Marco. Vangelo di una notte vangelo per la vita. Commentario Marco 11,1-16,20 [3] 9788810206614

"Comprendiamo a che cosa serviva questo testo nella comunità o nelle comunità che l'hanno visto nascere? Possi

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Marco. Vangelo di una notte vangelo per la vita. Commentario Marco 11,1-16,20 [3]
 9788810206614

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BENOiT

STANDAERT

a t'CO Vangelo di una noHe vangelo per la vita

Commentario Mc 11,1-16,20

3

Titolo originale: Évangile selon 16,20

Mare.

Commentaire, Troisième partie Mare 11,1 à

Traduzione dal francese: Romeo Fabbri

L'edizione francese è pubblicata da J. Gabalda et C•, Éditeurs, Pendé (France), 2010

Realizzazione editoriale: Prohemio editoriale srl, Firenze

c

2011 Centro editoriale dehoniano via Nosadella, 6 - 40123 Bologna www.dehoniane.it EDB®

ISBN 978-88-1 0-20661 -4 Stampa: Italiatipolitografia, Ferrara 201 1

LA SOLUZI ONE: L'ULTIMA SETTIMANA. MARCO 11-16

Con il capitolo 1 1 si entra a Gerusalemme e nell'ultima settimana di Gesù. Quest'ultima parte presenta una notevole unità sia spaziale che temporale. Vi si di­ stinguono facihnente delle sezioni ben delimitate: in un primo tempo, Gesù penetra fino al centro della Città santa ed entra nello stesso recinto del Tempio. Questo dà luogo a non meno di cinque controversie, che fanno pendant con le cinque contro­ versie riunite all'altro capo del racconto, in Mc 2,1-3,6. Poi Gesù prende posizione di fronte alla Città e al Tempio e, dall'alto del monte degli Ulivi, pronuncia l'uni­ co grande discorso unito e continuo nel Vangelo di Marco: il discorso escatologico che considera tutta la storia, la sua fine e il suo aldilà meraviglioso con la venuta in gloria del Figlio dell'uomo. Questo discorso, al centro della terza parte, offre uno sguardo globale che riuscirà a includere anche tutto il vissuto della comunità di Marco, con il suo passato recente e la sua storia attuale. Al termine, si entra con Gesù nella sua passione. Una prima parte si svolge nell'intimità della cerchia dei di­ scepoli, mentre nella seconda si mostra Gesù consegnato nelle mani di coloro che lo condannano a morte e poi eseguono la sentenza. Un breve epilogo chiude l'intero vangelo. Certi indizi cronologici mostrano che tutto avviene nell'arco di una setti­ mana e che, di tre ore in tre ore, si può seguire l'ultima giornata della vita di Gesù} Dal punto di vista drammatico, entriamo nella parte della soluzione del dramma. Il protagonista ci ha informati su quello che Io aspetta (cf. 10,33-34). Assisteremo a ciò che ormai non potrà più sorprenderei completamente, ma non per questo man­ cherà di colpirci: un giusto innocente sarà condannato a morte e giustiziato in modo violento. Uno dei compiti difficili di ogni evangelista è di rendere la cosa in qualche modo plausibile. L'equilibrio della disposizione generale di quest'ultima parte e la presenza degli stessi modelli compositivi in ogni grande unità mostrano che il nar­ ratore domina bene il suo tema. In queste ultime sequenze Marco non è diverso da quello che abbiamo potuto conoscere finora. Marco 1 1-1 2: cinque controversie Marco 13: discorso escatologico Marco 14-15: racconto della passione Marco 16,1-8: epilogo

tre giorni in continuità con ciò che precede quattro giorni mattino del primo giorno della settimana

1 a. il riquadro (cf. 10,52, stesso verbo). «Al villaggio di fronte a voi>>, il che è preciso e vago al tempo stesso: è Betfage o Betania (cf. v. 11)? «Di fronte>> (Ka:'tÉva.vn, cf. 12,41 e 13,3). Piuttosto lunga e circostanziata, con molte precisazioni dettagliate, la frase costituisce un'apertura adeguata a questo ingresso nella Città santa. Anzitutto Gesù prevede e predice ciò che avverrà, e così si rive­ la profeta, come Samuele, il quale predice a Saul tutto ciò che incontrerà sulla sua strada congedandosi da lui (1Sam 10,1-9). Ma il parallelismo presenta un aspetto curioso: mentre Samuele agisce come profeta e viene a ungere Saul come primo re di Israele, Gesù si avvicina alla sua città come re messianico e, al tempo stesso, agi­ sce come profeta che annuncia ciò che accadrà. Perciò è, in un'unica azione, re e profeta al tempo stesso. L'animale viene così caratterizzato: a) ricorda la profezia di Zaccaria: «Ecco a te viene il tuo re, giusto e vittorioso, umile e seduto su un asino, un puledro figlio di asina>> (9,9); b) vi si può cogliere anche un'eco di Gen 49,10-11 LXX: «Lo scettro non si al­ lontanerà da Giuda [ . . ] fino alla venuta di colui che è stato tenuto in serbo per esso ed egli sarà l'attesa delle nazioni. Egli lega alla vite il suo asinello, al ceppo il figlio della sua asina>>; c) simboleggia il contrario del cavallo, portando la pace e non la guerra, venen­ do con dolcezza e umiltà e non come guerriero. Il seguito della profezia di Zaccaria lo esprime chiaramente: «Farà sparire il carro da guerra da Efraim e i cavalli da Ge.

Marco 1 1-12. Cinque controversie nel tempio. Composizione

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rusalemme; l'arco di guerra sarà spezzato. Egli annuncerà la pace alle nazioni. Il suo dominio sarà da mare a mare e dal Fiume fino ai confini della terra» (Zc 9,10); d) >, come proclama l'ultimo profeta delle Scritture: (MI 3,1). Si tratta semplicemente della continuazione della grande citazione che apre il racconto di Marco (cf. Mc 1,2). Il nuovo inizio del racconto si ricollega quindi con l'inizio di tutto il racconto e ora riferisce la conti­ nuazione logica della grande e ultima profezia del Libro. Notiamo che. in questi due capitoli, il termine ritorna 8 volte, sulle 13 volte in tutto il vangelo e solo 4 volte nei dieci capitoli precedenti. Oltre all'aspetto profetico, la predizione con il nome del Signore (ò KUp Loç) può anche contenere una chiara allusione mes­ sianica (cf. v. 9: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore>>). Ci troviamo quindi davanti a un inizio vivace e intenso, come all'inizio di tutto il racconto (c. 1). Notiamo il doppio Ka.Ì. EÙ9uç («e subito>>), di per sé piuttosto ec­ cezionale, e qui, ogni volta in una comunicazione in discorso diretto. Gesù vuole entrare in modo equipaggiato e caratterizzato. L'asino è solo un mezzo che restituirà subito dopo. Egli entra e chi comprende il segno, sa che cosa lo aspetta. Una tradizione rabbinica, indubbiamente molto più tardiva ma comunque significativa, presenta un rabbi che riflette sulla modalità della venuta del Messia, ba­ sandosi su due citazioni delle Scritture che il Nuovo Testamento conosce molto bene

' In Marco ricorre 13 volte «il Signore», di cui almeno 7 volte in una citazione scritturistica (dove il nome rinvia al tetragramma in ebraico), cf. l ,3; 11,9; 12,1 1.29.30.36.37. Due volte si tratta di Kup�oç come padrone della casa o della vigna, in una parabola (12,9; 13,35); una volta si tratta di «Dio>> attraverso Gesù (5,19: «racconta ciò che il Signore ti ha fatto » per ciò che Gesù ha fatto), o del «Signore Dio» che alla fine dei tempi «abbrevia i giorni» (13,20). In 2,28 l'espressione > (Ka.L tLVEç twv ÉKE1 É=t:rtTJKOtwv), stes­ sa formulazione in 9,1; cf. 15,35. ÈÀEyov, «si misero a dire>>: imperfetto de conatu. T[ 1TOLE1tE ì..uov.Ec;, il t L con il valore di . Il Maestro aveva annunciato persino una possibile resistenza e, alla fine, avviene tutto : la loro parola e la reazione degli altri. Il greco lo esprime quasi con gli stessi suoni: Et rro:v . . . Ko:9wç Et TTEV 6 l fli')Ko:v . . . (v. 6). L'ultimo ver­ bo (ti!j>LÉV«L) ritorna spesso sotto la penna di Marco (32 volte) con significati molto diversi. Serve varie volte, come qui, a raccontare la conclusione di una storia (cf. ad esempio 1,18.20; 8,13; 12,12; 14,50). L'avvenimento è predetto, le stesse parole sono preannunciate e come dettate, e tutto ciò che avviene è come già scritto, rinviando sia alla predizione di Gesù sia alla Scrittura (si pensa a Gen 49,1 1; Zc 9,9; Sof 3,14-15; da comparare con l'intronizzazio­ ne del figlio di Davide Salomone, sulla mula del re, in 1Re 1,33.38-40). v. 7: Ko:Ì. !j>ÉpouaLV («e lo conducono>>), presente storico, ripresa del racconto in primo piano. Anche il soggetto del verbo non è più lo stesso del versetto prece'

3 Non si può escludere del tutto una confusione nella lettura fra AMIIEAOY e AMOll.OY: stesso numero di lettere, quattro lettere identiche e grande parentela nella forma fra le tre lettere centrali che non sono identiche.

Marco 11-12. CinquecorrtrrNersleneltempio. Composizione

dente (all'aoristo). Si getta il proprio mantello sul giovane animale. Lagrange (290) nota con realismo: «Non essendo mai stato cavalcato, l'asinello non aveva il basto e forse il proprietario non ne aveva ancora uno per lui. In un caso del genere, ci si ac­ contenta spesso di una coperta. I discepoli la sostituiscono mettendo i loro mantelli sull'asino e Gesù vi sale sopra. Anche quando l'animale ha un basto, chi lo presta a una persona distinta si premura sempre di porre il suo mantello sul basto, spesso molto duro, per renderlo più comodo». Riguardo al verbo «gettare i loro mantelli» (ÈmjXiUEw), cf. 10,50 e il commento. Assistiamo a una rapida messa in scena di un'intronizzazione, come improv­ visata, ma non senza risonanze bibliche (cf. ·leu in 2Re 9,13, acclamato re, o anco­ ra l'ingresso di Simone al tempo dei Maccabei, in 1Mac 13,51, «con acclamazioni e palme»). v. 8. La folla si attiva: si stendono i mantelli sulla strada, si tagliano fronde (onjXiç, unico caso nel NT, sconosciuto nella LXX ma conosciuto dal greco classi­ co e dai papiri, «tappeto di erbe» o «bracciata di foglie»). «< campi possono essere sia campi di ulivi sia campi di cereali. Vicino alla città, la vegetazione dei giardini era più lussureggiante» (così Lagrange, che rinvia specialmente al suo commento di Gdc 5,10, dove si parla di «cavalcare asine bianche» e «Camminare su tappeti»). L'ultimo membro della frase resta come in sospeso. Perciò molti manoscritti qui hanno non il participio, ma il verbo all'attivo: EKomov invece di KoljJavtEç. v. 9. Il narratore evoca una grande moltitudine (cf. 6,31) che si dispone in corteo, con gente davanti e altra dietro. L'impressione è quella di una pienezza, con ancora l'impossibilità di discernere dove si trovino quelli che vengono dalla Galilea e chi vie­ ne da Gerusalemme (così Swete ). EKpa(ov, all'imperfetto, che significa «gridare» ma anche «cantare ad alta voce», in modo ripetitivo. 'Qoavvti è la semplice trascrizione del grido contenuto nel Sal l18, v. 25, in ebraico (�� ii-?"!Ùlii), che il greco della LXX traduce semplicemente con oWilov («salva!»). Ritroviamo questo grido rivolto al re in 2Sam 14,4 e 2Re 6,26. Si tratta di un salmo che ritorna soprattutto nei giorni di festa, sia a Pasqua sia alla festa delle Capanne. Non è tanto un grido di aiuto quanto piutto­ sto una semplice invocazione e acclamazione solenne. In sé, il testo dice: > (v. 3). Questa benedizione si trasformerà tragicamen­ te in maledizione perché, come un maledetto, egli penderà dalla forca (cf. Dt 21 ,22, citato in Gal 3,18, dove l'apostolo insiste sull'altro versante del mistero della croce, con l'ultima trasformazione della maledizione in benedizione universale). 11 ,10-11: EÙÀOYTJI..LÉVT] � EPXOIJ.ÉVT] l3aoLÀE LI:t tou TT�:ttpòç �(..LWV �au(ò· 'Qoavvà Èv to'Lç ÙljJ(otOLç. 11Kal E i.of]À8Ev Ei.c; 'IEpoooÀU(..L(t E Lç tÒ LEpÒv Kal TTEpl�ÀEijJOC(..LEVOç mivta, òljJiaç �ÙTJ ouoT)ç tf]ç c;lpaç, Èçf]À8Ev Ei.c; BTJ8aviav (..!Età twv ÙWÙfKI:t. 598

La soluzione: l'ultima settimana. Marco 1 1-16

11,10-11: «"Benedetto sia il Regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!". Entrò a Gerusalemme, nel Tempio e, dopo aver guardato ogni cosa attorno, essendo ormai tardi, uscì per andare a Betania con i Dodici». v. 10: «Benedetto sia il Regno che viene, del nostro padre Davide>>. Ecco l'atte­ sa specifica del popolo, agli occhi di Marco. Essi sperano in un messianismo davidico, un regno ripristinato che porrà fine al regime di un paese occupato, sotto il bastone di un potere straniero. In questa acclamazione della folla risuona ancora il titolo che Bartimeo, nell'episodio precedente, usò per la prima volta nel vangelo: Gesù «figlio di Davide>>. Gesù vi ritornerà più avanti, all'altro capo della sezione (12,35s). In realtà, fin dall'inizio del racconto (cf. 1,15) Gesù ha annunciato solo il regno di Dio e non ha mai suggerito qualcosa come la venuta di un «regno di Davide>>, che comporterebbe la restaurazione della dinastia davidica con tutte le implicazioni di rivolta contro il potere esistente. L'acclamazione della folla introduce una nota che il lettore/ascoltatore non ha alcun problema a riconoscere falsa. D'altra parte si può notare, sul piano storico, che colui che annuncia con forza la venuta del regno di Dio non può non interpellare ogni ordine politico esistente: sarà difficile considerare il suo discorso come privo di una punta critica nei riguardi del regime politico esistente. v. 11. Gesù entra nella Città per uscirne subito (cf. 10,46). Entra nella Città e nel santuario: Città e Tempio sono considerati un prolungamento l'uno dell'altra e possono essere compresi come due cerchi concentrici. La Città è detta santa, per­ ché ha al suo interno il Tempio, secondo un celebre detto conservato nella Mishna.4 Gesù entra nel centro più santo della Città santa. Egli, che nella prima pagina del vangelo un demonio impuro ha riconosciuto nella sinagoga come «il Santo di Dio>> (1,24), qui entra nello spazio sacro, nel Santo. Questo spazio è santo e sacro, secon­ do regole che Mosè e Aronne hanno stipulato da generazioni. Malachia, per ultimo, aveva annunciato: «Subito entrerà nel suo tempio il Signore [ . . . ]. Chi sopporterà il giorno della sua venuta?>> (MI 3,1-2). La casa tradizionale del Signore sopporterà il Giorno? I quattro evangelisti sono testimoni di un'emozione molto particolare quando Gesù entra, per la prima volta, nello spazio sacro del Tempio di Gerusa­ lemme. Si percepisce una tensione già fin dal primo gesto pubblico di Gesù in Mar­ co, quando un giorno di sabato (il tempo sacro) Gesù entra nella sinagoga (spazio sacro, corrispondente al tempo sacro): cf. Mc 1,22-27. La tensione si gioca fra due ordini percepiti chiaramente come incompatibili, fra ciò che appartiene al vecchio e ciò che riguarda il nuovo - «il vino nuovo versato in otri vecchi>>. Ci si rende rapida­ mente conto che la tensione è irrimediabile, che essa condurrà a un annientamento, nel quale si perderanno «il vino e gli otri>>, come dice con immagini il protagonista, fin dal capitolò 2 (cf. 2,21-22). «E, dopo aver guardato ogni cosa attorno» (KocÌ. 1TEpL�ÀEijiRJ.1EVoç mivta). Ri­ troviamo questo grande sguardo circolare di Gesù che, qui, ha visto tutto (cf. 3,5.34; 5,32; 10,23). Il frutto di questo sguardo ispettivo non viene raccontato: il seguito lo mostrerà. Nessuna curiosità in questo sguardo. Questo «ogni cosa>> (mivtoc) non la­ scia presagire nulla di buono. La sentenza è già stata emessa ma l'esecuzione sarà rinviata a un momento successivo. Marco racconta, non senza coinvolgersi. Non si limita a riferire ciò che è avvenuto: ciò che ha potuto pensare e provare Gesù in

4 Cf. mKelim 1,6-9. a. L 'espace Jésus, 123s. Marco 11-12. Cinque controversie nel tempio. Composizione

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quel momento è reso nel modo più semplice. Non sarebbe storicamente corretto non vedere questa semplificazione. «Poiché era ormai tardi»: queste parole, dette come fra parentesi, con un ge­ nitivo assoluto (òtJI(Ilç �OTJ OU>. Il termine ò KttLp6c; in greco significa «la stagione>>, ma può significare anche «il tempo di Dio», il momento dell'incontro, l'ora propizia (cf. Paolo in 2Cor 6,2: «momento propizio (K1upòc; EÙ1Tpoo&K-roc;), giorno della salvezza», citando Is 49,8; cf. anche il significato forte del termine in 1Pt 1,5.1 1 ; 4,17 e 5,6). Gesù viene, il Mes­ sia si avvicina, ma non trova il corrispondente sperato fra coloro che egli visita. In Ezechiele si apprende che la pienezza finale comporterà un risanamento delle stes­ se acque del Mar Morto, a partire da una sorgente che sgorga dal Tempio. Allora, «lungo il torrente, su una riva e sull'altra, crescerà ogni sorta di alberi da frutto, le cui foglie non appassiranno: i loro frutti non cesseranno e ogni mese matureranno, perché le loro acque sgorgano dal santuario. I loro frutti serviranno come cibo e le foglie come medicina>> ( Ez 47,12). Immagine meravigliosa e iperbolica di ciò che sarà l'avvenire compiuto sotto l'azione della pienezza dello Spirito. In contrasto, il nostro albero di fichi sulla strada fra Betania e la Città santa è radicalmente de­ ludente. In Geremia c'è un lamento che tradisce una stessa percezione deludente: il profeta riconosce che le bestie conoscono la loro , mentre il popolo è completamente fuorviato e ha perso il senso di Dio: «La cicogna nel cielo cono­ sce la sua stagione (K!upoc;), la tortora, la rondinella e la gru osservano il tempo (KttLpouc;) della loro migrazione. Il mio popolo invece non conosce il diritto del SI­ GNORE !>> (Ger 8,7). «Vorrei raccogliere presso di loro, dichiara il SIGNORE. Ma non c'è più uva sulla vite, né fichi sul fico: anche le foglie sono avvizzite>> (8,13). v. 14. Gesù prende la parola. Il testo sottolinea con l'à:1TOKpL9Etc; E{1TEV ttÙ'!ij la forza del faccia a faccia fra lui e l'albero. Doppia negazione (iJ.TJÙE(c;, iJ.TJKfn) e doppia clausola temporale: «non più>> (iJ.TJKÉn) e , lo stesso verbo usato per espellere gli spiriti immondi e i demoni, esattamente come al momento del suo arrivo nella sinagoga di Cafarnao il primo giorno della sua attività pubblica, di sabato. Il parallelo colpisce. In concre­ to, Gesù se la prende con i venditori e i compratori. Si susseguono tre verbi: «scac­ ciare», «rovesciare>> (Ko:to:atpÉ> che si trasporti alcunché nel tempio. È come se si liberasse lo spazio per lasciare il po­ sto a un'altra realtà. Qui si impone nuovamente la comparazione con gli esorcismi della prima parte del vangelo, specialmente con questo passo sulla casa liberata: «Nessuno può entrare nella casa del Forte per rapire i suoi beni, se anzitutto non ha legato il Forte. E allora saccheggerà la sua casa>> (3,27). Ora lo spazio o è il Tempio. Si tratta dei (tpanf'(o:, , cf. 7,28; KoUu�wt�ç, caso unico in Marco, termine popolare per indicare i cambiamonete ) e delle «Sedie dei venditori di colombe>> (Ko:9Éòpa, caso unico in Marco). Quest'ulti­ mo elemento, riferito solo da Marco, ricorda l'ultimo versetto del profeta Zaccaria:

(Zc 14,21). Si trova anche altrove questa stessa idea di un Tempio ripulito da ogni presenza estranea o impura: cf. Is 52,1 .1 1-12; Ap 21,27. Nella descrizione della sce­ na nel quarto vangelo si parla, inoltre, di accanto alle . Rovesciando tutto e servendosi persino di una frusta (Gv 2,15), questo Gesù, secon­ do l'immagine che ne offre questo evangelista, è molto più terribile di quello che ci ha conservato Marco. L'episodio è riferito nei quattro vangeli. Gesù ha compiuto questo gesto e i cristiani non hanno potuto dimenticarlo. Il fatto che non sia stato immediatamente arrestato dimostra che egli lo ha compiuto come un gesto profetico, in modo con­ tenuto, volendo lasciare soprattutto un segno. La spianata del Tempio era mol­ to vasta e certamente l'azione di Gesù ha coinvolto meno di un decimo della sua superficie. I suoi discepoli non sono entrati in azione. Liberare tutta la spianata avrebbe richiesto una follia furiosa. Lo scopo era quello di porre un segno in gra­ do di interpellare sia le autorità sia la folla, e indurre le une e l'altra ad adottare un Marco 1 1-12. Cinque controversie nel tempio. Composizione

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nuovo comportamento religioso. Gesù agisce come profeta, al pari di Isaia, Gere­ mia o Ezechiele e compie come loro dei gesti che sono segni. Il carattere profetico di questo comportamento conferma indirettamente tutta la dimensione profetica percepita nell'episodio precedente dell'albero di fichi. I due gesti sono paralleli, sul piano del racconto di Marco, e si chiariscono a vicenda. 1 1,17: Kal ÈùU)aoKEV KIIÌ. EÀEYEV airro'ic; , Où yÉypamaL on 'O otK6c; IJ.OU otKoc; npooEuxf]c; KÀTJ9�oEtllL TiiiO LV to'ic; E9vEow; UiJ.E'ic; ùÈ 1TE1TOL�KiltE autòv o�ÀaLov À1JOtWV. 11,17: «E li ammaestrava e diceva loro: "Non sta forse scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni? Ma voi ne avete fatto un covo di briganti"».

v. 1 7: «E li ammaestrava>> (KaÌ. Èù(ùaoKEV). Marco dice che si tratta nuovamen­ te di un vero e proprio insegnamento. Ed è il solo a dirlo (cf. Mt 21,13; Le 19,46; Gv 2,16, «e diceva lorO>>). Il verbo all'imperfetto sottolinea la durata e il carattere fondamentale dell'insegnamento dispensato. «Un insegnamento nuovo dato con autorità», diceva la gente fin dal primo giorno, in Galilea (1,22.27). Colui che era pieno di Spirito insegnava «non come gli scribi>>. Pieno di quello Spirito Santo che è «lo Spirito del santuario>>/ ecco che entra nell'attuale santuario di Gerusalemme, il nuovo Tempio nell'antico. Si sopporteranno? O sarà come l'immagine del vino nuovo versato in otri vecchi (cf. 2,22)? Egli trova il luogo santo pieno di mercanti e lo «purifica», lo libera dai compratori e dai venditori, lo ripulisce. Si sente risuonare ancora una volta la voce dell'ultimo dei profeti: «Subito entrerà nel suo Tempio il Signore che voi cercate. [ . . . ] Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resiste­ rà al suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai. Siederà per fondere e purificare>> (cf. Ml 3,1-3). «E diceva loro: "Non sta forse scritto: La mia casa sarà chiamata casa di pre­ ghiera per tutte le nazioni? Ma voi ne avete fatto un covo di briganti">>. Tutto l'insegnamento si basa su due citazioni scritturistiche, una tratta da Isa­ ia, l'altra da Geremia. La prima citazione è espressa come una domanda retorica, con un'innegabile ironia. La risposta è: certo, sta scritto. Essa immagina il futuro («[la mia casa] sarà chiamata>>). Il futuro pronunciato dal profeta è ormai il presen­ te e il futuro di Gesù. come anche il presente e il futuro della comunità dei desti­ natari. La seconda proposizione è una constatazione, indubbiamente non neutra, perché le parole scelte per formularla sono tratte da Geremia. Implicitamente il contenuto equivale a dire: «Voi realizzate ciò che ha detto e annunciato Geremia». La parola riguarda il passato e il presente, al tempo di Gesù. Oltre a queste due citazioni, qui sembrano convergere tutte le Scritture, come in occasione dell'apertura del racconto in Mc 1,2-3. I commentari accumulano i riferi­ menti: l Re 8,29, sulla «casa di preghiera>>, al momento dell'inaugurazione del Tempio da parte di Salomone; Is 2,1-4; 56,7-8; 60,7.14.18; 61,3.6; 62,4.11 -12, dove la prospetti­ va su «tutte le nazioni» è ogni volta evocata e associata con l'atto di «nominare>> o di «appellarsi al nome>> di Dio. Allo stesso modo, anche nei Salmi di Salomone si dice

7 a. pp. 81 e 121 e L 'espace Jésus, 12()..134 ( «.Jésus et l'Esprit»). 606

La soluzione: l'uffima settimana. Marco 11-16

del «figlio di Davide» che «purificherà (Ka9apu:1) Gerusalemme e che tutte le nazioni verranno dalle estremità della terra» (PsSal l7,3s, citato da Taylor). «Casa di preghiera», quindi casa che realizza pienamente la relazione con Dio. «Per tutte le nazioni», espressione che apre lo spazio sacro ai pagani. Qui vengono affermate contemporaneamente due dimensioni: quella che si riferisce a Dio, al Dio vivente e santo, Signore dell'universo, e quella che si riferisce alle nazioni pagane. Il Dio dell'universo si può incontrare in una casa universale, aperta a tutti. Prese insieme, le due affermazioni creano qualcosa di nuovo, di inau­ dito e di quasi insopportabile. Come immaginare un luogo santo per tutti, anche per i pagani, dal momento che le nazioni pagane sono per eccellenza luoghi di impurità e di profanazione? Il santo per tutti non è forse un santuario reso profano, la con­ seguenza di una profanazione del sacro? E tuttavia Gesù riprende questa profezia e la riafferma con forza, al futuro, con una connotazione escatologica, come sottoli­ neava già Lohmeyer. In realtà, il Tempio non è mai stato questo: «casa di preghiera per tutti i popoli». Pronunciando questa parola di Is 56, Gesù non sta distruggendo una delle strutture fondamentali del Tempio, cioè il muro della separazione, che nessun pagano poteva oltrepassare e restare in vita? Possiamo interrogarci: oggi, i nostri spazi sacri - anche cristiani - realizzano la profezia? Ci troviamo davanti a un limite, alto, sublime, sempre da ricercare al di là delle realizzazioni concrete fram­ mentarie. Giunto una sera in fondo alla steppa a Koubri, nel Burkina Faso, scopro una cappella monastica ottagonale con un unico testo che circonda tutto lo spazio: «La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutti i popoli>>. In quel punto del mondo si apriva davanti a me un magnifico inizio di realizzazione della profezia. Quando, alla fine di ottobre del 1986, ad Assisi, papa Giovanni Paolo II si ritrovò sotto il cielo con cristiani di tutte le razze e oranti di tutti i popoli nel compimento dell'atto più centrale di ogni religione, cioè «pregare per la pace>>, si realizzò qual­ cosa della grande visione di Is 56,7, riletta da Gesù in Mc 1 1 ,17. «Sarà chiamata>>, dice Gesù, in sintonia con Isaia, al futuro. Anche oggi, il nome di «Casa di preghiera per tutti i popoli» resta un ideale sempre da ricercare, finora mai conseguito piena­ mente nel corso della storia. Né Matteo né Luca hanno ripreso integralmente l'espressione, come ha fatto Marco. Hanno percepito l'aspetto scabroso dell'affermazione, benché en­ trambi siano considerati dei buoni conoscitori dell'Antico Testamento, e spe­ cialmente di Isaia, il profeta che citano più spesso di tutti? Nella sua espressione letterale, la parola mira a una santa profanazione e a una consacrazione della realtà più quotidiana e persino impura. Marco ci dice che Gesù si colloca in que­ sta dinamica. «Ma voi» (Ù!J.Elç OÉ). Mentre la prima parte della frase è formulata al passivo («sarà chiamata>>), come un favore che ha Dio come agente, la seconda parte sotto­ linea la responsabilità umana di un «VOi», soggetto del verbo al perfetto: «voi avete fatto» ('ITE'ITOL �K«'tE ), al passato, ma con conseguenze che perdurano fin nel presente. Della casa voi avete fatto «Un covo>> (a'IT�Àlnov, una grotta nella roccia, una caverna - unico caso in Marco), «per dei banditi>>, dei ladri, briganti, ribelli (ÀTio'tT]ç, cf. 14,48 e 15,27; all'epoca, il termine indicava fra l'altro ogni rivoluzionario che volesse ro­ vesciare il potere romano). I termini scelti qui sono ripresi da Ger 7, dalla pagina in cui il profeta di Anatot pronuncia una delle sue critiche più severe contro il Tempio di Gerusalemme.

Marco 1 1-12. Cinque controversie nel tempio. Composizione

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Forse per voi [cf. I'Ùj.Leic; U, in Mc 11 ,17) è un covo di ladri questo Tempio sul quale è invocato il mio Nome? lo, in ogni caso, non sono cieco, oracolo del SIGNORE. Andate dunque nella mia dimora di Sito [ . . . ] considerate che cosa io ne ho fatto a causa della malvagità del mio popolo!

Quindi questo luogo non è più una dimora, una «casa»; è appena una caver­ na, un luogo di rifugio. L'immagine della caverna squalifica il luogo. Inoltre il luo­ go serve da rifugio «per banditi», persone che sono bandite dalla società, vivono ai margini, sono escluse e come cacciate. In una società religiosa, come suppongono i profeti - sia Geremia sia Gesù -, chi è bandito dalla comunità è anche escluso da Dio. Voi avete fatto di questo luogo un covo per persone che non vivono più in co­ munione con Dio. Questo luogo non mette più in relazione con il Dio vivo e santo. Geremia rinvia a ciò che è accaduto al santuario di Sito. In bocca a Gesù, questo non solo significa un giudizio sulla situazione attuale o sul recente passato, ma in­ clude anche l'annuncio velato della distruzione ormai vicina. Dio ha abbandonato questo luogo, come ha voltato le spalle al Tempio di Gerusalemme, al tempo di Ge­ remia e di Ezechiele, o come ha fatto in passato con il santuario di Silo. Parole terribili, cariche di tutta la critica profetica specialmente di Geremia. E come sempre, chi pronuncia parole del genere sarà costretto ad attraversarle per primo. In seguito il testo di Marco mostrerà che proprio queste parole pronunciate nel Tempio si compiranno in lui: Gesù sarà dichiarato «bandito>> (}.. \]arTJc;) dall'auto­ rità religiosa e sarà appeso al patibolo fuori della città, come un maledetto in Israe­ le, secondo il testo stesso della Legge (Dt 21,22-23: «l'appeso è una maledizione di Dio>>). Il giudizio pronunciato si compie anzitutto in lui. Quando andranno ad arre­ starlo dirà, smascherando la strategia e rivelando il meccanismo insito nell'azione: «Sono un brigante perché siate partiti in campagna con spade e bastoni per arrestar­ mi! Ogni giorno ero nel tempio a insegnare e voi non mi avete arrestato. Ma è per­ ché si compiano le Scritture!>> (14,48-49). Brigante, Tempio, le Scritture, tre termini in comune con 1 1 ,17, che ora ricadono su di lui. Profanazione della profanazione? Desacralizzazione? Chi dichiara tutto santo profana tutto? È come con il termine hesed (iOn): un unico termine che dice «amore>> e «incesto>>? Mistero d'amore in questo mistero di esclusione sacra? Con una certa verosimiglianza, si possono collocare queste due parole di Is 56 e Ger 7 nel contesto storico della vita di Gesù. Il profeta di Galilea, giunto a Gerusa­ lemme, si è indignato per ciò che ha potuto vedere nella Città santa. Tutto il sistema che ruotava attorno al Tempio, tenuto saldamente in mano dagli ambienti sadduceo ed erodiano, aveva certamente di che scandalizzare colui che era abitato da tutt'al­ tro spirito religioso. Il suo intervento critico ridà fiato alla voce profetica di Geremia. Si oserà rileggere queste stesse parole in un midrash ancor più coerente della sola rilettura storico-politica verosimile (che corrisponde al senso pshat dei rabbi)? «Voi avete fatto e voi fate» (1TE1TOL�Kan ) . Questo si applica evidentemente al Tem­ pio, ma si applica anche a Gesù, in segreto? Come se Gesù dicesse, a chiare lettere nascoste sotto le citazioni: «Non è forse ciò che mi accadrà? Infatti io, il vero Tem­ pio, non sarò trattato da "bandito", escluso dalla comunità santa, impiccato e anche maledetto a causa di questa impiccagione?». Se si leggono le due frasi mantenen­ dole insieme, ci si può chiedere se, affinché la «mia casa>> diventi realmente «casa di preghiera per tutti i popoli>>, non sia necessario che anzitutto «voi facciate questo»: profanare il mio Tempio e appendere il mio corpo al legno della croce? La soluzione:

l'ultima settimana. MatCO 1 1-16

Marco ci dice che si tratta di una dottrina, di un «insegnamento» (Èù t OOOKEv ). Nel cuore del Tempio, grazie al remez che allude a Is 56,7 e Ger 7,11, e anzi li cita, continuando il midrash che interpreta i due testi l'uno attraverso l'altro, si scopre questo sod o senso segreto e misterioso: nel Tempio, Gesù esprime il segreto del suo proprio corpo, il cuore del suo messaggio sul «luogo santo per tutte le nazio­ ni>>, l'instaurazione di un ordine nuovo che è fondato sull'inabitazione dello Spirito Santo e il perdono dei peccati.8 Questa parola forte, posta qui in testa alla terza par­ te del racconto evangelico, orienta tutto il seguito, non solo la grande controversia che segue (11 ,27-12,12) o il discorso escatologico (c. 13), ma anche e soprattutto la soluzione finale nel racconto della passione (cc. 14-15).9

11,18-1 9: K«Ì. �KOOO«V ot à:pXLEpE'iç; KaÌ. ot ypa!J!J«tE'iç; K«Ì. È(�touv 1rwç; aùtòv Ò:'lrOÀÉOWO LV' È!j>opouvto yàp «ÙtOV, 'lriiç; yàp Ò DXÀoç; ÈçE'TIÀ�OOEtO È'ITÌ. tfl ÙLOOXfl autoU. 19Kaì. OtaV òl!rÈ ÈyÉVEtO, E=çE'ITOpEllOVtO €çw tf]ç; 1TOÀEWç;. 11,18-19: «Questo giunse ag6 orecchi dei capi dei sacerdoti e degli smbi ed essi cer­ cavano il modo di farlo perire; infatti lo temevano, perché la folla era colpita dal suo insegnamento. Venuta la sera, egli usciva fuori dalla città». v. 18. I «capi dei sacerdoti e gli scribi»: ecco due dei tre gruppi importanti che, in quanto autorità religiose, decideranno l'esito del processo di Gesù (cf. 1 1 ,27;

14,53; 15,1, dove i tre gruppi compaiono riuniti, compresi «gli anziani>>). In Marco la presenza degli «scribi>> indica sempre che la posta in gioco è teologica e non solo pratica o rituale. Già le sole citazioni scritturistiche fanno appello a Dio. Kaì. �Koooav, «ed essi udirono>> (cf. 11,14). La cosa giunse ai loro orecchi; non erano presenti. Lo scontro diretto avverrà in seguito. Marco prepara la suspense dell'incontro/scontro frontale. Come l'annotazione in 1 1 ,14 («i discepoli udirono>>) prepara la scoperta del giorno seguente, riferita al v. 20, così qui l'annotazione pre­ para l'incontro dell'indomani, in 1 1 ,27. Attraverso l'ascolto, il narratore ci fa cam­ biare punto di vista e per un momento ci troviamo nell'altro campo. «E cercavano il modo di farlo perire>> (K«Ì. È(�touv nwç autòv à:noÀÉowow ) Apprendiamo fin da questa prima controversia la loro intenzione, benché non si­ ano ancora formalmente sulla scena. La piccola frase con i due verbi «cercare» e «perire>> ricorda la prima decisione di eliminare Gesù, al termine dell'ultima del­ le cinque controversie in Galilea. Là si leggeva: ou!JPouÀwv èùlùouv Ktxt' aòtoiì onwç; «UtÒV à:noÀÉOWOLV («essi tenevano consiglio contro di lui per perderio », Mc 3,6). Con piccole varianti, questo diventerà in seguito un ritornello in Marco: in 12,12 Ieggiamo: K«Ì. È(�touv «ÒtÒv Kp«tf)O«L («cercavano di mettere la mano su .

• Cf. Gv 2,21: «Parlava del tempio del suo corpo». In Paolo leggiamo: «ll vostro corpo non è forse il tempio dello Spirito Santo?»; «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Santo è il tempio di Dio e voi lo siete! Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui!» ( 1 Cor 6,19 e 3,16s). Si potrebbero moltiplicare i riferimenti in tutto il NT. Tutti indicano uno stesso insegnamento sul >), in 12,12 («essi temettero la folla>>) e in 14,1-2 (l'apertura del racconto della passione, dove si parla della «rivolta del popolo>> che si vuole evitare a ogni costo). Notiamo i due verbi sinonimi: Èljlo�ouvto e èçE'rrA.�ooEto. Essi lo , la folla , come lo erano le persone nella sinagoga di Cafarnao (in 1,22) o di Nazaret (6,2; cf. anche 7,37 [dei pagani) o 10,26, effetto sui discepoli). o(k>ç e ÉK1TAtlçLç, ecco ciò che tutti provano in tutti i sensi. Gesù ha lasciato un'impressione schiacciante: ciò che egli ha da esporre come insegnamento, c5L0a.X�. come Marco sottolinea ancora una volta in quest'ultima annotazione (inclusione con il verbo in 1 1,17a), mette radicalmente in discussione l'ordine esistente. Si tratta di un vino nuovo, talmente forte che solo otri nuovi potranno contenerlo. v. 19: (ÒijJÉ), cf. v. 1 1 . Versetto di transizione, identico per composizione e funzione al v. l lb. Essi escono dalla città e, senza sentire la neces­ sità di ripeterlo, il testo suppone che ritornino nello stesso luogo di rifugio. Il plura­ le reintroduce implicitamente i discepoli che erano presenti all'inizio della scena e che, soprattutto, avranno un ruolo da interpretare all'inizio della scena successiva. Marco racconta con arte e coerenza. Pone l'accento su , con quel raddoppio un po' enfatico della preposizione: Èç- . Éçw ti'Jç 1TOÀ.Ewç (cf. il doppio EÌ.c; al v. 11 e al v. 15; e al v. 12: èç e Ù1To). Qui l'enfasi ricorda ciò che abbiamo sotto­ lineato al v. 11: in quanto , questa città avrebbe potuto essere la sua, ma Gesù non riesce a restarvi e neppure a trovarvi un alloggio. . .

'

1° Cf, R. VIGNOLO, «La recherche de Jésus comme forme du récit évangélique: un exemple à partir de l Evangile de Mare», in Analyse narrative et Bible, par C. FocANT, Leuven 2005, 537-546. Cf. i commenti a Mc 1 ,37 («Tutti ti cercano») e 3,32 («Ecco che tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono là fuori che ti cercano»). '

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La soluzione: l'ultima settimana. Marco 1 1-16

�. 1 1 ,20-25. Insegnamento sulla fede, la preghiera e il perdono

In corrispondenza con l'elemento A, il narratore ci fa ripassare dall'albero di fichi, introducendo così l'elemento A', con i due elementi che inquadrano la sce­ na precedente di Gesù nel Tempio. Questo incide sull'interpretazione dell'albero di fichi senza frutti. Ciò che Gesù ha trovato nel Tempio (già al v. 11, quando ha osservato ogni cosa) non è diverso da ciò che ha trovato nell'albero. Perciò, quello che dice nel Tempio al suo riguardo, cioè che il luogo non garantisce più la comu­ nione con il Dio vivente, può chiarire la parola misteriosa sull'albero di fichi. Di conseguenza, è importante non generalizzare ma specificare la portata della parola sull'albero di fichi: a non avere più futuro non è tutto il giudaismo, bensì quella for­ ma particolare di giudaismo incentrata sul Tempio. La fine di uno dei tre paradigmi In

termini di paradigmi, il sistema del Tempio è uno dei tre modelli che il giudaismo aveva ereditato da secoli, è anzi il paradigma più antico, risalente alla monarchia prima dell'esilio.11 Ma l'esilio babilonese lo aveva fortemente scosso. Al ritorno dall'esilio si è cercato, con fatica, di ridargli vita. Ma nel frattempo si erano formati altri paradigmi: la corrente farisaica attribuiva più importanza alla santità della vita mediante lo studio della Torah e l'osservanza delle leggi che si facevano risalire alla stessa Torah di Mosè. In seguito, anche gli esseni criticarono il culto praticato dai sadducei al Tempio di Ge­ rusalemme. Essi optavano per un modello di santità basato su riti di purificazione e os­ servanze spesso ancor più rigorose di quelle dei farisei, e speravano nella venuta di un grande sacerdote e messia per ristabilire il vero culto. Nella tradizione rabbinica si co­ noscevano bene questi tre modelli e si continuava a onorarli nelle loro differenze. Un celebre detto del Talmud spiega: >). La formula­ zione in Marco è particolarmente dura e forte. Taylor (466) nota: . Paolo ne parla ai corinzi come di uno dei numerosi carismi esistenti nella comunità (lCor 12,9; 13,2). Riprendendo la formula: n(onç 9c:oiì, si può porre l'ac­ cento più sul primo termine che sul secondo. Si tratta allora di una fiducia talmente piena e di una libertà talmente grande che persino le cose dell'universo più solide e più radicate, come ad esempio i monti o i sicomori, famosi per le loro radici nu­ merose, profonde e tenaci (cf. Le 17,6), cedono e si spostano. Il versetto che segue illustrerà chiaramente questo secondo punto. Si è soliti distinguere queste due forme di fede. Per Gesù, come del resto per Marco, questa distinzione non esiste. Sul piano della teologia pastorale può essere

13 In Gv 14,1 , come apertura del primo discorso di addio di Gesù ai suoi, dopo la lavanda dei piedi si dice: OCÀ.À.Ò: lTLOtElJll OtL o .ÀaÀEL YLVH�L EOt� L �Òt> (Sir 28,2 ) . Lo spazio della preghiera è anche il luogo del per­ dono e della riconciliazione. Questo legame è espresso già nella grande preghiera posta sulle labbra di Salomone: «Se essi pregano in questo luogo, [ . . . ], tu ascolta in cielo, perdona il peccato del suo servo e del tuo popolo Israele>> (1 Re 8,36.39; ecc.). In questo punto vari manoscritti hanno un versetto supplementare (indicato come v. 26), che formula la stessa idea in modo parallelo e antitetico, come nel pa­ rallelo di Mt 6,15: «Ma se voi non perdonate, anche il Padre vostro che è nei cieli non vi perdonerà i vostri peccati>>. Ma questo versetto manca nei migliori testimoni, fra cui il Vaticanus. Pregare con un cuore che non perdona è considerato impossibile nella lettera­ tura monastica, specialmente a partire da Evagrio (t 399) . Per affermarlo, ci si basa sull'insegnamento di Gesù, soprattutto su Mt 5,23; 6,14-15 e 18,35, oltre che sul Padre nostro. Il perdono è una condizione indispensabile del cuore che prega, ma è anche il frutto della preghiera. Il perdono apre la porta a una preghiera francà e libera, e la preghiera perseverante dona la grazia della riconciliazione e della pace. Perciò la preghiera cristiana, presentata da questi testi, sarà sempre caratterizzata dall'etica più che dal rito. Essa apparterrà all'asse profetico almeno quanto all'asse sacerdotale, se non di più. Fede. Preghiera. Perdono. Con queste tre realtà si crea uno spazio che, par­ tendo dall'esteriorità («spostare le montagne>>, dimensione cosmica), giunge fino alle viscere della coscienza («perdono e riconciliazione>>, dimensione etica). Nel luogo più intimo e segreto dell'interiorità si menziona la presenza del «Padre che è nei cieli>>. Se la funzione del Tempio era quella di essere di fatto casa di preghiera e di perdono mediante la fede nell'Alleanza e nel Dio che abita in quel luogo, or­ mai il vangelo indica un altro Luogo nel quale si vive, nella fede, la preghiera come

quando non c'è maestro è meglio «pregare>> più che «Studiare» troppo a lungo da soli. Implicitamente, pregare è stare in piedi e viceversa. Cf. anche J. EtsENBERG - A. STEtNSALTZ, L 'homme debout. Essai sur la prière juive, Albin Miche!, Paris 1999. Ricordiamo che il nome della grande preghiera ebraica, la preghiera per eccellenza, le Diciotto benedizioni, è Amidah, che significa «quella in piedi», e il libro citato, dopo un'introduzione sulla preghiera in generale, commenta ciascuna delle diciotto benedizioni.

Marco 1 1-12. Cinque controversie nel tempio. Composizione

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il perdono. Perciò queste parole, riunite qui da Marco, sono assolutamente al loro posto nel contesto immediato, dopo Mc 11 ,12-18. Tipici del Gesù della storia sono in questo paragrafo, da una parte, l'insegna­ mento sulla fede come atteggiamento di totale fiducia che permette di accedere all'onnipotenza di Dio, il «Padre che è nei cieli», e, dall'altra, la grande intuizione che il perdono sia una realtà che deve essere vissuta nella reciprocità: chi non per­ donasse il proprio fratello, come potrebbe sperare di essere perdonato da Dio, ma anche, in modo correlativo: se Dio ci ha perdonato tutto gratuitamente, come po­ tremmo rifiutarci di perdonare ai nostri fratelli e alle nostre sorelle i debiti contratti in questa vita passeggera? Perciò in questo paragrafo, che alcuni sono stati tentati di spingere ai margini del testo, risuona in realtà ciò che è al centro della novità an­ nunciata dal Gesù della storia e di tutto ciò che l'evangelista Marco ha saputo di­ scernere come essenziale in quanto «buona novella di Gesù Cristo».

C. 1 1 ,27-1 2, 1 2. La grande controversia nel Tempio

I diciannove versetti che seguono costituiscono un'unica grande unità, pur­ troppo spezzata dalla moderna disposizione dei capitoli e dei versetti. Questa di­ stribuzione arbitraria (cf. 9,1, altro caso lampante) condiziona la lettura spontanea dei lettori, e nella liturgia si separeranno, praticamente come cosa evidente, i primi sette versetti dagli ultimi dodici, con la sorpresa che tutto finisce in una bolla di sa­ pone in 1 1 ,33 e non si comprende più che la grande parabola risponde, in realtà, agli interrogativi sollevati nella prima parte. Gesù arriva per la terza volta al Tempio e vi incontra tutte le autorità riunite. Le aveva incontrate già due volte altrove, in Galilea, «provenienti da Gerusalemme» (cf. 3,22 e 7,1, nel primo caso si trattava di «scribi», nel secondo di «farisei con alcuni scribi») . Ora è in casa loro, nel loro campo, e sono tutti là: «capi dei sacerdoti, scribi e anziani» (v. 27). Prepariamoci a un confronto/scontro fondamentale. Non ve ne sarà un altro di una tale importanza prima del processo davanti al sinedrio (cf. 14,53.55). Marco costruisce il dramma con la sua soluzione finale per tappe successive. 11 ,27-28: Kal EpxovtaL 1Tahv elç 'IEpoooÀ.uj.la. Kal E:v t4) LEp4} 1TEpL1Tatouvmç autou EPXOvtaL 1TpÒç autòv oL &pxu:pE'iç Kal oL ypttj.lj.latE'iç Kal ot 1TpEoPt>tEpOL �al EÀ.Eyov aut> (1 ,27); (1,22). L'analisi di questi due passi ha mostrato che l'autorità di Gesù, contrariamente a quella degli scribi, è come quella di Mosè e dei profeti, 16 non gli è stata trasmessa da maestro a discepolo, per cui non si colloca nell� catena delle scuole risalenti tutte a Esdra e da quest'ultimo in definitiva fino a Mosè (cf. Pirqe Avoth I, 1). Il lettore/ destinatario conosce questa differenza fondamentale. Quindi per lui è facile rispon­ dere alla doppia domanda: l'autorità di Gesù deriva dallo Spirito Santo che è sceso su di lui al battesimo (1,10). La natura della sua autorità è profetica e gli è stata do­ nata da Colui che ha parlato dal cielo in 1,1 1 . Perciò questo paragrafo introduttivo del grande incontro/scontro nel Tempio si collega sorprendentemente con l'inizio del vangelo, sia con il prologo (1,10-13) sia con la prima presentazione di Gesù in Galilea (1,21-27). Giunti a Gerusalemme, si riparte in qualche modo di nuovo ma, come lettori, provvisti di tutto ciò che si è appreso nei dieci capitoli precedenti. Il tauta () si riferisce a ciò che era accaduto il giorno prima nel Tempio ed (11,18). Notiamo ancora che la domanda, sotto questa o quella forma, compare nei quattro vangeli. Che diritto hai di agire in questo modo? Che segno puoi darci?17 La domanda ritornerà anche negli Atti, per situare correttamente il comportamen­ to dei primi discepoli (cf. At 4,7: ). Nella domanda, ricollocata nella vita di Gesù, si può riconoscere una critica implicita, con un pizzico di ironia: se non può richiamarsi ad alcun maestro e ad alcuna scuola, è nessuno. Chi non è innestato sul­ la tradizione non è da nessuna parte.

" Cf. p. 121; cf. Composition, 326-328. l .farisei, ricordati dieci volte nel vangelo, mancano nel racconto della passione e compaiono una sola volta nell'ultima parte di Marco, ambientata a Gerusalemme (cf. 12,13). Gli scribi - i teologi - sono presenti sia in Galilea che a Gerusalemme e costituiscono il gruppo più importante dell'opposizione in Marco, quello che unisce i primi dieci capitoli agli ultimi sei. Anche in Galilea compaiono due volte come , sa - essendo informato dal nar­ ratore - che questa risposta è tattica e mal nasconde un rifiuto di adesione mediante la fede. Allora, come reagirà Gesù? Porrà una nuova domanda? O sarà vittima del loro rifiuto? In un primo momento Gesù li rinvia a mani vuote alla loro domanda ini­ ziale. Se non si impegnano nei riguardi della persona e della missione di Giovanni, come potrebbero impegnarsi nei suoi riguardi? La palla ritorna nel loro campo. Ma, come scrive Elia Wiesel a proposito di un maestro chassidico: «Quando un ebreo non sa rispondere, racconta una storia>>. Gesù cambia registro. Attraverso una parabola, riuscirà a dire di fatto «con quale autorità egli fa queste cose>> e «chi gli ha dato questa autorità>>. Già l'ultima risposta era come uno specchio che li rinviava a loro stessi con il loro rifiuto fondamentale, ma la parabola offre loro un 'immagine ancor più completa. Siamo al centro di tutta la sezione nel Tempio. La parabola che segue è deci­ samente la più lunga e la più completa di tutte quelle che Marco ci ha trasmesso. Al centro, è come una sfera a specchio sospesa in mezzo a una stanza. Chi guarda la sfe­ ra ritrova tutta la stanza riprodotta nello specchio e, ovunque si trovi nella stanza, si ritroverà sempre nel bel mezzo. Questo specchio è in grado non solo di riprodurre tutto il racconto evangelico, passato e futuro, ma anche di assumere in questa storia il passato lontano e l'attualità di Marco con la sua comunità. Alla fine, il narratore ci dice che le autorità comprenderanno che questo linguaggio figurato le riguardava. La parabola risponde alle loro due domande iniziali, ma va ben al di là. 12,1: Kaì. �p/;IX't"O IXÙ't"O'iç Èv na.pa�oÀIX'iç À.IXÀ.ELV, 'Aj.LnEÀ.WVIX av9pwnoç Élj>U"tEUOEV KIXÌ. TIEpLÉ9TJKEV lj>pa.yj.LÒV Kll.Ì. wpuçEV UTIOÀ.�VLOV KIXÌ. c.,)KOù6j.LTJOEV nupyov KIXÌ. Èt;ÉiiE't"o aùtòv yewpyo'iç KIXÌ. àneli�IJTJOEV. 12,1: «Si mise a parlare loro con parabole: "Un uomo piantò una vigna, la circondò con una siepe, scavò una buca per il torchio e vi costruì una torre; poi la diede in affitto a dei vignaioli e partì per un viaggio"».

12,1: «Si mise a parlare loro con parabole». Una nuova e ampia introduzione presenta ciò che segue. Gesù parla «in parabole» (Év napa�À.IX'iç), da intendere qui in senso avverbiale e non come sostantivo plurale. Del resto, alla fine si parlerà de

18 Abbiamo inC()Jltrato una confenna indiretta di questa corrispondenza in occasione dell'analisi della passione del Precursore (cf. Mc 6,17-29): la struttura drammatica del racconto corrisponde a quella del processo davanti a Pilato (15,1-15) e Giovanni occupa esattamente lo stesso angolo di Gesù nei due triangoli drammatici. Cf. pp. 358s., oltre al commento a Mc 15.1-20.

Marco 1 1- 12. Cinque controversie nel tempio. Composizione

«la parabola», al singolare (12,12). Il verbo ÀIXÀE'ì.v indica in genere in Marco, come qui, un parlare in modo solenne, forte, come una proclamazione (cf. 2,2; 4,33-34; 6,�0; 7,35.37; 13,11; 14,9.31; ecc.).19 Se la parabola del seminatore (Mc 4,3-9) è il modello basilare e come la chiave della comunicazione parabolica in Marco, quel­ la che permette di comprendere tutte le parabole (cf. 4,13), la parabola della vigna e dei vignaioli (12,1s) è di gran lunga quella più sviluppata e più importante nella sua forza rivelatrice. Sul piano formale è quella del seminatore ad avere il maggior peso; sul piano del contenuto è quella dei vignaioli a dominare tutto il racconto evangelico di Marco. «Un uomo piantò una vigna». La frase in greco permette di porre il comple­ mento in testa, conferendogli un maggior rilievo: 'Af.11TEÀ.Wvo: &v8pumoc; È(jl\JtEUOEV («una vigna un uomo piantò»). Ciò che importa è anzitutto e soprattutto la vigna. Proponendo questa immagine, Gesù cambia completamente registro. La stessa im­ magine evoca un poema e si sviluppa come una citazione tratta dal profeta Isaia. Tutti conoscono l'apertura appassionata di questo celebre canto: «Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d'amore per la sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna su un fertile colle . . . >> (Is 5,1). Gesù comincia la sua citazione nel bel mez­ zo del poema, evocando il momento in cui venne piantata: «egli piantò»: «Dissodò il terreno, tolse le pietre, e mise a dimora una piantagione preferita [mì. È> (verticale, verso l'alto). Attraverso questi tre verbi, con le loro direzioni complementari, apprendiamo che quell'uomo ha fatto tutto il possibile per la sua vigna.20 Isaia dirà addirittura, a nome dell'ami­ co: «Potevo fare per la mia vigna più di ciò che ho fatto?» (Is 5,4). Qui ritroviamo la bella generosità delle aperture dei racconti in Marco.21 Chi conosce questo canto non conosce solo l'apertura, ma anche la fine: il poeta esprimerà tutta la delusione di chi ha piantato la vigna. «Mentre attendeva che producesse uva, essa ha prodot­ to acini acerbi», «SÌ aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi>>. Il poema parabolico in Isaia termina con un terribile giudizio e il totale abbandono della vigna. Gesù concluderà il suo racconto in quel modo già noto? In realtà, egli intro­ duce un nuovo elemento, parlando alla fine della partenza del padrone della vigna per un viaggio. Egli «partì lontano», dopo aver «dato in affitto la vigna a dei vi-

19 Nel quarto vangelo il verbo A.ul.E'ì.v ha spesso il senso di linguaggio di rivelazione. Su questo punto qua e là Marco si avvicina all'uso giovanneo del verbo. 20 Questo è stato analizzato in modo esemplare da I. ALMEIDA, L 'opérativité sémantique des récits­ paraboles. Sémiotique narrative et textuelle. Herméneutique du discours religieux, Leuven-Paris 1978, 153s e l 80s. 21 Cf. «Il racconto elementare», pp. 175s.

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La soluzione: l'ultima settimana. Marco 1 1-16

gnaioli». &noOTJ!!E"iv, «partire in viaggio>>, uscendo dal paese, unico caso in Marco; ÈKo l. c5oo9ru, «dare in affitto>>, unico caso in Marco. Nuova suspense. Dopo la parten­ za del padrone, i vignaioli sono responsabili della vigna. Il lettore/destinatario e le autorità religiose nel Tempio si interrogano: e ora che cosa accadrà? È partito, ma può tornare. Certamente un giorno tornerà, e allora bisognerà rendere conto della propria gestione? Si trattiene il fiato. Notiamo che la vigna viene loro concessa, «data in affitto», dice il testo. Essi non sono la vigna (diversamente dal testo di Isaia, dove si conclude: «La vigna del SIGNORE Sabaot è la casa di Israele>>, Is 5,7), ma ne diventano responsabili. Dovran­ no curarla e farla fruttificare, come conferma il versetto seguente. 12,2-5: Ka.Ì. rX1TÉO"tHÀEV 1TpÒ, che si può rendere anche con «nella stagione [dei frutti] (t. Non siamo lontani dall'albero di fichi che «nella stagione [dei frutti]>> aveva solo foglie e non frutti (11,12-14). La ripetizione di questo motivo chiarisce il passo precedente. Bisogna rileggere tutto ciò che ri­ guarda 1 1,12-20 alla luce di questa grande parabola centrale. Il fatto di inviare un servo come intermediario fra lui e gli operai della vigna evoca molti passi di Gere­ mia o anche dei libri dei Re e delle Cronache.22 Ogni lettore abituato ad ascoltare queste pagine sa che l'inviato può essere solo un profeta. Dio, benché assente, visi­ ta i suoi attraverso il ministero di questo o quel profeta. L'autore delle Cronache ci dice che lo fa continuamente, nel corso della storia. v. 3. L'incontro prende subito una brutta piega: invece di «dare», essi lo «pren­ dono» (Àa.povnc;; o:ùtov) e, invece di condividere, lo bastonano e Io mandano via «a mani vuote» (KEvOç), senza un frutto (cf. 1 1 ,13). Ped iÉ pHv («bastonare>>), cf. anco­ ra Mc 12,5 e 13,9; KEvoc;, unico caso in Marco. Chi racconta la parabola non spiega perché si comportino in quel modo. Il contratto sembra violato, il maestro non è più rispettato nel suo inviato, neppure una parola sulla vigna o sul frutto, come se que­ sto non avesse più nulla a che vedere con il padrone. Ormai i vignaioli non hanno più padrone, lasciati completamente a loro stessi? v. 4. Nuovo tentativo con un altro servo: stesso termine e stesso verbo, con un mihv («di nuovo>>), che sottolinea la reiterazione. Questa chiarisce la volontà di chi

22

Cf. Ger 25,4; 37,15; 2Cr 24,20s; 36,15s; Ne 9,26.

Marco 1 1-12. Cinque controversie nel tempio. Composizione

ha fatto tutto per la sua vigna: una volontà nella quale si riconosce, da una parte, la bontà/generosità (hesed), e dall'altra, anche il rigore e la richiesta di chi chiede dei conti e vuole dei frutti (din). Ma essi «picchiano sulla testa» (KE'Ijlo:lwuv, verbo uni­ co in tutta la Bibbia greca) e «insultano>> (thq.ui(uv, «disonorano>>, umiliano, unico caso in Marco, anche questo secondo servo; cf. Le 20,11 ; Gv 8,49; At 5,41 ; Rm 1,21 e Gc 2,6). I colpi alla testa inducono a pensare al Battista, anche se ciò che egli subì fu ben più grave. Il narratore non segnala più la richiesta di frutti, né l'atto di «pren­ dere>> né quello di «dare>>, e neppure il rinvio del servo. La relazione con il padrone continua a peggiorare. v. 5. Ecco un terzo invio, raccontato nel modo più conciso possibile, in due parole: &Uov à.TIÉOtHÀ.E'V. Il racconto accelera, il dramma precipita: si va verso la «catastrofe>>, come si diceva riguardo a un dramma classico (Ko:to:otpoljl�).23 «E quello lo uccisero>>. Cade la prima testa e non si pensa più di «rinviare il servo>>, come si diceva a proposito del primo (v. 3). Ma il caso non resta isolato: «e molti altri>> (il verbo «mandare>> è sottinteso). Non si parla quasi più dell'invio: ciò che importa è l'effetto, il numero delle vittime e l'orrore dell'atteggiamento invetera­ to dei destinatari, questi yfwpyol. del v. l. «Alcuni li bastonarono, altri li uccisero>>. I due verbi riprendono in successione ciò che fecero al primo («bastonare») e ciò che fecero agli ultimi («Uccidere>>). Ciò ricapitola, generalizzando, la disavventura di questi successivi inviati. Per questo tipo di generalizzazione in Marco, posto alla fine di una serie, cf. 7,8 e 13; e 4,36b, ogni volta con i due aggettivi: KO:L lTOÀ.À.à &Ho: («e molte altre»). Si è giunti al colmo, alla saturazione: come immaginare il seguito? Marco ci ha condotti a un punto quasi insopportabile. 12,6-7: Én �vo: E'lXE'V utòv à.y«11Tlt6v· !ÌTIÉotulE'v o:ùtòv Éoxo:tov lTpÒt; o:Ùtoùç À.ÉyWV O't'L 'Evtp!XlT�OOVto:L tÒV ULOV f.LOU. 7ÈKE'LVOL OÈ' OL YEWpyOL lTpÒç Éa.UtOÙç E'L1Ta.V on Oùt6c; Èonv o KÀ.f]pOV�Oç' OEU't'E' !ÌlTOK't'E LVWf.LEV a.ùt6v, K!lL �f.LWV EO't'!lL � KÀ.T]pOVOf.LL!l.

