Meditazioni pascaliane 8807102404

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Italian Pages 270 [136] Year 1998

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Meditazioni pascaliane
 8807102404

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Pierre Bourdieu p

Titolo dell'opera originale MÉDITATIONS PASCALIENNES © Éditions du Seui!, 1997

. Introduzione

naduzione dal francese di ALESSANDRO SERRA

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione italiana in "Campi del sapere" aprile 1998 ISBN 88-07-10240-4

Se mi sono deciso a porre qualche problema che avrei preferito lasciare alla filosofia, l'ho fatto perché mi è parso che quest'ultima, pur cosl problematica, non se li ponesse, e che continuasse a sollevare, soprattutto a proposito delle scienze sociali, questioni che non mi sembravano tali da imporsi - guardandosi contemporaneamente dall'interrogarsi sulle ragioni e soprattutto sulle cause, spesso assai poco filosofiche, delle sue interrogazioni. In realtà volevo spingere la critica (in senso kantiano) della ragione scientifica [raison savante]1 sino a un punto che non viene solitamente neppure sfiorato da quanti la mettono in discussione e tentare di esplicitare i presupposti inscritti nella situazione di scholé, tempo libero e liberato dalle urgenze del mondo che rende possibile un rapporto libero e liberato con tali urgenze e con il mondo. Ora sono appunto i filosofi, alcuni di loro, che, non contenti di applicare questi presupposti nella loro pratica, come altri professionisti del pensiero, li hanno portati all'ordine del discorso, non tanto per analizzarli quanto per legittimarli. Per giustificare una ricerca che spera di consentire l'accesso a verità che la filosofia contribuisce a rendere difficili da cogliere, avrei potuto richiamarmi all'esempio di alcuni pensatori che dai filosofi vengono considerati quasi dei nemici della filosofia, perché, come Wittgenstein, le assegnano come missione primaria quella di dissipare le illusioni, in particolare le illusioni che la tradizione filosofica produce e riproduce. Ma avevo diverse ra1 [Sull'ambito e la portata dell'aggettivo "savant" (e àel sostantivo corrispondente) esiste onnai una letteratura. Il lettore italiano dovrà co1J1unque aver presente che per l'ampiezza dell'ambito semantico cui si riferisce e a seconda dei contesti, il termine equivale a vari aggettivi e sostantivi italiani: da sapiente, saggio, dotto a scientifico (scienziato); N.d.T.] ·

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gioni, come risulterà presto chiaro, di porre queste mie riflessioni sotto l'egida di Pascal. Mi ero da tempo abituato, quando qualcuno mi chiedeva, generalmente con secondi fini, quali fossero i miei rapporti con Marx, a rispondere che in fin dei conti, se proprio avessi dovuto schierarmi, mi sarei definito piuttosto pascaliano: pensavo soprattutto a ciò che riguarda il potere simbolico, versante attraverso il quale l'affinità riesce più vistosa, nonché ad altri aspetti dell'opera pascaliana, meno appariscenti, come larinuncia all'ambizione del fondamento. Ma soprattutto, sono sempre stato grato a Pascal, almeno come lo leggo io, della sua sollecitudine, lontana da ogni ingenuità populista, per "la gente comune" e le "sane opinioni del popolo", come pure della volontà, da tale sollecitudine inseparabile, di cercare sempre la "ragione degli effetti", la ragion d'essere delle condotte umane in apparenza più gratuite e ridicole - come "correr tutto il giorno dietro una lepre" - invece di indignarsi o di prendersene gioco, a guisa dei "mezzo addottrinati", sempre pronti a "fare i filosofi" e a tentare di stupire con i loro stupori fuori misura circa la vanità delle opinioni di senso comune. Convinto come sono che Pascal avesse ragione a dire che "la vera filosofia si prende gioco della filosofia", mi sono spesso rammaricato che le regole della convenienza scolastica mi impedissero di prendere alla lettera questa massima: più di una volta sono stato tentato di usare, contro la violenza simbolica che si esercita spesso, e innanzitutto sugli stessi filosofi, in nome della filosofia, le armi più comunemente usate per contrastare gli effetti di quella violenza - l'ironia, il pastiche o la parodia. Come non invidiare la libertà degli scrittori (Thomas Bernhard che evoca il kitsch heideggeriano o Elfriede Jelinek le caligini degli idealisti tedeschi) o quella degli artisti che, da Duchamp a Devautour, non hanno cessato di mettere in discussione, sin nella loro pratica, la credenza nell'arte e negli artisti? La vanità di attribuire alla filosofia, nonché ai discorsi degli intellettuali, effetti tanto immensi quanto immediati costituisce a mio avviso l'esempio per eccellenza di quello che Schopenhauer chiamava il "comico pedante", una formula fatta per designare il ridicolo in cui si incorre quando si compie un'azione che non è compresa nel suo concetto - come un cavallo di scena che si mettesse a defecare. Ora, se c'è una cosa che i nostri filosofi, "moderni" e "postmoderni", hanno in comune, al di là dei conflitti che li oppongono, è proprio questo eccesso di fiducia nei poteri del discorso. illusione tipica di lector, in virtù della quale il commento accademico può passare per un atto politico o la critica dei testi per un atto di resistenza, e le rivoluzioni nell'ordine delle parole possono esser vissute come rivoluzioni radicali nell'ordine delle cose. 8

