, senza rinvio] La prima osservazione è importante. La filosofia elementare non accoglie nel suo ambito la logica. La seconda osservazione è esatta. specifica che «dottrina dell’essenza» va intesa non come equivalente a «ontologia», ma piuttosto come «teoria dell’essenza dell’Io» (C. Cesa, De la Philosophie élémentaire à la Doctrine de la Science, cit., p. 15).

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lich ist, daß ein solcher Plan sich ausführen laße.a ElementarPhilosophie ist Reflexion, Denken über die allgemeinste Handlungsart, u. LeidensArt unsers Ich. — Jeder Saz wird ausgedrükt, wie er den Bedingungen des Denkens gemäß gedacht wird (nicht die Empfindung, Anschauung das Wollen, sondern das, wie man es sich denken muß, | wird gesagt . .[)] Jeder Saz ist also ein Gedanke, u. dieser Rüksicht nach ließe sich wohl aus jedem die Regel ziehen, oder jedes A. könnte formelle Bedingung der Wahrheit B. seyn. / insofern er Gedanke ist: Kriterium seiner Richtigkeit, inwiefern die vorausgesezte Thatsache richtig wäre.b

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 [am Rande der Seite in lateinischer Schrift] Gang der ElementarPhilosophie. Einzig möglicher Beweiß ihrer Wahrheit. b  [am linken Rande des Blattes, senkrecht zum Text] NB. Es scheint, daß in den Vorlesungen der Saz ich bin: wirklich fallsch deducirt ist. — Ich glaube er muß allerdings bewiesen werden; aber im Zirkel, nemlich so: insofern er formell ist a = a. kommt er zum Bewußtseyn; daraus läßt sich auf ihn schließen, in sofern er material ist; u. nicht zum Bewußtseyn kommt. — Und umgekehrt: aus dem angenommnen Gehalte deßelben läßt sich nun seine formale Richtigkeit ableiten. Es fehlt also nur 〈im〉 Vortrag, welcher weiter nachgedacht werden muß. — es bedürfte wohl dazu einer tiefern Erörterung der Form, u. Materie. Die Form welche das Ich dem NichtIch giebt; ist Materie des Ich. kann man sagen. 6  Poiché la filosofia elementare ha solo una verità interna, la dimostrazione della sua validità è tutta riposta nella effettiva realizzazione del progetto, ciò che non può essere garantito ora che la ricerca è solo all’inizio. La medesima cautela sarà espressa di qui a poco in Ueber den Begriff, p. 117 (18), dove si legge: «prima della ricerca, nulla può dirsi in anticipo sulla fondatezza o infondatezza del nostro sapere; e la possibilità della scienza richiesta non si può dimostrare se non mediante la sua realtà». 7  Importante precisazione, metodologica e contenutistica insieme, che individua come oggetto della filosofia elementare non solo l’agire originario dell’Io, ma anche il suo patire, vale a dire anche la sfera concernente il suo essere affetto, la sua ricettività.

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un tale piano si possa realizzarea, 6. La filosofia elementare è riflessione, pensare sul modo più generale d’agire e di patire del nostro Io7. — Ogni proposizione viene espressa così come viene pensata, conformemente alle condizioni del pensiero (non si parla di sensazione, intuizione, di volere, bensì del modo in cui li si deve pensare . . ). | Ogni proposizione è, dunque, un pensiero e, per questo riguardo, da ognuna di esse si potrebbe benissimo ricavare la regola; ovvero, ogni A potrebbe essere condizione formale della verità di B, / in quanto la proposizione è pensiero. Questo è il criterio della sua esattezza, nella misura in cui il dato di fatto presupposto è esattob.

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 [al lato della pagina, in caratteri latini] Andamento della filosofia elementare. Unica possibile dimostrazione della sua verità. b  [al margine sinistro della pagina, verticale rispetto al resto] N.B. Sembra che nelle lezioni il principio Io sono sia effettivamente dedotto in modo sbagliato8. — Credo che debba essere senz’altro dimostrato, ma all’interno del circolo, e cioè così: in quanto è un principio formale, a = a giunge alla coscienza; da ciò si può risalire ad esso come principio materiale, che non giunge alla coscienza. — E viceversa: dal contenuto ammesso del medesimo principio, si può ora dedurre la sua esattezza formale. Ciò manca, dunque, solo nell’esposizione orale, che deve ancora essere ripensata. — A tal fine sarebbe necessaria una determinazione più approfondita della forma e della materia. Si può dire che la forma che l’Io conferisce al Non-io è la materia dell’Io. 8  Le lezioni cui Fichte si riferisce subito in nota sono quelle da lui tenute a Zurigo, dal 24 febbraio al 26 aprile 1794, nella casa di J.K Lavater per un ristretto numero di qualificati uditori e pubblicate in J.G. Fichte, Züricher Vorlesungen über den Begriff der Wissenschaftslehre. Februar 1794 — Nachschrift Lavater (con testo manoscritto a fronte), cit.; tr. it. (Lezioni di Zurigo sul concetto della dottrina della scienza), cit. Sia l’edizione tedesca, sia la traduzione italiana contengono anche: Beilage aus Jens Baggesens Nachlass: Exzerpt aus der Abschrift von Fichtes Züricher Vorlesungen über Wissenschaftslehre, vale a dire: Dal lascito di Jen Baggesen: estratto dalla copia delle lezioni di Zurigo di Fichte sulla dottrina della scienza (pp. 184-189 ed.

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Jetz nun noch die größere Frage: was soll denn die Materie dieser Gedanken seyn.a. — Gewiße Vorgänge in unsrer Seele, die den Regeln unsers Geistes nach, (der vorgeschriebnen Methode nach, wie das geschieht) auf Begriffe gebracht, u. in Sätzen 〈enar[r]irt〉 werden. — Diese Methode wird dabei nicht nur als ge|geben vorausgesezt; sie wird selbst schon, als begriffen — zum Behufe einer Reflexion über seinen eignen Weg, u. zur Beurtheilung für andere — vorausgesezt: nun aber ist ihr Begreifen selbst ein Theil, u. zwar einer der lezten Theile der ElementarPhilosophie. — Und hier wäre

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 [Anm. unten auf der Seite] Diese Betrachtungen entblößen auch den falschen Schein der Beschuldigungen Maimons gegen Rhd. — „Daraus, daß er sich etwas denken könne, schließe er, etwas müße seyn“. Dieses Etwas von dem die Rede ist, sind doch nur Thatsachen unsers Geistes. Diese denkt Rhd. Wie stimmen nun seine Gedanken mit dem Handeln des Geistes überein; wie läßt sich eine solche Uebereinstimmung zeigen? Das ist eigentlich die Frage: denn nicht das Ding an sich, sondern das Vorstellen des Dinges ist Gegenstand seiner Philosophie. — Vom Dinge außer diesem Vorstellen ist nicht die Rede. – Wie ist nun so eine Uebereinstimmung möglich? — Giebt die durch Aenesidem geforderte Untersuchung; wie u. in wiefern ist’s möglich den Bestandtheilen unsers Erkenntnißvermögens auf die Spur zu kommen? — Ist in der ElementarPhilosophie nicht das Construiren möglich: nicht möglich eine innere Anschauung zu geben, die den Gedanken erkläre, u. beweise. Wenn das geschähe, so wäre Aenesidem widerlegt tedesca; pp. 116-119 ed. italiana). Il fatto che le lezioni siano successive alle EM porta la traduttrice francese, I. Thomas-Fogiel, a escludere che sia a esse che Fichte si riferisce nella nota (cfr. J.G. Fichte, Méditations personnelles sur la Philosophie élémentaire, cit., p. 187, n. 23). L’ipotesi più plausibile è che la nota sia stata introdotta successivamente; secondo Fuchs, fu aggiunta forse in occasione della preparazione delle lezioni a Jena (E. Fuchs, Einleitung a Fichte, Züricher Vorlesungen, cit., p. 44). Per altri rinvii bibliografici in proposito, cfr. anche sopra, Monografia introduttiva, Parte II, n. 8. 9  Come si vede, Fichte difende qui Reinhold dall’accusa di dedurre l’essere dal pensiero. In realtà Reinhold parla della cosa in sé, in un modo

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Ma ora la questione più importante: quale dev’essere, allora, la materia di questi pensieri?a — Certi processi nella nostra anima, che secondo le regole del nostro spirito (secondo il metodo prescritto, così come accade), sono portati a concetti ed espressi in proposizioni. — Perciò questo metodo non è presupposto soltanto come dato, | ma è già presupposto anche come concepito, — al fine di una riflessione sul suo proprio cammino e della valutazione da parte degli altri. — Ora, però, il suo concepire costituisce esso stesso una parte, anzi una delle ultime parti della filosofia elementare. —

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 [annotazione in fondo alla pagina] Queste considerazioni mettono a nudo anche la falsa apparenza delle accuse di Maimon contro Reinhold9. — “Dal fatto che possa pensare qualcosa, egli concluderebbe che qualcosa debba essere”. Questo qualcosa di cui si parla sono, tuttavia, solo fatti del nostro spirito. A questi fatti pensa Reinhold. Ora, come concordano i suoi pensieri con l’agire dello spirito? Come si può mostrare un tale accordo? Questa è, propriamente, la questione, dal momento che oggetto della sua filosofia non è la cosa in sé, bensì il rappresentare la cosa. — Non si tratta di una cosa al di fuori di questo rappresentare. — Orbene, com’è possibile un tale accordo? — Producete la ricerca richiesta da Enesidemo: come e in che misura è possibile rintracciare gli elementi costitutivi della nostra facoltà conoscitiva? — Nella filosofia elementare, il costruire è impossibile? È impossibile fornire un’intuizione interna, che chiarisca e dimostri il pensare? Se ciò accadesse, Enesidemo sarebbe confutato. che può suscitare qualche dubbio sul significato che le attribuisce: «Un oggetto è detto una cosa in sé nel senso che la rappresentazione che si può riferire ad esso viene distinta dal medesimo» (K.L. Reinhold, Neue Darstellung der Hauptmomente der Elementarphilosophie, in: Beyträge cit., § III, p.171). Tuttavia, nella sua prospettiva, la distinzione è indissolubilmente correlata al porre in relazione, senza il quale non c’è alcun oggetto. Per questo motivo, mancando ogni riferimento alla cosa in sé nella rappresentazione, questa non ha mai, né può mai avere realtà. Questo è il senso dell’affermazione di Fichte quando scrive che Reinhold non parla di fatti o di cose al di fuori della rappresentazione, ma soltanto di «fatti del nostro spirito».

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denn dieser Zirkel mehr in der Nähe. Ich kann keinen Saz meiner ElementarPhilosophie einem andern beweisen; wenn er nicht meine ElementarPhilosophie bis zu Ende untersucht hat, u. mit den Resultaten derselben einig ist: Ich kann sie nur aus ihr selbst beweisen. — Elementarphilosophie bewahrheitet sich demnach aus sich selbst; aus ihrer Uebereinstimmung mit sich selbst: wenn der Weg, den ich wirklich gegangen bin, aus Begriffen sich darthun läßt, und der, welcher aus Begriffen sich darthun läßt, gegangen worden ist, so ist sie in sich selbst wahr. Sie hat in[n]ere Wahrheit. Eine äußere findet in ihr nicht Statt; ja diese findet überhaupt nicht Statt. / Das ist denn auch, — gegen Aenesidemus zu erinnern, — die wahre Beweisart Kants. Von forn herein nimmt er seine Sätze nur für problematisch an; aus der Vereinigung seiner Wege in Einem Punkte schließt er erst die innere Wahrheit seines Systems. — — Es gehört demnach zur ElementarPhilosophie zweierlei: Richtige Beobachtung; richtiges Verstehen dieser Beobachtung. — ad. 1. Was soll beobachtet werden. — Beobachten ist empirisch. — Giebt es nicht auch reine intellectuelle Anschauungen. Die Formen des Vorstellungsvermögens, von dem eben die Rede ist, werden rein intellektuell angeschaut. — Aber diese intellectuelle Anschauung gründet sich zum Theil doch erst wieder auf vorhergegangene Aeußerung der Spontaneität, des Denkens: ist nicht rich-

10  Ricorre ancora la struttura circolare del metodo filosofico utilizzato per il conseguimento della filosofia elementare, che può essere adeguatamente fondato, e quindi dimostrato come vero, solo alla fine. Sul tema della circolarità nel pensiero di Fichte, cfr. G. Duso, Contraddizione e dialettica nella formazione del pensiero fichtiano, cit., pp. 189-90. 11  In relazione a questo passo e alla «verità interna» che deve caratterizzare la filosofia elementare, Lauth sostiene, a ragione, che Fichte aveva concepito l’auto-deduzione della dottrina della scienza già in questo primo progetto di sistema, nel 1794, e conferma che le EM costituiscono, per così dire, «la forma embrionale della posteriore Dottrina della scienza», (cfr. R. Lauth, La filosofia trascendentale di J.G. Fichte, cit., p. 27).

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E qui, allora, questo circolo sarebbe più incombente10. Non posso dimostrare alcuna proposizione della mia filosofia elementare a un altro, se questi non ha esaminato la mia filosofia elementare fino alla fine e non è d’accordo con i suoi risultati. Posso dimostrare la filosofia elementare solo in base a essa medesima. — Pertanto, la filosofia elementare si dimostra vera da sé stessa, dalla sua concordanza con sé stessa. Se l’itinerario che ho effettivamente percorso si può dimostrare per mezzo di concetti, e l’itinerario che si può dimostrare per mezzo di concetti è stato percorso, allora la filosofia elementare è vera in sé stessa, ha una verità interna11. Una verità esterna non ha luogo in essa e una simile verità, in linea di principio, non ha affatto luogo. / Questo è poi anche — ed è da menzionare contro Enesidemo — il vero modo in cui Kant conduce le dimostrazioni. Kant assume inizialmente le sue proposizioni solo come problematiche e deduce la verità interna del suo sistema soltanto dall’unione dei suoi percorsi in un solo punto. — — Alla filosofia elementare appartengono, quindi, due cose: esatta osservazione ed esatta comprensione di questa osservazione. — A proposito del punto 1, che cosa dev’essere osservato? — Osservare è empirico. — Non ci sono anche pure intuizioni intellettuali?12 Le forme della facoltà rappresentativa, delle quali stiamo parlando, sono intuìte in modo puramente intellettuale. — Tuttavia, questa intuizione intellettuale in parte si fonda di nuovo solo su una precedente manifestazione della spontaneità, del pensiero: se non si è 12  L’introduzione della nozione di intuizione intellettuale è, come si sa, particolarmente importante nell’economia del pensiero di Fichte. Qui si deve però notare che il termine è al plurale, e ciò testimonia che l’accezione che Fichte le conferisce è in linea con quella già espressa da Reinhold, per il quale l’intuizione intellettuale si rivolge alle forme della facoltà rappresentativa, determinate prima di ogni rappresentazione (cfr. K.L. Reinhold, Neue Darstellung der Hauptmomente der ElementarPhilosophie, cit., pp. 245-54); in proposito, cfr. anche W. Kabitz, Studien zur Entwicklungsgeschichte cit., p. 62.

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tig gedacht worden, so wird auch die Anschauung unrichtig ausfallen. / Die Spontaneität bringt die Anschauung ihrem Vorhandenseyn, aber nicht ihrer Beschaffenheit nach hervor. Die Spontaneität kann sie also — wenn dies nur wahr ist, nicht alteriren. — Ueberdies müßen die Schritte des Weges, den sie nehmen soll, schon vorher bestimmt seyn. — Die Anschauung beweist den Saz. Jeder Saz wird durch sie, durch ein nach Regeln angestelltes Experiment mit der innern Anschauung bewiesen. — Also a.) es ist eine Anschauung hervorzubringen. b.) diese Anschauung ist nach einer Regel hervorzubringen welche aus vorhergegangenen Anschauungen entwikelt ist. c.) aus die|ser Anschauung ist wieder die Regel zur zwekmäßigen Hervorbringung der nächstfolgenden Anschauung zu entwikeln.a So hängen dem nach die Sätze der Elementar Philosophie zusammen. 1.) Anschauung, auf einen Begriff gebracht, um sie denken zu können. 2.) Daraus abgeleitete Regel für’s folgende Experiment, aufgegebne Frage, die die Natur unsers Geistes beantworten soll. 3.) Anschauung in ihre Formel übersezt, oder auf ihren Begriff gebracht. u.s.w. — Das ist die formelle Gewährleistung [/] jedes vorhergehenden

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 [ohne Vermerk am Rande der Seite senkrecht zum Text] NB. Die ersten u. höchsten Facta selbst gelangen nicht zum Bewußtseyn; das höchste, was zum Bewußtseyn gelangt, ist wohl das Reinholdsche: — die Aufgabe ist nur die, ein Experiment zu machen, woraus zum Bewußtseyn kommen muß, daß sie vorgegangen sind. — Der reflectirende Gang schließt, u. folgert allerdings: aber daraus folgt nicht das Factum, sondern nur die nothwendige Annehmbarkeit deßelben. — / Freilich wären wir eben darum nicht viel weiter, als man vorher war. 13  Il termine «esperimento» ha, per Fichte, un significato metodologico preciso, come rileva Pareyson: «Per Fichte fare un “esperimento” significa porsi nel punto di vista più adeguato per osservare un fatto e trovarne la legge» (L. Pareyson, Fichte cit., pp. 183).

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pensato in maniera esatta, anche l’intuizione risulterà inesatta. / La spontaneità produce l’intuizione secondo il suo esser presente, non secondo la sua costituzione interna. — Se questo è vero, allora la spontaneità non può alterare l’intuizione. — Inoltre, i passi sulla via che essa deve intraprendere, devono essere già determinati in anticipo. — L’intuizione dimostra la proposizione. Ogni proposizione è dimostrata dall’intuizione, per mezzo di un esperimento con l’intuizione interna condotto secondo regole13. — Dunque a) si deve produrre un’intuizione; b) tale intuizione dev’essere prodotta secondo una regola sviluppata a partire da intuizioni precedenti; c) da questa | intuizione si deve, di nuovo, sviluppare la regola per l’adeguata produzione dell’intuizione successivaa. In tal modo le proposizioni della filosofia elementare dipendono l’una dall’altra. 1) Intuizione, portata a concetto, per poterla pensare. 2) Da ciò è ricavata la regola per l’esperimento successivo, questione posta, cui deve dare risposta la natura del nostro spirito. 3) Intuizione tradotta nella sua formula, ovvero ricondotta al suo concetto etc. — Questa è la garanzia formale / di ogni proposizione che precede

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 [senza rinvio, a margine della pagina, verticale rispetto al testo] N.B. I primi e più elevati facta stessi non giungono alla coscienza; il fatto più elevato che giunge alla coscienza è quello di Reinhold14. — Il compito è solo di fare un esperimento, dal quale deve giungere alla coscienza che quei fatti si sono verificati in precedenza. — Il procedimento riflettente certamente deduce e trae conclusioni, ma da ciò non consegue il factum, bensì solo la sua necessaria accettazione. — / È chiaro che con questo non saremmo molto più avanti di quanto eravamo prima. 14 Se

il fatto indicato da Reinhold, il principio della coscienza, è quello più originario che giunge a consapevolezza, la sua conferma non farebbe avanzare di un passo la ricerca, poiché esso mostra di dover dipendere da un altro e più elevato principio, secondo quanto Fichte rileva anche nella Rez. Aenesidemus, p. 46 (103).

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Satzes für den folgenden. — — Hierbei ist nun zu bemerken. a.) ob die Anschauung in ihrer richtigen Formel ausgedrükt sey — doch das könnte nur ein Versehen des Vortrags geben; die Anschauung A. würde den Begriff X. wohl verbeßern. b.) ob die Aufgabe für die folgende Anschauung richtig daraus abgeleitet sey / ob die Erfahrung richtig verstanden worden — u. hier ist es eben wo der Zirkel eintritt. c.) ob dieses Verfahren einer ElementarPhilosophie überhaupt richtig sey. — Gleichfals der Zirkel. — dem nur durch die gezeigte Unmöglichkeit aus ihm herauszugehen, zu begegnen, — u. provisorisch durch gezeigte innere Selbständigkeit des Systems abzuhelfen ist. — Hierdurch wird auch dem Einwurfe, daß etwa in der Zukunft noch neue, in die ElementarPh. gehörige Sätze dürften entdekt werden, abgeholfen. Der vorgeschriebne nothwendige Gang derselben beweißt, daß wir sie alle erschöpft haben; wäre noch einer gewesen, so hätten wir auf sie treffen müßen. Ist noch etwas zur Logik der ElementarPhilosophie gehöriges zu erinnern? — Jeder Ausdruk der gebraucht wird, muß erklärt, u. gezeigt werden, warum er gebraucht wird — warum er in diesem Zusammenhange angewendet werden muß. Das erfordert die Artikulation des Systems, u. befördert seine Eleganz, u. Evidenz. — Doch geht dies schon aus dem obigen hervor. |  Beiläufige Untersuchung. — Alles im Vorstellungsvermögen ist nothwendig; es läßt sich, als gegeben angenommen nicht anders denken. — Läßt sich aber etwa auch noch seine Nothwendigkeit erweisen. Kann man etwa, wie Rhd. wollte, die Kategorien u. die Formen der Sinnlichkeit, Zeit u. Raum demonstriren: — Sinnlichkeit, Verstand, Vft. Erkenntnißvermögen, Begehrungsvermögen — die Nothwen15 

Viene qui anticipata la prova della completezza del sistema della dottrina della scienza, consistente nel fatto che nella sua compagine strutturata non si possano aggiungere proposizioni nuove; infatti, se ciò avvenisse, co-

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per quella che segue. — — In proposito si deve osservare: a) se l’intuizione è espressa nella sua formula esatta — ma ciò potrebbe poi produrre solo un errore nell’esposizione; l’intuizione A correggerebbe certamente il concetto X; b) se il compito per l’intuizione successiva è stato ricavato da essa in modo corretto, / se l’esperienza è stata compresa in modo corretto — ed è proprio qui che entra in scena il circolo; c) se questo procedere della filosofia elementare è poi, in linea di principio, esatto. — Altrettanto il circolo, — nel quale ci si imbatte a causa della mostrata impossibilità di uscirne. — Provvisoriamente si deve porvi rimedio solo mediante l’accennata auto-sussistenza interna del sistema. — Con ciò si risponde anche all’obiezione che forse, in futuro, potrebbero ancora essere scoperte nuove proposizioni appartenenti alla filosofia elementare. Il suo andamento prescritto e necessario, dimostra che abbiamo esaurito tutte le proposizioni e che, se ce ne fosse rimasta ancora una, avremmo dovuto incontrarla15. C’è da ricordare ancora qualcos’altro che appartiene alla logica della filosofia elementare? — Ogni espressione che viene utilizzata dev’essere chiarita e si deve mostrare perché viene utilizzata, — e perché dev’essere utilizzata in quel contesto. Lo richiede l’articolazione del sistema e ne favorisce l’eleganza e l’evidenza, — ma questo consegue già da quanto precede. |  Ricerca incidentale. — Nella facoltà rappresentativa tutto è necessario; essa, considerata come data, non può essere pensata diversamente. — Si può, per caso, dimostrarne anche la necessità? Si può, per caso, come voleva Reinhold, dimostrare le categorie e le forme della sensibilità, spazio e tempo? — Sensibilità, intelletto, ragione come facoltà co-

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stituirebbe la dimostrazione della mancata completezza nella serie delle deduzioni, così come Fichte chiarirà nel § 4 di Ueber den Begriff der Wissenschaftslehre.

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digkeit aller dieser Dinge, demonstriren — oder bestimmter, läßt sich die ganze Philosophie auf ein einziges Faktum aufbauen, oder muß man mehrere zu Hülfe nehmen? — Ist das erstere möglich, so bekommen wir nicht nur ein menschliches, sondern ein abhängiges Vorstellungsvermögen überhaupt[,] nemlich jenen Zirkel abgerechnet, der uns jedoch hier nicht zum Vorwurfe gereicht. — Mit den Formen der Sinnlichkeit dürfte dieses am schwersten halten. Läßt sich nicht dennoch ein Weg denken von der Einheit der Apperception bis zur pr. Gesezgebung der Vft. herauf: u. von ihr wieder zu jener herabzusteigen; welches, das erstere die synthetische, das leztere die analytische Methode wäre. — Könnten diese einander zur Probe dienen? — Wohin kommt das Princip der ästhetischen, u. teleologischen Urtheilskraft? Wird nicht die Entwiklung des Begrifs der Vorstellung, der Anschauung, u.s.f. in 〈meinem〉 Plane vorausgesezt.? Nous verrons. — Kurz, — entweder es gelingt, — oder ich sehe, warum es mir nicht gelang, u. finde den beßern Weg — oder ich sehe ein warum es überhaupt nicht möglich ist. —

16  L’espressione, come si sa, non è proprio felice, dal momento che né uno, né più fatti possono costituire il fondamento della filosofia elementare, come Fichte chiarisce in più occasioni. Il senso da dare al termine è quello cui allude il precedente riferimento ai reinholdiani facta originari dello spirito, e non certo quello corrispondente a Thatsache. 17  Gli esiti qui evocati sono possibilità effettivamente aperte, essendo Fichte in quella laboriosa fase di elaborazione del suo sistema in cui non era ancora sicuro della riuscita. Già nel febbraio del 1793 aveva riconosciuto che il compito che si era prefisso era gravoso e dichiarava che, nel caso non ne fosse uscito vittorioso, ciò sarebbe accaduto contro la sua volontà (cfr. abbozzo di lettera a Reinhard del 20/2/1793, GA, III, 1, pp. 372-73; in proposito cfr. la nota n. 4 dei Curatori, ibid., p. 372). Al dubbio espresso

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noscitiva, facoltà di desiderare: — si può dimostrare la necessità di tutte queste cose? — Oppure, più precisamente, si può costruire l’intera filosofia su un unico fatto, o si deve chiamarne in causa parecchi?16 — Se la prima alternativa è possibile, otteniamo non soltanto una facoltà rappresentativa umana, ma una facoltà rappresentativa dipendente in generale, vale a dire, a prescindere da quel circolo, che però, in tal caso, non ci viene rimproverato. — Ciò sarebbe estremamente difficile da mantenere in relazione alle forme della sensibilità. Nondimeno, non si può pensare una via che salga dall’unità dell’appercezione fino alla legislazione pratica della ragione, e che da questa ridiscenda poi a quella? La prima via incarnerebbe il metodo sintetico, la seconda il metodo analitico. — Metodo sintetico e metodo analitico potrebbero servire da prova l’uno per l’altro? — Che ne sarebbe del principio della facoltà del giudizio estetico e teleologico? Ma nel mio piano non viene presupposto lo sviluppo del concetto di rappresentazione, di intuizione etc.? Nous verrons. — In breve: — o il piano riesce, — oppure vedo perché non mi è riuscito e trovo una via migliore, — oppure ancora, capisco perché quel piano, in linea di principio, non è possibile17. —

in apertura delle EM si contrappone la certezza della realizzabilità del piano, una volta completata la stesura. Non a caso, proprio il 15 gennaio 1794 Fichte scrive a Voigt comunicandogli che, nel procedere nella elaborazione del suo pensiero personale, aveva osservato che la filosofia critica si era di molto avvicinata al sublime obiettivo di costituire una vera e propria scienza e che l’oggetto principale delle sue continue ricerche era quello di verificare «se questo piano si dovesse abbandonare del tutto, o che cosa si dovesse fare per realizzarlo. Per una fortunata circostanza ho scoperto, molto prima di quanto potessi sperare, la via che, secondo me, doveva condurvi. L’ho tentata e posso credere, con la massima verosimiglianza, che è quella giusta» (abbozzo di lettera a Voigt del 15/1/1794, ibid., III, 2, p. 42). Ricordo, en passant, che la data di questo abbozzo coincide con quella della conclusione della stesura delle EM.

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Zur Elementar Philosophie selbst.

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1.) Der erste Saz ist der des „Ich“ — Aber sezt dieser nicht schon den Begriff der Vorstellung voraus? Das Ich wird vorgestellt. — Aber eben so wohl sezt der Saz des Bewußtseyns den des Ich voraus. Allenthalben treffe ich auf einen Zirkel. — Das Bewußtseyn würde gleichfals erklärt werden müßen. — Wie ist | dieser Sache abzuhelfen?a Eine Untersuchung, von der das ganze Schiksal der ElementarPhilosophie fast von vorn herein abhängt. — Setze ich „Anschauung“ so fragt man wieder nach dem Begriffe — den aber bin ich nun freilich nicht schuldig zu geben. — Du fragst was soll ich mir dabei denken? Das wirst Du schon sehen, antworte ich. Geduld. — Jezt ist es noch nicht daran, Dich denken zu machen — sondern ich verlange von meinem Schüler bloß das Anschauen. — 1ster Saz. / „Das Ich ist anschaulich.[“] „Schaue Dein Ich an[“] „Du bist Dir Deines Ich bewußt. [“b] — Bewußt ist gewöhnlicher, als Anschauung, oder anschaulich; ist es darum deutlicher — könnte mir nicht einer eine Schikane darüber machen. — a

 [am Rande der Seite ohne Vermerk] Beßer Thesis Ich bin. d.h. ich bin weil ich bin, u. was ich bin. Ich bin schlechthin durch’s seyn. — Antithesis oder Postulat: Dem Ich ist entgegengesezt das Nicht Ich. — / Diesen Saz muß jeder zugeben. — Gefolgerte Widersprüche, u. daraus hergeleitete Nothwendigkeit der Synthesis. b  [Am Rande der Seite ohne Vermerk] 1stes Postulat. — Man kann seines Ich sich bewußt werden. 18  Il

primo passo, non appena si apre la trattazione della filosofia elementare vera e propria, consiste nel tentativo di istituirne il fondamento, che viene subito individuato nell’Io, presentato però in maniera ancora strettamente collegata con i problemi propri del principio reinholdiano della coscienza.

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Sulla filosofia elementare stessa 1) La prima proposizione è quella dell’”Io”18. — Ma tale proposizione non presuppone già il concetto di rappresentazione? L’Io viene rappresentato, — ma la proposizione della coscienza presuppone altrettanto bene quella dell’Io. Dappertutto mi imbatto in un circolo. — Anche la coscienza dovrebbe essere spiegata. — Come | si può uscire da questa situazione?a Si tratta di una ricerca dalla quale dipende, quasi fin dall’inizio, l’intero destino della filosofia elementare. — Se pongo l’”intuizione”, allora si richiede di nuovo il concetto, — che però non sono certo tenuto a fornire ora. — Mi chiedi: che cosa devo pensarne? Ti rispondo: lo vedrai, abbi pazienza! — Non è ancora il momento di farti pensare, — perché dal mio allievo esigo solo l’intuire. — 1° principio: / “L’Io è suscettibile di intuizione”; “Intuisci il tuo Io”; “Tu sei consapevole del tuo Io” b. — Essere consapevole è più comune di intuizione o di suscettibile di intuizione; per questo motivo è più evidente? — Ma qualcuno non potrebbe farmi difficoltà su questo? —

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a

 [a margine della pagina, senza rinvio] Meglio Tesi: Io sono, cioè: Io sono perché sono, e quel che sono. Io sono puramente e semplicemente mediante l’essere. — Antitesi o postulato: all’Io è opposto il Non-Io. — / Questo principio deve ammetterlo chiunque. — Contraddizioni conseguenti e necessità, che ne deriva, della sintesi19. b  [a margine della pagina, senza rinvio] 1° postulato: — si può divenire consapevoli del proprio Io. 19  Non passa inosservato, in questa nota di Fichte, che la formulazione e l’articolazione tripartita in tesi, antitesi e sintesi sia sorprendentemente vicina alla enunciazione dei princìpi della dottrina della scienza così come vengono presentati nei §§ 1-3 della Grundlage.

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Anmerkung. — Was das Ich sey, d.i. wie es zu denken sey, davon ist hier gar noch nicht die Rede.a Das läßt sich überhaupt dem nicht erklären, der es nicht schon vorher weiß, u. soll nicht erklärt werden.b Wer seines Ich nicht bewußt werden kann, wird ohne Zweifel keinen Anspruch machen zu philosophiren. — Auch das bewußt werden ist hier noch nicht zu erklären, was man nemlich sich dabei zu denken habe. (Es hat immer Verwirrung in der ElementarPhilosophie angerichtet, daß das zu denkende, u. das bloß anzuschauende verwechselt wurde.) Der Saz ist bloß durch Anschauung zu beweisen. Wer durch diese Anschauung sich seines Ich wirklich bewußt wird, der bestätigt sich die Wahrheit | dieses Satzes, wenn er sichc ihn eben auch nicht erklären könnte. — Er heißt ein Heischesaz, eben darum, weil jeder selbst sich ihn durch Anschauung beweisen kann.d Corollar. Unmittelbar ist jeder nur seines Ich sicher; denn nur das kann er anschauen. Wie es mit der Ueberzeugung vom Daseyn äußerer Dinge, u. vermittelst dieser auch äußerer vernünftiger Wesen zugehe, zu zeigen, ist eben der Zwek einer E.Ph. — . Drum ist dieser Saz ein Heischesaz: will je-

a

  [ am Rande der Seite] das soll eben erklärt werden.  [am Rande ohne Vermerk] Categorien 1.) Seyn 2.) Nichtseyn Realität, Negation. Saz des Widerspruchs. — / c  [am Rande] die Möglichkeit deßelben d  [Anm. am Rande] In einer Selbstphilosophie müste er ausgedrükt werden: Ich bin mir meines Ich bewußt. — Soll ich ihn etwa so ausdrüken. b

20  Quel che è in gioco, nell’indicazione dello scopo della filosofia elementare, non è come l’esistenza di cose e di altri soggetti razionali esterni

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Osservazione. — Qui non è affatto in questione che cosa sia l’Io, vale a dire come si debba pensarloa. Non si può e non si deve affatto spiegarlo a chi non lo sappia giàb. Chi non può divenire consapevole del suo Io, certamente non avrà alcuna pretesa di filosofare. — Qui non dev’essere ancora spiegato nemmeno il divenire consapevole, e quindi quel che si deve pensare in proposito. (Lo scambio tra quel che si deve pensare e quel che dev’essere semplicemente intuìto ha sempre prodotto confusione nella filosofia elementare). La proposizione dev’essere dimostrata esclusivamente dall’intuizione. Chi diviene effettivamente consapevole del suo Io mediante questa intuizione, conferma a sé stesso la verità | di questa proposizione, quand’anche non sia in grado di spiegarselac. — Questa proposizione si chiama postulato, proprio perché ognuno può dimostrarla a sé stesso mediante l’intuizioned. Corollario. Ognuno è immediatamente certo solo del suo Io, perché può intuire solo questo. Scopo di una filosofia elementare è proprio quello di mostrare come ciò concordi con la convinzione dell’esistenza di cose esterne e, mediante queste, anche con l’esistenza di enti razionali esterni20 — . Perciò questa proposizione è un postulato: se qualcuno vuole filo-

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a

 [a margine della pagina] questo dev’essere spiegato.  [a margine, senza rinvio] Categorie 1) Essere 2) Non essere Realtà Negazione Principio di non contraddizione. — / c  [a margine] la sua possibilità. d  [annotazione a margine] In una filosofia dell’Io questa proposizione dovrebbe essere espressa così: Io sono consapevole del mio Io. — Devo forse esprimerla così? b

concordi con la certezza immediata che l’Io ha di sé, ma come siano tra loro compatibili tale certezza di sé dell’Io e la convinzione dell’esistenza di cose e enti razionali esterni.