12,6-7: «Aveva ancora uno, un figlio amato; lo inviò loro per ultimo, dicendosi: "Ri· sparmieranno mio figlio!". Ma quei vignaioli dissero tra loro: "Costui è l'erede; su, uccidiamolo e l'eredità sarà nostra!"». v. 6. Sorpresa delle sorprese: gliene restava ancora «UDO». A Dio non resta più che un altro inviato possibile. "En EVO: («ancora uno>>). Chi dice «Uno» in greco, non dice semplicemente o «Unico>>, ma dice anche (cf. Mc 10,8. 18 e relativi commenti). Tutto ciò che è uno riguarda Dio. ,nM ( 'ehad, «Uno») è uno dei suoi Nomi, e anche uno dei più alti e segreti. «Figlio amato>> (ui.òv àya.'ITT]t6v), senza articolo né pronome possessivo, con il verbo «avere>> all'imperfetto (ElXEv), e il tutto senza particella di congiunzione. Linguaggio denso, estremamente sobrio. «Aveva ancora uno, (il) figlio amato>>. Ora si tratta proprio del «suo figlio>>, come dirà subito dopo averlo inviato: «Risparmieranno mio figlio>>. Come abbiamo visto già nel prologo, la voce dal cielo chiama Gesù «il mio figlio amato>> e questa espres­ sione deve essere messa in relazione con Isacco.24 Ecco entrare in scena il figlio

23 a. LAUSBERG, Handbuch, §§ 1194,3; 1197; 1244-1245, e pp. 657, 862, 892. 24 a. p. 82 e, nell'Introduzione, il paragrafo sulla catechesi cristologica di Marco, pp. 4ls. 624

La soluzione: l'ultima settimana. Marco

1 1-16

amato del padrone della vigna, il figlio amato e l'lsacco di Dio. Per tre volte nella stessa pagina Isacco viene chiamato «il tuo figlio amato», e questo nel momento in cui Abramo è messo alla prova da Dio e parte verso il monte Moria per offrirvi in olocausto il proprio figlio (Gen 22,2.12.16). «Lo inviò loro per ultimo» (Éoxatov). Il figlio arriva aDa fine di una lunga storia nella quale si sono succeduti servi/profeti. L'idea ritorna anche altrove nei primi testi cristiani: Paolo scrive ai galati: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo figlio>> (Gal 4,4). E la Lettera agli Ebrei si apre con questa sorprendente antitesi: «Dio, che molte volte e in diversi modi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, in questi giorni che sono gli ultimi (È1T' Èoxa-rou twv IÌIJ.Epwv toutwv ) , ha parlato a noi per mezzo del figlio>> (cf. Eb 1,1-2; cf. anche: «alla fine dei tempi>>, Eb 9,26). Questa cristologia che parla di Gesù come del figlio si situa nel prolungamento di una storia di profeti. Questo vale sia per Marco sia per la Lettera agli Ebrei. "E n . . . EOXatov («ancora» . . . «per ultimo>>). Il narratore della parabola insi­ ste sulla coscienza del tempo, che giunge a un punto ultimo e conferisce al vissuto una grande urgenza. Ora o mai più. C'è continuità con i servi inviati, ma c'è anche un nuovo salto qualitativo con l'arrivo del figlio. Dio non ha più alcun altro e in quest'ultima iniziativa rischia il tutto per tutto. L'aspetto straziante di questo enun­ ciato è che, grazie al velo del linguaggio immaginifico della parabola, Gesù riesce a comunicare il suo segreto più intimo e tutta la grandezza della sua missione. Egli precisa la relazione con il Battista, profeta, e lo indica anche come l'ultimo dei pro­ feti precursori. Si presenta come figlio amato, come I'Isacco di Dio. Il narratore della parabola si spinge fino a verbalizzare il pensiero di colui che invia: . Stupiamoci: nella parabola ascoltia­ mo in discorso diretto lo stesso ragionamento che Dio fa dentro di sé. È il centro di gravità di tutta la comunicazione: così nel Tempio risuona un nuovo oracolo, uno dei più segreti, una parola di Dio. Grazie alla parabola, Gesù può dire ciò che i suoi interlocutori, i quali lo ignorano nella sua autorità, non vogliono più sentire, cioè quello che spera ancora il Dio della storia, il Padrone della vigna, nonostante tutto ciò che si è perpetrato per generazioni (cf. 11,15-17). 'EvrpÉ1TE09aL («avere dei riguardi per», anche «avere vergogna di», in greco classico con il genitivo o, come nella LXX, l'accusativo). Qui, in collegamento con la figura di !sacco, ci si può ricordare dell'atto divino che all'inizio della storia ha «risparmiato>> colui che Abramo era disposto a «non risparmiare» (cf. Gen 22,12; cf. la ripresa in Rm 8,32: «Dio che non ha risparmiato il proprio figlio, ma lo ha conse­ gnato per tutti noi>>). Salvando lsacco, Dio ha permesso la nascita di tutto un popo­ lo. Questo popolo, ora che Dio rischia il proprio figlio amato, avrà dei riguardi per quest'ultimo inviato? Si ricorderà dell'atto mediante il quale è stato risparmiato per vivere, e risparmierà a sua volta?25 Il ragionamento divino resta in sospeso. Luca aggiunge l'avverbio 'Lowç, « . . . forse>> (Le 20,13). Chi si ricorda, risparmierà; chi di­ mentica, corre il rischio di reiterare la storia dell'uccisione dei profeti. v. 7. Il narratore dà voce al discorso interiore dei vignaioli, così come aveva fatto con l'opposizione poco prima ( 1 1 ,31; cf. 2,7). Questi vignaioli sono menzio­ nati tali e quali (ot yEwpyo() e preceduti da ÈKELVOL ùf, che esprime una forte op-

25 «Rispanniare» e «avere dei riguardi per» (> e la sua eredità nella storia dell'umanità. Fra la sinagoga e la chiesa c'è ancor oggi un «figlio>> che si rischia di sopprimere e un'eredità che si rischia di dilapidare. Il Figlio di Dio è «Israele» ed essere Israele è realizzare pienamente la vocazione del figlio amato. La voce che dice: «Su, uccidiamolo>> è la voce di una logica im­ placabile che è risuonata alla Shoah, ma che, essendo una logica implacabile, non tace così in fretta nella storia, da qualunque parte ci si trovi. L'assassinio di Rabin in Israele indica che questa voce può risuonare anche dall'interno della > (Eb 1 3,12). Luca riferisce la stes­ sa cosa di Marco, ma inverte l'ordine: anzitutto lo gettarono fuori e poi lo uccise­ ro, certamente per conformarsi maggiormente a ciò che è effettivamente accaduto nel caso di Gesù (Le 20,15). Nella versione di Marco il dettaglio, collocato alla fine, esprime qualcosa della scomunica che questa morte implicava. Gesù, consegnato ai pagani (cf. 10,33), sarà sospeso al legno, che secondo la Legge significa la maledizio­ ne. Gesù non è stato solo giustiziato, è stato disonorato fino a essere maledetto da Dio, secondo l'espressione letterale di Dt 21 (vv. 22-23; cf. Gal 3,13). La cosa enorme è che, trovandosi nel Tempio, circondato da quelle stesse per­ sone che dopo qualche giorno lo condanneranno, Gesù, sotto il velo della parabola, afferma la sua morte, la preannuncia e la espone fino in fondo. Nomina la violenza terribile che già lo circonda, la smaschera, ma, grazie alla mediazione della poesia, fa in modo che tutto resti comunque velato. Per il lettore/destinatario questo lin­ guaggio è assolutamente trasparente, la sua forza immensa, confermando ciò che egli sa e ciò che ci si poteva aspettare come destino di questo figlio amato. Il punto sconvolgente è che, ancora vivo, egli dica fino in fondo la sua morte, come ne La traviata la protagonista giunge alla fine a morire cantando e a cantare l'atto stesso del suo trapasso. v. 9. Vari manoscritti hanno un ouv («dunque>>) molto logico dopo la prima parola (-r( ouv), ma merita di essere conservato il testo di B, più diretto (lectio dif­ ficilior). Senza particella di congiunzione, la relazione con ciò che precede è decisa­ mente più dura e tendenzialmente avversativa. Una domanda: che farà il padrone della vigna? Domanda per metà retorica, se si ricorda la bella e tragica poesia di Isaia cui si allude. Isaia concludeva la sua parabola chiedendo: «E ora, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici fra me e la mia vigna. Che cosa potevo fare per la mia vigna che non ho fat­ to? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi? Ebbene, voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la siepe [ . . . ] demolirò il muro [ . . . ] verrà calpestata . . . » e tutto il resto (Is 5,3-6). Nella para­ bola di Gesù (Ò KUp LOç wu tXj.L1TfÀ.Wvoç) può essere solo il Signore Dio, tanto più che il testo di Isaia termina identificando ciascuno: «Ebbene, la vigna del SIGNORE Sabaot è la casa di Israele e gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita>> (5,7). «Verrà», una venuta che comporterà un giudizio, come si dice del Signore in vari passi, specialmente nei Salmi: cf. Sal 96,13; Am 5,17; JEnoch 1,9. In questo giu­ dizio, «distruggerà>> gli uni e ricomincerà con altri. La vigna passerà ad «altri>> (cf. Mt 8,1 ls; Le 13,28s; Rm 1 1 ,17s). Nulla del genere nella parabola isaiana. Il dono della vigna del v. l (É�€&=-ro) è reiterato (owaE L), ma ormai ad «altri>>. Il futuro si ricollega con il futuro della profezia di 11,17: «La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni», per cui il nuovo destinatario è immediatamente evi­ dente: sarà la comunità dei credenti che comprende «tutte le nazioni>>. Il parallelo di Matteo preciserà alla fine che si tratta di «Un popolo che la farà produrre frutto>> (M t 21 ,43). Per Matteo questo «popolo» è la comunità cristiana, corpo misto di giu­ dei e pagani, cui viene affidata la responsabilità di produrre frutti. Egli ripete, lun­ go tutto il suo vangelo, che saremo giudicati in base alle nostre opere. Per Matteo i Marco 1 1-12. Cinque controversie nel tempio. Composizjone

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frutti sono le opere. L'esito è in un primo tempo violenza per violenza, distruzione per distruzione, ma il narratore, al di là della sua propria sorte consumata, annun­ cia una sorpresa, strana e tuttavia meravigliosa: la vigna passerà, anzi sarà «data», ad altri. Si pensi alla conclusione, anch'essa sorprendente, della parabola del vino e degli otri: al di là della perdita irrimediabile , cf. 1 1 ,1 7.20-25), e la comunità di coloro che continuano ad aderire alle autorità giudaiche e al Tempio, destinato a scomparire. -

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12,10-11 : où&: t�v ypwjl�v tct.Ut11V àvf:yJ)(ùTE, Ai.9ov ov Ò:1TEÙOKL�a.aa.v ot oLKooo­ �ouvw;, oùroç E:yEv�911 E lç KE!jla.À.�v ywv(a.ç 11mx.pà Kupi.ou E:yÉvno a.ur11 Kct.L E(JtLV ea.u�at� EV Ò] rendono colpevoli gli altri, quanti alla porta ten­ dono tranelli al giudice e rovinano il giusto per un nulla>>). Gesù profeta non viene trattato diversamente da questi servi tori del passato. Le autorità sollecitano l'intervento del braccio politico nella persona degli erodiani. Storicamente, questo è piuttosto verosimile: quest'uomo religioso distur­ ba, minaccia la stabilità del paese e costituisce in definitiva una minaccia per l'au­ torità romana. Se si riesce a mostrare che egli offende pubblicamente degli amici dell'imperatore, questi potranno aiutarci a sbarazzarci di colui che non desideria­ mo. Su piccola o grande scala, strategie del genere sono frequenti dove si sia instau­ rato un regime totalitario. v. 14: «Essi arrivano e dicono: "Maestro">> (Ka.Ì. U96vtEç ÀÉyoootv aùt�, �tMoKaÀE ). Introduzione piuttosto banale, che tuttavia ha conosciuto, per le prime tre parole, un certo numero di varianti nella trasmissione del testo. Vari manoscritti preferiscono «lo interrogarono>>. Ma il testo è, senza dubbio volutamente, più vago: «essi dicono>>, al presente. Infatti cominciano con un elogio lungo ed eccezionale prima di porre la loro domanda. Il saluto è convenzionale e in sé neutro; può essere adulatorio o ironico, secondo i contesti (cf. vv. 19 e 32). L'oHia.IJ.EV () per cominciare suona perentorio ed è doppiamente ironico. Ironia di coloro che parlano, quando si ascolta il seguito con questa risoluta intenzione di tendergli un tranello, ma anche ironia del narratore, che ha riferito nel dialogo pre­ cedente quell'altrettanto perentorio oÙK o'(ùa.IJ.EV (, in 1 1 ,33; cf. più avanti al v. 24: «Siete in errore, perché non conoscete . . >> [Il� E Loonç]). ..

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Segue una lunga introduzione ad captandam benevolentiam, prima di porre la domanda-tranello. Tutto è espresso con enfasi, in modo raddoppiato:

a'AT)9�ç Et Ù LOOOKa.ÀE OÙ flÉÀE L OOL ou . . . oU&v6ç 632

ÈTI aÀT)SE taç ÙLOOOKE Lç t�V OOÒV "rOU 9foi) OU �ÀÉTIE Lç où . . . &vepwnwv

«tu sei veritiero - secondo verità>> «maestro - tu insegni la via di Dio» «non ti preoccupi - non guardi>> «nulla/nessuno - persona» La soluzione: l'ultima settimana. Marco 11-16

Notiamo ancora il chiasmo fra l'inizio e la fine di tutto questo preambolo ampolloso, e la simmetria fra le due proposizioni del centro: ab «Maestro, tu sei veritiero. . . c+d d i nulla/nessuno Non ti preoccupi. . . d i persona c+d Non guardi. . . b a27 In verità tu insegni la via di Dio» Questo modo di parlare è più che ironico: la campana emette un suono stonato e il lettore/destinatario non può non schierarsi. Praticamente ogni parola pronunciata può ritorcersi contro coloro che fanno un discorso del genere. Essi dicono: «Tu sei ve­ ritiero», ma sono falsi; affermano: «Tu non guardi al rango delle persone e non ti pre­ occupi di nulla», ma cercano - invano - di piacere e, apparentemente, di soddisfare l'altro. Quanto a «insegnare la via di Dio in verità», non è certo la loro preoccupazio­ ne in questo momento! Bisogna riconoscere che si è scavato un fossato fra l'ambiente che trasmette il racconto e l'ambiente che qui viene evocato, quello dei farisei. L'iro­ nia rasenta la caricatura e attesta l'incapacità di potersi ancora fidare dell'altro riguar­ do a ciò che cerca di dire. Onestà e sincerità hanno abbandonato lo spazio intermedio fra i due ambienti contrapposti. Oggi, nel momento in cui si instaura un nuovo dialo­ go fra l'ambiente cristiano e il giudaismo rabbinico, c'è un grande lavoro preliminare da compiere per colmare il fossato polemico che si è scavato nel corso dei secoli, e del quale si vede già qui una forma molto marcata e francamente problematica. «È lecito o no pagare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo pagare, sì o no?». La domanda su ciò che «è lecito» (ÉçEanv) si addice perfettamente ai farisei: li abbia­ mo visti porre in Galilea domande dello stesso tipo (2,24 e 3,4 ad esempio). Il ter­ mine Kflvaov è la traslitterazione del termine latino census, uno dei molti latinismi in Marco (cf. anche Mt 17,25; 22,17.19). La domanda viene posta due volte, come un'evidente alternativ� alla quale non si può sfuggire: «Sì o no?». In Mc 3,4 è Gesù a porre una domanda del genere con un'alternativa forte il cui esito salta agli occhi: «E lecito, il giorno di sabato [ . . . ] salvare una vita o ucciderla»? L'alternativa ha sempre un aspetto spaventoso, come un'arma a doppio taglio. Qui per l'interlocutore è chiaro che, salti a destra o salti a sinistra, in entrambi i casi cadrà nella trappola. O accetti di pagare e allora sei un collaborazionista e perdi ogni credito agli occhi della folla, oppure rifiuti di pagare e allora ti dichiari un op­ positore del potere romano e potrai essere denunciato perché predichi l'insubordi­ nazione all'imperatore. Come domanda-tranello, formulata da farisei ed erodiani, la domanda è per­ fetta: Gesù può solo cadere nelle mani degli uni o degli altri. Se dice di pagare, i farisei che sono tradizionalmente vicini al popolo potranno accusarlo e screditarlo agli occhi della folla. Se dice di non pagare, gli erodiani amici dell'imperatore po­ tranno accusarlo presso le autorità romane. Sul piano narrativo, resta da vedere se la risposta di Gesù offra una replica adeguata a entrambi. 12,15-16: o & E lliwç a:\rrwv 't�v \m6KpLaLv EtnEv a:ùw'ì.ç, T( J.LE nE Lpa(E'tE; cj>ÉpHÉ f.LOL liTJvapLov 'l.va: 'Lliw. 16ot &: �VEyKa:v. Ka:t À.ÉyEL a:ù'to'ì.ç, Tl.voç � ElKwv a:u'tTJ KIXL � È:lTL ypa:cj>�; o t &: d na:v a:ù't, Ka: l.aa:poç.

n Figura di composizione, suggerita da una studentessa dello STIM, suor Marie Pasca!, clarissa di Paray-Ie-Monial.

Marco 1 1-12. Cinque contrrNetsie nel tempio. Composizione

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U,lS-16: «Ma egli, conoscendo la loro ipocrisia, disse loro: "Perché mi tendete un tranello? Portatemi un denaro, perché lo veda". Gliene portarono uno ed egli dice loro: "Di chi è quest'immagine? E l'iscrizione?". Gli dissero: "Di Cesare"».

v. 15. Il passaggio è vivace con il òÉ avversativo (ve ne saranno quattro in que­ sta finale del racconto magistralmente composta). Il narratore ci rivela personal­ mente il suo apprezzamento: essi recitano la commedia con una maschera, tutto è finzione e «ipocrisia>> - il termine, tratto dal linguaggio del teatro, è passato nelle nostre lingue moderne. 2M Il commento del narratore conferma l'impressione del lin­ guaggio doppio, percepito nella lunga tirata introduttiva degli oppositori. Le parole di Gesù smaschereranno a loro volta il gioco degli uni e degli altri? >, ÉpE Lv) e senza oggetto diretto in greco. Essi obbediscono, senza fare una piega. «Ed egli dice loro: "Di chi è quest'immagi­ ne? E l'iscrizione?"» (Ko:Ì. 'AÉyE L o:Ùto'iç, T(voç � E tKwv o:utl) Ko:Ì. � Èmypo:�). Egli dirige il gioco e li costringe a leggere a voce alta ciò che per molti giudei religiosi era un'empietà: l'immagine di Tiberio (imperatore dal 14 a1 37) e l'iscrizione: «Tiberio Cesare figlio del divino Augusto lui stesso Augusto».29 Certi zeloti, un ramo del par­ tito dei farisei, si rifiutavano persino di guardare quell'«immagine» o di leggere un tale testo blasfemo. Alcuni si spingevano fino a evitare di toccare queste monete o di posseder le, per cui pagavano con dracme greche. Gesù li interroga e conduce la parabola fino in fondo. Ora sta a loro impegnar­ si, come scolaretti delle elementari. Non possono sottrarsi al suo gioco, certamen­ te inquieti e incerti sull'esito finale. Egli né tocca né legge, per cui nessun fariseo presente potrà rimproverargli alcunché in materia di purità rituale. Sono piuttosto loro a sentirsi sempre più a disagio, con quella moneta fra le mani. In greco, Gesù interroga riguardo all'immagine - ElKwv - e all'iscrizione: Èm ypo:� (il termine ri-

'" Qui il latino ha il termine versutiam. In 2Mac 6,24-25 si può leggere la bella testimonianza di Eleazaro, che giustamente non vuole fare la commedia ma lasciare ai giovani un esempio di verità e di sincerità, fin nella morte come martire. , restituire, come un bene che non vi appartiene. Il danaro è un bene estraneo che bisogna considerare per quello che è e non si deve mai appropriarsene, perché equivarrebbe ad alienarsi (cf. Le 16,12). Ma in parallelo, si tratta di rendere a Dio ciò che è il bene di Dio, ciò che attiene alla sua immagine! La rilettura che apre il registro delle associazioni (cf. il remez della lettura rab­ binica), e introduce qui il passo di Gen 1 ,27, comprende il nostro passo nel senso di >. Anche il discepolo della comunità di Marco vi si ritroverà: il «vivere di Dio>> e «per Dio>> non è forse il fine ultimo d eli 'atto battesimale (cf. Rm 6,10, «viventi per Dio»; 1Pt 1,21; 3,21 )? Per dedurre da questo versetto una precisa condotta cristiana nei riguardi dell'autorità politica, bisognerà basarsi su vari altri testi testimoni per scoprire una buona dialettica fra la sottomissione leale e la libertà critica (cf. Rm 13; 1Pt 2,13-17; Ap 13 e 17 o Mt 17,27).30 «E restavano ammirati di lui>> (Kcxl ÈçEScxuiJ.cx(ov È1T' cxirtQ). Grande coster­ nazione finale, resa con un verbo che solo Marco usa nel Nuovo Testamento: Èr>.

02. 1 2,1 8·21. Controversia sulla risurrezione, con i sadducei

Segue una nuova controversia, nello stesso luogo, con rappresentanti di un altro gruppo. Gesù passa in qualche modo in rivista i gruppi esistenti e così il movimento cristiano ha modo di ritagliarsi il suo posto fra le diverse correnti del giudaismo contemporaneo o tradizionale. Il ventaglio non è certamente com­ pleto (dove sono gli esseni o gli zeloti?), ma si organizza un discorso identitario in grado di rispondere a ognuno, basandosi sul Maestro e sul ricordo dei suoi insegnamenti. Secondo David Daube, in questa successione delle controversie nel Tempio si poteva riconoscere la baraitha dei quattro figli in dialogo con il

30 Cf. come il filosofo Pau! Ricoeur rilegge Rm 13 (sulla lealtà nei riguardi del potere) insieme ad Ap 13 (sulla Bestia e sull'inganno organizzato). Egli ne ricava una saggezza dialettica neUa quale sia l'anarchia sia l'apologia deUa ragion di Stato .sono atteggiamenti politici vietati a ogni cristiano che si rispetti. Cf. P. RICOEUR, >, in TRE 4(1979), 449. 35 Per il commento che segue cf. il nostro saggio in L'espace Jésus, 198-205.

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La soluzione: l'ultima settimana. Marco 1 1-16

to alla morte avvenuta, ma unicamente nel senso limitato dell'esistenza terrena e senza alcuna valenza per l'aldilà. v. 20: «C'erano sette fratelli» (Èmà à&À.>, e 4Mac 16,25: «Essi ••.

Marco 1 1-12. Cinque controversie nel tempio. Composizione

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Il Mt 8,11 e Le 16,22, vediamo che Gesù immagina Abramo e gli altri patriarchi vivi nell'aldilà. Gesù parla della risurrezione senza il minimo riferimento alla propria morte e risurrezione. È un caso piuttosto unico ed è molto probabile che questo ragiona­ mento risalga effettivamente a lui piuttosto che alla comunità postpasquale.39 An­ che la fede nella risurrezione non viene formulata a partire da un sepolcro trovato vuoto: né gli oppositori né Gesù stesso, per avvalorare ciò che dicono o invalid a­ re ciò che dice l'altro, si riferiscono ai sepolcri dei patriarchi, venerati a Hebron. Non è questo il problema. Il centro di gravità dell'argomentazione è Dio stesso: la nostra fede nella risurrezione si basa sul Dio vivente e fedele, che si nomina con il nome dei suoi amici. Gesù ascolta la parola nella quale Dio dice se stesso e scopre che nominandosi in quel modo attesta personalmente che i patriarchi sono vivi, anche dopo quattro secoli dalla loro morte. Qui vediamo Gesù che ascolta la Scrittura proclamata nella sinagoga e ne trae un insegnamento assolutamente originale. C'è risurrezione perché Dio è Dio e mantiene la sua alleanza con i suoi amici oltre la morte e per sempre. Proprio per questo Gesù penserà con fiducia all 'aldilà della sua morte : all 'ultima cena, dirà: «Non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio», seduto a quella stessa tavola del banchetto che ci ha descritto altrove, «con Abramo, Isacco e Giacob­ be e tutti i profeti» (cf. Mc 14,25 e Le 13,28-29). Gesù «Conosce le Scritture» così come «conosce la potenza di Dio», diversamente dai suoi interlocutori. Questa doppia conoscenza gli dà accesso, qui e ora, a ciò che appartiene a Dio e si rivela come ciò che oltrepassa la distinzione fra aldiqua e aldilà. Gesù conclude: 1TOÀÙ 1!Àa.vtio6e («Voi siete in grave errore»). L'effetto è potente (cf. l'allitterazione e la ripresa in inclusione dello stesso verbo dell'ini­ zio). Inoltre, quest'ultima parola capovolge, non senza ironia, la solita insinua­ zione dei sadducei riguardo a quella dottrina sulla risurrezione, che specialmen­ te i farisei avevano introdotto come novità e opinione erronea. Non sono loro a ingannarsi e ingannare con questa dottrina, ma siete voi a essere «in grave errore>>. La conclusione è brusca, come di solito in Marco. Al posto degli interpellati, i sadducei, è uno scriba a reagire al dialogo appena ascoltato. La concatenazione è assicurata. Né Matteo né Luca seguiranno Marco in questa articolazione fra i due dialoghi.

sapevano che chi muore per Dio vivrà per Dio, come Abramo, /sacco e Giacobbe e tutti i patriarchi». Cf. il Targum di ç>s 6: •Egli ci risusciterà e noi vivremo per lui». Cf. P. GRELOT, Les Targoums. Textes choisi.v (Cahiers Evangile, Suppl.), Paris 1985, 74. Per l'espressione «Dio dei viventi», cf. ad esempio Dt 4,4; 1 1 ,9; 32,39. Che lo sia anche nella morte si può leggere in ls 26,19 e 2Mac 6,26 (la bella confessione di Eleazaro: «Non potrei sfuggire, né da vivo né dal mano, alle mani dell'Onnipotente!»); cf. GIUSTINO, Apol. I, 63,17 («Le parole che Mosè udì uscire dal roveto: "lo sono colui che è, il Dio di Abramo, il Dio di !sacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei tuoi padri". dimostrano che questi personaggi esistevano ancora dopo la loro morte e che erano gli uomini di Cristo»). 39 Cf. M EIER , Un cenain juif Jésus, III, 277-312 (299s), secondo il quale il passo riDette il pensiero del Gesù della storia. 842

La soluzione: l'ultima settfmana. Marco 11-16

03. 1 2,28-34. Controversia sul primo dei comandamenti

Tipico della nuova controversia è il fatto di svolgersi fin dall'inizio, grazie a una piccola annotazione molto positiva che il narratore inserisce nell'introduzione, in un clima non più polemico ma caratterizzato da stima ed emulazione. Così Mar­ co compie, sul piano drammatico, una progressiva ritirata in rapporto al centro nel quale l'ostilità era al colmo ( 1 1 ,27-12,12). 12,28: Kat 1TpooEÀ.9wv Etç •wv yp«f.Lf.L«'tÉwv IÌKm)oaç aù•wv ou(rrrouvtwv, Elùwç on KaÀ.Wç IÌlTEKpL9T] aÙ'tOLç ÈlTT]pWtT]OEV aÙtOV, Ilo(a ÈO'tlV ÈV'tOÀ.� lTpW'tT] lTIXV'tWV; U,28: «Uno saiba che li aveva uditi discutere, sapendo che aveva ben risposto a loro, si anicinò e gli domandò: "Qual è il primo di tutti i comandamenti?"». v.

28. L'introduzione è piuttosto complessa: il narratore accumula tre participi

(1TpOOEÀ.9wv, IÌKoooaç, Elùwç),40 giustapposti, senza congiunzione, prima di passare alla domanda. Implicitamente, egli inserisce un commento positivo sul dialogo pre­ cedente: «aveva udito la loro discussione [ . . . ) e sapeva che egli aveva ben (KaÀ.wç) risposto>>. Questo doppio inserimento assicura il legame con l'episodio precedente e la transizione a ciò che segue. Al contrario delle tre controversie precedenti, qui interviene un individuo, membro di un gruppo, e non più tutto un gruppo come tale. Notiamo il percorso in decrescendo: in 1 1 ,27: tre gruppi; in 12,13: due grup­ pi; in 12,18: un gruppo; in 12,28: un membro isolato di un gruppo. Come in 2,1-3.6, Marco cura la disposizione drammatica del suo racconto. Viene detto «Scriba>>, cioè sia conoscitore delle Scritture, e quindi in grado di apprezzare la discussione precedente (cru(T]touvtwv, cf. 1 ,27), sia teologo, che di­ scute non di questioni di condotta pratica, come i farisei, ma di questioni di fondo: del perdono dei peccati, di Beelzebul e dello Spirito Santo, ecc. «Qual è il primo di tutti i comandamenti?» (IIo(a Èo'ttv Èv'toÀ� lTpWtT] mxvtwv;). Nessun saluto e nessuna apostrofe. Frase indubbiamente semplice ma potente nella forma a causa delle allitterazioni, e tuttavia un po' ridondante: ciò che è è necessariamente «primo di tutti>>. Matteo riprende la domanda modificandola un po' e precisandola: lTOLa ÉvtoÀ� ElvaL f.LEycXA.TJ Év •Q VOIJ.U) («Qual è il grande comandamento nella Legge?>>). Così la domanda è meglio fo­ calizzata dall'aggiunta «nella Legge>> e il fatto di parlare di «grande>> permette a Gesù di rispondere, distinguendo quello che è il «grande e primo >> comanda­ mento, e di aggiungerne un «secondo che è uguale a quello>>. Alla fine, il Gesù di Matteo mantiene la distinzione fra i due, ma afferma che sono veramente «il grande>>, perché «da essi dipendono tutta la Legge e i Profeti>> (Mt 22,37-40). Ammiriamo la precisione matteana. Inoltre, mediante la trasformazione della

40 La tradizione manoscritta esita fra el&.lc; (B lite A K M ecc.), K«Ì. et&.lv (D) e l&.lv (llt* C L W ecc.). Oggi si nota la tendenza a preferire. in questo caso, il gran numero di testimoni (che ha lowv), secondo la valutazione di C.H. Turner, riferita da Taylor: «lt is quite well supported. and makes better sense». Tuttavia noi tendiamo a preferire B. L'el&.lç («sapendo») pone l'accento sulla comprensione dello scriba, più che sulla sua semplice constatazione (l&.iv, «vedendo>>). Su questo punto, Marco lo distinguerebbe dagli oppositori precedenti che «non comprendono>> (fl.� elooteç, v. 24).

8

Marco 1 1-12. Cinque controversie nel tempio. Composizione

643

domanda, Matteo permette a Gesù di non discostarsi veramente da ciò che gli viene chiesto. La domanda può essere considerata un tranello. È così che l'hanno percepita Matteo («mettendolo alla prova», TTE Lpa(wv «Ìrrov) e anche Luca, che ha inoltre spostato l'incontro e modificato tutta la messa in scena (Le 10,25: ÈKTTE Lpa(wv). In Marco, nulla del genere. La domanda ritorna continuamente, sia in ambiente ebrai­ co sia fra i primi cristiani (cf. Ef 6,2; Rm 13,9; Gal 5,14; Gc 2,8).41 Qual è primo? Che cosa ti permette di considerare tutto il resto soggetto a un principio e di viverlo come unità? Il primo

comandamento

Quando uno pone una domanda del genere, vuole sapere rome si organizza il sistema di chi insegna, qual è la gerarchia che struttura l'insieme. Non per potere, in seguito, osservare un precetto e trascurare l'altro, perché in ogni caso si devono osservare tutti i comandamenti e precetti (cf. Mt 23,23). Ma come si organizza questo insegnamento, in modo che, in caso di conflitto fra due precetti, si sappia scegliere la giusta priorità? Già l'Antico Testamento dà risposte diverse a quest'unica domanda, e questo è istrutti­ vo. Il Levitico, il libro centrale della Torah, gravita attorno alla legge di santità e ripete: «Siate santi, perché io il SIGNORE vostro Dio sono santo!». Nel Deuteronomio risuona un ritornello: «Ascolta, Israele!», seguito da imperativi, tutti più o meno equivalenti e intercambiabili: > comandamento, seguito da un «secondO>> (1TpWtfl Ècrt(v . . . &:utÉpa autfl). Questo sorprende e disturba comunque un po'. Matteo, parlando del grande comandamento nella domanda, permette di conservare la risposta di Gesù, senza per questo allontanarsi dalla domanda formulata. La conclusione in Marco si ricollega con la domanda iniziale: >, e insieme i quattro dicono che tutta la persona, con tutte le sue facoltà, è mobilitata per «amare Dio>>. Matteo ha conservato solo i primi tre termi­ ni, omettendo il quarto di Marco. E non segue neppure il testo della LXX alla let­ tera, perché introduce tre volte la preposizione Èv, là dove il testo greco di Marco e della LXX ha R Luca segue Marco con i suoi quattro termini, ma inverte gli ultimi due e varia le preposizioni (Èç e Èv). Il riferimento di Gesù a questo versetto del Deuteronomio impressiona: è il versetto che il pio ebreo recita due volte al giorno. La sua giornata comincia con questa recita e tutta la riflessione del Talmud ha lo stesso punto di partenza: «In quale momento bisogna dire lo Shema '?>> (prima domanda di tutto il primo tratta­ to della Mishna e del Talmud Berakhot). Il rito risponde alla domanda del primo comandamento. Lex orandi, /ex credendi. Gesù, rispondendo allo scriba, gli ricor­ da di non cercare troppo lontano: si trova nello stesso rito che esprime tutta la sua identità. Ma Gesù non si accontenta di citare: esorta a riflettere, interpretando questo grande versetto mediante l'associazione con un secondo comandamento. In ambien­ te cristiano ci si interroga: Gesù è originale o riproduce un pensiero già formulato a quel tempo? È sintomatico che nel parallelo di Luca non sia Gesù a formulare l'arti­ colazione delle due citazioni l'una sull'altra, ma un dottore della Legge (v0j.1LK6t; nç, Le 10,27). In Marco si vede come lo stesso scriba abbondi, subito dopo, nel senso di La soluzione: l'ultima settimana. Marco 1 1-16

Gesù, riformulando lo stesso principio in modo analogo. Si è scoperto un parallelo nel Libro dei Giubilei (36,4-8), e i Testamenti dei XII patriarchi ripetono continua­ mente il parallelo fra i due comandamenti (amare Dio e amare il prossimo).43 Riguar­ do a quest'ultimo testo, redatto in greco dall'ambiente cristiano probabilmente nel corso del II secolo, è difficile affermare che anche la sua fonte lontana, precristiana, fosse caratterizz ata da questo doppio insegnamento sull'amore. Al termine di molte comparazioni e analisi, si può affermare che l'ambiente cristiano ha fortemente aderito a questo insegnamento di Gesù, senza volere per questo pretendere che su tale punto Gesù dica qualcosa di diverso dalla grande tra­ dizione dei maestri in Israele. Alcuni (come Luca o Marco) accetterebbero senza difficoltà che l'intuizione dell'unità del comandamento dell'amore fosse condivisa da certi maestri contemporanei di Gesù. In ogni caso, il fondamento di questa dot­ trina si trova nella stessa Torah di Mosè: Gesù rilegge, in modo creativo, testi tra­ mandati. In Matteo, più chiaramente che in Marco o Luca, questo principio della priorità dell'amore diventerà l'unica chiave ermeneutica per reinterpretare tutta la Torah e i Profeti (cf. Mt 5,43.48; 7,12; 9,1 3; 12,7; 19,19; 22,39-40). È anche in questo che Gesù è, per Matteo, pienamente Messia, la Sapienza in persona che interpreta la Torah di Mosè. 12,32-33: K�ì d1rev �ùt> (ypaJ..LJ.IX .L tEuç, teologo, specialista delle Scritture) dica qui sinceramente: OLOOOKUÀ.E. Ciò potrebbe riflettere qualcosa del possibile riconosci­ mento della dottrina di Gesù da parte di certi giudei, anche al tempo della gene­ razione dell'evangelista: Marco. In Matteo questo è già scomparso. In Luca, il dot­ tore della Legge non fa alcun elogio di Gesù, perché l'evangelista ha rovesciato in partenza i ruoli, lasciando al dottore il compito di formulare la Legge, ma alla fine

43 FocANT, 465 cita a sostegno anche un testo di Filone: (ouv�:mç) al posto dell'«in­ telligenza» (ouxvoul). Stupiamoci per questa grande flessibilità nel modo di citare un testo dotato di una tale autorità e, in linea di principio, di un uso liturgico molto sta­ bile. È segno che in ambiente cristiano, al tempo di Marco come di Matteo, si è già abbandonata la pratica ebraica della recita dello Shema ' due volte al giorno?44 Lo scriba riprende l'insegnamento di Gesù in due punti, l'uno riguardo all'u­ nicità di Dio e l'altro riguardo all'amore. Il primo punto riafferma l'unicità di Dio, negando ogni comparazione con un altro. Si trova una formulazione identica a quella dello scriba altrove nella Torah (cf. Dt 4,35: won etofìoa( oE on Kup LOç ò 8Eoç oou o{rro ç 8Eoç Èonv t, Où iJ.«t>), cf. Fil 4,1 1, pure in colle­ gamento con i doni condivisi dai filippesi; ùat€pT]IJ.a ne è il sinonimo, ed è nettamente più frequente nel Nuovo Testamento, cf. Le 21,4 e soprattutto Paolo (8 volte). La chiave del ragionamento suppone uno sguardo penetrante sull'atto del do­ nare: gli uni «hanno messo del loro superfluo>>, l'altra ha donato «della sua mancan­ za». Colui che legge in questo modo ha sperimentato nella propria esistenza come donare quando non si ha più nulla. C'è un abisso fra cedere qualcosa di ciò che si possiede in abbondanza e donare quando si è personalmente ridotti alla povertà. Un giorno, può essere chiesto di «dare ciò che non si ha>>; allora si scopre il vero dono. Qui, nel testo, l'oggetto del dono della vedova è sottolineato da un raddoppio enfatico e dal parallelismo fra 1TttVta e oÀ.ov («tutto>> e ). Anzitutto, si tratta del suo avere e del suo stesso essere, poi il secondo termine oÀ.Ov tòv p(ov la indica in ciò che la fa vivere. Donare ciò che si è. Nella sintassi greca, si colloca nor­ malmente il verbo alla fine di una proposizione. Collocando l'oggetto diretto, cob questi tre termini in apposizione, alla fine della frase, l'autore ottiene un potente effetto enfatico. È come se si sentissero nuovamente risuonare (À.Emà ouo): lei dona senza trattenere nulla, neppure la più piccola parte della sua offerta. Dona e «Con tutta la sua anima>> (cf. 12,30). Dopo questo, non si ascolta più nulla. Nessuna reazione, nessuna conclusione narrativa, unicamente questa parola di Gesù che deve chiudere tutto il complesso degli incon­ tri nel Tempio. Tutto orienta radicalmente verso ciò che segue: il suo abbandono nella passione. -

-

La vedova povera: icona dell'altra tradizione La donna passa nel racconto, è anonima, non riceve alcuna ricompensa, alcuna garanzia per il suo avvenire . . . Si limita a passare, Gesù non le rivolge la parola e lei non crede in lui. Continua a sostenere quel Tempio che tutta la sezione precedente ha comunque squalificato e resta nella sua tradizione. Tuttavia Gesù la individua in mezzo alla folla e la raccomanda ai suoi discepoli, presentandola come un esempio che supera tutti gli altri donatori: lei ha donato . Questa donna è l'incarnazione della religione più pura, come si trova in tanti poveri in tutte le religioni istituite. Qui vediamo che l'universale e il particolare si congiungono e coincidono invece di escludersi. Tutti i maestri della preghiera affermano concordemen­ te che la preghiera della persona più povera non è superata o rimpiazzata da nessun'al­ tra forma di preghiera. Perciò questa donna interpella il cristiano che oggi si apre alla Marco 1 1-12. Cinque'contmveisie nel tempio. Composizione

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stima degli altri nelle tradizioni che non si richiamano a GestJ. La donna è ebrea e tale resta: c'è nel vangelo un esempio più positivo di una persona che rimanga assolutamen­ te nella sua tradizione e tuttavia venga esaltata dal Maestro? Questa donna riscatta l'al­ bero di fichi senza frutti che Gesù aveva incontrato alla vigilia sul suo cammino verso la Città e il Tempio. Qui Gesù trova un frutto che lo raggiunge nella sua fame messianica. Si riconosce nella donna: la sua libertà nell'abbandono, senza trattenere più nulla per sé, lo commuove, lui che sta per fare lo stesso. Chi è vicino alla morte vede altro, legge diversamente e percepisce immediatamente la realtà che attesta ciò che ha già attraversato la morte.�6 Nell'ultima fase della sua vita Gesù ha posto dei gesti che rinviano a questo aldilà, ma ha anche saputo valorizzare at­ torno a sé dei gesti che corrispondono a questa stessa apertura: il dono della vedova e l'unzione ricevuta a Betania (Mc 14,3-9) sono due gesti che testimoniano questa quali­ tà. Egli li rilegge in diretta relazione con il proprio dono incondizionato. La libertà con cui si poneva di fronte alla morte sgorgava con più vigore ogni volta che incontrava una persona abitata dalla stessa forma di libertà. È ciò che avviene in questo episodio. Mar­ co, con sobrietà, suggerisce questo riconoscimento limitandosi a collocare queste ultime parole prima della passione.

Marco 11-12: la comparazione sinottica

l

I capitoli 11 e 12 di Marco raggruppano una dozzina di pericopi e compren­ dono 77 versetti in tutto. Come hanno integrato Matteo e Luca questo insieme, composto, come abbiamo visto, secondo la schema concentrico originale di Mar­ co in forma ABA' C D, con un'introduzione e un racconto di transizione alla fine? Marco ll-12

Maneo 21-22 (+ 23,6-7)

l) 1 1 ,1-10+11 2) 1 1 ,12-14 3) 1 1,15-18+19 4) 1 1 ,20-25 5 ) 1 1,27-33 6) 12,1-1 1 .12 7) 12,13-17 8) 12,18-27 9) 12,28-34a.34b lO) 12,35-37a 11) 12,37b-40 12) 12,41-42

2) 3) 4) 5) 6) 7) 8) 9) 10) 11) 12)

Luca 19,28-21,4

l) 19,28-40 [39-40 originale]

l) 21,1-11 [10-11 originale] 21 ,12-17 [14-17 originale] 21,18-19 21,20-22 [- il perdono] 21 ,23-27 21 ,33-43 .45-46 22,15-22 22,23-32.[33 originale] 22,[34 originale].35-40 22,41-46 [= Mc 12,34b] 23,6-7.(14) ------

2) 3) 4) 5) 6) 7) 8) 9) 10) 11) 12)

[=> 13,6-9] 19,45-48 20,1-8 20,9-19 20,20-26 20,27-40 [39-40 = Mc 12,34b] [=> 10,25-28] 20,41-44 20,45-47 21,1-4

Matteo segue il testo di Marco passo passo, omettendo solo l'episodio della vedova, alla fine (§ 12). Si tratta di un piccolo racconto di transizione di cui non sa che farsene, perché ha iniziato in 23,1 un grande e nuovo capitolo sugli scribi e i fa­ risei, nel quale ha assunto il § 1 1 di Marco (12,37b-40 Mt 23,6-7 ed eventualmente il v. 14, incerto dal punto di vista della critica testuale). Nell'ordine delle pericopi notiamo ancora l'inversione in 21,12 dei §§ 2 e 3 di Marco. Mentre in Marco l'epi­ sodio dell'albero di fichi inquadra la purificazione del Tempio (ABA'), Matteo, che non riproduce quasi mai queste disposizioni a sandwich della sua fonte, raggruppa =

56 Cf. il nostro studio in L'espace Jésus, 105-109. La soluzione: l'ultima settimana. Marco 1 1-16

qui i due estremi in una sola sequenza: 21,18-19+20-22, del resto molto ridotta, se comparata con Mc 1 1 ,20-25. Mentre Marco ha 77 versetti, Matteo, nonostante l'omissione dei quattro ver­ setti della fine e di alcuni altri versetti, ne ha 94. Egli ha quindi abbondantemente arricchito, qua e là, il testo di Marco (cf. tutto ciò che è indicato fra < > ) Si nota questo arricchimento specialmente nella parte finale delle pericopi (cf. §§ l, 3, 4, 8 e 10), ma soprattutto al centro (§§ 5-6): lì ha gonfiato la parabola dei vignaioli omi­ cidi, aggiungendovi altre due parabole (21 ,28-32 e 22,1 -14). Insieme le tre parabo­ le delineano un percorso storico completo che ingloba in un grande arco il tempo di Giovanni Battista, il tempo di Gesù e il tempo della Chiesa. Matteo non solo ha conservato (§§ 5-6) ciò che Marco aveva collocato al centro della sezione (§§ 5-6), ma lo ha notevolmente ampliato (38 vv. in tutto, da 21 ,23 a 22,24). Marco ha cercato di distribuire il tutto su tre giorni (cf. 1 1 ,1 1.19). Matteo non ha ritenuto necessario conservare questa distribuzione (i due versetti indicati sono scomparsi). Sul piano drammatico, con Marco si compie un movimento di andiri­ vieni fra due zone opposte: si lascia la cerchia dei discepoli per affrontare l'oppo­ sizione, poi, per tappe, ci si ritira da questo centro per ritrovarsi alla fine di nuovo nella cerchia ristretta dei discepoli. Matteo, che fa seguire la sezione del grande di­ scorso di invettive contro gli scribi e i farisei, non ha conservato neppure questa di­ sposizione di Marco: più si avanza, più la relazione diventa tesa. Lo scriba singolare e amabile di Marco (§ 9) diventa semplicemente uno dei farisei che interroga Gesù «per m etterlo alla prova» (22,35, 1TELpa(WV ttÙtOV). .

Luca segue Marco passo passo, conserva come Matteo l'apertura (§ l) e man­ tiene, diversamente da Matteo, l'episodio finale (§ 12). Fra questi due estremi, nep­ pure lui riprende la disposizione ABA' C D di Marco. In Luca scompaiono gli elf­ menti A e A' (§§ 2 e 4) di Marco. L'albero di fichi è stato spostato e ripreso in una parabola raccontata in precedenza, in Le 13,6-9. Ma al posto dell'albero di fichi in Marco, Luca introduce il pianto di Gesù su Gerusalemme (Le 19,41 -44). Non solo la parabola del capitolo 13 ma anche questa sostituzione la dicono lunga riguardo al modo in cui Luca interpreta l'episodio dell'albero di fichi in Mc 1 1 ,12-14. Il suo Gesù conclude: >). Queste due uni­ tà sono inquadrate da un'inclusione: la ripetuta messa in guardia dai falsi profeti e dai falsi messia (cf. vv. 5-6 e 21-23). Nelle due unità ricorre uno stesso vocabolario («stare in guardia>>, «ingannare>>, «dire»). Questo forma una composizione che, con l'inclusione (ABA'), prepara il centro (C). La terza e ultima parte del discorso (D) è formata da due parabole (vv. 2829.33-37) che inquadrano tre proposizioni forti (vv. 30.31 .32). La prima si collega con ciò che precede, la terza introduce ciò che segue. L'analisi stilistica eviden­ zierà la qualità che unisce queste proposizioni fra loro, con, a livello del signifi­ cato, una tensione paradossale di cui Marco ha la chiave: da una parte, si è sicuri e certi che ciò che è annunciato avverrà, dall'altra, si ignora il momento esatto in cui avverrà. Notiamo l'alternanza fra ciò che attiene alla natura o all 'ordine co­ smico e ciò che appartiene all'ordine delle persone, sia ai vv. 24 e 25 (sole, luna, stelle), messi in contrasto con i vv. 26-27 (il Figlio dell'uomo con i suoi angeli e gli eletti), sia nelle due ultime parabole (l'albero di fico e il padrone di casa con i suoi servi). Riassumendo questo primo inventario, troviamo questa disposizione: l0 rnomento

2° rnomento

A. vv: 5-6: B. vv. 7-13: vv. 14-20: A'. vv. 21-23: c.

(a)

messa in guardia dai falsi profeti «Quando sentirete . . . «Quando vedrete . . . » messa in guardia dai falsi profeti

vv. 24-25.26-27: la Fine (il cosmico e il personale) 28-29: parabola della pianta di fico (immagine della natura, cosmico) v. 30: questa generazione non passerà prima che la Fine avvenga vv.

(x) (y ) (y ) (x) (yx) (y ) (x/y)

' J. DuPONT, Les trois apocalypses synoptiques (Lectio divina 121 ), Paris 1985, 9. L' autore aggiunge: le tre parti in una sola unità «mescolandole>> e tenendole insieme «per le estremità>>, come insegnava la tradizione ripresa da Luciano di Samosata. Considerando la sola unità di 13,3337, possiamo vedere con quale arte sopraffina Marco alterna e dispone in chiasmo i verbi esortativi e le proposizioni parallele: (a) PÀÉnE'!E, &.ypunllf'iu· (b) oùK o'Uian yàp no'!E ò KaLpoç Èonv. wç liv9pwnoç &.n60TJIJ.Oç &.�lç '!�V olK(av au'!ou KaL OoÙç '!O'iç 00\JÀOLç aÙ'!OU '!�V ÈçoooLaV ÉKU0'!4> '!Ò €pyov aÙ'!OU Kal '!>, v. 37). Né Matteo né Luca hanno conservato questo aspetto esoterico della comunicazione: nel primo Gesù si rivolge ai discepoli, nel secondo è ancora nel Tempio e risponde ad «alcuni» (nVEç) che lo hanno interrogato. Il con­ testo iniziatico di Marco favorisce queste messe in scena accurate e drammatiche, mentre l'assenza di questo contesto negli altri due spiega piuttosto facilmente la ra­ gione per cui abbiano potuto eliminare dettagli del genere. Come il primo grande discorso era stato oggetto di una messa in scena elabo­ rata e molto accurata ( 4,1-2), così anche in questo discorso. Di conseguenza, ciò che segue deve essere molto importante agli occhi dell'evangelista. 13,4: Ei:rròv �J.i'ì.V, 1TOTE' ·muta ÉataL K«L ti. tÒ OTJJJEiov éhav JJÉÀÀ:g to:uta auvtE­ M:ia9o:L 1TUVto:; 13,4: «Di' a noi qiiHdo avvernnno queste cose e quale 8lll'à il sepo dte tutte que­ ste cose staranno per finire>>. v. 4: «Di' a noi>>. Questo verbo «dire» ritornerà ancora quattro o cinque volte nel discorso. La sua frequenza e la sua presenza nel discorso tradisoono un'enfasi: il parlare è come accentuato in modo retorico nella sua stessa verbalizzazione: v. 5: �pl;o:to À.Éyuv v. 23: 1TpOE LpTJKO: ÙfJ.iv V. 30: IÌJ.i�V À.Éyw ÙJ.iLV v. 37: o 6È ÙJ.iLV À.Éyw TTIXOLV À.Éyw.7 «Quando avverranno queste cose e quale sarà il segno che tutte queste cose staranno per finire?>>. Come spesso in Marco, la domanda è posta in forma doppia (cf. 1 1 ,28; cf. Neirynck, Duality). Si tratta di sapere il momento, il tempo («quan­ do?»: 1TOtE; cf. otc.r.v), si tratta di conoscere il «Segno>> precursore, che permetta di stimare la vicinanza più , al di là della morte, di cui il versetto precedente mostrava la finalità ineluttabilmente persegui­ ta. Questi testimoni della prima generazione ci dicono che la salvezza promessa non esclude la necessità di attraversare la prova della stessa morte. È perlomeno ciò che dice il testo nella sua struttura e cucitura attuali. Si intravede la matura­ zione tragica dell'esperienza. In questo unico paragrafo Marco ci trasmette almeno quattro idee forti e ori­ ginali. La persecuzione e l'evangelizzazione sono percepite in una relazione non di esclusione, e neppure di concessione, ma di rafforzamento: la buona novella si dif-

" Cf. il trattatello Tachlikh, letto il giorno di Kippur: Le rituel commenté. Tachlikh et /es trei:ze anributs, par C. FEUER - N. ScHERMAN, Colbo, Paris 1988. " La forma verbale aw9�0f't1U ritorna ben 19 volte nella LXX, specialmente nella letteratura profetica e apocalittica, indicando quella salvezza insperata che Dio concederà a un resto o anche ai suoi che invocano il suo nome (cf. Ger 23,6; 37,7 [LXX; TM 30,7]; Is 10,22; 49,24-25; G1 3,5; Dn 12,1, Teodozione, PsSa/ 6,1). La stessa espressione ritorna 13 volte nel NT, tre volte nei capitoli 9--1 1 della Lettera ai Romani, e molto spesso con la sfumatura , ma «dopo questa tribolazione>> (v. 24). Dal punto di vista di Gesù, tutto ciò che egli dice dall'alto del monte degli Ulivi è proiettato in un grande futuro, con delle tappe. Dal punto di vista di Marco e della sua comunità, alcuni avve­ nimenti fanno già parte della loro memoria, mentre altri sono ancora attesi. Sembra chiaro che non solo i vv. 9-13 riguardano un'esperienza già vissuta dalla comunità di Roma al tempo di Nerone (58-64), ma anche la catastrofe di Gerusalemme al tempo di Vespasiano e di Tito (66-70) appartiene già al passato. Perciò il presente di Marco coinciderebbe con «quei giorni>>, dopo la profanazione del Tempio (cf. 13,14) e pri­ ma della fine, al tempo della grande tribolazione. Poiché quest'ultima viene definita assolutamente incomparabile, non è evidente che la comunità si senta già coinvolta in essa. In ogni caso bisogna prepararsi al peggio, sapendo che Dio stesso abbrevierà quei giorni «a causa degli eletti che ha scelto>> (v. 20). Marco descrive avvenimenti passati e ne articola la successione in modo da permettere alla comunità di assumere il giusto atteggiamento nei riguardi di ciò che avverrà. Tutto ciò che riferisce non ha più la stessa incidenza per i cristiani di Roma ai quali si rivolge. Vediamo più da vicino il suo modo di raccontare certi fatti, e il suo modo di preparare la sua comunità all'avvenire più o meno prossimo. «L'abominio della devastazione presente là dove non deve essere - il lettore comprenda!» (tÒ POÉAUYIJ.a tf}ç ÈpT)IJ.>. Tutto sommato, la seconda azione è la conseguenza della prima: una volta che il sole è spento, la luna non può più dare nulla, perché riceve la sua luce da quella del sole . . . Riguardo all'azione degli ultimi due membri, il paralleli­ smo è chiaramente antitetico: ÈK tou oòpavou («a partire dal cielo») si contrappone a È v to'ì.ç oòpavo'ì.ç («nei cieli»), come «cadere>> (dall'alto in basso) si contrappone a , Is 34,4). Altri apocalittici hanno attinto alle stesse fonti poetiche per annunciare il giudi­ zio di Dio. Così in Ap 6,12-13 si riconoscono gli stessi due riferimenti isaiani riuniti: «E la mia visione continuò. Quando egli aprì il sesto sigillo, vi fu un violento terremo­ to, e il sole divenne nero come una stoffa di crine e la luna diventò tutta intera come di sangue, e le stelle del cielo si abbatterono sopra la terra come fichi abortiti che si proiet­ tano da un albero di fico sbattuto dalla bufera, e il cielo scomparve come un libro che si arrotola . . . >>. Nell'Apocalisse di Giovanni si tratta ancora solo di un avvenimento precursore della fine, perché dopo il sesto sigillo vi sarà il settimo . . . � I paralleli scoperti nella letteratura profetica non devono farci perdere di vista l'originalità di Marco: egli si serve indubbiamente di immagini trovate altrove, ma conferisce loro una nuova portata, molto chiara e assoluta. Ciò che avviene non è un episodio fra gli altri, ma la fine delle strutture cosmiche stabilite fin dall'origine. Cosmo e storia, con i loro punti di riferimento celesti, crollano totalmente. Ora, su questo sfondo di ritorno di tutto l'universo al caos, ecco emergere la figura salvifica del Figlio dell'uomo. Quando il sovraterrestre conoscerà la confusio­ ne più totale, «in quel momento>> si «Vedrà il Figlio dell'uomo». 13,26-27: KClÌ. tOtE oljtovta.L tÒv ui.Òv tOU Ò:v9pwnou ÈpX6J..LEVOV Èv VE!j>ÉÀaLç J..LEtiÌ ÒUVclJ..LEWç 1TOÀ.Àf)ç Ka.Ì. ò6ç1]c;. 27KCÙ tOtE cX1TOOtfÀ.EÌ. toùç Ò:yyÉÀ.ouç Ka.Ì. E1TLOUVci.;H toùc; ÈKÀ.EKtoùc; aùtofl EK twv tEoo&pwv àvÉJ..LWV àn' è:f.Kpou yf]ç Ewç è:f.Kpou oùp& vou. 13,26-27: «E allora si vedrà il Figlio deD'uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. E allora egli manderà gli angeli per radunare i suoi eletti dai quattro venti, dall'es�remità della terra fino all'estremità del cielo». vv.

26-27.

Questa doppia frase non è meno curata delle due precedenti, con

le quali deve risultare in netto contrasto. Quando tutto crolla, ecco apparire il mo­

mento più umano e la cosa più certa, più definitiva per chi appartiene alla cerchia degli ascoltatori! «E allora . . . E allora . . . >> (K(Ù tOtE . . . Ka.Ì. tOtE . . . ) . Le due frasi si allineano l'una sull'altra, in un parallelismo sintetico. Nella prima frase il Figlio dell'uomo è oggetto diretto del verbo, nella seconda diventa soggetto, mentre. i destinatari po­ tranno riconoscersi nell'oggetto della sua azione:

"' Per i cambiamenti del sole e della luna, cf. ancora Is 24,23, come preludio alla venuta del grande Re. In Eb 12,26s si trova una citazione di Ag 2,6, con lo stesso verbo che compare nella finale di Mc 13,25: «SCUOtere, far saltare» (OIXMU HV). La citazione di Aggeo, nella LXX. mostra un doppio movimento: prima cosmico, poi universale (>; o Cicerone, De somnio Scipionis e Gregorio Magno, Dialoghi II, 34.35 e 37, dove si tratta della morte di Scolastica, la sorella di s. Benedetto, della propria morte e delle loro rispettive anime che compiono la loro ascensione al cielo, osservata da testimoni scelti. «E allora vedranno» (Ka:L t6-re ISIJrovta:L ), Questo «vedere» al futuro è impres­ sionante. Chi «vedrà>>? Non è chiaro, e spesso si traduce in modo impersonale: «si vedrà>>. Questo stesso verbo «vedere>> al futuro risuonerà solennemente ancora due volte in Marco: in 14,62, quando Gesù risponde al sommo sacerdote, in occasione del processo davanti al sinedrio: e voi vedrete (oiJrEo9e) il Figlio dell'uomo>>. L'accostamento si addice, perché si tratta dello stesso oggetto contemplato. Quindi anche l'opposizione che rifiuta di credere in lui «vedrà>>. Questo perché l'appari­ zione del Figlio dell'uqmo sarà caratterizzata da un'evidenza schiacciante per tutti. Non vi sarà più alcuna possibilità di dubitare o di discutere. Tutti lo vedranno. Non siamo lontani da ciò che si dice in Ap 1,7, dove il visionario associa Dn 7,13 con Zc 12,10: «Ecco, viene in mezzo alle nubi, e ogni occhio lo vedrà, e anche quelli che l'hanno trafitto: tutte le tribù della terra saranno in lutto a causa di lui. Sì ! Amen! >>. Infine, si parla un'ultima volta di , al futuro in Marco. È nell'ultimo messaggio che risuona al sepolcro nel capitolo 16. È rivolto alle donne che devono trasmetterlo ai discepoli, e specialmente a Pietro: (16,7; cf. 14,28). Tutto il testo di Marco ha come futuro assoluto questo momento di incontro nel quale «si vedrà>> colui che ci ha preceduti nella morte e che, ora risorto, sta per mostrarsi (cf. al centro del testo Mc 8,38 e 9,1). «Che viene sulle nubi con grande potenza e gloria>> (J.LEtÌl ouv&.J.Lewç noUijç Ka:t oOI;T]c;). L'ultima espressione è formulata con cura ed è piena di effetto. Si tratta di un'endiadi, poiché i due termini potenza e gloria riftuiscono l'uno sull'altro. C'è allitterazione fra i due sostantivi e homoioteleuton fra noUijç e 06/;T]ç, grazie alla posizione dell'aggettivo dopo il primo sostantivo. Inoltre, qui l'assenza dell'articolo rafforza il tratto finale. Con mezzi molto semplici Marco ottiene una grande forza espressiva. 694

La soluzione: l'ultima settimana. Marco 11-16

«E allora manderà . . . e radunerà>> (&lToa'!E�.EI . Ka.L ÈmouvliçH). La sua venu­ ta coincide con una doppia azione, che può essere letta anch'essa come un'endiadi: «mandare>> per «radunare». . In Mt 25,31 essi compaiono con un riferimento ancora più chiaro alla presentazione che si trova in Zc 14,5 o Gd 14. In Mt 13,41 questi «angeli» assolvono una funzione ben maggiore di quella che assol­ vono qui in Mc 13: «> o > (universale, metastorica, movimento verticale). Tutto questo linguaggio biblico viene utilizzato e alimenta una formulazione originale dalla quale risulta che il Figlio dell'uomo è Cristo, che la sua venuta coin­ cide con la fine dei tempi e che l'attesa personale culmina nella «riunione dei suoi eletti nel cielo>>.29 Marco ha ripensato il tutto in funzione di una visione unificata. . . .