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Come evitare di soccombere a questo sogno di onnipotenza, fatto per suscitare slanci di identificazione meravigliata ai grandi ruoli eroici? Credo che prima di tutto valga la pena riflettere non soltanto sui limiti del pensiero e dei suoi poteri, ma anche -; sulle condiziorµ..d~! suo c:sercizio, che portano tanti pensatori a oltrepassare i limiti di un'esperienza sociale necessariamente parziale e locale, geograficamente e socialmente, e circoscritta a un piccolo angolo, sempre lo stesso, dell'universo sociale, e persino intellettuale, come attesta la chiusura dei riferimenti invocati spesso ridotti a una disciplina e a una tradizione nazionale. Ep: pure l'osservazione attenta delle vicende del mondo dovrebbe indurre a una maggiore umiltà, tanto chiaro risulta che i poteri intellettuali non sono mai cosi efficienti come quando si esercita-,.. no_i:iel ~~_Q§Q delle.tendenx.eimmanenti.ddto.rdi.De.sociale, rafforzando in tal caso in modo indiscutibile, attraverso l'omissione o il compromesso, gli effetti delle forze del mondo, che si esprimopo anche attraverso di essi. Mi rendo conto che quanto mi accingo a dire, e che per tanti anni ho voluto lasciare, almeno in parte, nell'implicito di un senso pratico delle cose teoriche, affonda le sue radici nelle esperienze singole, e singolarmente limitate, di un'esistenza individ_ual~; e mi re~do ~che ~on!o che gli eventi del mondo, o le penpez1e della Vita umvers1tana, possono toccare assai profondamente le coscienze e gli apparati inconsci. Ciò implica forse che il mio discorso ne risulterà particolarizzato o relativizzato? !:interesse che i Signori di Port-Royal hanno incessantemente dimostrato per l'autorità e l'obbedienza, come pure l'accanimento con ~ui hanno voluto svelarne i principi, sono stati spesso ricondotti al fatto che, pur molto privilegiati, soprattutto dal punto di vista culturale, questi Signori appartenevano quasi tutti all'aristocrazia borghese dei cosiddetti robins, una categoria sociale a quei tempi anc.o ra !}ettamente distinta, per se stessa e per gli altri~ dalla nobiltà di spada, di cui subiva con grande impazienza le msolenze. Se la loro particolare lucidità circa i valori aristocratici e i fondamenti simbolici dell'autorità, di quella nobiliare S?prat_tutto, può essere_in qualche misura ricondotta alla posiz10ne instabile e precana da loro occupata, una posizione che li in~uceva _a disposizioni critic~e nei confronti dei poteri temporali, la chiesa o lo stato, le ventà che essa disvela non ne sono in alcun modo invalidate. Occorre respingere le vestigia di moralismo, religioso o politico, che ispirano surrettiziamente un gran numero di interrogazioni_ di apparenza epistemologica. Nell'ordine del pensiero, come ncordava Nietzsche, non si dà immacolata concezione. E neppure peccato originale. E se si finisse con lo scoprire che chi ha scoperto la verità aveva interesse a farlo, quella scoperta non 9