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mand mit uns philosophiren, so wird ihm angemuthet, daß er sich seines Ich durch Anschauung bewußt werde. 2ter Saz. Folgerung. / Um seines Ich sich bewußt zu werden, muß man daßelbe von etwas unterscheiden können, das Nicht-Ich sey. Es muß demnach möglich seyn, sich auch eines Nicht-Ich bewußt zu werden. — / — Erklärung. Es kommt hier „unterscheiden“ vor: damit wird aber keineswegs ein Unterscheiden durch Begriffe, sondern bloß durch die Anschauung verstanden. Eine Anschauung A. — eine andere Nicht-A. Daß das möglich ist, ist durch die Anschauung selbst zu bestätigen. — Ferner wird Nicht-Ich vom Ich auch nicht durch Begriffe, sondern unmittelbar durch die Anschauung unterschieden; wie jeder an sich selbst versuchen kann. — Nicht Ich soll also hier weiter garnichts bedeuten als eine Verneinung des Ich.a Daß man nun um A anzuschauen, ein Nicht-A müße anschauen können, — daß man nothwendig gedrungen werde, es sich so zu denken, daß mithin der Gedankengang des Systems richtig sey — beruht auf dem Satze der Identität. | A. kann

a

 [ohne Vermerk am Rande der Seite neben dem vorstehenden Absatz] Um seines Ich [übergeschrieben «u. seiner Anschauung»] sich bewußt zu werden pp. das läßt sich nicht beweisen: — u. wäre auch entscheidend gegen die ElementarPhilosophie. . Das Ich wird schlechthin, ohne alles [Nicht]Ich angenommen. — Das intelligente Ich aber ist nur möglich durch ein Nicht-Ich. — Das absolute Nicht-Ich (empirische, das wir nur nach der Ideeaßociation aufweisen können) wird nie Ich, u. hängt nicht von uns ab. Mithin hängt unser intelligentes Ich von ihm ab. 21  La certezza che l’Io ha di sé è contrassegnata dall’immediatezza, e per questo è intuizione; per la medesima ragione è un postulato e non un teorema, poiché non può essere dimostrata per via discorsiva. 22  A conferma di quanto appena specificato, Fichte chiarisce qui che l’atto che segna la distinzione tra l’Io e quel che questi non è, non è atto concettuale, eseguito applicando il procedimento discorsivo, ma è anch’es-

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sofare insieme con noi, si pretende da lui che divenga consapevole del suo Io mediante l’intuizione21. 2° principio. Corollario. / Per divenire consapevoli del proprio Io, lo si deve poter distinguere da qualcosa che sia Non-Io. Pertanto, deve essere possibile divenire consapevoli anche di un Non-Io. — / — Spiegazione: qui si presenta il termine “distinguere”; con esso, però, non s’intende affatto un distinguere mediante concetti, bensì soltanto mediante l’intuizione. Un’intuizione è A, — un’altra Non-A. Che questo sia possibile, si deve confermare mediante l’intuizione stessa. — Inoltre, il Non-Io è distinto dall’Io non mediante concetti, bensì immediatamente per mezzo dell’intuizione, come ognuno può sperimentare in sé stesso22. — Qui, dunque, Non-Io deve significare nient’altro che una negazione dell’Ioa. Orbene, il fatto che per intuire A si debba poter intuire un Non-A, — il fatto che si sia costretti necessariamente a pensarlo affinché il collegamento tra i pensieri del sistema sia esatto, — si basa sul principio di identità. | A non può es-

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a

 [senza rinvio, a margine della pagina, accanto al capoverso precedente] Non si può dimostrare come si diviene consapevoli del proprio Io [scritto sopra: «e della propria intuizione»] etc. — e peraltro ciò sarebbe decisamente contro la filosofia elementare. L’Io viene assunto puramente e semplicemente, senza alcun [Non-] Io. — L’Io intelligente è però possibile solo mediante un Non-Io. — L’assoluto Non-Io (empirico, che noi possiamo indicare solo secondo l’associazione delle idee), non diviene mai Io e non dipende da noi. Di conseguenza, il nostro Io intelligente dipende da esso23. so un atto immediato che, per questo suo carattere, chiama in causa esclusivamente l’intuizione. 23  Anche questa aggiunta dovrebbe essere stata introdotta solo successivamente da Fichte, in seguito alla presa di consapevolezza della mancanza di auto-sussistenza da parte dell’Io intelligente, che rinvia necessariamente al Non-Io. Tale evidenza viene raggiunta da Fichte a conclusione della Prima parte delle EM, e provocherà un notevole cambiamento di direzione.

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nicht zugleich Nicht-A seyn. — welcher Saz hier durch die Anschauung gegeben wird.a — — Ja wohl, wenn Du Dir schon ein Nicht-A, vorstellst, so kann es allerdings nicht A seyn: aber Du behauptest, daß zurb bloßen Vorstellung A. — nothwendig ein Nicht A. gehöre. — Nemlich zur Möglichkeit sich die Vorstellung A zu denken — wie willst Du das beweisen — Der Mittelsaz ist der — Nichts kann zum Bewußtseyn kommen (angeschaut werden) wenn nicht zugleich etwas anderes verschiednes angeschaut wird. Dieser ist zu erweisen. (Da würde Dir jener viel spätere Saz von der Nothwendigkeit der Mannigfaltigkeit mehrerer Anschauungen gute Dienste thun[,] aber der wird erst durch diesen bewiesen.) Mein inneres Gefühl ist dafür, daß der zu erweisende Saz wohl wahr sey; aber wie in aller Welt ist er zu erweisen. — Der Saz des Widerspruchs ist bloß analytisch. — Mein Verfahren ist synthetisch — Also das dritte: wo könnte es seyn, da ich erst 2. Sätze habe. / Rhd. macht sich’s bequemer; beziehen u. unterscheiden beweis’t er durch einander. Der menschl. Geist kann unterscheiden; ist Factum, u.

a

 [Anm. am Rande] Wohl. Aber A kann seyn, ohne Nicht-A. — –A ist nicht die Bedingung von A. Denn das widerspricht geradezu dem ersten Satze. b  [vor bloßen Vorstellung am Anfang der Zeile] Möglichkeit der — 24  Fichte si riferisce qui al principio reinholdiano della coscienza, la cui formulazione è la seguente: «Nella coscienza la rappresentazione viene, dal soggetto, distinta dal soggetto e dall’oggetto e riferita a entrambi» (K.L. Reinhold, Beyträge cit., § I, p. 167). Nel capitolo dei Beyträge dal titolo: Ueber die Möglichkeit der Philosophie als strenge Wissenschaft, Reinhold sostiene in maniera decisa la necessità, per la proposizione che ambisca a fungere da principio per la filosofia come scienza rigorosa, di non ricorrere ad altre proposizioni per essere determinata, così come non deve ricevere il suo significato da altre. Egli ritiene queste condizioni pienamente soddisfatte solo dal principio da lui stabilito e, nella spiegazione che fornisce, fa emergere

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sere nello stesso tempo Non-A; — principio, questo, che qui è dato dall’intuizionea. — — Ovviamente, se ti rappresenti un Non-A, questo non può certo essere A. Tu affermi, però, che per lab semplice rappresentazione di A — sia necessario un Non-A, — e precisamente, che sia necessario per la possibilità di pensare la rappresentazione A. — Come vuoi dimostrarlo? — La proposizione intermedia è questa: — nulla può giungere alla coscienza (nulla può essere intuìto) se, insieme, non è intuìto qualcosa di diverso. Questa proposizione è da dimostrare. (Quella proposizione, che entrerà in gioco molto più avanti e che concerne la necessità della diversità di molteplici intuizioni, ti sarebbe certo d’aiuto qui, ma essa sarà dimostrata solo mediante l’attuale). Il mio intimo sentimento è certamente a favore della verità della proposizione che dev’essere dimostrata, ma come diamine dimostrarla! — Il principio di non contraddizione è meramente analitico, — il mio procedimento è sintetico. — Dunque, si deve far ricorso a una terza alternativa; ma dove potrebbe essere, visto che dispongo solo di due principi? / Reinhold si rende il compito più agevole, e dimostra il porre in relazione e il distinguere l’uno mediante l’altro24. Lo spirito umano può distinguere, è un factum, da cui a

 [annotazione a margine] Certamente. A, però, può essere senza Non-A. — –A non è condizione di A, perché questo contraddice apertamente il primo principio. b  [prima di semplice rappresentazione all’inizio della riga] Possibilità della — anche il ruolo determinante del riferire e del distinguere (beziehen e unterscheiden) all’interno di quel principio. Enesidemo-Schulze ritiene che proprio la presenza di quelle due attività sia la dimostrazione della non originarietà del fondamento individuato da Reinhold, «dal momento che l’operazione del distinguere e del riferire può aver luogo solo quando è presente qualcosa che può essere distinto da altro e riferito ad altro, e un distinguere, nel quale non sia presente nulla che possa essere distinto, è del tutto im-

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daher der Saz des Widerspruchs. — Aber beweise daß er unterscheiden muß.a / Das müste wirklich durch die Dazwischenkunft eines logischen Satzes geschehen. — Entwikle ich etwa den Saz der Identität gleich aus der Anschauung des Ich. — Aber auch da würde er nicht weiter führen? Der zweite Saz kann nicht gefolgert werden, sondern er muß als Grundsaz vorausgeschikt werden, wie auch schon daraus hervorgeht, daß erst beide vereinigt | den ersten logischen Saz, den der Identität geben. — Dieser ist der einzige bloß formale, wie er es aus Thatsachen seyn muste. — Jetzt aber noch die Frage 1.) warum kann ich mir doch schlechterdings kein A. ohne ein Nicht A vorstellen. 2.) sollen diese beiden Sätze nur einen, oder sollen sie zwei ausmachen. — Im erstern Falle bekäme ich das unterscheiden hinein, welches A. in Anspruch nimmt. — Kann ich sagen: unterscheiden geschieht bloß durch die Anschauung; beziehen durch einen Begrif. — Beziehen wäre demnach die erste Vorstellung; wie sie denn auch seyn müste, da sie den ersten, auch

a

 [am Rande ohne Vermerk] Gesezt, ich kann ihn nicht beweisen, so postulire ich ihn auch; beweisen kann ich nicht eher, bis ein logischer Grundsaz eintritt, aus welchem bewiesen werde. Nun ist offenbar der erstere der Saz der Identität... pensabile» (G.E. Schulze, Aenesidemus oder über die Fundamente der von dem Hrn. Prof. Reinhold in Jena gelieferten Elementarphilosophie, cit,, p. 65) (164). Anche il fatto che Reinhold non fornisca da nessuna parte il significato preciso e univoco di quei termini è oggetto di critica da parte di Enesidemo (cfr., in partic., ibid., pp. 48-49; 52-53 n.) (149-50; 152 n.), critica che Fichte riprende, chiedendosi a sua volta: «Ma come sarebbe se proprio l’indeterminatezza e l’indeterminabilità di tali concetti rinviassero alla ricerca di un principio superiore, ad una validità reale del principio di identità e di opposizione, e se i concetti del distinguere e del riferire si potessero determinare solo mediante quelli di identità e di contrario?» (Rez. Aenesidemus, p. 44) (101-02). Ecco allora che l’inadeguatezza della proposta di Reinhold, mentre conduce Enesidemo a trarre conclusioni scettiche, assume un ben diverso significato per Fichte, che si sente impegnato nella ricerca di un fondamento capace di autosostenersi. Sulla inadeguatezza di questi due concet-

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deriva il principio di non contraddizione. — Ma dimostrami che lo spirito umano debba necessariamente distinguerea. / Ciò dovrebbe effettivamente accadere con l’intervento di un principio logico. — Sviluppo forse il principio di identità immediatamente a partire dall’intuizione dell’Io? — Ma, anche in questo caso, tale principio non condurrebbe più lontano? Il secondo principio non può essere dedotto, ma dev’essere presupposto come principio fondamentale, così come risulta anche dal fatto che solo dopo che entrambi sono unificati, | danno  il primo principio logico, quello di identità 25. — Questo è l’unico principio puramente formale, così come esso doveva essere partendo da fatti. — Ma ora resta ancora la questione: 1) perché non posso assolutamente rappresentarmi alcun A senza un Non-A? 2) Questi due princìpi devono costituirne uno solo, oppure due? — Nel primo caso, riuscirei a includervi il distinguere, ciò che esige Enesidemo. — Posso dire: il distinguere ha luogo semplicemente mediante l’intuizione, il porre in relazione mediante un concetto? — Porre in relazione sarebbe allora la prima rappresentazione, come essa deve anche essere, dal momento

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a

 [a margine, senza rinvio] Se si ammette che non posso dimostrarlo, allora postulo anche questo. Io non posso dimostrare prima che intervenga un principio logico, in base al quale si dimostri. Ora, manifestamente, il primo principio è quello di identità… ti Fichte si era espresso nel colloquio con Baggesen del 7 dicembre 1793, da questi annotato nel diario: «Il principio della coscienza di Reinhold non [è] il primo e non [è] determinato. Distinguere non è un concetto originario. – che significa rappresentare? Riferito è ancora più indeterminato (Fichte im Gespräch, cit., I, pp. 67-68). 25  Che il secondo principio non possa essere dedotto dal primo è ribadito a conclusione del capoverso successivo e sarà confermato in modo deciso nella Grundlage, dove viene ugualmente respinta l’idea che il secondo principio possa essere ricavato dal primo, poiché «la forma dell’opporre è così poco compresa nella forma del porre, che le è anzi piuttosto opposta» (Grundlage, p. 265) (82).

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materialen Saz begründen soll. — Aber laße ich mich nicht etwa durch mein System schon in dem Zirkel herumführen, u. aus Liebhaberei dazu verleiten. — Desto strenger muß ich prüfen. — — Beide Anschauungen, die des Ich, u. die des Nicht-Ich scheinen gleich nothwendig; keine sezt die andere voraus, keine läßt sich aus der andern beweisen. Um ein Ich zu denken muß ich mir nothwendig ein Nicht-Ich denken — Dies ist also die erste nothwendige Synthesis. Das erste subjective was wir antreffen, das uns gleich zu Anfange auf das Charakteristische endlicher Geister; in unsern Zirkel verweis’t, den wir nicht überschreiten können. —Aber K. will ja, scheint es, aus der Nothwendigkeit das Ich zu denken, die Nothwendigkeit des Nicht-Ich beweisen. — Das denn nun wohl nicht. — Das wäre demnach jene Kantische Voraussetzung der Erfahrung, die ihr mir dann wohl würdet stehen laßen. — Beide Nothwendigkeiten sind kein Schluß sondern sie sind unmittelbar sicher. Der Saz könnte so heißen. Wir werden uns eines Ich, u. eines davon unterschiednen — dieses entgegengesezten Nicht-Ich bewußt. — u. das wäre ein nicht zu läugnender Grundsaz. 1. Saz „Im Bewußtseyn wird das Ich einem Nicht-Ich entgegengesezt. — “. 1.) alle Unterscheidung ist nur durch Gegensaz möglich 2.) Welches von den beiden entgegengesezten das Ich, welches das Nichtich sey, giebt die Anschauung: — Aber wie? Das Ich wird ursprünglich thätig, substanzialisch — das Nicht Ich leidend betrachtet. Grundsaz der Identität, der ursprünglich hieraus entsteht, u. daher der höchste ist. Was Ich, was Nicht-Ich sey, giebt die Anschauung; was entgegengesezt heiße | giebt ursprünglich gleichfals sie, — u. sie wird in jenen Saz der Identität übersezt. Der folgende 2te Saz nun muß aus dem Satze des Widerspruchs sich beweisen laßen. 2. Saz. — Wie können entgegengesezte in Einem verei-

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che deve fondare il primo principio, che è anche materiale. — Ma per caso, non mi faccio prendere già nel circolo dal mio sistema, e non vi sono indotto da dilettantismo? — Tanto più rigorosamente devo procedere nell’esame! — — Entrambe le intuizioni, quella dell’Io e quella del Non-Io, sembrano necessarie allo stesso modo, nessuna presuppone l’altra, nessuna si può dimostrare a partire dall’altra. Per poter pensare un Io, devo necessariamente pensare un Non-Io. — Questa è, dunque, la prima sintesi necessaria, il primo soggettivo che incontriamo, che ci rinvia, fin dall’inizio, a ciò che è caratteristico degli spiriti finiti, ci ricaccia nel nostro circolo, che non possiamo oltrepassare. — Ma Kant vuole dimostrare, sembra, la necessità del Non-io a partire dalla necessità di pensare l’Io. — Questo, però, non è possibile. — Sarebbe quindi quella presupposizione kantiana dell’esperienza che mi concedereste senz’altro. — Entrambe quelle necessità non sono il risultato di un ragionamento, ma sono immediatamente certe. Il principio potrebbe suonare così: Noi diveniamo consapevoli di un Io e di un Non-Io da esso distinto, — diveniamo consapevoli di questo opposto NonIo, — e questo sarebbe un principio innegabile. 1° principio: “Nella coscienza l’Io viene opposto a un Non-Io — ”. 1) Ogni distinzione è possibile solo mediante opposizione. 2) Quale dei due opposti sia l’Io e quale il Non-Io, è dato dall’intuizione. — — Ma in che modo? L’Io è considerato originariamente attivo, sostanziale — il NonIo passivo. Il principio di identità, che nasce originariamente da qui, è perciò il principio supremo. Quel che è l’Io e quel che è il Non-Io è dato dall’intuizione. Che cosa significhi opposto, |  è dato originariamente anche dall’intuizione, — ed essa è tradotta in quel principio d’identità. Il successivo secondo principio si deve poter dimostrare in base al principio di non contraddizione. 2° principio: — Come possono, gli opposti, essere uniti in

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nigt werden? —Das ist die Frage, die jener Saz aufgiebt. — —a Ursprünglich haben wir nichts als Identität, u. Gegensaz[.] Diese müßen hier angewendet werden. — 2. Saz. Entgegengesezte Dinge können nicht in Einem vereinigt werden, ohne durch ein von beiden verschiednes drittes, welches theils mit dem einen übereinkomme, u. dem andern entgegengesezt sey, theils mit dem andern übereinkomme, u. dem einen entgegengesezt sey. —. Erklärung. — Hier kommt das Wort vereinigen: auch übereinkommen. — was heißt das: — Identität, — diese wäre erklärt genug. — also vereinigen heißt zwischen A u. B. ein drittes C. hervorbringen, das beiden gleich sey. — — Identität, u. Gegensaz sind nun erklärt genug. — Beweiß. A. ist nicht A. u. nicht A entgegengesezt .. A. u. Nicht-A. sollen identisch seyn. welches sich widerspricht. Es muß demnach ein drittes C. angenommen werden, welches identisch sey mit A. u. auch mit Nicht A. Ist C. gleich A. u. gleich Nicht-A so müßen auch A, u. nicht-A. sich gleich seyn, welches sich widerspricht. C ist gleich C. — Mithin kann nur Etwas in A: u. etwas in Nicht-A C. gleich seyn. — C. muß also etwas nicht in A. oder nicht A. sondern etwas außer ihnen seyn, das sich auf beide anwenden läßt..

a

 [am Rande ohne Vermerk] — Es muß erst gezeigt werden, daß sie vereinigt werden sollen; u. es fällt in der theoretischen Philosophie 〈garnicht ein〉; das Ich mit dem Nicht-Ich zu vereinigen. Das geschieht ja nur, in sofern das Ich, ein vorstellendes u. nicht ein absolut existirendes ist.

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un unico termine? – Questo è il problema che solleva quel principio. — —a Originariamente non abbiamo che l’identità e l’opposizione. Queste devono essere applicate qui. — 2° principio: cose opposte non possono essere unificate in un unico termine se non per mezzo di una terza cosa, diversa da entrambe, che in parte concordi con l’una e sia opposta all’altra, in parte concordi con l’altra e sia opposta alla prima. — Spiegazione. — Qui compaiono il termine unire e anche il termine concordare. — Che significa questo? — Identità? — Questa sarebbe spiegata adeguatamente. — Dunque, unire significa: far emergere tra A e B un terzo termine C, che sia uguale a entrambi. — — Identità e opposizione sono allora spiegate adeguatamente. — Dimostrazione: A non è A e non è opposto ad A. A e Non-A devono essere identici, ciò che si contraddice. Si deve pertanto ammettere un terzo termine C, che sia identico ad A e anche a Non-A. Se C è uguale ad A e a Non-A, allora anche A e NonA devono essere uguali, ciò che si contraddice. C è uguale a C. — Di conseguenza, solo qualcosa in A e qualcosa in Non-A possono essere uguali. — C non dev’essere, dunque, qualcosa in A o in NonA, ma qualcosa al di fuori di essi, che si può applicare a entrambi. a  [a margine, senza rinvio] — Si deve dapprima mostrare che essi [scil.: Io e Non-Io] devono essere unificati, e tale unificazione non rientra affatto nella filosofia teoretica. Unificare l’Io con il Non-Io? Ciò accade solo in quanto l’Io è un Io rappresentante e non un Io esistente assolutamente26. 26  È verosimile che anche questa osservazione sia stata inserita da Fichte successivamente, giacché anch’essa chiama in causa l’insufficienza dell’Io teoretico a fondare l’intero sistema sulla base del superamento dell’opposizione Io-Non-Io.

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A = A. Nicht A = Nicht. A. A. entgegengesezt. Nicht A. |  A = Nicht.A. in C. — Was ist C.a nicht entgegengesezt A. nicht entgegengesezt Nicht A. — aber auch nicht A. noch nicht A. — also ein nicht entgegengeseztes, sondern verschiednes. — Wie unterscheidet sich ursprünglich verschieden von entgegengesezt. / Wird vielleicht hier erst Verschiedenheit gegeben. richtig. Verschieden ist nicht identisch, u. nicht entgegengesezt. — insofern es nicht entgegengesezt ist, muß es identisch, u. in sofern es nicht identisch[,] muß es entgegengesezt seyn. — Das ist die einzig mögliche ursprüngliche Definition; sie ist nur negativ. Es ist noch nichts gegeben, als identisch, u. entgegengesezt, u. daraus muß definirt werden, u. das giebt vor’s erste nur eine negative Definition. — — Mithin C = C. (C ist Einheit.) — In C A = NichtA. — gäbe den materiellenb Saz der Synthesis des Verschiednen zur synthetischen Einheit. — Wirfst Du etwa zwei Dinge unter einander. — — : Was ist. C. — Was muß in C. A. u. Nicht-A seyn. — 1.) C = C . C. nicht A. C. nicht Nicht-A., das heißt: C. verschieden von A, u. Nicht-A. —c Dieser Saz erklärt sich durch sich selbst, u. durch den vorhergehenden der Identität. —

a

 [am Rande ohne Vermerk] Das Bewußtseyn ist nicht = C. — sondern im Bewußtseyn muß auch noch ein C. seyn) b   [am Rande] der jenen des Widerspruchs zum formellen 〈brä[u]chte〉 — u. vermittelst der Verschiedenheit — eine Ver-

bindung der Identität, u. des Gegensatzes herauskäme. c

 [am Rande ohne Vermerk] Grundsaz der Verschiedenheit

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A = A. Non-A = Non-A. A è opposto a Non-A. |  A = Non.A in C. — Che cos’è C?a 27. C non è opposto né ad A né a Non-A. — Ma non è neanche A, non ancora A. — C, dunque, non è qualcosa di opposto, ma qualcosa di differente. — Come si distingue originariamente differente da opposto? / È data forse qui per la prima volta la differenza? Esatto. Differente non è né identico, né opposto. — In quanto esso non è opposto, dev’essere identico, e in quanto non è identico, dev’essere opposto. — Questa è l’unica possibile definizione originaria, che è solo negativa. Non è ancora dato nulla, se non l’identico e l’opposto, e a partire da essi deve essere formata la definizione. Ciò produce, in un primo momento, una definizione solo negativa. — — Quindi, C = C (C è unità). — In C, A = Non-A — costituirebbe il principio materialeb della sintesi del differente in vista dell’unità sintetica. —

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Considera insieme due cose: — — Che cosa è C? — Che cosa devono essere, in C, A e Non-A? — 1) C = C. C non è A e non è Non-A, vale a dire: C è differente da A e da Non-A. — c Questa proposizione si chiarisce da sé stessa e mediante il precedente principio di identità. — a

 [a margine, senza rinvio] La coscienza non è = C, — ma nella coscienza deve esserci anche un C. b  [a margine] [scil.: Principio materiale] che necessiterebbe del principio di non contraddizione in vista di quello formale. — Mediante la differenza, — emergerebbe un legame dell’identità e dell’opposizione. c  [a margine, senza rinvio] Principio della differenza. 27  La

risposta a questa domanda, che Fichte fornirà tra qualche pagina (cfr. p. 34, n. a) e che può forse essere utile anticipare, è che con C è designata la rappresentazione.

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Das würde sich widersprechen, wenn nicht noch ein drittes, nemlich Verschiedenheit / durch Zusammensetzung der Identität, u. des Gegensatzes entstanden möglich wäre. — In der Anschauung zu construiren. In C A = Nicht A.a |  A entgegengesezt NichtA. — Nicht A entgegengesezt A. A = NichtA.b — welches sich widerspricht. — mithin als Hülfslinie werde angenommen. C. In C. A = Nicht A. — Mithin pro primo. C. verschieden von A. u. Nicht.A. — aber weiter vermittelst der Verschiedenheit = A = NichtA. — aber wie? (hier liegt auch der Punkt zur Aufgabe des dritten §. (welcher wohl die Relation enthalten möchte.) Anfangs nur durch Worte. Ve r s c h i e d e n heißt nicht entgegengesezt, aber auch nicht identisch, mithin identisch, insofern es nicht entgegengesezt ist, u. entgegengesezt, insofern es nicht identisch ist. / denn wir haben ursprünglich nichts, als diese beiden Begriffe, u. diese können wir nur durch Negation, u. Affirmation variieren. A = Nicht A. in einem Verschiednen das A nicht entgegengesezt aber auch nicht identisch sey. Wie verhält sich A zu C. — A ist C. nicht gleich aber auch nicht entgegengesezt. A ist demnach C. identisch, u. auch nicht identisch, entgegengesezt, u. auch nicht entgegengesezt. Nicht-A ist C. identisch, u. nicht identisch, entgegengesezt, u. nicht entgegengesezt. Nun kann A — mit C. nicht identisch seyn, insofern Nicht A es ist (sonst wäre es insofern auch Nicht A identisch; u. so umgekehrt.) also / woher eine Identität nehmen. — Mithin kann die Identität weder in A. noch Nicht.A. — sondern sie muß in einem dritten liegen zwischen A u. C. was von beiden bloß verschieden, u. in einem dritten zwischen C. u. Nicht.A. was auch von beiden bloß verschieden, nicht a

 [am Rande ohne Vermerk] A entgegengesezt Nicht=A  [Vermerkzeichen nur im Text; am Rande] (laut des §.1. gegebnen Factum. — ) Dieser Punkt muß noch §. 2. in’s Reine kommen. — b

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Ciò sarebbe contraddittorio, se non fosse possibile ancora un terzo termine, vale a dire la differenza, / sorto dall’unificazione dell’identità e dell’opposizione. — Questo si deve costrui­ re nell’intuizione. In C, A = Non-Aa. |  A è opposto a Non-A. — Non-A è opposto ad A. A = NonAb, — ciò che si contraddice. — Di conseguenza, in via subordinata, si ammetta C. In C, A = Non-A — e perciò, innanzitutto: C è differente da A e da Non.A; — ma, oltre a questo, mediante la differenza, è = A e = Non-A. — Ma com’è possibile? (Qui è anche il punto che compete al terzo § (che potrebbe contenere la relazione). Ma inizialmente lo esponiamo solo a parole. D i f f e r e n t e non significa opposto, ma nemmeno identico; perciò il differente è identico in quanto non è opposto, ed è opposto in quanto non è identico. / In effetti, originariamente non disponiamo che di questi due concetti, e possiamo variarli solo mediante la negazione e l’affermazione. A = Non-A in qualcosa di differente che sia non opposto, ma nemmeno identico ad A. Come si rapporta A a C? — A non è uguale a C, ma nemmeno opposto. Pertanto, A è identico e non identico a C, opposto e anche non opposto. NonA è identico e anche non identico a C, opposto e non opposto. Ora, A — non può essere identico a C nella misura in cui lo è Non-A (altrimenti, in tale misura, A sarebbe identico anche a Non-A e viceversa). Dunque, / da dove prendiamo l’identità? — Di conseguenza, l’identità non può essere né in A, né in Non.A, — ma essa dev’essere in un terzo termine tra A e C, che sia solo differente da entrambi, e in un terzo termine tra C e Non.A, che sia anch’esso solo differente da en-

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a

 [a margine, senza rinvio] A è opposto a Non-A.  [segno di rinvio solo nel testo; a margine] (Conformemente al factum fornito nel § 1—). Questo punto deve ancora essere chiarito nel § 2. — b

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aber ihnen entgegengesezt sey. — Was mit beiden identisch, u. doch nicht identisch. — entgegengesezt, u. doch nicht entgegengesezt sey. — Wie könnte dies nun seyn? — — Mit Buchstaben. A = Nicht A in C. — C = C. C verschieden von A. C. verschieden von Nicht=A. mithin C = A u. C entgegengesezt A. C = NichtA C. entgegengesezt Nicht=A. Nun aber kann C nicht seyn = A insofern es = Nicht A ist, u. umgekehrt[;] denn dann wäre auch insofern A = Nicht A. welches sich widerspricht. — Mithin assumatur ein Hülfs x. — / |  x = x[.] x = C u. entgegengesezt C. x = A u. entgegengesezt A. x = Nicht A u. entgegengesezt Nicht-A. — Nun sey x = C. insofern es = A ist. u. insofern entgegengesezt Nicht=A, u. x sey auch = C. insofern es = NichtA ist, u. insofern entgegengesezt A. Nun ist x = x. mithin durch x in C. A = NichtA. Wenn nun x nicht widersprechen soll x. was muß x seyn? — / — Mit Worten ausgedrükt. Man nehme ein drittes an; dieses dritte sey identisch, u. entgegengesezt d.i. verschieden von der Vorstellung; es sey identisch u. entgegengesezt mit dem Ich; es sey identisch, u. entgegengesezt mit dem Nicht=Ich. — Es sey identisch mit der Vorstellung, insofern es identisch mit dem Ich ist (u. insofern dem NichtIch entgegengesezt.) es sey identisch mit der Vorstellung, insofern es identisch dem NichtIch / u. insofern dem Ich entgegengesezt. — soll dies möglich seyn; so muß es sich selbst entgegengesezt seyn x = x   x entgegengesezt x. x ist sich selbst gleich, insofern es sich selbst entgegengesezt ist. In der Entgegensetzung besteht seine Gleichheit mit sich selbst. Was ist dies nun 〈für uns〉 X ist sich gleich, insofern sich’s entgegengesezt ist. — (Das giebt freilich die Kategorie der Wechselwirkung.) Vereinigung, Identität der Gegensetzung. — wie könnte die gedacht werden. — Vielmehr x. vereinigt A. u. B. durch Ge-

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trambi, ma non opposto ad essi — che sia identico e pure non identico a entrambi — opposto e pure non opposto — com’è possibile questo? — — Con le lettere: A = Non-A in C. — C = C. C è differente da A. C è differente da Non-A. Di conseguenza, C = A e C è opposto ad A. C = Non-A. C è opposto a Non-A. Ora, però, C non può essere = A, in quanto esso = NonA, e viceversa, perché allora A sarebbe anche = Non-A, ciò che si contraddice. — Perciò facciamo ricorso a un termine x. — / |  x = x. x = C ed è opposto a C. x = A ed è opposto ad A. x = Non-A ed è opposto a Non-A. — Ora, C = x in quanto esso è = A e in quanto è opposto a Non-A; e x è anche = C in quanto esso è = Non-A e in quanto è opposto ad A. Ora, x = x e quindi, per mezzo di x in C, A = Non-A. Se ora x non deve contraddire x, che cosa dev’essere x? —/— Espresso a parole: si prenda un terzo termine, che sia identico e opposto, vale a dire differente dalla rappresentazione. Esso sia identico e opposto all’Io e sia identico e opposto al Non-Io. — Sia identico alla rappresentazione in quanto è identico all’Io (e in quanto opposto al Non-Io); sia identico alla rappresentazione in quanto è identico al Non-Io / e in quanto opposto all’Io. — Se questo dev’essere possibile, allora esso deve essere opposto a sé stesso. x = x   x è opposto a x. x è uguale a sé stesso in quanto è opposto a sé stesso. La sua uguaglianza con sé stesso consiste nell’opposizione. Che cos’è, allora, per noi? X è uguale a sé in quanto è opposto a sé. — (Questo dà, manifestamente, la categoria dell’azione reciproca). — Come si può pensare l’unificazione, l’identità dell’opposizione? — Al contrario, x unifica A e B mediante l’opposizione. x ren-

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gensaz. x. identisirt mit sich A. indem es sich A entgegensezt. — A sey Ursache von x. so ist x. Wirkung u. insofern im Gegensaze damit x. — es ist aber zugleich in dem Begriffe der Kausalität vereinigt. — Wohl, wenn man dies schon weiß: aber es zu deduciren, ohne es zu wißen — Substanz u. Accidens sind sich auch gleich durch Gegensatz, Kausalität, u. Dependenz auch. — Wechselwirkung in sich selbst / u. diese möchte es wohl seyn. — — aber soll denn Kausalität, u. Dependenz erst aus Wechselwirkung deducirt werden: es scheint allerdings so — Aber wie soll ich nun aus diesem wunderbaren x. die Wechselwirkung deduciren. Die Form der Zeit ist dazu entbehrlich. —a Werde einmal zur Probe angenommen, x. sey der Begrif der Causalität, u. nun siehe wie du deducirst. x. ist der Vorstellung gleich insofern es dem Ich gleich | ist (durch Kausalitätsverbindung) u. insofern dem NichtIch entgegengesezt. — Es ist der Vorstellung gleich, in sofern es dem NichtIch gleich ist, u. insofern dem Ich entgegengesezt. — Durch daßelbe wird aber auch die Vorstellung dem Ich entgegengesezt, insofern sie ihm gleich ist / sie ist Ursache von der Wirkung in dem Begriffe der Kausalität — u. die Vorstellung dem NichtIch entgegengesezt, insofern sie ihm gleich ist / aus dem obigen Grunde; u. darum ist Ich, u. NichtIch in C. gleich, — als wirkende Ursache. (die Beziehung.) aber um zu finden, daß sie auf’s Ich als Substanz u. auf’s NichtIch bloß als Ursache bezogen werde, wie wird das nun herauskommen. — Ueberhaupt wird denn nun nur wirklich das Subjekt, als bloße Ursache der Vorstellung, oder wird es ursprünglich, als Substanz derselben betrachtet.? u. hat man hier nicht überhaupt auf die Kategorie der Relation auszugea

 [am Rande ohne Vermerk] Dann wird auch weiter abzusondern seyn, was gedacht, u. was angeschaut wird: der Gedanke wird in einer Anschauung zu construiren seyn. — — Zu construiren sind die Sätze alle zusammen. wenn C. Vorstellung. — x. Beziehung genannt werden wird.—

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de A identico a sé, opponendolo a sé. — Sia A causa di x. Allora x è effetto e, in quanto tale, è in opposizione ad A. x — è, però, contemporaneamente unito ad esso nel concetto di causalità. — Certo, questo è chiaro quando già si sa, ma si può dedurlo senza saperlo? — Anche sostanza e accidente sono uguali tra loro mediante l’opposizione, così come causalità e dipendenza. — L’azione reciproca è opposizione in sé stessa / e può ben esserlo. — — Ma causalità e dipendenza devono originariamente essere dedotte dall’azione reciproca? Almeno così pare. — Ma come faccio a dedurre l’azione reciproca da questo miracoloso x? A tal fine, si può fare a meno della forma del tempo? —a Poniamo, per prova, che x designi il concetto di causalità, e ora osserva come deduci. x è uguale alla rappresentazione in quanto è uguale all’Io | (per il nesso di causalità), ed è opposto al Non-Io. — È uguale alla rappresentazione in quanto è uguale al Non-Io e, in quanto tale, è opposto all’Io. — Per mezzo del medesimo x anche la rappresentazione viene però opposta all’Io, in quanto essa gli è uguale. / Essa è causa dell’effetto nel concetto della causalità — e la rappresentazione è opposta al Non-Io in quanto è uguale ad esso / per la ragione indicata sopra. Pertanto, Io e Non-Io sono uguali in C ­— quale causa efficiente (la relazione). Ma come si riuscirà a trovare che la rappresentazione è riferita all’Io come sostanza e al Non-Io semplicemente come causa? — In generale, il soggetto è ora considerato effettivamente solo come semplice causa della rappresentazione o è considerato originariamente come sua sostanza? E non si deve qui, in generale, passare alla categoria della relazione, — che comun-

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a

 [a margine, senza rinvio] Si deve continuare a separare quel che è pensato da quel che è intuìto: il pensiero dev’essere costruito in un’intuizione. — — Per costruire, si devono connettere tutte le proposizioni. Se C è chiamato rappresentazione, — x sarà chiamato relazione. —

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hen. — die doch ohne Zweifel das Ursprüngliche der 3. untergeordneten Kategorien ist. — Also sie wäre die erste auf die wir stießen. — Sie würde zugleich demonstrirt. — Die Anschauung wäre nur erst möglich; nachdem wir am Subjecte Substantialität, am Objecte Kausalität, u. an der Vorstellung Wechselwirkung demonstrirt hätten. — So wären diese 3. Punkte — Ein §. — Welche erhabne Aussichten! — §. 2.) Also frisch an die Arbeit, u. von forne angefangen.