.

29 Per un'escatologia cristiana attentamente ponderata e basata sulle Scritture, cf. ORIGENE, Peri ArchOn II, 3,7: SC 252,270-275.

Marco 13. Il discorso escatologico

695

Non si può escludere che queste prospettive risalgano a intuizioni e a parole di Gesù stesso, che ha certamente meditato sul profilo danielico del Figlio dell'uomo (cf. altrove, in Mc 8,38 e 14,61). Comunque questa visione di Marco si basa sulla fede in Gesù risorto, con la doppia implicazione: a) il Risorto è ormai presso Dio, in gloria, «Seduto alla destra»; b) il Risorto sta per venire in gloria e in potenza, «per mettere tutto sotto i suoi piedi», secondo l'espressione del Sal l lO (cf. anche il Sal 8 e il Sal 2, riletti in chiave cristologica). Paolo, già in lTs 1,10 e soprattutto in lCor 15, si esprime in modo assolutamente chiaro su questi due aspetti congiunti. Anche la Lettera agli Ebrei associa i Sal 2; 110 e 8, per affermare la stessa attesa cristolo­ gica (cf. Ef 1,22). Invece l'idea che in quel momento avverrà un giudizio non è at­ testata ovunque. Qui in Marco non se ne trova traccia. La storia con le sue prove opera una cernita e l'appartenenza ai suoi eletti si decide già prima della fine (vv. 19-20). Con la venuta del Figlio dell'uomo i suoi eletti sono radunati e portati con lui in gloria. Nulla di più e nulla di meno. Al termine dell'analisi di questo paragrafo centrale, si è colpiti dalla raffina­ tezza letteraria di questi quattro versetti, dalla loro economia interna, dal lavoro di elaborazione a partire da tradizioni diverse e da citazioni incorporate. Il risultato è uno stupefacente contrasto fra, da una parte, un cosmo che sprofonda interamente e, dall'altra, la comparsa di una.silhouette fragile e forte al tempo stesso, unica e ri­ vestita di un potere che si estende in tutte le direzioni. In questo contrasto l'oratore e il suo destinatario trovano, in termini velati, il loro posto. Uno si presenta vitto­ rioso e con l'unica preoccupazione di radunare da ogni luogo tutti coloro che gli ap­ partengono e che egli chiama «i suoi eletti». Gesù sul monte degli Ulivi si definisce in termini velati, al di là della fine di tutto, e riafferma il legame personale con i suoi, questi «eletti», legame che né la morte né la fine del mondo potranno distruggere. Il termine «eletto» conserva un momento abramico e acquista inoltre una sfu­ matura specificamente cristiana. La fede abramica implica questa coscienza alta e libera di essere interpellati da un Dio personale, di fronte all'annientamento che possono causare tutte le potenze cosmiche riunite. Abramo resta in piedi e con­ versa con Dio. Tanto il cielo stellato sopra di lui che la sabbia innumerevole ai suoi piedi non possono reggere il confronto con Colui che lo ha scelto come suo partner. Il pensiero di Pasca! attinge alla stessa coscienza e libertà: «L'uomo non è che una canna, la più debole della natura, ma è una canna pensante. Non occorre che tutto l'universo si armi per schiacciarlo, basta un vapore, una goccia d'acqua per ucci­ derlo. Ma quando l'universo lo schiacciasse, l'uomo sarebbe ancora più nobile di ciò che lo uccide, perché egli sa che muore e il vantaggio che l'universo ha su di lui, mentre l'universo non ne sa nulla».30 L'altro aspetto di questa elezione comporta la sfumatura più specificamente cri­ stiana: è eletto colui che per scelta e stile di vita raggiunge il destino di questo Figlio d'uomo unico, «Scartato dagli uomini ma eletto e amato da Dio» (Mc 12,10-11; lPt 2,4-9). Su questo punto, il lettore/destinatario non può non sentirsi coinvolto. Se ri­ cordiamo il contesto pasquale di tutta la proclamazione di Marco, la grande attesa

30 lmmanuel Kant, nella conclusione della sua Critica della ragion pratica, sottolinea lo stesso contrasto fra il caelum stellatum supra me e la le::c moralis intra me. Se il primo lo schiaccia e lo fa sentire una miserabile creatura animale ( «ein tierisches GeschOpf» ), l'altra gli dà tutto il senso della sua dignità e libertà.

La soluzione: rull#ma settimsns. Marco 1 1-16

della comunità in quella notte di veglia, non è forse la venuta del Messia, della Quar­ ta notte della Haggadah pasquale tradizionale, del ritorno in gloria di Gesù risorto o, come si dice qui, «Vedere il Figlio dell'uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria»? Ora questa >, ma il termine in ebraico significa anche un ramo di «colui che vigila», e il Signore gli risponde giustamente: «Hai visto bene, poiché io vigilo sulla mia parola per realizzarlal>>. Anche il greco di Marco presenta qui un sottile gioco di parole:31 notiamo le numerose corrispondenze anche meramente fonetiche fra la storia parabolica rac­ contata e la sua applicazione: a. Ot�V �Ù� yÉ�t�� b. YLVWOI> (Ap 3,20). La metafora rinvia al Cantico dei cantici, testo pasquale per eccellenza nella tradizione ebraica, già a quel tempo, e all'usanza praticata nella notte pasquale: lasciare la porta socchiusa, perché «egli>> può venire. Notiamo ancora che la porta ritornerà nella parabola se­ guente, consciamente o inconsciamente (v. 34). Il soggetto del verbo «essere» non è espressamente nominato. Si dice semplice­ mente «egli». Secondo il contesto, si tratta ovviamente del Figlio dell'uomo (v. 26), come in Ap 3,20 si tratta del Risorto, comparso in Ap 1,13-20, e designato «come un Figlio d'uomo>> (v. 13). Luca, nel passo parallelo, ha spiegato diversamente le cose: è «il regno di Dio che è vicino>> e l'immagine della porta è scomparsa (Le 21,31 ) Da questo parallelo con Geremia e a causa di questa struttura in cui un 'immagi­ ne rinvia ad altro, si può concludere che Marco sta rispondendo alla domanda dei di­ scepoli sul (v. 4). Il ramo di mandorlo è segno di ciò che si annuncia. Anche il ramo della pianta di fico va interpretato come un segno che indica la venuta della fine. Mediante la raffinatezza della scrittura con il gioco di parole scoperto in greco, Marco fa praticamente coincidere l'uno e l'altro segno, il significante e il significato. .

31 Inoltre, alcuni ritengono che si debba supporre all'origine un gioco di parole fra �·p («estate») e �p («fine>>). Cf. LANE, 477, n. 97; J. DuPONl', in RB 75(1968), 542.

898

La soluzione: l'ultima settimana. Marco 1 1-16

Ora è quando , prima di continuare in parallelo con Marco: . Come per la maggior parte dei casi già incontrati (cf. ad esempio 3,28-29; 9,1; 12,43), questa espressione introduce una proposizione che mira, al di là delle persone presenti nel racconMarco 13. Il discorso escatologico

899

to, al lettore/uditore della comunità di Marco. La ricorrenza del verbo ÀÉyE Lv in tutto il discorso collega immediatamente questa apertura con gli altri passi, cre­ ando insieme una cornice che articola le tre parti e le unisce fra loro (cf. supra vv. 5.23.30.37, pp. 593s.). 13,30: àj.l.�V ÀÉyw i>!Jlv O'tL où IJ.� 1rapÉÀ!hJ � YEVEIÌ am, !J.ÉXPL) si riferisce a ciò che è stato raccontato a partire dal v. 5 fino al v. 27: anche la catastrofe cosmica, e soprattutto la venuta del Figlio dell'uomo in gloria, sono avvenimenti inglobati nel «tutto questo>> e potrà quindi avvenire ancora durante questa generazione.

13,3l : Ò oÙpavòç KaÌ. � yfi 1r«pEÀ.EUOOVtllL, oÌ. c'iÈ Àoym IJ.OU oÙ IJ.� 1rllpEÀEUOOVtllL. 13,31: «> e «la terra>>, cioè il cosmo, che nella sua struttura elementare era come cancellato nell'ultimo scenario evocato ai vv. 24 e 25. Come là l'universo si dissolveva completamente per lasciar posto unicamente al Figlio dell'uomo glorioso e vittorioso, così qui, questo Figlio dell'uomo che parla assicura che le sue parole sono più potenti dell'ordine creato - «cielo» e «terra» - destinato a «passare>> e quindi a scomparire prima o poi. Vengono menzionati prima il cielo e poi la terra. La successione è sorpren­ dente. Questo «passare>> anzitutto del cielo non è l'effetto di un deterioramento naturale né la semplice dissoluzione di ciò che si sa essere perituro. La scienza sa, ad esempio, che il sistema solare avrà fine e che sul pianeta Terra la biosfera sarà distrutta da un sole che si spegne. Qui, attraverso questa successione, si pensa a un intervento divino, comparabile a quello avvenuto all'inizio ma con un effetto con­ trario. Come c'era una Parola prima che fossero creati «e il cielo e la terra>> (cf. Geo 1,1-3), così una parola trascenderà e sfuggirà alla distruzione di tutto, anche dopo che il cielo e la terra non esisteranno più. Il modo in cui il testo afferma qui la tra­ scendenza delle parole di Gesù rispetto a ogni processo cosmico, attesta questa for­ te intuizione: c'è una differenza qualitativa fra ciò che si è rivelato nella sua persona e ogni fenomeno cosmico, per quanto sensazionale possa essere. Questa sentenza centrale dell'ultima parte del discorso riformula quindi anche la sua idea principale: gli avvenimenti politici e anche la confusione cosmica più totale non possono arri­ vare a ciò che questo Figlio d'uomo Gesù è venuto a portare come salvezza, perdo­ no e libertà. Ci si può chiedere se Gesù stesso abbia parlato in questo modo. «Deve avere avuto anche lui una qualche idea>> (moos. J. Coppens). Negargli ogni pensiero originale in materia di fine della storia e di escatologia, non è coerente con tutto ciò che si sa d'altro canto: il suo tema principale, la venuta del Regno, si può compren­ dere solo se egli ha saputo sviluppare una riflessione matura sulla fine di ogni cosa. La letteratura profetica contiene vari passi che pongono l'una di fronte all'altra tutta la realtà cosmica e la parola del profeta, come parola pronunciata in nome di Dio. A volte il ricorso alla parabola cosmica viene a sostenere la stabi­ lità e la grandezza o perennità di ciò che Dio ha detto o promesso. Così Geremia evoca l'ordine creato con il sole e la luna, il mare e i suoi flutti come un ordine stabile, figura dell'alleanza di Dio con il suo popolo: «Se venisse meno questo or­ dine davanti a me, allora anche la discendenza di Israele cesserebbe di essere uila nazione davanti a me per sempre ! >> (Ger 31 ,35-37). Diversa è la visione del Secon­ do Isaia: «Alzate al cielo i vostri occhi e guardate la terra di sotto, poiché i cieli si dissolveranno come fumo, la terra si logorerà come un vestito, e i suoi abitanti moriranno come larve. Ma la mia salvezza durerà per sempre, la mia giustizia non verrà distrutta>> (Is 51 ,6). Prendiamo anche il testo nel quale risuona lo stesso ver­ bo che abbiamo in Mc 13,25: «scuotere, vacillare>>, anche se qui si tratta solo della terra: «> (Is 54,10). Man:o 13. lt diSCOfSO ésC8foiOgfco

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Per i primi cristiani l'implicazione cristologica di queste testimonianze è che ciò che si dice della parola di Dio vale con la stessa forza anche per le parole di Gesù. Essi lasciano perlomeno intuire che anche Gesù, come profeta e come poeta, ha potuto creare delle formule altrettanto drastiche che rimettono in discussione tutto l'ordine creato in presenza della dimensione unica di essere conosciuto solo da Dio. Non si è forse conservata anche questa parola di Gesù, che contrappone questi due ordini di conoscenza e di esperienza: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scor­ pioni e sopra tutta la potenza del Nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegrate­ vi però perché i demoni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli» (Le 10,20)? 13,32: IlEpÌ OÈ t'TJC: �j.LÉpocç ÈKE LVTJC: � t'f)ç wpocç oÙOEÌ.ç ol&v, OÙOÈ ot cÌyyEÀ.OL ÈV oùpocve\) oÙOÈ o ut6ç, EÌ. 1-L� o '!TOC't'� p . 13,32: «Quanto però alla data di quel giorno, o all'ora, nessuno le sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, nessuno eccetto il Padre». v. 32: IlEpÌ OÉ («quanto a . . . �� ) è una formula abituale per indicare che si cam­ bia soggetto e si affronta un altro punto (cf. Mc 12,26; At 21,25). Sul piano del con­ tenuto, la frase viene a inarcarsi contro ciò che è stato appena detto. Formalmente ha lo stesso carattere assoluto di ciò che precede, perché nessuno né sulla terra né in cielo, neppure il Figlio, ma unicamente il Padre, conosce il giorno e l'ora di que­ sto avvenimento finale. Il grande paradosso che struttura il pensiero di queste tre sentenze riunite afferma due cose apparentemente insopportabili quando bisogna digerirle insieme: la fine verrà certamente, già in questa generazione, ma non cerca­ te di sapere quando: non si può conoscere né il giorno né l'ora. Sul piano della forma, mentre nella prima parabola si ripete: yLVWOKE't'E, YLVWOKE't'E («voi sapete, voi vi rendete conto»), nella seconda si ripete: oÒK o'tùoct'E, oÒK o'LiioctE («Voi non sapete, voi non sapete>>). Il testo afferma entrambe le cose. Abbiamo incontrato un paradosso analogo che attraversa tutto il capitolo delle pa­ rabole (4,1-34). Là è affermato con forza e tenuto insieme nel suo centro mediante la parabola della lampada, da una parte (dove le cose vanno da sé), e la parabola della misura, dall'altra (dove tutto dipende dall'accoglienza di ciascuno). Tutto è dato gratuitamente e tutto dipende dalla nostra responsabilità. Entrambe le cose. Lo stesso anche qui: siate certi che il Giorno verrà già in questa generazione e ac­ cettate di non conoscerne assolutamente l'ora. Il tema dell'ignoranza dell'ora della fine ritorna altrove nel Nuovo Testamento. Luca, che non ha conservato questo versetto di Marco nel suo racconto evangelico, lo riformula all'inizio degli Atti: > e termini con la confessione: io non so, uno solo sa, (Et 1-1� ò Tia't�p ) . Il movimento che va da un'estremità all'altra è rivelatore: Gesù è parola che conduce verso un silenzio nel quale la sola realtà del Padre occupa tutto lo spazio. Sul piano della composizione, mentre la prima delle tre sentenze si collega con il contesto precedente, l'ultima offre il tema del paragrafo conclusivo che segue. .

32 L'idea che Gesù non conosce l'Ora ha scandalizzato più di un autore. TAYLOR, 522 scrive: •). In tutto questo capitolo, Gesù riceve tre designazioni discrete: «il Cristo>>, «il Figlio dell'uomo», e qui «il padrone di casa>> che è anche il Kyrios (cf. l3,21.26.35).39 «Alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino». Il testo, con una certa enfasi, nomina quattro momenti distinti della notte, corrispondenti grosso modo alle quattro veglie in cui i romani erano soliti suddividere la notte. La tradi­ zione ebraica conosceva tre veglie. Perché una tale enfasi e questa preoccupazione

37 Su questo punto della habourah, cf. D. DAUBE, The New Testament and Rabbinic Judaism, London 1956, 183-1 95 e 278. 38 Taylor ricorda che si viveva nell'attesa quotidiana del ritorno del Signore, e cita: lTs 5,6; lCor 16,22; Rm 13, 1 1 ; Ap 22,20; cf. anche Mt 24,42 e Le 12,40. '9 Il termine KUpLoç ritorna altrove in Marco (14 volte in tutto): cf. ad esempio 11,3; 12,9; 13,20, per la parte che ci interessa. Di solito indica Dio e compare molto spesso in una citazione della LXX (cf. 1,3; 1 1 ,9; 12, 1 1 .29.30.36.37). Un altro uso originale, applicato a Gesù come Figlio dell'uomo, si trova in 2,28: «kyrios del sabato».

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La soluzione: l'ultima settimana. MaiCO 1 1-16

di elencare ciascuna delle quattro parti della notte?40 Il versetto seguente chiarisce già in parte il fine di questa comunicazione dell'evangelista: «per paura che, giun­ gendo all'improvviso [ÈI;a:(Q>vT]c;, unico caso in Marco], non vi trovi addormenta­ ti» (v. 36). Marco, con questa formulazione, prepara direttamente ciò che accadrà, piuttosto tragicamente, durante l'agonia di Gesù al Getsemani. Là ritorneranno le stesse parole: 13,36: j.l.� Èl8wv Èl;a:(Q>VTJc; Eupu uj.!.&c; Ka:9Eooovta:c; 14,37: Ka:l Ép)(Eta:L Ka:l Eupi.oKE L a:utoùc; Ka:9Euoovta:c; 14,40: Ka:l mlhv ÈlSwv EUpEv a:utoùc; Ka:8Euùovta:c;. La cosa tragica è che, nonostante l'avvertimento esplicito, i discepoli non sfug­ giranno al torpore del sonno, per ben due volte, durante la stessa veglia. Si può notare la stessa cosa riguardo al «canto del gallo». I commentatori si chiedono se, con questa espressione, Marco intenda indicare un'ora precisa, corri­ spondente di fatto a una delle veglie della notte secondo la suddivisione romana. In tutta la Bibbia greca, Marco è l'unico a usare questa espressione: aÀEKtopocflwvi.a:. Molti autori, sulla scia di Swete (318) e di Wellhausen (107), hanno affermato che si tratta di una «espressione popolare», persino «volgare» (Blass-Debrtinner, 123, 1), ma la cosa non è così sicura dal momento che se ne servono anche Strabone (7,35) ed Esopo (Fables 55, ed. Perrin). Lagrange osserva che a Gerusalemme i galli can­ tavano a qualsiasi ora della notte. Piuttosto che perdersi nella ricerca di un'equi­ valenza più o meno fedele fra i termini usati da Marco e le veglie secondo la ripar­ tizione romana, è meglio vedere qui l'annuncio di quattro momenti cruciali negli episodi che seguono. Se il momento in cui potrebbero dormire corrisponde alla ve­ glia al Getsemani, dove di fatto per ben due volte Gesù ha trovato i suoi discepoli addormentati (14,37.40), «il canto del gallo» corrisponde senza alcuna esitazione al momento in cui Pietro rinnegherà per la terza volta il suo Maestro (14,72). Restano da determinare gli altri due momenti: «alla sera» (òljJÉ) corrisponde­ rebbe alla sera dell'ultima cena (òljl(a:ç yEVOj.l.ÉVT]c;, 14,17), quando Gesù annuncia la prova attraverso la quale dovranno tutti passare, con uno che lo consegnerà e un altro che lo rinnegherà quella stessa notte. Per quanto tutti dicano con Pietro che non lo faranno mai, tutti lo abbandoneranno qualche ora dopo . . . Una stessa atmosfera tra­ gica pesa su tutto questo episodio. Riguardo al mattino (npwt), il seguito del raccon­ to ne menziona due: quello nel quale Gesù sarà consegnato a Pilato (15,1) e quello nel quale le donne vanno al sepolcro (16,1). I pareri sono diversi, ma davanti a Pilato non si parla dell'assenza dei discepoli, mentre al mattino di Pasqua vi sono le donne, ma i discepoli brillano per la loro assenza e il giovane nel suo messaggio si riferisce esplicitamente a loro: «Andate a dire ai suoi discepoli [con il possessivo eloquente] e specialmente a Pietro che vi precede in Galilea; là lo vedrete>> (16,7). L'enfasi notata in questa quadruplice annotazione cronologica è quindi al ser­ vizio del dramma, la cui soluzione verrà raccontata subito dopo la fine del discorso. Marco, al di là dei quattro discepoli messi in scena, vuole tenere svegli i suoi lettori/ destinatari. Essi attraverseranno gli stessi momenti nei quali i discepoli sono stati messi alla prova e non l'hanno superata. Indirettamente questo non potrà non in­ terpellarli: anch'essi tradiranno, rinnegheranno, fuggiranno, brilleranno per la loro assenza?

40 Qui riassumiamo la lunga presentazione fatta in Composition, 349-359. Marco 13. Il discorso escatologico

13,37: lS & UllLV 1f.yw ;riiaLv 1f.yw, YPTJYOpEL'rE. 13,37: «QoeDo che dioo a voi, lo dico a tutti: vegliate!•. v. 37. L'ultimo elemento chiude il racconto in modo patetico, come conviene. Il verbo «dire» (1f.yw) , ripetuto, sottolinea la stessa elocuzione e ricollega agli enun­ ciati precedenti che scandiscono tutto il discorso. Di colpo l'uditorio è allargato, in modo un po' incoerente, perché, strettamente parlando, nel luogo in cui si trova Gesù, sul monte degli Ulivi, è veramente impossibile rivolgersi a (vv. 17 - 18). Anche Matteo dispone di materiali molto ricchi sull'escatologia. Diversamen­ te da Luca, che li ha sparsi in quattro o cinque punti diversi del suo racconto, Mat­ teo riunisce tutto in uno stesso discorso, la cui ampiezza supera di ben quattro volte il discorso escatologico di Marco (Mc 13,5-37 33 vv.; M t 23,24 e 25 1 36 vv. ) . Abbiamo già visto che Matteo non ha conservato l'episodio della vedova con il suo obolo, con il quale Marco conclude i due capitoli di controversie nel Tempio (Mc 12,41-44). Egli ha invece introdotto una grande esposizione sugli scribi e sui farisei, che sfocia in un lamento e in una minaccia alla città di Gerusalemme (23,3739). Solo dopo l'aggiunta di questa quarantina di versetti, Matteo si ricollega al rac­ conto di Marco. La sua introduzione al discorso escatologico propriamente detto riprende quasi alla lettera il passo corrispondente di Marco. Gesù è con i suoi di­ scepoli, e sono loro a interrogarlo una seconda volta dall'alto del monte degli Ulivi dove ha preso posto e si è seduto. Il discorso è tenuto «in disparte» (Ka.t' i.o(a.v) ma non più ai soli primi quattro chiamati, come in Marco. Nella domanda risuo­ na, molto più chiaramente che in Marco, il tema della parusia personale di Gesù: «Quale sarà il segno della tua venuta (na.pouo(a.)?». Il termine «parusia» manca in Marco, ma ritornerà ancora 3 volte nel discorso di Matteo (24,27.37.39).42 All'altro capo, quando Matteo comincia il racconto della passione, inserisce una conclusio­ ne narrativa del discorso (che manca in Marco) e aggiunge un nuovo annuncio del destino del Figlio dell'uomo. Così introduce una bella e forte tensione fra questa doppia illuminazione sul Figlio dell'uomo: egli è colui che verrà in gloria e colui che deve essere consegnato. «Terminati tutti questi discorsi, Gesù disse ai suoi discepo­ li: "Voi sapete che fra due giorni è la Pasqua e il Figlio dell'uomo sarà consegnato per essere crocifisso"» (26,1-2) . Matteo segue nell'ordine tutte le dieci unità distinte in Marco, ma arrivato alla decima l'arricchisce notevolmente con tre, quattro parabole, prima di concludere con un ritorno sul momento in cui apparirà il Figlio dell'uomo. Egli sviluppa quest'ultimo momento visionario in una grande scena di giudizio universale (25,31 -46). Per le nove unità che ha in comune con Marco, Matteo rispetta il film con le due grandi sequenze («quando sentirete . . . quando vedrete», Mc 13,7 e 14 Mt 24,6 e 15 ) , ma non conserva come tale l'inclusione di Marco, con la doppia messa in guardia contro i falsi profeti (A e A': Mc 13,5-6 e 21-23). Per ben tre volte Matteo ritornerà su questo tema, che evidentemente gli sta molto a cuore (24,4-5.11.23-25; cf. 7,15-20), e l'ultima volta Io amplierà, creando una sorta di nuova esposizione nella composizione (cf. Mt 24,23-28; si riconoscono i paralleli con Le 17 ,23-24.37). Riguardo a Mc 13,9-14, Matteo lo riprende, ma in realtà è già la seconda volta che integra questo passo nel suo libro (cf. Mt 10,17-22). Qui vi aggiunge alcune sottoli­ neature proprie che mostrano il suo sguardo sulla storia attuale: «Allora molti soc­ comberanno . . . si raffredderà l'amore di molti>> (24,10.12). Per il resto, è nei dettagli che si può scorgere il modo in cui egli cerca, da buon catechista, di chiarire ciò che =

=

=

42 Questo termine è conosciuto da molto tempo nell'ambiente cristiano (d. 1Ts 2,19; 3,13; 4,15; 5,23). «Si applicava cosl al ritorno del Signore il termine tradizionale per indicare l'ingresso solenne di un sovrano ellenistico in una città sulla quale si esercitava ormai il suo potere» (DuPONT, Les trois apocalypses, 49) . Marco 13. Il discorso escatologico

71 1

in Marco resta oscuro o semplicemente allusivo. Abbiamo già notato sopra come egli precisi rendendolo comprensibile «il segno del Figlio dell'uomo» (24,30). Egli arricchisce anche l'ultimo scenario con «la tromba sonora» e l'allusione a Zc 12,10, dove «tutte le tribù della terra si batteranno il petto>> (vv. 30-31). In conclusione, Matteo riprende interamente Marco ma lo arricchisce non solo nell'ultimo elemento («l'esortazione alla vigilanza, Mc 13,33-37), bensì lungo tutto il discorso. Anche per lui il culmine e la fine della storia è la venuta del Figlio dell'uomo in gloria. Questo momento, ben orchestrato già in 24,29-31 , troverà il suo pieno compimento nella visione collocata alla fine, in 25,31: «Quando il figlio dell'uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. . . >>. Poi si terrà il giudizio. «Matteo è serio>> (P. Vincent Mora). L'appello alla vigilanza in Marco viene chiari­ to a partire dalla prospettiva del momento del giudizio. L'ampliamento che Matteo introduce nel testo di Marco interpella il lettore/destinatario a livello del suo impe­ gno di vita: il tutto sarà deciso dal suo comportamento nei riguardi delle persone più povere e bisognose. Matteo si preoccupa anzitutto di questa autenticità della vita. A entrare nel Regno non sono coloro che dicono e diranno: «Signore, Signo­ re», ma coloro che avranno fatto la volontà del Padre (cf. 7,21-23 e tutto il contesto 7,13-27). Di fronte all'ultimo, ogni evangelista, anche là dove riprende ciò che ha ascol­ tato da un altro o ciò che ha scritto qualcuno prima di lui, si rivela così com'è. Forza, consolazione, serietà si alternano e si completano in una medesima esortazione alla grande vigilanza davanti a Colui che viene.

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La soluzion9: rt�t�ma setttmsna. ·Marco 1 1-1e

MARCO 14 -15. IL RACCONTO DELLA PASSIONE

Raccontare la fine della vita di Gesù è un compito letterario difficile. La sto­ ria è triste. La soluzione sfocia in un fallimento. Il protagonista sarà messo a morte in modo brutale e subirà un supplizio crudele e ignominioso. Certo Marco non è il primo a raccontare questa storia, e anche i suoi destinatari non ignorano l'esito tragico. Per loro non c'è più l'effetto sorpresa. Comunque sia, l'evangelista dovrà rendere conto, narrativamente, di uno scandalo: come mai un giusto ha potuto es­ sere eliminato in quel modo? L'economia della violenza, che attraversa il racconto e colpisce l'innocente, richiede un'abilità particolare per far sì che il racconto resti un minimo verosimile. Marco trasmette un racconto antico, recepito e già masticato molte volte, se­ condo il parere di tutti coloro che si sono chinati sul suo testo da due secoli. Egli riferisce l'eco di testimoni, fra i quali torna nuovamente e più spesso il nome di Pie­ tro, e là dove i testimoni hanno brillato per la loro assenza, si sono dovuti colmare i vuoti in modo coerente e plausibile. Mentre la prima metà del racconto si svolge nella cerchia degli amici e può quindi basarsi, con ogni probabilità, sulla testimo­ nianza dei discepoli, la seconda metà nella quale Gesù «è consegnatO>> ad altri ha potuto essere ricostruita solo grazie a testimonianze esterne alla cerchia dei disce­ poli, o anche creando del nuovo, per necessità. Il nostro commentario si concentrerà anzitutto sul lavoro dell'evangelista e sul suo modo di interpellare il suo destinatario attraverso gli episodi che racconta. La ve­ rifica della storicità degli avvenimenti è un esercizio a parte, già effettuato da molti altri.' Si può affermare che Gesù è stato crocifisso, non da solo ma con altri due, come confuso con loro, in quanto ribelle che avrebbe contestato il potere romano. Infatti è proprio il potere romano che lo ha giustiziato. Il titolo dell'accusa - «il Re dei giudei>> - racchiude la punta estrema del rifiuto del potere degli occupanti e della pretesa di essere colui che ha il diritto di regnare sul popolo giudaico. Perché i romani potessero giustiziarlo in questo modo, occorreva che fosse consegnato dalle autorità giudaiche a

1 Cf. specialmente gli studi di R.E. BROWN, La mort du Messie. Encyclopédie de la passion du Christ, de Gethsémani au tombeau, Paris 2005 (ed. or. americana 1994); S. LÉGASSE, Le procès de Jésus. L 'histoire (Lectio divina 156). Paris 1994; P. BENoiT, Passion et résurrection du Seigneur (Lire la Bible 6), Paris 1 966; J. BuNZLER, Der Prozess Jesu. Das Jiidische und das romische Gerichtsverfahren gegen Jesus Christus auf Grund der iiltesten Zeugnis.fe dargestellt und beurteilr. Regensburg 1951 , ed. ampliata '1960 (tr. fr. Paris 1962). Notiamo che sul piano letterario Raymond Brown si rifiuta di ricostruire un racconto deUa passione premarciano, ritenendo questo lavoro del tutto ipotetico. Per lui anche Marco si basa innegabilmente su tradizioni anteriori, ma avventurarsi a ricostruirle gli sembra un 'impresa troppo rischiosa.

Marco 14-15. Il racconto della Passione

713

Pilato, il governatore. Quest'ultimo, per la festa, si trovava appunto a Gerusalemme, mentre la sua residenza abituale era a Cesarea Marittima. L'autorità giudaica inter­ venuta non è certamente «tutto il sinedrio>>, nonostante l'affermazione dei racconti di Marco e di Matteo. Apparentemente, tutto è avvenuto in gran fretta, perché l'ese­ cuzione ha avuto luogo alla vigilia della festa. Azioni e parole del profeta di Galilea che screditava il Tempio hanno senza dubbio abbondantemente esasperato l'ambien­ te sadduceo, che ha reagito come ha ritenuto di dover e poter fare: consegnando Gesù al potere romano nella persona di Pilato, presente in quei giorni a Gerusalemme. Ecco a grandi linee l'essenziale del film storico più verosimile. Marco racconta com'è abituato a fare. Vari lettori saranno sorpresi nel veder tornare in questa grande sezione del racconto della passione gli stessi modelli di com­ posizione concentrica usati nei primi tredici capitoli. L'evangelista lascia quindi il suo segno in questa materia che è tuttavia decisamente tradizionale. Così vedremo anche che egli continua a formare i suoi destinatari attraverso la drammatizzazione dei ruoli: mediante effetti speculari il lettore si ritroverà più di una volta negli episodi raccontati. Se si leggeva effettivamente il racconto nella notte della Pasqua cristiana, tutte le al­ lusioni alla notte, alla Pasqua ebraica, alla veglia comune, al passaggio dal sabato sera alla domenica mattina, e ai due sacramenti del battesimo e dell'eucaristia, diventano notevolmente attinenti per gli ascoltatori: essi non ricevono forse il battesimo e non partecipano poi al banchetto eucaristico in comunità proprio sulla scia di questa veglia notturna, alle prime ore del giorno, il primo giorno della settimana?2

La composizione di Marco 1 4-1 5

n racconto della passione comprende due grandi unità: la prima che si svolge nella cerchia dei discepoli, incentrata attorno all'ultima cena con i Dodici, e la se­ Conda che ha il suo centro di gravità nel processo davanti a Pilato. La prima suddivisione (14,1-50) riproduce uno schema concentrico semplice, con le estremità che fanno inclusione, mentre lo stesso centro è disposto in modo simmetrico e antitetico (cf. i riferimenti a Giuda e a Pietro):

A. 14,1-11: introduzione (la strategia delle autorità giudaiche, l'unzione a Betania, il ruolo di Giuda) B. 14,12-16: la preparazione del pasto pasquale 17-21: annuncio del tradimento di uno dei Dodici C. 14,17-31: il pasto eucaristico: 22-25: il pasto 26-31: annuncio de,llo scandalo di tutti e del rinnega­ mento di Pietro D. 14,32-42: la veglia nel podere del Getsemani E. 14,43-50: arresto (Giuda giunge con una delegazione delle autorità giudaiche).

2 Cf. Composition, 498s e la raccolta delle testimonianze dei padri della Chiesa, 515-540. Per il luogo e il tempo del battesimo, cf. il dossier in W.J. CoNWAY, The Time and Piace of Baptism. A Histo­ rical Synopis and a Commentary, Washington 1 954 Fra i testi antichi più descrittivi ci si può riferire a La tradition apostolique 15-21, par B. BOTIE (SC llbis), Paris 21 968, 69-95 e a GIUSTINO, Apologia I, 6167, in Oeuvres complètes, Migne-Brepols, Paris 1994, 81-91. Cf. anche At 20,5-12, e la rilettura fatta più avanti, p. 872, nota l . .

714

La soluzione: l'ultima settimana. Marco 1 1-16

La seconda parte del racconto della passione (14,53-15,41) è composta da tre momenti: il primo racconta il processo davanti al sinedrio, inquadrato dal rinnega­ mento di Pietro; il secondo momento costituisce il centro e il culmine di tutta l'e­ sposizione: davanti a Pilato, con il concorso della folla e dietro istigazione dei capi dei sacerdoti, Gesù viene condannato a morte mediante crocifissione; il terzo mo­ mento racconta l'esito tragico della vicenda, con i soldati romani che crocifiggono il condannato. Schematicamente: l.

B.

A. Pietro segue da lontano Processo davanti al sinedrio A'. Rinnegamento di Pietro

14,54 14,55-65 14,66-72

II.

C. Processo davanti a Pilato

15,1-15

III. D. Esecuzione della condanna a morte

15,16-41.

Ritroviamo qui lo schema concentrico originale che Marco ha adottato pre­ cedentemente almeno cinque volte: ABA' C e 0.3 La cosa interessante in questo schema è che bisogna leggere l'elemento B come quello che prepara l'apice di tutto il movimento, situato in C. Così il processo davanti al sinedrio prepara il processo davanti a Pilato, dove tutti i partiti saranno riuniti e dove anche la folla entrerà in gioco per decidere della morte del protagonista. Questo apice è il momento in cui la violenza come volontà di morte, già all'opera fin dal capitolo 3 (v. 6: «[essi] com­ plottarono con gli erodiani per farlo morire») e chiaramente riaffermata fin dall'a­ pertura del racconto della passione (14,1-2: «[essi] cercavano come arrestare Gesù con l'inganno per ucciderlo» ), riesce finalmente a raggiungere l'obiettivo. Il seguito (15,20s) altro non è che la precipitosa soluzione catastrofica. Segnaliamo ancora i due racconti di transizione, collocati fra le due parti e alla fine della seconda: si tratta di Mc 14,51-52 (la fuga del giovane nudo), inserito alla cerniera delle due grandi parti, e di 15,42-47 (la sepoltura), episodio che fa il ponte con l'epilogo (16,1-8).4 Ciò che unifica queste due grandi unità concentriche in una sola sezione è, oltre all'azione drammatica in sé, il modo in cui Marco «tesse le estremità, mesco­ landole>>, secondo la formula ormai ben nota di Luciano di S�mosata. In realtà, nel racconto si pongono violentemente in contrasto due ambienti: quello dei discepoli e quello degli oppositori. Nella prima grande unità il centro si gioca nell'intimità più stretta, con Gesù che prende il suo ultimo pasto con i Dodici. Alle estremità di questa unità compare l'opposizione («i capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani>>, 14,1-2.10 e 43.53). Nella seconda unità il rapporto è invertito: al centro c'è il pro­ cesso davanti a Pilato, dove si riuniscono sia tutti i gruppi che compongono il sine­ drio sia la folla, ma dove non si parla dei discepoli. Alle estremità invece si parla di Pietro «che seguiva da lontano>> (cbrò f.LUKpo9Ev, 14,54) e delle donne ai piedi della

3 Cf. pp. 2ffls. L'elemento 8 (14,56-65), analizzato più da vicino, si rivelerà curiosamente compo­ sto secondo la stessa struttura (ABA' C e D). • Su questa tecnica di introduzione dei racconti di transizione, cf. pp. 137s. Marco 14-15. Il racconto della Passione

71 5

croce, «Che guardavano a distanza» (cbrò J..LaKp69ev 9ewpoooaL, 15,40); esse avevano seguito Gesù in Galilea ed erano salite con lui a Gerusalemme, esattamente come i discepoli (cf. 10,32-34). Questa alternanza dei due ambienti, quello dei discepoli (A) e quello degli oppositori (B), tesse tutta la sezione e l'unifica sia sul piano reto­ rico che su quello drammatico: B A A B A B 14,1 -50 14,53-1 5,41 Notiamo anche che l'inizio di ciascuna delle due grandi sequenze è costituito d a una serie di tre pericopi con inclusione, nelle quali i due ambienti si alternano: (B) 14,1-2: si ascolta la strategia dell'opposizione (A) 14,3-9: Gesù è nella cerchia degli amici a Betania (B') 14,10-11: si ritorna nel campo dell'opposizione, con Giuda che passa dall'uno all'altro. Inclusione (A) 14,54: Pietro si trova nel cortile (B) 14,55-65: Gesù è processato nel palazzo (A') 14,66-72: si ritorna nel cortile da Pietro, che rinnega il suo maestro.

Inclusione.

Infine, si può ancora far notare l'inclusione che compie il ruolo delle donne alle estremità di tutto il complesso. Al v. 3, a Betania, Gesù riceve da una donna l'unzione, che egli interpreta in relazione alla sua sepoltura: «Ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura>> (14,8). Alla fine del racconto, le donne vengono ricor­ date in relazione con la sepoltura e in vista di un'unzione che tuttavia non avver­ rà (15,41 .47; cf. 16,1-2). L'insieme di queste annotazioni conferma l'unità lettera­ ria molto elaborata del racconto della passione secondo Marco. Questa cura nella composizione è al servizio dell'iniziazione. Infatti la sottolineatura di questo con­ trasto fra i due ambienti interpella il lettore/destinatario: fino a che punto egli sarà disposto a seguire Gesù, qualunque cosa accada? La comparazione·con gli altri rac­ conti di Matteo, di Luca e anche di Giovanni farà risaltare questo tratto originale del racconto fortemente drammatizzato di Marco.

1 4, 1 -1 1 . Preludio o prologo del racconto della passione

Come Marco ha costruito un vero prologo in testa a tutto il suo racconto, così ha certamente redatto il prologo o preludio che si trova in testa al racconto della passione. I tre piccoli episodi che ha combinato informano il lettore sulle due facce della medaglia: ciò che tramano i rappresentanti dell'opposizione e ciò che medita Gesù nell'antivigilia della festa. Le tre pericopi sono disposte in modo da formare un'inclusione contrastata (ABA'): in A e A' ci viene mostrato ciò che avviene nel campo nemico; in B, ciò che avviene nell'ambiente immediato di Gesù. Il contra­ sto è violento: un bel gesto di tenerezza da una parte, violenza mortifera dall'altra. Come lettori, eccoci quindi doppiamente informati: le persone nel racconto igno­ rano ciò che tramano le autorità e che uno dei Dodici giocherà un ruolo in questo. Al tempo stesso, vediamo che Gesù sa dove va, lui che annuncia già la sua sepoltu­ ra e il fatto che avverrà senza unzione. La tensione fra i punti di vista del lettore e delle persone coinvolte nell'azione è di ordine drammatico, come ha ben mostrato 718

La

soluzione: l'ultima settimana. Marco 1 1-16

H. Lausberg.5 Su questo punto, l'arte di raccontare di Marco corrisponde perfetta­ mente a ciò che ha creato all'inizio del suo vangelo con il prologo ( 1 ,1-13), dove il lettore viene informato su cose che tutti gli altri personaggi del racconto, all'infuori del protagonista, ignorano. Il lettore viene tenuto con il fiato sospeso: quando nel racconto si apriranno gli occhi degli attori, quando scatterà il momento che Aristo­ tele chiama «riconoscimento» (avo:yvwpLo Lç)?

1 4,1 -2. La strategia degli oppositori

14,1-2: •H v 1iÈ= tÒ TTilOXO: Ko:Ì. tcl a(� iJ.EtcX 600 �!!Éf)Uç. ICaÌ. È(�TOW OL apxu:pE=i.ç KO:Ì. oL YPO:!LIJ.o:tE'iç nwç o:ÙtÒV Èv 66J..qJ Kpo:t�OO:VtEç U1TOKtE LVWOLV. �ÀEyov yap· Il� l=v tfl Èopt'fl , !1�1TOtE EOtO:L e6pupoç tOU Ào:OU. 14,1-2: «Ora en la Pasqua e gli Azzimi dopo due giorni, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di arrestarlo con un inganno per ucciderlo. Dicevano infat­ ti: "Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo"».

Il racconto della passione di Gesù in Marco comincia con un'annotazione cro­ nologica e uno spostamento nello spazio: si lascia la scena su cui opera Gesù per ritrovarsi nell'altro campo, quello degli oppositori. Questi cambiamenti di scena non sono frequenti in Marco: quando avvengono, segnalano in genere un nuovo inizio del racconto. Così in 3,20-21, con la famiglia di Nazaret (inizio della sezione che terminerà in 5,43), e soprattutto in 6,14-16, con Erode, che introduce al raccon­ to della passione del Precursore e apre la grande parte centrale di tutto il vangelo (6,14-10,52). In entrambi i casi si nota, come qui, una stessa breve parentesi, nella quale il narratore esprime ciò che si pensava e si diceva al di fuori della cerchia degli amici di Gesù: EÀEyov yap («Si diceva infatti», 3,21; 6,14.16). Il primo frammento della frase (14,1a) è un'annotazione cronologica assai cu­ riosa: «Ora era la Pasqua e gli Azzimi dopo due giorni». Non è una formulazione naturale per indicare il momento in cui avviene un episodio, poiché si pensa il tem­ po a partire da ciò che avverrà dopo due giorni. Certo il lettore sa che la festa sarà tragica, e il narratore lo prepara con una certa suspense: «ancora due giorni>>. Qui Marco è più narratore drammatico che storico. Sotto certi aspetti si può dire che le prime due parole CHv 6É) stabiliscono il legame con ciò che precede e le ultime tre (IJ.Età Mo �!!Épo:ç) con il seguito. Ricordando tutte le annotazioni cronologiche in Marco, a partire da 1 1 ,1.11. 19-20, si nota che in questo modo egli riesce a collocare tutti gli avvenimenti degli ultimi cinque capitoli nel quadro semplice e unificato di una sola settimana.6 E qui si entra negli ultimi tre giorni. La suspense è garantita.

5 Cf. LAUSBERG, Handbuch, § 1213, pp. 585-586: «Il pubblico può partecipare alla tensione dell'in­ formazione (Informationsspanne) (ad, esempio, in un romanzo poliziesco) o essere meglio informato (grazie a scene precedenti) di una persona del dramma. Quando il pubblico è più informato. si può ave­ re l'effetto di avvicinamento al momento del riconoscimento (die Anagnorisis) senza che quest'ultimo avvenga già nel racconto». Tutto questo è al servizio della drammatizzazione del racconto. • Cf. il riquadro su >. L'elemento nuovo rispetto agli enunciati paralleli precedenti è l'espressio­ ne «Con un inganno>> (Èv ooÀq>). Il «come» (rrwç) si precisa: «con l'inganno» (ò6Àoç, cf. ancora 7,22, dove l'inganno fa parte dei cattivi pensieri che «escono dal cuore» e «rendono l'uomo impuro>>). In questa antivigilia della festa di Pasqua, l'opposi­ zione, invece di purificarsi da ciò che rende impuro il cuore, alimenta pensieri mor­ tiferi. Lo scopo è quello di «Uccidere» (alrOKtE (Vt: LV, cf. 3,5; 6,19; 8,31; 9,31; 10,34: 12,5.7.8). Finora, a parte 6,19, a proposito del Battista, il verbo era comparso solo in bocca a Gesù, il quale annunciava ciò che gli sarebbe accaduto. Ora, evidentemen­ te, l'ora dell'esecuzione capitale è molto vicina. v. 2: «Dicevano infatti: "Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo">>. Il narratore verbalizza il loro ragionamento, nel quale si segnala, ancora una volta, che «la folla>> o «il popolo>> costituisce l'ostacolo principale all'azione (cf. 11,18.32 e 12,12). Così si crea un triangolo drammatico, analogo a quello incontra­ to all'inizio della passione del Battista: le autorità vogliono la morte di Gesù, come Erodiade quella di Giovanni, ma la folla, da una parte, ed Erode, dall'altra, impe­ discono la realizzazione di questi disegni di morte. Da una parte e dall'altra si af-

' Il testo di Paolo ai corinzi chiarisce molto bene l'usanza e il suo significato: «Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi . Infatti la nostra Pasqua, Cristo, è stato immolato. Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità» (l Cor 5,7·8). ' Ricordiamo, su tutto ciò che riguarda quest;l ricerca ambigua di Gesù in Marco, lo studio appro­ fondito di R. VIGNOLO, «Cercare Gesù: tema e forma del Vangelo di Marco>>, in L. GUA, Marco e il suo vangelo, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, 77-1 14. 718

La soluzione: l'ultima settimana. Marco 1 1-16

ferma che «la folla ascoltava (Gesù) volentieri» e che «Erode ascoltava (il Battista) volentieri» (12,37 e 6,19). «Non durante la festa». Questa precauzione crea una suspense ironica. Abbia­ mo appena sentito che mancano due giorni alla festa ! Passeranno all'azione prima della festa? In ogni caso nulla indica che siano disposti a temporeggiare e attendere la conclusione di tutte le festività, per cui si può supporre che cercheranno di agire in fretta, ancor prima della festa. L'ironia - che ogni lettore informato sull'esito del­ la vicenda non può non cogliere - è che Gesù sarà giustiziato grazie alla festa e con il concorso della folla {cf. l5,6: «A ogni festa (il governatore, Pilato] era solito met­ tere in libertà per loro un carcerato . . . »; 15,8: «la folla, che si era radunata, comin­ ciò a chiedere ciò che egli era solito concedere»). «> adotteranno e quando agiranno in assenza della folla, dato che fra due giorni comincerà la festa?

1 4,3-9. L'unzione a Betania

14,3: Kat 5noç aù-rou Èv BT]9av(Q: Èv -rfl oi.. dQ: 1:[fLwvoc; -rou À.Etrpou, Ka-raKHf!.Évou aù-rou �À.9Ev yuvi) Exouaa &MiJ31xa-rpov f!.Upou v&.poou trLanKf}ç troÀ.u-rEÀ.ouç, auv-rp[tjlaaa -r�v &MiJ31xa-rpov Ka:-rÉXEEV a:ù-rou -rf]ç KEa:À.f}ç. 14,3: «Ed essendo a Betania, in casa di Simooe il lebbroso, essendo adagiato a tavo· la, giunse una donna con un vaso di alabastro contenente un nardo puro, di grande valore. Rompendo il vaso, glielo versò sul capo».

Nuovo cambiamento di scena: Marco ci conduce nell'altro campo, quello del­ la cerchia degli intimi attorno a Gesù. Siamo a Betania, il luogo di ritiro di là dal monte degli Ulivi a est della città. È già stato segnalato che Gesù, tutte le sere, si ritirava là con i suoi discepoli (cf. 11,11.12.19). Questa volta l'informazione è più precisa: Gesù è ospite di , letteralmente (Èv -rfl oi..K LQ:), ed è a tavola con lui. Strana messa in scena: Gesù che ha lasciato definitiva­ mente il Tempio si ritrova presso un uomo che, in quanto lebbroso, era escluso dal Tempio. Questa vicinanza a un uomo che è stato certamente lebbroso, ma non lo è più - chissà, forse proprio grazie a Gesù? - e questo nel villaggio di «Betania>> (che significa letteralmente: «casa del povero>>), non può non colpire il lettore. Più che spiegare, Marco evoca. Il contrasto è innegabile e certamente voluto. Dove cercare Gesù? Egli si nasconde. Dove? A Betania. Presso chi? Presso Simone il lebbroso.9 Tutti questi elementi riuniti avranno la loro importanza nel seguito del racconto,

9 Conosciamo dal Talmud babilonese il dialogo spesso citato fra rabbi Giosuè ben Levi e il profe­ ta Elia all'ingresso della tomba di R. Simon ben Johai: «lo gli chiedo: quando verrà il Messia? -, Vaglielo a chiedere, (dice la voce]. - Dov'è? - Alle porte di Roma. - Da quale segno lo riconoscerò? - E in mez,

Marco 14-15. Il racconto della Passi

,

719

quando si discuterà su ciò che si sarebbe potuto «dare ai poveri». Ma la simbologia del luogo e dei nomi propri invita anche a riflettere sul luogo ecclesiale: fin dall'a­ pertura del racconto della passione, Gesù, «il santo di Dio», non ha altro luogo in cui stare se non in compagnia dei poveri - dei lebbrosi e degli esclusi. Kal OV'toç auwu . . . Ka'taKH�tÉVOU auwu («ed essendo a Betania . . . , essendo adagiato»). Questi due genitivi assoluti, accostati l'uno all'altro in modo asindetico, sono una costruzione non molto felice che sorprende. Alcuni hanno subito pensa­ to a due fonti o a una fonte arricchita con un intervento redazionale per collocare l'episodio a Betania. Taylor (530) trova questa spiegazione , indicando il recipiente �tl>pov, Vlipooc;, «nardo» troÀ.u'tÉÀ.T)c;, «prezioso>> (cf. lTm 2,9; lPt 3,4) trLOnKoc;, «molto puro>>, di qualità eccellente, affidabile, non adulterato (una delle interpretazioni di un termine raro, cf. Gv 12,3). Ella «rompe>> (ouvrp(ljlaoa) il collo del vaso in alabastro: non si può non sen­ tire l'effetto irrimediabile di questo primo gesto. Il vaso non viene semplicemente «aperto>> ma «rotto>>, cosa certamente necessaria in base ai vasi del genere ritrovati negli scavi archeologici. Ma l'espressione scelta non è priva di forza. Il gesto evo­ cherebbe il carattere irrevocabile della morte, come nell'ultimo poema di Qoelet? Là si leggono quattro immagini successive, ognuna delle quali evoca la fine della vita:

zo ai miseri colpiti da ogni sorta di piaghe. Gli àltri disfano (tutte le bende] in una volta, poi le rifanno; lui, le disfa e le rifà a una a una, perché pensa che potrebbe dover partire senza indugio» (bSanh 98a). 720

La soluzione: l'ultima settimana. Marco 1 1-16

Prima che si spezzi il filo d'argento, e la lucerna d'oro si infranga, e l'anfora si rompa (ouvrpt�fl) alla fonte, e la carrucola cada nel pozzo . . . (Qo 12,6).

Poi la donna versa il contenuto sulla testa di Gesù (nei testi paralleli di Gio­ vanni e di Luca si legge: «SUi piedi»). L'unzione del capo ricorda le unzioni e le con­ sacrazioni di re, profeti e sacerdoti nell'Antico Testamento. All'inizio del racconto della passione il protagonista viene unto per essere in grado di affrontare la prova che lo attende. È una delle azioni elencate nell'analisi dei racconti popolari fatta da Vladimir Propp e conservata da Louis Marin.10 Questa osservazione arricchisce la lettura drammatica del racconto: il gesto lascia prevedere che il protagonista riusci­ rà a vincere il nemico o a superare le prove che incontrerà sul suo cammino. Il gesto compiuto, senza alcuna spiegazione della sua motivazione, non può non incuriosire e interpellare. Il commento che segue immediatamente sollecita il lettore a porsi a sua volta la domanda: ma che ci sta a fare qui? Nulla esclude che abbiamo a che fare con un ricordo storico e, dato il contesto, un ricordo di un ge­ sto affettuoso da parte di una persona che ama e sufficientemente benestante da potersi procurare un vasetto così prezioso e un profumo così raro. La successiva tradizione colora maggiormente il racconto di Marco, dando un nome alla donna e anche a chi esprime il suo stupore e il suo biasimo. Si tratta di complementi ba­ sati su un'informazione storica fedele? È praticamente impossibile saperlo. Certo, l'autore/editore del quarto vangelo poteva conoscere meglio di Marco la cerchia di amici di Gesù a Betania, permettendogli così di colmare certe lacune della narrazio­ ne di Marco. Ma considerando attentamente le cose, non ci si può liberare dall'im­ pressione che egli riscriva a modo suo - tendenzioso - ciò che ha trovato nella fonte scritta di Marco o degli altri sin ottici. Abbiamo prove sufficienti per concludere che egli redige questo passo (Gv 12,1-8) come se fosse stato in qualche modo testimone diretto dell'episodio in questione? In Marco non apprendiamo nulla riguardo a ciò che spinge la donna a compie­ re quel gesto: nessun pentimento, nessuna supplica, neppure una parola su ciò che prova nei riguardi del Maestro. Il gesto basta a se stesso. Ogni commento cerca di sondarne tutta la profondità. Il primo commento annotato dal narratore ci invita, al di là della rilettura un po' falsata, a leggere bene ciò che viene raccontato. 14,4-5: tiaav OÉ n�ç &yaVIXK'touvn=ç 1TpÒç Éau'to\)ç , Etc; 'tL � U1TWAHII IIÌJt'll 'tOU 1-LUpou yÉyovEv; s,)ùuva'to yàp 'touto 'tÒ 1-LUpov 1Tpa9f)vaL E:mivw ùrwap(wv 'tpLUKOOLWV KUÌ. oo9f)VIXL 'toLç 1T'tWXO'ì.ç KIXÌ. EVE�P LI-LWVtO UÙ't'fl. 14,4-5: «Ora ve n'erano alcuni che si indignarono Ira loro: "Perché questo spreco di profumo? Questo profumo poteva essere venduto per più di trecento denari e dato ai poveri!". Ed essi la maltrattavano».

10 Dopo l'unzione, L. Mario nota: «L'eroe riceve prima delle prove il segno che lo qualifica ad af­ frontarle, anche se questa qualifica non riguarda tanto, secondo Propp e Greimas, la prova principale, la crocifissione, quanto piuttosto la prova immediatamente successiva, quella del sepolcro e della Risur­ rezione» (L. MARIN, Sémiotique de la Passion. Topiques et figures [BSR], Paris 1971, 41). a. V. PROPP, Morphologie du come, Seuil, Paris 1970, 65.

Marco

14-15. 11 racconto della Passione

721

v. 4: «Ora ve n'erano alcuni che si indignarono fra loro»: Tjo11v Of. nllfç (cf. 2,6!) à:yllVIlK'!OÙV'!Eç (cf. 10,14, Gesù contro i discepoli) TTpÒç ÉllU'!OIJç (cf. 1,27; 9,10; 11,31). La critica sorge in modo impersonale, ma non si rivolge direttamente a Gesù. Marco, come abbiamo visto in tutta la sezione 2,1-3,6, cura la qualità dei dialoghi, distinguendo con acutezza in ogni momento chi si rivolge a chi. Alla fine, dirà chiaramente che essi se la prendono con lei: (v. 5). >, del quale essi hanno individuato la qualità superiore e persino stimato il prezzo: «per più di trecento denari». «Dare ai poveri» (cf. 10,21, dove è Gesù a rac­ comandare la cosa all'uomo ricco . . . ). Lane ricorda che si tratta di una pratica ebrai­ ca molto onorata negli ambienti religiosi, specialmente all'avvicinarsi di feste come Pesach: si tratta di permettere anche ai più poveri di partecipare pienamente alla festa (cf. mPes 9,1 1 ; 10,1 ; Gv 13,29, dove alcuni credono che, per ordine di Gesù, Giuda vada a «donare ai poveri», la vigilia della festa di Pasqua). Come valore, il denaro in Mt 20,2 corrisponde al salario pattuito per una giornata di lavoro: questo viene subito accettato dall'operaio e non deve essere necessariamente considerato il salario minimo. Può trattarsi di un salario molto buono che, quando viene offerto, pone fine a ogni discussione. Perciò «più di trecento denari» corrisponde al salario di un anno di lavoro! Si potevano quindi aiutare alcune decine di famiglie povere in vista della festa ormai imminente . . . Dal punto di vista del narratore, la critica è il segno di un 'incomprensione, nei riguardi sia della donna sia di Gesù e della sua sorte. Vi si può accostare l'episodio dei discepoli quando si portano dei bambini al Maestro. Là è Gesù a «indignarsi>> (stesso verbo) contro i discepoli (10,14). Come valutare giustamente la critica? È fondata, pertinente? O bisogna rico­ noscervi un grave fraintendimento nella rilettura del gesto? La logica che calcola, che converte il valore e conferisce una destinazione utilitaristica diversa da ciò che si è appena > sono piuttosto numerose nel Vangelo di Marco e ogni volta si delinea un movimento.18 Il padrone di casa può ritornare, specialmente «la sera» (olJtÉ), diceva l'ultima parabola ( 1 3,3 5) . Bisogna vegliare. La comunità di Marco non può non sen­ tirsi interpellata: essa veglia, la sera, nella settimana degli Azzimi. . . Gesù arriva (ÉPXEtaL ) , al presente storico, raccontato in primo piano sulla sce­ na. Con i Dodici. Né più, né meno. Sobrietà stilistica. Grande concentrazione. Se­ rietà dell'ora. v. 18. Si è distesi, «adagiati>> a tavola (cf. 14,3, a Betania), secondo l'usanza ellenistica, posizione particolarmente raccomandata per la notte di Pasqua: al con­ trario della vita da schiavi vissuta in Egitto, in quella notte, notte dell'Esodo, si te­ stimonia con lo stesso modo di stare a tavola di essere uomini liberi, perché liberati. «Gesù»: risuona nuovamente il suo nome proprio, con risalto, introducendo la sua prima parola della serata. L'apertura è marcata, persino solenne: «In verità io vi dico>>. Normalmente questa introduzione originale e tipica interviene verso la fine di una serie di parole di Gesù. Qui si trova stranamente in testa, con qualcosa di

" (òljl(o:ç) 1,32; 4,35; 6,47; 1,17; 15,42; cf. anche 11,11.19; 13,35 (òljl€). La soluzione: l'ultima settimana. Marco 1 1-16

provocatorio. Rispetto al contesto immediato, notiamo che Marco colloca così tre parole nel trittico dell'ultima cena introdotte dallo stesso 'A11�v 'AÉyw u11'ì.v («in ve­ rità io vi dico>>). La prima parola viene a controbilanciare l'ultima, quella relativa al traditore e al rinnegamento di Pietro (v. 30: «tu, oggi [ . . . ] mi rinnegherai tre volte>>). Per lo più, praticamente sempre, le parole introdotte in questo modo mirano, al di là del contesto preciso del racconto, al presente della comunità di Marco. «Uno di voi>>: designazione molto diretta, ma al tempo stesso aperta. È rivolta a ciascuno dei Dodici intorno alla tavola. Come lettori, noi conosciamo ciò che gli Undici, tranne Giuda, ancora ignorano (cf. vv. 10-1 1). Ma la frase interpella anche il lettore al di là dell'informazione di cui dispone. Questo «uno di voi>> è ulterior­ mente determinato da «che mangia con me». Ogni discepolo di Gesù che pratica abitualmente il rito eucaristico può sentirsi preso di mira. «Mi consegnerà>> (mxpaùwon l-'E). «Consegnare>> e «tradire», l'uno nell'altro, con come conseguenza ultima la morte, come il testo ha continuato a ripetere, fin dalla prima occorrenza del verbo in 1,14 («dopo che Giovanni fu consegnato>>) e lungo tutti gli annunci del destino del Figlio dell'uomo (cf. soprattutto 9,31: «il Fi­ glio dell'uomo è consegnato nelle mani degli uomini ed essi lo uccideranno>>). Nel bel mezzo del pasto e all'inizio del dialogo, ecco risuonare questa parola tanto so­ lenne quanto terribile, che prende di mira in un primo tempo tutti e ognuno. 14,1 9-21: �pçavro 'AunE'ì.o9aL Kal 'Af.ynv aùt>, cf. l 0,22, l 'uomo ricco); Ò:ÒTJ!-lOVEI. v ( 14,33, «tormentarsi>>); auUulTOUfJ.EVoç («rattristarsi>>, 3,5). L'evangelista rende questi sentimenti con in­ tensità, in modo forte e conciso. M�n Èyw («Non sono io [però]?»). A turno, fanno tutti la stessa domanda a Gesù. Il narratore racconta in modo drammatico ed esemplare: ogni lettore può identificarsi con ciò che fanno qui i discepoli. Secondo Marco, ogni discepolo è po­ tenzialmente un traditore. Deve trattarsi di una questione esistenziale nella sua co­ munità, nel contesto romano, dopo la dolorosa esperienza delle persecuzioni sotto l'imperatore Nerone, a metà degli anni 60. è abbandonare la comunità e particolarmente entrare a far parte degli ambienti dei giudei che, a Roma, sono in buoni rapporti con le autorità romane. Gli , di cui Marco parla 2 volte, sono proprio un ambiente del genere a Roma. Secondo Taylor, il M�n Èyw non è

Marco 14-15. Il racconto della Passione

737

tanto una domanda quanto piuttosto un modo di discolparsi l'uno dopo l'altro: «Su­ rely it is not 1». Ma chi cerca di storicizzare in questo modo il passo, non trascura la forza drammatica del testo di Marco? Quest'ultimo attribuisce ai discepoli messi in scena un ruolo esemplare che deve servire da specchio al lettore.19 v . 20: É�m:E LV, «immergere>>, unico caso in Marco (sconosciuto dalla LXX, ripreso da Mt 26,23). Tpu�hov, «piatto, coppa>>, unico caso in Marco (ripreso in Mt 26,23). Con B e alcuni altri manoscritti, bisogna conservare l'enfasi dell'articolo nu­ merico: «lo stesso piattO>>, E tc; rò €v rp0{3hov. Questo genera una ricca attrazione retorica fra l Et c; all'inizio e l�É v alla fine, e questi effetti sono al servizio della stra­ ziante drammatizzazione del passo. Infatti, la designazione diventa ancor più precisa e tuttavia il nome proprio di «Giuda>> non compare ancora. Si possono infatti comprendere le precisazioni in modo aperto, applicandosi a tutti e a ciascuno, per cui continua a essere assoluta­ mente possibile l'identificazione del lettore con colui che è preso di mira. L'espres­ sione «uno dei Dodici» segnala che la possibilità del tradimento appartiene alla cer­ chia più ristretta degli amici di Gesù. Se questo è potuto accadere con uno di loro. può accadere, a maggior ragione, a chiunque viene dopo di loro e si dichiara disce­ polo di questo stesso maestro. «Chi mette con me la mano nello stesso piatto>>. Il gesto diventa concreto e alcuni (cf. Swete, 333) pensano alla salsa fatta con datteri. uva e aceto, secondo l'usanza per il pasto del Seder pasquale. '

v.