ne risulterebbe in alcun modo sminuita. Quanti amano credere al miracolo del pensiero "puro" devono rassegnarsi_ ad_ ammettere che l'amore della verità o della virtù, come quals1as1 altra specie di disposizione, deve neces~~amente qualcosa alle ~o.ndizioni in cui è andato formandosi, m altre parole a una pos1z10ne e a una traiettoria sociali. E per parte mia sono convinto che, quando si tratta di pensare le cose della vita intellettuale, sulle quali è riposta tanta parte dei nostri investimenti e in cui, di conseguenza, il "rifiuto di sapere" e persi':10 l'"~io del!a verità" di cui parla Pascal sono particolarment~ 1ntens1 e partico~~ente diffusi (magari sotto la forma ,ro~esc1ata della falsa luc1~1tà_perversa del risentimento), un po d interesse personale per 11 disvelamento (che sarà facile denunciare come denuncia) davvero non guasti. . . . Ma l'estrema vulnerabilità delle scienze stonche, le pnme a ·essere esposte al pericolo della relativizzazione che f~o _c?rrere non manca di vantaggi. E potrei invocare la speciale vigiland nei confronti delle ingiunzioni o delle seduzioni delle mode o delle mondanità intellettuali che necessariamente ispira il fatto di prenderle in permanenza a oggett?; e sopratll:1tto il_ lavo~o di critica, di verifica e di elaborazione, insomma d1 subhmaz1one, cui ho sottoposto le pulsioni, le rivolte o le indignazioni che potevano situarsi all'origine dell'una o dell'altra intuizione, dell'una o dell'altra anticipazione. Quando esaminavo, senza riguard~ alcuno il mondo di cui facevo parte non potevo non renderrru conto del fatto che necessariamente cadevo sotto il tiro delle mie stesse analisi e che elaboravo strumenti suscettibili di essere ritorti contro di me - la metafora dell'arroseur arrosé che si usa comunemente in casi del genere designa qui semplicemente un:=i delle forme, tra le più efficaci, della riflessività quale la concepisco io, in altre parole come un'impresa collettiva. Consapevole del fatto che il privilegio concesso a coloro che sono in condizione di "giocare seriamente", secondo la formula platonica, perché il loro status (o, o~•. lo s~to)_assicw:a loro i mezzi per farlo, poteva orientare o hrmtare 11 rmo pensiero, ho sempre chiesto agli strumenti di conoscenza più bru~mente oggettivisti di essere anche strumenti di conoscenza di me stesso, innanzitutto come "soggetto conoscente". Ho cosl tratto grande beneficio da due ricerche che, condotte in universi socialmente assai distanti - il paese della mia infanzia e le università parigine - mi hanno consentito di esplorare, in qualità di osservatore og_gettivista, alcune delle regioni più os~~re della ~a so~etti~tà. 2 Sono effettivamente convinto che un impresa di oggett1vaz1one, 2 P. Bourdieu Célibat et condition paysanne, in "Études rurales", 5-6, aprilesettembre 1962, ;p. 32-136; Homo academicus, Éditions de Minuit, Paris 1984.

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lontana dall'indulgenza compiacente e specifica che normalmente si sollecita e si concede alle evocazioni dell'avventura intellettuale, sia la sola che possa permettere di portare allo scoperto, con l'intenzione di superarli, certi limiti del pensiero, e in particolare quelli che hanno come principio fondatore il privilegio. Ho spesso provato una certa impazienza di fronte all'enfasi, ai "mofs d'enflure", come dice Pascal, e all'affermazione sovrana di tesi perentorie che· spesso servono a designare le grandi ambizioni intellettuali. E, forse un po' per reagire al gusto dei preliminari epistemologici e teorici o a esegesi interminabili degli autori canonici, non ho mai voluto sottrarmi ai compiti considerati pi1'.l umili del mestiere di etnologo o di sociologo: l'osservazione diretta, l'intervista, la codifica dei dati o l'analisi statistica. Senza indulgere al culto iniziatico del "terreno" o al feticismo positivistico dei data, avevo infatti l'impressione che, per il loro stesso contenuto, più modesto e più pratico, nonché per le sortite nel mondo che comportano, queste attività, peraltro non meno intelligenti di altre, costituissero una delle opportunità che mi venivano offerte di rompere l'isolamento scolastico della gente di laboratorio, di biblioteca, di corsi e di discorsi che la vita professionale mi metteva accanto. Avrei quindi potuto accompagnare ogni riga della presente opera con i riferimenti ai lavori empirici, risalenti in qualche caso a più di trent'anni or sono, che mi hanno consentito di sentirmi autorizzato ad avanzare, senza produrre a ogni passo tutti i giustificativi e su un tono che potrà sembrare, in qualche caso, troppo brusco, le proposizioni generali che tali lavori presupponevano o che mi avevano permesso di stabilire.3 Il sociologo ha la prerogativa - e non si tratta in alcun modo di un privilegio - di essere colui al quale spetta il compito di dire le cose del mondo sociale, e di dirle, per quanto possibile, come effettivamente sono - nulla di anormale in questo, o di più che banale. Ciò che rende la sua situazione paradossale, a volte impossibile, è il fatto di essere circondato da persone che o ignorano (attivamente) il mondo sociale e non ne parlano - e sarò l'ultimo a rimproverare agli artisti, agli scrittori, agli uomini di scienza, di dedicarsi pienamente alla loro attività- o se ne occupano e ne parlano, a volte molto, ma senza saperne granché (tra co3 Per quanto riguarda i miei lavori come quelli degli altri ricercatori che mi sono stati utili, mi sono limitato a indicare i riferimenti che ho ritenuto indispensabilì a quanti eventualmente volessero proseguire per lorQ conto la ricerca; sono peraltro perfettamente consapevole del fatto che la via da me scelta, do!)O molte esitazioni - una via che si colloca a metà strada tra la lunga enwnerazio• ne di nomi di filosofi, etnologi, sociologi, storici, economisti, psicologi ecc., che avrei potuto e forse dovuto a ogni passo invocare e l'assenza totale di riferimenti - è con ogni evidenza un semplice ripiego.