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Die Aufgabe A = Nicht A in C. laut Postulat des ersten §. —a Wie muß dem Satze des Widerspruchs nach, den einzigen, den wir haben, C. seyn? — Diese Aufgabe ist zu finden, u. durch sie ein neuer Saz. C = C. C = A. C = NichtA. woraus folgt A = NichtA. — was sich laut den obigen widerspricht. C entgegengesezt A, entgegengesezt NichtA . Was der Voraussetzung widerspricht. Mithin C. verschieden von. A. u. verschieden von NichtA. . |  C = C. der so ausgedrükt wird. C = A u. entgegengesezt A. C = Nicht-A u. entgegengesezt Nicht A.

§. 3. C = C. C entgegengesezt A u. = A. C. entgegengesezt Nicht A — u. = Nicht-A. Nun kann nicht seyn C = A insofern es = NichtA ist, u. nicht C = NichtA insofern es = A ist. Denn sonst A = Nicht A. — ferner kann nicht C seyn ent-

a

 [am Rande ohne Vermerk] §. 2.). Die Vorstellung wird von beiden, — S. u. O. unterschieden. . — Grundsaz der Verschiedenheit.

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que costituisce senza dubbio l’elemento originario delle tre categorie subordinate? — Essa sarebbe, dunque, la prima categoria nella quale ci imbatteremmo — e sarebbe, nel contempo, dimostrata. — L’intuizione sarebbe per la prima volta possibile solo dopo aver dimostrato la sostanzialità nel soggetto, la causalità nell’oggetto, l’azione reciproca nella rappresentazione. — Questi sarebbero i tre punti , — in un paragrafo. — Che prospettive sublimi! — § 2) Allora al lavoro, di buona lena e riprendendo dall’inizio Il problema è: A = Non-A in C, secondo il postulato del primo paragrafo. —a Come dev’essere C, secondo il principio di non contraddizione, che è l’unico di cui disponiamo? — Questo problema deve trovare soluzione e, per suo mezzo, si deve trovare un nuovo principio. C = C. C = A. C = Non-A, da cui segue che A = Non-A, — ciò che, in base a quanto si è detto sopra, si contraddice. C è opposto ad A ed è opposto a Non-A, ciò che contraddice il presupposto. Quindi, C è differente da A e da Non-A. |  C = C, ciò che viene espresso nel modo seguente: C = A ed è opposto ad A. C = Non-A ed è opposto a Non-A.

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§ 3. C = C. C è opposto ad A ed è = A. C è opposto a Non-A — ed è = Non-A. Ora, C non può essere = A in quanto esso è = Non-A e C non è = Non-A in quanto esso è = A. Perché, a

 [a margine, senza rinvio] § 2). La rappresentazione viene distinta da entrambi, — soggetto e oggetto. — Principio della differenza.

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gegengesezt A insofern es ist entgegengesezt Nicht-A. und nicht entgegengesezt NichtA insofern es ist entgegengesezt A. denn dann würde nimmer in C A = Nicht-A. — In Worten. C. soll mit dem Ich identisch, u. entgegengesezt, u. mit dem Nicht=Ich identisch, u. entgegengesezt seyn. Nun kann C. nicht mit Ich identisch seyn, insofern es mit NichtIch identisch ist; u. eben so wenig dem Nicht-Ich entgegengesezt, insofern es dem Ich entgegengesezt ist, denn sonst würde in C. nie das Ich u. Nicht Ich identisch. . —a Mithin in C = A insofern es entgegengesezt ist NichtA, u. = NichtA insofern es entgegengesezt ist A. — Dies würde dem Saze C = C. widersprechen, wenn nicht C. entgegengesezt dem A insofern es mit ihm identisch ist. In Worten. C. muß demnach mit dem Ich identisch seyn, insofern es dem NichtIch entgegengesezt wird, u. mit dem NichtIch identisch, insofern es dem Ich entgegengesezt wird. C. würde also sich selbst entgegengesezt (welches sich widerspricht) wenn nicht zugleich C. dem A entgegengesezt wäre, insofern es mit ihm identisch ist, u. dem Nicht-A zugleich entgegengesezt wäre insofern es mit ihm identisch ist. — |  Das heißt also (laut obigen 〈selbst da noch〉 verschieden, verschieden.) — Mithin C. u. A. — desgleichen C. u. nicht-A können gar nicht identisch seyn.b

a

 [am Rande ohne Vermerk] Sollte nicht der Grundsaz der synthetischen Einheit der Apperception entwikelt werden. — Der liegt wohl im 2ten §. — oder gar im ersten. b  [am Rande ohne Vermerk] — Mithin muß ein drittes x. zwischen beide eingeschoben werden. — Werde ich aber auch wohl aus 28 

Il riferimento all’unità dell’appercezione è quasi certamente motivato dal fatto che ciò di cui si va alla ricerca in questo contesto è un termine tale, che in esso si trovino unificati Io e Non-Io. Ora, l’appercezione pura si

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altrimenti, A sarebbe = Non-A. — Inoltre, C non può essere opposto ad A, in quanto è opposto a Non-A, e non è opposto a Non-A, in quanto è opposto ad A. Perché, allora, A non sarebbe mai = Non-A in C. — Espresso a parole. C dev’essere identico e opposto all’Io e identico e opposto al Non-Io. Ora, C non può essere identico all’Io in quanto è identico al Non-Io e altrettanto poco può essere opposto al Non-Io, in quanto è opposto all’Io, perché altrimenti Io e Non-Io non sarebbero mai identici in C. —a Di conseguenza, in C, C è = A, in quanto esso è opposto a Non-A, ed è = Non-A, in quanto è opposto ad A. — Ciò contraddirebbe la proposizione C = C, se C non fosse opposto ad A, in quanto identico ad esso. Espresso a parole. Di conseguenza, C dev’essere identico all’Io in quanto viene opposto al Non-Io, e identico al Non-Io in quanto opposto all’Io. C sarebbe, allora, opposto a sé stesso (ciò che si contraddice) se, contemporaneamente, non fosse opposto ad A in quanto è identico ad esso e non fosse, contemporaneamente, opposto a Non-A in quanto è identico ad esso. — |  Dunque, conformemente a quanto detto sopra del differente, questo è ciò che si chiama differente. — Di conseguenza, C e A, — così come C e Non-A, non possono affatto essere identicib.

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a

 [a margine, senza rinvio] Non sarebbe necessario sviluppare il principio dell’unità sintetica dell’appercezione?28 — Esso si trova certamente nel secondo paragrafo, — o addirittura nel primo. b  [a margine, senza rinvio] — ­ Pertanto, si deve introdurre un terzo termine x tra i due. — Ma potrei anche riuscire a dimostrare la cacaratterizza proprio per la sua specificità di essere, insieme, unità analitica e sintetica, perciò capace di svolgere una funzione unificatrice, in forza della quale i due termini sono riconducibili all’autocoscienza medesima, sdoppiantesi in coscienza di sé e irrequieto contenuto di tale coscienza (cfr. più avanti, EM, pp. 295-97).

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Hierbei noch die Frage: ist es nicht genug wenn C. nur A, oder Nicht-A. zugleich entgegengesezt ist — — O ich treibe mich im Zirkel; daß C. von A u. von Nicht A. verschieden seyn sollte, ist schon oben erwiesen. — Also nur gleich die Zuflucht zum x. genommen. — Aber auf etwas, das sich selbst entgegengesezt seyn, u. doch identisch seyn soll, muß ich immer kommen. Daß so ein x. sein müße, kann man wohl beweisen; wie es aber seyn müße zu begreifen, dazu gehört die Anschauung. — Das x. kann unterdeßen nur willkührlich angenommen werden[,] um dem Widerspruche auszuweichen; daß es da sey beweiset die Anschauung. x. wird willkührlich angenommen. Willkührlich annehmen heißt beziehen / es ist auch überhaupt gar nicht nothwendig zu beziehen, sondern nur zum Behuf der Speculation. x sey die aequitas zwischen A u. C. u. zugleich der Unterschied. ferner aequitas zwischen C u. Nicht-A. u. zugleich Unterschied. — A u. NichtA. wären demnach nur gleich in x. Nun aber sollen A u. NichtA entgegengesezt bleiben, mithin x sich selbst entgegengesezt — aber noch mehr selbst in Rüksicht auf x. muß A u. Nicht-A unterschieden werden können. — Substanz u. Accidens. Grund u. Ursache. Desgleichen auch C. Wechselwirkung. x. also 〈bedeutet〉 die Kategorie der Relation. — A ist Substanz von C. Nicht A. ist Ur-

bloßen Begriffen die Kategorie der Relation heraus demonstriren können, ohne die Anschauung zu Hülfe zu nehmen. — Das ist das was Kant, u. alle Kritiker läugnen. Ich habe jezt noch nichts, als den Grundsaz des Widerspruchs — auch den der Verschiedenheit der aber keine neue Thatsache / doch ja die der Einheit des Bewußtseyns. — Also aus dieser ist vielleicht etwas heraus zu bringen. —

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A questo riguardo resta ancora la domanda: non è sufficiente che C, nel medesimo istante, sia opposto soltanto ad A oppure a Non-A?29 — — Oh, mi muovo in un circolo! Che C dovesse essere differente da A e da Non-A è già stato dimostrato sopra. — Dunque, facciamo ricorso, come poco fa, a x. — Ma devo sempre arrivare a qualcosa che dev’essere opposto e tuttavia identico a sé stesso. Che ci debba essere un x siffatto, si può dimostrare facilmente; per comprendere come debba essere, è necessaria l’intuizione. — Per evitare la contraddizione, l’x può essere ammesso provvisoriamente solo in modo arbitrario; che però x esista, lo dimostra l’intuizione. x viene ammesso in modo arbitrario. Ammettere in modo arbitrario significa porre in relazione. / In linea di principio, non è affatto necessario porre in relazione, ma lo è solo ai fini della speculazione. x è insieme l’aequitas e la differenza tra A e C. Inoltre, x è l’aequitas e, insieme, la differenza tra C e Non-A. — Di conseguenza, A e Non-A sarebbero uguali solo in C. Ora però, A e Non-A devono restare opposti, e perciò x deve restare opposto a sé stesso. — Ma ancora di più, dal punto di vista di x, A e Non-A devono poter essere distinti, — come sostanza e accidente, fondamento e causa, e così pure C, azione reciproca. x designa, dunque, la categoria della relazione. — A è sostanza di tegoria della relazione partendo da puri concetti, senza ricorrere all’intuizione? — Questo è quel che Kant e tutti i filosofi critici negano. Finora non dispongo di nient’altro che del principio di non contraddizione — e di quello della differenza, che però non è un fatto nuovo. / Lo è, però, quello dell’unità della coscienza. — Dunque, da questo si può forse ricavare qualcosa. — 29  La domanda può essere così esplicitata: non è sufficiente che l’opposizione emerga in momenti diversi e non nel medesimo tempo?

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sache von C. C. ist durch Wechselwirkung hervorgebracht, u. bringt hervor. Versuch mit x. — x aequirt A u. C. sezt aber zugleich A u C. entgegen. x aequirt C u. Nicht-A, u. sezt zugleich C u. Nicht-A einander entgegen. — (Die Vorstellung wird auf Ich bezogen, u. umgekehrt. Sie wird auf’s NichtIch bezogen u. umgekehrt.) |  (x = x.) mithin sind A u. Nicht A. bloß darinn gleich, daß beide auf C. bezogen werden. — x sezt C. A entgegen [,] mithin ist in der Beziehung C. das Gegentheil von A. — So mit NichtA — mithin ist in der Beziehung C. dem NichtA entgegengesezt. C = C, mithin muß es auf gleiche Art beiden entgegengesezt seyn. — Nun sey x = y u. x = z so ist C = xyz. — Richtig so ohngefähr. — Auf C. kom[m]t die Beziehung der Wechselwirkung. — Aber daß auf A. Substanz, u. auf NichtA Ursache 〈komme〉, das möchte noch eine tiefe Untersuchung erfordern. — Bediene dich doch des Begriffs der Verschiedenheit. x ist verschieden in Beziehung auf A. von der Beziehung auf Nicht-A. in C. werden beide vereinigt. Ist. x = A — C. Noch ein Versuch mit Buchstaben.a A — A   –A = –A. C = C.  C = A 〈—〉 A = (–A) — (–A) (C ist von A u. nicht A verschieden.) x = x. x ( = C) = A (–C) –A / = C — (–A) x = C = (–A) — (–A) Nicht-A heiße B. A — B. C = A — B. C = B — A. welches sich widerspricht. —

a

 [am Rande ohne Vermerk] A = (–A) in C. C = A = (–A)

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C, Non-A è causa di C. C è prodotto dall’azione reciproca e produce a sua volta. Tentativo con x. — x è uguale ad A e a C, ma, nel contempo, oppone A e C. x è uguale a C e a Non-A e, nel contempo, oppone l’uno all’altro C e Non-A. — (La rappresentazione è riferita all’Io, e viceversa; essa è riferita al Non-Io, e viceversa). |  (x = x). Di conseguenza, A e Non-A sono uguali solo per il fatto che sono entrambi messi in relazione con C. — x oppone C ad A; di conseguenza, nella relazione C è il contrario di A. — La stessa cosa con Non-A. — Quindi, nella relazione C è opposto a Non-A. C = C e perciò esso dev’essere opposto a entrambi allo stesso modo. — Ora, se x = y e x = z, allora C = xyz. — Così è approssimativamente esatto. — A C spetta la relazione dell’azione reciproca. — Ma che ad A spetti la sostanza e a Non-A la causa, richiede ancora un’indagine approfondita. — Serviti pure del concetto della differenza. x, in relazione con A, è differente che in relazione con Non-A. In C entrambi vengono unificati. x è = A – C. Ancora un tentativo con le letterea. A – A   –A = –A. C = C  C = A 〈—〉 –A = ( –A) — ( –A ) (C è differente da A e da non A). x = x. x ( = C) = A ( –C) –A / = C – ( –A) x = C = ( –A) – ( –A) Non-A significa B. A – B. C = A – B. C = B – A, ciò che si contraddice. —

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a

 [a margine, senza rinvio] A = ( –A ) in C. C = A = ( –A )

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Von forne. Ich soll mit Nicht-Ich vereinigt werden in einem dritten. factum — Wie muß das dritte seyn[.] Ich ist nicht Ich entgegengesezt. — Das dritte kann dem nach nicht seyn = Ich, es kann auch nicht seyn = NichtIch. Es ist mithin mit dem Ich weder identisch noch entgegengesezt; mit dem Nicht-Ich weder identisch noch entgegengesezt.a |  1.) Die Categorie der Relation vereinigt Dinge indem sie sie entgegensezt. — Dinge können vereinigt, u. entgegengesezt werden. — wo sollte nun der Eintheilungspunkt, den wir hier noch brauchen hergenommen werden. I. mit I. id. mit II. auf eine andere Art. — I mit I u. II. —b I mit I. positiv. I mit Eins negativ. I. auf positiv, u. negativ. — Das giebt je einen Charakter. C. wird mit Realität vereinigt, u. ihr entgegengesezt. abhängige Realität, Dependenz, — Realität die nicht [von] Realität abhinge[.] Realität, u. Substanz.c C. wird mit Negation vereinigt, u. ihr entgegengesezt., Negation, die etwas afficirt — Ursache. — C. wird vereinigt u. entgegengesezt der Substanz, u. der Ursache. — Wechselwirkung. Ich wirkt aufs nicht Ich[,] NichtIch auf’s Ich. Limitation. Limitation zeugt Konkurrenz. — Hell, u. klar. Jezt ist nur die Frage, wo gehört die Er-

a

 [am Rande ohne Vermerk] Es ist wohl sehr natürlich, daß die Beziehung C. auf A u. Nicht-A. die Beziehung der Wechselwirkung zuerst vorkommen muste 〈weil〉 hier immer das all〈gemeinste〉 erst vorkommt. / Als Ich, als Nicht-Ich, als Vorstellung. / b  [am Rande ohne Vermerk] mit. I u. zwei gebe Substanz, u. Ursache — mit I u. II. Wechselwirkung. — c  [am Rande ohne Vermerk] so wird auch die Kategorie der Nothwendigkeit eher vorkommen, als die des Möglichen u. Wirkl. die der Allheit eher als die der Vielheit, u. Einheit, die der Limitation eher, als die der Realität, oder Negation.

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Daccapo. L’Io dev’essere unificato con il Non-Io in un terzo termine. Questo è un fatto. — Come dev’essere questo terzo termine? L’Io è opposto al Non-Io. — Il terzo termine non può, pertanto, essere = Io e non può nemmeno essere = Non-Io. Di conseguenza, esso non è né identico, né opposto all’Io, e non è né identico, né opposto al Non-Ioa. |  1) La categoria della relazione unifica le cose opponendole. — Le cose possono essere unificate e opposte. — Ma da dove si deve ricavare il punto di separazione di cui qui abbiamo ancora bisogno? I con I, I è la stessa cosa, ma in maniera diversa con II, — I è con I e II. —b I con I è positivo. I con uno è negativo. I con positivo e negativo. — Ciò conferisce di volta in volta un carattere. C viene unito con la realtà ed è opposto ad essa. Realtà dipendente, dipendenza, — realtà che non dipenderebbe dalla realtà. Realtà e sostanzac. C viene unito con la negazione e opposto ad essa, negazione che affetta qualcosa. — Causa. — C viene unito con la sostanza e con la causa e opposto ad esse. — Azione reciproca. L’Io agisce sul Non-Io, il NonIo sull’Io. Limitazione. La limitazione genera concorrenza: — chiaro e limpido. A questo punto la questione è soltanto

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a  [a margine, senza rinvio] È del tutto naturale che la relazione C con A e con Non-A, la relazione dell’azione reciproca, debba presentarsi per prima, in quanto qui si presenta per primo sempre ciò che è più generale, / come l’Io, come il Non-Io, come la rappresentazione. / b  [a margine, senza rinvio] con I e due ci sarebbero sostanza e causa, — con I e II azione reciproca. — c  [a margine, senza rinvio] così, anche la categoria della necessità si presenterà prima di quella del possibile e dell’effettivo, quella della totalità prima di quella della pluralità e dell’unità, quella della limitazione prima di quella della realtà o della negazione.

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innerung an Realität, Negation, Limitation hin. noch in den ersten §. oder in den zweiten.a §. 2. Zwei entgegengesezte Dinge können nicht vereinigt werden, als in einem dritten, welches weder mit dem einen, noch mit dem andern identisch, noch auch dem einen oder dem andern entgegengesezt sey. (Beweiß wie oben.) Ursprünglicher Begriff der Verschiedenheit der hier zuerst gegeben wird /der Limitation./ Realität, u. Negation können auch ausgedrükt werden durch Seyn, u. Nichtseyn / | auch 〈etwa〉 durch Identität, u. Gegensaz. — Wo bleibt aber der Begriff der Limitation. Negation ist ein bestimmtes Nichtseyn / ein läugnen einer bestimmten Realität: nicht der Existenz überhaupt. §. 3. Dieses C. kann dem Ich nicht insofern gleich seyn, als es dem Nicht Ich gleich[,] noch umgekehrt; sonst wären Ich u. NichtIch sich nicht entgegengesezt; / sonst wären auch Ich, u. Nicht Ich sich gleich welches sich widerspricht; es kann eben sowenig dem Ich entgegengesezt seyn, insofern es dem Nicht Ich gleich ist; noch den Nicht Ichen entgegengesezt insofern es dem Ich gleich ist, sonst wäre es beiden entgegengesezt; es bleibt also nichts übrig, als daß C. sich selbst entgegengesezt sey, welches sich gleichfals widerspricht. §. 4. Man nehme in C. ein x an. In diesem x. seyb Ich identisch mit C. u. doch ihm entgegengesezt, u. Nicht Ich — auch identisch mit C. u. doch ihm entgegengesezt, so muß in eben

a

 [am Rande neben beiden vorstehenden Absätzen] =A—A  Dependenz. = –A + A  Wirkung. b  [über In diesem x. sey übergeschrieben] dieses x identisch mit C.

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relativa a dove collocare il riferimento alla realtà, alla negazione, alla limitazione, se già nel primo paragrafo o nel secondoa. § 2. Due cose opposte non possono essere unificate se non in una terza, che non sia identica né all’una, né all’altra, e nemmeno opposta all’una o all’altra (secondo la dimostrazione fornita sopra). Il concetto originario di differenza, che qui viene dato per primo, /concetto della limitazione. / Realtà e negazione possono anche essere espresse con essere e non-essere, / | e forse anche con identità e opposizione. — Ma non abbiamo tralasciato il concetto di limitazione? La negazione è un non-essere determinato, / è un negare una realtà determinata e non l’esistenza in generale. § 3. Questo C non può essere uguale all’Io, in quanto è uguale al Non-Io e viceversa, altrimenti Io e Non-Io non sarebbero opposti, / altrimenti anche Io e Non-Io sarebbero uguali, ciò che si contraddice30. In quanto è uguale al NonIo, C può essere altrettanto poco opposto all’Io. Né può essere opposto al Non-Io, in quanto esso è uguale all’Io, altrimenti sarebbe opposto a entrambi. Perciò non resta altro, che C sia opposto a sé stesso, ciò che, ugualmente, si contraddice. § 4. Si ammetta, in C, un x. In questo xb, l’Io sia identico ma anche opposto a C, e anche il Non-Io — sia identico ma anche opposto a C; allora, proprio in questo x, poiché A

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a

 [a margine, accanto ai due capoversi precedenti] =A–A  Dipendenza. = –A + A  Effetto. b  [scritto sopra a In questo x] questo x è identico a C. 30 

La contraddizione consisterebbe nel fatto che il soggettivo della rappresentazione sarebbe oggettivo, e quindi saremmo davanti alla proposizione contraddittoria Io = Non-Io.

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diesem x. da A dem Nicht-A entgegengesezt seyn soll, C. dem Ich, u. dem Nicht-Ich entgegengesezt seyn: u. dennoch sind beide eben in diesem x. identisch. so wären beide darin identisch, daß mit beiden C. identisch, u. zugleich entgegengesezt wäre. — / Entgegensetzen, u. identisiren zugleich aber nennt man beziehen. / Etwa die synthetische Einheit der Apperception? besteht die nicht durchgängig in Beziehen.? §. 5. Da A. dem Nicht A entgegengesezt ist, so kann C. nur [auf] eine entgegengesezte Art auf Ich, u. NichtIch bezogen werden. A ist Realität. Das ihm entgegengesezte C. NichtRealität damit verbunden giebt eine nicht reale Realität, oder Dependenz in Beziehung auf [A]. C. wäre demnach in Beziehung [auf] A. Accidens u. A. Substanz. Mit der Negation Nicht-A. eine Affirmation verbunden giebt den Begriff der Kausalität, u. C. wird Wirkung — NichtIch Ursache. | (Hier könnte man eine Künstelei vermuthen. In beiden Fällen wird Negation mit Realität verbunden. —a Aber im erstern wird an die Realität Negation gebunden, u. das giebt denn offenbar [Dependenz]. — Im zweiten an die Negation Realität. u. das giebt Kausalität — Werde weiter auseinander gesezt. // Aber ich unterfange mich hier die Kategorien zu deduciren, u. sie nicht als Grundbegriffe anzunehmen. — Nur den einzigen Realität. — Wie kann Kant damit zufrieden seyn — Wenn meine Demonstration nur richtig ist. — Hätte man dafür nicht eine Probe? . Nous verrons.) a

 [ohne Gegenvermerk im Text] Wenn der Begriff der Konkurrenz zuerst entwikelt wäre, so hätte man dieser Sache abhelfen können. Nous verrons. 31 

Cfr. sopra, n. a di p. 287. abbastanza complessa nella sua sinteticità. Possiamo esplicitarla ricordando che il Non-Io, in quanto tale, è assoluta negazione, alla quale è rigorosamente estranea ogni realtà. Questa, invece, compete essenzialmente ed esclusivamente all’Io. La negazione della negazione (cioè: la negazione del Non-Io) può intervenire solo mediante la realtà (cioè: me32  Formulazione

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dev’essere opposto a Non-A, C dev’essere opposto all’Io e al Non-Io, e tuttavia entrambi sono identici proprio in questo x. Così tutti e due sarebbero identici in ciò, che C è identico e insieme opposto a entrambi. — / Opporre e rendere identici nello stesso tempo si chiama, però, porre in relazione. / Si tratta per caso dell’unità sintetica dell’appercezione? Questa non consiste generalmente nel porre in relazione?31 § 5. Poiché A è opposto al Non-A, C può essere riferito solo in modo opposto all’Io e al Non-Io. A è realtà. C, che gli è opposto, non-realtà. Unito ad A, dà luogo a una realtà non reale, ovvero a una dipendenza in relazione con A. C sarebbe, quindi, in relazione con A, accidente e A sarebbe sostanza. Se si unisce un’affermazione con la negazione Non-A, si produce il concetto di causalità e C diviene l’effetto, — Non-Io la causa32. |  (Qui si potrebbe supporre un artificio. In entrambi i casi la negazione viene collegata con la realtàa. — Ma, nel primo caso, con la realtà viene collegata la negazione, e questo produce allora, manifestamente, dipendenza. — Nel secondo, con la negazione viene collegata la realtà, e questo produce causalità. — Scomporre ulteriormente. // Ma io oso qui dedurre le categorie, e non assumerle come concetti fondamentali, — ad eccezione della sola categoria della realtà. — Se la mia dimostrazione è corretta, — come può Kant accontentarsi di assumere le categorie come concetti fondamentali? — Non ci sarebbe una prova per la dimostrazione? Nous verrons.

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a  [senza corrispondente rinvio nel testo] Se il concetto di concorrenza fosse stato sviluppato prima, si sarebbe posto rimedio a questo inconveniente. Nous verrons.

diante l’Io). Ma la negazione operata dall’Io consiste nel conferire al Non-Io una quantità limitata di sé (cioè: di realtà), coincidente con quella che l’Io innalza a consapevolezza come contenuto della coscienza. A questo contenuto soggettivo corrisponde il lato oggettivo (= Non-Io) della rappresentazione, che si presenta come causa del lato soggettivo della rappresentazione, a sua volta considerata e vissuta come effetto.

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§. 6. C. ist beiden, dem Ich, u. Nicht Ich entgegengesezt, u. mit beiden vereinigt. Aus Vereinigung beider entsteht die Wechselwirkung. Durch C. kommen also A u. NichtA in Wechselwirkung, sie limitiren sich gegenseitig, (in C. —) ohnedies 〈kannst〉 Vorläufig geforscht. — Daraus würde im Ich folgen ein Vermögen vermittelst C. Wirkung von Nicht-Ich zu seyna (eine Receptivität)b u. im NichtIch vermöge seiner Substantialität eine Spontaneität auf Nicht Ich vermittelst C. — — Die Spontaneität wäre doch auch im Ich — Im Nichtich folgt auch eine Modificabilität. . — O Ja — Der Stoff ist Nicht Ich. Aber das wird sich weiter zeigen. — — Spontaneität ist die Kausalität einer Substanz. — sezt denn Substantialität Kausalität voraus, oder macht sie sie nothwendig — Ich habe ja die Konkurrenz zum Behufe: da liegt die Kausalität darin. u. die ist bei einer Substanz stets Spontaneität. — Ist zu beweisen, u. daraus eben das, was so dringend gefordert wird zu zeigen, daß die Formen (Handlungsweisen) des Geistes, als nothwendig, u. die der Materie, — des Nichtich, als zufällig gedacht werden. — Receptivität des Ich. (aus der geforderten Kausalität des NichtIch.) Ist ein Leiden. wird afficirt. Die Art des afficirt werdens heißt Empfindung: da sie sich diese Empfindung nicht nothwendig so, sondern anders denken kann, | (sezt den Beweiß der Nothwendigkeit der Wirkungen des Ich, u. der Zufälligkeit der des Nicht-Ich voraus. —) so muß die Receptivität mannigfaltig afficirbar seyn:c Da die einzeln Empfina

 [darüberstehend] Modificabilität  [am Rande ohne Vermerk] (aus der Kausalität die schon zugestanden ist) aber das Nicht-Ich ist nun keine Substanz — Thut nichts; ist auch eigentl. keine, jede ist wieder ein Accidens c  [am Rande ohne Vermerk] Also — möglich, wirklich, nothwendig. — Jede Empfindung ist wirklich; aber anders möglich: jede Handlung des Ich ist nothwendig. (Was möchte daraus auf die Moralität folgen? Nous verrons.) b

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§ 6. C è opposto e unificato con tutti e due, con l’Io e con il Non-Io. Dall’unificazione di entrambi nasce l’azione reciproca. Mediante C, dunque, A e Non-A entrano in azione reciproca, e comunque si limitano reciprocamente (in C —). Comunque puoi Ricerca preliminare. — Da ciò conseguirebbe, nell’Io, una facoltà che sarebbe, mediante C, effetto del Non-Ioa (una ricettività)b e nel Non-Io, grazie alla sua sostanzialità, conseguirebbe una spontaneità del Non-Io mediante C. — — Ma la spontaneità sarebbe anche nell’Io. — Nel Non-Io risulta anche una modificabilità. — Oh certo, — la materia è Non-Io, ma questo si mostrerà in seguito. — — Spontaneità è la causalità di una sostanza. — La sostanzialità presuppone allora la causalità, oppure è essa a renderla necessaria? — A tal fine dispongo già della concorrenza, in cui la causalità è insita, e la causalità, in una sostanza, è sempre spontaneità. — Si deve dimostrare, e da questa dimostrazione si deve spiegare proprio ciò che viene richiesto con tanta insistenza, e cioè che le forme (i modi di agire) dello spirito sono pensate come necessarie, quelle della materia — quelle del Non-Io come contingenti. — Ricettività dell’Io (in base alla richiesta causalità del Non-Io). Se c’è una passività, c’è un essere affetto. Il modo d’essere affetto si chiama sensazione. Poiché questa sensazione la si può pensare non necessariamente così, ma anche diversamente |  (ciò che presuppone la prova della necessità delle azioni dell’Io e dell’accidentalità di quelle del Non-Io —), la ricettività dev’essere suscettibile di affezione in modi diversic. Poi-

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a

 [sovrastante] Modificabilità.  [a margine, senza rinvio] (in base alla causalità, che è già ammessa). Ma il Non-Io non è sostanza, — non agisce; in realtà la ricettività non è sostanza ma, di nuovo, accidente. c  [a margine, senza rinvio] Quindi: — possibile, reale, necessario. — Ogni sensazione è reale, ma possibile anche in modo diverso; ogni azione dell’Io è necessaria. (Cosa potrà conseguirne per la moralità? Nous verrons). b

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dungen nicht anders, als durch ihre eigne Verschiedenheit unterschieden werden können, so müßen sie alle verschieden seyn: (sie können auch entgegengesezt seyn.) — Die Affection auf ihre Ursache zurük bezogen, heißt dieselbe der Stoff. (u. der Gegenstand die Anschauung. —) Aber wie werde ich Stoff vom Gegenstande unterscheiden. — Ohne Zweifel nur in der Art sie anzusehen .. — Wie denn die Formen der Anschauung (Nous verrons.) — Es muß nicht erst die Sinnlichkeit, dann der Verstand, erst die Anschauung dann der Begriff abgehandelt werden, sondern es muß durch Gegensätze gehen. Aber forsche den richtigen Weg; wie geht der?. — Die Vorstellung ist Accidens des Ich, Wirkung des Nicht Ich. — Ich, u. Nicht Ich stehen in Wechselwirkung. (Ist nicht wahr).a — Wechselwirkung ist, wenn Eins das andere modificirt, u. [das] andere wieder von ihm modificirt wird. — Das ist mit der Vorstellung, Vorstellung wird vom Sinnl. gewirkt, wirkt sie wieder? [(]Nein[,] wirkt nur ihre Vorstellung, — also davon abstrahirt) Sie bringen sich nicht gegenseitig hervor; aber sie modificiren sich gegenseitig. — Mithin das Ich wirkt auf’s NichtIch, durch die Vorstellung: mittelbar . — Ich ist Substanz der Vorstellung,b es wirkt mithin durch Spontaneität / was heißt nun das, Thätigkeit,

a

 [Die beiden vorstehenden Sätze ab Die Vorstellung ist stehen i.d. Hs. untereinander auf zwei durch eine Klammer verbundenen Reihen. Neben der Klammer] Wenn aber diese Sätze umgekehrt werden müßen, wie es das Ansehen hat. . — b  [am Rande] Wenn Vorstellung etwas vom Nicht-Ich gewirktes ist, u. auf das Ich als Realität bezogen werden soll, so kann es nicht anders, als auf eine Substanz bezogen werden . —

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ché le singole sensazioni possono essere distinte solo per la loro differenza specifica, devono essere tutte differenti (esse possono anche essere opposte). — Ricondotta alla sua causa, l’affezione si chiama materia (e l’oggetto intuizione —). Ma come distinguerò la materia dall’oggetto? — Senza dubbio, solo nel modo di considerarli. — Come devono essere poi considerate le forme dell’intuizione? (Nous verrons). — Non devono essere presi in considerazione prima la sensibilità e poi l’intelletto, prima l’intuizione e poi il concetto, ma si deve procedere mediante opposizioni. Ma cerco la via giusta; come procede? — La rappresentazione è accidente dell’Io ed effetto del Non-Io. — Io e Non-Io sono in reciprocità d’azione. (Non è vero?)a 33. — L’azione reciproca ha luogo quando un termine modifica l’altro e il primo, a sua volta, è modificato dal secondo. — Così stanno le cose con la rappresentazione: la rappresentazione viene prodotta dalla sensibilità, ed essa reagisce? (No, agisce solo la sua rappresentazione — e perciò se ne fa astrazione). Sensibilità e rappresentazione non si producono reciprocamente, ma reciprocamente si modificano. — Quindi l’Io agisce sul Non-Io mediatamente, attraverso la rappresentazione. — L’Io è la sostanza della rappresentazioneb e, dunque, agisce con spontaneità. / Ma che vuol dire a

 [Le due precedenti proposizioni da La rappresentazione è nel manoscritto sono l’una sotto l’altra su due righe collegate con una parentesi. Accanto alla parentesi] Se però queste proposizioni, come sembra, devono essere invertite. — b  [a margine] Se la rappresentazione è qualcosa di prodotto dal Non-Io e dev’essere riferita all’Io come realtà, non può esserlo diversamente che essendo riferita a una sostanza. — 33 

E cioè, come precisato nella riga che precede, per essere l’Io e il NonIo in reciprocità d’azione, la rappresentazione dev’essere accidente dell’Io e effetto del Non-Io.

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Selbstthätigkeit — aber jede Ursache ist thätig — handelt — also, das geht so gerade zu nicht. — Umgekehrt, — Das NichtIch wirkt auf’s Ich vermittelst der Vorstellung; die Vorstellung ist Accidens des Ich; sie modificirt mithin das Ich: bringt an ihm ein Accidens hervor. |  Das Ich soll wieder wirken, auf’s NichtIch, vermittelst der Vorstellung: (also unmittelbar auf die Vorstellung — zur Selb[st]modification.) Selb[st]modification, Kausalität auf sich selbst heißt Spontaneität. Das Ich hat mithin Spontaneität, u. das NichtIch nicht. (Eröfnet das nicht etwa einen leichten Weg die Substanz zu beweisen.? bewahre Gott. — Doch. — erst wäre Kausalität — aber wie willst du denn wißen, daß die Vorstellung Modification des Ich ist.) — aber vermittelst dieser auf das NichtIch: sie modificirt das durch das NichtIch in sich selbst hervorgebrachte, bestimmt es. (Soll das Ich modificirbar seyn durch’s Nicht-Ich, so muß es Modificabilität haben: Receptivität. Diese Receptivität wird durch das Nicht-Ich modificirt; es wird in ihr eine Veränderung hervorgebracht. (Empfindung.)) Alle Spontaneität insofern sie das ist, wirkt nach nothwendigen Gesetzen. (Möchte wieder hart zu beweisen seyn. — Muß aus der Kategorie der Möglichkeit, Wirklichkeit, Nothwendigkeit erörtert werden) Nothwendig ist, was durch seine bloße Denkbarkeit wirklich wird. — wirklich ist, was der Receptivität gegeben wird. — Möglich, was durch die bloße Möglichkeit der Receptivität gegeben wird. Unsere Spontaneität giebt der Receptivität etwas; bloß durch den Gedanken der Möglichkeit giebt sie es ihr. / Das wäre wohl richtig; aber was ist Gedanke. —

34 La

rappresentazione non è mera assunzione di materia ricevuta dall’esterno (Non-Io o oggetto), ma, per formarla, la coscienza reagisce su ciò che riceve, lo struttura, lo plasma; in questo senso è da intendere l’affer-

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attività, auto-attività? — Ma ogni causa è attiva, — agisce; — così non si approda a nulla. — Viceversa, – se il Non-Io agisce sull’Io mediante la rappresentazione, la rappresentazione è accidente dell’Io. Di conseguenza, essa modifica l’Io, produce in esso un accidente. |  L’io deve, a sua volta, agire sul Non-Io per mezzo della rappresentazione (e dunque immediatamente sulla rappresentazione, — in vista dell’auto-modificazione). L’auto-modificazione, la causalità su sé stesso, si chiama spontaneità. Di conseguenza, l’Io ha spontaneità, mentre il Non-Io no. (Questo non apre, per caso, una via semplice per dimostrare la sostanza? Dio ce ne guardi! — Certo, — innanzitutto sarebbe causalità, — ma come puoi sapere che la rappresentazione è modificazione dell’Io?). — Si può sapere mediante la causalità sul Non-Io. La rappresentazione modifica quel che è stato prodotto in lei stessa dal Non-Io, lo determina34. (Se l’Io dev’essere modificabile dal Non-Io, deve possedere modificabilità, e cioè ricettività. Tale ricettività è modificata dal Non-Io, in essa viene prodotta una modificazione (sensazione)). Ogni spontaneità, in quanto è tale, agisce secondo leggi necessarie. (Questo può, ancora una volta, essere difficile da dimostrare — e dev’essere spiegato in base alle categorie di possibilità, effettività e necessità). Necessario è ciò che diviene effettivo mediante la sua semplice pensabilità; — effettivo è ciò che viene fornito alla ricettività; — possibile è ciò che viene fornito alla ricettività mediante la semplice possibilità35. La nostra spontaneità fornisce qualcosa alla ricettività, e glielo fornisce semplicemente mediante il pensiero della possibilità. / Questo è senz’altro esatto, ma che cos’è il pensiero? —

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mazione di Fichte secondo cui la rappresentazione modifica e determina la materia che costituisce il suo contenuto. 35  Questa definizione del possibile è, a dir poco, inadeguata, se possibile è ciò che viene fornito alla ricettività mediante… la possibilità.