21 :

OtL ò ,J€v vlòç roi) av6p6Jrrov imliyE L Koc9wc; yÉypOC1T'tOCL 1TEpÌ OCÙ'tOÙ, oùaì OÈ rQ av6pW1T(JJ EKELV(JJ OL' où b vi.òç roi) av6pwrrov 1TOCpOCOLOO'tOCL' KaÀÒV OCÙtQ Et OÙK ÉyEv.nl9TJ O av6pW1TOt; ÉKELVOt;. L'ultima frase che conclude questa prima parte del trittico è particolarmente curata sul piano letterario e debitamente ponderata sul piano filosofico. Le tre pro­ posizioni sono saldamente articolate l'una sull'altra: un (rarissimo) f.LEV OÉ (cf. 12,5 e 14,38) unisce le prime due, mentre una forte opposizione oùa( . . . KOCÀ.ov uni­ sce la seconda alla terza. La prima riguarda il destino del «Figlio dell'uomo», collo­ cato in cima alla proposizione, l'ultima parla di «quell'uomo>>, collocato alla fine. In mezzo si trovano i due, in ordine inverso, creando così un chiasmo: (a) A. «Il Figlio dell'uomO>> . . . «il Figlio dell'uomo>> (b/a') B. «quell'uomo» C. «quell'uomo>> (b') La prima proposizione parla della morte del Figlio dell'uomo (egli «Se ne va»), l'ultima della nascita di quell'uomo. Il verbo al centro, che governa tutta la relazione fra i due uomini, è di nuovo questo stesso grande verbo «consegnare» (1YapaOLOo'tocL), al presente e al passivo (cf. 14,10-11 e 14,18). Il modo di ogni frase è diverso: in A si sottolinea il carattere necessario di ciò che deve avvenire; in B si tratta di un lamento a proposito di quell'uomo; in C la frase formula, sotto la forma di un'irrealtà, una constatazione. . • •

19 Il quarto evangelista, che ha tutt'altro rapporto con la figura di Giuda, non giunge a dire né a far dire a tutti: «Sono forse io?». Egli crea una messa in scena ne!la quale Pietro interroga Gesù, attraverso il discepolo amato, che è al posto d'onore vicino al Maestro. E lui a porre la domanda a nome di Simon Pietro: e assicura a questa persona l'aiuto di Dio: >, colui che «mangia con me» (v. 1 8, o Èo9(wv l-'Et '€1-1ou) e «mette con me la mano nello stesso piatto» (v. 20)? Ora egli si comporterà «da traditore», perché mi «consegnerà». Il salmista dice: «il mio pane>>. Nel racconto di Mar­ co il pane offerto sarà indicato con una prossimità ancora più commovente: «Prendete: questo è il mio corpo>> (v. 22). Marco ha creato una pri�a contrapposizione fra la donna anonima che viene a ungere Gesù sulla testa, mentre alcuni a tavola protestano che si sarebbe potuto dare l'equiva­ lente «ai poveri», e già si avverte un'allusione possibile al nostro salmo: ella è colei che, spargendo il profumo, «pensa al povero», e in seguito Gesù assicura, come nel salmo, che sarà ricompensata: il suo nome, associato a quello del vangelo, si diffonderà nel mondo intero. Una seconda contrapposizione in Marco, presente anche nel nostro salmo, mette in sce­ na l'amico che tradisce. Nei due passi s.i vede quest'ultimo «Uscire>> e «Uscito fuori, spar­ lare>>, per «consegnare>> il suo maestro «nelle mani dei nemici». Una caratteristica al di sopra di tutte le altre lo indica come «colui che mangia il mio pane». Ora, dopo che Gesù ha designato colui che lo tradirà come «colui che mette la mano con me nello stesso piat­ to>>, interviene la frase esplicativa (iln): «> (v. 25). Le allusioni allo stesso salmo avvicinano i due pasti, rinforzando l'idea già formulata che il primo sia il preludio del secondo. Sappiamo che il quarto vangelo citerà alla lettera il v. lO di questo salmo applicandolo direttamente a Giuda (Gv 1 3,18). Soprattutto la tradizione liturgica orientale ripeterà questo salmo durante gli uffici del Sabato santo, in base a questa stessa applicazione giovannea. Più originale è la costante interpretazione dei padri della Chiesa, per i quali «il povero>> di cui si parla nel v. 2 è Cristo. «Beato chi pensa al povero» è la beatitudine di chi visita Cristo nei poveri, secondo la visione di Mt 25 («Ero povero, malato, carce­ rato e voi mi avete visitato») e questo salmo viene compreso alla luce dei testi chiave di Paolo: «Da ricco che era, si è fatto povero» (cf. 2Cor 8,9; cf. Fil 2,5-7), «da forte si· è fatto debole», da Dio si è fatto uomo, da immortale è diventato mortale, e sapiente ha accettato di diventare folle. Si è «svuotato» (Fil 2,6). Perciò «la sua debolezza è diven­ tata la nostra forza, la sua umanità la nostra divinità, la sua follia la nostra sapienza, la sua povertà la nostra ricchezza, la sua mortalità la garanzia della nostra immortalità» (così in particolare Agostino, nel suo commento del salmo in questione [PL 36,454s ]). 24

23 Il tennine mEpVLOil6ç compare solo due volte nella LXX , cf. 2Re 10,19 e Sal 40(41),10: «He magnified his going-behind-the back against me, he gave me a grave stab in the back, he dealt treacher­ ously with me>> (J. LusT et al., A Greek-English Lexicon ofthe SeptwJgint, Part Il, Stuttgart 1 996, 410). 24 C. JEAN-NESMY, La Tradition médite le Psautier chrétien, 2A: Psaumes l à 71, Téqui 1973, 177180 (177).

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La soluzione: l'ultima settimana. Marco 1 1-16

1 4,22-25. L' ultimo pasto

Ora Marco descrive ciò che avvenne durante il pasto, in modo conciso, senza la pretesa di raccontarci tutto ciò che può essere accaduto ma solo l'essenziale, che conserva un'utilità permanente per coloro che ne fanno memoria. Nel suo linguag­ gio risuonano certe formule liturgiche tradizionali, molto ebraiche ma anche già ben radicate nella pratica cristiana, come la successione dei quattro verbi: «Prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede» (cf. la corrispondenza certamente non casuale con Mc 6,41 e 8,6-7, in occasione delle due moltiplicazioni dei pani). I gesti sono semplici, raccontati in modo sobrio, persino spoglio, ma non senza inten­ sità. Tre parole forti accompagnano i gesti, una in relazione con il pane, l'altra con il vino e la terza, che conclude tutto solennemente, prolunga la riflessione in un av­ venire assoluto, quello del regno di Dio. In realtà, si può sviluppare un triplice livello di ascolto del passo: l) scoprirvi il linguaggio rituale un po' stereotipato, che è certamente la cosa più evidente (cf. il punto di comparazione con lCor 10-1 1 ); 2) percepirvi l'eco di ciò che è avvenuto una sola volta, in modo storico. Que­ sto livello è presente, unico e incontestabile, ma la ricostruzione dei gesti compiuti e delle parole pronunciate è molto difficile, se non impossibile; 3) rileggere il passo in relazione con ogni pasto, chiedendosi meravigliati se ogni pratica dell'assumere cibo, compiuta benedicendo il suo Nome, non contenga una risonanza sempre pertinente e sconvolgente di questa parola: «Questo è il mio corpo». 14,22: Kat Èa9u)v-rwv aù-rwv A.apWv &p-rov EÙÀ.oy,Paç EKÀ.aOEV Kat EOWKEV aù-roi.c; Kat ELnEv, Aa�HE , -rou-r6 Èatw -rò o>. Si tratta di un'azione rituale. Per comprendere il rito - che nella sua ricezione attuale si riferisce alla morte e risurrezione, all'ultima comunicazione di Gesù nella Pasqua sulla croce - è necessario risalire al significato basilare che queste parole hanno potuto avere all'origine, al momento dell'ultimo pasto? Riconosciamo che questo resta un limite: se è possibile ricostruire questo significato, con una qualche felice verosimiglianza, tanto meglio. Ma non dimen­ tichiamo che il rito non esaurisce il significato, bensì offre una traccia nella quale possono trovare posto vari significati, in particolare quello che la storia si sforza, con probabilità, di ricostruire. l) EÙÀ.oy�aaç, «dopo aver recitato la benedizione>>. La relazione con Dio, espres­ sa secondo la tradizione, è pienamente rispettata. Il frutto della terra, il prodotto delle nostre mani, in definitiva tutto viene da lui: sia perciò benedetto. Rito, riflesso, dispo­ sizione mentale e orientamento di tutto l'essere, questo gesto di «benedire>> esprime

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la semplicità e la grandezza di colui che presiede a tavola. Il gesto più quotidiano, come quello di prendere del pane, e il gesto più eccezionale e unico, come quello della morte, si incontrano, si equilibrano misteriosamente, mentre potrebbero mol­ to facilmente contrapporsi e abolirsi a vicenda. Grandezza di continuare a benedire Dio in articulo martis, come si può vedere nel martirio di rabbi Aqiva, che riprende lo Shema' nell'ora del sacrificio della sera e muore pronunciando il nome di Dio, l'UNo ('ehad). Spesso a nostra insaputa, il rito è una scuola per affrontare un giorno l'Ora: la morte ha bisogno di essere vissuta come assunta nella relazione che esprimeva, per quanto possibile, il rito. U la morte perde il suo dardo. Quali rischi si corrono quando più nessun rito accompagna la vita, il levarsi e il coricarsi, il pasto e gli SJ?OStamenti? 2) «(Lo) spezzò e (Io) diede loro» {EKÀaOEV K«Ì. EOwKEV airro1 ç). E il gesto del padre di famiglia. Non è quindi un gesto improvvisato, come se, sorprendendo tutti. durante il pasto Gesù prendesse il pane e compisse il gesto (cf. alcuni film che cer­ cano di rendere la scena). Gesù compie un gesto codificato: si tratta dell'inizio del pasto in famiglia. Il padrone di casa benedice e spezza il pane che ognuno riceve in silenzio. Dopo, ciascuno mangia a suo modo. Lo stupore dei discepoli di Emmaus consiste proprio nel fatto che a tavola Gesù fa il gesto non dell'ospite accolto ma del padre di famiglia che accoglie. È lui il vero padrone di casa. È il Signore! 3) «Prendete, questo è il mio corpo» (Acijk=tE, touto Éanv tÒ OW(..Ltt (..LO U). Gesù compie un gesto e poi gli conferisce un significato. Questo modo di fare cor­ risponde a ciò che si faceva, e si fa ancora, durante il pasto pasquale. La Hagga­ dah tradizionale inserisce dei dialoghi nei quali i più giovani fanno delle domande: perché questa sera? Perché questo pane speciale, queste erbe amare, questo uovo sodo? E il padre di famiglia fa comprendere, spiega e ricorda tutta la storia del po­ polo. I primi esempi di questo tipo di dialogo con il figlio che chiede si trovano già nella Torah: cf. Es 6,20 e Dt 13,14 («Quando domani tuo figlio ti domanderà . . . >> ) . «Questo è il mio corpo». Gesù dà da mangiare. «Venite, bevete! Venite, man­ giate!». Dio, il profeta o la Sapienza a nome di Dio parlano in questo modo (cf. Is 55,1-3, dove con questo gesto di dare da bere e da mangiare si parla anche di un'«al­ leanza» eterna e di favori «promessi a Davide»; Pr 9,3-6: Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che ho preparato»; Sir 24,19: «Venite a me . . . e saziatevi dei miei prodotti»). «>. Al tempo in cui Marco scrive, sembra un po' difficile da dimostrare. Ricor­ diamo che Filone e Giuseppe Flavio se ne servono abbondantemente, per lo più con una connotazione religiosa (così W.L. Knox, citato da Taylor, 359). Marco varia le sue espressioni e il termine scelto qui è un termine recepito nel linguaggio religioso del suo tempo. Ha potuto difficilmente prevedere la carica tipicamente cristiana che questo termine avrebbe acquistato nel corso delle generazioni. «E la diede loro e ne bevvero tutti>>. Doppia sorpresa: la parola sulla coppa non segue immediatamente il gesto; il narratore sottolinea che ne bevvero tutti. Così quest'ultimo elemento acquista una certa enfasi. Questo «tutti>> contrasta con «uno di voi» (vv. 18 e 1 9), ma anticipa le tre occorrenze di «tutti>> nel paragrafo successivo (v. 27: «tutti sarete scandalizzati>>, «anche se tutti, io no!>>, v. 29, e «lo

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stesso dicevano tutti», v. 31). Perciò tutti sono associati, coinvolti, inseriti in questo contratto bevendo alla stessa coppa, anche Giuda. Questa insistenza è propria di Marco e accresce l'intensità drammatica del suo racconto. La forza dell'enunciato proviene dal contesto: uno di loro tradirà il Maestro e tutti saranno scandalizzati. Benché avvertiti, faranno ciò che è annunciato, «tutti». E nonostante questa pre­ scienza, Gesù si dona e Marco sottolinea che li associa tutti al suo dono. Sul piano rituale Gesù non si accontenta di benedire la coppa che ha preso in mano, ma la fa circolare fra tutti perché ne bevano. Di solito nel giorno di festa ognuno disponeva di una coppa. Qui Gesù parla di un digiuno personale e permet­ te a ciascuno di bere alla sua coppa. Questo gesto, distinguendosi dal rito abituale. esprime con forza la dimensione contrattuale del bere in questo modo da parte dei discepoli. Si sente risuonare la domanda posta ai due figli di Zebedeo: «Potete bere alla coppa che io devo bere?». Così si evoca con chiarezza nella sua forza di alleanza e di comunione il rito eucaristico conosciuto dai membri della comunità e, su questo punto, diverso dal normale rito giudaico: «e ne bèvvero tutti». Terminata l'azione, Gesù riprende la parola. Spiega, fa comprendere, fa nuo­ vamente ciò che si soleva fare in famiglia durante il Seder della Pasqua. 14,24-25: KOCÌ. E tnEv ocìrro'i ç , Tofrr6 Èonv tò oct1-1&. f.LOU tf)ç o toc8�KTJç tÒ ÈKXUVVOf.LEvov tmÈp 'ITOÀÀWV. 25àj.I�V 'AÉyw Uf.LLV on OÙKÉt L où �-�� 'ITLW ÈK tOU YEV�j.IOCtoç tf)ç àj.L'ITÉÀOU EWç tf)ç i}.LÉpaç ÈKELVT]ç otav aùtò 1TLVW KaLVÒV Èv ttJ 13aoLÀE L� tOU 8Eoù. 14,24-25: «E disse loro: "Questo è il mio sangue, il sangue dell'alleanza, che sarà versato per la moltitudine. In verità, io vi dico che non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui berrò il vino nuovo nel regno di Dio"». vv. 24-25. Una doppia parola viene a chiudere il pasto con questi gesti com­ mentati. La prima parola commenta il giro della coppa alla quale tutti hanno bevu­ to. La seconda annuncia un digiuno temporaneo, fino alla venuta del Regno. «Questo è il mio sangue>>. Il parallelismo con «questo è il mio corpo>> è piutto­ sto evidente, anche se il seguito sviluppa una riflessione del tutto assente dalla pri­ ma parola. Dicendo: «Questo è il mio sangue>> si ratifica l'idea della morte: corpo e sangue, distinti e separati, esprimono la morte, come nei sacrifici. Il sangue contiene la vita (cf. Lv 17,10-14). Il sangue, «VersatO>> o «Sparso» (ÉKXUVVOj.LEVOV, unico caso in Marco), significa la morte accettata, il sacrificio previsto e come già compiuto. Gesù dà il suo sangue, comunicando con il sangue la sua vita. La lettura rischia di tradire gravemente il senso del testo e la portata del gesto di Gesù se presenta que­ sto gesto come se Gesù invitasse i suoi a «bere» il suo sangue. Il realismo eucaristico dei secoli successivi non si è sentito a disagio su questo punto, mentre ogni ebreo sa che è assolutamente vietato (cf. il ritornello lungo tutto il trattato dei sacrifici nel libro del Levitico 1-7). Anche per un pagano questo costituisce un divieto, uno dei sette precetti di Noè, secondo la stessa tradizione ebraica (cf. Geo 9,4-6), e la comunità cristiana non pensa diversamente quando, a Gerusalemme, si riunisce e afferma solennemente che i pagani convertiti dovranno rispettare questa regola (At 15,29: , ànÉXE08at a (f.Latoç ).25 '

'5 La tradizione giovannea rivela la stessa sensibilità, ma invece di premunirlo contro ciò che era percepito come ripugnante e vietato, scandalizza volutamente il destinatario, sottolineando con reali744

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Questo sangue viene presentato come «il mio sangue dell'alleanza» e come «Versato per la moltitudine». La prima formulazione è complicata, a causa del pos­ sessivo che si è introdotto nell'espressione tradizionale: «Sangue dell'alleanza»: tò at� J.lOV tfìç OLa9�KTJç. Il «sangue dell'alleanza» rinvia come tale al momento in cui Mosè conclude l'alleanza al Sinai, versando il sangue in parte sull'altare e in parte sul popolo, unendo così quest'ultimo a Dio. Cf. Es 24,8: «Questo è il sangue dell'alleanza», i.ooù tÒ aliJ.(l tfìç OLa9�KTJc;; (cf. del resto l'allusione a questa alle­ anza in Zc 9,1 1 , con una formulazione analoga: «a causa dell'alleanza conclusa con te nel sangue>>, K«L où Èv a't!J.O:t l ÒLa8�KTJç . ).26 Nel testo parallelo di Luca e nella tradizione di Paolo, così come la trasmette ai corinzi, si tratta di un'«alleanza nel mio sangue>>: Tof>to tò not�pLov � KO:LvTJ OLa8�KTJ Èv tc.\ì «LIJ.O:tL IJ.OU (Le 22,20; cf. in lCor 11,25 la leggera variante per esprimere il possessivo del «mio>> sangue: Tof>to tÒ not�pwv � K«LvTJ OLa8�KTJ Èottv È v tc.\ì È!J.c.\ì a'tiJ«tL, «questa coppa è la nuova alleanza nel mio sangue>>). Questa espressione evita la cruda equivalenza fra la coppa e il sangue, e sottolinea che «bere alla coppa>> significa celebrare un'al­ leanza decisiva con Dio, come nel caso della prima alleanza. Del resto in Marco, e anche in Matteo, l'alleanza non viene ulteriormente specificata, come si può leggere invece in Luca e Paolo, dove si parla di «nuova alleanza>> (Le 22,20; 1Cor 11,25), con un'allusione molto verosimile al grande testo di Ger 31, citato due volte nella Lette­ ra agli Ebrei, la più lunga delle citazioni dell'Antico Testamento nel Nuovo: «Ecco, verranno giorni [ . . . ] nei quali concluderò con la casa di Israele un 'alleanza nuova>> (cf. Ger 31,31 -34; Eb 8,10s; 10 1 6s). Alleanza di perdono e alleanza di conoscenza intima della Legge, ormai inscritta nei cuori. In Marco, l'espressione «il mio sangue dell'alleanza>> qualifica l'atto del bere alla coppa come l'atto dell'ingresso nell'alleanza con Dio, impegnandosi al tempo stesso a seguire Gesù nel suo abbandono fino alla morte, il momento in cui egli versa il suo sangue. Comunicando al suo dono di sé si comunica all'alleanza con Dio. La seconda precisazione conferisce al gesto una portata universale: «per la moltitudine>>. Già in Mc 10,45 avevamo incontrato un'espressione che conferiva al gesto del «Servire>> un'apertura che riguardava, anche in quel caso, l'universale. Lì si diceva: «Il Figlio dell'uomo è venuto per servire e dare la propria vita in riscatto per la moltitudine>> (òLaKovfìoaL Kat òouvaL t�v \jlux�v aùtou Àutpov &vtt noUwv, 10,45). Il noUo( in greco rinvia, qui come in 10,45, a una moltitudine che com­ prende tutti senza distinzione. Si discute se vi sia un'espressa allusione a Is 53 (vv. 11-12) sia in Mc 1 0,45 sia in Mc 14,24. Si discute anche se questa intuizione di una dimensione universale attribuita al gesto di abbandono risalga a Gesù stesso o cor­ risponda piuttosto al commento della comunità cristiana. Il meno che si possa dire è che il gesto di Gesù è stato considerato un dono che egli ha fatto coscientemente, convinto della sua positività, ben al di là del gruppo dei suoi discepoli. Attraverso questa povertà accettata, questo particolarismo estremo dell'emarginazione, della messa al bando della comunità, fino alla morte, ha avuto un irradiamento univer. .

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smo che si tratta di «masticare il corpo» (Tpwyew, verbo molto crudo, «masticare, divorare, mettere sotto i denti») e di «bere il sangue>> (6,56). Questo realismo estremo è al servizio deU'inten.sità della re­ lazione con Cristo morto e risorto, vissuta nel rito del pasto eucaristico. 26 Al di fuori delle parole dell'istituzione eucaristica ( Mc 14,24; M t 26.28; Le 22,20; lCor 11,25), si trova questa espressione del «sangue dell'alleanza» o «alleanza nel mio sangue» solo nella Lettera agli Ebrei (cf. 9,20; 10,29; 13,20). La riflessione sull'alleanza «nuova » e in Gesù percorre tutti i capitoli 7-13 della lettera (13 volte il termine «alleanza>>, out9�K1]). Marco 14-15. Il racconto della Passione

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sale. Consiste in questo tutto il paradosso della croce, e un pensiero del genere, se esiste da qualche parte nell'Antico Testamento, si trova, oltre che nei salmi, special­ mente in questo quarto canto del Servo sofferente di Isaia (Is 52,13-53,12). L'intu­ izione qualitativa del dono gratuito ed estremo fatto da Gesù nella notte della sua morte resta il punto focale di ogni affermazione cristologica. Paolo, servendosi del paragone dell'amicizia, invita i suoi lettori romani a condividere il suo stupore di fronte al gesto di Gesù: «A stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona>>. Scrivendo queste parole, egli evoca il punto più alto della teoria antica sull'amicizia: morire per il proprio amico. dare la vita per colui con il quale si è in alleanza di nobiltà e virtù. Ma meditando sulla morte di Gesù in croce, Paolo è costretto a riconoscere che il «morire per>> si estende ben al di là e abbraccia anche il nemico che è stato lui, Paolo di Tarso: «Ma la prova che Dio ci ama è che Cristo, mentre eravamo ancora peccatori, è morto per noi>> (Rm 5,7 8). È morto per gli empi, è morto per noi che eravamo privi di forza, ci ha riconciliati con Dio quando ancora eravamo nemici e peccatori. Attraverso almeno quattro formulazioni più o meno equivalenti l'apostolo cerca di dire fino a che punto, in Gesù, Dio ci abbia amati e ristabiliti nella sua alleanza di pace. Non occorre dire che la seconda metà del v. 24 è molto carica, rielaborata, gonfia di allusioni: vi si può leggere lo sforzo della tradizione primitiva di colloca­ re l'avvenimento nel concerto dei grandi testi profetici, per permettere di accedere nuovamente all'avvenimento in sé e alla sua giusta portata. Comunque, praticando il rito per tutta la vita, bisogna lasciarsi profondamente coinvolgere dall'universa­ le, identificandoci con lui, poveri con il Povero: egli è il crogiolo, il simbolo, il sa­ cramento per eccellenza - luogo in cui il divino e l'umano si toccano e vivono uno scambio che è senza fine. v. 25: «In verità, io vi dico che non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui berrò il vino nuovo nel regno di Dio>>. Questa parola conclusiva è introdotta con la formula forte che ritorna ben tre volte in questo trittico di Mc 14,17-31 (cf. vv. 18 e 30). Qui la parola riguarda anzitutto lui. Egli parla di un digiuno: «Non ber­ rò più del frutto della vite>>. Ogni digiuno raffigura una !DOrte. Tuttavia il digiuno è temporaneo: la morte non durerà per sempre. Si tratta di un vino «nuovo>>, bevu­ to «nel regno di Dio>>, che si presenta come una festa, addirittura un banchetto al quale, «adagiati>> a tavola, si beve vino. Questa immagine è ricorrente nel pensiero di Gesù, non solo nelle sue parabole («>, cf. Mt 22,2-10; Le 14,15-24; Mt 25,1-12; Le 12,35-38; ecc.), ma anche in vari logia o frasi isolate (cf. Le 13,28-29: «Voi vedrete Abramo, Isacco, Giacobbe e tutti i profeti nel Regno» . . . e insieme ad altri , conservato nel Targum Neofiti,27 pre­ vedeva, oltre alle tre notti del passato, quella del futuro assoluto, la notte della fine -

27 Cf. pp. 26 e 479.

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dei tempi. Si suppone che lo stesso gesto della frazione del pane, ogni volta che lo si compie, conservi questa apertura e questo rinvio alla Pasqua ultima e definitiva. Nella formulazione, si è colpiti dal rilievo che acquista la categoria del tem­ po: oÙKÉn où IJ.�, Ewç •flç 'IÌIJ.Épa;ç ÉKE LVIlç o.-av . . («mai più . . . fino al giorno in cui . . .»). Si viene spontaneamente rinviati a Mc 2,20-22: là si parlava dello «Sposo che è presente», poi che . l'amico di Dio (Zc 13,7). La profezia annuncia le conseguenze di questo atto: in un primo tempo, «le pecore» saranno «disperse>> e «persino due terzi saranno stermi­ nati>>, ma alla fine ci sarà un resto che sarà salvato e che «invocherà il mio nome e io l'ascolterò; dirò: "Questo è il mio popolo" ed esso dirà: "Il Signore è il mio Dio">> (Zc 13,9). Questa profezia è inserita in un libretto di tre capitoli (Zc 12-14), che ha come quadro liturgico la festa escatologica delle Capanne (Zc 14,16-20) e come 748

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luogo geografico il monte degli Ulivi (Zc 14,4). Questo contesto ampio di Zc 13,7 rende ancora più pertinente la parola citata: Gesù si reca con i suoi a questo monte degli Ulivi, luogo della manifestazione del giudizio finale (cf. Mc 13,1-4). :EKavoaho8�Eo9E: . . . OLfXOKopmoe�oov'taL, «tutti rimarrete scandalizzati» (cf. 4,17; 6,3; ecc.) . . . «essi saranno dispersi» (unico caso in Marco, tratto dalla citazio­ ne della LXX). I due verbi con le loro metafore distinte si richiamano a vicenda. Il fatto che il pastore sia percosso causerà la dispersione delle pecore, ma la profezia non mira solo a spaventare, né in Zaccaria né nella sua ripresa da parte di Gesù nel vangelo. Come nella profezia di Zaccaria l'ultima parola è quella della vittoria, così qui, nell'annuncio di Gesù: «Dopo la mia risurrezione, vi precederò in Galilea». L'immagine del pastore si prolunga nel verbo «precedere>> (TipooyHv), camminare davanti (cf. 6,45; 16,7; in Marco 5 volte in tutto). «In Galilea>> (E Ì.ç 't'Ì'jV raÀLÀa.Lav). L'avvenire del racconto è la Galilea, espressione ellittica che indica in realtà «il di­ stretto dei pagani» (galil ha-goyim, cf. ls 8,23, citato in Mt 4,15). Alla fine del rac­ conto questo termine verrà richiamato tale e quale dal giovane nel sepolcro. Là risuonerà come l'ultima parola e come l'ultima prospettiva di tutto il vangelo (Mc 16,7). Questo dimostra l'importanza di questa parola di Gesù nell'economia narra­ tiva di Marco: già qui Gesù annuncia ciò che costituirà l'aldilà della fine, non solo dopo la sua morte, ma anche oltre la sua risurrezione. Due versetti prima, in 14,25, egli parlava del banchetto nel Regno; ora qui, ricorrendo ad altre metafore, parla dell'azione che il pastore eserciterà nei riguardi dei suoi dopo la sua morte e risur­ rezione. Questo duplice enunciato rafforza la stessa idea: la morte non avrà l'ultima parola (cf., al centro del vangelo, come 8,38 sia ripreso e rafforzato in 9,1). Il riferimento alla Galilea può essere interpretato in due modi complementari. «La Galilea» è anzitutto il luogo in cui alcuni - specialmente Pietro - hanno visto il Risorto. Qui («dopo la mia risurrezione>>) e in 16,7 («là lo vedrete») il riferimento è in relazione con un momento postpasquale e con un avvenimento di natura vi­ sionaria o di apparizione. L'insieme del Nuovo Testamento attesta che Pietro ha conosciuto un momento del genere («è apparso a Cefa», «è apparso a Simone>>) e la scena in riva al lago, descritta in Gv 21, potrebbe conservare proprio il ricordo di un Pietro che è ritornato alle sue reti dopo la morte in croce del suo maestro, ma che un mattino, al termine di una notte di pesca infruttuosa, ha incontrato il Risor­ to. Questa esperienza gli ha dato la forza di integrare nella sua visione messianica lo scandalo della morte in croce. In Galilea Pietro, in seguito a questa esperienza pasquale, ha ripreso in mano la situazione e ha «confermato i fratelli>> (cf. Le 22,32: , profezia ex eventu). Il gregge disperso si è ricostituito attorno a lui e alla sua testimonianza. Ma «la Galilea» significa anche l'orizzonte aperto verso le nazioni, un'espe­ rienza fatta nella prima comunità e collegata, come qui, all'una o all'altra parola di Gesù. Questo dato dell'esperienza ecclesiale poteva basarsi a sua volta sulle Scrit­ ture. Si pensi a Is 8,23-9,6, citato da Mt 4,15-16, senza dimenticare Ez 47,8 nella versione greca, dove si dice che l'acqua salvifica che sgorga dal Tempio scorre verso oriente e ), ma in parte anche al presente: >. Egli è sicuro di sé e questo lo induce a parlare senza troppo riflettere. squalificando incidentalmente tutti gli altri. Alcuni versetti dopo, Gesù pregherà chiedendo che si allontani da lui questa coppa. Sa che tutto è possibile per Dio. ma aggiunge: «Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tU>> (14 36 : à.U' oò tl Èyw 9ÉJ..w à.Uà. tL ou). Diversamente dalla sicurezza di Pietro, qui risuona un «non io, ma tU>>. La dichiarazione di Pietro contiene in sé un pizzico di minaccia e quindi già una parte di skandalon che tuttavia non è né riconosciuto né confes­ sato. Varie volte, nella narrazione di Marco, Pietro è il maggior nemico di se stes­ so. Si ostacola da solo, perché volendo salvarsi non permette all'altro di salvar/o. Ogni formazione non dovrebbe forse consistere nella produzione di un atteggia­ mento inverso, come quello indicato da Paolo quando scrive: «È quando sono de­ bole che sono forte. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo>> (2Cor 12,9-10)? Dichiarazioni così perentorie di fedeltà o di solidarietà non mancano nelle Scritture. Basta vedere come Ruben si impegni con suo padre a riportargli Benia­ mino vivo (Gen 42,37: «Farai morire i miei due figli, se non te lo ricondurrò>>). O ancor più, quando Davide lascia la città risalendo il pendio del monte degli Ulivi. il cronista ricorda la reazione di solidarietà di alcuni amici, e anche di stranieri. come Ittai di Gat (2Sam 15,18-23). Il nuovo Davide si trova in realtà negli stessi luoghi. v. 30. Per la terza volta dal v. 17 risuona questa formula originale di Gesù, che inizia con Amen, «in verità». Qui essa è rivolta unicamente a Pietro («a te>>, aoL). ,

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Mentre i vv. 18 e 29 riguardano i discepoli, il versetto centrale 25 si riferiva a Gesù stesso. Al centro la prospettiva si apriva sulla festa; alle estremità l'avvenire pre­ visto è molto vicino e riguarda il tradimento dell'uno e il rinnegamento dell'altro. > e «portare la propria croce», che è una metafora per esprimere la volon­ tà di «morire con lui>>) chiarisce la portata di questo passo con il ruolo altamente drammatizzato del primo degli apostoli. Marco pensa al discepolo che sta per en­ trare nelle acque battesimali e gli fa prendere coscienza di ciò che implica un tale impegno. ÉÀUÀE L («diceva»), all'imperfetto come una protesta ripetuta. «Morire con>>: la frase è ambivalente, nel senso che colui che dice queste parole con tanta forza, da una parte rinnegherà comunque il suo maestro, e ben 3 volte, proprio nella notte che viene, ma dall'altra subirà anche una morte come quella del suo maestro, al­ trettanto violenta. Il lettore/destinatario di Marco a Roma conosce tutto il seguito della storia e comprende queste parole fino in fondo: per lui, Pietro è colui che ha rinnegato, ma anche colui che è letteralmente «morto con>> il suo Maestro e il suo Signore, in nome della propria fede in lui. . Per woa:ut� («allo stesso modo») cf. anche Mc 12,21. Bella finale esemplare: tutti si associano alla protesta di Pietro, che all'inizio si era distinto dagli altri affermando: «Anche se tutti sono scandalizzati, perlome­ no io no!». L'espressione è concisa, forte, tanto più dolorosa per il fatto che meno di venti versetti dopo si sentirà affermare e si potrà leggere: «E, abbandonandolo. tutti fuggironO>> (Ka:t à.ÉvtEç a:\rrò v Euyov 1Tavn:ç, 14,50)! La distanza fra que­ sto 1Tavn:ç ElEyov e questo Euyov 1TUV'tEç è minima e quasi irrisoria. E allo stesso modo la parola di Gesù su Pietro si realizzerà non molto dopo questa fuga collettiva (cf. Mc 14,72: «e subito, per la seconda volta, un gallo cantò . . . »). li racconto evangelico richiede un coraggio da eroe? O si può trovare nel suo spazio spirituale un posto anche per l'antieroe? Pietro incarna diverse possibilità che si contrappongono e così il suo personaggio offre a ogni lettore/uditore il modo di ri­ conoscervisi. Pietro non è forse il bell'esempio di chi, per primo, confessa l'identità messianica di Gesù (8,29)? E non è anche un modello esemplare quando qui afferma di essere disposto a «morire con Cristo»? Ma è anche colui che si è scandalizzato e lo ha rinnegato. Come il cieco di Betsaida, è uno che ha avuto bisogno di una seconda imposizione delle mani «per vedere tutto chiaramente» (8,24-26). È al tempo stesso eroe e antieroe, forte e debole, e in definitiva, per ogni lettore/destinatario, una figura esemplare anche nella sua debolezza: ci rivela un Cristo che lo riprende al suo segui­ to, nonostante tante resistenze e dubbi {cf. 8,33-34 e 9,2). Il racconto evangelico propone un ampio ventaglio di possibilità nelle reazio­ ni dei personaggi: qui, è nella cerchia degli intimi che il narratore mette in risalto i due ruoli di Giuda e di Pietro, analoghi e tuttavia diversi. Nella grande sezione pra­ tica sulla sequela Christi (Mc 9,30-10,52) abbiamo visto in successione l'uomo ric­ co, Pietro, Giacomo e Giovanni, poi i dieci e infine Bartimeo reagire al messaggio esigente di Gesù trasmesso dal racconto. Il lettore viene continuamente invitato a coinvolgersi nel gioco delle identificazioni selettive. Alcuni esempi sono in definì752

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tiva decisamente negativi, come quello dell'uomo ricco, altri spiccano per la loro bella generosità fino in fondo, come quello del mendicante cieco Bartimeo, altri ancora, infine, sono ambivalenti. La conclusione resta la stessa: più libero e più ra­ dicale è il dono di sé, più profondo è il contatto con Gesù e più decisiva sarà la tra­ sformazione del soggetto da parte della buona novella. Va da sé che questo aspetto della narrazione di Marco si adatta perfettamente al progetto iniziatico che abbia­ mo proposto per comprendere l'insieme del testo. II trittico di Mc 14,17-31, con al centro l'ultima cena (vv. 22-25), ricorda sotto molti aspetti la sezione centrale di tutto il racconto evangelico (Mc 8,27-9,13), e spe­ cialmente i passi in cui Gesù, riconosciuto nella sua identità messianica, insegna tutte le implicazioni di questo riconoscimento per il discepolo (8,32-35). Non lasciamoci troppo sorprendere da questa grande convergenza: questo trittico è, in realtà, il cen­ tro di tutta la prima metà del racconto della passione (14,1-50) e questa parte si svolge essenzialmente nella cerchia dei discepoli. Nel momento in cui racconta uno dei due riti fondamentali del cammino cristiano, Marco insiste un 'ultima volta su tutto ciò che implica l'impegno a seguire Gesù. Battesimo ed eucaristia richiedono uno stesso totale abbandono della persona, il che equivale alla disponibilità a , che significa «torchio delle olive» ed è da collocare su uno dei pendii del monte degli Ulivi (tradizionalmente ai piedi del monte, appena di là dal Cedron, venendo dalla città).29 Xwpl.ov, «campo, terre­ no, podere>>, unico caso in Marco, cf. At 1 ,18; 4,34; 28,7 (i terreni di Publio a Mal­ ta). Giovanni Marco, cittadino di Gerusalemme, poteva conoscere personalmente il luogo e il suo nome. «Sedetevi qui mentre io vado a pregare>>. Loro devono sedersi «qui» (Krx9 l.arxtE wùE ) mentre lui va un po' più lontano a pregare. ewç, normalmente costruito con &v (cf. 6,10; 6,45; 9,1), con il senso di «per tutto il tempo in cui pregherò>> (e non «finché abbia pregato>>, nota Lagrange). In ogni caso questo comando è un po' sorprenden­ te: perché non pregare insieme? A che cosa corrisponde questa messa in scena, così articolata? Ci troviamo davanti a due cerchi. Si tratta di una struttura di tipo inizia­ tico o di un modo per specificare la cerchia degli amici, la habourah, come si diceva? ,

28 a. il nostro studio «Crying "Abba" and Saying "Our Father". An lntertextual Approach to the Dominica) Prayer», in Jntertextuality in Biblica/ Writings. Essays in honour of B. van /erse/, by S. DRA­ ISMA, Kampen 1 989, 1 4 1 - 1 58; Io., La prière, Québec 2002, 1 58-174. 29 11 quarto evangelista (Gv 18,1-2) non nomina il luogo, ma lo colloca «di là dal torrente Cedron» e ne parla come di un «giardino» (Kfìnoç). Segnala anche che Gesù vi si recava spesso con i suoi discepoli (il che giustifica il rapido arrivo di Giuda).

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Essere seduti è una posizione che la tradizione monastica del deserto (cf. gli Apof­ tegmi del V secolo) valorizzerà come posizione orante e meditativa. Un fratello fa visita a un altro fratello ed essi trascorrono il tempo in silenzio, seduti. Meditano nel loro cuore, vegliando e occasionalmente intrattenendosi su ciò che hanno meditato. Quando il Maestro è in preghiera e ci invita a restare seduti, che fare se non restare svegli e aperti alla sua segreta preghiera solitaria? Non si parla, si evita che le no­ stre occupazioni disturbino in qualche modo la sua preghiera. Si rispetta a tal punto la sua preghiera che si partecipa a essa con la semplice attenzione del cuore. Perciò alcuni pregano a distanza, nel silenzio di un timore reverenziale, senza parole. Altri possono seguirlo ancora per un tratto e penetrare maggiormente nel segreto della sua vita di preghiera, ed esserne i testimoni privilegiati. La messa in scena dram­ matica riflette gli stadi di ogni vita di preghiera. Cominciamo con il sederci, perse­ veranti nel silenzio e a distanza. Marco ci porge uno specchio, come aveva già fatto in 1,37-39 (Gesù solo in preghiera, sul monte, mentre Simone parte a cercarlo con i suoi compagni) e in 6,45-52 (dove i discepoli sono ugualmente distanti, separati da Gesù nella loro barca sul lago, mentre lui è sul monte da solo, in preghiera). Questi due punti di comparazione, sempre nella.notte, aiutano a stimare il valore di questo primo comando: «Sedetevi qui». v. 33. In un secondo tempo, egli separa dal gruppo degli Undici i tre testimoni privilegiati: «Pietro, Giacomo e Giovanni». Questo modo di fare non è nuovo: in 5,37.40 (per la risurrezione della figlia di Giairo) e in 9,2 (in occasione della trasfi­ gurazione ), ma anche in 13,3 (per il discorso escatologico, dove ai tre si aggiunge Andrea), Gesù si è comportato allo stesso modo. Il verbo 1TO:pO:la1J.131iVHV ( «pren­ dere>>) ricorre spesso in Marco ed è tipico di lui: qui esprime la forza dell'iniziativa presa da Gesù (cf. 4,36; 5,40 [con gli stessi discepoli]; 9,2 [gli stessi tre]; 10,32, «i Do­ dici»). Riducendo il cerchio, il narratore aumenta la concentrazione e ciò che segue guadagna in intensità. Si intensifica il carattere esoterico della comunicazione. Così si sollecita il lettore/destinatario a prestare maggiore attenzione. Comunque il fatto che siano tre assicura la qualità della testimonianza. Secondo la Torah bisogna es­ sere «due o tre» perché un messaggio diventi credibile. Marco ha ricevuto ciò che racconta e qui il suo testimone privilegiato è ancora una volta Pietro. Del resto, in seguito Gesù lo interpellerà personalmente con il suo nome originario: (v. 37). Per il nostro evangelista è significativo che gli stessi discepoli che sono stati testimoni del suo potere sulla morte (risuscitando una bambina) e della sua gloria propriamente divina sul monte, siano testimoni anche della sua doloro­ sissima agonia al Getsemani. In Marco non c'è traccia di un qualsiasi docetismo. Inoltre, per lui la croce e la gloria, la sofferenza umana e la vittoria gloriosa sono inseparabili. Su questo punto, egli è l'erede diretto di Pietro, per il quale Gesù è al tempo stesso il Messia e colui che doveva soffrire. Non siamo lontani neppure dall'eredità di Paolo, quando si leggano i primi tre capitoli della Prima lettera ai Corinzi. Colui che è la nostra sapienza e la nostra forza è anche follia e scandalo a causa della croce. vv. 33b-34. I tempi dei verbi si alternano: presente storico («egli prende con sé»), poi aoristo («Cominciò a sentire paura . . . »), poi di nuovo il presente (). Gioco di variazioni su ciò che avviene in primo piano sulla scena (presente) e ciò che avviene più sullo sfondo (aoristo). ÈKeo:IJ.I3Elaeo:l («essere pieno di paura», verbo forte, che solo Marco usa nel NT, cf. 9,15; 16,5.6; cf. anche eo:IJ.I3E1aeo:l in 1,27 e 10,24.32, pure assente nel resto del NT). Finora in Marco erano gli altri ad avere paura. Ora è Gesù stesso a freMarco 14-15. Il racconto della Passione

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mere. à:BTJIJOIIE'LV («essere inquieto, angosciato», unico caso in Marco; cf. Fil 2,26, passo intriso di emozioni). Il narratore insiste sull'emotività che permea Gesù in quest'ora. Vuole certamente impressionare il lettore/destinatario per indurlo a par­ teciparvi. Ma si trova anche davanti a una tradizione: sia nella Lettera agli Ebrei sia in Giovanni si ricorda un Gesù emozionato, che ha pianto e persino gridato nella sua angoscia: - «Nei giorni della sua vita terrena egli offri preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva sal vario da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio di Dio . . . >> (Eb 5,7-8). - «Adesso l'anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest'ora?» (Gv 12,27, che si ispira certamente a Mc 14,33-34 e paralleli). In tutti e tre i casi, Marco, Ebrei e Giovanni vogliono sottolineare che Gesù è stato uomo fra gli uomini, solidale con la nostra condizione fino in fondo. Per l'au­ tore della Lettera agli Ebrei, proprio attraverso la sua sofferenza Gesù ha testimo­ niato la sua solidarietà e comunione con noi, suoi «fratelli di sangue e di carne>> (Eb 2,14.17), mentre per la sua santità è stato interamente «di Dio>>. Egli scrive ancora: ecco «il sommo sacerdote che ci occorreva>>: interamente con noi attraverso la sua sofferenza e interamente di Dio attraverso la sua santità. Giovanni, in questo ca­ pitolo 12, riuscirà a fondere in un unico racconto l'episodio della trasfigurazione e l'agonia dei sinottici (cf. Mc 9,2s e Mc 14,33s): colui che è emozionato, avendo «l'a­ nima turbata», è il Verbo fatto carne che manifesta la sua gloria di Figlio. L'ultimo elemento dell'episodio è la conferma da parte della voce dal cielo: «L'ho glorificato e lo glorificherò ancora!», poi l'affermazione personale: «Innalzato da terra [cioè sulla croce e nella gloria divina] attirerò tutti a me» (Gv 12,28.32). (1TEpLÀmr6c; €anv � ljrox� IJ.OU EWç ea.vkrou). L'espressione è ripresa dal linguaggio dei salmi e special­ mente dal ritornello del Sal 42-43(41-42),6: '[va t( 1TEpLl..u1roc; EL ljrux� Ka.Ì. '[va t( a uvta.paaaE Lç IlE (>. Il Salvatore supplica per essere salvato, «risparmiato>>.34 Non si tratta di un movimento superficiale di rinvio o di un tentativo di schivare l'ineluttabile, ma di una preghiera che cerca di scoprire come la volontà di Dio si compirà per mezzo di lui e attraverso di lui. Se c'è salvezza per noi, è in lui, passando da lui e da dove egli ha accettato di passare. Noi siamo salvati «passando attraverso di lui», secondo la preposizione forte che si trova nel primo testo cristiano che ci è pervenuto: «Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio per mezzo di Gesù (ùul. toù 'IT)aoù) radunerà con lui coloro che sono morti» (lTs 4,14). v. 36. Ci troviamo davanti all'unica preghiera di Gesù in Marco, prima del suo ultimo grido dall'alto della croce ( «Eloi, Eloi» e il seguito). Preghiera esemplare per ogni discepolo, preghiera fondamentale nella quale si gioca la grande libertà di fronte a Dio e alla morte. Certamente ricordo storico preciso e unico, ma anche anamnesi e realtà sacramentale che permette di raggiungere ciò che era all'origine. Ka.Ì. EÀEyEv («e diceva»), all'imperfetto. Ora il narratore passa al discorso diretto e la formula che introduce le parole è breve, ma, a causa dell'imperfetto, ampia: ciò che segue è fondamentale e ha un valore duraturo. Paolo, riferendosi a questa stes­ sa invocazione «Abba>>, si serve del verbo «gridare>> (Kpli(wv, cf. Gal 4,6; Rm 8,15), e la Lettera agli Ebrei ricorda che Gesù ha pregato il Padre «con forti grida» (!J.Etèt Kpa.uyf]ç tcrxupiiç, Eb 5,7). Gesù si rivolge a Dio in aramaico, invocandolo come «Pa­ dre>>. Il termine viene subito tradotto in greco, con l'articolo, il che è un po' sorpren­ dente per un'invocazione al vocativo, ma non eccezionale all'epoca (stesso fenome­ no in Gal 4,6 e Rm 8,15). Secondo Stanislas Dockx, questa tradizione è tipica delle comunità che parlano greco. Il nome era certamente invocato due volte in aramaico: «Abba! Abba!>>.35 La tradizione ermeneutica ebraica interpreta la doppia invocazio­ ne come segno di fiducia e di amore (hesed) nella relazione, mentre l'invocazione semplice significherebbe che ci si pone con timore sotto l'attributo del rigore (din). Nel Vangelo di Marco, i casi in cui Gesù indica Dio come «Padre» sono sorprenden­ temente rari (cf. 8,38; 11,25 e 13,32). Solo a partire dalla testimonianza dei quattro vangeli e di Paolo si può concludere che Gesù viveva la sua relazione con Dio in modo privilegiato, come una relazione filiale. A volte questa invocazione è stata in­ terpretata in modo molto intimistico, come se dicesse «papà>> a Dio, e alcuni vi hanno intravisto una delle caratteristiche più originali della vita interiore di Gesù.36 È possi­ bile. Franchezza, fiducia, libertà filiale, intimità: è difficile precisare tutte le sfumature

34 Cf. il testo parallelo, già citato, di Gv 12,27: «Adesso l'anima mia è turbata; che cosa dirò. Pa­ dre salvami da quest Ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest'ora! Padre, glorifica il tuo figlio!,., -" Cf. S. DocKx, «La genèse du "Notre Père" replacée dans le cadre de l'histoire», in lo., Chrono­ logies néotestamentaires et vie de l'Église primitive. Recherches exégétiques, Leuven 21984, 299-308 (300, n. 1). 36 Cf. specialmente lo studio di J. JEREMIAS, Abba, Gottingen 1966, 63. Cf. poi soprattutto le pro­ fonde pagine di E. HAENCHEN nel suo commentario di Marco, Der Weg Jesu, Berlin 21968, 492-494, quin­ di la ripresa dell'intero dossier filologico e le prudenti conclusioni in J.A. FrrzMYER, > (Gv 1 8,1 1 ). Tuttavia Giovanni non parla di alcuna agonia di Gesù nel giardino. Come abbiamo visto sopra, ha ripreso e trasferito que· sto passo al capitolo 12. Marco 14-15. Il racconto deifa Passione

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&:U' où t( Éyw 9ÉJ..w ma non ciò che io voglio &:.Uà t( ou ma ciò che tu L'ultima proposizione è redatta con grande intensità: si noti il doppio &:J..Mi («ma» ), l'Éyw enfatico («iO»), poi l'elemento finale senza alcun verbo, ma il sempli­ ce pronome ou («tU») come ultima parola. La persona dell'Altro, nel suo faccia a faccia più semplice, viene nominata senza alcuna qualificazione, neppure il verbo «volere» che resta implicito (comunque sempre aggiunto nelle nostre traduzioni moderne della Bibbia).39 L'ultima parola è questo «tU» e basta. Ecco tutta la formula di preghiera, breve ed esemplare, che va dalla lode all'abbandono e alla confessione, dall'«Abba» ripetuto fino al «tU» senza altra qua­ lificazione.40 Il movimento passa attraverso la franchezza della domanda per ter­ minare nella scomparsa del «per se stesso». Alla fine resta solo la presenza del Tu divino. Il passaggio è dell'ordine di una morte, di un attraversamento di sé che in­ contra l'istinto di conservazione e, misteriosamente, accetta di attraversarlo senza cedervi. In questa obbedienza all'Altro nasce il Figlio. L'autore della Lettera agli Ebrei sembra aver contemplato, più di chiunque altro nel Nuovo Testamento, que­ sto momento trasfigurante: « È lui che, nei giorni della sua carne, avendo presenta­ to, con forti grida e lacrime, delle preghiere e suppliche a Colui che poteva salvarlo dalla morte, ed essendo stato esaudito a causa della sua pietà, pur essendo Figlio, imparò, da ciò che patì, l'obbedienza» (Eb 5,7-8). La sofferenza è stata una scuola per il Figlio. Pietà e obbedienza sono le quali­ tà mediante le quali ha superato la prova. Il nostro autore afferma che questa filia­ zione, così vissuta, coincide con la sua consacrazione sacerdotale: «Reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote secondo l'ordine di Melchisedek» (Eb 5,9-10). Il participio tEÀ.E LW9E (ç («reso perfetto») è il termine tecnico per indicare la consacrazione sacerdotale. Il sacerdozio è la grande metafora di tutta la lettera, il modo per esprimere tutto il movimento presente in Gesù nell'ora della sua morte liberamente accettata, «Una volta per tutte». ll segreto di questa «Consacrazione sa­ cerdotale» è l'atto salvifico unico del suo abbandono nella morte. Ora una preghiera come quella di Gesù abita il cuore di ogni battezzato, se­ condo l'insegnamento di Paolo (cf. nelle lettere la menzione del grido «Abba», in Gal 4,6 e in Rm 8,15, già citati). Il testo di Marco, circa venticinque anni dopo, si ricollega a questa stessa tradizione iniziatica che, come pratica, non è certamente un'invenzione di Paolo, ma una delle tradizioni che egli ha ricevuto e trasmesso an­ che in Galazia, e che egli suppone conosciuta anche a Roma. Nella sua Regola, s. Benedetto ricorda che questo grido abita il cuore di ogni monaco, specialmente nel faccia a faccia obbediente con il padre abate, scoperto nella fede come «Cristo>> e «Padre>>. La preghiera del Getsemani, ricapitolata nella sua formula più concisa in Pa­ olo - appena un nome ripetuto: Abba , verrà sviluppata nella preghiera del Padre nostro, secondo le sue tre versioni: quella in Le 1 1 ,2-4, quella in Mt 6,9-13 e infine -

39 La Volgata è molto più fedele: sed non quod ego volo sed quod tu. La traduzione inglese deUa Bibbia di Gerusalemme si avvicina ancora di più al testo originale, forse con appena un'ultima virgola di troppo per essere assolutamente fedele? «But let it be as you, not I, would have it». Tuttavia il greco, come il latino. hanno la forza retorica di terminare la preghiera sul solo soggetto divino: «tU». 40 Cf. l'intera raccolta di P. EM MANUEL, intitolata: Tu, Seui!, Paris 1 978. La soluzione: l'ultima settimana. Marco 1 1-16

quella riprodotta dalla Didachè (8,2-3, molto vicina alla versione matteana, e an­ che dipendente da essa). Sembra che il quarto vangelo non la ignori, a giudicare dai suoi molteplici echi lungo tutto il racconto. Cf. specialmente Gv 6,34 («dacci sempre questo pane>>), Gv 12,27-28 e soprattutto la grande preghiera del capitolo 17 (cf. vv. 1.5.11.15). L'elaborazione più ampia avverrà nel VI secolo, in occiden­ te, quando per iniziativa del papa Gregorio Magno la preghiera verrà incorporata nella preghiera eucaristica, al termine dell'anafora e come introduzione al rito del bacio della pace.41 Il suo momento più segreto è il grido di un uomo in agonia, che si volge con tutto il suo essere verso Dio. Nei suoi sviluppi ulteriori prende forma una formula di preghiera che passerà sulle labbra degli individui come delle comunità. L'Abba diventerà il Padre «nostro» e tutta una comunità di credenti pregherà così. Nel suo trattato sul Padre nostro s. Cipriano scrive che nessuno può recitare questa preghie­ ra senza accettare al tempo stesso «sia il Padre di Gesù Cristo come suo padre sia la Chiesa come sua madre». È lo Spirito a collegare questi due capi dello sviluppo della preghiera del Pa­ dre nostro. Infatti passa in tutti uno stesso Spirito. È lo Spirito pasquale a esprimer­ si nel Figlio che grida: «Abba !» e a permetterei di pronunciare al suo seguito con piena libertà filiale questo stesso santissimo Nome: «Padre nostro». È nello Spirito che si abolisce la distanza, sia nel tempo che nello spazio, per conferire a tutti noi, al momento del rito battesimale, una stessa identità comune di figli nel Figlio. La drammatizzazione molto curata del racconto di Marco fa della scena al Getsemani una habourah pasquale qualificata, un gruppo di amici riuniti per compiere la gran­ de iniziazione. E il lettore/uditore si vede introdotto, con molti segni e richiami, fin nel segreto più intimo, nonostante l'apparente distanza del racconto storico. Chi entra in comunione con lo Spirito del Cristo pasquale scopre che la distanza fra il momento presente e l'avvenimento raccontato è abolita. 14,37: KttÌ. €pxEtttL KttÌ. EÙp LOKH airmùç Ka9E60ovtro;, K«L lkyn • IIÉTp�. ELj.LWV, KCX9EOOELç; OUK l.oxoottç j.LLCXV wpav YPTJYOPfJ>, unico caso in Marco, frequente in Paolo. Ecco una sentenza che deve giustificare l'imperativo dell'appello alla vigilanza. Si tratta di una delle rare frasi in Marco con la costruzione ben bilanciata da una doppia con­ giunzione 1-LÉV OÉ (cf. 14,21 ) . La contrapposizione è classica: «spirito>> e «carne>>. Si incontra specialmente in Paolo (cf. Gai S e Rm 8), ma anche nella Prima lettera di Pietro (1Pt 3,18; 4,1 e 4,6, con lo stesso uso antitetico di �-&Év . . . OÉ). Qui la riflessio­ ne è antropologica: «la carne» è tutto l'umano lasciato a se stesso; «lo spirito>> è lo stesso essere umano, ma che si apre a una realtà più grande e altra da sé. L'atto di vegliare e pregare apre l'essere umano all'Altro e lo introduce nel regno dello Spi­ rito. Lasciato a se stesso, l'uomo, essendo solo «Carne>>, non può resistere nell'ora decisiva. Per resistere quando viene la prova bisogna aprirsi allo Spirito e spostare il proprio baricentro altrove, al di fuori di sé. Il salto qualitativo che una generazione • • •

42 Cf. per il verbo: lTs 5,6.8; 2Tm 4,5; 1Pt 1,13; 4,7; 5,8. Per l'aggettivo: lTm 3,2.11; Tt 2,2. Marco 14-15. Il racconto della Passione

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deve compiere consiste nel richiamarsi a un altro e basarsi non più unicamente sulla «carne», contando solo sulle proprie forze, bensì sul vissuto di questa apertura allo Spirito. L'urgenza dell'avvicinarsi del nuovo interpella la carne e ne mostra tutta la debolezza. Solo un'esistenza decentrata, ricettiva di colui che viene da altrove - lo Spirito di santità - potrà resistere e permettere l'incontro. I vv. 37 e 38, a causa della loro vicinanza alla fine del capitolo 13 (vv. 33-37), rafforzano la punta scoperta sopra: qui Marco pensa, come alla fine del discorso escatologico, ai suoi destinatari che stanno vegliando. Nonostante la sua concisione, si può riconoscervi una chiara accentuazione della ripetizione quasi letterale delle parole di 13,36-37. v. 39. Marco descrive un movimento di ritorno vero il luogo nel quale Gesù ave­ va pregato. Egli riprende la sua preghiera, con le stesse parole. Anche per Gesù la preghiera poteva assumere la forma di una ripetizione insistente. E anche noi possia­ mo riprendere e ripetere le parole che egli ha ripreso, come una formula adeguata per attraversare le nostre notti di veglia e di preghiera. Le ultime quattro parole in greco mancano in D e in alcuni altri manoscritti. Tuttavia l'idea corrisponde pienamente al modo di esporre del narratore, che ha espresso la preghiera di Gesù anzitutto in di­ scorso indiretto (v. 35), poi in discorso diretto (v. 36). 'ITPOOTtU/;a:to (, cf. 1,35), qui il verbo all'aoristo suppone un'azione precisa e unica. 14,40: KIÙ 'ITIXÀLV Uewv EUPEV atrroùç Ka:EIEOOOVta:ç, �aav yttp a:ÙtWV ol oEiaÀf.J.OL Ka:taj}apUVOIJ.EVOL, KIXL OUK u&= wa:v tL a'ITOKp LEIWaLV a:òt> (ÈKijloJ30L yàp EyÉvovm).44 Così, anche qui, «non sapevano che cosa rispondergli>>. Gloria e agonia di questo Figlio dell'uomo superano entrambe la nostra capacità di rispon­ dere adeguatamente. L'una e l'altra ci oltrepassano. Occhi, cuore, gambe vengono interpretati in un passo del Talmud in base alle tre attività fondamentali dell'uomo religioso: «Non restare seduto troppo a lungo, perché provoca le emorroidi; non restare in piedi troppo a lungo, perché fa male al cuore; non abusare del camminare, perché fa male agli occhi. Si deve passare un terzo del proprio tempo in piedi, un terzo a riposo e camminare nell'ultimo terzo>> (bKet Ula). Essere seduti significa studiare, stare in piedi pregare, camminare agi­ re. Gli «occhi pesanti>> dei discepoli non riescono a vedere, il che è il frutto dello studio, dell'intelligenza. Alla scuola di rabbi Nahman di Bratislava, il discepolo più vicino al maestro insegnava: «Tutto il mondo è pazzo e io con esso; ma io ho avuto la fortuna di vedere un essere luminoSO>>. Dirà anche: «Beato colui i cui occhi han­ no visto gli occhi di rabbi Nahman, beato colui i cui occhi hanno visto i miei che si sono riflessi in quelli di rabbi Nahman».45 Marco, discepolo di Pietro, racconta come a un certo momento sia stato difficile anche per Pietro tenere gli occhi aperti e comprendere. 14,41-42: KIXÌ. ÉpX,Et"IXL -rò -rp[ -rov KIXÌ. A.ÉyEL aumLc;, Ka�U&:n -rò A.omòv KIXÌ. àVIX1TIXUE09f ' ànfX,E L · �À.9EV � wpa, LÒOÙ 111Xp1XÒLÒO't1XL O ULÒç 'tOU àv9pW110U EÌç -ràc; X,Eipac; 'tWV cliJ.IXp'tWÀ.WV. 4�YE LpE09E nyWIJ.EV ÌOOÙ O 111Xp1XÒLÒ01Jç IJ.f �YY LKEV. '

14,41-42: «E viene una terza volta e dice loro: "Ormai potete dormire e riposarvi! È fatta! L'ora è venuta: ecco, il Figlio dell'uomo sta per essere consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi! Andiamo! Ecco, colui che mi consegna è vicino"». vv. 41-42: «E viene una terza volta». Marco non ha perso tempo a raccontare che Gesù era ritornato nel luogo in cui pregava. Ora egli già torna indietro. Questa è l'ultima volta, e il lettore non si aspetta altro. La terza volta sarà quella buona? Il discorso che il Maestro rivolge loro è denso e vibrante di intensità: neppure una particella di congiunzione fra le sei brevi espressioni! Un contrasto violento con­ trappone i primi due verbi all'imperativo e gli ultimi due: «Dormite e riposate!» e «Alzatevi! Andiamo !>>. I primi due possono essere interpretati solo in senso ironi­ co.46 C'è un tempo per vegliare. Una volta che è passato, che importa: dormire o ve­ gliare non conta più. E di fatto, la veglia è una pratica insostituibile che si può fare

to sull'impossibilità dell'ultima frase (f4Joj3oùvro y!lp ). ma comunque in Gen 45;3 LXx c'è un esempio analogo che colpisce dal punto di vista sia tematico sia stilistico. Notiamo. come nella nota precedente, la vicinanza di questa formulazione esplicativa con Mc 16,8 e Gen 45.3 (È4Jopouv-ro y&p. haplixBTJOav y&p, EK«j!opoL yètp Èyfvovro). 45 Citato da E. WIESEL, Célébration hassidique. Portraits et légendes, Seuil, Paris 1972, 184. "" Un'altra soluzione consiste nel leggere i primi due come una constatazione stupita: «Dormite ancora? Vi riposate ancora? La fine sarebbe lontana? L'ora è giunta (e il seguito]». Così TAYLOR, 557. 44

Marco 14-15. Il racconto della Passione

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solo in quel preciso momento. Una volta passato il momento, tutto ciò che si farà non potrà più recuperarla né rimpiazzarla. Al centro di tutto il paragrafo c'è la menzione dell'ora (cf. v. 35) e la ripresa del tema straziante, comparso una prima volta in 8,31, ma ora affermato al presen­ te più immediato: «Ecco, il Figlio dell'uomo è consegnato nelle mani dei peccatori» (napaùi.òotcxL, stesso verbo, stesso tempo in 14,21). Notiamo comunque la stranezza dell'enunciato: nella notte pasquale, che cosa si attende se non la venuta del Mes­ sia? E nella tradizione cristiana, che cos'altro se non la venuta del Figlio dell'uomo in gloria sulle nubi (cf. 8,38 e 13,26-27)? E tuttavia, in questa notte, quando è giunta l'ora, questo coincide con il momento in cui «il Figlio dell'uomo è consegnato». Il seguito riprende l'idea e le conferisce un'ulteriore virulenza nel suo contrasto con la presunta attesa: «Ecco, colui che mi consegna (o napaòLòouc; IJ.E) è vicino>> (�YYLKEV, dal verbo Èyyi.(E LV [cf. 11,1], incontrato finora nella sua forma perfetta una sola vol­ ta, in 1,15: là era >). In D ad esempio si legge: anÉXH tÒ tÉA.oc; KaÌ. TJ wpa, con la scomparsa del verbo �A9EV . inducendo così a pensare a un ritocco più che alla versione originale. Il tÒ tÉA.oc; è attestato anche altrove (W, che sposta Lòou e aggiunge un Kai. fra i due verbi; 8, che modifica il verbo in anÉXTltO, e fl3 565 1071), ma è per lo più accompagnato da altri ritocchi, gli uni più sospetti degli altri. La tendenza è quella di chiarire una parola oscura. L'oscuro è all'origine. Se il verbo compare 19 volte nel Nuovo Testamento, con il significato di «ricevere» o di «essere lontano da>> (cf. Mc 7,6), qui il senso sarebbe proprio: «(questo) basta».48 «Nelle mani dei peccatori». Gesù è venuto «per i peccatori» (Mc 2,17), ma la sua venuta non sarà accolta da tutti, e alcuni metteranno persino le mani su di lui e lo faranno morire. Ha lui stesso tematizzato questa conclusione, secondo la qua­ le alcuni non saranno guariti né perdonati. Così come era già stato annunciato dai . .