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storo metterei anche qualche sociologo patentato): non è raro in effetti che, quando si associa all'ignoranza, all'indifferenza o al disprezzo, l'obbligo di parlare imposto dalla séduzione di una notorietà rapidamente acquisita o dai modi e dai modelli del gioco intellettuale induca tanti a parlare del mondo sociale, ma come se non ne parlassero, o come se in realtà ne parlassero solo per meglio dimenticarlo e farlo dimenticare, operando nei confronti di esso una sorta di denegazione. Cosi, quando fa semplicemente quel che ha da fare, il sociologo rompe il cerchio incantato della denegazione collettiva: fa. vorendo il ritorno del rimosso, tentando di sapere e di far sapere ciò che l'universo del sapere non vuole sapere, in particolare su se stesso, egli si assume il rischio di apparire come colui che svela il trucco. Ma a chi Io svelerà, se non a coloro dai quali, in -tal modo, prende le distanze, e da cui non può attendersi alcuna riconoscenza per le sue scoperte, le sue rivelazioni o le sue confessioni (necessariamente un po' perverse, bisogna riconoscerlo, giacché valgono anche, per procura, per tutti i suoi simili)? So benissimo a cosa si va incontro quando ci si batte contro la rimozione, così potente nel mondo puro e perfetto del pensiero, di tutto ciò che attiene alla realtà sociale. So che dovrò affrontare l'indignazione virtuosa di quanti ricusano, nel suo stesso fondamento, Io sforzo di oggettivazione - o che, in nome dell'irriducibilità del "soggetto", della sua immersione nel tempo, che lo vota al cambiamento incessante e alla singolarità, essi equiparino ogni tentativo di convertirlo in oggetto di scienza a una sorta di usurpazione di un attributo divino (Kierkegaard, su questo punto più chiaro dei suoi seguaci, parla, nel suo Diario, di "bestemmia"); o che, convinti della loro eccezionalità, vedano in questo tentativo solo una forma di "denuncia", ispirata dall"'odio" dell'oggetto al quale essa si applica: filosofia, arte, letteratura e così via. È difficile resistere alla tentazione, tanto più che la cosa si dimostra "pagante", di fare come se il semplice riferimento alle condizioni sociali della "creazione" fosse l'espressione di una volontà di ridurre l'unico al generico, l'individuo alla classe; come se il constatare che il mondo sqciale impone vincoli e limiti al pensiero più "puro", quello degli scienziati, degli artisti e degli scrittori, fosse il portato di un partito preso denigratorio; come se il determinismo, tanto spesso rimproverato al sociologo, fosse, al pari del liberalismo o del socialismo, dell'una o dell'altra preferenza, estetica o politica, una faccenda di fede se non addirittura una sorta di causa rispetto alla quale si dovrebbe prender posizione, per osteggiarla o difenderla; come se l'impegno scientifico fosse, nel caso della sociologia, un partito preso, ispirato dal risentimento, contro tutte le "buone cause" intellettuali, l'indivi12