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Wirklichkeit folgt aus der Wirkung. — Nothwendigkeit vielleicht aus der Substantialität.? — Dieser Saz könnte wohl gerade auf die Erörterung der Beziehung / Relation folgen, u. durch sie postulirt werden. Nochmalige Erörterung des 2.§. mit vorausgeschikten Regeln. Die vorausgesezte Anschauung ist Realität, u. Negation: der logische Saz der der Identität, u. des Widerspruchs. 1). Der Saz des Widerspruchs ist formeller Saz, durch welchen dieser logische herausgebracht werden soll. — 2.) Die Rede ist von einer Handlungsweise des Gemüths, welche durch’s Denken / nochmalige Vorstellen derselben, zum Begriffe wird. Ich u. Nicht Ich entgegengesezte sollen in einem C. identisch werden. Wie muß dies dritte seyn.? wie kann es gedacht werden? — Durch Reflexion. Ich mache das a priori aus, mit dem logischen Satze des Widerspruchs: der schreibt mir ohne alle Anschauung den Weg vor — die Anschauung kommt dann später 〈, be|weißt〉. Sie 〈construirt〉 C. 〈ist〉 nicht identisch. (Der Ausdruk identisch, Eins: — einerlei nicht, aber gleich vereinigt. — Dieser Saz möchte wohl erklärt werden. Ist es wahr; u. warum. — Im Bewußtseyn ist Ich u. Nicht-Ich. — Bewußtseyn ist sich selbst gleich, ist Eins: Ich u. Nicht-Ich sind sich also gleich, insofern sie im Bewußtseyn sind . — sie sind gleich als existentia in conscientia. —.) Nicht-Ich hebt das Ich auf: beides also ist sich entgegengesezt u. widerspricht sich. In einem dritten würden sie also 〈vernichtet〉 . Allgemeinster Begriff des C. 1.) Also C (dieses dritte) kann weder bloß mit dem Ich, noch mit dem Nicht-Ich identisch seyn, sonst wäre es dem andern entgegengesezt, u. könnte sie nicht vereinigen 2.) C. kann eben sowenig bloß dem Ich, oder dem Nicht-

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L’effettività consegue dall’effetto, — la necessità consegue forse dalla sostanzialità? — Questa proposizione potrebbe conseguire direttamente dalla spiegazione della relazione / ed essere postulata con il suo aiuto. Reiterata spiegazione del § 2, con le regole che sono state premesse. L’intuizione presupposta è realtà e negazione, i princìpi logici sono quelli di identità e di non contraddizione. 1) Il principio di non contraddizione è un principio formale, mediante il quale dev’essere ricavato il principio logico. — 2) Si tratta di un modo d’agire dello spirito, modo d’agire che diviene concetto mediante il pensiero, / vale a dire rappresentandolo di nuovo. Io e Non-Io opposti devono divenire identici in un C. Come dev’essere questo terzo termine? Come può essere pensato? — Mediante la riflessione. Lo stabilisco a priori, con il principio logico di non contraddizione, che mi prescrive l’itinerario senza intuizione alcuna. — L’intuizione viene dopo, | a dimostrazione. L’intuizione costruisce. C non è identico a C. (Il termine identico, unità, — unisce non ciò che è simile, ma ciò che è uguale. — Questa proposizione esige di essere chiarita. È vera? e perché? — Nella coscienza ci sono Io e Non-Io. — La coscienza è uguale a sé stessa, è un’unità e, di conseguenza, l’Io e il Non-Io, in quanto sono nella coscienza, — sono uguali in quanto existentia in conscientia —)36. Il Non-Io toglie l’Io. I due termini sono, dunque, opposti e si contraddicono. In un terzo termine essi sarebbero, quindi, annullati. Concetto generalissimo di C. 1) Dunque C (questo terzo termine), non può essere unicamente identico né all’Io, né al Non-Io, altrimenti sarebbe opposto all’altro termine e non potrebbe unificarli. 2) Altrettanto poco C può essere unicamente opposto

44

36  Per

la dimensione caratteristica in cui sono collocati, Io e Non-Io sono sì uguali, ma lo sono solo come contenuti della coscienza e in quanto ad essa correlati.

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Ich entgegengesezt seyn, sonst wäre es dem einen gleich u. kein C. sondern Ich oder Nicht-Ich. 3.) C. muß dem nach beiden dem Ich u. dem Nicht-Ich gleich, (u. entgegengesezt zugleich) seyn. / gleich u. entgegengesezt verbunden ist verschieden.a C. muß dem nach vom Ich, u. vom Nicht-Ich, von beiden verschieden seyn. Es ist weder das erste, noch das zweite; es ist ein drittes; nicht daßelbe, sondern ein anderes; keinem entgegengesezt u. keinem gleich. — / Begriff der Verschiedenheit in Beziehung auf andere. — Aber an sich. Ich gebrauche dann von C. ein in sofern. quo jure? — es soll identisch seyn — in einer Rüksicht. es soll einig seyn in einer andern: es hat also mehrere Rüksichten. — wie zu deduciren. (Beziehung des C. auf Ich u. Nicht Ich. [)] 1.) C. kann nicht insofern identisch mit dem Ich seyn, als es dem NichtIch entgegengesezt ist, oder umgekehrt, denn sonst würde es das Ich, u. das Nicht-Ich nicht in sich vereinigen. Innerer Charakter der Verschiedenheit. — L i m i t a t i o n Ist zu untersuchen der innere Charakter der Verschiedenheit. (Gegeben sind die synthetischen Begriffe der Realität, u. Negation; u. der formelle Saz der Identität.)b |  C. = B — B. = (0). Aber A soll nicht seyn = 0. (sonst wäre es = Nicht-Ich) 〈sonst〉 C soll seyn = C. Mithin kann C. nur einen Theil der Realität A. u. einen Theil der Negation Nicht=A. haben. Es ist limitirt. In dem verschiednen C. ist also selbst wieder etwas zu unterscheiden; d.i. ein Theil von C. ist entgegengesezt, u. gleich zugleich mit dem andern

a

  [(]Ursprünglicher Begriff der Verschiedenheit)  [am Rande ohne Vermerk] A = +B. –B. (A. ein limitirtes B. das etwas hat, aber nicht alles.) b

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all’Io o al Non-Io, altrimenti sarebbe uguale all’altro e non sarebbe C, ma Io o Non-Io. 3) Pertanto, C dev’essere uguale (e insieme opposto) a entrambi, all’Io e al Non-Io. / I concetti di uguale e di opposto, uniti, costituiscono il concetto di differente a. Di conseguenza, C dev’essere differente dall’Io e dal Non-Io, dev’essere differente da entrambi. C non è né il primo termine, né il secondo, è un terzo termine; non è il medesimo, ma un altro termine che non è né opposto, né uguale a nessuno dei due. — / Concetto della differenza in relazione con altro, — ma in sé? Di C adopero, dunque, un in quanto. Quo jure? — C dev’essere identico — da un punto di vista; unico da un altro e, dunque, ha parecchi punti di vista. — Come dedurli? (Relazione di C con l’Io e con il Non-Io). 1) C non può essere identico all’Io, in quanto è opposto al Non-Io, o viceversa, perché altrimenti non unificherebbe in sé l’Io e il Non-Io. Carattere interno della differenza — L i m i t a z i o n e . Si deve esaminare il carattere interno della differenza. (Sono dati i concetti sintetici di realtà e di negazione, nonché il principio formale di identità,)b. |  C = B – B = (0). Ma A non dev’essere = 0 (altrimenti sarebbe = Non-Io)37. C dev’essere = C. Di conseguenza, C può avere solo una parte della realtà A e una parte della negazione Non-A. Esso è limitato. Nello stesso C, che è differente, si deve dunque distinguere ancora qualcosa, e cioè una parte di C è opposta e contemporaneamente uguale all’altra parte

45

a

  (Concetto originario della differenza).  [a margine, senza rinvio] A = +B –B (A è un B limitato, che ha qualcosa, ma non tutto). b

37 

Se A fosse = 0, esso non conserverebbe alcun carattere della soggettività, che si convertirebbe così nel suo contrario, nel –A (o Non-Io), come è spiegato più avanti, cfr. p. 339, in corrispondenza n. 54).

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johann gottlieb fichte

Theile von C. u. umgekehrt.a — / u. so geht es denn fort, was wir jezt nicht weiter zu untersuchen haben, in’s unendliche. Jenes insofern ist gerechtfertiget. Beziehung des C. auf Ich u. Nicht-Ich. C. kann dem Ich nicht insofern gleich seyn, als es dem Nicht-Ich entgegengesezt ist, u. umgekehrt; denn sonst blieben in C. Ich, u. Nicht-Ich noch immer entgegengesezt, welches der Voraussetzung widerspricht. C. kann dem Ich auch nicht insofern gleich seyn, als es dem Nicht-Ich gleich ist: denn dann wären insofern diese beiden Dinge sich selbst gleich, mithin nicht entgegengesezt, welches der Thatsache widerspricht. Demnach muß C. insofern sich selbst entgegengesezt seyn, insofern es dem Ich, u. dem Nicht-Ich gleich ist. C muß aber auch sich gleich seyn (sonst wäre es ein Unding); es kann demnach nur insofern sich gleich seyn, als es dem Ich — u. dem Nicht Ich entgegengesezt ist. — Angenommen. C ist sich selbst gleich, insofern es dem Ich, u. Nicht Ich entgegengesezt wird (von beiden Wirkung, u. entgegengesezt der Ursache.); u. insofern sich selbst entgegengesezt, als es beiden gleich ist — Sich selbst gleich u. entgegengesezt zugleich ist Limitation, u. zwar hier innere, sich selbst limitirende Limitation. [(]Diese ist ohne Zweifel Wechselwirkung.) aber beweisen.b |  a  [am Rande] daß also der Theil. +C. dem –C. entgegengesezt, u. gleich zugleich sey, mithin in +C. wieder (gleich) sey ein Theil +C.a. u. ein Theil –C.a. — in diesem +C.a. wieder einer +Cb. u. –C.b. u.s.w. Das ist der Begrif der Limitation. — b  [am Rande ohne Vermerk] Die Vorstellung besteht aus einem durch Thätigkeit, einem durch Leiden hervorgebrachten. — 38  Per sua natura, C è, in ogni suo punto, = A e = —A e resta tale anche continuando all’infinito la divisione. 39  La rappresentazione racchiude in sé i due momenti dell’attività e del-

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di C e viceversaa, — / e così via all’infinito38, cosa che noi ora non approfondiamo ulteriormente. Quell’in quanto è giustificato. Relazione di C con l’Io e con il Non-Io C non può essere uguale all’Io, in quanto è opposto al NonIo, e viceversa, perché altrimenti Io e Non-Io resterebbero pur sempre opposti in C, ciò che contraddice la premessa. C, in quanto è uguale al Non-Io, non può essere uguale anche all’Io, perché allora queste due cose sarebbero uguali a sé stesse e, di conseguenza, non sarebbero opposte, ciò che contraddice il fatto. Pertanto C deve essere opposto a sé stesso, in quanto è uguale all’Io e al Non-Io. Ma C deve anche essere uguale a sé stesso (altrimenti sarebbe un’assurdità). Pertanto, C può essere uguale a sé stesso solo in quanto è opposto all’Io — e al Non-Io. — Ammesso. C è uguale a sé stesso in quanto viene opposto all’Io e al Non-Io (è effetto di entrambi e opposto alla causa); ed è opposto a sé stesso in quanto è uguale a entrambi. — Essere contemporaneamente uguale e opposto a sé stesso è limitazione, e qui, precisamente, limitazione interna, limitante sé stessa. (Questa è senza dubbio l’azione reciproca, ma resta da dimostrare)b 39. |  a  [a margine] Che, dunque, la parte +C sia opposta e insieme uguale a –C, che quindi in +C vi sia di nuovo una parte +Ca e una parte –Ca; — in questo +Ca di nuovo un +Cb e un –Cb etc. Questo è il concetto di limitazione. — b  [a margine, senza rinvio] La rappresentazione consiste in qualcosa prodotto mediante l’attività e in qualcosa prodotto mediante la passività. —

la passività, tra i quali vige un nesso dinamico necessario, costituito dall’azione reciproca, ciò che per ora resta ancora senza dimostrazione.

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C. ist dem Ich gleich, u. insofern sich selbst entgegengesezt: so ist es aber nicht; sondern es ist dem Ich gleich, u. entgegengesezt zu gleicher Zeit. — In Substantialer Verbindung — gleich — Accidens von ihm, gegenSaz. — Aber es ist nicht wahr, daß es dadurch ihm gleich werde. — Es wird dadurch nur sich selbst gleich; u. mit ihm kommt es nur in Beziehung (ein drittes x.) So auch mit Nicht-Ich. historisch. C = ist sich selbst gleich. u. nicht entgegengesezt; nur verschieden. (Doch auch in Function, u. Receptivität entgegengesezt..) C ist dem Ich entgegengesezt, u. nur durch x. den Begriff der Substantialität mit ihm vereinigt. C. ist dem Nicht Ich entgegengesezt, u. nur durch den Begriff der Kausalität mit ihm vereiniget. — C ist sich selbst gleich, A aber, u. nicht A. sich entgegengesezt, mithin muß der Begriff der Kausalität, u. Substantialität sich auch entgegengesezt seyn; wie es denn ist. — Nur in der Kategorie der Relation ist die erste Einheit. des Ich u. Nicht-Ich in C. — C. wird auf beide bezogen. — — a Also man muß so aufsteigen. Ich ist entgegengesezt dem Nicht-Ich. Beide sollen in C. vereinigt werden. in der Vorstellung. 1.) Nimm an in C. ein x. welches auch in A sey (Substantialität), so mußt Du im Nicht-A. annehmen[,] ein –x. sey NichtSubstantialität. also in C. ist ein x. u. ein –x. a

 [am Rande ohne Vermerk] Die Schwierigkeit ist nur die; ich kann Substanz, u. Ursache nicht erklären, ohne die Beziehung schon erklärt zu haben. — Ist etwa hier ein nothwendiger Zirkel. — oder 〈muß〉 ich beide unterdeßen nur als Gegensätze erklären. — 40  Dunque, che sostanza e causa siano categorie della relazione si può dire solo quando la relazione stessa sia stata dimostrata. Per dimostrarla e applicarla a sostanza e accidente, nonché a causa ed effetto, occorre, però, già disporre della relazione. Di qui il dubbio di Fichte: siamo ancora una volta in presenza di un circolo, oppure è sufficiente considerare il rapporto in questione solo come opposizione, il cui concetto è già stato acquisito?

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C è uguale all’Io e, in quanto tale, è opposto a sé stesso. Ma le cose non stanno proprio così, giacché esso è, nel contempo, uguale e opposto all’Io. — Nel legame sostanziale, — è uguale all’Io; — come suo accidente, è op-posizione. — Ma non è vero che in questo modo diventi uguale all’Io. — In questo modo diviene solo uguale a sé stesso e con l’Io entra solo in relazione (mediante un terzo termine, x). Lo stesso vale per il Non-Io. Dal punto di vista storico. C è uguale e non opposto a sé stesso, è solo differente. (E, tuttavia, è anche opposto in attività e ricettività). C è opposto all’Io ed è unito con esso solo mediante x, mediante il concetto di sostanzialità. C è opposto al Non-Io e unito con esso solo mediante il concetto di causalità. — C è uguale a sé stesso, ma A e Non-A sono opposti e, di conseguenza, anche il concetto di causalità e quello di sostanzialità devono essere opposti, come in effetti sono. — Solo nella categoria della relazione ha luogo la prima unità dell’Io e del Non-Io in C. — C viene riferito a entrambi. — — c Pertanto, si deve procedere nel modo seguente. L’Io è opposto al Non-Io. Entrambi devono essere unificati in C, vale a dire nella rappresentazione. 1) Se ammetti che in C sia un x e che lo stesso x sia anche in A (sostanzialità), allora devi ammettere che in Non-A ci sia un –x, che sarebbe non-sostanzialità. Dunque, in C sono un x e un –x41.

46

c

 [a margine, senza rinvio] La difficoltà è solo questa: non posso spiegare la sostanza e la causa senza aver prima spiegato la relazione. — Ha forse qui luogo un circolo necessario? — Oppure devo intanto spiegare sostanza e causa solo come opposizioni? —40. Nel testo che segue Fichte esperisce il tentativo di risolvere il dubbio espresso, ricavando dal concetto di limitazione la categoria della relazione, incontrando però numerose difficoltà. 41  Cioè: affinché gli opposti Io e Non-Io (A e –A), possano essere entrambi riferiti a C, occorre che in C sia presente qualcosa = A = x e qualcosa = —A = —x.

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2.) Nimm an [in] C. sey ein y u. daßelbe sey auch in NichtA. so ist in A –y. (Kausalität) in C ist nunmehr x –y u. ein y –x. C ist 〈danach〉 das –x vom +x in A. u. das –y. vom y in Nicht-A. C. ist demnach entgegengesezt. A — u. Nicht-A. Noch einmal. — Nimm an In A. ein x., in C. ein –x. Substanz. Accidens. in –A ein y in C. ein –y. Causalität, Dependenz. so ist u.

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A=C–x Aber C = C. mithin C = –x –y. |  –A = C – y. Ist in A +x, so ist in –A. –x. Mithin –A = –x. Ist in –A y, so ist in A –y. u. A = –y. Nun ist C = –x –y —  Aber A = –y. Mithin C = A. u.  –A. –x  C = –x Mithin C = –A. Nun ist C = C  mithin A = –A. in C.   Q.e.d. Hypothesis.   A = x  u.  C. = –x –A = y.  u.  C = –y. so ist   C = –x –y.  u.  A = –y  u.  –A = –x. Nun ist C = C. — Da nun A = –y so ist auch C = A u. da –A = –x so ist auch C = –A. mithin A = –A. in C. Man nehme an es sey im Ich ein gewißes x u. in C. der Gegensaz deßelben, u. im Nicht-Ich ein gewißes y. u. in C. das Gegentheil deßelben; so muß gleichfals im Nicht-Ich das Gegentheil von x, u. im Ich das Gegentheil von y. seyn. / laut des Satzes des Widerspruches u. der Identität. — Es wäre demnach C. dem Nicht Ich in sofern gleich, daß es einem gewißen x im Ich entgegengesezt wäre; u. dem Ich insofern daß es einem gewißen y. im Nicht Ich entgegengesezt wäre; u. beide wären sich darin gleich, daß sie gewißen Bestimmungen in C. entgegengesezt wären: u. darin entgegengesezt, daß diese Bestimmungen selbst untereinander sich entgegengesezt wären.

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2) Se ammetti che in C sia un y e il medesimo y sia anche in Non-A, allora in A è –y (causalità). Allora in C vi sono: x –y, e un y –x. C è quindi il –x di un +x in A e il –y di un y in Non-A. Di conseguenza, C è opposto ad A e a Non-A. Ancora una volta, — ammetti che: in A sia un x, Sostanza. Accidente. in C un –x. in –A sia un y, in C un –y. Allora e

A=C–x –A = C – y.

Causalità,

dipendenza.

Ma C = C e, di conseguenza, C = –x –y. | 

Se in A è +x, allora in –A è –x. Dunque, –A = –x. Se in –A è y, allora in A è –y e A = –y. Ora, C = –x –y; — ma A = –y. –A –x. C = –x. Quindi, C = A e quindi, C = –A. Ora, C è = C  e, quindi, A = –A in C. Q.e.d. Ipotesi:   A = x e C = –x –A = y  e  C = –y allora   C = –x –y;  e  A = –y  e  –A = –x. Ora, C = C. — Poiché, però, A = –y, allora anche C è = A e poiché –A = –x, allora anche C è = –A. Di conseguenza, A = –A in C. Si ammetta che nell’Io sia un certo termine x e in C il suo opposto, che nel Non-Io sia un certo termine y e in C il suo opposto; / allora, conformemente al principio di identità e di non contraddizione, anche nel Non-Io dev’esserci il contrario di x e nell’Io il contrario di y. — Di conseguenza, C sarebbe uguale al Non-Io, in quanto sarebbe opposto a un certo termine x nell’Io; e sarebbe uguale all’Io, in quanto sarebbe opposto a un certo termine y nel Non-Io. Entrambi sarebbero uguali, per essere opposti a certe determinazioni in C; e sarebbero opposti, per il fatto che queste stesse determinazioni sarebbero reciprocamente opposte.

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Daraus aber würde folgen daß C. sich selbst widerspräche, u. aufhöbe, wenn es eine Realität seyn sollte. C. ist also nicht Realität, es ist aber eben so wenig Negation: es ist demnach Limitation beider, u. ist nur denkbar in Beziehung auf sie — — Richtig C. als Realität angenommen widerspricht sich — als Negation gleichfals[ ;] aber was ist es — ohne daß ich eine Wirkung denke. / Wie willst Du nur aus Limitation Beziehung ableiten? — ohne schon sie zu haben. Limitation läßt sich nur (ohne Widerspruch) denken durch Vergleichung mit Realität, u. Negation — was aber heißt vergleichen; — seiner Identität, u. seines Gegensatzes nach denken. / ist das schon beziehen: ich behaupte es. — / Wohl es sey; aber aus diesem Begriffe des Beziehens den der Wirkung abzuleiten? — Bloß aus dem logischen; ohne Widerspruch verstehen: — ohne den Saz des zureichenden Grundes? Nein; also der fehlt in der Reihe. — Wo soll dieser herkommen. |  Also Resultat. — Aus dem Begriffe der Limitation muß der des Beziehens, u. diese ganze Kategorie, begrifmäßig abgeleitet werden. — Limitation leitet auf ein gegenseitiges Einschränken der Realität durch die Negation; er soll auch gar nicht als wirklich (an sich) sondern nur als logisch nothwendig abgeleitet werden. — Dazu gehört aber vor allen Dingen der Saz des zureichenden Grundes (Was ich mir denken soll 42  Il limite segna il punto o la linea in cui si arresta l’estensione di qualcosa e oltre i quali ha inizio l’opposto di ciò che viene limitato. Certo, il limite, proprio mentre segna negativamente rispetto ad altro il confine di qualcosa, può contemporaneamente essere visto come il punto in cui è l’opposto del qualcosa a essere limitato. In tal modo, come punto di convergenza in cui gli opposti cessano di essere quel che sono e in cui inizia l’essere del rispettivo altro, il limite è altrettanto bene il punto di congiunzione e di passaggio, in entrambe le possibili direzioni. In tale forma, esso cessa di svolgere la funzione negativa ed escludente, per assumere quella positiva di porre in relazione i termini opposti. Tuttavia, il porre in relazione un termine con

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Ne conseguirebbe che C contraddirebbe sé stesso e, nel caso dovesse essere una realtà, si sopprimerebbe. C non è, dunque, realtà e altrettanto poco è negazione. Di conseguenza, C è limitazione di entrambe ed è pensabile solo in relazione con esse. — — Esatto. C, se è preso come realtà, si contraddice, così come si contraddice — se è preso come negazione. Ma che cos’è esso, — senza che io pensi a un’azione? / Come vuoi dedurre la relazione solo dalla limitazione, — senza già disporne?42 La limitazione si può pensare (senza contraddizione) solo mediante la comparazione con realtà e negazione. — Ma che vuol dire comparare? — Pensare secondo la sua identità e l’identità della sua opposizione. / Questo è già porre in relazione? Sostengo di sì. — / Ammesso pure che sia così, come si può dedurre da questo concetto del porre in relazione quello di azione? — Lo si può dedurre semplicemente dal concetto logico e comprenderlo senza contraddizione, — prescindendo dal principio di ragion sufficiente? No, e dunque questo manca nella serie; — da dove deve provenire? |  Dunque. Risultato. — Dal concetto di limitazione si deve dedurre in maniera rigorosa il concetto del porre in relazione e questa intera categoria. — La limitazione conduce a porre confini alla realtà da parte della negazione e viceversa. Questo concetto non deve affatto essere dedotto come effettivo (in sé), ma solo come logicamente necessario43. — A tal fine occorre, però, innanzitutto il principio di ragion sufficiente.

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l’altro (nel caso specifico: realtà e negazione), non può essere ricavato a partire dal concetto del limite ma, secondo quanto Fichte ha appena osservato, bisogna già disporre della categoria della relazione per poterla vedere operante nel limite. Sulla complessa natura del limite Fichte tornerà più avanti nel testo, cfr. pp. 355-57. 43  Tra realtà e negazione il limite, si è visto, è attivo in entrambe le direzioni. Nella rappresentazione esso manifesta la sua efficacia, anche se non è possibile identificarlo e coglierlo nella sua specificità. Perciò Fichte dice che non è necessario pensarlo come realmente, ma solo come logicamente esistente.

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dazu muß ich eine Ursache haben.) ist der nicht zu deduciren. — / nur im Zirkel. — Die Frage über die Möglichkeit einer Elementar Philosophie ist keine andere, als die: hängt alles in unserm Geiste an Einer Kette zusammen, oder giebt es mehrere Anfänge. — Oder hab’ ich nur nicht recht angefangen: hätte ich dem Ich erst weiter nachspüren sollen. — Nein, ohne NichtIch habe ich keine Vergleichung. Der erste Saz bleibt der erste Saz; aber auch der zweite? Ein Lichtfunke: mit dem bloßen formellen Grundsatze komme ich nicht fort, der treibt mich in’s unendliche hinaus; ohne das Factum möglich zu machen: — also ich muß einen unbedingten, absoluten, eine höchste Einheit haben: / das wäre vielleicht der Saz des Grundes / — zulezt der categorische Imperativ — Bis dahin muß ich immer den nächsten u. wieder den nächsten, u.s.f. ergreifen; u. werde wohl neue Thatsachen des Bewustseyns zugeben müßen. — Ich, u. Nicht-Ich sind selbst absolut bedingt — Ja, das Ich. — ist 44 

Il principio di cui si ha bisogno per la fondazione della filosofia elementare deve possedere i caratteri che quello reinholdiano della coscienza non può vantare, dovendo essere, come appena stabilito, «incondizionato, assoluto, un’unità suprema». Il principio di ragion sufficiente consente di comunicare ad un altro concetto la certezza di uno già certo e garantisce la validità del passaggio. Per poter svolgere adeguatamente il suo compito, deve però poggiare su una proposizione già vera, che esso si limita ad assumere come tale. Al fine della individuazione della proposizione fondamentale, il principio di ragion sufficiente non può essere utile e l’esigenza di fondazione assoluta del primo principio continuerebbe a restare affidata a un processo di retrocessione all’infinito. Il richiamo all’imperativo categorico, come effettivo e definitivo fondamento per la filosofia elementare, avviene in quanto esso si basa sull’autonomia, sulla libertà e perciò non richiede una fondazione esterna. Inoltre, come anche Reinhold aveva evidenziato, «È insensato esigere il fondamento oggettivo della libera e specifica azione del volere posto al di fuori della libertà del soggetto. […] L’azione libera è tutt’altro che priva di fondamento. Il suo fondamento è la libertà stessa. Ma questa è anche l’ultimo fondamento pensabile di quell’azione. […] Essa [scil.: la libertà] è la causa assoluta e prima, oltre la quale non si può andare, della sua azione. […] Il concetto di libertà non contraddice la legge del principio di ragion sufficiente né più né meno di quan-

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(Devo avere una causa per pensare quello che devo pensare). Questo principio non si deve dedurre? — / Solo in un circolo. La questione della possibilità di una filosofia elementare non è altra che questa: nel nostro spirito, tutto dipende da un’unica catena o ci sono più cominciamenti? — Oppure, forse, sono solo io che non ho iniziato nella maniera giusta e avrei prima dovuto approfondire ulteriormente la conoscenza dell’Io? — No, senza Non-Io non ho alcuna comparazione. Il primo principio resta il primo principio, ma anche il secondo? Una scintilla: con il puro principio formale non riesco ad andare avanti, esso mi spinge all’infinito, senza rendere possibile il factum. — Devo dunque avere un principio incondizionato, assoluto, un’unità suprema, / che potrebbe forse essere il principio di ragione / — e, infine, l’imperativo categorico.44 — Fino ad allora devo sempre fare ricorso a una proposizione successiva e poi di nuovo a una successiva e così via, e dovrò certamente ammettere nuovi fatti della coscienza. — Io e NonIo sono essi stessi assolutamente condizionati. — Sì, l’Io45. — to la contraddica il concetto di una causa assoluta e prima che un avversario della libertà possa immaginare» (K.L. Reinhold, Briefe über die Kantische Philosophie (1790-1792), hrsg. v. R. Schmidt, Philipp Reclam jr., Leipzig 1923, VIII lettera, pp. 282-83). M. Gueroult osserva che, malgrado questo riconoscimento del ruolo della libertà, Reinhold la subordina tuttavia alla facoltà rappresentativa, e che solo Fichte porrà fine a questa soggezione (cfr. M. Gueroult, L’évolution et la structure de la doctrine de la science chez Fichte, cit., pp. 102-103). 45  L’affermazione secondo cui l’Io e il Non-Io sono entrambi condizionati, a prima vista potrebbe sorprendere, dal momento che l’incondizionatezza era il requisito essenziale riconosciuto all’Io del primo principio. La scoperta della condizionatezza dell’Io, carica di importanti conseguenze, è il risultato maturato nel corso della trattazione, che ha mostrato che non è solo problematico, ma addirittura impossibile mantener ferma l’incondizionatezza dell’Io, visto che esso non può prescindere dal riferimento al NonIo. Alla condizionatezza di quest’ultimo si aggiunge, così, quella dell’Io e ciò impone l’urgenza di un nuovo inizio, l’individuazione di un fondamento diverso dall’Io puro del primo paragrafo, capace di neutralizzare quell’inconveniente invalidante.

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etwa da was zu machen? — Gehe der Unbedingtheit des Ich nach. — A –A. soll verbunden werden in C. Doch ist C. sich selbst entgegengesezt, u. zu verbinden in D. D. aber zu verbinden in E. u.s.f. u. so wird das Factum nie erklärt bis ich an eine Einheit treffe, die nicht wieder entgegengesezt sey. — mithin habe ich 〈in meinem〉 Bewußtseyn nach einer Thatsache zu forschen, welche mich in Stand setze zu verbinden. C. sey dieses unbedingte. — / dies gäbe einen neuen Gang der Untersuchung. — 1.) Ich u. Nicht-Ich werden entgegengesezt. 2.) Entgegengesezte Dinge vereinigt (sey Thatsache,) in einem 3ten. u. das dritte unterschieden. 3.) Laß die Vereinigung des Ich u. nicht Ich jezt laufen, u. frage bloß; wie ist es möglich zu unterscheiden, ohne entgegensetzen: u. Du findest sie sind u. bleiben verschieden; man muß sich zwischen ihnen nur wieder ein drittes denken, | durch welches sie zusammenhängen. — Sich zwischen 2. unterschiednen Dingen ein drittes denken, heißt sie beziehen. —a — Nun Grundsätze. Das dritte ist sich gleich — A. u. C. müßen entgegengesezt werden etc. in dem 3ten. so auch Nicht-A. NichtA. u. A. wären sich demnach darin gleich, daß zwischen C. ein drittes gedacht, u. sie dadurch auf C. bezogen werden. — Und wir wären so weit. — Im Bewußt-

a

 [ am Rande ohne Vermerk] (Wie es möglich sey kann sich der Vstd. durch Begriffe nicht aus denken; er erwartet eine Anschauung? — Aber ist denn die Relation eine.)

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Si può forse fare qualcosa qui? — Tieni dietro all’incondizionatezza dell’Io46. — A e –A devono essere collegati in C. Tuttavia, C è opposto a sé stesso e dev’essere collegato in D, ma D dev’essere a sua volta collegato in E e così via. In tal modo il factum non viene mai spiegato, fino a quando non mi imbatto in un’unità, che non sia di nuovo opposta. — Devo pertanto ricercare nella mia coscienza un fatto che mi metta in condizione di istituire il collegamento. C sarebbe questo incondizionato — / e ciò conferirebbe alla ricerca un nuovo andamento. — 1) Io e Non-Io vengono opposti. 2) Cose opposte sono unite in una terza (è un fatto) e questa terza cosa è diversa. 3) Lascia stare per ora l’unificazione dell’Io e del Non-Io e chiedi soltanto: com’è possibile distinguere senza opporre? Trovi che essi sono e restano differenti; allora si deve solo pensare tra essi, ancora una volta, un terzo termine, | per mezzo del quale sarebbero collegati. — Pensare un terzo termine tra due cose diverse significa porle in relazione. —a — Ora i princìpi. Il terzo termine è uguale a sé stesso. — A e C devono essere opposti etc. nel terzo termine, come pure il Non-A. Di conseguenza, Non-A e A sarebbero uguali per il fatto che tra essi e C è pensato un terzo termine, per mezzo del quale essi sono riferiti a C. — E noi avremmo raggiunto il risultato. — Nella coscienza la rappresentazione è distinta

49

a

 [a margine, senza rinvio] (Com’è possibile? L’intelletto non può ricavarlo mediante concetti? Esso aspetta un’intuizione? — Ma allora la relazione è un’intuizione?). 46 La

constatazione della condizionatezza dell’Io non può in nessun caso significare che si possa rinunciare alla sua incondizionatezza, essendo l’unica garanzia per l’auto-sussistenza del principio. Di qui l’invito, rivolto all’allievo, di non abbandonare l’incondizionatezza dell’Io e di mantenere invece viva l’attenzione su di essa.

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seyn wird die Vorstellung von S. u. O. unterschieden, u. auf beide bezogen. — Jezt entsteht. 4 die Frage.a 4) welches ist das dritte,? wieder verschieden von A. u. C. — u. nicht-A u. C. — x muß entgegengesezt seyn y. (y ist also auch –x.[)] — Realität mit Limitation vereinigt, u. ihr entgegengesezt giebt Substantialität. etc. wie gestern der Beweiß entwikelt worden: warum läßst Du doch die Hände sinken. — Ganz von forne. / Heischesaz. §. 1.) Im Bewußtseyn wird das Ich dem Nicht Ich entgegengesezt. A.) Dieser Saz ist ganz durch sich das Factum das er ausdrükt, und durch sich selbst bestimmt — 1.) Durch das Factum u. darum heißt er ein Heischesaz: Man kann seines Ich sich bewußt werden. — Das kann man keinem beweisen, sondern jeder muß um deßen gewiß zu werden, die Probe mit sich selbst anstellen. Eben so wenig kann man einem erklären, was das Ich sey, denn es ist hier garnicht gemeint, wie man sich das Ich zu denken habe, sondern nur, wie man es anschaue; eben so wenig ist hier das Bewußtseyn gemeint, wie man es sich zu denken habe, sondern nur, wie es uns in der Vorstellung des Ich unmittelbar zu muthe ist. — Wie es uns zu Muthe ist, wenn wir unser Ich anschauen, das ist das Bewußtseyn, was hier gemeint ist u. weiter nichts. — Er ist daher auch die ausschließende, aber einzige Bedingung alles Philosophirens. Ueber ihn al-

a



 [am Rande ohne Vermerk] A ist Realität –A. Negation C. Limitation.