"' Si può ricordare anche Gv 12,23, già citato: ·«Ecco l ora nella quale il Figlio dell'uomo deve es­ sere glorificato>>, dove l'allusione all'ora evoca la parola di Gesù in Mc 14,41 : «L'ora è venuta». Non c'è agonia in Gv 18, nel giardino, ma il momento evocato in Gv 12,20-28 ricorda in molti punti l'agonia dei sinottici al Getsemani. In Gv 12,23, come in Gv 13,21, si può constatare la stessa modifica: invece di par­ lare di «essere consegnato», il Cristo del quarto vangelo parla di «essere glorificato». 48 Cf. A. HoasTMANN, in ExWNT, I, 289. '

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L.a soluzione: l'ultima settimana. MatOO

1 1-16

profeti (cf. Mc 4,10-12, con la citazione di Is 6,1 1, e 3,22-29, sul peccato che non può essere perdonato). Così la veglia comune della habourah termina qui. Il paradosso in Marco è che quella che avrebbe dovuto essere la venuta in gloria del Messia è diventata l'ora in cui compare il traditore che lo consegnerà. Nella riflessione tradizionale ebraica, il Messia verrà in gloria quando e se tutto il mondo si convertirà; altrimenti verrà in umiltà, sotto le vesti di uno schiavo, di un servo sofferente, persino di un lebbroso.49 In Marco le due prospettive sulla gloria e sulla croce sono presentate fianco a fian­ co. L'evangelista afferma che superano entrambe la nostra comprensione e nessuno riesce a reagirvi in modo adeguato. Chi veglia nella comunità di Marco ricorda l'ora tragica e attende la venuta gloriosa sulle nubi (8,38-9,1; 13,24-27; 14,62). Vegliare in senso pieno è ricordare e attendere. Il testo invita a entrambe le cose.

1 4,43-50. L'arresto

Il dramma precipita verso la sua soluzione tragica. Come lettori/destinatari sappiamo più o meno ciò che accadrà. Ma, nonostante tutto, con piccoli precisi toc­ chi il narratore riesce a sorprenderei. Riconoscimento e sorpresa: le due cose an­ dranno di pari passo. Per la prima volta entra in scena la violenza fisica. Per colpire l'innocente bisognerà passare attraverso un momento sospeso, un punto cieco nel quale impercettibilmente il giusto si trova intrappolato e confuso con il suo contra­ rio: egli viene trattato come un «bandito». 14,43-44: Kaì Eùeùç Én ail'mu ÀIXÀouvtoç mxpay(VEtaL 'Iouùoo; ELç twv ow&:Ka Kaì f.LEt' aòtou oxJ..oç IJ.Età IJ.axaLpwv Kaì l;uJ..w v napà twv à:pXLEpÉwv Kaì twv ypaiJ.IJ.Ilt€wv KaÌ twv npEoj3utÉpwv. 44&:6wKEL oÈ o napaOLOoÙç aòtòv ouOOTlf.LOV aùto'ì.ç ÀÉywv, "Ov àv ljaÀ�ow aùt6ç È=onv, Kpat�oatE aùtòv KaÌ &:nayEtE à:oljlaJ..wç. 14,43-44: «E subito, mentre ancora parlava, arrivò Giuda, uno dei Dodici, e con lui una banda armata di spade e di bastoni, venendo da parte dei capi dei sacerdoti, degli scribi e degli anziani. Ora il traditore aveva dato loro questo segno convenu­ to: "Quello a cui darò un bacio, è lui; arrestatelo e conducetelo via in sicurezza"». v. 43: «E subito, mentre ancora parlava, arrivò Giuda, uno dei Dodici». Appe­ na Gesù ha pronunciato le sue parole, entra in scena colui che doveva «consegnar­ lo». Ritroviamo la transizione rapida con un «e subito>> (KaÌ EÒ6uç), come all'inizio del racconto di Marco (1 ,12.1 8.42; ecc.). «Mentre ancora parlava>>, stessa formula­ zione vivace di 5,35. «Giuda>> è lì, con il suo nome proprio e la penosa connotazione: «Uno dei Dodici>>, che ogni lettore sente necessariamente risuonare come un serio avvertimento. IIapay(vEtaL , «arrivò>>, unica occorrenza di questo verbo in Marco (178 volte nella LXX, molto frequente in Le-A t; 3 volte in Mt). Notiamo la prepo­ sizione napa che ritorna più avanti nella frase.

•• Cf. Is 53,3. Marco 14-15. Il racconto deHa Passione

Il personaggio non ci sorprende: il narratore ce lo aveva annunciato, e soprat­ tutto Gesù ci ha appena messi in guardia e lo abbiamo visto andare personalmente incontro al traditore. Il racconto ha l'andamento di un dramma classico e non di una trama romantica. Il narratore presenta il suo protagonista che preannuncia ciò che dovrà subire e affronta personalmente coloro che vengono per arrestarlo. In un racconto romantico (la versione parallela di Luca si avvicina maggiormente a esso) si sarebbero creati degli effetti di suspense, del tipo: «e subito si udirono lontano gli schiamazzi di tutta una banda in marcia e il baccano si avvicinava, seminando il panico nel gruppo», ecc. Qui, nulla di tutto questo. Giuda è accompagnato. Una folla, una banda (ÒXÀoç) entra in scena, «con spade e bastoni>>. Gesù viene chiaramente percepito come pericoloso. Del resto, lui stesso riprenderà questa caratteristica un po' più avanti, non senza un pizzico di ironia. Sono stati mandati con un compito ben preciso. Questo non sorprende: in 14,1-2 e 10-11 il narratore ci aveva informati dell'incontro fra Giuda e i capi dei sa­ cerdoti. Qui Marco si prende la briga, con una qualche ridondanza, di citare i nomi dei tre gruppi coinvolti: «Capi dei sacerdoti, scribi e anziani>> (cf. 14,1-2 e soprattut­ to 11,27). In altri termini, tutte le autorità che contano. Si fa sul serio. Si procede all'ultimo atto. Nell'apertura della passione (cf. 14,10s) non abbiamo a che fare tanto con un'inclusione retorica quanto piuttosto con un riconoscimento dramma­ tico (à.va.yvwpwLç), a livello del destinatario. La struttura non è diversa da quella che abbiamo individuato per l'insieme del racconto evangelico: il prologo (1 ,1-13) ci informava su tutto, mentre nel racconto le persone ignoravano completamente questa informazione sull'identità di Gesù. Il pieno riconoscimento avverrà solo in 8,27-30 e 9,2-9, preparato in parte in 6,14-16. v. 44. Segue una piccola parentesi supplementare, che inserisce nel raccon­ to un breve racconto precedente, persino, in discorso diretto, con l'ordine dato da Giuda. Penosa ridondanza del verbo in testa alla frase: colui che aveva (, , , persino «guadagnare>> e ) si scopre che il vangelo vuole inculcare un modo molto particolare di collo­ carsi in questo campo semantico. Le parole e i gesti sia di Gesù sia degli altri attori del dramma rinviano a una scelta radicale da fare. La vita è dell'ordine del dono: chi dona in pura perdita guadagna. Chi crede di dover possedere, mettere le mani su, arricchirsi o accumulare dei beni si ritroverà triste e perdente. A suo modo, la figura di Giuda illustra la perversione di ciò che il vangelo spera dal suo destinatario (cf. 8,34-9,1; 10,29-30.38-40.42-45). ouOOTJ!JOV (), unico caso in Marco, WtapLOV, «l'orecchiO>>, il piccolo orecchio (diminutivo), unico caso in Marco (cf. Gv 18,10, assente nella LXX). È stata appena perpetrata la prima violenza fisica su Gesù ed ecco che esplo­ de una contro-violenza e colpisce qualcuno nell'altro campo. Il colpo non è in­ ferto alla cieca: stacca )'«orecchio» o «il lembo dell'orecchio». Che cosa signifi­ ca? Raggiunge l'altro e lo riduce immediatamente allo stato di criminale. Infatti la sanzione era nota fin dall'epoca persiana: chi ha l'orecchio mozzato è uno che è stato punito per aver commesso questo o quel delitto. Ora la vittima è niente­ meno che «il servo del sommo sacerdote>>. Attraverso di lui la spada raggiunge il centro stesso del campo avverso: il sommo sacerdote. La mutilazione rende la vittima non più idonea all'esercizio dell'attività cultuale. Il simbolismo chiarisce la portata del gesto in risposta all'atto perpetrato su Gesù. Chi mette la mano sul Santo di Dio viene subito punito. Si tratta di una violenza sacra, reciproca, di cui la Scrittura ha conservato alcuni esempi sorprendenti. Si pensi a Uzza, che muore nel momento in cui stende la mano per sostenere l'arca dell'alleanza, nella salita ,

Marco 14-15. Il racconto della Passione

769

di Qiryat-Yearim verso la Città santa (2Sam 6,6-8: il delitto è descritto con paro­ le forti, molto vicine a quelle dell'arresto di Gesù: KlxL È/;É1:E LVEV O(a. r�v XEipoc ocùrou Ènt r�v K LPwròv rou 9EOu KoctocoxEiv ocùr�v Ka.t ÈKpU'tTJOEV ocùr�v). Altro esempio: quando il re Ozia entrò nel Tempio per officiare e arrogarsi il diritto di bruciare l'incenso, i sacerdoti lo circondarono e disegnarono una macchia di leb­ bra sulla sua fronte. Così il re non avrebbe potuto mai più lasciare il suo palazzo per entrare nel luogo santo (2Cr 26,16-21 ). Violenza e contro-violenza. Quan­ do Gesù muore sulla croce, subito il narratore aggiunge: (Mc 15,38). Risposta del cielo nell 'altro campo riguardo all'atto empio perpetrato sul Santo di Dio (cf. 12,8-9). Al versetto se­ guente, prendendo la parola, Gesù illustrerà il meccanismo attraverso il quale gli uni lo riducono , mentre loro stessi, nella persona colpita con la spada, sono subito ridotti a briganti, cosa che aveva già annunciato in occasione della sua prima attività pubblica nel Tempio: , che sono «al bando>> dalla società religiosa e dalla comunione con Dio. Marco tace il nome di colui che ha maneggiato la spada per colpire il servo del sommo sacerdote. Lagrange ritiene che la formulazione con ELç 0€ nç debba essere intesa come la confessione: «qualcuno da me conosciuto>>, e cita a sostegno Sofo­ cle (Edipo re 118). «Secondo Giovanni si tratta di Pietro e tutti riconoscono che si addice perfettamente al suo carattere. Perché Marco non l'ha nominato? Secondo Schanz, ecc., per prudenza a causa dell'autorità romana. Forse Pietro, raccontan­ do l'incidente, non faceva il proprio nome per un decente riserbo, trattandosi di un atto coraggioso e "onorevole", e i fatti sono pervenuti a Marco sotto questa forma velata>> (Lagrange, 394). Il narratore, riguardo all'anonimato di colui che ha com­ piuto il gesto, tende, da una parte, a proteggere e quasi scusare colui che è il suo te­ stimone per eccellenza, ma d'altra parte, a menzionare comunque questo gesto che egli comprende come giusto e «onorevole», secondo l'aggettivo usato da Lagrange. La logica della violenza sacra reciproca è qualcosa di molto profondo, di quasi vi­ scerale nell'uomo. Ma chi reagisce in questo modo di fronte a ciò che accade, non fa di se stesso - come della causa e della persona che difende - un ? Che Pietro abbia potuto reagire in questo modo al Getsemani è illustrato al centro del racconto, dove egli se la prende con Io stesso Gesù, che subito lo rimette al suo posto: «Passa dietro a me, Satana!» (8,32-33). Perciò il testo non approva assolu­ tamente questo tipo di reazione, per quanto spontanea e persino giustificata possa sembrare all'inizio. 14,48-49: Koct à:noKpL9Etç ò 'ITJoouc; EL TIEV a.ùroic;, 'Qç Ènt ÀUOt�v È/;�Àfla.tE �Età �XO:LpWV KIXL /;UÀWV ouUa.Pfiv �E; 49Ka.9' TJ�É pa.v ��TJV npÒç u�ç ÈV t>, Gesù ricorda la sua vera attività pubblica: > come un maestro, ecco la sua attività principale. È la prima e l'ultima parola di Gesù riguardo al Tempio in Mar­ co: «Egli vi insegna>> (cf. 1 1 ,17 e 14,49). Indirettamente, il saluto ipocrita di Giuda («Rabbi>>) riceve una risposta. 1:uÀÀatJ!XiVHV (unico caso in Marco) e Kpo:rE'iv, due sinonimi per indicare l'atto di arresto. Collocando la sua attività pubblica di fronte a questo arresto subdolo, di notte, nel luogo in cui si ritira e prega, Gesù sottolinea il contrasto fra le due realtà e smaschera al tempo stesso la loro strategia. Nel Tempio, in occasione del suo primo insegnamento, Gesù aveva dichiarato, citando Geremia: « . . . e voi avete fatto (di questo luogo) un covo di banditi>> (11,17 : on�ÀaLOV À"{lorwv). Perciò Gesù stesso si è servito di questo termine per squalificare le attività degli altri. La corrispondenza induce a riflettere. Certamente un profe­ ta non può resistere alla parola terribile che deve pronunciare in nome di Dio. Ma dovrà consentire a ogni parola così pronunciata di attraversare anzitutto lui stesso. Gesù, che dice degli altri che sono , cioè persone al bando dalla comunio­ ne con Dio, sarà trattato come un bandito e alla fine crocifisso fra altri due banditi (cf. Mc 15,28: «Con lui, essi crocifiggono due banditi (ouo Àl!O"L"o: l.] , uno alla sua de­ stra, l'altro alla sua sinistra»). 50 «Ma (è) perché si compissero le Scritture». Il «ma» prende in contropiede tut­ to ciò che è stato ricordato e vuole mostrare che in profondità la loro strategia non fa che seguire un'agenda stabilita dalla volontà di Dio e iscritta nelle Scritture. Al di là della concisione di questa formula ellittica (àU' '(va, «ma perché>>), ritrovia­ mo la forte tensione paradossale tipica del pensiero di Marco, fra ciò che gli uomini tramano come intrigo e ciò che Dio decide nella sua volontà sovrana (cf. 9,12- 1 3; 14,21 ). Per il plurale o: t ypa.Q>o:( («le Scritture>>) cf. Mc 12,24. Luca, nello stesso con­ testo, esplicita il riferimento, citando un passo di Is 53: « . . . e fu annoverato fra gli empi>> (v. 12; cf. Le 22,37: Ka.Ì. Èv ro'iç àvotJOLç È.Àoyl.o9TJ). Perciò si alluderebbe

50 Nel Talmud babilonese si legge questa riflessione di Resh Laqisb: «La parola della Torah si re­ alizz a solo attraverso colui che è disposto a morire per essa, perché si dice: "Ecco la Torah quando un uomo morirà" (Nm 19,14)» (bBer 61b ) .

Marco 14-15. Il racconto della Passione

771

al fatto che Gesù, pur insegnando nel Tempio, viene trattato come, e annoverato fra, «i briganti» e «gli empi>>. Si pensa anche al v. 3 dello stesso capitolo di Isaia: fttL1.11X09'1') KaÌ. oÙK ÉÀoy(ae.., («era disprezzato e non se ne teneva conto>>). Quest'ultima parola di Gesù travalica il contesto del racconto. I discepoli non colgono il messaggio e non comprendono il suo elemento di rivelazione che sma­ schera la strategia degli altri. Il racconto presenta due registri: c'è lo sforzo di rife­ rire la storia passata, nella sua oggettività, e c'è la preoccupazione di far riflettere e comprendere, al di là di ciò che è avvenuto. Quest'ultimo aspetto riguarda anzitut­ to e soprattutto il destinatario del testo proclamato, la comunità attuale di Marco. Ciò che l'evangelista mette in bocca a Gesù qui, come nella scena di Betania, che è il vero prologo della passione, conferisce una profondità teologica a tutta la narra­ zione. Ogni lettore attento si sente interpellato a convertirsi per aderire a Colui che compie in questo modo le Scritture.

14,50: Kat ocÉvtEç aÙ'tÒV Euyov 1TcXV"CEç. 14,50: «E, abbandonandolo, si diedero tutti alla foga». v. 50. Quest'ultimo elemento non dipende direttamente dal versetto prece­ dente e neppure dal v. 47, ma dal v. 46 dove si mette le mani su Gesù. Giovanni modificherà questa successione degli episodi, rendendola più plausibile e rinfor­ zando il bel ruolo di Gesù: è lui ad autorizzare di portarlo via senza toccare nessu­ no dei suoi discepoli. Il colpo di spada viene dopo l'arresto e a chiudere l'episodio � l'ultima parola di Gesù a Pietro (Gv 18,1 1). Anche arrestato, in Giovanni - come negli altri vangeli - Gesù rimane dall'inizio alla fine della scena il padrone assoluto dell'azione. L'ultimo elemento in Marco è particolarmente duro: «lo abbandonano», «fug­ gonO>>, , senza eccezione. Il lettore ricorderà che questi tutti, unanimemen­ te, avevano dichiarato, al seguito di Pietro, meno di venti versetti prima, che non avrebbero ceduto, che non lo avrebbero rinnegato, ma che erano pronti a morire con lui! Non si può ascoltare quest'ultimo breve. versetto senza provare un brivido. E se loro sono stati così instabili, così deboli, che ne sarà di noi?

1 4,51 -52. La fuga del giovane

Questo episodio contrasta con il suo contesto, pur mantenendo, a livello di vocabolario, dei legami sia con ciò che precede che con ciò che segue. Sul piano for­ male della composizione di Marco, ci troviamo davanti a un nuovo caso di «raccon­ to di transizione», inserito nel punto di incontro di due parti più importanti, come per permettere a chi ascolta la storia di rendersi pienamente conto del cambiamen­ to che sta per avvenire.51 Si ricordi il cieco di Betsaida, dopo la violenta apostrofe

51 Su questo procedimento, che ricorre almeno sette volte in Marco, cf. p. 137s., e Composition. 109-173 (per Mc 14.51-52, cf. pp. 120-130). La tessitura delle due sezioni è percepibile specialmente nei quattro verbi che caratterizzano il nostro giovane: v. 46 «lo afferrarono» => v. 51: «lo afferrano»; v. 50:

772

La soluzione: l'ultima settimana. Marco 1 1-16

ai discepoli («non comprendete ancora?», 8,21) e prima della sorprendente confes­ sione di Pietro a Cesarea (8,27-29), o il cieco mendicante Bartimeo, l'esempio più compiuto di chi confessa chi è Gesù e lo segue abbandonando tutto. Qui siamo alla cerniera fra due grandi parti del racconto della passione: la prima metà si svolgeva nella cerchia degli amici; nella seconda Gesù è consegnato nelle mani degli altri, degli oppositori designati come «i capi dei sacerdoti, gli seri­ bi e gli anziani» (cf. 14,43 e 53, ricordati al completo proprio in cima alla pericope precedente e proprio in cima a quella che segue, al versetto seguente). Il «giovane che cerca di seguire Gesù» annuncia la figura di Pietro, che «da lontano» cercherà ancora di «Seguire>> il Maestro, due versetti dopo, in 14,54. 14,51-52: Kal VEav(oKoc;; nç oUV11KOÀou9E L a\m\ì 1TEpLI3f�ÀTI!JÉvoc;: oLvMva È1TL yu� vof>, K«Ì. KpatoooLv aùt6v· 52Ò OÈ K«t«À.L1Twv t�v oLvMva. yu!JvÒc;; ÉcjmyEv. 14,51-52: «Un giovane cercava di seguirlo, con indosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrano; ma egli, abbandonato il lenzuolo, fugge tutto nudo».

Qui, dopo l'esempio francamente negativo dei discepoli che si danno tutti alla fuga, ecco un caso singolare di qualcuno che non molla: «cerca di seguire» Gesù. Il verbo ouvaKouÀOu9Elv all'imperfetto (de conatu, «cercando di seguire>>) è mol­ to espressivo, con la preposizione ouv- («con>>, cf. 5,37; Le 23,49). Ricorda anche il ouva1To9aVElv ooL («morire con te>>) di Pietro in 1 4,31. Tutti sono scappati, ma ecco comunque un caso meno deplorevole e quindi più esemplare per ogni nuovo membro della comunità. Un bel desiderio questa volontà di voler seguire Gesù a ogni costo, al di là della vigliaccheria generale. Un elemento dietro al quale si nasconde il narrato­ re? In ogni caso egli è ben presente in tutto ciò che racconta e vibra insieme a ciò che scrive. Un elemento che conterrebbe anche un ricordo personale? Non si può assolu­ tamente escludere, dato che, all'epoca, Marco doveva essere effettivamente «giova­ ne» e certamente presente a Gerusalemme a causa della stessa festa di Pasqua. Perciò alcuni non hanno esitato a identificare questo personaggio con l'evangelista (soprat­ tutto nel XIX secolo, quando si cercava dietro ogni angolo del testo qualche «testimo­ ne oculare» che garantisse l'autenticità del racconto).52 Marco sarebbe stato il figlio del «padrone di casa>> (oi.KOÙE01TOt1lc;; ) di Mc 14,14, e il podere del Getsemani sarebbe appartenuto a sua madre, «Maria>> (cf. At 12,12) 53 L'episodio non è certamente in­ ventato di sana pianta, ma è difficile ricostruire il suo nocciolo storico, mentre sembra molto più chiara la sua portata, mirante alla situazione dei destinatari. Sempre nel XIX secolo, Loisy dubita della plausibilità di un tale riferimento storico. A suo avviso, al contrario, «l'episodio è stato concepito mediante l'appli­ cazione di una profezia; in realtà, un testo di Amos - a proposito di fuga - parla di . . .

«tutti si diedero alla fuga» => v. 52 : «egli fugge»; v. 51: «cercava di seguirlo» => v. 54: «(Pietro) lo segui­ va da lontano»; v. SO: essi � v. 52: egli «abbandona», KaTaÀL1TWV (cioè il lenzuolo). 52 Così HoLTZMANN, citato da LAGRANGE, e ZAHN II, 494 (che vi legge come la firma dell'autore in un angolo del quadro). I padri della Chiesa hanno suggerito per Io più il nome di Giovanni, il disce­ polo amato (cf. la sua comparsa in Gv 1 8,15-16; così Ambrogio, Crisostomo, Beda). o anche quello di Giacomo, il fratello del Signore, che non faceva parte dei Dodici, quelli che erano scappati (Epifanio, Gregorio Magno), o semplicemente un commensale della casa in cui Gesù aveva consumato il pasto pa­ squale ('1;:eofilatto ) . " E SwETE, 334 a riferire questa opinione (Expositor, IV, iii, p. 225).

Marco 14-15. 11 racconto della Passione

773

un uomo nudo». Si tratta dell'ultimo versetto del capitolo 2, alla fine dell'oracolo: « . . . e il più coraggioso fra i prodi fuggirà nudo in quel giorno! Oracolo del Signore>> (Am 2,16, Ko:Ì. Eùpi)OE L t'Ì)v KapoLav aùtou È=v liuvrum{o:Lç ò yu�vòç OL�E'to:L È=v È=KE LV1J tiJ ��Ép� ì..Éyn KUp LOç). L'allusione scritturistica è certamente un po' trop­ po vaga (soprattutto se ci si riferisce al testo greco) per essere certa in questo caso, ma non si può escluderla del tutto. Tre versetti prima, Gesù aveva detto: «perché si compissero le Scritture», anche se l'osservazione si riferiva più a ciò che precede che a ciò che segue. I padri della Chiesa si sono ricordati di un passo molto diverso delle Scritture, quello nel quale il patriarca Giuseppe, sfuggendo alla moglie del suo padrone, «le la­ scia tra le mani la veste, fugge e se ne va fuori>> (Gen 39,12s, KO:Ì. KO:'tO:À.L 1TWV tà i.IJ.(ina aùtou È=v ta'iç XEpaÌ.v aùti;ç E> (K> (cf. 14,31, in bocca a Pietro, e 8,34: «rinunciare a se stesso» e «portare la propria croce», sulle labbra di Gesù), a essere sepolto con lui per uscire dal sepolcro insieme a lui ed essere rivestito di una veste bianca, segno della vittoria sulla morte e della gloria futura. Che cosa ha fatto Marco? Mediante un effetto speculare ha introdotto il bap tizandus nel racconto. Quest'ultimo viene per un istante identificato con Gesù, «arrestato» come lui, ma il giovane riesce a fuggire. La storia di Gesù continua: come ascoltare il seguito senza sentirsi profondamente coinvolti dopo che per un momento si è stati identificati con il Maestro e con il suo destino? I discepoli - intermediari privilegiati per ogni discepolo della comunità di Mar­ co - brilleranno per la loro assenza in tutto ciò che segue, ma l'evangelista è riuscito comunque a mantenere vivo l'interesse del lettore/destinatario grazie a questa figura speculare che è il «giovane rivestito di un drappo/lenzuolo sul corpo nudo».

D racconto della passione. Prima parte (Mc 14,1-52)

La comparazione sinottica

In Marco si possono individuare cinque grandi unità nella prima metà del rac­ conto della passione e, aggiungendo il racconto di transizione alla fine e dettaglian­ do la struttura ternaria della prima e della terza unità, si arriva a un insieme compo­ sto da dieci piccole sequenze: l) 14,1-2: 2) 3-9: 3) 10-11: II. 4) 12-16: III. 5) 17-21: 6) 22-26: 7) 27-31: IV. 8) 32-42: v. 9) 43-50: I.

10) 51-52:

la strategia dell'opposizione l'unzione di Betania l'intervento di Giuda la preparazione del pasto pasquale in città l'annuncio dell'azione del traditore il pasto l'annuncio dello scandalo di tutti e del rinnegamento di Pietro la veglia di preghiera e l'agonia al Getsemani l'arresto la fuga del giovane (racconto di transizione)

Sia Matteo che Luca seguono Marco nella disposizione generale: le cinque unità (I-V) che si possono individuare in Marco si ritrovano nello stesso ordine ne776

La soluzione: l'ultima settimana. Marr:o 1 1-16

gli altri due sinottici. Riguardo alla lista delle dieci piccole unità, la differenza ri­ spetto a Marco è evidente soprattutto in Luca. Matteo, all'interno della sezione, non ne omette nessuna, tranne la n. 10, il rac­ conto di transizione, con la sua punta iniziatica, di cui non sa che farsene. Questo vale del resto anche per tutta la drammatizzazione, così accentuata nel racconto di Marco, che il flemmatico Matteo cercherà di ridurre drasticamente. Fin dall'apertura, la sua scelta è chiara: lascia che sia Gesù stesso a iniziare il racconto della passione, invece di collocarci nel campo nemico e farci assistere alla strategia - del resto vana - dell'op­ posizione, come in Marco. Così nella versione matteana scompare fin dall'apertura tutta la suspense narrativa, con l'ironia caratteristica di Marco. Schematicamente, ecco il risultato: Mc l4

Mt26,1-56

Aggiunta in testa: (basandosi in parte su Mc 14,1a ) 3-5 (leggermente ampliato, storicizzando il racconto con il l) nome del sommo sacerdote) 6-13 (strettamente parallelo a Marco) 2) 3) 14-16 (leggermente ampliato rispetto a Mc 14,10-11 ) 17-19 (molto ridotto e sdrammatizzato rispetto a Mc 4) 14,12-16 ) 5) 20-25 (qui Giuda interroga e viene designato come colui che consegnerà Gesù) 6) 26-29 («ne bevvero tutti» diventa: «Bevetene tutti»; per il resto ampliamento) 7) 30-35 (strettamente parallelo a Mc) 36-46 (messa in scena semplificata ma preghiera di Gesù 8) ampliata) 47-56 (ampliamento) 9) [ 10] questo racconto di transizione è eliminato. Le poche semplificazioni (n. 4 e n. 8) sono in genere di ordine drammatico; gli ampliamenti piuttosto numerosi (nn. l, 3, 5, 6, 8, 9 ) chiariscono il senso di ciò che si afferma o la portata dei ruoli (come quello di Giuda o quello di chi ha usa­ to la spada al Getsemani). Ancora una volta, Matteo si rivela anzitutto un buon catechista. Luca lavora in un modo un po' più elaborato. Elimina non solo l'episodio finale del giovane (n. lO) ma anche, all'inizio, la scena di Betania (n. 2; d. una scena analoga in Le 7,36-50, situata presso un altro «Simone», un fariseo, ma in contesto galilaico). Questo gli offre l'occasione per sopprimere la struttura di inclusione (((a sandwich») che Marco predilige e Luca evita quasi sempre: così in lui i nn. l e 3 di Marco si se­ guono direttamente. Elimina, infine, l'annuncio che tutti saranno scandalizzati, come anche l'ulteriore appuntamento in Galilea, dopo la risurrezione (Mc 14,27-28) . Infatti Luca non ricorda alcuna apparizione in Galilea; esse sono tutte concentrate a Geru­ salemme. In Marco e Matteo, al termine dell'arresto di Gesù, si dice che (). e dall'altra, delle donne, indicate per nome, che hanno seguito Gesù (�KOA.ou9ouv aut�). sono salite con lui (ouvaval3"oa.L a.ùtti>) dalla Galilea fino a Gerusalemme e sono lì a guardare da lontano (a1TÒ j..La.Kpo9Ev 9EwpouoaL ) . A partire da 14,52 Gesù, abbandonato da tutti, entra da solo nella sua passione. Gli attanti, testimoni della sua vita precedente e presenti in quest'ultima sezione, sono proprio Pietro e le donne di Galilea, posti alle due estremità della sezione, con questo elemento in comune: «a distanza/da lontano» (a1rò j..L�tKpo9Ev, 14,53 e 15,40, gli unici due casi in questi capitoli).2 Sul piano dell'analisi drammatica tutta questa sequenza descrive la soluzione (A.uoLc;) dell'azione: dal passaggio di Giuda nel campo dell'opposizione (14,10-1 1) e dall'arrivo della banda armata sotto la sua direzione nel podere del Getsemani (14,43) le cose precipitano verso la «catastrofe>> finale (Kataorpo> (10,33s). Tutta l'arte di Marco consisterà nel creare una verosimiglianza sufficiente a garantire il concate­ namento degli episodi: anzitutto il processo davanti al sinedrio, dove si deciderà formalmente della sua morte, poi il trasferimento da Pilato, dove un nuovo proces­ so terminerà con la sentenza di morte e l'esecuzione del protagonista, riconosciuto tuttavia innocente. La difficoltà del racconto deriva dal fatto di dover salvaguardare in ogni mo­ mento l'innocenza del protagonista e fornire al tempo stesso un racconto coeren­ te che renda comprensibile, fino a un certo punto, la sua doppia condanna davanti ai due tribunali, giudaico e pagano. La tensione crescerà fino al momento in cui. davanti al procuratore romano, risplenderà l'innocenza dell'accusato, seminando la costernazione: per un istante tutto avrebbe potuto ritorcersi contro le autorità ebraiche con la loro accusa priva di fondamento (15,5). Ma come vedremo, il rac.

2 Nell'epilogo vedremo queste stesse donne messe direttamente in relazione con Pi!=tro: «Andate a dire ai suoi discepoli e specialmente a Pietro che egli vi precede in Galilea» (16,7). E significativo che il racconto accosti questi testimoni proprio a lla fine della sua comunicazione. Essi rappresentano certamente due ambienti distinti nella prima comunità, ciascuno con le sue fonti e i suoi testimoni privilegiati della vita di Gesù. -' Per questo vocabolario tecnico del dramma antico d. LAUSBERG, Handbuch, §§ 1193-1 194 e 1244. Si distinguevano quattro momenti nell'azione: protasi, epitasi (che sostiene la tensione dell'intreccio). catastasi (che innesca la fine della tensione) e catastrofe (che coincide con la soluzione propriamente detta). I primi tre fanno parte dell'> , UTTT)pÉtT)c;, cf. ancora 14,65, i «servi» che «caricarono di botte>> Gesù), il testo insinua che Pietro si lasci andare: si siede con loro (cf. Sal 1,1!) e cerca di scaldarsi al fuoco (!flwç e 11up «luce>> e «fuoco» - sono intercambiabili, come si può vedere in lMac 12,28s; Senofonte, Ciro VII, 5,27, citato da Taylor). Il dettaglio del fuoco sul quale termina questo quadretto sarà ripreso in 14,67. Per il suo aspetto concreto, sembra richiamare un ricordo diretto di chi abbia raccontato l'episodio per la prima volta. In aprile, a Gerusalemme, le notti sono fredde.9 Pietro, in mezzo ai servi, cerca di essere uno di loro e passare cosl inosserva­ to. Egli è già pericolosamente sulla china che lo condurrà al disastro. È riuscito a penetrare fin nel cortile interno (É wc; Éaw E le; t�v a.ÙJ..� v). Innegabilmente c'è una certa enfasi: Éaw ELç, , «Conosciuto dal sommo sacerdote>>. È grazie a lui che Pietro potrà introdursi dentro -

7 Secondo la Mishna {Sanh IV, 1), occorer va la presenza di 71 membri per decidere in certi casi, ma per 1!1 condanna a morte bastava la presenza di 23 membri. • E uno dei punti di partenza della ricerca di A. JAUBERT, , unico caso nella LXX; là il giusto cerca la compagnia dei fedeli, ma, qui, con chi cerca di restare Pietro?). L'espressione è anche un po' enfatica (cruv- seguito da f.J.Etci). L'enfasi mira a sotto­ lineare il momento di debolezza di Pietro. Si è ben lontani da ciò che Pietro aveva detto poco dopo l'ultima cena (14,31: «Anche se dovessi morire con te», Èètv OÉU j.LE cruvllTI091lvEì.v crOL) e altrettanto lontani dall'appello centrale del vangelo: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso e porti la sua croce . . . >> (8,34s). Pietro, in contrasto con Gesù, appare qui per un momento come un antieroe. Dal punto di vista del narratore la sua funzione è quella di chiamare vivamente in causa chiunque accetti di seguire Gesù. Ogni nuovo aderente si sentirà particolar­ mente interpellato. Il narratore, introducendo Pietro già in questo punto, ottiene un effetto di sincronizzazione, con la sola differenza dei luoghi, fra il processo di Gesù e il rinnegamento di Pietro: Pietro è nel cortile a cielo aperto, in basso (Katw, v. 66), mentre Gesù deve essere in alto, in una grande sala per le riunioni coperta.

1 4,55-65. Il processo davanti al sinedrio

Ora, in undici versetti, Marco racconta il processo davanti· a tutto il sinedrio riunito. La disposizione di questo breve racconto è sorprendente: infatti vi ritrovia­ mo un'inclusione che inquadra una prima accusa principale, poi ascoltiamo il som­ mo sacerdote interrogare direttamente Gesù, cosa che condurrà al verdetto finale, seguito da una scena di oltraggi. La composizione riprende il modello preferito da Marco: A. vv. 55-56: false testimonianze B. vv. 57-58: un esempio di falsa testimonianza in discorso diretto A'. v. 59: conclusione, che fa inclusione con i vv. 55-56 c. vv. 60-64: interrogatorio del sommo sacerdote, risposta di Gesù, sen­ tenza di morte D. v. 65: scena di oltraggi. Qui, come in tutti gli altri casi studiati sopra, la cosa importante è attribuire, a ciò che viene subito dopo l'inclusione (v. 59), il peso principale (cf. l'elemento C dopo A') e considerare ciò che è incluso (B) come preparazione del momento C. 14,55-58: o i ùÈ àpx;u:: pdç KllL oÀov tÒ cruvÉòpLov È'�touv Kll"ttl -roù 1T)croù j.Lilp-rup[llv EÌ.ç "tÒ 9aVIl"tWOilL llÙtov, KllL oùx; T)Up wKov· 5"n"OÀÀOL yàp ÈljiEUOOj.L!Xp"tupouv Kllt' llÙ-roù, Kat 'LcraL al j.LUptup[aL oÙK �av. 51Ka[ nVEç àvacrtav-rEç ÈljiEuOOIJ.aptupouv Kat' aÙ"tOU ÀÉyoV"tEç 58Qn ' Hj.LEÌ.ç �KOOOUj.LEV aÙtOU ÀÉyovtoç on 'Eyw K!XtaÀucrw tòv vaòv to\ì-rov -ròv XHPOTIOLTJtOV K«L ò Là tpLwv �j.LEpwv iiUov àx;npoTIOLTJ"tOV OLKOOOj.L�OW. 14,55-58: «Ora, i capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una testimonianza contro Gesù per farlo morire e non ne trovavano. Molti infatti testimoniavano il falso contro di lui e le loro testimonianze non concordavano. Alcuni si alzarono per

Seconda parte: Marco 14,53-15,41

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portare contro di lui questa falsa testimonianza: "Lo abbiamo udito mentre diceva: Io distruggerò questo tempio, fatto da mani d'uomo, e in tre giorni ne costruirò un altro che non sarà fatto da mani d'uomo"». v. 55. Il narratore si ricollega al v. 53 e riassume in una doppia espressione («i capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio») la lista delle autorità presenti. Chiaramente, i capi dei sacerdoti costituiscono la parte che ha il maggior peso nella faccenda. I farisei non sono neppure menzionati (in 12,13 c'è la loro ultima apparizione in Mar­ co). Per «sinedrio» (ouvÉopwv) cf. anche 15,1; in 13,9 il termine è al plurale. OL OÉ in testa permette un rapido collegamento con ciò che precede, al di là del ruolo di Pietro (v. 54). «Cercavano>>, all'imperfetto (Èç�·rouv), come un tentativo ripetuto e, in realtà, fallito: « . . . e non ne trovavano>>. Questo verbo «cercare>> non è mai di buon augurio nel racconto di Marco (cf. già in 1 ,37, «tutti ti cercano>>; cf. anche il commento in 3,20-21 e 14,1). Per il verbo «trovare>> (Eup(OKHV) cf. già 1,37. Il narratore ci informa fin dall'inizio sull'esito della ricerca: «non ne trova­ vano>>. L'effetto sorpresa per il seguito sarà nullo. Essi cercano qualche «testimo­ nianza contro Gesù per farlo morire». Apparentemente il processo deve seguire le regole: si vogliono riunire dei testimoni - secondo la Torah, ne bastano «due o tre>> (Dt 17,6; 1 9,1 5). Ma l'intenzione è chiara e unica: si vuole la sua morte, è deci­ so (Oava-rwoo:t, , qui e in 13,12; ànoKn LvHv, in 14,1, «uccidere>>; cf. 8,31; ecc.). Non si prevede neppure che qualcuno possa prendere le sue difese e testimoniare «a suo favore>>. Questa apertura del processo è dura: evidentemente il narratore sa tutto sulla faccenda e fa fatica a nascondere di avere scelto da che parte stare. Infatti ci tiene a sottolineare l'assoluta innocenza di Gesù: da una parte, mol­ ti testimoniano ma le loro testimonianze non concordano, e, dall'altra, le testimo­ nianze sono intrinsecamente false. Così il processo, che vuole per decenza basarsi su testimoni, non riesce a raggiungere i propri obiettivi. La conclusione è semplice: l'accusato è assolutamente innocente. v. 56. La frase viene a giustificare la conclusione del versetto precedente («in­ fatti>>, yap ): da una parte, molti hanno testimoniato ma erano false testimonianze (ljtEuOo�ap-rupE'iv, cf. 10,19; il verbo è noto alla LXX, pur ricorrendo solo tre volte. ma due delle tre occorrenze si trovano nelle due versioni del Decalogo: Es 20,16; Dt 5,20; cf. ancora, al processo di Susanna, Sus Th 62); inoltre non riuscivano a far concordare le testimonianze fra loro, «a due o a tre>>, per essere accettabili. Per 'looç nel senso di concordante, «deckungsgleich>>, «gleichlautend», cf. mSanh 5,4; e art. «LOO«;>>, in ExWNT, Il, 494 (T. Holtz). v. 57. Rispetto ai «molti>> (noUo() del versetto precedente, ecco un caso più particolare con la testimonianza di «alcuni>> (nvEç). In Matteo saranno esatta­ mente «due», cioè il minimo richiesto dalla Legge. La cinepresa passa a un primo piano. Il verbo all 'imperfetto indica un'insistenza ripetuta e protratta. avao-ravnc; («dopo essersi alzati>>): il verbo descrive l'atteggiamento formale nel corso di un processo. Perciò nulla di ridondante in questo participio. Stesso atteggiamento formale descritto in occasione dell'intervento del sommo sacerdote, al v. 60: Kat àvao-ràc; ò IÌPX LEpEuç («allora il sommo sacerdote, alzandosi . . . »), questo in con­ trasto con le occorrenze più deboli dove il verbo esprime appena ciò che egli dice (cf. 7,24; 10,1). v. 58. Ora Marco cita in discorso diretto i testimoni che riferiscono una parola che avrebbe detto Gesù. Il narratore si premura di squalificare questa testimonian­ za ancor prima che venga addotta: dice che si tratta di una «falsa testimonianza>>.

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La soluzione:

l'ultima settimana. Marco 1 1-16

La parola scandalosa che si cita qui, e che ritornerà ai piedi della croce sul­ le labbra dei passanti (cf. 15,29: «Tu che distruggi il Tempio e lo ricostruisci in tre giorni»), riguarda il Tempio. Si parla di «distruggerlo» poi di «ricostruirne un al­ tro». II primo non ha valore, «fatto da mani d'uomo»; l'altro «non è fatto da mano d'uomo». La sua costruzione, prevista , «in un batter d'occhio», «in un battibaleno» - sarà opera sua («ricostrui­ rò»), ma al tempo stesso compiuta grazie a Dio (l'enigmatico «non fatto da mano d'uomo», che rinvia a lui). L'apertura di questa frase citata è molto carica: 'Eyw Ka-caJ..uaw, con questo Èyw fortemente evidenziato. Il tono è arrogante e la frase vuole stupire gli ascoltatori. Notiamo la triplice antitesi: distruggere l ricostruire fatto da mano d'uomo l non fatto da mano d'uomo questo tempio l un altro (tempio). I verbi «distruggere>> (Ka-caÀtJELV, 13,2; 14,58; 15,29) e «costruire/ricostruire» (otKOOOIJ.El.v, 12,1.10; 14,58; 15,29) ricorrono piuttosto spesso nella letteratura pro­ fetica, specialmente per indicare la sorte che Dio riserva a chi si oppone a lui. La vocazione di Geremia, ad esempio, ha l'unico scopo di «sradicare e demolire, di­ struggere e abbattere, edificare e piantare>> (Ger 1,10; cf. 24,6; 31 ,28). L'espressione «in tre giorni>> (cf. 2,1 per una formulazione analoga, OL' 'IÌIJ.Epwv) indica la facilità e la rapidità di questo lavoro di costruzione dell'altro tempio. La parola è quindi una violenta critica del Tempio esistente e il tono ferisce per la grande autostima che risuona nei due verbi utilizzati. Nella versione giovannea di una parola analoga, posta direttamente in bocca a Gesù, si legge anche la contrapposizione fra ciò che fanno i suoi avversari e ciò che farà lui: (Gv 2,19: Auoa-cE ròv vaòv murov KaÌ. Èv -c p wì.v 'IÌIJ.ÉpaLç ÈyEpW aù-cov). Loro distruggono, lui ricostruisce. Quando negli Atti Stefano compare davanti al sinedrio, troviamo una parola che, diversamente dal passo di Marco o di Giovanni, è posta in bocca al diacono: «Costui non fa che parlare contro questo luogo santo e contro la Legge. Lo abbiamo infatti udito dichiarare che Gesù, questo Nazareno, distruggerà questo luogo e sovvertirà le usanze che Mosè ci ha tramandato» (A t 6,1 3-14). Là si parla di distruggere, ma non di ricostruire. Comunque anche qui, come in Marco, colui che «distruggerà» il luogo è Gesù. Una parola del genere non viene riferita da Marco da nessuna parte nei capi­ toli precedenti. Nel suo commento narrativo l'evangelista squalifica questi testimo­ ni, affermando che la loro testimonianza è falsa (v. 57) e che non riescono a enun­ ciarla in modo concordante (v. 59; cf. v. 56), ma resta coerente con il resto del suo racconto. Gesù non ha mai detto una cosa del genere. Comunque al tempo in cui Marco redige il suo racconto il Tempio è distrutto e l'evangelista si è preoccupato, nei capitoli che precedono il racconto della passione, di precisare il punto di vista di Gesù sul Tempio. Ora, a tre riprese, in modo profetico, con una fermezza scon­ volgente, il Gesù di Marco annuncia la profanazione e la distruzione del Tempio e rinvia a un altro luogo che raduna e santifica il Nome nella fede, la preghiera e il perdono (cf. 11,17.22-25). La parabola sulla vigna affidata ad altri e sulla pietra scartata dai costruttori che diventa pietra d'angolo (12,5-11) descrive un movimen­ to analogo a quello che si legge nella parola citata dai testimoni al processo. Indub­ biamente la grande differenza sta nel fatto che non è Gesù a distruggere e a stabi­ lire un luogo nuovo, ma , Dio stesso. Similmente, quando all'inizio del capitolo 13 Gesù annuncia che non rimarrà «pietra su pietra>>, ma che Seconda parte: Marco 14,53-15,41

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«tutto sarà distrutto», pronuncia una parola severa sia sul Tempio sia sulla Città, ma non si arroga il diritto di essere lui a compiere l'azione. Il verbo al passivo indica che sarà Dio ad agire. Sia come sia, secondo la grande tradizione profetica la critica contro il Tempio è anzitutto una critica contro ciò che avviene nel Tempio e contro l'istituzione che gestisce il luogo. La domanda sull'autorità di Gesù e sulla sua competenza ad agi­ re come egli fa nel Tempio, cacciando i mercanti, è già stata posta sopra (cf. 11,1417.27-31). I suoi gesti, come le sue parole, possono essere stati considerati scanda­ losi dagli uni, ma decisamente profetici dagli altri. La parola citata nel processo è più vera di quanto credono coloro che la pro­ nunciano: per quanto possano essere indignati, questo Luogo sarà distrutto e ne verrà costruito un altro non fatto da mani d'uomo. È tutto il passo, già evocato, fra 11,17 e 1 1 ,20-25, come anche fra 12,5-8 e 12,9-11. Si può pensare alla stessa logica anche nella sequenza al Golgota: subito dopo la morte di Gesù, >, in 8,29). Ma sic­ come colui che pronuncia queste parole non vi crede affatto, questa frase stride. Il lettore è al tempo stesso attirato e respinto da una tale ironica confessione. La lieve modifica che egli apporta alla formula consacrata del credo riconosciuto in ambien­ te cristiano rende tutta la frase sospetta, e in definitiva assolutamente sgradevole.

Vale la pena fare l'inventario di tutti i passi in Marco nei quali risuona nei riguardi di Gesù una designazione analoga, introdotta da >) 8,29: �ù d ò X p �otoc;; («Tu sei il Cristo») 14,61 : Eù d ò Xp �otòc;; ò ulòç toù euì..oyT)toti; (>, posti l'uno di seguito all'altro, per indicare l'i­ dentità ultima di Gesù, sono certamente una costruzione dell'ambiente cristiano. Può darsi che Marco abbia modifièato l'espressione «Figlio di Dio)> in «Figlio del BenedettO>> per rafforzare la verosimiglianza o per introdurre comunque una cer­ ta distanza rispetto alla formula recepita nell'ambiente cristiano. Ci sembra vano argomentare, come fa un'intera tradizione esegetica (cf. Taylor, 567s), se il sommo sacerdote del tempo di Gesù abbia potuto pronunciare tali e quali quelle parole. La formula deve evocare il credo della comunità cristiana, ma la sua forma interrogati­ va illustra tutta la distanza: la confessione è ironica. Al tempo stesso, l'ambivalenza voluta di questo enunciato permetterà alla violenza di entrare in scena e di colpire l'innocente. 14,62: o 04: 'IT]ooflç dnE v 'Eyc:.S d!JL, Ka.Ì. oljiE09E -còv ULOV 'tOU &v9pc:.Snou ÈK OEI;LWV Ka.9�1JEVOV tflç ÙUVtlj.lEWç Ka.Ì. ÈpXOIJEVOV IJE'tft tWV VEcj>EÀWV tOU oupa.vou . ,

14,62: «E Gesù disse: "lo lo sono, e voi vedrete il Figlio dell'uomo che siede alla destra deUa Potenza e viene con le nubi del cielo",., v. 62. Dall'arresto, è la prima volta che Gesù compare nuovamente come sog­ getto del verbo, introdotto con il suo nome proprio, e prende la parola. L'apertura è semplice, forte, ma anche polivalente: «lo sono>> ('Eyc:.S ELIJL). Nella sua semplici­ tà, Gesù acconsente a ciò che il sommo sacerdote gli ha chiesto: io sono ciò che tu dici, «io lo sono». Al «Tu sei?>> (:Eù ù�) dubitativo e ironico del sommo sacerdote, il Gesù di Marco risponde con forza: «> ('Eyw E l!JL ) Inoltre, le due parole hanno una risonanza biblica ben più forte, a partire da Es 3,14 («lo sono chi sono>>) e dalle numerose autoaffermazioni di Dio, altrove nelle Scritture, specialmente nel Deutero-lsaia (41,4.10; 43,1 0.25; 45,18.19.22; ecc.). Ora, al contrario della parola del sommo sacerdote, qui la lettura non tollera alcuna ironia: per il lettore il consen­ so di Gesù è assolutamente giusto. Egli è il Cristo, è il Figlio di Dio ed è venuto da parte di Colui che ha detto: «lo sono». Ma proprio quell'enunciato, nella sua sem­ plicità e nella sua forza, provoca l'indignazione nell'altro campo. Uno studio molto accurato degli Atti dei martiri compiuto da G. Bartelink ha mostrato che in questa letteratura una stessa parola, che per il credente esprime la quintessenza della sua fede, diventa assolutamente intollerabile agli orecchi degli inquisitori pagani. Per­ ciò il testimone verrà giustiziato.13 È sempre attraverso il punto critico di una paro­ la ambivalente che può entrare e scatenarsi la violenza contro colui che agli occhi della comunità dei credenti resta assolutamente innocente. Sul piano spirituale l'enigma rimane: solo la persona veramente umile può dire a chi la interroga al riguardo: «lo lo sono>>. Ma una tale semplicità e autenticità sono quasi sempre sospette. Solo il santo, messo alle strette, dirà: è ciò che io sono. Il martirio del maestro sufi Mansur El Halladj a Baghdad illustra la stessa aporia: egli non può più dire altro che la sua totale adesione al Dio unico, ma più l'affer­ ma, più viene accusato e torturato fino alla morte, ma anche in quel momento tut.

13 G. BARTELINK, Wat wisten de heidenen van het oudchristelijk taalgebruik?, Nijmegen 1975, 1113. L'autore sottolinea la semantica ambivalente nei dialoghi fra i martiri cristiani e i loro giudici pagani. Per un'analisi dei meccanismi della violenza nella tragedia greca cf. R. GIRARD, La violence el le sacri, Paris 1972, 62-234. 790

La soluzione: rultima settimana. Marco 1 1-16

to il suo corpo grida, il suo sangue nella sabbia scrive e le sue ceneri gettate nelle acque del Tigri disegnano lo stesso messaggio: > (Mc 8,38s).

In questo futuro oljiEOBE e in tutto ciò che segue risuona un avvertimento gra­ ve, quasi la minaccia di un esito terribile. I paralleli biblici non mancano: qui merita di essere citata l'apertura di Sap 5: Allora il giusto starà con grande fiducia di fronte a coloro che lo hanno perseguitato e disprezzavano le sue sofferenze. Alla sua vista, saranno presi da terribile spavento, stupiti per la sua sorprendente salvezza. [ . . . ) Come mai è stato annoverato fra i figli di Dio? Come mai ha la sua eredità tra i santi? (Sap 5,1-2.5).

La reazione degli empi in Sap 5 ricorda il grande testo di Is 52-53, dove si de­ scrive un medesimo stupore da parte della «moltitudine delle nazioni»: Ecco , il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e inn alzato grandemente. Come molti si spaventarono alla sua vista, - perché non aveva più figura umana e il suo aspet­ to non era più quello di un uomo - così si stupiranno di lui molte nazioni, i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, per aver visto ciò che non era stato loro raccontato, per aver appreso ciò che non avevano udito (Is 52,1 3-15).

Seconda parte: Marco 14,53-15,41

11f

Ognuno di questi testi permette di cogliere la minaccia comminatoria che c'è senza «e voi vedrete» (KIÙ olj/ECJ9E): voi vedrete e sarete stupiti. Vedrete e scoprire­ te - troppo tardi e a vostro danno - chi io sia in realtà. Il condannato diventa giudi­ ce, gli accusatori condannati. Ma questa apertura «e voi vedrete>> potrebbe riprendere inoltre una precisa parola profetica. - La prima allusione che emerge con forza, e che non è del tutto nuova nel testo di Marco, è quella che si riferisce a Dn 7: «Voi vedrete il figlio dell'uomo [ . . . ] venire con le nubi del cielo>> (Dn 7,1 3-14; cf. Mc 8,38 e 13,26-27). - Una seconda allusione si ricollega al Sal 110, anch'esso già citato da Gesù: «seduto alla destra della Potenza>>. In questo salmo risuona la parola oracolare: «Il Signore ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra, finché io abbia messo i tuoi nemici sotto i tuoi piedi>> (Sal 110,1; cf. Mc 12,36). Qui l'allusione si inserisce nel riferimento a Dn 7,13 e il Figlio dell'uomo viene presentato come colui che ha com­ piuto ciò che aveva annunciato l'oracolo del salmo: ormai è seduto alla destra di Dio. Anche qui non è pronunciato il nome di «Dio>>, ma è menzionato il suo attri­ buto di potenza. Se siede alla destra della Gevurah o Potenza, è per manifestare con forza la sua autorità. Il seguito del versetto del salmo lo dice senza mezzi termini: «finché io abbia posto i tuoi nemici sotto i tuoi piedi». - Si può sentire risuonare in questo passo molto carico una terza allusione: il v. 12,10 del profeta Zaccaria viene tradotto dalla LXX «guarderanno verso di me» (Ka:Ì. É m�A.Éljlovttt L 1rpoç IJ.f). Il contesto suggerisce che, in definitiva, gli stessi car­ nefici si volgeranno verso colui che hanno anzitutto escluso e persino trafitto, e e «faranno il lamento come per un primo­ genitO>> (Kolj/olita:L h' a:ÙtÒV KOTTEtÒV wç É1T' àya:TTT]tÒV Ka:Ì. OOUVT]9�CJOvtiXL OOUVT]V wç ÉTTÌ. 1Tp), seguito dal KaÌ. lStjJEoeE («e voi vedre­ te»), ha una doppia risonanza. Nella comunità dei credenti Gesù enuncia chiara­ mente chi egli sia: compie le Scritture, apre alla speranza di coloro che credono in lui, indica l'oggetto della loro attesa, specialmente nella notte pasquale, e si viene rinviati in modo del tutto naturale ai passi chiave di Mc 8,38-9,1 e 13,24-27 sulla ve­ nuta del Figlio dell'uomo in gloria. Ma quella che per la comunità dei destinatari è una parola liberatrice, risuona nel quadro del racconto in mezzo all'assemblea che circonda Gesù come una parola insopportabile, persino blasfema. Subito il sommo sacerdote riprende la parola per gridare alla bestemmia, stracciandosi le tuniche.

Gesù e la visione del Figlio dell'uomo in Daniele 7

È piuttosto evidente che Marco ha costruito questo dialogo fra il sommo sacerdote e Gesù, ma colpisce il fatto che per la terza volta in questo vangelo (cf. 8,38 e 13,26-27) Gesù ricorra alla profezia di Dn 7, con la visione del Figlio dell'uomo che verrà sulle nubi. Sul piano storico sembra difficile escludere del tutto che Gesù abbia attinto in que­ sto testo profetico di che continuare a sperare, nonostante tutto. Il suo attaccamento a questo oracolo, che applica a se stesso per comprendere il suo destino, induce a pensare.