dualità e la libertà, la trasgressione e la sovversione, la differenza e la dissidenza, l'aperto e il diverso, e cosi via. Mi è capitato spesso, di fronte alle denunce farisaiche delle mie "denunce", di rammaricarmi di non aver seguito le orme di Mallarmé, il quale, rifiutandosi di "operare, in pubblico, la scomposizione empia della finzione e conseguentemente del meccanismo letterario, per esporre il pezzo principale, ossia nulla",4 sceglieva di salvare la finzione, e la credenza collettiva nel gioco, enunciando quel nulla di fondo solo sul registro della denegazione. Ma non potevo accontentarmi della risposta che Mallarmé dava al problema di sapere se occorra enunciare pubblicamente i meccanismi costitutivi di giochi sociali circonfusi di prestigio e di mistero come quelli dell'arte, della letteratura, della scienza, del diritto o della filosofia, e depositari dei valori comunemente ritenuti tra i più universali e sacri. Prendere la decisione di mantenere il segreto, o di svelarlo solo sotto una forma strettamente velata, coine fa appunto Mallarmé, equivale a dare per scontato che solo alcuni grandi iniziati siano capaci della lucidità eroica e della generosità di decisione necessarie per affrontare nella sua verità l'enigma della finzione e del feticismo. Consapevole di tutte le attese che ero costretto a deludere, di tutti i dogmi jndiscussi della convinzione "umanistica" e della fede "artistica" che mi vedevo obbligato a sfidare, ho spesso maledetto il destino (o la logica) che mi imponeva di schierarmi, in piena conoscenza di causa, da una parte così scomoda, di avviare, con le sole armi del discorso razionale, una lotta forse perduta in partenza contro forze sociali smisurate come il peso delle abitudini di pensiero, degli interessi di conoscenza, delle credenze culturali tramandate da vari secoli di culto letterario, artistico o filosofico. E tale consapevolezza era resa ancor più paralizzante dal fatto che non potevo non sentire, nell'atto di scrivere sulla scholé e su tutte queste altre cose, l'effetto di ritorno dei tniei discorsi. Non· ho mai provato con tanta intensità l'inquietante estraneità del mio progetto, una sorta di filosofia negativa esposta al rischio di apparire autodistruttiva. In altre occasioni, per cercar di alleviare l'ansia o l'inquietudine, ho potuto assumere, a volte esplicitamente, il ruolo dello scrittore pubblico e tentare di convincere me stesso - ma: anche coloro che seguivano il mio insegnamen• S. Mallarmé, I.a musique et /es /ettres, in ...~io~. . ~nalizzat , e perché ~sso nasconde sotto le apparenze più triviali, que~le della banalità quotidiana per quotidiani, accessibile all'ultimo arrivato tra i ricercatori, le rivelazioni più inattese su ciò che meno vogliamo sapere di ciò che siamo.

,mir~

ç,.~

5 • B. P3:-5ail, Pensées_et Opuscu~: éd. Brunschvicg, Hachette, Paris 1912, 114; tr. 11. Penswn (a cura di Paolo Senru), Mondadori, Milano 1982, 59, p. I 19.

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1. Critica della ragion scolastica

È perché siamo implicati nel mondo che si dà qualcosa di im-

plicito in ciò che pensiamo e diciamo del mondo stesso. Per liberare il pensiero da questo implicito, non ci si può accontentare di quel ritorno su di sé del pensiero pensante che viene comunemente associato all'idea di riflessività, e solo l'illusione dell'onnipotenza del pensiero può far credere che il dubbio più radicale sia capace di mettere tra parentesi i presupposti, legati alle diverse affiliazioni, appartenenze, implicazioni che investiamo nei nostri pensieri. I.:inconscio è la storia- la storia collettiva che ha prodotto le nostre categorie di pensiero, e la storia individuale attraverso la quale esse ci vengono inculcate. È per esempio dalla storia sociale delle istituzioni dell'insegnamento (storia quanto mai banale, e assente dalla storia delle idee, filosofiche o d'altro genere) nonché dalla storia (dimenticata o rimossa) del nostro rapporto individuale con tali istituzioni che possiamo attenderci qualche rivelazione vera sulle strutture oggettive e soggettive (classificazioni, gerarchie, problematiche ecc.) che orientano sempre, malgrado noi, il nostro pensiero. L'implicazione e l'implicito

Nel rinunciare all'illusione della trasparenza della coscienza a se stessa e alla rappresentazione della riflessività comunemente ammessa tra i filosofi (e accettata persino da certi sociologicome Alvin Gouldner; che si serve della formula per auspicare un'esplorazione intimista della fatticità delle esperienze personali), 1 1 A.W. Gouldner; The Coming Crisis o(Westem Sociology, Basic Books, New York 1970; tr. it. La crisi della sociologia, il Mulino, Bologna 1973.

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occorre rassegnarsi ad ammmettere, nella tradizione tipicamente positivista della critica dell'introspezione, che la riflessione più efficace è quella che consiste nell'oggettivare il soggetto dell'oggettivazione; la riflessione cioè che, sottraendo al soggetto cono: scente il privilegio che egli normalmente si concede, fa tesoro d1 tutti gli strumenti di oggettivazione disponibili (inchiesta statistica, osservazione etnografica, ricerca storica ecc.) per portare alla luce i presupposti che trae dalla sua inclusione nell'oggetto di conoscenza. 2 Questi presupposti appartengono a tre ordini differenti: abbiamo in primo luogo, per partire dal livello più superfi