47  Come si vede, si tratta della riproposizione del principio reinholdiano della coscienza. 48  Questa proposizione, come le altre che seguono e come anticipato dal titolo, riprendono analoghe considerazioni già svolte in precedenza, cfr. p. 265. 49 «Zu muthe sein» indica lo stato d’animo in cui ci troviamo davan-

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dal soggetto e dall’oggetto e riferita a entrambi47. — Ora sorge la quarta domanda:a 4) Qual è il terzo termine? Esso è, ancora una volta, differente da A e da C — e da Non-A e da C. — x dev’essere opposto a y (y è allora anche –x). — La realtà, unita con la limitazione e a essa opposta, dà la sostanzialità etc., secondo la dimostrazione sviluppata ieri. Perché ti scoraggi? — Riprendiamo dall’inizio. / Postulato. § 1) Nella coscienza l’Io viene opposto al Non-Io. A) Questa proposizione è di per sé interamente il factum che esprime ed è determinata da sé stessa. — 1) Per il factum e a causa di esso, è chiamata postulato: si può divenire consapevoli del proprio Io48. — Ciò non si può dimostrare a nessuno, ma ognuno deve, per divenirne certo, eseguire una prova con sé stesso. Altrettanto poco si può spiegare a qualcuno che cosa sia l’Io, perché qui non si tratta affatto di come si debba pensare l’Io, ma solo di come lo si intuisce. Altrettanto poco si parla della coscienza, di come si debba pensarla, bensì soltanto di come ci sentiamo, immediatamente, quando ci rappresentiamo l’Io. — Come ci sentiamo quando intuiamo il nostro Io, questa è la coscienza di cui si parla qui e di nient’altro49. — Questo postulato è perciò anche la condizione esclusiva e unica di ogni a



 [a margine, senza rinvio] A è realtà –A. negazione C limitazione.

ti a una determinata situazione, e gli esempi che seguono possono aiutare a esplicitarne il senso: «mir war dabei nicht ganz wohl zumute»: «mi sentivo a disagio»; «mir ist nicht zum Lächeln zumute»:  «non ho voglia di ridere»; «wie ist Ihnen zumute?»: «come si sente?». Perciò ritengo che Fichte intenda sottolineare, nel contesto in riferimento, che nell’unico e identico atto di intuire noi stessi viene suscitato, insieme con la consapevolezza di carattere teorico/conoscitivo, anche uno specifico stato d’animo, un modo di sentire, che necessariamente lo connota. 

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lein u. über ihn hinaus findet keine | Philosophie Statt; wer ihn läugnet, mit dem kann man nicht philosophiren. Alles übrige aber muß aus ihm sich erweisen, u. erklären laßen. 2.) Daß man eines Nicht-Ich sich bewußt werden könne, wird gleichfals geheisch’t. Was das Nicht Ich sey wird lediglich durch die Anschauung des Ich bestimmt: es ist das gerade Gegentheil von ihm; es ist hier bloß u. lediglich negativ bestimmt. — B. Die Anschauung, welche in diesem Satze gefordert wird, ist durch ihn selbst ausgedrükt. Daher muste auch der erste Saz aller Philosophie ein Heischesaz seyn; 〈da〉 alle künftige Aufgaben seyn werden. Die Begriffe, welche durch ihn gegeben sind der der Realität, u. der der Negation, indem das Nicht-Ich bloß negativ, durch Entgegengesetzung des Ich, bestimmt wird. Der Saz der Identität, u. des Widerspruchs. A = A. Jedes Ding ist sich selbst gleich –A = –A. Kein Ding ist seinem Gegentheile gleich. oder durch jene Begriffe. Die Negation ist das Gegentheil von der Realität, welche bloß formal sind. — Und in soferne wäre dieser Saz bloß analytisch. Eine Zergliederung des Bewußtseyns überhaupt. C.) Aber es ist dennoch etwas in diesem Satze synthetisch: daß nemlich die beiden Entgegengesetzten A u. –A in dem Bewußtseyn C, welches doch sich selbst gleich, mithin Ein’s seyn muß, vereinigt, gleich gemacht werden, welches gegen den Saz des Widerspruchs ist, u. den folgenden Saz aufgiebt. §. 2. Aufgabe[.] Die beiden entgegengesezten Dinge Ich, u. Nicht-Ich sollen in Einem C. gleich seyn; wie muß C. gedacht werden, wenn dies sich nicht widersprechen soll. Lehrsaz. 1.) C. kann keinem von beiden weder gleich noch entgegengesezt seyn: Wäre es dem einen gleich, so wäre es dem andern entgegengesezt, u. umgekehrt; welches der Voraussetzung, daß es beide in sich vereinigen solle widerspricht. 2.) C. muß demnach ein solches seyn, das beiden gleich u. entgegengesezt sey. Ein Ding, das einem andern gleich u.

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filosofare. Oltre, o a prescindere da esso, non c’è alcuna |  filosofia. Non si può filosofare con chi nega questo postulato. Tutto il resto deve essere dimostrato e spiegato in base ad esso. 2) Viene ugualmente postulato che si possa divenire consapevoli di un Non-Io. Che cosa sia il Non-Io è determinato unicamente mediante l’intuizione dell’Io. Esso è l’esatto contrario dell’Io, e qui viene determinato in modo puramente ed esclusivamente negativo. — B. L’intuizione richiesta in questa proposizione è espressa dalla proposizione stessa. Per questo motivo il primo principio di tutta la filosofia dev’essere un postulato, che conterrà tutti i futuri compiti. I concetti da esso forniti sono quello di realtà e quello di negazione, mentre il Non-Io è determinato solo negativamente, mediante l’opposizione dell’Io. Il principio di identità e di non contraddizione. A = A. Ogni cosa è uguale a sé stessa. –A = –A. Nessuna cosa è uguale al suo contrario. Ovvero, mediante quei concetti, la negazione è il contrario della realtà ed entrambe sono puramente formali. — Questo principio, in quanto tale, sarebbe puramente analitico. Un’analisi della coscienza in generale. C) Eppure, in questo principio c’è qualcosa di sintetico, e cioè che i due opposti, A e –A, sono unificati e resi uguali nella coscienza C, che è uguale a sé stessa e perciò dev’essere un’unità. Ciò contrasta con il principio di non contraddizione e dà luogo alla proposizione seguente. § 2. Problema. Le due cose opposte, Io e Non-Io, devono essere uguali in un unico C. Come si deve pensare C, se non deve contraddirsi? Teorema. 1) C non può essere né uguale, né opposto a nessuno dei due termini. Se fosse uguale ad uno di essi, sarebbe opposto all’altro e viceversa, ciò che contraddice la premessa secondo cui C deve riunirli in sé. 2) C deve pertanto esser tale, da essere uguale e oppo-

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entgegengesezt ist, nennt man verschieden von ihm.a C. ist also vom Ich, u. Nicht-Ich verschieden. |  3.) Ursprünglich entgegengesezt sind nur Realität, u. Negation. Soll etwas von diesen verschieden, d. h. ihnen gleich, u. auch entgegengesezt gedacht werden können, so muß daßelbe Realität, u. Negation in sich verbinden; weil es sich selbst gleich seyn muß. — denn das Gegentheil würde der Voraussetzung widersprechen. Realität, u. Negation aber vereint (in einem C. gedacht) giebt Beschränktheit (Limitation)b nicht alle denkbare Realität, aber auch nicht alle denkbare Negation. C. muß demnach beschränkt seyn. — 4.) Wenn etwa C. von einem andern A verschieden ist, so ist es zugleich vom Gegentheile deßelben –A. verschieden. 5.) Alles = C., was von andern (= A, u. –A) verschieden ist, ist in Rüksicht ihrer begränzt — A hat Realität, die C. nicht hat, u. C. Realität, die –A nicht hat.c Begriff der Limitation geht nicht ohne den der Quantität. etc. Der ist nun zum Glük zwar ein Anschauungsbegriff, u. man könnte leichter 〈mit〉 dadurch wischen, weil die Phantasie in’s Mittel tritt; aber — um meiner selbst, u. um des folgenden willen. — — Schranken, Maas, u.s.f. möchte wohl leicht eine neue Thatsache erfordern; dann beweise ich Limitation ohne Zweifel daraus. — — Aber woran; da Du nichts gegeben hast als Ich, u. Nicht-Ich, willst Du diese Anschauung construiren. — An 〈ihnen〉 mit C. verbunden. Also. §. 2. Die beiden entgegengesezten A. u. –A sollen in einem C. gleich seyn. Wie muß dieses C. seyn, wenn diese Voraussetzung sich nicht widersprechen soll.? a

 [am Rande] Namen-Erklärung des ursprünglichen Begriffs der Verschiedenheit. b  [am Rande ohne Vermerk] Ursprünglicher Begriff der Limitation. c  [am Rande ohne Vermerk] (Begriff der Extension, u. Intension.) Quantität.

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sto a entrambi. Una cosa uguale e opposta a un’altra si chiama differente da essaa. Dunque, C è differente dall’Io e dal Non-Io. |  3) Soltanto realtà e negazione sono originariamente opposte. Se si deve poter pensare qualcosa di differente da queste, e cioè qualcosa di uguale e anche di opposto alla realtà e alla negazione, questo qualcosa deve unire in sé realtà e negazione, perché dev’essere uguale a sé stesso. — Infatti, il contrario contraddirebbe la premessa. Ma realtà e negazione unite (pensate in un C) producono limitatezza (limitazione)b, cioè non tutta la realtà pensabile, ma nemmeno tutta la negazione pensabile. Di conseguenza, C deve essere limitato. — 4) Se, per caso, C è differente da un altro A, allora è contemporaneamente differente dal suo contrario –A . 5) Tutto quel che è = C, che è differente dagli altri termini (e cioè da A e da –A), è limitato rispetto ad essi. — A ha una realtà che C non ha, e C ha una realtà che –A non hac. Il concetto di limitazione non va senza quello di quantità etc. Per fortuna, però, esso è un concetto dell’intuizione e si può cavarsela più facilmente, in quanto interviene la fantasia. Ma — questo per me stesso e per quel che segue. — — Limiti, misura etc., potrebbero facilmente richiedere un nuovo fatto e allora, in base ad esso, dimostro senza dubbio la limitazione. — — Ma su che cosa vuoi costruire questa intuizione, dal momento che non hai fornito altro che Io e Non-Io? — Sull’Io e sul Non-Io uniti con C? Dunque. § 2. I due opposti, A e –A, devono essere uguali in un C. Come dev’essere questo C se questa premessa non deve contraddirsi?

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a

 [a margine] Spiegazione del concetto originario di differenza.  [a margine, senza rinvio] Concetto originario di limitazione. c  [a margine, senza rinvio] (Concetto di estensione e di intensità). Quantità. b

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1.) C. kann dem einen weder gleich noch entgegengesezt seyn, sonst wäre es auch dem andern entgegengesezt oder gleich, u. nicht C. sondern A oder –A. selbst welches sich widerspricht. Denn es soll weder A noch –A seyn. |  2.) C. muß dem nach beiden entgegengesezt u. gleich seyn. — So etwas nun, wenn es möglich seyn sollte, nennt man verschieden. — C. wäre von A verschieden, u. von Nicht-A verschieden. 3.) A ist Realität –A Negation C. müste dem nach Realität, u. auch nicht Realität, Negation, und auch nicht Negation seyn, welches, ohne ein drittes sich widerspricht. Man nehme an dieses dritte sey die Quantität, so ist die Sache gehoben. — Wohl; aber wie kommst Du zu dem Begriffe der Quantität — bestimme ihn nur erst brav durch Begriffe; dann zeige meinetwegen durch die Anschauung, daß er gegeben ist. —a Hülfssaz C. soll Realität, u. Nicht-Realität, Negation, u. Nicht-Negation zugleich seyn: das widerspricht sich ohne ein drittes, wie muß dieses dritte seyn.? Es muß den Widerspruch lösen. — Richtig: aber wie ist der zu lösen. Wo sizt Er. C = C. Dennoch in C. A. u. –A. C. muß sich selbst gleich seyn; doch sollen in C. entgegengesezte Merkmale seyn. (Nur in Rüksicht auf A.) Das geht aber

a

 [am Rande ohne Vermerk] Eine Extension muß C. haben (u. nur 〈insofern nehme〉 ich es an.) —Aber ist diese Extension nicht eben dadurch, um dem Widerspruche auszuweichen, entstanden. — Ist sie gegeben, oder erdichtet — durch die Noth gegeben vielleicht. 2) Du wendest ein; aus dem Begriffe der Quantität läßt sich die Sache ohne Widerspruch erklären — aber beweise, daß sie sich durch keinen andern ohne Widerspruch erklären läßt — — Das leztere würde ein ganz anderes System geben, als das erstere; das leztere ein für alle endliche Geister geltendes System; das erstere nur für uns Menschen.

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1) C non può essere né opposto, né uguale all’uno, altrimenti sarebbe anche opposto o uguale all’altro e non sarebbe C, ma gli stessi A o –A, ciò che si contraddice, perché C non dev’essere né A né –A. |  2) C dev’essere, quindi, opposto e uguale a entrambi. — Una cosa del genere, se mai dovesse essere possibile, la si chiama differente. — C sarebbe differente da A e differente da Non-A. 3) A è realtà, –A negazione; di conseguenza, C dovrebbe essere realtà e anche non realtà, negazione e anche non negazione, ciò che, senza un terzo termine, si contraddice. Poniamo che questo terzo termine sia la quantità e la cosa è risolta. — Bene, ma come giungi al concetto di quantità? — Determinalo, dapprima, in modo semplice e solo mediante concetti, poi mostra, per quel che mi riguarda mediante l’intuizione, che esso è datoa. — Lemma C dev’essere, contemporaneamente, realtà e non-realtà, negazione e non-negazione, ciò che, senza un terzo termine, si contraddice. Come dev’essere questo terzo termine? Esso deve sciogliere la contraddizione. — Giusto, ma come la si deve sciogliere? Dove si trova la contraddizione? C = C, e tuttavia in C devono essere A e –A. C dev’essere uguale a sé stesso, eppure in C devono essere presenti caratteri opposti (solo rispetto ad A). Ma nemmeno questo va

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a

 [a margine, senza rinvio] C deve avere un’estensione (e solo come tale lo ammetto). — Ma questa estensione non è sorta proprio per evitare la contraddizione? — Essa è data o è inventata? — O forse è data dallo stato di necessità? 2) Tu replichi che in base al concetto di quantità la cosa si può spiegare senza contraddizione, — ma dimostra che la medesima cosa non si può spiegare, senza contraddizione, con nessun altro concetto.-— Questo secondo caso darebbe luogo a un sistema del tutto diverso dal primo; un sistema valido per tutti gli spiriti finiti, mentre il primo darebbe luogo a uno valido solo per noi uomini.

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auch nicht, wenn nicht diese Merkmale in einem andern Sinne in C. sind, als in A. — also x muß ein Begrif seyn. — Was heißt hier ein Begrif. C. muß von A u. –A. noch in einer andern Rüksicht verschieden seyn, als in der der Realität. — Es muß also noch etwas anderes in unserm Geiste geben, als Realität. — Dies würde uns auf unser Ich zurükführen. — 2te Anschauung. — Man fühlt seine Ichheit jezt mehr, jezt minder. — Das geht nicht. — Und doch könnte ich nur am Ich die Sache construiren? — Man müste mithin die Anschauung des Ich, der Anschauung des Ich selbst entgegensetzen: — u. so käme Quantität heraus.a |  a.) C. soll Realität, u. Nicht-Realität vereinigen, welches sich widerspricht. Denn C. muß sich selbst gleich seyn; dadurch aber würde die Realität die NichtRealität aufheben, u. C = Nichts seyn. — Soll nun C. nicht = Nichts seyn, so muß es außer der Realität, u. Nicht Realität welche sich gegenseitig vernichten, noch ein drittes in sich haben, welches weder Realität, noch Nicht-Realität sey. Ein solches dritte aber ist unbekannt. (bisher in keiner Anschauung gegeben.). b.) Um es zu finden muß das Ich (das einzige bis jezt als Realität bekannte) mit sich selbst verglichen werden. (Das aber werde hübsch deducirt. —) Es ist zur Zeit nichts bekannt, als Realität, u. ihr Gegensaz Negation, welche durch die Anschauung des Ich gegeben wurde. Soll außer Realität noch etwas seyn, so muß das Ich dem Ich selbst entgegengesezt werden können u. aus dem Gegensatze des Ich1 gegen das Ich2. muß sich das dritte ergeben, wenn es möglich. c.) Heischesaz. — Im Bewußtseyn kann das Ich dem Ich entgegengesezt werden. — Bestimmterer Modus — erinnere Dich einer gehabten Empfindung. Das errinnernde ist Dein Ich; das die Empfina

 [am Rande neben dem vorstehenden Absatz ohne Vermerk] Freude über Freude!

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bene, se quei caratteri non sono presenti in C in un senso diverso che in A. — x deve, dunque, essere un concetto. — Che cosa significa qui un concetto? C deve essere differente da A e da –A in un altro riguardo ancora rispetto a quello della realtà. — Nel nostro spirito ci dev’essere, dunque, qualcos’altro ancora oltre alla realtà. — Questo ci ricondurrebbe al nostro Io. — Seconda intuizione. — Si sente la propria egoità, ora più, ora meno. — Questo non va. — Tuttavia, potrei costruire la cosa solo sull’Io? — Allora si dovrebbe contrapporre l’intuizione dell’Io all’intuizione dell’Io stesso, — e in tal modo verrebbe fuori la quantitàa . |  a) C deve unire realtà e non-realtà, ciò che si contraddice, perché C dev’essere uguale a sé stesso. Con ciò, però, la realtà sopprimerebbe la non-realtà e C sarebbe = nulla. — Ora, se C non dev’essere = nulla, deve avere in sé, oltre alla realtà e alla non-realtà, che si annullano reciprocamente, ancora un terzo termine, che non sia né realtà, né non-realtà. Un simile terzo termine è però sconosciuto (finora non è dato in alcuna intuizione). b) Per trovarlo, l’Io (l’unico termine finora conosciuto come realtà), deve essere confrontato con sé stesso (ma questo sarà dedotto per bene —). Per il momento non si conosce nient’altro che la realtà e il suo opposto, la negazione, realtà che è stata data mediante l’intuizione dell’Io. Se, oltre alla realtà, dev’esserci ancora qualcosa, l’Io deve poter essere opposto all’Io stesso e, a partire dall’opposizione dell’Io1 all’Io2, deve risultare, se possibile, il terzo termine. c) Postulato. — Nella coscienza, l’Io può essere opposto all’Io. — In modo più determinato, — ricordati di una sensazione provata. L’Io che ricorda è il tuo Io, quello che ha prova-

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 [a margine, accanto al capoverso che precede, senza rinvio] Gioia su gioia!

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dung gehabt habende Dein Ich. — Den Stoff, u. alles abgerechnet, was Du jezt nicht bedarfst, so wirst Du bemerken, daß Du Dein Ich oder Gehabthabende dunkler denkest, als das der habende. — Es ist also 〈im〉 Ich, nur das Mehr oder weniger. — oder ein anderes. Stelle Dir Dein Ich vor, u. setze es dem Nicht Ich entgegen: fahre so fort, so wirst Du merken daß der Gegensaz heller wird; wodurch unterscheidest Du die Anschauung deines Ich vor 2. Minuten von der jetzigen. — Durch die Quantität.a Also die Realität selbst kann von Realität unterschieden werden, durch ein drittes; u. das heißt (Maaß.) Quantität . . Setzet C. habe ein Maas von Realität, so kann es ein gewißes Maas der Realität von A. u. ein gewißes Maas der Negation von –A. haben; es hat weniger | Realität als A, u. mehr als –A. So etwas nennt man eingeschränkt (limitirt). C. ist eingeschränkt durch A u. –A. d.) Alles was verschieden von einem andern C. x. [ist,] ist (durch daßelbe) eingeschränkt — denn, verschieden heißt gleich u. entgegengesezt zugleich; soll dies sich nicht gegenseitig aufheben, u. das gesezte vernichten, so muß man sich ein Maas der Gleichheit, u. des Gegensatzes denken, u. dieses Maas ist eine Schranke.b e.) Alles was von A verschieden ist, ist zugleich von –A verschieden. Denn C soll gleich seyn A: insofern aber muß es entgegengesezt seyn –A. u. entgegengesezt A, in sofern also gleich –A. demnach –A gleich u. entgegengesezt zugleich; also verschieden. a

 [am Rande der Seite ohne Bezugsvermerk] Dieses leztere Beispiel recht bestimmt hingestellt. . — b  [am Rande ohne Vermerk] 〈Gäbe〉 Maas Realität. Angemeßenheit, Unbeschränktheit. Allheit. — Gegensaz. Einheit.— Vielheit.

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to la sensazione, è il tuo Io. — Tolta la materia e tutto ciò di cui ora non hai bisogno, noterai che pensi il tuo Io, ovvero quello che ha provato la sensazione, in maniera più oscura di quello che la prova ora. — Nell’Io c’è dunque solo il più o il meno — oppure qualcos’altro? Rappresentati il tuo Io e opponilo al Non-Io; prosegui e ti accorgerai, così, che l’opposizione diviene più chiara. Per mezzo di che cosa distingui l’intuizione del tuo Io di due minuti fa dall’attuale? — Per mezzo della quantitàa. Dunque, la realtà stessa può essere distinta dalla realtà per mezzo di un terzo termine, che si chiama (misura) quantità. Poni che C abbia una quantità misurabile di realtà; allora C può avere una certa misura della realtà di A e una certa misura della negazione di –A. C ha meno | realtà di A e più di –A. Una cosa del genere si chiama limitata. C è limitato da A e da –A. d) Tutto ciò che è differente da un altro C, è x ed è (da esso) limitato. — Infatti, differente significa, insieme, uguale e opposto. Se l’uguale e l’opposto non devono sopprimersi reciprocamente e annientare ciò che è posto, allora si deve pensare una misura dell’uguaglianza e dell’opposizione e questa misura è un limiteb. e) Tutto ciò che è differente da A, è insieme differente da –A. Poiché C dev’essere uguale ad A, in quanto tale deve però essere opposto a –A. Dev’essere opposto ad A e, in quanto tale, dunque, dev’essere uguale a –A. Di conseguenza, esso dev’essere insieme uguale e opposto a –A e dunque differente.

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a

 [a margine della pagina, senza segno rinvio] Quest’ultimo esempio è addotto in modo ben mirato. — b  [a margine, senza rinvio] Ci sarebbero: misura realtà. proporzione, illimitatezza. totalità. — opposizione. unità.— pluralità.

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f. Jedes beschränkte Ding ist also von 2. Seiten beschränkt von A u. von seinem entgegengesezten –A. C. ist dem nach vom Ich u. Nicht-Ich verschieden, gegen beide beschränkt, dem Wesen nach beiden gleich, u. entgegengesezt. Jezt möchte ich auf den realen Zusammenhang zwischen C u. A u. C u. –A. über[gehen]. Der logische ist hier ein realer. — Aber Du willst Nothwendigkeit des Denkens. Diese ist schon hier, durch den Widerspruch zugesichert. Das Widersprechende kann ich nicht denken. Um dem Widerspruche auszuweichen muß ich denken. Also. Wie C. von A u. –A. verschieden seyn könne, ohne sich auf zu heben, einzusehen, musten wir in C. u. in A u. in –A. ein Maas annehmen. Jezt könnten wir auch recht füglich zeigen, daß C. zugleich A u. –A. beschränkt. — Mithin. A u. –A. wird durch C. beschränkt. A hat demnach auch Negation, u. –A auch Realität in sich. — Sie beschränken sich: also um etwas in C. zu verstehen muß man auf A u. –A gehen, und um etwas in A u. –A. zu verstehen muß man auf C. gehen. So etwas heißt beziehen. C muß also auf A u. –A. u. | beide auf C. bezogen werden. — Gäbe die Kategorie der Relation; diese Substanz Accidens Kausalität, Konkurrenz Selbstthätigkeit, Empfänglichkeit etc. Diese leztere die Kategorie der Modalität . / Denkstufe. — wie Denkform. Ein beiläufiger Gedanke. — Wie wäre es, wenn ich erst eine Philosophie bloß aus Begriffen vorausschikte. A entgegengesezt –A. A soll seyn = –A in C. — C > oder oder o < A. C> o A ist demnach verschieden vom A ist nur zu bestimmen durch das Maaß der Realität von A ist entgegengesezt einem Theile in A è differente dal < A —a. / Ovvero, la misura della negazione di > A è da determinare solo mediante la misura della realtà di < A e viceversa. — |  D i c o n s eg u e n z a , A p u ò e s s e r e r i fe r i t o s o l o a sé s t e s s o b. 2) Così come in A viene modificata la misura della realtà, in C (ammesso che C sia = C), viene modificata la misura dell’identità ad A. — / Il contrario si contraddice. — A viene riferito solo a sé stessoc. Di conseguenza, la misura dell’identità di C ad A, — come è già stato chiarito sopra, si deve determinare solo mediante la relazione di C con A, e cioè mediante la relazione non con il determinato A (la cui misura è data), bensì con A in generale, con l’A determinabile, / che permane come A rispetto a C, ma non rispetto alla misura della sua identità a C53. — A, pertanto, in relazione con C, è permanented. / Rispetto alla relazione necessaria di C con esso, A è un unico e identico A. — Ma rispetto ad A / e all’identità ad A, — C è di misura mutevole. — Pertanto, A è sostanza e C accidente. / A questo punto soffermati un momento e chiarisciti

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a

 [a margine] (Una parte in > A è opposto a una parte in < A).  [a margine, senza rinvio] Trovo molto agevolmente il flusso, collegando l’intuizione della misura con il concetto della differenza. — Il mutamento del flusso equivale a differenza della misura, ferma restando l’identità della realtà. c  [a margine, senza rinvio] Nel frattempo proviamo, solo fino a quando sapremo come stanno le cose con –A. d  [a margine, senza rinvio] –A non è affatto 0, ma una grandezza negativa54. b

54 

Diversamente da quanto affermato a p. 307: «Ma A non dev’essere = 0 (altrimenti sarebbe = Non-Io», qui si dice invece che neanche –A è = 0, ma piuttosto una grandezza negativa, il che sta a indicare che A e –A si collocano sulla medesima linea di continuità, di cui rappresentano i punti estremi.

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eine gewiße Realität von A. u. ist insofern identisch mit A. — Die Realität in A ist nicht immer gleich: die in C. soll immer gleich seyn / wie wir unterdeßen annehmen können: dann wäre die Identität C. mit A. veränderlich. — A verändert sich selbst. A. verändert mithin seine Identität mit C. — C ist also in Beziehung auf A, in seiner Identität mit A. (denn nur davon ist die Rede, nicht aber von der Realität an sich, — drum werde oben ja erinnert, daß wir auf die Art der Beziehung ausgehen) veränderlich. (dem Maaße nach) A. aber für C. dauernd; denn es ist bei A nicht vom Maaße, sondern von der Realität die Rede. — Corol. — A ist für C. Realität. — C. für A. Maaß. — A ist die Quelle der Realität: C. existirt bloß u. durch Beziehung auf A. — |  FolgeSätze 1.) Jede Substanz wird auf ihr Accidens bezogen, als Realität; das Accidens als ein bestimmtes Maas derselben. 2.) nicht die Realität des Accidens, sondern das Maas ist veränderlich 3.) nur das ist Substanz, was insofern / in Rüksicht seiner Realität nur auf sich selbst bezogen 4.) nur das ist Accidens, was in Absicht des Maaßes seiner Identität mit einem etwas bloß auf dieses etwas bezogen werden kann. — Giebt eine Definition der Substanz, u. Accidens; die sie von allen unterschiede, welche erst im folgenden Theile kommen kann. — A. läßt sich auf C. nur in einerley Rüksicht beziehen, u. in einer bestimmten Rüksicht. A. ist nicht nothwendig an sich; sondern nur für C. — C ist nicht zufällig an sich, sondern nur für A. Wie nennt man nun diese Dinger deutsch. —? Bestimmend, bestimmte. — Nein. — Wenn ich sie werde ganz definirt haben, so werde ich sie wohl benennen können. — Jezt gehe auf –A. So wie in C. das Maas seiner Identität mit A verändert wird, wird auch das Maas seiner Identität mit –A. verändert. 55 

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Cfr. pp. 283-85.

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dapprima questo. C ha una certa realtà da A e, in quanto tale, è identico ad A. — La realtà in A non è sempre uguale, quella in C dev’essere sempre uguale, / come intanto possiamo ammettere. In questo caso l’identità di C ad A sarebbe mutevole. — A modifica sé stesso. Quindi, A modifica la sua identità a C. — Di conseguenza C, in relazione con A, nella sua identità ad A (perché solo di questo si tratta e non della realtà in sé; — per questo motivo è stato ricordato sopra55 che noi andiamo in cerca del tipo di relazione), è mutevole (secondo la misura). Ma A è permanente per C perché, per quanto riguarda A, non è in questione la misura, ma la realtà. — Corollario. — A è realtà per C. — C è misura per A. — A è la sorgente della realtà. C esiste esclusivamente e mediante la relazione con A. — |  Corollari. 1) Ogni sostanza è riferita al suo accidente, come realtà; l’accidente è riferito alla sostanza, come a una sua misura determinata. 2) Ciò che è mutevole non è la realtà dell’accidente, ma la misura. 3) Sostanza è soltanto ciò che, / riguardo alla sua realtà, è riferito unicamente a sé stesso. 4) Accidente è solo ciò che, per quanto concerne la misura della sua identità a qualcosa, può essere riferito esclusivamente a questo qualcosa. — C’è una definizione della sostanza e dell’accidente che li distingue da tutto e che può comparire solo nella parte che segue. — A si può riferire a C solo in un unico e determinato rispetto. A non è necessario in sé, ma lo è solo per C. — C non è contingente in sé, ma solo per A. Come si chiamano queste cose in tedesco? — Determinante, determinato? — No, — solo quando le avrò compiutamente definite potrò anche denominarle. — Ora passo a –A. Così come in C viene modificata la misura della sua identità ad A, allo stesso modo viene anche modificata la misura

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(— Es geht im umgekehrten Verhältniße: je weniger Identität mit A. — desto mehr mit –A.) Da C. nur auf A. beziehbar ist, so ist seine Identität mit –A. nur durch Beziehung auf A. bestimmt. –A wird also auch auf A. bezogen: das müste heißen: es giebt in A eine Identität mit –A. da es doch nur Gegensaz giebt — Doch wir wollen sehen; in Absicht der Qualität kann es nicht seyn; vielleicht in Absicht des Maaßes. Der Identität von C. Die Identität C. mit A u. –A. steht im umgekehrten Verhältniße.a Wird C. mehr identisch mit A. so wird es weniger identisch mit –A. Und wird es weniger identisch mit A. so wird es mehr identisch mit –A.b |  Es würde dem nach in A ein –A aufgenommen. (Das widerspricht sich nun, wenn von der Qualität die Rede ist. Aber wie denn Quantität. —) In das vom A was in C ist, wird eine größere Quantität –A aufgenommen: also in die Quantität der Identität. — Das Ich hat demnach eine doppelte Beziehung in C. a.) als Wesen [(]daurend[)] Qualität. b.) als das womit es identisch ist. Das wird vermehrt, u. vermindert — durch die mehrere oder mindere Identität mit –A. / A. wird demnach durch –A. wohl modificirt, nemlich in Rüksicht der Quantität seiner Identität mit C. — Ich ist demnach zu betrachten, der Qualität nach; schlechthin Realität, u. –A schlechthin Negation. a

 [ am Rande ohne Vermerk] NB. = Hier werden die Buchstaben verändert werden müßen, oder Du bist flöten mit Deiner Demonstration b  [am Rande ohne Vermerk] A ist in Beziehung auf C. etwas anderes, als in Beziehung auf –A. wohl gemerkt. — Auf –A ist es bloß Realität, auf C. ist es Substanz. — 56  Che non possa esserci identità tra Io e Non-Io per quanto concerne la qualità dipende dal fatto che solo il primo è realtà, mentre il secondo

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della sua identità a –A (— procede secondo un rapporto inversamente proporzionale: quanto minore identità ad A, — tanto maggiore a –A). Poiché C può essere riferito solo ad A, la sua identità a –A è determinata solo dalla sua relazione con A. Dunque, –A è riferito anche ad A. Questo dovrebbe significare: c’è in A un’identità a –A, mentre tra essi c’è solo opposizione. — Ma vogliamo approfondire. Rispetto alla qualità, non può esserci identità56. Può forse esserci rispetto alla misura, rispetto all’identità di C? L’identità di C ad A e a –A sta in rapporto inversamente proporzionalea. Se C diviene più identico ad A, allora diviene meno identico a –A, e se diviene meno identico ad A, allora diviene più identico a –Ab. |  Di conseguenza, in A verrebbe ammesso un –A. (Ora, questo si contraddice se si tratta della qualità. Ma come stanno le cose se si tratta della quantità? —). In quel che di A è in C, è ammessa una maggiore quantità di –A e, dunque, nella quantità di identità. — Di conseguenza, l’Io ha una doppia relazione in C. a) Come essenza (permanente), come qualità. b) Come ciò a cui esso è identico. Questo viene aumentato o diminuito — mediante la maggiore o minore identità a –A. / Pertanto, A viene modificato da –A, e precisamente rispetto alla quantità della sua identità a C. — Perciò, secondo la qualità, l’Io dev’essere considerato come pura e semplice realtà, mentre –A come pura e semplice negazione.

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a

 [a margine, senza rinvio] N.B.: = Qui le lettere dovranno essere cambiate, altrimenti ti perdi nella tua dimostrazione. b  [a margine, senza rinvio] In relazione con C, A è qualcosa d’altro che in relazione con –A. Beninteso, — in relazione con –A è pura realtà, in relazione con C è sostanza. — è negazione, così come già più volte affermato e come verrà ribadito anche nella pagina successiva.

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Oder bestimmter, ein quantibles Ich, das der Quantität fähig ist; nun ist es als Qualität derselben nicht fähig; mithin als Substanz, d. h. als etwas, das mit einem C. mehr oder minder Identität hat. Diese mehrere oder mindere Identität ist nur durch Beziehung auf die entgegengesezte Größe bestimmbar. — D.i. die entgegengesezte Größe ist Ursache; u. das Accidens an der Substanz Wirkung. — So läßt es sich hören; aber treibst Du Dich nicht im Zirkel herum; Du hast schon Quantität; — aber eben diese Quantität werde wieder auf einen Widerspruch hinaus geführt, wenn nicht.? — C. Accidens ist. — Wir wißen anfangs nicht ob A u. –A. Größen seyen. — Durch die Kategorie der Beziehung wird es erst klar, daß sie es seyen. —) Aber sollte ich nicht vielleicht der Analogie nach von Realität, Negation, Limitation erst zum Begriffe der Denkstufen fortgehen. Jezt. Muth! — Nous verrons. — Von der Deduction der Substanz wieder angefangen. A. ist offenbar in 2. Bedeutungen gebraucht. — Also setze hinführo A. u. A+x. — C. muß A. u. –A. gleich, u. entgegengesezt zugleich seyn, welches sich widerspricht; ohne ein drittes x. — Also C sey = A — A +.x. Wird eine Anschauung des x. postulirt / Sie soll an A seyn; aber warum eben an A, u. nicht auch an –A? Nicht-A ist auch Realität; nur entgegengesezte. — Nein — das wißen wir nicht. — |  Diese neue Anschauung des A. gebe x. das Maas. — Ax. / ein meßbares Ich.) giebt im Gegensatze –Ax. / ein meßbares Nicht-Ich. C. sey also quo[a]d x. gleich u. entgegengesezt. A. u. –A. welches wohl möglich ist. Ax giebt A1. A 2. A3. etc. — In A1. A 2. A3. ist x = –A. welches sich widersprechen würde. Wir haben demnach ein Absolutes (A.) u. ein bestimmbares (Ax.) Ponatur A u. Ax.