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Gesù sembra avervi trovato un'attesa positiva, un'assicurazione che Dio garantirà una via di uscita nonostante tutte le contraddizioni, opposizioni e minacce che possono con­ durlo fino alla morte. Il testo di Daniele sottolinea che Dio può, e vuole, assicurare la continuità, e fare anche di più: alla fine assicurerà a questo Figlio d'uomo la vittoria, sia a lui sia a tutti coloro che egli rappresenta e che si richiamano a lui. Indirettamente, questa attrazione del Gesù storico per questa pagina delle Scritture ci permette di raggiungerlo nella sua comprensione di sé: egli era chiaramente animato da un'immensa fiducia nel fatto che la sua storia si svolgeva in accordo con la volontà di Dio, e che anche il ruolo di tutta l'opposizione delle autorità religiose poteva essere in­ tegrato nel suo progetto di vita. Inoltre, dietro questo titolo, si può intravedere qualcosa dell'ampia coscienza che Gesù aveva della sua identità e della sua vocazione: essere il Figlio dell'uomo significa compiere nella propria persona ciò che la condizione umana, o perlomeno questa parte eletta del popolo di Dio, è chiamata a vivere e a sperimentare. Al fondo di una tale affermazione c'è ben più di una coscienza solo individuale. Si per­ cepisce la stessa cosa quando si parla di essere «il figlio>> o «il Figlio di Dio>>. In questo caso, si tratta di realizzare pienamente la vocazione di Israele, che è «il Figlio di Dio>> per eccellenza. Dal punto di vista spirituale, questo non dovrebbe stupirei oltre misura: chi «Vede>>, intra­ vede anche ciò che deve accadere, non solo con un fiuto politico avveduto, capace di indo­ vinare eventuali avvenimenti prossimi, ma con una profondità molto più radicale, capace di discernere il punto di vista di Dio sulla sequenza degli avvenimenti futuri. Le vite dei santi (Benedetto, Francesco o anche di certi maestri buddisti, come testimonia oggi, ad esempio, Thich Nhat Hanh) illustrano abbondantemente questo sguardo alto e ampio al tempo stesso, che permette di intravedere anche un avvenire non ancora scritto.14

14,63-64: o ùÈ= UPXLEpEÙ� OLapp�l;a� toù� xm3va� aùtou ÀÉyE L, T( EtL XPE LaV EXOIJ.EV IJ.aptupwv; MfJKouaatE tfJç �Àa(J(jlT]flL!lç" t L ufiì.v >): l'evidenza è tale che tutti vi aderiscono immediatamente. È facile seguire la logica drammatica, che illustra il talento del narratore e rivela anche di colpo da che parte stia. Il fatto di presentare un dramma coerente rende ancora più difficile la ricostru­ zione di ciò che è realmente avvenuto sul piano storico. Ci si può chiedere se si riu­ scirà mai a ricostruire equamente ciò che è avvenuto effettivamente negli ambienti sacerdotali e fra gli altri responsabili di questa faccenda. Segnaliamo, dopo molti altri, due difficoltà principali poste dalla presentazione di Marco: anzitutto, normal­ mente non si pronuncia mai la sentenza il giorno stesso in cui ha luogo il processo (cf. mSanh 4,1); inoltre, se una sentenza di condanna a morte viene emessa all'una­ nimità, come si afferma qui, tale sentenza viene subito annullata e l'accusato libera­ to, perché si riteneva che dovesse esservi sempre almeno una persona a prendere le difese di chi era accusato. Altrimenti, il voto era dichiarato nullo. K«.tÉKp Lvav a.ùtòv EVOXOV ElV«.L eavatou. KataKpLVE LV (). Gesù stesso aveva annunciato che ne sarebbe stato oggetto: cf. 10,33. Evoxoç, «reo di>> (cf. 3,29, a proposito di ciò che non è perdonabile). Il linguaggio di quest'ultimo versetto è formale, quasi tecnico nel suo rigore giuridico, e il ter­ mine >, cercano di sondare ancora l'identità eccezionale, messianica dell'accusa­ to. Come abbiamo visto, secondo il registro cristologico di Marco, Gesù è anzitutto profeta e la sua messianicità deriva dal fatto di essere l'ultimo dei profeti, il Mosè della fine.17 Dopo la confessione ironica, posta sulle labbra del sommo sacerdote («Tu sei il Messia?»), ecco un 'altra deformazione del riconoscimento di chi è Gesù. Indirettamente, Marco ci propone nuovamente il suo schema di base del ricono­ scimento cristologico come l'abbiamo trovato in 6,14-15 (tre errori in decrescendo) e in 8,27-29: al di là delle tre opinioni errate della gente, viene allora la bella con­ fessione di Pietro («Tu sei il CristO>>). Qui assistiamo a una deformazione ironica e malevola di chi sia Gesù, prima di ritornare sullo stesso Pietro nel versetto succes-

•• Cf. GNJLKA Il, 283. n. 48. 17 Cf. la presentazione cristologica, ne li 'Introduzione, pp. 36s.

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sivo. Allora, come vedremo, quest'ultimo non sarà più in grado di pronunciare la minima confessione . . . Al momento della crocifissione il narratore ci farà ascoltare un'ultima volta delle confessioni distorte, nelle quali ciò che si afferma non è ratifi­ cato da alcuna adesione del cuore (cf. 15,32.35). Si pone ogni volta di nuovo la stes­ sa questione vitale. Così Marco chiarisce l'intera posta in gioco di una confessione autentica, nella quale colui che pronuncia il nome e il titolo di Gesù si impegna fino in fondo a «portare la sua croce e a seguirlo» (cf. 8,29 e 34). La scena degli oltraggi è resa con quattro verbi che si susseguono, collegati ogni volta dalla copula più semplice: KetL («e»). L'azione si riduce a un martella­ mento ripetuto. «Alcuni cominciarono a sputare». Gesù stesso si era già servito del verbo «sputare» (ÈIJ.1T'nJHV, cf. 10,34, unici due casi in Marco), per annunciare ciò che lo attendeva fra la sua condanna a morte e la sua esecuzione. Qui «sputare>> corrisponde all'espressione del disprezzo più profondo (cf. Nm 12,14; Dt 25,9; Gb 30,10; nei primi due casi si parla di «sputare in faccia»). Chi sono questi «alcuni» (nvEç)? Membri del sinedrio? Letteralmente, essi ricordano gli e noi abbiamo incontra­ to nuovamente il termine nel versetto precedente (65b, UlTTJpÉ'L"IIL ). Tutto questo assicura il collegamento con l'apertura del v. 54. La frase comincia con un geni­ tivo assoluto, al presente: Kaì. ovtoç toiì Ilhpou («E Pietro essendo in basso, nel cortile>>). Con questo tratto il narratore vuole sottolineare che il processo da­ vanti al sinedrio e quanto ora accade con Pietro si svolgono, in realtà, in perfetta sincronia. Sono nello stesso edificio ma Pietro è nel cortile, il testo precisa «in basso>> (KiltW ), autorizzando così a pensare che Gesù sia nella grande sala delle riunioni, situata . Un celebre quadro di Rembrandt riproduce bene la differente dimensione nello spazio, conservando al tempo stesso il carattere sin­ cronico dei due episodi. «Viene una delle serve del sommo sacerdote>>. Sorpresa. Nuova scena con una persona finora sconosciuta, anonima ma appartenente al personale del sommo sa­ cerdote, quindi all'altro campo, e una fra molte altre. IJ.La twv ha il valore di ne;, come in 5,22. 1TaLOLOKTJ «è qui una giovane schiava» (Lagrange). L'EPXEtaL, con il presente storico, è quasi una forma stereotipata in Marco per iniziare in modo viva­ ce un nuovo episodio (cf. 1 ,40; 3,20.31; ecc.).

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v. 67. Il primo participio lòoooa. ci permette di seguire la storia dal punto di vista della giovane serva. Vede «Pietro che si scaldava», il che ci riconduce, ancora una volta, all'ultimo elemento del v. 54: là Pietro era vicino al fuoco. Un secondo participio, apposto al primo, senza coniugazione, insiste sullo sguardo: È!-LPÀÉ1TE LV (cf. l'uso dello stesso verbo di cui il narratore si serve per descrivere lo sguardo insi­ stente del protagonista: 10,21.27; cf. 3,5; cf. anche il cieco guarito in 8,25). Si tratta di guardare e di «Osservare>> con grande attenzione, qui addirittura di squadrare. Pie­ tro viene osservato e percepito come un intruso, qualcuno che non fa direttamente parte di coloro che, come lei, sono «del sommo sacerdote>>. Gli rivolge la parola, in modo vivace, diretto, reso con un presente storico: ÀÉyE L. «Anche tU>> (Ka.t ou . . . ) . L'ordine delle parole è sorprendente. Anzitutto un'a­ postrofe enfatica ( Tu quoquel) che cerca di situare l'intruso, collocandolo nell'altro campo, quello della compagnia di quel «Nazareno>>, di quel «GesÙ>>. Il nome pro­ prio di «Gesù>> giunge alla fine; in modo esitante e anche con una punta di disprez­ zo. Nessun titolo per indicare il maestro o profeta di Galilea, appena un riferimento alla sua provenienza, che non è certo insigne: «Nazareno>> (cf. 1,24 e 10,47). Il col­ legamento suggerito è vago, addirittura minimo ma sufficiente: «tu eri con lui>>, tu sei del suo ambiente, dell'altro campo. «Essere con>> (j.LEtiÌ . . . �o9a.) ricorda curio­ samente il momento in cui, in Galilea, Gesù si sceglieva dodici collaboratori stretti: anzitutto per «essere con lui>> (Cva wa w j.LE't' a.&rou, 3,14). Una stessa espressione può coprire un'ampia gamma di significati.20 Allora Pietro era stato scelto per pri­ mo, era l'eletto per eccellenza e il nome che ricevette (cf. 3,16) esprimeva tutta la fiducia che il Maestro gli accordava in quel momento.

14,68-69: ò li€ �pJn1aa.to ÀÉywv, OutE otòu outE Èn(ata.j.La.L aù t( ÀÉyE Lc;. KaÌ. È/;f]À9Ev El;w Etc; tò npoauhov (Ka.Ì. ÙÀÉKtwp È>, j.LE &:1Tapv�on), sia il grande appello di 8,34 dove «seguire» Gesù implica il rinnegamento di sé (&:1TapvT]mxo9w Éautov). Perciò Marco colora già la parola che seguirà: «Non so, non capisco. Tu, che cosa dici?>>. Lo smarrimento è totale. La reazione viene formulata, come spesso in Marco, due volte ed è piutto­ sto vano voler trovare una sfumatura fra i due verbi a partire dal latino (Swete) o volervi scorgere un errore di traduzione a partire dall'aramaico (Torrey, seguito da

20 Cf., in contrasto, l'espressione che colloca Pietro vicino al fuoco in 14,54: «Egli era seduto con i servi» (!lEtiÌ twv ÙTTTJphwv ).

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Black, il tutto riferito finemente da Taylor, 573s). L'accento cade soprattutto sul­ la doppia negazione (oun . . . OU'L"E) e sull'incapacità e il rifiuto di entrare in ciò che suggerisce l'osservazione della giovane serva. La frase vuole essere senza sfumatu­ re, con un'ultima osservazione nella quale l'ordine delle tre parole suggerisce una domanda disorientata: «Tu, che ·cosa racconti?» (où 1:L ÀÉyELç) . La domanda mira a schivare il colpo più che a ottenere maggiori informazioni. Il comportamento di Pietro illustra immediatamente ciò che egli ha appena detto: cerca la porta d'u­ scita. «E si ritirò fuori verso il vestibolo>> (K!Ù Èl;f)À9Ev È'l;w EÌ.ç 1:Ò npoouÀ Lov) . Il npoouÀ L ov (unico caso nel NT e nella LXX) è il primo cortile o il vestibolo. Si dirige quindi verso l'ingresso del palazzo. Per comprendere bene l'effetto sui membri della comunità di Marco di questa pagina dedicata al rinnegamento di Pietro, bisogna indubbiamente ricordare an­ che le parole molto coraggiose e libere che Pietro pronuncerà davanti al sinedrio o a suoi membri alcune settimane dopo. Il libro degli Atti (cc. 3-5) ce ne offre vari esempi («È nel nome di Gesù Cristo il Nazareno . . . che costui vi sta innanzi risana­ to», 4,10; «Non vi è altro nome dato agli uomini nel quale è stabilito che noi siamo salvati», 4,12; «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini>>, 5,29). A Roma, al tempo di Marco, tradizioni orali dovevano riferire enunciati analoghi della prima predicazione di Pietro a Gerusalemme, poco dopo l'avvenimento della Pentecoste. Perciò l'uditore di Marco ascolta questa pagina con una doppia profondità: deve chiedersi non solo come mai l'apostolo sia potuto cadere così in basso dopo tutto ciò che Gesù aveva predetto, ma anche come abbia potuto risollevarsi in modo così radicale dopo una tale caduta. Ora nella comunità alcuni trovano in questa cadu­ ta e in questa ripresa ragioni per sperare contro ogni speranza, benché durante la persecuzione sotto Nerone siano stati dei vigliacchi che hanno tradito e rinnegato. Qui vari manoscritti hanno Ka.Ì. IÌÀÉK'L"Wp ÈWVTJOEV («e un gallo cantò»). È difficile stabilire ciò che portava il testo originale: infatti le tre parole mancano in testimoni di prim'ordine: B l( L 'P * . Né Matteo né Luca hanno questo elemento. Si può immaginare che, per rispettare il senso letterale della parola di Gesù sul gal­ lo che canta due volte, alcuni abbiano pensato bene di introdurre prima del terzo rinnegamento di Pietro il primo canto di un gallo. Accettando il canto del gallo in questo momento si aggrava ulteriormente il caso di Pietro: il lettore si chiede, con grande sofferenza, come mai Pietro non si sia fatto coraggio sentendo il gallo canta­ re una prima volta. Dal punto di vista drammatico, ci sembra piuttosto fuori luogo introdurre già qui il canto di un gallo: è anticipare un possibile «riconoscimento» (uva.yvwpLoLç) ma senza alcun effetto. La parola di Gesù deve essere certamente intesa come un'iperbole: ancora prima che un gallo canti due volte tu mi avrai rin­ negato tre volte. Ma nei racconti popolari i numeri sono spesso presi alla lettera, come qui in questa variante. v. 69. La stessa serva insiste. '16oiìoa, «e avendolo visto»: siamo ricondotti al suo punto di vista per s�guire l'episodio. La serva riprende la parola (mxÀLv) per rivolgersi non più a Pietro, ma agli altri che assistono alla scena. La frase viene introdotta in discorso indiretto (on ) ma passa subito al discorso diretto. «Quello è dei loro!». Il clima è quello di due campi avversi: i nostri e gli altri. Le persone vengono designate sommariamente: «i presenti» o «gli assistenti>> (na.pEO'L"WV"t"EI;, participio presente, qui e al versetto seguente; altrove Marco ha il participio per­ fetto: napEOTT"JKOTEç, 1 4,47; 15,39). Il primo uso è considerato più curato rispetto al secondo. Seconda parte: Marco 14,53-15, 4 1

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14,70-72: Ò OÈ 1T!lÀ.LV �p VEL'tO . K«Ì. j.LE'tà iJ.LKpÒv llliÀ L V OL 1T«pEO'tW'tEt; EJ,qov 't> (ol.ç), prima o dopo il verbo wvfìoaL. Il cam­ biamento rispetto a 14,30 può essere intenzionale: così l'autore colloca non senza effetto i due avverbi numerici l'uno di fronte all'altro: otc; rpl.c;. La tensione risulta ancora più forte.24 Ciò che era stato annunciato come qualcosa che doveva accadere «Oggi, questa stessa notte» (14,30) si è quindi verificato alla lettera. Le ultime tre parole danno non poco filo da torcere ai traduttori. Il testo è piuttosto ben stabilito: Kat ÈTTLj3a1wv ÈKÀaLEV. D 8 e alcuni altri manoscritti lo mo­ dificano chiarendolo: Kat �pl;aro KÀaLELV («ed egli si mise a piangere>>; cf. Volgata: et coepit fiere). Il parallelo matteano: KaL ÈI;EJ..9wv È�w (cf. Mc 14,68, dove è già se­ gnalato lo stesso movimento) ÈKÀauoEv TTLKpwç è stato seguito da 575 (con TTLKpoc; alla fine). Matteo, come spesso fa, elimina ciò che è oscuro in Marco o ritraduce

23 L'ecce homo ('Iooù o iiv9pwrroç, in Gv 19,5) ha indubbiamente un'ampia gamma di risonanze: la più umile e sprezzante deve essere dello stesso ordine di qui: . Se il mo­ vimento, in seguito alla parola di Gesù, è percepito ancora verso di sé ma nell'inte­ riorità, allora si potrebbe tradurre il verbo con «rattristandosi si mise a piangere>>. Se, infine, il verbo descrive un movimento nei riguardi dei presenti, si può pensare a una forma di fuga. La soluzione matteana non è molto lontana dalle prime due proposte: ii TILKpwç esprime il lato interiore e «l'uscita fuori», il movimento nell'e­ steriorità. Vediamo ancora sul piano narrativo che Pietro scompare di colpo dalla scena e non vi comparirà più. II giovane nel sepolcro (Mc 16,5-7) lo ricorderà an­ cora un'ultima volta, ma allora Pietro è altrove e si suppone che debba recarsi in Galilea. L'ÈTIL[3a..l..wv di Marco può quindi avere anche il senso di uscita di scena, «gettandosi>> in avanti e fuori, lontano da tutti.25 Notiamo che Giovanni racconta il triplice rinnegamento di Pietro ma non menziona le lacrime alla fine. Tuttavia, al capitolo 21 del quarto vangelo Pietro ri­ compare in Galilea (cf. Mc 16,7!). E là, quando per la terza volta Gesù gli chiede se egli lo ami, più degli altri «rimase addolorato che per la terza volta Gesù gli do­ mandasse: "Mi ami?" . . . >> (Gv 21 ,17). Perciò il quarto evangelista non ha cancellato completamente l'elemento dell'atto di contrizione del primo dei Dodici. Il seguito chiarisce persino tutta la conclusione della storia: Pietro morirà come il suo Mae­ stro, «sarà legato e portato dove non vorrà>>. E il narratore aggiunge: «Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio>>. Marco, da parte sua, non racconta questa finale della vita di Pietro, ma nel­ la sua comunità a Roma tutti sanno come sia morto l'apostolo: al di là delle sue lacrime, egli è ritornato e alla fine ha effettivamente compiuto ciò che aveva det­ to dopo l'ultima cena: «Se è necessario, io sono pronto a morire con te>> (14,3 1 . ouvaTio9avE'iv oOL). La composizione del processo di Gesù seguito dal rinnegamento di Pietro, l'uno incastonato nell'altro e con svolgimento sincronico, vuole offrire un poten­ te messaggio. Da una parte, Gesù tace di fronte alle false testimonianze addotte contro di lui, poi interpellato direttamente dal sommo sacerdote sulla sua identità più segreta osa affermarla fino in fondo, per tornare a tacere, anche quando viene schernito e caricato di botte. Si percepisce una gradazione: molti (1roUol.) prendo­ no la parola, poi alcuni (nvEç) e, infine, il solo sommo sacerdote. Nel caso di Pietro le cose sono quasi tutte invertite: il primo confronto è personale, con la sola serva (curiosamente qualificata come «del sommo sacerdote>>); poi lei lo fa riconoscere agli altri presenti e, infine, sono questi a prendere la parola e interpellare Pietro. In tutti e tre i casi la reazione dell'apostolo è un rifiuto, affermato con sempre maggio.

.

25 H. PERNOT; Etudes sur ID /angJle des évangiles, Paris 1927, 12 nota: È probabile che la parola sia un'espressione familiare che significa salvarsi, come ha i�otizzato Teodoro di Beza: cf. il Thesaurus, s. v. col. 1526, e comparare con il greco moderno tOpaUe ota 1TOOL«». > o «è apparso a Simone» (cf. .

. .

28 Cf. lo studio, continuamente ripreso, di queste formulazioni del kerygma pasquale da parte di Joseph Schmitt. Cf. il suo contributo al Simposio sulla risurrezione a Roma, nel l970: J. ScHMrrr, «l.c "Milieu" littéraire de la "Tradition" citée dans 1 Cor 1 5,3b-5», in Resurrexit, par É. DHANIS, Città del Vaticano 1974, 169-184.

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l Cor 15,5 e Le 24,34: OV'twç l)yÉp611 ò KUp LOç Kttl w$911 L: (J.LWV�. «il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone>>) fanno parte di queste grida più antiche, che esprimono la nuova realtà di cui Pietro è stato uno dei primi testimoni. Vi sono quindi tre momenti in questo itinerario:29 il riconoscimento messianico, colloca­ to in Galilea nei pressi di Cesarea di Filippo; l'enorme delusione e persino lo scandalo di fronte all'arresto e all'esecuzione capitale di Gesù, in croce, sul Golgota a Gerusalemme; il tempo di reintegrazi6ne di queste due tappe precedenti, in Galilea, in seguito a un mo­ mento nel quale Pietro «ha visto» il Cristo dopo la sua morte in croce. La forza di quest'ul­ timo momento deriva dal fatto, già ripetutamente segnalato nel corso di questo commen­ tario, che Pietro, pur essendo sconvolto fin nelle profondità del suo essere dallo scandalo della croce, non ha mai abbandonato del tutto la sua fede messianica. Un detto buddista di un maestro cinese ricorda: «Se hai abbastanza fede e se hai abbastanza dubbio, allora puoi entrare nella grande luce>>. Prima o poi qualcosa cede sotto la tensione di questi due contrari conservati intatti in fondo al proprio essere: può essere donata un'altra conoscen­ za delle cose. A quel punto Pietro è diventato «roccia>> e il suo carisma di testimone ha esercitato un'influenza straordinaria nella prima generazione cristiana, come dimostra un recente studio di Martin Hengel. Anche il grande Paolo doveva riconoscerlo.30 In Marco troviamo tutto il tracciato di questo itinerario. Cf. i quattro passi chiave in Mc 8,29; 8,32-33; 14,66-72 e 16,7, con l'enfatico Kttl 't>.32 In quest'ultima tappa nulla è assicurato in anticipo. Infatti, non � certo che le autorità giudaiche, conducendo colui che il racconto finora considera innocente fin davanti all'autorità romana per ottenerne la condanna a morte, avranno ipso fatto partita vinta. Resta un ultimo scoglio da superare e un'ultima suspense alimenta la trama narrativa: ci riusciranno? Sul piano dell'economia della violenza si pone nuovamente lo stesso problema: come riuscirà l'evangelista a raccontare in modo verosimile che un innocente sarà eliminato con violenza? Dal punto di vista drammatico Marco ripeterà qui uno schema che abbiamo già incontrato sopra, nel racconto della morte di Giovanni Battista (Mc 6,17-29). Là avevamo una sorta di dramma nel grande dramma. Qui avremo qualcosa di analo­ go: in quello che si presenta come il centro e il culmine del racconto della passione secondo Marco (l'elemento C della composizione ABA' C D), il narratore condur­ rà il suo racconto verso la soluzione tragica in base ai tre momenti classici di ogni dramma: l'intreccio, poi la peripezia che modifica i dati della questione e, infine, il momento del riconoscimento, seguito immediatamente dall'inevitabile conclusione verso quella che veniva chiamata «la catastrofe».

1 5,1 -5. L'intreccio con l'impasse della fase iniziale

In cinque versetti Marco caratterizza la situazione critica: le tre autorità sono collocate l'una di fronte all'altra in un triangolo drammatico ben noto. C'è l'accu­ sato, Gesù, davanti ai suoi accusatori che lo sospingono verso il prefetto, Pilato. Il dialogo si interrompe. L'ultimo verbo indica l'impasse: «Pilato era stupito» . . . 15,1: Kat Eùaùç npwt au1J.j3oUÀLOv nOL�aavnc; ot IÌPXLEpE1c; IJ.HÌ'c -rwv npEo�u-rÉpwv KllL YPiliJ.IJ.IlTÉWV KllL OÀ.OV -rò auvÉOp LOV, o�aav-rEç tÒV 'l'I'}OOUV &:�VEyKav Kat napÉOWKilV fi L�t�. 15,1: «E subito, al mattino, i capi dei sacerdoti prepararono un consiglio con gli an­ ziani, gli scribi e tutto il sinedrio; poi, dopo a-ver legato Gesù, lo portarono via e lo consegnarono a Pilato».

15,1: «E subito, al mattino>> (KaÌ. Eùeùc; npwt). Ritroviamo la mania di una doppia indicazione cronologica (cf. 14,72; 1,32; ecc.; cf. Neirynck, Duality) e il «Su­ bito>> (EùeUc;) molto amato da Marco. Al tempo stesso, non si può non stupirsi: que-

" «Lui che non aveva mai lottato per prendere il potere morl miserabilmente come un leader politico che aveva fallito una rivoluzione. Lui che aveva rifiutato il titolo di Messia morì come falso Messia. Così la solitudine di Gesù nel suo abbandono assume una dimensione tragica>> (così C. DuQuoc nell'introduzione a CousJN, Le prophète assassiné, l7). 808

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sto KaÌ. Eù6Uç segue quello che abbiamo appena trovato alla fine dell'episodio pre­ cedente (14,72). I due quadri, invece di succedersi, vengono quasi a coincidere. Questo rafforza l'effetto di contrasto: grandezza di colui che segue il suo destino e viene consegnato per andare a morire, e bassezza di colui che rinnega. «Subito, al mattinO>>. In 13,35 Gesù esortava i suoi a vegliare: nella sequenza dei quattro mo­ menti che egli nomina si trova, subito dopo «il canto del gallo>>, «il mattino». Qui i due momenti si concatenano come nel discorso del capitolo 13. I protagonisti dell'azione, nella memoria di Marco, sono «i capi dei sacerdoti». Qui sono accompagnati dagli altri due gruppi importanti: >, ogni volta che ricorre, ha una profondità tragica: cf. 1,14; 14,21; 14,41 -43. Tradimento, arresto, abbandono ­ in essi giocano al tempo stesso libertà e mancanza di libertà, costrizione violenta. Uno degli enigmi per la stessa tradizione è stato proprio la disponibilità di Gesù ad accettare questa prospettiva di una morte violenta e ignominiosa. Oltre ai vangeli. la Lettera ai Filippesi (2,5-11), quella agli Ebrei (5,7-10 e 10,5-10) e la Prima lettera di Pietro (2,20-25) hanno conservato un'eco di questa memoria di un Gesù «libero» fin nella sua ultima ora.35 Gesù ci viene presentato come arrestato e legato da una moltitudine di per­ sone e di autorità. L'effetto drammatico è voluto. Ma al di là della messa in scena drammatica, si intravede un'impressionante solitudine di Gesù: eccolo solo, conse­ gnato, abbandonato da tutti, estremamente vulnerabile. «L'amore non è amato» (s. Bernardo, s. Francesco d'Assisi). Dio nella sua divina vicinanza non è onorato, il suo nome non è santificato, la sua vulnerabilità più che umana non è rispettata. Il suo volto è schernito. Ogni volta che «i molti>>, come dice il salmista (rabbim, cf. Sal 3,2-3 e 4,7; ecc.), compaiono, bisogna stare in guardia. ,

15,2: Ka.Ì. È'!TT]pWtTJOEV a.ùtòv o Il LÀiitoc;, �ù EL o j3aoLÀEÙç twv 'IouOa.(wv; ò � à1TOKpL9ELç a.Ùtcil ÀÉyE L, .EÙ . ÀÉyE Lç.

"' Segnaliamo ancora la preghiera ripetuta del salmista: «Non consegnarmi nelle mani di» (LXX: Sal 26,12; 73,19; 1 18,121). " Cf. sopra il nostro commento all'agonia di Gesù in Mc 14,33-36 e L 'espace Jésus, 100-109. 810

La soluzione: l'ultima settimana. Marco 1 1-16

15,2: «Pilato lo interrogò: "Tu sei il re dei Giudei?". Gesù gli risponde: "Tu lo dici"». v. 2: «E Pilato lo interrogò». Transizione rapida: si è subito nel cuore del dibat­ tito. Il verbo è all'aoristo, l'azione puntuale. Nessun preambolo né presentazione della causa o delle circostanze (cf. un tutt'altro modo di raccontare in Gv 18,28-30). «Tu sei il re dei Giudei?» (:Eù Et ò f3aoLÀEÙc; '!WV 'Iouful.wv). La domanda, così brusca, suppone che Pilato abbia ricevuto almeno qualche informazione da parte dei capi dei sacerdoti sotto forma di un'accusa formale: quest'uomo pretende di es­ sere re e così contesta il potere romano esercitato sul nostro paese. È quindi peri­ coloso. Marco non dichiara nessuno di questi presupposti. Tutto questo era chiaro per il destinatario della sua comunità? Giovanni invece completa l'informazione (cf. 18,30s). Comunque Pilato viene presentato come colui che gestisce la questio­ ne. Non rappresenta una parte fra le altre che difende o accusa: egli agisce come giudice. «E lui, rispondendo, gli dice». La formula che introduce la risposta è piuttosto ampia, carica, e l'ultimo verbo, al presente storico, ci pone in primo piano sulla sce­ na. :Eù A.ÉyELç: «Sei tu che (lo) dici». La risposta è enigmatica. È come se si rinviasse subito la palla nel campo dell'altro. Il quarto evangelista non esiterà ad approfondi­ re subito questa risposta: «Lo dici da te stesso o altri te lo hanno detto di me?» (Gv 18,34).36 Si può intravedere una certa ironia già nel testo di Marco. Non si conosce Gesù attraverso termini o titoli che gli vengano rivolti dal di fuori. Ogni designa­ zione che non contenga una sincera confessione diventa una forma di disprezzo. A partire da 8,29.34 voler conoscere Gesù diventa un impegno effettivo, un voler «se­ guire» deciso. Chi si avvicina a Gesù in modo diverso emette suoni come la raga­ nella: il rumore gli ritorna e basta. Gesù - e in lui ogni altro uomo - non può essere compreso attraverso un nome o un titolo senza alcuna forma di impegno nei suoi riguardi. La vera conoscenza passa attraverso una condotta coerente. Conoscere effettivamente Gesù, anche senza una parola, ecco la cosa più grande sotto il sole. Alcuni, come la vedova povera con il suo obolo all'ingresso del Tempio, lo hanno conosciuto senza averlo mai visto né incontrato, senza neppure un atto di confessio­ ne esplicita. L'unica parola di Gesù in mezzo alle discussioni (où A.ÉyE Lc;) e al centro di questo primo quadretto tratteggiato da Marco, interroga tragicamente ogni accu­ sa a suo riguardo. Si sente come un'eco dell'osservazione fatta dal quarto vangelo: «Chi di voi mi convincerà di peccato?» (Gv 8,46). L'innocenza dell'accusato rischia di risplendere pericolosamente nel ben mezzo del erocesso. «Re dei Giudei» (f3aoLÀ.EÙç '!WV ' Ioulìocl.wv). E cosi che nei quattro vangeli il prefetto romano interroga Gesù. Come tale, questo titolo è pronunciato solo da non ebrei: nella passione da Pilato e nel vangelo dell'infanzia in Matteo, dove i magi, venuti dall'oriente, lo cercano sotto questo titolo (Mt 2,2). Il titolo messia­ nico regale in ambiente ebraico era «re di Israele» (cf. Mc 15,32; Gv 1,50) o an-

36 Il testo trasmesso (aù ÀÉyHç) non comporta per lo più alcuna punteggiatura: si tratta di una domanda o di una semplice affermazione? Sembra che Giovanni Io abbia riletto come una domanda. Nel Talmud (bPes 4a) si può leggere questo dialogo a nome di R. Giosuè, figlio di R. Idi: « . . . Egli è morto - Siete voi a dirlo, non sono io», e aggiunge: «Chi diffonde una brutta notizia è un insensato». In questo passo, l'implicazione «non sono io» è resa in modo implicito.

Seconda parte: Marco 14,53-15,4 1

81 1

che «di Giuda».37 Il non ebreo formula così l'attesa messianica degli altri secondo un'espressione che sembra loro significativa, e vi si può sempre cogliere una punta politica (così Gnilka II, 299). Gesù viene detto «re», in modo diretto o sotto la co­ pertura di una parabola in Mt 25,34.40; Le 19,38; Gv 6,15; Al 17,7. In Marco non si è mai presentato come «re>>. Tutt'al più vediamo che, in occasione del suo ingresso a Gerusalemme, la folla lo acclama dicendo: >, unico caso in tutta la Bibbia greca. Come ha già fatto, specialmente al capitolo 5, Marco introduce qui nel suo rac­ conto un racconto laterale, una storia passata che a suo avviso vale la pena raccon­ tare. Parla di una sedizione come di un momento noto: «la sedizione>>, con l'articolo definito. Episodi del genere non sono certamente mai mancati in un paese occupa­ to da un esercito, ma le informazioni che possiamo raccogliere in Giuseppe Flavio su questo periodo non ci permettono di scoprire questo momento di ribellione nel quale operava un certo personaggio soprannominato Barabba.41 Per il lettore questa informazione su questo criminale è sorprendente: ecco una figura che per il suo soprannome evoca Gesù, ma per la sua condotta è esatta­ mente il contrario. L'uno ha ucciso ed è un ribelle dichiarato all'autorità romana, l'altro ha guarito malati e persino risuscitato una bambina considerata morta, e non ha mai predicato contro il potere occupante. Impressiona il fatto che Gesù abbia potuto essere paragonato a un soggetto del genere. Il ritratto di «Barabba» che fa Marco con due pennellate conferisce profondità al racconto che segue. La sua scrit­ tura, piena di effetto sul piano drammatico e mirabilmente coerente come trama,

'" Cf. ARISTOTEJ;E, Poet. 14,1453b 15-21; LAUSBBRG, Handbuch, §§ 1211-1212. 41 Lo stesso del resto riguardo a due fatti di cronaca raccontati da Luca in testa al capitolo 13 del

suo vangelo. Né il crollo della torre di Siloe né le rappresaglie di Pilato contro i galilei si ritrovano tali e quali nei dossier, tuttavia ricchi di informazioni, dello storico ebreo Giuseppe Flavio. Seconda parte: Marco 14,53-15,41

815

non facilita il compito di chi vorrebbe, come storico, individuare dietro al tessuto del testo ciò che è realmente avvenuto. v. 8. Chiusa la parentesi, si ritorna al racconto diretto. Ecco comparire la folla. Dopo l'ascolto della parentesi, la sua comparsa non stupisce. Per quanto possa sem­ brare un nuovo attore, in realtà, la sua comparsa era prevedibile quando si ricorda che, in occasione della festa, c'era la consuetudine di liberare un prigioniero. Que­ sta folla non era più entrata in scena dai capitoli 1 1 e 12. Aveva acclamato Gesù in occasione del suo ingresso in città. Ma in Marco questa folla possiede una scarsa ca­ pacità di discernimento: saluta in Gesù la venuta del regno di Davide, mentre Gesù non persegue altro regno che quello di Dio. Gesù si è congedato dalla folla alla fine del capitolo 12, non senza metterla in guardia dagli scribi e chiarire la relazione fra il figlio di Davide e il Messia. Da parte loro, scribi e capi dei sacerdoti, all'inizio del capitolo 14, decidono di arrestare Gesù, ma agendo con prudenza, «Con l'inganno>>, e soprattutto non «durante la festa>>, perché temevano («sempre)), dicono alcuni manoscritti: IÌE L). I vv. 6 e 7, la pa­ rentesi narrativa, sono indispensabili per comprendere ciò che qui si dice in modo estremamente conciso. Sul piano dei ruoli c'è di che stupirsi: Pilato si trova brusca­ mente davanti a un nuovo attore, «la folla>>. Non è chiaro per nessuno dove si debba collocare esattamente questa folla. Finora si sarebbe tentati di collocarla lontano dagli scribi, lontano dai capi dei sacerdoti e più vicino a Gesù, dal momento che è entusiasta del suo insegnamento (in 13,37 si diceva che «lo ascoltava volentieri>>; cf. la parabola con Erode in 6,20!). Rispetto al potere romano, venendo a reclamare la liberazione di un prigioniero essa è chiaramente nell'altro campo, quello che si op­ pone al regime che occupa il paese. Notiamo ancora che la frase è redatta in modo tale da rispettare ancora una volta l'ambivalenza dei soggetti che alla fine decide­ ranno: essa reclama che lui faccia ciò che egli aveva l'abitudine di fare. È lui a deci­ dere, ma è essa che reclama . . . Perciò, a partire dal v. 6, due ulteriori intermediari hanno reso più complesso il triangolo drammatico: Pilato

Gesù

i capi dei sacerdoti

Anche nella passione del Battista abbiamo visto inserirsi nella storia un inter­ mediario al momento della festa, cioè «la figlia di Erodiade)): 818

La soluzione: l'ultima settimana. M8rco 1 1-18

Erode

Erodiade

Giovanni

Questi intermediari sono sollecitati proprio dal contesto della festa. Essi offu­ scano la vista del protagonista, in casu Pilato ed Erode, e a un certo punto permet­ tono alla violenza di colpire il bersaglio innocente. Ora Pilato riprende in mano le cose e si rivolge alla folla che è salita.42 15,9: O Of: Il L ÀAit"oç fi1TEKpL&rj IXÙto1ç À.Éywv, 0ÉÀEtf à1TOÀOOW ÙJ.l.LV tÒV paoLÀfiX twv 'louòal.wv; 15,9: «Pilato, prendendo dei?"�.

la

parola, disse loro: "Volete cbe vi rilasci il re dei Giu­

v. 9. Più che dare una risposta, Pilato pone una domanda, ma proponendo già un nome. Con ii 0ÉÀEtE («Volete») in testa, egli si dispone a fare ciò che la folla re­ clamerà. Al tempo stesso è lui, e nessun altro, a rilasciare il prigioniero (à1Toloow). Il testo, a livello delle libertà, è sottile e rigoroso. Vulnerabilità e autorità: entrambe chiaramente presenti fin dalle prime due parole della proposta di Pilato. Infine, egli suggerisce il cosiddetto può suonare solo favorevolmente agli orecchi del popolo. Quest'ultimo viene a chiedere la liberazione di uno dei suoi combattenti contro il potere occupante. Pilato fa una proposta e offre loro il migliore di tutti, il loro «re>>! Il Vangelo di Matteo presenta la proposta di Pilato in modo ancora più chiaro: Pilato sottopone al popola una vera alternativa. Possono scegliere fra «Gesù, detto "Barabba">> e «Gesù chiamato "Cristo"» (Mt 27,17, così perlomeno in alcuni ma­ noscritti, come ad esempio 0). Qui Matteo, e particolarmente il testo che ha lo stes­ so nome proprio per le due persone proposte da Pilato, non potrebbe evidenziare meglio la difficoltà di scelta per la folla. Quest'ultima si trova davanti a una chiara alternativa e mentre Pilato, nella versione di Marco, sembra in qualche modo sug­ gerire di liberare prima di qualsiasi altro questo preteso «re dei Giudei>>, che non

42 Piccolo dettaglio di critica testuale: un numero impressionante di testimoni ha, invece di livap&.; («essendo salita», B D lat), il participio &vat3o'floaç («tornando a gridare»). A livello della trasmissione, l'uno deve certamente derivare dall'altro. La soluzione più plausibile è vedere nel secondo una riscrittura del primo. Si può immaginare che alcuni non abbiano compreso i vv. 6 e 7 come una parentesi narrativa e abbiano quindi interpretato l'azione della folla come un nuovo (!Ìva-) pressante appello in «gridando»

(J3o�o�).

Seconda parte: Marco 14,53-15, 4 1

817

sembra assolutamente pericoloso per il potere romano che egli rappresenta, la fol­ la non sa decidere. Entrambi sono ai suoi occhi dei ribelli che contestano il potere esistente. Come la piccola danzatrice nel giorno del compleanno di Erode, la folla non ha in se stessa la capacità di manifestare una preferenza. Come potrà la bilancia pendere da una parte piuttosto che dall'altra? 15,10-12: ÈyLVW>. oLà >, unico caso in Marco). In questo modo il narratore ci comunica la sua comprensione delle cose. Indirettamente questo gli permette di affermare, ancora una volta, che Gesù, anche agli occhi di Pilato, non è veramente colpevole. La proposta del procuratore, secondo Marco, orienta la scel­ ta della folla e implica che egli non crede alle accuse addotte contro Gesù. L'aspet­ to tragico di ciò che segue è che, rivolgendosi alla folla e quindi cercando di non assecondare il piano dei capi dei sacerdoti, di sicuro egli cadrà ancora di più nelle loro reti. v. 11. 'AvaaE (Hv («incitare», verbo assente nella LXX), unico caso in Mar­ co; cf. l'unico altro caso nel Nuovo Testamento in Le 23,5, dove viene detto. come accusa, a proposito di Gesù nei riguardi del popolo. 'tva. IJ.iiÀÀov, «piutto­ sto Barabba >> che «il re dei Giudei>>. In sé la folla è incapace di scegliere: il così detto «Barabba>> e il così detto «re dei Giudei>> non sono mere equivalenze ai suoi occhi? Gesù riceve un titolo che lo allinea ai rivoluzionari, e il criminale. membro di un gruppo di rivoltosi che contestano il potere romano, riceve un so­ prannome che lo eguaglia a Gesù, «figlio del padre». A partire dal capitolo 1 1 . l a folla aspetta solo u n leader politico, capace d i scrollarle d i dosso i l giogo del potere dell'occupante. Dal punto di vista drammatico, il punto critico attraverso il quale può en­ trare la violenza e colpire l'innocente è proprio questa equivalenza che riduce il soprannominato Barabba a Gesù, presentato come , Essi non rispondono alla domanda, ma gridano ancora più forte che sia crocifisso. La ripetizione scandisce il verdetto. L'azione segue una curva fatale, inevitabile. v. 15. Con questa proposta piuttosto solenne in tono ufficiale, Marco fa con­ cludere a Pilato il processo nel rispetto della forma. Si sono inseriti due latinismi. certamente non in modo del tutto casuale riguardo al primo: tò tKa.vòv 1TOLf)oa.L corrisponde al latino satis facere. E, per dire , Marco si serve di un calco del latino: «!!pa.yEHoùv (cf. jlagellus, assente nella LXX; cf. Mt 27,26; così già Swete [374] che cita EvNicod 9,16 e TestBen 2,3). Pilato, come Erode, cede. Lo fa salvando la forma: �OUÀ.OiJ.Evoc:; ( (cf. Mc 9,31; 10,45; 14,24 e ls 53,5.12).

·15,1 6-20. Scherni e coronazione di spine da parte dei soldati romani

In cinque versetti, come una piccola digressione, Marco ci mostra il trattamen­ to derisorio che i soldati fanno subire a Gesù. Si fanno beffe di lui e del titolo che le autorità giudaiche gli hanno affibbiato: «re dei Giudei>>. I commentari sottoline­ ano che non è questione di flagellazione propriamente detta, nonostante ciò che si dice al v. 15 a proposito della decisione di Pilato. «Flagellare>> significava letteral­ mente colpire la vittima con corregge di cuoio (jfagellum) alle cui estremità erano attaccati degli ossicini o delle palline in metallo. Comunque non manca una forma di tortura, quando si pensi ad esempio alla corona di spine di acanto che gli venne calcata in testa. L'evangelista Giovanni collocherà l'episodio esattamente al centro di tutta la composizione del racconto della passione. Si può vedere facilmente che il centro del suo racconto (Gv 18-19) è occupato dal processo davanti a Pilato (1 8,28-19,16), che è di gran lunga la parte più imponente di tutte, con i suoi sette quadri (29 versetti in tutto). Al centro dei sette quadri, il quarto è il momento in cui i soldati romani scherniscono Gesù, gli mettono sul capo una corona di spine e lo salutano come «re dei Giudei» (Gv 19,1-3). In Giovanni questo titolo orienta tutto il racconto della passione: più Gesù verrà rinnegato e misconosciuto dai suoi come re, più vedrà con­ fermata nell'azione questa sua qualità regale. Perciò Giovanni ha riletto questo epi­ sodio di Marco non come una parentesi secondaria, ma come ciò che, con una certa ironia, porta a compimento quello che i giudei si rifiutano di riconoscere: egli è ve­ ramente il re dei Giudei. La tradizione iconografica, specialmente in occidente, iso­ lerà questo momento del ciclo della passione e contemplerà questo Gesù «seduto sulla fredda pietra>>, come si dice ad esempio nelle Fiandre, coronato di spine, con le mani legate, a volte con una canna fra le dita, una clamide purpurea sulle spalle, insanguinato su tutto il corpo. La contemplazione, oltre a provare una grande pie­ tà e commiserazione per l'uomo dei dolori, vi attinge anche una forza paradossale. Quest'ultima non deriva da una qualche capacità stoica di incassare colpi ingiusti. In Gesù silenzioso che accetta la volontà di Dio avviene un'inversione delle forze: l'umile risplende, non si sa come. L'episodio in Marco è raccontato con grande vivacità. Non meno di quindici verbi in questo unico quadretto. La disposizione dell'insieme è molto curata. Il nar­ ratore conferisce alla scena una cornice facilmente leggibile e una struttura inter­ na concentrica piuttosto evidente, mettendo in risalto al centro il saluto sarcastico: «Salve, re dei Giudei !>>: a. '(va O'tOCUpW9fj perché sia crocifisso (v. 1 5) b. oL òÈ O'tpOC'tLW'tOC L ò:miya.yov i soldati lo condussero dentro (v. 16) OCU'tÒV f(J!.t) 'tTJupav K«Ì. nEp Ln9Éaow au-re\) dÉ�«v-rEc; àKavewov o-rÉ!f>avov· 15,16-17: «l soldati Io condussero dentro il palazzo, che è il pretorio, e convocano tutta la coorte. Lo vestono di porpora, poi, avendo intrecciato una corona di spine, gliela mettono». v. 16. «< soldati» (o-rpanw't«L, unica menzione in Marco) furono reclutati fra la popolazione pagana della regione siro-palestinese e di altri luoghi, e sottoposti all'autorità di Pilato. Il loro comportamento durante questa scena può essere inter­ pretato in parte come uno sfogo nei confronti della popolazione giudaica, nota e spesso disprezzata per le sue attese regali indipendentistiche. ànaynv (>. Elemento finale, redatto all'imperfetto, che indica la ripetizione del gesto. La formulazione usata è di nuo­ vo un latinismo: n8ÉvaL t& y6vata corrisponde a ponere genua (cf. la formulazio­ ne abituale in Mc 1,40: yovU1TEt�oaç e 10,17; Luca non esita a scrivere allo stesso modo 8Elç rù y6vara in Le 22,41; At 20,36 e 21,5). Quest'ultimo membro della frase fa inclusione con l'inizio, indicato al v. 18: «ed essi cominciarono a salutarlo>> (Kat �p!;avro ào1Ta(E08aL aùr6v). La tradizione manoscritta D non ha conservato l'elemento: alcuni possono essere stati scandalizzati da queste genuflessioni quasi sacrileghe. La genuflessione è generalmente associata alla preghiera (cf. soprattut­ to Luca: 22,41; At 7,60; 9,40; 20,36; 21,5). Qui si tratta di un gesto ironico, che fa gli onori del re o del comandante dell'esercito. v. 20a. La scena degli scherni è chiusa. Lo stesso narratore precisa che si è trat­ tato proprio di questo: (Èi.l.lT«L(E Lv, cf. 10,34, annun­ ciato da Gesù, e ancora in 15,31, sotto la croce). Gesù riceve indietro le sue vesti (vari manoscritti precisano: rù tj.Liina rà 'tota). Poi viene condotto al luogo della crocifissione. Si ritorna così sulla proposizione del v. 15. Sembra che tutta la scena intermedia serva sia a esplicitare il >; «Non arrossiscano di me coloro che sperano in te; non abbiano vergogna di me coloro che ti cercano, Dio di Israele>> (Sal 69,10.7). «Sarebbe troppo poco limitarsi a conoscere il racconto della passione. Il cristiano deve esserne pro­ fondamente segnato, perché è unito a Gesù da uno stesso destinO>> (Gnilka II, 309). Seconda parte: Marco 14,53-15,41

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1 5,20b-22. Il cammino della croce

Ormai resta solo da raccontare l'esecuzione. Essa si presenta come una serie di quadretti successivi, incorniciati da precise annotazioni cronologiche e topogra­ fiche: di tre ore in tre ore si segue il corso degli eventi. Allo stesso modo si vede delinearsi un movimento nello spazio dal pretorio al Golgota, poi, in finale, dal Golgota di ritorno a Pilato al pretorio, per finire al sepolcro (15,44.47). Risuonano nuovamente i toponimi «Gerusalemme» e «la Galilea» (15,41 ; 16,7) e, per un mo­ mento, si parlerà ancora del Tempio (15,38). Risuonano anche molti nomi propri: una dozzina. Il seguito del racconto ha i suoi testimoni, a cominciare da Simone di Cirene, identificato per i destinatari come «il padre di Alessandro e di Rufo>>. Anche se noi non conosciamo più i due figli, certamente allora il racconto poteva basarsi, per i destinatari, su testimoni così vicini come questi due personaggi cono­ sciuti dalla maggior parte dei fedeli. Marco, che con ogni probabilità scrive a meno di cinquant'anni dagli avvenimenti, aveva nella cerchia dei suoi destinatari persone che avevano conosciuto i testimoni diretti di ciò che era avvenuto quel giorno, un venerdì, alla vigilia della festa di Pasqua, il 7 aprile dell'anno 30. 15,20b-21 : Kat Èçayouaw airròv 'Lva a't'aupwawaw aù't'ov. 21Kat &yyapEuouaLv 1Tapayov't'a nva �(llwva KupTJva1ov ÈPXOilEvov à1T' àypoù, 't'Òv 1Ta't'Épa 'AÀ.Eçavopou K«L 'PoucjlOU, '(va apu 't'ÒV O't'aupÒv aÙ't'OÙ. 15,20b-21: «E lo conducono fuori per crocifiggerlo. E costrinsero, per portare la sua croce, Simone di Cirene, il padre di Alessandro e di Rufo, che passava di lì, tornan­ do dai campi�. v. 20b: «E lo conducono fuori per crocifiggerlo». Ritorniamo un momento alla fine del v. 20, dove apprendiamo chi compie l'azione: il plurale rinvia ai soldati, se­ gnalati al v. 16. Essi lo conducono fuori (È#youa Lv aÙ't'ov), un movimento che cor­ risponde in modo antitetico a quello descritto sopra, quando lo avevano «condotto all'interno del pretorio». «Fuori>> significa quindi fuori dal palazzo e, al di là della formulazione vaga, si può completare adeguatamente in «fuori della città», verso il luogo delle esecuzioni. v. 21 : &yyapEuE Lv («ingiungere, requisire, costringere>>), unico caso in Mar­ co. Verbo di origine persiana, angariare in latino (cf. Mt 5,41 e 27,32, assente nella LXX). 1TapayE Lv («passare>>, cf. 1,16). ciyp6ç, «campo», cf. 5,14. KupTJvaloç, «di Ci­ rene», venendo dalla regione costiera a ovest dell'Egitto, la Cirenaica. Se ne parla in At 6,9; 1 1 ,20 e 13,1 («Lucio di Cirene>>, fra i profeti e dottori ad Antiochia). «Per portare la sua croce>>, certamente il patibulum o trave trasversale che il condannato doveva portare personalmente fino al luogo del supplizio. Si fissava a questa trave il condannato con le braccia aperte prima di sospenderlo in alto su un palo vertica­ le conficcato in terra. Nella passione secondo Giovanni non si fa alcuna allusione a Simone di Cirene. Là si dice che Gesù stesso «portava la sua croce>> (Gv 19,17, con una probabile allusione a lsacco, che salì insieme al padre sul monte Moria por­ tando personalmente la legna, Geo 22,6). I soldati requisiscono Simone. Non se ne indica il motivo. Si può ipotizzare, con R.R. Brown ( The Death of the Messiah, II. 914-915) e molti altri, che alla partenza Gesù stesso abbia portato la trave, ma che. dopo un pezzo di strada, varcata la porta della città, abbia mostrato segni di fatica.

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La soluzione: l'ultima settimana. Marco 1 1-16

Cosi si prende il primo venuto, un passante che viene da fuori città (ÈPXOflEVov à1r' à.ypou ), e lo si costringe ad aiutare Gesù. Su Simone apprendiamo molte cose. La cinepresa di Marco vuole metterlo in risalto. Si ricorda la sua origine: della Cirenaica. Un giudeo affrancato (cf. At 6,9)46 o un pagano proselito? Uno dei molti pellegrini giunti in città per celebrarvi la festa di Pasqua? O uno che veniva dai campi dove aveva lavorato fin dal mattino? Alcuni ne hanno dedotto che quel venerdl non fosse già giorno di festa: infatti sarebbe sta­ to impensabile andare a lavorare nei campi. D'altra parte, è impensabile che Pilato potesse ordinare un'esecuzione del genere il giorno stesso della festa. Sia come sia, il testo è troppo sobrio per permettere di rispondere in modo categorico a tutti que­ sti interrogativi. Come ultimo elemento ci viene detto che egli è «il padre di Ales­ sandro e di Rufo». Qui si può notare una strizzatina d'occhio del narratore ai suoi destinatari. Si suppone che in qualche modo essi conoscano questi nomi. Matteo e Luca omettono i nomi dei figli e Giovanni, come abbiamo visto, non conserva nep­ pure quello del padre. Un «Rufo>> (nome latìno) è noto a Roma, secondo la Lette­ ra di Paolo ai Romani (16,13). «Alessandro>> invece non ha certamente nulla a che vedere con quello degli Atti (19,33, un giudeo di Efeso) o con quello delle lettere pastorali (1Tm 1,20; 2Tm 4,14, dove si tratta di un cristiano apostata). Di questo Simone si dice che fu indotto a «portare la croce>> di Gesù. L'espres­ sione ricorda l'esortazione centrale di tutto il vangelo: Mc 8,34: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, [ ] porti la sua croce (à.pa:rw 't"Òv > nella Prima lettera di Pietro, e Alessandro, figlio dell'altro Simone, si incontrano e si frequentano nella stessa città. Come per la storia di Bartimeo, il mendicante cieco di Gerico (10,45-52), Marco racconta il momento essenziale di una vita e tutto ciò che ritiene necessario dire ai suoi lettori, ma senza riempire tutti i vuoti del seguito della storia che comunque deve essersi compiuto. Con questo ultimo elemento del «portare la croce», Simone è entrato nell'ico­ nografia e nella spiritualità come un modello del discepolo di Gesù. È stato talmen­ te vicino a lui da poter portare la croce del Salvatore del mondo. Si intravede un . . .

46 Un affrancato (hj3Ept(voç, dal latino libertinus) era un giudeo condotto schiavo in Italia, ad esempio dopo la conquista della Palestina da parte di Pompeo nel 63 a.C., poi liberato dal suo padrone, o anche il discendente di vecchi schiavi.

Seconda parte: Marco 14,53-15,41

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paradosso analogo a quello del Cristoforo della leggenda: quest'ultimo porta sulle sue spalle il Bambino Gesù, che regge nella mano il globo terrestre. Chi porta chi? Infatti il Bambino divino sulle spalle del gigante che attraversa il fiume porta anche, insieme al globo, colui che, in quel momento, lo ha preso in spalla. Un grande dise­ gno a china su tavola dell'artista inglese Frank Brangwyn ci presenta Gesù che por­ ta Simone che porta la croce (sala capitolare del monastero benedettino di Saint­ André a Bruges). Mistero della libertà: coinvolto forzatamente dalla soldatesca ro­ mana, Sirnone scopre camminando, volente o nolente, chi sia colui di cui porta il legno del patibolo. Si sono scambiati qualche parola? È stato toccato dalla dolcezza del condannato, dal tono della sua voce, dalla bontà del suo sguardo? Io porto la croce di colui che mi porta con la mia croce. La sua croce non è in realtà - secondo l'immensità della sua innocenza e del suo amore - quella di tutti noi? Il fatto che sia stato conservato il suo nome proprio insieme a quello dei suoi due figli significa che quel gesto lo ha finalmente condotto - Dio solo sa per quali deviazioni o mediazio­ ni - fino alla prima comunità dei fratelli. La versione lucana del passo sottolinea in modo ancora più chiaro l'aspetto esemplare di quanto accade a Simone: «Mentre lo conducevano via, fermarono un certo Simone di Cirene che tornava dai campi e gli misero addosso la croce, da portare dietro a Gesù» (Le 23,26). Così egli compie alla lettera ciò che è richiesto al discepolo: camminare dietro a Gesù e portare la croce (Mc 8,34 Il Le 9,23). Il fatto che sia costretto e che la croce non sia la sua ma quella di un altro, non diminuisce minimamente l'aspetto esemplare del passo. Gesù comincia il suo viaggio verso la morte incontrando sulla strada un uomo che, costretto, lo aiuta e resta a sua volta segnato dall'incontro. All'altro capo del racconto Marco segnalerà la presenza di donne della Galilea (15,40-41). Così il rac­ conto della fine trova una cornice dalla quale traspare comunque un 'altra umanità, nonostante tutto l'orrore e la violenza di queste ultime ore di vita del Maestro. 15,22: KIÙ ÉpOUOLV U.Ù'tÒV È1TL 'tÒV roì..yo9éiv 't01TOV, O ÈO'tLV �E9t:p�T}VEUO�EVOV Kpa.v[ou T6uoç. 15,22: «E conducono Gesù al luogo detto Gòlgota, che significa "luogo del Cranio"�. v. 22. Il primo verbo, al presente storico (Ka.l ÉpouoLv), come del resto al ver­ setto precedente, ci fa rivivere gli episodi in primo piano sulla scena. Sarà così dal v. 21 al v. 27 (cinque verbi al presente). Essi lo «portanO>>, dice il testo alla lettera (ÉpouoLV), come si portavano i malati a Gesù per essere guariti, toccati, salvati (cf. ciJÉpoooLV in 7,32 [un sordomuto] e in 8,22 [un cieco], cf. l ,32; 2,3; 6,55; 9,19-20; ecc.). Ora è lui a essere condotto, «portato». L'a.ù-r6v come oggetto diretto del verbo è stato reso con il nome proprio di «Gesù» in molte Bibbie (così la BJ), ovviamente per evitare che si pensi a colui che è stato requisito: Simone di Cirene. Certo, dal punto di vista grammaticale, la confusione sarebbe giustificata, e nel corso della storia non tutti hanno colto la correzione da fare: fin dal II secolo alcuni, come i discepoli di Carpocrate (e sulla loro scia molti doceti dai quali erediterà la tradizio­ ne musulmana nel VII secolo) leggeranno il passo di traverso. Per loro non è stato Gesù a essere crocifisso, bensì Simone, al suo posto. Il testo di Marco, e solo il suo. si presta a una tale confusione. Per o Èonv cf. 3,17, a proposito del soprannome dei figli di Zebedeo, o 7,34 («Effata» ). «Tradotto» (�E9t:p�T}VEuo�Evov, cf. 5,4 1 ; 15,34). «Golgota>> (roì..yo9éi) è la traslitterazione approssimativa del termine aramaico Galgalta (in ebraico: Gul-

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La soluzione: l'ultima settimana. Marco 1 1-16

goleth). Significa «cranio», nome dato a una collina a causa della sua forma o del­ la sua funzione. Il luogo delle esecuzioni era in realtà una zona di grandi cave di pietra, appena a nord della città, poco oltre le mura di cinta. «Cranio di Adamo», dirà la leggenda riflessa dall'iconografia bizantina (nella quale ai piedi della croce si dipinge una cavità buia con dentro un cranio) e attestata dalla venerazione della tomba di Adamo nella stessa chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme. Il termine «Calvario» deriva dalla versione latina del passo: quod est interpretatum Calvariae locus. Questo luogo deve essere collocato fuori della città, come si può dedurre dal v. 20 ma ancor più da Gv 19,20 («vicino alla città>>) ed Eb 13,12: Gesù ha patito «fuori della porta». Il luogo è stato identificato dai cristiani dopo la distruzione del­ la città nel 70 e, una seconda volta, dopo la guerra di Adriano nel 135, all'epoca di Costantino (inizio del lV secolo).

1 5,23-27. La crocifissione

15,23-25: KaÌ. Èotoouv aurq> t:011UPVLOI1Évov oivov· i>ç 1'iÈ OUK €J..a.13t: v. �aì. O'taupoiìoLV auròv KIXÌ. OLIXIlt:P L(OV't(Xl tà Lf!llna aùtou, lk(UoV'tt:ç dfìpov È1T' autà t(ç tL &pn. 25fjv 1'iÈ wpa tp LtT] KIXÌ. Èotaupwoav autov. 15,23-25: «E gli davano vino profumato di mirra, ma egli non ne prese. Poi Io croci­ figgono e si dividono le sue vesti, tirando a sorte ciò che ognuno avrebbe preso. Era l'ora terza quando lo crocifissero». v. 23. Prima di passare all'atto più doloroso, quando, a terra, si stendono le brac­ cia per fissarle al legno del patibulum, cioè alla grande trave trasversale, offrono al condannato del vino, certamente per permettergli di sopportare meglio il dolore. C'e­ ra l'abitudine in ambiente ebraico di dare del vino ai morenti, un'abitudine già atte­ stata in Pr 31,6 («date bevande inebrianti a chi si sente venir meno»). Cf. nel Talmud bSanh 43a (altri riferimenti in Billerbeck l, 1037s). «Essi davano>> (Èo(oouv), all'im­ perfetto: cercavano, si sforzavano di dare, de conatu. «Un vino profumato di mirra» (dal verbo o�tupv((nv, «arricchito di mirra», hapax). Matteo riscrive in modo più chiaro e lasciando trasparire meglio l'allusione al Sal 68,22: «Essi gli diedero vino misto a fiele>> (ÉI'iwKav aùt4} 'ITLE:i.v otvov j.Lt:tà XOÀfìç llf:I1LYI1Évov, Mt 27,34); Sal 68(69),22: «Ed essi diedero nel mio cibo del fiele e nella mia bevanda dell'acetO >> (KaÌ. €1'iwKav c:tç tò ppWj.ui 11ou zoÀ�v KaÌ. c:lç t�v o(ljlav 1-1ou È'ITonmiv 111: ISçoç); cf. ancora Lam 3,15: «Mi ha saturato di amarezza, ubriacato di fiele (XOÀ�)>>. oç OÉ («ma egli>>), transizione piuttosto brusca e non del tutto chiara (senza un oç llÉV, cf. Blass 146, 331 ). Matteo, come al solito, risolve il problema di sintas­ si e chiarisce al tempo stesso il senso: «avendo assaggiato, non ne volle bere» (KaÌ. yc: umij.Lt: voç ouK 1Ì9ÉÀT]OE:V mt:i.v, M t 27,34). Come interpretare quest'ultimo rifiuto? Niente droga, niente calmante? Niente consolazione terrena? Digiuno, in coerenza con quanto aveva detto nell'ultima cena: «Non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò, nuovo, nel Regno»? Digiuno e silenzio. Stremato, come attesta indirettamente la necessità di far intervenire Simone di Cirene per portare la trave, Gesù conserva comunque una lucidità sufficiente per rifiutare il gesto di coloro che vogliono fargli bere quel vino.

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Il quarto evangelista, come spesso accade, contraddice la versione dei sinot­ tici. Ci mostra Gesù che grida: «Ho sete» e accetta di bere l'aceto che gli viene of­ ferto in una spugna imbevuta posta in cima a una canna di issopo (Gv 19,28-30). Là vi è certamente un'altra coerenza, in collegamento con ciò che aveva detto lui stesso in 18,11: «La coppa che il Padre mi ha dato, non dovrò berla?» e per com­ piere le Scritture (che dicono: >, o più letteralmente , unico caso qui in Marco. Per tLç t L («chi che cosa?>>) cf. Le 19,15, dove ci si espri­ me allo stesso modo. Il narratore passa di colpo a un'azione secondaria espressa in modo da evocare un passo scritturistico. Si dividono le vesti, come si dice testualmente nel Sal 22(21), cf. v. 19. Gesù è spogliato di tutto. È la seconda volta che gli tolgono gli abiti. Colpo su colpo la sua identità è spogliata, messa a nudo. Nudo come uno schiavo. Nudo e innocente. Ciò che resta diventa bottino per i soldati. Famiglia o amici non vi parteci­ pano più in alcun modo. Il grande Sal 22 attraversa il racconto. «Perché mi hai abban­ donato?>>. L'innocente messo a nudo, vittima sospesa al patibolo, è una domanda che si rivolge a Dio. Dov'è Dio? Elia Wiesel, internato in un campo di concentramento a sedici anni, fu testimone all'esecuzione di un giovane prigioniero che si dibatteva im­ piccato a una corda, prima di cedere alla morte. Sentì le domande irrompere tutte in una volta, specialmente quella di Dio: dove è Dio in questo momento? Qui, è come se il testo narrativo non riuscisse a fissare l 'azione della crocifis­ sione e saltasse su un dettaglio secondario che ricorda un altro testo, il quale invece offre un senso. Ma l'altro testo avrebbe potuto essere scritto se qualcuno non fosse stato condotto fin sulla stessa soglia e l'avesse oltrepassata? Perciò l'associazione non è solo un modo discreto di schivare la durezza della terribile realtà, ma soprat­ tutto un modo per testimoniare il senso scoperto confrontandovisi fino in fondo. Ogni citazione scritturistica comporta sempre questa sfumatura: è Dio a dare le car­ te. Come nel Sal 22, il salmista osa dire: (v. 16). Tutto ciò che avviene non cade mai completamente al di fuori del

-l in ogni muro, ogni pietra o tronco l o nel mio petto, o, accovacciato, nella sabbia, Il E io rispondo alle persone che mi interrogano: l " Egli è nella mia mano un chiodo conficcato "»).

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suo disegno. Ma il grande contesto assicura: «Egli non ha disprezzato né disdegnato il povero nella sua povertà>> (Sal 22,25). Siamo quindi testimoni di un pudore e di una grande fede: sobrietà nell'evo­ cazione del reale, dell'orribile e del crudele; e precisione nella scrittura citando le Scritture. Il racconto procede: si riferiscono, scrivono e iscrivono gli atti come una proclamazione di fede, contro ogni apparenza, ricordandosi del modo costante di agire di Dio con i nostri padri nella fede (cf. Sal 22,4-6). Persino il caso, l'atto di «tirare a sorte per vedere chi riceve che cosa>>, è predetto e quindi determinato già dal testo citato. Giovanni sottolineerà più di tutti, e non senza una punta di ironia, queste corrispondenze letterali con testi scritturistici precisi: cf. Gv 19,2324 (il tirare a sorte per i vestiti), 28-30 (l'aceto) e 32-37 (il fatto che non gli spez­ zarono alcun osso). v . 25. La formulazione �v oL. K«L non è necessariamente un semitismo (Blass, citato da Taylor, trova un esempio in Platone, Simp. 220C). L'operazione è conclusa e ora il narratore, come tornando sui fatti, precisa l'ora in cui avvenne. «L'ora terza>> corrisponde, secondo il nostro calcolo, alle nove del mattino. Qui Giovanni diverge nuovamente dai sinottici, parlando dell'«ora sesta>> (Gv 19,14). L'ultima giornata di Gesù sarà come la prima: il lettore verrà informato di tre ore in tre ore su tutto ciò che avverrà (cf. 15,33.42; 1 6,1-2)_51 Queste ore acquisteranno nel corso dei secoli una valenza liturgica: i monaci, pregando nelle cosiddette «ore piccole>> (alle 9, a mezzogiorno e alle 15, rispettivamente gli uffici di Terza, Sesta e Nona), saranno invitati a ricordare ciò che il loro Maestro e Signore ha vissuto in ciascuna di quelle ore, e questo non solo il venerdì. 52 Questa annotazione cronolo­ gica evoca al tempo stesso l'intera durata del supplizio. Dal mattino (ore nove) alla sera (verso le tre del pomeriggio) Gesù dovrà sopportare questo orrore e, con lui, i testimoni presenti. Gnilka (II, 317), a causa dei fenomeni apocalittici che accompa­ gneranno la cronaca dall'ora sesta all'ora nona (v. 33), interpreta queste annotazio­ ni sul tempo a partire dalla letteratura apocalittica: «L'apocalittica conosce sia un "determinismo cronologico" sia un "piano delle ore" secondo il disegno di Dio (cf. Dn 7,12; 4Esd 4,36s.42; 13,58). Il 4 Esdra (6,23s) nota persino che alla Fine vi sarà "un lasso di tempo di tre ore durante il quale ogni corso d'acqua si fermerà">>. Per­ ciò l'autore ritiene che si debbano leggere gli avvenimenti della passione secondo un disegno divino, in collegamento con gli avvenimenti della fine. In essi si rivela il giudizio definitivo di Dio e la salvezza. 15,26-27: Kal �v � È1TLypacpiJ "tfJç al-riaç aù-roù È1TLYEY�ÉV11 , 'O j3«oLÀEÙç -rwv 'loufu(wv. 21Ka.ì. aùv a.im;ì o-ra.upoùow ouo ì..uc:mk €va ÈK OE/;LWV Ka.Ì. €va. È/; EÙwvtlJ.wv a.ù-rou.

51 0. il riquadro SU «Marco e il tempo», pp. 832s.

" Cf. A. G. MARTIMOirr, L 'Église en prière, 4: La liturgie et le temps, Desclée, Paris 1983. specialmente la preghiera delle ore, 169s, e al capitolo l § 4: >. Si viene quindi rinviati al processo davanti a Pilato e a ciò che i capi dei sacerdoti hanno voluto far credere a quest'ultimo. Le prime parole del procuratore risuo­ nano fino in questo titolo di accusa, con il lampante fraintendimento di colui che aveva un messaggio religioso, altamente profetico; ma che viene eliminato come un delinquente, un ribelle al potere romano. La scritta può essere collocata in alto sul patibolo o più in basso, sotto i piedi del giustiziato. Si tratta di un'usanza romana, attestata specialmente in Svetonio ( Calig. 32, praecedente titulo qui causam poe­ nae indicaret; Eusebio, Hist. ecci. V, l, cf. Swete 381). Tutti gli evangelisti hanno le quattro parole conservate da Marco. Luca (23,38) aggiunge alla fine: ootoç («Il re dei Giudei costui>>). Matteo (27,37) aggiunge in testa le tre parole: Oot6ç Ècrnv 'I11croUç («questi è Gesù il re dei Giudei . . . >>) e in Giovanni (19,19) c'è la formulazio­ ne più carica: il narratore dice anche che fu scritta in ebraico, latino e greco: 'I11crouç ò Na(wpal.oç ò l3ac nA.fùç twv 'Iou6a(wv. Il Vangelo di Pietro ( 1 1 ) ha la formula: «Questi è il re di Israele>> (Ofn6ç Èonv ò !hcrtÀEÙç tou 'lapa�À). Come per con­ fermare il fraintendimento e giustificare la portata politica di questa esecuzione, il racconto aggiunge: «e con lui crocifissero due briganti. . . v. 27. Gesù viene crocifisso fra altri due condannati a morte, «banditi» o «bri­ ganti>> (ÀlJCitCXL, cf. 11 ,17). Una tradizione latina (cf. il manoscritto c) conosce anche i loro nomi: nomine Zoatham, nomine Cammatha (cf. più o meno la stessa aggiunta in Mt 27,38).53 Gesù è collocato al centro, come il più importante, il più pericoloso dei tre (Giovanni dirà che egli è «in mezzO>>, f1Écrov òÉ, Gv 19,18). Non è forse il «re dei Giudei>> e quindi il capo presunto del movimento di ribellione? Se l'elemento dei due banditi deve essere ritenuto storico, la messa in scena politica della morte di Gesù fu completa: egli viene associato in modo assolutamente inequivocabile ai ribelli che combattono contro il potere dell'occupante. In realtà, alla luce del testo di Marco nel suo complesso e di ciò che si può dedurre dai quattro vangeli, non c'è nulla di meno vero rispetto al progetto di vita che Gesù si è dato. Ma attraverso l'esecuzione degli altri due banditi dichiarati, si è certamente pensato di far passare ancora più facilmen­ te il messaggio antirivoluzionario nell'opinione pubblica. La motivazione principale che ha indotto certi membri del sinedrio a consegnare Gesù ai romani può essere sta­ ta proprio il timore che il movimento avviato dalla predicazione del galileo potesse provocare dei disordini nella relazione con il potere romano. Nell'economia narrativa di Marco questo elemento ha tutto il suo peso. La parola di Gesù che condanna il Tempio, affermando: «Voi ne avete fatto un covo

» TAYLOR, 591 aggiunge che gli Atti di Pilato chiamano i due !adroni Dysmas e Gestas; il Vangelo deU'infanzia in arabo parla di Titus e Dumachus, il manoscritto di lothas e Maggatras. Perciò la necessità di identificare questi anonimi si è manifestata su più fronti: i nomi proposti sono talmente diversi fra loro da non indicare alcuna dipendenza da una tradizione rispetto a un'altra.

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di banditi>> (cf. 11,17), cioè un luogo che non mette più in relazione con Dio, colpi­ sce lui stesso, riducendolo a un «bandito>> del genere, letteralmente a uno messo al bando dalla società religiosa di Israele. È come se ogni profeta dovesse necessaria­ mente passare attraverso la parola che rivolge a chi ha di fronte in nome di Dio. In 14,48 abbiamo visto che Gesù stesso enuncia questo strano destino. Dice: «Sono un brigante perché siate partiti in campagna con spade e bastoni per arrestarmi! Ogni giorno ero vicino a voi nel Tempio . . . >>. E aggiunge: «Ma è perché si compissero le Scritture>>. La parola che smaschera, accusa, giudica deve attraversare colui che la pronuncia. Consiste in questo la sua verità. Questo la rende ancora più autentica e terribile in se stessa e per tutti coloro che la meditano. D'altra parte l'espressione «a destra>> e «a sinistra>> ricorda la domanda dei fi­ gli di Zebedeo alla fine della sezione del cammino (Mc 10,37-40). Non avevano for­ se domandato di essere «seduti nella sua gloria>>, uno alla sua destra, l'altro alla sua sinistra? Gesù aveva risposto che anzitutto dovevano ed . Accostando questi due unici passi nei quali Marco si serve della doppia espressione e «a sinistra» di Gesù, si intravede ciò che il cammino verso la gloria implica di fatto, sia per Gesù sia per chi cammina dietro di lui. Matteo rafforzerà il legame fra i due passi intro­ ducendo la madre dei figli di Zebedeo nelle due scene. Infatti, in Matteo è la madre a porre la domanda e a desiderare di vedere i suoi figli nella gloria, (M t 27,38 e 56; cf. 20,20). Matteo e Marco non si limitano a raccontare episodi del passato: indicano continuamente il cammino unico per chiunque metta i propri passi sulle orme del Maestro. In Luca i due condannati parlano fra loro e si rivolgono anche a Gesù. Karl Rahner dirà: «Attraverso questi due !adroni è tutta l'umanità che pende dalla croce a fianco dell'unico Giusto>>. La preghiera del buon !adrone è, come apostrofe, la più semplice di tutte nel Nuovo Testamento: «Gesù [senza altro titolo né epiteto), pen­ sa a me quando entrerai nel tuo Regno>>. L'iconografia bizantina, rappresentando la comunità dei santi e la risurrezione dei giusti, colloca il buon !adrone in testa a tutti, nudo e portando fieramente la sua croce come in trionfo. Il v. 28 manca nella maggior parte dei manoscritti antichi, ma sia nella versio­ ne latina sia nel testo in uso nelle comunità ortodosse, testo recepito dalla tradizio­ ne bizantina, si legge: (Kaì. E1TÀflpW9fl � ypOC> per constatare che, se Gesù ha salvato altri, non è in grado però di salvare se stesso! L'osservazione è sarcastica, la constatazione canzonatoria. Comunque indirettamente si riconosce che «ne ha salvati altri>>. La riflessione si blocca quando si tratta di «rinunciare a salvare se stesso>> (cf. 8,34-35). Così Marco torna a mettere il dito sul punto culminante della vocazione cristiana. Ritroviamo la dialettica centrale del racconto evangelico di Marco, che corrispon­ de al percorso di Pietro (cf. 8,29-31 e 34-38): compiere il passaggio paradossale dal Messia potente in opere prodigiose al Crocifisso disprezzato e anche maledetto, se­ condo la lettera della Legge (Dt 21,23; Gal 3,13); ma mediante il dono totale di sé sulla croce diventerà il Salvatore delle moltitudini (cf. 10,45; 14,24: «per la moltitu­ dine>>). La parola dei capi dei sacerdoti illustra il rifiuto di attraversare il paradosso. In questo modo si mette alla prova un'ultima volta il «SÌ>> incondizionato del lettore/ destinatario a seguire Gesù passando dalla croce. 15,32: o XpLo-ròç o fhoLÀEÙc; 'lopoc�À tcoc-rocp&-rw vuv anò 'rOU o-rocupou, tvoc LOW!J.EV tcocl '!TLO'rEOOWIJ.EV. tcocl oi ouvEO'riWPWIJ.ÉVOL aùv octmi} wVELli LCov a:ù-r6v. re d'Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e credia­ mo!". Anche quelli che erano crocifissi con lui lo insultavano».

15,32: «"D Cristo, il

v. 32a: «Il Cristo, il re d'Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo!». Diversamente dai passanti, essi parlano fra loro e non si rivolgono affatto a Gesù. Il doppio titolo, in testa al loro secondo enunciato, ricapitola i due titoli che sono stati contestati dai due processi: «Cristo>> o Messia, davanti al sinedrio; «re di Israele» o re dei Giudei davanti a Pilato. La differenza fra «re d'Israele>> e «re dei Giudei>> è che la prima formula corrisponde a ciò che dicono i giudei fra loro, mentre la seconda riflette ciò che dicono i pagani parlando del re degli altri. Marco rispetta queste sfumature. Nessuna adesione di fede e nep­ pure la minima traccia di una confessione in questo enunciato: appena un richia­ mo canzonatorio a quella che è o pretende di essere l'identità dell'altro. Mentre i passanti se la prendono con la pretesa di distruggere il Tempio per costruirne un altro in tre giorni, i capi dei sacerdoti e gli scribi mirano direttamente alla que­ stione dell'identità di Gesù. Ma i due gruppi fanno lega, come mostra il racconto fin dall'arrivo di Gesù a Gerusalemme, al capitolo 1 1 . Per il lettore viene espresso

.so a. il nostro commento a 11,27 e 14,1-2. Seconda parte: Marco 14,53-15, 4 1

837

di nuovo, in modo ironico e distorto ma anche senza la minima adesione di fede, il loro credo cristologico. «Scenda ora dalla croce» (Ko:mJxhw vuv). La stessa richiesta fatta dai passanti (cf. v. 30) . Essi aggiungono che vogliono «vedere» per «credere». La relazione fra i due verbi è un tema catechetico centrale nel quarto vangelo (cf. Gv 4,48; 6,30; 14,910; 20,28; 2,17). La domanda di un tale prodigio corrisponde alla domanda di «Un segno dal cielo», come in Mc 8,12s, e costituisce una forma di ricatto. Marco educa il suo discepolo a disprezzare questo tipo di relazione con Dio. La croce deve esse­ re interiorizzata. Non ha capito nulla chi la accantona e si accontenta della distanza canzonatoria, sprezzante, letteralmente an ti patetica. Tutti loro si chiudono alla for­ za irradiante che emana dal Gesù che salva dall'alto della croce. v. 32b: ÒVHOL(Hv («insultare, rimproverare», unico caso in Marco, cf. tutta­ via [16,14]). I:ooto:upooo9o:L, «essere crocifisso con», in senso letterale. In Paolo, in senso figurato: Gal 2,19; Rm 6,6. Questo verbo, assente nella LXX, è attestato solo nel greco dei cristiani. Un terzo gruppo abbonda nello stesso senso: essi «l'insultavano>>, all'imperfet­ to, come azione ripetuta. Si tratta dei due appesi alla croce accanto a Gesù. Il fatto che anch'essi non esprimano alcuna compassione ma gli rivolgano parole oltraggio­ se dimostra che il rifiuto è totale. La solitudine di Gesù appare ancora più radicale e ricorda le scene di scherno sia del Sal 22 (v. 9: Mt 27,43 riprenderà quasi parola per parola la formulazione del salmista) sia del libro della Sapienza (cf. il giusto schernito in Sap 2,17s). Luca introdurrà una sfumatura importante in questo quadro: almeno uno dei due ladroni, condannato alla · stessa pena di Gesù, riconosce che essi subiscono una giusta punizione in quanto colpevoli, mentre Gesù è innocente (Le 23 ,39) .

1 5,33-39. 11 tempo delle tenebre e l'ora della morte

15,33-34: Kat YEVOj.LÉVTt> (Am 8,9). Si citano altre profezie che evocano questo stesso paradosso: mentre si è a mezzo­ giorno, quando il sole raggiunge il suo punto più alto, ecco che l'oscurità pervade tutto (Ger 15,9: «Il suo sole è tramontato prima della fine del giorno>>; Gl 3,3, citato da Pietro il giorno di Pentecoste: . Senza parole, essi non cessano di diffonde­ re il loro messaggio fino agli estremi confini della terra. Riguardo a «tutta la terra>>, Swete commenta: «Benché l'espressione sia abi­ tualmente usata in un senso ampio (cf. ad esempio Gen 1,26; 1 1 ,9; Sal 33[32],8; Le 21,35; Ap 13,5), i compilatori della tradizione originaria avevano probabilmente in mente l'oscurità limitata di cui parla Es 10,22 (cf. sopra) e adottando quelle parole pensavano solo alla terra di Israele». Leggendo il testo in base al suo tenore storico, con il verosimile come criterio principale, si propenderà piuttosto verso il signifi­ cato di un'oscurità limitata alla Giudea. Leggendo il testo con una chiara risonan­ za apocalittica, non si esiterà a riconoscere qui il significato universale. Redatto a Roma per uditori che subiscono l'azione con tutta l'intensità del loro impegno di credenti, non bisogna forse rileggere il passo senza una qualche connotazione apo­ calittica. v. 34. Gesù è morto emettendo un grande grido. Al termine di questa lunga oscurità, che sembra avere avvolto tutto il mondo in una cappa di silenzio, ecco che risuona un grande grido: Gesù stesso alza la voce e prega Dio. Colui che non si era più sentito dalla sua laconica risposta a Pilato: I:ù À.fyHç («tu lo dici>>, 15,2) e che aveva subìto in silenzio tutto ciò che gli aveva­ no fatto, ecco che grida. È stata registrata l'ora esatta: «l'ora nona», cioè le tre del pomeriggio. Il verbo (ljlwvfl iJEyttJ.:n) ritorna quattro volte in Marco. Due volte per un indemoniato, nel momento dell'esorcismo che è come una lotta di vita e di morte (cf. 1,26 e 5,7, con i due racconti che, del resto, fanno pendant nella narrazione di Marco), e due volte per Gesù, in articulo martis (15,34.37: È/;É'ITVEUOEV, ). . . .

Seconda parte: Marco 14,53-15, 4 1

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Questo grande grido si esprime in un versetto salmodico: l'apertura del gran­ de Salmo davidico 22(21). Il testo è offerto in un aramaico un po' ebraicizzato, se­ guito dalla versione greca che si collega solo parzialmente alla versione della LXX. La tradizione manoscritta pende a volte verso l'aramaico a volte verso l'ebraico: M�a - .ì..a� , Hh EJ..w L, (a.cp9a.vL - aa.j3ax9a.vL.57 Molte varianti si spiegano con l'influenza del testo di Matteo, che ha HJ..L T]ÀL ÀE�a: (Mt 27,45). Il fraintendimento canzonatorio di uno dei presenti, che confonde il nome di Dio con quello di Elia, si spiega meglio se di fatto la parola pronunciata da Gesù fosse stata che Dio non può disprezzare; 102,18-21, «non disprezza la preghiera del derelitto»; ecc.). In ogni caso è così che questo grande salmo è stato pregato e meditato fin dal­ le origini del movimento cristiano e nel corso della tradizione. Si può stabilire una lista impressionante di citazioni e di allusioni a questo o quel versetto per il solo Nuovo Testamento: Sa/ 22,2: v. 3: v. 6: v. 7: v. 8: v. 9: v. 14: v. 16: v. 19: v. 22: v. 23: v. 24: v. 25: v. 29:

Mc 15,34 par.; Mt 27,45 Le 18,7 Rm 5,5 Mc 9,12 Mc 15,29 par.; Mt 27,29.39; Le 23,35 Mt 27,43 1Pt 5,8 Gv 19,28 Mc 15,24; Mt 27,35; Le 23,34; Gv 19,24 2Tm 4,17 Eb 2,12.17; Gv 20,17 Ap 19,5 Eb 5,7 Ap 11 ,15

La cosa sorprendente è che le citazioni derivano da due parti di questo grande salmo: sia dalla lunga lamentazione (vv. 1-22) sia dalla parte vittoriosa nella quale esplode la lode (vv. 23-32). Così l'autore della Lettera agli Ebrei, meditando sulla sofferenza di Cristo e sulla sua morte, cita subito il nostro salmo in 2,12: «Per que­ sto non si vergogna di chiamarli "fratelli", dicendo: "Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, in mezzo all'assemblea canterò le tue lodi"», indicando così che è lui stesso

,. O. Fucns, Die Klage als Gebet. Eine Theologische Besinnung am Beispiel fles Psalms 22, Ksel,

MUnchen 1982, e Mon Dieu, pourquoi m 'as-tu abandonné? Psaume 22 (Cahiers Evangile, Suppl. 121), Paris 2002, con non meno di 120 citazioni di autori che commentano il salmo.

Seconda parte: Marco 14,53-15, 4 1

841

ad aver sofferto, in solidarietà·con i suoi fratelli, e a precederli nella gloria. Il grido di Gesù risuona nella comunità dei fratelli come la sua ultima preghiera. Il cristiano di Marco lo ascolta con timore, ma anche con l'immensa speranza che abita il sal­ mo. Come nella preghiera al Getsemani, anche qui c'è grido e abbandono, supplica e fiducia ultima in Colui per il quale «tutto è possibile» (14,36). Ma anche questo grido incontra disprezzo e derisione. La solitudine abbinata a un simile fraintendimento è totale. 15,35: Ka.i. nVEç -.wv 1Ta.pE=Ot"TJKOt"WV IÌKm)aa.vnç V qov, "1&: 'HÀ.i.a.v !flwVEi. ..

15,35: « �leoni dei presenti dicevano ascoltandolo: "Ecco, chiama Elia!"». v. J5: «Alcuni dei presenti» (na.p Lat"uva.L, cf. una formulazione analoga in 14,69; e per la forma al perfetto, cf. 4,29 e, più avanti, 1 5,39). Tutto viene come sistematicamente frainteso e travisato. Perciò anche l'effetto mette regolarmente il lettore alla prova, nei due sensi del termine: un'esperienza dolorosa che costrin­ ge al tempo stesso a scavare più in profondità per scoprire il significato nascosto in Dio di questa morte ignominiosa. «Ecco, chiama Elia !». Si tratta di un cattivo gioco di parole, nota Lagrange (434). Nessuno, udendo , lo confonderebbe con «Eliyahu>>, se non per volersi far beffe dell'altro. Elia, il salvatore, l'angelo della buona morte, Elia che ha attraversato il fuoco e verrà all'inizio della risur­ rezione poiché deve tornare come precursore del Messia. Viene tuttora invocato nel rito della avdalah, per concludere il shabbat. E da sempre lo attende a tavola un posto vuoto, proprio nella notte pasquale, perché potrebbe venire e introdurre il Messia atteso. Ma il credente della comunità di Marco sa che Elia «è già venu­ to», secondo la parola di Gesù (cf. 9,12), e che gli hanno fatto quello che hanno voluto (9,12; 6,17-29), così come sa che «il Figlio dell'uomo deve soffrire molto ed essere disprezzato>> (9,12). In realtà, egli sa che qui c'è più di Elia e anche più di Mosè (cf. 9,2-7): «Questi è mio Figlio, l'amato, l'lsacco di Dio. Ascoltatelo!». In quest'ultimo grido il Figlio prega il Padre senza alcun intermediario, né angelo né profeta (cf. Is 63,9). Chi sono i nVEç («alcuni>>)? Certamente dei giudei, per poter giocare in quel modo sul nome di Elia, con tutte le tradizioni che vi si collegano (così, in particola­ re, Lagrange). E chi è colui che corre a cercare la spugna imbevuta di aceto? Molto verosimilmente un soldato (ancora Lagrange)." È compatibile? Sì, se la soldatesca è composta di reclute del paese che non ignorano del tutto le tradizioni popolari attorno a Elia e alla morte. Il racconto non manca di verosimiglianza.60 Ka9aLpELV («far scendere>>, cf. 15,46), termine tecnico per dire «deporre» una persona croci­ fissa dal patibolo (cf. Polibio l, 86,6; Filone Al., In Flaccum 83; Giuseppe Flavio, Guerra giud. 4,5,2; ecc.). Dietro lo scherno si fa finta di aspettare, chissà, un mi-

60 Il commentario di Lagrange, preoccupato di ricostruire tutto il verosimile possibile, aggiunge: «Chissà se il vecchio profet'!, di Israele non era ancora conosciuto nel paese come un celebre ouély e venerato un po' da tutti? E perlomeno oggi il caso del khader, sia egli Elia, s. Giorgio o un ouély musulmano. In ogni caso, egli ha sentito parlare di Elia e ha compreso che si trattava di un liberatore soprannaturale>>. Ricordiamo l'elogio di Elia nel Siracide, dove tutto termina su questa beatitudine piuttosto oscura ma che riguarda giustamente coloro che muoiono: > (Èç Èvavr(ac,;), in posizione di faccia a faccia con Gesù. C'è relazione, con un'innegabile punta avversativa, come per un carnefice di fronte a colui che egli giustizia (Èç Èvavt[a.c,; ha una connotazione oppositiva, con­ servata anche nella Volgata: ex adverso). Prima che egli prenda la parola, il narra­ tore precisa che è stato colpito dal modo in cui è morto Gesù: «Vedendo che era spirato in quel modo». Ritroviamo il verbo raro usato per l'espirazione (l:çÉ1TVEuaEv ) e con l'outwc,; («in quel modO>>) si ritorna sul modo: con un grande grido, invocando Dio, e vivendo la sua morte come un ultimo atto da compiere piuttosto che da subi­ re. Il centurione ha «visto>> anche come si è squarciato il velo del Tempio? Il testo non lo dice formalmente.62 Ma il verbo , qui come sempre altrove, invita il destinatario a continuare a seguire adottando il punto di vista del centurione. Ora

62 Il testo di Matteo, come spesso avviene chiarisce questi punti oscuri del racconto di Marco. Per Matteo lo strappo del velo del Tempio è stato causato da un terremoto (27,51}. Ora, secondo Matteo. il centurione e coloro che gli sono attorno per fare la guardia a Gesù «hanno visto il terremoto» e i suoi ,

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La soluzione: l'ultima settimana. Marco 1 1-16

lo sguardo del lettore/destinatario ricorda ancora ciò che il narratore gli ha appena riferito riguardo al Tempio. È alla luce di questa doppia informazione sul modo di morire di Gesù e sul Tempio che egli ascolta ciò che dice il centurione: «Davvero quest'uomo era Figlio di Dio». Si tratta incontestabilmente di una confessione. Per interpretarla corretta­ mente bisogna anzitutto attribuirle il senso che può avere avuto nell'universo rac­ contato (>; e in Rm 1 ,4: «costituito Figlio di Dio in virtù della risurrezione dei morti».

1 5,40-41 . Le donne da lontano al Golgota

Marco conclude la scena della crocifissione presentandoci un gruppo di don­ ne. Di alcune di loro conosce anche i nomi e, indicandole per nome, ne fa indiretta­ mente delle testimoni, che suppone conosciute dai suoi destinatari. Può darsi infatti che i figli dell'una o dell'altra siano ancora in vita quando Marco redige il suo rac­ conto. Così avremmo, sul piano narrativo, un effetto comparabile a quello dei nomi di Alessandro e di Rufo, figli di Simone di Cirene (cf. 15,21 ). Se l'uno compare all'i­ �izio dell'ultima sequenza, le altre compaiono alla fine della stessa (15,21 e 15,40-

effetti e, terrorizzati, esclamano: «Davvero costui era Figlio di Dio i ,. (Mt 27,54). Perciò si abbraccia il tutto con un solo sguardo. Seconda parte: Marco 14,53'-15,41

847

41). Perciò, grazie alla messa in scena di questi intermediari, la comunità dei desti­ natari può essere quasi in relazione diretta con ciò che è stato appena raccontato. Queste donne si limitano a «osservare» (BEwpEI.v). Apparentemente il narratore non riserva loro alcun'altra funzione. Ma a ben guardare, esse sono là, a distanza dalla croce, poi le ritroveremo - con lo stesso verbo (f8Ewpouv) - al momento del­ la sepoltura, e infine ricompariranno nell'ultimo episodio, in occasione della visita al sepolcro, la domenica, di buon mattino (15,47 e 16,1). Tenendo presente questa triplice menzione di alcune donne, scorgiamo una sorta di filo che conduce dalla morte in croce alla domenica mattina. In senso inverso, Marco doveva presentare le donne almeno una volta nel suo racconto, prima di farle comparire nell'epilogo, in occasione della visita al sepolcro. Nella breve descrizione che ne fa, mostra che esse hanno «seguito Gesù dalla Galilea fino a Gerusalemme>>. Inoltre, «lo servivano». A partire da questo ritratto schematico è facile comprendere che vadano al sepolcro per cercare di ungere ancora il corpo, appena passato il sabato (16,1 -2).

15,40: THaav ùf KaÌ. yuva'ì.KEc; &:rrò �aKpoBEv BEwpouaaL, €v ate; KaÌ. Map (a � MayooÀTJvTJ KaÌ. Map (a � laKWpou tou �LKpou KaÌ. 'Iwof)toc; ��'t'TJP KaÌ. lliÀW�TJ. 15,40: «Vi erano anche alcune donne, che osservavano da lontano, tn le quali Ma· ria di Magdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salomé » •••

v. 40: «Vi erano anche alcune donne, che osservavano da lontano>>. L'u'ITÒ �aKpoBEv («da lontano>>) ricorda, all'altro capo della sezione, la figura di Simon Pietro, che «seguiva da lontano». L'inclusione è significativa. La parte nella quale Gesù viene consegnato nelle mani degli altri (14,53-15,41) è come incorniciata da due brevi passi che mettono in scena persone a lui vicine o ben disposte nei suoi riguardi: Pietro e le donne di Galilea. Per il verbo BEwpE'ì. v («guardare, osserva­ re>>), cf. 15,47 (altra inclusione); 16,4, o ancora 3,11; 5,15.38; 12,41. Come il ver­ bo «vedere», questo verbo sul piano narrativo invita il lettore/destinatarìo a fare proprio il punto di vista del soggetto del verbo. Questa inclusione non annulla il legame di attrazione notato sopra fra la figura di Simone, padre di Alessandro e di Rufo, e le donne della Galilea, per l'ultima sezione del racconto della passione (15,21-42). Seguono tre o quattro nomi propri. In testa c'è «Maria di Magdala». È incon­ testabilmente la più importante e sarà menzionata ancora, ogni volta in testa, in 15,47 e 16,1. «Magdala>> (e/-Mejdel) rinvia a un luogo collocato sulla riva occiden­ tale del lago di Galilea, a nord di Tiberiade. Questo ruolo primordiale le deriva dal fatto di aver visto, secondo la tradizione, il Signore risorto. La tradizione giovannea preciserà che fu la prima ad averlo visto, ancor prima di Pietro. Questo non con­ traddice affatto ciò che lascia intendere Marco. L'originalità letteraria di Marco è forse proprio quella di avere per primo intrecciato, in un racconto unificato e in base a una trama coerente, le due tradizioni: quella che parla dell'apparizione a Maria di Magdala (a Gerusalemme) e quella che parla dell'apparizione a Pietro (in Galilea). Dietro ai protagonisti c'erano certamente due ambienti distinti. Quando Marco scrive, la distinzione degli ambienti appartiene ormai al passato e prevale lo sforzo di costruire una tradizione unificata. Si tratta di non dimenticare nulla e di presentare l'insieme in modo coerente e armonioso. I nomi che seguono sono più difficili da identificare, anche perché la critica te­ stuale è complessa e certe varianti derivano dai testi degli altri evangelisti (il cui testo

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La soluzione: l'ultima settimana. Marco 1 1-16

è spesso, a sua volta, mal trasmesso, pieno di varianti. . . ). Bisogna anche tener conto di Mc 15,47 e di Mc 16, l : la sorpresa è che non si ritrovano esattamente gli stessi nomi: - Mocp(oc � MocyOocÀT)vfJ KOCÌ Mocp(oc � 'locKw�ou tou f.l.LKpou KocÌ 'Iwoi)toc; f.l.�t'lP KocÌ I:ocÀWf.l.'l (15,40) - � OÈ Mocp(oc � MocyOoc�TlvTJ KOCÌ Mocp (u � 'Iwoi)toc; ( 1 5 ,47) - Mocp(oc � MocyOocÀ'lV� KOCÌ Mocp(oc � ['tofl) 'locK�ou KOCÌ I:ocÀWf.l.T) (16,1). Una delle difficoltà di lettura deriva dal genitivo: «Maria, quella di Giacomo» significa o «la moglie di>> o ancora ? E quando si dice: , significa che è la moglie del primo e la madre del secondo, o la madre di due fratelli? O ancora, che accanto alla moglie di Giacomo c'era anche la madre di Joses, il che darebbe quattro donne nella lista di 15,40? In quest'ultimo caso non bisogna supporre un articolo davanti al nome di Joses (�). come vediamo attestato in B e 'P? Secondo un'ipotesi che ha raccolto parecchi consensi, Marco aveva davanti due liste di nomi di donne: quelle presenti al sepolcro al momento della sepoltura e quelle andate a ungere il corpo la domenica, di buon mattino. In 15,40 egli crea un paragrafo con una nuova lista nel­ la quale menziona i nomi raggruppati delle altre due liste. Secondo un'altra ipotesi, 15,47 riprende in modo più succinto 15,40, e se esistevano due liste, la prima è stata collocata in 15,40 e la seconda in 16,1 .63 Quello che certamente per noi resterà ancora a lungo un enigma, non lo era per i destinatari che verosimilmente conoscevano sia Giacomo il minore sia Joses ( «presumibilrnente ben conosciuto nella comunità primitiva>>, Taylor [598]). È piut­ tosto chiaro, al di là delle esitazioni di lettura e di traduzione, che Marco in questo paragrafo vuole preparare la sua conclusione, che sarà dominata dali 'iniziativa del­ le donne della Galilea che si recano nuovamente al sepolcro di Gesù. La comparazione con Matteo, Luca e Giovanni chiarisce solo in minima parte ciò che troviamo in Marco. Luca non nomina le donne ai piedi della croce, e neppure al momento della sepoltura. Bisogna attendere la fine dell'episodio della domenica mattina, quando le donne si recano al sepolcro, per trovare una piccola lista di nomi: «Maria di Magdala, Giovanna e Maria, madre di Giacomo>> (Le 24,10). In Le 8,3, quando Gesù è ancora in Galilea, Luca ci presenta una lista e un ritratto delle donne che assistono Gesù nella sua predicazione. Là troviamo «Giovanna», con la precisa­ zione: , e il suo nome segue, come qui, quello di «Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni>>. La terza persona in Le 24,10, «Maria>> la , corrisponde certamente a quella che troviamo in Mc 16,1 (o 15,47). «Salome» è scomparsa dall'opera di Luca. E non c'è neppure in «Giuseppe» (i due sono impa­ rentati in ebraico). Per il resto, invece di «Salome>> troviamo (Mt 27,56), che è una trovata matteana in collegamento con l'episodio nel quale fa intervenire la madre dei figli di Zebedeo per chiedere che essi siano >, 20,2b). D'altra parte, l'evangelista segnala la presenza sotto la cro­ ce di quattro donne, due indicate per nome e due anonime: «sua madre, la sorella di sua madre, Maria, moglie di Cleopa, e Maria di Magdala>> (19,25). Qui la madre di Gesù è in testa e Maria di Magdala in fondo. Alcuni hanno voluto armonizzare Giovanni con i sinottici (facendo del nome di «Cleopa>> in Giovanni l'equivalente di «Aifeo>> in Marco, e identificando «Giacomo il minore>> con «Giacomo figlio di Alfeo>> di Mc 3,18; cf. Swete, Taylor e altri) o anche allineare l'informazione di Mc 14,57 a Mc 6,3, dove si trovano come «fratelli» di Gesù i nomi di «Giacomo» e di «Joses>>. Comunque è poco probabile che Marco voglia nominare qui, dopo Ma­ ria di Magdala, la madre di Gesù. L'avrebbe certamente collocata in testa (come fa piuttosto naturalmente Giovanni) e non al centro di una lista, e avrebbe potuto dire più semplicemente che c'era anche la madre di Gesù. Del resto, queste donne vengono presentate subito dopo come discepole di Gesù che «lo seguivanO>> e «lo servivano>>. La madre di Gesù, nel racconto di Marco (cf. 3,20-21 e 31 -32; 6,3), non è mai presentata in questo modo. Di fronte a Giacomo il minore (più giovane? più basso di statura?) bisogna pensare a un altro Giacomo: il figlio di Zebedeo? O «il fratello del Signore>>? Un tempo tutto questo era subito evidente per chiunque lo ascoltasse. Noi invece dobbiamo indovinare e andare di congettura in congettura. 15,41: a'ì. (h·e �v €v •u ra. hÀ.a(� 1ÌKOÀ.ou9ouv a\mi) Kat ÒLTJKovouv a\mi), Kal èiHa L 1TOÀÀ.aL ai. auvavaj3aaa L aimi) e lç 'IEpoooÀ.UJ.UX. 15,41: « che lo seguivano e lo servivano quando era in Galilea; e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme». •••

v. 41. Come aggiu nta, collocata in apposizione, introdotta da una relativa. Marco precisa il ritratto delle donne di cui ci ha fatto i nomi. Apprendiamo che ven­ gono dalla Galilea, che hanno «seguito>> Gesù e Io hanno «servito>>, il che significa che si sono occupate di tutto ciò che riguardava i pasti del gruppo dei discepoli più vicini, specialmente i Dodici. I due verbi sintetizzano l'ideale evangelico e il cam­ mino del Figlio dell'uomo, che va dal verbo «seguire>> (cf. 8,34) al verbo «servire>> (10,45). Per il verbo (àva�a [vuv) cf. 1,10; 3,10; ecc. ma anche e soprattut­ to 1 0,32.33, la salita di Gesù verso Gerusalemme. auvava�[vuv è tuttavia un caso unico in Marco (cf. At 13,3 1 , corrente nella LXX e nel greco classico). Ko:l ifÀÀ.a L 1TOÀÀ.aL, piccola generalizzazione, piuttosto tipica di Marco nel mo­ mento in cui egli vuole concludere un percorso (cf. 12,5, con due volte 1TOÀÀ.o(; 4,36: 7,13). Con un tratto di matita si riassume anche tutto il cammino fatto insieme: «dalla Galilea fino a Gerusalemme>>. Questo vale per Gesù, per le donne e anche per coloro che hanno ascoltato il vangelo proclamato fino a quel momento. Dopo la confessione esemplare del centurione, ecco la condotta esemplare delle donne:

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La soluzione: l'ultima settimana. Marco 1 1-16

le due si completano e la prima è inseparabile dalla seconda, come si è affermato con forza nella sezione centrale di tutto il vangelo (8,29-38). Non basta confessare il nome o comprendere esattamente di che cosa si tratti, come nel caso dello scriba in Mc 12. Bisogna anche agire di conseguenza, cosa che, in Marco, si riassume sia nel verbo «seguire» che nel verbo «servire». Queste donne, apparentemente senza un ruolo preciso in questo punto del racconto, sono magnifiche immagini positive di quello che deve essere il discepolo agli occhi del lettore/destinatario. Nella misura in cui sono collegate con ciò che è appena accaduto, esse sono testimoni senza pari, prendendo il posto dei discepoli assenti. Nella misura in cui stabiliscono un collegamento con il destinatario, esse il­ lustrano il giusto atteggiamento: seguire Gesù fino alla croce. Appena giustiziato Gesù, il narratore mette in scena una piccola schiera di uomini e di donne che testimoniano con ciò che dicono, ciò che sono e ciò che fan­ no che c'è qualcosa di più, e che resta una fondata speranza oltre la morte. Dopo il centurione, vi sono le donne di Galilea, poi verrà Giuseppe di Arimatea (15,43). Sono tutte figure ambivalenti, con luce e ombra. Da una parte, autenticano il deces­ so, confermando che Gesù è veramente morto, e, dall'altra, testimoniano che c'è di più e altro in questo caso. Il centurione confermerà davanti a Pilato che Gesù è ef­ fettivamente «già morto», ma sotto la croce aveva confessato: «Davvero quest'uo­ mo era Figlio di Dio». Le donne fedeli fino in fondo seguono Gesù fino alla croce e saranno le prime ad ascoltare la buona novella della sua risurrezione, ma la loro iniziativa la domenica mattina mira a imbalsamare il corpo e quindi a conservarlo meglio nella morte; infine Giuseppe, come vedremo, acquista un lenzuolo e seppel­ lisce Gesù in una tomba, rotolando la pietra davanti all'entrata. Egli conferma così che il Crocifisso è morto, e tuttavia di lui si dice «che anch'egli attendeva il regno di Dio». La finale di Marco è quindi più sottile e meno brusca di quanto si è soliti affermare. L'effetto di questi tre ruoli ambivalenti sul lettore/destinatario è fonda­ mentale: si può credere e sperare, nonostante tante cose, nonostante tutto. La parola centrale del vangelo sul Figlio dell'uomo che deve soffrire ed esse­ re rigettato, addirittura messo a morte, aveva un elemento ultimo la cui forza po­ trà finalmente rivelarsi in pienezza. Ora che tutti gli elementi precedenti si sono realizzati, come non sperare che si realizzerà anche l'ultimo: «e dopo tre giorni risorgerà»? Il centurione, le donne della Galilea e l'uomo di Arimatea prepara­ no il lettore ad accogliere la soluzione finale, la buona novella nella sua vittoria ultima. Un pagano, alcune donne fedeli e un membro del sinedrio: il ventaglio abbraccia tutti gli ambienti. Ogni lettore può trovarvi un posto per la propria par­ ticolare identità.

Il racconto della passione. Seconda parte (Mc 14,53-15,41) l

La comparazione sinottica

Che cosa diventano i 61 versetti di Marco nella ripresa operata da Matteo e da Luca? E in questa occasione, non vale la pena mettere in parallelo anche il racconto della passione secondo il quarto vangelo? Il nostro scopo non è quello di evidenzia­ re tutte le modifiche dei dettagli nella formulazione di un gesto o di una parola, ma di notare fino a che punto gli altri hanno tenuto conto della struttura d'insieme di Marco e lo hanno quindi compreso o perlomeno rispettato nella sua disposizione. Seconda parte: Marco 14,53-15, 4 1

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Si possono distinguere in Marco cinque grandi unità ridistribuite secondo il suo modello preferito (ABA' C D),64 poi una decina di piccole unità che si succedo­ no, a volte con piccole suddivisioni. Anche l'elemento B, il processo davanti al si­ nedrio, come abbiamo visto è articolato secondo lo stesso schema aba' c d. A fronte del testo di Marco collochiamo subito i riferimenti del testo di Matteo. Mc 14,53-15,41 Mt 26,56-27,56 Mt 26,57/58 (A) le autorità/Pietro l ) 14,53/54 A B 59-68 2) 55-65 il processo davanti al sinedrio (B) 55-59 a) e b) a) i falsi testimoni b) la loro testimonianza senza a ') a') la conclusione c) l'intervento del sommo sacerdote 60-64 c) e la reazione di Gesù 65 d) d) gli scherni 3) 66-72 69-75 A' (A') Pietro e il suo triplice rinnegamento 4) 15,1-15 27,1-2. C il processo davanti a Pilato (triangolo drammatico, ruoli di Barabba e della folla) 11-26 (C) scena degli schemi da parte 5) 15,16-20 D (D) 27-31 dei soldati 6) 21-22 Simone di Cirene requisito per portare 32-33 la croce 7) 23 34 il vino 8) 24-25 35-36 la crocifissione, la spartizione delle vesti 9) 26 37 il titolo 38 10) 27[28) gli altri due briganti crocifissi con lui 1 1 ) 29-32 39-40 a. scherni dei passanti b. schemi dei capi dei sacerdoti 41-43 con gli scribi 44 c. scherni dei due crocifissi 12) 33 45 oscurità 13) 34-37 46 a. grande grido 47-49 b. ultimo scherno 50 c. ultimo respiro e decesso 14) 38 il velo del Tempio si squarcia 51 15) 39 54 la confessione del centurione 16) 40-41 55-56 le donne della Galilea osservano Dopo di questo Marco ha solo un racconto 57 -61 di transizione (15,42-47) seguito dall'epilogo (16,1-8) 28,1-8 Considerando la versione di Matteo (con i suoi 75 versetti contro 61 in Mar­ co), si può affermare che egli rispetta le 16 sequenze. Non ne elimina nessuna in quanto tale, tranne in un punto, quando all'interno della sequenza del processo davanti al sinedrio accantona la piccola inclusione a' (= Mc 14,59). E non cambia neppure l'ordine che ha trovato in Marco: nessuno spostamento per anticipazione o posticipazione. L'unica cosa tipica è che varie volte (al n. 4 tre volte e una volta al n. 14) inserisce un elemento nuovo o arricchisce con qualche ampliamento il testo ,

64

852

Cf. pp. 207s. La soluzione: l'ultima settimana. Marco 1 1-16

di Marco (cf. specialmente n. llb Mt 27,41-43). Così a un dato momento fa inter­ venire la moglie di Pilato, o racconta fino in fondo il destino di Giuda, o parla di un terremoto che spiega lo strappo del velo del Tempio. =

La versione di Luca, con i suoi 74 versetti, presenta più filo da torcere per se­ guire ciascuna delle modifiche che egli fa subire al testo di Marco nella sua compo­ sizione. l) 2)

Le 22,54-23,49 Mc 14,53-15,41 22,54a/54b (A) 14,53/54 A le autorità/Pietro 55-65 B 55-62 ( A spostato) il processo davanti al sinedrio 55-59 63-65 ( d spostato) a) i falsi testimoni b) la loro testimonianza a') la conclusione 60-64 c) l'intervento del sommo sacerdote 66-71 ( B spostato e e la reazione di Gesù modificato) 65 d) gli scherni 66-72 A' Pietro e il suo triplice rinnegamento (cf. 54b-62) 15,1-15 23,1-7 C il processo davanti a Pilato (triangolo drammatico, ruoli di Barabba e della folla) 13-25 [manca) 15,16-20 D scena dello scherno da parte dei soldati 26 21 -22 Simone di Cirene requisito [manca] 23 il vino (popolo, donne, parola di Gesù)

33 + i due /adroni 24-25 la crocifissione, le vesti spartite

34b le vesti 35-43 scherni

b. i capi (cf. n. llb)

26 38 il titolo 27[28] (cf. 33b) gli altri due briganti crocifissi con lui \ (cf. 48) 29-32 a. scherni dei passanti b. scherni dei capi dei sacerdoti (v. 35) con gli scribi 39-43 c. scherni dei due crocifissi d. uno dei !adroni >, come un altro Isacco, salendo sul monte Moria, portava la legna (Gen 22,6). Altro elemen­ to notevole: nessuna scena di scherni né di oltraggi ai piedi della croce. Al posto di queste osservazioni sgarbate e offensive, che si trovano in Marco e negli altri sinot­ tici, Giovanni introduce in anticipo le donne (n. 11 al posto del n. 16) e specialmen­ te «la madre di Gesù>>, e inserisce un dialogo testamentario fra il figlio, la madre e il discepolo amato. Come negli altri, Gesù muore emettendo un forte grido (oLijlw, «ho sete>>, citazione dello stesso Sal 22), ma accetta di bere (diversamente da ciò che dice Marco, seguito da Matteo) e compie così ogni Scrittura. Niente oscurità dall'ora sesta all'ora nona e, dopo la morte, non si trova più nulla che ricordi il velo del Tempio squarciato e neppure un terremoto come in Matteo (con i sepolcri che si aprono . . . ), ma uno dei soldati interviene e conferma la morte di Gesù. Così, invece del centurione che, convocato da Pilato, conferma che Gesù è effettivamente già morto (cf. Mc 15,44-45), Giovanni fa intervenire qui «Uno dei soldati>> che con un colpo di lancia verifica la morte avvenuta. D'altra parte, in Giovanni non c'è nessuna confessione di un soldato sotto la croce, ma è lo stesso discepolo amato che viene come a sostituirsi al centurione esemplare dei sinottici: è lui che «vede» e «testimonia>>, mentre le citazioni scritturistiche confermano am­ piamente ciò che si è raccontato. Su vari punti la tradizione giovannea non prova alcun imbarazzo a contraddire ciò che riferisce l'altra tradizione: nessun aiuto per portare la trave patibolare, «Gesù porta personalmente la sua croce>>; Gesù accetta di bere il vino che gli viene offerto; il corpo morto viene lavato, unto e abbondan­ temente cosparso di aromi da Giuseppe e dal suo aiutante Nicodemo la sera stessa della morte. Tutto questo è originale, ma non senza dipendenza riguardo alla successione dei fatti nel racconto di base che si trova in Marco e che Matteo riprende fedelmente.65

1 5,42-47. Racconto di transizione, la sepoltura

A cavallo fra la prima grande parte e quello che si presenta come l'epilogo di tutto il dramma, Marco colloca un ultimo racconto di transizione: la sepoltura di Gesù. L'episodio assume un certo rilievo e si distacca dal suo contesto per le due importanti informazioni cronologiche che lo inquadrano: 15,42 («Già la sera era ve­ nuta e siccome era la Preparazione, cioè la vigilia del sabato . . . >>) e 16,1-2 («Quando

65 Fra Giovanni e Luca si può notare almeno un punto di contatto particolare, diverso rispetto al testo di Marco o di Matteo: la crocifissione di Gesù è riferita nello stesso momento di quella degli altri due condannati (Gv 19,18 e Le 23,33).

858

La soluzione: l'ultima settimana. Marco 1 1-16

il sabato fu passato . . . di buon mattino, il primo giorno della settimana, al levare del sole» ) .66 D'altra parte, il racconto di questa semplice azione è molto circostanziato: presentazione di Giuseppe, ricorso a Pilato, intervento del centurione per testimo­ niare, acquisto del lenzuolo, sepoltura e chiusura della tomba, presenza delle don­ ne. Rispetto al contesto vediamo la cinepresa del narratore soffermarsi su molti dettagli secondari (in primo piano) e creare così una pausa fra il culmine dramma­ tico - la morte del protagonista, seguita dallo squarcio del velo del Tempio e dalla confessione del centurione - e l'epilogo che annuncia un aldilà meraviglioso della tragica conclusione. Da questo punto di vista l'episodio della sepoltura corrisponde a quella che gli antichi chiamavano una digressione.67 D'altro canto, questa pericope è collegata da molteplici legami sia a ciò che precede sia a ciò che segue. Dal punto di vista drammatico l'episodio prolunga e chiude il racconto della morte del protagonista, ma al tempo stesso prepara l'esito completamente diverso, raccontato nel capitolo successivo. La menzione del cen­ turione (15,44-45; cf. v. 39) e la segnalazione della presenza delle donne (15,47; cf. 15,40-41; 16,1s) illustrano bene la continuità drammatica fra i capitoli 15 e 1 6, non­ ché la posizione intermedia dell'episodio della sepoltura. La presenza del centu­ rione ricorda il contesto precedente: lo stesso uomo che ha confessato la filiazione divina di Gesù (v. 39), qui testimonia la realtà della morte del Crocifisso. Questa testimonianza prepara l'affermazione della risurrezione, che può essere annuncia­ ta solo se Gesù è realmente morto. Le donne sono menzionate ben tre volte. Esse più di chiunque compiono la transizione, essendo il legame più evidente fra ciò che precede e ciò che segue. Notiamo la triplice occorrenza del verbo 8EwpE'iv con lo stesso soggetto, le donne («osservare/guardare», 15,40.47; 16,5). La pericope del­ la sepoltura si chiude su questo sguardo: «esse guardavano dove l'avevano posto» (15,47). L'azione non è compiuta, ma prepara il quadro seguente. Questa apertura del racconto su un aldilà un po' misterioso è percepibile anche nella caratterizza­ zione del protagonista della sepoltura: Giuseppe di Arimatea, a proposito del quale si dice che «aspettava anch'egli il regno di Dio>>. Questa attesa - che egli condivide con chi? («anch'egli») - sarebbe vana? L'acquisto del lenzuolo, la sepoltura del cor­ po nudo avvolto nel lenzuolo, la pietra rotolata all'entrata della tomba: ecco mol­ ti elementi sorprendentemente precisi e sottolineati, che troveranno la loro piena pertinenza narrativa solo nell'episodio successivo, o anche in collegamento con il giovane incontrato all'altro capo dell'ultima sequenza, in uno stesso piccolo rac­ conto di transizione (Mc 14,51-52: «Un giovane con indosso un drappo/lenzuolo sul corpo nudo»). Il commentario dovrà chiarire la portata di ciascuno di questi detta­ gli con i rinvii intratestuali. L'insieme di queste osservazioni evidenzia l'importanza dei legami che colle­ gano la pericope della sepoltura al suo contesto e mostra anche che questo passo assolve, in un momento capitale dell'articolazione del racconto evangelico, la fun­ zione di una transizione.

66 Nulla del genere nel parallelo di Luca, ad esempio, che fa di tutto per integrare ciò che Marco cerca di isolare nel tessuto continuo sia di ciò che precede sia di ciò che segue (Le 23,50.55-56; 24,1 ) . 67 Cf. 6,1 7-29, p. 358. Cf. anche Composition, 168·172.

Seconda parte: Marco 14,53-15,41

1 5,42-47. La sepoltura

15,42: «Già la sera era venuta e siccome era la Preparazione, cioè la vi gilia del sa· bato ». •••

v. 42. Lunga proposizione nella quale il tempo e poi il nuovo protagonista ac­ colgono un complemento dopo l'altro, prima di sfociare nell'azione propriamente detta. È chiaramente il segno di una cesura piuttosto forte rispetto a ciò che prece­ de: il narratore vuole distinguere questo episodio dal resto e fame cosi una piccola digressione o un nuovo racconto di transizione. L'informazione cronologica è molto carica, più che da 14,1 e 12. Si tratta di spiegare il comportamento che segue (hE L, «Siccome>>) e illustrare ai lettori meno informati sulle usanze ebraiche che «la preparazione>> indica la vigilia del sabato o il tempo che prepara a una festa che comincia sempre la sera (npoacippa.rov, «l'anti­ sabato>>, cf. Gdt 8,6: «le vigilie di sabato>>; Sa1 92[93),1 , nel titolo, LXX) .«E già>>. Si avverte una certa fretta, fin dall'apertura. La stessa urgenza si ritrova anche nella versione giovannea della sepoltura: «A causa della Preparazione dei Giudei e dato che il sepolcro era vicino, è lì che posero Gesù>> (19,42, alla fine del racconto; cf. 19,3: «Era il giorno della Preparazione e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato - era infatti un giorno solenne quel sabato - chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via>> ) .68 «La sera era venuta» (òljrLa.ç YEVOIJ.ÉVT]ç). In Marco, le sere segnalate in cima di pericope sono piuttosto numerose (1,32; 4,35; 6,47; 14,17) e indicano quasi sempre una svolta nel seguito degli avvenimenti. Dal punto di vista biblico il nuovo gior­ no comincia con l'arrivo della sera (>, e aggiunge: «ma di nascosto, per paura dei Giudei>>, allineandolo così alla figura di Nicodemo che andava a trovare Gesù di notte, anch'egli per paura, e che aiuterà Giuseppe per la sepoltura (Gv 19,3839; cf. 3,1-2; 7,50). Il Vangelo di Pietro (3) ne fa un amico di Pilato e un amico del Si­ gnore, che chiede il corpo di Gesù già prima della crocifissione. «Con coraggio andò a trovare Pilato e chiese il corpo di Gesù>>. Ecco finalmen­ te la sua azione, introdotta da tOÀtJ.�oaç («osare», cf. 12,34), «essendosi fatto corag­ gio>>, «prendendo il coraggio a due mani>>. Il tratto è indicativo: occorreva coraggio per andare a trovare Pilato; e occorreva coraggio anche al narratore per raccontare ciò che segue? Nuova piccola suspense. Pilato, secondo il procedere del racconto. aveva intravisto l'invidia dei capi dei sacerdoti (15,10). Come avrebbe reagito ap­ prendendo la morte di colui che aveva riconosciuto non colpevole? D'altra parte i testi antichi, come la Mishna (mSanh 6,6; cf. anche Giuseppe Flavio, Guerra giud. IV, 317), sottolineano che si doveva seppellire anche chi era stato lapidato o impic­ cato, ma evitando di seppellirlo nella tomba di famiglia, accanto a persone giuste. Secondo la legge del Deuteronomio (21,23), bisognava seppellirlo prima del calare della notte.70 15,44-45: o OÈ: IlLM.toc; È9atl.LaoEv EL �011 tÉ9VTJKEV KaÌ. 1TpOOKaAEmXIJ.EVoc; tÒv KEvtupCwva È1TTJpWtTJOEV aùtòv EL mxÀ.àL à1TÉ9aVEv· 45KaÌ. yvoùc; à1rò toù KEVtup(wvoc; Èùwp�oato tÒ 1TtWf.La •ci> 'l�ljl. 15,44-45: «Pilato si meravigliò che fosse già morto e, avendo fatto chiamare il cen· turione, gli domandò se era morto da tempo. Informato dal centurione, concesse il corpo a Giuseppe». v. 44. Pilato «Si meraviglia>>. È la seconda volta che Marco lo scrive per lo stes­ so personaggio: meravigliato del silenzio di Gesù davanti ai suoi accusatori, ora si meraviglia che sia già morto (cf. 15,5). Questo gli conferisce una funzione tragi­ camente simpatica, ma la sua buona disposizione verso Gesù giunge troppo tardi. come nel caso di Erode rispetto al Battista (Mc 6,27-28). Resta nel suo ruolo e si in· forma presso il centurione, responsabile in capo dell'esecuzione. Non bisogna cor­ rere il rischio di «liberare un falso cadavere>> (S. Légasse ) . Questo permette di far tornare sulla scena il centurione, il quale attesterà: «Sì, è veramente morto>>. L'uso del perfetto e dell'aoristo per il verbo (à1To9vfloKE Lv) nella stessa frase è. secondo tutti, assolutamente corretto. M11 («già>>) e 1TaÀ.a( («da tempo>>) si alter­ nano sottilmente. Marco ama anche variare e sa come farlo. Allo stesso modo, al

70 Cf. l'excursUI' in GNILKA II, 334-336 sulle usanze in materia di sepoltura in ambiente ebraico. Nulla di inverosimile in ciò che Marco ci racconta. Filone riferisce che i romani autorizzavano la deposizione dei corpi dalla croce specialmente in occasione di giorni festivi: «lo conosco già casi di condannati che erano stati impalati e i cui corpi, all'avvicinarsi di questi giorni di festa, furono deposti e resi ai loro cari per avere una sepoltura e gli onori funerari, perché occorreva sia che gli stessi morti avessero un qualche vantaggio nelle feste anniversarie dell'imperatore sia che fosse salvaguardato il carattere sacro delle celebrazioni» (FILONE ALESSANDRINO. In Hacc. 83). 880

La soluzione: l'ultima settimana. Marco 1 1-16

v. 43 si parla di «COrpo» (owf.!«) e poi, al v. 45, di «cadavere» (rrtW!J.tt},71 e al v. 46 di !J.viil* («memoriale», «tomba>>), poi nello stesso versetto e in seguito in 16,2.3.5.8 di IJ.V111J.E1ov («sepolcro»). v. 45. Pilato, «informato>> (yvouc;), stessa formulazione in 6,38; 8,17; «conces­ se>> (ùwpEi.o9a.L, unico caso in Marco; cf. 2Pt 1,3-4, «accordare come favore>>, cf. Gen 30,20; Est 8,1 ), verbo piuttosto solenne per dire «dare>>, come una grazia o un fa­ vore del governatore (stessa sfumatura in latino: donavit cadaver).72 Evidentemen­ te l'accusa di lesa maestà non rappresentava granché ai suoi occhi. Doveva essere convinto dell'innocenza dell'accusato (Lane, 579). Tutta questa parentesi, con il ricorso a Pilato, l'andirivieni fra il Golgota e il palazzo, poi l'espressa convocazione del centurione, non solo è piuttosto complicata ma sembra una pura invenzione del narratore. Quest'ultimo non racconta nulla di totalmente inverosimile, il che per­ mette a Taylor come a Lagrange di affermare tranquillamente che questo versetto «reca in sé il suo marchio di autenticità>>. Il punto essenziale è certamente quello di permettere di ascoltare formalmen­ te che Gesù è morto sul Golgota. Grazie a questo scenario, il centurione diventa colui che, dopo avere pronunciato il credo della comunità, si presenta anche come testimone per eccellenza della realtà della sua morte. In buona sostanza: nessuna vera risurrezione in assenza di una vera morte. Qui si accantona in modo chiaro e deciso ogni tentazione docetistica. Assicurare la morte di Gesù è garantire la fede nella risurrezione, eliminando tutte le vie laterali e costringendo a conservare solo la via regale, quella del kerygma pasquale: «Dio lo ha esaltato>>, , «lo ha fatto sedere alla sua destra>>, . Quindi ciò che si trova ripetuto due volte (, ) al centro di questo epi­ sodio combacia, in realtà, con il tema principale della finale del racconto evangeli­ co, quello della proclamazione della risurrezione del Crocifisso. Secondo l'insegna­ mento di Quintiliano (Jnst. or. 3,9; 4,3), una digressione (come in questo caso) non può diventare una cesura nella riflessione né una divagazione, ma deve riprendere il tema a un altro livello, non meno essenziale. Su questo punto Marco segue fedel­ mente questa tradizione retorica. 15,46: KttL à.yoplioa.ç OLvùOva. Ka.9E:J..wv a.ùtòv fVE LÀllOEV tfl OLvMvL KttL E911KEV a.ùtòv f:v IJ.Vll!J.E L4J o �v ÀEÀa'!OIJ.ll!J.ÉVov f:K nÉtpa.ç KttL trpOOEKUÀLOEV J.. l.9ov f:nt '!�V 9upa.v tOU IJ.VIl!J.E LOU. 15,46: «Egli allora, avendo comprato un lenzuolo, depose Gesù dalla croce, lo av­ volse nel lenzuolo e lo mise in un sepolcro che era stato scavato nella roccia; poi rotolò una pietra all'entrata del sepolcro•. v. 46. Si parla di «comprare» (à.yopci(ELv, cf. 6,36.37; 11,15, qui e 16,1). È un a delle parole che fanno da gancio con l'apertura della pericope seguente, unendo così i due brani del testo per le loro estremità, come volevano i manuali di storiogra­ fia (cf. Luciano, già citato più volte). Ci si chiede comunque come sia ancora pos-

71 La tradizione manoscritta mostra molte esitazioni sia riguardo a oW!J.a corretto in TltW!J.a (in D, ad esempio) sia, al contrario, riguardo a TltWj.la corretto in oWj.la (W A C e molti altri). A Marco piace

variare, più che a certi copisti. 72 Così SWETE, 392; D.E.