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Oppure, in modo più determinato, un Io quantificabile, suscettibile di quantità. Come qualità, e quindi come sostanza, vale a dire come qualcosa che ha una maggiore o una minore identità a C, l’Io non è suscettibile di quantità. Questa maggiore o minore identità è determinabile solo mediante la relazione con la grandezza opposta. — Vale a dire, la grandezza opposta è causa e l’accidente, nella sostanza, è effetto. — Così la cosa mi sta bene, ma non ti muovi in circolo? Hai già la quantità, — ma proprio questa quantità non condurrebbe, di nuovo, a una contraddizione? — C è accidente. — All’inizio non sappiamo se A e –A siano grandezze. — Che lo siano, diventa chiaro solo mediante la categoria della relazione. — ) Ma, per analogia, non dovrei, forse, abbandonare realtà, negazione e limitazione per giungere al concetto dei gradi del pensiero? Su, coraggio! — Nous verrons. — Cominciamo di nuovo dalla deduzione della sostanza. A è manifestamente impiegato in due accezioni. — Dunque, d’ora in poi poniamo A e A + x. — C dev’essere, insieme, uguale e opposto ad A e a –A, ciò che, senza un terzo termine x, si contraddice. — Dunque, C è = A — A + x. Se viene postulata un’intuizione di x, / essa dev’essere in A. Ma perché proprio in A e non anche in –A? Non-A è anch’esso realtà, solo, è realtà opposta. — No, — questo non lo sappiamo. — |  Questa nuova intuizione di A darebbe x, la misura, — Ax. / un Io misurabile). Nell’opposizione c’è –Ax / un NonIo misurabile. Dunque C, in quanto è x, è uguale e opposto ad A e a –A, ciò che è ben possibile. Ax dà A1, A 2, A3, etc. — In A1, A 2, A3 x = –A, ciò che sarebbe contraddittorio. Di conseguenza, abbiamo un assoluto (A) e un determinabile (Ax). Ponatur A e Ax.

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C sey zum Theil identisch mit A / so ist C = Ax[,] zum Theil identisch mit –A / so ist C. = –Ax.) Demnach wäre Ax = –Ax.)

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Ein Maas muß bestimmt seyn: es ist eine begrenzte Größe —a Aus dem Charakter des Maaßes analytisch leicht zu entwikeln: der ist durch Anschauung gegeben. Ein Maas hat 2. Grenzen wo es an A. u. an –A. grenzt. Das Maas von A kann nur bestimmt werden durch Beziehung auf A. — A ist als Realität angenommen worden[.] –A ist nur bekannt, als das Gegentheil von A. mithin muß man A1 A 2. etc. mit dem absoluten A. vergleichen; das übrige ist –A. C ist = Ax. mithin auch = –Ax. — Man setze das A im C. werde vermehrt oder vermindert welches möglich ist, so wird so das Maas seiner Identität mit dem absoluten A. verändert.b Nun ist das A in C. bloß auf das absolute A. beziehbar; die Quantität dieses A, oder seine Identität mit dem absoluten A. ist nur durch diese Beziehung bestimmbar. — Das also, worauf C. bezogen wird ist daurend A. — das aber worauf A in C. bezogen wird, veränderlich, einer verschiednen Quantität fähig. |  A ist absolut, u. nur in C. bestimmbar. Das nennt man Accidens. C. (das ganze C. nicht etwa nur A in C.) ist Accidens des absoluten A. / der Substanz. —c a

 [am Rande ohne Vermerk] Ein Maaß muß bestimmbar seyn: eine begrenzbare Größe. — / Hier must Du Maaß mit Möglichkeit zusammen 〈nehmen〉 denkbar: ich habe postulirt. Das gebe 〈schon〉 A1. A2. A3. = Ax. (Substanz.) b  [am Rande ohne Vermerk] Der Beweiß muste nur umgeworfen werden. — Recht einleuchtend ist er noch nicht. c  [am Rande ohne Vermerk] aber eben durch 〈deine〉 absoluten forderst du was bewiesen werden soll. — Keinesweges: ich nehme es unterdeßen nur an. —

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C è in parte identico ad A, / e così C è = Ax, in parte è identico a –A, / e così C è = –Ax). Di conseguenza, Ax sarebbe = –Ax). Una misura dev’essere determinata, essa è una grandezza limitataa. — Lo si può sviluppare analiticamente con facilità, partendo dal carattere della misura, carattere che è dato dall’intuizione. Una misura ha due limiti, nei quali confina con A e con –A. La misura di A può essere determinata solo mediante la relazione con A. — A è stato assunto come realtà. –A è conosciuto solo come il contrario di A. Pertanto A1, A 2, etc. si devono comparare con l’A assoluto; il resto è –A. C è = Ax; quindi è anche = –Ax. — Poniamo che l’A in C venga aumentato o diminuito, ciò che è possibile; in questo modo la misura della sua identità all’A assoluto è modificatab. Ora, l’A in C è riferibile esclusivamente all’A assoluto. La quantità di questo A o la sua identità all’A assoluto è determinabile solo mediante questa relazione. — Quindi, ciò a cui C viene riferito, è l’A permanente. — Ma ciò a cui A viene riferito in C è mutevole, suscettibile di una quantità differente. |  A è assoluto, è determinabile solo in C, ed è quel che si chiama accidente. C (l’intero C e non, per caso, solo A in C), è accidente dell’A assoluto, / della sostanzac. —

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a

 [a margine, senza rinvio] Una misura dev’essere determinabile, dev’essere una grandezza limitabile. — / Qui devi unire la misura con la possibilità. È pensabile, l’ho postulato. Questo darebbe già A1, A2, A3 = Ax (sostanza). b  [a margine, senza rinvio] La dimostrazione dovrebbe solo essere capovolta. — Essa non è ancora pienamente illuminante. c  [a margine, senza rinvio] ma proprio con i tuoi assoluti pretendi quel che dev’essere dimostrato. — Assolutamente no, lo ammetto solo nel frattempo. —

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Geh’ über auf –A. C = Ax –Ax.) — verschieden vom absoluten A — u. absoluten –A. / Muß ich auch ein absolutes –A. annehmen; so müste C. wohl auch Accidens von –A werden. ? / –A ist nur absolut negativ. — Das Maas von A in C. war nur bestimmbar durch seine Beziehung auf A. Dadurch nun wird zugleich das Maaß von –A in C. bestimmt. Angenommen C = C. so ist alles in C. was nicht A ist –A. — Nun aber kann von A mehr oder minder in C seyn (mithin mehr oder minder –A.) — Die Bestimmung durch das absolute A ist bis jezt bloß Bestimmbarkeit, noch nicht wirkliche Bestimmung. — Darf ich wirklich als bekannt voraus setzen: nicht bloß postuliren. Jedes Maas muß eine Realität seyn: — ein reales Maaß ist wirklich. — Aber real / wird aus der Anschauung als bekannt vorausgesezt. . Ein Maas muß wirklich begrenzt seyn: ein Maas muß eine Realität ein reales Quantum seyn. —a Das Maaß der Identität in C. mit A, u. –A. muß demnach bestimmt begrenzt seyn. Durch Beziehung C. auf absolutes A. sehe ich nur daß [A] begrenzbar ist[,] A ist veränderlich in C. — Nun soll es aber auf eine bestimmte Art verändert seyn; gegeben, begrenzt. — In C. ist ein A — A von einem gewißen Maaße. — Das Verhältniß zu einander ist bestimmt[,] wenn C ist = ½A so ist es nothwendig = ½–A. — So muß es seyn laut des Satzes des Widerspruches. —b aber warum ist es eben ½, u. |  a

 [am Rande ohne Vermerk] Nach, u. nach bei Absonderung deßen, was zur Anschauung, u. zu bloßen Begriffen gehört, wird sich das alles schon geben. b  [am Rande ohne Vermerk] Also Realität — NichtRealität[.] Maas Anschauung — nicht Realität, unbestimmtes mögl. Maas — mit absoluter Realität verbunden, Substanz, Accidens. Maas, mit Realität verbunden — wirkliches Maas — mit der Negation, Ursache, u. Wirkung. — mit beiden; Wechselwirkung.) —

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Ora passo a –A. C = Ax e –Ax), — differente dall’A assoluto — e dal –A assoluto. / Se devo ammettere anche un –A assoluto, allora C non dovrebbe diventare anche accidente di –A? / Ma –A è soltanto assolutamente negativo. — La misura di A in C era determinabile solo mediante la sua relazione con A. Ora, per questo motivo, viene insieme determinata la misura di –A in C. Se si ammette C = C, allora tutto ciò che in C non è A, è –A. — Ma in C può essere più o meno A (e quindi più o meno –A). — La determinazione mediante l’assoluto A è finora pura determinabilità e non ancora determinazione effettiva. — Posso effettivamente presupporla come conosciuta, e non semplicemente postularla? Ogni misura dev’essere una realtà; — una misura reale è effettiva. — Ma reale / è presupposto come noto a partire dall’intuizione. Una misura dev’essere effettivamente limitata; perciò una misura dev’essere una realtà, un quantum realea. — Di conseguenza, in C la misura dell’identità ad A e a –A deve essere limitata in modo determinato. Per mezzo della relazione di C con A assoluto, vedo solo che A è limitabile, che A è mutevole in C. — Ma esso dev’essere modificato in un modo determinato, dev’essere dato, limitato. — In C è un A, — un A di una certa misura. — Il rapporto reciproco è determinato, se C = ½A, allora è necessariamente = ½ –A. — Così dev’essere in conformità con il principio di non contraddizioneb. — Ma perché esso è proprio ½ e |  a

 [a margine, senza rinvio] Gradualmente, con la distinzione di ciò che appartiene all’intuizione o al puro concetto, tutto si chiarirà. b  [a margine, senza rinvio] Dunque, realtà — e non-realtà. Misura, intuizione; — non-realtà, misura indeterminata possibile. La misura, — collegata con la realtà assoluta, dà la sostanza e l’accidente. La misura, collegata con la realtà, — dà la misura effettiva; — collegata con la negazione, dà la causa e l’effetto; — collegata con entrambi, dà l’azione reciproca). —

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nicht ¼ oder ⅓ u.s.f. — A ist bestimmt in C. aber warum eben so, oder so viel? 1.) müste eine Berechtigung aufgezeigt werden, nach diesem warum? zu fragen: nach dem Grunde 2.) wie kommst Du nun auf den Grund. — Widerspricht sich ein unbestimmtes Maas: ja freilich denn es ist eine Realität: ohne Realität gedacht ist das Maas bloß bestimmbar. Du verbindest Realität mit Maas; so ist es bestimmt. — Was nöthigt Dich es zu verbinden. — Das Bedürfniß Deines Geistes. Also in C. sey das Maas des A u. das des –A bestimmt gegeben . / kann ohne eine Anschauung nicht geschehen: und leider hast du die erst zu deduciren. — Ginge ich also nur fort. — Doch ja Anschauung giebt Realität. Realität ist da. Also — das Maas v. A u. –A. selbst sey eine Realität. Diese Realität kann nicht bestehen aus Beziehung auf das absolute A / denn in diesem ist das A. unbedingt durch’s Maas unmeßbar. — Das Meßen des Ax in C. ist dem nach nur möglich durch’s Maas des –A. Nun ist es real; mithin ist es durch das Maas des –A realisirt; so etwas aber nennt man Wirkung. C. ist Wirkung von –A. u. –A. Ursache. Mithin ist A modificirbar durch –A. / nicht insofern es das absolute A; so[n]dern insofern es das meßbare A ist: u. eine Wirkung von –A. kann eine Modification von A als Substanz gedacht werden. Soll A. modificirbar seyn, so muß es die Modificirbarkeit durch –A haben / Receptivität. Soll eine Wirkung von –A. Modification des absoluten A werden können, so muß sie seiner absoluten Realität identisch seyn. — / Spontaneität. —a Seine absolute Realität wird bloß durch sich selbst bestimmt. Mithin auch dasjenige in C. was durch A. bestimmt wird, durch Spontaneität.b | 

a

 [am Rande ohne Vermerk] Wechselwirkung.  [am Rande ohne Vermerk] Nur noch Zufälligkeit des Nichtichlich[en] in C. u. Nothwendigkeit des Ichlichen. — b

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non ¼ o ⅓ etc.? — A è determinato in C. Ma perché proprio così o in tale quantità? 1) Se si deve fornire una giustificazione a questo perché, ci si deve interrogare sul fondamento. 2) Ora, come arrivi al fondamento? — Una misura indeterminata si contraddice? Certamente sì, perché la misura è una realtà. Pensata senza realtà, la misura è unicamente determinabile. Se unisci realtà e misura, quest’ultima è determinata. — Che cosa ti costringe a unirle? — Il bisogno del tuo spirito. Dunque, in C la misura di A e quella di –A sono date e determinate. / Senza una intuizione non può aver luogo, e purtroppo devi prima dedurla. — Allora procediamo. — Certamente l’intuizione fornisce la realtà. La realtà c’è. Dunque, — la misura di A e anche di –A è una realtà. Questa realtà non può consistere nella relazione con l’A assoluto, / perché in questo l’A è assolutamente non misurabile mediante la misura. — Di conseguenza, la misurazione di Ax in C è possibile solo mediante la misura di –A. Ma essa è reale, di conseguenza è realizzata mediante la misura di –A; ma una cosa di questo genere si chiama effetto. C è effetto di –A e –A è causa. Di conseguenza, A è modificabile da –A / non in quanto è A assoluto, bensì in quanto è l’A misurabile. Un effetto di –A può essere pensato come una modificazione di A come sostanza. Se A dev’essere modificabile, allora deve avere la modificabilità mediante –A, / deve avere ricettività. Se un effetto di –A deve poter divenire una modificazione dell’A assoluto, dev’essere identico alla realtà assoluta di A, — / spontaneità. —a La realtà assoluta della spontaneità è determinata semplicemente da sé stessa. Di conseguenza, anche quel che in C viene determinato da A, è determinato dalla spontaneitàb. | 

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a

 [a margine, senza rinvio] Azione reciproca.  [a margine, senza rinvio] Ancora solo contingenza del nonegoico in C e necessità dell’egoico. — b

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Versuch das Ganze bis hie her in Buchstaben vorzustellen. A. entgegengesezt –A. In C. soll seyn A = –A. was ist C.? — Angenommen C = A. so ist es entgegengesezt –A oder C = –A, so ist es entgegengesezt A. / u. überhaupt kein C. so[n]dern A oder –A. welches sich widerspricht. Mithin C weder = A. noch = –A. noch entgegengesezt A. noch –A. mithin beides zugleich. — Wenn nun dies ist, so ist C = 0. welches der Voraussetzung widerspricht. / So wäre es allerdings: der Progreßus ist richtig: entgegengesezte Größen treffen sich nur in 0. Soll nun C. nicht seyn = 0. so muß in C. außer A u. –A. noch ein x. seyn, das weder A noch –A ist. — C wäre dem nach = A –A + x. — Was ist x. — x ist weder identisch mit A noch –A. noch ihnen entgegengesezt: sonst wäre C wie oben = A –A mithin = 0. Es ist mithin ihnen gleich u. entgegengesezt zugleich. — Dann aber wäre x = 0 u. 0 + 0. ist 0. ) — Also was ist x. x ist weder = A noch –A. noch entgegengesezt, noch beides zugleich. — Wir können ohne Anschauung[.] Aber A — A + x. ist x. Mithin C = x. u. gar kein A noch –A. welches der Voraussetzung widerspricht. — Hieraus läßt sich schon etwas auf x. schließen. / Da wir noch nichts haben, als Identität, u. Widerspruch so läßt sich nichts schließen (mithin die Anschauung des Mehr, u. Weniger nur gerade zu angenommen) x ist Maas. — C könnte demnach seyn ein Theil A ein Theil –A. so wäre in C A = –A. durch x. — / Aber setzet in C. das Maaß von A = dem Maaße von –A so ist C = 0. welches der Vorraussetzung widerspricht: oder in C A>–A so ist C eine Quantität A oder — A –A, allora C è una quantità A. — Se invece — poniamo A < –A, allora C è una quantità –A, ciò che contraddice la premessa. Ma distinguatur tra A realtà, Io, e Ax (–Ax) della quantità /

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Frage was ist’s / u. umgekehrt –A. Negation, und Ax (–Ax.) der Quantität. AR. ist unveränderlich. (A = A) aber Ax ist nicht unveränderlich Ax nicht = (Ax) x. muß seyn können = A u. zugleich = –A. — Ax ist nicht = Ax. — Was wäre denn nun das: Das ist das Maas. Setze AR. A = A. Setze Ax. (x sey Maas.) so ist Ax1. nicht nothwendig = Ax2. — Und so kann seyn in C. ein Ax. u. ein –Ax. |  AR. ist entgegengesezt –A.R. u. nie = –AR. Ax kann seyn = –Ax in C. oder >–Ax, oder –Ax o < Ax. (Postulatio. In C sono A e –AR. C ha A e –Ax. Per valutare la sua realtà, si deve riferirlo ad A; per valutarne la quantità, si deve riferirlo a –A). Questo è da dimostrare. — a (AR = AR ed è opposto a –AR (e così resta sempre). Ax è solo in C. Di conseguenza, C = AR). 0 non può essere = x e, di conseguenza, in C solo A = x. Pertanto) —) C = Ax. / poiché Ax è = –Ax e x è = –A. — In C devono essere A e x. Quel che è in C dev’essere = A. — Ma A, in C, è = x, vale a dire, in C A è misurabile, suscettibile di misurazione, e cioè C è accidente. Ma A, in quanto C è riferito ad esso, diviene stabilmente AR = AR e, quindi, sostanza. x in C è = –A (poiché grandezze opposte vengono misurate solo mediante il loro contrario). Il quanto si deve misurare non in riferimento alla realtà, ma alla negazione. Di conseguenza –A determina x in C. Questo significa che esso è la causa. — — Ogni misura è limitazione. Nel punto in cui è il limite, inizia il contrario. — Ogni confine è duplice. Dunque, il con-

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a

 [a margine, senza rinvio] AR.)

radossale affermazione, secondo la quale «Ax non è = Ax». Infatti, in questo contesto non è l’astratta identità con sé stesso di Ax che viene negata, ma quella concreta di un Ax determinato con un altro Ax, ugualmente determinato, ovvero, come suona la conclusione: «Ax1 non è necessariamente = Ax2».

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ten also geht das Gegentheil an: nun erkenne ich die Grenze bloß an Eintretung der Gegenseitigen Realität. — Also eine Limitation wird der Qualität nach auf die Realität bezogen; als Accidenz auf Substanz; der Quantität oder den Grenzen nach auf die Negation; als Wirkung auf die Ursache. — C = Ax. In C. ist ein Maaß der Ichheit. — C. hat demnach Qualität, u. Quantität. — Die Qualität ist = AR die Quantität A. / Setze C. sey = 3. / Nicht A in C. sondern 〈C.〉 C hat demnach an sich eine bestimmte Quantität. Nun ist es = 2 –A. mithin 1 A. — Aber warum kann ich denn die Quantität nicht gerade zu auf AR. beziehen, u. schließen C = 1 A mithin 2 –A. — Weil AR. keine Quantität hat. — Aber hat denn –A eine. Auch nicht. — Nur C. hat eine. — auch nicht A in C. hat eine. Nicht was A ist; sondern in wiefern C. A ist. — Also C. ist in Rüksicht auf A. begrenzt. — C ist identisch mit A. der Qualität nach. — Aber nicht den Grenzen nach. — Mithin müste der Begriff der | Quantität doch auf A. anwendbar seyn. es wäre dann unbegränzt. — Ja, er wäre allerdings anwendbar; aber in dem Gegensatze. AR. wäre = –x. / C aber = Ax. mithin x = –A. richtig algebraisch.) Dies angenommen (beweisen wollen wir es alsdenn) AR ist unbegrenzt. –AR. gleichfals unbegrenzt. C. ist ein begrenztes A also = AR in der Qualität; entgegengesezt AR. in der Quantität: insofern es nun AR. entgegengesezt ist, ist es = –AR. Also C. Qualität = A C. Quantität = –A. Q.E.D.a

a

 [am Rande ohne Vermerk] Welch’ eine Aussicht für’s unbedingte, wo die Grenzen weggelaßen werden sollen, u. für die MoralPhilosophie! Ich an sich (außer der Vorstellung) ist unbegrenzt, so auch das Nicht-Ich. Das absolute Nicht-Ich wäre dem59  Il fatto che C, rispetto ad A, sia limitato, indica il carattere finito di ogni singola rappresentazione; l’Io, che resta identico a sé stesso nell’avvi-

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trario inizia da entrambi i lati. Riconosco il limite semplicemente con il subentrare della realtà opposta. — Pertanto, secondo la qualità, una limitazione è riferita alla realtà come l’accidente alla sostanza; secondo la quantità o i limiti, alla negazione, come l’effetto alla causa. — C = Ax. In C è presente una misura dell’egoità. — Di conseguenza, C ha qualità e quantità. — La qualità è = AR, la quantità è = A. / Poni che C sia = 3. / Perciò non A in C, bensì C ha in sé una quantità determinata. Ora, C = 2 –A e quindi = 1 A. — Ma perché non posso allora riferire la quantità direttamente ad AR e concludere che C = 1 A e dunque = 2 –A? — Perché AR non ha quantità. — Ne ha, allora, –A? Nemmeno. — Solo C ha una quantità, — nemmeno A, in C, ne ha. Ha quantità non ciò che A è, ma nella misura in cui C è A. — Dunque, C rispetto ad A, è limitato, — C è identico ad A secondo la qualità, — ma non secondo i limiti59 —. Di conseguenza, il concetto di | quantità dovrebbe pur essere applicabile ad A, che allora sarebbe illimitato. — Certo, tale concetto sarebbe senza dubbio applicabile, ma al contrario. AR sarebbe = –x, / ma C sarebbe = Ax e, di conseguenza, x sarebbe = –A. Esatto dal punto di vista algebrico). Ammesso questo (lo dimostreremo successivamente), AR è illimitato. –AR è altrettanto illimitato. C è un A limitato e dunque è = AR per quanto concerne la qualità, è opposto ad AR per quanto concerne la quantità. Ora, in quanto è opposto ad AR, C è = –AR. Dunque C, come qualità è = A. C, come quantità è = –A. Q.E.D.a.

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a

 [a margine, senza rinvio] Quale prospettiva per l’incondizionato, nel quale si deve prescindere dai limiti, e per la filosofia morale! L’Io in sé (al di fuori della rappresentazione), è illimitato e così pure il Non-Io. L’assoluto Non-Io sarebbe allora Dio. Non cendarsi delle rappresentazioni, non si esaurisce in nessuna di esse, ma le trascende infinitamente e, in questo senso, è illimitato.

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Aber noch ist zu beweisen, quod AR = –x. A = R.  A ist Realität, Nun ist x. auch Nicht-Realität[,] denn x. hat Grenzen. Mithin A = –x. –A = –x. / setzet –A = x. so wäre x (von –A.) die Grenzen von –A = A. u. –A = A. — welches sich widerspricht. mithin. –A = –x. Mithin. A = –x u. –A = –x. Q.E.D. Aber beweise daß die Quantität nothwendig eine Realität sey, die von ihrer Negation begrenzt würde[,] daß x = A –A. / Jede Quantität begrenzt: eine unbegrenzte Quantität ist keine. / Der Saz ist freilich analytisch; aber wie kommst Du überhaupt zu dem Begriffe einer Quantität, ohne Anschauung?/ sey sie auch noch so 〈rein〉. — Quantität ist nur möglich durch Ausdehnung. — Oder durch bloße Realität: — Wenigstens aus dem Satze des Widerspruchs nicht — Nein aber aus dem synthetischen. In C = A –A. — welcher das schon sagt.a — Darin liegt schon C ist begrenzt.. |  In C ist A = –A. heißt schon, wenn es nicht gegen den Saz des Widerspruchs verstoßen soll: In C ist A durch –A. begrenzt: oder es hat Quantität. Daß man di[e]s aus der Anschauung hat wird zugestanden: es ist aber die eine primäre Synthesis: die ich freilich voraussetzen muß. — nach Gott. Sobald wir das unbegrenzte in C. aufnehmen wollen, müßen wir ihm Quantität, u. also Grenzen geben, u. es bleibt kein unbedingtes mehr. a  [am Rande] u. dieser ist aus der Anschauung; aber aus der allerersten. Im Bewustseyn werden A u. –A. entgegengesezt. 60  Questa

proposizione sintetica, che enuncia l’identità, in C, di A e –A, allude al risultato di un’operazione di astrazione, capace di risalire oltre l’ambito della coscienza e della rappresentazione, per cogliere la primissima intuizione, quella originaria che, per il fatto di non essere ancora innalzata alla coscienza, presenta in unità immediata i termini che l’intervento della

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Ma resta ancora da dimostrare quod AR = –x. A = R. A è realtà, ma ora x è anche non-realtà, perché x ha limiti. Di conseguenza, A = –x. –A = –x. / S  e ponete –A = x, allora x (di –A) costituirebbe i limiti di –A = A. Se –A = A, — ciò si contraddice. Dunque, –A = –x. Di conseguenza, A = –x e –A = –x. Q.E.D. Ma dimostra che la quantità è necessariamente una realtà, che sarebbe limitata dalla sua negazione, e cioè che x = A e –A. / Ogni quantità è limitata, una quantità illimitata non è quantità. / Questa proposizione è indubbiamente analitica. Ma come giungi, in generale, al concetto di una quantità senza intuizione, / sia essa ancora così pura? — La quantità è possibile solo mediante estensione — oppure mediante pura realtà. — Almeno, non lo è in base al principio di non contraddizione, — no, ma è possibile in base alla proposizione sintetica: in C = A = –A, — che già lo dicea. — In essa è già compreso che C è limitato. |  In C, A è = –A significa già, se non si deve violare il principio di non contraddizione, che in C, A è limitato da –A, ovvero, che esso ha quantità. Che ciò provenga dall’intuizione, viene ammesso. È però quella sintesi primaria che, ovviamente, devo presupporre. —

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appena vogliamo accogliere l’illimitato in C, gli dobbiamo conferire quantità e dunque limiti, e non resta più alcun incondizionato. a  [a margine] e questa [scil.: proposizione sintetica] deriva dall’intuizione, ma dalla primissima. Nella coscienza A e –A vengono opposti60. coscienza renderà irrimediabilmente contrapposti. Ovviamente, come viene specificato subito nel testo, si tratta della sintesi originaria, che non può essere esibita, ma solo presupposta, ricavata con il ragionamento, nel senso di postulata.

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Ganz von forn. A entgegengesezt –A. — In C. A = –A. — Setzet in C. sey x (eine Quantität um dem Widerspruche auszuweichen) so ist AR. = –x u. –AR. = –x. — 〈Denn〉 x = R. –R. etc. CR. = AR. u. Cx = –AR. C ist der Qualität nach gleich A u. der Quantität nach gleich –A. (weil A = –x ist ist Cx = C –A.) In der Vorstellung wird dem nach das Ich durch das NichtIch begrenzt, 1.) Die Vorstellung läßt sich ihrer Qualität nach bloß durch das Ich bestimmen: die Vorstellung muß also auf das Ich, als sich immer gleich,a bezogen werden. Das Ich ist in Beziehung auf die Vorstellung sich selbst gleich, u. daher Substanz. — (Das Ich aber in der Vorstellung ist einer Quantität fähig, mithin nicht sich selbst gleich = u. diese ist daher Accidens von ihm.) 2.) Die Vorstellung läßt der Quantität ihrer Qualität nach sich nur auf das NichtIch beziehen; weil dieselbe durch daßelbe begrenzt wird — 3.) solche Grenzen müßen nothwendig bestimmt seyn, wenn ein C. deßen Wesen in der Begrenzung besteht; da seyn soll; so etwas aber [,] das das Daseyn eines andern bestimmt, nennt man Ursache derselben. –A ist dem nach Ursache von C. 4.) C. muß in Absicht seiner Grenzen (der Grenzen seiner Qualität) nothwendig auf –A. bezogen werden. 5.) Das Wesen von C. als solchem besteht in einer Begrenzung[,] sonst wäre es nicht C. sondern A. selbst. Denn C. ist nur durch die Begrenzung von A. zu unterscheiden; soll also ein C. seyn, so müßen Grenzen deßelben seyn, die von –A. abhängen. |  6.) Dasjenige; was ein anderes in Absicht seines Daseyns bestimmt nennt man die Ursache deßelben: mithin ist –A die Ursache von C. als solchem / d.i. in sofern sein Wesen in der Begrenzung besteht. a

 [am Rande ohne Vermerk] identisch mit sich selbst,

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Daccapo. A è opposto a –A. — In C, A = –A. — Poniamo che in C sia x (una quantità, per evitare la contraddizione), allora AR = –x e –AR = –x, — in quanto x = R e –R, etc. CR = AR e Cx = –AR. C è uguale ad A secondo la qualità e, secondo la quantità, è uguale a –A (perché A è = –x, Cx è = C –A). Di conseguenza, nella rappresentazione l’Io è limitato dal Non-Io. 1) Secondo la sua qualità, la rappresentazione può essere determinata solamente dall’Io. La rappresentazione deve dunque essere riferita all’Io, in quanto esso è sempre uguale a sé stessoa. L’Io, nella relazione con la rappresentazione, è uguale a sé stesso e perciò è sostanza. — (Ma, nella rappresentazione, l’Io è suscettibile di quantità e, di conseguenza, non è uguale a sé stesso e, perciò, la rappresentazione è suo accidente). 2) Secondo la quantità della sua qualità, la rappresentazione si può riferire solo al Non-Io, poiché essa viene limitata da questo. — 3) Tali limiti devono essere necessariamente determinati se dev’esserci un C, la cui essenza consiste nella limitazione. Ma ciò che determina l’esistenza di un altro si chiama sua causa. Dunque, –A è causa di C. 4) Per quanto concerne i suoi limiti (i limiti della sua qualità), C dev’essere necessariamente riferito a –A. 5) L’essenza di C, in quanto tale, consiste in una limitazione, altrimenti esso non sarebbe C, ma lo stesso A. In effetti, C si deve distinguere da A solo per la limitazione. Pertanto, se dev’esserci un C, allora i suoi limiti devono dipendere da –A. |  6) Ciò che determina un altro per quanto concerne la sua esistenza si chiama causa. Pertanto, –A è la causa di C in quanto tale, / vale a dire, in quanto la sua essenza consiste nella limitazione.

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 [a margine, senza rinvio] identico a sé stesso,

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Hierbei die Frage: Ich unterscheide hier ein doppeltes (Wesen) in C. ein’s vermöge deßen ich es auf A beziehn muß; u. Eins vermöge deßen es Wirkung von –A ist. — Worin ist dieser Unterschied gegründet. — C ist identisch mit A. u. entgegengesezt A. — Die Identität gründet sich auf etwas positives Realität; der Entgegensaz auf etwas negatives Nicht-Realität; der aber in C. Realität wird; das ist er macht das Wesen von C. aus, in sofern es –A ist. Aber das ist immer die alte Leyer. — C. als C. muß begrenzt seyn laut der Definition, sonst würde es sich widersprechen. Die Grenzen sind also sein logisches Wesen. C. muß identisch seyn (nicht in Absicht der Grenzenlosigkeit, denn da ist es entgegengesezt) sondern in Absicht der Qualität / des realen Wesens mit A. — (Also Daseyn im Denken, / u. Daseyn im Anschauen ist der Unterschied.) Das Daseyn im Anschauen von C. / das wirklich empfundne Daseyn einer Vorstellung hängt von –A ab. Aber das Daseyn im Denken; die Möglichkeit der Vereinigung des A mit –A. hängt von A ab.? Wie wäre denn das. Da wäre ja wieder ein Zirkel. Nachher wollen wir das 〈wohl〉 beweisen. Aber hier sollte es uns nicht schon kommen. Können wirs aufschieben 〈ohne auch〉 einen Widerspruch 〈hinzunehmen〉? 1.) A auf C. bezogen ist nicht mehr das unbegrenzte A. sondern es wird darin begrenzt / nicht seiner Qualität nach; die ist sich immer gleich, sondern es bekommt eine Quantität, so etwas aber nennt man Accidens — C. ist dem nach Accidens von A. Aber was ist denn das für ein A, das unbegrenzbar ist, u. das dennoch in C. begrenzt wird: ist denn das ein u. eben daßelbe A. — das widerspricht sich. — Ich sage nicht das begrenzte das begrenzbare. Ist AR. begrenzbar, oder nicht. (AR ist positiv, bestimmt; es ist, was es ist; u. kann nichts anderes seyn.[)] — Ist C. begrenzbar. Ja. In C. ist demnach nicht das ganze AR. — sondern

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A tale proposito, si pone la questione: a questo punto distinguo una duplice (essenza) in C, una per la quale devo riferirlo ad A, e una per la quale esso è effetto di –A. — Su che cosa si basa questa differenza? — C è identico e opposto ad A. — L’identità si basa su qualcosa di positivo, la realtà. L’opposizione si basa su qualcosa di negativo, la non-realtà. Ma l’opposizione diviene realtà in C, cioè, essa costituisce l’essenza di C in quanto esso è –A. Ma è sempre la solita solfa! — Secondo la definizione, C, in quanto C, dev’essere limitato, altrimenti si contraddirebbe. Dunque, i limiti sono la sua essenza logica. C dev’essere identico ad A (non per quanto concerne l’assenza di limiti, perché in questo gli è opposto), ma per quanto concerne la qualità /dell’essenza reale. — (Dunque, la differenza è tra esistenza nel pensiero / ed esistenza nell’intuizione). L’esistenza di C nell’intuizione, / vale a dire l’esistenza effettivamente sentita di una rappresentazione, dipende da –A. Ma l’esistenza nel pensiero, la possibilità dell’unificazione di A con –A, dipende da A? E come sarebbe possibile questo? In tal caso ci sarebbe, ancora una volta, un circolo. Lo dimostreremo certo più tardi. Ma non ci tocca farlo già qui? Possiamo differirlo senza ammettere una contraddizione? 1) A, Riferito a C, non è più l’A illimitato bensì, nel suo riferimento a C, esso viene limitato, / non secondo la sua qualità, che è sempre uguale a sé stessa, ma riceve una quantità, ciò che si chiama accidente. — Di conseguenza, C è accidente di A. Ma che razza di A è mai questo, che è illimitabile e tuttavia viene limitato in C? È lo stesso e medesimo A? — Questo si contraddice. — Non confondo il limitato e il limitabile. AR è limitabile oppure no? (AR è positivo, determinato; esso è quel che è e non può essere nient’altro). — C è limitabile? Sì, e, di conseguenza, in C non è l’intero AR, — bensì

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nur ein kleinerer, oder größerer Theil deßelben. Insofern ist also A. begrenzbar; in einem dritten; es kann ihm mehr oder weniger seiner Realität mittheilen. — Mithin A ist begrenzbar, aber nur in einem dritten: C. — Dieses C. also hat einen Theil Realität; dieser läßt sich nur schätzen in Beziehung auf das unveränderliche A. / A in C. wird gar nicht auf sich selbst, | sondern auf AR. bezogen, u. insofern eben, u. darum ist AR. Substanz —Soweit richtig; aber noch einmal von forne. AR. bedeutet die (Ichheit) als — / beßer: Das Ich ist unbegrenzbar: ist das 〈wahr:〉 [„]ichlich“ ist 〈nur〉 eins; was ichlich ist, ist nicht nicht-ichlich — u. vice versa. — Es kann aber etwas mehr oder weniger ichlich seyn: — von diesem ist denn das „ichliche“ eine Eigenschaft: mithin wäre „ichlich“ eine Eigenschaft von C. — Nun muß C. „ichlich“ — in einem gewißen Maaße seyn: oder vielmehr „nicht ichlich“ ist es gar nicht, sondern bloß [„]ichlich“ Demnach giebt das Ich als Qualität, dem C. die seinige. — Aber die Ichlichkeit in C. ist begrenzbar durch –A. Also — die Ichlichkeit (als Qualität des C.) ist begrenzbar durch –A. — soweit richtig. — Das Ich, als unbegrenzbare, bestimmte positive Realität, (nicht als Eigenschaft von irgend etwas) werde bezogen auf C. (die Ichlichkeit in C.) so ist sie gegen jene / daurend –x. keiner Quantität fähig) umgekehrt ist C. gegen A nicht dauernd, sondern meßbar; in Absicht der Quantität mehr oder weniger Ich: — In C. also ist A. mehr oder weniger. — Also C. ist Accidens. A. Substanz. Hierbei: Sonst ist ja Accidens eine Eigenschaft eines für sich bestehenden Wesens; u. so ist es hier — C. ist Begrenzung des an sich unbegrenzten A. / A also ist unbegrenzt: aber auch unbegrenzbar? — nicht in C. aber an sich. C. ist Begrenzung: wird gefragt was begrenzt wird; so ist die Antwort A. wird gefragt was begrenzt; so ist die Antwort –A. (Noch ist A. auf –A in C. zu beziehen.)