NINEHAM, Mark, London

Seconda parte: Marco 14,53-- 15,4 1

1963, 435. 881

sibile «comprare» questo pezzo di lino alla vigilia del sabato. Naturalmente si può acquistare il necessario e pagare in seguito, dopo la festa: è una soluzione elegante, non inverosimile (cf. mShab 23,1: . . . così a Gerusalemme, la vigilia della festa della Pasqua, se cade di sabato, un uomo può lasciare il suo mantello e prendere l'agnello pasquale e fare i conti con il venditore in modo da pagarlo dopo la festa»). Il termine crLvowv ricompare qui, e ben due volte. Lo avevamo già incontra­ to in 14,51-52 (anche là due volte). Non si tratta propriamente di un vestito, bensì di un pezzo di lino o drappo. Un «drappo puro» (crL VOOV L Ka9ap�). dice Matteo. Seppellire in terra un morto non era considerato un disonore (Gnilka). Il fatto che Giuseppe assicuri a Gesù un'adeguata sepoltura nella roccia, secondo le usanze di Gerusalemme, dimostra che, perlomeno agli occhi di Giuseppe, colui che è stato giustiziato come un empio lo è stato ingiustamente. Egli, come il centurione, consi­ dera il morto degno di rispetto. «Lo depose>> (Ka8aLpEi.v, cf. 15,36, termine tecnico per togliere un morto dal­ la croce; cf. Polibio I, 86, citato da Lagrange) (ÈVEÀ.Ei.v, «avvolgere», unico caso nel NT; cf. la spada di Golia in un mantello, in 1Re 21,9 LXX). Lo «depose» (n8É vaL, cf. 4,21.30; ecc.; cf. ancora 16,6). Lagrange segnala che il verbo E8T]KEV ricorda il termine 8T]K� delle iscrizioni sepolcrali bizan­ tine a Gerusalemme, per indicare ciò che Marco chiama indifferentemente 1-LVTU.L« o 1-LVTJI-IE'i.ov . >. Si salta tutta la giornata di sabato. Silenzio su questo sabato. Nessuna azione da parte degli uomini e nessun

11 Segnaliamo, con TAYLOR, 606, che i due termini «giovane» e «angelo» si attraggono a vicenda nella letteratura religiosa dell'epoca. Basti rinviare a 2Mac 3,26.33; Le 24,4 e GIUSEPPE FLAVIO, Ani. giud. 5,8,2.

Marco 16. L'epilogo

889

avvenimento da riferire da parte del narratore. E tuttavia la liturgia cristiana, sia in oriente che in occidente, celebrerà questo tempo di morte scandagliando il mistero di questo «Sabato santo», questo «sabato di silenzio». La stessa Scrittura dice che Gesù è «disceso>> nelle profondità, nel soggiorno dei morti: «Nello spirito andò a portare l'annuncio anche alle anime prigioniere ( . . . ]. Infatti anche ai morti è stata annunciata la buona novella» (1Pt 3,19; 4,6; cf. Ef 4,9: «Colui che ascese è anche disceso . . . »). Dio, il giorno di sabato, fa di tutto, se si riprendono i testi più antichi: , «benedice>> e «Santifica» il giorno di sabato e addirittura «riprende fiatO>> (Gen 2,1-4; Es 31,17). In questo giorno bisogna ricordarsi di ciò che il Signore ha fatto, non solo al momento della creazione ma anche in Egitto, del modo in cui fece «uscire il suo popolo dalla casa della schiavitù>>, «con mano forte e braccio distesO>> (cf. Dt 5,12.15). E Gesù, quante cose ha insegnato a proposito del sabato? - Il sabato è stato fatto per l'uomo, non l'uomo per il sabato. - Il Figlio dell'uomo è signore anche del sabato. - È permesso in giorno di sabato fare il bene, piuttosto che fare il male, salvare una vita piuttosto che ucciderla? (Mc 2,27-28; 3,4). Si potrebbe aggiungere quest'altra parola del Maestro: «Chi di voi, se un figlio o un bue gli cade nel pozzo, non lo tirerà fuori subito in giorno di sabato?>> (Le 14,5). In questo giorno nel quale Gesù giace nel sepolcro, il Signore Dio avrebbe dimenticato e non si ricorderebbe più di ciò che fece un tempo con mano forte e braccio disteso per Israele, suo figlio? Non tirerebbe fuori subito il suo «figlio che cade nel pozzo, anche in giorno di sabatO>>? Cesserebbe di «portare a compimento>>, di «benedire>>, di «santificare» questo giorno e di permettere a colui che gli appartiene come suo amico, suo servo, suo figlio amato, suo !sacco, di «riposarsi» e di «riprendere fiato>>? Chi medita in silenzio queste parole di sempre potrà raggiungere l'atto di Dio che è all'opera «sempre>>, e quindi anche in questo giorno? La liturgia bizantina esalta i paradossi contemplando il Principe della Vita nel luogo della morte: Quando sei disceso nella morte, o Vita immortale, hai ucciso gli Inferi con la gloria della tua divinità. E quando ti sei levato dalle regioni infernali, tutte le potenze celesti hanno gridato: «Cristo che doni la vita, a te la gloria, o nostro Dio!».12

L'iconografia rappresenta Cristo che, disceso agli inferi, prende Adamo ed Eva per il braccio, rendendo loro la vita e il battito. Il sepolcro chiuso e anche sigillato (secondo la versione di Matteo) non imprigiona «il Re della gloria>> (Sal 24), né i battezzati che in lui accedono agli abissi e pregano i salmi (Sal 30 e 88) oltre i confini della morte. Nel luogo stesso della morte risplende una vita meravigliosa: ogni liturgia pasquale e domenicale celebra questo paradosso, da venti secoli. Matteo aveva già aperto una breccia. Racconta che le autorità competenti avevano fatto sigillare la tomba, ma in precedenza aveva segnalato che al momento della morte si erano già aperti dei sepolcri! Se la morte di Gesù provoca un tale terremoto, come si può trattenere questo Figlio d'uomo in una tomba di pietra coperta con una lastra

·� Liturgia orientale dello settimana santa, a cura di M. GALLO, Milano 1974, Il, 870

121

e

143.

Marco 1 6. L'epilogo

sigillata? Indubbiamente si teme una sottrazione furtiva da parte dei discepoli, ma non si tiene conto del legame che lo unisce al Padre che ha fatto il cielo e la terra.13 L'acquisto degli. oli aromatici deve essere avvenuto dopo il tramonto, il sabato sera, come già l'acquisto del lenzuolo, il venerdì sera, dopo il calare del sole. OLay(vm9aL (>). Egli riassume e riduce le cose all'essenziale o all'elementare, senza dettagli. In Giovanni c'è la traccia di una tradizione nella quale le donne sono parecchie («noi non sappiamo dove lo hanno postO>>, Gv 20,2), ma si nota anche la tradizione di Maria di Magdala sola al sepolcro, che è andata per piangere e incontra il Risorto in persona (20,1-2.1118). Ciò che resta incontestabile, al di là della varietà delle tradizioni, è la visita mattutina di Maria di Magdala al sepolcro.

13 Cf. L 'espace Jésus, 109-111. 14 Per l'nozione del corpo nella tradizione ebraica, cf. BILLERBECK II, 53; cf. Ez 16,9. " Cf. L. MARJN, > e, quando si arriva alla fine del testo, si arriva alla fine della notte. Non può sfuggirgli l'effetto speculare di questo passo. Egli ricorda certamente la raccomandazione del Maestro: «Vegliate! Perché non sapete quando il padrone di casa verrà, la sera, a mezzanotte, al canto del gallo o il mattino presto» (Mc 13,35). «>: questa informazione risuona come un titolo per tutto ciò che segue e ha l'effetto di un colpo di tromba. L'eco liturgica che suscita non può sfuggirei (cf. 1Cor 16,2; cf. soprattutto At 20,7, quell'altra veglia pasquale in cui si trascorre la notte ad ascoltare non il racconto di Marco ma la predicazione di Paolo, e si conclude con la frazione del pane, mentre un «giovane» cade morto e poi è «riportato in vita>>) .16

16 Si tratta di un aneddoto, ben raccontato dall'autore degli Atti. del resto cosi ben narrato che vi si può leggere in filigrana anche altro oltre al fatto di cronaca, unico nel suo genere. In questo episodio, pieno di riferimenti al calendario liturgico (At 20,6-7. 11), Luca suggerisce ciò che tutte le comunità cristiane celebrano ogni notte di Pasqua. Per tutta la notte, nella camera alta, con le lampade accese, si

872

Marco 16. L'epilogo

«Quando il sole si è già levato» (à.va'tELÀavtoc; 't"OU �.Uou). La frase termina con quest'ultima informazione cronologica, in apposizione, in genitivo assoluto, quasi come un secondo pensiero. Essa riftuisce su tutto ciò che è stato detto e crea così un magnifico effetto sorpresa. Infatti non si era già detto che le donne erano partite «di buon mattino»? Ora, pur essendosi alzate molto presto, ecco che il sole le ha precedute! « È già levato» ! Orto iam sole, si legge nella Volgata, in modo fedele ma ancora più esplicito rispetto al greco originale. L'aoristo (à.van(Àavtoc;) implica qui un'anteriorità, tanto più che il verbo principale è al presente. Posta alla fine della frase, questa annotazione stuzzica soprattutto la curiosità del lettore. Nell'iniziativa delle donne c'è un desiderio e il lettore, se legge correttamente, lo fa suo con un certo fervore per constatare subito che la fretta non è servita a nulla: il sole ha preceduto tutti! Assistiamo qui alla prima di tutta una serie di sorprese che scandiranno questo racconto pasquale. La simbologia di questo elemento relativo al sole già levato si ripercuoterà in tutta la tradizione ulteriore, basandosi su molti testi scritturistici. Del resto, esisteva una tradizione di rilettura messianica del «Sol levante>>, specialmente nella versione greca della Bibbia dove avatoÀ.� (> (cf. Sal 110,1, già citato due volte in Marco: 12,36 e 14,62). Qui si dice che il giovane è «seduto alla destra» (con l'articolo, in modo enfatico: €v :mk ÙE�LO'iç), seduto, invece di essere disteso come uno che dorma. Gesù era stato deposto nudo in un lenzuolo. Il giovane è «vestito d'una veste bianca>>. Inoltre parla, vuole rassicurarle e spiegare loro fino in fondo tutto ciò che è avvenuto e che avverrà. La sua parola viva è un messaggio di speranza. Il capovolgimento della situazione è sconvolgente e non sorprende sentire che esse sono piene di paura. Di nuovo e per la terza volta, sono sorprese. Le loro attese non sono deluse, ma anzitutto, e ancora una volta, meravigliosamente colmate. Chi è dunque questo «giovane>> (vEav(aKoç), con la sua veste bianca? A un primo livello, quello del racconto con la sua coerenza interna, egli corrisponde a una figura angelica, a un messaggero che viene da un altro ambiente, a un testimone che parla in nome di Dio. Secondo i codici drammatici convenzionali, questo giovane somiglia al messaggero che deve presentare, sia a coloro che sono sulla scena sia a coloro che sono nel teatro, la soluzione di tutta l'azione, riferendo in particolare ciò che non può essere rappresentato sulla scena. Il lettore/destinatario si sente interpellato e trema con le donne, partecipando alla loro comprensibile paura. Ma comprende di più. Dietro ai tratti che caratterizzano questa figura sorprendente, che si materializza nel sepolcro, non può non riconoscere anche ciò che lo riguarda. Anzitutto il termine «giovane>> ( VEav(aKoç) ricorda quell'altro episodio che lo aveva interpellato molto direttamente come momento specchio. Come si ricorderà, in Mc 14,51-52 si parlava di «Un giovane che cercava di seguire Gesù>>, sull'esempio di ogni buon discepolo, ed era . Questo dettaglio ha certamente segnato i lettori/destinatari, perché in base alla nostra precedente analisi è esattamente l'abbigliamento del baptizandus prima di entrare nelle acque battesimali. Allora abbiamo ricordato che il termine VEav(aKoç poteva indicare anche un initiandus, uno che si prepara a ricevere l'iniziazione. Ora ecco che nel sepolcro, al posto di Gesù, deposto nudo in un lenzuolo, si trova un «giovane>>, non più con un drappo/lenzuolo sul corpo nudo, ma «rivestito [stesso termine che in 14,51: 1TEptl3fPl1l!J.ÉVoç] d'una veste bianca (atol�v À.HJK�V)>>. Questo cambiamento di abbigliamento, fra 14,51 e 16,5, corrisponde alla lettera a ciò che avviene nel rito battesimale: si lascia il vecchio abito, si entra nudi nelle acque della morte per «morire con Cristo>> e si esce dalle acque, come si «esce dal sepolcro>>, per essere «rivestiti d'una veste bianca>>. Il racconto ha quindi una seconda profondità, qui come in 14,51-52. Narra, con tutta la necessaria verosimiglianza, un avvenimento preciso, situato nel passato, ma evoca anche altro. Qui la strizzatina d'occhio del narratore alla comunità dei destinatari è molto eloquente. Questo tipo di effetto nel momento in cui il racconto giunge alla fine non dovrebbe sorprenderei. Nel prologo e nell'epilogo il narratore prende e riprende contatto con il suo pubblico. Si serve del personaggio del prologo nell'introduzione per veicolare il suo messaggio. Là esprimeva, per bocca di Giovanni, il prologos del dramma in funzione: «Egli vi battezzerà nello Spirito Santo>>. Qui, nell'epilogo, 876

Marco 16. L'epilogo

evoca nuovamente il rito battesimale. Infatti, appena terminata la lettura, si passerà al battesimo. Dopo la proclamazione di tutto il vangelo e specialmente della buona novella della risurrezione, si passerà all'impegno degli iniziandi - che, rivestiti di un drappo/lenzuolo, andranno a immergersi nudi nell'acqua per poi essere rivestiti di una veste bianca. Attraverso il rito, saranno identificati con tutto ciò che è stato appena raccontato e, come dice Paolo in uno dei rari passi che commentano il rito del battesimo, attraverso una morte simile a quella di Cristo vivranno una vita nuova per Dio: Non sapete che, battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Siamo stati quindi sepolti insieme a lui per mezzo del battesimo nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova [ . . . ). Siamo diventati uno stesso essere mediante una morte simile alla sua . . . (cf. Rm 6,1-6).

Sulla «veste bianca» (a-roÀ� l.Eu�e'll ) è possibile una doppia rilettura: questa veste, con la sua bianchezza, evoca per questo giovane la sua natura celeste, gloriosa, e conferma quindi che egli viene come messaggero da parte del mondo di Dio. È l'aspetto apocalittico dell'episodio, poco sottolineato da Marco, rispetto a ciò che farà Matteo («terremoto», ecc.), ma comunque reale.20 L'altra rilettura associa questa veste al rito battesimale, nel quale si tratta di «rivestire CristO>> o «rivestire l'uomo nuovo», dopo aver deposto l'uomo vecchio come un vestito vetusto e sporco (cf. Gal 3,27: «quanti siete stati battezzati, vi siete rivestiti di Cristo»; Rm 13,14; Col 3,12; Ef 4,22s; cf. anche i passi, spesso paralleli, nei quali si tratta di «deporre» o «rigettare>> [ocTio-c(9Ea9aL ], come un vestito, eco dell'antica catechesi e del rito battesimale, Rm 13,12-14; Ef 4,22-26; Col 3,8; Gc 1 ,21 e lPt 2,1-3). Notiamo ancora che, sia nell'episodio nel giardino del Getsemani sia qui, il giovane occupa ogni volta una posizione intermedia fra Gesù e i discepoli. In 14,52 cerca di seguire Gesù come un discepolo e per un momento viene «arrestato», come Gesù, mentre il suo abbigliamento evoca in modo anticipato il lenzuolo nel quale si avvolgerà il corpo nudo di Gesù nel sepolcro, ma anche l'abbigliamento del discepolo che si prepara a entrare nelle acque del battesimo. Qui si sostituisce al corpo morto di Gesù ed evoca la posizione del Risorto, «seduto alla destra>>, mentre le sue parole attestano ciò che è accaduto a Gesù crocifisso. Al tempo stesso, per il suo abbigliamento - la veste bianca - evoca il discepolo che esce dalle acquè del battesimo e, con le sue parole, veicola un messaggio che riguarda anzitutto i discepoli («andare a dire ai suoi discepoli>>). Questi ultimi potranno riprendere la sequela, camminando dietro a colui che li «precede». La funzione di questo giovane enigmatico risulta propria della sua posizione intermedia, molto vicina sia a Gesù sia al discepolo. Se il rito dell'iniziazione consiste nell'unirsi a Cristo attraverso una morte simbolica o anche un'identificazione con il cammino percorso da Cristo morendo e risorgendo, allora il lettore > in questo giovane ciò che ci si aspetta da lui: seguire Gesù fin dentro il sepolcro per partecipare, fin d'ora, alla vittoria della sua risurrezione.

'l1l Cf. anche neU' Apocalisse le numerose «vesti bianche» o «lavate nel sangue dell'Agnello», segno della comunione alla gloria e alla vittoria di Cristo (6,1 1; 7,9.14; 22,14). Il colore bianco ha un triplice significato: innocenza gloria, vittoria. ,

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16,6: o 6è ÀÉ yn ttt'rta1c;, M� Èx9a�1o9e 'IT)oouv (T)'tEL'tE '!Òv NaCapT)IiÒv 'tÒv Èo'taupw1J.Évov· �yÉ p9T) OÙK Èonv > (m'>K Éonv W&). Prima l'effetto sorpresa e anticipazione, poi l'effetto evidenza. Il racconto è ritmato, anche all'interno della comunicazione del giovane, da questa struttura di meravigliosa anticipazione. Ancora prima di constatare l'assenza, si riceve l'annuncio insperato di una meraviglia: «E risorto>>. La forma aoristo �yÉp9T) punta verso un avvenimento puntuale recente (Taylor), da comparare, in contrasto, con la forma al perfetto che si trova in 1Cor 15,4.20 (Éy�yEptaL). >). Verifica dell'assenza, come l'altra faccia della medaglia. Alcuni (G. Schille, in particolare)24 hanno interpretato questo gesto indicatore come l'eco di una liturgia antica, che si sarebbe celebrata nel sepolcro, riscoperto. Per il nostro narratore la constatazione del luogo della sepoltura è una cosa essenziale, in continuità con l'importanza della constatazione della morte, confermata dal centurione davanti a Pilato: a suo avviso, essa fa parte integrante della fede nella risurrezione. Solo se è veramente morto e sepolto, si può dire: « È risorto». Nel kerygma molto antico e ben scandito che Paolo cita ai corinzi come una tradizione ricevuta, si possono ritrovare gli stessi accenti: "

A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto, cioè: che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, e che fu sepolto, e che è risorto ii terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa, poi ai Dodici . . . (lCor 15,3-5).

I quattro verbi vanno a due a due: morì e fu sepolto; è risorto e apparve a Cefa. La sepoltura fa corpo con la morte. Nel nostro passo l'accentuazione raddoppiata

23 L'arte di raccontare la risurrezione è di per sé difficile quando tutto il racconto richiede di circoscrivere gli avvenimenti in un determinato quadro spazio-temporale. È impossibile confinare l'avvenimento come tale nel passato, perché esso fa continuamente esplodere il quadro narrativo per raggiungere un presente aperto. a. il nostro studio di questo aspetto della comunicazione narrativa della risurrezione: B. STANDAERT, «Raconter la résurrection: un paradoxe narratif», in Resurrection in the New Testament, FS J. Lambrecht, by R. BIERINGBR - V. KOPERSKI - B. LATAIRB (BElL 65), Leuven 2002, 73-91. 24 a. G. ScHILLE, ofll\6'1 ycip («perché aveva paura»). O anche la finale della frase in Gen 45,3: hapcix&r,aav ycip («Essi [cioè i fratelli di Giuseppe che non riuscivano a dire una parolaJ erano infatti sconvolti»). Marco scrive storie così come le ha sentite raccontate nella Torah. 35 Cf. il riquadro «Il timore come finalità del racconto>•, p. 319.

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sei, sette doni, il primo dei quali è la sapienza e l'ultimo «il timore del SIGNORE».36 l monaci, sulla scia di s. Basilio, svilupperanno una dottrina della doppia paura. Quella dei principianti, che viene cacciata dalla carità, secondo la parola di s. Giovanni (l Gv 4,18), e quella dei perfetti, che si conserva al culmine della vita di carità, come in Dorotea di Gaza.37 Nessuno ha articolato più sottilmente i loro aspetti della mistica inglese Giuliana di Norwich, al termine del suo Libro delle Rivelazioni. 38 In Marco la paura è anzitutto catartica e iniziatica. Solo chi la attraversa entra nella nuova realtà del Risorto che è sempre al presente, qui e ora. La paura prepara meglio di qualsiasi altra cosa l'accoglienza di questa percezione del grande Presente. E il silenzio numinoso che segue è ancora intriso di quella riverenza gioiosa che Marco, con tutta la Bibbia, chiama «timore/paura>>.

36 Negli Apoftegmi dei padri del deserto si legge che abba Poimen (V sec.) insegnava: «Il timore di Dio è l'inizio e la fine al tempo stesso. Sta scritto infatti: "Il principio della sapienza è il timore del Signore" (Pr 1,7). D'altra parte, quando Abramo terminò la costruzione dell'altare per il sacrificio, Dio gli disse: "Ora, io so che tu temi Dio" (Gen 22,12)». Abba Pambo dirà addirittura: «Il timore di Dio è la perfezione>>. 37 Cf. Oeuvres spirituelles: se 92,221-223. a. B. STANDAERT, La crainle de Dieu, Québec 2006, 78-83. ,. Cf. tutto il capitolo 74 del Livre des Révelations, Cerf, Paris 1992, 239-241. Cf. il commentario in STANDAERT, La crainte de Dieu, 145-152. Giuliana dirà che temere e amare sono come due fratelli, inseparabili ed entrambi indispensabili. Poiché Dio è buono, come non amarlo, e poiché è Signore, come non onorario con un timore reverenziale?

Marco 16. L'epilogo

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PE RCHÉ AGGIUNGERE ALTRO? LE ALTRE FINALI DI MARCO

Perché scrivere un segu ito a Marco 1 6,8?

Se il testo cambia funzione nella comunità e quindi anche genere letterario, come resistere alla tentazione di conferirgli una finale narrativa che corrisponda al nuovo genere e alla nuova situazione? Similmente, quando il testo entra in una raccolta con altri due o tre testi paralleli, è piuttosto comprensibile la preoccupazione di dare a Marco una conclusione narrativa che somigli a ciò che hanno scritto gli altri. In entrambi i casi si nota che l'aspetto drammatico di Marco finisce in secondo J?iano e l'oggettività di un racconto storico e biografico prende il sopravvento. E, del resto, ciò che avviene già - come abbiamo potuto osservare tante volte in occasione della comparazione sinottica - nella ripresa del testo di Marco da parte sia di Matteo che di Luca. Essi sdrammatizzano Marco e rendono il discorso più conforme alla scrittura storica e biografica.1 La prima aggiunta breve (che può essere nata insieme· all'altra, la finale più lunga) soddisfa soprattutto la prima modifica: completa Marco per giungere a una conclusione che raggiunge il lettore nella sua situazione missionaria e liturgica attuale e non più semplicemente iniziatica e pasquale. La seconda finale aggiunta è scaturita dalla preoccupazione di allineare Marco sulle finali degli altri vangeli. Sembra conoscerli bene e li riassume, introducendo un'unica domanda come grande criterio per la trasmissione: credere o non credere ai testimoni della prima ora. Non si vede la ragione per cui qualcuno avrebbe aggiunto la finale breve se aveva già davanti quella lunga. Perciò anche l'autore della finale breve conosceva solo un testo di Marco che terminava in 16,8. È quindi lui stesso (e tutti i manoscritti che lo rappresentano) un testimone abbastanza certo della fine di Marco in 16,8. È invece più difficile dimostrare che l'autore della finale lunga aggiunta avesse davanti un testo con l'aggiunta breve. Il suo punto di partenza (v. 9) sembra ignorarlo, forse semplicemente negandolo, ma curiosamente il suo punto d'arrivo (vv. 1 9-20) lo raggiunge. Le due finali aggiunte devono risalire alla prima metà del II secolo. I punti di contatto con le Lettere di Ignazio d'Antiochia per la finale breve offrono un orientamento: il testo è sorto certamente alla stessa epoca.

1 In Composition, 433440 abbiamo studiato come coUocare Marco rispetto aDa biografia ellenistica.

È chiaro che egli deve ben poco a questo genere, mentre Matteo e Luca ne traggono ispirazione in vari

punti essenziali deUa loro composizione (genealogia, racconti dell'infanzia, quadri paraUeli di parole e gesti del Maestro, le storie [meravigliose] dopo la sua morte, ecc.).

Perché aggiungere altro? Le altre finali di Marco

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L'aggiunta della finale breve

Le edizioni critiche menzionano un'aggiunta breve che non fa parte del testo canonico, ma si trova in alcuni manoscritti (Codex Regius L 'P 099 0 1 1 2 274 579 k) dopo il v. 8. Nei testi greci, questa aggiunta non compare mai dopo la finale lunga, quella che le nostre Bibbie indicano con i vv. 9-20. Si trova per lo più fra il v. 8 e il v. 9. Ecco il testo in greco, con la sua traduzione:

nuvra. OÈ -rà 'lfiXPTJ'Y'YEÀIJ.Éva. -rolc; 1rEpl -ròv IIÉ'rpov ouvr4Lwc; È��"("(ELÀa.V. METà OÈ -ra.ura. Ka.Ì. a.ùròc; o 'IT)oouc; &:rrò àva.roÀ.f}c; Ka.Ì. ttXPL ouoEwc; Èl;a.nÉotHÀ.Ev òL' a.ùrwv tò LEpÒv Ka.Ì. &cjlea.p-rov K�puy!J.a. tf}c; a.Lwvl.ou owtT)p(a.c;. &:!J.�V.

«Ora tutto ciò che era stato loro raccomandato, lo comunicarono rapidamente a quelli presso Pietro. Dopo questo, Gesù stesso dall'oriente all'occidente inviò attraverso di loro la santa e incorruttibile proclamazione della salvezza eterna».2 Non essendovi altro soggetto indicato, sono loro, le donne in fuga del v. 8, a comunicare ciò che è stato loro raccomandato. Tia.pTJYYEÀ!J.ÉVa.. . . Èl;�yynA.a.v, due verbi formati a partire da àyyÉÀÀE LV («annunciare», cf. Gv 20,18, Maria che «annuncia» ai discepoli di avere visto il Signore). Il primo verbo ha la sfumatura di ordinare, comandare, il secondo di annunciare, comunicare. Entrambi sono correnti nella LXX, il primo si trova in Mc 6,8 e 8,6, il secondo solo in lPt 2,9 (citazione della LXX). In una stessa frase, questi due verbi mostrano la continuità fra ciò che esse ascoltarono e ciò che trasmisero. L'autore ricorre alla figura della paronomasia per ottenere questo effetto. ouvt6�wc; si rende per lo più con «brevemente», in modo succinto, ma qui, poiché esse trasmettono esplicitamente «tutto» (1Tavtoc), si preferisce tradurlo con «subito» o . , tale; 1TEpÌ. tòv IIÉtpov, è una formulazione che Marco non conosce. Si collega certamente a ciò che il giovane aveva chiesto: vadano a dire «ai suoi discepoli e specialmente a Pietro>> (v. 6). L'espressione doppia è abilmente ricapitolata.3 L'enfasi riguardo a Pietro è eliminata, come anche l'allusione all'apparizione in Galilea. Comunque ' Pietro costituisce un centro attorno al quale (1TEpt) si sono disposti gli altri. L'autore è indirettamente il testimone del fatto che a un certo momento 'i due ambienti - quello delle donne e quello della cerchia di Pietro - sono entrati in contatto fra loro e sono stati indotti a confrontare le loro testimonianze. Le donne agiscono rapidamente e fedelmente, dicendo «tutto>>, ma la cosa importante è il seguito, quando Gesù da quel momento in poi dirigerà personalmente l'azione.

2 La versione latina, nel manoscritto k (Codex Bobiensis), ha modificato il v. 8, lasciando cadere il «non dissero niente a nessuno>> (è l'unico manoscritto che ha solo la finale breve aggiunta a Mc 1 6,8). Così è eliminata la contraddizione fra ciò che afferma l'aggiunta e ciò che si è affermato immediatamente prima. 3 All 'inizio di Marco si parla di «Simone e dei suoi compa�i»: .Etj.LWV Kal oi j.lEt a&rou (1 ,36). In Luca vi sono espressioni analoghe ma non identiche: 8,45 (v.I.: ot oùv aÒt>. Stessa formulazione e stesso contesto, subito dopo la risurrezione. «L'espressione come tale non compare altrove a questo stadio antico né in seguito per indicare il collegio apostolico» (LÉGASSE Il, 1032). 890

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La seconda frase ricentra tutto sull'unico soggetto importante, al di là delle donne o del gruppo attorno a Pietro. MEtà òÈ tauta Kat aùtòç; ò 1T)ao(Jç; («dopo questo Gesù stesso»). Il passo mette in scena Gesù con una sorprendente semplicità: non si parla di ò KUpLOç; («il Signore>>) o di un altro titolo del genere, ma lo si indica con il suo nome proprio più naturale. Si tratta di un ricordo di Mt 28,9? Là, dopo la partenza dal sepolcro, le donne incontrano il Risorto. Anche Matteo sceglie un'espressione molto semplice, persino commovente per la sua vulnerabilità: «Gesù venne loro incontro e disse: "Salve!">> (Kat looù 'ITJaouç ùm)vtTJOEV o:ùto:l.ç ÀÉywv, Xo:(pnE). La successione («dopo questo») conserva certamente una struttura molto antica nella memoria della prima comunità cristiana, nella quale un'angelofania fu seguita da una cristofania. Si abbandona il momento degli intermediari per non vedere più che lui in persona. à:nò à:vo:toÀfìç; KO:L &xpL ouaEwç; («dall'oriente all'occidente»). L'aùtore si serve di una bella espressione biblica, tipica dei testi postesilici con la loro visione universalistica. Si pensa al Sal 113,3, ma anche alla prima pagina di Malachia (specialmente 1,11: ). La salvezza riceve dimensioni cosmiche. Luca (cf. At 1,8 ) usa un linguaggio isaiano: si tratta di diffondere la notizia (cf. Is 49,6) . Matteo parla di «tutti i popoli>> di cui bisogna «fare dei discepoli» (Mt 28,19) . Èço:nÉatE LÀEV OL' o:utwv (). Non invia «loro»; essi sono semplici strumenti per l'invio di una realtà che li trascende. Questi sono più particolarmente «il gruppo attorno a Pietro» della frase precedente. Egli invia «il kerygma>> (tÒ K�puwo:). Il termine è tecnico; nei vangeli ricorre solo per parlare della «predicazione di Giona>> a Ninive (cf. Mt 12,41 // Le 1 1 ,43) . Paolo lo usa varie volte (1Cor 1,21; 2,4; 15,14; ecc.) come anche l'autore delle lettere pastorali (2Tm 4,17; Tt 1,3 ) . Invece il verbo KTJ poooELv () ricorre spesso nei vangeli sinottici (ma manca in Giovanni). Per Marco, cf. 1,4. 14.38.39.45; ecc. L'oggetto predicato è «il vangelo>> e la vicinanza del regno di Dio. Qui il kerygma riguarda la (aWtT)p (a o:lwv(ou) . Quest'ultima espressione si incontra specialmente in Eb 5,9 dove Cristo, reso perfetto come sommo sacerdote, diventa «causa di salvezza eterna>> (cf. A t 13,47-48, con il termine ). Nello stesso Ignazio di Antiochia, nella stessa Lettera agli Smimesi, si trova l'ultima finalità espressa allo stesso modo: Elç awtTJp(o:v o:lwvLOv (Smyrn. 2,6; cf. Eph. 18,1: > (� KOCÀOUIJfVTl MocyoocÀTlV�) è in testa al gruppo delle donne. «Da essa sono usciti sette demoni» (Wp' �ç OocLIJOVLOC É=n-rcì ÈçfÀ11ÀU9H). Riguardo alle altre donne si dice semplicemente: «Alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità». Il suo caso era quindi di gran lunga il più grave. D'altra parte, Matteo e Luca conoscono una parola di Gesù su «Sette demoni>> (Le 11 ,26 // Mt 12,45), che invadono la casa di colui che tuttavia aveva ben ripulito il suo alloggio scacciandovi uno spirito cattivo. Si tratta di una severà messa in guardia per chi si fida troppo presto delle sue prodezze spirituali. Le cose possono peggiorare dopo una prima battaglia vittoriosa. Bisogna rimanere vigili. Maria di Magdala, nel suo incontro con Gesù, è stata guarita su sette fronti o anche su tutti i piani. Egli è apparso anzitutto a lei, quello stesso mattino del primo giorno della settimana (16,9 e 16,1-2). Più profonda è la guarigione e purificazione, più immediata è la visione del Risorto? Accostando questi due dati estremi della vita della Maddalena, il testo suggerisce perlomeno una relazione fra loro. Lei, completamente purificata, fu la prima ad avere visto. I cuori puri vedranno, diceva il Maestro. «< cuori retti contempleranno il suo volto>>, dice Davide (cf. Sal 11,7). v. 10. La frase comincia senza particella di congiunzione. Nuovo segno di una povertà stilistica? I destinatari sono presentati come «quelli che erano con lui>>, formula piuttosto vaga, ma che ricorda tutto il passato di intensa vita comune trascorsa con Gesù. Egli li aveva chiamati in modo particolare (3,14), e al Getsemani >, nel caso dei due discepoli di Emmaus. v. 11: KaKELVOL ci.Koooocv-rEç. Semplice congiunzione senza alcuna sfumatura avversativa (KaKE'ivm). L'on 'fl («che vive>>) per dire la risurrezione ricorre varie volte nell'opera di Luca (Le 24,5: 'wv-roc, v. 23 ocù-ròv 'iìv, At 1,3: Èocu-ròv 'wv-roc). Il verbo &mcr-rE'iv invece di où mcr-rEVELV ha un suono duro e crudo. Ricorre anche in Le 24, due volte (cf. 24,11.41), e alla fine del libro degli Atti (28,24), con la stessa durezza. Ecco un primo quadro che termina su un secco rifiuto.

6 La questione del momento della risurrezione era stata posta già al tempo di Eusebio di Cesarea da un certo Marino: la «sera del sabato••, come scrive Matteo (olj!Ì; Oi; aaJ�xhwv cf. Mt 28,1, tradotto in genere con fl nop.:uoiJ.ÉVOLç E'Le; &.yp6v· 11uvEpouv al passivo: «Si mostrò>>, si manifestò. Al versetto precedente c'era il verbo È8Hx91) («fu visto»). L'autore varia il suo vocabolario. Fa lo stesso nella finale, dove troviamo où motEVE LV per &.mon'ì.v del versetto precedente. Il v. 12 riassume schematicamente l'episodio dei discepoli di Emmaus. Vengono presentati come «due di loro» e, più avanti, si indicano i destinatari come «gli altri>> (loLno(). Semplificando, il nostro autore dà l'impressione che i due facciano parte dei Dodici o Undici, cosa che il racconto di Luca non dice affatto. Il mancato riconoscimento iniziale del compagno di viaggio viene spiegato oggettivamente: egli si mostrò «Sotto un altro aspetto>>. Questo non viene notato in alcun momento da Luca. Dei due si dice che «passeggiano>> e che «vanno verso la campagna>>, cioè fuori città (cf. Mc 15,21, Simone di Cirene, che viene «dalla campagna» e rientra in città). C'è una certa pesantezza stilistica nella giustapposizione senza congiunzione dei due participi, l'uno davanti e l'altro dietro il verbo principale. Per l'annuncio ritorna lo stesso verbo usato al v. 1 1 : &.nuyyÉUnv (cf. Mc 5,14.19; 6,30). Notiamo la rigidità nell'uso di (ÈKE LVOL), qui (2 volte) e al v. 1 1 . Sul piano stilistico, l'�ccumulo di termini tutti al dativo (8 su 22) non è affatto piacevole. Queste righe sono caratterizzate da rigidità e pesantezza.7 Questo quadretto riproduce la stessa struttura narrativa del primo: il Risorto si mostra, i testimoni ne parlano, ma i destinatari non vogliono crederci. Nuovo fallimento. 1 6, 1 4- 1 8. L'apparizione del Risorto

agn

Undici

La terza volta sarà quella buona? Nel terzo episodio, ecco che egli appare agli Undici riuniti. Si avverte il crescendo nella successione dei quadri: prima si mostra a una sola persona, poi a due e, infine, agli Undici.

14"Yonpov [OÈ] &.vuKHIJ.ÉVOLç uùto'ì.ç to'ì.ç EVOEKIX Ècj>avEpW8TJ KIXL WVE LOLOE'V t�v &.mot(uv uùtwv K«L OKÀTJpOKIXpOLuv on to'ì.ç SE'uouiJ.ÉVOLç uÙ1Òv ÉYTJYEP!J.Évov oÙK

7 Se si volesse un criterio stilistico per mostrare che Mc 16,9-20 non può essere della stessa mano che ha redatto Mc 1,1-16,8, basterebbe comparare i due testi rilevando la proporzione di termini al dativo. 884

Perché aggiungere altro? Le altre finali di Marco

È1TLCJUUCJIXV. 15KIXL Et1TE:V a:Ùto'i.c;, IIopEu9ÉvtEc; Elç tÒV KOOIJ.OV a1Ta:VtiX KT)ptlça:n tò �:ùayyÉ.hov micru tfl KtLCJE L. 16ò mcrm)cra:c; Ka:t f3a:1Tna9Elc; crw91lCJE=ta:L, ò OÈ à:mCJtllCJIXç KIXt1XKp L9llcrEtiXL. 17CJT]f.1ELIX ÙÈ to'i.c; 1TLCJtfUCJIXCJLV tiXUtiX 1T1Xp1XKOÀ.Ou9llcrEL' EV tctì OVOf.liXtL IJ.OU ÙIXLIJ.OVLIX ÈKf3a:À.OUCJLV, yÀ.WCJCJIXLc; À.IXÀ.llcrOUCJLV KIXLVIX'i.c;, 18[K1XL EV ta:'i.c; XEPCJÌ.V] o>! «E li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore a non prestare fede a coloro che lo avevano visto risorto». «Rimproverare» (ovELOL(E Lv), verbo forte, che Marco usa nella passione per indicare gli schemi che Gesù dovette subire da parte degli altri due crocifissi (Mc 15,32). Qui è il Risorto che se la prende con i propri discepoli! Ogni lettore deve pensare: chi vuole essere al riparo da questi rimproveri deve credere. È proprio di questo che si tratta in questo triplice racconto pieno di ripetizioni: bisogna credere. Non c'è più molto spazio disponibile per il dubbio (cf. molto diversamente Mt 28,17, che fino alla fine conserva un'apertura per l'eventualità di un dubbio). à:mcrt(a:, où 1TLCJtEUELV, aKÀ.TJpOKa:po(a:: i termini «incredulità», «durezza di cuore» si ripetono, si rinforzano e corrispondono a quelli che Gesù e Marco usavano per caratterizzare non i discepoli, ma gli oppositori (farisei e abitanti di Nazaret, cf. Mc 6,6 e 10,5). «Risorto»: ÈYTJYEPIJ.Évov, il verbo ritorna qui non più all'aoristo, ma come participio passivo perfetto, cosa molto rara, e in certe varianti con l'aggiunta «dai morti>> (ÈK Vt:Kpwv, cf. lCor 15,20, pure al perfetto). Il perfetto contiene la connotazione di durata: è risorto e questo stato continua fin nel presente. Qui si innesta una lunga variante nella tradizione manoscritta, più precisamente nel manoscritto W - il famoso «logion del Freerianus (= W)>>. S. Girolamo, nella sua versione, l'ha tradotta in parte. È un dialogo nel quale anzitutto i discepoli prendono la parola rivolgendosi a Gesù e poi Cristo risponde loro, chiarendo la situazione attuale e quella che verrà. Ecco la traduzione (BJ): Perché aggiungere altro? Le altre finali di Marco

895

E costoro addussero a propria difesa: «Questo secolo di iniquità e di incredulità è sotto il dominio di Satana, il quale non permette che ciò che è sotto il giogo degli spiriti impuri concepisca la verità e la potenza di Dio; rivela dunque fin d'ora la tua giustizia>>. Questo dicevano al Cristo e il Cristo rispose loro: «Il termine degli anni del potere di Satana è colmo: e tuttavia altre cose terribili sono vicine. E io sono stato consegnato alla morte per coloro che hanno peccato, perché si convertano alla verità e non pecchino più, perché ereditino la gloria di giustizia spirituale e incorruttibile che è nel cielo . . .

In questo frammento di fattura apocalittica prima di tutto i discepoli, nella loro apologia, spiegano e informano Gesù su ciò che avviene in «questo secolo» sotto il potere di Satana. Ma il Risorto, chiamato «il Cristo» (ò XpLotoc; ), li illumina maggiormente sia su Satana sia sulle .cose terribili che avverranno prossimamente, prima della fine ultima. Egli comunica loro anche il significato che la sua morte conserva per ogni peccatore. I termini «verità» e «giustizia» sono essenziali sia nella parola dei discepoli sia nella risposta di Gesù. Si nota la preoccupazione di pensare la fine assoluta, fino all'ultimo giudizio, e quindi ben al di là della missione universale. La visione escatologica di questo frammento è caratterizzata da una periodizzazione della fine: un tempo per Satana, seguito da un tempo per cose terribili, immediatamente prima dell'arrivo dei > riguarda «realtà che non si vedono>> e si dice di Mosè che, «per fede>> e «come se vedesse l'invisibile>>, lasciò l'Egitto e rimase saldo, Eb 1 1 ,27). Per Bernardo di Chiaravalle la fede nuda non si basa su esperienze; al contrario, a chi crede viene concesso di sperimentare cose inaudite. La fede precede, il vissuto segue e, nel vissuto, avvengono segni e cose meravigliose. «Nel mio nome scacceranno i demoni>>. Il «nel mio nome» (Èv ·� òv4uxd. �ou) è posto enfaticamente in testa alla frase (cf. Mc 9,38-41, a proposito di agire e fare anche prodigi «nel nome di Gesù>>). Viene loro promessa la cacciata dei demoni come in occasione della prima predicazione (Mc 3,15 e 6,7-13). Gesù, i Dodici e d'ora in poi ogni credente formano una catena ininterrotta nella quale ci si trasmette il potere di scacciare i demoni. Parleranno lingue nuove,. [nelle loro mani ] 10 prenderanno serpenti, e se berranno qualche veleno mortale, non farà loro del male; imporranno le mani ai malati e questi guariranno.

I segni sono cinque. Alle estremità si trovano il dono dell'esorcismo e il dono della guarigione dei malati. Essi ricordano la doppia attività principale di Gesù in occasione del suo ministero in Galilea, ma anche ciò che trasmise ai primi inviati (cf. 1,34.39 e 6,5b.13): 6,5b: òHyoLç appov ÈÀat(J) troUoùç à;ppwowuç KaL È8E:pOC1!E:UOV 16,18: È11Ì. &.ppwotouç X,E'ipaç Èm8�ooooLv KaÌ. Ka..l..Wç €.;ooow. Ricorrono tre volte gli stessi gesti e lo stesso vocabolario. Imporre le mani e/o ungere con l'olio, invocando il nome: le tre cose vanno certamente di pari passo, anche se non vengono menzionate ogni volta (cf. Gc 5,15, dove l'unzione è accompagnata dall'invocazione del nome e da preghiere). «Parlare lingue nuove>>, «prendere in mano serpenti>> e «bere un veleno mortale>> sono, agli occhi del nostro autore, altri tre segni eloquenti della vittoria che contiene la buona novella e che passa nella vita di coloro che credono. Il dono di «lingue nuove>> può sorprendere. Non è inverosimile un'eco dell'avvenimento della Pentecoste, quando tanti stranieri a Gerusalemme udivano gli apostoli, testimoni della risurrezione, «parlare ciascuno nella propria lingua>>. Non si può escludere un'allusione al dono carismatico del «parlare in lingue>>, la cosiddetta glossolalia attestata da Paolo in 1Cor 12-14. Per il resto si può difficilmente considerare il greco una (> rispetto all'aramaico, perché da oltre tre secoli la cultura greca era penetrata in Giudea, imponendovi con il suo modello culturale (la paideia) anche la sua lingua. ,

9 a. la dialettica fra «vedere» e «credere», lungo tutto il capitolo 20 di Giovanni; il segno è sempre visibile (cf. Gv 4,48: > »

1 17 117 118 118 126 128 128 130 133

1 ,40-45. R ACCONTO DI TRANSIZIONE: LA GUARIGIONE DI UN LEBBROSO .

137

l racconti di transizione in Marco.

Un procedimento narrativo . .. . . . .. .. . . ... . . .... .. . . . . .. .. 1,40-45. La guarigione di un lebbroso . . . . . . . . . . . . . ............ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Mc 1,40-45 come racconto di transizione .................... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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137 139 143

CINQUE CONTROVERSIE. MARCO 2,1-3,6 . . . . . . . . . . . . . ...... . . . . . . . . . . . .

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2,1-3,6. LA COMPOSIZIONE .

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. . . . .. . . . ... .. . .... . ..... . .. . ... . . . . . . Comparazione sinottica di Mc 2, 1-3,6 . .. . . . . . . .. . .. .

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Indice generale

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2,1-12. Il perdono e la guarigione del paralitico .................................

Movimento centripeto e centrifugo della missione Il ruolo della folla in Marco . .. .... .... .. .... . ....... . ... . ...... . ..... . . . . .... . . La fede in Marco ...... . . . ......... ............... .... ............ .............. ....... 2,13-17. La chiamata di Levi e la comunione a tavola con i peccatori ........... ......... ..................... ............... ...........................

162 164 167 170 175

Il discepolo ................................................................................ 2,18-22. La pratica del digiuno ..............................................................

Digiunare e fare festa................................................................. Il racconto elementare ...... ........................................................ 2,23-28. La controversia sulle spighe strappate in giorno di sabato ...... . ............. . ... . ........ . ..... . ....... . . . . . .... ... . . . . ........ . . . .. 3,1-6. Quinta controversia: guarigione di un uomo dalla mano paralizzata nella sinagoga, in giorno di sabato. .......... Gli erodiani . . . .............. . ............ . . . . . .. . .... . . . ... . ........ .. . . . . .. . ......... . ...

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176

184 188

SECONDO DITIICO. GES Ù E L'IS tiTuZIONE DEI DODICI MARCO 3,7-12. 13-19 ............................................................................ 3,7-12. Veduta panoramica e sommario sull'attività di Gesù.............

191 191

3,13-19. L'istituzione dei Dodici . ............. . . . . . . . . . . . . . .................................

1 97

LA SECONDA GRANDE SEZIONE DELLA NARRATIO: MARCO 3,20-5,43 . . . . .... . . .. ........ . . . . ................. . ........ . . . . . . ...... . .... . .. .. . . . . Un modello particolare di composizione concentrica ..... . . .. . A. 3,20-21 . Iniziativa dei parenti di Gesù ................................... ,.........

B. 3,22-30. Lo scontro con gli scribi venuti da Gerusalemme ...........

207 207 210 213 214

Marco e la fonte «Q». Un esempio: Mc 3,28-29 .. . . .. ...... . .... ..... .. . . . ... . ....... .. ;..................

221

N. 3,31-35. I veri parenti di Gesù.......................................................... Gesù e la famiglia ... ... . . . ....... . . . .. .. . . .. ................................. ... ......

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I fratelli e le sorelle di Gesù in Marco ....................................

IL DISCORSO PARABOLICO: MARCO 4,1 -34 ............................ Composizione del discorso parabolico................................................. 4,1 -9. La parabola del seminatore . . ... . ........... . . . .......... . . .. ........... .. . .... . . . .. La divisione degli uditori in Marco . ... . ... . . ........ ... . . ... . . . ...... . .. . . 4,10-12. La giustificazione del linguaggio parabolico .. . . . . . . . ......... . . .. . . 4,13.-20. Spiegazione attualizzante della parabola del seminatore ... Come comunicare l'incomunicabile? .... . . . . .. . .. .. . .. . . . . .... . . .. . . . .. .. 4,21 -25. Le parabole della lampada e della misura ... . ... . ... . ... . . . . . . ... . .. . Indice generale

224

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231 232 237 238 242 247 249 254 929

4,26-32. Le ultime due parabole della semina .....................................

259 263 268 270

Gregorio Magno e la parabola della crescita......................... «Gli uccelli del cielo»................................................................ 4,33-34. La conclusione del discorso parabolico 4,35-41 . Racconto di transizione. La traversata del lago e la tempesta sedata . .. .. . . ..... ... . . . . Comparazione: Mc 4,35-41 con 1,25-29 e 6,1-2 ... ... . .. . . . . ..... Gesù e l'altra riva . ..... . .. .. . ... ........ . ... . . .... . . ... . . .... .. .. . . . .. . . ... . . . ..... ... .

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Marco 4,35-41 e il racconto del profeta Giona La tempesta sedata e l'agonia di Gesù .. ..... ... .... . .. . .. ... . . . .. . ... . .

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271 274 275 281 282

FINE DELLA SECONDA SEZIONE DELLA NARRATIO: MARCO 5,1-43 5,1 -20. L'esorcismo nel paese dei Geraseni . ... ... . . . .. .. . . . .. .. . . .. . . . . ... .. . . . L'incontro e l'esorcismo: vv. 6-13 ... . . .. .. ..... . . . . . . . .. .. . . . .. ... . . . . . .. . . ... Reazioni e conclusione: vv. 14-20 ........................................ ............. Marco 5,1-20, il rito del battesimo e il ciclo dell'esodo... . . . ... . 5,21-43. Doppio racconto miracoloso: l'emorroissa e la figlia di Giairo 5,21 -24: introduzione .................................. ....................................... 5,25-34: la guarigione dell'emorroissa ................... .......................... . ................................... ................................................... .

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301 301 304 310 311 312 317 319

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L'anonima in Marco che surclassa i discepoli 5,35-43. La risurrezione della figlia di Giairo ... . . . . .. . . . .. ... . . . . . . . . .. .. .

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Paura e fede in Marco .............................................................. L'aramaico .in Marco................................................................ Il timore come finalità del racconto

TERZO DITIICO E CONCLUSIONE DELLA NARRATIO: MARCO 6 , 1 - 1 3 . . . .. . . .. .. . .......... . . . . ... . ... . . . . . . . .. . . . ... ... . . .... . . . . ..... ... . . ... ... 6,1-6. Il ritorno a Nazaret .. ................ . . .... . . . . . . ... .. . ... .. . .. . .... .... ... . ... .. .. I movimenti nello spazio in Mc 1, 9-6,1 . . ... . . ...... . . . . . . . .. . ....... .. ..

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Gesù falegname......................................................................... Il colpo di reni del racconto di Marco . ...... ... . . .............. . ... .... 6,7- 13. L'invio in missione dei Dodici . . ..... . . . . . . . .. . ... . . . .. .. . . . . ... . ..... .. . Comparazione sinottica . . . . . . . . . . . . . . ... .... . . ... .. . . . .... ..... ... . A. Marco e Matteo: Mc 1 , 14--6,13 e Mt 4,12-13,58 . . . .. .. . . . . . ... . . .. .... .. .

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B. Marco e Luca: Mc 1,14--6,13 e Le 4,14--9,6......................................

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Indice generale

Volume II

L'ARGOMENTAZIONE MARCO 6,14-10,52

6,14-16. La propositio: la questione dell'identità di Gesù ................ p. 6,17-29. La digressio: la decapitazione del Battista .. ... . » Analisi drammatica di Mc 6,1 7-29 . . . . . . . . . . .. .. . » ....

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Giovanni prefigura nella sua morte il destino finale di Gesù . . .. . . . . . ... Matteo (e alcuni altri) comparato(i) a Marco, sulla morte del Battista . . . .. . .. .. . .. .. Marco e la testimonianza dello storico Giuseppe Flavio ......

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MARCO 6,30--8 ,21 : LA «SEZIONE DEI PANI» 6,30-34. Introduzion e

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«Come pecore che non hanno pastore» 6,35-44. La prima moltiplicazione dei pani

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La moltiplicazione dei pani in Marco e nel ciclo di Eliseo . ................ ........ ... .. ........... ....... ...... ............... Gesù e i pasti . .... . . . . . . . . . . ,........................ 6,45-52. La traversata notturna del lago .. ... . . . . .. . . . . . .. 6,53-56. L'incontro con la folla a Gennesaret . . . .. . . . . .

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7,1 -23 . Discussione sul puro e sull'impuro .

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. . . .. . ..... ... . . . ..... . . . . 7,17-23. L'insegnamento dispensato a parte ai discepoli ............. 7,24-37. Due guarigioni in territorio pagano . .. .. . . . . 7,24-30. La siro-fenicia e la figlioletta posseduta . . .. . . 7,31-37. La guarigione di un sordomuto in territorio pagano «Apri! Apri!». Il miracolo dell Effatà fra noi ........................ 8,1-9. La seconda moltiplicazione dei pani 8,10-13. La richiesta di un segno dal cielo .......................................... 8,14-21. L'unico pane con loro e il lievito dei farisei e quello di Erode . . . . 8,22-26. Racconto di transizione: la guarigione del cieco di Betsaida ... ... . . . .. . . . ...

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Gesù, l'interiorità e la sua messianicità

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La comparazione sinottica della sezione dei pani

MARCO 8,27-9,13: LA SEZIONE CENTRALE Pau[ Claudel e il centro di Marco ... . . . . . .

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8,27-30. La confessione di Pietro .........................................................

455 459 460 464 466 471 482 497

Gesù vieta che si parli di lui 8,31-33. Il destino del Figlio dell'uomo Un messianismo qualificato .. .. .. . . . ......... . . ..... .. . . 8,34-9,1. Il grande invito a camminare dietro a Gesù ....

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Gesù e il linguaggio della croce 9,2-8. La trasfigurazione ....................................................................... 9,9- 13. Domande sulla risurrezione e su Elia

La comparazione sinottica Mc 8,27-9,13; Mt 16,13-1 7, 13; Le 9,18-36

502

MARCO 9,3�10,45: LA «SEZIONE DEL CAMMINO>> 9,1 4-29. Racconto di transizione. Guarigione di un epilettico indemoniato. Fede e preghiera ....... ...... .. ... ..... . .. .. ... .. .......... ........... ............... 9,30-32. Nuovo annuncio del destino del Figlio dell 'uomo .............. 9,33-50. Ultimo insegnamento a Cafarnao ......................................... 9,33-37. «Chi è il più grande?» Un pensiero paradossale . . . . . . .. . ... . . . . 9,38-41. «Chi non è contro di noi è per noi» ................................. 9,42-50. Lo scandalo 10,1-12. Matrimonio e divorzio ........................................................... Matrimonio e divorzio in ambiente cristiano . .. . . . . 10,13-16. L'accoglienza dei bambini 10,17-31 . L'uomo ricco e la vita eterna . . . . . . . .... . .. .. . . .. . .

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>> 10,17-22. Primo quadro 10,23-27. Secondo quadro . . . . .. ..... .. . .. . . . ... . ... .... . ... . » 10,28-3 1 . Terzo quadro . . . . . . .... . . .... . .... . . . . . . . . . . .. » 10,32-34. Nuovo annuncio del destino del Figlio dell'uomo ............ )) Una pedagogia e una drammaturgia della paura ... .. . » 10,35-45. Una domanda dei figli di Zebedeo. Insegnamento sul servizio e sulla gloria ............................. 10,46-52. La guarigione del cieco di Gerico, Bartimeo ..................... Un nuovo racconto di transizione ..

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La comparazione sinottica della sezione del cammino . . . . .

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Indice generale

Volume III

LA SOLUZIONE: L'ULTIMA SETTIMANA MARCO ll-16

MARCO 11-12. CINQUE CONTROVERSIE NEL TEMPIO. COMPOSIZIONE ......................... . ........ .. ..... . ......... . ... . . . .. . .. . . . . ..... . . .. . . . 1 1 ,1 - 1 1 . L'ingresso in Gerusalemme . . ....................... . ... .. . . . . . . ... . ...... ... .

I due spazi e la violenza A. 1 1 , 12-14. L'episodio del fico . ... . ... .. . ........ . ...... . ... . . . ...................... . .... B. - 1 1 ,15-1 8. Gesù nel Tempio . ... . .. ... . ... . . . .. . .. ............ . ............ . . .......... .... N . 1 1 ,20-25 . Insegnamento sulla fede, la preghiera e il perdono La fine di uno dei tre paradigmi . .. . . ..... .. ... . . . . ...... .. ..... . ............ C. 1 1 ,27-1 2,12. La grande discussione nel Tempio . . ... . . . . . . . . . . . . . .. .. .. ... . D 1 . 12,13-17. L'imposta dovuta a Cesare ... . ................................. . .. . . D 2. 12,18-27. Controversia sulla risurrezione, con i sadducei ... . ..... D 3 . 12,28-34. Controversia sul primo dei comandamenti Il primo comandamento . .. . . . . ... . . . .............................. . ... . ..... . .. . . 12,35-37. Un insegnamento sul Messia «figlio di Davide»