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solo una sua parte più piccola o più grande. In quanto tale, A è quindi limitabile in un terzo termine e può partecipargli più o meno della sua realtà. — Di conseguenza, A è limitabile, ma solo in un terzo termine, C. — Questo C ha, quindi, una parte di realtà, che si può valutare solo in relazione con l’invariabile A. / A, in C, non è affatto riferito a sé stesso, |  bensì ad AR, e proprio in quanto tale e per questo motivo AR è sostanza. — Fin qui è esatto, ma riprendiamo ancora una volta dall’inizio. AR significa l’(egoità) in quanto [tale] — / o meglio: l’Io è illimitabile. Se questo è vero, allora “egoico” è uno solo. Quel che è egoico non è non-egoico — e viceversa. — L’Io può, tuttavia, essere un po’ più o un po’ meno egoico. — Infatti l’”egoico” è una sua proprietà e, di conseguenza, ”egoico” sarebbe una proprietà di C. — Allora C deve essere, — in una certa misura, “egoico”, o piuttosto, esso non è affatto “non egoico”, ma puramente egoico. Di conseguenza l’Io, come qualità, conferisce la sua qualità a C. — Ma l’egoità, in C, è limitabile da –A. Pertanto — l’egoità (come qualità di C) è limitabile da –A. — Fin qui è esatto. — L’Io, come realtà illimitabile, determinata e positiva (non in quanto proprietà di una cosa qualsiasi) è riferito a C (l’egoità in C). In tal modo l’egoità, al contrario di quel /–x, permanente, non è suscettibile di quantità). Viceversa C, al contrario di A, non è permanente, bensì misurabile. Per quanto concerne la quantità, è più o meno Io. — In C, dunque, A è più o meno. — Dunque, C è accidente e A è sostanza. Del resto, l’accidente è una proprietà di un ente che è per sé, ed è questo il caso attuale. — C è limitazione di A, che in sé è illimitato. / Dunque, A è illimitato, ma è anche illimitabile? — Esso non è illimitabile in C, ma in sé. C è limitazione e se si chiede: che cosa viene limitato? la risposta è: A. Se si chiede: che cosa limita? la risposta è: –A. (In C, A si deve ancora riferire a –A).

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Jezt noch die Frage über das doppelte Wesen von C. — C. ist seinem innern nach A. seinem äußern nach Begrenzung. — Was heißt nun hier inner u. äußer — In wieferne ist es wahr daß C = A ist. C. ist ichlich; also gleich der Art nach A. — Nicht aber gleich der Quantität nach sondern entgegengesezt .. — Unterscheide mir nun hübsch Art von Quantität: Was ist es; wie viel ist es; diese Frage weiß jeder zu unterscheiden. Nun besteht das Wesen von C., insofern es C ist, in der Begrenzung; sonst wäre C = A. — Aber halt: kann ich nicht umgekehrt sagen: das Wesen von A. besteht in Mangel der Begrenzung; sonst wäre es C. Darauf 1.) A ist nicht um C. willen, sondern C. um A willen. 2.) wenn es wäre, so kann daraus nichts folgen; denn –A. kann A nicht unmittelbar begrenzen. — Mithin wäre –A allerdings Ursache von C. insofern es C ist. |  C. ist Wirkung von –A. — nun aber ist C. Accidens von A. / beßer A wird in C. durch –A begrenzt. — nun ist diese Begrenzung auf A, als Substanz zu beziehen; mithin wirkt –A auf A insofern es Substanz ist; etwas[,] ein Accidens. — in A ist Wirkung von –A. Umgekehrt — eine Wirkung von –A. ist Accidens von A, u. seiner Qualität; mithin nimmt eine Wirkung von –A die Qualität von A an. — A u. –A stehen demnach in C. in Wechselwirkung. A ist auch Ursache. Je weiter –A C. begrenzt desto geringer die Quantität A. in C. — Je weniger es daßelbe begrenzt; desto größer die Quantität A. — Ist ein unfruchtbarer Saz, u. schon das obige. — / A bestimmt in C. sich selbst der Qualität nach: Was also in C — A ist kann nicht anders seyn. . / A = A. — Nun ist die Qualität C. = A. Setzen wir sie wäre = –A. so widerspräche dies der Annahme; das Gegentheil vom widersprechenden aber ist nothwendig. Also ist alles in C. was limitirt ist, nothwendig so —

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Riprendiamo la questione relativa alla doppia essenza di C. — Secondo la sua essenza interna, C è A, secondo la sua essenza esterna, limitazione. — Orbene, che cosa significano qui esterno e interno? — In che misura è vero che C = A? C è egoico, quindi, secondo il genere, è uguale ad A. — Ma non è uguale, bensì opposto ad A secondo la quantità. — Distinguimi per bene il genere dalla quantità: che cos’è? quanto è? Ognuno sa distinguere queste domande. Ora, l’essenza di C, in quanto è C, consiste nella limitazione, altrimenti C sarebbe = A. — Ma fermiamoci. Non posso dire, viceversa, che l’essenza di A consiste nella mancanza di limitazione, altrimenti sarebbe C? In proposito 1) A non è in funzione di C, ma C in funzione di A. 2) Se così fosse, da questo non potrebbe conseguire nulla, perché –A non può limitare A immediatamente. — Di conseguenza, –A sarebbe di certo causa di C in quanto è C. |  C è effetto di –A; — ma C è anche accidente di A, / o meglio, A è limitato in C da –A. — Ora, questa limitazione si deve riferire ad A in quanto sostanza e, di conseguenza, –A agisce su A in quanto è sostanza. Qualcosa, un accidente — in A, è effetto di –A. Viceversa, — un effetto di –A è accidente di A e della sua qualità. Di conseguenza, un effetto di –A assume la qualità di A. — Pertanto, in C, A e –A stanno in rapporto di azione reciproca. A è anche causa. Quanto più –A limita C, tanto minore è la quantità di A in C. — Quanto meno lo limita, tanto maggiore la quantità di A. — È una proposizione sterile e ripete quanto già detto. — / A determina sé stesso in C secondo la qualità; pertanto, quel che A è in C, — non può essere diversamente. / A = A. — Ora, la qualità C è = A. Se ponessimo che essa fosse = –A, questo contraddirebbe l’assunto. Ma il contrario di ciò che si contraddice è necessario e, quindi, tutto ciò che in C è limitato, lo è necessariamente. —

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Die Qualität C ist nothwendig = A. (denn das Gegentheil widerspricht dem obigen) A aber = A. — mithin A in C. nothwendig so wie es ist; u. das Gegentheil würde sich widersprechen. —a AR. ist nothwendig A / A = A. das Gegentheil widerspricht sich. / In C. ist die Qualität nothwendig A. — Mithin ist alles was in C. ist nothwendig. — / Wie ist der Schluß. So: in C. ist nothwendig A. Nun ist A selbst nothwendig A. Mithin alles C. in A nothwendig so. — x nicht nothwendig = x. (Das Maas ist seiner Natur nach nicht bestimmt, u. nothwendig, also zufällig) Mithin ist x. in C. zufällig. — d.h. es ist laut obiger Annahme nothwendig / u. das Gegentheil würde ihm widersprechen, daß x. Wirkung von –A sey. — aber die Bestimmung des x. ist zufällig. —b C. ist Accidens von A. — Nun ist A. Ursache der Qualität in C. — A ist demnach in sich selbst Ursache. Dies Vermögen aber in sich selbst Ursache zu seyn nennt man (reciproc.) Selbstthätigkeit. — (oder heißt nur das Selbstthätigkeit, |  nach Regeln in sich selbst; die um unsrer selbst willen nothwendig sind.?) So scheint es auch. NB. –A ist Ursache in A insofern es Substanz ist (nicht an sich) A ist Ursache in –A. insofern es Ursache ist; es bestimmt seine Wirkung. Das scheint nun zwar ein sehr unfruchtbarer Saz. Selbstthätigkeit heiße nun das Vermögen auf sich selbst zurükzuwirken, oder das; nach den Gesetzen unsers eignen Wesens, u. keinen andern zu wirken, so läßt sich’s dem Ich zuschreiben. — Werde weiter zergliedert: das erstere wäre eine Wechselwirkung mit sich selbst. A ist Ursache einer Bestimmung in sich, u. das nemliche A ist Wirkung. Also nicht eigentl. Wechselwirkung. a

 [am Rande ohne Vermerk] Nothwendigkeit des A in C.  [am Rande ohne Vermerk] Zufälligkeit des x in C.

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La qualità C è necessariamente = A (perché il contrario contraddice quanto precede). Ma A = A e, — di conseguenza, A in C è necessariamente così com’è, e il contrario si contraddirebbe. —a AR è necessariamente A. / A = A, il contrario si contraddice. / In C, la qualità è necessariamente A. — Di conseguenza, tutto ciò che è in C, è necessario. — / Com’è la conclusione? Così: in C, A è necessariamente. Ma A è esso stesso necessariamente A, e quindi tutto C, in A, è necessariamente così. — x non è necessariamente = x. (La misura, per sua natura, non è né determinata, né necessaria e, dunque, è contingente). Di conseguenza, x è contingente in C, — e cioè, secondo l’assunto precedente, è necessario che esso sia effetto di –A, / e il contrario lo contraddirebbe. — La determinazione di x è, però, contingenteb. — C è accidente di A. — A è, però, causa della qualità in C. — Di conseguenza, A è in sé stesso causa. Ma questa facoltà, di essere causa in sé stesso, si chiama auto-attività. — (Oppure si chiama auto-attività solamente ciò che agisce | in sé stesso secondo regole, che per noi sono necessarie?). Sembra che sia così. N.B. –A è causa in A, in quanto è sostanza (non in sé). In quanto A è causa, è causa in –A; esso determina il suo effetto. Per la verità, questa sembra una proposizione del tutto sterile. Se si chiama auto-attività la facoltà di reagire su sé stessi, ovvero di agire secondo le leggi della nostra propria essenza, a esclusione di qualsiasi altra, allora tale facoltà può essere attribuita all’Io. — Procediamo nell’analisi. Primo: l’auto-attività sarebbe un’azione reciproca dell’Io con sé stesso. A è causa di una determinazione in sé, e il medesimo A ne è l’effetto. Allora, non si tratta di azione reciproca vera e propria.

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 [a margine, senza rinvio] Necessità di A in C.  [a margine, senza rinvio] Contingenza di x in C.

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Winke. [(]C selbst ist –AR. denn AR = –x. C. aber immer = x. Also bleibt stets etwas von A übrig, was 〈nicht〉 in C kommt: nemlich die Substanz, worauf C. bezogen wird. Werde 〈denn〉 weiter angewendet auf das ursprüngl. –A.) Das zweite. — A wirkt seiner Realität gemäß, nothwendig. — (Wie 〈wohl, es〉 ist action, es ist nur Beziehung auf 〈denkmüßende〉 Action,) denn es wirkt bloß die Identität seiner Realität, u. diese gemäß seiner ursprünglichen Realität. — 1.) Aber es heißt Selbstthätigkeit nach dem Sprachgebrauche. 2) wozu will ich sie von A. beweisen. Das leztere: soll die Nothwendigkeit seiner Handlungsweise dadurch ausgemacht werden: — diese ist schon bewiesen: Ist es um der Folgen willen auf 〈Beugung〉 des A in C. u. Verwandlung in –A. — Laß uns darüber speculiren. — A also hätte in C. Receptivität: durch diese müste A. stets eingeschränkt werden, wenn C. entstehen sollte. — Wohl! Aber ein Ax in –A. verwandeln könnte denn nichts als A selbst. — Aber wo ist doch hier von verwandeln, sondern nur von so ansehen, die Rede. Wir sind Zuschauer auf dem Theater unsers Geistes. — Also wird ein Ax. in der Receptivität gegeben, so schränkt es freilich das AS(ubstanz) ein, u. ist insofern = –A. aber es selbst schränkt ein; das Ax. — Ursache als reell betrachtet gehört in die transscendente Philosophie. — Also

61  Viene ribadito quanto già emerso in precedenza (v. p. 357) a proposito dell’eccedenza dell’Io nei confronti della rappresentazione, concetto che in questo nuovo contesto Fichte esprime dicendo che qualcosa di A non giunge mai in C. A ben guardare, c’è però ancora un’altra ragione per la quale A deve sempre conservare un residuo non risolvibile in C, ed è connessa con la natura stessa di C. Se questo deve costituire l’unità mobile di A e –A, accogliendo la totalità di A, dovrebbe escludere totalmente –A, ciò che ne vanificherebbe il concetto. 62  A conferma dell’atteggiamento del filosofo trascendentale, Fichte introduce qui la metafora del nostro spirito come teatro e del filosofo come spettatore. Come quest’ultimo non prende parte allo spettacolo, ma sta solo

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Osservazione. (C stesso è –AR, perché AR = –x, ma C è sempre = x. Dunque, resta costantemente qualcosa di A, che non giunge in C, e cioè la sostanza alla quale C è riferito61. Allora continuiamo l’applicazione in riferimento al –A originario). Secondo. — Conformemente alla sua realtà, A agisce necessariamente. — (Come azione, esso è solo relazione con l’azione che dev’essere pensata). Infatti, esso produce solo l’identità della sua realtà, e la produce conformemente alla sua realtà originaria. — 1) Questo è quello che, secondo l’uso linguistico, si chiama auto-attività. 2) A che scopo voglio dimostrarla di A? Infine, la necessità del suo modo d’agire dev’essere verificata in questo modo? — Tale necessità è già stata dimostrata. È stata dimostrata in vista delle conseguenze sulla modificazione di A in C e per la trasformazione in –A? — Indaghiamo su questo. — A avrebbe, dunque, ricettività in C e, mediante questa, A dovrebbe essere costantemente limitato, se C deve sorgere. — Bene! ma trasformare un Ax in –A non potrebbe farlo che A stesso. — Ma qui non si tratta affatto di trasformare, bensì solo di osservare le cose come sono. Noi siamo spettatori nel teatro del nostro spirito62. — Pertanto, se un Ax è dato nella ricettività, esso limita certamente lo AS(ostanza) e, a tale riguardo, è = –A. Ma è lo stesso Ax che limita. La causa, considerata come reale, appartiene alla filosofia trascendente63. — Dunque a guardare, così il filosofo deve limitarsi a osservazioni corrette e a comprenderle correttamente (cfr. sopra, p. 255), senza entrare egli stesso in scena. Sui limiti di questa metafora e della sottostante impostazione, cfr. R. Ryle, The concept of mind, cit., pp. 154 sgg. (130 sgg.) 63  La limitazione non avviene nella forme di un’azione causale di –A su A, perché in questo caso avremmo un uso trascendente, e perciò illegittimo, della categoria di causalità, ma come consapevolezza di Ax di sé stesso come limitato. L’Io, cioè, non sente immediatamente il Non-Io, ma sé stesso come limitato.

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NB. Wenn Ax. in der Receptivität gegeben ist, so ist Ax = –A. (weil es AS. einschränkt.) Also nicht um der Folgen willen. — Aber um etwas zu haben, anzuknüpfen? Vielleicht. — |  Versuche auf die Zukunft. A ist begränzt in C. — Daraus kann AS. sehen ob –A. mehr oder mindere Wirksamkeit hat. —Mehr nicht. — denn die Art innerhalb der Begrenzung ist die gleiche. — Dieser Grenzen sind nun unzähliche; u. jede derselben stellt –A. als ein besondres –A. vor. — Die Begrenzung ist mannigfaltig; wäre sie das nicht: so wäre sie ein u. ebendaßelbe C. u. nicht mehrere C. In dem A in C. können aber auch mehrere Bestimmungen seyn, welche begränzt werden; welches wieder eine neue Differenz des –A. gäbe. Nous verrons. — In jeder Art der Begrenzung erscheint das Ich anders begränzt. — Auch richtig. — / Ich könnte hier Gegensaz, u. Unterscheidung der Grenzen annehmen, u. hätte die Kategorien, u. das ganze Denken. Die Möglichkeit des A. begrenzt zu werden hat Schranken. — Denn C. ist begrenzt. / Der Beweiß ist nun zwar nicht richtig: aber es wird sich wohl einer auffinden laßen. Die verschiedne Art begränzt zu werden gebe dem nach der Receptivität den Stoff, u. Einheit ist allerdings darin, daß sie alle der Qualität nach seyn müßen = A. — / Aber Mannigfaltigkeit in Einer Anschauung?)a Mannigfaltigkeit in Einer Anschauung ist nicht zu beweisen. Jede ist anders begrenzt. . — S e t z e in –A. seyen Elemente; diese begrenzen demnach

a

 [in besonderer Umrahmung in der linken unteren Ecke der Seite ohne Vermerk] A = nothwendig wenn — A = < 0 > sich widerspricht[.] 0 widerspricht sich nicht. 0. entweder sinnlich. — was nicht angeschaut wird, oder logisch: was nicht gedacht wird. — ist ganz zweierley.

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N.B. Se Ax è dato nella ricettività, allora Ax è = –A (poiché esso limita AS). Dunque, non in vista delle conseguenze, — ma per avere qualcosa da collegare? Forse. — |  Tentativi in vista di futuri progressi. A è limitato in C. — A partire da ciò, AS può vedere se –A possieda più o meno causalità. — Non di più, — perché all’interno della limitazione il tipo [scil.: di causalità] è il medesimo. — Ora, questi limiti sono innumerevoli e ognuno di essi rappresenta –A come un particolare –A. — La limitazione è di vario genere: se non lo fosse, allora essa sarebbe un solo e identico C e non parecchi C. Nello A in C possono esserci, però, anche determinazioni plurime, che vengono limitate, e ciò produrrebbe, ancora una volta, una nuova differenza di –A. Nous verrons. — In ogni tipo di limitazione l’Io appare limitato diversamente. — Esatto anche questo. — / Qui potrei supporre opposizione e distinzione dei limiti, e otterrei le categorie e l’intero pensiero. La possibilità di A di essere limitato, ha confini. — Infatti, C è limitato. / La dimostrazione, per ora, non è esatta, ma se ne troverà certo un’altra. La diversa modalità di essere limitato darebbe, di conseguenza, la materia alla ricettività, mentre l’unità è certamente nel fatto che tutte quelle modalità devono essere, secondo la qualità, = A. — / Ma può esserci molteplicità in un’unica intuizione?)a. Che la molteplicità sia in un’unica intuizione non si deve dimostrare. Ogni intuizione è limitata in modo diverso. — P o n i che in –A ci siano elementi; non sono questi, tutti insieme, a limitare, ma è ogni singolo elemento che limita, e

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a

 [in un riquadro separato nell’angolo inferiore sinistro della pagina, senza rinvio] A = necessario se — A = 0. Questo si contraddice. 0 non si contraddice. 0 o è sensibile: — quel che non viene intuì­to, o è logico, quel che non viene pensato. — Sono due casi completamente diversi.

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nicht; sondern jedes Element begrenze, u. das A. schaue (als A.) das ganze an: so ist das ein Mannigfaltiges. Beßer so. –A.1. –A.2. –A3. etc. begrenzen; alle diese Grenzen sind der Qualität nach A. — Da hätten wir Mannigfaltigkeit, u. Einheit. — NB. Es i s t so. — Grenze entsteht nur durch Vergleichung. An sich ist sie nichts. — also: was die Form des A. bekommen soll; muß mannigfaltig seyn. — |  Der Zwek ist auf die Natur der Receptivität überzugehen. — In C. wird A begrenzt durch –A. Wie erwiesen ist. Es sind mehrere C. möglich. — Jede andere Begrenzung giebt ein anderes C. — Wo hört nun C1. auf, u. wo geht C.2. an? — Das ist also wieder eine Grenze der Grenze. — In der ersten Begrenzung wird begrenzt A; in der zweiten C. — aber C. ist ja A. — Halt. — C1. ist eine Bestimmung in A. — C2. ist eine andere Bestimmung in A. Was ist die Grenze zwischen C1 u. C.2. — was kann diese Grenze 〈machen〉; bisher haben wir nur erst A entgegengesezt –A. Aber noch nichts in A noch –A. unterschieden — In A. hätten wir nun etwas unterscheidbares nemlich die Bestimmung A1 von der Bestimmung A.2. — 1.) Jedes Ding wird begrenzt durch sein entgegengeseztes; mithin A1 — A 2. u. umgekehrt. 2) Beides ist der Qualität nach dennoch A. / Denn sonst könnte es keine Bestimmung geben. — u. zwar in A1. muß eine Qualität seyn (des Ich) eine bestimmte, u. die bestimmte Qualität des Ich seyn, die in A1 ist. — C1. wird begränzt durch C2. — C2 ist wie C1. Accidens der Substanz A, u. Wirkung von –A / Das gehört zu seinem Wesen; — Außer diesem aber muß noch etwas seyn, wonach es sey –C1. Was könnte das seyn. — 1.) quo[a]d A. — Accidens 2 = –1. 2.) quoad –A. die Wirkung 2 = –die Wirkung 1. — Aber

64  Molteplicità e unità sono, rispettivamente, dei limiti di –A e di A. Che poi i limiti siano della stessa natura di A significa – come spiegano le righe

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A (in quanto A), intuisce la totalità. È così che questa totalità costituisce un molteplice. Meglio: –A1, –A 2, –A3, etc. limitano. Tutti questi limiti, secondo la qualità, sono A. — Avremmo, così, molteplicità e unità64. — N.B. È proprio così. — Il limite emerge solo per comparazione, in sé non è nulla. — Dunque, quel che deve ricevere la forma di A deve essere molteplice. — |  Lo scopo è di passare alla natura della ricettività. — In C, A viene limitato da –A, come è stato dimostrato. Sono possibili parecchi C. — Ogni diversa limitazione produce un diverso C. — Ora, dove finisce C1 e dove inizia C2? — Dunque, questo è, ancora una volta, un limite del limite. — Nella prima limitazione viene limitato A, nella seconda C, — ma C è proprio A. — Fermiamoci! C1 è una determinazione in A. — C2 è un’altra determinazione in A. Qual è il limite tra C1 e C2? — Che cosa può fare questo limite? Finora abbiamo solo opposto A a –A, ma non abbiamo ancora distinto nulla né in A, né in –A. — In A avremmo solo qualcosa di distinguibile, e cioè, la determinazione A1 dalla determinazione A 2. — 1) Ogni cosa viene limitata dal suo opposto; di conseguenza, A1 — da A 2 e viceversa. 2) Tuttavia, secondo la qualità, entrambi sono A / perché, in caso contrario, non ci potrebbe essere alcuna determinazione. — Cioè, in A1 deve esserci una qualità (dell’Io), una qualità determinata, e dev’essere quella determinata qualità dell’Io che è in A1. — C1 viene limitato da C2. — C2 è, come C1, accidente della sostanza A ed effetto di –A. / Ciò appartiene alla sua essenza. — Oltre questa, deve però esserci ancora qualcosa in base al quale sarebbe –C1. Che cosa potrebbe essere? — 1) Per quanto concerne A — accidente 2 = –1. 2) Per quanto concerne –A l’effetto 2 = –effetto 1. — Ma non ne segue affatto che

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che seguono – che essi non hanno un’esistenza autonoma, ma sono solo nella comparazione.

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es folgt garnicht, daß A u. –A. wirksam sey. Ist nur die Wirkung 2 = –1. so wird nothwendig auch das Accidens 2 — –1. Dennoch soll C2 auch seyn = C1. welches sich widersprechen würde; wenn wir nicht wieder wie oben ein drittes zu Hülfe nehmen; nemlich Quantität. — Also C2. ist entgegengesezt C1. in Absicht der Quantität, gleich aber in Absicht der Qualität. — C2. wird verbunden mit C­­1. durch x. — C1 = –C 2. / Es giebt entgegengesezte Vorstellungen/ diese nun können entgegengesezt seyn. C. hat die Eigenschaft von A. die Begrenztheit von –A. — also a.) in Absicht der Begrenztheit b.) in Absicht der Bestimmung des A. in ihnen. A. Begrenztheit; eine entgegengesezte Begrenztheit: was soll das heißen. — Nicht ein größeres, oder kleineres Maas; denn das ist nicht Gegensaz, sondern bloß Verschiedenheit; es soll aber Gegensaz seyn.a |  Der Begriff, u. Anschauung der Quantität (an sich) muß analysirt werden. a.) Jede Quantität ist von 2. Enden begränzt. b.) jede Quantität füllt eine gewiße Quantität mit Realität aus. c. jeder Quantität muß ich eine andere unterlegen — eigentlich zwei andere; eine größere Quantität, in der sie begrenzt sey; u. eine kleinere, die in ihr begrenzt sey: die ihr Maas sey. — In der un[ter]gelegten Quantität glaube ich, ist der Unterschied: die Zeit ist nur nach einer Dimension ausgedehnt; der Raum nach allen — (Also der Gegensatz bestände in der Einheit, u. Allheit.) Und es müste vorher der Begriff u. die Anschauung der Ausdehnung; als welches das gemeinschaftl. in Zeit, u. Raum ist, entwikelt werden. Was heißt Ausdehnung. — Sezt dieser Begriff nicht den Raum voraus. Die Zeit wird freilich ausgedehnt gedacht; aber ist nicht der Raum denn schon auf sie übergetragen? a

 [am Rande neben den beiden vorstehenden Absätzen ohne Vermerk] Z e i t ,u. R a u m : vorläufig untersucht. Species des genus Ausdehnung. — O Nein: sondern entgegengesezte Dinge. — Ausdehnung ist Raum. Zeit ist eine Ausdehnung des, das nicht im Raume ist.

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A e –A siano attivi. Se solo l’effetto 2 = –1, allora anche l’accidente 2 sarà necessariamente — –1. Tuttavia, C2 dev’essere anche = C1, ciò che si contraddirebbe, se non ricorressimo di nuovo, come sopra, a un terzo termine, e cioè alla quantità. — Dunque C2 è opposto a C1 per quanto concerne la quantità, ma uguale a esso per quanto concerne la qualità. — C2 viene legato a C1 mediante x. — C1 = –C2. / Ci sono rappresentazioni opposte / e queste possono ora essere opposte. C possiede la proprietà di A e la limitatezza di –A. — Dunque, queste rappresentazioni sono opposte: a) per quanto concerne la limitatezza; b) per quanto concerne la determinazione di A in esse. A è limitatezza, una limitatezza opposta. Che significa? — Non è misura più grande o più piccola, perché questa non è opposizione, ma solo differenza, e invece dev’essere opposizionea. |  Devono essere analizzati il concetto e l’intuizione della quantità (in sé). a) Ogni quantità è limitata alle due estremità. b) Ogni quantità riempie una certa quantità con la realtà. c. A ogni quantità devo aggiungerne un’altra — propriamente due altre: una quantità più grande, nella quale essa è limitata, e una più piccola, che è limitata in essa, che è la sua misura. — Credo che la differenza sia nella quantità aggiunta: il tempo è esteso solo in una dimensione, lo spazio in tutte. — (Dunque, l’opposizione avrebbe luogo nell’unità e nella totalità). Dovrebbero essere sviluppati innanzitutto il concetto e l’intuizione dell’estensione, quale elemento comune al tempo e allo spazio. Che significa estensione? — Questo concetto non presuppone lo spazio? Indubbiamente il tempo è pensato come esteso, ma non è perché lo spazio viene già trasferito su di

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a

 [a margine, accanto ai due capoversi precedenti, senza rinvio] Indaghiamo provvisoriamente t e m p o e s p a z i o . Sono species del genus estensione? — Oh no, sono cose opposte. — Estensione è spazio. Il tempo è un’estensione di ciò che non è nello spazio.

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Nous verrons. — Zeit, Raum, u. ihr gemeinschaftliches Ausdehnung sind ohne Zweifel Anschauungen; u. sie müßen durch Verbindung der gegebnen Anschauungen „Realität, u. Quantität“ entstanden seyn. — Aber leider habe ich Quantität bisher bloß begrifmäßig; u. garnicht anschauungsmäßig behandelt. — Denke –Quantität / das kannst du durch den Saz des Gegensatzes; so hast Du Unbegrenztheit. — x. sey ein Theil dieser Unbegrenztheit. — Ein Theil der Unbegrenztheit ist mit Realität angefüllt. — an beiden Enden Nicht-Realität. Begrenze die Unbegrenztheit nach allen Seiten, als nach einer, so hast Du noch immer eine unbegrenzte Ausdehnung von Einer Dimension Zeit. — Begrenze die Unbegrenztheit an sich; so hast Du Raum; eine bestimmte Ausdehnung nach 3. Dimensionen. Also Einheit, u. Vielheit muß dazu genommen werden. — Aber in Unbegrenztheit habe ich die Anschauung der Ausdehnung schon hineingetragen. –Quantität ist Unbegrenztheit. (Quantität Negation) Quantität Realität ist Maas. Was ist denn Quantität Limitation? entstände dadurch daß Q u. –Q. in einem dritten y. vereinigt gedacht würden. — Was ist y. — y = Q — Q. mithin = 0, wenn wir uns nicht ein drittes denken; / oder durch Anschauung geben laßen; das könnte nun nicht füglich wieder seyn Q. sondern wir wollen einmal das Ding gerade umgekehrt, wie bei A u. –A. machen, u. zum dritten annehmen. R. y sey also = Q — Q. + R. / Suche dies nur erst mit Worten deutlich zu machen! Oben begreifen wir die Realität durch’s Maas: jezt wollen wir das Maas durch Realität realisiren; was heißt nun das. — R sey = Q. d.h. das Maas ist Reali|tät = –Q. ungemeßen. — Also die Anschauung der Ausdehnung. Quantitas substantia: inquantitas causa: was heißt das.? In „Realität“ liegt schon der Begriff der Anschauung: also die Unbegrenztheit soll angeschaut werden! Und das ist allerdings die Ausdehnung. Mit der „Ausdehnung“ läßt sich weiter nichts machen, als sie anschauen. Alles was von der ElementarPhilosophie gefordert wird, ist bloß das, daß sie die Unmöglichkeit der ganzen Operation des menschl. Geistes

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esso? Nous verrons. — Tempo, spazio e la loro comune estensione sono senza dubbio intuizioni e devono essere sorte mediante il collegamento delle intuizioni date di “realtà e quantità”. — Purtroppo, però, finora ho trattato la quantità unicamente come concetto e nient’affatto come intuizione. — Pensa –quantità. / Puoi farlo mediante il principio di opposizione, e così hai l’illimitatezza. — x è una parte di questa illimitatezza. — Una parte dell’illimitatezza è riempita con la realtà; — alle due estremità c’è la non-realtà. Se limiti l’illimitatezza da tutti i lati, così come da uno, ottieni ancora sempre un’estensione illimitata a una dimensione, il tempo. — Se limiti l’illimitatezza in sé, allora ottieni lo spazio, un’estensione determinata secondo tre dimensioni. A ciò si devono poi aggiungere unità e pluralità. — Ma nell’illimitatezza ho già introdotto l’intuizione dell’estensione. –Quantità è illimitatezza (negazione della quantità). La quantità di realtà è misura. Che cos’è, allora, la quantità della limitazione? Deriverebbe da questo che Q e –Q vengano pensati uniti in un terzo termine y? — Che cos’è y? — y = Q. — Di conseguenza, –Q = 0, se non pensiamo un terzo termine / o non ce lo facciamo fornire dall’intuizione. Orbene, questo terzo termine non potrebbe essere, a ragione, di nuovo Q. Noi vogliamo invece la cosa esattamente inversa, fare come per A e –A, e ammettere R come terzo termine. y sia dunque = Q – Q + R. / Proviamo prima a renderlo chiaro solo con le parole. Precedentemente abbiamo compreso la realtà mediante la misura, ora vogliamo realizzare la misura mediante la realtà. Orbene, che cosa significa questo? — Sia R = Q. Cioè, la misura è realtà | = –Q, smisurato. — Dunque, è l’intuizione dell’estensione. Quantitas substantia, inquantitas causa: che significa questo? Nella “realtà” si trova già il concetto di intuizione e quindi l’illimitatezza dev’essere intuita! E questa è certamente l’estensione. — Con l’”estensione” non si può fare nient’altro che intuirla. Tutto quanto si esige dalla filosofia elementare è semplicemente che essa mostri l’impossibilità dell’intera operazione dello spirito uma-

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ohne eine solche Anschauung / wie oben bei der Quantität / zeige. — Es muß so geschloßen werden: ohne Ausdehnung widerspricht sich Quantität! — Quantität als Realität zu denken, widerspricht sich, wenn nicht Ausdehnung gedacht wird; ist zu erweisen.a 1.) Muß Quantität als Realität gedacht werden, wenn die Operation des menschl. Geistes C = A = –A. zu machen nicht widersprechend seyn soll? 2.) muß Ausdehnung gedacht werden, wenn jenes sich nicht widersprechen soll. Ad. l. — Was heißt denn das Q. als R. denken? Q. = R. / A = R mithin Q. = A.) Q. kann nur seyn = A. per C. — Also das Maas soll vorstellbar seyn; u. zwar vermittelst C. als Modification des A. vorstellbar seyn; wie schon oben zur Gnüge gezeigt worden. Das Ich soll sich meßen laßen. Ein C. soll vorgestellt werden können, als mehr oder weniger A / daß das geschehen müste ist erwiesen. Daß das Q. als Realität denken heiße ist klar./ Nemlich Q. wird im Ich angeschaut. Factum u. also Realität / Wie dies möglich, d.h. denkbar sey; oder wie man es sich zu denken habe, untersucht die ElementarPhilosophie. — Im Vorbeigehen; es könnte fast nicht schaden, wenn Du Dir des nächstens einen recht bestimmten Begriff von Deinem Geschäfte machtest; es würde Dir die Arbeit sehr erleichtern, u. eine Menge vergebliche Untersuchungen, u. Skrupel ersparen. Den Nutzen der Skrupel gäbe wohl diese Untersuchung auch. — Also auf 1. Ja. es ist erwiesen 2.) Das Ich wird in C. mehr oder weniger angeschaut. — Man müste auf das mehr oder weniger ausgehen, u. ich befürchte eben da ist der Zirkel. — Mehr oder weniger ist nicht zu verstehen, ohne Ausdehnung. Um es also zu analysiren müstest Du wohl erst die Ausdehnung hineinlegen: — Was a

 [am Rande ohne Vermerk] Vorzeichnung des Ganges

65  Riferisco il neutro «jenes» al femminile «Operation», sia per il senso della frase, sia perché non si può ritenere casuale che Fichte lo scriva pro-

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no in assenza di una tale intuizione, / come si è fatto sopra a proposito della quantità. — / Si deve concludere che senza estensione, la quantità si contraddice! — Pensare la quantità come realtà si contraddice, se non è pensata l’estensione; questo è da dimostrarea. 1) La quantità dev’essere pensata come realtà, se l’operazione dello spirito umano C = A = –A dev’essere compiuta senza essere contraddittoria? 2) Si deve pensare l’estensione se quell’operazione non si deve contraddire65. In relazione al punto 1, — che significa, allora, pensare Q come R? Q = R. / A = R e, di conseguenza, Q = A). Q può essere = A solo mediante C. — La misura deve quindi essere rappresentabile, ed esserlo per mezzo di C quale modificazione di A, così come è stato mostrato a sufficienza in precedenza. L’Io deve lasciarsi misurare. Un C deve poter essere rappresentato come più o meno A. / Che questo dovesse aver luogo, è dimostrato. Che pensare Q significhi pensarlo come realtà, è chiaro. / Infatti, Q è intuìto nell’Io. È un factum e, dunque, è realtà. / La filosofia elementare indaga come questo sia possibile, vale a dire come sia pensabile, o come lo si debba pensare. — Di sfuggita: non sarebbe male se ti formassi subito un concetto ben determinato del tuo compito. Questo ti faciliterebbe notevolmente il lavoro e ti risparmierebbe una quantità di inutili ricerche e scrupoli, scrupoli dei quali la presente ricerca dimostra certo anche l’utilità. — Dunque, la risposta al punto 1 è sì; esso è dimostrato. 2) L’Io, in C, viene intuìto di più o di meno. — Si dovrebbe prendere le mosse dal più o dal meno e temo che proprio qui abbia luogo il circolo. — Più o meno non si possono comprendere senza estensione. Pertanto, per analizzarli, dovresti prima inserirvi l’estensione. — Ma che significa, poi, più o a

 [a margine, senza rinvio] Indicazione del modo di procedere.

prio sopra a «diese Operation», come puntualmente segnalano in nota i Curatori.

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heißt doch mehr oder weniger. / Es bedeutet garnicht die Qualität, sondern die Quantität liegt schon | darin. — Ist nicht die ganze Quantität eine Anschauung; was willst Du Dich doch also plagen[,] Dein Recht, es anzuschauen zu erweisen. Ausdehnung ist Anschauung: könntest Du sie nicht auf einen Begriff bringen: denn um einen Widerspruch zu beweisen müßen Begriffe da seyn. — Quantität ist Etwas (das ist ein Begriff.) ist ein begrenzbares — Keine Quantität ist die gröste; es ist immer eine größere mögl. — Jede Quantität ist von zwei Seiten begränzt. — Keine Quantität ist die kleinste: es ist in ihr immer eine kleinere möglich. — Also ein Unbedingtes sezt die Quantität allerdings voraus; u. das ist denn ein unbegrenztes (aber ist das doch Ausdehnung.) Jedes Maas ist continuum: ins unendliche theilbar. — Ausdehnung ist eine quantitas continua. —a Wie bei A. immer etwas übrig bleibt, das nicht in C. kommt; so bleibt auch bei Q. immer etwas übrig, das nicht in C. kommt, u. so sollte es seyn. Quantität kann analysirt werden. Diese analytischen Sätze hängen alle durch den Saz des Widerspruchs zusammen, u. müßen auf den synthetischen führen. / Aber die Synthesis ist, deucht mich, schon geschehen, durch Annahme dieses Begriffs. Kein Maas ist das gröste: keins ist das kleinste. — Jede Größe wird demnach in einer andern gedacht: Alle Größe muß in einer unbegrenzten Größe gedacht werden. Ein Maas das kein Maaß ist; widerspricht sich das nicht? — Nous a

 [ohne Vermerk am Rande senkrecht zum Text] Die Größe als Realität gedacht / u. so muß man sie sich nothwendig denken, wenn sie sich nicht selbst widersprechen soll, ist eine unbegrenzte Ausdehnung. / Alle Ausdehnung ist stet. (continuirlich) Eine allenthalben begrenzbare Unbegrenztheit. 66  Ricordo che solo una pagina prima Fichte afferma che «senza estensione, la quantità si contraddice!».

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meno? / Non significa affatto la qualità, mentre vi è già insita la quantità. | — Ma l’intera quantità non è forse un’intuizione? Allora, perché vuoi tormentarti per dimostrare il tuo diritto a intuirla? L’estensione è intuizione: non potresti ricondurla a un concetto? Infatti, per dimostrare una contraddizione, devono esserci concetti. — La quantità è qualcosa (cioè un concetto), è qualcosa di limitabile. — Nessuna quantità è la più grande, poiché è sempre possibile una ancora più grande. — Ogni quantità è limitata ai due lati. — Nessuna quantità è la più piccola, perché in essa è sempre possibile una ancora più piccola. — Dunque, un incondizionato presuppone senz’altro la quantità ed esso è, allora, un illimitato (ma è comunque estensione?)66. Ogni misura è un continuum, divisibile all’infinito. — L’estensione è una quantitas67 continua —a . Così come in A resta sempre qualcosa che non giunge in C, allo stesso modo anche in Q resta sempre qualcosa che non giunge in C, e così doveva essere. La quantità può essere analizzata. Queste proposizioni analitiche sono tutte connesse mediante il principio di non contraddizione e devono condurre alla proposizione sintetica. / Ma mi sembra che la sintesi abbia già avuto luogo con l’ammissione di questo concetto. Nessuna misura è la più grande, nessuna è la più piccola. — Di conseguenza, ogni grandezza è pensata all’interno di un’altra. Ogni grandezza dev’essere pensata all’interno di una grandezza illimitata. Ma una misura che non è misura, non si contraddice? — Nous verrons. Sarebbe la proposizio-

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a

 [senza rinvio, a margine, verticale rispetto al testo] La grandezza, pensata come realtà / e la si deve pensare necessariamente così, se non deve contraddire sé stessa, è un’estensione illimitata. / Ogni estensione è costante (continua). È un’illimitatezza limitabile da ogni parte. 67  W. Kabitz, op. cit., p. 75, riporta «partitas» al posto di «quantitas», che è invece confermato anche dall’esame del manoscritto (cfr. p. 18 r).

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verrons. Es wäre der Satz Q = –Q. (den wir hier wieder in der Nähe bekommen:) Offenbar sind wir auf den Saz getrieben Q = –Q. Das widerspricht sich. Um es sich ohne Widerspruch zu denken, muß es in zweierlei Sinn gemeint seyn. — Also ein drittes: da ist aber nichts; als Realität.a (Vielleicht muß ich auch auf C. zurükgehen. — Wird Q. selbst als Realität gedacht so ist es = –Q. (Weil R = –Q.) In C. aber ist es entgegengesezt –Q.) |  Hier eröfnet sich der herrliche Gedanke[:] –A. begrenzt QR. von allen Seiten, nur daß es noch Q bleiben kann. A kann sich demnach nur anschauen in Einer Dimension, der Zeit. — Hingegen A. erweitert u. dehnt aus Q. von allen Seiten. –A ist demnach anschaubar im Raume (von allen mögl. Dimensionen.) In y. Q = –Q. / R = –Q. u. umgekehrt. Quantität ist das Gegentheil von der Realität, u. umgekehrt. Mithin y = Q — Q. + R. In y Q = R. / Q. wird realisirt, als ein Wesen betrachtet. Da aber R ist –Q. so wird dadurch Q = –Q. Dennoch aber muß Q. auch Q. bleiben u. es bleibt daßelbe insofern es seine Stetigkeit behält. — Also in Q. ist die Stetigkeit Wesen u. nothwendig, die Grenzen sind zufällig. — Ist wieder ein höchst intereßanter Saz. Q. wird bezogen auf A. Stetigkeit, auf –A. Grenzen. Nimmt man aus Q. –A. weg; so bleibt bloß Stetigkeit. — Das Ich ist stetig. — Jede Substanz ist stetig. QR. ist Stetigkeit Q –R. Begrenztheit. QR — R ist unbegrenzte Stetigkeit. (Giebt nicht vielleicht die bloße Stetigkeit Zeit: u. Stetigkeit mit Begrenzbarkeit Raum. — / Nein, die

a  [auf dem unteren Rande] Realität weiß[t] uns auf Quantität. Quantität weißt uns zurük auf Realität. — Ist das nicht ein Zirkel? — Diese Frage muß ausdrüklich untersucht werden. In der ElementarPhilosophie soll doch kein Zirkel seyn. — Wir beweisen ja nicht Eins aus dem andern; aber hätte nicht umgekehrt mit der Quantität angefangen werden können? —

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ne Q = –Q (nella quale ci imbattiamo di nuovo). Manifestamente siamo spinti verso la proposizione Q = –Q, che è contraddittoria. Per pensarla senza contraddizione, si deve intenderla in un duplice senso. — Perciò occorre un terzo termine, ma qui non c’è niente all’infuori della realtàa. (Devo forse tornare anche a C? — Se Q stesso è pensato come realtà, allora esso è = –Q (perché R = –Q). Ma in C esso è opposto a –Q). |  Qui si dischiude un magnifico pensiero: –A limita QR da ogni lato, solo così QR può restare ancora Q. Di conseguenza, A può intuirsi solo in una dimensione, nel tempo. — Per contro, A amplia ed estende Q da ogni lato. Di conseguenza, –A è intuibile nello spazio (da ogni possibile dimensione). In y Q = –Q. / R = –Q, e viceversa. Quantità è il contrario della realtà e viceversa. Di conseguenza y = Q – Q. + R. In y, Q = R. / Q è realizzato, considerato come un’essenza. Poiché, però, R = –Q, per questa ragione Q è = –Q. E tuttavia, però, Q deve anche restare Q e resta il medesimo nella misura in cui conserva la sua continuità. — Dunque, in Q la continuità è essenza ed è necessaria, mentre i limiti sono contingenti. — Questa è, di nuovo, una proposizione estremamente interessante. Q viene riferito ad A, la continuità, e a –A, i limiti. Se da Q si sottrae –A, resta unicamente la continuità. — L’Io è continuo. — Ogni sostanza è continua. QR è continuità; Q –R è limitatezza; QR – R è continuità illimitata. (Forse la semplice continuità dà il tempo e la continuità con limitabilità lo spazio? — / No, anche il tempo è

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a  [al margine inferiore] La realtà ci rinvia alla quantità. La quantità ci rinvia alla realtà. — Non è un circolo questo? — Tale questione dev’essere indagata esplicitamente. Nella filosofia elementare non deve, però, aver luogo alcun circolo. — Noi non dimostriamo affatto una cosa a partire dall’altra. Tuttavia, non si sarebbe potuto, all’inverso, cominciare con la quantità? —

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Zeit ist auch begrenzbar: Also das geht nicht.) Ist nicht vielleicht die Anschauung der Stetigkeit allein die Ausdehnung. — Wo ich allenthalben meßen kann ist Ausdehnung; wo Ausdehnung ist, kann ich allenthalben meßen: es ist nur die Frage; ob ich bei der Ausdehnung nicht noch mehr könne. — Oder kann ich vielleicht mit dem Begriffe allein durchkommen, ohne die Anschauung zu Hülfe zu nehmen. / Um Zeit, u. Raum zu deduciren, zweifle ich. A. ist nicht im Raume. nur –A ist im Raume. — –A. ist nur vermittelst A. in der Zeit. — Jede Größe ist stetig. —a Aber man sagt auch: jede Größe ist entweder intensiv, oder extensiv: was soll das heißen: — Indeßen nur discursorisch untersucht. Intensive Größe ist die Realität (in der Anschauung) u. geht Zeit, u. Raum nichts an. Die Zeit oder der Raum ist dann mehr oder weniger erfüllt: extensive Größe ist Größe der Ausdehnung d.i. in der ich mehr Maaße nehmen könnte — intensive mit der ich eine größere Ausdehnung erfüllen könnte — beide sind wechselwirkend. Also behutsam Stetig sind beide: das ist ihr Genus. intensiv u. extensiv ist die differentia Specifica, die noch etwas weiter hinauf zu suchen seyn möchte. Erst von der extensiven Größe sind Zeit, u. Raum species. Also nicht übereilt. — Jede Größe ist |  stetig. — Die intensive Größe läßt sich garnicht vom Subjekte prädiciren; sondern bloß vom Objekte. In C. Q = –Q. Die Quantität wird als Realität vorgestellt, behält ihr Wesen, das der Stetigkeit, u. verliert die Grenzen. unbegrenzte Ausdehnung. (Thut nichts zu unsrer Frage über die Möglichkeit einer Entgegensetzung der Begren[z]theit .) A ist stetig. — A wird in C. durch –A. begrenzt heißt. es ist insofern nicht Realität (denn R. = –Q.) seine Realität hört irgendwo auf. Wohl. hilft uns nichts. —

a

 [am Rande ohne Vermerk] Grundsaz.

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limitabile e perciò questo non funziona). L’estensione non è forse soltanto l’intuizione della continuità? — Ovunque posso misurare c’è l’estensione; là dove c’è estensione, posso misurare ovunque. La questione è soltanto se non possa ricavare ancora di più dal concetto di estensione. — Oppure, forse, posso cavarmela con il solo concetto, senza ricorrere all’intuizione? / Dubito che possa bastare per dedurre tempo e spazio. A non è nello spazio, solo –A è nello spazio. — –A è nel tempo solo mediante A. — Ogni grandezza è continua. —a Ma si dice anche: ogni grandezza è o intensiva o estensiva. Che significa questo? — Nel frattempo, l’indagine è stata svolta in maniera solo discorsiva. La grandezza intensiva è la realtà (nell’intuizione) e non riguarda né il tempo, né lo spazio. Il tempo o lo spazio sono allora più o meno riempiti. La grandezza estensiva è la grandezza dell’estensione, e cioè la grandezza nella quale potrei prendere più misure; — la grandezza intensiva è quella con la quale potrei riempire una più grande estensione. — Le due sono in rapporto di azione reciproca. Dunque, procediamo con prudenza! Entrambe sono continue. La continuità è il loro genus, intensiva ed estensiva sono la loro differentia specifica, che dovrà essere indagata in seguito. Tempo e spazio sono species solo della grandezza estensiva. Perciò niente fretta! — Ogni grandezza è | continua. — La grandezza intensiva non si può affatto predicare del soggetto, ma esclusivamente dell’oggetto. In C, Q = –Q. La quantità viene rappresentata come realtà, conserva la sua essenza, che è la continuità, e perde i limiti, estensione illimitata. (Questo non incide sulla nostra domanda relativa alla possibilità di un’opposizione alla limitatezza). A è continuo. — Che A, in C, sia limitato da –A, significa che esso, in quanto tale, non è realtà (perché R = –Q). La sua realtà svanisce da qualche parte. Bene, ma non serve a niente. —

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a

 [a margine, senza rinvio] Principio.

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A in C. ist stetig. A in C. ist von beiden Seiten durch –A. begrenzt. Idem in C ist A Accidens, u. –A Wirkung. — Ist in C. A begrenzt, so ist eben daselbst auch –A begrenzt. Aber wodurch soll nun –A. begrenzt seyn; ohne Zweifel durch A. — Also. — Insofern C. Wirkung ist von –A. [(]Stoff der Vorstellung.[)] ist es durch A. begrenzt: dann ist die Grenze Form. Insofern C Accidens von A[,] also Form der Vorstellung ist, ist es durch –A. begrenzt. — Nur ist die Frage: wie begränzt A[,] wie –A. / Wie A begrenzt (thätig) so wird –A. begrenzt, wie –A begrenzt thätig / so wird A begrenzt. Nun ist das Wesen aller Grenze nur Stetigkeit. — Form also, u. Stoff sind in sich stetig. — Aber soll nicht Raum u. Zeit beide von A. herkommen; u. nur die bestimmte Grenze derselben /beider/ kommt von –A. — Mithin sind wir noch garnicht am Ziele. In C ist Q = –Q. vermittelst R. — Ich beziehe R. auf Q. so ist Q unbegrenzt. — Ich beziehe R. auf –Q. — — Vors erste was soll doch Q. bedeuten . . bloße Stetigkeit; oder bestimmte Grenzen. — In Q ist R. u. –R. R. ist Stetigkeit[,] –R. sind Grenzen. Ziehe aus Q ab R. so bleiben Grenzen — negativ Unbegrenztheit[;] ziehe aus Q ab –R. so bleibt Stetigkeit [—] negativ Unstetigkeit. — Nichts. — Quantitas substantia ist eine unbegrenzte Stetigkeit[,] Quantitas accidens eine begrenzte Stetigkeit, / durch –R. — Quantitas causa — man müste dann etwas auf die Quantität beziehen, das ihr sein Daseyn verdankte. (Das wäre aber Zeit u. Raum. beide sind ohne Quantität nicht möglich aber wie dazu kommen. — man müste dann ein drittes denken.) Quantitas accidens ist Quantitas effectus wenn sie begrenzt wird, u. wodurch wird sie begrenzt: muß wieder geschehen durch –Q. ist das Gegentheil der Quantitas substantia: auch Realität[,] nur die entgegengesezte — Unbegren[z]te Begrenztheit; also das unendlich kleine. Das nicht mehr stetig wäre, weil in ihm

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In C, A è continuo. A in C è limitato da –A da entrambi i lati. Idem in C, A è accidente e –A effetto. — Se A è limitato in C, allora proprio là è limitato anche –A. Ma da che cosa dev’essere limitato –A? Senza dubbio, da A. — Dunque, — in quanto C è effetto di –A (cioè, in quanto è materia della rappresentazione), è limitato da A. Il limite costituisce allora la forma. In quanto C è accidente di A, e dunque forma della rappresentazione, è limitato da –A. — La questione, allora è: in che modo limita A, in che modo limita –A? / Così come A limita (attivamente), –A viene limitato; / così come –A limita (attivamente), / A viene limitato. Ora, l’essenza di ogni limite è solo la continuità. — Forma e materia sono dunque in sé continue. — Ma spazio e tempo non devono provenire entrambi da A? Soltanto il loro limite determinato /di entrambi/ proviene da –A. — Di conseguenza, ancora non abbiamo affatto raggiunto lo scopo. In C, Q = –Q mediante R. — Se pongo in relazione R con Q, allora Q è illimitato. — Pongo in relazione R con –Q. — — Ma, innanzitutto, che cosa significa Q? Pura continuità o limiti determinati? — In Q sono R e –R. R è la continuità, –R sono i limiti. Se sottrai R da Q, restano i limiti, — il cui negativo è l’illimitatezza. Se sottrai –R da Q, resta la continuità, — il cui negativo è la discontinuità, — il nulla. — La quantitas substantia è una continuità illimitata, la quantitas accidens è una continuità limitata / da –R, — quantitas causa. — Allora si dovrebbe porre in relazione con la quantità qualcosa che le fosse debitore della propria esistenza. (Sarebbero tempo e spazio, ma entrambi non sono possibili senza la quantità, e allora come arrivarci? — Si dovrebbe pensare un terzo termine). La quantitas accidens, quando viene limitata, è quantitas effectus. Ma da che cosa viene limitata? Questo deve avvenire, ancora una volta, mediante –Q. –Q è il contrario della quantitas substantia, che è anche realtà, solo che è realtà opposta, — illimitata limitatezza e, dunque, l’infinitamente piccolo. Questo non sarebbe più continuo, poiché in esso non si potrebbe prendere alcuna ulteriore misura. Si tratta del-

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kein weiteres Maas zu nehmen wäre, die Monas. (Quantitas monas) diese soll Causa seyn, d.h. es | soll etwas geben, deßen Daseyn nur durch jenes möglich ist; was wäre das. — Quantitas accidens. — Allerdings, die Grenze ist eine Monade; ein Punkt.: richtig./ Die geringste Art der Stetigkeit ist durch zwei Punkte begrenzt: die gröste durch eine Kugel / oder einen Würfel. 3. Dimensionen: aber was hilft mir das? Nichts. — Das ist richtig Quantitas substantia Unbegrenzte Ausdehnung. Quantitas accidens: begrenzte Ausdehnung — Quantitas effectus die Grenzenpunkte. Quantitas causa accidentis. monas der Punkt. — aber noch sehe ich nicht Zeit noch Raum. Wieder angewendet auf A. — A 2. ist demnach unbegrenzt.a A in C. ist begrenzt, u. hat Grenzpunkte, die in –A. sind. –A. ist der Punkt. / Also –A. bestände aus Monaden; was kommt doch da heraus? Das Ich wird allerdings als unbegrenzt, unausgedehnt gedacht seiner Realität nach; u. dennoch als Punkt. — woher das? Weil es immer ein, u. ebendaßelbe ist, Substanz: das thut aber hier nichts. — Doch hilft uns das alles nichts: Zeit, u. Raum sind gewiß nicht darum da; daß wir –A von A unterscheiden sollen; sondern –A. von –A. Mithin. C. ist Accidens von A, u. Wirkung von –A. C. ist begrenzt. Es wird behauptet –A. begrenze C. / oder A a

 [am Rande mit Vermerk] ist es wahr daß A vorgestellt wird, als eine unbegrenzte Ausdehnung; davon ist ja das gerade Gegentheil: es wird vorgestellt als Monas: /das könnte denn auch die Zeit geben; denn um sie zu finden must Du den Punkt fortführen laßen, so entsteht die Linie, u. vielmehr –A./ die Materie wird vorgestellt als eine unbegrenzte Ausdehnung. Woher entsteht das. 68  La

circostanza che qui, come correttamente leggono i Curatori del­ l’Edizione critica, compaia il termine «A2» può suscitare qualche perplessità sul senso da conferirgli. La nota a margine di Fichte chiama invece in

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la monade (quantitas monas) e questa dev’essere causa, vale a dire, | dev’esserci qualcosa la cui esistenza è possibile solo mediante l’infinitamente piccolo. Ma che cosa sarebbe — la quantitas accidens? — Certamente, il limite è una monade, un punto. Esatto / ma la specie più piccola di continuità è limitata da due punti, il più grande, da una sfera / o da un cubo, e cioè da tre dimensioni. Ma a che cosa mi serve questo? A nulla. — È esatto / che la quantitas substantia sia estensione illimitata, che la quantitas accidens sia estensione limitata; — che la quantitas effectus sia i punti limite e che la quantitas causa accidentis sia la monade, il punto. — Ma non vedo ancora né tempo, né spazio. Applicato di nuovo ad A. — Dunque, A ­2 è illimitatoa 68. A è limitato in C e ha punti limite, che sono in –A. –A è il punto. / Dunque, –A consisterebbe di monadi. Che cosa ne consegue? L’Io, secondo la sua realtà, è pensato senz’altro come illimitato e inesteso; e nondimeno, è pensato come punto. — Come mai? Perché esso è sempre uno e identico, vale a dire è sostanza. Ma questo è irrilevante qui. — Comunque, tutto quanto questo non ci aiuta; tempo e spazio non sono certamente chiamati in causa perché dobbiamo distinguere –A da A, ma perché dobbiamo distinguere –A da –A. Pertanto, C è accidente di A ed effetto di –A. C è limitato. Si afferma che –A limita C / o che limita A in C, ciò che è

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a

 [a margine, con rinvio] È vero che A è rappresentato come un’estensione illimitata? Invece ne è l’esatto contrario! Esso è rappresentato come monade, / e questo potrebbe allora dare anche il tempo, dal momento che, per trovarlo, devi lasciar proseguire il punto; così nasce la linea e, anzi, –A. / La materia è rappresentata come un’estensione illimitata. Da dove risulta questo? causa, come si vede, semplicemente A. poiché è in questione l’illimitatezza dell’Io, sembrerebbe plausibile intendere che anche il testo si riferisca ad A e cioè, appunto, all’Io.

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in C. was das gleiche ist (Das laßt uns doch sehen?) 1.) Insofern C. Accidens von A ist, wird seine Grenze durch –A. bewirkt. — C. ist aber nur Accidens von A. insofern seine Grenzpunkte bestimmt sind; diese nun giebt diese Punkte: (also –A giebt den Grenzpunkt, wie oben gesagt worden.) 2.) –A. kann nicht Grenzpunkte geben, wo keine Ausdehnung u. Stetigkeit ist: Q. ist aber nach allen Seiten ausgedehnt. –A. kann mithin nach allen Seiten hin Punkte geben. / Ein beschränkter Raum ist ein Accidens in A. Insofern C. Wirkung von –A ist, wird es durch A. begrenzt. (Jedes Ding wird | durch sein Gegentheil begrenzt.) A kann aber nicht begrenzen, wo keine Stetigkeit ist. — aber –A. giebt bloß Punkte: mithin kann A –A. nur in zwei Punkten begrenzen. — — Der Stoff nimmt Raum ein; die Wirkung dauert. — Nun aber soll ja A garnicht begrenzen (garnicht die Grenzpunkte welche zufällig sind bestimmen: —) Mithin müste –A. sich selbst begränzen, welches sich widerspricht. / –A ist Grenze von –A. welches sich widerspricht[,] mithin ist –A. Grenze von –A. in C in der Vorstellung. Also muß –A in der Vorstellung = A seyn. Das ist es freilich insofern es Accidens von A ist. — Also –A. begrenzt sich selbst, als Accidens von A. / Ich dachte aber es wäre begrenzt als Wirkung: wohl; die Wirkung seiner Wirkung in AR. — Also die erste Wirkung, der Stoff ist im Raume begränzt; die zweite das Accidens in der Zeit. — Aber ich befürchte, daß wir durch die Wirkung der Wirkung schon in der Potenz 2. sind: d.h. daß die Zeit überhaupt nur nöthig ist, um sich A. als –A. zu denken; um die Formen selbst vorzustellen; als um den Stoff. Resultate. 1.) Soll. A in C. seyn = –A. so muß Quantität seyn 2.) soll Quantität sich, u. der Annahme nicht widersprechen, so muß sie als Substanz gedacht werden. Quantität als Substanz aber ist eine unbegrenzte Stetigkeit; als Accidens

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esattamente la stessa cosa. Questo ci consente di vedere che: 1) in quanto C è accidente di A, il suo limite viene prodotto da –A. — Ma C è accidente di A solo in quanto i suoi punti limite sono determinati. Orbene, questi punti sono dati dal limite. (Dunque, –A dà il punto limite, come è stato detto sopra). 2) –A non può dare punti limite, se non sono presenti estensione e continuità. Q è però esteso da tutti i lati, e perciò –A può dare punti da tutti i lati. / Uno spazio limitato è un accidente in A. In quanto C è effetto di –A, esso viene limitato da A. (Ogni cosa viene | limitata dal suo contrario). A non può però limitare se non c’è continuità. — Ma –A dà soltanto punti e, di conseguenza, può limitare –A solo in due punti. — — La materia occupa spazio, l’effetto perdura. — Ora, però, A non deve affatto limitare (vale a dire, non deve affatto determinare i punti limite, che sono contingenti —). Di conseguenza, –A dovrebbe limitare sé stesso, ciò che si contraddice. / –A è limite di –A, ciò che si contraddice. Di conseguenza, –A è limite di –A in C, cioè nella rappresentazione. Pertanto, nella rappresentazione –A dev’essere = A. Lo è indubbiamente in quanto è accidente di A. — Dunque, –A limita sé stesso in quanto accidente di A. / Pensavo però che fosse limitato in quanto effetto. Certo, sarebbe l’effetto del suo effetto in AR. — Dunque, il primo effetto, la materia, è limitato nello spazio; il secondo, l’accidente, è limitato nel tempo. — Ma temo che con l’effetto dell’effetto siamo già nella seconda potenza, cioè che, in linea di principio, il tempo è necessario solo per pensare A come –A, per rappresentare le forme stesse, così come per rappresentare la materia.

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Risultati. 1) Se A in C dev’essere = –A, allora dev’essere quantità. 2) Se la quantità non deve contraddire sé stessa e l’ipotesi, allora dev’essere pensata come sostanza. Ma la quantità, come sostanza, è una continuità illimitata; come accidente,

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eine begrenzbare Stetigkeit, als Wirkung eine wirklich begrenzte, deren Ursache der Punkt. . 3.) C. als Wirkung von –A. ist begrenzt durch –A., — u. zwar jene unbegrenzte Stetigkeit, als Substanz ist begränzt; das giebt also den Raum. / Diese Vorstellung des unbegrenzten Raums, u. seiner Begrenzung durch Punkte vermittelst –A. aber, ist zum Behuf der geforderten Möglichkeit nothwendig anzunehmen. — Der Raum also ist a priori nothwendig. Es ist a priori nothwendig, daß die Wirkung von –A. im Raume seye. — / 〈Nenne〉 Wirkung Stoff: jeder Stoff ist eine continuirliche ausgedehnte Größe. — — Muß aller Stoff ein mathematischer Körper seyn: wie, u. warum? — Woher kommt der Begriff von Materie: Ausfüllung des Raums: sollte der etwa vom äußern Sinne des Fühlens entlehnt seyn? Also in C ist Accidens von A. u. Wirkung von –A. Wir haben es jezt als Wirkung von –A. betrachtet, u. seine Prädicate entwikelt. — Jezt ist es zu | betrachten; als Accidens von A. — (Nach dem Reinholdschen Ausdruke wäre die Receptivität erörtert: jezt käme die Spontaneität. / Immer nach der Anschauung, nemlich der innern: das Denken kommt später.) — Wird eine solche Untersuchung möglich seyn ohne die Gegenstände der äußern Anschauung von einander selbst unterscheiden gelernt zu haben? — Das wird sich finden. Die Frage ist immer noch in C A = –A. — wie ist dies möglich. — Bis jezt ist erst erörtert der erste Theil. C = –A. — jezt tritt der zweite ein: nemlich C = A. — u. dann der dritte: wie ist C = A. u. –A. zugleich. Und dann wäre diese Untersuchung geschloßen.

69  I Curatori dell’edizione critica rinviano a K.L. Reinhold, Neue Darstellung der Hauptmomente der Elementarphilosophie, cit., p. 190, dove la ri-

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una continuità limitabile; come effetto, una continuità effettivamente limitata, la cui causa è il punto. 3) C, in quanto effetto di –A, è limitato da –A, — e cioè, quella continuità illimitata, in quanto sostanza, è limitata. Ciò dà, dunque, lo spazio. / Ma questa rappresentazione dello spazio illimitato e della sua limitazione per mezzo di punti da parte di –A si deve ammettere necessariamente, al fine della richiesta possibilità. — Lo spazio è, quindi, necessario a priori. È necessario a priori che l’effetto di –A sia nello spazio. — / Chiama effetto la materia: ogni materia è una grandezza continua, estesa. — — Ogni materia dev’essere un corpo matematico? Come e perché? — Donde viene il concetto di materia come riempimento dello spazio? Tale concetto dev’essere, per caso, mutuato dal senso esterno del tatto? Dunque, in C sono: l’accidente di A e l’effetto di –A. Finora abbiamo considerato C come effetto di –A e ne abbiamo sviluppato i predicati. — Orbene, lo si deve | considerare come accidente di A. — (Secondo l’espressione reinholdiana69, la ricettività sarebbe spiegata e ora si dovrebbe passare alla spiegazione della spontaneità. / Sempre dopo l’intuizione, e cioè dopo l’intuizione interna; il pensiero viene più tardi). — Una ricerca siffatta sarà possibile senza aver imparato a distinguere l’uno dall’altro gli oggetti dell’intuizione esterna? — Si troverà il modo.

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La questione continua a essere ancora di come sia possibile che, in C, A sia = –A. — Finora è stata spiegata soltanto la prima parte, C = –A. — Ora subentra la seconda, e cioè C = A. — Poi subentrerà la terza: in che modo C è, contemporaneamente, = A e –A? Solo allora questa ricerca sarà conclusa.

cettività e la spontaneità sono definite come due parti costitutive, essenzialmente distinte ed essenzialmente unite, della facoltà rappresentativa.

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C = AR. — Was ist C. / Accidens von A ist schon bekannt = A wird in C. begrenzt. — A ist Realität, dauernde Realität, wie kann A. begränzt werden; das widerspricht sich. — Zur Quantität zu greifen geht hier nicht. — Doch ja! vielleicht. A ist unveränderlich –Q. . In C aber A = Q. wie geht das zu. Also so aufgesezt. A = –Q. In C. A = Q. .. was ist Q. in C. wenn es auf A. bezogen wird. — Unbegrenztheit mit Grenzen verbunden. — Was aber heißt hier; als Prädicat von A. Unbegrenztkeit; sogar Unbegrenzbarkeit –A = A. ein Theil –A. bleibt jenes nicht mehr A. (Die Quantität der Realität A. ist bestimmt. Nichts ausgedehnt —) Soll es in C. vorkommen: so muste es als Punkt vorkommen; denn alles in C. ist im Raume. — Mithin A in C. = dem Punkte. — bravo! — C. schlechthin = Q. Mithin A in C. = Q. wie geschieht nun das ohne A. zu widersprechen. A in C. = dem Punkte, — Der Saz ist völlig richtig (u. wird über dies durch Erfahrung bestätigt.) P aber = –Q. — Nun aber soll doch der Stoff in der Quantität seyn. — (mithin ist diese Grenze mit Punkten ausgefüllt..) — Mit stetigen oder nicht stetigen? — Auch Stetigkeit ist = A. mithin –St. — Zwei Punkte aber die bloß die Grenzen bezeichnen, ohne stetig fortzulaufen sind die | Zeit.a — A also in C. ist in der Zeit. Q.E.D. — Aber man sagt ich denke mir eine unendliche Zeit — u. d a s i s t n i c h t w a h r. Ewigkeit kann keiner denken: er denkt nur einen Punkt, — u. immer höher wieder einen hinaus, u. besinnt sich wieder, u.s.f. — B e ß e r. A ist der Quantität nicht fähig; nicht der Ausdehnung; nicht der Stetigkeit u.s.f. — Dennoch soll es in C. begrenzt werden. Mithin bleibt nur das; was das Wesen der Begrenzung ausmacht. 2. Punkte. (die Zeit.) Begrenzung,

a

 [am Rande ohne Vermerk] Zwei Punkte, die im Raume, also in der Stetigkeit begrenzen, geben die Linie. — Zwei Punkte ohne Stetigkeit die Zeit.

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C = AR. – Che cos’è C? / L’accidente di A, è già noto, è = A ed è limitato in C. — A è realtà, realtà permanente. Come può venire limitato A? Questo si contraddice. — Qui non si può ricorrere alla quantità. — Eppure sì, forse. A è invariabilmente –Q. Ma, in C, A = Q. Come mai? Abbiamo stabilito così. A = –Q. In C, A = Q. Che cosa è Q, in C, quando viene riferito ad A? — Illimitatezza legata a limiti. — Ma che significano, qui, l’illimitatezza e perfino l’illimitabilità –A = A come predicati di A? Una parte di –A resta quel che non è più A. (La quantità della realtà A è determinata. Nulla è esteso —). Se deve presentarsi in C, deve presentarsi come punto, poiché tutto in C è nello spazio. — Di conseguenza, A, in C, è = al punto. — Bravo! — C è semplicemente = Q. Di conseguenza, A, in C, = Q. Come può accadere questo senza contraddire A? A, in C, è = al punto. — La proposizione è del tutto esatta (e, per giunta, è confermata dall’esperienza). P è però = –Q, — mentre la materia dev’essere comunque nella quantità — (e, di conseguenza, questo limite è riempito di punti). — Ma di punti continui o discontinui? — Anche la continuità è = A; dunque, –continuità. — Due punti che designano soltanto i limiti, senza scorrere continuamente, sono il |  tempo.a — A, in C, è dunque nel tempo (Q.E.D.). — Ma si dice che penso un tempo infinito — e q u e s t o n o n è v e r o . Nessuno può pensare l’eternità; si pensa solo un punto, — e poi, di nuovo, uno sempre più su, poi si riflette di nuovo e così via. — M e g l i o : A non è suscettibile né di quantità, né di estensione, né di continuità e così via. — E, tuttavia, dev’essere limitato in C. Di conseguenza, resta soltanto quel che costituisce l’essenza della limitazione, e cioè due punti (il tempo), la

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a

 [a margine, senza rinvio] Due punti che limitano nello spazio, cioè nella continuità, danno la linea. — Due punti senza continuità, danno il tempo.

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ohne Quantität. — Aber halt. — Hast Du nicht eben die Anschauung der Quantität am „Ich“ geben wollen? — –A ist der Quantität fähig; mithin auch (in C.) A. — Doch verbreitet sich hierüber noch ein großes Geheimniß. — Intension ist zusammengesezt aus Quantität des Stoffes (nicht im Raume) sondern in der Zeit. — (Extension aus Quantität des Stoffes 〈im〉 Raume). In Z. = Z. 1 St 0.

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A è posto. –A è anch’esso posto in A. — Pertanto, ci dev’essere qualcosa in A, in cui A e –A siano uguali. Lo chiamiamo x e ne indaghiamo la natura… a |  Analiticamente. x non è = A, altrimenti sarebbe –A, ciò che si contraddice. x non è opposto ad A, altrimenti sarebbe –A. Esso non è = –A, non è opposto a –A. Una cosa del genere la chiamiamo differente. x è differente da A e da –A. A è realtà, — x non è realtà. –A è negazione, x non è negazione. Di conseguenza x è, insieme, realtà e negazione. — Ma realtà e negazione si annullano e x sarebbe allora = 0. — Ora, nello 0, A e –A sono senza dubbio uguali, ma x non dev’essere 0, bensì qualcosa in A, in cui A = –A. Di conseguenza, esso non è = 0. Questa contraddizione non si può conciliare se non mediante un terzo termine (questo terzo termine dev’essere la quantità, ma da dove la ricavi?). In x ci sono un = A e un = –A, e tuttavia x non è = 0. Allora il terzo termine dev’essere tale, che questa non sia una contraddizioneb. C’è una sola cosa che salva da questa contraddizione, e cioè la quantità. Ma mi piacerebbe conoscere in modo preciso l’esperimento per mezzo del quale vorresti far emergere la quantità. — Il concetto è stabilito correttamente (x = A e –A e non è = 0). Questo è il concetto della quantità. Non l’intui­ zione, bensì il concetto. Dunque, — in x c’è più o meno A rispetto a –A, e in tal modo x non è = 0. Ma allora, dopo la reciproca soppressione di A e di –A, una parte di x è ancora uguale, — non all’intero A e nemmeno all’intero –A, bensì a una loro parte. Quindi x non è = A, non è = –A, ma solo a una parte di A o a una parte di –A.

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a

 [a margine, senza rinvio] Indagine sull’x, analiticamente e negativamente in confronto con A e –A. Differenza. b  [a margine, senza rinvio] Secondo la premessa, x è necessariamente >0.

Fichte_Meditazioni.indb 429

30/01/2017 11:11:13

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johann gottlieb fichte

x. ist demnach limitirt. beschränkt durch A u. –A. Seze x = x. in der Quantität so ist[:] Wenn in x A > –A so ist –A 0) sondern der positiven Realität x ist überhaupt etwas (positive Realität. geseztes Seyn) insofern es mit A übereinstimmt, (ohne A ist es 0 oder –A, allora –A 0), ma della realtà positiva. x è, in generale, qualcosa (realtà positiva, essere posto), nella misura in cui concorda con A (senza A esso è 0 o